o 2005, GIW. Laterza & FigiJ, ~r
Francisco de Vitoria
la Traduz.Il>ne, l'Jmroduz.ione ~ I~ No[~ di Carlo Galli
De iure belli
Prima Mizione 2005
Traduzione., Introdw..ione e i\ot.e
di Carlo Galli Con testo latiJw aIronie
•
Editori !AtervJ
Introduzione di Carlo Galli
Proprietà ieueraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma·Bari Finito di stampare
nel febbraio 200:5 PoJigrafico Dehoniano .
Stabilimento di Bari ~r conto delJa Gius. Laterza & Figli Spa
CL ZO-7S00-S ISBN 88-4Z0-7S00-0
La Re/eelio' de iure belli che il domenicano Francisco de Vitoria (1483?-1546) tiene il 19 giugno 1539 a Salamanca, dove ha cattedra di Prima Theologia dal 1526, è la diretta prosecuzione della Releelio de Indii', pronunciata intorno alI o gennaio dello stesso anno, e risulta es· sere la penultima, in ordine cronologico, delle tredici Releeliones che conosciamo (sulle quindici complessive), che hanno luogo dal Natale 1528 (De poleslale civilt) allO luglio 1540 (De magia)'. l La Releclio è una lezione solenne, ovvero conferenza o dissertazione originale, tenuta davanti all'intero corpo docente, diversa quindi dalla Leclurll, che è invece l'ordinario commento di un testo autoriale davanti agli studenti, 2 F. de Vitoria, Releclio de lndis. La questione degli Indio!, a cura di A. Lamacchia, Bari, Levante Editori, 1996. La strena dipendenza del De iure belli dal De Indis è evidente anche per il fatto che in alcuni codici e in akune edirioni questa Re/l'Clio è indicata come De Indis, sivt! de iure belli Hispanorum in barbaros, re/l'dio posterior. J Sul contenuto delle Re/ediones, e sulla loro cronologia, dr. A. Lamacchia, Frandsco de Vilona e l'innovazione moderna del 'Didllo delle genli'; Introduzione a Vitoria, Re/ectio de Indis. La questione degli Indios, cit., pp. IX-XCIV: XXIX, nonché U. Horst, Lehen und Werke Frana"sco de Vi/odas, in F. de Vitoria, Vorlesungen. Vo/leerrecht, Poli-
v
Le due Relecliones, De Indis e De iure belli (d'ora in poi DIB), segnano un importante momento di elaborazione, da pane di Viroria, di un sapere teorico-pratico - cioè morale, giuridico e politico, iscriuo all'interno di un orizzonte teologico - che intende collocarsi all' altezza delle sfide politiche del tempo: cioè delle grandi questioni con cui si apre l'età moderna, che vede mettere in discussione la tradizionale equivalenza -logica e categoriale, se non politica ed effettuale - fra Europa, cristianesimo, civiltà, umanità. Dal XVI secolo in poi, infatti, la respubliCll christiana è sempre più chiaramente solo una parte del mondo (è questo il primo effetto della scoperta dell'America); di fatto, né il papa né l'imperatore sono più i vertici della legittimità politica e spirituale (com'è mostrato dal formarsi degli Stati); il cristianesimo divide invece di unire (che è quanto emerge dalla Riforma). Questa situazione può essere affrontata - nello sforzo di cicondurvela - attraverso le categorie intellettuali e politiche elaborate all'interno della respubIiCIJ chnsliana; oppure può essere ricompresa attraverso l'immaginazione di nuove vie, grazie alle quali si possa costruire e legittimare un nuovo ordine politico interno e internazionale:
si trana, nell'ambito teorico, dd eazianalismo moderno, e, nell'ambito storico, dell'ordine degli Stati e dello ius publicum europaeum, che nasce con le paci di Westtalia (1648-1649) e che muore nella prima metà del XX secolo. L'opera di Vitoria è un lertium genus: è cioè un esempio di una innovazione non statualistico-razionalistica, a cui l'autore giunge disponendo in modi originali i mate· riali intellettuali offerti dalla tradizione antica e cristiana. Vitoria deve confrontarsi in primo luogo col nominalismo, di cui, insieme aU'erasmismo umanistico e ireni-
stico, ha fatto esperienza aParigi, ai tempi dei suoi studi e del primo insegnamento come bace1liere alla Sorbona (1510-1523); se dall'erasmismo, combattuto dai francescani spagnoli, egli si libera ufficialmente nel 1527,elencandone gli errori teologici nella ]unla di Valladolid (pus essendo stato il destinatario, l'anno prima, di una lettera dello stesso Erasmo che a lui si raccomandava, e pur avendone assimilato l'universalismo)4, rispetto al nOm1nalismo volontaristico (di cui c'è forse traccia in forma di qualche influsso scotistico) la sua posizione consiste in una diretta ripresa del testo di Tommaso: sotto la dire· zione del suo maestro Pietro Crockaert (Petrus de Brussellis) egli cura, nel 1512, l'edizione a stampa della Seeunda Seeundae. Per tutta la vita Vitoria interpreta e sviluppa, commentandolo direttamente all'Università (benché gli statuti di Salamanca prevedano ancora la lettura delle Senlenliae di Pietro Lombardo)', i.l razionalismo strutturale e metodologico di Tommaso, divenendo così il caposcuola autorevolissimo - già in vita è definito Sacrae Theologiae reslauralor- del ramo domenicano di quel variegaw rinascimento intellettuale spagnolo, la cosiddetta Seconda Scolastica, che (solo per fare qualche nome) attraverso Domingo de SolO, Melchiorre Cano, Bartolomeo da Medina, Bartolomeo Carranza, Juan de
tl"le. Kirche, a cura di U. Horst, H.-G. Justenhoven, J. Stuben, Stuttgan-Berlin-Koln, Kohlhammer, 1997,2 voU., I, pp. l}-99.
• Su Erasmo e Vitoria, dr. L. Legaz y Lacambra, Horizontes Jd penSIJmiento ;uridiro. Barcdona, Bosch, 1947, pp. 19'-198. Notizie sulla lettera di Erasmo theatogo cuiti4m hispanico sorboniro si trovano in T. Urdanoz, lntrtXiua:ion biogrtifica a Obras de Francisco de Viton"a. Releceiones lea/Qgicas, Madrid, Biblioteca de Autores Cristianos, 1960, pp. 14 e }o-},. , Sul commemo di Viloria alla Summa, distimo per anni accademici (dal 1'26 al 1540) e per argom~ti, cfr. Urdanoz. Introducd6n biograficd, CiI., pp. 76·78; cfr. F. de Viloria, Commentarios Il la Secunda Secundae de Santo Tomds, a cura di V. Bdtran de Hereilia, Salamanca, Biblioteca de Te61ogos Espailoles, 1932-1952,6 vaU.
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Mariana, Luis de Molina culmina, il secolo successivo, con Francisco Suarez. Animata dai domenicani e dai gesuiti, la Scolastica spagnola è non solo la risposta cattolica alla Riforma, in termini di oggettività opposta alla soggettività, di razionalismo opposto al voiomarismo, ma è anche il veicoio di una modemizzazione e di una cazionalizzazione dei pensiero europeo che, passando attraverso la ripresa non solo di Tommaso, ma anche di Aristotele e del diritto naturale antico, stoico e ciceroniano, ha potenti effetti anche in ambito protestante, in Melantone, Althusio, Grozio, Leibniz, Wolff6. 1. La questione americana' - ossia )'esigenza di dare una forma al rappono fra Vecchio Continente e resto del mondo - viene affrontata, a ridosso del descubrimienlo, ancora all'interno di categorie largamente improntate all'uruversaUsmo medievale: lo dimostra la bolla Intercoetera divinae (1493) con cui papa Alessandro VI Borgia - in analogia con quanto ha fatto iccolò V nel 1454, con la bolla Romanur Ponti/ex che concede al Ponogallo tutti i regni dell'Africa - assegna le zone d'influenza mondiali spartendole, con la raya, fra pagna e Ponogallo (modifiche alla linea-spostata di 370 leghe a ovest-ven' gana pattuite fra le due potenze l'anno seguente, col trattoro di TordesiUas). TI presupposto è ancora la leoria medievale che vede il papa dominur orbir (e l'orbir coincidente in linea di principio con lo rerpublica chrirtiana), legittimato quindi a donare a un re cristiano sia il dominio di tecre e uomini privi di signoria sia il compito di proteggere l'opera ecciesiastica di evangelizzazione. l
(o M. Villcy, La !ormtuiQ"e del pensiero giundico moderno (1975). Milano,)aca Book, 1991, pp. 295-J06; cfr. anche C. Schmin, Il nomo! dell4 terro nel dinuo int"nazionale dello «jU$ publicum europoeumll (1950), MiI.no, Adelph;, 1991, p. 128.
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1.1. Questo titolo di possesso dell'America da parte del-
la Spagna è negato da Vitoria non solo in De Indir (2, 4 e 5) ma, già dal 1532, dalla prima Relectio de potertatae Eccleriae (V, 2), in coerente applicazione di quanto egli ha sostenulO fino dalla Retectio de poterlate civi/i (6 e 9); qui, sulla base di una ripresa diretta di Aristotele (segnalamente della tesi dell'uomo animale politico) e di Tommaso (la teoria della lex naturalirl, Vitoria sancisce la naturale perfezione delle comunità umane, ossia il fatto che il potere politico (potertar temporalir, e quindi più che la sola iurirdiclio), in quanto funzione neces· saria all' esistenza delle varie comunità di popoli in cui si articola l'umanità, è VOIUIO da Dio (ivi, 8) ed è del rutlO secondo la legge di natura, il che rende erroneo pensare che la sua legittirnazione risieda nell'autorità del pontefice o nell'adesione di re e popoli alla religione cristiana, o nell'assenza di peccato. Anzi, nella prima Retectio de potertate Eccleriae (IV), VilOria sostiene che anche la potertar rpin'tuotir (la religione, distinta dal potere politico) è in sé naturale, e che quindi si trova anche presso gli infedeli e nell'Antico Testamento, benché Cristo istituisca ex novo quella perfetta, ossia quella meglio disrinta dal potere temporale, cioè il cristianesimo. L'indipendenza reciproca delle due poterlater significa insomma che per Vitoria il papa non è dominus orbir, e che quindi non può legittimare il dominio politico di un principe su terre vecchie e nuove. Queste tesi - peraltro non nuove: sono infatti tomistiche, 'ma sono già presenti. in forme diverse, anche in Bernardo di Chiaravalle' - implicano che la ierocrazia gregoriana (e bonifaciana) venga criticata; e infatti in DIB e in De lndir Vitoria polemizza contro i decretalisti 7
9·11,
Bernardo di ChiaravaUe, De comlderali()n~ad Eugen'-um,lI, VI, mPL 182, coli. 747·748. IX
e i canonisti, o li utilizza in modo parziale: è il caso di Nicola de' Tedeschi (il Panormitano), di una gloria dei domenicani come il teologo Silvestro Mozzolino da Prierio, o di teologi trecemeschi come Agostino da Ancona, autore di una Summa de ecc/esiashca potestate che
Vitoria cita nella Re/ecJio de Indir (2, 4). Naturalmente, Vitoria critica anche i giuristi imperiali (Accursio e Bar-
tolo, fra gli altri) che sostenevano da altro punto di vista l'imperfezione politica delle società, bisognose di essere legittimate dall'imperatore, signore dd mondo (De lndir 2, 2). Ciò significa che Vitoria vede ormai matura la vicenda politica degli Stati europei, delle grandi monarchie come delle repubbliche, anche se, ovviamente,
Convento di Santo Stefano, in cui si vieta ai teologi di Salamanca di trattare ulteriormente questioni politiche americane. Lettera rivelatrice di quanto le tesi di Vitoria - benché esposte con grande prudenza - siano re-
putate potenzialmente pericolose, dato che per il resto Carlo V ha grande stima del domenicano, tanto che il 31 gennaio del medesimo anno 1539 (oltre che in altre occasiom) gli ha ufficialmente sottoposto alcune questiom rdative all'amministrazione dd battesimo agli Indios, su cui si dividono i francescani, i domenicani, gli agostiniani, e sulla questione della loro schiavitù; e che,
ancora nel 1545, a Vitoria viene propostO di partecipare al Concilio di Trento come teologo imperiale (ma de-
non aderisce a nessuna delle due concorrenti strutture
ve rinunciare per motivi di salute)9.
categoriali moderne -la sovramtà assoluta dd principe, e il contratto legittimante e fondante dd popolo. on a caso, quindi, il partito curialista spinge Sisto V (1585-1590) a mettere all'Indice le Relectioner; e non a caso nd 1608, durante la polemica fra Paolo V e Giacomo I d'lnghilterra, il giurista di curia Francisco de la Pena pone in dubbio l'autenticità vitoriana (e quindi l'autorevolezza) delle Relectioner, proprio perché antipapali". E non a caso la tesi che il papa non è dominur orbis - che fa venire meno un importante concetto utilizzato dal re di Spagna, insieme al diritto di scoperta, per legittimare il proprio dominio in America - vale a
Estraneo ai partiti fìJopapali e fùoimperiali, Vitoria non è certo uno spirito laico: infatti, anche il Concilio di Costanza (1414-1418) ha negato lapotertar direcla in lempora/ibur del papa; e, d'altra patte, benché nella Re/ecJio de potertate Papae et Conci/ii (534) avanzi una concezione non assolutistica né autocratica del papa (ai limiti
Vitoria anche la temporanea ostilità di Carlo V, testi-
moniara dalla lettera dellO novembre 1539 al priore del
del conciliarismo, almeno per quanto riguarda l'assenso
- dichiarato non indispensabile - del pontefice alla convocazione dd Concilio), egli è un esplicito fautore della potestas indirecta: il papa «non è un sovrano temporale, ma ha nondimeno potestà sulle cose temporali in ordine alle spirituali», nel senso che «può ordinare le cose tem-
porali com'è opportuno per quelle spirituali» (De lndir 3,9). TI che lascia ampio spazio all'azione dd pontefice: in particolare, gli consente appunto di affidare Dd un so-
• L. Perena, li testo de/ill «Re/ectio de Indis». Introdu1.ione storico/i/ologicil, in Vitoria, Re/eclio de [ndis. lA questione degli Indios, cit., pp. XCV·CX1X: XCV; Id., Estudio preliminar. LA tesis deltz poI. dimimica, in Francisco de Vitoria, Re/ectio de iure bellI; o Pa1. dinamica. Escueltz Espanoltz de IIJ Pa1.. Primera generaci6n, a cura di L. Perena, V. AbriJ, C. Badero, A. Garda, F. Mascda, Madrid, Conseto Superior de Lnve· stigaciones Cientificas, 19812, pp. 29-94: 81.
vrano cristiano la protezione dello sforzo della Chiesa di evangelizzare i pagani, e anche di escludere ogni altra potenza se il papa pensa che una presenza pluriIna di Stati
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Urdinoz, Introducci6n biografica. ch .. pp. 41-45 e 53-57.
cristiani sia di danno alla propagazione della fede. Così il dominio spagnolo in America pare a Vitoria riconduci·
bile, benché indirerramenre e solo in parre, alla donazione papale, interpretata in senso non ierocratico.
Ma i modi per legirtimare il possesso spagnolo dell'America sono soprarrurro alrri. Benché infarti Vitoria sostenga nel De Indis (1 e 2) cb,e né il titolo della scoperta, né l'estraneità alla fede o il suo rifiuto. né la condizione di peccato, né la scarsità di raziocinio degli Indios giustificano il dominio spagnolo, o tolgono agli Indios la qualifica di legittimi signori e padroni de11oro territorio, capaci di potestos e di dominium come ius utendi re (la proprietà), nondimeno egli afferma (ivi, 3) che il re di Spagna si può richiamare ad alcuni giusti titoli per sostenere la legittimità del suo dominio americano. A parte una eventuale loro libera scelra di essere governati dal Re Carrolico o di allearsi a questo (ivi, 3, 15-16), se gli Indios privano gli Spagnoli del diritto naturale di transitare per le loro terre (ivi, 3, 1) e di commerciare equamente con
loro (un diritto che nasce dalla universale disponibilità dei beni comuni, e dalla cognotio degli uomini tra di 10fO, espressa da Vitoria - in De lndis 3, 2 - attraverso la negazione del derro plaurino nell'Asinona «bomo homini lupus» che sarà poi ripreso da Hobbes nella Dedico del Dccive), e se ostacolano la Chiesa cattolica nel suo diritto di predicare (ma non di forzare alla conversione), o se perseguitano i convertiti; se insomma vulnerano il diritto naturale e il dirirro delle genti - o il dirirro della Chie53, di origine divina. alla evangelizzazione, che non è in contraddizione con la uguaglianza di dirirro naturale fra i popoli, daco che ovviamente questa non implica, per Vitoria, l'uguaglianza delle religioni -, allora gli Indios commettono ingiustizia, e sono passibili di punizione, ossia possono essere oggetto XJl
di guerra giusta, fmo alla
occupazione dd territorio e alla sottomissione al re di Spagna (ivi, 3,5-7), fatra salva la moderazione dei vinci-
tori e il bene dei vinti. Ma tutte queste clausole, eventualità e fattispecie, della guerra giusta contro gli Indios- motivata da Vitoria sulla base del diritro naturale e delle genti - valgono per loro (con l'eccezione della religione) in modi e misure non diverse che se si trattasse di crisùani~ una concessione a differenze culturali sta forse nel fatto che fra le cause di guerra giusta c'è in Vitoria anche la «ingerenza umanitaria» contro la tirannia dei loro governanti che consento-
no l'uccisione degli innocenti, cioè i sacrifici umani e}'antropofagia; in ogni caso, però, non è legittima l'occupazione permanente del territorio dei vinti (Dc Ind.s 3, 14)10. Cerro, sia pure in via subordinara (ivi, 3, 17), Vito-
gli Indios, data la loro primitiva. rozzezza, siano quasi (ma non dci tutto) incapaci di autoeia avanza l'ipotesi che
governo, così che il dominio spagnolo può essere legittimato anche dal precetro della carità, ossia dell'aiuto del più forre verso il più debole (e quindi dall'utilità degli Indios stessi). La teoria giusnaturalistica aristotelico-cattolica e l'universalismo che ne consegue prevedono sì l'uguaglianza dei popoli, ma anèhe la differenza di gradi di civiltà (oltre che l'esclusività della vera religione); né Vitoria si fa un problema dell'ovvia asimmetria pratica fra Europei, che di quell'universalismo sono i soggetti attivi, e Amerindi, che ne sono oggetto! l, IO Si veda anche il frammento finale, scoperto nel 1929, della Relec/io de temperan/ia (1537) -la cui Quinta Cone/urio è rivolta contro antropofagia e sacrifici umani -; trad. it. in Vitoria, Re/mio de Indù. La questione degli Indior, cil. pp. 98-116. 11 T. Todorov, La conquirta dell'America. 1/ problema dell'«altro» [1982], Torino, Einaudi, 1992, p. 182, sostiene che Vitoria fornisce la prima giustificazione moderna del colonialismo; sono critici anche L. Ferra;oU, La conquista delle Amenche e la dellrina de/la rovranità degli
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1.2. Benché Vitoria non entri apertamente nelia valuta· zione se nel caso americano ricorrano veramente le sin· gole fattispecie che legittimano la guerta giusta - dato che è primariamente interessato a defInire criteri generali -, la sua posizione è che il dominio spagnolo in America è legittimo, anche se non per i titoli che comunemente si avanzano, mentre sono probabilmente illegittime molte delle fotme di quel dominio. La sua posizione si inserisce quindi all'interno dell'ostilità dei domenicani verso le concrete configurazioni, di fatto schiavistiche, della presenza spagnola nelle Indie; un'ostilità che si manifesta anche nel catdinale Caetani, generale dell'Ordine, il quale, commentando la Seronda Serondae, ticonosce agli Indios di essete legittimi poso sessori delle loro terre l2 ; e che a Salamanca si nutre dei resoconti dei missionari, e anche della cronaca più recente, come si rende evidente nella lettera di Vitoria del 1534 all'amico domenicano Miguel Arcos, in cui egli stigmatizza, sia pure con prudenza verbale, la sanguinosa conquista del Perù, avvenuta l'anno prima, con lo sterminio della nobiltà inca e con la messa a morte, no· nostante una conversione forzata e il pagamento di un enorme riscatto in oro, del re Atahualpa lJ. Sta/i, in 500 anni di solitudine. La conquista dell'AmeriCIJ e il diritto in· /er1tt14ionale, Verona, Bertani, 1994, pp. 439478: 444; Id., La sovranità dci mondo moderno. Nasà/a ecrisidelloS/atonazionale, Roma-Bari, Laterza 1997, p. 16; H. MechouJan, Vi/oria, père du droi/ in/erna/ional?, in A. Truyol Serra, H. Mechoulan, P. Haggenmacher, A. Ortiz·Arcede la Fucnte, P. Marino, J. Verhoeven, Adualité de la pensée juridique de Franàsco de Vitona, Bruxelles, Bruylant, 1988. pp. 15-17; G. Tosi, La Icona della guerra giusta in Francisco de Vi/ona, in M. &attola (a cura dO. Figure della guerra. LA nflessione su pace, conflitto egiustizia tra Medioevo e prima età moderna, Milano, Franco Angeli, 2003. pp. 63-87: 82·84. 12 Lamacchia, Francisco de Vitoria e l'innovazione moderna, cit., p. L1X. I)
RA. lannarone, La maturazione delle idee coloniali in Francisco XIV
Nelle )unlas di Burgos del 1512 i teologi dichiarano che gli indigeni americani sono uomini naturalmente liberi, e pertanto soggetti al dominio politico, non dispo· tico, del te di Spagna. In quella citcostanza sono elaborati i testi dotttinali di un giurista e consigliete del te comeJuan de Palacios Rubios, e di un teologo di Salamanca come Matias de Raz, autori rispettivamente del De insulis oceani e del De dominio regum Hispaniae super In· doso La logica di queste opere è ancora interna all'impostazione ierocratica della bolla Inter coe/era (e governa anche la bollaSublimis Deuscon la quale nel 1537 Paolo III riconosce agli Indios la piena umanità - in virtù dell'unità del genere umano -, e la possibilità che questi, in quanto esseri dotati di ragione e di anima spirituale, abbiano la salvezza eterna se evangelizzati)14. Così, con lo strumento teologico-giuridico del requerimiento - elaborato a partire da quanto teorizzato a Burgos -, agli Indios viene imposto di riconoscere la signoria del pontefice, e conseguentemente del re di Spagna, e di accettare la predicazione e la conversione. Ancora su queste basi, nel 1513 vengono tedatte da Fetdinando il Cattolico le Leyes de Indias che introducono il sistema dell' encomienda, la quale prevede pet gli Indios non la schiavitù pura e semplice ma certo la cessione del lavoro in cambio della protezione e della istruzione religiosa dell' en· comiendero spagnolo. Applicate con fetoce avidità dai coloni, queste leggi ebbero effetti devastanti sulle popo·
de Vitoria, in ..Angclicum», 1970, pp. 3-43; Lamacchia, Francisco de Vitona e l'innovazione moderna, cit., p. L; la lettera si legge in Vitoria, Relcc/io de [ndiI. lA questione degli Indios, cit., pp. 137·139. \4 L.N. McAlister, Dalla scoperta alla conquista. Spagna e Portogallo nel Nuovo Mondo 1492-1700 (1985), Bologna, li Mulino, 1986, p. 126; Urdanoz, lntroduccion biogrdfica, cit., pp. 51·52.
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lazioni assoggettate, e risultarono nel medio periodo
dei coloni che si risolvono nel genocidio e nella deva-
controproducenti per la sressa Corona di Spagna, alla quale le rerre appartenevano. Invano - dal punto di vista pratico del miglioramento delle tragiche condizioni di vita degli Indios -tentò di porre rimedio a queste pratiche Carlo V, nel 1543 , con le Leyes nuevas 1'.
srazione del Nuovo Mondo, e che quindi lo privano di parte dci suo valore economico 16 .
Vitoria - benché, lo si ripete, sia più attento al rigo-
2_ e il papa non è dominus orbis, e se non lo è neppure l'imperarore, ciò implica che la legittimirà del parere risiede presso i popoli, e quindi, in Europa, negli Srari. Ma
re dell'argomentazione che non agli effetti pratici del proprio discorso - si situa quindi in una posizione di· versa da quella ufficiale, sia dalle sue versioni più equi-
pur riconoscendo questo processo, Vitoria non lo interpreta in senso pienamente moderno. È infatti estraneoe non solo per ovvi motivi cronologici - all'idea raziona-
librate sia da quella dell'umanista e cronista regio Juan
Ginés de SepUlveda, che nel Demacrales aller, sive de iusii belli causis (1547; ma il testo circola manoscritto ne-
gli anni precedenti), tearizza, restando in un contesto aristotelico, la subumanità degli Indios (homunculz), la loro natura servile e la liceità della guerra di conquista Contro di loro, per evangelizzarli ma anche per schiavizzarli. Piuttosto, la posizione di Vitoria ispira. pur non
coincidendovi del tutto, quella di Bartolomé de Las Casas (che con Sepulveda avrà a Valladolid una celebre controversia nel1550-155J): questi, nella sua postuma
Historia de las Indias, propugna tesi ancora più moderate, che prevedono una penetrazione pacifica degli
Spagnoli nel Nuovo Mondo, la costruzione di fattezze solo in zone pericolose, e l'attribuzione agli Indios della qualifica di sudditi liberi di Sua Maestà Cattolica. Tanto Vitoria quanto Las Casas, ciascuno a modo suo,
listica, che si formalizzerà con Hobbes cenr'anni dopo la sua morte, che lo Stato (in Vitoria, civi/as o respub/ica; mentrestatus, ncl significato politico~istituzionale, com-
pare una volra sola, in DIB IV, TI, 9) sia un astifieio costruito da uomini uguali tra loro per farne l'unica fonte di autorità e di ordine politico sovrano in un contesto di disordine naturale; ed è estraneo - anche in questo caso,
non solo per motivi accidentali (il nome di Machiavelli non ricorre) - anche rispetto all'altra modalità di legittimazione dello Staro moderno, cioè all'idea machiavelliana, e in seguito della Ragion di Stato, che la politica sia essenzialmente volontà di parere, e che il fine dello Stato non sia il bene comune, ma l'ampliamento: un'idea a cui la Seconda Scolastica oppone la dottrina politica del principe cristiano!7. Gli Stati sono riconosciuti come una realtà nuova so·
SuUa situazione degli Amerindi cfr. O.E. Stannard, Olocausto ameneano. La conquista del Nuovo Mondo (1992), Torino, Bollati Bo· ringhieri,2001.
l' Urdlinoz,lntroducaon biografiCa, cit., pp. '7·60; cfr. anche G. Guozzi, Introduzione a ld., La scoperta dei selvaggi. An/ropowgia e c0lonialismo d4 Colombo a Didero/, Milano, Principato, 1971, pp. 1-19, parto pp. )·6; testi di $epUlveda ivi, pp. 29·34, e di Las Casas ivi, pp. 72-77. Sull' aristotelismo come quadro complessivo delle prime interpretazioni degli Amerindi, cfr. S. Landucci, Jfi"/mofi t i selvaggi 1580· 1780, Bari, Laterza, 1972, ca".ll, pp. 93 sgg. 17 Q. Skinner, Le origini del pensiero poli/ico moderno (978), voI. II, L:età della RJjorma, Bologna, UMulino 1989, cap. V, parto pp. 199·268.
XVI
xvn
potrebbero essere definiti alleati di fatto del re di Spagna (benché divergano dalle resi ufficiali della Corona sul possesso delle Indie), almeno in quanro convergono con il suo tentativo di mettere riparo a quelle pratiche
l'
lo in quanto rendono impraticabili i sogni neomedievali di Carlo V: il pensiero politico tli Vitoria Don è una rivoluzione ma una razionalizzazione della tradizione, soprattutto del tomismo e del diritto romano. Dal primo, che a sua volta si rifà a Paolo, Vitoria trae la convinzione che il potere politico - e in particolare il potere di puni. re con la morre - esiste, in quanto funzione, iure divino (De poleslale civili 6), e che quintli, a patte la differenza del soggetto legislatore (Dio e gli uomini), vi è analogia funzionale fra legge tlivina e legge umana (ivi, 16-17), così che anche quest'ultima obbliga in coscienza (DIB II, 1 e IV, 1,.5). La spinta all'oggettività che deriva a Vitoria dal tomismo non giunge certo a fargli sostenere che la strut· tura razionale del mondo - il tlisitto naturale (lex nalu· ralis), a cui è dovuta anche l'esistenza del potere politico che pone la lex humana - sia autoooma da Dio e dalla lex aeterno, ossia che sussisterebbe «ersi Deus non daretur» come, oltre che in Grazio, si può leggere, implicitamente, anche io Gabriel V:izquez, in Molina, in Roberto Bellannino l8 ; e tuuaviaè assente, in tui,l'interpretazione solo punitiva del detto paolina «Ilon est potestas nisi a Dea», che è invece propria di Lurero. Se )a poter/ar, cioè il potere in quanto funzione intrinsecamente necessaria alle società, viene da Dio e al contempo dal diritto naturale, per Vitoria l'auclorilas, cioè il potere di comando legittimo e reale, viene invece dal popolo che attua una transiatio auctoritatis verso il principe - è questo un elemento romanistico, in quan· to implica un evidente rinvio alla Lex regia de imperio-, così che egli può sostenere «creat respublica regem» (De poleslale civili 8)_ Questa Iransialio non è certo un contratto individualistico, un moderno pactum unionis; semmai è più consono al pensiero di Vitoria il tradizioIII
Villey, ÙJ formavone, cit., p. 299.
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nale pactum subiectionis fra le comunità e il sovrano, che sarà previsto io seguito anche da Molina (De iUSlilia el iure, 1593-1600)'9; in ogni caso, per Vitoria (DIB II, 3) la Iransialio è nella quasi totalità dei casi irrevocabile, al. meno quando si tratra di governi legittimi, cioè che agiscono in vista del bene comune e attraverso le leggi - al. le quali anche i re, che pure le fanno, devono obbe. tlienza (De poleslale civili 21 e DIB IV, I, 8): non c'è io Vitoria il rex IegibuJ SOlulus. Su queste basi, l'assetto tli politica interna previsto da Viroria è organico e gerarchico: come si vedrà (ullra, S 5.1), Don c'è io lui intlivi. dualismo politico ugualitario - benché ciascun uomo sia imago Dei -, dato che soggetti della politica sono i popoli-nazione (le genles) e le comunità politiche (respublicae) COD i loro principes, ma c'è anzi una conce. ziooe tliseguale della società e dell'accesso alla capacità politica e alle relative responsabilità (DIB IV, I, 7). l:u. guale dignità dell'uomo, cetto presente, noo è declina. ta, nei tli. uguali diritti civili e politici dell'uomo, . tertnini , ne In un auteDUca prospettiva cosmopolitica20. 19 SuJ comra.tto in Vìtoria si vedano V"tlley, LAformozjone, ci[., p. 302 e G. OestreJ.ch, Stona dei dinl/i limoni e de/le libntlÌ fondamentali (1951), Roma-Bari, Lalerza, 2001, p. 35. 20 L'opinione che si possa parlare di dirini umani in Vi[oria è invece p~te. in E. ~ni. Frandsco de Vitono nell'interpretazione di Cari Schml/l, m S. Blolo (a cu.ra di), L'universalitlÌ dei dirilli umani e ti penIiero aùtlono del '500. Torino, Rosen~rg & Sellier, 1995. pp. 139-147: 146; cfr. anche A. Lamacchia, Francisco de Vitoria: j din·lli um~ni ne/~ ~~/~II'o de lndis, ivi, pp. 105-137; L. Baccelli, 11 portico/a.n.s"!l:! ~mll~, Ro~a, Carocci, 2000, pp. 37 sgg., vede in Vitoria i ~lr.. t~l ~~dl~I~Uali ~naJtzzati a legittimare la conquista. Che in Vitoria l dlflm mdlvlduali non siano centrali è lesi di I. Trujillo Pé:rc:z Franasco de Vitoria. TI din~to alltJ comunicazione e i confini delltJ s~cialilà U1~ana, Torino. Gia~pi.cheUi, 1999, pp. 195 sgg. Si può sosrenere, distinguendo con Mamam fr.. soggetto moderno e persona che Viloria è'pr~rsore dei diritti delle gem~ e deUn persona, più che'di quelli laiCI dell uomo: cfr. V. Ferrone, ChIesa cal/ollea e modernitlÌ. Lo scoperta dei din~tj dell'uomo dopo /'esperienZJJ dei lotalitansmi, in F. Bolgiani,
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Dal punto di vista storico-politico, poi, Vitoria vede la politica europea dominata dal conflitto fra due Stati cristiani, in rapporto ambiguo con l'Impero turco. AssIste cioè alle controversie territoriali fra Spagna e Francia riguardo al possesso della Borgogna, di Mil~o, di Nal'Oli (ve ne è più di una traccia in DIB); ai tentatiVI francesI di impedire l'egemonia spagnola in Europa, attraverso due alleanze (nd 1528 e nd 1536) tra Francesco I di Francia e Solirnano il Magnifico; agli sforzi di Carlo V di chiamare a raccolta l'Europa cristiana contro la minaccia turca (1a pace di Cambrai nd 1529 e la Conferenza di Bologna nd 1530, l'anno in cui a Roma Gemente VII incorona Carlo V imperalore dd Sacro Romano Impero); nonché alle sconfitte militari che posero fine allenlativo spagnolo di ricacciare l'Impero lurco fuori dallo spazio politico europeo; non vede. invece, il divampare in Francia delle guerre civili di religione, la cesura da cui ha origine, politicamente,la piena modernità". Davanti a questi scenari europei la posizione di Viloria - quale appare anche in due lettere dd 1536al coneslabiledi Castigliazz-è di nello rifiuto sia della politica di polenza sia delle vessazioni alle popolazioni: egli propone un equilibrio pacifico fra le potenze crisùane europee, in chiave anriturca, fondalO sul principio che le controversie devono essere decise in buona fede e con volontà di pace.
V. Ferrone, F. Margion8 Broglio (8 cura di), Chiesa CilIlOIiCil e modernil•. Atti del Conwgno de/kl Fondavone Michek Pellegrino, Bologna, li Mulino, 2004, pp. 17-147,65 e SO. 11 Un inquadramento storico d~'.epoca in ~ matura il ~~si~ro di Vitoria è in Perefia, Es/udio preliminar. LA /em de la /Xlz dinamIca, ciI., pp. 29-52. . :u Le due lettere, dd novembre e del dicembre, si leggono in V,toria, Relec/io de iure belli, a cura di L. Pereòa, cit., pp. 289·296.
suoi discepoli come teologi imperiali - Domingo de Salazar e Domingo de Soto -, alIa chiarificazione dogmatica e organizzativa operata dal Concilio di Trento. Di fatto contro Lutero è rivolta tutta la secunda quaestio principali< ddIa seconda Releclio de poleslale Ecclesiae, sul significato dd sacerdozio gerarchico; e antiIulerana è la stessa lesi politica di fondo di Vilorio, che cioè il polere politico è legittimato solo dalla legge divina, naturale e razionale, e la sua fonna autoritativa solo dalla Iranslalio dd popolo (benché Vitoria, evidentemente, preferisca che il principe sia buon cristiano). Tale lesi infatti è rivolta (De Indis 1,2) oltre che contro alcune posizioni ufficiali delle gerarchie cattoliche - sia quelle ierocratiche, benché non esplicitamente cilale, sia quelle legale alle dispute sulla povertà di Cristo (il vescovo di Armagh - Armachanus -, criticala da Viloria già ndIa Re/eclio de poleslale civili) -, anche contro i Poveri di Lione e i Valdesi, e contro Wycliffe,la cui tesi «Q}ul1us est dominus civilis, dUffi est in peccato mortali» è stata già condannala dal Concilio di Costanza; ma, negli anni in cui scrive Vitoria. vale anche come confutazione di quelle posizioni protestanti per le quali è legittimo solo il porere di chi è in stato di grazia. In verità, l'ambito protestante conosce al riguardo teorie molteplici, e anche contraddittorie; in generale, muovendo dallo dottrina dei due regni dello stesso Lutero (Sul/'aulontà sewlare, 1523) - secondo la quale il potere politi
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3. Aperto avversario della Rifonna. Vitoria contribuisce indirettamente, attraverso la partecipazione di alcuni
rende forremenre dipendenre il porere politico da quel. lo religioso, com'è il caso di Zwingli, e come accade nel· la Ginevra di Calvino2.'. Comunque sia, si può dire che come tra le cause di guerra giusta non c'è, per Vitoria, la differenza di religione, così questa non sta neppure tra le giustificazioni del diritto di resistenza (ammesso, in ambito tomistico), Non è un'autonomia della politica in senso moderno· razionalistico, ma certamente è una via per la sua laicizzazione (nell'ottica di una sua intrinseca limitazione), ben lontana dalla costruzione luterana dell'interiorità come riserva critica verso il potere.
intende fornire un discorso più ragionato e meno bra· chilogico.
2j Sul pensiero politico riformato, e suDa sua complessità, utili punlualizzazioni in A.E. Baldini, 1/ pensiero politico. idee Teorie DotIn"ne, Torino, Utet, 1999, voI. n, pp. 55·98. 24 Cfr. F. de Vitoria, Quaerlio de bello (commentario del 1534 alla Quaes/io XL della Secunda SecunMe), in Vitoria, Re/cclio de iure belli, a cura di L. Pereii.a, cit.• pp. 209-261 (ivi, pp. 263-285, si legge anche la Quaestio de seditione, Lectura del 1536); cfr. anche Vitoria, Comenlarios a iB SecunM Secundae, cic, tomo I, 1932, pp. 190-201 (commento alla Quaestio X, aa. 8, 9, lO), [rado il. in Vitoria, Re/caio de lndis. lA questione degli Indio!, ci!., pp. 115-134. DlB rielabora questo materiale, ampliandolo e sislematizzancloio, ~za apportarvi sostanziali variazioni.
4.1. Le tesi fondamentali che Vitoria espone nel De iure belli riguardano la liceità, la titolarità, la causa, i fmi e i modi della guerra. E le sue posizioni sono, in sintesi, che la guerra è lecira ai cristiani (1); che il suo principale pro· tagonista è la comunità politica O il suo principe (II); che essa è lecita solo per una giusta causa, cioè se la guerra è la risposta a un torto subìto (III, 4) e mai per amplia. mento di potenza O per gloria del principe (III, 2 e3); che il principe - per dirirto naturale (sulla base del principio romanistico «vim vi repellere licet»; I. 1) e per autorità dell'intera umanità (IV, n, 5) -la conduce sia in forma immediatamente difensiva sia in forma anche offensiva , come sanzione della lesione del dirirto naturale e delle genti 0,2); che il fine della guerra giusta è quindi la dife· sa e la conservazione della comunità politica e del suo bene comune, il recupero delle cose ingiustamente sottratte dai nemici, la punizione di questi in quanto il vincitore è giudice del vinto (IV, I, 2 e 5), e il ristabilimento della pace e della giustizia (passim, ma con chiarezza sintetica in IV, n, 5); i modi e i limiti della guerra- cioè la minuziosa casistica di liceI e non liceI non solo nello ius ad bellum (IV, I) ma soprarturto nelloius in bello (IV, II), per quanto riguarda le uccisioni di colpevoli e innocenti durante e dopo la guerra, gli espropri e le riparazioni di guerra e i tributi, i cambi di regime, la presa come prigionieri o ostaggi di donne e bambini,la distinzione fra combattenti e civili innocenti (contadini o chierici e let· teratD, l'obiezione di coscienza, i 'danni collaterali' -scaturiscono da queste finalità. Secondo Vitoria la guerra - scandalo inevitabile fra i cristiani (DIB IV, II, 5), mentre contro i pagani è una ne·
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4. Per passare - una volta delineato il quadro più generale in cui si colloca - a esaminare il De iure belli, prima di tutto si deve considerare che questa Releclio si presenta come un ampliamento e una chiarificazio· ne non solo di quanto già trattato nella Lectura del 1534 sulla guerra a commenro della Secunda Secundae", ma soprattutto nella Re/eclio de Indis. Infarti, poiché il possesso spagnolo dell'America è legirrimabi. le come esito di una guerra giusta, su di questa Viroria
cessità imposta dalla loro aggtessività (IV, II, 3 e 5) -è un tapporto fra entità politiche, non fra teligioni: la guetra giusta non è guerra santa, né una guerra ideologica. E. nonostante le sue durezze, non è neppure rivolta ad annientare la società nemica, a sterminare popoli (ultra, S 5.2), o all'incremento di potenza dei vincitori. Insomma, anche se la guerra va considerata come intrinseca - ratione peccati - alla condizione dell'umanità, né il suo ini· zio né la sua prosecuzione né la sua conclusione sono da affidarsi a ciechi riflessi naturali, agli automatismi dd gioca di potenza, alla mera valutazione utilitaristic3. o alla nuda tragicità dell'eccezione; anche la guerra deve collocarsi all'interno della civiltà evolutasi attraverso la religione, /'idea di giustizia, la morale razionale, il diritto delle genti e la politica rivolta al bene comune dd singo)0 tatoe dell'umanirà intera-cioè una politica chevuo· le la pace, anche se a volte attraverso la guerra giusta. lus ad be/lum e ius in bello sono dedotti, in Vitoria, da un combinarsi, che si vuole non contraddittorio, tra fede e ragione, tra Scrittura e Aristotde, tra Padri e Dotto· ri della Chiesa, tra il Digesto e il Decretum Craliani, tra giuristi, canonisti, decretalisti e teologi; Vitoria utilizza la tradizione con libertà, e fa dire ai testi a volte più e a volte meno eli quanto essi intendano2', all'interno di una strategia argomentativa che tende a recuperare quanto è possibile della tradizione, a sistematizzarla e ad armo· nizzarla in una sorta eli razionalismo critico cattolico aperto alle esigenze nuove; ma quando c'è insanabile di· scordia fra Scrittura e ragione Vitoria non esita ad ab· bracciare la prima riconoscendovi l'imperscrutabile co· mando di Dio, sulla base del principio volontaristico «sit v Perena, lJ les/o, cit., p. CXVIJ.
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pro ratione voluntas», in cui si riconoscono giovanili in· fluenze scotistiche (cfr. De potestale civili 16)26. La posizione di Vitoria nella storia della dottrina ddla guerra giusta27 si basa su fonti classiche e canoniche: soprattutto Agostino, nd cui Contra Faustum viene ac· certata la compatibilità fra guerra e fede cristiana, con· tro le posizioni terrullianee di pacifismo integrale; il Decretum Cratiani (II, 23), in cui si raccolgono fonti romane e patristiche, nonché canonistiche, sull'argoment028 ; e Tommaso, che nella Secunda Secundae (q. 40, 14) sistemarizza la materia, facendo della guerra un peccato contro la carità, e ponendo fra le cause della guerra giusta appunto una culpa da punire, con retta mten· zione (inoltre, Tommaso tratta in quella sede anche questioni canonistiche come la liceità della guerra per i chierici, e dd combattimento di domenica). La produzione dei canonisti e dei legisti sulla guerra giusta (Raimondo di Peiiafort, Bartolo di Sassoferrato, Giovanni da Legnano), abbondante e articolata ma non innovativa, è poi nota a Vitoria attraverso la Summa di Silvestro Mozzolino da Prierio. La formulazione standard della guerra giusta - ad esempio, quella data dal canonista e generale dei domenicani Raimondo di Peiiafort nella sua Summa (1240) - teorizza il divieto di guerra per gli 26 Cfr. DIB (V, U, l, sull'uccisione degli adolescenti da parte dei vincitori; ma cfr. anche ivi, m, 4. 27 R Régout, LA doct,,,,e de la guerre juste de S. AugUJ/in à nOI flJurr, Paris; Pedone, 1934; EH. Russdl, The JUII War in Ihe Midd/e Ages, Cambridge, Cambridge University Press, 197'; G. Minois, LA Chiesa e la guerra. Da/la B,bbia al/'èrd atomica (1994), Bari, Dedalo, 2003, pp. 221-227; nello specifico su DIB si vedano Urdanoz, In/n;. ducci6n a la Re/ecdon segunth, in Obras, cito pp. 727-810, H.-G. }uslenhoven, F,anaJco de Vi/oria ZU Krt~fI6 und Fn'eden " Koln Bachem , 1991, e Tosi, LA teoniJ Jtl14 guerra giusliJ, cit. 28 ln Corpus ium uznonici, I, Lipsia, Tauchnitz., 1879, collo 889-
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ecclesiastici, la giusta causa (ossia lo stato di necessità),
la esclusiva fmalità del recupero dei beni o della difesa della patria, l'obiettivo genetale della pace, la retta intenzione e l'assenza di odio e di vendetta, e l'obbligo che la guerra sia condotta SOttO l'autorità della Chiesa per quanto riguarda le questioni di fede, e altrimenti sotto l'autorità dci principe29. Portatore di posizioni in certi punti simili a quelle di Vitoria è anche Alonso Tostado, teologo conciliarista e canonista spagnolo del XV secolo, professore a Salamanca, per il quale il «bellum iustum» è «iustitiae executio», e durante la guerra giusta - per ottenere riparazione di torti e restituzione di cose asportate - si può fare contro il nemico ogni cosa tranne che mancare alla veritàJO (ma questo consequen· zia1ismo è appunto soggetto a limitazioni, in Vitoria). Tuttavia, Vitoria innova rispetto alla tradizione per·
ché sposta l'asse della trattazione della guerra giusta dal livello morale della culpa - presente, con toni particolarmente aspri, in Bernardo di Chiaravalle che vede nella guerra giusta la punizione dei malvagi, un «malicidio» (De Laude novae mililiae, 4), mentre il Decrelum Craliani articola la guerra nella direzione della definizione giuridica di specifici nemici, interni ed esterni, della società cristiana}1 - a un livello giuridico. Ciò è evidente da varie motivazioni: Vitoria prevede come causa di guerra giusta la iniuria accepta dal nemi· co, e non il peccato; non discute la guerra a partire dal-
la carità, non tratta direttamente della retta intenzione
e sottrae la guerra alla giurisdizione della Chiesa. L~ guerra è giusta sulla base di considerazioni razionali del tutto immanenti alla struttura oggettiva - naturale e storica - della condizione umana.
Inoltre, egli è innovativo soprattutto perché modifica il contesto di diritto internazionale all'interno del quale si dà la guerra giusta. Watti (De Indi! 3, I), Vitona as~ume le gente! (e non gli homines, come pure suo-
nava il testo di Caio -lnslituliones I, 2, l - che egli cita) come soggetti dello ius genlium (anzi, dello «ius inter gentes»),2 su un piano di parità (alla quale non è forse ~tranea una perdurante suggestione erasmiana) ga. ranura dall'unità ddl'umanità, creata e redenta d~ un
unico Dio (tuttavia, lo si ripete, l'uguaglianza fra i po_ poli non è uguaglianza fra le religioni - infatti, anche se VIeta la guerra santa, Vitoria affenna il diritto dei cristiani alla ~angeli~~zione missionaria -. e non è neppure uguaglianza dt livello fra le civiltà). Soprattutto, in precedenza (De poleslale ciVili 21) Vitoria ba fatto dello gentium un complesso di norme positive derivante «ex paeto et condicto inter homines» dalla noturalir ra-
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lio, ossia dal diritto naturale razionale - che in DJB IV II, 7 e 9 è menzionato anche come «ius divinum aut (et) naturale». Quindi. ancora una volta, non c'è un dominus o~bis, pap~ o imperatore che sia; c'è, invece. uno iUI gen. /rum che m De Indi! (J, 3) è defmito come originantesi dal «consensus maioris partis totius orbis», e che in DIB (IV, I, 5) si "presenta come «auctoritas totius orbis»H.
29 Minois, La Chiesa e 14 guerra, cit., p. 223; Urdanoz, Introducd6n al4 Relecd6n segundd, in Obras, cil., p. 7'7. )0 E. Nys, IntroducJion a Francisco de Viloria, De Indis et de iure belli RelecJiones, Washington, Camegic lnsutulion, 1917, pp. 9-53: 17. )1 Minois, LA Chiesa e la guerra, cit., p. 186 (su Bernardo); cfr. anche A. Melloni, I «nemim di Gravano, in G. Ruggieri (a cura di), I nemici de/kJ crisJianità, Bologna, TI Mulino, 1997, pp. 105·122.
)2 J.M. K~lly, Stona del pensiero giuridico ocadenta/e (1992), Bologna, ~ Mulmo, 1996, p. 2'~~ sostiene che questo lennine può esse~e cons~derato come la dcsçnZJone deUe relazioni di fatto esislenti fra l popoli, e non come sinonimo di un ordinamento normativa )) AJ. riguardo cfr. V. Carro, La «communitas orbis» y kJs ~IIJJ del derecho mlernaaonal, Palcncia, Merino, 1%2.
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Nonostante questa teoria dd patto che coinvolge l'intera umanità, in DIB il nesso fra ragione e consuetudine non è paritetico come sarà in Grazio, e pende più dalla parte della ragione naturale". Eppure, in questo testo Vitoria sembra modificare leggermente la posizione di Tommaso - il quale, per reagire alla positivizzaziODe consuetudinaria dello ius gentium propugnata da giuristi e canonisti, ha istituito &a ius genlium e diritto naturale un rappotto per cui il primo, pur distinto in linea di principio da quello, viene di fatto a sovrapporvisi del tutto quanto a funzione fonclativa rispetto agli istituti giuridici positivi (Summa the%gica I, q. 79, a. 12)-; infatti per Vitoria lo ius gentium è un diritto positivo vicino al diritto naturale, e da questo originato, che i popoli daborano avendo questo come fondamento e sviluppandone la razionalità lungo il corso storico della civiltà (DIB IV, I, 5 e IV, II, 3). Così, il diritto delle genti non è solo prodotto della consuetudine (cioè non è solo «ius inter gentes»), ma non è neppure del tutto identico al diritto naturale: è «quasi necessario alla conser· vazione» di questo". In ogni caso, il termine-chiave rite (<<SeCondo le consuetudini») compare in DIB una volta sola, e anche consuetudo vi è menzionata poche volte (in
II, 2 essa integra il diritto naturale che colloca lo ius ad bellum nelle comunità politiche perfette, estendendolo in certi casi anche ad alcune imperfette; in IV, II, 8 si parla di urus, ma insieme a ius); la forza normativa del diritto delle genti deriva, più che dalla consuetudine, dal fatto che questo prodotto umano incorpora in sé j'aequitas (o iustitia) che è l'essenza dd diritto naturale'6. Insomma, Vitoria fa un uso critico e razionale dd diritto naturale, come fondamento oggertivo e guida dello iUI gentium storicamente evolutosi. Che ci sia o no p~e~a continuità fra Tommaso e Vitoria, sul rappono fra dm~to naturale e diritto delle genti", pare chiaro in ogm caso che il materiale tomistico (e quello della tradizione giuridica e canonistica) è qui ri·oriemato verso una direzione giuridica. Insomma, Vitoria fa delle genles i protagonisti formalmente paritari delle relazioni internazionali - sono i popoli-nazione ad avere diritti e doveri in relazione a q.uei beni naturali che sono la tranquillità e la pace, osSia il bene comune dell'intera umanità (IV, I 4) -' è quindi all'interno dei popoli-nazione che, insi~e alla S?Cietà, cresce naturalmente il potere politico; sono esSI a daborare, sul fondamento della ragione naturale il diritto delle genti; sono i popoli-nazione, in reciprdca comunicazione fra loro e come parti di un'unica uma. nità (la t
)4 ulla questione di quanto le tarde RtkctiontI anenuino il (relativo) positivismo o convenzionalismo dei Commm/ari a Tommaso del 1'27 e del U35. C: sulla divergenza interpretativa fra il d.isconti· nuista Urdinoz (Introduro6rt a fH I"Jù, in Obral, cit., pp. "1-565) e il continuista L. Perttia (El conctplo del tkrecho del genleI in Fran. cilCO de Vilona, in «Revista Espanola de Derecho intemacionabt, 1952, pp. 603·628), cfr. Lamaechia, Francisco de Vilorùl e l'innovavone modnna, cit., pp. LXXXHJCXXVllI; cfr. anche Skinner, Le ongini, cit., voI. [l, pp. 217·227, nonché Trujillo Pé.rez, Frt1ffcUCO tk Viloria, cit., pp. 159 sgg. "Vitoria, u,menlariol,cit. voI. li, p. 16 (Quaesllo LVll, a. 3 ad4).
ne/k du droll tkl genI lÌ '" notion moderne du droll inlern41ional pubile, in td..c: Supplement», 1987, pp. 73.91.
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)6
Ivi, p. 14 (Quaeslio LVII, a. 3 ad2).
" Viliey, LM ' -/oormazlone, . CII., . pp. 307·.315 sostiene decisamente la distanza ~ Vitoria da Tommaso. L'innovazione di Vitoria rispetto a Tommaso e ~tenuta anche da A_ Truyol-Serra, De la notion Iradi/io-
timazione dell'azione dei principi, che trova conferma
nel diritto naturale (diverso, quindi, e ancora più fondativo): i principi con la guerra giusta (e solo dopo che siano state esaurite le opzioni non violente: DIB IV, I, 6) pongono infatti rimedio alle ferite che i malvagi arrecano alla giustizia, cioè al diritto narurale dei popoli di vivere in pace, cercando di distinguere sempre fra mnocenti e colpevoli, fra civili e combattenti (DIB, IV, Il, I). 4.2. ì;: questa costruzione razionale, universalistica e
pluralistica al contempo, oggettiva e tendenzialmente egualitaria, a fare di Vitoria - secondo una vulgata che risale a Grozio - il padre del moderno diritto internazionale, e a determinarne la fortuna, anche e soprattut-
to nel XX secolo. A patte la fama e la rilevanza in età moderna - non solo in Spagna, ma in Europa: benché coinvolto nelle critiche della cultura francese (sia giansenista sia gallicana) alla Seconda Scolastica, è citato, tra gli altri, da Bacone e da Grozio, da Selden (che ne.combatte la tesi della libertà di commercIo) e da Connng -, dalla metà dell'Ottocento viene recuperato, dapprima in ambito anglosassone, come iniziatore del diritto internazionale moderno e propugnatore della libertà dei mari; dalla fine dell'Ottocento Vitoria gioca poi un ruo-
propugnata dalla giurisprudenza di orientamento cattolico (tra gli altri, Rommen e Giacon). In modo particolare,la cultura spagnola della metà del XX secolo, laica e cattolica, vede nella Seconda Scolastica, e in Vito-
ria, un importante e originale contributo della Spagna all'identità europea: il IV centenario della sua mnrte, nel 1946, è per le autorità spagnole l'occasione per rompere, promuovendo anche istituzionalmente la VitonilRenazJsance, l'isolamento internazionale in cui la sconfitta delle potenze dell'Asse ha lasciato la Spagna". Infme, è a studiosi spagnoli, laici e religiosi, come Vicente Beltran de Heredra, Luis Alonso Getino, Teomo Urdanoz e Luciano Pereiia, che si devono le edizioni critiche delle opere di Vitoria, Commentari e Releclio-
nes (dr. ullra, ala alleslo). Così, ancora nel 1975 in un testo di riferimento come lA formazione del pensiero giuridico moderno di Michel Vtlley, si legge: «siamo debitori a Vitoria delle coordinate del diritto internazionale: è lui che ha stabilito i
gli autori coinvolti nella rinascita del diritto naturale,
Fra i testi-chiave che hanno costruito la fortuna contemporanea di Vitoria si vedano almeno: E. Nys, u droit in/ema/ioMI.us prùuipes, les /héodes, les fai/s, Bruxdles, Weissenbruch, 19122 , 3 voU., pp. 59-60, 234·240 del I vol.; A. Vanderpol, Lo doctrine SCOMstiqu~ du Droi/ fk gu~, Paris, Pedone, 1919 (con la trad. francese delle due R~kctiones giuridiche e di moho materiale Storico); C. Barda TrelIes, Francisco de Vi/oniz ~/ l'&ale mod",,~ du Droi/ in/erna/ional,. Paris, Hachette, ~ 928; ) .B. ~~t, Th~ Sp~nish Conap/ion 01 In/erna/tona/ Law. Franasco d~ VI/Orni and hls Low of Na/ions, Oxford-London, Clarendon.MuHord, 1934 (con (rado ingJese delle due Reiediones giuridiche, del De po/es/a/edvili e di parte del De pc/~s/a/e Eccknlze prio,); C. Giacon, La Seconda Sco4lS/ica. Igrandi com. menta/on° di San Tomma1O: il Gae/ano il Fe"arese il Vi/ona Milano Bocca, 1944; H. Romme:n, Lo Stato n;1 pensiero c;"olioo (1935), Mi: lano, Giuffrè, 1959; P. HlIdrossek, Leben und Wt7ke d~s Frandscus de Vi/Dna, in De Indis recente' inven/is e/ de iurebe//i Hispanorum in ba,. baros, a cura di W. Schii{zel, Tlibingen, Mohr, 1952, pp. XI-XXX; G. van Hecke (a cura di), L'Espogn~ ~t /alo,ma/ion du droi/ des gens mode",~, Louvain, Peelers, 1988.
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)0 sempre crescente nella reazione giuridica universali-
stica concro il nazionalismo: grazie a un belga come Ernest Nys, a un americano come James Brown Scott, a
uno spagnolo come Camilo Barda Trelles, a un tedesco come Paul Hadrossek, Vitoria diviene, per la cultura europea dei primi decenni del XX secolo, un grande giurista internazionalista moderno, nonché un impor-
tante teorico del diritto coloniale, e uno dei padri della Società delle Nazioni; inoltre, soprattutto dopo la fine della seconda guerra mondiale, egli entra nel novero de-
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principi per cui gli Stati devono rispettare reciprocamente le loro sovranità, non ingerirsi negli affari interni degli altri Stati, ammettere la libera circolazione da un territorio all'altro di persone e di merci, e la libertà di predicazionej riconoscere la libertà dei mari e dei fiumi inte:~azionali e i diritti degli ambasciatori; protegg~r.e I. cIvili m caso d! guerra. E questo senza parlare dei diritti delle popolazioni indiane dell' America [...). Sono t~~i princìpi, questi, che vediamo al giorno d'oggi ribadltl dalle Nazioni Unite [...). Vitoria applica a questo nuovo ramo del diritto la regola poeta suni servanda, il che consente di introdurre come nuova fonte di diritto i trattati internazionaIDY9.
4.3. Una forte contrapposizione a queste interpretazioni attualizzanti (cerro, non direttamente a Villey) viene da Cari Scbrnitt, il quale nel 1950, e quindi a ridosso delle celebrazioni del 1946 per il quattrocentesimo anniversario della motte, dedica a Vitoria un denso capitolo del Nomos della lemi'O. Per Schmitt rettificare la comprensione vulgata di Vitoria, e opporsi alla sua trasformazione in un «mito politico», è decisivo: infatti, la pretesa che esista un mo rosso che unisce il cattolicesimo alle potenze liberali e socialiste implica che la ricostruzione schmittiana della politica internazionale moderna in termini di nomos di ~eterminazione spaziale, di differenza tra Europa stat~a lizzata e resto del mondo, cioè di iuspublicum europaeum, SIa ptlva d! fondamento (owero sia solo ideologico-propagandlstica); oppure implica che il mondo delle sovranità statali sia deI tutto tramontato, e sostituito da istituzioni e apparati categoriali universalistici, già presenti nella tradizione moderna, ma alternativi alla principale )9
40
Villey, LA/ormozione, cit., p. 309. Schmitt,1/ nomos, cit., pane 11, cap. 2, pp. 104-140.
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vicenda storica di questa. Per Schmitt, invece,l'universalismo è una malattia - individualistica e liberale, e poi socialista - interna allo Stato, che lo mina e lo distrugge, e non certo un'alternativa politica praticabile: la politica è per lui la concretezza particolare (e polemica), e non la giuridificazione universale. delle relazioni interumane. La posta in gioco, per il cattolico (sui generis) Schmitt, è ben più che la precisione storiografica, che la restaurazione dell'immagine di un autore su cui sono state passate successive mani di vernice che hanno reso irriconoscibile la pittura originaria: è sottrarre il cattolico Vitoria alla genealogia dell'universalismo liberale e socialista. La prima mossa di Schmitt consiste dunque nel criticare quanto in Vitoria vi è di freddo e obiettivo: per Schmitt, Vitoria è troppo neutralizzante, e la sua considerazione paritetica di Indios e Spagnoli lo rende esterno alla politica del suo tempo; insomma, Vitoria, in quanto propugna un universalismo egualitario, non ragiona nei termini politici concreti di amico-nemico. Al contrario, Schmitt valorizza in Vitoria gli elementi di disuguaglianza che egli conserva nel proprio pensiero: in primo luogo, l'idea di 'missione' evangelizzatrice voluta dal papa, che legittimerebbe l'impresa spagnola in America (poiché questo aspetto del pensiero di Vitoria si fonda sulla poleslas indirecla del pontefice, che almeno dalla metà degli anni Venti è criticata da Schrnitt, è chiaro che questi pur di contrapporsi alla vulgata è disposto anche a contraddirsi). Ma più in generale la concretezza di Vitoria consiste per Schmitt nel fatto che egli è «un monaco spagnolo» ancora legato alla spazialità politica concreta della respubl,,:a chrisliana, dalla quale deriva una netta contrapposizione all'Islam, una teoria ben determinata della guerra giusta, e un universalismo specificamente cattolico. XXXlll
· Per Vitoria, sostiene Scbmitt, il libero commercio C1~ntra in r~altà nel m~dievale i~s peregrinandi, mentre d}vema tutt altra cosa LO mano 31 prmestanti come GraZIO o ai capitalisti inglesi e americani dell'Ottocento che argomentano a favore del libero commercio contro il mercantilismo degli Stati europei, che Vitoria neppure conos~eva. Inoltre, per Vitoria la guerra giusta è anche offensiva, mentre quella moderna è solo difensiva: infatti, le logi.che 'ginevrine' - per Schmitt, di origine Imerana.- d1Sltnguono fra aggressore e aggredito, facendo del pnmo un criminale in senso penale, passibile non solo di p.unizione ma anche di discriminazione morale e ideolog~ca, e. t:asformando quindi la guerra giusta in un'azione dl.p~lizla. Al contrario, il nemico, per Vitoria, non è un c~lmmale f~ori ~aU'u~anità, ma, pur essendo colpevole di una specifica mfrazlOne allo ius gentium conselVa dignità e diritti; è un nemico concreto, e non ~n nemico assoluto. In g~erale, per Schmitt, Vitoria non può essere decontestualizzato dalla respublica chrisliana, alla quale dopo tutto conttnua ad appartenere idealmente ed esistenzialmente: la sua fortuna è in realtà il frullo di estrapolazioni, da parte di anticristiani edi antispagnoli, di teSI nate.LO ~n onzz~nte intracristiano e intraspagnolo. Qwndl, Schmm giunge a riconoscere che Vitoria pur ~eorico della guerra ex fusta causa, ha nd propri~ pen~lero tanta 'concretezza' da giungere in realtà a una ~eorta non discriminatoria dello iustus hortis. Certo uno lustus borlis medievale, tipico di una guerra intracrisria. na" diverso quindi dallo iuslus hOSlis della piena modernIta :"estfalta~a che riconosce solo la guerra fra Stati europeI. In ogm caso, l'internazionalismo protestante li_ berale esocialista - di Norimberga e dell'Onu _ è per Schmnt In forte e drammatica discontinuità rispetto non solo allo iur pub/icum europaeum pienamente moderXXXiV
no, ma anche rispetto all'internazionalismo cattolico e :oncreto di Vitoria, in fondo premodemo. Insomma, Schmitt, pur distinguendo fra la concretezza medievale di Vitoria e la propria concretezza moderna, tende a sottolineare che entrambe le 'concretezze', benché diverse fra loro, si situano agli antipodi dell'universalismo astratl ,ma in realtà discriminatorio, che sotto le vesti giuri· dico-morali del diritto internazionale a dominanza individualistica persegue fmi politici di distruzione dei vinti/colpevoli. Un pensiero 'situato' quello di Schmitt, il quale, dopo le due sconfitte della Germania nel XX seC lo, e dopo che in entrambe le circostanze è stata fa~ta valere contro la dirigenza politica tedesca un'istanza gIUridica penale, tenta di ddegittimare i vincitori e di rilanciare la propria teoria della politica come organizzazione di 'grandi spazi' e non come universalismo (Schmitt non riconosce mai la qualità di Grossraum alle sfere di in· fluenza bipolare generate dalla seconda guerra mondia1e'1). Schmitt cerca quindi non tanto di annettersi il pensiero di Vitoria, ma, definendo quest'ultimo a sua volta 'situato', di sottrarlo a quelli che per Schmitt sono i morlali nemici della Germania, dell'Europa, dello Stato. L'interpretazione di Vitoria diviene così per Schmitt uno dei baricentri di una guerra intellettuale intorno all'essenza della politica moderna. 5. Scontata la 'parzialità' di Schmitt - anche se qui atteggiata come obiettività storiografica -, è bene lasciar·
si provocare, con la dovuta attenzione, dalle sue tesi. <41 C. Schmin, L'unità del mondo eal/ri .saggi (1951-1962), Roma, Pellicani, 200}}j Id., La ron/rappo.sitione pl4nelaria tra Oriente e Ocadente e 14 .sua .s/ruttura .s/orica (1955), in E.)Ungcr, C. Schmin, II nodo di Gordio. Diarogo.su Oriente e Oca·dente ne/iJJ .s/on"a del monda, Bologna, UMulino, 2004', pp. lJ t-t63.
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AI di là dei giudizi di valore, sembra difficile che, al. meno dal punto di vista della storia del pensiero politi. co, la modernità possa essere fatta coincidere con lo sviluppo lineare di un diritto naturale orientato sui diritti umani, che da Vitoria passando per Grozioe Kant giun. ge alla Cana dell'Onu. Questo disegno - per accatti. vante che possa essere - manca di consistenza storicain età moderna il diritto naturale - che in ogni caso no~ nasce solo in ambito ecclesiastico. e che anzi si nutre soprattutto di fonti antiche, e poi umanistiche, e quindi riformate, e mfine razionalisriche e illuministiche _ viene catturato dalle logiche della statualità, e solo all'in. temo dello Stato, sia pure in forte tensione rispetto a esso, si ripresenta come fondamento dei diritti umani individuali. Insomma, il potere politico moderno si razionalizza molto più perché passa attraverso la mediazione dello Stato e della sua potenza che non perché si confor. mi immediatamente al diritto naturale; all'interno dello Stato, sarà l'individuo - che si concepisce come portatore di diritti - a farsi valere perché lo Stato si razionalizzi ulteriormente, trasformandosi in Stato di diritto. E non solo il diritto interno, ma anche quello internazionale, in età moderna, è molto più statualistico cbe giusnaturalistico - è diritto di Stati, cioè iUI publicum europaeum -; benché il diritto naturale sia frequentemen. te invocato come origine di ogni giuridicità, in Gentili in Grozio e in Vattel, è infatti ovvia la progressiva s(a~ tualizzazione delle relazioni internazionali e della guerra, che sarà non a caso il problema di Kant"'. AII'affer-
nlllrsi dei diritti umani come fondamento tanto del di· ntto interno quanto del dirino internazionale - che è il tipico portato della rivoluzione francese, ma che assume senso politico solo dalla metà del XX secolo - hanno contribuito sia l'daborazione giusnaturalistica cat· l \ica, che ha origini prestatuali e non individualistiche, quanto quella laica, di fatto nata dentro la moderna VI' cenda dello Stato; ma entrambe le distinte tradizioni ~iusnaturalistiche si sono potute contrapporre alla po: litica statocentrica in nome dei diritti umani - divenun un'idea universalistica - solo al prezzo di una forte tr3formazione del rispettivo materiale intellettuale tradi· zionale, ossia tanto del paradigma poLitico moderno quanto del giusnaturalismo cllttolico. In quest'ottica, si tratta di esaminare più davicino il pensiero di Vitorill, per discernervi quello che Luis Legaz y Lacambra nel 1947 definiva «lo medievale y lo modemo»4J, e soprattutto per coglierne logiche, strut· Lure, e implicazioni. 5.1. È, quella di Vitoria, una teologia morale-giuridica, razionalmente mediata e atteggiata. on c'è in lui il SI'· /ele Ibeologi! di Gentili (anche se questo era rivolto contro un presunto comandamento dell'amore verso i Tur· chi , che in Vitoria sicuramente è assente)44 da cui . ha origioe la moderna politica internazionale. C'è, lOvece, se non un si/eie iurisconsu/ii! certamente l'affermazione e assolutismo (1963) Milano, Giuffrè, 1979, nonché: R Kosdleck, Critica iJJuminista ecris;' de/la società borgheu (1959), Bologna, li Mulino,
R. Tuck, War(md Peace. Politica/ Thought and the lnternationaJ Order /rom Grotius to Ka'!t, Oxford Unjversity Press, Oxford 1999; sul nesso fra potenza e raglon~ com~ chiave di ricostruzion~ della storia d'Europ~ cfr. B. De Gjovan~i, ~filosofia e /'Eut'OfJ4 moderna, Bologna, Il Mulino, 2004; sul nesso mdlVlduo-Statodr. R. Schnur, Individualismo
1972. ..} Legaz y Lacambra, Horilontes cit., pp. 19'·211; l'autor~ sostiene che Vitoria non è mooemamente statualista, ma è un fLIosofo morale scolastico, e che proprio per questo è adano ai tempi in cui la modernità roUassa. 44 A. Gentili, De iurt belli libri tres (I612), libro l, cap. J2, in C. Calli (a cura di), Gu~a, Roma·Bari, Laterza, 2QO...t, p. 60.
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XXXVII
..2
Sulla moderna inflessione sratalistica dci diritto narurale si veda
(De Indis, Introd. 8) dell'esigenza cbe, nella fase storica in cui il diritto internazionale (ius genlium) deve aprirsi al Nuovo Mondo - il cbe lo rende un diritto ancora in fien° -, i teologi intervengano inelicando i principi morali su cui il dirino internazionale deve basarsi. QueS(Q è precisamente quanto fa Vitoria in DIB, che non è solo una teoria giurielica dello ius belli (sia come ius ad bellum sia come ius in bello), ma è ancbe una teoria morale della guerra - «in moralibus» defInisce Vitoria il proprio ambito eli riflessione (DIB l, 2; TV, I, 6) -, fondata. implicitamente ma saldamente, sull'idea di giustizia4 ', ossia sull'oggettività dd bonum totiuIorbis. sull'ordinato vivere e prosperare delle genti (DIB I, 2), cbe è un fine e un dovere proprio perché è al contempo un diritto (anche se il termine in quanto tale è assente), o almeno una possibilità reale di felicità terrena, scritta nell'essenza dell'umanità. Di fatto, le tesi eli fondo di
DIB sono mutilare se non vengono comprese a partire dall'idea che esiste la giustizia. cioè un ordine morale e razionale del mondo - del quale Dio è in ultima istanza l'autore -, che l'umanità conosce come diritto naturale oggettivo e al quale collabora sviluppandol0 storicamente come dirino delle genti, mai elivesgente dal eliritto naturale: è a questa giustizia ben fondata cbe rimanda lo ius belli. Se la politica interna - cbe pone il clisitto positivo, e lo amminisrra - può e deve conformare le proprie costruzioni alla giustizia, anche ]a politica in· ternazionale, e anche la guerra, può e deve atteggiarsi in modo razionale e morale. La diretta autonomia della
I litica e della guerra dalla religione è assicurata; ma ciò non implica per nulla una loro autonomia dalla morale ttlzionale, ovvero non implica che il diritto possa essere 1I11permeabile alla giustizia e al elirino naturale: l'esiM-nza eli Vitoria è cbe la razionalità della vita pratica non sia solo fonnale, e ciò lo fa appunto argomentare in I rmini eli 'giustizia' che escludono il positivismo nell'ambito interno e il convenzionalismo (sia antico-romano sia moderno) nell'ambito internazionale. Così, questa presenza della giustizia nella politica o n è in Vitoria un'eccezione, l'irrompere nello spazio litico chiuso dello Stato moderno di un Valore che, n i casi estremi del «diritto ingiusto»"6, fa saltare l'autosufficienza del djritto positivo: anzi, è una fondazione che è anche normalità e norma, è un'essenza irrinunciabile sia della politica sia del eliritto. E come non si tratta di irruzione straordinaria, così non è neppure una sovrapposizione di ambiti fra morale e politica: si tratta piuttosto, in Vitoria, di una distinzione che non è estra· neità, ma che anzi presuppone una continuità fondativa. Questa continuità è insomma consentita da un ordine dell'essere -la giustizia, appunto - che non conosce cesure assolute e catastroficbe fra i diversi ambiti della pratica (morale, diritto, politica, guerra): né il nicbili· mo originasio del Moderno, o in ogni caso la perenne esposizione della sua ragione alle logicbe della potenza, né le graneli contrapposizioni che organizzano la politica moderna - il dualismo fra diritto privato e diritto pubblico, fra diritto interno e diritto internazionale, fra soggetto e Stato - sono presenti in Vitaria con la carica
.., Al riguardo si veda D. Deckers, GerechligJuù und Rechi. Eine bistonrch-kntuche Untersucbung der Gerecbtigkeitslehre de, Francisco de Vùor,a (1483-J.546), Frciburg (Schwciz), Univcrsitatsverlag, t991.
46 H. Ho&nann, Introduzione alla filosofia del d,ritto e de/la politica (2000), Roma·Bari, Laterza, 2000, pp. 123·128 (con riferimento alle lesi di G. Radbruch),
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al tempo stesso costruttiva e distruttiva che manifesta. no nd versante razionalistico della modernità: più che
in termini di fronti conllinuali, egli argomenta in termi. ni di ambiti, fra l'uno e l'altro dei quali c'è comunica. zione e analogia.
E infatti fin dall'inizio DIB si fonda sull'analogia fra il privato e il pubblico (Il, 1-2; ma si veda anche il ricorso all'analogia fra diritto matrimoniale e diritto di guerra in IV, I, 8), nonché fra l'interno e l'esterno (I, 2; m,4 e 5; IV, I, 2, 5 e 7; IV, il, 5). Una trasposizione, che genera una sistematica «analogia domestica», che è re. sa possibile dall'esistenza di un terreno comune, ap-
punto dalla giustizia. Il che implica che Vitoria sia estra. neo tanto alla distinzione moderna fra nemico e crimi. nale quanto anche alla discriminazione tardo-moderna
dd nemico/colpevole come criminale collocato fuori dell'umanità (il che non vale, per lui, neppure per i Tur. chi): il nemico/colpevole vinto è passibile di punizione proprio in quanto condivide col vincitore un terreno comune, che è la comunità pan-umana della giustizia. Questa, certo, è Stata da lui vulnerata, ma potrà anche essere reintegrata, attraverso la punizione del torto.
Per quanto riguarda il rapporto tato/individuo, poi, è da notare che Vitoria non seme in modo drammatico la loro contrapposizione; anche in questo caso, c'è evidentemente una distinzione, che non genera però confljtti assoluti. La disposizione razionale e secondo giustizia
dell'ordine politico interno elimina le occasioni di con. flitto; tranne che nel caso in cui il singolo sia del tutto certo che la guerra è ingiusta (un caso quasi solo teorico, in realtà), l'ubbidienza in buona fede alle autorità legittime assolve in coscienza il soldato di basso rango, nei casi - questi sì frequenti e realistici - di incertezza sul sussi-
stere di una giusta causa di guerra (DIB IV, I, 7-8). C'è XL
dunque in Vitoria un rifiuto pratico - non però teori· 0-47 _ dell'obiezione di coscienza, un rifiuto che non nada vessatoriostatalismo assolutistico, da cedimenti di
Vitoria alla Ragion di Stato o al probabilismo gesuitico, ma anzi dall'idea che la politica è un ordine autonomo in 4uanto incorpora in sé, fm dalla propria origine e in ogni ua articolazione, la giustizia; e che solo per questo moUva è legittimata. Questo atteggiamento deriva dunque,
lo si ripete, da una con iderazione dell'individuo che non ne fa - insieme allo Stato e in concorrenza con esso
il centro assoluto della politica: non a caso, la libertà dei ingoli (non invece quella delle gentes) non è per Vitoria un diritto naturale, ma un bene accidentale (DI B IV, il, In generale, non è attraverso il singolo (né, dd resto, come si è detto, attraverso lo Stato) che si legittima la po-
n
litica, per Vitoria, ma attraverso la complessiva articolazione, priva di cesure e di contraddizioni assolu~e~ dd· l'ordine politico; così, se normalmente non .sono l sm~o li cittadini a essere chiamati a capire se SUSSistono le glU· Me cause di guerra, devono esserlo i governanti, COD la massima severità e con la più gsande attenzione (DIB IV,
1,6·7). E proprio perché sono essi a dover esercitare la responsabilità, non è opportuno che i sudditi abbraccino la morale della convinzione. Insomma, neI
caSI
nor-
mali è prescritta l'obbedienza dd singolo; e solo in casi eccezionali in cui il comando politico è palesemente con· trario alla Jegge di natura, cioè alla morale e alla giustizia, è lecita la disobbedienza; e chi decide l'eccezione è il sog· getto singolo, certo: ma dello scarso valore po~itico .reale che Vitoria dà a questa riserva interiore è test1mOOlanZa
il fatto che l'esempio di comando ingiusto addotto in '17
Minois, lA Chinll e III
gUerTlI,
XLI
cit., p. 282.
DIB IV, I, 7 è la guerra sanra islamica, e la messa a morte di Gesù. È quindi l'arreggiarsi razionale del carrolicesimo - cioè l'affermazione di una conrinuirà deIJ'ordine dell'essere e deIJ'assenza di drammatiche cesure tra gli ambiti dell'esperienza - a far sì che in Vitoria non ci siano né la moderna politica assoluta né il suo interno deuteragonista, il soggerro libero e uguale; che la politica non abbia a che fare con la costruzione delJa forma di un irresistibile potere sovrano ma con la sostanzialirà di un bene comune gerarchicamente atteggiato e fondato. in ultima istanza, sul diritto naturale; e che quindi, conseguentemente, il potere e la guerra non si legittimino se non attraverso la teoria del bene comune, di ciascuno Stato e
deIJ'umanità intera (DIB IV, I, 5), e in quesro trovino il loro fine e illaro limite intrinseco. 'Bene comune' è in-
fatti il nome politico deIJ'ordine dell'essere (come 'giustizia' è il suo nome categoriale). Da tutta la discussione in DIB IV appare chiaro che il bene comune non giustifica qualsivoglia prassi bellica; anzi, in De poleslale dviii 13 - oltre che in DIB IV, I, lO e IV, II, l - Viroria afferma che la guerra, anche giusta, non può produrre un male maggiore di queIJo a cui pone rimedio. Lo spazio politico di Viroria è quindi in realtà una sorta di respublica chrisliana liberata da molte angustie
(anche con la punizione di chi la viola) ma che nessun peccato può dawero distruggere, perché è dopo lurro Dio a esserne l'autore. TI che esclude l'ammissibilità, e ancbe la sensatezza, di una posizione del tipo «fiat lustitia pereat mundus»; giustizia e mondo si coappar· tengono: insieme, sono appunto l'ordine (giusto) dell'essere. é il formalismo né il nichilismo hanno spazio nel pensiero di Vitoria. Che ha il proprio limite, semmai, nd risultare di fano, una volta che si siano svilup· pate le dinamiche politiche delJa piena modernità, molto più un dover essere morale che una teoria politica efficace o una teoria giuridica effettuale. E un dover essere, per di più, meno radicale di quanto sarebbe necessario. lO
5.2. Come appunto si vede da un'analisi che cerchi di comprendere le modalità d'azione della nozione di giustizia sull'impianto teorico della guerra giusta.
razionale deIJ'ordine deIJ'essere ciò che consente a Viroria di essere universalistico eppure capace di operare differenze, rigoroso eppure non consequenzialista all'e· stremo, e in grado di temperare la giustizia con la pru· denza: infatti, la giustizia è un bene che va salvaguarda-
5.2.1. Si è già detto che la guerra è in Vitoria un fatto giuridico (è uno ius); è infatti valutata in relazione a un dirino naturale che è in sé razionale e astorico ma che è anche storico nella sua realtà evolutiva di ius gentium; un dirirro che quindi non è solo formale e convenzionale ma anche una realtà concreta. Ciò significa cbe la guerra giusta non si qualifica solo a partire dalla giusta causa -l'iniuria accepta -, in senso universalistico, ma che esiste un asperro 'siruato' del pensiero politico di Vitoria, che lo orienta. Questo aspetto consiste nella percezione di due differenze, che modificano il suo uni· versalismo, senza annullarlo: la differenza tra civiltà e harbarie (ossia fra Europa e America) e quelJa tra cristiani e infedeli (ossia il conflitto fra Europa e Islam). La prima - già esaminata - è meno importante della se·
XLll
XLIIl
e da molti dogmatismi (soprattutto, non ierocratica), e dilatata a inglobare anche le genles non cristiane, a cui egli estende lo nozione di iuslilia e di bonum commune. E questa attitudine cattolica a tematizzare la continuità
conda, quanto alle sue conseguenze sulla teoria della
na certezza per quanto riguarda il divieto dell'uccisione
guerra giusta (altro discorso vale per la pratica: è infatti evidente che l'universalismo è asimmetrico, e che di fatto se ne possono giovare solo gli Spagnoli). Ma se, in ogni caso, con gli Indios è almeno possibile la pace, invece, coi Turchi c'è, secondo Vitoria (DIB IV, n, 3), «guerra perpetua» (nozione che precede quindi il più illustre concetto antitetico di .:pace perpetull»L cioè una
di donne e bambini, e alla fme, benché con un ragiona-
guerra che nasce dall'esperienza storica della continua
aggressione islamica contro gli Stati cristiani (e dunque non dalla natura, né dalla religione); una guerra assoluta, senza tregua e senza quartiere. Ciò implica differen-
ze di trattamento del nemico vinto (ivi, IV, n, 5): se nel caso della guerra fra Stati cristiani il vincitore, a guerra fmita, può uccidere tutti i colpevoli, ciò di fatto significa giustiziare coloro che harmo responsabilità della
guerra ingiusta; od caso dei Turchi, invece, si possono
uccidere «tutti quelli cbe possono portare le armi, purché si siano macchiati di colpa» (il che significa tutti i militari, anche catturati prigionieri). La colpa da punire fra i cristiani sta presso i capi (ivi, Conclusioni: «ndla maggior parte dei casi, fra i Cristiani tutta la responsabilità è dei principi»); fra i pagani sta invece anche nei singoli combattenti. Analoghe differenze si registrano poi sulla riduzione in schiavitù dei prigionieri, consentita all'esterno, verso i Turchi, ma non all'interno, verso i cristiani (ivi, IV, n, 3). Eppure, Vitoria (D/B, Concluriom) nega che la guerra giusta - anche quella perpetua o assoluta - sia rivolta contro i popoli/nazione, contro le genter e le rerpublicae (che sia una guerra totale contro le società, diremmo oggi), e meno che mai contro la sostanza biologica del nemico: la guerra di sterminio (l'uccisione dei non colpevoli) è vietata sia fra i cristia-
mento faticoso e tortuoso e con concessioni a un'interpretazione volontaristica di Dl 20, 13, poi corretta, an-
che per quanro riguarda l'uccisione degli adolescenti. Insomma, la differenza fra guerra intracristiana e guerra contro i Turchi, indubbiamente sussiste: evidentemente è un retaggio dd passato di inimicizia costante fra Impero oltornano (inteso come potenza politica, più che come religione islamica) e Stati europei; un reraggio che Vitoria condivide con la stragrande maggioranza
degli intellettuali europei suoi contemporanei. La concretezza di Viroria, ossia la caratteristica specificamente cristiano·cattolica del suo universalismo, colloca la sua teoria della guerra giusta in una zona me-
dia fra paciftsmo e sterminio cbe - a parre il caso dell'Islam - non conosce "estraneità radicale fra popoli europei ed extraeuropei che è propria dello iur publicum europaeum. E che non conosce neppure la criminalizzazione discriminatoria del nemico propria della tarda modernità.
Da alcuni punti di vista Schmitt ha quindi ragione nel segnalare che l'universalismo di Vitoria non coinei· de con quello moderno; ma non ha ragione nelle conseguenze che trae da queste caratteristiche dd pensiero di Vitoria, che non rendono il domenicano un monaco medievale, ma semmai una figura di pensatore che estende alle novità del dercubrimienlo un paradigma
tradizionale - quello deUa giustizia, cioè dell'ordine razionale dell'essere, di radice divina e poi di elaborazione umana -, modificandolo e trasformandolo in un mo·
ni (IV, n, 5) sia contro i Turchi (IV, n, l e 5) - con pie-
dello di regoIazione delle relazioni internazionali suscettibile di importanti sviluppi futuri.
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5.2.2. Ma quel modello è anche ricco di problemi, che non stanno tanto in ciò che vi è ancora di medievale in Vitoria (come ammettono anche i suoi estimatori modernizzanti), né in ciò che in lui vi è di moderno (come invece sostiene Schmitt). I problemi stanno proprio nell'impianto oggettivo della giustizia. e risultano, come diretta conseguenza, alcuni tratti peculiari e problematici nella dottrina della guerra giusta. il primo dei quali (DIB IV, I, 2 e 5; IV, II, 5) è che - in linea con la dottrina tradizionale - il vincitore/giusto si trova ad essere il giudice del vinto/ingiusto, e ad avere il diritto/dovere di punirlo (non è contemplata, perché ininfluente sotto il profilo teorico, l'ipotesi che, nella pratica, il vincitore sia il responsabile di una guerra ingiusta: il giudizio di condanna resterehbe in ogni caso invariato). Che il principe che conduce una guerra giusta sia iudex in causa propria ha effetti di grande durezza sulla conduzione della guerra e sulla gestione della pace, ma non produce, in Vitoria, ('effetto devastante di uno stato di natura a tal punto anarchico che se ne debba a tutti i costi uscire: a differenza di quanto è previsto da Hobbes, per Vitoria è indiscutibile che esista realmente la trama ordinata della giustizia a sostenere l'umanità, e a garantire l'univocità, la non contraddittorietà e la non distruttività, del concetto di guerra giusta. La giustizia è oggettiva, non soggettiva; e ciò significa che essa esiste univocamente anche se i principi errano nell'attribuirsela ciascuno per sé. La distanza fra Vitoria e la modernità piena è tutta qui: nel fatto che il domenicano non può far discendere dal cumulo di errori soggettivi dei principi l'assunto, su cui si fonda la politica moderna, che la giustizia naturale è assente - o poco o per nulla rilevante - dal· l'orizzonte delle relazioni interstataJi. e che va sostitui-
dal combinarsi storico e artificiale di ragione e potenza, dallo ius publicum europaeum. Vitoria sa bene che spesso la guerra fra cristiani è condotta, in buona fede, come bellum utrimque iustum (DIB IV, II, 9) sia per quanto riguarda i sudditi (che hanno l'obbligo di obbedienza in re dubia) sia perfUlO per quanto riguarda i principi (per una invincibile ignoranza, che tutto scusa, o per un esame erroneo, benché accurato, delle cause di guerra). on ci sono, però, in Vitoria, le conseguenze convenzionalistiche - che lasciano la questio· ne della colpa alla coscienza personale dei principi, e che giustificano la guerra a partire non dalla giusta causa ma dallo iuslus hOSlis, cioè ne fanno una faccenda di Stati, un bellum utrimque iustum all'interno dello ius publicum europaeu,,"8 - che la modernità matura ha tratto tanto dalla crescente difficoltà a definire la iusto couso, quanto dalla catastrofica violenza implicita nella pretesa che la guerra sia giusta (cioè un'esecuzione di una sentenza) da entrambe le parti. Per Vitoria, in una guerra deve essere sempre distinguibile, in linea di principio, chi ha ragione da cbi ha torto, in modo univoco e cerro: e quindi non può esistere, in quanto sarebbe assurda, una guerra giusta da entrambe le parti (DIB III, 2 e IV, I, 6 e 9), e dunque gli hostes non possono essere, modernamente. oequoliter iusti. E non c'è nemmeno il probabilismo gesuitico col suo sostanziale filoassolutismo: Vitoria sa bene che giustificare la guerra attraverso la mera probabilità che il principe che la dichiara abbia ragione - e non attraverso la certezza morale e razionale della iusto causo - sarebbe fonte di guerra senza fine (DIB IV, I, 6) perché, a differenza della verità e della giustizia, la ammissibilità del
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48 E. de Vattel, udroi/ des Genr (1758), libro m, cap. 12, in Gal. li (a cura di), Guerra, dt., pp. 96-98.
5.2.2. Ma quel modello è anche ricco di problemi, che non stanno tanto in ciò che vi è ancora di medievale in Vitoria (come ammetrono anche i suoi estimatori mo· dernizzanti), né in ciò che in lui vi è di moderno (come invece sostiene Schmitt). I problemi stanno proprio nell'impianto oggettivo della giustizia. Ne risultano. come diretta conseguenza, alcuni trat-
ti peculiari e problematici nella dottrina della guerra giusta. TI primo dei quali (DIB IV, I, 2 e5; IV, II, 5) è che - in linea con la dottrina tradizionale - il vincitore/giusto si trova ad essere il giudice del vinto/ingiusto, e ad avere il diritto/dovere di punirlo (non è contemplata, percbé ininfluente sotto il profilo teorico, l'ipotesi che, nella pratica, il vincitore sia il responsabile di una guerra ingiusta: il giudizio di condanna resterebbe in ogni caso invariato). Che il principe cbe conduce una guerra giusta sia iudex in causa propria ha effetti di grande durezza sulla conduzione della guerra e sulla gestione della pace, ma non produce, in Vitoria, l'effetto devastante di uno stato di natura a tal punto anarchico che se ne
debba a tutti i costi uscire: a differenza di quanto è previsto da Hobbes, per Vitoria è indiscutibile che esista realmente la trama ordinata della giustizia a sostenere l'umanità, e a garantire l'univocirà, la non contradditto~ rietà e la non distruttività, del concetto di guerra giusta. La giustizia è oggettiva, non soggettiva; e ciò significa che essa esiste univocamenre anche se i principi errano nell'attribuirsela ciascuno per sé. La distanza fra Vitoria e la modernità piena è tutta qui: nel fatto che il domenicano non può far discendere dal cumulo di errori soggertivi dei principi l'assunto, su cui si fonda la politica moderna, che la giustizia naturale è assente - o poco o per nulla riJevante - dall'orizzonte delle relazioni interstatali, e che va sostituiXLVI
ta dal combinarsi storico e artificiale di ragione e potenza, dallo ius publicum europaeum. Vitoria sa bene che spesso la guerra fra cristiani è condotta, in buona fede, come bellum utrimque iustum (DIB IV, II, 9) sia per quanto riguarda i sudditi (che hanno l'obbligo di obbedienza in re dubia) sia perfmo per quanto riguarda i principi (per una invincibiJe ignoranza, che tutto scusa, o per un esame erroneo, benché accurato, delle cause di guerra). Non ci sono, però, in Vitoria, le conseguenze convenzionalistiche - che lasciano la questione della colpa alla coscienza personale dei principi, e che giustificano la guerra a partire non dalla giusta causa ma dallo iustus hoslis, cioè ne fanno una faccenda di Stati, un bellum utrimque iustum all'interno dello ius publicum europaeunt'8 - che la modernirà matura ha tratto tanto dalla crescente difficoltà a definire la iusta causa, quanto dalla catastrofica violenza implicita nella pretesa che la guerra sia giusta (cioè un'esecuzione di una sentenza) da entrambe le pasti. Per Vitoria, in una guerra deve essere sempre distinguibile, in linea di principio, chi ha ragione da chi ha totto, in modo univoco e certo: e quindi non può esistere, in quanto sarebbe assurda, una guerra giusta da entrambe le parti (DIB III, 2 e IV, I, 6 e 9), e dunque gli hostes non possono essere, modernamente, aequa/iter iusti. E non c'è nemmeno il probabilismo gesuitico col suo sostanziale filoassolutismo: Vitoria sa bene che giustificare la guerra attraverso la mera probabilità che il principe che la dichiara abbia ragione - e non attraverso la certezza morale e razionale della iusta causa - sarebbe fonte di guerra senza fme (DIB IV, I, 6) perché, a differenza della verità e della giustizia, la ammissibilità del .8
E. de Vand, Ledroil deI GenI (1758), libro DI, cap. 12, in Gal·
li (a cura di), Guerra, cit., pp. 96-98.
XLVll
diritto può stare da entrambe le parti: e infarti in caso di incertezza sostiene che la guerra sia illecita (DIB IV, I, 8). Solo la certezza della giusta causa, e quindi del torto altrui, è fonte di legittimità della guerra. Insomma, la consapevolezza deUa problematicità pratica della definizione corretta di guerra giusta (DIB IV, I, 9) agisce in lui solo in via prudenziale e non di principio, cioè come riconoscimento di una umana debolezza che deve indurre a comportamenti moderati, e non come una caratteristica strutturale e oggettiva della ma· dema politica statualizzata: la guerra giusta da entrambe le parti (per ignoranza e buona fede) sarà anche frequente di fatto (DIB IV, II, 9), ma, per Vitoria, non esce dal suo s/alus di impossibilità logica e morale. La guerra deve poter essere sempre giudicata moralmente, e il bellum ius/um essere distinguihile dal bellum inius/um. Questo primo tratto problematico della dottrina della guerra giusta, originato dall'oggettività della giustizia, ne determina uo altro: il vincitore/giusto è pane in causa e al tempo stesso deve essere sopra le parti, e comportarsi Don come un accusatore ma come «un giu· dice che siede fra le due comunità politiche, quella che subì l'offesa e l'altra, che la fece» (DIB, Conclusiom). L'impianto argomentativo di Vitoria, fondato sulla og· gettività della giustizia, compona insomma l'assenza di una istituzione terza e super partes - che per Vitoria po. teva essere solo il papato e quindi sarebbe suonata co· me ierocratica -, e implica che al singolo principe si chieda di essere coinvolto nel conflitto e al tenlpo stesso di astrarsene, in una posizione superiore. Come si è visto, un principe che per il proprio Stato combatte una guerra giusta è autorizzato non solo dalla propria singolarità ma anche dall'intera umanità (DIB IV, I, 5): rapXLVlll
I resenta tanto la propria volontà di esistenza politica quanto il mondo intero. Questo immediato cortocircuito fra particolare e universale si attua in Vitoria perché la giustizia è po. la da una parte come universale presenza fondativa del mondo della pratica, come bonum IOlius orbis, ma dall'altra è interpretata, al contempo, come il prodotto dell'azione politica concreta dei singoli principi, che combattono la guerra giusta per difendere il particolare bonum del loro Stato. Per Vitoria non c'è quindi comraddizione fra la universalità razionale della pace e il fatto che essa sia resa efferruale dall'autocomprensione utilitaristica del proprio bonum da parte di ciascuno Stato. Il conflitto politico moderno - generato dalle logiche della sovranità, capaci di attrarre l'universalità della ragione nel proprio campo gravitazionale e di sconvolgere l'ordine del mondo, striandolo con confmi che sono anche barriere alla comunicazione razionale e alla uguaglianza morale degli uomini - gli pare quindi poter essere risolto e superato grazie alla sua visione della 4<pace dinamica»"9, ossia grazie all'assunto, cristiano e umanistico, che la giustizia può sì essere sempre offesa e ferita, ma la sua trama ordinativa non può mai essere del tutto lacerata: il che lo pona a ipotizzare una pace che consiste in un con· dnuo agire riparatorio (in un susseguirsi di guerre giu· ste) ad opera dei singoli principi. Mentre la pace per Kam ha caratteristiche radicali di necessità razionale che implicano, anche quando si configura provvisoriamente come federazione di Stati, che la ragione del· 49 Pereii.a, Estudio p"/iminor. Lo lesis de ~ po1. dimimiC/l, cit., p. 64; analoghe considerazioni in M. Scauola, GU~Q giusta eordinedel· /o giuslizio nello dal/n·na di Domingo de Sala, in $cartola, Figure de/i4 guerra, cit., pp. 89·110.
XLIX
lo Stato debba spogliarsi delle proprie logiche particolaristiche, la pace di Vitoria, invece, riposa sull'assunto della giustizia come fondazione oggettiva della politica, e sull'assenza, quindi,. della contraddizio~e, di principio fra particolare e unIversale, fra s~atualJta e pace. Si dirà che Vitoria non ha ancora. pIena esperienza dei tratti nichilistici dd mondo poliuco moderno; e ciò è vero; ma è anche vero che in ogni c~so l'impianto complessivamente oggettivo e f~ndauvo dd suo pensiero è, necessariamente, meno r~dicale ?e1 razionalismo moderno, tanto nella costruzione artlfi·
ciale dello Stato particolare (Hobbes) quanto nell'daborazione dd dovere della pace universale (Kant). 6. Vitoria non è un autore 'premodemo', cioè parzialmente arretrato rispetto agli standard dd razionalismo laico (che peraltro giunge a maturità un secolo dopo la sua morte); piuttosto, le sue posizioni sono un esempio di modernizzazione dd pensiero politico cattolico, e sooo sviluppate, e SvUuppabili, secondo direttrici parallde - e quindi non coincidenti - rispetto alle vicende della modernità 'laica', che ruota intorno allo Stato e al soggetto. Quella di Vitoria è una modernità a sc.arso tasso di secolarizzazione: il trascendente non 51 e ancora mutato in trascendentale. né il teismo in deismo, e Dio, più che garanzia, è ancora il fondamento dell'ordine dell'essere e della sua razionalità oggettiva. Dal punto di vista spaziale, poi, il uovo Mondo non è, per lui, oc·
siero cattolico cbe, attraverso percorsi più o meno tortuosi (una tappa ne è Rosmini nd XIX secolo, e un'altra ne è Maritain nel XXj ma ovviamente si possono moltiplicare e diversificare gli esempi e i tragitti), giungono a liberare l'universalismo cattolico e la sua teoria della dignità umana dalle ipoteche gerarchico-ecclesiastiche del 'regime di cristianità', e si conciliano con la teoria dei diritti umani, pur senza condividerne l'individualismo e illaicismo, com'è appunto avvenuto con il oncilio Vaticano II. È proprio la mancata coincidenza del pensiero di Vitoria con la vicenda del razionalismo moderno ad averne permesso la ripresa e la rielaborazione in polemica con lo iUI publicum europaeum, sia nella fase (la seconda metà dd XIX secolo) dd recupero IJberale"', sIa quando (nella seconda metà dd XX secolo) la vaIorizzazione di Vitoria è stata uno dei contributi della cultura cattolica all'umanesimo giuridico post-totalitaflO e al nuovo diritto internazionale _ quello delle dichiarazioni dei diritti e dell'Onu. Ciò è per alcuni versi una forzatura: il domenicano spagnolo vuole 'modernizzare'la dottrina morale cattolica applicandola alle rdazioni internazionali e spostandone il baricentro dal rapporto pontefice/imperatore e da qudlo pontefice/Stati al rapporto giustizia (morale)/Stati, ma è estraneo al problema dd rapporto dialettico fra la volontà di potenza dello Stato (il fulcro dd modo moderno di intendere il diritto internazionale) e i diritti universali dei singoli (che a loro volta costituiscono il centro della modalità contemporanea). Tuttavia, il suo pensiero internazionalistico, nd quale la dignità dell'uomo è ben presente, non è incompatibile con la successi-
casione di una rivoluzione concettuale e politica - modernamente centrata sulla differenza e sull'equilibrio fra spazio europeo, spazio libero extraeuropeo, e mare libero - ma viene inseri(Q in una sorta di estensione orizzontale della rerpublica christiana. Vitoria è insomma l'artefice di una delle linee di pen-
'0).8. Scott, in TbeSJN11ti1b uJ1taplion, cit., dedica un capitolo a Tbl' /ibni1/mn o/Viloria (cap. XIII, pp. 275-280).
L
LI
va teoria dei diritti umani. Anzi, è stato riscopeno proprio perché suppona una reale esigenza di pace, dopo che Ja modernirà ha rrasfonnato la guerra fra gli Stati in una guerra contro le società e contro l'umanità, e ha condotto lo ius pub/icum europaeum in un vicolo cieco. Se ciò è vero per il pensiero internazionalistico di Vi· toria, per quanto riguarda specificamente la teoria della guerra giusta, che pure strutturalmente ne dipende, vi s0no da fare considerazioni parzialmente diverse. eI conresto rardo-moderno del XX secolo, dominato dalla guerra fredda, e nell'affacciarsi, all'inizio del XXI seco· lo, di una realtà per molti versi post.moderna, quale quel. la globale, che segue la fIne del comunismo, la tematica della guerra giusta ha fatto una decisa ricomparsa: ora come guerra di resistenza e di liberazione, ora (più spesso) come tentarivo laico (dal punto di vista della salvaguar. dia dei diritti umani, interpretati in senso soggettivo e democratico) e carrolico (all'interno del comandamento dell'amore per il prossimo, e come specificazione del quinto comandamento) di giudicare la minaccia della guerra nucleare, di delineare le condizioni che rendono moralmente legittimo ricorrere alla guerra e di determinare (e limitare) che cosa sia lecito nello svolgimento di questa; guerra giusta, infme, è anche quella, più propriamente defmibile 'legale', che si svolge su mandato del· l'Onu, quando ne occorrono le condizioni (autodifesa di uno Stato aggredito, o intervento umanitario). In generale, la ripresa della tematica della guerra giusta sta a indicare che non è più legirtimatala guerra come diritto di sovranità, come naturale espressione sulla scena internazionale della potenza politica degli rati; e che la guerra - in età nucleare - è di farro quasi del rutto illegittima, e in ogni caso deve essere considerata un'eccezione, e veLll
nire rigorosamente limitata quanto allo ius ad be//um, e severamente regolamentata quanto allo ius in betlo'l. i tratta però di teorie che sono state anche COntesta~e e combarrute, dentro e fuori la Chiesa; in primo luogo, In nome del principio che nella dotrrina della guerra giusta sopravvive l'idea di una Chiesa ancora 'costantiniana' e 'tridentina' che, senza essere più potere politico diret. to, conserva un rapporto privilegiato con i poteri politiCI, da Cli non prende a sufficienza le distanze, e in base alla considerazione che per ottenere la pace vale più la promozione della giustizia che non l'elaborazione di una leoria della guerra giusta; in secondo luogo perché le dotlrine?ella guerra giusta sono di farro impraticabili, per la caslsuca quasI barocca a cui danno origine, e per le contraddizioni in cui incorrono (non è facile dettare nonne morali su chi si può uccidere nelle attuali forme di combattimento, o su quanto si può torrurare)'2. E si tratta di teorie per certi versi lontane da quella di Vitoria, quanto a presupposti storici, teorici e politici: si pensi solo al fato to che oggi esistono istituzioni internazionali che in linea teorica sollevano gli arrori politici dall'obbligo di essere giudici in causa propria. Ma, anche se la storia le ha rese più smaliziate, alle teorie della guerra giusta sono immanenti due rischi, interni anche al pensiero di Vitoria. ,. M. Wa..lttr, CUet'Tr gius/~ ~ tng'us/~. Un dISCOrso mO"lk con ~U11lplifi..C8v.'oni s/'!rU:!'~ (19n). Napoli, Liguori, 1990; sulla piena rongnllta ~ .Virana ns~to alla posizi~ della Chiesa sulla guerra gIUsta, ~ di Pio xn sulla guern. atomica, dr. Urdanoz ln,rodua:i6" Il /o R~kcri6". s~gund4, in OhriU, cit., pp. 727·810: nO-757; si veda ano ch~ ~/«h1~11tO della Chiesa Ca//olica, Città del Vaticano, Libreria Edunce Vatlc~na, J 99~, ai punti 2302·2317; sulle problematiche in. lerne alla t~(>na cattohca della guerra giusta dr. Minois. La Chiesa e ltJ guerra, CIl., pp..:S37-591. '2 Un eso:nPio ~ queste contnlddizioni è dato da M. 19natieff, The .'essn EVIl Pollttcal E/hiCI In 1m Age 0/ T~" Edinburgh Uni. verslry Press, 2004. Llli
li primo dei quali è di restare al di qua di una efficace comprensione della guerra: infatti, per quanto sia coe-
rente. generOSO e per certi versi lungimirante il tentati~o
vitoriano
di teorizzare la guerra giusta, e per quanto sia
anche 'concreto' cioè inserito nelle logicbe politicbe del suo tempo, la pr~cupazione di a~c~lare un gi~?izio sulla guerra subordrna fatalmente a se l eSigenza (pIU Ull~ le ai fmi della pace) di comprendere le cause strutturali della guerra, i suoi rapporti - in tutta la compl~ità del loro articolarsi - con le condizioni sociali e con I SlstemJ politici ed economici. E assume, q~di, ~a connotazione astratta, solo morale, cbe rende difficile fame le basi per un ordine giuridico concreto e~ efficace. . Un altro limite, opposto, delle teone della guerra gIUsta consiste invece proprio Dd fatto che possono essere, appunto come pensiero morale, fin trop~ attive politicamente; che cioè possono mtrodurre nell o~dme m(~r nazionale forti elementi di instabilità, propno a pamre dall'idea che esista una giustizia oggettiva, oggi odIa forma dei diritti umani da rispettare, le cui violazioni vanno automaticamente perseguite. Una simile idea, infatti, consente a rigore una guerra non solo difensiva, ma ano
che offensiva, come guerra umanitaria o anche come guerra preventiva (bencbé quest'ultima fattispecie non sia presente in Vitoria, il quale non ac~et~a che vengano puniti i torti prima cbe vengano cOmpl~lI: DIB IV, II, I). Si dirà cbe oggi la difesa della glUstlzta e affidata, almeno in teoria non ai singoli Stati ma ad un'istituzione supe, partes c~me l'Onu, il cui obiettivo è garantire sia i ~tti umani sia le sovranità statuali; ma sono le stesse lOgIche della guerra giusta a non escludere il rischio cbe una potenza preponderante si senta legittimata a punire le offese alla giustizia ovunque nel mondo si p~esent1no. V,ltOria teorizza, è vero, l'impossibilità che esLSta un dommus
uv
orbis; nelle sue pagine risuona l'invito alla moderazione, unito alla preoccupazione che tutte le potenze bdlige· ranti reputino in buona fede di essere nel giusto; ma questi segnali di acutezza intellettuale e di spirito prudenziale non bastano a far sì cbe la sua teoria della guerra giusta, come in fondo ogni altra, non rischi di trasformare la «pace dinamica» in una «polizia perpetua»". Così, l'assunto centrale della teoria della guerra giusta - di Vitoria, ma anche di quelle più vicine a noi nel tempo-, owero che sia possibile ancbe se non facile giustificare il male (la guerra), nonnarlo e limitarlo, a fm di bene, cioè di pace, corre il rischio di non risultare quello che vuole essere, cioè un discorso critico sulla guerra, e di rovesciarsi invece nell'opposto. ossia di essere attrat· ta nella logica della potenza politica e di rivelarsi infine un discorso della guerra, un'ennesima giustificazione dell'antica schiavitù del conflitto annato, una funzione di autoleginimazione interna - per di più. inconsapevolmente - al nicbilismo occidentale, ormai planetario. Quindi, anche per chi è insoddisfatto delle tautolo· gie del 'realismo' politico, e per cbi all'opposto vede l'interpretazione giuridico-universalistica delle rdazio· ni internazionali sempre più largamente smentita daJ corso dei fatti, la dottrina della guerra giusta non può essere che un complemento - e non un momento centrale - nello sforzo di pensare la guerra: cioè può esprimere la tensione a condannare la guerra, a lirnitarne gli orrori, ma è anche. aJ tempo stesso, una dimostrazione di quanto profondamente le istanze giuridicbe e morali di pace siano, loro malgrado, esse stesse esposte alla " D, Zolo, l rignori ddla paa. Una cn/iC/J d~l glabalirmo giun"Ji· co, Roma, Carocci, 1998; Id., Chi dic~ umam~à. Gue"a, dinì/o ~ ardi· ne globale, Torino, Einaudi, 2000.
LV
guerra, polemiche e polemogene. L'idea - largamente condivisibile - che sia moralmente doveroso razionalizzare e pacificare la politica internazionale, e accedere a forme di cooperazione fra le nazioni, non può coincidere, oggi, con la teoria della guerra giusta; semmai, il compito che ci attende è considerare la giustizia, più
ota al testo
che come metro oggettivo della guerra giusta, come
processo di emancipazione reale dell'umanità dalle ingiustizie che costituiscono la trama ddJe rdazioni internazionali: un processo che si fonda sulla comprensione della storia e dci contesti concreti più che sull'a prion° della giustizia; un processo, infIDe, al quale può a volte non essere estranea la violenza, legittimata, però, più che da astratte istanze morali, da puntuali esigenze contingenti. Eppure, Vitoria parla anche a noi, il che lo rende un classico. E non solo per il suo ruolo intellettualmente cruciale agli inizi della modernità e per la forza dd suo ritorno nd momento dd declino di questa, ma anche per il suo senso ddJa realtà, che gli consente di spalancare una finestra, che ci riguarda da vicino, su guerre di popoli accecati, su principi ingannati dalle proprie ideologie, e su cattivi consiglieri che non voglioDo o nOD sanno capire le ragioni dd giusto e dd tono. Inoltre, la serietà delle sue teorizzazioni - soprattutto. che non esiste un dominus orbis. e che le genti non possono avere altra tu· tela che se stesse - è quanto meno di monito a chi. oggi, si investe del compito di esercitare la guerra giusta, perchéin ogni caso valuti il peso e lacogenza delle dure condizioni (di rigore morale, di buona fede, di coerenza, di moderazione) che questa impone ai vinti ma anche ai vincitori, agli 'ingiusti' ma anche ai 'giusti'.
otizie sulla vicenda testuale di DIB sono in L. Pereiia E~tudlO prelimil1ar La tesis de la paz dil1amica, in F. d~ Vltor:a, Relectio de iure belli, o Paz dil1amica. Escuela Es[!al1ola de la Paz. Primera gel1eraciol1, a cura di L. Perena, V. Abril, C. Baaero, A. Garda, F. Maseda, Madrid, Conselo Supenor de Investigaciones Cientifìcas 1981', pp. 29-94: 81-94. ' Le Relectiones sono circolate manoscritte fino alla prima ~dizione 1a.tina, a cura di]. Boyer, Lione, 1557; a questa e seguJta, m fone concorrenza l'edizione a cura di A. Muiioz, Salamanca 1565. ' . Dopo alcune edizioni dd e dd secolo, non lI1nO~~tlVe, nel XX secolo la prima edizione critica-a lun. go utilizzata, soprattuno in ambiro anglofnno - delle due Re!ecltOl1es, Dell1dis e DIB, appare nd 1917 nei Classics olIl1tematiol1al Law (Washington, Camegie Institution ~ 917), con Introductiol1 di E. ys (pp. 9-53 l; il testo latin~ c procurato da H. F. Wright (DIB si legge alle pp. 268-297) e la traduzione inglese da].P Bate (pp. 163-187)1. '
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. I Altre infIUttlci induzioni ingJesi sono qudJ~ d.iJ.B. Scott, TiN Spamrh eonupllOn ollnl"'lal,onal Francisco d~ V,/onQ tlnd hir
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LVII
Discussa e poco utilizzata è invece l'edizione critica complessiva di L.G.A. Getino, Relecaimes leologicos del maeSiro fra, Francisco de Viloria, Madrid, Asociacion Francisco de Viroria 1933-1935,3 voli. DIB - in un testo critico nuovamente stabilito, con traduzione spagnola - si legge poi alle pp. 811-858 di
Obras de Francisco de Viloria. Relecciones teologicos, a cura di T. Urdanoz, Madrid, Biblioteca de Aurores Crisrianos, 1960. Buona anche l'edizione di Leçons sur les Indiens el sur le droil de guerre, a cura di M. Barbier, Genève, Librairie Droz, 1966. Infme, DIB ha trovato la sua fonna per ora definitiva in F. de Viroria, Releclio de iure belli, o Pax dinamico. Escuela Espanola de la Pax. Primera generacion, a cura cU L. Perciia, V. Abril, C Baciero, A. Garcia, F. Maseda, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, 1981' (prima ed. 1967); è una ecUzione critica nuova, con apparato di note e traduzione spagnola, che tiene conto tanto dei due cOcUci (di Palencia e di Valencia) che tramandano DIB quanro delle due ecUzioni a stampa cinquecentesche. DalI'edizionePereiia 1%7-1981,coo la correzione di alcune sviste o lezioni dubbie, è tratto infine il testo latino (a cui si affianca la traduziooe tedesca) di De Indi< e cU DIB (quest'u1timosi legge alle pp. 542-605 del vol.lI), raccolto in Francisco de Vitoria, Vorlerungen. V6lkerrechi, Poli/ik, Kirche, a cura di U. Horst, H.-G.]usteohoven, J. tiiben, Stuttgart-Berlin-K6ln, Kohlhammer,
uw o/NQtions, Oxford-London, Clarendon.Mulford, 1934, e j Poli·
tical W,ittngs, a cura di A. Pagden e J. Lawrance, Cambridge.New
York, Cambridge UniversilY Press, 1991 (trad. di sette delle tredici
Rd«aonn).
Lvm
1997,2 voli., con un saggio introduttivo di U. Horst Leben und Werke Francisco de Vilorias, pp. 13-99 (le ~tre RelecllOnes sono tralte dall'edizione Urdanoz 1960). ,. S, traduce da questa edizione, seguendone le lezioni, I tnterpunZJone e ~uasj sempre gli'a capo', e correggendo alcune.mende. tipografiche; le parentesi acute e gli altn segm diaCfltlCI- presenti nel testo latino ma non nella traduzione, sulJ'esempio dell'edizione ;edesca _ segnalano le presumibili integrazioni (autorizzate dal Maes~ro) .di dis~epoli di Vitoria, o le divergenze tra i testi originali, o le mtegrazioni dei curatori. Per le note si è fatto riferimento alle edizioni Pereiia 1981 e Horst-]ustenhoven-Stiiben 1997, semplificando moltissimo, e integrando qualche dato mancante. La sigla PL seguita da un numero indica i volumi della Palrologia Lalina curata daJ.-P Migne; si aggiunge la menzIOne delle colonne a cui si riferisce il brano citato.
CG.
De i ure belli
Praeludiurn
Quia possessio et occupatio provinciarum illarum barbara rum. quos Indos vacant, videntur tandem maxime iure belli posse defendi, ideo postquam in prima relec· tione disputavi late de tirulis, quos Hispani possunt
praetendere ad alias provincias, sive iustis, si~e iniusus, visum est de iuce belli brevem utique disputatlonem habere, ut superior relectio absolutior videatur. Sed quia temporis angustia compressi non poterirnus hic tractare amnia, quae in hac materia dispurari possent, ideo non licuit extendere calamum pro amplitudine et di· gnitate materiae, ideoque salurn dicemus, quanturn temporis brevitas patieeur. !taque salurn norabo proposiriones in hac materia cum brevissimis probationibus abstinens me a multis dubiis, quae hac disputatione conferei possent.
Premes a
Poiché il possesso e l'occupazione delle terre dei barbari chiamatiIndiani sembrano dopo tutto poter essere legit. tlmatl pnmanamente sulla base del diritto di guerra, mi è parso opponuno - dopo che nella prima dissenazione ho discusso ampiamente i titoli, giusti e ingiusti, in base ai quali gli Spagnoli possono pretendere quelle terre _ trat. lare brevemente il dirino cfj guerra, per dare maggiore completezza alla precedente dissertazione. Ma poiché per ristrettezza di tempo non potremo in questa sede par. lare di tutto ciò di cui su questo argomento si può trana. re, non ci è stato possibile estendere il lavoro quanto sa. rebbe stato richiesto dall'ampiezza e dall'imponanza dell'argomento e della materia; perciò parleremo solo quanlO lo consentirà la !imitatezza del tempo'. E così mi !imi. terò soltanto ad annotare le mie tesi su questa materia
con dimostrazioni brevissime, e mi asterrò da molti dub~ bi che potrebbero essere avanzati in questa discussione. Tractabo autem quatuor quaestiones: Prima an omnino Christianis siI /icitum be/la gerere. Secunda, apud quem sii iusta Due/ori/as oul gerendi aut
indicendi bel/um. 2
Tratterò, in ogni caso, quattro questioni:
La prima, se in generale sia leci/oai Cristlamfare lo guerra. La seconda, chi abbia l'auton"tà di condu"e o di dichiarare la gue"o. J
Tenia, quae possint el debeant esse C/Jusae iuSli bel/i. Quarta, quid et quantum liceol aristionis contra suos hosles. Hae eront quaestiones principales.
La terza, quali possano e debbano essere le C/Juse di una guerra giusta. La quarta, che cosa ai Cristiani sia ledto fare, e in qua· le misura, contro i nemici. Saranno queste le questioni principali.
QuaesLio prim..
Prima quesLione
An omnino Christianis
e in generale ia lecito ai Cristiani fare la guerra
sit licitum bella gerere
l. <Exponirur sensus huius quaestionis.> 2. LiceI Christianis militare el bella gerere.
l. Si espone il senso della questione. 2. Ai Cristiani è lecito l'esercizio delle armi, e fare la guerra.
I. Qu:mrum ad primam posset videri, quod omnino
I. Per quanto riguarda la prima questione, potrebbe
bella smt mterdicta Christianis. Prohibitum enim videtur elS se defendere, iuxta illud: Non vos defendentes, caTlSstmt, sed date /ocum irae (Rom 12,19). Et Dominus in
sembrare che le guerre siano del tutto interdelle ai Cristiani. Infatti, ad essi sembra sia proibito difendersi, secondo il dellO di Paolo (Rom 12,19): «non vendicatevi, carissimi, ma lasciate che agisca la collera divina». E il Signore nel Vangelo dice: «se qualcuno ti percuote nella guancia destra, porgigli anche )'altra», e nello stesso capitolo: «io vi dico: non resistete al male» (Mt5, 39); e inoltre: «tutti quelli che ptendetarmo la spada periranno di spada» (MI 26, 52). Sembra sufficiente rispondere che lUtti questi non sono comandamenti ma esortazioni. È infatti già abbastanza disdicevole che tulle le guerre intraprese dai Cristiani siano contrarie alle esonazioni di Cristo redentore. Comunque sia,l'opinione di tutti i dottori è contra· ria, e così anche la consuetudine delia Chiesa universale. Tutti infatti dimostrano in molteplici circostanze che la guerra è lecita.
eva.n~elio: Si quis te percusserit in Ul10m maxi!lam~ proebe dII el a/teram. Et in eodem capite: Ego aulem dico vab~s non resistere ma/o. Et: Omnes, qui occeperint g/odtum, gladio penbunl.
Ad hoc satis videtur responderi, quod omnia hacc sunt in consillo, non autero in praecepto. Satis enim magnu~ ~conveniens est, si bella omnia, quae a Christianis SUSClplUntur, ~int Contra consilium Christi redemptoris. In COntraCium tamen est sententia omnium docto. rum et usus in universali ecclesia receptus. Omnes enim demonsrrant in muJtis casibus esse licita bella. 6
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. Pro qua~tionjsexplicatione notandum, quod licet ltlter ca~o.li~os s~tlS conveniae de hac re. Lurnerus ta~en, ~w nihil rcliquit incontaminatum, negar Chrisriams e.nam ~dve~us Turcas licere arma sumere, innixus t~~ ~ loclS sc~pturae supra positis, tum etiam, quia diCit. ,SI ~urca.e Invadan! chrir/i(Jnitatem~ ilio est va/untas D~I) ,CUI rerzs/ere non "~et. In qua [amen re non ira po_ [un ~mp~~ere Gem:ams hominibus ad arma paratis sicut In. allis dogmatlbus. Et quidem Tertullianus non adeo Vldeturabhorrere han c sententiam. Nam in libro f?e corona ,!UllllS dlsputat, ao in [mum Christianis militla convenJat. Et tandem profecto in iIIa opinione videtur pe~erare, ut C~ristiano militare interdictum putet, CUI, rnqult, nec llllgare qurdem liceat. 2. Sed relictis extraneis opinionibus respondetur ad qua~~on.em per urucam conclusionem taJem: LiceI
Chmtloms militare et bello gerere. . Probatur haec conclusio ex Augustino in multis 10CIS. Nam et Contro Foustum et Libro LXXXIII quoestionum et De verbis Domini et 22 Contra Manichaeos et in sermone De puero centurionis et in epistola Ad Bom/actum hanc conclusionem diserte adstruiL Et probatur, ut probat Augustinus, ex verbis Ioannis ustae : :v.eml~em con~tiatis, nemin; iniuriam feceri. tlS. Ergo st, IJlqwt Augustlnus, Christiana disciplina om-
b.ar
ntnO bello eulporet, hoc potius comilium solutis petentl'
bus '~ evangellO daretur, ut abicerent arma seque mllitiae ommn~ s~btraherent, Dictum est autem cis: 'Neminem concutlatls) contenti estote stipcndiis vestris!',
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Per chiarire la questione si deve notare che, mentre fra i cattolici c'è consenso al riguardo. nondimeno Lu· tero _ che corrompe tutto - nega che ai Cristiani sia le· cito prendere le armi, anche contro i Turchi; egli si fonda sui passi della Scrittura sopra citati e inolrre dice: «se i Turchi fanno guerra alla cristianità è questa la volontà di Dio, a cui non si può resistere»I , Ma su questo pun· lO non è stato in grado di farsi obbedire, come invece gli è riuscito per le altre sue opinioni, dai tedeschi, uomini pronti alle armi. Anche Tertulliano sembra non ripudiare questa opinione, dato che nel suo libro De corono militis si chiede se il servizio militase si adatti in generale ai cristiani'. E in definitiva sembra persistere nella tesi che esso sia vietato al cristiano, al quale, dice, «Ilon è lecito neppure portare qualcuno in giudizio». 2. Ma, lasciate da parte le opinioni altrui, la mia risposta alla questione sta in questa sola conclusione: ai Cri· stiani è ledto prestare servizio militare, e fare la gue"a, Questa conclusione è dimostrata da Agostino, in molti passi. Infatti, egli ne offre una brillante dimostrazione in Contra Faustum, nel Liber LXXXIII quaestionum, in De verbis Domini, e ancora in Contra Mani· chaeos (libro 22), nel sermone De puero centurionis e nella lettera a Bonifacio'. E questa conclusione è dimostrata, come appunto fa Agostino, a partire dalle parole di Giovanni Battista ai soldati: «non fate violenza ad alcuno, non fate ingiustizie ad alcuno» (Le 3, 14). Quindi, dice Agostino, «se la dottrina cristiana condannasse completamente le guer· re, il Vangelo darebbe, a coloro che lo richiedono per la propria salvezza, il consiglio di abbandonare le armi e di sottrarsi del tutto alla vita militare. Al contrario, si di· ce loro 'non fate violenza ad alcuno, e accontentatevi delle vostre paghe'»4.
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Secundo probatur ratione sancti Thomae II-II, q. 40, a. 1: Licet uti armis et stringere gladium adversus malefactores et seditiosos cives et interiores, secundum illud: Non sine causa gladium portato Minister enim Dei est vindex in iram el: qui male agito Ergo etiam licet uti gla· dio et armis adversus hostes exteriores. Unde principibus dictum est in psalmo (82, 4): Eripite pallperem el egenum de manu peccatoris liberale.
Tertioin legenaturae hoclicuit, ut patet deAbraham, qui pugnavit contra quatuor reges (Cen 14, l-17).ltem in lege scripta, ut patet de David et de Machabaeis. Sed lex evangelica nihil imerdicit, quod iure naturali licitum sit, ut sanctus Thomas eleganter tradit l-II, q. 107, a.ulL Unde etiam dicitur lex liberlali< (lac l, 25 et 2, 12). Ergo quod licebat in lege naturae et scripta, non minus licet in lege evangelica. Et quia de bello defensivo revocati in dubium non potest, quia vim vi repellere licet (ff. De illsti/ia et iure, l. Ut vim).
Quarto etiam probatur de bello offensivo, id est in qua non solum offenduntur, sed ubi petitur vindicta pro iniuria accepta. Probarur auctontate Augustini Libro LX.XX111 quaeSlionllm et habetur capite Dominlls (23, q. 2): Iusta bella solent definir;, quae IIlcisCl/ntllr iniurias, si genI vei civitas p/ec/endo est, quae ve! vindi-
care neglexit, qllod a suis improbe factllm est, vel reddere. quod per iniuriam ablatum est.
In secondo luogo, quella conclusione è dimostrabil~ secondo l'asgomento di san Tommaso (Ila lIae, 2<.L' I): e lecito impugnare la spada e usare le arrm contro I delinquenti e icittadini sediziosi all'interno, sulla base del detlodi Paolo (Rom 13,4) «l'autorità pubblica non per nul: la potta la spada: essendo minima di Dio punisce chi opera il male». Quindi è an~he lecito servl:-'~ della spada e delle armi contro i nemici esternI. PerelO e stato detto ai principi nei Salmi (82, 4) «salvate il povero e il mendico e sottraerdi alle mani degli iniqui», ,In terzo luogo, la guerra fu lecita nella legge di natura come dimostra Abramo che combatté contro qual-
tr~ re (Cen 14, 1-17); e anche nella legge delle Scritture come dimostrano Davide e i Maccabei. Ma la legge dd Vangelo non vieta nulla che sia ammesso dalla legge naturale, come spiega con eleganza To~maso ~Ia llae, cvn ultimo articolo); è per questo che e deftruta «legge deÌJa libertà» (lac 1,25 e 2, 12). Quindi ~iò che era lecito nella legge naturale e nella legge sc:ltta ~ leCito an: che nella legge evangelica. E, inoltre, e lecito perch~ non si può dubitare della guerra dif~nsiva, dato che «e lecito respingere la violenza con la vIOlenza» (D,g. I, l, 3: De iustitia et iure, legge Ut vim). In quarto luogo, ciò si può dimostrare vero anche a
proposito della guerra offensiva, cioè di quella guerra nella quale non soltanto si subisce offesa, ma SI persegue anche la punizione ,di un'~~fesa. in prece.denza n,cevuta. Lo dimostra I autonta dI Agostmo (L,ber LXXXIII qllaestionum), e il canone Dominlls: «si è ~li ti defmire 'giuste'le guerre che vendican? ~e IngtUStlZle, come quando si deve imp~rtire una pun~zlone a ~n popolo o a una città che abbIano omesso di pe,:,egulfe un atto ingiusto dei propri concittadini o dI restitUIre qualcosa ingiustamente sottratto»'.
IO
Il
Quinto probatur etiam de bello offensivo, quia bel. lum etiam defensivum geri commode non potest, nisi etiam vindieerur in bostes, qui iniuriam iam feceront aut conati sunt facere. Fierent enlm hostes audaciores ad iterum invadendum, nisi timore poe.nae dererreren. tue ab iniuria.
Sexto probarur, quia finis belli est pax et securitas rei publicae et
nisi hostes coerceantur ab iniuria metu belli. Esser enim amnino iniqua condicio belli, si hostibus invadentibus iniuste rem publicam solum liceret rei publi. cae avertere hostes nec posser ulterius persequi.
Septimo probatur ex fIne et bono totius orbis. Pror. sus enim orbis consistere in felici sratu non posser, imm~ esser rerum omnium pessima condicio, si lycanni qUldem et latrones et raprores possent impune iniurias facere et opprimere bonos et innocentes nec licerer vi. cissim innocentibus animadvenere nocenres.
Ultimo probatuc, quia. ut saepe dicrum est, in moralibus potissimum argurnentum est exemplurn sancto:um et bonorurn. Sed fuerunt multi taJes, qui non salurn In. bello defensivo tutati sum patriam resque suas, sed etIam bello offensivo prosecuti sum iniurias ab hostibus acceptas vel et.iam anematas, ut pater de Ionalha et Si-
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In quinto luogo, che anche la guerra offensiva sia le· cita è dimostrato dal fano che neppure la guerra difen· siva può essere condotta convenientemente se al contempo non si puniscono i nemici che hanno arrecato offesa, o che l'hanno tentata. Se infani non fossero distol· ti dal recare nuovamente offesa dal timore di una punizione, i nemici diventerebbero sempre più baldanzosi e propensi ad un nuovo attacco. lo sesto luogo, lo dimostra il fano che il fme della guerra sono la pace e la sicurezza della comunità politica, come afferma Agostino (De verbis Domini; Epistula ad Bomfadu",r). Ma non ci può essere sicurezza in una comunità politica se i nemici non sono costretti, dalla paura della guerra, a non recare offesa. Sarebbe infatti una condizione di guerra del turto iniqua per una comunità politica ingiustamente invasa dai nemici, se le fosse lecito soltanto respingerli e non potesse prosegui· re ulteriormente le ostilità. La settima dimostrazione deriva dalla fInalità, e dal bene di tutto il mondo. lnfani, il mondo non potrebbe avere alcuna condizione di felicità - e anzi ogni cosa si troverebbe in gravissima condizione - se proprio i tiranni, i briganti, i saccheggiatori, potessero impunemente arrecare le proprie offese e opprimere i buoni e gli innocenti, e non fosse lecito a questi prendere a loro volta misure contro quelli. Infine, l'ultima dimostrazione deriva dal fatto che - come spesso si è detto - in ambito morale una prova importantissima è data dall'autorità e dagli esempi di uomini santi e buoni. Ma appunro molti di questi non solo hanno difeso la propria patria e i propri beni con una guerra difensiva, ma hanno anche perseguito con una guerra offensiva i torti ricevuti o tentati dai nemici, come appare chiaro da Gionata e Simone (l Moch 9, 38)
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mone l Mac 9, qui vindicaverunt mortem Ioannis fratris sui comra filios Iambri. Et in ecclesia Christiana pa-
che vendicarono la morte di Giovanni loro fratello contro i figli di Jambri. La Chiesa cristiana lo dimostra con
tet de Constantino Magno et Theodosio Maiore et allis
Costantino il Grande, con Teodosio I, e con altri famosissimi e cristianissimi imperatori, che condussero mol-
c1arissimis et christianissimis imperatoribus qui multa bella utriusque generis gesserunt cum haberem a consiliis doctissimos et sanctissimos episcopos. Ergo non est dubitandum de conclusione. J
J
le guerre di entrambi i tipi, avendo nei propri consigli vescovi santissimi e dottissimi. Quindi non si può dubi· tare di questa conclusione.
Quaest..io sccunda
Seconda questione
Apud quern sit iusta auctoritas ineliceneli ve] gereneli bellurn
Chi abbia l'autorità eli fare o eli elichiarare la guerra
l.
BelIum defensivum quilibet polest suscipere, etiam ho. mo privatus. 2. Quadiber res publica haber auctoritatem indicendi et inferendi bellum. J. Eandem auctoritatem habent quantum ad hoc principes sicm res publica.
Chiunque può intraprendere una guerra difensiva, anche un privato. 2. Ogni comunità politica ha l'aucorirà di dichiarare e di condurre la guerra. J. I principi hanno a questo riguardo la medesima autorità che ha una comunità politica.
l. Pro qua sit prima propositio: Bellum defensivum qui/jbel polest susa"pere, etiam homo pn·vatus. Haec patet. aro vim vi repellere licet (ff. ubi supra). Unde hoc beI1um quilibet potest gerere sine aUCloritate
l. Su tale questione la prima tesi è la seguente: chiunque
cuiuscumque alterius, non solurn pro defensione propriae personae, sed etiam bonorurn suorurn.
1.
può intraprendere una guerra dIfensiva, anche un privato. Ciò è evidente: infatti, «è lecito respingere la violenza con la violenza» (Vig. I, 1,3). Pertanto, chiunque può condurre una guerra siffalla, senza avere bisogno dell'autorizzazione di chicchessia, per difendere non solo la propria persona, ma anche i propri beni.
. Sed circa istam conclusionem dubitatur primo, an lflvasus a latrone aut inimico possit repercutere invasorem, si posset fugiendo evadere.
gante o da un nemico possa colpire l'aggressore anche
Et archiepiscopus quidem respondet, quod non,
se potrebbe invece salvarsi con la fuga. I.: Arcivescovo' lo nega, e afferma che questo com-
quia iam non est defensio cum moderamine incul-
A proposito di questa conclusione nasce tuttavia un
primo dubbio, se cioè colui che è aggredito da un bri-
patae tutelae. Quilibet enim tenetur se defendere ,
portamento difensivo non rientra nei limiti della legittima difesa. Ciascuno infatti è tenuto a difendersi recano
quantum potuerit, cum minimo detrimento invasoris.
do per quantn è possibile il minor danno all'aggressore.
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Si ergo. resistendo oportet aut occidere aut graviter vuJnera~e mvasorem, potest autem se liberare fugiendo, ergo VIdetur, quod teneatur. Sed Panormitanus, c. O/im, De res/ilulione rpo/iatorum, distingui t: Si enim invasus
magnum dedecus subiret fugiendo, non tenetur fugere, sed potest repercutiendo iniuriam repellere. Si enim non faceret iacturam famae aut honoris, ut monachus ve1 ruscicus invasus a nobili et foni viro, tenetur fugere.
Se quindi per resistergli deve ucciderlo o ferirlo gravemente, mentre potrebbe aver scampo nella fuga, questa
opzione pare obbligatoria. Ma il Panormitano" (cap. Olim, De restitutione spoliatorum) distingue: se l'aggredito subisse un grande disonore col fuggire, allora non vi è obbligato, e può respingere l'offesa restituendo il colpo. Se invece l'aggredito non macchi~. ~on la fuga il proprio nome o il propno onore - com e il caso di un monaco o di un contadino assalito da un uomo nobile e
Banolus autem in lege prima ff., De poenis, et in lege Furem, De sicariis, indistincte tenet, quod licet se defendere nec tenetur fugere, quia fuga est iniuria (llem
apud Labeonem ff., De iniu'lis). Si autem pro rerum defensione lidtum est armis resistere, ut patet in dicto capite O/im et in capite Di/eclo. De senlenlia excommunicalionis, lib. 6, ~rgo multo magis pro iniuria corporali, quae multo ffialOr est quam rerum iactura (L In servo-
rum, De poenis). Haec profecto potest probabiliter sacis sustentari, maxirne cum iura avilla hoc concedant ut patet in dicta lege Furem. Auctoritate autem legis ne~ ma peccat, quia leges dam ius in foro conscienciae. Unde si iure naturali non liceret occidere pro defensione
rerum, videtur, quod iure civili faetum sit licitum. Et hoc revera viderur licere seduso scandalo non salurn laico, sed eciam clerico et religioso viro. .
forte - allora è tenuto a fuggire. Barrolo (commento alla prima legge De poenis; alla legge Furem, De sieariis) affenna però che in ogni caso è lecito difendersi, e che non si è obbligari a fuggire, POIché la fuga è essa stessa un ingiusto danno (ltem apud lAbeonem, De iniuriisp. Ma se è lecito resistere con le armi ad un'aggressione contro i propri beni, com'è evi-
dente (cap. Olim già citato; e anche cap. Dileeto, De sententia excommunicationis, VI)\ molto di più sarà lecito resistere al fine di difendere se stessi da un danno personale, che è più grave di un danno alle cose (Dig. 48, 19, lO: legge In servorum, De poenis). Questa opinione può essere osservata con sufficiente sicurezza come am-
missibile, sopratturto quando le leggi civili pennettono simili comportamenti (com'è evidente dalla citata legge Furem). Infatti, chi agisce secondo l'autorità della legge non pecca, poiché le leggi danno giustificazione nel foro della coscienza. Di conseguenza si mostra che, anche
se la legge di natura non consentisse di uccidere per difendere la proprietà. questa uccisione sarebbe resa leCI-
ta dalle leggi civili. E senz'altro è permessa non soltanto ai laici ma - se non ne deriva scandalo - anche al chJe-
2. Secunda propositio: Quaelibet res publiea babet auetO'l/atem indieendi et inferendi bellum. 18
rici e agii uomini di religione. 2. Seconda tesi: ogni comunità politica ha l'autorità di dichiarare e di condu"e la guerra. 19
Pro probatione est notandum, quod diffetentia est quantum ad hoc inter horninem privatum et rem publi· camo Quia privata persona habet quidem ius defenden· di se et sua, ur dictum est. sed non habet ius vindicandi iniurias, immo nec repetundi ex intervallo temporis res ablatas. Sed defensio oportet, ut fiat in praesenti, quod iurisconsulti dicunt in continenti. Unde transacta ne· cessitate defensionis cessar causa belli. Credo (amen, quod per iniuriam percussus posset statim repercurere, etiam si invasor non deberet ultra progredi. Sed ad vitandam ignom.iniam passero verbi gratia qui colaphum accepit, gladio statim repercurere. non ad sumendam vindictam, sed, ur dictum est, ad vitandam infamiam et ignominiam.
Sed res publica habet auctoritatem non solurn defendendi se, sed etiam vindicandi se et suos. Et probatur, guia, ur Aristoteles tradir 3 Politicorum, res publica debet esse sibi sufficiens. Sed non posset sufficienter servare bonum publicum. si non posset vindicare iniu· riam et animadvertere in hostes. Fierent enim ipse promptiores et audaciores ad inferendum maluro, si possent boe impune facere. Et ideo necessarium est ad commodarn rerum moralium administrationem, ut haec concedatur auetoritas rei publicae. 3. Tertia propositio: Eandem auctoritatem habent quan·
tum ad hoc principes sicul res publica. Haec est expresse Augustini (Contra Fauslum): Ordo, inquit, naturaliJ paci accommodatus hoc poscit, ut susci· piendi belli auctoritas atque consilium apud principes rito
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Per dimostrare ciò è da notare che su questo punto c'è differenza fra la persona privata e la comunità politica. Infatti il privato ha certo il diritto di difendere se stesso e i propri beni, come si è detto; ma non ha il diritto di vendi~ care le offese e neppure di reclamare, dopo che è trascor· so un certo lasso di tempo, le cose rubate. È necessario che la difesa venga fatta contro un pericolo in atto - ossia, come dicono i giuristi, in continenti'. Pertanto, una volta passata la necessità della difesa, cessa anche, per un priva· to, la causa di guerra. Credo però che colui che è stato in· giustamente offeso possa restituire il colpo, sul momento, anche se l'aggressore non dovesse proseguire il suo attacco. Inoltre, per evitare la vergogna e il disonore, colui che, ad esempio, ha ricevuto uno schiaffo può rispondere sul momento con la spada, non per vendicarsi ma - come si è appunto detto - per evitare infamia e disonore. Ma la comunità politica ha l'autorità non solo di difendersi, sì anche di vendicare sé e i propri cittadini. E ciò è dimostrato dal fatto che, come dice Aristotde (Politica li), la comunità politica deve essere autosufficien· te. Ma non potrebbe adeguatamente salvaguardare il bene pubblico se non potesse punire le offese e prendere misure contro i nemici. I quali diventerebbero ancora più pronti al male e più audaci alle offese, se potessero agire impunemente. È quindi necessario, per un ade· guato governo delle faccende morali, che questa autorità sia concessa alla comunità politica. 3. Terza tesi: I principi hanno a questo riguardo la medesima autorità che ha una comunità politica Questo è espressamente il parere di Agostino (Con· tra Faustum XXII, 75): egli afferma che
Et catione probatur, quia princeps non est nisi ex electione rei publicae. Ergo gerit vicem et auctoritatem
illius. Immo iam ubi sunt legitimi principes, tota auctoritas residet circa ilIos, nec sine illis aliquid aut bello aut pace geri potest. <Sed tota difficultas est, quid sit res publica et qui-s- proprie dicatur princeps.> Ad hoc breviter respondetur, quod res publica proprie vocatur perfecta communitas. Sed hoc ipsum est dublUm, quae sU perfecta communitas.
. E ciò è anche dimostrato dalla ragione, poiché un prinCIpe rrae la propria origine solo da una scelta della comunità politica. E quindi fa le veci di quella, e agisce in nome della sua autorità. Anzi, dove già ci sono principi legittimi, l'autorità si trova interamente presso di loro, né senza
di loro si può condurre alcun affare di guerra o di pace. Ma tutta la difficoltà sta nella questione: che cosa sia 'comunità politica', e chi ne possa essere detto propria-
mente 'principe'. A ciò in breve si risponde che la comunità politica è propriamente defmita comunità perfetta. Ma proprio questo è l'oggetto del dubbio, cioè quale sia la comunità perfetta.
Pro quo notandum, quod perfectum est, cui nihi! deest, et imperfectum, cui aliquid deest; quod totum est pecfectum quid. Est ergo perfecta co~munitas aut res publica, quae est per se unuro totum, m qua n~n est al-
terius rei publicae pars, sed quae habet propnas leges, proprium concilium et proprios magistratus, quale est
regnum Castellae und Aragoniae et alli similes.
A tal fine si noti che perfetto è ciò a cui nulla manca
e imperfetto ciò a cui manca qualcosa; poiché una tota~
lità è qualcosa di perfetto. Quindi è una comunità politica, o una comunità perfetta, quella che è in se stessa un'unità e una totalità, ossia che non ha in sé alcuna parte di un'altra comunità politica ma ha invece proprie leggi, un proprio consiglio e proprie magistrature, come ad esem-
pio i regni di Castiglia e Aragona, e altri simili. ec enim obstat, quin sint plures principatus et res
publicae perfecrae sub uno principe. Talis ~rgo res publica aut princeps illius habet banc auctorltatem. Sed hoc ex ipso dubitari merito potest, an si plures huiusmodi res publicae habeant unum communem domlnuro aut principem, an possint inferre bellum per se Slne auctoritate principis superioris.
E nulla asta a che esistano parecchi principati e co-
munità politiche perfette SOtto un unico principe. Tali comunità politiche, o i loro principi, hanno l'autorità di
dichiarare la guerra. Ma a tale riguardo si può giustamente avere i! dubbio se parecchie comunità politiche
sufficiens nec tamen sufficeret sibi sioe ista libertate et
slffatte, che hanno un signore o un principe comune abbiano in se stesse il diritto di fare la guerra senza l'au~ torizzazione del principe superiore. E ~ispondo che certamente la possono fare, proprio c?me I re, che sono soggetti all'Imperatore, possono farSI guerra tra loro, senza attendere l'autorizzazione dell'Lmperatore. Poiché, come si è già detto, una comunità politica deve essere sufficiente a se stessa, e, priva di ta-
facultate.
le libertà e facoltà, non lo sarebbe.
Ad quod respondetur, quod sine dubio possunt, ut reges, qui sunt subiecti imperato,ri, pos~un~ ~vicem belligerare non exspectata auctorlt~te pnnclpl~ ~upe
rioris, quia, ut dictum est, res publica debet slbl esse
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Ex quibus sequitut, quod alli teguli seu ptinci~, qui non praesunt rei publicae, non possunt bellum mferre aut gerere, quernadmodum dux A1banus aut comes Beneventanus. Sunt enim panes regro Castellae et per consequens non babent perfectas res publi~as, sed truncatas. Sed est notandum, quod curo haec smt ma803 ex parre aut iure genti~ aut h~ano. c.onsuer~d? potest dare facultatem belli gerendl. Unde SI quae CtV!ras aut princeps ohtinuit antiqua consuetudme 1US. ge~ rendi per se be1lum, non est ei neganda haec auctorttas, etiam si alias non esser res publica perfecta.
Da ciò consegue che gli altri principi di rango minore, ossia i principi che non sono a capo di una comunità politica, non possono dichiarare e condurre la guerra,
proprio come il duca d'Alba o il conte di Benevento. Infatti, sono parte de! regno di Castiglia e di conseguenza sono a capo di comunità politiche non perferre ma mao. che. Ma si noti che, poiché questa materia è in gran parte regolata o dal dirino delle genti o da un diritto umano, la consuetudine può dare loro la facoltà di fare la guerra. E quindi, se una qualche città oppure un pelo. cipe hanno ottenuto per antica consuetudine il diritto di condurre autonomamente la guerra. non deve essere
loro negata questa facoltà, anche se da altri punti di vi. sta non costituiscono una comunità politica perfetta.
Item etiam necessitas hanc licentiam et auetoritatem concedere posset. Si enim in eodem regno una civitas aliam oppugoatet ve! aliquis ex ducibus et rex negligeret aut non auderer vrndlcare ~~u· rias illatas, posset civitas aut dux, qui passus es.t tmu-
riam non salurn se defendere, sed eriaro bellum mferre et a~imadvertere in hostes et malefactores et eriam ~c cidere nisi defendere commode se posset. Non enJm hostes' abstinerent se ab iniuria, si illi. qui passi sunt iniuriam contenti essent solum defendendo se. Qua raciane co~ceditur eriaro privato homini, quod possit dicare inimicuro, si aliter non patet ei via se defendendl ab iniuria. Haec sinr satis de bac quaestione.
vin:
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Inoltre, anche lo stato di necessità potrebbe concedere questo permesso e questa facoltà. Se infatti all'interno dd medesimo regno una città ne assalisse un' altra, o uno dei duchi assalisse un altro duca, e il re trascurasse di punire le aggressioni, o non osasse farlo, la città o il duca che hanno patito l'offesa potrebbero non solo difendersi ma anche fare guerra e prendere misure cont.ro i nemici e gli ingiusti offensori, e anche ucciderli, se non fossero praticabili altre vie per difendersi. Infatti i nemi. ci non desisterebbero dall'aggressione se coloro che ne sono vittime si limitassero a difendersi. Per lo stesso motivo è lecito anche ad un privato punire il nemico, se non ha un'altra via per difendersi da un'offesa. E ciò basti, su questa questione.
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Quaestio tertia
Ter7..a quesùone
Quae po sit esse ratio et causa belli
Quali possano essere la ragione e la causa eli una guerra
l. 2.
Causa iusti belli non est diversitas religionis. 00 est iusta causa belli amplificatio imperli.
1. 2.
La differenza di religione non è causa di guerra giusta. L'ingrandimento del dominio politico non è giusta causa di guerra.
3.
3.
4.
Non est iusr.a causa belli gloria propria aut aliud commodum principis. Una sola est causa iusti belli, scilicet iniuria accepta.
4.
5.
on quae1ibet et quanr.avis iniuria sufficit ad inferendum
5.
La gloria personale dd principe, o un altro suo vantaggio, non è giusta causa di guerra. Una soltanto è la causa di una guerra giusta, cioè aver ricevuto un'offesa. Non un'offesa qualsiasi, né di qualsivoglia entità, è sufficiente a dare inizio a una guerra.
bellum. Quae quaestio magis conducit ad hanc disputationem barbarorum. 1. Pro qua sit prima propositio: Causo iusti belli non est diverritar religionis. Haec probata est prol.ixe in proxima relectione, ubi impugnamus quartum titulum, qui praetendi posset ad possessionern barbarorum, quia scilicet nolunt recipere fidem Christianam. Et est sententia sancti Thomae IIII, q. 66, a. 8 et sententia communis doctorum, et nescio aliquem, qui conrrarium sentiat.
Tale questione tocca più da vicino la presente controversia sui barbari. 1. A questo proposito, la prima tesi è questa: /o differen1.ll di religione non è causa di gue"a giusta. Ciò è stato distesamente dimostrato nella precedenle dissertazione (De Indz:r), dove impugniamo il quarto titolo ID base al quale si potrebbe pretendere la conquista dei barbari, che cioè non vogliono accogliere la fede cristiana. E questa è anche l'opinione di san Tommaso (Ilo Iloe, LXVI, 8), nonché opinione diffusa dei dottori; e non conosco chi pensi in modo contrario.
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2. Secunda propositio: Non est iusta causa belli amplifi. calia imperii. . .' Et haec ex se notior est, quam ur probatlone mdlgeat, quia alias esser acque. lusta causa ~x utr~que pane, et sic essent omnes LOnoc~tes. Mi~abile ~t. Ex qua iteruro sequitur. quod non licer ~cldere illos, et
b:lli
2. Seconda tesi: J.;ingrandimento del dominio politù:o non è giusta causa di guerra Ciò è di per sé troppo noto perché ci sia bisogno di dimostrarlo; in caso contrario, infatti, entrambi i con~ tendenti avrebbero ugualmente una giusta causa di guerra, e così sarebbero tutti innocenti. Che cosa stu-
implicar eontradictionem, quod esser IUstum bellum et non liceret occidere illos.
pefacente! E ne consegue poi che non sarebbe lecito uccidere il nemico, il che implica contraddizione perché si
ec etiam est iusta. causa belli gi<>ria propria aut aliud commodum prmaplS.
3. Terza tesi: non è giusta causa di guerra neppure la gi<>ria personale del pn'ncipe, o un altro suo vantaggio. Anche ciò è evidente: infatti il principe deve indirizzare la guerra e la pace al bene comune della comunità
3. Tertia propositio:
Haec etiam patet. Nam princeps debet et bellum et pacern ordinare ad bon~ commune rei publicae nec publicos redditus propna glorIa aut commodo erogare et multo minus cives suos penculis exponere. Hoc erum interest imcr regem legitimum et ryrannum. aro tyrannus ordinar regimen ad proprium quaestu~ et (000modum, rex autem legitimus ad bonum publicum, ut tradit Aristoteles 4 Politicorum, c. lO. Itern habet auclOritatem a re publica. Ergo debet uti illa auetoritate in bonum rei publicae. Itern leges debent esse nullo privato commodo, sed pro communi uwitate
civi~m conscnp(ae~ ur habetu~
d. 4, c. Erit autem lex (ex ISldoro). Ergo ellam lex bell, debet esse communi utilitate, et non propria pnnclpls.
tratterebbe di una guerra giusta e al contempo non sarebbe lecito uccidere i nemici.
politica, e non può spendere le pubbliche entrate, e tan-
to meno esporre al pericolo i propri cilladini, per la propria gloria e il proprio vantaggio. Infarti, questa è la differenza che intercorre fra un re legittimo e un tiranno:
questi orienta il governo al proprio guadagno e vantaggio, mentre quello lo rivolge al pubblico bene, come di· ce Aristotele (Politica IV, lO). Inoltre, il principe trae la propria autorità dalla comunità politica, e quindi deve servirsene per il bene di questa.
Allo stesso modo, le leggi debbono essere infonnate «non al vantaggio di alcun privato ma alla utilità comune dei cilladini» (Isidoro, Etymologiae' , in Decretum Cratiani II, 4, 2: Erit autem lex). Quindi anche la legge della guerra deve essere rivolta all'utile comune, e non
!tem in hoc differunt liberi a servis, quia domini utuntur servis ad propriam utilitatem et non ad utilitatem servorum. Liberi autem sunt propter se
a quello del principe. Inoltre. gli uomini liberi sono diversi dagli schiavi perché i padroni si servono degli schiavi per l'utilità pro-
solos, non propter alios. Unde quod principes abu·
pria e non per la loro; mentre invece gli uomini liberi non esistono per altri, ma per sé. Di conseguenza, che i prin-
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tamur civibus cogendo eos militare et pecuniam in bel~ lo conferre non pro publico bono, sed pro privato commodo, est cives servos facere.
4. Quarta propositio: Una solo C/Jusa iusli belli esi, scilicet iniuria accepta. Haec probatur primo ex auctoritate Augustini (libro LXXX1Il quaeslionum) dicenris hoc manifeste. Et est determinatio sancri Thomae II-II, q. 40, a. 1 et omnium doctorum.
Et ratione probatur, quod bellum offensivum est ad vindicandam iniuriam, ut dicrurn est. Se
Et confirmatur, ut supra dicrurn est, ex Paulo (Rom 13,4) de principe: Non sine C/Jusa glodium porlal. Mim· s/er enim Dei est vindex in iram ei qui male agito Ex qua constat, quod adversus eos, qui nobis non nocent, non
licet ita gladio uti su per eos, cum occidere innocentes prohibirum sit iure naturali. Omitto autem, si fort Deus aliud praeciperet; ipse enim est dominus vitae el
mortis er posset pro suo libito aliter disponere.
cipi abusino dei cittadini, costringendoli a prestare il ser-
VIZl~ militare e a ~ontribuire con denaro alla guerra, non per il bene pubblico ma per il loro vantaggio privato signi1ìca che trasformano i cittadini in schiavi. ' 4. Q~a~a tesi: una soltanto è la ClJusa di una gue"a giu+ slal ct.?e..aver ncevuto un'offesa. . CIO e provato in primo luogo dall'autorità di Agostino (Liber 1.J!-XX11I quaeslionum)2, che lo dice espressamente. Ed e .Ia poSIZIone di san Tommaso (I/o lIae, XL, 1) e dI tUtti I dottori. E anche la ragione lo dimostra, perché la guerra offenSIva, come SI è detto, è rivolta a vendicare
le offese
Ma non può esserCI. ven d etta se pnrna . non CI. sono le colpa e offesa. Pertanto, la tesi è dimostrata. ln?ltre,
~ principe non ha sugli stranieri un'autorità
maggIOre di quella che ha sui propri sudditi. Ma contro Uesu n~n ~uò impugnare la spada, se non arrecano of~ esa. Q~~dl neppure lo può COntro gli stranieri. E CtO ~ confermato da quanto in precedenza si è riportato di Paolo sul potere del principe (Rom 13, 4): .non per nulla porta la spada. Essendo ministro di Dio, pUnIsce ch, opera il male». Da ciò risulta che non è leCU? m;pu~are le ~~i COntro chi non ci arreca danno, I>OIche UCCIdere g~. mnocenti è proibito dalla legge nalurale: TralaSCIO l'POlesi che Dio eventualmente comand, m modo speciale qualcosa d'altro; Egli è infatti sIgnore della vita e della morte, e potrebbe a Suo arbi-
t
lno disporre altrimenti.
5. Quinta propositio: Non quaelibel el quanlavis iniurlO sufficit ad inferendum bellum. Haec probatur, quia nec etiam in saeculares et
naturales et populares licet pro quacumque culpa poenas atroces inferre, ut mortem aut ex~ium <~ut
.
sta~
5. Q~in.ta tesi:non un'offesa qualsiasi, né di qualsivoglùJ entlt~: ~ su,/ficzente a dare inizio a una guerra. CIO e dunostrato dal fatto che anche COntro i civili i connazionali e i citt~dini di condizione popolare, n~n possono essere applicate per quaJsiasi colpa pene dure
confiscationem bonomm. Cum ergo quae m bello geo
come la marre, "esilio e la confisca dei beni. E poiché
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runtur omnia sint gravia et atrocia, ut caedes,> incendia , v~tationes etc., <non licet pro levibus iniuriis bello pe.rsequi auctores iniuriarum,> quia iuxto mensurom
delieli debel esse plagarum modus (DI 25, 2). sed secundum gravitatem delietorum. Ergo non pro quacumque culpa ve! iniutia licer inferti bellum. Et haec satis de ista quaestione_
luttO. ciò che si ~a ~ guerra è grave e duro _ stragi, incendi, d~a..stazlont -) non è lecito perseguire COn la
:"1
guerra e responsabile di offese lievi, dato che «la modalita delle punizioni deve essere giustamente commisurata al d~tto» (DI 25,2). ma lo si deve punire secondo la gravita della sua colpa. Quindi, non è lecito fare la gu~r:a per punire ogni tipo di colpa o di offesa_ E
CIO
e sufficiente per questa questione.
Quarta questione
Quaestio quarta
I parte
I pan;
Quid et quan~ liceat in bello IUstO
. f e necessaria sunt ad l bello iusto licet aroma acere, qua . bI·· 1. n . d defensionem bom pu ICI. bonum publicum et a rrutaS vd pre· bello iusto etiam licet recuperare res pe
2. In
tium illarum. .' im nsam belli et omLicer occupare ex boOl~ ~osu~ pe 3. nia damna ab hostibus tnlUste illata.
. . beIl' . uae sunt necessaria ad Potest princeps IUSU I o.roma, q h ·b . d et securllatem ex oso uso . haben .u~ pac~.. b hostibus acceptam et pUnire 5. Licet vtndicare U1Iodu~~~. illos pro huiu~m i Imuros. d bellum iustum sufficiat. 6 Primum dublUffi, utruffi a . . utet se habere iustam causam. quod prmceps ~ t an subditi teneantur examinarc 7. Secundum dublU~ es , ilitare nulla diligentia super hacr causam vel an possmt m
4
Q ·d f . nduro --t cum iusta cau adhibita. - d b' t· U1 aCle . . ." , 8. Terubellum ub.lu: ~~ est cum ex utraque parte sunt f"J, t sa I d Ula . . .". bbi1;> tiones apparen.tes et pro a ~it esse bellum iustum ex 9. Quartum dublum est, an pos utraque parte.. ui ex ignorantia secutUS t 10. Quintum dublUm,. utrum q . . . de iniustitia bel bellum iniustum, SI postea consment et
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Che cosa sia lecito in una guerra giusta, e in quale mi ura
In una guerra giusta è lecito fare tuttO ciò che è necessario per il pubblico bene e la sua difesa. 2. In una guerra giusta è lecito inoltre recuperare tutte le cose sottratte, o il loro controvalore. 3. lo una guerra giusta è lecito rivalersi, sui beni dei nemi1.
ci, delle spese di guerra e di tutti i danni ingiustamente arrecati dai nemici. 4. li principe che conduce una guerra giusta può fare tutto ciò che è necessario per ottenere pace e sicurezza dai nemici. S. È lecito punire il torto ricevuto dai nemici, e punirli per offese di questo tipo. 6. Primo dubbio: se a rendere giusta la guerra sia sufficiente che il principe creda di avere una giusta causa. 7. Il secondo dubbio è se i sudditi siano tenuti a esaminare la causa della guerra, o se possano prendere le armi senza farsene un problema. 8. II ter.lO dubbio è su che cosa si debba fare quando la giustizia della causa della guerra è dubbia, cioè quando da entrambe le parti ci sono ragioni verosimili e ammissibili. 9. li quano dubbio è se possa esistere una guerra giusta da entrambe le pani. IO. il quinto dubbio è se chi - si tratti dd principe o dd sud· dito - per sua ignoranza ha partecipato ad una guerra
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I
li, utrum teneatur restituere - sive loquamur de principe, sive de subdi[Q.
giusta si accorge in segujto delJa sua ingiustizia sia tenuto a restitujee ciò che ha preso.
l. Pro qua sit prima propositio: In bello iusto licet om-
1. La prima tesi al riguardo è: in una guerra giusta è le. cito fare tutto ciò che è necessano al pubblico bene e alla
nia facere, quae necessaria sunt ad bonum publicum et ad de/ensionem boni publici. Haec nota est, cum ilIe sit fmis belli defendere et conservare rero publicam. Item haec licent hominibus privatis, ut probatum est - ergo multo magis publico et principi. 2. Secunda propositio: In bello iusto etiam licet recupe-
rare res perditas vel pretium illarum ad unguem. Haec enim nocior est, quam ur indigeat probacione. Ad hoc enim ve! infertur ve! suscipitur bellum. 3. Tertia propositio: Licet occupare ex bonis hostzbur im-
penram belli et omnia damna ab hortibur iniurte illata. Haec patet, quia ad omnia haec tenentur hosres, qui iniuriam fecerunt. Ergo principes possunt omnia illa ac· cipere et bello exigere.
sua d/fera.
È una tesi già nota, dato che il fine della guerra è difendere e conservare la comunità politica. E ciò è parimenti lecito ai privati, come si è dimostrato. E quindi a maggior ragione è lecito a una persona pubblica e al prmclpe. 2. Seconda tesi: in una guerra giusta è leàto inoltre recuperare tutte le cose sottratte o il loro controvalore preàso. Anche questa è troppo nota per aver bisogno di di. mostrazione. È infatti questo il motivo per cui viene intrapresa o iniziata una guerra. 3. Terza tesi: in una guerra giusta è lea'to rivalers~ sui be. l
ni dei nemia: delle spese di guerra e di tutti i danni il:. giustamente arrecati dai nemici.
Item, ut dicebamus, licet homini privato, cum onn potest alia via, occupare Offine debitum a debitore - Cf go etiam principi.
E ciò è chiaro, perché i nemici che hanno commesso ingiustizia sono tenuti a tutto questo. Quindi i principi possono prendersi tutte queste cose, ed esigerle con la guerra. Inoltre, se ci fosse un giudice legittimo sopra entrambe le parti belligeranti potrebbe condannare gli ingiusti aggressori, responsabili della guerra, non solo a restitui. re le cose sottratte ma anche a rifondere le spese di guerra e tutti i danni. Ma il principe che conduce una guerra giusta ha come giudice se stesso, per le cose che riguar. dano quella guerra, come si è appena detto. E quindi può anch'egli esigere dai nemici tutte le riparazioni. E ancora, come dicevamo, è lecito a un privato, quando non può fare altrimenti. impossessarsi di tutto ciò che il debitore gli deve. E quindi è lecito anche al principe.
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ltem si quis esser legitimus iudex utriusque partis ge rentis bellum, potesr condemnare iniustos aggressore. et a-u-crores belli, non salurn ad restituendas res abla tas, sed etiam ad resarciendum impensam belli et omnill damna. Sed princeps, qui getit iustum beUum, habet _ in casu belli tanquam iudex, ut statim dicemus. Er~n etiam ilIe potest omnia illa ab hostibus exigere.
4. Quana propositio: Potest enim princeps iusti beLli om· niol quae sunI necessaria ad habendam pocem et securila/cm ex hostibus, pula diruere orcem et a/ia amnio, quae
4. Quana tesi: il principe che conduce una guerra giusta può fare tutto ciò che è necessario per ottenere pace e sicu-
ad hoc exspeclant. Probatur, quia, ut supta diximus, finis belli est pax. Ergo gerenti bellum licenr aronia, quae necessaria sunt
re tutte le altre cose che banno ottinenlJl con questo fine. Lo dimostra il fatto che, come si è detto, il fine della guerta è la pace. E quindi a chi f.la guerta sono lecite tU[-
ad securitatem et pacern.
te le cose che sono necessarie alla sicurezza e alla pace.
Item tranquillitas et pax computanrur imer bona humana. Unde nec summa etiam bona fadunt statum feli· cem sioe securitate. Ergo hostibus rurbantibus tran-
Inoltre, la tranquillità e la pace sono annoverate fta i beni dell'uomo; quindi, neppure i beni più alti rendono
r/!Wl
dai nemici, ad esempio distruggere una fortev.a efa·
quillitatern rei publicae llcer vindictam sumere ab illis
una situazione felice, se non c'è la sicurezza. Perciò è le· cito punirei con mezzi appropriati, i nemici che disturba-
cito fare tutto ciò contro i nemici interni, ossia contro i cattivi cittadini: quindi, anche contro i nemici esterni. Il presupposto è evidente: se qualcuno in una comunità politica fa ingiustizia a un cittadino. il magistrato non solo
etiam si rimetur ab ilio, cogitue dare fideiussores aut re· cedere a civitate, ita ut vicetur periculurn ab ilio.
obbliga l'autore dell'offesa a tendere soddisfazione alla pane lesa; ma, se vi è motivo di non fidarsene,lo costrin·
no la tranquillità della comunità politica. Parimenti, è le-
ge anche a presentare un mallevadore, o ad allontanarsi Ex quibus patet, quod parta victoria et recuperatis rebus licet ab hostibus exigere obsides, naves, arma et alia, quae sine fraude et dolo necessaria sunt ad reti·
nendum bostes in officio et vitandum ab illis pericu· lum.> 5. Quinta propositio: Nec tantum hoc licet in bello iusto, sed babita vieloria el recuperatis rebus et pace eliam el se· curitate habita licet vindicare iniuriam ab hostibus accep· tam et punire illos pro huiusmodi iniuriis.
dalla città, pet eliminare il pericolo che da lui deriva. Da ciò risulta evidente che, una volta raggiunta la vittoria e recuperati i beni, è lecito esigere dal nemico ostaggi, navi , armi, e le altre cose che sono necessarie
- in buona fede e senza animo fraudolento - a far sì che i nemici osservino i propri doveri, e ad evitare che sia· no ancora pericolosi. 5. Quinta tesi; non solo in una guerra giusto sono lecite
tutte queste cose, ma - una volta ottenuto lo vittorio, re·
Pto cwus ptobatione notandum, quod ptinceps non
cuperati i beni, stabilita /o pace e anche /o sicur/!Wl - è lecito punire il lorto ricevuto dai nemict~ e punirii per offese di questo tipo. Per dimostrare ciò si deve notare che il principe ha
tantum habet auctoritatem in suos, sed etiam in extra· neos ad coercendum illos, ut abstineant se ab iniuriis, et
autorità non soltanto sui propri sudditi, ma anche sugli stranieri, per costringerli ad astenersi dalle offese; e ciò
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Et primum non tol1itur ignominia et dedecus rei publicae profligatis tantum hosdbus, sed etiam securitate poenae afflictis et castigatis. Princeps autem
avviene secondo il dirino delle genti, e con l'au(Qrizzazione di tutto il mondo. Quindi sembra che ciò valga anche secondo il diritto naturale, poiché pare che il mondo non potrebbe sussistere altrimenti, se qualcuno non detenesse la forza e l'autorità di minacciare i malvagi affinché non nuocciano ai buoni. Del resto, ciò che è necessario al governo e alla conservazione del mondo rientra nel diritto naturale. È questo l'unico modo attraverso il quale si può dimostrare che una comunità politica ha, in virtù del diritto naturale, l'autorità di menere a morte e punire i propri cittadini che le arrecano danno. E se una comunità politica può fare ciò conuo i propri cittadini, non v'è dubbio che il mondo possa farlo contro tutti gli uomini pericolosi; e ciò non è possibile se non attraverso i principi. Quindi certamente i principi possono punire i nemici che hanno recato offesa alla comunità politica; e soprattutto dopo che una guerra giusta è stata intrapresa secondo gli usi e secondo giustizia, i nemici si trovano assoggettati al principe giusto come al proprio giudice. E ciò è dimo· strato dal fatto che, in verità, né la pace né la tranquillità - i fini della guerra - possono essere ottenuti a1ui· menti che col colpire con punizioni dure e dolorose i nemici, che ne siano spaventati e ne vengano distolti dal commettere nuovamente tali delitti. E ciò è dimostrato e confermato anche dall'autorità dei buoni, come si è già detto a proposito dei Maccabei, che hanno fatto guerre non solo per recuperare le cose che avevano perduro ma anche per punire le offese ricevute. E la stessa cosa hanno fatto anche principi cristianissimi. Inoltre, non si cancellano la vergogna e il disonore della comunità politica solo con lo sconfiggere i nemici, che devono anche essere puniti e castigati da una sanzione
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hoc iure gentium er orbis totius aucroritate. !mmo viderur, quod etiam iure naturali, quia videtur, quod aliter orbis stare non posset, nisi esset penes aliquos vis et auctoritas deterrendi improbos, ne bonis noceant. Ea aUlem, quae necessaria sunt ad gubemationem et conservationem orbis, sunt de iure narurali. ec alia ratione probari potest, quod res publica iure naturali habeat auetoritatem afficiendi supplicio et poenis cives suos, qui sunt rei publicae perniciosi. Quodsi res publica hoc potest in suos, haud dubium, quin hoc possit orbis in quoscumque perniciosos homines, et hoc non nisi per principes. Ergo sine dubio principes possunt puni· re hostes, qui iniuriam fecernot rei publicae; et omnino postquam bellum rite et iuste susceptum est, hostes obnom sunt principi tanquam iudici proprio. <Et confLrmatur haec. Quia revera nec pax nec tranquillitas, quae est fmis belli, aliter haberi potest, nisi hostes malis et damnis afficiantur, quibus deterreantur, ne iterum aliquid tale comminane>
Et etiam probatur et confinnatur auctocitate bonorum, ut supra dictum est de Machabaeis, qui gesserunt bella non solum ad recuperandas res amissas, sed eriam ad vindicandas iniurias. Et idem fecerunt christianissi. . . mi prmclpes.
sed
publicae defendere haberur.
certa. E il principe non deve difendere solo le altre cose, ma anche l'onore e il prestigio della comunità politica.
6. Sed ex omnibus supra dictis oriunrur multa dubia. Primum est circa iustitiam belli, utrum vide/icet ad bellum iustum su/fidat, quod princeps putet se habere iustam causam. Ad hoc sit prima propositio: on satis est hoc semper. Probatur primo, quia in aliis minoribus causis ve1
6. Ma da tutto ciò che è stato detto nascono molti dubbi. Il primo riguarda la giustizia della guerra, se cioè a rendere giusta la gue"a sia su/fidente che il prindpe creda di avere una giusla causa. A questo dubbio, rispondo con questa lesi: non sempre dò è su//idente. E lo dirnosrra, in primo luogo, il fatto che in altre cau-
negotiis non sufficit principibus ve1 privatis, quod credant se iuste agere, ut notum est. Possunt enim vincibititer errare et affectate. Et ad acrum bonum non sufficit sententia cuiuscumque, sed requiritur sententia sapientis, ut patet 2 Ethicorum.
Item sequitur alias, quod essent bella iusta ex utra-
se minori non è sufficiente- com'è noto - né ai principi né ai privati credere di essere dalla parte dd giusto: possono infatti errare, per loro colpa e a causa delle loro passioni. E per giudicare buona un'azione non basta il pareredi uno qualsiasi, ma si deve ricorrere all'opinione del sapiente, come sta scritto (Aristotde, Etica II, 6). Inoltre, in caso contrario ne conseguirebbe che ci sa-
que parte. Communiter enim non contingit, quod prin·
rebbero guerre giuste da enttambe le parti. Infatti, di so-
cipes gerant bellum mala fide, sed unusquisque putat se habere iustitiam in alium. Et sic omnes bcllantes essent
lito non càpita che i principi facciano guerra in malafede, ma anzi ciascuno crede di essere nel giusto rispetto
innocentes, et per consequens neutri exercirui liceret occidere alium ex altero exercitu. Et etiam alias Turcae
all'altro. E così rurti i belligeranti sarebbero senza colpa, e di conseguenza a nessuno dei due eserciti sarebbe leci·
et Saraceni gererent iusta bella adversus Christianos.
to uccidere qualcuno dell'altro esercito. E così anche le
Putant enim obsequium praestare Dea.
guerre dei Turchi e dei Saraceni contro i Cristiani sareb-
non solum res alias,
honorem et auetorit3tem rei
Omnia enim sapientem, ut ai! comicus, verbis prius experiri aportet quam armis. Et oportet consulere probos et sapientes viros et qui cum libertate Cl sine ira aut odio loquantur. Haec propositio mani festa est.
bero giuste: infarti credono di obbedire a Dio. Seconda tesi: perché una guerra sia giusta è necessano molla attenzione neil'esaminare le cause della guerra, e ascoltare le ragioni degli avversari, se questi vogliono discutere della giustizia e delw bontà delle cause di guerra. [j commediografo dice infatti: «è bene che il sapiente faccia ogni tentativo con le parole, prima di passare alle nrmi»'. Ed è bene chiedere il consiglio cli uomini onesti e sapienti, che parlino in libertà, e senza ira né odio. Questa lesi è evidente. Infarti, dato che nelle questioni morali è
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Secunda propositio: Oportet ad iustum beltum ma gna diligenlia eXilminare causas belli el audire raliones adversan'orum, si ve/int ex aequo el bono disceplare.
verum et iustum attingere, si negligenter ista tracten· tur, facile errabitur, nec talis error excusahit auctores maxime in re tanta et uhi agitur de periculo et calamitate multorum, qui tandem sunt proximi et quos diIigere tenemur sicut nos ipsos.> 7. Secundum duhium est, on subditi teneontur exomi· nore causam vei an possint militare nulla diligentia super
hoc adhibita, quemadmodum liclores exequi possunl sententiam iudicis sine olia examinatione. De hac quaestione sit prima propositio: Si subdilo constat de iniustitia belll~ non licet ei militare etiam de
praeceplo principis. Patet, quia non licet interficere innocentem in nullo casu quacumque auctoritate. Sed hostes sunt innocentes in casu. Ergo non !icet interficere illos. ltem principes peccant inferendo bellum in ilio casll. Sed non salurn, qui male agunt, sed qui consentiunt, digni suni morle (Ram 1,32). Ergo milites etiam mala fide pugnantes non excusantur. Item non !icet interfice· re cives proprios mandato principis - ergo nec extra· neos. Ex quo sequitur corollarium, quod etiom si subditi
habeanl conscienliam de iniusla causa belli, non licei illis sequi bellum - sive errent, sive non. Patet, quia omne, quod non est ex /tde, peccatum est (Rom 14,23). Secunda propositio: Senatores et duces, breviter om· nes, qui admittuntur ad consilium publicum vel principis, debent et tenentur examinare causam iusti belli.
Patet haec, quia quicumque potest impedire pericll
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difficile attingere il vero e il giusto, se queste discussioni vengono condotte con negligenza sarà facile cadere in errore; e gli autori non potranno esserne scusati - soprattutto data l'imponanza ddJ'argornento, che implica pericolo e calamità per molti uomini, che infine sono il nostro prossimo, e che dobbiamo amare come noi stessi. 7. Il secondo dubbio è se i sudditi siano tenuti a esaminare la causa della gue"a, o se possano prendere le armi senza farsene un problema, come i littori possono dare esecu· zione alle sentenze del giudice sen1.ll più esaminarle. lntorno a questo dubbio la prima tesi è questa: se il suddito è certo che la guerra è ingiusta non gli è lecito
prendere le armI; nemmeno se il principe glielo comanda. E ciò deriva con chiarezza dal fatto che non è lecito uccidere un innocente, qualunque sia l'autorità che lo ordina. Ma in questo caso i nemici sono innocenti. E dunque non è lecito ucciderli. Inoltre! i principi! in quel caso, peccano se dichiara· no guerra. Ma «non solo quelli che fanno il male! sì anche quelli che vi consentono, sono degni di morte» (Rom 1,32). Quindi, anche i soldati che combattono in mala fede non sono innocenti. Parimenti, non è lecito uccidere i propri cittadini per semplice ordine del principe; e quindi neppure gli estranei. Ne segue come corollario che anche i sudditl~ quan· do hanno certezza che la guerra è ingiusta~ non possono prendervi parte, che si sbaglino o no. E ciò è chiaro perché «ciò che non procede dalla fede è peccato» (Ram 14, 23). Seconda tesi: i senatori e i comandantt: e in breve tut-
li colora che sano ammessi al consiglia pubblico a al consiglio del principe, sono strettamente tenuti a esaminare la causa di una gue"a giusta. E ciò è chiaro, dato che chiunque possa impedire il
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lum et damnum proximorum, tenetur. maxime ubi de causa mortis agitur et maiorum malorum. quale est in bello. Sed tales possunt consilio suo et auctoritate causas belli examinantes avertere bellum, si forte iniustum est. Ergo tenentur ad hoc. Item si negligentia istorum bellum iniustum gereretur, isti viderentur consentire. lmputarur enim alicui, quod potest et debet impedire, si non impediat. !tem, quia solus rex non sufficit ad examinandas causas iusti belli et potest errare magna cum pernicie multorum. Ergo non ex sola sententia regis, immo nec ex sententia paucorum, sed multorum sapientium debet geri bellum. Sit tenia propositio: Alii minores, qui non admittuntur nec audiuntur apud regem neque a consi/io publico, non tenentur examinare causas belh sed possunt credentes maioribus licite militare.
pericolo e il danno del prossimo, è obbligato a farlo, soprattutto quando si tratta di morte e dei più grandi mali, come appunto càpita in guerra. Ma costoro, con illoro consiglio e la loro autorità, esaminando le cause della guerra possono evitarla, nel caso sia ingiusta; e quindi sono tenuti a questo esame. Inoltre, se per negligenza di costoro si combattesse una guerra ingiusta, sembrerebbero aver dato il loro consenso. Chi può e deve impedire una certa cosa, infatri, ne è responsabile, se non l'impedisce. Ancora, non basta che il re da solo esamini le cause di una guerra giusta; può infatti sbagliarsi, con grande danno per molti. Quindi, la guerra deve essere decisa sulla base del parere non del solo re, né di pochi, ma di molti uomini sapienti. Terza tesi: la popolazione di rango inferiore, che non è né ammessa né ascoltata presso il re o presso il consiglio
pubblico, non è tenuta ad esaminare le cause della guerra, ma le è lecito prendere le armi sulla base della fiducia nelle autorità superiori.
Probatur primo. quia nec fieri potest nec expediret reddere rauonem negotiorum arduorum et publicorum omnibus de plebe. Item, quia homines inferioris condicionis et ordinis, etiam si intelligerent iniustitiam belli, non possunt prohibere et sententia eorum non audiretur. Ergo frustra examinarent causas belli. Non est dubiuffi. Quarta propositio: Nihilominus possent esse talia ar-
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Lo si dimostra in primo luogo col fatto che non è possibile né sarebbe opportuno rendere ragione a tutti i popolani di faccende difficili che riguardano la politica. Parimenti, uomini di condizione e ceto inferiore, anche se comprendessero l'ingiustizia ddla guerra, non potrebbero impedirla, e il loro parere non sarebbe ascoltato. Quindi esaminerebbero invano le cause della guerra. Su ciò non v'è dubbio. Inoltre, a uomini di tal sorta. se non hanno notizie certe in senso contrario, deve bastare come argomento a favore della giustizia della guerra il fatto che essa è decisa per autorità di un pubblico consiglio. E quindi non hanno bisogno di operare ulteriori esami. Quarta tesi: nondimeno, à possono essere tali dimo-
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gumenta et indidtJ de iniustitia bel/i, quod ignorantia non excusaret etiam huiusmodi aves et subditos militantes. Patet, quia posset esse ista ignorantia affectata et pravo studio adversus hostes concepra.
strazioni e indizi che lo guerra è ingiusta, che lo loro ignoran1,l1 non può essere scusata neppure nei cittadini di ceto basso e nei sudditi chiamati alle armi. E ciò è chiatO dal falla che lale ignoranza polrebbe
8. Tercium dubium esI: Quid faàendum est, cum iusta
essere artificiosa. e coltivata con volontà malvagia nei confronti dei nemici. Inoltre, in caso contrario gli infedeli sarebbetO scusati nd seguire i loro principi nelle guerre, e ai Cristiani non sarebbe lecilo colpirli a lotO volta, poiché è certo che quclli credono di avere una giusta causa di guerra. Allo stesso modo, in caso contrario sarebbero giustificati i soldati che crocifissero Gesù per ignoranza. obbedendo all'eelillo di Pilalo. E sarebbe giustificala anche il popolo ebraico, che persuaso dai suoi maggiorenti gridava: «prendilo, prendilo, crocifiggilo!» (Iov 19, 15). Ma tUlle quesle conseguenze non sono ammissibili. Quindi, la tesi è dimostrata. 8. li terzo dubbio è: che cosa si deve fare quando la giu-
causa belli dubia est, hoc est, cum ex utraque parte sunt
stizia della causa di guerra è dubbia, cioè quando da en-
rationes apparentes et probabiles? Ad quod sit prima proposicio: Quoad ipsos principes
trambe le parti ci sono ragioni verosimili e ammissibili? Su ciò questa è la prima tesi: per quanto riguardo i
videtur, quod si quis illorum est in legitima possessione,
prinai"; sembra che se qualcuno di loro esercita un legit-
quod manente dubio non possit alter bello repetere.
timo possesso, un altro non possa reclamarlo con la guer-
Exempli gratia, si rex Francorum est in legitima pos· sessione Burgundiae, etiam si est dubium, an habeat ius ad illam, non videtur, quod imperaror noster possit ar· mis repetere neque e contra rex Francorum.
ra, fin tanto che permangono dubbi. Ad esempio, se il re eli Francia è legiltimamenle in
Item alias infiddes excusarenlur in belJum sequen· res principes suos, et Christianis non ticeret illos reper· curere, quia cenum est, quod credunr se habere iusram causam belli. Irem, quod alias excusarentur milites, qui crucifixe· runt Christum ex ignorantia sequenres edictum Pilati. Iran excusaretur populus ludaeorum, qui persuasus a maioribus ciamabal: Tolle, tolle, crucifige eum (Io 19, 15)! Quae omnia non SunI concedenda. Ergo.
Haec probarur, quia in dubiis mdior est condicio possidentis. Ergo non liceI expoliare possessorem illum pro re dubia. Irem si res ageretur coram iudice legitimo, num-
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possesso deUa Borgogna, benché sia dubbio se ne abbia il clirillO, non sembra che il noslro Imperatore la possa reclamare con le armi; né, in caso contrario, lo potrebbe il re di Francia. Quesla lesi è dimoslrala dal falla che nei casi dubbi è favorila la siluazione di chi è già in possesso dd bene. E quineli non è lecilo privarlo di ciò che possiede, sulla base di un dubbio. Allo stesso modo. se il caso venisse trattato davanti a un 49
quam in re dubia spoliaret possessorem. Ergo dato, quod ille princeps, qui praerendit ius, sit iudex in illa causa, non potest spaliare lidre possessorem dubia ma· nente.
!tem in rebus et causis privarofum numquam in causa dubia licet spoliare possessorem <1egitimum> - ergo nec in causis principum. Leges enim sunt principum. Si ergo secundum leges humanas non licet spoliare possessarem , ergo merito patest obici principibus:
ltem alias esser bellum iustuffi ex utraque parte <etc., et bellum numquam componi posset. Si enim in
causa dubia licet uni armis repetere, ergo alteri defendere. Et postquam unus recuperasset, posset iterum alius reposcere, et sic numquam esser fmis bcllorum
cum pemicie et calamitate populorum.> Secunda propositio: Si civitas vel provincia, de qua dubitaluT, non hahet legilimum possessorem, ut si deser· ta essei morte legitimi domim: et dubitalur, an haerer SI/ rex Hispaniae aut rex Galiorum, nec potest certum scirJ~ videtw; quod si unus velit componere et divider<' et compensare pro parte, quod alter tenetur recipere con· dicionem, etiam si vi sit potentior et possit <armis> lo· tum occupare, nec haberet iustam causam belli.
giuclice legittimo, questi, in una faccenda dubbia non esproprierebbe il possessore. E quincli ammettendo'che il principe che rivendica il proprio cliritt;sia anchegiuclice in quella causa, egli non può legittimamente espropriare il possessore, fin tanto che permane un dubbio. , In.olt.r~, n~lle faccende e neUe cause fra privati non e mal lecltn, In una causa dubbia, espropriare illegit~o possessore. E dunque non si può neppure nei ca. SI dei principi, poiché le leggi sono fatte dai principi. Se. qumdJ se.cnndo le leggi umane non è lecito espropnare ch, gta ~nde del pos~esso, allora si può ben opporre al prtnCtpt il detto: «e ben chiara la legge che tu stess~ hat emanato!». Infatti, «il principio giuridico che aascuno ha stabilito per gli altri deve valere anche per lui stesSO»2. Parimenti, se così non fosse la guerra sarebbe giusta da entrambe le pani, e non potrebbe mai trovare una soluzione. Infatti, se in una causa dubbia fosse lecito a uno prendere le armi, lo sarebbe anche all'altro difendersi. E dopo che l'uno fosse venuto in possesso cii ciò che rivendicava, l'altro potrebbe nuovamente reclamar. lo per sé, e così le guerre non avrebbero mai fine con danno e calamità per i popoli. ' Seconda tesi: se la città o la provincia sulla quale c'è un dubbIO non ha un possessore legittimo - come ad esempio ~~ ~esta ~acante per la morte del signore legittimo - e ~l e znc~rtl se lo successione spetti al re di Spagna o al re d, Franaa, e non lo sipuò sapere con certezzo, sem-
bra conforme al diritto che, se uno dei due contendenti o[ Ire una compOSIZIOne con una spartizione e una equa compensazione, l'altro sia obbligato ad accettare queste con.
dizioni, anche se è più potente per forzfl militare e può occl~pare c~n le armi tutto il territorio; e che non abbia quin. dI una giusta causa di guerra.
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Probatur, quia alius non facit illi iniuriam m pari
causa pelendo aequalem panem. Item in privatis in re dubia non liceret totum occu. ... pare - ergo neque 111 caUSlS pnnclpum. Item esset bellum iustum ex utraque parte. Item iu·
stus iudex non totum alleri tribueret, sed dividere!. Ergo etc. Tertia propositio: Qui dubitat de iure suo, etiam si pacilice possideat, tenetur examinare causam diligenter et pactfice audire rationes alterius partis, siforte possit cer· tum scire pro se ve! pro alio.
Hacc probatur, quia alias non bona fide possideret, qui dubitans negligeret scire veritatem. ltem in causa matrimoniali. si quis etiam legitimus possessor incipit dubitare, utrum haec uxor sit sua nee· ne, certum est, quod tenetur rero examinare - ergo ea· dem ratione in allis causis. Item principes sunt iudices in propriis causis, quia
noo habent superiores. Sed cenum est, quod si quis cootra legitimum possessorem opponat aliquid, iudex tenetur examinare illudo Ergo etiam principes in re du· bia tenentur causam suam examinare. Quarta propositio: Examinoto causa, quontumdiu ra· tionobiliter perseverai dubium, legitimus possessor non tenetur cedere possessione, sed potest /icite retinere.
Lo dimostra il fano che il primo non reca offesa all'altro, chiedendo una pane uguale di un bene, in una causa in cui entrambi hanno uguali diritti. Parimenti. ndle cause &a privati non è lecito pren-
dersi l'intero bene, quando c'è un dubbio. E quindi noo lo è neppure nelle cause fra principi. Inoltre, in caso contrario la guerra sarebbe giusta da entrambe le pani. E, ancora, un giudice giusto non attribuirebbe per intero il bene conteso all'una o all'altra parte, ma lo dividerebbe. Quindi la tesi è dimostrata. Terza tesi: colui che dubita del propno diritto - anche se non esercita il dominio in seguito ad una gue"a - è tenuto ad esaminare diligentemente la questione, e a ascol·
tare pacificamente le ragioni dell'altra parle, per vedere se mai possa raggiungere una certezza, a favore proprio o dell'allro. Lo dimostra il fatto che, in caso contrario, colui il quale pur dubitando trascurasse di conoscere la verità non eserciterebbe il proprio dominio in buona fede. Allo stesso modo, in una causa matrimoniale se qualcuno, pur essendo legittimo titolare di un diritto. inizia
ad avere dubbi se una cena donna è sua moglie o 00, è certamente tenuto ad esaminare la cosa. E quindi. per la stessa ragione, si è tenuti anche in altre cause. Inoltre, i principi sono giudici nelle proprie cause, poiché non hanno autorità superiori. Ma è certo che, se
qualcuno eccepisce alcunché contro chi è titolare di un possesso legittimo, il giudice è obbligato a esaminarlo. Perciò anche i principi in un caso dubbio sono tenuti ad esaminare la propria causa. Quarta tesi: una volta che la questione sia stata esa-
minala, fino a quando permane un ragionevole dubbio il possessore legittimo non è obbligato a cedere ciò che possiede, ma può legittimamente conservarlo.
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Patet primo, quia iudex non tenet{ur}spoliare. Ergo nec ipse tenetur cedere - nec in toto nec in parte.
ltem in causa matrimoniali in re dubia non tenetur, ur habetur in c. Inqujsitjom~ De sententia excommum"· cationis, et in c. Dominus, De secundis nupliis, - ergo nec in allis causis. Et Adrianus expresse (in Quodlibelis, q. 2) tenet, quod dubitans licile pOIeSI rellnere rem pos-
sessam. Haec quoad principes in re dubia. Sed quoad subditos in dubio belli iusti Adrianus quidem (Quodlibelis, q. 2, ad primum argumenrum principale) dicit, quod subditus dubitans de iustiria belli <, id est, utruro causa, quae a1legaruf, sit sufficiens, ve! simpliciter, an subsit causa sufficiens ad indicenduro
bel1um>, non potest licite ad imperium superioris roili· tare. Quod probat, quia runc subditus non operatur ex fìde.ltem, quia exponit se periculo peccandi mortaliter. Idem videtur tenere Silvester (v. bellum I, S 9).
Sed sit quinta proposmo: Primo non est dubium
J
quin in bello delemivo liceal subditis in re dubia militare et sequi principem suum in bello, immo quod tenean-
lur sequi; sed eliam de bello offensivo. Probatur primo, quia princeps nec palese semper nec debet reddere rationes subditis. Et si subditi non
possent militare, nisi postquam scirem iustam causam belli, res publica periclitaretur vehementer <et patere· tuc iniurias hostium>.
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La tesi è chiara, in primo luogo perché il giudice non è tenuto all'esproprio. E quindi neppure il possessore è tenuto a cedere il possesso, né dci tutto né in parte. Ancbe in una causa di matrimonio, in caso di dubbio non si è tenuti a rinunciare al proprio dirittO (come si vede nel cap. Inquisitiom: De sententia excommunicationis e nel cap. Dominus, Desecundis nupliis). E quindi non si è tenuti neppure in cause d'altro tipo. E Adriano (Quodlibela 2) sostiene espressamente cbe colui cbe ha un dubbio «può lecitamente trattenere presso di sé la cosa posseduta»'. E questo è tuttO, per quanto riguarda i principi, in caso di dubbio. Ma per quanto riguarda i sudditi in caso di dubbio sulla guerra giusta proprio Adriano (Quodlibela 2, primo argomento principale) afferma cbe il suddito cbe dubita dcila giustizia della guerra - cbe è incerto, cioè, se la causa cbe viene addotta sia sufficiente, owero se semplicemente sussista una causa sufficiente a dichiarare la guerra - non può lecitamente prendere le armi al comando delle autorità superiori. E lo dimostra sostenendo cbe allora il suddito non agirebbe in buona fede; e ancbe cbe in tal modo si esporrebbe al pericolo di commettere peccato mortale. Della stessa opinione sembra Silvestro (voce bellum, l, § 9)4. Ma questa è la quinta tesi: in primo luogo, non c'è
dubbio che in una guerra difensiva sia lecilo ai sudditi in caso di dubbio prendere le armi e seguire il loro prinàpe in gue"a, e che anzi Sil1110 tenuti a seguirlo; ma ciò vale anche in una guerra offensiva. La si dimostra in primo luogo col fatto che il principe non può né deve sempre rendere ragione ai sudditi. E se i sudditi non potessero fare la guerra se non dopo avere conosciuto la giusta causa della guerra, la comunità politica sarebbe in grave pericolo, e soffrirebbe le offese dei nemici.
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!tem in dubiis tutiOt pars sequenda est. Sed si subditi in casu clubii non sequerenrur principem suuro, ex· ponunt se periculo prodendi hostibus rem publicam, quod multo peius est quam pugnare contra hostes cum dubio. Ergo debent potius pugnare. Item manifeste paret, quod lictar tenetur exequi sen· tentiam iudicis, etiam si dubitet, an sit iusta. Contra· rium est enim valde periculosum. Item aperte videtur hoc dicere Augustinus (Contra
Maniehaeos): Iustus si/orte etiam sub rege sacrilego militet, reete potest eo iubente belÙJre, si quod ei iubetur vel non esse contra Dei praeceptum (23, q. 1, c. Quid eulpatur). Ecce Augustinus expresse definivit, quod si non est certum, id est si dubium est, an sit conera Dei praeceptum, quod
subdito licitum est bellare.
ec Adrianus -se expeilire
potest ab illa Augustini auetoritate, quarnvis in omnem partem vertat. Sìne dubio enim conclusio nostra est de-
terminatio Augustini-.
Inoltre, nel dubbio si deve seguire l'alternativa più certa. Ma se i sudditi in caso di dubbio non seguissero il loro principe, si esporrebbero al rischio di consegnare al nemico la propria comunità politica, il che è molto peggio che combattere contro i nemici restando in dubbio. Quindi, i sudditi devono, piuttosto, combattere. Allo stesso modo, è del tutto evidente che illittore è tenuto a dare esecuzione alla sentenza del giudice, an-
che se è in dubbio se sia giusta. L'agire comrario, infatti, è molto pericoloso. Inoltre, la stessa cosa sembra dire chiaramente Agostino (Contra Maniehaeos): «se per caso il giusto porta le armi agli ordini di un re sacrilego, può a buon diritto fare la guerra al comando di quello, tanto che quello che gli viene comandato non vada con sicurezza contro i co· mandamenti di Dio quanto che ve ne sia il dubbio»' (vedi anche Decretum Cratiani II 23, 1,4, cap. Quid eulpatur). Ecco quindi che Agostino ha apertamente dichiarato che- se l'ordine del re non va senz'altro contro i comandamenti di Dio, ma la cosa è soltanto dubbia - è lecito al suddito fare la guerra. E Adriano non può sottrarsi a questa autorevole affermazione di Agostino, anche se
Nec valet dicere, quod talis debet tollere dubium et formare sibi conceptum et conscientiam, quod bellum sit iustum. Nam stat, quod moraliter loquendo non possit sicut in allis dubiis. Adrianus autem videtur errasse in hoc, quod pu-
tavit: Si dubito, an hoc bellum sit iustum principi ve1 utruro sit causa iusta huius belli, quod statiro consequirur: Dubito, urrum liceat mihi ire ad hoc bellum necne. Fateor en101, quod nullo modo liceI
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la rigira da tutte le parti. Senza dubbio la nostra conclusione coincide con la posizione di Agostino. E non vale affermare che il suddito deve togliersi il dubbio, e formarsi un'opinione e una certezza sulla giu-
stizia della guerra. È chiaro, infatti, che dal punto di vista morale ciò non è possibile, come in altri casi dubbi.
Adriano sembra essersi sbagliato, in questa circostanza, perché ha creduto che se ho dubbi se questa guerra sia giusta per il mio principe. o se sia giusta la causa di questa guerra, ne consegue immediatamente che ho dubbi
sulla liceità, o meno, che io partecipi aquesta guerra: pro-
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facere contra dubium conscientiae. Et si dubito, utrum liceat mihi facere hoc necne, pecco, si faciam. ed non sequitur: Dubito, an sit iusta causa bdli. Ergo dubito, an liceat mihi -bellare- vel militare in hoc bello. Im· mo oppositum sequitur. Si enim dubito, an be11um sit iustum, sequitur, quod ucet mihi ad imperium princi· pis mei militare, sicut non sequitur: Lietor dubita t, an sententia iudicis sit iusta. Ergo dubitat, an uceat ci cxe· qui sententiam. Nibil omnino valet conscientia, immo scit, quod -tenerur exequi. Et idem est de hoc dubio: Ego dubito, an haec sit uxor mea. Ergo teneor ei red· dere debitum.-
9. Quartum dubium est, an possit esse be/lum iustum ex utraque parte. Pro quo sit prima propositio: Su/usa ignorantia ma· nifestum est~ quod non potest contingere. Quia si constat de iure et iustitia utriusque panis, non ucet in contrarium bdlare, nec offendendo nec de· fendendo. Secunda propositio: Posila ignoranlia probabilifacli aut iuris potest esse ex ea parte, qua est vera iustitia, bel· lum iustum per se; ex altera autem parte bellum iustum,
id esi excusalum a peccalo bona fide.
dama infatti che in nessun modo è lecito agire contro un dubbio di coscienza; e che se sono in dubbio se mi sia lecito fare una tal cosa, o no, pecco se la faccio. Ma dal fatto che io sia in dubbio se esista una giusta causa per una guerra non consegue che io debba essere in dubbio se mi sia lecito fare la guerra o prendere le anni in questa guer· ra. Anzi, ne consegue l'opposto. Se infatti sooo in dubbio se la guerra sia giusta, ne consegue che mi è lecito pren· dere le armi su ordine del mio principe. Allo stesso modo dal dubbio dellittore se la sentenza del giudice sia giusta non consegue il dubbio se gli sia lecito eseguirla. La coscienza non gioca qui alcun ruolo; anzi, illittore sa che è tenuto a dare esecuzione alla sentenza. E lo stesso vale per questo dubbio: «sono in dubbio se questa donna sia mia moglie; quindi sono tenuto a darle ciò che le è dovuto». 9. li quartn dubbio è se una guerra possa essere giusla do
enlrambe le parli. La prima tesi al riguardo è: a parte i casi di ignoran· lO, è evidente che non può accadere. Infatti, se vi è certezza del buon diritto" della giustizia di entrambe le parti, non è lecito far la guerra all'avversario, né d'attacco né di difesa. Seconda tesi: dola una ammiSSIbile ignoranZil dei fal-
ti o del dirillo, la gue"a può essere giusla in sé, per la parte presso cui sia la vera giuslizia; ma anche dall'altra parte può esserci una gue"a giusta, cioè una gue"a che
la
buona fede non rende un peccalo. Quia ignorantia invincibilis excusat a toto. Item ex parte subditorum saepe potest contingere. Dato enim, quod princeps, qui gerit bellum iniustUffi, sciret iniusti· tiam belli, tamen, ut dictum est, subditi possunt bona fide sequi principem suum. Et sic ex urraque parte sub· diti licite pugnant, ut notum est.
Infatti un'insuperabile ignoranza assolve completa. mente. Inoltre, ciò può accadere spesso ai sudditi. Po· sto infatti che il principe che conduce una guerra ingiusta sia consapevole dell'ingiustizia della guerra, tut· tavia, come si è detto, i sudditi possono seguire in buo· na rede il loro principe. E così da entrambe le parti i sudditi combatterebbero legittimamente, come è noto.
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IO. Ex hoc sequitur quintum dubium, ulrum qui ex ignoran/io secutus est belium iniustum, si pos/ea consti· teri/ ei de iniustitia bel/i, utrum tenca!ur restituere - si·
ve Ioquamur de principe, sive de subdito. Pro qua sit prima propositio: Siquidem habebal probabilitatem de iustitia belli, lenelur adveniente <notilio de> iniustiJia res/i/uere ablata, quae nondum consum· psit, id est, quanlum faclus est locupletior; non autem, quoe iom conrumpsli.
Quia regula iuris est, quod qui non esI in culpa, non debel esse in danno, sicut qui bona fide fui! in convivio lautissimo furis) uhi scilicet res furtivae consumptae sunt, non tenetur restituere, nisi forte quantum domi consumpsisser et in prandio suo communi. Si autem du· bitavit de iustitia belli secutusque est aucwcitatem prin~
cipis, Silvester (in v. bellum I, S 9) dicit, quod tenetur de omnibus, quia mala fide pugnavit.
Sed sit secunda propositio: Nec isle lenelur de con· sumptis sicut nec olius. Quia, ut dictum est, Iicite etiam et bona fide pugna· vito Sed esset verum, quod Silvester dieit, si revera dubitasser, an liceret ire ad bellum, quia iam facit contra conscientiam. ed est notandum, quod stat, quod beIlum sit iusrum per se et illicitum et iniustum per acci-
denso Stat quidem, quod quis habeat ius ad recuperanduro civitatem ve! provinciam et tamen ratione scanda~ li fiat prorsus illicitum. Cum enim. ut supra diximus,
IO. Da ciò consegue il quinto dubbio: se coilli - che si tralli del principe o del suddilo - il quale per sua ignoranza ha partecipato a una guerra giusta, accortosi in seguito dell'ingiustaia di questa, sia tenuto a restituire ciò
che ha preso. Qui la prima tesi è questa: se aveva ammissibili ragioni per creder~ alla giuSlizio d~l'" guerra, non app~na ha certeua della sua ingiustiz.ia è tenuto a restituire le r0se che ha preso e che non ha ancora distrullo, ovvero le cose che lo hanno reso più neco; ma non è tenuto a n/ondere ciò che ha dislrullo. Infatti è regola di diritto che «chi non ha colpa non deve subire pena»; come colui che in buona fede ha par· tecipato a un ricchissimo banchetto offerto da un ladro, nd quale sono state consumate vivande rubate, non è tenuto alla restituzione se non eventualmente nella misura di ciò che avrebbe consumato in casa propria, in un pasto ordinario. Ma se invece già aveva dubbi sulla giusti-
zia della guerra, e vi ha partecipato per ordine del principe, Silvestro (voce bellum, l 59) afferma che è tenuto a rendere tuno, perché ha combattuto in mala fede. Ma la mia seconda tesi è che neppure costui è tenuto
a restituire ciò che ha consumato, come non lo è l'altro. Infatti, come si è derto, ha combattuto lecitamente e in buona fede. Ciò che affenna Silvestro sarebbe vero se questi avesse realmente dubitato sulla Iiceità della pro· pria partecipazione alla guerra, perché in tal caso egli avrebbe agito contro i dettami della propria coscienza. Ma si deve notare che può essere che una guerra sia giusta in sé e al contempo illecita e ingiusta secondo le circostanze accidentali. Può essere, insomma, che qualcuno abbia diritto a riprendersi una città o una provincia, e che tuttavia la cosa sia senz'altro illecita, per lo
scandalo che comporta. Infatti, poiché, come abbiamo 60
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bella geri debeant pro bono communi, si ad recuperandum unam dvitatem necesse est, ut sequantur maiora mala in re publica - U[ vastatio multarum civitatum etc.. irritatio principum. occasiones novorum bellorum _,
non est dubium, quin reneatur talis princeps cedere iure suo et abstinere se a bello. ClarissUnum est <, quod si rex Gallorum, verbi gratia, haberet ius ad recuperandum Mediolanum, ex bello autem et regnum Galliae et ipsa provincia Mediolanensis paterentur inroleranda
mala et calamir3tes graves. non licer ci recuperare, quia bellum ipsum aut fieri debet ve! propter bonum Galliae aut Mecliolani. Quando ergo e contrario utriusque ma-
gna mala ex bello futura sunt, non potest bellum iustum esse>.
detto, le guerre devono essere fatte per il bene comune, se per riprendere una città la comunità politica va necessariamente incontco a mali più grandi - devastazione di molte città, ecc.. provocazione dei principi, occa-
sione di nuove guerre -, non c'è dubbio che quel principe è tenuto a rinunciare al proprio diritto, e a astenersi dalla guerra. È chiarissimo che se, ad esempio, il re di Francia avesse diritto di riprendersi Milano, ma se dalIa guerra il regno di Francia e la stessa provincia di Milano soffrissero mali intollerabili e gravi calamità, non sarebbe lecito riprendere la città, perché questa guerra deve essere fatta per il bene della Francia o di Milano. E penanto quando, al contrario, dalla guerra derivino a entrambe grandj mali, la guerra non può essere giusta.
1. 2.
J.
4.
5. 6. 7. 8. 9.
Quacstio quartn
Quarta queslione
\I pars
Il parte
Quantum liceat in bello iusto
Quale sia la misura del lecito in una guerra giusta
Primum dubium et bonum profecto, an liceat in bello interficere innocentes. Secundum dubium est, an liceat saltem spoliare in bello IUsto Innocenles. Teroum dubium est, dato quod non liceat interficere pueros et innocentes, an saltem liceat ducere illos in captivitatem. Quartum dubium est, utrum saltem obsides, qui vel tempore indutiarum vel peracto bello ab hostibus recipiuntur, inter/ici possint, si hostes fidem fregerint. Quintum dubium est, an saltem in bello liceat inter/icere omnes nocentes. Sextum dubium est, an liceat ùlter/icere captivos, supposito etiam, quodfuerunt nocenles. Sequitur septimum dubium, utrum omnia capla in bello /tant capientium et occupanlium. Octavum dubium est, utrum liceat imponere victis hostibus tributa. Nonum dubium est, an liceat deponere principes hostium et novos constiluere vel sibi retinere pn·ncipatum.
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1.
TI primo dubbio, e più importante, è se in guerra sia lecito uccidere gli innocenti.
2. TI secondo dubbio è se, in una guerra giusta, almeno sia lecito espropriare gli innocenti.
J. TI terzo dubbio è, dato che non è lecito uccidere i fanciulli e gli innocenti, se almeno sia lecito trarli in prigioma. TI quarto dubbio è se almeno gli ostaggi che il nemico ha inviato, durante una tregua o a guerra terminata, possano essere uccisi, nel caso che i nemici non mamengano la parola data. 5. TI quinto dubbio è se almeno sia leciro in guerra uccidere tutti i colpevoli. 6. TI sesco dubbio è se sia lecito uccidere i prigionieri, nell'ipotesi che siano stati colpevoli. 7. TI settimo dubbio, poi, è se tutte le cose prese in guerra divengano proprietà di coloro le hanno prese e le detengono. 8. L'ottavo dubbio è se sia lecico imporre tributi ai nemici
4.
VLntl.
9.
li nono dubbio è se sia lecito deporre i principi dei nemici, e costituirne di nuovi, o annettersi il principato.
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Ex quo sequitur, quod etiam in bello contra Turcas non licet interficere infantes. Patet, quia sunt innocen-
Anche circa l'altra questione vi sono molti dubbi; la questione era quale sia la misura del lecito in una guerra giusta. 1. TI primo dubbio, e più importante, è se in guerra sia lecito uccidere gli innocenti. Si può dimostrare di sì. In primo luogo perché i figli d'Israele uccisero i bambini a Gerico (los 6, 20-21), e poi anche Saul uccise i fanciulli in Amalec, in entrambi i casi per autorità e comando di Dio (l Sam 15,8). Ma «tutto quello che è stato scritto, è stato scritto per nostro amo maestramento» (Rom 15, 4); quindi anche ora, se una guerra è giusta, è lecito uccidere innocenti. Ma su questo dubbio la prima tesi è questa: nOI1 è mai lecito uccidere /Jinnocente in quanto tale, e intenzionalmente. Lo dimostra dapprima l'Esodo (23, 7): «tu non ucciderai l'innocente e il giusto». In secondo luogo, la si dimostra col fatto che, come si è detto prima, il fondamento di una guerra giusta è l'offesa. Ma l'innocente non ha commesso alcun male. Quindi non è lecito fargli guerra. In terzo luogo, la si dimostra perché in una comunità politica non è lecito punire gli innocenti per i delitti dei malvagi. Quindi neppure fra i nemici è lecito uccidere gli innocenti, neppure per i torti compiuti dai malvagi. In quarto luogo, perché in caso contrario la guerra risulterebbe giusta da entrambe le parti, in una circostanza diversa dall'ipotesi dell'ignoranza. È infatti evidente che anche agli innocenti sarebbe lecito difendersi. E tutto ciò trova conferma, perché è stato comanda· to ai figli d'Israele (Dt 20,13-14) di uccidere pure i nemici, quando prendevano con la forza una città, ma di risparmiare le donne e i bambini. Ne consegue che neppure nella guerra contro i Turchi è lecito uccidere i fanciulli. È chiaro, infatti, che so-
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Circa aliam etiam quaestionem sunt multa dubia, videlicet quaestio erat, quantum liceat in bello iusto. 1. Primum dubium et bonurn profecto, an liceat in bello inter/icere innocentes.
Potest probari, quod sir-. Primo, quia filii Israel interfecerunt infantes, ut patet Ios 6, 20-21, in Iericho et postea Saul interfecit in Arnalec pueros - utrumque ex auctoritate et mandato Domini, ur habetur 1 Sam 15,8. Quaecumque autem scripta sunt, ad nostram doctrinam scripta sunto Ergo etiam nunc, si beUum sit iustum, licebit interficere innocentes. Sed de hoc dubio sit prima propositio: Numquam licet per se et ex intentione interficere innocentem. Probatur primo Ex 23,7, ubi dicitur: lnsontem et iustum non occides.' Secundo probatur: Fundamentum iusti belli est iniuria, ut supra dictum est. Sed innocens nihil malum fecir. Ergo <non licet bello uti contra illum>. Tertio probatur sic: Non licet in re publica pro delictis malorum punire innocentes. Ergo etiam nec pro iniuria malorum non licet interficere innocentes apud hostes. Quarto, quia alias esset iam bellum iustum ex utra· que parte <seclusa ignorantia>. Patet, quia etiam innocentibus liceret se defendere. Et confirmatu! totum hoc, quia Dt 20, 13-14 mandatur filiis Israel, ut cum vi ceperint civitatem, alios quidem interficiant, parcant autem mulieribus et parvulis.
Sed esI considerandum, quod paulo ante dictum est, quod oportet cavere, ne ex ipso bdIo sequantur maiora
no innocenti. E anzi neppure è lecito uccidere le donne. È chiaro, infatti, che per quanto riguarda la guerra è da presumersi siano innocenti, tranne che non vi sia la certezza che qualche donna sia colpevole. Parimenti, il medesimo sembra il criterio per giudicare, nelle guerre fra i cristiani, dei contadini inermi, e anche di altri, come i pacifici letterati, poiché sono tutti da presumere innocenti, se non c'è la certezza del contrario. Ne consegue, in secondo luogo, che non è lecito uc· cidere i viaggiatori stranieri e gli ospiti che si trovano fra i nemici, poiché si presume siano innocenti. In terzo luogo ne consegue la medesima cosa per gli uomini di Chiesa e i religiosi, se non si ha la certezza del contrario, o se non sono stati sorpresi sul fatto a combattere in guerra. Su ciò non c'è dubbio. Seconda tesi: tuttavia incidentalmente, anche se con· sapevolmente, è lecito in certi casi uccidere innocentl~ ad esempio quando, nel corso di una guerra giusta, si assedia una fortezza o una città nella quale pure si sa che ci sono molti innocentI: e non si possono sparare i cannom: né si possono lanciare altri proiettili o appiccare il fuoco agli edifiCl~ senza che si travolgano anche degli innocentJ~ insieme ai colpevoli. Ciò è dimostrato dal fatto che in caso contrario non si potrebbe far guerra contro gli stessi colpevoli, e sarebbe frustrala la giusta causa di chi fa la guerra; allo stesso modo, nel caso contrario, se una città è ingiustamente aggredita e giustamente si difende, è lecito rivol· gere i cannoni e gli altri proiettili contro gli assedianti e contro gli accampamenti dei nemici, anche se in essi si trovano alcuni fanciulli o degli inermi. Ma bisogna considerare ciò che è stato detto poc'an· zi, cioè che si deve evitare che dalla guerra derivino mali
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teso Immo nec feminas. Patet, qula, quamum ad be1lum spectat, praesumuntur innocentes, oisi forte constet de aliqua femina, quod fuerit in culpa. - Secundo sequitur, quod non licet imerficere peregrinos neque hospites, qui sunt apud hostes, quia pIaesumuntur rnnocentes. Tertio sequltur idem de clericis et religiosis, nisi con· stet de contrario vel inventi fuerint actualiter pugnantes in bello. Non dubito de hoc. Secunda propositio: Per accidens autem etiam sàenter aliquando licet interficere innocentes, puta cum OppUgnatur arx aut dvitas iuste, in qua tamen constat esse multos innocentes, nee possunt maehinae solvi vel alia teia vel ignis aedi/iciis subicl~ quin etiam opprimantur innocentes sicut nocentes.
Probatur, quia alias non posset geri be1lum contra ipsos nocentes et frustraretur iustitia be1lantium <, si· cut, e contrario, si oppidum oppugnarur iniuste et iuste defenditur, licet mittere machinas et alia tela in obsessores et in castra hostium, dato quod inter illos sint aliqui pueri aut innoxll>.
mala quam vitenrur per ipsum bdlum. Si enim ad victoriam parum confert expugnare arcem aut oppidum, ubi est praesidium hostium et sunt multi innocentes, non videtur, quod liceat ad expugnandum paucos nocentes occidere mu1tos innocentes subiciendo ignem vd rnachinas. quibus opprimantur innocentes cum 00centibus. Et tandem numquam videtur licitum opprimere innocentes etiam per accidens et praeter inrentionem, nisi quando bellum iustum expedit et geri alitet non potest, iuxta illud Mt 13,29-30: Sinite crercere ziuznio, ne eradicetis simul et tritù:um.'
Respondetur tamen ad hoc: Licet fortasse posset defendi, quod in tali casu licet eos interficere, tamen credo, quod nullo modo licet, quia non sunt facienda mala, ut vitentur etiam alia mala maiora. Et intolerabile est plOfecto, quod occidatur aliquis pro peccato futuro. Et primum sunt multa alia re· media ad cavendum in futurum ab illis, ut captivi-
superiori a quelli a cui la guerra pone rimedio. Infatti, se ai fini della vittoria poco impona espugnare una fortezza o una città fortificata in cui si trova un presidio di ne· mici insieme a molti innocenti, allora non sembra lecito per sconfiggere pochi colpevoli uccidere molti innocenti, appiccando il fuoco o sparando i cannoni, che possono colpire innocenti e colpevoli. Insomma, non pare mai lecito uccidere innocenti, neppure incidentalmente e ininrenzionalmente, se non quando giova alJaguerra giusta, e quando questa non può essere condotta in altro modo, secondo il detto (Mt 13,29-30) «1asciate crescere la zizzania, per non sradicarla insieme al grano». Ma a questo proposito ci si può interrogare se sia Lecito uccidere quegLi innocenti dai quali tuttavia deriverà un luturo pericolo; come, ad esempio, i figli dei Sarace· ni sono innocenti, ma ci sono buoni motivi per temere che, divenuti adulti, combattano contro i Cristiani. Inoltre, anche i giovinetti adolescenti che stanno fra i nemici sono presunti innocenti, ma questi poi prenderanno le armi e potrebbero combattere contro i Cristiani. Si chiede re ria lecito uccidere cortoro. Patrebbe di sì, poiché in via accidentale è lecito anche uccidere degli innocenti. Così (Dt 20, 13-14) viene comandalO ai figli d'Israde che, quando espugnano una città, uccidano lUtti gli adolescenti. Ma non si può presumere che questi siano rutti colpevoli. Quindi sembra lecito. Ma a ciò si deve tuttavia rispondere così: anche se for· se si può sostenere che in qud caso è lecito ucciderli, credo nondimeno che non sia in alcun modo lecito, poiché non si deve fare il male per evirare altti mali maggiori. Ed è proprio intollerabile che qualcuno venga ucciso per un peccato futuro. E in primo luogo vi sana molti altri rimedi per guardarsi, per il futuro, da qudli, come la pri-
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Sed cuca haec potest dubitari, an liceat interficere innocentes, (J quibus tamen futurum imminel perictllum, ut puta fùii Saracenorum sunt innocentes, sed timendum merito est, ne facti adulti pugnent contra Christianos. Et praeterea etiam cagati puberes apud hostes etiam praesumuntur innocentes, sed isd postea accipient ar· ma et pugnarent contra Christianos. Quaerituf, an liceal
taler interficere. Et videtur, quod sic, quia per accidens etiam licet interficere alios innocentes. Item Dt 20,13-14 praecipitur fùiis Israel, ut cum expugnaverint aliquam civitatem, in· terociant omnes puberes. on autem est praesumen· dum, quod omnes sunt nocentes. Ergo.
tas. exilium etc. Item non licet hoc in propriis civibus: occidere aliquem pro peccato futuro. Ergo non licet in
gionia. l'esilio, ecc.; e inoltre come non è lecito uccidere i propri cittadini per un peccato futuro così non lo è nep-
extraneos. Non dubito de hoc. Vnde sequitur, quod si·
pure nei riguardi degli stranieri. Su ciò non ho dubbi. Ne
ve iam parta victoria, sive cum actu bellum geritur et constat de innocentia alicuius et milites possunt eUffi liberare. tenentur.
consegue che se - una volta ottenuta la vittoria. oppure quando ancora la guerra è effettivamente ln corso - si ha la certezza dell'innocenza di qualcuno. e i soldati posso· no liberarlo, vi sono tenuti. All'argomentazione contraria si risponde che quella misura era stata presa dietro comando speciale di Dio,
Ad argurnentum autem in conuarium respondetur,
quod illud facrum fuit ex speciali mandaro Dei, qui indi· gnatus contra populos illos voluit perdere omnino. sicut misit ignem in Sodomam et Gomorrham, qui devoravit tam nocentes quam innocentes. Ipse enim erat dominus omnlum, nec istam legem voluit esse in communi.
che indignato contro quei popoli li volle far scomparire del tutto, allo stesso modo in cui inviò contro Sodoma e Gomorra il fuoco, che consumò tanto i colpevoli
quanto gli innocenti. Egli era infatti il Signore di rutti gli uomini, ma non volle certo che questa legge divenisse
Et ad illud Deuteronomii (20, 13·14) posset eodem modo responderi. Sed quia illic dara est lex belli com· munls in Offine tempus futurum. potius videtur, quod il· lud Domlnus dixit, quia revera omnes puberes -repu· tantur- in civitate inimica nocentes et non possunt di· stingui innocentes a nocentibus. Et ideo omnes possunt
occidi. 2. Secundum bonum dubium est, an liceat saltem spo·
una regola generale. E a quel brano del Deuteronomio (20, 13·14) si po· trebbe rispondere allo stesso modo. Ma poiché lì si è vo· Iuta stabilire una legge generale di guerra, che deve va· lere per ogni tempo futuro, sembra piuttosro che il Si· gnore abbia fatto quell'affermazione perché davvero tutti gli adolescenti in una città nemica vengono ritenuti colpevoli, e non si possono distinguere i colpevoli da· gli innocenti. E quindi possono essere tutti uccisi. 2. U secondo importante dubbio è se, in una guerra giu-
Ad quod sit prima propositio: Certum est, quod licet
sta, almeno sia tedto espropriare gli innocenti. A questo riguardo, la prima tesi è: certamente è Le·
spollare illos bonis et rebus, quibus hostes usuri sunt ad·
cito espropriarli di quei beni e di quelle cose di cui i ne·
versum nos <.ut armis, navibus, machinis>.
mici si serviranno contro di no~ come arml~ navi. can-
bare in bello iusto innocentes.
nOni.
Patet, quia alias victoriam consequi non possemus. !mmo etiam licet accipere pecunias innocentium et comburere et corrumpere frumenta et occidere equos,
È chiaro infatti che altrimenti non potremmo conse-
et ita opus est ad debilitandas hostium vires. Non est dubium de hoc.
guire la vittoria. Anzi, è anche lecito prendere denaro dagli innocemi, bruciare e distruggere i raccolti, uccidere i cavalli: così è necessario, per indebolire le forze del nemico. Su ciò non c'è dubbio.
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Ex quo sequitur corollarium, quod si bellum sit perpetuum, [icet indifferente, spoliare omnes, 10m innocen· les quam nocentes, quia ex opibus suorum hostes o/uni bellum iniustum et e contrario dehilitantur vires eorum, si aver eorum spoliantur. Secunda propositio: Si bellum satis commode geripotest non spoliando agricolas aut alios innocentes, non vi·
detu" quod liceat eos spoliare. Hoe tenet Silvester (in v. bellum 1,5 IO), quia bellum fundarur in iniuria. Ergo non licet iuce belli interfiecce innocenres neque spaliare, si aliunde polest compensare iniuria. lmmo addit Silvester, quod eriam si fuerir iusta causa spoliandi innocentes, quod transac[Q bello tenetur vietor restitue re illis quicquid superest.
Sed hoe non puto esse necessarium, quia, ut infra diceme, si iuce belli faetum <sit>. omnia cedunt in favoccm gerentium iustum bellum. Unde si I.icite sunt capt3, puto, quod non teneantur ad restirutionem. Dictum tamen domini Silvestri pium est et non improbabile.
Spoliare autem peregrinos et hospites <, qui sunt apud hastes>, oisi constet de culpa illorum, nullo modo licet, quia illi non sunt de numero hosrium, sed potius reputantur innocentes. Tenia propositio: Si hostes nolunt restituere res iniuria ablatas et non possit, qui laesus est, aliunde commode recuperare, potest undecumque satisfactionem capere - sive a nocentibus, sive ab innocentibus.
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Ne consegue come corollario che se vi è una guerra perpetUIJ è lecito espropriare tutti senza distinzione, sia gli innocenti sia i colpevou; poiché i nemio' con le ricchezze dei loro cittadini alimentano la guerra ingiusta, e, al contrario, se i loro o'lladini vengono espropriati, le loro for-
ze vengono indebolite. Seconda tesi: se la guerra può eHere condoIla abbastanza efficacemente senza espropnare i contadini o altn' innocenti, sembra che non SIa lecito espropnarli. È questa la posizione di Silvesrro (v. bellum, I 5 IO), poiché la guerra ha come origine un rorto. Quindi a norma dd dirino di guerra non è lecito né uccidere né espropriare innocenti, se il torto subìto può essere riparato in altro modo. Anzi, Silvestro aggiunge che, anche se ci fosse stata una giusta causa per espropriare gli innocenti. una volta che la guerra sia finita il vincitore è tenuto a restituire loro tuno ciò che è rimasto. Ma questo non lo credo necessario, perché, come si dirà oltre, se l'esproprio è fano secondo il dirino di guerra tutto va a favore di coloro che combattono la guerra giusta. Pertanto, se questi beni sono stati presi lecitamente, credo che i vincitori non siano tenuti a resutuirli. Tuttavia, la tesi di Silvestro è ricca di pietà cristiana, e non inammissibile. Ma non è in alcun modo lecito spogliare i viaggiatori stranieri e gli ospiti che si trovano fra i nemici, se non si è certi della loro colpa, poiché quelli non sono da annoverarsi fra i nemici, e sono piuttosto ritenuti innocenti. Terza tesi: se i nemici non vogliono restituire i beni in-
giustamente sollratll; e chi ha subìto il torto non li potesse recuperare in altro modo con /aaHlà, questi può pren-
dersi soddisfazione da un'altra parte, sia dai colpevoli sia dagli innocenti.
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Ut si latrones Galli fecerinr praedas in agrum ilispanorum et rex Francorum nalit cogere illos ad resti· tutionem, cum possit, possunt Hispani auctocitate sui
principis spaliare mercatores Gallos aut agricolas quan· turncumque innocences. QUi3 licet forre a principio res publica aur princeps Gallorum non fuerit in culpa, iam est in culpa, quia neglegit vendicare, ur ait Augustinus. quod improbe a suis factum est, et princeps laesus patest
ex amni parte satisfactionem accipere. Unde litterae marcharum aut represaliaruffi, quae a principibus in huiusmodi casibus conceduntur, non sunt amnino iniu-
stae, quia per negligentiam et iniuriam alterius principis concedit laeso suus princeps, ur possit recuperare bona sua etiam ab innocentibus. Sunt autem periculosae et praebenr occasionem rapinarum.
Se ad esempio dei briganti francesi saccheggiassero i campi spagnoli e il re di Francia, pur avendone il potere, non li volesse costringere alla restituzione, gli Spagnoli con l'autorizzazione del loro principe possono espropriare i mercanti o i contadini francesi, benché in~ nocenti. Perché, benché forse all'inizio la comunità po-
litica di Francia o il principe dei Francesi non fossero colpevoli, ormai lo sono, dato che, come dice Agostino, «omettono di punire i propri cittadini per ciò che han~
no fatto di male"" e il principe che ha subito il torto può prendersi soddisfazione da qualsiasi parte. Pertanto, le lettere di corsa o di rappresaglia che in siffatle circostanze vengono concesse dai principi non sono com·
pletameme ingiuste, perché, a causa della negligenza e dell'ingiustizia di un altro principe, a chi ha subìto il toro to il suo principe concede di poter recuperare i suoi be~ ni anche dagli innocenti. Ma sono pericolose, e danno occasione a rapine.
3. Tertium dubium: DOlO, quod non liceol inlerficere pueros et innocentes, on sal/cm liceal ducere il/aJ in captivitatem. Ad hoc sit prima propositio: Eodem modo licei ducere il/os in captivi/atem, sicu! licet spaliare il/os, quia li· ber/as et captivitas inter bona fortunae reputan/Uf.
Unde quando bellum est talis condicionis, quod licet spaliare indifferenter omnes hostes et occupare omnia bona illorum. etiaro !icer ducere in captivitatem OffiDes hostes, sive nocentes, sive innocentes. Et cum bel·
lum adversus paganos sit huiusmodi, quia est perpe· tuum et numquam satisfacere possunt pro iniuriis et damnis illatis, ideo non est dubitandum, quin liceat et pueros et feminas Saracenorum ducere in captivitatem. Sed quia iute gentium viderur reeeptum, ur Christian i inter Christianos non Rant servi, in bello quidem inrer
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3. Terzo dubbio: dolo che non è lecilo UCCIdere ifonciulli e gli innocentz~ se almeno sia lecito trarli in prigionia. Su ciò, questa è la prima tesi: è lecito trarli in prigionia,
01medesimo modo in cui è lecilo espropriarli, poichéliberlà e prigionia sono da annoverarsi/ra i beniacaaentali. Pertamo, quando la guerra è di tipo tale che è lecito espropriare senza distinzione tutti i nemici e imposses~ sarsi di tutti i loro beni, è lecito anche trarre in prigionia tutti i nemici, colpevoli o innocenti che siano. E da-
to che la guerra contro i pagani è appunto di tal fatta - poiché è perpetua, e i nemici non possono mai rende~ re soddisfazione delle offese e dei danni procurati -, è quindi fuori di dubbio che sia leciro trarre in prigionia anche i fanciulli e le donne dei Saraceni. Ma poiché sembra che sia entrato nel diritto delle genti il principio che i Cristiani non riducono in servitù altri Cristiani, 77
Christianos licet, si ita opus est ad fmem belli
clero in servitutem, sed ur pro illorum redemptione pe· cunias recipiamus, licitum esser. Quod tamen extendendum non est ultra quam belli necessitas postulet; consuetudo legitirne belligerantium obtinuit>.
sembra lecito in una guerra fra Cristiani - se è necessario ai fini della guerra - prendere prigionieri anche gli innocenti. come i fanciulli e le donne; e non per farne degli schiavi, ma perché possiamo acquisire denaro dal loro riscano. E questa pratica, tuttavia, non deve essere
estesa al di là di ciò che è richiesto dalla necessità della guerra; lo ha sancito la consuetudine dei legittimi belligeranti.
4. Quartum dubium est, utrum saltem obsides, qui vel
tempore indutiarum vel peracto bello ab hostibus reapiuntur, interfici possint, si hostes fidem [regerint. Respondetur per unicam conclusionem, quod si absides alias sini de numero pula nocentium, qui tulerunl contra arma, interfiei possunt in hoc casu. Si autem sini innocentes, ex supro dictis constai, quOti inter/ici non possunt. Non est dubitandum de hoc. 5. Quintum dubium est, an saltem in bello iusto liceat interfieeTe omnes nocenles. Pro responsione notandum, quod bellum geritur primo ad defendendum nos et nostra, secundo ad recuperandum res ablatas, tenio ad vindicandum iniuriam acceptam, quarto ad pacem et securitatem paranclam.
His suppositis sit prima propositio: In ipso actua"
conflictu proelii vel in impugnatione vel de[ensione civitatis licet indifferenter inter/ieeTe omnes, qui contra pugnon!, et, brevi/eT, quamdiu res est in periculo.
4. TI quarto dubbio è se almeno gli ostaggi che il nemico ha invia/o, durante una tregua o a guerra terminata, possano essere ucds~ nel caso che j nemid non mantengano la parola data. Si risponde con una sola conclusione, che se gli
ostaggi provengono da un gruppo di colpevoli che, ad esempio, in passato hanno imbracciato le armi: in tal caso possono a buon diritto essere ucdri. Ma se sono inntr da quanto si è detto poc'anzi emerge che non possono essere ucasi. Su ciò non vi è dubbio. 5. TI quinto dubbio è se a/meno, nella guerra giusta, sia cent~
lecito uccidere tutti i colpevoli. Per rispondere si deve notare che la guerra viene fat(a in primo luogo per difendere noi e le nostre cose, in
secondo luogo per recuperare le cose sottratte, in terzo luogo per punire l'offesa ricevuta, in quarto luogo per procurare pace e sicurezza. Sulla base di questi presupposti, la prima tesi è che durante l'impeto del combattimento di una battaglia, o
durante un assalto oppure una dIfesa di una città, è lecito
Hoc patet, quia aliter bellum bene gerere non possent be1lantes nisi tollendo ornnes in contrarium bellantes. Sed totum dubium est, an habita iam scilicet victo-
uccidere indistintamente tutti i nemici combattentz: e, in breve, che è lecito finché lo situazione è in pericolo. Ciò è chiaro, perché i combattenti non potrebbero condurre bene la guerra in altro modo, se non togliendo di mezzo tutti queUi che combattono contro di loro. Ma il cuore del dubbio è se, ottenuta ormai la vitto-
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ria, utrum liceat interficere omnes hostes, qui arma tu-
temnt, ubi iam nullum est periculum ab hostibus. Et videtur, quod sic. Naro, ut supra dictum est, inter praecepta, quae Dominus dedit Dt 20, unum est, quod est
notandum, quod expugnata civitate hostium interficerentur omnes habitatores illius. Haec sunt verba illius
100: Quando aeeesseris ad pugnandam dvitatem, offeres ei primum pacem. Si autem reeeperit et aperuit tibi por· tas, cunetus populus, qui in ea est, salvabitur et seroiet ti·
bi sub tributo. Sin autem noluent et roepent rontra te be//um, oppugnabis rontra il/am. Cumque tradiderit Do-
ria, ~ia lecito uccidere tutti i nemici che hanno preso le armi, anche se dai nemici non proviene più alcun peri-
colo. E sembra di sì. Infatti, come si è detto sopra, fra i comandi che il Signore ha dato (Dt 20,10-(4) ce n'è uno che d~~ essere notato, e cioè che, una volta espugnata ~na citta neImca, se ne devono uccidere tutti gli abitanti. Queste sono le parole di quel passo: «Quando ti avvicinerai a una cirtà per assalisla, proponile prima la pace. Se l'accetta e ti apre le porte, tutto il popolo che la abita sia salvo, e ti sia tributario e soggetto. Ma se rifiuta la pace, e intraprende COntro di te una guerra, com-
iam extra periculum positis licet inter/ieere nocentes. Prohatur, quia non solum ordinatur ad recuperan-
battila. E quando il Signore tuo Dio te la darà nelle mani passa a fù di spada cutti i maschi che sono in essa, ma non le donne e i bambini». E questa è la seconda tesi: raggiunta la vittoria e messa al sicuro la situazione, è ledto ucddere tutti i colpevoli. Lo dimostra il fatto che la guerra ha come proprio fi-
das res perditas, sed etiam ad vindicandum iniuriam.
ne non solo recuperare le cose sottratte ma anche puni-
minus Deu! tuus il/am in manu tua, percuties omne, quod in ea est generis masculini, in ore gladii absque mulieri·
bus et infantibus. Sed sit secunda propositio: Habita vietoria et rebus
Ergo -pro iniuria praeterita- licet interficere auetores mlUnae.
re un'offesa. Quindi a causa dell'offesa passata è lecito
Item hoc licet in proprios cives malefacrores - ergo
ucciderne i responsabili. Inoltre, è lecito agire così contro i propri concittadi.
etiam in extraneos, quia, ut supra dictum est, belli prin-
ni che hanno compiuto delitti; quindi, è lecito anche
cipes iure belli auetoritatem habent in hostes sicut legitimi principes et iudices.
contro gli estranei, poiché - come si è detto in prece-
denza - i principi che fanno guerra hanno, per diritto di guerra, autorità sui nemici, come se ne fossero i princi-
Item, quia licet in praesentia non esset periculuro, tamen in futururo securitas non haberetur.
pi legittimi e i giudici. Iofme, è lecito perché, nonostante sul momento non vi sia pericolo, nondimeno in futuro non si avrebbe sicurezza.
Terza tesi: se Il fine è solo que//o di punire le offese, non sempre è ledto uccidere tutti i colpevoli. Lo dimostra il fatto che anche fra i cittadini, se fos-
Tertia propositio: Solum ad vindicandam iniuriam non semper licet inter/ieere omnes noeentes. Probatur, quia etiam inter cives non liceret, si etiam esset delictum totius civitatis, interficere omnes delinquentes, nec in communi rebellione liceret
se commesso un delitto da parte di un'intera città non sarebbe lecito uccidere tutti coloro che se ne sono ~ac-
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perdere totum populum. Vnde et cum simili facto Theodosius ab Ambrosio -.- ab eccles.a est proh.bltus. Esset enim hoc contra publicum bonum, quod tamen est finis belli et pacis. Ergo etiam non licet occidere omnes nocentes ex hostibus. Oportet ergo habere rationem iniuriae ab hostibus acceptae et damni ilIati et aliorum delictorum et ex. hac consideratione procedere ad vindictam amni 3trootate et inhumanitate seclusa. In hoc enim proposito Cicero De ojfidis air, quod animadverten~um est in obnox~'os~ quantum aequi/ar et humanitos potlon/uf. Et S~~s~u~: Maiores, inquit, nostri religiosissimi mortaies nthtl VlctlS eripiebant praeter iniuriae licentiam. Quarta propositio: Aliquando licei el expedil inler/icere omnes nocentes. Probatur, quia etiam bellum gcrirur ad pariend~ pacem. Sed aliquando obtineri securitas non potest, s. non opprimancur omnes hosres. Et hoc .max1ID.e ~d~rur contra infideles, a quibus numquam ullis condiclornbus pax spectari potest. Et ideo unicum remedium est omnes tollere, qui contra arma ferre possunt. dummodo
iam fuerint in culpa. Et ita intelligendum est praeceptum ilIud DI 20, 13. Alias autero in bello contra Christianos non puto, quod hoe sit licitum. Cum enim neeesse sit, u~ veniant scandala et bella inter principes (MI 18, 7), s. semper vietar interfieeret adversarios orones, esset magna per· nicies generis humani <et Christianae religionis et orbis cito in solitudinem redigerelUr nec bella pro bono pu82
chiati, e che neppure nel caso di una ribellione di massa è le~it~ distrugge.re un intero popolo. E quindi per un fatto simile TeodoslO fu allontanato, da Ambrogio, dalla Chiesa. S. tratterebbe infatri di un comportamento comrario al pubblico bene, che è invece il ftne della guerra e della pace. Quindi, neppure fra i nemici è lecito uccidere tutti i colpevoli. Pertanto si deve valutare la misura dell'offesa ricevuta dai nemici, del danno arrecato e degli altri delitti e da q.uesta vaJutazione si deve procedere alla punizio~ ne, eVitandosi ogni atrocità e ogni disumanità. E infatti a questo proposito Cicerone afferma, in De officiis (II, 5), ehe «SI devono prendere misure eontro i colpevoli, per quanto lo consentano la giustizia e l'umanità». E Sallustio dice: «1 nostri antenati, uomini piissimi, non sottraevano ai vinti nulla se non la libertà di recare of. fesa»2. ~uarta tesi: in alcuni CIlsi è anche lecito e opportuno, ucadere lulli i colpevoli. 10.dimostra il fatto che la guerra è fatta perché ne scarunsca la pace. Ma in certi casi la sicurezza non può essere ottenuta se non attraverso l'eliminazione di rutti i nemici. Quesro sembra essere soprarrutto il caso della guerra contro gli infedeli, dai quali non ci si può mai aspettare una pace, a nessuna condizione. E penanto l'unico rimedio è eliminare tutti quelli che possono portare le anrn, purché si siano macchiati di colpa. È così che deve essere interpretato il precetto di DI 20, 13. Ma nd caso di una guerra fra Cristiani non credo che ciò sia lecito. Poiché è infatti inevitabile che si producano scandali e guerre fra i principi (MI 18, 7), se il vincitore uccidesse sempre tutti gli avversari ciò sarebbe m?lt.o dannoso per il genere umano e per la rdigione Cristiana, e presto tutto il mondo sarebbe ridotto a un l
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blico, sed in publicam calamitatem perdite getetentur>. Oportet ergo, ut pro mensura delicti sit plagarum modus . In quo etiarn habenda est consideratio, quod, ut s~ pra dictum est, subditi non tenentur oec debent eX~l·
nare causas belli, sed possunt sequi principem suum '?
bellum, contenti auctorirate principis et publici ~onsl.
ili. Unde pro maiore parte, licet ex altera parte Sll beIlum iniustUffi, tamen milires, qui veniunr ad belIum et pugnant aut defendunt civit3tes, ex utraque pane ~unt mnocentes. Unde cum iam vieti sunt et non est pencu-
deserto; e le guerre risulterebbero non condotte per il pubblico bene ma, rovinosamente, per la pubblica calamità. Occorre dunque che
vere né il diritto di giudicare le cause delJa guerra, ma possono seguire iliaco principe alla guerra, acconten-
tandosi delJ'autorità sua e del consiglio pubblico. Quindi, anche se la guerra di una delJe due parti è ingiusta, nondimeno i soldati che vengono alla guerra e combattono, o che difendono le città, sono per la maggioranza
lum ab iIlis, credo, quod non licet ilIos interficere, nee unum quidem ex illis, si praesumitur, quod bona fide
innocenti dall'una e dall'altra parte. E quindi, quando sono vinti e non sono più fonte di pericolo, credo che
venerunt in proelium.
non possano essere uccisi, neppure uno solo, se si pre-
6. Sextum dubium est, an liceat interficere captivos supposi/o eliam, quod/uerint nocenles. Responderur, quod per se loquendo nihil obstat, quin dediti aut captivi in bello iusto, si fuerinr noc~t~, internci possinr - servata [amen aequitate. Sed qwa m bello multa iuce gentium constituta sunt, viderur receprum consuetudine, ur captivi habita victoria et peri culo transeunte non inrerociantur, nisi forte sioe profugae.
Et servandum est istud ius gentium eo modo, quo inter bonus viros servatum est. De deditis autem non lego oec audio talem consuerudinem.
sume che siano scesi in battaglia in buona fede. 6. Sesto dubbio: se sia lecito uccidere i prigionieri, nell'ipotesi che siano stati colpevoli Si risponde che, a rigore, nulla osta a che coloro che si sono arresi o sono stati fatti prigionieri in una guerra giusta, vengano uccisi, purché siano stati colpevoli, e
fatta salva la giustizia. Ma poiché in guerra molte regole sono istituite per diritto delle genti, sembra ormai accolto come consuetudine che i prigionieri, una volta che sia stata conseguita la vittoria e sia passato il pericolo, non vengano uccisi, tranne che non siano dei rinnegati.
E questa regola del clisitto delle genti deve essere rispettata, come tradizione consolidata fra persone civili. Ma per coloro che si sono arresi non leggo né sento che sia in uso una tale consuetudine. Anzi, nelle rese delle
fottezze delJe città coloro che si arrendono sono soliti tutelarsi ponendo condizioni, cioè che sia loro risparmiata la vita e vengano lasciati andare salvi, evidente-
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scilicet veriti, ne si simpliciter et nullis condicionibus
dedantur, interficiantut. Et hoc a1iquoties factum legi. muso Unde non videtur iniquum, ut si oppidum nihil ca· vendo dedatur, mandato principis aut iudicis a1iqui, qui fuerunt nocentiores, occidantur.>
7. Sequitut septimum dubium, ulrum omnia capla in bello/ianl capienlium eloccupanlium. Ad hoc sit prima propositio: Non esi dubilandum,
mente temendo, se si arrendono semplicemente e senza conclizioni, di venire uccisi. E leggiamo che qualche volta ciò è avvenuto. Pertanto non sembra ingiusto che, se una città fortificata si arrende senza condizioni, alcuni, che siano stati più colpevoli, vengano uccisi per ordine
del principe o di un giudice. 7. Settimo dubbio: se lulle le cose prese in guerra diveno
gano proprielà di coloro che le prendono e le delengono. Su ciò questa è la prima tesi: non vi è dubbio che lui·
quin amnia capta in bello iusta usque ad sulficientem sa· tisfactionem rerum ablatarum per iniuriam et etiam im-
to quanto viene preso in una gue"a giusta. fino al pieno ammontare del valore delle cose sottratte ingiustamente.
pensarum belli/ianl occupanlium.
e anche delle spese di guerra, divenga proprielà di chi le
Nec indiget probatione ista conclusio, quia ilIe est fi·
detiene. Questa conclusione non ha bisogno di dimostrazio-
nis belli. Sed seclusa consideratione restitutionis stando
ne, poiché è questo il fine della guerra. Tuttavia, una
in solo iure belli distinguendum est-o Nam- capta in
volta esdusa la restituzione, restando strettamente al di-
bello aut sunt mobilia, ut pecuniae, vestes, aurum, aut immobilia, ut agri, oppida, arces etc.
Quo supposito sit secunda propositio: Mobilia qui·
ritto di guerra si deve distinguere. Infatti le prede di guerra sono o beni mobili (come il denaro, i vestiti, l'o· ro) o beni immobili (campi, città fortificate, fortezze). Ciò premesso, questa è la seconda tesi: secondo il di·
dem iure gentium omnia fiunt occupantium. eliam si excedant compensationem damnorum.
rillo delle genli lulli i beni mobili divengono propnelà degli occupanli, anche se eccedono l'ammonlare dei dan· ni di guerra.
Hoc patet ex lege Si quid bello et lege Hosles ff., De captivis, et capitulo lus gentium, d.l, et expressius Inst.•
De rerum divisione, S /Iem ea, quae ab hoslibus, ubi di· citur, quod iure gentium quae ab hostibus capiuntur, statim nostra fium, adeo ut etiam liberi homines in nostram servitutem deducantur. Et Ambrosius l. De patriarchis dicit, cum Abraham occidit qumtuor reges
(Cen 14), praedam quidem fuisse Abrahae victoris, quamquam recusaverit accipere. Et habetur 24, q. 5, C.
Dical.
Ciò è evidente dalla legge Si quid bello e dalla legge Hosles, de caplivis' e dal capitolo lus Cenlium, prima distinzione', e più espressamente dalle /nsliluliones (De rerum divisione, S /Iem ea quae ab hoslibus)', dove si di· ce che secondo il diritto delle genti ciò che prendiamo al nemico diviene subiw nostro, tanto che perfmo gli uomini liberi diventano nostri schiavi. E Ambrogio in
De Palriarchi!" dice, quando Abramo uccise quattro re (Cen 14), che il bottino era di Abramo in quanto vinci· tore, benché egli abbia rifiutato di prenderlo (anche in Decrelum Craliani 1123, 5, 25: capitolo Dical).
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E[ confirma[ur auc[ori[a[e Domini Dt 2D, 14, ubi de civitate expugnanda dieit: Omnem praedam exercitui divides et comedes de spoliis hoslium luorum.' Hanc sententiam tener Adrianus in quaestionibus De restitutione (q. speciali De bel/o) e[ Silves[er (in v. bel/um, S l e' 9), uhi dicit, quod qui iuste pugnavit, non tenetur restituere praedam. Er haberur 24, q. 2, c. <Si de rebus. Ex quo infert, quod capta in bello iusto non compensantur eum debilo principali, ullenel eliam archidiaconus 23, q. 2>, c. Dominus nosler. l,a [ene[ Bartolw in dicta lege Si quid in bello. Et hoc intelligetur, etiam si hostis sit paratus satisfacere de damno et iniuria. Quod tamen limitat Silvester, et bene, quousque domini aequitati sit sufficien(er satisfactum de damno et iniuriis. 00 enim est in·
telligendum, quod si Galli destruerent unum pagum aut ignobile oppidum Hispanorum, quod licet Hispanis, etiam si possint, praedari [o[am Galliam, sed pro modo et quantitate iniuriae.
Lo conferma anche l'autorità dd Signore (DI 2D, 14), là dove Egli dice, sulle città da espugnare: «distribuisci la preda fra il tuo esercito, e cibati dd bottino dei tuoi nemici». Ques[O è il parere di Adriano nelle questioni De reslilulione (questione speciale De bel/o)7 e di Silves[ro (voce bel/um SS l e 9), là dove dice che chi ha combattuto una guerra giusta non è tenmo a restituire
il bottino. Anche il Decrelum Craliani (ll 23, 7, 2: Si de rebus) sostiene che <
2: Dominus nosler)·. È questa anche la posizione di Bartolo, nd commento alla citata legge Si quid in bello'. E ciò deve intendersi anche se il nemico è disposto a riparare i danni e le offese. Tuttavia Silvestro pone, ara· gione, un limite, che cioè il signore offeso non vada ol-
tre un'equa soddisfazione, sufficiente a ripagarlo dd danno e delle offese. on è infatti da intendersi che, nell'ipotesi che i Francesi disttuggano un solo borgo o una miserabile città fortifica'a in Spagna, sia lecito agli Spagnoli, anche se lo potessero, saccheggiare tutta la Francia; ma deve esserci proporzione rispeno alla mi-
sura e all'entità dell'offesa. Sed ex hac de[erminatione sequirur dubium, an liceal permittere mi/itibus dvitatcm in praedam. Responderur et si, [ertia propositio: Hoc de per se non
esI il/icilum, si necessarium esi ad bel/um gerendum velad delerrendos hosles vel ad accendendum mililum animoso Ira dici[ Silvester (S lO). Sicut etiam lice[ incendere civitatem ex rationabili causa. Sed quia ex huiusmodi permissionibus sequuntur multa saeva et crudelia mala praeter omnem humanitatem. quae a barbaris in militi· bus committuntur - innocentium caedes et cruciatus, virginum raptus, matronarum srupra, templorum spo-
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Da questa precisazione deriva un dubbio, se sia lea·· lo abbandonare una cillà al saccheggio dei soldo Ii. Si risponde con questa terza tesi: dò di per sé non è illecito, se è necessario a condurre la gue"a o a spaventare i nemici o ad infiammare gli animi dei soldati.
Così sostiene Silvestro (S ID). E allo stesso modo è lecito incendiare la città, se ve ne è un motivo ragionevole. Ma poiché da simili concessioni derivano - com-
messi da soldati simili a barbari - molti mali atroci e crudeli al di là di ogni umanità, come stragi e torture di in· nocenti, ratti di vergini, stupri di donne, spoliazione di
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lia -, ideo sine dubio sine magna necessitate et causa maxime civiratem Christianarn perdere iniquum est. Sed si ita necessitas poscit, non est illicitum, etiam si credibile sir, quod milites aliqua huiusmodi debent perpetrare, quae tamen duces prohibere tenentur. Quarta conclusio: His omnibus non obstantibus non licet militibus sine auctontate pnndpis aut duds praedas agere aut incendia lacere, quia ipsi non sunt iudices, sed executores, et alias tenentur ad satisfactionem et restitutionem. Sed de bonis et rebus immobilibus est maior difficultas. Sed sit quinta propositio: Non est dubium, quin liceat occupare et tenere ogrum et arces et quantum necessorium est ad compensationem damnorum. certum est, quod iure divino aut naturali non plus licet hanc dispensationem accipere ex rebus mobilibus quam immobilibus.
Sexta conclusio: Etiam ad paranJam securitatem et vitandum periculum ab hostibus licet occupare aut tenere arcem aliquam aut dvitatem bostium necessariam ad de/ensionem nostram . eptima conclusio: Etiom pro iniuria i/iota et nomi· ne poenae, id est in vindictam, licet pro qualitate iniurioe acceptoe multare bostes parte agri aut etiam bac ratione occupare arcem aliquando aut oppidum. 90
Chiese, senza dubbio è ingiusto distruggere una città, soprattutto cristiana, senza una grave causa che lo renda necessario. Ma se lo richiede la necessità non è illecito, anche se è probabile che i soldati commetteranno alcuni atti di quel tipo, che i comandanti, però, sono obbligati a proibire. Quana conclusione: nonostante tutto dò, non è ledto ai soldati saccheggiare o incendiare senza autoriu.a1i~ ne del principe o del comandante; in/atti essi non sono giudici ma esecutori. In caso contrano sono tenuti a/la n'parazione e alla restituzione. Ma per i beni e le cose immobili la difficoltà è maggiore. Tuttavia, al riguardo la quinta tesi è: non vi è dubhio che è lecito impadronirsi durevolmente di terre e /ortezze, e di quanto è necessario a compensare i danni. Ad esempio, se i nemici hanno distrutto una nostra fortezza, hanno incendiato una città, boschi, vigne, oliveti, sarà lecito impadronirci, a nostra volta, di un territorio dei nemici, o di una fortezza, o di una città fortificata, e teneru. Se infauj è lecito prendersi una riparazione compensatoria dai nemici per le cose che ci hanno portato via, e certo che secondo il diritto divino o naturale questa riparazione non deve awenire in misura maggiore dai beni mobili che da quelli immobili. Sesta conclusione: per garantire la sicurezza e per evi· tare pericoli dai nemici è ledto impadronirsi durevolmente di qualche/ort= o àttà dei nemici, necessarie alla nostra d,fesa o a togliere ai nemici occasioni per nuocere. Settima conclusione: ugualmente - per le offese a"ecote, e a titolo di pena, ossia di castigo - è lecito sanzionare i nemiCl~ secondo la qualità del torto che ci banno fatto, privandoli di una parte del loro temiorio, o, per la medesima ragione, in certe circostanze anche impadronirsi di una /ort= o di una àttà fortificata. 91
Ttem, quia imperium Romanum hoc modo et titulo auctum et amplificatum est, occupando scilieet iure bel· Li civitates et provincias hostium, a quibus iniuriam acceperant. Et tamen imperium Romanorum tanquam iustum er legitimum defenditur ab Augustino, Hierony-
Ma ciò deve avvenire con moderazione, e non sulla base di quanto è consentito dalla potenza militare. E se le necessità e le ragioni della guerra richiedono che sia presa una parte maggiore del territorio dei nemici, o un maggior numero di città, è necessario, una volta che la situazione si sia calmata e la guerra sia finita, che vengano restituite, e che venga trattenuto soltanto ciò che è giusto al fine di riparare i danni e le spese, e di punire l'offesa - in ogni caso sulla base di principi di umanità e di giustizia, poiché la pena deve essere proporzionata alla col· pa. E sarebbe intollerabile, se i Francesi predassero armenti spagnoli o se incendiassero un solo villaggio, che fosse lecito impadronirsi di tutto il regno di Francia. Ma che a questo titolo sia lecito impadronirsi o di una parte di territorio o di una qualche città dei nemici è chiaro da quel luogo del Deuteronomio in cui si dà il permesso, durante una guerra, di impadronirsi di una cirtà che non ha voluto accertare le offerte di pace (Dt 20, 10-12). Allo stesso modo, è lecito punire così chi agisce male all'interno di una comunità politica, ad esempio privandalo di una fortezza o della casa, secondo la qualità personale del reo. E quindi è lecito punire anche chi sta all'esterno. Inoltre, un principedi rango superiore e un giudice legittimo potrebbero tranquillamente sanzionare il responsabile di un'offesa, privandolo di una cirtà o di una fortezza. Pertanto, anche il principe offeso lo potrà, poiché per diritto di guerra egli è diventaro come un giudice. Infine, l'Impero romano fu aumentato e ingrandito in questo modo e a questo titolo, cioè con l'occupazione per diritto di guerra delle cirtà e delle province dei nemici dai quali Roma era stata offesa. E tuttavia l'Impero romano è difeso, come giusto e legittimo, da Ago-
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Sed hoc debet fieri cum moderamine, et non quanrum arma possunt. Et si necessitas et ratio belli postulet, ur maior pars agri hostium occuperur aut quod plu-
res civir3res capiantur. oponet, ur compositis rebus et peraero bello restiruantur tantum retinendo. quanrum
sit iustum pro impensatione damnorum et impensarum ct pro vindieta iniuriae - servat3 3Ulem bumanit3re et aequitatc, quia poena debet esse proportionara cwpae. Et iotolerabile esset, quod si Galli agerent praedam in
pecora Hispanorum ve! incenderent pagurn unum, quod licear occupare torum regnum Francorum.
Quod autem hoc titulo liceat occupare aut partem agri aut aliquam civir3rem hostium, parer ex ilio Deuteronomii, uhi datur licentia in bello occupandi civitarem, quae pacem recipere noluerit (Dt 20,10-12).
Item. quia malefactores nostros licer punire hoc modo, puta privando illos aut aree aut domo pro rei qualitate - ergo etiam extraneos.
ltem superior princeps et iudex legitimus posscr commode multare auctorem iniuriae toUendo civitatem aut arcem ab 00. Ergo etiam princeps, qui laesus est, hoc poterit, quia iure belli factus est tanquam iudex.
mo, Ambrosia et sancto Thoma et ab aliis sanctis docroribus. Immo posset videri approbatum a Domino ae re-
demptore nostto Iesu Cbristo in ilio loeo: Reddile ergo, quae sunt Coesaris, Coesari erc., et -a- Paulo, qui Cae-
sarem appellavit (Acl 25, IO-Il). Admonet nos potestatibus sublimioribus subditos esse et principibus subditos esse et tributa persolvere illis (Rom 13, 1,7). Qui omnes eo tempore habebant aucroritatem ab imperio Romano. 8. Octavum dubium esr, utrum liceat imponere vict/I ho-
slibus Iribula. Respondetur, quod sine dubio liceI, non solum ad compensandum damna, sed etiam -ratione- poenae et in vindictam. Haec satis patet ex supradictis et ex ilio
Deuteronomii (20,10-11) <,ubi dicit, quod postquam ex iusta causa accesserint ad expugnandum civitatem, si r~~perint eos et aperuerinr portas, cunctus popuIus, qUi m ea est, salvabitur et serviet illis sub tributo. Et hoc ius et usus belli obtinuit.> Non est dubium.
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onum dubium est, an liceal deponere principes ho-
stium et novos constituere vel sibi retinere prinàpatum. Ad hoc sit prima propositio: Hoc non passim et ex
quacumque causa belli iUSIi licei facere. Haec patet ex dictis. Nam poena non debet excedere quantitarem iniuriae, immo poenae sunt restringendae et favores ampliandi. Quae non solurn est regula iuris humani, sed etiam naturalis et divini. Ergo
dato, quod iniuria iliata ab hostibus sit sufficiens cau-
stino, Girolamo, Ambrogio e san Tommaso, e da altri santi dottori.
Anzi, può sembrare che lo stesso nostro Signore e Redentore, Gesù Crislo, lo approvi, là dove dice: «restituite dunque a Cesare ciò che è di Cesare» (M122, 21; Le 20,25), ecc.; e Paolo, che si è appellato a Cesare (Acl 25, 10-11; Rom 13, l e 7), ci ammonisce di essere sonomessi ai poreri supremi, e ai principi, e di pagare loro i tributi. Tutti questi poteri, a quei tempi, traevano la loro validità dall'autorità dell'Impero romano. 8. L'ottavo dubbio è: se sia lecito imporre tnbuti ai nemici vinti.
Si risponde che senza dubbio è lecito, non solo a riparazione dei danni, ma anche a titolo di pena, e per punizione. È chiaro abbastanza da ciò che si è detto in precedenza, e da quel passo del Deuleronomio (20, 10-11) che dice che, quando gli Ebrei si avviano verso una città a espugnarla per giusta causa, se vengono accolti e se si
aprono loro le porte tutto il popolo della città verrà rispanniato, e sarà servo degli Ebrei come tributario. E ciò è divenuto dirino di guerra, e consuetudine. Su que-
sto non vi è dubbio. 9. il nono dubbio è se sia lecito depo"e i principi dei nemia: e costituirne di nuov/~ o annettersi il pn·ndpato. Su ciò la prima tesi è che non è lecito farlo comunemente, né per qualsivoglia causa di gue"a giusta.
Ciò risulta evidente da quanto si è detto. Infatti la pena non deve eccedere la grandezza dell'offesa; e anzi le pene vanno diminuite, e le clausole di favore vanno
ampliate. E questa è una regola non solo del diritto umano ma anche del diritto naturale e divino. Quindi,
sa belli, non semper erit sufficiens ad exterminationem status hostiJis et ad depositionem legitimorum et natti-
posto che l'offesa arrecata dai nemici sia causa sufficiente di guerra, non sempre sarà sufficiente perché venga annientato lo Stato nemico e perché vengano de-
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ralium principum. Hoc enim esset prorsus saevum et inhumanum. Secunda conciusio: Non est negandum, quin aliquando contingant legitimae causae vel ad mUlandum
principatum vel ad mutandos principes, et hoc multitudine et atrocitate damnorum et iniuriarum, vel maxime quando aliter securitas el pax ab hostibus obtineri non potest et immineret grande pen·culum rei publicae, nisi hoc
fieret. Hoc patct. Si cnim licet occupare civitatem ex causa, ut dictum est, ergo occupare civitatem et tollere principem. <Et eadem est ratio de provincia et principe provinciae, si causa maior contingat.> Sed notandum circa septimum et octavum dubium, quod aliquando, immo et frequenter non salurn principes ipsi, sed etiam subditi, qui revera non habent causam iustam, tamen bona fide gerunt bellum, ita, inquam, bona fide, quod excusantur ab amni culpa, puta cum facta mediocri examinatione ex sententia et consi· Lo sapientium geratur bellum. Et cum nemo debeat sine culpa punici, in tali casu, quarnvis liceat victori recu~ perare res ablatas et forte impensam belli, tamen sicut non Lcet parta victoria quemcumque interficere, ita nec iniustam satisfactionem accipere nec exigere in rebus temporalibus, quia ornnia talia fieri non possunt nisi nomine poenae, quae in innocentes cadere non debet, ut rnanifestum est.
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posti i principi legittimi e naturali. Questo sarebbe infatti del tutto crudele e disumano. Seconda conclusione: non si può negare che in alcune circostanz.e si diano cause legittime per un cambio di regime politico, o per una sostituzione dei principt~· e ciò
a causa della quantità e dell'atrocità dei danni e delle oJ fese arrecate, o soprattutto quando non vi è altro modo per ottenere dai nemici sicurezza e pace, e quando la comunità politica andrebbe incontro a un grande e imminente pericolo se ciò non avvenisse. Ciò è chiaro. Se infatti è lecito impadronirsi di una città per una causa, come si è detto, è lecito anche impadronirsi di una città e eliminare il principe. E per la stessa ragione è lecito farlo per una provincia, e per il principe della provincia, se si presenta una causa di maggiore rilievo. Ma intorno ai dubbi settimo e ottavo si deve notare che talvolta, e anzi spesso, non soltanto gli stessi principi - ma anche i sudditi - che in verità non hanno una giusta causa, tuttavia fanno la guerra in buona fede; con una buona fede tale, dico, da essere esenti da ogni colpa, come ad esempio quando la guerra viene fatta dopo un discreto esame delle circostanze, dopo aver sentito il parere e il consiglio dei saggi. E poiché nessuno deve essere punito senza avere commesso una colpa, in tal caso- sebbene sia lecito al vincitore riprendersi le cose sottratte e, eventualmente, farsi rifondere le spese di guerra - come non è lecito una volta ottenuta la vittoria uccidere qualsivoglia persona, così non lo è neppure pretendere e esigere un'ingiusta riparazione in beni materiali; tali cose, infatti, possono essere fatte solo a titolo di punizione, e questa non deve colpire chi è innocente, com' è evidente.
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Conclusiones
Conclusioni
Ex his omnibus possunt componi pauci canones et regulae belligerandi.
Da rutto ciò possono venire derivate alcune poche nor·
Primus est: Supposito, quodprincipes habent auctonla-
La prima è: dato che i principi hanno l'autorità di
tem gerendibellum, primum omnium debent non quaerere
fare la gue"o, in primo luogo non devono cercare occa· sioni e cause di gue"o, ma «se è possibile. desiderino stare in pace con tutti», come insegna Paolo (Rom 12,
occasiones et C/lusas bell,: seti. si/ien' polest, cum omnihus cupumt pacem habere, ut Paulus praecepit Rom 12, 18.
Debet autem recagitare. quod alli sunt proximi, quos tenemur diiigere sicut nos ipsos, et quod habemus
nos omnes unum communem Dorninurn, ante cuius tribunal debemus reddere rationem omnes nos de actibus nostris. Est enim ultimae immanitatis eausas quaerere et
gaudere, quod sint ad interficiendum et persequendum homines, quos Deus creavi t et pro quihus Christus mortuus est. Sed coactum et inviturn venire oportet ad necessitatem beIJi. Secundus canon: Con/lato iam ex iustis causis bello aporlel illud gerere non ad perniciem gen/is~ contra quam 98
me, o regole di guerra.
18). Si deve inoltre considerare che gli altri sono il pros· simo, che siamo tenuti ad «amare come noi stessi». e che tutti abbiamo un solo comune Signore davanti al cui tribunale siamo tutti obbligati a rendere ragione ddle nostre azioni. È infatti manifestazione di estrema basbarie cercare motivi - e goderne - per uccidere e per· seguitare gli uomini, che Dio ha creato e per i quali Cristo è morto. Al contrario, è necessario che un principe giunga alla guerra messo alle strette e suo malgrado, come a una necessità. Seconda norma: quando ormai è scoppiata una guerra per giuste cause, è necessario condurla con la finalità non tanto di danneggiare il popolo contro cui si deve com99
be/londum est, sed od consecutionem iun"s sui et defensionem patrioe, ut ex ilio bello pax a/iquando et securitas consequatur. Tenius canon: Parta vietOrta et completo bello oportet moderate et modestia Christiana victoria uti. Et opor· tet vietorem existimare se iudicem sedere inter duas res pub/icas: alteram, quae loesa est, alteram, quae iniuriam fecit, ut l10n tanquam accusator sententiam ferat, sed tanquam iudex satis/acial quidem faesae, seti, quanlum /ieri poterit, sine calamitate rei publicoe nocentis, et maximel quza ut in plurimum, praecipue inter Christianos, toto culpa est penes principes. Nam subditi bona fide pro principibus pugnant. <Et est periniquum, quod poeta ah:
Ut quicquid delirant reges, plectantur Achivi>
Et sic tota haec disputatio, quam de Indis suscepimus disputandam, finita est ad laudem Dei et proximorum utilitatem.
Explicit relectio secunda de Indis reverendi admoduro patris fratris Francisci de Vitoria magistri eruditis-
simi, quam habuit Salamanucae anno Domini 1539, 19 die Iunii, ad laudem omnipotenris Dei et beatissimae virginis Mariae matris eius et ad eruclitionem proximorum nostrorUffi.
Fr. Ioannes de Heredia
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ballere ma di conseguire il proprio dirillo e di difendere lo. propria patria, così che da quella guerra st' ottengano una buona volta pace e sicureUJl. Terza norma: ottenuta lo vittorta e portata a termine la guerra, è necessario approfittare dello vittoria con ma· derazione e con cristiana modestia. Ed è necessario che il vincitore concepisca se stesso come un giudice che siede fra le due comunità polItiche -l'una, che subll'offesa e l'altra, che la fece -) non perché giunga a emanare una sentenza come accusatore sl perché come giudice dia, certo, soddisfazione alla parte lesa ma, per quanto sarà possihile, col minimo di danno della comunità politica colpevole, soprallullo dato che nelw maggior parte dei casi fra i Cristiani tulla Wresponsabilità è dei principi. In/atti i sudditi comballono in buona fede per i principi. È quindi molto ingiusto ciò che dice il poeta, «che di ogni follia dei re subiscano le conseguenze gli Achei»'. E così è conclusa tutta questa trattazione sugli Indiani, che abbiamo intrapreso per discuterla, in lode di Dio e per utilità del prossimo. Termina la seconda dissertazione sugli Indiani del molto reverendo Padre fr. Francisco de Vitoria, Maestro dottissimo, che egli tenne in Salamanca l'anno del
Signore 1539, il 19 giugno, in lode di Dio onnipotente e della beatissima Vergine Maria, Sua Madre, e ad ammaestramento del nostro prossimo. fr. Giovanni di Heredia
101
Note
Premessa J
La Re/ectio durava circa due ore.
Prima questione I M. Lmero, Resolufiones disputationu11l de indulgentiarum virlu(1518), Weimarer Ausgabe. 1883, voI. l, p. 535. 2 Terrulliano, De corona, cap. Il (PL 2, coli. 91-92). J I lesti di Agostino sono, rispettivamente: Contra Faustu," Manichaeum, libro XXll. cap. 75 (PL 42, col. 448); De diversiI quaestionibus LXXXIII, quaest. 31 (PL 40, coli. 20-21); De ve,bis Domini (oggi noto come Senno 82), cap. 19 (PL 39, colI. 1904-1905); Contra FausIu11I Moltich. XXII, cap. 74 (PL 42, col. 447); Ad Marce//inum (Epi· st. 138), cap. 2 (PL 33, coU. 531·5J2); Epistola ad &ni/acium (Epist. IB9; PL33, col. B55). ~ Ad Marcellinum, di., coLI. 531·5J2. , Agostino, Quaestiones in Heptoteucum, libro VI, lO (PL 34, colI. 780-781); Deeretum Cro/iorri, 23, 2, 2. (, Epist. ad Sonl/aàunI, cit., col. 856.
le
Seconda questione Antoninus Florentinus, Summa Sacrae Theologiae, II. 7, 8, S l" icolaus de Tudcschis, Ccmmentaria Pn"mae Partis in Secundum Decreta/ium ubrum, 17 (commento a Decreta/esGregoriiIX, n,l3, J2). } Banolo di Sassoferrato, In secundam Digesti Novi partem, commenti a Dig. 48, 19, l; a Dig. 48.8,9; a Dig. 47. IO, 15. I
2
IOJ
D«re/. Gregorii IX, Il, 13, 12; Uht'r JeX/Ul D~cre/altum, V, Il,6.
4
, Sul posto, sul momento.
Terza questione lsidoro, Etymologiarum
l
llve
On'gznum libn' XX, Il, IO e V,21
(PL 82 col. I J1 e col. 20J). 2
Agostino,
Qua~j/,
zn
f-l~p/a/eucum,
cit., col. 781.
Quarta questione. [ parte Terttlzio, Eunuchus, TV, scena VU, v. 789. La prima dtaz. è da Dis/icha Ca/onis: brtws s~n/~n/ùl~, 49; la seconda è da Dtg. 2, 2 (rubrica). I Le prime citu. sono da lJ«re/aks Gregom IX, V, 39, 44 c: IV, 21, 2; la seconda è da Adriano V1, QU4~j/lOn~s Juodmm quod/ilN/iC4~ (1522).2. • Silvestro Prierio, Summa summarum (1518) l, ad IJQ«m. , Agostino, Con/ra Faus/um Maltich. cil., col. 448. l
2
Quarta questione. 11 parte Agostino, Quo~s/. In H~p/a/nlCUm, cit., coU. 720-721. Sallustio. Coniura/io CA/ilina~, 12,3-4. J Dig., 49, 15,28 e Dtg. 49,1.5,24. 4 Dea. Gral I, 1,9. 'Ins/l/u/tones2, I, 17. 6 Ambrogio, De Abraham. I, 3 (PL 14, col. 427). 7 Adriano VI, Quot!S/iones in IV Sen/en/i4rum De sacramento P«ttI/en/i4e: de res/l/u/tQn~. 8 Guido da Baisio, Rosan"um, Ieu in Decre/Qrum vo/umen u,mmen/an"a (1508), in commento a Dea: Gra/. il 23. 7,2. .. 83nolo di Sassoferrato, In secundam Diges/i Novi parlem, dl., commento a Dlg. 49, 15,28. l
2
Conclusioni I
Orazio, Epir/ukte, I, 2, 14.
Indici
Indice dei nomi'
Abril, v., Xn, LVII-LVUI. Accursio, x. Adriano VI,55,57,89, 104. Agostino da Ancona, x. Agostino d'lppona, xxv, 9, 11, 13,21,31,57,77,93,95,103104. Alessandro VI, VIII. Allhusio,J., VIII. Ambrogio, 83, 87,95. 104. Antoninus Florentinus, 17. 103. Arcos, M., XIV. Aristotele, VIII-IX, XXIV, 21, 29, 43. Armachanus, XXI. Atahualpa, XIV. Baccelli, L.. Xlxn. Baciere, c., xn. LVII-LVIII. Bacone, E, xxx.
Balclini, A.E., XXUn. Barbier, M., LVIJl. Barda Trelles, c., xxx, XXXln.
Banolo di Sassoferrato, x, 19,89,103-104. Bartolomeo de Medina, VIl.
XXV,
Bate.].P., LVII. Be.Uannino, R., XVIII. Beltrlin de Heredfa, v., VTIn, XXXI. Bernardo di Chiarovalle, IX e n, XXVI co. Berti, E" XlXn. Biolo, S., xlxn. Bolgiani, E, XIxn. Bonifacio l, 9. Boyer,J.. LVII.
Caetani, T. de Via, XIV. Calvino, G., XXII. Cano, M., VII. Carlo V d'Asburgo, X-XI, XVIII,
XVI,
xx.
Carranza, B., VII. Carro, XXVlln. Cicerone, 83. Clemente VII, xx.
v..
* Non sono indicizzati Francisco de Vitoria, per la frequenza con cui ricorre nel lesto, né i personaggi biblici. Le pagine qui indicate si riferiscono al testo della lraduzione italiana. 107
Conring, 1-1., xxx. Costantino I il Grande, 15. Crockaen, P. (Perrus de Brussd-
Kant, L, XXXVI, XLIX-L. KeUy,j . M.. XXVlIn.
KoseUeck, R., XXXVIln .
lis), VU. Lamacchia, A, Vn, xvn,
Deckers, D., XXXVllln. Dt: Giovanni, B., XXXVln. Erasmo da Ronerdam, Vil e n. Ferdinando II il Cauoliro, xv. Ferrajoli, L., XIlIn, Xl\'n. Ferrone, V., XI.xn, xxn.
Francesco l di Valois, xx. Gaio,xxvu. Galli, C, xxxvnn, XLvnn. Garcia, A., XO, LVII-LVW.
Genrili, A., xxxvr, XXX\11 e n. Getino, L.G.A, XXXl, LVIll. Giacomo l, x. Giacon, C, XXXJ e n. Giovanni da Legnano, xxv. Giovanni di Heredia, tOI. Girolamo, 95. Gliozzi, G., XVlln. Grozio, V., VIII, XViU, XXV"" xxx, XXXIV, XXXVi.
Guido da Baisio, 89, 10..t , Had.rossek, P., XXX, XXXln. Ila8Renmacher, P., XIVTl. Hecke, G. van, XXXln . Hobbes, Th., XII, XVII, XLVI, L. Hofmann, i I.. , XXXlXn. Ilol'Sl, V . , vn, VIn, LVIll-UX. lannaronc, RA, XlVn . Ignatieff, M., 1.I11n. lsidoro di Siviglja, 29, 104.
XIXn, XXVlIln.
Landucci, S., xvlin . Las Casas, B. de, XVI, XVlln. Lawrance,j., L\1I1n . Legazy LacambOl, L., VHn, XXXVII en. Le:ibniz, G.W.. , \111 .
Lmero, M., XVIII, XXI, 9, 103. Machia\'e11i, N., )(\11. Margiorta Broglio, E, xxo.. Mariana,].. de, \'11-\'111 . Marino, P.. , Xl\·n. Maritain,j., XIxn, u . Maseda, E, Xn, l,VII-LVIII. McA1isrer, L..N., XVn. Mechoulan, H., XlVn. Mdamone, F. ,\<111, XXl. Melloni, A., XX\'In. Migne,J.· P.. ux. Minois, G . , XXVo, XXVln,
LVllI·L1X.
Sch.ud. W. XXXUl. XLln,
Muiloz, A., LVII. Niccolò V, VIII. Nicola de' Tedeschi ( icolaus de Tudeschisl, x, 19, lOJ. Nys, E., XXVIn, xxx, xxxm.
Oeslreich, G., XlXn . Orazio,l04. Ortiz-Arce de la Fueme, A,xlvn.
108
R, xx"n..
alazar, O. de,lOO. Sallustio, 104. Scauota, M., X1\'n, xuxn.
55.61.75.89.104.
Palacios Rubios,j . de, xv.
Radbruch. G.• XXXIXn. Raimondo di Peiiafon, xxv. Raz, M.. de, xv. ~I,
Molina, L. de, VIII, )(\'IIJ.)(JX.. Mozzolino da Prierio, S., x, XX",
Paolo DI, xv. Paolo V,x.
Pietro Lombardo, \'11. Pilato, 49. Pio XII, L1Dn.
Rommen, H.. XXXI e n. Rosmini, A., u. Ruggieri, G., XX\1n. Russd, EH., XX\'n.
L1un.
Pagden, A., LVllln . jUnger, E., xxxvn. Juslenhoven, H.-G., VIn, XXVn,
XVo,
Paolo di Tarso, XVIII, 7,11,31,95. 99. Pena, E de la, x. Pereiia, L., xn, xxn. XXlln, :C(Jvn, xxvutn, XXXI, xuxn, LVII-UX.. Petrus de Brussellis, vedi Croekaen. P.
Schmitt, C, VIUn, XXXllen.Xxxm· XXXIV, xxx\'e n, XLV·XL\'I.
Schnur, R., XXX\'lln. Scou,j . B., XXX, XXXln, Lin. Lvnn.
Selden.J.• xxx.
Sepwvttia, J. Ginés de, X\1. xvlJn. Silvesrro Prierio, vedi Mozzolino da Prierio, S. Sisto V,x_ Skinner,
Q.. , XVlln, XXVlIln.
Solimano il Magnifico. xx..
Sota, D.. de, VIl, XXJ. Stannard, D.E.. , XVI. Sluben,j., VIn, LVIIl-LIX..
Suarez, E. VIIl. Teodosio 1,15,83. Terenzio, 104. Tertulliano,9,IOJ. Todorov. T.. , xlUn. Tommaso d'Aquino, VIJ-IX, XXV, XXVlIJ e n, XXiX e n, Il,27,31,
95. Tosi, G.. XIvn, XXvn . Tostado, A.. , XX\'I. TrujiUo Pérez. I.. , XlXn, XX\'1IIn. Tru)'01 Serra. A, XI\'o, XXlXn. Tuck, R., XXX\1n .
Vrdanoz. T., \<11n, XIn, X\-n, XVlIn, XXVn. XX\1n, XX\'Inn, XXXI, Ulln, L\111-L1X .
Vanderpol, A, XXXln . Vanel, E. de, XXXVI, XLVIIn. Vazque.z, G., XVW. Verhoe...co,)., XI"o .
Villey, M., XXIXn.
VIUn,
XVlJJn,
XXXI, XXXJJ e n..
Walzer, M., L1l1n. Wolff, Ch., VlII. WriWtt, I-I.E. LVII.
Wycliff.J .• XXI. Zolo, D., L1Vn. Zwingli, 11.., XXII .
XIXn,
Indice del volume
Ln1rociuzionc
di Carlo Galli,
ola al testo
v LVII
DE IUHE llELU
Premessa
3
Prima questione
Se in generale sia lecito ai Crisliani fare la guerra
7
Seconda questione
Chi abbia l'autorità di fare o di dichiarare la guerra
17
Terza questione
QuaJi possano essere hl ragione e la causa di una guerra
:n
Quarta questione. I parte Che cosa sia lecito in llna hl'lJcrra giusta,
e in quale misura
35 111
Quarta questione.
n parte
Quale sia la misura dcI Iccito in una guerra giusta
65
Conclusionj
99
Nole
103
Indice dci nomj
107