Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Autori: Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli Corso di sociologia 1997 Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie Presentazione p. 11 PARTE PRIMA: LA FORMAZIONE DELLA società MODERNA I Le società premoderne 17 1 L'evoluzione delle società umane e il concetto di cultura 17 2. Le società di cacciatori e raccoglitori 19 3, Le società di coltivatori e pastori 23 4. La nascita delle società di agricoltori 28 5, Le società agrarie dell'antichità greco-romana 33 6« La società feudale 37 Il Le origini della società moderna in Occidente 43 1. L'idea di mutamento 43 2. Le trasformazioni nella sfera economica: la nascita del capitalismo 44 3. Le trasformazioni nella sfera politica: la nascita dello stato moderno 54 4. La cultura della modernità 60 5. La concettualizzazione della modernità in alcuni classici della sociologia 65 PARTE SECONDA: LA TRAMA DEL TESSUTO SOCIALE III. Forme elementari di interazione 1. Premessa 2. Azione, relazione, interazione sociale 3. 1 gruppi sociali e le loro proprietà 4. Potere e conflitto 5. E comportamento collettivo 6. La microsociologia 7. Interazione e società IV. I gruppi organizzati: associazioni e organizzazioni 1. Questioni di definizione 2. Le associazioni 3. Il modello della burocrazia 4. Perché spesso la burocrazia è inefficiente? 5. Forme diverse di organizzazione 6. Attori e decisioni 7. La razionalità organizzativa e i suoi limiti PARTE TERZA: LA CULTURA E LE REGOLE DELLA società v. Valori, norme e istituzioni 1. Che cosa sono i valori? 2. Orizzonte temporale e mutamento nella sfera dei valori 3. Dai valori alle norme 4. Coerenza e incoerenza dei sistemi normativi 5. E concetto di istituzione 6. Il mutamento delle istituzioni VI. Identità e sodalizzazione 1. Socializzazione e riproduzione sociale 2. Il processo di socializzazione tra natura e cultura 3. Le fasi della sodalizzazione primaria e la formazione dell'identità 4. Socializzazione e classi sociali 5. La socializzazione secondaria 6. Gli agenti della socializzazione secondaria 7. 1 conflitti di socializzazione nelle società differenziate VII. Linguaggio e comunicazione 1. E problema delle origini del linguaggio 2. Le funzioni del linguaggio: pensare e comunicare Pagina 1
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 3. La variabilità dei linguaggi umani nello spazio e nel tempo 4. La variabilità sociale della lingua 5. Tipi di linguaggio: privato, pubblico, orale e scritto 6. Linguaggio e interazione sociale 7. Le comunicazioni di massa VIII. Devianza e criminalità 1. Il concetto di devianza 2. Lo studio della devianza 3. Le teorie della criminalità 4. Forme di criminalità 5. Gli autori dei reati e le loro caratteristiche 6. Devianza e sanzioni IX. Scienza e tecnica 1. Scienza e tecnica nelle società premoderne 2. Le origini della scienza moderna 3. Gli sviluppi successivi 4. La scienza come oggetto della sociologia 5. Scienza, tecnologia e sviluppo economico 6. Scienze naturali e scienze sociali 7. L'immagine pubblica della scienza e della tecnologia X. La religione 1. Una premessa di metodo 2. Sacro e profano 3. L'esperienza religiosa 4. Tipi di religione 5. Movimenti e istituzioni religiose 6. Religione e struttura sociale 7. E processo di secolarizzazione 8. Le interpretazioni sociologiche della religione PARTE QUARTA: DIFFERENZIAZIONE E DISUGUAGLIANZA XI. Stratificazione e classi sociali 1. Universalità della stratificazione sociale 2. Teorie della stratificazione 3. Sistemi di stratificazione sociale 4. Due schemi di classificazione 5. Alcuni grandi mutamenti 6. L'importanza delle classi sociali 7. La distribuzione dei redditi 8. La durata della vita XII. La mobilità sociale 1. Tipi di mobilità 2. Due tradizioni teoriche 3. Le ricerche sulla mobilità sociale 4. La mobilità nelle società non contemporanee 5. Industrializzazione e sviluppo economico 6. La mobilità sociale assoluta in Italia 7. Tendenze nei paesi occidentali 8. Le conseguenze della mobilità sociale XIII. Le differenze di genere 347 1. 1 cromosomi e la differenziazione sessuale 348 2. Essenzialismo e costruttivismo sociale 349 3. Genere e cultura 353 4. La divisione sessuale del lavoro nelle società preindustriali e industriali 354 5. La politica 366 6. Genere e salute 368 XIV. Corso di vita e classi di età 1. Due processi di fondo 2. Coorti e generazioni 3. Le fasi del corso della vita 4. 1 riti di passaggio 5. L'infanzia 6. La gioventù 7. La vecchiaia 8. La terza età e il pensionamento 9. Prepensionamento e tassi di attività Pagina 2
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt XV. Razze, etnie e nazioni 1. concetto di razza 2. Il razzismo: dottrine, atteggiamenti e comportamenti 3. Quattro casi di discriminazione razziale 4. Etnie e nazioni 5. Verso società e stati multietnici e multinazionali? PARTE QUINTA: LA RIPRODUZIONE DELLA società XVI. Famiglia e matrimonio 425 1. Parentela e discendenza 425 2. Esogamia ed endogamia 428 3. Monogamia e poligamia 429 4. Tipi di famiglia monogamica 432 5. Sistemi di formazione della famiglia 434 6. La nascita della famiglia moderna 438 7. L'affermazione della famiglia coniugale in Asia 443 8. Il declino della famiglia coniugale nei paesi occidentali 445 XVII. Educazione e istruzione 1. Cultura orale e cultura scritta 2. Teorie sull'istruzione 3. Fatti e teorie 4. Somiglianze e differenze 5. L'istruzione e le disuguaglianze 6. Istruzione e meritocrazia 7. La vita quotidiana nella classe scolastica PARTE SESTA: ECONOMIA E società XVIII. Economia e società 1. In cerca di una definizione di economia 2. Il posto dell'economia nella società 3. Il mercato come meccanismo regolatore dell'economia 4. L'economia regolata dal mercato 5. Il raccordo fra economia di mercato e società 6. Economia formale e informale: uno schema riassuntivo 7. Il problema dello sviluppo XIX. 19 lavoro 1. La divisione del lavoro: concetti di base e termini di uso corrente 2. La popolazione attiva 3. Il mercato del lavoro 4. L'organizzazione del lavoro 5. Le relazioni industriali XX. Produzione e consumo 1. Imprenditori e imprese 2. Produzione di massa e specializzazione flessibile 3. Finanza e produzione 4. Il commercio fra produzione e consumo 5. Il consumo di massa 6. Il consumo come comportamento collettivo: i meccanismi della moda 7. Consumo e stili di vita PARTE SETTIMA: LA POLITICA XXI. Lo stato e l'interazione politica 1. Lo spazio della politica 2. Politica e stato 3. Caratteri dello stato moderno P. 4. Identità e interessi: i dilemmi dell'azione cofiettiva 5, La partecipazione politica 6. 1 movimenti sociali 7. La struttura del potere XXII. Governo e amministrazione pubblica 1. Istituzioni di governo 2. Modelli di governo 3. La pubblica amministrazione 4. Lo studio delle politiche pubbliche 5. Le politiche sociali e i sistemi di welfare state PARTE OTTAVA: POPOLAZIONE, E ORGANIZZAZIONE DEL TERRITORIO Pagina 3
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt XXIII. Struttura e dinamica della popolazione 1. Lo studio della popolazione 2. Tre variabili chiave 3. La composizione della popolazione 4. Lo sviluppo della popolazione nei secoli 5. 1 paesi in via di sviluppo 6. E controllo della fecondità 7. L'invecchiamento della popolazione 8. Verso il futuro XXIV. L'organizzazione sociale nello spazio 1. Fatti sociali formati nello spazio 2. La società locale 3. Gli studi di comunità 4. Che cos'è una città? 5. Da Gerico a Messico: la città nella storia 6. E governo locale 7. La vita urbana e una definizione culturale di città 8. Globalizzazione e fenomeni regionali PRESENTAZIONE Sia chi scrive, sia chi legge questo manuale vive in una società avanzata a cavallo tra il XX e il XXI secolo. La realtà sociale che ci circonda ci appare per un verso ovvia e familiare, per un altro oscura e inquietante. Normalmente ci muoviamo all'interno di essa come in un ambiente che conosciamo da quando siamo nati, e che in genere non ci riserva grandi sorprese. Rispetto a ciò che ci è familiare non ci poniamo troppi interrogativi, non ci chiediamo continuamente perché la realtà è fatta in un determinato modo e non diversamente. Talvolta, ci capita di incontrare persone che provengono da altre società e altre culture, di vedere film o leggere libri che si riferiscono a società lontane nel tempo e nello spazio. Allora, per confronto, ci accorgiamo che la nostra società, i nostri modi di essere e di comportarci «fanno differenza», che ciò che ci sembrava scontato e naturale diventa immediatamente problematico e che agli occhi degli altri la nostra società deve apparire altrettanto singolare quanto appare a noi la loro. Talvolta, accadono inoltre fatti che ci sembrano inspiegabilì, che non riusciamo a collocare nella mappa della realtà che ci siamo costruiti, e la nostra reazione può essere di sorpresa, sconcerto o disorientamento. In genere gli esseri umani apprendono qualcosa di nuovo e diventano consapevoli delle proprie caratteristiche e peculiarità quando sono in grado di percepire delle differenze, quando si rendono conto che il proprio non è l'unico, ma soltanto uno dei tanti mondi possibili. La sociologia solitamente tratta delle società moderne e contemporanee; il suo oggetto risulta, per così dire, appiattito sul presente o sul passato recente. Spesso, però, per cercare di capire la società in cui viviamo, non possiamo fare a meno di rivolgerci al passato; ogni società porta iscritto nelle sue strutture, nei modi di pensare e di comportarsì dei suoi membri, il retaggio del suo passato. La realtà sociale che ci circonda non è soltanto il prodotto delle nostre azioni e delle azioni degli uomini e delle donne nostri contemporanei, ma di una lunga catena di generazioni. t come se ogni generazione ricevesse in eredità da quelle che l'hanno preceduta un patrimonio sul quale operare, da trasformare o da trasmettere poi, selettivamente, alle generazioni successive. Possimo paragonare la società a un treno sul quale continuano a salire nuovi viaggiatori, prima o poi destinati a scendere; il treno compie un viaggio molto più lungo del tragitto delle popolazioni di viaggiatori che lo occupano da una stazione all'altra. Poiché la vita dell'uo, mo è più breve della vita della società, ogni uomo occupa un posto temporaneo su un convoglio che viene da lontano e che continuerà il suo viaggio anche dopo la sua morte. Le metafore che abbiamo utilizzato (il patrimonio che passa di generazione in generazione, il treno che ospita una popolazione sempre rinnovata di viaggiatori) non sono casuali: esse ci dicono che non dobbiamo mai dimenticarci di considerare i tempi lunghi e la dimensione storica dei fenomeni sociali, anche quando la nostra attenzione è inevitabilmente concentrata sul presente e sulle società contemporanee. Queste considerazioni mettono subito in chiaro quali sono le caratteristiche che abbiamo voluto dare a questo Corso di sodologia, che lo differenziano dai tanti manuali disponibili. Molti tra questi ultimi sono scritti da autori inglesi o americani, per il semplice fatto che nei paesi anglosassoni vi è una più lunga e Pagina 4
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt diffusa tradizione di insegnamento di sociologia. Inevitabilmente, però, tali manuali portano l'impronta originaria, riflettono la cultura sociologica formatasi in quelle società; in altri termini, sono pensatì per uno studente abbastanza diverso da quello che normalmente frequenta le università italiane. Altri manuali sono tradotti dal francese, oppure dal tedesco, ma anch'essi riflettono il più delle volte le rispettive «tradizioni nazionali» della disciplina. L'intento principale che ci siamo proposti non è stato quello di scrivere un manuale «italiano» di sociologia, quanto piuttosto quello di costruire un Corso più europeo, anche se non esclusivamente «eurocentrico» Dalla tradizione sociologica europea abbiamo cercato soprattutto di recepire il rilievo che essa attribuisce alla dimensione storico- antropologica dei fenomeni sociali, che ci sembra la sua caratteristica più importante. Oltre a questo, abbiamo voluto scrivere un manuale che costituisse più un'introduzione allo studio delle società umane, che alle teorie sociologiche. La dimensione teorico- concettuale dell'analisi sociologica non è stata ovviamente trascurata; tuttavia, ci è sembrato che, sul piano didattico, potesse risultare più utile agli studenti un testo più attento all'analisi dei fenomeni. Non abbiamo sposato nessuna delle grandi tradizioni teoriche che si sono affermate nella storia della disciplina, ma abbiamo piuttosto cercato di presentare le varie interpretazioni, che si possono dare basandosi su di esse, dei risultati delle ricerche che si sono succedute in poco più di mezzo secolo di storia della disciplina. Ci auguriamo che per queste caratteristiche, il nostro libro possa essere proficuamente utilizzato sia da chi non seguirà altri corsi di sociologia (perché studia in facoltà che non prevedono un curricolo sociologico), sia da chi incontrerà in queste pagine per la prima volta la materia, ma dovrà poi approfondirla in altri più specifici insegnamenti. Siamo grati ai nostri studenti che in questi anni, senza saperlo, hanno subito i nostri esperimenti di didattica sociologica. Nello scrivere questo libro abbiamo sempre cercato, innanzitutto, di tenere presenti le esigenze dello studente, nella speranza di suscitare la sua curiosità e il suo interesse. Nonostante le carenze della sociologia, ci auguriamo che, così come è stato per noi, anche per altri lo studio di questa disciplina possa costituire un'affascinante avventura intellettuale. Un grazie particolare, infine, ai redattori della nostra casa editrice, senza il cui aiuto e sprone questo libro non avrebbe mai visto la luce. A. B. - M. B. - A. C. La formazione della società moderna L'evoluzione delle società umane e il concetto di cultura Questo capitolo tratta delle società umane più remote nel tempo. Gli archeologi, gli antropologi e gli storici hanno accumulato nel corso dei secoli un vasto corpo di conoscenze sulla preistoria e la storia del genere umano fino alle soglie del mondo moderno. L'insieme di questi lavori riempie gli scaffali di intere biblioteche. In poche pagine cercheremo di richiamare alcuni dei risultati più importanti delle loro ricerche affinché non si perda mai di vista il fatto che le società in cui viviamo hanno un lungo passato alle loro spalle. La prima domanda da porsi è quando incomincia la vicenda delle società umane. Oggi, a differenza di un secolo fa, gli studiosi sono concordi nell'accettare la teoria dell'evoluzione, in base alla quale, la specie umana, così come noi la conosciamo, è il risultato di un lungo e lento processo di evoluzione genetica dalle scimmie antropoidi e che queste, a loro volta, derivano da altre specie animali. Gli ominidi, che hanno preceduto la nostra specie, sono comparsi sulla terra da due a tre milioni di anni fa, ma il loro aspetto doveva essere molto diverso dal nostro: avevano già acquisito la stazione eretta che consente di liberare gli arti anteriori dalle esigenze della deambulazione, avevano anche sviluppato la capacità di contrapporre il pollice alle altre dita della mano in modo da poter afferrare degli oggetti, ma probabilmente non avevano ancora sviluppato le corde vocali in modo da poter emettere suoni finemente articolati e la loro capacità cranica era ancora piuttosto ridotta (circa la metà della nostra), anche se usavano qualche attrezzo rudimentale per procacciarsi il cibo e per difendersi dalle altre specie animali. L'uomo di Pechino, circa 300.000 di anni fa, era già probabilmente un esperto cacciatore, come risulta dalle numerose ossa di animali di grossa taglia ritrovate nella caverna insieme ai suoi resti. Egli aveva già imparato ad utilizzare il fuoco e comunicava probabilmente coi Pagina 5
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 18 CAPITOLO 1 propri simili emettendo suoni e facendo gesti non ancora organizzati in un vero e proprio sistema simbolico, quello che noi oggi chiamiamo linguaggio. Possiamo immaginare che gli uomini che seppellivano i morti in luoghi particolari avessero già sviluppato una certa capacità di simbolizzazione, cioè qualche forma sia pure iniziale di pensiero astratto: i primi luoghi tombali rinvenuti risalgono a circa 100-150.000 anni fa. L'homo sapiens sapiens, cioè dotato di un organismo del tutto simile al nostro, è apparso in Europa, probabilmente provenendo dall'Africa, circa 35.000 anni fa, all'inizio dell'era che gli studiosi chiamano del Paleolitico superiore. Abbiamo accennato alla capacità di produrre e usare strumenti, di produrre e usare il fuoco, di produrre e usare il linguaggio: questi sono gli elementi che distinguono la specie umana attuale (quella appunto deH'bomo sapiens sapiens) dalle altre specie di animali e di ominidi. La distinzione non è così netta come potrebbe sembrare a prima vista. Infatti, ad esempio, molti animali comunicano tra di loro usando qualcosa di molto simile al linguaggio e sono in grado di usare qualche semplice strumento (le scimmie antropoidì, ad esempio, fanno uso di bastoni per facilitare il procacciamento del cibo); il fuoco, inoltre, era senz'altro già utilizzato dagli uomini del Paleolitico inferiore. Tuttavia, come vedremo meglio nel VI capitolo, i linguaggi umani presentano una varietà e complessità che non sembrano riscontrarsi in altre specie animali, gli strumenti prodotti dall'uomo sono via via sempre più elaborati e complessi, come più elaborati e complessi diventano i modi di produzione, uso e controllo del fuoco. Tra gli elementi che distinguono la specie umana dagli altri animali non compare l'organizzazione sociale. Gli etologi, cioè coloro che studiano il comportamento degli animali, ci dicono infatti che anche molte specie animali hanno un'organizzazione sociale spesso assai complessa e, del resto, ognuno di noi si ricorda di aver visto un alveare, un formicaio o uno stormo di uccelli migratori. Anche gli animali cooperano tra di loro, mediante forme di divisione del lavoro, al fine di aumentare le probabilità di sopravvivenza delle popolazioni di individui che appartengono alle singole specie. Tuttavia, le informazioni necessarie ad assicurare la riproduzione di generazione in generazione delle forme di organizzazione sociale sono trasmesse ai singoli animali mediante A loro codice genetico, quel sistema cioè che assicura la conservazione e la trasmissione delle informazioni genetiche registrate sulle molecole di Dna; la maggior parte dei modelli di comportamento degli animali non vengono «appresì», ma sono iscritti, per così dire, nei cromosomi che ogni esemplare riceve alla nascita dai suoi genitori. Probabilmente, anche alcuni comportamenti sociali umani sono dettati da informazioni depositate nel patrimonio genetico (la sociobiologia studia appunto questi aspetti), tuttavia non vi è dubbio che la specie umana (giunta allo stadio di evoluzione organica dell'Umo saLE società PREMODERNE piens sapt»ens) ha sviluppato forme di organizzazione sociale che si fondano principalmente sulla cooperazione ottenuta attraverso la comunicazione e il linguaggio e sull'accumulazione di informazioni che vengono trasmesse mediante processi di apprendimento. L'insieme di queste informazioni costituisce la cultura. «La cultura - per riprendere la definizione di Malinowski [ 193 11 comprende gli artefatti, i beni, i processi tecnici, le idee, le abitudini e i valori che vengono trasmessi socialmente» La cultura umana muta anche se non mutano, o mutano a ritmi infinitamente più lenti, le caratteristiche organiche della specie. L'evoluzione socioculturale umana è largamente svincolata dall'evoluzione biologica della specie anche se quest'ultima ne è il presupposto. Vediamo quindi quali sono state le tappe principali del mutamento delle società umane a partire dalle società di cacciatori e raccoglitori. 2. Le società di cacciatori e raccoglitori 2.1. L'attività predatoria e il nomadismo Se facciamo uguali a 24 ore i tre milioni di anni che la specie umana abita il pianeta Terra, possiamo dire che per 23 ore e 55 minuti gli uomini hanno vissuto in società di cacciatori-raccoglitori. Alcune di queste società (nelle Americhe, in Africa, in Australia e nelle regioni artiche) sono vissute in isolamento e sono giunte fino quasi ai giorni nostri. Oggi sono praticamente estinte o in via di rapida estinzione, per effetto del contatto con popolazioni che hanno abbandonato questo stadio poco meno di 10.000 anni fa. 1 cacciatoriraccoglitori attuali sono quindi i testimoni viventi del passato evolutivo della Pagina 6
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt specie. Per studiare questo tipo di società possiamo ricorrere a tre tipi di fonti: la ricerca archeologica, che studia i reperti di civiltà scomparse, la ricerca antropologica, che studia quelle società che sono sopravvissute fino all'epoca moderna e i resoconti dei viaggiatori che hanno incontrato queste società per la prima volta, prima cioè che il contatto con l'esterno le modificasse profondamente. Queste società non sono impegnate in vere e proprie attività produttive, non intervengono cioè nei processi di produzione dei beni di cui si servono, ma attingono per sopravvivere al patrimonio di risorse offerto dalla natura: colgono i frutti che crescono spontanei e catturano animali selvatici. A questo stadio, l'attività umana risulta quindi essere essenzialmente un'attività predatoria, il lavoro umano non restituisce alla natura i beni che le ha sottratto, ma è la natura stessa che provvede a ricostituire le capacità produttive consumate dall'uomo. Le risorse consumate, infatti, sono rinnovabili senza l'intervento umano. Quando sul territorio i frutti e la selvaggina si fanno scarsi, le popolazioni di cacciatori- raccoglitori sono costrette a spostarsi in zone. limitrofe in cerca di mezzi di sussistenza. Ne consegue che il nomadismo è una delle caratteristiche salienti delle società di questo tipo ed è tanto più accentuato quanto meno l'ambiente presenta condizioni favorevoli. Le società di cacciatori- raccoglitori sono stanziate in ambienti molto diversi tra loro: si va dalle zone artiche e subartiche (gli esquimesi), alle zone quasi desertiche, dove le risorse naturali sono scarse, alle zone temperate e alle foreste equatoriali, dove l'ambiente offre evidentemente maggiore abbondanza di risorse disponibili. Si tratta di società in genere molto piccole, di 30-50 membri, che vivono in accampamenti temporanei; dovendosi spostare frequentemente non possono accumulare se non pochi oggetti personali (qualche arma e strumento), anche perché non dispongono di tecniche per la conservazione del cibo; ciò che viene raccolto o catturato deve essere consumato subito, pena il suo rapido deperimento. Essi vivono in una dimensione temporale del «giorno per giorno», salvo essere condizionati dai cicli stagionali della vegetazione a seconda del tipo di ambiente naturale circostante. 2.2. L'organizzazione sociale La caccia e la raccolta sono attività che vanno quasi sempre insieme: non vi è nessuna società che vive per tutto l'anno solo di caccia (gli abitanti delle regioni artiche dipendono dalla caccia nel lungo periodo invernale) e solo pochissime di sola raccolta. L'importanza relativa delle due attività varia però moltissimo e si può dire che in genere nella dieta di queste popolazioni la maggior parte delle sostanze nutritive dipende dalla raccolta, mentre la j caccia integra l'alimentazione con l'apporto di sostanze proteiche. In tutte le società di cacciatori - raccoglitori vige una, più o meno rigida, divisione sessuale del lavoro nel senso che la raccolta è quasi sempre compito femminile, mentre alla caccia si dedicano esclusivamente gli uomini (vedi il cap. XIII). L'unità sociale di base è la famiglia nucleare (vedi il cap. XVI), composta dai genitori e dalla loro prole e la sua funzione è essenzialmente riproduttiva; garantisce cioè la procreazione e l'allevamento dei bambini. Non si tratta di famiglie numerose. Da un lato l'elevata mortalità infantile e dall'altro lato i lunghi periodi di allattamento che riducono la fertilità femminile e non consentono alla donna di allevare più di un bambino ogni tre o quattro anni, fanno sì che la famiglia nucleare sia di dimensioni ridotte e oscilli tra i quattro e i sei membri. Più famiglie nucleari, grosso modo una decina, costituiscono una banda, questa occupa temporaneamente un certo territorio, forma un accampamento e organizza cooperativamente la caccia. La banda è un gruppo autosufficiente dal punto di vista «produttivo», cioè in condizioni normali è in grado di far fronte alle necessità quotidiane dei suoi membri, ma non è autosufficiente dal punto di vista «riproduttivo». La banda è spesso, anche se non sempre, un gruppo esogamico (esogamia ed endogamia vengono discusse nel cap. XVI): i matrimoni sono vietati, o almeno sconsigliati, tra i membri della banda stessa. 1 maschi adulti quindi, quando vogliono sposarsi, devono ricorrere alle donne di bande vicine. Le bande vicine sono spesso concorrenti per le risorse dello stesso territorio ed i rapporti tendono quindi frequentemente ad essere di ostilità; questa tendenza viene però in un certo senso controbilanciata dalla necessità di stabilire legami che consentano gli scambi matrimoniali su una base pacifica. 1 rapporti di parentela si estendono quindi al di là dei confini della singola banda e bande vicine finiscono quindi per intrecciarsi e stabilire delle occasioni cerimoniali di incontro in cui, oltre alle donne, si scambiano anche Pagina 7
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt beni rituali ed economici. Le bande appartengono quindi a un gruppo più vasto, la cui estensione dipende appunto dalla frequenza dei rapporti matrimoniali. L'ampiezza di tale gruppo, chiamato tribù, è molto variabile, ma si aggira in media intorno ai 500-600 membri; la tribù è quindi un gruppo essenzialmente endogamico (i matrimoni avvengono cioè prevalentemente, se non esclusivamente, all'interno della tribù) che occupa un territorio che comprende l'insieme dei territori delle singole bande. Emile Durkheim (1858-1917), uno dei padri fondatori della sociologia moderna, in un'opera diventata classica, Le forme elementari della vita religiosa [19121, ha studiato le identità collettive e le credenze religiose delle tribù di aborigeni australiani. 1 membri di queste tribù, ma il discorso vale per tutte le società di questo tipo, si riconoscono come appartenenti allo stesso gruppo (hanno cioè un nome), vengono identificati come tali dalle tribù vicine, parlano la stessa lingua e spesso si ritengono discendenti da un capostipite comune. In questo caso la tribù corrisponde al clan, anche se alla stessa tribù possono appartenere membri di clan diversi. Il mito della comune origine trova rappresentazione simbolica in un oggetto (il totem), che può raffigurare un animale, una pianta, oppure qualsiasi altro elemento tratto dalFambiente, che diventa il centro di una serie di pratiche rituali. Il nome del totem corrisponde quasi sempre al nome mediante il quale si riconoscono e vengono riconosciuti gli appartenenti ad una tribù. Le società di caccia e raccolta, a parte le marcate differenze sociali tra uomini e donne, sono società fortemente egualitarie. Vi sono evidentemente delle differenze per gruppi di età: le donne diventano adulte quando sono in grado di procreare, mentre i maschi lo diventano quando dimostrano di saper catturare una preda di certe dimensioni, i vecchi non sono sempre rispettati e hanno scarso potere e prestigio in una società in cui conta più la destrezza e la forza che non l'esperienza accumulata con gli anni. Il capo banda, quando c'è, è in genere il cacciatore più coraggioso e valente, capace di catturare le prede più grosse, ma la sua posizione non è permanente e non comporta particolari privilegi. Le tribù spesso non hanno un vero e proprio capo; l'esigenza di un capo si presenta solo quando si tratta di attaccare o di difendersi LE società PREMODERNE da tribù vicine che bisogna quindi fronteggiare sul piano militare. Ma si tratta perlopiù di posizioni temporanee che non danno luogo alla formazione di vere e proprie gerarchie di potere. Una figura che gode invece di un certo prestigio e di alcuni privilegi (ad esempio, quello di ricevere doni per le sue prestazioni) è lo sciamano. La visione del mondo dei cacciatori-raccoglitori comporta la credenza nell'esistenza di spiriti dai quali dipende la buona o la cattiva sorte degli individui e del gruppo e di fronte ai quali il singolo è sostanzialmente impotente. Bisogna tenere presente che queste società dipendono da e vivono in balia di forze naturali sulle quali non sono in grado di esercitare controllo alcuno. Lo sciamano è un essere umano il quale è dotato delle capacità psichiche, ed è a conoscenza delle tecniche rituali, che gli consentono di entrare in contatto con il mondo degli spiriti per cercare di neutralizzarne gli influssi negativi. Guarire un malato vuol dire, ad esempio, essere in grado di allontanare lo spirito maligno che si è impossessato di lui. Lo sciamano è soprattutto un guaritore. Le società di caccia e raccolta sono le società umane più semplici. Nonostante la loro semplicità, tuttavia, dalla breve descrizione dei loro tratti fondamentali, che abbiamo appena condotto, risultano già gli elementi con i quali si costruisce l'analisi sociologica. Per studiare una società bisogna osservare alcune «cose» fondamentali: i modi coi quali si procura i mezzi di sussistenza e come li distribuisce tra i suoi membri, i modi coi quali assicura la propria riproduzione biologica e culturale, le forme delle relazioni sociali mediante le quali prendono corpo i gruppi e le organizzazioni, la struttura delle diseguaglianze, le credenze e le pratiche religiose. Possiamo ora proseguire nell'analisi di società ad uno stadio più avanzato di complessità. 3. Le società di coltivatori e pastori 3. l. Dall'attività predatoria all'attività produttiva A noi oggi sembra del tutto naturale mettere un seme nel terreno, aspettare che germogli e che cresca una pianta per poi raccoglierne i frutti, selezionare i semi e ricominciare così da capo il processo di produzione. Ma se appena ci fermiamo un momento a pensare a queste operazioni, ci rendiamo subito conto che esse richiedono delle capacità tutt'altro che semplici e non ci stupiamo più che Pagina 8
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt l'umanità abbia impiegato tanto tempo (quasi tre milioni di anni) per sviluppare queste capacità. Se col mio arco lancio una freccia, colpisco un animale, questo si accaseia e cambia aspetto in modo che io possa squartarlo e ricavarne del cibo che soddisfa la mia fame, compio una serie di operazioni che si succedono tutte in un lasso di tempo relativamente breve. Tutte queste operazioni sono legate tra loro da connessioni piuttosto evidenti di causa-effetto: l'animale è stato colpito perché ho lanciato una freccia, l'animale è passato dalla vita alla morte (due concetti che ho gradualmente imparato a distinguere) perché è stato colpito, posso soddisfare la fame perché ho ricavato del cibo dalle sostanze del suo cadavere. t facile connettere due o più eventi mediante un nesso di causa-effetto o di mezzo-fine quando gli eventi sono temporalmente contigui. Tra la collocazione del seme nel terreno, la sua germinazione, la crescita della pianta, la raccolta dei suoi frutti, la selezione dei semi e la loro successiva messa a dimora passa invece molto tempo. Per poter connettere queste operazioni mediante la categoria di causa-effetto l'uomo deve essere in grado di abbracciare nella sua mente in modo unitario eventi passati (che non sono più qui ed ora) ed eventi futuri (che non sono ancora qui ed ora): deve, in altri termini, disporre di una notevole capacità di astrazione, deve poter pensare ciò che non c'è più e ciò che non c'è ancora, concepire l'esistenza di qualcosa che non è percepibile con i sensi di cui il suo corpo è dotato. La specie umana ha sviluppato questa capacità, senza la quale non è possibile la coltivazione, solo molto lentamente, attraverso l'osservazione concreta dei fenomeni e in assenza di teorie capaci di spiegarne le connessioni. Con la coltivazione il rapporto uomo-natura si configura in termini nuovi: la natura non è più soltanto un serbatoio di forze incontrollabili e di risorse di cui appropriarsi in modo predatorio, ma un grande laboratorio di processi su alcuni dei quali l'uomo è in grado di intervenire intenzionalmente al fine di produrre ciò di cui ha bisogno. L'uomo incomincia a modificare radicalmente l'ambiente in cui vive e A paesaggio diventa sempre più un paesaggio umano. Le società che si collocano a Coffivatori- questo stadio vengono chiamate di coltivatori-orticoltori per distinguerorticoltori le dai coltivatoriagricoltori che incontreremo allo stadio successivo. t difficile sapere come questo processo abbia potuto essere innestato, poiché di quelle prime società di coltivatori ci restano soltanto pochi rudimentali attrezzi di pietra levigata. Probabilmente ci si è resi conto che i semi di particolari piante (ad esempio, cereali) in certe circostanze non si deterioravano e potevano essere conservati e consumati anche qualche tempo dopo la raccolta. Qualche seme sarà sopravvissuto al consumo e al momento opportuno sarà germogliato, qualcuno avrà notato che il germoglio caduto su un terreno adatto si sviluppava e produceva una piantina simile a quella dalla quale era stato raccolto il seme. t probabile che questo qualcuno sia stata una donna, poiché erano le donne ad occuparsi della preparazione del cibo. Tutto ciò ha richiesto millenni e certo i protagonisti di questa vicenda non sapevano che dalle loro osservazioni sarebbero sorte civiltà e imperi. Non impropriamente, il passaggio dalla caccia e raccolta alla coltivazione, che si colloca, a seconda delle aree, tra il 10000 e il 6000 a. C., viene indicato col termine di rivoluzione neolitica. LE società PREMODERNE 25 3.2. Gli insediamenti permanenti A differenza dei loro predecessori, gli orticoltori non furono più costretti a spostarsi continuamente alla ricerca di cibo. Almeno per alcuni anni, finché il suolo restava produttivo, potevano restare sullo stesso territorio che, nella maggior parte dei casi, avevano dovuto conquistare alla foresta. A questo proposito, le tecniche di produzione e controllo del fuoco erano molto importanti, non solo perché il fuoco facilitava l'opera di disboscamento, ma anche perché le ceneri rendevano più fertile il terreno. Più le tecniche di coltivazione progredivano, più gli insediamenti diventavano permanenti: le società umane incominciarono a mettere radici in un territorio. Iff risultato fu che, a parità di estensione, lo stesso territorio poteva ora fornire sostentamento a un numero molto maggiore di uomini e donne. Se le bande di cacciatori raccoglitori comprendevano poche decine di persone, i villaggi dei coltivatori ne contenevano qualche centinaio. L'ampiezza degli insediamenti crebbe insieme alla densità della popolazione; si costruirono palificazioni e recinti per tenere lontani gli animali selvaggi, le abitazioni diventarono più solide, si svilupparono tecniche costruttive più elaborate, si incominciò a fare Pagina 9
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt uso di nuovi materiali, a fabbricare oggetti per la conservazione delle derrate, a intrecciare fibre vegetali per la produzione di tessuti. Nell'arco di qualche millennio il numero delle innovazioni crebbe notevolmente. Visto retrospettivamente, il passaggio alla coltivazione rappresentò una prima, poderosa, accelerazione nello sviluppo della cultura umana. Tuttavia, con l'aumento dell'ampiezza degli insediamenti e della densità della popolazione, il terreno coltivato dagli abitanti di un villaggio poteva diventare insufficiente per il loro sostentamento. L'addomesticamento degli animali era ancora agli inizi e non vi erano tecniche di trasporto capaci di trasferire uomini e beni a una distanza superiore a quella che poteva esser percorsa da un uomo a piedi in una giornata. Quando si rompeva l'equilibrio tra popolazione e risorse, era necessario che una parte della popolazione del villaggio si spostasse su un altro territorio che avrebbe provveduto a disboscare e a coltivare. 1 villaggi tendevano così a moltiplicarsi per scissione e a collocarsi a una distanza maggiore o minore l'uno dall'altro a seconda della produttività dei suoli coltivati. 3.3. Divisione dei lavoro, disuguaglianze e organizzazione sociale t facile comprendere come la spinta all'espansione, dovuta alla pressione demografica, ponesse spesso gli abitanti di diversi villaggi in competizione per il controllo di uno stesso territorio. Appena un'area incomincia a diventare più densamente popolata, la guerra diventa un elemento permanente nella vita quotidiana ed assorbe a tal punto le energie di queste popolazioni che non è infrequente trovare tribù dove la coltivazione dei campi è lasciata quasi esclusivamente alle donne, mentre gli uomini si dedicano alle attività militari. Si trova spesso in tali società la singolare istituzione della «casa degli uomini», un luogo dove vivono i ragazzi dagli 8-10 anni in avanti, sottratti al controllo della famiglia e delle donne, per essere addestrati a diventare dei validi e coraggiosi guerrieri. I villaggi sono il più delle volte economicamente autosufficienti e politicamente autonomi e il loro capo è generalmente un capo militare, il cui potere richiede di essere costantemente confermato dalla capacità di condurre guerre vittoriose e si riduce, invece, nei periodi di pace. Non vi è ancora una organizzazione politica che vada al di là della dimensione del villaggio, anche se talvolta si possono stabilire delle temporanee alleanze. I rapporti tra villaggi vicini oscillano sempre tra la pace e la guerra. Dal punto di vista economico, la terra è proprietà comune del villaggio e si danno casi in cui un villaggio sviluppi qualche forma embrionale di specializzazione produttiva, sfruttando risorse particolarmente abbondanti sul suo territorio; il villaggio può allora scambiare le sue eccedenze di un certo prodotto con le eccedenze di un villaggio vicino. Gli scambi non sono però mai soltanto economici, essi hanno anche un significato politico e rituale, consentono infatti di stabilire buoni rapporti di vicinato. In qualche caso si sviluppa un vero e prokula prio «circuito», come il famoso kula nelle isole Trobriand, studiato dal grande antropologo inglese di origine polacca Bronislaw Malinowski (1884-1942), dove due tipi di beni (braccialetti di conchiglie bianche e collane di conchiglie rosse) viaggiano di villaggio in villaggio (meglio sarebbe dire, di isola in isola) in opposte direzioni, creando una fitta rete di relazioni e di obbligazioni rituali che durano nel tempo (vedi cap. XVIII). Spesso sono le donne ad essere oggetto di scambio e non sempre si tratta di uno scambio pacifico. 1 matrimoni, tuttavia, avvengono prevalentemente tra persone che appartengono allo stesso villaggio Endogarnia (endogamia) e però vige la proibizione di sposarsi tra parenti stretti (tabu dell'incesto) in modo tale che i vari gruppi di parentela bilaterali o, più frequentemente, unilaterali, (vedi cap. XVI) finiscono per essere variamente intrecciati, stabilendo una vasta gamma di rapporti graduati di cooperazione e assistenza reciproca. Le società di orticoltori, rispetto a quelle di cacciatori e raccoglitori, sono molto più ampie e differenziate e presentano forme più cospicue di disuguaglianza. Tuttavia, rispetto alle società che seguiranno, tali disuguaglianze non danno luogo in molti casi alla formazione di gerarchie stabili capaci di riprodursi in modo rigido di generazione in generazione. Le uniche figure di specialisti che si elevano al di sopra della collettività sono il più delle volte solo il capo villaggio e lo sciamano. LE società PREMODERNE 27 Non dobbiamo dimenticare però che tra le società che identifichiamo come Pagina 10
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt orticole (cioè, quelle che, come vedremo, non utilizzano l'aratro nella coltivazione) compaiono anche gli imperi dell'America precolombiana (Maya, Incas, ecc.) e la Cina della dinastia Shang che svilupparono forme molto elaborate di organizzazione politica e di cultura. Le società del Messico precolombiano, ad esempio, non solo non conoscevano l'aratro, ma neppure animali di grossa taglia da addomesficare, la ruota e i metalli come il ferro. Eppure, le condizioni climatiche, il tipo di colture e le tecniche disponibili consentirono livelli molto alti di produttività della terra e, su questa base, queste società svilupparono forme di organizzazione sociale straordinariamente avanzate. Questo breve accenno ci serve per sottolineare, da un lato, la natura assai approssimativa delle classificazioni fondate sulle tecniche della produzione dei beni e, dall'altro lato, il fatto che le tecniche produttive sono un fattore importante, ma non unico e neppure sempre decisivo per spiegare i modelli alternativi di organizzazione sociale che società diverse hanno adottato nel corso del loro sviluppo. In altri termini, tra modi di produrre e forme di organizzazione sociale vi è certo un rapporto molto stretto, ma non si può parlare di determinazione delle seconde dai primi. 3.4. Le società di pastori Abbiamo appena accennato a un altro aspetto, anch'esso di grande importanza per gli sviluppi successivi e che testimonia di un mutato rapporto tra uomo e natura: l'addomesticamento degli animali, in particolare dei ruminanti, cioè di quegli animali poco aggressivi che si cibano di vegetali. Come la domesticazione delle piante ha costituito Domesticazione un salto qualitativo rispetto alla semplice raccolta, così la domesticazione degli animali ha rappresentato una rivoluzione rispetto alla caccia. Quando l'uomo ha incominciato a rinchiudere in recinti le proprie prede (prima le pecore e le capre, poi i bovini e dopo ancora i cavalli, i dromedari e i cammelli), ha allargato notevolmente la sua sfera d'azione nel controllo dei processi naturali. La domesticazione delle piante e la domesticazione degli animali sono processi che si sono sviluppati parallelamente; i coltivatori sono stati quasi sempre anche degli allevatori. Gli animali sono stati messi al servizio dell'uomo: la carne e il latte per alimentarsi, le pelli per coprirsi, le ossa per fabbricare strumenti, il letame per concimare la terra. Tuttavia, vi sono state, e vi sono ancora, società che hanno trovato nell'allevamento la fonte principale della loro sussistenza. Si tratta di popolazioni che vivono in aree particolarmente inospitali e poco adatte alla coltivazione: savane, zone subartiche o zone semi-desertiche dell'Asia, dell'Africa o dell'America meridionale. In questi casi, l'intera organizzazione sociale ruota intorno al bestiame e alle sue esigenze di sopravvivenza. In particolare, si tratta di società caratterizzate da nomadismo, che seguono le greggi nei loro spostamenti stagionali alla ricerca di acqua e di pascoli, percorrendo spesso distanze molto elevate. Di solito, nelle stagioni calde, si sale verso zone alte, mentre si scende nelle stagioni più fredde. Una prolungata siccità può mettere a repentaglio non solo la sopravvivenza degli animali, ma delle stesse società pastorali. Tuttavia, raramente le società pastorali trovano nell'allevamento la loro unica fonte di sussistenza. Molte praticano anche qualche forma di coltivazione, oppure, stabiliscono contatti con società di coltivatori coi quali scambiano i loro prodotti o anche gli stessi animali. Tra pastori e coltivatori si sviluppa quindi un rapporto di interdipendenza. Non sempre lo scambio è pacifico: muovendosi su vasti territori, i pastori entrano in contatto e in competizione con popolazioni stanziali o con altre popolazioni nomadi che pretendono di sfruttare le risorse degli stessi territori. La guerra è spesso la conseguenza di questa competizione. Talvolta, come nel caso di alcuni regni africani, le popolazioni di pastori sono riuscite a sottomettere le popolazioni di coltivatori dando luogo alla formazione di società etnicamente stratificate. In altri casi, le popolazioni di pastori nomadi sotto la spinta della pressione di altri popoli sono state protagoniste di grandi movimenti migratori. In queste società, i capi di bestiame non sono solo fonte di sussistenza, il loro numero diventa anche simbolo e misura della ricchezza, del potere e del prestigio di cui godono individui, famiglie o tribù. Ad esempio, negli scambi matrimoniali il «prezzo della sposa» è spesso fissato in capi di bestiame, la vittima di un delitto può essere indennizzata con la stessa «moneta» e il culto della divinità si manifesta con il sacrificio di animali. 4. La nascita delle società di agricoltori 4.1. Innovazioni tecnologiche e produzione di surplus Una decisiva innovazione tecnologica incominciò a diffondersi nel Medio Oriente e nell'Asia minore poco più di 3.000 anni prima dell'era cristiana; si tratta, Pagina 11
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt come è ben noto, dell'aratro. La coltivazione con gli strumenti di lavoro usati dagli orticoltori conduceva ad un rapido esaurimento della fertilità del suolo. Il bastone e la zappa consentivano di praticare dei buchi e di smuovere il terriccio, ma, dopo qualche stagione, il terreno in superficie risultava privo delle sostanze minerali necessarie allo sviluppo delle piante e le radici non erano in grado di raggiungere gli strati più profondi ancora ricchi di tali sostanze. L'aratro consenti di incidere molto più profondamente il terreno e LE società PREMODERNE 29 di rivoltare la zolla in modo che lo strato superficiale, ricco di residui organici, venisse sotterrato e affiorassero in superficie gli strati più profondi ricchi di minerali. Naturalmente, nessuno allora aveva sentore dei processi biochimici dai quali dipende la fertilità del terreno, tuttavia i contadini dovevano aver constatato empiricamente l'efficacia del nuovo modo di coltivare. A ciò si aggiunga che ben presto (lo testimoniano raffigurazioni egizie intorno al 2700 a. C.) ci si accorse che l'aratro poteva venire trainato da animali. La possibilità di sostituire l'energia muscolare umana con quella animale fece in modo che con lo stesso numero di ore di lavoro si potesse coltivare in modo assai più efficace una superficie molto maggiore. Inoltre, queste innovazioni vennero introdotte e si diffusero rapidamente in aree che già presentavano condizioni favorevoli all'agricoltura: le pianure alluvionali della Mesopotamia e dell'Egitto, bagnate dalle acque dei fiumi Tigri, Eufrate e Nilo. La conseguenza di tutto ciò fu un enorme aumento della produtti- surplus vità agricola: la stessa estensione di terreno dava ora una quantità di prodotto fino a quaranta volte maggiore di quanto non succedesse prima utilizzando le tecniche delle società orticole. L'agricoltura incomincia a produrre un surplus, vale a dire una quantità di prodotti alimentari eccedenti quella necessaria per mantenere in vita e in piena efficienza i produttori diretti e le loro famiglie e per garantire la riproduzione delle risorse consumate durante il ciclo produttivo (le sementi, da destinare al futuro raccolto e il foraggio per nutrire gli animali quando i pascoli sono aridi). Nelle società precedenti erano assai pochi coloro che potevano vivere senza contribuire alla produzione dei beni per la propria sussistenza: qualche capo villaggio, qualche vecchio, qualche sciamano. Le donne e gli uomini, quando le condizioni ambientali erano favorevoli, una volta procuratisi il cibo necessario, smettevano di lavorare e passavano il loro tempo a organizzare danze, feste e cerimonie; se le condizioni erano invece sfavorevoli, lavoravano tutto il giorno e spesso dovevano lottare contro la fame. Quando la produttività agricola cresce e vi è formazione di surplus è possibile che nella società si formino dei gruppi che non partecipano direttamente alla produzione del cibo che consumano. Perché ciò possa avvenire è necessario tuttavia che si verifichino due presupposti: primo, che i produttori siano motivati a produrre al di là di ciò che serve per sé e per la propria famiglia e, secondo, che siano in qualche modo disposti a trasferire ad altri una parte del frutto del proprio lavoro. La realizzazione di questi presupposti è stata enormemente facilitata dal fatto che parallelamente all'agricoltura si è sviluppata in Mesopotamia e nell'antico Egitto (ma anche, sia pure in forme diverse, nel Messico precolombiano) una forma particolare di governo, chiamata teocrazia, cioè «governo divino». 1 due fenomeni Te=" sono strettamente connessi. 30 CAPITOLO 1 4.2. La nascita delle prime città intorno al tempio Sia in Mesopotamia che in Egitto il potere è concepito come diretta emanazione di dio (o degli dei) In Egitto il sovrano supremo, il faraone, è considerato egli stesso un dio. A dio appartiene la terra, che egli distribuisce ai suoi sudditi e dalla quale essi traggono il loro nutrimento ed è dio che rivendica a sé la parte di prodotto che eccede tale nutrimento. Forse per noi oggi è difficile comprendere la straordinaria potenza che su quelle popolazioni deve aver esercitato la credenza in un comando di origine soprannaturale. Siamo di fronte ad un primo esempio di come le idee religiose possano diventare una grande forza motrice della storia. E tempio è la casa di dio, il centro dal quale una casta di sacerdoti, i servitori della divinità, amministra le terre e provvede ai bisogni della collettività. Seguiamo le operazioni fondamentali di questa amministrazione: prima di tutto la terra deve essere divisa tra i diversi villaggi di contadini che dipendono dal tempio; bisogna poi che si provveda alla costruzione e alla Pagina 12
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt manutenzione dei canali e alla regolazione dei flussi di irrigazione, decisivi per assicurare, come si direbbe oggi, un elevato rendimento della produzione per unità di superficie; devono essere stabiliti i tempi delle operazioni agricole (semina, raccolto, ecc.); il raccolto deve essere ammassato in appositi magazzini; dal raccolto devono essere prelevate e distribuite le quote che servono per il sostentamento dei contadini e di tutti coloro che nell'economia del tempio svolgono lavori non agricoli, nonché la quota di sementi da destinare al ciclo successivo. Non è un caso che in queste società i sacerdoti siano spesso anche degli astronomi, capaci di leggere, nel movimento degli astri, i tempi opportuni per lo svolgimento delle varie operazioni connesse al ciclo agricolo. Ma anche altre decisive innovazioni culturali sono connesse a questo tipo di società. Il grande archeologo Gordon Childe (1892-1957) ha elaborato una teoria suggestiva per spiegare come le esigenze dell'amministrazione del tempio siano state decisive per generare un'innovazione destinata a sconvolgere l'universo mentale e simbolico dell'umanità: la scrittura. Nei magazzini del tempio i vari prodotti venivano conservati in contenitori; il funzionario addetto all'immagazzinamento doveva sapere quale fosse il contenuto di ogni serbatoio, la sua provenienza, grosso modo l'epoca in cui era stato collocato nel magazzino, quando e per quale scopo erano stati effettuati i prelevamenti e, forse, altre «informazioni» ancora. Per ricordarsi tutte queste informazioni e anche per facilitare il lavoro di chi avrebbe «gestito il magazzino» dopo la sua morte, il nostro funzionario deve aver inventato una serie di segni/simboli da apporre sui sigilli dei vari contenitori. Fu inventata così la scrittura cuneiforme, come strumento della memoria e come modo per trasferire informazioni di generazione in generazione supeLE società PREMODERNE 31 rando l'inaffidabile labilità della cultura orale. Nacque allora la professione dello scriba, una categoria di specialisti addetti alla produzione simbolica. E tempio non è quindi soltanto un luogo di culto delle divinità, un edificio o un complesso di edifici dove la popolazione si raduna periodicamente per partecipare o assistere alle cerimonie e ai riti, è anche il quartiere generale di un'organizzazione economica e politica assai complessa. Per la sua costruzione e manutenzione è necessario poter disporre di lavoro non agricolo che può essere svolto dagli stessi contadini, nelle stagioni di stasi dei lavori agricoli, oppure da altri lavoratori specializzati. Secondo Karl Wittvogel, uno studioso di queste società, i lavori pubblici di irrigazione necessari per la distribuzione delle acque e il controllo delle piene richiedevano forme complesse di organizzazione che potevano essere realizzate soltanto da un governo dispotico; egli Dispotismo parla infatti in proposito di società idrauliche e di dispotismo orien- orientae tale. Intorno al tempio (siamo tra il III e il Il millennio a. C.) si formano delle vere e proprie città. Da un lato abbiamo quindi i contadini, la grande massa della popolazione rurale, che vivono nei villaggi, dall'altro lato abbiamo una congerie di figure diverse (sacerdoti, burocrati, artigiani, ecc.), la popolazione urbana, accomunata dal fatto di dipendere dalla campagna per il soddisfacimento dei propri bisogni alimentari. La città può esistere se si è mi grado di esigere H prelievo del surplus agricolo prodotto dalle campagne, se vi sono cioè dei contadini disposti o costretti a lavorare al di là di ciò che è necessario per il proprio mantenimento e riproduzione. Inizia qui quel rapporto di interdipendenza tra città e campagna che accompagnerà la storia dell'umanità fino quasi ai nostri giorni. 4.3. Forti disuguaglianze e grandi imperi Come abbiamo visto, sia le società di cacciatori e raccoglitori, sia le società di orticoltori, erano tendenzialmente egualitarie. Non vi era possibilità né di accumulare grandi ricchezze, né di trasferirle per eredità ai propri figli; le disuguaglianze, che pure si producevano, erano quindi prevalentemente di carattere personale e non davano quindi luogo alla formazione di privilegi permanenti, vale a dire riproducibili di generazione in generazione. Il quadro cambia radicalmente con le società fondate sull'agricoltura. Qui, tra la massa dei contadini da una parte e il massimo sacerdote o re e il gran numero di persone che popolano la sua corte, dall'altra parte, si crea un vero e proprio abisso sociale invalicabile. Sono due mondi tra loro interdipendenti, ma anche profondamente divisi. Governanti e governati, cittadini e contadini, letterati e illetterati: si incominciano a delineare le dimensioni che marcheranno per secoli e secoli la disuguaglianza tra gli uomini. Pagina 13
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Il mondo delle città appare subito assai più differenziato al suo interno del mondo delle campagne. Al vertice troviamo il monarca, che ha conquistato il potere in virtù della forza o del principio dinastico, le cerchie del culto, del governo e dell'amministrazione e poi una schiera variopinta di «specialisti» che svolgono lavori manuali (tessitori, sarti, fabbri, carpentieri, falegnami, muratori, vasai, cestai, orafi, ramai, ecc.) che prestano i loro servigi dietro compenso della semplice sussistenza. Tra il lavoro intellettuale, legato alle funzioni di governo, e il lavoro manuale legato ai mestieri urbani e alla coltivazione della terra la separazione è assai netta. Nasce qui quel disprezzo per il lavoro manuale che diventerà una caratteristica delle classi dominanti di tutte le società antiche. Ma vi sono anche tante figure intermedie o interstiziali: funzionari di basso rango, più a diretto contatto con i lavoratori manuali, commercianti che assicurano un certo grado di circolazione dei beni tra località diverse e assicurano l'approvvigionamento delle corti. Le città brulicano di gente diversa, sono il luogo della differenziazione sociale, ma, soprattutto sono il luogo del potere. Più una società diventa differenziata e complessa e più si rafforza l'esigenza di ordinamenti che ne regolino le attività, di organi che compongano le dispute e garantiscano il rispetto di alcune regole fondamentali, senza che si debba ricorrere alla vendetta privata ogni volta che qualcuno si sente leso nei suoi diritti. Il primo sistema di leggi conosciuto è, non a caso, il Codice di Hammurabi, imperatore di Babilonia, e risale all'inizio del II millennio a. C. Le società non sono più composte di poche migliaia di individui, un regno può ora comprendere centinaia di villaggi ed estendere A suo potere su territori molto vasti. Inoltre, e questo è un punto molto importante, i regni entrano in competizione tra di loro per il controllo del territorio, vale a dire della fonte della ricchezza. Ogni regno si trova permanentemente impegnato o in uno sforzo di espansione o, che è lo stesso, nello sforzo di fronteggiare l'espansione di qualche regno vicino. Ciò spiega la crescente importanza dell'organizzazione militare. 1 soldati sono spesso dei contadini che vengono reclutati per le spedizioni di guerra nelle stagioni di sospensione dei lavori agricoli. Per secoli le guerre si sono combattute dopo che il raccolto era stato messo al sicuro nei magazzini. Ma spesso, accanto o al posto dell'esercito dei contadini, troviamo anche eserciti di professione, con soldati reclutati tra i figli di altri soldati.jn questo caso si formano delle vere e proprie caste militari ed è richiesta una complessa organizzazione che provveda all'addestramento, all'equipaggiamento e all'approvvigionamento delle truppe. Gli abitanti dei territori conquistati devono essere messi all'opera per aumentare la ricchezza del regno; i vinti sono spesso ridotti in LE società PREMODERNE 33 schiavitù, diventano cioè proprietà del vincitore che su di loro esercita un diritto assoluto di vita e di morte. Gli schiavi possono essere mandati a lavorare nei campi, oppure nelle miniere, o nelle botteghe delle citta, o, ancora, possono essere unplegatì alle dirette dipendenze del re e della sua corte. Le forme assunte dalla schiavitù nel mondo antico sono mo Iteplici, ma alla loro origine vi è invariabilmente un atto di conquista e di sottomissione. 5. Le società agrarie dell'antichità greco-romana 5.1. La nascita della riflessione sistematica sulla società Dobbiamo ora spostarci più a Occidente, per fare alcuni cenni alle società agrarie che sono fiorite sulle rive del Mediterraneo nel periodo che va, grosso modo, dall'800 a. C. fino alla metà del primo millennio dell'era cristiana. Su queste società le informazioni di cui disponiamo sono molto più numerose che non sulle società che le hanno precedute. Le fonti alle quali possiamo attingere non sono soltanto archeologiche, ma sono, anzi, prevalentemente letterarie. 1n questa parte del mondo si era infatti sviluppata una particolare forma di scrittura, quella fonetico- alfabetica che, rispetto a quella ideografica, si dimostrò particolarmente adatta alla composizione e alla trasmissione di testi (v. anche cap. XVII). Soprattutto, possiamo ricorrere alle riflessioni che sulla loro società avevano fatto i contemporanei; gli storici, i filosofi, i drammaturghi e i poeti della Grecia antica e di Roma avevano raccolto e trascritto molte narrazioni degli eventi passati che in precedenza erano state trasmesse oralmente e, oltre a ciò, erano essi stessi attenti osservatori di ciò che accadeva sotto i loro occhi. Possiamo dire che facevano un lavoro molto simile a quello che fanno ora storici Pagina 14
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt e scienziati sociali. Con i filosofi greci nasce infatti la teoria sociale, non semplicemente e non esclusivamente come disciplina che contiene precetti e ammonimenti per i potenti sull'arte di governare, ma come riflessione autonoma di una particolare categoria di persone, gli intellettuali, che si dedicavano prevalentemente all'educazione delle nuove generazioni. 5.2. La base agraria di una civiltà urbana Come scrive lo storico dell'antichità Moses I. Finley [19731 «i Greci e i Romani non si stancarono mai di elogiare l'eccellenza morale dell'agricoltura e di insistere, contemporaneamente, sul fatto che la vita civile richiede l'esistenza delle città». Vediamo prima di tutto come era composta per grandi linee la popolazione contadina. Vi è stata senz'altro nell'antichità una classe di contadini indipendenti, coltivatori della terra di cui avevano la proprietà. Si trattava spesso di coloni che avevano conquistato un territorio e vi si erano insediati, molto spesso costoro erano ex soldati che avevano ricevuto la terra in compenso del servizio militare prestato. Accanto ad essi vi erano degli affittuarì che, pur privi della proprietà della terra, la coltivavano pagando dei tributi (in genere in natura) al proprietario del fondo e, infine, vi erano gli schiavi che coltivavano, dietro la mera sussistenza, le grandi proprietà fondiarie dello stato o dei privati cittadini, i cosiddetti latifondi. Tra queste tre figure fondamentali vi sono molte figure miste e di transizione. La conduzione tuttavia di gran lunga prevalente in tutta l'antichità è quella che fa uso del lavoro degli schiavi. Ecco come Max Weber (1864-1920) [1924b, trad. it. 1981, 3791 caratterizza, sulla base delle descrizioni fornite nei trattati latini di agronomia, l'organizzazione del lavoro nell'azienda schiavistica: L'alloggio per 1'«inventario parlante» (instrumentum vocale), ossia la stalla per gli schiavi, si trova accanto a quella per le bestie (instrumentum semi .vocale). Esso comprende i dormitori, un'infermeria (valetudinari .um), una prigione (carcer), un'officina per gli artigiani del fondo (ergastulum) [ ... 1 Quella condotta normalmente da uno schiavo è una vita da caserma. Si dorme e si consumano i pasti in comune sotto- la sorveglianza del villicus (il fattore al quale è affidata l'amministrazione del fondo); i capi migliori di abbigliamento sono depositati «in magazzino» e affidati alla moglie del fattore (v&ica). [ ... 1 la lavoro è soggetto a disciplina rigidamente militare: al mattino gli schiavi si dispongono in fila per squadre (decuriae) e si mettono in marcia scortati dai sorveglianti (monitores). Del resto tutto ciò era necessario: finora non si è mai riusciti ad ottenere, con manodopera non libera, una produzione stabile per il mercato senza l'uso della frusta. L'economia schiavistica presenta, tuttavia, un grave elemento di debolezza. La popolazione schiavistica non è in grado di riprodursi biologicamente; allo schiavo non è normalmente concesso di avere moglie e figli nell'ambito di un'istituzione stabile come la famiglia. Quando uno schiavo moriva (e si può presumere che la mortalità fosse piuttosto elevata) doveva essere rimpiazzato e A suo prezzo dipendeva da quanti ne affluivano sul mercato. La guerra era la vera fabbrica degli schiavi. La schiavitù non è concepibile senza una politica di continua espansione territoriale capace di sottomettere militarmente interi popoli. L'antichità aveva conosciuto anche un'altra forma che consentiva di ridurre in schiavitù il debitore che non avesse onorato alla scadenza l'obbligazione contratta, ma questa fonte, mentre poteva servire per procurarsi degli schiavi domestici, non era certo sufficiente per soddisfare la grande sete di schiavi di una produzione su vasta scala. La città antica dipende dalla campagna (quindi, in ultima analisi dalla popolazione contadina), ma nello stesso tempo domina la campaLE società PREMODERNE 35 gna. E rapporto non è un rapporto di scambio economico dove i contadini forniscono ai cittadini prodotti alimentari e questi, a loro volta, forniscono alla campagna i prodotti delle botteghe cittadine. E rapporto è essenzialmente un rapporto politico: la città consuma il surplus che preleva fiscalmente dalla campagna. Piccole città, come le città-stato greche, hanno in genere un ristretto territorio rurale circostante e spesso si assicurano parte del loro fabbisogno commerciando, via mare, con altre città. Grandi città, come Roma, dipendono invece da territori anche molto lontani ed è lo stato che assicura l'approvvigionamento di grandi quantità di grano, olio, vino dalle colonie Pagina 15
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt (dalla Sicika, dalla Spagna e anche dalle regioni orientali del Mediterraneo). 5.3. Le forme di governo La proprietà della terra è il. fondamento primo del diritto di cittadinanza. La città antica è prima di tutto una città di proprietari terrieri; sono essi che ad Atene si riuniscono in assemblea per dibattere e deliberare sulla gestione della cosa pubblica, sulle leggi, le imposte, la pace e la guerra; e sono sempre proprietari terrieri coloro che siedono nel Senato romano. Nonostante questo fondamento comune, tuttavia, le società agrarie dell'antichità classica presentano una gamma molto diversificata di forme di governo. La Grecia e Roma rappresentano due modelli per certi versi contrastanti. E territorio dell'antica Grecia non ha mai raggiunto l'unità politica; è stato per secoli un'area popolata da una pluralità di cittastato indipendenti, tra le quali si stabilivano di tanto in tanto delle alleanze militari per fronteggiare nemici esterni e interni. Questa struttura fu senza dubbio favorita dalla configurazione del territorio dove le numerose catene montuose rendevano difficili le comunicazioni via terra. Il mare era la grande «strada» che consentiva i collegamenti tra le varie parti del territorio. Le forme di governo delle città-stato greche oscillano tra la monarchia e la tirannide (il. governo di uno solo) e la democrazia (il. governo del popolo), passando attraverso varie forme di oligarchia (il governo di pochi). La democrazia prevale laddove tra i cittadini vi è una relativa uguaglianza e dove la forza militare è costituita da cittadini armati. La città è inoltre il luogo dove si sviluppa un'estesa divisione del lavoro tra vari mestieri. Ecco come Senofonte (Ciropedia, 8, 2, 5) descrive questo fenomeno nel IV secolo a. C.: Nei piccoli centri lo stesso uomo fabbrica letti, porte, aratri e tavole, e spesso costruisce anche le case, ed ancora è ben felice se solo può trovare abbastanza lavoro per sostentarsi. Ed è impossibile che un uomo dai molti mestieri possa farlì tutti bene. Nelle grandi città, invece, poiché sono molti a richiedere i prodotti di ogni mestiere, per vivere basta che un uomo ne conosca uno solo, e spesso anche meno di uno; per esempio, un tale fabbrica scarpe da uomo, un altro scarpe da donna, e vi sono luoghi dove uno può addirittura guadagnarsi da vivere riparando scarpe, un altro tagliando il cuoio, un altro cucendo la tomaia, mentre un altro ancora non esegue nessuna di queste operazioni, ma mette insieme le varie parti. Di necessità chi svolge un compito molto specializzato lo farà nel modo migliore. Nell'Atene del 111 secolo a. C. si calcola vi fossero ca. 250.000 abitanti, di essi forse 100.000 erano schiavi, altri 100-120.000 erano metechi (artigiani, mercanti, stranieri) che non godevano della cittadinanza, i maschi adulti, che in quanto cittadini potevano partecipare alle assemblee, non erano più di 30.000. Il quorum per la validità delle assemblee era fissato a 6.000. Il territorio di Atene, senz'altro la più grande città-stato in quell'area e in quell'epoca, superava di poco i 2.500 chilometri quadrati, grosso modo un cerchio di poco meno di 60 km di diametro. Le città-stato greche erano tutte localizzate in territori angusti, non potevano espandersi sulla terra ferma. Quando la popolazione cresceva e si faceva sentire la pressione sulle limitate risorse locali, una parte della popolazione prendeva la via del mare ed andava a fondare colonie in Asia minore ad Oriente, in Sicilia e in Italia a Occidente. Essi fondarono nuove città in base a piani razionali di occupazione dello spazio, diffusero la loro cultura, dissodarono nuove terre. Ben presto le colonie si resero indipendenti, pur mantenendo fitti rapporti commerciali con la terra d'origine. L'espansione avveniva quindi replicando altrove il modello della città-stato e non dava luogo alla formazione di un'organizzazione imperiale quale era stata qùella delle aree a Oriente del Mediterraneo. 1 romani adottarono invece un'altra strategia di espansione che, su scala enormemente maggiore, richiamava A modello imperiale. Anche Roma era nata come città-stato in cui il potere era nelle mani di cittadini, ad un tempo proprietari terrieri e soldati, ma, diversamente da come avevano fatto i Greci fondando colonie oltre mare, la sua espansione si diresse verso la terra ferma. La storia romana è una storia ininterrotta di conquiste e di dominazioni. Non sorprende quindi che l'istituzione che giocò un ruolo cruciale nella struttura sociale fu l'eserdito dei legionari. Per vari secoli Roma mantenne un esercito di ca. 300.000 uomini sparsi in un territorio vastissimo che, nella fase di massima espansione dell'impero, andava a nord fino alle foreste del Teotoburgo, a ovest fino alla Gran Bretagna e all'attuale Portogallo, a sud fino al deserto Pagina 16
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt sahariano e a est fino alla Persia. L'esercito non solo realizzava le conquiste territoriali, sottometteva e integrava i popoli vinti, presidiava le frontiere, ma amministrava anche le province, costruiva città attorno agli accampamenti, perimetrava i campi, assegnava le terre ai veterani, costruiva cadali, ponti e TLE società PREMODERNE 37 acquedotti, tracciava su questo immenso territorio una rete di strade lungo le quali far viaggiare le truppe, i bottini di guerra e gli schiavi catturati, nonché i tributi delle province per l'erario romano. L'esercito era di fatto la struttura portante dello stato e la lotta politica tra le varie fazioni era sempre una lotta, da un lato per il suo controllo e, dall'altro lato, per ottenere il suo appoggio. Questo tipo di organizzazione non era compatibile con forme democratiche di governo. L'esercito romano fu probabilmente la più grande struttura organizzativa mai creata da una società agraria e l'impero romano fu probabilmente il più vasto che le tecnologie di comunicazione del tempo consentissero. 6. La società feudale 6.1. La rottura dell'unità dei mondo antico La spiegazione della crisi e della caduta dellimpero romano e, con esso, della cultura antica, è uno dei problemi storiografici, ma anche sociologici, più affascinanti. Altri imperi erano o sarebbero decaduti e scomparsi (in Asia, nel Medio Oriente, nell'America precolombiana), ma nessuno aveva raggiunto l'ampiezza e la potenza dell'impero romano. Se siano prevalse le cause endogene, cioè i fattori interni di disgregazione (la caduta delle virtù pubbliche e militari, la crisi dell'economia schiavistica, la sfida della nuova religione cristiana, ecc.), oppure le cause esogene, cioè i fattori esterni costituiti dalle grandi migrazioni di popoli che si affollavano ai confini dell'impero e vi penetravano sempre più profondamente e frequentemente, resta ancora fondamentalmente un enigma. E assai probabile che sia stata l'interazione tra questi due ordini di fattori a mettere in crisi quella che era stata la più ampia e complessa organizzazione sociale dell'antichità. Noi non possiamo certo in questa sede addentrarci nel dibattito su questo tema che ha occupato generazioni di storici e pensatori sociali. t importante però riflettere sul fatto che fenomeni di decadenza di questa portata contraddicono palesemente quelle teorie dell'evoluzione culturale che interpretano lo sviluppo come un processo unilineare e progressivo. La storia non procede per tappe, stadi o gradini che si succedono uniformemente. Talvolta sembra che la storia faccia dei «passi indietro», anche se non è facile stabilire su quale piano sia avvenuto un processo involutivo. Si potrebbe pensare, ad esempio, che, poiché l'impero romano è stato, tra l'altro, una micidiale macchina militare di violenza e di oppressione, la sua caduta sia comunque stata un fattore che ha consentito all'urnanità di fare un passo avanti verso una società meno ingiusta e più rispettosa della dignità della persona umana. Quando si parla quindi di evoluzione o di involuzione, di progresso o di regresso, bisogna sempre specificare in riferimento a che cosa si misura A processo. Non vi è dubbio che in molti campi (basti pensare al diritto) l'eredità della cultura del mondo latino antico non si è interrotta ed è diventata parte integrante della nostra cultura occidentale. L'organizzazione sociale di cui quella cultura era espressione era però entrata in crisi e si era estinta. Se si guarda, ad esempio, all'estensione delle reti di interdipendenza delle società umane, la caduta dell'impero romano ha rappresentato di fatto la rottura di un sistema di interdipendenze che bene o male aveva tenuto unita gran parte del mondo antico. Questa rottura è responsabile della nascita del feudalesimo in Europa, un tipo di configurazione in cui viene meno un polo politico ed economico di aggregazione centrale e si rafforzano invece i poli localistici e periferici. Vi è un indicatore molto evidente della rottura dì un sistema di interdipendenze: l'interruzione delle linee di comunicazione. Il sistema viario romano, che - come abbiamo visto - rispondeva più a esigenze militari che commerciali, consentiva anche alle province più lontane di mantenere i collegamenti col centro. Ad ogni importante punto di incrocio stradale erano sorte, intorno al presidio militare, vere e proprie città. Tutto ciò scompare: le città si spopolano e le strade, sulle quali non marciano più le legioni, si degradano rapidamente al punto da essere impraticabili per gran parte dell'anno. La popolazione originaria si disperde nelle campagne, dove è più facile sopravvivere e far fronte alle invasioni dei popoli del Nord e Centro Europa che Pagina 17
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt si spostano verso sud e verso ovest. Anche le vie del mare (sulle quali in epoca romana navigavano migliaia di navi cariche di ogni mercanzia) diventano insicure: almeno dall'VIII al XII secolo il Mediterraneo è dominato dagli Arabi che avevano conquistato il Nord Africa, la Sicilia e quasi tutta la Spagna ed è infestato dai pirati Saraceni. 1 fili che uniscono Oriente e Occidente diventano sempre più fragili. Feudalesimo La risposta a questi processi è, appunto, A feudalesimo che rappresenta in un certo senso un ripiegamento della società sulla dimensione localistica. Anche altre regioni del mondo, soprattutto in Asia (India, Cina e Giappone), hanno conosciuto forme di feudalesimo, più o meno simili a quelle che si sono affermate in Europa. Noi non potremo qui seguire i percorsi delle varie civiltà attraverso i regimì feudali, ma prenderemo in considerazione (e per di più assai schematicamente) la sola vicenda europea occidentale, pur essendo ben consapevoli dei limiti, peraltro tipici di gran parte della letteratura sociologica, di una prospettiva che privilegi esclusivamente una visione eurocentrica. Della società feudale prenderemo in considerazione soltanto due aspetti: la struttura sociale delfeudo, che ha prevalso nell'Alto Medioevo, e la rinascita urbana che ha caratterizzato il feudalesimo europeo dall'XI secolo in avanti. LE società PREMODERNE 39 6.2. Il feudo come unità (quasi) autosufficiente 19 feudo è un'unità territoriale sulla quale governa un signore feudale, ossia un feudatario, in virtù di un'investitura ricevuta da un signore di rango più elevato. Vi è tutta una catena gerarchica di obblighi reciproci che lega il signore territoriale locale fino all'imperatore o al re. Il feudatario è generalmente un guerriero (un cavaliere), il quale è tenuto a prestare in caso di necessità aiuto militare al signore dal quale ha ricevuto il feudo in concessione e a proteggere con le armi le sue terre da eventuali invasori e dalle pretese di altri signori territoriali: le guerre locali sono un elemento permanente delle società feudali. Non vi è più uno stato capace di garantire condizioni di pacificazione sul suo territo~ rio. Il frazionamento dei poteri genera ovunque instabilità. E feudatario ha il potere di amministrare la giustizia e di richiedere prestazioni alla popolazione servile che vive sul suo territorio. La popolazione servile si divide in due categorie: i contadini, detti anche servi della gleba, e i servi domestici. Sul feudo vive infatti una popolazione di contadini in condizione di servitù; essi, a differenza degli schiavi che appartenevano al loro padrone, sono legati alla terra, appartengono alla terra e, se la terra viene ceduta ad un altro signore, essi passano con la stessa al suo servizio. Essi sono soggetti a prestazioni che possono assumere forme molto diverse: in certi casi devono consegnare al signore una parte del raccolto per i bisogni della sua corte (corvée in natura), in altri casi devono lavorare i campi della tenuta signorile per un certo numero di giorni l'anno (corvée in lavoro), in altri casi ancora devono pagare al signore un tributo in denaro. Quale che sia la forma specifica che assume, il feudatario è tenuto a ricevere una «rendita fondiaria», ad appropriarsi del surplus di produzione agricola. In compenso, i contadini ottengono protezione e, talvolta, ospitalità, in caso di assedio di truppe nemiche, entro le mura del castello. E castello è un vero e proprio borgo dove lavorano decine di servi artigiani (per ferrare i cavalli, per fabbricare armi e armature, per tessere tele, ecc.) e di altri lavoranti che provvedono, dietro il compenso della sussistenza, a tutte (o quasi) le necessità della popolazione non contadina del feudo. Nonostante la prossimità fisica, la distanza sociale tra signori/guerrieri e servi è molto grande e, soprattutto, il passaggio da una condizione all'altra praticamente impossibile. L'economia curtense (così viene chiamata) è un'economia chiusa, nel senso che riesce a mantenersi in modo autosufficiente, riducendo al minimo gli scambi con l'esterno. Naturalmente la chiusura non è completa; se la corte è abbastanza ricca potrà procurarsi alcuni beni di lusso dagli avventurosi mercanti di passaggio e, inoltre, se per caso non vi è qualche miniera nelle vicinanze, sarà necessario procurarsi almeno H sale e le spezie, che servono per la conservazione degli alimenti, e le materie prime per fondere i metalli. Feudo servitù Economia curtense Pagina 18
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 40 CAPITOLO i Gli scambi commerciali sono tuttavia radi, le strade sono dissestate e infestate da briganti e non è facile far superare a un carico le lunghe distanze. 1 rischi del trasporto sono enormi e Fautosufficienza, più che una scelta, è una necessità. Questa particolare struttura sociale, il feudo, assume di fatto le forme più diverse, ma resta comunque per vari secoli l'elemento portante della società feudale. 6.3. La città medievale Città medievale Gli storici fissano intorno all'anno 1000 d. C. gli inizi di un mutamento che sarà destinato ad esercitare una profonda influenza sulla società feudale prima e, in una seconda fase, sulla genesi del mondo moderno: la rinascita della vita cittadina. Gli artefici di questo processo sono, in un certo senso, degli «uomini nuovì» che si sottraggono agli obblighi servili, si contrappongono al potere dei feudatari e creano una forma di vita più libera e indipendente. La loro comparsa è strettamente connessa alle trasformazioni economiche che hanno condotto alla.diffusione, prima timida e limitata poi sempre più estesa, dell'economia monetaria e del mercato. Ecco come il grande storico Henri Pirenne (1862-1935) descrive gli inizi di questo processo: I mercanti, che facevano una vita errabonda, esposta a rischi di ogni genere in quell'epoca in cui la rapm*a costituiva uno dei mezzi di sopravvivenza per la piccola nobiltà, sentirono presto il bisogno di cercare protezione entro le mura delle città e dei borghi che incontravano lungo i fiumi o le strade percorse. Durante l'estate essi vi facevano tappa; nella cattiva stagione si fermavano a passarvi l'inverno. Ben presto nelle città e nei borghi non vi fu più spazio sufficiente per i nuovi venuti, che divenivano sempre più numerosi e occupavanc luoghi sempre più vasti. Ed essi furono costretti a rimanere fuori, e ad accostare al vecchio un nuovo borgo esterno o «sobborgo» (forisburgus). Nacquerc così, a fianco delle città ecclesiastiche o delle fortezze feudali, agglomerati commerciali i cui abitanti erano dediti a un genere di vita totalmente diverso 1 quello di coloro che abitavano all'interno della città [1963, trad. it. 1967, 551 Ai mercati locali affluiscono periodicamente i contadini del conta. do per vendere le loro eccedenze agricole agli abitanti delle città e pei comprare dagli stessi i prodotti artigianali che non possono produrre o che non risulta conveniente produrre, nell'ambito dell'economú contadina. 1 primi mercanti lucrano sulle forti differenze di prezzo tra localit',' distanti: comprano a basso prezzo dove qualche bene è abbondante ( lo rivendono a un prezzo molto maggiore dove invece è scarso. A vol te basta un'avversa stagione che rovina un raccolto o un saccheggio & parte di truppe nemiche per far salire i prezzi di qualche prodotto it LE società PREMODEME 41 una certa località. Si creano così per i mercanti occasioni di lucro che essi sono immediatamente pronti a sfruttare. 1 loro traffici si sviluppano proprio perché il commercio è arretrato e non vi è un mercato di dimensioni «nazionali», nel senso moderno del termine, dove si forma un unico prezzo. 1 mercanti mettono in collegamento mercati locali e allargano il raggio dei possibili compratori dei prodotti artigianali delle città. Per i beni di lusso, richiesti dalle corti feudali, e spesso anche per i beni di prima necessità, divenuti scarsi a causa delle frequenti carestie, organizzano traffici di lunga distanza, si associano tra loro per armare una nave e ripartire i rischi del viaggio, organizzano le prime compagnie commerciali. A differenza della città antica o anche della corte feudale, dove mercanti e artigiani sono schiavi, servi o semi-cittadini, nella città medievale questi ceti lottano per ottenere, e spesso ottengono, una forte indipendenza. Si organizzano in corporazioni e in gilde, per non farsi CorWrizioni concorrenza tra loro, stipulano spesso patti per difendere anche con le armi la loro libertà dai soprusi dei poteri feudali e per governare autonomamente la città. «Die Stadtluft macht frei» Waria della città rende liberi) è il motto che simboleggia la diversità delle forme di governo e dei modi di vita cittadini rispetto alla campagna e alle grandi masse agricole che vi vivono. E, infatti, tutti coloro che vengono espulsi o che, più spesso, fuggono dai feudi, cercano nelle città protezione e nuove opportunità di vita. Pagina 19
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 19 modello della città medievale che si dota di proprie istituzioni e difende con successo le proprie libertà, sottraendosi alla rete degli obblighi feudali, non si afferma ovunque con la stessa intensità. Talvolta, la lotta tra le città e l'aristocrazia terriera si volge a favore delle prime e le città riescono a mantenere anche per lunghi periodi le loro prerogative di indipendenza e autogoverno. In altri casi, i poteri feudali riescono a restringere efficacemente le libertà cittadine, in altri casi ancora sono gli stessi aristocratici, proprietari terrieri, che abbandonano le loro residenze di campagna, si trasferiscono nelle città e lottano con i nuovi ceti emergenti per il governo cittadino. L'esito di questa lotta avrà, come vedremo nel capitolo successivo, conseguenze rilevanti per la genesi dello stato moderno. TAW I. I. TaSSi di urb.an eurqpeì:@ Più di 5.000 ab. 1300 9,5 1400 12,5 1500 10,3 1600 11,7 1700 11,4 1750 12,0 1800 11,9 Più di 2. 000 ab. 14,0 18,4 15,1 17,1 16,7 17,9 17,5 l. L'idea di mutamento Vi sono nella storia epoche in cui A tempo sembra scorrere lentamente, in cui gli esseri umani si trovano a vivere in un mondo che non è molto diverso da quello in cui erano vissuti i loro padri e i loro nonni e in cui sarebbero vissuti in seguito i loro figli e nipoti. In queste fasi della storia, il mondo e la vita degli uomini possono certo venire sconvolti da eventi fortunati o funesti (vittorie o sconfitte militari, buoni raccolti o carestie, stragi o pestilenze), ma, una volta assorbito l'impatto, la vita riprende il suo corso normale e la società si riproduce di generazione in generazione conservando pressoché immutati i suoi tratti fondamentali. Se pensiamo che nelle società agrarie la grande maggioranza della popolazione era fatta di contadini e che la vita quotidiana di una famiglia contadina europea fino a due secoli fa non era poi così diversa dalla vita di un'analoga famiglia di due o tremila anni addietro, ci rendiamo conto di che cosa volesse dire vivere in una società statica. 1 concetti di società statica e di società dinamica sono evidentemente concetti relativi: chi non ha esperienza del mutamento non può neppure pensare che qualche cosa possa essere statico e il mutamento stesso diventa perceffibile solo se confrontato con una situazione statica o meno dinamica. Nessuna società è in sé statica o dinamica, ciò che cambia è la velocità del mutamento, che può essere molto lento, e quindi quasi impercettibile nell'arco della vita media di un uomo, oppure molto accelerato. Ora, in un periodo che varia a seconda delle diverse aree geografiche tra il XVI e il XIX secolo, le società europee entrano in un'epoca di mutamento sociale accelerato: il corso della storia, che prima aveva proceduto lentamente, subisce un'intensa accelerazione. La caratteristica fondamentale di questo processo è la sua globalità; esso investe infatti la sfera economica, politica, giuridica, culturale delle varie società e coin44 CAPITOLO 2 volge la vita quotidiana di milioni di uomini e donne di tutti i ceti e classi sociali. Non bisogna dimenticare che mutamenti profondi erano avvenuti anche in epoche precedenti e in civiltà diverse da quella europea occidentale e, tuttavia, la vicenda dell'Occidente resta comunque singolare non solo per il ritmo e la globalità del processo, ma anche per le ripercussioni che ebbe anche al di là dei confini del mondo occidentale. Inoltre, si può dire che la sociologia stessa sia nata per dare una risposta agli interrogativi posti dalle grandi trasformazioni sociali che questo processo ha portato nelle società europee. Pagina 20
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Nelle pagine che seguono analizzeremo le principali trasformazioni che si verificano nella sfera economica, politica e culturale, mentre alla fine del capitolo accenneremo ad alcune delle teorie e dei concetti che sono stati proposti dai sociologi per dare un fondamento all'analisi del mutamento e spiegarne gli effetti. 2. Le trasformazioni nella sfera economica: la nascita dei capitalismo 2.1. Il concetto di capitalismo Capitalisino Il concetto di capitalismo, almeno nella sua accezione corrente, è stato formulato per la prima volta in modo compiuto da Karl Marx (1818-1883), una figura di grande rilievo nel pensiero sociale del XIX secolo, ad un tempo studioso e militante rivoluzionario. Marx ha una concezione materialistica e dinamica della società. Egli sostiene che per capire una società bisogna innanzitutto rendersi conto di come in essa gli uomini provvedono a soddisfare i loro bisogni e di quali rapporti si instaurano tra di essi nella sfera della produzione. Nella storia si sono succeduti diversi sistemi economici (Marx parla di «modi di produzione»): il comunismo primitivo, il modo di produzione antico o schiavistico, il modo di produzione feudale e il modo di produzione capitalistico. Ognuno di essi è caratterizzato da una combinazione tra forme di divisione del lavoro e competenze tecniche, da un lato, e forme di proprietà e rapporti tra le classi, dall'altro. Nella terminologia di Marx si parla di «forze produttive» per indicare il primo elemento e di «rapporti sociali di produzione» per indicare il secondo. E modo di produzione capitalistico si distingue da quelli che lo hanno preceduto per il fatto che in esso dominano i detentori del capitale (costituito da fabbriche, macchinari, materie prime, fondi per pagare i lavoratori, ecc.) che pongono al loro servizio A lavoro salariato (composto da una massa di lavoratori la cui unica ricchezza è la forza lavoro). In ogni società in un dato momento è presente in genere una pluralità di modi di produzione di cui soltanto uno risulta storicamente dominante; in tal caso si parla di «formazione sociale capitalistica» quando in una società è dominante A modo di produzione capitalistico. Vi sono periodi storici in cui un modo di produzione risulta stabilmente dominante ed ORIGINI DELLA società MODERNA 45 altri periodi, invece, in cui i rapporti di produzione diventano un ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive e si generano conflitti tra classi portatrici di interessi antagonistici. In queste fasi, un modo di produzione diviene instabile e si prepara la transizione al dominio del modo di produzione successivo. 19 capitalismo è nato dalle contraddizioni interne al modo di produzione feudale, così come il comunismo, nelle aspettative di Marx, nascerà dalle contraddizioni del modo di produzione capitalistico. Come si vede, Marx inserisce il problema della nascita del capitalismo nell'ambito di una teoria generale del corso della storia. La teoria di Marx resta importante, anche se è stata fortemente criticata per il carattere unilineare e deterministico dello sviluppo storico che essa postula. A noi serve soprattutto per mettere in luce il concetto di capitalismo e lo faremo partendo dalla definizione che ne ha dato Werner Sombart (1863-1941), un economista, sociologo e storico tedesco che, almeno sotto questo aspetto, si colloca nella scia di Marx: Per capitalismo intendiamo un determinato sistema economico con le seguenti caratteristiche: è un'organizzazione economica di scambio, in cui collaborano, uniti dal mercato, due diversi gruppi di popolazione, i proprietari dei mezzi di produzione, che contemporaneamente hanno la direzione e i lavoratori nullatenenti e che è dominata dal principio del profitto e dal razionalismo economico [1902, trad. it. 1967, 1651. Vediamo gli elementi di questa definizione: a) il capitalismo è un'economia di scambio e in particolare un'economia monetaria (dove cioè gli scambi non avvengono in natura, ma attraverso la mediazione del denaro); b) sul mercato non si scambiano soltanto merci, ma anche prestazioni lavorative tra una classe di capitalisti, che hanno bisogno di lavoro per far funzionare le loro imprese, e una classe di proletari, che per vivere non hanno altro da vendere se non la loro forza lavoro; c) l'orientamento delle mete dei capitalisti è verso l'accumulazione del profitto come fine in sé e il suo reinvestimento neTambito dell'impresa; d) l'organizzazione deHa produzione e la gestione d'impresa sono improntate a criteri di razionalità economica, mediante le applicazioni tecnologiche della scienza e l'uso di moderne procedure contabili. Queste caratteristiche si sono affermate rivoluzionando la struttura Pagina 21
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dell'economia feudale e la mentalità stessa degli attori economici in ogni settore di attività. 2.2. Le trasformazioni dell'agricoltura La struttura dell'agricoltura feudale presenta da un lato una grande moltitudine di famiglie contadine legate alla terra che coltivano e dall'altro lato una cerchia più o meno ristretta di signori fondiari che traggono dalla rendita fondiaria, in ultima analisi quindi dal lavoro del' contadini, la fonte principale della loro ricchezza. Le forme, gli usi, le consuetudini che regolano il rapporto tra signori e servi variano moltissimo da paese a paese e da epoca a epoca. A parte la specificit@ delle situazioni locali, in generale si può dire che l'agricoltura feudale è un'agricoltura estensiva, Aasso livello di produttività e dove sono scarse le innovazioni produttive. 1 signori feudali non hanno né le competenze tecniche né la volontà di occuparsi della conduzione del' fondi; il loro unico interesse consiste nello spremere il più possibile le popolazione contadina al fine di incrementare il flusso della rendite che risulta comunque sempre insufficiente rispetto alle loro esigenze onorifiche e militari. 1 contadini stessi non hanno alcun interesse e migliorare la resa delle coltivazioni poiché sanno che l'eventuale maggior prodotto andrebbe ad esclusivo vantaggio dei proprietari fondiari, Non sempre e non dappertutto, tuttavia, l'intera superficie delle terra utilizzabile era coltivata e regolata da rapporti di tipo feudale. Su molte terre (soprattutto, boschi e prati) i villaggi esercitavano diritti comuni di legnatico e di pascolo e questi usi contribuivano spesso ir modo decisivo a mantenere il precario equilibrio tra bisogni e risorse della popolazione contadina. Inoltre, vi è sempre stata, più o menc numerosa e più o meno prospera, anche una classe di contadini indipendenti che coltivavano terre sottratte agli obblighi feudali e sulle quali esercitavano un diritto di proprietà (i cosiddetti fondi allodialì), Questo quadro di staticità incomincia a infrangersi, dapprima in Inghilterra a partire dal XVII secolo e in seguito, sia pure con modaliú in parte diverse, sul continente europeo. La spinta che mette in moto i processo proviene dalla crescente domanda di manufatti e derrate che si genera su un mercato in formazione di dimensioni internazionali. Pei illustrare la concatenazione dei processi possiamo fare un esempic schematico. Supponiamo che si generi, per effetto delle esigenze dJ equipaggiamento dei grandi eserciti stanziali, una forte domanda di panni di lana che fa lievitare i prezzi della materia prima. La lana proviene dalle pecore e le greggi richiedono vaste estensioni di pascoli; se non vi sono terre libere, per aumentare la superficie a pascolo si ricorre all'abolizione degli usi civici sui pascoli comuni mediante le recinzl"oni. privatizzando quello che prima era un diritto d'uso di tutti gli abitanti del villaggio. E movimento delle enclosures ha raggiunto in Inghilterra un'entità considerevole soprattutto nei secoli XVII e XVIII, ma si è verificato anche in altre aree, ad esempio, mi Sardegna un paio di secoli più tardi ha preso il nome di chiudende. Per lo strato più povero del' contadini l'abolizione dei diritti di pascolo mina alle fondamento l'equilibrio economico tra bisogni e risorse: non potendo più alimentare il bestiame, non sono più in grado di coltivare la terra, devono cederla al signore o ai contadini benestanti, offrirsi come salariati agricoli senza terra, oppure emigrare nelle città. Le recinzioni non sono l'unica causa di questo processo e neppure ovunque la più importante, ma ORIGINI DELLA società MODERNA 47 l'esito del processo é sempre lo stesso: un'accresciuta polarizzazione delle condizioni di vita nelle campagne e una maggiore disuguaglianza all'interno delle classi rurali. Si tratta del processo, ben descritto da Marx nel Capitale, dell'espulsione dei contadini dalla terra. In Inghilterra, il paese che ha anticipato gli altri nel mettere in moto queste trasformazioni, i protagonisti di questo processo sono essenzialmente riconducibili a due classi: la piccola nobiltà terriera (la gentry) e i contadini benestanti (gli yeomen), sono costoro che si trasformano in capitalisti agrari, acquistano o affittano le terre abbandonate dai contadini poveri e trasformano una parte di questi in salariati agricoli, quelli che in Italia si chiamano braccianti, un termine molto efficace per indicare una classe agricola la cui unica risorsa sono le proprie braccia. 1 capitalisti agrari, a differenza dei signori feudali, hanno tutto l'interesse ad introdurre innovazioni nella coltivazione e nell'allevamento per aumentarne la produttività e quindi per accrescere i profitti: si migliorano i metodi di irrigazione, si selezionano le colture a seconda della natura dei suoli, si introducono nuove Pagina 22
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt coltivazioni, si perfezionano le tecniche e si crea una rete di comunicazioni per fare affluire i prodotti sui mercati. Nasce, in poche parole, l'agricoltura moderna che, quanto più è progredita, tanto meno richiede la presenza di una vasta popolazione agricola. 2.3. Il ruolo delle attività mercantili Sul ruolo del commercio nella transizione dal feudalesimo al capitalismo si è aperto tra storici e scienziati sociali nella prima metà del nostro secolo un dibattito assai acceso e interessante. Da un lato vi sono stati coloro (ad esempio, Pirenne, Sweezy, Braudel, Wallerstein) che hanno visto nella formazione di un ricco ceto di grandi mercanti e nella creazione di un mercato di dimensioni mondiali il vero fattore di dissoluzione e disgregazione dei rapporti economici feudali, dall'altro lato vi sono coloro che, rifacendosi soprattutto a Marx (ad esempio, Dobb), sostengono che di per sé le attività mercantili non sono incompafibili con un'economia feudale ed, anzi, possono prosperare negli interstizi che si creano al suo interno lasciandone sostanzialmente inalterata la struttura. Per i rimi il fattore dirompente che trascina con sé p la crisi del modo di produzione feudale e crea le basi del capitalismo si colloca nella sfera della circolazione dei beni, per i secondi, invece, non si dà passaggio al modo di produzione capitalistico se non quando le, trasformazioni avvengono nella sfera della produzione. Queste controversie non possono essere risolte sul piano della pura teoria; solo l'analisi di concreti casi storici può portare argomenti a sostegno dell'una o dell'altra ipotesi. Non c'è dubbio che spesso il capitalismo mercantile ha preceduto e creato le condizioni per il capitalismo industriale, mentre in altri casi ciò non è avvenuto. Un'analisi del caso italiano, ad esempio, può risultare estremamente illuminante. La penisola italiana ha visto, come è noto, uno sviluppo mercantile molto precoce. I banchieri e i mercanti fiorentini, genovesi, lombardi e veneziani hanno dominato il commercio e la finanza in Europa fin dai secoli XIV e XV. I più importanti istituti del diritto commerciale e della contabilità razionale (le società commerciali, la cambiale, la partita doppia, ecc.), che sarebbero diventati decisivi nello sviluppo dell'impresa capitalistica, nascono tutti in Italia in epoca medievale e rinascimentale. Eppure, questo straordinario sviluppo del capitalismo mercantile non ha trascinato con sé un analogo sviluppo nell'ambito della produzione agricola e industriale. Le merci che i grandi mercanti trasportavano sulle loro navi e vendevano in terre lontane dai luoghi di produzione, ricavando ingenti fortune, venivano pur sempre prodotte con metodi tradizionali nel quadro di un'economia feudale e artigianale. I mercanti e i banchieri, che pure avevano accumulato grandi ricchezze ed erano in grado di prestare ingenti somme di denaro a principi e re, non si trasformarono in imprenditori e in capitalisti industriali. ORIGINI DELLA società MODERNA 49 Ben diversa fu invece, due-tre secoli più tardi, la penetrazione del capitale mercantile nelle attività industriali nelle regioni dell'Inghilterra e dell'Europa settentrionale. Il sistema del «lavoro a domicilio» (putting out in Inghilterra, Verlag in Germania) costituisce in proposito un'importante forma di transizione all'impresa capitalistica. Ecco come funzionava questo sistema nell'industria tessile. 19 mercante girava per i villaggi di campagna dove si incominciava ad accumulare, soprattutto nei mesi di stasi delle attività agricole, una popolazione eccedente i bisogni di mano d'opera dell'agricoltura; portava con sé un carico di materia prima, ad esempio di lana, e qualche semplice attrezzo e macchinario per la filatura e tessitura. Distribuiva il tutto nelle varie case contadine, forniva le specificazioni tecniche su come dovesse essere svolta la lavorazione (ad esempio, lunghezza, altezza e spessore dei panni) e si impegnava a ritirare il prodotto finito a una scadenza prestabilita dietro il pagamento di un compenso in denaro. Il mercante, in altre parole, forniva il capitale di esercizio e la famiglia contadina (donne, bambini e vecchi compresi) il lavoro. Quando poi il mercante deciderà di radunare i lavoranti sparsi nei villaggi sotto uno stesso tetto, fondando una manifattura e pagando loro un salario, il passo sarà breve. Decine e decine di imprese capitalistiche sono nate così, dall'iniziativa di mercanti che si sono trasformati in imprenditori e hanno rivoluzionato il modo di produrre. 2.4. La trasformazione dell'artigianato Il fatto che un mercante possa assoldare e mettere alle sue dipendenze delle famiglie contadine che dedicano al lavoro artigianale tutto il tempo non occupato dalle attività agricole è già un segno evidente della crisi degli ordinamenti corporativi dell'artigianato. Le corporazioni erano infatti delle Pagina 23
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt organizzazioni monopolistiche il cui scopo era in primo luogo quello di assicurare l'esercizio esclusivo di un mestiere o di un'arte ai soli associati nell'intero territorio della città e del suo contado. Lo spirito dell'artigianato delle corporazioni era infatti improntato al divieto della concorrenza: nessun artigiano poteva cercare di accaparrarsi le materie prime ai prezzi più convenienti, nessuno poteva assumere un numero di apprendisti e lavoranti maggiore di quello consentito, nessuno poteva cercare di allargare il proprio giro d'affari facendo pubblicità ai propri prodotti, nessuno poteva avvantaggiarsi a scapito dei propri compagni, poiché a ciascuno doveva essere garantito un tenore di vita conforme alla dignità del ceto. 1 minuziosissimi regolamenti delle corporazioni, ad esempio, impedivano perfino di attirare un potenziale cliente sulla pubblica strada invogliandolo ad entrare nella propria bottega. Nulla quindi di più contrario allo spirito del capitalismo. La stabilità di questo sistema richiedeva però una condizione fondamentale: che la domanda dei singoli beni fosse limitata, prevedibile e senza forti oscillazioni. Quando la domanda di mercato si fa più vivace, quando i, mercanti richiedono quantità sempre più elevate di beni e, soprattutto, beni di qualità più standardizzata è abbastanza inevitabile che alcuni artigiani riescano ad accaparrarsi una quota maggiore di altri di questa domanda aggiuntiva, aggirando o infrangendo i vincoli posti dalle corporazioni. Lo spirito del capitalismo, che Crisi richiede intraprendenza e propensione all'innovazione in opposizione delle corporazioni alla tradizione, che premia la concorrenza in opposizione al monopolio, incomincia a far breccia anche nel mondo tradizionale dell'artigianato. Alcuni artigiani riescono ad espandere la propria bottega, danno lavoro a un numero crescente di lavoranti senza dare loro la prospettiva di diventare a loro volta maestri dell'arte, assicurano ai mercanti una produzione costante e abbondante, altri, invece, non riescono ad approfittare delle nuove opportunità di mercato e, alla fine, saranno costretti ad offrirsi ai primi come semplici salariati. Alcuni artigiani si sono trasformati così, mediante un processo di accumulazione, in imprenditori industriali di stampo capitalistico, molte manifatture sono nate da botteghe artigiane che ormai erano diventate troppo strette per poter ospitare una produzione crescente. 2.5. La formazione dei l'im prenditorial ità Abbiamo visto come, a partire dalle isole britanniche, una strana epidemia abbia incominciato ad invadere l'Europa per diffondersi poi, in tempi e modi diversi, in quasi tutto il mondo. Nobili e ricchi agricoltori, mercanti e artigiani hanno spezzato le catene della tradizione e sono stati presi da una sorta di furore che li ha portati a fondare imprese, a conquistare mercati, ad accumulare fortune e a mettere al proprio servizio schiere di ingegneri, di impiegati e di tecnici e un immenso esercito di lavoratori salariati. La nascita del capitalismo è innanzitutto l'opera di «uomini nuovi» che provengono da strati e ceti diversi e che sono accomunati da un particolare orientamento delle loro mete: non si accontentano di fare le solite cose, nel solito modo al fine di raccogliere poi il frutto della propria fatica e vivere dignitosamente, ma vogliono fare cose nuove in modi nuovi per allargare continuamente il giro d'affari ed espandere le dimensioni della propria impresa. Gli imprenditori, per riprendere una famosa definizione proposta in un'opera del 1912 dal grande economista austriaco Schumpeter (1883-1950), sono essenzialmente degli «innovatori», innovano nei prodotti, nelle tecniche di lavorazione e di gestione, nella raccolta di capitali, nei metodi di commercializzazione, nella ricerca di nuove materie prime e di nuovi mercati di sbocco. E per far questo devono affrontare e vincere l'ostilità della cultura dei ceti aristocratici ed ecclesiastici che tradizionalmente vedevano nell'attività economica volta all'accumulazione del profitto qualcosa di immorale o, quanto meno, di degradante e poco dignitoso. L'innovazione garantisce a chi l'ha introdotta un vantaggio differenziale rispetto ai propri concorrenti: chi produce beni che altri ancora non producono, oppure chi riesce a produrre gli stessi beni a costi inferiori, gode di una temporanea posizione di monopolio e quindi di un profitto maggiore almeno fino a quando i concorrenti non riusciranno ad imitarlo. Ogni innovazione è infatti destinata a diffondersi e quindi a non essere più tale, ma il processo descritto di «distruzione creativa» induce l'imprenditore a ricercare sempre nuove innovazioni, a rivoluzionare costantemente la combinazione di fattori dalla quale nasce la produzione. Non si deve pensare però che gli imprenditori siano stati animati esclusivamente da un illimitato impulso acquisitivo. Come ha osservato Weber [1904-1905, trad. it. 1982, 5-61: L'impulso acquisitivo e l'aspirazione al guadagno, al guadagno monetario più Pagina 24
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt grande possibile, non ha di per sé nulla a che fare con il capitalismo. Questa aspirazione è esistita ed esiste in camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, funzionari corruttibili, soldati, banditi, crociati, frequentatori di bische, mendicanti - si potrebbe dire - in all sorts and conditions of men, in tutte le epoche e in tutti i paesi della terra, laddove ne era data e ne è data la possibilità oggettiva [... 1 La più sfrenata bramosia di acquisizione non si identifica per nulla con il capitalismo e tanto meno con il suo «spirito». E capitalismo può addirittura essere identico con l'imbrigliamento o almeno con il temperamento razionale di questo impulso irrazionale. Invero il capitalismo si identifica con l'aspirazione al guadagno nell'impresa capitalistica razionale, continuativa, e ad un guadagno sempre rinnovato, ossia alla redditività. Il capitalismo speculativo, ad esempio quello dei banchieri e mercanti medievali, non è ancora capitalistico nel senso moderno del termine poiché non produce un nuovo orientamento sistematico e razionale verso l'attività economica. Del resto, la massima aspirazione dei ricchi mercanti era quella di farsi costruire sontuosi palazzi e di condurre una vita di lusso, sul modello dei ceti aristocratici. L'imprenditore razionale, invece, non è orientato al consumo, all'ozio e ai piaceri della vita. Al contrario, lui e la sua famiglia conducono una vita sobria e morigerata e il profitto deve essere accumulato per essere reinvestito nell'impresa. «Ricordati che il tempo è denaro», ammoniva Benjamin Franklin nel 1736 in un opuscolo di consigli per chi voleva diventare ricco. L'imprenditore è il campione delle virtù borghesi del risparmio e persegue con dedizione assidua e sistematica un fine astratto e illimitato, l'accumulazione del capitale, non un fine concreto e finito quale può essere l'accumulazione di un patrimonio di beni direttamente fruibili. Non a caso la nascita del capitalismo si accompagna ad una critica serrata e polemica contro il lusso e gli stili di vita dispendiosi e improduttivi delle classi aristocratiche. Il capitalismo non è quindi soltanto un particolare sistema economico fondato su imprese che operano sui mercati al fine di produrre beni e accumulare profitti, ma esprime anche una mentalità e un'etica economica particolari che Weber, in un celebre saggio del 1904, ha chiamato lo «spirito del capitalismo» 2.6. La tesi dell'origine religiosa dello spirito dei capitalismo Per Weber a fondamento dello spirito del capitalismo vi è un atteggiamento di tipo ascetico. Si tratta tuttavia di un'«ascesi mondana» che non fugge dalle cose terrene, ma opera attivamente nel mondo per dominarlo e trasformarlo. Un atteggiamento ben diverso dall'«ascesi extramondana» dei monaci e degli eremiti per i quali la salvezza dell'anima poteva essere raggiunta solo attraverso pratiche di contemplazione mistica. Weber ha formulato l'ipotesi che le origini di tale spirito siano da rintracciare nelle conseguenze, sul piano dell'agire economico, dell'etica delle sette protestanti influenzate dalle dottrine di Calvino, in particolare dal dogma della predestinazione. Questa dottrina afferma che dio, nella sua imperscrutabile volontà, ha stabilito dall'eternità chi sarà salvato e chi, invece, sarà dannato. Dio è per i calvinisti un'entità assolutamente trascendente e le azioni dell'uomo non possono influenzarne la volontà. Se ciò fosse, vorrebbe dire che l'uomo si pone sullo stesso piano della divinità e ciò sarebbe un atteggiamento sacrilego. Una dottrina di questo tipo avrebbe potuto alimentare un atteggiamento fatalistico e, invece, secondo Weber, questa credenza ha prodotto effetti diametralmente opposti. Di fronte all'angoscia derivante dallincertezza in merito al proprio destino eterno, ì credenti hanno cercato nel successo terreno un segnale di salvezza; una vita attiva, lontana dall'ozio e dal lusso, impegnata nel perseguimento assiduo di un fine astratto, diventa il mezzo per placare l'angoscia e acquisire la certezza della salvezza eterna. Non possiamo entrare nel merito di questa tesi, che è stata a lungo dibattuta e anche criticata, quello che è certo, comunque, è che i primi imprenditori furono i portatori di uno spirito nuovo, di un nuovo modo di intendere l'agire economico e la vita in generale, soprattutto, seppero sfidare il potere dei vecchi ceti nobiliari e vincere l'ostilità della cultura tradizionale dominante. Non è un caso, infatti, che tra i primi imprenditori si trovi un numero consistente di appartenenti a gruppi minoritari e marginali (eretici, stranieri, ebrei) che, proprio per il fatto di non essere parte integrante dell'ordine sociale costituito, sono meglio di altri in grado di liberarsi dai vincoli della tradizione. t un dato frequentemente riscontrato dai sociologi che la marginalità sociale costituisca una condizione che favorisce la propensione all'innovazione. Si assiste, in altre parole, all'ascesa di una nuova classe sociale, la cui ricchezza non dipende più dalle rendite di un patrimonio terriero ereditato, ma Pagina 25
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dal lavoro e dalle capacità di sfruttare le opportunità di mercato, il cui stile di vita sottolinea le virtù borghesi dell'operosità e del risparmio, piuttosto che il lusso e le raffinatezze aristocratiche, e che ben presto, come vedremo, rivendicherà il diritto di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica. Abbiamo analizzato le trasformazioni che si sono verificate in Europa tra il XVI e il XIX secolo nella sfera economica e che hanno preparato l'avvento della società moderna. Ora dovremo considerare le trasformazioni che sono avvenute nella sfera politica. 3. Le trasformazioni nella sfera politica: la nascita dello stato moderno 3.1. Lo stato moderno nell'epoca dell'assolutismo Nello stato feudale dominava la dimensione localistica. Nell'ambito del loro territorio, i signori feudali esercitavano una vasta gamma di poteri: riscuotevano la «rendita» dalla popolazione contadina, amministravano la giustizia, imponevano balzelli e pedaggi su coloro che attraversavano le loro terre, organizzavano e conducevano le campagne militari e assicuravano, nel limite del possibile, la protezione dei loro sudditi di fronte alle costanti minacce esterne. Avevano anche degli obblighi, prevalentemente militari, e talvolta anche fiscali, nei confronti dei poteri di ordine più elevato (il rapporto di vassallaggio), in particolare nei confronti del re e dell'imperatore. Le tendenze centralistiche erano tuttavia deboli rispetto alle tendenze localistiche. Il mondo feudale è un mondo di poteri locali. Anche quei «pezzi» di società che si erano sottratti ai vincoli dell'ordine feudale, conquistando una propria autonomia e una propria libertà, le città, non estendevano il loro potere al di là delle loro stesse mura, anche se la loro influenza si poteva far sentire in un'area più vasta per effetto dei rapporti di mercato che intrattenevano con il contado e con altri centri commerciali. La relativa debolezza dei poteri centrali, incapaci di imporsi a una moltitudine di poteri locali fortemente autonomi, spiega come mai nel mondo feudale dominasse un'endemica situazione di guerra. Ogni signore locale era quasi inesorabilmente in conflitto coi suoi vicini, sia avanzando pretese sui loro possedimenti, sia dovendo fronteggiare le pretese altrui, in un gioco di scontri e di alleanze sempre mutevole. La guerra era l'occupazione principale dei signori feudali; A loro potere e la loro ricchezza dipendevano essenzialmente dall'ampiezza del territorio e dal lavoro delle popolazioni che riuscivano a sottomettere. Non stupisce che, in un mondo di questo tipo, le virtù guerresche, il coraggio nell'affrontare il pericolo, la forza e la spietatezza nei confronti del nemico, la destrezza nel maneggiare le armi, fossero le qualità umane più apprezzate. Ogni società ha la sua gerarchia di valori a seconda delle qualità e delle «competenze» che in essa sono necessarie per acquisire ed esercitare il potere. Questo sistema di rapporti di potere durò in Europa per secoli, fino a quando dalle lotte, dalle guerre, ma anche dal gioco diplomatico delle alleanze e dei matrimoni tra dinastie e casate diverse non emerse come vincitore un potere capace di sottomettere, nell'ambito di territori abbastanza vasti, i poteri concorrenti. Si trattò, in altri termini, di un processo di pacificazione, nel senso che su un territorio, prima conteso e oggetto di guerre e di conflitti, si venne ad instaurare, per usare un concetto di Max Weber [1922al, un «monopolio della violenza legittima», vale a dire il diritto esclusivo di usare la forza (cioè, le armi) da parte del potere sovrano. L'instaurazione di tale «monopolio» è il presupposto della formazione dello stato moderno e gli stati moderni nacquero quasi sempre come regni, vale a dire come stati dove l'accesso al potere supremo era regolato dalle leggi dinastiche della successione. Questo processo di creazione di vasti regni sottoposti al potere di un unico sovrano non avvenne ovunque e, soprattutto, non avvenne con gli stessi tempi e seguendo le stesse modalità. Se nell'antichità le linee dei traffici avevano prevalentemente percorso il Mediterraneo da Occidente a Oriente (e viceversa), nell'epoca del primo capitalismo la direzione dei traffici si sposta lungo l'asse nord-sud in un'ampia fascia centrale che va dall'Italia alla Renania, alle Fiandre fino a raggiungere le città anseatiche e i porti del mar Baltico. In questa fascia si sviluppa una fitta rete di città legate tra loro da rapporti mercantili, che acquistano sempre maggiore autonomia dai poteri feudali. Stein Rokkan [19751 parla in proposito di «Europa delle città-stato». Le istituzioni cittadine sono per molti aspetti più simili a quelle che assumerà in seguito lo stato nazionale di quanto non lo siano quelle degli stati tradizionali. Può apparire un paradosso che proprio in questa fascia si siano manifestati storicamente forti ritardi nel processo di consolidamento di stati nazionali abbastanza ampi. Pagina 26
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt La Francia, 11nghilterra e la Spagna, a Occidente, la Prussia e la Russia, a Oriente, possono vantare una storia statuale molto più lunga di altri paesi, poiché il processo di unificazione e pacificazione si realizzò in essi molto prima che altrove. Nell'area italiana e tedesca, invece, dove più forte era la tradizione cittadina, il processo di unificazione statuale si realizzò molto tardi (dopo la metà del = secolo) e per lunghi periodi queste aree geografiche rimasero divise in una pluralità di piccoli stati in costante conflitto tra loro. Un fattore importante per spiegare questo ritardo è che le città potevano trovare risorse di comune difesa o vantaggi nell'organizzazione economica stabilendo tra loro coalizioni temporanee, ma, al tempo stesso, trovavano facilmente un accordo per impedire che una acquistasse A predominio sulle altre. Nelle città, all'accumulazione e concentrazione del capitale, non corrispondeva un'analoga accumulazione e concentrazione di potere politico, vale a dire di mezzi di coercizione e organizzazione. Quest'ultimo processo si svolse invece nelle due zone esterne, a Oriente e a Occidente, del corridoio delle città-stato; qui comparve presto, in varie forme, lo stato moderno, che non si affermò quindi nelle zone ricche di centri urbani, dove predominavano i mercati e gli scambi, ma laddove prevalevano l'agricoltura e la servitù della gleba. Queste sembrano essere state condizioni favorevoli alla concentrazione precoce del potere di coercizione. Stato modemo Il processo di unificazione/pacificazione di vaste aree territoriali fu accompagnato da una serie di momenti decisivi. In primo luogo la creazione di grandi eserciti (nel caso dell'Inghilterra, grazie alla sua posizione insulare, di una potente marina) per la difesa del territorio e per il perseguimento di politiche espansionistiche nei confronti di altri stati. Tali eserciti non erano più composti, come quelli feudali, da guerrieri che provvedevano autonomamente al loro equipaggiamento, ma da soldati e da un corpo di ufficiali selezionati, reclutati, equipaggiati e stipendiati dallo stato. L'esercito rappresenta il «cuore» dello stato moderno. Fin verso la fine del XV1II secolo le spese militari assorbivano in tutti i grandi stati continentali e anche in Gran Bretagna più del 70% del bilancio dello stato [Mann 1986, 483-4901. La formazione dello stato moderno comportò pertanto un processo di «espropriazione» dei guerrieri dai loro «mezzi di guerra», così come comportò un analogo processo di espropriazione dei «funzionarì pubblici dai mezzi di amministrazione» Le crescenti spese pubbliche, in particolare appunto quelle militari, imponevano un cambiamento radicale dei meccanismi di prelievo fiscale. In epoca premoderna, il prelievo fiscale avveniva essenzialmente mediante un sistema di appalti: il signore stabiliva in base alle proprie esigenze quale fosse l'ammontare delle imposte da ricavare da un dato territorio e ne affidava la riscossione a un «appaltatore»; se questi riusciva, spremendo i contribuenti (ad esempio, i contadini), a riscuotere una somma maggiore di quella fissata, tratteneva la differenza per far fronte alle spese di esazione delle imposte e ai suoi consumi. In altri termini, la retribuzione dell'appaltatore non era prefissata in anticipo, egli non veniva pagato dall'erario statale per la funzione di esazione, ma gestiva, per così dire, «in proprio» l'attività fiscale, appropriandosi dei profitti relativi. In un certo senso lo stato premoderno era alla mercé dei suoi servitori e, per ottenere i loro indispensabili servigi, era costretto a concedere loro benefici e a non interferire con il modo arbitrario col quale questi esercitavano le funzioni loro assegnate. Con la formazione dello stato moderno, il ruolo del funzionario cambia radicalmente: prima di tutto, la sua retribuzione è posta a carico dell'erario e non dipende più dall'ammontare delle somme che l'esattore riesce a spremere dai contribuenti del territorio sotto la sua giurisdizione; in secondo luogo, il suo operato viene sottratto aT arbitrio dei rapporti di natura personale per essere sottoposto alla regolamentazione di norme astratte che, almeno in linea di principio, si applicano indifferentemente a tutti coloro che vivono sul territorio stesso. Le origini delle moderne burocrazie pubbliche sono uno degli aspetti più rilevanti della formazione dello stato moderno. Parallelamente al monopolio militare e fiscale si instaura anche un terzo monopolio, quello monetario. In epoca premoderna circolavano in Europa una grande quantità di monete diverse poiché ogni signore territoriale, ogni città commerciale, ma anche banche e corporazioni, esercitavano il potere di battere moneta. Quando nel 1606 il parlamento olandese, che rappresentava soprattutto gli interessi dei grandi mercanti di Amsterdam, pubblicò un manuale per cambiavalute, elencò ben 341 monete d'argento e 505 d'oro. Ciò non facilitava certo gli scambi e neppure la regolarità delle entrate statali poiché era difficile controllare le contraffazioni e «pesare» l'effettivo contenuto metallico di un numero così elevato i mezzi di circolazione [Galbraith 1975, Pagina 27
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt trad. it. 1976, 251. Lo stato avocò così a sé il diritto di battere moneta e il monopolio del conio della moneta (e, successivamente, della stampa della moneta cartacea) diventò una delle sue prerogative più importanti. Del resto, lo stato assoluto non si limita in campo economico al monopolio fiscale e monetario, spesso esercita in proprio delle vere attività produttive soprattutto nel settore minerario e della produzione di beni di lusso; accanto alle manifatture create da artigiani e mercanti, si trovano anche spesso le «manifatture reali» dove si sperimentano forme avanzate di organizzazione del lavoro. Insieme a questi poteri bisogna infine ricordarne un altro che, anche se non specifico dello stato moderno, trova in esso la sua massima realizzazione: il monopolio dell'amministrazione della giustizia. Nell'ambito dello stato moderno, e non solo di esso, non è legittimo farsi giustizia da sé quando si ritiene di aver ricevuto un torto, è lo stato a garantire la protezione giuridica. La vendetta privata e la vendetta del clan cedono il passo al potere giudiziario che distribuisce ragioni e torti, premi e punizioni. 1 poteri di decidere sulla pace e sulla guerra, di reclutare un esercito, di riscuotere imposte e di battere moneta, aggiunti a quello di emanare leggi vincolanti per tutti e di amministrare la giustizia su un territorio delimitato, costituiscono il nucleo centrale del concetto moderno di sovranità. La prima forma di stato moderno si afferma così nell'epoca dell'assolufismo: il «sovrano» concentra nelle sue mani questi poteri e li esercita «legittimamente» nei confronti dei propri «sudditi» in virtù del principio dinastico. Il fondamento di legittimità del potere riposa, per dirla con Max Weber, sulla «tradizione». Il concetto di legittimità è un concetto importante e su di esso torneremo nel cap. XXI. Qui è sufficiente notare che non tutte le forme di potere sono legittime. Vi è potere in ogni situazione nella quale vi è qualcuno che comanda e qualcuno che ubbidisce. Si può comandare con la forza e la coercizione e si può obbedire per paura, perché si teme di subire la violenza di chi detiene il potere. In questo caso il potere non è legittimo. Lo diventa quando chi ubbidisce lo fa perché ritiene che chi comanda abbia il titolo per farlo. La tradizione è appunto il fondamento di legittimità del potere esercitato in base al prmicipio dinastico. Vedremo ora come sia proprio questo fondamento a mutare con l'avvento di una nuova forma di stato moderno: lo stato costituzionale, ovvero lo stato di diritto. 3.2. Il concetto di «cittadinanza,, e la nascita dei moderno stato di diritto L'ascesa della borghesia nella sfera delle attività economiche, la crescita di un apparato di funzionari pubblici dotati di competenze tecniche e giuridiche, la diffusione delle idee portate dalla Riforma e dalle filosofie dell'Illuminismo sono tutti fattori che minano alle fondamenta il potere assoluto del sovrano. Le grandi rivoluzioni del XVII e XVIII secolo (le rivoluzioni inglese, americana e francese) segnano l'avvento di una nuova concezione dello stato che vede nell'insieme dei cittadini e non più solamente nel monarca la fonte della «sovranita» L'idea che nel rapporto tra governanti e governati questi ultimi non siano esclusivamente dei sudditi, ma siano titolari di diritti non è in sé un'idea moderna. L'antichità, si pensi alla democrazia ateniese, ha conosciuto il concetto di diritti di cittadinanza, sia pure limitati ad una parte ristretta della popolazione e, in particolare, A diritto di partecipare al processo di presa delle decisioni concernenti la gestione della cosa pubblica. Anche nelle città medievali che lottavano per affermare la loro libertà e sottrarsi al potere dei signori feudali, assistiamo alla rivendicazione, spesso efficace, di diritti di cittadinanza. 1 cittadini si armano per conquistare e difendere la libertà di autogoverno e di regolare i loro rapporti in modo autonomo rispetto al diritto feudale. E, inoltre, nello «stato basato sui ceti» (in tedesco, Stdndestaat), che precede in molte parti d'Europa la formazione dello stato moderno, abbiamo il riconoscimento da parte di re e principi dei diritti di autogoverno di diversi «corpi» (ceti): l'assemblea dei nobili, ma anche le comunità cittadine, le associazioni di mestiere di mercanti e artigiani e di altre figure professionali (come giudici, notai, medici, avvocati, ecc.), le corporazioni ecclesiastiche e le università. Il signore era tenuto a convocare periodicamente in assemblea i ceti di una certa regione e questi, nel loro insieme, erano considerati, come scrive Poggi [1978, 811, Jincarnazione politica del "popolo" o del "territorio" o di entrambi, e, in quanto tali, venivano a confronto col principe e pattuivano con lui la propria collaborazione» L'affermazione dello stato assoluto, con la concentrazione di Pagina 28
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt tutto il potere nelle mani dello stato e quindi del sovrano, porterà a un drastico ridimensionamento dei diritti dei ceti e tuttavia è proprio in riferimento a tali diritti che incomincia a formarsi il moderno concetto di cittadinanza. i diritti di cittadinanza che si affermano con le rivoluzioni inglese, americana e francese presentano dei caratteri sostanzialmente nuovi. Nell'antichità la cittadinanza era una condizione goduta dagli individui in quanto membri di una famigliai (e legata in genere alla proprietà della terra), nel Medioevo era legata all'appartenenza ad uno «stato» o ad una corporazione, ora invece diventa prerogativa degli individui in quanto membri del popolo che è il depositario della sovranità dello stato. Ciò appare con tutta evidenza negli stati che adottano una forma di governo repubblicana, ma anche negli stati che mantengono una forma di governo monarchica, il re non è più il sovrano assoluto, il suo potere risulta regolato e limitato da una costituzione che accanto a quello del re sancisce il potere del tutto autonomo del parlamento nel quale si esprime la volontà popolare. Fondamento del potere autonomo del parlamento, cioè dell'organo nel quale si esprime la sovranità popolare, è il principio della separazione dei poteri: come si legge ne La declaration des droits de Pbomme et du citoyen del 1789 (art. 16): «Ogni società nella quale non sia assicurata la garanzia dei diritti e determinata la separazione dei poteri non ha costituzione». E rapporto tra governanti e governati viene sottoposto all'ii-nperio di una «legge suprema», la costituzione appunto, che vincola entrambe in un gioco reciproco di diritti e di doveri. In questo modo i diritti dei cittadini costituiscono un limite del potere dei governanti i quali possono perseguire i loro fini solo nelle forme e nei limiti della legge. Nasce così l'idea dello «stato di diritto», vale a dire di una forma di organizzazione politica in cui tutti gli organi dello stato, ed ogni loro atto, sono vincolati al rispetto della legge. Pur non potendo qui discutere, neppure per sommi capi, le vicende complesse e tutt'altro che lineari che hanno portato nella storia costituzionale europea all'affermazione, comunque sempre parziale, di questi principi va riscontrato che le forme di realizzazione variano grandemente in paesi ed epoche diverse. Quello che è importante sottolineare, tuttavia, è che, mutando in linea di principio il rapporto tra l'individuo e lo stato, muta il fondamento di legittimità del potere. Anche nello stato di diritto il cittadino è chiamato ad ubbidire (ad esempio, a prestare servizio militare, a pagare le tasse, a compiere tutte quelle azioni che rientrano nel concetto di «obbligo politico»), ma lo fa perché, e nella misura in cui, ritiene che chi gli comanda di fare queste cose ha il titolo per farlo in virtù delle procedure (delle leggi) con le quali ha avuto accesso alla posizione di potere che occupa e in virtù del fatto che le sue azioni avvengono nel rispetto della legge fondamentale. Max Weber parla in proposito di «potere legale-razionale». 4. La cultura della modernità Abbiamo visto le trasformazioni di ordine economico e politico che segnano le origini della società moderna. Tali trasformazioni sono nello stesso tempo causa e conseguenza di altre trasformazioni che avvengono nella sfera della cultura, vale a dire nelle concezioni del mondo, nei valori, nelle idee fondamentali riguardanti l'uomo e la società. L'individualismo e il razionalismo sono le correnti culturali più strettamente connesse alla formazione della società moderna. 4.1. L'individualismo Nei paragrafi precedenti abbiamo visto l'emergere, nel processo di genesi della società moderna, di due figure in larga misura nuove rispetto alle società precedenti: l'imprenditore e il cittadino. Si tratta, evidentemente, di figure che si possono distinguere solo analiticamente, poiché l'una riguarda la sfera economica e l'altra le sfera politica: un ORIGINI DELLA società MODERNA 61 imprenditore è in genere anche un cittadino, mentre non è necessariamente vero l'inverso. La comparsa in primo piano di queste figure è a segnale di una trasformazione profonda nei modi di concepire il posto dell'uomo nel mondo e 9 suo rapporto con la società, essa esprime un radicale mutamento che pone ora l'individuo e la sua libertà al vertice della scala dei valori sociali. Anche se la storia dell'individualismo ha radici lontane nel pensiero occidentale, nell'antichità e nel Rinascimento, è soltanto con l'avvento della società moderna che A riconoscimento della libertà di autorealizzazione dell'individuo assurge a valore dominante. Non è un caso, ad esempio, che nella pittura il genere del «ritratto», che rappresenta una figura singola e isolata Pagina 29
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt sottolineandone i tratti personali inconfondibili, compaia solo nel Rinascimento per poi diffondersi al massimo grado nei secoli XVII, XVIII e XIX. Quello che incomincia ad essere apprezzato in un essere umano non sono più, o non sono più soltanto, le caratteristiche che lo rendono uguale o simile agli altri membri del gruppo o dei gruppi a cui appartiene, ma le caratteristiche che lo distinguono, che ne fanno un esemplare unico e irripetibile della specie. In passato, il valore di un essere umano rifletteva il valore che era attribuito al suo gruppo di appartenenza, fosse questo gruppo la famiglia, il clan, la stirpe, la casta, la comunità locale, il gruppo etnico, il gruppo religioso o il gruppo professionale. Queste caratteristiche venivano acquisite perlopiù per nascita e un uomo (o una donna) le portava con sé per tutta la sua vita, così come avrebbero fatto poi i suoi figli e i suoi nipoti. Se uno nasceva servo o padrone, tale sarebbe rimasto con molta probabilità per tutta la vita, indipendentemente dalle sue qualità personali. L'esistenza si svolgeva entro vincoli assai rigidi che poco spazio lasciavano all'espressione della volontà individuale e al perseguimento di mete liberamente scelte dal soggetto. La posizione che una persona occupava nella società (il suo status sodale) era in modo prevalente determinata dalla sua origine e anche se non mancavano, come vedremo nel cap. XII, fenomeni di mobilità sociale si può dire che gli «status Status ascritti ascritti» (cioè, acquisiti alla nascita) prevalessero sugli «status acquisi- e. status acquisid ti» in base ai meriti e alle capacità. Nel campo delle credenze e delle pratiche religiose, così come nella morale della vita quotidiana, bisognava seguire i dogmi, i riti e i comandamenti prescritti dalla Chiesa se non si voleva essere banditi dalla comunità come infedeli o eretici. Le forme individuali di religiosità (come le forme ascetiche o mistiche) non riguardavano i fedeli laici, ma i monaci «virtuosi» chiusi nei loro conventi. La Chiesa avocava a sé il diritto di fornire l'unica interpretazione ammissibile della verità rivelata nelle sacre scritture e si ergeva come unico intermediario tra la divinità e i fedeli che solo attraverso di essa potevano raggiungere il bene della salvezza eterna. L'idea che un individuo fosse padrone della propria esistenza, libero di scegliere il proprio destino, responsabile delle sue scelte e delle sue azioni di fronte alla propria coscienza, senza dover sottostare alla volontà di altri, questa idea non era certo dominante prima dell'avvento della società moderna. Gli stessi matrimoni, per fare solo un esempio, venivano spesso «combinatì» dalle famiglie senza tenere in gran conto le preferenze individuali e gli affetti personali. La Riforma protestante, l'avvento del capitalismo e le trasformazioni rivoluzionarie nella sfera della politica sono tutti fattori che convergono, pur con diverse accentuazioni, nell'esaltare l'autonomia e l'indipendenza dell'individuo. In campo religioso, la religiosità individuale prende il sopravvento sulla religiosità di Chiesa, quello che conta è il rapporto immediato tra l'individuo e la divinità, il suo modo di sentire, di credere e di agire in conformità a una legge divina che parla direttamente alle coscienze. In campo economico, si ha il pieno riconoscimento del diritto di disporre della proprietà individuale in modo che sia il mercato a premiare con il successo individuale chi è dotato di iniziativa, chi sa assumersi il rischio di impresa, chi compete efficacemente per sottrarre ai concorrenti quote di mercato, chi non esita ad abbandonare le nicchie protette e si avventura alla conquista di nuovi mercati e alla creazione di nuovi prodotti. In campo politico, si ha il riconoscimento del diritto di associarsi, di esprimere le proprie opinioni e, soprattutto, di partecipare attraverso propri rappresentanti al controllo e all'esercizio del potere di governo. I valori di uguaglianza e libertà sono alla base dell'affermazione del valore deH'individuo. Per uguaglianza non si intende che tutti gli uomini debbano ricevere uguali ricompense, ma che tutti gli uomini hanno alla nascita uguale dignità e uguali diritti a prescindere dalla famiglia, dal ceto, dalla classe, dalla confessione religiosa. Per libertà non si intende arbitrio, ma autonomia e indipendenza nel governare la propria esistenza, avendo come unico vincolo il rispetto della libertà altrui. Prima dell'appartenenza alla società (e alle sue varie articolazioni), l'uomo viene al mondo come soggetto titolare di diritti che non derivano dalla società (non sono «concessi» da qualcuno), ma sono originari, cioè «naturali» attributi della specie umana. L'idea moderna Diritto naturale del «diritto naturale», distinto dal diritto soprannaturale di origine die contratto sociale vina e dal diritto positivo (cioè, al diritto messo di opera storicamente dallo stato) e l'idea, ad esso legata, di «contratto sociale», inteso come patto Pagina 30
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt stabilito tra uomini liberi che consensualmente limitano la propria libertà per dar vita allo stato, costituiscono i fondamenti filosofico-politici defl'individualismo moderno. Anche se i valori dell'individualismo sono collocati al vertice dei valori delle società moderne che emergono in Occidente tra il XVI e il XIX secolo, il loro dominio non è mai stato incontrastato. Lo stesso termine di individualismo è stato coniato dai suoi critici e ha assunto frequentemente connotati negativi. In particolare è stato messo in discussione uno degli assunti centrali dell'individualismo del XV111 secoOR1GINI DELLA società MODERNA 63 lo e cioè che il perseguimento del bene individuale possa nello stesso tempo realizzare il bene comune. Adain Smith (1723-1790), il grande filosofo ed economista scozzese, e molti altri pensatori a lui contemporanei o posteriori, riteneva che se ogni individuo fosse lasciato libero di perseguire i propri fini egoistici si sarebbero automaticamente crea~ te le condizioni del benessere di tutti, poiché la «mano invisibile» del mercato agirebbe al fine di trasformare, per dirla con una celebre frase di de Mandeville (1670-1733), «vizi privati in pubbliche virtù». Per molti pensatori mossi dall'intento di conservare o restaurare l'ordine tradizionale tali parole dovevano suonare quanto meno sacrileghe perché disgregavano i valori della comunità e minavano la fedeltà ai poteri costituiti della Chiesa e dello stato, le uniche istituzioni in grado di interpretare A bene collettivo e di prescriverne la realizzazione. Ma tali idee suonavano scandalose anche a chi vedeva nell'affermazione incondizionata della libertà individuale un'ideologia che, lungi dal realizzare il bene comune, favoriva soltanto gli interessi della nascente borghesia, generando così nuove forme di disuguaglianza. Tali controversie sul «valore» dei valori dell'individualismo attraversano tutta la storia dell'epoca moderna fino ai nostri giorni e testimoniano del fatto che tali valori sono, comunque, una componente essenziale della modernità. 4.2. Il razionalismo Accanto all'individualismo, anche A razionalismo è una componente essenziale della modernità e anch'esso ha una storia antica nella cultura occidentale; le sue origini sono da rintracciarsi nell'incontro di due componenti culturali: da un lato le religioni monoteiste della tradizione ebraico- cristiana che hanno segnato il distacco della religione dalla magia, dall'altro lato la cultura filosofica e giuridica greco-romana che ha posto le basi di una concezione «mondana» della società e dello stato. L tuttavia soltanto con l'avvento della società moderna che la «ragione» (e la «razionalità») diventano valori sociali dominanti. L'uomo viene concepito come un essere dotato della facoltà di procedere alla scoperta della verità e di trovare in se stesso il centro di orientamento del suo agire. Alla fede come fonte della verità (una verità, appunto, rivelata) si sostituisce la ragione, alla quale gli esseri umani possono fare affidamento per diventare padroni del proprio destino. La ragione diventa, per riprendere un )espressione di Max Weber, una «potenza rivoluzionaria», capace di liberare gli uomini dall'errore, dalla superstizione e dalla sottomissione ai poteri tradizionali della Chiesa e dell'aristocrazia. Per i filosofi dell'Illuminismo, che hanno esaltato il culto della ragione, questa è appunto una luce che vince l'oscurantismo sul quale si regge il dominio sulle coscienze degli esponenti dell'anden regt'me. Che la ragione sia stata elevata dai pensatori del XVIII secolo al rango di divinità è un fatto che ci interessa soprattutto in sede di storia delle idee. Le scienze sociali non si occupano tanto di Ragione (con Rauonalizzazione la R maiuscola), quanto piuttosto di razionalizzazione e di razionalità, dove per razionalizzazione si intende un processo storico che investe e trasforma gli ordinamenti sociali, e per razionalità si intende un attributo specifico dell'azione umana. E processo di razionalizzazione è stato l'oggetto principale di studio di Max Weber, un autore che abbiamo avuto modo di citare assai spesso in questi primi due capitoli e che ritornerà spesso anche in seguito. Per Weber, l'Occidente ha avuto un'evoluzione particolare rispetto ad altre culture mondiali poiché solo in Occidente il processo di razionalizzazione è progredito al punto da investire globalmente i sistemi di credenze, le strutture familiari, gli ordinamenti giuridici, politici ed economici, la scienza e, perfino, le attività artistiche. Altrove vi sono stati sviluppi nel senso della razionalizzazione delle condotte e delle istituzioni, ma mai il processo è stato così radicale e pervasivo come in Occidente. La ragione principale di questo «sviluppo singolare» Pagina 31
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt (Sonderentwicklung) risiede per Weber nel fatto che solo in Occidente si è sviluppato un sistema di credenze che, ponendo il sacro (la divinità) su un piano assolutamente trascendente rispetto al mondo, ha consentito di guardare alla realtà naturale e umana come ad una realtà oggettiva, priva di significati magici e quindi manipolabile senza restrizioni dalla volontà umana. L'ordine sociale, nelle istituzioni come nelle condotte di vita, liberato dalla sacralità della tradizione, ha potuto così subire un processo di radicale trasformazione nella direzione della modernità. In questo processo, come vedremo nel cap. IX, un ruolo decisivo è stato svolto dalla scienza. Razionahtà La crescente razionalizzazione degli ordinamenti è nello stesso tempo il prodotto della razionalità dell'azione umana e il contesto entro il quale tale razionalità può ulteriormente svilupparsi. Come attributo dell'azione umana, la razionalità postula infatti che l'uomo è un essere dotato della capacità di agire in modo coerente rispetto ai valori che ha liberamente scelto (razionalità rispetto al valore) e di agire nel modo più efficiente ed efficace per realizzare i fini che si è prefissato (razionalità rispetto allo scopo, o razionalità strumentale). Il postulato della razionalità non afferma che l'uomo è un essere necessariamente razionale (anche se molti «razionalisti» la pensano proprio così), ma soltanto che è capace di agire in modo razionale, vale a dire di valutare il grado di coerenza tra valori diversi, tra fini e valori, tra fini diversi e di scegliere la combinazione di mezzi più adeguata per realizzare i propri fini (v. anche cap. III). E fatto di postulare le potenzialità razionali dell'azione è legato ad una concezione della natura umana che pone l'accento sulla riflessività, sulla facoltà cioè tipica dell'essere umano di scindersi in un soggetto pensante e in un oggetto pensato e quindi anche, in particolare, di tenere sotto controllo, più o meno efficacemente, le componenti irrazionali (istintive e impulsive) della propria personalità. ORIGINI DELLA società MODERNA 65 comportamento umano può quindi essere più o meno razionale, così come gli ordinamenti possono conservare più o meno cospicui residui di tradizionalismo. Tra agire razionale e ordinamenti razionali non vi è un puro rapporto di corrispondenza. L'agire razionale è possibile anche nell'ambito di ordinamenti tradizionali (il cacciatore che appuntisce la freccia per meglio colpire la preda agisce razionalmente anche se tale atto assume nella sua cultura significati magici), analogamente vi può essere agire tradizionale anche nell'ambito di ordinamenti razionali (l'impiegato che applica una procedura ritualisticamente senza essere consapevole dei fini per i quali tale procedura costituisce un mezzo razionale) La razionalità degli ordinamenti e la razionalità dell'azione si collocano in realtà a due diversi livelli di analisi: la prima al livello della struttura sociale, la seconda al livello dell'azione sociale. Iff rapporto tra questi due livelli (che potren-uno chiamare livello macro e livello micro) è uno dei problemi centrali della teoria sociologica e su di esso torneremo nei capp. 11I e IV. 5. La concettualizzazione della modernità in alcuni classici della sociologia 5.1. li problema dei «motore» dei cambiamento Nella storia del pensiero sociale si sono succedute varie correnti che hanno di volta in volta attribuito all'una o all'altra delle sfere che abbiamo considerato nei paragrafi precedenti (economica, politica, culturale) un'importanza decisiva nel determinare o condizionare lo sviluppo delle altre. Possiamo dire, schematizzando molto, che le concezioni «materialistiche» tendono a sottolineare il ruolo fondamentale delle trasformazioni che avvengono nella sfera economica, mentre le concezioni «idealistiche» tendono a privilegiare come fondamentali i cambiamenti nel mondo delle idee e quindi della cultura. Per le prime, il fondamento delle società umane è da ricercarsi nelle strutture economiche, vale a dire nei modi coi quali gli uomini provvedono al soddisfacimento dei loro bisogni, alla produzione e riproduzione della loro vita quotidiana, ai rapporti sociali che si instaurano nell'ambito del lavoro e della produzione e circolazione dei beni. 1 rapporti di potere, le norme sociali e il mondo delle idee sarebbero in ultima istanza una conseguenza o un riflesso delle strutture economiche. Per le seconde, invece, sono le idee e i valori che guidano e condizionano i comportamenù umani a produrre in ultima istanza le istituzioni e quindi anche le strutture economiche e politiche della società. Come abbiamo visto, il materialismo storico, che si rifà al pensiero di Marx, rientra prevalentemente nella prima categoria, mentre le analisi di Max Weber rientrano prevalentemente nella seconda. Pagina 32
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Noi riteniamo che questa contrapposizione sia eccessivamente semplicistica, non renda giustizia alla complessità e problemaficità del pensiero di questi autori e, comunque, abbia fatto A suo tempo e che compito della sociologia sia quello di sviluppare un approccio multidimensionale e integrato allo studio del mutamento sociale nel quale si rinunci a privilegiare come determinante, sia pure solo «in ultima istanza», una serie di fattori piuttosto che un'altra e si punti invece ad indagare come di volta in volta i vari fattori, o le varie serie di fattori, si combinino e influenzino reciprocamente. Non potendo qui affrontare nei dettagli il complesso tema del mutamento sociale, vediamo comunque come la sociologia ai suoi albori abbia costruito strumenti teorici e concettuali per caratterizzare la nascita della società moderna. Evoluzionismo sociale Differenziazione sociale 5.2. Il modello evoluzionistico Per molti sociologi, influenzati dalle teorie evoluzioniste della biologia il problema del «motore» del cambiamento veniva risolto considerando l'evoluzione sociale come parte dell'evoluzione generale degli organismi viventi. Le società potevano essere considerate infatti alla stregua di organismi nei quali le parti che formano il tutto sono tra loro interdipendenti. Scrive Herbert Spencer (1820-1903), il massimo esponente di questa corrente di pensiero: t una caratteristica dei corpi sociali, come dei corpi viventi che ogni incremento delle dimensioni comporti un incremento della struttura. Come un animale di ordine 'inferiore, anche l'embrione di uno di ordine superiore presenta un numero limitato di parti componenti; ma, con l'aumentare delle sue dimensioni, le sue parti si moltiplicano e differenziano. Lo stesso accade alla società. In un primo momento le diversità tra i suoi gruppi di unità sono modeste per numero e grado; ma con l'aumento della popolazione, le divisioni e le suddivisioni diventano più numerose e marcate [1882-1885, trad. it. 1967, 545-5461. Le società che riescono ad adattarsi meglio al loro ambiente non possono che crescere di dimensioni, sia perché le risorse di cui dispongono facilitano la riproduzione biologica e la sopravvivenza, sia perché sono in grado di sottomettere e assimilare società più deboli. L'aumento delle dimensioni comporta invariabilmente (questa è per gli evoluzionisti una «legge» fondamentale) l'esigenza di differenziare le funzioni e quindi un cambiamento di struttura, cioè di relazioni tra le parti le quali da un lato diventano sempre più dissimili le une dalle altre e, dall'altro lato, dipendono sempre più strettamente le une dalle altre. Tale interdipendenza risulta dal rapporto organico tra le parti e A tutto. Come nell'uomo ogni organo è indispensabile alla salute dell'intero organismo e se una malattia colpisce il fegato anche il cuore e in definitiva tutto il corpo ne risentono negativamente, così quanto più una società è differenziata ogni parte contribuisce al buono o al ORIGINI DELLA società MODERNA 67 cattivo funzionamento generale. Il modello evoluzionistico prepara così il terreno alle teorie funzionalistiche alle quali accenneremo in seguito. 5.3. 1 modelli dicotomici Il problema del «motore» della storia, la ricerca cioè di una causa prima capace di spiegare come mai le società umane si trasformino non è stato sempre al centro delle preoccupazioni dei padri fondatori della sociologia. Per gli autori che considereremo in questo paragrafo, ad esempio, il modello evoluzionistico è stato perlopiù accettato, più o meno implicitamente e più o meno criticamente, senza approfondirlo al di là di quanto aveva fatto Spencer. E loro intento si è rivolto nella direzione di descrivere le dimensioni del cambiamento più che di spiegarne le cause e nel fare ciò hanno sviluppato dei modelli «dicotomici», dei modelli cioè che isolano alcune caratteristiche ritenute essenziali e analizzano come si configurano nelle società premoderne e nelle società moderne. 19 primo modello dicotomico al quale fare riferimento è stato sviluppato da Sir Henry james Sumner Maine nell'opera Ancient Law del 1861. Al centro dell'attenzione di Maine sono le leggi che regolano i rapporti tra gli uomini. Tali leggi si possono classificare in due grandi categorie: lo status e il contratto. Le prime traggono origine dalla famiglia in cui i rapporti sono regolati da una serie di diritti e doveri reciprocì che dipendono dalla posizione (lo status) che i vari membri occupano indipendentemente dalla loro volontà. Lo stesso vale per tutti i rapporti di privilegio e potere, come il rapporto tra servo e padrone, la cui asimmetria dipende dalla definizione delle Pagina 33
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt posizioni reciproche, definizione che gli individui coinvolti non possono modificare. Alla seconda categoria, invece, appartengono le leggi che regolano i rapporti che nascono dal libero accordo tra gli individui, vale a dire le obbligazioni reciproche che gli individui si assumono quando stipulano tra loro un contratto. Per Maine quest'ultimo tipo di rapporti tende sempre più, nelle società moderne, a sostituire il primo in tutti i campi della vita sociale, famiglia compresa. Pochi decenni più tardi rispetto a Sir Suniner Maine, esattamente nel 1893, Emile Durkbeim pubblica, De la division du travail social, opera unanimemente considerata uno dei classici della letteratura sociologica. Durkheim si chiede come mai l'individuo, mentre da un lato diventa sempre più autonomo, dall'altro lato viene a dipendere sempre di più dal resto della società. Lo sviluppo dell'individualismo non si accompagna per Durkheim ad un indebolimento dei legami sociali, vale a dire della solidarietà sociale, ma ad un cambiamento dei fondamenti della solidarietà stessa. Nelle società premoderne (che per Durkheim sono quelle dove manca o è scarsamente sviluppata la divisione del lavoro), non vi è spazio per le individualità e le differenze, le varie unità sociali stanno insieme perché sono tutte simili e tutte ugualmente sottoposte all'unità di grado superiore di cui fanno parte: l'individuo alla famiglia, la famiglia al clan, i clan alla tribù e così via. La solidarietà tra le varie unità è puramente meccanica, come - dice Durkheim - la coesione delle molecole di un corpo inorganico. La presenza della solidarietà meccanica è evidenziata dal prevalere, nei sistemi giuridici che regolano tali società, delle norme del diritto penale che puniscono esemplarmente coloro che violano le leggi del gruppo (sanzioni repressive). Nelle società moderne, invece, dove prevale la divisione del lavoro, ogni individuo e gruppo svolge funzioni diverse, la solidarietà sociale non si fonda più sull'uguaglianza ma sulla differenza, gli individui e i gruppi stanno insieme, formano «società», perché nessuno è più autosufficiente e tutti dipendono dagli altri. Nei sistemi giuridici prevalgono le norme che regolano i contratti (il diritto civile), la violazione di tali norme non produce punizioni esemplari, ma sanzioni che ristabiliscono l'equilibrio turbato dalla violazione (sanzioni restitutive) La coesione sociale che ne deriva viene chiamata da Durkbeim solidarietà organica. Si ritrovano nella concettualizzazione di Durkheim molti degli elementi che abbiamo visto in Spencer e Sumner Maine: il processo di crescente divisione del lavoro corrisponde al processo di differenziazione e l'uso del termine organico per designare la forma di solidarietà che prevale nelle società moderne corrisponde all'analogia organicistica di Spencer, e tutti sottolineano la crescente importanza dei rapporti di natura contrattuale. Durkheim inoltre non è il solo tra i classici della sociologia a cogliere il nesso tra individualizzazione e differenziazione; anche, tra gli altri, Max Weber e Georg Simmel (1858-1918) elaborano su questo punto prospettive di analisi molto simili: tutti sono concordi nel sostenere che solo società altamente differenziate e complesse, quali sono le società moderne, garantiscono all'individuo opportunità dì sviluppo autonomo e tutti concordano, sia pure con accenti diversi, che tale processo ha condotto in sostanza all'emancipazione deH'individuo dai vincoli sociali imposti dalla tradizione. Ad esiti non dissimili, ma in una prospettiva assai diversa, giunge anche Ferdinand Tonnies (1855-1936) in un'opera del 1887 dal titolo significativo Gemeinscbaft und Gesellschaft (Comunità e società) Per Tonnies i termini di organico e meccanico hanno un significato diametralmente opposto a quello loro attribuito da Durkheim. Organica è la comunità (Gemeinscbaft), le cui forme embrionali emergono in seno alla famiglia nei rapporti tra madre e bambino, tra moglie e marito, tra fratelli e sorelle, per estendersi poi ai rapporti di vicinato e di amicizia. Tali rapporti sono improntati a intimità, riconoscenza, condivisione di linguaggi, significati, abitudini, spazi, ricordi ed esperienze comuni. 1 vincoli di sangue (famiglia e parentela), di luogo (vicinato) e di spirito (amicizia) costituiscono delle totalità organiche, le comunità appunto, ORIGINI DELLA società MODERNA 69 nelle quali gli uomini si sentono uniti in modo permanente da fattori che li rendono simili gli uni agli altri e all'interno delle quali le disuguaglianze possono svilupparsi solo entro certi limiti oltre i quali i rapporti diventano così rari e insignificanti da far scomparire gli elementi di comunanza e condivisione. All'interno della comunità infatti i rapporti non sono segmentati in termini di ruoli specializzati, ma comportano che i membri siano presenti con la totalità del loro essere. Pagina 34
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Nulla di tutto ciò avviene nell'ambito della società (Gesel1scbaft) Scrive Tonnies: La teoria della società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Tuttavia, mentre nella comunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono [1887, trad. it. 1963, 831. Nella società gli individui vivono per conto loro, isolati, in un rapporto di tensione con gli altri e ogni tentativo di entrare nella loro sfera privata viene percepito come un atto ostile di intrusione. E rapporto societario tipico è il rapporto di scambio; nello scambio i contraenti non sono mai disposti a dare qualcosa di più di quello che ricevono, anzi, lo scambio avviene perché ognuno ritiene di ricevere qualcosa che ha un valore maggiore di quello che cede, altrimenti non entrerebbe neppure nel rapporto. Venditori e compratori sono in rapporto di reciproca competizione, perché i primi cercano di vendere al prezzo più alto possibile, mentre i secondi cercano di acquistare al prezzo più basso. Il guadagno dell'uno è la perdita dell'altro. 19 rapporto di scambio, inoltre, non mette in relazione individui nella loro totalità, ma soltanto le loro prestazioni; chi vende non è interessato al compratore come individuo, né all'uso che farà del bene scambiato, ma solo alla sua capacità di pagare il prezzo stabilito. La società è quindi una costruzione artificiale e convenzionale, composta da individui separati, ognuno dei quali persegue il proprio interesse individuale, ed essa entra in gioco soltanto come garante del fatto che le obbligazioni che i contraenti si sono assunte vengano onorate. Nella società, infine, tutti i rapporti tendono ad improntarsi al modello dei rapporti di scambio di mercato: nulla viene fatto senza aspettarsi una.contropartita, sia nei rapporti interpersonali, sia nei rapporti tra individui e istituzioni. Risulta chiara la posizione ideologica di Tonnies: l'avvento della modernità, ovvero della Gesellscbaft, è un processo inarrestabile e, tuttavia, rappresenta una perdita rispetto ai valori autentici di solidarietà che trovano realizzazione soltanto nell'ambito della comunità. Questo aspetto ideologico è tuttavia secondario, almeno ai nostri fini. Importante è invece ritenere gli aspetti analitici della sua dicotomia comunità/società, perché, come vedremo tra poco, sono stati ampiamente ripresi anche nelle elaborazioni teoriche più recenti. 70 CAPITOLO 2 5.4. Il modello delle «pattern variables» Un modello dicotomico che richiama, sia pure indirettamente, la coppia concettuale comunità/società è quello formulato da Talcott Parsons (1902-1979), un sociologo americano che viene considerato, a ragione, uno dei massimi teorici della nostra disciplina. Secondo Parsons, per spiegare come le società moderne sono diventate quello che sono attualmente, così come per spiegare il comportamento degli individui in queste stesse società bisogna in primo luogo tenere conto dei fattori di ordine culturale e, in particolare, degli orientamenti di valore e normativi che si sono in esse affermati nel corso del tempo. Per cogliere i tratti fondamentali di questi orientamenti, egli ha elaborato uno schema concettuale formato da cinque coppie di termini. Questo schema concettuale, detto delle pattern variables, ovvero delle «variabili modello», si integra in realtà in un impianto teorico assai ampio e complesso che non possiamo qui esporre neppure per sommi capi. Tuttavia, anche al di fuori del loro contesto teorico, lo schema concettuale delle pattern variables è utile per mettere in luce le dimensioni culturali del processo di formazione della società moderna. affettività neutralità affettiva orientamento all'interesse privato orientamento all'interesse coHettivo particolarismo universalismo specificità diffusione ascrizione acquisizione Vediamo ora il significato di queste coppie di termini: 1) Affettività - neutralità affettiva. Uno dei tratti della modernit2' consiste nel fatto che vi sono valori e norme sociali che regolano h manifestazioni di affettività e l'espressione delle emozioni. In molte situazioni della vita, in particolare nella vita pubblica, è molto apprezza. to chi sa controllare i propri sentimenti, le proprie emozioni e i propr: impulsi, mentre è considerato negativamente chi li lascia trapelar( troppo palesemente. L'espressione di affettività (sia positiva che nega. tiva, cioè, sia amore che odio) resta confinata nella sfera privata, dov( i rapporti sono più intimi e personalizzatì. Pagina 35
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Noi ci aspettiamo, ad esem pio, che in una situazione di esame il professore che ci interroga nor venga influenzato nel suo giudizio da sentimenti di simpatia o antipa tia e in genere conserviamo un buon ricordo dei docenti che ci hann( trattato con gentilezza, senza manifestare preferenze, oppure ostilità Lo stesso, quando entriamo in un negozio non ci aspettiamo di esser( accolti con lo stesso calore di quando entriamo in casa di un amico La società moderna distingue nettamente dove è consentito e dov( non è consentito esprimere affettività. 2) Orientamento all'interesse privato - ori .entamento all'interess, ORIGINI DELLA società MODERNA 71 collettivo. Anche in questo caso, la società moderna opera una netta distinzione tra situazioni in cui ci aspettiamo che le persone con le quali abbiamo a che fare agiscano perseguendo il loro interesse individuale (ad esempio, nelle transazioni di mercato) e situazioni nelle quali ci si aspetta che l'interesse individuale passi in secondo piano. Dal medico che ci cura, ad esempio, ci aspettiamo che si preoccupi in primo luogo di farci star bene, piuttosto che dell'ammontare della parcella che dovremo pagare. Analogamente, dall'uomo politico che chiede il nostro voto, ci aspettiamo, o, meglio, ci auguriamo, che, una volta eletto, operi nell'interesse della collettività e non dei suoi esclusivi interessi. 3) Particolarismo - universalismo. Questa coppia concettuale fa riferimento a situazioni nelle quali gli individui sono considerati in base a caratteristiche che condividono con altri individui e, al limite, con tutti gli altri individui (caratteri generici o universalistici) e situazioni nelle quali, invece, ciò che conta sono le caratteristiche individuali (caratterì specifici o particolaristici). Nello stato democratico moderno, ad esempio, tutti gli individui godono di ugualì diritti politici in quanto cittadini e ci si aspetta che tali diritti vengano riconosciuti e rispettati a prescindere dalle caratteristiche individuali. Quando si devono assumere per concorso un certo numero di impiegati in un ufficio pubblico ci si aspetta che tutti i candidati che possiedono certi requisiti formali (ad esempio un titolo di studio) possano concorrere su un piano di parità e susciterebbe scandalo se al concorso venissero ammessi solo i parenti e gli amici di coloro che devono operare la selezione. 4) Specificità - diffusione. Nella società moderna tendono a prevalere i rapporti nei quali gli individui sono coinvolti solo per alcuni aspetti della loro personalità. Come vedremo meglio in seguito (cap. 111), gli individui agiscono nell'ambito di ruoli che definiscono confini precisi tra ciò che è «incluso» e ciò che è «escluso», ammesso o non ammesso nell'esercizio di quel particolare ruolo. Nelle transazioni di mercato, ad esempio, ciò che conta sono le volontà reciproche di vendere e comperare un determinato bene o servizio, mentre tutte le altre caratteristiche dei partner dello scambio restano sullo sfondo. I confini di ruolo definiscono cioè un contenuto «specifico». 1 ruoli familiari o amicali, invece, hanno un contenuto assai più ampio (diffuso): dai familiari ci si aspetta sostegno, aiuto, incoraggiamento e magari biasimo e disapprovazione in situazioni diverse. 5) Ascrizione - acquisizione. Nelle società moderne tendono a prevalere le situazioni nelle quali non contano le qualità attribuite a un individuo dalla nascita (come il sesso, la razza, l'appartenenza a un gruppo etnico o religioso), o che comunque non dipendono dalla sua volontà (e che vengono chiamate, appunto, ascrittive), bensì le qualità acquisite, le capacità, le prestazioni e tutto ciò che dipende daH'impegno personale e dai meriti acquisiti. Questa distinzione coincide con quella che abbiamo visto prima tra status ascritti e status acquisiti; è evidente, infatti @ che la componente «individualistica» della cultura moderna porta a valorizzare il «fare» o il «saper fare», piuttosto che l'«essere» Queste cinque coppie mettono in luce tratti ai quali la cultura moderna assegna un valore «morale»: è «bene» saper controllare le proprie emozioni e l'espressione dei propri impulsi affettivi; è «bene» saper perseguire un interesse collettivo anche quando confligge col proprio interesse individuale; è «bene» trattare gli altri in modo imparziale secondo principi validi universalmente; è «bene» saper mantenere i confini dei propri ruoli; è «bene», infine, trattare gli altri per quello che «fanno» piuttosto che per quello che «sono» Ciò non vuol dire, peraltro, che questi orientamenti valoriali e normativi (sui concetti di valore e di norma torneremo più approfonditamente nel cap. V) trovino nella società moderna completa realizzazione. L'affettività non Pagina 36
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt è esclusivamente circoscritta alla sfera privata; la separazione tra perseguimento dell'interesse individuale e dell'interesse collettivo è spesse assai poco netta; i criteri universalistici sono assai spesso disattesi anche dove ci si aspetterebbe che venissero rispettati; talvolta anche i ruoli più strumentali si col'orano di aspetti «diffusi» e gli individui non vengono valutati soltanto in base alle loro prestazioni, ma anche iri base alle qualità che derivano dalla loro origine sociale. Più che descrivere caratteristiche della società moderna, le «variabili modeHo» indicano piuttosto tendenze valoriali di fondo che sono presenti in queste società. La trama dei tessuto sociale l. Premessa Wassily Kandinsky, uno dei maestri della pittura contemporanea, quando insegnava al Bauhaus negli anni venti, preparò un libro che, come lui stesso diceva, doveva essere una specie di grammatica della pittura. Egli si proponeva di definire gli elementi primari di ogni rappresentazione grafica (il punto, la linea, la superficie), di individuare le loro proprietà estetiche e le proprietà dei loro rapporti. Consideriamo, per esempio, i quattro disegni della fig. 3.1, che riguardano i rapporti fra linee e margini di una superficie. Nel primo disegno a, è raffigurata una diagonale lontana dai margini, più vicina a quello superiore: ne deriva una sensazione di tensione, o di forza che attrae la linea verso l'alto; questa tensione è tanto più forte quanto più la linea si avvicina al margine. Se la linea tocca il margine (disegno b), la tensione verso l'alto cessa, mentre se ne sviluppa una forte verso il basso, esprimendo, dice Kandinsky, «qualcosa di morboso, quasi disperato». La tensione è talmente aumentata, che la linea sembra più lunga della precedente, pur essendo uguale. La ricerca prosegue considerando strutture di relazione più complesse: nel disegno c le quattro linee fondamentali all'interno del quadrato esprimono silenzio e equilibrio, mentre in d le linee orientate come le precedenti, ma di diversa lunghezza, drammatizzano la loro relazione e la rendono pulsante [Kandinsky 1926, trad. it. 1968, 1601. Le proprietà in questione sono dette formali, perché riguardano appunto la forma di un elemento o di una relazione, a prescindere dal loro contenuto; la raffigurazione di una scena di caccia, di un incontro di pugilato, di una discussione animata fra marito e moglie in una stanza, otterranno sempre senzazioni di movimento drammatico se i personaggi, e gli altri elementi della raffigurazione, saranno disposti secondo lo schema del disegno (d) Anche in sociologia è stata sviluppata una specie di grammatica 76 CAPITOLO 3 FIG. 3.1. proprietà M rimporti fra "ce e mar~ di uga sup"de. Fonte: randi.nsky.[i9261. degli elementi primari del tessuto sociale, delle loro proprietà e relazioni, e del modo in cui queste si combinano in strutture più complesse. L'analogia con la pittura permette di capirne subito il significato. Come per le forme grafiche, è possibile infatti individuare forme e proprietà elementari delle relazioni sociali, che valgono indipendentemente dal contenuto concreto di queste. Come vedremo, si individuano per esempio proprietà formali dei gruppi di tre persone che valgono indipendentemente dal fatto che si tratti di padre, madre e figlio oppure di tre commercianti che trattano un affare. Allo stesso modo, le organizzazioni hanno certi caratteri essenziali e modi tipici di funzionare indipendentemente dal fatto che si tratti di un'impresa industriale o della chiesa cattolica. Tali proprietà elementari, e le loro combinazioni, non sono tuttavia sufficienti per spiegare una particolare relazione in famiglia o la stipulazione di un certo contratto. Una triade in famiglia ha certe proprietà simili a una triade in economia, ma conoscendo soltanto queste proprietà non siamo in grado di comprendere a fondo i comportamenti degli attori. Per capire le relazioni familiari o quelle economiche devo disporre di altri elementi e di teorie specifiche della famiglia e dell'economia. Allo stesso modo la conoscenza di proprietà generali dell'organizzazione non è sufficiente per spiegare le differenze fra l'organizzazione economica e quella religiosa. Resta il fatto che l'individuazione delle proprietà formali degli elementi primari della società anzitutto fornisce le categorie elementari con le quali organizzare l'analisi socioFORME ELEMENTARI DI INTERAZIONE 77 Pagina 37
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt logica (azione, interazione, gruppo e così via), ma anche consente la comprensione di aspetti significativi della società, spesso trascurati perché considerati ovvi o superficiali, mentre sono sue componenti profonde. Gli elementi sociali primari che studieremo in questo capitolo e le loro proprietà costituiscono la trama del tessuto sociale. 2. Azione, relazione, interazione sociale L'uomo di cui si occupa la sociologia non è Robinson Crusoe. La società è fatta di individui che si influenzano reciprocamente, agendo «l'uno per l'altro, con l'altro e contro l'altro» [Simmel 1908, trad. it. 1989, 81. L'azione, o più precisamente l'azione sociale, è dunque un primo concetto di base della sociologia. Secondo la classica definizione di Weber [1922a, trad. it. 1961, 1, 41, per azione sociale «si deve Auom intendere un agire che sia riferito - secondo il suo senso, intenzionato dall'agente o dagli agenti - al comportamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo». Nella definizione, per agire si deve intendere un fare, ma anche un tralasciare o un subire. Cruciale è poi il riferimento al senso, vale a dire al significato intenzionale che l'attore dà al proprio comportamento. Con riferimento appunto al senso, Weber sviluppa una tipologia dell'azione sociale. Possiamo distinguere: 1) azioni razionali rispetto allo scopo, se chi agisce valuta razionalmente i mezzi rispetto agli scopi che si propone, considera gli scopi in rapporto alle conseguenze che potrebbero derivame, paragona i diversi scopi possibili e i loro rapporti; 2) azioni razionali rispetto al valore, se chi agisce compie ciò che ritiene gli sia comandato dal dovere, dalla dignità, da un precetto religioso, da una causa che reputa giusta, senza preoccuparsi delle conseguenze, costi quel che costi; anche questo è un caso di agire razionale, perché implica una scelta consapevole e una valutazione se A comportamento sia effettivamente congruente con il valore che si intende testimoniare; 3) azioni determinate affettivamente, se si tratta di pure manifestazioni di gioia, gratitudine, vendetta, affetto o di altro stato del sentire; anche questo tipo di azioni, come le azioni razionali rispetto al valore, hanno senso per se stesse, senza riferimento alle conseguenze prevedibili; si distinguono però perché non c'è riferimento consapevole all'affermazione di un valore, trattandosi piuttosto dell'espressione di un «bisogno» interno; 4) azioni tradizionali, se sono semplice espressione di abitudini acquisite, reazioni abitudinarie a stimoli ricorrenti, comportamenti che si ripetono senza interrogarsi su possibilità alternative e sul loro vero valore, o senza porsi il problema se non ci sarebbero altri modi per raggiungere gli stessi risultati; le azioni determinate affettivamente e quelle tradizionali sono al limite fra le vere e proprie azioni sociali, consapevolmente orientate da un senso ad esse dato dagli attori, e i comportamenti puramente reattivi, vale a dire le risposte automatiche e inconsapevoli a stimoli esterni. Molto raramente un comportamento concreto può essere classificato solo con riferimento a una delle categorie indicate. Normalmente, per descrivere un'azione sarà necessario fare riferimento alla combinazione di tipi diversi. Così, per esempio, un comportamento abitudinario può anche essere sostenuto da un dettame religioso, oppure a gesto esemplare di chi vuole affermare un valore può comportare azioni razionali rispetto allo scopo nella scelta dei mezzi per realizzarlo. Naturalmente, la tipologia non spiega i comportamenti delle persone. t però uno strumento molto utile per impostare problemi di analisi. Classificare comportamenti concreti secondo i tipi o loro combinazioni, riflettendo sulle argomentazioni che portiamo a sostegno della nostra scelta, è un ottimo esercizio di immaginazione sociologica, fonte di ipotesi interpretative. Questi esercizi sono particolarmente utili quando si confrontano azioni in contesti culturali diversi, quando spesso è in gioco l'utilizzazione della coppia azione razionale rispetto allo scopo e azione tradizionale. Un certo comportamento economico può apparire inefficiente o addirittura assurdo se confrontato con i comportamenti economici ai quali siamo abituati. Siamo allora portati a definirlo «tradizionale», semplice espressione di abitudini secolari che ostacolano il cambiamento; ma possiamo anche constatare, in certi casi, che se i nostri consigli per cambiare vengono accettati, si ottengono risultati peggiori dei precedenti. Ciò può dipendere da molti motivi, ma riflettere Sullo scacco mette in luce che spesso non si trattava di azioni semplicemente tradizionali, ma di azioni razionali (rispetto allo scopo), con attente e sottili valutazioni delle risorse a disposizione e dei vincoli, che si ponevano Pagina 38
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt obiettivi economici realistici, data la situazione. Possiamo trarre da quanto detto alcune conseguenze. Anzitutto, è sempre meglio provare a considerare prima un'azione come razionale, e se mai solo dopo classificarla in altro modo, in particolare come tradizionale. In altre parole: sino a prova contraria, l'uomo si comporta in modo razionale, date le sue risorse materiali e culturali. In secondo luogo, emerge che la razionalità dell'azione è relativa alla situazione nella quale gli individui si trovano: proprio perché non consideravamo la situazione nella quale gli altri si trovavano, non vedevamo che i loro comportamenti erano razionali. Infine, se bisogna tener conto del «senso» dato dagli attori all'azione, ne deriva che la situazione alla quale fare riferimento per classificarla è quella che gli attori difiniscono, data la conoscenza che ne hanno e il punto di vista che adottano. Se scoppia la guerra fra due paesi, ma la notizia non arriva su un'isola che fa parte di uno dei due, i suoi abitanti continueranno a comportarsi per un certo periodo come se fossero in pace. La necessità di tener conto della definizione della situazione da parte degli attori è espressa, in sociologia, dal cosiddetto teorema di Thomas: «una situazione definita dagli attori come reale, diventa reale nelle sue conseguenze»; se si sparge la voce che una banca è in difficoltà, chi ha depositato i suoi risparmi si affretterà a ritirarli spesso senza sentire ragioni, con la conseguenza che la banca avrà davvero difficoltà, anche se prima non ne aveva. Uno sviluppo del teorema di Thomas è il concetto di profezia che si autoadempie di RK Merton. Lo troveremo, con un esempio, nel cap. XVIL Se invece che su uno solo, l'attenzione è posta contemporaneamente su due o più attori, si individuano altre unità elementari dell'analisi sociologica: la relazione e l'interazione sociale. Due o più individui che orientano reciprocamente le loro azioni stabiliscono una relazione sociale. Le relazioni sociali possono essere stabili e profonde, come nel caso fra genitori e figli, ma anche transitorie e superficiali, come quella che si stabilisce fra persone che, frequentando uno stesso bar, hanno preso l'abitudine di farsi un cenno di saluto quando si incontrano. Le relazioni sono spesso cooperative, nel senso di essere orientate a raggiungere fini considerati in certa misura comuni o almeno compatibili, mosse da sentimenti amichevoli, da interessi pratici anche diversi che si sono adattati dopo una contrattazione, dal senso di un dovere; anche il conflitto, però, che riguarda azioni orientate dal proposito di affermare la propria volontà contro la volontà e la resistenza di altri, e che può giungere sino all'annientamento dell'avversario, può costituire una relazione sociale, nel senso definito prima: due eserciti che si combattono sono in una relazione puramente conflittuale. L'interazione sociale è il processo secondo il quale due o più persone in relazione fra loro agiscono reagendo alle azioni degli altri. Con l'interazione si realizza, si riproduce e cambia nel tempo il contenuto di una relazione. Da questo punto di vista la relazione è, per cosi dire, la base o il supporto dell'interazione, ma si può avere un'interazione anche nel caso di due persone che si incontrano casualmente per strada senza conoscersi e che non si vedranno mai più. I processi di interazione hanno un'importanza particolare nella strutturazione della società, e sono, fra l'altro, gli elementi di base per la definizione dei gruppi. Definizione defia situazione Relazione sQdale Interazione sodale 3. 1 gruppi sociali e le loro proprietà Gruppo sociale è un insieme di persone fra loro in interazione con continuità secondo schemi relativamente stabili, le quali si definiscono membri del gruppo e sono definite come tali da altri [Merton 1949, Gruppo sodale trad. it. 19928, 460-4611. Questa definizione è generalmente accettata, 80 CAPITOLO 3 anche se non è esplicita su un punto, peraltro anch'esso generalmente accettato: lo schema di interazione deve svolgersi su base di relazioni cooperative; episodi di conflitto sono frequenti nei gruppi, divergenze di opinioni e di interessi si scontrano in continuazione, ma una relazione puramente conflittuale non dà luogo a un gruppo. Una categoria sociale, come i giovani o gli immigrati, non è un gruppo; non lo è neppure una classe sociale, come i borghesi o gli operai. L'appartenenza a una categoria o a una classe può però essere la base per la formazione di gruppi di vario genere. Possiamo individuare gruppi di amici, religiosi, di lavoro, politici, di Pagina 39
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt attività per il tempo libero, e così via. Sono gruppi un'associazione per la lotta alla droga, un sindacato, una gang di criminali, una famiglia, gli impiegati di un ufficio postale, un'azienda industriale. Indipendentemente dall'infinita varietà degli scopi che i gruppi si pongono e dell'ambito istituzionale nel quale hanno le loro radici, nella politica piuttosto che nella cultura o nell'economia, essi possono essere osservati e studiati in quanto gruppi. In altre parole: possiamo trovare delle proprietà che riguardano l'interazione relativamente stabile e continuativa di due o più persone. Va anche qui ripetuto che studiare la famiglia, un'azienda o un partito politico in quanto gruppi, vale a dire sulla base delle proprietà formali dei gruppi, non esaurisce certo tutti i loro aspetti rilevanti dal punto di vista sociologico. Come vedremo a suo tempo, per esempio (cap. XVI), la famiglia è anche un'istituzione (cap. V), con certe funzioni nell'ambito della società, e può dunque essere studiata in quanto istituzione. 3.1. Proprietà relative alla dimensione 1 caratteri dei gruppi cambiano con la loro dimensione. Lo sa bene chi ha fatto esperienza di membro di un piccolo gruppo che è cresciuto. Le differenze sono così marcate che alcuni riservano il termine gruppo solo ai piccoli insiemi, anche se non è possibile fissare con precisione la dimensione di confine. Interazione diretta La base della differenza si trova nel fatto che l'interazione può e indiretta essere diretta, faccia a faccia, come nel caso della famiglia, oppure in parte diretta e in parte indiretta, come si verifica per esempio in un'azienda; qui si hanno rapporti faccia a faccia con i compagni di lavoro e il caporeparto o il capufficio e indiretti con la direzione, nei modi previsti dalla struttura organizzativa. A sua volta, la ragione per cui la differenza fra interazione diretta e indiretta è sociologicamente rilevante sembra collegata al modo in cui nei due casi gli attori comunicano fra loro [Luhmann 1984, trad. it. 1990, cap. 101. La presenza fisica consente la percezione diretta dell'altro, permettendo di alternare parole, gesti, mimica del viso, accentuazioni della voce, vale a dire un insieme ricco ed elastico di struFORME ELEMENTARI DI INTERAZIONE 81 menti; le informazioni sono scambiate a grande velocità e il discorso può essere subito adattato a seconda delle reazioni dellInterlocutore, cercando per esempio, con grande duttilità, possibili vie d'accordo. Con la crescita del gruppo, diminuisce la possibilità di questa comunicazione e aumenta la comunicazione indiretta, come gli ordini scritti o gli scambi di lettere. Questa è più precisa, rispondendo in ciò alle necessità di organizzazioni di grandi insiemi, ma anche più lenta, più fredda e più rigida. 19 telefono consente l'interazione diretta a distanza, ma è per così dire a metà strada. t infatti significativo, e ciò vale a conferma della distinzione fatta, che alcuni si sentano a disagio non potendo vedere l'interlocutore, e che di fronte a una questione delicata chiedano di «vedersi a quattr'occhi». L'interazione faccia a faccia è dunque un campo di sperimentazione sociale, e proprio in virtù dei caratteri indicati è in grado di produrre spesso nei piccoli gruppi solidarietà spontanea. Molte delle altre proprietà che considereremo sono, per questa via, più o meno direttamente legate alle dimensioni. Torneremo sulle differenze fra interazione diretta e indiretta in altri punti di questo capitolo (sulla comunicazione in generale v. anche il cap. VII). Si possono trovare proprietà di gruppi di dimensioni determinate. caso delle diadi e delle triadi, studiate da Simmel [1908, trad. it. 1989, cap. 21. Un gruppo di due persone, una diade, ha una caratteristica che nessun altro gruppo ha: se un membro decide di uscire dalla relazione il gruppo scompare. Non si forma dunque una collettività impersonale, e da ciò derivano conseguenze significative, come il fatto che non ci si può «nascondere dietro il gruppo», scaricando doveri o responsabilità in modo impersonale: un marito che non fa una cosa per la moglie non può dire «ci penserà il matrimonio», mentre nei gruppi più grandi spesso si pensa: «qualcuno lo farà». La fragilità strutturale di cui si è detto e la forte personalizzazione giocano in direzione di un forte coinvolgimento psicologico e affettivo nella relazione e di norme culturali rigide che in una società proteggono tipici rapporti a due come l'amore o l'amicizia. Le triadi producono le seguenti forme tipiche di interazione, impossibili in una relazione a due. La configurazione detta del mediatore si ha quando un terzo non direttamente coinvolto in una disputa (che può anche essere una normale divergenza di opinioni, all'interno di una relazione cooperativa), dialogando Pagina 40
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt separatamente, in condizioni meno cariche di ernotività e con argomenti più razionali, è in grado di convincere gli altri a un accordo. Nello schema del tertius gaudens, il terzo approfitta per i propri scopi di una divergenza fra gli altri, secondo due schemi principali: due in conflitto cercano l'alleanza del terzo, oppure due cercano di ottenere il favore del terzo entrando in competizione fra loro. Questo è il caso, per esempio, di due venditori che abbassano i prezzi per conquistare un cliente. La vecchia massima politica dell'impero romano, divide et impera, serve a definire un'ulti82 CAPITOLO 3 ma configurazione, che è una variante della precedente. Questa si ha quando un terzo fa sorgere o alimenta intenzionalmente una discordia a proprio vantaggio. Le proprietà indicate possono essere riferite a persone o anche a gruppi in rapporto fra loro. Piccoli gruppi Lo studio sperimentale dei piccoli gruppi di dimensione superiore a tre ha messo in luce altre proprietà. In generale, e a parità di altre condizioni, i gruppi con numero pari di componenti mostrano maggiori tassi di disaccordo e antagonismo rispetto ai gruppi con componenti dispari, e ciò probabilmente in conseguenza della possibilità nei primi del formarsi di due sottogruppi di uguali dimensioni. Nei gruppi di cinque persone si registra poi il massimo di soddisfazione dei membri. Questo sembra dovuto da un lato al fatto che sopra cinque il gruppo comincia a essere troppo grande per una intensa partecipazione diretta, e dall'altro, oltre al numero dispari, al fatto che tendono a formarsi due sottogruppi, uno di tre l'altro di due, in modo che chi è in minoranza non rimane isolato, ciò che si verifica se A gruppo è solo di tre persone [Hare 19641. 3.2. Proprietà relative ai confini 1 criteri di appartenenza a un gruppo possono essere più o meno chiari e definiti. 1 gruppi formali - dei quali parleremo più estesamente al prossimo capitolo - prevedono regole precise sui requisiti, sulle procedure per l'ammissione e sui comportamenti da tenere per continuare a far parte del gruppo: è il caso, per esempio, dei dipendenti di un'impresa. Questi criteri sono invece taciti nei gruppi informali, come un gruppo di amici. La frequenza dell'interazione, la definizione di appartenenza da parte dei membri e la definizione da parte di altri possono coincidere o non coincidere, a seconda delle circostanze. A questo riguardo, si riscontra una singolare proprietà dei gruppi informali per cui confini non ben definiti sono spesso una condizione importante della loro stabilità; per un certo periodo, alcuni possono non frequentare il gruppo, avendo perso interesse alla partecipazione, ma se non vengono formalmente espulsi è possibile una facile ripresa della partecipazione in circostanze mutate. Più in generale, va notato che la definizione dei confini di un gruppo è sempre relativa alla situazione: soldati e ufficiali possono considerarsi e essere considerati membri di uno stesso gruppo per rapporto ai civili, ma come gruppi fra loro distinti per condizione economica, stile di vita e così via. Un carattere importante del gruppo è il suo grado di completezza. Questa si riferisce al rapporto fra membri che fanno effettivamente parte del gruppo e persone che hanno i requisiti richiesti per l'appartenenza. Un sindacato operaio che abbia poche centinaia di aderenti in un paese dove esistono milioni di operai ha una scarsa completezza. In generale si può dire che, a parità di altre condizioni, un grado creFORME ELEMENTARI DI INTERAZIONE 83 TAB. 3. 1. Tipi di non membri di un gruppo ATTEGGIAMENTI DEI NON MEMBRI NEI CONFRONTI DELL'APPARTENENZA Aspira a far parte del gruppo Indifferente nel* confronti* dell'appartenenza Deciso a non far parte del gruppo Slatus di non membro definito dal gruppo CON I REQUISITI NECESSARI ALL'APPARTENENZA Candidato all'appartenenza Membro potenziale Non membro autonomo SENZA 1 REQUISITI NECESSARI ALL'APPARTENENZA Pagina 41
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Uomo marginale Non membro neutrale Non membro antagonista (oui-group) Fonte: Merton [19491. scente di completezza tende ad aumentare la capacità di influenza sociale del gruppo. La definizione di un gruppo definisce anche categorie diverse di non appartenenti. Merton ha proposto una tipologia di non membri, costruita in riferimento al possesso o meno dei requisiti di appartenenza e a diversi atteggiamenù nei confronti dell'appartenenza al gruppo [Merton 1949, trad. it. 1992 8, 4671. Chi dovesse studiare, per esempio, un'associazione culturale in una comunità locale, farebbe bene a utilizzare lo schema, per non rischiare di dimenticare aspetti essenziali delle difficoltà, delle reazioni e delle risorse che questa trova nell'ambiente sociale. Le proprietà formali dei diversi tipi lo potrebbero poi guidare nella formulazione delle sue ipotesi. Da notare, per inciso, che incontriamo qui un'importante questione del metodo scientifico: bisogna diffidare delle «categorie residue», vale a dire dei concetti che sono espressi semplicemente per differenza (non membri); i concetti, per essere analiticamente utili e per non nascondere aspetti della realtà, vanno sempre costruiti in positivo [Parsons 1937, trad. it. 1968 2 32 ss.]. Consideriamo la tipologia (tab. 3.1). Per i candidati all'appartenenza, A gruppo costituisce un «gruppo di riferimento»: essi ne condividono i fini, sentono di poter facilmente accettare le sue regole, hanno criteri di valutazione e di preferenza simili a quelli dei membri. Anche per l'uomo marginale il gruppo è un gruppo di riferimento, ma la casella individua figure che si sono staccate da un loro gruppo di appartenenza, del quale non condividono più obbiettivi e regole, senza che esistano le condizioni per poter essere ammessi nel nuovo: si tratta di sbandati. I membri* potenziali sono coloro ai quali il gruppo deve rivolgere la sua attenzione e la sua propaganda se desidera aumentare la propria completezza, mentre i non membri neutrali sono l'insieme, in genere relativamente grande, di chi è semplicemente sullo sfondo sociale del gruppo. L'ultima riga riguarda tipi di non membri che non aspirano a far parte del gruppo, ma neppure sono indifferenti. 19 non membro autonomo è pericoloso per il gruppo, perché è per questo segno di debolezza, impedendone la completezza; contrariamente al non membro antagonista egli, pur potendolo, rifiuta di partecipare al gruppo; per lui è stato detto: «chi non è con me è contro di me». Tanto nel suo caso, quanto in quello del non membro antagonista, e contrariamente ai due casi degli indifferenti, il rifiuto motivato del gruppo è anche l'espressione di norme e valori contrari. La non appartenenza può anche essere vista in una prospettiva temporale. In tal caso si distinguono gli ex membri e i non membri che sono sempre stati tali. Si tratta di una differenza sociologica di non poca importanza. La rottura dei legami preesistenti comporta per i primi, e a parità di altre condizioni non per i secondi, il rifiuto piuttosto che l'indifferenza rispetto al gruppo. A ciò è collegato un atteggiamento spesso più ostile da parte dei membri del gruppo nei confronti dell'ex membro piuttosto che nei confronti di chi membro non è mai stato, e dall'altra parte, una particolare ostilità nei confronti del gruppo da parte di chi, avendone fatto parte, ne è uscito. 3.3. Proprietà strutturali Come i cristalli, nei quali le molecole si dispongono secondo modelli riconoscibili, così anche i gruppi non sono un insieme amorfo di persone, ma hanno strutture che possono essere osservate. Forme durevoli di interazione, che permettono di definire un gruppo, sono possibili quando il comportamento delle persone è in certa misura reciprocamente prevedibile e atteso. Il termine ruolo è usato per indicare l'insieme dei comportamenti che in un gruppo tipicamente ci si aspetta da una persona che del gruppo fa parte. Nella famiglia, per esempio, ci si aspetta che i genitori procurino cibo e vestiti ai figli, insegnino loro a parlare e poi li indirizzino a scuola, assicurino un dirna di affetto e di serenità in casa, e così via. In corrispondenza al ruolo di genitore può poi essere visto il ruolo di figlio, il ruolo di figlio maggiore può essere distinto da quello di figlio minore, e il ruolo di padre da quello di madre. E contenuto di questi ruoli cambia da cultura a cultura, da un'epoca all'altra, ma resta il fatto che nella famiglia è individuabile un insieme di ruoli tipici. Un altro modo, non molto diverso, per dire che i ruoli sono comportamenti attesi, è che esistono norme di comportamento che valgono per i membri del gruppo e che regolano i loro rapporti. 1 modi in cui si formano le norme e come le persone sono motivate a seguirle sarà esaminato nel cap. V. Qui basta anticipare che le norme che Pagina 42
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt valgono in un gruppo devono essere viste in rapporto all'insierne più generale di norme che orientano e regolano il comportamento nella società. FORME ELEMENTARI DI INTERAZIONE 85 L'esempio appena fatto della famiglia mostra che all'interno di un gruppo i ruoli sono differenziati. Rilevare un insieme di ruoli differenziatì, relativamente stabili e fra loro collegati, è il modo più semplice di descrivere la struttura di un gruppo. In un gruppo sociale i ruoli possono essere più o meno differenziatì. Un gruppo grande spesso è anche a elevata differenziazione dei ruoli, ma non necessariamente perché la differenziazione dipende anche dalla densità soc7ale, vale a dire dalla concentrazione spaziale delle Densu sociale persone e dal volume delle loro interazioni: quanto più aumentano le dimensioni e la densità sociale tanto più è probabile riscontrare una differenziazione dei ruoli. 1 ruoli sono poco differenziati in un gruppo di collezionisti che si scambiano francobolli, vedendosi una volta al mese, lo sono di più in un'organizzazione specializzata per 9 commercio di materiale filatelico e ancora di più nell'azienda di stato che produce i francobolli. Durkheun, nell'ambito della sua concettualizzazione del cambiamento sociale di cui abbiamo parlato nel cap. Il, ha utilizzato questo punto di vista per lo studio delle società nel loro complesso, distinguendo fra società segnientali, nelle quali gli individui hanno ruoli simili (per esempio, gli uomini sono tutti o quasi cacciatori) e società a divisione del lavoro, quali le moderne società industriali [Durkheim 1893 1. 1 ruoli all'interno di un gruppo hanno evidentemente contenuti molto vari, ma se ne distinguono due tipi formali importanti: specifico Ruolo specifico è un ruolo che riguarda un insieme di comportamenti limitato e preci- e ruoIPdffiu sato; diffuso un ruolo in cui i comportamenti attesi sono un insieme più ampio e meno definito. Diffuso è il ruolo di madre, specifico quello di operaio addetto alla catena di montaggio; il ruolo di un negoziante che gestisce da solo una piccola bottega è più diffuso di quello di un commesso di supermercato: il primo, oltre che vendere, deve comprare, tenere i conti, pulire il negozio, ed è dunque insieme, per così dire, venditore, compratore, contabile, addetto alle pulizie, mentre il secondo è solo venditore (v. anche cap. Il). Un individuo ha diversi ruoli: può essere figlio, operaio, iscritto a un partito, membro di un'associazione. Se consideriamo i gruppi in relazione a questo fatto, possiamo distinguerli a seconda che impegnino il comportamento di tutti o quasi i ruoli di un individuo, o che riguardino alcuni o anche solo uno dei loro ruoli. 1 primi sono detti gruppi totalitari (più spesso però per indicarli si usa l'espressione «isti- Gruppi tot~ tuzioni totali»), i secondi segnientalì, in un senso dunque diverso da e gruppi seg-t quello visto prima con riferimento a Durkheim. Il carcere è un gruppo totalitario: quasi tutti i ruoli di una persona carcerata sono infatti interni al carcere; la scuola un gruppo segmentale: il ragazzo ha ruoli nella famiglia, in associazioni, in gruppi di amici non compagni di scuola, e così via. Una famiglia contadina tradizionale, dove si è insieme figli e lavoratori, è più totalitaria di una famiglia urbana moderna, dove si lavora fuori di casa. 86 CAPITOLO 3 Gruppi primari e gruppi secondari Gruppi formali e gruppi informali Con riferimento ai ruoli, vale a dire ai comportamenti attesi, si possono definire diversi caratteri tipici delle relazioni interne a un gruppo. Una distinzione fondamentale che si fa al riguardo è quella fra gruppi primari e gruppi secondari. 1 gruppi primari sono di piccole dimensioni, a ruoli diffusi, con contenuti affettivi e molto personalizzati. Nella famiglia, il più tipico gruppo primario nelle nostre società, non solo il contenuto dei ruoli è diffuso, come abbiamo già visto, ma ci si aspetta di essere trattati con amore, pazienza e comprensione, e un figlio si aspetta anche di essere considerato dalla madre con maggiore attenzione e affetto di un qualsiasi «ragazzo di otto anni». 1 caratteri dei gruppi secondari sono tendenzialmente opposti: più grandi dimensioni, ruoli specifici, relazioni più fredde e spersonalizzate. In un'azienda le aspettative reciproche fra operai e dirigenti sono quelle previste dall'organizzazione, e in principio soltanto quelle; ci si attende rispetto per le rispettive capacità professionali, ma non anche necessariamente amicizia; si è scelti e considerati solo per quella parte della personalità che riguarda il compito affidato, e in un certo senso la persona tende a essere ridotta al suo Pagina 43
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt ruolo. Un'altra tipologia dei gruppi si sovrappone in parte alla precedente, ma è in realtà distinta perché si riferisce all'alternativa se a gruppo sia basato su uno statuto o regolamento esplicito in vista di certi scopi, oppure se si sia formato in modo spontaneo e senza che siano state fissate regole precise per il suo funzionamento. Nel primo caso si parla di gruppi formali, nel secondo di gruppi informali. Il ruolo è uno schema di comportamento, che si impara e poi si tende a seguire. Vedremo nel cap. V come e perché. Qui è però importante indicare un principio fondamentale per l'analisi dei gruppi: i ruoli sono schemi per l'interazione, ma il contenuto di un'interazione non può mai essere completamente compreso nella definizione dei ruoli. Un ruolo è sempre «interpretato» da chi agisce, e la sua stessa definizione può cambiare in seguito all'interazione. In altre parole, non bisogna commettere l'errore di rappresentare un gruppo con una specie di regolamento organizzativo. In un gruppo, gli individui interagiscono interpretando ruoli, in vista di loro progetti e fini, più o meno espliciti e consapevoli, più o meno simili o compatibili con quelli degli altri. Deriva poi sempre dallo stesso principio che qualsiasi regolamento che preveda in modo formale un sistema di ruoli lascia spazio a comportamenti non previsti, ovvero informali, con la conseguenza che all'interno dei gruppi formali normalmente si formano gruppi informali. 4. Potere e conflitto Il potere è per la sociologia ciò che l'energia è per la fisica; è infatti una specie di energia sociale, di cui un attore dispone nel condizionare l'azione di un altro. Si tratta dunque di un fenomeno di relazioFORME ELEMENTARI DI INTERAZIONE ne: si ha potere nei confronti di un altro al quale si è legati da una relazione, per ambiti di comportamento più o meno estesi, in situazioni particolari e non necessariamente in altre. Non esiste un accordo generale sul concetto di potere, ma la più nota definizione è quella di Weber, secondo la quale potere è la possibilità di trovare obbedienza a un comando che abbia un determinato contenuto [Weber 1922a, trad. it. 1961, 521). Per quanto possa suonare strano o addirittura paradossale, a ogni rapporto di potere corrisponde anche un interesse all'obbedienza da parte del soggetto più debole, non fosse altro perché comportarsi in modo diverso sarebbe troppo costoso. Assumere questo punto di vista, che non impedisce di vedere quando o in che misura si tratti di un'imposizione o di una violenza, è importante perché ci obbliga a tener conto anche delle reazioni e delle strategie del soggetto più debole. E in generale, all'espressione di un potere anche forte corrisponde una capacità più o meno grande di condizionarne gli obiettivi, le modalità e le conseguenze. Inteso nei termini specifici della definizione precedente, il potere si distingue da una più generale possibilità di condizionare il comportamento di altri, anche senza azioni dirette o comandi. Si tratta di forme diverse di energia sociale, che comprendono per esempio, i condizionamenti di chi, controllando una risorsa utile e rara, di fatto ne limita l'uso ad altri. In questi casi Weber usava il termine Macbt, tradotto in italiano potenza, ma nel linguaggio corrente, e in genere in quello sociologico, si usa anche a questo proposito il termine potere, in un senso dunque un po diverso dal precedente: così, si dice per esempio che chi detiene i mezzi di produzione ha potere nei confronti dei lavoratori. Un tipo di potere particolare è quello che Weber chiama potere legittimo, o anche autorità. L'autorità riguarda relazioni nelle quali sono previsti diritti di dare ordini e doveri di ubbidire, considerati legittimi da entrambi gli attori. Vedremo successivamente (cap. XXI) su cosa può basarsi questa legittimità. Possiamo invece osservare subito che la legittimazione del potere è un modo di incanalare l'energia per i bisogni del funzionamento della società. Relazioni di autorità sono formalmente previste in tutti i gruppi secondari e si ritrovano egualmente in gruppi primari come la famiglia. I genitori esercitano autorità sui figli in modo diffuso, perché diffuso è il loro ruolo; un capoufficio, invece, esercita autorità su un impiegato in modo specifico, solo per ciò che lo schema organizzativo prevede e non su aspetti della sua vita privata. Gli attori di una relazione possono andare però al di là degli ambiti della legittimazione. Un capoufficio, per esempio, può pretendere favori personali da un impiegato: in tal caso, non esercita più autorità, ma solo potere. I soggetti possono poi anche cercare di cambiare i criteri della legittimazione. In questi casi, l'energia si libera e si aprono conflitti. Ma Pagina 44
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt anche al di fuori dell'abuso esplicito e consapevole CAPITOLO 3 dell'autorità, o dei tentativi di stabilire nuovi principi e regole di legittimità, si riscontra a questo riguardo una nuova proprietà formale dei gruppi: «per quanto siano previste regole precise e puntuali, non è mai possibile una relazione completamente regolata e controllata in termini di autorità» [Crozier e Friedberg 1977, trad. it. 1978, 251. Ne deriva una conseguenza importante: se ogni regola di autorità lascia margini di incertezza, se non è obbiettivamente chiaro se e come l'autorità di un padre possa esercitarsi sul figlio in una determinata situazione, se a regolamento organizzativo non può fissare più di tanto il compito di un impiegato in situazioni mutevoli e non prevedibili in astratto, si apre un campo di conflitti, adattamenti e contrattazioni fra i soggetti, che sono parte normale dell'interazione all'interno di ogni gruppo. Questa proprietà è stata studiata soprattutto in relazione alle organizzazioni, e torneremo dunque ad occuparcene al prossimo capitolo. Ricordiamo che il conflitto riguarda azioni orientate dal proposito di affermare la propria volontà contro la volontà e la resistenza di altri; possiamo aggiungere: sia che tali azioni si svolgano nell'interazione all'interrio di una relazione sociale stabile, come in famiglia o in azienda, sia che nascano specificamente come relazioni di conflitto, per esempio nel caso di una guerra fra due eserciti o di una faida fra due famiglie. Per quel che riguarda i gruppi, in particolare, non solo il conflitto all'interno di questi è normale, inscindibilmente legato alla cooperazione, ma un certo grado di conflitto interno e con altri gruppi può essere considerato essenziale per la loro formazione e persistenza. D'altro canto, è anche vero che, a seconda delle circostanze e dei suoi modi, il conflitto può distruggere una relazione sociale o un gruppo. Ancora una volta è stato Simmel, fra i classici, a sviluppare maggiormente questi aspetti dell'interazione sociale, successivamente ripreso da Lewis A. Coser, sociologo americano contemporaneo. Vediamo qui di seguito alcune delle proprietà formali del conflitto, fra le più importanti di quelle che sono state studiate. Esse riguardano, a seconda dei casi, conflitti interni a un gruppo o conseguenze per un gruppo di conflitti con altri gruppi [Coser 19561. Il conflitto contribuisce a stabilire e mantere i confini del gruppo. Attraverso il conflitto i soggetti di un gruppo acquistano o conservano facilmente la consapevolezza della loro identità e particolarità, mentre in assenza di conflitto ciò potrebbe anche non verificarsi o verificarsi debolmente. Esempi di confini mantenuti in situazione di conflitto si possono trovare nelle relazioni fra gruppi etnici, politici, religiosi, fra diverse scuole scientifiche, fra gruppi formati su base di appartenenza di classe, che Marx chiamava «classi per sé». Alla proprietà in questione si riferisce il concetto introdotto da Sumner [19061, ma successivamente da altri precisato, di in-group, ovvero gruppo di appartenenza, caratterizzato da coesione interna e ostilità nei confronti di specifici altri gruppi, definiti rispetto ai primi come out-groups. FORME ELEMENTARI DI INTERAZIONE 89 I gruppi che richiedono un impegno totale della personalità sono capaci di limitare i conflitti, ma se questi esplodono, tendono a essere di particolare intensità e anche distruttivi delle relazioni di gruppo. Relazioni intense del genere indicato si trovano tipicamente nelle diadi e in generale in gruppi primari come la famiglia. Sappiamo che a forte investimento affettivo è caratteristico di queste relazioni, ed è appunto tale forza a controllare possibilità di conflitto. Se però questo si innesca, mette in gioco i forti investimenti della personalità e tocca una pluralità di contenuti, essendo i ruoli in questione di tipo diffuso. E così che le liti in famiglia possono condurre a rancori implacabili. Sembra esserci una contraddizione fra quanto ora detto e quanto detto prima a proposito del fatto che è normale trovare in tutti i gruppi il conflitto. Bisogna infatti precisare, distinguendo fra conflitti che mettono in qualche modo in questione il patto fondamentale che è alla base del rapporto, e conflitti che non riguardano tali aspetti. t del tutto normale che marito e moglie discutano e magari litighino su dove andare in vacanza: non per questo salterà il matrimonio, e se dovesse succedere non sarà dipeso essenzialmente da questo. Diverso è invece il caso di una eventuale divergenza incolmabile sulla decisione se avere figli o no. La distinzione fatta vale per i gruppi in generale. Il conflitto con altri gruppi normalmente aumenta la coesione interna. Il nemico alle porte fa dimenticare i dissidi interni, e il richiamo alla lotta induce spirito di collaborazione e anche di sacrificio in nome del gruppo. Se però nel Pagina 45
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt gruppo esisteva inizialmente una scarsa solidarietà sociale, la spinta all'unità può non essere sufficiente e determinarsi invece la sua disgregazione. Un gruppo che sia continuamente in lotta con altri, deve controllare con cura i comportamenti dei suoi membri e tende per questo a divenire intollerante al suo interno, perché non può sopportare deviazioni dall'unità. Ciò può comportare che esso assuma il controllo di molti ruoli delle persone che ne fanno parte, diventando di tipo totalitario, nel senso dato a questo termine al paragrafo 3.3, che corrisponde qui anche all'uso corrente. La proprietà esaminata vale anche nella circost@nza particolare in cui, per ottenere coesione, il nemico sia inventato. E il caso del «capro espiatorio», che si può ritrovare in un gruppo di amici come nelle organizzazioni, in politica e altrove, sia all'interno che all'esterno del gruppo. Capro Capro espiatonio espiatorio è un membro del gruppo al quale si dà sempre la colpa se qualcosa non funziona, magari solo scherzando e contando sulla sua condiscendenza, per fare in modo che altri non litighino seriamente; le minoranze etniche sono state spesso nella storia capro espiatorio per le società che le ospitavano, subendo feroci repressioni. Può accadere anche, infine, che un gruppo il quale abbia sconfitto un nemico ne inventi un altro per poter sopravvivere. 90 CAPITOLO 3 Il conflitto può generare nuovi tipi di interazione fra gli antagonistì. Spesso un conflitto è il modo in cui due gruppi o persone entrano in contatto, conoscendosi e mettendosi alla prova. Le restrizioni che via via essi si pongono nell'interazione, per controllare gli esiti più dirompenti del conflitto (teniamo presente che persino le guerre prevedono regole che limitano l'azione dei contendenti, come le convenzioni sui prigionieri) possono essere una prima base per lo sviluppo di regole e di rapporti più cooperativi. Per quanto si debba fare attenzione a trasferire ai gruppi in generale i risultati di ciò che si verifica per alcuni di essi molto particolari, vale qui quanto la psicologia dell'infanzia mette in luce: una lite per un giocattolo fra due bambini che non si conoscono è spesso la prima mossa di un successivo stabile rapporto di gioco d'amore e d'accordo. L'adattabilità in questo senso di un gruppo sociale dipende dalle forme in esso previste e accettate di espressione dei conflitti. Se un gruppo non reprime e invece tollera i conflitti al suo interno, prevedendo regole e procedure per la loro espressione, allora è probabile che i conflitti diano luogo a progressivi adattamenti della sua struttura, assicurandone la persistenza attraverso una continua modificazione delle forme di interazione. Gruppi a struttura rigida possono reggere nel tempo reprimendo i conflitti; quando però questi si accumulano e esplodono, allora è anche probablie che i gruppi si disgreghino, non essendo capaci di adattarsi. 5. Il comportamento collettivo Secondo la definizione data in precedenza, un gruppo è un insieme di individui che interagiscono fra loro con continuità, sulla base di aspettative di ruolo stabilizzate. Si distingue dal comportamento di Comportwmnto gruppo il comportamento collettivo. Questo termine si riferisce a un conettivo insieme di individui sottoposti a uno stesso stimolo, che reagiscono e interagiscono fra loro in situazioni senza sicuro riferimento a ruoli definiti e stabilizzati. Le mode nel vestire, ma anche nelle letture o nel frequentare certi locali piuttosto che certi altri, le reazioni collettive a disastri come i terremoti o le alluvioni, le sommosse, le ondate di violenza e di pregiudizio, per esempio razziale, che compaiono e spariscono in paesi e epoche diverse, il clima di accresciuta simpatia e disponibilità verso gli altri che ci prende a Natale, una diceria che si diffonde incontrollata in un quartiere, sono tutti esempi di comportamento collettivo. Basta uno sguardo all'elenco per rendersi conto che si tratta di un campo alquanto eterogeneo e, possiamo aggiungere, difficile da studiare e relativamente poco sistematizzato. Noi considereremo qui tre tipi fra i più importanti di comportamento collettivo, che servono a esemplificarne bene non solo alcuni caratteri generali, ma anche la grande varietà: il panico, la folla e il pubblico [Turner 19641. FORME ELEMENTARI DI INTERAZIONE Panico è una reazione collettiva spontanea, che si manifesta in genere con una fuga, ma anche all'opposto con l'immobilità, di fronte al rischio di subire gravi danni da un evento in corso o annunciato come immediato. L'incertezza, l'aspettativa del danno, la sensazione di inadeguatezza nell'affrontarlo conducono a perdita di controllo sulle proprie reazioni, e questo è rafforzato Pagina 46
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dal vedere reazioni simili da parte degli altri. La sensazione di pericolo immediato si associa alla percezione che ci sono poche vie di uscita e che queste si stanno chiudendo, in una situazione in cui mancano informazioni precise su come le cose evolvano. Si innescano allora spesso comportamenti irrazionali e asociali, come precipitarsi in massa verso una porta stretta, usare violenza per farsi strada, calpestare chi cade. L'individuo tende a reagire guardando solo a se stesso e vedendo gli altri piuttosto come avversari che come possibili amici. Da notare che il pericolo può essere reale, come nel caso di un naufragio o di un incendio, o solo immaginato, come nel panico che si impadronì di migliaia di persone negli Stati Uniti una sera del 1940, quando ascoltando una trasmissione radiofonica di Orson Welles queste si convinsero che i marziani erano sbarcati. Folla è un insieme di persone riunite in un luogo, che reagiscono a uno stimolo sviluppando umori e atteggiamenti comuni, ai quali possono seguire forme di azione collettiva. 1 primi studiosi del fenomeno, come Le Bon [18951 hanno insistito sul carattere irrazionale dei comportamenti, sul loro contenuto di violenza e sul fatto che questa si innesca per una specie di contagio, come succede per la trasmissione delle malattie virali. In realtà, la folla può esprimere comportamenti violenti, ma anche pacifici e gioiosi. Inoltre, la ricerca ha mostrato che aspetti razionali del comportamento sono presenti nella formazione della folla assieme ad altri non controllati razionalmente, come la facile diffusione di voci, o la semplice espressione di sentimenti. Mentre il panico esprime orientamenti individualistici, essendo in certo senso la negazione di relazioni sociali, la folla esprime atteggiamenti e comportamenti solidaristici. A questo riguardo, si distinguono laJolla espressiva e la folla attiva. La prima, della quale sono esempi un raduno di reduci o un festival rock, è lo sfogo di tensioni sociali e psicologiche con comportamenti inconsueti come balli, canti, sbornie, o l'espressione in comune di una gioia, di un dolore, di una credenza, come in un rito religioso. Nella seconda, l'attenzione e i sentimenti degli individui sono invece orientati all'estemo, su persone o cose definite, che diventano l'obbiettivo di azioni in genere conflittuali e a volte violente. La manifestazione spontanea contro l'arresto di un dissidente politico e l'azione dimostrativa contro un gruppo di immigrati di colore sono esempi di folla attiva. Un pubblico è un insieme di persone che si confrontano con uno stesso problema, hanno opinioni diverse su come affrontarlo e discutono fra loro a questo riguardo [Blumer 19461. La differenza fondamentale con la folla è dunque che il pubblico esprime più opinioni e atteggiamenti, mentre la folla ne esprime uno solo. Inoltre, la folla ha funzioni espressive o dà luogo ad azioni collettive, mentre un pubblico forma delle opinioni. Nella folla le persone si rafforzano in un atteggiamento ricevendo in risposta dagli altri lo stesso stimolo, per esempio la paura, che loro avevano manifestato: questo processo è chiamato reazione circolare; nel pubblico, un messaggio riceve una risposta con contenuto diverso, attivando un'interazione che può modificare atteggiamenti e convinzioni di partenza; questo processo è chiamato interazione interpretativa. Sono state studiate le condizioni che in un pubblico favorisono la formazione di più opinioni oppure di due soltanto. In particolare, il numero delle posizioni sembra essere inversamente proporzionale all'intensità e all'urgenza con cui il problema è sentito: un problema avvertito come particolarmente urgente polarizza due sole opinioni. Da questo punto di vista, la folla può essere vista come un caso limite di pubblico. 1 pubblici si formano in società dove è normale che chi governa o decide, in ambiti e a gradini diversi, debba essere orientato dall'opinione pubblica. In società totalitarie, le folle e le dicerie tendono invece tipicamente a sostituire i pubblici. Come mostrano gli esempi, nel comportamento collettivo ritroviamo, se pure in misura diversa, una certa sospensione dei normali orientamenti e comportamenti, una maggiore fluidità nei rapporti fra le persone, più spontaneità e un maggiore coinvolgimento emotivo rispetto al solito. In genere si tratta di situazioni in cui è un evento a rendere confusa o fluida la situazione e a far venire meno aspettative definite di comportamento. Ne deriva che la precedente personalità sociale dell'individuo, che è costituita dall'insieme dei suoi ruolì, tende in un certo senso a essere sospesa o messa in questione. Da ciò derivano i caratteri disordinati, imprevedibili, spontanei ma anche imitativi, in certi casi irrazionali che riscontriamo con chiarezza in molte manifestazioni di comportamento collettivo. Naturalmente, non tutte le folle che assistono a un incontro di calcio si scatenano a mettere a ferro e fuoco un quartiere quando la loro squadra perde, e la discussione in un pubblico ordinato appare come Pagina 47
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt qualcosa di molto più organizzato e normale di un fenomeno di panico collettivo. 19 fatto è che la definizione del comportamento collettivo è ancora in gran parte per negativo, come sospensione di un comportamento «normale», e che dunque ci sono forse al suo interno più cose differenti di quanto una sola interpretazione teorica possa comprendere. In ogni caso, lo sviluppo della ricerca è andato nel senso di riconoscere maggiormente nei diversi tipi di comportamento collettivo ciò che già emergeva dal confronto che abbiamo fatto: la presenza di motivazioni e comportamenti razionali e intenzionali accanto ad altri irrazionali e spontanei, anche in situazioni difficili; la mescolanza spesso di aspetti organizzati accanto ad altri spontanei; la sopravvivenza anche in situazioni estreme di orientamenti che derivano da precedenti aspettative di ruolo, come è il caso di un un padre che non perde la testa e mette in salvo i suoi figli mentre il fuoco avanza. Sempre in questa prospettiva, è stata prestata maggiore attenzione alle specifiche condizioni sociali che condizionano la formazione e la direzione di sviluppo del comportamento collettivo, mentre è relativamente diminuito l'interesse agli aspetti psicologici dell'individuo [Turner cit. in Smelser 19631. In certe situazioni un insieme di persone può improvvisamente e con forza percepire come ingiusta e insopportabile la propria normale condizione sociale. Anche questa percezione può innescare un comportamento collettivo. Quando questo si orienta, in modo più o meno chiaro e organizzato, verso la creazione di nuove regole da far valere nella società prende forma un movimento sociale. Studieremo i movimenti sociali nel cap. XXII, con riferimento particolare alla politica. 6. La microsociologia In questo capitolo abbiamo introdotto alcune categorie di base dell'analisi sociologica, a partire dal concetto di azione sociale. Così facendo, abbiamo considerato che la società è fatta in ultima analisi di individui, e che può dunque essere vista come il prodotto di una miriade di azioni di persone in interazione fra loro. Guardare alle azioni e alle interazioni dirette delle persone è, in un certo senso, come osservare la società al microscopio. Che cosa si vede osservando la società così da vicino? Risponderemo alla domanda in questo paragrafo con tre esempi di temi e ambiti di ricerca microsociologica. Si tratta in realtà di un vasto campo di ricerca, dove sono state sviluppate teorie e approcci diversi, anche introducendo nuovi concetti rispetto a quelli fin qui introdotti. Ciò che accomuna le prospettive è comunque l'interesse a osservare da vicino gli individui in azione. 6. l. Le reti Ogni persona conosce un certo numero di altre persone, è a con- Retì sociab tatto con loro, le frequenta per motivi diversi, in modo più o meno sistematico. A loro volta, queste persone possono conoscersi e essere in relazione fra loro oppure no, e in ogni caso hanno a loro volta altre conoscenze e frequentazioni. La network analysis (in inglese network significa rete) è un campo di ricerca che considera con apposite tecniche e in riferimento a proprietà via via messe in luce, le reti di relazioni fra le persone [Piselli 19951. Una persona può essere isolata, in relazione con poche altre persone; può invece essere in relazione diretta o indiretta, tramite conoscenti di conoscenti ai quali può accedere, con un gran numero di altre. Una ricerca americana ha mostrato un fatto sorprendente: raggiungere una persona che non si conosce tramite 94 CAPITOLO 3 FIG , 3.2. Retì a diversa densità. catene di persone che si conoscono fra loro è molto più rapido di quanto non si immagini. Milgranì ha selezionato alcune persone nell'area di Boston e ha chiesto ad altre scelte a caso nel resto degli Stati Uniti di provare a stabilire un contatto con le prime utilizzando solamente una catena di individui che via, via si conoscevano fra loro. In media furono necessari solo 5,5 intermediari [Milgram 19691. Un carattere importante delle reti è se sono a maglia larga o a maglia stretta. Una rete è a maglia tanto più stretta quanto più le persone che un individuo conosce si conoscono anche fra loro. Una persona che vive in un piccolo paese ha probabilmente un network a maglie strette e lo stesso tenderà a essere vero per tutti gli abitanti del paese. Gli abitanti di una grande città hanno in genere reti a maglie più larghe, con differenze a seconda del periodo di residenza, della professione, o di altre variabili. La fig. 3.2 - che riporta solo legami Pagina 48
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt diretti o di primo ordine, a partire da una persona indicata al centro mostra il caso di una rete a maghe larghe, o come anche viene detto, a bassa densità, e di una ad alta densità. Nel primo caso, si vedono 10 contatti sui 28 possibili fra 8 persone osservate. Nel secondo si trovano 17 contatti su 28. Nel primo caso la densità è 0,36, nel secondo 0,61. I legami fra le persone collegate nelle reti variano per intensità, durata, frequenza, contenuto. Quanto al contenuto, possono essere limitate a un solo carattere - per esempio, una persona è frequentata solo per lavoro - o sommare più caratteri: lavoro e amicizia, per esempio. Queste variabili permettono di individuare e studiare particolari condizioni nelle quali un individuo si viene a trovare. Una situazione particolare è quella di chi ppartiene a due reti collegate fra loro solo attraverso la sua persona. E il caso, per esempio, di un immigrato che ancora conserva radici nella società rurale di provenienza, e che in città ha nuove e diverse frequentazioni: di lavoro, nel tempo libero, di altro genere. In casi come questi, osservare le reti, la loro estensione e densità (nell'esempio, la rete in campagna è densa, quella in città in genere meno), la frequenza e i contenuti dei rapporti, permette di rilevare come gli individui si muovano con loro strategie di adattamento oscillando fra diverse società, a struttura diversa. Nella società rurale di provenienza essi possono trovare risorse di sostegno psicologico (la rimpatriata nel villaggio), ma anche procurarsi beni materiali a buon prezzo, perché prodotti tradizionalmente da famigliari. Queste risorse possono essere preziose nell'adattamento alla nuova società urbana, alla sua economia di mercato e alle sue relazioni segmentate; in altre parole, le radici nel villaggio possono essere una condizione per ambientarsi bene in città. Una configurazione di rete simile si osserva anche in riferimento a una fase del ciclo di vita: i ragazzi che crescono tendono a tenere separata la rete famigliare (molto densa, dove cominciano a sentirsi stretti) e la rete delle nuove esperienze (se la mamma chiede: «chi era al telefono?» è facile che si senta rispondere: «nessuno!»); con il tempo le due reti tendono a collegarsi. In generale, la network analysis può essere uno strumento flessibile, che ci permette di vedere l'individuo mentre reagisce alla situazione in cui si trova e combina le sue relazioni in funzione di proprie strategie. E concetto di rete, riferito a un individuo, sembra vicino a quello di ruolo. Se ne discosta, in realtà, perché, come vedremo meglio nel cap. V, il ruolo è piuttosto un comportamento atteso socialmente e prescritto nel suo contenuto fondamentale. Il concetto di ruolo individua le parti che tipicamente gli individui sono chiamati a svolgere. Il concetto di rete permette piuttosto di vedere come un individuo interpreta a suo modo l'insieme di ruoli che ricopre, ovvero come gioca con i suoi ruoli nel tessere le sue relazioni [Hannerz; 19801. 6.2. Le carriere morali Negli anni venti e trenta, in una Chicago in grande crescita, fu sviluppato uno dei programmi più vasti e coordinati di studi sociologici mai tentati in una sola città. Uno di questi si occupò di una marginale, ma singolare istituzione: la taxi-dance hall [Cressey 19321. In quartieri interamente composti da uomini soli che vivevano in camere d'affitto, si erano diffusi dei locali dove si potevano affittare ragazze per ballare: il cliente comprava un biglietto alla cassa, e la ragazza che sceglieva aveva poi diritto a metà del prezzo del biglietto. L'attenzione del ricercatore fu puntata, fra l'altro, sulle ragazze. Si trattava in genere di giovani che già avevano allentato i legami con la famiglia di origine, insoddisfatte del proprio precedente modo di vivere e affascinate dall'atmosfera festosa e ai loro occhi moderna dei locali da ballo: qui potevano trovare una certa popolarità e un certo prestigio. Anche se i destini personali erano diversi, fu possibile individuare un percorso tipico seguito da molte di loro, segnato da tappe diverse: chi non riu96 CAPITOLO 3 sciva a ottenere le attenzioni dei clienti più ricchi e di più elevata posizione sociale, poteva finire per accontentarsi delle attenzioni di clienti di status più basso; chi non riusciva comunque a sfondare nei locali migliori, poteva provare in altri di minore qualità. Col tempo però aumentava il rischio di essere definite come mediocri, e si usciva allora dal giro, finendo nei cabaret del ghetto negro, per passare infine alla prostituzione. Naturalmente non tutte le ragazze seguivano questo percorso: così come c'erano modi diversi per entrare nel giro, ad ogni passo si aprivano possibili porte di uscita. Il fatto di essere in una grande città permetteva per esempio di riallacciare rapporti con Pagina 49
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt la famiglia in provincia, senza che questa venisse a sapere niente della precedente attività di taxi-girl. La citata ricerca a Chicago è uno dei primi esempi di studio di Carriere inorali carriere morali. Queste sono «tipiche successioni di esperienze vissute da categorie di persone» [Abrams 1982, trad. it. 1983, 3421. Studiare le carriere morali significa osservare i tentativi e le successive mosse delle persone nell'adattarsi a un ambiente che in gran parte non può essere da loro influenzato, per cercare di mantenere o conquistare una propria immagine e possibilità di vita, una ragionevole stima da parte degli altri e l'autostima personale. Come nell'esempio, e in modo più preciso in studi successivi, spesso lo studio delle carriere morali ha riguardato la formazione di comportamenti devianti, ma è altrettanto possibile applicare la metodologia a carriere di particolare successo o a percorsi assolutamente normali. Ancora una volta, come nel caso della network analySI .s, lo studio delle carriere permette di osservare gli uomini in azione, mentre si muovono nella società con loro strategie di adattamento. La carriera, in questa prospettiva, è immaginata come un processo di interazione, nel quale il soggetto sperimenta le sue possibilità suscitando reazioni positive o negative degli altri, alle quali risponde a sua volta cambiando o precisando il proprio comportamento, in una sequenza che porta verso una sua definizione sociale. Osservando l'inizio di un percorso individuale non potremo mai dire dove una persona finirà. Avendo ricostruito carriere tipiche, dopo l'osservazione di molte carriere, possiamo però dire che, fatto un certo passo, qualora si verifichino certe circostanze è probabile che una persona ne faccia un altro in una certa direzione, e che successivamente, al verificarsi di altre tipiche circostanze, ne faccia un altro ancora in una direzione che sempre più è vincolata e segnata dai passi precedenti. 6.3. Rappresentazioni dei sé e relazioni in pubblico Ci sono aspetti così minuti della realtà sociale da essere per molto tempo passati quasi inosservati, o trascurati come poco importanti. Lo studio dell'interazione diretta faccia-a-faccia ha però condotto, negli ultimi decenni, a risultati sorprendenti, a partire dai lavori del socioloFORME ELEMENTARI DI INTERAZIONE 97 go canadese Erving Goffman (1922-1982) Egli si è impegnato a sviluppare una sociologia della vita quotidiana, del comune comportamento e delle sue regole. Si tratta di quel tipo di interazione che «comporta un breve periodo di tempo, una limitata estensione di spazio e abbraccia quegli eventi che, una volta iniziati, debbono arrivare a conclusione [ ... 1 L'argomento [ ... 1 è costituito da quella classe di eventi che si verificano durante una compresenza e per virtù di una compresenza» [Goffman 1967, trad. it. 1971, 31. Cosa si può dire su come si comportano due persone quando si incontrano, indipendentemente da chi sono o dal motivo per cui si incontrano? Continuamente comunichiamo con gli altri non solo a parole o a gesti, ma con il modo in cui ci vestiamo o con gli oggetti che adoperiamo. Gli altri hanno bisogno di informazioni su di noi e noi trasmettiamo immagini di noi stessi, ricevendone altre in cambio. Si tratta di giochi fatti di dire e tacere, mostrare intenzionalmente e lasciar trapelare senza accorgersene. Usando la metafora del teatro, Goffman descrive appunto un gioco che si svolge su una scena, dove gli attori (la compagnia) cercano di controllare le idee che gli altri (il pubblico) si fanno di loro, per presentarsi nella migliore luce possibile e in un modo che sia credibile. Esistono luoghi di ribalta dove ci si deve vestire e comportare con certe formalità, e luoghi di retroscena dove ci si può rilassare: scambiare gli uni per gli altri può avere conseguenze disastrose per una relazione sociale. L'interazione può essere fra persone che si conoscono o fra estranei che si trovino casualmente insieme in un luogo pubblico. Nei due casi, i modi di comportarsi sono diversi, ma anche le persone che si trovano casualmente nello scompartimento di un treno, per esempio, perfino se può apparire che si ignorino si scambiano in realtà messaggi e orientano reciprocamente il loro comportamento: cercano di non disturbare, di non essere invadenti con chi desidera rimanere isolato, di non allarmare gli altri con comportamenti inconsueti e così via. Nella «rappresentazione» i rapporti fra attori e pubblico possono anche essere diversi da quelli che sembrano. Goffman parla al riguardo di ruoli incongruenti. Il delatore è chi finge presso gli attori di essere un membro della compagnia, avendo così accesso al retroscena e riportando informazioni riservate al pubblico; il compare è chi segretamente si accorda con gli attori e si mescola fra il pubblico per orientarlo; lo spettatore puro è un professionista riconosciuto come spettatore qualificato: un Pagina 50
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt critico teatrale, per esempio; l'intermediario appartiene a due compagnie che sono l'una il pubblico dell'altra e può mettere in atto giochi di triade (v. par. 3.1); la non persona è chi, pur essendo presente, non fa parte della rappresentazione e viene ignorata: il conducente del taxi per esempio. Esistono regole di etichetta e rituali (sequenze di comportamenti previsti) con i quali si sperimenta l'accesso agli altri e si misurano la possibilità e i limiti di un reciproco coinvolgimento. Anche la più anonima e fugace delle relazioni, un incontro con un estraneo per strada, è già una interazione molto complicata, nella quale si scambiano molti messaggi: è un tipo di rituale che Goffman chiama «disattenzione civicivile le». Quando due passanti si incrociano, la disattenzione civile può assumere la forma del guardarsi l'un l'altro sino a circa due metri di distanza - tempo in cui si stabilisce a cenni il lato della strada che ciascuno vuole seguire - e poi abbassare lo sguardo al momento dell'incontro - una specie di abbassamento delle luci L. Con questo comportamento] l'individuo afferma implicitamente di non avere nessuna ragione di sospettare delle intenzioni delle altre persone presenti, né di temerle o di avere ostilità nei loro confronti o di desiderare di evitarli (allo stesso modo, estendendo questa cortesia egli automaticamente si apre a un trattamento analogo da parte degli altri). Questo dimostra che egli non aveva niente da temere o da evitare nel farsi vedere anche quando guarda, e che egli non si vergogna di se stesso, del luogo e della compagnia con cui si trova [Goffman 1963, trad. it. 1971, 841. Nell'interazione quotidiana gli individui mettono anche in atto loro strategie per ottenere vantaggi. Nel fare questo seguono però normalmente regole, con sequeze tipiche di mosse ammesse e esclusione di altre non ammesse. Il gioco può comportare «vincitori» e «vinti», ma rituali adatti attenuano i possibili effetti distruttivi di una relazione. 1 «giochi di faccia» riguardano la pretesa, e in modo corrispondente il riconoscimento da parte dell'altro di una certa immagine di sé. Fondamentale, in un certo senso sacro, è comunque l'obbligo di permettere a una persona di mantenere una propria immagine accettabile, ovvero di «salvare la faccia». L'interazione della vita quotidiana non solo ci tiene impegnati per la maggior parte del nostro tempo, ma ha un significato sociale di grande importanza. Le sue regole e i suoi rituali esprimono attenzione agli altri e rispetto per le loro richieste; per suo mezzo si realizza un continuo monitoraggio e adattamento reciproco, si riparano guasti del tessuto sociale e si conserva la fiducia fra le persone. Si tratta della «meccanica più intima della riproduzione sociale» [Giddens 1984, trad. it. 1990, 701. Regole e rituali dipendono in certa misura dalla cultura di una determinata società, ma sono probabilmente molto simili ovunque. Osservando da vicino le interazioni in condizioni di compresenza si individuano dunque, con approcci e tecniche diverse, aspetti del tessuto intimo della società. Tuttavia, considerare che la società è fatta in ultima analisi di individui, e che può dunque essere vista come il prodotto di una miriade di azioni di persone in interazione fra loro, non significa limitarsi all'analisi microsociologica. Vediamo dunque cosa significhi considerare strutture e processi anche complessi con riferimento agli attori e alle loro azioni. FORME ELEMENTARI DI INTERAZIONE 99 7. Interazione e società Bisogna riprendere un punto importante della definizione di azione sociale, ricordando che questa è riferita al signi/icato che l'attore dà al suo comportamento. Un attore ha in genere delle buone ragioni per comportarsi in un certo modo, data la situazione in cui si trova, la conoscenza che ne ha, i suoi bisogni e i suoi valori. Noi possiamo comprendere (il termine tedesco usato da Weber è appunto versteben) Fazione, quando mettendoci nei panni dell'altro e sforzandoci di conoscere quanto più possibile gli elementi indicati, arriviamo alla conclusione che ci saremmo comportati allo stesso modo. A questo punto, però, se vogliamo risalire dall'azione (o dall'interazione) verso l'analisi di strutture più complesse, ci scontriamo subito con una difficoltà: spesso l'esito dell'azione è diverso dall'intenzione dell'attore. Per dirlo in un altro modo, l'azione ha conseguenze inattese per l'attore, o per un insieme di attori. Ciò si verifica così spesso, che occuparsi delle conseguenze inattese può apparire proprio il compito principale della sociologia [Merton 19491. Le conseguenze non intenzionali dell'azione sono chiamate in generale effetti di composizione, o emergenti, o di sistema. Queste possono essere di tipi diversi: possono per esempio riguardare anche effetti previsti ma Pagina 51
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt non evitabili, oppure che non si sarebbero voluti se previsti in anticipo (in questo caso si parla di «effetti perversi») [Boudon 19921. Le espressioni riportate esprimono l'idea che le conseguenze inattese non sono casuali, e possono essere studiate in modo sistematico, in un certo contesto sociale, come proprietà di tale contesto indipendenti dalle intenzioni degli attori. Le proprietà dei gruppi, del conflitto o del comportamento collettivo individuate in precedenza sono già esempi formali (vale a dire tipici e ricorrenti al verificarsi di certe condizioni) di effetti di composizione. La regolazione dell'economia attraverso la formazione di prezzi sul mercato di cui parleremo al cap. XVIII è un altro esempio di effetto di composizione. Nel risalire dalle azioni agli effetti di composizione si può fare una distinzione fondamentale fra sistemi di interazione e sistemi di interdipendenza. 1 primi riguardano conseguenze inattese riconducibili a proprietà emergenti dell'interazione diretta di attori: si tratta di insiemi piccoli di persone, tutte osservabili dal ricercatore. Nel secondo caso le azioni di ciascun individuo si riflettono su tutti gli altri senza che vi sia un'interazione diretta: si tratta di grandi gruppi, sino a comprendere un'intera società [ibidem, 4691. Mentre considerare un sistema di interazione come insieme di azioni singole appare più facile, più difficile è riportare questa stessa idea nel campo dei sistemi di interdipendenza. Si può però ricorrere a un trucco, se così si può dire; se non possiamo considerare tutti gli attori, possiamo individuare e considerare un attore che di una categoria sia «tipico»: per esempio, l'imprenditore calvinista che compare nell'analisi weberiana dell'origine del capiConseguenze inattese, effettì. di e«U.posizwIne. I. e.ftettì perversì Sistemi di interazione e sistemi di interdipendenza 100 CAPITOLO 3 defl'azione e paradigma causale Teorie ofistiche, sistemiche, strutturali Duplicità della struttura talismo, che abbiamo incontrato nel cap. 11. Considerando i valori, gl atteggiamenti e i comportamenti tipici di questo attore, in relazione a( altri, e ricostruendo la situazione in cui operava, Weber ha potuto sviluppare un'ipotesi di ampio respiro sugli effetti di composizione d questi comportamenti. Analisi come queste mostrano appunto che possibile studiare anche complessi processi e strutture della società partire da azioni e interazioni. L'idea di considerare i sistemi di interdipendenza come prodotti di singole azioni dotate di senso è però sfidata da sociologi che si pon gono da altri punti di vista. Come sappiamo, esistono differenti teori sociologiche, con diverse premesse e metodologie per osservare e cet care di spiegare la società e i suoi processi. Un punto importante è differenza è proprio il ruolo da assegnare alle azioni e il modo di con siderarle. Se Weber e Simmel sono i due più tipici sociologi classi( che hanno adottato la prospettiva della sociologia dell'azione (o com anche si dice, il paradigma dell'azione), Durkheim, e prima di lu Comte, si erano collocati dal punto di vista opposto. Per Durkheirr. l'analisi deve partire dal tutto e non dalle parti, ovvero dalla società non dall'individuo. Da questo punto di vista, i fatti sociali devono es sere considerati come «delle cose» [Durkheim 18951, e si possono rì cercare «leggi» di funzionamento della società alle quali gli individui @ conformano, in genere inconsapevolmente: proprio per questo i signi ficati che gli attori danno alle loro azioni diventano trascurabili. 1 riferimento a posizioni come questa si parla di teorie olisticbe, sistem, cbe, strutturali. Le «leggì» sono indagate non interrogandosi sui sign, ficati che gli attori danno alle loro azioni, esplorati mettendosi nei lor panni, ma considerando per esempio con dati statistici che i tassi c suicidio sono più frequenti per certi insiemi di popolazione con dacaratteri, o che le percentuali di laureati e diplomati cambiano a s( conda della classe sociale. Con riferimento a questa metodologia parla anche di paradigma causale. Le due prospettive sono ricorrenti nello sviluppo della sociologú e si ripresentano in forme nuove, in concorrenza fra loro nell'interpr( tazione dei fenomeni sociali. Entrambe hanno degli argomenti da fo valere. Ciò è dovuto a un carattere fondamentale della società, che oggi chiamato dualismo o duplicità della struttura [Giddens 1976Questo carattere è stato espresso in molti modi; uno dei più noti l'affermazione di Marx che è l'uomo a fare la storia, ma in condizior non scelte da lui. Se si accentua troppo il primo aspetto - è l'uom che fa la storia - si cade in un «volontarismo» ingenuo, che non ! accorge dei Pagina 52
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt pesanti condizionamenti che l'azione subisce e che rischi di non vedere che le persone si fanno molte false idee della situazion in cui si trovano. D'altro canto, il punto di vista strutturale. che sott( linea l'importanza delle «condizioni non scelte» rischia, portato al] estreme conseguenze, di darci un'immagine «deterministica» del corr portamento, per cui gli uomini appaiono soggetti a forze che non cor trollano, esclusi dalla storia. I tentativi di spiegazione sociologica si muovono fra questi due estremi, cercando di evitare il volontarismo ingenuo e il determinismo strutturale. Possiamo anche esporre in positivo questa esigenza dicendo che la società (la struttura) deve essere vista al tempo stesso come un limite e come una risorsa per l'attore. Oppure che dobbiamo essere attenti alle conseguenze del tutto sulle parti, ma anche a quelle delle parti sul tutto [Barbano.19661. Le teorie sociologiche oggi sembrano comunque aver rinunciato alla ricerca di «leggi» sul modo in cui la società funziona, sempre empiricamente vere. Le proprietà formali elementari come quelle messe in evidenza nei paragrafi precedenti, e le proprietà più complesse dei sistemi di interdipendenza, gli effetti di composizione che vengono studiati, sono piuttosto considerati dei «modelli» [Boudon 19841. Modeffi Questa espressione sta a indicare che si tratta di affermazioni che non rappresentano la realtà «così com'è». Sono invece delle costruzioni formali, che servono per interpretare realtà diverse, che valgono a certe condizioni, ma che non si adattano esattamente a una situazione concreta. Introducendo una nuova metafora, molto usata nelle scienze sociali, si può dire che quei modelli costituiscono, nel loro insieme, una scatola degli attrezzi, che noi adoperiamo a seconda delle necessità per lavorare alla comprensione dei fenomeni sociali. Facciamo un esempio. In un paragrafo precedente abbiamo enunciato una proprietà del conflitto per cui un gruppo sfidato dall'esterno tende ad aumentare la coesione interna. Questa non è una legge nel senso che tale effetto si verifica sempre. L'affermazione indica invece una caratteristica possibilità, che si realizza a certe condizioni e può anche non realizzarsi per niente. Tanto è vero che se il gruppo aveva già una scarsa coesione, questa crolla del tutto. Ma possono anche darsi casi in cui un gruppo coeso si sfalda: applicando il modello del panico, possiamo capire il caso frequente per cui se l'ostilità comincia con eventi violenti in grado di attivare questo comportamento collettivo si ha quella conseguenza. Per chi adotta il paradigma dell'azione, comprendere il punto di vista degli attori nella situazione in cui si trovano è comunque il primo passo microsociologico che orienta l'analisi. Successivamente, capita la situazione, si tratta di indagare gli effetti macrosociologici di composizione. Lo sviluppo di ipotesi su tali possibili effetti dell'interazione, tipici di una società o che si realizzano in un certo caso concreto, e che esprimono la resistenza che le strutture frappongono alle azioni, sono lasciati all'immaginazione del sociologo, alla sua capacità di adattare proprietà formali già conosciute, alla sensibilità che gli deriva dalla conoscenza del patrimonio di analisi che appartengono alla storia della sua disciplina. Può sembrare poco, ma nessuna scienza ha la ricetta su come si fanno le nuove scoperte, piccole o grandi che siano, e tanto meno può pretenderlo la sociologia che ha a che fare con il dualismo della struttura. L'importante è arricchire la nostra scatola degli 102 CAPITOLO 3 attrezzi. Il rapporto fra micro e macro, fra paradigma dell'azione e paradigma olistico resta comunque uno dei problemi più difficili, alla frontiera della discussione metodologica. Un punto sembra comunque emergere dalla discussione. Piuttosto che cercare di imporre un punto di vista sull'altro, oggi si tentano strade che si sforzano di gettare ponti fra i due paradigmi [Alexander, Giesen, Miinch, Smelser 19871. Continuiamo ora a fornire la nostra scatola degli attrezzi di base. Lo studio delle associazioni e delle organizzazioni, che sono gruppi secondari, appositamente creati in vista di scopi che altrimenti i soggetti non potrebbero raggiungere da soli, consente di far emergere importanti effetti di composizione, proprietà formali di sistemi di interdipendenza già piuttosto complessi. L il tema del prossimo capitolo. l. Questioni di definizione Uno dei caratteri più evidenti della società moderna è la grande diffusione di associazioni e organizzazioni. In entrambi i casi si tratta di gruppi progettati per raggiungere alcuni limitati scopi, basati su regolamenti chiaramente stabiliti, al contrario dei piccoli gruppi informali come un gruppo di amici. Si Pagina 53
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt tratta dunque di gruppi secondari formali. I due termini sono stati usati, e continuano a esserlo, con significati diversi, sino a considerare le organizzazioni come tipo particolare di associazioni, ma anche viceversa le associazioni come tipo particolare di organizzazioni [Donati 19921. Possiamo fare un po d'ordine partendo dall'uso delle due parole nel linguaggio corrente. Tutti noi usiamo il termine organizzazione per indicare un'azienda di produzione, un ministero, un ospedale, una università, un grande magazzino, un negozio, una prigione. Sono invece associazioni, nell'uso corrente, gli «amici della musica», un cineclub, un partito, un sindacato, i boys-scout, un gruppo per la difesa delle tradizioni locali, i donatori di sangue, i volontari che operano insieme per la lotta alla droga. Come primo passo proviamo ora a chiederci: cosa hanno in comune fra loro i gruppi che chiamiamo associazioni? Si può rispondere considerando il motivo per cui le persone partecipano al gruppo e si adattano alle sue regole [Etzioni 19611. Nelle associazioni questo avviene perché se ne condividono i fini, sentendoli come propri, dal momento che corrispondono a propri ideali o interessi. Un insieme di persone che ritiene di avere interessi o ideali simili può dar vita a una associazione per difenderli o realizzarli insieme. Se si ritorna agli esempi fatti è facile vedere che questo è proprio il caso. Una volta associate, in genere le persone si distribuiscono fra loro alcuni compiti necessari alla vita dell'associazione: un socio, per esempio, è incaricato di riscuotere le quote, un altro di spedire le circolari, 104 CAPITOLO 4 e così via. Con riferimento a questo aspetto, si dice che l'associazione si è data una sua organizzazione. Ma chi assume questi compiti è anzitutto un socio, alla pari con gli altri, e quell'aspetto è del tutto secondario. Può però anche succedere che le necessità dell'associazione richiedano che si costituisca un ufficio stabile per quei compiti, assumendo persone pagate perché li svolgano, secondo certe procedure anizzazione stabilite, con capacità professionali per farlo, rispondendo agli ordini di un responsabile. Noi chiamiamo questo ufficio un'organizZazìone. 1 caratteri indicati si adattano a tutti gli esempi fatti prima, che riguardano organizzazioni piccole e grandi, pubbliche e private, con i fini più diversi. Il criterio che abbiamo usato per vedere cosa abbiano in comune fra loro le organizzazioni è lo stesso già usato per le associazioni, vale a dire il motivo per cui si partecipa al gruppo, conformandosi alle sue regole. Abbiamo trovato che, al contrario delle associazioni, nelle organizzazioni partecipare è un lavoro, remunerato di solito in denaro. Il motivo della partecipazione dunque è strumentale, e solo in certi casi o in parte può verificarsi anche un'idenfificazione più o meno sentita con i fini dell'organizzazione; questo resta comunque un fatto secondario. Possiamo aggiungere che, in un certo senso, nelle organizzazioni, al contrario delle associazioni, i ruoli vengono prima e sono più importanti delle singole persone che si uniscono in gruppo. Chi decide di fondare un ospedale deve progettare un'organizzazione che preveda un certo numero di medici, distinti per specializzazioni, un certo numero di infermieri con compiti ausiliari e soggetti agli ordini dei primi, un ufficio amministrativo che si occupi degli acquisti, una centrale di riscaldamento con addetti a mansioni diverse, e così via. Solo dopo aver fatto questo il fondatore andrà a cercare A personale necessario a coprire i ruoli e se successivamente un medico lascerà l'ospedale, egli dovrà necessariamente sostituirlo. Un uso dei termini simile a quello del linguaggio corrente è diffuso fra i sociologi. Tuttavia, come si diceva, non mancano altri usi, così come si presentano dei problemi per gruppi che è più difficile catalogare. 1 sociologi americani, per esempio, non considerano oggi fra le associazioni i sindacati e i partiti [SilIs 19681. In realtà, non è facile arrivare a distinguere in modo veramente soddisfacente le organizzazioni dalle associazioni, e 9 problema ha suscitato molte discussioni; forse però non è per noi il caso di impuntarci troppo su questioni di definizione. Capita spesso in sociologia che un termine assuma significati diversi a seconda degli autori. L'importante è chiarire bene l'uso che di un concetto troviamo in un libro o in un articolo, e a nostra volta scegliere con chiarezza una definizione, conservandola poi in tutto il corso del nostro lavoro. Associazioni e organizzazioni hanno comunque in comune il fatto di essere degli attori come si diceva artificiali, costruiti per raggiungere obbiettivi che le persone reali da sole non potrebbero raggiungere; in GRUPPI ORGANIZZATI 105 Pagina 54
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt tal senso possono essere considerate una delle più grandi invenzioni dell'uomo. Questi attori artificiali, una volta costituiti, cominciano ad avere vita propria: di un'associazione o un'organizzazione diciamo che ha certi scopi, possiede un patrimonio, ha una sede, prende una certa decisione. Naturalmente c'è una certa forzatura nel dire che un'organizzazione prende una decisione: in ultima analisi sono sempre delle persone che decidono. Vedremo questo problema al sesto paragrafo. Comunque, siccome ci sono delle decisioni che possono essere considerate del gruppo, questo è anche definito un attore collettivo. Gli Anore collettivo. attori collettivi hanno popolato il nostro mondo. In particolare, la diffusione delle organizzazioni è stata ovunque massiccia, al punto che qualcuno definisce la nostra appunto una società di organizzazioni [Presthus 19621; come ha osservato Etzioni, scherzandoci un po sopra, «la grande maggioranza delle persone nasce e viene educata in organizzazioni, passa moltissimo tempo lavorando per organizzazioni e anche il tempo libero viene speso in organizzazioni ricreative o religiose; la maggior parte di loro morirà in una organizzazione, e, per essere seppellite, dovrà chiedere il permesso allo stato, la più grande delle organizzazioni» [Etzioni 1964, trad. it. 1967, 91. 2. Le associazioni Lo studio delle associazioni ha importanti radici nell'opera di Alexis de Tocqueville (1805-1859), un nobile francese vissuto nella prima metà del secolo scorso, che studiò le conseguenze per l'organizzazione politica della fine dell'Antico regime ad opera della rivoluzione francese. Questo interesse è anche sullo sfondo del suo primo importante lavoro, La democrazia in America [1835-18401, dedicato a un paese nuovo, nato senza re e senza nobili. Una delle differenze con l'Europa che più colpirono Tocqueville fu appunto la diffusa presenza in America di associazioni volontarie. Gli abitanti degli Stati Uniti, egli osserva, imparano da piccoli che bisogna contare su se stessi, e dunque che ci si appoggia all'autorità pubblica solo quando ciò è indispensabile. Un tale atteggiamento già si vede nelle scuole, dove i ragazzi sono incoraggiati a prendere decisioni su quanto li riguarda e stabiliscono da soli regole alle quali attenersi. Da questo spirito nasce una spinta ad associarsi per i fini più diversi: commerciali, politici, letterari, religiosi, ricreativi. La differenza rispetto all'Europa doveva essere davvero molto forte e evidente: Tocqueville arriva a dire che se dietro un'iniziativa importante c'è in Francia lo stato e in Inghilterra un signore, in America si trova un'associazione. Ai suoi occhi, le associazioni dovevano essere considerate un segno di vitalità della società e un antidoto contro un pericolo interno alla democrazia: quello che gli individui, resi uguali con l'abolizione di vecchi legami, privilegi e obblighi basati sulla famiglia, la comunità locale, la corporazione economica, diventino però anche deboli nei confronti di uno stato che ha accentrato i poteri di controllo: lasciati soli di fronte allo stato, gli individui rischiano di diventare soggetti a un potere senza limiti. In tale prospettiva le associazioni politiche acquistano evidentemente un'importanza particolare, ma il ragionamento vale in generale per tutte le associazioni. 19 punto significativo per noi è che Tocqueville cerca di individuare uno spazio che le libere associazioni occupano facendosi largo fra le istituzioni portanti della società: in particolare, per lui, fra lo stato da una parte, e i gruppi ai quali si appartiene per nascita, come la famiglia, dall'altro. Per indicare questo spazio si usa spesso il termine società civile. Un tale modo di intendere le associazioni è, in origine, più tipico della cultura americana che di quella europea, che considerava fra le associazioni anche organismi previstì con leggi e ai quali è obbligatorio aderire per svolgere una certa attività: una camera di commercio, per esempio, o un partito unico in uno stato totalitario [Gallino 19781; successivamente però i significati, come del resto le società, si sono avvicinati: di solito quando si parla di associazioni si intendono oggi ovunque le associazioni volontarie, nel senso di Tocqueville. Nelle società moderne la possibilità di associarsi è un diritto tutelato dalla legge: è appunto il diritto di persone che riconoscono di avere ideali o interessi simili a sviluppare le loro opportunità insieme, in collaborazione o in conflitto con altri gruppi. Lo studio generale delle associazioni - nel significato del termine al quale si è oggi arrivati - non ha avuto uno sviluppo comparabile a quello delle organizzazioni. Esistono però teorie particolari e molte ricerche su alcuni tipi di associazioni: i partiti, per esempio, o i sindacati, dei quali perciò ci occuperemo in altri capitoli. Al di fuori di questi casi, lo studio delle associazioni si è scontrato con la loro grande varietà: anche costruire una Pagina 55
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt tipologia pone problemi; questo - assieme alla difficoltà di rilevazione - è uno dei motivi per cui non è facile avere dati, e soprattutto dati comparabili per diversi paesi. L'adesione ad associazioni tende ad aumentare all'aumentare del reddito e dell'istruzione, due caratteri che del resto sono collegati. Sono tuttavia in gioco molte variabili e quando si considera la diffusione dell'associazionismo in un paese ci si accorge che, in ogni caso, contano molto la cultura e la storia. Consideriamo i dati della tab. 4.1. Risulta con chiarezza che tutti i paesi dell'Europa settentrionale, senza eccezione, hanno una partecipazione della popolazione ad associazioni volontarie nettamente superiore rispetto a quelli dell'Europa Latina; anche l'America Latina registra un basso associazionismo, mentre il Nord America lo registra elevato. In America Latina c'è peraltro un maggiore associazionismo che nell'Europa meridionale, nonostante un minor grado di sviluppo. Nell'Europa settentrionale, l'Irlanda, un paese cattolico, registra un valore significativamente più basso degli altri. Quanto agli Stati Uniti, non sembra che questo paese sia più quel GRUPPI ORGANIZZATI 107 . TAB: 4. 1. Percontuale della popolazione iscritta a una associazione W10nt'aria, 1990-1991 Stati % Stati % Europa settentrionale 70 Austria 54 Belgio 59 Inghilterra 53 Danimarca 81 Finlandia 78 Islanda 90 Irlanda 49 Olanda 84 Svezia 84 Germania occidentale 68 Europa Latina 35 Francia 39 Italia 36 Portogallo 34 Spagna 30 Nord America 63 Canada 65 Stati Uniti 60 America Latina 41 Brasile 43 Cile 45 Messico 36 Fonte: World Values Survey, Institute for Social Research, Università del Michigan. battistrada dell'associazionismo che aveva stupito Tocqueville. L'associazionismo è in questo paese elevato, ma è in corso un preoccupato dibattito sulla sua contrazione. Una ricerca in Italia [Iref 19931 ha stimato che il 21 % della popolazione fra i 18 e i 74 anni è iscritta a un'associazione, con un leggero aumento rispetto alla metà degli anni ottanta. Le associazioni più frequentate sono quelle sportive (30% degli iscritti ad associazioni) seguite da quelle culturali (18,4%), religiose (16%), ricreative (16%), sociosanitarie (15 %), ecologiche (10,2 %) e assistenziali (6,3 %). Al nord l'associazionismo è tradizionalmente più diffuso che al sud [Mortara 19851, ma una ricerca sull'associazionismo culturale nel Mezzogiorno ha mostrato che questo è ora qui in forte crescita [Trigilia 19951. Si tratta di una importante inversione di tendenza. La mancanza di un libero tessuto associativo, e al contrario la forza eccessiva dei legami familiari e del clientelismo, vale a dire dei legami personali di dipendenza da un personaggio locale influente, sono stati infatti spesso indicati come un segno della difficoltà di modernizzazione in Mezzogiorno [Banfield 19581. Torneremo su questo punto al cap. XXIV. 3. Il modello della burocrazia Se Tocqueville può essere considerato il riferimento classico per lo studio delle associazioni volontarie, Max Weber è il punto di partenza per lo studio delle organizzazioni. Il termine che Weber usa per definire la forma moderna di organizzazione è burocrazia. Della burocrazia egli individua le principali caratteristiche, costruendone un modello teorico (o come lui diceva un ideal-tipo, riferendosi al modo particolare di costruirlo) al quale le organizzazioni concrete tendono più o meno a corrispondere. 108 CAPITOLO 4 La parola burocrazia richiama subito alla mente l'organizzazione pubblica, ma secondo Weber non esistono differenze significative fra questa e le tendenze di organizzazione in altri ambiti della società; in particolare non ci sono differenze con l'organizzazione di un'impresa. Burocrazia Il motivo della diffusione della burocrazia è, ai suoi occhi, la superiore efficienza e razionalità rispetto ad altre forme di organizzazione. Torneremo a lungo su questi due termini, perché la discussione del modello burocratico si Pagina 56
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt è proprio sviluppata a partire dall'osservazione che spesso la burocrazia è inefficiente e irrazionale, come del resto risulta anche dall'uso peggiorativo della parola nel linguaggio corrente: burocrazia fa subito venire in mente funzionari ai quali non importa gran che di noi e che ci fanno riempire un mucchio di cartacce inutili. Se poi in un ufficio non succede niente di tutto questo, diciamo che l'atteggiamento dei funzionari e quell'ufficio «non sono per niente burocratici». Per Weber, i principali caratteri distintivi della burocrazia sono i seguenti [Weber 1922a, trad. it. 19611: a) una divisione stabile e specializzata di compiti, studiata esclusivamente in vista degli scopi dell'organizzazione e stabilita da regole che prescrivono come comportarsi a seconda delle situazioni; ogni problema simile viene trattato allo stesso modo e le soluzioni previste dalle regole non devono essere reinventate ogni volta; b) una precisa struttura gerarchica: chi occupa una posizione ha i poteri per compiere gli atti che a quella posizione competono, può dare ordini ad altri che da lui dipendono mentre deve obbedire agli ordini di chi è suo superiore diretto, il quale non può essere scavalcato da un suo superiore; è però anche strettamente previsto 9 tipo di ordini che si possono dare e ricevere, oltre i quali non si può andare; insieme ai poteri di dare ordini competono anche poteri di controllo sulla loro esecuzione; c) competenza specializzata per ogni posizione; questa richiede una preparazione adeguata di chi la posizione occupa, l'esercizio a tempo pieno e continuativo della professione, un'assegnazione alla posizione per mezzo di un meccanismo di concorso, come garanzia di competenza, e successivamente di meccanismi di carriera fra i quali sono importanti gli scatti automatici per anzianità; d) remunerazione in denaro in modi previsti per una certa posizione, pagata dall'organizzazione e mai dai clienti di questa; nessuna possibilità di appropriarsi del posto definitivamente, di cederlo ad altri o passarlo in eredità. Un'organizzazione di questo genere si è diffusa nel mondo moderno perché si presta «alla più universale applicazione a tutti i compiti e ciò per precisione, continuità, rigore, affidamento» [ibidem, 2171. Di conseguenza, oggi «c'è soltanto la scelta tra burocratizzazione e diletGRUPPI ORGANIZZATI 109 tantismo» [ibidem, 2181. Il motivo della sua efficienza sta poi fondamentalmente nel fatto che nella burocrazia potere e controllo sono esercitati sulla base della conoscenza e della competenza. In questo senso si tratta di un'organizzazione razionale. Bisogna precisare che Weber costruisce il suo modello della burocrazia per grandi comparazioni storiche di diverse forme di organizzazione: da questo punto di vista, egli attira l'attenzione su alcuni caratteri che effettivamente rendono le organizzazioni moderne a grandi linee simili fra loro, diverse da organizzazioni del passato e più efficienti di quelle. 19 modello non si presta però per un'analisi ravvicinata della struttura interna di un'organizzazione, che permetta di capire il reale funzionamento di tipi diversi di organizzazioni moderne [Mouzelis 1967, 491. Da questo secondo punto di vista, si può osservare che le organizzazioni che oggi più si avvicinano al modello puro di Weber spesso non sono affatto più efficienti di altre che se ne discostano maggiormente. Per esempio, come vedremo al prossimo paragrafo, se è vero che regole precise e strette evitano che un funzionario si comporti in modo arbitrario, sbagliando o approfittando della sua posizione a fini personali, la ricerca ha mostrato che oltre un certo limite di precisione nella definizione delle regole il funzionario riduce la sua iniziativa. Dobbiamo dunque constatare che spesso la burocrazia non è efficace - e neppure efficiente. 1 sociologi usano il termine efficacia Efficacia per indicare la capacità di un'azione di raggiungere i risultati che si ed efficienza propone, e efficienza per valutare il dispendio di risorse impiegate per ottenere i risultati - [Simon 19571. Nell'uso corrente spesso il termine efficienza comprende anche l'efficacia. 4. Perché spesso la burocrazia è inefficiente? Perché una burocrazia, pubblica o privata, che è stata razionalmente progettata per essere efficace e efficiente, spesso invece non lo è? 0 per essere più precisi: non lo è quanto ci aspetteremmo? La domanda può riferirsi in senso stretto alla burocrazia di Weber, vale a dire a un'organizzazione che si avvicini molto all'insieme combinato dei caratteri che il tipo-ideale indica. Se a quel modello, in misura maggiore o minore, le organizzazioni moderne si Pagina 57
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt avvicinano, la domanda può essere anche così riformulata: perché le organizzazioni spesso non sono efficaci e efficienti come ci aspetteremmo? E perché questo succede in particolare se assomigliano molto alla burocrazia di Weber? Naturalmente a domande come queste si possono dare molte risposte. Per esempio, se dieci persone con pochi mezzi devono occuparsi di controllare le denunce dei redditi di decine di migliaia di contribuenti, è ovvio che possiamo aspettarci una scarsa efficacia dell'organizzazione. Supponiamo però che in una organizzazione i mezzi e le 110 CAPITOLO 4 persone siano sufficienti, che queste siano competenti perché assunte con concorsi severi, che non ci siano errori nello schema di divisione dei compiti con duplicazioni di procedure, e così via. Perché, anche così, l'organizzazione spesso non è efficiente o efficace come ci aspetteremmo? In altre parole, ciò che vogliamo capire sono le ragioni delle conseguenze inattese dovute alla natura stessa dell'organizzazione. 4.1. Il formalismo burocratico 1 sociologi hanno sviluppato diverse intepretazioni del fenomeno, costruendo modelli teorici di spiegazione più o meno complicati. Vediamone due in forma semplificata. Il primo è di Merton [19491. La burocrazia richiede regole generali e chiaramente definite: i casi particolari devono essere classificati secondo categorie astratte previste e trattati tutti nello stesso modo a seconda di quanto prescritto per una data categoria. L'impiegato dell'anagrafe sa esattamente qual è la procedura per rilasciare una carta d'identità e la applicherà con precisione a chiunque si presenti allo sportello. L'impiegato è addestrato a comportarsi così, sa di essere valutato positivamente dai suoi superiori se così si comporta e di essere invece ripreso o punito se si comporta diversamente. Tutto nell'organizzazione è previsto perché i rapporti siano i più impersonali possibili, al fine di eliminare ostilità o favoritismi, complicazioni affettive, ansietà. In altre parole, «la struttura burocratica esercita una pressione costante sul funzionario affinché sia metodico, prudente, disciplinato» Ubidem, 3211. In tali condizioni, chi lavora nell'organizzazione tende a sviluppare una caratteristica deformazione professionale: i regolamenti, che erano stati concepiti come strumenti per raggiungere certi scopi, diventano per lui dei fini in se stessi; seguire con precisione e con scrupolo le regole diventa più importante e più gratificante che ottenere i risultati. La conformità al regolamento finisce insomma per dar luogo nella pratica a pignoleria e formalismo, vale a dire a «una aderenza puntigliosa alle regole formali» [ibidem, 3221. Atteggiamenti di questo genere ostacolano in particolare la capacità di adattamento alla grande varietà di situazioni particolari, che non sono state previste nei regolamenti generali o non lo sono state in modo chiaro. Di conseguenza, conclude Merton, «proprio le condizioni che normalmente portano all'efficienza in situazioni particolari e specifiche producono inefficienza» Ubidem, 3241. Chi di noi si è trovato di fronte a un funzionario che si irrigidiva su questioni formali relative a una pratica e gli ha detto «ma ci vuole una mentalità un po più elastica!», senza svilupparlo nei dettagli ha fatto il ragionamento di Merton. GRUPPI ORGANIZZATI 4.2. 1 giochi di potere Un modello diverso, e più complesso, è proposto da Crozier [19631. Al centro della sua attenzione sono le relazioni di potere, vale Potere nefle a dire la possibilità di interferire sul comportamento di altri al di là organizzazioni degli ambiti di autorità previsti dall'organizzazione (cfr. cap. III, par. 4) In una organizzazione perfettamente razionalizzata questo potere residuo non potrebbe sussistere, perché il comportamento di ognuno sarebbe perfettamente previsto e visibile. Ma un'organizz azione del genere per Crozier è impossibile, perché non c'è mai una soluzione unica e perfetta per ogni problema minimamente complicato e perché non è possibile prevedere tutti gli aspetti dello svolgimento di un compito. Per meglio dire, esistono ruoli nell'organizzazione più e altri meno prevedibili, e dunque ruoli più o meno regolabili: il ruolo di uno specialista tecnico che progetta una macchina, per esempio, può essere regolato in modo dettagliato meno di quello di un impiegato d'ordine che fascicola pratiche. Molto schematicamente, si verifica allora il seguente Pagina 58
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt processo: ogni incertezza nella regolamentazione di un ruolo organizzativo comporta l'esistenza di un certo potere discrezionale nelle mani di chi quel ruolo svolge, che può essere da lui utilizzato per «contrattare» la propria partecipazione nell'o rganizz azione in vista di vantaggi particolari; per esempio, un progettista può cercare di ottenere nuovo personale al suo reparto, non essendo facile provare che non è indispensabile; oppure può cercare di imporre i propri ritmi di lavoro a quelli di un altro ufficio affermando che questo è necessario, senza che altri siano in grado di controllare l'affermazione perché non hanno la conoscenza tecnica per farlo. Il gioco, che si svolge in genere a livello di gruppo, consiste per i «privilegiati» nel cercare di conservare le fonti di incertezza alla base del loro «privilegio»; per gli altri, che in qualche modo sono danneggiati, nel tentativo di sottometterle a controllo. La direzione deve gestire i conflitti ed è costretta così a dare molta importanza ai problemi interni di salvaguardia dell'equilibrio fra le diverse parti dell'organizzazione, a scapito anche della propria efficienza. 1 gruppi non privilegiati premeranno per una maggiore regolamentazione che tolga incertezza e dunque vantaggi agli altri; ma in generale, anche i mezzi a disposizione dell'autorità di vertice di un sistema burocratico, quanto più questo corrisponde al modello puro, tanto più si limitano a precisare e aumentare le regole. In questo modo l'organizzazione finisce in un circolo vizioso perché rendendo più minuziose e stringenti le regole diminuisce la capacità di adattamento alla varietà imprevedibile con cui i problemi si presentano. Il modello di Crozier potrebbe aiutare a riflettere chi qualche volta ha osservato: «in quell'organizzazione ognuno si fa i fatti suoi e non si capisce perché la direzione non riesca a mettere tutti in riga». Ha ragione Merton, che considera la personalità acquistata dai burocrati, o ha ragione Crozier che osserva i giochi di potere? La do112 CAPITOLO 4 manda è mal posta perché, a seconda delle situazioni, può avere ragione l'uno o l'altro; o meglio: uno dei due modelli può essere più o meno utile a capire il funzionamento di una data organizzazione, in un dato contesto. A parte il fatto che entrambi possono essere utili per capire un caso concreto. L dunque opportuno conservare tutti e due i modelli nella nostra scatola degli attrezzi, insieme anche ad altri che sono stati costruiti per affrontare lo stesso problema. Organigratnma Direzione per obiettivi 5. Forme diverse di organizzazione La burocrazia di Weber si basa su un principio fondamentale: la prevedibilità dei comportamenti ottenuta attraverso la loro standardizzazione. Per ottenere un determinato risultato (produrre automobili, rilasciare certificati, e cosii via) è possibile individuare una serie di operazioni successive, ognuna delle quali è standardizzata, vale a dire è fissata nei dettagli una volta per tutte; potrà e dovrà allora essere ripetuta senza errori da una persona alla quale compete secondo lo schema organizzativo (ovvero secondo l'organì*gramma, come di solito si dice). Questo principio si scontra con due difficoltà fondamentali, che già si sono affacciate nei modelli considerati al paragrafo precedente. Anzitutto gli individui non si comportano come macchine, ma interagiscono con l'organizzazione mettendo in gioco propri fini anche in concorrenza con quelli dell'organizzazione. In altre parole, le persone non sono mai completamente prevedibili. In secondo luogo, è possibile progettare uno schema di comportamenti standardizzati se i problemi che l'organizzazione incontra nel realizzare i suoi compiti sono semplici e si presentano senza grandi variazioni da un momento all'altro, o a seconda dei clienti; standardizzare i comportamenti è tanto meno facile quanto più l'organizzazione opera in un «ambiente instabile» (questa è l'espressione usata). Proprio per tali motivi, chi ha studiato empiricamente le organizzazioni moderne si è accorto che il principio fondamentale di Weber è rispettato solo fino a un certo punto; d'altro canto, i consulenti aziendali e gli studiosi delle organizzazioni arrivano anche a suggerire soluzioni molto lontane dai caratteri della burocrazia descritti da Weber. Un esempio è la «direzione per obiettivi» raccomandata da Drucher [19641. In questo schema, più che alle regole bisogna fare attenzione agli obiettivi, fissati a grandi linee e non nei dettagli; gli obiettivi sono in certa misura contrattati fra superiori e inferiori, ciò che implica un'ampia possibilità di discuterli senza tenere troppo conto della gerarchia nel valutare le proposte; in successive riunioni gli obiettivi possono essere ridefiniti e ricontrattati; Pagina 59
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt i rapporti sono più personalizzati, la carriera per anzianità è prevista, ma si deve soprattutto tener conto dei risultati che una persona ottiene e dei contributi che essa dà alla soluGRUPPI ORGANIZZATI 113 zione dei problemi. Secondo Drucher, un'organizzazione basata su questi principi motiva maggiormente le persone a impegnarsi, porta alla luce le zone di inefficienza e i giochi di potere consentendo di affrontarli, è più capace di adattarsi a un ambiente poco prevedibile. In realtà le cose sono più complicate. Un sistema di direzione per obiettivi non è facile da realizzare, si adatta meglio alle funzioni dei dirigenti che al resto dell'organizzazione, dal momento che sviluppa competizione fra gli individui crea anche nuove tensioni. 1 problemi del funzionamento delle organizzazioni non si lasciano facilmente ridurre a una ricetta schematica [Bonazzi 1989, cap. 121. In effetti, gli studi teorici sono andati nel senso di distinguere l'esistenza di forme diverse di organizzazioni a seconda delle condizioni in cui esse operano, a seconda in particolare del grado di stabilità dell'ambiente. Uno dei tentativi più interessanti a questo riguardo è la teoria delle cinque configurazioni organizzative di Mintzberg [19831. Configurazioni Lo schema interpretativo si basa sulle differenze nel modo in cui le organizzative diverse attività sono coordinate fra loro. Per ottenere maggiore efficienza, il modo di coordinamento cambia a seconda delle dimensioni dell'organizzazione, del tipo di tecnologia impiegata nella produzione di beni o servizi e della prevedibilità dell'ambiente. Si definiscono in questo modo cinque configurazioni tipiche: o struttura semplice, dove il controllo è esercitato direttamente dal vertice, il quale accentra tutte le funzioni di direzione. Una piccola azienda artigiana è l'esempio tipico. * burocrazia meccanica, coordinata attraverso la standardizzazione dei compiti e la gerarchia. L in sostanza la burocrazia di Weber, che diventa efficiente se l'ambiente è stabile, se si tratta di produrre beni o servizi in grande serie, automobili o certificati anagrafici per esempio, con una tecnologia che permetta di standardizzare le attività, come la catena di montaggio; o burocrazia professionale: coordina invece dipendentì con un lungo tirocinio di formazione esterno all'organizzazione; una volta assunti, verificata la loro capacità professionale, questi hanno un'ampia discrezionalità nello svolgimento del loro lavoro, sono poco controllati e spesso lo sono più dagli utenti che dall'organizzazione perché operano a stretto contatto con il pubblico: è il caso degli insegnanti di una Scuola, dei professori di un'università, dei medici di un ospedale. o struttura divisionale: si avvicina alla direzione per obiettivi di Drucher; il coordinamento si ottiene, in questo caso, fissando obiettivi generali e compatibili fra loro a settori con funzioni diverse (le divisioni), che poi sono indipendenti nelle loro scelte sul come raggiungerli. In questo modo una grande organizzazione complessa si adatta meglio aTambiente, perché ogni divisione (acquisti, produzione, studi e ricerche, e così via) può tenere conto del suo proprio ambiente e della tecnologia che si presta a essere adoperata per la sua funzione, contrattando con le altre quantità e qualità dei prodotti, ritmi di produzione ecc. 114 CAPITOLO 4 o adbocrazia: il termine è stato inventato con riferimento all'espressione latina ad boc che significa «espressamente per questo»; esso serve per indicare gruppi di lavoro con compiti specifici, formati da persone che si conoscono bene e lavorano insieme fidandosi delle rispettive competenze, senza vincoli di gerarchia e regole precisate, ai quali sono assegnati compiti che richiedono alta professionalità, ma anche capacità di inventarsi procedure e regole, perché si tratta di battere strade nuove; ne è un esempio un gruppo di scienziati costituito ad boc per studiare un fenomeno ancora sconosciuto: le frontiere della scienza sono un ambiente molto incerto, i ricercatori non sanno in partenza dove la loro ricerca li porterà o di quali mezzi tecnici avranno bisogno. I tipi di Mintzberg mostrano forme diverse di organizzazione relativamente più efficienti a seconda dell'ambiente (anche la tecnologia diponibile può essere considerata un dato dell'ambiente) 1 diversi tipi sollecitano forme diverse di motivazione a partecipare e sembrano in genere favorirla più della burocrazia tradizionale, ma questo non significa che ogni forma non presenti specifici problemi di adattamento delle persone ai fini dell'organizzazione. Inoltre, Pagina 60
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt secondo Mintzberg, rimangono funzioni per le quali continuano a essere più efficienti strutture burocratiche (di burocrazia meccanica, nei suoi terminì), nonostante i limiti e i problemi che sono stati visti più sopra. Con lo schema presentato abbiamo incontrato una proprietà formale delle organizzazioni, che avremmo peraltro potuto trovare facendo riferimento a qualsiasi altro studioso contemporaneo di organizzazione: non esiste un unico modo migliore (in inglese si dice una one One best way best way) per progettare un'organizzazione. Non solo. Ancbe all'interno di unorganizzazione parti diverse tendono a organizzarsiin modo diverso: un gruppo ad boc costituito per affrontare un problema di ricerca in un'azienda fa per esempio affidamento sulla burocrazia meccanica che classifica le pratiche, si occupa del pagamento degli stipendi e così via. Un'organizzazione efficiente deve essere in grado di ricomporre un insieme integrato di forme diverse. Decisioni dell'organizzazione 6. Attori e decisioni Più volte abbiamo parlato di obiettivi dell'organizzazione e di fini o strategie, ovvero di obiettivi dei soggetti. Abbiamo anche detto che in ultima analisi esistono solo delle persone che decidono, ma che le organizzazioni possono essere considerate degli attori collettivi che «prendono decisioni». Prendere delle decisioni significa grosso modo perseguire degli obiettivi, anche se non è esattamente la stessa cosa. t facile individuare una decisione che può essere considerata dell'organizzazione, per esempio la decisione di investire un certo capitale per GRUPPI ORGANIZZATI 115 produrre un nuovo modello di aereo; più complicato è stabilire se produrre aerei è davvero l'obiettivo dell'organizzazione: è produrre aerei o produrre profitti? t produrre più profitti o far crescere di più l'organizzazione? E così via. Obiettivi e decisioni sono comunque collegati e la domanda: «quali sono gli obiettivi di un'organizzazione?» può essere utilmente trasformata nell'altra: «chi con le sue decisioni influenza gli obiettivi nelle organizzazioni»? [Scott 1981, trad. it. 2 1992 @ cap. 121. Abbiamo imparato a guardarci dalla caricatura dell'organizzazione descritta come una macchina che funziona esattamente secondo le previsioni dei piani di costruzione, rispondendo ai comandi di un operatore che la mette in moto. Sappiamo che questa è un'immagine ingenua, ma non bisogna neppure sostituirla con un'altra caricatura che dipinge l'organizzazione come un terreno dove si svolge una confusa guerra per bande. Una volta stabilita una struttura organizzativa - con certi fini dichiarati nel suo statuto, una linea gerarchica, certe regole per prendere le decisioni, un sistema di macchine per la produzione, incentivi al lavoro e così via - questa impone dei vincoli molto forti alle scelte e al comportamento delle persone, coordinando in modo sistematico le loro attività. Nelle organizzazioni le persone fondamentalmente cooperano; ciò non toglie che nell'ambito dei vincoli posti dalla struttura, esse interagiscano tenendo conto di loro obiettivi, proprio per influire sulle decisioni e quindi sugli obiettivi dell'organizzazione : E problema di distinguere obiettivi dell'organizzazione e obiettivi delle persone non si pone o è meno importante nel caso delle associazioni, alle quali si partecipa perché se ne condividono i fini (aiutare i malati, giocare a scacchi), soddisfatti per il fatto stesso di partecipare. Si pone invece per le organizzazioni, alle quali le persone partecipano strumentalmente per i vantaggi che ne ricavano, più o meno indifferentì ai fini dell'organizzazione in quanto tali. Questi possono essere più importanti per alcuni membri di un'organizzazione, o all'interno di certe organizzazioni. Da notare comunque che i fini personali sono diversi e complessi: alcuni sono materiali, come lo stipendio o la sicurezza del posto, altri morali, come la soddisfazione nel fare il lavoro, con la sensazione di esprimere le proprie capacità, oppure lavorare in un gruppo a contatto con altre persone con le quali si sta bene insieme. Se è ingenuo pensare che gli obiettivi dipendono solo dalle decisioni di una persona al vertice (l'imprenItore, il capo di gabinetto del ministero), e se in genere non siamo nella situazione in cui tutti hanno gli stessi obiettivi, forse un modo utile di rispondere alle domande fatte all'inizio è affermare che gli obiettivi dell'organizz azione sono definiti da coalizioni, vale a dire da gruppi di persone con interessi comuni che si alleano con altri gruppi con interessi diversi dai loro contrattando certe decisioni cruciali [Cyert e March 19631. Per esempio, i dirigenti di una grande impresa possono contrattare con Pagina 61
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt gli azio116 CAPITOLO 4 nisti la distribuzione di un certo ammontare di dividendi, tale però da lasciare abbastanza margini per buoni investimenti necessari a ingrandire l'organizzazione - un obiettivo che sembra interessare in genere i dirigenti - e un certo aumento di stipendio a gruppi di tecnici e impiegati impegnati in un settore dell'organizzazione che deve essere coinvolto nei piani di espansione. Altri gruppi che non sono entrati nella coalizione dominante saranno sacrificati o meno avvantaggiati. In questo modo l'organizzazione assume la decisione su come destinare il profitto realizzato, e i suoi obiettivi si ridefiniscono con lo sviluppo di un nuovo settore. Giochi di questo genere, comunque, devono tenere conto dell'insieme delle regole e dei vincoli che una determinata organizzazione pone, come il fatto che un'impresa deve continuare a produrre e vendere per ottenere un profitto altrimenti fallisce. 7. La razionalità organizzativa e i suoi limiti 7.1. Il concetto di razionalità limitata Il punto di partenza per il nostro percorso è stata l'affermazione di Weber che l'organizzazione moderna - la burocrazia - è razionale. Le cose che sono state dette successivamente potranno apparire meglio sistematizzate e più chiare se torniamo, in conclusione, a discutere quella affermazione. Al tempo stesso troveremo nuove implicazioni più generali che ci permetteranno di considerare meglio le organizzazioni nella società. Dobbiamo anzitutto ricordare la definizione di azione razionale rispetto allo scopo. Un'azione è di questo tipo se chi agisce valuta razionalmente i mezzi rispetto agli scopi che si propone, considera gli scopi in rapporto alle conseguenze che potrebbero derivarne, paragona i diversi scopi possibili e i loro rapporti. La burocrazia è dunque razionale, secondo Weber, perché impone agli attori che ne fanno parte di comportarsi in modo razionale, cioè di compiere azioni con quei caratteri. Successivamente abbiamo però messo in luce diverse questioni che ci hanno fatto riflettere. Per esempio, sono emerse le conseguenze inattese della burocrazia, che proponendosi la massima efficienza a volte ottiene inefficienza. D'altro canto, se le persone interagiscono con l'organizzazione, una persona è più razionale quando agisce razionalmente in vista dei propri scopi o di quelli dell'organizzazione? Si potrebbe aggiungere un paradosso: aspetti non previsti dell'organizzazione, e dunque elementi irrazionali nel suo schema, possono essere anche importanti per farla funzionare bene; pensiamo alla comunicazione rapida e continua consentita dal fatto che due dirigenti sono anche amici. Ce n'è abbastanza per farci dire che A concetto di razionalità e il suo uso sono più complicati di quanto non sembrasse a prima vista. Lo studioso che più ha contribuito a chiarirlo, in un modo che ha influenzato profondamente lo sviluppo degli studi organizzativi è il premio Nobel per l'economia Herbert Simon. Simon non contraddice in astratto un'idea generale di razionalità come quella di Weber, ma sostiene che è necessario prendere sul serio l'affermazione che il comportamento reale non la raggiunge praticamente mai. E impossibile infatti avere una conoscenza completa e una previsione di tutte le conseguenze che discendono da una eventuale scelta, così come è impossibile avere in mente tutte le alternative. Questa è la condizione normale in cui si prendono delle decisioni. E miglior modo per non ottenere un risultato è proprio quello di pretendere di conoscere tutte le possibili alternative e conseguenze di una scelta prima di prenderla, perché si finirebbe per non decidere più. La razionalità dunque è sempre una razionalità limitata, che mira a ottenere non i massimi risultati possibili in astratto, ma risultati soddisfacenti, e lo fa semplificando la realtà in modelli che trascurano la catena delle cause e degli effetti oltre un certo orizzonte, limitandosi cioè ad alcuni aspetti che un attore considera più rilevanti ed essenziali. Così si comportano tanto le persone quanto le organizzazioni come attori collettivi. Comportarsi diversamente non consente di essere razionali: solo selezionando un numero ragionevole di alternative, acquisendo un certo numero di informazioni, e preoccupandosi solo di un certo numero di conseguenze più dirette della scelta è possibile a un'organizzazione calcolare con sufficiente precisione i mezzi rispetto agli obiettivi, stabilire delle procedure continuative per il lavoro da fare, coordinare per un lungo periodo l'attività di molte persone, mettere in opera dei sistemi di controllo per osservare se gli obiettivi si stanno raggiungendo, ottenendo così efficacia ed efficienza. La razionalità limitata è la razionalità possibile e concretamente perseguibile in normali condizioni di Pagina 62
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt incertezza [Simon 19571. Uno sviluppo del concetto di razionalità limitata può essere considerata la distinzione fra razionalità sinottica e razionalità incrementale o strategi.ca [Lindblom 1977, trad. it. 1979, cap. XXIIII. La prii-na è la razionalità che ha in mente Weber in astratto e a proposito della burocrazia, e che consiste nel poter fare inizialmente delle scelte che tengano conto di tutti i dati rilevanti, in relazione a obiettivi condivisi e chiari, predisponendo i mezzi necessari ai fini, i quali possono essere poi realizzati senza cambiare programma e senza più intoppi. Come sappiamo, solo raramente ci si può avvicinare a condizioni del genere; che quanto più l'ambiente è stabile e prev resta comunque vero ydibile tanto più è possibile pensare in termini di razionalità sinottica. Questo è il motivo per cui la burocrazia meccanica di Mintzberg tende in certe condizioni a essere la configurazione organizzativa più efficiente. , La razionalità incrementale, invece, sconta il caso normale dell'incertezza ambientale e si riferisce ad attori che, come spesso succede, non hanno all'inizio idee assolutamente chiare e esattamente coincidenti. Essa riconosce dunque, definiti alcuni obiettivi di massima, la necessità di aggiustamenti progressivi, la possibilità di trovare in un momento successivo mezzi e occasioni che prima non si vedevano o non erano disponibili, di cambiare dunque anche obiettivi per strada, cercando accordi e soluzioni soddisfacenti. Il primo effetto che si avrà mettendosi al lavoro con questo atteggiamento sperimentale sarà di cominciare a vedere meglio i termini dei problemi e spesso di trovare con più facilità i mezzi di cui si ha bisogno. Quanto più l'ambiente è instabile, tanto più è necessaria una razionalità incrementale per poter ottenere dei risultati. Le configurazioni organizzative non burocratiche che abbiamo visto sono state appunto studiate per lasciare agli attori la possibilità di comportarsi secondo regole di razionalità incrementale. Razionalità individUale e collettiva 7.2. Razionalità individuale e razionalità collettiva Sembra dunque, giuste le cose dette, che il concetto di razionalità debba essere usato sempre in un senso relativo, e il termine sempre accompagnato da un aggettivo: razionalità limitata, sinottica, incrementale. Il gioco può continuare distinguendo la razionalità individuale (o delle persone) e la razionalità collettiva (o dell'organizzazione). Dal punto di vista formale, vale a dire della rispondenza ai criteri detti prima, la razionalità di una decisione individuale o di una decisione dell'organizz azione sono dello stesso genere: tanto l'attore individuale che quello collettivo devono avere sufficiente informazione, chiarire le alternative, essere coerenti rispetto ai propri obiettivi. Poste così le cose, ne deriva però una conseguenza interessante: se si vuole che tanto l'organizzazione, come attore collettivo, quanto le persone, come attori individuali siano razionali, «l'organizz azione deve essere tale da permettere che una decisione soggettivamente razionale rimanga razionale quando è riesaminata dal punto di vista del gruppo» [Simon 1957, trad. it. 1958, 3541. Questa di Simon è una frase elegante e complicata, perché vuol dire più cose. Proviamo a chiarirla. Anzitutto, significa che un'organizzazione non può essere razionale se non si comportano razionalmente le persone che ci lavorano. Questo è ovvio, ma può essere anche molto impegnativo. Significa infatti, per esempio, che devono essere fornite sufficienti informazioni a chi deve in una certa posizione prendere una decisione, mentre spesso l'accentramento gerarchico rende gelosi i dirigenti sulla diffusione delle informazioni. In secondo luogo, significa anche che gli obiettivi dell'organizzazione e delle persone devono armonizzarsi. L'organizzazione cerca di ottenere ciò con incentivi che spingano le persone a partecipare (stipendio, possibilità di carriera, un buon ambiente di lavoro, e co@ì via), ma vale comunque anche qui il principio della razionalità limiiata. Ciò che si riuscirà a ottenere non sarà mai una perfetta coincidenza di obiettivi, ma un compromesso dal quale dipenderanno concretamente l'adattamento degli obiettivi e l'efficienza dell'organizzazione. Con questo secondo significato avviciniamo però anche un nuovo e più difficile aspetto del problema del rapporto fra razionalità individuale e razionalità collettiva. Nelle organizzazioni le persone orientano in genere i loro comportamenti sulla base di quanto richiesto dalla posizione che occupano, senza possibilità o senza fare lo sforzo di guardare molto oltre alle conseguenze che si combinano in azione collettiva. Gli uomini descritti da Merton o da Crozier non guardano molto lontano. Pagina 63
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Anche se i vincoli sono meno definiti, e se quindi sono aperte maggiori possibilità di giochi personali, lo stesso vale anche al vertice dell'organiz z azione. Il direttore generale di un mobilificio che deve decidere un investimento per aumentare la produzione valuterà le diverse offerte dei commercianti di legname, ma non introdurrà il problema della distruzione delle foreste, per cui sarebbe opportuno diminuire l'uso industriale di legnami pregiati. Egli sarà orientato a dire che se non produce lui quei mobili lo farà un altro, che solo una diminuzione della domanda di mobili o dell'offerta di legname possono razionalmente entrare nei suoi calcoli, e che da solo non può cambiare i gusti delle persone o il loro senso di responsabilità verso la natura. In effetti, lo abbiamo visto, non è razionale che un attore si ponga problemi impossibili da affrontare da solo. Ricordiamo che per essere razionale un'azione semplifica la realtà trascurando la catena delle cause e degli effetti oltre un certo orizzonte, limitandosi ad alcuni aspetti ritenuti essenziali. L'attore, poi, tenderà anche a non includere nelle conseguenze da considerare aspetti per lui anche soltanto difficili da gestire, a meno che non sia a ciò motivato. Possiamo così dire che egli tende al conformismo, anche se in un senso un po diverso, ma non troppo, da quello di Merton. La razionalità limitata, la normale razionalità organizzativa, non lascia dunque guardare troppo lontano. Questo ha i vantaggi che abbiamo visto, ma dobbiamo anche attrezzarci per poter considerare eventuali svantaggi. A questo riguardo diventa utile la distinzione concettuale di Mannheirn fra razionalità sostanziale e razionalità funzionale [Mannheim 1935-19401. La razionalità funzionale è quella di chi si adatta a ordini ricevuti eseguendoli senza errori, o a procedure e obiettivi stabiliti, senza discuterli; razionalità sostanziale è quella di chi cerca di comprendere come diversi aspetti di una situazione siano collegati fra loro, interrogandosi sul loro significato e valutandoli in base ai propri criteri di giudizio, anche rispetto ad altre possibilità; in questo senso è «un atto di coscienza». Lo sviluppo delle organizzazioni aumenta la sfera delle attività funzionalmente razionali, ma per Mannheim. non promuove allo stesso tempo la razionalità sostanziale, spingendo anzi al conformismo e alla incapacità a pensare in modo autonomo: di per sé, «la razionalizz azione funzionale non aumenta per nulla la razionalità sostanziale» [Mannheirn 1935-1940, trad. it. 1959, 551. Al limite, la più razionale delle organizzazioni può perseguire il più stupido o folle degli obiettivi, senza che le persone che ci lavorano si sentano responsabili. A sua volta, una società di perfette organizzazioni può anche essere una società che non è capace di interrogarsi su dove stia andando. Se vogliamo dire che questa società non è razionale, o che non lo è quella organizzazione, abbiamo bisogno del concetto di razionalità sostanziale, il quale serve a mostrare che in quei casi la razionalità delle persone è stata sacrificata in un ambito troppo angusto. Il concetto di razionalità sostanziale serve dunque a far prendere sul serio l'affermazione di Simon che la razionalità organizzativa è sempre una razionalità limitata. Se confrontare il rapporto fra mezzi e fini è un problema tecnico, che può essere risolto verificando che non ci siano errori di calcolo, la scelta fra fini diversi è un problema culturale o politico, che richiede una discussione su cosa sia preferibile e procedure condivise per definire e far accettare una scelta. Quanto più un tipo di scelte organizzative mette in questione interessi generali o ideali profondi, tanto più quelle scelte tendono a essere discusse su giornali e libri, vincolate o promosse da leggi. Nelle nostre società tutelare i criteri di interesse generale è per principio compito delle istituzioni democratiche. Ma anche l'evoluzione della cultura incide su cosa possa essere considerato da questo punto di vista un problema e sui modi di affrontarlo: basti pensare al fatto che il rispetto della natura comincia a essere un problema sentito dalla gente. La razionalità sostanziale tende per queste vie a controllare e orientare la razionalità funzionale. Un dirigente può essere così motivato a porsi un problema difficile, mentre nuove condizioni possono rendere possibile e dunque accessibile alla razionalità limitata un obiettivo (un fine) che prima non lo era. Possiamo concludere dicendo che non si tratta allora di demonizzare le organizzazioni, ma piuttosto di conoscerle bene, considerando che senza organizzazioni efficienti una società al nostro grado di sviluppo economico e culturale è letteralmente impensabile. Del resto, anche la scelta e il controllo democratico hanno bisogno dell'organizzazione statale, così come la ricerca scientifica sugli equilibri ecorogici e su aspetti tecnici della convivenza di miliardi di persone in un mondo con risorse finite richiede organizzazioni molto efficienti, capaci di risolvere Pagina 64
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt problemi che nessun singolo ricercatore a casa sua potrebbe mai neppure sognarsi di affrontare. La cultura e le regole della società 2rT 11 i l. Che cosa sono i valori? Il concetto di valore appartiene a quei concetti di cui non si può fare a meno, ma che non si lasciano definire con precisione e assumono significati diversi a seconda dei contesti in cui vengono usati. Nel linguaggio comune si parla di valore sia per indicare qualcosa che non Valorì appartiene al mondo delle cose reali ma alla sfera degli ideali e dei desideri, sia per indicare qualcosa di reale di cui si teme la perdita. Nel primo caso, il valore orienta l'azione in vista della sua realizzazione, nel secondo caso orienta l'azione in vista della sua difesa. Nel linguaggio della filosofia e delle scienze sociali, il concetto di valore assume significati diversi anche se, in qualche modo, tra loro apparentati. Semplificando molto, potremmo dire che in filosofia morale, A valore incarna l'idea del bene, in contrapposizione al male; in estetica, 9 valore corrisponde a qualche ideale di bellezza; nella ffiosofia della scienza si parla di valori per distinguere enunciati di fatto ed enunciati di valore, i primi servono per descrivere o spiegare, i secondi per esprimere valutazioni su qualche oggetto o fenomeno. In antropologia culturale i valori indicano tutto ciò che in una cultura è ritenuto buono, giusto e apprezzabile. In economia è valore tutto ciò che è desiderabile e richiede uno sforzo, un impegno, quindi, un costo, per essere realizzato o acquisito. Il concetto di valore è quindi polisemico e il suo significato varia a seconda dell'uso, da una disciplina all'altra e anche all'interno di ogni singola disciplina. Anche in sociologia troviamo una pluralità di significati a seconda dello statuto che le varie teorie assegnano alla categoria dei valori. Possiamo cercare di identificare le caratteristiche che ricorrono più frequentemente nell'uso che i sociologi fanno di questa categoria concettuale. In primo luogo, i valori appaiono come orientamenti dai quali discendono i fini delle azioni umane. Valori e fini (oppure, mete o scopi) sono legati tra loro come in una catena: i valori sono i fini ultimi 124 CAPITOLO 5 dell'azione, per realizzare i quali gli esseri umani devono perseguire dei fini di ordine inferiore che quindi a loro volta sono nello stesso tempo fini e mezzi. Se l'azione è orientata, ad esempio, al valore della salvezza dell'anima, è necessario che ci si ponga il fine di raggiungere lo stato di grazia, H quale a sua volta è perseguibile attraverso la preghiera, l'esecuzione di riti o sacrifici, oppure una condotta di vita conforme alle prescrizioni divine. Se il valore è la sicurezza, è necessario che si perseguano i fini di protezione dalle calamità e di difesa dai nemici. Se il valore da realizzare è il benessere materiale è necessario perseguire il fine dell'accumulazione della ricchezza, attraverso il lavoro, oppure lo sfruttamento, A furto o la rapina. In secondo luogo, i valori, se non riguardano qualcosa che si ha e si teme di perdere, sono sempre in qualche misura trascendenti rispetto all'esistente, indicano cioè un dover essere che va al di là deTessere, una tensione verso uno stato di cose ritenuto ideale e desiderabile, ma che non è, o non è ancora, realizzato. L'orizzonte in cui si collocano i valori può essere sia terreno, sia ultraterreno; nel primo caso ' i valori stimolano l'impegno per la loro realizzazione su questa terra e favoriscono un atteggiamento attivo e positivo nei confronti del mondo, il quale, pur essendo talvolta visto come luogo di sofferenza e di dolore («una valle di lacrime»), può, e deve, essere migliorato; nel secondo caso, i valori favoriscono invece un atteggiamento passivo nei confronti del mondo, la perfezione può essere raggiunta soltanto attraverso la fuga dalle cose mondane e i valori trovano la loro realizzazione compiuta solo «nel regno dei cieli» Quando Max Weber, come vedremo meglio nel cap. X, distingue tra «ascesi mondana e extramondana» si riferisce al diverso orizzonte di realizzazione dei valori. La natura trascendente dei valori fa sì che essi plasmino le «visioni del mondo» e siano quindi strettamente legati alle idee religiose e alle concezioni del bene e del male, cioè alla morale. In terzo luogo, per lo scienziato sociale i valori esistono come «fatti sociali» in quanto, e solo in quanto, vengano fatti propri da individui o gruppi sociali Pagina 65
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt i quali orientano in base ad essi il loro agire. In questo senso i valori diventano forze operanti poiché forniscono le motivazioni dei comportamenti. In quarto luogo, i valori vengono fatti propri, adottati, da individui e gruppi mediante processi, più o meno consapevoli, di scelta. Come vedremo fra poco, in ogni società in ogni dato momento storico esistono più costellazioni di valori, a volte fortemente integrati tra loro, a volte in competizione e conflitto, così come vi sono valori che declinano e valori che emergono. Come i naviganti nell'antichità se glievano le stelle in base alle quali orientare la rotta della propr)iá nave, così individui e gruppi scelgono i valori che guidano il loro agi re. In questo senso i valori sono sempre «soggettivi» in quanto esistono perché vi sono dei «soggetti» che h scelgono, ma sono anche «oggettivi» poiché le costellazioni di valori sono prodotte da dinamiche sociali di lungo periodo riconducibili all'intreccio dell'agire di una pluralità di soggetti. 1.1. Valori universali e valori particolari In un celebre passo de L'ideologia tedesca, Karl Marx afferma che i valori dominanti di una società sono i valori della classe dominante. Questa affermazione è utile per due ragioni: a) stabilisce un collegamento tra «dominio» tout court (economico-sociale-politico) e «dominio culturale», in altre parole indica che ciò che avviene nella sfera dei valori deve essere messo in relazione (nel caso di Marx in una relazione di dipendenza unilaterale) con ciò che avviene in altre sfere (in particolare, nella sfera del potere che a sua volta dipende dai rapporti di produzione); b) apre la strada alla considerazione dei «valori» in termini di «ideologia»: se i valori dominanti sono quelli della classe dominante, vuol dire che essi vengono fatti propri in qualche modo anche dalle classi dominate. Queste tendono, se non interviene un movimento di rottura rivoluzionario, ad interpretare il mondo non alla luce dei propri valori e interessi, ma alla luce dei valori e degli interessi di coloro che h opprimono. La classe dominante esercita - per dirla con Granisci - un'egemonia culturale sulle altre classi e quindi sull'intera società [Gramsci 19491. Tuttavia, l'affermazione di Marx presenta anche un severo limite in quanto sembra escludere la possibilità di valori «universalmente» condivisi nell'ambito di una cultura e di un'epoca e che non siano semplicemente riconducibili ai rapporti di dominio tra le classi. Si può invece formulare l'ipotesi che tali valori esistano, che siano prodotti nell'ambito di processi storici di lungo periodo e che siano l'esito della lotta tra classi, gruppi di interesse, stati, ecc. Di tali valori «universal- Valorì universab mente» condivisi si possono evidentemente dare interpretazioni diverse, le quali a loro volta riflettono interessi diversi, ma ciò non toglie nulla alla loro «universalità». Ciò appare evidente quando a tali valori vengono associati i disvalori corrispondenti. Facciamo alcuni esempi. Il valore della «pace» è diventato «universale» dopo che l'umanità è emersa dalla Il guerra mondiale; da allora l'esaltazione della guerra come valore sul quale si misura la virtù, la dignità e l'onore dei popoli - presente nella cultura europea della prima metà del secolo - non è più sostenuta neppure dagli esponenti del potere militare; le stesse forze armate interpretano il loro ruolo come «forze di pace» (e il ministero della Guerra è diventato A ministero della Difesa). Questa trasformazione non è una semplice ipocrita operazione di facciata, ma è 9 risultato di un cambiamento di valori che ha condotto all'inserimento della pace nel novero dei «pochi» valori universali. Questa collocazione non è stabile, mano a mano che gli orrori della guerra si allontanano nella memoria collettiva dei popoli, nulla garantisce che la guerra non venga ancora celebrata come un valore. Al valore della «pace» nei rapporti tra i popoli, corrispondono i valori della «reciprocità e del rispetto» e la svalutazione della «violenza» nei rapporti interpersonali, un'affermazione, questa, alla quale ha contribuito non poco la lotta delle donne per la parità dei diritti. Ciò non vuol dire che l'affermazione della forza e la violenza siano scomparse nei rapporti tra le persone, ma soltanto che incontrano una crescente disapprovazione sociale. In questo grappolo di valori diventati «universali» si può includere anche un valore sul quale in tutto il mondo in epoca recente si sono sviluppate veementi controversie e che quindi, proprio per questa ragione, sembrerebbe non essere universalmente condiviso, il valore della «vita» Le controversie alle quali si allude sono evidentemente quelle sull'aborto. A ben vedere si tratta di controversie sull'interpretazione del valore della vita ma non sul suo «essere» valore universale. Non c'è più nella nostra cultura, come vi è stata in altre culture o in altre fasi storiche, un'esaltazione della «morte» e del «sacrificio di sé» come valore, il disprezzo della vita propria ed altrui. Pagina 66
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Lo stesso discorso vale per i grandi valori della libertà, dell'uguaglianza, della dignità della persona umana, ecc. suH'interpretazione dei quali possono nascere, e di fatto nascono, i conflitti più accesi, ma che non per questo possono essere esclusì dal novero dei valori universali. Quando un valore diventa «universale», cioè «di tutti», aumenta la sensibilità degli esseri umani alle situazioni nelle quali viene negato. In altri termini, i valori universali sono quelli nei quali una civiltà si riconosce e chi non lì accetta si mette ipsofacto al di fuori di quella civiltà; sono i valori che presidiano i confini del vivere civile, definiscono la natura del «patto sociale». Giova ripetere che l'affermazione di questi valori come valori universali non ha nulla di irreversMel di pacifico e graduale, non è il risultato di processi evolutivi, ma è il risultato di processi di lungo periodo, intessuti di lotte condotte storicamente, e con alterne vicende, da gruppi umani concreti. Nello studio della dinamica dei valori è importante cogliere il processo di «farsi» dei valori universali e quindi il loro maggiore o minore grado di universalità. In breve, vi sono valori che godono di un grado di condivisione maggiore di altri e il mutamento si coglie in termini di spostamento nella scala che va dai valori condivisi da tutti ai valori condivisi soltanto da minoranze più o meno grandi, più o meno attive. Possiamo dire che più una società è differenziata e più sono i gruppi portatori di interessi e valori diversi. Si pone quindi il problema della integrazione, o meno, delle costellazioni di valori. VALORI, NORME E ISTITUZIONI 127 1.2. Integrazione e disintegrazione nella sfera dei valori Noi viviamo in una società e in un'epoca caratterizzata dal pluralismo dei valori. Ciò era vero anche per le società del passato, ma probabilmente non nella stessa misura. Possiamo immaginarci che in una piccola società rurale in epoca preindustriale, la maggior parte degli abitanti avessero grosso modo gli stessi bisogni, gli stessi interessi e gli stessi valori. Ciò non è più vero per società differenziate e complesse ed è quindi importante analizzare se e come i diversi valori «stiano insieme», cioè facciano parte di un medesimo ordinamento. Anche il linguaggio comune riconosce che vi sono «valori ultimì» e che i valori sono organizzati per ordinamenti gerarchici di superiorità/inferiorità, come gli anelli di una catena mezzi/fini. Possiamo immaginare, ad esempio, una struttura a grappolo, in cui vi è un valore (relativamente) ultimo, che «tiene insieme» l'intera struttura e dal quale «dipendono» tutti gli altri. Oppure, usando un'altra metafora, una struttura ad albero rovesciato in cui ogni ramo e ogni foglia è appesa, e quindi sorretta, dalle radici. In questo caso, possiamo parlare di sistemi di valori, internamente coerenti. In ogni società o epoca, vi può essere un unico sistema di valori imperante e dominante, oppure ve ne possono essere più di uno in irrimediabile conflitto tra loro (Max Weber parla in proposito di politeismo dei valori), oppure i diversi sistemi possono coesistere pacificamente l'uno accanto all'altro, oppure vi può essere una congerie pluralistica di valori scarsamente connessi tra loro, di cui è arduo individuare il grado di compatibilità/incompatibilità. Empiricamente, nella mente degli uomini, i valori possono essere organizzati in uno o più sistemi di ampiezza variabile, così come possono essere ammucchiati alla rinfusa, come gli articoli acquistati su un carrello di supermarket. Le società umane presentano gradi diversi di integrazione dei valori in sistemi di valori e, inoltre, il grado di integrazione può cambiare nel tempo. Per Parsons le società «stanno insieme» perché sono «tenute insieme» da sistemi di valori sufficientemente integrati e coerenti. Tuttavia, non necessariamente ciò si verifica. Quando sistemi di valori o singoli valori sono in conflitto tra loro, i gruppi che ne sono portatori entrano essi stessi in conflitto, conflitto che sarà tanto più aspro quanto minore sarà il numero e l'importanza dei valori condivisi comuni a tutte le parti in lotta. Anche lo stesso individuo può far propri valori tra loro in linea di principio incompatibili e trovarsi quindi di fronte a situazioni di dilemma etico. Nella nostra società, ad esempio, è assai frequente che i valori della solidarietà nei confronti dei più deboli e della giustizia entrino in conflitto. Durante un compito in classe, la solidarietà tra compagni può indurre i più bravi a far copiare coloro che sono meno bravi, ma ciò è in conflitto col valore della giustizia in base al quale ogni studente deve essere valutato in base alle sue prestazioni. Un medico potrà senz'altro avere interiorizzato il valore della sincerità che impone di dire comunque sempre la verità, eppure si troverà spesso in situazioni Pagina 67
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt in cui si chiederà se sia opportuno o meno dire al paziente tutta la verità in merito alla gravità della sua malattia. Oppure, per prendere un esempio tratto da un famoso studio di Kohlberg [19811, se non ho i soldi per comperare l'unica medicina in grado di salvare la vita di mio figlio, devo scegliere tra il valore dell'amore paterno o materno (che mi induce a procurarmi comunque la medicina) e 9 valore dell'onestà (che mi impone di non rubare) Infinite sono le situazioni della vita in cui gli individui sono posti di fronte a dilemmi etici e sono costretti a scegliere tra valori ai quali connettono comunque una grande importanza. 2. Ori,zzonte temporale e mutamento nella sfera dei valori Abbiamo già accennato al problema dell'orizzonte temporale della realizzazione dei valori. Nella civiltà occidentale, fortemente influenzata dalla tradizione eb raico- cristiana, il tempo/luogo della realizzazione dei valori ultimi è sempre collocato in un remoto futuro. Per il popolo ebraico si tratta di attendere l'arrivo del Salvatore, per la cristianità si tratta di attendere la morte per ciascun individuo e il giorno del giudizio per l'umanità tutta intera. Il luogo e il tempo della realizzazione dei valori ultimi è nell' oltretomba, nell'oltre-terra e al di là del tempo, anzi alla fine dei tempi. Questo meccanismo che rimanda ad un domani spostato in un futuro remoto il raggiungimento del valore ultimo della verità, il riscatto di tutte le ansie e le sofferenze terrene, tipico di tutte le religioni della redenzione («verrà un giorno in cui ... »), ha profondamente influenzato tutte quelle forme di pensiero che si fondano su una filosofia della storia, sull'idea, cioè, che la storia abbia non solo una fine, ma anche un fine. Ciò vale anche per il marxismo, che può essere considerata metaforicamente l'ultima grande «religione» di redenzione della storia. Anche per il marxismo, la realizzazione della società senza classi, e quindi del valore ultimo dell'uguaglianza tra gli uomini, è spostata nel tempo in un imprecisato futuro e richiede, oggi, il sacrificio di intere generazioni a beneficio delle generazioni future. Esse solo potranno assaporare il frutto della vita autentica, una volta superata ogni residua forma di dominio dell'uomo sull'uomo. Questo meccanismo di «differimento» non riguarda però solo le attese messianiche, l'attesa della salvezza eterna o l'attesa dell'avvento della società senza classi, ma riguarda anche, a livello di comportamenti individuali, il meccanismo fondamentale del «differimento delle gr@tificazioni» che pone invariabilmente l'agire dell'oggi al servizio jel risultato che si realizzerà solo domani. Come abbiamo visto nel cap. 11, l'imprenditore che non consuma quello che guadagna, ma lo risparmia per poterlo poi investire per produrre in futuro maggiori profitti VALORI, NORME E ISTITUZIONI 129 è il prototipo di questo tipo umano che non cede alle lusinghe dell'oggi in vista dei benefici futuri. Il processo di secolarizzazione (v. cap. X) che ha fortemente indebolito l'ancoraggio dei sistemi di valori nelle credenze religiose, nonché il declino delle grandi costruzioni ideologiche (le «grandi narrazioni») fondate su qualche filosofia della storia hanno indotto alcuni soprattutto sulla scia delle filosofie nichiliste dell'inizio del XX secolo e di Nietzsche (1844-1900) in particolare - a parlare di «morte dei valori» Tuttavia, il fatto che non si possa più parlare di valori dotati di un fondamento assoluto, non vuol dire che i valori si siano estinti. Antichi valori permangono accanto a nuovi valori emergenti, la dinamica della sfera dei valori è continuamente aliinentata da nuovi movimenti sociali, capaci di mobilitare energie e di formulare nuovi criteri per distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Si pensi, ad esempio, ai valori legati alla tutela della natura che, sostenuti dai movimenti ambientalisti, sono oggi condivisi da larghi strati dell'opinione pubblica delle società avanzate. Accade spesso che le società, e il caso dei valori «ecologicì» è a questo proposito esemplare, si rendano conto che qualche cosa è dotato di valore solo quando la sua esistenza appare minacciata. Si pensi, per fare altri esempi, ai valori del rispetto del «diverso» e dell'«altro da sé» che accompagnano, nel mezzo di tensioni e conflitti anche laceranti, l'affermazione delle società multietniche, oppure, sulla stessa linea, al valore dell'«uguaglianza nella diversità» che è rivendicato dai movimenti femministi. Si tratta sempre di linee di tendenza che nascono in un campo di tensioni generate dall'emergere di gruppi che prima e più di altri percepiscono il divario tra «essere» e «dover essere», tra uno stato «reale» e uno stato «ideale». Pagina 68
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt In conclusione, si possono formulare le seguenti ipotesi per lo studio del mutamento dei valori nella società contemporanea: * nelle società avanzate e moderne, rispetto al passato anche recente, si sta allargando il «grappolo» dei valori universali, vale a dire dei valori che sono condivisi dalla grande maggioranza della popolazione; o i sistemi di valori si frammentano, perdendo il riferimento a «valori ultimi», ma al loro posto si creano intorno a nuovi valori aree di micro-solidarietà a livello di vita quotidiana e di macro-solidarietà a livello planetario; * si assiste ad un processo di «presentificazione» dell'orizzonte di realizzazione dei valori in cui ogni individuo cerca di realizzare il proprio ideale di «vita buona» nel qui ed ora o, almeno, nell'arco della propria stessa esistenza. Secolarizmione Mutamento dei valorì 130 CAPITOLO 5 3. Dal valori alle norme Molto spesso, non solo nel linguaggio comune ma anche nei discorsi dei sociologi, non si traccia una chiara distinzione tra valori e norme. Per alcuni, le norme altro non sarebbero che specificazioni dei valori, prescrizioni per orientare le condotte alla luce dei valori. Per riprendere un esempio precedente, la norma: «durante un compito in classe non,bisogna copiare o permettere che altri copino», altro non sarebbe che 9 modo di rendere operativa quella particolare interpretazione del valore dell'uguaglianza che dice che «a ognuno deve essere dato in base ai sui meriti e alle sue capacità». Alla stessa stregua, la norma «non rubare» discenderebbe direttamente dal valore della proprietà, la norma «non uccidere» dal valore della vita e così via. Una norma ci direbbe concretamente che cosa dobbiamo, o non dobbiamo, fare per realizzare un determinato valore, altro quindi non sarebbe che un valore ad un livello di astrazione inferiore. In altre parole, le norme sono quasi sempre interpretabili coine dei mezzi che prescrivono o vietano dei comportamenti in vista di qualche fine/valore e poiché, come abbiamo accennato, il rapporto mezzi-fini può essere visto come una catena in cui ogni anello è nello stesso tempo mezzo rispetto a un fine superiore e fine rispetto a un mezzo inferiore, norme e valori (fini) sembrano appartenere alla stessa categoria. Nonostante queste connessioni, è importante mantenere la distinzione analitica tra l'orizzonte dei valori (delle mete) e quello delle norme. Se ci poniamo dal punto di vista dell'attore sociale (sia esso un individuo, un gruppo o un'organizzazione) le norme si presentano essenzialmente come dei vincoli che prescrivono o vietano certi comportamenti (obbligazioni) e che ne consentono altri (permissioni): tutto ciò che non è vietato è implicitamente permesso, ma tutto ciò che è permesso non è di per sé desiderabile dal punto di vista All'attore. Possiamo quindi intendere le norme come delle obbligazioni e i valori come delle guide capaci di orientare i comportamenti nell'ambito consentito dalle norme. 3.1. Perché si seguono le norme? Nella vita quotidiana abbiamo continuamente occasione di interagire con altri il cui comportamento ci risulta largamente prevedibile. Le aspettative che nutriamo nei confronti degli altri, e che nutrono gli altri nei nostri confronti, sono all'origine di questa prevedibdir@'n sappiamo esattamente come gli altri si comporteranno, ma, almeno nella maggior parte dei casi, sappiamo che la gamma dei comportamenti possibili in quella data situazione è ristretta entro un numero limitato di alternative. Se invitiamo a cena un amico, non sappiamo se VALORI, NORME E ISTITUZIONI 131 e che cosa ci porterà in segno di ringraziamento, ma sappiamo per certo che non ci porterà in regalo copia delle lettere che una sua vecchia zia ha scritto a sua madre (a meno che io non sia uno storico e che quelle lettere non abbiano un valore come documenti storici) 1 comportamenti sono, sempre entro certi limiti, prevedibili perché seguono delle regolarità. Molte regolarità sono riconducibili ad abitudini quasi meccaniche: ci si comporta in un certo modo perché in situazioni analoghe ci si è sempre comportati così e, senza quasi pensarci, si continua a farlo. In altri casi la regolarità dipende dal conformismo: ci si comporta in un certo modo perché la maggioranza degli altri si comporta proprio in quel modo e non si vedono ragioni per fare diversamente. L frequente che in situazioni nelle quali non si sa bene come comportarsi si segua semplicemente Pagina 69
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt quello che fanno gli altri nelle stesse situazioni. In altri casi ancora, mettiamo in atto un certo comportamento perché quello è un modo tecnicamente adeguato per raggiungere un determinato scopo: se ho il raffreddore mi soffio il naso con un fazzoletto, se devo appendere un quadro prendo chiodi e martello, ecc. (in questi casi si dice che si segue una norma tecnica). Qui ci interessano quelle regolarità di comportamento che dipendono dal fatto che seguiamo una norma o una regola sociale (i due termini si possono usare come se fossero sinonimi). A differenza delle abitudini, del conformismo o delle norme tecniche, le norme sociali sono tali in quanto i comportamenti che da esse si scostano incontrano invariabilmente qualche forma di sanzione. Come Sanzione vedremo meglio nel cap. VIII, le sanzioni possono assumere le forme più diverse che vanno dalla blanda disapprovazione sociale che si esprime, ad esempio, con la semplice astensione dal saluto nei confronti dei vicini di casa che violano il codice della cortesia, alla pena capitale che in certi ordinamenti giudiziari colpisce chi ha commesso un grave delitto. Le sanzioni peraltro possono essere sia positive, sia negative, cioè comportare una pena in caso di deviazione e/o un premio in caso di conformità. Per semplicità, quando parleremo di sanzioni, intenderemo sempre sanzioni negative, cioè qualcosa che comporti privazione, sacrificio o perdita per colui che da esse viene colpito. Se dovesse solo dipendere dal rischio di incorrere in sanzioni Sanziotú esterne esterne, la deviazione dalle norme sociali sarebbe assai più frequente di quanto di fatto non sia. Ad esempio, quando cammina in un parco pubblico, la maggior parte della gente evita di calpestare le aiuole anche se non c'è nessun vigile urbano nei dintorni che potrebbe dare una multa. Alla stessa stregua, molta gente paga le tasse, si ferma al semaforo quando è rosso e fa fronte agli impegni assunti semplicemente perché ritiene giusto farlo e si sentirebbe in colpa, o almeno a disagio, se non lo facesse. L vero che a nessuno piace essere oggetto di disapprovazione da parte dei propri simili e, tanto meno, pagare una multa, rischiare una condanna a tot anni di prigione o finire i propri giorni su una sedia elettrica. Le sanzioni esterne sono in molti casi un 132 CAPITOLO 5 deterrente abbastanza efficace per indurre gli uomini, e le donne, a non deviare dalle norme sociali. Ma la probabilità che alla deviazione da una norma scatti immediatamente una sanzione è spesso assai scarsa. Quante volte il salumiere sotto casa avrà tentato di barare sul peso della merce senza che i suoi clienti se ne siano accorti e quante volte, pur accorgendosi della truffa, non si saranno presi la briga di denunciarlo e quante volte alla già improbabile denuncia sarà seguita una effettiva condanna? Eppure, molti salumieri continuano a comportarsi correttamente e, in generale, i casi di devianza sono (relativamente) pochi. Sanzioni inteme In effetti, il «tribunale interno», che giudica le nostre azioni e ci fa sentire in colpa quando deviamo da una norma sociale, è spesso assai più efficace di qualsiasi sanzione esterna. Perché il tribunale interno funzioni, però, è necessario che le norme sociali siano state fatte proprie dall'individuo, siano state cioè interiorizzate e quindi trasformate m norme morali. L'interiorizzazione delle norme avviene nel corso del processo di socializzazione (v. cap. VI) e dipende dagli insegnamenti e dai comportamenti dei genitori, degli insegnanti, degli amici, dai modelli ai quali ogni individuo fa riferimento e dalle esperienze che accumula nell'ambiente in cui vive. Non tutte le culture e non tutti gli individui interiorizzano le stesse norme allo stesso modo. Se un ragazzo e una ragazza si baciano in pubblico in un paese islamico rischiano addirittura di essere lapidati e a nessuno di loro verrebbe in mente di farlo perché si sentirebbero in colpa, mentre nelle culture occidentali lo stesso comportamento non suscita se non una blanda riprovazione da parte di persone particolarmente «bigotte» e il farlo non provoca certo alle giovani coppie nessun grave senso di colpa. Così, vi sono delle persone- che si farebbero bruciare sul rogo piuttosto che venire meno alla parola data, mentre altre non si preoccupano minimamente di smentire con le loro azioni le promesse fatte il giorno prima. Certe norme, inoltre, vengono in generale interiorizzate in modo molto più debole di altre; in alcuni paesi, ad esempio, l'evasione fiscale, non suscita in molte persone alcun senso di colpa, mentre quasi tutti si sentono in colpa se non soccorrono un amico in difficoltà. Le norme del codice della strada sono tipicamente poco interiorizzate e molti non le rispetterebbero se non temessero che la loro violazione può esporre al rischio di provocare un incidente. In generale, si può dire che più basso è il grado di interiorizzazione di una norma, e quindi A livello delle sanzioni interne, e più Pagina 70
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt affidamento si deve fare sulle sanzioni esterne per fare in modo che la norma venga rispettata. Le sanzioni, esterne o interne, sono - come dice Elster [~1, un sociologo che si è occupato molto di questo argomento - il cartellino del prezzo che dobbiamo pagare per ogni trasgressione. Tuttavia, non sembra che il rispetto delle norme sia spiegabile soltanto in base a un calcolo utilitaristico; non è solo il timore di subire delle sanzioni, VALORI, NORME E ISTITUZIONI 133 esterne o interne, e quindi di dover sopportare dei costi, che induce gli individui ad agire in modo conforme alle regole. Come abbiamo visto, possiamo seguire le norme per abitudine, per conformismo, perché è un mezzo per raggiungere le nostre mete, perché non ci conviene non farlo, ma anche perché abbiamo interiorizzato una norma del tutto generale che ci dice che è bene rispettare le norme, salvo poi, eventualmente, cercare di cambiare le norme che non ci sembrano giuste attraverso le procedure (cioè, altre norme) appropriate. Accade, tuttavia, che gli esseri umani trasgrediscano a norme e regole, anche se le hanno ben interiorizzate. Molti, ad esempio, ritengono che sia un dovere morale tutelare la propria salute, eppure mettono continuamente in atto comportamenti che la danneggiano: i fumatori accaniti, gli alcoolisti, i drogati appartengono a questa categoria. Quando qualcuno sa bene che cosa non deve fare, ma lo fa ugualmente, si parla di «debolezza della volontà». Elster [19791 ricorda il caso di Ulisse - narrato da Omero nell'Odissea - il quale, conoscendo bene la propria debolezza, si fa legare all'albero della sua nave per non farsi tentare dalle sirene. Qualcosa di simile ad Ulisse fanno gli «anonimi alcoolistì» i quali si sottopongono ad un rigido controllo reciproco per cercare di sottrarsi al vizio della bottiglia. Come vedremo meglio nel cap. VIII, il controllo sociale resta il meccanismo più efficace non solo per fare rispettare le norme, ma anche per aiutare gli individui a difendersi dalle proprie tendenze trasgressive. 3.2. Tipi di norme E complesso delle norme che vigono in un dato momento in ogni società è estremamente eterogeneo. Possiamo indicare alcuni tra i più importanti criteri di classificazione. Un primo criterio, proposto dal filosofo americano John Rawls [19671 distingue tra regole costitutive e regole regolatt*ve. Le prime Regole costitutive pongono in essere delle attività che non esisterebbero all'infuori delle e regole regolative regole stesse, non ammettono eccezioni e la loro applicazione non richiede in genere un apparato preposto alla loro interpretazione. Fanno tipicamente parte di questa categoria le regole del gioco (ad esempio, del gioco degli scacchi): se a qualsiasi giocatore venisse in mente di muovere il cavallo in modo diverso da quello prescritto dalle regole, egli si porrebbe automaticamente al di fuori del gioco e la partita non potrebbe continuare. Non a caso, nel gioco degli scacchi, come in altri giochi dello stesso tipo, non c'è bisogno di un arbitro, poiché le regole non si prestano ad essere interpretate (manipolate) e tutti i giocatori ne sono ben a conoscenza e sanno che mosse consentono, oppure vietano. Anche nel gioco del calcio vi sono regole costitutive (ad esempio, la regola del «fuori gioco», senza la quale il calcio sarebbe un «altro» gioco), ma già in questo caso l'applicazione delle regole al caso 134 CAPITOLO 5 Norme giuridiche Norme implicite e norme esplicite concreto comporta un certo grado di manipolazione interpretativa e quindi richiede la presenza di un arbitro e dei segnalinee. Le regole regolative, invece, indicano ciò che è prescritto o ciò che è vietato nell'ambito di un'attività già costituita, esse, non solo sono più frequentemente violate, ma ammettono eccezioni e consentono in genere ampio spazio all'interpretazione. Avvocati, giudici, arbitri, corti e tribunali devono la loro esistenza al fatto che, salvo poche eccezioni, l'applicazione delle norme richiede un'opera di interpretazione. Un secondo criterio distingue il sottoinsieme delle norme giuridiche (le leggi) all'interno dell'insieme più ampio delle norme sociali. Le leggi sono emanate dall'autorità (potere legislativo), presuppongono un apparato per la loro applicazione (potere giudiziario) e per l'amministrazione delle sanzioni da esse previste (istituzioni penali). I sistemi giuridici variano moltissimo da società Pagina 71
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt a società e, ovviamente, variano nel tempo nell'ambito della stessa società. Possiamo dire che ogni sistema giuridico è coinvolto in continui processi di mutamento nei quali nuove norme vengono prodotte e applicate e vecchie norme cadono in disuso o vengono formalmente abrogate. Una ulteriore distinzione che è importante fare è quella tra norme implicite e norme esplicite. Molto spesso nei comportamenti quotidiani si seguono delle regole o delle norme senza neppure esserne consapevoli, semplicemente perché le si danno per scontate. Quando parliamo con una persona, ad esempio, seguiamo implicitamente una regola che ci dice che non possiamo avvicinarci troppo al nostro interlocutore e se lo facciamo, automaticamente questi si allontana per ristabilire la distanza appropriata. Una troppo stretta vicinanza verrebbe interpretata come una violazione dello spazio personale, dopo tutto, ognuno ha il diritto di non respirare l'alito del proprio interlocutore. Questa norma sulla distanza, evidentemente, non vale su un autobus affollato, dove siamo disposti ad accettare una vicinanza coi corpi degli altri viaggiatori che, in altre circostanze, riterremmo legittima solo nel quadro di una relazione di grande intimità. In realtà, noi ci accorgiamo che certe regole esistono solo quando vengono trasgredite; non c'è nessuna norma esplicita, ad esempio, che vieti di andare a lezione indossando un abito da cerimonia, ma se qualche studente comparisse con un elegante smoking susciterebbe sicuramente qualche reazione. Quando era in uso, soprattutto da parte degli uomini, masticare tabacco, vi erano norme esplicite che vietavano di sputare per terra, se non in determinati contenitori appositamente collocati negli angoli degli spazi pubblici. Oggi tali divieti sono scomparsi, ma rimane comunque sconveniente immettere nell'ambiente escrementi del proprio corpo, di qualsiasi natura, a meno che ciò non avvenga in luoghi specializzati p-"ueste funzioni. Gli esseri umani sviluppano precocemente una notevole sensibilità che suggerisce loro come devono comportarsi (che regole seguire) in una data situazione; senza dover riflettere più di tanto si adeguano alle VALORI, NORME E ISTITUZIONI 135 norme implicite della situazione stessa e si aspettano che gli altri facciano altrettanto. Le «buone maniere», le norme del «galateo» o sem- Buone maniere plicemente i canoni del «buon gusto» - anche se vari autori hanno cercato di codificarli - sono normalmente seguiti dalla maggior parte delle persone senza bisogno che vengano esplicitati. Norbert Elias ha illustrato come i canoni delle «buone maniere» si siano sviluppati negli elaborati cerimoniali delle corti aristocratiche in epoca premoderna e come, nonostante si siano in seguito modificati, siano rimasti a fondamento del vivere civile fino ai nostri giorni [Elias 19691. Infine, un altro importante criterio per classificare le norme sociali riguarda l'ambito entro il quale sono in vigore. A parte le leggi che vigono nell'ambito territoriale sul quale esercita la sua sovranità l'autorità che le ha emesse, molte norme valgono soltanto per gli appartenenti a determinati gruppi sociali e regolano i rapporti sia afl'interno del gruppo, sia con soggetti esterni. Un esempio di tali norme, o meglio, di tali sistemi normativi, sono i codicì deontologicì degli ordini Codici professionali (medici, notai, avvocati, ragionieri, commercialisti, agenti deontoloffici di cambio, ecc.) che stabiliscono i principi e le modalità ai quali si devono attenere gli appartenenti nell'esercizio delle loro attività professionali, sulla base di specifiche etiche professionali. In questi ambiti circoscritti, i gruppi professionali godono di una notevole autonomia normativa che consente l'esistenza di veri e propri sistemi giuridici specializzati, dotati di propri organi che hanno un potere sanzionatorio nei confronti dei membri (possono, ad esempio, nel caso di gravi violazioni del codice deontologico, radiare il colpevole dall'albo professionale e interdirgli così l'esercizio della professione). Anche le organizzazionì criminali possono sviluppare una loro etica e un loro codice normativo, in opposizione alla morale e al sistema normativo delle società entro le quali si formano. La mafia, come è ben noto, ha un proprio codice d'onore che contempla regole molto rigorose, la cui violazione viene punita in genere con la più inappellabile di tutte le sentenze, vale a dire, l'uccisione del colpevole. In alcune società, soprattutto, ma non solo, dell'area mediterranea e balcanica (Corsica, Sardegna, Albania, Montenegro) vigono ancora oggi residui di codici d'onore delle antiche società agro-pastorali che impongono l'obbligo della vendetta per i torti subiti personalmente o dai membri della propria famiglia e chi si sottrae a quest'obbligo diviene oggetto di pubblica esecrazione e Pagina 72
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt disprezzo. 4. Coerenza e incoerenza dei sistemi normativi Parlando di valori, abbiamo prima notato che in ogni società vi è una pluralità di valori, alcuni integrati tra loro in modo da formare insiemi e sistemi coerenti, altri in palese contraddizione e conflitto tra loro. Lo stesso si può dire delle norme e dei sistemi normativi. Forse 136 CAPITOLO 5 non è mai esistita una società dotata di un unico sistema normativo internamente coerente, ma certo questo non è il caso delle moderne società c,omplesse dove molteplici sono le istanze capaci di stabilire e applicare delle norme. Lo stesso sistema giuridico di un qualsiasi stato moderno - che come abbiamo visto è un sottoinsieme dell'insierne più vasto delle norme sociali - è pieno di incoerenze e contraddizioni proprio per A fatto che si è formato attraverso la stratificazione nel tempo di leggi diverse, rispondenti alle mutevoli esigenze della società, delle sue classi dirigenti, dei gruppi sociali in competizione per far valere i propri interessi. Gli stessi giuristi, cioè gli esperti specializzati nello studio e nella interpretazione dei sistemi giuridici, trovano spesso difficoltà ad orientarsi nella giungla di leggi e leggine che regolano, o pretendono di regolare, la fitta rete di relazioni tra individui, gruppi e istituzioni che costituisce la società. Anche se in genere gli individui nella maggior parte delle situazioni sanno che cosa è vietato e che cosa è permesso fare, sanno cioè quali sono i vincoli che le norme sociali pongono al loro agire, non è infrequente che si verifichino situazioni nelle quali: a) vi è un eccesso di norme; b) vi sono norme contraddittorie per cui la stessa azione è nello stesso tempo prescritta da una norma e vietata da un'altra; c) vi è una carenza di norme e quindi l'azione non trova chiari punti di riferimento normativi. Nel primo caso, tipicamente esemplificato dal cittadino di fronte al modulo della dichiarazione dei redditi, solo il ricorso agli esperti consente al «laico» di districarsi nei meandri della legislazione. Nel secondo caso, si presenta invece una situazione simile Dflenuna etico, a quella che abbiamo prima indicato come «dilemma etico». Robert K. Merton [19761 parla in proposito della contemporanea presenza di norme e contro-norme. Prendiamo, ad esempio, il caso di uno scienziato che abbia scoperto una sostanza che lascia intravedere la possibilità di una cura efficace contro il cancro, ma che richiede ancora lunghi anni di sperimentazione prima che tale efficacia possa essere adeguatamente provata sul piano scientifico. Il codice deontologico della comunità scientifica gli imporrebbe di comunicare subito la sua scoperta perché in tal modo potrebbe aiutare il lavoro dei suoi colleghi che stanno compiendo ricerche nella stessa direzione e ricevere da loro utili suggerimenti per il proseguimento delle sue ricerche. E, -tut,tavia, un'altra norma gli impone di non divulgare notizie che farebbero crescere speranze ancora infondate nei malati di cancro. Inoltre, egli potrebbe essere indotto ad anticipare la pubblicazione della notizia per «bruciare sul tempo» altri ricercatori che potrebbero giungere agli stessi suoi risultati e quindi privarlo del prestigio e dei vantaggi derivanti dall'aver fatto la scoperta per primo. Di fronte a imperativi contraddittori, egli dovrà stabilire una gerarchia per individuare quale norma, nel caso concreto, ha il sopravvento sulle altre. Infine, il caso di assenza di norme che priva gli individui di punti di riferimento normativi si avvicina alla situazione che Durkheim ha VALORI, NORME E ISTITUZIONI descritto col concetto di anomia. Per Durkheim l'anornia è caratteristica di una condizione oggettiva della società in situazioni di crisi e di mutamenti rapidi e convulsi dove gli ordinamenti normativi non sono più in grado di incanalare i comportamenti individuali. In questi momenti o fasi storiche, l'ordine morale che regge l'impianto normativo si infrange, si scatenano comportamenti sregolati e la società stessa rischia la disgregazione. All'anomia come condizione oggettiva corrisponde una condizione soggettiva. Si potrebbe pensare che una situazione di assenza di regole sia quella nella quale l'individuo può esprimere al massimo grado la propria volontà, quella che gli lascia il massimo di libertà. In realtà, anche se le norme sociali possono essere vissute come costrizioni che limitano la libertà deH'individuo, la loro assenza lascia spesso gli esseri umani in una condizione di Isorientamento e quindi in preda a pulsioni che non sono più in grado di controllare e che, al limite, possono condurre anche al suicidio. Se intendiamo la libertà come la Pagina 73
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt possibilità di scegliere il proprio percorso tra alternative diverse, l'eccesso di opzioni può essere altrettanto paralizzante della capacità di scegliere delle situazioni nelle quali le norme prescrivono un percorso obbligato. L'individuo è libero di scegliere se giocare o meno a scacchi, ma, una volta fatta questa scelta, deve seguire le regole del gioco. Se queste regole non esistessero egli non potrebbe neppure compiere questa scelta. Le norme rappresentano dei vincoli all'azione, ma definiscono anche il campo delle opzioni tra le quali gli individui sono liberi di scegliere. Il fatto che in ogni società non vi sia un unico sistema di norme integrato e coerente, ma una pluralità di sistemi composti da norme spesso contraddittorie apre agli individui sia spazi di libertà che rischi di anomia. 5. Il concetto di istituzione Sia nel linguaggio comune che nel lessico delle scienze sociali il concetto di istituzione copre una gamma di fenomeni molto eterogenea. Nel linguaggio comune per istituzione sì intende generalmente un apparato preposto allo svolgimento di funzioni e di compiti che hanno a che fare con l'interesse pubblico, comunque inteso, quali l'educazione dei nuovi membri (istituzioni scolastiche), la cura della salute (istituzioni sanitarie), l'amministrazione della giustizia (istituzioni giudiziarie), la difesa del territorio (istituzioni militari), ecc. Nelle scienze sociali per istituzioni si intendono modelli di comportamento che in una determinata società sono dotati di cogenza normativa. Rispetto al linguaggio comune, il concetto sociologico di istituzione assume un significato ad un tempo più ampio e più preciso: più ampio perché riguarda in generale tutti i modelli di comportamento e non solo quelli che si manifestano in apparati e organizzazio138 CAPITOLO 5 ni (istituzioni sono, ad esempio, anche il tabù dell'incesto, il digiuno rituale, il fidanzamento, il linguaggio, ecc.), più preciso perché sottolinea come, affinché un modello di comportamento possa essere considerato un'istituzione, sia necessaria la presenza di un elemento normativo m qualche misura vincolante. Non basta cioè che in una qualsiasi società si rilevi la presenza di regolarità nei comportamenti dei vari membri perché si possa parlare dell'esistenza di istituzioni, tali regolarità possono infatti derivare da semplici abitudini prive di una forza normativa vincolante, oppure da consuetudini. Dire che le istituzioni riguardano norme a carattere vincolante, non vuol dire evidentemente che i comportamenti effettivi non si scostino, talvolta in modo anche cospicuo, da tali norme. Ogni istituzione comporta tuttavia la presenza di qualche forma di controllo sociale (v. cap. VIII) che assicuri che lo scarto tra comportamenti prescritti e comportamenti effettivi non superi determinati limiti, pena la dissoluzione dell'istituzione stessa. t utile, inoltre, tenere analiticamente distinti i concetti di istituzione, dal un lato, e di organizzazione dall'altro. Questi due concetti vengono spesso usati, nel linguaggio comune, come sinonimi, tuttavia si riferiscono ad aspetti diversi della stessa realtà. Per organizzazione intendiamo un insieme coordinato di risorse umane e materiali, mentre per istituzione ci riferiamo all'impianto di regole che rendono possibile tale coordinazione. Un'istituzione non è un ente al quale possiamo imputare delle azioni, mentre ciò vale per un'organizzazione. 5.1. Il processo di istituzionalizzazione Nel definire che cosa sono le istituzioni abbiamo indicato che si tratta di modelli di comportamento dota * di cogenza normativa, vale a dire di sistemi di regole. Questo caratter@e tuttavia, si presenta in modi e misura variabili. Soprattutto quando nasce, un'istituzione non presenta ancora i tratti che fanno di essa un'istituzione compiuta e, inoltre, molti comportamenti restano ad uno stadio poco elevato o parziale di Istitmionazzmone istituzionalizzazione. Le istituzioni si possono infatti ordinare lungo un continuum a seconda del grado di istituzionalizzazione raggiunto e, nel corso della loro storia, possono muoversi lungo questo continuuin passando a livelli superiori o retrocedendo a livelli inferiori. Iff grado di istituzionalizzazione di un sistema di regole dipende da diversi fattori: dalle forme flessibili o rigide del controllo sociale che ne garantiscono l'osservanza, dal grado di informazione in merito alla loro esistenza che ne hanno gli attori coinvolti, dal grado di accettazione di tali regole da parte della società nel suo complesso, dal tipo e dall'intensità delle sanzioni che premiano la conformità o puniscono la trasgressione, dal grado di interiorizzazione nei codici morali individuali, infine, dal grado in cui le norme vengono di fatto osservate Pagina 74
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt VALORI, NORME E ISTITUZIONI 139 sa oppure no. All'estremo inferiore del continuum abbiamo sistemi di regole che incontrano forme flessibfli di controllo sociale, di cui molta gente non conosce l'esistenza o che comunque non accetta o che ha interiorizzato in modo superficiale, la cui conformità non viene premiata e la trasgressione punita in modo sistematico e che quindi di fatto non sempre danno luogo a comportamenti conformi, regolari e stabili nel tempo. All'estremo superiore avremo invece le caratteristiche opposte. Nelle moderne società occidentali, ad esempio, basso grado di istituzionalizzazione presentano le istituzioni che prescrivono 9 digiuno od altre forme di restrizioni alimentari periodiche (lo stesso non si può dire delle società islamiche o ebraiche dove prevale l'ortodossia religio- ) Un alto grado di istituzionalizzazione, invece, sempre nelle società occidentali moderne, è tipico delle istituzioni che abilitano all'esercizio di certe professioni (medici, avvocati, notai, ecc.). E matrimonio, invece, almeno nella fase storica attuale delle società avanzate, sembra essere un'istituzione che regredisce ad uno stadio inferiore di istituzionalizzazione, infatti cresce il numero di coppie che convivono senza essere sposate e, soprattutto, senza incontrare un grado elevato di disapprovazione sociale. 1 settori di attività nei quali operano nuove professioni (ad esempio, l'assistenza sociale) presentano inizialmente un basso grado di istituzion alizz azione che tuttavia tende ad aumentare mano a mano che tali settori vengono sottoposti a forme di regolamentazione. Un caso particolare di elevata istituzion alizz azione è costituito da quelle istituzioni (e dalle relative organizzazioni) che esercitano un controllo pervasivo e costante sui comportamenti (ma spesso anche sui «pensierì») dei loro membri. Si parla in questo caso di «istituzioni totali» alle quali abbiamo già accennato nel cap. III [Goffman 19611 per indicare il fatto che esse restringono, fino quasi ad annullarli, i gradi di libertà degli individui coinvolti. Rientrano in questa categoria le prigioni [Foucault 19751, i campi di concentramento, gli ospedali psichiatrici, le caserme, i conventi e, in genere, tutte quelle istituzioni che tendono a cancellare i segni dell'individualità e a trasformare in numeri (o in burattini) coloro che volontariamente (o, più spesso, involontariamente) ne fanno parte. La fase decisiva del processo di istituzionalizzazione è comunque senz'altro quella delle prime fasi della loro esistenza. Come vedremo meglio tra poco, di molte istituzioni non è possibile determinare la nascita perché sono sorte come effetto emergente dall'intreccio delle interazioni umane. Altre istituzioni, invece, sono il prodotto dell'azione di movimenti sociali che si pongono degli obiettivi e mobilitano delle risorse per conseguirli. 1 movimenti nascono in genere da stati di tensione o di conflitto sociale, si presentano come innovativi e spesso deviantì rispetto agli assetti istituzionali esistenti e sono caratterizzati da forti componenti di espressività, di spontaneità e di entusiasmo da parte dei loro sostenitori (v. cap. XXI). Lo stato di movimento è tipicaIstituzioni totali Movimento e istituzione 140 CAPITOLO 5 Universali culturali mente uno stato instabile, magmatico e provvisorio, in cui sono spesso presenti figure carismatiche, capaci di raccogliere intorno a sé e di mobilitare le energie di una moltitudine di seguaci. Si tratta di una fase molto delicata poiché se il movimento non riesce a trasformarsi in istituzione è inevitabilmente destinato a scomparire. Il passaggio dalla fase del movimento alla fase dell'istituzione ha attirato in modo particolare l'attenzione degli scienziati sociali. Max Weber in particolare ha analizzato A problema della «trasformazione del carisma in pratica quotidiana», problema che si pone invariabilmente nel passaggio, ad esempio, di un movimento religioso alla forma della chiesa o della setta, oppure di un movimento politico alla forma del partito politico. Si tratta, dal punto di vista analitico, dello stesso problema che devono affrontare i leader di una rivoluzione vittoriosa quando devono passare dalla fase della lotta rivoluzionaria alla fase della gestione del potere conquistato. Recentemente Alberoni, riprendendo i termini dell'analisi weberiana, ha Pagina 75
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt contrapposto «movimento» e «istituzione» come i due stati fondamentali del sociale; il primo caratterizzato da uno stato fusionale in cui i rapporti sociali sono fortemente personalizzati, diffusi, carichi di emotività e affettività, il secondo dove invece prevalgono i rapporti impersonali regolati da sistemi astratti di norme [Alberonì 19771. 5.2. 1 tipi di istituzioni Da quanto esposto risulta chiaro come il concetto di istituzi e, così come viene utilizzato nelle scienze sociali, si collochi ad un l'@ @e]HJo molto elevato di generalizzazione e sia quindi applicabile ad una categoria molto ampia di fenomeni. Per poter operare una classificazione delle istituzioni è necessario disporre di un criterio, cioè di un modello teorico di riferimento. Abbiamo già visto che un criterio possibile riguarda il loro diverso grado di istituzionalizzazione. Un secondo criterio, in parte legato al precedente, fa riferimento alle forme organizzative nelle quali un'istituzione può esprimersi, al grado di articolazione e differenziazione delle stesse, alla definizione dei ruoli al proprio interno e in relazione agli scambi con l'ambiente. Un altro criterio di classificazione, frequentemente adottato soprattutto dagli antropologi, riguarda la frequenza con la quale certe istituzioni compaiono in società diverse. Non solo infatti non vi è società laddove non vi siano istituzioni sociali, cioè laddove non vi siano regole che guidino i comportamenti dei membri, ma alcune istituzioni sono riscontrabili in tutte (o quasi) le società. Queste istituzioni sono chiamate «universali culturali». C. Levy-Strauss, ad esempio, sostiene che nelle società umane una delle prime, se non la prima, istituzione sociale è stata il tabù dell'incesto (v. cap. XVI) in quanto, vietando i rapporti sessuali tra consanguinei, avrebbe indotto a stabilire legami sociali stabili al di fuori della cerchia strettamente famigliare. Non a VALORI, NORME E ISTITUZIONI G Adattamento Raggiungimento deflo scopo Latenza Integrazione Legenda: A = Adattamento 1 Integrazione G = Raggiungimento deflo scopo L Latenza FIG. 5.1. Lo schenia Agg. Fonte: Parsons [1951, trad. it. 1965, 1401. caso le norme della parentela fanno parte delle istituzioni sociali fondamentali di ogni società umana in quanto regolano i rapporti dai quali dipende la sopravvivenza stessa della sua base biologica, vale a dire la sua popolazione. Anche il linguaggio, la religione, l'arte, A gioco, lo scambio di doni e altri ancora sono considerati dagli antropologi degli universali culturali [Murdock 19491. t chiaro, tuttavia, che la grande variabilità delle forme con le quali questi tratti compaiono nelle diverse società, riduce molto il loro carattere di universalità. Le esigenze alle quali queste istituzioni rispondono possono essere le stesse in ogni società, i modi però coi quali queste esigenze vengono soddisfatte variano moltissimo. Il riferimento alla indispensabilità di un'istituzione per l'esistenza stessa della società richiama il fatto che i bisogni che le istituzioni soddisfano, 0, che è lo stesso, le funzioni che svolgono, costituiscono un altro importante criterio adottato dagli scienziati sociali per classificare le varie istituzioni. Adottando un approccio funzionalista, e semplificando molto la formulazione classica datane da Talcott Parsons [19511, possiamo dire che ogni sistema sociale per esistere deve soddisfare quattro requisiti fondamentali: 1) formulare dei fini; 2) adattare i mezzi ai fini; 3) regolare le transazioni tra le sue parti; 4) mantenere nel tempo i propri orientamenti di fondo. Dalle prime lettere dei termini inglesi che designano questi quattro requisiti, il modello ha preso il nome di Agil (adaptation, goal attaì*nment, integration, latency). Al primo requisito corrisponde sostanzialmente la funzione politica (garantire la sicurezza esterna e interna, regolare i conflitti di interesse, definire gli interessi generali), al secondo la funzione economica (assicurare l'approvvigionamento di beni e servizi, vale dire, la loro produzione, circolazione e distribuzione), al terzo la funzione normativa (definizione dei diritti e doveri dei singoli e delle parti, formulazione, interpretazione e applicazione delle norme), al quarto la funzione di riproduzione biologica e culturale (mantenimento dell'identità, dei valori e degli orientamenti di fondo) Alle varie funzioni corrispondono istituzioni diverse, anche se molte Pagina 76
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt istituzioni svolgono una pluralità di funzioni (multifunzionalità), la stessa funzione può essere svolta da una pluralità di istituzioni (alternative funzionali) e le funzioni di un'istituzione possono modificarsi nel tempo a vantaggio o a svantaggio di altre istituzioni. Così, ad esempio, famiglia, scuola e religione sono istituzioni specializzate nella funzione di riproduzione culturale, ma svolgono anche funzioni politiche ed economiche, la famiglia ha storicamente ceduto gran parte delle sue funzioni educative alla scuola, la religione ha ceduto funzioni regolative al diritto e alla politica, le istituzioni giuridiche sono specializzate nella funzione normativa, ma condividono con le istituzioni politiche la formulazione delle leggi, e così via. 5.3. Il ciclo di vita delle istituzioni Una caratteristica importante delle istituzioni da un punto di vista sociologico è la loro durata temporale. Le istituzioni, come ogni prodotto dell'attività umana, sono soggette a nascere e a scomparire, tuttavia, il loro ciclo di vita è in genere notevolmente più lungo di quello degli individui che di volta in volta si trovano ad agire nel loro ambito. Georg Simmel è l'autore classico che per primo ha sottolineato l'importanza del fatto che individui e istituzioni si muovono su orizzonti temporali diversi [Simmel 19081. Ogni individuo vive in un mondo popolato da istituzioni che preesistono alla sua nascita e che sono destinate a sopravvivere alla sua morte e questo dato di fatto elementare, ma importantissimo, spiega come mai gli individui debbano adattarsi (pena la loro stessa sopravvivenza) alle istituzioni della società nella quale è capitato loro di nascere. Questo processo fa parte del più generale processo di socializzazione (v. cap. VI). Delle istituzioni, così come degli individui, è quindi possibile scriGdo di vita deRe vere la biografia nell'arco di un ideale ciclo di vita che va dalla nascita, isfituzì0nì allo sviluppo, alla maturità e, infine, alla morte. Tuttavia, le origini di molte istituzioni si perdono nella notte dei tempi e la loro morte non è in nessun modo prevedibile. Il matrimonio (v. cap. XVI), ad esempio, come istituzione che sancisce l'unione più o meno stabile tra un uomo e una donna, ha senz'altro origini molto remote, è passata attraverso forme molto variabili in epoche e culture diverse e, anche se alcunì sostengono che sia destinata ad estinguersi, nessuno è in grado di dire se e quando ciò possa avvenire. VALORI, NORME E ISTITUZIONI 143 Nella dinamica delle istituzioni si possono distinguere due tipi fondamentali di processo: da un lato le istituzioni nascono, si sviluppano e muoiono per effetto di processi spontanei, vale a dire non intenzionalmente voluti e prodotti dalle azioni di individui e gruppi identificabilì [Boudon 19731, dall'altro lato, invece, tali eventi e processi sono imputabili alla volontà specifica di qualche attore. t chiaro che questa polarità non distingue soltanto due tipi diversi di processi, ma anche due modi diversi di intendere il fenomeno delle istituzioni e due diverse tradizioni sociologiche e impostazioni metodologiche. Da un lato abbiamo un approccio di tipo individualista, dall'altro un approccio di tipo istituzionalista. Abbiamo già incontrato questa distinzione nel cap. III. Per entrambe, la dinamica delle istituzioni risulta essere il risultato dell'agire degli uomini, ma mentre nel primo caso il risultato è l'effetto non intenzionale dell'agire (si parla in proposito di effetto di composizione o di effetto emergente), nel secondo caso le istituzioni risultano come una vera e propria creazione di individui o gruppi concreti. Nel primo caso le istituzioni appaiono come formazioni «organiche», nate e cresciute (e magari estintesi) spontaneamente e delle quali è quindi possibile scrivere la storia «naturale», nel secondo caso la storia delle istituzioni rimanda all'azione di fondatorì, di sostenitori ed, eventualmente, di distruttori delle istituzioni stesse. Non è infrequente il caso di istituzioni, ad esempio città o stati, che, sorte «spontaneamente» e gradualmente dall'agire di una miriade di individui sconosciuti, sono in un secondo tempo state attribuite alla volontà di qualche mitico fondatore. In modo particolare, le istituzioni della comunità politica tendono a costruire il «mito» della loro origine o fondazione, facendo di tale evento l'oggetto di periodiche celebrazioni nelle quali viene rinnovato il vincolo originario e rafforzato il senso di appartenenza comune. La stessa istituzione può essere vista, in circostanze diverse, come effetto di processi spontanei o di azioni intenzionali. Prendiamo l'esempio del mercato. Pagina 77
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Nella tradizione dell'Occidente il mercato è un'istituzione, vale a dire un sistema di regole, per la circolazione di beni e servizi che si è formata gradualmente nel corso dei secoli per effetto dell'azione di molteplici attori e circostanze (venditori, compratori, mercanti, banchieri, magistrature cittadine, ecc.). Diversa è, invece, l'istituzione del mercato quale emerge attualmente dall'esperienza dei paesi ex comunisti dell'Europa orientale dove il mercato si forma per effetto dell'azione intenzionale di una élite politica orientata a demolire le istituzioni dell'economia di piano e a «creare», per così dire, ex novo un'economia di mercato [Streek 19931. Lo stesso discorso fatto per le origini vale evidentemente anche per gli altri eventi che segnano la vita delle istituzioni e, infine, anche per la loro morte. Le istituzioni possono scomparire perché si estinguono «da sole», oppure perché vengono distrutte da qualche attore, Effetto di composizione o emergente 144 CAPITOLO 5 individuale o collettivo. Se si adotta una prospettiva funzionalista, si può dire che le istituzioni nascono perché rispondono a qualche bisogno o esigenza sociale insoddisfatta e si estinguono quando o scompare il bisogno che le ha originate, o vi sono altre istituzioni in grado di soddisfare lo stesso bisogno in modo più adeguato. Spiegazioni di questo tipo della dinamica delle istituzioni sono palesen-,,~ tautologiche in quanto tendono a spiegare le cause di un fenomeno alla luce degli effetti che esso produce e, tuttavia, sono utili poiché invitano ad analizzare le istituzioni non isolatamente, ma sempre in riferimento al contesto, vale a dire all'ambiente nel quale operano. Istituzioni: prospettiva sistemica 6. Il mutamento delle istituzioni La considerazione dei rapporti tra istituzioni e ambiente suggerisce di adottare nel loro studio una prospettiva sistemica; ogni istituzione viene vista come un sistema di regole in rapporto con altre istituzioni e quindi con altri sistemi di regole, ognuno dei quali mantiene rispetto agli altri un determinato grado di apertura -chiusura. Quando un cambiamento avviene in qualche ambito (ad esempio, in un'istituzione politica o religiosa), questo si ripercuote sulle altre istituzioni collegate, trasforma cioè il loro ambiente, e queste a loro volta si modificano per reazione al mutamento ambientale e così via in un gioco continuo di azioni e retroazioni (feedback) Il tipo e l'intensità della risposta alle «sfide» deH'ambiente dipendono dalla capacità dell'istituzione, o, meglio, della o delle organizzazioni che ne sono l'espressione, di percepire e valutare i mutamenti esterni, di mobilitare le proprie risorse e di organizzare la propria reazione. Se un'o rganizz azione sopravvaluta o sottovaluta l'entità della sfida, se non riesce a mobilitare le proprie risorse, o se le mobilita in misura eccessiva, la sua risposta sarà inadeguata fino al punto di minacciare la sopravvivenza dell'istituzione stessa. Il mutamento delle istituzioni non dipende solo dalla loro capacità di rispondere efficacemente alle sfide che provengono dall'ambiente esterno (ad esempio, un'impresa dalle sue capacità di rispondere alle trasformazioni dei mercati nei quali opera), ma anche dal modo di affrontare le tensioni e i conflitti che si sviluppano al loro interno. I fattori di mutamento, cioè, possono essere sia esogenì sia endogeni. Per rimanere nell'esempio dell'impresa, i mutamenti possono essere indotti dal riassetto dei rapporti tra proprietà e controllo, oppure dalla rinegoziazione dei rapporti di lavoro dipendente e questi mutamenti potranno a loro volta influire sulle strategie di mercato. Non si può dire a priori quale tipo di risposta alle sfide, esterne o interne, rafforzi o indebolisca un'istituzione, aumenti o diminuisca le sue chances di sopravvivenza, poiché ciò dipende dal tipo di sfida e dalle circostanze nelle quali si verifica. In generale si può dire che le istituzioni dispongono potenzialmente di una vasta gamma di possibili VALOIU, NORME E ISTITUZIONI 145 risposte, ma che solo alcune di queste sono effettivamente attivabili nelle circostanze date. Due, in linea di principio, possono essere i tipi di risposta strategica alle sfide ambientali: da un lato un tipo di risposta «rigida», tendente a conservare l'identità e l'integrità dell'istituzione di fronte alla turbolenza interna o esterna, dall'altro lato, un tipo di risposta «flessibile» in grado di modificare la propria struttura interna, di ridefinire i confini con l'ambiente e quindi l'identità stessa dell'istituzione [Simmel 19081. Un esempio illuminante delle possibili strategie che un'istituzione può adottare Pagina 78
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt di fronte alle sfide o minacce cui è sottoposta è fornito dall'atteggiamento dell'organizzazione della Chiesa di fronte ai movimenti eretici. I movimenti eretici si sviluppano generalmente ai confini dell'istituzione della Chiesa, talvolta mettendosi esplicitamente «al. di fuori» della Chiesa stessa, talvolta rivendicando a sé la «vera» ortodossia, cioè la pretesa di rappresentare la «vera» fede. La risposta della Chiesa è stata storicamente assai differenziata: da un lato la minaccia ereticale ha incontrato una risposta «rigida», nel senso che gli esponenti di tali movimenti sono stati espulsi (quando essi stessi non si sono collocati «al di fuori») e perseguitati con ogni possibile mezzo, dall'altro lato ha incontrato una risposta «flessibile» di inclusione, invece che di esclusione, dalla quale sono nati frequentemente gli ordini monacali. In questo caso, l'istituzione ha risposto alla minaccia modificando la propria struttura, in particolare realizzando al proprio interno un processo di differenziazione capace di inglobare gli elementi di diversità. In generale si può dire che l'incapacità di dare risposte flessibili ai mutamenti interni o esterni riduce, almeno nel lungo periodo, le chances di adattamento e quindi di sopravvivenza di un'istituzione. l. Socializzazione e riproduzione sociale Immaginiamoci un lungo corteo: nelle prime fila vi sono tutte persone anziane, alcune molto vecchie, è quasi una vita che seguono il corteo e fra poco lo abbandoneranno; mano a mano che si passa alle fila che stanno più indietro l'età delle persone diminuisce e in coda vi sono i neonati che solo da poco si sono aggiunti al corteo. Il corteo procede da tanto tempo, da molto prima del tempo in cui coloro che ora sono più vecchi si sono messi in coda quando erano bambini. Pressoché ad ogni istante qualche vecchio abbandona il corteo e qualche bambino vi si aggiunge. Naturalmente, qualcuno abbandona il corteo prima di esserne arrivato alla testa, qualcuno subito dopo essersi messo in coda, ma, almeno nelle società moderne, la maggior parte lo percorre nel corso della sua vita in tutta o quasi la sua lunghezza. E corteo è una metafora della società che costantemente rinnova i propri membri. Attualmente nascono ogni anno in Italia poco più di mezzo milione di bambini. Su una popolazione di ca. 58 milioni, vuol dire che ogni anno la società italiana rinnova circa 1/100 dei propri membri. Come l'Italia si comportano tutte le altre società avanzate, ma in passato le cose non stavano così. Soltanto all'inizio di questo secolo l'età media della popolazione italiana alla nascita era di poco superiore ai 40 anni, mentre oggi è di circa 75 anni. La società rinnovava quindi i propri membri assai più rapidamente di quanto non avvenga ora ed ancora più rapidamente dovevano farlo le società del passato quando la vita media degli individui era ancora più breve. Ogni società, in altre parole, ha una vita che è assai più lunga della vita media degli individui che la compongono: esisteva già quando i suoi attuali membri non erano ancora nati e probabilmente esisterà, salvo eventi catastrofici, quando i suoi attuali membri saranno già tutti morti. Ogni società deve quindi assicurare la propria continuità nel tempo di fronte al 148 CAPITOLO 6 Sociafizzazione primaria e secondaria flusso incessante di membri in entrata e in uscita, è necessario cioè che essa disponga di pratiche ed istituzioni per trasmettere ai nuovi venuti una parte almeno del patrimonio culturale che ha accumulato nel corso delle generazioni: la socializzazione indica appunto il processo mediante il quale i nuovi nati diventano membri della società. Il patrimonio culturale di cui stiamo parlando non è qualcosa di semplice, di omogeneo e di stabile. Di esso fanno parte tutti quei valori, norme, atteggiamentì, conoscenze, capacità, linguaggi, che consentono alla società di esistere, di adattarsi al suo ambiente esterno e di modificare a sua volta se stessa e il suo ambiente. La società, inoltre, è essa stessa un'entità assai differenziata e lo è tanto di più quanto più è moderna; per rendere gli individui capaci di operare in una società differenziata, il patrimonio di cultura di cui tale società dispone non può essere trasmesso in blocco a tutti coloro che di volta in volta rappresentano le nuove leve. Ciò può avvenire soltanto in società primitive, molto semplici, assai poco differenziate, dove non esiste cioè una vera e propria divisione del lavoro. In società altamente differenziate e complesse, invece, una parte del patrimonio culturale, quella parte cioè che va a formare le competenze sociali di base, deve essere trasmessa a tutti i membri Pagina 79
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt della società, mentre una seconda parte, che comprende le competenze sociali specifiche, va distribuita in modo differenziato a seconda del grado e del tipo di divisione sociale del lavoro realizzata in quella particolare società. Le competenze sociali di base sono largamente indipendentì dalla posizione che gli individui occupano nella società; si tratta, in primo luogo, di acquisire un livello minimo di competenza comunicativa, cioè la capacità di usare il linguaggio per scambiare informazioni con gli altri membri e, inoltre, la capacità di entrare in rapporto con gli altri, scambiando affettività, prestazioni, risorse, che consentono lo sviluppo di legami sociali e di forme di cooperazione indispensabili all'esistenza stessa della società. Le competenze sociali specifiche, invece, sono quelle che consentono agli individui di svolgere ruoli particolari e comportano la capacità di usare linguaggi e di disporre di conoscenze condivise soltanto da coloro che sono coinvolti nell'esercizio di tali ruoli. L'insieme dei processi che sono volti ad assicurare la formazione delle competenze sociali di base è chiamata socializzazione primaria, mentre si indica col termine di socializzazione secondaria l'insieme dei processi di formazione delle competenze specifiche richieste dall'esercizio dei vari ruoli sociali. La socializzazione primaria copre i primi anni di vita del bambino, in genere grosso modo fino al raggiungimento dell'età scolare, mentre la socializzazione secondaria si colloca nella fase successiva e prosegue per tutto l'arco del ciclo di vita. Questa distinzione peraltro appare netta soltanto a livello concettuale, tra le due fasi in realtà non vi è una drastica soluzione di continuità e il passaggio dall'una aTaltra avviene di fatto in modo graduale. IDENTITA E SOCIALIZZAZIONE 149 Bisogna tener presente inoltre che ogni società è sempre in continuo mutamento, sia per rispondere ai cambiamenti che avvengono al suo esterno per l'influenza delle società vicine, sia per effetto della dinamica interna alla sua struttura. Ogni società deve affrontare continuamente problemi nuovi rispetto ai quali il suo patrimonio culturale si dimostra in parte inadeguato: vecchi modelli di comportamento si rivelano inattuali e ne devono essere elaborati di nuovi. Una parte del patrimonio culturale deve venire, per così dire, accantonata senza essere trasmessa alle nuove generazioni, mentre queste devono mostrarsi pronte a recepire le innovazioni che consentono di affrontare i nuovi problemi. Le agenzie alle quali sono affidati i compiti della socializzazione operano quindi in un campo inevitabilmente attraversato da esigenze contrastanti di conservazione e innovazione: da un lato vi sono coloro che spingono a socializzare le nuove generazioni nella tradizione, anche se questa mostra palesemente la propria inadeguatezza di fronte alle situazioni emergenti, dall'altro lato vi sono coloro che inducono a scartare sbrigativamente come sorpassati e non più adeguati molti contenuti culturali ai quali si erano alimentate le generazioni precedenti. Non molti decenni fa, ad esempio, era diffusa la pratica di fasciare i neonati in posizione rigida perché si riteneva che questo favorisse una crescita corretta, oggi questa pratica non solo è stata abbandonata, ma viene vista come un'inutile e dannosa costrizione della libertà di movimento. Lo stesso si può dire di moltissiini altri aspetti legati alla cura e all'educazione dell'infanzia e dell'adolescenza dove i cambiamenti, anche solo negli ultimi cinquant'anni, sono stati di grande portata. Anche nelle società sottoposte a intensi e rapidi processi di mutamento le esigenze della tradizione tendono comunque a prevalere per il fatto che il «nuovo» da introdurre e il «vecchio» da eliminare costituiscono nel complesso una parte limitata del patrimonio culturale da trasmettere alle nuove generazioni. Questo patrimonio, infatti, è il risultato di un processo di accumulazione iniziato molte decine di migliaia di anni fa, praticamente con la comparsa dell'uomo sulla terra. Ai nostri giorni, ad esempio, salvo casi patologici, un bambino impara a parlare con un apparato lessicale e grammaticale abbastanza ricco entro i tre anni di età e a scrivere nei primi anni della scuola elementare. Nei primi anni della sua vita il bambino si appropria di competenze comunicative che l'umanità ha acquisito nel corso di varie migliaia di anni e ripercorre a tappe forzate il cammino evolutivo dell'intero genere umano. Esiste un parallelismo quindi tra il processo di evoluzione della specie (filogenesi) e il processo di sviluppo dell'indì- Filogenesì viduo (ontogenesi). e ontogenesì 150 CAPITOLO 6 2. Il processo di socializzazione tra natura e cultura Si pone a questo punto un problema assai rilevante e complesso. In che misura questa è la domanda - il patrimonio accumulato dall'umanità nel corso della sua Pagina 80
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt lenta e lunga evoluzione viene trasmesso alle nuove generazioni sotto forma di informazioni genetiche (è cioè incorporato nel patrimonio genetico della specie) e in che misura, invece, deve essere appreso nel corso del processo di socializzazione? Non è possibile dare a questa domanda una risposta definitiva sulla base delle nostre attuali conoscenze. t certo comunque che i caratteri genetici di una popolazione sono modificabili solo in tempi molto lunghi e che variano a seconda dei tratti considerati e della storia dei contatti tra popolazioni diverse. Inoltre, ogni individuo dispone di una dotazione genetica del tutto unica e particolare derivante dalla combinazione irripetibile delle varie migliaia di geni presenti nei cromosomi umani. La domanda richiama antiche e sempre ricorrenti controversie nel campo dello studio dei fenomeni umani e ricompare costantemente sotto forma di contrapposizione tra natura e cultura, tra ereditarietà e ambiente, tra fattori genetici e fattori sociali, tra innatismo e ambientalismo e così via. Per quanto ne sappiamo, sia le concezioni che vedono lo sviluppo umano preminentemente determinato da fattori genetici, sia le concezioni opposte che attribuiscono un peso assolutamente determinante all'esperienza sociale sono entrambe da respingere nella loro unilateralità. Le ricerche sullo sviluppo dell'intelligenza e sulla genesi delle malattie mentali (per citare solo due esempi dove questa problematica emerge con particolare evidenza) hanno dimostrato la scarsa plausibilità delle teorie che si collocano unilateralmente sull'uno oppure sull'altro versante. Un approccio che cerchi di individuare le influenze reciproche nello sviluppo umano tra fattori biologici e sociali sembra assai più promettente. Per affrontare questo problema è utile considerare gli studi sul comportamento degli animali di cui si occupa l'etologia. Quando, ad esempio, osserviamo una gatta che partorisce, un ragno che tesse la sua tela, uno sciame di api che costruisce il suo alveare, oppure una rondine che prepara il nido per deporvi le uova, il comportamento di questi animali sembra chiaramente dettato dal loro istinto, cioè da informazioni che sono state loro trasmesse per via genetica e che appartengono al patrimonio genetico di quella specie particolare. Nessuno ha insegnato alle api le proprietà geometriche dell'esagono o al ragno le complesse leggi fisiche che regolano la distribuzione delle tensioni in una struttura reticolare. Essi si comportano tuttavia come se fossero a conoscenza di tutto questo e di fatto lo sono perché si tratta di informazioni che hanno ricevuto per via genetica. Anche gli animali comunque sono capaci di apprendere, cioè di incamerare attraverso l'esperienza certe informazioni e di utilizzarle per orientare il loro comportamento. Un esempio classico è fornito dai topi che imparano IDENTITA E SOCIALIZZAZIONE 151 ad evitare le esche avvelenate poste insieme al cibo. Ciò sembra che valga anche per le generazioni successive di topi che non hanno direttamente assistito agli effetti delle esche avvelenate sui loro consimili: si può presumere che essi abbiano sviluppato dei modi per comunicare tra loro, delle forme di linguaggio che rendono possibili processi di apprendimento. Molto spesso è difficile distinguere ciò che è imputabile all'istinto Apprendimento e ciò che invece dipende dall'apprendimento; si può tuttavia affermare che la differenza fondamentale tra gli animali e l'uomo consiste nel fatto che l'uomo ha una capacità di apprendimento straordinariamente maggiore alla quale si accompagna una dotazione istintuale assai meno specifica. Quando nascono, i neonati della specie umana sono in grado soltanto di piangere, di succhiare, di respirare e di dormire. La loro dotazione istintuale elementare si limita a queste capacità che sono certo di decisiva importanza per la sopravvivenza, ma non consentono loro, neppure nelle condizioni più favorevoli, di sopravvivere autonomamente se qualcuno non si prende cura di loro per un periodo relativamente lungo della loro esistenza postnatale. Alcune delle capacità fondamentali che distinguono l'uomo dalle altre specie animali sono depositate certamente nel suo patrimonio genetico. La posizione eretta, che consente la deambulazione utilizzando soltanto gli arti inferiori, dipende da una determinata configurazione dello scheletro e delle articolazioni, la capacità di afferrare oggetti dipende dalla particolare struttura della mano che consente di contrapporre il pollice alle altre dita, la capacità di emettere suoni articolati e cioè di parlare è legata all'assetto delle corde vocali, la capacità di compiere un numero molto elevato di operazioni mentali assai complesse dipende dal numero delle cellule cerebrali, dalla loro specializzazione e dalle loro connessioni, ecc. Queste varie capacità, e molte altre ancora, che sono contenute potenzialmente nel feto che cresce nel grembo materno e che si sviluppano gradualmente nel corso del processo di crescita Pagina 81
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dell'organismo, non sono però un dato puramente biologico, ma delle semplici potenzialità che hanno bisogno di essere attivate da un processo di sodalizzazione. Questo processo interviene a plasmare e modificare, favorire e ostacolare, il processo di crescita. Così, come dal seme non possiamo prevedere quale forma assumerà una pianta adulta perché sulla sua crescita influiranno in modo determinante le condizioni esterne (la natura chimico-fisica del terreno, le stagioni di pioggia e di siccità, l'esposizione al sole e ai venti ecc.), Così, anche se potessimo accertare con esattezza la composizione genetica di un feto, non saremmo in grado di prevedere solo su quella base il suo sviluppo futuro. Varie ricerche sullo sviluppo infantile hanno dimostrato che quando intervengono fattori ambientali esterni sfavorevoli certe capacità umane non si sviluppano, oppure si sviluppano solo in ritardo e in modo parziale o distorto. 1 bambini che crescono senza genitori e sen152 CAPITOLO 6 za altre figure adulte stabili di riferimento (ad esempio, gli orfani che vengono precocemente ricoverati in un istituto di assistenza) presentano spesso gravi ritardi nello sviluppo delle capacità motorie e verbali che si ripercuotono negativamente sullo sviluppo successivo delle loro capacità mentali. Si può quindi affermare che la dotazione genetica originaria condiziona, ma non determina, lo sviluppo delle capacità individuali. Altrettanto importanti per determinarne il corso effettivo saranno le pratiche di allevamento e di educazione e l'insieme delle esperienze che accompagnano l'infanzia, l'adolescenza e l'intero ciclo di vita dell'individuo. Ad esempio, Erik H. Erikson (uno psicanalista americano contemporaneo che si è molto occupato di socializzazione infantile), confrontando le pratiche di svezzamento delle tribù degli indiani Sioux e degli Irochesi, in uno studio del 1950, ha notato come lo stesso processo fisiologico dell'allattamento e della dentizione venga «trattato» nelle due culture al fine di produrre esiti diametralmente opposti: nel primo caso, visto che si tratta di una tribù di cacciatori di bisonti, al fine di stimolare l'aggressività, nel secondo caso, visto che si tratta di una società dedita alla pesca stagionale dei salmoni, al fine di stimolare l'autocontrollo e la restrizione alimentare. Senza coraggio e aggressività gli uni e senza la capacità di razionare il cibo in attesa della successiva stagione di pesca, gli altri, queste società non sarebbero riuscite ad adattarsi al loro ambiente e le loro pratiche di socializzazione, così come i loro rituali, erano perciò orientate a stimolare nei bambini la formazione di queste capacità. La comparsa delle mestruazioni, per fare un altro esempio, viene interpretata in modi radicalmente diversi nelle varie culture e questo fatto produce effetti diversi sullo sviluppo psicosessuale della donna. Gli stessi «eventi biologici» assumono quindi significati e danno luogo a pratiche di sodalizzazione diverse in culture diverse. Il percorso che conduce il neonato a diventare un individuo adulto e maturo non è un processo scandito esclusivamente dalle mutazioni di ordine biologico dell'organismo durante la crescita. In ogni fase di questo percorso la società interviene per determinarne l'esito e la successione di tali interventi, intenzionali e non intenzionali, voluti o subiti dal soggetto, definisce il corso del processo di sodalizzazione. Su questo punto torneremo comunque nel cap. XIV. 3. Le fasi della socializzazione primaria e la formazione dell'identità Alla nascita il bambino è un essere dotato di grande plasticità. Entro i limiti posti dalle caratteristiche biologiche della specie e dalla sua dotazione genetica specifica, egli ha di fronte una gamma molto vasta di possibilità di sviluppo, una molteplicità di biografie possibili delle quali solo una si realizzerà, come risultato delle esperienze che IDENTITA E SOCIALIZZAZIONE 153 segneranno A suo percorso. Per quanto ogni percorso sia assolutamente individuale, è possibile tuttavia fissare alcune fasi tipiche attraverso le quali passano tutti, o quasi, gli individui. Le modalità e gli esiti di una fase condizionano, anche se non determinano, le modalità e gli esiti delle fasi successive nel senso che ogni fase del processo di socializzazione pone le basi per le fasi che la seguono. Appena nato, il bambino non ha pressoché nessuna possibilità di influire sull'ambiente che lo circonda; non solo non ha scelto di venire al mondo, ma non ha scelto il mondo nel quale venire alla luce, il quale gli si presenta, impersonato essenzialmente dalla madre, come assolutamente determinato e Pagina 82
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt inevitabile. Il suo è un rapporto di assoluta dipendenza dalla persona che lo nutre, la sola che è in grado di soddisfare i suoi bisogni elementari e di liberarlo dallo stato di disagio che essi producono. La dipendenza caratterizza le prime esperienze che incominciano ad imprimersi stabilmente e a dare forma alla struttura psichica del neonato. Se questo rapporto di dipendenza risulta gratificante in quanto permette di allontanare lo stato di disagio indotto dai bisogni primari, egli svilupperà un rapporto di fiducia nei confronti dell'ambiente che lo circonda; al contrario, se non è in grado di comunicare adeguatamente il suo stato di bisogno e se le persone che hanno cura di lui non sono capaci di interpretare correttamente i suoi messaggi e quindi di soddisfare adeguatamente i suoi bisogni, egli svilupperà un rapporto di sfiducia verso l'ambiente che condizionerà anche le sue esperienze successive. Fin da queste primissime fasi risultano evidenti i meccanismi attraverso i quali opera il processo di socializzazione. Da un lato si sviluppa un rapporto carico di affettività tra la madre, dispensatrice di soddisfazioni, e il bambino che manifesta «attaccamento» nei suoi con- Attaccarnento fronti, dall'altro lato la madre, nel soddisfare i bisogni del bambino, incomincia a stabilire delle regole (relative, ad esempio, ai ritmi dell'allattamento), sulla base delle quali si formano delle aspettative reciproche di comportamento. Consideriamo gli aspetti salienti di questo processo: la natura dell'attaccamento affettivo, la reciprocità del rapporto adulto-bambino, la determinazione di modelli o regole di comportamento. L'importanza dell'attaccamento a una figura adulta che fornisca una base sicura dalla quale partire per l'esplorazione del mondo è stata particolarmente studiata da un gruppo di studiosi g. Bowlby, M. Ainsworth) che hanno combinato l'approccio psicoanalitico (che come è noto attribuisce grande peso alle esperienze della primissima infanzia) con l'approccio etologico (che studia i comportamenti materni nei primati). Essi hanno notato che il fatto di poter contare su un legame affettivo stabile e duraturo fondato su un rapporto fisico frequente (a rapporto con la madre o con la figura adulta che fa le sue funzioni) consente al bambino di sviluppare fiducia nell'ambiente e in se stesso e che la presenza di una base sicura alla quale poter ritornare favorisce 154 CAPITOLO 6 la capacità di esplorazione autonoma e quindi accresce le occasioni di apprendimento. La sicurezza della dipendenza, il sostegno fornito dal legame di attaccamento, risultano, alla luce di questi studi, fattori indispensabili per l'acquisizione dell'autonomia, mentre l'assenza di tale legame (nel caso, ad esempio, di orfani precocemente ricoverati in istituti di assistenza), oppure la sua rottura dovuta alla scomparsa permanente o temporanea della figura di attaccamento, hanno l'effetto di arrestare o comunque di rallentare notevolmente lo sviluppo delle capacità comunicative e motorie e, in genere, l'intero sviluppo affettivo e mentale del bambino. Queste ricerche hanno sensibilizzato gli studiosi dello sviluppo infantile a prestare molta attenzione alle forme di comunicazione non verbale (ad esempio, la risposta della madre al pianto e al sorriso) e al carattere di reciprocità dell'attaccamento e dell'interazione che si svolge tra adulto e bambino. La reciprocità dell'interazione adulto-bambino non è stata riconosciuta negli studi psicologici e sociopsicologici sull'infanzia di impostazione comportamentista che concepivano il processo di apprendimento nei termini del meccanismo stimolo/risposta. In base a questa impostazione, il bambino veniva visto come tabula rasa e l'adulto come l'artefice principale delle esperienze che si imprimono nella sua mente. In questo modello interpretativo il genitore agiva invariabilmente in funzione di stimolo mentre il bambino si limitava a rispondere. Numerose ricerche hanno dimostrato invece come il comportamento nei confronti del bambino non è esclusivamente l'espressione di un atteggiamento preesistente del genitore (e imputabile quindi a tratti della sua personalità), ma è molto spesso l'effetto di risposta che i comportamenti del bambino provocano sul genitore. Erik H. Erìkson chiarisce così questo effetto reciproco: 1 genitori che si trovano di fronte al problema dello sviluppo di un certo numero di bambini debbono rispondere costantemente ad una sfida, debbono crescere con loro. Noi falsiamo la situazione se arriviamo a un tal punto di astrattezza da affermare che i genitori hanno una detenninata personalità e in qualche modo riteniamo che questa, restando identica a se stessa, schiacci il piccolo essere. Infatti questa debole e piccola creatura trasforma con sé l'intera famiglia. I bambini hanno sulle loro famiglie lo stesso potere che quelle hanno su di loro. Quali che siano gli schemi di reazione dati Pagina 83
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt psicologicamente e l'ordine predeterminato dallo sviluppo, essi devono essere considerati come una serie di possibilità adatte a una varietà di comportamenti reciproci [Erìkson 1950, trad. it. 1972, 61-621. Prmì e punizionì Come abbiamo visto, nell'interazione tra adulto e bambino si vengono a stabilire delle regole (ad esempio, le regole relative agli orari dell'alimentazione e, in una fase successiva, le regole che controllano le funzioni escretorie) L'applicazione di regole di questo tipo comporta sempre in qualche modo un premio per il comportamento ad esse conforme e una punizione per il comportamento che da esse si scosta. IDENTITA E SOCIALIZZAZIONE 155 Sia il modello di apprendimento fondato sul meccanismo stimolo/risposta, sia il modello di imposizione di una regola fondato sul meccanismo premio/punizione possono essere riformulati nei termini di un modello di interazione che fa salvo il carattere di reciprocità del rapporto adulto-bambino. Prendiamo, ad esempio, una semplice sequenza di azione: il neonato piange (stimolo/segnale), la madre interpreta questo segnale come fame e nutre il neonato (risposta), questa risposta stimola a sua volta nel neonato un senso di appagamento che egli manifesta sorridendo. In questo esempio risulta chiaro come non solo lo stimolo iniziale parta dal bambino, ma anche come sia lo stesso bambino a chiudere la sequenza con un premio volto a confermare la madre circa l'adeguatezza del proprio comportamento. L'analisi del rapporto adulto-bambino come interazione consente di liberarsi dallo schematismo del modello in base al quale il premio stimola un comportamento desiderato (effetto di rinforzo), mentre la punizione, invece scoraggia un comportamento indesiderato. Questo schema, se può apparire adeguato per lo studio dell'apprendimento di semplici sequenze motorie nel caso di alcune specie animali (ad esempio, di come i topi riescono a districarsi in un labirinto alla cui uscita è collocato del cibo), risulta assai insufficiente se applicato ai complessi processi di apprendimento che sono alla base della socializzazione nella specie umana. Non sempre ricompense e punizioni hanno l'effetto di rafforzare A comportamento desiderato in quanto la loro efficacia dipende da una serie di fattori che riguardano il contesto dell'interazione. Un primo fattore è la coerenza con la quale tali sanzioni vengono applicate; talvolta accade infatti che nella pratica educativa lo stesso comportamento venga a volte premiato e a volte punito. Un secondo fattore è l'immediatezza con la quale il premio o la punizione seguono l'azione da rafforzare oppure da scoraggiare; anche in questo caso una risposta tardiva indebolisce l'effetto della sanzione. Ma, soprattutto, in particolare nel caso di punizioni, l'effetto può essere diverso e addirittura opposto a quello che l'educatore intende realizzare. La punizione può essere a tal punto temuta da produrre effetti non voluti: può ad esempio indurre la tendenza a mentire per evitare la sanzione, oppure può scatenare l'aggressività nei confronti dell'autorità inibitrice e punitiva e quindi evocare comportamenti ulteriormente punitivi. Inoltre, la volontà di evitare la punizione può essere neutralizzata dal desiderio di penalizzare il genitore o l'educatore. Il comportamento di trasgressione può assumere il significato di un messaggio indiretto e, come tale, spesso inconsapevole allo stesso bambino che lo manifesta. La somministrazione di premi e punizioni non deve quindi essere vista come un meccanismo esterno di condizionamento del comportamento, ma come un elemento che gioca e assume significato all'interno di un rapporto comunicativo reciproco che è carico di valenze affettive. Il tipo di premi e punizioni condiziona evidentemente anche la 156 CAPITOLO 6 loro efficacia. In generale, si può dire che le punizioni di carattere fisico inducono a un rispetto esteriore della norma, mentre le punizioni di carattere psicologico ne facilitano piuttosto l'interiorizzazione. Le ricompense di carattere psicologico consistono prevalentemente in segnali di approvazione e in dimostrazioni di affetto, mentre le punizioni consistono in segnali di ritiro o di sottrazione di affetto, o anche soltanto nella loro minaccia. Quanto più nelle pratiche di socializzazione tenderanno a prevalere le sanzioni positive di tipo affettivo, cioè le ricompense in termini di approvazione e sostegno, tanto più le prescrizioni ricevute diventeranno delle norme interiorizzate. Tuttavia, affinché l'interiorizzazione delle norme avvenga in modo adeguato è necessario che il bambino estenda i propri termini di riferimento dalle figure dei genitori al contesto sociale extra-familiare. Pagina 84
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Questo sviluppo è indicato da George H. Mead [19341, uno psicologo sociale americano che ha grandemente Altro influenzato lo sviluppo della sociologia, con il concetto di «altro genegeneralizzato ralizzato» che corrisponde largamente a quel processo di «decentramento» che l'epistemologo e psicologo svizzero jean Piaget [189619801 pone alla base dello sviluppo intellettuale e morale del bambino. Il bambino si trova ad agire in una cerchia di persone allargata e quindi, man mano che cresce, opera un'astrazione e generalizzazione dai ruoli e dagli atteggiamenti delle figure parentali ai ruoli e agli atteggiamenti in generale. In questo modo, i valori, le norme e le conoscenze che il bambino ha ricevuto dai genitori vengono rafforzate e sostenute dagli altri e assumono quindi una generalità sempre più ampia fino a includere la società nel suo complesso. La formazione dell'altro generalizzato e di una capacità di giudizio autonoma indica che il bambino non si identifica e si confronta più con altri concreti, ma con una generalità di altri che rappresentano l'intera società. Se prima egli obbediva ad una norma per gratificare il genitore e per ottenere la sua approvazione, ora egli la rispetterà autonomamente, poiché essa è venuta a far parte dell'immagine che egli si è fatto di se stesso, cioè della sua identità. Identità personale Si può dire che l'acquisizione dell'identità personale si esprime nella capacità di rispondere alla domanda: chi sono? Le risposte a questa domanda variano nel tempo e infatti il processo di socializzazione può essere visto come una successione di fasi nelle quali il soggetto sviluppa un'identità sempre più articolata e complessa. La prima fase di questo processo corrisponde all'acquisizione della capacità di riconoscere l'esistenza di un mondo esterno, di delimitare i confini, sia pure in modo grossolano ma comunque efficace, tra ciò che sta dentro di sé e ciò che sta fuori di sé. L'acquisizione di questo primo elemento embrionale di identità è mediato dal rapporto con la madre, tuttavia il bambino non ha ancora imparato a distinguere tra la madre e le altre persone; tutto ciò che lo circonda è «madre». In una fase successiva il bambino incomincerà a distinguere tra la IDENTITA E SOCIALIZZAZIONE 157 madre e gli altri adulti e quindi ad isolare le caratteristiche delle singole persone che si occupano di lui: la sua immagine del mondo sociale incomincia ad assumere le caratteristiche di un sistema di ruoli tra loro correlati all'interno del quale egli occupa una posizione particolare. In uno stadio ulteriore ha inizio la tipizzazione sessuale delle persone, all'età di quattro anni il bambino sa di regola distinguere tra maschi e femmine e sa riconoscere la propria appartenenza all'uno o all'altro genere. Questa identificazione viene indotta e suggerita dal trattamento differenziale che in genere viene riservato ai bambini e alle bambine fin dai primissimi mesi di vita. In ogni società, infatti, vi sono modelli di comportamento ritenuti più appropriati a seconda che si tratti di maschi o di femmine; al di là quindi delle differenze fisiche e biologiche, la socializzazione differenziale contribuisce all'acquisizione dell'identità di genere. L'eventuale presenza, inoltre, di fratelli e/o sorelle consente la sperimentazione di ruoli familiari di tipo orizzontale, cioè all'interno della stessa generazione, e rende più differenziato a sistema di ruoli familiari nell'ambito del quale ogni singolo soggetto definisce la propria identità. Su questo punto si veda oltre al cap. XIII. La formazione dell'idenfità personale, pertanto, corre parallela alla scoperta e all'elaborazione cognitiva del mondo sociale i cui confini si allargano per cerchi successivi (dalla famiglia, alla scuola, al gruppo di pari, ecc.) e che appare sempre più differenziato e complesso. Ad ogni stadio il soggetto assume ruoli nuovi che si aggiungono e si diversificano dai ruoli precedenti e così anche la sua identità diventa nello stesso tempo più differenziata e specifica. Questo processo, però, non si svolge in modo lineare e cumulativo e ad ogni svolta l'individuo deve ridefinire la propria identità in relazione alla ristrutturazione della mappa cognitiva del mondo sociale esterno. La nascita di un fratello o di una sorella, il primo giorno di scuola, il momento dell'uscita da un ciclo scolastico, la morte di un familiare, come tutti gli eventi salienti che si iscrivono nella biografia di un individuo, sono tutti momenti che segnano dei cambiamenti (più o meno drammatici) nell'identità personale in quanto questa riflette l'identità sociale, cioè l'insieme dei ruoli svolti dal soggetto nelle varie sfere della vita alle quali appartiene. In ognuno di questi momenti, il soggetto è posto di fronte alla necessità di «socializzarsi» alla nuova situazione, di definirla e strutturarla sia dal punto di vista cognitivo, sia dal punto di vista emotivo; in altre parole, è necessario che l'individuo cambi Pagina 85
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt e nello stesso tempo mantenga stabile la propria identità. Si tratta di momenti di inevitabile crisi dell'identità personale che comportano sempre difficoltà, pericoli di regressione e richiedono un investimento notevole di energia, sia da parte del soggetto stesso, sia da parte delle agenzie di socializzazione. Da un punto di vista analitico si possono distinguere due compo- Identificazione nenti nel processo di formazione dell'identità: una componente di identificazione e una componente di individuazione. Con la prima il soggetto fa riferimento alle figure rispetto alle quali si sente uguale o 158 CAPITOLO 6 simile e con le quali condivide determinati caratteri; l'identificazione conduce alla formazione del senso di appartenenza a un'entità collettiva definita come «noì» (la famiglia, la fratria, il gruppo dei pari, per arrivare via via alla comunità locale, alla nazione e, al limite, all'intera Individuazione umanità) Con la componente di individuazione, al contrario, il soggetto fa riferimento alle caratteristiche che lo distinguono dagli altri, sia dagli altri gruppi ai quali non appartiene (e, in questo senso, ogni identificazione/inclusione genera un'individuazione/esclusione), sia dagli altri membri del proprio gruppo rispetto ai quali il soggetto si distingue per le proprie caratteristiche fisiche e morali e per una propria storia individuale (biografia) che è sua e di nessun altro. 4. Socializzazione e classi sociali Finora abbiamo considerato il processo di socializzazione nelle sue caratteristiche generali; queste non devono nascondere però il fatto che le pratiche di socializzazione sono estremamente variabili non solo nel tempo (nella stessa società vista in epoche diverse) e nello spazio (in società diverse), ma anche all'interno della stessa società in ogni dato momento storico. Varie ricerche hanno dimostrato che la collocazione di classe, la condizione professionale e la natura specifica del lavoro svolto influenzano i valori, gli atteggiamenti e le pratiche educative dei genitori. L'interesse degli studiosi non ha dedicato molta attenzione alle pratiche di sodalizzazione delle famiglie appartenenti alle classi superiori, ma si è soffermato ad analizzare le differenze nei modi e nelle pratiche di socializzazione tra le famiglie di classe media e di classe operaia. L'attribuzione all'una o all'altra classe viene fatta in genere tenendo conto delle caratteristiche del lavoro svolto dal capofamiglia. Sono stati soprattutto due autori americani, Melvin Kohn [19741 e Leonard I. Pearlin [19711, a mettere in luce in una serie di ricerche condotte negli Stati Uniti e in Italia negli anni sessanta come il tipo di lavoro del padre condizioni i valori che i genitori tendono a trasmettere ai loro figli. Queste ricerche risentono senza dubbio dell'epoca nella quale furono condotte: la struttura di classe delle società avanzate ha subito in più di un quarto di secolo importanti modificazioni (v. cap. XI) e, tuttavia, mantengono una loro validità per cogliere il nesso tra struttura sociale e socializzazione. Gli autori citati hanno rilevato che i genitori di classe media si comportano al fine di incoraggiare i figli all'indipendenza, all'autonomia, all'autocontrollo, alla fiducia nelle proprie possibilità, alla capacità di afferrare le opportunità offerte dalla vita, mentre i genitori di classe operaia incoraggiano piuttosto alla conformità, apprezzano l'ordine e l'obbedienza e si preoccupano soprattutto che i figli non manchino di rispetto nei loro confronti. IDENTITA E SOCIALIZZAZIONE 159 Questi diversi valori e atteggiamenti si manifestano nelle diverse pratiche educative adottate e nel tipo di rapporti che prevalgono all'interno della famiglia. 1 genitori di classe media tendono a circondare i figli di maggiore attenzione e affettività, fanno appello alla volontà e kautocontrollo e utilizzano più spesso la minaccia del ritiro affettivo per ottenere conformità alle loro aspettative. Essi mostrano soddisfazione di fronte alla «riuscita» dei figli e li incoraggiano all'assunzione di responsabilità, offrendo loro maggiori opportunità di esplorazione e di sperimentazione. La dipendenza affettiva diventa in questo senso la necessaria risorsa di sostegno per poter dare il meglio di sé nell'affrontare i compiti posti dalle aspettative dei genitori. In questa prospettiva si spiega anche perché i genitori di classe media tendano a penalizzare più le intenzioni che le conseguenze di un'azione (non si punisce un bambino perché rompe un oggetto, ma perché dimostra scarso autocontrollo), a premiare più l'impegno che non il risultato e, comunque, a spiegare le ragioni dei divieti, dei premi e delle punizioni al fine di produrre l'interiorizzazione della norma piuttosto che la conformità esteriore alla stessa. Si è parlato in Pagina 86
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt questo caso dell'esercizio di un'autorità promotrice contrapposta ad un'autorità inibitoria. Nelle famiglie di classe operaia si nota una più rigida divisione tra ruolo paterno e ruolo materno, il padre interviene quasi Ruolo paterno esclusivamente come istanza punitiva e repressiva, mentre tutti gli altri e materno compiti legati alla cura e all'educazione dei figli sono di quasi esclusiva pertinenza della madre. L'ordine, l'obbedienza, la conformità a regole imposte dall'esterno risultano gli obiettivi educativi dominanti dei genitori di questa classe; essi, nell'imporre il rispetto dell'autorità paterna e l'osservanza delle regole fanno più frequentemente ricorso alle punizioni che non ai premi, le punizioni sono più spesso di natura fisica e sono volte a punire le conseguenze piuttosto che le intenzioni del comportamento. Ciò si accompagna in certi casi ad un comportamento incoerente nefl'applicazione delle sanzioni che si ripercuote sul bambino in termini di imprevedibilità delle reazioni del genitore e quindi di incontrollabilità delle conseguenze delle proprie azioni. L'identificazione coi genitori risulta pertanto assai spesso debole e la conformità alle regole realizzata prevalentemente al puro scopo di evitare la sanzione. Queste differenze nelle pratiche educative sono riconducibili alla diversa struttura dei rapporti familiari nelle varie classi e alla diversa cultura assimilata dall'esperienza lavorativa. Molti autori descrivono quella operaia come una famiglia nella quale i rapporti tra i coniugi sono di tipo patriarcale, dove vale una rigida divisione del lavoro tra membri di sesso diverso, dove il padre domina in virtù del suo ruolo di procacciatore di risorse, anche se risulta modesta la sua presenza in termini di tempo e di investimenti affettivi nella vita familiare. Anche i rapporti tra marito e moglie tendono ad essere improntati al principio dell'autorità maschile e la stessa differenza si riproduce tra figli 160 CAPITOLO 6 maschi e figlie femmine che vengono sottoposti a un trattamento educativo differenziale. Per i maschi, ad esempio, assume presto importanza il gruppo dei pari esterno alla famiglia, mentre alle figlie femmine vengono imposte delle restrizioni nei rapporti sociali esterni alla sfera familiare e parentale. Inoltre, le condizioni abitative, l'affollamento dell'alloggio, l'assenza di spazi di autonomia anche fisici al suo interno, l'attenzione che deve essere riposta nella conservazione degli arredi, impongono una serie di restrizioni che ostacolano lo sviluppo dell'autonomia e dell'iniziativa individuali. Per contro, la famiglia di classe media mostra una tendenza allo sviluppo di rapporti più egualitarì sia tra i coniugi, sia tra genitori e figli. La tradizionale famiglia borghese, improntata sulla forte presenza dell'autorità paterna, sembra oramai soltanto un ricordo. Per le famiglie di classe media il problema principale non è più quello di assicurare la continuità familiare attraverso la trasmissione e l'accumulazione del patrimonio, ma attraverso la trasmissione di atteggiamenti e capacità orientate al successo e alla mobilità sociale. 1 vari momenti del ciclo familiare risultano accuratamente pianificati, dalla nascita dei figli alla costruzione della casa, all'acquisto di beni durevoli, all'educazione dei figli. Si è parlato in proposito di una famiglia puerocentrica proprio per la grande importanza che viene attribuita all'educazione come valore e come garanzia di riuscita nella vita. Nell'educazione dei figli viene particolarmente stirnolata la capacità di differire le gratificazioni e di programmare il proprio tempo di vita in vista del perseguimento di obiettivi socialmente apprezzatì. Molte ricerche hanno messo in luce che i bambini di classe Motivazione media presentano una più spiccata motivazione al successo; essa incoal successo mincia a svilupparsi già in età prescolare e trova poi nella scuola un campo in genere favorevole alla sua ulteriore manifestazione. La motivazione al successo comporta una positiva valutazione di sé che viene continuamente stimolata e rafforzata dai risultati raggiunti e daH'abitudine a misurarsi competitivamente con gli altri. Vi sono due ragioni che spiegano perché la motivazione al successo è lontana dai valori e dagli atteggiamenti che i genitori di classe inferiore tendono a trasmettere ai loro figli. La prima ragione si riferisce al fatto che quando la valutazione di sé dipende dai risultati raggiunti nel perseguimento di mete socialmente apprezzate (successo professionale, prestigio, ricchezza, potere ecc.), ogni insuccesso diventa una seria minaccia all'organizzazione psichica. Chi ha scarse possibilità di realizzare mete sociali elevate, dovrà necessariamente fare ricorso ad altri meccanismi di autovalutazione ed imputare, almeno in parte, l'eventuale Pagina 87
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt insuccesso all'avversità delle circostanze esterne piuttosto che alla propria inadeguatezza. La seconda ragione si riferisce al fatto che gli appartenenti alla classe inferiore sono più spesso di altri confrontati con situazioni nelle quali il problema principale è quello di realizzare forme di solidarietà collettiva piuttosto che quello di prevalere in situazioni di competitività individuale. IDENMA E SOCIALIZZAZIONE 161 La motivazione al successo non occupa un posto centrale, ma per ragioni del tutto diverse, neppure nell'orizzonte delle mete educative dei figli delle classi superiori. In questo caso lo status sociale della famiglia fornisce una solida garanzia contro i rischi dell'insuccesso; inoltre, la disponibilità di risorse facilita l'accesso ai servizi educativi migliori (scuole private, insegnanti di sostegno ecc.), le difficoltà non appaiono mai insormontabili e i genitori non avvertono un'acuta preoccupazione di equipaggiare i loro figli per la lotta per il successo. Questa è una delle ragioni per le quali i figli dei ricchi appaiono spesso assai diversi dai loro padri; per loro la vita è stata così «facile», ogni loro desiderio è stato così prontamente appagato che non si è potuto sviluppare il meccanismo di differimento delle gratificazioni sul quale si basa la formazione della motivazione al successo. Le pratiche di socializzazione volte a stimolare la formazione della motivazione al successo sembrano quindi decisamente prevalere a livello di classe media dove rispondono alla preoccupazione dei genitori di assicurare ai loro figli, da un lato, almeno il raggiungimento della loro posizione sociale, il cui mantenimento di generazione in generazione non risulta per nulla garantito, e, dall'altro lato, di consentire un ulteriore avanzamento nella scala sociale. Bisogna tener presente, però, che analisi di questo tipo colgono soltanto alcune differenze di ordine molto generale e che le situazioni concrete sono sempre assai più diversificate e complesse. E concetto di classe media, ad esempio, copre realtà molto eterogenee anche per quanto riguarda i temi che ci interessano in questa sede. Un conto è infatti quella frazione, di classe media composta da famiglie di artigiani, piccoli industriali, piccoli commercianti ed agricoltori che vedono ancora nei figli i possibili continuatori della loro attività, un conto sono i ceti medi intellettuali e quelli legati alle tradizionali professioni liberali e un conto, ancora, sono i ceti medi impiegatizi. In particolare, le trasformazioni avvenute nell'organizzazione del lavoro hanno molto avvicinato le condizioni di vita e di lavoro sia della classe operaia, sia della classe impiegatizia e quindi sfumato i confini tradizionali tra le classi dei «colletti bianchi» e delle «tute blu». t probabile quindi che anche le differenze di classe nelle pratiche di socializzazione tendano ad attenuarsi nel tempo. Questi processi si ripercuotono anche all'interno della sfera familiare. Con il processo di industrializzazione e la diffusione del lavoro dipendente in grandi organizzazioni, la figura del padre, in particolare, risulta sbiadita e svalutata, la sua autorità nell'ambito della famiglia non trova più ancoraggio e sostegno nel suo ruolo produttivo e professionale e appare quindi svuotata; soprattutto, viene a mancare un rapporto diretto tra padre e figlio legato all'esempio concreto e alla possibilità di fare esperienze insieme, la figura del padre diventa invisibile e assente. Scrive in proposito Alexander Mitscherlich, uno psicanalista e sociologo tedesco, acuto osservatore di questi processi: 162 CAPITOLO 6 Autoritarismo Personalità eterodiretta e autodiretta la parcellizzazione progressiva del lavoro, legata alla produzione di massa meccanizzata e alla complessa gestione e amministrazione della società, la scissione tra luogo di lavoro e luogo di abitazione, il passaggio dalla condizione di produttore indipendente a quella di operaio o impiegato che percepisce un salario e acquista beni di consumo, hanno contribuito incessantemente allo svuotarsi della auctoritas e al restringersi della potestas del padre, dentro e fuori della famiglia [1963, trad. it. 1970, 1821. In base a questa interpretazione, si ritiene che la pretesa di dominio da parte del padre e la sua impotenza di fatto tenda a trasformare l'autorità in autoritarismo e favorisca nei figli la formazione di una personalità a un tempo conformistica e autoritaria che cerca in potenze collettive esterne un sostituto alla figura paterna. In importanti ricerche condotte prima della Il guerra mondiale in Germania e successivamente negli Stati Uniti (Studi su autorità e Pagina 88
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt famiglia del 193 6 e La personalità autoritaria del 1950), gli autori della cosiddetta scuola di Francoforte, in particolare Max Horkheimer, Theodor Adorno e Herbert Marcuse hanno voluto spiegare in questi termini la matrice sociopsicologica del fascismo e del cosiddetto «estremismo dei ceti medi». Questi ceti si sentirebbero minacciati nella loro esistenza sociale sia dal grande capitale sia dal movimento operaio e risponderebbero a questa minaccia sul piano politico con ideologie di acceso nazionalismo e razzismo e con l'autoritarismo sul piano dei rapporti familiari. Vari autori sostengono che le trasformazioni che danno luogo alla formazione di diversi e nuovi tipi di personalità, e quindi alla modificazione delle forme di socializzazione, sono da imputare al passaggio dalla società industriale ad una società tardo -industriale di massa. Agli inizi della società industriale, le esigenze di formazione del capitale tendevano a prevalere sulle esigenze di consumo e richiedevano quindi forme di socializzazione fondate sul principio del differimento delle gratificazioni e quindi di interiorizzazione del codice normativo. Nella società industriale di massa, invece, le esigenze del consumo prevalgono su quelle della accumulazione e le pratiche di socializzazione tenderebbero piuttosto a favorire la conformità alle aspettative sociali del gruppo dei pari o del gruppo di riferimento piuttosto che l'interiorizzazione delle norme fatte valere dall'autorità paterna. In riferimento a questa trasformazione, David Riesman [19531 ha parlato del prevalere, nella società tardo -industriale di massa, di un tipo di personalità eterodiretta, fortemente dipendente dal giudizio dei pari e dai messaggi dei media, contrapposta al tipo di personalità autodiretta prevalente nelle epoche precedenti e dipendente da criteri di valore interiorizzati. Il concetto di società di massa, al quale questo tipo di analisi fa riferimento, tende però a nascondere le differenze che all'interno di ogni società si osservano tra le varie classi sociali. Ora, anche se è senz'altro vero che il declino dell'autorità parentale investe nelle società moderne tutte le classi sociali, resta pur sempre il fatto che nelle classi inferiori prevalgono ancora atteggiamenti e pratiche educative IDENTITA E SOCIALIZZAZIONE 163 più autoritarie e restrittive, mentre nelle classi medie e medio-alte l'educazione dei figli è improntata a modelli di maggiore permissivi~ smo e questo dato richiede comunque una interpretazione. Per Mchinley, ad esempio, gli individui che nell'attività lavorativa non sono in grado di esprimere l'insieme delle proprie capacità, che dal loro lavoro ricevono scarse soddisfazioni morali e materiali, che sono sottoposti a controlli rigorosi ed assidui e che pertanto subiscono continuamente umiliazioni e frustrazioni, tendono a ricercare in altre sfere della vita soddisfazioni compensative che assicurino il mantenimento di un'immagine positiva di sé. In famiglia, in particolare, riuscirebbero ad esprimersi quelle componenti di carattere emotivo che rispondono a bisogni di natura affettiva, ma anche aggressiva e regressiva, che devono venire costantemente represse nell'ambito del lavoro. Ciò, d'altra parte, può avvenire soltanto facendo ricorso a modelli di comportamento che sono incorporati nel repertorio di ogni individuo e, soprattutto, a quelli esperiti e rafforzati dall'esperienza lavorativa, solo che, in questo caso, i ruoli risulterebbero invertiti, chi sul lavoro è costantemente sottomesso all'autorità altrui, diventa in famiglia il dominatore, l'aggredito diventa aggressore, il perseguitato diventa il persecutore. Nei confronti dei figli (e della moglie) il soggetto si comporterebbe quindi come il proprio capo si comporta nei suoi confronti. Se pensiamo al lavoratore come ad un individuo sottoposto sul luogo di lavoro a pratiche di socializzazione, possiamo dire che egli tende a riprodurne il modello quando in famiglia diventa a sua volta agente di socializzazione per i propri figli. In questo modo la socializzazione secondaria retroagirebbe sulla socializzazione primaria in una sorta di circuito che passa da generazione a generazione. Per quanto questa interpretazione possa apparire plausibile sul piano psicologico (è nota, ad esempio, nella letteratura umoristica la figura alla Fantozzi dell'impiegato sottomesso all'autorità del capoufficio che a casa fa il despota con la moglie e con i figli), ci sembra che essa vada integrata con una spiegazione più strettamente sociologica. A questo proposito la Neumann-Schonwetter scrive che «i genitori mediano ai loro figli le capacità cognitive e motivazionali che sono rilevanti per la soluzione dei problemi determinati dalla loro posizione sociale» [1971, il. In altre parole le pratiche di socializzazione più restrittive e autoritarie della classe inferiore Pagina 89
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt avrebbero una razionalità nascosta, consentirebbero cioè la formazione di personalità capaci di meglio affrontare la dura realtà alla quale i bambini appartenenti a questa classe sono nella maggior parte dei casi destinati. Afla luce di questa interpretazione, il comportamento dei genitori non svolge tanto una funzione di compensazione alle frustrazioni esperite nella sfera lavorativa, quanto piuttosto è la stessa esperienza lavorativa a fornire i modelli di relazioni interpersonali ai quali orientare la socializzazione dei propri figli. Se per socializzazione intendiamo la trasmissione di quei tratti della personalità che consentono di affrontare la realtà della 164 CAPITOLO 6 vita in età adulta, risulta chiaro come i genitori operino come agenti di socializzazione prendendo come riferimento la realtà che conoscono, della quale l'attività lavorativa è evidentemente una parte assai consistente. L'esito, però, è bene ricordarlo, non è la riproduzione della stessa cultura identica a se stessa di generazione in generazione; proprio la perdita di funzioni di socializzazione da parte della famiglia a favore di altre agenzie e A declino dell'autorità parentale, ai quali abbiamo fatto riferimento, garantiscono il mutamento al di là della riproduzione sociale. Inoltre, come abbiamo sopra accennato, le trasformazioni nell'organizzazione del lavoro indotte e rese possibili dalle moderne tecnologie, l'accresciuta mobilità tra mansioni diverse, l'esigenza di un adattamento flessibile tra mansioni e coloro che le svolgono, fanno sì che i riflessi della divisione del lavoro sulle pratiche di socializzazione non debbano essere visti in modo meccanico e troppo deterministico. Non bisogna dimenticare, inoltre, che la collocazione di una famiglia nella struttura di classe non dipende più soltanto dallo status lavorativo del padre, ma, sempre più frequentemente, anche della madre. La crescente presenza di donne sposate con figli che svolgono un'attività lavorativa extradomestica tende a trasformare i ruoli all'interno della famiglia e quindi anche le pratiche di socializzazione. Le ragazze, in particolare, sperimentano oggi all'interno della famiglia modelli di comportamento ben diversi da quelli prevalenti solo pochi decenni fa quando erano socializzate pressoché esclusivamente al loro ruolo futuro di mogli e di madri. s0cialiUanone .sec<m&rá . Rua. UIniffiar.i S. La socializzazione secondaria Per rendersi conto della natura dei processi che i sociologi usano denotare col termine di socializzazione secondaria è utile partire da una considerazione dei fini che tali processi devono tendere a realizzare. Definiremo infatti socializzazione secondaria quell'insieme di prati che messe in atto dalla società che consentono agli individui di assu~ mere ed esercitare ruoli adulti. Poiché tali ruoli sono, come vedremo immediatamente, straordinariamente vari e differenziati, il compito della socializzazione secondaria consiste nella formazione delle capacità sociali specifiche necessarie all'esercizio dei ruoli stessi. Le società moderne sono società altamente differenziate, cioè comprendono una gamma molto ampia di ruoli e di relative posizioni. Ogni individuo ricopre nella società una pluralità di ruoli i quali si collocano in sfere di vita separate tra loro. Vi è la sfera dei ruoli familiari, dove nello stesso tempo un individuo può essere figlio dei propri genitori, marito o moglie del proprio coniuge, padre o madre dei propri figli, nonno o zio dei propri nipoti e così via. Vi è la sfera dei ruoli lavorativi che si differenziano a seconda del ramo di attività (agricola, IDENUTA E SOCIALIZZAZIONE 165 industriale, commerciale, amministrativa ecc.), del tipo di mestiere e di mansione (avvocato, calzolaio, rammendatrice, tornitore, ecc.), del tipo di posizione gerarchica nell'organizzazione del lavoro (dirigente, capo intermedio, impiegato di concetto, impiegato d' ordine, operaio qualificato, operaio comune, ecc.) e in base a molte altre caratteristiche. Vi è la sfera dei ruoli relativi alle attività amicali e del tempo libero dove un individuo può essere giocatore di poker, frequentatore di un certo bar, campione di biliardo, membro di un club sportivo o della società per la protezione degli animali, ecc. Vi è poi la sfera dei ruoli che riguardano la partecipazione sociale e politica dove un individuo può ricoprire il ruolo di membro dell'assemblea dei genitori della scuola dei suoi figli, presidente di una commissione del consiglio di zona, tesoriere della sezione locale del suo partito o del sindacato dell'azienda presso la quale Pagina 90
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt lavora, ecc. Gli esempi si potrebbero moltiplicare all'infinito. L'insieme dei ruoli svolti da un individuo si designa in genere con il termine inglese role set. Inoltre, e questo aspetto è assai importante per i processi di socializzazione secondaria, la composizione dell'insieme dei ruoli svolti da un individuo muta continuamente nel tempo lungo l'arco della vita. In ogni sfera di vita ogni individuo compie un proprio percorso che in parte può essere tipico di molti altri individui, in parte del tutto personale. Nella sfera dei ruoli familiari, ad esempio, si possono identificare una serie di tappe attraverso le quali passano, sia pure in momenti e in circostanze diverse della loro vita, la maggior parte degli uomini e delle donne: nella famiglia d'origine possono nascere fratelli o sorelle minori, ad un certo punto il soggetto deciderà di lasciare la casa dei genitori e di iniziare un'altra forma di convivenza, potrà vivere da solo, sposarsi e vivere in coppia con un'altra persona, avrà dei figli i quali inizieranno a loro volta il loro percorso, i propri genitori prima o poi verranno a mancare come prima erano venuti a mancare i nonni e così via. Vari altri eventi potranno segnare il percorso ed ogni tappa segnerà un cambiamento nei ruoli familiari del soggetto. Nella sfera educativa, in quella lavorativa e in ogni altro campo dove l'individuo svolge dei ruoli si verificheranno varie serie di cambiamenti: il passaggio da un ordine di scuola ad un altro, da un tipo di scuola ad un altro, la fine degli studi, la ricerca di un lavoro, il passaggio da un lavoro all'altro, da un livello ad un altro della stessa carriera, vi potranno essere cambiamenti di residenza legati a cambiamenti di lavoro, la necessità di ricostruire reti amicali e di solidarietà e, inoltre cambiamenti di fede politica, di adesione ad un partito, ad un sindacato, ad una associazione. La biografia di ogni individuo può essere vista da questo punto di vista come un intreccio di percorsi ognuno dei quali è segnato da una serie di svolte, ora brusche e drammatiche, ora graduali e quasi impercettibili, ognuna delle quali interferisce, condiziona ed è condizionata dalle svolte che costellano gli altri percorsi. 166 CAPITOLO 6 Ogni svolta in ogni percorso comporta l'abbandono di un ruolo e l'assunzione di un ruolo nuovo, oppure la ridefinizione dei contenuti di ruolo in termini di aspettative reciproche e di prestazioni richieste. Inoltre, ogni svolta nell'ambito di un ruolo produce una serie di aggiustamenti in tutti gli altri ruoli dell'individuo il quale deve quindi ristabilire l'equilibrio dinamico in tutti i settori nei quali si svolge la sua esistenza. La vita di ogni uomo è dunque una successione di svolte, grandi e piccole, improvvise o graduali, alcune perseguite consapevolmente e frutto dell'azione intenzionale del soggetto, altre, invece, subite e provocate da modificazioni dell'ambiente esterno che il soggetto non può controllare. Ad ognuna di esse l'individuo deve ridefinire la propria situazione in modo più o meno globale a seconda dell'importanza della svolta. Questa ridefinizione comporta una serie di operazioni: la disattivazione di atteggiamenti, comportamenti, capacità e aspettative che valevano nella situazione precedente alla svolta, l'attivazione di nuovi atteggiamenti, comportamenti, adeguati alla nuova situazione, la gestione delle ripercussioni del cambiamento su tutti gli altri ruoli svolti in modo da controllare gli effetti di nuovi conflitti di ruolo emergenti e garantire il mantenimento della propria identità personale nel tempo di fronte al cambiamento della situazione. Per ognuna di queste operazioni si pongono dei problemi di apprendimento; in altre parole, per fronteggiare la nuova situazione, l'individuo non può far ricorso esclusivamente al repertorio di atteggiamenti, comportamenti, competenze appresi precedentemente, ma deve arricchire tale repertorio (in ciò consiste appunto l'apprendimento) e neutralizzare quegli elementi acquisiti che risultano non solo inefficaci, ma molto spesso addirittura dannosi nella nuova situazione. Sono note, ad esempio, le difficoltà che chi ha lavorato per tutta la vita incontra nel momento del pensionamento. Egli si trova il più delle volte da un giorno all'altro a dover affrontare una situazione di disponibilità, se non altro, di tempo, rispetto alla quale gran parte di ciò che ha appreso e fatto in passato risulta inutilizzabile e talvolta ingombrante. Egli deve imparare a vivere non soltanto in relazione a quello che era, ma soprattutto in relazione a quello che è oggi, deve attivare nuovi interessi e sensibilità e anche riattivare interessi e capacità che erano state trascurate e cadute in disuso per un lungo periodo. Egli deve socializzarsi ed essere socializzato alla nuova situazione di pensionato e può farlo ricorrendo ad una serie di modelli e di Pagina 91
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt strategie di comportamento che sono, almeno in parte, nuove e che devono essere apprese. Questo esempio ci dimostra come la socializzazione sia un processo continuo che si svolge lungo tutto l'arco del ciclo di vita. Di questa continuità bisogna peraltro sottolineare due aspetti. 19 primo si riferisce alla natura più o meno cumulativa dei processi di apprendimento che accompagnano la socializzazione: lungo tutto l'arco della socializzazione primaria e per gran parte della socializzazione secondaria ogni IDENTITA E SOC1ALIZZAZIONE 167 fase del processo si fonda sulle fasi precedenti e le presuppone, ogni nuovo apprendimento utilizza in gran parte elementi già appresi e non può farne a meno anche se non si esaurisce in essi. Quando l'apprendimento di cose nuove entra in conflitto e risulta incompatibile con una parte di quanto è già stato appreso, questa parte deve in qualche modo essere accantonata per far posto e rendere possibile l'acquisizione del nuovo. Vi è accumulazione quando i processi di apprendú-nento superano di gran lunga per entità e importanza i processi di disapprendimento (nella letteratura tedesca si usa in proposito il termine assai pregnante di Verlernen). Oltre una certa età, invece, variabile da individuo a individuo, anche in relazione al deterioramento delle funzioni cerebrali, diminuisce o si arresta del tutto la capacità di apprendere cose nuove e quanto è stato appreso in precedenza viene selettivamente eliminato man mano che non risulta più utilizzabile nella prassi quotidiana. Non bisogna quindi confondere tra processi di sociafizzazione e processi di apprendimento nonostante il nesso evidente che esiste tra i due. 11 secondo aspetto della continuità del processo di socializzazione consiste nel fatto che passando dalla socializzazione primaria a quella secondaria il soggetto acquisisce un controllo sempre maggiore sul processo stesso, egli diventa - in altri termini - un agente della sua stessa socializzazione, capace di compiere delle scelte che indirizzano il processo e condizionano l'azione degli agenti di socializzazione. 6. Gli agenti della socializzazione secondaria La scuola è la prima istituzione sociale extradomestica con la quale Scuola l'individuo entra in rapporto e l'ingresso nella scuola segna convenzionalmente l'inizio della socializzazione secondaria. La scuola rappresenta un ambiente qualitativamente diverso da quello domestico nell'orizzonte del quale si è svolta prevalentemente la socializzazione primaria. La figura dell'insegnante, per quanto possa spesso assumere atteggiamenti di stampo familiare e di tipo materno o paterno, è quella del portatore di un ruolo sociale specifico, definito da caratteristiche oggettive di competenza e da norme impersonali di prestazione. Nell'interazione con l'insegnante il bambino impara prima di tutto modelli di comportamento adeguati ad una situazione definita in termini di rapporti di autorità assai più impersonali di quelli esperiti nella situazione familiare. 1noltre, nella situazione scolastica A bambino imparerà in modo assai più esplicito che non nella precedente esperienza familiare a strutturare la propria azione in termini di rapporto mezzi/fini: gli vengono indicati degli obiettivi di apprendimento (ad esempio, la capacità di risolvere un problema di geometria), i mezzi adeguati per realizzarli (lo svolgimento di determinati esercizi), i criteri per verificare se l'obiettivo è stato o meno raggiunto e la sua prestazione viene 168 CAPITOLO 6 Gruppo dei pari solid * à e competizione valutata e sanzionata positivamente o negativamente mediante un sistema di incentivi e disincentivi. Sulla base delle proprie prestazioni, lo scolaro viene indotto a confrontarsi, in modo esplicito o implicito con i propri compagni ed a sperimentare quindi una situazione oggettivamente competitiva, oppure viene stimolato a cooperare con essi al fine della realizzazione di un obiettivo comune. La socializzazione scolastica, quindi, al di là dei contenuti specifici dell'insegnamento, trasmette, in base al modo in cui viene attuata e al tipo di rapporti sociali nei quali si esplica, una serie di modelli di comportamento che si rifanno ai principi di autorità, di prestazione, di competizione e di cooperazione. Sulla scuola e le istituzioni educative in genere torneremo in seguito nel cap. XVII. I principi di autorità, di prestazione, di competizione e di cooperazione sono al centro anche dei processi di socializzazione che hanno luogo nell'ambito dell'organizzazione del lavoro. Non è qui il caso di entrare nel merito dei Pagina 92
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt problemi specifici della formazione professionale. t però utile ricordare che, oltre a questa, l'intera vita lavorativa è costellata di momenti e fasi di apprendimento, formali e informali, a seconda della frequenza con cui si verificano mutamenti di posto di lavoro (mobilità lavorativa), oppure si trasformano le mansioni per effetto del cambiamento tecnologico e organizzativo. La stessa organizzazione del lavoro (composta da superiori, esperti, formatori, compagni di lavoro, ecc.) diventa un agente di sodalizzazione. Grande importanza nei processi di socializzazione secondaria ha, inoltre, il gruppo dei pari. Gli studi sul processo di socializzazione pongono generalmente l'accento sulla natura asimmetrica del rapporto tra gli agenti di socializzazione (famiglia, scuola, organizzazione), dotati di una autorità pedagogica, e i destinatari della loro azione, coloro che devono essere socializzati. 19 riconoscimento del fatto che nella sociaUzzazione è sempre presente qualche momento di reciprocità (cioè di influenza dei figli sui genitori, degli allievi gli insegnanti ecc.) non fa venire meno la natura fondamentalmente asimmetrica del rapporto. Di sodalizzazione si può parlare però anche nei rapporti tra pari, cioè tra individui che sono formalmente sullo stesso piano e tra i quali non esiste un rapporto sanzionato di autorità o di subordinazione. Fratelli e sorelle sono pari nei confronti dei genitori, gli alunni sono pari nei confronti degli insegnanti, i compagni di lavoro sono pari nei confronti dei capi ecc. Inoltre, vi sono molte attività dove i ruoli non sono necessariamente gerarchizzati, come nei gruppi che si formano nelle attività di tempo libero, nei gruppi amicali, nelle associazioni volontarie, e dove quindi prevalgono relazioni simmetriche tra le persone che fanno parte di tali gruppi. 1 rapporti all'interno di un gruppo di pari si collocano tra le due polarità della solidarietà e della competizione. Si può dire che l'effetto di socializzazione del gruppo sui membri che lo compongono si manifesta in termini di apprendimento dei modelli di azione sofidaristica e IDENUTA E SOCIALIZZAZIONE 169 di azione competitiva. L'agire solidaristico si fonda sul sentimento di appartenenza in virtù del quale i membri di un gruppo sottolineano. ciò che li accomuna e quindi li rende uguali; l'agire competitivo si fonda, invece, sul sentimento di individualità e tende a differenziare tra di loro i membri del gruppo. Nell'ambito delle organizzazioni ordinate gerarchicamente gruppi informali tendono a formarsi lungo linee orizzontali tra persone che occupano lo stesso livello o livelli simili e che si contrappongono antagonisticamente a coloro che si collocano a livelli inferiori o superiori. In questo caso la solidarietà riduce la competizione tra i membri del gruppo. Dove invece la competitività orizzontale è elevata, la solidarietà di gruppo risulterà scarsa, oppure si svilupperà nella dimensione verticale tra persone appartenenti a livelli diversi. La caratteristica, comunque, che definisce l'esistenza di un gruppo di qualsiasi natura, è la presenza di qualche forma di solidarietà che nei casi limite annulla, ma nella maggior parte dei casi controlla e regola la competitività al suo interno, oppure la indirizza verso altri gruppi esterni. L'importanza del gruppo nel processo di socializzazione consiste appunto nel fatto che mediante l'esperienza di gruppo l'individuo interiorizza, o comunque si conforma alle norme che regolano la competitività e quindi rendono possibile la cooperazione. 1 gruppi possono essere della natura più diversa a seconda dell'ambito nel quale si formano (gruppi di vicinato, di compagni di scuola, di colleghi di lavoro ecc.), del tipo di scopo che perseguono (ludico, ricreativo, culturale, politico ecc.), del tipo di rapporti che intercorrono tra i loro membri, della frequenza dell'interazione al loro interno, dell'ampiezza, degli scambi che mettono in atto con altri gruppi oppure con istituzioni. Essi inoltre possono essere, come abbiamo già visto nel cap. III, formali o informali a seconda della presenza o meno di una organizzazione che stabilisca una serie di regole esplicite per il loro funzionamento. Tra queste regole particolarmente importanti sono quelle che governano i meccanismi di reclutamento dei membri del gruppo in quanto esse sono volte ad accertare se un individuo possiede i requisiti richiesti per l'appartenenza, se è stato adeguatamente socializzato al ruolo di membro del gruppo, oppure se possiede le caratteristiche per poter essere successivamente socializzato ed entrare a pieno titolo nel gruppo. In quest'ultimo caso, si dà luogo alla creazione di un ruolo transitorio, quello di aspirante, e a un periodo transitorio di aspettativa, che segnano una fase di intensa socializzazione alle norme del gruppo. In altri casi, il momento nel Pagina 93
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt quale un individuo entra a far parte di un gruppo è ritualisticamente segnato dal superamento di una prova (ad esempio i riti di passaggio tra un gruppo di età e quello Riti di passaggio successivo in molte società premoderne), oppure da cerimonie solenni che segnano drammaticamente la transizione e l'ingresso in una nuova condizione, come, ad esempio, i riti di iniziazione. Tra i vari tipi di gruppi ai quali un soggetto può appartenere, 170 CAPITOLO 6 Socializzazione p&tica I media un'importanza particolare è assunta dai gruppi politici (movimenti e partiti) poiché essi incidono notevolmente sulla socializzazione politica dei loro membri. Se per socializzazione politica intendiamo l'insieme e la successione delle esperienze che contribuiscono a plasmare il comportamento di una persona nella sfera politica, l'adesione ad un gruppo politico risulta essere una delle esperienze che hanno maggiori e più durature conseguenze. Ogni gruppo politico infatti dispone di strumenti di indottrinamento e di controllo predisposti in modo da incanalare i comportamenti dei propri membri nella direzione delle proprie linee di azione. E richiamo a un'ideologia, a una serie di credenze e di principi, alla propria visione e interpretazione della scena politica e del proprio ruolo in essa, tendono a definire l'identità del gruppo che, attraverso la socializzazione politica, deve in qualche misura esser fatta propria da tutti coloro che vi appartengono. Tra gli agenti di socializzazione secondaria bisogna oggi annoverare anche i mezzi di comunicazione di massa in quanto la loro influenza interferisce e si sovrappone a quella degli altri agenti di socializzazione (famiglie, scuola, organizzazione, gruppi, ecc.). Essi influiscono in misura assai cospicua non solo nella trasmissione di informazioni e conoscenze, ma nella formazione di atteggiamenti, opinioni e comportamenti relativi alle più diverse sfere di attività. t indubbio che il processo di socializzazione risulta profondamente influenzato dalle comunicazioni di massa nel senso che l'esposizione ai loro messaggi può rafforzare o indebolire l'efficacia dell'azione degli altri agenti di socializzazione. t noto, ad esempio, che la televisione diffonde valori e modelli di comportamento che possono essere talvolta notevolmente difformi e contrastanti da quelli trasmessi da altre agenzie. Ciò pone però un problema di portata più generale: quello dei conflitti di socializzazione. Confatti di socializzazione 7. 1 conflitti di socializzazione nelle società differenziate Abbiamo visto che i vari agenti di socializzazione contribuiscono a plasmare i modi nei quali gli uomini pensano e agiscono socialmente. A questo punto, dobbiamo porci una domanda di fondo: i vari agenti di socializzazione operano in modo coordinato e coerente, oppure ognuno di essi segue una propria logica di azione che non produce necessariamente effetti tra loro compatibili e convergenti? La stessa esperienza quotidiana ci suggerisce che la seconda ipotesi appare più plausibile. Le esperienze di socializzazione attraverso le quali un individuo passa nel corso della sua esistenza non si sommano armonicamente le une alle altre, esperienze successive molto spesso smentiscono, modificano o neutralizzano l'influenza di quelle precedenti. Il processo di socializzazione appare dunque nel complesso come tutt'altro che lineare. I genitori possono aver equipaggiato i loro IDENTITA E SOCIALIZZAZIONE 171 figli con un bagaglio di valori, conoscenze e aspirazioni che essi ritenevano adeguate per metterli in grado di affrontare la vita, così come essi la concepivano. Ma le esperienze scolastiche successive dei figli possono aver modificato, anche radicalmente, questo bagaglio, possono aver vanificato ad esempio molte aspirazioni, oppure averne alimentate di nuove, aperto nuovi orizzonti che i genitori non avevano neppure potuto immaginare come possibili. La scuola può aver formato certe competenze e può aver impedito ad altre di svilupparsi, ma quando il giovane inizierà le prime esperienze lavorative si accorgerà che molto di quanto ha imparato non può essere utilizzato, mentre gli servirebbero molte altre conoscenze e capacità che non ha acquisito. Non solo non vi è coerenza tra i vari agenti che concorrono alla socializzazione di un individuo, ma l'azione di ognuno di essi può non essere - e in genere non e - internamente coerente. Nella famiglia, la madre, il. padre, i fratelli e le sorelle, gli altri parenti ecc. possono agire in modi e con finalità tra loro Pagina 94
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt incompatibili. Nella scuola insegnanti diversi possono alimentare aspirazioni e trasmettere competenze tra loro anche notevolmente divergenti. Sono all'ordine del giorno situazioni nelle quali, ad esempio, uno stesso ragazzo viene nello stesso tempo incoraggiato da un insegnante e scoraggiato da altri a intraprendere certi corsi di studio. 1 compagni di scuola, inoltre possono ostacolare o rafforzare l'azione degli insegnanti. Nel lavoro le aspettative dei superiori possono entrare in conflitto con quelle dei compagni, le pratiche di addestramento possono incontrare la resistenza delle organizzazioni sindacali di rappresentanza e così via. 1 mezzi di comunicazione di massa, come abbiamo accennato, interferiscono ormai nell'azione di tutti gli agenti di socializzazione. Genitori e insegnanti, ad esempio, manifestano spesso ostUità nei confronti della televisione che essi percepiscono come un fattore che svalorizza la loro funzione e toglie efficacia ai loro messaggi educativi. Ma gli stessi mezzi di comunicazione di massa diffondono modelli tra loro incoerenti, la cultura di massa è frammentaria ed eterogenea, non produce effetti di omologazione quanto piuttosto di dispersione. Non possiamo quindi dare per scontata la presenza di un'interna coerenza tra le varie agenzie di socializzazione. Tra famiglia, scuola, lavoro, gruppi di appartenenza, gruppi di riferimento, messaggi della cultura di massa, le possibilità di conflitto sono sempre presenti. L'individuo è sottoposto ad una serie di pressioni incrociate che ora si eludono ora si rafforzano reciprocamente. Non esiste un programma prestabil.ito che modella i comportamenti umani in modo unitario e coerente al fine di produrre la gamma di tipi sociali richiesta in una società data in un determinato momento storico. Inoltre, anche qualora volessimo ammettere l'esistenza di tale programma, nulla ci garantisce un adeguamento docile del singolo individuo alle sue prescrizioni, una coerenza organica tra le motivazioni individuali, le aspettative di ruolo, le norme e i valori della società. Il sistema sociale non è onnipotente 172 CAPITOLO 6 di fronte agli individui, da un lato perché la sua azione si svolge attraverso una pluralità di agenzie relativamente indipendenti le une dalle altre, dall'altro lato perché la costituzione biopsichica degli individui offre comunque resistenza all'influenza del sistema sociale. A questo punto possiamo chiederci se, di fronte a influenze così diversificate e potenzialmente contrastanti, sia comunque possibile per l'individuo ricostruire un percorso di socializzazione dotato di un certo grado di coerenza. E importante ricordare a questo proposito che, a parte le prime fasi della socializzazione primaria nelle quali il bambino ha assai scarsa possibilità di influire sul proprio contesto di socializzazione, nelle fasi successive questa possibilità aumenta, nel senso che aumenta la gamma delle opzioni di socializzazione e di identità tra le quali un individuo può scegliere con un grado consistente di autonomia. Egli potrà scegliere l'esempio del padre, della madre, oppure rifiutarli in toto o soltanto in parte, potrà scegliere tra percorsi educativi diversi ed, entro certi limiti, correggere le proprie scelte qualora esse siano risultate insoddisfacenti o impraticabili, potrà scegliere tra occupazioni diverse valutate più o meno coerenti rispetto alle proprie attitudini, capacità o aspirazioni, potrà scegliere a quali gruppi appartenere, a quale disciplina sottomettersi, a quale autorità ribellarsi, a quali messaggi esporsi e così via. Un individuo, cioè, al di là del primo stadio infantile, diventa un agente attivo della propria socializzazione. La società gli offre una gamma di opportunità di socializzazione che può essere più o meno ampia e tali opportunità possono essere più o meno incompatibili tra di loro, ma lo spazio di scelta non si riduce mai a zero. t l'individuo stesso quindi a dover gestire l'inevitabile conflitto che in una società altamente differenziata si produce tra le varie agenzie di socializzazione, ma è proprio questa possibilità che garantisce l'esistenza di uno spazio di libertà per l'individuo e definisce i confini della sua facoltà di indirizzare il processo della propria socializzazione e di costruire la propria identità. l. Il problema delle origini dei linguaggio Basta fermarsi un attimo e riflettere per rendersi conto di quanta parte della nostra vita di tutti i giorni dipende dal - ed è intrisa di linguaggio. Non solo parliamo con gli altri e ascoltiamo i loro discorsi, leggiamo testi di ogni genere e, talvolta, ne scriviamo pure, ma anche quando siamo soli con noi stessi e pensiamo ai fatti nostri, anche nel dialogo interiore, non possiamo fare a meno di nominare i nostri stati d'animo Pagina 95
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt attribuendo loro delle parole. La nostra lingua ci è così famibare, anche se non tutti abbiamo la stessa competenza nel15 usarla, che non riusciamo neppure a immaginare come potrebbe essere il mondo umano senza linguaggio. E, infatti, non ci sbagliamo, perché un mondo senza linguaggio (o, meglio, senza un tipo di linguaggio come quello che usiamo quotidianamente) non sarebbe un mondo umano. Anche se gli etologi, cioè coloro che studiano il comportamento animale, hanno ormai accertato che anche molte specie ani-inali comunicano con sistemi di segni e quindi hanno un «loro» linguaggio, non sembra proprio che vi siano in natura altri esseri viventi che usano un linguaggio simile al nostro per livello di complessità e di elaborazione [Sebeok 19761. Non c'è da stupirsi se da tempi immemorabili gli uomini si siano interrogati sulle origini del linguaggio, poiché porsi questa domanda equivale a interrogarsi sulle origini stesse dell'uomo e quindi sulla creazione. La questione è profondamente legata alla dimensione religiosa. Non a caso nella tradizione ebraico-cristiana, Dio è «il verbo» e la parola è ciò che rende l'uomo simile a Dio. Stando alla narrazione biblica, in particolare al Libro della Genesi, la prima cosa che fece Adamo dopo essere stato creato fu di dare un nome a tutte le cose, le piante e gli animali del giardino dell'Eden. Egli compì così la prima operazione linguistica, un'operazione cognitiva. Poi, sappiamo, si lasciò anche convincere da Eva a mangiare il frutto 174 CAPITOLO 7 Origine delle lingue Differenziazione linguistica dell'albero della conoscenza e qui la lingua compare per la seconda volta, questa volta come mezzo di comunicazione (anzi, di seduzione, con effetti disastrosi per lui e per tutti coloro lo seguirono!) Ma la Bibbia ritorna anche in altri passi sui problemi della lingua: ad esempio, quando gli uomini vogliono innalzare una torre che raggiunga il cielo, Dio interviene per punire la loro arroganza confondendo i loro linguaggi in modo che da quel momento in poi non parleranno più la stessa lingua. Da allora la torre di Babele è diventata la metafora dell'incomunicabilità e dell'incomprensione tra gli uomini. E, ancora, nel Nuovo Testamento, lo Spirito Santo discende sugli apostoli (la liturgia ricorda l'evento nel giorno di Pentecoste) e li mette in grado di parlare le lingue dei popoli tra i quali dovranno diffondere la nuova fede. Il racconto biblico è una testimonianza di quanto antica sia la riflessione umana sul linguaggio, le sue forme e le sue funzioni. Al di là della religione, possiamo dire che la riflessione sul rapporto tra parole, concetti e cose è A tema centrale della filosofia dalle origini ai nostri giorni. Non possiamo qui certo, neppure a grandi linee, ripercorrere la storia di questa riflessione. E tuttavia è utile fermarsi a considerare almeno due problemi che sono stati, e sono tuttora, al centro del dibattito filosofico e scientifico e che sono strettamente legati tra loro: a problema delle origini delle lingue e della natura innata, oppure appresa, del linguaggio. A parte la narrazione biblica che, come abbiamo accennato, postula un paradiso terrestre dove si parlava una sola lingua, gli studiosi si sono posti il problema se le tante lingue che si parlano ora sulla terra (attualmente se ne contano circa cinquemila) non derivino tutte da una stessa lingua comune originaria. Le ipotesi in gioco sono sostanzialmente due e opposte tra loro: l'ipotesi monogenetica e l'ipotesi poligenetica, cioè c'è chi sostiene che le lingue attuali sono prodotte per differenziazione da un'unica lingua e chi sostiene invece la pluralità dei ceppi linguistici originari. E un problema connesso a quello che si sono posti gli studiosi dell'origine delle razze umane. Anche in questo caso, le ipotesi sono diverse: alcuni sostengono che l'uomo sia comparso in un solo punto (probabilmente in Africa) e di Pi si sia diffuso e differenziato, mentre altri propendono per l'ipotesi della comparsa indipendente in aree diverse. Il problema non è facilmente risolvibile sul piano scientifico in modo rigoroso perché abbiamo traccia delle lingue usate in passato solo a partire dagli ultimi 6.000 anni, cioè da quando è stata introdotta la scrittura, mentre le popolazioni umane usavano il linguaggio già da centinaia di migliaia di anni. Non c'è dubbio che le lingue attualmente parlate siano il risultato di un processo di differenziazione che è avvenuto nel corso degli ultimi millenni. L'evoluzione delle lingue è molto rapida rispetto all'evoluzione genetica; basta che due popolazioni un tempo unite e parlanti la stessa lingua si separino, ad Pagina 96
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt esempio per effetto delle migrazioni, e dopo 1.000 anni (e forse anche meno) non sono più in grado di intenLINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 175 proto-indoeuropeo 6000 5000 4000 3000 2000 1000 Fie, 7. L Principali gruppi e lingue della farniglia indocuropea. dersi tra loro [Cavalli Sforza 19961. Ad esempio, le cosiddette lingue romanze (italiano, francese, castigliano, portoghese, rumeno, catalano, ecc.) derivano tutte dal latino e si sono differenziate nel corso del tempo. La maggior parte delle lingue dell'area europeo- caucasica e del subcontinente indiano (salvo quelle del ceppo ugro-finnico) derivano da una lingua, l'indoeuropeo, che i linguisti sono stati in grado di ricostruire partendo dalle lingue attuali, anche se non è più parlata da nessuna popolazione vivente. Anche A latino potrebbe essere ricostruito con lo stesso procedimento partendo dalle lingue romanze attuali e il risultato di questa operazione sarebbe probabilmente più vicino alla lingua effettivamente parlata nell'uso quotidiano, piuttosto che alla lingua che ci è stata tramandata nei testi -letterari. Se A processo di differenziazione da basi linguistiche omogenee ha funzionato negli ultimi millenni, non si vede come non avrebbe dovuto funzionare prima; l'ipotesi quindi di un'unica origine appare quanto meno plausibile. Naturalmente si tratta di congetture, bisogna rassegnarsi al fatto che la scienza non può dare una risposta certa a tutte le domande che ci sembra sensato porre; non abbiamo ancora trovato il modo (ed è probabile che mai lo troveremo) di registrare i suoni prodotti dalle corde vocali dei nostri antenati di varie decine di migliaia di anni fa! La questione, tuttavia, non è irrilevante, poiché se ammettiamo come almeno plausibile l'ipotesi «unitaria», si rafforza anche la tesi di Natura innata del linguaggio FIG. 7.2. Principali famiglie finguistiche del mondo. Fonte: Ferraro Il 995, 110-1111. LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 177 coloro che sostengono che il linguaggio è innato nella specie umana, una sorta di caratteristica del suo patrimonio biologico, formatasi gradualmente nel corso del processo di evoluzione. Anche quest'idea non è nuova: Aristotele e Cartesio, per citare solo due «giganti» del pensiero filosofico occidentale, ne avevano già posto le fondamenta nelle loro teorie della natura innata della conoscenza. Ma essa è stata ripresa di recente da un grande linguista americano contemporaneo, Noam Chomsky [19681, il fondatore della moderna «scienza cognitiva». Secondo Chomsky, le analogie strutturali che si riscontrano in tutte le lingue, fanno ritenere che vi sia una grammatica universale innata, fatta di regole che permettono di collegare A numero limitato di fonemi (cioè, di successioni di suoni) che gli organi vocali della specie umana sono in grado di produrre. Sulla base di questa sintassi-granimmatica universale si svilupperebbero poi, per processi secondari di differenziazione, le grammatiche delle singole lingue particolari, con tutte le loro specificità semantiche (cioè, relative al significato delle parole) legate alle diversità degli ambienti nei quali si sono trovate a vivere le popolazioni umane. Chomsky è stato sempre riluttante ad attribuire un fondamento biologico alla capacità umana di generare una grammatica universale comune a tutte le lingue e di formulare la sua teoria nei termini della teoria dell'evoluzione, cioè di considerare il linguaggio come il risultato di un processo di selezione naturale che avrebbe fornito alla specie umana un decisivo «vantaggio evolutivo» rispetto alle altre specie animali. Questo passo è stato compiuto tuttavia di recente da alcuni biologi «evoluzionisti» sulla base di due considerazioni, una teorica e una empirica. La considerazione teorica riguarda appunto il problema dei «vantaggi evolutivi», cioè di quei tratti che pongono coloro che li posseg- dei ìin~o gono in una posizione di vantaggio, aumentando le probabilità che riescano a sopravvivere e a riprodursi. Seguendo lo schema proposto da Lieberman [19841, il ragionamento Pagina 97
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt può essere grosso modo sintetizzato così: il linguaggio verbale è un'invenzione dell'homo sapiens, gli ominidi che l'hanno preceduto comunicavano probabilmente con gesti e con sistemi di segni non verbali, sia pure già più evoluti di quelli delle specie animali. La dimostrazione di questo sarebbe nel fatto che nessuno tra gli organi dell'apparato fonatorio (polmoni, laringe,,bocca, lingua, naso) svolge come funzione primaria la produzione di suoni. La funzione fonatoria si sarebbe sviluppata successivamente attraverso una serie di adattamenti anatomici (la discesa della laringe, la mobilità della lingua) che hanno reso possibile la produzione di suoni sempre più articolati. Lo stesso aumento della massa cerebrale che non sembra essersi modificata di molto negli ultimi 300.000 anni sarebbe stata attivata dall'acquisizione del linguaggio verbale e un cervello più sviluppato avrebbe poi ulteriormente favorito l'espansione e il perfezionamento delle capacità linguistiche. Rispetto al linguaggio gestuale, inoltre, il linguaggio verbale presenta A notevole vantaggio di consentire la comunicazione senza interrompere le azioni compiute con altre parti del corpo, come le braccia e le mani. Lo sanno bene i sordomuti che, dovendo comunicare con un codice gestuale, non sono in grado di compiere, quando comunicano, altre operazioni. Infine, è certo che i vantaggi evolutivi per la specie umana sono stati enormemente accresciuti con l'invenzione della scrittura che consente la conservazione e la trasmissione delle informazioni di generazione in generazione al di là delle limitate capacità di «immagazzinamento» delle cellule del cervello umano. La considerazione empirica riguarda invece lo studio di alcuni disturbi del linguaggio, indipendenti dal livello intellettuale, che si manifestano nell'incapacità di usare certe categorie grammaticali (ad esempio, l'uso del plurale e la* coniugazione temporale dei verbi) E stato provato [Pinker 19941 che questi disturbi sono ereditari e si trasmettono nelle famiglie seguendo A classico ordine mendeliano (dal nome Leggi di Mendel del biologo boerno Gregor Mendel che formulò le leggi di trasmissione dei caratteri ereditari), avvalorando quindi l'ipotesi che vi siano dei geni specifici alla cui presenza è da attribuire l'acquisizione di determinate competenze linguistiche, mentre la cui assenza (per fortuna assai rara) spiega l'insorgenza di queste forme di patologia del linguaggio. Le argomentazioni dei teorici dell'evoluzione, ed ora anche qualche prova empirica convincente, lasciano presumere quindi che vi sia una base biologica del linguaggio nel patrimonio genetico della specie umana. Quanto estesa sia questa base, quanto ci sia qu@di di innato e quanto di acquisito nelle competenze linguistiche, è una questione alla quale, allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile dare una risposta. Oggi possiamo ragionevolmente sostenere che entrambe le componenti (innate e acquisite) sono presenti, che le componenti innate sono senz'altro di carattere molto generale e astratto e che non limitano certo l'immenso campo di libertà e di creatività della cultura umana. Non è il caso qui andare ulteriormente nel dettaglio in questo campo di studi. Ci siamo soffermati su questo aspetto perché offre un esempio illuminante di come 9 confine tra scienze sociali e naturali sia fluido e come si aprano affascinanti prospettive di ricerca se, almeno ogni tanto, si trasgrediscono le barriere tra le discipline. Ci basta aver acquisito due punti importanti: le lingue umane hanno un fondamento comune e la loro origine si confonde con l'origine stessa della specie. LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 179 2. Le funzioni dei linguaggio: pensare e comunicare In seguito del già detto, nello stesso tempo che si formò il carattere divino di Giove, che fu il primo di tuttì pensieri umani della gentilità, incominciò parimenti a formaresi la lingua articolata con l'onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i fanciulli. Ed esso Giove fu da latini, dal fragor del tuono, detto dapprima «lous». Questa frase è di Giovambaffista Vico (1668-1744) e risale alla metà del XV111 secolo [Vico 1725, 4471: in essa sono espresse tre idee importanti: che il linguaggio nasce insieme al pensiero, che le prime parole usate dagli uomini sono costruite imitando i suoni naturali e che nei bambini possiamo rintracciare i modi di esprimersi di un'umanità ricacciata ad uno stadio primitivo dopo il diluvio universale. Possiamo immaginarci questi primi uomini che guardano attoniti un cielo percorso da lampi ed emettono dei suoni simili al tuono per indicare la potenza misteriosa che li sovrasta. Pagina 98
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt La prima parola, per Vico, risolveva quindi un problema cognitivo. Possiamo trovare passi analoghi in vari pensatori della stessa epoca, da Condillac a Leibniz, a von Humboldt [Trabant 19941. Da allora, l'idea dell'esistenza di uno stretto legame tra pensiero e linguaggio, di una sorta di circuito per cui il pensiero contribuisce alla formazione del linguaggio e questo a sua volta arricchisce gli strumenti del pensare, è stata al centro dell'attenzione di filosofi, linguisti, psicologi e, recentemente, anche di sociologi. Non possiamo pensare senza linguaggio e quindi attraverso il linguaggio possiamo accedere al funzionamento della mente. Le operazioni fondamentali del pensiero trovano tutte corrispondenza nelle strutture del linguaggio. Pensare qualcosa vuol dire «nominarla» (verbalmente o mentalmente), cioè stabilire un rapporto tra un «significante» e un «significato»; classificare le cose, cioè stabilire tra loro rapporti di uguaglianza o diversità, vuol dire raggruppare i «significanti», le parole, in classi omogenee per qualche caratteristica; quantificare vuol dire stabilire se in una classe vi sono una, due o più cose, cioè «enumerarle»; individuare uno stato o un'azione di una cosa vuol dire assegnarle un predicato; localizzare una cosa nello spazio o un suo movimento vuol dire applicare uno dei complementi di luogo; stabilire il grado di controllo che l'attore (il «soggetto») ha su un evento vuol dire usare un verbo transitivo o intransitivo e così via, attraverso tutte quelle operazioni che ci sono ben note da quando a scuola ci hanno insegnato a fare l'analisi grammaticale e logica degli enunciati. Dire che una cosa è vicina o lontana, dentro o fuori, che va in una direzione oppure vi proviene, che un evento è accaduto prima, dopo o contemporaneamente ad un altro, che l'evento A ha provocato o concorso a provocare l'evento B, affermare che la proposizione X è vera Funzione cognitiva del linguaggio 180 CAPITOLO 7 . Funzione comunicativa del linguaggio Codice@ icauvò mentre la proposizione Y è falsa, sono tutte operazioni che possiamo compiere in virtù del fatto che disponiamo di un linguaggio. Tuttavia, il linguaggio non serve solo a pensare il «mondo», ma anche a comunicare ad altri il nostro pensiero e a ricevere dagli altri i messaggi nei quali è formulato il loro pensiero. Accanto alla funzione cognitiva dobbiamo quindi porre, sullo stesso piano, la funzione comunicativa del linguaggio. Non ha molto senso chiedersi quale delle due funzioni sia prioritaria. L un po come chiedersi se sia nato prima l'uovo o la gallina. Per comunicare dobbiamo .avere qualcosa da comunicare, un'idea, un sentimento, un'informazione che abbiamo dovuto pensare prima e tuttavia non possiamo pensare se non con gli strumenti che ci sono forniti dal linguaggio. t udesperienza comune di tutti coloro che parlano o scrivono che la necessità di comunicare a qualcuno il proprio pensiero è un forte incentivo per elaborarlo e chiarirlo anche a se stessi. Affinché abbia luogo un atto comunicativo devono essere presenti alcuni elementi: un emittente, un ricevente, un canale (ad esempio, la voce, lo scritto, il gesto, l'immagine), un codice e un messa io Ag L'emittente deve cioè tradurre quello che vuole comunican@ in una serie di segni o suoni seguendo le prescrizioni del codice del canale utilizzato e confezionare così il messaggio; il ricevente, a sua volta, deve utilizzare un codice analogo per decifrare il messaggio. t evidente che, perché ci possa essere comunicazione, il codice debba essere condiviso da emittente e ricevente. Condiviso non vuol dire assolutamente identico. Come vedremo meglio in seguito, nessuno parla esattamente la stessa lingua, ma senza un grado minimo di condivisione del codice la comunicazione risulta impossibile, come sappiamo bene quando ci capita di dover interagire con persone di cui non conosciamo la lingua e che non conoscono la nostra. Il concetto di condivisione del codice indica due aspetti: primo, che il linguaggio è una convenzione sociale, un patto implicito stabilito all'intemo di una comunità, secondo, che ha carattere normativo, cioè è formato da un insieme di norme (regole) che definiscono quali sono i modi ammissibili di confezionare i messaggi affinché questi possano essere recepiti con successo dal ricevente. Non c'è linguaggio quindi senza una comunità di parlanti, piccola o grande che sia, che lo abbia adottato come strumento della comunicazione interpersonale. In realtà, l'adozione - il patto - è soltanto implicita. Nessuno di noi si è Pagina 99
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt accordato coi suoi vicini per stabilire il codice della comunicazione. Ogni uomo nasce in un mondo già strutturato dalle istituzioni del gruppo al quale appartengono i suoi genitori e il linguaggio è una di queste istituzioni, forse la più importante di tutte. Egli si trova di fronte un prodotto già confezionato da tutte le generazioni dei suoi predecessori, il cui apprendimento, salvo casi patologici, avviene in modo «naturale» e senza particolari difficoltà, anche perché, come abbiamo visto, l'organismo umano è biologicamente predisposto per produrre e LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 181 ricevere messaggi verbali. Questa predisposizione, tuttavia, rappresenta una potenzialità che ha bisogno di essere attivata mediante l'interazione sociale. L'acquisizione delle competenze linguistiche è ancora un fenome- Compeimmi hnguistiche no abbastanza misterioso. Il neonato, nel primo anno di vita, è in grado di produrre spontaneamente quasi tutti i fonemi delle lingue del mondo; intorno all'anno il bambino compone con alcuni di questi fonemi i primi morfemi (parole); a due anni ha già un vocabolario di quasi 300 parole che diventano 1.500 a quattro anni e 2.500 a sei; alla stessa età è in grado di padroneggiare una buona dose di regole grammaticali e sintattiche. Non sappiamo bene come ciò avvenga, ma sappiamo per certo che l'acquisizione del linguaggio richiede un'assidua, prolungata e costante interazione sociale, prima con la madre e poi, via via, con cerchie sempre più ampie di «parlanti». Tuttavia, la lingua che apprendiamo «naturalmente» come lingua madre non è solo una delle tante lingue che si parlano sulla terra, ma è anche una delle tante varianti della lingua che si parla nel nostro paese. 3. La variabilità dei linguaggi umani nello spazio e nel tempo Abbiamo accennato al fatto che tutte le lingue presentano caratteristiche strutturali comuni. Se così non fosse avremmo grandi difficoltà ad imparare una lingua diversa dalla nostra lingua madre (e queste difficoltà, come molti studenti sanno, sono già abbastanza grandi). Tutte hanno delle parole particolari per indicare chi è, o fa, qualcosa, in che modo, come, dove, quando (nomi, pronomi, aggettivi, verbi, soggetti, predicati, complementi, ecc.). Le strutture grammaticali e sintattiche sono appunto quelle che presentano la maggiore stabilità nel tempo e uniformità nello spazio. Partendo da questa osservazione, e sulla base del lavoro pionieristico del linguista ginevrino Ferdinand de Saussure [1857-19131, si è sviluppata una scuola di linguistica che, proprio per l'interesse portato a questi aspetti, è stata chiamata «strutturalista». Gli appartenenti a questa scuola studiano la lingua «in sé e per sé», come un sistema strutturato di parti interdipendenti che rispondono a una serie di regole astratte. Essi sostengono la presenza in ogni lingua di elementi stabili, i tratti fondamentali della grammatica e della sintassi, detti anche «universali linguistici», e di elementi di natura convenzionale e fondamentalmente arbitrari. Questi ultimi, oltre a certe peculiarità grammaticali e sintattiche specifiche di ogni singola lingua, riguardano essenzialmente gli elementi lessicali e semantici. Non c'è nessuna ragione strutturale, ad esempio, che spieghi perché la parola cane in italiano, corrisponda alla parola Hund in tedesco, dog in inglese e perro in castigliano. La semantica, per gli strutturalisti, è il regno della convenzione e dell'arbitrio. 182 CAPITOLO 7 Ben diversa era invece la prospettiva dei linguisti della scuola romantica, fiorita in Germania e in tutta l'area centro-europea intorno alla metà dell'Ottocento. Essi vedevano nella lingua l'espressione più genuina dello «spirito» di un popolo (Volksgeist), il fondamento della sua identità collettiva e quindi erano portati a mettere in evidenza ciò che differenzia una lingua dalle altre piuttosto che ciò che le rende simili. La semantica prende A sopravvento sulla sintassi. Non è un caso che ai maggiori esponenti di questa scuola, i fratelli Grimm, si-àeb-b-a, oltre una famosa raccolta di racconti popolari, la pubblicazione dei primi volumi (nel 1854) di un monumentale dizionario della lingua tedesca. Possiamo considerare questa come una prospettiva di tipo etnografico allo studio dei fenomeni linguistici, poiché vede nella lingua la sedimentazione delle esperienze storiche di un popolo, le tracce del suo rapporto con l'ambiente naturale e dei suoi modi di affrontare i problemi quotidiani. In breve, la lingua viene colta come espressione della cultura e delle sue infinite variazioni che fannQ. di una popolazione un'entità ben definita. Si chiede Jacob Grimm: * Pagina 100
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Che cos'è un popolo? Un popolo sono gli uomini che parlano la stessa lingua: questa per noi tedeschi è la più innocente e al tempo stesso la più orgogliosa delle definizioni perché essa supera di slancio ogni barriera e già ora guida lo sguardo verso un futuro più o meno, ma vorrei dire inevitabilmente in cammino, nel quale ogni barriera cadrà e verrà riconosciuto il diritto naturale secondo cui non sono i fiumi né i monti a dividere i popoli, ma è la lingua sola a segnare il confine per quei popoli che monti e fiumi hanno varcato [cit. in Cardona 1987, 231. La lingua è vista qui come un fattore di differenziazione culturale che stabilisce dove sono i confini della nazione, intesa come la comunità dei parlanti la stessa lingua e sul quale si fonda quindi il senso di appartenenza alla collettività del «noi», distinta dal «loro», cioè coloro che parlano un altro idioma. Tuttavia le lingue non sono delle entità quasi naturali, come sembra di poter intravedere nel brano appena citato. La loro diffusione è il prodotto di fattori storici che hanno messo in contatto popolazioni parlanti lingue diverse come conseguenza di movimenti migratori e di fenomeni di conquista e sottomissione. t ben difficile infatti che due lingue possano convivere a lungo nello stesso territorio, prima o poi l'una diventerà la lingua dominante e soppianterà l'altra, sia che gli invasori impongano la propria lingua alle popolazioni sottomesse, sia che i nuovi arrivati, come spesso accade nel caso delle popolazioni di immigrati, adottino la lingua locale. In entrambi i casi si osserveranno fenomeni di contaminazione linguistiContaminazione ca, nella lingua che avrà il sopravvento resteranno tracce consistenti finguistica della lingua soppressa o caduta in disuso. Le lingue, infatti, così come nascono, possono anche morire. successo all'etrusco, una lingua che era ancora parlata all'inizio del 1 secolo a. C. e che è stata soppiantata dal latino ed è. successo al latino LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 183 stesso, sopravvissuto per molto tempo, ma solamente come lingua dotta e liturgica. Ma anche senza richiamare fenomeni macroscopici, come quelli legati alle vicende politiche e migratorie, bisogna dire che ogni lingua è costantemente sottoposta a pressione, sia per effetto dell'influenza esercitata dalle culture delle popolazioni con le quali una popolazione entra in contatto, sia per effetto della costante necessità di modificarsi per poter esprimere in modo adeguato le trasformazioni subite dalla comunità dei parlanti. Questi fenomeni sono ben visibili nel caso delle trasformazioni subite dall'italiano in epoca postunitaria. Se ci capita di avere tra le mani un giornale di solo un secolo fa e lo confrontiamo con un giornale di oggi, ci renderemo facilmente conto che, al di là del diverso stile tipografico, il linguaggio usato è profondamente cambiato. Non solo perché la lingua di oggi è piena di neologismi recenti e di termini importati, soprattutto dall'inglese, ma perché molte delle forme lessicali e grammaticali usate allora ci sembrano oggi irrimediabilmente arcaiche. Del resto, all'epoca dell'unificazione politica del paese, erano pochi gli abitanti della penisola in grado di parlare (e, soprattutto, di leggere e scrivere) correttamente quella variante della lingua toscana (il fiorentino) che era diventata gradualmente dominante come lingua letteraria. Si può dire che l'unificazione linguistica del paese sia stata il prodotto prima della scuola di base obbligatoria e poi dell'esposizione Sempre Dialetto in famiglia/ Italiano Sempre Totale dialetto italiano con estranei e dialetto misti italiano Piemonte 4,6 16,8 31,3 47,5 100 Valle d'Aosta 2,7 23,0 29,2 45,1 100 Lombardia 6,5 16,5 Pagina 101
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 25,9 51,1 100 Trentino-Alto Adige 14,1 14,1 53,8 18,0 100 Veneto 33,7 15,4 26,9 13,9 100 Friuli 20,4 19,4 42,3 18,9 100 Liguria 3,5 12,3 27,0 57,1 100 Emilia-Romagna 7,4 18,5 24,2 49,9 100 Toscana 2,4 2,8 9,8 85,1 100 Umbria 12,7 12,1 31,3 44,0 184 CAPITOLO 7 TAB. 7.2. Penone di 6 anni e più per Utolo di studio, tipo di Unguag gio abitualmente usato con estranei Tipo di linguaggio Laurea Diploma Licenza Licenza Alfabeta Analfabeta Totale abitualmente superiore media elementare senza titolo usato con estranei Prev. italiano 90,6 85,0 69,8 53,7 471 @2, 1 64,0 Prev. dialetto 0,8 1,5 7,4 19,0 28:5 74,6 13,9 Sia italiano 7,1 12,5 21,1 25,7 21,8 9,6 20,3 che dialetto Non indica o 1,5 1,0 1,7 1,6 2,6 3,7 1,8 altro Totale 100 100 100 100 100 100 100 Fonte: Istat [19931. all'italiano standard dei mezzi di comunicazione di massa [De Mauro 19701. Molti di quelli che oggi noi chiamiamo, con un significato un po riduttivo, «dialetti», erano infatti delle vere e proprie lingue, con loro specificità lessicali, grammaticali e sintattiche e, soprattutto, sostenute da una produzione letteraria affatto trascurabile. Ancor oggi, del resto, le lingue «regionali» sono tutt'altro che scomparse, se è vero, come risulta dai dati delle ricerche condotte, che esse sono ancora usate da una quota elevata di popolazione (prevalentemente, ma non solo, negli strati sociali meno istruiti) nelle conversazioni quotidiane tra familiari, parenti e amici. Come si vede, a parte il caso della Toscana dove la distinzione tra lingua e dialetto appare problematica, vi sono in Italia ben 11 regioni su 20 dove meno Pagina 102
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt di un terzo della popolazione parla solo ed esclusivamente italiano e ben 12 dove più del 10% parla solo ed esclusivamente il dialetto e in tutte le regioni (salvo Toscana e Lazio) la metà o quasi della popolazione parla un misto di italiano e dialetto per cui si può tranquillamente dire che gli italiani di oggi sono una popolazione sostanzialmente bilingue. Anche quando parliamo l'italiano, tuttavia, e ce ne rendiamo conto tutti i giorni, molto raramente riusciamo a nascondere la nostra origine regionale che ha lasciato nella pronuncia tracce inconfondibili. Le lingue quindi sono fenomeni sociali dinamici che variano nello spazio e mutano nel tempo. Le variazioni, tuttavia, non sono soltanto territoriali e diacroniche. Anche nello stesso momento (doè, dal punto di vista «sincronico») e nella stessa popolazione, le lingue variano a seconda della collocazione dei parlanti nello spazio sociale. LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 185 4. La variabilità sociale della lingua Modificando un vecchio proverbio si potrebbe dire: «fammi sentire come parli e ti dirò chi sei» Il nostro discorso è infatti disseminato di innumerevoli spie che rivelano chi siamo (la nostra identità), o, meglio, che cosa crediamo di essere e come vogliamo apparire agli altri. Tra le varie informazioni che, spesso inconsapevolmente, trasmettiamo al nostro interlocutore vi è anche la nostra collocazione nello spazio socioculturale, vale a dire nella stratificazione sociale. Non che Ling~o vi sia sempre una corrispondenza perfetta tra classe di provenienza o e stratificazione di appartenenza e lingua utilizzata, ma, come è stato ampiamente do- sociale cumentato in numerose ricerche, vi sono differenze significative nei modi di esprimersi degli appartenenti alle diverse classi sociali. William Labov [19661, ad esempio, ha studiato la stratificazione sociale dell'inglese parlato dagli abitanti di New York, con particolare attenzione al modo col quale le parole vengono pronunciate (aspetti fonetici). Tuttavia, non è solo la pronuncia ad imprimere alla lingua una marcatura di classe. fi lessico usato è un indicatore altrettanto evidente. Non solo certe parole o espressioni ricorrono con frequenza diversa a seconda della collocazione sociale dei parlanti, ma, in generale, la ricchezza lessicale aumenta molto nettamente salendo la scala sociale, come pure varia la frequenza d'uso di forme grammaticali e sintattiche più elaborate (ad esempio, l'uso del congiuntivo e di proposizioni subordinate). Basil Bernstein [19711, un sociolinguista inglese che ha dedicato moltissime ricerche allo studio della variabilità sociale della lingua, ha rilevato una forte discrepanza tra le forme di comunicazione richieste dalla scuola e le pratiche linguistiche spontaneamente adottate dagli alunni, in particolare da quelli provenienti dalla classe operaia. A tale discrepanza è imputabile, secondo Bernstein, il diverso rendimento scolastico dei bambini di classe operaia e di classe media, indipendentemente dalle capacità intellettive misurate con i test di intelligenza. Le varie classi usano infatti codici comunicativi diversì, acquisiti spontaneamente nell'interazione familiare nei primi stadi della socializzazione infantile e riconducibili al contesto delle relazioni sociali connesse alla posizione occupata dalla famiglia nella divisione sociale del lavoro. Un atto comunicativo è il risultato di una serie di scelte (lessicali, grammaticali e sintattiche) che il parlante compie ricorrendo al proprio repertorio, cioè al patrimonio di competenze che si sono gradualmente accumulate interagendo con altri nel proprio ambiente di vita. 1 bambini di classe operaia acquisiscono, nell'interazione familiare e tra compagni, un «codice ristretto», particolaristico, localistico, fortemente dipendente dal contesto, mentre i bambini di classe media adottano un «codice elaborato», universalistico e meno dipendente dal contesto. Come scrive Bernstein: 186 CAPITOLO 7 Più semplice la divisione sociale del lavoro, più specifica e locale la relazione tra un agente e la sua base materiale, più diretto il rapporto tra significati e condizioni materiali e maggiore la probabilità che venga fatto uso di un codice ristretto. Al contrario, più complessa la divisione sociale del lavoro, meno specifica e locale la relazione tra un agente e la sua base materiale e più indiretta la relazione tra significati e condizioni materiali, maggiore sarà la probabilità di un codice elaborato [Bernstein 1987, 5711. Le famiglie di classe media operano quindi in un contesto più ampio, meno legato alle esigenze «materiali» della vita, al lavoro manuale, alle relazioni di Pagina 103
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt vicinato e quindi sviluppano una maggiore familiarità con le agenzie preposte al controllo simbolico. La scuola, in particolare, opera come agente deputato alla trasmissione ed elaborazione di «codici elaborati» e quindi di fatto favorisce i bambini per i quali vi è congruenza tra codice comunicativo acquisito spontaneamente e codice comunicativo trasmesso dall'istituzione scolastica, mentre tende a penalizzare coloro per i quali questa congruenza non esiste. Sempre in tema di rapporto tra linguaggio e stratificazione sociale, è stato notato che, spesso, coloro che appartengono allo strato medio basso (piccola borghesia, ceti impiegatizi, piccoli professionisti di provincia) parlano un linguaggio formalmente molto rigoroso e corretto, spesso infarcito di espressioni forbite e ricercate (con effetti talvolta grotteschi) t chiaro che, in questi casi, l'uso del linguaggio denuncia da un lato la volontà di differenziarsi dai ceti popolari, dall'altro il desiderio di essere accettati dai ceti superiori ai quali si aspira di appartenere. Non dobbiamo tuttavia pensare che la disuguaglianza sia l'unica fonte di variabilità sociale del linguaggio. Possiamo anzi dire che qualsiasi forma di differenziazione sociale che porti alla formazione di gruppi si riflette in altrettante varianti linguistiche. Basti pensare, ad esempio, alle diversità dei linguaggi maschili e femminili: certe espressioni, o addirittura certi toni della voce, possono essere prescritte o vietate a seconda che il parlante sia uomo o donna e che gli interlocutori, o gli ascoltatori, siano dello stesso o dell'altro sesso o misti. Ancor oggi, nonostante queste differenze si vadano gradualmente attenuando, si sente dire che «certe cose non si dicono, e certe espressioni non si usano, in presenza di una donna!». Un'altra variante - soprattutto nei tempi passati - era quella tra linguaggio «urbano» e linguaggio «contadino» I contadini, si sa, passavano lunghe ore nei campi, in condizioni di quasi completo isolamento e non avevano quindi bisogno di sviluppare elaborati codici comunicativi; per questo, 9 loro linguaggio, è stato tradizionalmente bollato come particolarmente rozzo e primitivo, soprattutto dagli abitanti delle città che hanno sempre considerato con un certo ironico disprezzo il modo di esprimersi dei contadini. LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 187 Più importanti, nel mondo moderno, sono le varianti legate ai Lingungi tecnici gruppi professionali. Basta ascoltare per qualche minuto l'arringa di un avvocato in un'aula di tribunale (soprattutto se si tratta di una causa di diritto civile) per rendersi conto che parla in un linguaggio specialistico, comprensibile soltanto dagli addetti ai lavori e per lo più oscuro anche alle stesse parti in causa. La stessa impressione ricaveremmo ascoltando le comunicazioni ad un congresso di medici, ma anche lo stesso nostro medico curante, supposto che si sforzi di spiegarci qualcosa sulle origini e i rú-nedi delle nostre sofferenze, è probabile che usi un linguaggio a noi incomprensibile. t del tutto evidente che i linguaggi tecnici sono il prodotto della crescente specializzazione del sapere e delle conoscenze. L'acquisizione di un sapere specialistico comporta inevitabilmente l'acquisizione di un linguaggio specialistico che richiede un lungo periodo di addestramento e che serve alla comunicazione all'interno della cerchia ristretta degli «esperti». Tuttavia, i linguaggi specialistici possono svolgere anche altre funzioni, oltre a quella di garantire la comunicazione tra addetti ai lavori. Essi possono, ad esempio, costituire un'efficace barriera d'accesso ai saperi che vengono veicolati per loro tramite. Il modo migliore per monopolizzare qualche forma di sapere è di formularlo in un linguaggio inaccessibile ai più, o meglio, accessibile soltanto a coloro che sono stati addestrati e «ammessi» al suo uso da coloro che detengono il monopolio stesso. Questa è la ragione per la quale i membri delle società segrete, quale che sia la natura del segreto che detengono (religioso, politico, professionale 0, anche, criminale), comunicano tra di loro in codice, o usano comunque un linguaggio iniziatico, inaccessibile a tutti coloro nei confronti dei quali il segreto deve essere mantenuto. In generale, possiamo dire che ogni barriera sociale è anche una barriera linguistica. 5. Tipi di linguaggio: privato, pubblico, orale e scritto Nel paragrafo precedente abbiamo visto come il linguaggio varii a seconda della collocazione sociale del parlante, cioè della sua appartenenza ad una classe, ad un genere, ad un gruppo. Il linguaggio varia tuttavia anche in relazione alla situazione sociale nella quale avviene la comunicazione. Ognuno di noi, infatti, cambia registro a seconda dell'interlocutore o degli interlocutori che ha di fronte, del mezzo che usa e della specificità del contesto. Evidentemente, la capacità di fare un uso flessibile del proprio repertorio, per poterlo variare e Pagina 104
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt adattare di volta in volta nel modo più appropriato alla situazione comunicativa, dipende sia dalle competenze, sia dalla personalità del parlante. Alcuni si trovano a proprio agio soltanto nella conversazione all'interno di piccoli gruppi, mentre si sentono imbarazzati quando devono parlare 188 CAPITOLO 7 LinguaMo , privatot piMbeo Lin, guamo. orale o di fronte a un pubblico indifferenziato di ascoltatori anonimi, altri invece non provano nessuna difficoltà a rivolgersi a una platea 0, addirittura, al pubblico invisibile degli spettatori o ascoltatori della televisione e della radio. Una delle prime distinzioni da fare è proprio quella tra linguaggio privato e linguaggio pubblico. Quando parliamo tra amici o in famiglia non stiamo molto attenti alla correttezza delle forme grammaticali e sintattiche, anzi, se lo facessimo, i nostri interlocutori sarebbero sorpresi, forse si metterebbero a ridere, in qualche modo ci farebbero capire che abbiamo sbagliato registro. La conversazione interpersonale, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, è molto più calata nella dimensione del «qui ed ora», fa molta più attenzione ai segnali non verbali di approvazione o disapprovazione degli interlocutori; quello che conta è farsi capire dalle persone con le quali si sta parlando. Il linguaggio pubblico, invece, è molto più formale/impersonale sia perché in genere è rivolto a un pubblico e non ad una serie di persone ben individuate, sia perché - anche quando si genera nell'interazione interpersonale - richiede un maggiore controllo formale. Nel linguaggio pubblico, infatti, il grado di controllo sulla correttezza formale nella formulazione del messaggio è molto più accentuato, sia per quanto riguarda le scelte lessicali, sia per quanto riguarda le forme grammaticali e sintattiche. Se proviamo a registrare e trascrivere una conversazione tra amici e il dialogo che avviene, ad esempio, tra professore e studente in sede di esame, ci renderemo subito conto che, a parte la diversità dei contenuti della comunicazione, i due testi si presentano assai diversi proprio in riferimento agli aspetti formali del linguaggio. Le differenze diventano poi ancora più macroscopiche a seconda che la comunicazione avvenga in forma orale oppure in forma scritta. La differenza fondamentale consiste nel fatto che, nella comunicazione orale, al di là del contenuto e della forma del messaggio, si aggiungono una serie di elementi metacomunicativi che sono invece assenti nella comunicazione scritta. Il tono e l'intensità della voce, il dosaggio delle pause e tutta la gamma del linguaggio gestuale (dalla postura del corpo, ai movimenti delle braccia e delle mani, alla direzione dello sguardo) accompagnano, per così dire, il messaggio verbale e forniscono all'interlocutore una serie di messaggi aggiuntivi con i quali interpretare il significato del messaggio verbale. Abbassare il tono della voce, ad esempio, rappresenta un invito all'interlocutore per accorciare la distanza, per fare assumere alla conversazione un andamento più confidenziale, magari con l'intento di escludere altri presenti dalla comunicazione. Alzarlo, invece, è un modo per attirare l'attenzione e per segnalare che la comunicazione non è rivolta soltanto a coloro che stanno vicino, ma anche ad altre persone presenti nel contesto. Lo stesso silenzio può assumere vari significati a seconda della situazione. Anche le persone più ciarliere LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 189 hanno bisogno che ogni tanto il loro interlocutore dica qualcosa; il suo silenzio può significare assenza mentale, indifferenza, oppure un'esplicita volontà di non manifestare il proprio assenso-dissenso rispetto all'oggetto della conversazione. Nella conversazione telefonica, ad esempio, vi è una regola tacita che impone ad entrambi gli interlocutori di emettere con una certa frequenza almeno dei suoni, se non delle parole, per segnalare la propria presenza, altrimenti nasce il sospetto che l'altro interlocutore non sia per nulla interessato a quello che gli stiamo dicendo, oppure che sia caduta la linea. Il silenzio è presente peraltro anche nel linguaggio pubblico: si pensi al silenzio rituale dei fedeli in certe fasi salienti della Messa, oppure al minuto di silenzio che gli astanti osservano nel caso di commemorazione di qualche evento luttuoso, oppure, ancora, al silenzio irrigidito nell'immobifità della sentinella che fa da guardia al palazzo dei reali di Gran Bretagna e che esprime, a suo modo, la maestà delle istituzioni. Pagina 105
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Lo stile della comunicazione orale varia evidentemente a seconda delle situazioni. La conversazione colta in un salotto, in cui tutti i presenti vogliono dimostrare la loro raffinatezza, è diversa dalla comunicazione che avviene tra contribuente e funzionario delle imposte quando si tratta di accertare il reddito imponibile, come è diversa dalla conversazione di un'équipe di chirurghi che si apprestano ad operare un paziente. Tuttavia, nonostante la variabilità delle situazioni, ciascuno conserva un proprio stile comunicativo che si esprime nel coefficiente di personalità presente in tutte le scelte lessicali e sintattiche. Il linguaggio scritto usa un registro assai più rigido del parlato. Non bisogna dimenticare che la scrittura era in passato spesso prerogativa del ceto sacerdotale e quindi, mettere qualcosa per iscritto, voleva dire attribuirgli un significato rituale e quasi sacrale. Ancor oggi, ad esempio, la lingua araba scritta è sostanzialmente quella codificata nel Corano. Anche in questo caso, il tipo di linguaggio usato dipende molto dalle situazioni: un conto è scrivere sul diario intimo, una lettera al proprio compagno o alla propria compagna, un'istanza al tribunale, o un curriculum vt*tae quando si cerca lavoro. Comunque, la comunicazione scritta riflette, assai più di quella orale, la distanza sociale tra coloro che comunicano, la formulazione del messaggio e la sua ricezione sono quasi sempre differiti nel tempo e, inoltre, consente un livello molto maggiore di intenzionalità, nel senso che quando scriviamo abbiamo più tempo per scegliere le parole e le espressioni adatte. E detto latino scripta manent, verba volant può certo valere per un contratto, una cambiale, comunque un'obbligazione formale. Non è detto però, come ha rilevato Simmel [19081, che nella comunicazione epistolare il linguaggio usato sia più esplicito e meno ambiguo del linguaggio orale. Anzi, talvolta può addirittura succedere il contrario, infatti, dietro la parola scritta è più facile nascondersi, oppure presentarsi per quello che si vorrebbe essere e apparire, piuttosto che per 190 CAPITOLO 7 quello che si è. A parte la grafia (che peraltro solo i grafologi esperti sono in grado di interpretare correttamente), mancano nella comunicazione scritta tutti quegli aspetti metacomunicativi tipici del linguaggio orale (gesti, intonazione, pause, esitazioni) che sono solo parzialmente intenzionali e che spesso «rivelano» all'interlocutore il significato della comunicazione assai meglio del messaggio verbale esplicito. Ad esempio, è assai più facile scoprire se il nostro interlocutore mente nella comunicazione faccia-faccia che non nella comunicazione scritta. 6. Linguaggio e interazione sociale Per cogliere come il linguaggio sia uno strumento estremamente flessibile, pur all'interno di regole e di significati che devono essere condivisi affinché la comunicazione risulti efficace, basta considerare attentamente come, soprattutto nell'interazione faccia-faccia, siano molteplici i modi di esprimere uno stesso contenuto. Consideriamo, ad esempio, i modi coi quali un professore può comunicare a uno stu~ dente che la sua prova d'esame è risultata insufficiente. 1) Caro signore, se vuole essere promosso, la prossima volta deve studia~ re di più. 2) Lei non ha studiato abbastanza, torni la prossima volta. 3) La sua preparazione non è ancora sufficiente, ma sono sicuro che, se si applicherà di più, la prossima volta potrà fare meglio. 4) Non posso assolutamente promuovere uno studente che mostra lacune così gravi. 5) Non so con che faccia abbia avuto il coraggio di presentarsi all'esame con una preparazione così scarsa. 6) Credo che anche Lei si renda conto che la sua preparazione non può essere considerata adeguata. 7) Lei non ha capito niente, faccia in modo di usare meglio il cervello se vuole presentarsi una prossima volta. Potremmo riempire pagine, moltiplicando questi esempi. Ognuno può inventarne di nuovi o ricorrere alla propria esperienza. Tuttavia, quelli proposti bastano per rendersi conto di quante cose si possono dire con pochissime parole. Nella frase n. 1, l'allocuzione «caro signore» è decisamente ironica: lo studente non è affatto «caro» e non è neppure un «signore». Pur non essendo eccessivamente offensiva, l'ironia risulta abbastanza pesante e non mette certamente a proprio agio il malcapitato. La frase n. 2 è secca e burocratica, non fa allusioni o riferimenti all'identità dell'interessato, ma si limita ad esprimere una valutazione neutra del grado di preparazione. La frase n. 3 è suadente e Pagina 106
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt incoraggiante, non vuole deprimere lo studente, ma invitarlo a valorizzare meglio le proprie capacità che vengono date per scontate. La frase n. 4 esprime un richiamo al ruolo di autorità al quale il docente LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 191 si dichiara vincolato («non posso »); se facesse altrimenti verrebbe meno ai suoi doveri. La frase n. 5 estende il giudizio sulla preparazione alle qualità morali (quindi all'identità) dello studente il quale deve sentirsi in colpa non solo per non aver studiato abbastanza, ma anche per «essere» una persona priva di «amor proprio». La frase n. 6 è un invito allo scambio dei ruoli e un appello al consenso su una base oggettiva; in altre parole, vuol dire: si metta nei miei panni, giudichi da sé la sua prestazione e mi dica se la ritiene sufficiente. La frase n. 7, infine, esprime un giudizio sulle qualità intellettuali dello studente e risulta un invito a mettere in dubbio la capacità di «farcela» negli studi intrapresi. Anche la stessa frase, tuttavia, può assumere significati diversi a seconda del modo come viene pronunciata, della collocazione delle pause e dell'enfasi che viene posta su certe parole piuttosto che su altre. Per quanto variabile e soggettiva, tuttavia, la comunicazione verba- Contesto. le segue sempre determinate regole che dipendono dal contesto nel quale avviene l'interazione e dalla posizione sociale relativa degli interlocutori. L'influenza del contesto è del tutto evidente. Per restare nell'esempio proposto, è chiaro che l'interazione tra professore e studente sarà diversa in situazione di esame, oppure nelle parole che si scambiano alla fine della lezione, oppure in un incontro casuale al bar e muterà a seconda che siano presenti altri studenti, oppure altri professori. Lo stesso si può dire per molti altri contesti. In tribunale, ad esempio, l'interazione verbale tra giudici e avvocati dipenderà dal fatto che l'interazione si svolga nel quadro di un'udienza formale, oppure in corridoio o, addirittura, al di fuori del palazzo di Giustizia. In contesti altamente formalizzati vigono regole molto precise su chi ha il diritto di iniziare, interrompere, concludere l'interazione. In un'aula di tribunale l'imputato in genere parla solo se interrogato, oppure se chiede formalmente di fare una dichiarazione, in sede di esame è evidentemente l'esaminatore che fa le domande e l'esaminato che dà le risposte, quando andiamo dal medico ci aspettiamo che ci inviti a parlare dei nostri disturbi e riterremmo assai strano che egli ci parlasse dei suoi. In ogni caso, si tratta di situazioni nelle quali vige una netta asimmetria tra gli interlocutori, asimmetria che si esprime nelle regole che governano chi può dire, che cosa, a chi, come e quando. . L'asimmetria può essere sottolineata, oppure, al contrario, resa meno esplicita. In situazioni asimmetriche, le regole della cortesia suggeriscono che chi è in posizione dominante abbassi leggermente il proprio status e/o innalzi quello dell'interlocutore per metterlo maggiormente a proprio agio e per comunicargli che gli si attribuisce comunque importanza, evitando tuttavia di esagerare, altrimenti si comunica anche che la situazione creatasi è ritenuta del tutto innaturale e artificiosa. La distanza sociale tra gli interlocutori è una variabile 192 CAPITOLO 7 importante per cogliere i fatti di comunicazione. E linguaggio utilizzato varia molto se si ritiene che colui, o colei, al quale è rivolto si colloca in una posizione superiore, inferiore o «alla pari». Nel rivolgersi ai superiori si useranno più frequentemente espressioni di rispetto e di deferenza se la superiorità/inferiorità è riconosciuta e indiscussa, mentre si eviteranno le stesse espressioni qualora si rivendichi uno status paritario o comunque meno asimmetrico. Solo nell'interazione tra pari, e che si riconoscono tali, vige una vera reciprocità, cioè l'interazione non è deformata dalle differenze di status. L'uso del «lei» o del «tu» è un chiaro esempio di come le distanze sociali si riflettano nel linguaggio. Uno degli aspetti della comunicazione interpersonale che sono stati maggiormente studiati riguarda il «turno di parola», cioè l'avvicendamento dei partecipanti in una conversazione. Supponiamo che un gruppo di persone sia coinvolto in una discussione in cui ognuno vuole, e ha il diritto di, dire la sua. Quando qualcuno sta parlando una norma di cortesia dice di non interromperlo e lasciargli, almeno, finire la frase. Ma, come tutti ben sappiamo per esperienza, ad esempio quando assistiamo ad un dibattito televisivo, ciò non sempre avviene. Pagina 107
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Alcuni si «prendono» letteralmente la parola, interrompendo chi sta parlando per controbattere le sue argomentazioni, spesso alzando il tono di voce in modo da «zittire» chi parla o chi per caso volesse intervenire. Per ridurre la probabilità di essere interrotto, chi parla può adottare diverse strategie, può dichiarare, ad esempio, all'inizio del suo intervento che ha «tre cose da dire», in modo che gli altri interlocutori siano scoraggiati ad intervenire prima che abbia concluso di dire la «terza cosa», oppure può evitare di interrompersi in modo da non dare occasione ad altri di introdursi nella conversazione. Se seguono le regole della cortesia, coloro che vogliono intervenire stanno molto attenti a segnali linguistici che indicano la conclusione di un intervento, ad esempio una pausa in cui chi ha appena parlato si guarda intorno come per «cedere» la parola all'interlocutore successivo. Chi parla può assumersi il potere di «dare» la parola, concludendo il proprio intervento con una domanda rivolta ad uno specifico interlocutore. Chi vuole intervenire può mandare segnali (vocali o anche soltanto gestuali) per indicare la propria intenzione di «prendere» la parola. Alcuni possono essere più pronti di altri nel «prendersi» la parola, altri possono non riuscire a farlo mai, o quasi mai, e restano quindi per lunghe fasi in una posizione passiva di semplice ascolto, oppure si sentono in qualche modo esclusi e possono manifestare disagio, estraniandosi dalla conversazione (una sorta di sciopero dell'ascolto e dell'attenzione), oppure ancora possono rivendicare vivacemente il loro diritto di dire la loro. Accade frequentemente che, quando le regole che governano il turno di parola vengono sistematicamente violate, le voci si sovrappongano, ognuno alzi il tono di voce per imporsi agli altri e nessuno sia più in grado di comunicare o ricevere messaggi. LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 193 L'analisi dell'interazione verbale all'interno di un gruppo, detta appunto analisi conversazionale, è in grado quindi di mettere in luce la struttura dei rapporti sociali tra i membri del gruppo, in particolare dei rapporti di potere, l'esistenza di regole più o meno implicite, la loro eventuale violazione e le dinamiche che vengono messe in atto per ristabilirle o modificarle. In contesti informali, ad esempio nella conversazione tra amici, tali regole sono per lo più implicite e dipendono dalle «buone maniere» dei partecipanti, mentre, in situazioni più formalizzate, ad esempio nell'assemblea dei soci di una qualche associazione, è necessario che l'uguaglianza formale dei partecipanti sia garantita da regole esplicite e da organi che guidino l'interazione. Vi è in genere un «presidente» che dà o toglie la parola, al quale bisogna rivolgersi per chiedere di intervenire e che quindi stabilisce chi, in quale ordine e per quanto tempo ha il diritto di parlare. Anafisi. conversazionale 7. Le comunicazioni di massa Finora abbiamo esaminato la comunicazione prevalentemente come comunicazione interpersonale tra due, o comunque poche, persone in cui ognuna è allo stesso tempo emittente e ricevente di messaggi. Una buona parte della nostra giornata, però, è passata a leggere libri, giornali e riviste, andare al cinema, ascoltare la radio, guardare la televisione, a ricevere cioè messaggi che non sono rivolti a noi personalmente, ma ad una moltitudine di nostri simili. Viviamo nell'epoca delle comunicazioni di massa, delle comunicazioni cioè che raggiungono in modo rapido e simultaneo una pluralità di individui che generalmente vivono in luoghi diversi anche molto distanti l'uno dall'altro. Ovviamente, non è che questo tipo di comunicazione fosse sconosciuto nelle epoche precedenti: i libri si sono incominciati a stampare intorno alla metà del XV secolo e i giornali verso la fine del XVII, il cinema ha già almeno un secolo di storia alle spalle, la radio un po meno e la televisione ormai più di mezzo secolo. Tuttavia, fino alla metà del XIX, e per paesi come l'Italia fino all'inizio del XX secolo, è improprio parlare di comunicazioni di massa. Libri, giornali e riviste erano un consumo di élite, di coloro che sapevano leggere e sappiamo che costoro, prima della diffusione dell'istruzione scolastica, erano in numero limitato. Comunicazioni di massa, cultura di massa, società di massa sono Concetto di massa termini ormai entrati nell'uso comune, ma il loro significato non è preciso. E concetto di massa, che h accomuna, è difficile da definire in positivo. t più facile dire che cosa la massa non è. Non è, ovviamente, un insieme o una cerchia ristretta di persone, come lo sono ad esempio le élite, ma non è neppure un aggregato di grandi dimensioni come lo possono essere le classi Pagina 108
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt (definite da certe caratteristiche socioeconomiche), oppure i popoli o le nazioni (definiti da certe tradizioni 194 CAPITOLO 7 Audience Il settore dell'informazione culturalì) Storicamente il concetto compare associato ad attributi tendenzialmente negativi: la massa è «amorfa», priva cioè di «forma», «anonima» e «atomizzata», composta quindi da individui privi di individualità, fondamentalmente «passiva» o, comunque, «manipolabile» da influenze esterne. Solo eccezionalmente le masse possono diventare protagoniste e, quando ciò accade, è perché sono guidate da qualcuno che è in grado di influenzarle. Non è un caso che il concetto si presenti in concomitanza da un lato con i grandi regimi totalitari del XX secolo (fascismo, nazionalsocialismo e stalinismo) e, dall'altro, con l'avvento del «mercato di massa» di beni standardizzati di largo consumo. In entrambi i casi, sono i mezzi di comunicazione a creare le condizioni per la comparsa di questi fenomeni. La mobilitazione di grandi masse nelle «adunate oceaniche» e gli effetti che tali manifestazioni hanno effettivamente avuto nel sostegno di massa dei regimi totalitari, sono impensabili senza l'uso sistematico degli strumenti della propaganda attraverso i mezzi di comunicazione di massa, in questo caso, soprattutto il cinema e la radio. Così come è impensabile un mercato di massa senza la comunicazione pubblicitaria in grado di raggiungere la massa dei consumatori. In sociologia vi è un'importante tradizione di pensiero che ha assunto un orientamento critico nei confronti della cultura di massa e dei mezzi di comunicazione che la veicolano. Questi sono visti essenzialmente come strumenti di manipolazione in mano ad interessi economici e politici che se ne servono per fini di profitto, creando «falsi bisogni», o di controllo politico, creando un consenso fondato sulla passività. Gli esponenti di questa «scuola» sono stati i fondatori di quella che, non a caso, è stata chiamata «teoria critica della società» [Horkbeimer e Adorno 1947; Marcuse 19641. Queste interpretazioni, e molte altre nella stessa direzione, sono state ampiamente criticate per la loro unilateralità in quanto non terrebbero conto che la «massa» è un'entità assai differenziata e che quindi sono anche assai differenziati gli effetti che su di essa esercita la comunicazione. Innanzitutto è stato abbandonato il concetto di «massa», troppo carico di connotati negativi, per adottare il concetto più neutro di «pubblico», indicato spesso nell'uso corrente col termine inglese di audience. Resta il fatto che questo tipo di comunicazione è rivolto da parte di un numero ristretto di emittenti ad un numero molto vasto di riceventi che restano, nella maggior parte dei casi, sostanzialmente anonimi. Tuttavia, nelle varie fasi attraverso le quali passa (produzione, trasmissione, ricezione), il messaggio subisce tali e tanti processi di trasformazione da creare una situazione complessa dove operano molteplici fattori di condizionamento. Vediamo come funziona questo processo in riferimento ad uno dei settori più importanti delle comunicazioni di massa, il settore dell'informazione. Ogni giorno accade nel mondo un numero infinito di fatti, alcuni sono irrilevanti anche alle stesse persofiealle quali accadono, LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 195 altri sono rilevanti solo a queste, e, se non si tratta di persone «importanti», questi fatti non sono destinati a diventare «notizia» Una parte minima dei fatti che accadono arrivano alle redazioni dei giornali (e dei telegiornali) perché qualcuno si è preoccupato di trasmetterli, oppure perché i giornalisti stessi sono andati a scovarli. In questa fase quindi avviene una prima selezione: vi sono fatti che sono «candidati» a diventare «notizia», altri che invece non raggiungono neppure questo «status» e non è detto che tra questi non ve ne siano almeno alcuni che qualche pubblico riterrebbe rilevanti. Tra i fatti che arrivano in redazione solo alcuni risultano degni di essere trasmessi; i criteri di selezione che operano in questa fase possono essere molto diversi. Ad esempio, possono essere valutati interessanti per qualche pubblico al quale il mezzo si rivolge, oppure possono essere considerati rilevanti perché a qualcuno di importante interessa che circolino certe informazioni. L'accesso ai mezzi di informazione è un aspetto molto importante. evidente che chi ha più potere ha anche maggiore accesso, ma il potere non è la sola variabile che conta; anzi, certi poteri sono efficacemente schermati e non amano Pagina 109
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt comparire sui giornali. La popolarità e la visibilità pubblica contano anche di più e trasformano i fatti, spesso banali, che accadono a certe persone in notizie da prima pagina. La stessa visibilità è a sua volta amplificata dai mezzi di comunicazione in un processo a spirale che si autoalimenta: chi ha più visibilità, più ne avrà. Una volta scelti i fatti da trasformare in notizia, inizia la fase vera e propria di confezione del messaggio. Anche qui sono afl'opera processi di selezione: ogni fatto ha un'infinità di aspetti e di implicazioni con altri fatti, i fatti devono essere ricostruiti (ricorrendo alle fonti più attendibili) scegliendo quegli aspetti che sembrano più rilevanti. E buona norma del giornalismo professionale separare i fatti dalle interpretazioni, ma questo non è sempre facile, infatti, i criteri di rilevanza applicati nella selezione delle notizie e degli aspetti dei fatti sono già intrisi di valutazioni interpretative. Alla fine di questa fase, comunque, il messaggio è pronto per essere trasmesso e, se non interviene qualche veto o censura dall'alto, verrà effettivamente trasmesso. Supponiamo che non ci siano disturbi di trasmissione (ad esempio, uno sciopero dei tipografi o degli edicolanti) e che il messaggio arrivi a destinazione sotto forma di giornale stampato, di giornale radio o di telegiornale. Qui inizia un'ulteriore serie di selezioni. In una società dove vi sia sufficiente libertà di informazione vi è una pluralità di testate tra le quali scegliere, il destinatario può, entro certi limiti, scegliere a quale mezzo esporsi e può anche cambiare mezzo se quello che ha ricevuto non lo soddisfa. E vero che le comunicazioni di massa sono prevalentemente «unilaterali», ma è pur sempre possibile per A ricevente troncare la comunicazione, non comperando più lo stesso giornale o passando ad un altro canale. Ma la selezione non si ferma qui. 196 CAPITOLO 7 Influenza dei niedia L'attenzione durante la lettura o l'ascolto sono, come è noto, selettivi. Nessuno legge il giornale da cima a fondo e non legge tutto quello che legge con la stessa attenzione. Ma quello che viene letto, attentamente o meno, deve subire comunque un processo di decodifica: il lettore può adottare o meno i criteri di interpretazione suggeriti implicitamente o esplicitamente nel messaggio, oppure può adottarne di propri, sedimentati nella sua cultura personale, nelle sue esperienze individuali. In effetti, tutti noi scartiamo fatti e interpretazioni di fatti, sia perché non rientrano nella nostra sfera di interessi, sia perché non trovano posto nelle nostre «mappe cognitive». La stessa notizia arriva quindi in realtà non allo stesso pubblico, ma a pubblici diversi, sui quali produce effetti diversi; la «massa» non è quindi una spugna che assorbe l'intero flusso delle notizie che le vengono propinate, ma un tessuto con trame molto differenziate che filtrano i messaggi in modi e misure diverse. La considerazione della presenza di questi filtri selettivi ci dice che bisogna abbandonare l'idea che i messaggi dei media vengono ricevuti in modo uniforme da ogni individuo e quindi producono, mediante un semplice meccanismo stimolo/risposta, degli effetti uniformi sul suo comportamento. Per studiare quindi i media e i loro effetti bisogna coglierne le varie fonti di variabilità. Un modo efficace per individuare i percorsi di ricerca possibili è quello proposto da Harold Lasswell [19481 secondo il quale per descrivere e spiegare un atto comunicativo è necessario rispondere alle seguenti domande: 1) chi? 2) dice che cosa? 3) attraverso quale canale? 4) a chi? 5) con quale effetto? La prima domanda si riferisce all'emittente (ad esempio, la redazione di un periodico, o una stazione televisiva) che è A più delle volte un'orgabizzazione complessa che opera in un contesto determinato, con una propria gerarchia e proprie forme di divisione dei compiti e all'interno della quale si sviluppa un processo decisionale su che cosa, quando e come trasmettere. La seconda domanda riguarda i contenuti dei messaggi trasmessi. La terza il tipo di mezzo utilizzato (stampa, televisione, ecc.) e il tipo di linguaggio (parola, immagine, suono). La quarta la definizione dei destinatari e le loro caratteristiche e la quinta, infine, le risposte comportamentali di questi ultimi. Pagina 110
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt La ricerca sociologica sulle comunicazioni di massa ha affrontato tutte e cinque queste domande. Risultati interessanti sono stati ottenuti in particolare in riferimento alle ultime due. Ci si è resi conto, infatti, che gli effetti delle comunicazioni non variano soltanto a seconda della segmentazione del pubblico lungo le consuete dimensioni sociodemoLINGUAGGIO E COMUNICAZIONE 197 grafiche (età, sesso, classe sociale, livello di istruzione, condizione professionale, ecc.), ma anche a seconda delle reti di relazione nelle quali gli individui sono inseriti. E pubblico, in altre, parole, non è composto da individui atomizzati, ma da individui che vivono in contesti di relazione. In molti casi i messaggi non arrivano direttamente ai destinatari, ma arrivano attraverso la mediazione di amici, parenti, conoscenti ai quali viene attribuita maggiore o minore credibilità. In ogni cerchia sociale si sa bene quali sono le persone generalmente bene informate o competenti su certi argomenti e quindi si presta maggiore attenzione a quello che dicono e si ripone fiducia nell'attendibilità delle loro informazioni e delle loro opinioni. La comunicazione quindi circola attraverso le reti sociali e in questa circolazione i contenuti dei messaggi possono risultare rafforzati o al contrario indeboliti a seconda del tipo di rapporti tra le persone. Katz e Lazarsfeld [19551 parlano in proposito di un «flusso di comunicazione a due stadi» (two steps flow of communication) per indicare il fatto che tra emittente e ricevente vi è spesso un elemento intermedio costituito dalle relazioni di gruppo. Le persone bene informate sono coloro che ricevono e trasmettono ad altrì le informazioni, ma non le trasmettono così come le hanno ricevute, bensì integrandole coi loro schemi interpretativi. Lazarsfeld et al. [19441 hanno studiato, ad esempio, come gli effetti sul comportamento di voto della propaganda elettorale siano prodotti dalla mediazione dei cosiddetti opinion leaders, da coloro cioè che nell'ambito delle relazioni informali influenzano i modi di selezione, ricezione e interpretazione dei messaggi e quindi gli stessi comportamenti elettorali. In tema di influenza dei media sui comportamenti politici si è discusso molto di recente in vari paesi, e anche in Italia, in relazione al ruolo crescente che la televisione ha assunto nelle campagne elettorali in una fase di accentuata «personalizzazione» della competizione politica. E stato posto, in particolare, il problema delle regole per garantire a tutte le forze politiche parità di accesso all'uso della comunicazione televisiva [McQuail 19921. In quale misura, tuttavia, i messaggi propagandistici siano effettivamente efficaci nell'influenzare il comportamento elettorale, resta comunque un problema aperto. Sicuramente l'efficacia è modesta, se non nulla, nel caso di elettori che hanno già sviluppato un orientamento definito, mentre è probabilmente più consistente nei confronti degli incerti e di coloro che hanno uno scarso interesse per le questioni politiche. Lo studio sugli effetti dei media non si limita però, ovviamente, al campo della politica. Anzi, probabilmente, il settore dove vi è una maggiore quantità di studi e ricerche è quello della pubblicità. La pubblicità esercita senza dubbio un'influenza importante nelle decisioni di acquisto da parte dei consumatori, altrimenti non si spiegherebbero l'entità degli investimenti pubblicitari delle imprese che producono beni di largo consumo e neppure l'impegno di intelligenza che viene profuso nella comunicazione pubblicitaria. Anche le decisioni di 198 CAPITOLO 7 acquisto, come le scelte di voto, sono però processi complessi e l'esposizione ai messaggi dei media è solo uno dei tanti fattori che li condizionano. Un altro campo sul quale si sono sviluppate accese discussioni riguarda il rapporto tra media e violenza. Molti sostengono che, soprattutto nell'infanzia, l'esposizione prolungata e ripetuta a scene di violenza può veicolare modelli culturali che inducono all'uso della violenza reale. Le ricerche condotte, come spesso accade, non sono in grado di dirci con assoluta certezza se, e in che misura, questo accade effettivamente. I meccanismi psicosociologici che legano la realtà «rappresentata» ai comportamenti sono molto complessi e perlopiù oscuri. L certo, comunque, che il fatto di vivere in un mondo nel quale, accanto alla violenza reale, gli individui, e i bambini in particolare, sono esposti a dosi massicce di violenza «rappresentata» non è senza conseguenze. In conclusione, possiamo dire che, se la teoria dell'onnipotenza dei media sui comportamenti (siano essi politici, violenti o di consumo) si è rivelata un mito, non si può certo dire che i media non facciano altro che riflettere l'esistente senza influenzarlo e modificarlo. Un cenno meritano infine le nuove e interessanti prospettive che si sono aperte Pagina 111
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt con la diffusione di mezzi che consentono una maggiore interazione tra emittente e ricevente. Non si tratta solo delle trasmissioni in cui è prevista la possibilità di intervento degli ascoltatori attraverso il telefono o di persona (che sono un fatto piuttosto banale), ma soprattutto delle comunicazioni rese possibili dai calcolatori elettronici. Questi renderanno possibili forme reali di decentramento delle attività produttive (telelavoro), e forse anche forme permanenti di consultazione dell'opinione pubblica (teledemocrazia), ma soprattutto, attraverso Telematica la telematica, permetteranno di abbracciare in una rete di comunicazioni l'intero pianeta, offrendo a tutti gli utenti una pressoché infinita gamma di informazioni (nonché spettacoli di intrattenimento) tra i quali l'utente sarà libero di scegliere a suo piacimento. Non è inipensabile che in un futuro non troppo remoto ogni utente dei servizi telematici abbia la possibilità di accedere in tempo reale (cioè quando ne avverte il bisogno) a pressoché l'intero patrimonio storico, artistico, letterario, scientifico (ma anche all'intera produzione di spettacoli di evasione, pornografici, sportivi, ecc.) che sarà accumulato in gigantesche banche dati. In altre parole, potrà costruire, come un mosaico, il proprio programma «individualizzato» scegliendo da un'offerta praticamente illimitata di opportunità, ma potrà anche comunicare le sue preferenze e anche esprimere le sue opinioni. Benvenuta, soprannominata Pincinella, fu processata per stregoneria a Brescia nel 1518, nel convento di San Domenico, alla presenza del vicario defl'inquisizione, padre Lorenzo de Masi. Le furono rivolte accuse gravissime: di conoscere il segreto di una polvere potente e terribile, capace di arrecare danno agli altri e di far ammalare i bambini; di curare gli stregati con ricette magiche; di operare incantesimi. Con uno di questi, riusciva «a far che una persona voglia bene all'altra, et far che li mariti vogliano bene a le soe mojer et che non le possano batere, sì ben le moier fanno le corna a li mariti soi» [Bonomo 1959, 891. E processo fu lungo e drammatico. Al termine, il tribunale giudicò l'imputata «vera eretica e inimica de la santa fede catolica» e, essendo recidiva, la affidò all'autorità civile, che a sua volta la condannò a morire sul rogo insieme ad altre sette donne, anch'esse «haereticae, strigae et impenitentes». Quello di Benvenuta non fu un caso eccezionale di devianza. A partire dalla metà del Cinquecento, in tutta Europa, migliaia di donne furono arrestate e processate, con l'accusa di stregoneria, di magia/di superstizione. Le colpe loro attribuite erano di provocare la @ e la morte di molte persone, di impedire alle mucche di fare il latte, di scatenare furibonde tempeste. Convinti che i supplizi fossero A modo più sicuro per arrivare alla verità, i giudici sottoponevano le imputate a torture così dure che riuscivano a far confessare loro tutto quello che volevano: di andare, volando a cavallo di una scopa, in luoghi segreti in cui si riunivano con altre streghe per celebrare feste magiche ed orgiastiche in onore del diavolo; di esercitare in molti modi i loro poteri occulti contro gli altri: con il contatto fisico o seppellendo un indumento della vittima o trafiggendo con aghi una sua immagine. Pensando inoltre che le streghe recassero sul corpo il marchio della loro attività, i giudici le facevano spogliare e le sottoponevano a visite 200 CAPITOLO 8 minuziose, alla ricerca del bollo demoniaco, di una macchia o una escrescenza. Quasi sempre, il tribunale emetteva una sentenza di condanna contro le imputate, talvolta al carcere a vita, talvolta alla decapitazione, talvolta al rogo. Dopo essersi moltiplicati nel Cinquecento e nella prima metà del Seicento, i processi per queste forme di devianza divennero sempre più rari e alla fine cessarono del tutto. l. Il concetto di devianza Definiamo devianza ogni atto o comportamento (anche se solo verbale) di una persona o di un gruppo che viola le norme di una collettività e che di conseguenza va incontro a qualche forma di sanzione. La devianza non è una proprietà di certi atti o comportamenfi, ma una qualità che deriva dalle risposte, dalle definizioni e dai significati attribuiti a questi dai membri di una collettività (o dalla grande maggioranza di questi) Questa idea è stata espressa bene da Emile Durkbeim. «Non bisogna dire - egli osservava nel 1893 - che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo» [1893, trad. it. 1962, Pagina 112
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 1031. Poiché le risposte della collettività variano considerevolmente nello spazio e nel tempo, un att0-11@ùó essere considerato deviante solo in riferimento al contesto sociocult, rale m cui ha luogo. La storia drammatica della caccia alle streghe, cO@@ cui abbiamo iniziato questo capitolo, mostra come il concetto di devia@za cambi storicamente. Per citare un altro esempio, in Europa, nel Medioevo, chi mangiava senza posate, si soffiava il naso nella tovaglia sp tava continuamente per terra, lasciava corridoi, veniva considerato non come le urine e le feci sulle scale, 2P, (1 un deviante ma come una persona assolutamente normale. D'altra parte, un comportamento considerato deviante in un paese può essere accettato o addirittura considerato molto positivamente in un altro. Così, ad esempio, ancora oggi in molti paesi africani, per un uomo avere due o tre mogli non solo è possibile, ma è ritenuto anche un segno di appartenenza a un ceto sociale agiato. Invece in Italia, come del resto negli altri paesi occidentali, un comportamento del genere è espressamente vietato dal codice penale, che all'articolo 556 prevede che «chiunque, essendo legato da matrimonio avente effetti civili, ne contrae un altro pure avente effetti civili, è punito con la reclusione da uno a cinque annì». Infine, un comportamento può essere considerato deviante in una situazione, ma non in un'altra del tutto diversa. Nessuno, ad esempio, può vietare a un uomo e a una donna che lo vogliano di fare all'amore nella camera da letto della loro casa o di un albergo. Ma se lo fanno all'aperto, in mezzo alla piazza del loro paese, sotto gli occhi di tutti, DEVIANZA E CRIMINALITA 201 rischiano, secondo l'articolo 527 del nostro codice penale, di essere denunciati e condannati (da un minimo di tre mesi a un massimo di tre anni) per atti osceni. Questa concezione relativistica della devianza è stata sostenuta con forza, negli ultimi trent'anni, da molti studiosi di scienze sociali. Ma essa è molto antica. «Nulla si vede di giusto o di ingiusto - scriveva alla metà del XVII secolo Blaise Pascal [1669, trad. it. 1962, 1411 che non muti qualità col mutar del clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano [...] Il furto, l'incesto, l'uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose». In seguito, questa concezione relativistica è stata ripresa dai teorici del positivismo giuridico, che hanno sostenuto che non esistono mala in se, cioè azioni intrinsecamente cattive e dunque meritevoli di punizione, ma solo mala quia probibita, cioè atti che sono illeciti perché proibiti. E bene tuttavia tenere presente che questa concezione relativista non vale nella stessa misura per tutte le forme di devianza. t vero infatti che il modo in cui sono stati percepiti e giudicati alcuni comportamenti, come ad esempio A consumo di stupefacenti, il gioco d'azzardo o la prostituzione (cioè i «reati senza vittime») è variato enormemente nel tempo e nello spazio. Ma è anche vero che vi sono atti che sono stati condannati in molte (anche se non in tutte) le società e le epoche [Hoebel 19671: l'incesto, che (come vedremo nel cap. XVI) è universalmente proibito, il furto, il ratto e lo stupro di una donna sposata, l'uccisione di un membro del proprio gruppo. Vi sono stati, per la verità, popoli - come ad esempio quello degli eschimesi - nei quali l'infanticidio e l'uccisione di un genitore anziano erano ammessi. Ma questo era giustificato da uno dei più importanti postulati alla base della cultura eschimese Wa vita è difficile e il margine di sopravvivenza esiguo») e da un corollario di questo («i membri improduttivi della società non possono essere mantenuti»). Questi principi erano così condivisi che spesso erano gli stessi anziani ad insistere per essere uccisi: Un cacciatore delle isole di Diomede - ha scritto un antropologo - mi raccontò in che modo egli avesse ucciso il padre, su richiesta di quest'ultimo. L'anziano eschimese non ce la faceva più ormai, né poteva dare più il suo contributo per quella che riteneva fosse la sua parte di lavoro come membro del gruppo. Così chiese a suo figlio, ch'era allora un ragazzo di dodici anni, di affilare un grosso coltello da caccia, poi indicò nel cuore il punto vulnerabile dove avrebbe dovuto colpirlo. E ragazzo vi infilò il coltello fino Mi fondo, il colpo però non diede il risultato previsto. Allora il vecchio padre, con dignità e rassegnazione, gli diede un suggerimento: «Prova un po più forte figlio mio». E secondo colpo fu più efficace del primo [Hoebel 1967, trad. it. Pagina 113
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 1973, 1181. Conce.zìone irchuvistica dola devianza Ma la, in se e Mak qux @mbibMq 202 CAPITOLO 8 2. Lo studio della devianza Quello della devianza è uno dei fenomeni sociali sui quali è più difficile fare ricerca scientifica. 1 sociologi, ad esempio, hanno scritto molti libri sul perché alcune persone pongono fine alla loro vita tagliandosi le vene o sparandosi un colpo di pistola, il più importante dei quali resta ancor oggi Il suicidio di Emile Durkheim, pubblicato alla fine del secolo scorso. Questi libri si basano in gran parte sulle statistiche ufficiali dei suicidi raccolte dalle agenzie dei governi dei vari paesi. Ma queste statistiche - hanno sostenuto alcuni studiosi - sono poco attendibili, perché corrispondono alla definizione che una determinata società dà del suicidio e questa può variare nello spazio e nel tempo. In particolare, la probabilità che una morte venga registrata come suicidio (invece che come omicidio o come incidente) è tanto minore quanto più negativo è l'atteggiamento di una società nei confronti di chi si toglie la vita. Dobbiamo dunque rinunciare a questi dati e considerare privi di valore gli studi condotti a partire dal libro di Durkheim? Certamente no. Le ricerche condotte in vari paesi negli ultimi vent'anni hanno infatti mostrato che le statistiche ufficiali sottovalutano il numero di suicidi che avvengono realmente, ma meno i anto si pensasse. 1 risultati di queste ricerche ci suggeriscono inoltre * essere prudenti nell'interpretare le differenze nello spazio e nel temp fra i tassì di suicidio (vale a dire il numero di suicidi per 100 mila bitanti), ma non di ignorarle. Facciamo un esempio. 1 dati della tab. .1 mostrano che nelle regioni centro- settentrionali del nostro paese ci si uccide molto di più che in quelle meridionali. Le differenze sono così forti (ad esempio, il tasso di suicidio dell'Emilia Romagna è quattro volte più alto di quello della Campania) che esse non possono essere certo ricondotte alla maggiore o minore attendibilità delle statistiche. 1 anto si tre ess@ m o Ino e nel te p 1 per 100 mila lati della tab TAB. 8. 1. Suicidi (in valore avsoluto) e tasso di sukidio (per 100 mila abitanti) in rtalia nel 1993, per regione Suicidi Tasso di Suicidi Tasso di suicidio suicidio Piemonte 514 11,9 Marche 113 7,9 Valle d'Aosta 7 6,o Lazio 165 3,2 Lombardia 819 9,2 Abruzzo 86 6,8 Trentino-Alto Adige 85 9,4 Molise 20 6,0 Veneto 302 6,9 Campania 182 3,2 Friuli 139 11,6 Puglia 169 4,2 Liguria 241 14,5 Basilicata 52 8,5 Emilia-Romagna 391 10,0 Calabria 85 4,1 Toscana 273 7,7 Sicilia 270 5,4 Umbria 90 11,0 Sardegna 116 7,0 Fonte: Istat. DEVIANZA E CR1MINALITA 203 FIG. 811, La criminalità nascosta varia secondo i diversi tipi di reati. Fonte: Bandini et aL 19.9 1 Ancora maggiori sono i problemi che si incontrano nello studio della criminalità. Anche in questo caso, i sociologi si basano spesso sulle statistiche giudiziarie relative alle denunce e alle condanne. Ma questi dati hanno un grado di attendibilità minore di quello delle statistiche che usiamo per analizzare altri aspetti della vita sociale. Il numero dei reati ufficiali, considerati tali dalla polizia e dalla magistratura, rappresenta solo una parte di quelli reali, effettivamente compiuti. Ve ne sono infatti altri che, pur essendo stati commessi, restano nascosti e non vengono registrati. Questi ultimi costituiscono il cosiddetto «numero oscuro» dei delitti. Le ricerche condotte in molti paesi occidentali hanno mostrato che per alcuni reati (gli omicidi, le rapine in banca, i furti delle auto) vi è una coincidenza quasi completa fra quelli registrati e quelli effettivamente compiuti. Il numero oscuro è invece assai grande nel caso del taccheggio, degli assalti sessuali e di altri reati (fig. 8. 1). Perché un reato entri a far parte delle statistiche non basta infatti che sia stato commesso: è necessario anche che qualcuno se ne accorga e lo faccia sapere ad un organo del sistema penale. Per i «reati senza vittima» (prostituzione, Pagina 114
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt consumo di stupefacenti, gioco d'azzardo) e per quelli contro l'intera collettività, questo dipende dalla capacità della polizia di scoprire gli eventi delittuosi e i loro autori. Per quelli invece che colpiscono una persona (ad esempio, lo scippo, il borseggio, il furto in appartamento, la rapina), le forze dell'ordine e la magiReati ufficiali Numero oscuro dei delitti Reati senza vittima 204 CAPITOLO 8 T,&13. 8.2. Percentuali di persone cbebanno denunctito un reato in Italia su quelle che lo hanno subito nel 1987, per bene sottratto e zona geografica Denunce per Centro-Nord Sud-Isole Italia furto di auto 97 90 94 furto di parti dell'auto 60 64 61 furto di oggetti dall'auto 39 24 35 furto di motociclo 86 74 83 furto di bicicletta 35 furto del portafoglio 63 42 59 tentativo di furto del portafoglio 29 7 furto della borsa o del borsellino 83 47 tentativo di furto della borsa o del borsellino 32 25 28 furto di denaro 49 36` 45 furto di gioielli 55 36 48 Fonte: Barbaglì [19951. stratura possono venire a conoscenza dell'accaduto solo grazie alla denuncia della vittima o di un testimone. In molti casi però, sia in Itaha che negli altri paesi, solo una quota di coloro che subiscono un reato sporge denuncia. Questa quota varia a seconda di come e di che cosa viene rubato e del luogo dove avviene il reato. Si rivolgono alla polizia quasi tutti, se viene loro sottratta un'automobile, moltissimi se subiscono un furto in appartamento, solo la metà quando vengono scippati o borseggiati. Si sporge più frequentemente denuncia se il furto avviene in una regione settentrionale piuttosto che meridionale (tab. 8.2). Negli ultimi vent'annì, i ricercatori di vari paesi sono riusciti a ovviare a questi problemi (almeno nel caso dei reati con una vittima individuale) conducendo indagini periodiche per interviste su grandi Inchieste campioni della Pagina 115
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt popolazione (le cosiddette «inchieste di vittidi vittiminazione mizzazione») al fine di individuare quali fra le persone intervistate abbiano subito, in un determinato periodo di tempo, alcuni reati. Purtroppo però i reati che si possono studiare con queste inchieste sono solo quelli dei quali l'individuo ha conoscenza diretta: lo scippo, il borseggio, la rapina, il furto di auto o in appartamento. 3. Le teorie della criminalità Da molto tempo ci si interroga sul perché alcune persone, in certe fasi della loro vita, derubano, uccidono o stuprano qualcuno. Nell'ultimo secolo, i sociologi, gli psicologi e gli economisti hanno formulato numerose teorie, per spiegare perché questo avviene. Le principali sono sei. 3.1. Le spiegazioni biologiche Da quando esistono le scienze sociali, sono state elaborate molte teorie che riconducono i comportamenti devianti alle caratteristiche fisiche e biologiche degli individui. Dai sostenitori di queste teorie, i criminali sono stati spesso considerati individui profondamente diversi dagli altri, «anormali», inferiori. Mentre tuttavia un tempo coloro che proponevano queste teorie erano rigidamente deterministi, oggi essi ritengono che la presenza di certi tratti biologici faccia solo aumentare la probabilità che una persona commetta dei reati. L'idea che la criminalità sia legata a particolari caratteristiche fisiche di una persona è molto antica e precede di molti secoli la nascita delle scienze sociali. Così, ad esempio, il deviante dell'Iliade di Omero, Tersite, oltre ad essere vile e insolente, era anche «l'uomo più brutto» del mondo: «camuso e zoppo d'un piede, le spalle erano torte, curve e rientranti sul petto: il cranio aguzzo in cima, e rado il pelo fioriva». D'altra parte, una legge medioevale decretava che «se due persone vengono sospettate di un reato, è da considerarsi più probabilmente colpevole quella più brutta e deforme» [Wilson e Herrnstein 1985, 711. Ma uno dei primi studiosi che ha fornito una veste scientifica a questa tesi è stato Cesare Lombroso, un medico e psichiatra vissuto nel secolo scorso (1835-1909), che per lungo tempo considerò la costituzione fisica come la più potente causa di criminalità. Particolare importanza egli attribuì al cranio. Studiando quello del brigante Vilella, rilevò che nell'occipite, invece che una piccola cresta, esso presentava una fossa, che chiamò «occipitale mediana». Lombroso prese tuttavia in considerazione anche le altre parti del corpo, sostenendo che il «delinquente nato» aveva in genere la testa piccola, la fronte sfuggente, gli zigomi pronunciati, gli occhi mobilissimi ed errabondi, le sopracciglia folte e ravvicinate, il naso torto, il viso pallido o giallo, la barba rada. Influenzato dalle teorie di Darwin, Lombroso sostenne che il «delinquente nato» presentava delle caratteristiche ataviche, simili cioè a quelle degli animali inferiori e dell'uomo primitivo, che rendevano difficile o impossibile il suo adattamento alla società moderna e lo spingevano a commettere reati. Severamente criticata da molti studiosi, la teoria di Lombroso cadde in disgrazia. Anche il suo autore la modificò profondamente e, negli ultimi anni della sua vita, sostenne che i delinquenti «nati» costituivano solo un terzo di coloro che infrangevano le norme e che ogni delitto aveva origine in una «molteplicità di cause». Ma i tentativi di spiegare la criminalità con fattori biologici sono continuati. Uno dei più famosi è quello compiuto nel 1940 dal medico e psicologo americano, William H. Sheldon, il qualé sostenne che vi erano tre tipi fondamentali di costituzione fisica, ai quali corrispondevano personalità diverse. Il primo è il tipo endomorfo: ha un corpo ben ricoperto di grasso, soffice, tondeggiante, ossa piccole, arti corti, pelle morbida e vellutata. Ha un temperamento viscerotonico: tende ad essere socievole, accomodante e indulgente con se stesso. E secondo è il tipo mesomorfo. Ha un tronco imponente, un torace robusto ed una gran massa di muscoli e di solide ossa. Ha un temperamento somotonico: attivo e dinamico, è irrequieto, aggressivo, energico e instabile. Il terzo è il tipo ectornorfo. Ha un corpo magro, fragile, delicato, ossa piccole, spalle curve. Ha un temperamento cerebrotonico: è introverso, ipersensibil nervoso, soffre di insonnia e di allergie. Secondo Sheldon, in ci cuno di noi vi sono tratti di tutti e tre questi tipi. Ma ciò che rende una persona diversa dall'altra è che il peso di queste caratteristiche varia fortemente. Gli individui mesomorfi hanno maggiori probabilità di diventare criminali di quelli endomorfi o ectomorfi. Nell'ultimo ventennio, la teoria biologica è stata ripresa e riformulata su basi nuove da alcuni studiosi. Essi hanno ricondotto la tendenza degli individui ad Pagina 116
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt infrangere le norme ad alcune forme di anormalità genetica ed in particolare a quella che chiamano la sindrome XYY. Come vedremo nel cap. XIII, gli esseri umani hanno normalmente 46 cromosomi. Alcune persone - ma si tratta di casi assai rari ne hanno invece 47. Se il cromosoma che hanno in più è uno X (ereditato dalla madre) non succede nulla di rilevante. Ma se è uno Y (ereditato dal padre) - dicono i sostenitori di questa teoria - allora è assai probabile che queste persone commettano reati di vario tipo. Ma anche in quest'ultima versione, la teoria biologica non ha trovato molte conferme dalle ricerche e non è riuscita ad affermarsi fra gli studiosi della criminalità. 3.2. La teoria della tensione Emile Durkheim pensava che certe forme di devianza fossero in parte dovute all'anomia, cioè alla mancanza delle norme sociali, che regolano e limitano i comportamenti individuali. Quando questo avviene - egli osservava - «non si sa più ciò che è possibile e ciò che non lo è, ciò che è giusto e ciò che non è giusto, quali sono le rivendicazioni e le speranze legittime, quali quelle che vanno oltre la misura [... 1 Così, non contenuti da un'opinione disorientata, gli appetiti non sanno più quali siano i limiti da non superare» [1897, trad. it. 1969, 307-3081. Sessant'anni fa, Robert Merton ha ripreso e riadattato questa idea, sostenendo che la devianza è provocata dalle situazioni di anornia, che a loro volta nascono da un contrasto fra la struttura culturale e quella sociale. La prima definisce la mete verso le quali tendere e i mezzi con i quali raggiungerle. La seconda consiste nella distribuzione effettiva delle opportunità necessarie per arrivare a tali mete con quei mezzi. Modo di adattamento Mete culturali Mezzi istituzionalizzati Conformità Innovazione Ritualismo Rinuncia Ribellione Legenda: (+) significa «accettazione»; (-) significa «rifiuto»; (+/-) significa «rifiuto di mete o mezzi dominanti e sostituzione con nuove mete e nuovi mezzi» Fonie: Merton [19491. Questo contrasto si verifica, ad esempio, nella società americana, che prescrive a tutti il raggiungimento del successo economico (meta culturale) attraverso il lavoro, il risparmio, l'istruzione, l'onestà (mezzi approvati) Ciascuno - sia egli povero o ricco - viene spinto dalla famiglia, dalla scuola, dai mezzi di comunicazione di massa a raggiungere questa meta. Ma di fatto le persone delle classi sociali svantaggiate non ci riescono. Per adattarsi ai valori culturali proposti nella situazione prodotta Modi dal contrasto fra le mete e i mezzi per raggiungerle, gli individui pos- di adattamento individuale sono scegliere fra cinque diverse forme di comportamento (tab. 8.3). 19 primo è la conformità, che consiste nell'accettazione sia delle mete culturali che dei mezzi previsti per raggiungerle. Ma tutti gli altri quattro comportamenti sono devianti. 19 secondo è l'innovazione: la strada scelta da coloro che rubano, imbrogliano o ingannano gli altri, cioè da chi aderisce alle mete, ma rifiuta i mezzi normativamente prescritti. Il terzo è il ritualismo, che è il modo di adattamento di chi abbandona le mete, ma resta attaccato alle norme sui mezzi. t tipica di coloro che dicono: «io vado sul sicuro», «non faccio il passo più lungo della gamba», «mi accontento di quello che ho». La quarta modalità di adattamento è la rinuncia sia ai fini che ai mezzi. t quella dei mendicanti, dei senza fissa dimora, dei tossicodipendenti, degli etilisti. L'ultima possibilità è la ribellione, che consiste nel rifiuto sia delle mete che dei mezzi e della loro sostituzione con altre mete ed altri mezzi. 3.3. La teoria dei controllo sociale La teoria della tensione si basa sull'assunto che l'individuo sia un animale morale, che fa proprie le norme della società in cui vive e che è naturalmente portato a seguirle. Se rispetta la legge non è dunque perché ritiene che i benefici che ricava dalla sua azione siano maggiori dei costi, ma perché si sente moralmente obbligato a farlo. Stando così le cose, solo una forte pressione può spingerlo a violare le norme e 208 CAPITOLO 8 Controllo sociale esterno Controfio sociale interno diretto e indiretto Pagina 117
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt questa pressione - come abbiamo visto - viene dalla tensione fra struttura culturale e struttura sociale. La teoria del controllo sociale si basa invece su una concezione più pessimistica della natura umana, considerata moralmente debole. Essendo l'uomo naturalmente portato più à, violare che a rispettare le leggi, ciò che occorre spiegare è la conformità e non la devianza. La grande domanda da cui partire non è dunque più «perché alcune persone commettono dei reati?», ma è invece 'perché la maggior parte delle persone non li commette?». E la rispo:tla data è che ciò avviene perché queste sono frenate dal farlo. 1 controlli sociali che impediscono loro di violare le norme sono di vario tipo. Vi sono quelli esterni: le varie forme di sorveglianza esercitata dagli altri per scoraggiare ed impedire i comportamentì devianti. Vi sono quelli interni diretti, che si manifestano nei sentimenti di imbarazzo, di colpa e di vergogna che prova chi trasgredisce una prescrizione sociale. Vi sono infine quelli interni indiretti: l'attaccamento psicologico ed emotivo sentito per gli altri ed il desiderio di non perdere la loro stima ed il loro affetto. Secondo lo studioso americano Travis Hirschi, che è oggi il più autorevole esponente di questa teoria, una persona compie un reato quando il vincolo che lo lega alla società è molto debole, fino quasi a spezzarsi. Questo legame presenta i seguenti aspetti: o L'attaccamento ai genitori* o agli insegnanti. Quanto più un individuo è legato a queste persone tanto più difficile è che compia delle azioni che essi disapprovano. o Limpegno nel perseguimento degli obiettivi convenzionali: il successo scolastico, l'affermazione professionale, la reputazione sociale. Quanto maggiore è l'energia che un individuo ha investito nel raggiungimento di questi obiettivi, tanto più difficile è che egli rischi di perdere, violando le norme, tutto quanto ha accumulato in questo campo. In altre parole, se molti di noi non rubano non è per desiderio di essere onesti, ma per la paura dei costi che la disonestà può avere. o Il coinvolgimento nelle attività convenzionali. Quanto maggiore è il tempo che una persona dedica allo studio, al lavoro, allo svago, tanto minore è quello che gli resta per compiere i reatì. o Le credenze. La violazione delle norme non è provocata da credenze che la richiedano o la rendano necessaria ma dalla mancanza di credenze che la vietano. 3.4. La teoria della subcultura Molti studiosi hanno osservato che di per sé il contrasto fra la struttura sociale e quella culturale non basta a spiegare perché alcune persone violino le norme e hanno sostenuto che anche la devianza, come la conformità, si apprende dall'ambiente in cui si vive. Se una persona commette un reato è - secondo questi studiosi - perché si è formato in una subcultura criminale, che ha valori e norme diverse da quelle della società generale e che vengono trasmesse da una generazione all'altra. A bere alcool, a fare uso di droga, a rubare e a rapinare, si impara dagli altri, da coloro che si incontrano tutti i giorni e che sono disposti a farlo e lo sanno fare. Da essi, oltre alla competenza tecnica, si imparano i valori, gli atteggiamenti, le razionalizzazioni favorevoli a queste azioni. L'idea che la devianza si apprende dall'ambiente sociale in cui ci si forma e si vive è stata presentata per la prima volta nel 1929 da Clifford Shaw e Henry McKay, due studiosi americani della «scuola di Chicago» fondata da Robert Park (1864-1944) Su quella città essi condussero allora una imponente ricerca. Dividendola in cinque zone concentriche, essi calcolarono il «tasso di delinquenza», cioè porto fra il numero degli autori di reato residenti in un'area e il to le della popolazione di quell'area, e videro che A valore di tale tasso * minuiva man mano che ci si allontanava dal centro della città, abitato per lo più dagli immigrati di vari gruppi etnici, e si passava ai quartieri degli operai specializzati e a quelli residenziali dei ceti medi. Scoprirono inoltre che dal 1900 al 1920 le differenze nel tasso di delinquenza fra i quartieri erano rimaste immutate, nonostante che la popolazione si fosse rinnovata e la sua composizione per gruppi etnici fosse profondamente cambiata. Per spiegare questo fenomeno essi sostennero allora che in alcuni quartieri vi erano norme e valori favorevoli a certe forme di devianza e questo patrimonio culturale veniva trasmesso ai nuovi arrivati nell'interazione che aveva luogo nei piccoli gruppi e nelle bande di ragazzi. Questa teoria è stata ripresa ed articolata da uno dei maggiori criminologi americani del nostro secolo, Edwin H. Sutherland. Secondo questo studioso, il comportamento deviante non è né ereditario né inventato dall'attore, ma appreso Pagina 118
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt attraverso la comunicazione con altre persone. Il processo di apprendimento avviene di solito all'interno di piccoli gruppi e riguarda sia le motivazioni per commettere un reato sia le tecniche per farlo. Nella società contemporanea coesistono infatti numerose culture che prescrivono o consentono agli individui forme di comportamento radicalmente diverse o opposte. «La cultura criminale scriveva Sutherland - è tanto reale quanto quella legale ed è molto più diffusa di quanto comunemente si pensi». Tutti noi, nel corso della nostra vita, entriamo in contatto con alcune di queste culture e dunque con definizioni favorevoli e sfavorevoli a violare le norme. Quanto più una persona frequenta ambienti in cui prevalgono le prime tanto più è probabile che questa persona diventi deviante. Dunque, anche secondo Sutherland, come per tutti coloro che si rifanno a questa teoria, chi commette un reato lo fa perché si conforma alle aspettative del suo ambiente. In questo senso, le motivazioni del suo comportamento non sono diverse da quelle di chi rispetta le leggi. Ad essere deviante non è infatti l'individuo, ma il gruppo a cui egli appartiene. Gli individui non violano le norme del proprio gruppo, ma solo quelle della società generale. 3.5. La teoria dell'etichettamento Tutte le teorie che abbiamo finora ricordato concentrano la loro attenzione sul comportamento criminale (o, più in generale, deviante) e cercano di indivi arne le c e, siano esse biologiche, psicologiche Etichettamento o sociali. Del tutto diversa è l'im stazione della teoria dell'etichettamento. Coloro che la seguono sostengono che per capire la devianza è necessario tenere conto non solo della violazione, ma anche della creazione e dell'applicazione delle norme; non solo dei criminali, ma anche del sistema giudiziario e delle altre forme di controllo sociale. Il reato (e, più in generale, la devianza) non sono altro che il prodotto dell'interazione fra coloro che creano e che fanno applicare le norme e coloro invece che le infrangono. La vecchia sociologia - ha scritto Edwin Lemert, uno dei più autorevoli esponenti di questa corrente - tendeva a basarsi massicciamente sull'idea che la devianza porti al controllo sociale. lo sono giunto a pensare che l'idea opposta, cioè che il controllo sociale porti alla devianza, è ugualmente sostenibile e costituisce l'ipotesi potenzialmente più feconda per lo studio della devianza nella società moderna [Cohen, 1992, 7961. Un altro studioso di questa scuola, Howard Becher, ha scritto che i gruppi sociali creano la devianza stabilendo le regole la cui infrazione costituisce la devianza e applicando queste regole a persone particolari, che etichettano come outsider. Da questo punto di vista, la devianza non è una qualità dell'azione commessa, ma piuttosto la conseguenza dell'applicazione, da parte di altri, di regole e sanzioni al trasgressore. Il deviante è uno cui l'etichetta è stata applicata con successo; il comportamento deviante è il comportamento così etichettato dalla gente [Cohen 1992, 7961. In questi due brani troviamo alcuni punti chiave della teoria dell'etichettamento. Secondo i suoi sostenitori, fra coloro che commettono atti devianti e gli altri non vi sono differenze profonde né dal punto di vista dei bisogni né da quello dei valori. Ne è prova il fatto che, nella nostra società, ad un altissimo numero di persone succede, almeno una volta nella vita, di violare una norma in modo più o meno grave. Ma un conto è commettere un atto deviante: mentire, rubare qualcosa, fare uso di droga. Un altro conto è suscitare per questo una reazione sociale, venire accusato di essere un deviante: un bugiardo, un ladro, un drogato. In questo secondo caso, un individuo viene bollato con un marchio, un'etichetta, un ruolo. I suoi comportamenti passati vengono riesaminati e reinterpretati alla luce di quelli presenti e si comincia a pensare che egli si sia sempre comportato così. Di conseguenza lo si guarda e lo si tratta in modo diverso dagli altri, con sospetto, timore, ostilità. Cruciale è da questo punto di vista la distinzione, introdotta da De-áwza primana Edwin Lemert, fra devianza primaria e secondaria. Con la prima e secondaria espressione ci si riferisce a quelle violazioni delle norme che hanno agli occhi di colui che le compie un rilievo marginale e che vengono di conseguenza presto dimenticate. Ciò significa che chi fa queste azioni non considera se stesso un deviante né viene visto come tale dagli altri. Si pensi, ad esempio, ad uno studente universitario che ruba, senza essere scoperto, alcuni libri ed alcune penne in un supermercato. Una volta laureato e diventato un professionista, i furti commessi alcuni anni prima appaiono come eventi privi di importanza. Si ha Pagina 119
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt invece devianza secondaria quando l'atto di una persona suscita una reazione di condanna da parte degli altri, che lo considerano un deviante e questa persona riorganizza la sua identità ed i suoi comportamenù sulla base delle conseguenze prodotte dal suo atto. Se un individuo viene trovato dalla polizia in flagranza di reato, mentre sta rubando qualcosa, viene arrestato e processato. Basta questo perché l'immagine che gli altri avevano di lui cambi radicalmente. La stigmatizzazione che l'ha colpito lo farà sentire sempre più isolato dal resto della società e questo lo spingerà ad entrare in contatto con gli altri. Ulteriori sue infrazioni delle norme provocheranno reazioni sociali sempre più forti che lo indurranno a proseguire la «carriera» di deviante. 3.6. La teoria della scelta razionale Per le teorie che abbiamo finora ricordato, una persona viola le norme perché è spinta a farlo da fattori biologici, psicologici o sociali. In altre parole, se ruba o uccide è per motivi genetici o perché si è formato in una subcultura delinquente oppure perché è mosso dal contrasto fra l'importanza attribuita dalla società in cui vive a certe mete e i mezzi insufficienti che ha a disposizione per raggiungerle. 1 sostenitori della teoria della scelta razionale considerano invece i reati come il risultato non di influenze esterne, ma di un'azione intenzionale adottata attivamente dagli individui. Essi sono infatti convinti che l'individuo è un essere razionale, che agisce seguendo i propri interessi, ricercando il piacere e fuggendo il dolore, e che è capace di scegliere liberamente se violare o meno una norma. Se egli decide di compiere un reato è di solito perché si attende di ricavarne benefici maggiori di quelli che avrebbe investendo il suo tempo e le sue risorse in attività lecite. Secondo questa teoria, inoltre, coloro che si dedicano ad un'attività illecita non sono sostanzialmente diversi dagli altri. Così, ad esempio, il criminologo giapponese Hiroshi Tsutomi ha scritto che «le persone commettono reati non perché sono patologiche o malvagie, ma perché sono normali» 1 motivi che portano ad un'attività illecita sono gli stessi che spingono a quella lecita: la ricerca del guadagno, del potere, del prestigio, del piacere. Molte di queste idee sono state sostenute, alla fine del Settecento, da Cesare Beccaria in Italia e da jeremy Bentharn in Inghilterra. Esse sono state tuttavia riprese e rielaborate nell'ultimo ventennio, soprattutto dagli economisti, ma anche da alcuni sociologi. Questi ultimi hanno messo in luce che colui che trasgredisce la legge va incontro a vari tipi di costo: esterni pubblici, esterni privati ed interni. Quelli esterni pubblici sono dati dalle sanzioni legali inflitte dallo stato e dalle conseguenze negative che queste hanno sulla reputazione sociale. Quelli esterni privati sono i cosiddetti «costi di attaccamento», che derivano dalle sanzioni informali degli «altrì significativi», dalle loro critiche, dalla loro condanna. Quelli interni nascono dalla coscienza (dalle norme interiorizzate), che fa provare al trasgressore sensi di colpa e di vergogna. 4. Forme di criminalità Molti sono i reati previsti dai codici penali dei vari paesi e molti i modi che sono stati escogitati per compierli. Noi ci occuperemo solo dei principali. 4.1. L'attività predatoria comune La fonte principale della paura che i cittadini hanno della criminalità è costituita da quella che molti studiosi chiamano l'attività predatoria comune (o di strada) Con questa espressione ci si riferisce a quell'insieme di azioni illecite condotte con la forza o con l'inganno per impadronirsi dei beni mobili altrui che comportano un contatto fisico diretto fra almeno uno di coloro che compiono l'azione e una persona o un oggetto. Ne fanno parte dunque due gruppi assai diversi di reati. In primo luogo, quelli compiuti di nascosto, con il raggiro, evitando la vittima o facendo in modo che non si accorga di quanto sta avvenendo, come ad esempio il furto di beni nei grandi magazzini (o taccheggio), quello di auto o di oggetti dalle auto, il furto in appartamento o il borseggio. In secondo luogo, quelli commessi con la violenza, strappando una cosa di mano o di dosso ad una persona (lo scippo) 6prendendogliela con la forza o la minaccia (la rapina). 1 reati ricordati sono diversi per molti altri aspetti. Innanzitutto per la loro gravità e per la severità delle sanzioni che la legge commina a chi h commette, che vanno da venti giorni ad alcuni anni di reclusione. In secondo luogo, per la loro redditività, perché ve ne sono alcuni di di in Dorseggio Rapina Complesso Pagina 120
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 11 reati auto motocielo bicicletta appartamento Austr;alla 7,0 2,1 2,1 4,0 1,2 1,3 28,2 Canida 8,2 1,7 3,7 3,2 0,8 1,2 28,2 Nuova Zelanda 7,3 1,2 4,4 4,3 0,5 0,7 29,4 Paesi Bassi 8,4 5,0 9,9 2,2 2,2 0,5 29,1 Stati Uniti 7,3 2,7 2,9 3,5 1,3 1,5 27,5 Germania 5,8 1,8 3,3 1,3 1,7 0,8 21,9 Inghilterra 214 CAPITOLO 8 1880 1890 1900 1910 1920 1930 1940 1950 1960 1970 1980 1990 FIG. 8.2. Omicidì e furti denunciati in Italia per 10.000 abitanti dal 1880 al 1993. Fonte: Barbagli [19951Belgio, la Finlandia, la Francia e la Svizzera (con una quota che va dal 15 al 20%) Costituisce invece un caso a sé il Giappone, che ha un tasso di reati molto più basso di tutti gli altri. Tasso di furto Più difficile è dire se, ed in che misura, vi siano stati cambiamenti nel corso del tempo. Prendendo in considerazione il tasso di furti denunciati (per 100.000 abitanti) vediamo che in Italia, dal 1880 al 1970, esso ha subito due oscillazioni, aumentando in modo significativo dopo le due guerre mondiali (fig. 8.2). Il più forte cambiamento vi è stato tuttavia dopo il 1970. Pagina 121
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt All'improvviso, la curva si è impennata ed in soli sei anni il tasso di furto è triplicato. Toccato il picco nel 1976, la curva è scesa di nuovo, con bevi oscillazioni, per poi risalire negli ultimi anni ed arrivare ad un nuovo picco, ancora più alto del precedente, nel 1991. Non essendo mai state condotte indagini di vittimizzazione nel passato, non sappiamo se le variazioni nel numero di furti denunciati riflettano la realtà o non dipendano invece dalla diversa propensione delle vittime a rivolgersi alla polizia. Ma i dati di cui disponiamo sui furti di auto e le rapine contro le banche (per i quali vi è una coincidenza quasi completa fra i reati denunciati e quelli effettivamente compiuti) fanno pensare che nell'ultimo quarto di secolo vi sia stato nel nostro paese un fortissimo aumento della criminalità predatoria. Tale aumento si è verificato del resto in tutti i paesi sviluppati, in molti dei quali è iniziato alcuni anni prima che da noi. L'unica eccezione di rilievo è stata il Giappone, paese in cui nel corso degli anni sessanta e settanta vi è stata una diminuzione del numero di questi reati. 4.2. Gli omicidi Con il termine omicidio si indicano reati di natura assai diversa e Omicidio che non vanno assolutamente confusi. La più importante distinzione da fare è fra omicidio colposo e doloso. 19 primo è quello «non voluto dall'agente» e che si verifica «a causa di negligenza, imprudenza, imperizia, o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline» (come dice l'articolo 43 del nostro codice penale). Il più tipico è quello che viene commesso continuamente per la strada, quando un autornobilista distratto investe un passante uccidendolo. Doloso viene invece chiamato l'omicidio di chi agisce con la volontà di uccidere. Quest'ultimo viene a sua volta distinto in premeditato e occasionale. In tutti i paesi occidentali gli omicidi colposi sono molto più frequenti di quelli dolosi. In Italia, ad esempio, nel 1993 i primi sono stati 5.200, i secondi invece 1.448 consumati (e altrettanti tentati). Nel caso di una rapina o di uno scippo, del borseggio o del furto in appartamento, l'autore e la vittima del reato sono di solito due estranei che non si sono mai visti. L'omicidio (doloso) tipico è invece quello che nasce da un conflitto fra due persone che si conoscono. 1 dati di cui disponiamo mostrano ad esempio che negli Stati Uniti per circa un terzo degli omicidi che vengono commessi ogni anno non conosciamo la relazione fra autore e vittima. Ma nell'80% degli altri casi, l'autore del reato è o un parente della vittima (coniuge, genitore, figlio) o un suo amico, compagno di lavoro o vicino di casa. Non diversamente vanno le cose nel nostro paese. Secondo i risultati della più rigorosa ricerca condotta in Italia in questo campo, nel 38% dei casi l'autore dell'omicidio era parente della vittii-na, nel 42% era amico o conoscente e solo nel 20% era uno sconosciuto [Bandini et al., 19851. La frequenza con cui vengono commessi omicidi dolosi varia considerevolmente nello spazio. In Italia, almeno dall'Unità in poi, le regioni nelle quali si ammazzano più persone sono sempre state quelle meridionali: la Calabria, la Sicilia, la Sardegna, la Campania. Nel monBahamas, Ecuador, Stati Uniti Surmame, Trinidad, Spagna, Costa Rica, Argentina Martinica: Guatemala, Finlandia, Bulgaria, CAC, Ungheria, Uruguay, Israele, Canada, Nuova Zelanda, Australia, Italia, Yugoslavia, Polonia, Danimarca, Portogallo, Austria, Svezia, Francia Cecoslovacchia, Germania ovest, Scozia, Hong Kong, Grecia, Rep. di Corea, Svizzera, Norvegia, Paesi Bassi, Giappone, Kuwait, Inghilterra/Galles, Irlanda, Singapore, Su 1.000 abitanti FIG. 8.3, Tassi di ornicidio, in alcuni paesi, per i quali sono ~nibib dati recenti. Fonte: Reiss e Roth [19931. Tasso dì omicidio do, gli Stati Uniti sono uno dei paesi che ha il tasso di omicidio più elevato. Ma in generale è nei paesi poveri che la frequenza con cui questo reato viene commesso è maggiore: nelle Bahamas, nell'Ecuador, a Trinidad o in Costa Rica (fig. 8.3). Pagina 122
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt DEVIANZA E CRIMINALITA 217 4.2. l. Mutamenti nel tempo degli omicidi 1 sondaggi di opinione ci dicono che in Italia, come del resto negli altri paesi occidentali, la maggioranza della popolazione ritiene che il numero dei reati commessi non sia stato mai così alto come oggi. Alcuni storici e sociologi hanno d'altra parte sostenuto che l'aumento della criminalità è stato in parte provocato dalla modernizzazione, che è iniziato dopo la rivoluzione industriale e quella francese, quando la società tradizionale è entrata in crisi, ed è continuato ininterrottamente fino ad oggi. Sottoporre ad una verifica rigorosa queste proposizioni sembra a prima vista impossibile. Abbiamo già detto quanto sia difficile stabilire con precisione quanti reati vengano commessi ogni anno in Italia o negli altri paesi. Ed è certamente ancora più difficile - per non dire impossibile - costruire serie storiche di questi dati. Eppure, i risultati delle ricerche condotte negli ultimi trent'anni da vari studiosi hanno enormemente accresciuto le nostre conoscenze sulla società del passato e ci permettono di individuare almeno alcuni dei cambiamenti che vi sono stati, da questo punto di vista, nei paesi occidentali. Questa città - scriveva di Napoli, nel 1353, Francesco Petrarca [1993, 4481 - per molti rispetti eccellente, ha questo oscuro e vergognoso e inveterato malanno, che il girar di notte vi è non meno pericolo e pauroso che tra folti boschi, essendo le vie percorse da giovani nobili armati, lacui sfrenatezza né la patema educazione né l'autorità dei magistrati né la maestà e gli ordini del re seppero mai contenere [ vi] scorre il sangue umano come se fosse di bestie e spesso, mentre le gradinate colme di pazzi applaudiscono, figli infelici sono scannati sotto gli occhi dei genitori. Questo brano rende bene l'idea del clima di violenza che regnava nel passato in Europa. Ovunque, in città come in campagna, si ripetevano le manifestazioni di prepotenza, di crudeltà, di brutalità. L'Angiò, ad esempio, è una regione della Francia che ha un paesaggio assai dolce. Ma le ricerche storiche hanno messo in luce che, nel XVII e nel XVIII secolo, i costumi dei suoi abitanti erano assai duri. 1 giudici avevano continuamente a che fare con atti di brigantaggio ed omicidi sulle strade, rapine a mano armata, ingiurie, percosse [ 1 stupri e maltrattamenti inflitti a donne o bambini. E questi reati non coinvolgono soltanto le classi popolari ma anche, talvolta, gli ecclesiastici e, più spesso, i nobili [ ... 1 La brutalità della repressione è commisurata a quella delle violenze commesse (tortura ordinaria e straordinaria, fustigazione, imposizione di marchi di infamia, forca, ruota, rogo) [Lebrun 19751. Sulla violenza della società medioevale non abbiamo solo descrizioni impressionistiche, ma anche dati quantitativi. Per alcune località dell'Inghilterra, che è il paese su cui la ricerca storica è stata finora 500 -400 -300 -200 100 __ Oxford Londra Londra Bristol Essex 1200 1300 1400 1500 1600 1700 1800 1900 2000 FIG. 8.4. Tassi di omicidio in alcune località dell'Inghilterra, dal XII al XIX secolo. Fonte: Gurr [19811. condotta con maggior successo, disponiamo di statistiche a partire addirittura dal XIII secolo (fig. 8.4). Per quanto frammentari e insoddisfacenti, questi dati mostrano che negli ultimi otto secoli vi sono stati cambiamenti profondi, molto diversi da quello che di solito si pensa. In primo luogo, vi è stata una fortissima diminuzione del tasso di omicidio, che nel Duecento toccava vette da dieci a venti volte superiori a quelle di oggi. In secondo luogo, mentre un tempo ci si uccideva più frequentemente in campagna che in città, oggi avviene esattamente l'opposto. La tendenza di fondo rappresentata nella fig. 8.4 trova conferma nei dati molto più recenti che abbiamo sugli altri paesi occidentali. In Italia, dal primo anno su cui abbiamo informazioni statistiche, cioè il 1880, il tasso di omicidio è continuamente diminuito (fig. 8.2). In Francia e Pagina 123
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt negli Stati Uniti, in Svezia e in Germania, la discesa della DEVIANZA E CIUMINALITA 219 curva di questi reati è iniziata verso il 1830, cioè nel periodo della prima industrializzazione ed urbanizzazione. In questa tendenza secolare alla diminuzione del tasso di omicidio vi sono state forti oscillazioni. Alcune di queste sono avvenute in occasione delle guerre. Già Durkheirn [19501 osservava che in Francia, nel 1871, alla fine della guerra franco -prussiana, il tasso di omicidio era cresciuto del 45% Variazioni analoghe sono state rilevate molte altre volte. In Italia, ad esempio, alla fine della prima guerra mondiale, questo tasso è fortemente aumentato, raggiungendo nel 1922 un valore che era il doppio di quello del periodo prebellico. Un'oscillazione ancora più marcata si è avuta nel 1945-1947, cioè dopo la Il guerra mondiale. Ma lo stesso si è verificato in molti altri paesi. Un'importante ricerca storica comparata [Archer e Gartner 19841 ha messo in luce che nel periodo seguente alle guerre del nostro secolo (sia quelle mondiali che le altre) vi è stato di solito un aumento degli omicidi nei paesi che vi hanno partecipato. Questo si è verificato più spesso in quelli che durante la guerra hanno subito maggiori perdite di vite umane. Anche se con molte oscillazioni, la curva del tasso di omicidio ha proseguito nella sua secolare tendenza alla diminuzione fino alla metà degli anni cinquanta o all'inizio degli anni sessanta del nostro secolo sia in Gran Bretagna che in Francia, negli Stati Uniti e in Germania. Dopo di allora essa ha invece ripreso ad aumentare. In Italia, questa inversione di tendenza ha avuto luogo un po dopo, esattamente nel 1969, anno in cui il numero di questi reati ha ricominciato a crescere. Non è dunque sbagliato dire - come molti studiosi fanno - che la curva del tasso di omicidio ha avuto un andamento ad U. A condizione però che si aggiunga che in molti paesi occidentali, pur essendo cresciuto negli ultimi venticinque o trent'anni, questo tasso resta molto più basso di un secolo fa. La teoria che appare oggi maggiormente in grado di spiegare la Processo tendenza secolare alla diminuzione degli omicidi è quella del «proces- di cializzazione so di civilizzazione», proposta sessant'anni fa dal sociologo Norbert Elias [1936-19391. Secondo questa teoria, nel Medioevo la vita quotidiana era caratterizzata dal sopruso, dalla violenza, dalla guerra, perché in Europa vi era una pluralità di poteri sovrani in concorrenza ed in lotta fra loro. Gli uomini vivevano così in uno stato permanente di insicurezza e di paura, pronti a difendersi dagli altri e ad attaccarli per primi. La situazione iniziò a cambiare, come abbiamo visto nel cap. 11, quando un potere territoriale più forte trionfò su quelli più deboli e a poco a poco si instaurò il monopolio della violenza legale da parte dello stato. I guerrieri si trasformarono allora in cortigiani e le capacità militari lasciarono il campo a quelle verbali di argomentazione e di persuasione. Essendo riservata solo a dei corpi specializzati, la violenza venne esclusa dalla vita degli altri e si formarono delle zone tranquille, pacificate, protette. All'interno di queste zone si svilupparono le «buone maniere», che sostituirono a poco a poco, nelle relazioni interper220 CAPITOLO 8 Omicidi nei periodi postbeflici sonali, la violenza e la sopraffazione. Il campo di battaglia fu, in un certo senso, interiorizzato. Dapprima nei ceti più elevati, poi in quelli intermedi, da ultimo nei più bassi, gli individui abbandonarono a poco a poco la spontaneità, l'irruenza, l'autoindulgenza ed impararono a dominare se stessi, a controllare le proprie pulsioni e passioni, a regolare l'aggressività. Così, gradualmente, diminuirono le manifestazioni di violenza contro gli altri, gli assalti, le rapine, gli omicidi. Dei bruschi aumenti del numero di omicidi che si verificano di solito nei periodi postbellici sono state fornite almeno tre diverse spiegazioni. La prima è che essi sarebbero dovuti alla disorganizzazione sociale tipica di questi periodi: alla perdita della casa e di altre proprietà di una parte della popolazione, ai rapidi ed imponenti spostamenti migratori, alla rottura dei matrimoni e alla disgregazione delle famiglie. La seconda privilegia invece i fattori di natura economica: la scarsità dei beni e la disoccupazione. La terza infine riconduce tutto alla legittimazione della violenza fornita dal governo durante la guerra. In altri termini, se nel periodo postbellico il numero degli omicidi aumenta è perché nella fase precedente le supreme autorità dello stato, Pagina 124
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt oltre ad ordinare ai cittadini di uccidere i soldati nemici, presentano questo non come una deplorevole necessità, ma come un comportamento meritorio o addirittura eroico. Di queste tre è tuttavia l'ultima la spiegazione che ha trovato maggiore sostegno nei risultati delle ricerche finora condotte [Archer e Gartner 19841. Ancora più difficile è spiegare l'inversione di tendenza che vi è stata in tutti i paesi occidentali, nel corso degli anni cinquanta o sessanta, e il successivo aumento del numero degli omicidi. 4.3. 1 reati dei colletti bianchi Tangentopoli è nata nel 1992. Con questa espressione, i giornali italiani hanno chiamato l'inchiesta giudiziaria condotta a partire dal febbraio di quell'anno dai magistrati della procura della repubblica presso il tribunale di Milano e che è stata poi estesa ad altre città italiane. Questa inchiesta ha portato alla luce un diffuso sistema di corruzione, nel quale erano coinvolte alcune centinaia di parlamentari italiani, molti settori dell'amministrazione centrale dello stato, enti locali (regioni, province, comuni) e numerosi imprenditori e manager. Gli intrecci esistenti fra tutti questi gruppi erano rivolti al finanziamento illecito di molti partiti politici e all'indebito arricchimento personale di vari individui. Utilizzando l'espressione introdotta alla fine degli anni trenta da Edwin Sutherland, i sociologi chiamano «reati dei colletti bianchi» molti di quelli scoperti negli ultimi anni dalla magistratura italiana con Mani pulite. Tradizionalmente, i criminologi avevano concentrato il loro interesse solo sulle violazioni delle norme penali ritenute tipiche DEVIANZA E CRIMINALITA 221 delle classi inferiori: i furti, le rapine, le violenze sessuali, gli omicidi. Fu merito di Sutherland rimettere in discussione questa impostazione, richiamando l'attenzione degli studiosi su un'altra, importante categoria di delitti: quella «dei colletti bianchi». Con questa espressione, diventata ben presto celebre ed entrata nel linguaggio comune, egli si riferiva ai reati «commessi da una persona rispettabile e di elevata condizione sociale nel corso della sua occupazione». Ma - come risulta chiaramente da questa definizione per rientrare in questa categoria non basta che la violazione di una norma sia compiuta da una persona appartenente alle classi elevate. t necessario che tale violazione avvenga nel corso dell'attività professionale di questa persona. Per documentare l'importanza di questi reati, Sutherland condusse una ricerca su 70 grandi imprese industriali e commerciali americane, mostrando che esse avevano compiuto numerosissimi atti illeciti, quali la pubblicità fraudolenta, la violazione dei diritti d'autore e di inventore, la restrizione o limitazione della concorrenza, l'aggiotaggio (la divulgazione di notizie tendenziose per provocare una variazione del prezzo di merci o di azioni), truffe e frodi. Erano - e sono ancora oggi - delitti di grande importanza, che colpiscono numerose persone e che hanno ingenti costi. Costi finanziari, naturalmente, ma anche sociali. Perché - come osservava Sutherland - questi reati, che consistono sostanzialmente nella violazione della fiducia che gli altri hanno nel titolare di un ufficio, creano sfiducia e favoriscono la disorganizzazione sociale. Ma, a dispetto della loro importanza, raramente coloro che li commettono vengono denunciati, processati, condannati ed arrestati, perché, con A potere economico e politico di cui dispongono, essi riescono ad influire su coloro che fanno ed applicano le leggi, sul parlamento e la magistratura. Negli ultimi vent'anni, molti studiosi hanno giustamente osservato che nella vasta categoria dei delitti dei colletti bianchi rientrano due gruppi assai diversi di reati: i reati nell'occupazione e quelli di organizzazione. 1 primi sono commessi da individui nello svolgimento del loro lavoro per ricavarne un vantaggio personale. 1 secondi sono invece compiuti in nome e per conto di un'organizzazione, sia essa pubblica o privata. Rientrano, ad esempio, nella prima categoria, le violazioni commesse talvolta da alcuni professionisti, come farmacisti, avvocati o medici. Varie ricerche hanno infatti mostrato che, sia negli Stati Uniti che in altri paesi occidentali, vi sono medici che, per accrescere i loro guadagni, prescrivono ai pazienti medicine di cui questi non hanno alcun bisogno o - cosa ancora più grave - li spingono a sottoporsi ad inutili quanto dispendiose operazioni chirurgiche. Analogamente, vi sono avvocati che, per aumentare le proprie entrate, convincono i clienti a fare cause legali altrettanto inutili. Della categoria dei reati nell'occupazione fanno anche parte l'appropriazione indebita, l'insider trading, la corruzione e la concussione. Commette il primo Pagina 125
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt chi si appropria del denaro o di una cosa altrui, di Reati dei colletti bianchi Reati nefl'occupazione 222 CAPITOLO 8 Insider trading Reati di organizzazione cui abbia il possesso per qualsiasi motivo. t dunque appropriazione indebita sia quella dell'artigiano che non restituisce un oggetto prezioso affidatogli per una riparazione sia quello dell'impiegato che fa sparire una parte del denaro che gli passa ogni giorno fra le mani. Per insider trading si intende invece la speculazione sui titoli di una società attuata da chi, in quanto socio di tale società o per ragioni di ufficio, dispone di informazioni riservate. Quando, ad esempio, una società cerca di assumere il controllo di un'altra, vi è un ristretto numero di persone che sono al corrente dell'operazione in corso (dirigenti, impiegati, avvocati) e sanno che il valore delle azioni delle due società subirà un cambiamento. Queste persone possono approfittarsi delle loro conoscenze comprando o vendendo alcune azioni. La corruzione del pubblico ufficiale consiste in un mercanteggiamento della funzione pubblica. Egli cioè, in cambio di una somma di denaro che non gli è dovuta, compie un atto contrario ai doveri di ufficio od omette o ritarda un atto di ufficio. Si parla invece di concussione quando un pubblico ufficiale, abusando dei suoi poteri, induce qualcuno a dare indebitamente del denaro a lui o ad altra persona. Fanno parte dei reati di organizzazione le frodi di vario tipo commesse dalle aziende private o pubbliche quando, nelle relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni, riportano fatti non rispondenti al vero sulla costituzione e sulle condizioni economiche della società. Ma sono reati di organizzazione anche quelli che mettono a repentaglio la salute e la vita di milioni di cittadini: l'immagazzinamento e lo smaltimento rischiosi di materiali chimici e radioattivi; la produzione di prodotti pericolosi; il mancato rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro. Cosa nostra 4.4. La criminalità organizzata Non vi è un accordo completo, fra gli studiosi, riguardo alla definizione di criminalità organizzata. Di solito, tuttavia, con questa espressione molti di loro intendono un insieme di imprese che forniscono beni e servizi illeciti e che si infiltrano nelle attività economiche lecite. Esempi di beni e servizi illeciti sono la produzione e la vendita di droga, il gioco d 1azzardo, l'usura (cioè il prestito di denaro ad un interesse notevolmente superiore a quello corrente), la prostituzione, il commercio di armi. Il tipo di beni e servizi illeciti forniti varia tuttavia a seconda dei paesi. Così, ad esempio, la mafia («cosa nostra», come la chiamano coloro che ne fanno parte) si dedica allo sfruttamento della prostituzione e al gioco d'azzardo negli Stati Uniti, ma non in Sicilia. L'infiltrazione nelle attività legittime avviene costringendo con la forza le imprese ad azioni che altrimenti non compirebbero. Così, ad esempio, la criminalità organizzata riesce ad estorcere una tangente (il cosiddetto «pizzo») a commerciantì ed artigiani, promettendo loro proDEVIANZA E CRIMINALITA 223 tezione. E, d'altra parte, un mafioso che si sia arricchito fornendo beni o servizi illeciti può entrare nel mercato legale, diventando un imprenditore di merci la cui produzione e vendita è consentita dalla legge, adoperandosi per creare, nel suo settore di attività, «una situazione di monopolio, basata sull'intimidazione e la violenza» [Falcone 1991, 291. Le imprese criminali hanno talvolta carattere polivalente, nel senso che esse mirano all'acquisizione sia di profitti finanziari che del potere politico e sono in grado di spostarsi, con grande rapidità, dal settore economico a quello politico [Arlacchi 19921. In genere, per agire, esse hanno bisogno di consistenti capitali, da investire sia nelle attività economiche illegali (per l'acquisto, ad esempio, di ingentì quantità di eroina) che in quelle legali. Ma esse devono disporre anche di una «forza militare», cioè di gruppi di persone adeguatamente armate, capaci e disposte a eliminare fisicamente i vecchi ed i nuovi nemici. Giovanni Falcone ha scritto poco prima di morire che Cosa nostra possiede «un arsenale completo di strumenti di morte». Ma ha anche aggiunto che - contrariamente a quanto si pensa - il ricorso di questa organizzazione alla violenza non è mai gratuito. Avviene quando tutte le altre forme di intimidazione si sono dimostrate inefficaci. Né gratuite sono le forme con cui la violenza viene esercitata. Si sono date ad esempio le più bizzarre Pagina 126
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt interpretazioni dell'«incaprettamento», «in cui polsi e caviglie vengono legati dietro la schiena, facendo passare al tempo stesso la corda intorno al collo della vittima in modo che tentando di divincolarsi si strangoli da sé». Ma in realtà il motivo per cui Cosa nostra si serve di questa tecnica è semplicemente che il cadavere così legato può «essere trasportato senza difficoltà nel porta bagagli di un'auto» [Falcone 1991, 271. Le varie organizzazioni criminali che operano oggi nel mondo hanno strutture interne diverse. La Yakuza giapponese, della quale fanno Yakuza parte oltre 100 mila persone, si avvicina al modello organizzativo formale, con elenchi di aderenti, distintivi e giornali. Invece, in Cosa nostra, costituita da circa 500 famiglie, con oltre 15 mila appartenenti, le relazioni di parentela conservano una notevole importanza. Vari studi hanno messo in luce infatti come della cosca, che è il nucleo fondamentale dell'organizzazione mafiosa, facciano spesso parte due o tre fratelli o cugini [Arlacchi 1983; Catanzaro 19881. Sappiamo tuttavia che anche in Cosa nostra vi sono degli organi (la «commissione interprovinciale») la cui funzione è di coordinare l'attività delle diverse famiglie. 19 reclutamento dei membri dell'organizzazione è basato spesso su criteri molto selettivi e avviene attraverso un rito di iniziazione. In Giappone, ad esempio, il candidato ad essere ammesso nella Yakuza beve il tè dalla stessa tazza del capo che celebra la cerimonia e si impegna solennemente a «vivere con questa parentela per tutta la vita»: a lavorare per l'organizzazione anche quando sua moglie e i suoi figli «muoiono di fame». In Italia, alla mafia si aderisce con un rituale che, 224 CAPITOLO 8 nelle sue forme essenziali, è rimasto immutato per almeno un secolo e che è stato efficacemente descritto dal pentito Antonio Calderone: La cerimonia del giuramento consiste nel chiedere, anzitutto, al singolo con quale mano spara e, quindi, nel pungere il dito indice della mano in questione in modo da farne sgorgare un po di sangue con cui viene imbrattata una immagine sacra (generalmente si tratta dell'immagine sacra dell'Annunziata, che viene indicata come la patrona di Cosa Nostra e la cui ricorrenza cade il 25 marzo) Quindi, si dà fuoco all'immagine e l'iniziato, evitando di far spegnere la stessa e tenendola nelle mani a conca senza che la stessa si spenga, giura solennemente di non tradire i «comandamenti» di Cosa Nostra perché altrimenti brucerebbe come quella santina [ 1 Quando viene punto l'indice della mano del soggetto, il rappresentante lo avverte solennemente di stare attento a non tradire perché Mi Cosa Nostra si entra col sangue e si esce solo col sangue [Gambetta 1992, 3711. 5. Gli autori dei reati e le loro caratteristiche Per capire perché ogni giorno, in tutti i paesi del mondo, vengono commessi dei reati, i sociologi hanno studiato le caratteristiche sociodemografiche di coloro che E compiono. Per lungo tempo hanno concentrato la loro attenzione sulla classe sociale di appartenenza. Più recentemente, il loro interesse si è spostato all'analisi dell'età e del genere. 5.1. La classe sociale criminalità Per definizione, i reati dei colletti bianchi vengono commessi dalle e classe sociale persone delle classi medio alte. Ma per quanto riguarda gli altri, i sociologi hanno a lungo sostenuto che essi vengono compiuti dagli appartenenti alle classi sociali svantaggiate. L'idea che vi sia una relazione inversa fra la classe sociale e la disponibilità a rubare o a uccidere è stata a lungo condivisa dai sostenitori di teorie diverse come quella della tensione, della subcultura o dell'etichettamento. Nell'ultimo ventennio, tuttavia, alcuni studiosi, basandosi sui risultati di molte ricerche condotte negli Stati Uniti, hanno sostenuto che fra classe sociale e criminalità non vi è alcuna relazione o ve ne è una assai debole. In Italia, all'inizio del secolo, analizzando i dati riguardanti i condannati dai tribunali, Vincenzo Manzini [1905, 233-3041 è arrivato alla conclusione che «le classi dei lavoratori dove i salari sono più bassi e la disoccupazione è più frequente producono dovunque il maggior numero di ladri» Le informazioni statistiche riguardanti l'ultimo ventennio ci dicono d'altra parte che i condannati per furto e per rapina hanno un livello di istruzione assai basso e sono spesso disoccupati o svolgono dei lavori mal retribuiti e che godono di scarso prestigio soDEVIANZA E CRIMINALITA Pagina 127
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 225 dale. Inoltre, i risultati di alcune ricerche più approfondite sui giovani sottoposti a procedimento penale mostrano che coloro che provengono dalle classi sociali più basse hanno una maggiore disponibilità a rubare [Bandini e Gatti 1987, 42-44, 515-5311. A conclusioni diverse sono giunte le ricerche condotte con la tecnica dell'autoconfessione, intervistando cioè persone appartenenti a campioni possibilmente rappresentativi della popolazione (in genere di quella giovanile) e chiedendo loro se hanno commesso o meno dei reati. Secondo queste ricerche, infatti, la relazione fra classe sociale e tendenza a violare la legge o non esiste affatto o è meno chiara di quella che emerge dai dati sui condannati. Contrariamente però a quanto può sembrare, i risultati di tutte queste ricerche non sono contraddittori. Esse infatti si riferiscono a violazioni delle norme assai diverse: assai più lievi nel primo caso (le indagini di autoconfessione) che nel secondo (i dati sui condannati). Tenendo conto di tutto questo si può dire che in Italia, come negli altri paesi occidentali, la relazione fra classe sociale e tendenza a violare una norma è tanto più forte quanto più grave è il reato. Così, mentre le rapine vengono commesse soprattutto dalle persone delle classi sociali più svantaggiate, i furti più lievi (come ad esempio il taccheggio) vengono compiuti quasi nella stessa misura dagli appartenenti a tutte le classi sociali. Indaginì di autoeonfemione 5.2. Il genere Il genere è una delle variabili più importanti per predire la criminalità. In tutti i paesi, infatti, è molto più probabile che sia un maschio piuttosto che una femmina a violare una norma penale. Vi sono tuttavia importanti differenze a seconda del tipo di reato. Quanto più questo è grave, tanto più è facile che a compierlo sia un uomo e dunque tanto maggiori sono le differenze di genere. In Italia, ad esempio, la quota delle donne sul totale delle persone condannate non raggiunge neppure il 10% nel caso delle rapine o degli omicidi, mentre aumenta nel caso dei reati meno seri: la frode nell'esercizio del commercio, l'emissione di assegni a vuoto, la truffa. Questa quota tocca una punta record - quasi il 50% - nel caso del taccheggio (o furto nei grandi magazzini). Molti studiosi hanno sostenuto che, nell'ultimo quarto di secolo, l'attività criminale femminile è aumentata molto di più di quella maschile. Ma due tesi assai diverse sono state sostenute in proposito. Secondo alcuni, questo è avvenuto solo nell'ambito dei reati contro A patrimonio ed è dovuto alle grandi trasformazioni che vi sono state nell'economia e nella società (e in particolare alla crescita del numero di donne entrate nel mercato del lavoro) che hanno creato nuove occasioni di illeciti penali. Secondo altri, invece, l'aumento dell'attività criminale femminile si è verificato anche nell'ambito dei reati violenti Crùninahtà feninunfle 226 CAPITOLO 8 TA . B. 85 Percentuale di donne sul totale delle persone condannaìè in Itaha áa[ 100 al 199 1, .... per alcuni > reati 1970-1971 1980-1981 1990-1991 Omicidio 9 8 5 Rapina Furto 4 13 4 il 5 10 Emissione assegni a vuoto Truffa il 10 15 21 17 22 Appropriazione indebita Frode nel commercio il 27 Pagina 128
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 12 30 13 26 TAB. 8.6. Percentuak di donne sul totale delle persone arrestate (o condann4te) in akuw* paesi del mondo, per grandi zone geggraficbe Nord Africa Asia Africa America Caraibi Europa Paesi in Paesi Medio Subsahariana Latina Canada via di sviluppati Oriente Oceania sviluppo Omicidio 9,5 6,4 8,3 11,5 7,4 11,2 8,1 11,6 Furti gravi 3,0 4,2 4,2 7,0 6,2 5,9 4,7 5,8 Furti lievi 4,5 7,8 6,3 8,5 11,1 16,2 7,3 15,8 N. paesi (8) (12) (15) (6) (5) (20) (46) (21) Fonte: Steffensmeier et al. [19891. ed è riconducibile all'affermazione dei movimenti femministi. «Nel momento stesso in cui si battevano per l'eguaglianza delle opportunità nel campo delle attività legali - ha scritto una studiosa americana - le donne si facevano prepotentemente strada anche nel mondo della criminalità» [Adler 19751. Tali movimenti avrebbero (dunque fatto nascere un nuovo tipo di criminale donna, ribelle, duro, violento. t una tesi non molto diversa da quella presentata dal film Tbelma e Louise. Cffininalità I dati di cui disponiamo (tab. 8.5) mostrano che in Italia, come femminfle in Italia negli altri paesi occidentali, i mutamenti nell'ultimo ventennio sono stati assai diversi a seconda del tipo di reato. Così, ad esempio, la percentuale delle donne sui condannati è aumentata nel caso delle truffe e dell'appropriazione indebita. Quasi niente è invece cambiato nel campo dei reati più gravi. La quota delle donne sui condannati è rimasta costante in tutto il ventennio nel caso delle rapine, mentre è diminuita in quello degli omicidi. Delle due tesi che abbiamo ricordato quella che trova maggior conforto nei dati è dunque la prima. Alla stessa conclusione si arriva con l'analisi comparata, mettendo a confronto la situazione del nostro con quella degli altri paesi. Come si può vedere dalla tab. 8.6, la percentuale delle donne sugli arrestati o sui condannati per i furti meno gravi è più alta in Italia, in Francia, in Svezia o negli altri paesi industrializzati dell'Europa e del Nord America che in quelli in via di sviluppo dell'Africa, dell'Asia o dell'America Latina. Fra i paesi sviluppati e quelli che non lo sono vi sono invece DEVIANZA E CRIMINALITA differenze assai modeste per quanto riguarda la percentuale delle donne sui condannati per omicidio, per rapina o per i furti più seri (come quelli in appartamento) 227 5.3. L'età Centosessanta anni fa, nel primo studio sistematico condotto in materia, il belga Adolphe quetelet (1796-1874) sostenne di essere riuscito a ricavare dai suoi dati una vera e propria «legge di sviluppo» della «tendenza al crimine», che valeva per tutti i paesi europei. A suo avviso, questa tendenza «cresce molto rapidamente verso l'età adulta, raggiunge un massimo e in seguito decresce, ma lentamente, fino agli ultimi anni di vita» [quetelet 1835, vol. 11, 3671. Per molti reati, la relazione individuata da quetelet più di un secolo e mezzo fa non è molto diversa da quella esistente oggi in Italia e in altri paesi. Come si può vedere dalla fig. 8.5, le curve dei tassi per età dei condannati per furto e per rapina sono assai simili. Entrambe salgono molto rapidamente durante la preadolescenza e l'adolescenza, raggiungono il punto più alto un po prima o un po dopo la maggiore età, scendono di nuovo bruscamente dopo di allora. Pochi numeri bastano a dare un'idea della rapidità con cui cambiano le cose nel corso degli anni. La quota delle persone condannate per furto a venEtà e criminalità 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 Età in anni FIG. 8.5. Tassi specifici (per:100.000 residenti) per età defle persone condannate per furto,,rapina ed emissione di assegni a vuoto in Italia nel 1989Fonte- Barbaglì [19951... 228 CAPITOLO 8 ti anni è il doppio che a trenta, sette volte maggiore che a quaranta. Anche gli omicidi sono di solito compiuti da persone assai giovani. Diverso è l'andamento Pagina 129
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt della curva dei condannati per emissione di assegni a vuoto. Innanzitutto perché essa raggiunge il picco molto più tardi. In secondo luogo perché, una volta raggiunto il punto più alto, essa non scende rapidamente. Più che a una montagna a picco (come le curve dei condannati per furto o per rapina), essa assomiglia a un altipiano o a un monte con più picchi. La tendenza a violare le norme penali varia dunque molto a seconda della fase del ciclo di vita. Di solito si inizia a rubare molto presto. Secondo il codice penale italiano, non sono propriamente reati quelli commessi prú-na di avere raggiunto il quattordicesimo anno di età. A rubare si inizia però di fatto molto prima, persino a otto o a nove anni. Si continua a farlo per qualche anno. Poi, a poco a poco, una volta uscita dall'adolescenza, la grande maggioranza abbandona questa attività. Coloro che continuano passano, nel corso degli anni, ad altri tipi di reato contro il patrimonio: la truffa, l'emissione di assegni a vuoto, la ricettazione. L'eccezionale aumento della quota dei maschi che rubano o rapinano durante l'adolescenza o le altre variazioni della tendenza a violare le norme che si verificano durante le varie fasi della vita non sono peculiarità dell'Italia di oggi. Tutte le ricerche mostrano che lo stesso avviene oggi negli altri paesi: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, in Francia e in Germania, in Argentina e in Israele [Hirschi e Gottfredson 19831. Queste stesse ricerche hanno messo anche in luce che, nell'ultimo secolo e mezzo, vi è stato un abbassamento di cinque o sei anni dell'età a cui più frequentemente si commettono questi reati. In Inghilterra, ad esempio, nel 1842 la classe di età a cui più spesso si era arrestati era quella da 20 a 24 anni, mentre oggi è da 14 a 17 anni [Greenberg 19851. Per quanto scarsi e insoddisfacenti, i dati di cui disponiamo fanno pensare che nei paesi in via di sviluppo l'età a cui si ruba o si uccide sia un po più elevata che in quelli industrializzati. In India, ad esempio, solo il 3 % degli arrestati ha meno di 21 anni, nonostante che circa la metà della popolazione sia al di sotto di quell'età. In Uganda, l'età modale a cui si compie un omicidio è 35 anni, mentre negli Stati Uniti è 19 anni [Greenberg 19851. 6. Devianza e sanzioni Come abbiamo visto nel capitolo precedente, in ogni società, la conformità alle norme viene mantenuta attraverso l'uso o la minaccia di sanzioni. Oltre che negative o positive, queste possono essere anche formali o informali, severe o lievi. Vengono dette formali quelle comminate da gruppi o organi specializzati (ad esempio, la polizia, la maDEVIANZA E CRIMINALITA 229 gistratura) ai quali è stato affidato il compito di assicurare il rispetto delle norme. Informali sono invece quelle spontanee o poco organizzate provenienti dai familiari, gli amici, i colleghi di lavoro, i vicini, i conoscenti. La severità delle sanzioni dipende fra l'altro dalla gravità dell'infrazione commessa. Se una persona viola una norma di uso (le buone maniere) e durante un pranzo ufficiale emette bruschi e forti rumori dalla bocca e/o dall'ano, i convitati reagiranno ridendo, prendendolo in giro o al massimo insultandolo. Ma se qualcuno infrange una norma di legge, la sanzione sarà più forte. Vi sono tuttavia leggi di vario tipo e a seconda di quella che viene violata, cambia anche la sanzione prevista e la forma di devianza. Se una persona viola il diritto penale, si dice che commette un reato. Se invece non rispetta le altre leggi, si parla di illecito civile o amministrativo. La differenza fondamentale fra queste due forme di devianza risiede nella natura della sanzione. Per il reato è prevista una pena, cioè una sanzione che può lú-nitare la libertà personale dell'indi- Pena viduo. Nel caso invece degli altri illeciti giuridici, la sanzione incide prevalentemente sul patrimonio di chi li ha commessi. Così, ad esempio, chi lascia l'auto in divieto di sosta è tenuto a pagare una multa, mentre chi procura un danno a qualcuno deve risarcire la vittima. 6.1. Sistemi di punizione Grandi differenze vi sono state, fra le varie società, riguardo al tipo di sanzioni usate contro i trasgressori delle norme. In alcune comunità vigeva il sistema della faida, cioè della vendetta da parte della vittima del reato (o della sua famiglia) nei confronti del reo. Nel diritto romano si è a lungo seguito il principio del taglione, riassunto nell'espressione «occhio per occhio, dente per dente». Per molto tempo, i trasgressori della legge sono stati puniti con sanzioni pecuniarie, l'espulsione dalla comunità, pene corporali o con la pena capitale. Venivano condannati a morte non solo gli omicidi, ma talvolta anche coloro che Pagina 130
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt avevano commesso un furto. La varietà dei mezzi impegnati per sopprimere coloro che avevano infranto una legge era molto ampia. Questi potevano essere strangolati, Soffocati, sventrati, crocifissi o mandati al rogo. Ma potevano anche essere decapitati con la scure o la mannaia o la spada o l'aratro oppure affogati in un fiume, in un lago, una botte o persino in una grande pentola. L'esecuzione prescelta aveva spesso un forte significato simbolico. Così, ad esempio, nell'antica Roma, il parricida veniva condotto dopo, la condanna in carcere con il capo coperto da una pelle di lupo e calzando zoccoli di legno. Dopo essere stato fustigato con speciali verghe «color del sangue», veniva messo in un sacco a tenuta stagna insieme ad un cane, un gallo, una vipera e una scimmia. Dentro questo sacco, 230 CAPITOLO 8 il condannato veniva portato in un luogo da cui veniva gettato nelle acque del mare o di un fiume. Ma spesso i suoi compagni di viaggio non gli permettevano di giungere vivo in questo luogo. Nella cultura di allora, questi quattro animali avevano in comune la caratteristica di essere «mostruosi», esattamente come il parricida. Eliminandoli tutti insieme si pensava di allontanare il male che essi rappresentavano e di evitare il pericolo della contaminazione [Cantarella 19911. L'esecuzione della pena di morte avveniva di solito in pubblico, con un cerimoniale preparato con grande sapienza, e richiamava enormi masse di popolazione. Scriveva ancora nel 1854 Flaubert: A Provins è stato giustiziato, in questi giorni, un giovane che aveva assassinato due borghesi, un uomo e una donna, violentato la serva sul posto e bevuto tutta la cantina. Ora, per veder ghigliottinare un tipo tanto stravagante, già alla vigilia erano arrivati a Provins più di diecimila campagnoli. Poiché gli alberghi non li potevano ospitare tutti, molti hanno passato la notte all'aperto, dormendo sulla neve. L'affluenza di folla era tale che è venuto a mancare il pane [cit. da Chesnais 1981, trad. it. 1982, 1381. Pena di morte Grandi mutamenti sono avvenuti nel corso del tempo. Il numero dei mezzi impiegati per uccidere un condannato si è ridotto. Nel corso degli ultimi due secoli i più usati sono stati la ghigliottina, l'impiccagione, la fucilazione, la sedia elettrica, la camera a gas. Inoltre, in molti paesi la pena di morte è stata abrogata. Questo processo è iniziato un secolo e mezzo fa nei paesi dell'Europa settentrionale. Già nel 1826 la Finlandia ha preso questa decisione e a distanza di molti decenni è stata seguita dalla Norvegia, la Danimarca, la Svezia, l'Olanda e il Belgio, il Portogallo e la Svizzera. In Germania questo si è verificato nel 1949. In Italia la pena di morte fu abrogata una prima volta nel 1889 dal codice Zanardelli. Reintrodotta durante il periodo fascista (1926) è stata di nuovo abolita e sostituita con l'ergastolo nel 1948, con la nascita della Repubblica. In Francia questo si è verificato ancora più tardi, nel 1981. Oggi nel mondo vi sono ancora 103 paesi nei quali esiste la pena di morte. Due di questi - gli Stati Uniti e il Giappone - sono economicamente molto sviluppati. Altri due - l'India e la Cina - hanno un >enorme popolazione. In Cina l'esecuzione della pena di morte avviene ancor oggi in pubblico. Di origine molto più recente è il carcere, come strumento per colpire i trasgressori, che è stato introdotto in Europa nella seconda metà del Settecento e che si è affermato pienamente nel secolo scorso. Prima di allora, esso non esisteva, se non come luogo che serviva a custodire i colpevoli in attesa del processo, e non a punirli. La privazione della libertà personale è diventata da allora, in tutto il mondo, la più importante pena contro i trasgressori delle leggi penali. Ma, come si può vedere dalla fig. 8.6, il numero di persone incarcerate (sul totale DEVIANZA E CRIMINALITA 23 1 Stati Uniti Sud Africa Unione Sovietica Ungheria Malesia Irlanda del Nord Hong Kong Polonia Nuova Zelanda Regno Unito Turchia Portogallo Francia Austria Spagna Svizzera Australia Danimarca Italia Giappone Paesi Bassi Fflippine FIG. 8.6. Tassi di incarcerazione di alcani paesi (dati relativi al 1989; per 100.000 ab.). Fonte: Voigt et al. [19941. della popolazione) varia considerevolmente a seconda del giungendo il livello più alto negli Stati Uniti e quello più Filippine, i Paesi Bassi e il Giappone. Negli ultimi anni, in Italia e in altri paesi occidentali, introdotte misure alternative alla detenzione (l'affidamento servizio sociale, la semilibertà, la detenzione domiciliare, la anticipata), che per facilitare il reinserimento sociale dei fanno scontare loro la pena fuori del carcere. Pagina 131
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt paese, ragbasso nelle sono state in prova al liberazione condannati Altemative alla detenzione 4lL-Ogni essere vivente per sopravvivere deve conoscere qualcosa di se stesso e qualcosa del suo ambiente, deve cioè avere delle informazioni e saperle organizzare in qualche modo. Anche una pianta deve essere in grado di selezionare le sostanze del terreno che le servono per alimentare la sua crescita e la sua riproduzione e scartare quelle che non le servono o potrebbero esserle dannose; le informazioni necessarie per operare questa selezione sono depositate nel suo codice genetico. Anche l'uomo dispone di informazioni che gli sono state trasmesse dai suoi genitori per via genetica, ma, come abbiamo visto nel cap. VI (sulla socializzazione), continua, in misura assai maggiore degli altri animali, ad accumulare (e organizzare) informazioni dalla nascita in poi attraverso i processi di apprendimento. Diciamo che la natura ha dotato l'uomo, nel corso di un lento e lunghissimo percorso evolutivo, di una straordinaria capacità di apprendere dalla propria esperienza e di trasmettere le conoscenze così ottenute alle generazioni successive. Gli uomini che per primi hanno imparato a scheggi:are delle pietre per poi usarle come armi nella caccia o strumenti da taglio per squartare gli animali uccisi hanno acquisito delle conoscenze assai utili che li hanno posti in condizioni di vantaggio rispetto ad altri che a tali conoscenze non erano ancora arrivati. Così, i primi coltivatori che hanno deposto semi nel terreno per farli germogliare e per poi raccogliere i frutti della nuova pianta hanno incominciato a conoscere e utilizzare le leggi della riproduzione biologica dando vita ad una delle grandi «rivoluzioni» nella storia del genere umano. Gli uni non conoscevano le proprietà chimico-fisiche delle pietre utilizzate e gli altri non conoscevano i complessi meccanismi della genetica, le loro conoscenze si limitavano a ciò che era strettamente utile a risolvere i problemi della loro esistenza quotidiana. Anche noi, uomini e donne che viviamo tra il XX e il XXI secolo, CAPITOLO 9 usiamo un'infinità di strumenti, alcuni assai complessi e che conosciamo solo quel tanto che ci basta per poterli utilizzare. Per far partire l'automobile con la quale ci mettiamo in viaggio sappiamo che basta girare la chiave di accensione, innestare la marcia e sollevare 9 pedale della frizione, ma la gran parte di noi non ha alcuna conoscenza precisa dei processi chimico-fisici ed elettromeccanici che ci consentono di ottenere questo risultato. Nel fare ciò, non pensiamo ad un atto di magia, ma sappiamo che ciò è possibile perché generazioni di scienziati hanno «scoperto» le leggi della natura e generazioni di tecnici hanno «inventato» modi per rendere queste scoperte utilizzabili per gli scopi più disparati. La conoscenza di molti aspetti del nostro mondo che è per noi assolutamente affidabile e indispensabile, è tuttavia una conoscenza alquanto incompleta basata su nessi che ricaviamo dall'esperienza e che connettono qualche evento (che denominiamo causa) a qualche altro evento (che denominiamo effetto) La differenza tra noi e i nostri predecessori di varie decine di migliaia di anni fa è che noi siamo letteralmente circondati di strumenti, di cui peraltro non possiamo più fare a meno, nei quali è incorporato un sapere tecnico- scientifico che noi quasi sempre ignoriamo, sul quale però possiamo fare quasi sempre affidamento. Noi viviamo in un ambiente che è largamente modellato dai prodotti della scienza e della tecnica, conviviamo con una popolazione di oggetti che ogni giorno si accresce di nuovi esemplari, il cui funzionamento è per noi misterioso, ma che sappiamo non essere affatto misterioso per chi li ha inventati e prodotti e ciò ci appare del tutto normale. Questa presenza massiccia della scienza e della tecnica nella vita quotidiana è peraltro un fenomeno tutto sommato assai recente. Soprattutto, è assai recente lo stretto connubio tra scienza e tecnica, vale a dire l'idea che la conoscenza della natura possa essere utilizzata a fini pratici. Il rapporto tra scienza e tecnica è oggi così stretto che nel linguaggio di tutti i giorni spesso tendiamo a confondere i due concetti che è invece importante tenere accuratamente distinti. La scienza è quell'attività umana orientata in modo primario e sistematico alla conoscenza, cioè alla descrizione e spiegazione degli eventi, sia singolari sia ricorrenti, del mondo naturale e del mondo umano e sociale; la tecnica è invece orientata alla Pagina 132
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt soluzione di problemi pratici e ciò può avvenire sia sulla base di conoscenze empiriche, ricavate cioè direttamente dall'esperienza pratica, sia sulla base di conoscenze scientifiche. Scienza e tecnica hanno proceduto per secoli su binari paralleli senza incontrarsi o incontrandosi raramente, oggi, invece il loro connubio è indissolubile. Prima tuttavia di illustrare i modi con i quali la sociologia ha affrontato lo studio della scienza e della tecnica è necessario disporre di alcune conoscenze di fondo, sulla storia dei fenomeni che ci interessano. SCIENZA E TECNICA 235 l. Scienza e tecnica nelle società premoderne Le prime riflessioni alle quali noi oggi possiamo attribuire l'aggettivo di «scientifiche» sono le osservazioni sui movimenti delle stelle che sono alla base dello sviluppo delle conoscenze astronomiche e matematiche nelle civiltà mesopotamiche ed egizie. Se noi oggi dividiamo la giornata in 24 ore, l'ora in sessanta minuti e l'angolo giro in trecentosessanta gradi lo dobbiamo proprio ai sacerdoti-matematici babilonesi. Nei movimenti dei corpi celesti essi ritenevano di poter scorgere presagi sugli eventi terreni (ad esempio, prosperità e carestie), le stelle erano considerate delle divinità e non è un caso che ancor oggi molti dei nomi delle stelle siano quelli degli dei della mitologia antica. Se gli scienziati mesopotamici ed egizi erano dei sacerdoti, gli scienziati greci erano invece dei filosofi. Anche la scienza greca si è sviluppata prevalentemente nel campo dell'astronomia e della matematica (i nomi di Pitagora ed Euclide ci sono familiari perché li abbiamo incontrati nei testi di algebra e di geometria delle scuole medie), ma pensatori come Aristotele e Platone si spinsero a formulare teorie non solo sull'universo, ma anche sulla costituzione della materia che sarebbero resistite per quasi duemila anni. Il mondo romano ereditò la tradizione della scienza greca senza apportarvi sostanziali contributi; l'orientamento degli intellettuali romani era assai più pratico che speculativo, i loro maggiori contributi si trovano nel campo delle «tecniche» (in particolare, dell'agricoltura e dell'architettura). Per tutto A mondo antico, scienza e tecnica restano due ambiti sostanzialmente separati. Nel Medioevo, salvo alcuni importanti apporti della scienza araba (si pensi alla scuola medica salernitana), la scienza non conobbe sviluppi spettacolari. E modello della conoscenza del mondo restava sostanzialmente quello aristotehco. Come scrive Rupert Hall [1964, trad. it. 1979, 971, uno storico della scienza, «non è esagerato dire che il Medioevo studiò la scienza come se fosse teologia e la Fisica di Aristotele come se fosse la Bibbia». Il compito della filosofia, sosteneva Tommaso d'Aquino (1225-1274), consisteva nel fare convergere le due fonti fondamentali della verità, la fede (verità rivelata) e la ragione (verità acquisita dall'intelletto umano), ma quando tra le due dovesse nascere conflitto era la prima a dover prevalere. Del resto, nelle università medievali, che avevano incominciato a Università sorgere e a moltiplicarsi a partire dal XII secolo, le scienze, salvo la medievalì matematica e l'astronomia, non avevano una collocazione precisa. L'insegnamento si fondava sulle sette arti liberali del trivio (grammatica, retorica, logica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia), alle quali si aggiungevano nelle «facoltà professionali» la teologia, il diritto e la medicina. Anche le tecniche, che pure qualche notevole perfezionamento lo avevano avuto nelle botteghe degli artigiani medievali, restarono per tutto questo tempo separate dal pensiero scientifico. 2. Le origini della scienza moderna Per illustrare lo sviluppo della scienza moderna è stata proposta una periodizzazione in tre fasi: i secoli XVII e XVIII, il. secolo XIX fino alla metà del XX, l'ultimo mezzo secolo dalla Il guerra mondiale ad oggi [Ben-David 19711. In questo paragrafo ci soffermeremo in particolare sulla prima fase, tenendo conto, tuttavia, che ogni periodizzazione è convenzionale e fondamentalmente arbitraria. I mutamenti, nella scienza, e non solo nella scienza, non sono mai repentini; il «nuovo» ha sempre bisogno di essere anticipato da qualche fattore precorritore e fl vecchio non scompare mai improvvisamente, ma sopravvive a lungo nelle condizioni mutate. Vi è ampio consenso tra gli storici nel fissare la nascita delle scienze moderne nell'Europa del XVII secolo. Il Rinascimento italiano nel XV secolo aveva già segnalato un nuovo interesse per l'osservazione diretta della natura senza gli occhiali della filosofia medievale e della dogmatica della Chiesa. Nel XVI secolo le università italiane erano il. centro della cultura europea, dell'arte e della letteratura, ma anche, sia Pure solo inizialmente, della scienza e della Pagina 133
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt tecnologia. Nicolò Copernico (1473-1543) aveva studiato a Padova e a Bologna, Galilei (1564-1642) aveva insegnato a Padova dal 1592 al 1610. Anche altrove, sempre negli stessi anni, compaiono quelli che saranno considerati i protagonisti della fondazione della scienza moderna: a Praga Keplero (1571-1630), a Parigi René Descartes (1596-1650), a Londra Francis Bacon (1561-1626) e molti altri. Francis Bacon, in particolare, è considerato il «legislatore della scienza moderna», egli riteneva infatti che il metodo sperimentale fosse il fondamento della spiegazione scientifica. La «verità» non viene più ricercata nelle Scritture, ma nell'osservazione attenta della realtà naturale e nella predisposizione di «esperimenti» attraverso i quali poter dimostrare in modo convincente per tutti l'operare delle leggi della natura, cioè di relazioni causali costanti tra fenomeni distinti. NeTarco di pochi decenni si assiste in tutta Europa ad uno straordinario fermento di esplorazione scientifica. E, tuttavia, in questa prima fase, l'attività di ricerca scientifica è ancora fondamentalmente dilettantistica e artigianale. Non si può ancora parlare di scienziati di professione; si tratta di studiosi che operano perlopiù isolati e che a loro spese (spesso esercitano un altro mestiere, non di rado nell'ambito del commercio), o a spese di qualche mecenate, si dedicano per passione e curiosità a esperimenti e ricerche in qualche locale della loro dimora adibito a laboratorio. Nonostante A carattere dilettantistico della loro attività, i primi «scienziati» sviluppano la prassi di incontrarsi regolarmente in circoli intellettuali dove si conducono discussioni ed esperimenti pubblici e dove a poco a poco si costruisce il. consenso su quali siano le procedure più affidabili per compiere le osservazioni. Si può parlare di un vero e proprio «movimento scientifico». Con l'associazione delle «accademie» che si era sviluppato in Italia nel XVI secolo in aperta oppin osizione alla Chiesa (ma spesso con il sostegno di qualche principe), si apre nel XV11 secolo alla scienza sperimentale. L'Accademia dei Lincei, fondata a Roma nel 1603 (ad essa aderì lo stesso Gaffleo), fu probabilmente la prima istituzione scientifica di prestigio, ad essa seguirono l'Accademia fiorentina del Cimento (1651) e, soprattutto, la Royal Society a Londra (1662) e l'Academie des Sciences a Parigi (1666) Gli scienziati incominciano cioè a formare una comunità di «uguali» che, indipendentemente dalle autorità politiche e religiose, sottopongono i risultati delle loro ricerche al vaglio della critica reciproca. Si tratta del primo passo verso il processo di «istituzionalizzazione della scienza» che trova nell'Inghilterra dei secoli XVII e XVIII le condizioni più favorevoli per il suo sviluppo. Possiamo dire che la scienza si istituzionalizza quando da un lato la società riconosce l'importanza della sua funzione sociale e, dall'altro lato, quando si sviluppano delle norme autonome che regolano l'attività degli scienziati e delle organizzazioni che presiedono al rispetto di tali norme e al mantenimento degli standard riconosciuti di scientificità. Robert K. Merton [19381, il fondatore della «sociologia della scienza», in uno studio pionieristico sullo sviluppo della scienza nella società inglese del XVII secolo, ampliando la portata della tesi weberiana sulle origini del mondo moderno (alla quale abbiamo accennato nel cap. 11), ha sostenuto che vi erano alcuni elementi dell'etica protestante diffusasi nell'Inghilterra in quel periodo che contribuirono a creare un ambiente favorevole allo sviluppo della scienza. Primo, per i protestanti, le azioni che risultano utili al prossimo e alla società sono anche il mezzo più idoneo per glorificare Dio; secondo, l'impegno e il successo nel proprio lavoro è un mezzo per confermare il proprio stato di grazia; terzo, il modo,per servire meglio Dio consiste nel dominare le passioni ed usare la ragione. Lo studio empirico e scientifico della natura, se da un lato permette di apprezzare tutta la potenza del Creatore e di render gloria a Dio, dall'altro lato deve essere valutato in base alla sua utilità, deve cioè contribuire ad «ampliare il dominio dell'uomo sulla natura, poiché è buono agli occhi di Dio tutto ciò che tende ad alleviare la vita dei mortali e a facilitare il loro benessere». In conclusione, scrive Merton i valori sociali propri dell'etica puritana erano tali da comportare un'accoglienza favorevole della scienza a causa di un orientamento fondamentalmente utilitaristico espresso in termini religiosi e favorito dall'autorità religiosa. La ricerca scientifica, esaminata dall'angolo visuale di un sistema di etica puritana razionalizzata appariva in possesso di quelle caratteristiche che costituiscono mezzi efficaci per il raggiungimento di fini ... religiosi [1938, trad. it. 1975, cap. IV, 2871. Più in generale, possiamo dire che il pluralismo religioso e l'assenza di un'autorità religiosa indiscussa, ha contribuito a creare un ambiente favorevole Pagina 134
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt allo sviluppo della scienza come attività professionale. 1 fattori religiosi non sono tuttavia stati gli unici a promuovere la nascita e lo sviluppo della scienza moderna. In una prospettiva diversa, ma non necessariamente incompatibile con quella di Merton, uno studioso sovietico, Boris Hessen [19311, ha sostenuto che lo sviluppo della scienza nell'Inghilterra del Sei-Settecento deve essere ricondotta alle esigenze tecnologiche di un'emergente borghesia industriale. In particolare - secondo Hessen - i Principi matematici della filosofia naturale di Newton [16871, l'opera senza dubbio più importante della scienza dell'epoca, ancorché formulati in termini matematici di grande astrattezza, non solo offrivano un fondamento teorico alla meccanica celeste e terrestre, ma davano risposte convincenti ai problemi tecnologici dell'artiglieria, dei trasporti per terra e per mare e dell'industria estrattiva, settori che proprio in quegli stessi anni vivevano un periodo di straordinaria espansione. Che lo sviluppo della scienza moderna sia stato favorito da interessi religiosi, oppure dagli interessi materiali della borghesia (entrambe le ipotesi sono da ritenere valide), resta il fatto che nei secoli XVII e XVIII Inghilterra, Francia e Paesi Bassi sono i paesi nei quali le scienze naturali sperimentano lo sviluppo più rigoglioso e sono anche i paesi dove si affermano le prime forme di capitalismo. 3. Gli sviluppi successivi Il processo di istituzionalizzazione è proseguito e si è approfondito nella fasi successive. Nel periodo che va grosso modo dall'inizio del XIX secolo alla II guerra mondiale si assiste a due tendenze principali: 1) le scienze si istituzionalizzano in discipline specialistiche all'interno delle università; 2) si sviluppa in forma parzialmente autonoma il settore della ricerca applicata connesso all'industria. Come abbiamo visto, la scienza moderna si era sviluppata prevalentemente, salvo il settore della medicina, all'esterno delle università. N ell'istituzionalizz azione universitaria delle discipline scientifiche un ruolo particolare spetta a un paese, la Prussia, che, rispetto a Inghilterra e Francia, era da considerare allora, all'inizio del = secolo, un paese arretrato. La riforma humboldtiana (dal nome di Wilhelm von Humboldt, il personaggio che maggiormente contribuì alla sua formulazione) dell'università di Berlino nel 1810 prevedeva la presenza consistente, accanto alle tradizionali facoltà professionali (teologia, diritto e medicina), di molti insegnamenti scientifici nell'ambito della facoltà di filosofia. Questa impostazione si diffuse rapidamente agli atenei degli altri stati tedeschi creando un sistema decentrato di competizione tra gli atenei per accaparrarsi i migliori studenti e i migliori docenti, ma rafforzando anche in tal modo i legami tra i cultori di una stessa disciplina dislocati in sedi diverse. Ai docenti fu garantita una grande libertà di insegnamento e di ricerca (purché tale libertà non si estendesse alla sfera civile e politica) e quindi, nonostante la frammentazione politica, si crearono le condizioni per lo sviluppo di comunità scientifiche di ampiezza nazionale per ogni ambito disciplinare, scienze naturali comprese. L'idea originaria di von Humboldt, tuttavia, era che nell'università non si dovesse perseguire una ricerca orientata a fini pratici, la scienza doveva perseguire una conoscenza pura e disinteressata. Verso la seconda metà del secolo, però, si svilupparono, sia in alcune università, sia nelle appena istituite scuole tecniche superiori (i politecnici), con il sostengo dello stato e dell'industria, grandi laboratori di ricerca applicata che contribuirono non poco allo sviluppo accelerato dell'industria tedesca nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo. Il modello bumboldtiano di università, sia pure liberamente reinterpretato, esercitò una larga influenza sul continente europeo (anche in Italia), ma soprattutto nelle università del nuovo continente. Gli Stati Uniti assumono infatti dall'inizio del XX secolo la leadership nello sviluppo della scienza a livello mondiale. Non solo le scienze occupano fin dall'inizio una posizione importante nelle più prestigiose università americane, ma, soprattutto, ricerca fondamentale (scienza «pura») e ricerca applicata non percorrono strade separate, come era avvenuto e avveniva nella maggior parte delle università europee. Stato, industria e università contribuiscono in modo interdipendente al finanziamento//@ all'organizzazione del sistema della ricerca scientifica. Inoltre, il sistema dei «dipartimenti» ai quali fanno capo una pluralità di ricercatori favorisce, assai di più del sistema degli «istituti monocattedra», tipici della tradizione europea, lo sviluppo di rapporti di collaborazione/competizione all'interno di ogni singola istituzione. La ricerca incomincia ad assumere le caratteristiche della ricerca di gruppo dove, accanto alla creatività e alla competenza dei singoli ricercatori, contano molto le Pagina 135
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt capacità organizzative e imprenditoriali. La scienza, in tutto il mondo industrializzato, ma soprattutto negli Stati Uniti, cresce in dimensioni, sia per numero di ricercatori impiegati, sia per risorse investite. Secondo i calcoli di Derek de Sofia Price [19611, alla fine dell'Ottocento vi erano nel mondo non più di 50.000 scienziati (dei quali solo 20.000 si dedicavano a tempo pieno alla ricerca), all'inizio degli anni sessanta erano già circa 1 milione e attualmente si calcola che superino i 2 milioni. Ciò ha fatto dire a de Sofia Price che l'80% di tutti gli scienziati di tutte le epoche è oggi vivente. Vi è stato quindi uno sviluppo esponenziale soprattutto nella seconda metà del XX secolo, come risulta anche dall'enorme sviluppo delle pubblicazioni scientifiche (oggi, ogni anno, più di 7 milioni di titoli, tra libri e articoli). Lo stesso si può dire delle risorse destinate alla ricerca scientifica: negli Usa erano nel 1929 lo 0,2% del Pil (Prodotto interno lordo), nel 1941 lo 0,7%, nel 1956 hanno raggiunto l'1,9% e nel 1964 il 3% Lo Politecnici Ricerca applicata 240 CAPITOLO 9 TAB, g. i. U..»esa per Rkerca e Sviluppo in. rapporto. al prodotto intemo lordo in akunj"paest» delfOcse Paesi 1970 1975 1980 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1993 Canada 1,4a 1,1 1,2 1,4 1,5 1,4 1,4 1,4 1,4 1,4 1,5 Francia 1,9 1,8 1,8 2,3 2,2 2,3 2,3 2,3 2,4 2,4 2,4 Germania 2,1a 2,2 2,5 2,7 2,7 2,9 2,9 2,9 2,8 2,6 2,5 Giappone 1,7 1,8 2,0 2,6 2,6 2,6 2,7 2,8 2,9 2,9 2,7 Italia 0,8 0,8 0,8 1,1 1,1 1,2 1,2 1,2 1,3 1,4 1,3 Regno Unito 2,3 b 2,2 2,4 2,3 2,3 2,3 2,2 2,2 2,2 - 2,2 Stati Uniti 2,6 2,3 2,5 2,9 2,9 2,9 2,8 2,8 2,8 2,8 2,7 Noie: a 1971; b = 1969. Fonte: Ocse. stesso vale per la Germania (dal 1962 al 1993 la quota del Pil investita nella ricerca scientifica è salita dall'1,3 % al 2,6%) Negli ultimi 20 anni però la quota negli Usa sembra essersi stabilizzata poco sotto il 3 %, si è probabilmente raggiunta una soglia di saturazione. La Il guerra mondiale (come vedremo meglio nel par. 5) ha rappresentato una svolta nel processo di crescita delle dimensioni degli apparati scientifici. La figura dello scienziato che nel suo laboratorio, con l'aiuto di pochi strumenti e di qualche assistente, esplora qualche mistero insoluto del mondo che lo circonda, pensando soltanto di risolvere l'enigma che lo assilla senza curarsi delle eventuali applicazioni delle sue altrettanto eventuali scoperte, è definitivamente tramontata. La famosa lettera che Albert Einstein inviò nel 1939 al presidente americano Roosevelt per segnalare il pericolo che la Germania potesse dotarsi di un'arma micidiale sfruttando l'enorme energia che avrebbe potuto prodursi dalla fissione nucleare, può essere considerata simbolicamente il segno della svolta. Quella lettera convinse il presidente a lanciare il famoso Manhattan State Project al quale lavorarono nei laboratori di Los Alamos circa 2.000 tra fisici, matematici, chimici e tecnici in una corsa competitiva dalla quale sarebbe dipeso l'esito della guerra e, forse, il futuro corso della storia umana. Si era compiuto il passaggio dalla little science alla big science. Dopo di allora numerosi sono stati i grandi progetti di ricerca che coinvolgono spesso centinaia di ricercatori su scala internazionale (si pensi, per fare un solo esempio, al progetto «genoma umano» volto allo studio della distribuzione di caratteri genetici nelle popolazioni umane). Raramente tuttavia tali grandi progetti hanno un puro scopo conoscitivo, l'impresa scientifica riesce a mobilitare ingenti risorse perché da essa ci si aspettano ricadute in altri settori di attività; la scienza diventa, più di quanto non lo sia stata nelle epoche precedenti, un decisivo fattore di potenza sia in campo militare, sia in campo economico. 4. La scienza come oggetto della sociologia La scienza è diventata una delle istituzioni più importanti delle società moderne e può quindi stupire che la sociologia se ne sia occupata relativamente poco. Forse i sociologi, come ultimi arrivati nelle cittadelle del sapere, hanno esitato ad affrontare un argomento che appariva monopolio consolidato della corporazione prestigiosa e potente degli scienziati. t innegabile che la scienza sia circondata da un'aura di mistero e che gli scienziati siano spesso considerati i depositari di un sapere al quale i comuni mortali non hanno facile Pagina 136
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt accesso. La scienza ha assunto nelle società moderne alcuni tratti tipici della sua antica rivale, la religione, e ciò si riscontra anche nel linguaggio dove gli esclusi dalla scienza vengono designati come «profani» o «laici». Gli scienziati stessi usano spesso un linguaggio esoterico che esclude dalla comunicazione i non iniziati. Questa immagine della scienza regge tuttavia sempre meno e non solo per la grande espansione e diffusione della pratica del lavoro scientifico, alla quale abbiamo appena accennato, e per il fatto che, bene o male, qualche nozione scientifica viene impartita nelle scuole, ma anche perché l'estrema specializzazione dei campi di ricerca fa sì che gli stessi scienziati siano dei «profani» appena escono dalla loro disciplina. La scienza è un'istituzione sociale integrata ad altre istituzioni sociali e gli scienziati sono normali esseri umani, sia pure dotati di particolari competenze e sottoposti a lunghi processi di formazione. Essi non sono i depositari di «verità assolute», ma procedono per tentativi ed errori, e le scoperte alle quali pervengono e le «verità» che accertano restano sempre provvisorie, sono spesso controverse e sono comunque destinate ad essere superate dagli sviluppi successivi. In quanto impresa umana, la scienza può quindi legittimamente diventare oggetto essa stessa di quella scienza - la sociologia - che studia istituzioni, gruppi e comportamenti umani. 4.1. 1 valori e le norme delle «comunità scientifiche»: il contributo di Robert K. Merton Una prima domanda che si sono posti i sociologi riguarda il posto della scienza nella società moderna. Per Parsons le istituzioni scientifiche, e in primo luogo le università, incorporano i valori universalistici della razionalità scientifica che sono i valori dominanti della società moderna: «Il posto della scienza nella società occidentale fa parte dell'eredità di una tradizione culturale che comporta una valutazione elevata di certi tipi di razionalità della comprensione del mondo empirico, su basi distinte dalla promessa di applicabilità dei risultati di tale comprensione» [Parsons 1951, trad. it. 1966, 3431. L'idea che la scienza occupi un posto centrale e tuttavia goda di autonomia rispetto alle sue possibili applicazioni è ribadito anche da Merton che, come abbiamo già avuto modo di notare, ha dedicato alla scienza gran parte della sua opera di studioso. Scrive Merton [1949, trad. it. 1992', 8641: Il fatto che la scienza venga applicata non prova necessariamente che il bisogno abbia significativamente determinato il raggiungimento del risultato. Le funzioni iperboliche furono scoperte due secoli prima che esse avessero alcun significato pratico, e lo studio delle sezioni coniche ebbe un'irregolare storia di due millenni prima che esse fossero applicate nella scienza e nella tecnologia. Per Merton quindi, come per Parsons, la scienza gode nella società moderna di un elevato grado di autonomia e si sviluppa per effetto di una dinamica essenzialmente endogena (interna), anche se non è mai del tutto «pura» e priva di condizionamenti esogeni. Il fine istituzionale della scienza, sempre secondo Merton, è l'accrescimento della conoscenza verificata, e questo è un processo sostanzialmente cumulativo. I metodi per raggiungere questo fine sono da un lato il metodo induttivo, mediante il quale l'osservazione ripetuta di regolarità consente la formulazione di «leggi» generali sulla base delle quali formulare previsioni che vengono confermate empiricamente, e dall'altro lato il metodo deduttivo che consiste nel ricavare in modo logicamente coerente proposizioni determinate da premesse determinate (da qui l'importanza della matematica per la scienza). La cumulatività risulta dal fatto che ogni ipotesi empiricamente verificata porta il suo contributo, mattone dopo mattone, alla costruzione dell'edificio della conoscenza scientifica. La garanzia dell'autonomia della scienza è per Merton l'esistenza di «comunità scientifiche» che formulano e garantiscono l'applicazione di principi normativi specifici al campo scientifico e alle quali i singoli scienziati rispondono della corretta applicazione delle procedure di ricerca. t utile esaminare in dettaglio i principi normativi che formano l'ethos di ogni comunità scientifica. Il primo principio è l'universalismo: ogni enunciato è soggetto al vaglio di criteri impersonali che prescindono dalle «qualità» specifiche di chi lo ha formulato. Nell'ambito della scienza, le appartenenze di genere, religione, razza, nazionalità e quindi anche ogni forma di etriocentrismo - non devono avere diritto di cittadinanza. E secondo principio è il comunitarismo: la scienza è patrimonio comune e quindi i risultati raggiunti da uno scienziato devono essere comunicati per poter essere condivisi da tutti gli altri. In Pagina 137
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt questo senso l'ethos scientifico è incompatibile con la proprietà privata che può riguardare soltanto le specifiche applicazioni tecnologiche di una scoperta scientifica. Il terzo principio è il disinteresse personale: l'interesse primario dello scienziato deve essere a progresso della conoscenza, ogni altro interesse (economico, di prestigio, di potere) deve essere secondario e subordinato. Il quarto principio, infine, è il dubbio sistematico: è dovere di ogni scienziato esporre i propri risultati in modo tale che possano essere sottoposti al vaglio dei suoi pari e, a sua volta, ogni scienziato ha il dovere di sottoporre a critica i lavori degli altri. Gli esperimenti, ad esempio, devono essere potenzialmente replicabili da parte di altri ricercatorL Nella scienza non vi è nulla di sacro che non possa essere messo in discussione. t evidente che questi principi appartengono alla sfera del dover essere, forniscono cioè un codice deontologico al quale gli scienziati Codice «dovrebbero» attenersi, ma che non descrive in modo adeguato i loro deoutologico comportamenti effettivi. Merton sostiene, forse con eccesso di ottimismo, che le violazioni di questo codice sono tutto sommato meno frequenti di quanto ci si potrebbe aspettare. Ci si può chiedere che cosa motivi gli scienziati ad attenersi a queste regole. Essi possono aver interiorizzato A valore della conoscenza e le norme della comunità scientifica attraverso il processo di socializzazione al quale sono stati sottoposti, ma ciò non sembra sufficiente a spiegare il grado, supposto elevato, di conformità al codice di deontologia professionale. Norman Storer [19661 e Warren Hagstrom [19651, due studiosi che si sono collocati nella scia di Merton, ritengono che le comunità scientifiche dispongono di un efficace meccanismo di motivazione e di controllo, vale a dire la distribuzione di una risorsa/ricompensa che gli scienziati sono interessati ad acquisire: il riconoscimento da parte di coloro che sono giudicati competenti a valutare la qualità dei risultati. Opera cioè un meccanismo simile a quello del «dono»: il ricercatore «dona» il risultato del proprio lavoro alla comunità scientifica e l'accettazione di questo dono (ad esempio, attraverso la pubblicazione di un articolo su una rivista scientifica accreditata) funziona come riconoscimento dello status di scienziato del donatore. Il meccanismo motivazionale sottostante è quindi il desiderio di riconoscimento che da un lato induce il ricercatore a rendere pubblici i propri risultati, ma dall'altro lato influenza anche la sua scelta di problemi e metodi, indirizzandolo verso quelli che egli ritiene saranno meglio apprezzati dalla comunità scientifica, con il rischio che in tal modo la conformità venga premiata a scapito dell'originalità e dell'innovazione. A ciò si aggiunge la situazione paradossale che nell'ambito delle comunità scientifiche coloro che distribuiscono riconoscimenti (e quindi attribuiscono autorità scientifica) sono allo stesso tempo in un rapporto di concorrenza/competizione con coloro che li ricevono e questo può quanto meno sollevare qualche dubbio che il loro giudizio sia sempre improntato a criteri puri di razionalità cognitiva. L'impostazione mertoniana non è stata esente da critiche. Essa si fonda più su quello che gli scienziati dichiarano di fare, piuttosto che su quello che fanno realmente; si tratta, in altre parole, nient'altro che dell'ideologia di un particolare gruppo professionale. Di fatto gli scienziati talvolta infrangono le norme alle quali pretendono di orientarsi, i casi di plagio, di occultamento di risultati controversi o, addirittura, di falsificazione di dati non sono poi del tutto infrequenti. Gli scienziati sono pur sempre degli uomini (e non dei santi o degli eroi), spesso dominati da sentimenti di invidia, gelosia, risentimento e le comunità scientifiche non sono certo esenti da fenomeni di nepotismo, in cui gli interessi di scuola o di gruppo prevalgono sui criteri impersonali di razionalità. In una famosa conferenza del 1917 agli studenti di Monaco dal titolo Il lavoro intellettuale come professione, Max Weber [1917, trad. it. 1966, 9-121 ebbe così a esprimersi: Non conosco altre carriere al mondo dove esso (il caso) abbia una parte così grande [ 1 Quando dei giovani studiosi vengono a chieder consiglio per l'abilitazione, la responsabilità che ci si assume è quasi intollerabile. Se si tratta di un ebreo, gli si risponde, naturalmente: «lasciate ogni speranza». Ma anche a chiunque altro bisogna domandare: credete di poter sopportare di vedervi passare avanti di anno in anno una mediocrità dietro l'altra, senza amareggiarvi e intristirvi l'animo? Max Weber ben sapeva quanto fosse difficile affermare i criteri universalistici anche nell'ambito, quello scientifico, che dovrebbe essere di loro dominio e, tuttavia, non abbandonò mai la convinzione che la scienza fosse l'unico modo per accostarsi alla realtà in un modo il più possibile libero da pregiudizi. La critica forse più consistente alla formulazione mertoniana dell'ethos della Pagina 138
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt scienza indica che tale ethos riflette la condizione degli scienziati dediti alla ricerca fondamentale (la scienza «pura») nell'ambito delle istituzioni universitarie, mentre ormai la grande maggioranza degli scienziati opera all'interno di enti di ricerca di grandi dimensioni in stretto contatto con, se non proprio alle dipendenze di, apparati industriali e militari, dove la segretezza dei risultati e il perseguimento di interessi non scientifici sono i criteri fondamentali. Come lo stesso Merton riconosce, molto spesso gli scienziati si trovano ad operare in Ambivalenza una situazione di «ambivalenza strutturale», devono cioè far fronte ai strutturale valori e alle esigenze divergenti della comunità scientifica da un lato e della società, e in particolare dei committenti, dall'altro. 4.2. Le «rivoluzioni scientifiche»: il contributo di Thomas S. Kuhn L'approccio mertoniano alla sociologia della scienza ha il merito incontestabile di aver sottolineato l'importanza fondamentale delle comunità scientifiche; sono infatti queste, in un ambito dove ciò che conta è la presenza di competenze qualificate altamente specifiche, le uniche istituzioni in grado di valutare la qualità del lavoro scientifico e di distribuire la ricompensa del riconoscimento. La visione mertoniana resta tuttavia sostanzialmente statica, o meglio, lo sviluppo della conoscenza è visto come essenzialmente cumulativo e si svolge tutto interno alle singole discipline mediante un processo continuo di graduale accrescimento. L'assunto della cumulatività del progresso scientifico è messo invece radicalmente in discussione da Thomas S. Kuhn, uno storico e sociologo della scienza americano, la cui opera più importante, La struttura delle rl'voluzionl * scientifiche [19621, è diventata un punto di riferimento fondamentale degli studi in materia. L'analisi kuhniana parte dall'assunto che nello sviluppo di ogni singola scienza vi siano della fasi di continuità, dove le nuove conoscenze si aggiungono alle precedenti in un processo cumulativo, e fasi di rottura della continuità. Nelle fasi di continuità (che Kuhn indica col termine di «scienza normale»), il lavoro di ogni scienziato si innesta sul tronco di una tradizione che egli riceve da coloro che lo hanno preceduto. Questa tradizione, alla quale Kuhn dà A nome di «paradigma scientifico», è composta da una concezione del mondo (o della frazione di mondo) oggetto di una particolare disciplina, da un certo numero di assunti teorici di fondo che definiscono i criteri di rilevanza nella scelta degli oggetti da indagare, i problemi da risolvere e i metodi riconosciuti come validi per la loro soluzione. L'esistenza di un paradigma richiede che esso venga accettato da una comunità scientifica come fondamento sulla base del quale intraprendere il lavoro scientifico, esso è codificato nei trattati e testi fondamentali sui quali avviene la formazione delle nuove leve di ricercatori. Come per Merton, il concetto fondamentale per l'analisi sociologica dell'attività scientifica è quello di comunità scientifica. Tuttavia, questo concetto risulta per Kuhn strettamente legato a quello di paradigma: non vi è comunità scientifica senza paradigma e non vi è paradigma senza che su di esso si manifesti il consenso di una comunità scientifica. Un paradigma si afferma, sostiene Kuhn, perché riesce a risolvere meglio dei suoi competitori alcuni problemi che il gruppo degli specialisti ha riconosciuto come rilevanti. Nella fase del suo dominio, un paradigma fornisce i criteri in base ai quali viene stabilita la «scientificità» dei prodotti della ricerca. Tuttavia, nessun paradigma riesce mai a risolvere tutti i problemi ritenuti rilevanti. Non solo, sulla base di un paradigma si possono formulare previsioni che non trovano conferma nella realtà e si possono osservare fatti che non riescono ad essere spiegati in modo adeguato dalle teorie comprese nel paradigma. Si manifestano quindi anomalie e contraddizioni. 1 paradigmi hanno tuttavia una loro inerzia, essi contengono tutto ciò che in un dato momento una comunità assume come «certo», il loro abbandono comporta un costo elevato e non basta che si presentino anomalie e fatti che li contraddicono perché essi vengano abbandonati. Uno dei compiti della scienza normale è appunto quello di estendere e articolare meglio il paradigma, di introdurre delle modificazioni di dettaglio nelle teorie e di escogitare spiegazioni ad boc, capaci di eliminare, o almeno di attenuare, le contraddizioni. Possono, inoltre, sorgere nuovi problemi all'esterno della comunità scientifica (ad esempio, dal settore delle applicazioni tecnologiche) che non sembrano trovare una soluzione adeguata nell'ambito del paradigma consolidato. Tutto ciò però non basta per mettere in crisi un paradigma scientifico, la crisi appare soltanto quando è disponibile un paradigma alternativo: «una volta raggiunto lo status di paradigma - scrive Kuhn una teoria scientifica è dichiarata invalida soltanto se esiste un'alternativa Pagina 139
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt disponibile per prenderne il posto» La proposta di un nuovo paradigma dà luogo appunto ad una «rivoluzione scientifica» La sostituzione di un vecchio paradigma con uno nuovo è sempre un momento di discontinuità, anche se spesso il vecchio paradigma non viene del tutto eliminato nel senso che la sua portata esplicativa viene soltanto ridimensionata. Una nuova teoria deve in primo luogo essere in grado di spiegare tutti i fenomeni che erano già adeguatamente spiegati dalle teorie precedenti (deve cioè «comprendere» le vecchie teorie), ma deve soprattutto dare una spiegazione delle anomalie di cui le teorie precedenti non riuscivano a dar conto. 19 nuovo paradigma, una volta affermatosi, una volta cioè ottenuto il consenso della comunità scientifica, apre una nuova fase di scienza normale, fino a quando non sarà di nuovo messo in discussione e a sua volta sostituito. I manuali verranno riscritti alla luce del nuovo paradigma e in essi verrà persa la memoria dei momenti di rottura e discontinuità che hanno segnato la storia del suo emergere. L'esempio più significativo di rivoluzione scientifica è senza dubRivoluAone bio la cosiddetta «rivoluzione copernicana» alla quale Kuhn aveva coperrucana dedicato uno studio specifico [Kuhn 19571. 19 passaggio da una visione geocentrica (in cui il sole e le stelle ruotano attorno alla Terra fissa posta al centro defl'universo) ad una visione eliocentrica (in cui non solo la Terra, e gli altri pianeti, ruotano attorno al sole, ma il sole stesso è solo una stella di una delle tante galassie) ha senz'altro costituito una tappa decisiva nello sviluppo dell'astronomia e della fisica, ponendo le basi di quella che sarà poi la concezione meccanicistica dell'universo di Newton, ma ha infranto una lunga tradizione che aveva trovato il sostegno della Chiesa, vale a dire della massima autorità intellettuale dell'epoca premoderna. L'opposizione della Chiesa alla visione copernicana dell'universo ci è nota, se non altro, dalla condanna di Giordano Bruno (1548-1600) e dal processo intentato contro Galileo Galilei (1564-1642). In un campo diverso, quasi tre secoli più tardi, la teoria dell'evoluzione di Darwin incontrò l'opposizione di tutti coloro che prendevano alla lettera il racconto biblico della creazione e solo nel 1996 la Chiesa ne ha riconosciuto la validità. E interessante notare come molte delle prospettive di indagine di storia della scienza aperte dall'opera di Kuhn fossero già state anticipate negli anni trenta da un medico-biologo polacco, Ludwik Fleck, in un libro, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico [19351 che analizzava la lunga storia delle teorie avanzate dal XV al XX secolo per spiegare l'insorgere e il propagarsi della sifilide, una delle malattie veneree un tempo (prima dell'invenzione degli antibiotici) più diffuse. Questa storia è costellata da percorsi tortuosi, teorie che oggi appaiono ingenue o del tutto implausibili, osservazioni accurate ma indecifrabili, altre assai fantasiose, esperimenti sbagliati, scoperte fortunate e spesso casuali. Lo sviluppo della conoscenza appare quindi come un percorso pieno di strade sbagliate e di vicoli ciechi, tutt'altro che lineare e cumulativo. All'epoca in cui il libro di Fleck fu scritto i tempi non erano evidentemente ancora maturi (e il suo contributo sarebbe stato probabilmente dimenticato se non fosse stato ripreso da Kuhn) per sostenere la tesi della storicità dei criteri di scientificità e quindi della validità relativa delle teorie scientifiche. Che la scienza non sia in grado di produrre «verità assolute» (questo è caso mai il terreno della fede e non della scienza), ma soltanto verità che valgono all'interno di convenzioni o paradigmì generati dal consenso che si produce nelle comunità scientifiche, era un'idea che era incominciata a maturare nei primi decenni del XX secolo anche nei campi delle scienze «esatte» per eccellenza, la matematica e la fisica. L'elaborazione di geometrie non euclidee nel campo della matematica, la formulazione (tra il 1905 e il 1915) della teoria della relatività di Einstein, l'enunciazione del principio di indeterminazione di Heisenberg nel 1927 nel campo della fisica, rappresentano altrettante svolte decisive nell'affermazione di un'idea rivoluzionaria sul piano epistemologico: la conoscenza scientifica è sempre (anche, al limite, nel caso della matematica e della fisica) una conoscenza relativa al punto di vista dell'osservatore e tale punto di vista è storicamente condizionato sia da fattori interni alla comunità scientifica, sia da fattori esterni. Le leggi di natura non appaiono più come leggi universali, valide in assoluto in ogni tempo e luogo, ma come leggi probabilistiche che non possono mai predire con assoluta certezza il verificarsi di un evento e lo stesso metodo sperimentale non risulta più assolutamente affidabile nel senso che non fornisce necessariamente risposte inconfutabili in merito alla validità o meno di una teoria. 19 sapere, quindi, non è indipendente dal soggetto conoscente, ma è costruito in relazione a scelte compiute dal soggetto stesso, non è accertato e verificato una volta per tutte, Pagina 140
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt ogni conoscenza è destinata prima o poi ad essere superata in un processo senza fine. La scienza quindi non è mai uno specchio fedele che riflette la realtà così come essa è, non vi può essere corrispondenza assoluta tra sapere e realtà, ogni sapere è una mappa costruita per potersi orientare in un territorio, ma non è possibile come in un famoso racconto di Borges - costruire una mappa della realtà in scala 1:1. Il che non vuol dire evidentemente che le mappe, anche rudimentali, imprecise e provvisorie della realtà prodotte dagli scienziati non siano attendibili e, soprattutto, utili. 1 limiti della conoscenza scientifica non fanno venir meno il fatto che essa costituisce il fondamento della nostra civiltà e che se vogliamo agire in modo consapevole dobbiamo inevitabilmente fare affidamento sulle conoscenze della realtà che ci circonda prodotte dalla scienza. Nonostante il successo delle «medicine alternative», se siamo seriamente ammalati, ci conviene consultare un medico scientificamente ben preparato. E opportuno, tuttavia, fare un'ulteriore considerazione. Ogni progresso della conoscenza scientifica, ogni rivoluzione scientifica, non riduce di per sé l'area dell'ignoto, ma anzi, scopre invariabilmente nuovi ambiti di realtà ancora inesplorati. Paradossalmente, la conoscenza produce la consapevolezza di non sapere. Nei limiti della concezione geocentrica dell'universo non si aveva nessun sentore degli infiniti mondi che si collocano al di là del sistema solare. L'idea che la materia fosse costituita da atomi, intesi come particelle elementari, ultime e indivisibili, non lasciava presumere l'esistenza di una realtà subatomica. La scoperta del Dna ha aperto un campo prima neppure sospettato sulla struttura interna della materia vivente. A differenza degli uomini comuni, gli scienziati sono coloro che hanno un'acuta consapevolezza della vastità degli ambiti di realtà che ci sono ancora fondamentalmente sconosciuti. Razionalismo critico Relafivismo 4.3. La «nuova» sociologia della scienza Nella filosofia della scienza contemporanea si contrappongono due tradizioni: l'empirismo/razionalismo critico, il cui esponente principale è Karl R. Popper (1902-1995), e il relativismo, i cui esponenti principali sono Paul K. Feyerabend e Inire Lakatos. Non è possibile in questa sede esporre, neppure molto sinteticamente, le argomentazioni principali di queste due tradizioni che esprimono un pensiero assai articolato e complesso. Ci basti dire che per Popper il metodo scientifico procede per tappe: in primo luogo incontriamo dei problemi dai quali nascono degli interrogativi, in secondo luogo proponiamo qualche teoria per risolvere i problemi e dare una risposta agli interrogativi (formuliamo cioè delle congetture), in terzo luogo sottoponiamo a critica i nostri tentativi di soluzione attraverso l'osservazione empirica della realtà (applicando cioè una logica di confutazione). La formulazione di congetture appartiene ad una logica della scoperta, la ricerca di confutazioni ad una logica della giustificazione. In questo modo il progresso della conoscenza avviene mediante un percorso di continue prove ed errori. Per i relativisti, invece, non è possibile identificare dei criteri che ci possano dire quando una conoscenza è vera (cioè, coerente con l'osservazione della realtà) e quando è invece falsa (cioè, smentita dall'osservazione della realtà empirica), ogni conoscenza è valida solo all'interno di una convenzione i cui contenuti sono sempre mutevoli e che è determinata sia da interessi extrascientifici sia dagli interessi professionali degli scienziati. Il programma relativista e la prospettiva di Kuhn illustrata nel paragrafo precedente sono stati ripresi e sviluppati dalla sociologia della scienza contemporanea, in particolare dalla cosiddetta scuola di Edimburgo [Barnes 19741. E programma di ricerca di questa scuola si concentra su tre aspetti principali: 1) come vengono condotti gli esperimenti nei laboratori; 2) come all'interno di un gruppo di scienziati viene costruito A consenso intorno ad una determinata interpretazione dei risultati sperimentali; 3) come i rapporti con interessi politico-sociali esterni influenzino le modalità della ricerca. Sui primi due punti si è sviluppata una serie di ricerche che hanno considerato A laboratorio come una micro -organizzazione sociale. Sul terzo punto torneremo nel paragrafo 5. Karin Knorr-Cetina [19831 ha passato in rassegna i numerosi studi sociologici che si sono accumulati sui laboratori nel campo delle scienze naturali intesi come vere e proprie officine dove gli addetti cooperano per la realizzazione di un prodotto particolare: il sapere scientifico specializzato. 19 laboratorio è un luogo artificiale dove la natura viene riconfigurata per poterla meglio Pagina 141
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt manipolare al fine di condurre osservazioni controRate. Nel laboratorio si possono innanzitutto controllare i fattori ambientali (ad esempio, nel caso delle biotecnologie agricole, si possono controfiare la composizione del terreno, la temperatura, l'esposizione alle radiazioni solari, l'umidità e molti altri fattori assai più efficacemente che se l'esperimento fosse realizzato in condizioni «naturali» in un campo aperto). Il laboratorio consente quindi di «semplificare» la dinamica dei fenomeni per potere indagare i rapporti di causa-effetto mantenendo sotto controfio i fattori che potrebbero perturbare la dinamica stessa, consente cioè di avvicinarsi alla condizione ceteris paribus che, come è noto, non si verifica mai compiutamente nella realtà concreta. Numerosissimi, se non infiniti, sono i fattori che possono influenzare l'accadere di un evento; se non riuscissimo a ridurli ad un numero finito e a controllarli (ed è proprio ciò che si realizza in condizioni di laboratorio) non saremmo in grado di formulare nessuna generalizzazione. Possiamo dire che nel laboratorio la natura viene in un certo senso «addomesticata» per renderla più facilmente osservabile e misurabile, viene creata una sorta di «natura artificiale», appositamente ricostruita per essere studiata. Al limite, la natura viene addirittura sostituita con dei modelli di simulazione che riproducono al calcolatore (ovviamente in modo semplificato) la dinamica dei processi oggetto di investigazione. La sociologia del «laboratorio» adotta quindi un approccio «costruttivista» al problema della conoscenza, tale approccio non nega l'esistenza di una realtà esterna, ma ritiene che la scienza non possa accedervi se non attraverso pratiche di «costruzione» della realtà, la scienza non può quindi mai descrivere la realtà così come essa è, ma solo rappresentarla attraverso i propri linguaggi. 1 ricercatori che operano in un laboratorio possono essere studiati come qualsiasi altro gruppo sociale, all'interno del quale avvengono costantemente negoziazioni in merito alle scelte da compiere per proLaboratorio Modefli di simulRzione CostruttMsMO: 250 CAPITOLO 9 gettare un esperimento, realizzarlo e per interpretarne alla fine i risultatì e comunicark all'esterno. E «fatto» scientifico (ad esempio, la produzione di una nuova molecola) viene «costruito» in laboratorio. In questo processo di costruzione sono rilevanti le transazioni all'interno del laboratorio (quali materiali, quali strumenti utilizzare, quali misure rilevare su quali indicatori, ecc.). In queste scelte non sono rilevanti solo fattori puramente scientifici, ma anche fattori sociali che hanno a che fare coi rapporti (gerarchici, di competizione, di collaborazione, di gelosia, ecc.) che si instaurano all'interno dell'équipe di ricerca. Studiare, con metodi emografici, antropologici e sociologici, il laboratorio come organizzazione sociale, i ricercatori che vi lavorano come gruppo sociale e i linguaggi che essi utilizzano (grafici, tabelle, diagrammi, ecc.) come particolari forme di retorica è coerente con una concezione della conoscenza in base alla quale conoscere non vuol dire riprodurre realisticamente la realtà, ma bensì rappresentarla. Se in tal modo la verità scientifica viene inevitabilmente relativizzata (perché dipende dai modi coi quali i risultati dell'attività scientifica sono stati prodotti), la scienza non perde tuttavia il suo significato e la sua importanza, anzi, può in tal modo diventare meglio consapevole insieme della sua portata e dei suoi limiti, favorendo tra gli scienziati stessi un processo di «autoriflessione» e di consapevolezza critica. Scienza e tecnologia Innovazione tecnologica 5. Scienza, tecnologia e sviluppo economico Nel quarto paragrafo abbiamo preso in esame prevalentemente i fattori interni allo sviluppo della scienza. Dobbiamo ora volgerci ai fattori esterni e riprendere il tema al quale abbiamo già accennato all'inizio del capitolo e nel terzo paragrafo quando abbiamo considerato la fase più recente, cioè successiva alla Il guerra mondiale, dello sviluppo scientifico. In questa fase, il rapporto tra scienza e tecnologia assume un'importanza decisiva, più di quanto non lo fosse stato nelle epoche precedenti. Scienza e tecnologia sono sempre state collegate in modo ora più stretto ora più tenue: le prime società scientifiche si occupavano anche di applicazioni tecniche ed uno dei compiti delle accademie scientifiche era originariamente anche quello di garantire il monopolio dei brevetti. Come abbiamo già notato, nei secoli XVIII e XIX incomincia a Pagina 142
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt verificarsi una divaricazione tra ricerca fondamentale e ricerca applicata; la prima si istituzionalizza nelle università, mentre la seconda trova nei politecnici e nei laboratori di ricerca industriale il proprio luogo privilegiato. In seguito, nell'epoca a noi più vicina, si sviluppa un intreccio molto stretto tra università, amministrazione pubblica e industria. Si potrebbe pensare ad uno sviluppo lineare che da una scoperta scientifica conduca a un'invenzione tecnologica e quindi al suo eventuale sfruttamento economico. Le cose non sono però così semplici. SCIENZA E TECNICA 251 Capita spesso che il percorso sia rovesciato e che il processo sia messo in moto da un'esigenza economica (o militare) che stimola un'innovazione tecnologica che solo a posteriori trova una sua fondazione nel sapere scientifico. La credenza che l'innovazione tecnologica scaturisca da qualche geniale inventore e che essa produca effetti sociali necessari (determinismo tecnologico) non è certo più adeguata alla realtà dei rapporti attuali tra scienza, tecnologia, economia, cultura e società. In realtà il processo di innovazione tecnologica è tutt'altro che lineare e dipende da una serie di fattori di ordine sociale che hanno a che fare con le scelte degli operatori economici, con le dinamiche dei mercati, ma anche con la presenza di atteggiamenti sociali che possono essere favorevoli o sfavorevoli all'innovazione. In altre parole, non è solo la scienza che produce innovazione tecnologica; ogni innovazione per svilupparsi e diffondersi deve trovare un terreno favorevole, deve fare i conti cioè con gli interessi organizzati siano essi economici, politici o militari. Non sempre le linee di ricerca che gli scienziati ritengono scientificamente rilevanti coincidono con l'interesse di gruppi economici e politici, orientati piuttosto all'utilizzabdità e applicabilità a breve termine dei risultati conseguiti. Ma sono proprio tali gruppi che, per così dire, tengono i cordoni della borsa. Tra ricerca pura e ricerca applicata esiste quindi inevitabilmente una competizione per le risorse. La ricerca applicata all'innovazione tecnologica trae spesso vantaggio dalla ricerca fondamentale, tuttavia i rischi di insuccesso ad essa connessi e il rapporto assai indiretto con le future eventuali applicazioni fanno sì che le imprese in genere non abbiano interesse ad investire nella ricerca fondamentale. Per questa ragione, la ricerca fondamentale è quasi sempre appannaggio delle università e delle istituzioni pubbliche di ricerca. Ciò varia però da settore a settore; ad esempio, la ricerca fondamentale è indispensabile nel caso dell'industria farmaceutica dove i nuovi prodotti hanno sempre alle spalle un lungo periodo di ricerca (si calcola che tra la scoperta di una nuova molecola e la commercializzazione di un nuovo farmaco che ne utilizzi le proprietà terapeutiche passino in media sette anni). Vi sono inoltre prodotti/settori «maturi» per i quali il contributo dell'innovazione tecnologica è scarso e altri dove invece le innovazioni che derivano dalla ricerca sono continue (si pensi ad esempio al settore delle telecomunicazioni). Nell'ambito del rapporto tra ricerca fondamentale e ricerca applicata un ruolo decisivo è stato assunto dagli apparati militari. Dalla Il guerra mondiale in poi circa il 40% delle risorse mondiali destinate alla ricerca scientifica e tecnologica sono state assorbite dalla ricerca militare. L'arte della guerra è stata da sempre una delle ragioni fondamentali che hanno stimolato l'ingegno al fine di produrre un sapere utilizzabile per aumentare la potenza offensiva e difensiva degli eserciti. La fusione dei metalli si è sviluppata ed è stata affinata in epoche remote per produrre armi sempre più efficaci. Ad Archimede, LeonarRicerca pura e ricerca applicata Ricerca militare 252 CAPITOLO 9 Ricaduta tecnologica Bilancia tecnologica do e Galileo risalgono importanti studi di balistica. t tuttavia nel XX secolo che la scienza si è messa sistematicamente al servizio della potenza militare nell'ambito di progetti di ricerca di dimensioni sconosciute nelle epoche precedenti. Abbiamo già ricordato il Manhattan State Project per la costruzione della prima bomba atomica. Un progetto ancora più ampio era destinato a diventare il programma Sdi (Strategic Defence Initiative) - comunemente chiamato Pagina 143
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt delle «guerre stellari» - promosso dal presidente americano Reagan e poi sospeso dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Con la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda i bilanci militari sono stati sensibilmente ridotti e quindi anche gli investimenti per la ricerca (in particolare per la ricerca spaziale). Non c'è dubbio che la ricerca per fini militari possa produrre innovazioni che vengono poi utilizzate nella produzione «civue» Si parla in questo caso di «ricaduta tecnologica» (technologicalfall-out) I recenti sviluppi nel campo dell'informatica, della microelettronica e delle telecomunicazioni, che hanno generato un'infinità di nuovi prodotti di uso comune, devono molto alle originarie applicazioni in campo militare. Perché vi sia «ricaduta», tuttavia, è necessario che esista un rapporto stretto tra ricerca militare e ricerca industriale. Ciò è avvenuto certamente negli Stati Uniti, ma in misura assai minore nella ex Unione Sovietica dove i grandi progressi scientifici e tecnologici realizzati per fini militari (e coperti quindi da segreto militare) non si sono trasferiti in altri settori economici, in particolare nel settore della produzione di beni di largo consumo. t indubbio comunque che vi sia un rapporto positivo nel lungo periodo tra investimenti in ricerca e sviluppo (si usa generalmente la sigla R&D, cioè Research and Development) e crescita economica. Soprattutto in un'economia aperta alla concorrenza internazionale, risultano avvantaggiati quei paesi la cui struttura industriale si basa su prodotti ad alto contenuto scientifico e tecnologico (il cosiddetto settore b1*gb-tech). Un indicatore assai eloquente del grado di sviluppo della ricerca applicata di un paese è la cosiddetta bilancia tecnologica che contabilizza gli introiti e gli esborsi dovuti alla cessione o all'acquisto dell'utilizzazione di brevetti industriali. Come si vede dalla figura 9.1, l'Italia presenta un deficit della propria bilancia tecnologica che tende a crescere nel tempo e che è un indicatore eloquente dello scarso sviluppo della ricerca scientifica nel nostro paese. Merita un cenno, infine, il problema della valutazione delle attività scientifiche. L'enorme costo della ricerca soprattutto in certi settori (si pensi alla ricerca spaziale e alla fisica delle alte energie) ha sollevato il problema del controllo esterno, soprattutto da parte degli enti finanziatori, sull'attività di ricerca. Posto che la ricerca deve contribuire al perseguimento di obiettivi sociali (la crescita economica, il miglioramento della qualità della vita, la salute, la sicurezza) si pone il problema di valutare l'entità di tale contributo al fine di determinare se le SCIENZA E TECNICA 253 2 1,5 0,5 00 F@i -0,5 1@O r- ce 0,1 CD u; <,I 1,1 T U_, `0 [- x 0, o r- P- [- r- W Do W W W 00 W W 00 01 al 01 al 131 GI G@1 01 '3, - - -@ -@ z, '3, @1@ @1@ esborsì = introffl saldo FiG. 9. 1. Bi.lancia tecnologica dei pagamentì m Itab,: andamento 1973 -1990. Fonte. Ufficio italiano. cambi. risorse investite dalla collettività hanno prodotto gli esiti attesi o almeno risultati soddisfacenti. Per rispondere a queste esigenze si è sviluppata una disciplina che ha preso il nome di scientometria, cioè la misurazione dell'output e della qualità della ricerca. Un indicatore frequentemente utilizzato è, ad esempio, il numero delle citazioni che un determinato lavoro o progetto ha ottenuto nelle pubblicazioni scientifiche di tutto il mondo (il Science Citation Index pubblicato dal 1963 dall'Institute for Scientific Information di Philadelphia, al quale si è aggiunto successivamente un analogo indice per le scienze sociali) A questi strumenti di tipo quantitativo sono stati affiancati anche strumenti di valutazione qualitativa, fondati prevalentemente sulla peer review, cioè sulla raccolta di pareri formulati da esperti del settore su nuovi progetti di ricerca, su stati di avanzamento di progetti in corso e sui risultati finali di progetti conclusi. Scientometria Peer review Pagina 144
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 6. Scienze naturali e scienze sociali Le considerazioni che abbiamo svolto finora in questo capitolo hanno avuto come oggetto quasi esclusivamente le scienze della natura. Del resto, l'immagine che l'uomo della strada ha dell'affività scientifica si riferisce quasi sempre alle scienze della natura e gli stessi scienziati naturali, il più delle volte, ritengono che le uniche vere scienze siano le loro. Tuttavia, negli ultimi due secoli, accanto alle scienze della natura, si sono sviluppate delle discipline che hanno per oggetto gli esseri umani e le loro relazioni e che possono rivendicare legittimamente lo statuto di scienze. Si potrebbe fare la storia delle scienze sociali dal punto di vista delle influenze che sul loro sviluppo hanno esercitato le scienze della natura. Soprattutto nel XIX secolo, lo sviluppo spettacolare di queste ultime ha fatto sì che esse venissero prese come modello da imitare e che si cercasse di trasferire i loro apparati di analisi e i loro metodi di indagine nel campo dello studio dei fenomeni umani e sociali. Vari studiosi, tra i quali alcuni pionieri della statistica applicata alla realtà sociale come quetelet (1796-1874) e Le Play (1806-1882), pensavano che si potesse costruire una «fisica sociale» sulla base del modello della scienza di Newton. A cavallo tra XIX e XX secolo, si sviluppò invece, soprattutto nella cultura tedesca, una reazione al dominio delle scienze naturali e alla trasposizione dei loro metodi nel campo di quelle che allora venivano chiamate «scienze dello spirito» Si riteneva che il fatto che l'oggetto di queste ultime fosse l'uomo, le sue azioni, i suoi prodotti, la sua cultura dovesse tradursi in una specificità dei metodi di ricerca rispetto a quelli che servivano per accostarsi alla natura inanimata. Se le scienze della natura cercavano di spiegare gli eventi naturali riconducendoli ad una qualche legge universale di natura, si riteneva che i Spiegazione/ fenomeni umani dovessero piuttosto essere «compresi» nel loro signicomprensione ficato culturale. Il dibattito si sviluppò in particolare intorno allo statuto scientifico di una disciplina, la storia, nei confronti della quale il fine della conoscenza non sembrava essere la formulazione di leggi universali, bensì la spiegazione/comprensione di eventi individuali e irripetibili. In questo dibattito, una posizione importante, alla luce dell'influenza che avrebbe esercitato in seguito sulla definizione dei fondamenti del sapere sociologico, fu quella adottata da Max Weber [1922b]. Egli ha sostenuto la specificità delle scienze sociali sia pure nell'ambito di una concezione fondamentalmente unitaria del metodo scientifico: mentre i fenomeni della natura possono essere soltanto «spiegati» (imputandone le cause all'operare di «leggi»), i fenomeni sociali, accanto alla spiegazione, possono anche essere oggetto di «comprensione». 1 fatti sociali, sostiene Weber, sono in ultima istanza riconducibili ad azioni individuali. L'azione è l'unità minima di analisi delle scienze sociali; anche le istituzioni, i gruppi, le collettività di ogni genere (come abbiamo visto nel cap. 111) sono «fatte» di azioni. La specificità dell'agire umano (rispetto, ad esempio, a quello degli animali) consiste nel fatto che gli esseri umani sono dotati della capacità di attribuire un senso alle loro azioni ed è proprio questo «senso» che è accessibile mediante la «comprensione». Ad esempio, siamo di fronSCIENZA E TECNICA 255 te a due eventi diversi quando vediamo un albero che cade perché spezzato dalla forza del vento, oppure perché un uomo ne sta segando il tronco. Nel primo caso abbiamo a che fare con un evento puramente «naturale», nel secondo caso, invece, siamo di fronte a un'azione umana alla quale possiamo accedere interpretandone il significato: sappiamo che si avvicina l'inverno e che i contadini tagliano la legna per potersi riscaldare. Il rapporto tra spiegazione e comprensione resta a tutt'oggi uno degli aspetti più dibattuti e controversi dell'epistemologia (cioè, della teoria della conoscenza) delle scienze sociali. Nel corso del XX secolo il pendolo ha più volte oscillato tra i due estremi di coloro che sostengono un fondamentale «monismo metodologico», cioè la sostanziale unità del metodo scientifico a prescindere dalla diversità dell'oggetto di ricerca, e coloro che, al contrario, sostengono l'irriducibile «differenza» tra le scienze dell'uomo e quelle della natura. Non possiamo qui approfondire ulteriormente questo problema. Possiamo tuttavia indicare alcune dimensioni che servono per fissare linee di demarcazione e di continuità tra le scienze. La prima dimensione, lo abbiamo appena menzionato, riguarda la «natura» dell'oggetto: le scienze sociali trattano oggetti che hanno Pagina 145
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt natura «soggettiva», sono dotati cioè della capacità di agire intenzionalmente e di attribuire un senso alle loro azioni. La seconda dimensione riguarda la funzione dei paradigmi: nelle scienze sociali non vi è quasi mai un unico paradigma storicamente dominante, ma una pluralità di paradigmi in competizione tra loro. Tendenzialmente, nella storia delle scienze naturali i paradigmi si succedono diacronicamente, mentre nelle scienze sociali sono più spesso presenti sincronicamente. La terza dimensione riguarda invece la diversa centralità del metodo sperimentale: nelle scienze sociali è assai più difficile compiere dei veri e propri esperimenti controllati, sia per problemi di natura deontologica (vi sono ovviamente dei limiti a condurre esperimenti su esseri umani), sia di natura sostanziale (i fenomeni da studiare non possono essere riprodotti in laboratorio). Anche se, soprattutto in psicologia, non è escluso l'uso di metodi sperimentali, nelle scienze sociali tendono a prevalere metodi di elaborazione delle informazioni che non rispondono a criteri rigorosamente sperimentali. La quarta Imensione riguarda il tipo di linguaggio utilizzato nella comunicazione all'interno delle comunità scientifiche: nelle scienze naturali il linguaggio tende ad essere assai più consolidato e formalizzato che non nelle scienze sociali; in queste ultime è spesso necessario definire i termini che si usano dato che di essi non esiste il più delle volte un significato convenzionalmente accettato. La quinta dimensione, infine, riguarda il grado di istituzionalizzazione: le scienze sociali hanno visto riconosciuto il loro posto nelle istituzioni scientifiche e accademiche in epoca più recente rispetto alle scienze naturali. Le varie discipline non si collocano, tuttavia, in campi rigidamente distinti, bensì lungo un continuum definito da queste dimensioni. Nella Monisino metodologico Scienzesociali e paradigmi scientifiá Scienze sociali e metodo sperimentale Scienze sociali e istituzionalizzazione 256 CAPITOLO 9 letteratura anglosassone è in uso a questo proposito una distinzione tra Scienze «dure» bard sciences e soft sciences (scienze «dure» e scienze «molli»): ad un e scienze «molli» estremo si colloca evidentemente la fisica, alla quale segue poi la chimi~ ca, poi ancora la biologia e quindi la psicologia sperimentale, l'economia, mentre all'estremo opposto si collocano la psicologia sociale, la scienza politica, la sociologia, l'antropologia culturale. Tuttavia, il riconoscimento che anche nel campo delle scienze della natura i «fattì» sono costruiti (non sono cioè indipendenti dall'osservatore), cioè che la scienza, quale che sia il suo oggetto, raccoglie ed elabora «dati», vale a dire informazioni selezionate relative a «fatti», fa pensare che la distanza tra bard e soft non sia poi così invalicabile e, anzi, sia destinata tendenzialmente a ridursi. A-Ha fine degli anni cinquanta, in un libretto molto discusso dal titolo Le due culture, Charles Percy Snow [19591 sosteneva come nella cultura occidentale si fosse sviluppata una irriducibile frattura tra cultura scientifica (orientata al futuro e al progresso) e cultura umanistica (orientata al passato e conservatrice). Alla fine del secolo, il clima sembra sostanzialmente mutato e un autore tedesco, Wolfgang Lepenies [19851, in un libro che significativamente si intitola Le tre culture, può sostenere che le scienze sociali svolgono una funzione di ponte tra cultura umanistica e cultura scientifica. La sociologia, in particolare, avrebbe due anime tra loro interdipendenti: una scientifica (che tende all'imitazione delle scienze naturali) e una ermeneutica (che la colloca in una posizione di contiguità con la letteratura e le arti). t indubbio, comunque, che il maggiore ostacolo alla comunicazione tra ambiti disciplinari diversi è costituito dall'estrema specializzazione del lavoro scientifico non solo tra le discipline, ma all'interno della stessa disciplina. 1 problemi che gli specialisti devono affrontare sono Molto spesso simili, ma ognuno lavora in una condizione di forte isolamento e quindi l'integrazione delle conoscenze acquisite risulta difficile e la frammentazione del sapere elevata. Interdisciplinarità L'esigenza della ricerca interdisciplinare è fortemente avvertita, soprattutto in settori orientati all'applicazione pratica delle conoscenze, ma la sua realizzazione incontra grandi difficoltà. Uno studioso americano ha detto: society bas problems, universities bave departments. Tra la formulazione di un problema da parte di chi è responsabile della sua soluzione (ad esempio, un decisore pubblico) e la sua traduzione in un progetto da parte di un gruppo Pagina 146
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt di specialisti in unIstituzione di ricerca il cammino è spesso molto lungo. Tra decisori e ricercatori, ovvero tra «politici» ed «esperti», la comunicazione è quasi sempre difficile, perché i primi richiedono una visione sintetica che tenga conto globalmente dei vari aspetti del problema in oggetto, mentre gli esperti tendono ad affrontarlo, a seconda delle loro rispettive specializzazioni, tenendo analiticamente separati i vari aspetti. Una possibile prospettiva di parziale superamento della frattura tra specializzazioni diverse consiste nella formazione di sottodiscipline a cavallo tra campi contigui nei quali gli specialisti devono essere in grado di disporre di competenze plurime e di padroneggiare una molteplicità di linguaggi: si pensi alla biofisica, alla biochimica, alla sociobiologia, ma anche, all'estremo opposto, alla sociologia dell'arte e della letteratura. 7. L'immagine pubblica della scienza e della tecnologia Abbiamo visto che lo sviluppo della scienza e della tecnologia richiede la presenza di un ambiente sociale favorevole e di questo fanno parte certamente gli atteggiamenti del pubblico. Ci si chiede però come possano formarsi atteggiamenti favorevoli in una condizione nella quale la barriera tra scienziati/esperti e laici diventa sempre più netta. Nell'opinione pubblica si sono diffuse immagini della scienza come mondo a parte, misterioso e anche in parte minaccioso, con il quale è sempre più difficile per l'uomo qualunque entrare in contatto. A ciò hanno contribuito la forte istituzionalizzazione dell'attività scientifica, l'estrema specializzazione e, soprattutto, lo sviluppo di linguaggi la cui traducibilità nel linguaggio comune diventa sempre più ardua. L'opinione pubblica quindi si interroga sia sulla sostenibilità dei costi della ricerca (che si ripercuotono ovviamente sull'imposizione fiscale), sia sulla sua effettiva utilità, visti, soprattutto, gli effetti disastrosi degli usi sociali di certe scoperte (vedi, bomba atomica), i rischi ambientali (vedi, centrali nucleari, buco dell'ozono, inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo, ecc.) e i rischi per la salute (vedi, la nocività di vari prodotti dell'industria alimentare e farmaceutica). Inoltre, il fatto che di fronte a questi problemi gli esperti esprimano assai spesso opinioni e valutazioni divergenti e che tra gli stessi esperti si sviluppino frequentemente aspre controversie, contribuisce a mettere la scienza agli occhi dell'opinione pubblica in una luce ambivalente. Gli atteggiamenti del pubblico dipendono da due componenti tra loro interdipendenti, l'uno di natura cognitiva e l'altro di tipo valutativo. Entrambi fanno parte di quella che si può chiamare la cultura scientifica diffusa, le cui fonti sono da un lato gli insegnamenti scolastici, dall'altro le attività di divulgazione scientifica e i messaggi dei massmedia. 1 lettori potranno essi stessi valutare quale è stata l'influenza dell'insegnamento di «Scienze» nella formazione della loro cultura scientifica. Per quanto riguarda l'Italia è noto che gli effetti sono assai spesso deludenti, ma le cose non devono andar bene neppure in altri paesi: da un'indagine campionaria condotta in Gran Bretagna si rileva che solo il 34% degli intervistati ha risposto correttamente alla domanda su quanto tempo impiega la Terra a ruotare intorno al sole (la risposta giusta era, ovviamente, «un anno»). Le attività di divulgazione scientifica svolgono probabilmente un'azione più efficace di quella della scuola. 1 musei di scienze naturali Scienza e opinione pubblica Divulgazione Scientifica 258 CAPITOLO 9 Riscbìó. arnbunt& è: tg-ol@9ko.:.. e i musei della tecnica, ma anche i musei etnografici, sono spesso luoghi assai importanti di diffusione della cultura scientifica. Pubblicazioni come «Scientific American» (o la versione italiana Le Scienze) sono il prodotto di una professionalità di alto livello, tuttavia, la loro lettura richiede un grado di alfabetizzazione scientifica spesso non presente nel largo pubblico. Inoltre, se divulgazione vuol dire dare per certe conoscenze che gli scienziati stessi esprimono con la massima cautela, allora A processo di traduzione del sapere scientifico per un pubblico di non specialisti si trasforma in un processo di deformazione del sapere stesso. Come abbiamo visto, alle scienze non si possono chiedere, nella maggior parte dei casi, certezze assolute, mentre il pubblico chiede agli esperti di risolvere i dubbi e non di creare nuove incertezze. I mass media, infine, privilegiano il più delle volte gli aspetti più sensazionalistici delle scoperte scientifiche che possono attirare la curiosità e l'interesse dell'opinione pubblica (tipica, alcuni anni fa, la notizia, poi smentita, della scoperta d'ella fusione fredda che avrebbe liberato l'umanità Pagina 147
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dallo spettro della crisi energetica) Talvolta i resoconti dei media producono speranze infondate in particolari categorie della popolazione (ad esempio, i malati di cancro o di Aids), in altri casi possono scatenare il panico accentuando la percezione del rischio tecnologico, oppure, al contrario, ridurre lo stato di «allerta», minimizzando la percezione del rischio. Ciò che viene trasmesso attraverso questi canali non sono quindi solo conoscenze, ma anche «immagini» e «stereotipi» Da un'indagine sulle riviste di divulgazione scientifica pubblicate negli Usa tra il 1910 e il 1955 [Felt et al. 1995, 2571 emergono quattro stereotipi dello scienziato: 1) il mago che ha un potere sulla natura (questo stereotipo riflette una concezione prerazionale o arazionale della scienza); 2) l'esperto, cioè colui che affronta e risolve i problemi in modo razionale ed efficiente; 3) il creatore/distruttore, figura ambigua di apprendistastregone, irresponsabile di fronte alle conseguenze delle sua scoperte; 4) l'eroe, dalla cui creatività discende il progresso in generale. Gli atteggiamenti che si esprimono attraverso questi stereotipi oscillano quindi tra due estremi: da un lato una fiducia incondizionata nella scienza come dispensatrice di «progresso», dall'altro lato un oscuro sentimento che vede nella scienza e nelle sue ricadute tecnologiche una minaccia misteriosa. Nella fase attuale, soprattutto per effetto delle iniziative dei movimenti ecologisti, la percezione del rischio tecnologico e delle minacce alla vivibilità dell'ambiente sono fattori importanti nel plasmare gli atteggiamenti della popolazione nei confronti della scienza e della tecnologia e nel ridurre il livello di credibilità nei loro confronti. E ricordo dei disastri di Bopal (India), Seveso (Italia), Three Miles Island (Usa) e Chernobil (ex Urss) è un monito per tutti. Il concetto stesso di rischio non è certo lo stesso per gli esperti e per il pubblico: mentre per i primi si tratta della probabilità calcolabile del verificarsi di un determinato evento e della probabilità che tale evento provochi determinate conseguenze, il concetto di rischio evoca nella gente comune il sentimento di un evento minaccioso dalle conseguenze dannose incalcolabili. Se a ciò si aggiunge il fatto che spesso l'opinione degli esperti non è unanime, che i media possono accentuare o minimizzare la percezione del rischio, ci si rende conto come questo sia un terreno estremamente delicato nella formazione degli atteggiamenti sociali nei confronti della scienza. Del resto, la scienza stessa può contribuire sensibilmente ad attenuare i rischi che le sue applicazioni hanno generato. L'accresciuta sensibilità verso i problemi ambientali, ad esempio, ha fortemente stimolato la ricerca di nuove fonti di energia, di nuovi materiali degradabilì, di nuovi metodi di produzione e di nuovi prodotti che riducono l'«impatto ambientale». Nel mondo moderno la scienza è un'attività fortemente orientata alla soluzione razionale di problemi pratici e i suoi effetti dipendono dal tipo di problemi verso i quali è indirizzata la ricerca, dalle domande che vengono poste agli scienziati. La responsabilità degli effetti non ricade quindi tanto sugli scienziati, ma su coloro che pongono i problemi da risolvere e formulano le domande alle quali trovare risposta. Come abbiamo visto, la riflessione sociologica sulla scienza parte dall'assunto che la conoscenza scientifica è socialmente costruita e che l'attività scientifica è inestricabilmente intrecciata con fattori interpersonali, organizzativi e culturali che contribuiscono alla produzione e all'uso del sapere scientifico. t incontestabile che la scienza sia strettamente legata a interessi politici, militari ed economici che ne condizionano lo sviluppo e che non necessariamente coincidono con l'interesse collettivo dell'umanità intera. Tutto dipende quindi da quali interessi prevalgono nel formulare gli indirizzi della politica della ricerca scientifica. La ricerca sociologica sui condizionamenti, sui modi di operare e sugli effetti sociali della scienza, può forse contribuire a radicare, nell'opinione pubblica e tra gli stessi scienziati, un'immagine realistica della scienza che sia libera dagli stereotipi sia della scienza come potenza demoniaca, sia della scienza come portatrice naturale di progresso. - - -@-- in- Capitolo 10 Una premessa di metodo L'argomento affrontato in questo capitolo, forse più di altri, richiede una premessa di metodo. Ci occuperemo infatti di religione, anzi di religioni, e il lettore potrà chiedersi, e la domanda è senza dubbio legittima, che differenza c'è tra il punto di vista del sociologo e altri punti di vista, ad esempio il Pagina 148
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt punto di vista del credente o del teologo, nel considerare il fenomeno religioso. Le religioni, come vedremo, riguardano credenze, cioè idee che gli uomini si fanno intorno alla natura della realtà terrena e ultraterrena. E sociologo prende queste credenze come dati di fatto che è necessario spiegare nella loro genesi. Egli non si chiede se queste credenze siano vere o false; la sociologia non può dire nulla in merito alla verità o falsità delle credenze religiose, perché queste credenze hanno a che fare con una realtà non empirica che sfugge agli strumenti della conoscenza scientifica. L'unico dato di fatto empirico è che uomini reali, organizzati in società reali, sviluppano credenze e istituzioni e mettono in atto comportamenti che chiamiamo religiosi. Vere o false, nella misura in cui questi criteri si applicano al lavoro scientifico, possono essere solo le asserzioni che riguardano le credenze religiose e non le credenze stesse. In quanto sociologi possiamo sostenere, ad esempio, che le religioni che conservano forti componenti magiche hanno più probabilità di diffondersi in società contadine che non in società urbane, senza con questo affermare alcunché in merito alla verità o falsità delle credenze magiche. In quanto credenti in un Dio trascendente, onnipotente e onnisciente non potremo invece che considerare le credenze magiche come frutto di errore e di superstizione. Per un ateo tutte le credenze religiose sono frutto di errore e superstizione. Ciò non vuol dire che il sociologo che studia le religioni non possa a sua volta avere delle credenze religiose. L'esercizio dell'attività scientifica richiede la capacità di mantenere distinti i vari ruoli: il sociologo può essere un uomo animato da una profonda fede religiosa, ma quando opera sul piano scientifico deve evitare che il suo ruolo di credente interferisca con il suo ruolo di studioso. Una separazione assoluta, tuttavia, non solo non è possibile, ma forse non è neppure auspicabile. Se la religione non «fa problema» per lo studioso come uomo e non in quanto studioso, non potrebbe neppure suscitare il suo interesse. D'altra parte, il predicatore fanatico di una fede religiosa difficilmente potrebbe diventare un buon sociologo delle religioni. Peraltro, se si guarda alla storia degli studi sociologici sulle religioni, non si può non riconoscere che la posizione dello studioso nei confronti della religione in generale o di una religione in particolare ha lasciato tracce riconoscibili negli studi compiuti. La prospettiva nella quale si colloca lo studioso condiziona la scelta degli aspetti che vengono messi in primo piano oppure che vengono lasciati sullo sfondo e influenza la direzione nella quale si spinge l'indagine. Questo problema non riguarda evidentemente soltanto lo studio delle religioni, anche se in questo caso si presenta in modo particolarmente evidente. Si tratta, in ogni caso, di mantenere una certa distanza dall'oggetto di studio: una distanza troppo grande fa scomparire l'oggetto dall'orizzonte delle cose che sono per noi rilevanti, una distanza troppo ridotta rischia di deformare l'immagine che ci costruiamo della realtà. Del resto, vi è un settore della sociologia, chiamato appunto «sociologia della conoscenza» che studia proprio come l'attività conoscitiva sia influenzata dalle credenze e dagli interessi dello studioso che si collocano al di là e al di fuori della sfera conoscitiva, nel caso dello scienziato, al di fuori della scienza in senso stretto. Fatta questa premessa, possiamo ora affrontare l'argomento del presente capitolo. 2. Sacroe profano t difficile trovare al mondo un aggregato umano che non dedichi una parte del tempo e dello spazio che ha a disposizione a pratiche religiose: tutte le società umane riservano alcuni giorni alla festa e un luogo dove i membri si riuniscono per celebrare riti e cerimonie religiose. Anche nelle società attuali, dove la religione occupa per molti un posto meno importante rispetto alle società del passato, è raro che un individuo nell'arco della sua vita non venga a contatto con situazioni che coinvolgono comportamenti e istituzioni religiose. Nel nostro paese, ad esempio, battesimi, cresime, prime comunioni, matrimoni, funerali sono cerimonie religiose che costellano la biografia di un gran numero di persone, credenti e non. Sono veri e propri fatti sociali al di là del significato soggettivo che può essere loro attribuito. La religione, in forme elementari o complesse, è un fenomeno pressoché universale nelle società umane. E quindi anzitutto necessario riflettere sul perché dell'universalità del fenomeno religioso. Non tutti gli uomini e le donne sono religiosi, ma non esistono società umane che non abbiano sviluppato qualche forma di religione. La religione deve quindi rispondere ad un'esigenza specifica delle società umane. Per affrontare questo argomento bisogna partire da una definizione di religione Pagina 149
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt per sapere di che cosa stiamo parlando. Ma qui incominciano le difficoltà perché di definizioni che rispondono alla domanda: che cosa è la religione? ne sono state date tantissime, sia da coloro che si collocano nell'ambito di una determinata religione, sia da coloro che studiano i fenomeni religiosi senza aderire ad una particolare credenza religiosa. Si possono classificare le varie definizioni e vedere se esse identificano qualche elemento comune, ma questa operazione non è facile perché i punti di vista dai quali le varie definizioni sono formulate sono molto diversi. Inoltre, non solo sono numerosissime le definizioni di religione, ma sono altrettanto numerose le forme di religione che sono comparse nella storia e nella preistoria dell'umanità ed è quindi difficile, se non impossibile, identificare gli elementi che sono comuni a tutte queste forme. Procederemo quindi in modo non sistematico partendo da una nozione di senso comune; chiediamoci: a che cosa pensa la gente comune quando parla di religione? Incominciamo con una definizione molto generale che poi potremo arricchire e specificare. La religione, possiamo dire, è una credenza, o un insieme di credenze, relativa all'esistenza di una realtà ultrasensibile, ultraterrena e sovrannaturale. Chiariamo i termini di questa definizione. La religione è una credenza o un insieme di credenze. Che cosa è una credenza? t un giudizio sulla realtà (su una qualsiasi realtà) che si fonda su un atto di fede. La nozione di credenza presuppone una distinzione cruciale tra credenza e conoscenza: è diverso dire che una cosa è così perché credo che sia così, oppure che è così perché so che è così. Il confine tra credenze e conoscenze è certamente sfumato nel senso che le due categorie presentano indubbiamente zone di sovrapposizione; credenze e conoscenze sono due modi mediante i quali gli esseri umani raggiungono un relativo grado di certezza sulla realtà che li circonda; sia le credenze ghe le conoscenze possono lasciare, e in genere lasciano, dei margini di dubbio: nessuna conoscenza è perfetta, come nessuna credenza è assoluta. Eppure, nonostante i teologi si siano affannati per fornire delle prove empiriche o razionali dell'esistenza di Dio, la certezza dell'esistenza di Dio è raggiunta essenzialmente mediante un atto di fede e non mediante un'operazione conoscitiva. In altre parole, per dirla con un'espressione coniata da Karl Popper, un famoso filosofo della scienza recentemente scomparso, la proposizione: «dio (o il diavolo) esiste», nonn è falsificabile poiché non è né logica (come due più due uguale quattro), né empirica, cioè riferita a qualche dato di osservazione. Veniamo ora alla seconda parte della definizione proposta: le credenze religiose riguardano l'esistenza di una realtà al di là di ciò che è percepibile con i sensi e accumulabile come conoscenza empirica. L'uomo riconosce che al di là del mondo che gli è famigliare e accessibile, con gli strumenti di cui è dotato, vi è un mondo misterioso e normalmente inaccessibile. Per l'uomo delle società cosiddette primitive, che non hanno ancora sviluppato la conoscenza scientifica, dietro i fenomeni ai quali assiste (in primo luogo i fenomeni naturali) devono pur esserci delle forze oscure, dei motori originari, delle cause ultime che spiegano sia l'ordine sia l'apparente disordine, sia il regolare ciclo del sole e l'alternanza delle stagioni, sia la furia dei terremoti, i periodi di siccità e le inondazioni. In altre parole, le credenze religiose postulano l'esistenza di una sfera della realtà trascendente rispetto alla sfera della realtà percepibile. L'essere umano è intrinsecamente dotato della capacità di trascendere l'esperienza immediata (qui e ora): nel ricordo e nell'aspettativa egli è in grado di raffigurarsi ciò che non c'è più (A passato) e ciò che non c'è ancora (9 futuro). La stessa idea che .egli ha di se stesso, la sua identità soggettiva, è il prodotto di questa capacità di trascendere il presente, di riconoscere sé e gli altri come entità che vanno oltre ciò che è immediatamente percepibile. Questa capacità consente all'uomo di concepire l'esistenza di una realtà trascendente, invisibile, che sta dietro le cose percepite dai sensi e che si estende anche al di là della vita terrena dopo la morte. In molte forme di religione primitiva o arcaica troviamo che questa sfera trascendente è occupata da divinità che rappresentano fenomeni o elementi naturali (il sole, l'acqua, il fuoco, ecc.), oppure dalle anime dei defunti (A culto degli antenati). Questa sfera costituisce la sfera del sacro: il cosmo viene appunto distinto in una sfera del sacro e in una sfera del profano. Ancorché separate, queste sfere non sono tuttavia prive di rapporti. Si può dire che le varie forme di religione si differenziano tra loro a seconda del modo con cui è articolato il rapporto tra sacro e profano. Nella magia, che molti considerano una forma primitiva di religione, il mondo ultrasensibile è popolato da spiriti che spesso vengono rappresentati con Pagina 150
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt sembianze umane e la cui volontà, benevola o malevola, può essere influenzata dagli uomini mediante pratiche rituali propiziatorie. Ad esempio, la danza della pioggia è una pratica rituale che si riscontra in molte società la cui sopravvivenza dipende appunto dall'andamento delle precipitazioni e che in tal modo credono di poter in qualche modo controllare le potenze misteriose che governano l'abbondanza o la carenza di cibo. La stessa funzione hanno i doni o i sacrifici offerti alle divinità per accattivarsi la loro benevolenza o placare la loro ira. Alla sfera degli esseri che popolano il mondo ultraterreno e ultrasensibile vengono attribuiti gli stessi moventi, capacità e sentimenti tipici degli esseri umani, solo ad una potenza più elevata. Dalle offese arrecate a questi LA RELIGIONE 265 spiriti ci si può attendere collera e vendetta, così come la loro assistenza e protezione può sorreggere nel raggiungirnento di fini terreni (siano questi un buon raccolto, l'abbattimento di una preda, o la vittoria in una guerra) La magia si differenzia dalla religione proprio per il diverso rapporto che si instaura tra sacro e profano, tra terreno e ultraterreno. Mentre nella magia le pratiche rituali, messe in atto da specialisti chiamati appunto «maghì», servono per influenzare gli spiriti e le forze occulte, che si ritiene stiano dietro le cose e i fenomeni, al fine di produrre effetti pratici nella vita terrena, nella religione il fine appare piuttosto quello di consentire agli uomini di elevarsi al di sopra e al di là della loro esistenza terrena e di accedere, per così dire, alla sfera del sacro, attraverso pratiche ascetiche e mistiche, o attraverso una condotta esemplare che verrà ricompensata nella vita ultraterrena. Il grado di trascendenza, di accessibilità o inaccessibilità da parte dell' uomo, come pure l'articolazione interna della sfera del sacro, variano moltissimo da religione a religione, ma su questo torneremo più tardi parlando dei tipi di religione. 3. L'esperienza religiosa Dobbiamo ora approfondire e arricchire la nostra definizione, non è infatti sufficiente sapere che la religione riguarda le credenze intorno al sacro, la distinzione tra sacro e profano e i rapporti tra queste due sfere. Dobbiamo anche chiederci quali sono i tratti fondamentali dell'esperienza religiosa, cioè come e perché gli esseri umani (almeno molti, se non tutti) sviluppano la credenza nell'esistenza del sacro. Il discorso deve partire un po da lontano, da due esperienze che sono tipiche della condizione umana: l'esperienza del limite e l'esperienza del caso. L'esperienza del limite riguarda la stessa vita umana. Gli esseri umani sono dotati di una consapevolezza che sembra specifica della loro specie: sanno di dover morire; essi vivono nella certezza che la loro vita ha avuto un inizio e avrà una fine, un limite. L'idea stessa di limite è tuttavia inconcepibile senza l'idea opposta di assenza di limite; se da un lato vi è il mondo delle cose mortali, tra le quali gli stessi esseri umani, deve esistere dall'altro lato un mondo delle cose immortali al quale appartengono le anime, gli spiriti e gli dei. Probabilmente tutti gli uomini almeno in qualche momento della loro esistenza si pongono una serie di perché: perché sono venuti al mondo, in un mondo che preesisteva alla loro nascita e che esisterà anche dopo la loro morte, perché devono soffrire, perché le sofferenze e i piaceri della vita sono distribuiti in modo così ineguale, perché devono morire, perché alcuni muoiono giovani e altri vecchi, perché spesso i «buoni» sono puniti mentre i «cattivi» sono premiati, che senso ha la loro Esperienza religiosa Esperienza del limite 266 CAPITOLO 10 vita al di.là delle esperienze immediate di tutti i giomi? Le religioni in genere aiutano a dare una risposta a questi interrogativi e quindi a mantenere l'angoscia che da essi deriva entro limiti tollerabili per il semplice fatto che, di fronte alle imperfezioni del mondo, all'ingiustizia e alla sofferenza, postulano l'esistenza di un mondo-altro che non conosce questi limiti. Inoltre, gli esseri umani vivono nella consapevolezza di essere in balia di forze più grandi di loro e che sfuggono in larga misura al loro controllo; per quanto si sforzino di mettere tali forze al loro servizio e per quanto tali sforzi possano essere coronati da successo, anche l'uomo più potente deve riconoscere che esistono dei limiti alla sua potenza, che vi sono dei confini Pagina 151
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt alla sua volontà e che esiste un divario incolmabile tra ciò che vuole e ciò che può fare. Non solo l'uomo primitivo, che viveva in balla di forze naturali soverchiantì che minacciavano in ogni momento la sua esistenza, ma anche l'uomo moderno vive costantemente nella consapevolezza che la realtà oppone ostacoli invalicabili alla realizzazione della sua volontà e che quindi deve tenere conto di tali ostacoli nel definire i limiti delle proprie mete. Il mondo degli dei è invece popolato da esseri onnipotenti o comunque da esseri che non sono soggetti alle stesse limitazioni della specie umana. L'idea di limite è indissolubilmente legata all'idea di assenza di limite. Infine, e con ciò tocchiamo il secondo aspetto della condizione umana che evoca un'esperienza di tipo religioso, l'uomo si confronta costantemente con il limite della sua capacità di dare una spiegazione agli eventi naturali, sociali e individuali che interferiscono con la sua esistenza. Anche l'enon-ne sviluppo della conoscenza scientifica non ha modificato sostanzialmente questo tratto della condizione umana. t vero che noi moderni sappiamo infinitamente di più del mondo che ci circonda di quanto non sapessero i nostri predecessori, ed è anche vero che nella vita pratica di tutti i giorni possiamo fare tranquiuamente affidamento sul sapere accumulato daTumanità nel corso dei millenni; le nostre spiegazioni rimangono tuttavia sempre parziali e provvisorie, non siamo in grado di risalire alle cause ultime del divenire e di ricondurre l'infinita varietà dei fenomeni a una spiegazione unitaria ed esaustiva. Il mondo è sempre pieno di misteri che non siamo in grado di spiegare e il divenire ci riserva continuamente sorprese, eventi rispetto ai quali la nostra capacità di previsione si dimostra irrimediabilmente limitata. Poiché l'ordine al quale siamo in grado di ricondurre gli eventi che osserviamo risulta sempre parziale e provvisorio, ci rendiamo conto che il caso e il disordine dominano comunque una parte grandissima della realtà nella quale si svolge la nostra esistenza e penetrano all'interno della coscienza che abbiamo del mondo e di noi stessi. La consapevolezza del limite posto alla capacità di conoscere di ogni singolo individuo e della specie umana nel suo complesso rende possibile concepire l'idea di un ente che non sia sottoposto a tali limitazioni, appunto di un ente onnisciente al quale ricondurre in modo unitario l'ordine delle cose naturali e umane. Così, anche le esperienze che sembrano più inspiegabili e prive di significato, come la morte, A dolore, le catastrofi, la fortuna e la sfortuna, a disordine e il caso, trovano una loro collocazione e giustificazione in un ordine, in un disegno, che rimane misterioso, ma di cui la mente umana è in grado di postulare l'esistenza. Tale ordine consente di ricondurre i molteplici, variabili e contrastanti significati delle esperienze e delle azioni umane ad una gerarchia di significati e quindi a dei significati «ultimi», alla volontà imperscrutabile di qualche divinità. Vi è inoltre un altro aspetto che è intrinsecamente, anche se non Ordine rwrae. necessariamente, legato all'esperienza religiosa: il problema dell'ordine morale. Sia nella vita di tutti i giorni, sia in momenti cruciali della loro esistenza, gli esseri umani sono posti di fronte alla necessità di scegliere tra corsi alternativi di azione. Se non ci fosse la possibilità di scegliere, non ci sarebbe neppure un problema morale. In base a quali criteri però scegliere quale azione intraprendere o non intraprendere? Molte scelte vengono effettuate in base a criteri puramente utilitaristici: se devo seminare un campo di grano e ho a disposizione sementi di qualità diversa, sceglierò di utilizzare, a parità di altre condizioni, le sementi migliori. Ma in molti casi le scelte non coinvolgono, o non coinvolgono soltanto, la dimensione dell'utile, ma anche la dimensione del bene e del male. In questi casi i criteri di scelta sono dei codici morali che consentono di distinguere ciò che è bene e ciò che è male. Succede assai spesso che azioni che risulterebbero assai utili al raggiungimento dei nostri fini non ci sono consentite perché violerebbero il nostro codice morale. Perché devo affaticarmi per coltivare il mio campo, se posso impunemente raccogliere i frutti del campo coltivato dal mio vicino? Anche se è possibile concepire, come vedremo in seguito, una morale «laica», di fatto nella storia dell'umanità i codici morali hanno quasi sempre trovato nella religione il loro fondamento, come se fossero gli dei, appartenenti al cosmo sacro, a prescrivere agli uomini come comportarsi nelle varie circostanze della loro vita. Nella tradizione ebraicocristiana, che è poi quella che ha improntato la civiltà nella quale viviamo, è stato Dio stesso a dettare a Mosè sul Monte Sinai le tavole della legge morale fondamentale (il «decalogo»). Ogni religione comporta quindi la presenza di un elemento prescrittivo/normativo: ogni comandamento diventa tanto più vincolante se colui al quale è destinato è animato dalla credenza che non sia qualche autorità terrena, ma un potere sovrannaturale, a prescrivergli come deve comportarsi. Pagina 152
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Vi sono quindi ragioni sufficienti per spiegare l'universalità della religione nelle società umane. Possiamo dire che le religioni soddisfano sia bisogni degli individui che bisogni delle collettività. I modi, tuttavia, attraverso i quali ciò avviene sono i più diversi: le società umane presentano una variabilità enorme di forme, o tipi, di religione. Totemismo Animismo Refigionì universali Monoteismo e politeismo 4. Tipi di religione Vi sono molti criteri in base ai quali è possibile classificare le religioni da un punto di vista sociologico. Un primo criterio riguarda la natura delle credenze fondamentali intorno al mondo e all'Aldilà. Vi sono religioni che postulano semplicemente l'esistenza di forze sovrannaturali impersonali che influenzano positivamente o negativamente le vicende umane, come la credenza nel mana delle Isole della Melanesia, studiate dal grande antropologo Inglese Branislaw Malinowski [19481, oppure il totemismo, studiato da Durkheim [19121, nel quale i credenti riconoscono in un oggetto, in genere un animale o una pianta, l'antenato comune che ha dato origine al loro clan. Altre religioni, chiamate animistiche, credono che dietro gli uomini, le cose, i fenomeni vi siano degli spiriti che intervengono attivamente influenzandone il comportamento. Altre ancora credono nella presenza delle anime dei morti, alle quali sono dedicati culti @articolari. Tutte queste religioni contengono forti elementi di magia e riguardano in genere società semplici, vale a dire scarsamente differenziate, con un numero limitato di membri. L'estrema variabilità di queste credenze dipende proprio dal fatto che si tratta di piccole società che vivono spesso piuttosto isolate le une dalle altre e che sviluppano quindi dei culti «locali». Molto diverse sono invece le grandi religioni «universali», cioè quelle religioni che unificano mediante credenze comuni masse enormi di uomini, spesso appartenenti a una pluralità di società. Tra queste si collocano le religioni che credono nell'esistenza di una (monoteismo) o di più divinità (politeismo). La divinità è oggetto di adorazione da parte dei fedeli, i quali riconoscono in essa tutti quegli attributi di cui essi sono privi (perfezione, onnipotenza, onniscienza). La divinità è un'entità superiore alla realtà naturale ed umana; tra il mondo degli dei e il mondo degli uomini e delle cose esiste una eterogeneità di principio e un ordinamento gerarchico di superiorità/inferiorità. Nelle religioni politeiste, tuttavia, il mondo degli dei è anch'esso differenziato e, quasi sempre, gerarchizzato. Vi è un dio superiore, come Giove che è al vertice della gerarchia degli dei dell'Olimpo nella mitologia greca classica, ma la sua superiorità non è garantita una volta per tutte, deve, per così dire, essere continuamente riaffermata e confermata. Nelle religioni politeistiche gli dei vengono concepiti come potenze eternamente in lotta tra loro e in concorrenza per la devozione da parte degli uomini. Nonostante la loro inconfondibile superiorità rispetto agli uomini, ad essi vengono attribuiti sentimenti e aspirazioni quasi umane: la dinamica dei rapporti tra gli dei riflette su un piano più elevato la dinamica dei rapporti tra gli esseri umani. Essi si collocano su un piano trascendente rispetto al mondo umano, ma si tratta di una trascendenza relativa e non assoluta. Tra i due mondi, a divino e l'umano, vi sono analogie e corrispondenze. Si può parlare in proposito di divinità di funzione, poiché assai spesso le singole divinità presiedono alle varie attività umane: vi è così il dio della semina e del raccolto, il dio della navigazione, il dio della guerra, il dio della fecondità e altri ancora. Tra le grandi religioni del mondo attuale, l'induismo è quella che si avvicina di più al modello di una religione politeistica. Nelle religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) l'eterogeneità tra divino e umano raggiunge invece il grado più elevato: Dio è unico, onnipotente, creatore del cielo, della terra e del genere umano, la causa prima e l'origine di tutte le cose, la sua potenza (per il credente) non può essere messa in discussione dalla concorrenza di altri dei e chi adora altri dei al di fuori dell'unico vero dio commette un atto di idolatria. Anche nelle religioni monoteistiche, tuttavia, il carattere unitario e trascendente della divinità può essere più o meno accentuato. Nel cristianesimo, ad esempio, il dogma della Trinità afferma che dio è uno e trino (Padre, Figlio e Spirito Santo) e, nella variante cattolica del cristianesimo, accanto al culto della Pagina 153
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt divinità, sono praticati anche il culto della Madonna e dei santi, attenuando così il rigido monoteismo. La credenza nella divinità e il concetto stesso di divinità non sono elementi comuni a tutte le religioni. Vi sono religioni, prima fra tutte il buddismo, che non postulano l'esistenza di vere e proprie divinità collocate in un aldilà, ma di una sfera dove regna quiete e armonia, verso la quale è possibile elevarsi mediante pratiche di contemplazione, contrapposta alla sfera mondana dominata dalla turbolenza e dal disordine. Queste religioni sono anche dette cosmocentriche, cioè fondate sulla credenza di un'armonia universale ultraterrena, per contrapporle alle religioni teocentriche, vale a dire fondate sulla credenza in un aldilà dominato dalla presenza della divinità. Vi sono anche altri criteri in base ai quali classificare le religioni da un punto di vista sociologico. Se seguiamo Max Weber [19201, che tra i classici della sociologia è stato senza dubbio il maggiore studioso delle grandi religioni mondiali, almeno altri due criteri risultano di grande rilevanza: il tipo di promessa e di premio che viene riservato ai fedeli e il tipo di metodica di comportamento che garantisce la salvezza. In base al primo di questi criteri, abbiamo religioni la cui promessa consiste nella possibilità di raggiungere uno stato di beatitudine e di pienezza durante la vita o, come nell'induismo, mediante successive reincarnazioni, oppure, al contrario religioni che promettono il riscatto e la redenzione dalle pene terrene soltanto nell'aldilà. Queste ultime si chiamano appunto «religioni della redenzione». Dal punto di vista delle metodiche di comportamento, abbiamo religioni che prescrivono pratiche mistiche e contemplative di distacco dal mondo, mentre altre al contrario prescrivono una condotta ascetica di vita al di fuori, oppure all'interno del mondo. Per quanto riguarda le prime, l'ideale religioso è rappresentato da un atteggiamento di Divinità di ffinzione Religioni cosmocentriche e teocentriche Religioni della redenzione cristianesinio induismo i RE cattofico-rornanam buddismo protestante refigioni cinesi u7,7ti ortodossa scintoismo e buddismo islarn ebraismo @ t, sunnita religioni tribali e sciamaniste shia religioni indifferenziate ATLANTICO 6@ OCEANO INDIANO T10x041c80" CIRCOLO ANTARTICO FIG. 10.2. Le religionì del mondo. Fonte: Ferrato [1995, 298-299] LA RELIGIONE 271 rifiuto del mondo, poiché soltanto staccandosi dalla corruttibilità e Misticismo caducità delle cose terrene, l'uomo può essere in grado di ricevere la 'e Ucete~ grazia, di mettersi in sintonia con l'armonia divina del cosmo, di farsi contenitore della rivelazione divina. L'ascesi, al contrario, comporta un atteggiamento attivo in cui l'uomo si fa strumento, e non semplicemente contenitore, della volontà divina. In molte religioni questi vari modi di atteggiarsi e comportarsi nei confronti del mondo e dell'aldilà sono presenti in combinazioni diverse, ma uno di essi tende a prevalere a seconda del particolare contesto storico e sociale. Così, il monaco buddista che vive in meditazione, isolato dal mondo, è un tipico esempio di orientamento mistico extramondano, mentre il monaco benedettino che coltiva con metodi razionali le terre del convento è tipico di una forma di ascesi Pagina 154
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt extramondana. E «letterato» confuciano che amministra saggiamente, seguendo le prescrizioni rituali tradizionali, gli affari del mondo è un esempio tipico di mistica mondana, mentre l'imprenditore puritano che gestisce la sua impresa in vista di un profitto astratto con la convinzione di realizzare la volontà di dio è il tipico rappresentante di un orientamento ascetico -mondano. Molte religioni contengono una «promessa di redenzione» in que- RedmAonel. sto mondo o nell'aldilà, vale a dire una promessa di liberazione dalla sofferenza e dall'ingiustizia. In particolare, le religioni profetiche e le religioni del salvatore (caso tipico il cristianesimo) sono vissute - come dice Max Weber - in un rapporto di tensione nei confronti del mondo e dei suoi ordinamenti. La sfera religiosa tende in questo caso a contrapporsi alle altre sfere «secolari»: alla famiglia, all'economia, alla politica, all'arte, all'eros e alla scienza. 5. Movimenti e istituzioni religiose Finora abbiamo visto le religioni soprattutto come sistemi di idee, cioè di credenze relative al sacro e al profano, dalle quali derivano principi di condotta rivolti ai fedeli. Le religioni, tuttavia, non sono soltanto sistemi di idee; le idee, per diventare socialmente operanti, devono essere sostenute da uomini in carne ed ossa che agiscono nell'ambito di gruppi più o meno organizzati, più o meno istituzionalizzati. Anche nelle religioni delle società più semplici compare quasi sempre una figura (mago, stregone, sacerdote) che si pone su un piano diverso da quello del resto dei credenti e alla quale è affidato professionalmente il compito di fare da intermediario tra gli uomini e le potenze sovrannaturali. La celebrazione di riti e culti, vale a dire la cura degli atti liturgici che segnano il passaggio e la mediazione tra sacro e profano diventa una funzione sociale specializzata affidata a personale specializzato. P- una prima forma di divisione del lavoro; 272 CAPITOLO 10 Clero Organizzazioni religiose Conversione Carisma data l'importanza sociale della funzione svolta, il ministro del culto è infatti esentato dal provvedere direttamente ai suoi bisogni materiali e vive perlopìù delle offerte dei fedeli. Si forma così un ceto sacerdotale (il clero) che opera nell'ambito di organizzazioni molto variabili nella loro forma. La storia delle religioni può essere scritta come storia delle organizzazioni religiose e di queste esiste una casistica pressoché infinita. Noi ci soffermeremo soltanto su alcune forme tipiche che sono più rilevanti nell'ambito della tradizione ebraico- cristiana: i movimenti religiosi, le chiese, gli ordini monastici, le sette e le denominazioni. Il movimento religioso è la forma più fluida di organizzazione religiosa. Esso nasce quando in una società maturano le condizioni per una rottura delle credenze religiose tradizionali. All'origine di un movimento religioso vi è infatti quasi sempre una profezia e un profeta che «rivela» agli uomini, che sono diventati sordi, la parola e la volontà di dio; il profeta è quindi uno strumento mediante il quale dio fa sentire la sua voce agli uomini. La fede tradizionale impedisce agli uomini di raggiungere la verità, di ascoltare la voce di dio, li fa persistere nell'errore ed adorare false divinità; ogni profezia inizia idealmente con le parole «sta scritto, ma io vi dico>@, cioè con la rottura di un'ortodossia. Intorno al profeta si raccoglie un seguito, una comunità di fedeli che crede nelle virtù eccezionali del proprio capo, nella sua facoltà straordinaria di ricevere direttamente la volontà di dio. Essi abbandonano la loro famiglia, i loro averi, sfidano i poteri religiosi e politici costituiti, vivono collettivamente la testimonianza della loro fede e fronteggiano insieme l'ostilità o l'indifferenza degli infedeli. Un movimento religioso nasce e si diffonde perché i suoi membri passano attraverso un'esperienza fondamentale, l'esperienza della conversione. La conversione rappresenta una cesura, una svolta, nella vita di un individuo; egli vive una grande trasformazione che fa sì che egli non sia più quello che era prima. Dalla conversione nasce un uomo nuovo, che ha tagliato i ponti con A proprio passato e abbandonato le credenze che gli erano state trasmesse, come se improvvisamente si fosse accesa una luce che gli permette di vedere quello che prima gli sembrava oscuro, opaco o indifferente. Questa esperienza straordinaria non è tuttavia puramente individuale, ma collettiva. In epoca moderna il movimento religioso più importante neH'ambito del cristianesimo è stato senza Pagina 155
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dubbio la Riforma protestante che ha dato luogo alla formazione di varie sette e denominazioni. Su questo punto torneremo in seguito parlando appunto di queste forme di organizzazione religiosa. Abbiamo detto che il movimento religioso è una forma fluida di organizzazione; si tratta infatti di un'organizzazione allo stato nascente, tutta incentrata sul rapporto carismatico tra il capo e i suoi seguaci, sulla solidarietà e sulla fratellanza che si viene a creare tra i membri del gruppo. Come ha magistralmente illustrato Max Weber [19201, si tratta di una forma sociale molto instabile, legata alla natura squisitamente personale del vincolo che unisce il capo religioso ai seguaci e i seguaci tra di loro. Per poter sopravvivere alle persone che gli hanno dato vita un movimento religioso deve affrontare una serie di problemi: la successione del capo, la diffusione della fede, la definizione di regole di organizzazione slegate dalle persone dei primi seguaci, la trasmissione del credo alle nuove generazioni. Il problema della successione è forse il più difficile da affrontare: la fedeltà e la fiducia del tutto personali che i seguaci riponevano nel capo deve ora essere trasferita al o ai suoi successori, ma perché ciò possa verificarsi il rapporto stesso deve trasformarsi in una direzione di maggiore impersonalità. Non è più la persona del capo che deve generare fedeltà e fiducia, ma le sue idee e la sua dottrina, delle quali i successori devono diventare interpreti fedeli. Il gruppo, inoltre, deve essere in grado di allargarsi al di là della cerchia ristretta dei primi seguaci; questi devono disperdersi, allontanarsi l'uno dall'altro senza perdere il vincolo di solidarietà che li unisce, e diventare predicatori per provocare in altri la stessa esperienza di conversione che ha segnato la loro biografia. Per mantenere l'unità in condizioni di dispersione spaziale, è necessario che si formi un'organizzazione permanente, che si fissino occasioni di incontri periodici, che si stabilisca una gerarchia capace di tenere le fila di un gruppo più ampio e disperso. Infine, il gruppo deve essere in grado di riprodursi non più soltanto provocando nuove conversioni, ma trasmettendo alle nuove generazioni, ai figli e alle figlie dei convertiti, i fondamenti della propria fede. In breve, il movimento deve trasformarsi in chiesa attraverso un Chiesa processo di istituzionalizzazione delle credenze e delle pratiche religiose. Prima di tutto, le credenze devono venire sistematizzate, consolidate in un corpo organico di dottrina e codificate in un testo scritto che valga come legge fondamentale del gruppo dei credenti e come strumento di trasmissione della fede. In quasi tutte le religioni vi sono dei testi «sacri» nei quali sono fissate le credenze e le prescrizioni di condotta fondamentali e la cui interpretazione «autentica» è demandata ad un gruppo di specialisti (i teologi) particolarmente addestrato e qualificato. Ma anche le pratiche religiose vengono sistematizzate, spersonalizzate, sottratte il più possibile all'arbitrio individuale e alla specificità dei tempi e dei luoghi. Le pratiche rituali assumono così un carattere di universalità, stabilità e astrattezza e nel loro insieme vengono a costituire una liturgia alla quale presiede un corpo di specialisti (il clero) organizzato in un ordine rigorosamente gerarchico. Quando la religione assume la forma organizzativa della chiesa, si genera inevitabilmente una differenziazione interna tra un ceto sacerdotale e la Ceto sacerdotale massa dei credenti, tra chi dispensa e chi riceve beni di salvezza. Da un punto di vista sociologico assumono quindi grande rilevanza le modalità mediante le quali il ceto sacerdotale viene reclutato dalla massa dei credenti, i meccanismi di selezione iniziale e di accesso ai vari livelli gerarchici, le regole che vengono messe in atto per assicurare continuità all'organizzazione e per garantire la «fedeltà» al messaggio originario. Mentre un movimento religioso si sviluppa sempre in un rapporto di tensione, se non di conflitto, con le idee e i poteri dominanti del mondo esterno, una chiesa, per poter sussistere, deve trovare qualche forma di accomodamento con il contesto economico, sociale e politico in cui opera. Una chiesa, infatti, per poter svolgere la sua funzione principale, che è quella di dispensare beni di salvezza ai propri membri, diventa immancabilmente soggetto di interessi secolari: deve reperire e amministrare risorse economiche, deve assicurarsi che i propri ministri e fedeli possano celebrare liberamente i culti, deve proteggere e rafforzare la propria organizzazione in concorrenza con altre potenze secolari, in particolare con lo stato. Chiesa e stato sono due istituzioni che avanzano pretese di fedeltà da parte della stessa massa di persone, che in un caso si presentano come fedeli e nell'altro caso come sudditi o cittadini. Il rapporto tra chiesa e stato può quindi svilupparsi in termini di aperto conflitto (in questo caso, ma non necessariamente, è la chiesa ad essere Pagina 156
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt «perseguitata» dallo stato), oppure, più frequentemente, di sostegno reciproco, attraverso una sorta di alleanza tra poteri secolari e poteri religiosi. Quale delle due polarità, o delle infinite soluzioni intermedie, tenda a prevalere, può essere accertato soltanto da un'analisi delle singole situazioni storicamente determinate. Non è infrequente che nell'ambito di una chiesa, più spesso ai margini della sua organizzazione, si sviluppino movimenti religiosi che si oppongono, in modo latente o manifesto, per ragioni dottrinarie o politiche, all'ordinamento religioso rappresentato dalla gerarchia ecclesiastica. Tali movimenti possono condurre a vere e proprie fratture scismatiche che portano alla separazione dalla chiesa di intere regioni con le loro popolazioni e alla creazione di nuove chiese separate (ad esempio, lo scisma della chiesa orientale e della chiesa anglicana dalla chiesa di Roma). In altri casi, tali movimenti possono rivendicare un ritorno alle origini. Agli occhi dei loro sostenitori, la chiesa, nel tentativo di adattarsi al mondo e di venire a patti coi poteri secolari, ha tradito l'insegnamento originario e abbandonato i principi di condotta dei padri fondatori. Oppure, ancora, la chiesa non sembra più capace di rispondere ai bisogni religiosi delle masse, o di gruppi, ceti e classi sociali emergenti, la cui esperienza religiosa stenta a riconoscersi nelle pratiche consolidate dell'ortodossia ufficiale. In genere sorgono dispute dottrinarie sull'interpretazione autentica del messaggio divino (quindi sull'interpretazione dei testi sacri), si denuncia la corruzione dei costumi da parte dei ministri della chiesa e la perdita di autentico significato religioso delle pratiche liturgiche. La storia della chiesa cattolica è costellata dalla comparsa di movimenti religiosi che sono stati dichiarati eretici e quindi duramente combattuti e repressi, spesso efficacemente, con ogni possibile mezzo, dottrinario, giuridico -politico (ad esempio, attraverso l'istituzione dei tribunali dell'Inquisizione) ed anche militare. Non sempre tuttavia la risposta della chiesa alla comparsa di movimenti religiosi è stata una risposta repressiva. Gli ordini monastici, ad esempio, hanno spesso avuto origine da movimenti religiosi di tipo carismatico che contenevano potenzialmente una forte carica critica nei confronti dell'ortodossia ufficiale. Essi, tuttavia, non sono stati posti al di fuori dell'ortodossia, e quindi combattuti come eretici, ma è stata riconosciuta la loro legittimità nell'ambito di una struttura ecclesiastica più differenziata e flessibile che consente ad essi un grado anche elevato di autonomia dalla gerarchia ecclesiastica. Gli ordini monastici rappresentano un tipo di comunità religiosa separata dalla massa dei fedeli di una chiesa, ad essi si appartiene per scelta attraverso un atto di, almeno parziale, rifiuto del mondo (da cui, ad esempio, i voti di castità, povertà e obbedienza) e di dedizione a un ideale di perfezione di vita religiosa. Max Weber parla in proposito di una «religiosità di virtuosi», cioè di un ideale di condotta di vita non accessibile alla massa dei credenti laici. Da questo punto di vista vi sono senz'altro analogie tra il monachesimo della tradizione cristiana e quello delle religioni orientali, in particolare del buddismo. L'esito di un movimento religioso, sia esso ereticale oppure no, è però assai spesso la formazione di una setta. Una setta si differenzia da una chiesa soprattutto per il fatto che, mentre ad una chiesa si appartiene in genere per nascita, l'appartenenza ad una setta presuppone un atto di adesione individuale. La setta è una comunità religiosa tendenzialmente ristretta, se non chiusa, tra i cui membri si stabiliscono legami assai forti di fratellanza e di fiducia e che vive in un contesto sociale formato da appartenenti ad altre religioni o confessioni. 1 seguaci di una setta non tendono generalmente a fare proseliti, se non in misura limitata; per essi conta di più la qualità e la forza della convinzione che non l'espansione quantitativa del gruppo. 1 nuovi adepti, infatti, devono soprattutto dar prova dell'autenticità della loro fede prima di essere accolti a pieno titolo come membri della comunità. Anche le sette passano attraverso un processo di istituzionalizzazione e si trasformano quindi in denominazioni alle quali di nuovo, come per le chiese, si appartiene più per nascita che per un atto di adesione individuale. Tra chiese e denominazioni vi è un'affinità di fondo, con la differenza, peraltro decisiva, che mentre le chiese tendono ad essere le organizzazioni religiose dominanti nell'ambito di singole società, le denominazioni rispecchiano invece una situazione di pluralismo religioso. Il caso più tipico di organizzazione religiosa per denominazioni è quello degli Stati Uniti d'America, dove un numero assai elevato di chiese e di denominazioni convivono le une accanto alle altre in un rapporto di moderata concorrenza e in un clima di generale tolleranza. Pagina 157
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Tra diverse religioni, movimenti, chiese, sette o denominazioni, la storia ci presenta tuttavia più frequentemente un quadro di lotte, piuttosto che un quadro di tolleranza e di Pacifica convivenza. La storia delle guerre di religione si intreccia con la storia del mondo, e soprattutto dell'Europa, nell'arco dell'ultimo millennio, fino ai casi recenti dell'Irlanda, del Libano, di Israele e dei paesi della «rivoluzione» islamica. Bisogna dire però che mai una guerra è esclusivamente una Guerre guerra di religione: interessi politici (economici, sociali e militari) si di religione intrecciano e, spesso, si nascondono dietro gli interessi squisitamente religiosi, cosicché quella che appare come guerra di religione risulta frequentemente essere un conflitto tra gruppi sociali (nazioni, ceti, classi, oligarchie) in lotta per il potere. Sappiamo bene, ad esempio, che le spedizioni militari dei signori feudali che vanno sotto il nome di Crociate non avevano soltanto lo scopo di liberare A sepolcro di Cristo dalle armi degli infedeli, ma anche - o forse soprattutto - quello di avviare importanti correnti di traffici mercantili con l'Oriente e di dirigere verso l'esterno le tensioni e i conflitti che si erano sviluppati sia all'interno della nobiltà, sia tra nobili e contadini nelle regioni centrali dell'Europa feudale. Del resto, nell'Europa della Riforma e della Controriforma si affermò il principio cuiUs regio, eiUs religio, vale a dire che un popolo assumeva la religione del signore del quale era suddito, in modo tale che i confini delle varie confessioni religiose finivano per coincidere con i confini degli stati territoriali. 1 moventi e gli interessi religiosi risultano quindi inestricabilmente connessi, e spesso subordinati, a motivi e interessi secolari di tutt'altra natura. Anche le guerre dell'espansione coloniale europea furono quasi sempre intraprese dichiarando lo scopo di portare la «vera» fede alle popolazioni degli altri continenti che adoravano «false» divinità. L'esercito dei conquistatori veniva immancabilmente accompagnato da un esercito di missionari vogliosi di convertire, con ogni possibile mezzo, non esclusa la forza, i pagani e gli infedeli. Non sempre, però, l'espansione di una fede religiosa avveniva al seguito della conquista coloniale. Se questo era vero in passato, non lo è certo più man mano che ci avviciniamo ai tempi moderni, dove la diffusione di una fede avviene al seguito di missioni umanitarie che portano sollievo alle sofferenze di popolazioni oppresse dalla miseria, dalla malattia e dall'ignoranza. 6. Religione e struttura sociale Le vicende delle religioni e delle organizzazioni religiose sono indissolubilmente intrecciate alle vicende e alle strutture delle società entro le quali si trovano ad operare. La religione è parte della società, ne riflette le caratteristiche, viene influenzata dalle sue dinamiche e, a sua volta, le influenza. Nel paragrafo conclusivo di questo capitolo affronteremo in termini generali il contributo che le diverse teorie socioLA RELIGIONE 277 logiche hanno dato all'analisi del rapporto religione-società. Anche al fine di avviare quella riflessione conclusiva, affronteremo qui un argomento più circoscritto: quale nesso esiste tra la struttura della disugua- Refigione glianza sociale e la religione, intesa come complesso di credenze, di ore disuguaglianza ganizzazionì e di comportamenti? Per rispondere a questa domanda sociale bisognerebbe dar conto dell'enorme variabilità del rapporto: nella storia vi sono state tante religioni e tante società e per ognuna di esse il rapporto si configura in modo specifico. A noi basterà tuttavia individuare alcune linee di fondo. Abbiamo visto che l'esperienza religiosa nasce dal bisogno di dare un senso al mondo e alla propria esistenza; ora è chiaro che questo bisogno è diverso a seconda della posizione che un individuo o gruppo occupa nella società. 1 potenti, i ricchi, coloro che comandano avvertiranno il bisogno di dare un senso al mondo e alla loro esistenza che giustifichi, ai loro occhi e agli occhi degli altri, la loro posizione di dominio, di superiorità o di ricchezza. Non a caso i faraoni dell'antico Egitto e i re della Mesopotamia venivano considerati delle divinità e, in generale, i monarchi di tutti i tempi si ritenevano, e soprattutto lasciavano credere, di essere di origine divina o perlomeno investiti del loro potere direttamente da dio. t innegabile che i poteri costituiti, di qualsiasi natura, ricevano un formidabile sostegno quando la loro posizione viene sanzionata dall'autorità religiosa; non solo i sudditi sono più disposti ad obbedire ad un potere che emana da una fonte divina, ma gli stessi detentori del potere risultano assai più sicuri e consapevoli della propria dignità e legittimità: «Il fortunato - scrive Weber [1920, trad. it. 1976, 1, 23 11 - raramente si accontenta del fatto di possedere la fortuna. Egli prova Pagina 158
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt inoltre il bisogno di averne anche il diritto». Le religioni, soprattutto quando diventano religioni ufficiali di uno stato o di un regime politico, hanno senza dubbio assai spesso svolto la funzione di fonti di leffittimazione del potere, sia questo il potere personale di un uomo, di un'oligarchia, di un ceto, di una classe o di un ordinamento istituzionale. Sarebbe riduttivo, tuttavia, pensare alla religione soltanto come instrumentum regni. 1 bisogni religiosi dei detentori di potere non sono gli stessi di quelli di altri gruppi e classi. Il cristianesimo delle origini fu una religione di apprendisti artigiani ambulanti che popolavano le città dell'Impero romano. Le religioni profetiche, e senz'altro il cristianesimo fu una di queste, annunciano in genere il riscatto degli umili e degli oppressi; una religione che predica che «gli ultimi saranno i primi» (sia pure soltanto nell'aldilà) contiene un evidente messaggio sovversivo che difficilmente può essere ben accolto dai potenti della terra. Credenze, pratiche e organizzazioni religiose sono senz'altro connesse alla struttura dei rapporti tra classi, ceti e gruppi sociali, il nesso tuttavia non è di puro rispecchiamento e si configura in modo diverso a seconda dei contesti. Se prendiamo ad esempio una società come quella nordamericana, caratterizzata da un forte pluralismo religioso, vediamo come molto spesso alle varie chiese e denominazioni corrispondano gruppi sociali ben definiti a seconda della loro collocazione sociale e origine etnica; in questo caso la confessione religiosa diventa uno degli aspetti mediante ì quali si definisce l'identità sociale e la coesione del gruppo. In una società come quella italiana, invece, dove esiste una sola religione dominante rappresentata dalla chiesa cattolica, le differenze sociali si esprimono in varianti della stessa pratica religiosa. Chiesa.eatt01ica La chiesa cattolica è un buon esempio di organizzazione differenziata e, per certi versi, flessibile. Le sue organizzazioni periferiche (parrocchie, diocesi, vescovadi) sono prossime alle realtà sociali del quartiere o del paese in cui operano e riflettono quindi la cultura locale della popolazione dei fedeli. Inoltre, vi è spesso omogeneità sociale tra i rappresentanti del clero (i preti) e i fedeli di una parrocchia; la chiesa ha infatti reclutato il proprio personale da vari strati sociali, anche se i meccanismi di reclutamento e di socializzazione variano molto da un'epoca storica all'altra. Nella chiesa medievale le alte gerarchie ecclesiastiche erano quasi sempre di origine aristocratica, tra vescovi e nobili vi era una stretta continuità di ceto, mentre il basso clero era assai vicino ai ceti proletari urbani o contadini. Eppure, la chiesa è sempre stata, sia pure in misura variabile da epoca a epoca, un canale di mobilità sociale. In poche organizzazioni sociali è possibile pensare che il. figlio di un contadino possa raggiungere i vertici della gerarchia, ma, come tutti si ricordano, questo è stato proprio il caso di papa Giovanni XXIII. Talvolta, come nel caso del movimento dei «preti operai» negli anni cinquanta, il luogo dell'attività pastorale è stato spostato al di fuori defia chiesa in senso stretto nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro: per poter essere vicini agli operai, i preti dovevano dimostrare di essere come loro, di condividere la loro esistenza e le loro sofferenze. Nell'ambito della stessa chiesa si esprimono quindi varie forme dì religiosità, tra loro spesso anche molto diverse, dai «voti» fatti alla Madonna e ai santi per ottenere benefici o protezione, alle feste del Santo patrono, agli «esercizi» e ai «ritiri» spirituali che costituiscono pratiche religiose ad elevato contenuto inteflettualistico. L'organizzazione della chiesa, inoltre, non è solo territoriale ma anche «funzionale»: vi sono università, scuole, associazioni professionali, associazioni caritatevoli e assistenziali di volontariato, associazioni ricreative, associazionì culturafi, ecc. che rientrano tutte nel panorama assai differenziato del «mondo cattolico» nel quale si esprimono forme e gradi diversi di religiosità che coinvolgono, oltre al clero, fasce consistenti di fedeli «laici». L'organizzazione religiosa si intreccia quindi nel tessuto dell'organizzazione sociale, combinando interessi religiosi e interessi secolari, in un rapporto che è sia di concorrenza, sia di complementarità, sia di sussidiarità rispetto ai servizi pubblici, come avviene, ad esempio, nel campo delle istituzioni educative e assistenziali. Ciò non si 'verifica soltanto in Italia e nei paesi di religione cattolica. Anche in molte regioni della Germania, ad esempio, l'educazione dell'infanzia (scuole materne) e vari servizi assistenziali sono di fatto delegati dallo stato alle organizzazioni religiose, sia cattoliche che protestanti. 7. Il processo di secolarizzazione Pagina 159
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Il fatto che, anche nelle società contemporanee, si riscontri un notevole, anche se variabile, grado di compenetrazione tra religione e struttura sociale e tra organizzazione religiosa e organizzazione sociale non deve tuttavia trarre in inganno. Il posto della religione risulta nelle società moderne tutto sommato ridotto rispetto alle società del passato. Esse si collocano infatti ad uno stadio avanzato di un processo che Proc~ ha radici assai remote e che viene comunemente indicato col termine di di processo di secolarizzazione. Alle origini di questo processo vi sono le stesse religioni che, come il cristianesimo, collocano il sacro e il divino su un piano trascendente, in una sfera nettamente «altra» rispetto al mondo e alle cose terrene. Questa assoluta trascendenza del sacro ha conseguenze molto importanti perché libera tendenzialmente la religione da ogni contaminazione con la magia e consente di sviluppare un orientamento laico, pragmatico e potenzialmente razionale nei confronti della realtà terrena: il mondo risulta composto da uomini e cose concrete e tangibili e non più da spiriti benevoli o vendicativi. Una religione di questo tipo è però soltanto una premessa, una precondizione, perché possa avviarsi il processo di secolarizzazione. Per secoli e secoli la vita sociale e politica, così come l'esistenza quotidiana degli individui è rimasta intrisa di elementi religiosi. Non solo monaci e sacerdoti, ma anche uomini e donne comuni scandivano le attività della giornata con momenti di preghiera e di devozione e quasi ogni evento o azione assumeva significati religiosi. Non solo gli eventi salienti della vita, come nascite, matrimoni e morti, erano segnati invariabilmente da cerimonie religiose, ma anche quando ci si metteva a tavola si rivolgeva una preghiera di ringraziamento a Dio per il pane quotidiano, oppure quando ci si coricava si recitavano, in gruppo o singolarmente, le preghiere della sera. Tutto ciò non è evidentemente scomparso anche ai giorni nostri, ma queste pratiche sono tuttavia diventate meno frequenti, anche se, come si vede dai dati riportati nella tab. 10.1 tratti da un'indagine recente [Garelli e Offi 19961, vi è una grande variabilità da paese a paese. Anche se la grande maggioranza della popolazione (in Italia, circa il 90%) dichiara di credere in Dio, di avere cioè una fede religiosa, coloro che frequentano regolarmente i riti religiosi sono molto meno numerosi (sempre in Italia, la frequenza alla messa domenicale oscilla tra TAB. 10. 1. Frequenza di partecipazione airiti religiosi in alcuni paesi Gran Stati Olanda Italia Germania Polonia Bretagna Uniti occidentale Mai 36,3 13,5 54,1 12,5 21,3 3,1 1-2 volte all'anno o meno 34,0 23,1 - 21,3 32,8 8,3 Ogni tanto 12,9 19,9 24,6 17,2 31,2 21,3 2-3 volte al mese 6,7 14,9 5,6 16,9 - 29,0 Ogni settimana 10,1 28,6 15,7 32,1 14,7 38,3 Fonte: Garefli e Offi [1996, 2551. il 30 e il 40% della popolazione) Le stesse festività religiose tendono ad assumere sempre più connotati mondani, si trasformano in occasioni per viaggi e vacanze, per fare e ricevere regali. Un esempio molto illuminante dell'operare del processo di secolarizzazione lo si riscontra nel significato del lavoro. Nella tradizione religiosa ebraico cristiana la concezione del lavoro contiene elementi tra loro anche fortemente contrastanti: si va dalla dannazione biblica del lavoro come pena e fatica, punizione del peccato originale Wavorerai col sudore della fronte»), alla valorizzazione del lavoro nell'etica protestante come strumento di realizzazione della volontà divina, che assegna ad ogni uomo un compito specifico. Come abbiamo visto nel cap. II, Max Weber ha messo bene in luce come la concezione del lavoro come «vocazione» (Beruf, cioè «chiamata» divina) sia risultata un fattore fondamentale nell'orientare gli individui verso un'attività operosa e sistematica, indispensabile alla nascita di un'economia capitalistica. Al giorno d'oggi, tuttavia, sembra che questi motivi religiosi abbiano perso largamente la loro efficacia: gli uomini e le donne lavorano per guadagnarsi da vivere o per autorealizzarsi, senza nella maggior parte dei casi attribuire al loro agire nella sfera lavorativa un significato religioso. Anche la sfera delle attività e delle istituzioni politiche si è col tempo resa consistentemente autonoma dalla religione. t passato molto tempo da quando i re venivano incoronati dal papa e da quando la nomina dei vescovi doveva ottenere il consenso del potere politico. t vero che in molti paesi, tra cui l'Italia, vi sono partiti e movimenti che si ispirano a principi e valori religiosi e che sono appoggiati da organizzazioni ecclesiastiche e che vi sono molteplici interferenze tra potere politico e poteri ecclesiastici, ma il rapporto è comunque problematico. Il principio «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio Pagina 160
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt ciò che è di Dio», oppure il principio più moderno «libera chiesa in libero stato» sono comunque largamente adottati come linee guida per definire i rapporti tra sfera religiosa e sfera politica. Dall'indagine prima citata, risulta che anche in Italia, dove per mezzo secolo ha governato un partito di ispirazione cattolica, la Democrazia cristiana, più del 70% del campione intervistato ritiene che le autorità religiose non debbano influenzare le decisioni del governo [Garelli e Offi 1996, 911. Soprattutto, ma non solo, nei paesi dove domina il pluralismo religioso, la religiosità tende sempre più a diventare una questione privata dei credenti che certo influenza i loro comportamenti, e quindi anche i loro comportamenti politici, ma che tuttavia rimane confinata in una sfera privato/pubblica perlopiù separata dalla sfera politica. In quest'ultima dominano i rapporti di forza e di interesse tra gruppi, ceti e classi in un ambito relativamente autonomo e separato rispetto alle credenze religiose. Nel processo di secolarizzazione lo sviluppo della scienza moderna ha senza dubbio svolto un ruolo decisivo. Scienza e religione si sono spesso trovate a combattere su fronti opposti; la scienza, e gli scienziati, hanno spesso eroso credenze tradizionali che erano diventate oggetto di tutela da parte di qualche religione e organizzazione ecclesiastica. Emblematico del conflitto tra fede e scienza resta il processo intentato dal Santo Uffizio (una sorta di tribunale istituito per combattere le idee eretiche) contro Galileo Gafflei, reo di sostenere, contraddicendo l'interpretazione canonica delle sacre scritture, la tesi «rivoluzionaria» che la terra è una sfera che ruota intorno al sole. 1 prodigiosi sviluppi della scienza nei secoli XVII e XVIII hanno alimentato l'idea illuministica che la ragione e la scienza avrebbero alla fine svelato tutti i misteri dell'universo e relegato la religione nell'ambito della pura superstizione. Oggi, anche se la scienza continua a produrre continue scoperte in tutti i campi del sapere, non vi è più una fiducia così sicura nei suoi illimitati poteri. t pur sempre vero che tra gli scienziati (rispetto ad altri gruppi sociali) troviamo la percentuale più elevata di persone che si dichiarano atee, ma vi sono anche molti scienziati che credono in Dio e che non ritengono che la scienza sia in grado di rispondere adeguatamente a tutti gli interrogativi che gli uomini si pongono sul significato del mondo, della vita e della morte, del bene e del male. Scienza e religione sembrano quindi convivere in un rapporto di non belligeranza anche se storicamente si sono poste talvolta in antitesi [Ardigò e Garelli 19821. In certe fasi storiche, inoltre, sembra quasi che le religioni vengano - per così dire - sostituite da altre fedi, da altri credi, di tipo secolare e politico che, come le religioni, svolgono la funzione di fornire nello stesso tempo delle visioni unitarie del mondo e delle mete chiare e semplici verso le quali orientare l'azione individuale e collettiva. 1 secoli XIX e XX hanno visto il sorgere di grandi ideologie - prima fra tutte il marxismo - le quali hanno dato luogo alla formazione di «sette», di movimenti, di partiti, di istituzioni e di schiere di specialisti della «corretta» interpretazione dei «testi fondamentali». Non è da escludere che il declino di queste «religioni secolarì» lasci il campo alla formazione di nuove religioni, di nuovi culti e di nuove sette. Non sembra infatti che il processo di secolarizzazione sia un processo unilineare e irreversibile che procede parallelamente al processo di modernizzazione. La società nordamericana, che per certi versi appare la più moderna del mondo attuale, è senz'altro meno secolarizzata rispetto alle società del continente europeo. E gran numero di denominazioni, chiese e sette e la notevole diffusione delle pratiche religiose nella società americana costituisce un enigma difficile da spiegare per tutti coloro che sostengono l'inarrestabile declino della religiosità nel mondo moderno. Non sembra comunque che il processo di secolarizzazione conduca tendenzialmente alla graduale estinzione della religione e della rehgiosità nel mondo moderno. Conduce piuttosto ad una crescente specializzazione della religione che si costituisce come sfera relativamente autonoma accanto ad altre sfere, anch'esse relativamente autonome. Vi saranno sempre individui più religiosi ed altri meno o affatto religiosi, ma, soprattutto, la religione occuperà nell'insieme composito che costituisce l'identità di ogni singola persona una parte, più o meno grande, ma comunque limitata. 8. Le interpretazioni sociologiche della religione La sociologia, lo abbiamo visto analizzando i vari aspetti del fenomeno religioso, tratta la religione come un «fatto» sociale, riconducibile quindi ad una spiegazione/interpretazione in termini di altri «fatti» sociali. La Pagina 161
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt sociologia non può dire nulla sulla «verità» delle credenze religiose. Per la sociologia la religione deve essere considerata un «fatto» terreno (anche se ha per oggetto entità ultraterrene): il problema della «verità» delle credenze religiose non è un problema che possa essere affrontato con gli strumenti della ricerca scientifica. Questo approccio «terreno» appare evidente nelle principali interpretazioni sociologiche della religione che possiamo raggruppare in cinque tipi: Interpretazione 1) Le interpretazioni in chiave evoluzionista della sociologia posievohnaonista tivista dell'Ottocento. Nell'ambito di questo filone interpretativo, le cui origini risalgono al pensiero degli illuministi, la religione occupa uno stadio primitivo nell'evoluzione delle società umane. Nella sua opera maggiore, il Corso difilosofia positiva (1830-1842), A. Comte individua tre stadi nello sviluppo delle società umane le quali progrediscono da uno stadio teologico ad uno metafisico per giungere infine allo stadio positivo dell'epoca moderna. La religione domina quindi nel primo stadio, dove gli uomini sono ancora preda di una concezione antropomorfica che vede le divinità come entità dalle caratteristiche simili a quelle umane, ma potenziate al massimo grado. Anche per Herbert Spencer (1820-1903) la religione è un fenomeno che compare nelle società più arcaiche che egli chiama «società militari» in quanto in esse vige un rigido principio gerarchico al quale la religione offre un fondamento di legittimazione. Nella società industriale, che nel processo di evoluzione sociale succede alla società militare, vige invece un principio democratico fondato sulle capacità e le prestazioni individuali e quindi viene meno, o almeno si riduce di molto, l'esigenza di credenze e norme religiose che impongano il rispetto dell'autorità. Molti altri studiosi rientrano in questa corrente interpretativa; ad essi è comune l'idea che la religione è sostanzialmente destinata ad essere sostituita dalla scienza come criterio fondamentale di orientamento delle azioni e delle società umane. Non c'è dubbio che questa corrente di pensiero riaffiori ancor oggi in coloro che sottolineano come inarrestabile il processo di secolarizzazione che abbiamo visto poco sopra. 2) La religione come ideologia delle classi dominanti. Anche questa corrente interpretativa risale al pensiero degli illuministi; per i quali la religione è un fenomeno che oscura le menti e impedisce di vedere la luce della ragione. Per Voltaire, la religione da un lato inganna i poveri, facendo loro accettare supinamente la loro condizione di subordinazione, ma inganna anche i ricchi ai quali la chiesa estorce elemosine promettendo impunità per i loro peccati. t tuttavia soprattutto con il materialismo dialettico di Marx e dei marxisti che questa interpretazione assume una formulazione teorica consistente. Per Marx, lo vedremo nel prossimo capitolo (X1), la storia è storia di lotta di classe e la religione, spostando neH'aldilà il momento del riscatto dalle sofferenze terrene, ostacola il processo mediante il quale gli oppressi prendono coscienza dei rapporti sociali di dominio dei quali sono vittime. La religione diventa, con l'espressione icastica di Marx, «l'oppio dei popoli» [Marx e Engels 18481, un'ideologia, o «falsa coscienza», che impedisce di cogliere la natura irriffiediabilmente antagonistica dei rapporti tra le classi, una «sovrastruttura» ideologica, quindi, la cui funzione sarebbe esclusivamente quella dì occultare i rapporti di dominio. In questa prospettiva, 9 processo di secolarizzazione non sarebbe altro che il progressivo logoramento di questa sovrastruttura ideologica, l'impossibilità nel lungo periodo di mantenere nascosta la «vera» natura dell'oppressione. t difficile contestare il fatto che le religioni (soprattutto nella forma istituzionalizzata delle chiese) siano state storicamente dei potenti alleati delle classi dominanti al fine di garantire l'ordine sociale e la stabilità dei rapporti di potere e autorità. t legittimo chiedersi, tuttavia, se questa funzione sia la sola capace di spiegare la presenza, e la persistenza, del fenomeno religioso nelle società umane. 3) L'interpretazione funzionalistica. Se per i marxisti la religione sarebbe definitivamente declinata una volta superato lo stadio del dominio e raggiunta una condizione di eguaglianza, sarebbe cioè venuta meno la sua ragion d'essere, per i funzionalisti la religione, pur mutando grandemente nelle forme, svolge una funzione sociale fondamentale in ogni tipo di società. Non è possibile pensare alla società se non a qualcosa di integrato, in cui le varie parti siano tenute insieme da qualche credenza comune, da un vincolo che continuamente si rinnova, soprattutto quando sono minacciate da conflitti interni o esterni. La religione svolge questa fondamentale funzione di integrazione. E se nelle società moderne la religione sembra in declino, è perché altre forme, pur sempre di natura Pagina 162
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt religiosa, hanno preso il suo posto, come il culto della patria, la sacralità delle istituzioni, con il loro apparato rituale e simbolico (la bandiera, la tomba del milite ignoto, il pantbeon degli illustri figli della patria che rappresentano il genio della nazione). Se la religione è un'istituzione universale delle società umane, la sua presenza deve poter essere riscontrata sia nelle società più semplici, sia nelle società degli aborigeni australiani, ha voluto dimostrare come nella religione i membri di una società vogliano rappresentare, su un piano trascendente, il vincolo che h unisce, cioè la società stessa. Ogni atto di culto, ogni cerimonia rituale, diventa così occasione per ribadire, e rafforzare, l'identità collettiva e il sentimento di appartenenza, quella che Durkheim chiama, come abbiamo visto nel cap. II, «solidarietà meccanica». E vero che con la crescente divisione del lavoro e la conseguente più estesa e profonda interdipendenza tra uomini e gruppi sociali, la solidarietà meccanica cede il passo a una diversa forma di solidarietà (la «solidarietà organica»), tuttavia, l'esigenza di integrazione resta e con essa restano forme simboliche di tipo religioso che garantiscono questa integrazione. 4) La religione come fattore di mutamento. Questa interpretazione, lo abbiamo già ripetutamente notato, risale prevalentemente a Max Weber. A differenza di Marx, e anche di Durkheim, Weber non vede la religione come un fenomeno esclusivamente dipendente dai rapporti di dominio (Marx) o dalle esigenze di integrazione della società (Durkheim), ma come un fenomeno dotato di una sua autonomia specifica. t innegabile che molte religioni siano state un fattore di conservazione dell'ordine sociale costituito, ma ciò non vale per tutte le religioni e per tutte le fasi del loro sviluppo storico. In particolare, le religioni «profetiche» (come Febraismo antico, il cristianesimo e l'islamismo delle origini, il calvinismo) si sono sviluppate in forte tensione con il mondo circostante, sono state cioè un fattore di rottura della tradizione e di mutamento sociale e di esse si sono fatti portatori ceti e classi emergenti che hanno dovuto lottare per la propria affermazione. In questo senso, le idee religiose, che Weber talvolta designa col termine di «interessi ideali» (in contrapposizione agli «interessi materiali») sono state storicamente delle potenze rivoluzionarie, capaci di indurre profonde trasformazioni negli assetti sociali e culturali. 5) La concezione fenomenologica. Per la concezione fenomenologica l'elemento costitutivo e universale della religione è l'esperienza del sacro; essa pone quindi l'accento sulla relazione tra il soggetto credente e l'oggetto di venerazione che si colloca su un piano trascendente rispetto alla realtà terrena. Diversi sono i tratti che definiscono l'esperienza religiosa. In primo luogo, come scrive R. Otto [19171, tipico di ogni esperienza religiosa è «il sentimento di essere creatura, il sentiLA RELIGIONE 285 mento della creatura che s'affonda nella propria nullità, che scompare al cospetto di ciò che sovrasta ogni creatura» Quando Abramo (Genesi, 18,27) osa rivolgere a Dio la sua parola, dice: «Mi sono fatto forza di parlare con te, io, che sono terra e cenere» Un ulteriore tratto è l'esperienza del mistero; il sacro (compresi gli oggetti e i luoghi di culto) è circondato da un'aura di mistero e di inaccessibilità che produce un'emozione profonda in cui si combinano timore e riverenza, paura e attrazione. In ogni esperienza religiosa, anche nelle forme più intellettualizzate, è sempre presente una componente emozionale attraverso la quale all'individuo è concesso di trascendere se stesso e i propri limiti per accostarsi alla «comunione» con ciò che si colloca su un piano radicalmente altro da quello della realtà terrena. Differenziazione e disuguaglianza Capitolo 11 Il termine stratificazione è usato in geologia per designare gli strati di terra e di roccia, che si sono depositati nel corso di millenni e che formano la superficie terrestre. Riprendendolo ed aggiungendovi un aggettivo, i sociologi hanno introdotto nel linguaggio scientifico e in quello comune una nuova espressione - stratificazione sociale - di cui si sono serviti con significati diversi. Nelle pagine che seguono noi la Stratificazione useremo nella sua accezione più generale, per indicare cioè il sistema Sodak delle disuguaglianze strutturali di una società, nei suoi due principali aspetti: quello distributivo, riguardante l'ammontare delle ricompense materiali e simboliche ottenute dagli individui e dai gruppi di una società e quello relazionale, che ha invece a che fare con i rapporti di potere esistenti fra di essi. Definiamo Pagina 163
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt perciò strato un insieme di individui (o di famiglie) che godono della stessa quantità di risorse (ricchezza, prestigio) o che occupano la stessa posizione nei rapporti di potere. Come vedremo, gli strati hanno assunto storicamente forme specifiche assai diverse, quali ad esempio le caste, i ceti e le classi. Molto diversi sono peraltro anche i criteri di strutturazione delle disuguaglianze. Grande importanza hanno il genere (di cui ci occuperemo nel cap. XIII) e l'appartenenza etnica (cap. XV). l. Universalità della stratificazione sociale Gli studiosi di scienze sociali - come peraltro le persone comuni si sono spesso chiesti se la stratificazione sociale sia universale, cioè sia esistita in tutte le società che conosciamo. Per coloro che adottano una definizione come la nostra di stratificazione sociale, la risposta a questa domanda è senz'altro affermativa. Anche nelle società più semplici, esistono disuguaglianze strutturate basate sul genere o sull'età. Gli 290 CAPITOLO Il TAB. il. 1.. Frequen.za della proprietà privata della terra, pertipo di società Tipo di società Frequenza della proprietà privata generale frequente totale Caccia e raccolta Orticola o 36 o 23 89 18 100 100 9 22 Fonte: Lenskì [19821. Condizionì Che favcwiscono le,disuguaglianze uomini hanno più prestigio e potere delle donne, le persone anziane più di quelle giovani. Vi sono tuttavia società che, pur presentando queste disuguaglianze di genere e di età, sono tendenzialmente egualitarie dal punto di vista delle risorse materiali e simboliche di cui dispongono le famiglie. Sono, come abbiamo detto nel cap. 1, quelle di caccia e raccolta e le orticole. Come si può vedere dai dati della tab. 11.1 (riguardanti le società sulle quali gli antropologi sono riusciti a raccogliere informazioni in proposito) nella totalità delle prime ed in circa la metà delle seconde, la proprietà privata della terra è assente o rara. Inoltre, soprattutto nelle società di caccia e raccolta, ogni famiglia condivide con tutte le altre il cibo disponibile, mentre ciascun adulto si fabbrica gli strumenti di lavoro di cui ha bisogno e questi restano in suo possesso finché li adopera. Gli antropologi hanno individuato due motivi principali della natura egualitaria delle società di caccia e raccolta. E primo è 9 nomadismo di queste popolazioni, che naturalmente ostacola l'accumulazione di grandi quantità di risorse. E secondo è che l'applicazione del principio di reciprocità, che porta a condividere con gli altri le scarse risorse disponibili, è quello che permette di massimizzare le possibilità di sopravvivenza. In una società priva di tecniche per la conservazione del cibo, a chi uccide un animale di grandi dimensioni conviene darne parte agli altri, nella speranza che essi si comportino nello stesso modo. Ma è stato un sociologo, l'americano Gerhard Lenski [19661, che ha tentato di inviduare le condizioni che favoriscono le disuguaglianze sociali. Mettendo a confronto società di tipo diverso, lungo un arco di tempo che abbraccia tutta la storia dell'umanità, egli è arrivato alla conclusione che la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, che era assai bassa nelle società di caccia e raccolta, è cresciuta nelle orticole ed ha raggiunto il punto più alto in quelle agricole, per diminuire in seguito (fig. 11.1). Secondo Lenski, dunque, le società industriali in cui noi siamo vissuti per molti decenni (da cui stiamo uscendo - secondo alcuni - per passare in quelle postindustriali) hanno un grado di disuguaglianza maggiore di quelle di caccia e raccolta, ma minore di quelle agricole che le hanno precedute. Pagina 164
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt STRATIFICAZIONE E CLASSI SOCIALI 2 9 1 Caccia e Orticoltura Agricoltura Industria raccolta Tecnologia produttiva FIG. -11. 1. La teoria della ricaezza e del potere di Lenski. La forma a campana della curva della disuguaglianza dipende secondo Gerhard Lenski - da due diversi fattori: le dimensioni del surplus economico e la concentrazione del potere politico. A parità di altre condizioni, le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza crescono all'aumentare del surplus. Perché possano iniziare ad esistere famiglie che hanno una quantità di risorse molto maggiore delle altre è infatti necessario che si superi la fase dell'economia di sussistenza. E in effetti, come abbiamo visto nel cap. 1, fu con l'avvento delle società agricole che si ebbe un forte aumento della produttività e si iniziò a produrre un surplus economico, cioè una quantità di risorse superiore a quelle necessarie a mantenere in vita i produttori diretti e le loro famiglie. La disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza cresce anche all'aumentare della concentrazione del potere politico. E, come si può vedere dalla fig. 11.1, anche la curva del potere ha una forma di campana. La sua concentrazione raggiunge il massimo nelle società agricole e diminuisce in quelle industriali. Dunque, se è negli imperi agrari (in Cina, nell'antico impero romano o nella Francia medioevale) che la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza è più accentuata, è perché queste società presentano un considerevole surplus economico e ad appropriarsene è quasi esclusivamente l'aristocrazia militare. Se nella società industriale la distribuzione della ricchezza diventa più equa, è perché si verifica una rivoluzione politica che attribuisce maggior potere ad una parte consistente della popolazione. Nella riflessione e nell'indagine sociologica i problemi della stratificazione hanno sempre avuto un posto di particolare rilievo. E in questo, più ancora che in altri campi, i sociologi si sono divisi, sostenendo punti di vista molto diversi. Nelle pagine che seguono noi ci limiteremo tuttavia a ricordare le più importanti teorie che essi hanno formulato. Stratfficuaone e twria. 2.1. La teoria funzionalista della stratificazione sociale Anche se il suo padre spirituale è sicuramente Emile Durkheim, questa teoria è stata formulata in modo articolato e rigoroso solo dopo la Il guerra mondiale, nel corso di un vivace dibattito avvenuto sulla più importante rivista americana di sociologia. Partendo dall'assunto che non sia mai esistita una società in cui non vi fosse una qualche forma di stratificazione sociale, i sostenitori della teoria funzionalista hanno cercato di spiegare non le variazioni nel tempo e nello spazio della stratificazione sociale (come ha fatto invece - lo abbiamo appena visto - Gerhard Lenski), ma le sue caratteristiche universali. E la tesi di fondo che due dei più autorevoli di essi - K. Davis e W. E. Moore [1945, trad. it. 1969, 181 - hanno presentato è che «la principale necessità funzionale che spiega la presenza universale della stratificazione è precisamente l'esigenza sentita da ogni società di collocare e motivare gli individui nella struttura sociale». Anche se il significato di questa proposizione può sfuggire a tutta prima a qualche lettore, la teoria funzionalista della stratificazione sociale è assai chiara. Per i suoi sostenitori, l'esistenza delle disuguaghanze sociali è un fatto non solo inevitabile, ma anche necessario al buon funzionamento della società. La stratificazione sociale svolge per loro delle «funzioni vitali», indispensabili alla sopravvivenza del sistema sociale. In sintesi, le argomentazioni principali dei funzionalisti possono essere sintetizzate in quattro punti. o In ogni società, non tutte le posizioni (e le mansioni) hanno la stessa «importanza funzionale», ma alcune sono più rilevanti di altre per l'equilibrio ed il funzionamento del sistema sociale e richiedono capacità speciali. Lo sono, ad esempio, nelle società primitive, quelle occupate dagli stregoni o dai sacerdoti e, nelle società moderne, dai medici o dagli ingegneri. o In ogni società, il numero delle persone dotate di quelle capacità che possono essere convertite nelle competenze appropriate ad occupare quelle posizioni è «limitato» e «scarso» o La conversione delle capacità in competenze implica un periodo di addestramento, durante il quale vengono sostenuti «sacrifici» di varia natura da parte di coloro che vi si sottopongono (le spese per l'istruzione e la rinuncia a redditì per il ritardato ingresso nel mercato del lavoro) Pagina 165
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Per indurre le persone capaci a sottoporsi a questi sacrifici, è necessario dar loro delle ricompense «materiali» e «morali», cioè far sì che le posizioni (funzionalmente importanti) che tali persone andranno ad occupare godano di un livello di reddito e di prestigio maggiore delle altre. 2.2. Le teorie dei conflitto Del tutto diversa è l'impostazione dei teorici del conflitto. Essi negano che la stratificazione sociale svolga una funzione vitale indispensabile alla sopravvivenza del sistema sociale. Ritengono invece che le disuguaglianze esistano perché i gruppi sociali che se ne avvantaggiano sono in grado di difenderle dagli attacchi degli altri, in una situazione di conflitto continuo. Anche fra i teorici del conflitto vi sono tuttavia due impostazioni diverse, che si richiamano una a Karl Marx, l'altra a Max Weber. Le classi sociali secondo Karl Marx Nonostante che fosse stato usato anche prima, il concetto di classe Classe sociale in Marx sociale fece ufficialmente la sua prima comparsa nel 1848, con la celebre affermazione del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friederich Engels: la storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con la trasformazione rivoluzionarla di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta [Marx e Engels 1848, trad. it. 1953, 1001. Paradossalmente, però, Karl Marx non ci ha lasciato né una trattazione organica né una definizione formale del concetto di classe sociale. Inoltre, nelle molte pagine su questo tema che si ritrovano nelle sue opere, egli fa un uso poco preciso del termine classe (Masse), che alterna a quello di «ordine» o di «ceto» (Stand), come se fossero sinonimi. 19 lettore se ne può rendere agevolmente conto leggendo la continuazione dell'importante brano del Manifesto che abbiamo appena citato: Nelle epoche anteriori della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba e, per di più, anche particolari graduazioni mi quasi ognuna di queste classi [... 1 La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, mi due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato [ibì_ deml. Nelle sue linee essenziali, tuttavia, la teoria di Marx è sufficientemente chiara. La base delle classi è nella sfera economica. Ma ciò non significa come pensa erroneamente qualcuno - che le differenze di classe vadano ricercate nella «dimensione della borsa», nel livello di reddito, e che tutto si riduca alla contrapposizione fra ricchi e poveri. In ogni società, l'asse portante delle classi si trova nei rapporti di produzione e nelle relazioni di proprietà. Un piccolo numero di persone ha la proprietà dei mezzi di produzione (la terra, gli strumenti di lavoro, i fabbricati, le macchine, le materie prime), mentre la grande maggioranza della popolazione ne è esclusa. Ma la forma di produzione e quella di proprietà variano a seconda del tipo di società. Così, come abbiamo visto nel brano prima citato, nell'antica Roma la produzione era basata sulla proprietà degli schiavi e le classi principali erano costituite, oltre che da questi ultimi, dai patrizi, che erano i loro proprietari, e dai plebei, che si trovavano in una posizione intermedia fra gli uni e gli altri, perché non erano né possedevano schiavi. La produzione della società antica si basava invece sulla proprietà della terra e degli strumenti di lavoro e le due classi principali erano quelle dei proprietari terrieri (grande e piccola nobiltà) e dei lavoratori della terra (servi, braccianti, contadini). Infine, nella società borghese, la forma più importante di proprietà è costituita dal capitale industriale e le due classi principali sono la borghesia (che lo controlla) e il proletariato o gli operai, che non hanno invece che la loro forza lavoro. Gli schemi interpretativi di Marx si articolano e si complicano quando egli analizza società concrete, storicamente esistenti. Così, parlando della Germania precedente il 1848, egli ricorda otto classi (la nobiltà feudale, la borghesia, Pagina 166
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt la piccola borghesia, i grandi o medi agrari, i piccoli proprietari, gli operai agricoli e quelli dell'industria) e scrivendo della Francia della metà dell'Ottocento, ne menziona sette. In realtà, alcune di queste sono segmenti o, come lui le chiama, «frazioni» di una classe. Nella Francia del 1848, ad esempio, la classe superiore o dominante era costituita da tre di queste frazioni: l'aristocrazia finanziaria, la borghesia industriale e i grandi proprietari terrieri. Erano tutte e tre classi di possidenti, ma di beni diversi. La prima controllava il capitale finanziario (ed era costituita da banchieri e da società di assicurazione), la seconda quello industriale, la terza la terra. Altre classi che Marx prende in considerazione nelle sue analisi 295 storiche possono essere collocate senza troppa fatica nel suo schema di fondo. t il caso della piccola borghesia (costituita da artigiani e commercianti) o dei contadini, perché sono formate da persone che sono proprietarie dei mezzi di produzione e acquistano forza lavoro sul mercato, ma che al tempo stesso svolgono un lavoro manuale. Ma altre ancora non sono certamente definibili in termini di rapporti di produzione e di proprietà. Lo si può certo dire del «sottoproletariato, che - come scrive Marx - in tutte le grandi città forma una massa nettamente distinta dal proletariato industriale, nella quale si reclutano ladri e delinquenti di ogni genere, che vivono dei rifiuti della società gente senza un mestiere definito, vagabondi, gens sans feu et sans aveu [senza tetto e senza scrupoli]» [Marx 1850, trad. it. 1966, 1271. Secondo la teoria di Marx, le classi sono dei raggruppamenti omogenei di persone, che hanno lo stesso livello di istruzione, lo stesso livello di consumo, le stesse abitudini sociali, gli stessi valori e le stesse credenze, la stessa concezione della vita e del mondo. Sono potenzialmente dei soggetti collettivi, che vivono e pensano in modo simile, delle forze sociali, degli attori storici, capaci in certe condizioni di azione unitaria. Questa tendenza a personificare le classi era allora condivisa da molti altri intellettuali. Basti pensare che il romanziere Honoré de Balzac parlava dei contadini francesi come di «un Robespierre con una testa e venti milioni di braccia». Ma secondo Marx le classi erano degli attori storici solo potenzialmente. Egli infatti distingueva fra classe in sé e classe per sé. Con la prima espressione indicava un insieme di individui che si trovano nella stessa posizione rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione. Usava la seconda quando questi individui prendevano coscienza di avere degli interessi comuni e di appartenere alla stessa classe. Anche se Marx non ha mai affrontato sistematicamente questo problema, nelle pagine dei suoi libri vi sono importanti intuizioni sui tre tipi di fattori che favoriscono il passaggio dalla classe in sé a quella per sé. Nel primo rientrano quelli che, facilitando le comunicazioni fra gli appartenenti ad una classe, aumentano la visibilità e la trasparenza della struttura di classe. Agisce ad esempio in questo senso la concentrazione degli operai in grandi stabilimenti. Quando lasciano la bottega artigiana o i campi per andare in fabbrica, gli operai entrano più agevolmente in comunicazione fra di loro e, trascorrendo insieme molte ore del giorno, lavorando, parlando, prendono più facilmente coscienza di trovarsi nella stessa situazione, di avere interessi comuni, di far parte di un'unica classe. Opposta è invece la situazione dei contadini coltivatori, le cui condizioni di lavoro rendono straordinariamente difficili le comunicazioni. Come scrive efficacemente lo stesso Marx, a proposito della Francia della metà dell'Ottocento: Ogni singola famiglia contadina è quasi sufficiente a se stessa, produce direttamente la maggior parte di ciò che consuma, e guadagna quindi i suoi mezzi di sussistenza più nello scambio con la natura che nel commercio con la società. Un piccolo appezzamento di terreno, il contadino e la sua famiglia; un po più in là un altro piccolo appezzamento di terreno, un altro contadino e un'altra famiglia. Alcune diecine di queste famiglie costituiscono un villaggio e alcune diecine di villaggi un dipartimento. Così la grande massa della nazione francese si forma con una semplice somma di grandezze identiche, allo stesso modo che un sacco di patate risulta dalle patate che sono in un sacco. Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li contrappongono ad esse in modo ostile, esse formano una classe. Ma nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono soltanto legami locali e la identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe [Marx 1852, trad. it. 1974, 2081. Il secondo tipo di fattori che favoriscono il passaggio dalla classe in sé a Pagina 167
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt quella per sé è costituito da quelli che riducono le stratificazioni interne ad una classe. Quanto più una classe è omogenea, tanto più facile è che i suoi componenti acquistino coscienza di farne parte. Di conseguenza, i processi migratori che fanno sì che una classe sia formata da strati culturalmente assai diversi (per paese di origine, lingua, tradizioni) ostacolano la formazione di classi per sé. Invece, secondo Marx, ha avuto storicamente effetti di segno opposto l'introduzione nelle fabbriche delle macchine che, portando al superamento dei vecchi mestieri artigiani e provocando un abbassamento del livello di qualificazione richiesto, hanno reso la classe operaia sempre più omogenea. 1 fattori del terzo tipo sono quelli che rendono più rigide le barriere di classe. Anche se ci occuperemo nel prossimo capitolo del problema della mobilità sociale, possiamo dire che, per Marx, quanto maggiore è la mobilità esistente in una società, tanto più difficile è che si formino classi per sé. Classi, ceti e gruppi di potere secondo Max Weber A differenza di Marx, che ha concentrato tutta la sua attenzione sulle classi, Weber ha elaborato una teoria a più dimensioni della stratificazione sociale. Egli era infatti convinto che le fonti delle disuguaglianze e i principi fondamentali di aggregazione degli individui andassero ricercati non m una, ma m tre diverse sfere: l'economia, la cultura e la politica. Nella prima, gli individui si univano sulla base di interessi materiali comuni, formando classi sociali; nella seconda seguendo comuni interessi ideali e dando origine a ceti; nella terza, si associavano in partiti o in gruppi di potere per il controllo dell'apparato di dominio. Nella definizione di classe, Weber non si allontanava troppo da Marx. «Il possesso e la mancanza di possesso - scriveva - costituiscoSTRATIFICAZIONE E CLASSI SOCIALI 297 no le categorie fondamentali di tutte le situazioni di classe» [Weber, 1922a, trad. it. 1961, Il, 2291. Mentre però per Marx il criterio di fondo dell'appartenenza a una classe era la proprietà o meno dei mezzi di produzione, per Weber era la situazione di mercato. I mercati erano tre: del lavoro, del credito e delle merci. Nel primo si contrapponevano la classe operaia (fatta da coloro che vendevano la forza lavoro) e gli imprenditori (che l'acquistavano); nel secondo debitori e creditori; nel terzo, consumatori e venditori. Storicamente, l'importanza di questi tre tipi di mercato per i rapporti e i conflitti di classe è mutata. Nell'antica Grecia e nell'antica Roma, tali conflitti derivavano soprattutto dal mondo del credito, nel medioevo da quello delle merci; nella società capitalistica, dal mercato del lavoro. Weber distingue fra «classi possidenti» e «classi acquisitive», privilegiate positivamente o negativamente. Le «classi possidenti privilegiate in senso positivo» sono costituite da redditieri che ricavano i loro redditi da schiavi, terre, miniere, impianti di lavoro, navi. Le «classi possidenti privilegiate in senso negativo» sono formate da coloro che non dispongono di nulla. Fra le due vi sono le classi medie, i cui membri hanno o piccole proprietà o un po di istruzione o qualche competenza professionale (contadini, artigiani, funzionari). Le «classi acquisitive privilegiate in senso positivo» sono composte da imprenditori di vario tipo (agricoli, commerciali, industriali) e da professionisti forniti di un alto livello di preparazione (avvocati e medici). In quelle «privilegiate in senso negativo» rientrano i lavoratori. 1 ceti si ritrovano invece nella sfera della cultura. Essi sono comunità di persone con uno stesso stile di vita (stesso gusto, stesse preferenze di consumo) e un forte senso di appartenenza. Essi si distinguono l'uno dall'altro per il diverso grado di prestigio di cui godono. «Definiamo "situazione di ceto" - ha scritto Max Weber - ogni componente tipica del destino di un gruppo di uomini, la quale sia condizionata da una specifica valutazione sociale, positiva o negativa, del1`onore" che è legato a qualche qualità comune di una pluralità di uomini» [1922a, trad. it. 1961, 11, 234-2351. Questo ha importanti conseguenze. «L'onore di ceto si esprime normalmente soprattutto nefl'esigere una condotta di vita particolare da tutti coloro i quali vogliono appartenere ad una data cerchia. Connessa con ciò è la limitazione dei rapporti sociali» Ubideml. Tale limitazione si esprime soprattutto nel connubium e nella commensalità. Ci si sposa e si siede a tavola preferibilmente (o, in certi casi, esclusivamente) solo con persone dello stesso ceto. Tra la distribuzione della ricchezza e quella del prestigio vi è sicuramente una Pagina 168
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt relazione. Nella società di antico regime, gli aristocratici potevano condurre una vita sfarzosa, vivendo in castelli ed in palazzi sontuosi con un esercito di servi ai loro ordini, solo perché disponevano di immensi patrimoni. Eppure, anche in quella società, non vi era sempre una completa coincidenza fra la distribuzione delle risorse economiche e quella del prestigio. Mentre infatti gli aristocratici continuavano a godere di un'alta considerazione sociale anche quando cadevano in miseria, i nuovi ricchi venivano disprezzati e derisi dai nobili. Nella società capitalista, il rapporto fra ricchezza e prestigio è considerevolmente cambiato, perché - come dice Weber - il mercato «ignora ogni considerazione della persona». Le relazioni fra classi e ceti sono assai complesse. Se alcuni ceti nascono in seno alle classi, altri le trascendono. 1 primi hanno origine dalla divisione del lavoro, dall'articolazione in occupazioni. I secondi sono invece di origine etnica o religiosa. In genere, comunque, le classi hanno una maggiore eterogeneità interna dei ceti e dunque sono meno frequentemente comunità morali e più difficilmente si mobilitano per fini collettivi. Per migliorare la loro situazione, i ceti seguono la strategia della chiusura sociale, restringendo cioè gli accessi alle risorse ed alle opportunità ad uno strato limitato di persone dotate di certi requisitì. «Questa tendenza [alla monopolizzazione] si dirige contro altri concorrenti, che sono contraddistinti da una caratteristica comune, positiva o negativa. Ed il fine è la chiusura, non importa in quale ambito, delle relative possibilità (sociali ed economiche) rispetto agli estranei» [1922a, trad. it. 1961, 1, 3411. Nella società di antico regime, la chiusura sociale aveva luogo in base a criteri di stirpe e di lignaggio, rifacendosi agli alberi genealogici delle persone. Nei paesi occidentali, invece, essa avviene oggi attraverso controlli ed esami, rilasciando quei titoli e quei certificati necessari per esercitare le più importanti professioni. Squilibrio di status Lo squilibrio di status secondo i sociologi americani Gerhard Lenski [19541 e gli altri sociologi americani che negli anni cinquanta hanno proposto il concetto di squilibrio di status per spiegare alcune forme di comportamento si rifacevano ad una concezione pluridimensionale della stratificazione sociale come quella di Weber. In ogni società - essi infatti sostenevano - vi è una pluralità di gerarchie (di reddito, di potere, di istruzione, di prestigio) e ciascun individuo occupa una posizione in ognuna di queste gerarchie. Si parla di equilibrio di status quando una persona si trova in ranghi equivalenti nelle diverse gerarchie. Così, ad esempio, sono in una situazione siffatta sia l'industriale italiano che, dopo la laurea, ha conseguito il master in un università americana, ricava molto denaro dalla sua attività e ha una forte influenza politica, sia il bracciante meridionale, analfabeta di ritorno, disoccupato molti mesi dell'anno, che sopravvive grazie all'assistenza pubblica. Si parla invece di squilibrio di status quando un individuo non si trova allo stesso livello in tutte le gerarchie e, ad esempio, occupa una posizione alta in una di queste e bassa in un'altra. Ne sono esempi il nobile decaduto ed impoverito, il medico nero americano, il laureato che fa il commesso nei grandi magazzini o l'industriale analfabeta. Perché si abbia squilibrio di status non è tuttavia sufficiente una differenza nelle posizioni occupate. E necessario anche che questa sia in contrasto con le aspettative della società. Così, ad esempio, un campione sportivo che è molto popolare e guadagna un'enorme quantità di denaro, ma che sa appena leggere e scrivere, non è in una situazione di squilibrio di status, perché nessuno nella nostra società si attende che un atleta sia colto. Analogamente, le donne manager si trovano oggi in una condizione di squilibrio di status molto meno di dieci o venti anni fa. La situazione di squilibrio di status è causa di frustrazioni e di tensioni per colui che vi si trova e può provocare il suo isolamento sociale, l'emergere di disturbi psicosomatici o la sua politicizzazione o radicalizzazione. Alcune ricerche hanno tuttavia mostrato che le conseguenze sono diverse a seconda del rapporto esistente fra status ascritti e acquisiti. Quando lo status ascritto (ad esempio quello etnico o di Status ascritto genere) è alto, mentre quello acquisito (il titolo di studio o l'occupazione) è basso, l'individuo tende a reagire in modo «intrapunitivo» (cioè a ricercare in se stesso la causa dello squilibrio) e dunque a soffrire di disturbi psicosomatici. Quando invece è alto lo status acquisito Status acquisito e basso quello ascritto, l'individuo tende a rispondere in modo «extrapunitivo» (attribuendo cioè agli altri - «alla Pagina 169
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt società» - l'origine dei suoi mali) e dunque a desiderare un cambiamento nella distribuzione del potere. 3. Sistemi di stratificazione sociale 1 più importanti sistemi di stratificazione sociale esistiti nella storia dell'umanità sono stati quattro: schiavitù, caste, ceti e classi. t di essi che ci occuperemo nelle pagine seguenti, in quest'ordine. t bene tuttavia che il lettore tenga presente che, in una data società, non sempre vi è uno solo di questi sistemi, ma ne possono coesistere almeno due. 3.1. Schiavitù La schiavitù è una forma estrema di disuguaglianza, in cui alcune persone ne possiedono altreje fanno lavorare, e possono punirle, venderle e comprarle a loro piacimento. La schiavitù è esistita nell'antica Schiaatù Atene e nell'antica Roma (come abbiamo visto nel cap. 1), ha perso di importanza pur senza scomparire nell'Europa medievale e ha assunto di nuovo dimensioni ragguardevoli nelle due Americhe, dall'inizio del XVIII alla fine del XIX secolo, quando circa 10 milioni di neri vi vennero trasportati a forza dall'Africa. La schiavitù può esistere solo in un'economia poco sviluppata che richieda grandi quantità di lavoro umano. Tuttavia, nelle varie società, il lavoro degli schiavi è stato usato in settori molto diversi. Nelle Americhe, esso era impiegato soprattutto nelle piantagioni, per piantare, coltivare, raccogliere e trasportare la canna da zucchero, a tabacco, il cotone, il caffè. Ad Atene, ci si serviva degli schiavi più nelle botteghe artigiane che nei campi. A Roma, essi erano occupati nell'agricoltura e nelle miniere, nel commercio o presso le famiglie, e oltre a mansioni manuali, svolgevano anche attività intellettuali. Al musicista, al letterato, al pedagogo o al medico africano, asiatico o greco, i ricchi romani affidavano ben volentieri l'educazione dei loro figli o altri importanti compiti domestici. Vi erano, di conseguenza, grandi differenze nelle condizioni di lavoro degli schiavi. Se quelli occupati nel commercio o nelle famiglie romane potevano godere di una certa considerazione sociale ed arricchirsi, coloro che erano condannati al lavoro manuale conducevano una vita assai dura. Come ha scritto Apuleio parlando degli schiavi delle miniere la loro pelle era completamente segnata dalle cicatrici di vecchie bastonature, come si poteva vedere attraverso i buchi dei loro vestiti laceri, che più che coprire le loro schiene segnate dalle cicatrici sembravano proteggerli dal sole; ma alcuni vestivano solo delle fasce che cingevano i fianchi. Sulle loro fronti avevano impresse delle lettere, le loro teste erano quasi rasate e ai piedi avevano i ceppi [cit. in Garnsey e Saller 1987, trad. it. 1989, 1441. 3.2. Il sistema delle caste in India Il sistema delle caste esiste in India da almeno 2.500 anni, anche se nel corso di questo lunghissimo periodo ha subito vari cambiamenti. Il termine casta è invece di origine assai più recente. Esso fu usato per la prima volta a proposito dell'India dai portoghesi nel significato di razza. Ma viene dal latino castus, che significa puro, disinteressato, integro, non contaminato : Secondo i Veda, i testi sacri dell'induismo, la società indiana si articolava in passato in quattro grandi varna, o gruppi di caste, che avevano funzioni sociali diverse ed erano posti in ordine gerarchico a seconda della considerazione sociale di cui godevano. Al vertice vi era quello dei Brahamani, che secondo la leggenda erano nati dalla testa dell'uomo primigenio. Originariamente stregoni, essi divennero in seguito sacerdoti e uomini di cultura. Dopo avere imparato a memoria i testi sacri tramandati oralmente, essi si dedicavano ai sacrifici e all'istruzione. Per l'attività che svolgevano, non accettavano una retribuzione, ma solo doni. 19 secondo varna era quello dei Kshatryia, generato dalle spalle dell'uomo primigenio. Era formato da aristocratici e cavalieri, che avevano la funzione di proteggere militarmente la popoSTRAne. Da essi ci si aspettava che non morissero nel proprio letto. E dunque, quando sentivano venire meno le forze, gli Kshatryia andavano a cercare la fine nel campo di battaglia. Il terzo per rango era il varna dei Vaishya, nato dalla coscia e costituito di contadini, pastori e commercianti. E quarto era quello dei Shudra, nato dai piedi, e fatto di lavoratori, servitori domestici, pasticcerì, giardinieri, vasai, venditori di profumi e di oli. Infine, anche se i testi sacri non ne parlano, vi erano gli Harijan o paria, che non appartenevano a nessuna casta, e che dagli europei sono stati chiamati «intoccabili», perché ogni forma di contatto con loro era fonte di contaminazione. Pagina 170
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt L'organizzazione in caste della società indiana non è tuttavia riconducibile ai quattro gruppi di cui parlano i testi classici. Nessuno sa con esattezza quante caste (iatì) esistano oggi in India, ma esse sono certamente alcune migliaia. Solo alcune di queste si trovano su tutto il territorio nazionale. Sono i Camar, la gente del cuoio, i jat, i coltivatori, e gli Abir, i bovari. Ma anche queste sono divise in un gran numero di sottocaste. Tutti gli l'ati o caste hanno un nome. Talvolta questo viene dal mestiere a cui sono legate. Così, ad esempio, Banya significa mercanti e Bbangi spazzini o addetti alla vuotatura di pozzi neri. In altri casi, il nome deriva dall'oriffine territoriale o tribale della casta. E numero di persone che fanno parte di una casta varia considerevolmente, passando da poche migliaia ad alcuni milioni. Tre sono le caratteristiche essenziali della casta. In primo luogo, essa è come diceva Max Weber - un «ceto chiuso». Ciò significa che si entra in una casta solo con la nascita, perché i propri genitori ne fanno parte, e vi si resta per tutta la vita. Ma vuol dire anche che la casta è caratterizzata dall'endogamia, dall'obbligo di sposarsi all'interno del gruppo. In certi casi però è amessa anche l'ipergamia, cioè il Ipergam matrimonio di una donna con un uomo di una casta lievemente superiore. Questa eccezione è giustificata dal fatto che in genere la donna è considerata inferiore all'uorno. In secondo luogo, caratteristica della casta è la specializzazione ereditaria. Tradizionalmente, ogni casta è legata allo svolgimento di un mestiere o di una funzione rituale. Vi sono, ad esempio, le caste dei pressatori d'olio, degli orefici, dei vasai, dei lavandai. In terzo luogo, le caste formano un ordine rigidamente gerarchico, basato su un criterio religioso: quello della purezza. 19 con- Pwezza trasto fra le due caste estreme dei Brahamani e degli Intoccabili è la più chiara espressione di questo sistema. 1 Brahamani sono infatti la quintessenza della purezza. Gli Intoccabili, al contrario, sono talmente impuri che possono contaminare gli altri non solo con il contatto, ma anche a distanza, con la loro ombra. Questa contrapposizione è per molti versi legata all'adorazione della vacca. Le secrezioni di questo animale hanno tali virtù purificatrici che talvolta un indù, quando passa davanti ad una vacca mentre questa sta urinando, mette la mano sotto lo zampillo e si bagna la fronte e gli abiti. Ora, mentre l'uccisione di un Brahamano viene considerata tanto grave come quella di una vacca, la casta più numerosa degli Intoccabili, quella Camar, la gente del cuoio, ha la funzione di squartare gli animali morti e di lavorarne la pelle. Ma il criterio della purezza è alla base delle relazioni fra tutte le caste. Nella società indiana vi sono norme precise sulle persone con cui è permesso mangiare, su chi deve preparare il cibo, da chi si possono accettare i vari tipi di cibo, con chi si può fumare la pipa. «Le caste alte - ha scritto l'antropologo Louis Dumont [1966, trad. it. 1991, 1791 - si possono classificare in ordine ascendente, a seconda che il Brahamano accetti da esse acqua, cibo fritto, cibo bollito, e le caste basse in ordine discendente, a seconda che esse contaminino per contatto l'acqua, un recipiente di terra, un recipiente di bronzo» Max Weber [1920, trad. it. 1976, 371, per mostrare che importanza avesse la contrapposizione puro-impuro, ha raccontato che, in occasione della carestia del 1866, l'amministrazione inglese aprì alcune mense popolari nelle quali veniva distribuito cibo a tutti. Ma la paura della contaminazione rituale fu ancora più forte del morso della fame e le caste più elevate minacciarono di scomunicare tutti coloro che andavano in queste mense se non fossero stati assunti cuochi le cui mani erano considerate pure e se, nelle sale delle mense, gli appartenenti alle diverse caste non fossero stati separati simbolicamente con segni tracciati con il gesso. 3.3. Il sistema dei ceti nelle società di antico regime La società articolata in ceti, che è esistita in Europa per alcuni secoli prima della Rivoluzione francese, aveva alcune caratteristiche distintive. In primo luogo, gli status ascrittì, quelli cioè che vanno al di là del controllo dell'individuo, avevano un'enorme importanza. In linea di principio, ciascuno faceva parte di un ceto fin dalla nascita e vi restava per tutta la vita, quali che fossero gli sforzi che faceva per uscirne. Come ha scritto Tocqueville, in questa società, «il valore sociale degli uomini è fissato in maniera ostensibile e permanente dal sangue», perché «è solo la nascita, indipendentemente dalla ricchezza, a classificare gli uomini» e «ciascuno sa con precisione il posto che occupa nella scala sociale: non cerca di salire e non teme di discendere» [1835-1840, trad. it. 1968, 6611. In secondo luogo, fra i ceti vi erano differenze sociali non solo di fatto, ma anche di diritto. Così, ad esempio, le norme giuridiche stabilivano che la nobiltà ed il clero fossero esenti dagli Pagina 171
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt obblighi comuni in materia di tasse e di servizi militari e, in alcuni paesi, che monopolizzassero alcune cariche pubbliche. Inoltre, gli aristocratici potevano essere arrestati solo per alcuni reati e dovevano essere comunque giudicati dai loro pari e non dai magistrati ordinari. In terzo luogo, l'appartenenza ad un ceto conferiva un certo grado di prestigio, ma richiedeva un particolare stile di vita e dunque imponeva obblighi ed inibizioni. Così, ad esempio, dagli aristocratici ci si aspettava che avessero alcune virtù «innate»: il coraggio e la capacità di combattere guardando la morte in faccia, la lealtà e la fedeltà alla parola data, il disinteresse, la generosità, la raffinatezza dei gusti. Essi dovevano disdegnare le occupazioni «vili» e banali, rivolte al guadagno, e vivere invece oziosamente delle proprie rendite, abitando in case lussuose, indossando vestiti di valore, circondandosi da un esercito di domestici, accogliendo sempre come benvenuti alla loro tavola i loro pari. Il quadro più preciso che abbiamo sulle dimensioni dei diversi ceti è quello preparato da Gregory King fra il 1690 e il 1700 e riguardante la società inglese del 1688. Nel lungo elenco dei ranghi e delle condizioni sociali che A lettore può vedere nella tab. 11.2 si possono distinguere sei grandi ceti [Stone 19651. Il ceto più basso era formato da vagabondi, lavoratori dei campi che vivevano in un cottage, braccianti, operai, servitori (penultima e terzultima riga della tab. 11.2). Ne faceva parte ben il 56% delle famiglie inglesi. Secondo Gregory King, erano famiglie che vivevano «a detrimento del benessere della nazione», perché non erano economicamente indipendenti e si trovavano spesso in situazione di miseria. Un gradino più in alto, vi era un ceto che noi oggi chiameremmo medio, costituito da piccoli proprietari terrieri, contadini coltivatori, artigiani, negozianti (circa il 28% delle famiglie). Immediatamente sopra vi era un ceto assai più piccolo, formato da mercanti e commerciantì di esportazione. Al vertice vi erano i tre ceti più elevati. Il primo era formato dalle persone con cariche ed uffici importanti, i gentiluomini, i professionisti, gli ecclesiastici. Del secondo facevano parte gli esquires, i cavalieri e i baronetti. Infine, il terzo era composto da un piccolissimo numero di famiglie della nobilitas major, insignite del titolo di pari. Nonostante che fossero ben poche, anche fra queste famiglie vi era una gerarchia, che aveva al vertice i duchi, seguiti dai marchesi, dai conti, i visconti e i baroni. Ma la più importante linea di divisione passava fra i primi tre e i secondi due. Lo dimostra il fatto che, quando Giacomo I offrì i titoli in vendita, si vide che passare da barone a conte costava quanto salire da gentiluomo a barone [Stone 1965, trad. it. 1972, 621. I dati della tabella di Gregory King indicano che fra questi ceti vi erano enormi disuguaglianze di reddito. Quello che invece nella tabella non possiamo trovare sono le straordinarie differenze di potere e di prestigio esistenti fra di loro. Per il primo, basterà ricordare che i pari sedevano di diritto alla Camera dei Lords, che aveva sicuramente un forte peso politico. Quanto alle differenze di prestigio, esse venivano segnalate quotidianamente in mille e mille modi. Uno di questi era l'uso dei titoli e delle forme di indirizzo [Laslett 1971, trad. it. 1979, 53-551. 1 pari si fregiavano del titolo di Lord (e le donne di Lady) e a loro ci si rivolgeva con espressioni come «My Lord» o «My Lady» o «Your Grace». 1 baronetti e i cavalieri avevano il titolo di Sir (di CAPITOLO I I TAB. 11 .2. DisMbuzio.*le defle famij1w ingtesì per COU£7 nel 1688,' e ré<0to wekò jone $omle> Rango, condizione, titolo Numero famiglie Reddito medio annuo Lord secolari 160 3.200 Lord ecclesiastici 26 1.300 Baronetti 800 800 Cavalieri 600 Pagina 172
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 650 Esquires 3.000 450 Gentlemen 12.000 280 Persone con cariche e uffici elevati 5.000 240 Persone con cariche e uffici minori 5.000 120 Mercanti e commercianti eminenti 2.000 400 Mercanti e commercianti minori 8.000 198 Persone con professioni legali 10.000 154 Ecclesiastici eminenti 2.000 72 Ecclesiastici minori 8.000 50 Proprietari terrieri in condizione migliore 40.000 91 Proprietari terrieri in condizione peggiore 120.000 55, Coltivatori 150.000 42 Professionisti e artisti 15.000 60 Negozianti e dettaglianti 50.000 45 Artigiani 60.000 38 Ufficiali di marina 5.000 STRATIFICAZIONE E CLASSI SOCIALI 305 glianze fra i vari paesi europei. Ovunque, oltre ai nobili vi erano contadini proprietari e affittuari, artigiani e commercianti, mercanti e professionistì. E ovunque un enorme numero di famiglie viveva in miseria. «A Roma - scriveva nel 1601 il Fanucci - non si vedono che mendicanti e sono così numerosi che è impossibile circolare per la strada senza averceli d'attorno» [Cipolla 1994 5, 251. Esattamente un secolo dopo, il marchese di Vauban osservava che il 10% della popolazione francese era fatta di mendicanti e un altro 30% si trovava in condizioni di miseria. E in effetti, per molti secoli, in tutta Europa, vi è stata un'enorme massa di poveri, di vagabondi, di accattoni, che soffrivano la fame e dormivano per strada. Il loro numero non era costante, ma variava a seconda dell'andamento dell'economia e aumentava fortemente quando vi era un'annata di cattivo raccolto. Un altro fattore importante del pauperismo è stato in Europa, dopo il XVI secolo, la crescita demografica. Ne è prova il fatto che la quota dei poveri era più alta nei paesi densamente popolati, come i Paesi Bassi, l'Inghilterra, la Francia, l'Italia del Nord o la Germania del Sud [Geremek 19921. Pagina 173
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Nelle città europee vi erano in questo periodo tre cerchi concentrici di persone povere [Pullan 19781. Il cerchio interno (dal 4 all'8% della popolazione) era formato dai «poveri strutturali», da coloro cioè che, a causa dell'età o delle condizioni di salute, non erano in grado di guadagnarsi da vivere e facevano i mendicanti a tempo pieno o dipendevano comunque dall'assistenza pubblica. Nel secondo cerchio rientrava uno strato molto più ampio di persone (circa il 20% della popolazione), che ricevevano occasionalmente elemosine. Erano i poveri «congiunturali» o «della crisi», lavoratori occasionali o con bassi salari, che si trovavano in serie difficoltà ogni volta che aumentava a prezzo del pane. Infine, nel terzo cerchio (che raccoglieva talvolta fino al 50% della popolazione) vi erano i «poveri non indigenti», cioè quegli artigiani, piccoli commercianti e impiegati di rango inferiore che, quando vi era una grave crisi economica (come ad esempio quella provocata da un'epidemia di peste) dovevano fare ricorso alla pubblica assistenza. Così, ad esempio, nel 1790, in un momento di particolari difficoltà, quando Firenze aveva circa 75.000 abitanti, i membri della Congregazione di San Giovanni Battista avevano calcolato, mettendosi all'entrata di tutte le chiese, che le persone che chiedevano ogni giorno sussidi per il pane erano quasi 57.000 [Woolfe 1978, 10601. Molto eloquenti sono, da questo punto di vista, le informazioni che abbiamo sulla stratificazione sociale a Bologna nel secolo scorso (tab. 11.3). Dai funzionari preposti ai censimenti, la popolazione di questa città veniva divisa in cinque ceti. Al vertice vi erano naturalmente i nobili, seguiti dai «benestanti» (o «ricchi non titolati»), definiti come «coloro che non abbisognano del soccorso dei loro talenti per vivere comodamente». Il terzo era il ceto dei «mediocri», che «con le scienze, con le arti e con l'industria» si procuravano «una decorosa Povera Poveri strutturatì Poveri congiunturali Poveri non indigenti 306 CAPITOLO i I TAB. 11.3. lopolazione «staMe» della città di Bo al 183 7 (valori percentuali) logna, secondo le con&zion i sociali, dal 1816 Popolazione 1816 1826 1837 Nobili 2,8 2,9 2,9 Benestanti 4,6 5,0 5,2 Mediocri 12,3 18,9 18,5 Operai Bisognosi Totale 29,8 50,5 100,0 29,4 43,8 100,0 29,2 44,2 100,0 64.831 66.277 64.697 Fonte: Bellettini [19611. sussistenza» Vi era poi il ceto degli operai ed infine quello dei «bisognosi» Pagina 174
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Quest'ultimo comprendeva «quei meschini i cui sudori non bastano» per «un sufficiente alimento, gli oziosi, i vagabondi ed i questuanti» Come si può vedere dalla tab. 11.3, di questo strato faceva parte la maggioranza relativa e - in alcuni anni - quella assoluta della popolazione [Bellettini 1961, 721. 3.4. Le classi nelle società moderne A differenza di quella di antico regime, la società moderna, nata dalla Rivoluzione francese, è caratterizzata dall'eguaglianza di diritto di tutti i suoi membri. «Tutti sono uguali di fronte alla legge»: è questo uno dei principi fondamentali a cui si ispira questa società. Ma, pur essendo uguali di diritto, i cittadini non lo sono di fatto. Fra di loro esistono rilevanti differenze sociali non casuali, ma strutturate, cioè relativamente durature. Dunque, a differenza dei ceti della società di antico regime, le classi della società moderna sono raggruppamenti non di diritto ma di fatto. Sulla definizione di queste classi, sulla loro fisionomia, il loro numero, i confini ed i rapporti esistenti fra di esse, gli studiosi di scienze sociali hanno condotto innumerevoli dibattiti, scrivendo migliaia di articoli e di libri. Questi dibattiti, che hanno spesso risentito della congiuntura politica e delle posizioni politiche dei sociologi che vi hanno partecipato, non possono essere sintetizzati in questa sede. t bene tuttavia che il lettore conosca i due schemi di classificazione che vengono oggi maggiormente usati nella letteratura sociologica internazionale. STRATIFICAZIONE E CLASSI SOCIALI 307 4. Due schemi di classificazione Il primo dei due schemi, che è quello a cui più spesso si rifanno gli studiosi italiani, è stato proposto dall'economista Paolo Sylos Labini [1974; 19861, ed è basato principalmente sul tipo di reddito percepito da un individuo. Vi sono tre grandi categorie di reddito: la rendita (dei proprietari fondiari), il profitto (dei capitalisti, siano essi industriali, agrari o commerciali) e il salario (degli operai). Oltre a queste tre, vi sono altre importanti categorie di reddito: i «redditi misti», da lavoro e capitale, propri dei lavoratori autonomi; gli stipendi degli impiegati; i redditi di coloro che hanno occupazioni precarie e saltuarie, che sono in genere particolarmente bassi, incerti ed altamente variabili. Sulla base di queste categorie di reddito, Paolo Sylos Labinì ha distinto cinque grandi classi sociali, ciascuna delle quali composta da varie sottoclassi: *_ Borgbesia. t formata dai grandi proprietari dei fondi rustici e urbani (rendite), dagli imprenditori e dagli alti dirigenti di società per azioni (profitti e redditi misti), da professionisti (redditi misti) o Piccola borgbesia relativamente autonoma. ]@ composta dai lavoratori autonomi dei tre principali settori di attività, cioè dai coltivatori diretti, artigiani e commercianti (redditi misti). Classe media impiegatizia. E costituita dagli impiegati pubblici e da quelli privati. * Classe operaia. t formata dai braccianti e dai salariati fissi in agricoltura, dagli operai dell'industria e dell'edilizia e da quelli del terziario (salari). a Sottoproletariato. E composto da coloro che restano per lunghi periodi di tempo fuori dalla sfera della produzione, perché sono disoccupati. Il secondo schema di classificazione, che viene sempre più frequentemente utilizzato dagli studiosi di molti paesi europei, è stato proposto dal sociologo britannico john Goldthorpe [1980; 19821 e si basa su due criteri: la situazione di lavoro e la situazione di mercato. Con la prima espressione si fa riferimento alla posizione nella gerarchia organizzativa (e alle conseguenti relazioni sociali) assunta dagli individui in quanto occupanti una data posizione occupazionale. La seconda espressione indica invece il complesso dei vantaggi e degli svantaggi, materiali e simbolici di cui godono i titolari dei vari ruoli lavorativi (ad esempio, il livello di reddito percepito, le possibilità di carriera, la stabilità del posto, le caratteristiche dell'ambiente fisico di lavoro). In base alle relazioni di lavoro, gli occupati possono essere distinti in tre grandi categorie: gli imprenditori, che sono coloro che acquistano il lavoro altrui ed esercitano autorità e controllo su di esso; i lavoratori autonomi senza dipendenti, che non usano il lavoro altrui né vendono il proprio; i lavoratori dipendenti, che invece vendono il loro lavoro. Tenendo inoltre conto della situazione di mercato e del settore di attività economica (dicotomizzato in agricolo e non agricolo) si giunge al seguente schema a sette classi (fig. 11.2): Pagina 175
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Classe L t formata da grandi imprenditori, professionisti e dirigen ti di livello superiore, da persone che svolgono un'occupazione ad alto reddito, sicura, che presenta forti possibilità di carriera e che comporta l'esercizio di autorità. Una parte consistente di questa classe è costituita da professionisti e da dirigenti di livello superiore, corrispondenti agli strati medio e alto di quella che i sociologi tedeschi hanno chiamato la Dienstklasse e quelli americani service class, la «classe di servizio». La caratteristica essenziale di queste occupazioni è rappresentata dalla «relazione di servizio» (fig. 11.2). A differenza del «contratto di lavoro», tale relazione comporta che il dipendente eserciti un'autorità delegata o una conoscenza specializzata nell'interesse dell'organizzazione per la quale lavora. Egli godrà dunque di una notevole autonomia di decisione e le sue prestazioni dipenderanno più dal grado di identificazione che ha con l'organizzazione che dalle sanzioni esterne [Erikson e Goldthorpe 19921. Classe II. formata da professionisti e dirigenti di livello inferiore. Classe III. E costituita dagli impiegati di livello superiore e inferiore e dagli addetti alle vendite. Classe IV. Comprende la piccola borghesia urbana (artigiani e commercianti) e quella agricola. Coloro che fanno parte di questa classe godono di una notevole autonomia nel lavoro. Fra di loro vi è tuttavia una certa eterogeneità riguardo al livello di reddito. Il grado di sicurezza varia spesso considerevolmente a seconda della congiuntura economica. Classe V. t costituita dai tecnici di livello più basso e dai supervisorì dei lavoratori manuali. Coloro che occupano queste posizioni godono di un livello di reddito abbastanza buono e di una discreta sicurezza di impiego. Essi esercitano inoltre una qualche autorità sui lavoratori di livello più basso. Modeste sono invece le possibilità di carriera. Classe VI. L formata da operai specializzati di tutti i settori di attività economica. Classe VII. E costituita da operai non qualificati di tutti i settori. Come è facile vedere, fra i due schemi che abbiamo presentato vi sono notevoli somiglianze. Alla borghesia di Sylos Labini corrisponde la classe I e gran parte della classe II di Goldthorpe; alla classe media impiegatizia, la classe 111; alla piccola borghesia urbana, la IV; alla classe operaia, le tre classi V, VI e VII. A differenza di quello di Sylos Labini, lo schema di Goldthorpe non prevede il sottoproletariato. STRATIFICAZIONE E CLASSI SOCIALI 309 Posizioni di classe di base i PRENDITOR - I .lo LAVO ri- Ind ura str I I Vc i i ATORI i AUTONOMI LAVORATORI del rapporto DIPENDENTI golazione di impiego i 0 D ORO erai i riura 11b ride In str .11 I RELAZIONE DI SERV IZIO Impit FLivello super. I IlIa Pagina 176
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt I INTE MEDI i livello upervisori ri manuali Ind str Qualificati I v vi LAV -P r gati in di Livello infer. I 111b Tecnici d feriore, s lavorato du- Ag la colt I Va i Professionisti, tecnici e dirigenti di livello superiore u- Agri- Livello Livello la coltura super. infer. I I I Vb Ive i il u- Ag la colt Non qualificati I VIla V F. IG. 11.2. " schema di GoldthorpeFonte, Er&son e Goldthorpe [19921. 5. Alcuni grandi mutamenti Trasformazioni di grande rilievo sono avvenute, negli ultimi due secoli, nella stratificazione sociale di tutti i paesi che oggi chiamiamo occidentali sviluppati e alcune di queste sono iniziate o sono in corso in molti di quelli dell'Asia e dell'America Latina. Esse hanno riguardato il tipo e il numero delle classi sociali, la loro composizione e A loro peso, i confini e i rapporti esistenti fra di esse. Classi che avevano raggiunto un tempo grandi dimensioni si sono assottigliate fino quasi a scomparire, mentre altre sono emerse, acquistando con il tempo sempre maggiore importanza. Questi mutamenti sono in parte ricollegabili allo sviluppo ed alternativamente al declino, che vi è stato in tutto questo periodo, dei diversi settori di attività economica, allo spostamento cioè della popolazione attiva prima dall'agricoltura all'industria e poi da questa al terziario ed ai servizi. All'inizio del secolo scorso, in tutta Europa, la maggioranza assoluta (o almeno quella relativa) della popolazione faceva parte delle due principali classi agricole: quelle dei braccianti e dei coltivatori proprietari. In Italia, la quota della popolazione occupata che apparteneva a queste due classi ha raggiunto il 60% nel secolo scorso, ma ancora nel 1951 superava il 40% (tab. 11.4). 19 processo di industrializzazione ha determinato il declino di queste due classi, facendone nascere un'altra: quella operaia di fabbrica. Le dimensioni del proletariato industriale (come è stato spesso chiamato) sono gradualmente aumentate, finché questa è diventata la classe a cui apparteneva la quota più ampia della popolazione. D'un tratto, però, questa tendenza ha subito una brusca inversione e il peso quantitativo di questa classe ha cominciato a diminuire. Una volta che il processo di industrializzazione ha raggiunto il culmine, ha iniziato a svilupparsi il settore dei servizi, del settore impiegatizio e professionale. Dalla società industriale si è passati a quella che è stata chiamata «postindustriale», «non più organizzata attorno al coordinamento di individui e macchine, ma attorno alla conoscenza» [Bell 1972, 1661. Class1e operaia Questi processi sono avvenuti in tutti i paesi occidentali, ma in tempi diversi. Il declino delle classi agricole, l'espansione e la contrazione della classe operaia di fabbrica sono iniziati prima in Inghilterra (in cui la rivoluzione industriale ha avuto inizio) e in altri paesi dell'Europa settentrionale. Essi hanno invece avuto luogo più tardi in quella meridionale. In Italia è fra il 1951 e il 1961 che la classe operaia dell'industria è maggiormente aumentata (passando dal 22,9 al 29% della popolazione attiva). L'espansione della classe operaia dell'industria fu in quel periodo Pagina 177
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt particolarmente forte nelle regioni settentrionali del nostro paese. Le città di queste regioni furono allora invase da un enorme numero di operai comuni, giovani, con un basso livello di qualificazione, immigrati dal Mezzogiorno. L'inversione di tendenza si è avuta nel 1971 e da allora la contrazione di questa classe non si è più arrestata. Classe tnedia Diverso è stato l'andamento della classe media impiegatizia. Di unpIegaMAla dimensioni minuscole alla fine dell'Ottocento, essa ha avuto fino ad oggi in tutti i paesi occidentali un rapido e continuo sviluppo, tanto da diventare in alcuni di essi la classe più numerosa. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna di essa faceva parte, già all'inizio degli anni ottanta, quasi il 50% degli occupati [Sylos Labini 19861. In Italia gli impiegati stanno raggiungendo il 30% e più della metà di essi sono pubblici. L'enorme espansione di questa classe è riconducibile a molti fattori: la crescente divisione del lavoro nellimpresa capitalistica, l'estendersi delle funzioni dello stato, lo sviluppo del sistema scolastico e più in generale del welfare state. Cambiati sono anche i confini e le relazioni fra la classe media impiegatizia e quella operaia industriale. Fin dall'inizio, fra queste due classi vi sono state somiglianze e differenze. Né gli operai né gli impiegati possiedono i mezzi di produzione e, per vivere, entrambi devono vendere la loro forza lavoro sul mercato. Ma la loro condizione di lavoro è diversa, come indica la contrapposizione, spesso usata dai soCiologi, fra i «coHetti blu» (gli operai) e i «coHetti bianchi» (gli impiegati) 1 primi hanno rapporti con le cose, i secondi con le persone e i simboli. 1 primi lavorano nelle fabbriche, alle macchine, svolgono mansioni «sporche», per le quali non è necessario un lungo periodo di addestramento. I secondi operano negli uffici e compiono funzioni di direzione, pianificazione, controllo, amministrazione, che richiedono un buon livello di qualificazione. Nell'ultimo ventennio, tuttavia, queste differenze nelle condizioni di lavoro sono diminuite. 1 mutamenti tecnologici ed organizzativi hanno trasformato A lavoro operaio di fabbrica, che è diventato meno gravoso e faticoso dì un tempo e che richiede capacità cognitive e relazionali molto maggiori [Paci 19961. Altri importanti mutamenti nella stratificazione sociale hanno a che fare con i processi di proletarizzazione. Questa espressione viene usata per indicare il passaggio di una o più persone dalla piccola borghesia al proletariato, cioè dalla condizione di lavoratore autonomo, proprietario dei mezzi di produzione a quella di lavoratore salariato, dipendente da un imprenditore pubblico o privato. Tale processo è diverso da quello di pauperizzazione, cioè di caduta del livello di vita al di sotto della sussistenza, o di perdita di prestigio o di dequalificazione professionale. L'espropriazione di un gran numero di piccoli produttori autonomi è stata una delle caratteristiche salienti della nascita del capitalismo, come abbiamo visto nel cap. 11. Ma i processi di p roletarizz azione hanno avuto luogo molte altre volte, nel XIX e nel XX secolo, sia nei paesi occidentali industrializzati che in quelli in via di sviluppo. Tali processi hanno riguardato spesso la popolazione agricola. In certi periodi, molti contadini coltivatori hanno perduto la proprietà dei campi, del bestiame, degli attrezzi di lavoro, diventando così braccianti. In Italia, ad esempio, questo si è verificato nel decennio 1870-1880, con la crisi agraria, e si è ripetuto nel 1920-1930, con la stagnazione economica, e nel 1950-1970, con la grande industrializzazione. Altre volte, a proletarizzarsi sono stati gli strati urbani della popolazione, che hanno perso il controllo della bottega, degli utensili, del negozio, diventando operai di fabbrica o braccianti. Non sono mancati tuttavia anche i processi di segno opposto, di de-proletarizzazione, di passaggio cioè dalla condizione di bracciante o di operaio di fabbrica, privo dei mezzi di produzione, a quella di lavoratore autonomo. In Italia, ad esempio, questo si è verificato durante A periodo fascista, neglì annì trenta, o subito dopo la Il guerra mondiale, quando i governi hanno promosso la piccola proprietà contadina, rendendo possibile il passaggio di centinaia di migliaia di famiglie dal proletariato agricolo alla classe dei coltivatori diretti. Ma processi analoghi sono avvenuti negli ultimi venti anni in molti paesi occidentali, nei quali A peso della piccola borghesia degli artigiani e dei commercianti, dopo essere per lungo tempo diminuito, ha ripreso ad aumentare [Myles e Turegun 19941. Secondo alcuni studiosi [Therborn 19951, questa tendenza è stata più forte nei paesi con alti tassi di dìsoccupazione, come l'Italia, l'Irlanda, la Spagna, la Gran Bretagna ed il Belgio. Proletarizzazione Pagina 178
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt De-proleuazz,amie 312 CAPITOLO 11 TAB. 11.4. Distribuzione percentuale della popolazicine italiana (occupata) per c&ssi sociali dal 1881 al 199.3 1881 1921 1951 1971 1983 1993 I. Borgbesia 2 2 2 3 3 3 11. Classi medie urbane 23 16 26 38 46 52 Il.a. Classe media impiegatizia I. Impiegati privati 2. Impiegati pubblici Il.b. Piccola borghesia relativamente autonoma l. Artigiani 2. Commercianti 3. Altri 111. Coltivaiori diretti IV. Classe operaia l. Agricoltura 2. Industria 3. Altri Totale 5 3 13 20 26 29 i 1 5 9 10 il 4 2 8 il 16 18 19 13 13 18 20 23 14 6 5 5 6 6 3 4 6 8 9 il 2 3 2 5 5 6 23 37 31 12 8 6 52 45 41 47 43 39 36 22 12 6 4 3 13 20 23 31 28 25 3 3 6 10 il il 100 100 100 100 100 100 Fonte: Sylos Labini [1986; 199515.1. La borghesia e il proletaflato nei servizi Da molti anni ormai, nei paesi occidentali, la grande maggioranza della popolazione attiva è occupata nel settore dei servizi. Se in Italia gli addetti a questo settore hanno toccato il 58% del totale, negli Stati Uniti e in Svezia arrivano al 70% [Paci 19911. Se si osserva con cura questa popolazione, si notano segni evidenti di una tendenza alla divaricazione sociale. In alto, si è avuta una continua espansione di quei dirigenti e professionisti che fanno parte della borghesia secondo lo schema di Sylos Labini e della classe 1 secondo quello di Goldthorpe. In basso, si è formata e si sta espandendo una nuova classe di persone che svolgono lavori a bassissimo livello di qualificazione, quelli che Madobs negli Stati Uniti sono chiamati Macjobs, da job, che significa posto di lavoro, e Mac, che si riferisce alla catena di ristoranti fast-food MacDonalds, nella quale appunto le mansioni di questo tipo abbondano. L'aumento del numero di questi posti di lavoro a bassa qualificazione non è avvenuto nella stessa misura in tutti i paesi e nei tre settori (v. cap. XIX) nei quali è possibile distinguere i servizi [Esping An- ]Proletariato dei dersen 1991; 19931. Esso è stato più forte nei servizi al consumatore (ristoranti, bar, lavanderie, negozi di parrucchieri) e minore nei servizi sociali (salute, istruzione, cura degli anziani), mentre non si è verificato affatto nei servizi alle imprese (consulenza manageriale, progettazione dei sistemi, servizi legali, commerciali e finanziari), nei quali si sono invece moltiplicati i posti di lavoro ad alto livello di qualificazione. Vi sono però, come si diceva, differenze fra i paesi. Negli Stati Uniti i Macjobs si concentrano nei servizi al consumatore, sono poco pagati e non offrono alcuna sicurezza del posto. In Svezia invece questi lavori sono diffusi anche nei servizi sociali ed offrono retribuzioni e possibilità di carriera non inferiori ai lavori non qualificati dell'industria. Negli Stati Uniti, questi lavori sono molto facili da trovare come da lasciare e dunque sono particolarmente adatti per il primo impiego. Per questo, mentre un tempo essi venivano fatti dalle donne e dai neri, oggi sono svolti dai giovani e dagli immigrati, che riescono a lasciarli dopo un certo periodo di tempo, per inserirsi nel mercato del lavoro ad un livello più elevato. A rimanere Pagina 179
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt intrappolate in questo settore sono solo alcune persone anziane e poco istruite. In Svezia invece sono quasi esclusivamente le donne ad occupare i posti di lavoro a bassa qualificazione dei servizi. Anche esse riescono in genere, dopo un po di tempo, a lasciare queste occupazioni per altre più qualificate e meglio retribuite. Ma molte fanno carriera all'interno dello stesso settore dei servizi sociali, passando ad esempio da assistente per l'infanzia ad insegnante. Ancora diversa è la situazione in Germania. 1 lavori non qualificati dei servizi sono svolti prevalentemente dalle donne e dagli uomini licenziati dall'industria. Ma pochi di essi riescono ad abbandonarli dopo un po di tempo. 5.2. La sottociasse Gli schemi di classificazione che abbiamo seguito per analizzare i mutamenti nella stratificazione sociale presentano un serio inconveniente: prendono in considerazione solo le persone occupate, mentre noi sappiamo che un'alta quota della popolazione non lo è. Per la verità, lo schema di Sylos Labini prevede anche il sottoproletariato, costituito in gran parte da disoccupati. Ma nessuno studioso è riuscito finora a presentare stime soddisfacenti delle dimensioni di questa classe e delle sue variazioni nel tempo. Alcuni sociologì hanno tuttavia osservato che negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in altri paesi occidentali si è formata e si sta sviluppando una nuova classe, che essi chiamano «sottoclasse» (underclass) e Sottociasse che è costituita da tutte le persone che si trovano in uno stato permanente di povertà e che, non essendo in grado di procurarsi da vivere con un'attività economica legale, dipendono dall'assistenza pubblica. Questa definizione fa pensare al sottoproletariato, ma ci ricorda anche la gran massa di persone che, nelle società preindustriali, si trovavano in una situazione costante di miseria e come scriveva tre secoli fa Gregory King - vivevano «a detrimento del bene della nazione». In realtà, non vi è accordo fra i sociologi riguardo alle caratteristiche di fondo della sottoclasse e alle condizioni sociali che la rendono possibile [Marks 19911. Schematicamente, le concezioni prevalenti sono due: una «culturalista», l'altra «strutturalista». Per la prima [Murray 19841, la sottoclasse è costituita da tre gruppi (particolarmente diffusi nella popolazione di colore): ragazze madri, persone espulse dalla forza lavoro, delinquenti. E lo sviluppo di questi tre gruppi è dovuto alle politiche sociali liberali e al welfare state. Per i sostenitori di questa tesi, se una parte crescente delle giovani donne nere con un basso livello di istruzione non si sposano quando restano incinte è perché perderebbero il diritto a ricevere un sostegno economico da parte dal programma Aiuto alle famiglie con figli a carico. Analogamente, se i giovani americani di colore non cercano lavoro è perché quello dequalificato che riuscirebbero a trovare non darebbe loro un reddito maggiore di quello che ricevono dall'assistenza pubblica o che riescono a procurarsi con qualche furto. La sottoclasse è dunque la figlia indisciplinata di un padre che si prodiga nel viziarla: il welfare state. In altri termini, ben lungi dafl'aiutare la popolazione povera a darsi da fare per uscire dal suo stato, le riforme sociali hanno favorito il formarsi, nella sottoclasse, di atteggiamenti di rassegnazione, di demoralizzazione, di cinismo. Per gli strutturalisti, invece, la sottoclasse è frutto non della dipendenza dal welfare state, ma di una debolezza di fondo dell'economia. Secondo questi studiosi, il problema della povertà è quello della mancanza di posti di lavoro che diano un reddito sufficiente per vivere. Se la sottoclasse si è sviluppata è perché il declino dell'industria manifatturiera ha fatto venir meno un gran numero di quei lavori operai ben retribuiti che costituivano un tempo, nelle grandi città americane, una testa di ponte per i neri e gli immigrati. 6. L'importanza delle classi sociali Alcuni sociologi ritengono che ormai il concetto di classe sociale non sia altro che un ferrovecchio arrugginito, inutilizzabile da chi voglia capire la realtà delle società contemporanee. «Negli ultimi decenni - hanno scritto ad esempio Terry Clark e Seymour Martin Lipset [1991, 3971 - man mano che le gerarchie tradizionali perdevano di importanza ed emergevano nuove differenze sociali, l'analisi di classe si è rivelata sempre più inadeguata [ 1 E concetto di classe, per quanto utile per lo studio dei precedenti periodi storici, è sempre più superato» La classe sociale, ad esempio, influisce meno di un tempo sul comportamento di voto. Mentre un tempo gli elettori di classe operaia tendevano a preferire i partiti di sinistra e quelli delle classi medio-alte i partiti di destra, oggi questo non si verifica più o per lo meno non nella stessa misura di prima. Pagina 180
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt STRATIFICAZIONE E CLASSI SOCIALI 315 Vi sono tuttavia altri sociologi (con i quali gli autori di questo libro sono sostanzialmente d'accordo) che ritengono che A concetto di classe sociale sia utile anche per l'analisi delle società contemporanee. Essi sono ben consapevoli dei grandi cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi decenni in queste società e in particolare del fatto che l'importanza del lavoro, nella vita degli individui, è diminuita. Ma sono anche convinti che la classe sociale resti un criterio significativo di strutturazione delle disuguaglianze e che anche oggi l'appartenenza ad una classe influisca su molti aspetti della vita di un individuo. «Nella ricerca empirica - ha scritto alla metà degli anni settanta Randall Collins, un sociologo americano - la classe sociale si è rivelata la variabile esplicativa di gran lunga più importante» [1975, trad. it. 1980, 371. Anche se questa affermazione può sembrare oggi esagerata, i risultati delle ricerche condotte nei diversi paesi occidentali continuano a mostrare che la classe sociale esercita ancora un'influenza rilevante su molte forme di comportamento. Questo vale ad esempio per le scelte elettorali, perché le analisi più sofisticate dei dati esistenti hanno mostrato che - contrariamente a quanto sostengono Terry Clark e Seymour Martin Lipset - fra classe sociale e preferenza di voto vi è anche oggi una relazione significativa [Manza et al. 1995; Goldthorpe 1996; Hout et al. 19961. Ma, come abbiamo visto nel cap. VI, questo vale anche per la sodalizzazione. Nel prossimo capitolo e nel cap. XVII vedremo quanto influisce la classe di origine sulla mobilità sociale e sull'istruzione. In questo capitolo, per mostrare quale importanza conservino oggi le classi sociali ci occuperemo di due diverse questioni: i mutamenti che vi sono stati negli ultimi decenni, nei paesi occidentali, nella distribuzione delle risorse economiche e la relazione esistente fra appartenenza ad una classe sociale e durata della vita. 7. La distribuzione dei redditi Se la divisione in'classi sociali avesse perso gran parte della sua importanza, non vi sarebbe più una forte disuguaglianza nella distribuzione delle risorse economiche fra gli individui e le famiglie o per lo meno essa sarebbe oggi minore di un tempo. Ma nella realtà, come vedremo, le cose non stanno così. Affrontando questa questione, bisogna tenere distinto il reddito dal patrimonio. Il primo è quello che gli individui e le famiglie ricavano dalle più varie fonti (salari, profitti, rendite). Il secondo invece è costituito da tutti i beni mobili ed immobili posseduti dagli individui o dalle famiglie. Le ricerche che sono state condotte riguardano più il primo che il secondo aspetto. Uno dei metodi che esse hanno più frequentemente usato per misurare la disuguaglianza nella distribuzione delle risorse economiche consiste nel calcolo del cosiddetto coefficiente di Gini (dal nome del demografo italiano che l'ha proposto), che Distribuzione delle risorse economiche viene espresso in una scala che va da 0 (perfetta uguaglianza) a 1 (massima disuguaglianza) Nei paesi occidentali vi è ancora una forte disuguaglianza nella distribuzione delle risorse economiche. Negli Stati Uniti, ad esempio, all'inizio degli anni novanta, il 20% delle famiglie a maggior reddito ne riceveva undici volte di più del 20% delle famiglie a minor reddito [For rkber, for poorer 19941. La disuguaglianza è maggiore nella distribuzione del patrimonio che in quella del reddito. In Italia, ad esempio, il 10% delle famiglie a maggior reddito percepisce il 26% del reddito complessivo, ma possiede ben il 35% del patrimonio [Geri e Pennacchi 1993, 188-1891. Il grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito varia considerevolmente nello spazio. Dal confronto fra dodici paesi altamente sviluppati, è emerso che quello che ha la distribuzione del reddito più egualitaria è il Giappone, seguito dalla Svezia, l'Olanda e la Norvegia. Ad occupare l'ultimo posto in questa classifica (e dunque ad avere una distribuzione del reddito più squilibrata) sono gli Stati Uniti, preceduti dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dall'Italia [Geri e Pennacchi 19931. L'Italia ha oggi in questo settore, così come venticinque anni fa, un grado di disuguaglianza al di sopra della media europea [Rossi 19961. Per quanto scarsi e frammentari, i dati disponibili indicano che, sia nel passato prossimo che in quello più remoto, vi sono stati in questo campo importanti mutamenti. Essi sono avvenuti in genere molto lentamente e, contrariamente a quanto si pensa, non sono andati sempre nella stessa direzione. Particolarmente eloquenti sono, da questo punto di vista, i risultati delle ricerche condotte in Inghilterra [Phelps Brown Pagina 181
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 19881, l'unico paese per il quale disponiamo di una serie storica della distribuzione del reddito degli ultimi tre secoli, che parte dal 1688, l'anno in cui - come si è detto - Gregory King presentò una stima della divisione in ceti della popolazione inglese. Secondo i dati di questa serie, la disuguaglianza nella distribuzione del reddito si è ridotta nel XVIII secolo, è aumentata in quello successivo, ed è di nuovo diminuita nel nostro secolo, nel trentennio successivo alla II guerra mondiale. Anche negli Stati Uniti, le disuguaglianze in questo campo sono cresciute nel secolo scorso e si sono attenuate dopo la crisi del 1929. Recentemente si è avuta tuttavia una nuova inversione di tendenza. Come si può vedere dalla fig. 11.3, il coefficiente di Gini ha ripreso a crescere: negli Stati Uniti dal 1970, in Gran Bretagna dal 1980. Ma l'aumento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito non è avvenuto solo in questi due paesi. Nel corso degli anni ottanta 'esso si è verificato anche in Australia e in Nuova Zelanda, in Canada, in Francia, in Germania e in Olanda [Fritzell 1994; Myles e Turegun 19941. L'aumento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi che si è avuto in questi paesi è riconducibile a vari fattori. Il primo è la dinamica dei redditi di lavoro e l'ampliarsi dei differenziali retributivi, causato dal fatto che la diminuzione della domanda di operai poco qualificati (che ha avuto luogo in questo periodo) è stata maggiore di quella di impiegati e di dirigenti. Il secondo fattore è l'aumento del tasso di attività delle donne e del numero di mogli che percepiscono buone retribuzioni, che ha favorito 9 passaggio di alcune famiglie dalla fascia di reddito media a quella alta. Il terzo fattore è stato la crescita del numero di divorzi, che ha fatto cadere una parte delle famiglie composte da madre e figli dallo strato medio a quello basso. 8. La durata della vita Alcune ricerche condotte in Gran Bretagna negli anni venti e trenClasse sociale e ta mostrarono che vi era una relazione inversa fra classe sociale di tasso di mortalità appartenenza e tasso di mortalità (cioè del numero di decessi per 100.000 abitanti), ossia che, ad ogni età, la quota di persone che moriva era tanto più alta quanto più bassa era la classe sociale. I mutamenti che sono avvenuti da allora hanno fatto pensare che questa relazione fosse del tutto scomparsa o per lo meno si fosse indebolita. Il primo è che si è avuto uno straordinario miglioramento nelle condizioni abitative e nell'alimentazione di tutti gli strati della popolazione dei paesi occidentali. Il secondo è che le malattie infettive non uccidono più come un tempo. Il terzo è che, con l'estendersi del welfare state, l'assistenza sanitaria è stata generalizzata a tutti. Le numerosissime ricerche svolte negli ultimi trent'annì hanno invece mostrato che la relazione fra classe sociale e durata della vita è ancora oggi molto forte. Si pensi, ad esempio, che nella popolazione maschile adulta gli operai hanno una probabilità di morte quasi doppia rispetto agli impiegati. Osservando inoltre la fig. 11.4, il lettore vedrà subito che il tasso di mortalità degli uomini dai 35 ai 54 anni decresce rapidamente al crescere del livello di istruzione (diminuendo in genere dell'8-9% per ogni ulteriore anno di studio) [Valkonen 19941. Questa relazione esiste non solo in Gran Bretagna, ma in tutti i paesi per i quali si hanno dati: negli Stati Uniti e in Norvegia, in Svezia e in Danimarca, in Francia e in Italia, in Giappone e in Australia. Molte ricerche mostrano inoltre che negli ultimi decenni, le differenze fra classi sociali nella durata della vita, ben lungi dal ridursi, o sono rimaste costanti o sono addirittura aumentate. t dunque evidente che non possiamo attribuire alla malnutrizione e al sovraffollamento la minor durata delle persone delle classi più basse. Dobbiamo prendere in considerazione altre variabili. In primo luogo, le condizioni di lavoro e di vita. Se le persone delle classi più basse muoiono prima è perché passano il tempo in ambienti più nocivi, più inquinati, in cui è più facile che avvengano incidenti. In secondo luogo, lo stile di vita. Quanto più bassa è la classe sociale di appartenenza, tanto più è probabile che una persona abbia abitudini dannose per la salute: fumi, beva molti alcolici, mangi tropppo e sia di conseguenza obeso. Vale la pena di ricordare che un tempo le persone delle classi svantaggiate erano più magre e più basse di statura delle altre. Oggi, pur continuando ad essere più basse, esse sono anche più grasse, perché consumano spesso cibi ricchi di zuccheri e di amidi, che sono meno costosi della carne e del pesce [Harris 1989, trad. it. 1991, 1161. In terzo luogo perché hanno minore accesso ai servizi sanitari di Pagina 182
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt alta qualità. Più difficile è spiegare perché, in alcuni paesi, le differenze fra classi sociali nella durata della vita siano aumentate. L probabile però STRATIFICAZIONE E CLASSI SOCIALI 319 N. decessì / 100.000 1.000-11 1 900_ 800700600500400300200"-----.jnghdterra e Galles Danimarca Svezia Norvegia 6 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 Anni di istruzione FIG. 11.4. Mortafità (standardizzata per età) per tutte le cause di morte per anni dì istruzione.: uomini 35-54 anni nel periodo 1976-1980 (scala logaritmica).. Fonte: Valkonen 119941. che si tratti di un fenomeno transitorio, dovuto al fatto che negli ultimi trent'anni, in tutti i paesi occidentali vi è stato un netto calo della mortalità e che questo è stato più rapido nelle classi medio alte che in quelle basse. m 'i I , '1 t @l i ii @ ;1 i@
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Capitolo 12 Si chiamavano Filippo ed Enrico e venivano da una grande famiglia lombarda. Il loro padre era Alessandro Manzoni, l'autore de l' promessisposi. Fra i loro bisnonni annoveravano il marchese Cesare Beccaria, celebre in tutta Europa per i suoi scritti sull'amministrazione della giustizia penale. Erano cresciuti fra gli agi di una famiglia ricca, circondati da servi, educati da istitutori privati. La loro sorella Giulietta aveva sposato Massimo D'Azeglio, un nobiluomo proveniente da un antica famiglia piemontese. Eppure, una volta raggiunta la maggior età, essi non erano restati a lungo nel loro ceto. Arrestato per debiti a ventisei anni, Filippo aveva continuato in seguito a cercare inutilmente un lavoro, vivendo poi di espedienti e di prestiti. Enrico aveva messo su in poco tempo una numerosissima famiglia, ma non era stato capace di assicurare alla moglie e ai figli nemmeno il minimo indispensabile Due sue figlie possedevano insieme un unico vestito buono e alla domenica, quando andavano in chiesa, per poterlo indossare dovevano darsi il turno, uscendo in due momenti diversi. E di Enrico si racconta che passasse quasi tutta la giornata sul ponte di San Vittore, con la tuba in capo e un lungo sigaro in bocca. l. Tipi di mobilità Vi è chi ha sostenuto che la triste sorte di Filippo e di Enrico sia spiegabile con il cosiddetto complesso del figlio di un «grande», che porta colui che non riesce a raggiungere il livello del padre, a cercare di superarlo «gettandosi in basso» [Citati 19911. Non sappiamo se ciò sia vero. Ciò che è certo, e che qui ci interessa, è che A loro è un tipico esempio di mobilità sociale discendente. Definiamo mobilità sociale ogni passaggio di un individuo da uno strato, un ceto, una classe sociale ad un altro. 1 sociologi che nell'ultimo mezzo secolo si sono dedicati allo studio sistematico di questi movimenti distinguono fra mobilità orizzontale e verticale, ascendente e discendente, intergenerazionale ed intragenerazionale, di breve e di lungo raggio, assoluta e relativa, individuale e di gruppo. Orizzontale Per mobilità sociale orizzontale si intende il passaggio di un individuo da una posizione sociale ad un'altra allo stesso livello. t questo, ad esempio, il caso di coloro che nascono in una famiglia di artigiani o Pagina 183
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt di commercianti e che, quando raggiungono l'età adulta, fanno gliimpiegati. Si parla invece di mobilità sociale verticale per indicare lo spostamento ad una posizione più alta o più bassa nel sistema di tificazione sociale. Nel primo caso è ascendente, nel secondo discendente Per fare degli esempi, il figlio dell'operaio di fabbrica che prende la laurea in ingegneria e va a fare il dirigente d'azienda è un caso di mobilità sociale ascendente. Invece, colui che viene da una famiglia di imprenditori ma è incapace di proseguire gli studi dopo la licenza media inferiore ed entra nel mercato del lavoro come commesso di un Di lun supermarket è un caso di mobilità discendente. Si tratta comunque sempre di mobilità di lungo raggio, avvenuta cioè fra strati o classi Molto lontani. Quando invece, come avviene più spesso nella realtà, questi strati e queste classi sono contigue, si parla di mobilità di breve raggio. 1 passaggi fra una classe sociale e l'altra possono essere esaminati mettendo a confronto la posizione della famiglia di origine di un individuo con quella che egli ha raggiunto in un determinato momento Intergenerazionale della sua vita. Si parla, in questo caso, di mobilità sociale intergenerazionale Ma il confronto può essere anche fatto fra le posizioni che una persona ha occupato nel corso della sua esistenza, per esempio fra quando è entrato nel mercato del lavoro e dieci anni dopo. Questa viene di solito chiamata intragenerazionale o di carriera. La mobilità assoluta è data dal numero complessivo di persone che si spostano da una classe all'altra (ad esempio, nel caso di quella intergenerazionale , che appartengono ad una classe diversa da quella dei genitori) Per mobilità relativa (o apertura di una società o fluidità si intende il grado di eguaglianza delle possibilità di mobilità dei membri delle varie classi. La distinzione fra mobilità assoluta e relativa può essere chiarita con un esempio. Due società possono differire perché in una i figli di una data classe - ad esempio la borghesia hanno possibilità di mobilità molto maggiori che nell'altra: in questo caso si tratta di una differenza di mobilità assoluta. Ma esse possono essere diverse perché nella prima le possibilità di accedere alla borghesia dalle varie origini sono molto più diseguali tra loro che nella seconda : le due società si differenziano allora dal punto di vista della mobilità relativa. Più precisamente, si dirà che c'è una maggiore fluidità nella seconda. In una società vi è una completa eguaglianza nelle chances mobilità (o una fluidità completa) quando la classe di origine degli individui non esercita alcuna influenza sui loro destini sociali e tutti hanno le stesse possibilità di salire o di scendere lungo la scala della stratificazione. Le distinzioni che abbiamo finora ricordato si riferiscono tutte alla mobilità individuale. Del tutto diversa è la mobilità sociale collettiva. Con questa espressione si intendono i movimenti verso l'alto o verso il basso non di una persona, ma di un intero gruppo (uno strato, una classe o - come vedremo subito - una casta) rispetto a tutti gli altri gruppi sociali. Pitirim Sorokin ha efficacemente presentato la differenza fra mobilità discendente individuale e di gruppo scrivendo che «il primo caso di "caduta" può essere paragonato ad un individuo che cade da una nave, mentre il secondo ricorda l'affondamento della nave con tutte le persone a bordo, o una nave ridotta a un relitto che si sfascia» [Sorokin 1927, trad. it. 1965, 1341. Un esempio interessante di mobilità di gruppo ascendente è stato in Italia quello della professione di notaio, quando la legge di riforma del 1913 richiese l'obbligo della laurea in giurisprudenza per esercitarla (mentre prima bastavano due anni di università) e riconobbe lo status libero-professionale a fianco di quello di pubblico ufficiale [Santoro 19941. 2. Due tradizioni teoriche Lo studio della mobilità sociale è stato intrapreso da due diversi angoli visuali e per dare risposta a due diversi interrogativi teorici. Il primo ha a che fare con il concetto di apertura di una società o di fluidità sociale cioè con le opportunità che le persone con origini sociali diverse hanno di raggiungere le varie posizioni nel sistema di stratificazione Gli studiosi che si richiamano a questa impostazione si chiedono di solito se l'apertura di una determinata società (ad esempio quella italiana) sia mutata nel corso del tempo, sia aumentata o diminuita Pagina 184
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt , oppure se essa sia maggiore o minore di quella di altre società, e cercano di individuare i fattori che favoriscono o ostacolano la fluidità sociale. Sono interrogativi che gli studiosi di scienze sociali, come del resto i giornalisti, gli uomini politici o i romanzieri si sono posti da tempo. Lo ha fatto ad esempio, un secolo e mezzo fa, Tocqueville, che nelle pagine de La democrazia in America ha contrapposto «i popoli aristocratici» della vecchia Europa a quelli «democratici» degli Stati Uniti. Nei primi le famiglie restano per secoli nella stessa condizione e, spesso, nello stesso luogo 1 Le classi sono fortemente distinte e immobili, ciascuna di esse diventa per colui che ne fa parte una specie di piccola patria, più visibile e benvoluta della grande. [Nei secondi, invece] nuove famiglie sorgono di continuo dal nulla, altre vi ricadono incessantemente, e quelle che restano cambiano faccia [Tocqueville 1835-1840, trad. it. 1968, Il, 589-5901. 324 CAPITOLO 12 Si sono posti di nuovo questi interrogativi, nell'ultimo quarantennio , tutte le più importanti ricerche sulla mobilità sociale, da quelle pionieristiche condotte nell'immediato dopoguerra in Gran Bretagna e in Danimarca, fino a quelle metodologicamente più raffinate realizzate negli Stati Uniti ed in vari paesi europei negli anni sessanta e settanta. For~ ioné 19 secondo filone ruota invece intorno al problema della formaziodefie dassì ne e dell'azione delle classi. Alcuni sociologi hanno sostenuto che una classe diventa una formazione stabile quando coloro che ne fanno parte condividono valori, idee, stili di vita e ritengono di avere interessi comuni. Per questo, essi si sono chiesti se la mobilità intergenerazionale , riducendo la componente permanente di una classe, cioè la quota di persone che restano per tutta la vita nella stessa posizione dei genitori, impedisca a questa classe di diventare una collettività sociale. Naturalmente, proseguendo in questa direzione, si ossono formulare p molte altre domande, più specifiche e precise. Ad esempio, si può cercare di determinare che livello debbano raggiungere i tassi di mobilità sociale intergenerazionale per mettere in pericolo l'identità demografica di una classe e dunque anche la sua identità culturale. Anche queste sono domande classiche. Se le è poste per primo, un secolo e mezzo fa, Karl Marx, il quale osservava che negli Stati Uniti Componente d'America le classi sociali, pur esistendo già, «non si sono ancora fisfluida o sate e in un flusso continuo modificano continuamente le loro parti permanente costitutive e se le cedono» [Marx 1852, trad. it. 1974, 611. Se le sono poste di nuovo, molto tempo dopo, studiosi come Werner Sombart o Pitirim Sorokin. Quest'ultimo sosteneva che in ogni classe vi era una componente «fluida» e una «permanente» e osservava che «se vogliamo conoscere gli atteggiamenti caratteristici di un agricoltore, non prendiamo in considerazione chi ha fatto l'agricoltore soltanto per pochi mesi, ma chi l'ha fatto per tutta la vita» [Sorokin 1927, trad. it. 1965, 5051. Era per questo che il socialismo si era affermato soprattutto fra i «proletari ereditari», cioè fra gli operai figli di operai. A questa tradizione di studi si sono richiamati recentemente Robert Erikson e john Goldthorpe, che hanno presentato un'analisi comparata della mobilità sociale nei paesi occidentali, in un libro che riprende nel titolo - The constant flux - l'espressione che Marx usava , nel brano che abbiamo appena citato, per definire la società americana 3. Le ricerche sulla mobilità sociale ìì Il primo studio sistematico sulla mobilità sociale è stato scritto nel 1927 da Pitirim Sorokin, un sociologo nato nel 1889 nella Russia nordoccidentale, che di questo tema aveva certamente una conoscenza personale diretta. Come avrebbe raccontato molti anni dopo nella sua autobiografia, egli era infatti figlio di un operaio e di una contadiMOBILITA SOCIALE 325 Pagina 185
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt na e, nel corso della sua vita, era stato «successivamente bracciante, artigiano ambulante, operaio di fabbrica, impiegato, insegnante, capo corista, rivoluzionario, prigioniero politico, giornalista, studente, direttore di un giornale, membro del governo Kerensky, esule, professore in università russe, ceche e americane, e studioso di fama internazionale» [in Heath 1981, trad. it. 1983, 221. Nel suo libro, Sorokin analizzava la mobilità sociale in numerosi paesi (non solo occidentali) per un lunghissimo arco temporale (dall'an"tica Roma alla fine del secolo scorso) basandosi su una ricchissima documentazione. Una parte di questa è costituita da dati statistici, ricavati non da inchieste sistematiche su campioni rappresentativi di tutta la popolazione di un paese, ma dalle cosiddette «indagini di élite» , riguardanti cioè le origini sociali di alcuni gruppi particolari (i sovrani, gli «uomini di genio», i santi, i dirigenti) Il libro di Sorokin è considerato un classico. Alcune delle sue tesi di fondo sono ancora oggi valide. La documentazione empirica su cui queste si basano non è priva di interesse. Tuttavia, dal punto di vista della raccolta e dell'analisi dei dati, le ricerche di mobilità sociale hanno fatto molti passi avanti negli ultimi decenni, soprattutto dopo la II guerra mondiale. t da allora infatti che i sociologi hanno iniziato a condurre indagini sistematiche su campioni rappresentativi della popolazione di un paese. La prima è stata realizzata nel 1949 da un gruppo della London School of Economics diretta da David Glass [19541 su 10 mila adulti residenti in Inghilterra, in Scozia e nel Galles. Numerose altre sono state compiute in seguito, specialmente nei paesi occidentali Fra le più importanti vanno ricordate quelle condotte negli Stati Uniti da Blau e Duncan [19671, in Gran Bretagna da Goldthorpe [19801, in Francia da Thélot [19801, in Italia da Cobalti e Schizzerotto [19941. Tutte queste ricerche hanno alcune caratteristiche in comune. Si servono di campioni della popolazione molto grandi (da 5.000 a 25.000 casi) e dunque sono assai costose. Mirano a rilevare la posizione sociale degli individui che fanno parte di questi campioni e delle loro famiglie di origine. Per questo, di solito chiedono agli intervistati l'occupazione che svolgono in quel momento, quella che avevano prima (quando sono entrati nel mercato del lavoro e dieci anni dopo), l'occupazione del padre (quando essi avevano 12 o 14 anni) e, se sono sposatì, quella del suocero. Nell'analisi dei dati, fanno uso di tecniche avanzate e complesse. Anzi, è nelle indagini di mobilità che i sociologi hanno per la prima volta sperimentato alcune di queste tecniche. Tutte le più importanti indagini di questo tipo condotte negli Stati Uniti e in Europa (con l'eccezione di quella svolta in Italia) si basano su dati riguardanti soltanto la popolazione maschile. 19 motivo è che i Sociale sociologi che le hanno dirette si rifacevano alla concezione tradizionale della posizione delle donne nel sistema di stratificazione sociale. Tale concezione si basa su due assunti di fondo. 19 primo è che l'unità base 326 CAPITOLO 12 t del sistema di stratificazione non è l'individuo ma la famiglia. Il secondo è che la posizione della famiglia in questo sistema è determinata interamente da quella del capofamiglia, cioè del marito o del padre. L occupazione della donna non ha, secondo questa concezione, alcun peso per la collocazione della famiglia nel sistema di stratificazione sociale. Nell'ultimo ventennio, molti studiosi (ma sarebbe meglio dire: molte studiose) hanno criticato questa concezione, sostenendo che essa rende impossibile l'analisi di una delle più importanti forme di disuguaglianza sociale, quella appunto basata sulle differenze di genere. Essi hanno inoltre messo in rilievo che la concezione tradizionale della stratificazione sociale è oggi ancor meno accettabile di un tempo, perché contrasta sempre più con alcune tendenze di fondo delle società avanzate e in particolare con due di queste. La prima è che, un po in tutte queste società, una quota crescente di famiglie ha come «capo» non un uomo ma una donna. La seconda tendenza è che è aumentato il tasso di attività della popolazione femminile. Le donne entrano sem.1 pre più spesso nel mercato del lavoro, occupano posizioni più elevate di un tempo, vi restano più a lungo di prima. Questa tendenza ha Pagina 186
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt prodotto effetti di grande rilievo sulla famiglia. Ha fatto diminuire il grado di omogamia, cioè la percentuale di sposi che fanno lo stesso lavoro. Ha fatto aumentare il numero di coppie nelle quali la moglie ha un'occupazione superiore (per reddito o prestigio) a quella del marito. Il dibattito su questo problema è ancora in corso nelle riviste scientifiche. Ma oggi nessuno studioso condurrebbe più una ricerca di mobilità sociale solo sulla popolazione maschile. 4. La mobilità nelle società non contemporanee Le conoscenze che abbiamo sui processi di mobilità si riducono quando ci allontaniamo dalle società contemporanee dei paesi sviluppati Eppure è proprio da ciò che avveniva nel passato non solo in Europa ma anche in Asia che dobbiamo iniziare. Occupiamoci dunque prima di tutto del sistema delle caste in India, della mobilità sociale in Cina e della società di antico regime. 4.1. L'india e le caste Come si è detto nel capitolo precedente, la casta è - er Max Weber - un «ceto chiuso», perché in essa si entra alla nascita e da essa non si può uscire per tutta la vita. Dunque, in linea di principio, in una società come quella indiana in cui domina il sistema di caste, non è possibile alcuna forma di mobilità sociale intergenerazionale o intragenerazionale. La religione indù ammette tuttavia una forma particolare di mobilità sociale: quella fra una vita e l'altra. 1 due principi fondamentali dell'induismo sono la credenza nella metempsicosi (o samsara) e la teoria della retribuzione (o karma) Ad nella Meternpsicosì ogni successiva morte nel corpo in cui è ospitata, l'anima passa in un altro corpo, umano, animale o vegetale. Quando trasmigra in un essere umano, la posizione che questo occupa nel sistema di casta dipende da come si è comportato nella vita precedente. Se ha meritato, se ha seguito cioè una condotta conforme al rituale di casta, rinascerà in una casta più elevata, in caso contrario, scenderà in una più bassa. Per questo, gli indù ortodossi pensano che coloro che fanno parte di una casta impura abbiano commesso molti peccati nella vita precedente. D'altra parte, questi ultimi cercano di essere ligi ai loro doveri perché sanno che solo in questo modo hanno qualche speranza di mobilità ascendente nella nuova vita. Come dice un principio della teoria induista classica, «è meglio adempiere ai doveri della propria casta pur senza eccellere, che adempiere a quelli di un'altra casta sia pure in maniera eccellente: perché in ciò sta il pericolo» Si è a lungo ritenuto che per secoli, o addirittura per millenni, in questo sistema mancasse ogni forma di mobilità sociale. Oggi però sappiamo che questo non è vero. Già Sorokin [1927, 1391 aveva sostenuto che «non c'è mai stata nessuna società», neppure quella di casta, «in cui la mobilità non sia stata presente» Ma i risultati delle ricerche storiche e sociologiche condotte negli ultimi anni hanno molto arricchito le nostre conoscenze in proposito. t certo che anche nel passato, quello di casta non è mai stato un sistema completamente rigido, nel quale la posizione delle persone e dei ruppi fosse fissata per sempre. Se la mobilità individuale era limitata ed effimera, quella collettiva aveva una certa importanza. Le caste intermedie e quelle inferiori tentavano infatti spesso di conquistare una posizione più elevata nella scala sociale. Perché questi tentativi riuscissero erano necessarie almeno due o tre generazioni. Ma spesso essi fallivano, quando non riuscivano a vincere la resistenza e l'opposizione che suscitavano nelle caste concorrenti. In ogni caso, quando avevano successo, non provocavano alcuna trasformazione strutturale del sistema di casta. Ciò che avveniva era solo che la posizione gerarchica di due o più caste all'interno di questo sistema mutava e mentre una saliva, un'altra scendeva [Barber 19681. La mobilità ascendente collettiva era accompagnata da pratiche di «giustificazione simbolica» della nuova posizione, che alcuni studiosi hanno chiamato di «sanscritizzazione» [Srinivas 19661. Con questo Sanscrìuzzazione termine si indica quel processo con cui gli appartenenti a una casta inferiore cambiano costumi, rituale e ideologia, cercando di imitare e di fare propri quelli di una casta superiore scelta a modello (spesso i brahamani, ma talvolta anche gli kshatriya, i vaisha e i shudra) Così, ad esempio, essi possono passare a una dieta del tutto diversa, che Pagina 187
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt vieta di mangiare la carne di bue ed è vegetariana; fare più frequentemente ricorso ai bagni purificatori; sposarsi precocemente e vietare le seconde nozze delle vedove; evitare i contatti contaminanti con persone e cose impure. 4.2. La Cina e il sistema degli esami «Quanti esami ha sostenuto?» Era questa - ricorda Max Weber [1920, trad. it. 1982, 3941 - la domanda che veniva posta un tempo in Cina ad un estraneo di cui non si conosceva la posizione sociale. In quel paese infatti, per molti secoli, nonostante il culto degli antenati, non era tanto dal numero di questi, quanto piuttosto da quello degli esami che dipendeva il rango sociale. Quando introdusse il sistema degli esami, l'imperatore stabilì che solo coloro che lo superavano potevano fare i funzionari governativi, cioè entrare a far parte di quel ceto dei letterati che era al vertice della gerarchia sociale. In questo modo, si poneva fine alla prerogativa degli aristocratici di diventare funzionari in virtù del loro status familiare. Sistema &gli In che misura il sistema degli esami favori la mobilità sociale? Per esami in Cina dare una risposta a questo interrogativo, alcuni studiosi hanno condotto imponenti ricerche sui documenti riguardanti decine di migliaia di casi di persone che, dalla metà del XIV alla fine del XIX secolo, hanno superato questi esami. Da esse è emerso che una quota rilevante di esse (intorno al 30%) proveniva da famiglie non di funzionari, ma di proprietari terrieri, mercanti, artigiani o contadini, cioè erano mobili ascendenti [Ping-Ti Ho 19621. Basandosi su questi dati, alcuni studiosi hanno affermato che in Cina, grazie al sistema degli esami, l'accesso al ceto più elevato era più agevole che nelle società europee preindustriali o in quelle contemporanee. In realtà, le informazioni di cui disponiamo non consentono di sostenere una tesi così impegnativa. Per quanto in linea di principio aperti a tutti, gli esami del sistema cinese richiedevano tali e tante risorse economiche per la loro preparazione che le persone provenienti dai ceti più bassi non avevano quasi alcuna possibilità di superarli. E vero, d'altra parte, che il sistema di esami che fu introdotto in Cina in un periodo storico in cui in Europa si stava formando il sistema feudale, era straordinariamente avanzato e si basava su «un'idea di uguaglianza che non aveva equivalenti in nessuna altra parte del mondo a quell'epoca» [Miyazaki 1988, 1551. In Inghilterra si è giunti a usare gli esami per la selezione dei funzionari solo nel 1879 e negli Stati Uniti nel 1883. E probabile che il sistema cinese degli esami abbia reso più facile che nell'Europa dell'antico regime il passaggio dal ceto dei ricchi mercanti a quello più elevato (i funzionari in Cina, la nobilità in Europa) [Elman 19911. i ì; MOBILITA SOCIALE 329 4.3. La società di antico regime Non diversamente da Tocqueville, i sociologi hanno a lungo pensato che nella società di antico regime le famiglie restassero per secoli «nella stessa condizione e, spesso, nello stesso luogo» e che i ceti fossero «fortemente distinti e immobili» Ma i risultati delle ricerche condotte dagli storici negli ultimi decenni non ci permettono più di accettare acrificamente questa idea. Questi risultati, per quanto non direttamente comparabili con quelli delle indagini sociologiche, fanno pensare che la mobilità relativa fosse in passato minore di oggi. Essi ci dicono inoltre che alcune caratteristiche ascritte - come il sesso e l'età - avevano un tempo un peso molto maggiore che nella società contemporanea. Sappiamo ad esempio che, almeno per due secoli, le famiglie aristocratiche e quelle borghesi di tutta Europa e quelle dei contadini proprietari di alcune sue regioni hanno seguito il modello successorio patrilineare indivisibile, che prevedeva che tutta l'eredità paterna andasse a uno solo dei figli maschi, di solito al primogenito. Ai cadetti veniva data una somma di denaro e alle figlie una dote. Ciò vuol dire che solo un figlio restava nello stesso ceto del padre, mentre gli altri rischiavano di iniziare la loro vita in un ceto diverso, di solito più basso Per evitare la mobilità discendente dei cadetti, venivano seguite varie strade. Alcuni non si sposavano e restavano nella famiglia del primogenito. Altri cercavano di farsi strada con la carriera religiosa. Pagina 188
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Le ricerche storiche mostrano tuttavia che la società di antico regime non era rigida e immobile come si riteneva un tempo. In essa vi era anzi una notevole mobilità assoluta, che - a differenza che in India - non era solo di gruppo, ma anche individuale. Molto forte (probabilmente , in certi periodi storici, più che nella società contemporanea) era la mobilità intragenerazionale. In parte essa era dovuta a quel fenomeno che gli storici hanno recentemente chiamato di «circolazione dei giovani» fra le famiglie [Mitterauer 19901. 1 genitori mandavano spesso i loro figli e le loro figlie per alcuni anni, prima che si sposassero , a servizio in casa di altri, presso le famiglie non solo dei nobili o dei mercanti, ma anche dei contadini, degli artigiani e persino degli strati più poveri della popolazione. Qui essi vivevano di giorno e di notte, lavoravano, mangiavano, dormivano, interagivano sotto un'autorità diversa da quella dei loro genitori. Svolgevano attività non domestiche , ma produttive come garzoni, lavoranti, apprendisti, cocchieri, cavallieri, stallieri, falegnami, sarti, fornai. Quest'uso era particolarmente diffuso nelle regioni centro-settentrionali d'Europa e riguardava più della metà dei giovani dai 15 ai 29 anni. In altre zone d'Europa, flussi consistenti di giovani lasciavano i genitori e i parenti non per andare a servizio in un'altra famiglia, ma per emigrare in un centro urbano e trovare un'occupazione. Nei primi decenni dell'Ottocento, ad esempio, moltissimi giovani piemontesi dai 16 ai 25 anni di famiglie contadine immigravano a Torino per lavorare come muratori, sarti, facchini. Alcuni di questi si fermavano nella città piemontese, cambiando magari molte altre volte lavoro. Numerosi altri vi restavano invece in attesa di tornare al paese, di sostituire nell'attività o nella proprietà della terra il padre o un fratello [Levi 19901. Spesso, dunque, sia chi andava a servizio in casa di altri sia chi emigrava in città esperimentava quella che - come vedremo più avanti Mobilità viene oggi definita mobilità con ritorno alle origini per indicare coloro con ritorno che, quando lasciano la famiglia, occupano una posizione diversa da afle origini quella del padre, per ritornare poi al punto di partenza dopo un certo numero di anni. Ma anche la mobilità assoluta intergenerazionale non mancava nelle società di antico regime. In linea di principio, l'aristocrazia era un ceto a cui si apparteneva per nascita. Ma nella realtà in essa sono riuscite a entrare molte persone provenienti da altri ambienti sociali. «Chi nascie ricco - scriveva nel 1629 il patrizio fiorentino Aurelio Grifoni - quantunque egli sia vilissimo di sangue, ed una pecora con il velo d' oro, è tenuto nobile ed il medesimo a chi nascie signore» [Angiolini 1990, 6361. Questa affermazione era probabilmente esagerata. Ma è certo che spesso la ricchezza era una condizione necessaria, anche se non sufficiente , per entrare a far parte dell'aristocrazia. Chi la possedeva (come i mercanti e i banchieri) poteva cercare di comprare un feudo o un titolo «Nel secolo XVI - ha osservato Braudel [1976, 7721 - non c'è quasi stato o principe che non venda i titoli di nobilità contro denaro suonante» Oppure poteva imparentarsi con l'aristocrazia attraverso il matrimonio Negli ambienti nobili queste nozze - chiamate mesalliances venivano giudicate molto severamente. Ma quando una famiglia aristocratica si trovava economicamente in cattive acque ricorreva a un matrimonio del genere, soprattutto se esso avveniva fra un nobile e una borghese Come infatti spiegava, alla metà del Cinquecento, Matteo Bandello - «grave incarco è a donna d'alto legnaggio prender per marito uomo d'inferior sangue. Il che a uomo non avviene, ché essendo nobilissimo , ancora che pigli per moglie donna di più basso sangue di lui, egli per questo non casca di grado» [Bandello 1966, 1, 321. Infine, nell'aristocrazia si poteva salire per la carriera politica, i servizi prestati al sovrano, la perizia nelle arti o in alcune professioni [Angiolinì 19901. Se è vero che nell'aristocrazia non si entrava solo con la nascita, è altrettanto vero che non se ne usciva solo con la morte. Anche un nobile, nel corso della sua vita, poteva fare la poco piacevole esperienza del «declassamento», della mobilità sociale discendente. Per citare solo due esempi, a Venezia, nel 1499, il nobiluomo Andrea Contarini aveva nove figli, era carico di debiti, da sedici anni era privo di ogni carica politica, non sapeva esercitare alcun mestiere ed era stato messo in mezzo ad una strada. In Franda, alla fine del XVII secolo, la moglie.di Pagina 189
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt un nobile di campagna del Beauvais scriveva in un appello: «se volete prendervi la pena di mandare qui qualcuno, vedrete che dico la verità. La casa va in rovina, noi siamo disperati e tra non molto dovreì mo darci all'accattonaggio» [Goubert 1968, 240-2411. Quelli citati non erano casi limite. Si stima che un terzo dei nobili del Beauvais vivesse in miseria e che a Venezia vi fossero molti aristocratici decaduti. In Italia e in alcune altre zone europee, coloro che si trovavano in «poveri questa situazione venivano chiamati «poveri vergognosi» Come si legvergognosì»: ge nello statuto di un'associazione del 1622, «vergognosi sono li gentiluomini , cittadini, mercanti ricchi e più anche gl'artefici padroni di buoni capitali d'arti onorate e non vili» i quali «con le loro facultà siano vissuti per il passato sempre bene et onoratamente», ma poi siano caduti in povertà per «causa non dolosa» [in Ricci, 1996, 821. Molti sforzi furono fatti per attenuare o occultare questi casi di mobilità sociale discendente, che rappresentavano un'infrazione alle norme della società per ceti. Nel XV e nel XVI secolo, nelle città italiane si moltiplicarono le istituzioni assistenziali che distribuivano in segreto l'elemosina a questi «poveri vergognosi», che non potevano né lavorare né mendicare senza perdere l'onore. Nelle società del passato (come peraltro - lo vederemo subito in quelle contemporanee) i tassi di mobilità assoluta inter e intragenerazionale non dipendevano tanto dal grado di chiusura dei ceti elevati, ma dalla dimensione dei vari ceti esistenti. Due esempi sono necessari per chiarire questo punto. Il primo riguarda Venezia. Secondo i contemporanei, la popolazione di questa città poteva essere distinta in tre gruppi sociali. Al vertice vi era la nobiltà. Immediatamente sotto questa vi erano i «cittadini», una specie di ceto medio superiore di cui facevano parte tutti coloro che non svolgevano lavori manuali puramente «meccanici»: mercanti, artisti, notai, impiegati della Cancelleria ducale, addetti alle corti di giustizia. Infine vi erano i «popolani» Dei primi due ceti faceva parte un numero esiguo di famiglie. Ma - come il lettore può vedere dalla tab. 12.1 - dalla fine del Cinquecento alla fine del Settecento, questo numero ha subito considerevoli variazioni. La quota dei nobili si è progressivamente ridotta. Quella dei «cittadini», dopo essere aumentata per mezzo secolo, è costantemente diminuita, per raggiungere il punto più basso alla fine del TAB. 12. L Percentuale dei nobilì, dei citta&ni e dei popolani suUintera popolazione di Venezia 41 Cinquecento #l Settecento 1581 1586 1624 1633 1642 1760 1766 1780 1790 Nobili 4,5 4,3 3,9 4,0 3,7 2,4 2,5 2,4 2,3 Cittadini 5,3 5,1 7,4 10,6 7,7 8,3 3,7 3,9 4,1 Popolani 90,2 90,6 88,7 85,4 88,6 89,3 93,8 93,7 93,6 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Totale 134.871 148.637 141.625 102.243 120.307 149.476 141.056 141.086 137.603 (valori assoluti) Fonte: Beltrarnì [19591. 332 CAPITOLO 12 TAB. 122. Nuoer0. di fimigUe per èkss@. le: nelk campagna dai: 108 al i 786 1678 1786 Artigiani e altri 117 148 Contadini proprietari 73 150 Mezzadri 881 870 Pigionali 534 1.335 di cui: opranti 18 445 Totale 1.605 2.503 Fonte: Della Pina [19851. Settecento. Questi mutamenti hanno sicuramente prodotto delle variazioni della mobilità assoluta, ascendente e discendente. Il secondo esempio riguarda le campagne di Prato. Nel 1678, in questa zona, oltre agli artigiani, vi erano tre gruppi sociali agricoli (tab. 12.2). Procedendo dall'alto verso il basso, troviamo i contadini proprietari , i mezzadri e i «pigionali» Questi ultimi erano lavoratori senza casa e senza stalla che coltivavano, con varie forme contrattuali, piccoli appezzamenti poco fertili che non potevano essere trasformati in poderì Pagina 190
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt [Della Pina 19851. Nel secolo successivo vi fu un considerevole aumento della popolazione (di circa il 50%), mentre il numero dei poderi non aveva subito variazioni di rilievo. Così, essendo il numero delle famiglie mezzadrili rimasto costante, le persone «in più» o erano salite nello strato dei contadini proprietari o - molto più spesso - erano cadute in quello dei pigionanti (e una parte sempre maggiore di questi erano «opranti», braccianti) Anche nell'Europa del passato, i tassi di mobilità assoluta inter e intragenerazionale variavano nello spazio e nel tempo. Le crisi di mortalità che - come vedremo nel cap. XXIII - avvenivano periodicamente nelle società del passato, in pochi mesi facevano scomparire anche un terzo della popolazione, creavano grandi vuoti in molti gradini della scala sociale e questo faceva aumentare la mobilità assoluta. Conseguenze analoghe ha avuto la crescita della burocrazia di stato e i cambiamenti dei contratti agrari che provocavano l'espansione degli strati medi o di quelli inferiori. 5. Industrializzazione e sviluppo economico Maggiori sono le nostre conoscenze riguardo alla società contemporanea Su questa, come si è detto, i sociologi hanno condotto grandi indagini, cercando di ricostruire e di analizzare i mutamenti nella mobilità sociale (assoluta e relativa) avvenuti negli ultimi ottant'anni e le differenze esistenti fra i vari paesi. Le descrizioni e le spiegazioni suHa mobilità che essi ci hanno fornito sono tuttavia assai diverse. Le più importanti sono cinque [Erikson e Goldthorpe 19921. bene però che il lettore tenga presente che la prima, la seconda e la quinta si riferiscono sia alla mobilità assoluta che a quella relativa, mentre la terza e la quarta solo a quella assoluta. La prima è la «teoria liberale dell'industriahsmo» [Kerr et al. 1960; Parsons 1960; Secondo questa teoria, il passaggio dalla società preindustriale a quella industriale è stato accompagnato da un aumento della mobilità sia assoluta (e in particolar modo da quella ascendente) che relativa. Tale aumento non si è arrestato alla fine di questo periodo storico, ma continua tuttora man mano che prosegue lo svilu po economico. Questo sviluppo fa crescep re la mobilità assoluta perché causa continui mutamenti nel mercato del lavoro (ad esempio: la diminuzione dell'occupazione agricola e l'espansione di quella industriale) e un costante aumento delle posizioni di vertice che richiedono alti livelli di qualificazione. D'altra parte esso determina un aumento della mobilità relativa perché provoca un processo di razionalizzazione, il passaggio dal particolarismo salismo, dal dominio dei ruoli ascritti a quello dei ruoli acquisiti. Nel reclutare le persone nelle diverse posizioni ciò che conta è sempre di meno chi sono e sempre di più cosa esse sanno fare. Implicitamente o esplicitamente in disaccordo con questa teoria sono i sostenitori di una seconda posizione: quella che fra i paesi sviluppati ve ne siano alcuni che hanno livelli di mobilità sociale eccezio- Fattori culturali e pc>litid nalmente elevati. Per la verità, neppure coloro che si richiamano alla prima teoria negano che vi siano delle differenze fra le società industriali , ma le riconducono esclusivamente al diverso livello di sviluppo, ossia ritengono che quanto più avanzata è l'economia di un paese, tanto maggiore è la mobilità assoluta e relativa che esso presenta. Per i sostenitori della seconda posizione, invece, la forte mobilità sociale di alcuni paesi è dovuta a fattori di ordine culturale o politico. Gli studiosi che, rifacendosi alla tesi di Tocqueville che abbiamo ricordato, pensano che gli Stati Uniti (o, talvolta, l'Australia) siano il paese in cui spostarsi da una classe all'altra è particolarmente facile, ritengono che questo sia dovuto alla peculiarità delle sue istituzioni e della sua cultura nazionale. Coloro invece che credono che siano i paesi socialisti sorti nell'Europa orientale alla fine della seconda guerra mondiale o quelli nordici socialdemocratici ad avere una notevole mobilità sociale sono convinti che questo dipenda dalla loro storia politica, dal fatto cioè che i governi hanno per molto tempo preso delle misure volte a rendere più fluida la società. Una terza teoria è stata formulata da Sorokin. Nel suo libro del 1927, questo Pagina 191
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt studioso ha affermato che, nei paesi occidentali moderni, la mobilità sociale era elevata, più di quanto lo fosse nel XVIII secolo. Ma al tempo stesso egli ha sostenuto che non vi era «nessuna tendenza definita e costante verso un aumento o una diminuzione dell'intensità e della diffusione della mobilità verticale [Sorokin 1927, trad. it. 334 CAPITOLO 12 1965, 1531. Proprio risalendo indietro nel tempo, si scorgeva non una «tendenza costante», ma delle continue fluttuazioni: «un alternarsi di ondate di maggiore mobilità e di cicli di maggiore immobilità, e nient 'altro [ibidem, 1551. Queste continue fluttazioni dipendevano - secondo lui - dalla diversa importanza assunta dai fattori esogenì e da quelli endogeni al sistema di strafificazione. I primi - le rivoluzioni, le guerre, le invasioni - provocano di solito un aumento del tasso di mobilità. Ma a questo punto entrano in azione i secondi, che spingono in senso inverso. In tutte le società, coloro che occupano le posizioni di vertice fanno tutto il possibile per non lasciarle e dunque, quando cadono alcune barriere (ad esempio di ordine giuridico o religioso) cercano di sostituirle con altre (ad esempio di tipo scolastico) La teoria La quarta è la teoria sostenuta da Lipset e Zetterberg [19591. Questi studiosi condividono la tesi di Sorokin che tutti i paesi occidentali abbiano oggi una forte mobilità sociale (assoluta) Ma essi ritengono anche che: a), «l'andamento della mobilità sociale - sia «alquanto simile nelle diverse società industriali occidentali» [1959, trad. it. 1975, 361 e dunque che - contrariamente a quanto dicono i sostenitori della seconda teoria - in nessuno di essi (neppure negli Stati Uniti) il livello di mobilità sociale sia eccezionalmente alto; b) una forte mobilità sociale (assoluta) sia una caratteristica specifica dell'industrializzazione A differenza però dei sostenitori della teoria liberale dell'industrialismo, Lipset e Zetterberg non pensano che il tasso di mobilità sociale continui a crescere con lo sviluppo economico. Sono invece convinti che vi sia una sorta di «effetto soglia», cioè che «la mobilità delle società diventi relativamente elevata quando la loro industrializzazione , e quindi la loro espansione economica, raggiunge un determinato livello» [ibidem, 371. Cosa che - secondo loro - si verifica nella fase del decollo di questo processo. La teoria La quinta è la teoria di Featherman, jones e Hauser. a differenza di lipset e Zetterber, questi studiosi sostengono che, per quanto riguarda la mobilità sociale assoluta, vi sono significative differenze fra i paesi sviluppati, perché essa dipende da fattori esogeni (di carattere economico, tecnologico e demografico) il cui peso varia appunto a seconda dei paesi. Per quanto riguarda invece la mobilità relativa, essa @T è all'incirca la stessa in tutti i paesi sviluppati e non cresce parallelamente al loro sviluppo economico. Negando che lo sviluppo economico provochi un aumento continuo della fluidità sociale, Featherman, jones e Hauser sono fortemente critici nei riguardi della teoria liberale dell'industrialismo. Le analisi comparate condotte nel corso degli anni ottanta da alcuni studiosi ci permettono di vedere quale delle cinque teorie ricordate riesca a descrivere e a spiegare meglio le differenze esistenti fra i paesi sviluppati nella mobilità assoluta e relativa e i cambiamenti che hanno avuto luogo nel XX secolo. Ma prima di ricordarle, è bene che ci occupiamo di quello che sappiamo sul nostro paese. MOBILITA SOCIALE 335 t 6. La mobilità sociale assoluta in Italia Negli ultimi decenni, nel nostro paese, vi è stata una forte mobilità assoluta, grazie alle trasformazioni che - come abbiamo visto nel capitolo precedente - hanno avuto luogo nella struttura dell'occupazione e in particolare all'espansione della classe media impiegatizia e alla contrazione di quelle agricole. t quanto risulta dai dati di una ricerca su vasto campione di italiani condotta alla metà degli anni ottanta [Cobaltì e Schizzerotto 19941. Gli autori di questa indagine sono arrivatì Pagina 192
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt a una conclusione siffatta calcolando innanzitutto il tasso di mobilità (intergenerazionale), cioè la percentuale di persone che fanno parte di una classe sociale diversa da quella del padre. Prendendo, ad esempio, la tab. 12.3, che riporta informazioni sulla classe sociale delle persone da 18 a 65 anni occupate in Italia nel 1985 a seconda della classe del padre, possiamo dire che coloro che si trovano nella diagonale principale sono gli immobili, mentre quelli che sono al di fuori di tale diagonale hanno sperimentato una qualche forma di mobilità sociale , ascendente o discendente. Questi ultimi sono il 59% del totale. Certamente, la loro è stata molto spesso una mobilità di «breve raggio» , fra classi contigue. Ma ciò non riduce per nulla l'importanza degli spostamenti che vi sono stati fra le classi. Per rendersi conto dell'ampiezza e del rilievo di tali spostamenti basti pensare che quasi la metà di coloro che vengono dalla classe operaia urbana, e un quarto TAB. 12.3. Classe socià/e delle persone occupate in Italia nel 1985 secondo la classe sociale del padre Classe attuale Classe di origine Borghesia Classe Piccola Piccola Classe Classe Totale (N.) media borghesia borghesia operaia operaia implegatizia urbana agricola urbana agricola Borghesia 37 42 8 3 10 - 100(128) Classe media 17 53 15 - 15 - 100(252) impiegatizia Piccola borghesia 6 29 37 1 25 1 100 (581) urbana Piccola borghesia 3 16 16 22 41 2 100 (521) agricola Classe operaia 4 26 17 - 53 - 100 (944) urbana Classe operaia 2 6 19 3 51 19 100 (205) agricola Fonte: Cobalti e Schizzerotto [19941. A 336 CAPITOLO 12 di quelli che arrivano dalla classe operaia agricola, fanno parte della piccola borghesia urbana, della classe media impiegatizia o della borghesia Esaminando più attentamente la tab. 12.3, il lettore si accorgerà facilmente che essere nato e avere trascorso i primi anni della propria vita in una classe invece che in un'altra fa grande differenza. Mettendo ad esempio a confronto le prime due righe della tabella, si può vedere che le persone provenienti dalla borghesia riescono a restare in questa classe con una frequenza che è più che doppia rispetto a quella che hanno di entrarvi coloro che arrivano dalla classe media impiegatizia. D'altra parte, per questi ultimi, salire nella classe più elevata è straordinariamente meno difficile che per i figli degli operai urbani. Per la verità, i dati che abbiamo riportato si riferiscono anche a coloro che sono entrati nel mercato del lavoro da molto tempo (alcuni di essi, da dieci o vent'anni) e dunque comprendono i passaggi «di carriera» avvenuti fra una classe e l'altra. Per tenere distinta la mobilità intergenerazionale da quella intragenerazionale conviene allora prendere in considerazione, come posizione di arrivo, la classe occupata non al momento della rilevazione, ma al primo impiego (tab. 12.4). Seguendo questa strada arriviamo alla conclusione che la quota delle persone mobili rispetto ai genitori si riduce un po (passando al 53 ma resta sempre assai elevata. Per analizzare insieme i due diversi aspetti della mobilità sociale (inter e intragenerazionale) possiamo prendere in considerazione conTAB 124. Qasse sociile al momento deltingresso nel mercato del lamm delle penone res2exti sse sociale tigine 9. n ItaU# nel 1985, cla di o Classe di Classe al momento dell'ingresso nel mercato dellavoro origine Borghesia Classe Piccola Piccola Classe Classe Totale (N.) Pagina 193
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt media borghesia borghesia operaia operaia impiegatizta urbana agricola urbana agricola Borghesia 23 56 6 1 14 - 100 (126) 'Classe media 13 54 9 24 - 100(252) impiegatizia iIJ Piccola borghesia 4 27 28 1 39 1 100 (581) urbana Piccola borghesia 1 13 4 32 44 6 100 (521) agricola Classe operaia 1 19 6 73 1 100 (944) urbana Classe operaia 1 3 3 1 63 29 100 (205) D agricola Fonte: Cobalti e Schizzerotto [19941. MOBILITA SOCIALE 337 temporaneamente tre punti: la classe sociale della famiglia di origine, quella del soggetto alla prima occupazione e quella attuale. Fra questi tre punti sono possibili cinque diversi tipi di itinerari sociali (tab. 12.5) [Thélot 19801. Vi sono innanzitutto gli immobili. Sono coloro che restano nella PossUli stessa classe del padre e dunque non sperimentano nessun tipo di ì'im"rì SI>C!A. mobilità sociale: né inter né intragenerazionale. * I mobili con ritorno alle origini sono coloro che, quando entrano nel mercato del lavoro, occupano una posizione diversa da quella del padre. Dopo alcuni anni si ritrovano tuttavia al punto di partenza. La loro è dunque una mobilità intragenerazionale e, solo nella prima parte della loro vita, anche intergenerazionale. t un itinerario che troviamo più frequentemente fra coloro che provengono dalla borghesia o dalla piccola borghesia urbana, che entrano nel mercato del lavoro o come impiegati (i primi) o come operai (i secondi) t, 1 mobili all'entrata nella vita attiva sono coloro che partono da una posizione diversa da quella del padre e che vi restano anche in se' o. La loro è dunque una forma di mobilità solo intergenerazionale. uit E il tipico itinerario di chi lascia la classe di origine grazie al titolo di studio che ha conseguito prima di entrare nel mercato del lavoro. t di conseguenza un percorso molto diffuso fra coloro che iniziano come impiegati. 1 mobili nel corso della vita attiva sono coloro che iniziano dalla stessa posizione del padre e che dopo un po la lasciano per occuparne una diversa. La loro è una forma di mobilità intragenerazionale che ne provoca una intergenerazionale. t un itinerario seguito soprattutto dai figli maschi di coltivatori proprietari o di braccianti, che pur essendo entrati nel mercato del lavoro facendo le stesse cose del padre, hanno cambiato man mano che cambiava la struttura dell'occupazione. 91 supermobili sono coloro che partono da una posizione diversa da quella del padre e che in seguito la cambiano, ma senza tornare al punto di partenza. Sperimentano forme di mobilità sociale sia inter che intragenerazionale. . TAB. 12.5. Rpi di itinerayì sociali degli uomini residentì in Italia nel 1985 Immobili 24 Mobili con ritorno alle origini 9 Mobili all'entrata nella vita attiva 30 Mobili nel corso della vita attiva 17 Super-mobili 20 Totale 100 Fonte: Ricerca Cobalti e Schizzerotto (dati inediti) 338 CAPITOLO 12 7. Tendenze nei paesi occidentali Grazie alle numerose indagini condotte negli ultimi vent'anni da vari studiosi, siamo oggi in grado di mettere a confronto l'andamento della mobilità assoluta dell'Italia con quella di altri nove paesi Pagina 194
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt occidenIndustrializzazione tali. Il confronto è reso particolarmente interessante dal fatto che in e mobilità essi il processo di industrializzazione ha avuto tempi e ritmi assai disociale versi. Da questo punto di vista, tali paesi possono essere infatti distinti in tre diversi gruppi. Del primo fanno parte quelli che hanno avuto un'industrializzazione precoce, l'Inghilterra, il Galles e la Scozia, la cui quota di occupati fuori del settore agricolo ha raggiunto il 90% già all'inizio del nostro secolo. Nel secondo rientrano la Francia e la Germania , l'Irlanda del Nord e la Svezia, nei quali il processo di industrializzazione è iniziato un po dopo. Al terzo appartengono infine la Polonia , l'Ungheria e la Repubblica d'Irlanda, che sono rimasti paesi prevalentemente agricoli fino alla Il guerra mondiale. L'Italia occupa, da questo punto di vista, una posizione intermedia fra i paesi del secondo e quelli del terzo gruppo. Vi sono differenze fra questi paesi nell'andamento della mobilità assoluta? I dati della fig. 12.1 permettono di dare una risposta a questo interrogativo. Essi indicano il tasso di mobilità intergenerazionale, per anno di nascita, della popolazione maschile dei dieci paesi consil00 80 Italia 60 -- -------40 o Inghilterra + Germania Ovest Irlanda x Scozia 11 Norvegia <> Polonia 20 m Svezia Francia á Ungheria o 1905 1920 1935 1950 FIC.. 12. 1. Tasso di mobìhtà intergeneraiionaIe.deú popolazione.maschile. MOBILITA SOCIALE 339 derati. Esaminando attentamente le sue curve, il lettore difficilmente riuscirà a scorgere una tendenza precisa. L'unica che rileverà è quella alla convergenza dei valori dei vari paesi. Ma questa convergenza e in gran parte dovuta all'andamento delle curve dell'Irlanda e della Polonia , che indicano come il tasso di mobilità intergenerazionale sia aumentato passando dalle generazioni dell'inizio del secolo a quelle nate dopo il 1940. Le curve della fig. 12.1 sono in netto contrasto con una delle tesi di fondo della teoria liberale dell'industrialismo, che cioè il tasso di mobilità sociale continui ad aumentare parallelamente allo sviluppo economico di queste società. Esse mostrano infatti che né in Inghilterra né in Francia, né in Germania né in Svezia la percentuale degli uomini che fanno parte di una classe sociale diversa da quella del padre sale passando dalle generazioni più vecchie a quelle più giovani. In Italia, prendendo in esame tre leve (nati dal 1920 al 1931, 1932-1943, 1944-1955), si vede che la percentuale dei mobili cresce dalla prima alla seconda, ma lì non da questa alla terza. Nel complesso, se escludiamo l'Irlanda e la Polonia, possiamo dire che in tutti gli altri paesi gli uomini il cui ingresso nel mercato del lavoro è avvenuto dopo la Il guerra mondiale non sono vissuti in società più mobili di quelli che vi sono entrati nel 1920. Dunque, almeno riguardo alla mobilità assoluta, la teoria che trova maggior conferma nei dati esistenti è quella di Sorokin che non vi sia alcuna «tendenza costante» al suo aumento o alla sua diminuzione. L'andamento delle curve di due paesi come l'Irlanda e la Polonia, che - come abbiamo ricordato - hanno avuto un'industrializzazione tardiva , fa pensare che sia valida la tesi dell'effetto soglia di Lipset e Zetterberg , cioè che sia la prima fase dell'industrializzazione a provocare un forte aumento della mobilità sociale assoluta. Non riceve invece sostegno dai fatti accertati la tesi di Lipset e Zetterberg che non vi siano differenze nei tassì di mobilità fra i paesi industriali. 7.1. La mobilità relativa Una quota molto alta di coloro che vivono in Europa e negli Stati Uniti (che va dal 55 % al 75 %, a seconda del paese) fa parte di una classe sociale diversa da quella del padre. Nei paesi occidentali vi è dunque una forte mobilità assoluta intergenerazionale. Ma ciò non significa Pagina 195
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt che la loro società sia molto aperta o molto fluida. Al contrario , tutte le ricerche mostrano che il regime di mobilità relativa di questi paesi è viscoso o, in altri termini, che vi sono forti disuguaglianze nelle chanche di mobilità fra le persone provenienti da diverse classi Per fare solo un esempio, in Italia le opportunità di cui godono i figli della borghesia di restare in questa classe sono 15 volte maggiori di quelle che hanno di arrivarci le persone di qualsiasi altra origine sociale [Cobalti e Shizzerotto 1994, 1091. 340 CAPITOLO 12 19 tasso di mobilità assoluta intergenerazionale di coloro che fanno parte di una determinata popolazione non dipende infatti solo dalla relazione più o meno forte esistente fra la classe di origine e quella di arrivo, ma anche dalle dimensioni o dall'ampiezza di queste classi. Se in Italia e negli altri paesi occidentali questo tasso è alto, nonostante che vi sia una forte disuguaglianza nelle possibilità di mobilità, è perché negli ultimi quarant'anni vi è stata una forte espansione della classe media impiegatizia e una contrazione di quelle agricole. Sono le trasformazioni avvenute nella struttura occupazionale che hanno fatto sì che un numero rilevante di persone passasse da una classe ad una diversa. Per dare meglio l'idea di quanto è avvenuto, gli autori dell'indagine sull'Italia hanno fatto ricorso a una metafora: quella di una scala sui cui gradini vi sia un numero variabile eli persone. Ammettendo che questa scala venga spostata verso l'alto e che le persone salgano e scendano da un gradino all'altro, alla fine tutti i gradini della scala si troveranno in una posizione più elevata rispetto a quella di partenza e ognuno di essi accoglierà un numero di persone diverso da quello iniziale. Inoltre, alcuni soggetti avranno preso posto su un gradino superiore a quello dov'erano in partenza, mentre altri si ritroveranno su un gradino più basso. Tuttavia, a dispetto di questa triplice serie di cambiamenti, la distanza fra un gradino e l'altro sarà rimasta inalterata [Cobalti e Schizzerotto 1994, 2341. Ma anche se sono molto forti, le disuguaglianze nelle chanche di mobilità potrebbero essere molto minori di un tempo. Invece non è così. La ricerca condotta sul nostro paese ha messo in luce che, negli ultimi quaranta anni, la fluidità sociale non ha subito cambiamenti, ossia che l'influenza che la classe di origine esercita su quella di arrivo è rimasta immutata [Cobalti e Schizzerotto 19941. Analizzando l'andamento di altri undici paesi sviluppati, Erikson e Goldthorpe sono arrivati alla conclusione che, in genere, la fluidità sociale è molto stabile nel tempo o varia in misura minima. Vi sono tuttavia tre paesi nei quali la mobilità relativa è aumentata negli ultimi decenni: la Svezia, la Polonia e l'Ungheria. Altri sociologi [Ganzeboom, Luijkx e Treiman 19891 hanno stimato che nei paesi industrializzati vi è stato un aumento della fluidità sociale (o della mobilità relativa) di circa Fl % all'anno e sono arrivati alla conclusione che «sebbene si tratti di un incremento trascurabile nel breve periodo (e sia dunque difficile da stimare) esso diventa rilevante nel lungo periodo» [Ganzeboom, Luijkx e Treiman 1989, 451. Dunque i dati di cui disponiamo smentiscono del tutto la tesi della teoria liberale dell'industrialismo che lo sviluppo economico provochi un aumento continuo della mobilità sociale relativa. Con qualche modifica, qualche integrazione, qualche specificazione , l'ipotesi di Featherman, Jones e Hauser è quella che rende meglio conto dei risultati delle ricerche dell'ultimo ventennio. Secondo questi ultimi, la mobilità relativa dei paesi sviluppati è, se non identica come ritengono Featherman, Jones e Hauser [19751 - per lo meno simile. Le differenze di fluidità sociale esistenti fra questi paesi sono in parte dovute alla loro specificità storica. Ma in parte sono riconducibili ad una fonte di natura sistematica, cioè agli sforzi fatti dai governi dei vari paesi per cercare di rendere più fluida la società. L'ipotesi di Featherman, Jones e Hauser può essere dunque riformulata dicendo che vi è una somiglianza di fondo, riguardo alla fluidità sociale, fra tutti i paesi con un'economia di mercato e un sistema familiare nucleare , «quando non sia stato utilizzato il potere degli apparati dello Stato Pagina 196
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt moderno per modificare i processi (o i loro esiti) attraverso i quali le disuguaglianze di classe sono prodotte e riprodotte da una generazione all'altra» [Erikson e Goldthorpe 1992, 1791. 7.2. La composizione delle classi La mobilità sociale ha un ruolo chiave nella formazione delle classi Formulata un secolo e mezzo fa da Marx nella proposizione che abbiamo già citato, la tesi che le classi non si strutturano finché vi è un flusso continuo di persone che entrano ed escono è stata riproposta in seguito numerose volte e viene considerata ancora oggi sostanzialmente valida. Secondo questa tesi, quanto maggiore è la mobilità intergenerazionale di una società, tanto più difficile è che si formino delle classi. Solo l'esistenza di un certo grado di chiusura in termini di mobilità sociale intergenerazionale può permettere la riproduzione in generazioni diverse delle esperienze di vita. Quando questa chiusura manca, quando A ricambio sociale è continuo, diventa sempre più difficile , per coloro che occupano la stessa posizione sociale, avere valori e stili di vita comuni e comuni interessi. In altri termini, la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché le classi siano delle collettività sociali, con alcuni tratti culturali distintivi, è che abbiano un certo grado di identità demografica, una certa omogeneità per origine sociale. In Italia, come del resto in tutti i paesi occidentali, vi sono oggi delle forti differenze nella composizione sociale delle varie classi. Lo si può vedere dalla tab. 12.6 (basata sugli stessi valori assoluti della tab. 12.3, ma che ha percentuali per colonna, invece che per riga). Essa riporta in diagonale il tasso di autoreclutamento di queste classi, cioè T~ la percentuale di persone che fanno parte della stessa classe del padre. di autmedutw~to Le classi più omogenee per origine sociale sono la piccola borghesia e la classe operaia agricola, che hanno un tasso di autoreclutamento molto alto (84% la prima, 64% la seconda), in gran parte perché hanno subito negli ultimi trent'anni una forte contrazione o sono addirittura in via di estinzione. All'estremo opposto vi è la classe media impiegatizia , che ha una debole identità demografica (un tasso di autore342 CAPITOLO 12 TAB. 12.6. Origine sodale delle pers&ne residenti in Italia nel 1985 occupate, (valori percentuali ) Classe di Classe attuale origine Borghesia Classe Piccola Piccola Classe Classe media borghesia borghesia operaia operaia impiegatizia urbana agricola urbana agricola Borghesia 26 7 2 3 1 Classe media 24 20 7 1 4 impiegatizia Piccola borghesia 21 24 40 5 15 8 urbana Piccola borghesia 9 12 15 84 21 20 agricola Classe operaia 18 35 29 2 49 8 urbana Classe operaia 2 2 7 5 10 64 agricola Totale 100 100 100 100 100 100 N. (valori assoluti) (183) (703) (548) (134) (1.031) (61) Fonie: Cobalti e Schizzerotto [19941. clutamento del 20%) Ciò è dovuto principalmente al fatto che, negli ultimi decenni, questa classe ha conosciuto una forte espansione, ha reclutato un gran numero di persone dalle altre classi, diventando così sempre più eterogenea. La classe operaia si trova a metà strada, per quanto riguarda il grado di omogeneità per origine sociale, fra le classi agricole e quella media impiegatizia. Gli operai di seconda generazione (cioè figli di operai) costituiscono il 49% omogeneftà Il grado di omogeneità per origine sociale della classe operaia è per orì&e mutato nel corso del tempo. All'inizio degli anni sessanta, gli operai sociale figli di operai erano il 46% [Lopreato 19651. Dieci anni dopo, questa Pagina 197
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt percentuale era scesa al 39% [Ammassari 19771. Dopo di allora è nuovamente aumentata. Oggi essa varia a seconda delle zone del nostro paese ed è maggiore nel nord che nel sud. Inoltre, in Italia il tasso di autoreclutamento della classe operaia è più basso che in Francia o in Gran Bretagna, paese - quest'ultimo - in cui ben due terzi degli operai dell'industria sono figli di operai [Goldthorpe 19801. Tutti questi dati mostrano che la mobilità sociale non indebolisce necessariamente l'identità demografica della classe operaia - come molti studiosi hanno a lungo pensato - ma che in certi casi può addirittura rafforzarla. Goldthorpe [19801 ha mostrato che questo può accadere quando, superato un determinato livello di industrializzaMOBILITA SOCIALE 343 zione, si verificano contemporaneamente alcune condizioni. La prima è che la classe operaia cessi di espandersi. La seconda è che la quota degli occupati nel settore agricolo decresca continuamente e si riducano quindi le possibilità di reclutare da questo bacino gli operai. La terza è che diminuisca (o resti molto scarsa) la mobilità discendente, dalle classi medie alla classe operaia. Tenendo conto di queste osservazioni si possono facilmente capire le variazioni nello spazio e nel tempo del grado di omogeneità per origine sociale della classe operaia italiana. Nel corso degli anni sessanta , in una fase di forte espansione, la classe operaia del nostro paese è diventata più eterogenea, perché ha assorbito un gran numero di persone provenienti dalle classi agricole. Dalla metà degli anni settanta in poi, finito il periodo della sua espansione ed essendosi nel frattempo assottigliatesi le classi agricole, la classe operaia italiana è diventata più omogenea. Lo è maggiormente nelle rqgioni nelle quali il processo di industrializzazione è iniziato prima. E facile prevedere che questa omogeneità continuerà ad aumentare nel prossimo futuro. 8. Le conseguenze della mobilità sociale Che effetti ha sugli individui la mobilità sociale? Produce dei mutamenti nella loro percezione del mondo, nei loro valori, nei loro comportamenti , nelle relazioni che hanno con gli altri? E in che senso? La mobilità ascendente ha effetti diversi da quella discendente oppure ciò che conta è solo il fatto di essere mobili, indipendentemente dalla direzione in cui si va? Due diversi ipotesi sono state avanzate per rispondere a questi interrogativi. La prima viene chiamata dello «sradicamento sociale», la seconda deH'«acculturazione» o della «risocializzazione» La prima è stata sostenuta da numerosi studi che oggi consideria- L'ipotesi mo classici. Già Emile Durkheirn rilevava che i bruschi aumenti di dello sradicamento sociale mobilità (sia ascendente che discendente) producono delle situazioni di anomia e queste ultime facilitano i suicidi. Soprattutto gli improvvisi accrescimenti «di potenza e di fortuna» sconvolgono le gerarchie e i principi che le legittimano. Finché non si raggiunge un nuovo equilibrio, & «non si sa più ciò che è possibile e ciò che non lo è, ciò che è 1!! giusto e ciò che non è giusto, quali sono le rivendicazioni e le speranze legittime, quali quelle che vanno oltre la misura. E così non v'è nulla cui non si prentenda» [1897, trad. it. 1969, 3071. Trent'anni dopo, Pitirim Sorokin rilevava che la mobilità sociale, oltre ad avere degli effetti positivi, ne ha anche di negativi: favorisce la superficialità, riduce l'infirnità e fa aumentare l'isolamento sociopsicologico degli individui. Analogamente, alla fine degli anni cinquanta, Lipset e Bendix [1959, trad. it. 1975, 2761 - hanno sostenuto che la mobilità ha un «alto costo sociale e psichico in termini di combattività , frustrazione, mancanza di radicamento» 344 CAPITOLO 12 La mobilità sociale è dunque considerata dai sostenitori della prima ipotesi come un'esperienza dolorosa e difficile, che produce tensioni e squilibri. Uscire da una classe per entrare in un'altra significa di solito rompere le relazioni con coloro che continuano a far parte della prima senza peraltro riuscire a formarne di nuove con quelli che si trovano da tempo nella seconda. Questo avviene sia nei casi di mobilità ascendente che in quelli di mobilità discendente, ma per motivi diversi. Se le persone che salgono socialmente non riescono ad integrarsi Pagina 198
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt è perché coloro che fanno parte da tempo della classe in cui sono appena approdati non li accettano, li guardano dall'alto in basso, li considerano degli intrusi. Se le persone che scendono socialmente non si integrano è invece soprattutto perché non vogliono assolutamente farlo. Queste conservano infatti per lungo tempo la speranza che il loro passaggio a una classe più bassa sia del tutto transitorio e, anche se non riescono a mantenere dei solidi legami con l'ambiente da cui provengono, cercano per lo meno di non stabilirne di nuovi con coloro che fanno parte della classe in cui sono cadute. Super Due sono - secondo i sostenitori di questa ipotesi - le risposte più confornùgmo frequenti delle persone mobili. Da un lato il «superconformismo» ai valori della classe di arrivo, dall'altro il rifiuto assoluto di questi valori. La prima risposta si ha di solito nei casi di mobilità ascendente. Per vincere l'ansia e l'insicurezza e per essere accettati dai membri della nuova classe, le persone mobili diventano più realiste del re. Esse cioè non solo si adeguano repentinamente ai modi di pensare e di agire di questi ultimi, ma lo fanno con un impegno e con una dedizione assoluti , in modo da presentarsi agli altri come gli interpreti più autentici e i difensori ultimi dei valori della loro nuova classe. La seconda risposta si ha nei casi di mobilità discendente. Il passaggio ad una classe più bassa può portare a rifiutare in blocco gli usi e i modi di agire di questa e ad aderire con più forza e con più convinzione di prima, eccedendo la misura, ai valori e alle forme di comportamento della classe di origine. E questa la reazione di chi, nel momento in cui sente di stare affondando, si attacca in modo disperato a tutto ciò che può ricordare a se stesso e agli altri il suo onorevole passato. «E presente ha scritto Lev Tolstoi in Che fare? a proposito dei nobili ex ricchi di Mosca della fine del XIX secolo - era per loro una cosa ripugnante, innaturale, non degna di attenzione. Nessuno aveva un presente. Esistevano solo i ricordi del passato» L>ipotesil della Del tutto diversa è la seconda ipotesi, detta della risocializzazione. asOCì~one Per i suoi sostenitori [Blau 1956; Blau e Duncan 1967, 367-3991, se una persona passa da una classe all'altra deve necessariamente ridefinire la propria id entità sociale, mutare il proprio modo di pensare e di agire. Questo mutamento non è tuttavia repentino e radicale. Per un lungo periodo di tempo (spesso per tutta la vita), in una persona socialmente mobile coesistono, trovando una qualche forma di equilibrio, il vecchio e il nuovo. Più esattamente, le persone socialmente mobili hanno valori MOBILITA SOCIALE 345 e fonne di comportamento che sono in un certo senso a metà strada fra quelli della classe di partenza e quelli della classe di arrivo. Questo avviene sia nel caso di mobilità ascendente che discendente. Non è difficile spiegare, secondo questo schema interpretativo, perché questo avvenga. Se si nasce in una classe e si trascorre in questa una parte della propria vita (ad esempio l'infanzia e l'adolescenza), si apprendono i valori e le forme di comportamento di coloro che ne fanno parte. Quando, al momento dell'entrata nel mercato del lavoro, o in un periodo successivo, si passa in un'altra classe, ha inizio un processo di risocializzazione, nel corso del quale le persone socialmente mobili ridefiniscono se stesse, abbandonando a poco a poco i valori della vecchia classe per apprendere quelli della nuova. Le ricerche finora condotte [Goldthorpe 19801 hanno mostrato che l'ipotesi che trova maggior sostegno nei fatti è la seconda. Nelle società avanzate di oggi la mobilità non determina lo sradicamento e l'isolamento di coloro che la sperimentano. t probabilmente per questo , perché cioè l'integrazione nella classe di arrivo non è né impossibile né straordinariamente difficile, che le persone mobili non tendono ad assumere posizioni estreme, e non reagiscono di solito né con il superconformismo ai valori della classe di arrivo né con il rifiuto radicale di quei valori. La mobilità sociale mette invece in moto un lento processo di risocializzazione, di ridefinizione deH'identità, di sostituzione dei modi di pensare e di agire della classe di origine con quelli della classe di arrivo. Pagina 199
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt t probabile che un tempo, soprattutto nei periodi in cui i tassi di mobilità assoluta erano minori e il grado di discontinuità esistente fra le diverse classi era maggiore, i passaggi fra queste classi fossero esperienze dolorose e difficili che provocavano lo sradicamento sociale. Ci inducono a pensarlo non solo i risultati della ricerca storica, ma anche i racconti e i poemi del passato, così come alcuni usi linguistici [Piéjus 19911. Espressioni come «villano rifatto», «villano rivestito», «pidocchio rilevato» e «pidocchio riunto» sono state utilizzate a partire almeno dal Cinquecento per esprimere disprezzo nei riguardi delle persone socialmente mobili che si pensava conservassero le maniere e le mentalità rozze e volgari dell'ambiente d'origine. Analogamente, il termine snob - dal latino s(ine) nob(ilitate), senza nobiltà - diffuso in tutta Europa dopo la pubblicazione di un racconto satirico di WM Thacheray [18481, era già utilizzato da tempo in Inghilterra per indicare le persone che cercavano di salire sulla scala sociale, intessendo relazioni, per quanto superficiali, con gli appartenenti ai ceti elevati. i 1 i e i I i ,i i 1 9 a i I . L Capitolo 13 Un uomo va a pescare con il figlio. Al ritorno a casa, i due sono vittime di un incidente stradale. Il padre muore. Il ragazzo, rimasto gravemente ferito, viene soccorso e trasferito all'ospedale. E chirurgo entra nella sala operatoria, gli si avvicina, lo guarda in volto ed esclama esterrefatto. «Oh Dio, ma questo è mio figlio». Qual è il rapporto di parentela fra il ragazzo e il chirurgo? Molti di voi daranno immediatamente una risposta giusta a questa domanda. Ma gran parte dei vostri genitori, vent'anni fa, ne avrebbero fornita una sbagliata. Alcuni, ad esempio, avrebbero detto che il chirurgo era H patrigno del ragazzo Qualche difficoltà di fronte al nostro quesito l'avrebbero però oggi anche coloro che vivono in paesi in via di sviluppo. Voi avete invece capito subito che il chirurgo è la madre del ragazzo ferito. Questa storiella ci ricorda che le caratteristiche e i ruoli maschili e femminili non sono costanti o universali, ma variano nello spazio e nel tempo. Se una volta era impensabile che una donna facesse il chirurgo , oggi - almeno nei paesi sviluppati - non lo è più. Per tener conto di questo, nelle scienze sociali si è introdotta la distinzione fra sesso e genere. Per sesso si intendono gli attributi dell'uomo e della donna riconducibili alle caratteristiche biologiche; per genere le loro qualità distintive (la mascolinità e la femminilità) definite culturalmente. 11 sesso di una persona è dunque una realtà fisica, ma il modo in cui gli uomini e le donne vedono se stessi e si pongono in relazione l'un l'altro e i ruoli che sono loro assegnati sono una costruzione sociale e vengono appresi in quel processo di socializzazione di cui abbiamo parlato nel cap. V. 348 CAPITOLO 13 cromosomi e la differenziazione sessuale A differenza di alcuni animali, per i quali è quasi impossibile distinguere il maschio dalla femmina, gli uomini e le donne sono sessualDimorfismo mente dimorfi, cioè presentano differenze chiare e visibili di carattere sessuale anatomico. Oltre agli organi sessuali, esse riguardano l'altezza e il Pagina 200
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt peso, le dimensioni delle superfici pilifere, il rapporto fra i muscoli e il tessuto adiposo. L'uomo è di solito più alto, più muscoloso, più forte e più veloce, come mostra la tavola dei primati mondiali (tab. 13.1). Tutto inizia quando uno spermatozoo (maschile) feconda un uovo (femminile) Lo spermatozoo fornisce all'embrione ventitré cromosomi ed altrettanti gliene dà l'ovulo. Dunque, ogni individuo possiede ventitré paia di cromosomi. In ventidue di queste, i cromosomi sono identici Nel ventritreesimo paio invece possono essere sia uguali che diversi Nel primo caso (XX) l'embrione diventerà una femmina, nel secondo (uno X, l'altro Y) un maschio. Poiché l'ovulo contribuisce sempre con un cromosoma X e lo spermatozoo con uno di tipo X o Y, è l'apporto del padre a determinare il sesso del nascituro. In altri terminì , se lo spermatozoo ha un cromosoma X, si avrà una femmina, se invece ne ha uno Y, un maschio. E processo di differenziazione sessuale inizia solo alla sesta settimana dopo il concepimento. Fino ad allora, tutti gli embrioni (siano essi XX o XY) sono anatomicamente identici e sessualmente bipotenziali. Ciascuno di essi possiede cioè le parti necessarie per svilupparsi come maschio o come femmina. Intorno alla sesta-ottava settimana, se nell'embrione vi è un cromosoma Y, le gonadi (ghiandole), fino ad allora indifferenziate, si trasformano in testicoli; se il cromosoma Y è assente, diventano ovaie. Testicoli e ovaie vengono definiti caratteri sessuali primari. I testicoli inziano allora a secernere gli ormoni sessuali androgeni (fra i quali il testosterone) e questi ultimi generano lo sviluppo prima dei genitali maschili interni (la prostata, la vescicola seminale, il cordone spermatico) e poi di quelli esterni (il pene e lo scroto) Nelle femmine si sviluppano i genitali interni (l'utero, le trombe di Fallopio, la vagina superiore) e quelli esterni (il clitoride e le piccole labbra) TAB» 13.1. Primati mo"4 degli uomini e delle donne in akune gare sportive Uomini Donne 100 metri piani 9"84 10`49 Miglio (km 1,609) 3'4439 4'12"56 400 metri ostacoli 46"78 52"61, Salto in alto (metrì) 2,45 2,09 a Gli ostacoli delle donne sono più bassi di quelli degli uomini. DIFFERENZE DI GENERE 349 Gli ormoni sessuali entrano in azione anche più avanti, molti anni dopo la nascita, per determinare lo svilu po dei caratteri sessuali sep condari. Nelle donne si forma allora il seno, si estendono i tessuti adiposi e la superficie pilifera. Negli uomini si sviluppano i muscoli, la voce diventa più bassa e spuntano peli anche sul volto, oltre che in altre parti del corpo. 2. Essenzialismo e costruttivismo sociale Numerose teorie sono state elaborate e proposte dai sociologi e dagli antropologi, dagli psicologi e dagli economisti per spiegare le differenze di atteggiamento e di comportamento riscontrate fra gli uomini e le donne nel passato e nel presente, nelle società industrializzate e in quelle in via di sviluppo. Ma a ben vedere tutte possono essere ricondotte a due impostazioni opposte: l'essenzialismo e il costruttivismo sociale. La prima mette l'accento sul dualismo assoluto dei due sessi, la seconda sulla somiglianza dei generi. Per la prima, le differenze fra mascolinità e femminilità sono naturali, universali, immodificabili , per la seconda sono una costruzione sociale. Dunque, per la prima , uomini e donne si nasce, per la seconda si diventa. Le teorie essenzialiste vengono spesso sostenute da studiosi di Essenziafismo scienze naturali di sesso maschile. Esse sono frequentemente di tipo biologico e - come vedremo subito - riconducono la mascolinità e la femminilità a differenze ormonali, di dimensioni e di organizzazione del cervello o di capacità riproduttiva. In tutti questi casi, il contrasto fra essenzialismo e costruttivismo sociale non è diverso da quello tradizionale fra natura e cultura, eredità ed ambiente. Negli ultimi venti anni, tuttavia, sono state proposte teorie essenzialiste anche da studiose di scienze sociali di sesso femminile e queste non sempre sono di tipo biologico. 2.1. Gli ormoni Pagina 201
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Le differenze di comportamento fra uomini e donne sono state spesso ricondotte agli ormoni. La proporzione degli ormoni varia a ormonah seconda del sesso e della fase della vita degli individui. Tuttavia i testicoli secernono più androgeni che estrogeni, mentre le ovaie fanno l'opposto. Ricerche condotte sugli animali hanno mostrato che i maschi che nella fase prenatale ricevono dosi inferiori al normale di androgeni sono meno aggressivi mentre le femmine che hanno dosi superiori sono più combattive. Le ricerche sugli esseri umani sono arrivate d'altra parte alla conclusione che coloro che sono stati esposti, durante la crescita fetale, ad un elevato livello di androgeni preferiscono i giochi e le attività maschili. 350 CAPITOLO 13 E comunque nella fase della pubertà che le differenze nei livelli ormonali fra i due sessi si accentuano. Le femmine cominciano a secernere più estrogeni, i maschi più androgeni. In questa fase, coloro che hanno nel sangue una maggior quantità di testosterone sono più aggressivi. A favore di questa tesi, alcuni studiosi citano non solo i risultati di varie ricerche, ma anche gli effetti provocati dalla castrazione 1 critici di questa tesi [Harris 19891 osservano però che se è vero che la castrazione trasforma tori furiosi in tranquilli e rassegnati buoi, ciò non avviene necessariamente negli uomini. La storia degli eunuchi, dei giovani castrati che in Cina, nell'antica Roma, in Persia e a Bisanzio entravano a servizio degli imperatori, mostra che la castrazione elimina lo stimolo e la potenza sessuale, ma non riduce l'aggressività. Che il comportamento degli uomini e delle donne risenta anche del livello degli ormoni sessuali è indubbio. Ma la relazione fra queste due variabili è probabilmente debole e non serve a spiegare la mascolinità e la femminilità. 2.2. Il cervello Le differenze fra gli uomini e le donne sono state spesso spiegate chiamando in causa il loro cervello. Lo hanno fatto, nel secolo scorso, molti scienziati, sostenendo che le femmine sono meno intelligenti dei maschi perché il loro cervello è più piccolo. Oggi nessuno ripeterebbe una cosa del genere, anche perché si è scoperto che le dimensioni del cervello variano a seconda del peso del corpo e che non si può misurare il primo senza tener conto del secondo. Differenze negli Più recentemente, le differenze fra gli uomini e le donne sono staemisferi cerebrali te ricondotte non alle dimensioni, ma alla cosiddetta «lateralizzazione» del cervello o alla asimmetria emisferica. Nel cervello vi sono due diversi emisferi, uno destro e l'altro sinistro, connessi da una fascia di fibre nervose detta corpo calloso e ciascuno di questi si specializza in certi compiti. L'emisfero sinistro, che controlla la parte destra del corù po, e pi importante per A linguaggio e per le attività motorie. L'emisfero destro, da cui dipende la parte sinistra del corpo, è responsabile di alcune funzioni spaziali come la capacità di visualizzare oggetti, di distinguere una persona dall'altra, di percorrere mentalmente un labirinto , di capire e utilizzare carte topografiche. Ora, secondo alcuni studiosi, nella donna prevale l'emisfero sinistro, negli uomini invece quello destro. Questo spiegherebbe perché le prime imparino prima a parlare, apprendano con maggior facilità le lingue straniere ed ottengano punteggi più elevati nei test di scioltezza verbale, mentre i secondi riescono meglio in matematica e soffrono più spesso di balbuzie e di dislessia (cioè di grandi difficoltà nell'apprendimento della lettura pur in presenza di una intelligenza normale) Nessuno tuttavia è riuscito finora a dimostrare che l'emisfero sinistro è più sviluppato nel cervello della donna e il destro in quello dell'uomo Come non bastasse, alcune ricerche hanno mostrato che l'emisfero sinistro, oltre che delle funzioni verbali, è responsabile anche di quelle intellettuali, analitiche (di solito considerate maschili), mentre il destro presiede a quelle spontanee, intuitive (ritenute invece femminili) 2.3. Gli ovuli e gli spermatozoi «Tutte le differenze cominciano e finiscono con le ovaie e i testicoli» Così è stata scherzosamente sintetizzata la posizione dei sociobiologi Secondo questi studiosi, ogni organismo è portato a massimizzare Pagina 202
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt il proprio potenziale riproduttivo, a trasmettere i propri geni ai discendenti e a far sì che questi sopravvivano. Tuttavia, a causa delle loro differenze biologiche, le donne e gli uomini hanno strategie riproduttive distinte. La femmina è specializzata nella produzione di uova, il maschio invece in quella di spermatozoi. Ma fra questi due tipi di cellule sessuali vi sono grandissime differenze. L'uovo umano è 85 mila volte più grande dello spermatozoo. Nel corso della sua vita, una donna puo produrre al massimo quattrocento uova e, nel migliore dei casi, solo una ventina di questi possono essere trasformati in neonati sani. L'uomo invece, in una sola eiaculazione, libera circa cento milioni di spermatozoi. Quando una donna è incinta, per avere un altro figlio ha bisogno di almeno diciotto mesi di tempo. In questo periodo, invece, l'uomo può fecondare centinaia di partner femminili. Dunque, gli ovuli sono molto più preziosi degli spermatozoi e la riproduzione richiede più tempo ed energie alla donna che all'uomo. da questa diversa capacità riproduttiva che derivano - secondo Differenze i sociobiologi - le principali diversità esistenti fra gli uomini e le dondella capacità ne negli atteggiamenti e nei comportamenti nei confronti de li apparriproduttiva 9 tenenti allo stesso e all'altro sesso e nella tendenza a quello che viene definito l'investimento parentale. Con questa espressione i sociobiologi investimento intendono «ogni investimento di un genitore in un discendente tale da parentale accrescere le probabilità di sopravvivenza di quest'ultimo (e quindi il successo riproduttivo) a spese della possibilità da parte del genitore di investire in un altro discendente» Se gli uomini sono impetuosi, incostanti e passano da una donna all'altra è perché in questo modo possono fecondarne un numero maggiore. Se essi tendono a stuprare le donne è per gli stessi motivi. Se essi sono aggressivi fra di loro è perché sono in competizione per appropriarsi delle scarse risorse riproduttive delle donne. Se non ammettono l'infedeltà delle loro partner è perché vogliono che queste scarse risorse vengano utilizzate dai propri geni e non da quelli degli altri. Se tendono a sbarazzarsi dei figliastri è perché quando fanno un investimento parentale vogliono che questo vada a favore dei propri geni. 352 CAPITOLO 13 Se le donne sono molto caute ed esitanti nella scelta di un partner è perché cercano di identificare i maschi con i geni migliori e che danno maggiori garanzie di restare con loro e di occuparsi dei figli dopo l'inseminazione. Se dedicano più tempo ed energie degli uomini alla cura dei figli è perché è più difficile per loro rimpiazzare un bambino dopo avervi investito nove mesi di gravidanza. Se esse preferiscono la monogamia è perché questa conduce gli uomini ad occuparsi maggiormente dei figli. 2.4. L'essenzialismo femminista Un'impostazione simile a quella essenzialista si ritrova anche fra le studiose appartenenti a una corrente femminista [Nielsen 1990, 151154; Bem 1993 127-130; Badinter 1992; Martin 1994; Piccone Stella e Saraceno 19961. Anch'esse - chiamate da alcuni «differenzialiste» sostengono che il genere (la mascolinità e la femminilità) è una qualità (una «essenza») che esiste indipendentemente dalla definizione culturale o sociale. Ma mentre i sostenitori dell'essenzialismo tradizionale attribuivano agli uomini proprietà superiori, quelle del nuovo essenzialismo le assegnano alle donne. Essenziahsmo Per l'essenzialismo femminista, uomini e donne hanno tratti comfeffffilinista pletamente diversi. 1 primi tendono alla separazione, all'isolamento, al dominio, alla gerarchizzazione. Le seconde invece afl'associazione, all'unione, alla cooperazione, alla cura e all'assistenza degli altri. Secondo alcune studiose, queste differenze dipendono da fattori biologici (gli ormoni, l'organizzazione del cervello). Secondo altre invece esse devono essere ricondotte all'esperienza della maternità e al diverso rapporto che con la madre hanno le figlie e i figli. Vengono ad esempio considerate essenzialiste le studiose americane Nancy Chodorow [19781 e Carol Gilligan [19821, autrici di due dei più importanti studi sulle differenze di genere pubblicati negli ultimi trent'anni. Pagina 203
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Secondo la Chodorow, uomini e donne hanno personalità «di base» universalmente diverse, cioè in tutte le culture e le società, perché radicalmente diverse sono le loro prime esperienze relazionali. La figura chiave nell'infanzia di ogni individuo, quella con cui tutti si identificano profondamente, è la madre. Dunque, il primo rapporto significativo delle bambine avviene con una persona dello stesso sesso, quello dei bambini con una di un altro sesso. Per acquisire un senso di sé separato, un'identità di genere, le femmine e i maschi passano attraverso percorsi molto diversi. Le prime non devono rifiutare la loro iniziale identificazione con la madre ed è dall'interazione quotidiana con questa che imparano a essere donne, che sviluppano una personalità femminile. Proprio per questo, una caratteristica fondamentale di tale personalità è la tendenza ad avere forti relazioni con gli altri, a rimanere fusa con, o dipendente da, loro (siano essi la madre o DIFFERENZE DI GENERE 353 il marito) 1 maschi, invece, per acquisire una identità di genere devono distaccarsi nettamente dalla madre e identificarsi con il padre. Poiché tuttavia quest'ultimo è assente, la loro identificazione avviene più con un ruolo sociale, con una figura astratta, che con un individuo in carne ed ossa. Ne deriva che essi tendono più delle femmine ad essere emotivamente distaccati dagli altri, a non identificarsi e a non stabilire relazioni calde con loro. Le studiose che seguono questa iMpostazione si basano di solito su dati di ricerche e analisi scientifiche. E indubbio però che l'approccio essenzialista è stato favorito dalle delusioni provocate dal femminismo universalista degli anni settanta, che si batteva per l'eguaglianza fra uomini e donne. 3. Genere e cultura Numerose prove a favore della tesi che il genere è una costruzione Costruzione sociale e che le differenze negli atteggiamenti e nei comportamenti aociale dei genere degli uomini e delle donne variano culturalmente sono venute per la prima volta dai risultati di una ricerca antropologica, oggi considerata classica, condotta dalla studiosa americana Margaret Mead [19351 su tre tribù della nuova Guinea: gli Arapesch, i Mundugumor e i Tschambuli. Gli Arapesch vivevano in una zona montana e non conoscevano .quasi le guerre. In questo popolo, l'aggressività, la competitività e la possessività erano considerate negativamente e scoraggiate. Non solo le donne, ma anche gli uomini, erano miti, tranquilli, passivi, affettuosi. Piuttosto che entrare in conflitto e battersi contro qualcuno, i maschi preferivano subire, lasciarsi maltrattare dagli altri. Uomini e donne collaboravano all'allevamento dei figli e l'espressione «partorire un figlio» veniva riferita sia alle madri che ai padri. Educati con affetto e con tolleranza, i giovani crescevano con una forte fiducia negli adulti, una grande sicurezza di sé, un'assoluta mancanza di egoismo. Gli atti aggressivi li rivolgevano più verso gli oggetti che le persone. Del tutto diversi erano i Mundugumor, una tribù di cannibali e cacciatori di teste. In questa popolazione, la competitivà e la violenza erano valutate positivamente. Non solo gli uomini, ma anche le donne, erano sospettose, irascibili, aggressive. Di queste ultime, nessun occidentale avrebbe mai detto che avevano l'«istinto materno». 1 sentimenti che provavano nei riguardi della gravidanza e l'allattamento andavano dalla paura all'ostilità. Sentivano inoltre una forte rivalità e gelosia verso le figlie. 1 bambini venivano allevati con durezza, con rimproveri e botte. Fra i Tschambuli, vi erano forti differenze fra i ruoli assegnati ai due sessi. Ma per molti versi questi ruoli erano esattamente opposti a quelli esistenti tradizionalmente in Italia o in altri paesi occidentali. Le 354 CAPITOLO 13 donne erano dispotiche, pratiche, efficienti; gli uomini invece erano passivi, sensibili, delicati. Le prime svolgevano le principali attività di sussistenza, pescando, tessendo e commerciando. 1 secondi si dedicavano alle attività artistiche, all'organizzazione di feste e cerimonie, ad acconciarsi i capelli, a far pettegolezzi, soprattutto sulle donne. Essi erano inoltre particolarmente sensibili verso i bambini, ai quali dedicavano tempo e cure. Dunque, sia tra gli Arapesch che tra i Mundugumor, gli uomini e le donne erano assai simili. Ma, giudicati in base ai nostri standard, gli uomini Arapesch erano femminilizzati, le donne Mundugumor mascolinizzate. Nella tribù Tschambuli, invece, uomini e donne avevano ruoli sessuali assai diversi, ma, rispetto ai nostri, invertiti. Quali altre popolazioni potevano provare meglio di queste tre che le differenze fra gli uomini e le donne sono di natura culturale e non solo biologica? Pagina 204
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 4. La divisione sessuale dei lavoro nelle società preindustriali e industriali Dopo quella di Margaret Mead, molte altre ricerche sono state condotte e hanno messo in luce come variano ancor oggi nel mondo le relazioni di genere. Basandosi sui dati raccolti in quasi duecento società primitive (che il lettore troverà sintetizzati nella tab. 13.2) gli »ivisione sessuae antropologi hanno da un lato dimostrato che la divisione sessuale del dellavoro lavoro è un universale culturale, cioè che esiste in tutte queste società. Ma, dall'altro, essi hanno reso evidente che certi compiti che in alcune società sono considerati propri degli uomini, in altre vengono invece ritenuti come più appropriati per le donne. Come si può vedere dalla tab. 13.2, in molte culture sono gli uomini che costruiscono le case, ma in alcune sono le donne. Nella maggior parte delle società a cucinare sono di solito le donne. Ma in alcune questo spetta agli uomini. Vi sono tuttavia alcuni compiti che vengono svolti quasi unicamente dagli uomini: la caccia, la fusione e la lavorazione dei metalli, l'abbattimento degli alberi, la lavorazione del legno. Ve ne sono altri che spettano quasi sempre alle donne: cucinare, lavare, andare a prendere l'acqua, filare. Ma vi sono altri compiti ancora che competono con la stessa frequenza agli uomini e alle donne: il raccolto, la mungitura, la fabbricazione degli articoli di cuoio. Si tenga inoltre presente che le attività riportate nella tab. 13.2 sono quelle che servono alla produzione dei beni. Ve ne sono altre che, pur avendo finalità diverse, non sono meno importanti. Occupare cariche e prendere decisioni politiche e combattere in guerra sono due di queste, entrambe per lo più svolte dagli uomini. Allattare i bambini e curare i giovani sono altre due e queste cadono sulle spalle delle donne. . Per spiegare la divisione sessuale del lavoro sono state formulate TA9. 13.2. U dù;isìié>ne del lavoro fa uominì e donne in 185 società studiate daglì @ittrppuiogì: Numero di società in cui l'attività è svolta A B C D E F 48 o o o o 100 l. Caccia di grandi animali marini 2, Fusione di metalli 37 o o o o 100 3. Lavorazione di metalli 85 i o o o 99 4. Abbattimento di alberi 135 4 o o o 99 5. Caccia di grandi animali terrestri 139 Pagina 205
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 5 o o o 99 l1 6. Lavorazione del legno 159 3 i i o 99 7. Uccellagione 132 4 3 o o 98 I@i 8. Fabbricazione di strumenti musicali 83 3 i o 356 CAPITOLO 13 varie ipotesi. La prima considera cruciale la maggiore forza fisica degli uomini. La seconda - chiamata l'ipotesi della compatibilità con l'allevamento dei bambini - sostiene che le donne svolgono quei compiti che permettono loro di allattare e curare i figli, cioè quelli che possono interrompere e riprendere facilmente, che non le costringono a fare lunghi viaggi lontano da casa e che non sono pericolosi per i bambini. La terza è l'ipotesi della spendibilità e afferma che gli uomini svolgono di solito i compiti più pericolosi perché, dal punto di vista della riproduzione, possono essere più facilmente sacrificati delle donne. Per quanto non prive di valore, queste ipotesi non bastano da sole a spiegare la divisione sessuale del lavoro. Tener conto della maggior forza fisica degli uomini ci serve per capire perché la caccia, la fusione e la lavorazione dei metalli, l'abbattimento degli alberi siano di solito attività maschili. Ma non ci aiuta a comprendere perché lo siano anche la fabbricazione di strumenti musicali o la cattura di piccoli animali. inoltre, in certe società, anche alle donne sono assegnati lavori molto pesanti. L'ipotesi della compatibilità può essere utile a spiegare perché siano di solito gli uomini a dedicarsi alla caccia o alla pesca. Vi sono però molti casi ai quali non si applica. Ad esempio, nella popolazione degli Agta, nelle Filippine, le donne cacciano regolarmente, uccidendo gli stessi animali degli uomini, anche quando sono incinte, hanno le mestruzioni o allattano. 4. l. Lo status delle donne Fino a che punto lo status delle donne varia nello spazio e nel tempo? Da anni gli studiosi di scienze sociali conducono ricerche per dare una risposta a questa importante domanda. E, nonostante che non vi siano ancora del tutto riusciti, le nostre conoscenze in questo campo hanno fatto grandi passi avanti [Quinn 1977; Mukhopadhyay e Higgins 19881. Oggi sappiamo che il concetto di status delle donne è multidimensionale e che comprende aspetti diversi, quali il controllo sulle risorse economiche, il potere politico, l'autonomia personale, il grado di deferenza dovuto agli uomini e altri ancora. In una società questo status può essere basso riguardo a certe dimensioni, ma medio o alto rispetto ad altre. Così, ad esempio, vi sono paesi dell'Africa occidentale nei quali le donne godono di una certa indipendenza economica, ma sono subordinate al marito sotto altri aspetti. Sappiamo anche che, nonostante che le relazioni di genere variino nello spazio e nel tempo, non è mai esistita una società nella quale il potere politico fosse nelle mani delle donne. L'idea che all'inizio dei tempi vi fosse un «matriarcato» o una «ginecrazia» è stata sostenuta in un libro diventato famoso, Das Mutterrecht (E diritto materno), pubblicato nel 1861 dal giurista svizzero Jacob Bachofen. Prendendo a modello l'Egitto, egli ha individuato due principi antagonisti che hanPagina 206
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt DIFFERENZE DI GENERE 357 no ispirato la storia del mondo: quello femminile, che si incarna in Iside, la Madre suprema, la Terra fertile, e quello maschile, rappresentato dal suo fratello e sposo Osiride, il Nilo, che feconda con le sue acque. Ma, all'inizio della storia, è Osiride ad essere dominato da Iside, è il seno materno a rinchiudere dentro di sé il fluido generatore. Da allora l'idea che in qualche società vi fosse il matriarcato è stata ripresa più volte da vari studiosi. Ma oggi possiamo dire che essa non ha alcun fondamento. Sono invece esistite società nelle quali le donne avevano un potere non trascurabile. 19 caso più famoso è quello degli indiani Irochesi, che vivevano nel nord dello Stato di New York. In questa popolazione, gli uomini si assentavano spesso, e per lunghi periodi di tempo, dal villaggio, per andare a combattere contro altre tribù. Ma anche quando erano a casa non esercitavano alcun controllo sul modo in cui le donne lavoravano e vivevano. Prendere decisioni politiche spettava al consiglio degli anziani, formato esclusivamente da uomini. Ma le donne anziane esercitavano su di loro una notevole influenza. In primo luogo perché erano loro ad eleggere i membri di questo consiglio. In secondo luogo perché esse avevano il controllo sul cibo e su molti manufatti (mocassini, pelli, pellicce) e si potevano rifiutare di darli agli uomini se non erano d'accordo con le decisioni che questi prendevano. Rapporti di genere simili a quelli degli Irochesi sono stati molto frequenti nelle società di caccia e raccolta. Oltre che dalla mancanza di classi (cap. XI), queste società erano caratterizzate da una certa uguaglianza nelle relazioni fra uomini e donne. La situazione è cambiata radicalmente in seguito. Lo status delle donne è diminuito nelle società orticole e poi, in misura molto più accentuata, in quelle agricole. Come hanno osservato due studiose, «il regalo che le civiltà agricole fecero alle donne fu di condannarle a svolgere il lavoro domestico, a partorire ed allattare figli, a servire padri, mariti e fratelli» [O'KeHy e Carney 1986, 1161. E in effetti sia le ricerche antropologiche che quelle storiche mostrano che è in questo periodo che si è avuto il massimo grado di subordinazione delle donne. Con lo sviluppo dell'agricoltura intensiva, la divisione sessuale del lavoro si accentuò. Agli uomini furono riservati i compiti di maggior rilievo: preparare i terreni, arare, scavare i canali per l'irrigazione. Le donne persero il ruolo produttivo che avevano avuto prima e diventarono economicamente sempre più dipendenti dagli uomini. Si occuparono anche del lavoro agricolo, ma svolgendo mansioni ritenute secondarie. Dedicarono d'altra parte un numero crescente di ore a cuocere e a conservare il cibo, a tessere e ad allevare i figli (si veda, per un esempio di questa divisione del lavoro, la tab. 13.3). Nelle società agricole il tasso di fecondità raggiunse punte mai toccate nella storia dell'uomo. Si formò allora una netta separazione fra la sfera pubblica e quella privata e la prima fu riservata ai maschi, mentre nella seconda furono relegate le donne. La separazione spaziale e l'isolamento in casa delle donne servì anche a Status delle donne _nella società .di caccia e raccolta Nelle società orticole Nelle società agricole 358 CAPITOLO 13 T,A13. 13.3. Divisione del lavoro sewndo il sesso nelle famiglie enniadipie J@ancesi nel XIX semio Lavoro femminile Lavoro maschile In casa allevamento dei figli cucina pulizie conti di casa Fuori casa raccolta della legna approvvigionamento d'acqua cura dell'orto cura del pollaio vendita dei polli e delle uova conservazione di derrate raccolta del fieno sarchiatura accensione del fuoco conti della fattoria immagazzinamento del vino dar da mangiare agli animali vendita e acquisto del bestiame cura degli attrezzi agricoli vangatura aratura falciatura macefiazione del maiale Fonte: Shorter [19781. Status delle donne e sistema di parentela Status delle donne e guerFa. garantire che esse rimanessero vergini o fedeli. Furono elaborate raffinate ideologie che giustificassero le forti disuguaglianze di genere. Così, per fare Pagina 207
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt solo un esempio, Aristotele, uno dei più grandi filosofi occidentali, pensava che la donna fosse un uomo mancato e avesse una natura difettosa, debole, mutilata. Anche le grandi religioni universali, il cristianesimo, l'islamismo, l'induismo, a buddismo, il giudaismo prescrivevano, in misura maggiore o minore, la subordinazione delle donne e, all'interno dell'organizzazione, le tenevano lontano dal potere. Un'inversione di tendenza ha avuto luogo tuttavia, in molti paesi sviluppati, nel corso del nostro secolo. In questi paesi, come vedremo nelle pagine seguenti, permangono forti disuguaglianze di genere nel lavoro, nel controllo delle risorse economiche, nella distribuzione del potere politico. Ma negli ultimi decenni, tali disuguaglianze sono diminuite. Le variazioni nello spazio e nel tempo dello status delle donne sono state ricondotte principalmente a tre fattori: il sistema di parentela, la frequenza con cui una società è in guerra e il contributo economico fornito dalle donne. Per quanto riguarda il primo, l'importanza sociale di queste è maggiore nelle società con un sistema di parentela matrilaterale e in cui si segue la regola di residenza matrilocale. In primo luogo perché le donne, andando a vivere dopo le nozze nella famiglia dei genitori, conservano il sostegno della madre e delle sorelle. In secondo luogo perché esercita un'autorità su di loro non solo il marito, ma anche il fratello, e quando i due non sono d'accordo finiscono per neutralizzarsi vicendevolmente, dando in questo modo senza volerlo - maggiore autonomia alla donna. Per quanto riguarda il secondo fattore, quanto più spesso una società è in guerra, tanto più è probabile che le relazioni fra uomini e DIFFERENZE DI GENERE 359 donne siano androcentriche. Per avere queste conseguenze, tuttavia, le guerre devono essere combattute contro gruppi vicini. Quelle contro nemici lontani, che portano gli uomini a lasciare il villaggio per lunghi periodi di tempo, hanno infatti effetti opposti, cioè fanno crescere l'autonomia e il potere delle donne. Quanto al terzo fattore, il caso delle società contemporanee mostra bene che lo status sociale delle donne dipende anche dal contributo che esse forniscono alla produzione e al controllo che esse esercitano sulle risorse economiche. Se l'importanza sociale e politica della popolazione femminile è cresciuta è anche perché è notevolmente aumentato il numero delle donne che sono entrate nel mercato del lavoro retribuito. Ma non meno eloquente risulta il confronto fra la situazione dell'Africa occidentale e quella dell'India settentrionale. Come ha efficacemente spiegato Ester Boserup in un libro oggi considerato classico [19701, nella prima le donne godono di una certa indipendenza economica e di una notevole libertà di movimento. Inoltre, per prenderla in moglie, il marito deve pagare alla famiglia di lei il cosiddetto «prezzo della sposa». Nell'India settentrionale lo status delle donne è sicuramente inferiore. I genitori considerano come un peso avere delle figlie, tanto che un tempo ricorrevano spesso all'infanticidio per limitare il loro numero. Le donne si dedicano quasi solo ai lavori domestici, vivono chiuse in casa e seguono la pratica del purdab, cioè vanno fuori solo nascoste dal velo. Quando una figlia si sposa, i genitori non solo non ricevono il prezzo della sposa, ma devono darle una dote. La diversa situazione delle donne dipende dal fatto che queste due regioni sono caratterizzate da due tipi molto diversi di agricoltura. Nell'Africa occidentale vi è un sistema femminile di coltivazione. L'agricoltura è itinerante e il più importante attrezzo di cui ci si serve è la zappa ad impugnatura corta. Il lavoro nei campi è compito delle donne che sono aiutate solo in parte dagli uomini. Mentre infatti ai giovani maschi dai 15 ai 18 anni spetta l'abbattimento degli alberi che è necessario per preparare nuovi appezzamenti alla coltivazione tutte le altre operazioni vengono svolte dalle donne: la rimozione degli alberi abbattuti, la semina, la sarchiatura, il raccolto. Nell'India settentrionale vi è invece un sistema maschile. Prevale la coltivazione estensiva con l'aratro tirato dai buoi e il lavoro agricolo è svolto prevalentemente dagli uomini, mentre le donne vi partecipano solo in momenti eccezionali, ad esempio durante la raccolta. Non meno interessante è da questo punto di vista il confronto fra le diverse regioni dell'India. In quelle meridionali, lo status sociale della donna è sicuramente più alto che nelle settentrionali. Ed anche in questo caso la differenza è riconducibile al fatto che nelle prime esse partecipano molto più frequentemente ai lavori agricoli che nelle seconde. Nell'1ndia del sud, grazie Pagina 208
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt anche alle più abbondanti piogge, la coltivazione principale non è il grano, ma il riso. Per questo ci si serve non dell'aratro tirato dai buoi, ma dei bisonti gibbosi, il cui Status defle donne e contributo econornico Status defle. cionne e sistemi di coltivazione 360 CAPITOLO 13 compito principale è di rimescolare e di ammorbidire il terreno con le loro zampe. E le donne sono in grado quanto gli uomini sia di guidare i bisonti sia di trapiantare le piantine di riso. 4.2. L'uso dei tempo nella società contemporanea Negli ultimi quindici anni, in alcuni paesi, sono state condotte minuziose ricerche su come la popolazione impiega il tempo, durante i giorni feriali e quelli festivi, che hanno messo in luce l'esistenza di profonde differenze fra uomini e donne. Secondo l'indagine dell'Istat [19931, in Italia gli uomini adulti impiegano in media più tempo nel lavoro retribuito. Tuttavia le donne occupano un maggior numero di ore nelle varie forme di lavoro non retribuito: nelle attività domestiche, nella cura dei figli e delle altre persone della famiglia, nella produzione per l'autoconsumo e nella gestione della contabilità per gli affari del marito. Gli uomini invece svolgono di rado compiti domestici. In ogni modo, se fanno qualcosa, cucinano o si occupano della spesa. Quasi nessuno dei maschi italiani fa i letti, stira o pulisce la casa (tab. 13.4). Considerando insieme tutte le attività, vediamo che in Italia le donne lavorano in media più ore al giorno degli uomini. Minore è di conseguenza il tempo che le prime possono dedicare alle cure personali e al tempo libero. Gli uomini dormono di più, fanno più passeggiate e più spesso vedono la televisione o leggono il giornale. La nascita dei figli ha d'altra parte conseguenze diverse sull'uso del tempo dei due genitori. Per ogni figlio che mette al mondo, la madre dedica un'ora di tempo più di prima alla famiglia, mentre il padre aumenta di tre quarti d'ora il tempo di lavoro retribuito [Sabbadini e Palomba 19941. Le differenze di genere nell'uso del tempo variano molto a seconda del paese. Nei paesi in via di sviluppo le donne dedicano molto più tempo degli uomini al lavoro (retribuito e non). In Kenia, ad esempio, gli uomini lavorano in media 8 ore e 20 minuti al giorno e le donne TABI 13.4. Perventuale degli uomini residenti ì# Italia nel 1988-1989, sposatì e con figlì, ebe svolgono le seguenti attività domgstirbe Cucinare Apparecchiare e sparecchiare Fare i letti Lavare, stirare Pulizie di casa Pulizia esterna Manutenzione Spesa 21,2 14,1 1,0 1,6 4,8 1,8 5,7 28,5 Fonte: Sabbadini e Palomba [19941. DIFFERENZE DI GENERE 3 6 1 Non retribtuto Retribtuto Totale Differenza A Tempo libero Uomini orine% tempo ch avoro Donne Uomini Donne Uomini Donne Uomini (ore settimanali) Donne Uomini non retribtuto stil totale tempo lavoro Pagina 209
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Danimarca (1987) 24,6 12,2 312 45,2 55,7 57,3 -1,6 415 43,0 21@ Urss (1985) 27,0 11,9 39,3 53,8 66@ 65,7 +0,6 32,0 34,6 18,1 Finlandia (1979) 28,6 13,8 32>5 44,0 362 CAPITOLO 13 Tasso di attività femtninile 4.3. Differenze nei tassi di attività In molte parti del mondo vi è stata una significativa diminuzione delle differenze di genere nella partecipazione al mercato del lavoro, a causa soprattutto del forte aumento del tasso di attività della popolazione femminile. In alcuni paesi sviluppati, come ad esempio negli Stati Uniti, questo processo è iniziato da un secolo. In altri esso è di origine più recente. In Italia, il tasso di attività della popolazione femminfle è diminuito continuamente dall'inzio del secolo fino agli anni settanta e poi ha iniziato ad aumentare. Ma quello delle donne sposate ha preso a salire molto prima, probabilmente già nel corso degli anni trenta [Bettio 1988, 611. Dal 1970 al 1990, la percentuale delle donne economicamente attive è cresciuta considerevolmente nei paesi industrializzati, nell'Africa settentrionale e nell'Asia occidentale, mentre è rimasta costante o è diminuita negli altri. Contemporaneamente, in molti di questi paesi, è leggermente diminuito il tasso di attività della popolazione maschile. Oggi i paesi nei quali il tasso di attività della popolazione femminile è più basso sono quelli mussulmani (l'Arabia Saudita e l'Algeria) seguiti dagli altri in via di sviluppo. All'altro estremo, i paesi in cui questo tasso è più alto sono quelli scandinavi o comunisti ed ex comunistì (la Cina, la Russia, il Vietnam) seguiti dai paesi più ricchi (gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone). Come si può notare da questo elenco, e come vari studi hanno messo in luce, il tasso di attività della popolazione femminile di un paese dipende non solo dal suo livello di sviluppo economico, ma anche dalle norme culturalì in esso prevalenti e dalla politica sociale dei suoi governi. Se, ad esempio, in Svezia tale tasso è molto alto è anche perché questo è il paese in cui le donne che mettono al mondo un bambino godono del più lungo periodo di congedo retribuito (tab. 13.6). TAB. 13. 6, Congedo per Pnaternúà o.paternità. prevuto in. jkunì paesi Paese Durata del congedo (in settimane) Percentuale retribuzione Genitore che ne ha diritto % n. settimane Svezia Germania occidentale Austria 12-52 52 16-52 90 Pagina 210
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 100 100 38 14-18 20 Madre o padre Madre o padre Madre Itaha 22-48 80 22 Madre Cile 18 100 18 Madre Canada 17-41 60 15 Madre Stati Uniti 12 o Madre o padre Fonte: Reskin e Padavic [19941. DIFFERENZE DI GENERE 363 4.4. La segregazione occupazionale Anche se il numero delle donne che svolgono un'attività extradomestica è fortemente aumentato, molte di loro fanno un lavoro diverso da quello degli uomini. In tutti i paesi sui quali abbiamo dati vi è infatti segregazione occupazionale per sesso. In certi casi, questa segregazione è fisica, nel senso che gli uomini e le donne sono separati da edifici 0, all'interno dello stesso edificio, da pareti. Di solito però essi sono divisi da classificazioni sociali, che definiscono femminili alcune occupazioni e maschili altre. Si usa l'espressione segregazione occupazionale (orizzonatale) se- Indice di condo il sesso per indicare la concentrazione di uomini e donne in dissimilafità lavori diversi. Dai sociologi e dagli economisti essa viene normalmente misurata attraverso il cosiddetto indice di dissimilarità, i cui valori vanno da 0 a 100. Tale indice è 100 quando in ciascuna occupazione vi sono solo uomini o solo donne, mentre è 0 quando il rapporto fra gli appartenenti ai due sessi è perfettamente equilibrato, cioè vi sono metà dei primi e metà delle seconde. In Italia, nel 1901, l'indice di dissimilarità aveva il valore di 78 e dunque era assai elevato. Negli ottant'anni successivi esso è diminuito in modo sensibile (tab. 13.7). Negli Stati Uniti, il grado di segregazione occupazionale per sesso, dopo aver subito lievi oscillazioni nei primi settant'anni del nostro secolo, si è ridotto nel ventennio successivo. Questo mutamento è dovuto, oltre che all'ingresso delle donne in alcune occupazioni un tempo considerate maschili, all'aumento del peso di quelle già prima integrate. In Italia, ad esempio, è notevolmente aumentata la quota delle donne sul totale dei medici, degli avvocati e dei magistrati [David e Vicarelli 19941. Nonostante questo, a grado di segregazione occupazionale per sesso è ancora elevato. In Italia, ad esempio, nel 1981, ben il 52% degli uomini (o delle donne) avrebbe dovuto cambiare lavoro perché la distribuzione di coloro che svolgono lo stesso lavoro fosse equilibrata. In tutti i paesi sviluppati le donne sono più spesso occupate come impiegate di media e bassa qualificazione nel commercio e nei servizi sociali e personali, gli uomini come operai dell'industria, dirigenti o professionisti. Ma anche fra i paesi sviluppati vi sono significative differenze. Molti sociologi ed economisti si aspettano che il grado di segregazione occupazionale per genere sia tanto minore quanto maggiore è A grado TA& 13.7. Indice di dissimilarità delú popolazione occupata inItalia dal 19,01 al 1981 1901 1936 1971 1981 Indice di dissirnilarità 78,0 74,5 56,0 52,0 N. categorie occupazionali 270 335 235 235 Pagina 211
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Fonte: Bettio [1988, 381. 364 CAPITOLO 13 di sviluppo economico e di modernizzazione di un paese e quanto più il suo governo si ispira a una politica egualitaria. Le ricerche comparative [Roos 1985; jacobs e Lini 1992; Charles 19921 hanno invece mostrato che i paesi più moderni e avanzati - come gli Stati Uniti, la Svezia o la Norvegia - hanno livelli di segregazione occupazionale per sesso maggiori di quelli tradizionali, come l'Italia, la Grecia o il Giappone. Questo è dovuto al fatto che se lo sviluppo economico, la modemizzazione e le politiche sociali egualitarie provocano una riduzione della segregazione, altri importanti processi in corso nei paesi occidentali spingono in senso opposto. Il primo è quello della «dequalificazione» delle occupazioni impiegatizie. Nell'industria e nel terziario si sono formati nuovi posti di impiegato che richiedono un basso livello di competenze. Questi posti sono stati disertati dagli uomini, cosicché per riempirli gli imprenditori hanno dovuto far ricorso alle donne. Il secondo processo è quello dello sviluppo del settore dei servizi sociali e personali. Nati dalla crescente domanda di questo tipo di servizi che vi è stata con l'ingresso della popolazione femminile nel mercato del lavoro, questi posti di lavoro sono stati occupati prevalentemente dalle donne sia perché sono più flessibili degli altri, sia perché queste sono più disposte e capaci - per una lunga tradizione - di svolgere queste funzioni. 4.5. Differenze retributive Nell'Antico Testamento si legge che Dio, rivolgendosi a Mosé, disse: «Se uno deve adempiere un voto fatto al Signore, voto del valore di una persona: un maschio dai venti ai sessant'anni sarà del valore di cinquanta sidi d'argento, se è una femmina sarà del valore di trenta sicli» [Levitico, 271. Da allora, l'uso di valutare il lavoro delle donne non più di tre quinti di quello dell'uomo è rimasto in vita a lungo. Nelle campagne piemontesi, nel 1634, fra gli operai agricoli gli uomini guadagnavano 10 scudi, le donne 4 [Fanfani 1959, 33 11. Negli Stati Uniti, dal 1930 al 1980, il reddito femminile ha oscillato dal 55 % al 64 % di quello maschile, per raggiungere il 71 % all'inizio degli anni novanta. In Italia, all'inzio del secolo, le donne guadagnavano il 43 % degli uomini. Ma da allora la situazione è completamente mutata e questa percentuale è fortemente aumentata. 11 salario della popolazione femminile occupata nell'industria è passato dal 5 1 % di quello degli uomini nel 193 8 al 64 % nel 1961 e all'86% nel 1983 [Bettio 19881. Vi sono paesi - come ad esempio il Giappone, Cipro o la Repubblica di Corea - in cui il divario retributivo fra le donne e gli uomini è ancora più forte, perché le prime guadagnano oggi solo la metà dei secondi. Ma ve ne sono altri - come la Francia, la Danimarca, l'Islanda, l'Australia - in cui i salari femminili vanno dall'80 al 90% di quelli maschili [United Nations 19911. DIFFERENZE DI GENERE 365 Questa differenza è in parte dovuta alla segregazione occupazionale e al fatto che di solito la popolazione femminile svolge occupazioni meno qualificate di quella maschile. Ma in molti casi, anche quando fanno lo stesso lavoro degli uomini, le donne sono pagate meno di loro. Divario retributivo e segregazione 4.6. Gli svantaggi delle donne nell'economia: alcune spiegazioni Varie spiegazioni sono state proposte del perché le donne abbiano tassi di attività più bassi, svolgano occupazioni meno qualificate e guadagnino meno degli uomini. La teoria del capitale umano e quella della socializzazione di genere affrontano la questione dal lato dell'offerta di lavoro. Invece quelle della discriminazione statistica e delle barriere la esaminano partendo dalla domanda. La teoria del capitale umano sostiene che gli individui compiono scelte razionali dal punto di vista economico e decidono se andare o meno a scuola per un certo numero di anni, se iscriversi o meno all'Università e a quale facoltà, se fare un'occupazione invece di un'altra sulla base delle ricompense monetarie che si attendono. Poiché le donne hanno un forte orientamento verso la famiglia e si aspettano di lasciare il lavoro quando diventano madri esse non investono in quella formazione che permette di far carriera, ma scelgono quelle occupazioni che consentono una certa flessibilità, possono essere svolte in modo intermittente, non richiedono lavori straordinari e imprevisti, lunghi viaggi e una forte mobilità geografica. La teoria della socializzazione di genere, a differenza di quella del capitale Pagina 212
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt umano, cerca di spiegare perché le donne siano orientate più verso la famiglia che verso la carriera professionale. Essa sostiene che questo si verifica perché, dalla nascita in poi, negli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, la famiglia, il gruppo dei pari, la scuola e i mezzi di comunicazione di massa insegnano agli appartenenti ai due generi quale è A modo appropriato di parlare, di vestirsi, di passare il tempo libero, quali sono le aspirazioni scolastiche e professionali più adatte. Questi messaggi vengono a poco a poco interiorizzati da ragazzi e ragazze, che si formano così orientamenti, preferenze e competenze per alcune occupazioni invece che per altre. Altre teorie riconducono la segregazione occupazionale per sesso alle diverse barriere che riducono le opportunità di cui dispongono le donne di scegliere il lavoro che preferiscono. Si tratta di barriere formali di accesso alle varie professioni (talvolta create o mantenute in vita dalle organizzazioni sindacali maschili), alle scuole che forniscono i titoli per esercitare queste professioni oppure di barriere informali. Fa parte di queste teorie anche quella della discriminazione statistica, secondo la quale gli imprenditori trattano gli individui sulla base delle loro credenze riguardo all'intera categoria a cui questi appartengono. 366 CAPITOLO 13 Così, ad esempio, essi si rifiutano di assumere donne in età feconda partendo dall'idea che esse si assentano spesso dal lavoro e sono meno produttive degli uomini. 5. La politica «Per quanto riguarda l'ordine e grado delle donne - scriveva nel 1586 jean Bodin - non voglio occuparmene; penso soltanto che sia opportuno che esse vengano tenute lontane da tutte le magistrature, i luoghi di comando, i giudizi, le assemblee pubbliche e i consigli, così che si occupino solo delle loro faccende donnesche e domestiche» Gli storici [Zemon Davis 19911 ritengono oggi che giudizi come questo ci presentino un quadro un po semplificato di quale fosse in Europa, nell'età moderna, il rapporto fra i due generi. Innanzitutto perché per lungo tempo anche una quota consistente della popolazione maschile - quella appartenente agli strati sociali più bassi - è rimasta esclusa dalla partecipazione all'attività politica. In secondo luogo perché anche nell'età moderna vi sono state donne che hanno goduto di autorità politica. In tutto questo periodo, il ruolo delle donne è stato assai diverso negli stati organizzati in repubbliche e in quelli organizzati in monarchie. Nei primi, le donne potevano esercitare un'influenza politica solo in modo informale, attraverso relazioni di amicizia o di parentela. Nei secondi invece esse potevano occupare posizioni di potere formale, diventando ad esempio regine nel caso in cui mancasse un erede maschio. Nell'ultimo secolo (e in modo ancora più rapido nell'ultimo trentennio), le disuguaglianze di genere sono sicuramente diminuite anche in questo campo. Dopo esserne state a lungo prive, le donne hanno ottenuto il diritto di voto in quasi tutti gli stati del mondo. Il primo paese in cui questo è avvenuto è la Nuova Zelanda, nel 1893. In NorTAB. 13.8. Frequenza con cwl gli uomini e le donne parlano di politica frequentemente o occasionalmente in alcuni paesi industrializzati (1973-1985) Paese Maschi Femmine Differenza Paese Maschi Femmine Differenza Paesi Bassi 75 70 5 Lussemburgo 80 64 16 Finlandia 86 77 9 Belgio 54 38 16 Stati Uniti 82 72 10 Germania 85 67 18 Irlanda Nord 69 59 10 Spagna 58 40 18 Svizzera 85 75 10 Irlanda 70 49 21 Francia 70 57 13 Giappone 58 35 23 Canada 75 62 13 Grecia 82 58 24 Regno Unito 73 60 13 Portogallo 65 40 25 Danimarca 77 63 14 Italia 74 47 27 Austria 84 69 15 Fonte: Inglehart [19881. DIFFERENZE DI GENERE 367 . TAB. 13.9. Anno in eui le donne hanno ottenuto il diritto di voto e percentuak.di.ieggipfflamentarioccupatz'da donne nel. 1975 e nel 1.990 in. akuni ~ del mondo cantto ai voto 1975 1990 r tto a voto 1975 1990 Paesi sviluppati Australia Pagina 213
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 1901 o 13 Marocco 1963 o Austria 1918 8 21 Ruanda 1961 17 Belgio 1948 7 10 Senegal 1945 4 12 Bulgaria 1944 19 Somalia 1956 o 4 Canada 1918 3 18 Tunisia 1956 3 7 Cecoslovacchia 1920 26 Zaire 1960 i 1 4 Danimarca 1915 16 33 Finlandia 368 CAPITOLO 13 universale è stato raggiunto più tardi: nel corso degli anni sessanta o addirittura negli anni ottanta (tab. 13.9). Subito dopo aver conquistato il suffragio universale, le donne andarono a votare in misura minore degli uomini. Ma in seguito, in molti paesi, il tasso di partecipazione dell'elettorato femminile ha raggiunto o addirittura superato quello maschile. Le differenze di genere sono diminuite anche nelle altre forme di partecipazione politica: l'interesse per quanto avviene nella sfera pubblica, l'iscrizione a un partito, le azioni svolte a sostegno di un gruppo, di un candidato o di un programma. La situazione dei paesi sviluppati non è tuttavia identica. in alcuni la differenza fra l'interesse politico degli uomini e quello delle donne è esigua, in altri (fra i quali l'Italia, il Portogallo, la Grecia) è più netta (tab. 13.8). Ma nonostante questo, le donne sono ancora fortemente sottorappresentate ai vertici delle organizzazioni e delle istituzioni politiche. Nei 159 stati appartenenti alle Nazioni Unite, le donne sono solo il 3,5% dei ministri. Come si può inoltre vedere dalla tab. 13.9, la loro percentuale sugli eletti nei parlamenti è ancora esigua. I paesi dell'Europa del Nord (la Svezia, la Danimarca, la Norvegia, la Finlandia) sono da questo punto di vista delle eccezioni. 6. Genere e salute Almeno in un campo le donne sembrano essere avvantaggiate: quello della salute. In Italia oggi la vita media degli uomini dura sette anni meno di quella delle Pagina 214
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt donne. Ma lo stesso avviene in Francia e in Germania, nel Regno Unito o in Svezia e un po in tutti i paesi sviluppati. Come è possibile - ci si può chiedere - che pur avendo i numerosi svantaggi che abbiamo ricordato le donne vivano più a lungo degli uomini? La risposta che si tende a dare è che le donne sono il genere debole, ma il sesso forte. In altri termini, se la loro vita dura più di quella degli uomini è solo per motivi di tipo biologico. Fattori biologici Molti fattori portano a ritenere che questa spiegazione sia giusta. Il rapporto dei sessi alla nascita è superiore a 100. Per ogni 100 femmine vengono al mondo 105 maschi. Ma questo rapporto è ancora più alto al momento del concepimento. Dunque, durante la gestazione, si perdono più feti di sesso maschile che femminile. Anche nelle prime settimane di vita, muoiono più bambini che bambine. Può darsi che questo dipenda dal fatto che i maschi sono più deboli delle femmine. Ma vi sono studiosi che pensano che i feti e i neonati di sesso maschile muoiono più spesso perché sono più grandi. Varie ricerche hanno comunque messo in luce che coloro che hanno una coppia di cromosomi X (le donne, come abbiamo visto) corrono meno rischi di malattie di quelli che ne hanno una X e Y; che l'estrogeno, cioè l'ormone sessuale femminile, protegge contro le malattie cardiache; che le donne hanno un sistema immunitario più forte di quello degli uomini. 1 fattori biologici sono dunque importanti. Ma lo sono altrettanto Fattori ambicntàì - e forse anche di più - quelli di tipo ambientale e sociale. Se fosse e sociali tutto spiegabile solo in termini genetici e biologici, la differenza di mortalità fra la popolazione maschile e quella femminile sarebbe costante nello spazio e nel tempo. Invece così non è. Un secolo e mezzo fa, nel primo studio rigoroso condotto su questo problema, William Farr ha messo in luce che in una fase lunga e importante della vita il tasso di mortalità delle donne superava quello degli uomini. Come si può vedere dalla tab. 13.10, nel 1813-1830, fino a dieci anni e da quaranta m poi la morte colpiva più frequentemente gli uomini delle donne, ma da dieci a quarant'anni avveniva esattamente l'opposto. Mezzo secolo dopo la situazione era radicalmente cambiata perché la mortalità maschile era superiore a quella femminile a tutte le età. Studi recenti [Lopez e Ruzicka 19831 hanno mostrato che, all'inizio del secolo, la differenza fra uomini e donne nella durata della vita media era solo di due anni e che da allora essa è progressivamente aumentata. Questo non è naturalmente dovuto a mutamenti nel patrimonio genetico, ma a fattori sociali e culturali. Ne è prova il fatto che l'aumento della differenza della durata della vita fra uomini e donne si è verificato soprattutto in due classi di età: dai 15 ai 24 e dai 45 ai 65 anni. Nella prima ciò è riconducibile a due tendenze: alla diminuzione delle morti per parto, che ovviamente colpiscono solo le donne, e alla crescita di quelle per incidenti stradali, che riguardano invece più spesso gli uomini. Nella seconda classe di età, l'aumento della differenza fra i due sessi è dovuta all'incremento delle morti per tumori ai polmoni e per le malattie dell'apparato circolatorio, che è stato maggiore nella popolazione maschile che in quella femminile. Dunque, se nei paesi sviluppati gli uomini vivono meno delle donne non è soltanto per motivi biologici. t anche perché bevono più alcool e fumano più sigarette, fanno lavori più pericolosi, usano di più le armi da fuoco, guidano più spesso, e in modo più imprudente, moto e auto, seguono più frequentemente quel modello di comportamento chiamato di tipo A, che favorisce le coronopatie ed è caratterizzato da forte desiderio di affermazione, competitività, aggressività. In altri termini, se gli uomini muoiono prima delle donne è anche perché hanno uno stile di vita diverso e si comportano nei modi che tradizionalmente ci si aspetta da loro. Non è forse vero che tradizionalmente i maschi sono stati educati a credere che un vero uomo deve fumare, bere, mangiare molta carne, essere sprezzante dei pericoli? Proprio per questo, si può prevedere che la differenza di mortalità fra i sessi diminuirà man mano che lo stile di vita delle donne diventerà sempre più simile a quello degli uomini. Questa tendenza, del resto, è già iniziata. Ne è prova il fatto che, in alcuni paesi sviluppati, la diffusione dell'abitudine di fumare nella popolazione femminile ha fatto sì che, in 370 CAPITOLO 13 TAB, 13. 10. Rapportì di mortalità (MIF) per gli uomini e le donne in Ingbilterra all'inizio e atk ftne del secolo scorso Età 1813-1830 Pagina 215
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 1871-1880 0-1 mA 123 0-4 117 117 5-9 107 108 10-14 96 100 15-19 95 96 20-29 97 108 30-39 92 109 40-49 100 128 50-59 108 122 60-69 106 114 70-79 104 108 Fonte: Johansson [ 199 11. quest'ultima, la mortalità per cancro ai polmoni abbia raggiunto quella. per tumore al seno. Inoltre, in questi paesi, negli ultimi trent'anni il tasso di mortalità per incidenti stradali è aumentato del 20% nella popolazione femminile, mentre è rimasto costante in quella maschile. Se ci allontaniamo dall'Europa e dagli Stati Uniti la situazione cambia radicalmente. Mentre nei paesi ricchi vi sono 106 donne per ogni 100 uomini, nell'America Latina esse sono 101, nell'Africa sub sahariana 103, nell'Africa del Nord 99 e in molti paesi dell'Asia solo 95. Il motivo è che in molte regioni del Terzo mondo, in certe classi di età, il tasso di mortalità femminile supera quello maschile. Questo si verifica soprattutto dai 2 ai 30 anni ed è dovuto a fattori non biologici, ma economici e sociali [Waldrow 19871. Come si è detto, se le femmine ricevono le stesse cure dei maschi, esse vivono più a lungo di loro. Ma in questi paesi ciò non si verifica e dunque la percentuale di donne sul totale della popolazione è minore di quella esistente in Europa o negli Stati Uniti. Si stima che, per questi motivi, nel Terzo mondo manchino oltre 100 milioni di donne [Sen 19911. Le minori cure ricevute dalle donne dipendono dal sottosviluppo economico. La mortalità femminile per parto è sempre diminuita quando vi è stato un forte sviluppo economico e si sono creati migliori servizi ospedalieri. Ma questa spiegazione non è sufficiente. Vi sono nel mondo numerosi paesi poveri nei quali la mortalità femminile è inferiore a quella maschile. Quelli dell'Africa sub sahariana, ad esempio, per quanto fortemente sottosviluppati, hanno un'eccedenza di donne rispetto agli uomini. La spiegazione più importante delle minori cure che le donne ricevono in alcuni paesi del Terzo mondo è di ordine sociale e culturale. Alcune ricerche hanno mostrato che quanto più alto è lo status delle donne tanto maggiori sono le loro speranze di vita in confronto a quelle degli uomini [Ram 19931. Le donne ricevono infatti minori cure nelle regioni nelle quali (come in quelle dell'India settentrionale) non svolgono un lavoro retribuito e quindi non dispongono di un reddito esterno alla famiglia; non hanno proprietà personali e non controllano risorse economiche; sono relegate in casa e seguono la pratica del purdab. In questi paesi, i genitori sono fermamente convinti che sia meglio avere un figlio che Pagina 216
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt una figlia. In primo luogo, perché è solo al maschio che possono essere trasmessi il nome e le proprietà della famiglia. In secondo luogo, perché è dai figli maschi che essi si attendono di ricevere un sostegno economico una volta diventati vecchi, dal momento che in questi paesi si segue la regola di residenza patrilocale e dopo le nozze le figlie escono di casa, mentre i figli portano la moglie in famiglia. In terzo luogo, perché il matrimonio di una figlia è molto più costoso di quello di un figlio, dal momento che alla prima devono dare una dote, mentre il secondo porta in casa la dote della sposa. In quarto luogo, perché è solo ai figli maschi che è consentito celebrare i riti ancestrali per il padre dopo la sua morte. I paesi nei quali la preferenza per i maschi è molto forte raggiungono alti tassi di mortalità femminile attraverso varie strade. In primo luogo, i genitori fanno talvolta ricorso all'infanticidio femminile. Testimonianze e dati di vario tipo provano che nell'1ndia settentrionale questo è avvenuto per molto tempo, in particolar modo nelle caste più elevate [Miller 19811. Ma in Cina questo si è verificato anche recentemente. Nel 1979, il governo di quel paese ha inaugurato una nuova politica demografica che, attraverso incentivi e disincentivi riguardanti le retribuzioni, la casa e l'assistenza sanitaria, punta a far sì che ogni coppia abbia un solo figlio. Tale politica ha avuto effetti drammatici sulla popolazione femminile. Il rapporto dei sessi alla nascita che come vedremo nel cap. XXIII - è dato dal numero dei nati maschi ogni 100 femmine, è passato da 106,5 nel 1987 a 111,7 nel 1989. Ciò significa che ogni anno sono scomparse alcune centinaia di migliaia di bambine. Il motivo è semplice: non potendo avere che un figlio, quando sanno che è di sesso femminile, una parte dei genitori lo sopprime. Talvolta ricorrono all'aborto selettivo, cioè appena saputo - con la tecnica di predeterminazione - quale è il sesso del nascituro, non permettono alle figlie di vedere la luce. Ma più frequentemente si servono dell'infanticidio. Il fenomeno ha assunto dimensioni tali che il governo è dovuto intervenire stabilendo che se il primo figlio è femmina i genitori sono autorizzati ad averne un secondo. In secondo luogo, i genitori dedicano più tempo e risorse all'allevamento dei maschi che delle femmine. I bambini vengono allattati al seno più a lungo delle loro sorelline. I primi ricevono un'alimentazione più abbondante e più ricca di proteine e di ferro delle seconde. t anche per questo che fra le donne vi è un'incidenza più alta di anemia, che le rende più vulnerabili alle complicazioni della gravidanza e del parto. In caso di malattia, sono ancora i figli maschi ad essere più spesso e meglio curati. InfantidIo Aborto seleffivo --- - -L-~- In ogni società, sia gli individui che i ruoli che essi svolgono sono stratificati non solo (come abbiamo visto nei capitoli precedenti) per classe e genere, ma anche per età. Dalla posizione che ciascuno di noi occupa nella struttura di età della popolazione dipendono le nostre capacità biologiche, gli atteggiamenti che abbiamo nei confronti della vita e del mondo, le attività che svolgiamo, i rapporti che stabiliamo con gli altri. Come il genere, ma a differenza della classe sociale, l'età è una caratteristica ascritta. In ogni momento noi abbiamo un'età ben precisa, anche se possiamo cercare di sembrare più giovani o più vecchi. Ma, a differenza del genere, quello dell'età è uno status di transizione, perché finché siamo in vita passiamo da un'età all'altra. Questo significa che se alcuni gruppi di età godono di maggior potere, maggior prestigio e di maggiori risorse economiche di altri - come succede in ogni società - ci possiamo aspettare di far parte prima o poi di questi gruppi. Sotto questo aspetto, l'età è più simile alla classe sociale, perché - come abbiamo visto - in molte società la mobilità da una classe all'altra è possibile, ma a differenza di quella da un'età all'altra non è mai né inevitabile né irreversibile. l. Due processi di fondo In ogni società vi sono vari strati di età, cioè aggregati di individui di età simili. Tali strati, oltre ad essere diversi per ampiezza e composizione, differiscono anche per status e ruoli. 1 doveri, i diritti e le ricompense vengono infatti distribuiti in maniera diversa a seconda dell'età. 1 comportamenti ritenuti adeguati alle diverse età possono essere definiti sia da norme formali, giuridiche, che da quelle informali. Le costituzioni, le leggi ordinarie e i vari regolamenti stabiliscono a che Pagina 217
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 374 CAPITOLO 14 età si possa andare a scuola, a votare, ci si possa sposare o si debba andare in pensione. In Italia, ad esempio, è necessario aver compiuto diciotto anni per prendere la patente di guida o per sposarsi. Per quanto riguarda il matrimonio, tuttavia, il tribunale può autorizzare anche le nozze fra minori, quando vi siano «gravi motivi» e sia accertata la loro maturità psicofisica. La costituzione italiana stabilisce d'altra parte che la capacità di partecipare alle elezioni venga acquistata: a) come elettore, a 18 anni per la Camera dei Deputati e a 25 per il Senato della Repubblica; b) come candidato, a 25 anni per la prima e a 40 per la seconda. Inoltre, solo coloro che hanno compiuto cinquant'annì possono essere eletti Presidente della Repubblica. Numerose e non prive di importanza sono le norme informali, che stabiliscono in modo molto meno preciso e perentorio l'età a cui è bene fare determinate cose e che possono essere molto più facilmente violate delle altre. Così, ad esempio, nel nostro paese, coloro che, terminata la scuola media superiore, non si iscrivono subito all'Università e neppure si mettono alla ricerca di un lavoro non sono visti di buon occhio. Per capire come si formino gli strati di età è bene tener presente che in ogni società hanno luogo due diversi processi [Riley et al. 19881. Il primo è quello universale dell'invecchiamento e della successione delle coorti. Una coorte è formata da persone nate nello stesso periodo, che a poco a poco invecchiano, passando attraverso vari ruoli (bambino, figlio, studente, impiegato, marito, pensionato). Man mano che alcune persone muoiono, altre ne nascono e si formano nuove coorti. Il secondo processo è quello del mutamento delle strutture e dei ruoli connessi all'età. La società si trasforma per vari motivi e con essa cambiano anche le aspettative normative riferite all'età e le ricompense e le sanzioni ad esse collegate. La fig. 14.1 ci fornisce un'idea, seppure molto schematica, di questi due processi. Sull'asse verticale è riportata l'età degli individui, su quello orizzontale il tempo storico. All'interno della figura vi sono barre diagonali e verticali. Quelle diagonali (nere) rappresentano gli individui (o le coorti di individui) che passano dalla nascita, alla maturità e poi alla morte in momenti storici diversi. La barra A, ad esempio, è costituita da tutti coloro che sono nati nel 1890. Naturalmente, con il passare del tempo, una parte di questi muore o emigra in un'altra società. Ma quelli che sopravvivono e restano avranno vent'anni nel 1910, quaranta nel 1930 ecc. Le barre verticali (bianche) raffigurano invece l'insieme delle persone che vivono, in un momento determinato, in questa società, che appartengono a diverse coorti, si trovano in fasi diverse del corso della vita, svolgono ruoli diversi e fanno parte di vari strati di età. Così, ad esempio, la terza di queste barre (da sinistra) rappresenta le persone in vita nel 1990 le quali si trovano in condizioni diverse. Alcune sono a scuola, altre in famiglia, altre nel mercato del lavoro, altre ancora in una casa di riposo. Il continuo incrociarsi fra le barre verticali e quelle diagonali sta ad indicare che i due processi che abbiamo ricordato - l'invecchiamento degli appartenenti alle diverse coorti e il mutamento delle strutture e dei ruoli connessi all'età - sono separati e distinti, ma anche interdipendenti, cioè si influenzano l'un l'altro. Così, in un momento dato, le persone appartenenti alle diverse coorti (tutte le barre diagonali) passano attraverso le strutture connesse con l'età e si trovano di fronte le opportunità e le norme riguardanti le diverse età esistenti nella famiglia, nella scuola, nelle fabbriche e negli uffici. Ma oltre a subire l'influenza di queste strutture, tutte queste persone a loro volta le influenzano. 2. Coorti e generazioni Una coorte è un insieme di persone che vivono uno stesso evento nello stesso momento. Se questo evento è la nascita, si parla di coorte di nascita, che è appunto formata da tutti coloro che sono nati entro un medesimo arco temporale (un anno o un periodo più lungo di tempo) e che di conseguenza invecchiano insieme. L'ampiezza di una coorte è massima nel momento in cui essa si forma, cioè quando nascono coloro che ne fanno parte. Con il passare del tempo, la morte e l'emigrazione provocano non solo un assottigliamento della coorte, ma 376 CAPITOLO 14 anche un mutamento nella sua composizione interna. Dal momento che vivono più a lungo degli uomini, le donne tendono ad essere sovrarappresentate quanto più le persone che fanno parte di una coorte invecchiano. Lo stesso si può dire, negli Pagina 218
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Stati Uniti, dei bianchi rispetto ai neri. Generazione Significato diverso ha il concetto di generazione. Nelle scienze sociali, esso è stato usato per la prima volta in modo rigoroso dal sociologo tedesco Karl Mannheim [19281. Secondo questo studioso, la generazione non è un gruppo concreto i cui componenti sono uniti da legami reciproci, come la famiglia o la tribù. Ciò che caratterizza una generazione è che coloro che ne fanno parte hanno la stessa collocazione nello spazio storico sociale e sono esposti a influenze culturali dello stesso tipo. Questo tuttavia non basta. Come ha scritto lo stesso Mannheim non il fatto di essere nati nello stesso momento cronologico, di essere divenuti giovani, adulti, vecchi, contemporaneamente, costituisce la collocazione neflo spazio sociale, ma solo la possibilità che ne deriva di partecipare agli stessi avvenimenti, contenuti di vita ecc. e ancora di più di fare ciò partendo dafia medesima forma di «coscienza stratificata» [1928, trad. it. 1974, 346-3471. Può infatti accadere che una parte, anche consistente, delle persone nate nello stesso anno non vivano con la stessa partecipazione emotiva gli eventi che si verificano nella loro società o che non si accorgano neppure di loro. Perché vi sia una generazione è dunque necessario che si crei anche un «nesso generazionale» fra coloro che sono esposti allo stesso contesto storico-sociale. E questo si forma quando vi è improvvisamente una forte discontinuità storica e, per un certo periodo di tempo, la trasmissione del patrimonio culturale tradizionale dai genitori ai figli non è più possibile. ú certamento all'impostazione di Mannheim che si rifanno oggi gli studiosi di scienze sociali. Per generazione, essi intendono infatti un insieme di persone che, oltre ad essere nati entro lo stesso arco di tempo, hanno in comune i valori, gli atteggiamenti e le opionioni riguardanti la società e la politica. Le generazioni così definite si formano in genere quando vi è un rapido e forte mutamento storico-sociale (ad esempio, vi è una guerra, una rivoluzione, un cambiamento di regime). Trasformazioni di questa natura producono naturalmente effetti su tutti coloro che fanno parte di una società. Ma esse hanno un'influenza particolarmente forte sugli orientamenti dei giovani, di coloro che hanno da 16 a 25 anni, e che sono più ricettivi e più facilmente plasmabili degli altri, essendo questa una fase di passaggio, in cui i legami con i genitori e gli insegnanti si indeboliscono, senza che se ne siano formati di nuovi e forti. Quando avvengono durante questo periodo della vita, le grandi trasformazioni sociali e politiche possono provocare una ristrutturazione delle mappe cognitive degli individui, dell'immagine che hanno di se stessi e del mondo. t avvenuto così, ad esempio, in Italia e in molti altri paesi occidentali, nel 1968 e nei due o tre anni successivi, nel periodo cioè in cui vi è stata un'ondata di movimenti giovanili e studenteschi di protesta, che hanno rimesso in discussione con forza le idee e i valori della generazione precedente. Si parla così di generazione del '68 per riferirsi a tutte quelle persone che in quel periodo storico erano giovani e che hanno subito l'influenza di quegli eventi. Ma di generazioni come queste ve ne sono state in passato molte altre. 2.1. Effetto età ed effetto coorte Quando si fa ricerca, quando si analizzano tabelle e dati statistici, è facile trovare che alcune caratteristiche degli individui (valori, atteggiamenti o comportamenti) variano al variare dell'età. Più difficile è interpretare queste relazioni e dire esattamente che cosa significano. Se ne sono accorti, ad esempio, gli psicologi. Misurando le capacità intellettuali di un campione di soggetti nati in momenti diversi, essi hanno visto che queste erano tanto minori quanto più avanzata era l'età. L'interpretazione che alcuni studiosi hanno fornito di questi risultati è che l'invecchiamento comporta una perdita delle capacità intellettuali. Ma le ricerche successive hanno mostrato che questa interpretazione era parziale. Utilizzando il metodo longitudinale, cioè seguendo e studiando per alcuni anni gli stessi soggetti, vari gruppi di psicologi hanno visto che i punteggi ottenuti nei test utilizzati per misurare certe capacità intellettuali dipendevano dal livello di istruzione. Tenendo conto di questo hanno mostrato che la relazione inversa trovata nelle prime ricerche fra età e capacità intellettuali era riconducibile non all'invecchiamento, ma a differenze esistenti fra le coorti presenti nel campione, e in particolare al fatto che le persone nate più recentemente avevano un livello di istruzione più alto delle altre. Questa ed altre esperienze di ricerche mostrano che, quando si analizzano le differenze esistenti fra le caratteristiche delle persone di due classi di età (ad esempio dei giovani dai 16 ai 20 anni e degli anziani da 70 in poi), bisogna essere consapevoli del fatto che esse possono essere dovute sia ad un effetto età (nella seconda vi sono individui più vecchi) sia ad un effetto Pagina 219
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt coorte (le persone di questi due gruppi si sono formate in due periodi storici molto diversi). Così, ad esempio, gli studiosi francesi hanno visto che la percentuale di persone che ogni anno va in vacanza diminuisce al crescere dell'età. Ma attraverso indagini longitudinali hanno dimostrato che questo non è effetto dell 1età, ma della coorte. In altre parole, se le persone più anziane vanno meno spesso in vacanza di quelle più giovani non è perché l'invecchiamento impedisce loro di farlo, ma perché si sono formate in un periodo storico diverso, in cui alle vacanze non si attribuiva lo stesso valore di oggi. 2.2. La dimensione delle coorti e l'effetto Easterlin Negli ultimi ottanta anni, negli Stati Uniti e in alcuni altri paesi occidentali, l'andamento della natalità ha subito forti variazioni. Dopo essere infatti diminuito dal 1920 fino alla metà degli anni trenta, il numero dei nati ogni anno ha ripreso a salire dopo la II guerra mondiale, soprattutto dopo il 1946, per raggiungere le punte più alte fra la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli anni sessanta. Nel 1965, vi è stata un'altra inversione di tendenza, con una nuova diminuzione della natalità. Si sono così succedute coorti di dimensioni assai diverse. La più ampia è stata sicuramente la baby boom generation, come viene chiamata quella dei nati fra il 1946 e il 1965, che è stata preceduta e seguita da due coorti di minori dimensioni. Analizzando i cicli demografici, molti studiosi hanno sostenuto che le differenze nelle dimensioni delle coorti, dovute alle variazioni nel tempo della natalità, possono provocare mutamenti nel modo in cui i vari ruoli vengono assegnati alle persone appartenenti a diversi Effetto Easterlin strati di età. Ma è stato sicuramente il demografò americano Richard Easterlin [19871 quello che ha presentato la versione più articolata e suggestiva di questa ipotesi, cercando di ricondurre alle diverse dimensioni delle coorti fenomeni assai diversi come l'età al matrimonio e i tassi di fecondità, di attività della popolazione femminile, di criminalità e di suicidio. Alla base dello schema interpretativo di Easterlin vi è il concetto Reddito relativo di reddito relativo, che nasce dal confronto fra le risorse economiche di cui una persona dispone (il reddito effettivo) e le aspirazioni che essa ha (reddito atteso) Le aspirazioni riguardo al reddito si formano in genere durante l'infanzia e l'adolescenza e risentono della situazione economica dei genitori. Dunque, il reddito che un individuo si attende dipende da quello effettivo che aveva la sua famiglia di origine quando egli era giovane. Quanto maggiori sono le dimensioni di una coorte, tanto più basso è il livello di reddito effettivo dei suoi componenti, perché questi ultimi soffrono degli svantaggi dell'affollamento in famiglia, nella scuola e nel mercato del lavoro. In famiglia, perché quanto maggiore è il numero dei figli tanto minore è la quantità di cure e di risorse che i genitori possono dedicare a ciascuno di loro. Nella scuola, perché il sovraffollamento riduce le possibilità di apprendimento. Nel mercato del lavoro, perché quanto più grande è l'offerta tanto minori sono le possibilità di trovare un lavoro ben pagato. Dunque, il reddito effettivo di un individuo dipende dalle dimensioni della sua coorte, quello atteso dalle dimensioni della coorte dei suoi genitori. Il reddito relativo è quindi espressione del rapporto esistente (dal punto di vista delle dimensioni) fra la coorte del soggetto e quella dei genitori. Se la prima ha dimensioni maggiori della seconda, il reddito relativo è basso; altrimenti è alto. Coloro che hanno un reddito relativo basso reagiscono in vari modi. Per cercare di mantenere il livello di vita a cui sono stati abituati dai genitori non si sposano o si sposano tardi, spingono la moglie a entrare nel mercato del lavoro, rimandano la nascita del primo figlio e evitano in ogni caso di averne molti. Le tensioni a cui sono soggetti coloro che, pur avendo un reddito relativo basso, si sposano, li portano più frequentemente al divorzio. Le forti situazioni di stress a cui sono sottoposti fanno crescere la propensione a commettere reati e al suicidio. Le numerose ricerche condotte in questo campo [Pampel e Peters 19951 hanno sottoposto a verifica la validità delle ipotesi di Easterlin, mostrando che le dimensioni della coorte influiscono sulle scelte procreative dei soggetti, ma non su altri tipi di comportamento. Queste ipotesi inoltre sembrano ufflizzabili solo per i paesi ad alto livello di sviluppo, nei quali i figli vengono considerati alla stregua di beni di consumo e il controllo delle nascite è possibile e facile. 3. Le fasi dei corso della vita L'idea che nella vita di un essere umano vi siano fasi diverse è molto antica. Pagina 220
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Ispirandosi allo scorrere delle stagioni, Pitagora pensava che queste fasi fossero quattro, della durata di venti anni ciascuna: l'infanzia, che corrispondeva alla primavera, l'adolescenza all'estate, la giovinezza all'autunno, la vecchiaia all'inverno. Agostino (354-430) si rifaceva invece ai giorni della settimana e riteneva che le età della vita fossero sette. In Europa questo schema è stato seguito per secoli da molti e fra gli altri da Williarn Shakespeare che, in un brano famoso di Come vì piace, ha scritto che la vita è «un dramma in sette atti: le sette età»: Prima il neonato, che miagola e rigurgita il latte addosso alla sua balla. Poi lo scolaretto piagnucoloso, che con la sua cartella e il viso infreddolito dal mattino, a passo di lumaca si trascina svogliato a scuola. Poi l'innamorato, che soffia sospiri più che una fornace componendo meste ballate per le belle ciglia del suo carobene. E poi il soldato, che sa dir bestemmie in ogni lingua; baffi di leopardo, sofistico sul punto dell'onore, impulsivo e corrivo alle baruffe, capace di cercare il fumo della gloria nella gola di un cannone. Poi il giudice con la sua panciadoro ritondetta farcita di buon cappone, con occhietti severi e barba d'ordinanza; zeppo di vecchie massime e luoghi comuni, tanto per recitare la sua parte. La sesta età ti riduce a un macilento e acciabattato Pantalaone, con occhiali sul naso e borsa attaccata al fianco; e con quelle sue calze, ben conservate al tempo della gioventù, larghe ora un pozzo per le sue cianche stecchite; e con la voce, virile un tempo, ridotta ora a un falsetto bambinesco stridulo e sibilante. Poi la scena conclusiva d'una storia piena di strani eventi: una seconda fanciullezza senza denti, senza vista, senza palato, senza memoria, senza niente [trad. it. 1981, 393-3941. 380 CAPITOLO 14 Nell'antica Cina il numero sette valeva per le tappe della vita della donna, mentre per quelle dell'uomo tutto dipendeva dal numero otto. Così, ad esempio, per le donne, i denti e i capelli cambiavano a sette anni, a quattordici comparivano le mestruazioni, a ventuno i denti del giudizio, a ventotto le ossa si rafforzavano, a trentacinque i capelli cominciavano a cadere e il viso diventava più secco, a quarantadue i capelli diventavano bianchi ecc. Mutamenti analoghi si verificano, ogni otto anni, negli uomini. Como defia vita Oggi i sociologi considerano il corso della vita (espressione che preferiscono a «ciclo di vita», che fornisce l'idea errata di un percorso che ritorna al punto di partenza) non come biologicamente determinato, ma come una costruzione sociale. Le ricerche antropologiche e quelle storiche hanno infatti dimostrato in modo definitivo che esso e le fasi in cui si articola variano nello spazio e nel tempo e che persino fatti biologici come la nascita, la pubertà e la morte hanno assunto ed assumono un significato e un valore diverso nelle diverse epoche e società. 4. 1 riti di passaggio Forti variazioni nello spazio e nel tempo vi sono nei «riti di passaggio» che accompagnano la transizione da una fase all'altra del corso della vita. Il concetto di «rito di passaggio» è stato introdotto nelle scienze sociali dall'antropologo Arnold Van Gennep, in un libro pubblicato all'inizio del nostro secolo [19081, per indicare quelle cerimonie che «accompagnano ogni modificazione di posto, di stato, di posizione sociale e di età». Si tratta dei riti che vengono celebrati, ad esempio, in occasione della nascita, della pubertà, del matrimonio o della morte, la cui funzione principale è di segnalare e di riconoscere il formarsi di nuove relazioni sociali. Riti di passaffio Tutti questi riti hanno una struttura simile e passano attraverso tre diverse fasi. Nella prima, detta preliminare o di separazione, una persona abbandona la posizione e le forme di comportamento precedenti. Nella seconda, di transizione o di margine, il soggetto non è né da una parte né dall'altra: si trova in uno spazio intermedio fra lo stato di partenza e quello di arrivo. t la fase chiamata anche «liminare» (dal latino limen, soglia), la cui ambiguità e indeterminatezza sono state espresse, nelle diverse società, con una grande varietà di simboli. La «liminarità» è stata spesso «paragonata alla morte, al fatto di essere nell utero, all'invisibilità, all'oscurità, alla bisessualità, al deserto e a un'eclissi solare o lunare» [Turner 1969, trad. it. 1972, 1121. Coloro che si trovano «sulla soglia» possono essere mascherati da mostri o essere del tutto nudi, per segnalare che non hanno nulla. Infine, nella terza fase, quella di aggregazione, una persona viene, per così dire, reintrodotta nella società: è di nuovo in uno stato relativamente stabile e ha diritti e doveri precisi. CORSO DI VITA E CLASSI DI ETA 381 Pagina 221
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Si prenda, ad esempio, la nascita. Essa dà luogo a molti riti, di Nascità separazione, di margine e di aggregazione. E bambino deve essere innanzitutto separato dal suo mondo precedente, ad esempio dalla madre. Questo avviene tagliando il cordone ombelicale. Nel farlo, ci si serve di simboli associati al sesso del neonato. In alcune società, se è maschio si usa un coltello, se è femmina un fuso. In altre, il cordone ombelicale dei maschi viene lasciato più lungo di quello delle femmine. Altri riti di separazione sono A primo bagno, il lavaggio della testa, fl massaggio del neonato. Con i riti eli margine, il bambino viene redu- Riti so in casa per un certo numero di giorni. In Cina, ad esempio, A neo- di margm«e nato veniva affidato a una nutrice che per tre mesi lo teneva rinchiuso in una stanza in cui non poteva entrare nessuno. Numerosi erano infine i riti di aggregazione. Di solito, se era la madre che metteva fisica- Riti mente al mondo il figlio, spettava al padre assicurargli una vita sociale di aggregazione e questo avveniva in vari modi. Nella Roma antica il pater familias sollevava il bambino da terra, dove era stato messo dopo la nascita, e lo metteva in posizione verticale. Ma il più importante rito di aggregazione è l'imposizione del nome. In alcune società primitive, è solo grazie a questo rito che un neonato diventa un essere umano ed entra nella fase dell'infanzia. Nell'Europa medievale, fu solo nell'XI secolo che questo cominciò ad aver luogo con il battesimo, che prima era stato invece un rito di iniziazione per adulti. Altri riti accompagnano il passaggio dall'infanzia alla gioventù e da questa all'età adulta. Nelle società primitive, ad una certa età (che varia dai dieci ai trent'anni), i giovani maschi vengono separati dal mondo precedente delle donne e dei bambini (per il quale sono come morti) ed isolati nella foresta o in una capanna. Durante il periodo di isolamento, mentre si spezzano i vecchi legami che hanno con la madre e le sorelle, essi dimenticano i giochi e gli svaghi dell'infanzia e imparano a diventare uomini e guerrieri. Il passaggio alla maturità comporta spesso la circoncisione (cioè la resezione del prepuzio, l'involucro cutaneo del pene in corrispondenza del glande) o qualche altra forma di mutilazione, che hanno l'effetto di renderli uguali ai membri adulti della loro comunità. In questo nuovo mondo essi entrano con un rito di aggregazione. Nell'Europa del passato, uno dei più diffusi riti di passaggio era quello del taglio dei capelli di un giovane. Nell'antica Grecia, questa era una delle cerimonie che segnalavano l'emancipazione e l'ingresso nella milizia. In Polonia, fino al XIII secolo, questo rito avveniva a sette anni, quando un ragazzo passava dalla tutela della madre a quella del padre. In altri casi, il taglio dei capelli segnalava la prima uscita dal mondo domestico di un giovane maschio per andare ad imparare un mestiere fuori casa. Molti di questi riti di passaggio all'età adulta riguardavano solo i maschi. Per le femmine, la cesura fondamentale era data dall'uscita dalla famiglia di origine e dalla creazione di una nuova famiglia o dal382 CAPITOLO 14 l'entrata in quella del marito. E questa cesura veniva segnalata da vari riti di separazione e di aggregazione. Nella Roma antica, molto tempo prima del matrimonio venivano celebrate varie cerimonie di fidanzamento (gli sponsalia), fra le quali quella della consegna alla fidanzata di un anello da parte del fidanzato. A Firenze nel corso del QuattroFidanzamento cento, il rito del fidanzamento iniziava con un primo incontro non pubblico (detto «impalmamento» o «abboccamento») fra i parenti dei due futuri sposi, preparato dai sensali. A distanza di pochi giorni aveva luogo un secondo incontro fra i membri maschili delle due famiglie che serviva a definire, con l'aiuto di un notaio, le condizioni del fidanzamento. Un terzo incontro avveniva, il «dì dell'anello», a casa della fanciulla, dove A fidanzato si recava con i suoi parenti e infilava al dito della donna l'anello nuziale. Anche le nozze erano accompagnate da complessi riti di separazione e di aggregazione. Prima di lasciare la casa paterna, la sposa si abbandonava a pianti dirotti, si stringeva al collo della madre e mostrava in tutti i modi di non volere andar via. Era compito dei parenti convincerla ad uscire. E momento essenziale del rito di aggregazione era l'incontro fra la sposa e la suocera (per lo meno nelle società in cui i due coniugi andavano a vivere nella casa del marito). La suocera faceva resistenza ad accettare la nuora e decideva di farla entrare in casa solo quando quest'ultima aveva dato prova di essere disposta e capace di assumere il ruolo giusto nella famiglia in cui veniva incorporata. Fra suocera e nuora si svolgevano dialoghi come questi: Che cosa volete? - Entrare in casa vostra e obbedirvi in quanto vi piaccia di comandarmi. - Eh! voi altre ragazze leggiadre e capricciose ben altro avete in Pagina 222
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt capo che l'assetto della casa. - Lasciatemi provare e vedrete. - Ma qui si tratta di pascolare e mungere gli armenti, di tagliare H fieno e lavorare i campì. - Ed io taglierò il fieno e lavorerò i campi. - Di alzarsi la prima e coricarsi l'ultima perché la vecchia suocera possa alzarsi l'ultú-na e coricarsi la prima. Ed io farò anche questo. - Ma voi verrete meno a tante fatiche. - Iddio e vostro figlio mi aiuteranno [De Gubernatis 1878, 1951. Il ruolo dei riti di passaggio è profondamente cambiato nel corso del tempo. Contrariamente a quanto si pensa, alcuni di questi sono oggi più diffusi di cinquanta o di cento anni fa. In Italia questo si può dire dell'uso del viaggio di nozze e della luna di miele. Si tratta di due riti nati un secolo fa nei ceti più elevati (insieme alla moderna famiglia coniugale intima), per segnalare l'importanza della coppia e della sua autonomia rispetto ai genitori e ai parenti, che negli ultimi decenni hanno acquistato sempre maggiore importanza anche negli altri strati della popolazione. Altri riti sono di origine ancora più recente. t a caso dell'acquisizione dello status di guidatore di un'automobile (prendendo la patente e magari comprando la macchina) che per un giovane costituisce oggi una tappa essenziale per il riconoscimento della maturità sociale. Non meno significativa è la partecipazione ad un CORSO DI VITA E CLASSI DI ETA 383 FIG. 14.2. Proporzione di matrirnoni religiosi o seguffi da una cerimonia in Europa (valori percentualì). Fonte: A. Dihgen [19941. concerto rock, che è sicuramente un rito moderno di aggregazione al gruppo dei giovani. Ma nel complesso, nei paesi occidentali, i riti di passaggio hanno perso di importanza nell'ultimo secolo. Alcuni, come il fidanzamento, sono scomparsi. Altri di carattere religioso, come la prima comunione, hanno un rilievo minore di un tempo. Lo stesso si può dire persino del matrimonio, che è stato a lungo uno dei più importanti riti di pas384 CAPITOLO 14 La teorìá dì Aries saggio. Innanzitutto perché, da quasi trent'anni, nei paesi occidentali, l'inizio di una nuova famiglia è sempre più spesso segnato dalla creazione di una convivenza more uxorio. In secondo luogo perché il rito del matrimonio è più semplice di un tempo e ha meno frequentemente natura religiosa. Negli ultimi decenni, in tutta Europa, vi è stato un forte aumento della quota delle coppie che celebrano le nozze solo civilmente, anche se la frequenza con cui questo si verifica è assai diversa da un paese all'altro (fig. 14.2). 4.1. Mutamenti nelle prime fasi L'idea che vi siano stati storicamente grandi cambiamenti nella definizione del corso della vita degli individui è stata sostenuta, negli ultimi decenni, da molti studiosi, riguardo soprattutto all'infanzia e all'adolescenza. «Il bambino - scriveva nel 1948 Philippe Aries, uno storico sociale francese - è come il Terzo stato secondo Sieyes. Verso il 1780-1820 si poteva dire di lui: che cos'era ieri? Niente. Che cosa sarà domani? Tutto» [1948, 3221. Ritornando alcuni anni dopo su questo tema, lo stesso studioso presentava due tesi che hanno avuto grande risonanza nel mondo scientifico [Aries 19601. La prima è che l'infanzia e l'adolescenza sono invenzioni della società moderna e che un tempo non esistevano come fasi distinte del corso della vita. Nel Medioevo, non appena gli esseri umani raggiungevano l'autonomia fisica, entravano a far parte del mondo degli adulti. Si vestivano e lavoravano come adulti e con gli adulti andavano in guerra. La durata dell'infanzia era dunque assai breve (non più di sette anni), essendo essa limitata al periodo in cui il bambino non poteva fare a menu delle cure della madre, e l'adolescenza era sconosciuta. Le prove più importanti che Aries adduce a sostegno di questa tesi sono tre: i bambini non portavano abiti riservati alla loro età (ad esempio i pantaloni corti), ma appena usciti dalle fasce venivano vestiti come adultì; dall'arte medievale essi venivano raffigurati come «adulti in formato ridotto», senza nulla di infantile; in francese e in alcune altre lingue, non vi erano termini precisi per distinguere il bambino dall'adolescente. La seconda tesi è che nel passato i padri e le madri avevano un atteggiamento di indifferenza nei riguardi dei figli, finché questi erano piccoli. Citando una celebre frase di Montaigne («ho perduto due o tre bambini a balia, non senza dispiacere ma senza drammi»), Aries sostiene che i genitori non provavano un gran dolore di fronte alla morte di un figlio piccolo e la consideravano come un Pagina 223
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt incidente a cui porre rimedio mettendone al mondo un altro. Questo era in parte dovuto alla elevatissima mortalità del tempo, che spingeva gli adulti a sviluppare dei meccanismi di difesa e ad affezionarsi ai figli solo dopo che questi avevano superato il primo anno di vita. CORSO DI VITA E CLASSI DI ETA 385 Secondo Aries, la situazione cambiò radicalmente in età moderna, dapprima nei ceti elevati - l'aristocrazia e la borghesia - in seguito in quelli intermedi, più tardi ancora nel resto della popolazione. Nacque a poco a poco il sentimento dell'infanzia, l'idea che questa fosse una fase ben distinta del corso della vita, con esigenze e problemi specifici. Il mondo dei bambini si separò da quello degli adulti, a causa di due grandi mutamenti avvenuti in Europa a partire dal XVI e dal XVII secolo. In primo luogo, ebbe inizio il lento processo di scolarizzazione. Vennero istituiti i collegi e le scuole di carità. Fu introdotta per la prima volta l'organizzazione per classi scolastiche, poste in successione e ciascuna formata da allievi della stessa età, organizzazione che contribui non poco ad allungare il periodo dell'infanzia e a distinguerlo da quello della giovinezza (lo sviluppo di quest'ultima avvenne tuttavia più tardi, dopo la fine del XVIII secolo). In secondo luogo, cambiarono la famiglia e le relazioni fra genitori e figli: nacquero e si svilupparono l'amore materno e quello paterno. Sull'importanza delle tesi di Aries non vi sono dubbi. Per trent'anni, esse hanno dato origine a vivaci dibattiti fra storici, sociologi, psicologi, demografi, stimolato ricerche, fatto nascere nuove ipotesi teoriche. Ma sono anche state sottoposte a dure critiche. 5. L'infanzia Basandosi sui risultati di accurate ricerche condotte negli archivi di numerose città europee, molti storici hanno invalidato le due tesi di fondo di Aries sull'infanzia. Riguardo alla seconda, essi hanno sostenuto che nessuno dei fatti che ci sono noti fanno pensare che un tempo le madri e i padri avessero un atteggiamento di indifferenza verso i figli (ma si veda il cap. XVI). Quanto alla prima tesi, gli storici hanno mostrato che anche nel Medioevo vi era un sentimento dellinfanzia e questa costituiva una fase distinta del corso della vita [Becchi e julia, 19961. Anche in questo periodo veniva attribuita grande importanza alla socializzazione dei bambini e alla loro preparazione ai ruoli che avrebbero dovuto svolgere da adulti. Ma a svolgere questi ruoli erano soprattutto i genitori o gli zii. Nella prima fase dell'infanzia, che durava fino ai sette anni, era compito della madre educare i figli. Nella seconda fase vi era invece una netta separazione a seconda del genere. Delle figlie continuava ad occuparsi la madre, che insegnava loro ad essere modeste, pazienti e ubbidienti, per prepararle al futuro ruolo di mogli. All'addestramento dei figli maschi pensava invece 9 padre, soprattutto quando era un coltivatore proprietario, un artigiano o un mercante. t indubbio comunque che, nei paesi occidentali, la condizione dell'infanzia è oggi assai diversa da quella di un tempo. Per valutare appieno i mutamenti che vi sono stati si pensi che, dalla fine del XV 386 CAPITOLO 14 Abbandmo alla metà del XX secolo, in molti paesi europei, molte decine di mideì neonati gliaia di neonati (i cosiddetti «trovatelli» o «esposti») sono stati abbandonati, temporaneamente o definitivamente, dai loro genitori. Per molto tempo, essi furono lasciati davanti a qualche abitazione o sui gradini di una chiesa. Nella prima metà dell'Ottocento, invece, un numero sempre maggiore di neonati entrò nei brefotrofi attraverso la «ruota» o il «torno», un attrezzo che faceva suonare un campanello quando un neonato vi veniva immesso, in modo da avvisare la persona che, all'interno del brefotrofio, aveva il compito di accogliere il nuovo arrivato. Dai loro anonimi accompagnatori i neonati venivano deposti nella ruota soprattutto alla mattina presto o alla sera tardi, nelle ore cioè in cui era più difficile essere visti. Addosso portavano spesso un segno di riconoscimento, che consentisse in futuro l'identificazione del bambino nel caso di una richiesta di restituzione da parte di uno dei due genitori: pezzetti di carta o immagini sacre tagliate a metà (l'altra metà rimaneva nelle mani di chi abbandonava il neonato) con indicazioni del nome e della data di nascita del bambino oppure monete (intere o a metà), catenine, nastri o pezzi di stoffa. Ma moltissimi di questi bambini morivano nei giorni immediatamente successivi all'esposizione. Pagina 224
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt La pratica dell'abbandono dei neonati non ha avuto la stessa importanza in tutta Europa. Rara in Scandinavia e nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Germania, essa ha avuto grande diffusione nei paesi cattolici: in Italia, in Francia, nella penisola iberica. Inoltre, nell'Europa del sud il numero degli esposti ha subito nel corso del tempo varie fluttuazioni. In alcune zone è aumentata nella seconda metà del XVII secolo, in altre mezzo secolo dopo. Comunque, un po ovunque il numero degli esposti toccò il punto più alto nella prima metà dell'Ottocento. In alcuni casi, in questo periodo, A fenomeno raggiunse proporzioni gigantesche. A Milano, ad esempio, verso il 1840 veniva esposto circa un terzo di tutti i neonati e quasi la metà di quelli degli strati più poveri della popolazione [Huneche 19891. Per spiegare un fenomeno così complesso come l'abbandono dei neonati è necessario tener conto di una pluralità di fattori di ordine economico, demografico e culturale (si veda anche il cap. XVI). Ma ciò che in questa sede più importa è sottolineare come nella seconda metà del XIX e durante A nostro secolo anche nell'Europa meridionale l'uso di abbandonare i neonati è quasi del tutto scomparso. La condizione dell'infanzia nei paesi occidentali è diversa da quella di un tempo anche per molti altri aspetti. In quello che sta per terminare, e che è stato chiamato il «secolo del bambino» [Cunningham 19951, nei paesi occidentali ha avuto grande diffusione l'idea che i bambini abbiano diritti e privilegi, che debbano essere allevati ed educati in famiglia e a scuola, che debbano essere protetti dagli abusi e dai maltrattamenti degli adulti. Così, ad esempio, il codice civile del 1979 della Germania occidentale raccomanda ai genitori di non trattaCORSO DI VITA E CLASSI DI ETA 387 re i figli «in modo umiliante», mentre in Svezia una legge del 1980 vieta ai genitori di picchiare i figli. A questa condizione dell'infanzia si è giunti, nei paesi occidentali, attraverso numerosi cambiamenti. Ma uno dei più importanti è stato sicuramente l'introduzione dell'obbligo scolastico che (come vedremo nel cap. XVII) ha avuto luogo in alcuni paesi nel XVIII e in altri nel XIX secolo e che ha lentamente fatto aumentare dai sette agli undici anni (e poi ai quattordici) l'età di ingresso nel mercato del lavoro. Se tuttavia usciamo dall'Europa o più in generale dai paesi occidentali vediamo che la situazione dell'infanzia è assai diversa da quella alla quale siamo abituati. Nei paesi in via di sviluppo, milioni di bambini lavorano duramente per molte ore del giorno. In Asia, centinaia di migliaia di bambini vengono rapiti ogni anno ed avviati alla prostituzione. Ma la cosa che più colpisce è che, secondo i risultati di alcune recenti ricerche [Lloyd e Desai 19921, in alcuni di questi paesi non trova conferma nella realtà l'assunto di fondo di tutte le politiche per l'infanzia: che la persona che si prende cura dei bambini è la madre biologica. Vi sono paesi, soprattutto nell'Africa subsahariana (ma anche nell'America Latina), in cui un'alta percentuale dei bambini non vive con la madre. Il fatto che una madre mandi i figli, in particolar modo dopo i cinque anni, in casa d'altri, può dipendere dalla mancanza di risorse, dovute alla vedovanza, al divorzio, a crisi politiche o economiche. 6. La gioventù Criticando Aries, numerosi storici hanno cercato di dimostrare che la gioventù non è un'«invenzione» della nostra epoca, ma che è esistita come fase distinta della vita in tutte le società del passato [Hanawalt 1992; Reverson 1992; Mitterauer 19861, anche se la sua concezione e la sua durata sono cambiate nel corso del tempo. Per indicare questa fase, alcuni studiosi usano oggi come sinonimi i due termini «adolescenza» e «gioventù» Ma gli psicologi preferiscono il primo, i sociologi il secondo. Nelle scienze sociali non vi è inoltre un pieno accordo sulla definizione di questa fase e sui suoi confini temporali. @ comunque a tutti chiaro che la gioventù (o l'adolescenza) non coincide con la pubertà, cioè con il passaggio dalla condizione Pubertà fisiologica del bambino a quella fisiologica dell'adulto, che è caratterizzata dallo sviluppo degli organi sessuali, dei caratteri sessuali secondari e dall'accrescimento scheletrico e muscolare. Nonostante la forte variabilità interindividuale, la pubertà va all'incirca dai 10 ai 19 anni. Essa comincia e termina prima nelle ragazze che nei ragazzi. Durante questo periodo, nelle prime si sviluppa il seno, si allarga il bacino, si modifica l'apparato genitale (il clitoride si ingrossa e l'utero e le ovaie aumentano di volume), appare la pelosità Pagina 225
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt CAPITOLO 14 pubica e quella ascellare e si hanno le prime mestruazioni. Nei secondi, si ha un ingrossamento dei testicoli e del pene, compaiono i peli pubici, crescono quelli ascellari, cominciano a manifestarsi la barba e i baffi, mentre la voce si abbassa di un'ottava. Sia nelle ragazze che nei ragazzi si ha un forte aumento del ritmo di sviluppo del peso e dell'altezza (a cosiddetto spurt of growtk: scatto di crescita). Esso varia considerevolmente per quanto riguarda l'età a cui ha inizio, l'intensità e la durata. Pur essendo un processo di natura biologica, la pubertà risente anche dell'influenza dei fattori sociali. In passato si è spesso osservato che l'età al menarca (cioè quella in cui compaiono per la prima volta le mestruazioni) variava a seconda del ceto sociale ed era più precoce per le ragazze della borghesia e dell'aristocrazia che per quelle delle famiglie agricole. Ma oggi sappiamo anche che in Europa, nell'ultimo secolo e mezzo, l'età al menarca si è ridotta di almeno quattro anni, passando da 17 a 13. t diminuita anche l'età a cui, nei ragazzi, si abbassa la voce, mentre è considerevolmente aumentata la statura sia dei maschi che delle femmine. Questa tendenza all'anticip azione della pubertà è riconducibile a due fattori: al miglioramento (sia quantitativo che qualitativo) dell'alimentazione e alla forte riduzione del lavoro infantile. A differenza della pubertà, la gioventù è il passaggio dallo status sociale di bambino a quello di adulto. Ma questi due status vengono definiti in modo diverso in ogni società e in ogni epoca. In generale si può dire che una persona, sia di sesso maschile che femminile, diventa adulta quando ha varcato alcune soglie: 1) ha concluso il percorso formativo; 2) ha un'occupazione relativamente stabile; 3) ha lasciato la casa dei genitori; 4) si è sposato; 5) è diventato per la prima volta padre o madre [Cavalli e Galland 19931. Nel passato vi sono state grandi variazioni nello spazio e nel tempo riguardo all'età in cui si superavano queste soglie. Assai diversa era, ad esempio, l'età a cui ci si sposava. Come vedremo meglio nel cap. XVI, fra i vari sistemi di formazione della famiglia, due erano particolarmente importanti. Il primo era diffuso nell'Europa centro-settentrionale, il secondo in quella orientale, in parte di quella meridionale e in Asia. Dove dominava il primo, gli sposi seguivano di solito la regola di residenza neolocale, cioè mettevano su casa per proprio conto, formando una famiglia nucleare, e l'età al matrimonio era assai elevata (superava i 26 anni nel caso degli uomini, i 23 in quello delle donne). Laddove prevaleva A secondo sistema, gli sposi seguivano la regola di residenza patrilocale, andando a vivere nella famiglia del marito e i matrimoni venivano celebrati in giovane età. Il diverso sistema di formazione della famiglia influiva sulla durata e le caratteristiche della gioventù. Nell'Europa centro -settentrionale, dove dominava A primo, si restava giovani a lungo. Qui infatti, fra i 25 e i 29 anni, dal 50% al 70% degli uomini e quasi la metà delle donne CORSO DI VITA E CLASSI DI,'ETA 389 non erano ancora sposati. Date le norme sociali del tempo, ciò @significa che una notevole parte della popolazione restava esclusa per lungo tempo da ogni attività sessuale. Si capisce così perché in questa parte dell'Europa abbiano avuto un particolare sviluppo i gruppi giovanili maschili che avevano la funzione di organizzare e di regolamentare il corteggiamento (ad esempio, con visite notturne, individuali o di gruppo, alle ragazze amate o occupandosi dell'abbinamento di ragazzi e ragazze in occasione dei balli). Non meno importante è il fatto che laddove si seguiva il primo sistema di formazione della famiglia vi era una forte discontinuità nel passaggio dalla gioventù all'età adulta. In questo caso infatti, sia per l'uomo che per la donna, il matrimonio coincideva con la creazione di una nuova famiglia, e nel caso dell' uomo, con il passaggio dalla dipendenza dal padre alla piena autonomia [Mitterauer 19861. La gioventù era una sorta di fase di preparazione alla formazione della nuova famiglia. Figli e figlie uscivano assai giovani di casa per andare a servizio da altri, lavorando come garzoni agricoli o come apprendisti artigiani, e mettendo da parte le risorse necessarie a mettere su casa per proprio conto. La gioventù era dunque una fase di forte mobilità geografica, dedicata all'istruzione e al risparmio. Del tutto diversa era la gioventù nelle zone in cui dominava il secondo sistema di formazione della famiglia. Essendo il matrimonio precoce, la gioventù durava assai meno e più breve era il periodo che bisognava attendere per avere rapporti sessuali. Inoltre, poiché gli sposi andavano a vivere nella casa dei genitori del marito, quest'ultimo restava sotto l'autorità del padre e dunque non vi era una forte discontinuità nel passaggio dalla gioventù all'età adulta. Seguendo la Pagina 226
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt regola di residenza patrilocale, i giovani non dovevano procurarsi le risorse necessarie a metter su casa, spostarsi, andare a servizio in casa di altri, risparmiare. Ma in tutta Europa, alla fine del XVIII secolo, si verificarono due importanti mutamenti che ridussero almeno in parte le differenze esistenti fra le sue varie zone. In primo luogo, dopo la Rivoluzione francese, fu introdotta la coscrizione universale obbligatoria e si affermò Coserizione l'idea che l'acquisizione dei diritti civili dipendesse dall'assoMmento universale del servizio di leva. Prima di allora, gli eserciti erano costituiti non solo da ventenni, ma anche da adulti, anziani e ragazzini. Ciò che infatti contava per arruolarsi non era l'età, ma l'aspetto fisico e la forza [Loriga 19941. Dopo la Rivoluzione francese, l'età fissata per il servizio militare fu intorno ai venti anni, pur essendo leggermente diversa nei vari paesi europei. Da allora, per i maschi, la guarnigione divenne un luogo di separazione: dai genitori, dai parenti, dalla fidanzata, dagli altri giovani. E il servizio militare divenne sempre più un evento che segnava la fine della gioventù. In secondo luogo, mentre nella società di antico regime i figli erano soggetti all'autorità del padre finché vivevano nella famiglia di origine, quale che fosse la loro età, alla fine del 390 CAPITOLO 14 Prolungamento della fase giovanfle XVIII secolo, in tutti i paesi europei si affermò a poco a poco il principio che una volta raggiunta la maggior età (cosa che in molti paesi avveniva a 25 anni o dopo) i figli si emancipavano dalla patria potestas. Anche nell'ultimo trentennio, in tutti i paesi occidentali, sono avvenuti profondi mutamenti. L'età a cui si varcano le cinque soglie che abbiamo ricordato si è innalzata. Si finiscono gli studi e si entra nel mercato del lavoro più tardi e più tardi si esce di casa, ci si sposa e si ha il primo figlio. In breve, vi è stato un prolungamento della fase giovanfle. Questo si è verificato in tutti gli strati della popolazione. Tuttavia anche oggi, come del resto un tempo, il passaggio all'età adulta è tanto più precoce quanto più bassa è la classe sociale di origine. In genere, sono le persone delle famiglie meno agiate quelle che per prime abbandonano gli studi, per prime entrano nel mercato del lavoro, per prime escono di casa, per prime si sposano e hanno figli [Cavalli e De Liflo 19931. Pur essendosi verificato in tutto l'Occidente, il fenomeno del prolungamento della fase giovanile ha assunto aspetti parzialmente diversi nei vari paesi. Significativo è quanto è avvenuto riguardo alla quarta soglia: l'uscita dalla casa dei genitori. In genere, negli Stati Uniti e nei paesi europei, dal 1940 ad oggi, la percentuale dei giovani che vivono con i genitori ha avuto un andamento ad U, cioè è diminuita nel primo ventennio ed è poi aumentato di nuovo nel periodo successivo. In tutti questi paesi, il prolungamento della permanenza dei figli nella famiglia di origine è in gran parte dovuto alla fortissima tendenza che vi è stata a differire il matrimonio. Prendendo infatti in considerazione solo celibi e nubili si vede che la quota di coloro che vivono con i genitori è costantemente diminuita nell'ultimo mezzo secolo [White 19941. Anche se questa tendenza è comune a tutti i paesi occidentali, vi sono fra loro importanti differenze. Nei paesi dell'Europa centrosettentrionale (la Danimarca e la Svezia) i giovani lasciano la famiglia di origine molto prima che in quelli dell'Europa del sud (come l'Italia o la Spagna) (fig. 14.3). Come abbiamo visto, prendendo in considerazione l'età al matrimonio e alla nascita del primo figlio, si arriva alla conclusione che anche nel passato, nell'Europa centro -settentrionale, la giovinezza durava a lungo. Vi sono tuttavia almeno due grandi differenze fra la situazione di allora e quella di oggi. La prima è che un tempo, anche se ci si sposava tardi, si cominciava a lavorare presto, molto prima di oggi. La seconda è che nel passato un'alta quota dei giovani restava esclusa dall'attività sessuale, mentre oggi i rapporti sessuali prematrimoniali vengono ammessi dalla maggioranza della popolazione. 19 prolungamento della fase giovanile che si è avuto nei paesi occidentali nell'ultimo trentennio è riconducibile alla diffusione della scolarità di massa (su cui ritorneremo nel cap. XVII) e alle trasformazioni avvenute nell'economia. Ma in parte esso è dovuto a un'accentuata tendenza dei giovani di oggi alla valorizzazione del «sé». Posti di fronPagina 227
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt CORSO DI VITA E CLASSI DI ETA o 20 40 60 80 100 FW,- 14.3.. PercOnt"e di gì<>. Ywú, tra i 15 e i 24 aMiche-V.rvM0::-0 x gMw0..(datì laum a 1990. Caval .119941. te a un numero di opzioni di scelta maggiore di quello che hanno avuto le persone delle precedenti generazioni, i giovani di oggi dedicano tempo ed energie all'esplorazione del «sé» e rimandano quanto più possibile ogni scelta che non consenta la piena autorealizzazione [Cavalli 19941. 7. La vecchiaia Di solito si pensa che le persone anziane godessero in passato di un potere e di un prestigio considerevoli e che h abbiano in gran parte perduti nel corso di quel lungo processo di modernizzazione che ha avuto inizio negli ultimi decenni del XVIII secolo. Oltre ad essere anche oggi ampiamente diffusa fra la gente comune, questa idea è stata per molto tempo sostenuta dai sociologi. «t ben noto - scriveva ad esempio, alla fine del secolo scorso, Emile Durkheim [1893, trad. it. 1962, 2931 - che il culto per le persone anziane si indebolisce con il progredire della civiltà. Un tempo assai sviluppato, esso si riduce oggi a certe pratiche di buona educazione, ispirate ad una specie di pietà. Piuttosto che temerli, oggi noi compiangiamo i vecchi; le età sono livellate». Più recentemente, parlando della società preindustriale, il sociologo inglese Bryan Wilson ha scritto che «ogni individuo poteva attendere la vecchiaia con autentico piacere, sapendo che il declino delle forze fisiche sarebbe stato compensato dal prestigio sociale di cui godeva l'esperienza degli anni» [cit. in Stone 1981, trad. it. 1987, 2001. Ma che le cose non stiano esattamente in questi termini è stato messo in luce dalle ricerche condotte dagli antropologi e dagli storici. I primi hanno mostrato che è sbagliato pensare che in passato vi sia 392 CAPITOLO 14 stata un'«età dell'oro» degli anziani. Certo, nelle società primitive, miti e leggende esaltavano A ruolo degli anziani, ai quali venivano attribuiti grandi poteri magici. Ed è vero che, in molte di queste società, finché godevano di buona salute fisica e psichica, gli anziani erano al vertice della gerarchia sociale, ricevevano molti doni, dirigevano le cerimonie (e in particolare i riti di iniziazione dei giovani) e avevano molte mogli. Ma se le loro condizioni di salute peggioravano, se diventavano fisicamente e intellettualmente inefficienti, l'atteggiamento degli altri nei loro confronti cambiava ed essi venivano ignorati, trascurati o maltrattati. Avveniva così ad esempio fra gli Yakute, una popolazione seminomade della Siberia. «Anche nelle famiglie agiate ha scritto un osservatore - ho visto degli scheletri viventi, grinzosi, nudi o seminudi, che si nascondevano negli angoli, da cui uscivano soltanto in assenza di estranei per accostarsi al fuoco e disputare ai bambini degli avanzi di cibo» [cit. in De Beauvoir 1970, trad. it. 1988, 511. Vwo Vi sono stati luoghi e tempi in cui la situazione degli anziani era di Uccidere ancora peggiore. Sir Herbert Maine (1822-1888), un giurista scozzese 94.11n che gli antropologì considerano oggi un classico della loro disciplina, ha raccontato una volta che un capo neozelandese, al quale erano state chieste notizie su un vecchio noto come ottimo consigliere, aveva risposto: «ci aveva dato un tal numero di buoni consigli che per ringraziarlo l'abbiamo ucciso» E in effetti, nel 20% delle società primitive per le quali si hanno dati, gli anziani venivano uccisi quando diventavano un peso per gli altri [Keith 19901. Fra gli Scitì, ad esempio, se i vecchi non si suicidavano buttandosi in mare dall'alto di una roccia, vi erano gettati a forza dagli altri. L'uso di uccidere le persone anziane, quando queste venivano considerate un peso per la comunità, esisteva anche fra gli Ainu del Giappone, fra i Siriono della foresta boliviana o i Tonga dell'Africa del sud. Alcuni antropologi hanno rilevato che gli anziani in cattive condizioni di salute vengono talvolta uccisi anche nelle società in cui godono di un alto status [Keith 19901. Avveniva così fra gli Irochesi, un gruppo etnico autoctono dell'America settentrionale, che onoravano i vecchi, ma li uccidevano quando non riuscivano più a camminare. Per spiegare questo paradosso è necessario tenere presente che, in alcuni luoghi e in determinati periodi storici, il togliere la vita a persone vecchie e deboli veniva considerato o come una dolorosa necessità o addirittura come una sorta di servizio che si rendeva loro perché altrimenti queste sarebbero morte di fame. Lo dimostrerebbe il fatto che in certi casi erano gli anziani stessi che imploravano i figli di porre fine ai loro giorni. Pagina 228
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt In altri casi, come ad esempio fra gli Ottentotti, erano invece i figli che chiedevano al genitore l'autorizzazione a sbarazzarsi di lui e, una volta ottenutala, organizzavano una festa in onore del vecchio, per poi abbandonarlo con pochi viveri in una capanna isolata. Fra le varie società primitive vi sono comunque importanti diffeCORSO DI VITA E CLASSI DI ETA renze, per il modo in cui gli anziani vengono trattati, che almeno in parte possono essere spiegate. Scriveva Max Weber Entro una comunità il prestigio relativo dell'anziano come tale è molto vario. Quando le possibilità di alimentazione sono molto scarse, colui che non è più fisicamente adatto al lavoro è di solito considerato semplicemente un peso; in genere, quando lo stato di guerra è cronico, l'importanza dell'anziano diminuisce rispetto a coloro che sono atti alla guerra [1922a, trad. it. 1961, Il, 2531. Le ricerche condotte negli ultimi decenni fanno pensare che altre condizioni, oltre allo stato di guerra e alle difficoltà di alimentazione, influissero sul modo in cui venivano trattate le persone anziane. Così, ad esempio, queste venivano uccise più spesso nelle società di caccia e raccolta che in quelle agricole, perché nelle prime - come abbiamo detto nel cap. 1 - le tribù si spostavano di continuo e non avendo animali né mezzi meccanici di trasporto le persone invalide o quelle che camminavano a fatica costituivano un peso straordinario. Fra le società agricole ve ne sono state alcune, come ad esempio quella cinese, in cui gli anziani godevano di grande potere e prestigio e continuavano ad essere curati dai figli e dai parenti anche quando non erano più autosufficienti. In Europa, sappiamo che tutti erano tenuti a seguire A comandamento «onora il padre e la madre» e libri e prediche di ogni tipo raccomandavano il rispetto nei riguardi delle persone anziane. Ma nella realtà le cose andavano in modo assai diverso e non era probabilmente esagerata l'affermazione che in Il racconto d'inverno Williarn Shakespeare [trad. it. 1960, 5041 metteva in bocca a un pastore: «dai sedici ai ventitrè: anni non si fa che impregnare ragazze, maltrattare gli anziani, rubare la roba e menar cazzotti». Molto dipendeva comunque dalla condizione economica e sociale della famiglia. Quanto più alto era il ceto sociale di appartenenza e più grande il patrimonio di un vecchio, tanto più probabile era che i figli lo rispettassero e si prendessero cura di lui. 8. La terza età e il pensionamento Almeno nei paesi occidentali, la situazione degli anziani è profondamente cambiata nel nostro secolo e soprattutto dopo la II guerra mondiale. In primo luogo, il loro peso numerico sul totale della popolazione è fortemente cresciuto (come vedremo nel cap. XVIII). In secondo luogo, il termine vecchiaia ha assunto un significato nuovo, con connotazioni meno negative, e viene sempre più spesso sostituito dall'espressione «terza età», che indica quella fase della vita che inizia con la pensione ed è caratterizzata da un grande aumento del tempo libero e delle possibilità di realizzazione personale, e che viene tenuta distinta dalla «quarta età», che è quella della dipendenza fisica dagli altri [La394 CAPITOLO 14 Francia Germania Stati Uniti Svezia Australia o 20 40 60 80 100 120 Anziani Donne anziane sole Coppie anziane sposate FIG. 14.4. Reddito.mediano dell a popolazione sopra i 65 anni rapportato al reddito mediano nazionale (dati 1995), Fonte. Some @icber,, some poorer, in «The Economist», 27 gennaio 1996. slett 19891. In terzo luogo, è mutata (ed è in generale migliorata) la situazione economica degli anziani, grazie soprattutto all'istituzione e allo sviluppo del sistema universale di pensioni di vecchiaia. Oggi, in molti paesi sviluppati, le persone con oltre 65 anni godono di un livello di reddito molto più simile di un tempo a quello degli altri (fig. 14.4). Pensionamento Il pensionamento è un'istituzione sociale di origine relativamente recente. Oggi, nelle società occidentali, con questo termine si indica 9 Pagina 229
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt passaggio da una fase a un'altra della vita, la fine del periodo di lavoro e l'inizio di quello del tempo libero, delle attività non economiche. Ma un tempo il ritiro dal lavoro aveva un significato del tutto diverso. Non essendo ancora stato creato il moderno sistema di assicurazioni pensionistiche, chi smetteva di svolgere un'attività produttiva spesso non godeva più di alcuna entrata e veniva a trovarsi in una situazione di assoluta dipendenza economica dagli altri, dai figli e dai parenti. Gli uomini anziani che possedevano qualcosa (ad esempio i contadini proprietari) si facevano ad un certo punto da parte e lasciavano l'azienda familiare al primogenito, spesso stipulando (per non avere sorprese) un contratto con il figlio, nel quale veniva dettagliatamente elencato tutto ciò che questo doveva dare ai genitori - in termini di risorse economiche e di assistenza - finché essi rimanevano in vita. CORSO DI VITA E CLASSI DI ETA 395 Ma per gli uomini che non possedevano nulla (che erano la grande maggioranza della popolazione) il ritiro dal lavoro non avveniva da un giorno all'altro, ma in un lungo processo. Per paura di trovarsi alla mercé degli altri, essi cercavano di rimanere economicamente attivi quanto più a lungo possibile. Man mano che le forze venivano loro meno, essi abbandonavano gradualmente i compiti più gravosi e continuavano a svolgere i più leggeri. Dunque, la vecchiaia coincideva un tempo con il declino fisico, l'incapacità lavorativa, la dipendenza dagli altri. La situazione iniziò a cambiare nel secolo scorso. In Belgio, in Olanda, in Francia, le pensioni vennero istituite per la prima volta Sistema poco prima della metà dell'Ottocento a favore di piccoli gruppi della pensionistico popolazione (i militari e i funzionari pubblici) come forma di ricompensa per i leali servigi resi allo stato. Anche nel Regno sardo esistevano pensioni di questo tipo che, con l'unità d'Italia vennero estese agli impiegati civili e militari dello stato. Ma il primo programma di pensionamento di massa fu lanciato nel 1889 da Bismarck in Germania e da qui si diffuse in molti altri paesi europei, fra i quali il nostro, dove nel 1898 fu istituita la Cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e la vecchiaia degli operai. Si trattava di una forma di assistenza, pensata solo per i vecchi operai poveri che non erano in grado di pensare a se stessi e che non potevano servirsi dell'aiuto dei figli. Nei decenni successivi il sistema pensionistico fu ovunque esteso agli altri strati della popolazione e cambiò natura. Fra i vari modi in cui, nei diversi paesi, questo processo è avvenuto, si possono individuare due modelli principali: uno universalistico, l'altro occupazionale [Ferrera 19931. Nei paesi che hanno seguito il primo, le pensioni sono state concepite, fin dall'inizio, per tutti i cittadini, quale che fosse la loro attività lavorativa. In Svezia, ad esempio, già dal 1913 fu introdotto un sistema di pensioni che, pur essendo di modestissimo importo, erano a favore di tutti i cittadini che compivano i 67 anni. Questa strada fu seguita negli anni trenta dalla Danimarca, la Norvegia, la Finlandia e, nel 1946, dalla Gran Bretagna che, con il piano Beveridge, istituì un'unica assicurazione nazionale contro la vecchiaia. Ritroviamo invece il secondo modello nei paesi dell'Europa continentale (la Francia, il Belgio, la Germania, l'Austria e, in parte, l'Italia) nei quali si è partiti con schemi di pensioni riguardanti alcune categorie di lavoratori dipendenti, procedendo poi a includere ad una ad una tutte le altre. Così, ad esempio, in Italia, nel 1945 solo i lavoratori dipendenti al di sotto di una determinata soglia di reddito erano coperti dall'assicurazione pensionistica. Questa protezione fu estesa a tutti i lavoratori dipendenti nel 1950, ai coltivatori diretti nel 1957, agli artigiani nel 1959, ai commercianti nel 1966, a tutti gli ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito nel 1969. Nei paesi occidentali, l'allargamento del sistema delle pensioni a tutti gli strati della popolazione ha avuto un'accelerazione dopo la Il 396 CAPITOLO 14 guerra mondiale. Dopo di allora è anche fortemente aumentato il livello delle pensioni. Mentre ancora nel 1950, in tutti i paesi europei (escluse l'Austria e la Francia), la pensione ammontava in media al 2030% del salario, oggi essa supera il 60% Così, il sistema di pensioni per la vecchiaia che si è formato in tutti questi anni ha assunto caratteristiche del tutto diverse da quelle che aveva alla fine del secolo scorso. Esso non riguarda più solo alcune categorie di lavoratori bisognosi, ma tutti i cittadini. Esso Pagina 230
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt non serve più a prevenire la povertà, ma è rivolto a far mantenere a tutti i lavoratori, anche dopo che sono usciti dal mercato del lavoro, lo standard di vita di cui hanno goduto negli anni precedenti. Tasso di attività della popolazione maschile con oltre 65 anni Prepensionamento g. Prepensionamento e tassi di attività Alla metà degli anni sessanta, nei paesi occidentali, il sistema pensionistico si era ormai ampiamente sviluppato e le leggi prevedevano che gli uomini potessero lasciare il lavoro per raggiunti limiti di età a 65 anni, le donne un po prima. Per questo, fino ad allora, il tasso di attività della popolazione maschile con oltre 65 anni era progressivamente diminuito, passando dal 65-70% alla fine del secolo scorso al 20% nel 1970 [Kohli et al. 19911. A partire dal 1970 e per tutto il ventennio successivo si è avuta una flessione anche del tasso di attività della popolazione maschile dai 60 ai 64 anni. Come si può vedere dalla fig. 14.5, vi sono oggi forti differenze, fra i paesi ricchi, riguardo a questo tasso, perché in Francia esso non raggiunge neppure il 20%, mentre in Giappone tocca il 70% Ma esso è diminuito ovunque, a causa della tendenza al prepensionamento (cioè a lasciare il lavoro prima di raggiungere i limiti di età) che si è avuta in questo periodo in tutti i paesi sviluppati e che ha riguardato non solo la popolazione maschile, ma anche quella femminfle. Il prepensionamento è stato favorito in vari modi dai governi dei paesi sviluppati per dare una risposta alle crescenti difficoltà di occupazione. Ma esso è stato voluto, anche se per motivi diversi, dagli imprenditori, dai sindacati e dagli operai più anziani. Attraverso questa strada, gli imprenditori hanno cercato di ridurre e di svecchiare la forza lavoro, partendo spesso dall'idea che i dipendenti anziani rendono di meno e costano di più di quelli più giovani. 1 sindacati hanno aderito a questa soluzione con l'obiettivo di favorire l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Infine, gli operai più anziani non si sono opposti perché facevano sempre più fatica ad adattarsi alle nuove tecnologie e alla mutate condizioni di lavoro. L'abbassamento dell'età al pensionamento è avvenuto in un periodo in cui, nei paesi occidentali, molti fattori sembravano spingere in senso opposto. Il primo, e più importante, è che la durata della via 80 60 40 20 Gran Bretagna 1970 1975 1980 1985 1990 1991 FIG... 145. Tossi di:attività defta popoláuone.maschì1e dai 60. ai 64 anni. Fonu-Bówigg,os .(t, in <Mw Econonlist», 27. gennaio 1.996... media (anche a 60 anni) è cresciuta (ma si veda il cap. XVIII). Così, ad esempio, in Germania dal 1960 al 1985, mentre l'età mediana al pensionamento è diminuita di circa cinque anni, la speranza di vita a 60 anni è passata da 15,5 a 17 anni. Di conseguenza, il periodo di pensionamento si è considerevolmente allungato. Il secondo fattore è che A peso della popolazione anziana è fortemente cresciuto, facendo aumentare spaventosamente i costi. 19 terzo fattore è che i sessantenni di oggi godono di un livello di istruzione e di condizioni di salute migliori di quelli delle coorti precedenti. Il quarto è che una parte crescente dell'opinione pubblica ha fatto propria l'idea dei gerontologi moderni che l'essere attivo è per l'individuo A modo migliore per ritardare l'invecchiamento fisico e psichico. Non è dunque difficile capire perché, negli ultimi anni, sia iniziata nei paesi sviluppati una tendenza opposta a quella del periodo precedente e i governi stiano cercando di elevare l'età pensionabile. Negli Stati Uniti, ad esempio, l'età per avere il livello più alto di pensione si sta spostando dai 65 ai 67 anni. In Giappone (che è il paese in cui la vita media è più lunga) a partire dal 2000 le pensioni di stato verranno date solo al compimento dei 65 anni, mentre le aziende che occupano persone con oltre 60 anni ricevono dei premi (sui sistemi pensionistici v. anche cap. XXII). Pagina 231
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Capitolo 15 l. Il concetto di razza Si può dire che ogni fon-na di «sapere», sia il sapere scientifico che il sapere comune, parte da un'operazione apparentemente molto semplice: la classificazione. Tutti abbiamo imparato a scuola, ad esempio, che le cose di questo mondo si dividono in prima istanza in cose fatte di sostanze organiche e di sostanze inorganiche. Gli organismi viventi, cioè quelli fatti di sostanze organiche, hanno la proprietà di svilupparsi e di riprodursi e per far questo dispongono delle informazioni necessarie contenute nel loro codice genetico. A sua volta abbiamo imparato che il mondo degli organismi viventi si divide ulteriormente in vegetale e animale e che all'interno di questi due ambiti vi sono numerosissime specie e sottospecie. Una delle specie del mondo animale è l'uomo. Sappiano che l'uomo si distingue dagli altri animali, soprattutto da quelli che gli sono più simili (che proprio per questa somiglianza si chiamano scimmie «antropomorfe») per una serie di caratteri: il volume della massa cerebrale, la stazione eretta, la mano prensile e altre ancora che derivano più o meno direttamente da queste caratteristiche (ad esempio, la capacità di emettere suoni articolati e di usare un sistema di segni particolarmente complesso come il linguaggio). Abbiamo detto che l'operazione di classificazione è semplice, ma solo apparentemente. Le complicazioni derivano dalla particolare struttura «ad albero» della maggior parte delle classificazioni per cui ogni «classe» comprende una pluralità di sottoclassi (e queste, a loro volta, di sotto-sottoclassi), ma, soprattutto, dal fatto che per classificare qualsiasi insieme di oggetti bisogna sapere bene in base a quali caratteristiche (proprietà) si intende classificarli. La regola logica in base alla quale si opera una classificazione dice che ad una «classe» appartengono oggetti simili per certe proprietà (genere prossimo) che li distinguono dagli oggetti di altre «classi» dello stesso livello, nelle quali quindi queste proprietà sono assenti (differenza specifica). Per classiClassificazione delle razze 400 CAPITOLO 15 ficare quindi dobbiamo sempre decidere se due oggetti, in riferimento alle proprietà considerate, sono uguali (o almeno simili) oppure diversi. Anche gli esseri che appartengono alla specie umana possono evidentemente venire classificati seguendo questa logica. Dobbiamo prima di tutto decidere in base a quali proprietà operare la classificazione. Possiamo, ad esempio, decidere di classificare gli esseri umani in base alle caratteristiche somatiche, o meglio, in base ad un certo numero di caratteristiche somatiche che in genere compaiono associate: il colore della pelle, la forma del cranio, delle labbra, degli occhi, il tipo di capigliatura, ecc. Compiendo questa operazione classifichiamo in razze la specie umana. Possiamo infatti definire la razza come un insieme di esseri umani che condividono alcune caratteristiche somatiche. In questa operazione si prendono in considerazione soltanto alcune caratteristiche, infatti, nella definizione di una razza altre caratteristiche somatiche (ad esempio, il sesso, la statura, il peso corporeo, il colore degli occhi e dei capelli) vengono tralasciate perché sappiamo non essere regolarmente associate a quelle prese in considerazione. A seconda del numero di caratteristiche considerate varia anche A numero delle razze identificate; per certi studiosi le razze umane fondamentali sono tre o quattro (i bianchi, i neri, i gialli ai quali alcuni aggiungono gli amerindi, cioè i pellerossa), poiché assumono come criterio discriminante il solo colore della pelle, per altri invece il numero sarebbe più elevato. La Bibbia fa discendere le razze dai figli di Noè e distingue tra camiti (figli di Cam) e semiti (figli di Sem). Già Darwin nel 1871 aveva notato come il numero delle razze, a seconda degli studiosi, potesse oscillare da due a sessantatré. Un altro autore, Garn [19651 distingue nove «razze geografiche» (amerindica, polinesiana, micronesiana, australiana, melanesianica-papuasica, asiatica, indiana, europea, africana) e trentadue «razze locali». t probabilmente saggio seguire il suggerimento di Cavalli-Sforza [19961 che invita a rinunciare ad una classificazione su solide basi scientifiche valida una volta per tutte, questa risulta impossibile o arbitraria. Resta comunque il fatto che le popolazioni umane differiscono per alcuni tratti somatici e che una classificazione, sia pure approssimativa, serve come primo strumento per orientarsi nel mare infinito della diversità umana. 1 tratti che vengono presi in considerazione per la classificazione delle razze sono, come è noto, caratteristiche ereditate, cioè non acquisite dall'individuo nel corso della sua esistenza e che non è possibile modificare. Tra i milioni di Pagina 232
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt informazioni genetiche che ci vengono trasmesse dai nostri genitori attraverso i cromosomi, ve ne sono alcune (in realtà assai poche) che contengono le informazioni necessarie a farci nascere e crescere come esemplari di una razza determinata. Le razze quindi esistono come prodotto di un'operazione di classificazione e le differenze tra le razze sono differenze genetiche che riguardano solo una piccola parte del nostro patrimonio genetico. Come scrive RAZZE, ETNIE E NAZIONI 401 Cavalli-Sforza [1993, 3331: «per quasi tutti i caratteri ereditari osservati le differenze tra singoli individui sono più importanti di quelle che Differenze si vedono tra gruppi razziali» Il fatto che le differenze genetiche tra genefiche individui di una stessa razza siano quantitativamente più rilevanti delle differenze genetiche tra individui di razze diverse ha fatto ritenere a molti biologi che il concetto di razza sia un concetto biologicamente irrilevante. Non lo è, invece, dal punto di vista sociologico poiché, come vedremo, le differenze somatiche sono state assunte negli ultimi due secoli della storia delle società umane per significare, e giustificare, altre differenze di ordine morale, intellettuale e comportamentale non riconducibili a differenze biologiche. 2. Il razzismo: dottrine, atteggiamenti e comportamenti t verso l'inizio del XIX secolo, nel pieno dell'espansione coloniale delle potenze europee, che iniziano a circolare dottrine che attribuiscono alla razza tratti del carattere e del comportamento che nulla hanno a che fare con le differenze somatiche. Queste dottrine si fondano su una serie di credenze: che vi sia una corrispondenza tra caratteristiche somatiche e tratti mentali e morali, che quindi anche questi ultimi siano trasmessi per via ereditaria e siano sostanzialmente immodificabili, che l'organizzazione sociale rifletta la divisione dell'umanità in razze distinte, che vi sia una gerarchia naturale tra le razze e che questo giustifichi il dominio e lo sfruttamento da parte delle razze che si autodefiniscono come superiori sulle razze definite come inferiori. La tendenza ad attribuire alla natura il fondamento delle differenze e delle disuguaglianze sociali non è nuova nella storia dell'umanità. Nell'antichità gli schiavi venivano considerati una specie intermedia tra l'animale e l'uomo (venivano infatti chiamati «animali parlanti»), ma anche in epoca moderna è diffusa l'idea che la subordinazione della donna all'uomo sia una conseguenza delle, peraltro ovviamente evidenti, differenze somatiche tra i sessi e del diverso ruolo che i due generi hanno nella riproduzione della specie. Come si può spiegare questa tendenza a «naturalizzare» le disuguaglianze sociali? Non c'è dubbio che la concezione dominante della natura, come ambito dove vigono «leggi» non manipolabili dall'azione e dalla volontà umana, sia un potente strumento di giustificazione delle disuguaglianze. Non ha senso - si pensa - mettere in discussione ciò che dipende dalla «natura», non si può far altro che riconoscerlo come dato di fatto e come tale accettarlo: l'uomo non può andare «contro natura» e quindi contro le sue leggi inviolabili. Ci sarebbe molto da discutere su questa concezione della «natura». In un'epoca in cui le società umane hanno dimostrato di essere in grado di modificare radicalmente il loro ambiente «naturale» e in cui si parla, ad esempio, di manipolazione genetica verrebbe quasi da pensare che le 402 CAPITOLO 15 Determinismo biologico Quoziente di intelligenza leggi di natura non sono poi così ferree come si pensava. In realtà, lo stesso concetto di «natura» è un prodotto dello sviluppo della cultura umana e solo la cultura umana è in grado di tracciare il confine, storicamente mobile, tra ciò che è naturale e ciò che non lo è. Sta di fatto che la «natura», nonostante il dominio crescente che l'uomo sembra esercitare su almeno alcuni suoi processi, incute sempre timore e tutte le differenze tra gli uomini che possono essere sancite da «leggi naturali» ne risultano per questo fatto rafforzate. t chiaro comunque che le dottrine della razza si fondano su un forte «determinismo biologico» in base al quale il comportamento di individui, gruppi e intere civiltà risulta determinato dall'appartenenza razziale. Per i sostenitori di queste dottrine, quello che conta per spiegare le differenze tra gli uomini non è tanto la storia, la cultura o l'esperienza individuale, ma il fatto di far parte per nascita di una razza i cui caratteri e destini sono iscritti nell'ordine naturale. Già Tarde, Weber e Durkheim, per citare solo i sociologi, avevano sostenuto più di un secolo fa che queste dottrine non si fondano su alcun solido sapere Pagina 233
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt scientifico. In una comunicazione al Congresso della Società tedesca di sociologia del 1912, Max Weber si espresse così: Due cose sarebbero necessarie, prima di riconoscere alle teorie razziali anche solo il diritto di una discussione: la constatazione di differenze inconfutabilì, chiaramente presentate, psicofisicamente definibili, precisamente misurabili, e di cui si possa dimostrare l'ereditarietà [ 1 poiché non sono i contenuti culturali della nostra coscienza, ma l'apparato psicofisico ad essere oggetto di eredità. Poi, secondo: la prova inconfutabile che queste differenze abbiano un significato causale per i tratti specifici e diversi dello sviluppo culturale. A tutt'oggi, non disponiamo affatto di una simile prova [Weber 1924,4561. Possiamo dire che le conoscenze accumulate da allora non ci hanno fornito le prove richieste da Max Weber, anzi, ci hanno fornito piuttosto prove del contrario. Eppure queste teorie ricompaiono regolarmente, sia pure in forme diverse. Anche di recente, ad esempio, sono state riproposte da alcuni studiosi per spiegare le differenze di potenziale intellettuale tra bianchi e neri negli Stati Uniti. Gli studi sulla distribuzione dei punteggi medi del quoziente di intelligenza (QI) in popolazioni appartenenti a razze diverse sono da vari decenni al centro del dibattito sull'esistenza o meno di differenze mentali e comportamentali associate alle differenze somatiche. t stato accertato infatti che negli Stati Uniti le popolazioni bianca e nera presentano una differenza oscillante tra i dieci e i venti punti nei punteggi medi dei test escogitati per misurare il quoziente di intelligenza. A parte il fatto che una parte consistente della popolazione nera presenta QI superiori alla media della popolazione bianca e, viceversa, molti bianchi hanno Q1 inferiori alla media della popolazione nera, vi sono RAZZE, ETNIE E NAZIONI 403 altre ragioni per non ritenere conclusivi i risultati di tali ricerche. In primo luogo, non sappiamo bene che cosa sia l'intelligenza e che cosa misurino i test di intelligenza; è assai probabile che essi misurino la capacità (skiffi di risolvere problemi che, per la posizione sociale privilegiata che occupa, sono più familiari alla maggioranza della popolazione bianca che non alla maggioranza della popolazione nera. Inoltre, tali capacità dipendono senz'altro dall'efficacia dei processi di allevamento, apprendimento e istruzione che ovviamente dipendono a loro volta dall'ambiente sociale e famigliare di crescita e formazione [Dobzhansky 19731. Studi condotti su bambini neri adottati poco dopo la nascita da famiglie bianche di classe media hanno mostrato che il loro Q1 presenta differenze trascurabili rispetto a bambini bianchi cresciuti in condizioni simili. 1 fattori ambientali sono decisivi per determinare l'esito di qualsiasi processo biologico. Se prendiamo due semi dalla stessa pianta e li trapiantiamo l'uno in un terreno ricco, fertile, bene annaffiato e protetto e l'altro in un terreno povero, arido ed esposto ad agenti atmosferici sfavorevoli, vedremo in un caso crescere una pianta rigogliosa e nell'altro un arbusto fragile e malandato. Allo stesso modo, se supponiamo di prendere due fratelli gemelli monozigotici (nati dallo stesso ovulo e quindi dotati dello stesso patrimonio genetico) e li alleviamo in circostanze e in culture molto diverse (ad esempio, uno affidato ad una coppia di cacciatori esquimesi e l'altro ad una coppia di insegnanti napoletani) potremo scommettere che cresceranno due persone molto diverse che, se si incontreranno da grandi, difficilmente riusciranno a comunicare tra loro. In effetti, ricerche condotte su gemelli adottati hanno dimostrato che coloro che sono cresciuti insieme sono più simili di coloro che sono cresciuti separati e molte altre ricerche condotte sulla distribuzione del quoziente di intelligenza in popolazioni esposte a diverse condizioni ambientali (in particolare, in questo caso, a diverse «cure» educative) hanno dimostrato al di là di ogni dubbio che l'ambiente conta moltissimo, senza per questo dover escludere che anche fattori genetici possano esercitare una certa influenza. Altre ricerche hanno confrontato i coefficienti di correlazione tra i Q1 di fratelli gemelli monozigotici e dizigotici (i secondi hanno una percentuale di geni comuni minore dei primi) e hanno notato per i gemelli monozigotici una correlazione più alta: questo risultato sembra convalidare la tesi che, comunque, i fattori genetici non sono irrilevanti nello spiegare lo sviluppo dell'intelligenza. Che conclusione possiamo trarre dagli studi ai quali abbiamo qui brevemente accennato? Una conclusione sensata sembra che bisogna evitare ogni sorta di determinismo unilaterale, sia biologico che ambientale. Patrimonio genetico e Pagina 234
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt ambiente socioculturale sono entrambi fattori che condizionano lo sviluppo degli esseri umani e, allo stato attuale delle conoscenze, non siamo in grado di valutare l'entità del condizionamento ambientale rispetto a quello genetico e viceversa. 404 CAPITOLO 15 Deriva genetica Selezione sessuale Dottrine razziste Sappiamo, però, che questi due ordini di fattori si influenzano reciprocamente. Un'indicazione interessante in questo senso ci viene da una ricerca di Cavalli-Sforza [19681. Studiando la distribuzione dei gruppi sanguigni in popolazioni di montagna e di pianura della stessa area (la provincia di Panna) egli ha dimostrato che, mentre le differenze tra popolazioni di pianura non sono significative, lo sono invece quelle tra le popolazioni delle valli di montagna. Evidentemente, il grado maggiore di isolamento prodotto dalla configurazione orografica del terreno spiega come si possano formare delle popolazioni più o meno omogenee dal punto di vista genetico. Se è difficile che membri di due popolazioni diverse si incontrino, è anche difficile che possano scambiarsi dei geni. Popolazioni che vivono geograficamente isolate e i cui membri si accoppiano esclusivamente tra di loro tendono a diventare anche geneticamente omogenee per un processo che i biologi chiamano di «deriva genetica». Talvolta, tuttavia, le barriere sociali sono anche più efficaci delle barriere fisiche e geografiche; la divisione di una società in caste, che pure vivono nello stesso territorio, è in grado di ostacolare gli incroci genetici quanto e anche più di una catena montuosa. In questo caso fattori di ordine socioculturale, influenzando la scelta del partner, influenzano anche la distribuzione dei caratteri genetici. Questo processo prende il nome di «selezione sessuale». Il riconoscimento del fatto che, accanto alle differenze economiche, sociali e culturali - e in interazione con esse - esistano tra gli uomini anche differenze genetiche, non giustifica affatto le disuguaglianze tra popolazioni di razza diversa sul piano morale e giuridico. E fatto che esistano delle differenze non implica che, sulla base di tali differenze, sia legittimo negare diritti e opportunità ai gruppi che ne sono portatori. Possiamo infatti chiamare razziste quelle dottrine, quegli atteggiamenti e quelle pratiche che discriminano, sulla base dellappartenenza razziale, l'accesso all'esercizio di diritti e a determinate opportunità e posizioni sociali. Una dottrina è razzista, come abbiamo accennato, quando assume la razza come fattore determinante dei rapporti umani, dell'organizzazione sociale e dei comportamenti dei singoli. Non si potrebbe spiegare però la relativa fortuna di queste dottrine, se ad esse non facessero riscontro atteggiamenti e comportamenti discriminatori largamente diffusi, che si manifestano nel fatto che i membri di un gruppo trattano come inferiori i membri di un altro gruppo in virtù della sola appartenenza razziale. Naturalmente, perché questi atteggiamenti e comportamenti possano svilupparsi è necessario che popolazioni appartenenti arazze diverse entrino in contatto. Il razzismo non può svilupparsi in assenza del suo oggetto, cioè in assenza di popolazioni di razza diversa che vivono fianco a fianco nello stesso territorio. Ciò è avvenuto peraltro assai frequentemente nella storia, e avviene tuttora, per effetto dei movimenti migratori (volontari o coatti) che spostano singoli individui, famiglie, gruppi e intere popolaRAZZE, ETNIE E NAZIONI 405 zioni tra località vicine, ma spesso anche molto lontane, mettendo a contatto popolazioni che per secoli erano rimaste estranee e si ignoravano reciprocamente. Parliamo di discriminazione razziale quando in una società ai membri di una popolazione identificata per le sue caratteristiche, reali o presunte, di razza, viene negato l'accesso all'esercizio di una serie di diritti. La varietà di forme che la discriminazione razziale può assumere è molto grande. Alcune sono forme legali, nel senso che fanno riferimento a divieti sanciti dalla legge, in altri casi invece si tratta di discriminazioni di fatto. Ciò si verifica quando l'impedimento all'esercizio dei diritti è costituito da comportamenti discriminatori fondati su atteggiamenti e opinioni ostili. Anche se in molte società contemporanee le forme «legali» sono state abolite, le forme «di fatto» mantengono spesso inalterata la loro efficacia. Esse riguardano restrizioni che possono andare dalla impossibilità di diventare proprietari di terra o di altri Pagina 235
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt beni immobili, di decidere liberamente dove fissare la propria residenza, di accedere a determinati mestieri e professioni, di esercitare diritti civili e politici, di frequentare scuole e di usufruire degli stessi servizi e locali pubblici ai quali accedono liberamente gli altri abitanti. Questi divieti o impedimenti di fatto creano attorno al gruppo oggetto di discriminazione delle barriere che producono isolamento e segregazione sia fisica (spaziale) sia sociale. Prima di illustrare sinteticamente alcuni esempi storici di discriminazione razziale è importante introdurre una distinzione proposta da uno studioso francese contemporaneo [Taguieff 19871 per rendersi conto come con la parola «razzismo» si indichino realtà anche molto diverse tra loro. Taguieff avverte che bisogna distinguere tipi diversi sia di dottrine sia di atteggiamenti e comportamenti razzisti. Un conto è infatti quando il concetto di razza viene applicato in prima istanza al proprio gruppo (auto - razzizzazione) per affermarne la superiorità e, soprattutto, garantirne la purezza; e un conto è quando la razza viene intesa come sinonimo di civiltà inferiore e arretrata (etero-razzizzazione). Nel primo caso, coloro che non appartengono alla «razza» vengono percepiti come un pericolo alla sua sicurezza, integrità e purezza, la loro presenza viene presentata come incompatibile con la comune convivenza e viene scatenata una reazione di rigetto che arriva, nei casi limite, fino allo sterminio e al genocidio. Nel secondo caso, invece, le razze considerate inferiori diventano oggetto di sfruttamento e di segregazione e, anche se ciò non sempre avviene, si punta alla loro gra duale assimilazione alla cultura dominante. L'esempio più evidente del primo tipo di razzismo è l'antisemitismo nella sua forma estrema, culminata nell'olocausto. Nel secondo tipo invece rientrano casi tra loro molto eterogenei, come il fenomeno dell'apartbeid che ha caratterizzato il rapporto tra la minoranza bianca e la maggioranza nera in Sudafrica fino al 1993, i rapporti con la popolazione nera di origine africana nel continente americano e i rapporDbcrìininazione. raiziale . . . . Razzismo 406 CAPITOLO 15 ti tra autoctoni e immigrati dai paesi asiatici e africani nell'Europa contemporanea. Questi esempi richiedono qualche approfondimento. Antisemitismo Monoteismo 3. Quaftro casi di discriminazione razziale 3.1. L'antisemitismo Il termine «antisemitismo» è in parte improprio e relativamente recente. Improprio perché anche gli arabi, e non solo gli ebrei, sono una popolazione semitica. Recente, perché fu adottato in Germania solo verso la fine del XIX secolo dai circoli nazionalisti che si opponevano al riconoscimento agli ebrei di uguali diritti di cittadinanza. Il fenomeno al quale si riferisce è, invece, molto più antico e affonda le proprie radici nella storia dell'ostilità nei confronti del popolo ebraico che data fin da prima dell'avvento del cristianesimo. Originariamente popolo di beduini semiti, gli ebrei si trasformarono dapprima in agricoltori e quindi nel primo, e per molto tempo unico, popolo urbano e letterato della storia umana; si parla infatti degli ebrei come «popolo del libro o della scrittura». In seguito, essi si trovarono a vivere, attraverso secolari vicende di migrazioni, di fughe e di deportazioni, dalla distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d. C. fino all'età moderna, tra popolazioni prevalentemente agricole e per lo più analfabete nei confronti delle quali finirono per sviluppare un sentimento di superiorità. Questa singolare posizione sociale, economica e culturale trovava un potente sostegno nella religione. Nata dall'abbandono dei culti orgiastici del vicino Oriente e delle pratiche dei sacrifici umani, la religione ebraica fu la prima religione monoteista, fondata cioè sulla credenza in un unico dio che aveva riservato al popolo ebraico la posizione privilegiata di «popolo eletto». A differenza dei culti politeistici che, ammettendo una pluralità di divinità, sono sempre in grado di «integrare» credenze differenti, le religioni monoteiste tendono ad alimentare forti atteggiamenti di intolleranza religiosa. Ciò spiega come mai le lotte di religione più irriducibili nella storia dell'intera umanità si siano sviluppate tra le tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islamismo. Pagina 236
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Popolo senza territorio, e quindi senza stato, minoranza tra popolazioni di religione diversa, sottoposti alla pressione delle autorità politico-rehgiose che mal ne tolleravano la presenza, esposti a periodiche cacciate e a frequenti eccidi (i pogrom), gli ebrei hanno tuttavia mantenuto nei secoli una loro identità collettiva per effetto di un duplice processo di esclusione e di autoesclusione nei confronti delle società che li «ospitavano» Le comunità ebraiche svilupparono pressoché ovunque due dinamiche contrapposte: da un lato la tendenza al rafforzamento della propria identità attraverso la difesa dell'ortodossia reliRAZZE, ETNIE E NAZIONI 407 giosa e il divieto di sposarsi al di fuori della comunità (endogamia), dall'altro lato la tendenza all'assimilazione attraverso l'occultamento della propria identità e, al limite, attraverso la conversione (volontaria o coatta) alla religione dominante del paese in cui si trovavano a vivere. Nel tardo Medioevo e alle soglie dell'età moderna, esclusi di fatto o di diritto sia dalla proprietà della terra, sia dall'esercizio dei mestieri e delle professioni organizzate in corporazioni, gli ebrei si specializzarono nell'unico mestiere che era, almeno in linea di principio, interdetto ai cristiani: il prestito ad interesse (cioè, l'usura) Ciò li poneva in una posizione ad un tempo «centrale» e «marginale», centrale perché permetteva loro di intrattenere rapporti con le corti, i ceti dominanti e i nascenti centri dell'attività finanziaria, marginale perché li escludeva dalle più importanti attività produttive e dalla rete delle relazioni nella sfera socioculturale. Questa posizione sociale trova espressione nelle diverse forme di segregazione spaziale delle comunità ebraiche e, soprattutto, nell'istituzione del ghetto. La tendenza alla concentrazione abitativa degli ebrei in vie e quartieri particolari all'interno delle città si manifesta in Europa già all'inizio del Medioevo. Nella toponomastica delle città tedesche troviamo frequentemente una judengasse, ma lo stesso si può dire per le città spagnole, francesi, inglesi, olandesi o polacche; a Venezia, ad esempio, il quartiere della Giudecca ricorda il luogo dove anticamente abitavano gli ebrei, prima della costruzione del ghetto. La localizzazione di queste vie o quartieri non era necessariamente periferica, anzi, spesso gli ebrei erano insediati nel centro delle città, in prossimità del mercato, ma anche delle cattedrali o delle residenze dei nobili. Nel Medioevo questo fenomeno era prodotto per lo più delle scelte volontarie delle comunità ebraiche che trovavano nella vicinanza spaziale un fattore di solidarietà e di protezione nei confronti di un mondo esterno spesso ostile. In seguito, soprattutto per effetto della crescente intolleranza religiosa nell'epoca della controriforma, la segregazione spaziale divenne sempre più frequentemente oggetto di specifiche misure legislative che impedivano agli ebrei di risiedere al di fuori delle aree a loro riservate, per lo più ai margini, se non al di fuori delle mura cittadine. E 1516 è la data che segna l'istituzione ufficiale a Venezia del primo ghetto ebraico. Con la nascita del ghetto, un quartiere circondato da mura nel quale gli ebrei erano obbligati a risiedere e le cui porte venivano chiuse ogni sera, la segregazione spaziale da fenomeno difensivo di autoseparazione assume il significato di strumento di reclusione volto ad evitare il «contagio» e a impedire l'integrazione sociale e l'assimilazione culturale delle comunità ebraiche. La doppia dinamica mediante la quale un gruppo assume un'identità collettiva tanto più forte quanto più tale identità gli viene attribuita e continuamente ribadita dal mondo esterno trova, nel caso degli ebrei, l'esemplificazione più evidente. L'obbligo, ad esempio, di portaUsura Ghetto Segregazione spaziale 408 CAPITOLO 15 re un segno distintivo per farsi riconoscere (una rotella gialla da apporre sugli abiti) era già stata introdotta dal Concilio Lateranense del 1215 al fine di evitare rapporti tra ebrei e cristiani. La pratica fu ripresa in seguito durante la persecuzione nazista. La reclusione e segregazione operate dal ghetto, se da una parte discriminavano gli ebrei mettendoli al margine della vita civile, sono state tuttavia nello stesso tempo strumenti di perpetuazione di una tradizione e di rafforzamento di una solidarietà e identità collettive che altrimenti si sarebbero, se non Pagina 237
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt estinte, certo sensibilmente indebolite. Non sorprende più di tanto che nelle sinagoghe di Verona e di Mantova si celebrasse per anni la festa dell'anniversario dell'istituzione del ghetto. L'affermazione dei diritti umani e civili seguita alla Rivoluzione francese significò per gli ebrei l'emancipazione sul piano giuridico e aprì nuove opportunità di integrazione sul piano economico, sociale e culturale. E, tuttavia, se le mura del ghetto caddero, le nuove ideologie nazionaliste che si diffusero in Europa nel XIX secolo alimentarono nuove forme di ostilità nei confronti di una comunità che, accanto all'identità nazionale, manteneva un'altra identità collettiva. Mentre da un lato molti esponenti delle comunità ebraiche si affermavano in vari campi, dall'economia alla scienza, dalla politica alla cultura, le correnti dell'antisemitismo facevano breccia in strati profondi dell'opinione pubblica dei paesi europei. Agli ebrei venivano attribuite le colpe delle ricorrenti situazioni di crisi che accompagnavano le trasformazioni sociali indotte dall'induCapro espiatorio strializzazione; essi divennero il capro espiatorio per eccellenza, la potenza oscura alla quale imputare tutti i mali, le sofferenze e gli sconvolgimenti che affliggevano le società europee. Come ha messo in luce una famosa ricerca condotta negli anni quaranta da un gruppo di studiosi tedeschi esuli negli Stati Uniti [Adorno et al. 19501, l'antisemitismo trovava un fertile terreno di diffusione soprattutto in personalità fragili, educate in modo autoritario e appartenenti a ceti minacciati dagli sconvolgimenti prodotti dalle periodiche crisi economiche e sociali. Per gli autori di questa ricerca, l'antisemitismo fa parte di un'ideologia più complessa, caratterizzata da estremo conservatorismo, supina sottomissione all'autorità, ma, nello stesso tempo, feroce autoritarismo verso coloro che sono più deboli e hanno minore potere, il tutto sostenuto da idee emocentriche che pongono il proprio gruppo al vertice dei valori. Queste tendenze culminarono, come è noto, nel tentativo sistematico di sterminio perpetrato durante la II guerra mondiale dal regime nazista nei campi di concentramento dove, accanto agli oppositori del regime e agli zingari, erano stati deportati milioni di ebrei da tutte le zone occupate dalle armate di Hitler. La persecuzione subita rafforzò molto il movimento sionista che era nato verso la fine dell'Ottocento per dare al popolo ebraico un territorio e uno stato; si arrivò così nel RAZZE, ETNIE E NAZIONI 409 1948 alla fondazione in Palestina dello stato di lsraele verso il quale emigrarono per ondate successive molti ebrei da tutto il mondo e soprattutto dall'Europa orientale e dal Nord Africa. Ciò aprii tuttavia un nuovo fronte di lotta tra Israele e il mondo islamico che produsse una lunga catena di guerre, lutti e sofferenze. Anche se la maggioranza degli ebrei vive attualmente al di fuori dello stato d'Israele e risulta assai bene integrata nelle democrazie occidentali, la «questione ebraica» resta, nel mondo moderno, un nodo irrisolto. 3.2. Il «dilemma americano» Il titolo di questo paragrafo richiama una famosa ricerca sul problema dei neri in America che è diventata un classico della letteratura sociologica. Poco prima della Il guerra mondiale, la fondazione Carnegie affidò a Gunnar Myrdal, un economista svedese noto per la sua apertura alle altre scienze sociali diverse dall'economia e per la sua sensibilità ai problemi dei diritti umani, la conduzione di una grande indagine sulla popolazione di colore al fine di individuare gli ostacoli che si frapponevano alla sua integrazione nella società nordamericana. Il fatto che non si trattasse di uno studioso americano avrebbe dovuto garantire una maggiore oggettività e libertà dai pregiudizi che si riteneva avrebbero potuto influenzare la ricerca e distorcerne i risultati. Myrdal arrivò alla conclusione che tra i valori egualitari del credo americano, solennemente sanciti nella Costituzione e fatti propri dalla maggioranza della popolazione, e le pratiche discriminatorie cui veniva sottoposta la popolazione di colore perdurava un profondo e drammatico contrasto e che tale contrasto impediva una esplicita presa di coscienza del problema da parte della maggioranza bianca. Inoltre, sosteneva Myrdal, la discriminazione attuata da una maggioranza che si riteneva superiore nei confronti di una minoranza ritenuta inferiore si ripercuoteva sulla stessa immagine del mondo della stessa minoranza nera, la quale finiva per ritenersi e comportarsi come inferiore, aggravando così ulteriormente la propria situazione di inferiorità in un processo di causazione circolare cumulativa. Si tratta - secondo Myrdal di un vero e proprio circolo vizioso in cui la discriminazione e il pregiudizio creano in chi ne è vittima un'autoimmagine di inferiorità e quindi comportamenti Pagina 238
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt che confermano e rafforzano i pregiudizi che h hanno generati [Myrdal et al. 19441. L'abolizione della schiavitù, proclamata nel 1863 alla fine della guerra civile, pur segnando una tappa importante nel processo di emancipazione, non aveva radicalmente modificato la condizione della popolazione nera negli Stati Uniti. I neri restavano comunque lo strato più povero della società in quanto subivano di fatto forme di discrimi- Discriminazi<me nazione sia dal punto di vista residenziale e abitativo, sia nell'accesso razziale al mercato del lavoro e alle opportunità educative, sia nell'esercizio 4 10 CAPITOLO 15 stesso dei diritti politici. Il diritto di voto, attivo e passivo, non era riconosciuto in modo automatico, ma veniva di fatto ostacolato dalla necessità di iscrizione nelle liste elettorali, iscrizione che la maggioranza bianca in molti casi cercava di ostacolare con ogni mezzo, inclusa la minaccia e la violenza. Inoltre, soprattutto negli stati del sud, erano state reintrodotte verso la fine del = e l'inizio del XX secolo, forme legali di discriminazione: ai neri era fatto divieto di usare le stesse carrozze ferroviarie, gli stessi gabinetti pubblici e gli stessi bar e ristoranti della popolazione bianca. La segregazione e l'isolamento sociali dei neri persistevano come tratto fondamentale della loro condizione. Gli Stati Uniti, come è noto, sono una società di immigrati; cacciata dalle sue terre e rinchiusa in riserve, la popolazione originaria degli indiani d'America rappresenta un'esigua minoranza. Le successive ondate migratorie, provenienti dall'Europa (dall'Irlanda, dall'Italia, dalla Norvegia, dalla Polonia, ecc.), dall'America Latina (dal Messico, Portorico, Cuba, ecc.) e dall'Asia (Giappone, Cina, Vietnam, ecc.) si sono gradualmente integrate nella società americana, sia pure con difficoltà, favorite dalle immense opportunità offerte prima dall'espansione verso ovest (la «frontiera»), poi dallo sviluppo dirompente dell'economia capitalistica. Per spiegare questi processi, alcuni sociologi hanno parlato della società americana come di un crogiolo (melting pot) in cui si fondono in una nuova sintesi culture diverse [Glazer e Moynihan 19631. Questa interpretazione trova però un limite proprio nella mancata, o comunque difficile, integrazione della minoranza nera. Se non fosse per la discriminazione razziale, non si spiegherebbe come mai la minoranza nera, che pure è la minoranza di più antica immigrazione (tra la fine del XVII e l'inizio del XIX secolo furono deportati come schiavi nel Nord America circa 800.000 neri africani) sia rimasta costantemente ad occupare gli stati più bassi della scala sociale. Non è difficile spiegare come i pregiudizi e gli stereotipi che attribuiscono ai neri caratteristiche negative (pigrizia, apatia, trasandatezza, immoralità, propensione al vizio e alla criminalità) siano più radicati negli strati più bassi della popolazione bianca, in genere nei gruppi di più recente immigrazione. Per questi gruppi i neri vengono percepiti come minaccia, sia perché competono negli stessi segmenti più bassi del mercato del lavoro, sia perché sono spesso localizzati in zone contigue nelle aree urbane. Da questa prossimità-ostdità nasce l'esigenza di erigere barriere che minimizzino la probabilità di contatto. Inoltre, è stato ampiamente dimostrato da numerose ricerche che il pregiudizio nei confronti dei neri, e in genere nei confronti di tutte le minoranze connotate in senso etnico-razziale, cresce quanto più basso è il livello di istruzione e quindi quanto è minore la capacità di sviluppare una rappresentazione articolata della realtà sociale. Non si deve tuttavia pensare che la condizione dei neri in America non si sia sostanzialmente modificata nel corso del tempo. Le spinte al cambiamento sono venute sia dal basso che dall'alto. Dal basso per effetto dei movimenti collettivi che hanno mobilitato in varie forme la popolazione nera per l'affermazione della parità di diritti e opportunità, col sostegno di strati consistenti dell'opinione pubblica bianca di orientamento liberale e progressista. Dall'alto per effetto di una legislazione, a livello soprattutto federale, volta a rimuovere gli ostacoli all'integrazione prodotti dalle diverse forme di discriminazione. Tuttavia, senza la mobilitazione dal basso dei movimenti neri, ben difficilmente il Congresso, il supremo organo legislativo dell'unione degli stati americani, avrebbe passato una legislazione antidiscriminatoria. Una prima breccia avvenne, alle soglie della II guerra mondiale, con l'abolizione della segregazione nell'esercito e con la messa fuori legge delle pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro. Sarebbero dovuti passare ancora molti anni, però, per abolire negli stati del sud la segregazione nelle scuole, Pagina 239
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt nei servizi pubblici e sui mezzi di trasporto. Solo nel 1964, sotto la spinta del movimento non violento guidato da Martin Luther King (un pastore battista che verrà assassinato alcuni anni dopo da parte degli estremisti bianchi del Ku-Klux-Klan), il Congresso passò il Gvil RI*gbts Act che poneva fine, almeno formalmente, a ogni forma di discriminazione su base razziale. La legislazione sui diritti civili rappresentò senz'altro un grande passo avanti. Non basta tuttavia che la discriminazione sia abolita per legge per far si che essa scompaia nelle pratiche e nei comportamenti quotidiani, quando, ad esempio, un nero entra in un ristorante, chiede di essere ammesso a una scuola, aspira a un posto di lavoro o vuole comperare un appartamento in zone prevalentemente abitate da bianchi. Per favorire la desegregazione scolastica, ad esempio, il governo federale finanziò un grande piano per trasportare gli alunni di colore al di fuori del loro quartiere residenziale in scuole dove potessero studiare insieme a compagni bianchi o appartenenti ad altre minoranze etniche. Tuttavia, nell'accesso all'istruzione, al lavoro e alla residenza, così come nei rapporti con le forze dell'ordine e la giustizia, permasero, e permangono tuttora, forti discriminazioni di fatto. Per contrastare queste persistenti tendenze furono adottate, nel corso degli anni settanta e ottanta, misure volte a correggere e riequilibrare lo svantaggio iniziale dovuto all'appartenenza a una minoranza discriminata e a promuovere processi di mobilità e integrazione sociale. Queste misure vanno sotto il nome di «azioni positive» (affirmative Azioni positive actions) e consistono nel riservare agli esponenti delle minoranze (non solo ai neri, ma anche alle donne e a tutti i gruppi in qualche modo svantaggiati) una quota di posti nell'ammissione alle scuole e alle università, nell'assunzione negli impieghi pubblici e privati e, per quanto riguarda le imprese, nell'assegnazione di appalti pubblici. Molte sono le opposizioni e le resistenze che tali misure hanno incontrato in fase di elaborazione e di attuazione, anche perché in un certo senso si scostano dai principi liberali, individualistici e meritocratici sui quali si fonda il «credo americano» Esse sono state comunque efficaci nel promuovere il consolidamento di una classe media di colore e nell'incrementare il numero di posizioni di rilievo nell'amministrazione pubblica e nelle professioni occupate da esponenti delle minoranze. Molte amministrazioni locali delle grandi città, ad esempio, sono guidate da sindaci neri, lo strumento del voto si è dimostrato efficace nel dare peso alle rappresentanze politiche della gente di colore. La grande maggioranza della popolazione nera, però, resta ancorata al fondo della società, segregata in quartieri fatiscenti con altissimi tassi di criminalità e di uso della droga, con servizi educativi e sanitari inesistenti o di bassa qualità e, soprattutto, afflitta da tassi di disoccupazione assai più elevati del resto della popolazione. Si è chiaramente instaurato un circolo vizioso che impedisce a una parte cospicua della minoranza nera di raggiungere un livello dove possa godere effettivamente degli stessi diritti di cui godono gli altri cittadini. Le periodiche esplosioni di rivolta nei ghetti neri delle grandi città sono un'indicazione evidente del fatto che il «dilemma americano» resta un problema aperto. 3.3. Il Sudafrica dall'«apartheid» alla convivenza Prima del XVII secolo, cioè prima dell'arrivo dei coloni olandesi (i Boeri, Buren da Bauern, cioè contadini) e inglesi l'area di quella che sarebbe poi stata chiamata Colonia del Capo era scarsamente popolata da tribù di cacciatori-raccoglitori (i Boscimani) e di pastori nomadi (gli Ottentotti) Espandendosi verso nord nell'opera di colonizzazione i boeri entrarono in contatto con i Bantu, un popolo di pastori e agricoltori nomadi che, provenendo da nord, da secoli si spingevano nelle aree meridionali senza però insediarvisi stabilmente. I Boeri, che potevano contare su tecnologie produttive e militari più avanzate, ebbero facilmente il sopravvento sulle sparse popolazioni locali, alle quali si aggiunsero, per alimentare un'economia di piantagioni in rapida espansione, migliaia di schiavi neri importati dalle isole delle Indie occidentali e da altre colonie. Si creò così, non diversamente dagli stati del sud degli Stati Uniti, una società di immigrati fondata sulla schiavitù che, ancor più che in America, trovava sostegno e giustificazione in una versione «razzista» del protestantesimo calvinista in base alla quale sulla popolazione di colore gravava una sorta di dannazione biblica. L'abolizione legale della schiavitù, imposta dall'Inghilterra nel 1835, provocò la secessione boera e la creazione delle due repubbliche boere dell'Orange e del Transval nel tentativo di perpetuare, insieme alla schiavitù, H mondo arcaico dei primi coloni. Pagina 240
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Le prospettive di sfruttamento delle ricche miniere di oro e diamanti condusse prima alla guerra anglo-boera (1899-1902) e quindi alla creazione dell'Unione sudafricana che, oltre alla provincia del RAZZE, ETNIE E NAZIONI 413 Capo e alle repubbliche boere, comprendeva la colonia inglese del Natal. I Boeri, sconfitti militarmente, mantennero tuttavia nel nuovo stato una posizione di dominio e imposero una serie di misure legislative che, da un lato, riservavano alla popolazione bianca i posti di lavoro migliori nell'industria (soprattutto, mineraria), lasciando agli indiani, ai meticci e ai neri le mansioni più ingrate e faticose, e, dall'altro lato, confinavano la popolazione nera delle campagne in «riserve» a seconda dell'oriffine tribale. Come già era successo negli stati del sud degli Stati Uniti, la discri- A minazione di estendeva all'ambito religioso: i neri non erano ammessi a frequentare le funzioni nelle chiese dei bianchi e crearono proprie chiese (anch'esse nella tradizione del cristianesimo protestante) destinate a diventare in seguito centri attivi di formazione di una coscienza politica dei neri e di opposizione al regime defl'apartbeid. Anche se le sue origini risalgono alla schiavitù e alle varie forme di segregazione e discriminazione di cui abbiamo parlato, il regime dell'apartheid si instaura formalmente solo dopo il 1948, anno in cui prende il potere la corrente più radicale e conservatrice delle forze politiche espressione della minoranza bianca. La società dell'apartbeid è una società rigidamente gerarchizzata: al vertice vi è la popolazione bianca, composta, oltre che dai discendenti degli antichi coloni boeri e inglesi, da altri immigrati soprattutto tedeschi e ebrei e a sua volta articolata lungo linee di classe («benestanti» e «poveri»), seguono gli Indiani, i Malesi di Città del Capo (discendenti dagli antichi schiavi della Malesia), i meticci e gli altri neri. Al gradino più basso stanno i lavoratori neri immigrati dalle regioni settentrionali, gli eredi degli antichi Boscimani e Ottentotti. In regime di apartbeid, i diritti politici (ad esempio, di elettorato attivo e passivo) sono riservati alla minoranza bianca, vige una rigida discriminazione nell'accesso ai posti di lavoro, vi è segregazione nei luoghi e nei servizi pubblici (trasporti, scuole, bar, ristoranti, gabinetti, ecc.), e, inoltre, la popolazione nera è sottoposta a severe restrizioni che ne limitano la stessa mobilità geografica. In diretta continuità con la tradizione schiavistica, ai neri era fatto obbligo di portare sempre con sé un passaporto affinché ne potesse essere riconosciuta la provenienza e quindi il luogo della residenza coatta. In breve, una minoranza bianca (nel 1990 di circa 5 milioni) dispone di tutti i diritti e i privilegi, mentre la maggioranza di neri (28 milioni) è sfruttata e oppressa. Non c'è bisogno di ricordare che questo regime suscitò all'esterno forti reazioni nell'opinione pubblica internazionale e, all'interno, movimenti di resistenza e di opposizione della popolazione nera. Le reazioni esterne culminarono nel crescente isolamento internazionale del governo di Pretoria e nelle sanzioni contro A Sudafrica deliberate dall'Assemblea delle Nazioni Unite (peraltro di dubbia efficacia in quanto non intaccavano il settore cruciale del commercio dell'oro e dei diamanti). Le reazioni interne, portarono a rivolte nei ghetti neri (dura414 CAPITOLO 15 mente represse in una lunga serie di eccidi e di massacri), e, soprattutto, alla diffusione e al rafforzamento di un grande movimento nero, l'Affican National Congress, che divenne il portavoce della maggioranza nera sia a livello internazionale, sia nei confronti delle correnti liberali che all'interno della minoranza bianca spingevano per porre fine all'apartheid. A parte le pressioni internazionali e la crescita del movimento nero di opposizione, altri fattori contribuirono a mettere in crisi il regime dell'apartheid. Tra questi fattori, due meritano di essere menzionati. In primo luogo, l'impossibilità di trasmettere intatte alle nuove generazioni le tradizioni arcaiche di una società di coloni; in effetti, molti giovani sudafricani bianchi erano esposti attraverso viaggi e studi all'influenza delle idee democratiche dell'Occidente, nonché alla penetrazione delle idee socialiste e marxiste; la compattezza del fronte segregazionista era quindi minacciata anche dall'interno. In secondo luogo, l'esperienza del paese confinante della ex Rodhesia che, ottenuta l'indipendenza dalla Gran Bretagna e trasformatasi in Zimbabwe, aveva dimostrato come non fosse impossibile la convivenza pacifica di una minoranza bianca e di una maggioranza nera. Con il repentino e largamente inatteso cambiamento di rotta del presidente de Pagina 241
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Klerk, con la liberazione (dopo 23 anni di prigione) del leader dell'Alfrican National Congress Nelson Mandela, avvenuta nel 1990, con le prime elezioni libere fondate sul principio one man one vote e con la successiva elezione dello stesso Mandela a presidente, il Sudafrica ha voltato pagina, posto fine ad uno dei regnine più totalitari e repressivi che la storia moderna ricordi e iniziato uno degli esperimenti sociali più grandiosi del nostro tempo: la convivenza pacifica, su un piano di parità, tra popolazioni che per secoli sono state legate soltanto da un rapporto di sfruttamento e di oppressione. t ancora presto per dire se e in che misura questo esperimento avrà successo, anche perché le fazioni estremiste sia della minoranza bianca, sia della maggioranza nera, sono tutt'altro che inoffensive e restano tuttora sul piede di guerra. Se dovesse riuscire, però, dal Sudafrica verrebbe, dopo tanti anni in cui questo paese è stato il simbolo della violenza istituzionalizzata, un insegnamento per l'intera umanità. 3.4. L'immigrazione verso i paesi europei e l'Italia in particolare Gli esempi che abbiamo appena visto, quello degli Stati Uniti e del Sudafrica, sono casi in cui gli europei sono emigrati dai loro paesi per colonizzarne altri e in questo processo hanno dovuto fare i conti, nel primo caso con una minoranza, nel secondo caso con una maggioranza, di appartenenti a razze e culture diverse. In realtà, con la parziale eccezione dell'Asia, tutti i continenti hanno visto una massiccia penetrazione di immigrati europei, dall'America del Nord all'America RAZZE, ETNIE E NAZIONI 415 Latina, dall'Africa all'Australia. Ma l'intero globo è percorso da continue migrazioni spinte sia da processi di espulsione dalle zone di provenienza (in genere da un'eccedenza tra popolazione e risorse locali), sia da processi di attrazione verso le zone di destinazione dove si spera di trovare opportunità e condizioni di vita migliori. Con la fine delle ondate migratorie dei primi decenni del secolo e con la conclusione del processo di decolonizzazione negli anni sessanta, l'Europa ha cessato di essere area di emigrazione e si è trasformata in area di immigrazione. In un primo tempo i flussi migratori si sono diretti soprattutto dalle ex colonie verso le ex potenze coloniali (Gran Bretagna, Francia, e, in parte, Portogallo, Belgio e Olanda), in seguito, dalla metà degli anni ottanta, i flussi si sono rivolti anche verso paesi, come la Germania e l'Italia, senza connessione con il loro passato coloniale. Due fattori di ordine strutturale sono all'origine di questa più recente corrente migratoria verso l'Europa: l'esplosione demografica in molti paesi del cosiddetto Terzo mondo, che ha rotto un già precario equilibrio tra popolazione e risorse, e lo straordinario periodo di sviluppo delle economie dei paesi dell'Europa occidentale, la cui opulenza esercita una forte attrazione per tutti coloro che sono afflitti dalla miseria e dalla fame. Se ai flussi migratori provenienti dai paesi del Terzo mondo aggiungiamo le migrazioni interne tra gli stessi paesi dell'Europa occidentale - soprattutto, dai paesi mediterranei verso quelli del nord - sviluppatesi negli anni sessanta e settanta, e le più recenti migrazioni verso Occidente provenienti dai paesi dell'Europa centrale e orientale, ci rendiamo conto che ogni paese dell'Europa occidentale ha oggi una popolazione composita, in cui coloro che vivono e lavorano in un paese diverso da quello nel quale sono nati sono diventati una cospicua minoranza. In Svizzera è in questa condizione circa un abitante su cinque (18%), in paesi come la Germania, la Francia, il Belgio e il Regno Unito la percentuale si aggira in media intorno al 6%, mentre per l'Italia - il paese che per ultimo si è affacciato sul fronte dell'immigrazione - la presenza di stranieri è stii-nata al massimo intorno al 2% della popolazione residente. 1 paesi dell'Europa occidentale stanno quindi diventando società multietniche e multirazziali? La risposta da dare a questa domanda è positiva, poiché è possibile prevedere che si manterranno nel prossimo futuro forti differenziali, soprattutto nei confronti dei paesi africani, sia di sviluppo economico sia di sviluppo demografico. Dovremo quindi imparare a convivere con persone che hanno alle spalle una storia diversa, che parlano lingue diverse, che hanno stili di vita e abitudini che non ci risultano familiari. Non dobbiamo farci illusioni, i fenomeni migratori tendono invariabilmente a produrre tensioni e conflitti. Già vediamo come nelle nostre società si generino episodi di intolleranza, talvolta anche veri e propri episodi di violenza, come si affermino in strati dell'opinione pubblica atteggiamenti ostili alla presenza di straMovimenti nugraton Pagina 242
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Sodetà Muffietniche e mwuruáá 416 CAPITOLO 15 nieri, come si diffondano pregiudizi, come si sviluppino movimenti (e ,in certi casi anche partiti politici) che fanno della lotta all'immigrazione una loro bandiera. Di fronte a queste tensioni, i paesi dell'Unione europea hanno adottato negli ultimi anni politiche di contenimento e di controllo tendenti a porre un freno all'immigrazione. Tuttavia, tali politiche devono essere viste nell'ambito del contesto specifico che ha caratterizzato la storia delle migrazioni in ogni singolo paese. Vi sono paesi - come la Francia, il Regno Unito e la Germania che hanno una storia più lunga di immigrazione e una presenza più consistente di minoranze etnico-razziali e altri, come l'Italia, dove Fimmigrazione è un fenomeno recente e la presenza di stranieri ancora esigua. In Francia le politiche nei confronti degli immigrati hanno da tempo puntato alla loro assimilazione alla cultura francese: gli immigrati, indipendentemente dalla loro origine, dovevano diventare dei «francesi» a tutti gli effetti, fare propria cioè la cultura dominante. Nel Regno Unito, invece, al riconoscimento dei diritti politici (facilitato dal fatto che gli immigrati erano già in prevalenza cittadini del Commonwealth) si è accompagnata una segmentazione subculturale che ha garantito la sopravvivenza di molti tratti delle culture d'origine. In Germania, invece, l'immigrato è stato prevalentemente trattato come Gastarbeiter (lavoratore-ospite) al quale garantire un lavoro, e le connesse prestazioni sociali, assistenziali e sanitarie, e un'abitazione, senza intenzione di integrarlo in modo permanente nella società tedesca. Di fatto, però, molti Gastarbeiter si sono stabilizzati, soprattutto quando i loro figli hanno frequentato scuole tedesche, anche se prevedono di tornare in patria al raggiungimento dell'età di pensionamento. Nello studio dei fenomeni migratorì, infatti, una distinzione importante è tra migrazioni temporanee e migrazioni permanenti. Molto spesso gli immigrati partono dal loro paese con un progetto temporaneo, pensano cioè di ritornare non appena guadagnata una somma sufficiente per poter vivere dignitosamente nel paese d'origine. Col tempo, tuttavia, l'iniziale progetto temporaneo si trasforma in molti casi in una permanenza stabile nel paese di arrivo, soprattutto se si tratta di emigrati con la famiglia e i cui figli si sono integrati nella nuova società. In Italia il fenomeno dell'immigrazione è stato per lo più inatteso e ha colto di sorpresa sia le autorità sia l'opinione pubblica. Per quasi un secolo, fino alla fine degli anni sessanta, l'Italia era stato un paese di emigrazione (verso le Americhe, l'Australia, il Nord Europa). La posizione geografica nel mezzo del Mediterraneo, la relativa permeabilità dei confini, la consistenza di un'economia informale capace di assorbire senza difficoltà forza lavoro irregolare, l'immagine di benessere trasmessa dai media (facilmente captati sull'altra sponda del Mediterraneo) hanno fatto dell'Italia dalla fine degli anni settanta in poi un polo di attrazione per correnti migratorie provenienti in gran parte dall'Africa (ca. 60%), dall'Asia (ca. 25%) e dall'Europa dell'Est (ca. RAZZE, ETNIE E NAZIONI 417 10%) 1 dati ufficiali danno al 1990 la presenza di circa 800.000 stranieri, di cui l'80% proveniente da paesi «extracomunitari», ma - secondo l'Istat - la presenza di immigrati non regolarizzati dovrebbe far salire questa cifra a circa 1,4 milioni. Le leggi del 1986 e del 1990 che prevedevano una «sanatoria» per gli immigrati «dandestini» sono state solo parzialmente efficaci, se la cifra complessiva di «regolarizzati» non supera 300.000. Il numero di immigrati in Italia appare, comunque, relativamente modesto in confronto ai paesi europei sopra menzionati, ma è sufficiente tuttavia per suscitare allarme, soprattutto in quegli strati della popolazione che hanno più probabilità di venire a contatto con la fascia più diseredata e precaria della popolazione di immigrati: i «clandestini» che si insediano in abitazioni di fortuna nelle periferie delle grandi città e che sopravvivono con occupazioni del tutto precarie (lavavetri, ambulanti, per non parlare di spacciatori e prostitute) Si innesca così il tipico meccanismo del pregiudizio: all'insieme degli immigrati vengono applicati gli stereotipi costruiti in riferimento alla sottoclasse degli stessi caratterizzata da maggiore visibilità e ci si dimentica che moltissimi immigrati hanno ormai un lavoro regolare, pagano regolarmente tasse e contributi previdenziali e forniscono col loro lavoro un apporto non trascurabile all'economia nazionale. In varie zone e settori la forza lavoro Pagina 243
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt immigrata è ormai indispensabile per far funzionare le aziende che la impiegano. Molti si chiedono come mai un paese come l'Italia, che ha una quota consistente di disoccupati, dia lavoro a diverse centinaia di migliaia di immigrati. In realtà, la forza lavoro immigrata è solo marginalmente concorrenziale con la forza lavoro disoccupata locale. Nella maggior parte dei casi, gli immigrati occupano posti di lavoro per i quali l'offerta di lavoro locale è inesistente o comunque carente. Questo fatto, tuttavia, stenta a penetrare nelle opinioni della gente e molti ritengono che gli immigrati «portino via» posti di lavoro ai disoccupati locali (v. cap. XIX). Nonostante la minore incidenza quantitativa del fenomeno miggratorio rispetto agli altri paesi europei, anche in Italia, come altrove, gli immigrati (soprattutto africani) incontrano atteggiamenti ostili in una quota non trascurabile della popolazione. Recenti indagini sulla popolazione giovanile condotte in Italia e in Germania mostrano grosso modo la stessa quota (ca. il 15 %) di giovani che manifestano forte ostilità verso gli stranieri. L'aver fornito al resto del mondo una massa considerevole di immigrati (attualmente, più di 5 milioni di cittadini italiani risiedono all'estero), non è un vaccino efficace contro i sentimenti xenofobi. 418 CAPITOLO 15 4. Etnie e nazioni 19 concetto di razza, come abbiamo visto, fa riferimento a differenze somatiche che si trasmettono geneticamente di generazione in generazione, A concetto di etnia rimanda invece a differenze di ordine culturale che si trasmettono anch'esse di generazione in generazione, attraverso, però, i meccanismi della trasmissione culturale. Al centro del concetto di etnia vi sono i miti, le memorie, i valori e i simboli che identificano una popolazione e la differenziano dalle altre. Si possono dare varie definizioni del concetto e varie interpretazioni del fenomeno, tuttavia, vi sono alcuni elementi che ricorrono sempre (o quasi) nelle varie definizioni. Elencando tali elementi, possiamo dire che vi è un'etnia, o un gruppo etnico, quando: 1) i membri di un gruppo designano se stessi, e sono designati da altri, mediante un nome che li contraddistingue; 2) si è prodotto il mito di una comune origine o discendenza; 3) si è creata una comunità che condivide certe memorie comuni (tradizioni) e vi è chi si preoccupa di trasmetterle alle generazioni future; 4) vi è una cultura condivisa (fatta di linguaggio, credenze religiose, costumi, forme di alimentazione, espressioni artistiche e letterarie, ecc.) che presenta caratteri distintivi rispetto alle popolazioni geograficamente vicine; 5) vi è un territorio (o, in certi casi, soltanto un luogo simbolico) che i membri del gruppo considerano «proprio» per diritto storico anche quando vivono dispersi o separati; 6) si sviluppa un sentimento di solidarietà particolaristico tra i membri del gruppo che non si estende ai membri di altri gruppi [Smith 19861. Nella definizione di etnia non compaiono necessariamente elementi che riguardano l'organizzazione politica, un'etnia, cioè, può, ma può anche non avere una propria organizzazione politica corrispondente. Gli elementi che costituiscono un'etnia, per quanto persistenti, si modificano nel tempo per effetto di fattori sia endogeni che esogeni che possono rafforzarne o indebolirne la coesione, condurre alla sopravvivenza o all'estinzione dell'etnia stessa. Fattori endogeni sono, ad esempio, la presenza o l'assenza di una éhte letterata (scribi, sacerdoti, intellettuali) che curano la conservazione e la trasmissione delle tradizioni etniche, oppure la presenza di conflitti interni di natura religiosa, politica o sociale, che minano la solidarietà, anteponendo all'appartenenza etnica altri tipi di appartenenza (di culto, di classe, di partito). Fattori esogeni sono il contatto con culture etniche vicine dalle quali ci si riesce a differenziare, oppure dalle quali ci si lascia assimilare, oppure, ancora, lo stato di guerra con etnie vicine e nemiche (con i relativi miti e leggende di eroi) che, se da un lato portano al rafforzamento del sentimento di appartenenza e al mantenimento dell'identità etnica, dall'altro lato possono condurre all'etnocidio o al genocidio, quando l'etnia vinta viene annientata dai vincitori. Nel lessico delle scienze sociali (e anche nel linguaggio comune) vi è spesso confusione tra il concetto di etnia, o gruppo etnico, e i concetti di nazionalità e di nazione. Le ragioni di questa confusione di- Concetto pendono dal fatto che gli stessi termini vengono usati con significati diversi. Si Pagina 244
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt possono distinguere due significati sostanzialmente diversi a seconda del rapporto che si instaura tra etnia, nazione e comunità politica (stato nazionale). Nel primo caso, il concetto di nazione designa una collettività (un popolo) che si richiama a una discendenza comune, ai vincoli creati dalla lingua, dai costumi e dalle tradizioni comuni e che, in virtù di tale comunanza, rivendica a sé il diritto di organizzarsi, su un dato territorio, in forma di stato sovrano. In questo caso, la nazione si fonda sull'etnia ed entrambe, etnia e nazione, precedono la formazione dello «stato nazione». In altre parole, la nazione nasce attraverso la mobilitazione dei sentimenti di appartenenza etnica in vista della fondazione di uno stato. Nel secondo caso, invece, il concetto di nazione designa una collettività di cittadini che hanno comuni diritti e doveri nell'ambito di uno stato territoriale. In questo caso lo stato precede la formazione della nazione e questa può essere composta anche da etnie differenti. Appare evidente che questi due concetti di nazione rimandano ai diversi processi di formazione degli stati nazionali. Alcuni stati nazionali sono nati dalla trasformazione di stati dinastici preesistenti per effetto di processi di modernizzazione che hanno coinvolto le varie sfere della vita sociale (economica, politica, amministrativa, militare, educativa); come principio di legittimazione la nazione si è sostituita agli antichi principi dinastici, sia nella forma democratica dei diritti di cittadinanza, sia in forme plebiscitarie o totalitarie. t questo il caso della Francia, della Gran Bretagna, della Spagna, dell'Olanda, della Svezia, della Russia, ecc. La nazione si è formata o perché un'etnia è diventata dominante o perché si è formata una coscienza nazionale che ha messo in secondo piano le varie etnie o nazionalità preesistenti sul territorio, le quali sono state a seconda dei casi cancellate, oppresse, oppure mantenute in posizione subordinata o garantite da statuti di autonomia. Si pensi al caso degli Occitani o dei Bretoni in Francia, degli Scozzesi e dei Gallesi in Gran Bretagna, dei Catalani e dei Baschi in Spagna, dei Finlandesi o degli Esquimesi in Svezia. Altri stati nazionali sono nati dalla disgregazione di stati dinastici, imperi o federazioni multinazionali attraverso la rivendicazione di gruppi etnici (o, più precisamente, delle loro élite politiche e intellettuali) di darsi un'organizz azione statuale: si pensi agli stati nati dalla disgregazione dell'impero asburgico e, più di recente, dalla disgregazione dell'Unione Sovietica, della Cecoslovacchia, della federazione jugoslava. In questi casi gli stati nazionali nascono sulla base di un'etnia preesistente. 420 CAPITOLO 15 La Germania e l'Italia, infine, rappresentano dei casi particolari di formazione dello stato nazionale, il quale risulta dall'unificazione di una pluralità di stati regionali sotto la spinta egemonica di uno di essi (il Piemonte nel caso dell'Italia, la Prussia nel caso della Germania) Anche in questi casi la nazione (intesa come area culturale) preesiste allo stato, ma si tratta di una formazione debole, in quanto risulta frammentata in una pluralità di culture regionali, che possono essere considerate come delle micronazionalità o delle microetnie. La formazione di una coscienza nazionale capace di superare i particolarismi regionali ha richiesto, sia nel caso dell'Italia che nel caso della Germania, un'intensa opera di indottrinamento da parte dello stato, realizzata prevalentemente attraverso le istituzioni della scuola pubblica e della leva militare. La Germania, peraltro, anche dopo la riunificazione del 1990, non comprende tutte le popolazioni dell'area linguistica tedesca: Svizzeri Tedeschi e Austriaci sono cittadini di altri stati che, a loro volta, hanno sviluppato un proprio sentimento nazionale. Per quanto riguarda l'Italia, quando Massimo D'Azeglio disse che una volta fatta l'Italia bisognava fare gli Italiani, indicava proprio A fatto che la nazione, intesa come coscienza di appartenere ad una collettività, è, almeno in certi casi, il prodotto dello stato nazionale e non viceversa. Vi è, infine, il caso di quegli stati nei quali si sviluppa una coscienza nazionale (la consapevolezza di appartenere a una «nazione») sulla base, tuttavia, di una pluralità di origini etniche e di nazionalità. Si tratta di stati a base multietnica e multinazionale. 5. Verso società e stati multietnici e multinazionali? Vi sono nel mondo moderno vari esempi di stati multietnici e multinazionali. Prendiamo il caso degli Stati Uniti, un paese che si è formato attraverso successive ondate di immigrazione di popolazioni di varie razze, etnie, culture e religioni. Non c'è dubbio che la grande maggioranza degli abitanti degli Stati Uniti si sentano oggi appartenenti alla «nazione americana», nonostante le loro Pagina 245
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt diverse origini e nonostante il fatto che alcuni tratti delle loro culture d'origine si mantengano anche dopo varie generazioni. La nazione in questo caso manca di qualsiasi fondamento etnico, ma non è per questo meno solida; la nazione americana ha i suoi miti, le sue memorie, i suoi eroi, i suoi simboli (la bandiera, l'inno nazionale) e sviluppa comunque tra i suoi membri un forte sentimento di appartenenza al quale si sentono estranei forse soltanto gli «indiani», vale a dire i discendenti degli antichi abitanti del continente nordamericano. Molto simile, da questo punto di vista, è il caso dell'Australia. Anche qui si tratta di una popolazione molto eterogenea per religione, origine etnica e nazionalità, dove la popolazione degli Aborigeni è confinata in territori sperduti, quasi desertici, praticamente isolati dal resto del paese. RAZZE, ETNIE E NAZIONI 421 Anche gli Svizzeri hanno una forte coscienza nazionale, la confederazione dei 20 cantoni ha sviluppato a tal punto il senso della propria indipendenza da rifiutare qualsiasi alleanza o legame internazionale, eppure è composta da gruppi etnico-linguistici diversi i quali, all'interno della confederazione godono di una estesa autonomia che difendono gelosamente. La Svizzera è una piccola Europa in miniatura con una maggioranza tedesca, una cospicua minoranza francese, una più piccola minoranza italiana e una minoranza ancor più piccola di lingua romancia e a nessuno Svizzero verrebbe in mente di chiedere l'annessione alla Germania, alla Francia o all'Italia. Lo stato multietnico e multinazionale più grande nel mondo attuale è senz'altro l'India. In India convivono una pluralità incredibile di gruppi etnici, linguistici e religiosi. Su una popolazione di circa 850 milioni di abitanti si contano almeno 225 gruppi linguistici e circa 1.500 lingue tra le quali l'hindi è parlato da circa 300 milioni di persone, ma altre lingue (il telugu, il bengali, il marathi e il tamil) sono parlate ciascuna da più di 50 milioni. Di fronte a questa straordinaria varietà le tensioni e i conflitti risultano tutto sommato localizzati negli scontri tra Hindu e Sik nella regione del Punjab e tra Hindu e Mussulmani nella regione del Kashmir. La piccola Svizzera e la grande India sono esempi della possibilità di organizzazioni statuali profondamente eterogenee al loro interno dal punto di vista etnico, linguistico e religioso. Altri esempi sembrano indicare nella direzione contraria. Anche la Spagna, il Belgio e il Canada sono stati multietnici o multinazionali. Tuttavia, a differenza della Svizzera, in questi stati si sono sviluppati movimenti separatisti che intendono rompere il patto di convivenza che h lega in un'entità statuale comune. Almeno fino ad ora, però, le tendenze centrifughe sono state efficacemente controllate dalle tendenze centripete. Lo stesso non è avvenuto nella ex Cecoslovacchia, nella ex Jugoslavia e nella ex Unione Sovietica dove, sulla base del principio che ad ogni nazionalità debba corrispondere uno stato, sono nati dal 1990 in poi una miriade di nuove entità statali, ognuna delle quali rivendica la sovranità su un determinato territorio. La storia ha tuttavia prodotto nel tempo un tale intarsio di gruppi etnici e di nazionalità (soprattutto, ma non solo, nell'area balcanica) che ogni tentativo di tracciare un confine produce più o meno cospicue minoranze e quindi guerre, deportazioni e operazioni brutali di «pulizia etnica» Questi fenomeni non sono nuovi nella storia. Ogni stato nazionale europeo ha le sue minoranze e quando a queste non viene garantito uno statuto di autonomia che ne assicuri la sopravvivenza culturale, o vengono di fatto assimilate o annientate, oppure deportate dai territori dove magari vivevano da secoli. 19 principio dello stato nazionale è quanto mai impietoso con le minoranze. Alla fine della I guerra mondiale, ad esempio, il territorio dell'allora regno di Ungheria fu drasticamente ridotto e ben 4 milioni di ungheresi restarono nelle attuali Slovacchia, Romania, 422 CAPITOLO 15 Ucraina, Serbia, Croazia e Slovenia. Lo stesso successe agli abitanti del Sudtirolo. Alla fine della Il guerra mondiale ben dodici milioni di tedeschi dovettero abbandonare le regioni del Volga, della Transilvania, dei Sudeti, della Prussia orientale, della Pomerania, della Slesia e del Baltico. Lo stesso successe agli italiani dell'Istria e della Dalmazia. Ma è proprio impossibile, ci si può chiedere, la convivenza sullo stesso territorio tra popolazioni diverse per razza, etnia o cultura, sotto una legge comune che assicuri a tutti gli stessi diritti di cittadinanza e alle minoranze il diritto di sopravvivere e di conservare e trasmettere alle generazioni future il proprio patrimonio culturale, cioè la propria lingua, la propria fede, le Pagina 246
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt proprie usanze? Questo sarà probabilmente uno dei grandi interrogativi del terzo millennio. Il tentativo di creare in Europa, cioè sul terreno dove storicamente si sono verificati i più aspri conflitti etnico-nazionali degli ultimi due secoli, un'entità statale multinazionale, lascia sperare che a questo interrogativo si possa dare una risposta positiva. La riproduzione della società i Capitolo 16 Nella sua Autobiografia, il conte Monaldo Leopardi ricordava che, quando aveva diciotto anni, la sua «famiglia» era composta da lui e da altre dodici persone con le quali viveva «in casa e ad una mensa»: la madre, quattro zii, un fratello e una sorella, un prozio canonico, due istitutori, un cappellano e un altro canonico. Due secoli e mezzo prima, nella sua Descrittione del Regno di Napoli [16011, Scipione Mazzella scriveva che «famiglia altro non è eccetto che un ordine di discendenza, la quale traliendo una persona principio, e ne figliuoli, e da figliuoli a nepoti, e così per conseguente da nepoti a pronipoti ampliandosi, costituisce una famiglia, o per dir più chiaramente un parentado ... ». Soprattutto quando parlano dei paesi occidentali, gli studiosi di scienze sociali di oggi usano fl termine famiglia nello stesso modo di Monaldo Leopardi, per indicare cioè quell'insieme di persone unite fra loro da legami di parentela, di affetto, di servizio o di ospitalità che vivono insieme sotto lo stesso tetto. t quella che l'Istat definisce «famiglia di censimento», i francesi menage, gli inglesi bousebold e che negli antichi stati preunitari italiani veniva chiamato «fuoco». Gli studiosi di scienze sociali usano invece il termine parentela per definire il gruppo descritto da Scipione Mazzella, cioè tutti coloro che, sia che convivano o no, sono legati da vincoli di filiazione, matrimonio e adozione. l. Parentela e discendenza Gli antropologi distinguono due sistemi principali di discendenza: cognatico e unilineare. Nel sistema cognatico, che è quello che domina oggi nei paesi occidentali, il gruppo di parentela (chiamato parentado) Discendenza cognatica 426 CAPITOLO 16 Discendenza patrilineare Discendenza matrilineare Z@ = 0-"=0 SP FP P M A=* à=0 sm FM @ @=,O 0 S EGO EG F S k@ W-LI N N Legenda: A Maschio; Fa F@, Femmina; = Sposato con; Discendente da; Frateflo/sorella di. F è il fratello di EGO, S la sorella, P il padre, M la madre, FP il fratello del padre, SP la sorella del padre, SM la sorella della madre, FM il fratello della madre, F, il figlio e F, la figlia, N il o la nipote. FIC,, 16.1. Diagrami di discendenzapatrìì.incare o matrdincare. Discendenza unibneare Discendenza pgrilineare Discendenza matrilineare è formato da tutti i discendenti di una persona sia attraverso la linea maschile che quella femminile. Nel sistema unilineare, invece, il gruppo di parentela è formato da tutti coloro che discendono da un antenato comune esclusivamente attraverso la linea maschile o quella femminfle. Si parla di clan quando il capostipite di questo gruppo è mitico o fittizio, di lignaggio quando invece è genealogicamente dimostrabile e non presupposto miticamente. Un gruppo di discendenza è detto patrilineare quando l'anello di congiunzione è solo maschile (e le relazioni sono dette agnatiche) Ciò non significa che di questo gruppo facciano parte solo uomini, ma semplicemente che nella definizione delle relazioni di parentela contano solo le linee maschili. Così, ad esempio, Pagina 247
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt appartengono ad un gruppo di discendenza patrilineare un antenato maschio, i suoi figli e le sue figlie, i figli e le figlie dei suoi figli (ma non quelli delle figlie, che rientrano nei gruppi dei loro mariti), il padre, il fratello e la sorella di questo (fig. 16.1). Si parla invece di rapporti di discendenza matrilineare quando l'anello di congiunzione è esclusivamente femminile (e le relazioni sono dette uterine) In questo caso, una persona appartiene al clan della madre, non del padre. Fra i suoi parenti vi sono la madre, con i suoi fratelli e le sue sorelle, i figli e le figlie della sorella della madre, i fratelli e le sorelle, i figli e le figlie di queste ultime (fig. 16. 1). La trasmissione dei beni e dei principali ruoli sociali ha luogo fra il fratello della madre e i figli di quest'ultima. La figura maschile di maggior rilievo è infatti quella del fratello della madre. E marito di quest'ultima FAMIGLIA E MATMMONIO 427 ha in questo gruppo di discendenza solo la funzione di procreatore. Come zio materno invece il suo potere si estende a tutto il matrilignaggio (della sorella) del quale è capo. Fra il parentado dei paesi occidentali e i gruppi di parentela a discendenza unilineare di molte società preindustriali vi sono altre, importanti differenze. Dall'appartenenza ad un gruppo di parentela unilineare derivano numerosi doveri, diritti e privilegi: il cognome di una persona, la sua posizione sociale, la proprietà, la possibilità di sposarsi all'interno o all'esterno del gruppo. E clan è infatti un'entità collettiva, i cui membri possiedono terre ed altri beni in comune, che sono solidali gli uni con gli altri e che agiscono insieme in molte occasioni: si scambiano ospitalità, si aiutano nei casi di conflitto contro esterni, partecipano insieme a vari riti. Completamente diversa è la natura del parentado delle società Parentado occidentali. Più che un gruppo stabile, esso è una rete di relazioni che si attiva in particolari situazioni. Non possiede beni collettivi, non prende decisioni, non svolge funzioni permanenti. E un insieme di persone dai confini non definiti una volta per sempre (perché alcuni parenti possono farne parte in certe occasioni e non in altre) alle quali ci si rivolge per avere aiuto di tipi psicologico e finanziario. Ciò non significa che anche il parentado delle società occidentali non abbia notevole rilievo. 1 sociologi hanno spesso commesso l'errore di sottovalutare la sua importanza, sostenendo che l'industrializzazione e l'urbanizzazione avevano messo in crisi i rapporti di parentela, rendendo la famiglia nucleare (cioè quella formata da marito e moglie, con o senza figli) sempre più isolata. Tuttavia le ricerche storiche e quelle sociologiche condotte negli ultimi trent'anni hanno messo in luce che questa tesi non trova conferma nella realtà. Dalle ricerche storiche è emerso che i flussi migratori che hanno avuto luogo nel corso dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione non solo non indeboliscono le relazioni di parentela, ma anzi sono possibili grazie ad esse. Le rete parentali hanno avuto infatti un'enorme importanza per richiamare nuove persone, organizzare i loro spostamenti, aiutarle ad adattarsi alla nuova situazione. Dalle ricerche sociologiche è risultato che in tutti i paesi occidentali la famiglia nucleare opera nell'ambito di una rete fitta e solida di rapporti e scambi fra parenti. 1 figli, quando si sposano, pur andando ad abitare per proprio conto, restano spesso molto vicino ai genitori. In Francia, ad esempio, circa il 35-40% dei figli adulti vive nello stesso comune dei genitori. In certe regioni italiane la prossimità residenziale fra i primi e i secondi è ancora maggiore. In Italia, nel 1993, la quota dei figli con oltre 25 anni che abita nello stesso comune dei genitori raggiunge il 69%. Anche dopo aver creato una nuova famiglia, i figli adulti continuano a vedere molto frequentemente i genitori. Negli anni cinquanta, quando i sociologi ritenevano che l'industrializzazione e l'urbanizzazio428 CAPITOLO 16 Matrdaterafità pataauT"> ne avessero indebolito i rapporti di parentela, provocando l'isolamento della famiglia nucleare, una ricerca mostrava che, nei quartieri operai di Londra, il 74 % dei figli adulti che avevano i genitori m vita li vedeva almeno una volta alla settimana [Young e Willmott 19571. Indagini condotte successivamente hanno trovato che, anche quando non raggiunge queste punte, l'interazione è molto Pagina 248
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt frequente. I figli adulti che vedono i genitori almeno una volta alla settimana sono il 45% nell'area di Boston, il 50% in Francia, addirittura l'80% in Emilia Romagna. Come si è detto, in tutti i paesi occidentali il sistema di parentela è, in via di principio, cognatico. Ma, nella realtà, vi sono delle differenze fra i vari paesi. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, come in certe zone dell'Italia (ad esempio la Sardegna) [Oppo 19911, vi è una tendenza alla matrilateralità, cioè a mantenere legami più stretti con i parenti della moglie che con quelli del marito, a scambiare più frequentemente visite e aiuti di vario tipo con i genitori di lei che con quelli di lui. In altre zone, come ad esempio nel Veneto o in Emilia Romagna, vi è stata invece a lungo una tendenza alla patrilateralità, cioè ad avere più contatti con i parenti della linea maschile che con quelli della linea femminile. Esogamia Tabù deffincesto 2. Esogamia ed endogamia Vi è un'altra importante distinzione, introdotta dagli antropologi, che è necessario aver presente: quella fra endogamia ed esogamia. Si usa A primo termine (da endo, dentro, e gamos, matrimonio) per indicare le norme sociali che prescrivono la scelta del coniuge all'interno di un gruppo, il secondo (da ex, fuori, e gamos) per riferirsi invece alle norme che vietano di sposarsi con una persona dello stesso gruppo. Questi due termini dovrebbero essere però sempre usati in riferimento ad un gruppo ben definito: il nucleo familiare, un clan o un lignaggio, un villaggio, un gruppo religioso, una casta. La norma che i membri dello stesso nucleo familiare devono sposarsi aTesterno cioè esogamicamente - è ampiamente diffusa. Nelle società occidentali, le relazioni sessuali e i matrimoni fra sorella e fratello, madre e figlio e padre e figlia sono definiti incesto e condannati. Ma nelle società esistite nella storia dell'umanità vi sono state notevoli differenze riguardo alle categorie di consanguinei fra i quali il matrimonio non è consentito. Nessuna cultura tollera il matrimonio fra padre e figlia e fra madre e figlio. Quello invece fra fratello e sorella è stato ammesso e persino incoraggiato in alcune società, come l'antico Egitto. Cleopatra, ad esempio, regina d'Egitto, era il risultato di undici generazioni di concepimenti fra consanguinei stretti. E tabù dell'incesto è stato spiegato in diversi modi. Alcuni l'hanno ricondotto al fatto che le unioni fra consanguinei sono biologicamente pericolose perché generano figli con minori probabilità di sopravvivenFAMIGLIA E MATIUMONio 429 za. Altri hanno invece posto l'accento sui vantaggi sociali e culturali di questa forma di esogamia. E tabù dell'incesto, secondo questi studiosi, previene le rivalità e i conflitti all'interno della famiglia, perché il padre non deve entrare in competizione per un partner sessuale con i figli e la madre con le figlie; rafforza l'unione fra marito e moglie; cementa la società perché moltiplica i matrimoni fra non consaguinei. L'esogamia riguardo al clan, cioè la regola che ci si può sposare solo con una persona facente parte di un altro clan e dunque con un cognome diverso, esiste oggi solo in pochi paesi (ad esempio in quelli dell'Africa nera a sud del Sahara) Tale regola nasce probabilmente dall'esigenza di avere buoni rapporti con persone di altri clan, di sviluppare alleanze politiche o almeno di assicurarsi un'accoglienza pacifica. «Sono dei nemici, ci sposiamo con loro», dicono spesso i Luo del Kenia parlando di una tribù limitrofa [Evans-Pritchard 1973, 2281. E l'antropologo Tylor scriveva già nel secolo scorso: «Quante volte, nella storia dell'umanità, i popoli selvaggi si saranno visti chiaramente di fronte alla semplice alternativa tra prender moglie dall'altro o venir ucciso dall'altro» [18891. Due sono i casi più famosi di società nelle quali si pratica l'endo- Fnd~a gamia. Iff primo è quello dell'India dove le norme impongono di sposarsi con una persona della stessa casta, perché si ritiene che il contatto con le caste più basse sia ritualmente contaminante per le persone di quelle più alte. Iff secondo è quello dei paesi arabi, nei quali le norme prescrivono di sposarsi con un parente prossimo, possibilmente con il figlio dello zio paterno. La regola del matrimonio fra cugini paralleli patrilaterali è così coercitiva che il cugino può opporsi alla decisione della figlia dello zio paterno di sposare qualcun altro. La funzione di questa regola è probabilInente di evitare che una parte del patrimonio - l'eredità delle donne - esca fuori dal clan. t a causa di questa tradizione endogamica che ancor oggi, nei paesi arabi, si usa lo stesso termine Camm) per indicare sia il suocero che lo zio paterno, Pagina 249
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt mentre se ne impiega uno diverso (khal) per lo zio materno. 1 dati di cui disponiamo mostrano tuttavia che il matrimonio fra cugini paralleli e, più in generale, quello con parenti sono oggi molto meno diffusi di un tempo. Negli anni sessanta, a Bagdad, il 60% degli sciiti si sposava con un parente. Negli anni settanta, nel Libano, circa un terzo dei matrimoni sono avvenuti con parenti [Fargues 19881. 3. Monogamia e poligamia Oltre a chi si debba o si possa sposare, le norme sociali prescrivono anche quanti coniugi di possono avere. Si parla di monogamia quando non è permesso avere più di una moglie o di un marito per volta e di poligamia quando invece si può essere sposati nello stesso momento con due o più persone. Quando una donna ha due o più CAPITOLO 16 mariti si ha la poliandria, quando invece è un uomo ad avere due o più mogli si ha la poliginia. Poche sono le società che hanno conosciuto la poliandria. Le più note e studiate sono quelle del Tibet e dei Toda dell'India, dove è diffusa la famiglia poliandrica fraterna o adelfica, che si forma quando una donna sposa contemporaneamente due o più fratelli e va a vivere con loro. Una volta sposati, questi fratelli hanno gli stessi diritti coniugali e gli stessi obblighi. Devono tutti lavorare per sostenere i figli e la moglie, mentre quest'ultima deve svolgere i compiti domestici per tutti. Quanto al problema dei rapporti sessuali, la moglie trascorre a turno una notte con ciascuno dei fratelli. La poliginia ha avuto grande importanza fuori dal mondo occidentale. 1 dati raccolti, negli ultimi decenni, dagli antropologi su quasi 900 società umane mostrano che solo il 16% di queste segue esclusivamente il modello monogamico, mentre nell'82% è consentita la poligamia [Murdock 19491. Gli occidentali pensano che essa sia un'istituzione tipica del mondo arabo. «Sposa delle donne a tua scelta, due o tre o quattro», dice in effetti il Corano. Tuttavia oggi, in Tunisia, in Egitto, nel Marocco o in altri paesi arabi o nelle regioni mussulmane dell'Asia solo il 2 o 3 % degli uomini sposati ha più di una moglie. Si tratta in genere di coloro che occupano le posizioni sociali più elevate. La poliginia è invece ancora assai diffusa nei paesi dell'Africa nera (o a Sud del Sahara), dove negli ultimi vent'anni - stando alle ultime ricerche - non ha perso di importanza [Lesthaeghe 1989; Lauras-Locoh 19901. La quota degli uomini sposati che ha più di una moglie va dal 12 al 40% del totale, a seconda dei paesi. Essa è particolarmente alta nell'Africa occidentale (nel Gana, nel Senegal, nella Costa d'Avorio o in Nigeria) mentre è più bassa in quella orientale e centrale. t difficile dire a cosa sia dovuta la fortuna della poliginia. In Senegal si racconta questo piccolo mito sulla storia della sua origine. «Dio aveva creato la prima coppia. Diede subito dopo un secondo marito alla donna. Allora il primo cadde morto. Diede in seguito una seconda moglie all'uomo. AJJora la prima cadde (soltanto) svenuta» [Fainzang e journet 1988, 79-801. L'opinione pubblica dei paesi occidentali ritiene invece che la funzione principale della poliginia sia di offrire agli uomini una certa varietà sessuale. Gli antropologi hanno tuttavia messo in luce che ben altre sono le funzioni e le ragioni del successo della poliginia. Essa dà agli uomini dei vantaggi di carattere sia demografico che economico. Per un uomo dell'Africa nera sposare più donne significa avere più figli (con il prestigio che questo comporta) e poter disporre di più terra. In un sistema itinerante, in cui la coltivazione delle piante alimentari spetta alle donne, mentre l'abbattimento degli alberi per preparare nuovi appezzamenti di terra è compito dei giovani, l'uomo di una famiglia poliginica riesce a produrre molto più di quello che ha una sola moglie. D'altra parte, dovendo le mogli dedicarsi sia alla coltivazione che ai lavori domestici, una donna può essere favoreFAMIGLIA E MATRIMONIo 431 600 500 400 300 200 100 0 0 1óO 200 300 400 500 600 Uomini: Senza unione Una moghe ER Due mogli M Tre o più mogli Donne: = Senza unione =2 Prima unione M Seconda unione o più FIG. 16.2. Piramide delle età della popolazione di Petd Bande nel Senegal. Fonte: Pison [19881. vole all'arrivo di un'altra moglie, perché spera di poter ridurre a suo carico di lavoro. Ma come è possibile, dal punto di vista della composizione per sesso della Pagina 250
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt popolazione, che ogni uomo abbia più mogli? A questo interrogativo sono state fornite le risposte più bizzarre. Alcuni hanno sostenuto che questo si verifica solo laddove nascono più donne che uomini; altri che ad avere più mogli sono gli uomini più ricchi, mentre i più poveri ne restano privi; altri ancora che le società poligame prendono le donne dalle popolazioni vicine. Ma tutte queste tesi sono prive di fondamento. Ricerche recenti hanno mostrato invece che perché un uomo abbia più mogli sono necessarie due condizioni demografiche [Pison 19881. La prima condizione è che vi sia una forte differenza (circa lo anni) fra l'età al matrimonio degli uomini e quella delle donne. Ciò significa che queste ultime si sposano giovanissime (in media a 15 anni), mentre i primi lo fanno ad un'età più avanzata (verso 25). In questo modo, nella classe di età fra 10 e 20 anni, quasi la metà delle donne sono coniugate e quasi tutti gli uomini sono celibi. Nella classe di età successiva sono in stato di matrimonio tutte le donne e la metà degli uomini (fig. 16.2). Età al matrirnonio 432 CAPITOLO 16 Levirato L'altra condizione ha che fare con le seconde nozze. A causa della forte differenza di età al matrimonio fra uomini e donne e dell'alto tasso di mortalità di queste società, le mogli restano vedove molto presto. Inoltre, una parte rilevante delle coppie divorzia dopo i primi anni. Tutte le donne però si risposano e lo fanno quasi subito, cioè dopo quattro o cinque mesi dalla fine del primo matrimonio. In alcune zone vige la norma del levirato, che prevede il diritto-dovere da parte del fratello del morto di sposare la vedova di lui. 1 figli che avrà saranno considerati figli del defunto. Queste due condizioni hanno tre conseguenze importanti, che si possono vedere dalla fig. 16.2. La prima è che il numero di donne coniugate è molto maggiore di quello degli uomini nella stessa condizione. La seconda è che, nella popolazione maschile, al crescere dell'età aumenta la quota di coloro che hanno due o tre mogli. La terza è che, nella popolazione femminile, al crescere dell'età sale la quota delle spose di seconde nozze. Tipi di famiglia secondo Le Play 4. Tipi di famiglia monogamica Le prime indagini empiriche sulla famiglia in Europa sono state condotte da Frederic Le Play (1806-1882), un ingegnere metallurgico francese che ha dato un grande contributo allo sviluppo della ricerca sociale. Per analizzare la ricchissima documentazione raccolta, Le Play elaborò uno schema di classificazione che prevedeva tre tipi ideali di famiglia. La prima è la famiglia patriarcale, nella quale tutti i figli sposati convivono sotto lo stesso tetto con i genitori, sottoposti all'autorità del padre. La seconda è la famiglia instabile, caratterizzata dalla piena libertà di decisione dei figli, i quali, indipendentemente dal sesso e dall'ordine di nascita, appena raggiunta una certa età, lasciano la casa dei genitori e vanno ad abitare in una nuova, autonoma residenza. In una posizione intermedia rispetto a questi due tipi estremi vi è la famiglia ceppo, che si forma quando un solo figlio maschio, scelto dal padre, porta la moglie a casa dei genitori, mentre tutti gli altri ne escono se e quando si sposano. Questa tipologia si basa su vari criteri di classificazione. la primo è dato dall'autorità del pater familias, che è molto forte nella famiglia patriarcale, debole in quella instabile, intermedia in quella a ceppo. E secondo criterio è dato dalla regola di residenza dopo le nozze, cioè dalle norme che stabiliscono con quali persone devono andare a vivere gli sposi dopo le nozze. Oggi, antropologi e sociologi parlano di regola di residenza matrilocale quando il marito va ad abitare con i genitori della moglie e patrilocale quando invece è la seconda che si trasferisce nella famiglia del primo. La regola di residenza è bilocale quando i due coniugi possono scegliere se andare ad abitare con i genitori di lui o quelli di lei. Se ci FAMIGLIA E MATMMONio 433 Nticleare Nucleare Mcompleta senza sirtititira Collitiglile Estesa Multipla verticale (a ceppo) Multipla orizzontale Fm, 16..3.. Tdeogrammi che rappresentano la tipologia di famiglia di P. Laslett. Pagina 251
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Fonte: Laslett [1.972.1. si attende che i due coniugi risiedano nella famiglia dello zio materno del marito si ha la soluzione avunculocale. Se infine si preferisce che marito e moglie mettano su casa per proprio conto, allora si ha la regola di residenza neolocale. Ora è evidente che si ha la famiglia patriarcale quando tutti i figli seguono la regola patrilocale, si ha la famiglia instabile quando invece tutti si rifanno a quella neolocale, si ha infine la famiglia ceppo quando un figlio maschio segue la prima regola, tutti gli altri la seconda. Questa tipologia di Le Play è stata ripresa da alcuni sociologi del nostro secolo. Tuttavia, soprattutto nel corso degli anni cinquanta e sessanta vi è stata una notevole imprecisione terminologica e una certa confusione concettuale, nella letteratura scientifica, riguardo ai tipi di famiglia monogamica esistiti nelle varie società. Per fortuna però la situazione è cambiata nell'ultimo ventennio con l'affermarsi di una tipologia elaborata da Peter Laslett, che è ormai utilizzata da quasi tutti gli studiosi di scienze sociali (fig. 16.3). Essa classifica la famiglia in cinque tipi: nucleare, estesa, Multipla, senza struttura coniugale, solitario. Nucleare è detta la famiglia formata da una sola unità coniugale, sia questa completa (marito, moglie, con o senza figli) oppure incompleta (ad esempio, madre vedova con figli), detta anche monoparentale. Senza struttura è definita la famiglia priva di un'unità coniugale, formata cioè da persone con altri rapporti di parentela (ad esempio: fratelli non sposati). La famiglia del solitarìó è costituita da un'unica persona (con o senza servitori). Estesa viene chiamata la famiglia con una sola unità coniugale e uno o più parenti conviventi. A seconda del rapporto di questo con il capofamiglia si Tipì di fwniglia secondo Laslett 434 CAPITOLO 16 parla di estensione verticale (ad esempio: padre del capofamiglia) o orizzontale (ad esempio: il fratello) Multiple sono le famiglie con due o più unità coniugali. Anche qui, a seconda del legame esistente fra queste unità, si parla di multiple verticali (ad esempio: marito, moglie, figlio e moglie di quest'ultimo) o orizzontali (ad esempio: due o più fratelli che vivono con le rispettive mogli ed eventualmente figli). Per brevità, si parla infine di famiglie complesse quando si considerano insieme le estese e le multiple. Fra questa e la tipologia di Le Play vi sono delle somiglianze. La famiglia instabile è nucleare, quella a ceppo è multipla verticale, la patriarcale è multipla orizzontale e verticale. Tuttavia, uno dei meriti della tipologia di Laslett è di far riferimento solo alla regola di residenza dopo le nozze e alla composizione della famiglia e di non presupporre - come faceva Le Play - che vi fosse una relazione fra questi aspetti e le relazioni di autorità fra padri e figli. Ma, oltre che per la struttura, le famiglie possono essere distinte anche a seconda dei rapporti di autorità e di affetto esistenti fra coloro che ne fanno parte, dei modi con cui essi interagiscono e si trattano, dei sentimenti che provano l'uno per l'altro. Da questo punto di vista, si può contrapporre la famiglia patriarcale a quella coniugale intima. Per patriarcale si intende un tipo di famiglia che, quale che sia la sua struttura (multipla, estesa o nucleare), è caratterizzata da una rigida separazione dei ruoli fra i suoi membri, sulla base del sesso e dell'età, e da relazioni di autorità fra marito e moglie, genitori e figli, suocere e nuore, fortemente asimmetriche. In questo tipo di famiglia, inoltre, i genitori influiscono considerevolmente sulla scelta del coniuge e, anche dopo il matrimonio, il legame fra lo sposo e i genitori conserva una straordinaria importanza. Coniugale intima è invece definita quella famiglia che, quale che sia la sua struttura, presenta un sistema di ruoli più flessibile, meno legato al sesso e all'età, e in cui le relazioni di autorità sono più simmetriche. In questa famiglia, inoltre, la scelta del coniuge è più libera e il legame coniugale assume un'importanza maggiore di quello fra lo sposo e i suoi genitori. 5. Sistemi di formazione della famiglia In Romeo e Giulietta, William Shakespeare fa dire al padre di questa: «la mia bambina è ancora estranea al mondo. Non ha compiuto quattordici anni». «E allora pensiamo a queste nozze - aggiunge la madre, Madonna Capuleti --Ragazze, qui in Verona, pffi giovani di te, degne persone, sono già spose e madri: salvo errore, io ero già tua madre alla tua età e tu sei nubile ancora». Pagina 252
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt FAMIGLIA E MATRIMONIO 435 TAB. 16. 1. Percentuale di donne nubili a 25-29 anni e a 45-49 in Pari paesi nella prima metà del XX secolo Paese % Nubili 25-29 45-49 Paese 25-29 ubili 45-49 Austria (1901) 38 13 Romania (1899) 8 3 Belgio (1901) 41 17 Bulgaria (1900) 3 i Danimarca (1901) 42 13 URSS (1926) 9 4 Francia (1901) 30 12 Algeria (1948) 10 2 Germania (1901) 34 10 Tunisia (1946) 13 4 Olanda (1901) 44 14 Egitto (1947) 6 i Italia (1901) 30 i i Turchia (1935) 6 3 Portogallo (1901) 41 20 India (193 1) 2 i Svezia (1901) 52 19 Corea (1930) i o Svizzera (1901) 45 Pagina 253
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 436 CAPITOLO 16 riguardo all'età al matrimonio. In Europa, soprattutto in quella centrosettentrionale, le donne si sposavano molto più tardi che in Asia o in Africa. Le ricerche storiche hanno d'altra parte messo in luce che, per molto tempo, in Russia, in India, in Cina o in altri paesi asiatici, si seguiva il secondo sistema di formazione della famiglia. Le persone si sposavano giovanissime, senza andare a servizio, e formavano una famiglia multipla (spesso orizzontale). D'altra parte, in Inghilterra e in altri paesi dell'Europa nordoccidentale, almeno dal Cinquecento in poi, la grande maggioranza della popolazione ha sempre seguito la regola di residenza neolocale andando a vivere in una famiglia nucleare. Poiché seguire questa regola significava procurarsi i mezzi necessari per mettere su casa, la popolazione si sposava piuttosto tardi. Prima del matrimonio, una parte notevole di questa (almeno il 40%) andava a servizio in un'altra famiglia per procacciarsi le risorse necessarie per le nozze. Come vedremo nel cap. XXII, questo sistema di formazione della famiglia ha avuto grande importanza anche per l'andamento della fecondità. Altri dati non possono essere interpretati con lo schema di Hajnal. Lo si può dire di quanto si sa del Giappone, che probabilmente, a differenza degli altri paesi asiatici, non seguiva il secondo sistema di formazione della famiglia. Anche in Giappone, come in India e in Cina, si sposavano tutti, ma in molte zone lo facevano più tardi. Diversa era anche la struttura della famiglia. Mentre in Cina e in India dominava la famiglia multipla al tempo stesso orizzontale e verticale, perché vi era il costume che tutti i figli maschi portassero la moglie nella casa dei genitori, in Giappone era molto diffusa la famiglia multipla verticale (o a ceppo), perché l'uso prevalente era che solo uno dei figli restasse in famiglia con la moglie. Per quanto riguarda l'Italia, se andiamo indietro nel tempo troviamo sia il primo che il secondo dei due sistemi di formazione della famiglia. 19 primo, ad esempio, era seguito nei centri urbani, ma soprattutto in Sardegna. Nel Settecento, Antonio Bongino [19661 osservava che in quest'isola «l'uso ha stabilito che alcuno non si mariti se prima quanto ai maschi non sono provveduti di buoi ed attrezzi diversi [ ...1 e le femmine del letto e altri mobili e utensili familiari». Per procurarseli essi non avevano altro modo che quello «di prestare le loro opere servili mediante mercede» e di conseguenza non potevano «contrarre matrimonio che intorno all'età di anni 30». Il secondo metodo di formazione della famiglia era assai diffuso nelle campagne fiorentine del Quattrocento. Qui, nel 1427, la popolazione si sposava piuttosto presto (tab. 16.2). Prima di sposarsi, poche persone andavano a servizio in un'altra casa. E molte, dopo le nozze, seguivano la regola di residenza patrilocale e andavano a vivere in una famiglia multipla (tab. 16.3). Ma insieme a questi vi sono stati nel nostro paese altri due sistemi AB. 16.2. EW media al maffimonio delld popoJazion'e masebile e di quella femminile a Firenze e nel contado, nel corso dei XV secolo Firenze Contado 1427 1480 1427 1470 Uomini 30,3 31,4 Donne 17,6 20,8 Differenza 12,7 10,6 Fonte: Herlìhy e Klapisch-Zuber [19781. 25,7 27,7 18,4 21,0 7,3 6,7 Firenze Contado Solitari 20,3 10,9 Senza struttura 4,8 1,5 Nucleare 59,7 53,1 Estesa 7,4 Pagina 254
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 11,7 Multipla 7,8 22,8 Totale 100,0 100,0 Fonte: Herlihy e Klapisch-Zuber [19781. di formazione della famiglia. Il primo ha dominato per lungo tempo nell'Italia meridionale. In Sicilia - scriveva aH'inizio del secolo Giovanni Lorenzoni [19101 - l'età al matrimonio «preferita per l'uomo» era 28 anni, per la donna 18. «t raro assai - aggiungeva - che i giovani sposi coabitino coi genitori e suoceri. Di solito il figlio sposandosi esce di casa». E in effetti la popolazione femminile si sposava in giovanissima età. L'uso dei garzoni nelle famiglie agricole era sconosciuto. 1 due sposi seguivano la regola di residenza neolocale e mettevano su casa per proprio conto. Il secondo sistema di formazione della famiglia era seguito, nel corso del Settecento e dell'Ottocento, nelle campagne delle regioni classiche della mezzadria: in Toscana e in Emilia, nelle Marche e in Umbria. In queste zone, l'uso dei garzoni nelle famiglie agricole era abbastanza diffuso. Dopo le nozze si seguiva la regola di residenza patrilocale e si andava a vivere in famiglie multiple orizzontali o orizzontali e verticali. Ma, a differenza di quanto avveniva nel contado fiorentino nel XV secolo, la popolazione femminile si sposava in età avanzata, a 24-25 anni. La nascita della famiglia moderna Gli studiosi di scienze sociali hanno per lungo tempo pensato che la famiglia nucleare e coniugale sia nata con A passaggio dalla società tradizionale a quella moderna. Le Play era convinto che l'industriahzzazione, l'urbanizzazione e le trasformazioni avvenute nel regime successorio avessero provocato il passaggio dalla famiglia patriarcale (e da quella ceppo) alla moderna famiglia instabile. Durkheim ha enunciato la «legge» di contrazione progressiva della famiglia. Parsons ha sostenuto che la famiglia nucleare era nata come risposta alle esigenze del sistema economico della società industriale. Tale sistema era incompatibile con la famiglia complessa tradizionale, perché funziona reclutando delle persone in base non alle caratteristiche ascritte ma acquisite e provocando una forte mobilità geografica e sociale della popolazione. Le ricerche condotte negli ultimi trent'anni da storici, demografi e sociologi hanno tuttavia messo in crisi l'idea che il periodo dell'industrializzazione costituisca il grande spartiacque fra la famiglia tradizionale a quella moderna e hanno presentato un quadro molto più ricco e preciso dei mutamenti avvenuti negli ultimi secoli nella famiglia dei paesi occidentali. Vediamo questo quadro, distinguendo fra i mutamenti nella struttura e quelli nelle relazioni interne della famiglia. Perché la famiglia moderna è caratterizzata non solo dalla struttura nucleare ma anche da particolari rapporti fra coloro che ne fanno parte e che la fanno definire coniugale. 6. l. Mutamenti nella struttura familiare Le ricerche condotte dal gruppo di Cambridge diretto da Peter Laslett sulle liste nominative di cento comunità hanno mostrato che in Inghilterra, nel periodo 1574-1821, il numero medio di persone per famiglia è rimasto costante, così come è restata immutata la composizione delle famiglie, dato che la quota di quelle complesse (cioè estese e multiple) si è sempre aggirata intorno al 10% Tenendo conto di ricerche svolte in altri paesi si può arrivare alla conclusione che, almeno dalla metà del Cinquecento, nell'Europa centro- settentrionale, la grande maggioranza della popolazione ha sempre seguito la regola di residenza neolocale e dunque che la famiglia nucleare ha preceduto di secoli l'industrializzazione. Diversa è stata la storia dei mutamenti della struttura della famiglia nei paesi dell'Europa meridionale e in particolare in Italia. Da noi infatti le famiglie complesse hanno avuto nel passato un'importanza molto maggiore che in Inghilterra e l'urbanizzazione e l'industrializzazione hanno dato un rilevante contributo all'affermazione della regola di residenza neolocale. Come si può vedere dalla tab. 16.4, in Italia FAMIGLIA E MATRIMONio 43 9 TAB .1 6A Distribwjóke delle 1,1wigUe dal 1951 al 1991: pertipa in Italia 1951 1961 1971 1981 1991 Pagina 255
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Solitario 10,6 11,5 13,5 18,3 21,1 Nucleare 67,0 69,1 69,6 70,4 67,2 Estesa, multipla, senza struttura 22,4 19,4 16,9 11,3 11,7 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: Elaborazioni su dati Istat. TAB. .16.5. Percent-le ddIa popolazione italiana 151 fargiglie estese, multiPle o senza struttura c iugate per zone geografiche, dal 1951 al 1991 on. 1951 1961 1971 1981 1991 Nordovest 27,9 24,4 19,8 12,5 12,3 Nordest 41,2 35,6 28,5 18,6 17,7 Centro-nord 44,2 39,6 34,4 23,3 23,7 Sud 22,7 19,2 18,0 12,1 15,7 Nota: Nordovest: Piemonte, Valle d'Aosta, Liguria e Lombardia; Nordest: Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia; Centro-Nord: Emilia-Romagna, Marche, Toscana, Umbria; Sud: tutte le altre. Fonte: Elaborazioni su dati Istat. dopo il 1951 il peso delle famiglie complesse è diminuito, mentre è aumentato quello dei solitari e delle famiglie nucleari. In Italia però vi è stata una grande eterogeneità di situazioni. Le famiglie multiple erano molto diffuse soprattutto nella cosiddetta «terza Italia», cioè nelle regioni del nordest e in quelle del centro-nord (si veda la tab. 16.5). Nelle campagne di queste zone una parte considerevole della popolazione seguiva la regola di residenza patrilocale e viveva in famiglie complesse. Fra i vari strati agricoli vi erano però delle differenze, dovute alla proprietà o meno della terra, alla natura dei contratti, alle forme di insediamento. Le famiglie nucleari e quelle estese erano più diffuse fra i braccianti, quelle multiple invece fra i coltivatori proprietari e i mezzadri, che vivevano in case isolate sui poderi. Nel caso dei mezzadri (o di altre figure agricole come i boari) il contratto obbligava la famiglia a vivere nel podere e a subordinare alle esigenze di questo le sue dimensioni e la sua composizione. E proprietario sceglieva infatti con cura la famiglia a cui affidare il podere, in ruodo che essa contenesse un numero adeguato di braccia adulte e non ne avesse uno eccessivo di «bocche inutili», cioè di bambini, e sorvegliava attentamente, per tutta la durata del contratto, che tale equilibrio non si spezzasse. Per questo, nessun componente della famiglia mezzadrile poteva sposarsi senza l'autorizzazione del proprietario. 440 CAPITOLO 16 Tuttavia anche in Italia vi sono state grandi zone nelle quali la famiglia nucleare ha preceduto di secoli l'industrializzazione. Già nel Seicento, in Puglia, in Sicilia e in altre regioni meridionali la grande maggioranza della popolazione seguiva la regola di residenza neolocale. Lo stesso avveniva nelle città dell'Italia centro -settentrionale. Qui, già nel Trecento, gli artigiani, quando si sposavano, mettevano su casa per proprio conto. In modo simile si comportavano gli strati più poveri della popolazione urbana, quelli formati spesso da immigrati, i quali però vivevano molto più spesso degli artigiani da soli o in famiglie senza struttura coniugale. Soltanto le persone appartenenti ai ceti più elevati, alla borghesia o all'aristocrazia, seguivano dopo le nozze la regola di residenza patrilocale e andavano a vivere in famiglie multiple verticali o orizzontali e verticali. Ma, anche in questi ceti, il passaggio alla famiglia nucleare è iniziato verso la fine del Settecento, cioè molto prima dell'avvio del processo di industrializzazione, ed è stato provocato soprattutto da mutamenti avvenuti nelle regole di trasmissione della proprietà da una generazione all'altra, con la crisi del modello basato sul fedecommesso e la primogenitura, di cui abbiamo parlato nel cap. IV. 6.2. Mutamenti nelle relazioni familiari «11 mio terzo figlio - ha scritto jean jacques Rousseau nelle Confessionì - fu dunque posto all'ospizio per trovatelli, al par dei primi, e così fu dei due che seguirono; ché ne ebbi cinque in tutto» Un altro illustre uomo del suo tempo, Pietro Verri, osservava nel 1777 che gran parte dei figli delle famiglie nobili avrebbero potuto rivolgere questi rimproveri ai genitori: A voi non debbo nessuna riconoscenza per la vita... Nato appena mi avete staccato dal seno materno e confidato a poppe mercenarie quasi sdegnaste di compiere meco a questo dovere di natura. mi avete lasciato miseramente legato dalle fascie che mi impedivano il moto necessario al muscoli; mi conservavate sporcamente inzuppato nelle fecce, che talvolta mi strozzavano la circolazione del sangue e la respirazione medesima... Pagina 256
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Bastano queste due testimonianze a darci un'idea di quanto diverARevamento se fossero un tempo le pratiche di allevamento dei bambini nella pridei bambini ma infanzia. In tutti i ceti, vi era l'uso di stringere i neonati con le fasce dai piedi fino al collo nei primi quattro o cinque mesi di vita. Nei ceti più elevati, si facevano di solito allattare i figli non dalla madre, ma da un'altra donna, la balia, nonostante che questo riducesse le già basse probabilità di sopravvivere che avevano. Nei ceti più bassi, ma talvolta anche in quelli medi, i genitori che non potevano o non volevano allevarli abbandonavano i bambini davanti a qualche abitazione o sui gradini di una chiesa o nella «ruota» di un brefotrofio, un attrezFAMIGLIA E MATRIMONIO 441 zo che faceva suonare un campanello quando un neonato vi veniva immesso. Soprattutto nella seconda metà del Settecento e nella prima dell'Ottocento, 9 fenomeno dei neonati abbandonati assunse dimensioni gigantesche. Un gran numero di questi esposti non arrivava al primo anno di vita. Più difficile è tuttavia interpretare questi fatti. Molti storici considerano l'abbandono dei neonati, la pratica di fasciarli strettamente e di lasciarli per lungo tempo da soli immobilizzati in questo modo o quella di darli ad allattare a una balia come segni dell'«indifferenza» o della «mancanza di amore» nei loro confronti dei genitori. Ma altri hanno efficacemente mostrato che nessuno di questi comportamenti può da solo dirci quali fossero i sentimenti dei genitori verso i figli. Neppure l'infanticidio. Perché - come ha osservato Christopher Hill [19811 nelle famiglie senza proprietà, la nascita di un bambino può significare la morte di fame per gli altri. L'infanticidio non è necessariamente una prova di indifferenza verso i figli da parte dei genitori poveri: può essere una testimonianza del loro amore disperato per quelli già in vita. Ma anche se non possiamo dire quali fossero un tempo i sentimenti che provavano coloro che facevano parte di una famiglia, è certo che le relazioni esistenti fra marito e moglie, genitori e figli, fratelli e sorelle, suoceri, nuore e generi erano un tempo molto diverse da quelle di oggi. In tutti i ceti sociali, nelle famiglie multiple come in quelle nucleari, dominava un modello di autorità patriarcale, una gerarchia di posizioni e di ruoli definiti in base all'età, al sesso e all'ordine di nascita. Al vertice vi era il maschio, padre e marito, che della famiglia era sia il capo politico che l'«organo della tradizione, l'interprete e l'arbitro dei costumi» [de Tocqueville 1835-18401. E a lui la moglie, i figli e le nuore erano completamente subordinati. Fra marito e moglie vi era una rigida separazione dei ruoli, che faceva sì che, quando non lavoravano, essi trascorressero la maggior parte del tempo non insieme, ma con altre persone dello stesso sesso. 1 rapporti fra i coniugi erano dominati dal distacco e dal riserbo. Nelle famiglie nobili italiane, durante il Seicento, marito e moglie si chiamavano non per nome, ma per ruolo, con le espressioni «Signor Consorte» e «Signora Consorte» e l'allocutivo «lei» e il verbo alla terza persona singolare. Nella prima metà del Settecento si davano invece del «voi». Nei ceti più bassi, fra gli artigiani, i mezzadri o i braccianti, in genere la moglie dava del «voi» al marito, mentre quest'ultimo le dava spesso del «tu». 1 genitori addestravano i figli fin da piccoli alla sottomissione e alla deferenza. Li tenevano a distanza e non davano loro la minima confidenza, affinché imparassero a sentirsi diversi e inferiori. Nei ceti agricoli e urbani più bassi i figli davano del «voi» ai genitori. Nelle famiAbbandono dei neonati Rapporti fra Coniugi Autorità. 442 CAPITOLO 16 glie nobili i figli si rivolgevano loro con le espressioni «signor padre» e «signora madre» e dando loro del «leì» Quando si presentavano ai genitori, baciavano loro le mani e facevano una riverenza. 1 genitori d'altra parte esercitavano un controllo ferreo e continuo sulle loro emozioni e sentimenti e cercavano di non manifestare il loro affetto all'esterno con parole e con gesti e dunque tendevano a non lodare i figli, a non vezzeggiarli, a non baciarli. L'autorità dei genitori si faceva sentire anche nel momento del matrimonio, perché, soprattutto nei ceti più elevati, essi influivano sulla scelta del coniuge. «A me non fecero come a mia sorella Bita raccontava nel secolo scorso la marchesa Lucrezia Medici Tornaquindici - alla quale almeno fecero scegliere tra due fratelli, uno biondo e uno bruno; mi Pagina 257
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dissero un bel giorno: questo è tuo marito; io ne avevo una paura terribile perché quando lo sposai si può dire che non lo avevo mai visto» Modello Un caso di famiglia patriarcale reso famoso da un romanzo di Giopatriarcale vanni Verga è quello dei Malavoglia. Padron Ntoni, che di questa famiglia era il capo, usava dire: «gli uomini son fatti come le dita della mano: H dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo» E infatti la sua famiglia era «disposta come le dita della mano» Prima di tutti veniva lui, che era il dito grosso. Poi c'era Suo figlio Bastiano, che nonostante fosse grande e robusto «filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto "soffiati il naso" tanto che s'era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto "pigliatela"». Poi veniva appunto questa Longa, «una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia». Infine c'erano i nipoti, in ordine di anzianità. Questo modello patriarcale entrò in crisi molto tempo prima che iniziasse il processo di industrializzazione: nel nostro paese negli ultirnì decenni del Settecento e nei primi dell'Ottocento, in Inghilterra o in Francia ancora prima. Le relazioni fra i coniugi e fra genitori e figli cambiarono profondamente ed emerse un nuovo tipo di famiglia: quella coniugale intima. Anche se il padre e marito continuò ad essere la figura più importante, egli cessò di essere l'autocrate indiscusso e inavvicinabile di un tempo. La distanza sociale fra lui e la moglie e fra genitori e figli si ridusse considerevolmente. L'uso del «lei» e del «Voi» fra i membri della famiglia lasciò il posto a quello del «tu». Il modello pedagogico che imponeva ai genitori di non esprimere in modo diretto ed evidente il loro amore per i figli entrò in crisi. Aumentarono la frequenza delle interazioni fra i membri della famiglia, il tempo in cui essi stavano insieme, le attenzioni e le cure che si rivolgevano. Mentre la regola di residenza neolocale e la famiglia nucleare avevano prevalso dapprima fra gli artigiani e gli strati più poveri della popolazione dei centri urbani e solo dopo molti secoli si erano diffusi nei ceti più elevati, le relazioni tipiche della famiglia coniugale si afferFAMIGLIA E MATRIMONIO 443 marono seguendo un itinerario del tutto diverso. Fu infatti al vertice e non alla base della scala sociale che iniziò la crisi del modello patriarcale e che nacque quello coniugale. Prima di tutto fra la borghesia intellettuale dei centri urbani, che quando l'antico regime cominciò a vacillare si mise alla testa del cambiamento nell'ambito dei comportamenti domestici. Ma il. nuovo modello di famiglia si diffuse ben presto anche agli altri ceti elevati, all'aristocrazia e alla borghesia mercantile. Perché arrivasse e si affermasse nelle campagne doveva invece passare un secolo e mezzo. 7. L'affermazione della famiglia coniugale in Asia Nel più importante studio comparato sulla famiglia finora pubblicato [19631, William Goode ha previsto che la famiglia coniugale si sarebbe affermata anche nei paesi non occidentali, talvolta prima che questi si industrializzassero, perché l'ideologia di questo tipo di famigha «attira gli svantaggiatì, le donne, i giovani e i più istruiti. Promette libertà e nuove alternative di contro alle rigidità e ai controlli dei sistemi tradizionali». In certe parti del mondo, questo finora non si è verificato. Nell'Africa nera, ad esempio, la poliginia ha resistito ed è ancora assai diffusa. Ma in altri continenti non vi è dubbio che, nell'ultimo mezzo secolo, la famiglia coniugale ha fatto dei grandi passi avanti. Questo, ad esempio, è sicuramente avvenuto in molti paesi asiatici, nei quali oggi vive un'alta quota della popolazione mondiale. In questi paesi vi è stato innanzitutto un importante cambiamento nel campo della scelta del coniuge. «Il matrimonio - diceva fl filosofo cinese Mencio - è un legame fra due nomi di famiglia». E in effetti un tempo, in Cina, in India e in Giappone, esso non era una faccenda personale, privata, ma un affare di famiglia, della famiglia e per la famiglia. Per i genitori e i parenti dello sposo, il matrimonio serviva a produrre dei bambini che permettessero di perpetuare la linea di discendenza e di acquisire una donna che aiutasse nei lavori domestici e che curasse e assistesse la suocera e il suocero quando questi diventavano vecchi. Di conseguenza, il. matrimonio era spesso combinato. Erano i genitori, i nonni e gli zii che decidevano quando una persona doveva sposarsi e con chi. Coloro che dovevano sposarsi non venivano spesso neppure consultati o venivano a conoscenza della decisione dopo che era stata presa da altri. Talvolta anzi, soprattutto in Pagina 258
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Cina, i due futuri sposi si vedevano per la prima volta solo A giorno delle nozze. La bellezza, l'attrazione fisica, l'amore non avevano dunque alcuna importanza per la scelta del coniuge. il caso estremo, da questo punto di vista, si verificava in alcune regioni della Cina dove vi era l'uso che coloro che avevano dei figli 444 CAPITOLO 16 maschi ancora piccoli, «adottavano» una bambina, prendendola in casa loro quando questa aveva da sei mesi a un anno. Qui essa veniva allattata al seno della nuova «madre» ed allevata, anche se con minor cura e maggior severità di una figlia legittima. E una volta raggiunta l'età delle prime mestruazioni, questa ragazza veniva data in moglie ad un figlio maschio, che fino ad allora era stata abituata a trattare quasi come un fratello. Questa forma di matrimonio serviva a vari scopi. Ma il più importante era che, abituando fin da piccola quella che sarebbe diventata la moglie del figlio alla subordinazione alla suocera, preveniva futuri conflitti fra queste due donne. La situazione tuttavia è profondamente cambiata negli ultimi cinquant'anni. In Cina, ad esempio, la quota dei matrimoni combinati, che era ancora altissima nella generazione delle persone sposatesi negli anni trenta del nostro secolo, è fortemente diminuita, fino a raggiungere quota zero. La scelta del coniuge è ormai sempre più spesso nelle mani di chi si sposa - come avviene in Occidente e dipende sempre più dall'amore (tab. 16.6). Radicalmente cambiato è anche il sistema di formazione della famiglia. Come si è visto, un tempo, in Cina, in India e in altri paesi asiatici, l'età media al matrimonio delle donne era di 17 o 18 anni, e la regola dominante era che tutti i figli maschi che si sposavano portassero in casa la moglie, formando delle famiglie multiple orizzontali e verticali. In Giappone invece le donne si sposavano più tardi e solo uno dei figli maschi portava la moglie in casa, formando una famiglia ceppo, mentre gli altri seguivano la regola di residenza neolocale. Negli ultimi quarant'anni l'età al matrimonio in molti di questi paesi si è alzata. Se in Pakistan le donne si sposano ancora in media prima dei 20 anni, in India prima dei 19, nel Bangladesh addirittura prima dei 17, in Cina lo fanno a 22,4 anni, in Corea a 24, a Singapore a 26 [United Nations 1988b]. Un numero crescente di sposi segue inoltre la regola di residenza neolocale, andando a vivere in famiglie nucleari. Così, in cinquant'anni, dal 1930 all'inizio degli anni ottanta, la quota delle famiglie estese e multiple è passata in Cina dal 48% al 19% e in Giappone dal 39% al 21% [Zeng Yi 1986; Long 19871. Completamente mutate sono nei paesi asiatici anche le relazioni interne alla famiglia e in particolare quelle fra i coniugi e fra essi e i genitori dello sposo. Nella famiglia multipla tradizionale cinese e indiana, i due coniugi, appena sposati, dovevano mantenere l'uno verso l'altro un atteggiamento freddo e riservato. Fuori dalla camera da letto, in presenza di altri, essi dovevano evitare ogni manifestazione di affetto e potevano perfino rivolgersi poco la parola, salvo che nei casi in cui il marito doveva dare degli ordini alla moglie. In alcune zone dell'India, quando vi erano altre persone, la moglie doveva tenere il velo sul volto di fronte al marito e non poteva guardarlo fisso. La giovane moglie e un eventuale rapporto di affetto fra lei e il marito venivano infatti visti come una minaccia incombente all'unità e TAB. 16A Percentuale di matrimoni combinati e di donne che al momento del matrimonio erano completamente innamorate del marito a (Iendu, in Cina, per anno di matrimonio Anno di matrimonio 1933-1948 1949-1957 1958-1965 1966-1976 1977-1987 % matrimoni combinati 68 27 o 1 2 % donne completamente innamorate del marito al 17 38 63 61 67 momento del matrimonio Fonte: Xu Xiaohe e King White [19901. alla compattezza della famiglia multipla. Si temeva cioè che, se si fosse creato un forte legame fra i coniugi, questi avrebbero ridotto la capacità di controllo della madre sul figlio, indebolito il. vincolo fra i fratelli maschi, spinto la coppia ad uscire dalla famiglia multipla. t per questo che la relazione fra moglie e marito diventava più calda e intensa con il passare degli anni, quando morivano i genitori dello sposo e magari anche alcuni dei suoi fratek Negli ultimi decenni tuttavia le cose sono anche in questo caso notevolmente Pagina 259
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt cambiate. A differenza di un tempo, ormai fra le persone che si sposano vi è un forte rapporto di affetto (tab. 16.6). E questo legame viene sempre meno subordinato alle esigenze di unità e compattezza della famiglia multipla dei genitori dello sposo. 8. Il declino della famiglia coniugale nei paesi occidentali Proprio mentre si è affermata in alcuni paesi asiatici, la famiglia coniugale ha perso importanza in quelli occidentali. Qui, a partire dafia metà degli anni sessanta, si è avuto contemporaneamente una diminuzione del numero delle prime e defle seconde nozze, un forte aumento delle separazioni legali e dei divorzi e come vedremo nel cap. XXII - una netta flessione deHa fecondità. E questi cambiamenti hanno favorito la nascita di nuovi tipi di famiglia. 8.1. La diminuzione della nuzialità In tutti i paesi occidentali sono in corso da tempo due tendenze di segno opposto, che hanno portato ad un progressivo aRontanamento fra il momento del primo rapporto sessuale completo e quello del matrimonio. Da un lato infatti si è avuto un abbassamento dell'età al primo coito. Come si può vedere dafia fig. 16.4, in tutti i paesi occidentali la quota delle donne che a 20 anni hanno già avuto rapporti 446 CAPITOLO 16 1925 1930 1935 1940 1945 1950 1955 1960 1965 Coorte di nascita Fic; 1.6.4. Percentuale di donne di alcunì paesi occidentali che hanno avuto rapporti sessuali a 20 anni o prima, per coorte di nascita. Fonte: United Nations 11988d] Dechno della nuziahtà Convivenze more UX^ sessuali è fortemente cresciuta negli ultimi cinquant'anni. Dall'altro lato invece vi è stata una diminuzione della nuzialità e un innalzamento dell'età al matrimonio. La diminuzione del numero dei matrimoni è iniziata in tutti i paesi occidentali nel corso degli anni sessanta e settanta, a breve distanza l'uno dall'altro: in Svezia e in Danimarca nel 1965, nei Paesi Bassi, in Austria, in Svizzera e nella Repubblica federale tedesca nel 1970, in Italia nel 1974. Ovunque la flessione della nuzialità è stata accompagnata da tre diverse tendenze. In primo luogo, vi è stato un forte aumento del numero di giovani che vivono da soli. Tale aumento è stato particolarmente accentuato in Danimarca, in Francia e nella Repubblica federale tedesca. Ma anche in Italia il numero dei giovani che stanno da soli sta crescendo continuamente, nonostante che da noi questa tendenza sia meno accentuata che altrove. In secondo luogo, dalla metà degli anni settanta è aumentata la propensione dei giovani a restare sempre più a lungo nella casa dei genitori (si veda il cap. XIV). In terzo luogo, la diminuzione della nuzialità è stata accompagnata dalla diffusione delle convivenze more uxoriò, cioè di quelle famiglie di FAMIGLIA E MATRIMONIO 447 fatto che si formano quando due persone di sesso diverso abitano insieme come coniugi senza tuttavia essere unite dal matrimonio. Apparse alla metà degli anni sessanta in Svezia, le convivenze more uxoriò si sono diffuse rapidamente prima nei paesi nordici, poi nell'Europa centro-settentrionale e negli Stati Uniti, infine nell'Europa meridionale. In Svezia, in venti anni, le famiglie di fatto sono diventate una sorta di istituzione sociale. Per rendersene conto basterà dire che oggi, in questo paese, più del 90% delle persone che si sposano provengono da una convivenza more uxorio. Pur non raggiungendo questi livelli, la famiglie di fatto hanno assunto una grande importanza anche in altri paesi occidentali. In Austria, in Olanda, in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, dal 50 al 60% delle persone che si sposano hanno convissuto more uxorìò per un certo periodo di tempo. In Italia, il numero delle famiglie di fatto, pur essendo aumentato, è inferiore a quello rilevato in altri paesi. Questi mutamenti nel costume hanno provocato dei cambiamenti anche nelle norme giuridiche. L'adulterio non è più considerato un reato. 1 figli naturali, nati fuori del matrimonio (un tempo chiamati «illegittimi») hanno ormai gli stessi diritti di quelli legittimi riguardo sia al mantenimento e all'educazione che all'eredità dei genitori. In alcuni paesi si tende all'equiparazione fra famiglia naturale e famiglia legittima anche nel delicato campo dei rapporti patrimoniali. In Svezia, ad esempio, secondo la legge approvata nel 1988, quando Pagina 260
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt un'unione di fatto si scioglie il valore della casa in cui la coppia ha vissuto e del suo arredamento viene diviso in parti eguali fra i due partner, anche se è proprietà di uno solo di essi. In tutti i paesi, l'uso di convivere more uxorio con un'altra persona dell'altro sesso è iniziato negli strati più secolarizzati delle popolazioni urbane e si è poi esteso agli altri strati. Il cambiamento non è partito tuttavia nelle stesse classi sociali in tutti i paesi. In Svezia, ad esempio, sono state le coppie di classe operaia quelle che per prime hanno adottato queste nuove regole di formazione della famiglia. Invece in Francia e in Gran Bretagna il cambiamento è iniziato nelle università e negli strati della popolazione con i livelli più alti di istruzione. In genere, la convivenza prenuziale si presenta non come un'alternativa, ma come una fase di preparazione alla famiglia legittima. Chi sceglie questa strada non rifiuta il matrimonio: si limita a rimandarlo. La convivenza prenuziale sta dunque prendendo il posto che aveva, nel vecchio sistema di formazione della famiglia, il fidanzamento. Ma al tempo stesso è uno dei segni della perdita di importanza del matrimonio. 19 matrimonio infatti serve sempre meno a consacrare l'inizio di un'unione e sempre più a sanzionare la sua esistenza. La convivenza prenuziale ha due caratteristiche di fondo. In primo luogo dura un breve periodo di tempo, in genere da un anno ad un anno e mezzo. In secondo luogo è di solito infeconda, perché la nascita di un figlio ridurrebbe considerevolmente le possibilità di scelta dei 448 CAPITOLO 16 1970 1990 FIG. 16.5. Nati fuori del rnatrimonio per ogni cento nati in totale nei paesi europei e nelle re~ì italiane. 1970 e 1990. Fonte: Golini [19941, due partner, rendendo in particolare più difficile la rottura della loro unione informale. Unioni libere In alcuni paesi sta crescendo tuttavia l'importanza delle unioni libere, di quelle famiglie di fatto che si pongono in alternativa a quelle legittime fondate sul matrimonio. Esse durano più a lungo, sono feconde e non sfociano nelle nozze. Ciò sta avvenendo in primo luogo in Svezia, dove è fortemente cresciuto il numero delle coppie conviventi che a distanza di otto o dieci anni dall'inizio dell'unione non si sono ancora sposate. Ma si sta verificando anche in altri paesi occidentali, come ad esempio la Francia. a causa soprattutto di questa tendenza che negli ultimi venticin- , in tutti i paesi occidentali, è aumentata la quota dei figli naque anni turali, nati fuori del matrimonio, che soprattutto in Svezia e in Danimarca, ma anche in Francia e in Gran Bretagna ha raggiunto punte molto elevate (fig. 16.5). FAMIGLIA E MATRIMONIO TAB. 16.7. Nati fuori dei matrimonio per ogni cento nati in tolale nei paesi europei e nelle regionì italiane 1970 e 1990 Paese 1970 1990 Regione 1970 1990 Regione 1970 1990 Irlanda 2,7 14,5 Piemonte 2,6 8,0 Umbria 1,4 4,2 Regno Unito 8,0 Pagina 261
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 27,9 Valle d'Aosta 3,1 14,0 Lazio 3,0 7,7 Danimarca 11,0 46,4 Lombardia 2,3 6,8 Abruzzo 1,4 2,7 Paesi Bassi 2,1 11,4 Trentino-A. A. 5,0 11,6 Molise 1,3 2,3 Germania 7,2 10,5a Veneto 1,9 5,1 Campania 2,1 3,9 Francia 6,8 30,1 Friuli V. G. 3,1 9,0 Puglia 1,5 450 CAPITOLO 16 e flessibile della famiglia di fatto permette loro maggiormente di rimettere in discussione la tradizionale divisione dei ruoli basata sul genere, di rinegoziare diritti e doveri con l'uomo con cui abitano, di rimandare il momento della nascita del primo figlio, di ottenere maggiori spazi per l'attività di lavoro extradomestico. 8.2. L'aumento dell'instabilità coniugale A partire dal 1965, in tutti i paesi occidentali, vi è stato un forte aumento del numero delle separazioni legali e dei divorzi. Tale aumento è continuato ininterrottamente fino ad oggi in alcuni di questi paesi (anche se a un ritmo più lento di prima), in altri invece si è fermato all'inizio degli anni ottanta. Gli Stati Uniti sono il paese sviluppato in cui l'instabilità coniugale è maggiore. Qui, già a metà degli anni settanta, i matrimoni terminati con un divorzio hanno superato, per la prima volta nella storia di un paese occidentale, quelli sciolti dalla morte di un coniuge. Oggi si calcola che circa il 60% dei matrú-noni che si stanno celebrando in questi anni finirà con una sentenza di tribunale [Bumpass 19901. Subito dopo gli Stati Uniti vi sono la Gran Bretagna, la Svezia e la Danimarca, dove circa il 40% dei matrimoni termina con un divorzio. Al terzo posto di questa classifica dell'instabilità coniugale vi è un gruppo numeroso di paesi come il Belgio, l'Olanda, la Francia e la Repubblica federale tedesca, nei quali le sentenze di tribunale pongono fine a circa il 25-30% dei matrimoni. All'ultimo posto vi sono la Spagna, il Portogallo e l'Italia, nei quali invece le coppie che finiscono in questo modo non superano il 15 %. Anche nel nostro paese, tuttavia, vi è stato un forte aumento dell'instabilità Pagina 262
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt coniugale. In ventinove anni, il numero delle separazioni legali è quasi decuplicato, passando da 5.600 nel 1965 ad oltre 51 mila nel 1994. Ma fra le varie zone dell'Italia vi sono delle grandi differenze anche da questo punto di vista. Così, da un lato vi sono regioni come l'Emilia Romagna e la Liguria, che hanno tassi di instabilità coniugale non molto inferiori a quelli del Belgio, della Svizzera o della Francia. Dall'altro lato invece vi sono regioni come quelle meridionali dove le separazioni legali e i divorzi sono molto meno frequenti. In tutti i paesi occidentali divorziano più frequentemente coloro che si sono sposati molto giovani, che non appartengono ad alcuna confessione religiosa, che hanno avuto genitori che si sono separati. Inoltre, in molti di questi paesi vi è una relazione positiva fra stabilità coniugale e ceto sociale, cioè quanto più elevato è quest'ultimo tanto più facile è che i coniugi restino insieme tutta la vita. In Italia invece avviene esattamente l'opposto, cioè si separano o divorziano più frequentemente gli imprenditori e i professionisti degli operai. Ma la situazione dell'Italia di oggi è, da questo punto di vista, molto simile a quella che si aveva un secolo fa negli altri paesi occidentali nei quali il divorzio è stato introdotto prima. Ciò fa pensare che finché A divorzio non si è istituzionalizzato, finché i costi economici per sostenerlo non sono diminuiti, finché le persone dei ceti più bassi non hanno superato il timore e la diffidenza che provano verso gli avvocati e i tribunali, a rompere il matrimonio per via legale sono soprattutto le persone dei ceti più elevati, mentre le altre ricorrono più frequentemente alla separazione di fatto. L'aumento dell'instabilità coniugale è stato accompagnato, e probabilmente favorito, da grandi mutamenti del diritto di famiglia. Nel 1970 il divorzio è stato introdotto per la prima volta in Italia, nel 1981 in Spagna, nel 1977 è stato esteso ai matrimoni cattolici in Portogallo. Ma sia in questi paesi, sia in quelli dove il divorzio esiste da un secolo o da un secolo e mezzo, nel corso degli anni settanta sono cambiate le norme che regolano la rottura dei matrimoni. Un tempo il divorzio veniva considerato come una sanzione contro il coniuge che si era macchiato di una colpa. Dapprima esso veniva concesso solo in caso di adulterio. In seguito, l'elenco delle colpe è stato allungato e all'adulterio sono state aggiunte le sevizie, le minacce e le condanne a lunghi periodi di reclusione. Nel corso degli anni settanta il sistema del divorzio-sanzione è stato abbandonato e sostituito da quello del divorzio -fallimento o rimedio. Perché oggi un tribunale decreti la rottura di un matrimonio non è più necessaria la colpa di uno dei due coniugi: basta che fra marito e moglie vi siano delle «differenze inconciliabili» che provochino un «fallimento» del matrimonio e rendano la convivenza «intollerabile». In alcuni paesi, questo «fallimento» viene definito con un criterio oggettivo: un periodo di tempo in cui i coniugi siano stati separati di fatto. In Gran Bretagna, ad esempio, due coniugi possono ottenere il divorzio se sono stati separati di fatto per due anni. Ma in altri paesi la definizione del «fallimento» del matrimonio è esclusivamente soggettiva. In Svezia, ad esempio, il divorzio viene immediatamente concesso se è richiesto da entrambi i coniugi e se questi non hanno figli. Se invece uno di loro è contrario oppure vi sono minori, per averlo ci vogliono sei mesi. In Italia, nel secolo scorso, il codice di famiglia non prevedeva la possibilità di divorzio, ma solo quella della separazione legale, raggiungibile in due diversi modi: per mutuo consenso o per via giudiziale, per colpa. Nel 1970 è stato introdotto il divorzio e nel 1975 la riforma del diritto di famiglia ha cambiato la natura della separazione giudiziale, prevedendo che essa sia concessa non per colpa, ma quando «la prosecuzione della convivenza» sia divenuta «intollerabile». Tuttavia, in Italia il divorzio non si è affiancato alla separazione legale, ma si è aggiunto ad essa. Ciò significa che da noi, a differenza che in altri paesi, quello che porta alla rottura completa del matrimonio è un processo a due stadi, perché da noi chi vuole divorziare deve 452 CAPITOLO 16 di solito ottenere prima la separazione legale. Un'importante conseguenza di questa peculiarità del nostro paese è che da noi il divorzio avviene a un'età più avanzata che in altri paesi. Sia in Italia che negli altri paesi occidentali fra il momento delle nozze e quello in cui i coniugi cessano di convivere passano in media da dieci a undici anni. Solo che negli altri paesi questa rottura avviene in genere con il Pagina 263
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt divorzio, in Italia invece con la separazione legale. Ma da noi chi ha ottenuto quest'ultima deve attendere tre anni (secondo la legge del 1987) per ottenere il divorzio e ha bisogno di passare nuovamente dal tribunale e quindi di altro tempo. E per questo che negli Stati Uniti l'età media al divorzio è di 35 anni per gli uomini e di 33 per le donne, in Italia di 42 per i primi e 39 per le seconde. Sarebbe sbagliato pensare che l'aumento dell'instabilità coniugale degli ultimi venticinque anni sia dovuto ad un peggioramento della qualità dei rapporti fra i coniugi o che in Italia i matrimoni siano più felici che negli Stati Uniti o in Gran Bretagna. L'infelicità coniugale è infatti una condizione necessaria ma non sufficiente dell'instabilità. Un matri.monio può essere fallito eppure due coniugi possono continuare a stare insieme. Vi sono infatti numerose barriere che possono impedire lo scioglimento di un matrimonio: credenze religiose, timori che il divorzio abbia delle conseguenze negative sui figli, mancanza di autonomia finanziaria. E innanzitutto con la diversa importanza di queste barriere che possiamo spiegare le variazioni nello spazio e nel tempo dell'instabilità coniugale. Due in particolare sono le variabili più utili per spiegare queste variazioni. La prima è costituita dalla religione. Quanto più forte è stata in un paese l'influenza della chiesa cattolica, tanto minore sarà il numero dei divorzi. La seconda è data dal tasso di attività della popolazione femminile. Quanto più alto è il numero delle donne che svolge un'attività extradomestica, tanto più spesso i matrimoni termineranno con una sentenza di tribunale. Perché, per un certo numero di donne, ottenere un lavoro extradomestico retribuito vuol dire superare un'importante barriera che impediva la separazione o A divorzio. La correlazione esistente fra tasso di attività della popolazione femminfle e instabilità coniugale è stata tuttavia interpretata con altre due ipotesi. Per la prima ipotesi, il lavoro della donna, mutando la distribuzione del potere all'interno della coppia e spingendo la moglie a pretendere di più dal marito, può essere fonte di nuovi conflitti fra i due. Per la seconda ipotesi, se l'attività extradomestica femminile può provocare la rottura del matrimonio è perché i mariti continuano a comportarsi come se la moglie fosse sempre una casalinga, a rifiutarsi di introdurre una qualche modifica nella divisione del lavoro all'interno della famiglia. FAMIGLIA E MATRIMONIO 453 8.3. Le famiglie ricostituite L'aumento delle separazioni legali e dei divorzi ha provocato la moltiplicazione dei tipi di famiglia: famiglie di persone sole, famiglie nucleari incomplete (dette anche monoparentali), costituite da un solo genitore (di solito la madre) e dai figli, famiglie ricostituite, formate con le seconde nozze. In Italia vi sono oggi 443 mila famiglie di questo tipo (tab. 16.8). E peso quantitativo di quest'ultirno tipo di famiglia è considerevolmente aumentato. Per la verità, in molti paesi occidentali, la quota delle persone divorziate che si risposano è diminuita nel corso degli ultimi quindici anni. Tuttavia questa percentuale resta ancor oggi abbastanza alta. In Francia, in Svizzera e nella Repubblica federale tedesca si risposano circa il. 55% sia degli uomini che delle donne. In Itaha, invece, A 50% dei primi e il 27% delle seconde. Inoltre, come si @ visto, il numero dei divorzi è fortemente aumentato. Per questo, il peso delle seconde nozze è cresciuto rapidamente. In alcuni paesi es e costituiscono più di un terzo dei matrimoni. In altri si avvicinano 2 metà (tab. 16.9). In Italia la quota delle seconde nozze sui matrimoni è nel complesso ancora bassa, ma nelle grandi città delle regioni centro-settentrionali ha raggiunto livelli significativi (fl 18% a Genova, il 19% a Mflano e a Bologna) 16.8. Faigìihe dcos&uìk esìktontì in Italia nel 1993-1994 pef stato civile deì partner prima del ~monio Lui divorziato, lei nubile 25 Lui vedovo, lei nubile 19 Lui celibe, lei divorziata 19 Lui divorziato, lei divorziata 15 Altro 22 Totale 100 N. casi (443.000) Fonte: Istat. TAL- 16.9. 1Wcentuale di setonde> none. sul totale dei matrimoni in alcuni paesi (1981) Stati Uniti 45 Danimarca 39 Svezia 35 Inghilterra e Galles 35 Repub. fed. tedesca 27 Canada 28 Austria 23 Francia 18 Giappone 15 Grecia 10 Portogallo 10 Italia 5 Fonte: United Nations [19841. Pagina 264
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 454 CAPITOLO 16 Vedovanza e divorzio Seconde nozze Quella ricostituita è il tipo di famiglia più nuovo fra i tanti che sono comparsi negli ultimi venticinque anni. Famiglie che ricordano queste sono esistite anche in passato, quando le persone rimanevano vedove abbastanza giovani e molte di loro si risposavano. Ma le famiglie ricostituite di oggi, nate dal divorzio, sono in realtà molto diverse sia da quelle create dopo la vedovanza sia dalla famiglia coniugale classica. Mentre un tempo la ricostituzione della famiglia significava la sostituzione del genitore scomparso, oggi essa comporta l'aggiunta di uno o due nuovi genitori ai due già esistenti. Dopo il divorzio, in nove casi su dieci i figli vengono affidati alla madre. Così, se questa si risposa, essi avranno un secondo padre, che possiamo definire sociale, con il quale passeranno più tempo che con il primo, biologico, e che probabilmente contribuirà più di quest'ultimo al loro mantenimento. Se la madre metterà al mondo un altro figlio, essi avranno un fratello «uterino», come lo chiamano i giuristi, o un fratellastro, come dicono gli altri. Se poi si sposa il padre, essi acquisteranno una seconda madre, che vedranno tutte le volte che andranno a trovarlo, e se questo metterà al mondo un altro figlio, si troveranno con un nuovo «fratellastro». Ma, oltre ai fratellastri, dai matrimoni dei due genitori divorziati essi acquisteranno «quasi zii» e «quasi nonni», cioè i fratelli e i genitori del secondo padre e della seconda madre e molti altri parenti. Come si può intuire da questo esempio, una caratteristica di fondo della famiglia ricostituita dopo un divorzio è di avere dei confini più incerti e ambigui di quella coniugale, in termini sia spaziali che biologici o giuridici. Far parte di una famiglia coniugale significa vivere insieme agli altri nella stessa casa e portare lo stesso cognome. Per i figli vuol dire anche avere nelle vene lo stesso sangue dei genitori. Altrettanto non si può dire di una famiglia ricostituita. Quelli che ne fanno parte non vivono sempre nella stessa casa e non hanno tutti lo stesso cognome. Quanto ai figli, non tutti hanno lo stesso sangue nelle vene. L'ambiguità di confini delle famiglie ricostituite dipende dal grado della loro complessità strutturale, cioè in sostanza dalla storia coniugale dei due adulti che l'hanno formata. Quando entrambi hanno alle spalle almeno un matrimonio e un divorzio e portano con sé almeno un figlio, la nuova famiglia che creano è strutturalmente molto complessa. Lo è invece poco quando uno solo dei due adulti è stato sposato senza per altro aver avuto figli. Le ricerche finora condotte mostrano che le seconde nozze sono ancora più fragili delle prime, cioè che le persone divorziate che si risposano divorziano nuovamente con una frequenza maggiore di quelle che si sposano per la prima volta. Questo è stato spiegato con due diverse ipotesi. Per la prima ipotesi, se le persone che si risposano divorziano più frequentemente è perché esse sono diverse dalle altre, cioè sono più secolarizzate e sono più disposte a ricorrere al divorzio nel caso in cui il loro matrimonio sia infelice. Per la seconda ipotesi, FAMIGLIA E MAMMONio 455 invece, le differenze vanno ricercate non nelle persone che si risposano ma nella qualità del rapporto che nasce con le seconde nozze. E questo rapporto è molto più difficile di quello delle prime nozze sia perché le famiglie ricostituite sono strutturalmente più complesse e hanno confini più ambigui sia perché esse non sono ancora pienamente istituzionalizzate. A differenza cioè di chi fa parte di una famiglia coniugale, chi vive in una famiglia ricostituita non ha di fronte a sé dei modelli di comportamento socialmente accettati e condivisi da seguire e da utilizzare per affrontare i vari problemi che si trova di fronte. L'educazione è l'azione esercitata dalle generazioni adulte su quelle che non sono ancora mature per la vita sociale. Essa ha lo scopo di suscitare e di sviluppare nel bambino un certo numero di stati fisici e morali che richiedono da lui sia la società politica nel suo insieme che il settore particolare al quale egli è specificamente destinato [Durkheim 1922, trad. it. 19721. L'educazione è infatti una e molteplice. Molteplice perché ve ne sono tanti tipi quanti sono gli strati in cui si articola una società. In India, ad esempio, essa variava considerevolmente da una casta all'altra e la formazione di un Pagina 265
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Brahamano era assai lontana da quella di un Abir, di un bovaro. Nella società di antico regime, vi era una grande differenza fra l'educazione che riceveva un nobile e quella di un artigiano. Ma anche oggi, in tutti i paesi occidentali, la formazione di un imprenditore, di un medico o di un avvocato non ha nulla a che vedere con quella di un operaio o di un contadino. L'educazione tuttavia è anche una, perché tutti questi diversi tipi di formazione poggiano sempre su una base comune. Ogni società, ogni paese, ha un patrimonio di idee, di valori, di conoscenze, che cerca di trasmettere a tutti coloro che vi entrano, qualunque sia la casta, il ceto o la classe a cui appartengono. Come scriveva Durkheim Ubidem] se ogni casta, ogni famiglia ha i propri dei particolari, ci sono però delle divinità che sono riconosciute da tutti e che tutti i bambini imparano ad adorare. E siccome queste divinità incarnano e personificano certi sentimenti, certe maniere di concepire il mondo e la vita, non si può essere iniziati al loro culto senza contrarre, contemporaneamente, tutti i tipi di abitudini mentali che vanno al di là della sfera di vita propriamente religiosa. Così definito, il concetto di educazione si identifica con quello di CAPITOLO 17 socializzazione, di cui abbiamo parlato nel cap. VI. Noi qui però ci occuperemo di come la trasmissione e l'apprendimento di valori, nonne, conoscenze, capacità, linguaggi, avvenga nei sistemi scolastici. Cultura orale Scrittura l. Cultura orale e cultura scritta Nella trasmissione del patrimonio culturale si possono distinguere tre elementi [Goody e Watt 1962-19631. In primo luogo, ogni generazione lascia alla successiva la cultura materiale della società in cui è vissuta, l'insieme di strumenti e di oggetti che ha a sua volta ereditato o che ha prodotto: zappe ed aratri, frese ed automobili, strade, ponti e case. In secondo luogo, ogni generazione trasmette alla seguente i modi di agire standardizzati, che possono essere comunicati anche senza mezzi verbali: il modo per accendere il fuoco, per cuocere il cibo, coltivare la terra, trattare i bambini e gli anziani. In terzo luogo, da una generazione all'altra passano le conoscenze e i valori che possono essere trasmessi solo attraverso le parole, per via orale o scritta. Per più del 99% della loro storia, gli esseri umani hanno vissuto in culture solo oralì, nelle quali l'educazione ha avuto luogo, in famiglia o sul lavoro, con contatti faccia a faccia, con una lunga serie di conversazioni. Le pitture nelle caverne e le incisioni sulle rocce ritrovate dagli archeologi mostrano che nella preistoria gli esseri umani iniziarono ad esprimersi in forma grafica con segni che avrebbero in seguito condotto a diversi tipi di ideogrammi, cioè di simboli rappresentanti un'immagine o un'idea. Ma questo sistema era poco adatto per la comunicazione, perché permetteva di dire solo poche cose usando molti segni. Nel quarto millennio a. C. si svilupparono forme più avanzate di scrittura, con i logogrammi, cioè con segni grafici che indicavano una parola. Un passo avanti decisivo fu fatto però con l'introduzione del principio fonetico, che prevedeva che ciascun suono fosse espresso con un segno grafico. Fu tuttavia solo dal 650 al 550 a. C. che, nelle città stato della Grecia, venne creato il primo sistema completo di scrittura alfabetica, che esprimeva i singoli suoni linguistici con segni vocalici e consonantici, e che di qui si diffuse in seguito in tuttò il mondo. Fra l'introduzione della scrittura e la sua diffusione generale è trascorso un lunghissimo periodo di tempo: più di un millennio. A lungo, anche coloro che la conoscevano usarono la scrittura solo come un ausilio alla memoria e continuarono a servirsi esclusivamente della comunicazione orale. Inoltre, un'alta quota della popolazione è rimasta per molti secoli analfabeta. Da quanto ne sappiamo, il processo di alfabetizzazione fece grandi passi avanti ad Atene e a Roma. Ma la quota di persone che sapevano leggere e scrivere diminuì nei secoli successivi, almeno fino al Mille. Periodi di ristagno si alternarono in seguito a periodi di ripresa nella diffusione della scrittura. L'invenzione EDUCAZIONE E ISTRUZIONE 459 della stampa a caratteri mobili, che avvenne alla metà del Quattrocento, segnò senza dubbio una svolta in questa lunga storia, perché fece diminuire drasticamente i costi di produzione dei libri, rendendo il loro acquisto accessibile ad un numero sempre maggiore di persone. Secondo molti studiosi [Goody e Watt 1962-1963; Goody 1977; Havelock 19631 il passaggio dalla cultura orale a quella scritta ha avuto conseguenze di grande Pagina 266
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt portata. Ha dato maggiore importanza all'occhio (una modalità sensoriale altamente spazializzante) e minore all'orecchio. Ha rafforzato la sfera privata, l'introspezione, il distacco, Ha fatto nascere l'individualismo. Ha favorito lo sviluppo del pensiero logico-empirico e della scienza. Ha provocato un mutamento nell'atteggiamento verso a passato, facendo emergere la distinzione fra mito e storia, perché la scrittura permette di conservare un numero illimitato di documenti e di «mettere l'uno accanto all'altro le varie descrizioni dell'universo o del panteon e quindi di percepire le contraddizioni fra esse esistenti» [Goody 1977, trad. it. 1990, 241. Ha favorito, almeno nella Grecia antica, lo sviluppo della democrazia politica, facendo sì che la maggioranza dei cittadini fosse in grado di leggere le leggi e di prendere parte alla loro approvazione. Ha reso possibile lo sviluppo della burocrazia moderna, che è basata non solo su regole scritte e sull'esistenza di archivi, ma anche su metodi di reclutamento spersonalizzati. t difficile dire fino a che punto tutto questo sia vero. Quello che è certo è che il passaggio dalla cultura orale a quella scritta è stato accompagnato dalla nascita e dallo sviluppo della scuola. Fino a quan- Nascita do il patrimonio culturale è stato trasmesso esclusivamente con rap- della scuola porti faccia a faccia e con conversazioni, la socializzazione è avvenuta all'interno della famiglia e del gruppo dei pari. I genitori o altri adulti insegnavano ai bambini a memorizzare storie, canti, ballate. Quando invece si è cominciato a servirsi della scrittura come mezzo di comunicazione, una parte crescente dell'educazione ha avuto luogo nella scuola (anche se, come vedremo più avanti, in casi eccezionali è ai genitori che le autorità politiche e religiose hanno assegnato il compito di insegnare a leggere ai giovani). Fu infatti nel V secolo a. C., dopo la creazione del primo sistema di scrittura alfabetica, che in Grecia nacque la scuola elementare, dove si insegnava a leggere, a scrivere e a fare di conto e che i bambini iniziavano a frequentare a sette anni. Imitando il maestro, essi imparavano a scrivere le lettere sulla sabbia, su tavolette di cera e poi sul papiro. Questo modello fu ripreso da Roma dove le scuole elementari ebbero un forte sviluppo nel Il e nel I secolo a. C. Pur avvicinando alla nuova forma di comunicazione scritta tutti o quasi tutti, la scuola ha creato nuove disuguaglianze e divisioni fra i vari gradi di alfabetizzazione. Come ha scritto l'antropologa americana Margaret Mead, «l'educazione primitiva era un processo che manteneva una continuità tra genitori e figli [... 1 L'educazione moderna sotto460 CAPITOLO 17 linea invece il ruolo della funzione educativa nel creare discontinuità: nel rendere alfabeta il figlio dell'analfabeta» [cit. in Goody e Watt 1962-1963, trad. it. 1973, 3891. 2. Teorie sull'istruzione Le principali teorie riguardo all'educazione e ai sistemi scolastici sono le stesse tre che abbiamo visto nel cap. XI parlando della stratificazione sociale: funzionalista, marxista, weberiana. In generale, la teoria funzionalista considera la società come un sistema di parti interdipendenti, che compiono determinate funzioni utili o necessarie alla sopravvivenza dell'intero sistema. Le funzioni svolte dall'istruzione sono la socializzazione, il controllo sociale, la selezione e allocazione degli individui nelle varie occupazioni, l'assimilazione degli immigrati nella società di arrivo. La teoria marxista e quella weberiana mettono invece l'accento sul conflitto e considerano l'istruzione come un'arma nelle lotte per il dominio. Per la teoria marxista, quest'arma è di solito nelle mani della classe dei proprietari dei mezzi di produzione, che se ne servono per mantenere l'ordine sociale esistente. Per la teoria weberiana, l'istruzione è al centro di una lotta che ha luogo fra classi, ceti e gruppi di potere. Se questi sono i principi generali delle tre teorie, vediamo come esse spiegano la forte espansione dell'istruzione che ha avuto luogo nell'ultimo secolo in tutto il mondo. 2.1. La teoria funzionalista Per spiegare lo sviluppo dell'istruzione che vi è stato nella società moderna, i sociologi di impostazione funzionalista, hanno applicato alla scuola la più generale teoria della stratificazione sociale che abbiamo incontrato nel cap. XI. Secondo i funzionalisti, l'espansione dell'istruzione sarebbe una conseguenza della modernizzazione e della crescente differenziazione istituzionale, un effetto della tendenza della società a diventare più complessa, ad articolarsi in un gran numero di ruoli, alcuni dei quali richiedono «capitale umano strategico», cioè personale altamente qualificato in Pagina 267
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt grado di svolgere le «occupazioni strategiche della società moderna»: imprenditori, manager, scienziati, ingegneri, medici, architetti, insegnanti. Più analiticamente, questa teoria può essere articolata nelle seguenti proposizioni [Collins 19711: a) A livello di qualificazione richiesto dalle occupazioni della società industriale cresce costantemente attraverso due diversi processi: al) vi è in primo luogo una tendenza all'aumento della percentuale dei posti di lavoro che richiedono un alto livello di qualificazione e una tendenza parallela alla diminuzione di quelli che ne richiedono uno basso; a2) vi è in secondo luogo una tendenza degli stessi posti di lavoro a un costante innalzamento del livello di qualificazione richiesto. b) t l'istruzione fornita dalle istituzioni scolastiche che provvede il livello di qualificazione richiesto. Ciò significa che: b1) l'istruzione rende la forza lavoro più produttiva; b2) essa viene fornita non da molte, ma da un'unica istituzione specializzata: la scuola. c) Ne consegue che man mano che il livello di qualificazione richiesto dalle occupazioni nella società industriale cresce, aumenta la percentuale della popolazione che deve passare attraverso le istituzioni scolastiche, così come aumenta la durata del periodo che questa deve trascorrere in esse. 2 .2. La teoria marxista Del tutto diversa è la spiegazione fornita dagli studiosi che si richiamano al marxismo. Per la verità, Karl Marx si era occupato ben poco dei problemi della scuola. Ma, a partire dagli anni settanta del nostro secolo, alcuni filosofi, sociologì ed economisti hanno elaborato una teoria dell'istruzione sviluppando alcune idee di Marx. A differenza dei funzionalisti, questi studiosi marxisti pensano che, per capire come sono nati, come operano e perché possono cambiare i sistemi scolastici moderni è necessario guardare non ai «bisogni» del sistema sociale o alla domanda di qualificazione proveniente dall'economia, ma ai rapporti di produzione e alla lotta fra le classi sociali. Inoltre, a differenza dei funzionalisti, che considerano la scuola come un canale di mobilità sociale, i marxisti ritengono che essa serva a perpetuare le disuguaglianze esistenti fra le classi. Secondo il filosofo francese Louis Althusser [19701, nella società capitalistica la riproduzione dei rapporti di produzione viene assicurata dall'esercizio del potere di stato negli apparati di stato. Vi sono tuttavia due tipi diversi di apparati di stato: quelli repressivi e quelli ideologici. Dei primi fanno parte il governo, l'amministrazione, l'esercito, la polizia, i tribunali; dei secondi la Chiesa, la famiglia, la scuola, i mezzi di comunicazione di massa. 1 primi appartengono alla sfera pubblica, i secondi a quella privata. 1 primi funzionano con la violenza, i secondi con l'ideologia. Un tempo, l'apparato ideologico dominante era la Chiesa, che svolgeva non solo le funzioni religiose, ma anche quelle educative. Oggi l'apparato ideologico più importante è diventato la scuola. Alla sua influenza sono sottoposti i bambini di tutte le classi sociali, proprio nel periodo della vita in cui sono più vulnerabili. E compito della scuola non è tanto di trasmettere competenze tecniche, quanto piuttosto di inculcare in ciascun ragazzo l'ideologia adatta al ruolo che dovrà svolgere da adulto nella società. Stando così le cose, la scuola è sempre più «non soltanto la posta, ma anche il luogo della lotta di classe». Il principio di corrispondenza Gli economisti neomarxisti americani Sarnuel Bowles e Herbert Gintis [19761 hanno sostenuto che il sistema scolastico serve a perpetuare e a riprodurre il sistema capitalistico. Lo fa in due diversi modi. 1nnanzitutto, promuovendo la credenza (tipica dell'ideologia meritocratica, ma priva - secondo loro - di fondamento obiettivo) che il successo economico dipenda esclusivamente dal possesso di determinate capacità e competenze. In secondo luogo, trasmettendo agli allievi non tanto conoscenze quanto piuttosto quegli attributi non cognitivi (tratti della personalità, modi di presentazione) che permettono agli adulti di svolgere le mansioni loro assegnate perpetuando la divisione gerarchica del lavoro. In genere, la scuola premia la docilità, la passività e l'obbedienza e scoraggia la spontaneità e la creatività. Vi sono tuttavia differenze importanti a seconda della probabile posizione economica futura degli studenti. La socializzazione al rispetto massimo delle regole è tanto più importante quanto più è probabile che lo studente vada a fare un lavoro manuale monotono e malpagato. E sistema scolastico opera in questo modo non perché lo vogliano consapevolmente gli insegnanti o i presidi, ma perché esiste una «stretta corrispondenza» fra i rapporti sociali che vi sono a scuola e quelli che vigono nel mondo della produzione. In genere, infatti, fra gli studenti e gli insegnanti e fra questi e Pagina 268
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt i loro superiori (in Italia: i presidi e i provveditori) vi è la stessa divisione gerarchica del lavoro esistente nelle aziende. Ma gli aspetti più importanti della corrispondenza sono tre. In primo luogo, gli studenti hanno tanto poco potere sul loro curriculum di studi quanto i lavoratori sulle loro mansioni. In secondo luogo, sia l'istruzione che il lavoro sono attività puramente strumentali, che vengono svolte non per il piacere o il senso di realizzazione che danno, ma per ottenere premi (il voto a scuola, il salario in azienda) o per evitare conseguenze spiacevoli (la bocciatura in un caso, il licenziamento nell'altro). In terzo luogo, alla frammentazione del lavoro nel mondo della produzione corrisponde una fortissima competizione fra gli studenti provocata dal sistema di valutazione del loro rendimento da parte degli insegnanti. Tipi di potere secondo Weber 2.3. La teoria weberiana Secondo Max Weber è impossibile analizzare i sistemi di istruzione e i mutamenti che essi hanno subito nel corso del tempo senza tener conto della stratificazione sociale e degli interessi e dei conflitti che essa crea. Come vedremo nel cap. XXI, per Weber i tipi fondamentali di potere sono tre: carismatico, tradizionale, legale-razionale. Per ogni tipo di potere vi è un diverso ideale educativo. A quello carismatico corrisponde l'ideale dell'iniziato, della persona cioè che ha accesso ad un sapere segreto tramite prove e cerimonie (un eroe guerriero, un guaritore, un procacciatore di piogge, un esorcista, un sacerdote) E carisma (cioè le qualità eroiche e i doni magici) non può essere insegnato. Può solo essere risvegliato (se esiste in nuce) con una rinascita della personalità. «La rinascita, e quindi lo svolgimento della qualità carismatica, l'esame, la prova e la selezione del qualificato, costituiscono il senso genuino dell'educazione carismatica» [Weber Al potere tradizionale corrisponde l'ideale dell'uomo colto. Il fine dell'educazione è in questo caso il «raffinamento» della persona, cioè la «trasformazione della condotta della vita esteriore e interiore». La definizione di uomo colto varia tuttavia a seconda delle condizioni sociali dello «strato dei detentori del potere». Così questo può essere educato in modo cavalleresco o ascetico oppure in modo letterario o con la ginnastica e la musica o seguendo il modello anglosassone del gentleman. Al potere legale-razionale corrisponde l'ideale dello specialista. L'istruzione che viene fornita ai giovani ha un'immediata utilità pratica, nelle officine e negli uffici, nei laboratori scientifici e negli eserciti. La preparazione specialistica è promossa dallo sviluppo dell'amministrazione burocratica, che «esercita un potere in virtù del sapere». t in questa fase che istruzione ed esami assumono la massima importanza. Come scrive Weber ciò che fu la prova degli antenati come presupposto della discendenza è oggi il titolo di studio. La configurazione dei titoli di studio [ ... 1 serve alla formazione di un ceto privilegiato negli uffici e nelle amministrazioni contabili. E suo possesso sorregge la pretesa [ ... 1 soprattutto alla monopolizzazione delle posizioni di vantaggio sociale ed economico a favore degli aspiranti muniti di titolo di studio. Quando sentiremo esigere ad alta voce l'introduzione del procedimento disciplinato di formazione e delle prove di qualificazione in tutti i campi, ciò non costituirà naturalmente un'«ansia di cultura» 1 ... Il ma il tentativo di limitare le assunzioni alle cariche e di monopolizzarle a favore dei possessori del titolo di studio. L'«esame» è oggi il mezzo universale di questa monopolizzazione [ibidem, 311-3121. Questo brano è stato più volte citato dagli studiosi che hanno ripreso e sviluppato alcune idee di Weber per analizzare l'andamento dell'istruzione nella società moderna [Parkin 1979, trad. it. 1985, 47; Collins 1979, vii]. Secondo questi studiosi, lo sviluppo dell'istruzione che si è avuto nella società moderna non è dovuto tanto all'aumento della domanda di qualificazione tecnica proveniente dall'economia come sostiene la teoria funzionalista - quanto piuttosto alle azioni condotte dai vari ceti sociali per mantenere e migliorare la propria posizione nel sistema di stratificazione. Sono queste azioni che hanno provocato il fenomeno del credentialism, del «credenzialismo», cioè CredenzWismo. Juso inflazionato dei titoli di studio come mezzi per controllare l'accesso alle posizioni chiave nella divisione del lavoro» [Parkin 1979, trad. it. 1985, 471. 464 CAPITOLO 17 zazione M'onopoliz Pagina 269
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 4ne posizioni e tiA di studio ISUUziOe di ceto Nel cap. XVI abbiamo visto che per Weber i ceti cercano di massimizzare le ricompense restringendo gli accessi alle risorse a un numero limitato di persone che abbiano determinati requisiti. Nel brano appena riportato, egli rilevava anche che, già all'inizio del nostro secolo, esami e titoli di studio avevano acquistato un'enorme importanza nelle strategie di chiusura e di «monopolizzazione delle posizioni di vantaggio sociale ed economico». Rifacendosi a questa impostazione, molti sociologi sostengono oggi che le professioni (gli avvocati, i medici, gli architetti, gli ingegneri) tendono a raggiungere il monopolio del diritto di fornire determinati servizi (visitare un malato e prescrivergli una medicina, difendere in tribunale la causa di un cliente, presentare un progetto di costruzione di un edificio) e, attraverso l'uso di credenziali educative, del diritto di decidere chi può farlo [Collins 19791. Coloro che si richiamano a questa teoria sostengono inoltre che i ceti elevati hanno influito sulla struttura interna dei sistemi scolastici e sulle materie che vi venivano insegnate [Collins 19771. Dal momento che ciò che unisce i componenti di un ceto è una cultura comune, usata come segno distintivo di appartenenza al gruppo, l'istruzione di ceto ha avuto per molto tempo, e ha tuttora, notevole importanza. Completamente staccata dalle attività pratiche, essa ha avuto spesso natura estetica e cerimoniale. In Cina, ad esempio, gli esami imperiali, che davano accesso a posizioni assai elevate nella gerarchia sociale, si svolgevano sulla base delle abilità letterarie e della eleganza della calligrafia del candidato. In Europa, le scuole di maggior prestigio sono state quelle in cui si insegnavano i classici, il greco e il latino. In esse come ha osservato un grande storico sociale inglese - i giovani dei ceti più agiati venivano iniziati «ai misteri tribali ed ai segreti degli antenati, che erano espressi in una lingua morta e segreta» [Stone 1969, trad. it. 1978, 1811. 3. Fatti e teorie Le teorie che abbiamo ricordato sono sicuramente utili per capire cosa è avvenuto e sta avvenendo in questo settore. 1 dati di cui disponiamo mostrano tuttavia che le variazioni nello spazio e nel tempo dell'istruzione non possono essere spiegate solo come risposta ai «bisogni» del sistema sociale e alla domanda di qualificazione proveniente dall'economia (come dice la teoria funzionalista) o come effetto dei conflitti di classe o di ceto (come sostengono la teoria marxista e quella weberiana). Molti altri fattori hanno influito sull'andamento dell'istruzione. Noi ne esamineremo tre: la religione, le concezioni che della scuola hanno avuto i gruppi dominanti, lo sviluppo dello stato nazionale. EDUCAZIONE E ISTRUZIONE 465 3.1. La reiigione La fig. 17.1 mostra che, all'inizio del XX secolo, fra le varie regioni dell'Europa vi erano profonde differenze riguardo al tasso di alfabetismo. L'area più progredita, in cui la quota della popolazione che sapeva leggere e scrivere superava il 90%, si estendeva dalla Svezia alla Svizzera, passando per la Germania, ma comprendeva la Francia orientale, i Paesi Bassi, buona parte dell'Inghilterra e la Scozia. L'analfabetismo dominava invece in Russia, nella penisola Balcanica, in Itaha, in Spagna e nel Portogallo. Ma anche all'interno dei paesi mediterranei vi erano notevoli differenze. In Italia, ad esempio, il tasso di alfabetismo del Piemonte, della Liguria e della Sardegna arrivava all'80%, mentre quello della Calabria era di poco superiore al 20%. Il confronto fra le regioni del nostro paese può far pensare che in tutta Europa il tasso di alfabetismo dipendesse solo o esclusivamente dal livello di sviluppo economico. Ma questo non è vero. Basti pensare che la Svezia e la Scozia, che erano i paesi con la quota più alta di persone che sapevano leggere e scrivere, avevano una percentuale di addetti all'industria assai bassa, simile a quella del Portogano. Mentre il Belgio era assai avanzato dal punto di vista economico, ma non da quello della diffusione dell'istruzione. A ben vedere, le differenze esistenti all'inizio del XX secolo nel Alfabetizmione. grado di istruzione fra le varie regioni europee erano in gran parte ri- e 0rotestantesirno conducibili al peso delle varie confessioni religiose e al diverso atteggiamento che cattolici e protestanti hanno a lungo avuto nei riguardi dell'alfabetizzazione e dei libri. Infatti, alla testa del processo di sviluppo dell'istruzione vi sono stati i paesi protestanti, in coda quelli cattolici. Vi è chi ha sostenuto che la spinta all'alfab etizz azione sia Pagina 270
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt venuta dal cristianesimo, che è una religione dei libri, cioè delle Scritture. Ma in realtà, più che dal cristianesimo tale spinta è venuta dal protestantesimo. Le ricerche storiche hanno dimostrato che la Riforma protestante diede un contributo straordinario alla diffusione della scolarizzazione. Le dottrine protestanti sostennero che, per diventare consapevole della fede e della vita cristiana, per raggiungere la salvezza, ciascun individuo doveva «vedere con i propri occhi» le Sacre Scritture, leggerle da solo nella propria madre lingua. Esse dunque si impadronirono dell'invenzione della stampa a caratteri mobili e promossero la pubblicazione di Bibbie in volgare, libri di preghiera e di catechismo. La Chiesa cattolica reagì negativamente a quanto stava avvenendo. Vietò ai fedeli l'accesso alle Bibbie in volgare, allontanandoli così dalle Scritture e dalla scrittura. Divenne sempre più diffidente nei confronti degli individui che leggevano da soli, che vennero considerati degli eretici potenziali. Intensificò il culto dei santi e si trasformò in una cultura dell'immagine, proprio mentre il protestantesimo si affermava come cultura del libro e dell'istruzione. Così, mentre durante il Medioevo e il Rinascimento la zona d'Europa 466 CAPITOLO 17 FIG. 17. L Tassi di alfabetizzazione dei paesi europei nel 1900. Fonte: Todd [19901. EDUCAZIONE E ISTRUZIONE 467 in cui l'istruzione era più diffusa era stata quella mediterranea, dopo la Riforma divenne quella settentrionale [Stone 19691. In Scozia, già nel 1560 la Chiesa presbiteriana lanciò il primo appello per la realizzazione di un sistema scolastico nazionale e un secolo dopo riuscì a fare approvare alcune leggi a favore di questo sistema, che offriva la stessa istruzione sia ai poveri che ai ricchi e che veniva finanziato con il ricavato di una tassa pagata dai proprietari terrieri. In Germania, fra il 1530 e il 1540 furono approvate numerose leggi sull'istruzione e anche i villaggi più piccoli furono obbligati a istituire scuole, mentre ai cittadini fu chiesto di mandare i figli a scuola e di contribuire alle spese per la loro educazione. Ma fu in Svezia che i protestanti ebbero maggiore successo in questo campo attraverso una efficace campagna di alfabetizzazione con la quale la gente fu convinta dell'importanza di imparare a leggere. La legislazione ecclesiastica del 1686 prescriveva che bambini, braccianti e servi «imparassero a leggere e a vedere con i propri occhi ciò che il Santo Verbo di Dio comanda» In mancanza di scuole, questo obiettivo fu perseguito all'interno della famiglia. Il capofamiglia era ritenuto responsabile dell'educazione dei figli e dei servi e, con i libri dei Salmi e la Bibbia, doveva insegnare loro a pregare e a leggere. La comunità esercitava una forte pressione sulle famiglie, sottoponendole a controlli periodici. Nei villaggi ci si riuniva una volta all'anno per vedere se i genitori avevano svolto con scrupolo il loro compito e i figli avevano imparato a leggere e conoscevano la Bibbia. L'adulto che non superava questo esame non era ammesso alla comunione e, di conseguenza, non poteva né giurare davanti ad un tribunale né sposarsi. Così, come osservava all'inizio dell'Ottocento un viaggiatore, in Svezia «al fatto di non saper leggere è unito un gran disonore» gohansson 1986, 2091. In questo modo, alla fine del XVII secolo, quasi tutti i giovani sapevano leggere (anche se non tutti questi sapevano scrivere). Il processo di alfabetizzazione toccò tutti gli strati della popolazione: donne e uomini, poveri e ricchi. Come scrisse nel 1833 uno statistico, «tra migliaia di contadini svedesi non ce ne è uno che non sappia leggere [ ...1 Anche quando la casetta del contadmio rivela la povertà più estrema, in essa si potrà sempre trovare un libro dei Salmi, una Bibbia, una raccolta di sermoni ed a volte parecchi altri libri religiosi [ibidem, 2071. 3.2. Le concezioni dei gruppi dominanti «L cosa vantaggiosa o è cosa dannosa per lo Stato avere contadini che sappiano leggere e scrivere?» Nel 1746, l'Accademia di Rouen organizzò un dibattito per dare una risposta a questo interrogativo. Ma per secoli questo problema è stato discusso infinite volte in Europa e i sovrani o i governi o i gruppi detentori del potere politico han468 CAPITOLO 17 no avuto in proposito idee del tutto diverse. Alcuni hanno visto nell'istruzione di massa un grave pericolo. In genere perché erano convinti che, come scrisse all'inizio del Settecento Bernard de Mandeville, «se un cavallo ne sapesse Pagina 271
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt quanto un uomo non mi piacerebbe essere fl suo cavaliere». Ma gli argomenti più spesso usati contro la diffusione dell'istruzione furono due. Li troviamo ben espressi nel discorso in cui, all'inizio dell'Ottocento, il presidente della Royal Society inglese motivò la sua opposizione al progetto di istituire scuole elementari in tutto il paese. Egli osservava L'istruzione insegnerebbe al popolo a disprezzare la loro posizione nella vita, invece di fame buoni servitori in agricoltura e negli altri impieghi a cui la loro posizione E ha destinati. Invece di insegnare loro la subordinazione E renderebbe faziosi e ribelli, come s'è visto in talune delle contee industrializzate. Renderebbe loro possibile leggere pampblets sediziosi, libri pericolosi e pubblicazioni contro la cristianità. Li renderebbe insolenti ai loro superiori: in pochi anni il risultato sarebbe quello di mettere il governo nella condizione di dover usare la forza contro di loro [cit. in Cipolla 1969, trad. it. 1971, 62-631. In altri gruppi dirigenti e in altri momenti ritroviamo invece l'idea, che ha finito per affermarsi in tutti i paesi occidentali, che la diffusione dell'istruzione fra tutta la popolazione fosse la politica migliore da seguire. A favore di questa tesi sono state presentate molte argomentazioni. Si è detto che l'istruzione popolare era ciò che distingueva un popolo civile da uno barbaro; che essa era la migliore strada per raggiungere l'unificazione nazionale; che aveva effetti positivi sulla moralità della popolazione. Ma l'argomentazione più importante a favore della diffusione dell'istruzione è che questa era il miglior mezzo di controllo sociale. Ritroviamo queste diverse concezioni dell'istruzione anche nei vari stati dell'Italia preunitaria. Così, ad esempio, nello Stato pontificio dominava il modello del controllo sociale attraverso l'ignoranza del popolo, come risulta da questo documento del 1853: se anche si diffondesse la cultura a minute proporzioni, avverrebbe sempre che il popolo perderebbe la primitiva ingenuità e semplicità, si allontanerebbe dalle tradizioni, non amerebbe più come prima la pressione dell'autorità; l'insegnare a leggere e a scrivere al popolo è cosa di poca utilità, e che può portare funesti effetti [Formiggini Santamaria 1909, 1151. Nel Granducato di Toscana si fece invece a poco a poco strada il modello opposto, del controllo sociale attraverso la diffusione dell'istruzione. In una memoria al Granduca del 1838 si legge infatti: «dove vi è più istruzione nella massa, il popolo è più costumato, e tranquillo: rispetta i magistrati, eseguisce le leggi, apprezzandone i vantaggi e riconoscendo la necessità del vincolo, che la società civile costituisce e conserva» [cit. in Angeli 1908, 3781. EDUCAZIONE E ISTRUZIONE 469 Dopo l'Unità, la classe dirigente italiana si trovò di fronte alla necessità di creare una coscienza nazionale e di fare accettare a tutti il nuovo sistema sociale e politico, e dunque si rifece al secondo modello, proclamando per la prima volta l'obbligatorietà e la gratuità dell'istruzione primaria. Ma tenne anche conto delle preoccupazioni dei gruppi più conservatori e seguì quell'impostazione che fu efficacemente sintetizzata dalle parole del ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino: «consideriamo bene che dalla scuola primaria i figliuoli del popolo debbano ritrarre conoscenza e attitudini utili alla vita reale delle famiglie e de luoghi, e conforto a rimanere nella condizione sortita dalla natura, anziché incentivo ad abbandonarla» [cit. in Vigo 1993, 601. 3.3. Lo sviluppo dello stato nazionale La nascita e lo sviluppo degli stati nazionali sono stati accompagnati dal riconoscimento di numerosi diritti di cittadinanza. Essi possono essere distinti, come vedremo al cap. XXI, in tre tipi: diritti civili, come la libertà di pensiero e di parola; diritti politici, come quello di voto e di accesso agli uffici pubblici; diritti sociali, quali quelli ad un minimo di benessere economico e di sicurezza. Fa parte di quest'ultimo gruppo il diritto-dovere all'istruzione elementare. Contrariamente a quanto ci si può aspettare seguendo la teoria funzionalista, il riconoscimento del diritto all'istruzione elementare ha preceduto il processo di industrializzazione. Questo diritto inoltre fu concesso più tardi in Inghilterra (che fu alla testa di questo processo) che in paesi meno sviluppati come la Prussia. Nel corso del XIX secolo, comunque, questo diritto fu proclamato in quasi tutti i paesi occidentali (tab. 17.1). Varie ricerche hanno mostrato che i paesi nei quali ha avuto origine la scuola di massa sono quelli in cui il concetto moderno di sovranità e il principio di Pagina 272
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt nazionalità si sono affermati prima [Meyer et al. 19921. Gli stati nazionali si basavano infatti su alcune idee di fondo che favorivano la nascita e lo sviluppo dei sistemi scolastici [Boli et al. 1985; Ramirez e Boli 19871. In primo luogo, pensavano che l'attore principale della società e dello stato fosse non un gruppo corporato, come la famiglia o la tribù, ma l'individuo. In secondo luogo, ritenevano che la nazione altro non fosse che un insieme di individui e, di conseguenza, che lo sviluppo nazionale presupponesse quello individuale. In terzo luogo avevano fiducia nel futuro e nel progresso. In quarto luogo, attribuivano grande importanza all'infanzia, fase nella quale gli individui erano ancora malleabili e potevano dunque essere formati. Erano di conseguenza convinti che, con la scuola e un corpo di insegnanti professionisti, fosse possibile formare adulti leali e produttivi, contribuendo in questo modo allo sviluppo della nazione. sviluppo dei sistemi scolastici 470 CAPITOLO 17 TA» 17. 1. Anno. di introduzione delrobbugo s"sticoe tasso di isa*ìóoe: alla scuola ptimaria ne@ 1870, perpaese Paese Anno introduzione Tasso iscrizione obbligo scolastico scuola primaria Prussia 1763 67 Danimarca 1814 58 Grecia 1834 20 Spagna Svezia 1838 1842 42 71 Portogallo Norvegia Austria 1844 1848 1864 13 61 40 Svizzera 1874 74 Italia 1877 29 Regno Unito Francia 1880 1882 49 75 Irlanda 1892 38 Olanda 1900 59 Lussemburgo Belgio Stati Uniti 1912 1914 62 72 Fonte: Soysal e Strang [19891. 4. Somiglianze e differenze Fra i paesi occidentali vi sono oggi significative differenze riguardo all'istruzione, ma esse si sono ridotte nel corso dell'ultimo mezzo secolo e Pagina 273
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt tutto fa pensare che diminuiranno ulteriormente in futuro. E' questa la conclusione a cui si giunge mettendo a confronto questi paesi riguardo a quattro aspetti dell'istruzione. E primo aspetto è il grado di diffusione dell'istruzione nella popoDiffusione lazione. Come abbiamo visto, all'inizio del XX secolo vi erano fra dell'istruzione questi paesi enormi differenze nel tasso di iscrizione alla scuola elementare e in quello di analfabetismo. A poco a poco tali differenze si sono attenuate e poi sono del tutto scomparse. Lo stesso è avvenuto per i tassi di iscrizione alla scuola media inferiore. Differenze rilevanti permangono oggi invece nella diffusione dell'istruzione secondaria superiore. I dati della tab. 17.2, riguardanti quattro coorti di età, indicano che in tutti i paesi dell'Ocse l'istruzione ha avuto una forte espansione anche a questo livello. Prendendo però in considerazione la quota delle persone da 25 a 34 anni che nel 1992 aveva ottenuto A diploma di scuola media superiore, possiamo dividere questi paesi in tre gruppi. Nel primo rientrano quelli con una quota che va dall'80 al 90%: Canada, Stati Uniti, Regno Unito, Finlandia, Norvegia, Svezia e Svizzera. Dell'ultimo fanno invece parte i paesi in cui questa quota non ha superato la soglia del 50%: Italia, Portogallo, Spagna e Turchia. Tutti gli altri paesi si trovano nel gruppo intermedio. EDUCAZIONE E ISTRUZIONE 47 1 TAB. 17.2. Percentuale della popolazione di quattro classi di età che ba terminato la scuola media superiore, nel 1992, in alcuni paesi Classi di età 25-34 35-44 45-54 55-64 America del nord Canada Stati Uniti 81 78 65 49 86 88 83 73 Area Paciftco Australia 57 56 51 42 Nuova Zelanda 60 58 55 49 Comunità europea Belgio 60 51 38 24 Danimarca 67 61 58 44 Franda 67 57 47 29 Germania 89 87 81 69 Irlanda 56 44 35 25 Italia Pagina 274
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 42 34 21 12 Olanda 68 61 52 42 l'ortogallo 21 17 472 CAPITOLO 17 Struttura interna dei Sisterni scolastici Mobilità conipe titiva Mobilità cooptativa Il terzo aspetto riguarda la struttura interna dei sistemi scolastici e a momento in cui essi prevedono la separazione fra gli studenti che possono e quelli che non possono entrare all'Università. Da questo punto di vista, è utile distinguere due tipi diversi di sistema scolastico: a primo, che troviamo negli Stati Uniti, a selezione tardiva; il secondo, tipicamente europeo, a selezione precoce. Il primo prevede per tutti gli studenti una scuola secondaria unica, al termine della quale essi possono decidere se proseguire gli studi superiori. Anche se nella scuola secondaria vi sono corsi diversi, si tengono il più possibile aperti i canali di scorrimento fra l'uno e l'altro, evitando ogni netta separazione fra gli studenti più capaci e motivati e gli altri. E secondo sistema, dopo pochi anni di istruzione comune, si biforca in scuole propedeutiche agli studi secondari superiori e universitari (frequentate in genere dai giovani delle classi sociali medio alte) e in scuole vicolo cieco o fini a se stesse, che non permettono invece il passaggio ai livelli superiori (alle quali si iscrivono di solito i giovani delle classi sociali più basse). Così, ad esempio, fino alla metà degli anni settanta, il sistema scolastico inglese prevedeva, dopo la scuola primaria (che terminava a 11 anni), tre diversi tipi di scuola secondaria: la grammar school, con studi di carattere teorico; la modern school, con un insegnamento di carattere più pratico, e la tecbnical scbool, che impartisce una preparazione tecnico-professionale. Solo gli allievi della prima proseguivano gli studi e si iscrivevano all'università. Analogamente, fino al 1962, il sistema scolastico italiano consentiva di iscriversi, al termine delle elementari, alla scuola media, che dava accesso alle secondarie superiori e all'università, e alla scuola di avviamento, che non permetteva il passaggio ai livelli più elevati. In uno dei più famosi saggi di sociologia dell'educazione finora pubblicati, lo studioso americano Ralph Turner [19601 ha sostenuto che a questi modelli di sistema scolastico corrispondono due diversi tipi (ideali) di mobilità sociale: il primo competitivo, il secondo cooptativo. Questi due sistemi forniscono una soluzione diversa al problema di «garantire la fedeltà delle classi svantaggiate nei confronti di un sistema in cui i loro membri ricevono meno di una quota proporzionale dei beni della società» [Turner 1960, trad. it. 1978, 2161. Il sistema competitivo incoraggia ciascun individuo a competere con gli altri per raggiungere una posizione socioeconomica preminente, convincendolo che il risultato di questa competizione è esclusivamente nelle sue mani e rimandando il più possibile il momento del primo bilancio della propria carriera. In tal modo, le frustrazioni sopraggiungono quando ormai il sistema sociale esistente è stato accettato e l'insuccesso può essere interpretato in termini di incapacità personali. Nel sistema di mobilità cooptativa, invece il controllo è mantenuto addestrando le masse a considerare se stesse relativamente incompetenti a dirigere la società, restringendo l'accesso alle conoscenEDUCAZIONE E ISTRUZIONE 473 ze, alle capacità e allo stile di vita dell'élite e coltivando la credenza nella superiore competenza dell'élite. Quanto prima avviene la selezione delle reclute, tanto più rapidamente gli altri possono essere socializzati ad accettare la loro inferiorità e a fare programmi più «realistici» che «fantastici» Una selezione che avvenga molto presto previene il sorgere di speranze in un gran numero di Pagina 275
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt persone che possono altrimenti diventare i leader insoddisfatti di una classe che sfida la sovranità dell'élite al potere [ibidem, 2171. Le differenze fra i due tipi di sistema scolastico sono diminuite nel corso del tempo, anche se non sono scomparse. Dall'inizio degli anni sessanta, i parlamenti di molti paesi europei hanno varato leggi di riforma che unificavano la scuola secondaria inferiore e spostavano il momento della selezione e della separazione dagli 11 ai 14 anni. In Italia, nel 1962 è stata istituita la scuola media unica per tutti i ragazzi dagli 11 ai 14 anni. Inoltre, una legge del 1969 ha «liberalizzato» l'accesso all'università ai diplomati di ogni tipo di scuola media superiore. Dunque, in linea di principio, il momento della separazione fra gli studenti che possono e quelli che non possono entrare all'università ha luogo in Italia a 18-19 anni, al termine della scuola secondaria. Fra i vari tipi di scuola secondaria superiore del nostro paese restano tuttavia importanti differenze. Molto diverse sono ad esempio le caratteristiche sociali degli studenti che li frequentano. Per tutti gli indicatori presi in esame nella tab. 17.3 - livello di istruzione dei genitori, uso del dialetto nella comunicazione in famiglia, tempo dedicato a casa allo studio, numero di libri esistenti a casa - vi è una sorta di ordinamento gerarchico che vede al vertice il liceo classico, seguito immediatamente da quello scientifico e, a maggior distanza, dall'istituto tecnico commerciale e, infine, da quello industriale. TAB, 17.3, Cawf"úìébe,socìá1ì4ggJi sMdegti isrrx*oi (nel 199.3) al quinto anno. della.scuola Jiaj supe!vore. tk per'apo. di scao.la Studenti Istituto tecnico Istituto tecnico Liceo Liceo industriale commerciale scientifico classico Con padre diplomato o laureato 27 35 68 70 Con madre diplomata o laureata 20 26 64 71 Impiegano più di un'ora al giorno per andare a scuola 28 10 6 8 Hanno lavorato nell'ultimo anno 55 37 25 22 In famiglia parlano solo italiano 31 38 53 60 In casa hanno più di 100 libri 29 31 64 72 Studiano più di 15 ore alla settimana 20 49 56 67 Fonte: Gasperoni [19961. 474 CAPITOLO 17 5. L'istruzione e le disuguaglianze Nel linguaggio comune, quando si parla di disuguaglianze scolastiche si fa riferimento a cose assai diverse. La prima forma di disuguaglianza è quella nel rendimento scolastico cioè nel diverso grado di conoscenze acquisite dagli allievi nelle materie di insegnamento (italiano o matematica, scienze o storia) misurate o dal giudizio degli insegnanti o con test. La seconda forma di disuguaglianza riguarda le attitudini o l'intelligenza degli allievi. La terza ha a che fare con l'ambiente di origine degli studenti, A gruppo etnico di appartenenza, l'occupazione e il titolo di studio dei genitori, il livello di reddito della farniglia. La quarta forma di disuguaglianza attiene invece aH'ambiente scolastico: le caratteristiche degli edifici dove avvengono le lezioni e le esercitazioni, le attrezzature disponibili (in classe, in laboratorio o nelle palestre), le dimensioni delle classi, le capacità e le esperienze degli insegnanti, i metodi didattici che essi usano. Sociologi e psicologi studiano da molto tempo le relazioni esistenti fra queste forme di disuguaglianze. Essi hanno ad esempio cercato di vedere se la quarta forma influisce sulla prima, arrivando alla conclusione che, contrariamente a quanto si pensa, molti aspetti deTambiente scolastico (ad esempio, il numero di allievi per insegnante, la dimensione della scuola, l'anno di costruzione dell'edificio) hanno effetti trascurabili sul rendimento degli allievi. Ma è soprattutto all'analisi delle relazioni fra le altre tre forme di disuguaglianza che si sono rivolti i sociologi e gli psicologi. 5.1. L'intelligenza e la sua origine Fra gli psicologi non vi è mai stato un accordo completo sulla definizione del concetto di intelligenza. Per superare le difficoltà, alcuni studiosi hanno sostenuto che l'intelligenza è «ciò che viene misurato dai test del Q1 (quoziente di intelligenza)». A chi storce la bocca di fronte a questa affermazione, essi ricordano che i fisici, molto tempo prima di trovarsi d'accordo sulla definizione di calore, inventarono il termometro, che permette di misurare i cambiamenti di temperatura. E così, i test per misurare il QI sono stati utilizzati, in molti paesi occidentali, ininterrottamente dal 1905, anno Pagina 276
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt in cui Alfred Binet creò il primo su incarico delle autorità scolastiche francesi. Da tutti i dati raccolti in molti decenni risulta che A QI degli aflievi è correlato sia con il rendimento scolastico sia con le caratteristiche dell'ambiente di origine. Chi ha un punteggio più elevato nei test di intelligenza apprende meglio e più rapidamente quello che i docenti gli insegnano. Ma gli studenti neri o di gruppi etnici minoritari e quelli di classi sociali svantaggiate raggiungono nei test di intelligenza punEDUCAZIONE E ISTRUZIONE 475 teggi più bassi degli altri. Negli Stati Uniti, ad esempio, i neri ottengono in media quindici punti meno dei bianchi. Alcuni studiosi hanno sostenuto che le differenze nel quoziente di intelligenza fra classi sociali alte e basse e fra neri e bianchi dipendono in gran parte da fattori ereditari Uensen 19691. «Ciò che i test del Q1 misurano - ha scritto Arthur jensen - è dovuto per l'80% a fattori ereditari e per il 20% a quelli culturali». Su questa scia, altri hanno affermato che, dal momento che il quoziente di intelligenza è in parte trasmesso per via ereditaria e poiché il successo nella nostra società dipende in parte dallintelligenza ne consegue che tale successo è dovuto in una certa misura a differenze ereditarie [Hermstein 1971; Hermstein e Murray 19941. Queste affermazioni hanno provocato un violentissimo dibattito, nel quale la grande maggioranza degli psicologi e dei sociologi hanno respinto le tesi di jensen e di Hermstein, per vari motivi. E primo è che i test del QI sono condizionati culturalmente e premiano coloro che che hanno maggiore familiarità con alcune idee e conoscenze. Ad essere favoriti sono in genere i bambini bianchi di classe media, nella cui esperienza rientrano più facilmente quelle forme di ragionamento astratto -presupposto da alcune domande dei test. Ma se queste fossero formulate diversamente, a trame vantaggio sarebbero i bambini di altri ambienti sociali. Se infatti si chiede a un gruppo di bambini di disegnare un cavallo, coloro che vi riusciranno meglio saranno sicuramente quelli di ambiente agricolo che hanno una certa familiarità con questo animale. Analogamente, se si domanda quale, fra i quattro presentati, sia lo scorpione velenoso, è più facile che dia una risposta giusta un bambino allevato nel deserto del Sahara che uno che è vissuto in una città italiana. In secondo luogo, le prove a sostegno della tesi di jensen non sono considerate soddisfacenti. Che l'intelligenza sia in parte innata e in parte appresa, in parte dovuta a fattori ereditari in parte a fattori ambientali, è fuori discussione. Misurare il peso di queste due componenti è tuttavia assai difficile. Per cercare di farlo, gli studiosi hanno messo a confronto gemelli monozigoti (aventi cioè lo stesso patrimonio genetico), separati alla nascita e allevati in famiglie di classe sociale diversa. Quando hanno trovato QI simili, sono arrivati alla conclusione che la componente ereditaria è molto forte. Se infatti il QI è dovuto prevalentemente a fattori ereditari, persone con un patrimonio genetico simile otterranno punteggi analoghi nei test, anche se sono vissuti in ambienti molto diversi. Ma il numero di casi studiati dalle ricerche finora condotte viene considerato troppo esiguo dai critici delle tesi di jensen. 476 CAPITOLO 17 5.2. Classi sociali e successo scolastico Numerosissime ricerche sociologiche sono state condotte nell'Ultimo mezzo secolo in paesi assai diversi, ma tutte sono arrivate alla stessa conclusione: fra la classe sociale di appartenenza e il successo negli studi vi è una relazione positiva. Detto in altri termini, quanto più elevata è la classe di origine, quanto più probabile è che uno studente abbia un buon rendimento scolastico e che continui a lungo gli studi, fino alla laurea ed oltre. Molte di queste ricerche hanno inoltre messo in luce che ciò che influisce maggiormente sul successo negli studi non è A reddito della famiglia di origine o l'occupazione dei genitori, ma fl loro titolo di studio. Di questa relazione fra classe sociale e successo scolastico sono state fornite spiegazioni assai diverse. Per la teoria del deficit, se i giovani provenienti dalle classi sociali più basse hanno un cattivo rendimento scolastico e interrompono presto gli studi è perché, a differenza di quanto avviene nelle classi medie, la famiglia non fornisce loro né le capacità cognitive e linguistiche né i valori, gli atteggiamenti e le aspirazioni che la scuola richiede. Se non riescono a scuola è perché mancano di tutti questi attributi, è perché sono in una situazione di «privazione culturale». Critici nei riguardi di questa impostazione sono i sostenitori della «teoria Pagina 277
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt della differenza», che rimproverano alla teoria del deficit di cercare le cause dei fallimenti e dei ritardi non nelle istituzioni scolastiche, ma esclusivamente nei bambini e nel loro ambiente di origine. Spostando l'attenzione dalla scuola al bambino, la teoria del deficit fa dimenticare le discriminazioni sociali che la prima opera nei confronti del secondo. Come invece vedremo più avanti, varie ricerche hanno mostrato che, se gli allievi provenienti della classi sociali più basse hanno un cattivo rendimento scolastico non è tanto perché sono «culturalmente privati», ma perché questo è esattamente ciò che la scuola e gli insegnanti si aspettano da loro. La spiegazione più convincente della relazione fra classe sociale e successo scolastico è tuttavia quella proposta da Pierre Bourdieu [19661. Secondo questo sociologo francese, se gli studenti delle classi agiate vanno meglio a scuola è perché godono di privilegi sociali. La Capitale culturale famiglia trasmette ai figli un certo capitale culturale, cioè un complesso di conoscenze e di valori, e un certo etbos di classe, cioè un insieme di atteggiamenti nei riguardi della cultura. 19 primo influisce sul rendimento scolastico, il secondo suprattutto sulla durata della carriera scolastica. Questa eredità culturale viene trasmessa non attraverso sforzi metodici, ma per osmosi, contribuendo in questo modo «a rafforzare nei membri della classe colta la convinzione che essi non devono altro che alle doti naturali quelle cognizioni, quelle capacità e quegli atteggiamentì che a loro non appaiono come il risultato di un continuo addestramento» [Bourdieu 1966, trad. it. 1978, 2931. EDUCAZIONE E ISTRUZIONE 477 Trattando tutti gli studenti come se fossero uguali, la scuola conferisce alle differenze culturali di partenza una sanzione forinale, le legittuna e le giustifica. Induce così gli individui a pensare che le disuguaglianze sociali siano dovute alle doti, cioè siano naturali. La scuola accorda inoltre un vantaggio supplementare ai più avvantaggiati, perché «il sistema di valori impliciti che presuppone e che trasmette» è molto simile a quello delle classi più agiate. Quando, ad esempio, gli insegnanti privilegiano le qualità «brillanti» a scapito della «serietà» non fanno altro, a ben vedere, che valorizzare quei tratti che i giovani delle classi agiate hanno acquisito per osmosi dai loro genitori (lo stile, il gusto, lo spirito) e che «sembrano naturali ai componenti della classe colta soltanto perché costituiscono la "cultura" (nel senso degli etnologi) di tale classe» [ibidem, 3021. 6. Istruzione e meritocrazia t cambiata, nel corso del tempo, la forza della relazione fra origine sociale e successo scolastico? La classe sociale dei genitori influisce di più, di meno o come un tempo sul livello di istruzione raggiunto dai figli? Negli ultimi trent'anni i sociologi si sono posti innumerevoli volte queste domande e hanno cercato di dare ad esse una risposta affrontando il problema più generale del ruolo deH'istruzione nei processi di mobilità sociale. Come risulterà chiaro da quello che abbiamo fin qui detto (cap. XI, par. 2.1, cap. XII, par. 5 e par. 2 di questo capitolo), gli studiosi che si rifanno alla teoria funzionalista ritengono che questo ruolo sia costantemente cresciuto e che la società moderna sia diventata sempre più meritocratica. Ciò che caratterizza infatti, secondo loro, tale società è il processo di razionalizzazione, il passaggio dal particolarismo all'universalismo, dall'ascrizione all'acquisizione (achievement), come criterio di selezione e di ricompensa. In altri termini, ciò che in questa società determina la posizione degli individui nel sistema di stratificazione (e dunque la quantità di potere e il livello di reddito e di prestigio di cui godono) è sempre meno l'origine sociale e sempre più le loro doti innate e le competenze acquisite (e dunque il titolo di studio). t questa anzi la principale legittimazione delle diseguaglianze della società moderna. L'idea che la società moderna sia tendenzialmente meritocratica ha trovato anche il consenso di quegli studiosi che, nel corso degli anni settanta, hanno parlato dell'avvento della società postindustriale, perché questa è caratterizzata dalla crescita sia delle professioni che richiedono alti livelli di conoscenza sia delle burocrazie pubbliche e private. Ma i risultati delle principali ricerche condotte in molti paesi occidentali non sembrano dare ragione a queste teorie [Goldthorpe 19941. 478 CAPITOLO 17 Queste ricerche hanno di solito preso in considerazione tre variabili: l'origine sociale 0, il titolo di studio conseguito I e la destinazione di classe D delle Pagina 278
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt persone appartenenti a una determinata popolazione. Ora, secondo la teoria funzionalista, la relazione fra queste tre variabili è cambiata nel corso del tempo. L'influenza dell'origine sociale sul titolo di studio conseguito è diminuita; è diminuita anche quella dell'origine sociale sulla destinazione; ma è aumentata l'influenza del titolo di studio sulla destinazione di classe. Consideriamo innanzitutto le due variabili 0 e I. Oltre a quelle utilizzate dai funzionalisti e dai teorici della società postindustriale, vi sono altre due argomentazioni importanti a favore della tesi che la relazione fra queste due variabili si sia indebolita. La prima è che negli ultimi trent'anni, in molti paesi occidentali, sono state approvate riforme del sistema scolastico di ispirazione egualitaria, che cercavano appunto di ridurre l'influenza della classe sociale dei genitori sul titolo di studio conseguito dai figli. La seconda è che negli ultimi decenni vi è stata una considerevole espansione dell'istruzione, che dovrebbe aver ridotto la forza della relazione fra 0 e i, perché il tasso di iscrizione degli studenti delle classi sociali più basse sarebbe aumentato con velocità maggiore di quello delle classi medio-alte (essendo quest'ultimo già molto elevato) [Boudon 19731. Le ricerche condotte in tredici diversi paesi (dell'Europa occidentale e orientale, dell'Asia e dell'America del nord) hanno mostrato che quello che molti sociologi si aspettavano nella realtà non si è verificato. La tab. 17.4 riporta una sintesi dei risultati di queste ricerche, prendendo in considerazione due indicatori della classe sociale di origine: l'occupazione e il titolo di studio del padre. Osservandola attentamente, il lettore si accorgerà che solo in due paesi (la Svezia e l'Olanda) la forza della relazione fra le due variabili è diminuita. In sei non vi sono stati mutamenti significativi. Per i cinque paesi restanti si hanno risultati misti: riduzione dell'effetto, di uno dei due indicatori della classe di origine e stabilità o addirittura aumento dell'effetto dell'altro. Da tutte queste ricerche risulta comunque che le importanti riforme dei sistemi scolastici che hanno avuto luogo in questi paesi non hanno contribuito a ridurre l'influenza dell'origine sociale sul livello di istruzione raggiunto. Perfino in Svezia e in Olanda, dove questa influenza è invece diminuita, ciò non dipende assolutamente dalle riforme scolastiche [Blossfeld e Shavit 19921. Per quanto riguarda le altre relazioni, alcune ricerche hanno mostrato che l'influenza del livello di istruzione raggiunto sulla destinazione di classe è aumentata (come sostengono i funzionalisti), mentre altre sono arrivate alla conclusione che è rimasta costante o è diminuita. A risultati contrastanti le indagini sono giunte anche per la relazione fra 0 e D [Goldthorpe 19941. EDUCAZIONE E ISTRUZIONE TAB. 17.4. Variazioni nel iempo (coorti & età 1910-1965) delt'influenza deU'opigine scxiak sul nuinero di anni trascorsi a scuola in tredicì paesì Paese Titolo di studio Occupazione del padre del padre Indicatori aggiuntivi Capitalisti occidentali Stati Uniti o Istruzione madre (); origine agricola (-) Germania o o Olanda Svezia Dimensione comunità (-) Gran Bretagna Italia o o Svizzera o o Israele o o Origine agricola (-) Pagina 279
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Capitalisti non occidentali Taiwan Giappone Socialisti Cecoslovacchia Ungheria o Polonia o Istruzione madre (-); origine agricola (0) Legenda: + incremento dell'influenza del singolo indicatore; 0 nessuna variazione di influenza; - riduzione di influenza; -/+ riduzione seguita da un incremento dell'influenza. Fonte: Blossfeld e Shavit [19921. 7. La vita quotidiana nella classe scolastica Abbiamo parlato finora degli aspetti macrosociologici dell'istruzione, vista nelle sue relazioni con la struttura sociale nel suo complesso. Ora invece ci occuperemo degli aspetti microsociologici, esaminando quello che avviene nelle classi scolastiche. t infatti in classe che insegnantì e allievi si incontrano e si scontrano e che trascorrono la maggior parte del tempo che dedicano alla scuola. Ed è qui che avvengono i processi di socializzazione e di selezione. Tre sono le principali impostazioni seguite dalle ricerche su questo microcosmo. La prima riguarda lo stile di leadership degli insegnanti; la seconda le strategie degli insegnanti e degli allievi e le negoziazioni che avvengono fra di loro; la terza l'applicazione alla vita della classe del concetto di profezia che si autoadempie. 7.1. Stili di leadership Iff più famoso esperimento sullo stile di leadership degli insegnanti è stato condotto negli Stati Uniti negli anni trenta dagli psicologi sociali Kurt Lewin, Ronald Lippit e Ralph White. Essi crearono tre 480 CAPITOLO 17 Stfle autoritario, democratic01 l M faire aissez Interazione in classe gruppi di ragazzi di dieci e undici anni assegnando a ciascuno un leader con uno stile diverso: autoritario, democratico, laissez-faire. Il leader autoritario dava ordini e indicazioni, ma non consentiva ai membri del gruppo di partecipare alle decisioni; quello democratico guidava il gruppo coinvolgendolo nel processo decisionale; il leader laissez-faire lasciava i membri del gruppo liberi di fare ciò che volevano, senza dar loro ordini o farli partecipare a discussioni. Dall'esperimento risultò che il gruppo diretto con stile autoritario aveva un livello di produttività più elevato degli altri, ma era anche più aggressivo. Quello diretto con stile democratico era il meno aggressivo e aveva un morale più elevato; A gruppo laissez faire era quello che funzionava peggio da tutti i punti di vista. Altri studiosi hanno distinto fra il comportamento dominativo e quello integrativo dell'insegnante o fra l'influenza indiretta e quella diretta che egli esercita sulla classe. Quest'ultima distinzione è stata proposta dallo psicologo sociale americano Neil Flanders [19701, padre di uno dei metodi più interessanti per studiare l'interazione in classe fra insegnanti e allievi. Secondo questo metodo, il comportamento verbale dei soggetti interagenti viene scomposto in tante unità elementari seguendo una lista di dieci categorie prefissate fornite all'osservatore (riportate nella tab. 17.5). Quest'ultimo ha il compito di codificare ogni tre secondi, in una delle dieci categorie, i comportamenti verbali dell'insegnanate e degli allievi. Così, in una lezione di quaranta minuti vi sono circa 800 unità di registrazione. Come A lettore si accorgerà immediamente guardando la tab. 17.5, questa classificazione è rivolta principalmente a misurare 9 grado di libertà concesso dal docente ai discenti. In ogni situazione, l'insegnate può scegliere di essere «diretto», cioè di ridurre al minimo questa libertà, facendo lezione, dando ordini e direttive o criticando i comportamenti degli allievi che ritiene impropri o scorretti (categorie 5, 6, 7). Oppure egli può essere «indiretto», cioè massimizzare la libertà degli allievi, accettando i loro sentimenti, lodandoli o incoraggiandoli, utilizzando le loro idee, facendo loro domande (categorie 1-4). Le numerose ricerche condotte seguendo questo metodo [Delamont 19781 hanno messo in luce che gli insegnanti parlano per un'enorme quantità di tempo. In genere, nelle classi delle scuole americane, l'insegnante parla per il 68% del tempo, gli allievi per il 20%, mentre nel 12% vi è «silenzio o confusione» Situazioni simili sono state riscontrate dalle ricerche condotte in altri paesi: in Gran Bretagna e in Belgio, in India e in Nuova Zelanda. In Scozia, ad esempio, gli insegnanti di educazione civica parlano per il 77 % del tempo. Vi sono tuttavia differenze significative a seconda dell'età degli allievi, nel senso che la quota del tempo occupata dai discorsi dell'insegnante è tanto maggiore quanto più questi sono grandi. Negli Pagina 280
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Stati Uniti, ad esempio, si va dal 53 % nelle classi dei ragazzi di 9-10 anni al 70% in quelle di 13. EDUCAZIONE E ISTRUZIONE 481 TAB. 173. Categorie deltanalisi deltinterazione in classe di Handers INTERVENTI INSEGNANTE * Accetta i sentimenti degli alunni [cat. i I. * Loda o incoraggia. Loda o incoraggia il comportamento degli allievi. Scherza per ridurre la tensione, ma non a spese degli altri. Accenna di si con il capo o dice «va avanti» [cat. 21. - Accetta o utilizza le idee degli alunni. Accetta e sviluppa le idee suggerite dagli allievi. Anche l'allargamento da parte dell'insegnante di idee dell'allievo rientra in questa categoria [cat. 31. Se le idee dell'insegnate prevalgono, passare alla categoria 5. - Pone domande. Pone domande di contenuto o di procedura con l'obiettivo di avere una risposta dall'allievo [cat. 41. - Fa lezione. Presenta fatti o opinioni riguardo al contenuto o alle procedure; esprime le sue idee; fornisce le sue spiegazioni o cita qualche autorità [cat. 51. Dà istruzioni. Dà indicazioni, comandi o ordini, che si aspetta l'allievo esegua [cat. 61. Critica l'alunno o giustifica le imposizioni. Fa affermazioni rivolte a cambiare il comportamento dell'allievo e a renderlo accettabile; sgrida qualcuno; spiega perché l'insegnante sta facendo quello che sta facendo [cat. 71. INTERVENTI ALUNNO Il Interventi con carattere di risposta. L'allievo risponde all'insegnante. L l'insegnante che dà avvio al contatto, sollecita l'allievo o struttura la situazione. L'allievo ha una liberà limitata di esprimere le proprie idee. Interventi ebe l'alunno fa di sua iniziativa. l@ l'allievo che prende l'iniziativa di parlare; esprime le sue idee; affronta un nuovo argomento; è libero di sviluppare opinioni e linee di pensiero, facendo domande; va oltre la struttura esistente. SILENZIO - Silenzio. Pause, brevi periodi di silenzio alternati a periodi di confusione. Fonte: Flanders [19701. Metà del tempo in cui parla, l'insegnante lo dedica a far apprendere i contenuti della sua materia in senso stretto (ad esempio, della matematica o della storia o geografia), spiegando o interrogando gli allievi. L'altra metà la occupa nell'organizzazione della classe, per mantenere il controllo su di essa e la disciplina. Di solito, egli rende esplicite le sue aspettative sul comportamento degli allievi la prima volta che li incontra. Ma le riafferma e le ribadisce più volte anche in seguito. 7.2. Strategie e negoziazioni Diversa è l'impostazione degli studiosi che si rifanno all'interazionismo simbolico, un indirizzo della psicologia sociale e della sociologia nato negli Stati Uniti ma che ha avuto grande importanza anche in Europa. Essi partono dall'idea che l'azione degli insegnanti e degli allievi, così come quella di tutti gli individui, non è un mero risultato della situazione oggettiva, ma è scelta da questi sulla base del modo in cui essi interpretano questa situazione, dei significati che le attribuiscono. Ad alcuni, ad esempio, la scuola può sembrare un luogo piacevole e stimolante, mentre ad altri può apparire come una vera e propria prigione. In genere, l'insegnante e gli allievi hanno fini diversi ed elaborano strategie diverse per imporre agli altri la loro definizione della situazione. Naturalmente è l'insegnante che ha più potere. Ma il suo dominio sulla classe non è mai completo. Per questo, fra l'uno e gli altri ha luogo un continuo processo di negoziazione, attraverso il quale la realtà della classe viene costantemente definita o ridefinita. La negoziazione implica la ricerca di un accordo. Perché l'insegnamento e l'apprendimento possano avere luogo, è necessario che siano stabilite e mantenute alcune regole. In tutte le scuole vi sono per la verità norme ufficialì, stabilite molto tempo prima che l'insegnante e la sua classe si incontrino per la prima volta e inizino a lavorare, e riguardanti l'ammissione, la frequenza, l'abbigliamento, la valutazione del rendimento e della condotta, l'espulsione. Tuttavia, nella vita quodidiana della classe nascono continuamente nuovi problemi, che richiedono nuove regole, e queste ultime vengono negoziate e rinegoziate fra insegnante e allievi. Numerose sono le tecniche di negoziazione a cui fanno ricorso i principali attori che si muovono sulla scena della classe. L'insegnante può servirsi di quella del «bastone e della carota», dell'appello alle autorità superiori («cosa Pagina 281
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt direbbe il preside?») o del divide et impera. Gli allievi si servono della guerra di logoramento, dell'appello alla giustizia e di quello alle autorità superiori Wa mia mamma dice che ... »). 7.3. La profezia che si autoadempie in classe Quel mercoledì mattina del 1932, il presidente della Last National Bank, pur avendo visto che vi erano lunghe code agli sportelli non si preoccupò, perché sapeva che il suo era un fiorente istituto di credito, provvisto di grande liquidità e che godeva della fiducia di tutti. Ma le code diventarono sempre più lunghe e la gente che le formava cominciò a dare segni di nervosismo. Fra i clienti si era infatti sparsa la voce che la banca fosse insolvente e ciascuno di loro cercava freneticamente di ritirare i soldi depositati e di metterli al sicuro da qualche altra parte. Così, nonostante che la Last National Bank godesse di ottima salute, la diversa definizione della situazione che i suoi clienti avevano improvvisamente dato la condusse in poche ore al fallimento. Questa storia è stata raccontata dal sociologo americano Robert K. Merton [19491 per illustrare il concetto di profezia che si autoadempie e il teorema di Thomas. Si parla di profezia che si autoadempie quanEDUCAZIONE E ISTRUZIONE 483 do una definizione falsa di una situazione dà origine a comportamenti che la rendono vera. 1 clienti che quel mercoledì mattina corsero a farsi dare indietro i loro soldi sbagliavano a pensare che la Last National Bank fosse sull'orlo del fallimento, ma questo errore provocò reazioni tali da dar loro ragione. Le azioni delle persone non dipendono infatti solo dagli aspetti oggettivi di una situazione, ma anche dal modo in cui essi la definiscono, cioè dal significato che ha per loro. t questa l'idea di fondo del teorema formulato dal sociologo americano W.l. Thomas: «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Il concetto di profezia che si autoadempie è utile per capire non solo A fallimento di una banca, ma molti altri fenomeni sociali. Quando i governi di due paesi cominciano a pensare che una guerra fra loro sia inevitabile, essi possono iniziare a comportarsi in maniera tale (ad esempio, mostrandosi aggressivi o armandosi sempre di più) che alla fine la guerra scoppierà davvero. Ma 9 concetto di profezia che si autoadempie può servirci anche a interpretare l'interazione in classe fra insegnante e allievi. Lo ha messo in luce un'interessante ricerca condotta in una scuola elementare da due psicologi sociali americani [Rosenthal e jacobson 19681. Fingendo di preparare un nuovo test per predire il rendimento scolastico e le abilità intellettuali dei bambinì essi fecero sapere agli insegnanti, con la raccomandazione di non rivelarli a nessuno, i nomi di venti allievi che con tutta probabilità avrebbero fatto grandi progressi nell'anno successivo. Erano in realtà nomi scelti a caso dagli psicologi e dunque l'unica cosa che rendeva questi venti allievi diversi dagli altri era l'aspettativa degli insegnanti che essi avrebbero fatto registrare un forte miglioramento. 1 risultati dei test somministrati più volte a molti mesi di distanza mostrarono che i bambini dai quali gli insegnanti si aspettavano maggiori progressi li fecero realmente. Questi allievi furono inoltre descritti dai loro docenti come più felici, più curiosi, più simpatici, meglio adattati e più affezionati degli altri. Dunque, le aspettative degli insegnanti produssero effetti sul comportamento e sul rendimento scolastico degli allievi. 1 dati della ricerca mostrano tuttavia che questo non avvenne perché i docenti dedicarono più tempo e maggiori energie ai ragazzi considerati più «promettenti» che agli altri. Probabilmente, gli insegnanti comunicarono le loro aspettative in modi molto più sottili: con il tono della voce, l'espressione del viso, la posizione del corpo. E così facendo influirono sulle motivazioni delPallievo, sulla sua concezione di sé, sulle sue aspettative riguardo al proprio comportamento, sulle sue capacità cognitive. Economia e società Capitolo 18 Per vivere l'uomo ha anzitutto bisogno di nutrirsi, vestirsi, ripararsi dalle intemperie. Si tratta di bisogni così essenziali che in genere noi individuiamo tipi diversi di società proprio in riferimento a modi diversi in cui queste affrontano il problema della sussistenza. Nel cap. 1 abbiamo parlato di società di cacciatori e raccoglitori, di coltivatori e pastori, e poi di società agricole. Nel cap. 11, per affrontare il problema delle origini della società moderna in Occidente siamo partiti dalle trasformazioni nel modo di commerciare e poi di produrre, con la nascita del capitalismo. Pagina 282
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Questa parte del corso è dedicata allo studio sistematico delle attività economiche. Cercheremo anzitutto una definizione di economia adatta all'analisi sociologica e vedremo poi in questo capitolo il problema di come le attività economiche trovino un loro posto nella società. 1 due capitoli successivi toccheranno invece aspetti più specifici: il lavoro, la produzione, il consumo, con riferimento particolare alle società sviluppate. l. In cerca di una definizione di economia A partire da quanto si è appena detto, potremmo intendere con il termine economia l'insieme delle attività orientate alla produzione, alla distribuzione e al consumo di beni e servizi per la sussistenza dell'uomo. Questa sembra una definizione semplice e precisa, a cominciare dallo stesso termine sussistenza, ma non è così. Possiamo fissare, in modo approssimativo, la quantità di proteine, vitamine, sali minerali, calorie necessarie a una buona sopravvivenza fisica: con riferimento ad aspetti come questi, il termine sussistenza ha un significato abbastanza precisato; ci permette di stabilire, per esemEconorniab d.efinizione sostan2ì* 488 CAPITOLO 18 Economia: definizione formale Pio, che le persone seriamente denutrite sono ancora circa un terzo della popolazione mondiale. Tuttavia, le cose che consideriamo oggi necessarie alla vita sono per quantità e qualità molto diverse da quelle che erano considerate tali anche solo qualche decennio fa, cambiano da paese a paese, da una cultura ad un'altra: non solo oggi siamo abituati a cibo abbondante e vario, ma riteniano indispensabile per una vita accettabile avere più di un abito, leggere libri e giornali, poterci spostare da una città all'altra. In realtà, il termine sussistenza è oggi adoperato, anche nel linguaggio comune, piuttosto in relazione a condizioni minime di sopravvivenza o per definire i bisogni economici di società arretrate e povere. L'osservazione che i bisogni cambiano e si estendono mette nella giusta direzione per precisare A significato di economia. Possiamo considerare un primo punto importante con un esempio. Vestirsi risponde alla necessità di ripararsi dal freddo, ma se ci pensiamo un momento, ci accorgiamo subito che non ha solo questo scopo; con il vestito si definisce anche una posizione o una funzione sociale, come mostra 9 caso più evidente dei militari o quello dei ferrovieri; la moda, poi, è una specie di gioco nel quale ci differenziamo gli uni dagli altri per esprimere la nostra personalità, seguendo al tempo stesso criteri di gusto che sono tipici di un gruppo. In sostanza, la vera e propria sussistenza, che corrisponde al bisogno di coprirsi o di alimentarsi per sopravvivere, è solo un aspetto, o una parte dei fenomeni dell'alimentazione o del vestire, i quali hanno anche altri scopi o funzioni. Proseguendo il ragionamento, osserviamo che non solo le attività orientate alla sussistenza hanno altri aspetti non economici, ma anche che nelle azioni non economiche, che non riguardano cioè direttamente la sussistenza, si deve tenere conto dei mezzi materiali necessari a realizzarle. Anche un gioco di ragazzi ha un aspetto economico, che consiste per esempio nel procurarsi un pallone. Così facendo, abbiamo allargato, ma anche precisato, il concetto di economia, riferendoci a quell'aspetto di ogni attività, organizzazione o istituzione che riguarda procurare mezzi materiali per i fini che ci si propone. Poniamoci ora da un altro punto di vista. Se teniamo sotto osservazione le società moderne, possiamo distinguere un insieme di attività e organizzazioni specializzate nella produzione di beni e servizi, che sono distribuiti attraverso vendite e acquisti per mezzo di denaro 0, come anche si dice, attraverso scambi di mercato. Imprese industriali producono pasta, automobili, libri, che noi acquistiamo in negozi, filiali di vendita, edicole. Se consideriamo l'economia questo insieme di attività e organizzazioni, e il fatto che le relazioni fra queste organizzazioni e i consumatori sono vendite e acquisti per mezzo di denaro, cambiamo la definizione precedente, perché ora facciamo riferimento alla forma secondo la quale si svolgono le attività in questione (lo scambio di mercato), piuttosto che al loro contenuto (la sussistenza, i ECONOMIA E società 489 mezzi materiali, i servizi) Questa concezione dell'economia è chiamata formale, Pagina 283
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt quella precedente, sostanziale. Nella concezione formale, si comprendono nell'economia una quantità indefinita di attività, che possono anche cambiare a seconda dei momenti o delle società, purché si tratti di attività che hanno a che fare con il mercato. Questo punto di vista è adottato dagli economisti, che individuano anche un modo tipico di comportamento sul mercato. Essi osservano che in genere i mezzi a disposizione per i nostri fini sono scarsi e considerano economico un comportamento che, di fronte alla relativa scarsità dei mezzi per realizzare determinati fini, è orientato a ottenere il massimo risultato con i mezzi a disposizione, o un dato risultato con il minimo di mezzi. Questo comportamento è chiamato dagli economisti comportamento razionale. L'origine del mercato si perde nella notte dei tempi, ma esistono società che non lo conoscono e sino all'epoca moderna esso non ha svolto un ruolo centrale nell'economia. Ci si può allora chiedere se per studiare società dove non esiste il mercato, o dove questo ha un ruolo secondario, sia comunque utile considerare che le persone, per far fronte ai loro bisogni, si comportino secondo criteri di razionalità economica, cercando di rendere massimi i loro vantaggi o minimi i loro costi, piuttosto che semplicemente secondo abitudini o secondo comportamenti tradizionali, senza porsi cioè il problema se ci siano modi meno costosi di ottenere certi risultati, o se non sia possibile migliorare le proprie condizioni di vita distribuendo meglio le risorse fra diversi fini e bisogni. Certamente è possibile adottare questo punto di vista [Schneider 19741, ma gli antropologi mettono in guardia dall'estendere meccanicamente a società che non conoscono il mercato idee sulle motivazioni e i comportamenti economici che si riferiscono a società contemporanee, e proprio per questo spesso adottano un punto di vista sostanziale [Polanyi 19681. Le ricerche mostrano infatti comportamenti economici che appaiono strani dal punto di vista al quale siamo abituati. Consideriamo, per esempio, la pratica del potlatch diffusa sino ai primi decenni di questo secolo fra gli indiani Kwakiutl della costa nordoccidentale del pacifico in America. Presso quelle tribù, si usava accumulare, a fatica e con l'aiuto dei diversi familiari, quantità ingenti di beni di varia natura al solo scopo di offrirli in dono a membri di altre famiglie, in occasione di particolari cerimonie; chi riceveva il dono non poteva rifiutarlo ed era tenuto a contraccambiare successivamente in quantità ancora maggiore. Dal punto di vista economico, un tale comportamento ci sembra oggi irrazionale: spesso succedeva che una famiglia si rovinasse in questa gara per donare di più, e una certa quantità di beni poteva anche essere distrutta. Questo comportamento economico che ci sembra irrazionale diventa tuttavia comprensibile se si considera che il potlacb era in realtà una specie di gara, che riguardava principalmente la distribuzione del prestigio sociale: chi non riusciva a contraccambiare riconosceva al donatore una posizione di prestigio superiore nella stratificazione della comunità [Boas 19661. Dal punto di vista formale riesce dunque più facile distinguere e osservare l'economia nelle società contemporanee, ma si hanno problemi per la comprensione delle economie che l'hanno preceduta. Si deve però anche considerare che nelle società contemporanee la produzione di certi beni o servizi può avvenire sia con riferimento al mercato, sia in altro modo: possiamo consumare un pasto al ristorante oppure cucinato a casa da qualcuno della famiglia; quando siamo malati possiamo rivolgerci a un medico pagando la visita, oppure al servizio sanitario, gratuito o quasi, organizzato dallo stato. Quando consideriamo nell'economia contemporanea anche queste attività, adottiamo un punto di vista sostanziale. In conclusione, dovendoci occupare in particolare di società contemporanee sviluppate, possiamo considerare l'economia come insieme di attività, organizzazioni e istituzioni specializzate riferite al mercato, e il comportamento economico quello tipico indicato prima. Già sapendo però che questa definizione è meno utile, o addirittura inutile, per studiare società più tradizionali e semplici, e già sapendo che accanto ad aspetti formali dovremo considerare aspetti informali, ovvero anomali, dell'economia. Inoltre, in quanto sociologi e non economisti, il nostro problema principale sarà in ogni caso, sia per le economie di mercato che per quelle che l'hanno preceduta, di vedere come l'economia, la sua organizzazione, i suoi valori e i suoi tipici comportamenti sono resi compatibili, accettati o contrastati all'interno della società. 2. Il posto dell'economia nella società Nel XVIII secolo, a partire dall'Inghilterra, si sviluppa in Europa la rivoluzione industriale. Questa svolta della storia è così importante che spesso Pagina 284
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt le economie precedenti sono considerate in un'unica categoria con la definizione di preindustriali. Si tratta, come ormai sappiaM05 di una semplificazione eccessiva, che però ha un suo fondamento. Economie Nelle economie preindustriali, essendo semplici le tecniche di produpreindustriali zione utilizzate, la produttività del lavoro, vale a dire la quantità di un prodotto che in media una persona può produrre in un certo tempo, era in generale più bassa. Ne derivava che una parte importante del prodotto era in quelle società destinata alla sussistenza degli stessi produttori, ovvero all'autoconsumo. Un'agricoltura abbastanza efficiente da consentire un sovrappiù per la sussistenza di persone che non lavorano nei campi è la condizione essenziale perché compaiano artigiani, guerrieri, funzionari, sacerdoti, e perché dunque la società diventi via, via più complessa, con istituzioni e ruoli differenziati e specializzati. Questo processo di ECONOMIA E società 491 differenziazione comincia nella preistoria e cresce nel corso della storia. Anche la comparsa di istituzioni e organizzazioni economiche specializzate con lo sviluppo del mercato, che come abbiamo visto al paragrafo precedente ha reso più visibile l'economia e sollecitato una nuova definizione formale di questa nella società moderna, è un aspetto del processo di differenziazione strutturale. Si tratta di un punto importante: questo significa infatti che le attività e le relazioni economiche nelle società preindustriali non sono mai del tutto distinguibili da altri tipi di relazioni sociali. Ciò riguarda ogni aspetto dell'economia: le motivazioni degli attori come l'organizzazione sociale della produzione e le forme di distribuzione dei mezzi di sussistenza. Le società hanno affrontato in modi diversi i loro bisogni di sussistenza con l'uso della terra, così come in forme diversissime sono stati combinati e organizzati i fattori della produzione: la terra e le altre risorse naturali, gli attrezzi e le tecniche di produzione, il lavoro dell'uomo. Per fare ordine in questa varietà ci si può chiedere se siano individuabili in astratto alcuni tipici modi di integrazione dell'economia nella società, ovvero sistemi di regole secondo cui in una società il lavoro, le risorse e i prodotti sono distribuiti e destinati ad attività di produzione e consumo. Pur essendo immensa la varietà delle economie concrete, antiche e moderne, si individuano soltanto tre modi fondamentali di integrazione, definiti reciprocità, redistribuzione, scambio di mercato [Polanyi 19441. Nelle società conosciute, l'economia è integrata nella società secondo uno di questi modi tipici, per lo più combinato con gli altri. Dal momento in cui la società ha raggiunto un certo grado di complessità e differenziazione strutturale, la combinazione di modi diversi deve essere considerata la norma. Differenziazione strutturale Fattori della produzione 2.1. Reciprocità Per reciprocità si intende la prestazione di servizi o la cessione di beni materiali, con la previsione di avere successivamente una restituzione di servizi o beni in modi, quantità e tempi fissati da norme culturali. Si distinguono due tipi essenziali di reciprocità [Sahlins 19721. Il primo è la reciprocità generalizzata, che non ha contenuti precisi, non fissa limiti di tempo e non richiede neppure che ciò che viene restituito abbia lo stesso valore economico di quanto è stato dato. Di questo tipo sono i rapporti all'interno della famiglia, dove si dà e si riceve senza fare di conto, dove i nuovi nati solo ricevono e poi solo danno ai genitori vecchi se questi sopravvivono. Il secondo tipo è la reciprocità bilanciata, che riguarda relazioni all'esterno della famiglia, nella cerchia della parentela allargata e tra famiglie all'interno della stessa comunità. Al contrario del caso preceReciprocità Reciprocità generahuata Reciprocità bilanciata 492 CAPITOLO 18 dente, qui lo scambio prevede una restituzione equivalente in valore, calcolata con molta precisione, in tempi definiti e di solito brevi. Una festa alla quale si invitano i vicini in occasione dell'uccisione di animali allevati, o lo scambio di lavoro fra famiglie contadine sono esempi di reciprocità bilanciata. 1 due tipi di reciprocità sono accomunati dal fatto che si tratta di relazioni Pagina 285
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt regolate da norme e sanzioni morali, le quali hanno anche un contenuto economico, ma incapsulato, per così dire, all'interno di relazionì sociali, dalle quali non può essere separato. Le relazioni descritte assomigliano più al dono che a uno scambio economico, nel senso moderno del termine, e proprio come i doni esse esprimono e servono a confermare dei legami sociali. L'attesa di una restituzione, per chi ha dato, e l'essere tenuto a restituire secondo modi dovuti, per chi ha ricevuto, mantiene aperta la relazione fra persone e famiglie e la riproduce nel tempo, stabilendo delle aspettative ricorrenti. D'altro canto, chi non rispetta gli obblighi della reciprocità nella famiglia è disprezzato e isolato; il non rispetto degli obblighi della reciprocità bilanciata, secondo la consuetudine, produce la rottura della relazione fra le famiglie e magari una vendetta che può apparire anche sproporzionata rispetto al valore economico limitato dello scambio, ma che si comprende perché sancisce appunto una rottura totale della relazione. Nelle società a economia di reciprocità non esistono organizzazioni economiche separate dalla famiglia, e la posizione nella famiglia definisce anche la posizione nel processo produttivo: il capofamiglia organizza il lavoro e questo è diviso secondo l'età e il sesso. Gli obblighi di lavoro e di reciprocità possono poi prendere forme precise e complicate secondo i diversi gradi di parentela, stabilendo chi può scambiare con chi e quali cose. Gli scambi e la cooperazione si svolgono dunque all'interno di relazioni stabili nel tempo, e queste sono relazioni complesse, con più significati e soprattutto mai solo economiche. Per esempio, lo scambio di lavoro per cui le diverse famiglie di una comunità di contadini si aiutano ogni anno per il raccolto del grano è una stabile relazione economica, ma insieme è sempre stata l'occasione per feste periodiche, scambi di informazioni, mantenimento di legami fra famiglie altrimenti separate. 19 termine «trescare», con il quale si indica ancora oggi tessere legami amorosi, deriva da un verbo dell'antico tedesco che significava «battere il grano», perché appunto in occasione della battitura i giovani di diverse famiglie si incontravano, si faceva festa e si combinavano matrimoni. Sino alla comparsa di società agrarie relativamente complesse e differenziate, lo schema della reciprocità è stato il modo tipico di integrazione dell'economia nella società, e si è poi conservato in combinazione con gli altri modi. L'economia di reciprocità continua a essere presente e importante anche nelle nostre società sviluppate: basta pensare alla normale vita in famiglia o agli aiuti che ci scambiamo con gli amici. 1 casi di pura economia di reciprocità sono invece oggi rari, ma ECONOMIA E società 493 presenti per esempio nelle foreste dell'Amazzonia e in Nuova Guinea, mentre la reciprocità come forma dominante è diffusa in un gran numero di tribù dell'Africa, nelle isole del Pacifico e altrove. Questo è il motivo per cui sono soprattutto stati gli antropologi a occuparsene, con risultati a volte sorprendenti. Uno dei casi di reciprocità più complicati e organizzati su vasta scala conosciuti è il cosiddetto anello di Kula, studiato dall'antropologo Bronislaw Malinowski [19221. Da tempo immemorabile, forse 2.000 anni, esiste nell'arcipelago delle Trobriand, a est della Nuova Guinea, un rituale basato sullo scambio di monili fatti di conchiglie. Da isola a isola, lungo una circonferenza di parecchie centinaia di chilometri si osserva una continua circolazione di collane di conchiglie rosse in senso orario e di braccialetti di conchiglie bianche in senso antiorario (fig. 18.1). Spesso si tratta di monili di particolare bellezza, antichi, con un loro nome e una storia conosciuta. Coloro che ne possiedono possono organizzare una spedizione di canoe a un'isola vicina, per portarli in dono agli ospiti, i quali con cerimonie particolari ne doneranno in cambio del tipo diverso. Per un certo periodo il braccialetto o la collana rimarrà presso il nuovo possessore, che potrà ammirarla e esibirla, fino a quando con una spedizione rituale la trasferirà su un'isola successiva dell'anello, e così via. Un giorno lontano, compiuto un intero Anello di Kula FIG. 18. l. U aneHo di KuIa. Fonte: Ember e Ember [19961. 494 CAPITOLO 18 Reciprocità negativa Pagina 286
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt giro, il monile comparirà di nuovo nell'isola da dove era partito. L'anello di Kula consente di possedere beni pregiati, di variarli nel tempo e di goderne, ma questo contenuto «economico» è solo un aspetto secondario di relazioni sociali più complesse e importanti: attraverso il Kula si mantengono infatti i rapporti fra popolazioni distanti, confermando un'appartenenza culturale comune. C'è poi anche un secondo aspetto «economico» rilevante: la cerimonia amichevole e disinteressata crea condizioni di fiducia reciproca per il commercio vero e proprio di altri beni non cerimoniali. Nei due o tre giorni in cui una spedizione è ospite su un'altra isola si barattano infatti generi alimentari, vasellame, canoe e altri beni nella produzione dei quali sono specializzati gli abitanti di isole diverse. Abbiamo visto che le regole della reciprocità cambiano passando da relazioni strette di parentela a relazioni più esterne fra famiglie o villaggi. In un cerchio ancora più esterno stanno le popolazioni con le quali non si hanno rapporti. 19 concetto di reciprocità negativa è stato usato per indicare un tipo di relazioni culturalmente prescritte in questa cerchia, che sono appunto il contrario e la negazione della reciprocità: in molte società arcaiche, guerra, furto e rapina sono ammessi nei confronti degli esterni, e sono considerate attività che conferiscono onore. Redistribuzione 2.2. Redistribuzione La redistribuzione è uno schema di integrazione dell'economia nella società più complesso del precedente, perché comprende un trasferimento di risorse di produzione, di lavoro, di beni di sussistenza a un «centro», e successivamente un'allocazione e ripartizione di risorse e beni fra i membri della società. Assomiglia alla reciprocità all'interno della famiglia, ma se ne discosta perché riguarda strutture sociali più complesse, dove un capo tribù o, in società più diversificate, un signore, con l'aiuto di un apparato amministrativo, raccoglie e conserva i prodotti consegnati dai contadini e dagli artigiani, ne trattiene per sé, e h redistribuisce in modo egualitario o più spesso per quote diverse ai componenti di diversi strati sociali. Il signore dispone della terra e di altre risorse che assegna perché vengano lavorate, esige tributi e impone lavori obbligatori periodici (corvées) ai sudditi. Mentre il contenuto economico della reciprocità è incapsulato all'interno di rapporti sociali e culturali, quello della redistribuzione è parte di un rapporto politico, che lega in generale dei sudditi a un potere centrale, il quale offre protezione, servizi collettivi e organizzazione della società; si riconosce dunque al signore il potere di governo, si trasferiscono a lui i prodotti, si lavora ai suoi ordini perché si ritiene che questo faccia parte di un obbligo di fedeltà nei suoi confronti e perché si teme il suo potere di coercizione. Per gli stessi motivi si acECONOMIA E società 495 cettano l'attribuzione di una parte di terra, particolari benefici economici, beni redistribuiti in natura o un certo ammontare di denaro. In generale, lo schema della redistribuzione, nella sua forma pura, serve dunque a definire un'economia regolata da un potere politico centrale. Normalmente, sia nell'antichità che in epoca moderna, il principio della redistribuzione è combinato con le altre forme di integrazione, in particolare con il mercato, come forma dominante oppure secondaria. In epoca contemporanea, esso riguarda i modi diversi in cui uno stato regola l'economia con leggi e atti amministrativi, raccoglie risorse con l'esazione fiscale per pagare i suoi funzionari e dare attuazione alle leggi, redistribuisce fra la popolazione sussidi e servizi che direttamente organizza. Tutte le grandi economie antiche hanno fatto ricorso al principio della redistribuzione, in modo più o meno puro, sia che la produzione avvenisse presso famiglie di contadini e artigiani, o anche in organizzazioni più complesse, spesso con il lavoro di schiavi. L'antico Egitto è uno dei più puri esempi storici di grandi economie di redistribuzione: abbiamo già visto alcuni aspetti della sua economia nel cap. I, e ora disponiamo del concetto che permette di definirla con più precisione. I magazzini del faraone ricevevano i prodotti dei contadini, dei fornai, dei tessitori, dei vasai, e se questi non erano consumati o utilizzati sul posto, venivano trasferiti a granai, arsenali e cantine centralizzate, per essere conservati e redistribuiti; i contadini erano periodicamente tenuti a lavorare un certo numero di giorni all'anno per il faraone, per lavori diversi fra i quali erano importanti quelli delle opere per la regolazione delle acque, come la costruzione di canali per l'irrigazione e di Pagina 287
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt argini per A controllo delle piene. Al tempo della costruzione delle piramidi, nei mesi di piena del Nilo, quando non potevano lavorare, i contadini prestavano il loro lavoro per la costruzione di quei grandi monumenti, nutriti a carico dello stato, mentre relativamente pochi erano gli schiavi impiegati. Gli archeologi hanno ricostruito nei dettagli condizioni di vita e di lavoro degli operai addetti stabilmente alla costruzione delle grandi tombe rupestri, in epoca successiva. Gli operai ricevevano ogni mese, come salario, grano, orzo per produrre birra, pesci, legumi, acqua, legna da ardere, vasellame, e a scadenze diverse o in occasioni di feste, sale, carne e vestiario. Le famiglie vivevano in case costruite dallo stato e da questo assegnate. 19 salario era diverso a seconda della funzione esercitata, ma era sufficiente e spesso le famiglie potevano barattarne una parte con altri prodotti. P- stato per noi possibile ricostruire queste relazioni economiche perché distribuire mezzi di produzione e salari in natura richiedeva anche una contabilità scritta minuta e precisa, che ci è pervenuta [David 19861. A Babilonia, al tempo del suo massimo splendore, anche la redistribuzione era importante, accanto a una crescente economia di mercato. Roma, l'impero cinese e il Perù precolombiano sono altri impor496 CAPITOLO 18 tanti e ben conosciuti casi di società dove il mercato e la reciprocità erano compresi all'interno di un sistema economico principalmente regolato in forma politica. Feudalesimo E feudalesimo dell'Europa medioevale, con la produzione familiare su terre assegnate, le corvées dei contadini sulle terre del signore, le decime pagate al dero e altre sue istituzioni era un sistema che combinava un'integrazione politica dell'economia con la reciprocità nelle famiglie e nelle comunità locali, e una scarsa presenza di mercato; l'aumento della richiesta di tributi in denaro da parte del signore, per i crescenti bisogni degli eserciti e con l'allargarsi dei commerci a distanza, introdusse sempre più lo scambio di mercato e minò poco a poco questo equilibrio. Mercato merce Prezzi Moneta 2.3. Scambio di mercato Mercato, nel senso più concreto del termine, significa un luogo dove si vende e si compra. La compravendita che avviene in questo luogo, ovvero lo scambio di mercato, è A trasferimento di un bene che ha un valore economico (in quanto è utile a qualche scopo e non liberamente disponibile) da un venditore a un compratore, in cambio di denaro. Un bene comprato e venduto è detto merce. Tutti conosciamo le discussioni a un mercato rionale: chi compra cerca di pagare meno che può, e chi vende resiste senza abbassare più di tanto A prezzo. 1 due finiscono per accordarsi su un prezzo che solo loro hanno fissato, ma i margini entro i quali hanno contrattato sono in realtà limitati: chi vende non può rimetterci e chi compra non può spendere più di quello che ha. 1 vincoli per loro cambiano poi di giorno in giorno, e ciò fa capire che alle spalle dei due che contrattano alla bancarella ci sono altre, più complicate relazioni economiche di produzione e di scambio, altri mercati e contrattazioni: il commerciante ha comprato la frutta aH'ingrosso, contrattandone il prezzo ai mercati generali, questi sono stati riforniti da imprese agricole dove braccianti hanno lavorato nei campi e avventizi hanno raccolto la frutta, contrattando il salario, ogni impresa agricola aveva in precedenza comprato da una grande impresa chimica i fertilizzanti, che questa aveva prodotto comprando all'estero materie prime necessarie, e così via. In un senso più astratto del precedente, l'espressione mercato viene usata anche per indicare l'insieme di questi rapporti, e per definire il particolare meccanismo di regolazione complessiva dell'economia, basato sulla formazione di prezzi fluttuanti a seconda della domanda e dell'offerta. Bisogna chiarire un apparente paradosso: moneta e prezzi possono esserci senza che ci sia scambio di mercato in senso proprio. Un'economia di redistribuzione, nella sua forma pura non combinata con l'economia di mercato, prevede il trasferimento di beni in natura, ma ECONOMIA E società 497 anche eventualmente pagamenti in denaro, con il quale si potranno però comprare quantità di beni a prezzi fissati con un decreto del signore, e non dalla libera Pagina 288
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt fluttuazione del mercato. Anche le attuali economie prevalentemente di mercato comprendono categorie di beni con prezzi fissati per decreto, chiamati prezzi amministrati: in Italia, per esempio, fino a pochi anni fa la benzina. Dello stesso genere sono le tariffe fissate per un servizio pubblico. Tariffe Lo scambio di mercato si è diffuso gradualmente, sino a diventare il modo dominante di integrazione dell'economia nelle società sviluppate. Oggi. tutti viviamo lavorando in cambio di un salario o di uno stipendio, con il quale compriamo quasi tutto ciò di cui abbiamo bisogno, o destinando alle nostre spese una parte del profitto che ci deriva da un'attività commerciale o da una professione. Con l'affennazione del mercato si compie la differenziazione strutturale dell'economia, e il rapporto economia-società si pone in modo nuovo rispetto al passato: l'economia non è più incapsulata nella società, come parte di rapporti culturali o politici e da questi regolata, ma diventa autoregolata. Nei paragrafi che seguono vedremo separatamente, nei dettagli, due problemi ora enunciati: come il mercato funziona da meccanismo regolatore dell'economia e i caratteri generali che ha assunto l'economia regolata dal mercato. 3. Il mercato come meccanismo regolatore dell'economia Gli economisti spiegano con un modello formale semplificato il meccanismo attraverso il quale l'economia è autoregolata attraverso la formazione di prezzi. Le quantità di una merce che vengono offerte e domandate sul mercato variano al variare del loro prezzo. 1 compratori hanno denaro in quantità limitata rispetto a bisogni diversi; se si comportano come attori razionali, nel senso detto al par. 1, ognuno cercherà di spendere in modo calcolato, distribuendo le sue risorse per acquisti di merci diverse. Se una merce è cara, una persona ne comprerà una piccola quantità, e in generale pochi ne compreranno. A prezzi più bassi, una persona sarà disposta a comprarne una quantità maggiore e la domanda complessiva aumenterà in proporzione. Possiamo rappresentare questa relazione con una linea decrescente in un grafico cartesiano che riporta sull'asse verticale i prezzi e su quello orizzontale le quantità (fig. 18.2). Guardiamo ora dal punto di vista del venditore, supponendo per semplificare che venda beni che lui stesso ha prodotto. Pochi venditori possono offrire merce a un basso prezzo. Infatti, il ricavo della vendita deve almeno coprire le spese di produzione e pochi sono capaci di impiegare al meglio e senza sprechi i mezzi di produzione: il lavoro, le materie prime, le macchine. Gli altri che progressivamente producono 498 CAPITOLO 18 prezzo offerta dornanda quanfità FIG. 18.2. Curve di domanda e offerta e formazione del prezzo. di equibbrio. Prezzo di equilibrio a costi più elevati, non possono scendere sotto un certo prezzo che èè via, via più elevato. L'offerta aumenta dunque all'aumentare del prezzo. Possiamo rappresentare questa seconda relazione con una linea ascendente nello stesso grafico. 19 punto nel quale le due curve si incrociano è chiamato prezzo di equilibrio. Il grafico mostra che negli scambi di mercato, il prezzo di una merce tende a fissarsi a un livello al quale la quantità complessivamente domandata e quella complessivamente offerta coincidono. Se il prezzo fosse superiore, ci sarebbe una parte di merce non venduta: in tal caso, i venditori abbasserebbero il prezzo. Se fosse inferiore, la quantità di merce disponibile sarebbe venduta a chi può o è disposto a pagare di più, e il prezzo salirebbe. Se nel tempo la domanda di una merce cresce, i prezzi tendono dunque a salire e a mercato, in questo modo, lancia un segnale ai venditori: vecchi e nuovi produttori saranno allora invogliati a produrre quantità aggiuntive di quella merce. Viceversa, se la domanda diminuisce i produttori si sposteranno ad altre merci. Inoltre, chi produce deve sforzarsi di usare e combinare in modo efficiente i fattori della produzione; come abbiamo già detto, non deve fare sprechi e deve invece cercare di ottenere il massimo rendimento dall'uso delle materie prime e del lavoro. Se non fa così, il costo del suo prodotto sarà superiore a quello di altri che producono in modo più efficiente, con i quali non potrà concorrere sul mercato. In questo senso si dice che la concorrenza di mercato garantisce efficienza economica. In sostanza, possiamo concludere che il mercato è una specie di grande Pagina 289
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt calcolatore, che fornisce informazioni agli operatori economici per mezzo dei prezzi che si formano e che regola l'economia nel suo insieme. ECONOMIA E società 499 Lo schema presentato è una rappresentazione molto semplificata della realtà. Anzi, è meglio dire che si tratta di uno schema logico, o di un modello formale per mezzo del quale osservare una realtà complessa, che vale pienamente solo se si danno certe condizioni particolari: se ci sono molti venditori e compratori, per esempio, se c'è perfetta conoscenza del mercato da parte di tutti, se le merci offerte sono perfettamente equivalenti. E mercato spesso si scosta da queste condizioni, e il modello dovrà allora essere modificato. Quello indicato è comunque lo schema fondamentale per capire il funzionamento del mercato come meccanismo di regolazione. Anche se questo meccanismo ci è familiare, la sua scoperta è relativamente recente. Gli economisti del XVIII secolo, come Adam Smith, rimasero stupiti e affascinati quando si accorsero che una specie di mano invisibile era capace di combinare una miriade di singoli Mano invisibile scambi, ognuno motivato da un interesse particolare, in un effetto complessivo di regolazione dell'economia che nessuno degli attori si proponeva e neppure immaginava; la meraviglia di Adam Smith e l'inizio della economia politica, ovvero di una scienza specializzata nel- Economia politica lo studio della natura e delle cause della ricchezza delle nazioni, come lui diceva, derivavano dal fatto che sino ad allora il mercato non si era ancora esteso al punto da diventare il regolatore di un'intera economia in crescita [Smith 17761. 4. L'economia regolata dal mercato Se il commercio regolato dal mercato ha origini antiche, più recen- Commercio te è invece la produzione regolata dal mercato. Le prime forme di commercio sono state vendite di beni prodotti da famiglie secondo regole di reciprocità. Il commercio ha avuto ruoli importanti negli imperi centralizzati a economia di redistribuzione, dove più dove meno: relativamente poco importante in Egitto, per esempio, ma importante a Roma; per quanto importante sia stata questa diffusione, è però solo quando anche la produzione viene organizzata su vasta scala in riferimento a regole di mercato che possiamo parlare in senso completo di economia regolata dal mercato. L'economia regolata dal mercato si basa sulla proprietà privata dei Proprietà privata mezzi di produzione e sul fatto che anche il lavoro è fornito per un compenso fissato dalle parti con una contrattazione di mercato. Si chiama capitale una somma di denaro investito per produrre o com- Capitale mercializzare delle merci, in vista di un profitto. Una maggiore o mi- Profitto nore prospettiva di profitto, segnalata dalla tendenza dei prezzi di mercato, spinge a investire in una produzione piuttosto che in un'altra; se chi ha realizzato il profitto invece di spendere la somma in consumi la reinveste, si innesca un processo di accumulazione del capitale che il proprietario gestisce, e in generale l'economia si sviluppa. In 500 CAPITOLO 18 Impresa Banche Denaro Capitalismo questo modo l'imprenditore industriale o commerciale diventa una figura sociale specializzata, che ha nella società la sola funzione di produrre e vendere, motivata dal profitto e indirizzata dal meccanismo di 1 mercato. E anzitutto la stessa economia che si incarica di controllarlo perché assolva alla sua funzione, distribuendo premi o sanzioni: a seconda dei suoi comportamenti, l'imprenditore guadagna, perde, fallisce. L'istituzione fondamentale della produzione e del commercio è l'impresa, esclusivamente orientata all'attività economica e distinta dalla famiglia. L'economia è anche distinta dalla politica: le merci non sono prodotte su ordine dell'autorità costituita e le quantità e i prezzi non sono fissati per decreto. Le banche sono organizzazioni che operano su un mercato particolare: quello del denaro. Anche il denaro ha un suo prezzo, e può essere prestato a costi diversi, che variano nel tempo. E mercato, infine, regola anche la distribuzione del lavoro alle varie attività: un settore in espansione che non trova operai può Pagina 290
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt aumentare le paghe offerte, per invogliare nuove persone ad offrirsì; l'alto prezzo di un lavoro specializzato deriva dal fatto che gli specialisti in questione sono pochi, e viene così stimolata la loro formazione. L'estensione del mercato anche afl'organizzazione della produzione ha un profondo significato per la struttura della società. Le diverse possibilità di mercato, basate sulle diverse risorse per il processo produttivo che una persona può offrire (capitale, lavoro specializzato di diversi tipi, lavoro non specializzato), definiscono infatti la posizione di classe nella società. Le società a economia di mercato sono dunque strutturate in classi (cfr. cap. XI). Un sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sulla concorrenza economica fra imprese e sul lavoro libero pagato a un prezzo di mercato è chiamato capitalismo. Ritroviamo così un concetto importante che avevamo già introdotto nel cap. 11. In regime capitalistico, l'economia non solo è autoregolata, secondo un meccanismo che la rende efficiente ed elastica, vale a dire capace di adattare rapidamente produzione e consumi, e le varie produzioni fra loro al variare delle circostanze e del mutare della domanda. t anche una parte della società specializzata e differenziata dalle altre, con figure sociali, istituzioni, forme di controllo delle attività che sono sue particolari. 5. Il raccordo fra economia di mercato e società Se, nel senso che si è detto, l'economia è diventata un insieme specializzato di attività e regole di comportamento, che svolge la funzione di procurare i mezzi per fini diversi, si pone il problema del suo raccordo con il resto della società. Questo può essere considerato in relazione a due aspetti: a) rapporto fra istituzioni economiche e sistema istituzionale complessivo della società; b) gli interventi politici di regolazione dell'economia. 5.1. Economia e sistema istituzionale Commerciare, investire nella produzione, lavorare per guadagnare un salario sono considerati nella nostra società modi legittimi e normah per procurarsi mezzi per i più diversi scopi; detto in termini sociologyici: l'economia e il mercato sono stati istituzionalizzati [Parsons e Smelser 19641. 1 comportamenti economici che oggi consideriamo normali non devono essere considerati naturali; essi sono emersi e stati del.e=. A1@eVCw.: accettati lentamente, nel corso dei secoli, come frutto di una complessa elaborazione culturale e sociale. La storia di come il commercio è stato istituzionalizzato è molto istruttiva a questo riguardo. Nel Mediterraneo orientale, all'epoca della civiltà cretese-micenea fra il 2000 e il 1200 a. C., il commercio di prodotti come il vino, l'olio, il vasellame era già ben affermato. La prima tradizione orale su questo è stata raccolta dall'Iliade e dall'Odissea, dove si trovano giudizi molto negativi su commercio e commercianti. 19 saccheggio e la guerra, non commercio, erano considerati modi giusti di arricchirsi. D'altro canto, la professione di mercante è rimasta a lungo non chiaramente definita. Per molto tempo, in tutto il bacino del Mediterraneo, A commercio non è stato nella mente delle persone ben distinto dalla rapina o dal furto, anche perché chi andava per mare, a seconda delle occasioni, scambiava merci o rubava. Non è un caso che nella mitologia greca Ermes sia protettore insieme dei ladri e dei mercanti, e lo stesso vale per il Mercurio dei Romani [Curtin 19841. Il disprezzo per i mercanti poco a poco si mutò in sospetto e cautela, e le città greche finirono per accettare il commercio che ritenevano ormai indispensabile, ma elevando barriere rigide. Ad Atene i mercanti non erano uomini liberi, ma stranieri chiamati meteci, un gradino intermedio nella scala di stratificazione prima degli schiavi. La loro immigrazione era incoraggiata, ma essi rimanevano esclusi dai diritti politici, non potevano possedere terra e dovevano essere rappresentati in tribunale da un uomo libero loro protettore. Contemporaneamente, si precisarono e fissarono regole per il commercio e i modi ammessi e giusti di commerciare. In forme diverse, presso tutti i popoli si trovano simili processi di nascita e lenta istituzionalizzazione del commercio. Secoli dopo l'epoca delle città-stato greche, dall'altra parte della terra, l'impero azteco conosce un mercato fiorente: il conquistatore Cortez lo descrive in una lettera all'imperatore Carlo V, osservando che i commercianti sono tenuti a essere «umili» e che le loro ricchezze possono anche essere confiscate, se aumentano troppo. 502 CAPITOLO 18 In Europa, verso la fine del Medioevo, i centri di maggior sviluppo sono le Pagina 291
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt città italiane; i tre padri fondatori della nostra letteratura mostrano bene come stanno cambiando gli atteggiamenti verso il commercio in quel giro di anni: Dante disprezza i commercianti; una generazione dopo, Petrarca li ignora; ancora pochi anni, e per Boccaccio saranno nuovi eroi intraprendenti, che sulla scena prendono il posto di cavalieri e guerrieri [Gurevic 1987, 3 111. t appunto con lo sviluppo del primo capitalismo delle città italiane, fra Medioevo e Rinascimento, che in Europa il commercio e il mercato cominciano a trovare un posto più stabile e riconosciuto nella società. Modernizzazione Possiamo chiederci: perché tante resistenze? Per rispondere dobbiamo ricordare che lo sviluppo del mercato è parte del più comprensivo processo di modernizzazione descritto nel cap. II. E cambiamento che i classici della sociologia hanno definito come passaggio dalla comunità alla società, dallo status al contratto, dalla solidarietà meccanica alla solidarietà organica, e in altri modi simili, comprende anche il passaggio da economie in gran parte di sussistenza, basate su reciprocità e redistribuzione, a economie in sviluppo regolate dal mercato. E mercato è stato anzi un importante veicolo di modernizzazione. Il gioco del mercato spinge a combinare in modi sempre nuovi le risorse e le relazioni fra le persone, all'opposto della stabilità senza tempo dei legami comunitari; il mercato è universalistico: chi opera sul mercato non si comporta in modo diverso a seconda che abbia a che fare con amici o estranei; il mercato diffonde la razionalità, come conseguenza della necessità di calcoli precisi di dare e avere e di scelta calcolata fra opportunità diverse; il contratto, che obbliga e lega le parti per contenutì specifici, solo per quelli e non per altri, e come conseguenza di una loro libera decisione, è la tipica relazione di mercato. Il cambiamento come regola, l'universalismo, la razionalità, il carattere specifico e limitato delle relazioni che libera da dipendenze personali, e che viene fissato solo da legami contrattuali, sono come sappiamo aspetti in generale della cultura della modernizzazione. Il mercato è dunque pienamente istituzionalizzato e può essere accettato come il principale regolatore di un'economia quando in generale sono istituzionalizzati i valori della società moderna. Cambiamenti come quelli ricordati hanno suscitato forti resistenze culturali, perché quando hanno cominciato a presentarsi mettevano in questione assetti tradizionali. Non si deve però pensare soltanto a resistenze culturali, potremmo dire di mentalità, al cambiamento di valori e regole dell'economia consolidati nelle società tradizionali. Si è trattato anche, al tempo stesso, dei conflitti di potere fra gruppi, ceti e classi sociali: il commerciante era poco più di uno schiavo senza diritti politici nella società ateniese, perché il potere che avrebbe potuto accumulare era appunto pericoloso per gli equilibri politici nella città-stato; lo stesso si può dire per i commercianti nello stato azteco, che anche per non sfidare il potere del ceto politico e di quello sacerdotale dovevevano reECONOMIA E società 503 stare «umili» Nell'Europa del feudalesimo, i grandi commercianti poco a poco minarono le basi di potere dei signori, che era basato sul controllo della risorsa economica strategica nella società tradizionale, la terra: il denaro accumulato divenne sempre più necessario per pagare eserciti e apparati amministrativi. Nella Spagna del Cinquecento, ai tempi di Filippo 11, i banchieri genovesi passo dopo passo finirono per controllare le finanze dell'impero, prestando denaro al sovrano e assicurandosi in cambio appalti di imposte e privilegi commerciali [Braudel 19491. Il nuovo potere basato sul mercato mostrò infine tutta la sua forza quando al commerciante e al banchiere si aggiunse l'industriale, vale a dire quando l'economia capitalistica si realizzò compiutamente, mostrando capacità di sviluppo che non si erano mai viste. Vincendo gli ostacoli il mercato è stato istituzionalizzato, ma la Limiti culturali resistenza culturale nei suoi confronti deve considerarsi permanente; al mercato ciò deriva dal fatto che pur essendo riconosciuto utile per la sua efficienza economica, tuttavia è anche considerato invadente, perché l'economia di mercato, lasciata a se stessa, tende a regolare ambiti sempre più ampi di relazioni sociali. Da qui deriva la necessità di controllarne la portata, che è espressa culturalmente nella nostra resistenza o cautela, per la salvaguardia di valori che si ritiene non debbano essere compromessi. Un bambino può essere adottato, ma non comprato versando una somma di denaro. In molti paesi fra i quali l'Italia esiste il divieto del commercio del sangue, che viene donato, e maggiori cautele esistono per gli organi. Quando si tratta Pagina 292
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dunque dell'integrità fisica o morale di una persona, la reazione all'invadenza del mercato è istintiva: più precisamente si tratta di una reazione culturale che risponde a valori socializzati nella nostra educazione di base. Un'eccessiva penetrazione del mercato nel campo della medicina, che spersonalizza la relazione fra medico e paziente, suscita reazioni culturali simili ai casi precedenti. Più complessa e meno immediata è poi la reazione culturale in altri settori, come la ricerca, l'editoria, la produzione artistica, o l'organizzazione delle attività per il tempo libero. In questi settori, lo sviluppo del mercato spesso mette a disposizione di pubblici più allargati consumi a costi minori, e ciò è valutato positivamente, ma rischia di appiattire l'espressione di punti di vista minoritari o la spontaneità dei comportamenti. In tutti i casi che abbiamo considerato, la reazione culturale per essere efficace richiede livelli di informazione e di elaborazione adeguati, e di solito si esprime attraverso la politica e l'azione pubblica: nuovamente, le dinamiche culturali devono essere viste in relazione anche ai rapporti di potere. Politicamente si esprime, in particolare, il più delicato aspetto di istituzionalizzazione del mercato, quello relativo alla definizione e al controllo delle disuguaglianze sociali. Chi appartiene a diverse classi sociali partecipa in modo diverso al gioco del mercato, e il mercato non garantisce che costi e vantaggi siano ripartiti in Fiducia modo equo. In ogni società si ridefiniscono continuamente i criteri culturali per valutare ciò che può considerarsi equo in economia, in relazione ai diversi interessi e diritti. La forza delle idee a questo riguardo non deve essere sottovalutata. Ma è soprattutto con l'azione collettiva in politica che differenti valori e interessi possono esprimersi, entrare in conflitto fra loro e trovare forme istituzionalizzate per la loro composizione, con effetti sulla modificazione delle leggi che riguardano l'economia e sugli interventi di regolazione politica di questa. Dal punto di vista strettamente culturale, si può dire in sintesi che le reazioni sono resistenze alla possibilità che il mercato e l'economia da mezzi diventino fini: il mercato è appunto istituzionalizzato come mezzo, in normale e continua tensione con l'insieme più generale di fini e valori elaborati in una società. Un punto è ancora importante. Senza sostegno culturale il mercato non può funzionare. Basta a dimostrarlo l'osservazione che lo scambio di mercato non si innesca se non esiste la fiducia reciproca che i patti saranno rispettati. Si tratta di una condizione ovvia, ma proprio per questo spesso non valutata nella sua importanza [Dasgupta 19881. Diverse società e culture sono in grado di garantire in misura maggiore o minore la risorsa fiducia, che continuamente deve essere ricostituita nei processi di socializzazione e controllo sociale. Per un'economia arretrata essa è un vero e proprio prerequisito dello sviluppo, mentre in un 1economia avanzata, un clima scorretto nelle relazioni economiche richiede controlli costosi e produce dunque inefficienza del mercato [Etzioni 19911. Regolazione politica deU'economia 5.2. Stato e mercato: la regolazione politica dell'economia La questione del rapporto fra regolazione di mercato e azione politica nell'economia si pone in modo nuovo in riferimento all'economia capitalistica, quando A mercato diventa il principale regolatore. Lo stato, esercitando la sua autorità e destinando le risorse fiscali che preleva, definisce condizioni ai comportamenti di mercato e al suo funzionamento, e per qualche aspetto anche si sostituisce al mercato. Per indicare questi interventi pubblici nell'economia di mercato usiamo l'espressione regolazione politica dell'econornia. Mercato e stato possono essere visti come due estremi di un segmento, ovvero come due poli di un continuum. A un polo si colloca un economia di puro mercato, all'altro un'economia interamente regolata dalla politica. Una economia concreta sarà di solito la combinazione di regolazione di mercato e politica, più vicina a un polo o all'altro a seconda dei casi, ma anche dei momenti, perché il confine può spostarsi nel tempo. L'immagine del segmento e dei due poli è utile, ma rende solo in ECONOMIA E società 505 parte la realtà; la regolazione politica definisce anche condizioni importanti perché il mercato si sviluppi: basti pensare, per esempio, alle commesse che attiva un programma di spesa per la costruzione di nuove opere pubbliche o il Pagina 293
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt sostegno fornito al commercio estero da accordi politici fra gli stati. Il polo del puro mercato può essere definito economia del laissezfaire, dall'espressione francese che significa «lasciate fare» Da notare che anche la più pura economia di laissez-faire richiede in realtà importanti elementi di regolazione da parte dello stato: per esempio l'emanazione di una legislazione commerciale e l'azione amministrativa per far rispettare le leggi, con la punizione di chi non rispetta i contratti. Più in generale, ogni stato definisce le regole di diritto commerciale, fiscale, del lavoro che fissano i modi legittimi in cui l'azione economica può svolgersi. Nell'economia di laissez-faire l'intervento dello stato è comunque limitato al minimo e riguarda le condizioni generali perché il gioco economico si possa svolgere con il meno possibile di vincoli. Il polo opposto è quello di un'economia pianificata. Questa espressione è usata dagli economisti, piuttosto che pura economia di redistribuzione, per indicare appunto un tale tipo di economia in epoca contemporanea. Pianificata è l'economia socialista, basata sulla proprietà statale dei mezzi di produzione e sulla destinazione delle risorse tramite decisioni politiche e amministrative. Importanti paesi a economia socialista sono stati in questo secolo l'Unione Sovietica e la Cina. Il massimo di avvicinamento all'economia di laissez-faire, che segna dunque il punto più vicino a una economia del tutto autoregolata, si verifica storicamente in Inghilterra, nel periodo che va dal 1820 al 1870-1880 [Polanyi 19441. Dopo di allora, l'intervento di regolazione politica aumenta ovunque e ci si avvia a un'economia mista, come alcuni la chiamano, che non è più autoregolata, nel senso stretto del termine. L'organizzazione di queste economie di mercato, più complicate in termini di modi di regolazione, è molto varia: ogni caso nazionale ha sue particolarità, anche se possono individuarsi tendenze relativamente comuni. Fra i più tipici e ovunque diffusi interventi politici in economia ci sono quelli che riguardano la produzione dei cosiddetti beni pubblici, che nessun privato ha convenienza a produrre perché una volta resi disponibili lo sono per tutti, senza poter escludere nessuno dal loro uso: pensiamo per esempio all'illuminazione delle strade. Altrettanto importanti le politiche che fissano regole e controlli per il rispetto delle condizioni di libera concorrenza sul mercato, in particolare la legislazione antimonopolistica. Nel caso esista una sola impresa fornitrice di un bene o di un servizio (monopolio), questa non è controllata dalla concorrenza, ma essa stessa controlla il mercato: potrà cosi influire sul prezzo di vendita delle merci che produce, fissandolo più elevato di quello che si avrebbe in situazione di concorrenza, e EcommO del labsez-fairo Economia pianificata Economia mista Beni pab1ici Monopolio 506 CAPITOLO 18 stabilendo quale è la combinazione di quantità prodotta e prezzo che assicura il maggior profitto. Entrando più a fondo nel terreno dell'economia, lo stato può poi sostenere, per esempio con vantaggi fiscali o con finanziamenti a tassi agevolati, settori in difficoltà o regioni sottosviluppate. Particolarmente significative sono però le politiche che incidono sul funzionamento dell'intera economia. Abbiamo detto più sopra che il mercato è una specie di grande calcolatore, che coordina l'intero processo economico. Di fatto, non si è ancora trovato un meccanismo altrettanto efficiente, agile e veloce. Bisogna però aggiungere che si tratta comunque di un meccanismo molto imperfetto. Le decisioni sono sempre prese in condizioni di incertezza, cattive informazioni e valutazioni conducono a errori, e migliaia di decisioni sbagliate possono cumularsi. Proprio a questi errori che si cumulano sono doCich econornici vuti i cicli economici, vale a dire la successione di fasi di crescita e di recessione dell'attività economica, con oscillazioni al di sopra o al di sotto di una linea di tendenza, per stabilizzare le quali il governo interviene frenando o stimolando l'economia, con variazioni del costo del denaro o della pressione fiscale. Particolare attenzione meritano le forme di regolazione che adottarono le economie industriali reagendo negli anni trenta alla grande crisi recessiva che aveva investito tutti i paesi sviluppati. Quelle forme di intervento sono state perfezionate nel secondo dopoguerra e hanno contribuito a un periodo di crescita senza precedenti, che è durato circa trent@anni, sino alla metà degli anni Pagina 294
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt settanta. Questi assetti regolativi, ovvero queste particolari combinazioni di mercato e intervento politico, sono chiamati keynesiani, dal nome dell'economista inglese john Maynard Keynes, il cui pensiero ne ha molto influenzato la realizzazione [Keynes 19361. 5.3. Gli assetti keynesiani e i differenti capitaiismi nazionali Le nuove politiche erano motivate dalla considerazione che il mercato, lasciato a se stesso, non raggiunge una piena efficienza ed è incapace di risolvere problemi di equità, relativi a evidenti disparità nella 1 ripartizione dei costi e dei vantaggi economici. E vero che nel mercato l'offerta è orientata dalla domanda, ma ci sono persone che non sono in grado di pagare i beni e i servizi di cui hanno bisogno; la domanda di questi beni e servizi non compare dunque sul mercato. Due sono gli aspetti essenziali della regolazione politica keynesiana. * Governo dell'economia con interventi di stabilizzazione dei cicli, ma orientatì dall'idea che il mercato, lasciato a se stesso, tende comunque a trovare un equilibrio che non è di pieno impiego dei fattori della produzione, in particolare di pieno impiego del lavoro. Per vin cere la disoccupazione, lo stato deve perciò stimolare l'economia con la spesa pubblica. ECONOMIA E società 507 Sviluppo di sistemi di sicurezza sociale, sostenuti pubblicamente, per garantire a tutti pensioni e sussidi in caso di malattie, invalidità, disoccupazione; creazione di sistemi sanitari nazionali, per fornire in modo generalizzato le cure essenziali; miglioramento dell'istruzione pubblica, organizzata direttamente dallo stato. Questi principi sono stati diversamente seguiti nei diversi paesi, e sono a loro volta parte di un insieme più vasto di caratteristiche organizzative e istituzionali dell'economia che distingue differenti capitalismi nazionali. A grandi linee si sono potute distinguere due forme tendenziali di assetti istituzionali [Albert 1991; Crouch e Streeck 19961. Quella anglosassone (Inghilterra e Stati Uniti) che ha conservato sempre una maggiore regolazione di mercato, e quella europea continentale (e giapponese) dove l'intervento pubblico è stato maggiore. Nel capitalismo continentale il mercato è stato maggiormente sostenuto dalla produzione di beni pubblici (come per esempio l'istruzione professionale, particolarmente sviluppata in Germania); è stato stabilizzato da procedure rispettate di contrattazione fra stato, associazioni di imprenditori e sindacati (le concertazioni tripartite tipiche della Svezia e diffuse altrove, in parte anche in Italia: cfr. cap. XIX); compensato dallo sviluppo di vasti sistemi di welfare (v. cap. XII). La tab. 18.1 riporta, per diversi paesi, i tassi di crescita medi annuì del prodotto interno lordo, vale a dire del valore dei beni e dei servizi prodotti, per un periodo di circa un secolo. Essa mostra la fase eccezionale di crescita fra A 1950 e il 1973, e mostra poi anche il rallentamento dell'economia in seguito. Gli anni successivi alla Il guerra mondiale, che i francesi chiamano «i trenta gloriosi», sono stati quelli di maggior avvicinamento a politiche keynesiane, e si può anche notare che risultati nettamente migliori hanno avuto i capitalismi continentali rispetto a quelli anglosassoni. Mentre era in crescita il prodotto lordo, in quel periodo è anche diminuita la disoccupazione. Dagli anni settanta le politiche nazionali di controllo dell'econornia Inflazione funzionano meno bene e l'inflazione, vale a dire la perdita di capacità di acquisto della moneta nel tempo, crea disordine economico e malcontento sociale, perché erode la capacità di consumo di chi ha redditi TAB. 18.1. Tassi di cyestita mediannul delprodotto interno lordo «pro capite» in alcunipaesi, a parità di potere d'acquisto, 1870-1988 1870-1913 1913-1950 1950-1973 1973-1988 Francia 1,5 1,0 4,1 1,8 Germania 1,6 0,7 5,0 1,9 Gran Bretagna 1,0 Pagina 295
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 0,9 2,5 1,7 Italia 0,8 0,9 5,2 2,8 Giappone 1,5 0,5 8,4 2,8 Stati Uniti 2,0 1,6 2,2 1,4 Fonte: Zarnagnì [1990, 571. 508 CAPITOLO 18 fissi. Per far fronte alle difficoltà si riducono i sistemi di assistenza pubblica, mentre non si riesce a riassorbire quote importanti di disoccupazione: ottenere la piena occupazione sembra un problema tornato in secondo piano. In altre parole, ci si allontana dagli assetti keynesiani, lasciando di nuovo spazio alla regolazione di mercato; d'altro canto, il vantaggio comparato del capitalismo più regolato sembra perduto nella prima metà degli anni novanta: per esempio, nel 1994 il prodotto lordo è aumentato rispetto all'anno precedente del 4,1 negli Stati Uniti e del 3,8 in Gran Bretagna, a fronte del 2,9 in Germania, 2,7 in Francia, 2,2 in Italia e solo 0,6 in Giappone. Ci si interroga allora sul perché le politiche keynesiane e gli assetti del capitalismo regolato funzionino oggi meno bene. Crisì fiscale Dal punto di vista economico, una delle ragioni indicate è la cosiddeflo, stato detta crisi fiscale dello stato [O'Connor 19731. Si intende con ciò il fatto che la spesa pubblica ha ormai raggiunto quote importanti del prodotto nazionale, sottraendo risorse agli investimenti produttivi. Ma questa e altre spiegazioni economiche, come l'osservazione che spesso le organizzazioni pubbliche sono inefficienti perché non rispondono al controllo del mercato, rimandano anche a spiegazioni politiche. Se l'economia è regolata da combinazioni di mercato e politica, è infatti anche in gioco la capacità che il sistema politico ha di combinare diverse domande e pressioni che si esprimono nella società con le esigenze delle imprese che operano sul mercato. 1 livelli di salari e stipendi, per esempio, possono non crescere troppo rapidamente se sono compensati da servizi efficienti forniti dallo stato, così come un piano nazionale di spesa per l'edilizia pubblica può suscitare nuovi investimenti e posti di lavoro: interventi di questo genere, se sono coordinati fra loro, possono tenere sotto controllo l'andamento dell'economia nel suo insieme, garantendo un equilibrio fra consumi, salari, prelievo fiscale, spesa pubblica, investimenti, in grado di garantire occupazione e crescita economica. Questo appunto accadeva in passato In realtà, gli assetti keynesianì si sono affermati e hanno funzionato bene dove erano possibili grandi accordi politici nazionali, che garantivano con azioni coordinate le compatibilità complessive e dunque un equilibrio accettato sulla divisione di costi e vantaggi, senza compromettere la buona salute dell'economia. Torneremo su questi aspetti della politica e della rappresentanza degli interessi nel cap. XIX. Qui importa ancora osservare che non esistono comunque interpretazioni sicure dei motivi della crisi. Un'intepretazione è che un lungo periodo di piena occupazione ha dato forza ai lavoratori dipendenti, i quali senza la minaccia di licenziamento, vale a dire essendo sottrattì al libero gioco del mercato del lavoro, hanno potuto far valere pretese superiori alle compatibilità economiche complessive: un costo del lavoro eccessivo avrebbe ostacolato i profitti e l'accumulazione, e lo sviluppo di molti servizi sociali avrebbe sottratto troppe risorse agli investimenti produttivi. ECONOMIA E società 509 Un'altra interpretazione sottolinea piuttosto la differenziazione crescente della struttura di classe, e dunque il fatto che oggi gli interessi si Pagina 296
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt presentano più frammentati e di difficile aggregazione sindacale e politica. Di conseguenza, diventa più difficile realizzare degli accordi politici complessivi in grado di orientare in modo efficace e stabile l'economia. Sullo sfondo c'è però un altro fattore cruciale. t in corso un pro- G, cesso sempre più marcato di globalizzazione dell'economia contemporanea, del quale parleremo più estesamente nell'ultimo capitolo. Le imprese agiscono spesso su mercati internazionali, con organizzazioni che stabiliscono reti di collaborazione sparse in paesi diversi (v. cap. XX), e i capitali possono spostarsi facilmente e con rapidità da un paese all'altro. Di fronte a un'economia sempre più capace di organizzarsi varcando i limiti dei confini nazionali, gli stati vanno incontro a maggiori difficoltà a stabilire efficaci politiche economiche al proprio interno; con un'immagine, possiamo dire che il raggio di organizzazione dell'economia è diventato più grande di quello della politica; l'economia risulta così per gran parte più lasciata a se stessa, vale a dire alla regolazione di mercato. L'attuale discussione scientifica e politica verte sulle conseguenze di lungo periodo di questo stato di cose: se ovunque, al momento, si mettono in atto politiche più liberiste, restano aperti gli interrogativi sull'efficienza e l'equità dell'economia di mercato. Siamo entrati in una fase di grandi cambiamenti nell'organizzazione istituzionale dell'economia e sono in corso esperimenti diversi sulle possibili combinazioni di regolazione di mercato e regolazione politica. obalizzazione 6. Economia formale e informale: uno schema riassuntivo Possiamo riassumere in tre punti i caratteri fondamentali che l'economia ha assunto nelle società sviluppate: 1) la differenziazione dal resto della società, con la costituzione di un sistema di azione specializzato, regolato essenzialmente dal mercato, nel quale cioè scelte di produzione e di consumo sono orientate da prezzi formati in libere contrattazioni; 2) lo sviluppo di specifiche organizzazioni, le imprese, orientate al profitto, che utilizzano dipendenti salariati; 3) lo stabilirsi di raccordi fra economia e resto del sistema tramite elaborati complessi di norme, in particolare di norme giuridiche. Questi elementi, che abbiamo chiarito nei paragrafi precedenti, consentono di ridefinire con precisione l'economia in senso formale. Definiamo dunque economia formale i processi di produzione e scambio di beni e servizi regolati dal mercato e realizzati tipicamente da imprese di produzione e commerciali orientate al profitto, che agiscono sottomesse alle regole del diritto commerciale, fiscale, del lavoro e Economia formale 510 CAPITOLO 18 FIG. 18.3. Tipi di economia. formale e informale. Fonte: Sachs [1986L Economia informale in generale nel quadro delle leggi e delle disposizioni con cui lo stato regola e orienta l'azione economica. Abbiamo anche detto che pur essendo il mercato dominante, reciprocità, redistribuzione e scambio di mercato, ovvero regolazione culturale, politica e propriamente di mercato dell'economia, si affiancano e convivono. La definizione data di economia formale tocca la parte principale, la tendenza centrale di organizzazione dell'economia, riguarda il mercato e i modi di raccordo fra questo e la società, ma non esaurisce le diverse forme in cui oggi le persone si procurano mezzi materiali per i loro fini. Chiamiamo allora economia informale tutti quei processi di produzione e scambio che tendono a sottrarsi per uno o più aspetti ai caratteri distintivi indicati. La fig. 18.3 è una specie di mappa di orientamento per individuare i diversi tipi di economia formale e informale, tracciata considerando che l'economia è un insieme di attività di lavoro, per la produzione di beni e servizi, e che sia lavoro che beni e servizi possono essere comprati e venduti sul mercato ovvero forniti fuori mercato. L'economia che abbiamo chiamato formale, ovvero l'economia di mercato, con i suoi caratteri tipici, è rappresentata dalla linea L Questa indica infatti le attività che con lavoro remunerato producono beni e servizi venduti sul mercato. La linea 2 si riferisce all'economia domestica. 19 lavoro che qualcuno della famiglia fa in casa per cucinare, cucire, lavare (più spesso le donne rispetto Pagina 297
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt agli uomini, le bambine rispetto ai ragazzi) non è pagato e non viene venduto agli altri famigliari. Anche oggi, dunque, come migliaia di anni fa, nella famiglia si svolgono funzioni economiche all'interno di più generali relazioni sociali, regolate da norme culturali, in relazioni di reciprocità. Per quanto queste funzioni siano diminuite ECONOMIA E società 511 rispetto al passato, la loro importanza economica è molto rilevante: basta pensare quanto costa mangiare mattino e sera al ristorante. La linea 3 è il settore di diretto intervento dello stato. Questo, pagando impiegati degli uffici pubblici, medici e infermieri dei servizi sanitari nazionali, insegnanti della scuola pubblica, e così via svolge le sue normali funzioni ed eroga i servizi sociali, gratuiti o pagati a prezzi non di mercato, fissati con decreti. Si tratta dunque di un'area di redistribuzione nelle economie contemporanee, in cui l'azione dello stato sostituisce il mercato. Considerando tutte le spese dello stato, da quelle per la difesa, la giustizia, l'ordine pubblico, a quelle per i servizi collettivi, la casa, la sanità, l'educazione, i servizi generali, si calcola che queste sono in media per i sette paesi più sviluppati circa il 40% del prodotto nazionale. La linea 4 è una forma antica sopravvissuta che combina reciprocità e mercato: si riferisce infatti a beni prodotti in famiglie contadine o artigiane, senza che il lavoro sia pagato, che però, contrariamente al caso della linea 2, vengono venduti fuori della famiglia. La linea 5 definisce i cosiddetti mercati paralleli. La linea è tratteggiata per indicare che si tratta di vera e propria economia di mercato, ma con evasione di norme giuridiche civili o penali, del diritto del lavoro, fiscale o commerciale. Comprende il cosiddetto lavoro nero di chi non risulta a libro paga e la produzione non denunciata per evadere le tasse. Si riferisce anche ai mercati illeciti, come quello della droga. La varietà dei mercati paralleli è molto ampia, e il confine fra economia formale e mercati paralleli può anche variare da paese a paese: se, per esempio, in un paese esiste il monopolio della vendita del tabacco da parte dello stato, la vendita privata diventa il mercato parallelo del contrabbando di sigarette. La linea 6 si riferisce alle attività di beneficenza, ai contenuti economici di relazioni all'interno di associazioni, ai lavori svolti in comunità per i bisogni dei membri della stessa comunità. Rientrano dunque in questa economia le attività di volontariato, la cui importanza è crescente, anche in relazione al carattere spesso burocratico e impersonale dell'assistenza pubblica. La linea 7, infine, indica beni acquistati sul mercato per un lavoro fuori mercato. Essa serve a individare il tipo particolare di economia domestica del «fai da te»: i mobili acquistati in scatola di montaggio ne sono un esempio. Si tratta di forme nuove e crescenti di rapporto fra economia di mercato e informale. La tavola può essere usata non solo per distinguere un tipo economico dall'altro, in un dato momento, ma anche per sviluppare ipotesi su spostamenti da un tipo all'altro. Nel tempo infatti le attività tendono in parte a spostarsi dall'una all'altra forma di organizzazione. Un esempio: la biancheria era una volta in gran parte lavata in casa (economia domestica della linea 2); successivamente, con lo sviluppo delle lavanderie nelle grandi città, una parte importante si è spostata all'eco512 CAPITOLO 18 Economia sommersa nomia di mercato (linea 1), mentre con la diffusione delle lavatrici si è passati a una economia del «fai da te» (linea 7) La questione forse più interessante sulla quale anche la tavola può attirare l'attenzione, è che aspetti formali e informali sono spesso strettamente intrecciati in determinate strutture di azione. Il lavoro senza copertura assicurativa e non dichiarato al fisco che si compie in una piccola impresa (linea 5) può per esempio essere svolto alla sera, come secondo lavoro, da un operaio con rapporto di lavoro regolare e copertura assicurativa in una grande impresa (linea 1). Oppure: la produzione domestica per autoconsumo (linea 2) può compensare, in una famiglia, bassi salari percepiti in imprese tradizionali a bassa produttività (linea 1 o 5). Non sempre i diversi tipi di economia informale (alcuni dei quali sono anche chiamati economia nascosta o sommersa) vengono distinti con cura, e non sempre Pagina 298
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt sono stati studiati gli intrecci fra economia formale e un certo tipo di economia informale. Le ricerche in questo campo hanno tuttavia permesso importanti analisi sociologiche dei processi economici, e contribuito a illuminare aspetti spesso non evidenti del raccordo fra economia e società. In particolare, gli spostamenti da un'economia all'altra, e le nuove combinazioni di economia formale e informale hanno spesso fornito la traccia per interpretare importanti tendenze di cambiamento sociale. Prodotto nazionale lordo 7. Il problema dello sviluppo Si può paragonare lo sviluppo delle economie di diversi paesi confrontando i valori del rapporto fra ricchezza prodotta e abitanti. La tab. 18.2 permette di confrontare il prodotto nazionale per abitante di alcuni paesi, fatto 100 quello dell'Italia (il prodotto nazionale lordo corrisponde al prodotto interno lordo al quale ci siamo riferiti in una precedente tabella, al quale vengono però aggiunti redditi prodotti TAB. 18.2. Prodotto nazionale lordo per abitante, confronto Jr@ paesi, 1993 (Italia =. 100). Svizzera 186 Spagna 70 Giappone 160 Taìwan 55 Svezia 126,5 Grecia 38 Stati Uniti 126 Argentina 37 Germania 120 Messico 19 Francia 114 Brasile 15 Canada 105 Egitto 13 Italia 100 Bolivia 4 Inghilterra 92 Cina 2,5 Israele 70 India 1,5 Mozambico 0,4 Fonte: Elaborazione da Britannica World Data, 1997. ECONOMIA E società 513 all'estero dai residenti e sottratti quelli prodotti nel paese da stranieri. 1 due indicatori sono grosso modo equivalenti) I dati mostrano le enormi differenze di capacità di produrre ricchezza delle diverse economie nazionali, dal paese più ricco al mondo - la Svizzera - a quello più povero, A Mozambico. Se le economie sviluppate si pongono il problema di mantenere elevati i consumi, proseguendo la loro crescita Pagina 299
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt economica, il problema per le economie più arretrate è innescare un processo di crescita in grado di vincere povertà, fame, malattie. Di fronte ai dati citati, si potrebbero immaginare i vari paesi posti come a diversi gradini di una scala, alcuni più in alto e altri più in basso. L'immagine nasconde però una trappola, perché induce a pensare che, attivando o proseguendo la loro crescita, i paesi sono destinati a percorrere la stessa strada. Le cose sono più complicate, perché nessuna economia ha mai percorso esattamente il cammino di un'altra. Proprio lo sviluppo industriale dei paesi europei lo mostra con chiarezza. In Inghilterra, paese «primo venuto», le imprese sono state il soggetto attivatore dello sviluppo, in una economia di laissez-faire. Successivamente, specie in Francia e in modi diversi in Germania, le banche sono diventate il soggetto promotore dell'industrializz azione, sostenendo e indirizzando le imprese con prestiti. Per i paesi aggiunti dopo, fra i quali l'Italia, un sostegno decisivo alle imprese oltre che dalle banche è venuto dallo stato [Gerschenkron 19621. L'esempio mostra che i soggetti attivatori dello sviluppo sono stati diversi in circostanze diverse, ma questo significa anche modi in parte diversi di organizzare l'economia e la sua integrazione nella società. E problema si complica se si passa a considerare gli attuali paesi in via di sviluppo o arretrati. Gli economisti si sono persino chiesti se ci possa essere una sola economia (allo stesso modo che si parla di una sola fisica) per interpretare i paesi sviluppati e gli altri. Inoltre, un acceso dibattito si è svolto intorno alla questione se il contatto fra economie sviluppate e sottosviluppate, tramite il commercio o gli investimenti, tenda a diffondere lo sviluppo oppure a polarizzare in modo stabile centri e periferie [Hirschman 19831. Lo sviluppo dell'America Latina, per esempio, è stato particolarmente forte nel periodo fra le due guerre e durante la recessione degli anni trenta, quando A contatto con l'Europa era allentato. E contatto con un'economia forte serve effettivamente da stimolo a un paese arretrato; la crescita che si attiva però, non solo può troppo rapidamente distruggere economie di sussistenza tradizionali, ma organizzarsi in funzione piuttosto di interessi esterni che di un armonico sviluppo interno. Vecchie idee sui fattori della crescita economica sono comunque continuamente sfidate da nuovi eventi. Le maggiori novità a questo riguardo vengono dall'Oriente: dopo il Giappone sono comparsi sulla scena economica, con ritmi di crescita impressionanti, i «quattro pic514 CAPITOLO 18 coli dragoni» - Corea, Taiwan, Hong-Kong, Singapore - e già si affacciano la Tailandia e la Malesia, alcune regioni della Gna e forse il Vietnam. Non abbiamo ancora a disposizione teorie compiute di queste forme di sviluppo, che comunque hanno sfidato la tesi della necessaria e stabile polarizzazione fra paesi ricchi e paesi poveri, fra stabili «centri» e «periferie». Anche senza grandi risorse naturali, queste economie regionali sono riuscite a innescare in pochi anni uno sviluppo basato sulle esportazioni, che sembra sperimentare particolari combinazioni di regolazione di mercato, azione politica orientata a diminuire il rischio degli investimenti, ricorso importante a relazioni familiari e comunitarie tradizionali: il massimo di libertà per le imprese sui mercati mondiali di concorrenza si associa in quelle economie alla garanzia di servizi e infrastrutture organizzate da una burocrazia efficiente, ma anche a un rigido controllo sociale da parte di uno stato autoritario. Con riferimento al problema dello sviluppo, i sociologi hanno studiato soprattutto i caratteri sociali e culturali che in una data situazione lo favoriscono o lo ostacolano, e le sue conseguenze sociali: come nascono gli imprenditori e come cambia la struttura di classe, per esempio, come la religione e i valori tradizionali influenzano le motivazioni economiche, le funzioni economiche della famiglia, la formazione del mercato del lavoro, i processi di mobilità territoriale e sociale, i rapporti fra economia formale e informale [Smelser 19761. Si sono individuati alcuni tipici ostacoli sociali allo sviluppo, che spiegano le difficoltà persistenti di molti paesi; fra questi: l'esplosione demografica causata da una diminuzione della mortalità anticipata rispetto al grado di sviluppo, mentre persiste alta natalità; la concentrazione urbana più rapida dell'industrializzazione, con la formazione di ampie fasce di popolazione in condizioni di povertà; la crescita eccessiva delle attività terziarie, che nasconde disoccupazione o che espande troppo velocemente i servizi moderni, con crescita prematura degli strati medi urbani non produttivi rispetto al grado di sviluppo [Germani 19711. Pagina 300
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Le economie di mercato in crescita in paesi non occidentali, in particolare asiatici, hanno invece riproposto di recente il tema delle condizioni istituzionali e culturali favorevoli allo sviluppo. Queste economie sperimentano forme organizzative e rapporti economia-società in parte diversi da quelli del capitalismo tradizionale, come abbiamo detto. Il rispetto per l'autorità, così come il ricorso a reti parentali e comunitarie nell'azione economica, ingredienti di tali forme organizzative, sono collegati a valori depositati nelle varie tradizioni religiose delle società, come il confucianesimo; i valori in questione hanno ostacolato il sorgere del capitalismo in precedenza, quando questo sembrava collegato soprattutto all'individualismo e al processo di differenziazione strutturale dell'economia dalla società, ma possono rivelarsi oggi delle risorse, in circostanze mutate. Da qui è derivato un rinnovato interesse per lo studio comparato dei prerequisiti istituzionali dello sviluppo, che assume l'idea di una pluralità di vie alla crescita economica [cfr. Trigilia In anni recenti, il tema dello sviluppo è emerso anche in riferimento a un nuovo ordine di problemi, che possiamo indicare come «i limiti dello sviluppo». Con questo titolo veniva presentata nel 1972 una ricerca svolta per conto del «Club di Roma», un'associazione internazionale di scienziati e operatori economici [Meadows et al. 19721. Il rapporto mostrava che la continua crescita economica rischia di andare oltre le capacità fisiche di adeguamento del pianeta: il consumo di risorse non rinnovabili, come certe materie prime, fa prevedere il loro prossimo esaurimento; l'inquinamento cresce molto rapidamente con effetti sicuramente dannosi per glì equilibri biologici, e altri che non conosciamo; la crescita fuorì controllo della popolazione mondiale richiede disponibilità di cibo a sua volta crescente. Il rapporto conteneva previsioni allarmanti ed è stato criticato perché basato su semplificazioni dei processi reali, che sono ovviamente indispensabili per costruire un modello teorico, ma possono anche distorcere le conclusioni: nuove scoperte scientifiche e sviluppi tecnologici, per esempio, possono condurre all'utilizzazione di materie prime diverse o a forti risparmi energetici, in modi oggi non prevedibili. Il rapporto ha avuto comunque il grande merito di porre il problema dei limiti fisici della crescita, di indicare la necessità di un equilibrio fra attività economiche e ambiente naturale, e di segnalare che queste questioni vanno affrontate subito se si vogliono evitare conseguenze irreparabili. Non si tratta, nella nuova prospettiva, di fermare lo sviluppo o, peggio, di impedire quello dei paesi arretrati. Significa pensare a uno «sviluppo sostenibfle», che non esaurisca le condizioni fisiche che lo rendono possibile e che si preoccupi delle condizioni ambientali in cui si troveranno a operare le generazioni future [Pearce, Markandya e Barbier 19891. t evidente che, per essere realizzato, ciò richiede profonde modificazioni nell'azione economica, nelle abitudini di consumo e in generale nelle forme di integrazione dell'econornia nella società. Per porsi obiettivi di equilibrio ambientale, o di sviluppo sostenibile, è necessario prendere in considerazione conseguenze allargate, più lontane nello spazio e nel tempo, delle singole scelte economiche; conseguenze che la mano invisibile del mercato non mette normalmente in conto. I problemi ambientali ci spostano dunque verso più complessi equilibri fra mercato e regolazione politica dell'economia. Se imboccheremo la strada dello sviluppo sostenibile, fra qualche decennio la nostra attuale economia e la tecnologia di cui disponiamo ci appariranno inefficienti e sprecone, ma forse nel contempo cì sembreranno ingenue le scienze sociali che oggi si occupano di economia e società. Lirnitì deRo sviluppo Sviluppo sostenibile Capitolo 19 Chiamiamo lavoro ogni attività diretta a trasformare risorse materiali per produrre beni e servizi necessari alla sussistenza dell'uomo. Si tratta dunque dell'attività economica per eccellenza. Da questo punto di vista, che corrisponde a un'idea sostanziale di economia nel senso detto al capitolo precedente, se ci cuociamo un uovo al tegamino facciamo certamente un lavoro, così come sono lavori, in generale, le attività domestiche che alcuni familiari (sovente ancora in maggior misura donne) fanno per altri. Tuttavia, di una donna che fa solo lavori domestici si dice spesso che «non lavora». L'espressione può suonare anche offensiva, ma il fatto è che si assume implicitamente in questo caso un'idea formale dell'economia, intendendo che l'attività domestica - per quanto faticosa e necessaria alla sussistenza - non è regolata dal mercato e che la donna in questione non ha un'altra attività remunerata fuori della Pagina 301
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt famiglia. In una società a economia prevalentemente di mercato per lavoro si intende dunque per lo più un lavoro che produce un reddito. l. La divisione dei lavoro: concetti di base e termini di uso corrente 19 termine occupazione (in inglese job, in francese emploi) indica Occupazione un lavoro remunerato svolto in un dato momento o periodo da una persona. In questo senso si dice, per esempio, che quella persona è occupata al ministero delle Poste o alla Fiat; facendo la somma, si dice poi, per esempio, che nel 1995 in Italia gli occupati erano 20.086.000. Nelle statistiche nazionali, l'insieme delle persone che hanno un'occupazione o che ne cercano attivamente una (per le statistiche sono questi i disoccupati) costituiscono la popolazione attiva. Nelle POpolazione atuva statistiche economiche come sinonimo di popolazione attiva si usa Forze di lavoro Professione Lavoratori indipendenti e dipendenti Divisione sociale dellavoro Divisione del lavoro sociale Divisione tecnica dellavoro l'espressione forze di lavoro. Le forze di lavoro, che sono sempre più degli occupati, erano in Italia, nel 1995, 22.855.000. La popolazione non attiva comprende chi non si offre sul mercato, come i bambini e i ragazzi non ancora in età di lavoro, gli anziani, chi studia, chi vive di rendita, chi non è in grado di lavorare a causa di una invalidità, le casalinghe. Il termine professione (o attività professionale) viene usato per indicare il tipo di attività normalmente svolta per ricavare un reddito, indipendentemente dal fatto di essere occupati o disoccupati. Così, una persona può di professione essere impiegato, operaio, imprenditore industriale, libero professionista (come un dentista o un avvocato che hanno uno studio). Qualche confusione può nascere con l'uso del termine professionalità, riferito al maggiore o minore contenuto di esperienza, specializzazione, capacità necessarie per un determinato compito. In tal caso si parla anche correntemente di lavoratori qualificati (o specializzati) e non qualificati. Una distinzione fondamentale è quella fra lavoratori indipendenti e dipendenti. Fra i primi sono compresi i coltivatori diretti, i piccoli commercianti e gli artigiani (che esercitano la loro attività prevalentemente con il lavoro proprio e dei familiari, che le statistiche chiamano coadiuvanti), i liberi professionisti e gli imprenditori agricoli, industriali o dei servizi. 1 dipendenti comprendono gli operai, gli impiegati, i dirigenti. La distinzione fra lavoratori indipendenti proprietari di mezzi di produzione e dipendenti non proprietari individua la divistone sociale del lavoro nelle economie regolate dal mercato. Chi lavora coltiva grano, ortaggi, frutta; produce vestiti, automobili, case; distribuisce beni di consumo nei negozi, fornisce assistenza ospedaliera, organizza viaggi. Agricoltura, industria e servizi sono i tre grandi settori della produzione, suddivisì al loro interno. Alcune sono attività molto antiche, altre nuovissime. La massima parte di queste attività è oggi realizzata da imprese, presso le quali sono occupati lavoratori dipendenti. La specializzazione settoriale delle imprese e delle attività è un altro aspetto della divisione del lavoro nella società: i sociologi usano l'espressione divisione del lavoro sociale. Un terzo aspetto della divisione del lavoro riguarda infine la sua organizzazione. Lo sviluppo economico e l'aumento della capacità produttiva sono stati possibili suddividendo e coordinando in modo sistematico all'interno di un'unità produttiva diversi compiti e mansioni che richiedono capacità diverse a chi li esegue. In genere un'economia sviluppata ha dunque anche un'elevata organizzazione o divisione tecnica del lavoro. IL LAVORo 5 19 2. La popolazione attiva 1 dati sulla popolazione attiva e l'occupazione permettono di disegnare grandi mappe del lavoro nelle diverse società. Queste possono essere più o meno dettagliate, distinguendo molto analificamente le diverse attività o raggruppandole fra loro. La tab. 19.1 riporta il tasso di attività della popolazione, vale a Tasso di attività dire il rapporto fra la popolazione attiva e la popolazione totale, distinguendo poi il tasso di attività femminile (donne attive sul totale defle donne). Pagina 302
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Oltre afiltalia sono considerati altri paesi europei, due extraeuropei ad alto sviluppo (Stati Uniti e Giappone) e altri tre a economie più povere: il Brasile (che pure ha un'economia in crescita), la Bolivia e il Mozambico, che come abbiamo visto nel capitolo precedente ha il più basso reddito pro capite neHe graduatorie mondiali. Diverse sono le condizioni che incidono sul tasso di attività: le caratteristiche dell'economia e della domanda di lavoro, ovvero la quantità e qualità dei posti offerti, la struttura per età della popolazione, fattori culturali, la legislazione del lavoro, e così via; paesi ad alto tasso di sviluppo hanno anche un alto tasso di attività, totale e femminile: si possono vedere nefia tabella i dati del Giappone, deHa Danimarca, degli Stati Uniti, del Regno Unito, della Germania. Tuttavia anche il paese più povero, il Mozambico, ha un tasso elevato e un tasso di attività femminile persino superiore a quello degli uomini: in paesi arretrati si tratta di attività in grande maggioranza agricole, a TAB. 19. L Tasso di attiviià in alcuni paesi Anno Totale Femmine Belgio 1994 41,2 33,2 Danimarca 1994 53,6 49,0 Franda 1994 44,3 38,8 Germania 1994 48,8 40,6 Grecia 1994 40,7 29,4 Irlanda 1994 40,1 29,7 Italia 1994 40,1 28,8 Olanda 1994 47,9 39,1 Portogallo 1994 48,6 41,9 Regno Unito 1994 49,5 42,5 Spagna 1994 40,0 29,3 Giappone 1993 53,1 42,2 Stati Uniti Pagina 303
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 1993 49,9 44,1 Brasile 1990 43,8 30,5 520 CAPITOLO 19 bassa produttività, spesso di lavoro indipendente, a conduzione familiare. L'Italia ha un basso tasso di attività per rapporto al suo grado di sviluppo, come si può vedere dal confronto con paesi europei a minor reddito pro capite: Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia. Anche il tasso di attività delle donne, cresciuto negli ultimi decenni, non raggiunge in Italia i livelli di altri paesi europei ad alto sviluppo, ed è anzi particolarmente basso. Da notare che il valore più alto del tasso di attività totale, quello della Danimarca, è dovuto anche al tasso femminile parficolarmente elevato. La tabella successiva (19.2), si riferisce alla distribuzione dell'occupazione per settori di attività in alcune grandi aree del mondo. Sono distinte: l'agricoltura (che comprende la pesca), l'industria, i servizi. L'ultima di queste categorie, quella dei servizi, mette purtroppo insieme attività fra loro eterogenee; si tratta di una categoria residua di attività che non sono né agricoltura, né industria: per questo si parla anche di «terziario» e si usa nelle tavole statistiche la dizione «altre attività». Usando una lente di ingrandimento, potremmo distinguere all'interno del terziario le attività di trasporto e comunicazione, le attività commerciali, gli alberghi e i ristoranti, le attività finanziarie delle banche e delle assicurazioni, la Pubblica Amministrazione, e altre ancora. Il terziario comprende un insieme di professioni molto diverse che vanno da un'altissima specializzazione a una forte dequalificazione. La composizione interna della categoria dei servizi è molto diversa a seconda del grado di sviluppo. Nel mondo in complesso, si può stimare che ormai meno della metà degli occupati lavorino in agricoltura: venticinque anni fa erano poco meno del 60% Inoltre, gli addetti ai servizi hanno superato quelli all'industria in modo più netto. TAB. 19.2. Occupazione per settore di attività, confinonti per grandi aree Agricoltura Industria Servizi 1965 1989-1991 1965 1989-1991 1965 1989-1991 Mondo 57 48 19 17 24 35 PaesI 22 7 37 26 41 67 industriali Paesi in via di sviluppo 72 61 il 14 17 25 Est e Sudest 73 50 9 18 18 32 asiatico Africa sub- 79 67 8 9 13 24 sahariana Fonte: Bureau internalional de travail, 1995. IL LAVORo 521 Nei paesi cosiddetti industrializzati, che comprendono l'Italia e gli altri paesi europei, gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, i servizi pesano in realtà ormai quasi per il 70%, mentre l'agricoltura è ridotta al 7% Il peso dell'agricoltura è invece ancora molto rilevante per i paesi in via di sviluppo e fra questi in particolare per l'Africa subsahariana. Tuttavia anche qui le percentuali sono in diminuzione. Mentre l'industria diminuisce il suo peso nei paesi industrializzati, negli altri cresce, e si raddoppia nei nuovi paesi industrializzati dell'Oriente, che comprendono i «piccoli dragoni» di cui si è parlato nel capitolo precedente. Dai dati emerge chiaramente la tendenza alla diminuzione della popolazione attiva in agricoltura nel processo di sviluppo. Questo storicamente ha significato il trasferimento di popolazione all'industria e poi al terziario. Tuttavia in tutte le nostre ripartizioni si trova al primo posto il terziario. Per una corretta interpretazione di questo dato bisogna tenere presente quanto detto circa le diverse composizioni interne del terziario e fare anche attenzione a un processo indicato nel capitolo precedente. Parlando dei problemi dello sviluppo si è detto allora che un ostacolo può essere rappresentato da una eccessiva concentrazione urbana e proprio da uno sviluppo eccessivo e per così dire anticipato del terziario rispetto al grado di industrializzazione. Il terziario è spesso in questi casi l'attività di chi si arrangia in piccole povere attività di commercio, o la crescita prematura di servizi più moderni per una parte della popolazione, o il moltiplicarsi di attività amministrative pubbliche in assenza o scarsità di attività industriale e con un'agricoltura Pagina 304
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt rimasta povera e inefficiente. In altre parole, la terziarizzazione di un'economia sottosviluppata ha caratteri diversi da quella che segue e accompagna l'aumento della produttività del lavoro nell'industria moderna. La tabella successiva (19.3) restringe il campo solo ad alcuni paesi TAB. 19.3. Occupati per settore e posizione nella professione in alcuni paesi, 1993. Agricoltura Industria Servizi Indipendentì Dipendenti Belgio 3,0 29,0 68,0 18,0 82,0 Danimarca 5,0 26,0 69,0 11,0 89,0 Germania 4,0 38,0 59,0 10,0 90,0 Grecia 21,0 24,0 55,0 47,0 53,0 Spagna 10,0 31,0 59,0 26,0 74,0 Francia 5,0 28,0 67,0 14,0 86,0 Irlanda 14,0 28,0 58,0 24,0 76,0 Italia 7,0 32,0 60,0 29,0 71,0 Olanda 4,0 24,0 72,0 12,0 88,0 Portogallo 12,0 33,0 56,0 26,0 74,0 Regno Unito 2,0 29,0 69,0 13,0 87,0 Stati Uniti 3,0 24,0 73,0 9,0 91,0 Giappone 6,0 34,0 60,0 20,0 80,0 Fonte: Eurostat, 1995. 522 CAPITOLO 19 europei, agli Stati Uniti e al Giappone, fornendo dati più analitici sugli occupati per settore e aggiungendo altri dati sul carattere indipendente o dipendente dell'attività. Si noterà che l'agricoltura mantiene ancora una percentuale superiore al 10% in Grecia, Irlanda, Portogallo. Siccome si tratta spesso di piccoli agricoltori, questo incide anche sulla percentuale elevata dei lavoratori indipendenti. In Grecia quasi la metà degli attivi sono indipendenti. L'Italia ha un valore di addetti all'agricoltura inferiore, ma ha una percentuale di lavoratori indipendenti inusuale nei paesi più sviluppati. Ciò è anche dovuto al fatto che l'economia italiana, come vedremo, ha conservato molte piccole imprese industriali e commerciali, mentre in genere le economie sviluppate hanno una quota maggiore di grandi imprese. Nelle economie più sviluppate gran parte della popolazione attiva è dipendente: oltre il 90% negli Stati Uniti, il 90% in Germania, 88% in Olanda, 87% nel Regno Unito. E Giappone rappresenta una parziale eccezione, perché come l'Italia conserva un settore importante di piccole imprese. La terziarizzazione dell'economia è particolarmente spinta nei paesi a più alto grado di sviluppo, ma in Germania, in Giappone e in Italia la quota di lavoro industriale è rimasta rilevante, sopra il 30%. 3. Il mercato dei lavoro 3.1. Domanda e offerta: occupati e disoccupati Le forze di lavoro occupate comprendono i lavoratori autonomi, gli imprenditori che impiegano lavoratori dipendenti e i lavoratori dipendenti che hanno trovato un lavoro. Le forze di lavoro occupate in attività dipendenti (la maggior parte della popolazione attiva occupata) rappresentano l'incontro di domanda e offerta sul mercato del lavoro in un certo momento. 1 disoccupati sono invece coloro che non hanno trovato un'occupazione corrispondente alla loro offerta. Nella tab. 19.4 concentriamo la nostra attenzione sull'Italia, confrontando i dati con la media dell'Europa dei 12. La tabella distingue gli occupati, i disoccupati e le non forze di lavoro. Il totale per riga, sul quale sono calcolate le percentuali, è dunque la popolazione. Ritroviamo anzitutto il basso tasso di attività della popolazione già TAB. 19.4. Popolazione attiva e non, attiva, confronto Italia-Europa dei 12 Occupati Disoccupati Totale attivi Non attivi Popolazione Italia 35,6 4,5 40,1 59,9 100 Europa dei 12 40,1 5,1 45,3 54,7 100 Fonte: Labour Force Survey, 1994. IL LAVORO 523 TAB. 19.5. Tasso specifico di disoccupazione in diversi paesi, 1994 Giappone Stati Uniti Olanda Portogallo Gertnania Belgio Regno Unito Italia Francia Irlanda Spagna 2,9 6,0 6,8 6,8 8,4 9,6 9,6 11,1 12,3 14,3 23,8 Pagina 305
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Fonte: Ocde [19961. visto in precedenza: la percentuale degli attivi sul totale della popolazione è inferiore di circa cinque punti alla media europea. La tabella ci dice poi che sia gli occupati che i disoccupati sono inferiori alla media. 1 dati sui non attivi ci dicono infine che più della metà della popolazione vive a carico di meno della metà; questo carico è maggiore in Italia rispetto alla media europea. Dietro le cifre si affaccia un serio problema per l'equilibrio economico di molti paesi nel prossimo futuro, che sembra accentuato in Italia. 1 dati relativi alla disoccupazione riportati ne-Ha tabella appena viDisoccupazione sta sono notevolmente più bassi rispetto a quelli riportati in genere sulla stampa. Bisogna in realtà fare attenzione, perché le percentuali non sono sempre calcolate sullo stesso insieme. Più precisamente si deve distinguere il cosiddetto tasso generico di disoccupazione - nel Tasso generico quale i disoccupati sono rapportati al totale della popolazione - dal tasso specifico - calcolato sul totale della sola popolazione attiva. Le Tasso specifico percentuali della tab. 19.4 sono tassi generici. La successiva tab. 19.5 è un confronto della disoccupazione in diversi paesi, basata su tassi specifici. Come si può vedere, la disoccupazione tocca in modo diverso le diverse economie. L molto bassa in Giappone ed è anche contenuta negli Stati Uniti. In Europa troviamo una maggiore disoccupazione, ma con differenze. Sono paesi a relativamente bassa disoccupazione FOlanda, il Portogallo, la Germania, mentre Spagna e Irlanda, seguiti da Francia e Italia, sono a disoccupazione alta. 1 tassi di attività e di disoccupazione variano anche molto, all'interno di uno stesso paese, per regione, sesso, età. La tab. 19.6 lo mostra per l'Italia, comparando Centro-nord e Mezzogiorno. Come si vede la situazione è in generale peggiore in Mezzogiorno, per tutti i tassi riportati. In particolare, oltre un quarto delle donne e oltre la metà dei giovani che cercano lavoro non lo trovano. I dati della popolazione attiva variano anche nel tempo. L'elaborazione della fig. 19.1 traccia una specie di storia del mercato del lavoro in Italia, divisa in due periodi. TAB. .19.6. Tas.6 di attività e disoccupazione: confronto Ceniro-nord e Mezzogiorno, 1994 Centro-nord Mezzogiorno Tasso di attività 42,5 Tasso di disoccupazione 7,6 Tasso di disoccupazione dei giovani fra 15 e 24 anni 23,0 Tasso di disoccupazione femminile 11,2 34,6 19,2 51,3 27,0 Fonte: Istat e Svimez [19951. 25,024,023,022,021,020,019,0 18,0 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 - Occupati ---- Forze di lavoro FIG. 19. 1 . 0ecuoati e forze: di.lay~ in Italia. (in rú&nì). Fonte: Reyveri [.199611. Le curve si riferiscono agli occupati e alle forze di lavoro; di conseguenza, la distanza fra le due indica la disoccupazione. Fino al 1972 si osserva una tendenza di lungo periodo alla diminuzione sia degli occupati che delle forze di lavoro, mentre successivamente sia gli uni che gli altri aumentano, con una progressiva divaricazione che segna un aumento tendenziale della disoccupazione. Molti fattori sono in gioco nel determinare questa tendenza, ma sul piano strettamente statistico si può notare che l'inversione e m gran parte dovuta all'ingresso crescente delle donne nel mercato del lavoro, che comporta in paraflelo l'aumento vistoso del tasso di attività femminile e più debole del tasso di occupazione, mentre il tasso di attività dei maschi si stabilizza. E interessante aggiungere che il 1972 segna il massimo storico della quota di occupati nell'industria (39,4%), che da allora diminuisce, mentre aumenta il terziario dove crescono in particolare le occupazionì delle donne. Pagina 306
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt IL LAVORO 3.2. Condizioni di lavoro Finora abbiamo parlato genericamente di occupazione, ma si possono distinguere modi diversi di essere occupati, ovvero diverse condizioni di lavoro. Ci si può orientare a questo riguardo considerando due dimensioni: la durata del lavoro e il suo grado di istituzionalizzazione [Accornero e Carmignani 19861. Con la prima dimensione ci si riferisce al fatto che non tutti i lavori hanno la stessa durata espressa in ore giornaliere o in periodi in cui si lavora. Con la seconda, è possibile distinguere una gamma molto varia di condizioni di lavoro che vanno dal pieno rispetto delle paghe e delle garanzie contrattuali nonché degli obblighi di legge (il versamento dei contributi previdenziali, per esempio) a quelle che caratterizzano il «lavoro nero», di chi non risulta sul libro paga dell'imprenditore. Tracciando due assi possiamo distinguere quattro spazi in cui collocare lavori che hanno alti o bassi gradi di istituzionalizzazione e alte o basse durate (fig. 19.2). Nel riquadro superiore a destra abbiamo il lavoro per così dire «normale», spesso, ma non soltanto, svolto in grandi organizzazioni pubbliche o private. Negli anni di grande sviluppo del dopoguerra questo tipo di lavoro è aumentato, i salari e gli stipendi sono cresciuti, i posti sono diventati più sicuri. In anni più recenti, la crisi degli assetIstituzionalizzazione Durata (in ore giorno, sett.na, mese, ecc.) -Lavoro garantito a tempo parziale o determinato * Lavoro garantito con orario inferiore a quello abituale * Cassa integrazione guadagni * Lavoro precario temporaneo, stagionale, occasionale * Secondo lavoro * Lavoro garantito a tempo pieno * Lavoro garantito con orario superiore a quello abituale - Lavoro precario continuativo Fin 19.2. Tipologia (1,1 lavoro secondo la durata e il grado di istituzionalizzazione. Fonte: Chiarello [19881. 526 CAPITOLO 19 60,0m Olanda 50,040,030,0Gran Bretagna 1_-1 Danirnarc Germania CI ci Belgio ci Francia 20,013 Irlanda CI 10,0Spagna Italia Portogallo ci CI CI CI 00 i Grecia 20,0 25,0 30,0 35,0 40,0 45,0 50,0 55,0 Tasso di occupazione FIG. 19.3. Tasso di occupazione femminile e quota di part-time (1991). FonteReynerì 119961. Mobilità dei lavoratori Part-time ti regolativi e le grandi ristrutturazioni dei sistemi produttivi hanno invece in molti casi fatto diminuire l'occupazione nella grande industria tradizionale. La grande maggioranza di chi lavora, in tutti i paesi sviluppati, è costituita da persone assunte con regolari contratti a tempo indeterminato. Ciò non significa che una persona lavori tutta la vita nello stesso ufficio o nella stessa impresa. Un occupato può essere licenziato o licenziarsi per diversi motivi. La permanenza nello stesso lavoro, o per dirla in un altro modo, la mobilità dei lavoratori sono più o meno alte in diversi paesi. t difficile avere Pagina 307
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dati comparati a questo riguardo. La mobilità sembra molto elevata negli Stati Uniti, dove si è calcolato negli anni ottanta che circa un quarto dei lavoratori occupavano il loro posto di lavoro da meno di un anno. Al lato opposto della scala si troverebbe il Giappone, dove circa un quarto degli occupati hanno una permanenza stabile superiore a vent'anni. Si può ritenere che i paesi europei si collochino fra questi due estremi. Torniamo ora alla nostra figura e spostiamo l'attenzione in alto a sinistra. Qui troviamo lavori regolari, ma con durate inferiori: il parttime, il lavoro che termina dopo un certo periodo fissato nel contratto, o con il completamento di un'opera, i contratti di formazione-lavoro. Si tratta di forme di lavoro in crescita. Il part-time, in particolare, ha raggiunto percentuali elevate sull'occupazione totale in Olanda, Danimarca, Inghilterra (tra il 20 e il 30%). In generale il lavoro part-time riguarda molto più le donne che gli uomini: in Olanda sei donne su dieci che lavorano è a tempo parziale. A questo riguardo il diagramma IL LAVORo 527 di dispersione della fig. 19.3 mostra che c'è una correlazione significativa tra tasso di occupazione femminile (percentuale di donne occupate sul totale delle donne) e quota di lavoro part-time: l'occupazione femminile cresce al crescere del lavoro a tempo parziale. La Cassa integrazione guadagni è una istituzione che dà luogo a Cig quello che possiamo considerare un caso limite di lavoro istituzionalizzato nel nostro paese: in certi casi i dipendenti di un'impresa in difficoltà non sono licenziati, ma rimangono come dipendenti a orario ridotto o anche sospesì dal lavoro, ricevendo una quota del salario a volte - specie nel passato - per lunghi periodi. Al di sotto della linea dell'istituzionalizzazione troviamo i lavori precari, anch'essi in espansione negli ultimi anni. A destra si tratta di lavori di carattere continuativo, a sinistra di tipi di lavoro molto diversi ma tutti più o meno saltuari e occasionali, non regolarizzati contrattualmente e poco o niente tutelati. Chi lavora in queste condizioni è spesso definito anche sottoccupato. Sottoccupazione Un caso particolare di lavoro non istituzionalizzato è costituito dal secondo lavoro. t 9 caso di chi, avendo già una occupazione garantita, Secondo lavoro svolge una seconda attività nascosta. Il fenomeno è molto diffuso in Italia: secondo le stime i bioccupatì sono grosso modo tanti quanti i disoccupati. I motivi per cui si svolge un secondo lavoro e i tipi di secondo lavoro sono diversi [GaHino 19851. In una grande città il secondo lavoro è spesso costituito da servizi alle famiglie (riparazione di elettrodomestici, per esempio); in questo caso si tratta in genere di un lavoratore dipendente che alla fine della giornata per così dire si mette in proprio, diventando indipendente. Il lavoro di un operaio o di un impiegato con occupazione regolare può essere però anche svolto presso un'altra impresa, che utilizza le sue capacità professionali senza farsi carico delle garanzie previdenziali e pensionistiche delle quali già il lavoratore usufruisce. 3.3. Come funziona il mercato: due modelli interpretativi Domanda e offerta di lavoro si incontrano sul mercato, ma le differenze delle professionalità domandate e offerte sono tali che solo con una grossolana semplificazione possiamo parlare di mercato del lavoro al singolare. In realtà esistono più mercati dove si offrono e sono richiesti insiemi diversi della popolazione attiva. Anche limitandosi afl'industria e al solo lavoro operaio le differenze restano numerose: ci sono differenti specializzazioni operaie, attività diversamente localizzate (dunque diversi mercati locali del lavoro), e così via. Stretti fra l'evidenza di una grande varietà di situazioni concrete e la necessità di schemi semplificati per poter interpretare come funzionano i meccanismi che distribuiscono le forze di lavoro nelle diverse occupazioni, economisti e sociologi del lavoro hanno sviluppato un modello in 528 CAPITOLO 19 Dualism o del mercato dellavoro Mercati interni e esterni diverse varianti che tiene conto di una grande, ma significativa differenza fra due parti del mercato. Per questo si parla di modelli dualistici del mercato del lavoro e di dualismo del mercato del lavoro. Una variante semplice possiamo formularla nel modo seguente [Berger e Piore Pagina 308
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 1980; Paci 19731. 1 mercati di vendita sui quali operano le imprese sono più o meno stabili e prevedibili. Le imprese che soddisfano una domanda relativamente stabile e standardizzabile sono abbastanza sicure per poter rischiare investimenti tecnologici che migliorino la loro efficienza e possono di conseguenza pagare salari più elevati. Possono allora anche far ricorso alle «quote forti» del mercato del lavoro: uomini, nelle fasce centrali di età, già con qualche esperienza lavorativa, ai quali garantiscono un salario relativamente elevato e stabile. Il contrario succede alle piccole imprese dell'industria e del terziario che operano su mercati più instabili e imprevedibili: l'industria defl'abbigliamento, per esempio, è capricciosa e stagionale e produce beni non standardizzati; offrendo salari inferiori e più spesso occupazione discontinua, esse fanno ricorso alle «quote deboli» del mercato del lavoro: le donne, i giovani, gli anziani, le minoranze etniche. Per motivi diversi (legati per esempio al ruolo nella famiglia della donna, o alla discriminazione sociale nel caso delle minoranze), queste categorie «si accontentano» di soluzioni più o meno precarie e meno remunerate del problema del lavoro. Il modello dualistico del mercato del lavoro cerca dunque dal lato della domanda di lavoro delle imprese le radici economiche dei lavori precari (dualismo del sistema produttivo legato all'incertezza) Attira poi l'attenzione sulle caratteristiche dei soggetti e sui meccanismi di socializzazione e controllo sociale per spiegare le motivazioni ad accettare lavori precari (gestione sociale dell'incertezza) 1 meccanismi in questione possono essere diversi a seconda dei paesi o delle zone. In certi casi gli svantaggi sono compensati: condizioni di lavoro part-time possono, per esempio, essere ricercate con interesse dalle donne in certe fasi del ciclo di vita. Spesso invece si tratta di lavori accettati in mancanza di meglio e sono in gioco meccanismi di controllo pesanti: è il caso, per esempio, di popolazioni immigrate, senza o con scarsa rappresentanza politica e sindacale, che possono più facilmente essere assunte «in nero», o licenziate ed eventualmente rinviate al paese di origine; pregiudizi culturali possono poi rafforzare l'idea della loro attitudine solo a lavori dequalificati. Applicato nella ricerca, il modello fornisce interpretazioni plausibili di certi casi concreti, ma per altri o per diversi aspetti lascia insoddisfatti. Un altro modello dualistico si basa sulla distinzione fra mercati interni e mercati esterni del lavoro [Doeringer e Piore 197 11. la mercato esterno è il vero e proprio mercato sul quale si offrono, in concorrenza fra loro, persone non ancora occupate o in cerca di un posto per loro migliore. Con l'espressione mercato interno si intendono invece procedure all'interno di un'organizzazione per spostare gli occupati IL LAVORO 529 da un posto a un altro, e per stabilire dei percorsi di carriera. E termine mercato è dunque improprio, perché si tratta piuttosto di processi organizzativi. In situazioni diverse un'impresa può ricorrere all'uno o all'altro dei mercati. Tuttavia, sin che possono, le imprese hanno vantaggi a ricorrere al mercato interno. Questi derivano dal mettere a frutto le specializzazioni che nel corso degli anni gli operai acquisiscono lavorando e dall'integrare meglio i lavoratori nell'azienda con prospettive di carriera. L'azione dei sindacati, che proteggono gli occupati, tende a rafforzare questi meccanismi. Il modello spiega dunque una fonte di rigidità del mercato del lavoro a vantaggio di chi già è occupato e può in parte spiegare, per esempio, la difficoltà dei giovani a entrare nel mercato del lavoro con trafile che passano prima per lavori precari. Come abbiamo detto, i modelli dualistici sono tentativi di tener conto del fatto che non esiste un unico mercato del lavoro, ma si potrebbe introdurre un numero maggiore di Istinzioni, sviluppando l'idea della segmentazione del mercato del lavoro. Il gioco resta comunque quello di individuare parti stabilmente differenziate del mercato del lavoro, nelle quali sono richieste e offerte figure sociali diverse, che si muovono con risorse e vincoli radicati nella struttura della società. 1 modelli presentati in questo paragrafo fanno riferimento alle condizioni di mercato di categorie diverse di lavoratori in rapporto a differenti tipi di domanda. Tuttavia, altri approcci di ricerca hanno usato strumenti per un'analisi più ravvicinata, a livello d'interazione. Come si trova davvero un lavoro? Spesso per rispondere adeguatamente alla domanda è necessario fare riferimento al network di relazioni della persona che cerca. Il sociologo americano M. Granovetter [19941, osservando un campione di tecnici e manager, è Pagina 309
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt giunto alla conclusione che la probabilità di cambiare lavoro migliorando la propria posizione dipende proprio dall'ampiezza del network di relazioni di cui uno dispone; sono però efficaci non le reti a maglie strette dell'amicizia o della parentela, che veicolano poca nuova informazione, ma quelle che l'autore chiama i «legami deboli», superficiali, ma composti in catene lunghe, che penetrano in ambienti di lavoro diversi dal proprio. La «forza dei legami deboli» è una formula suggestiva, ma non sempre è in grado di spiegare l'interazione sul mercato del lavoro. In casi, per esempio, in cui si tratta di lavori per i quali è richiesta una fiducia personale che non può essere garantita da dati oggettivi, per esempio da un curriculum, possono rivelarsi più efficaci reti dense, nelle quali le persone si conoscono bene. L'approccio della network analysis (cfr. cap. 111) al mercato del lavoro non è necessariamente alternativo, ma piuttosto complementare all'uso dei modelli dualistici presentati: esso permette di vedere gli attori in azione, che si muovono con loro strategie personalizzate nel quadro generale che i modelli precedenti deliSegment.azione del mercato del lavoro. Mercato dei lavoro. e reti sociali neano. 530 CAPITOLO 19 Disoccupazione ffizionale, strutturale, cielica Disoccupazione di lunga durata 3.4. La disoccupazione La disoccupazione non solo è uno dei più gravi problemi delle società contemporanee, ma è anche un fenomeno difficile da studiare. L difficile da definire, da rilevare, da interpretare. Nel paragrafo precedente abbiamo introdotto alcuni dati e confronti di base. Qui consideriamo qualche aspetto più analitico. Gli economisti distinguono tre tipi di disoccupazione: frizionale, strutturale, ciclica [Samuelson e Nordhaus 19851. La disoccupamnefrizionale è dovuta al fatto che continuamente ci sono persone che cercano un lavoro perché per esempio si spostano da una città a un'altra, o perché passano dalla scuola al lavoro, e così via. Anche nel caso ci fosse la piena occupazione ci sarebbero sempre casi di questo genere. La disoccupazione strutturale deriva da una cattiva corrispondenza fra domanda e offerta: certe professionalità non sono più richieste, mentre per altre richieste non c'è sufficiente offerta. Riguarda dunque tipicamente certi settori o aree. La disoccupazione ciclica, infine, riguarda una domanda di lavoro più bassa in tutta l'economia, in corrispondenza appunto di una fase ciclica recessiva quando la spesa e la produzione diminuiscono (cfr. cap. XVIII). Nella lunga fase di crescita economica del dopoguerra anche la disoccupazione è stata contenuta nelle economie avanzate. L'azione politica riusciva a controllare ampiezza e durata dei cicli economici, e soprattutto nei paesi che percorrevano la via delle politiche keynesiane, la spesa pubblica attivava l'economia verso la piena occupazione, sostenendo tra l'altro sistemi sviluppati di welfare e di assistenza ai disoccupati. Come abbiamo visto, questi meccanismi si sono inceppati negli anni settanta e la disoccupazione è aumentata. Una volta gli economisti consideravano «accettabile» una disoccupazione del 3 %. Oggi si tranquillizzano se non oltrepassa il 6; ma il 6% delle forze di lavoro sono già in Italia un milione e mezzo di persone. La disoccupazione di lunga durata (per convenzione: disoccupazione che dura da oltre un anno) è un fenomeno studiato in particolare dai sociologi. Ricerche in diversi paesi europei hanno considerato sia caratteri personali dei disoccupati di lunga durata sia le condizioni che aumentano la probabilità di diventarlo, spostando soprattutto su queste l'asse della spiegazione [Beno^it-Guubot e Gallie 19931. In questo quadro è stata contrastata la tesi che le misure di sostegno pubblico siano un incentivo a non cercare un nuovo lavoro in quanto la situazione complessiva non peggiora per i disoccupati. Si è dimostrato invece che anche nei paesi che garantiscono una protezione relativamente favorevole ai disoccupati di lunga durata questi subiscono un peggioramento netto dei redditi e del livello di vita. Si è poi mostrata la tendenza alla segregazione sociale: più lungo è il periodo di disoccuM LAVORO 531 pazione e più aumentano i disoccupati con reti segregate, vale a dire reti di amicizia fra disoccupati separate da reti di occupati. Ciò deriva dal fatto che Pagina 310
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt i disoccupati non sono in grado, non avendo le risorse, di stabilire relazioni di reciprocità nei rapporti sociali con persone in condizioni migliori. Sono meccanismi come questi che tendono a cronicizzare la disoccupazione. La disoccupazione strutturale è una componente di crisi sociale in aree di grandi industrie tradizionali che hanno cambiato organizzazione del lavoro o hanno ridimensionato o chiuso i loro impianti: è il caso per esempio di vecchie aree siderurgiche o cantieristiche. Più in generale, la ristrutturazione industriale a seguito di innovazioni tecnologiche provoca spesso disoccupazione strutturale, perché la domanda di lavoro da parte delle imprese in generale diminuisce e perché vecchie qualifiche non sono più richieste. In casi di questo genere, spesso i disoccupati sono persone più anziane per le quali è più difficile riqualificarsi. La disoccupazione ciclica tocca in generale l'economia, ma ci sono settori e imprese più esposti di altri all'incertezza e dove dunque gli occupati sono più a rischio: abbiamo visto poco sopra le «quote deboh» di forza-lavoro. 1 settori e le fasce di imprese più esposti alimentano varie forme di lavoro precario e in certe condizioni danno origine alla disoccupazione intermittente di chi continuamente trova e perde un lavoro. 1 lavori precari e intermittenti individuano la grande area grigia della sottoccupazione. In alcuni casi, le condizioni di lavoro sono così precarie, oltre che Pamd~ mal pagate, faticose e sgradevoli che emerge un paradosso della disoc- deL disoccup.-aone cupazione: l'immigrazione da paesi poveri in presenza di forte disoccupazione nazionale. Ciò si verifica perché le condizioni di lavoro scendono al di sotto della soglia accettata da una popolazione e garantita dalla legislazione del lavoro, dai sistemi di welfare, dal sostegno familiare o da altri meccanismi che offrono risorse di sussistenza al disoccupato che cerca lavoro, ma non un lavoro a tutti i costi. Notiamo ancora che i diversi tipi di disoccupazione giocano in genere insieme: la disoccupazione frizionale di un giovane, per esempio, rischia di durare di più se è in corso una ristrutturazione che provoca disoccupazione strutturale, a meno che quel giovane non abbia una nuova qualifica richiesta. La ripresa dell'economia diminuisce la disoccupazione ciclica, ma può anche capitare che la ripresa economica non riporti a tassi di occupazione elevati. Molte variabili sono in gioco e le politiche devono destreggiarsi fra vincoli diversi. Un esempio può dare un'idea dei margini in cui ci si muove. Se si abbassa la soglia di condizioni di accettabilità del lavoro, aumentano i lavori precari e si sviluppa questa parte dell'economia. D'altro canto, un sistema di garanzie più sviluppato spinge le imprese del settore principale dell'economia a sostituire lavoro attraverso lo sviluppo tecnologico, e questo non fa aumentare 532 CAPITOLO 19 l'occupazione. L'aumento dell'efficienza produttiva con lo sviluppo tecnologico è un fatto positivo, ma anche la crescita dell'occupazione lo è. 4. L'organizzazione dei lavoro 4.1. La divisione dei lavoro in agricoltura Nuto Revelli ha raccolto testimonianze della vita contadina nelle campagne piemontesi, intervistando all'inizio degli anni settanta anziani che ricordavano il tempo della loro giovinezza. Un contadino nato nel 1887 così racconta: Sapesse che vita abbiamo fatto per mettere assieme dieci giornate di terra! Siamo partiti da zero, abbiamo tribolato fino a che la famiglia è cresciuta, oh sacramenta. Quante volte abbiamo mangiato na fisca dal' e pan mu@ì, anticristu. Avevamo niente. Mio padre affittava 'n ciabutin di tre giornate, otto figli [... 1, e lo lavoravano a zappa, zappavano anche di notte, l'unica bestia era la scrofa. Padre e madre andavano nei campi, mi portavano appresso come un fagotto, mi buttavano sotto un gelso, e mia madre di punta e mio padre dietro con una corda trascinavano 1le spianau, mettevano bene in piano, poi seminavano il grano. [ ...1 I particular, i proprietari, avevano già qualcosa di più, aravano già, ma quello che aveva niente bisognava che zappasse [ 1 Poi c'erano le cascine grosse, quelli che vivevano bene. Per fortuna mio padre buonanima lo mandavano a chiamare per i lavori da manovale alla fattoria «La Torre», e gli davano quattro o cinque soldi al giorno, se no morivamo tutti di fame [Revelli 1977, 361. Questo racconto ci ricorda che nel passato, ma del resto fino a non molti anni fa, nel nostro paese, quello contadino era per molti un mondo di grande fatica e miseria. Ci mostra anche che la divisione sociale e l'organizzazione del lavoro (parlando di agricoltura è difficile scindere i due aspetti, del resto sempre collegati) comprendevano forme Pagina 311
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt e figure diverse, stratificate e a volte fra loro collegate, che pur Affl~ modificandosi sono arrivate fino ai nostri giorni. Il padre di chi race pic" propnem conta è un affittuario, che paga un canone a un proprietario per coltivare un terreno; per quanto in questo caso molto povero, dal momento che ha a disposizione un terreno piccolo, si tratta comunque di un lavoratore indipendente. Sullo sfondo, si vede invece la figura del piccolo proprietario, che coltiva terra sua, una condizione ambita per un affittuario. Osserviamo poi che un affittuario - ma lo stesso vale per il piccolo proprietario -, se il terreno non era sufficiente alla famiglia, poteva anche prestare lavoro dipendente per piccoli proprietari con appezzamenti più grandi o presso aziende agricole condotte prevalentemente con lavoro salariato. IL LAVORO 533 Storie come questa, e strutture come quelle che essa lascia intravedere non sono solo piemontesi o italiane, anche se il lavoro contadino tradizionale ha grandi varietà nazionali e regionali di organizzazione. Quanto alle forme giuridiche fondamentali della disponibilità della terra da parte del lavoratore autonomo in agricoltura, che sono pervenute sino ai nostri giorni, oltre alla piccola proprietà e all'affitto bisogna aggiungere ancora la mezzadria, basata su un contratto per cui padrone del fondo e mezzadro forniscono elementi diversi del processo produttivo (la terra, la casa e le scorte, il padrone; parte delle sementi, strumenti di lavoro, e naturalmente il lavoro suo e della famiglia, A mezzadro) dividendo poi a metà gli utili. Queste tre forme persistono, ma la mezzadria - molto diffusa in Italia sino a questo dopoguerra in alcune regioni, soprattutto dell'Italia centrale - è oggi quasi scomparsa. Il racconto ricorda anche che per un affittuario, ma lo stesso di nuovo valeva per il piccolo proprietario, l'organizzazione del lavoro era su base familiare: marito e moglie lavoravano insieme, dividendosi i compiti; i figli si crescevano per avere nuovi aiuti. Appezzamenti più grandi consentivano poi l'introduzione di nuove tecniche produttive (nel racconto: l'aratro invece della zappa). Un'azienda familiare più grande comportava una maggiore divisione tecnica del lavoro, anche se i rapporti familiari ne costituivano per cosi dire la traccia. Questa è una costante delle aziende contadine familiari. Il racconto del contadino piemontese ci ha mostrato il mondo agricolo delle piccole e medie aziende, sul quale ci siamo soffermati in particolare per la sua importanza nel caso italiano. Non mostra invece l'altro mondo rurale, costituito dalla grande azienda agricola. Una forma tradizionale di questa era il latifondo, diffuso in Italia in alcune zone del Mezzogiorno. La moderna grande azienda capitalistica, a maggiore produttività per l'impiego di capitali in mezzi di produzione, si è sviluppata nel nostro paese successivamente, a partire dalla pianura padana; con la grande azienda si sono anche diffusi gli operai dell'agricoltura, che solo coltivano terra per conto di altri. Questi possono essere assunti a tempo indeterminato, ma anche «a giomata», o più in generale a tempo determinato (i braccianti). Piccole aziende a base familiare continuano a essere molto diffuse in Europa e negli Stati Uniti. Tuttavia, il loro peso economico, rispetto a imprese medie e grandi, è diverso nei vari paesi. Possiamo avere un'idea di queste differenze considerando la dimensione media delle aziende. Troviamo così che la dimensione media dell'azienda agricola è circa 7 ettari in Italia, 27 in Francia, 187 negli Stati Uniti. Oggi, in Italia, molto più della metà degli addetti all'agricoltura sono lavoratori indipendenti, mentre nell'industria A rapporto è di uno a sei e nel terziario di uno a tre. Tuttavia, come del resto già si vedeva per l'agricoltura tradizionale, quello agricolo è un mondo economico e sociale molto eterogeneo al suo interno: il lavoro indipendente in agri1 Mezzadria. Latifondo Azienda capitalistica Braccianti 534 CAPITOLO 19 coltura, in particolare, può significare cose molto diverse. Bisogna dunque essere attenti nel valutare le statistiche agricole. Un certo ordine può essere fatto distinguendo fra aziende con solo manodopera familiare (il conduttore dell'azienda, piccolo proprietario o affittuario, aiutato dagli altri membri della sua famiglia), aziende con manodopera Pagina 312
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt prevalentemente familiare, e aziende con manodopera salariata prevalentemente extrafamiliare. Al censimento agricolo del 1990 risultava che la grande maggioranza delle aziende sono del primo tipo (81 %), seguite da quelle del secondo (13 %), mentre le aziende del terzo tipo (le vere e proprie imprese capitalistiche in agricoltura) sono solo il 6% Da notare però che oltre i due terzi della produzione agricola nazionale sono forniti da non più del 10% delle aziende, che appartengono al terzo e al secondo tipo. Al lato opposto della scala si collocano il 70% delle aziende che producono solo 1/10 del totale. Queste aziende piccole o piccolissime producono piuttosto per l'autoconsumo che per un reddito ricavato dalle vendite all'esterno, e fanno capo a famiglie agricole i cui membri svolgono spesso anche altre attività fuori dall'azienda. Di nuovo si tratta di un insieme molto eterogeneo, che le statistiche individuano male: il lavoro agricolo a tempo Pari-1ime parziale (part-time farming) di uno o più membri, può essere infatti una componente economica di redditi familiari anche elevati, in certi casi associato a tipi particolari di sviluppo industriale (v. cap. XX). In altri casi, è invece una condizione che rivela forme di adattamento più o meno precarie, m una economia sottosviluppata. E' questo il caso, in Italia, di molte zone del Mezzogiorno, dove il lavoro part-time del contadino si svolge prevalentemente nella stessa agricoltura, mentre al nord l'impegno è spesso in attività industriali o terziarie. Nel Mezzogiorno esistono molti casi di contadini indipendenti poveri che più o meno occasionalmente lavorano anche sui campi alla dipendenza di altri; in questo sono dunque simili ai braccianti, e piuttosto parte, come loro, di un proletariato agricolo che di una piccola borghesia indipendente. In generale tuttavia, un'attività a tempo parziale in agricoltura, che può essere quella principale oppure una secondaria, non è necessariamente sinonimo di difficoltà e adattamento economico insoddisfacente, e si tratta di un fenomeno che si sta diffondendo. Questo cambiamento è parte di più generali trasformazioni del mondo contadino nelle economie sviluppate, attraverso le quali l'agricoltore si sta anche inventando nuove attività e compiti, che ne trasformano la figura tradizionale: pensiamo per esempio all'agriturismo. 4.2. L'evoluzione dei lavoro industriale 1 sistemi industriali avanzati hanno al loro centro delle grandi imprese: ci occuperemo di questo carattere dell'economia e delle sue IL LAvoRo 535 ragioni al prossimo capitolo. Qui ci occupiamo invece del cambiamento organizzativo che ha accompagnato tale crescita e delle trasformazioni che ha subito il lavoro industriale, ovvero l'attività di produzione di molte persone coordinate fra loro in grandi organizzazioni: come si differenziano, si coordinano e cambiano i compiti e le capacità professionali di chi lavora in fabbrica? E problema posto ha molte facce. A seconda delle dimensioni, dei settori e dei tipi di produzione, ma anche a seconda dei reparti di una stessa azienda, esistono differenze significative nel modo di dividere e organizzare il lavoro. Quanto diremo compone un quadro semplificato, riferito soprattutto alle forme organizzative confluite nella grande produzione di serie (per esempio: la produzione di automobili in molti esemplari). Queste hanno del resto influenzato in generale A modo di coordinare le attività produttive negli anni della grande crescita. Le forme moderne di organizzazione industriale si affermano nella prima metà del secolo. t opportuno osservare tali cambiamenti organizzativi in rapporto anche ai cambiamenti delle tecniche di produzione. Per valutare le grandi novità del lavoro in fabbrica, si può inoltre metterlo a contrasto con il tradizionale lavoro artigiano. 4.2.1. Taylorismo efordismo L'artigiano è un imprenditore che conduce la sua impresa preva- Artigianato lentemente con il lavoro proprio e dei suoi familiari, con l'assunzione eventuale anche di dipendenti. L'artiffianato continua a essere diffuso nell'economia contemporanea, ma qui ci interessa in particolare come forma antica - via, via modificata - di organizzazione del lavoro. Nel laboratorio artigiano ci si serviva, e ancora ci si serve, di utensili che estendono le possibilità di chi lavora; tuttavia è l'abilità nell'uso diretto deH'utensile sui materiali a essere decisiva per produrre per esempio un vaso (al tornio rotante), o un mobile (usando sega, pialla, trapano) Gli utensili di cui si parla sono molto flessibili, nel senso che servono a fare molte cose diverse. L'artigiano svolge un lavoro specializzato, fatto di fasi distinte, dall'ideazione del prodotto alla sua rifinitura. L'abilità richiesta è Pagina 313
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt appresa con un lungo tirocinio, che si svolge da giovani «a bottega». L'organizzazione di fabbrica, come organizzazione della produzione per il mercato, nasce nel XV111 secolo. L'ampliamento e il controllo della produzione da parte di un imprenditore aveva già conosciuto una forma che non richiedeva la concentrazione di mezzi di produzione e persone; si tratta del putting-out system, vale a dire del coordina- Putttng-ow system mento di artigiani che lavorano a domicilio (tessitori, per esempio), ai quali un imprenditore-mercante ricorre a seconda delle richieste del mercato. Le prime concentrazioni di manodopera in uno stesso luogo, sotto Factory system Macchine universali Operai di mestiere la direzione e il controllo di un imprenditore (Forganizzazione di fabbrica, ovvero il factory system opposto al putting-out system), non cambiano radicalmente il modo di lavorare, gli strumenti, le gerarchie. Comincia tuttavia una trasformazione che, attraverso maggiori investimenti in macchinari, l'evoluzione di questi, la crescente concentrazione di mezzi e persone conduce anche a rivoluzionare l'organizzazione del lavoro. In fabbrica si introducono le prime macchine utensili anch'esse flessibili come i vecchi utensili, e perciò chiamate «macchine universali» Le macchine universali possono essere adoperate per diverse operazioni, adattate a queste dall'operatore; una volta azionate, esse eseguono la lavorazione senza altro intervento diretto. L'operatore deve conoscere le diverse possibilità della macchina, predisporla per l'esecuzione e intervenire con altri attrezzi per completare o rifinire il pezzo. Un esempio di macchina utensile universale è la fresatrice, che lavora il metallo con l'uso di attrezzi rotanti diversi, da angolature variabili. L'uso di macchine utensili universali caratterizza una prima fase dell'organizzazione del lavoro di fabbrica [Touraine 19551. L'imprenditore sceglie cosa produrre e assicura le condizioni generali della produzione, ma l'esecuzione del prodotto è in larga parte lasciata all'autonomia e all'abilità professionale degli operai nell'uso delle macchine, organizzati in squadre. Queste sono composte da operai più esperti e anziani, da apprendisti più giovani che stanno imparando, e da molti manovali non qualificati che eseguono i lavori più semplici. Gli operai dotati di professionalità di questa fase (pochi rispetto ai manovali) sono chiamati operai di mestiere. Di tale genere era l'organizzazione del lavoro di fabbrica all'inizio del secolo. Osservata con gli occhi abituati al tipo di fabbrica che si è poi imposto nei decenni successivi, essa appare alquanto «disorganizzata». Uno stesso lavoro poteva richiedere tempi di attuazione differenti a seconda delle squadre, essere fatto in modi diversi, essere diversamente remunerato a seconda degli accordi del caposquadra con gli operai che lui stesso assumeva, e così via. Da considerazioni come queste nacque l'idea di introdurre un metodo nell'organizzazione del lavoro. La proposta più compiuta fu la cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro (Scientific Management), ideata in America da Frederick W. Taylor [19111. 1 metodi a lui ispirati costituiscono il taylorismo. Taylor partì dall'idea che per acquistare efficienza era necessario progettare un'organizz azione centralizzata, nella quale fossero rigidamente divisi i compiti di decisione e pianificazione del lavoro (spostati alla direzione) da quelli di esecuzione. E processo complessivo di lavorazione doveva essere smontato in una serie di operazioni, ognuna (o una serie limitata) delle quali definisse un posto di lavoro. Le singole operazioni potevano poi essere standardizzate, fissandone tempi e metodi, tenuto conto dello sforzo necessario e di un corretto modo di IL LAVORO 537 esecuzione; in tal modo, esse diventavano esattamente prevedibili. Opportune tecniche di selezione e valutazione avrebbero trovato l'«uomo giusto al posto giusto», diversamente remunerato secondo quello che veniva valutato il suo apporto alla produzione. Il sistema organizzativo complessivo era la ricomposizione di tali attività standardizzate, adattate le une alle altre e controllabili. Faceva parte della proposta di Taylor che i lavoratori fossero spinti ad accettare le nuove condizioni da un salario maggiore che derivava da una produzione più efficiente: uno stesso numero di operai avrebbe infatti realizzato nello stesso tempo una quantità maggiore di prodotto. Questo non Pagina 314
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt bastò però a evitare vivaci reazioni, perché a nuovo metodo sottraeva ai lavoratori potere e autonomia. In certi casi il taylorismo eliminò anche professionalità artigiana e di mestiere, ma questo punto non va enfatizzato: molti degli operai che venivano immessi nell'industria americana in espansione erano stati in precedenza agricoltori, e non possedevano alcuna professionalità industriale. Nell'industria di allora la quota di operai di mestiere era nettamente inferiore a quella degli operai non qualificati. Taylor era poi ingenuo nel credere che si potesse «scientificamente» stabilire il modo migliore (one best way) di fare una cosa, e a volte A taylorismo fidi per diventare semplicemente sinonimo di compressione dei tempi di lavoro. Merito di Taylor fu in ogni caso quello di porre per la prima volta il problema dell'organizz azione del lavoro in azienda; l'organizzazione industriale successiva può essere considerata uno sviluppo a partire dai suoi schemi. Una nuova fase si apre con l'avvio della grande produzione di serie, basata sull'introduzione estesa di un nuovo tipo di macchine: le macchine speciali. Queste compiono poche o una sola operazione, non Macchine speciali richiedono itnportanti e diversi interventi di regolazione e funzionano con continuità: sono dunque veloci e non flessibili. La conseguenza è che gran parte del lavoro richiesto è più semplice di quello dell'operaio di mestiere. In questa nuova fase aumentano infatti gli operai non o poco qualificati: un breve tirocinio li rende capaci di svolgere la loro mansione. Nel suo caso più spinto, la nuova divisione tecnica del lavoro è organizzata come lavorazione a catena: «un tipo di organizzazione Lavorazione a catena del lavoro per cui le diverse operazioni, ridotte alla medesima durata o ad un multiplo o sottomultiplo semplice di tale durata, vengono eseguite senza interruzione tra loro e in un ordine costante nel tempo e nello spazio» [Touraine 1955, trad. it. 1974, 621. La catena di montaggio fu applicata da Ford alla produzione di auto in grande scala, a partire dal 1913. Da qui anche l'uso dell'espressione fordismo per questa nuova fase dell'organizzazione indu- Fordismo. striale, dove la fabbrica è interamente progettata a partire dal sistema delle macchine. E fordismo accentuò la segmentazione del lavoro e fini per cancellare il «mestiere» Per molti, si trattò di «lavoro in briciole», senza 538 CAPITOLO 19 senso e ripetitivo. Cominciavano però a nascere anche nuove funzioni intermedie di controllo e gestione, e in ambito operaio nuove qualificazioni nei reparti di attrezzaggio e manutenzione [Bonazzì 19891. Altre forme organizzative hanno sperimentato in seguito ricomposizioni del lavoro segmentato, diminuendo i compiti più semplici e ripetitivi di pari passo con lo sviluppo di una nuova generazione di macchine automatiche. Come ha osservato Touraine, «la scomposizione del lavoro, intensificandosi, si nega da se stessa. Si affidano alla macchina che progressivamente li raggruppa, i compiti elementari che si erano separati in seguito alla scomparsa dei vecchi mestieri unitari» Ubidem, 351. Dopo il mestiere e il taylorismo-forIsmo, si apre allora per il lavoro una terza fase, nella quale nuove qualificazioni necessarie per operazioni di controllo tecnico, manutenzione, riparazione aumentano, mentre i lavori di esecuzione diretta e passiva tendono a diminuire. 1 robot che agiscono con movimenti simili al braccio umano, e macchine a controllo numerico che svolgono da sole lavorazioni diverse sulla base di programmi inseriti in un calcolatore sono esempi delle nuove tecnologie, di nuovo flessibili. 4.2.2. Il sistema Toyota Possiamo aggiornare la storia senza fine dell'organizzazione del lavoro industriale con la sfida maggiore portata al fordismo in anni più recenti. Si tratta del sistema Toyota che ha rivoltato come un vestito vecchio l'organizzazione che ai suoi tempi aveva pensato Henry Ford. Non si capisce il cambiamento organizzativo senza riportarlo ai cambiamenti del mercato. Oggi è finita l'epoca della grande crescita e i mercati sono diventati più limitati, più differenziati e più instabili: la produzione di massa era basata sull'idea che si sarebbero trovati clienti per tutto ciò che si produceva; nella nuova situazione si tratta di avvicinarsi alla condizione di produrre soltanto quello che è già richiesto da un cliente. Ciò rende necessaria una rivoluzione organizzativa. Nel fordismo le decisioni su cosa e quanto produrre sono fissate dalla direzione «a monte»: i componenti, prodotti in fabbrica o da fornitori esterni (ingranaggi, sedili, e così via), affluiscono a magazzini, e da qui passano all'assemblaggio lungo la catena. Se le auto non si vendono subito, vengono Pagina 315
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt parcheggiate in piazzali in attesa di esserlo, mentre i componenti prodotti in eccesso si accumulano: nelle nuove condizioni di mercato questo può avvenire con frequenza. Rovesciando lo schema organizzativo, è l'ordinazione di un certo numero di auto pervenuta agli uffici commerciali che mette in moto lungo la linea produttiva la richiesta dei diversi componenti, i quali vengono allora prodotti solo nella quantità necessaria. In fabbrica non circola nessun componente che già non si sappia a che auto è destinato: è la IL LAvoRo 539 cosiddetta produzione just in time, espressione di solito non tradotta JUst in time con la quale si intende che «nel. corso dell'assemblaggio dell'automobile ciascun componente arriva alla linea di montaggio nel preciso momento in cui ce n'è bisogno e solo nella quantità necessaria» [Hono 1978, trad. it. 1993, 71. Il cambiamento di ottica si accompagna a molte altre innovazioni organizzative. Ricordiamo ancora il principio della «autoattivazione», applicato alle macchine, agli operai e alle linee produttive: in caso di errore la macchina che sta operando si ferma automaticamente; allo stesso modo, in caso di anomalie riscontrate in una fase di lavorazione manuale A lavoratore interrompe la linea. 1 controlli di qualità non sono dunque solo alla fine di una linea produttiva, che funziona sempre senza interrompersi. L'autoattivazione permette di intervenire senza che gli errori si ripetano e accumulino, con tempestività e alla radice. E sistema Toyota, meno sprecone e più capace di adattarsi al mercato, richiede un attento gioco di squadra da parte di tutti. Macchine automatiche, robot e macchine a controllo numerico sono utilizzate perché permettono elasticità, ma fattori di elasticità sono anche uomini addestrati a più compiti, in grado di percepire e realizzare direttamente i continui aggiustamenti necessari ai processi di produzione, e le squadre che gestiscono autonomamente singole aree di produzione, coordinandosi fra loro secondo i principi del 1*Ust in time. Il sistema Toyota richiede molta responsabilizzazione e partecipazione da parte di tutti. La garanzia del posto di lavoro «a vita» e differenziali fra paghe di operai e di dirigenti più bassi che in Occidente sono due esempi delle motivazioni a partecipare che lo rendono possibile. Dopo aver seguito l'evoluzione del lavoro industriale dal taylorismo alla fabbrica integrata, possiamo ancora chiederci: queste evoluzioni hanno in sostanza migliorato le condizioni di lavoro o le hanno peggiorate, lo hanno mediamente arricchito o impoverito, quanto a contenuti, partecipazione, professionalità? Su questo interrogativo ci sono state forti discussioni e diverse ricerche che hanno cercato di verificare ipotesi con dati. In conclusione, la tesi di una continua dequalificazione del lavoro, sostenuta in particolare da Braverman [19741, è stata smentita. Sembra infatti che, con il passaggio alle nuove forme di organizzazione, in media si possono riscontrare un miglioramento della qualificazione professionale e maggiori ambiti di autonomia nello svolgimento delle attività lavorative [cfr. per es. Kern e Shumann 19841. 1 successi ottenuti hanno sollecitato altrove imitazioni e adattamenti. Espressioni come «fabbrica integrata», «qualità totale», «produzione snella» sono entrate nell'uso per indicare l'organizzazione «alla giapponese». In realtà, sia l'organizzazione che il sistema di motivazioni escogitati in Occidente sono piuttosto degli ibridi, nati dall'innesto su esperienze e condizioni precedenti. Del resto, anche il sistema Toyota è in continua evoluzione: per esempio, i controlli in linea secondo il principio della autoattivazione sono stati alleggeriti ed è stato reintrodotto il controllo di qualità finale. Con l'aggravarsi della crisi, anche il principio del lavoro «a vita» è stato accantonato per certe categorie di dipendenti, pur rimanendo una cura particolare del rapporto di lavoro. e distribuzione deì beni fisici Servizì alle itnprese 4.3. Lavoro specializzato e lavoro dequalificato aumentano insieme nei servizi Come sappiamo nei servizi sono comprese molte cose diverse. Dal momento che la loro espansione è un fatto recente (come si è visto nel cap. XI), si potrebbe pensare che si tratti anche delle attività dove il lavoro è più «moderno» e qualificato, ma le cose sono più complicate. Nei servizi troviamo infatti lavori molto specializzati e ben remunerati accanto ad altri dequalificati e poco pagati: le due categorie aumentano insieme. Per sondare il mondo dei servizi da questo punto di vista ci serviremo di una ricerca di Esping-Andersen [19911, che ha suddiviso gli occupati in modo inconsueto, allo scopo di mettere soprattutto in evidenza le categorie di Pagina 316
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt servizi più lontani, per così dire, dalla produzione. La tab. 19.7 - che si riferisce a tre paesi avanzati, in due anni diversi - considera nella prima riga gli addetti alla produzione e alla distribuzione di beni fisici. In questa categoria ci sono dunque anche addetti solitamente contati nel terziario (nei paesi avanzati gli occupati del commercio addetti alla distribuzione sono circa un quinto del totale degli occupati). L'economia dei servizi staccati dalla produzione è poi analizzata in riferimento a tre categorie: i servizi al consumatore, che comprendono ristoranti, bar, lavanderie, parrucchieri, ecc.; i servizi sociali (salute, istruzione, ecc.) e i servizi alle imprese (consulenze, programmazione di sistemi, servizi legali, commerciali, finanziari, ecc.). Possiamo chiamare «postindustriali» questi settori che sono in espansione. Sommando le tre categorie si ottiene che a metà degli anni ottanta essi pesavano ormai per il 26% in Germania, il 38% in Svezia e ben il 44% negli Stati Uniti, con un aumento importante nel lasso di tempo considerato. Da notare che il totale per colonna non è 100 perché per semplificare sono state trascurate categorie residuali come gli addetti all'agricoltura. Oltre alla percentuale di addetti in ogni categoria rispetto al totale, la tabella permette di valutare in sintesi la qualità del lavoro riportando la percentuale di occupati non specializzati in ogni categoria. Con questa espressione si intendono qui persone che svolgono lavori che chiunque sarebbe in grado di svolgere senza precedenti qualificazioni. E peso degli addetti alla produzione e distribuzione di beni fisici è ovunque in diminuzione, tendenza che è accompagnata dalla diminuzione dei lavoratori non specializzati in Svezia e Stati Uniti. 1 servizi alle imprese aumentano invece ovunque il loro peso, in particolare IL LAVORO 541 TAB. 19.7. Gambiamenti settoriali dell'occupazìone in tre paesi Germania Svezia Stati Uniti a b a b a b 1960 1985 1960 1985 1960 1985 1960 1985 1960 1985 1960 1985 Produzione e distribuzione di beni fisici 67 61 30,2 31,7 62 51 43,7 34,1 58 48 46,7 37,3 Servizi al consumatore 6 6 52,7 20,5 8 5 50,9 36,4 11 12 58,2 45,0 Servizi sociali 5 12 14,5 11,9 9 26 18,0 23,9 11 21 21,6 17,7 Servizi alle imprese 3 8 7,2 7,8 3 7 12,6 17,0 7 il 7,7 13,5 Totale servizi postindustriali 14 26 - - 20 38 - - 29 44 - Legenda: a: percentuale sul totale dell'occupazione; b: percentuale di lavoratori non specializzati nel settore. Nota: E totale per colonna non è pari a 100 poiché alcune categorie residuali sono state trascurate. Fonte: Adattamento da Esping-Andersen [19911. negli Stati Uniti; molti di questi lavori richiedono una professionalità elevata (si tratta di professionisti, ricercatori, tecnici) ma con A tempo è aumentata la quota dei non specializzati, che rimane tuttavia bassa, molto più bassa che nel settore dell'industria e distribuzione; in complesso si tratta dunque di un settore dove si trovano molti lavori buoni o a medie condizioni di professionalità e remunerazione. 1 servizi sociali hanno fatto in venticinque anni un balzo in avanti Servizi socigi e raggiungono oltre un quarto dell'occupazione complessiva in Svezia, dove però le attività non qualificate aumentano al contrario degli altri due paesi. Nei servizi al consumatore, infine, si conta la quota più elevata di non specializzati: questi sono il 45 % negli Stati Uniti, dove il peso della categoria è in aumento (raggiunge ora il 12%). Come si vede, i tre paesi non hanno andamenti del tutto simili. In sintesi, la Germania è ancora un paese piuttosto tradizionale nella sua struttura professionale. Industria e commercio contano ancora molto, le imprese affidano all'esterno meno che negli Stati Uniti servizi avanzati di cui hanno bisogno, mentre i servizi al consumatore e i servizi sociali, che corrispondono al ricorso all'esterno da parte delle famiglie per bisogni prima in gran parte soddisfatti al loro interno, hanno avuto una crescita contenuta. Svezia e Stati Uniti sono complessivamente più «postindustriali», ma possiamo notare una importante diversità. Si tratta del peso rilevante assunto in Svezia dai servizi sociali, con quote alte di lavoro non specializzato, e del maggior peso relativo negli Stati Uniti dei servizi al consumatore, con quote molto elevate di lavori cattivi. Queste diversità dipendono dalla regolazione politica Pagina 317
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt e sindacale dell'economia. 542 CAPITOLO 19 Servizì al consumatore 1 servizi al consumatore si espandono con il lavoro fuori casa delle donne e l'aumento del tempo libero, tanto più quanto meno sono costosi: un mercato liberalizzato, con popolazione non protetta dalla legislazione sociale e non rappresentata sindacalmente, e dunque con soglie basse di accettazione delle condizioni di lavoro ha permesso l'espansione di lavori poco remunerati in questi servizi negli Stati Uniti, sovente di immigrati appartenenti a minoranze etniche. La bassa soglia di accettazione risulta subito evidente se si fa un confronto con la Svezia: qui un lavoratore non specializzato dei servizi personali ha in media un salario che è l'80% di quello di un lavoratore dell'industria, negli Stati Uniti il 44%. In Svezia la tradizione di un welfare state esteso, che mantiene soglie più alte, non ha fatto crescere i servizi al consumatore, comportando invece una quota elevata e in aumento degli addetti nel settore dei servizi sociali. Si tratta in gran parte di donne, per una parte importante non qualificate, sovente con lavoro part-time; siccome l'assistenza è pagata dallo stato che ricorre alla tassazione, l'espansione del settore coincide anche con salari più bassi di quelli nel settore privato. Un'ultima osservazione riguarda il rapporto degli andamenti indicati con il problema dell'occupazione. In Germania, una bassa espansione dei servizi postindustriali coincide con una minor presenza delle donne sul mercato del lavoro e con una disoccupazione maschile che se ci sembra bassa rapportata al caso italiano, è tuttavia più alta di quella svedese e americana. Nel periodo considerato, la disoccupazione in Svezia è stata infatti molto bassa e anche negli Stati Uniti si sono creati nuovi posti di lavoro. In entrambi i casi, la strada è stata appunto la crescita dei servizi, ma secondo due modelli diversi. 5. Le relazioni industriali Sindacati 5.1. 1 sindacati I sindacati sono associazioni di lavoratori che si uniscono per tutelare i propri interessi professionali. Queste danno vita a organizzazioni che agiscono stabilmente nei confronti dei datori di lavoro, a loro volta in genere rappresentati da organizzazioni. I sindacati sono associazioni piuttosto particolari, che possono modificare in diverse direzioni i caratteri generali di queste visti a suo tempo (cfr. cap. IV). In particolare: un sindacato rappresenta gli interessi degli iscritti, ma può di fatto rappresentare anche quelli dei lavoratori non iscritti appartenenti a una stessa categoria se i contratti collettivi che stipula hanno per legge valore per tutti (con espressione latina: erga omnes); addirittura i sindacati possono creare organizzazioni nazionali che si propongono di rappresentare gli interessi dell'insieme dei lavoratori di un paese (gli operai, o più in generale i lavoratori dipendentì, e dunIL LAVORO 543 que anche gli impiegati), occupati e anche disoccupati o pensionati. Si delineano così due tipi polari: i sindacati associativi (di iscritti e per categorie ristrette) e i sindacati di classe (a rappresentanza estesa). Per fare due esempi, il sindacato americano è piuttosto del primo tipo, quello svedese del secondo. Da notare però che in genere ci si avvicina soltanto all'uno o all'altro tipo senza realizzarlo pienamente. Le possibili forme organizzative di affffiazione e rappresentanza sono in realtà molte. In origine il sindacato nasce come associazione di operai che hanno uno stesso mestiere, ovvero una particolare professionalità da difendere (il termine inglese per sindacato, trade-union, significa appunto unione di mestiere). E conflitto fra lavoratori specializzati e non specializzati è tipico di una prima fase del sindacalismo, che tende a escludere i secondi. Negli Stati Uniti, per esempio, la Afl (American Federation of Labor), prima grande organizzazione di massa in quel paese, nacque nell'Ottocento come federazione di diverse associazioni di lavoratori specializzati; negli anni trenta vennero espulse dalla federazione alcune associazioni che volevano estendere l'adesione ai non specializzati; questo gruppo dette allora vita alla Cio (Congress of Industrial Organizations), che organizzava i lavoratori della grande industria a produzione di massa. Nel 1955 Afl e Cio si sono infine riunite in una federazione (Afl-Cio Pagina 318
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Labor United) che assicura sostegno ai sindacati affiliati. L'esempio fatto mostra la tendenza, presente in quasi tutti i paesi sviluppati, al passaggio dal sindacato di mestiere a organizzazioni che comprendono l'insieme dei dipendenti di un settore (si dice anche di un'industria, nel senso per esempio dell'industria chimica o dell'auto), indipendentemente dalla loro professionalità; suggerisce anche che la tendenza è stata sollecitata dallo sviluppo della produzione di massa e dall'o rganizz azione fordista; infine mette in luce la tendenza, anche questa generalizzata, alla formazione di grandi federazioni (o confederazioni) nazionali di sindacati di diversi settori, che restano più o meno autonomi al loro interno. Rispetto all'esempio americano si rilevano in Europa alcune differenze. Una importante, relativa però solo ad alcuni paesi, è l'esistenza di più sindacati formati su base ideologica o di vicinanza politica. t A caso della Francia, dell'Olandal del Belgio e dell'Italia. Qui si sono confrontate nel dopoguerra tre grandi confederazioni: la Cgil, di matrice marxista, la Cisl, cattolica, e la Uil, socialdemocratica. Questo pluralismo sindacale non si verifica nei paesi scandinavi, in Germania, in Austria, dove troviamo una sola federazione, molto organizzata. Una seconda differenza riguarda il rapporto con lo stato. Mentre negli Stati Uniti le parti sociali (così spesso sono definiti i sindacati di lavoratori e padronali quando si rapportano alla politica) chiedono ai poteri pubblici soltanto di fissare e garantire regole di contrattazione, in Europa più spesso esse sollecitano l'intervento dello stato in quanto regolatore dell'economia attraverso la spesa pubblica e la legislazione Associativi e di classe Parti sociali Relazioni industriali 544 CAPITOLO 19 a sociale, industriale, del lavoro. In altre parole: mentre in America i smdacati sono attori collettivi dell'economia, in Europa stanno piuttosto fra economia e politica. Diventa allora più esplicita una funzione, che già in parte è propria delle federazioni nazionali: quella di agire anche per compensare categorie svantaggiate rispetto ad altre più avvantaggiate. Tornando al caso italiano, bisogna precisare che - come in altri casi nazionali - l'organizzazione settoriale si combina con un altro principio: quello dell'organizzazione territoriale, che raggruppa i lavoratori di un'area a prescindere, in linea di principio, dal loro settore di appartenenza. Le organizzazioni territoriali (le Camere del lavoro sono le strutture territoriali della Cgil, per esempio) sono state e sono ancora molto importanti in Italia. Per completare A quadro del nostro paese si può ancora osservare l'esistenza di un associazionismo imprenditoriale molto frammentato. La Confindustria è la principale organizzazione di grandi e piccoli imprenditori nei settori dell'industria, dei trasporti, delle costruzioni. La Confapi rappresenta però associati appartenenti a piccole e medie imprese degli stessi settori, mentre esistono associazioni delle imprese a controllo statale (Intersind, Asap), e diverse associazioni di rappresentanza - differenziate dal riferimento politico - delle cooperative, degli imprenditori agricoli, del commercio. Negli anni più recenti le trasformazioni dell'organizzazione economica e altre modificazioni nel tessuto sociale hanno avuto conseguenze anche sull'organizzazione sindacale. La minor presa di ideologie tradizionali, unita a forme organizzative della produzione e dei servizi con figure di lavoratori meno simili gli uni agli altri, hanno reso più difficile l'aggregazione e la rappresentanza unitaria degli interessi. Si sono allora diffusi i cosiddetti «sindacati autonomi» (così chiamati perché esterni alle grandi confederazioni nazionali), che tutelano gruppi di lavoratori grandi (i dipendenti della scuola, per esempio) o anche piccoli (i controllori di volo), spesso molto aggressivi e con scarsa attenzione a problemi di compensazione. In questo senso si parla di tendenze alla tutela di interessi corporativi. 5.2. Contrattazione, conflittualità, regolazione 1 processi di contrattazione collettiva fra organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro (o anche singole imprese), per stipulare accordi relativi a salari e condizioni di lavoro costituiscono le relazioni industriali [Accornero 19941. La nascita del sindacato e della contrattazione collettiva all'interno dell'industria lascia dunque ancora traccia nell'uso del termine: più correttamente in Francia si parla in generale di relations professt'onnelles e in Spagna di relaciones laborales. 1 normali rapporti all'interno di un'azienda sono insieme di collaPagina 319
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt IL LAVORO borazione e conflitto. Le relazioni industriali permettono di esprimere le divergenze di interessi fra imprenditore e diverse categorie di dipendenti, e attraverso la contrattazione collettiva di ricomporle in contratti che diventano obbligatori fra le parti, valevoli per un certo periodo. Contratti firmati dai rappresentanti delle grandi confederazioni nazionali dei lavoratori e degli imprenditori hanno valore generale, per esempio per tutti i lavoratori dell'industria. A questi si aggiungono i contratti collettivi nazionali di settore (in Italia rinnovati ogni quattro anni), che riguardano categorie di lavoratori grandi, come i metalmeccanici, oppure piccole, come i doganieri. Miglioramenti dei contratti collettivi possono però essere contrattati a livello di zona o di singola azienda. La contrattazione riguarda i salari e la cosiddetta parte normativa: orari, condizioni di lavoro, permessi e così via. La minaccia dell'una o dell'altra parte di rompere la trattativa sposta la contrattazione verso rapporti più conflittuali, che possono sfociare nella dichiarazione di uno sciopero. Lo sciopero - riconosciuto come un diritto dalla Costituzione - è un'astensione dall'attività di lavoro da parte di un gruppo di lavoratori dipendenti (non si può scioperare da soli); l'astensione è in genere dichiarata da un'organizzazione sindacale, ma può esserlo anche da un'assemblea spontanea di lavoratori sul luogo di lavoro. Speculare allo sciopero è la serrata da parte dell'imp ren dito re, che consiste nella chiusura dell'azienda per un certo periodo. L'ordinamento italiano non prevede la serrata come un diritto, ma in casi particolari questa è stata considerata legittima in sede di giudizio. Lo studio sociologico degli scioperi è molto complesso. Due interpretazioni principali hanno cercato di comprendere le determinanti principali del fenomeno, vale a dire le ragioni che spiegano quando diventa probabile che uno sciopero si manifesti: si tratta del «modello economico» e del «modello politico-organizzativo» [Snyder 19751. Secondo il primo, la probabilità degli scioperi aumenterebbe e diminuirebbe in relazione all'andamento del ciclo economico. Questo perché in una fase di espansione aumentano le aspettative salariali, ma soprattutto aumenta la forza dei lavoratori sul mercato del lavoro in quanto molti sono occupati, con difficoltà dunque delle imprese a reperire nuova manodopera; il contrario si verifica invece nelle fasi depressive. Secondo il modello politico-organizzativo, invece, la conflittualità aumenta se il sindacato ha un'organizzazione con elevata capacità di mobilitare i suoi iscritti e i lavoratori in genere. Questa capacità può dipendere a sua volta da diversi fattori, come l'alta sindacalizzazione dei lavoratori (elevata completezza del gruppo, v. cap. 111), o un forte cemento ideologico che li unisce. Una ricerca comparativa fra diversi paesi, su un lungo periodo, ha mostrato che in generale l'andamento degli scioperi - con differenze da paese a paese e a seconda dei periodi - è piuttosto autonomo nei confronti del ciclo economico. Solo in alcuni casi il puro modello eco546 CAPITOLO 19 nomico riesce a spiegare l'andamento della conflittualità, mentre più spesso le variabili economiche relative al ciclo sono una componente importante della spiegazione, collegate però all'influenza più o meno marcata di variabili del secondo modello. Il modello politico-organizzativo, da solo, spiega a sua volta solo casi eccezionali [Cella 19791. Queste osservazioni sugli scioperi ribadiscono la collocazione del sindacato come attore collettivo che si situa fra economia e politica. A tale riguardo è necessario osservare che le relazioni industriali non solo regolano i rapporti fra due controparti, ma contribuiscono alla regolazione dell'economia nel suo complesso. Questa funzione di regolazione economica da parte delle relazioni industriali si è realizzata in modo più esteso e efficace soprattutto in alcuni paesi. Abbiamo già ricordato la combinazione di mercato e regolazione politica caratteristica dei cosiddetti assetti keynesianì (v. cap. precedente): una perdita del potere di acquisto dei salari può essere per esempio compensata da servizi efficienti forniti dallo stato, licenziamenti possono essere evitati se una legge stanzia fondi per un settore in difficoltà, e così via. Interventi di questo genere, come abbiamo detto a suo tempo, se coordinati in un quadro complessivo di politica economica possono tenere sotto controllo l'economia nel suo insieme garantendo un equilibrio fra consumi, salari, prelievo fiscale, spesa pubblica, investimenti, in grado di garantire occupazione e sviluppo. Le Pagina 320
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt contrattazioni che portano a intese del genere assumono tipicamente la forma di concertazioni «triangolari», che vedono allo stesso tavolo sindacati padronali, sindacati dei lavoratori e rappresentanti del governo. Un sistema di relazioni industriali allargato al governo che tipicamente produce queste forme di regolazione è chiamato neocorporatista (o N@vco"ra~o neocorporativo) [Regini 19911. 1 paesi scandinavi e l'Austria sono i casi più tipici nel dopoguerra di relazioni e regolazione neocorporatiste. Le condizioni che sembrano averle favorite sono: organizzazioni sindacali e padronalì molto rappresentative e accentrate (non presenza dunque di pluralismo sindacale, come in Italia); l'esistenza di una tradizione politica socialdemocratica, con governi orientati all'intervento dello stato nella regolazione economica. Ma sullo sfondo ci sono anche la centralità della produzione industriale nell'economia e l'organizzazione taylorista-fordista di questa che favorivano una rappresentanza aggregata degli interessi e la possibilità di accordi di regolazione economica centralizzata. Il terziario oggi in crescita è invece un mondo sociale molto più differenziato, e in generale si diffondono nell'economia rapporti di lavoro atipici come il part-time o il lavoro stagionale, doppie attività, figure di dipendenti che svolgono anche un lavoro in proprio, lavoro precario, e così via. Fenomeni come questi, nel quadro della ristrutturazione industriale e di ricerca di flessibilità da parte delle imprese, ostacolano prospettive di rappresentanza generalizzata, hanno messo in crisi le forme di concertazione «triangolare» e spingono il sindacato a specializzare le sue prestazioni e a differenziarsi. 1 IL LAVORo 547 TA& 19.8. Iscritti a Ggil, Cú4 Uil per posizione nelPoetwpazit)ne 1980-1990 Attivi Non attivi Totale v. assoluto v. assoluto v. assoluto 1980 1990 1990-1980 7.376.070 6.149.359 -1.226.711 81,9 60,6 -16,6 1.629.725 3.995.166 +2.365.441 18,1 39,4 +145,1 9.005.795 10.144.525 +1.138.730 100,0 100,0 +12,6 Fonte: Alacevich [19961. sindacati si sono indeboliti ovunque negli anni ottanta, perdendo iscritti e capacità di contrattazione. L'andamento dell'adesione sindacale in Italia è descritto dalla tab. 19.8, che si riferisce agli iscritti a Cgil, CisI e Ufl. Come si può vedere, nel decennio ottanta il sindacato ha tenuto per il forte aumento dei non attivi - che comprendono soprattutto casalinghe e pensionati mentre gli attivi sono diminuiti. I dati indicano cambiamenti importanti nei tipi di interessi rappresentati. In generale si stanno comunque sperimentando forme più articolate e decentrate di rappresentanza, mentre si discute quale possa essere in futuro il ruolo dei sindacati nei processi regolativi dell'economia. l. Imprenditori e imprese Il codice civile definisce imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi (art. 2082). Impresa è appunto l'attività organizzata svolta a questo fine. Il codice aggiunge anche il concetto di azienda che è l'organizzazione dell'impresa, vale a dire il complesso dei beni e le relazioni fra le persone che consentono l'impresa (consentono per esempio di fabbricare e vendere automobili). 1 sociologi usano gli stessi termini grosso modo nello stesso senso, ma con varianti e specificazioni che li sviluppano. Nella definizione data, l'imprenditore può apparire infatti in più vesti, in Pagina 321
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt relazione a diverse funzioni che esercita. Anzitutto è una persona che rischia un capitale, in operazioni di mercato che spera producano un guadagno: un'impresa, se non produce profitto fallisce. L'imprenditore è poi un organizzatore, che costruisce l'azienda, e un dirigente che la dirige. Un altro aspetto, espresso nel linguaggio corrente dalla parola «imprenditività», è nascosto nella definizione giuridica, ma importante per economisti e sociologi; l'imprenditore, per ottenere buoni e continui risulati economici, deve essere capace di introdurre innovazioni nel sistema economico: nuovi beni, nuovi metodi di produzione, l'esplorazione di nuovi mercati, nuove fonti di materie prime, nuovi modelli organizzativi. In questo modo egli assicura continuamente - come diceva Schumpeter - una «distruzione creatrice» che attiva lo sviluppo economico. Lo studio sociologico degli imprenditori si è occupato di temi diversi come la loro origine sociale, i caratteri psicologici che li contraddistinguono, gli atteggiamenti sociali che favoriscono o ostacolano la loro formazione e attività. E però evidente che sottolineare uno piuttosto che un altro degli aspetti con cui l'imprenditore si presenta, dà 550 CAPITOLO 20 Pjschio. . @1 $0cietà. Società per azioni Società conimerciate luogo a problemi e teorie diverse del fenomeno imprenditoriale [Pagani 19641. In realtà, la definizione si adatta meglio a un piccolo imprenditore, perché in questo caso le diverse figure tendono a sovrapporsi. Un piccolo imprenditore rischia per lo più di tasca propria, in genere è la sola persona che prende le decisioni importanti nella sua azienda, e magari sfrutta l'idea che gli è venuta di un prodotto al quale nessuno aveva ancora pensato. Ma prendere decisioni, studiare e introdurre innovazioni, sostenere il rischio possono essere funzioni spartite fra più persone e figure sociali. Questo diventa evidente quando invece che alle piccole imprese si guarda alle grandi. 1 giuristi pongono molta attenzione al rischio economico, perché la responsabilità per le perdite individua il titolare dell'impresa, identifica cioè per loro l'imprenditore. Per aumentare l'apporto di capitale e per dividere i rischi è però prevista la formazione di imprenditori collettivi, vale a dire di società. Una società è un attore artificiale distinto dai singoli che la costituiscono: non solo ha un suo nome, ma compra, vende, è titolare di crediti. In termini giuridici si dice che è un soggetto del diritto. 19 punto più importante è che nelle forme complesse di società, le cosiddette società di capitali, la responsabilità dei soci si limita al capitale che alla società hanno conferito; in altre parole, i soci non rispondono con altri loro averi di eventuali perdite. In questo senso si dice che le società hanno «autonomia patrimoniale». Il tipo più complesso di società di capitali è la società per azioni, posseduta da un numero anche molto grande di persone che possiedono quote anche piccole del patrimonio sociale (le azioni). 19 termine inglese per società per azioni è corporation. Dal punto di vista sociologico una società commerciale (questo è il termine giuridico generale, anche per un'impresa industriale) è un tipo particolare di associazione, che per svolgere la sua attività dà vita a un 'organizzazione (l'azienda) La società commerciale è dunque, in un certo senso, la figura che assume l'imprenditore moderno. 1 sociologi usano in genere il termine imprenditore per l'imprenditore personale, mentre spesso usano impropriamente come sinonimi impresa, società e azienda. Le società con le loro aziende sono viste come organizzazioni, nel senso introdotto a suo tempo (v. cap. IV), vale a dire come attori collettivi che agiscono sul mercato, prendendo decisioni sulla base di coalizioni di interessi che si formano fra i vari soggetti che ne fanno parte. Il capitolo sarà dedicato in gran parte alla produzione industriale. Ma a conclusione di questo paragrafo introduttivo, dove parliamo in generale di imprese e imprenditori, è opportuno segnalare una particolarità dell'Italia, che riguarda la struttura produttiva nel suo insieme, tanto l'agricoltura, che l'industria e i servizi. Si tratta di una particolarità molto marcata: pur essendo l'Italia un paese ad alto sviluppo, e pur essendosi questo di solito realizzato nelle diverse economie con un PRODUZIONE E CONsumo 551 Pagina 322
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[email protected]«11.. Im, rese.@.@- ad&,tiì ì«ft&atrà esemili nei poeiì iropei,1990 Distribuzione degli addetti Numero di Imprese 0-9 10-99 100-499 500 e oltre Totale imprese per 1.000 (in migliaia) abitanti Belgio 490 49 30 25 16 29 100 Danimarca 170 33 31 33 16 20 100 Francia 1.980 35 28 26 15 31 100 Germania fed. 2.290 37 19 27 17 37 100 Grecia 552 CAPITOLO 20 pido confronto fra il nostro paese e il paese a struttura più concentrata della serie, la Germania federale. Le ragioni di questa particolarità sono complesse, ma si possono indicare due processi che hanno influenzato la conservazione e il rinnovamento di tradizioni commerciali, professionali e artigianali. Il primo, che è precedente nel tempo, è la protezione politica che il lavoro autonomo e la piccola impresa hanno avuto, come elementi di stabilizzazione sociale e importante base elettorale dei partiti di governo per un lungo periodo, a fronte di un forte partito comunista che aveva il quasi monopolio dei voti della classe operaia. Ciò ha per certi aspetti ritardato la modernizzazione del sistema produttivo e mantenuto aree di inefficienza in questo [Pizzorno 19741. Il secondo processo, più recente ed economicamente più dinamico, è la spinta verso l'industrializzazione diffusa di cui parleremo nel seguito del capitolo. Monopolio 0%Opofio, Produttività .del lavoro 2. Produzione di massa e specializzazione flessibile Pagina 323
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 2.1. Le grandi imprese al centro dell'economia «Se vuoi costruire automobili su larga scala, se vuoi sfruttare il petrolio del Mare del Nord o costruire un oleodotto in Alaska, non c'è niente da fare, hai bisogno di un'impresa d'una certa dimensione» [Galbraith 1978, trad. it. 1979, 601. Al centro dell'economia contemporanea non ci sono molte piccole imprese, ma relativamente pochi grandi oligopoli. E modello di mercato che abbiamo visto al cap. XVIII, basato sull'ipotesi di molti imprenditori in concorrenza fra loro, vale piuttosto per alcuni settori dell'economia dove, per motivi che vedremo, continuano appunto a operare piccole imprese, spinte dalla concorrenza ad abbassare i loro prezzi. Un'ipotesi esattamente opposta è quella di un mercato con un solo produttore: si parla allora di mercato monopolistico e di monopolio (v. cap. XVIII). Di solito però, le grandi imprese si trovano in una situazione di mercato che non corrisponde né all'uno né all'altro modello: si trovano infatti in concorrenza con poche altre imprese. In tal caso, si parla di mercato oligopolistico e di oligopoli (dal greco oligos che vuol dire poco e polein: vendere). Anche la concorrenza oligopolistica «talora [... 1 assume la forma di una guerra dei prezzi per un certo ambito di prodotti, ma di solito si concentra nel disegno di nuove varietà di merci e nell'applicazione di nuovi metodi di produzione» [Robinson 1966, trad. it. 1967, 761. Spesso la nascita della grande industria è associata allo sviluppo della tecnologia. L'idea di base è che sostituendo lavoro umano con macchine che consentono un'alta velocità di produzione, i costi per unità di prodotto si abbassano. Si può anche dire che con l'introduzione di macchine aumenta la produttività del lavoro, e cioè la quanPRODUZIONE E CONSUMO 553 tità prodotta (o il valore delle merci prodotte) per addetto. In questo modo si sviluppa una produzione in grande serie di beni standardizzati (produzione di massa), che per diventare economicamente conveniente richiede mercati abbastanza grandi: l'impresa ottiene complessivamente dei profitti non vendendo a caro prezzo poche unità di prodotto, ma a poco prezzo molte unità. Mercati in espansione e capacità tecnologica sono dunque due condizioni di fondo per lo sviluppo della grande impresa. Una ulteriore condizione cruciale è la relativa stabilità dei mercati. Con riferimento al problema della stabilità, è stato sviluppato un modello analitico chiamato del dualismo produttivo. Il modello distingue a grandi linee due settori dell'economia: A settore centrale, dove ope_ rano imprese più grandi e stabili, e il settore periferico, composto di piccole imprese più instabili. Il forte e rigido impiego di capitale richiede la ragionevole sicurezza che il prodotto sarà venduto in certe quantità e per un periodo abbastanza lungo perché il capitale stesso venga ricostituito e remunerato: gli impianti molto costosi per la produzione di massa sono progettati per realizzare un certo prodotto e non possono farne un altro. Questo significa che mercati molto instabili, vale a dire molto soggetti a stagionalità o con domanda molto differenziata e variabile come per esempio quello dell'abbigliamento, non ammettono grandi imprese a produzione di massa. Sugli altri mercati, un'impresa tenderà poi a crescere sino a essere capace di rispondere alla quota di domanda stabile, vale a dire che corrisponde alla domanda prevedibile nelle fasi basse del ciclo economico; la quota di domanda aggiuntiva (di un certo prodotto o di componenti di un prodotto complesso) che si manifesta nelle fasi alte, a parità di altre condizioni è lasciata a imprese più piccole e più instabili. La grande impresa ha inoltre anche la capacità di sviluppare azioni per cercare di stabilizzare quanto più possibile i propri mercati: accordi fra imprese, rapporti con sindacati forti e rappresentativi che stabilizzano 9 costo del lavoro per un certo periodo previsto dai contratti, la pubblicità che stabilizza i consumi, rapporti e accordi con il potere politico per la regolazione dell'economia [Galbraith 19671. Grandi imprese che operavano su mercati in crescita e relativamente stabili hanno sviluppato impianti meccanizzati di produzione in grande serie, facendo della produzione di massa la parte centrale dell'industria - e dell'economia in generale - in questo secolo. La crescita della grande industria ha avuto importanti conseguenze sociali. Come abbiamo anticipato al capitolo precedente, la produzione di massa ha richiesto anche una particolare organizzazione del lavoro, e dunque un tipo particolare di operaio e, di riflesso, particolari caratteri nuovi della classe operaia nel suo insieme. Con il crescere dell'organizzazione, crescevano poi le funzioni di coordinamento delle attività e cresceva dunque uno strato intermedio di Pagina 324
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt impiegati. Al vertice, una classe di dirigenti di professione (manager) sostituiva il proprietario Produ7ione di massa Dualismo 1 produttivo Manager 554 CAPITOLO 20 nella gestione dell'impresa. Questo è un punto importante al quale già si è fatto cenno: le funzioni imprenditoriali si dividono fra più soggetti. Si può allora fare l'ipotesi che i due gruppi dei proprietari (gli azionisti) e dei dirigenti abbiano interessi almeno in parte differenziati. In particolare, si ritiene che gli azionisti siano maggiormente interessati a massimizzare i profitti nel breve periodo, che consentono più dividendi, mentre i dirigenti puntino piuttosto alla crescita dell'organizzazione, che conferisce loro maggior prestigio e potere. I due obbiettivi - dividendi e crescita - coincidono solo in parte. 19 quadro può poi essere immaginato più complesso: alti dirigenti possono essere anche azionisti della società, i proprietari possono anche dirigere una grande impresa, gli interessi di grandi e piccoli azionisti possono essere considerati relativamente differenziati, possono formarsi coalizioni su basi diverse, nelle quali entrano addirittura anche certi clienti, e così via. Fra le conseguenze sociali bisogna indicare la concentrazione di potere in alcuni gruppi che controllano con il possesso di azioni importanti grandi industrie. Questi gruppi non solo sono in grado di condizionare con le loro decisioni parti rilevanti dell'economia, ma hanno capacità di influenza politica, di orientamento dell'opinione pubblica, di incidenza sull'evoluzione delle abitudini e delle condizioni di vita delle persone. Dal punto di vista strettamente economico, la legislazione antitrust è orientata a limitare l'eccesso di concentrazione che sottrae le imprese al controllo della concorrenza. Ma il controllo del potere sociale delle grandi concentrazioni industriali è un più complesso problema politico e culturale. 2.2. Mercato e gerarchia: l'impresa-rete Alfred Chandler jr., che ha studiato le origini della grande impresa in America, osserva che questa prende forma e poi si sviluppa realizzando dal nuovo o comprando già esistenti unità produttive che in teoria avrebbero potuto operare come imprese indipendenti [Chandler 19771. Detto in altro modo: la grande impresa ha internalizzato attività che in precedenza erano svolte o che comunque avrebbero potuto anche essere svolte da singole, più piccole imprese indipendenti. Per fare un esempio: un'impresa che produce automobili può avere un>unità che produce ingranaggi, oppure può comprare ingranaggi da un'impresa che li produce. In questo secondo caso i rapporti fra le due imprese sono compravendite basate su accordi (o come si dice anche transazioni) di mercato; nel primo caso, alla «mano invisibile» del mercato si è sostituita la «mano visibile» dell'organizzazione. Poste le cose in questi termini, si apre una prospettiva interessante per studiare la questione delle dimensioni di impresa nelle economie contemporanee. Mercato e organizzazione (ma spesso si usa 9 termine gerarchia) possono infatti essere pensate come alternative che dipendoPRODUZIONE E CONSumo 555 no dai costi di transazione [Williamson 19861. Se un'impresa deve comprare da un'altra un prodotto semplice occasionalmente, o ripetendo l'acquisto senza variazioni nel tempo, e se ci sono molte imprese costi che offrono il prodotto di cui ha bisogno, in concorrenza fra loro, prodi babilmente il mercato è la soluzione più conveniente perché trasmette sufficienti informazioni sul prodotto, sul suo costo e sulle intenzioni del venditore; in tal caso, a parità di altre condizioni, non ci sarà una spinta alla concentrazione organizzativa. Ma la transazione può essere complessa, riguardare per esempio una fornitura dilazionata nel tempo, richiedere aggiustamenti in futuro in modo non prevedibile e che sarebbe troppo complicato controllare, i venditori ai quali ricorrere possono essere pochi, o uno solo. In questi casi possono svilupparsi comportamenti opportunistici del venditore, che si basano su una imperfetta informazione deH'acquirente e che sfruttano in un momento successivo vantaggi imprevisti, quando l'acquirente non può più tirarsi indietro o modificare le condizioni del contratto. In tal caso, a parità di altre condizioni, diventa preferibile «produrre» invece di «comprare», ovvero diventa preferibile la crescita organizzativa ovvero la gerarchia (in inglese si parla di alternativa make or buy). Accanto a varibili di mercato e tecnologiche, che abbiamo visto prima, è così individuato un nuovo campo di variabili organizzative che incidono Pagina 325
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt sulle dimensioni. In generale, con riferimento ai costi di transazione si può dunque rilevare quali fattori giochino a favore del coordinamento delle attività tramite l'organizzazione e quali a favore del coordinamento tramite a mercato. Può trattarsi di fattori economici, ma anche di fattori sociologici: per esempio, un network di relazioni sociali preesistenti fra possibili contraenti può fornire la reciproca fiducia necessaria per una transazione difficile, facilitando il mercato; se due o più contraenti si conoscono fin da bambini, hanno studiato insieme e hanno amici in comune sanno anche se e quanto possono fidarsi l'uno dell'altro. Ma anche senza la conoscenza diretta, l'appartenenza a una certa subcultura con i suoi meccanismi tipici di socializzazione e controllo sociale, può essere garanzia di correttezza negli affari. Un esempio classico a questo riguardo è il meccanismo descritto da Weber sulla fiducia negli affari che riscuotevano in generale i membri di sette protestanti negli Stati Uniti, perché la correttezza era richiesta dalla loro rigida morale religiosa, cosa che tutti sapevano. Si possono dunque individuare teoricamente molti meccanismi che spingono verso l'alternativa mercato o l'alternativa gerarchia, i quali si combinano in modo variabile nello spazio e nel tempo, vale a dire a seconda del contesto in cui l'impresa opera. Da questo punto di vista, una grande impresa può essere un'impresa che ha cercato di evitare eccessivi costi di transazione che si sarebbero altrimenti determinati su uno specifico mercato, in uno specifico contesto sociale e istituzionale. Lo schema dell'alternativa mercato-gerarchia si presta però anche a essere pensato come un continuum. In altre parole, possiamo indivi556 CAPITOLO 20 ,e quasi join1-t>enture 'fManchisM9 Impresa-rete duare delle condizioni che spingono a soluzioni intermedie, a delle forme di coordinamento fra le imprese che non sono propriamente di mercato, ma neppure direttamente organizzative (si parla infatti in questi casi di quasi-mercato o di quasi-organizzazione) Si tratta di uno sviluppo importante dello schema, perché apre all'analisi dei sistemi di imprese. Forme tipiche che può assumere l'organizzazione di un sistema di imprese indipendenti sono i consorzi (per la vendita o l'acquisto), i contratti di lunga durata, i contratti con clausole particolari che prevedono, per esempio, variazioni dei prezzi ai quali un'impresa compra da un'altra se il costo del lavoro in questa aumenterà o se muteranno altre condizioni, lejoint-ventures (contratti con cui imprese diverse decidono di collaborare alla realizzazione di un prodotto o di un'opera, coordinando le loro capacità e dividendo per quote investimenti e profitti), il franchising (contratti con i quali un'impresa concede a una catena di altre, a un prezzo in parte proporzionale alle vendite, di rivendere un suo prodotto sotto il suo controllo, utilizzando un marchio comune e garantendo l'assistenza tecnica). Non è una novità che una grande impresa abbia numerosi subfornitori, ma un insieme di circostanze che caratterizzano la crisi della grande crescita del dopoguerra, con i mercati diventati più instabili e differenziati, hanno aumentato l'importanza delle relazioni fra imprese e le forme di coordinamento che stanno fra organizzazione e mercato. La grande organizzazione è ora troppo rigida, il mercato troppo incerto: le fasi negative dei cicli si sono allungate, e quelle positive accorciate. Sono finiti i trent'anni del grande e ininterrotto sviluppo. Si regge ora la concorrenza anche con una maggiore attenzione a prezzi e costi, con un controllo attento al volume di produzione, e adattandosi a esigenze differenziate dei diversi compratori. Dal punto di vista dell'azienda, abbiamo visto nel capitolo precedente alcuni cambiamenti nell'organizzazione del lavoro per far fronte a queste nuove condizioni. Dal punto di vista dell'impresa che opera sui mercati, possiamo invece osservare che la grande impresa a produzione di massa è in difficoltà e che fa la sua comparsa l'impresa-rete. L'impresa-rete è un'impresa grande che coordina una rete di imprese minori, collegate da rapporti di quasi-mercato o quasi-organizzazione. Una condizione importante per il suo sviluppo deriva da nuove possibilità aperte dalla tecnologia. Più precisamente, si devono considerare gli effetti dell'applicazione della microelettronica ai processi produttivi e delle telematica nel controllo dei sistemi di imprese [Antonelli 19881. Le macchine a controllo numerico sono l'esempio tipico del primo caso. Si tratta Pagina 326
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt di macchine che, sulla base di programmi diversi inseriti in un calcolatore, permettono di variare rapidamente i processi di lavorazione e anche i prodotti. Al contrario dei grandi impianti meccanizzati che erano molto rigidi, si tratta di una tecnologia molto flessibile, che si presta a produzioni di piccola serie e al limite di pezzi unici, ma che insieme può essere ad alta produttività. L'introduzione PRODUZIONE E CONSUMO 557 della microelettronica (delle macchine a controllo numerico) tende ad avere un effetto centrifugo, vale a dire consente di decentrare produzione in imprese autonome che si specializzano in una determinata lavorazione o componente, e che non necessariamente lavorano per una sola più grande impresa. Al contrario, la telematica, vale a dire l'uso combinato dei nuovi Tel@inatica mezzi di comunicazione e dell'informatica, consente di centralizzare il coordinamento e il controllo di complessi processi di produzione decentrati, con variazioni e diverso assemblaggio di prodotti, e delle attività di vendita su mercati diversi, per acquirenti diversificati. L'agile impresa-rete, che stabilisce network di produzione e di vendita variabili nel tempo, valicando i confini nazionali per trovare condizioni di collaborazione favorevoli, è il nuovo, grande attore economico sulla scena mondiale. 2.3. Perché nell'industria continuano a esserci molte piccole imprese Al centro dell'economia industriale stanno dunque le grandi imprese che si trasformano per diventare più capaci di adattarsi a mercati diversificati e instabili. E stato anche proposto un termine per indicare il tipo e i modi di produzione meno standardizzata che tendono a sostituire la produzione di massa: specializzazione flessibile. Resta comunque il fatto che le piccole imprese non spariscono, e anzi in certi casi ritrovano nuovo spazio. Le industrie nazionali hanno differenti combinazioni di grandi e piccole imprese. Prima di procedere possiamo a tale riguardo confrontare alcuni paesi europei, avvertendo che questo tipo di comparazioni non sono facili, per la scarsa disponibilità di dati standardizzati. L'istogramma della fig. 20.2 consente di paragonare la dimensione media Specializzazione flessibfle Belgio Danimarca Germania Spagna Italia Olanda Regno Unito FIG. 20.2. Dirnensione media delle irnprese industriali. Fonte: Eurostat, 1995 (imprese oltre 20 addetti; anni di riferimento: 1988, 1987 per Belgio e Spagna). 558 CAPITOLO 20 FIG. 20.3. Tasso di industrializzazione (addetti all'industria per 100 residenti), Itaha, 1991. Fonte: Elaborazione su dati Istat. PRODUZIONE E CONsumo 559 TM. 2&2. Us&iMzione adfi alUndustrì4 Mwì1aita,@mra per &ui di, '1991 Addetti 1-9 10-99 100-499 500 e pìù Totale Italia 24,4 38,9 16,8 19,9 100,0 Nordovest 17,4 32,1 18,1 32,4 100,0 Nordest 25,0 47,2 18,6 9,2 100,0 Fonte: Censimento dell'industria. delle imprese, che è un indice sintetico della concentrazione della struttura industriale. Come si vede, Germania e Regno Unito hanno sistemi industriali molto più concentrati dell'Italia che ha, nella serie, il valore più basso, inferiore a quello simile della Spagna. Si ritrovano dunque per l'industria caratteri che già si vedevano considerando industria e commercio insieme. Possiamo però osservare meglio la situazione italiana con i dati più analitici della tab. 20.2. Questi si riferiscono alla sola industria manifatturiera, la parte di gran lunga più importante e significativa dell'industria (nelle statistiche la voce «industria» comprende oltre all'industria manifatturiera anche tre altre sottocategorie: le attività estrattive; la produzione e distribuzione di energia elettrica, gas, acqua; l'edilizia). Nella tabella sono anche presentati dati subnazionalì. L opportuno allora fare prima riferimento alla fig. 20.3, che mostra la diffusione dell'industria sul territorio nazionale. La colorazione più o meno intensa delle diverse province mette in luce che l'industrializzazione ha toccato in prevalenza il Nord e in par~ te il Centro del paese, mentre nel Sud e nelle isole gli insediamenti si fanno più rarefatti. Pagina 327
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Quello che la figura non fa vedere, è che si è trattato in realtà di due forme di industrializzazione: più concentrata nel Nordovest, l'area principale di insediamento dell'industria di massa in ltalia; più dispersa nel Nord~est e nel Centro, dove si è sviluppata quasi esclusivamente una industrializzazione diffusa di piccola impresa. E quanto mostra appunto la distinzione regionale della tab. 20.2, che mette a confronto Nordovest e Nordest (i dati per il Centro sono simili a quelli del Nordest). Come si vede, nel nostro paese quasi un quarto degli addetti lavorano m imprese piccolissime, al di sotto dei 10 addetti, e oltre il 60% in imprese comunque al di sotto dei 100 addetti. Si conferma dunque che in generale l'industria italiana è dispersa. Ma questo carattere è ancora più marcato nel Nordest: ben il 72% di chi lavora in quell'area lo fa in imprese piccolissime o piccole, mentre meno del 10% lavorano in una grande industria. Al contrario, nel Nordovest la quota delle due prime categorie scende, mentre la grande industria supera 560 CAPITOLO 20 Specializzazione flessibde di mercato Decentramento produttivo il 30% L'industria del Centro, come si è detto, ha caratteri simili a quella del Nordest. Perché, nonostante il processo di concentrazione industriale che ha accompagnato lo sviluppo, continuano a esserci molte piccole imprese? In nessun paese le piccole imprese sono scomparse; ovunque invece, dove più dove meno, hanno segnato una ripresa. Nel paragrafo precedente abbiamo già individuato diversi fili che portano a più risposte. Qui ci riferiremo in particolare alle nuove possibilità di inserimento attivo dell'industria minore che si sono aperte negli ultimi decenni in tutte le economie, e vedremo come e perché l'Italia sia stata particolarmente pronta a realizzare con successo questa possibilità. Il punto fondamentale è che le piccole imprese hanno aperto la strada della specializzazione flessibile. In un certo senso si può dire che le grandi hanno imparato da loro. Dal punto di vista economico, come vedremo, il modello del dualismo produttivo, per quanto utile, non è sufficiente a dar conto di tipi diversi di piccole imprese. Fra le condizioni che hanno permesso la crescita della grande industria abbiamo considerato mercati di consumo abbastanza ampi e standardizzabili. Piccole imprese possono dunque anzitutto sopravvivere in mercati locali, che per qualche motivo non risentono della capacità di penetrazione della produzione di massa: alti costi di trasporto o difficoltà di organizzare la distribuzione. Si tratta però di condizioni sempre più ridotte. Permangono poi mercati di consumo ristretti non in senso geografico, ma in quanto altamente specializzati: capi di abbigliamento di particolare pregio, per esempio, o prodotti alimentari «fatti come una volta» attirano compratori disposti a pagare anche care certe specializzazioni cancellate dalla più grossolana produzione di massa. E tuttavia, anche il più vasto pubblico dei consumatori non sembra oggi, in economie più ricche, disposto a una produzione eccessivamente standardizzata, sia o meno di alta qualità: basta pensare a come ci si differenzi con l'abbigliamento, in tutte le classi sociali. Imprese con piccole serie di produzione in settori come l'abbigliamento, la pelletteria, i mobili, l'arredamento trovano dunque loro «nicchie» di mercato, a volte anche molto sicure. Le nuove tecnologie microelettroniche permettono anche a loro, in certi casi, un sentiero di crescita tecnologica conservando elasticità, mentre l'espansione di imprese-rete può in altri cercare di attrarle nella propria orbita, secondo la tendenza indicata prima. In entrambi i casi, si vedono spazi per imprese minori, più o meno autonome. Secondo il modello del dualismo produttivo, i settori e le fasce di produzione esposte all'incertezza sono lasciate o decentrate dalla grande a piccole imprese più instabili; ma più in generale, un'impresa maggiore può decentrare stabilmente lavorazioni semplici che possono essere realizzate a costi più bassi in imprese piccole dove il sindacato non è presente. Questo decentramento produttivo che mira alla semPRODUZIONE E CONsumo 561 plice compressione dei costi non deve però essere confuso con quello che gli economisti chiamano «decentramento di specialità» Tale forma di decentramento Pagina 328
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt prevede subfornitori specializzati in lavorazioni o componenti di un processo più complesso, per le quali una grande impresa non ha interesse ad attrezzarsi, mentre una piccola impresa può diventare un produttore altamente specializzato, con tecnologie sofisticate e per diversi acquirenti, sul mercato mondiale: un componente di motocicletta prodotto in Emilia può essere venduto in Giappone per venire montato sulle motociclette prodotte in quel paese. Un'impresa di questo genere è stabile, ha spesso alti profitti e paga bene gli operai, può essere autonoma e può in estire nel proprio miglioramento tecnico. Nel tempo queste forme di decentramento di specialità e le piccole imprese che le realizzano sono aumentate. Una produzione più diversificata richiede anche macchine adatte ai particolari bisogni di un'impresa che produce un certo prodotto, che non sono esattamente gli stessi di un'altra. La produzione di piccola serie richiede dunque anche macchine differenziate, o adattate: piccoli produttori sono diventati così spesso anche specialisti nella produzione di macchine utensili. Abbiamo individuato una serie di possibilità per la piccola impresa nell'economia contemporanea, che in alcuni casi la vedono autonoma, ma spesso in altri nell'orbita di una o più imprese maggiori, come componente del network di un'impresa-rete. Esiste però un'altra possibilità di affrontare le difficoltà e sfruttare le opportunità aperte dai nuovi mercati specializzati e più instabili, con ricorso anche alle nuove tecnologie flessibili. Invece che entrare nell'orbita di una grande, le piccole imprese possono legarsi fra loro. Si possono cioè formare sistemi di piccole imprese, localizzate vicine le une alle altre. In questo caso, spesso le imprese formano catene di subfornitura, che fanno magari capo a medie imprese, ma si tratta anche di imprenditori che realizzano prodotti simili per imitazione: sempre però trovano nella società locale delle risorse comuni che combinano realizzando alla fine una produzione che può essere considerata la produzione complessiva di una specie di paese-fabbrica. t il caso dei «distretti industriali» delle regioni centrali e nordorientali italiane dove, quando ancora la grande impresa di massa non aveva iniziato la sua trasformazione, si sono sperimentate le possibilità della specializzazione flessibile. Deéenttamento di specialità Sistemì di piccole imprese 2.4. 1 distretti industriali Chi scende lungo il corso dell'Arno da Firenze al mare incontra in rapida successione una serie di centri specializzati in altrettanti tipi di produzione. Si comincia con la grande area tessile di Prato, per incontrare poi a pochi chilometri l'area delle ceramiche di Sesto e Montelupo, poi quella dell'abbigliamento di Empoli e Signa, quella conciaria PRODUZIONE E CONSUMO 563 di Santa Croce, quella calzaturiera di Monsummano e Fucecchio, e infine - prima di essere in meno di un'ora di auto a Pisa - quella mobiliera di Cascina e Ponsacco. Questi sono alcuni esempi di paesi-fabbrica a economia di piccola impresa, cresciuti come funghi un po ovunque negli anni sessanta e nei decenni successivi, ma soprattutto nelle regioni centrali e nordorientali. Si tratta poi, in complesso, di un esempio di caso di sviluppo regionale a economia diffusa, che ha prodotto e distribuito ricchezza senza ricorrere o quasi all'organizzazione di grande impresa. Casi simili - e sviluppo regionale simile - si ritrovano in Emilia: basta ricordare gli esempi molto noti di Carpi specializzata nel settore dell'abbigliamento, di Sassuolo con le sue ceramiche per l'edilizia, di Modena e Reggio Emilia con molte produzioni meccaniche. Nelle Marche troviamo centri delle scarpe, dell'abbigliamento, degli strumenti musicali. Simile è il panorama industriale del Veneto, del Trentino, del Friuli, dell'Umbria. Si possono trovare anche esempi in Lombardia (pensiamo ai mobilieri della Brianza), in Piemonte (le importanti produzioni laniere di Biella, per esempio), ma pure negli Abruzzi, nelle Puglie o altrove in Mezzogiorno, anche se non in modo così caratteristico e diffuso. Gli economisti hanno usato il concetto di «distretto industriale», introdotto dall'economista inglese Alfred Marshall nel secolo scorso, per indicare e studiare queste forme territoriali di divisione del lavoro fra piccole imprese con produzioni di piccola serie, il cui spazio nell'economia contemporanea è aumentato, secondo le tendenze descritte al paragrafo precedente [Becattini 19791. La fig. 20.4 mostra la loro diffusione nelle zone più tipiche. 1 sociologi, dal canto loro, hanno cercato di spiegare perché alcune regioni e paesi piuttosto che certi altri siano stati così capaci di sfruttare le nuove Pagina 329
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt possibilità della specializzazione flessibile; a tale fine, si sono chiesti se non esistessero caratteri particolari della società locale, in queste zone e non altrove presenti, che fossero per così dire molto «adatti» a quel tipo di economia [Bagnasco 1988; Trigilia 19861. Le società locali che più hanno mostrato di essere capaci di sfruttare le possibilità sono caratterizzate da tessuti fitti di città e cittadine, che hanno attrezzato e distribuito sul territorio funzioni urbane: tradizioni spesso antiche di commercio, artigianato e piccola produzione, servizi bancari e amministrativi, strade e infrastrutture civili, buone scuole di base e di formazione professionale, corretta e efficiente amministrazione locale, il tutto cementato da forti identità culturali locali. Questo ambiente sociale ha fornito conoscenze tecniche e commerciali diffuse fra molte persone, una consuetudine condivisa con l'idea e le pratiche di mercato, network di relazioni personali che permettono una fiducia reciproca per trattare insieme facilmente di affari (con i termini introdotti nel paragrafo precedente: i costi di transazione sono bassi). Molti si sono dunque trovati in condizione di provare a rischiaDistretto industriale speC:ializZaZione flessibile, 564 CAPITOLO 20 re l'avventura imprenditoriale. A volte questa poteva anche diventare un affare di famiglia: casi di più fratelli imprenditori sono abbastanza diffusi, così come più di un membro della famiglia può lavorare in azienda. Le città (diverse figure sociali di queste città) sono state dunque le attivatrici del processo, che hanno interagito con campagne caratterizzate a loro volta da una particolare struttura sociale: quella della famiglia agricola autonoma, vale a dire piccolo proprietaria, affittuaria, o mezzadrile, che viveva in un podere isolato nella campagna. Questa ha fornito alle imprese operai che a casa avevano imparato molti mestieri e che potevano contare sulla famiglia di origine se all'inizio erano poco pagati o se per un certo periodo non lavoravano (avevano la casa e prodotti agricoli per l'autoconsumo, e potevano tornare a contribuire alla produzione agricola da vendere). Gli imprenditori non hanno solo origine urbana. A volte anche le grandi famiglie contadine, combinando diverse fonti di reddito, agricolo e di lavoro industriale, hanno accumulato abbastanza capitale da sostenere attività artigianali e poi magari industriali di un figlio che si metteva in proprio. Si può dire dunque che queste società hanno utilizzato in modo selettivo risorse culturali che appartenevano al loro patrimonio tradizionale, investendole in nuove possibilità economiche che in generale si aprivano. 1 distretti industriali di piccole imprese non sono una novità, né in Italia, né in altri paesi. Piuttosto, sono una originaria possibilità di organizzazione sociale dell'industria che è stata per così dire bloccata dall'avvento dell'industrializzazione di massa, e che ora ha ripreso fiato, al cambiare di certe circostanze [Sabel e Zeitlin 19821. Si tratta però anche di economie in movimento, che per tenere A passo devono continuamente modernizzare i loro impianti e migliorare la loro gamma di prodotti. Questo è proprio quanto sta accadendo. In tutte le tipiche regioni italiane di piccole imprese, ormai da parecchi anni, c'è stato il passagCrescita estensiva gio dalla crescita estensiva (che deriva cioè da un crescente impiego di e intensiva nuova manodopera, relativamente poco pagata, con scarse attrezzature tecnologiche) alla crescita intensiva (con investimenti tecnologici che aumentano la produttività del lavoro e con paghe mediamente più elevate) Alle risorse originarie necessarie che abbiamo descritto tendono a sostituirsene allora altre nuove. La famiglia contadina per esempio non è più così importante: ormai quasi tutti gli operai vivono in città. Gli imprenditori hanno di fronte problemi più complicati: la tecnologia usata è più complessa e si impara meno per imitazione del vicino; sono necessari maggiori capitali per gli investimenti; bisogna sempre più essere in grado di interagire velocemente con imprese e su mercati sparsi in tutto il mondo. I cambiamenti di molti distretti che resistono bene anche in tempi difficili dell'economia mostrano però che continua a essere possibile il flessibile gioco di squadra fra imprese a livello PRODUZIONE E CONsumo 565 locale anche se, più di prima, si richiede un'azione concordata fra attori pubblici e privati, per favorire in modo diffuso attrezzature e beni di cui le imprese hanno bisogno e che non si trovano più semplicemente nella cultura tradizionale condivisa: centri di ricerca, istituti per certificare la qualità Pagina 330
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dei prodotti, nuovi piani regolatori, ferrovie ad alta velocità, e così via. Da questo punto di vista, lo sviluppo dei distretti è possibile se continua a essere un'impresa collettiva, ma questa sarà sempre più un'impresa costruita consapevolemente: i distretti non crescono più come i funghi. Molti tipi di distretti sono possibili, con produzioni e forme di organizzazione economica diverse. In altre parole, diversi sono i modi possibili in cui l'economia si innesta nella società locale, sfruttando le risorse culturali e istituzionali disponibili a seconda dei casi. La ricerca comparata ha mostrato che i distretti si sono diffusi in Europa, ma quasi mai si ripete esattamente il modello qui indicato per l'Italia. Il carattere di crescita diffusa «dal. basso» ha poi attirato l'interesse sulla formula dei distretti da parte dei paesi sottosviluppati. 2.5. Punti di forza e di debolezza dell'industria italiana Quella dell'industria italiana è una storia di rapido successo. Nel 1955 l'Italia realizzava solo il 9% della produzione industriale europea, nel 1990 era diventato il quarto produttore tra i paesi dell'Ocse dopo Stati Uniti, Giappone, Germania [Quadrio Curzio 19961. In una prima fase, sino all'inizio degli anni settanta, la ricostruzione e il cosiddetto «miracolo economico» si sono basati soprattutto sulla grande produzione meccanica e automobilistica (orientata in parte importante alle esportazioni), su grandi opere di infrastruttura e produzioni di base (autostrade, siderurgia, elettricità, telefoni), suH'edilizia. In questa fase sono state decisive le grandi imprese private e pubbliche. Le imprese a partecipazione di capitale pubblico, presenti in modo inconsueto rispetto ad altri paesi europei, hanno contribuito alle infrastrutture e alle produzioni di base, collaborando così alla creazione delle condizioni generali per lo sviluppo industriale. Successivamente il fenomeno più vistoso, accanto alla ristrutturazione della grande industria, dopo momenti critici, è stata l'industrializzazione diffusa di cui si è parlato. A volte questa è anche chiamata l'industria del «made in Italy», perché esporta molto. In effetti, il nostro paese è un grande esportatore di prodotti tessili, dell'abbigliamento, di calzature, di prodotti in pelle, di mobilio, di gioielleria, e in genere di prodotti di consumo durevole di piccola serie. L'avanzo nell'interscambio commerciale di queste produzioni è aumentato nel tempo, mentre è cresciuto il disavanzo per settori nei quali siamo da sempre deficitari. Lo mostra la fig. 20.5. Il punto da sottolineare è che fra i settori in cui importiamo più di Miracolo economico Made in Italy 566 CAPITOLO 20 100.0N 50.000-50.000-100.000_ -150.000 1993 - - Made in Italy Altri settori Pig. 20.5. Saldo cornrnerciale del «made in Italy» e deglì altri settori, 1955-1993 (miliardi di fire). li rnade ffi Italy comprende anche i prodotti della m.eccanica tradizionale. Fonte. Quadrio Curzio 119961. quanto non esportiamo troviamo anche leparti più moderne dell'economia. Oltre che per le materie prime e i prodotti energetici e agro alimentari, noi siamo infatti debitori nei settori più tipicamente di grande industria (tecnicamente si dice settori ad elevate economie di scala) come autoveicoli, elettrodomestici, chimica organica e inorganica , elettronica di consumo, e nei settori ad alta intensità di ricerca e sviluppo, come l'industria farmaceutica, la chimica fine, i prodotti elettronici intermedi e di investimento, le telecomunicazioni, il settore aerospaziale. Anche fra le piccole imprese del made in Italy troviamo produzioni- ad alta tecnologia e imprese innovative. E ruolo dell'industria minore è stato decisivo per la crescita del paese e per la tenuta dell'occupazione. La debolezza relativa nei settori di punta resta però un carattere critico, sul lungo periodo, dell'economia italiana. Affività finanzi" 3. Finanza e produzione Attività finanziaria è la raccolta di capitali per investimenti in imprese o per il fabbisogno dello stato. In questo paragrafo vedremo alcuni aspetti Pagina 331
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt delle istituzioni finanziarie e della loro attività. In particolare, ci soffermeremo sui rapporti fra finanza e grandi imprese industriali. PRODUZIONE E CONSUMO 567 3.1. Azioni, azionisti, imprese Un'impresa costituita come società per azioni dispone anzitutto dei capitali investiti dai suoi azionisti. Questi possono essere grandi azionisti, anche membri di famiglie di capitalisti proprietari, magari da più generazioni (si parla allora di capitalismo familiare). Le azioni di una società possono però essere anche molto disperse fra piccoli azionisti. Non è necessario possedere più della metà delle azioni per controllare una società: proprio perché esistono azioni diffuse fra moltì piccoli azionisti che non partecipano alle assemblee, basta in genere una quota anche molto inferiore. Una public company è una società con proprietà delle azioni molto diffusa: in tal caso i dirigenti finiscono per avere un peso decisivo sulle scelte di gestione. Spesso si dà però il caso di un sindacato di controllo, formato da un gruppo di pochi grandi investitori, in possesso di una quota di azioni sufficiente a garantire il controllo della società (in gergo si dice un «nocciolo duro»). Le azioni, una volta emesse, possono essere comprate e vendute: la borsa è il mercato dove questo avviene. Quando si diffondono giudizi di solidità e aspettative di futuri buoni risultati economici di un'impresa, che garantiranno dunque sicuri e buoni dividendi agli- azionisti, molti cercheranno di comprare azioni e il loro prezzo salirà; scenderà invece in caso di cattive previsioni. La borsa dunque funziona anche come una specie di termometro dello stato di salute delle imprese e, di riflesso, dell'economia nel suo insieme. Oltre alle azioni, che comportano una parte di proprietà dell'impresa e dunque anche una partecipazione al rischio, le società emettono per finanziarsi un altro tipo di titoli, le obbligazioni, che sono debiti a lungo termine remunerati a reddito fisso. In borsa sono anche negoziati titoli a reddito fisso emessi dallo stato; fra questi, in Italia, i Buoni ordinari del Tesoro (Bot) e i Certificati di credito del Tesoro (Cct) Una situazione di grande e crescente debito pubblico ha indotto nel nostro paese lo stato a emettere una grande quantità di questi titoli, a rendimenti elevati; Bot e Cct, e in genere i titoli pubblici, hanno così drenato molte risorse sul mercato finanziano, che già non è molto ampio, sottraendole a possibili investimenti produttivi. Bot e Cct sono diventati una forma tipica di risparmio per molte famiglie. Tornando alle azioni, osserviamo che l'interesse fondamentale della grande massa di piccoli risparmiatori è garantirsi un reddito abbastanza remunerativo dell'investimento, ma anche ragionevolmente sicuro. Il loro comportamento e i loro interessi sono diversi da quelli degli speculatori (gli operatori di borsa), i quali sono professionisti che operano continuamente comprando e vendendo titoli per guadagnare sulla differenza fra prezzo di acquisto e di vendita. I piccoli risparmiatori possono rivolgersi, per comprare azioni, a enti di intermediazione finanziaria, come le Sim e i fondi comuni di investimento (in inglese Inpublk C~,~Y Boisa fjqt e Qt_ 568 CAPITOLO 20 Investitori istiruzionah vestment trust) Questi raccolgono i risparmi di una grande massa di risparmiatori e diversificano l'investimento (e dunque il rischio) in azioni e obbligazioni di imprese diverse, che gestiscono per conto dei Clienti, rispondendo alle loro esigenze di ragionevole sicurezza e remunerazione. I fondi comuni sono chiamati «investitori istituzionali», come anche lo sono le banche, le società di assicurazione o i fondi pensione (che gestiscono rilevanti capitali accantonati). Gli investitori istituzionali sono importanti attivatori e stabilizzatori dell'economia, perché raccolgono e investono con oculatezza grandi masse di denaro. Con termini sociologici, si può dire che possono contribuire non solo all'integrazione sistemica, vale a dire al buon funzionamento dell'economia, ma anche all'integrazione sociale, perché diffondono fra le persone la fiducia nel sistema finanziario. Banca Mercbant bank Conglomerate Pagina 332
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Hotding 3.2. L'intreccio fra finanza e produzione Le banche sono imprese commerciali che raccolgono e imprestano denaro. Per le loro necessità finanziarie, le imprese possono ricorrere anche a banche, per prestiti a breve o a medio e lungo termine. Cominciamo qui a entrare negli aspetti più delicati della finanza, su un terreno dove finanza e produzione si intrecciano in modi complessi. La legislazione sui rapporti fra banche e imprese è diversa nei vari paesi, e in parte diversi sono dunque i tipi di banche e le pratiche dei finanziamenti. Un tipo di banca sul quale dobbiamo soffermare la nostra attenzione è la cosiddetta merchant bank o banca d'affari. Si tratta di istituti che si incaricano di collocare azioni e altri titoli di un'impresa; inoltre, possono anche direttamente imprestare denaro a lungo termine, e acquistare quote del capitale sociale di imprese diverse. Per comprendere bene le loro funzioni, bisogna considerare che i soggetti con cui queste banche entrano in relazione sono tipicamente medie e grandi imprese, e che gli scambi di titoli che esse propongono sono tipicamente fra imprese. Aggiungiamo che i maggiori soggetti imprenditoriali che interagiscono negli strati alti della finanza sono grandi imprese conglomerate e bolding. Le conglomerate sono grandi imprese che ne controllano un gruppo di altre in settori diversi attraverso partecipazioni azionarie. Una holding è una società finanziaria senza funzioni produttive dirette che controlla un insieme di altre imprese. Per fare un esempio: FIfi (la società finanziaria della famiglia Agnelli) è la holding capo gruppo che controlla la Fiat, oltre che altre attività produttive e finanziarie. Le imprese controllate possono infatti produrre cose simili, o avere produzioni fra loro collegate per tecnologia o per la possibilità di essere vendute insieme, o altro. Possono però anche essere molto diverse fra loro, alcune di produzione, altre di servizi: una holding che controlla una società produttrice di auto può così controllare anche grandi maPRODUZIONE E CONsumo 569 gazzini, un giornale, una banca o una società di assicurazioni. Anche questi sono esempi tratti dal caso Ifi-Fiat. Da notare che si costituiscono spesso delle catene di imprese, ognuna delle quali possiede il controllo di un'altra, ottenendo il cosiddetto «effetto telescopio»: Se il signor A ha il 100% del capitale della società B, che a sua volta ha il 5 1 % della società C, che a sua volta ha A 5 1 % della società D, accadrà che il signor A dominerà, attraverso B e C l'assemblea della società D, anche se [ 1 la sua partecipazione in D è solo del 26,01% Egli non riscuoterà che il 26,01% degli utili, essendo il resto destinato agli azionisti esterni di D e C; ma nominerà gli amministratori di B e C e, per loro tramite, disporrà della maggioranza dei voti nell'assemblea di D [Galgano 1993, 19-201. Questo è solo un esempio della complessità che possono raggiungere le strutture finanziarie delle imprese. Gruppo è 9 termine più ge- Gruppo nerico per indicare un insieme di imprese sottoposto al controllo diretto o indiretto di uno stesso vertice, per mezzo di catene di partecipazioni. 1 rapporti finanziari fra le imprese sono dunque un fatto cruciale per comprendere l'economia e bisogna anche rilevare una conseguenza importante dei fenomeni di gruppo: l'azione imprenditoriale finisce infatti in questi casi per collocarsi su un crinale; da un lato l'imprenditore può cedere o acquistare altre imprese allo scopo di rafforzare le funzioni produttive proprie del gruppo; dall'altro, può sviluppare strategie essenzialmente finanziarie, comprando e vendendo aziende per guadagnare sulla differenza di prezzo, vale a dire speculando. Le merchant bank possono essere intermediari attivi per entrambe queste strategie: suggeriscono soluzioni, mostrano possibili nuove combinazioni fra imprese, fanno incontrare interessi diversi, intervengono in situazioni critiche. La principale merchant bank italiana è Mediobanca, un istituto con sede a Milano. Mediobanca è un discreto e potente regolatore dei rapporti fra finanza e industria nel nostro paese. Nei due capitoli precedenti abbiamo visto che i capitalismi nazionali hanno forme istituzionali differenziate. In particolare si sono distinte due forme tendenziali: quella anglosassone (Inghilterra e Stati Uniti) che ha conservato una maggiore regolazione di mercato e quella europea (e giapponese) dove l'intervento pubblico e la regolazione politica sono stati maggiori (per esempio: produzione di beni pubblici, procedure triangolari di contrattazione per il governo dell'economia, importanti sistemi di welfare). 1 due gruppi di paesi si ritrovano anche per importanti differenze negli assetti proprietari Pagina 333
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt delle imprese. L'economia dei paesi anglosassoni si distingue per un'ampia diffusione delle quote proprietarie delle imprese, per l'elevato finanziamento diretto di queste con emissione di azioni e obbligazioni e, nel caso di ricorso al credito bancario, per l'indipendenza gestionale dalle banche, che non possiedono azioni e non partecipano ai consigli di ammi570 CAPITOLO 20 nistrazione. In Inghilterra e negli Stati Uniti sono importanti gli investitori istituzionali: assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione. La separazione fra proprietà e gestione è dunque marcata. In Europa si sono stabiliti caratteri tendenzialmente opposti: al minore ricorso diretto al mercato dei capitali fa riscontro la diffusione di partecipazioni in altre imprese, con la formazione di gruppi e «noc~ cioli duri» di controllo, la partecipazione incrociata, la partecipazione delle banche alla proprietà delle imprese e anche la loro presenza nei consigli di amministrazione di queste ultime. In questo quadro, il caso del capitalismo privato italiano presenta marcate particolarità. Rispetto agli altri paesi, la proprietà è in generale più concentrata e la borsa più debole. t dunque un sistema che non è basato su molte public companies, come nei paesi anglosassoni, ma neppure sui gruppi misti di controllo, nei quali le banche partecipano direttamente alla supervisione della gestione. 1 proprietari spesso sono comunque gruppi di controllo, anche a base familiare, e sono diffuse le partecipazioni incrociate e gli «effetti telescopio». Questo assetto ha comportato una cronica sottocapitalizzazione dellindustria italiana [Barca et al. 19941. 1 processi finanziari pongono delicati problemi di controllo, per ottenere rispetto delle regole del gioco economico e, più in generale, per un sufficiente rispetto delle istituzioni democratiche. Si tratta dunque di problemi di controllo sia tecnici che politici. La posta in gioco è alta, perché grandi concentrazioni industriali e finanziarie possono condizionare con la loro azione in modo pesante l'organizzazione della società nel suo insieme; d'altro canto, un robusto e efficiente sistema finanziario - efficacemente controllato, ma anche indipendente da ingerenze indebite del potere politico - è essenziale al funzionamento dell'economia moderna. 1 sociologi, tutto sommato, hanno finora studiato troppo poco il rarefatto mondo della finanza, che pure riguarda aspetti normali e centrali del rapporto economia-società. 3.3. Il finanziamento delle attività illegali: un caso Un problema particolare che ha attirato anche l'attenzione dei sociologi è il finanziamento delle attività economiche illegali, vale a dire di quel caso limite di economia informale che riguarda produzioni o commerci vietati dalla legge (v. cap. XVIII). Senza una comprensione degli aspetti specificamente finanziari anche dell'economia illegale è difficile comprenderla e combatterla. Un caso studiato, che può valere come esempio, è il modo in cui sono stati ottenuti capitali dalla mafia siciliana per conquistare il mercato mondiale del commercio di eroina. All'inizio degli anni settanta, grandi disponibilità finanziarie si sono accumulate nelle mani di alcune famiglie mafiose, successivamenPRODUZIONE E CONSUMO 571 te investite nel commercio della droga. Le fonti di questa accumulazione sono state: l'attività di rachet e la speculazione edilizia; l'accesso a ingenti fondi pubblici non spesi e depositati in banca, facenti parte del «fondo di solidarietà» che lo stato versa alla regione siciliana per l'esecuzione di lavori pubblici; grandi masse finanziarie a disposizione di famiglie che in Sicilia erano proprietarie delle esattorie delle imposte, alle quali venivano concesse dallo stato percentuali molto elevate per questa funzione, mentre erano tollerati tempi lunghi per i versamenti dei capitali riscossi. Si può dunque dire che i grandi capitali investiti dalla mafia in uno dei mercati illegali più lucrosi del mondo (quello dell'eroina) hanno in gran parte un'origine pubblica [Arlacchi 19831. Controlli mancati, connivenze politiche e giudici che, come si dice, aggiustavano i processi hanno permesso l'afflusso di grandi capitali in mani mafiose. Il quadro si completa con il ritorno degli enormi profitti, ovvero delle «narcolire» Queste sono depositate presso una miriade di nuove banche popolari e cooperative, di fatto non controllate, che si sono diffuse a macchia d'olio in Sicilia in virtù di una particolare legge regionale. Per questa via le narcolire Pagina 334
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt possono entrare in nuovi circuiti finanziari illegali ma anche legali. t questo un esempio di come ingenti interessi criminali possono arrivare a infettare i circuiti finanziari normali, con gravi conseguenze sul loro corretto funzionamento. Im-esùMenù della Narcolire 4. Il commercio fra produzione e consumo Commercio e mercato - lo abbiamo visto - hanno origini antichissime. E tuttavia non si esagera dicendo che solo nell'ultimo secolo la produzione per l'autoconsumo ha smesso di essere la principale fonte di approvvigionamento delle famiglie e dei piccoli paesi. Dapprima lentamente e poi con grande rapidità aumentano i beni prodotti e scambiati, e aumentano allora i commercianti come figure professionali di intermediazione fra produzione e consumo. Si tratta di figure e funzioni che cambiano nel tempo. L'arrotino che sempre più di rado passa di casa in casa è l'erede contemporaneo di generazioni di artigiani e commercianti che continuamente si spostavano offrendo merci o servizi. La figura del venditore ambulante una volta era normale, ora è un'eccezione, quasi una curiosità. 1 mercati stabili (in una piazza o alle porte della città) oppure itineranti (secondo calendari previsti) sono una seconda forma molto antica di organizzazione del commercio: anche questa sopravvive, senza l'antica importanza. In città, il mercato rionale di frutta e verdura, o in un paese il mercato del sabato (ma nel paese vicino del lunedì, nell'altro del martedì, e così via) sono forme organizzative che conservano una certa importanza, ma che un tempo sono state forme fonda572 CAPITOLO 20 mentali di organizzazione della distribuzione. In una nostra città, «Piazza delle erbe» può essere ancora il nome di un luogo che ha perso l'antica funzione di mercato di frutta e verdura, oppure che ancora la conserva. Le fiere, più rare e che duravano più giorni, erano invece occasioni importanti di commercio anche all'ingrosso, alle quali affluiva molta popolazione e non solo per motivi economici. Molte bellissime e vivaci stampe antiche rappresentano fiere, trasmettendoci l'idea della loro importanza nella vita sociale e culturale, come occasioni per commerci, festeggiamenti, culti religiosi, incontri. L'importanza di alcune particolari fiere, nell'Europa del XVI e XVII secolo, consiste nel fatto che erano luoghi di organizzazione degli scambi internazionali, nei quali i grandi mercanti compensavano i rispettivi crediti e debiti. Dobbiamo perciò considerare anche le funzioni finanziarie - di commercio del denaro - delle grandi fiere: Anversa, Francoforte, Medina del Campo, Lione, Piacenza (organizzata dai genovesi) sono stati luoghi di fiere fra le più importanti. La loro importanza, in particolare finanziaria, diminuirà con l'affermarsi delle stabili borse: Amsterdam, Londra, più tardi Parigi. Tornando al commercio al dettaglio, un passo decisivo verso l'organizzazione della distribuzione che ci è familiare è la diffusione della bottega o negozio. Lo storico Fernand Braudel ricorda che Lope de Vega, parlando della Madrid del Seicento, dice «todo se ha vuelto tiendas», si è tutto trasformato in botteghe. Qualcosa che oggi ci appare normale, una città fatta di strade sulle quali si affacciano negozi, è avvertita in quel momento come una grande novità. Ci vorrà ancora un secolo perché le botteghe, nel Settecento, si diffondano anche nei paesi [Braudel 19811. La storia della distribuzione non si è però fermata. Già a partire dal secolo scorso, l'aumento della produzione e della standardizzazione porta alla diffusione dei grandi magazzini. Per la prima volta nella storia una società incontra il fenomeno del consumo di massa e al gigantismo della produzione si accompagnano forme più concentrate di distribuzione. Au bonbeur des Dames (Al paradiso delle signore) è un romanzo di Emile Zola del 1883 dove si racconta la storia di uno dei primi grandi magazzini parigini, che con i suoi articoli disposti su lunghi banchi di vendita seduce le avanguardie dei moderni consumatori di massa, espropriando della loro funzione molti piccoli negozianti. Anche a questo riguardo possiamo dire che una cosa che ci è oggi familiare poteva allora diventare addirittura tema di un romanzo a causa della sua novità. Nel momento di transizione al consumo di massa, la differenza rispetto al passato conosciuto permetteva di avvertire che un grande cambiamento culturale, oltre che economico, si stava innescando. Walter Benjamin ha cercato di ricostruire, con un lavoro che poPRODUZIONE E CONSUMO 573 Pagina 335
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt tremmo dire di archeologia culturale, l'atmosfera dei primi tempi del cambiamento, per coglierne in profondità il senso. Nella Parigi degli anni venti, egli rimase affascinato dai resti di quelli che, per certi aspetti, erano stati i precursori dei grandi magazzini nella prima metà del secolo scorso: i passages [Beniamin, 19821. Si trattava di gallerie aperte fra due strade all'interno di uno o più edifici, illuminate dalle prime luci a gas riflesse da grandi specchi, dove negozi, ristoranti, caffè si affiancavano con le loro vetrine, e dove assieme alla folla di passaggio si accalcavano venditori ambulanti, prostitute, giocolieri. Per Benjamin, i passages erano la più significativa architettura del secolo: essi erano le vie d'accesso al «paesaggio originario del consumo». In una città ancora buia, dove la grande maggioranza delle persone viveva ancora con pochi mezzi, i passages dovevano apparire come isole magiche, per sogni e promesse di un futuro di felicità assicurata da consumi crescenti per tutti. Merci sempre diverse, per stimolare l'acquisto, diventavano mezzi di una continua ricerca di novità effimere. Nella seconda metà del secolo scorso, la confortevole, sognatrice, inconsapevole società dei consumi era alle porte. 5. Il consumo di massa «Il consumo è il solo fine di ogni produzione, e non ci si dovrebbe mai prendere cura dell'interesse del produttore se non in quanto ciò possa tornare necessario per promuovere quello del consumatore» [Smith 1776, trad. it. 1973, 3011. Questa frase molto citata di Adam Smith continua a sembrarci ragionevole, anche se suona al nostro orecchio piuttoso ingenua. Con l'aumento della produzione, la produzione di massa e la concentrazione industriale e commerciale il consumatore è sempre più apparso debole e isolato, non in grado di esprimere genuini bisogni e autono~ me preferenze rispetto all'offerta: aumentano i consumi, ma non è chiaro se questo abbia davvero promosso l'interesse dei consumatori, mentre erano assicurati gli interessi - o le ragioni - della produzione. A due secoli da Adam Smith, l'economista americano John K. Galbraith osserva che il flusso di istruzioni su cosa e quanto produrre non va in genere dal consumatore al mercato al produttore (l'autore chiama questo flusso «sequenza ritenuta»), ma dal produttore al mercato al consumatore («sequenza aggiornata»). Le grandi imprese riescono a controllare i loro mercati e a indurre il comportamento di consumo [Galbraith 19671. Anche se le cose non sono così nette - le due sequenze esistono fianco a fianco - spesso si verifica l'inversione. Galbraith ritiene che molti economisti sono disposti ad assumere questo punto di vista, senza però tirame le dovute conseguenze. 1 sociologi dal canto loro si distinguono per aver preso sul serio proprio un'idea del genere. Sequenza: riteniita e sOquenza aggiornata 574 CAPITOLO 20 Consú"ino Consumerismo Quando con la produzione di massa, sostenuta dalla pubblicità, si sono allargate le offerte di beni di consumo durevole, il termine consumismo nasce per indicare «la ricerca di felicità attraverso l'accumulazione di beni di consumo» [Hirschman 1982, trad. it. 1983, 751. Il tenore di vita di strati sempre più larghi di popolazione aumenta, con l'aumento generalizzato della capacità di spesa, ma questa stessa crescita desta anche reazioni di delusione o di critica. I consumi che aumentano corrispondono davvero a bisogni «reali»? Mentre si espandono consumi «inutili», non vengono sacrificate necessità elementari? La rincorsa a consumi sempre più diversificati non significa anche crescita di consumi «non necessari»? Su questi interrogativi si sviluppa lo studio del consumo di massa e la critica al consumismo. Abbiamo messo molte virgolette nelle frasi precedenti per indicare che non è facile decidere cosa sia un bisogno reale o un consumo inutile, o non necessario. Se si esce dal livello minimo della sussistenza, la valutazione di un bisogno o di un consumo diventa culturale, e può cambiare nel tempo. La critica allora si fa più sottile: l'isolamento e la debolezza del consumatore frastornato dalla pubblicità non consentono una reale valutazione discussa e condivisa delle direzioni di sviluppo e nemmeno delle condizioni in cui si vive o si lavora; o in altri termini, i consumi in crescita spingono a rinchiudersi nella sfera privata e allontanano dall'impegno pubblico. Da questo punto di vista il consumismo ha la conseguenza generale di rendere le persone culturalmente e politicamente passive. Nel loro insieme, i consumatori non costituiscono un pubblico dove si formano opinioni, ma piuttosto una folla - o con termine a questo proposito più preciso, una massa - di persone fra loro isolate e sottoposte agli stessi stimoli: con una efficace espressione di Pagina 336
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Riesman, sono una «folla solitaria» [Riesman 19501. Con un'altra immagine, i beni di consumo sono una specie di nuova e artificiale flora o fauna, che compongono una foresta sociale, nella quale l'uomo moderno finisce per smarrirsi, perché non riesce a vedere le relazioni economiche e sociali che la producono [Baudrillard 1974, trad. it. 1976, 161. Lo studio del consumo di massa, e la critica del consumismo, per essere davvero efficaci devono tuttavia scendere da un livello troppo astratto e assumere punti di vista che lascino spazio alla comprensione della capacità di reazione degli attori. Questa può essere colta sia a livello dell'interazione sociale nella vita quotidiana che dell'azione collettiva. In particolare, per ciò che concerne l'azione collettiva, non sono solo significativi i,movimenti e le organizzazioni a difesa del consumatore (che nel loro insieme costituiscono il fenomeno del consumerismo). Più in generale, associazioni, movimenti sociali e organizzazioni politiche sono in grado di mettere in discussione specifici modi e tipi di consumo, contrastando immagini di sequenza ritenuta e mostrando la loro realtà in termini di sequenza aggiornata, passivamente PRODUZIONE E CONSUmo 575 subita dal consumatore. Attraverso nuovi comportamenti dal basso ottenuti nell'interazione sociale e con l'azione collettiva impegnata in un conflitto culturale o politico, un modello prevalente di consumo può allora essere cambiato. Un caso tipico al riguardo è il crollo del consumo di tabacco, al quale hanno contribuito movimenti che sviluppavano e diffondevano conoscenze sugli effetti a lungo termine del fumo, A diffondersi di atteggiamenti negativi verso chi fuma in luoghi pubblici, e infine l'emergere della questione come tema politico e l'adozione di leggi che limitano l'uso del tabacco. Questi effetti sono stati ottenuti contro gli interessi e le azioni contrastanti di potenti gruppi economici. La spinta alla chiusura nella sfera privata contrapposta all'impegno pubblico, non sembra dunque un effetto scontato dell'aumento dei consumi. Probabilmente, fasi di privatismo e fasi di impegno politico e sociale si susseguono con un andamento ciclico [Hirschman 19821. La comparsa della produzione flessibile, con un'offerta più differenziata a seconda della domanda dei clienti, potrebbe essere interpretata come un più raffinato controllo sul consumatore, oppure come la risposta a consumatori che magari, nella fase più critica in cui è entrata l'economia oggi, consumano meno, ma stanno diventando culturalmente più esigenti. Forse è entrambe le cose, e potrà orientarsi più nell'una o nell'altra direzione. 6. Il consumo come comportamento collettivo: i meccanismi della moda L'immagine del consumatore solitario tipica di certa critica del consumismo non è dunque sociologicamente corretta. Così come troppo semplificate sono certe immagini economiche del consumatore che trascurano un'indagine approfondita delle sue motivazioni e dei suoi atteggiamenti. Basta considerare il fatto che a parità di reddito i consumi cambiano a seconda della classe sociale o della cultura di appartenenza. In altre parole: il consumatore non è mai davvero solo. La stessa espressione «folla solitaria» - anche se nella sua eccessiva genericità - richiama l'idea dell'isolamento, ma anche quella dell'appartenenza a un insieme di altre persone in situazione analoga perché sottoposte agli stessi stimoli: da questo punto di vista il consumo è considerato come comportamento collettivo, ed è possibile studiarlo in questi termini come fenomeno sociologico. Un tema classico al riguardo sono i meccanismi della moda. Moda Un certo modo di vestirsi o frequentare un certo locale diventa di moda se si diffonde fra un numero crescente di persone. Ma una moda è anche passeggera e destinata in un tempo rapido a essere sostituita da un'altra. Gli stimoli al comportamento di moda ci vengono dall'osservare gli altri, dalle vetrine dei negozi, dai giornali illustrati. 576 CAPITOLO 20 Quali sono però i meccanismi sociali che spingono a uniformarsi a una tendenza, per poi poco tempo dopo ad abbandonarla? Ovvero: quali sono i meccanismi che fanno apparire questo tipico comportamento collettivo? Georg Simmel ci ha lasciato su questo tema un famoso saggio [1895, trad. it. 19851. Nella sua essenza, la moda è una delle forme in cui si esprimono due esigenze contrastanti e compresenti del vivere dell'uomo in società: la tendenza alla Pagina 337
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt «fusione con il nostro gruppo e il distinguersene individualmente» [Simmel 1895, trad. it. 1985, 101. La prima si esprime psicologicamente con l'imitazione, che dà sicurezza e solleva da responsabilità di scelta personale; come tale è elemento di continuità e stabilità. Ma contro la stabilità gioca invece la differenziazione individuale, il distinguersi rispetto agli altri. La moda è appunto una forma culturale in cui si esprime questa tensione presente in generale nei fenomeni di gruppo. La moda, dice Simmel, «è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di un appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono [ 1 Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi» Ubidem, 131. Questo effetto di cambiamento e distinzione si ottiene con la variazione dei beni consumati, e per il fatto che le mode sono per Simmel fenomeni di classe, distinguono diverse appartenenze e vengono abbandonate da una classe superiore quando un'altra inferiore se ne appropria; in questo modo il gioco ricomincia continuamente. _E comportamento di moda aumenta dunque la coesione di una cerchia sociale e marca la differenza rispetto ad altre. Ha così allo stesso tempo le funzioni di collegare e separare. Da notare che questi meccanismi non corrispondono direttamente a funzioni pratiche, come possono essere il riparare dal freddo o sentirsi comodi: questo conferma la natura specificamente sociale della moda; la gonna che si allunga o si accorcia è un fenomeno in buona misura indipendente dalle condizioni climatiche: per la moda bisogna anche eventualmente essere pronti a soffrire il freddo. Con un argomento sottile si può poi rendere conto della presa particolare della moda nell'epoca moderna. Nella grande città, dove abitualmente vive, l'uomo contemporaneo è sottoposto a un eccesso di stimoli, che alla lunga diminuiscono le sue capacità di reazione: sono la differenza e la novità che riescono allora più facilmente a destare la sua attenzione. Nel suo inimitabile linguaggio, Simmel dice che «il nostro ritmo interno richiede periodi sempre più brevi nel cambiamento delle impressioni, o, in altre parole: l'accento degli stimoli si sposta in misura crescente dal loro centro sostanziale al loro inizio e alla loro fine» Ubidem, 271. Questo meccanismo sarebbe all'opera anche in comportamenti che appaiono insignificanti: il passaggio dal sigaro alla sigaretta, accesa e spenta in continuazione, sarebbe un cam~ biamento di consumo che risponde a tale logica. Ciò sottolinea un altro aspetto del comportamento di moda: il fascino esercitato dal conPRODUZIONE E CONSUMO fine, ovvero il fascino dell'inizio e della fine, dell'andare e del venire. Elemento essenziale della moda è perciò anche la sua fragilità. Il potere della moda corrisponde all'indebolirsi delle «convinzioni grandi, tenaci, incontestabili. Gli elementi effimerì e mutevoli della vita occupano uno spazio sempre più ampio» [ibidem, 281. In questo modo Simmel formula un'idea analoga alla tensione fra impegno pubblico e chiusura nella sfera privata del consumo, della quale si è prima parlato. 577 7. Consumo e stili di vita Da quanto è stato detto sui meccanismi della moda emerge che il consumo è per i sociologi una specie di linguaggio, con il quale continuamente si comunica con altri. I sociologi sono poi interessati al fatto che con questo linguaggio si compongono e trasmettono messaggi con la funzione di definire appartenenze di gruppo e di distinguere un gruppo da un altro. La distinzione che così viene marcata riguarda la distribuzione del prestigio. Indipendentemente dal comportamento collettivo fluttuante della moda, questa è una funzione stabile dei modelli di consumo. Questa direzione di indagine porta ad allargare il campo dell'osservazione, considerando il consumo come parte di un più generale stile di vita. Con questa espressione si intende un insieme coerente e distinto di scelte di consumo, ma anche di modi in cui si consuma: fanno parte di uno stile di vita anche le regole da seguire a tavola o i modi di dividere il proprio tempo in attività di tipo diverso. Fra gli studiosi che hanno influenzato la sociologia del consumo come componente di stili di vita, bisogna ricordare Thorstein Veblen. Il suo modello del «consumo vistoso» (conspicuous consumption), come componente essenziale dello stile di vita di quella che chiama la «classe agiata» è ricco di intuizioni vivaci [Veblen 18991. Nella nostra cultura sopravviverebbero tratti un tempo tipici della cultura «barbarica», che definiva onorifiche solo attività predatorie e oziose, e non Pagina 338
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt onorifiche quelle produttive. Su questa base si è distinta anticamente una «classe agiata» (leisure class) che elaborava stili di vita in cui lo sciupio di risorse e di tempo in attività inutili veniva esibito come prova di superiorità. Qualcosa insomma che ha a che fare con il potlacb (v. cap. XVIII). Circondarsi di servitori, praticare il duello, perdere al gioco d'azzardo, seguire gusti raffinati e costosi nel vestire o nell>abitare, seguire regole di etichetta senza utilità pratica e lunghe da imparare - sono esempi di consumo vistoso e di vita agiata. Questi si ritroverebbero in forme modificate nella vita moderna, nelle classi alte, ma anche diffuse verso il basso: il torneo cavalleresco per esempio è sostituito, come misura di prodezza, dalla pratica dello sport, che richiede lunghi allenamenti e per certe discipline più onoriStile di vita Consurno vistoso e classe agiata 578 CAPITOLO 20 fiche anche costose attrezzature; oppure: una maglia fatta a mano, più costosa, lunga da produrre e con qualche imperfezione, viene valutata per ciò stesso di maggior pregio, più capace di segnalare la distinzione di chi la porta, rispetto a una calda e robusta maglia fatta a macchina. Certi modi di vestirsi o di adornarsi delle donne (gonne strette, scarpe con tacchi a spillo, unghie lunghe) non servono proprio a mostrare lontananza oziosa dalla praticità richiesta dal lavoro produttivo? Veblen si diverte troppo a fare la caricatura della società americana del suo tempo, e non si accorge che le definizioni culturali dei consumi, così come le loro funzioni sono più complesse. E tuttavia qualcosa di vero c'è nelle sue descrizioni. Su consumi e stili di vita come distinzione sociale è stata svolta in anni recenti in Francia un'ampia ricerca da Bourdieu [19791. Distinzione sociale Questa mette in relazione le condizioni di vita definite dalla classe sociale e specifici stili di vita e di consumo che, sulla base di rilevazioni empiriche, possono essere appunto considerati tendenzialmente tipici di determinate classi. Esistono più classi o frazioni di classe che devono essere considerate, fondate sulla disponibilità di mezzi di proCaffitale culturale duzione oppure di «capitale culturale», espressione con cui l'autore intende risorse culturali in genere formate con gli studi. Gli stili di vita sono differenziati e resi operanti da criteri di gusto: il sapido e l'insipido, il bello e il brutto, il distinto e il volgare, e così Gusto via. Questi criteri di gusto costituiscono dei sistemi coerenti. Gli stai di vita non sono il semplice riflesso della posizione di classe, ma conseguenza di un gioco di classificazioni culturali operate e subite dai diversi gruppi. 1 criteri sono impliciti nelle scelte e nei comportamenti quotidiani delle persone, e non hanno bisogno di essere riconosciuti o ostentati per essere attivi. Con questa rete concettuale sono stati organizzati dati statistici nazionali sui consumi e altri raccolti con questionari, che naturalmente riguardano il caso francese. Dall'insieme risulta che gusti nell'alimentazione, nel modo di vestirsi, nell'arredamentò e nell'uso della casa, nei consumi culturali, nelle attività sportive e così via individuano stili di vita propri per esempio dell'alta borgesia, dei professori universitari, dei funzionari pubblici, dei dirigenti del settore privato, della piccola borghesia del commercio, o degli operai. Questi consumi non sono soltanto e direttamente corrispondenti alla capacità di spesa, anche se da questa sono influenzati, e oltre che dalla posizione di classe sono influenzati dalla traiettoria tipica dei membri di una classe, che possono da poco o da tanto tempo esserne parte, così come una classe può da tanto o da poco tempo essere salita o scesa nella stratificazione sociale. Vediamo qualche esempio delle differenze all'interno delle classi alte, posto che anche al basso della scala si trovano analoghe differenze, e soprattutto differenze fra l'alto e il basso. Nella società francese, ai livelli alti della stratificazione, imprenditori del commercio e dell'industria (già in parte fra loro diversi) hanno PRODUZIONE E CONsumo 579 consumi e stili di vita che possono essere considerati opposti rispetto a quelli dei professori universitari e dei funzionari pubblici, fra loro simili. Questi, per esempio, frequentano musei, ascoltano musica classica, preferiscono il teatro d'avanguardia, amano spesso la montagna e le passeggiate a piedi. 1 primi prediligono con maggior frequenza il teatro leggero, il music-hall, alla televisione gli spettacoli di varietà, le boutiques per i loro acquisti, le auto costose. Le coerenze che si trovano in questi tipi di consumo si ritrovano anche Pagina 339
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt in altri come, per esempio, il cibo preferito o i ristoranti nei quali ci si sente a proprio agio. Il senso - e la coerenza - dello stile di vita dei professori e dei funzionari pubblici risulta bene se paragonato a quello dei liberi professionisti. Emerge infatti un loro «aristocratismo ascetico», che si orienta per esempio verso attività di tempo libero poco costose e più austere, scelte culturalì più serie e anche severe. Anche i liberi professionisti possiedono un alto, ma nel loro caso diverso tipo di capitale culturale; questo è superiore in media a quello degli imprenditori, senza peraltro che i professionisti abbiano come gli imprenditori competenze specifiche per investire i profitti in campo economico. Essi si orientano allora in modo marcato verso i consumi, in particolare di lusso, i quali garantiscono una «onorabilità» adatta alla loro professione: collezionano più di frequente mobili antichi e opere d'arte, praticano l'equitazione e la caccia, possiedono pianoforti e libri d'arte. In un certo senso, H loro gusto sta tra quello più esigente dei professori e quello più facile degli imprenditori: in fatto di musica gli imprenditori citano e amano Il bel Danubio blu di Strauss, fra i professionisti troviamo molti che amano Wagner, molti professori prediligono Il clavicembalo ben temperato di Bach. E gioco della distinzione e le coerenze dei sistemi di gusto si rivelano dunque anche in particolari come questi. Non per niente a volte basta un dettaglio per distinguere subito un nuovo ricco in un salotto alto borghese: come amava dire Walter Benjamin, «il buon Dio si manifesta nel dettaglio». La politica 1 l. Lo spazio della politica Nel linguaggio corrente A termine politica è usato anche in un senso ampio. Si dice, per esempio, che è politica della tale azienda espandersi sui mercati mondiali, oppure che è politica della tale associazione ricreativa non discriminare gli immigrati. In tutti i casi di questo genere, il termine si riferisce a fini, obiettivi, scelte di un'organizzazione o associazione. In un senso più ristretto, quando si parla di politica ci si riferisce però a una sfera particolare della società, o nel linguaggio sociologico, a un ambito istituzionale distinto, dove troviamo lo stato e la sua organizzazione, i partiti e la competizione elettorale, i movimenti sociali, i gruppi di interesse. Fini e obiettivi ritornano però con l'idea che la politica - pur essendo nelle nostre società moderne un ambito istituzionale distinto - abbia a che fare con il governo, l'organizzazione e la regolazione della società nel suo insieme. In altre parole, l'azione in senso stretto politica tende a governare e regolare non una singola associazione o organizzazione, ma la vita in società [Lagroye 1993, 251. In questo senso la politica appare svolgere per l'organizzazione sociale funzioni particolarmente delicate e importanti. Se si cerca di chiarire meglio le specifiche funzioni della politica, ci si accorge però subito che non è facile: ci hanno provato differenti teorie, con soluzioni diverse. In effetti, come diceva Weber, «non vi è nessuna funzione che un'associazione politica non abbia una volta o l'altra esercitata, né alcuna di cui si possa dire che essa l'abbia sempre esercitata, ossia che sempre ed esclusivamente appartenga alle associazioni definite come politiche» [Weber 1917, trad. it. 1966, 481. Una soluzione può essere trovata considerando piuttosto che le funzioni o i fini della politica, i mezzi di cui questa in modo tipico ed esclusivo dispone. Questa strada mostra subito anche una sua natura «pericolosa». Partiamo di nuovo dal linguaggio corrente: spesso si dice che chi fa politica cerca il potere e che la politica stessa è l'esercizio del pote584 CAPITOLO 21 Potere economico, ideologico, politico Legittimità e forza Società civile re. Anche molte teorie si esprimono in modi simili. Abbiamo visto però a suo tempo che il potere è un fenomeno sociologico generale (v. cap. 111): se vogliamo che quelle espressioni abbiano un senso definito, bisogna distinguere diversi tipi di potere ed eventualmente individuare un potere specificamente politico. Osservando i diversi ambiti istituzionali, possiamo distinguerne tre tipi fondamentali con riferimento ai mezzi, ovvero alle risorse di cui un'organizzazione o un attore dispongono [Bobbio 19831. Si tratta del potere economico, per cui chi possiede certi beni materiali o risorse finanziarie può Pagina 340
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt indurre chi non li possiede ad accettare una determinata condotta, per esempio svolgere un certo lavoro; del potere ideologico, ovvero della capacità di influenzare i comportamenti della gente che hanno le idee espresse da persone alle quali è riconosciuta un'autorità al riguardo (un predicatore, un giornalista, un intellettuale); infine del potere politico, che può utilizzare una risorsa soltanto sua: il controllo degli strumenti attraverso i quali si esercita la forza fisica. Ponendosi proprio da questo punto di vista, Weber diceva che lo stato - la principale istituzione politica, attorno alla quale ruota la politica moderna - ha il monopolio dell'uso legittimo della forza [1922a, trad. it. 1961, 1, 531. Questo non significa che la politica sia per sua natura violenza o sopruso; significa che chi cerca e detiene il potere politico cerca e ottiene il controllo della forza, della quale allora potrà disporre per fini e con motivazioni diverse, anche eventualmente sino a essere violento e tiranno. A questo riguardo, nella definizione di Weber tutto si gioca sull'aggettivo «legittima» che accompagna la «forza»: un potere riconosciuto legittimo si trasforma in autorità. Torneremo su questo punto cruciale. Qui osserviamo invece che il monopolio dell'uso legittimo della forza significa due cose, entrambe importanti. La prima è che lo stato sottrae a qualsiasi altro gruppo l'uso della forza. Questo è il primo e fondamentale modo in cui la politica regola la società. 19 secondo significato consiste invece nell'uso possibile della forza per ottenere obbedienza. E modo tipico in cui A potere politico in definitiva si esplica consiste in comandi vincolanti, direttamente o indirettamente, per tutti: leggi, decreti, disposizioni, provvedimenti, sentenze. La minaccia dell'uso della forza è a garanzia che questi comandi siano obbediti. L'idea di una sfera sociale particolare implica che questa abbia dei confini, dei limiti rispetto al resto della società. 1 teorici, per affrontare tale questione, usano spesso distinguere la politica, e più precisamente lo stato dalla «società civile». Con questo termine, che assume in teorie diverse anche diversi significati, si intendono in generale quelle relazioni, istituzioni, associazioni che appunto non sono politiche, ma culturali o economiche. Naturalmente le diverse sfere istituzionali si condizionano a vicenda, e si può anche per esempio sostenere - come Marx - che le relazioni sociali nell'economia condizionano in modo decisivo lo spazio della politica (lo abbiamo visto nel cap. II), o che invece sono i valori culturali a dare coerenza ultima alla società STATO E INTERAZIONE POLITICA 585 come sostiene Parsons (v. cap. V). Resta A fatto che la politica produce leggi e comandi, riguardanti l'organizzazione e il governo della società, e che questi devono essere rispettati da tutti, di buon grado o costretti con la forza. Bisogna allora rilevare un punto importante. L'ambito regolato con leggi e governato con decisioni politiche e comandi sostenuti dall'uso eventuale della forza può essere più o meno esteso, in società e in tempi diversi. Questo significa anche, a ben ve- co dere, che è la stessa politica, con le sue leggi, a fissare i propri confini. deui polffica Un nuovo aspetto delicato e in certi casi pericoloso della politica consiste allora nella tendenza di questa a essere invadente nei confronti della società civile. Sappiamo che l'economia, come ambito istituzionale relativamente autonomo regolato dal mercato, è nato di recente. E confine fra politica ed economia resta fluttuante ovunque nelle economie sviluppate, e la regolazione politica dell'economia, in certa misura presente ovunque, è considerato ovunque un problema delicato (v. cap. XVIII). Con riferimento alla cultura, quando diciamo per esempio che in questi anni, in Italia, i partiti erano così forti che le associazioni culturali dipendevano spesso dal sostengo di un partito per ottenere finanziamenti pubblici, finendo per esserne condizionate, mostriamo un esempio dell'invadenza della politica nel terreno della cultura. Ma la pretesa politica di dettare regole per tutte le attività sociali rilevanti può essere molto estesa, entrando persino a fondo nella vita privata e nei modi della vita quotidiana. La politica di totale controllo della produzione culturale e per molti aspetti della vita privata da parte degli stati fascisti, nazisti e comunisti in questo secolo sono esempi limite della possibile invadenza da parte della politica. Se il potere politico è così significativo, perché sancisce con leggi e comandi l'organizzazione e gli indirizzi della società, se lo stato ha il «pericoloso» monopolio della forza legittima, e se la politica ha la tendenza delicata e a volte pericolosa a essere invadente, si capisce bene che il problema principale Pagina 341
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt sia stato spesso considerato da filosofi e teorici come quello dei limiti della politica e della disciplina dell'accesso al potere politico e del suo uso. Impedire l'accumulazione nelle stesse mani di potere politico, economico e culturale, e differenziare all'interno dello stato diversi poteri e funzioni sono stati riconosciuti nell'epoca moderna come criteri fondamentali del buon governo. Ma qui la riflessione che riguarda la natura del potere politico, la sua concentrazione e le funzioni di governo e organizzazione della società, si incrocia con un altro modo di intendere o di guardare la politica. Alla visione realistica e un po cupa della politica come esercizio del potere di comando si contrappone l'idea solare della politica come esercizio della libertà. Sono stati i Greci, nel mondo antico, a sviluppare per primi questa idea. Nella città-stato dell'antica Grecia - la polis che dà il nome alla politica la produzione economica era organizzata su base familiare, con la partecipazione anche di schiavi. Questa «sfera privata» delle re586 CAPITOLO 21 lazioni familiari e economiche cominciò a essere distinta dalla vita pubblica, una sfera e un tipo di relazioni che andavano crescendo con caratteri opposti, e che vennero chiamate politiche. Hannah Arendt ne ha ricostruito i caratteri, sottolineando tre punti [Arendt 19581. In primo luogo, nella vita pubblica si decideva con la persuasione e la parola, non con la forza o la violenza. Costringere e comandare erano per i Greci metodi pre-politici di trattare con gli uomini. Comandare ed eventualmente costringere apparteneva al mondo della famiglia, dove il capofamiglia esercitava un potere assoluto, ed era anche proprio degli imperi barbari dell'Asia, regimi dispotici paragonati proprio all'organizzazione della famiglia. La politica allora - secondo punto - è la sfera nella quale si accede alla libertà, in due sensi: anzitutto perché non si è sottomessi, e poi perché se la famiglia e l'economia sono il regno della necessità, dove si svolgono le funzioni necessarie al mantenersi in vita, in politica ci si può invece sentire se stessi, interagendo con gli altri per azioni e imprese liberamente scelte. Nella polis infine - terzo punto - si è fra «eguali», mentre i rapporti in famiglia e nell'economia sono rigorosamente fra «ineguali» Anche se esistono nella polis leggi necessarie e stringenti, l'essenza vera della politica non è vista in questo, che è tipico anche degli imperi dei barbari dove gli uomini non sono eguali. La polis è invece composta di eguali, nel senso di uomini egualmente non sottomessi ad altri uomini. Per molti aspetti queste prime idee greche della politica, come anche quelle collegate della famiglia e dell'economia, ci appaiono oggi ingenue ed equivoche. Basti pensare, per esempio, che l'idea di eguaglianza era staccata da quella di giustizia e solo legata alla libertà: ciò fra l'altro rendeva perfettamente accettabile per i Greci che esistessero degli schiavi, come condizione per essere liberi. Uomini liberi ed eguali finivano per essere solo relativamente pochi capifamiglia. La vita pubblica chiamata politica comprendeva poi troppe cose rispetto a quelle che oggi consideriamo propriamente politiche. La questione veramente importante è però la prospettiva dalla quale si guardava al fenomeno allora nuovo della sfera della politica che stava nascendo. L'attenzione non era qui tanto al governo e alla forza legittima; prima di questo, era all'uso della parola e alla capacità di convincere, e con tali mezzi all'esercizio della libertà da parte di uomini che si riconoscevano per questo eguali. Ci siamo interrogati sulla natura della politica e abbiamo trovato due punti di vista dai quali è stata considerata. In realtà, questi non si escludono fra loro. Al contrario, possiamo proprio parlare di due dimensioni della politica: una verticale, relativa al potere e al controllo, l'altra orizzontale, delle scelte liberamente prese discutendo e convincendo [Sartori 19871. Istituzioni e interazioni politiche devono essere individuate in riferimento a queste due dimensioni. 0 per dirlo in un STATO E INTERAZIONE POLITICA 587 modo diverso, lo spazio della politica può essere delirnitato da questi due assi, fra i quali collocare le istituzioni e l'interazione politica, come fenomeni da studiare. 2. Politica e stato La politica moderna ruota intorno allo stato, ma questo non esaurisce la politica. Un partito, per esempio, lotta per conquistare la maggioranza in parlamento, e per influire così sulla formazione delle leggi, ma non diciamo che Pagina 342
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt «fa parte» dello stato. Lo stato è un'organizzazione, ma particolarmente importante, perché è attraverso lo stato che nelle società moderne viene istituzionalizzato, vale a dire sottomesso a regole e disciplinato, il potere politico. In questo senso è esso stesso una istituzione. Per Weber era una «impresa istituzionale»; nel suo linguaggio, questo termine definisce un gruppo che statuisce regole e riesce a imporle in determinati campi di azione. Ciò che distingue lo stato dalle altre imp@rese istituzionali è il «monopolio della coercizione fisica legittima». E questo che ne fa il fondamentale gruppo politico. Sappiamo che Weber esitava a definire in positivo le funzioni della politica, con riferimento ai fini, perché gli sembravano tutte imprecise. In termini un po generici noi abbiamo però definito le funzioni politiche come organizzazione e regolazione della società nel suo insieme. Possiamo dunque, in conclusione, considerare lo stato come un'organizzazione politica particolarmente complessa che governa, organizza e controlla nel suo insieme una società stabilita in un certo territorio. Oggi esistono al mondo poco più di 160 stati. Sono molto diversi fra loro per dimensioni, modelli organizzativi, capacità di esercitare effettivamente il monopolio della forza, e più o meno indipendenti nei fatti da altri stati. Essi organizzano differenti società in spazi differenti. Stato moderno, o anche correntemente stato nazionale sono espressioni usate per indicare il tipo che ci è più familiare, il quale ha preso forma in Europa in un lungo arco di tempo e si è poi diffuso altrove. Se torniamo abbastanza indietro nel tempo, non solo non troviamo nel nostro continente uno stato come quello al quale siamo oggi abituati, ma ci imbattiamo in una sorprendente confusione e varietà di forme di potere coattivo organizzato. Un elenco approssimativo di queste potrebbe comprendere: imperi, città-stato, federazioni di città, gruppi di signori fondiari, Chiese, ordini religiosi, leghe di pirati, bande di guerrieri e molte altre, in concorrenza fra loro per stabilire il controllo su un territorio e il predominio su altre organizzazioni [Tifly 19901. Lo stato moderno come forma predominante si fece strada a fatica, e solo dopo molto tempo. Abbiamo visto nel cap. Il le tappe principali del suo emergere dopo il crollo dell'impero romano e l'epoca feudale, attraverso l'esperienza di concentrazione del potere sino -allo stato assolutista, che superò una prima forma di stato post-feudaDefinizione di stato Stato assolutista 588 CAPITOLO 21 Stato dei eetì Sistema feudale Stato teocratico 1Imperi le, lo stato dei ceti. In quel capitolo abbiamo anche fatto riferimento alle città-stato, a federazioni di città, e nel cap. I all'organizzazione feudale, le cui tracce sopravvissero a lungo. Dallo stretto punto di vista delle forme di organizzazione politica, che qui interessa, il sistema feudale era un'organizz azione territoriale del potere basata sulla fedeltà di un signore subordinato a un altro superiore, che riceveva da questo i diritti di sovranità su una terra e sui suoi abitanti in cambio di prestazioni militari e tributi. L'aspetto specificamente politico di tale ordinamento consiste nel fatto che se esiste un coordinamento a cascata del potere, in teoria dall'imperatore verso re e feudatari via, via di rango inferiore, ognuno legato al superiore, si tratta però di un coordinamento debole dal punto di vista organizzativo, fortemente decentrato, che lascia molta autonomia, libertà d'azione e diversità di organizzazione ai singoli livelli. Inoltre, bisogna considerare che il rapporto del re o di un signore superiore rispetto ai suoi vassalli di rango inferiore era nei fatti un rapporto contrattuale, che poteva essere tirato da una parte e dall'altra; quando il feudo divenne ereditario, l'autonomia dal signore superiore aumentò ancora. Quanto alla Chiesa, è bene ricordare che in astratto era aperta in Europa anche un'evoluzione verso uno stato teocratico, del quale si hanno esempi nella storia, dove sacerdoti detengono 9 potere politico. La Chiesa aveva una sua organizzazione nei diversi paesi d'Europa, uno stato autonomo in Italia e possedimenti altrove; un vescovo o un abate potevano anche essere feudatari, con A possesso di un territorio. Trento, per esempio, è stata retta un tempo da un principe-vescovo. Per mantenere unita e estendere la cristianità, la Chiesa sosteneva e legittimava l'imperatore, incoronandolo, ma alla fine dell'anno mille esplose un conflitto prima latente: Gregorio VII rivendicò la supremazia Pagina 343
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt del papa sull'imperatore, e il diritto di nominarlo e deporlo (l'imperatore era eletto dai grandi feudatari e in seguito il titolo divenne di fatto ereditario). Nel secolo successivo si arrivò a un compromesso, ma ormai si era definitivamente chiusa la strada dello stato teocratico. La Città del Vaticano è rimasta oggi un piccolo stato teocratico. Nel cap. I abbiamo anche già incontrato gli antichi imperi, e riferimenti a imperi sono venuti successivamente. Indichiamo qui i caratteri generali di questa specie di potere politico organizzato. Gli imperi sono grandi organizzazioni politiche che riguardano popoli di differente origine etnica, sparsi su territori molto estesi. Sottomessi a un potere centrale in seguito a guerre di conquista, i diversi popoli mantengono una maggiore o minore autonomia di governo. L'ordine è assicurato in ultima istanza dalla forza militare dell'imperatore, che per sé, i suoi uomini e il suo popolo ricava tributi e altri vantaggi, ma che dà vita anche a sistemi burocratici di controllo, assicura vie di comunicazione, realizza infrastrutture, permettendo anche per lunghi periodi il governo pacificato di territori molto vasti. Esempi antichi sono gli imperi egiziano, persiano, azteco, cinese, romano. STATO E INTERAZIONE POLITICA 589 Nell'Europa di mille anni fa erano presenti il ricordo e le tracce importanti dell'impero romano, della sua organizzazione, delle sue leggi e della sua lingua. Carlo Magno, re dei Franchi, provò a realizzare l'idea di una specie di sua rinascita, che tenesse uniti con un'autorità superiore i popoli d'Europa separati dopo il crollo. Il papa lo incoronò imperatore, a Roma, la notte di Natale dell'anno 800. La nuova istituzione, che fu poi chiamata dagli storici il Sacro romano impero, subì molte vicissitudini, spostò presto il suo baricentro nell'area germanica e perse progressivamente capacità di coordinare stati diversi che diventavano autonomi; già prima dell'anno 1000, pochi anni dopo che l'imperatore incoronato dal papa era diventato il re dei Germani, Ugo Capeto fondò nella parte occidentale del vecchio impero dei Franchi una dinastia di re che rifiutarono la dipendenza dall'imperatore, chiamandosi «imperatori nel loro regno»; il titolo di imperatore fu conservato a lungo dalla famiglia degli Absburgo: dopo la scoperta dell'America, Carlo V poteva dire dalla Spagna che sul suo impero «non tramontava mai il sole»; ma Voltaire nel Settecento concludeva che quanto allora restava non era ormai più «né sacro, né romano, né impero». La scomparsa definitiva di ogni traccia del Sacro romano impero non ha fatto definitivamente scomparire questa forma di organizzazione politica in Europa. Ne sono esempi l'impero francese, di breve durata in epoca napoleonica, o l'impero coloniale britannico, collegato anche, come altri imperi coloniali in epoca recente, allo sviluppo del capitalismo mercantile e industriale, con lo sfruttamento di opportunità di mercato, del lavoro e delle materie prime dei popoli sottomessi. 3. Caratteri dello stato moderno 1 catatteri dello stato moderno sono emersi successivamente nel tempo. Uno schema analitico, come quello che ora presenteremo, appiattisce il processo storico; daremo qualche indicazione a questo riguardo, ma la nostra attenzione sarà appunto all'insieme dei caratteri che tipicamente oggi appartengono alla forma compiuta [Poggi 19911. Vediamo dunque, in dettaglio i caratteri che lo stato ha finito per assumere come forma moderna di organizzazione politica, riformulando in modo unitario e sistematico anche anticipazioni sparse in precedenza. Differenzt'azione. Abbiamo detto che lo stato moderno è un'orga- Stato modemo: nizzazione politica particolarmente complessa che governa, organizza e differenziazione controlla nel suo insieme una società stabilita in un certo territorio. Deve essere anzitutto chiaro che lo stato non è la società, anche se a volte nell'uso corrente si trovano modi di esprimersi che confondono le acque. L'uso della coppia concettuale stato-società civile serve appunto per stabilire questa distinzione. D'altro canto è vero che lo stato 590 CAPITOLO 21 Sovranità Centralizzazione organizza la società nel suo insieme: proprio questo è il punto delicato, che rivela la natura potenzialmente invadente e «pericolosa» della politica. In linea di principio, la contraddizione si risolve dicendo che lo stato regola in generale e in astratto i comportamenti dei cittadini, ma riconosce e tutela il loro diritto a perseguire fini privati e di interesse generale, associandosi Pagina 344
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt liberamente in ambiti e per attività intese come «non-politiche». In economia, per esempio, le leggi disciplinano i contratti, e possono anche stabilire vantaggi fiscali a chi fa certi investimenti (al fine di indirizzarli), ma le imprese non ricevono dal ministero dell'industria ordini su quanto e dove investire. Analogamente, in materia di religione lo stato non si sovrappone ai compiti spirituali che la o le chiese ritengono propri. Questo carattere dello stato può essere definito differenziazione. La differenziazione dello stato dalla società civile può essere più o meno accentuata, ovvero lo stato può regolare più o meno in dettaglio l'attività libera e il mondo privato dei cittadini, esercitando potere politico, ma eventualmente cumulando anche potere economico e ideologico. Quanto è stato detto qui sullo stato come organizzazione differenziata può essere considerato all'interno del più generale riferimento fatto prima alla politica come ambito istituzionale differenziato nella società moderna. Sovranità. Un secondo carattere peculiare dello stato come organizzazione attiene alla risorsa di potere che gli è propria ed esclusiva, vale a dire il potere di coercizione. Si tratta, come già abbiamo detto, dell'uso legittimo della forza, della quale, secondo la più volte ricordata definizione di Weber, lo stato acquisisce il monopolio in un territorio. Uno stato che ha il controllo politico di una società, vale a dire la facoltà di governarla e organizzarla nel suo insieme, con la risorsa in ultima istanza del monopolio della coercizione legittima, è uno stato sovrano. Il carattere della sovranità attiene al fatto che lo stato non deriva da nessun altro ente o organizzazione la facoltà di governare e controllare una società in un certo territorio, e che non spartisce con nessun altro questa facoltà. Non possono esistere due stati sullo stesso territorio, e la minaccia di limitare la sovranità di uno stato da parte di un altro conduce alla guerra. Centralizzazione. La centralizzazione è un carattere che si è andato affermando progressivamente, a costo anche di forti conflitti, come superamento delle differenze di usi, leggi, modi di amministrare la giustizia, poteri autonomi di governo tipici del sistema feudale. Il consolidamento dello stato comportò ovunque una progressiva omogeneizzazione di regole e una forte centralizzazione del potere politico: lo stato è diventato un'organizzazione unitaria, con un governo «centrale» e organismi «periferici», sottraendo autonomia alle sue province. In questa prospettiva, l'esercizio di funzioni politiche in una società non può essere che derivato dagli ordinamenti dello stato, e si potrebSTATO E INTERAZIONE POLITICA 591 be dire che si tratta dell'aspetto della sovranità di questo rivolta al proprio interno. Il processo di forte centralizzazione dello stato francese, che precede la rivoluzione, è stato descritto in modo magistrale da Alexis de Tocqueville [18561. Con riferimento alla centralizzazione, i giuristi distinguono dagli stati unitari gli stati federali. Questi nascono da più stati che decidono di cedere la loro sovranità a un ordinamento superiore che h comprende. Solitamente ciò comporta una ripartizione del potere legislativo (v. cap. XXII) fra stato centrale e stati membri, a seconda delle materie, e la riserva allo stato centrale di funzioni come la politica estera o militare. Nazionalità e cittadinanza. Se i caratteri indicati finora trovano le loro radici nello stato assolutista, altri sono emersi in una fase successiva. Di questi, conviene considerare insieme nazionalità e cittadinanza. Gli statistici che contano gli abitanti di un paese ci dicono alla fine dei loro calcoli a quanto ammonta la popolazione. Un giudice invece emana le sue sentenze «in nome del popolo italiano». Popolo è qualcosa di più di un semplice aggregato di persone (la popolazione). Questo «di più» ha una dimensione politica e una culturale. La prima riguarda il fatto che le persone sono cittadini di uno stesso stato, vale a dire sono sottomessi al suo potere regolativo, cometitolari di doveri e diritti. La cittadinanza è appunto l'insieme di diritti e di doveri che definiscono la condizione di appartenenza a uno stato. La trasformazione dei sudditi in cittadini è un passo fondamentale verso lo stato moderno come stato di diritto (cap. 11). T. H. Marshall ha individuato tre fasi di sviluppo della cittadinanza. Prima si è affermata la cittadinanza civile, che riguarda i diritti necessari alla libertà individuale: libertà personali, di parola, di pensiero, di fede, di possedere cose in proprietà e di stipulare contratti validi, il diritto di ottenere giustizia. Il grosso di questi diritti si afferma in Inghilterra nel XVIII secolo. Nel secolo successivo prende forma la cittadinanza politica, che riguarda il diritto di eleggere ed essere eletti, e Pagina 345
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dunque di partecipare all'esercizio del potere politico. Infine, in questo secolo, compare la cittadinanza sociale, che stabilisce diritti ad accedere a certi standard di consumi, salute, istruzione, in modo, come diceva Marshall, da «vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella società» [Marshall 1963, trad. it. 1976, 91. La dimensione culturale di un popolo riguarda comuni radici storiche, religiose, di costumi, di lingua. Con una sola parola queste radici sono definite etniche (v. cap. V). Una nazione è allora una comunità di appartenenza alla quale si sente legato un popolo che ha comuni radici etniche e che continua a costruire la sua storia come comunità politica di cittadini che esercitano liberamente loro diritti e che riconoscono doveri reciproci. Lo stato moderno è dunque uno stato di cittadini che appartengono a una stessa nazione. In questo senso è anche chiamato stato nazionale. i due termini, politico e culturale, della nazionalità possono essere considerati come i poli estremi di differenti modi di espressione di questa in diversi stati. Un'identità nazionale può infatti basarsi prevalentemente su forti radici etniche, oppure all'opposto sull'idea di nazione costruita come libero contratto politico fra cittadini, legati fra loro essenzialmente dal fatto di essere cittadini dello stesso stato e dalle memorie storiche che a questo si riferiscono. Nel secondo caso esistono anche differenze etniche fra i cittadini, e queste sono spesso tutelate, ma appartengono per così dire alla società civile e non allo stato. C'è sempre, in ogni caso concreto, una tensione fra i due modi estremi di essere della nazione, che sono stati chiamati rispettivamente nazione-etbnos e nazione-demos. In Europa i due casi che più si avvicinano ai poli sono la Germania come nazione-ethnos e la Francia come nazione-demos. Il modo migliore per vedere le differenze fra i due casi consiste nel considerare le leggi che concedono il diritto di cittadinanza a stranieri. Francesi si diventa imparando una lingua e una cultura, e ottenendo con relativa facilità la cittadinanza politica: per esempio quasi automaticamente a diciotto anni se si è nati in Francia da genitori stranieri; in Germania, si nasce tedeschi da genitori tedeschi e lo si diventa con difficoltà: stranieri stabilmente residenti da molto tempo in Germania mantengono la posizione giuridica di stranieri. Molte variabili sono in gioco nell'influenzare le differenze di legislazione (fattori demograficì, per esempio), e questa varia anche nel tempo, ma si tratta di differenze nette: nella Germania federale dei circa 40.000 bambini di genitori turchi che nascono ogni anno, solo mille diventeranno tedeschi. Dei circa 30.000 bambini di genitori stranieri nati ogni anno in Francia, solo meno di duemila, secondo le leggi attuali, non diventeranno francesi al momento della maggiore età [Schnapper 1990, 2461. Legiffimazione democratica. Infine, non esiste stato nazionale moderno che non affermi solennemente di essere democratico. Né il governo, né nessun altro organo costituzionale può dirsi «sovrano», nel senso indicato prima. Come recita la nostra Costituzione, «la sovranità appartiene al popolo», che la esercita sulla base dei diritti politici riconosciuti a ogni cittadino e nelle forme previste dalla Costituzione stessa. Questa sancisce il patto fondamentale della convivenza fra cittadini, e viene modificata solo assicurando una larga approvazione. Democrazia, in sostanza, è un regime politico basato sul consenso popolare e sul controllo dei governanti da parte dei governati. Consenso e controllo possono essere assicurati in modi diversi, e la democrazia è un risultato più o meno raggiunto dagli stati che si dichiarano tali. E punto importante è tuttavia che oggi tutti gli stati sentono il bisogno di dichiararsì democratici e di costruire istituzioni che consentano partecipazione e controllo politico dei governati. Questo carattere può essere definito legittimazione democratica. STATO E INTERAZIONE POLITICA 593 Resta da stabilire quali siano i caratteri che, al di là delle affermazioni di principio, distinguono uno stato come realmente democratico. Secondo una formulazione del politologo americano Dahl, sovente citata [19711, si può parlare di democrazia se le istituzioni politiche sono congegnate in modo da garantire: • libertà di associazione; • libertà di espressione; • diritto di voto; • eleggibilità alle cariche pubbliche; • diritto di competere per il sostegno elettorale; • fonti alternative di informazione; • elezioni libere e corrette; • esistenza di istituzioni che rendono le scelte del governo dipendenti dal voto e da altre espressioni di preferenza. La nascita e l'affermarsi della democrazia politica negli stati moderni è il Pagina 346
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt tema di un ffione importante di ricerca sociologica comparativa. La prospettiva adottata è stata quella di considerare il processo di democratizzazione in rapporto alla capacità dei diversi paesi di rispondere alle sfide sociali aperte dal processo di industrializzazione. Bendix, in particolare, ha attirato l'attenzione sulle tradizioni politico-istituzionali dei diversi paesi, più o meno aperte ad accogliere la protesta politica della nuova classe operaia in balia del mercato. L'Inghilterra è stato il caso classico di estensione graduale dei diritti di cittadinanza, mentre la Germania e la Russia.sono casi di un'incapacità di integrazione che ha condotto allo sviluppo di forme politiche non democratiche [Bendix 19641. Un altro autore, Barrington Moore ha sviluppato una prospettiva complementare, sottolineando il ruolo della struttura di classe preindustriale. Egli distingue tre casi: quello inglese, francese, americano in cui borghesie robuste sostengono anche la democratizzazione; quello tedesco e giapponese, in cui sono invece aristrocrazie agrarie tradizionali che spingono lo stato a promuovere l'industrializzazione, in presenza di borghesie deboli, dando vita a forme politiche non democratiche; infine, le rivoluzioni contadine che hanno condotto ai regimi comunisti in Russia e Cina [Moore 19661. L'opposto della democrazia è l'autocrazia, un regime in cui un dittatore o un gruppo ristretto detengono potere assoluto, e governano sopprimendo la formazione e l'espressione del dissenso. La forma più tipica di autocrazia in epoca contemporanea è il totalitarismo. 1 regimi totalitari, anche quando sembrano introdurre elementi tipici della democrazia, lo fanno in forme che ne negano la sostanza: un unico partito è ammesso, che inquadra e organizza la società secondo direttive dall'alto, le assemblee sono nominate o elette senza reali garanzie di libera espressione, un uso ampio e monopolistico di mezzi di comunicazione assicura indottrinamento più che informazione, e così via. Oltre alla negazione dei diritti politici, nei regimi totalitari si verifica quella generale invadenza della politica nella società civile e nella sfera Autocra M*' Totahtarismo 594 CAPITOLO 21 personale, di cui si è detto al primo paragrafo. I regimi totalitari presentano sempre se stessi come necessari a salvare un corpo sociale malato, anche se ciò comporta che in certi punti l'operazione sia dolorosa; questo, come diceva Max Horkheimer, «trascura il piccolo particolare che tali singoli punti sono esseri umani con una propria sorte e un'esistenza unica» [1930, trad. it. 1978, 641. Se ripensiamo a quanto si è detto sui caratteri dello stato più recenti rispetto a quelli più tradizionali, osserviamo che la nostra attenzione è andata progressivamente spostandosi dall'asse verticale della politica verso quello orizzontale. 1 caratteri tradizionali riguardavano piuttosto la concentrazione del potere e il controllo che questo esercita, quelli più recenti mettono in conto le scelte liberamente prese di scutendo e convincendo. In particolare, il riferimento alla democrazia individua in modo esplicito la questione della legittimazione, che ora dobbiamo porre in termini più generali. Legittimazione del potere Potere tradizionale, carismatico, razionale 4. Identità e interessi: i dilemmi dell'azione collettiva 4.1. Perché si obbedisce? li problema della legittimazione Torniamo al problema del potere. Ci possiamo chiedere: perché si obbedisce a leggi e comandi politici? Una prima risposta è: perché si temono le conseguenze della disobbedienza. Naturalmente c'è qui una parte di verità. Qualsiasi potere, tuttavia, per stabilizzarsi ha bisogno di giustificarsi, deve cioè indicare delle ragioni per le quali chi è destinatario dei comandi ritenga che chi comanda ha il diritto di farlo e che è giusto per lui obbedire. In questo senso si dice che il potere deve essere legittimatoAn quanto legittimato, il potere si trasforma in autorità. In termini astratti, si possono distinguere tre tipi di potere legittimo - o autorità - a seconda della tipica «pretesa di legittimità» Neber 1922a] E potere tradizionale si basa sulla credenza del carattere sacro delle tradizioni che valgono da tempo immemorabile e che sanciscono anche il diritto a esercitare il potere da parte di un signore, egli pure designato in base alla tradizione; il potere carismatico si basa sulla credenza del carattere straordinario di un capo, considerato un eroe o comunque dotato di virtù o capacità esemplari; carisma significava in origine «dono della grazia», e chi ha «carisma» ottiene disponibilità a obbedire sulla base della fiducia che ispira come persona. Il potere razionale, infine, si basa sulla credenza che un certo sistema di norme statuite (per esempio, le leggi che si rifanno alla Pagina 347
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Costituzione) è valido: si obbedisce dunque all'ordffiamento impersonale, riconoscendo che chi occupa una posizione di potere ne ha il diritto perché correttamente nominato o eletto secondo criteri previsti dalle norme, e perSTATO E INTERAZIONE POLITICA 595 ché i suoi comandi sono emessi nei limiti e nelle forme previste daRe norme. La tipologia del potere legittimo di Weber individua dei tipi puri di questo. Nella realtà bisogna immaginare delle combinazioni. Per esempio, Weber pensava che le moderne democrazie - e tipicamente quella americana e inglese - fossero basate su forme razionali di potere, ma che insieme - con meccanismi come l'elezione diretta del presidente - lasciassero spazio importante afl'emergere di figure carismatiche, capaci di suscitare fiducia e adesione emotiva. Questo garantiva governi stabili e capaci di sostenere un loro progetto innovativo, essendo basati per così dire su un'ampia apertura di credito personale a un leader. Weber parlava in questi casi di «democrazia plebiscitaria», anche se forse sarebbe meglio dire «democrazia con un leader» [L. Cavaflì 19921; ciò per poter riconoscere anche nelle democrazie il. significato del carisma politico (la capacità di convincere e di suscitare emozione e fiducia per dote personale): il. termine «plebiscitario» richiama infatti nell'uso corrente un tipo di adesione massiccia, spesso anche senza garanzie democratiche nelle procedure elettorali e nella formazione deH'opinione pubblica. Si deve poi notare che la tipologia di Weber è formale: riguarda in astratto le forme deHa legittimità, senza considerazione per i contenuti dei comandi, dei valori ai quali essi si ispirano e degli interessi che sollecitano. Di ciò bisogna essere consapevoli: se nello studio di una situazione concreta l'analisi non viene sviluppata con considerazioni che riguardano anche queste componenti della legittimazione, si perde la possibilità di una valutazione politica adeguata. La questione che spesso è stata soHevata riguarda anche qui la possibilità di distinguere A potere carismatico all'interno di istituzioni democratiche dal potere carismatico totalitario; la possibdità, per esempio, di valutare diversamente figure come De Gaulle o Kennedy, da un lato, e Hitler o Mussolini, dall'altro. Per la Germania del suo tempo, Weber pensava che solo una democrazia plebiscitaria avrebbe potuto lasciare spazio aTinnovazione, alla proposta di nuovi valori e mete collettive, contro la forza bloccante e spersonalizzante degli apparati di partito e della burocrazia. E ne pensava, per la Germania, un tipo molto radicale: dopo aver nominato in modo plebiscitario il leader, i suoi seguaci avrebbero dovuto «rinunciare alla propria anima», vale a dire sostenerlo per senso di dovere, lasciando a lui la piena responsabilità dei motivi e defle conseguenze defle sue scelte, potendo solo alla fine del mandato valutare fl suo operato e riconoscere se ancora meritasse fiducia, vale a dire se A suo carisma fosse intatto. Non è difficiIe osservare che si tratta di un'architettura istituzionale che lascia non ben difeso il. confine tra democrazia e regimi non democratici [Mommsen 1974, trad. it. 1993, cap. XI. La tipologia di Weber insomma è un utile strumento per l'analisi, che però va utilizzato con attenzione e ricorrendo anche ad altri strumenti. In particolare, possiamo notare che i concetti di Weber sono molto spostati verso l'asse verticale del campo della politica. Poco spazio è lasciato all'idea di politica come libera autodeterminazione da parte del popolo sovrano. Se si vuole utilizzare con cura anche lo strumento formale weberiano dei tipi di legittú-nazione, bisogna allora spostare l'attenzione e esplorare la questione negli spazi della politica che si avvicinano all'altro asse. Qui incontriamo i problemi e i modi della partecipazione politica. A ben vedere già la domanda che ci siamo posti con la questione della legittimazione costringeva fortemente la nostra attenzione sull'asse verticale: perché si obbedisce? Per proseguire, dobbiamo cambiare domanda: perché si prende parte a un'azione collettiva? 4.2. Perché si prende parte a un'azione collettiva? Consideriamo una persona inserita in una relazione. Se per qualche motivo questa avverte una difficoltà nella sua condizione, ha sostanzialmente due possibilità di reazione attiva: interrompere la relazione oppure farsi sentire, far valere il suo punto di vista. Albert Hirschman [19701 chiama queste due possibili opzioni exit e vot"ce (in italiano «uscita» e «protesta», ma tutti usano le espressioni in inglese) A seconda delle circostanze non entrambe le opzioni sono possibili o ugualmente facili. Per esempio, non si esce senza traumi da una famiglia. D'altro canto, la voice può essere un'opzione difficile: ci si può per esempio inimicare un superiore criticando il suo operato. A volte sia exit che voke sono escluse: è il caso di un regime politico totalitario, dove non si può far sentire la Pagina 348
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt propria voce e dal quale non si può fuggire. Exit e voice non sono solo due opzioni di comportamento personale, ma anche due meccanismi di regolazione dei sistemi di relazioni. Un'organizzazione che assiste all'uscita di suoi membri riceve una sollecitazione a considerare che cosa non va nella gestione, e dunque a tenerne conto per correggersi. Lo stesso accade con la protesta e le critiche dei membri, vale a dire con l'esercizio della voice. In quanto opzioni di azione e meccanismi regolatori, exit e voice sono «due ingredienti fondamentali e complementari delle libertà democratiche» [Hirschman 1986, trad. it. 1987, 341. Exit è un meccanismo più tipico dell'econornia: il modello puro del mercato di libera concorrenza (v. cap. XVIM) mostra la tendenza all'equilibrio come effetto di comportamento di attori pronti ad adottare l'opzione exit; un compratore infatti si sposta immediatamente da un venditore a un altro a seconda del prezzo del prodotto richiesto. Non sempre tuttavia l'exit è la strategia più efficace. Nella realtà le cose sono spesso più complicate: un'impresa che acquista componenti da un subfornitore, di fronte a una difficoltà di questo che non gli permette di adottare subito una nuova tecnologia che abbassa i prezzi, invece di interrompere subito un rapporto di fiducia consolidato da anni, sul quale ha sempre potuto contare e che sarebbe utile preservare per il futuro, può preferire avvertirlo del problema e aspettare almeno per un certo tempo prima di passare a un altro fornitore. La voice è applicata, in questo caso, in una relazione economica, ma è più tipica nelle relazioni politiche. Si potrebbe anche dire che la voice esprime in una relazione un punto di vista politico, che consiste nel discutere e cercare di convincere piuttosto che costringere mettendo gli altri davanti a fatti compiuti. Il modello di democrazia plebiscitaria che Weber immaginava per la Germania del suo tempo era regolato da un meccanismo di exii (nomina del leader - dovere di obbedienza - verifica finale) 1 modelli democratici adottano in genere forme più continuative di partecipazione, vale a dire di organizzazione e istituzionalizzazione della voice. Rispetto all'exit, la voice ha almeno tre caratteristiche importanti. Anzitutto, trasmette un maggiore contenuto di informazione su cosa va e non va nella relazione. In secondo luogo, l'effetto aggregato di un insieme di decisioni di exii risente spesso del fatto che si tratta di decisioni che le singole persone prendono separatamente le une dalle altre, sulla base di un calcolo di interesse a breve termine. Nessuna di loro tiene conto di un eventuale «male pubblico» che può derivarne: temendo la crisi di insolvibilità di una banca, ognuno pensa a sé e ritira i suoi soldi, con un effetto complessivo disastroso che avrebbe magari potuto essere evitato da un'azione concordata dei creditori. La voice invece ha di mira i vantaggi che si possono ottenere senza traumi, correggendo la situazione e investendo su un più lungo periodo. La terza caratteristica è in parte collegata alla seconda. In genere, perché la voice sia efficace deve essere espressa da un certo numero di persone che si uniscono, concordando i loro comportamenti; l'efficacia dipende, in altre parole, dalla possibilità di azione collettiva. A questo punto incontriamo un paradosso. Noi abbiamo supposto che gli attori che dovevano scegliere tra una strategia di exii o di voice fossero attori razionali. Essi considerano i propri interessi in rapporto Attore razionale a fini e costi, fanno i loro conti, e alla fine decidono. In certi casi scelgono di intraprendere un'azione collettiva: la costituzione di un comitato, per esempio, o una manifestazione in piazza. Ma perché mai dovrebbero partecipare all'azione collettiva se, come in genere accade nei grandi gruppi, avrebbero gli stessi vantaggi anche non partecipando? Consideriamo la partecipazione a uno sciopero. Se questo riesce, tutti avranno un aumento di salario; d'altro canto, ognuno può pensare che se proprio lui non partecipa non succede proprio niente di diverso. Perché dunque pagare i costi dell'azione collettiva (una giornata di salario perso) se comunque si avranno i vantaggi? t il problema cosiddetto del free rider, ovvero del «libero battitore» [Olson 19651. Free Pider 598 CAPITOLO 21 Paradosso del votante Identità collettive Lealtà Certamente ci sono sempre free riders opportunistici, ma è anche evidente che le manifestazioni politiche e gli scioperi in genere si fanno e spesso con grande partecipazione. La questione riguarda anche lo stesso comportamento di voto. Si parla al riguardo del «paradosso del votante»: perché andare a votare se il mio Pagina 349
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt voto non sposta di un millimetro l'esito elettorale? Ma naturalmente, con maggiore o minore affluenza, le elezioni si svolgono. Evidentemente deve essere in gioco qualche altro meccanismo. La spia della sua esistenza sta già nella risposta di buonsenso che di solito si dà al paradosso del votante: «già, ma se tutti facessero così...». Vediamo meglio la questione. Chi intraprende un'azione collettiva ha sempre una conoscenza limitata della situazione in cui si trova e spesso ha una percezione sfuocata di quelli che considera i suoi interessi, materiali o ideali. Un individuo può comunque fare i suoi calcoli e prevedere gli effetti di una scelta con una certa precisione, solo se i costi e i benefici riguardano una questione specifica e si misurano su un tempo breve. Sul lungo periodo invece, le cose sono per lui più indistinte e confuse, e la stessa definizione di quelli che ritiene i suoi interessi sul lungo periodo è in realtà un processo sociale, al quale l'individuo partecipa sempre con altri, in modo più o meno attivo e consapevole [Pizzorno 19931. Questo significa che la politica certo tutela interessi che chi si impegna in una azione collettiva o gli elettori ritengono evidenti e loro propri (i pensionati cercano per esempio di conservare il valore della loro pensione minacciata), ma insieme o prima ancora costituisce delle identità collettive. Essa produce cioè programmi e idee che definiscono e giustificano fini e interessi collettivi di lungo periodo, fornisce simboli che servono per riconoscersi membri di una certa collettività, e linguaggi per comunicare e concordare l'azione collettiva. In questa prospettiva si capisce anche che partecipare non è semplicemente un costo da pagare per l'azione collettiva; piuttosto è un valore in sé, perché sancisce l'appartenenza a un gruppo, a un movimento, a uny associazione, allo stato; sancisce cioè l'identificazione di una persona, in quanto questa viene riconosciuta dagli altri come membro di quel gruppo. Senza una qualche forma di partecipazione non può esservi identificazione. Anche il fatto semplice di andare a votare è per questo aspetto un rito che serve a identificarsi come cittadino. Le identità collettive definite dalla politica (costruite da partiti, stati, movimenti, associazioni, gruppi di interesse, e così via) rielaborano e combinano fra loro identità o situazioni di interesse comuni a categorie di persone, già esistenti nella società e legate all'economia, alla cultura, alla religione. Facendo questo, le introducono sulla scena politica. Un'identità politica ha anche l'effetto di produrre lealtà nei confronti della linea scelta per l'azione collettiva, e più in generale lealtà al gruppo. La lealtà normalmente contrasta l'exit e favorisce la pratica della vot*ce. STATO E INTERAZIONE POLITICA 599 In questo paragrafo abbiamo parlato di un fenomeno più generale 1 - l'azione collettiva - riferendolo in particolare alla politica. E stato un modo per aprirci la strada al tema della partecipazione politica al quale ora passiamo. 5. La partecipazione politica 5.1. La scala della partecipazione Nei sistemi democratici, la partecipazione politica è «il coinvolgiPartecipazione mento dell'individuo nel sistema politico a vari livelli di attività, dal politica disinteresse totale alla titolarità di una carica politica» [Rush 1992, trad. it. 1994, 1211. La figura 21.1 individua una specie di scala, con gradini intermedi fra i due estremi, costruita in riferimento soltanto al fatto che più si sale meno sono le persone che partecipano a quel dato livello. Per ognuno dei gradini, una normale analisi sociologica si chiede non solo quanti partecipano in una data popolazione, ma chi, per quali ragioni, utilizzando quali risorse, e così via; in questo modo si identificano le variabili che influenzano la partecipazione, a diversi livelli: età, genere, professione, reddito, religione, ecc. Votare è la forma di partecipazione politica più diffusa, influenzata però da molte condizioni. Abbiamo già visto al cap. XilI che le donne hanno avuto accesso al diritto di voto in genere dopo gli uomini, con differenze a seconda dei paesi, e poi con conseguenze per molto tempo sulla partecipazione alle votazioni. Diversa è l'affluenza alle urne se il voto è obbligatorio o meno. In Europa, il Belgio - dove votare è obbligatorio - ma anche l'Italia, l'Olanda, l'Austria sono i paesi dove si registra la più alta percentuale di votanti. In Italia, nelle elezioni per Ricoprire una carica politica o amministrativa Aspirare ad una carica politica o amministrativa Partecipazione attiva in un'organizzazione politica Pagina 350
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Partecipazione attiva in un'organizzazione semi-politica Partecipazione a riunioni pubbliche e dimostrazioni Partecipazione passiva in un'organizzazione politica Partecipazione passiva in un'organizzazione semi-politica Partecipazione a discussioni di politiche informali Interesse generico alla politica Votare Nessun interesse alla politica Fig.:21.1. Scala della partedpazione poìitica. Fonte Rush [19921. 600 CAPITOLO 21 Gruppi di pressione e gruppì di interesse la Camera dei deputati del 1992, la percentuale dei vontanti sugli aventi diritto è stata dell'87. Negli Stati Uniti, dove l'elettore non riceve a casa come da noi il certificato elettorale, ma deve se vuole registrarsi presso gli uffici elettorali, si raggiunge a stento A 60% nelle elezioni presidenziali, scendendo al 40% per le elezioni di rinnovo del congresso. La registrazione era stata introdotta nel secolo scorso per combattere i brogli, ma si è poi prestata a diversi abusi, come scoraggiare la popolazione di colore dall'esercitare i suoi diritti: i datori di lavoro, per esempio, potevano negare il permesso di assentarsi per andare ad iscriversi. Più di recente, una nuova legge ha consentito di registrarsi al momento in cui si registra la propria auto. Molti esprimono un generico interesse per la politica, una pratica che ha carattere più continuativo rispetto al comportamento di voto, e un po meno persone discutono abitualmente di politica in casa o sul luogo di lavoro. Ai gradini successivi compaiono le forme associative e le organizzazioni politiche. 1 partiti politici sono associazioni di cittadini, dotate in genere anche di più o meno robuste organizzazioni con funzionari stipendiati. I partiti competono fra di loro per sostenere candidati alle cariche pubbliche e per promuovere determinate idee e interessi nell'esercizio del potere politico, su una gamma vasta di temi e attività (v. più avanti in questo capitolo). Altre associazioni e organizzazioni hanno invece un'attività politica più specifica continuativa o anche solo occasionale, o parziale. Si parla allora di gruppi di interesse, o anche gruppi di pressione: in un quartiere, per esempio, può nascere un comitato per affrontare il problema specifico della mancanza di servizi, che cerca su questo di influenzare l'azione del comune. Un sindacato di lavoratori o l'Unione industriale hanno compiti di rappresentanza degli interessi degli associati in campi diversi, ma agiscono anche come gruppi di pressione sulla politica, sostenendo per esempio la formazione di una legge o un candidato alle elezioni. Nella figura i partiti e i gruppi di pressione con attività esclusivamente politica sono indicati come organizzazioni politiche, gli altri gruppi di pressione come organizzazioni semi-politiche. In cima alla scala c'è il gradino che raggiungono coloro che ricoprono una carica politica (per esempio quella di senatore) Oggi le cariche politiche si raggiungono in generale attraverso elezioni, anche se non mancano esempi limitati di altri metodi: in Inghilterra, per esempio, è ereditaria la partecipazione alla Camera dei lord; in Italia alcuni senatori a vita sono nominati dal presidente della Repubblica. In linea di principio, nelle moderne democrazie tutti sono eleggibili alle cariche politiche, con il solo vincolo di un limite minimo di età e a meno che non abbiano commesso certi gravi reati. In realtà, la strada per il gradino più alto è stretta, e tanto più, quanto più si tratta di cariche negli organi centrali della rappresentanza, piuttosto che in quelle locali. Di nuovo è rilevante l'influenza del genere (v. cap. XIII), e insieme delSTATO E INTERAZIONE POLITICA 601 l'istruzione, della professione, dell'etnia. Le variabili indicate sono sullo sfondo di una carriera politica, che poi dipende anche proprio, in mi- Carriera poiffica sura maggiore o minore, da capacità, reti di relazione, risorse di potere acquistate nel corso della stessa carriera politica, o in carriere culturali o economiche prossime o intrecciate al potere politico. 5.2. Comportamento di voto: una tipologia Se ci si chiede per che cosa vota chi vota, si può costruire una tipologia del voto sulla base delle caratteristiche formali della relazione che lega votante e votato. Lo schema a tre tipi che presentiamo in questo paragrafo ha introdotto distinzioni e termini entrati successivamente anche nel linguaggio giornalistico e in quello corrente della discussione politica [Parisi e Pasquino 19851. Il primo tipo è il voto di opinione. Nella retorica politica tutti i Voto di opinione voti sono di opinione, nel senso che tutti i partiti e candidati Pagina 351
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt chiedono agli elettori un voto ragionato, sulla base di un programma. In realtà pochi elettori conoscono bene un programma. Si ha comunque voto di opinione se questo è orientato fondamentalmente da una scelta fra programmi diversi, e da una valutazione del proprio interesse pensato come parte di un obiettivo collettivo, sia di una categoria particolare di persone, che riferito afl'intera comunità. Se certo è esposto ai modi prevalenti in cui gli interessi sono definiti all'interno di una categoria o di una classe alla quale appartiene, chi ha questo comportamento di voto è in particolare esposto ai mezzi di comunicazione di massa, e al modo in cui questi organizzano e diffondono la discussione politica; per sua natura, e per altre circostanze come questa, il voto di opinione è dunque incerto, e può trasferirsi con relativa facilità da un partito a un altro. Si tratta di un voto formalmente razionale. In certo senso opposto al precedente è il voto di appartenenza. Più Voto che sancire una scelta, esso testimonia e ribadisce una identità. Si vota dì appartenenza. per un partito in quanto questo è considerato il partito degli appartenenti, per esempio, a una classe o a una confessione religiosa, e lo si vota anche a prescindere da una valutazione specifica degli obiettivi proposti nel programma: c'è piuttosto una disponibilità ad accettarlì in blocco o a discuterli comunque restando ferme le motivazioni più generali di una identità, alla quale non si può rinunciare con facilità. Si tratta dunque di un voto altamente stabile. Infine, il voto di scambio è piuttosto una specie di transazione, Voto di seambio nella quale si ha un votante che avanza una richiesta personale da soddisfare e per la quale è pronto a barattare il voto, e un candidato che ha la risorsa per e la possibilità, una volta eletto, di soddisfare la richiesta. Per esempio: un voto può essere barattato confidando, con ragionevole sicurezza, sulla promessa che si otterrà una pensione di invalidità, anche senza averne i requisiti. Si tratta di un voto personalizzato 602 CAPITOLO 21 in due sensi: perché chi lo offre non pensa il suo interesse come parte di un interesse collettivo e perché il candidato che offre il favore non è genericamente un partito, ma un candidato ben visibile o al quale si può accedere attraverso reti di conoscenza diretta, del quale ci si può Voto clientelare perciò fidare (si parla anche di «voto clientelare») Si tratta dunque di un voto pronto a cambiare da un'elezione all'altra, da un candidato all'altro, a seconda delle convenienze. Possono darsi combinazioni di tipi, ma uno di questi deve considerarsi prevalente. In generale, è probabile che una maggiore volatilità del voto che si è effettivamente manifestata nel corso del tempo, sia da attribuire soprattutto a una crescita del voto di opinione. Una ricerca negli Stati Uniti ha mostrato che coloro che non si identificano con nessuno dei due partiti americani, democratico e repubblicano, e che votano valutando caso per caso candidati e loro programmi (voti di opinione, secondo la nostra tipologia), sono passati dal 24 al 40% dell'elettorato fra il 1964 e il 1974 [Nie, Verba e Petrocik 19761. Questo indica anche, al contrario, una minor presa del voto di appartenenza. Quanto al voto di scambio, esso sembra connesso soprattutto a situazioni economiche critiche, in particolare alla presenza di disoccupazione diffusa e di lunga durata, e alla disponibilità per i politici di risorse da gestire discrezionalmente, con scarsi controlli di legalità; è dunque presente in particolare - ma non solo - in aree di sottosviluppo e tende a mantenersi o aumentare al persistere delle condizioni che lo hanno generato. Esso rappresenta, in sostanza, una patologia del processo democratico. 5.3. @@Cleavages» sociali e partiti politici Possiamo riconoscere due principali attività dei partiti, che riguardano il rapporto politica-società [Pizzorno 19801. La prima è la formaDomanda politica zione, l'aggregazione e la trasmissione della domanda politka: i partiti raccolgono e definiscono in modi diversi i problemi di una società, ne rappresentano i valori, proteggono interessi e bisogni che possono essere soddisfatti da leggi o altri provvedimenti pubblici vincolanti per tutti. La Delega politica seconda è l'organizzazione della delega politica: si tratta del processo per cui i membri di una società si identificano con determinati partiti, considerandoli loro rappresentanti sulla scena politica, e dunque anche del processo di formazione e selezione dei candidati a cariche pubbliche. I partiti svolgono un ruolo attivo nella formazione della domanda politica: non è che, per così dire, la raccolgano già formata nella società, per poi Pagina 352
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt trasmetterla nelle competizioni elettorali o nei parlamenti: la domanda può essere anche sollecitata o provocata. Essa ha comunque le sue radici nella società. Aggregando e rappresentando in modo ordinato nelle istituzioni i valori e gli interessi di differenti gruppi sociali, i partiti svolgono una funzione di integrazione in società attraverSTATO E INTERAZIONE POLITICA 603 sate da molte «linee di frattura», secondo le quali le società tendono a spaccarsi, se i conflitti non sono mediati. L'espressione linea di frattura (in inglese cleavage) è ripresa dalla mineralogia, dove è usata per in- Cleavage dicare appunto la proprietà che certi minerali cristallini hanno di rompersi in modi tipici e netti. Quattro linee di frattura, presenti nelle società al momento della costituzione degli stati nazionali, sono state importanti nella formazione dei partiti moderni, con effetti di lunga durata: * centro-periferìá, relativa all'esistenza di diverse etnie e culture con basi locali diverse; * stato-cbiesa, che assume importanza a partire dalla rivoluzione francese, in riferimento a problemi come il controllo dell'educazione di massa; * attà-campagna, ovvero interessi industriali e interessi agricoli, in relazione a questioni come le tariffe per i prezzi dei prodotti dell'agricoltura; o capitale-lavoro, ovvero il conflitto sociocconomico con l'affermarsì del capitalismo industriale [Rokkan 19701. Queste linee di frattura sono state più o meno importanti, a seconda dei paesi, per la formazione e l'azione di partiti differenziati e contrapposti. 1 partiti sono nati a volte per trasmettere la domanda politica che si formava su una delle due sponde di un cleavage particolare: i partiti socialisti, per esempio, come partiti del lavoro, oppure i partiti agrari nei paesi scandinavi in anni passati, la Democrazia cristiana in Italia o altri partiti confessionali altrove. In generale, però, i partiti fanno riferimento a più cleavages, combinati fra loro, rappresentando piuttosto interessi di un fronte o dell'altro. E conflitto socioeconomico è la linea di frattura più importante, che costituisce il tradizionale asse sinistra-destra. Su questo asse si possono collocare due o più partiti, che cercano di accorpare (al loro interno) e rappresentare (contro altre aggregazioni) domande di classi diverse. La tab. 21.1 offre un quadro sintetico per diversi paesi dell'importanza nella formazione della domanda politica che hanno avuto nel dopoguerra le quattro principali linee di frattura. Se ne potrebbero indicare altre, ma per semplicità ne viene aggiunta solo una, che distingue materialisti-postmaterialisti. Questi termini - peraltro discussi sono stati introdotti da Ronald Inglehart per individuare nuovi valori relativi alla qualità della vita che emergono in società che hanno ormai affrontato con successo bisogni fondamentali, e sono qui usati per cogliere forme di aggregazione politica su temi nuovi come l'ambientalismo o la partecipazione diretta. La tabella non ha bisogno di particolari commenti. Un avvertimento: la dimensione socioeconomica del conflitto è presente ovunque. Il fatto che questa sia indicata solo come di media importanza in qualche paese, fra cui gli Stati Uniti, deriva dalla circostanza che in tali paesi i partiti politici si differenziano poco, nei loro programmi, lungo l'asse 604 CAPITOLO 21 TAB. 2 1. 1. «(3eavages» in 21 sistemi democratùì dei partiti 194 5-1980 Socioeconomico Religioso Etnico- Urbano- Postmaterialista culturale rurale Australia G m G Austria G G Belgio m G G Canada G G Pagina 353
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Danimarca G G Finlandia G G G Francia G G Germania G G Islanda G G Irlanda m Israele G G Italia G G Giappone G m Lussemburgo G G Paesi Bassi G G G STATO E INTERAZIONE POLITICA 605 sce un vasto apparato burocratico, tramite il quale mantiene il coordinamento con gli iscritti e i potenziali votanti, che esprimeranno spesso voti di appartenenza. In Italia, il Partito comunista italiano e la Democrazia cristiana sono stati due tipici partiti di massa. Alcuni pensavano che il partito di massa sarebbe diventato il tipo «normale» nella nostra società [Duverger 19511. Al contrario, è ovunque in ridimensionamento o crisi, anche se non è ancora chiaro da cosa sarà sostituito. Diversi modelli teorici cercano di individuare le tendenze di cambiamento, individuando nuovi tipi di partito con nomi diversi, ma indicandone caratteri simili. Qui ci riferiamo a uno di questi tipi ricostruiti, il partito elettorale (o anche professionale- elettorale) Parato datorAe: [Panebianco 19821. Questo partito si contrappone a quello precedente perché non ha grandi strutture burocratiche, ma ricorre a professionisti di vari campi e problemi, e si mobilita in particolare a scopi elettorali; fa appello a un voto di opinione, cercando di rappresentare valori e interessi di un elettorato variegato, senza riferimento esplicito a una classe specifica. A fini definiti entro un'ideologia sistematica sono sostituiti riferimenti alle capacità e al carisma del leader, e l'accento su probemi particolari da risolvere. Una struttura di classe più complessa, con confini più incerti fra le classi, ha certamente influenzato tali cambiamenti nei modi della rappresentanza politica, ma i politologi sottolineano altri fattori; fra questi, i cambiamenti nelle tecniche di comunicazione di massa, che permettono di competere per un'audience più ampia e disorganizzata. Questo è il motivo per cui il controllo e l'uso corretto dei massmedia è diventato un.tema politico centrale per la democrazia. 6. 1 movimenti sociali 6.1. Definizione e tipi 1 sistemi democratici hanno istituzionalizzato il conflitto sociale e rendono possibile l'espressione di domande nuove e crescenti. Normalmente il loro funzionamento assicura che le domande espresse nelle forme legittime possano incontrarsi con risposte nefl'azione di governo (v. cap. XXII), capaci di mantenere un equilibrio complessivo. Anche se non facili, soluzioni di compromesso si possono infatti trovare finché non emerga una crisi di legittimazione del sistema politico, vale a dire finché non venga meno la lealtà Pagina 354
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt dei cittadini alle istituzioni. Questa osservazione sposta l'attenzione al confine fra politica e cultura, perché attira l'attenzione sul fatto che può entrare in gioco il non riconoscersi più in valori o norme che la politica esprime, ovvero accorgersi di bisogni avvertiti come profondi e irrinunciabili che la politica non sembra in grado di soddisfare e fare propri, o anche solo che persegue con troppa lentezza o in modo che si giudica insufficien606 CAPITOLO 21 Movimenti sociali Comportamento collettivo te. Quando si verificano cose di questo genere, si stabiliscono sollecitazioni particolarmente forti e, per così dire, dirette dalla società alla politica, che possono anche non esprimersi secondo i normali canali istituzionali. Nel cap. V è stata introdotta la distinzione fra due stati fondamentali del sociale: «movimento» e «istituzione». Questa distinzione concettuale richiama l'idea weberiana (ma anche di Durkheim) che la società pulsa fra momenti di fluidità, instabilità, creatività e fasi di ordine istituzionale stabilizzato. 1 movimenti sociali sono forme di azione collettiva non istituzionalizzata, che propongono cambiamenti importanti delle regole, dei valori, dei ruoli e degli obiettivi sociali, della allocazione delle risorse. t evidente, da questa definizione, che un movimento sociale non è un fenomeno esclusivamente politico e neppure necessariamente politico. Spesso, certo, ha di mira obiettivi politici espliciti o impliciti, per esempio una nuova normativa su un dato tema. Per tale motivo ne parliamo in questo capitolo, ma ricorderemo che abbiamo già incontrato il concetto nel cap. X a proposito in questo caso dei movimenti religiosi, nella stessa prospettiva che opponeva movimento e istituzione. La definizione di movimento sociale appena data mette un'enfasi particolare su questi come attivatori di cambiamento. Alcune teorie sono in effetti sviluppate con un evidente interesse in tale direzione. E sociologo francese A. Touraine, per esempio, in un libro intitolato non a caso La produzione della società dà molto spazio ai movimenti, come condotte collettive di persone in lotta contro avversari, per il controllo delle risorse e delle condizioni che permettono alla società di agire su se stessa, di modellarsi, appunto di «prodursi» [Touraine 19731. Essi nascono all'interno di una certa società, nel senso che sono espressione di interessi e valori da questa esclusi, e a certe condizioni possono trasformarsi in forze di cambiamento. Un movimento sociale non è comunque necessariamente associato al mutamento: in alcune formulazioni del concetto ciò è riconosciuto, lasciando in sospeso la questione e affermando semplicemente che si tratta di azioni collettive in vista di fini comuni, che si sviluppano al di fuori dei normali canali istituzionali. Un movimento, specie al suo inizio, si esprime anche attraverso forme di comportamento collettivo (cap. III), ma arriva in genere a darsi presto un'organizzazione, con ruoli e strutture di autorità formali e riconosciute. La spontaneità e fluidità iniziale si combinano con la comparsa di figure carismatiche, che meglio sembrano esprimere sentimenti comuni. Chi partecipa sente di condividere una particolare identità, con caratteri fissati da una ideologia che si elabora nel tempo. Un movimento che cresce può dare luogo anche a più organizzazioni, e in generale i suoi confini restano incerti perché non tutti coloro che sentono di farne parte sono necessariamente associati a un'organizzazione. STATO E INTERAZIONE POLITICA 607 Dire che si tratta di un'azione collettiva non istituzionalizzata significa che questa non si esprime nei modi e per i canali riconosciuti «normali» per l'azione politica; la partecipazione spesso richiede dunque modalità impegnative: uno sciopero della fame, per esempio, manifestazioni di piazza, barricate. Le azioni possono essere legali o illegali: lo sciopero della fame non è un reato, l'occupazione di suolo pubblico sì. 1 movimenti sociali non necessariamente ricorrono alla violenza, ne esistono anche che si vogliono espressamente non-violenti: la lotta guidata da Gandhi per l'indipendenza dell'India è stato un processo rigorosamente non violento. Si distinguono molti tipi di movimenti. Questi possono essere orientati al cambiamento sociale, ma all'inverso possono esprimere il tentativo anche violento di conservare o restaurare l'ordine sociale e proprio di impedire il cambiamento. 1 movimenti contro l'apartbeid in Sudafrica e i pogrom contro gli ebrei in Europa di cui abbiamo parlato nel cap. V sono esempi rispettivamente del primo e del secondo tipo. Un movimento di restaurazione a volte è anche una Pagina 355
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt reazione a uno precedente orientato al cambiamento sociale; il cambiamento sociale è comunque un processo continuo, del quale gli attori possono essere più o meno consapevoli, a seconda dei momenti più lento o più accelerato; un movimento in realtà può seguire un cambiamento e non esserne la causa. Un'altra distinzione corrente mette l'accento sul fatto che i cambiamenti perseguiti possono essere piuttosto relativi all'allocazione delle risorse e a regole all'interno di un sistema di valori non messo in discussione, oppure relativi proprio ai valori sociali: i movimenti del primo tipo sono detti riformatori, quelli del secondo tipo rivoluzionari, Movunenti ma nella pratica la distinzione è tutt'altro che facile. Alcuni hanno una riformatcrì breve durata, coinvolgono relativamente poche persone, toccano temi e rivoluzionari molto specifici e agiscono in uno spazio limitato. Per altri si verifica il contrario. Il movimento operaio, per esempio, o il femminismo, per quanto riguardino questioni precisate, hanno assunto una quantità di contenuti concreti, durano da molto tempo con alterne vicende pur avendo ottenuto risultati istituzionali, si sono estesi a scala mondiale e hanno coinvolto molta gente. In Italia, il movimento studentesco della «pantera» del 1990 è durato pochi mesi e ha coinvolto relativamente poche persone, mentre il movimento studentesco del '68 è stato un fenomeno internazionale, è durato più a lungo e ha coinvolto grandi masse. 1 movimenti limitati, per i loro caratteri, sono vicini ai gruppi di interesse e alle lobbies, dai quali a volte è incerto distinguerli. D'altro canto, circa la durata confinano con una isolata manifestazione. 1 movimenti democratici per l'estensione dei diritti civili (per esempio per l'estensione del diritto di voto) e il movimento operaio (o dei lavoratori) sono i due che più hanno inciso nello sviluppo complessivo della società contemporanea. Più di recente, altri ai quali abbiamo già fatto riferimento agiscono per cambiamenti con possibili 608 CAPITOLO 21 grandi conseguenze sul futuro della modernità: quello femminista, quello pacifista e quello ecologico. A questi spesso ci si riferisce come ai «nuovi» movimenti sociali. L'azione femminista ha radici nel secolo scorso, ma è solo nella seconda metà degli anni sessanta che prende forma 9 femminismo moderno, che ha come obiettivo non più la semplice «emancipazione», vale a dire parità politica, giuridica, economica, ma la «liberazione» della donna, in quanto diversa e portatrice di valori suoi e nuovi per la società. Il movimento ecologista prende forza dalla consapevolezza crescente dei limiti fisici dello sviluppo in un mondo con risorse limitate, mentre quello pacifista è rafforzato dalla minaccia della distruzione totale. Si tratta di due nuove condizioni cruciali in cui viene a trovarsi oggi la società, in un'epoca che il sociologo inglese Giddens ha chiamato di «modernità radicale» [19901. I movimenti possono fallire per debolezza interna o essere repressi: in generale, non è facile prevedere gli esiti di un caso concreto, che saranno complessi, parziali e magari indiretti o inattesi. Il successo consiste comunque in qualche forma di nuova istituzionalizzazione. Può per esempio trattarsi di una nuova legge importante, che riconosca come legittimi interessi prima trascurati. Ma più in generale, la piena riuscita è la istituzionalizzazione nella società dei valori che chi si è mobilitato ha fatto valere. 6.2. Atteggiamenti individuali e azione collettiva nei movimenti Abbiamo detto che alla base di un movimento sociale sta uno stato di insoddisfazione, di malessere, di disagio, avvertito dalle persone come non più tollerabile. Questa nuova percezione mette nella disposizione d'animo di reagire e impegnarsi per il cambiamento. Quando questo processo è condiviso da più persone, in condizioni simili e sottoposte a stessi stimolì, può appunto nascere un movimento sociale. A volte si tratta di una presa di coscienza improvvisa, dopo un avvenimento particolarmente rivelatore, e la mobilitazione può esprimersi come comportamento collettivo, per esempio un comportamento di folla. 1 primi studiosi dei fenomeni di cui ci stiamo occupando tendevano a ridurre in questi termini il problema, considerando gli aspetti irrazionali, il coinvolgimento emotivo, i contenuti di protesta dell'azione individuale. Tuttavia, la ricerca empirica successivamente sviluppata ha messo chiaramente in luce che fin dall'inizio sono in gioco valutazioni razionali della situazione da parte degli attori, con l'elaborazione di strategie. L'azione collettiva si sviluppa cogliendo opportunità che si aprono: per spiegare la nascita o meno di un movimento, il ricercatore deve allora mettersi nei panni degli attori, ricostruire la situazione in cui essi si trovano e comprendere come questa è da loro definita. Se ci si mette da questo punto di Pagina 356
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt vista si possono scartare interpretazioni banali e capire fatti controintuitivi. STATO E INTERAZIONE POLITICA 609 t il caso, per esempio, della cosiddetta legge della mobilitazione politica di Tocqueville, da lui così formulata già nel secolo scorso: «accade il più delle volte che un popolo che aveva sopportato senza lamentarsi le leggi più oppressive, le rifiutì violentemente non appena se ne alleggerisca il peso» [1856, trad. it. 1969, 11, 1, 691. In altre parole: quando la situazione migliora, diventa probabile che le persone percepiscano la possibilità di ulteriori miglioramenti, mentre la modifica in senso più liberale degli ordinamenti politici facilita l'espressione del malcontento. Una verifica recente della «legge» di Tocqueville è lo sviluppo in Unione Sovietica di movimenti politici dopo l'avvio della perestroika e della glasnost, vale a dire della politica di rinnovamento istituzionale e di trasparenza voluta da Gorbacev. Un'importante ricerca ha studiato episodi di protesta e violenza collettiva in 130 anni di storia francese, dal 1830 al 1960 [Tilly e Snyder 19721. 1 ricercatori hanno rintracciato sui quotidiani gli episodi di «turbolenza» che avevano coinvolto almeno 50 persone, confrontandolì con indicatori di «asprezza» delle condizioni di vita (come l'andamento dei prezzi dei prodotti alimentari). L'ipotesi in apparenza ovvia che un inasprimento delle condizioni di vita comporti un maggior malcontento e che questo produca violenza collettiva è stata smentita dai dati: nel periodo indicato, la violenza non è variata in funzione della maggiore o minore asprezza delle condizioni di vita. Effettivamente un peggioramento delle condizioni di vita produce malcontento, come reazione e atteggiamento individuale, ma l'azione collettiva si innesca o meno a seconda di circostanze valutate dagli stessi soggetti e da loro potenziali organizzatori, che considerano probabilità di successo, costi, rischi di fallimento. Così, in un periodo di crisi economica il malcontento è elevato, ma forte può essere anche il rischio di essere licenziatì: a parità di altre condizioni, uno sciopero rischia di fallire per mancanza di partecipazione. In sostanza, come conclude uno studio recente, la formazione di un movimento è il prodotto di persone che afferrano e costruiscono risorse per l'azione collettiva. Una riforma delle istituzioni con nuove possibilità di accesso alla libera espressione di punti di vista alternativi, una situazione di crisi di appartenenze politiche tradizionali, con incertezza di proposte politiche, la possibilità di trovare alleati influenti all'esterno del movimento, conflitti afl'interno delle classi dirigenti sono esempi di possibili risorse per i movimenti, che contribuiscono a spiegarne la genesi e la capacità di ottenere risultati [Tarrow 19941. Abbiamo visto che i movimenti sociali sono in tensione con le istituzioni: il cambiamento sociale è continuo, frutto sia dell'interazione istituzionalizzata sia dell'agire collettivo nei momenti di effervescenza sociale. Ma l'interazione nelle istituzioni e l'azione collettiva dei movimenti possono anche, come abbiamo detto, bloccare il cambiamento. «Progressista» e «conservatore» non possono essere etichette per discriminare in quanto tali movimenti (da un lato) e istituzioni (dall'alLegge defia -ab_flitaZì0ne poRdca. '. ... . di TocquevWC 610 CAPITOLO 21 tro) Le istituzioni democratiche, con i loro limiti ma continuamente rinnovate anche dall'azione dei movimenti, sembrano essere riuscite a conservare lo spazio per giochi particolarmente interessanti di movimento e istituzione. 7. La struttura dei potere Nel capitolo, abbiamo fatto progressivamente passi avanti nel modo di intendere il potere politico. Se resta vero sullo sfondo che questo si basa in ultima istanza sul possibile ricorso ai mezzi di coercizione, possiamo ora dire che prima ancora che nella disponibilità dei mezzi di coercizione esso consiste nella capacità di elaborare, selezionare e introdurre nella competizione politica interessi e identità sociali, costruendo identità politiche. Così facendo continuamente esso definisce e ridefinisce anche gli interessi dei singoli, e rappresentandoli trova forza per la conquista delle posizioni di autorità legittimata a emettere disposizioni vincolanti per tutti. In secondo luogo, esso consiste nella capacità di prendere decisioni in grado di migliorare o difendere gli interessi materiali e ideali della collettività che rappresenta. Quanto grande sia questa collettività è questione empirica: può essere molto ristretta o toccare tutta la comunità nazionale. La capacità in questione deriva naturalmente dal fatto che si sono conquistate posizioni di governo, che Pagina 357
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt permettono di emanare leggi, decreti, provvedimenti; esiste però anche un potere politico di contrattare e influenzare le decisioni pur essendo in minoranza. La partecipazione politica, infine, può essere anche intesa come partecipazione al gioco per il potere politico e il suo uso. Abbiamo migliorato il nostro modo di intendere il potere, in particolare il potere politico, ma questo resta un fenomeno sfuggente: nessuna delle teorie disponibili è pienamente soddisfacente [Stoppino 19891. D'altro canto, il potere politico, comunque definito, non può essere studiato indipendentemente dalle altre forme. Gli studi sul potere nella società, in genere interessati in modo particolare al potere politico, si riferiscono, infatti, normalmente alle relazioni fra diversi poteri. Lo studio della distribuzione del potere, ovvero ricostruire la struttura del potere è un modo sintetico di rappresentare una società in prospettiva politica. Esistono due importanti linee teoriche concorrenti per linterpretaTeoria él.itista zione della struttura del potere: la teoria élitista e la teoria pluralista. e teoria plurahsta Fra i classici del pensiero sociale, la teoria élitista è stata sviluppata, in modi diversi, da Gaetano Mosca [18961 Vilfredo Pareto [19161, Roberto Michels [19111. Più di recente, è la prospettiva adottata da F. Hunter [19531 per lo studio del potere locale, e da uno dei maggiori sociologi americani del dopoguerra, C. Wright Mifis [19561 in una ricerca sul potere negli Stati Uniti. In sintesi, chi si pone in una prospettiva élitista assume il punto di vista che in tutte le società sono poche persone che prendono le decisioni fondamentali. Si tratta di una minoranza della popolazione, ovvero di una élite. Per dirla in un altro modo: in tutte le società esistono pochi governanti e molti governati. Fin qui la teoria non assume niente di particolarmente impegnativo. Più impegnative sono però le ipotesi che vengono sviluppate a partire dal punto iniziale. Mosca, per esempio, sviluppa l'idea che una minoranza al potere può facilmente organizzarsi, mentre la maggioranza non è organizzata e ha difficoltà a farlo. Ne deriva che la minoranza organizzata è in grado di imporre la sua volontà e i suoi interessi a quelli della maggioranza. t vero che la maggioranza può cercare di organizzarsi, formando per esempio partiti o sindacati, ma data la complessità delle società moderne, questi devono darsi organizzazioni efficienti, che richiedono una divisione specialistica del lavoro e specifiche capacità e conoscenze di chi le dirige. Di conseguenza, una maggioranza che si organizzi consegna di fatto il potere a una minoranza organizzata, che cercherà di perpetuarsi, rinnovarsi per cooptazione (selezionando essa stessa i suoi successori) e che farà valere suoi interessi. t questa la cosiddetta «legge di ferro dell'oligarchia», sostenuta da Michels. Negli anni cinquanta, Wright Mills parla per l'America di una élite formata dai vertici delle gerarchie economiche, militari e politiche, che provengono dagli stessi ambienti sociali, sono spesso intercambiabili (un generale per esempio può diventare un uomo politico o consulente di una impresa), hanno uno stesso stile di vita. Per Wright Mills, l'élite ha dunque le radici nel potere che si forma negli ambiti istituzionali che sono i più importanti in una specifica società. Come si vede, nei suoi sviluppi la teoria élitista arriva a conseguenze molto impegnative: per alcuni, come Mosca in una prima fase del suo pensiero, può condurre anche alla conclusione che la democrazia non solo è una finzione e non è possibile nella realtà, ma neppure auspicabile. Per altri, come Wright Mills, il discorso della possibilità della democrazia rimane in generale aperto, ma resta nel suo caso una critica forte della democrazia americana, e comunque una critica di idee troppo facili e ingenue della democrazia. Alle teorie élitiste si contrappongono le teorie pluraliste. Queste si sono misurate sia in riferimento generale alla società che nello studio della politica in società locali. Dedichiamo particolare attenzione al filone di studi sulle società locali perché qui il dibattito sui risultati ottenuti nelle due prospettive teoriche è stato particolarmente vivace e diretto; inoltre, in ambito locale sono state possibili verifiche empiriche più accurate. Le ricerche sulla struttura del potere di comunità cominciano con lo studio di Hunter in una città americana di mezzo milione di abitanti chiamata convenzionalmente Regional City. Interrogando una serie numerosa di persone in posizione tale da poter conoscere il mondo degli affari, la politica, le associazioni civiche e le attività sociali, HunLegge di ferro dell'ofigareNa di Michels Potere di comuffità 612 CAPITOLO 21 Pagina 358
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Metodo reputazionale Metodo decisionale ter riuscì a individuare una rosa di nomi che con maggior frequenza venivano indicati come persone influenti; lo studio attento di queste e della loro vita sociale e professionale permise l'ulteriore individuazione di un gruppo più ristretto di persone particolarmente influenti. Isolato questo gruppo (dodici persone) il ricercatore ricostruì il suo ruolo nella vita della comunità. Le principali conclusioni cui giunse furono: il fatto che il gruppo riusciva a controllare tutte le decisioni importanti; il fatto che, all'interno del gruppo, i leader economici erano i più influenti e riuscivano a strumentalizzare ai loro fini altre istituzioni; il fatto dunque che essere investiti formalmente di autorità politica non significava anche, necessariamente, esercitare il corrispondente pote@ In sostanza, Hunter aveva scoperto l'esistenza di una élite del potere. Gli studi sul potere di comunità si moltiplicano. Una quindicina di anni dopo, sono disponibili abbastanza studi empiricì da tentare un bilancio. Diverse strutture del potere sono riconoscibili. Per Walton [19661 le strutture riscontrate sono riconducibili a uno dei seguenti tipi: o piramidale: monolitica, monopolistica, in mano di una élite; è a caso di Regional City; * difazione: nella quale si riscontrano almeno due fazioni stabili, in lotta per la preminenza; - di coalizione: struttura caratterizzata da fluide coalizioni di interesse, varianti in genere a seconda dei problemi; e amorfa: nel caso di assenza di qualsiasi persistente modello di leadership (di questa si trovano pochi casi) Sul piano metodologico, l'attenzione è stata posta fra l'altro sulle tecniche di rilevazione. Hunter è stato criticato per aver utilizzato il «metodo reputazionale»; come si ricorderà, Hunter si basa sulle opinioni che persone hanno circa il. potere di altre, ma la reputazione del potere non è necessariamente fi potere. Meglio sarebbe stato isolare alcune importanti decisioni prese nella comunità, e analizzare a fondo chi in quelle decisioni avesse effettivamente esercitato influenza. Solo le persone così individuate dovevano essere considerate leader. Questa seconda strategia di ricerca è chiamata «metodo decisionale» (decisionmaking approach). La critica avanzata è importante, e possiano qui vedere un esempio degli scherzi che a volte giocano le procedure di ricerca. In effetti, è stato mostrato che esiste un significativo collegamento tra metodologie adoperate e tipo di strutture rilevate. E metodo reputazionale sembra condurre con più facilità a strutture piramidali, quello decisionale (e altri metodi) a strutture degli altri tre tipi indicati prima. Un aspetto abbastanza divertente della questione è la tendenza dei sociologi a trovare strutture piramidali, e quella degli scienziati della politica a trovare piuttosto strutture decentrate. Pare che questo sia stato proprio dovuto alla preferenza dei primi per fl metodo reputazionale, e dei secondi per lo studio delle decisioni. Ovviamente, in riferimento a questo aspetto della questione, la soluzione è l'uso contemporaneo di più metodi. STATO E INTERAZIONE POLITICA 613 La critica al metodo usato da Hunter è stata avanzata da Dahl [19611, che ha introdotto lo studio delle decisioni in una ricerca sul potere di comunità. Lo studio è importante perché in modo diretto si espone come critica della teoria élitista, e perché permette di ricondurre le conclusioni nell'ambito più generale della teoria pluralista della Teoria pluraUta democrazia, sviluppato nella sociologia classica da Schumpeter [19421. d'n' decrazia Secondo questa prospettiva teorica, la democrazia deve essere considerata un metodo per giungere a decisioni politiche. In una società grande e complessa non è possibile la democrazia diretta, dove tutti partecipano a tutte le decisioni. Nei fatti, più élite entrano in concorrenza fra loro per ottenere il suffragio degli elettori e l'investitura a governare. Siccome devono essere rielette, esse diventano sensibili all'influenza dell'elettorato e, in questo senso, sono controllate. Nella sua ricerca, DahI individua appunto una struttura di questo genere: a seconda del tipo di decisioni (la ricerca ha studiato la politica urbanistica, la pubblica istruzione, la scelta dei candidati alle elezioni) sono élite ristrette ad avere un peso decisivo, sostenendo proposte o ponendo un veto; in secondo luogo, le persone influenti in un tipo di decisioni non lo sono in un altro; infine, le élite sono effettivamente influenzate dagli elettori, in particolare dalla parte di questi più attivi, che maggiormente partecipano e si fanno sentire. La ricerca non ha fine, e i suoi strumenti diventano sempre più sottili. Anche Pagina 359
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt lo studio di Dahl (che ha poi applicato il suo schema concettuale a un esame più generale della politica americana) è stato criticato: non esiste solo il potere che si esercita nelle decisioni, ma anche un potere meno visibile che consiste nel fatto che certe decisioni non sono neanche proposte, perché difficili da gestire o perché metterebbero in questione interessi molto stabili, così come si esercita potere anche in decisioni ricorrenti, che non vengono discusse perché considerate modi ovvi di fare. Questi problemi, come si dice, non entrano nell'agenda politica. La ricerca continua, ma la conclusione alla quale possiamo arrivare Agenda politica è che le strutture di potere possono essere effettivamente diverse fra loro e non necessariamente élitiste. D'altro canto, la discussione del modello pluralista permette di avere un costante atteggiamento critico nei confronti di richiami facili all'idea di democrazia. Questa non è una costruzione compiuta: differenti forme istituzionali forniscono metodi e condizioni per riproporla continuamente come obiettivo. Capitolo 22 l. Istituzioni di governo Nello stato moderno il governo della società si realizza attraverso poteri differenziati e distribuiti. Questo principio comincia ad affacciarsi nell'organizzazione politica inglese verso la fine del XVII secolo. E però un francese, Charles-Louis de Secondat barone di Montesquieu, il primo a definirlo con chiarezza nel secolo successivo. A metà Ottocento diventa lo schema di organizzazione istituzionale accettato da ogni stato progredito, per garantire libertà politica ai cittadini. Lo schema distingue tre funzioni e poteri: il potere legI*Slativo, relativo alla funzione di produrre leggi sui diritti e la sicurezza degli individui; l'esecutl*vo, relativo alla loro concreta attuazione e alla tutela, nei limiti previsti, di alcuni interessi generali della collettività; il giudivari.o che risolve le controversie tra privati e garantisce il rispetto della legge punendo chi la viola. Perché ci sia libertà, argomentava Montesquieu, è necessario che il governo sia organizzato in modo che chi fa le leggi non sia anche quello che dà a queste esecuzione e che controlla che non siano violate: «tutto sarebbe perduto se un'unica persona, o un unico corpo di notabili, di nobili di popolo esercitasse questi tre poteri [ 1 Presso i Turchi, dove sono riuniti nella persona del sultano, regna uno spaventoso dispostismo» [1750, trad. it. 1961, 1481. La divisione dei poteri individua l'architettura istituzionale dei sistemi di governo moderni, costruiti in forme diverse nei diversi paesi. Prima di procedere è bene però chiarire l'uso dei termini. Governo, infatti, può essere usato in un senso generale per indicare l'insieme dei tre poteri, come abbiamo appena fatto nella frase precedente e nel titolo del capitolo; il termine viene però anche comunemente usato in senso più ristretto per indicare l'esecutivo; nei paesi di lingua inglese govemment assume in genere il significato più ampio, mentre l'esecutivo è chiamato cabinet in Inghilterra e executive negli Stati Uniti. Potere leffislativo, potere esecutivo, potere giudizianio Governo 616 CAPITOLO 22 ParIprhento. Governo presidenziale e parlamentare Tutti i paesi democratici hanno oggi parlamenti eletti dal popolo, sedi della funzione legislativa. In Italia il parlamento è composto dalla Camera dei deputati (630 membri) e dal Senato (315 più alcuni senatori a vita): una legge è definitivamente approvata dopo esserlo stata da entrambe le camere nell'identica forma. In Inghilterra, accanto alla Camera dei comuni, elettiva, sussiste la Camera dei Lords, alla quale si accede per diritto ereditario e per nomina del sovrano. Questa sopravvivenza dell'epoca feudale comporta però che la Camera dei Lords abbia perduto il potere legislativo: conserva solo alcune funzioni secondarie e A potere in certi casi di sospendere temporaneamente l'entrata in vigore di una legge, sollecitandone un più attento esame da parte dell'altra Camera. Avendo perso significato la distinzione fra monarchie e repubbliche, si distinguono dal secolo scorso due fondamentali forme di governo: presidenziale e parlamentare [Bagehot 18671. Nella prima, legislativo e esecutivo sono più nettamente distinti. Il popolo (l'elettorato) elegge tanto il parlamento quanto direttamente a presidente, ovvero il capo dell'esecutivo, che a sua volta ne Pagina 360
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt nomina gli altri membri. Gli Stati Uniti d'America sono l'esempio più importante di governo presidenziale. Nella seconda forma di governo, quella parlamentare, il popolo elegge il parlamento, il quale poi esprime a maggioranza la sua fiducia a un capo dell'esecutivo e al suo governo. Il governo resta in carica finché dura la fiducia. L'Italia, la Gran Bretagna, la Repubblica federale tedesca sono esempi di governi parlamentari. Sono anche possibili forme intermedie fra le due indicate, come oggi il presidenzialismo francese. La funzione giudiziaria, o giurisdizione, che assicura l'imparziale attuazione delle leggi in casi concreti, è organizzata da procedure e in Ordine giudiziario uffici distinti che assicurano gradi diversi di giudizio (le sentenze possono essere impugnate presso un giudice di secondo grado) Accanto alla magì«stratura ordinartà - divisa in avile, che riguarda le controversie fra privati, e penale, che riguarda i reati ovvero le violazioni delle leggi per le quali sono previste pene - si distinguono giudicì speciali, come per esempio i tribunali amministrativi che si occupano dei diritti e degli interessi legittimi dei cittadini violati dalla pubblica amministrazione. L'autogoverno della magistratura assicura l'indipendenza di questa, o come anche si dice dell'ordine giudiziario dagli altri poteri: in Italia, il Consiglio superiore della magistratura, eletto in maggioranza dagli stessi giudici, regola le carriere e i trasferimenti dei magistrati. All'ordine giudiziario si accede per concorso, ma in alcuni ordinamenti i giudici sono anche eletti. La distinzione fatta sopra fra governo presidenziale e parlamentare introduce una questione importante. Dobbiamo infatti distinguere uno schema astratto della divisione dei poteri dalla divisione dei poteri come realtà storica. Nei casi concreti, ferma restando la loro distinzione di base, la separazione delle funzioni in organi distinti non è mai stata netta e continua a non esserlo. Oggi si riconosce che la libertà GOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 617 dipende più che da una netta e rigida ripartizione dei tre poteri in organi distinti, da meccanismi che consentono a organi investiti di poteri diversi di controllarsi e bilanciarsi fra loro. Come ciò si realizzi, possiamo vederlo con un esempio. La Costituzione è la legge fondamentale di uno stato che stabilisce i diritti individuali e l'assetto dei poteri, alla quale tutte le altre leggi devono conformarsi. In molti paesi, un'alta corte - la Corte costituzionale in Italia può abrogare o bloccare l'emanazione di una legge perché non conforme alla Costituzione. La Corte costituzionale risolve anche i conflitti fra differenti poteri dello stato. Pur svolgendo una attività «giudiziaria», di fatto essa esercita anche un potere di indirizzo politico e influenza lo stato delle leggi, perché in ultima istanza la legge è ciò che la Corte conferma che sia. Nel nostro ordinamento, la fondamentale funzione di controllo sugli altri poteri esercitata dalla Corte è bilanciata dai modi di elezione a giudice costituzionale: cinque sono nominati dal capo dello stato, cinque eletti dal parlamento in seduta comune e cinque da alti organi giudiziari. Nonostante controlli e contrappesi, i rapporti fra i poteri possono sfociare in conflitti aspri. Un esempio famoso è il lungo conflitto scoppiato negli Stati Uniti a metà degli anni trenta fra Corte suprema, da un lato, ed esecutivo appoggiato dal legislativo, dall'altro. In quel momento l'America reagiva alla più grande depressione economica che abbia mai investito le economie sviluppate. Il presidente Franklin D. Roosevelt varò una politica di sostegno sociale e di impulso all'economia, osteggiata da gruppi di interesse contrari all'interventismo dello stato. Il Congresso era favorevole al presidente, mentre il punto di vista contrario trovò sostegno nella Corte suprema. Interpretando la Costituzione in senso restrittivo, questa cominciò a bocciare sistematicamente come incostituzionali provvedimenti sui minimi salariali e gli orari massimi di lavoro, sull'assicurazione contro la disoccupazione e le pensioni di vecchiaia, la protezione contro i monopoli, la costruzione di case per i gruppi a reddito più basso, e così via. Dopo un lungo braccio di ferro la Corte si arrese e cambiò giurisprudenza. Roosevelt, che nel frattempo era stato riconfermato a grande maggioranza presidente, commentò nel 1941 l'esito del conflitto riconoscendo che era stato necessario un «attacco frontale alle concezioni della maggioranza della Corte». [Roosevelt 1962, 891. La corruzione politica è una malattia che in misure diverse, ma crescenti ha toccato le democrazie negli ultimi due decenni. Si tratta di una questione delicata anche per i rapporti fra poteri. Quanto è accaduto in Italia a seguito Pagina 361
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt della vicenda «Mani pulite» lo dimostra: con gli strumenti legali del processo penale, la magistratura ha di fatto esercitato anche un ruolo politico, contribuendo alla crisi di un sistema politico che aveva governato l'Italia per quasi cinquant'anni. Nel vecchio ordinamento liberale e poi in quello dell'epoca fascista, A pubblico ministero - il magistrato che ha A potere di iniziare l'azione giuCostaliziow. Coriffitti fra i poteri defio stato 618 CAPITOLO 22 diziaria e che svolge funzione di accusa - non apparteneva all'ordine giudiziario essendo un funzionario del ministero della Giustizia. La sua azione era fortemente condizionata da questa situazione, dovendo sottostare alle direttive e alle influenze del ministro, con la conseguenza che molto raramente venivano perseguiti e puniti illeciti compiuti dall'esecutivo e da politici dei partiti al governo. Nel nuovo ordinamento il pubblico ministero fa parte dell'ordine giudiziario e acquista dunque maggiore indipendenza, come più in generale la magistratura che si autogoverna. Per molto tempo la vecchia cultura della dipendenza dell'azione giudiziaria dal potere politico ha però continuato a stabilire ripari all'esecutivo e in genere alla politica. Solo dopo molti anni si sono cominciati a vedere gli effetti del cambiamento, con indagini sui rapporti fra mafia e politica, sulle deviazioni dei servizi segreti, e infine con Mani pulite [Neppi Modona 19931. 2. Modelli di governo Nella versione iniziale dello schema di divisione dei poteri, il fulcro del sistema istituzionale era costituito dal potere legislativo. Per principio, l'esecutivo doveva quanto più possibile limitarsi a dare «esecuzione» a principi e linee generali stabiliti nei parlamenti, depositari del potere legislativo e composti da rappresentanti eletti dal popolo. Contro il potere accentrato del vecchio stato assolutista, la società civile rivendicava e garantiva così la sua autonomia. In questo secolo le funzioni dello stato, come sappiamo, sono ovunque aumentate: basti ricordare la regolazione dell'economia e lo sviluppo dei sistemi di welfare. Uno stato più interventista richiede una produzione continua di norme, in campi e temi diversi, e soprattutto un loro coordinamento in modo che sia garantita, in un programma complessivo, la compatibilità degli interventi e l'equilibrio finanziario generale. Tutto ciò richiede a sua volta un forte indirizzo e una continuità di governo per periodi lunghi. Per queste ragioni, di fatto, il fulcro del sistema dei poteri si è spostato all'esecutivo, che è diventato il «motore» della macchina statale. 1 governi hanno oggi ampi poteri delegati dai parlamenti di emanare norme e regolamenti nell'ambito di leggi generali, e sono diventati i principali proponenti di nuove leggi al parlamento. Questo spostamento è, nei diversi paesi, più o meno accentuato ed è argomento di vivaci discussioni politiche. Per comprendere meglio il significato del cambiamento, dobbiamo considerare il rapporto fra governo e politica, ovvero come le istituzioni di governo siano collegate alle forme di rappresentanza degli interessi, in particolare ai partiti. Bisogna porre il problema in modo distinto per il caso del governo Pariarnentarismo parlamentare, o parlamentarismo, e per quello del governo presidene presidenziaJismo ziale, o presidenzialismo. GOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 619 Il caso classico di parlamentarismo è quello della Gran Bretagna, dove già intorno alla metà del secolo scorso l'esecutivo aveva raggiunto la posizione centrale nel sistema. In questo che è chiamato anche modello Westminster di democrazia, dal nome del palazzo del parlamento, si verifica una quasi completa fusione di esecutivo e legislativo. Il governo è guidato dal leader di un partito di maggioranza compatto, che ha A sostegno della Camera dei comuni, e ha dunque ampiamente assicurata l'approvazione delle leggi che propone. Di fatto, l'attività legislativa è così concentrata e centralizzata nell'esecutivo. Per sottolineare questo aspetto si parla di Cabinet-govemment. Al parlamento restanto funzioni di critica, controllo, educazione politica: l'opposizione prepara qui l'alternanza al governo in occasione di nuove elezioni. In questo sistema i partiti giocano un ruolo molto importante. Il partito che ottiene la maggioranza dei seggi acquisisce il potere di indirizzare, con suoi uomini, tutta la politica legislativa e esecutiva: per questo si parla anche di Pagina 362
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt governo di partito (party govemment). Il quadro democratico è conservato perché il monopolio in questione si ottiene con elezioni periodiche e perché possono esistere e operare partiti di opposizione. Un altro ingrediente è necessario però alla ricetta: in pratica sono influenti in Gran Bretagna due soli partiti, e quasi mai si ha un governo di coalizione. 1 partiti si presentano agli elettori con un programma che vincolerà ogni eletto al suo rispetto e a una ferrea disciplina di partito al momento delle discussioni e votazioni in parlamento. Il partito esprime dunque una responsabilità collettiva, che assicura unità e continuità di governo. La stabilità dei governi e la relativa chiarezza sono i pregi principali del sistema, ma è interessante notare anche un altro fatto. 1 collegi elettorali sono uninominali, in ognuno cioè si elegge il solo candidato che ha ottenuto la maggioranza dei voti; il rapporto alla persona è dunque importante, ma in realtà è A partito che si vota, con il suo programma; la grande maggioranza di .rappresentanti in parlamento, inoltre non avrà un vero potere esecutivo o legislativo, ma solo di controllo, come abbiamo visto, e dunque non potrà prendersi cura di interessi personali degli elettori: una conseguenza inattesa del sistema costruito, che divenne evidente quando negli anni ottanta del secolo scorso questo prese la sua forma definitiva, fu che la corruzione politica praticamente spari; i fenomeni di corruzione politica continuano a essere rari in Gran Bretagna, in paragone ad altri sistemi democratici. 19 modello Westminster non è la sola soluzione possibile del parlamentarismo. Possiamo anzi considerarla l'estremo di un asse che ha all'altro estremo un modello molto diverso che Lijphart ha chiamato democrazia consensuale o consociativa [Lijphart 19841. La Svizzera e il Belgio sono casi molto tipici di democrazia consensuale. Gli altri sistemi possono essere immaginati fra i due estremi. La democrazia consensuale si basa sul principio di non escludere le minoranze dall'elaborazione delle decisioni politiche. Si caratterizza Modello Westminster Cabinetgovemment Party govemment Collegì elettoralì uninominali Democrazia consociativa 620 CAPITOLO 22 dunque per «grandì coalizioni», nelle quali tutti i maggiori partiti partecipano al governo, che ha dunque una fiducia molto allargata. L'esecutivo svizzero - il Consiglio federale - è composto di sette membri. 1 posti sono sempre divisi fra i quattro maggiori partiti, grosso modo in proporzione alla loro importanza elettorale ormai stabilizzata, secondo la formula 2:2:2:1. Inoltre, si tiene conto che nella composizione sia rispettata una certa rappresentanza delle diverse lingue del paese. Si tratta di regole informali, non scritte, ma rispettate. In Belgio è invece formalmente previsto che i ministri siano metà di lingua fiamminga e metà di lingua francese, mentre il governo riunisce comunque più partiti sino a una maggioranza molto al di là del 50%. In Svizzera, i membri dell'esecutivo sono eletti dal parlamento per quattro anni e in tale periodo questo non può presentare mozioni di sfiducia. Potere esecutivo e potere legislativo diventano così più indipendenti: il parlamento è infatti più libero di valutare severamente progetti di legge, perché non è responsabile della permanenza dell'esecutivo. In Belgio, invece, l'esecutivo non è così forte come in Gran Bretagna perché dipende continuamente dalla fiducia di un insieme di partiti, e si stabilisce allora una continua contrattazione fra esecutivo e parlamento. Ne deriva che i governi del Belgio hanno in genere una breve durata. Basi sociali Per comprendere come mai si siano formati sistemi istituzionali della politica così differenti, pur nello stesso quadro del parlamentarismo, bisogna rifarsi alle basi sociali della politica. Svizzera e Belgio sono paesi compositi, con importanti differenze etniche, linguistiche e religiose che si sommano a differenze economiche. Come abbiamo mostrato nel capitolo precedente, la politica si è allora organizzata in riferimento a più linee di frattura. La Gran Bretagna - dove pure entrano in gioco altre dimensioni - è una società tutto sommato più omogenea, dove i due maggiori partiti - conservatori e laburisti - esprimono essenzialmente il solo cleavage socioeconomico. La democrazia non può tollerare che ci siano minoranze senza rappresentanza. Inoltre, la situazione è pericolosa se minoranze linguistiche, religiose, etniche, ideologiche, razziali sono sempre, in quanto minoranze politicamente organizzate, destinate a essere escluse dalla possibilità di partecipare al Pagina 363
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt governo: questo finirebbe per far venir meno la loro lealtà alle istituzioni. Una soluzione è appunto associarle a governi di grande coalizione. Per ragioni simili, per avere cioè una maggiore possibilità di rappresentare minoranze, il sistema elettorale è in questi casi di tipo proporzionale: gli eletti sono in proporzione ai voti ottenuti. Con queste soluzioni si rischia su alcuni aspetti dell'efficienza di governo (come l'esempio dei governi di breve durata in Belgio mostra), ma si evitano una specie di dittatura della maggioranza e rischi di conflitti dirompenti in paesi a base sociale composita. Sulla base della Costituzione del 1948, anche quello italiano è un caso di governo parlamentare, caratterizzato da un esecutivo relativaGOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 621 mente debole in rapporto a un parlamento con ampie possibilità di iniziativa legislativa. Un sistema elettorale proporzionale, voluto per rappresentare una società molto diversificata culturalmente e economicamente, ha portato alla necessità di governi di coalizione, in presenza di molti partiti. La pratica di continue contrattazioni fra i diversi partiti che compongono la maggioranza, ha avuto la conseguenza di indebolire l'azione di governo e ha prodotto esecutivi di breve durata. A ciò si deve aggiungere un'altra particolarità del sistema politico italiano degli scorsi decenni, definito da Galli un «bipartitismo imperfetto» [Galli 19661. L'elettorato era infatti tendenzialmente polarizzato attorno a due grandi partiti, la Democrazia cristiana e il Partito comunista, che però raggiungevano nelle elezioni nazionali solo una maggioranza relativa, sotto quel 50,1 % dei voti che consente di governare da soli; inoltre, il Pci non era riconosciuto dagli altri partiti come un possibile alleato di governo, a causa della sua ideologia considerata rivoluzionaria dell'ordine costituito, e dei suoi collegamenti con l'Unione Sovietica, un paese che non faceva parte del sistema di alleanze al quale l'Italia partecipava, costituito proprio per controllare la forza espansiva del blocco sovietico. La conseguenza era dunque che neppure si potevano formare coalizioni intorno al Pci, alternative a quelle intorno alla Democrazia cristiana: questa è dunque rimasta per decenni ininterrottamente al governo. E bipartitismo imperfetto ha irrigidito la politica italiana, limitando il ricambio ai vertici del potere politico. Alcuni caratteri negativi del policy~making in Italia, di cui parleremo più avanti nel quarto paragrafo, sono anche, per lo meno in parte, legati a questa anomalia. Negli anni settanta e ottanta il sistema politico italiano evolve verso un modello consociativo, nel senso di Lijphart, ma di nuovo potremmo dire che si tratta di un «consociativismo imperfetto» Non si formano infatti governi di «grande coalizione», il Pci resta formalmente all'opposizione, ma si diffonde la pratica di decisioni e di distribuzione di risorse concordate fra maggioranza e opposizione. La funzione di controllo che questa normalmente esercita ne risulta allora indebolita, e diminuisce la chiarezza delle procedure di formazione delle decisioni. Fra le conseguenze sul piano dell'azione di governo si avrà una forte crescita della spesa e del debito pubblico. Bipartitismo imperfetto, prima, e consociativismo poi hanno anche lasciato spazio alla diffusione della corruzione politica. In modo diverso si pone la questione dei rapporti fra poteri nel caso del presidenzialismo, di cui quello americano, come abbiamo detto, è l'esempio tipico. 19 presidente, capo dell'esecutivo, è eletto direttamente dal popolo. 1 poteri esecutivo e legislativo sono così nettamente divisi. Anche negli Stati Uniti esistono partiti (repubblicano e democratico), e i presidenti sono presentati come candidati dai partiti, ma nel tempo si è verificato un ridimensionamento di questi nella vita politica. 1 partiti, in realtà, organizzano poco l'elettorato. In un quadro formale di procedure piuttosto complicate, la sostanza è che il Presi.ìInpedetto Consociativismo Presid,enzialismo Pac Partitocrazia 622 CAPITOLO 22 dente e il Congresso hanno le radici in due sfere diverse [Lowi 19921. La sfera o la base elettorale alla quale si rivolge il presidente è l'intera popolazione, che tramite i mass media può essere raggiunta senza passare attraverso i partiti, e della quale possono essere osservate le tendenze con l'uso di Pagina 364
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt sondaggi. In pratica, il presidente mette dunque in piedi una sua stabile organizzazione, una specie di «partito del presidente» orientato alla sua elezione e poi rielezione, che ne sostiene le decisioni e le proposte legislative in riferimento alla percezione degli umori della popolazione. Il Congresso, che nonostante l'aumento di poteri dell'esecutivo mantiene autonomia m virtù della separazione dei poteri, affonda invece le sue radici nelle diverse circoscrizioni elettorali e nei gruppi di interesse, in particolare nei cosiddetti Pac (poliikal action commettees) che sostengono candidati a loro favorevoli. Gli eletti rappresentano interessi della loro circoscrizione, ma sono anche sensibili ai Pac: questi finanziano candidati di una circoscrizione raccogliendo denaro anche all'esterno di questa, muovendosi dunque con grande autonomia. Molte corporations agiscono direttamente formando propri Pac. In questo quadro, i partiti tradizionali hanno ridotto autonomia e capacità di svolgere le loro due funzioni di organizzazione della domanda politica e della delega (cfr. cap. XXI). Il quadro che ne emerge è, da un lato una presidenza con poteri accresciuti, che si rapporta direttamente al popolo tramite sondaggi e prende decisioni politiche che possono rispondere più al problema della rielezione che all'effettivo interesse generale di lungo periodo; dall'altro, un parlamento infiltrato da poteri politicamente poco controllabilì, che sfidano l'assetto della rappresentanza popolare per circoscrizioni. Emerge allora, in conclusione, un rischio che vale per ogni tipo di assetto istituzionale di governo. La partitocrazia, come eccesso di potere dei partiti può mettere in crisi un corretto funzionamento democratico delle istituzioni di governo, ma l'eccessiva debolezza dei partiti sembra non permettere una buona organizzazione e un buon coordinamento delle stesse, che assicuri insieme una reale partecipazione. Anche questo è un dilemma politico che suscita oggi molte discussioni. PubbUca amministrazione 3. La pubblica amministrazione 3.1. L'attività amministrativa Leonard D. White, autore del primo manuale per lo studio della pubblica amministrazione in America, rimasto classico, definiva così il suo oggetto: La pubblica amministrazione consiste in tutte quelle operazioni, che hanno come scopo il compimento o la realizzazione della politica pubblica. QueGOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 623 sta definizione coinvolge una serie di particolari operazioni in molti campi, la consegna di una lettera, la vendita di un terreno pubblico, la negoziazione di un trattato, il risarcimento dei danni a un lavoratore infortunato, la quarantena di un bambino malato, la nettezza urbana nei parchi, la lavorazione del plutonio, la licenza per l'uso di energia atomica. Si aggiungano inoltre le attività civili e militari, la maggior parte del lavoro dei tribunali, e tutti gli speciali campi dell'attività governativa - polizia, educazione, igiene, lavori pubblici, manutenzione, sicurezza sociale, e molti altri [White 1926, trad. it. 1959, 191. La pubblica amministrazione è dunque una complessa organizzazione, o un insieme di organizzazioni, che attraverso attività specifiche hanno il compito di dare esecuzione alle decisioni politiche di governo, traducendo regole generali in decisioni che riguardano casi singoli [Peters 19911. Questa organizzazione è chiamata correntemente «burocrazia». L'organizzazione della pubblica amministrazione è diversa da paese a paese, e la burocrazia può essere distinta a seconda degli enti pubblici ai quali fa capo. In Italia, la parte più importante è quella statale, che fa capo direttamente al governo in senso stretto, vale a dire all'esecutivo. Il governo è organizzato in ministeri, diretti da ministri politicamente responsabili di fronte al parlamento. Da ogni ministro dipende un direttore generale, dal quale dipendono diverse «divisioni», con a capo responsabili, dai quali dipendono altri uffici e funzionari, e così via a cascata secondo un principio gerarchico. La burocrazia ha infatti caratteri simili al modello di organizzazione che Weber indica con questo nome (v. cap. IV), ma può anche in parte discostarsene, come vedremo fra un momento. Accanto alla burocrazia statale troviamo poi le burocrazie degli altri enti territoriali autonomi: la regione, la provincia, il comune. Inoltre, esistono le burocrazie dei cosiddetti enti pubblici funzionali, come per esempio l'Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps). Quando si parla di pubblica amministrazione a volte ci si riferisce soltanto alla burocrazia statale, a volte si danno significati più allargati. Pagina 365
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt La definizione data stabilisce una separazione fra attività politiche e attività amministrative. Le prime riguardano scelte discrezionali fra possibilità alternative: discutere e decidere, per esempio, a contenuto di una nuova legge che varrà per tutti e tutte le volte che si presenterà una situazione tipica prevista. Le seconde sono le attività che quella legge applicano nei casi concreti, senza discrezionalità circa l'applicarla o meno, o in parte soltanto, o modificandone il contenuto. In altre parole: gli obiettivi sono fissati in modo generale e astratto nella legge, e fare la legge è una attività politica; quella amministrativa è invece un'attività tecnica, che coordina e applica mezzi per ottenere un certo obiettivo, nel modo più efficiente possibile, ma che non mette in discussione i fini ai quali l'azione tecnica si applica, e i modi indicati in generale per realizzarli. Burocrazia Politica e amininistrazione 624 CAPITOLO 22 In realtà, le cose sono più complicate e la distinzione non è così netta. Anzitutto, i burocrati, pur se vincolati, mantengono margini di discrezionalità nell'eseguire il loro compito: ricordiamo il meccanismo descritto da Crozier. L'aumento e la differenziazione dei compiti che il settore pubblico ha assunto, in una società diventata più complessa, hanno fatto aumentare gli ambiti di discrezionalità: senza un certo grado di discrezionalità, l'azione organizzativa come sappiamo diventa troppo rigida; in altri termini, anche l'organizzazione pubblica tende ad allontanarsi dal modello di burocrazia classica descritto da Weber, per le ragioni e secondo direzioni indicate nel cap. IV per tutte le organizzazionì. Ne deriva però allora anche un maggiore potere alla burocrazia, che questa ha finito per usare anche per il proprio tornaconto, vale a dire a tutela degli interessi del ceto burocratico nel suo insieme o di suoi gruppi. Infine, bisogna considerare che i funzionari amministrativi non solo eseguono decisioni o applicano norme, ma preparano la formazione di decisioni e di norme. Per questo motivo essi influenzano in modo a volte rilevante la formazione delle stesse decisioni politiche: come aveva già notato Weber, il politico in genere è un «dflettante» riguardo ai problemi che deve affrontare in un certo campo, mentre il burocrate è un «professionista», per via della conoscenza che dei problemi ha e della sua esperienza e competenza professionale nel modo di affrontarli. Il politico dunque ascolta i suggerimenti del funzionario, dipende dalle informazioni che questo gli trasmette, e tutto ciò influenza le sue scelte. Anche questa capacità di influenza è andata aumentando con l'aumento e la differenziazione dei compiti che il governo e il settore pubblico si sono assunti. Non esiste dunque una completa separazione e distinzione fra attività amministrativa e attività politica e si pone un problema importante di controllo democratico dell'azione amministrativa. Tuttavia è corretto mantenere distinte analiticamente le due attività, che sono istituzionalmente previste come distinte, e considerare il grado della loro distinzione e autonomia come un problema empirico, dove sono in gioco molti fattori [Mayntz 19781. La questione dell'indipendenza reciproca di amministrazione e politica deve essere però vista nelle due direzioni. In primo luogo esiste, come si è appena detto, una questione relativa alla possibilità dell'amministrazione di rendersi autonoma e di perseguire fini propri; la questione può essere anche così riformulata: gli uomini che svolgono funzioni di governo si alternano, i partiti che hanno la maggioranza cambiano, mentre la burocrazia è stabile; se l'amministrazione è un mero strumento dell'azione di governo, ciò significa che i funzionari devono essere politicamente neutrali, ugualmente efficienti e efficaci chiunque sia al governo, purché legittimamente eletto. Fino a che punto questo realmente succede, quali sono le condizioni che favoriscono la neutralità, come e perché, fino a che punto, in quali casi la neutralità viene meno sono problemi di ricerca. Nell'altra direzione, esiste però anche la possibilità che il governo GOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 625 sottragga ai funzionari il loro proprio spazio di azione: per esempio, una buona soluzione tecnica di un problema suggerita da un funzionario può essere accantonata da un politico che intenda favorire un gruppo di interesse che lo sostiene elettoralmente. Una burocrazia debole, dipendente, dotata di pochi mezzi e poco professionalizzata può anche essere di sostegno a forze politiche Pagina 366
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt che si mantengono al potere con compromessi costosi, tenendone nascosti i costi all'opinione pubblica, o che risolvono i problemi creandone di nuovi prevedibili. Se è corretto che in una società democratica esista un controllo politico delle attività tecniche dell'amministrazione, è però anche corretto che l'opinione pubblica possa valutare argomenti tecnici come critica di una decisione politica [Habermas 19751. Nella realtà, il quadro dei rapporti fra politica e amministrazione che una ricerca ricostruisce in un caso concreto può essere anche molto complesso. Per esempio: un sistema politico molto frammentato, con coalizioni di partiti diversi e eterogenei, per di più frammentati al loro interno in correnti, può dar vita a governi deboli, incapaci di proteggere la burocrazia dalle pressioni dei gruppi di interesse perché questa agisca a loro vantaggio e non a vantaggio di un interesse collettivo che il governo appunto non è in grado di esprimere; d'altro canto, la burocrazia può giocare l'una contro l'altra le diverse correnti politiche, allargando il proprio spazio di autonomia. Questa è la tipica configurazione dei rapporti fra politica e amministrazione messa in luce in Italia da una ricerca negli anni sessanta [Ferraresi 19681. 3.2. Il personale della pubblica amministrazione 1 pubblici dipendenti, ovvero i burocrati costituiscono una catego- Burocrati ria sociale particolare: la «gente del pubblico» è per molti aspetti diversa dalla «gente del privato» Investiti dell'autorità da parte del Principe e suoi delegati, essi nascono con particolari doveri e privilegi, sino a costituire un ceto sociale con un particolare stile di vita. Con il tempo la loro condizione cambia, ma restano elementi che li distinguono nelle relazioni di lavoro, anche se meno e forse non più come ceto. 3.2. l. Relazioni di lavoro Anzitutto proviamo a contarli, per vedere quanto siano presenti nelle nostre società. Si tratta di un calcolo che non può essere molto preciso: i diversi paesi hanno definizioni diverse di pubblico dipendente, e rimane in certa misura arbitrario definire i confini dell'amministrazione. Qui faremo riferimento a un tentativo che mette a confronto il peso percentuale dei pubblici dipendenti sulla popolazione, in diversi paesi europei (fig. 22.1). 626 CAPITOLO 22 DIG. 22.1. Dipendenti dello stato e di altri enti pubblici: percentuale sulla popolazione totale. Fonte: Claisse e Meininger [19941. Secondo l'istogramma, il peso della burocrazia varierebbe fra il 14% circa della Danimarca e il 4% della Grecia. Il dato relativo all'Italia contrasta con un'idea diffusa. Contrariamente a quello che molti pensano e polemicamente dicono, nel nostro paese la burocrazia non appare molto pesante: 6% della popolazione, un valore inferiore a quelli di Belgio, Francia e Germania. Ma vediamo le particolarità delle relazioni di lavoro. Tradizionalmente, il dipendente pubblico è considerato un servitore dello stato, tenuto a obblighi accentuati o particolari. In Inghilterra per indicare la burocrazia si usa proprio il termine Civil Service, invalso nell'uso ai tempi dell'impero per distinguere in India i «servitori civili» dai militari. Regole diverse, ma presenti in tutti i paesi, hanno lo scopo di garantire la loro fedeltà alle istituzioni, l'indipendenza e la neutralità. Consideriamo qualche esempio. Esistono per i dipendenti pubblici limiti all'esercizio di diritti politici: in Germania, Irlanda e Danimarca, per esempio, non possono scioperare, negli altri paesi sono prescritte limitazioni; un particolare tipo di reato, con pene severe - la concussione - è previsto per funzionari pubblici che approfittano della loro posizione per ottenere denaro o altri vantaggi minacciando indebitamente un danno a un privato; per evitare possibili vantaggi in situazioni particolari, la maggior parte dei paesi europei proibisce il cumulo di incarichi pubblici e privati (con importanti eccezioni in Italia e Portogallo), e così via. Dopo essere stati storicamente il primo gruppo professionale a godere di un trattamento di pensione, i dipendenti pubblici godono del più importante dei vantaggi, la stabilità dell'impiego. In GOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 627 Germania, in Italia, in Francia si è nominati a tempo indeterminato, in linea di principio per tutta la durata della vita lavorativa. I licenziamenti in diversi paesi europei sono invece teoricamente possibili, ma di fatto molto rari. Bisogna tuttavia distinguere due categorie di dipendenti pubblici: quelli Pagina 367
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt assunti stabilmente - che con espressione usata in Francia e in Germania possiamo chiamare i funzionari pubblici - e altri impiegati con contratti a tempo limitato. La proporzione fra i due gruppi varia da paese a paese, ma in Germania, per esempio, i funzionari sono meno della metà dei dipendenti pubblici: solo per loro vale la stabilità dell'impiego. Tutte queste particolarità vanno considerate sullo sfondo di un punto di diritto fondamentale: il rapporto di lavoro pubblico è disciplinato in modo diverso da quello privato. Esso non si costituisce per mezzo di un contratto, ma per decreto, vale a dire con un atto unilaterale di nomina da parte dell'autorità pubblica, così come l'insieme dei diritti e dei doveri previsti è stabilito da una legge (non da un contratto collettivo). Tuttavia, possiamo proprio partire da considerazioni circa l'evoluzione in corso su questo punto per osservare più in generale un riavvicinamento fra impiego pubblico e impiego privato. Consideriamo in particolare il caso dell'Italia, anche se il fenomeno è generalizzato. Qui è in corso un processo di «privatizzazione» del pubblico impiego che ha individuato tre aree di regolazione del rapporto di lavoro. L'organizzazione degli uffici, a reclutamento, l'organico e le responsabilità degli impiegati sono stabiliti esclusivamente dall'autorità; il trattamento economico è contrattato fra sindacati e un'apposita agenzia pubblica per le relazioni sindacali; sull'organizzazione del lavoro, la gestione del personale e altre materie l'amministrazione consulta 9 sindacato, se possibile si trova un accordo, ma in mancanza di questo è l'amministrazione ad adottare in modo autonomo regolamenti e atti di gestione. Un altro aspetto importante del riavvicinamento fra impiegati pubblici e privati tocca la limitazione del diritto di sciopero. In molti paesi europei questa riguarda ormai solo restrizioni in settori particolari (la polizia, per esempio), o semplicemente prevede procedure preliminari di conciliazione. Ma anche in Irlanda e Danimarca, dove lo sciopero è vietato, di fatto si è finito per non applicare la legge contro chi sciopera, e in Germania può comunque scioperare la maggioranza dei dipendenti, che come abbiamo visto non sono funzionari. Anche la sicurezza dell'impiego va riducendosi, con leggi che la limitano in paesi dove in passato era garantita. In Italia, per esempio, diminuzioni di organico e per questo motivo licenziamenti sono stati previsti di recente attraverso la legge finanziaria (che stabilisce il bilancio dello stato). Funzionarti. pubblici Rapporto di lavoro pubblico 628 CAPITOLO 22 Selezione per. competeriza e. per nomma. politica Spoils' system Burocrazia rappresentativa 3.2.2. Reclutamento Le procedure di reclutamento dei dipendenti pubblici meritano particolare attenzione. Se ne distinguono due tipi fondamentali: la selezione per competenza e la nomina politica. Questo non significa che per nomina politica si assumano degli incompetenti (anche se può accadere). Nel primo caso l'assunzione avviene per concorso, riferito esclusivamente a competenze tecnico -professionali e all'accertamento delle capacità relative del candidato. Gli stessi criteri di «competenza neutrale» valgono per la progressione di carriera, che è gestita dalla stessa amministrazione. Nel secondo, invece, il politico che ne ha per legge la prerogativa, nomina direttamente il dipendente, con margini ampi di discrezionalità nella scelta. La selezione per competenza è quella del modello weberiano di burocrazia, e si giustifica perché garantisce affidabilità e neutralità tecnica del funzionario. La nomina politica si richiama invece al fatto che una totale neutralità dell'amministrazione non è possibile, e che se margini di discrezionalità restano all'amministrazione, e sono anzi necessari per il buon funzionamento della macchina burocratica, si pone per il politico il problema della effettiva collaborazione del funzionario. Pubblici dipendenti nominati da un precedente governo, espressione di una parte politica, possono non essere altrettanto collaborativi nell'attuazione di programmi di un nuovo governo, espressione di un>altra parte politica. Esiste dunque un problema reale, relativo al buon funzionamento e adattamento reciproco delle istituzioni. Esiste però anche il rischio che la nomina politica degradi a pratica del clientelismo, vale a dire semplicemente a distribuzione di posti e ricompense a compagni di partito. Sino alla fine del secolo scorso negli Stati Uniti era in vigore il cosiddetto Pagina 368
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt «sistema delle spoglie» (spoils' system): i posti burocratici servivano a ricompensare i sostenitori e gli attivisti di un partito che, vinte le elezioni, si sistemavano in massa: si è calcolato che nel 1884 soltanto l'11% dei funzionari federali erano stati assunti per concorso. Corruzione politica e inefficienza amministrativa hanno condotto alla fine del sistema: oggi sono assunti per concorso oltre il 90% dei funzionari. Resta dunque la prerogativa di un certo numero di nomine dirette: si tratta di alti funzionari, dai quali oltre alle capacità professionali si pretende un sicuro spirito di collaborazione. In effetti, nei diversi paesi i due criteri sono impiegati in diverse combinazioni. Negli Stati Uniti il Presidente ha la facoltà di nominare direttamente circa duemila funzionari in posti chiave; al lato opposto della scala, in Gran Bretagna i ministri in carica hanno la possibilità di nominare solo pochi funzionari a loro discrezione: il ministro del Tesoro che ha il massimo di possibilità ne nomina sei. Sempre in tema di reclutamento, il principio della «burocrazia rappresentativa» [Kingsley 19441 sostiene l'opportunità che nella sua comGOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 629 posizione sociale la burocrazia rispecchi per quanto possibile i caratteri della popolazione nei confronti della quale svolge la sua attività. In questo modo la sua azione è facilitata, mentre scostamenti importanti della composizione a vantaggio di alcuni gruppi possono mettere in questione la sua legittimazione come strumento imparziale al servizio dell'insieme della popolazione e di comuni valori. Per esempio: in una società multietnica possono nascere problemi se tutti o quasi gli impiegati pubblici appartengono a una etnia. In società più omogenee, la questione può presentarsi in relazione all'origine regionale degli impiegati pubblici. t il caso dell'Italia, dove oltre due terzi degli impiegati pubblici provengono da regioni meridionali (all'indomani dell'Unità la stessa questione si poneva per il peso eccessivo dei piemontesi che avevano colonizzato l'amministrazione di nuovo per oltre due terzi). E problema della meridionalizzazione dell'amministrazione pubblica in Italia più che richiamare problemi di legittimazione per differenze culturali o di interessi regionali, risiede invece in un altro aspetto del fenomeno. Essendo il Mezzogiorno una grande area sottosviluppata, il posto pubblico è una meta ambita da molti. L'accesso al posto pubblico è stato mediato in passato da un clientelismo diffuso, organizzato da partiti e uomini politici in cerca di consenso elettorale, che spesso senza riferimento alle capacità professionali dei possibili candidati hanno operato per creare e assegnare posti stabili o precari. L'invadenza dei partiti nella selezione del personale amministrativo non si limita però al Mezzogiorno. Gli scostamenti dai criteri della selezione per competenza sembrano in generale riguardare più il fenomeno del clientelismo che solo motivi funzionali relativi ai rapporti di fiducia politica tra alti funzionari e responsabili del governo: si calcola che negli anni ottanta e novanta circa il 60% degli impiegati pubblici sia entrato non per concorso come prescritto dalla Costituzione - ma tramite assunzioni «precarie» seguite da una stabilizzazione nel titolo tramite una legge [Cassese 19941. Questa procedura ha lasciato molto spazio al clientelismo. 3.2.3. Formazione Esistono diverse tradizioni nazionali relative alla professionalità richiesta per la funzione amministrativa, e ai modi di formarla. In particolare le differenze si notano per gli alti gradi, o come anche si dice con un termine francese, i quadri dell'amministrazione. 1 diversi criteri possono essere bene esemplificati confrontando la Gran Bretagna, la Germania e la Francia. In Gran Bretagna si ritiene, tradizionalmente, che una buona preparazione umanistica e letteraria sia la dotazione culturale migliore per dirigenti che, opportunamente informati dai loro sottoposti e capaci di selezionare le informazioni, saranno in grado di valutare serenamente 630 CAPITOLO 22 i pro e i contro di una decisione da prendere, per quanto difficile e riguardante materie specifiche. Questa tradizione è stata messa in questione, ma in effetti rimane alta la percentuale dei laureati in materie umanistiche e letterarie, e molto importante in carriera è la laurea presso un'antica università: Oxford o Cambridge. L'idea che la formazione umanistica di tipo generale possa essere una buona base per le decisioni amministrative si ritrova in altre epoche storiche: nell'Europa del XVI secolo, nel clima culturale dell'umanesimo, o più indietro nel caso che Weber ricorda dell'antico impero cinese. Nella Cina di allora esistevano dei funzionari - i mandarini - con una Pagina 369
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt profonda conoscenza della millenaria cultura di quel paese, esperti calligrafi e capaci di comporre versi, ammessi nel loro ruolo da concorsi molto severi. La perfezione della loro cultura era considerata garanzia di ordine in ogni cosa, e di un buon rapporto con gli spiriti. Quando si verificava un evento spiacevole, come una siccità, l'imperatore emanava un editto per inasprire gli esami di versificazione, per placare l'irritazione degli spiriti [Weber 1922a, trad. it. 1961, 11, 6821. Lo stato moderno è basato su complessi sistemi di diritto, e la conoscenza .giuridica è diventata una fondamentale specializzazione professionale del funzionario. Questo tipo di formazione è considerato particolarmente importante nella tradizione tedesca. In Germania, due terzi degli alti funzionari hanno una laurea in giurisprudenza. Con l'ampliarsì e il differenziarsi dei compiti dello stato, si sente ovunque il bisogno di specializzare la formazione dei funzionari, differenziandola oltre i limiti della sola cultura giuridica. La Franda è il paese che più ha curato, affidandola allo stato, la formazione diretta dei futuri quadri dell'amministrazione, con un sistema di istituzioni di formazione chiamate grandes écoles. L'Ecole nationale d'administration (Ena), in particolare, prepara gli specialisti della finanza, della gestione, del diritto. All'Ena si accede con concorsi molto severi, dopo aver frequentato corsi preparatori in prestigiose istituzioni. Altre grandes éColes preparano quadri con specializzazioni più particolari. L'Ena è considerato il caso forse più riuscito nel mondo della scuola capace di fornire insieme basi generali e specialistiche per la funzione amministrativa. Di recente, tuttavia, è stato criticato il principio che l'accesso agli incarichi amministrativi richieda necessariamente essere diplomati all'Ena, in considerazione del fatto che una società moderna differenziata ha bisogno del confronto continuo fra più culture, e dunque di differenti percorsi di formazione. Resta comunque che l'amministrazione francese continua a essere molto efficiente. Inoltre, si osserva anche che i diplomati della scuola, in gergo chiamati enarcbl«, costituiscono una élite chiusa, con un forte spirito di corpo, gelosa delle sue prerogative. Anche questo è messo in questione, perché diminuisce la possibilità di controllo democratico delle funzioni amministrative, in un paese dove la pubblica amministrazione ha una grande capacità di influenzare le scelte politiche. GOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 631 L'amministrazione italiana è stata definita dal giurista Sabino Cassese «senza testa», intendendo con questa espressione che manca un vertice amministrativo ben addestrato, ben selezionato, affidabile e efficiente [Cassese 1994, 131. Più in generale, lo scarso rendimento della nostra burocrazia è legato al fatto già segnalato che l'amministrazione è stata spesso utilizzata in passato per creare e distribuire posti di lavoro, con scarsa attenzione alle funzioni e ai requisiti necessari. Questa non è la sola ragione della sua inefficienza, ma certo ne spiega una parte importante. 4. Lo studio delle politiche pubbliche In italiano abbiamo un'unica parola - politica - per indicare due fenomeni che in inglese è possibile distinguere con due parole diverse: politics e policy. Per riferirsi alla politica nel senso inteso finora in questo capitolo e nel precedente, parlando cioè di elezioni, di partiti, di istituzioni di governo, di legittimazione, di controllo e partecipazione e così via, un inglese o un americano userebbe il termine politics. Ma noi diciamo politica anche per indicare un programma o una scelta di azione: in tal caso in inglese si usa policy (plurale: polides). Una politica pubblica (public poliffi è un programma d'azione attuato da un'autorità pubblica. Lo studio delle politiche pubbliche permette dunque di vedere le istituzioni in funzione e che cosa in concreto la politica fa per la società [meny e Thoenig 19891. Le politiche pubbliche riguardano l'attività di governo della società, ma sarebbe riduttivo pensarle semplicemente come un'attività dello stato o dell'amministrazione. Sulla formazione delle politiche pubbliche hanno influenza infatti anche soggetti che non fanno parte dell'organizzazione dello stato come i partiti o i gruppi di pressione. Per riferirsi all'insieme più vasto di relazioni e interazioni politiche (ovvero per riferirsi alla politics) i politologi usano spesso il concetto di sistema politico, più generale di quello di stato. Il sistema politico è immaginato come una specie di macchina che riceve dall'esterno risorse e sollecitazioni (gli input del sistema) e che produce prodotti particolari, utili per l'organizzazione della società nel suo insieme: leggi, ordine pubblico, Pagina 370
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt condizioni di vita per categorie di persone, e così via (gli output). Secondo questo schema, le politiche pubbliche sono output del sistema politico, attivato e sostenuto da input che provengono dal resto della società. Sono input per esempio la domanda politica di categorie di persone, come la richiesta di protezione sociale in caso di malattia, e le risorse finanziarie reperite con la tassazione a questo scopo. Un insieme di leggi che regolano l'assistenza in caso di malattia è una politica pubblica. E processo di attuazione concreta di queste leggi, con l'organizzazione di ambulatori, l'attività per farli funzionare e controllarli, e così via è detta - con Politics e P011CY Politiche pubbliche Sistema politico 632 CAPITOLO 22 Polifiche istituzionali, economiche, territorialì e sociali Implementazione una brutta parola tradotta dall'inglese - implementazione di quella politica. 1 politologi hanno cominciato a studiare le politiche pubbliche come output del sistema politico, vale a dire considerandole dipendenti dalle caratteristiche di questo e dal suo modo di funzionare. Per esempio, si è cercato di verificare se e in che misura la quota.del bilancio nazionale destinata alle diverse politiche dipenda dal peso in un certo sistema politico dei partiti di destra o di sinistra, dal fatto che l'alternanza al governo sia frequente o no, dal fatto che al governo sia un solo partito o una coalizione, e così via. Tuttavia, ci si è resi conto che considerare le politiche semplicemente come dipendenti dal sistema politico non era sufficiente, e che per spiegarle bisognava mettere in conto anche le caratteristiche dell'economia e della società: il livello dei redditi del paese, per esempio, o la loro distribuzione fra le classi sociali. Questo è il motivo per cui anche i sociologi sono interessati allo studio delle politiche pubbliche. Giusta la definizione data, i contenuti delle politiche pubbliche sono molteplici. Possiamo per esempio distinguere le politiche istituzionali, come la politica estera, la politica militare, la politica della giustizia; le politiche economiche, come la politica monetaria, fiscale, industriale; le politiche territoriali, come la politica urbanistica o quella ambientale; le politiche sociali, delle quali parleremo più ampiamente al prossimo paragrafo, come la politica sanitaria o quella delle pensioni. In termini analitici, uno schema molto noto distingue quattro tipi di politiche [Lowi 19721: Tipi di politiche * distributive, che forniscono benefici a categorie particolari di secondo Lovi persone o di operatori economici - come i crediti agevolati per le imprese di un certo settore in difficoltà, o gli sgravi fiscali per gli abitanti di una regione - senza riferimento diretto alla fonte dove attingere le risorse, e dunque a carico della collettività, tramite il prelievo fiscale generale; o redistributive (dette anche estrattive) che stabiliscono quali categorie e per quale entità devono contribuire alla spesa per politiche pubbliche: sono di questo tipo, per esempio, le misure che stabiliscono e aumentano la progressività delle imposte sui redditi; * regolative, che disciplinano determinati campi di attività o comportamenti: per esempio le norme che controllano e garantiscono la concorrenza fra le imprese, ma anche gli orari di apertura dei negozi o i codici della strada; * costituzionali, che stabiliscono le regole e le procedure per le decisioni pubbliche; una legge elettorale è l'esito di una politica costituzionale. 1 ricercatori che si sono occupati di politiche pubbliche hanno dedicato particolare attenzione allo studio dei modi concreti in cui le poPoUcy-making litiche sono selezionate e costruite, ovvero allo studio del policymaking. Due aspetti importanti di questo tipo di analisi riguardano gli GOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 633 attori coinvolti e lo «stile» dei processi decisionali [Regonini 19891. Oltre agli attori istituzionali, come il parlamento o A governo, tradizionalmente altri tipi di attori sono stati considerati importanti: i partiti politici, i sindacati, la burocrazia. La loro importanza non è la stessa in ogni sistema politico: in Gran Bretagna, per esempio, come abbiamo visto i partiti hanno un posto cruciale nel sistema politico, e sono dunque molto influenti nel policy-makt*ng, mentre in Francia i burocrati hanno molta Pagina 371
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt influenza. Gli studi più recenti hanno in particolare attirato l'attenzione anche sui gruppi di pressione, ovvero sulle lobbies (plurale di lobby, che significa corridoio) Queste sono organizzazioni che operano per conto di associazioni, imprese, o anche istituzioni come università o grandi comuni. Esse cercano di orientare le decisioni che politici e amministratori devono prendere, mostrando le opportunità che deriverebbero da una scelta, presentando a questo scopo documenti o ricerche, promettendo sostegno elettorale, promuovendo campagne di informazione pubblica, e così via. Un lobbista è dunque un rappresentante dichiarato di un gruppo di interesse, che ha deciso di costituirsi come gruppo di pressione per influire su decisioni politiche. Lobbisti e gruppi di pressione tutelano interessi particolari, dei quali cercano di mostrare la connessione con l'interesse pubblico. In questo modo quando la sua funzione è istituzionalizzata - il lobbismo è un fenomeno associativo con finalità pubbliche [Graziano 19951. Si può stimare che presso uffici e organi dell'Unione europea operino oggi circa 4.000 gruppi di interesse. Partiti e burocrazia hanno una natura politica riconosciuta e sono soggetti a meccanismi di controllo: i partiti, per esempio, devono mostrare la coerenza della loro azione di fronte all'elettorato. Più delicata è la posizione dei gruppi di interesse nel gioco democratico: in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, l'attività di lobbyng è prevista e regolata, mentre in altri, come l'Italia, ha carattere più informale. In questi casi il confine con attività scorrette o a volte anche la corruzione politica può diventare incerto. Inoltre, e questo vale in generale, spesso sono gli interessi più forti ad avere le risorse per una efficiente «azione di corridoio». In principio, tuttavia, i gruppi di interesse sono associazioni che possono tutelare in forma non occasionale qualsiasi tipo di interesse: un associazione di cittadini che con un'azione organizzata, per esempio con campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica, sollecita giustizia per i parenti di vittime di attentati terroristici è una lobby, anche se in casi che come questo non riguardano l'economia il termine è meno usato. Sono state proposte diverse tipologie anche per gli stili decisionali. Così, è utile distinguere uno stile impositivo da uno consensuale. Nel primo caso, le istituzioni politiche e amministrative hanno capacità di decidere e imporre una politica, eventualmente anche incontrando resistenza da parte degli interessati più diretti e organizzati; nel seconGruppi e Mtere9se Lobbies Stili decisionali 634 CAPITOLO 22 do, la decisione è frutto di mediazioni concordate. Si possono poi distinguere uno stile anticipatorio e uno stile reattivo: il primo cerca di definire e trattare problemi quando ancora non si sono presentati in modo difficile da affrontare, mentre il secondo li rincorre, quando si sono manifestati. Possiamo provare a utilizzare le categorie presentate per considerare se esista una particolarità del poliey~making italiano. Facendo il punto a partire dagli studi disponibili, si segnala la presenza diffusa di uno stile reattivo, che arriva sovente a decisioni in condizioni di emergenza: spesso si tamponano situazioni o si rincorrono problemi prima rimandati e poi accumulati. Le ragioni di questo sono diverse, ma una in particolare riguarda gli attori: la difficoltà di prevedere e affrontare con tempestività i problemi è legata in modo importante all'assenza di una forte, riconosciuta e esperta burocrazia [Dente 19901. E poi dominante uno stile consensuale, nel senso che le istituzioni politico -amministrative non sembrano in grado di imporre decisioni senza contrattarle con le parti in causa organizzate: la minaccia di conflitti è in grado di bloccare decisioni imposte. Lo stile consensuale, ovvero l'aggiustamento reciproco e preliminare degli interessi in gioco tramite accordi con le parti, è una tendenza diffusa del policy-making nelle complesse società contemporanee, che può produrre buone decisioni, con la garanzia che saranno rispettate dai diversi attori; può però anche dar luogo a patologie quando i gruppi di interesse hanno forti capacità di ricatto minacciando conflitti, e se le richieste sono orientate a ottenere vantaggi senza attenzione ai costi e alle conseguenze indirette. Un sintomo del fatto che sovente in Italia si tocca questa patologia dello stile consensuale è la facilità e la diffusione delle Pagina 372
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt politiche distributive - in tutti i campi di decisione, dalla politica sociale a quella per l'industria o il commercio - e per converso una grande difficoltà per politiche redistributive: quando si tratta di stabilire e distribuire in modo differenziato costi, e non solo benefici, di individuare priorità di spesa e di riallocare risorse, si trovano forti difficoltà di decisione. Le politiche redistributive/estrattive sono ovunque difficili, ma in Italia lo sono in modo particolare. La facilità delle politiche distributive e le difficoltà di quelle redistributive hanno influito pesantemente sullo stato della finanza pubblica: le spese sono state superiori alle entrate e si è accumulato in Italia un forte debito pubblico; per far fronte alla situazione lo stato ha dovuto farsi prestare somme cresciute negli anni, sulle quali paga interessi e che dovrà restituire. Nel 1993 il rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo (ovvero ricchezza prodotta nel paese) era 120,6 in Italia, a fronte del 58,2 in Francia, 51,4 in Germania, 51,9 nel Regno Unito. Le analisi sulla finanza pubblica e i giudizi su costi e vantaggi delle diverse categorie sono molto difficili, e non si prestano a facili conclusioni. Basti pensare, per esempio, che uno stesso livello di tassazione GOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 635 TAB..22.1. Aliquota effettiva per:redditi lavoro dipendente eì uto nomo: ne 1 periodo .1980--1993 Lavoro dipendente Lavoro autonomo e redditi da capitale 1980 1993 variazioni 1980 1993 variazioni Francia 37,14 43,94 +6,80 48,09 46,40 -2,05 Germania 36,43 41,22 +4,79 55,81 45,31 -10,50 Inghilterra 24,77 24,85 +0,08 74,17 36,96 -37,21 Italia 31,85 43,21 +11,36 21,71 40,46 +18,75 Unione europea 34,58 40,83 +6,25 46,22 39,82 -6>40 Fonte: Commissione europea sulla fiscalità. significa cose molto diverse per una famiglia o un'impresa a seconda che l'amministrazione offra o no servizi, sia efficiente o meno. La tab. 22.1 si presta comunque a qualche considerazione sociologica. Essa si riferisce alla parte dei redditi prelevati dal fisco a due grandi categorie di percettori di reddito: i lavoratori dipendenti, da un lato, i lavoratori autonomi e le imprese dall'altro. Sino a qualche anno fa, le aliquote per i redditi da lavoro dipendente erano in Italia poco sotto la media europea, mentre molto sotto alla media - meno della metà - erano quelle degli autonomi. Certamente i ceti medi indipendenti nel passato sono stati trattati benevolmente dal fisco. Negli ultimi anni, le aliquote sono salite per entrambi i gruppi, ma le seconde sono cresciute più rapidamente, portandosi grosso modo sulla media europea. Contrariamente a quanto si verifica in Francia, Germania, Gran Bretagna le aliquote per gli indipendenti continuano comunque a essere inferiori a quelle per i dipendenti. In termini di livello di tassazione gli indipendenti italiani non hanno dunque motivi particolari per lamentarsi. La possibilità per alcuni partiti di mobiltare una protesta fiscale in occasione delle elezioni del 1996 può essere però riferita anche a un senso di «privazione relativa» diffuso fra commercianti, artigiani, piccoli imprenditori, vale a dire alla percezione di un rapido peggioramento relativo di condizioni fiscali, per rapporto alla situazione di un altro gruppo con il quale ci si confronta [Merton 19491. 5. Le politiche sociali e i sistemi di welfare state La politica previdenziale, quella sanitaria e quella assistenziale, sono tradizionalmente chiamate politiche sociali. 1 confini delle politiche sociali sono tuttavia incerti, e possono estendersi sino a comprendere, per esempio, parte almeno delle politiche del lavoro, dell'abitazione, scolastiche. L'idea che lo stato debba proteggere certi standard di reddito, alimentazione, salute e sicurezza fisica, istruzione e abita636 CAPITOLO 22 zione costituisce l'essenza del cosiddetto welfare state [Wilensky 19651. Questo è un sistema di politiche sociali che predispongono interventi e introducono diritti nel caso di eventi prestabiliti, imponendo anche specifici doveri di contribuzione finanziaria [Ferrera 19931. Welfare state Il welfare state moderno è un'invenzione europea, e può essere considerato un aspetto del processo di modernizzazione che ha caratterizzato questa parte del mondo (v. cap. 11). 1 sistemi di welfare europei hanno origine alla fine del secolo scorso, e si sviluppano poi in questo a seguito dei Pagina 373
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt problemi sociali sollevati dall'industrializzazione e dall'inurbamento di grandi masse di popolazione. Si fa strada l'idea di una cittadinanza sociale come completamento di quella civile e politica (v. cap. =), sotto lo spinta politica dei movimenti operai. Durante la Il guerra mondiale, a partire dal Rapporto di una commissione presieduta da Lord Beveridge, si comincia a progettare in Inghilterra un comprensivo piano di sicurezza sociale destinato a combattere i «cinque giganti» sulla strada della ricostruzione: l'indigenza, l'ignoranza, lo squallore morale, lindolenza, la malattia. A queste misure è associata la diffusione dell'uso del termine welfare state. Nel dopoguerra le politiche sociali si espandono, soprattutto nel periodo che va daH'inizio degli anni sessanta alla metà dei settanta. Successivamente, la fine della forte crescita economica e i problemi finanziari collegati (cap. XVil1) hanno posto limiti alla crescita e si sono posti problemi di contenimento della spesa, anche se non è in corso uno smantellamento del welfare state, ma piuttosto una sua ridefinizione. Pr'e,.@denza sodale La previdenza sociale è un insieme di disposizioni protettive nei confronti di vecchiaia, invalidità, infortuni, disoccupazione, malattia. in Italia si basa su un sistema pubblico obbligatorio, che fino ad ora ha lasciato poco spazio a forme private integrative. Inoltre, si tratta di misure che riguardano lavoratori, e sono dunque forme di assicurazione obbligatoria finanziate in parte dai lavoratori stessi, con trattenute sui salari, in parte dai datori di lavoro. Pensioni La parte più importante della previdenza è costituita dalle pensioni. Abbiamo già incontrato questioni relative ai sistemi pensionistici parlando degli anziani nel cap. XIV. Riprendiamo qui il tema in riferimento non agli effetti delle pensioni sulle condizioni di vita degli anziani, ma ai caratteri e ai meccanismi del sistema di previdenza. Si distinguono pensioni di invalidità, di vecchiaia (al raggiungimento di un limite di età, se si è raggiunto un periodo minimo di contribuzione), di anzianità, che non dipende dall'età ma da un periodo minimo di contribuzionì, e di reversibilità, a familiari superstiti. E finanziamento delle pensioni ha in generale due possibilità: a ripartiztone, se i contributi versati da tutte le persone che oggi lavorano servono a pagare tutti coloro attualmente in pensione; a capitalizzazione, se un pensionato riceve gli interessi dei capitali che ha progressivamente accantonato durante la sua vita lavorativa. In Italia è stato finora seguito il primo modello. La spesa per pensioni è stata in forte crescita negli ultimi anni: nel GOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 637 TAB. 22.2. :J>es@ per pensionì di. veccbiaia, percentuak su Pil, 199.3 Italia 15,4 Francia 12,7 Germania 12,1 Regno Unito 10,8 Europa dei 12 11,9 Fonte: Cazzola [19941. T.4B. 22.3. Rapporto 14voratori atlivi-pensioni, fon&) pensioni lavoratori dipendenti Inps 1947 5,89 1951 4,61 1957 3,38 1963 2,62 1976 1,52 1980 1,45 1985 1,21 1987 1,17 1990 1,18 Fonte: Cazzola [19941. 1960 era il 5,0 del Prodotto interno lordo, nel 1993 ha superato il 15% Siccome le aliquote delle contribuzioni sono inferiori al punto di equilibrio, e sono state introdotte diverse misure favorevoli su età di pensionamento, agganciamento del trattamento ai salari e altro, il deficit a carico pubblico è aumentato nel tempo. L'ammontare complessivo della spesa sociale in Italia è inferiore a quello di paesi come la Francia, la Germania o l'Inghilterra, e inferiore alla media europea, ma la spesa per pensioni è nettamente superiore (tab. 22.2). La differenza non è dovuta al fatto che le pensioni hanno importi più elevati, ma essenzialmente al fatto che l'Italia ha la più bassa età di pensionamento fra i paesi europei. La situazione italiana è dunque critica, tanto più che va peggiorando, come ovunque per ragioni demografiche, A rapporto fra lavoratori attivi e pensionati. Lo mostra con chiarezza la tab. 22.3: nel 1947 per ogni pensionato c'erano 6 lavoratori attivi, nel 1990 il rapporto è ormai quasi di uno a uno. Nei prossimi anni, continuando l'attuale tendenza, i pensionati supereranno gli Pagina 374
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt attivi. In questa situazione, l'innalzamento dell'età pensionabile, le restrizioni alle pensioni di anzianità (che avevano originato i cosiddetti baby-pensionati), controlli e maggior rigore nella concessione delle pensioni di invalidità (che in molti casi erano concesse senza l'esistenza dei requisiti), incoraggiamento a pensioni volontarie integrative sono misure orientate a riportare la spesa per pensioni sotto controllo. Le politiche sanitarie seguono tre possibili modelli. L'Inghilterra Politiche sanitarie ha introdotto nel dopoguerra il sistema sanitario nazionale, che garan638 CAPITOLO 22 tisce uguali diritti di cura a tutti i cittadini, con prestazione di servizi organizzati dallo stato stesso. I paesi scandinavi, l'Irlanda, l'Italia seguono questo modello (l'Italia dal 1978). Un secondo modello è costituito dai sistemi di assicurazione sociale, nel quale esiste l'obbligo per datori di lavoro e lavoratori ad assicurarsì con una mutua, che è un ente di interesse pubblico, facendosi lo stato carico di chi non può accedere a una mutua perché non lavora o non è famigliare di un lavoratore. Di questo tipo sono la maggior parte dei sistemi dei paesi europei continentali. Infine, e questo è il caso degli Stati Uniti, il sistema sanitario può essere essenzialmente privatistico; in quel paese esistono solo due ristretti programmi per gli anziani (Medicare) e per i poveri (Medicaid) La spesa per cure mediche è rilevante e crescente. Se la salute costituisce un valore di base nelle nostre società, si comprende perché possa essere associato a forme di tutela universalistiche, quali appunto quelle che in principio prevede, più di ogni altro, il servizio sanitario nazionale. Salute e al limite vita sono considerati da tutti noi come valori non negoziabili. Tuttavia esistono problemi di efficienza e di spese crescenti. La prima è anche collegata alla mancanza di verifica da parte del mercato, nel caso di un servizio pubblico in situazione di monopolio; le seconde sono collegate all'invecchiamento della popolazione, a una crescente sensibilità per la salute e al continuo sviluppo delle tecnologie mediche e farmaceutiche. Resta il fatto che le disuguaglianze di accesso alle cure sono oggi molto forti [Costa e Faggiano 19941. Dal 1960 al 1993 la spesa sanitaria corrente è più che raddoppiata in Italia, passando dal 3,0% al 6,5% del Pil. Questa cifra finale è grosso modo in linea con la media dei paesi europei, ma il problema del controllo della spesa sanitaria resta. Il finanziamento della spesa è in parti all'incirca uguali a carico della contribuzione degli utenti e dello stato. La quota delle contribuzioni è andata aumentando rapidamente, e probabilmente aumenterà ancora. Si cerca poi di recuperare efficienza organizzativa nelle strutture sanitarie e di eliminare le prestazioni non strettamente necessarie. Il Servizio sanitario nazionale, nell'ambito di decisioni politiche a livello statale, attribuiva ai comuni la gestione amministrativa dei servizi, e questi agivano attraverso le Unità sanitarie di base (Usl). Oggi si è delineato un nuovo assetto che trasferisce dallo stato alle regioni responsabilità finanziaria e di programmazione, per responsabilizzare maggiormente i cittadini al problema dei costi in rapporto ai bisogni reali. Le UsI e i grandi ospedali diventano a loro volta aziende con ampia autonomia organizzativa e gestionale, aumentando le dimensioni sino a coprire il territorio provinciale. Polifiche Le politiche assistenziali possono essere considerate le più antiche assistengi,ali politiche sociali: molto presto i poteri pubblici cominciano a farsi carico di cittadini poveri, senza fonte di sostentamento, anche perché povertà, mancanza di igiene, rischi di epidemie costituiscono pericoli GOVERNO E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 639 per l'ordine sociale. In questo campo, l'azione pubblica si affianca e acquista spazio rispetto a precedenti iniziative religiose, e la regolazione dei rapporti fra chiesa e stato in questo campo è passata attraverso importanti conflitti iniziali. La spesa assistenziale pubblica in Italia non raggiunge il 2% del Pil, ma si tratta di un settore disordinato, nel quale non è neppure facile fare conti precisi. Le pensioni sociali a chi è privo di reddito, la cosiddetta integrazione al minimo di pensioni di vecchiaia insufficienti, le pensioni di invalidità civile a ciechi, sordomuti e altri pluriminorati sono le più importanti forme di assistenza pubblica. Non esiste invece nel nostro paese una erogazione che garantisca il cosiddetto minimo vitale, vale a dire un assegno minimo a chi non ha mezzi e non può trovare un lavoro: questo esiste in Pagina 375
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Inghilterra, Francia, Germania. Più in generale, si può però dire che non esiste in Italia una esplicita politica contro la povertà e l'esclusione sociale, anche se si può sostenere che nelle diverse politiche sociali nazionali e locali possono trovarsi misure che costituiscono, nel loro insieme, delle politiche implicite contro la povertà [Negri e Saraceno 19961. Sostenere questo significa però anche confermarelil disordine del settore e la necessità di un suo riordino più organico. E probabile che tale riordino, in futuro, sviluppi comunque un ulteriore intreccio fra azione pubblica e azione privata, fra attività professionale e volontariato, questo eventualmente anche sostenuto e riconosciuto dai poteri pubblici. Abbiamo visto i campi principali delle politiche sociali e lo sviluppo dei sistemi nazionali di welfare state, di cui è evidente la varietà. Torniamo in conclusione a un quadro più generale, provando a fare ordine. Sostanzialmente, lasciando da parte il caso anomalo degli Stati Uniti, i diversi paesi che abbiamo considerato hanno dato vita a dei modelli di solidarietà che sono riconducibili a due grandi famiglie: quello universalistico e quello occupazionale. 1 sistemi di welfare state europei evolvono fra queste due possibilità: la Germania di Bismarck introduce il modello delle assicurazioni obbligatorie procurando protezione a chi lavora; la Danimarca introduce per prima misure universalistiche, seguita poi dagli altri paesi scandinavi e dai programmi inglesi per fornire un «minimo dignitoso» di condizioni di vita a tutti i cittadini. Nel corso degli anni i sistemi si sono avvicinati, con ibridazioni e specie miste, per esempio occupazionali in campo pensionistico e universali in campo sanitario. Popolazione e organizzazione dei territorio ,i i ! i .1 1 1 1 Capitolo 23 l. Lo studio della popolazione A prima vista, può sembrare «che i matrimoni, le conseguenti nascite e la morte - scriveva nel 1784 Immanuel Kant - non siano soggetti ad alcuna regola, secondo la quale si possa anticipare, secondo i calcoli, il loro numero, poiché la libera volontà dell'uomo ha su di essi una così grande influenza» In realtà, egli aggiungeva, «le tabelle annuali dei grandi paesi» mostrano che anche quegli avvenimenti presentano delle regolarità. Così, nonostante che ciascuno di noi sia libero di sposarsi quando vuole, riusciamo a prevedere con una certa precisione quanti matrimoni vi saranno nel nostro paese il prossimo anno. Studiare queste regolarità, come pure le relazioni che vi sono fra esse e altri fatti sociali e biologici, è compito della demografia. Il termine demografia (dal greco demos e grafia: descrizione della popolazione) fu introdotto nel 1855 da Achille Guillard. Ma il fondatore della demografia viene considerato johann Peter Sussmilch (17071767), un cappellano dell'esercito prussiano autore di un trattato in cui dava una prima sistemazione scientifica alla disciplina. Oggi, negli Stati Uniti, la demografia è considerata un settore della sociologia. Nel nostro paese invece essa si è sviluppata come disciplina autonoma e ha avuto illustri cultori. Per studiare la popolazione, i demografi e i sociologi si basano su dati di flusso e dati di stato. 1 primi riguardano fenomeni come le nascite, le morti e i matrimoni, che modificano continuamente la composizione di una popolazione. 1 secondi invece si riferiscono all'ammontare e alle caratteristiche di base della popolazione e permettono di fissarne la fisionomia a un determinato momento. I primi vengono ricavati soprattutto dalle registrazioni anagrafiche. I secondi dai censimenti, che a partire dal 1861 nel nostro paese sono stati condotti quasi ogni dieci anni. Demografia Dati di flusso e dati di stato 644 CAPITOLO 23 2. Tre variabili chiave Le dimensioni, la composizione e la distribuzione della popolazione dipendono da tre grandi fattori, sui quali si concentra l'attenzione dei demografi e dei sociologi: la natalità, la mortalità e la mobilità. Nascite e morti costituiscono il movimento naturale della popolazione. Il saldo di questo movimento è positivo quando le prime sono più numerose delle seconde, negativo Pagina 376
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt nel caso opposto. Gli spostamenti costituiscono invece il movimento migratorio della popolazione. Qui il saldo è positivo quando i movimenti in entrata superano quelli in uscita, negativo nel caso contrario. Misure della natalità Tasso generico di natalità Tasso specffico di natalità Fertilità e fecondità 2.1. La natalità Nel 1993, in Italia, le nascite sono state 522 mila. E una cifra assoluta, che presenta più di un motivo di interesse. Tuttavia, i numeri assoluti non permettono di fare confronti nel tempo e fra popolazioni diverse, di dire cioè se la natalità in Italia sia aumentata o diminuita rispetto a trent'anni fa o se sia maggiore o minore di quella di altri paesi. In Venezuela, ad esempio, nel 1988, le nascite sono state 500 mila, dunque un po meno che in Italia. Eppure, in quel paese dell'America del sud, la natalità è molto più alta che da noi. E motivo di questa apparente incoerenza e semplice: la popolazione venezuelana è meno di un terzo di quella italiana. Se vogliamo fare dei confronti nel tempo e fra popolazioni diverse dobbiamo dunque servirci di numeri non assoluti, ma relativi: di tassi, cioè di rapporti di frequenza. Vengono chiamati tassi generici quelli che si ottengono mettendo in rapporto gli eventi verificatisi in un certo periodo (ad esempio: le nascite nel 1993) alle dimensioni della popolazione. Nel 1993, A tasso generico di natalità è stato in Italia di 9,4 (per mille abitanti), in Venezuela di 28. Ma i tassi generici sono misure grossolane di un fenomeno demografico, perché risultano influenzati dalla diversa struttura dei gruppi (per sesso, età, stato civile, ecc.). E confronto fra il tasso di natalità di due paesi può essere talvolta fuorviante, perché uno può avere una quota più alta di donne in età riproduttiva dell'altro. Per avere misure più.precise si fa ricorso ai tassi specifici, che si ottengono mettendo in rapporto gli eventi con un segmento particolare della popolazione. Nel caso che qui ci interessa, questo segmento è dato dalle donne fertili, cioè in età compresa fra i 15 e i 45 o 50 anni. Mettendo in rapporto il numero dei nati con quello delle donne fertili si ottiene il tasso di fecondità. 1 tassi specifici di fecondità per età permettono di calcolare il tasso di fecondità totale (Tft), che indica A numero medio di figli per donna. Si osservi che fertilità e fecondità sono due concetti diversi. Con STRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE fertilità si intende la capacità di generare dei figli. La fecondità è invece la manifestazione concreta di tale capacità. Una donna fertile non è necessariamente feconda, mentre una feconda è sempre fertile. La fertilità di una donna va dai venti ai venticinque figli, mentre la sua fecondità resta molto al di sotto di questa soglia. 2.2. La mortalità Vi sono varie misure della mortalità. Una delle più usate è il tasso generico di mortalità, che è dato dal rapporto fra il numero dei morti in un determinato intervallo di tempo (di solito un anno) e l'ammontare della popolazione in quel periodo. In Italia, ad esempio, nel 1993, il tasso generico di mortalità è stato di 9,5 per mille abitanti. Ma, anche in questo campo, per fare dei confronti corretti è spesso necessario servirsi di tassi specifici. Uno fra i più importanti e fra i più usati dai demografi e dai sociologi è il tasso di mortalità infantile, che si ottiene ragguagliando il numero dei bambini morti da zero a un anno, in un determinato anno di calendario, al numero dei nati vivi nello stesso intervallo. In Italia, nel 1991, esso è di 8,8 per mille. Ciò significa che quasi un bambino su cento non supera il primo compleanno. A questo tasso viene rivolta una particolare attenzione, per vari motivi. In primo luogo perché esso ha raggiunto in passato, e tocca ancor oggi in molte società, dei livelli molto alti. In alcuni paesi asiatici, e in molti di quelli africani, esso supera il valore di 120 per mille. In secondo luogo, perché la mortalità infantile è strettamente correlata con altri importanti aspetti della vita economica e sociale. In terzo luogo perché ovunque fra il primo ed il secondo anno di vita vi è una differenza radicale nel rischio di morte, non rilevabile in altre età contigue. Correlato con il tasso di mortalità vi è la speranza di vita a una certa età, che indica il numero medio di anni che restano da vivere ai sopravviventi a quell'età. La speranza di vita alla nascita ci dice quale è il numero medio di Pagina 377
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt anni vissuti da una generazione. In Italia, ad esempio, essa è oggi di 72,9 anni per gli uomini e di 79,4 per le donne. Ma si usa calcolare la speranza di vita anche a venti, a trenta o a cinquanta anni. Nel nostro paese, ad esempio, all'età di cinquant'anni, gli uomini hanno in media altri 25,9 anni da vivere, le donne 31,4. 2.3. La mobilità La definizione degli eventi demografici che abbiamo visto non presenta alcuna difficoltà concettuale. Nessuno ha dubbi su cosa sia una nascita, una morte o anche un matrimonio. Non altrettanto si può 646 CAPITOLO 23 Emigrazione Immigrazione Movimento naturale, movimento migrat orio Misure della mobilità dire della mobilità. In termini generali, possiamo definirla come la tendenza di una popolazione a spostarsi sul territorio. Ma il numero di spostamenti che compiono quotidianamente gli uomini e le donne di quasì tutti i paesi del mondo è molto alto. Noi tutti passiamo ogni giorno da un luogo all'altro, andando a scuola o al lavoro, alla partita o a un concerto, in vacanza o a trovare un parente. Per quanto importanti questi spostamenti siano nella nostra vita quotidiana, essi non possono essere di solito presi in considerazione nello studio della popolazione. La mobilità di cui si occupano i demografi e i sociologi è solo quella che implica un trasferimento (permanente o meno) della dimora abituale di una persona, del luogo dove questa vive, produce e consuma. Questì trasferimenti vengono chiamati migrazioni. Si parla di emigrazione quando ci si riferisce al luogo di provenienza di uno o più individui, di immigrazione quando invece si pensa a quello di destinazione. Le migrazioni sono chiamate interne quando hanno luogo entro i confini territoriali dell'unità che si considera (ad esempio uno stato nazionale), esterne quando varcano tali confini. Dal punto di vista delle dimensioni della popolazione, le immigrazioni sono paragonabili alle nascite, le emigrazionì alle morti. Una persona che muore influisce sul numero degli abitanti di un paese quanto una che emigra; una che nasce quanto una che immigra. Vi sono tuttavia importanti differenze fra i fenomeni del movimento naturale e quelli del movimento migratorio della popolazione. 1 primi sono eventi unici, i secondi ripetibili. Si nasce e si muore una sola volta, mentre si può uscire da una regione e da un paese e rientrarvi più volte. Inoltre, ì primi sono fenomeni biologici universali, i secondi invece sono fenomeni sociali che riguardano solo una parte della popolazione, per quanto ampia essa possa essere in certi casi. t molto più difficile misurare la mobilità che la natalità o la mortalità. Dal punto di vista dinamico, le migrazioni vengono studiate con il quoziente di immigrazione e con quello di emigrazione. Il primo viene calcolato rapportando il numero degli immigrati, in un dato intervallo di tempo, a quello della popolazione in cui sono entrati. Il secondo si ottiene invece dal rapporto fra gli emigrati, in un certo intervallo, e la popolazione che essi hanno lasciato. Dal punto di vista statico, le migrazioni vengono analizzate in base ai dati dei censimenti, calcolando la quota dei censiti nati in una provincia, in una regione o in un territorio nazionale diversi da quelli di residenza sul totale degli abitanti. 3. La composizione della popolazione Per definire lo stato di una popolazione è necessario analizzarne la composizione a seconda di alcune caratteristiche delle persone che ne STRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 647 fanno parte. Le caratteristiche che vengono di solito prese in considerazione sono il sesso, l'età, lo stato civile, l'occupazione svolta, il gruppo etnico di appartenenza, la religione professata. Ma le più importanti sono le prime due. 3. l. Il sesso La distribuzione per sesso permette di rilevare l'esistenza di eventuali squilibri ed è di straordinaria importanza per esaminare alcuni fenomeni demografici, come le nascite e i matrimoni. La misura sintetica di questa distribuzione più spesso usata è data Rappono dal rapporto di mascolinità, che si calcola dividendo il numero degli di Masco".tà uomini per quello delle donne e moltiplicando il valore ottenuto per 100. Eseguendo ad esempio queste due operazioni per la popolazione italiana del 1991, formata da 27 milioni e 557 mila uomini e 29 milioni e 220 mila donne, si ottiene un rapporto di mascolinità di 94. Pagina 378
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt In tutte le popolazioni note è stato rilevato che questo rapporto, al momento della nascita, è di 105 o di 106, tanto che si pensa che questa sia una costante biologica. Tuttavia, nel corso dell'esistenza, si ha di solito un'eliminazione per morte più accentuata per gli uomini che per le donne, cosicché il rapporto di mascolinità si riduce progressivamente, scendendo al di sotto del valore 100. 19 rapporto di mascolinità della popolazione mondiale è di 101. Ma, proprio a causa dei diversi tassi di mortalità esistenti fra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, nei primi ci sono oggi 94 uomini ogni 100 donne, nei secondi invece ve ne sono 104. Nelle popolazione aperte, H rapporto dei sessi dipende anche dai movimenti migratori. Poiché le correnti migratorie sono composte in prevalenza da uomini, nelle zone di emigrazione si avrà di solito un'eccedenza di femmine, in quelle di immigazione una di maschi. E' per questo motivo, per fare solo un esempio, che nella città di Roma vi è stato in passato un accentuato squilibrio nel rapporto dei sessi. La chiesa, la corte pontificia, le ambasciate, i ministeri, oltre all'attività commerciale e a quella edilizia, attirarono in questa città soprattutto uomini, tanto che, nel corso del Seicento, il rapporto di mascolinità ha raggiunto il valore di 160 [Sonnino 19821. 3.2. L'età Ancora più importante è la composizione della popolazione per età. Essa influisce certamente su molti aspetti della vita sociale ed economica: sull'offerta di lavoro, sui risparmi, sulla domanda di beni e di servizi, sul comportamento politico, sulla criminalità. Ma è ancor più strettamente correlata con tutti i fenomeni demografici. La struttura 648 CAPITOLO 23 per età della popolazione non è solo uno specchio fedele della sua storia passata: permette anche di fare delle previsioni sul suo futuro. E uno specchio del suo passato perché dipende dal movimento naturale e da quello emigratorio verificatisi nei decenni precedenti. Quanto più frequenti sono state le nascite, tanto più ampie saranno le classi di età giovanili; quanto maggiore è stata la mortalità, tanto più ridotte saranno quelle anziane; quanto più consistenti sono stati i flussi immigratori, tanto meno numerose saranno le classi di età infantili e sendi (perché sono queste le meno mobili geograficamente). Permette di fare delle previsioni sul futuro, perché dalla distribuzione per età della popolazione in un momento particolare dipendono la natalità e la mortalità degli anni successivi. Se essa è molto giovane, i morti saranno minori che se è anziana; se le coppie in età feconda sono numerose, la natalità sarà maggiore. Si usano vari indici sintetici della struttura per età. Di rado si fa ricorso all'età media di una determinata popolazione, per il buon motivo che si può avere la stessa età media con distribuzioni molto Indice diverse delle classi di età. Più frequente è l'uso dell'indice di vecchiaia, di vec.chiaia che si ottiene moltiplicando per 100 il rapporto fra il numero di persone anziane (gli ultrasessantacinquenni o gli ultrasessantenni) e il numero di quelle giovani (da 0 a 14 anni o da 0 a 20 anni) Per misurare il peso della popolazione economicamente inattiva su quella attiva ludice si calcola di solito l'indice di dipendenza, dividendo il numero delle di dipendenza persone da 0 a 14 e con oltre 65 anni per quelle da 15 a 64 anni e moltiplicando per cento. Si usa rappresentare la composizione per età della popolazione con dei rettangoli (detti istogrammi) sovrapposti in senso orizzontale, ponendo sulla destra dell'asse la popolazione maschile e sulla sinistra Pirarnidì delle età quella femminile (si veda la fig. 23.1). Queste raffigurazioni vengono chiamate piramidi delle età perché hanno spesso una forma molto simile a quella di un triangolo isoscele con il vertice rivolto verso l'alto. Quelle della fig. 23.1 rappresentano la composizione per età della popolazione italiana nel 1951 e nel 1991. Guardandole, il lettore si accorgerà subito che la seconda ha una base molto più piccola della prima, a causa della diminuzione della natalità che, come diremo meglio, è iniziata nel 1965. Dall'esame della sua composizione per età ci si può fare un'idea abbastanza precisa della natura della popolazione che si ha di fronte. Si può ad esempio capire a quale di questi tre tipi essa si avvicini maggiormente: storico stazionaria, matura stazionaria e progressiva di transizione. Secondo questa distinzione, usata da molti demografi [Livi Bacci 19811, sia il primo che il secondo tipo di popolazione hanno un egual numero di nascite e di morti e dunque sono in equilibrio, a incremento zero. Tuttavia, mentre nella prima il tasso di natalità e quello di mortalità sono alti, nella Pagina 379
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt seconda sono bassi. Il terzo tipo di popolazione è caratterizzato invece da alta natalità, bassa mortalità e forte incremento. STRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 649 Inennaio 1951 l' gennaio 1991 I 1 1 I 5 4 3 2 1 . FIG. 23. L. Piranudi dell'età della popolazione residente in Itab al 1 * gennaio 1951 e -al. l' gennaio 1991 (distribuzione della popolazione per sesso e classi di età, valoti perceriFonte. Istat [19941. Questi tre tipi di popolazione presentano una composizione per età assai diversa. Le popolazioni mature stazionarie hanno una proporzione assai ridotta di persone al di sotto dei 15 anni e una molto consistente di quelle al di sopra dei 60. Le popolazioni storiche stazionarie hanno invece una proporzione assai elevata di giovani e una molto scarsa di anziani. Sono quelle che esistevano in Europa prima della transizione demografica (vedi più avanti), ad esempio nel XVI o nel XVII secolo. Infine, le popolazioni progressive di transizione hanno Popolazione storica stazionaria Popolazione progressiva di transizione 650 CAPITOLO 23 popolazione di transizione progressiva popolazione Fi(; 23.2. Tre distribuzionì ipotetiche per età. Fonte: Livi Baccì [19901. 0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 % FIG. 23.3. Tre distribuzionì demografiché per età. Toscana (1427), Svezia e Messico (1975). Fonte: Livi Baccì [19901. STRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 651 una quota di giovani ancora più ampia, perché, grazie alla diminuzione della mortalità, un numero maggiore di nati riesce a sopravvivere. la situazione in cui si trovano oggi molti paesi in via di sviluppo. La fig. 23.2 presenta le distribuzioni ipotetiche dell'età di questi tre tipi di popolazione. La fig. 23.3 riguarda invece tre popolazioni reali: la Toscana del 1427, che è quella che più assomiglia al tipo della popolazione storico stazionaria; il Messico del 1975, che è un buon esempio di una popolazione progressiva di transizione; la Svezia del 1975 che ben illustra la composizione per età di una popolazione matura stazionaria. popolazione tnatuta staAoriada 4. Lo sviluppo della popolazione nel secoli Alla fine del 1995 vi erano sulla terra circa 5 miliardi e 700 milioni di abitanti. Ma l'incremento demografico che ha portato a questa considerevole cifra è avvenuto in un periodo di tempo relativamente breve (fig. 23.4). A differenza di quanto si può pensare, per un lungo periodo lo sviluppo della popolazione del nostro pianeta è stato molto lento. Si ipotizza che, circa un milione di anni fa, i rappresentanti della Popolazione (in miliardi) 6 Tempi moderni 5 Età Età Medio Paleolitico Neolitico delbronzo del ferro evo A 4 3 1,2 @Z 2 _V Pagina 380
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt v v 652 CAPITOLO 23 nostra specie sulla terra fossero poche centinaia di migliaia. Nel decimo millennio avanti Cristo, all'inizio della rivoluzione del neolitico, essi erano diventati circa 6 milioni. Durante il neolitico, con il passaggio dall'attività di caccia e raccolta all'agricoltura stabile, la popolazione iniziò a svilupparsi un po più rapidamente e raggiunse i 250 milioni di abitanti all'inizio dell'era cristiana. E tuttavia a partire dal 1750 che vi è stata un'accelerazione decisiva nello sviluppo della popolazione. E tasso di incremento medio annuo, che era stato solo dello 0,06% nei due millenni precedenti, sarebbe aumentato di dieci volte nei duecento anni successivi, raggiungendo lo 0,60%. A metà del nostro secolo, sul nostro pianeta, vivevano ormai due miliardi e mezzo di abitanti. Nel quarantennio successivo la velocità di espansione è diventata ancora maggiore. 11 tasso di incremento ha raggiunto la punta più alta GI 2,04%) nel quinquennio 1965-1970. Pur essendo da allora diminuito, esso resta superiore a 1,50% Per dare un'idea della differenza esistente fra il periodo che si chiude e quello che si apre alla metà del Settecento, basta dire che il tempo di raddoppio (ossia il numero di anni necessari perché una popolazione raggiunga un numero doppio di abitanti) si contava prima in migliaia di anni e ora solo in decine. L'80% dell'accrescimento numerico della specie umana è avvenuto dal 1750 ad oggi, cioè in un periodo che rappresenta solo lo 0,2% della durata della sua esistenza [Poursin 19891. 4.1. Freni repressivi e freni preventivi Come spiegare l'andamento della popolazione nel passato, prima e dopo la grande svolta della metà del Settecento? Fra le molte risposte che sono state date a questo difficile interrogativo vale sicuramente la pena di ricordare quelle di Thomas Malthus (1766-1834), un pastore anglicano che viene oggi considerato come uno dei grandi padri fondatori della demografia. In un libro pubblicato per la prima volta nel 1793, dal titolo An essay on the principle of population, egli affermava che di solito lo sviluppo della popolazione avveniva con un ritmo più rapido di quello dei mezzi di sussistenza, perché la prima tendeva a crescere in progressione geometrica, i secondi invece in progressione aritmetica. Per raggiungere e mantenere l'equilibrio fra popolazione e risorse potevano essere seguite due diverse strade: una dei freni repressivi, l'altra di quelli preventivi. La prima veniva più spesso scelta dai paesi Freni repressivi e dai ceti meno «civilizzati» e passava attraverso l'aumento della mortalità. L'incremento eccessivo degli abitanti di un paese rispetto ai mezzi di sussistenza disponibili provocava un generale peggioramento delle condizioni materiali di vita, determinando situazioni di fame, STRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 653 epidemie, guerre, che riducevano la numerosità della popolazione e permettevano di ristabilire un nuovo equilibrio fra questa e le risorse. Era, a ben vedere, una vecchia idea, presentata fra gli altri anche da Niccolò Machiavelli, che molto tempo prima di Malthus aveva scritto: «e che queste inondazioni, pesti e fami venghino, non credo sia da dubitarne perché la natura, come ne corpi semplici, quando vi è ragunata assai materia superflua, muove per sé medesima molte volte, e fa una purgazione, la quale è salute di quel corpo». La seconda strada veniva invece seguita dai paesi e dai ceti più «civilizzatì» e passava attraverso la riduzione della nuzialità e della natalità. L'unico freno «perfettamente coerente con la virtù e la felici- Freui.pfe~tivi tà» era, secondo Malthus, quello «preventivo», che consisteva nell'«astensione dal matrimonio, temporanea o permanente, dettata da ragioni di prudenza, con una condotta strettamente morale nei riguardi del sesso per tutto il periodo di attesa» [Malthus 1830, trad. it. 1977, 2251. L'eccessivo aumento degli abitanti rispetto ai mezzi di sussistenza determinava anche in questo caso il peggioramento delle condizioni materiali di vita. Tuttavia, questo spingeva le persone a rimandare il matrimonio e in tal modo a ridurre il numero dei figli. 4.2. Le grandi crisi di mortalità Che i freni repressivi abbiano effettivamente influito sull'andamento della popolazione europea prima della metà del Settecento è fuori discussione. L'alternarsi di cicli di espansione e di flessione che hanno contraddistinto Pagina 381
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt questo andamento è riconducibile proprio alle grandi crisi demografiche, cioè a quei bruschi rialzi della mortalità provocati da una causa che non è normalmente presente nella popolazione. A bello, fame et peste libera nos, Domine, si diceva nell'Europa preindustriale. E in effetti le guerre, le carestie e le epidemie hanno provocato dei forti aumenti della mortalità. «Tanta e tal fu la crudeltà del cielo - osservava Giovanni Boccaccio nel Decameron - e forse in parte quella degli uomini, che infra il marzo ed il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l'esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne lor bisogni per la paura che aveano i sani, oltre a centomila creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti» «I pochi guariti dalla peste - scriveva cinque secoli dopo Alessandro Manzoni ne I promessi sposi erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come una classe privilegiata. Una gran parte dell'altra gente languiva o moriva; e quelli ch'erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano in continuo timore». Quelle descritte dal Boccaccio e dal Manzoni furono due delle più drammatiche epidemie - entrambe di peste - che colpirono il nostro paese. La prima scoppiò a Messina alla fine del 1347 e l'anno dopo si 654 CAPITOLO 23 diffuse in tutto il resto d'Italia e negli altri paesi europei. La seconda comparve a Milano negli ultimì mesi del 1629 e raggiunse l'anno dopo le altre regioni dell'Itaha settentrionale e la Toscana. Entrambe ebbero effetti disastrosi sulla popolazione, causando un gran numero di perdite di vite umane. La peste nera del 1348 uccise 30 milioni dei 100 che vivevano allora in Europa. L'epidemia del 1630 provocò la morte di circa un quarto della popolazione dell'Italia settentrionale. Per secoli, epidemie come queste si sono ripetute con grande frequenza, spesso a distanza di 10 o 11 anni l'una dall'altra. La loro diffusione è stata facilitata dalla mancanza di cibo e dalla sottonutrizione della popolazione e dalle guerre o, almeno, dagli spostamenti degli eserciti, che costituivano un veicolo di trasmissione di qualunque morbo. Per tutta la loro durata, oltre a un aumento della mortalità, esse provocavano una diminuzione della nuzialità (dovute all'infermità di uno dei due nubendi e alla riluttanza a sposarsi in tempi così poco lieti) e della natalità (causata dalle resistenze psicologiche a procreare e dalla crescita del numero degli aborti e dei nati morti). Ma nel periodo successivo alla crisi, la popolazione aveva una notevole capacità di recupero. Il numero dei matrimoni e dei concepimenti riprendeva a salire. L'età alle prime nozze si abbassava, diminuiva il tasso di celibato e di nubilato definitivo, si riduceva l'intervallo fra una nascita e l'altra, aumentava la fecondità. Nella storia delle crisi demografiche si possono distinguere due periodi. il primo, che va dalla metà del Trecento alla metà del SeicenPeste to, è dominato dalla peste, certamente la più grave fra le forme epidemiche che hanno colpito le popolazioni europee. Si stima che il tasso di letalità della peste oscillasse fra il 60 e l'85%. Essa era in origine una malattia dei roditori e il suo bacillo veniva trasmesso all'uorno da una pulce. Nella sua forma bubbonica, rimaneva in incubazione circa una settimana. La morte sopraggiungeva solo dopo cinque giorni di malattia. Alla metà del Seicento a peste scomparve e le crisi demografiche divennero meno frequenti e meno intense. Iniziò il periodo delle epiEpidemie sociali demie sociali - il tifo, la malaria, il vaiolo e il colera - che sarebbe terminato alla metà del secolo scorso, con l'aprirsi dell'epoca della mortalità controllata, nella quale ci troviamo anche oggi. Per la frequenza delle sue epidemie, il tifo è stato in passato il flagello più grave dopo la peste. Si presentava sotto due diverse forme - addominale e esentematico o petecchiale ed aveva un tasso di letalità del 15-20%. Al terzo posto nella scala di gravità delle epidemie vi era il vaiolo e al quarto il colera, una malattia sviluppatasi nel secolo scorso. Le diverse forme epidemiche che abbiamo ricordato non colpivano nella stessa misura tutte le classi di età della popolazione. La peste itifieriva soprattutto sui ragazzi dai 5 ai 14 anni e sui giovani fino ai 24 anni, mentre era più clemente con coloro che avevano superato i 50 anni. 19 tifo invece uccideva soprattutto gli adulti e gli anziani e risparSTRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 655 miava i ragazzi e i giovani. E vaiolo riguardava quasi esclusivamente le classi di età più giovani. Infine, il colera si abbatteva specialmente sugli adulti dai 30 ai 60 anni. Non tutte le forme epidemiche avevano dunque gli stessi effetti Pagina 382
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt di lungo periodo suH'evoluzione della popolazione. Ad avere conseguenze più negative da questo punto di vista erano la peste e il vaiolo, perché decimavano le persone che dovevano entrare nell'età feconda e quindi riducevano le capacità riproduttive della popolazione. Negli anni settanta del nostro secolo ha iniziato a propagarsi in modo silenzioso in tutti i continenti un nuovo tipo di epidemia: quella da Aids, la sindrome da immunodeficienza acquisita. Pur non provo- Aids cando di per sé la morte, l'AiAs determina il collasso del sistema delle difese dell'organismo umano nei confronti delle infezioni e dunque fa sì che la vittima sia esposta ad una serie di malattie letali. Colpisce quasi esclusivamente le persone più giovani. La trasmissione della malattia avviene o attraverso il sangue (ad esempio con lo scambio di siringhe fra tossicodipendenti) o attraverso i fluidi sessuali (lo sperma e le secrezioni vaginali). Degli oltre 15 mila casi di Aids segnalati in Italia fino al 1993, il 65% era di tossicodipendenti, il 15% di omosessuali, a 7% di eterosessuali. Nel mondo vi sono oggi circa 10 milioni di persone infettate da HIV. Ma questa malattia ha avuto finora una rapida diffusione nelle Americhe (soprattutto negli Stati Uniti), in Africa e in Europa, mentre ha colpito molto meno le popolazioni dell'Asia. 4.3. Il ruolo della nuzialità Ma il merito più grande di Malthus è stato di aver messo in luce l'importanza dei freni preventivi. Le ricerche di demografia storica condotte nell'ultimo trentennio hanno mostrato che egli non si sbagliava quando affermava che «in quasi tutti i paesi più avanzati dell'Europa moderna la costrizione prudenziale relativa al matrimonio è il freno principale fra quanti oggi tengono la popolazione in equilibrio con gli effettivi mezzi di sussistenza» [1830, trad. it. 1977, 2301. Da queste ricerche è emerso infatti che l'età al matrimonio delle donne è stata un potente sistema di regolazione della fecondità in molti paesi dell'Europa preindustriale. Come abbiamo visto nel cap. XIV, in questi paesi le persone si sposavano a un'età avanzata (gli uomini a 26-27 anni, le donne almeno a 23-24) e una parte di loro non si sposava mai. Ciò riduceva la lunghezza del periodo riproduttivo della donna e permetteva di limitare la fecondità. Per questo, nei paesi europei il tasso di Tasso fecondità totale non è mai andato oltre la soglia di 5 figli per donna, di fecondità:totale mentre ancor oggi, nei paesi in via di sviluppo, esso supera spesso 16. Malthus riteneva però che fosse l'Inghilterra il paese in cui i freni preventivi giocassero un ruolo maggiore. Ed anche su questo i risultati delle ricerche demografiche degli ultimi trent'anni gli hanno dato ra656 CAPITOLO 23 300 1551 1601 1651 1701 1751 1801 1851 1901 FiG. 23.5 Tasm di ìiuziàità (matrunoni per 1 -000 persone da 15 a. 34:anni)@ e Wari reàh in lo gUterra dal 1550 -al 1850.. Fonte:: Wrigìéy:e Sichofield: [19811. gione. Essi hanno messo in luce che mentre in Francia vi era un sistema ad «alta pressione demografica», dove era soprattutto la mortalità a mantenere l'equilibrio fra popolazione e risorse, in Inghilterra ve ne era uno di «bassa pressione», in cui contava molto di più la nuzialità. Come si può vedere dalla fig. 23.5, dalla metà del Cinquecento alla metà del'Ottocento, il tasso di nuzialità ha subito in Inghilterra delle notevoli variazioni. Le oscillazioni di questo tasso riflettevano l'effetto combinato dei cambiamenti dell'età al matrimonio e della frequenza del celibato definitivo. L'età alle prime nozze delle donne è variata in questo periodo da un minimo di 23 a un massimo di 26,5 anni, mentre la quota dei mai sposati è andata da un minimo del 5,8% a un massimo del 16-20% Queste variazioni erano strettamente collegate alla dinamica dei salari reali. Come si può vedere dalla fig. 23.5, la curva del tasso di nuzialità ha lo stesso andamento di quella dei salari reali. Dunque, anche in Inghilterra lo squilibrio fra popolazione e risorse provocava una diminuzione dei salari reali e un peggioramento delle condizioni di vita materiali. Ma qui, più che altrove, questo squilibrio veniva corretto dalla nuzialità. Perché in questo paese (come si è visto nel cap. XIV) dominava la regola di residenza neolocale dopo le nozze e dunque coloro che si sposavano dovevano procurarsi i mezzi necessari per mettere su casa da soli, quando la situazione economica pegPagina 383
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt STRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 657 giorava si tendeva a rinviare il matrimonio e di conseguenza ad avere meno figli. Quando invece la situazione migliorava di nuovo, i matrimoni avvenivano prima ed erano più fecondi. 4.4. La transizione demografica in Europa Per descrivere e spiegare A forte incremento della popolazione che si è avuto in Europa dopo la metà del Settecento si fa ricorso alla teoria della transizione demografica, elaborata da vari studiosi alla luce di alcune regolarità individuate nella storia degli ultimi tre secoli. Secondo questa teoria, la popolazione europea è passata da un equilibrio basato su livelli relativamente alti di fecondità e di mortalità a uno radicalmente diverso fondato su tassi di fecondità e di mortalità molto bassi e, nel corso di questa transizione, si è avuto un considerevole aumento della popolazione (fig. 23.6). La descrizione di questo grande passaggio può essere fatta distinguendo schematicamente fra quattro diversi periodi. 19 primo periodo è quello della società a regime demografico primitivo, con una popolazione di tipo storico stazionario. t un periodo incomparabilmente più lungo dei tre successivi, perché è durato migliaia di anni ed è stato caratterizzato da un alto tasso di fecondità (anche se, negli ultimi secoli, più basso di quello di altri continenti) e uno altrettanto alto di mortalità. Poiché la differenza fra la prima e la seconda componente era di regola modesta, lo sviluppo della popolazione è stato molto lento. Iff secondo periodo è quello in cui è iniziata la transizione e in cui si è avuta un'esplosione demografica. Esso è caratterizzato dal declino della mortalità, dovuta innanzitutto alla diminuzione dell'intensità e Esplosione demografica '2 - alto 73 '2 medio 4 -debole periodo A periodo B periodo C periodo D FrG, 23.6. Schetna teorico deb traasizione deùiograflca. Fonte: Poorsio [19891. 658 CAPITOLO 23 Declino della fecondità Stagnazione demografica della frequenza delle crisi demografiche e, in secondo luogo, alla riduzione dei rischi di morte. La speranza di vita si è allungata, grazie soprattutto alle maggiori cure rivolte all'infanzia e alle possibilità di esercitare un maggior controllo delle malattie infettive (morbillo, scarlattina, difterite, ecc.). E regresso della mortalità ha avuto inizio verso A 1750 in Francia e in Inghilterra e si è diffuso poi lentamente agli altri paesi europei. 19 livello di fecondità è restato invece immutato per tutto il periodo. Si è verificato dunque un allontanamento fra le curve di queste due componenti (fig. 23.6) e la popolazione è cresciuta fortemente. Nel terzo periodo ha inizio il declino della fecondità. Man mano che questo è diventato più forte e che quello della mortalità è rallentato, le curve di queste due componenti si sono ravvicinate e l'incremento naturale si è ridotto. Considerando come segno irreversibile del declino della fecondità quello che si ha quando scende di almeno il 10% al di sotto del suo livello stabile precedente, si vede che esso è iniziato in Francia nel 1827, molto prima che negli altri paesi. In Belgio, che è al secondo posto in questa graduatoria, è cominciato nel 1881, in Svizzera e in Germania alla fine degli anni ottanta, in Inghilterra e in Scozia, in Olanda e in Danimarca nel corso del decennio successivo, in Italia e in Grecia nel 1913. Gli ultimi paesi europei nei quali questo processo si è avviato - nel 1922 - sono stati l'Irlanda e la Russia. In complesso però, nella grande maggioranza delle province in cui è divisa l'Europa, il declino della fecondità è iniziato nel trentennio compreso fra il 1890 e il 1920 [Coale e Watkins 19861. Il declino della fecondità fu provocato dalla diffusione, fra un numero crescente di coppie, del controllo volontario delle nascite. Prima di allora, in Europa, l'unico sistema di regolazione della fecondità era costitutito - come si è visto - dalla frequenza con cui ci si sposava e dall'età a cui lo si faceva. 1 metodi contraccettivi erano invece sconosciuti o quantomeno non venivano Pagina 384
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt praticati dalla grande massa della popolazione. Ad essi fecero per la prima volta ricorso, alla fine del Seicento e all'inizio del Settecento, le coppie di alcuni piccoli gruppi di precursori: gli ebrei e le aristocrazie e le borghesie calviniste, cattoliche e anglicane dei vari paesi [Livi Bacci 19831. Ma nel resto della popolazione il controllo delle nascite apparve per la prima volta in Francia verso la fine del Settecento e di qui si diffuse, durante il secolo seguente, negli altri paesi. Infine, il quarto periodo è quello della stagnazione demografica. Mortalità e fecondità cessano di essere due variabili incontrollabili. Esse raggiungono livelli molto bassi e assai simili. L'incremento naturale si riduce al minimo. La transizione ha avuto luogo in tutti i paesi d'Europa. Ma essa si è sviluppata con tempi e ritmi assai diversi in ciascuno di questi. Diversa è stata la lunghezza di questo periodo di trapasso dal vecchio al nuovo equilibrio (tab. 23.1). In Italia e in Germania, ad esempio, esso è durato 90 anni, in Svezia 150, in Francia ancora di più. E diverso è STRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 659 Paese Inizio e fine transizione Moltiplicatore Francia 1750-1970 1,62 Russia 1896-1965 2,05 Italia 1876-1965 2,26 Germania 1876-1965 2,11 Svezia 1810-1960 3,83 Cina 1930-2000 2,46 India 1920-2010 3,67 SriLanka 1920-1990 3,71 Messico 1920-2000 7,02 Taiwan 1920-1990 4,35 Fonte: Chesnais [19861. stato l'aumento della popolazione che si è verificato nei vari paesi. Considerando il moltiplicatore di transizione, cioè il rapporto fra la Molupheatore popolazione alla fine e quella all'inizio, vediamo che nel caso della di transuione Svezia esso ha un valore molto più alto che in quello dell'Italia o della Germania e, ancora di più, della Francia (che ha il valore più basso). L'analisi accurata che è stata condotta [Chesnais 19861 delle differenze fra questi paesi ha messo in luce che il valore del moltiplicatore non dipende solo dalla durata della transizione, ma anche dalla velocità del declino della mortalità e della natalità e dalla distanza che vi è fra le due curve. Se, ad esempio, in Francia la popolazione è aumentata meno che in altri paesi è perché mortalità e natalità sono scese di pari passo e la distanza fra le due curve è sempre stata contenuta. 4.5. Una seconda transizione? La storia dei fatti sociali è molto più ricca e complessa di quanto gli schemi teorici, come quello che abbiamo presentato, facciano penTAB. 23.2. PKnapali in4caiori demografiei dell'Italia: 1961-1991 Pagina 385
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 1961 1971 1981 1991 Popolazione (in migliaia) 50.624 54.137 56.557 56.778 % 65 o più anni 9,5 11,3 13,2 14,8 Nascite (in migliaia) 930 907 622 559 Morti (in migliaia) 468 520 542 548 Natalità (per 1.000 abitanti) 18,4 16,8, 11,0 9,9 Mortalità (per 1.000 abitanti) 9,2 9,6 9,6 9,7 Saldo naturale (per 1.000) 9,1 7,1 1,4 0,2 Numero figli per donna 2,4 2,4 1,6 1,3 Mortalità infantile (per 1.000 nati vivi) 40,1 28,3 14,1 8,1 Aborti (in migliaia) 215 154 Vita media alla nascita (M) 66,9 69,0 71,0 73,9 Vita media alla nascita (F) 72,1 75,0 77,7 80,4 Fonte: Istat e Golini [19941. 660 CAPITOLO 23 TAB. 23.3.. Tasso di fé@ondiìà totak (numero medio dì figli per donna) tu. akmì dal .1965 al 1995 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1993 1994 1995 Austria 2,70 2,29 1,83 1,65 1,47 1,45 1,48 1,45 1,39 Belgio 2,62 2,25 1,74 1,68 1,51 1,62 1,62 1,55 1,54 Bulgaria 2,07 2,18 2,23 2,05 1,95 1,81 1,46 1,37 Canada 3,16 2,32 1,87 1,67 1,61 1,71 1,66 1,66 Danimarca 2,61 1,95 1,92 1,55 1,45 1,67 1,75 1,81 1,80 Finlandia 2,47 1,83 1,68 1,63 1,64 1,78 1,82 1,85 1,81 Francia 2,84 2,47 1,93 1,95 1,81 1,78 1,65 1,65 1,70 Germania 2,50 2,03 1,48 1,56 1,37 1,45 1,28 1,26 1,24 ovest 2,51 1,99 1,45 1,45 1,28 1,45 1,39 1,35 est 2,48 2,19 1,54 1,95 1,73 1,52 0,77 0,77 Giappone 2,14 2,13 1,91 1,75 1,76 1,54 1,46 1,50 Grecia 2,32 2,43 2,33 2,21 1,68 1,43 1,34 1,38 1,40 Irlanda 4,03 3,93 3,40 3,23 2,47 2,19 1,93 1,86 1,87 Israele 3,99 3,97 3,67 3,14 3,12 3,02 2,92 2,90 Italia 2,66 2,42 2,20 1,64 1,39 1,29 1,21 1,19 1,17 Lussemburgo 2,42 1,98 1,55 1,50 1,38 1,62 1,70 1,72 1,68 Norvegia 2,93 2,50 1,98 1,72 1,68 1,93 1,82 1,87 1,85 Paesi bassi 3,04 2,57 1,66 1,60 1,51 1,62 1,58 1,56 Polonia 2,52 2,20 2,27 2,26 2,33 2,05 1,85 1,80 Portogallo 3,14 2,83 2,62 2,19 1,70 1,47 1,46 1,44 1,41 Regno Unito 2,89 2,43 1,90 1,89 1,79 1,84 1,76 1,74 1,71 Russia 2,12 2,00 1,97 1,87 2,05 1,90 1,36 1,39 Spagna 2,94 2,85 2,79 2,20 1,63 1,33 1,24 1,22 1,18 Stati Uniti 2,91 2,48 1,77 1,82 1,85 2,10 2,08 2,03 Svezia 2,42 1,92 1,77 1,68 1,73 2,13 2,00 1,98 1,74 S,,rizzera 2,61 2,10 1,61 1,55 1,51 1,59 1,48 1,49 1,48 Ungheria 1,82 1,98 2,35 1,91 1,85 1,87 1,69 1,64 Fonte: Monnier e Guibert-Lantoine [19941; Guibert-Lantoine e Monnier [19951. sare. E infatti, subito dopo la Il guerra mondiale, quando ormai la transizione demografica stava volgendo al termine, quel declino della fecondità che veniva considerato «inarrestabile» ed «irreversibile» si bloccava. Fra lo stupore degli esperti, il numero delle nascite riprendeva a salire. Iniziava così quel periodo di baby boom (come lo hanno chiamato gli americani) che sarebbe durato per un ventennio. Nel 1965 la situazione mutava ancora e si apriva una nuova fase, che alcuni studiosi hanno chiamato «la seconda transizione demografica» [van de Kaa 19871. In Europa, negli Stati Uniti e in Canada, la fecondità riprendeva a diminuire. Nel 1975 essa era ormai discesa, nella maggior parte di questi paesi, al sotto della soglia critica di 2,1 figli per donna, cioè di quel livello di rimpiazzo delle generazioni che assicura l'equilibrio fra nascite e morti e la crescita zero della popolazione. Un po in tutti i paesi occidentali questa nuova fase è iniziata nello stesso anno: il 1965. Tuttavia, fino alla metà degli anni settanta, la diminuzione della fecondità è stata più rapida nell'Europa settentrionale. E stata così la Svezia a scendere per prima, già nel 1968, al di sotto STRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 661 del livello di rimpiazzo delle generazioni, seguita l'anno dopo dalla Repubblica federale tedesca, dalla Danimarca e dalla Finlandia. La Francia vi è arrivata nel 1975, l'Italia nel 1977. Nel quindicennio successivo, la velocità di caduta è diminuita in alcuni paesi dell'Europa del nord. In Svezia (come per altro in Norvegia e in Danimarca), la fecondità ha toccato il punto più basso nel 1983 e da allora ha ripreso a salire leggermente. In Svezia ha raggiunto un nuovo picco nel 1990 e da allora ha subito una lieve flessione (tab. 23.3). Curiosamente, i due paesi che hanno oggi il tasso più basso di fecondità del mondo sono la Spagna e l'Italia. L'Italia detiene questo record ininterrottamente dal 1987 e ha oggi un tasso di fecondità totale di 1,19 figli per donna. La Liguria, l'Emilia Romagna e il Friuli sone le regioni del nostro paese che hanno il tasso più basso di fecondità. Ma anche in tutte le altre regioni si è scesi molto al di sotto del livello di rimpiazzo delle generazioni. Pagina 386
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Ed anzi, persino la regione italiana più prolifica, la Campania, ha un tasso di fecondità totale di 1,8 figli per donna, che è più basso di quello della Svezia [Golini 19941. Livello di. nimplazzo delle generazioni 5. 1 paesi in via di sviluppo Lo schema della transizione è stato utilmente impiegato anche per l'analisi dell'andamento della popolazione nei paesi più poveri. Anche in questi paesi è in corso da un certo periodo di tempo una grande trasformazione: il passaggio dal vecchio al nuovo equilibrio demografico. Tuttavia, questo processo presenta delle caratteristiche assai diverse da quelle che ha avuto a suo tempo in Europa. Innanzitutto, nei paesi in via di sviluppo la transizione è iniziata più tardi, in genere almeno dopo il 1920-1930. In secondo luogo, la caduta del tasso di mortalità è stata in questi paesi più brusca e rapida. In Europa, la riduzione della mortalità era stata graduale, perché prodotta anche dalla lenta acquisizione di nuove conoscenze mediche che hanno permesso un maggior controllo sulle malattie infettive. Arrivato improvvisamente nel Terzo mondo, questo complesso di conoscenze ha provocato spesso un'immediata flessione della mortalità. Si pensi, ad esempio, al caso dello Sri Lanka. La campagna del 1946-1948 di irrorazione con Ddt, facendo arretrare la malaria, ha prodotto un allungamento delle speranze di vita da 43 a 54 anni. In Francia, per ottenere lo stesso risultato, c'era voluto quasi mezzo secolo, dal 1880 al 1925! [Poursin 19891 Così, almeno da questo punto di vista, la differenza fra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo è diminuita. Nel periodo compreso fra le due guerre mondiali, la speranza di vita alla nascita dei primi era superiore di 25 anni a quella dei secondi. Questa distanza si è progressivamente ridotta ed è oggi di meno di 15 anni. Secondo gli ultimi dati, nei paesi ricchi la speranza di vita alla nascita è di 74 anni, in quelli poveri di 59,1 (tab. 23.4). 662 CAPITOLO 23 TAB. 23.41 Indicatmi <1el1a:popú1Wzione del mando, per Continenti, 1950-1993 Popolazione in milioni Figli per donna Speranza Mortalità di vita infantile 1950 1992 1950-55 1985-90 1985-1990 1985-1990 Mondo 2.515 5.480 5,00 3,28 61,1 71 Paesi sviluppati 832 1.232 2,84 1,97 74,0 14 Paesi in sviluppo 1.683 4.943 6,18 3,69 59,1 79 Africa 224 681 6,61 6,22 51,3 101 Nordamerica 166 283 3,47 1,89 75,1 10 Sudamerica 165 458 5,86 3,73 65,7 56 Asia 1.374 3.233 3,14 61,1 74 Europa 393 512 2,59 1,83 74,0 13 Ex Urss 180 285 2,82 2,37 72,1 22 Oceania 13 28 3,83 2,56 69,1 26 Fonte: Vallin [19941 e United Nations. Molto raramente, nei paesi in via di sviluppo, la caduta della mortalità è stata accompagnata, a distanza di un certo numero di anni, da una diminuzione altrettanto pronunciata della natalità. L'eccezione più importante, da questo punto di vista, è stata quella della Cina. Ancora alla metà del nostro secolo, in questo paese, il tasso di fecondità totale era di 6,24 figli per donna. Oggi invece esso si avvicina al valore fatidico del livello di rimpiazzo di 2,1 figli per donna. Così, se in futuro questo tasso non risalirà, la popolazione della Cina resterà stazionaria. Di solito però il declino della fecondità è iniziato molto tempo dopo quello della mortalità ed è stato molto meno rapido. In alcuni paesi, anzi, è appena iniziato. In Africa, ad esempio, il tasso di fecondità totale era di 6,61 figli per donna nel 1950 ed è oggi ancora altissimo (6,37), cioè molto più alto di quanto sia mai stato in Europa (tab. 23.4). La distanza fra le curve di mortalità e di natalità è diventata enorme e in questi paesi vi è stato quell'eccezionale aumento della popolazione che sappiamo. Che la transizione abbia avuto in questi paesi degli effetti molto diversi che in Europa è ben visibile anche dal valore del moltiplicatore (tab. 23.1). Solo la Cina ne ha uno abbastanza simile a quello dell'Italia o della Germania. 19 moltiplicatore di tutti gli altri paesi in via di sviluppo ha un valore doppio o più che doppio rispetto a quello dei paesi industrializzati. 6. Il controllo della fecondità Nella società di un tempo, le variazioni del numero dei figli dipendevano da tre fattori. In primo luogo, come si è visto, dall'età al matrimonio e dal celibato definitivo. In secondo luogo, dalla durata dell'alSTRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE Pagina 387
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 663 lattamento, che raggiungeva spesso i due anni e che talvolta li superava. Sappiamo infatti con certezza che l'allattamento, ritardando la ripresa dell'ovulazione, prolunga il periodo di infecondabilità che inizia dopo ogni parto. Ma anche un tempo vi era probabilmente la consapevolezza che durante l'allattamento il rischio di concepimento era molto minore. In terzo luogo, dal ricorso all'aborto. Anche se ignoriamo in Aborto che misura questo avvenisse, è certo che in alcuni momenti e in certe zone questo è stato un modo importante per ridurre la fecondità. Nella società di antico regime non si faceva invece uso dei metodi contraccettivi, di quelli cioè rivolti ad impedire il concepimento. Il sistema del coito interrotto era sicuramente conosciuto, ma non veniva praticato. Verso la fine del Seicento, comparvero anche i primi preservativi, e alla metà del Settecento questi potevano essere comprati in alcuni negozi, per lo meno a Londra e a Parigi. Essi venivano però usati non come contraccettivi, ma per proteggersi dalle malattie veneree. L'uso del coito interrotto e, in misura molto minore, quello dei preservativi ha iniziato a diffondersi nei paesi europei negli ultimi decenni del secolo scorso. E, per molto tempo, questi sono rimasti i due metodi più seguiti. In Italia, ancora negli anni settanta, su 100 coppie che controllavano le nascite, 52 facevano ricorso al coito interrotto, 17 al preservativo [De Sandre 19821. Oggi, nei paesi industrializzati, circa il 70% delle coppie nelle quali la moglie è in età riproduttiva pratica la contraccezione. La quo- Contraccezione ta di queste coppie che si serve di metodi tradizionali come il coito interrotto o l'astinenza periodica (o Ogino-Knaus) è fortemente diminuita nell'ultimo ventennio, mentre è aumentata quella di coloro che usano la pillola, la spirale o la sterilizzazione. Vi sono tuttavia delle differenze significative fra i vari paesi. In Giappone il metodo più diffuso è quello del preservativo. In Belgio, nella Germania occidentale e in Ungheria la maggioranza delle coppie si serve della pillola. In Svezia e in Francia, della pillola e della spirale. In Gran Bretagna e in Olanda, ma soprattutto negli Stati Uniti e nel Canada, è molto diffuso l'uso della sterilizzazione. In questi paesi, una volta raggiunto a numero di figli che la coppia voleva (cosa che di solito si verifica prima che la donna abbia compiuto i 30 anni) il marito o, molto più frequentemente, la moglie si fanno sterilizzare. Così, negli Stati Uniti la quota di coppie nelle quali uno dei coniugi si è sottoposto a un'operazione di sterilizzazione arriva, in certe classi di età, al 40-45%, in Canada al 60% [United Nations 19891. Nei paesi in via di sviluppo, la quota delle coppie (nelle quali la donna è in età riproduttiva) che praticano la contraccezione è fortemente aumentata, passando dal 9% all'inizio degli anni sessanta al 45% alla metà degli anni ottanta. Permangono tuttavia enormi differenze fra i vari paesi. Mentre in Cina le coppie che usano la contraccezione sono ormai tre quarti, in Africa non superano il 15% [United Nations 19891. 664 CAPITOLO 23 Metoá 1 metodi più seguiti nei paesi in via di sviluppo sono la sterilizzaione di contraccez' zione, la pillola e la spirale. Il coito interrotto e l'astinenza periodica sono invece molto meno diffusi che nei paesi europei. Questo dipende m gran parte da motivi storici. In Europa l'uso della contraccezione è iniziato quando l'unico metodo accessibile alla gran massa della popolazione era il coito interrotto, nei paesi in via di sviluppo invece dopo che erano stati inventati i metodi più moderni. 6.1. L'aborto Se è nei paesi dell'Europa occidentale che si è iniziato a far uso su larga scala dei metodi contraccettivi moderni, è in quelli dell'Europa orientale che le autorità politiche hanno per prime varato delle leggi che permettevano l'aborto. Il primo paese che si è messo su questa strada è stato l'Unione Sovietica, nel 1920. Il suo esempio è stato seguito, trent'anni dopo, da altri paesi dell'Europa orientale (Bulgaria, Cecoslovacchia, Romania, Ungheria). E, dalla fine degli anni sessanta ad oggi, numerosi altri paesi si sono comportati nello stesso modo e hanno riformato la loro legislazione. In Italia questo è avvenuto nel 1978, anno nel quale è stata approvata la legge che permette l'interruzione volontaria di gravidanza. Oggi il 40% della popolazione mondiale vive in paesi nei quali non è necessario alcun motivo particolare per ottenere un aborto nelle Pagina 388
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt TAB. 23.5. Abßrtì legali (su 100 nati vivì) in alcunì paesì, dal 19 70 al 1994 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1992 1993 1994 Bulgaria 76,8 86,3 83,2 102,3 93,4 137,5 149,1 127,3 122,6 Canada 3,0 13,7 17,9 16,7 17,5 25,6 26,9 Danimarca 6,0 13,2 38,7 40,7 37,1 32,5 27,8 27,7 Finlandia 6,7 22,9 32,8 23,8 22,5 18,7 16,6 16,0 15,2 Francia 4,5 21,4 22,5 22,4 22,5 23,4 Germania 16,0 14,6 13,9 ovest 14,1 14,3 10,8 10,4 11,0 est 54,7 37,6 39,6 37,2 49,6 40,0 Giappone 37,8 35,3 37,9 39,0 36,8 43,2 32,6 Grecia 9,9 10,8 Israele 15,6 18,5 17,4 Italia 33,5 35,7 27,8 26,5 26,5 Norvegia 5,2 12,1 26,9 26,5 28,5 25,5 25,2 25,0 Paesi bassi 6,9 8,4 11,7 9,7 9,3 Polonia 30,9 27,2 21,5 19,3 20,0 10,9 2,3 0,2 Regno Unito 9,0 16,3 18,2 20,0 23,0 21,9 Russia 214,7 192,1 179,8 170,6 180,7 180,1 Spagna 9,4 11,5 12,0 Stati Uniti 32,9 43,0 42,2 38,7 37,4 Svezia 5,1 14,6 31,4 35,9 31,3 30,2 28,4 29,0 28,8 Ungheria 135,5 126,7 49,5 54,4 63,0 71,9 71,5 64,3 Fonte: Monnier e Guibert-Lantoine [19941; Guibert-Lantoine e Monnier [19951. STRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 665 prime 12 settimane di gravidanza. In molti di questi è richiesta un'autorizzazione dei genitori nel caso in cui la donna sia minorenne. In Turchia, nel Kuwait e a Taiwan, per ottenere l'aborto bisogna avere A consenso del marito. All'estremo opposto, il 25% della popolazione mondiale si trova in paesi (molti dei quali in Africa o in Asia) nei quali l'aborto è ammesso solo nei casi estremi in cui la prosecuzione della gravidanza comporta dei seri rischi per la vita della donna [Henshaw 19901. In Italia, così come in molti altri paesi, sono ancora abbastanza diffusi gli aborti clandestini e non è dunque facile stimare il numero complessivo di aborti che viene compiuto ogni anno. Se ci basiamo tuttavia sui dati di quelli legali (tab. 23.5), vediamo che vi sono notevoli differenze fra i vari paesi. Il ricorso all'aborto è frequentissimo nell'Europa orientale. In Unione Sovietica, in Bulgaria e in Romania la metà o più della metà delle gravidanze termina con un aborto. L'unica eccezione è la Polonia, dove questo si verifica in misura molto minore, a causa probabilmente dell'importanza che ha la religione cattolica. In Italia, negli Stati Uniti, in Danimarca e in Svezia le gravidanze vengono interrotte con un aborto più frequentemente che in altri paesi occidentali come la Francia, il Belgio o l'Olanda. Vi sono altre importanti differenze fra gli Stati Uniti e i paesi dell'Europa occidentale e quelli dell'Europa orientale. Nei primi, le donne che ricorrono all'aborto hanno di solito meno di 25 anni, sono nubili e senza figli. Nei secondi, sono più vecchie e più frequentemente sposate e con figli. Due sono probabilmente i motivi di queste differenze. Il primo è che nei paesi occidentali le ragazze iniziano prima ad avere rapporti sessuali. Il secondo è che fra le coppie sposate dei paesi orientali l'uso di metodi contraccettivi moderni ed efficienti è meno diffuso che altrove. Sotto questo aspetto, il nostro paese assomiglia di più al modello orientale che a quello occidentale. Alla fine degli anni ottanta, la quota di sposate sulle donne che ricorrono all'aborto era del 68% in Italia, del 78% in Cecoslovacchia e in Ungheria, del 24% in Canada e del 29% in Inghilterra. Tuttavia, nell'ultimo decennio vi è stato nel nostro paese un lento aumento delle donne nubili che abortiscono. Importanti mutamenti sono avvenuti in alcuni paesi nel corso degli anni ottanta e novanta. In Italia il numero degli aborti legali è aumentato fino al 1983 (superando i 220 mila casi all'anno), ma è progressivamente diminuito negli anni successivi (probabilmente a causa della crescente diffusione dei metodi contraccettivi moderni), arrivando nel 1995 a poco più di 120 mila casi. In Polonia, la tendenza alla diminuzione del numero degli aborti, in corso da vari anni, ha ricevuto una nuova spinta nel 1993, anno in cui è stata approvata una legge che limita considerevolmente le possibilità di interruzione volontaria della maternità. Aborto elandesfino Aborto legak 666 CAPITOLO 23 6.2. Come spiegare il declino della fecondità Da decenni, i demografi e i sociologi stanno conducendo ricerche per spiegare le variazioni nello spazio e nel tempo della fecondità. La loro attenzione si è concentrata su due grandi interrogativi: sul perché, fra il 1890 e il 1920, in Pagina 389
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Europa è iniziato il declino della fecondità e sul perché, in molti paesi in via di sviluppo, il numero dei figli per donna resti molto alto, nonostante che vi sia stata una forte diminuzione della mortalità. Per quanto riguarda la prima questione, i risultati di queste ricerche hanno messo in luce che il declino della fecondità è iniziato in situazioni molto diverse dal punto di vista economico e sociale [Coale e Watkins 19861. Come abbiamo visto, il primo paese in cui questo processo è partito non è stato l'Inghilterra, la patria della rivoluzione industriale, ma la Francia, un paese molto meno avanzato economicamente. Non si può dunque, come si faceva un tempo, spiegare il declino della fecondità in Europa solo con l'industrializzazione e l'urbanizzazione. E infatti altre ipotesi interpretative sono state avanzate. In primo luogo, il declino della fecondità è stato ricondotto alla diminuzione della mortalità iniziata nella seconda metà del XVIII secolo che, provocando un incremento della popolazione più rapido di quello delle risorse disponibili, ha messo in moto dei meccanismi riequilibratori, quali la riduzione del tasso di nuzialità e la diffusione della contraccezione, che hanno causato appunto una diminuzione delle nascite. In secondo luogo, il declino della fecondità è stato ricondotto all'aumento del costo relativo di allevamento dei figli. Più in generale, secondo la teoria formulata da John Caldwell [19821, il livello di fecondità di una società dipende dalla direzione e dall'ampiezza dei flussi di ricchezza (denaro, beni, servizi, garanzie) scambiati fra genitori e figli o dal saldo netto fra questi due flussi. Quando questi flussi sono diretti prevalentemente verso i genitori, allora a questi conviene che vi sia un'alta fecondità. Quando invece i flussi vanno in direzione opposta, allora è meglio per loro ridurre le nascite. La prima situazione si ha quando l'allevamento dei figli è poco costoso e questi, una volta diventati adulti, accrescono con la loro presenza la forza e l'influenza politica della famiglia, lavorano nell'azienda dei genitori o danno comunque loro una buona parte di quanto guadagnano e li assistono durante la vecchiaia. La seconda situazione si ha invece quando l'allevamento dei figli diventa costoso, a causa soprattutto della diffusione dell'istruzione, e questi inoltre, raggiunta la maggiore età, non forniscono più ai genitori denaro, beni e servizi. E significativo che le famiglie che per prime hanno cominciato a servirsi dei metodi contraccettivi siano state - come si è detto - quelle dell'aristocrazia e della borghesia, che non si attendevano certo di ricevere dai figli aiuti economiSTRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 667 ci e assistenza durante la vecchiaia e che furono le prime a risentire degli effetti dell'aumento dei costi per l'istruzione. Secondo molti studiosi, il declino della fecondità è stato favorito anche da altre due importanti trasformazioni. In primo luogo dall'inizio del processo di secolarizzazione, dal lento indebolimento delle norme che regolavano i rapporti sessuali. La contraccezione non era infatti certamente possibile finché dominava l'idea che il rapporto sessuale serviva solo alla riproduzione o ci si rifaceva al principio di Tertulliano secondo il quale «impedire la nascita di un bambino significa commettere un omicidio anticipato» [Storie 19771. L'altra grande trasformazione ha avuto luogo nelle relazioni fra i coniugi ed è consistitita in una diminuzione della distanza sociale fra il marito e la moglie. Poiché erano le donne che più soffrivano delle continue gravidanze, l'uso della contraccezione poteva iniziare solo quando gli uomini fossero più sensibili alle loro esigenze. Per quanto riguarda la seconda questione (A perché, in molti paesi in via di sviluppo, il numero di figli per donna resti alto) le ricerche condotte hanno messo in luce che l'idea, molto diffusa in Occidente, che il comportamento riproduttivo delle coppie dei paesi del Terzo mondo dipenda dall'ignoranza e sia economicamente irrazionale non ha fondamento alcuno. In realtà, in questi paesi avere molti figli può essere vantaggioso per i genitori, anche se svantaggioso per la società nel suo complesso. Come ha spiegato un acquaiolo indiano all'antropologo Mahmood Mamdani [19721, scambiandolo per un esperto di pianificazione familiare, Cercavate nel 1960 di convincermi che non avrei dovuto avere altri figli. Ora, vedete, ho sei maschi e due femmine e me ne sto bello comodo a casa. Sono adulti e mi portano denaro. Uno lavora addirittura fuori del villaggio come manovale. Mi dicevate che ero un poveretto e che non potevo mantenere una famiglia numerosa. Ora, vedete, per via della mia famiglia numerosa io sono ricco. In effetti, se in alcuni paesi in via di sviluppo vi è ancora un alto tasso di Pagina 390
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt fecondità totale è perché il costo di allevamento dei figli è molto basso e da essi i genitori si aspettano in futuro aiuto economico e assistenza. E per questo che dalle inchieste condotte in molti paesi africani risulta che il numero medio di figli che le coppie dicono di desiderare è sei, che è esattamente quello che avranno al termine del periodo riproduttivo. 7. L'invecchiamento della popolazione L'invecchiamento è un cambiamento nella stuttura per età della 1nveCdúwneRto. popolazione che porta all'aumento della quota delle persone con oltre 60 o 65 anni di età. Questo processo è dovuto non tanto alla diminu668 CAPITOLO 23 TAB@ 23.6. Vita media tn, Italia ad alame età, per sesso, dal 1899 al 1991 Periodo di Età osservazione o 20 50 75 Maschi 1899-1902 42,6 43,0 20,4 5,6 1921-1922 49,3 45,2 21,8 0 1950-53 63,7 50,3 23,5 7,0 1980 70,6 52,4 24,5 7,8 1991 73,5 54,6 26,7 8,7 Femmine 1899-1902 43,0 43,1 21,0 5,6 1921-1922 50,8 46,0 22,5 6,1 1950-53 67,2 53,3 25,8 7,6 1980 77,4 58,8 30,0 9,9 1991 80,2 61,0 32,1 11,1 zione della mortalità e all'allungamento della vita media (come di solito si pensa) quando piuttosto al calo della natalità. Come si è detto, in tutti i paesi sviluppati e in molti di quelli in via di sviluppo si è avuta effettivamente una notevole riduzione della mortalità. Ma questo è avvenuto soprattutto nell'infanzia e nell'adolescenza. Si vedano, ad esempio, i dati della tab. 23.6 che indicano il numero di anni che, in media, restano da vivere in Italia a un individuo che ha raggiunto una deterrminata età in un certo periodo. Questi dati mostrano che nell'ultimo secolo la diminuzione della mortalità è avvenuta a tutte le età, ma è stata più forte alla nascita che a 50 o a 75 anni. Questo processo ha provocato quindi un aumento dell'incidenza non solo degli anziani, ma anche delle classi infantili e giovanili. E invece soprattuto al forte calo della natalità che è riconducibile l'invecchiamento. Esso è un fenomeno tipico delle popolazioni mature stazionarie che si formano al termine della transizione demografica. L'invecchiamento della popolazione è iniziato nei paesi occidentali nei primi anni del nostro secolo. Allora, in gran parte di questi paesi, la popolazione anziana (con oltre 65 anni) era circa il 5%. Ma in Francia e in Svezia, che sono i paesi nei quali questo processo è partito, aveva già raggiunto l'8%. Da allora, questo mutamento nella struttura per età della popolazione è proseguito ininterrottamente. 1 paesi nei quali esso è andato più avanti sono quelli dell'Europa settentrionale e occidentale. La quota degli ultrasessantacinquenni ha raggiunto il 17% in Svezia e il 15% in Germania. La situazione dell'Italia non è tuttavia molto diversa, visto che da noi questa quota sta toccando il 15% Nel nostro paese vi sono inoltre regioni come la Liguria, in cui la popolazione anziana è 9 21 %, ed altre come la Campania, in cui è esattamente la metà. Indice dì vecchiaia Le migliori previsioni ci dicono che la Svezia e la Liguria rappresentano il futuro di tutti i paesi occidentali. Nel 2010, in Europa, il STRUTTURA E DINAMICA DELLA POPOLAZIONE 669 numero di persone con oltre 60 anni supererà quello con meno di 20. Il primo paese in cui questo avverrà sarà l'Italia [Golini 19941. Ma in alcune città questo è già avvenuto. A Bologna, che è la città italiana (con oltre 300 mila abitanti) con il più elevato indice di vecchiaia, questo storico sorpasso si è verificato già nel 1977. In tutti i paesi, nei prossimi cinquant'anni, la quota della popolazione anziana continuerà ad aumentare e in alcuni casi si avvicinerà al 25%, in altri supererà questa soglia. Crescerà inoltre straordinariamente anche il peso della popolazione molto vecchia (quella con oltre 75 anni), particolarmente bisognosa di servizi sanitari e sociali. Trasformazioni analoghe, e anzi talvolta ancor più radicali, possono avvenire anche nei paesi in via di sviluppo. Pagina 391
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 1 cambiamenti nella struttura per età della popolazione hanno grande importanza per la questione della distribuzione delle risorse fra giovani, adulti e anziani (come si è visto nel cap. VI). L'indice di dipendenza (che, come abbiamo detto, ci dice il peso della popolazione inattiva su quella attiva) è oggi molto più alto nei paesi in via di sviluppo (nei quali la popolazione giovanile è molto numerosa) che in quelli sviluppati. In questi ultimi esso è inoltre diminuito negli ultimi decenni, mano mano che si riduceva il peso della classe di età da 0 a 15 anni. Si prevede però che nei prossimi cinquant'anni, a causa dell'invecchiamento della popolazione, l'indice di dipendenza aumenterà fortemente. 8. Verso il futuro t almeno da quarant'anni che gli studiosi fanno previsioni allarmistiche sulla crescita della popolazione mondiale. Alle previsioni sul futuro demografico si dedicano da tempo anche le Nazioni Unite con crescente successo. Le Nazioni Unite propongono di solito tre ipotesi di previsione: una alta, una bassa e una media. Dal 1958 hanno previsto (nell'ipotesi media) che nel 2000 vi saranno 6,2 miliardi di abitanti e tutto fa pensare che il margine di errore sarà assai basso. L'ipotesi media delle Nazioni Unite per il futuro è che sulla terra si dovrebbero raggiungere i 10 miliardi nel 2050 e 11,5 nel 2150. Questa previsione è considerata molto preccupante da alcuni studiosi, che ritengono che il nostro pianeta non sia in grado di accogliere entro un periodo di tempo così breve il doppio degli abitanti. Ma altri studiosi pensano che vi siano almeno due motivi per sdrammatizzare. E primo è che la popolazione del mondo è passata da 3 a quasi 6 miliardi in breve tempo senza che ciò provocasse le temute catastrofi. E secondo è che, superati gli il miliardi, la popolazione mondiale dovrebbe iniziare a decrescere. Quello che è certo è che nel prossimo futuro cambierà radicalmente la distribuzione della popolazione nei vari continenti. Se nel CAPITOLO 23 i deli ~z IMI;&ale TAB. 23.7, Proì~ * 4 tone> per grandi.! aree, secoffìà 1ip0iev@ m'edia 41k 1992 2000 2025 2050 2100 2150 Africa 681 857 1.582 2.265 2.931 3.090 Asia 3.233 3.692 4.900 5.599 5.978 6.145 America Latina 458 522 701 922 1.075 1.117 America del nord 283 306 361 326 314 308 Pagina 392
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Europa Ex Urss 512 285 524 297 542 344 494 371 447 397 433 406 Oceania 28 31 41 41 41 41 Totale mondiale 5.480 Totale paesi in via di sviluppo 4.248 Totale paesi sviluppati 1.232 6.229 4.943 1.286 8.471 7.056 1.415 10.018 11.183 Il titolo del primo paragrafo del capitolo è una espressione di Georg Simmel che, fra i sociologi classici, più di ogni altro ha insistito sull'importanza di tenere conto dello spazio nell'analisi della società. La sociologia ha sviluppato settori specializzati di ricerca sull'organizzazione spaziale della società, come la sociologia urbana e la sociologia rurale. La questione però è più di fondo. Come diceva Simmel, lo spazio è infatti la condizione di possibilità dell'essere insieme: la società prende necessariamente forma nello spazio, deve perciò sempre adattarsi a particolari qualità di questo, e la sociologia deve tenerne conto in generale. Il capitolo è principalmente dedicato alla sociologia urbana, ma contiene anche riferimenti al problema più generale di cui si è detto, che solo di recente è ritornato all'attenzione dei teorici [Giddens 19841. l. Fatti sociali formati nello spazio Sui cartelli posti all'ingresso dei parchi naturali si consiglia di non allontanarsi dai sentieri se si vogliono osservare da vicino gli animali. Questi hanno infatti definito il proprio territorio escludendo i sentieri e non si spaventano se gli escursionisti h percorrono, arrivando anche a distanza ravvicinata; scappano invece se il loro territorio è invaso. Per osservare gli animali bisogna dunque fare il contrario di quanto sembrerebbe intuitivamente più efficace. Anche fra gli uomini esistono modi uniformi e tipici di porsi a distanza gli uni dagli altri. Nel contatto diretto, o a distanza ravvicinata, le percezioni visive, olfattive, uditive si intensificano e ingigantiscono; questa è la distanza delle relazioni intime, ma anche della lotta: stipati su un ascensore, dobbiamo porre in atto misure che assicurino il man672 CAPITOLO 24 tenimento di una certa estraneità, nonostante l'eccessiva vicinanza; per esempio, tenendo lo sguardo fisso davanti a noi (questo è un esempio Diattenzione della «disattenzione civile» di cui abbiamo parlato nel cap. III). civac La ricerca ha mostrato che se chi ci ascolta è oltre i tre metri e mezzo di distanza, scegliamo le parole con più cura e rispettiamo di più le Pagina 393
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt regole della grammatica e della sintassi; se la distanza supera i sette metri e mezzo, si perdono le sfumature espressive del viso, il tono della voce cresce, la mimica diventa più marcata, la cadenza più lenta, la pronuncia più distinta. Lo stile del discorso cambia, e insieme alla forma muta anche in parte il contenuto [Hall 19661. Questi modi di porsi a distanza gli uni dagli altri sono legati a fattori biologici, ma variano anche a seconda delle culture, e sono dunque fenomeni propriamente sociali. Abbiamo già incontrato nel cap. III il problema vicinanza-Iontananza distinguendo fra interazione diretta e indiretta. Si tratta di una distinzione fondamentale, poi ripresa distinguendo fra sistemi di interazione e sistemi di interdipendenza. Si è allora visto che le proprietà di un piccolo gruppo dove tutti interagiscono fra loro faccia-a-faccia sono diverse da quelle di un grande gruppo dove molte persone interagiscono a distanza, per esempio secondo le modalità previste da uno schema organizzativo, e che la diversità sembra collegata alle forme di comunicazione. L'interazione indiretta è più fredda, specializzata, funzionale; quella diretta più adattiva, personalizzata, elastica. Allora dicevamo anche che con l'interazione diretta, basata sui meccanismi veloci e adattivi della percezione e della comunicazione faccia-a-faccia, si realizza un continuo monitoraggio reciproco, si riparano gli strappi del tessuto sociale, si conserva la fiducia fra le persone. Possiamo ora considerare da questo punto di vista importanti cambiamenti intervenuti con la crescita delle società e con il processo di modernizzazione. Prima però un'osservazione: da quanto abbiamo detto, appare chiaro che nella prospettiva che consideriamo lo spazio è legato al tempo. L'interazione diretta è l'interazione in situazione di compresenza, vale a dire di persone che sono nello stesso luogo nello stesso momento. In realtà dunque, sarebbe meglio dire che ciò che qui consideriamo è la dimensione spaziotemporale dell'interazione sociale. Un primo cambiamento riguarda A processo che Giddens ha chiaDisembeJding mato di disembedding [19901. Il termine è difficilmente traducibile e significa che i rapporti sociali sono nella società moderna «tirati fuori» da contesti locali di interazione e riallacciati su archi di spaziotempo lontani e indefiniti. La società è per così dire stirata (stretched) nello spaziotempo, e le persone perdono capacità di controllo diretto sulle condizioni delle proprie azioni. Le nostre condizioni di vita possono cambiare anche radicalmente in conseguenza di decisioni prese non sappiamo da chi, dove e quando; in ogni caso, dipendono ormai molto da decisioni prese all'esterno del nostro contesto quotidiano e diretto di interazione. Se l'interazione indiretta ha grandemente aumentato ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 673 la sua importanza, siamo in sostanza di fronte a un paradosso così espresso dal sociologo tedesco Niklas Luhmann: la società è fatta in ultima analisi di interazioni dirette fra persone, ma la società che è cresciuta non è più accessibile alle persone per mezzo dell'interazione diretta [19841. Per certi aspetti, questa trasformazione sembrebbe avere anche la conseguenza di diminuire l'importanza del riferimento allo spazio nell'organizzazione e dunque nell'analisì della società. Le cose sono però più complicate: in realtà, insieme a tendenze di dis-embedding se ne attivano per reazione altre di re-embedding, in conseguenza di azioni orientate almeno in certa misura alla riappropriazione e ridefinizione di relazioni sociali alle condizioni locali di spazio e tempo. Torneremo su questo duplice processo - che può essere visto m termini culturali, economici, politici - nell'ultimo paragrafo, quando considereremo non a caso insieme globalizzazione e regionalizzazione. Un secondo cambiamento importante è l'accresciuta mobilità nello spazio che caratterizza la società moderna. Nelle nostre società molte persone si spostano con frequenza per lavoro, studio, turismo, su corte o lunghe distanze. Nelle città molti entrano e escono in continuazione senza abitarci: per lavorare, per assistere a uno spettacolo, per acquisti particolari; il viaggio è un'esperienza piùjrequente di una volta e meno ristretta a certe categorie di persone. E anche aumentata la velocità con cui è possibile spostarsi e dunque l'accessibilità a luoghi distanti: lo spazio è diventato più piccolo. Lo storico Fernand Braudel dice che nel Cinquecento il Mediterraneo era largo una settimana e lungo un mese. Oggi per raggiungere Il Cairo da Roma, o Barcellona da Istanbul bastano poche ore di aereo. L'accessibilità non dipende genericamente dallo sviluppo tecnico, ma da scelte economiche e politiche che attrezzano concretamente vie e mezzi di Pagina 394
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt comunicazione. A seconda di queste, in termini relativi la distanza fra due luoghi può diminuire o aumentare, con conseguenze per le possibilità di azione delle persone in luoghi diversi. Anche da questo punto di vista, la società risulta «stirata» nello spaziotempo come mostra la fig. 24.1, nella quale le distanze sono tracciate in proporzione al tempo necessario a coprirle. Se si realizzasse completamente il piano di treni a grande velocità (Tgv) patrocinato dalla Francia, la distanza (l'accessibilità) fra le città d'Europa cambierebbe: alcune sarebbero molto più «vicine» fra loro, altre in termini relativi si «allontanerebbero» Con riferimento a questo importante sistema di comunicazione, la Francia assumerebbe una posizione del tutto centrale, con molteplici vantaggi, non solo economici. L'esempio mostra anche bene che se la società è condizionata dal suo formarsi nello spaziotempo, al tempo stesso lo spaziotempo è anche una costruzione sociale. Mobilità e velocità fanno di nuovo pensare a una minore rilevanza dello spazio nell'analisi sociale. Per esempio: se è possibile spostare con facilità uomini, materie prime, merci, diminuiscono - per questo Interazione diretta Mobilità Dello spazio 674 CAPITOLO 24 Internet Rete in senso geografico FIG. 24.1. L'Europa della grande velocità. Distanza fra città proporzionale alla durata del collegamento ferroviario Tgv progettato per il 2015. Fonte: Datar [1993, 71. aspetto - le ragioni per cui un'organizz azione produttiva è legata stabilmente a un certo territorio: la localizzazione diventa indifferente; ciò è ancora più evidente se si considera anche lo sviluppo delle tecniche che consentono scambi di informazioni a distanza, in particolare poi per le attività - economiche e non - che hanno a che fare solo con informazioni, simboli, oggetti immateriali: anche se non consente una vera interazione diretta, Internet permette di «navigare» in tempo reale in uno spazio virtuale che collega persone sparse nel mondo. Di nuovo però le cose sono più complicate. 1 geografi usano l'immagine della «rete» per rappresentare e rendere conto dei flussi di persone, informazioni, beni, incanalati da strade, ferrovie, telefoni, cavi di fibre ottiche (che permettono di moltiplicare le informazioni scambiate nell'unità di tempo) Utilizzando le accresciute possibilità di comunicazione, ogni impresa, ogni istituto di ricerca, al limite anche ogni persona stabiliti in un certo luogo costituiscono la loro propria e diversa rete di relazioni collegandosi con partner sparsi nel mondo, liberi di cambiarli a seconda delle necessità, saltando possibili relazioni prossime nello spazio. In questo modo opera l'impresa-rete di cui abbiamo parlato nel cap. XX. Se questa tendenza ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 675 gioca a diminuire l'importanza della localizzazione stabile dell'interazione sociale e a sostituire interazioni locali con interazioni a distanza, la stessa immagine della rete attira l'attenzione sul fatto che i fili (i canali e i flussi di mobilità e comunicazione) sono annodati. Una rete è fatta di fili e di nodi. Se le tecniche e le infrastrutture di comunicazione aumentano la possibilità di relazioni a distanza diversificate, continuano però a esistere convergenze e «ispessimenti» dei tessuti di relazione in punti particolari dello spazio. Per i sociologi, i nodi rivelano la persistenza e la rilevanza di società locali. 2. La società locale L'interazione sociale definisce nello spazio delle unità sociali riconoscibili, di diversa ampiezza. Noi chiamiamo queste unità, quartiere, città, metropoli, regione, e altre con altri nomi. Possiamo chiamarle, in generale, società locali. L'interazione sociale, con riferimento a una so- Società locale cietà locale, può essere relativamente debole e povera di contenuti, oppure frequente e ricca. Cosi, un quartiere può essere semplicemente un dormitorio per persone che lavorano, si divertono, fanno i loro acquisti altrove, oppure un riferimento essenziale per stabilire amicizie, attivare iniziative culturali, organizzarsi politicamente; allo stesso modo, se le persone, le imprese, le associazioni, nello stabilire le loro strategie, si orientano in modo importante al contesto urbano, una città può apparire quasi essa stessa un soggetto sociale, con una sua storia e sue prospettive. Da questo punto di vista, la società locale è appunto una società, che fornisce risorse e stabilisce regole per l'interazione Pagina 395
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt individuale e che possiamo analizzare nei suoi elementi economici, politici, culturali, fra loro collegati. Le società locali possono essere, nel senso indicato, più o meno strutturate, e anche per questo più o meno visibili e più o meno capaci di adattarsi e svilupparsi, oppure più o meno vulnerabili. Le società locali non ripetono, a dimensioni diverse, una identica struttura sociale; così come la vita quotidiana in un paese è diversa da quella in una metropoli, il modo di organizzazione delle società locali a differenti scale ha sue particolarità; d'altro canto, a parità di scala, ogni città o ogni quartiere diventa uno degli infiniti modi possibili di essere della società, che dipende dalle sue particolari funzioni economiche, dalle specifiche tradizioni culturali, dall'articolazione del potere politico, dalla conformazione delle classi sociali e dalla composizione etnica, e così via. Per quanto ricca e densa sia l'interazione orientata alla società locale, q@esta non è tuttavia separata dal resto della società: ciò significa che i caratteri e i processi generali relativi alla società contemporanea, o tipici di una società nazionale, influenzano anche direttamente l'interazione che si orienta a un contesto locale. Il processo di disembed676 CAPITOLO 24 Asse orizzontale e asse verticale Confini di una società locale ding e i nuovi flussi di comunicazione di cui abbiamo detto nel paragrafo precedente rendono ormai stabilmente più aperte e permeabili tutte le società locali. Un modo pratico per tenerne conto è pensare che le società locali tendono a strutturarsi in riferimento a due assi, uno orizzontale e l'altro verticale. Tenere conto dei due assi significa in sostanza che i diversi aspetti culturali, politici, economici della società locale devono essere visti in relazione fra loro, perché questa relazione è specifica e significativa (asse orizzontale); al tempo stesso, è necessario considerare che ogni aspetto della cultura di un quartiere o di una città è in diretta connessione con la cultura nazionale - e mondiale - e che lo stesso vale per la politica o l'economia (asse verticale). Anche il più piccolo e sperduto paese è oggi a contatto con la cultura generale, attraverso la televisione, i giornali, la scuola pubblica; al tempo stesso, esiste un modo particolare di apprendere e rielaborare i modelli che arrivano dall'esterno, e questo modo particolare può essere studiato in riferimento alla cultura di origine, ma anche alle relazioni di questa con il modo particolare in cui l'economia e la politica locali producono risorse, le distribuiscono fra le varie classi sociali, selezionano possibilità di sviluppo, e così via. Una ulteriore conseguenza del processo di disembedding è l'impossibilità di definire in modo univoco i confini di una unità sociale locale. Si tratta di un caratteristico problema che si pone in ogni ricerca: dove comincia e dove finisce, per esempio, una città? Con riferii-nento alla società locale si stabiliscono delle strutture di relazione complesse e aperte, e a seconda dei tipi di relazioni le connessioni territoriali cambiano. Esistono confini amministrativi, come il comune, la provincia o la regione; spesso, per motivi pratici relativi alla disponibilità di dati statistici, ci si riferisce a questi confini, che del resto hanno una loro importanza particolare; le relazioni economiche, politiche, culturali però li scavalcano. Per esempio, quando consideriamo i confini dell'economia di una città, ci accorgiamo che questi si trovano molto lontani, perché dobbiamo considerare le relazioni dirette che le imprese hanno con loro filiali, con mercati di acquisto e di vendita, con centri finanziari in altri paesi. E questi confini non sono quelli, per esempio, del sistema politico- amministrativo locale che confina con altri contigui e con il sistema politico nazionale. Oppure ancora: due regioni limitrofe possono essere separate da un confine di stato, pur essendo a cultura simile e avendo prospettive economiche simili; in tal caso, riferirsi ai confini politico -amministrativi è utile per certe ricerche, ma non per altre orientate a una possibile ridefinizione dei confini nazionali. In definitiva, come ritagliare il territorio dipende dai problemi di ricerca che ci si pone, non deriva necessariamente dalle suddivisioni politico -amministrative, per quanto queste siano importanti, e cambia a seconda del problema. ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZio 677 3. Gli studi di comunità Nella sociologia contemporanea, il termine comunità locale è usato correntemente per indicare quel tipo di collettività «i cui membri condividono un'area territoriale come base di operazioni per le attività giornaliere» [Parsons 1951, Pagina 396
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt trad. it. 1966, 971. Si tratta di un termine tecnico molto usato nello studio dell'organizzazione spaziale della società, che richiede però alcune cautele. E concetto di comunità è stato infatti introdotto da Ferdinand Tonnies non per studiare l'organizzazione spaziale, ma per individuare un tipo di relazioni sociali particolari, improntate a intimità, dense di significati affettivi, a contenuti multipli; per il sociologo tedesco, le relazioni di questo tipo sono caratteristiche di comunità organiche come la famiglia, il gruppo di amici e appunto anche la «comunità di luogo» [Tonnies 18871. Come abbiamo visto a suo tempo (v. cap. II), Tonnies usava la coppia di concetti comunità-società per indicare due tipi polari di relazioni, fondamento a loro volta di due modelli sociali complessivi con i quali spiegava la svolta verso il mondo moderno. Quando pensava alla comunità di luogo, in particolare, aveva in mente il vicinato e il villaggio tradizionale. Ci si può allora rendere conto di un caratteristico alone di significato nell'uso successivo del concetto di comunità locale. Le relazioni nella comunità locale possono infatti essere di tipo «comunitario» nel senso di Tonnies; ma possono anche essere di tipo «societario», vale a dire superficiali, segmentate, contrattuali. Uno studio è ingenuo se formula ipotesi troppo semplici, volendo a tutti i costi trovare relazioni comunitarie fra persone che vivono vicine. D'altro canto, anche nella grande città si possono trovare relazioni «comunitarie», ma in generale la città è proprio il luogo tipico della società. Torneremo su questo punto più avanti. E termine comunità si adatta comunque meglio a società locali di piccole dimensioni, per cui più avanti, al quarto paragrafo, ci occuperemo anche dell'uso sociologico del termine «città». Molte ricerche si occupano di aspetti specifici della vita di relazione, come le reti di amicizia o l'economia delle famiglie, osservandoli in un quartiere o in un paese. Si tratta spesso, in questi casi, piuttosto di studi in una comunità, che veri e propri studi di comunità. Questi cominciano quando le relazioni osservate sono considerate in rapporto ad altri caratteri della società locale: in tal caso, le reti di amicizia sono studiate in rapporto al fatto che si tratta per esempio di un quartiere di recente creazione, alla periferia di una grande città, composto in gran parte da immigrati di classi popolari. Confrontando molte ricerche in contesti diversi potremo capire come si formano le reti di amicizia nella società contemporanea, secondo certe tendenze generali, ma anche con varianti che dipendono dalla combinazione di classi sociali presenti, dal tipo di residenza, dalla durata di questa, e così via. Gli studi possono poi arrivare a considerare molti aspetti di una società 678 CAPITOLO 24 locale in relazione fra loro, sino a costruire un profilo, o come anche si dice, un modello di questa. In tal caso l'oggetto di studio diventa proprio la società locale nel suo insieme. Qui di seguito vedremo alcuni esempi di studi di comunità. Vicinat<> Relazione di traffico 3.1. Le relazioni di vicinato Vivere vicini dà luogo a un tipo di relazioni meno intense della parentela e dell'amicizia, ma in potenza molto coinvolgenti. Un vicino ci può aiutare in caso di bisogno, con lui possiamo scambiarci visite nel tempo libero, ma comincia a seccarci se di notte tiene alto il volume della televisione o se vuol. sapere troppo dei fatti nostri. Le relazioni di vicinato si stabiliscono secondo regole che al tempo stesso devono garantire l'interazione e la distanza, la comunicazione e la riservatezza. Si tratta di regole in genere non scritte, ma i regolamenti di condominio sono alcune regole scritte per il buon vicinato. Anche gli aiuti o i regali fra vicini sono scambiati secondo regole: per esempio, un dono eccessivo che non possa essere ricambiato non sarà gradito, perché stabilisce una dipendenza personale. Le ricerche hanno mostrato che esistono forme tradizionali e forme moderne di vicinato: in contesti isolati, stabili, omogenei, economicamente incerti tendono a manifestarsi rapporti intensi e solidaristici, mentre se esistono forme di assistenza pubblica a basso costo e maggiori possibilità di movimento le relazioni sociali si stabiliscono in ambiti più dispersi; in certa misura questa distinzione si sovrappone a quella che distingue i modelli di relazioni di vicinato degli operai e delle classi medie [Mutti 19921. Le donne hanno in genere rapporti di vicinato più intensi degli uomini; i bambini, che giocano in cortile, più degli adulti. La frequenza delle relazioni è anche legata al corso della vita: le coppie con figli piccoli spesso frequentano altre coppie nella stessa situazione. Scambi di servizi e bisogni espressivi sono comunque alla Pagina 397
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt base delle relazioni di vicinato. L'architettura può favorire o rendere impossibile l'equilibrio difficile fra comunicazione e riservatezza: ottenere questo equilibrio è forse il problema principale da affrontare nella progettazione di un grande condominio. 1 grandi condomini sono oggi i principali contesti di vicinato; abbiamo dunque incontrato un caso importante di come la progettazione degli spazi fisici ha conseguenze dirette sull'interazione sociale. Aumentando la distanza delle residenze, gradualmente le relazioni si fanno più superficiali: incontrando il vicino di pianerottolo si scambiano parole, un altro inquilino lo si saluta, a chi abita in fondo alla strada si fa qualche volta un cenno del capo. Gradatamente il rapporto di vicinato si trasforma nella relazione più superficiale che si possa immaginare nello spazio: la relazione di traffico, del tutto anonima, epORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 679 pure anch'essa una relazione tipica, le cui regole possono essere studiate; il comportamento sull'ascensore di cui si è detto nel prinio paragrafo ne è un esempio. Per quanto non sia del tutto corretto, il vicinato è spesso inteso Quaffiere come sinonimo di quartiere. In realtà, i rapporti di quartiere si definiscono fra quelli di vicinato e quelli superficiali e anonimi nella città. In certi casi rapporti di vicinato sono il punto di partenza per la formazione di un quartiere: un primo nucleo di residenti chiama altri conoscenti e via, via la cerchia si allarga. t il fenomeno chiamato «catena Ca~ mi.gratona migratoria», che ha prodotto i quartieri etnici nelle grandi metropoli: per esempio la Little Italy e Chinatown a New York. A volte i quartieri hanno confini piuttosto precisi, come quando sono delimitati da un fiume o da un'autostrada, o quando derivano da un piano di edilizia popolare; altre volte sono più indistinti: il senso di appartenenza a un quartiere è però di solito considerato un elemento importante per la sua definizione. Da notare che questa appartenenza può essere sentita in termini positivi ma anche negativi: chi vive in un quartiere degradato, con alti livelli di devianza sociale non solo vive male, ma sa di appartenere a quella zona e di essere visto in città come un abitante di quella zona. In questo modo si formano pregiudizi e stereotipì che rafforzano la situazione di svantaggio. Il quartiere può avere solo funzioni residenziali o anche produttive, la composizione sociale può essere omogenea, in termini etnici o di classe sociale, oppure eterogenea, i residenti possono essere stabili o cambiare; un quartiere può così mutare in modo radicale nel tempo i suoi caratteri sociali, come quando un gruppo di immigrati trova una-migliore collocazione sociale e residenziale e la zona che aveva occupato viene lasciata a una nuova ondata migratoria, o quando un quartiere tradizionale di artigiani e operai viene a poco a poco colonizzato da professionisti e intellettuali, che trovano piacevole abitare in un ambiente non troppo modernizzato (in questo caso si parla di VUlaggi ufbani «villaggi urbani») A certe dimensioni, il quartiere non solo può essere un livello decentrato di organizzazione dei servizi amministrativi e delle prestazioni del welfare, ma diventare anche soggetto di autogoverno locale. In sostanza, i riferimenti indicati ci dicono che dal punto di vista sociologico i quartieri sono società locali relativamente complesse, base di specifiche interazioni culturali, economiche e politiche. Vicinati e quartieri sono dunque importanti nell'organizzazione sociale delle città, perché in riferimento ad essi persone e famiglie orientano proprie strategie. Gli studi su queste realtà hanno permesso di capire meglio i meccanismi di integrazione, l'origine della devianza, i modi in cui la gente trova aggiustamenti ai problemi della vita quotidiana, la formazione e lo sviluppo di movimenti sociali. 680 CAPITOLO 24 3.2. Comunità tradizionali in cambiamento: studi di comunità in Mezzogiorno Comunità agricole in zone arretrate sono state spesso studiate per comprendere i meccanismi di uscita dalla società tradizionale o di resistenza allo sviluppo. Considereremo questo tipo di studi con riferimento al nostro Mezzogiorno, che ha attirato l'attenzione di molti ricercatori. Uno studio influente è stato, nel dopoguerra, quello dell'antropologo americano Edward Banfield, su una piccola comunità della LucaFamdismo amorale nia convenzionalmente chiamata Montegrano: un paese isolato di contadinì e braccianti, fra i più poveri del mondo occidentale [19581. Banfield fu colpito dal fatto che non esistesse qui una vita associativa, e si chiese perché Pagina 398
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt di fronte agli evidenti problemi sociali, nessuno si desse da fare per cambiare le cose. La risposta fu cercata nel «familismo amorale», un tratto culturale secondo il quale gli abitanti di Montegrano cercano soltanto di massimizzare i vantaggi materiali e -immediati del nucleo familiare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. La prospettiva di investire risorse ed energie in beni collettivi e un'azione organizzata per realizzarla sono per questo fuori dall'orizzonte delle possibilità. La spaventosa miseria, il senso di umiliazione, la paura del futuro sono il terreno sul quale il farnilismo amorale è cresciuto, ma i montegranesi sono ora prigionieri della loro morale centrata sulla famiglia. La ricerca di Banfield ha destato un dibattito serrato, al quale ha partecipato Pizzorno. Egli ha sostenuto che il familismo non spiega fino in fondo il comportamento dei montegranesi: piuttosto che a una particolare cultura tradizionale, che pure può essere influente attraverso la socializzazione e il controllo sociale, la rinuncia a un'azione collettiva può essere infatti anche interpretata come una scelta date le condizioni, vale a dire come un'azione razionale e non semplicemente tradizionale (nel senso dato a questi termini nel cap. 111). Le condizioni sono quelle della marginalità economica e politica rispetto ai centri del processo di sviluppo. Data la marginalità, innescare un'azione collettiva richiederebbe uno sforzo tale per risultati talmente incerti e limitatì (compresa la necessità di vincere la diffidenza degli altri) che nessuno è disposto a rischiare facendo la prima mossa. Sia per comprendere la società locale che per cercare vie d'uscita, si tratta dunque di definire i problemi in relazione a un sistema più ampio, guardando insieme dentro e oltre Montegrano. Inoltre, utilizzare un modello dell'attore razionale permette di pensare che, se qualche elemento della situazione comincia a cambiare, anche i comportamenti possono cambiare vincendo le resistenze della socializzazione a una cultura tradizionale: anche ammesso che lo siano, gli abitanti di Montegrano non sono per natura dei familisti amorali [Pizzorno 19671. Negli anni successivi lo studio del sottosviluppo meridionale ha dato meno importanza agli aspetti culturali nella spiegazione dei proORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 681 blemi, e si è misurato con i cambiamenti indotti dalla crescita economica nazionale e dalla politica per lo sviluppo. Inoltre, è diventata evidente la necessità di distinguere differenti tipi di comunità tradizionali e differenti tipi di cambiamento a partire dalle diversità originarie. Queste acquisizioni di metodo valgono in generale nello studio delle comunità arretrate in cambiamento. Un programma di studi comparati in tre comunità della Calabria può essere considerato come significativo di questi orientamenti [Piselli e Arrighi 1985; Piselli 1981; Arlacchi 19801. Le tre comunità sono rappresentative di altrettante forme originarie di società tradizionale, che hanno conservato i loro caratteri sino agli anni cinquanta. Si tratta di una comunità di contadini e affittuari che producono per l'autoconsumo, integrata da rapporti di reciprocità fra famiglie; di una comunità a economia agricola di piccola e media impresa per l'esportazione, ma dove i rapporti di mercato si mescolano a consuetudini e rapporti tradizionali di produzione e scambio; infine di un caso di latifondo a grande conduzione con salariati, dove i possidenti controllano la società locale e il mercato del lavoro impedendo l'organizzazione dei braccianti con la violenza di un esercito privato. Le tre economie sono fragili e poco efficienti: possono sopravvivere se isolate. La progressiva estensione del mercato nazionale e fatti traumatici come la guerra scuotono le società tradizionali. La più elastica e capace@ di adattamento si rivela la comunità di contadini; con emigrazioni di uomini per un tempo definito (specie in America, dove gli immigrati calabresi erano proprio chiamati «uccelli di passaggio»), le famiglie trovano risorse integrative per far fronte agli aumentati bisogni monetari in conseguenza della diffusione del mercato: il modello tradizionale della comunità può così riprodursi a lungo senza radicali cambiamenti. La più rigida è il latifondo che crolla abbattuto dalla lotta dei braccianti e dalla distribuzione delle terre in piccola proprietà. La società dei piccoli produttori agricoli è invece altamente instabile, perché ha un'economia soggetta a forti variazioni stagionali e con accessi difficili ai mercati di vendita lontani: annate buone e fallimenti si susseguono, con una continua e forte mobilità ascendente e discendente; il mercato ha da tempo cancellato gli equilibri dell'economia tradizionale di autoconsumo e reciprocità, ma non è capace di regolare la società locale. Questa Pagina 399
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt allora finisce per essere stabilizzata da un complicato equilibrio fra famiglia, clientela e mercato con un accentuarsi della presenza della mafia, che assume funzioni di regolazione Mafia sociale controllando gli accessi alle attività economiche, redistribuendo risorse, fissando prezzi. Lo sviluppo del dopoguerra accentua la crisi delle deboli economie locali, mentre l'intervento dello Stato assicura un flusso crescente di risorse gestite dai partiti (posti burocratici, sussidi, aiuti a cooperative, appalti, ecc.). La politica è ora al centro delle società locali, ma reti familiari e clientelari sono le vie d'accesso e di riferimento di par682 CAPITOLO 24 titì e istituzioni, mentre la mafia si estende in simbiosi con la politica, lucrando sulle possibilità che questa offre. Distretti industriali Il confronto fra la ricerca di Banfield e quelle dell'Università della nel Mezzogiorno Calabria mostra il cammino fatto dagli studi di comunità nel Mezzogiorno in trent'anni. Più di recente, un nuovo interessante filone di ricerca ha portato alla luce casi meridionali di distretti industriali, vale a dire di economie di piccola impresa capaci di conquistarsi spazi di mercato esterni, partendo da condizioni locali diverse da quelle che hanno caratterizzato le regioni del Centro-Nordest tipiche in Italia per questa forma di economia (v. cap. XX). Si tratta di realtà che, in parte, sfuggono alle normali rilevazioni statistiche, per l'esistenza di economia sommersa; per rivelare e capire queste forme sociali di produzione e le loro possibilità, gli studi di comunità si sono mostrati una metodologia appropriata [Baculo 19941. 3.3. Le piccole città Nonostante la dimensione che raggiungono, le piccole e medie città si prestano ancora a essere studiate nel loro insieme, con l'approccio degli studi di comunità. L'esempio classico al riguardo sono le ricerche condotte da Robert e Helen Lynd in una cittadina dello stato americano dell'Indiana, chiamata convenzionalmente MiddJetown, che alla fine degli anni venti contava circa 30.000 abitanti [Lynd e Lynd 1929; 19371. La ricerca si proponeva, un po genericamente, di ricostruire le condizioni di vita dell'americano medio e la comunità fu per questo scelta con caratteri il più possibile «medi», dalle dimensioni alla collocazione geografica fra le due coste, al tasso di crescita, a un sistema industriale abbastanza diversificato. La prima indagine si svolse fra il 1924 e il 1925, con l'uso di diverse metodologie per la raccolta dei dati e secondo uno schema di analisì semplice quanto efficace; leattività della popolazione furono divise in sei grandi categorie: guadagnarsi da vivere, farsi una casa, educare i figli, impiegare il tempo libero, impegnarsi in pratiche religiose, impegnarsi in pratiche comunitarie. Le categorie di attività, pensate come «funzioni» della società locale, permisero di costruire un modello di questa. Lo studio fornì una descrizione della vita americana di provincia che negava immagini stereotipate ereditate dall'epoca della frontiera e avvertiva i segni di una cultura appiattita dal conformismo culturale e dallo sviluppo del consumismo. Mostrò inoltre evidenti disuguaglianze di condizioni di vita e criticò, con i suoi dati, l'idea che nella società americana la mobilità sociale fosse elevata. 1 ricercatori tornarono a Middletown dopo dieci anni; nel frattempo c'era stata la grande depressione dei primi anni trenta, mentre iniziava allora la ripresa. Il nuovo studio portò alla scoperta di un processo di concentrazione del potere economico locale nelle mani di una ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 683 famiglia, che esercitava la sua influenza anche sulla vita amministrativa e culturale, in modo conforme ai propri interessi e all'idea che aveva della comunità; i tratti più profondi della cultura locale non erano cambiati, ma le differenze di classe erano diventate più visibili. Possiamo trarre due suggerimenti di metodo da MiddIetown, che rimane un punto di riferimento per gli studi di comunità. La seconda ricerca ha messo in luce aspetti della società locale che nella prima erano rimasti in ombra, in particolare i fenomeni di potere. Ciò è dovuto al fatto che con la crisi degli anni trenta erano intervenuti cambiamenti, ma anche si erano rivelati aspetti della struttura prima latenti. Notiamo allora che è indispensabile tenere sotto osservazione una comunità per lunghi periodi perché, a seconda delle congiunture, le strutture sociali diventano più o meno visibili. Inoltre, la seconda ricerca toccava anch'essa l'insieme della comunità, ma a differenza della prima l'osservazione era orientata da un problema meglio definito: la Pagina 400
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt reazione alla crisi economica. Trovare una «via d'entrata» adatta per la costruzione del profilo della comunità produce risultati migliori. E problema delle piccole città è stato posto di recente nell'ambito di un vasto programma di ricerche locali in Francia [Laborie e Verges 19861. Comparando dati generali e confrontando studi su casi locali si sono ottenute alcune linee di tendenza che sembrano caratterizzare le città minori in quel paese. Fra queste, la più significativa è l'importanza crescente delle classi medie dipendenti (impiegati amministrativi, insegnanti, personale degli ospedali, addetti ad attività del tempo libero, bancari, ecc.) nella vita sociale locale. In molti casi queste nuove classi medie hanno sostituito le vecchie classi dirigenti dell'industria e del commercio nel controllare politiche importanti, come quelle degli investimenti culturalì e a volte persino dell'urbanistica. Esse sono portatrici di una loro cultura, che si caratterizza per un forte associazionismo e per una maggiore importanza data, nell'azione collettiva, agli aspetti di organizzazione della vita quotidiana e del tempo libero piuttosto che alle relazioni di lavoro. A seconda della composizione sociale delle città le strategie dei membri di queste classi comportano alleanze con gli operai oppure con gli esponenti delle vecchie classi dirigenti. In parte le tendenze indicate sono comuni alle nuove classi medie anche nelle grandi città, ma in queste si tratta di un insieme sociale molto più eterogeneo; sembra invece che nelle piccole città si trovino le condizioni per una loro omogeneizzazione culturale e politica importante. 4. Che cos'è una città? Abbiamo visto l'uso del termine comunità locale, che introduce qualche ambiguità e che comunque si adatta meglio a piccoli contesti locali di interazione. Anche il termine città è correntemente usato dai 684 CAPITOLO 24 sociologi, come nel linguaggio comune: lo abbiamo appena introdotto parlando di piccole città. Quando però si prova a chiarirlo, quando cioè si cerca di definire che cosa sia con precisione, per i sociologi, una città ci si accorge subito che non è facile. La definizione più citata si trova in un articolo di Louis Wirth del 1938: un insediamento relativamente vasto, denso e duraturo di persone socialmente eterogenee [19381. Grosso modo, dimensione, densità, eterogeneità della popolazione (la durata è poi di solito data per scontata) sono caratteri che vengono a tutti facilmente in mente per distinguere una città da un paese o da un villaggio. Eppure la definizione funziona solo molto «grosso modo», perché lascia aperte e indeterminate diverse questioni. Consideriamo la dimensione; il problema non sta nel fatto che una soglia può essere precisata solo convenzionalmente, ma in aspetti più di fondo: per esempio, si devono contare solo i residenti che dormono in città o anche i pendolari per lavoro, o chi viene in città per certi servizi? Quanto alla densità, che riguarda il rapporto popolazione-territorio, dobbiamo pensare a una soglia che vale in generale, oppure variabile a seconda della densità media di un paese? La questione non è senza importanza, perché incontriamo paradossi come questo: nel censimento indiano la soglia di densità considerata minima per una città è 1.000 abitanti per chilometro quadrato, ma questa è la densità di gran parte della campagna giapponese. Per ciò che concerne l'eterogeneità, bisogna mettere in conto che ne esistono di tipi diversi: una dipende per esempio dall'immigrazione di persone di cultura e razza diverse, un'altra molto significativa dalla divisione del lavoro. Più importante è però un problema che deriva dall'idea di Wirth che le tre dimensioni, considerate come altrettante «variabili indipendenti», vale a dire fattori capaci di spiegare le caratteristiche della vita sociale in città, debbano variare insieme, nella stessa direzione: città è un insediamento a grande dimensione, grande densità, grande eterogeneità. Questo però non si verifica necessariamente: un insediamento, per esempio, può essere molto grande ma molto poco eterogeneo. Una città industriale con organizzazione di grande industria tayloristica (v. cap. XIX) è tipicamente grande, ma poco eterogenea, perché sono presenti molti operai con mansioni semplici e poco differenziate, mentre ci sono in proporzione poche classi medie, che in genere sono categorie composite. Se una tale città è cresciuta in fretta può anche essere diventata eterogenea, ma allora di quel tipo di eterogeneità che deriva dall'immigrazione. Un caso di città grande e semplice, anche se eterogenea per immigrazione è Torino negli anni del dopoguerra [Bagnasco 19881. In conclusione, si può fare riferimento in prima approssimazione alla definizione di città di Wirth, ma bisogna essere consapevoli, come si diceva, che questa lascia aperte e indeterminate per l'analisi molte questioni. Pagina 401
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt In realtà, a seconda dei problemi di ricerca si possono dare definizionì diverse di città. Weber, per esempio, ha tagliato corto dicendo ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 685 che non si può decidere quando un luogo può essere considerato una città con riferimento alla dimensione [Weber 1922a] Egli pensa alla città come a una completa società locale, che arriva a essere perfettamente strutturata solo quando si dà da se stessa i suoi ordinamenti, senza dipendere da poteri politici superiori (Weber dice è «autocefala») Ciò è successo di rado nella storia, e tipicamente in Occidente al momento dei liberi comuni medievali; questi sono esempi del tipo puro di città, poi scomparso con l'avvento dello stato moderno quando hanno perduto la loro sovranità. Quella di Weber può essere considerata una definizione sociologica di città in prospettiva politica, sviluppata nell'ambito di una ricerca sull'origine delle istituzioni della società moderna, utile per quello scopo di analisi e troppo limitativa per altri. 5. Da Gerico a Messico: la città nella storia Un recente libro di storia e analisi sociale della città ha come titolo Da Gerico a Messico [Bairoch 19851. Le prime città sono nate in luoghi diversi e lontani fra loro, dove esistevano condizioni simili favorevoli allo sviluppo di un'agricoltura stanziale abbastanza progredita: la Mesopotamia, la Valle del Nflo, il corso inferiore del Fiume Giallo in Cina, l'America centrale. Convenzionalmente, con un richiamo alla narrazione biblica, Gerico è però spesso considerata la prima città. Accanto alla Gerico attuale - un paese della Giordania che non raggiunge i 10.000 abitanti - gli archeologi hanno trovato resti di quasi ottomila anni prima di Cristo, mentre intorno al 6850 è databile una cinta di mura. Si ritiene che a quel tempo a Gerico vivessero fra le 1.000 e le 2.000 persone, impiegate in attività artigianali e commerciah, oltre che in un'agricoltura avanzata, con irrigazione e allevamento di animali. Passati quasi novemila anni, alla soglia del secondo millennio dopo Cristo si stima che Città del Messico sarà la più grande metropoli del mondo con circa 25 milioni di abitanti. Pochi anni ancora e poi, intorno al 2020, la maggioranza della popolazione mondiale vivrà in una città. Nel lungo processo di urbanizzazione del mondo, da Gerico a Messico, nuove città sono nate e altre sono morte, vecchie città sono cresciute e poi hanno visto diminuire la loro popolazione, ne sono comparse di tipi diversi. Lo sviluppo dell'urbanesimo ha seguito i grandi tornanti della storia. Guardiamo all'Europa (tab. 24.1). Nell'anno 1000 le più grandi città sono Costantinopoli e Cordova con una popolazione di circa 450.000 abitanti, capitali rispettivamente dell'impero, bizantino e del potente califfato in Spagna, al momento dell'apogeo della penetrazione islamica in Europa. Anche Palermo, uno dei più popolosi centri europei, è in quel momento una città araba. Quattrocento anni dopo, lo sviluppo del primo capitalismo ha spostato l'asse dell'urbanizzazione nell'Europa continentale, in una di686 CAPITOLO 24 TAB.24.1. Le città più grandi d'Europa, dal 1000 al 1900 (popolazione in migliaia diabitantì) 1000 1400 1700 1900 Città Popolazione Città Popolazione Città Popolazione Città Popolazione Costantinopolì 450 Parigi 275 Costantinopoli 700 Londra 6.480 Cordova 450 Milano 125 Londra 550 Pagina 402
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Parigi 3.330 Siviglia 90 Bruges 125 Parigi 530 Berlino 2.424 Palermo 75 Venezia 110 Napolì 207 Vierma 1.662 Kiev 45 Granada 100 Lisbona 188 Pietroburgo 1.439 Venezia 45 Genova 100 Amsterdam 172 Manchester 1.255 Regensburg 40 Praga ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 687 TAB. 24.2. Grandi agglomerazioni mondiali, 1970, 1985, 2000 (m£onì di aNtanti) Posizione Agglornerazione nel 1985 Popolazione 1970 1985 2000 i Tokyo-Yokohama 14,87 19,04 21,32 2 MexiCo 8,74 16,65 24,44 3 New York 16,19 15,62 16,10 4 Sao Paulo 8,06 15,54 23,60 5 Shangai Pagina 403
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt 11,41 12,06 14,69 Fonte: United Nations [1988d] milioni di abitanti, ma anche la prima agglomerazione metropolitana la venticinquesima nel mondo - con 6,7 milioni di abitanti, secondo stime e criteri di definizione delle aree metropolitane adottati dalle Nazioni Unite. 1 confini di una grande area urbana possono non essere neppure più identificati con il nome di una città: si può per esempio parlare dell'agglome razione Reno-Ruhr come seconda «città» d'Europa, fra Londra e Parigi. Torniamo ora a scala planetaria. Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, nel 1985 la più grande metropoli del mondo era l'agglomerazione Tokyo-Yokoama, con 19 milioni di abitanti, seguita da Città del Messico e New York; ma le proiezioni al 2000 vedono al primo posto Città del Messico con 24 milioni e mezzo, seguita da San Paolo (tab. 24.2). Il prospetto ci fa vedere che non necessariamente le città più popolose sono anche nei paesi economicamente più sviluppati. Al contrario, la proiezione all'inizio del nuovo millennio vede in testa due metropoli sudamericane. Ciò che più impressiona nel caso di Città del Messico e di San Paolo è la velocità di crescita: in trent'anni si prevede che queste metropoli saranno aumentate di tre volte; in quindici anni, fra A 1970 e il 1985, Città del Messico è cresciuta di otto milioni, inglobando dunque una popolazione pari a quasi tre volte quella attuale del comune di Roma. Calcutta, Bombay, Il Cairo, Madras, Manila, Bankok, Karachi, Dehli, Bogotà saranno tutte, nel 2000, metropoli di più di dieci milioni di abitanti. Le città dei paesi sottosviluppati richiamano popolazione in fuga dalle campagne, ma non essendo in grado di fornire a sufficienza lavori produttivi e stabili, vedono estendersi a macchia d'olio periferie degradate. Velocità di crescita e arretratezza economica rendono difficilmente governabile l'urbanizzazione dei paesi non sviluppati; questo costituisce uno dei più inquietanti problemi del nostro tempo. Nei paesi più sviluppati, dove da tempo la maggioranza della popolazione vive in città, si è assistito invece, in anni recenti, a un fenomeno inatteso: la concentrazione della popolazione sembra diminuire. A questo riguardo si è parlato anche di controurbanizzazione, e qualUrbanizzazione e sottosviluppo C0ntrourhanazazione 688 CAPITOLO 24 Classi di ampiezza al 1981 Comuni metropolitani Comuni non metropolitani FIG. 24.2. Incrementi di popolazione dei comuni italiani 1981-1991. per classi
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt Concludiamo questo paragrafo riferendoci a un altro problema. Le città non sono egualmente distribuite, alcune zone o paesi hanno un tessuto di città più fitto di altre, e la popolazione può essere più o meno concentrata in una capitale nazionale o regionale. D'altro canto, la concentrazione della popolazione si accompagna alla concentrazione di poteri amministrativi e funzioni economiche, che stabiliscono gerarchie fra città, fra centri regionali e periferie sulle quali i primi hanno un'influenza diretta. La fig. 24.3 rappresenta una tipologia della diffu690 CAPITOLO 24 Primate city sione urbana in Europa, con riferimento a quattro modalità di rapporto fra città e regione di influenza prossima. Il modello chiamato «parigino» è quello di una città molto grande, che domina un'area vasta e poco urbanizzata. Parigi si configura infatti come una grande concentrazione all'interno di un vasto territorio dove nessun altro centro ha potuto svilupparsi più di tanto per la forte dominanza della città centrale; la città del modello è spesso anche una capitale nazionale: ritroviamo questo per esempio in Spagna, con riferimento a Madrid, in Portogallo con Lisbona, in Inghilterra, con Londra, in rapporto a una zona più limitata, o in Italia con Roma. In alcuni casi si verifica che la popolazione concentrata nella grande città capitale ha una popolazione che è più del doppio di quella della seconda città del paese (con un'espressione inglese si parla allora di primate city). Un secondo modello - opposto al precedente - è il cosiddetto tipo «renano», caratterizzato da un tessuto diffuso di città, vale a dire da una trama fitta di città meno ineguali. Si ritrova tipicamente in Germania, lungo 9 bacino del Reno, e nelle Fiandre. I suoi caratteri sfumano in un modello molto simile indicato come «intermedio» - caratteristico in particolare dell'Italia centro -nordorientale, per cui è ben visibile sulla carta quel corridoio popolato da città che da sud a nord attraversa la zona centrale dell'Europa, del quale abbiamo avuto occasione di parlare più volte a proposito della comparsa sulla scena politica ed economica dei liberi comuni fra crisi del feudalesimo e nascita dello stato moderno (v. capp. Il e XI). La carta ci documenta un effetto di lunga durata storica, perché mostra come l'assetto urbano e regionale dell'Europa in certa misura risenta ancora delle vicende di quel periodo. Resta ancora quello che nella figura è chiamato il tipo «periferico», che si ritrova per esempio nella Francia occidentale, nel Mezzogiorno italiano, o in zone della Germania a Est del corridoio. Tolosa, Bordeaux, Napoli, Palermo, Monaco, Norimberga sono casi di grandi capitali regionali, lontane dalla capitale nazionale, che hanno mantenuto un'influenza gerarchica su un territorio relativamente vasto. Governo locale 6. Il governo locale Una città, in quanto società locale, è anche un luogo specifico dell'attività di governo, un soggetto dell'attività politica e un oggetto dell'attività del governo urbano [Mela 19961. t un luogo, nel senso che si tratta di una società con suoi caratteri e problemi, diversi da quelli di ogni altra città, che combinano in un modo particolare tendenze e tratti generali della società complessiva. Se la politica è in generale l'organizzazione della società, c'è bisogno dunque anche di interventi specifici per l'organizzazione di una società locale, ovvero di governo locale. ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 691 Nel preambolo del Trattato di Maastricht, che ha dato vita nel 1992 all'Unione europea, si raccomanda che «le decisioni siano prese il più possibile vicino ai cittadini» Si tratta di un'affermazione del cosiddetto principio di sussidiarietà, per cui un livello di governo superiore dovrebbe poter intervenire se e soltanto se è in grado di risolvere meglio e in modo più efficace problemi di interesse generale. Il principio riconosce, in via generale, non solo l'opportunità, ma anche un fondamento legittimo alla pretesa di autogoverno locale. Questo principio è alla base degli stati federali (v. cap. =), ma oggi viene sovente evocato nella discussione sulla ridefinizione degli assetti politicoamministrativi dei diversi paesi europei. E comune è, nel nostro ordinamento, l'unità politico- amministrativa di base. Pagina 405
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt L'Italia fa parte di una famiglia di paesi il cui ordinamento è stato fortemente influenzato da quello storico francese. Reagendo ai vecchi retaggi feudali, non cancellati dallo stato assolutistico, la Rivoluzione aveva sancito due principi fondamentali: l'omogeneità amministrativa su tutto il territorio, la fine dunque di particolarismì e privilegi locali, e la resistenza all'ingerenza statale dall'alto, con l'elezione di organi rappresentativi nelle comunità locali. Questo assetto fu modificato in epoca napoleonica, quando venne ribadita l'omogenità, cioè la suddivisione ovunque in municipalità (i comuni) e dipartimenti (grosso modo le nostre province), ma vennero fortemente accentrate le funzioni di governo, con l'istituzione dei prefetti, rappresentanti del governo centrale a livello locale [Vandelli 19901. L'assetto accentrato si diffuse con l'impero in molti paesi d'Europa, e se ne trovano ancora le tracce oltre che in Francia e in Italia, in Spagna, Portogallo, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo. Negli ultimi venti anni, in modi e tempi diversi, questi paesi hanno registrato importanti e simili trasformazioni, con l'istituzione di governi regionali, relativi cioè a zone più ampie delle province o dipartimenti. In Italia ciò è avvenuto in ritardo rispetto al dettato della nuova Costituzione, all'inizio degli anni settanta, e come delega dall'alto di relativamente limitati poteri. In un paese di diversa tradizione istituzionale, come la Germania, le regioni (Ldnder) sono state costituite prima del governo federale, al quale hanno poi esse stesse delegato funzioni di governo complessivo, come la politica estera o la difesa. La Germania è appunto uno stato federale. Da quanto abbiamo detto deriva che il comune è l'istituzione della città in quanto soggetto politico, ma bisogna tenere presente che sul funzionamento e lo sviluppo di una città incidono decisioni delle amministrazioni provinciali, regionali, nazionali, e che possono anche stabilirsi conflitti fra i diversi livelli di governo. Infine la città è oggetto di governo. Il governo urbano agisce per garantire sicurezza, infrastrutture, servizi per i cittadini, e più in generale per favorire lo sviluppo della società locale. Con le istituzioni comunali, che a volte hanno anche competenze e mezzi limitati per dePrincipio di sussidiarietà Governi regionali 692 CAPITOLO 24 terminati problemi, i cittadini hanno il contatto più diretto; per questo spesso si sente dire dai sindaci «noi siamo in prima linea» Forse può confortarli il fatto che ripetuti sondaggi in luoghi diversi indicano in genere una relativamente maggiore soddisfazione dei cittadini per la politica comunale rispetto a quella di ogni altro livello di governo. Sta di fatto che molti problemi sociali, i quali hanno radici nella struttura e nel funzionamento della società complessiva, finiscono poi per presentarsi oggi come problemi urbani. Questo è il motivo per cui sono spesso anche sociologi urbani a occuparsi di temi come la povertà, i sistemi di welfare, la salute, la famiglia, l'abbandono scolastico, la devianza sociale, le migrazioni, oltre che dello studio di problemi e politiche più chiaramente specifiche come quelle dell'abitazione o dello sviluppo urbanistico. Anche molti movimenti sociali, attinenti a problemi come quelli appena indicati, assumono la forma di movimenti urbani: di quartiere, di inquilini, di genitori, ecc. t caratteristico di questi movimenti - come del resto in complesso della domanda politica espressa su temi urbani che spesso non si formano fronti che riproducono un cleavage di classe, ma riuniscono su uno stesso fronte persone anche di classi diverse che appunto si trovano in condizioni simili rispetto a un problema: i genitori degli alunni di una scuola, per esempio, o gli inquilini, o i parenti di ammalati. Se l'oggetto del governo urbano è l'organizzazione della società locale, ciò richiede anche che gli interessi della città siano rappresentati e fatti valere all'esterno. La città può così diventare anche un attore politico sulla scena nazionale e internazionale. Torneremo su questo punto all'ultimo paragrafo. 7. La vita urbana e una definizione culturale di città All'inizio del secolo, Georg Simmel ha tracciato un profflo dell'uomo che vive in grandi città. Per descriverne la particolare psicologia, egli attira l'attenzione sul fatto che in questo ambiente si è sottoposti a un continuo sovraccarico di stimoli di ogni genere. Ci si adatta allora proteggendosi da reazioni emotive profonde e sviluppando la capacità di selezionare e distinguere, definendo le situazioni secondo categorie che semplificano la loro varietà: l'uomo della metropoli reagisce agli stimoli crescenti piuttosto con la mente che con il cuore. Questa razionalizzazione delle reazioni individuali è Pagina 406
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt favorita dal più diffuso uso del denaro, che riduce differenze qualitative a differenze quantitative, e dalla necessità di calcolo nelle relazioni di lavoro e della vita quotidiana, scandite da orologi. Senza orologi la città piomba nel caos, e senza razionalizzazione delle reazioni individuali un adattamente psicologico diventa impossibile: il bombardamento di stimoli al quale siamo sottoposti rischia di renderci del tutto incapaci di reagire a stimoli nuovi. Le reazioni comprendono anche stabilire distanze e separazioni dagli ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 693 altri, che vanno dall'indifferenza, al riserbo, al sospetto, sino all'osfilità. La relativa dissociazione dagli altri è in realtà la condizione che rende possibile la vita di relazione in città [Simmel 19031. Questo ritratto dell'uomo della metropoli ha esercitato molta influenza ed è stato ripreso e sviluppato da numerosi studiosi. Qualche decennio dopo Simmel, Wirth, a partire dalla definizione di città che abbiamo già ricordato prima, ha osservato che in relazione alla divisione del lavoro, alla residenza, alla razza e così via si appartiene a molti gruppi diversi, venendo a contatto con persone diverse nei vari gruppi, con la conseguenza che la comunicazione viene limitata a cose che si pensa siano di interesse generale in ogni specifico contesto; in riferimento alla società nel suo insieme, le istituzioni e i mezzi di comunicazione di massa producono una cultura media, livellatrice delle differenze culturali. Wirth ha ribadito la difficoltà di rapporti veramente personali, sostituiti da rapporti fra ruoli specializzati, ha indicato nella tendenza all'assodazionismo una forma di compensazione e nella crescita della devianza un fenomeno tipicamente urbano. Simmel e Wirth ci hanno fornito strumenti per guardare criticamente alla città, che tuttavia vanno usati con attenzione. Anzitutto ci si è chiesti se e in che misura le conseguenze culturali individuate siano da attribuire al fatto urbano in sé (alle dimensioni dell'insediamento, alla densità e all'eterogeneità, come diceva Wirth), o non siano piuttosto tipiche della città occidentale, più direttamente da attribuirsi all'organizzazione capitalistica dell'economia, con variazioni a seconda delle diverse matrici culturali della società alla quale le città appartengono, dei tipi e delle funzioni delle città. Questa osservazione invita a non semplificare troppo la questione. In secondo luogo, non bisogna banalizzare gli schemi interpretativi proposti. Proprio Simmel del resto segnalava che se le nuove relazioni sociali in città comportano rischi per la personalità e la cultura, esse sono però anche la condizione per adattarsi al cambiamento sociale e per promuoverlo. Così, è vero che per i bisogni della loro vita i cittadini entrano a contatto diretto o indiretto con molte più persone degli abitanti della campagna, e che questo comporta rapporti più superficialì; tuttavia, ciò significa anche dipendere meno da persone singole per una gamma molto vasta e indistinta di bisogni: questa è la condizione di base essenziale per superare i rapporti sociali tradizionali ascritti, per aumentare le possibilità di scelta dei soggetti, per rendere più mobili le risorse della società in vista di nuove combinazioni. Nell'insieme dei suoi lavori, piuttosto che sugli effetti necessariamente negativi dell'urbanesimo Simmel ragiona sulle sue ambivalenze e sulle ~nùZzamne possibilità che questo apre. Da questo punto di vista si può osservare 'b" che l'urbanizzazione è di fatto da lui considerata come parte del più generale processo di modernizzazione. Sempre a proposito della necessità di non banalizzare, un'altra osservazione è importante. t vero che nella città entriamo continuamen694 CAPITOLO 24 te a contatto con sconosciuti, che viviamo esperienze di relazioni segmentate, che per difenderci dall'eccesso di stimoli semplifichiamo e rendiamo più superficiale la nostra vita di relazione, e che questi sono tratti di una cultura urbana; nondimeno, la ricerca ha mostrato che anche nella città gli abitanti sono capaci di tessere relazioni strette, durevoli, personali, a dispetto della quantità di relazioni quotidiane di segno opposto. Si riscontra che nella città tendono a formarsi anche subculture particolari, condivise con maggiore o minore stabilità da persone che hanno comuni appartenenze o che sono accomunate da scelte appunto culturali. Anche nelle città si strutturano dunque delle identità, più o meno forti e stabili. Orientati da un loro bagaglio culturale e dotati in modo diverso di risorse per interagire, gli individui hanno nella grande città occasioni di incontro con gli altri, e possibilità di sperimentare situazioni diverse da quelle alle quali sono abituati, in quantità incomparabilmente superiori ai non cittadini. In Pagina 407
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt questi contatti gli altri appaiono come stranieri, che non si conoscono, e che per forza di cosa vengono etichettati secondo schemi appresi, che semplificano la vita, e che spesso non fanno che veicolare pregiudizi: lo «straniero» diventa un burocrate, uno studente, un cinese. In un breve contatto, poche volte si ha l'occasione di superare questa soglia; ma il grande numero di contatti, la loro varietà, i confronti che ci consentono di fare, la stessa loro occasionalità che rimescola le nostre carte mentali mettendoci in relazione con informazioni, atteggiamenti, gusti che non conoscevamo, aumentano la probabilità di apprendimento e di nuove sintesi culturali. In questo modo, può anche nascere un'innovazione culturale che, diffondendosi, diventa la base di una subcultura, e magari attecchire più in grande. Così può nascere l'idea di un nuovo prodotto o di un nuovo servizio da proporre al mercato, di un nuovo stile musicale o di un movimento politico. Proprio ponendosi da questo punto di vista, l'antropologo Hannerz ha proposto una sorprendente definizione di città in prospettiva culturale: un luogo dove è possibile trovare una cosa mentre se ne sta cercando un'altra [Hannerz 19801. Certo questo significa che nella città ci si può facilmente perdere. Ma la possibilità di scoprire qualcosa per caso è forse uno dei meccanismi più caratteristici della vita urbana, che spiega come la città sia stata sempre un grande crogiuolo di innovazioni culturali. Di nuovo, la dimensione è solo relativamente importante. t soprattutto l'esperienza della diversità a esserlo. Una città grande, ma troppo semplice e poco differenziata, o anche dove le differenze sono segregate in mondi sociali che non entrano in contatto, non è da questo punto di vista una vera città. ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 695 8. Giobalizzazione e fenomeni regionali Il sociologo americano Daniel Bell ha fatto un'affermazione che è oggi spesso ripetuta: «lo stato nazionale è diventato troppo piccolo per certe cose, e troppo grande per altre» Quando ci spostiamo da un'idea astratta, teorica della società alla società concreta, spesso noi la immaginiamo con i confini di uno stato nazionale. Questo si comprende, perché la politica come sappiamo organizza la società nel suo insieme, e lo stato nazionale è l'unità politica fondamentale della società moderna, diffusa poi in tutto il mondo. L'affermazione di Bell ci dice però che gli stati hanno relativamente diminuito la loro capacità organizzativa, che H raggio di strutturazione dei fenomeni sociali per certi aspetti è diventato più grande e per certi altri più piccolo. Se guardiamo nella prima direzione incontriamo il processo di globalizzazione; nella seconda, quello di regionalizzazione. Con il termine globalizzazione si intende che le relazioni sociali sono sempre più spesso stabilite a grande distanza e che la società è ormai «stirata», nel senso detto al primo paragrafo, su tutto il mondo. Secondo alcuni, questo rende anche necessario considerare teoricamente un sistema-mondo (World-system), vale a dire considerare che siamo in presenza di una società mondiale che può essere intesa come sistema fatto di parti fra loro connesse [Wallerstein 19791. Nessuna parte può essere più studiata in modo isolato perché lo sviluppo economico dell'ultimo secolo ha legato fra loro le diverse economie nazionali e locali, con la formazione di un centro e di periferie che dai primi dipendono. Teorie del genere sono discusse da molti punti di vista (per esempio sono accusate di guardare troppo all'economia e poco ad altri aspetti, o di essere troppo schematiche), ma si riconosce l'interesse di una visione che prova a mettere in rapporto, in un quadro unitario a scala mondiale, le diverse economie e società nazionali. Che si adotti o meno una prospettiva di World-system, vale a dire l'idea di un unico sistema mondiale fatto di parti interconnesse, è diventato comunque importante interrogarsi sui meccanismi di disembedding e di sforamento dei confini nazionali da parte delle relazioni sociali, considerando tanto l'economia, quanto la politica e la cultura. In questo senso, globalizzazione significa l'intensificarsi delle connessioni e delle interdipendenze sociali a livello mondiale [Axford 19951. Dal punto di vista dell'economia, si individuano tre processi principali, non nuovi, ma tutti in rapida accelerazione negli ultimi anni [Dore 19971: * l'internazionalizzazione dei mercati dei prodotti, beni o servizi: in Italia possiamo comprare un'auto giapponese piuttosto che americana o svedese, così come possiamo rivolgerci alla filiale di una banca tedesca nelle nostre città, ed è probabile che alla sera ci venga proposto un telefilin americano; o l'internazionalizzazione dei mercati finanziari: l'Eurotunnel sotto Globalizzazione Pagina 408
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt World-system Globafizzazione econoinica 696 CAPITOLO 24 la Manica è stato finanziato con prestiti di banche giapponesi, così come la giapponese Sony emette obbligazioni a Zurigo; oltre a questo settore della finanza prudente, che opera prestiti a lungo termine, c'è poi il settore disordinato degli speculatori, che giocano d'azzardo spostando velocemente capitali da una borsa all'altra, da Tokio a Londra o New York. La loro azione secondo una logica di redditività a corto termine provoca non pochi problemi all'ordine economico internazionale; - lo sviluppo di imprese multinazionali, con filiali operative e reti di fornitori in paesi diversi, in cerca di condizioni locali più profittevoli di produzione (relative per esempio al costo del lavoro, alla pressione fiscale, ma in genere a fattori favorevoli e risorse della società locale) Tutti e tre i processi sono stati favoriti dallo sviluppo della tecnologia, ma sono in sostanza il frutto della pressione degli interessi economici sulle istituzioni politiche per l'abbattimento di vincoli alla regolazione di mercato, come la rimozione dei controlli nazionali sui flussi di capitali o l'eliminazione di barriere al commercio. Al di là di ciò, nella nuova situazione c'è poi l'accresciuta possibilità di evitare o aggirare controlli. La libertà di movimento degli operatori economici è dunque grandemente cresciuta, le economie sono più intrecciate fra loro, e un problema che si manifesta in una di esse può avere conseguenze immediate per le altre. Gli stati nazionali perdono possibilità di influire in modo autonomo sugli effetti a lungo termine dell'economia, di operare redistribuzioni, di sviluppare politiche di riequilibrio e così via. Come abbiamo già detto a suo tempo (v. cap. XV111), la crisi degli assetti keynesiani e degli strumenti di regolazione dei cicli economici è in parte notevole collegata a questa perdita di capacità di controllo, e basta un esempio a mostrarlo: una misura per stimolare l'economia in periodo di bassa congiuntura può avere solo l'effetto di aumentare le importazioni. La globalizzazione dell'econornia è oggi un processo in gran parte regolato dal mercato, sul quale si fori-nano però grandi concentrazioni finanziarie e produttive, con capacità di condizionare i meccanismi della concorrenza. La grande crescita delle economie nazionali del dopoguerra era avvenuta in contesti che combinavano regolazione di mercato e regolazione politica; quei meccanismi si sono inceppati e non sappiamo da cosa saranno sostituiti: possiamo solo vedere oggi la difficoltà che incontra la politica a rapportarsi all'economia, dal momento che il fondamentale raggio di organizzazione della prima continua a essere lo Stato nazionale, mentre quello della seconda diventa globale. Globalizzazione Questo non significa che non siano anche in corso processi che in politica certa misura fanno pensare a una globalizzazione della politica, pur se limitato e in ritardo. Ci riferiamo in particolare al numero crescente di istituzioni trarisnazionali, che legano per materie più o meno limitate e in modi relativamente vincolanti, insiemi diversi di paesi; alcune di ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO 697 queste sono presenti da molti anni, come l'Organizzazione delle nazioni unite (Onu), costituita nel 1945, altre continuamente si formano, come per esempio l'Organizzazione mondiale per il commercio, istituita di recente. La debolezza relativa di queste comunque importanti istituzioni è evidente se pensiamo, per esempio, che l'Onu non riesce a evitare guerre in zone diverse del mondo, pur essendo suo primo obiettivo la salvaguardia della pace, insieme alla promozione dello sviluppo economico e sociale dei popoli, alla tutela della libertà e dei diritti fondamentali. La sua importanza risulta comunque chiara se proviamo a immaginare cosa potrebbe succedere se non esistesse neppure questa forma, molto imperfetta e con poteri molto limitati, di istituzione politica mondiale, alla quale partecipano quasi tutti gli stati oggi esistenti. Il caso dell'Organizzazione mondiale per il commercio è poi un esempio chiaro delle difficoltà in cui si muove la politica per rapporto all'economia. Per superare le diversità delle legislazioni nazionali, i grandi operatori economici sui mercati mondiali creano usi commerciali e stabiliscono pratiche accettate fra loro come un nuovo diritto commerciale, che gli stati finiscono poi soltanto per recepire e considerare valido [Galgano 19931; l'Organizzazione mondiale per a commercio, a sua volta, è un'istituzione internazionale che prova a fare ordine in questo campo, e a far rispettare le regole. Dobbiamo ora guardare nell'altra direzione che ci è stata indicata Pagina 409
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt RegionaJizzazione da Bell. Il processo di globalizzazione va infatti di pari passo con uno di regionalizzazione. Sembra trattarsi di una contraddizione, ma non è così. In primo luogo, globalizzazione non significa omogeneizzazione della società mondiale, ma come vedremo intensificarsi delle relazioni fra parti che restano diverse. In secondo luogo, le difficoltà dello stato nazionale danno spazio anche a organizzazioni politiche più piccole. In generale comunque è facile osservare un ritorno sulla scena delle società regionali. A prima vista, sembra trattarsi di un fenomeno anzitutto culturale. E disembedding provoca un senso di insicurezza [Giddens 19901, e lo stesso effetto hanno la rapidità con cui le relazioni sociali cambiano e la varietà di situazioni con cui ci si confronta. Come abbiamo già visto, questo non significa che anche nelle città e persino nelle grandi e confuse metropoli di oggi non siano possibili relazioni strette, profonde e durevoli. Questa possibilità comporta anche la formazione di nuove subculture e la rivitalizzazione di identità tradizionali e locali, che forniscono risorse di significato, facilità di rapporti e fiducia alle interazioni nella vita quotidiana. Così potrebbe essere spiegato lo sviluppo recente di movimenti culturali e politici che fanno riferimento a radicì etniche regionali (v. cap. XV). L'identità nazionale può apparire un contenitore culturale troppo grande e generico, anche se non necessariamente in conflitto con quella regionale. Si tratterebbe tuttavia di una spiegazione parziale. 698 CAPITOLO 24 Aree economiche regionali Azione politica delle città La globalizzazione dell'economia va di pari passo con la persistenza di vecchie e la formazione di nuove aree economiche regionali. Lo sviluppo tende a concentrarsi in certe zone piuttosto che in certe altre; più in generale, si può dire che l'economia continua ad avere profili regionali diversificati e che si individuano chiaramente spazi economici regionali, dinamici o periferici. Quando si fanno confronti internazionali fra diverse economie, i riferimenti a queste unità regionali possono essere per certi aspetti più significativi dei confronti fra i dati relativi all'insieme delle economie nazionali. Reti consolidate di subfornitura, possibilità di attingere alla cultura tecnica particolare di settori impiantati in una certa località e trasmessa nelle fabbriche e in istituti di formazione specializzati, infrastrutture adatte, conoscenza diretta degli altri operatori economici, e così via, sono fattori che spiegano i vantaggi economici della vicinanza e del rapporto durevole con altri attori in una certa zona. Lo sviluppo a economia diffusa di cui abbiamo parlato nel cap. XX è un caso di economia regionalizzata di successo, per il quale abbiamo mostrato le congruenze fra un certo tipo di economia e certi caratteri della società e della cultura locale, e che potrebbe essere confrontato con molti altri casi analoghi, ma diversi fra loro; fra i più noti e studiati: il BadenWurttemberg e la Baviera in Germania, Rhones-Alpes in Francia, la Catalogna, l'asse che da Cambridge arriva a Bristol in Inghilterra, la mitica Silicon-Valley negli Stati Uniti (che vuol dire valle del silicio, perché si producono calcolatori, e non valle del silicone), e così via. Sia questi casi di successo, che più hanno attirato di recente l'attenzione sui fenomeni regionali, sia quelli di economie in difficoltà - come zone del Mezzogiorno italiano, il Galles in Inghilterra o l'Andalusia e l'Estremadura in Spagna - che tradizionalmente costituivano i casi più studiati, mostrano la forte caratterizzazione regionale dell'economia anche in un'epoca di globalizzazione. L'economista francese Veltz usa un'immagine efficace per far capire il gioco incrociato della globalizzazione e della regionalizzazione economica: le imprese una volta erano «radicate» nelle economie e nelle società locali, ora sono «ancorate» a queste; in altre parole, anche oggi hanno vantaggi a essere collegate a una rete di relazioni economiche e sociali locali, ma sono comunque meno dipendenti dalle risorse del contesto territoriale e possono con più facilità salpare l'ancora per spostarsi altrove [Veltz 19961. Sempre più lo sviluppo regionale si configura dunque come esito di un gioco fra attori diversi, economici, politici, sociali che decidono di orientare insieme, in modi compatibili, le loro azioni sul lungo periodo. Questo sposta di nuovo l'attenzione alla politica e alle sue funzioni. Nel suo famoso saggio sulla città, Max Weber osserva che questa, nella storia, acquista autonomia e capacità di iniziativa politica quando i poteri superiori si indeboliscono o diventano confusi [Weber 1922a] Così, come abbiamo visto, la crisi del feudalesimo ha dato spazio in Pagina 410
Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Alessandro Cavalli. Corso di sociologia.txt ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZio 699 Europa ai liberi comuni, che hanno perso successivamente la loro autonomia con l'avvento degli stati nazionali. Non ci dobbiamo dunque stupire se la globalizzazione, e nel nostro caso anche il processo di costruzione dell'Unione europea, comportano oggi una maggiore capacità di azione politica delle città, in particolare delle capitali regionali, e per le stesse ragioni una maggiore autonomia dei governi regionali. Le città spesso fanno oggi una loro politica estera, cercando risorse all'esterno e promuovendo iniziative legislative presso gli organi dello stato o dell'Unione europea, fanno alleanze fra loro, promuovono la loro immagine economica (il city marketì*ng). 1 governi regionali, d'altro canto, avvicinano agli operatori economici e ai cittadini la sede di decisioni politiche in grado di regolare e organizzare una società regionale con caratterì e necessità specifiche. Di fatto, come è stato osservato più sopra, anche in molti paesi a tradizione centralista è oggi in corso un processo di decentramento di poteri e di ridefinizione dei rapporti fra stati e regioni. Abbiamo visto come i processi di globalizzazione e regionalizzazione siano complementari per i fenomeni economici e politici, e abbiamo anche considerato il ritorno di culture locali. Resta ancora in sospeso un punto, A più difficile e che non risolveremo certo qui. Ci si può infatti chiedere se la cultura, che è soggetta a pressioni locafistiche e regionalistiche, sia però anche, al tempo stesso, soggetta a spinte di globalizzazione. Più precisamente: nonostante le vistose differenze di aree culturali e anche la ripresa di conflitti culturali nel mondo contemporaneo si sta formando una cultura mondiale? 0, per lo meno, si possono cogliere tendenze in questa direzione? Questa è l'impressione se si osservano fenomeni come la diffusione e A prestigio della conoscenza e della ricerca scientifica, oppure quella di stessi prodotti e di similì modelli di consumo in tutto il mondo. Ognuno può fare facilmente esperimenti mentali al riguardo. 19 secondo esempio porta a riflettere sul fatto che la diffusione culturale è veicolata anche dall'azione economica, e che spesso l'adozione di un modello culturale è l'effetto dell'invadenza di una cultura e di un'economia forti e centrali nell'ambito di altre periferiche e esposte, che sembrano capaci solo di adattamenti passivi. Gli antropologi non si sono tuttavia stancati di ripetere che la produzione culturale è continua, e giungono alla conclusione che in definitiva se vogliamo parlare della tendenza alla costituzione di una cultura globale, questa deve però essere intesa come Cultura globale l'interconnessione di differenti culture locali o come anche lo sviluppo di culture che non sono ancorate a nessun territorio [Hannerz 19921. In sostanza, anche per la cultura siamo di fronte al duplice processo che abbiamo riscontrato nell'economia e per la politica. Su un punto i ricercatori sembrano d'accordo: non bisogna confondere la globalizzazione dei flussi e delle reti culturali con la formazione di un unico sistema di valori e dì norme, di significati e di identità.
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