LIZA MARKLUND DELITTO A STOCCOLMA (Sprängaren, 1998) PROLOGO La donna che presto sarebbe morta uscì circospetta dal port...
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LIZA MARKLUND DELITTO A STOCCOLMA (Sprängaren, 1998) PROLOGO La donna che presto sarebbe morta uscì circospetta dal portone e si guardò intorno. Alle sue spalle, l'atrio era immerso nell'oscurità. Scendendo, non aveva acceso la luce. Il suo cappotto chiaro svolazzava come uno spettro contro il legno scuro. Esitò, prima di avviarsi sul marciapiede, quasi si sentisse osservata. Inspirò velocemente alcune volte; il fiato bianco le aleggiò intorno come un'aureola. Sistemò sulla spalla la tracolla della borsetta e strinse più saldamente la maniglia della ventiquattrore. Sollevò le spalle e si avviò a passo svelto verso la Götgatan. Faceva un freddo intenso, il vento pungente le avvolgeva le gambe fasciate da calze di nylon sottili. Scansò una lastra di ghiaccio e per un breve tratto camminò in equilibrio sul bordo del marciapiede. Poi si allontanò dalla luce del lampione, inoltrandosi nell'oscurità. Il gelo e le ombre attutivano i rumori della notte: il ronzio di un impianto di ventilazione, le grida di alcuni giovani ubriachi, una sirena in lontananza. La donna camminava veloce e determinata, lasciando dietro di sé una scia di profumo costoso. Quando all'improvviso il suo cellulare si mise a suonare, rimase perplessa. Si fermò, irrigidita, e diede una breve occhiata intorno. Si chinò, appoggiò la ventiquattrore alla gamba destra e si mise a frugare nella borsetta. Ogni suo movimento comunicava irritazione e incertezza. Trovò il cellulare e se lo portò all'orecchio. Nonostante il buio e le ombre, le sue reazioni non potevano essere fraintese. L'irritazione si tramutò in sorpresa, diventò collera e si trasformò infine in paura. Quando la conversazione si chiuse, la donna rimase immobile alcuni secondi con il telefonino in mano. Piegò la testa, dando l'impressione di riflettere. Un'auto della polizia la superò lentamente, lei alzò gli occhi, in attesa, e la seguì con lo sguardo senza accennare a fermarla. Poi, risultò evidente che aveva preso una decisione. Girò sui tacchi e si avviò nella direzione da cui era venuta, oltrepassando il portone di legno per dirigersi verso le strisce pedonali all'incrocio con la Katarina Bangata. Mentre aspettava che un autobus notturno passasse, alzò la testa e seguì con lo sguardo la lunga via in salita, fino alla Vintertullstorget e più oltre, lungo il Sickla Kanal. Lassù in alto si vedeva lo stadio Vittoria, l'arena
principale dove di lì a sette mesi si sarebbe svolta la cerimonia d'apertura dei Giochi olimpici. Passato l'autobus, la donna attraversò la Ringvägen e cominciò a risalire la Katarina Bangata. Il suo volto era privo d'espressione, il passo spedito mostrava che aveva freddo. Imboccò il ponte pedonale sul canale di Hammarby ed entrò nel villaggio olimpico attraversando il quartiere riservato ai media. Muovendosi leggermente a scatti si affrettò verso lo stadio. Decise di camminare lungo la riva del canale, sebbene il tragitto fosse più lungo e più esposto al freddo. Il vento proveniente dal Saltsjön era gelido, ma non voleva essere notata. Il buio era compatto, e lei inciampò più di una volta. All'altezza della posta e della farmacia, svoltò verso l'area riservata agli allenamenti e percorse quasi correndo l'ultimo centinaio di metri che la separava dallo stadio. Quando raggiunse l'entrata principale, ansimava ed era arrabbiata. Aprì il portone ed entrò nell'ingresso buio. «Dica cosa vuole, e cerchi di sbrigarsi» esordì, guardando freddamente la persona che si era materializzata dall'ombra. Vide il martello sollevato, ma non fece in tempo a spaventarsi. Il primo colpo le arrivò sull'occhio sinistro. ESISTENZA Subito dietro la recinzione c'era un formicaio gigantesco. Durante la mia infanzia, rimanevo lì in piedi a studiarlo in assoluta concentrazione, talmente da vicino che gli insetti mi risalivano su per le gambe. Mi capitava di seguire una formica nell'erba del giardino, lungo la ghiaia del vialetto e poi su, fino alla striscia di sabbia e infine al formicaio. Lì mi ripromettevo di non perdere di vista l'insetto, ma immancabilmente accadeva. La mia attenzione veniva attratta dalle altre formiche. Quando diventavano troppe, però, il mio interesse si frammentava a tal punto che perdevo la pazienza. A volte, infilavo una zolletta di zucchero nel formicaio. Le formiche adoravano il mio regalo, e io sorridevo mentre vi si riversavano sopra e la spingevano verso il basso. In autunno, quando veniva il freddo e loro diventavano pigre, facevo girare un bastoncino nel formicaio per ridestarle. Gli adulti si arrabbiavano con me, vedendo quel che facevo. Dicevano che sabotavo il loro lavoro e distruggevo la loro casa. Ancora oggi, ricordo la sensazione di ingiustizia subita: in fondo, io non avevo cattive intenzioni,
desideravo solo divertirmi un po'. Volevo dare la sveglia a quelle bestioline. Con il tempo, i miei giochi con le formiche iniziarono a perseguitarmi nei sogni. L'attrazione si trasformò in un terrore senza nome per il loro brulichio. Nella vita adulta, non ho mai potuto guardare più di tre insetti per volta, a prescindere dalla specie. Ogni volta che perdevo il controllo su di loro, mi facevo prendere dal panico. La fobia mi coglieva nello stesso istante in cui percepivo il legame tra me e i minuscoli imenotteri. Ero giovane, e cercavo ancora attivamente le possibili risposte alla situazione in cui mi trovavo, costruivo teorie, confrontandole sotto aspetti diversi. Nella mia visione del mondo non era compresa la possibilità che la vita fosse un capriccio. Qualcosa mi aveva creato. Non avevo idea di cosa potesse essere: il caso, il destino, l'evoluzione o, forse, Dio. Che la vita potesse essere priva di senso, comunque, lo trovavo probabile, e ciò mi riempiva di dolore e di rabbia. Se il tempo che si trascorre sulla terra non aveva significato, la nostra esistenza assumeva le caratteristiche di un esperimento ironico. Qualcuno ci aveva messo quaggiù per studiarci mentre combattevamo, brulicavamo, soffrivamo e lottavamo. Ogni tanto questo Qualcuno distribuiva premi casuali, più o meno come quando si mette una zolletta di zucchero in un formicaio, e osservava la nostra gioia e la nostra disperazione con lo stesso distaccato interesse. Con il passare degli anni, ho trovato conforto. Alla fine, ho capito che non importa che la mia vita abbia un senso elevato. E anche se ce l'ha, non è obbligatorio percepirlo qui e ora. Se ci fossero delle risposte, le avrei già scoperte; dato che così non è, non importa, per quanto possa rifletterci sopra. E questo mi ha dato una sorta di pace. SABATO 18 DICEMBRE Il trillo le arrivò alla coscienza penetrando in uno strampalato sogno di sesso. Era stesa su una barella di vetro in una navicella spaziale, Thomas era sopra di lei e dentro di lei. Tre conduttori del programma radiofonico Studio Sex erano in piedi accanto a loro e li guardavano con il volto privo d'espressione. Le scappava la pipì, tanto da non riuscire quasi a tenerla. "Non puoi andare in bagno adesso, stiamo partendo per lo spazio" le diceva Thomas, e lei vedeva attraverso la finestra panoramica che aveva ragione.
Il secondo trillo lacerò il cosmo e la lasciò sudata e assetata nel buio. Sopra di lei, il soffitto stava sospeso nella penombra. «Allora, rispondi o no? Vuoi che si svegli tutto il palazzo?» bofonchiò Thomas, seccato, in mezzo ai cuscini. Lei girò la testa e gettò un'occhiata alla sveglia: le tre e ventidue. L'eccitazione fu spazzata via in un lampo. Un braccio pesante come il piombo si allungò verso il telefono sul pavimento. Era Jansson, il caporedattore di notte. «Lo stadio Vittoria è saltato in aria, c'è un fuoco d'inferno. Il cronista di turno è già sul posto, ma abbiamo bisogno di te per le edizioni dell'hinterland. Quanto ci metti ad andarci?» Lei respirò per qualche istante, lasciò depositare l'informazione appena ricevuta e sentì l'adrenalina invaderle il corpo e poi il cervello, come un'onda. Lo stadio olimpico, pensò. Fuoco, un casino di quelli mai visti. La zona meridionale della città. Tangenziale sud, oppure lo Skanstullsbro, il ponte. «Come sono messe le strade, si passa?» La sua voce era più impastata di quanto avrebbe voluto. «La tangenziale sud è bloccata. L'uscita adiacente allo stadio è crollata, più di questo non sappiamo. Il sottopassaggio sud può essere stato chiuso, meglio prendere la strada normale.» «Chi c'è per le foto?» «Henriksson è partito, e i freelance sono già sul posto.» Jansson mise giù senza attendere una risposta. Annika ascoltò per qualche secondo il ronzio della linea interrotta, prima di riappoggiare a terra l'apparecchio. «E adesso cosa c'è?» chiese Thomas. Lei sospirò prima di rispondere. «Una specie di esplosione allo stadio olimpico. Mi tocca andarci. Probabilmente, ci vorrà tutto il giorno.» Esitò prima di aggiungere: «E anche la sera». Lui borbottò qualcosa di incomprensibile. Annika si districò con delicatezza dal pigiama umidiccio di Ellen. Inspirò i profumi della bambina: quello dolce della pelle e quello asprigno della bocca da cui il pollice non usciva mai, per poi darle un bacio sulla pelle liscia. La bimba si mosse con aria soddisfatta, si stirò e si appallottolò. Tre anni, eppure così sicura di sé, persino nel sonno. Con il braccio ancora appesantito, Annika compose il numero del radiotaxi, uscì dal calore avvolgente del letto e si sedette sul pavimento.
«Un taxi al numero 32 dell'Hantverkargatan, per favore. Bengtzon. Ho una certa fretta. Allo stadio olimpico. Sì, lo so che è incendiato.» Doveva assolutamente fare la pipì. Fuori faceva un freddo pungente, c'erano almeno dieci gradi sotto zero. Sollevò il collo del cappotto e si abbassò il berretto sulle orecchie, con il fiato odoroso di dentifricio che le circondava la testa come una nuvola di vapore. Il taxi accostò nello stesso istante in cui il portone le si chiudeva alle spalle. «Al porto di Hammarby, lo stadio olimpico» disse Annika quando si fu accasciata sul sedile posteriore con accanto l'ampia borsa a sacco. L'autista le gettò un'occhiata dallo specchietto retrovisore. «Bengtzon. La Bengtzon della "Stampa della Sera", vero?» chiese con un sorriso incerto. «Leggo spesso le sue cronache. Mi è piaciuto quel pezzo sulla Corea, è là che sono andato a prendere i miei bambini. Sono stato anche a Panmunjom, l'ha descritta proprio bene, con i soldati in piedi uno davanti all'altro, senza mai potersi parlare. Era un bell'articolo.» Come al solito, Annika ascoltò le lodi, ma senza cedere troppo alle lusinghe. Non doveva farlo, perché altrimenti poteva svanire la magia, quella che mette le ali al testo. «Grazie, mi fa piacere che lo pensi. Crede che si possa imboccare il sottopassaggio sud? O dobbiamo fare tutta la strada in superficie?» Come la maggior parte dei suoi colleghi, il tassista aveva il completo controllo della situazione. Se accadeva qualcosa nel paese alle quattro del mattino, le telefonate da fare erano due: alla polizia e alla centrale dei taxi. A quel punto, ci si era assicurati un articolo per la prima edizione: la polizia poteva confermare l'accaduto e il tassista era quasi sempre in grado di fornire qualche testimonianza oculare. «Ero sulla Götgatan, quando c'è stata l'esplosione» disse facendo un'inversione a U sulla striscia continua. «Porca miseria, è stata così forte che i lampioni si sono messi a ondeggiare. Cazzo, mi sono detto, questa volta è una bomba. Sono arrivati i russi. Ho chiamato via radio. Pensavo: ma che cavolo... Hanno detto che lo stadio Vittoria era saltato in aria. Uno dei nostri era proprio lì accanto nel momento dell'esplosione, doveva andare a prendere qualcuno in un club senza licenza che hanno messo su in quelle case nuove, sa...» Il taxi imboccò la via che conduceva al Municipio, nel momento in cui Annika pescava dalla borsa blocco e matita.
«E come se l'è cavata?» «Abbastanza bene, credo. Gli è entrato un frammento di metallo dal finestrino laterale, mancandolo di qualche centimetro. Ferite da taglio sul viso, ha detto la radio.» Oltrepassarono la stazione della metropolitana di Gamia Stan, la Città Vecchia, e si avvicinarono allo Slussen. «Dove l'hanno portato?» «Chi?» «Il suo collega con il frammento di metallo.» «Ah, lui. Si chiama Brattström. Al Södra Sjukhus, immagino, è l'ospedale più vicino.» «Il nome di battesimo?» «Non saprei, posso chiederlo per radio...» Si chiamava Arne. Annika tirò fuori il cellulare, s'infilò l'auricolare e premette il menu 1, cioè il numero memorizzato di Jansson, alla sua scrivania di caporedattore di notte. Prima ancora di rispondere, lui sapeva già che era Annika: aveva riconosciuto il suo numero di cellulare sul display del telefono. «C'è un tassista ferito, Arne Brattström, ricoverato al Södra Sjukhus» disse. «Forse possiamo andare a trovarlo, in tempo per la prima edizione...» «Okay» rispose Jansson. «Lo rintracciamo sul Dafa.» Mise giù per un attimo il ricevitore e gridò al cronista di turno: «Cercami sul Dafa un certo Arne Brattström, controlla con la polizia se i parenti sono stati avvertiti e poi telefona alla moglie, ammesso che ne abbia una». Riprese il ricevitore e disse: «Abbiamo già una foto aerea. Quando sarai là?». «Tra sette-otto minuti, dipende dai transennamenti della polizia. Voi cosa fate, adesso?» «Abbiamo l'esplosione, le dichiarazioni della polizia, i giornalisti di turno stanno telefonando agli inquilini delle case vicine per raccogliere testimonianze, uno della cronaca è lì, ma tra poco se ne va a casa. Poi ricapitoliamo i precedenti attentati contro le Olimpiadi, il tizio che ha lanciato le bombe incendiarie allo stadio di Stoccolma e al Nya Ullevi di Göteborg quando è stata presentata la candidatura...» Qualcuno lo interruppe, Annika percepì fin nel taxi l'atmosfera febbrile che regnava in redazione. Si affrettò a dire: «Mi faccio viva quando saprò qualcosa di più» e chiuse la conversazione.
«Hanno transennato tutta l'area in cui gli atleti fanno riscaldamento» la informò il tassista. «Credo sia meglio passare da dietro.» Il taxi svoltò sulla Folkungagatan e sfrecciò verso il Värmdöleden. Annika compose un altro numero sul cellulare. Mentre gli squilli si susseguivano, notò gli ultimi ubriachi ritardatari che si dirigevano verso casa schiamazzando o barcollando. Erano parecchi, più di quanto immaginasse. Ultimamente, le succedeva spesso: quando si era trovata in giro per la città a quell'ora della notte era stato per un qualche crimine. Aveva ormai dimenticato che la città poteva essere vissuta per qualcosa di diverso dalla delinquenza o dal lavoro, e aveva rimosso l'esistenza di un'altra vita che si viveva solo di notte. Una voce stressata rispose all'altro capo della linea. «Lo so che non può ancora raccontarmi niente» esordì Annika. «Mi dica quando ha tempo per parlare. Le telefonerò allora.» L'uomo all'apparecchio sospirò. «Bengtzon, cosa cazzo vuole che ne sappia? Chiami più tardi.» Annika guardò l'orologio. «Sono le quattro meno venti. Devo scrivere il pezzo per l'edizione dell'hinterland. Diciamo alle sette e mezzo?» «Sì, sì, va bene. Alle sette e mezzo.» «Okay, parliamo dopo.» Era riuscita a strappare una promessa, sarebbe stato difficile tirarsi indietro. I poliziotti non sopportavano i giornalisti che telefonavano appena era accaduto qualcosa e volevano subito sapere tutto. Anche se la polizia aveva già raccolto una serie di indizi, era difficile valutare cosa si poteva comunicare all'esterno. Alle sette e mezzo lei avrebbe avuto una serie di osservazioni, domande e teorie sue, e gli investigatori, a loro volta, avrebbero saputo quali informazioni rendere note. Poteva funzionare. «Ecco, adesso si vede il fumo» disse il tassista. Annika si sporse oltre il sedile anteriore del passeggero, guardando in alto a destra. «Già, guarda che roba.» Un pennacchio nero e sottile saliva verso la pallida mezzaluna. Il taxi lasciò il Värmdöleden e imboccò la tangenziale sud. La strada era bloccata a diverse centinaia di metri dall'imbocco del tunnel e dallo stadio vero e proprio. Una decina di altri veicoli erano già allineati davanti agli sbarramenti. Il taxi si fermò nelle vicinanze, e Annika consegnò all'autista la carta di credito. «Deve tornare? Vuole che l'aspetti?» chiese l'uomo. Annika abbozzò un pallido sorriso. «No, grazie, temo che sarà una fac-
cenda un po' lunga.» Raccolse blocco, matita e cellulare. «Buon Natale!» le augurò il tassista subito prima che lei chiudesse la portiera. Oh, Signore, pensò lei, manca un'intera settimana e già si comincia a farsi gli auguri. «Grazie, altrettanto» disse rivolta al lunotto del taxi. Si fece strada tra auto e persone fino ad arrivare alle transenne. Non erano della polizia. Bene. Quelle, Annika le rispettava. Saltò le barriere della manutenzione stradale, mettendosi subito a correre. Non sentì le grida irritate alle sue spalle mentre, alzando lo sguardo, osservava la grande costruzione. Era passata di lì in macchina in varie occasioni, e ogni volta era rimasta affascinata dall'imponente edificio. Lo stadio Vittoria era stato costruito scavando la montagnetta della pista da slalom di Hammarby. Gli ambientalisti avevano protestato, naturalmente, lo facevano sempre quando si trattava di abbattere qualche albero. La tangenziale sud penetrava dritto nella montagnetta passando proprio sotto lo stadio, ma adesso l'apertura era ostruita da grossi blocchi di cemento e diversi automezzi d'emergenza. I lampeggianti sul tettuccio dei veicoli si riflettevano sull'asfalto umido. La tribuna nord, che sporgeva sull'imbocco del tunnel come un grande fungo, era distrutta. La bomba doveva essere esplosa proprio lì. I resti a brandelli della sua sagoma arrotondata si stagliavano contro il cielo notturno. Annika continuò a correre e si rese conto che, probabilmente, non sarebbe riuscita ad avvicinarsi molto di più. «Senta un po', dove crede di andare?» gridò un pompiere. «Lassù!» gli gridò lei di rimando. «Ma è tutto transennato!» "Ah, davvero?" borbottò Annika tra sé. "Allora prova a prendermi!" Procedette diritto e piegò verso destra. Il Sickla Kanal era gelato, sotto di lei. Più avanti, dall'altra parte della striscia di ghiaccio, c'era una specie di basamento di cemento, un piano su cui poggiava la strada prima di scomparire nella montagna. Annika si issò sul parapetto in quel punto e saltò giù dall'altra parte: il dislivello era di poco più di un metro. Quando atterrò, la borsa a sacco le rimbalzò sulla schiena. Si fermò un istante per guardarsi intorno. Era stata all'interno dello stadio solo due volte, in occasione di una visita riservata alla stampa, quell'estate, e una domenica pomeriggio in autunno, insieme ad Anne Sapphane. Alla sua destra c'era quello che sarebbe diventato il villaggio olimpico, gli appartamenti ancora incompleti nella zona portuale di Hammarby dove gli
atleti avrebbero alloggiato durante i Giochi. Le finestre erano come buchi neri, sembrava che tutti i vetri del quartiere fossero andati in frantumi. Davanti a lei, s'intravedeva un impianto per gli allenamenti. Alla sua sinistra, si ergeva un muro di cemento alto dieci metri. Là sopra c'era lo spiazzo con il grande ingresso dello stadio. Annika si mise a correre lungo il muro cercando di distinguere i suoni che udiva: una sirena lontana, voci distanti, il sibilo di un cannone ad acqua o forse di un grosso ventilatore. I lampeggianti rossi degli automezzi d'emergenza danzavano sul muro. Annika ne doppiò l'estremità e cominciò a salire di corsa le scale nel momento stesso in cui un poliziotto cominciava a srotolare il nastro blu e bianco. «Guardi che stiamo bloccando l'ingresso!» le gridò. «Il mio fotografo è lassù!» rispose lei. «Vado soltanto a prenderlo.» Il poliziotto le fece cenno di passare. "Spero proprio di non aver mentito" pensò Annika. La scalinata era divisa in tre rampe uguali. Quando arrivò in cima, Annika era boccheggiante. L'intero spiazzo era ingombro di mezzi di soccorso e gente che correva da una parte all'altra. Due dei pilastri che sostenevano la tribuna nord erano crollati e dappertutto c'erano sedili verdi di plastica contorti. Era appena arrivata una troupe televisiva, Annika vide anche un cronista della rivale testata pomeridiana e tre fotografi freelance. Alzò gli occhi e guardò il foro provocato dalla bomba. In alto giravano cinque elicotteri, dei quali almeno due inviati dai media. «Annika!» Era il fotografo Johan Henriksson della "Stampa della Sera", un sostituto, ventitreenne, che in passato aveva lavorato in un giornale locale a Östersund. Era dotato di un talento pari all'ambizione, due qualità importanti, anche se la seconda era di certo preponderante. Stava arrivando di corsa con un paio di macchine fotografiche ballonzolanti sul petto e la borsa che gli rimbalzava sulla spalla. «Cosa sei riuscito a fare?» gli chiese Annika tirando fuori blocco e matita. «Sono arrivato mezzo minuto dopo i pompieri. Ho fotografato un'ambulanza che portava via un tassista, doveva essersi tagliato. I pompieri hanno avuto dei problemi a far arrivare l'acqua fino alla tribuna, e così hanno fatto entrare il camion direttamente nello stadio. Ho scattato delle immagini dell'incendio da fuori, ma non sono riuscito a entrare proprio dentro. Un paio di minuti fa, però, i piedipiatti si sono messi a correre come pazzi. Dev'essere successo qualcosa.»
«Oppure hanno trovato qualcosa» disse Annika mettendo via il blocco. Tenendo la matita come il testimone di una staffetta, cominciò a correre verso l'ingresso in fondo. Se non ricordava male, doveva trovarsi un po' a destra, sotto la tribuna crollata. Nessuno la fermò mentre attraversava la grande piattaforma, c'era troppo caos perché qualcuno le prestasse attenzione. Si fece strada a zigzag in mezzo a frammenti di cemento, lamiere contorte e sedili di plastica. Una scala a quattro rampe portava all'entrata. Quando arrivò in cima, Annika ansimava. La polizia aveva fatto in tempo a transennare la zona davanti al portone, ma non importava: aveva già visto abbastanza. Il portone era integro e pareva chiuso a chiave. Come al solito, gli istituti privati di vigilanza non potevano fare a meno di attaccare ridicoli adesivi all'entrata degli edifici che dovevano controllare, e lo stadio olimpico non faceva eccezione. Annika tirò fuori il blocco e buttò giù nome e numero di telefono. «Per favore, abbandonate immediatamente la zona. C'è pericolo di crolli! Ripeto...» Un'auto della polizia stava percorrendo la piattaforma più sotto con l'altoparlante acceso. La gente si ritirò rapidamente verso l'area riservata al riscaldamento degli atleti e il villaggio olimpico più in basso. Annika s'incamminò lungo il muro esterno dello stadio ed evitò in questo modo di tornare sulla piattaforma. Scese invece la rampa che digradava curvando leggermente a sinistra lungo tutto l'edificio. C'erano altre entrate, e lei voleva dare un'occhiata a tutte. Nessuna era stata danneggiata o manomessa. «Mi scusi, signora, è ora di andare.» Un giovane poliziotto le appoggiò una mano sul braccio. «Chi è il comandante?» chiese lei tirando fuori il tesserino di giornalista. «Non ha tempo, adesso. Senta, deve andarsene subito. Dobbiamo sgombrare tutta la zona.» L'agente si avviò tirandola per il braccio, era evidente che aveva fretta. Annika si divincolò piazzandoglisi davanti. Doveva tentare: «Cos'avete trovato nello stadio?». L'uomo esitò. «Non lo so con precisione, e poi non lo posso dire» rispose. Tombola! «Chi me lo può dire, allora? E quando?» «Non lo so, provi a chiamare il numero della polizia giudiziaria. Adesso, però, fuori di qui!»
La polizia transennò tutta l'area fino al centro riservato agli allenamenti, a diverse centinaia di metri dallo stadio. Annika si ritrovò con Henriksson nell'edificio che avrebbe ospitato i ristoranti e il cinema. Avevano cominciato a organizzare un centro stampa provvisorio nel punto più largo del marciapiede, davanti alla posta. Arrivavano di continuo giornalisti, molti giravano sorridenti salutando i colleghi. Annika non amava troppo quelle cameratesche pacche sulle spalle, la gente che si muoveva nei luoghi degli incidenti vantandosi dell'ultima festa a cui aveva partecipato. Si mise in disparte, portando con sé il fotografo. «Devi correre subito al giornale?» chiese. «Sta per andare in stampa la prima edizione.» «No, ho dato i miei rullini ai freelance. Possiamo fare con calma.» «Bene. Ho la sensazione che tra poco ci saranno delle novità.» Il pulmino attrezzato di una delle reti televisive accostò vicino a loro. Annika e Johan si avviarono dalla parte opposta, passando davanti alla banca e alla farmacia per poi scendere verso il canale. Annika si fermò a guardare verso lo stadio: la polizia e i mezzi dei pompieri erano ancora fermi sulla piattaforma. Cosa stavano facendo? Soffiava un vento gelido; più in là, sul lago di Hammarby, la fenditura scavata da un rompighiaccio luccicava come una ferita sulla superficie gelata. Annika voltò le spalle al vento e si scaldò il naso nella mano guantata. Tra le dita vide improvvisamente due auto bianche arrivare a bassa velocità sul ponte pedonale da Södermalm. Cazzo, quella era un'ambulanza! E l'altra un'auto del centro medico! Guardò l'orologio: le quattro e trentacinque. Ancora tre ore, prima di poter chiamare la sua fonte. Infilò l'auricolare e provò con il numero della polizia giudiziaria. Occupato. Telefonò a Jansson. «Cosa vuoi?» «C'è un'ambulanza che sta salendo verso l'arena.» «Vado in stampa tra sette minuti.» Annika sentì che batteva freneticamente i tasti del computer. «Cosa dicono le agenzie? Si sa di qualche ferito?» «C'è solo la notizia del tassista, ma non hanno parlato con lui. Sono usciti con le condizioni dello stadio e le dichiarazioni della polizia, che ancora non vuole pronunciarsi. La solita roba, niente di interessante.» «Il tassista l'hanno portato via un'ora fa, ma qui c'è qualcos'altro. Alla radio della polizia cosa dicono?» «Niente che possa far pensare a qualche sviluppo.» «Non ha chiamato nessuno, al telefono?»
«No.» «Giornali radio?» «Niente, per ora. Ci sarà un'edizione straordinaria del telegiornale alle sei.» «Sì, ho visto il pulmino.» «Tieni d'occhio la situazione. Ti chiamo quando abbiamo mandato in stampa la prima edizione.» Finita la conversazione, Annika chiuse il telefono ma tenne l'auricolare. «Perché hai quell'affare?» chiese Henriksson indicando il filo che le scendeva lungo la guancia. «Non lo sai che il cervello va in pappa, per colpa delle radiazioni dei cellulari?» Sorrise. «Lo trovo pratico. Posso correre, scrivere e parlare contemporaneamente. E poi è silenzioso, quando telefono non si sente niente.» Il gelo le fece venire le lacrime agli occhi, dovette socchiuderli per vedere cosa stava succedendo laggiù, nello stadio. «Ce l'hai un teleobiettivo di quelli mega?» «Non funzionano, con questo buio» rispose Henriksson. «Prendi il più grosso che hai e prova a riprendere quello che succede laggiù» disse lei indicando con il guanto. Henriksson sospirò appena, mise per terra la borsa e guardò attraverso la lente. «Mi servirebbe il treppiede» borbottò. I due automezzi avevano accostato vicino a un pendio erboso e parcheggiato davanti alla scala di uno degli ingressi principali. Da quello del centro medico scesero tre uomini, che si misero a parlare dietro il veicolo. Si avvicinò un uomo in uniforme, si salutarono. Intorno all'ambulanza, nessun movimento. «Non hanno fretta, questo è certo» commentò il fotografo. Arrivarono altri due poliziotti, uno in uniforme e l'altro in abiti civili. Gli uomini parlavano e gesticolavano, uno indicò il foro provocato dalla bomba. Il cellulare di Annika trillò. Lei premette il pulsante: «Sì?». «Che fa l'ambulanza?» «Niente. Aspetta.» «Cosa facciamo per la prossima edizione?» «Qualcuno è riuscito a contattare il tassista all'ospedale?» «Non ancora, ma abbiamo là alcuni dei nostri. Non è sposato, e nemmeno convive.» «Abbiamo contattato il direttore generale del comitato organizzatore,
Christina Furhage?» «Non risponde.» «Che trauma dev'essere, per lei, con tutto il daffare che si è data... Dobbiamo stare dietro anche alle ripercussioni sui Giochi: cosa accadrà, adesso? La tribuna sarà riparata in tempo? Cosa dice Samaranch? Eccetera eccetera.» «Sì, certo. Ho della gente, qui, che se ne sta occupando.» «Allora, io faccio la cronaca dell'attentato. Deve trattarsi di un sabotaggio. Tre articoli: la caccia al dinamitardo da parte della polizia, il luogo dell'attentato visto da vicino e...» Si zittì. «Bengtzon?» «Stanno aprendo la porta posteriore dell'ambulanza. Fanno uscire la barella e salgono verso l'ingresso. Cazzo, Jansson, c'è un'altra vittima!» «Okay: la caccia al dinamitardo, io-c'ero e la vittima. Ti do la sesta, la settima, l'ottava e la doppia pagina centrale.» La linea era caduta. Annika era tesissima, mentre gli uomini salivano verso lo stadio. La macchina fotografica di Henriksson scattava una foto dietro l'altra. Nessun altro giornalista si era accorto dei due automezzi, l'impianto riservato agli allenamenti impediva la visuale. «Accidenti, che freddo» si lamentò Henriksson quando gli uomini scomparvero nello stadio. «Andiamo in macchina a telefonare» disse Annika. Tornarono verso l'assembramento di giornalisti. La gente, in piedi, tremava dal freddo, quelli della televisione srotolavano i cavi, alcuni dei cronisti soffiavano sulle biro. "Possibile che non imparino mai a portarsi delle matite, quando si scende sotto zero?" pensò Annika con un sorriso. Quelli della radio sembravano insetti, con le attrezzature che gli spuntavano sulla schiena. Tutti aspettavano. Uno dei freelance che lavorava per "La Stampa della Sera" era già tornato dopo aver consegnato il materiale al giornale. «Ci dovrebbe essere una specie di conferenza stampa alle sei» disse. «Proprio durante l'edizione straordinaria del telegiornale, splendido» borbottò Annika. Henriksson aveva parcheggiato la macchina sul retro dei campi da tennis e dell'infermeria. «Arrivavo proprio dalla direzione che hanno bloccato per prima» disse come per scusarsi. C'era un po' di strada da fare. Annika sentì che stava perdendo la sensibi-
lità nelle dita dei piedi. Avevano cominciato a cadere dei leggeri fiocchi di neve, il che non era certo positivo quando si dovevano scattare delle foto al buio con il teleobiettivo. Dovettero spazzolare via la neve dal parabrezza della Saab di Henriksson. «Qui va benissimo» disse Annika guardando verso lo stadio. «Si vedono sia l'ambulanza che l'auto. Abbiamo un controllo perfetto della situazione.» Salirono in macchina e accesero il motore. Annika cominciò a telefonare. Provò di nuovo con la polizia giudiziaria. Occupato. Telefonò al numero delle chiamate d'emergenza e domandò chi aveva dato l'allarme per primo, quanti allarmi avevano ricevuto, se qualcuno era rimasto ferito negli appartamenti di fronte allo stadio quando erano volati via i vetri e se avevano un'idea dell'ammontare dei danni. Come al solito, il personale era in grado di fornire quasi tutte le risposte. Poi compose il numero che aveva copiato dall'adesivo sul portone, quello dell'istituto di vigilanza incaricato di controllare lo stadio Vittoria. Si ritrovò collegata a una centrale di Stadshagen, sull'isola di Kungsholmen. Chiese se avevano ricevuto un allarme dallo stadio olimpico nelle prime ore del mattino. «Abbiamo il vincolo di segretezza sugli allarmi che riceviamo» rispose l'uomo all'altro capo del filo. «Certo» disse Annika «ma io non sto parlando di un allarme che avete ricevuto, piuttosto di uno che probabilmente non vi è proprio arrivato.» «Be'» rispose l'uomo «non rispondiamo in generale alle domande sugli allarmi.» «Sì, capisco» insistette Annika in tono paziente. «La mia domanda è se dallo stadio olimpico ve ne sono arrivati o no.» «Senta» sbottò l'uomo «è sorda, per caso?» «Va bene» disse Annika. «Allora, mettiamola così: cosa succede quando viene inviato un allarme?» «Arriva a noi.» «Alla centrale?» «Sicuro. Passa nel nostro sistema computerizzato e poi ci compare sullo schermo insieme a un piano d'emergenza su come dobbiamo muoverci.» «Se arriva un allarme dallo stadio olimpico, dunque, lei lo vede sullo schermo?» «Be', sì.» «E sullo schermo appaiono anche i provvedimenti da prendere per
quell'allarme specifico?» «Esatto.» «E allora che provvedimenti ha preso il suo istituto di vigilanza per lo stadio olimpico, stanotte? Non ho visto nemmeno una delle vostre macchine, qui.» L'uomo non rispose. «Lo stadio Vittoria è esploso, immagino che su questo siamo d'accordo. Cosa deve fare il suo istituto nel caso che l'arena olimpica prenda fuoco o venga danneggiata?» «C'è scritto nel computer» rispose l'uomo. «E dunque, cos'avete fatto?» L'uomo rimase in silenzio. «Non vi è arrivato nessun allarme dallo stadio, vero?» disse Annika. L'uomo tacque ancora per un momento prima di rispondere: «Come le ripeto, non sono autorizzato a dare informazioni nemmeno sugli allarmi che non ci sono pervenuti». Annika inspirò a fondo e sorrise. «Grazie lo stesso.» «Però non scriverà niente di quello che le ho detto, vero?» chiese l'uomo preoccupato. «Detto?» ripeté Annika. «Lei non mi ha detto un bel niente. Si è solo appellato al vincolo di segretezza.» Adesso aveva la conferma della sua impressione. Fissò lo sguardo oltre il parabrezza. Uno dei camion dei pompieri stava partendo, ma l'ambulanza e l'auto erano ancora lì. Erano arrivati i tecnici della Scientifica, i loro furgoni erano parcheggiati in diversi punti della piattaforma. Alcuni uomini in tuta grigia caricavano e scaricavano. Le fiamme dovevano essere state spente, ormai, non si vedeva quasi più fumo. «Come ci è arrivata la notizia, stamattina?» chiese. «Ha chiamato "Svelto"» rispose Henriksson. Ogni redazione ha una rete di informatori più o meno professionali che tengono d'occhio ciò che succede nelle rispettive zone di sorveglianza, e "La Stampa della Sera" non faceva eccezione. Svelto e Leif erano i migliori, quando c'era di mezzo la polizia: praticamente dormivano con la radio della polizia accanto al letto. Qualsiasi avvenimento, piccolo o grande, veniva comunicato per telefono ai giornali. Altri "suggeritori" frugavano negli archivi dell'apparato giudiziario e presso le diverse autorità. Annika sprofondò nei suoi pensieri e lasciò spaziare lentamente lo sguardo sulle altre parti della grande struttura olimpica. Dritto davanti a lo-
ro si ergeva la palazzina di dieci piani che avrebbe funzionato come centro tecnologico durante i Giochi. Dal tetto partiva un ponte pedonale che lo collegava alla montagnetta. Strano, chi mai avrebbe avuto bisogno di andare lassù? Seguì la passerella con lo sguardo. «Henriksson» disse «c'è un'altra foto da scattare.» Guardò l'orologio. Le cinque e mezzo. Avrebbero fatto in tempo per la conferenza stampa. «Se ci si arrampica lassù accanto al braciere olimpico, in cima alla montagnetta, si dovrebbe vedere un bel po' di roba.» «Ne sei convinta?» chiese il fotografo, scettico. «Hanno costruito dei muri altissimi proprio perché nessuno riesca a entrare di straforo o guardare dove non deve.» «No, il campo di gara non si vedrà senz'altro, ma forse la tribuna nord sì, ed è quella che ci interessa.» Henriksson guardò l'orologio. «Ce la facciamo? E non credi che l'elicottero abbia già scattato foto aeree a sufficienza? Fra l'altro, dovremmo tenere d'occhio l'ambulanza.» Annika si morse il labbro. «L'elicottero non c'è, adesso, forse la polizia l'ha costretto ad atterrare. Chiediamo a uno dei freelance di sorvegliare l'ambulanza. Vieni, andiamo.» Anche gli altri giornalisti si erano accorti dell'ambulanza, e le domande si accavallavano. Il pulmino della televisione si era spostato più in giù, verso il canale, per avere una visuale migliore dello stadio. Una cronista congelata preparava una diretta per l'edizione delle sei. Non si vedevano poliziotti in giro. Dopo aver dato istruzioni ai freelance, Annika si avviò con Henriksson. Salire sulla montagnola fu un'impresa più ardua di quanto avesse immaginato. Il terreno era scivoloso e pietroso. Continuavano a inciampare e imprecare nell'oscurità. Henriksson si trascinava dietro, fra l'altro, anche un grosso treppiede. Non dovettero oltrepassare alcuno sbarramento e arrivarono in cima in tempo, ma solo per trovarsi davanti un muro di cemento alto due metri e mezzo. «Oh, no, non può essere vero!» gemette Henriksson. «E invece sì, e forse non è un male» disse Annika. «Monta sulle mie spalle, e io ti tiro su. Così puoi salire sul braciere vero e proprio. Da lì dovresti poter vedere qualcosa.» Il fotografo la fissò incredulo. «E secondo te io dovrei arrampicarmi sul braciere olimpico?»
«Certo, perché no? Non è mica acceso, adesso, e non è transennato. Sono sicura che puoi farcela, è a pochi metri dal muro. Se è fatto per sostenere il fuoco eterno, dovrà pur reggere il tuo peso. Dài, sali!» Annika gli passò il treppiede e la borsa con le macchine fotografiche. Henriksson si issò sul supporto di metallo. «Qui è pieno di forellini!» gridò. «Sono i beccucci del gas» spiegò Annika. «La vedi la tribuna?» Lui si alzò in piedi e guardò verso l'arena. «Riesci a vedere qualcosa?» strillò Annika. «Cazzo, se vedo qualcosa!» disse il fotografo. Lentamente, sollevò la macchina fotografica e cominciò a scattare. «Cosa vedi?» Il fotografo abbassò l'apparecchio senza distogliere lo sguardo dall'arena. «Hanno illuminato una zona della tribuna» rispose. «Saranno una decina di persone. Stanno girando e raccogliendo qualcosa che infilano in sacchettini di plastica. Ci sono anche quelli dell'auto del centro medico. Danno una mano anche loro. Sembrano molto minuziosi.» Sollevò di nuovo la macchina. Annika sentì i capelli che le si rizzavano sulla nuca. Merda. Poteva davvero essere come pensava? Henriksson aprì il treppiede e scattò tre rallini. Scesero giù dalla montagnetta correndo a tratti e scivolando, scossi e leggermente turbati. Cosa raccoglievano nei sacchettini di plastica? Resti di esplosivo? Alquanto improbabile. Quando mancavano un paio di minuti alle sei, erano di nuovo giù, nel punto in cui si erano raccolti i giornalisti. La luce bluastra delle telecamere illuminava la scena, facendo scintillare i fiocchi di neve. Quelli del telegiornale avevano sistemato i cavi e la cronista si era incipriata il viso. Un gruppo di poliziotti guidati dal comandante si stava dirigendo verso di loro. Scostarono le transenne, ma non riuscirono a proseguire oltre. Il muro di giornalisti era compatto. Quando l'ufficiale socchiuse gli occhi, abbagliato dalla luce dei riflettori, cadde il silenzio. Abbassò lo sguardo su un foglio che aveva davanti, lo rialzò e cominciò a parlare. «Alle tre e diciassette di questa mattina, una carica esplosiva è scoppiata allo stadio Vittoria di Stoccolma. Non è noto che tipo di esplosivo sia stato usato. Lo scoppio ha danneggiato gravemente la tribuna nord. Non è ancora stato possibile stabilire tempi e modi della ristrutturazione.» Si interruppe e guardò di nuovo il foglio. Le macchine fotografiche iniziarono a scattare, le pellicole frusciavano nelle telecamere. Annika si era messa all'estremità sinistra dell'assembramento per tenere d'occhio l'ambu-
lanza pur continuando a seguire la conferenza stampa. «Lo stadio ha preso fuoco in seguito all'esplosione, ma ora l'incendio è sotto controllo.» Nuova pausa. «Un tassista è rimasto ferito quando un frammento di armatura da cemento è penetrato attraverso il finestrino della sua auto» continuò il poliziotto. «L'uomo è stato trasportato al Södra Sjukhus e sta bene. Una decina di condomini sul lato opposto del Sickla Kanal ha subito danni a finestre e facciate. Gli edifici sono ancora in costruzione, e dunque disabitati. Non sono stati riferiti danni alle persone.» Ancora una pausa. Il poliziotto aveva un'espressione esausta e molto severa, quando riprese. «Si tratta di un sabotaggio. La carica esplosiva che ha distrutto lo stadio doveva essere molto potente. La polizia sta raccogliendo gli indizi e abbiamo messo a disposizione tutte le risorse disponibili per l'individuazione e la cattura dei responsabili. Per ora, non abbiamo altro da aggiungere. Grazie.» Si voltò per ripassare le transenne. Un'ondata di voci e richieste lo indusse e fermarsi. «... qualche sospetto?» «... altre vittime?» «... e l'ambulanza?» «Per ora è tutto» ripeté l'ufficiale, andandosene. A passi veloci e con la testa incassata tra le scapole, si allontanò insieme ai suoi colleghi. Il branco di giornalisti si disperse, la cronista del telegiornale si piazzò sotto la luce dei riflettori e scodellò il testo preparato, ripassando poi la linea allo studio. Tutti si gettarono sui propri cellulari e tentarono di far funzionare le biro. «Be'» commentò Henriksson «non è che abbia detto molto.» «È ora di andare» disse Annika. Lasciarono di vedetta uno dei freelance e tornarono verso l'auto di Henriksson. «Passiamo da Vintertullstorget e sentiamo qualche testimone» propose Annika. Suonarono al citofono nelle case più vicine allo stadio, famiglie con bambini e pensionati, alcolisti e fanatici della musica pop. Tutti raccontarono dello scoppio che li aveva svegliati, dello choc e della paura. «Per adesso basta» disse Annika verso le sette meno un quarto. «Abbia-
mo abbastanza materiale su cui lavorare.» Lungo il tragitto verso il giornale rimasero in silenzio. Annika scriveva mentalmente occhielli e sommari, Henriksson esaminava i negativi nel suo cervello, selezionava e scartava. Adesso nevicava sul serio. La temperatura era salita di parecchi gradi, rendendo l'asfalto pericolosamente scivoloso. Lungo l'Essingeleden c'era stato un tamponamento a catena che aveva coinvolto quattro automobili. Henriksson si fermò per scattare alcune foto. Arrivarono in redazione subito prima delle sette. L'atmosfera era composta ma carica. Jansson era ancora lì, nei fine settimana il caporedattore di notte curava anche le edizioni dell'hinterland. In genere, il sabato non c'erano molte variazioni, ma si doveva sempre essere pronti a rivoluzionare l'intera impaginazione del giornale. Era proprio ciò che stava accadendo in quel momento. «Tiene?» chiese Jansson alzandosi velocemente nello stesso istante in cui li vide arrivare. «Credo di sì» disse Annika. «Sulla tribuna olimpica c'è un cadavere. A polpette, ci scommetto quello che vuoi. Tra mezz'ora lo saprò con sicurezza.» Jansson si dondolò sui talloni e poi di nuovo sulle punte, avanti e indietro. «Mezz'ora? Non prima?» Annika gli gettò un'occhiata mentre si sfilava il cappotto con qualche difficoltà, prendeva un'edizione per la provincia, la prima della giornata, ed entrava nel suo ufficio. «Va bene» disse lui, e tornò a sedersi. Annika scrisse subito l'articolo di nuda cronaca, che era solo un completamento del lavoro del giornalista di turno quella notte per la prima edizione. Ci aggiunse le testimonianze degli abitanti nei dintorni dello stadio e l'informazione che l'incendio era sotto controllo. Poi si dedicò alla parte "io-c'ero", infarcendola di descrizioni e dettagli. Alle sette e ventotto chiamò la sua fonte. «Non posso ancora dire niente» esordì lui. «Lo so» rispose Annika. «Facciamo che parlo io, mentre lei sta zitto e mi interrompe solo se sbaglio...» «Questa volta non si può.» Merda. Annika inspirò e scelse di andare all'attacco. «Prima mi ascolti» disse. «Credo che le cose stiano così: stanotte è morto qualcuno, nello stadio olimpico. Una persona sulla tribuna è stata ridotta
a pezzettini. Adesso siete lì e li state raccogliendo. Si tratta del lavoro di un insider, visto che gli allarmi erano tutti staccati. Ci devono essere centinaia di allarmi, in uno stadio del genere: antifurto, antincendio, cellule fotoelettriche e chi più ne ha più ne metta. Erano tutti spenti. Le porte non sono state forzate. Qualcuno è entrato con una chiave e ha staccato tutto, o la vittima o il colpevole. In questo momento state cercando di capire chi dei due.» Tacque e trattenne il respiro. «Non può rendere pubblico tutto questo adesso» disse il poliziotto all'altro capo del filo. Espirazione veloce. «Tutto questo cosa?» «La teoria dell'"insider job". Vogliamo tenerla segreta. Gli allarmi funzionavano, ma erano stati staccati. C'è stato un morto, è vero. Non sappiamo ancora chi sia.» Dalla voce sembrava distrutto. «Quando lo saprete?» «L'identità sarà difficile da stabilire visivamente, per così dire. Anche se abbiamo altri indizi. Non posso spingermi oltre.» «Uomo o donna?» L'uomo esitò. «Non adesso» disse, e riattaccò. Annika si precipitò da Jansson. «C'è la conferma del morto, ma non sanno ancora di chi si tratta.» «Carne trita?» chiese Jansson. Lei deglutì e fece cenno di sì con la testa. Helena Starke si svegliò con un mal di testa lancinante. Doveva ancora smaltire la sbornia. Finché rimase distesa nel letto, le cose andarono bene, ma quando si alzò per andare a prendere un bicchiere d'acqua vomitò sul tappeto dell'ingresso. Rimase carponi ad ansimare per un po', prima di trovare la forza di entrare barcollando nel bagno. Una volta lì, riempì il bicchiere dello spazzolino e bevve a lunghe sorsate. Buon Dio, non si sarebbe mai più ubriacata. Alzò lo sguardo e incrociò quello dei suoi occhi iniettati di sangue in mezzo agli schizzi di dentifricio sullo specchio. Possibile che non imparasse mai?! Aprì l'armadietto e spinse fuori dall'astuccio di stagnola due pastiglie di analgesico, le ingoiò con molta acqua e pregò in cuor suo di riuscire a non espellerle. Andò vacillando in cucina e si sedette al tavolo. Sotto le cosce nude la sedia era fredda, le faceva un po' male il basso ventre. Quanto aveva bevuto, in realtà, la sera prima? La bottiglia del cognac era sul bancone, vuota.
Appoggiò la guancia sul ripiano del tavolo e frugò nella memoria in cerca di ricordi. Il locale, la musica, tutti i visi che si mescolavano accavallandosi gli uni agli altri. Santo cielo, non ricordava neppure come era arrivata a casa! Christina era con lei, no? Erano andate via dal locale insieme, giusto? Si alzò e riempì una brocca d'acqua per portarsela a letto. Mentre tornava in camera raccolse il tappeto e lo gettò nel cesto della biancheria sporca, dentro l'armadio dell'ingresso. Sentendo l'odore, per poco non vomitò di nuovo. La radiosveglia sul comodino indicava le nove meno cinque. Helena represse un gemito. Più invecchiava, più si svegliava presto, soprattutto quando aveva bevuto. Un tempo era capace di smaltire le sbornie dormendo per una giornata intera. Ora non ci riusciva più. Stava male da morire e rimaneva per tutto il tempo stesa a sudare. Poteva appisolarsi per qualche istante, ma di dormire non c'era verso. Allungò faticosamente un braccio verso l'acqua e bevve direttamente dalla brocca. Sollevò i cuscini contro la testiera del letto e si appoggiò. In quel momento, vide gli abiti che indossava il giorno prima ben piegati sul cassettone vicino alla finestra, e sentì un brivido salirle lungo la spina dorsale. Chi cazzo li aveva messi lì? Probabilmente, lei stessa. Era la conseguenza più sgradevole del fatto di perdere la memoria quando ci si ubriacava: si andava in giro come zombi e si facevano un sacco di cose normali senza rendersene conto. Rabbrividì e accese la radiosveglia. Tanto valeva ascoltare il giornale radio e aspettare che l'analgesico facesse effetto. La notizia d'apertura di quella mattina la fece vomitare di nuovo. E da quel momento in poi, seppe che per Helena Starke non ci sarebbe più stato modo di riposare, quel giorno. Dopo aver ripulito il vomito, sollevò il ricevitore e chiamò Christina. L'agenzia stampa TT uscì con le informazioni di Annika alle 9.34. "La Stampa della Sera" era dunque stato il primo quotidiano a diffondere la notizia della vittima dell'esplosione. I titoli del giornale recitavano: Bomba allo stadio Vittoria: un morto e Il dinamitardo ricercato per omicidio Quest'ultima affermazione era un po' tirata per i capelli, ma Jansson era
del parere che tenesse. A centro pagina campeggiava la foto di Henriksson dal braciere olimpico, uno scorcio suggestivo: il cerchio illuminato dai riflettori della Scientifica sotto il foro della bomba, gli uomini chini in avanti, la danza dei fiocchi di neve. Era di grande impatto senza risultare macabra. Niente sangue, niente cadaveri, solo l'intuizione di quel che si stava facendo. L'avevano già venduta alla Reuter. Il telegiornale delle dieci citava "La Stampa della Sera" come fonte, mentre il giornale radio fingeva che fosse farina del suo sacco. Quando l'edizione cittadina fu mandata in stampa, i cronisti della nera e i capiredattori si riunirono nell'ufficio di Annika. Gli scatoloni con i suoi raccoglitori e i vecchi ritagli di giornale erano ancora impilati in un angolo. Il divano l'aveva ereditato, ma la scrivania era nuova. Da due mesi Annika era stata promossa caposervizio della redazione di cronaca nera, e quello era diventato il suo ufficio. «C'è una serie di cose che dobbiamo discutere, e poi dividerci i compiti» disse mettendo i piedi sulla scrivania. La stanchezza le era piombata addosso all'improvviso quando il giornale era andato in stampa e stava riprendendo fiato. Si allungò all'indietro, cercando di raggiungere la tazza di caffè. «Primo: chi è il morto sulla tribuna? È l'argomento principale di domani, che può trasformarsi in una serie di articoli. Secondo: la caccia all'assassino. Terzo: le prospettive per le Olimpiadi. Quarto: com'è potuto accadere? Quinto: il tassista, nessuno gli ha parlato, per ora. Ha forse visto o sentito qualcosa?» Alzò gli occhi sulle persone sedute nell'ufficio, leggendo la loro reazione a ciò che aveva appena detto. Jansson sonnecchiava, tra poco avrebbe smontato. Il caporedattore Ingvar Johansson la guardava senza espressione. Il reporter Nils Langeby, il più anziano nella cronaca nera con i suoi cinquantatré anni, non riusciva come al solito a nascondere la sua avversione per lei. Patrik Nilsson l'ascoltava attento, per non dire incantato. La terza cronista, Berit Hamrin, la seguiva in tutta calma. L'unica assente, tra i membri della redazione, era la segretaria Eva-Britt Qvist, che si occupava anche delle ricerche d'archivio. «Per me, il modo in cui affrontiamo queste cose è allucinante» disse Nils Langeby. Annika sospirò. Si ricominciava. «E come dovremmo affrontarle, secondo te?» «Puntiamo troppo su questo tipo di azioni violente, che fanno sensazio-
ne. Pensate un po' a tutti i reati ambientali di cui non scriviamo mai niente. E tutti i reati all'interno della scuola.» «Certo, è vero che dovremmo seguire più attentamente anche questi aspetti...» «Come, dovremmo, cazzo! Questa redazione sta diventando di uno squallore insopportabile! Non si parla d'altro che di stronzate, di donne maltrattate che fanno tanta pena, di bombe e guerre tra bande di motociclisti.» Annika inspirò a fondo e si trattenne, prima di rispondere: «È una discussione importante, quella che stai proponendo, Nils, ma forse non è il caso di avviarla proprio in questo momento...». «E perché no? Cosa credi, che non sappia giudicare quando devo porre una questione sul tavolo?» Si raddrizzò sulla sedia. «Il compito di seguire i reati ambientali e all'interno della scuola spetta a te, Nils» disse Annika calma. «Ci lavori su a tempo pieno. Ritieni che ti sottraiamo indebitamente al tuo settore di responsabilità se ti convochiamo al giornale in una giornata come questa?» «Esatto, è proprio quello che penso!» tuonò lui. Annika fissò l'uomo imbestialito che aveva di fronte. Come diavolo avrebbe dovuto comportarsi, in una situazione del genere? Se non l'avesse chiamato, si sarebbe incavolato perché non aveva potuto scrivere anche lui qualcosa sull'attentato. Se gli avesse assegnato un compito, prima si sarebbe rifiutato e poi l'avrebbe svolto male. Se l'avesse lasciato in stand-by in redazione, lui avrebbe sostenuto di essere stato volutamente trascurato. I suoi pensieri furono interrotti dall'ingresso nella stanza di Anders Schyman, il direttore responsabile. Tutte le persone presenti, Annika compresa, lo salutarono e si misero più composti sulle sedie e sul divano. «Complimenti, Annika! E grazie, Jansson, per l'ottimo lavoro di stamattina» disse il direttore. «Li abbiamo battuti tutti. Sul serio! La foto al centro era assolutamente fantastica, e ce l'avevamo solo noi. Come avete fatto?» Si sedette su uno scatolone in un angolo. Annika raccontò le acrobazie sue e di Henriksson, provocando uno scoppio di risa. Che figata, sul braciere olimpico! Sarebbe diventato un aneddoto da raccontare all'Ordine dei giornalisti. «E adesso come procediamo?» Annika si sporse sulla scrivania, spuntando le righe di una lista mentre parlava. «Patrik, tu ti occuperai sia della caccia all'assassino che delle indagini
tecniche, e terrai i contatti con gli investigatori. Sembra che verrà convocata una conferenza stampa, nel pomeriggio. Controlla a che ora l'hanno fissata e procurati subito un fotografo. Probabilmente, dovremo andarci tutti quanti.» Patrik annuì. «Berit, tu ti dedicherai alla vittima: chi era e perché? Poi c'è il vecchio sabotatore che si opponeva alla candidatura di Stoccolma, quello che veniva chiamato "il Tigre". Di sicuro sarà tra i sospettati, anche se le sue bombette erano come giocattoli, rispetto a questa. Cosa fa, adesso? Dov'era, stanotte? Posso cercare di rintracciarlo io, a suo tempo l'avevo intervistato. Nils può occuparsi dell'aspetto relativo alla sicurezza dei Giochi olimpici, com'è possibile che accada una cosa del genere a sette mesi dall'inaugurazione? Come siamo messi con la sicurezza, da qui a quel momento?» «Trovo che sia un aspetto assolutamente irrilevante» disse Nils Langeby. «Davvero?» obiettò Anders Schyman. «Io penso di no. Si tratta di una delle domande più importanti e soprattutto di maggiore interesse pubblico, in una giornata come questa. Andare a fondo della questione dimostra che inseriamo questo tipo di azioni violente in una prospettiva sociale e globale. In che modo questo fatto mette in difficoltà lo sport in generale? È uno degli articoli più importanti di oggi, Nils.» Il reporter non sapeva come reagire, se doveva mostrarsi onorato di vedersi assegnare uno dei compiti più importanti della giornata, oppure offeso per essere stato contraddetto. Come al solito, scelse la strada della presunzione. «Be', è chiaro che dipende da come lo si fa» disse gonfiandosi sulla sedia. Annika gettò un'occhiata riconoscente ad Anders Schyman. «Quanto alle dichiarazioni del comitato olimpico e alla testimonianza del tassista, forse li potremmo lasciare a chi è di turno stasera?» propose. Ingvar Johansson annuì. «Alcuni dei nostri, in questo momento, stanno portando il tassista al Royal Viking. Lui abita in un monolocale a Bagarmossen, ma lì lo potrebbero raggiungere anche gli altri media. Fino a domani lo terremo nascosto in albergo. Janet Ullberg ha il compito di dare la caccia a Christina Furhage, una foto con lei davanti al foro della bomba non ci starebbe male. Quelli della scuola di giornalismo sono stati piazzati ai telefoni della linea diretta con il pubblico.» «Com'è la domanda che abbiamo pubblicato?» chiese Anders Schyman allungando la mano per prendere un giornale. «"Dobbiamo fermare le O-
limpiadi? Chiama stasera dalle 17 alle 19." È evidente che si tratta di un attentato del Tigre o di qualche gruppo che non vuole che la Svezia organizzi i Giochi.» Annika esitò un attimo prima di dire: «Naturalmente, dobbiamo seguire questa strada, ma non sono del tutto sicura che sia davvero così». «Perché no?» chiese Ingvar Johansson. «È una possibilità da cui non possiamo prescindere. A parte la vittima, quello dell'ipotesi terroristica è l'argomento principale di domani.» «Credo che dovremmo stare attenti a non puntare troppo sulla teoria del sabotaggio» rispose Annika, maledicendo la promessa fatta di non nominare la pista dell'insider job. «Almeno finché non sappiamo chi è la vittima, non possiamo fare ipotesi sul vero obiettivo della bomba.» «Ma sì che possiamo» protestò Ingvar Johansson. «Certo, dobbiamo avere una dichiarazione ufficiale della polizia. Ma non sarà troppo difficile, al momento non sono in grado né di confermare né di smentire un bel niente.» «Secondo me, in questa fase sarebbe meglio non puntare su una pista in particolare» s'intromise Anders Schyman. «Teniamo aperte tutte le porte e continuiamo a lavorare prima di scegliere l'impostazione di domani. C'è altro?» «No, almeno sulla base di ciò che sappiamo fino adesso. Una volta che la vittima sarà stata identificata, cercheremo di avvicinare i parenti.» «Dovremo farlo con la massima delicatezza» disse Anders Schyman. «Non voglio polemiche sul fatto che siamo invadenti e indiscreti.» Annika sorrise. «Me ne occupo io.» Finita la riunione, Annika chiamò a casa. Rispose Kalle, il suo primogenito di cinque anni. «Ciao, tesoro, come stai?» «Bene. Andiamo a mangiare da McDonald's. La sai una cosa? Ellen ha rovesciato tutto il succo d'arancia sulla Carica dei 101. È stata proprio una stupidata, perché adesso non potremo più vederlo...» Il bambino smise di parlare e si udì un singhiozzo. «Già, è proprio una brutta notizia. Ma come ha fatto a rovesciarci sopra il succo? Perché la cassetta era finita sul tavolo della cucina?» «No, era per terra in salotto, ed Ellen ha dato un calcio al mio bicchiere quando si è alzata per andare a fare la pipì.» «Ma perché avevi messo il bicchiere per terra in salotto? Lo sai che non
devi portarci la colazione, no?» Annika sentì montare la collera. Possibile che non potesse andare a lavorare senza che succedesse qualche guaio o si rompesse qualcosa? «Ma non è colpa mia» piagnucolò il bambino. «È stata Ellen! È stata lei a rovinare la cassetta!» Ormai piangeva a dirotto. Mollò la cornetta e scappò via. «Pronto, Kalle! Pronto!» Porca puttana, ma perché le cose dovevano andare così? Lei voleva solo telefonare a casa per fare qualche coccola ai suoi figli e mettersi a posto la coscienza. Poi Thomas sollevò il ricevitore. «Cos'hai detto al bambino?» Lei sospirò e sentì il mal di testa irrompere. «Perché hanno fatto colazione in salotto?» «Non l'hanno fatta in salotto» rispose Thomas con una calma leggermente forzata. «Ho solo dato il permesso a Kalle di portarsi il bicchiere di succo. Non è stata una buona idea, viste le conseguenze, ma li ho già rabboniti con la promessa di un pranzo da McDonald's e un nuovo film in cassetta. Non pensare che tutto dipenda sempre da te. Concentrati sui tuoi articoli, piuttosto. Come stanno andando le cose?» Annika deglutì. «Una storia davvero orribile. Omicidio, suicidio, o forse un incidente, non lo sappiamo ancora.» «Già, ho sentito. Farai tardi, vero?» «Tardi è dir poco.» «Ti amo» disse Thomas. Stranamente, Annika sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime. «Ti amo anch'io» sussurrò. La sua fonte aveva lavorato di notte ed era quindi a casa, così Annika dovette ricorrere ai normali canali della polizia. Nel corso del mattino non era accaduto altro, il cadavere non era ancora stato identificato, l'incendio era stato domato e le indagini tecniche stavano proseguendo. Decise di andare di nuovo allo stadio con un altro fotografo, un sostituto di nome Ulf Olsson. «Non credo di avere l'abbigliamento giusto per un incarico del genere» disse Ulf mentre scendevano in ascensore a prendere l'auto. Annika guardò l'uomo che aveva davanti. «Cosa vuoi dire?» Il fotografo indossava un completo con scarpe basse e sopra un cappotto di lana grigio scuro. «Mi ero vestito così perché dovevo fotografare il pubblico alla prima del
Teatro Drammatico. Avresti anche potuto avvertirmi che dovevamo andare sul luogo di un assassinio. Scommetto che lo sai da diverse ore.» Il fotografo la stava guardando con aria di sfida. Qualcosa scattò, nella testa di Annika. La stanchezza prese il sopravvento. «Non venire a dirmi cosa cazzo devo o non devo fare, capito? Tu lavori qui come fotografo, no? Allora devi poter fotografare tutto, dagli incidenti d'auto alle prime di teatro. Se non vuoi calpestare della carne trita indossando un abito Armani, portati dietro una tuta nella borsa delle macchine fotografiche, porca puttana!» Aprì con un calcio la porta dell'ascensore e si avviò nel garage. Dilettanti del cazzo. «Non mi piace questo tuo modo di trattarmi» le urlò dietro il sostituto. Annika esplose e si girò di scatto. «Piantala di darti tutte quelle arie» sibilò. «Fra l'altro, niente t'impedisce di informarti da solo su quello che succede al giornale. O hai bisogno che qualcuno ti faccia da balia?» L'uomo deglutì e strinse i pugni. «Trovo che tu sia davvero ingiusta» ringhiò. «Dio santo che lagna» gemette Annika. «Sali su quell'auto e andiamo allo stadio. O vuoi che guidi io?» Per tradizione, erano sempre i fotografi a guidare quando si usciva per un lavoro, anche se si prendeva l'auto del giornale. Molte aziende facevano in modo che le auto della redazione venissero utilizzate per i servizi dei fotografi, ma le diatribe insorte sulle indennità avevano convinto l'amministrazione della "Stampa della Sera" a cambiare sistema. Annika si mise al volante e si avviò verso l'Essingeleden. Lungo il tragitto per il porto di Hammarby, l'atmosfera in macchina si era fatta molto tesa. Annika scelse la strada della zona industriale, ma non era praticabile. Tutto il villaggio olimpico era stato isolato. Irritata, Annika avvertì la propria frustrazione e il sollievo di Ulf Olsson, che avrebbe evitato di sporcarsi le scarpe. «Dobbiamo avere una foto della tribuna alla luce del giorno» disse Annika facendo un'inversione a U davanti al nastro di plastica che interrompeva la Lumavägen. «Conosco della gente di una rete televisiva che ha lo studio qui. Se abbiamo fortuna, forse qualcuno può lasciarci salire sul tetto.» Prese il telefono e compose il numero di cellulare della sua amica Anne Sapphane, che lavorava come producer di talk-show femminili per uno dei canali via cavo.
«Sono occupata» esordì sibilando Anne. «Chi è e cosa vuole?» Cinque minuti più tardi, erano sul tetto della Lumahuset, la vecchia fabbrica di lampadari nella zona sud del porto di Hammarby. La vista sullo stadio dilaniato era fantastica. Olsson montò un teleobiettivo e scattò un rullino intero. Rimasero in silenzio per tutto il tragitto di ritorno. «La conferenza stampa comincia alle due» le gridò Patrik quando Annika entrò in redazione. «Il fotografo è prenotato.» Lei gli fece un cenno di risposta con la mano e andò nel suo ufficio. Si sfilò il cappotto, gettò la borsa sulla scrivania, cambiò la batteria del cellulare e mise in carica l'altra. Si sentiva spossata e a disagio, dopo lo sfogo contro il fotografo. Perché aveva reagito a quel modo? Cosa le era preso? Esitò un attimo, prima di comporre il numero diretto di Schyman. «Certo che ho tempo per te» disse lui. Annika si avviò attraverso il salone open space verso l'ufficio d'angolo del direttore. L'attività, in redazione, era quasi nulla. Ingvar Johansson era seduto con il ricevitore incollato all'orecchio e, contemporaneamente, mangiava un'insalata di tonno. Il photo editor Pelle Oscarsson lavorava distratto su Photoshop, uno dei redattori stava preparando al computer il timone per il giornale del giorno dopo. Nello stesso istante in cui Annika si chiudeva la porta alle spalle, la radio trasmetteva la sigla del notiziario delle dodici. Avevano scelto di seguire l'ipotesi del sabotaggio, sostenendo che la polizia era a caccia di un folle che odiava i Giochi olimpici. Non si erano spinti più in là. «La teoria del boicottaggio non è quella giusta» disse Annika. «La polizia ha motivo di credere che si tratti di un insider job.» Anders Schyman si lasciò scappare un fischio. «Perché?» «Non era stato forzato nulla e gli allarmi erano staccati. Può averli staccati la vittima oppure l'attentatore. Entrambe le alternative presuppongono che il responsabile provenga dall'interno dell'organizzazione.» «Be', non è così scontato. Magari gli allarmi non funzionavano» obiettò Schyman. «Funzionavano eccome» rispose Annika. «Ma erano stati staccati.» «Qualcuno può aver dimenticato di attivarli» disse il direttore. Annika rifletté un attimo e annuì. Effettivamente, questa possibilità c'era. Si sedettero sui comodi divani addossati a una parete, con un orecchio
alla radio. Annika guardò verso l'ambasciata russa. La luce del giorno stava svanendo prima ancora di essere arrivata, una foschia grigiastra faceva sembrare sporchi i vetri delle finestre. Qualcuno, all'ultimo momento, aveva decorato l'ufficio del direttore con delle stelle di Natale rosse e due candelabri dell'avvento. «Ho avuto uno scatto di nervi nei confronti di Ulf Olsson, oggi» disse Annika a voce bassa. Anders Schyman aspettò che continuasse. «Si è lamentato che non aveva gli abiti adatti per il lavoro al porto di Hammarby. Secondo lui era colpa mia, avrei dovuto dirgli prima dove saremmo andati.» Tacque. Anders Schyman la osservò per un istante prima di rispondere. «Non sei tu, Annika, a decidere quale fotografo dovrà uscire e per quale compito. È il photo editor a farlo. Inoltre, sia i giornalisti che i fotografi devono essere preparati per qualsiasi evenienza, in qualsiasi momento. Fa parte del lavoro.» «Ci sono andata giù dura» disse Annika. «Be', forse hai esagerato» commentò il direttore. «Se fossi in te, mi scuserei e nello stesso tempo gli darei qualche consiglio pratico. E tieni sotto controllo il modo in cui affrontiamo l'ipotesi del sabotaggio: non dobbiamo cadere nella trappola della pista terroristica, se non è quella giusta.» Schyman si alzò, mostrando che la conversazione era finita. Annika era sollevata, per due ragioni: da un lato aveva avuto il sostegno del direttore responsabile per il modo in cui, secondo lei, si doveva seguire la vicenda della bomba allo stadio, dall'altro aveva potuto riferirgli di persona il suo scatto di rabbia. In effetti, succedeva tutti i giorni che la gente si incavolasse, al giornale, ma lei era una donna, ed era appena stata promossa, per cui doveva essere preparata a stare nell'occhio del ciclone. Andò subito a prendere un borsone su cui era impresso il logo del giornale e si avviò verso la stanza dei fotografi. Ulf Olsson era solo, e stava leggendo una rivista. «Ti chiedo scusa per il mio linguaggio» disse Annika. «Ecco, tieni, qui c'è una sacca da riempire con indumenti invernali. Mettici dentro una calzamaglia di lana, scarponi, berretto e guanti. Tienila nel tuo armadietto o nel baule della macchina.» L'uomo la guardò con un'espressione irritata. «Avresti dovuto dirmelo prima che dovevamo andare...» «Se vuoi discutere di questo, parlane con il photo editor o con il direttore
responsabile. Hai fatto sviluppare il rullino?» «No, io...» «Be', allora fallo.» Uscì sentendo il suo sguardo alle spalle. Mentre tornava verso il suo ufficio si rese conto di non aver mangiato nulla dalla mattina, di non aver fatto nemmeno colazione. Passò dalla caffetteria e comprò un panino e una Coca-Cola Light. La notizia dell'esplosione allo stadio olimpico aveva ormai fatto il giro del mondo. Tutte le principali televisioni e i giornali avevano spedito i loro inviati in tempo per la conferenza stampa in questura, alle due del pomeriggio. C'erano la Cnn, Sky News, la Bbc e le televisioni nordiche, e poi i corrispondenti di "Le Monde", dell'"European", del "Times", del "Die Zeit" e altri ancora. I pulmini delle televisioni bloccavano quasi completamente la rampa d'ingresso alla questura. Annika arrivò insieme ad altri quattro suoi collaboratori: i giornalisti Patrik e Berit e due fotografi. La stanza era sovraffollata di gente e attrezzature tecniche. Annika e gli altri redattori si sedettero su alcune sedie in fondo, vicino all'uscita, mentre i fotografi si facevano strada a gomitate per avvicinarsi. Come al solito, quelli della Tv si erano piazzati proprio davanti al podio, impedendo la visuale a tutti gli altri, che nel frattempo inciampavano nei cavi chilometrici che correvano lungo tutta la stanza e dovevano rispettare il diritto dei giornalisti televisivi a porre le domande per primi. I riflettori illuminavano a giorno tutto il salone, anche se per la maggior parte erano puntati sul palcoscenico improvvisato da cui le autorità tra poco avrebbero parlato al pubblico. Diverse emittenti erano attrezzate per la diretta, tra queste la Cnn, Sky, e il telegiornale svedese Rapport. I telecronisti facevano le prove di trasmissione e buttavano giù appunti, i fotografi caricavano le macchine e i giornalisti radiofonici trafficavano con i loro registratori, provando l'audio. Il brusio di voci ricordava quello di una cascata. Faceva già un caldo insopportabile. Con una smorfia di disappunto, Annika lasciò cadere il cappotto sul pavimento. Quando i poliziotti entrarono da una porta laterale vicina al podio, il brusio cessò, sostituito dallo scatto dei flash. Erano in quattro: il portavoce della polizia di Stoccolma, il procuratore capo Kjell Lindström, un investigatore della Omicidi di cui Annika non ricordava il nome, e infine Evert Danielsson, segretario generale del comitato organizzatore. Si allinearono con calma dietro il lungo tavolo sul podio e bevvero alcuni sorsi dai loro
bicchieri di acqua minerale. Cominciò il portavoce della polizia, elencando i fatti già noti: si era verificata un'esplosione, era morta una persona, c'erano stati danni materiali, e l'indagine tecnica era in corso di svolgimento. Sembrava già stanco e logorato dalla fatica. "Che faccia avrà tra qualche giorno?" si chiese Annika. Poi fu la volta del procuratore capo. «Non siamo ancora riusciti a identificare la persona morta allo stadio» disse. «Il lavoro è ostacolato dalle pessime condizioni in cui abbiamo rinvenuto il corpo. Tuttavia, abbiamo alcuni indizi che forse ci potranno aiutare a stabilire l'identità della vittima. Tracce del materiale esplosivo sono state inviate a Londra per l'analisi. Non disponiamo ancora di elementi certi, ma come dato preliminare possiamo anticipare che, con tutta probabilità, si tratta di dinamite per uso civile. Niente congegni o esplosivi militari, dunque.» Kjell Lindström bevve un sorso d'acqua. Le macchine fotografiche scattarono a raffica. «Stiamo anche cercando l'uomo condannato per le bombe che danneggiarono due impianti sportivi, sette anni fa. Per adesso non è sospettato di alcun reato, ma dovrà essere interrogato a scopo informativo.» Il procuratore capo abbassò lo sguardo sui suoi appunti, come se esitasse. Quando ricominciò a parlare, si rivolse direttamente alla telecamera del telegiornale Rapport. «Una persona vestita di scuro è stata vista dalle parti dello stadio Vittoria poco prima dell'esplosione. Facciamo appello al pubblico perché trasmetta ogni possibile testimonianza che si possa ricollegare con l'attentato. La polizia vuole entrare in contatto con tutti coloro che si trovavano nella zona sud del porto di Hammarby tra la mezzanotte e le tre e venti di stamattina. Anche le informazioni apparentemente irrilevanti possono risultare decisive.» Elencò alcuni numeri di telefono che Rapport avrebbe poi mandato in onda in sovrimpressione. Quando il procuratore capo ebbe finito di parlare, Evert Danielsson si schiarì la voce. «Questa è una vera tragedia» disse nervosamente «sia per la Svezia, come paese organizzatore delle Olimpiadi, che per lo sport in generale. Olimpiade significa sana competizione, a prescindere da razza, religione, politica e sesso. Per questo è davvero triste che qualcuno attacchi un simbolo universale come lo stadio, la vera platea dell'agone olimpico, con un'azione
terroristica.» Annika aveva allungato il collo per poter vedere meglio al di là della telecamera della Cnn. Osservò le reazioni del portavoce della polizia e del procuratore al pistolotto di Danielsson. Come si aspettava, sussultarono: il segretario generale si era lasciato scappare una descrizione, addirittura un'interpretazione dell'attentato, che a suo giudizio sarebbe stato opera di terroristi e indirizzato ai Giochi olimpici in sé. Eppure non sapevano ancora chi fosse la vittima. O invece sì? Possibile che il segretario generale ignorasse ciò di cui lei aveva avuto conferma, e cioè che il responsabile era probabilmente uno che veniva dall'interno dell'organizzazione? Il procuratore intervenne e cercò di zittire Danielsson, che però non aveva finito. «Faccio appello» continuò il segretario generale «a tutti coloro che ritengono di aver visto qualcosa di contattare la polizia. È della massima importanza che il colpevole venga... Cosa c'è?» Guardò sorpreso il procuratore capo, che evidentemente gli aveva dato un calcio o un pizzicotto. «Vorrei soltanto sottolineare» intervenne Kjell Lindström sporgendosi verso i microfoni «che in questa fase non siamo ancora in grado di indicare alcun movente per ciò che è avvenuto.» Gettò un'occhiataccia in direzione di Evert Danielsson. «Non c'è nulla, ripeto, nulla che possa farci ritenere che si tratti di un atto terroristico diretto contro i Giochi. Non sono pervenute minacce che riguardassero gli impianti o i membri del comitato olimpico. In questo momento, siamo aperti a ogni possibile pista e movente.» Si riappoggiò allo schienale. «Ci sono domande?» I giornalisti televisivi erano già pronti ad attaccare con le richieste. Le prime riguardavano sempre argomenti già noti, ma esposti troppo lentamente o in modo troppo complicato per poter essere compressi nel minuto e mezzo a disposizione. Perciò, i giornalisti televisivi chiedevano sempre una ripetizione di quel che era stato detto, nella speranza di ottenere risposte più semplici e dirette. Annika sospirò. L'unico motivo per andare a queste conferenze stampa era che permettevano di studiare il comportamento degli inquirenti. Tutto ciò che dicevano veniva riportato dai media, ma le facce di quelli non inquadrati erano spesso più eloquenti delle risposte, per la maggior parte ovvie. In questo momento, per esempio, si vedeva benissimo quanto Kjell Lindström ce l'avesse con Evert Danielsson per essersi lasciato scappare l'espressione "azione terroristica". Se c'era qualcosa che la polizia svedese
voleva evitare era che Stoccolma, i Giochi olimpici e l'esplosione ricevessero il marchio del terrorismo. Inoltre, con ogni probabilità, l'ipotesi era del tutto infondata. Per una volta, comunque, avevano anche fornito qualche informazione interessante. Annika buttò giù alcune domande sul suo blocco. Era stato detto che una persona vestita di scuro si trovava nella zona dello stadio: quando e dove? C'era dunque un testimone oculare: chi era e cosa ci faceva lì? Perché l'esplosivo era stato inviato a Londra per essere esaminato? Per quale ragione non se ne occupava l'apposito laboratorio della polizia a Linköping? E quando si pensava che sarebbero stati pronti i risultati dell'analisi? Come si sapeva che il materiale era per usi civili? Cosa significava per l'indagine? Serviva a circoscriverla, o piuttosto ad ampliarla? Quanto era facile procurarsi esplosivi per uso civile? Quanto tempo ci sarebbe voluto per riparare la tribuna nord? Lo stadio era assicurato, e in caso affermativo, presso quale compagnia? E chi era la vittima? Quali erano gli indizi a cui aveva accennato Kjell Lindström per la sua identificazione? Sospirò di nuovo. Quella poteva diventare una storia infinita. Il procuratore capo Kjell Lindström imboccò a grandi passi il corridoio, scuro in volto e con la ventiquattrore stretta nella mano. Se non fosse riuscito a controllarsi, avrebbe strozzato Evert Danielsson. Dietro di lui venivano gli altri partecipanti alla conferenza stampa e tre poliziotti in uniforme che erano rimasti di guardia in fondo alla sala. Uno di loro accostò la porta alle spalle del corteo chiudendo fuori gli ultimi, insistenti reporter. «Non capisco perché si debba avere tanta paura di dire quello che pensano tutti» borbottò il segretario generale, offeso, alle spalle di Kjell Lindström. «È chiaro come il sole che si tratta di un'azione terroristica. Noi del comitato organizzatore riteniamo importante stimolare fin da subito una reazione della società civile contro qualsiasi tentativo di sabotare i Giochi...» Il procuratore capo si girò di scatto piazzandosi davanti a Evert Danielsson. «Mi ascolti bene, una volta per tutte: non-esiste-alcun-sospetto-diazione-terroristica. Chiaro? L'ultima cosa di cui la polizia ha bisogno in questo momento è un maledetto dibattito sul terrorismo e sulla lotta agli attentati dinamitardi. L'unico risultato sarebbe una richiesta di sorveglianza degli stadi olimpici e degli edifici pubblici molto superiore alle nostre risorse... Lo sa quanti sono gli impianti legati alle Olimpiadi, in un modo o nell'altro? Sì, certo che lo sa. Se lo ricorda il casino che è venuto fuori
quando il Tigre aveva cominciato a seminare le sue bombette? Ne sono bastate un paio perché ogni maledetto giornalista del paese si mettesse a girare per gli stadi nel bel mezzo della notte e scrivesse articoli scandalistici sul pessimo servizio di controllo.» «Come fate a essere tanto sicuri che non si tratti di un attacco terroristico?» chiese Danielsson un tantino intimorito. Lindström sospirò e ricominciò a camminare. «Abbiamo le nostre ragioni, mi creda.» «E quali sarebbero?» insistette il segretario generale. Il procuratore si fermò di nuovo. «È stato un insider job» disse. «È stato qualcuno all'interno dell'organizzazione a farlo, okay? Uno di voi, caro mio. Per questo mi sta sulle balle che proprio lei si metta a gridare all'azione terroristica.» Evert Danielsson impallidì. «Non è possibile.» Kjell Lindström riprese a camminare. «E invece sì. E se adesso avrà la cortesia di andare alla Omicidi con gli investigatori, potrà riferire con precisione chi, nell'organizzazione, ha accesso a tutti i pass, le chiavi e i codici degli allarmi dello stadio olimpico.» Nello stesso istante in cui Annika entrava in redazione dopo la conferenza stampa, Ingvar Johansson le fece cenno di avvicinarsi al computer dotato di modem a cui era seduto in quel momento. «Vieni un po' a vedere se ci capisci qualcosa!» le gridò. Annika passò prima nel suo ufficio per lasciare la borsa, il cappotto, la sciarpa e i guanti. La maglia le stava molto aderente, e all'improvviso si rese conto che quella mattina non aveva fatto la doccia. Si strinse nella giacca e sperò di non puzzare troppo di sudore. Ingvar Johansson e Janet Ullberg, la giovane redattrice sostituta, erano entrambi chini su uno dei computer della redazione. Ingvar digitò qualcosa sulla tastiera. «Janet non è riuscita a mettersi in contatto con Christina Furhage, anche se è tutto il giorno che prova» disse. «Abbiamo un cazzo di numero che sembra sia quello giusto, ma non risponde nessuno. Secondo la segreteria del comitato olimpico dovrebbe trovarsi in città, probabilmente a casa. Perciò, abbiamo provato a rintracciarla con il Dafa, per andare a suonare il campanello a casa sua. Solo che, quando inseriamo il suo nominativo, non viene fuori niente. Non è in elenco.» Indicò i dati comparsi sullo schermo: "Il nome non corrisponde ad alcun
dato disponibile". Nessuna Christina Furhage. Annika scivolò dietro Janet e si sedette davanti alla tastiera. «Ma certo che c'è, ci sono tutti» disse Annika. «Avrete fatto una ricerca troppo ristretta.» «Non ci capisco niente» si lamentò Janet con un filo di voce. «Cosa stai facendo, esattamente?» Annika spiegò mentre batteva veloce sui tasti. «Il Dafa Spar è l'anagrafe delle persone e degli indirizzi. Be', veramente adesso ha cambiato nome, mi pare si chiami Sema Group, ma tutti continuano a chiamarlo Dafa Spar. Non appartiene nemmeno più allo Stato, è passato a un'azienda anglo-francese... Comunque, qui dentro è registrato ogni singolo abitante di questo paese, con codice fiscale, residenza, indirizzo precedente all'ultimo trasloco e comune di nascita, e vale sia per gli svedesi che per gli immigrati a cui è già stato attribuito il codice fiscale. Prima si potevano avere anche le informazioni sui familiari, figli e coniugi, ma un paio d'anni fa hanno tolto l'opzione. Attraverso il modem ci colleghiamo a qualcosa che si chiama Infotorg, guarda qui. Si può scegliere tra diversi database, il Registro automobilistico e la Camera di commercio, tanto per fare qualche esempio, però noi entriamo nello Spar. Guarda! Si scrive "Spar" qui in cima, sulle opzioni...» «Io torno al mio posto. Dopo, chiamami» la interruppe Ingvar Johansson dirigendosi verso il banco della cronaca. «... ecco, adesso siamo entrati. Si possono scegliere diverse funzioni, a seconda di quello che vogliamo chiedere al computer. Vedi? F2 si preme se si è in possesso del codice fiscale e si vuole sapere a chi corrisponde, F3 se si ha soltanto la data di nascita, F4 e F5 sono le funzioni che hanno bloccato, quelle dei legami familiari, ma possiamo usare l'F7 e l'F8. Per sapere dove abita una persona si preme F8, ricerca basata sul nome. Voilà!» Annika eseguì un comando e un modulo comparve sullo schermo. «Dunque, stiamo cercando Christina Furhage, che abita da qualche parte in Svezia» ricapitolò inserendo i dati richiesti: sesso, nome e cognome. Lasciò in bianco gli spazi riservati all'anno di nascita presunto, alla provincia e al codice postale. Il computer elaborò le informazioni e dopo qualche secondo apparvero tre righe. «Okay, una alla volta» disse Annika indicando lo schermo con una penna. «Guarda qui: "Furhage, Eleonora Christina, Kalix, 1912, stor.". Significa che il dato è storico, probabilmente la vecchietta è morta. I morti ri-
mangono registrati per qualche anno. Può anche voler dire che ha cambiato nome. Magari si è sposata con un vecchietto della sua casa di riposo e ha preso il suo cognome! Se si vuole, si può controllare evidenziando il nome e premendo F7, dati storici, solo che adesso non abbiamo tempo.» Spostò la penna sull'ultima riga. «"Furhage, Sofia Christina, Kalix, 1993." Questa è ancora una poppante, probabilmente parente della prima. I cognomi insoliti saltano quasi sempre fuori nello stesso luogo.» Spostò di nuovo la penna. «Questa qui dev'essere la nostra Christina.» Annika eseguì un comando e sullo schermo comparve un'informazione davvero insolita. «Santo cielo!» esclamò. Avvicinò il viso allo schermo, come se non credesse ai suoi occhi. «Cosa c'è?» chiese Janet. «Questa donna ha ottenuto la cancellazione dei dati» disse Annika. Diede il comando di stampa e si diresse verso la stampante. Con il foglio in mano andò alla scrivania di Ingvar Johansson. «Abbiamo mai scritto qualcosa sul fatto che Christina Furhage avesse delle guardie del corpo? Che fosse stata minacciata di morte, o roba del genere?» Ingvar Johansson si appoggiò allo schienale e rifletté. «No, che io sappia. Perché?» Annika gli mostrò la stampa. «Christina Furhage è stata minacciata di morte, e molto seriamente. Nessuno, a parte il direttore dell'Ufficio locale delle imposte dirette di Tyresö, conosce il suo recapito. In Svezia saranno meno di cento le persone che hanno questo tipo di protezione.» Diede il foglio a Ingvar Johansson, che lo guardò con l'aria di non capire. «Ma di che parli? I dati personali non sono protetti. C'è il suo nome, qui.» «Certo, ma guarda l'indirizzo: "C/o Dir. Imposte Tyresö".» «Che cavolo stai cercando di dirmi?» Annika si sedette. «Esistono diversi tipi di protezione che le autorità possono fornire alle persone che sono soggette a minacce» spiegò. «Il livello più blando si chiama sbarramento del registro anagrafico. Non è troppo insolito, in Svezia ci sono circa cinquemila persone che hanno i dati segreti. Sullo schermo compare la formula "dati personali protetti".» «Sì, ma non è il nostro caso» obiettò Ingvar Johansson. Annika finse di non aver sentito. «Per ottenere la protezione dei dati bi-
sogna che ci sia una qualche forma di minaccia concreta. La decisione viene presa dal direttore dell'Ufficio delle imposte del comune presso la cui anagrafe la persona è registrata.» Annika batté con la penna sul foglio. «Questa roba qua, invece, è più unica che rara. Si tratta di una protezione molto più rigida e più complessa del semplice sbarramento dei dati che comporta l'invisibilità nel registro anagrafico. La Furhage non c'è proprio, nel registro, se non qui, con un riferimento al direttore dell'Ufficio delle imposte di Tyresö, alle porte di Stoccolma. Lui è l'unica persona del paese, a livello amministrativo, che conosce il suo indirizzo.» Ingvar Johansson la guardò con un'espressione scettica. «Ma tu come fai a sapere queste cose?» «Ti ricordi quando lavoravo sulla Fondazione Paradiso? La serie di articoli che ho scritto sulle persone che vivevano occultate, in Svezia?» «Certo che me ne ricordo. E allora?» «L'unica volta che mi è capitato di veder comparire sul monitor questo risultato è stato quando inserivo i nominativi delle persone che le autorità si erano sforzate di nascondere in tutti i modi.» «Ma Christina Furhage non è mica nascosta, no?» «Però noi non l'abbiamo trovata, o sbaglio? Che razza di numero di telefono abbiamo, in realtà?» Entrarono nell'elenco elettronico inserito in tutti i computer della redazione. Al nome Christina Furhage, con la definizione di "Dir. gen. Olimpiadi", corrispondeva un numero di cellulare. Annika compose il numero. Rispose direttamente una voce registrata della compagnia telefonica Telia. «Il telefono non è acceso» disse Annika. Chiamò la Telia per chiedere a chi fosse intestato l'abbonamento. L'informazione era segreta. Ingvar Johansson sospirò. «Be', tanto ormai è troppo buio per la foto che volevo con Christina Furhage davanti allo stadio» disse. «Ci penseremo domani.» «Ma dobbiamo rintracciarla» insistette Annika. «È evidente che deve rilasciare una dichiarazione su quanto è accaduto.» Si alzò e andò verso il suo ufficio. «Cosa pensi di fare, adesso?» chiese Ingvar Johansson. «Telefono alla segreteria generale del comitato olimpico. Loro dovranno pur sapere che cazzo sta succedendo.» Annika si abbandonò sulla sedia con un tonfo, appoggiando la testa sul
ripiano della scrivania. La fronte andò a sbattere contro una brioche ormai secca rimasta lì dal giorno prima. Ne addentò un boccone e bevve l'ultimo sorso della Coca-Cola Light rimasta dal pranzo. Dopo aver raccolto le briciole con le dita, chiamò il centralino della segreteria generale del comitato olimpico. Occupato. Ricompose il numero, sostituendo però l'ultima cifra, uno zero, con un uno, vecchio trucco per aggirare il centralino e finire alla scrivania di qualcuno. Di solito si doveva provare ripetutamente, e per lo più si trovava qualche poveraccio che stava facendo gli straordinari. Questa volta il trucco funzionò all'istante e fu il segretario generale, Evert Danielsson in persona, a rispondere. Annika rifletté mezzo secondo prima della decisione di evitare i giri di parole e andare subito al sodo. «Vogliamo una dichiarazione di Christina Furhage» disse. «E la vogliamo adesso.» Danielsson represse un gemito di fastidio. «Sarà la decima volta che telefonate, oggi. Abbiamo già ripetuto che le trasmetteremo le vostre domande.» «Vogliamo parlarle direttamente. Non può mica restare nascosta, in un giorno così. Lo capite, no? Che razza di figura ci fate? Sono i suoi Giochi, questi, per la miseria! Non mi sembra che sia un tipo che se la fa sotto quando deve parlare in pubblico. Perché si nasconde? Tiratela fuori.» Danielsson rimase in silenzio diversi secondi, respirando nel ricevitore. «Non sappiamo dove sia» disse poi a voce bassa. Annika sentì aumentare il ritmo cardiaco e accese il registratore accanto al telefono sulla scrivania. «Non siete riusciti a rintracciarla nemmeno voi?» chiese. Danielsson deglutì. «No. È tutto il giorno che ci proviamo. E non siamo riusciti a metterci in contatto nemmeno con suo marito. Però non lo scriverà, vero?» «Non lo so» rispose Annika. «Dove potrebbe trovarsi?» «Credevamo fosse a casa.» «E cioè?» chiese Annika pensando alla schermata del Dafa. «Qui in città. Ma non apre nessuno.» Annika inspirò e chiese rapidamente: «Che tipo di minacce ha ricevuto Christina Furhage?». L'uomo balbettò. «Come? Cosa intende dire?» «La smetta» tagliò corto Annika. «Se vuole che non scriva quello che ha detto mi deve raccontare come stanno le cose in realtà.»
«Ma come... Chi ha detto...» «È stata cancellata dal registro anagrafico. Questo fa capire che era esposta a pericoli talmente concreti da consentire a un tribunale di emettere un provvedimento restrittivo nei confronti del responsabile delle minacce. È quanto si è verificato?» «Santo Dio» mormorò Danielsson. «Ma chi le ha raccontato tutto questo?» Annika sbuffò piano. «C'è scritto nel Dafa Spar. È sufficiente saper leggere le informazioni. Esiste un'ordinanza del tribunale contro una persona che ha minacciato Christina Furhage?» «Non posso più parlare con lei» disse l'uomo con voce strozzata, e riattaccò. Annika ascoltò per qualche secondo il rumore della linea interrotta. Poi, con un sospiro, mise giù il ricevitore. Evert Danielsson alzò gli occhi sulla donna in piedi sulla porta. «Da quanto sei lì?» chiese. «Cosa ci fai qua dentro?» contrattaccò Helena Starke incrociando le braccia sul petto. Il segretario generale si alzò dalla poltrona di Christina Furhage e si guardò intorno confuso, come se si fosse accorto solo in quel momento di essere seduto alla scrivania del suo direttore generale. «Sì, ecco... volevo controllare una cosa. L'agenda di Christina, per vedere se ha segnato qualche impegno per la giornata di oggi, un viaggio o qualche altra cosa... Solo che non la trovo.» La donna tenne lo sguardo fisso su Evert Danielsson. Lui alzò gli occhi. «Hai un aspetto orrendo» disse prima di riuscire a trattenersi. «Che splendido commento da veteromaschilista» replicò lei con una smorfia avvicinandosi alla scrivania di Christina Furhage. «Ieri mi sono presa una sbornia di quelle toste e stamattina ho vomitato sul tappeto dell'ingresso. Sta' attento che se mi dici che è un comportamento poco femminile ti mollo un cazzotto sui denti.» L'uomo fece involontariamente scivolare la lingua sugli incisivi. «Christina doveva stare a casa con la sua famiglia, oggi» continuò Helena Starke aprendo con fare sicuro il secondo cassetto della scrivania del direttore generale. «Ciò significa che intende lavorare per conto suo invece che qui in ufficio.»
Evert Danielsson guardò la donna che tirava fuori una grossa agenda e l'apriva alle ultime pagine, facendo frusciare la carta. «Niente. Sabato 18 dicembre è completamente vuoto.» «Forse vuole fare le pulizie di Natale» disse Evert Danielsson, e a questo punto sia lui che Helena Starke si lasciarono scappare un sorriso. L'idea che Christina si mettesse un grembiule e girasse per casa con uno spolverino in mano era terribilmente comica. «Chi era al telefono?» chiese Helena Starke rimettendo l'agenda nel cassetto. Il segretario generale notò che lo chiudeva con cura e girava una chiavetta nell'angolino in alto a destra della cassettiera. «Una giornalista, della "Stampa della Sera". Non ricordo come si chiamava.» Helena si infilò la chiave nella tasca anteriore destra dei jeans. «Perché le hai raccontato che non siamo riusciti a trovare Christina?» «Perché, cosa avrei dovuto dire, che non vuole rilasciare dichiarazioni? Che si nasconde? Sarebbe anche peggio.» Danielsson spalancò le braccia. «Il problema...» disse la donna piazzandosi talmente vicino a lui da fargli arrivare dritto in faccia il suo alito puzzolente di alcol «il problema, in realtà, è dove cavolo si trova Christina. Perché non è venuta qui? Dovunque sia, dev'essere un posto dove non è stata raggiunta da alcuna notizia, giusto? E quale potrebbe essere questo posto? Hai qualche idea?» «La sua casa di campagna?» Helena Starke lo guardò con aria compassionevole. «Ma per favore! E quella tirata sull'azione terroristica che hai fatto durante la conferenza stampa non è stata una gran prodezza. Cosa credi che dirà Christina?» Evert Danielsson non riuscì più a trattenersi, sentendosi sopraffare dalla sensazione di aver fallito e di essere trattato ingiustamente: «Ma insomma, era la conclusione a cui eravamo giunti! C'eri anche tu, quando ne abbiamo discusso, non era solo un'idea mia, anzi! Eravamo tutti d'accordo sul fatto che bisognava influenzare l'opinione pubblica!». Helena si voltò avviandosi verso la porta. «Sì, ma è stato un tantino imbarazzante che la polizia smentisse tutto con tanta enfasi. In Tv sei apparso isterico e piuttosto paranoico, e l'impressione non era delle migliori.» Sulla porta si girò e appoggiò la mano allo stipite. «Rimani qui, o posso chiudere?» Il segretario generale lasciò l'ufficio di Christina Furhage senza una parola.
La riunione serale si svolgeva intorno al tavolo del direttore responsabile. Il telegiornale sarebbe cominciato tra un quarto d'ora e tutti i partecipanti, a parte Jansson, erano già presenti. «Arriva subito» disse Annika. «Deve solo...» "Deve solo" era l'espressione usata per indicare ritardi dovuti a intoppi vari da risolvere o altri contrattempi: giornalisti che non capivano cosa dovevano fare o lettori che si sentivano obbligati a esprimere le loro opinioni per telefono in quel preciso momento. Ma poteva anche significare che si era andati alla toilette o a prendere un caffè. I partecipanti attorno al tavolo rimasero in attesa preparandosi alla riunione. Annika rilesse le annotazioni che aveva buttato giù riguardo ai punti che avrebbe affrontato durante l'incontro. Non aveva una lista lunga come quella di Ingvar Johansson, che in quel momento stava distribuendo ai presenti delle fotocopie riguardanti i vari incarichi in svolgimento. Il photo editor, Pelle Oscarsson, parlava al cellulare. Il direttore si dondolava avanti e indietro sui talloni e fissava con sguardo vuoto lo schermo del televisore senza audio. «Scusate» disse il caporedattore di notte mentre entrava a precipizio nella stanza con una tazza in una mano e un menabò del giornale nell'altra. Era ancora mezzo addormentato ed era appena andato a prendere il secondo caffè della giornata. Naturalmente, riuscì a versarne un po' sul pavimento mentre chiudeva la porta. Anders Schyman se ne accorse e sospirò. «Okay» disse prendendo una sedia e accomodandosi. «Cominciamo con il dinamitardo, naturalmente. Cos'abbiamo?» Annika non aspettò Ingvar Johansson e iniziò a parlare direttamente. Sapeva che il caporedattore riferiva volentieri tutto lui, compreso ciò che riguardava il suo settore di responsabilità. Non aveva intenzione di aspettare che lo facesse anche questa volta. «Per come la vedo io, ci sono quattro articoli da fare per noi della nera» disse. «Non possiamo scartare l'ipotesi terroristica. Evert Danielsson l'ha tirata fuori durante la conferenza stampa, ma la polizia cerca di attenuarne la portata. Questo può già essere un buon argomento. Abbiamo anche scoperto che Christina Furhage, la massima dirigente svedese per l'organizzazione dei Giochi, vive sotto una qualche forma di minaccia. I suoi dati sono protetti e conservati solo dall'Ufficio delle imposte di Tyresö. Inoltre, nessuno sa dove si trovi adesso, nemmeno i suoi più stretti collaboratori. Di questo mi occupo io.» «A che titolo avresti pensato?» chiese Jansson.
«Qualcosa tipo "Minacce al direttore generale del comitato olimpico" e poi un catenaccio con la citazione di Danielsson: "È stata un'azione terroristica".» Jansson annuì compiaciuto. «Poi, naturalmente, c'è la storia centrale, che dev'essere trattata in modo adeguato. Potremmo mettere una grande immagine dello stadio danneggiato e animarla un po' con grafici e didascalie. Se ne occuperà Patrik. Abbiamo alcune foto dello stadio alla luce del giorno, sia dall'alto che dal tetto della Lumahuset, vero, Pelle?» Il photo editor annuì. «Sì, ma mi sembra che le foto dagli elicotteri siano venute meglio. Quelle scattate dal tetto purtroppo sono sottoesposte, troppo scure, insomma. Ho cercato di schiarirle, ma anche la messa a fuoco lascia a desiderare, quindi trovo sia meglio metterci le foto aeree.» Jansson annotò qualcosa sul suo blocco. Annika sentì montare la collera. Maledetto damerino d'un fotografo, incapace di mettere a fuoco e di valutare l'esposizione. «Chi ha scattato le foto dal tetto?» chiese Anders Schyman. «Olsson» rispose secca Annika. Il direttore prese un appunto. «Altro?» «Chi è la vittima? Uomo, donna, giovane, vecchio? Le dichiarazioni del medico legale, l'indagine tecnica della polizia e poi: quali sono gli indizi di cui ha parlato il procuratore capo alla conferenza stampa? Di questa parte ci occupiamo io e Berit.» «Cosa sappiamo, fino a questo punto?» chiese Schyman. Annika sospirò. «Non molto, purtroppo. Forse riusciremo ad avere qualcosa in mano verso sera. Un articoletto ci verrà fuori.» Il direttore fece un cenno di assenso e Annika proseguì. «Poi abbiamo il mistero dell'assassinio, la caccia al dinamitardo, gli indizi, le teorie, le prove. Chi è la persona vestita di nero notata fuori dallo stadio subito prima dell'esplosione? Chi è il testimone che l'ha vista? Questo lo scrive Patrik. Il Tigre non l'abbiamo rintracciato, ma non l'ha trovato neanche la polizia. Secondo Lindström non è sospettato di nulla, ma è chiaro che sono balle. È possibile che emettano un mandato di cattura fin da stasera o stanotte, bisogna starci dietro. Poi, naturalmente, bisogna considerare le conseguenze per le Olimpiadi. Di questo ti stai occupando tu, Ingvar...» Il caporedattore si schiarì la voce. «Sì, esatto. Il problema della sicurezza in vista dei Giochi. Abbiamo preso contatto con Samaranch al Cio di Lo-
sanna. Afferma di nutrire piena fiducia nel comitato organizzatore di Stoccolma e nella polizia che di certo arresterà al più presto il responsabile e bla bla bla... Dice anche che le Olimpiadi non sono assolutamente in pericolo, e questo lo dobbiamo riferire. Poi ci sono gli interventi a breve scadenza, se n'è occupata Janet. La tribuna verrà ricostruita subito. I lavori cominceranno non appena i tecnici della Scientifica se ne saranno andati. Calcolano di farcela nel giro di sette-otto settimane. Poi c'è il tassista ferito, su di lui abbiamo l'esclusiva e possiamo allargarci un po'. Passiamo anche in rassegna i vari attentati ai Giochi olimpici, tra cui quelli del Tigre. A meno che non riusciamo a beccarlo stanotte, perché in questo caso gli dedichiamo un intero articolo.» «Abbiamo il suo numero di casa» s'inserì Annika. «Gli ho lasciato un messaggio in segreteria, può darsi che si faccia vivo.» «Okay. Nils Langeby sta raccogliendo le reazioni a livello internazionale, sarà un completamento da affiancare agli altri articoli. E poi ci sono le opinioni della gente, sono appena scattate le due ore dedicate alla linea diretta con il pubblico.» Tacque e sfogliò le sue carte. «C'è altro?» chiese il direttore. «Abbiamo le foto di Henriksson dal braciere olimpico» disse Annika. «Sono comparse sull'edizione dell'hinterland, stamattina, ma a livello nazionale non si sono viste. Ha scattato diversi rullini, magari sul giornale di domani potremmo usare una variante di quella a fianco dell'articolo sulla vittima, che ne dite? Un po' di riciclaggio, insomma.» Pelle Oscarsson annuì. «Sì, c'è una montagna di foto. Credo che se ne possa trovare una non troppo simile.» «Sta cominciando il telegiornale» disse Ingvar Johansson alzando il volume con il telecomando. Tutti concentrarono l'attenzione sullo schermo per vedere cosa era riuscita a mettere insieme la televisione. Si partì con la conferenza stampa in questura, per passare subito dopo alle immagini dello stadio ancora in fiamme, quella mattina presto. Poi, le interviste con tutti i personaggi d'obbligo: il procuratore capo Lindström, il segretario generale del comitato olimpico Evert Danielsson, un investigatore, un'anziana signora che abitava nelle vicinanze ed era stata svegliata dall'esplosione. «Non hanno nessuna novità» constatò Ingvar Johansson sintonizzandosi sulla Cnn. Ripresero a parlare, e il caporedattore continuò la sua esposizione degli
argomenti che sarebbero stati trattati dal giornale del giorno dopo. Abbassarono il volume della Tv mentre la Cnn trasmetteva le sue Breaking News. Un reporter compariva a intervalli regolari con brevi dirette dalle transenne della polizia davanti al villaggio olimpico. C'era poi un altro giornalista all'ingresso della questura e un terzo al quartier generale del Cio, il Comitato internazionale olimpico a Losanna. Le dirette venivano inframmezzate da materiale di repertorio sulle Olimpiadi e sulle azioni violente che le avevano colpite nel corso degli anni. Il commento era affidato a personaggi noti a livello internazionale, tra cui il portavoce della Casa Bianca, il quale aveva rilasciato una dichiarazione di condanna dell'azione terroristica avvenuta in Svezia. Annika si accorse che non stava più ascoltando. Quando Ingvar Johansson arrivò alle pagine dello spettacolo, si scusò e uscì dalla stanza. Andò in sala mensa e ordinò una pasta ai gamberetti e una birra. Mentre il forno a microonde ronzava dietro il bancone, si sedette a guardare il buio fuori. Se aguzzava la vista riusciva a individuare le finestre del palazzo di fronte. Quando invece si rilassava, vedeva solo la propria immagine riflessa sul doppio vetro. Dopo aver mangiato radunò la sua piccola redazione privata, Patrik e Berit, per fare il punto della situazione nel suo ufficio. «Io scrivo l'articolo sulla pista del terrorismo» disse Annika. «Hai saputo qualcosa sulla vittima, Berit?» «Sì» rispose la giornalista sfogliando i suoi appunti. «I tecnici hanno trovato alcuni oggetti, allo stadio, che pensano gli appartenessero. Erano piuttosto malconci, ma sono riusciti ad appurare che c'erano una ventiquattrore, un'agenda organizer e un cellulare.» Smise di parlare e si accorse che Annika e Patrik avevano gli occhi sbarrati. «Santo cielo» disse Annika. «Allora devono sapere chi è il morto, no?» «È possibile» rispose Berit «ma sono muti come pesci. Mi ci sono volute due ore per fargli sputare queste informazioni.» «Ma è magnifico!» esclamò Annika. «Fantastico! Sei un mito. Evviva! Credo proprio che su questo abbiamo l'esclusiva.» Si appoggiò allo schienale, rise e batté le mani. Patrik sorrise. «E tu cosa mi racconti?» gli chiese Annika. «Ho buttato giù l'articolo sull'esplosione, se vuoi dargli un'occhiata è nel server. L'ho costruito intorno alla foto dello stadio, come avevi detto tu. Sulla caccia all'assassino, però, temo di avere un po' poco. La polizia è an-
data a sentire la gente che abita intorno al porto, ma nei condomini adiacenti al villaggio olimpico non si è ancora trasferito nessuno, e la zona è quasi deserta.» «E il tizio in nero? Chi è il testimone?» «Non sono riuscito a farglielo sputare» ammise Patrik. D'un tratto, ad Annika venne in mente una cosa che aveva detto quella mattina il tassista portandola allo stadio. «C'è un club senza licenza, da quelle parti» disse sporgendosi in avanti. «Il tassista ferito stava andandoci, quando c'è stata l'esplosione. Lì ci doveva pur essere della gente, clienti e personale. Ed ecco il nostro testimone. Li abbiamo contattati?» Patrik e Berit si guardarono. «Dobbiamo andare là e parlare con loro!» disse Annika. «Un club senza licenza?» si domandò Berit dubbiosa. «E secondo te saranno così contenti di spiattellarci tutto?» «Be'» rispose Annika «non si può mai sapere. Forse, se li facciamo parlare garantendo loro l'anonimato potrebbero raccontarci un po' di quello che hanno visto o sentito.» «Non è una cattiva idea» convenne Patrik. «Magari qualcosa salta fuori.» «La polizia li ha interrogati?» «Non lo so, non gliel'ho chiesto» rispose Patrik. «Okay» concluse Annika. «Io telefono alla polizia, tu intanto vai là e cerchi di pescare qualcuno del club. Telefona al tassista ferito, lo abbiamo nascosto al Royal Viking, e chiedigli dove si trova con precisione il locale. Probabilmente stasera è chiuso, sarà senz'altro all'interno della zona delimitata dalla polizia. Però parlaci lo stesso, controlla se aveva il nome del cliente che ha portato lì. Non si sa mai, può darsi che sia stato lui a raccomandare il club perché conosceva qualcuno che ci lavorava.» «Vado subito» disse Patrik. Prese la giacca e uscì. Dopo che Patrik fu uscito, Annika e Berit rimasero sedute in silenzio. «Cosa ne pensi, tu, di questa faccenda?» chiese alla fine Annika. Berit sospirò. «Ho qualche difficoltà a immaginare che si tratti di un'azione terroristica» rispose. «Contro chi, e per quale motivo? Per fermare i Giochi? Ma allora perché cominciare adesso, non è un po' tardi?» Annika buttò giù qualche appunto sul suo blocco. «Una cosa è certa» disse poi. «È di vitale importanza che la polizia catturi questo dinamitardo, altrimenti il nostro paese rischia una batosta pari soltanto a quella seguita
all'assassinio di Palme.» Berit annuì, prese le sue cose e tornò alla sua scrivania. Annika telefonò alla sua fonte, ma non era reperibile. Inviò a Patrik un messaggio di posta elettronica con una dichiarazione ufficiale della polizia sul club senza licenza. Poi andò a consultare l'annuario degli enti pubblici e cercò il nome del direttore dell'Ufficio delle imposte di Tyresö. Lo trovò, insieme all'anno di nascita. Dato che il nome era piuttosto comune, non sarebbe stato facile rintracciarlo sull'elenco telefonico, era meglio cercarlo prima sul Dafa. In questo modo riuscì ad avere l'indirizzo di casa, e con quello non fu difficile risalire al numero di telefono. Rispose al quarto squillo, e dalla voce sembrava un po' alticcio. Dopo tutto, era sabato sera. Annika accese il registratore. «Non posso rivelare nulla sulla situazione di Christina Furhage» rispose il direttore con il tono di chi sta per sbattere giù il ricevitore. «Naturalmente» disse Annika calma. «Vorrei solo porle qualche domanda generica sul trattamento dei dati personali in caso di minaccia.» In sottofondo, sentì un'esplosione di risa proveniente da un folto gruppo di persone. Doveva aver chiamato nel bel mezzo di una cena o di un party. «Mi richiami lunedì mattina in ufficio» tagliò corto il direttore. «Ma a quel punto il giornale sarà andato in stampa da un pezzo» obiettò Annika senza forzare troppo. «I lettori hanno il diritto di avere una dichiarazione immediata. Cosa penserà l'opinione pubblica del fatto che lei si è rifiutato di rispondere? Che ragione potrei addurre, per giustificarla?» L'uomo rimase in silenzio qualche istante. Annika sentiva il suo respiro nel ricevitore e capì che era combattuto. Lui aveva intuito l'implicito riferimento al suo stato di ebbrezza. Naturalmente, Annika non avrebbe mai scritto niente del genere sul giornale. Ma se le autorità si mettevano a puntare i piedi, non esitava a ricorrere a qualche trucchetto pur di cavare di bocca alle persone quello che le interessava. «Cosa vuole sapere?» chiese l'uomo in tono gelido. Annika sorrise tra sé. «Quali sono i presupposti per la cancellazione dall'anagrafe dei dati di una persona?» In realtà ne era già al corrente, ma la risposta dell'uomo sarebbe servita come ricapitolazione del caso di Christina. L'uomo sospirò mentre rifletteva. Aveva bisogno di qualche istante per ripescare le informazioni nel suo cervello un tantino annebbiato. «Be', è necessaria una minaccia. Una di quelle consistenti» disse. «Non basta una
semplice telefonata, ci vuole qualcosa di più grave.» «Come una minaccia di morte?» domandò Annika. «Sì, per esempio. Ma anche qualcosa di più, che induca un procuratore a emettere un provvedimento restrittivo.» «Un episodio particolare? Una qualche forma di aggressione?» chiese Annika. «Sì, direi di sì.» «E lei ordinerebbe una cancellazione dei dati avendo in mano qualcosa di meno di ciò che mi ha appena descritto?» «No, non lo farei» rispose l'uomo con sicurezza. «Se la minaccia è di natura meno grave è sufficiente rendere segreti i dati contenuti nell'anagrafe.» «Per quante persone le è capitato di applicare la procedura di cancellazione, da quando è direttore a Tyresö?» L'uomo rifletté un istante: «Tre». «Christina Furhage, suo marito e sua figlia» enumerò Annika. «Io non ho detto questo» ribatté il direttore. «Può fare una dichiarazione sulla cancellazione dei dati di Christina Furhage?» chiese Annika prontamente. «No, non posso» rispose l'uomo irritato. «Che tipo di minacce ha subito Christina Furhage?» «Non posso rispondere.» «Sulla base di quale aggressione lei ha deciso di cancellare i suoi dati?» «Non posso aggiungere altro su questo. La conversazione finisce qui» disse l'uomo riattaccando. Annika sorrise soddisfatta. Era fatta. Senza dire una sola parola su Christina, l'uomo aveva confermato tutto. Dopo qualche altra telefonata di verifica, Annika mise insieme il suo articolo, mantenendo sullo sfondo la teoria terroristica. Finì poco dopo le undici. Patrik non era ancora tornato, e questo faceva presumere che fosse riuscito nel suo intento. Consegnò il pezzo a Jansson, che ormai era in piena attività dietro il suo bancone. Aveva i capelli arruffati e parlava ininterrottamente al telefono. Annika decise di andare a casa a piedi nonostante il freddo, il buio e la sensazione di vuoto nella testa. Le facevano male le gambe, le succedeva sempre così quando era stanca. Una camminata di buon passo era la medicina migliore, in questo modo avrebbe fatto a meno di prendere un analge-
sico una volta a casa. Si affrettò a infilarsi il cappotto e a calarsi il berretto sulle orecchie, prima di cambiare idea. «Mi trovi sul cellulare» disse a Jansson mentre usciva. Lui le fece un cenno con la mano senza staccarsi dal telefono. La temperatura continuava il suo saliscendi: adesso era di nuovo appena sotto lo zero e grossi fiocchi di neve avevano cominciato a ondeggiare lentamente nell'aria. Sembravano quasi fermi, giravano appena mentre scendevano verso terra, attutendo ogni rumore. Annika non sentì arrivare il 57 se non quando l'autobus la superò passandole di fianco. Imboccò la scaletta che scendeva al Rålambshovsparken. Il viottolo che attraversava la grande spianata erbosa era fangoso e segnato dalle ruote di passeggini e biciclette. Annika scivolò e per poco non cadde, imprecando sottovoce. Una lepre, spaventata, saltellò lontano nascondendosi nell'ombra. Era fantastico che ci fossero tanti animali selvatici, in città. Una volta Thomas era stato rincorso da un tasso lungo l'Agnegatan, mentre tornava a casa dal pub. Ripensandoci, Annika rise forte nel buio. Qui il vento era più pungente che in alto, tra le case, e Annika si strinse la sciarpa intorno al collo. I fiocchi di neve volteggiavano e le bagnavano i capelli. Oggi non aveva visto i bambini nemmeno per un istante. Non aveva più chiamato a casa, dopo la telefonata della mattina, avrebbe solo peggiorato le cose. Nei giorni feriali, andare a lavorare le andava a genio: tutti i bambini erano all'asilo, per cui si sentiva in pace con la sua coscienza. Ma un sabato come quello, l'ultimo prima di Natale, era una giornata in cui stare a casa a preparare i dolci delle festività. Annika sospirò talmente forte da far turbinare i fiocchi di neve davanti al suo viso. In effetti, non era poi tanto divertente quando si metteva a fare i dolci o a preparare qualche altra cosa con i bambini. All'inizio erano estasiati e litigavano su chi doveva starle più vicino. Quando però cominciavano a strapparsi di mano l'impasto e a sporcare tutta la cucina, la sua pazienza s'incrinava pericolosamente. Questo accadeva soprattutto quando al lavoro aveva avuto una giornata pesante, in quei casi le capitava di uscire dai gangheri. Era andata a finire così più spesso di quanto le piaceva pensare. I bambini, imbronciati, venivano piazzati davanti alla televisione mentre lei finiva di impastare e infornava a velocità supersonica. Poi era Thomas a metterli a letto mentre lei puliva la cucina. Sospirò di nuovo. Forse, questa volta le cose sarebbero andate diversamente. Nessuno si sarebbe bruciacchiato un dito e avrebbero mangiato tutti insieme le ciambelle davanti al camino. Quando arrivò al sentiero che correva lungo la Norr Mälarstrand accele-
rò il passo. Il dolore alle gambe aveva cominciato a diminuire, e Annika si costrinse a mantenere un ritmo costante e serrato. Il respiro si fece più affannoso e il cuore cominciò a battere più veloce. Fino a poco tempo prima, trovava più divertente andare in ufficio che stare a casa. Come giornalista era abituata a vedere subito i risultati del suo lavoro, a godersi gli apprezzamenti, e diverse volte alla settimana ai suoi articoli veniva affiancato il riquadro con la sua foto. Aveva il pieno controllo della situazione, sapeva esattamente cosa le veniva richiesto nelle circostanze più diverse. Possedeva spirito d'iniziativa e utilizzava al meglio le capacità dei suoi collaboratori. A casa le aspettative erano più numerose, più difficili e meno esplicite. Annika non si sentiva mai abbastanza allegra, eccitata, calma, efficiente o rilassata. L'appartamento era sempre più o meno in disordine, la cesta dei panni sporchi perennemente strapiena. Thomas era bravo nel prendersi cura dei bambini, quasi meglio di lei, ma non puliva mai la cucina a gas e il piano di lavoro, solo di rado metteva piatti e pentole nella lavastoviglie, lasciava mucchi di vestiti e di posta mai aperta in giro per la camera da letto. Era come se pensasse che le stoviglie sporche finissero nella macchina da sole e che le bollette volassero automaticamente in banca. Adesso, però, non era più così piacevole andare al lavoro: non da quando, otto settimane prima, era stata promossa caposervizio. Non aveva immaginato che il passaggio di grado avrebbe suscitato reazioni tanto veementi. La decisione non era nemmeno stata inaspettata. In pratica, era già da un anno che coordinava la redazione della nera portando avanti nello stesso tempo il suo lavoro di cronista. L'unica differenza era nello stipendio, o almeno così la vedeva lei. Nils Langeby, naturalmente, era di tutt'altra opinione. A suo parere, era scontato che quel posto doveva toccare a lui. Aveva cinquantatré anni, e Annika solo trentadue. Era rimasta sorpresa anche dal fatto che la gente si arrogasse il diritto di metterla in discussione e criticarla per i motivi più disparati. All'improvviso, avevano cominciato a fare commenti sul suo modo di vestire, cosa mai capitata prima, e si spingevano a osservazioni davvero sfacciate sulla sua personalità e le sue qualità. Non aveva capito che, con i gradi di capo, sarebbe diventata carne da macello. Ora lo sapeva. Aumentò ulteriormente il passo. Aveva voglia di arrivare a casa. Alzò gli occhi verso i palazzi che le scivolavano di fianco sul lato opposto della via, le finestre proiettavano una luce calda e invitante sullo specchio d'acqua. Quasi tutte erano decorate dalle stelle dell'avvento o dai candelabri e-
lettrici, e l'effetto era davvero splendido, dava una sensazione di grande serenità. Annika lasciò il sentiero lungo la riva e svoltò in John Ericssongatan, salendo verso l'Hantverkargatan. L'appartamento era silenzioso e immerso nel buio. Senza far rumore, Annika si sfilò stivali e cappotto e scivolò piano nella stanza dei bambini. Dormivano, nei loro pigiamini: quello di Ellen con l'immagine di Barbie e quello di Kalle con Batman. Li fiutò un pochino, Ellen si rigirò nel sonno. Thomas era andato a letto, ma non si era ancora addormentato. La luce sul comodino diffondeva un tenue alone sul suo lato del letto. Stava leggendo l'"Economist". «Stanca?» le chiese quando lei si fu svestita e gli ebbe dato un bacio sui capelli. «Un po'» rispose Annika dallo spogliatoio, dove stava cercando di infilare gli indumenti nella cesta dei panni da lavare. «Quest'esplosione è una faccenda davvero raccapricciante.» Era nuda quando uscì dallo spogliatoio e gli s'infilò accanto sotto le coperte. «Come sei fredda» disse Thomas. Annika si rese conto all'improvviso di quanto fossero gelide le sue cosce. «Sono venuta a casa a piedi» spiegò. «Cosa? Vuoi dire che il giornale non ti ha pagato il taxi dopo una giornata come questa, venti ore di lavoro, e di sabato?» L'esasperazione affiorò all'istante. «Ma certo che il giornale mi avrebbe pagato il taxi. È solo che volevo camminare!» Annika stava quasi gridando. «Non farmi incazzare con le tue eterne critiche!» Thomas lasciò cadere il giornale sul pavimento e spense la luce, dandole ostentatamente le spalle. Annika sospirò. «Dài, Thomas, ti prego. Non essere arrabbiato.» «Stai fuori tutto il sabato e poi arrivi e ti metti a urlarmi in faccia» disse lui stancamente. «Possibile che ci portiamo a casa solo e sempre della merda?» Annika sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime, lacrime di stanchezza e di inadeguatezza. «Scusami» sussurrò. «Non volevo essere sgarbata. È solo che al lavoro mi stanno continuamente addosso, è una fatica del diavolo. E poi ho sempre i sensi di colpa perché non sto abbastanza a casa con te e i bambini. Ho paura che tu sia deluso, ma il giornale non permette a nessuno di deluderlo, e così io mi trovo in mezzo a una specie di maledetto fuoco incrocia-
to...» Cominciò a piangere sul serio. Dall'altra parte del letto, udì Thomas sospirare. Dopo qualche istante, lui si girò e la prese tra le braccia. «Coraggio, amore. Vedrai che andrà tutto bene, sei meglio di tutti quanti loro messi insieme... Però, cazzo, se sei fredda! Guarda che non voglio che ti prenda il raffreddore proprio adesso che manca poco a Natale.» Lei rise tra le lacrime e gli si rannicchiò contro. Tra loro cadde il silenzio, in un'atmosfera di calda e serena intimità. Annika appoggiò la testa all'indietro sul cuscino e sbatté le palpebre. Lassù s'intravedeva il soffitto, sospeso nell'oscurità All'improvviso, le tornò in mente l'immagine della mattina presto, e il sogno a cui era stata strappata dallo squillo del telefono. «Sognavo di te, stamattina» sussurrò. «Spero sia stato un sogno arrapante» borbottò lui, semiaddormentato. Lei rise piano. «Altroché! Eravamo su una nave spaziale. E quei vecchi bavosi di Studio Sex stavano a guardare.» «Tutta invidia» disse Thomas addormentandosi. AMORE Quando ne rimasi vittima la prima volta, ero in età adulta e avevo già conquistato una posizione. Per qualche istante mandò in pezzi la mia solitudine cosmica; le nostre anime si fusero davvero in un modo che non avevo mai provato prima. È interessante aver vissuto quell'esperienza, non dico di no, e da allora ho riprovato la stessa sensazione diverse volte. A posteriori, comunque, la maggior parte delle mie impressioni possono essere definite irrilevanti e segnate da una leggera rassegnazione. Lo dico senza amarezza, come una semplice constatazione. È solo di recente, nel corso dell'ultimo anno, che ho cominciato a dubitare dei miei convincimenti. La donna che ho trovato e imparato ad amare, forse, può davvero cambiare tutto. Ma, dentro di me, so che non è così. L'amore è un evento banale. Provoca la stessa ebbrezza di un successo molto ambito o di una corsa ad alta velocità. La coscienza ne risulta ottenebrata, rimane solo il proprio godimento, che distorce l'esistenza e crea una condizione irrazionale di potenzialità e felicità. Nonostante t'avvicendarsi dell'oggetto d'amore, la magia non è mai duratura. Alla lunga, porta con sé solo stanchezza e disgusto. L'amore più splendido è sempre impossibile. Deve morire mentre vive,
così come per la rosa l'unico destino è di essere recisa all'apice della sua fioritura. Un fiore secco o conservato può dare gioia per molti anni. Un amore bruscamente interrotto nel pieno della passione ha la capacità di ammaliare le persone per centinaia di anni. Il suo mito è una favola, irreale e irrealistica quanto un orgasmo ininterrotto. L'amore non deve essere scambiato con l'affetto sincero. È qualcosa di completamente diverso. L'amore non "matura", appassisce soltanto, e nel migliore dei casi viene sostituito da calore e tolleranza, ma più spesso da pretese silenziose e grande amarezza. Ciò vale per tutti i tipi di amore: quello tra i sessi, tra generazioni diverse e nel luogo di lavoro. Quante volte mi è capitato di conoscere mogli disilluse con le dita piagate a forza di lavare piatti e mariti sessualmente frustrati! E anche genitori incapaci e figli trascurati, capi incompresi e impiegati che da tempo hanno smesso di rallegrarsi per il fatto di avere un lavoro sicuro e sono passati a porre solo e unicamente delle condizioni. Si può amare davvero il proprio lavoro. Per me, quest'amore è sempre stato più autentico di quello tra le persone. La gioia sincera di aver conseguito uno scopo prefisso supera in splendore tutte le altre esperienze che ho vissuto. Per me, è scontato che la passione che si può provare nei confronti di un compito da svolgere può essere intensa tanto quella che si avverte per una persona che non la merita. E il pensiero che la mia amata la possa meritare mi riempie di timore e insicurezza. DOMENICA 19 DICEMBRE La domenica è sempre stato il giorno della settimana in cui i giornali del pomeriggio vendono di più. La gente è più disponibile a leggere qualcosa di non troppo impegnativo e sufficientemente rilassata da mettersi a fare i cruciverba o i test sugli argomenti più disparati. Da molti anni, inoltre, la maggior parte dei giornali che escono di domenica ha puntato su un corposo inserto che offre un'ampia scelta di articoli. L'Agenzia statistica della stampa, di conseguenza, quando rende noti i dati sulle copie vendute distingue l'edizione della domenica dal resto della settimana. Niente, comunque, funziona meglio di un bel fatto di cronaca. Se, oltre tutto, si verifica di sabato, ci sono tutti i presupposti per un nuovo record. Quella domenica era davvero perfetta, sotto questo aspetto, e Anders
Schyman se ne rese conto non appena ebbe in mano "La Stampa della Sera" e il "concorrente", consegnatigli dal fattorino direttamente alla sua villa di Saltsjöbaden. Si portò i quotidiani a tavola, dove sua moglie stava versando il caffè per la colazione. «Come ti sembra il risultato, buono?» chiese lei, ma la risposta del direttore si limitò a un grugnito. Quello era il momento più magico di tutta la giornata. I suoi nervi si tendevano e la sua concentrazione veniva totalmente assorbita dai due giornali, che stendeva davanti a sé sulla tavola per confrontarne la prima pagina. Jansson aveva fatto di nuovo un ottimo lavoro, constatò sorridendo. Entrambi i quotidiani avevano dato spazio all'ipotesi terroristica, ma solo "La Stampa della Sera" riportava la notizia delle minacce di morte nei confronti di Christina Furhage, i commenti delle personalità più note erano scelti con maggiore cura e la foto dello stadio risultava di grande effetto. Anders Schyman sorrise e si rilassò. «Sì, grazie» disse a sua moglie allungandosi verso la tazza di caffè. «Ottimo, direi.» Le voci del cartone animato sul terzo canale della televisione furono il primo suono che Annika udì quella mattina. Urla e rumori degli effetti speciali filtravano sotto la porta della camera da letto come una sorta di cascata isterica. Si mise il cuscino sopra la testa per non sentirli. Quello era uno dei pochi svantaggi derivanti dal fatto di avere dei figli: gli attori di serie C che doppiavano in svedese Darkwing Duck erano più di quanto potesse sopportare. Thomas non si accorse di niente, come al solito, e continuò a dormire con la coperta attorcigliata in mezzo alle gambe. Annika rimase immobile per un attimo e cercò di capire come si sentiva. Era stanca, e il dolore alle gambe non era scomparso del tutto. I suoi pensieri corsero immediatamente al dinamitardo, si rese conto che doveva aver sognato dell'attentato. Era sempre così, in occasioni come queste: entrava in un lungo tunnel e non ne usciva finché la vicenda non era stata sviscerata e conclusa. A volte doveva costringersi a riprendere fiato, per il suo bene e per quello dei bambini. A Thomas non piaceva che si lasciasse coinvolgere in modo così esasperato dal lavoro. "In fondo, è soltanto un lavoro" diceva spesso. "Ogni volta agisci come se fosse una questione di vita o di morte." Solo che, in effetti, nella maggior parte dei casi era proprio così, almeno nel suo settore. Annika sospirò, scostò cuscino e coperte e si alzò. Rimase in piedi un i-
stante, ondeggiando, ancora più stanca di quanto avesse creduto. La donna riflessa nel vetro della finestra pareva una centenaria. Sospirò di nuovo e andò in cucina. I bambini avevano già mangiato. Le stoviglie erano ancora sulla tavola, in mezzo a pozzanghere di latte versato. Kalle, ormai, sapeva servirsi da solo lo yogurt e i cereali. Da quando si era bruciato con il tostapane, però, aveva smesso di preparare a Ellen il pane di segale con il burro di noccioline e la marmellata, che in genere era una delle loro leccornie preferite. Annika mise sul fuoco l'acqua per il caffè americano e andò in salotto dai bambini. Il grido di giubilo che l'accolse si levò ancora prima che fosse entrata nella stanza. «Mamma!» Quattro braccia e quattro occhi affamati si precipitarono verso di lei, le loro boccucce umide si misero a sbaciucchiarla, cinguettare, stringerla e dirle quanto avevano avuto nostalgia di lei. «Mammina, dov'eri ieri? Sei stata al lavoro tutto il giorno, mamma? Non eri ancora arrivata, quando noi ci siamo addormentati...» Li cullò stringendoli tra le braccia, accovacciata sulla porta del salotto. «Papà ci ha comprato una cassetta nuova, sai mamma? S'intitola Tu sei tutta matta, Madicken. Faceva paura, c'era un cattivo che picchiava Mia. Lo vuoi vedere il mio disegno, mamma? L'ho fatto per te!» Si divincolarono dalle sue braccia e sparirono in direzioni opposte. Kalle fu il primo a tornare, con la custodia del film tratto dal libro di Astrid Lindgren sulla sua amica d'infanzia. «Il direttore era proprio cattivo, ha picchiato Mia perché gli aveva rubato il portafoglio» osservò Kalle serio. «Lo so, è stata proprio una cattiveria» commentò Annika, chinandosi ad accarezzare la testa del bambino. «Un tempo era così, nelle scuole. Brutto, vero?» «È ancora così, a scuola?» chiese Kalle preoccupato. «No, non più» lo rassicurò Annika dandogli un bacio sulla guancia. «Nessuno potrà mai fare del male al mio bambino.» Dalla cameretta si udì un grido stizzito: «Il mio disegno non c'è più! Me l'ha rubato Kalle!». «Non è vero!» gridò lui di rimando. «L'avrai perso. Sei stata tu, sei stata tu!» Ellen prese a piangere disperatamente: «Cattivo, Kalle! Mi hai rubato il
disegno!». «Non è vero, stupida bamboccia!» Annika si alzò e prese il bambino per mano. «Adesso basta» disse in tono severo. «Vieni, andiamo a cercare il disegno. Sarà di sicuro sulla scrivania. E non dare della stupida a tua sorella, non voglio più sentirtelo dire, capito?» «Stupida bamboccia, stupida bamboccia!» urlò ancora Kalle. Il pianto di Ellen si ritrasformò in un grido di rabbia: «Mamma, è cattivo! Mi dice stupida!». «Zitti!» esclamò Annika alzando la voce. «Sveglierete papà.» Quando entrò nella stanza, la bambina stava prendendo lo slancio con la manina chiusa per dare un pugno al fratello. La fermò prima che colpisse e perse la pazienza. «Adesso basta!» gridò. «Piantatela, tutti e due!» «Si può sapere che cavolo succede?» sentì dire a Thomas, dalla camera da letto. «Possibile che in questa casa non si possa mai dormire?» «Ecco, visto? Adesso avete svegliato papà» fece Annika. «Ma se sei tu a urlare più di loro due messi insieme!» disse Thomas sbattendo la porta. Annika sentì che gli occhi le si riempivano di nuovo di lacrime. Porca puttana, possibile che non imparasse mai? Si accasciò sul pavimento, pesante come una pietra. «Mamma, sei triste?» Quattro manine morbide le accarezzarono le guance, dandole delle pacchette sulla testa per consolarla. «No, non sono triste, solo un po' malconcia. Ho lavorato fino a tardi, ieri sera.» Si costrinse a sorridere e tese di nuovo le braccia verso i bambini. Kalle la guardò serio. «Non dovresti lavorare tanto. Sei sempre così stanca, dopo.» Lei lo abbracciò. «Tu sì che sei saggio» disse. «Allora, lo cerchiamo o no, questo disegno?» Era scivolato dietro il termosifone. Annika soffiò via la polvere e lo guardò, esprimendo tutta la sua ammirazione. Ellen si illuminò come un sole. «Lo appenderò al muro in camera da letto. Prima, però, bisogna che il papà si alzi.» L'acqua per il caffè bolliva da un pezzo, in cucina, la metà si era trasformata in vapore, andando ad appannare il vetro della finestra. Dopo a-
verla socchiusa, dovette aggiungere altra acqua. «Volete mangiare qualcos'altro?» La risposta era scontata, e così Annika preparò due fette di pane di segale tostato con il burro. Il cinguettio dei bambini saliva e scendeva mentre lei esaminava i giornali del mattino e ascoltava il notiziario alla radio. Sui quotidiani non c'era niente di nuovo, ma la radio citava entrambe le testate del pomeriggio: da una parte il suo articolo sulle minacce di morte nei confronti di Christina Furhage, dall'altra l'intervista del loro concorrente al presidente del Cio Samaranch. E va be', pensò Annika, a Losanna abbiamo fatto cilecca. Peccato, ma non era colpa sua. Prese un'altra fetta di pane di segale. Helena Starke aprì la porta girando la chiave e staccò l'allarme. Ogni tanto, quando arrivava alla segreteria generale del comitato olimpico, trovava l'allarme disattivato: il solito distratto che, andandosene per ultimo la sera, dimenticava di attaccarlo. Questa volta, però, sapeva che era tutto come doveva essere. Era stata lei, infatti, l'ultima ad andarsene la sera prima, anzi, praticamente quella mattina stessa. Andò direttamente all'ufficio di Christina e girò la chiave nella serratura. La spia della casella vocale lampeggiava ed Helena sentì che il suo ritmo cardiaco aumentava. Qualcuno aveva telefonato alle quattro di quella mattina. Si affrettò a sollevare il ricevitore e comporre il codice segreto di Christina. C'erano due messaggi, da parte di entrambi i quotidiani del pomeriggio. Helena imprecò e sbatté giù il ricevitore. Maledette iene. Evidentemente, erano riusciti a individuare il numero diretto di Christina. Con un sospiro si accasciò, dondolandosi per qualche istante sulla poltrona di pelle del direttore generale. La sbornia di due sere prima le aveva lasciato un retrogusto amaro in bocca e un vago ronzio nella testa. Se solo fosse riuscita a ricordare cos'aveva detto Christina quando si erano salutate. La sua memoria si era schiarita a sufficienza da farle ricordare che Christina era salita con lei nell'appartamento. Era anche piuttosto arrabbiata, o ricordava male? Helena si riscosse e si alzò dalla poltrona girevole. Qualcuno aveva aperto e richiuso la porta d'ingresso. Helena si affrettò a rimettere a posto la sedia e a girare attorno alla scrivania. Era Evert Danielsson. Aveva gli occhi cerchiati e la bocca tirata. «Hai saputo qualcosa?» chiese. Helena alzò le spalle. «Di che? Il dinamitardo non è stato preso, Christina non si è fatta sentire e tu sei riuscito nell'intento di diffondere la teoria
terroristica tra i mass media. Immagino che abbia già visto i giornali del mattino.» La tensione intorno alla bocca di Danielsson aumentò. Ah, ecco, pensò Helena sentendo crescere il disprezzo che provava per lui. È della propria poltrona traballante che si preoccupa. Non erano tanto l'accaduto e le conseguenze per i Giochi a tormentarlo, quanto la paura di perdere il posto. Che egoismo, che cosa patetica. «Il consiglio d'amministrazione si riunisce oggi pomeriggio alle quattro» aggiunse Helena uscendo dalla stanza. «Sarà meglio che ti prepari una relazione dettagliata prima che prendiamo posizione sui prossimi passi da compiere...» «Da quando fai parte del consiglio?» chiese Danielsson in tono gelido. Helena Starke si bloccò per un istante, ma finse di non aver sentito la battuta. «Ormai è il momento di coinvolgere anche i Papaveri, per lo meno bisogna informarli. Altrimenti s'incazzano, e in questo momento abbiamo più che mai bisogno di loro.» Evert Danielsson osservò la donna mentre chiudeva a chiave la porta di Christina. Aveva ragione, quanto ai cosiddetti "Papaveri". I massimi rappresentanti dell'industria, i reali, la Chiesa e gli altri membri del comitato d'onore - l'organo dotato di sole funzioni rappresentative - dovevano essere convocati al più presto. Avevano bisogno di essere impomatati e lucidati per affrontare il mondo. Cosa più importante che mai, com'era appena stato detto. «Te ne occupi tu?» chiese Evert Danielsson. Helena Starke annuì e scomparve lungo il corridoio. Quando Annika arrivò al giornale, Ingvar Johansson era seduto al suo posto e parlava al telefono. Era la prima dei giornalisti, gli altri sarebbero comparsi verso le dieci. Il caporedattore indicò prima i mucchi di giornali freschi di stampa impilati contro la parete e poi il divano accanto al banco della cronaca. Annika lasciò cadere il cappotto sullo schienale del divano, andò a prendere le prime edizioni e un caffè e poi si sedette a leggere mentre Ingvar Johansson concludeva la telefonata. Annika sentiva la sua voce in sottofondo intanto che controllava cosa erano riusciti a mettere insieme gli altri dal momento in cui era andata a casa. Il suo articolo sull'ipotesi terroristica e sulle minacce a Christina Furhage occupava le pagine sei e sette, cioè la cronaca più densa e importante. Il
photo editor aveva trovato in archivio un'immagine della Furhage alla testa di un gruppo di uomini in abito e cappotto scuro. Lei, invece, indossava un tailleur bianco e un soprabito chiaro piuttosto corto, risaltando come una figura luminosa in mezzo agli altri. La donna appariva accigliata e stressata, il ritratto perfetto di una persona innocente e minacciata. Un'altra foto a pagina sette inquadrava Evert Danielsson all'uscita della conferenza stampa. Un'ottima immagine di un segretario generale sotto pressione. Annika notò che era stato Ulf Olsson a scattarla. Alla pagina successiva erano riportati gli articoli di Berit sulla vittima e sui ritrovamenti della polizia sul luogo dell'attentato. Jansson aveva scelto come illustrazione un'altra delle foto di Henriksson scattata dal braciere. Funzionava perfettamente. C'era anche il racconto sull'esplosione di Arne Brattström, il tassista ferito. Alle pagine dieci e undici Annika trovò le sorprese più inaspettate. Patrik si era dato da fare come un dannato, quella notte, mettendo insieme due articoli: "'Ho visto l'uomo misterioso fuori dallo stadio' racconta il testimone segreto della polizia" e "Il Tigre ricercato dalla polizia". Evviva, pensò Annika. È riuscito a trovare qualcuno tra il personale del club! Era un barista che raccontava di essere arrivato al lavoro proprio mentre qualcuno attraversava a passo veloce la piattaforma in direzione dell'ingresso principale. Però era stato verso l'una e non subito prima dell'esplosione, come aveva detto la polizia. "Era una persona in giaccone nero, con il cappuccio tirato su, pantaloni scuri e scarponi pesanti" diceva l'articolo. Adesso abbiamo un'idea del nostro attentatore, almeno finché non ne troveremo una migliore, pensò Annika divertita. Come c'era da aspettarsi, la polizia non aveva esitato a mettersi sulle tracce del Tigre. Sulle stesse pagine erano riportate anche le scarne teorie elaborate fino a quel momento sull'omicidio e sull'attentato. La dodici e la tredici erano dedicate alle conseguenze dell'attentato sui Giochi olimpici e alle future misure di sicurezza. C'era anche una retrospettiva sugli attentati del passato ai danni delle Olimpiadi. Le due pagine successive erano riservate alla pubblicità in vista dell'ultima corsa ai regali di Natale. Le pagine sedici e diciassette contenevano le reazioni dei lettori all'accaduto e il riassunto di Nils Langeby relativo alle dichiarazioni provenienti dalle diverse parti del mondo. Annika scorse velocemente il giornale: personaggi noti che rivelavano di essere gravemente malati, un bambino maltrattato, uno scandalo sindacale,
un ignoto cantante rock che era stato sorpreso ubriaco al volante e un gruppo di artisti omosessuali che protestavano per i tagli alla Sanità. Nelle pagine centrali troneggiava lo schema di Patrik con i particolari tecnici sull'attentato. Dettagli di tempi e luoghi, il tutto in pochi dati distribuiti con una serie di frecce intorno alla foto presa dall'elicottero. Alzò gli occhi e vide che Ingvar Johansson aveva finito di parlare al telefono. Doveva essere un po' che stava lì a guardarla. «È venuto proprio bene, vero?» disse Annika sventolando il giornale prima di riappoggiarlo sul divano. «Sì, non c'è male» rispose Ingvar Johansson girandosi. «Ormai, però, appartiene al passato. Adesso bisogna pensare al giornale di domani.» Guastafeste del cavolo, pensò Annika. Trovava che i giornalisti dei quotidiani del pomeriggio vivessero sempre troppo nel futuro e troppo poco nel passato. Se qualcosa andava male, se ne sbattevano perché tanto era già roba vecchia. Se invece andava bene, non si aveva mai il tempo di compiacersi del risultato. Era un peccato perché, secondo lei, un'analisi accurata degli aspetti positivi e negativi era importante ai fini della qualità del lavoro. «Cos'hai in mano, per domani?» chiese lui girandole le spalle. E adesso che cazzo c'è? pensò Annika stancamente. Perché si comporta così? Devo aver combinato qualcosa che l'ha mandato fuori dai gangheri e vuole farmela pagare. Cosa può essere? Non l'ho mai trattato male, mi sembra. È forse arrabbiato perché ieri, in riunione, gli ho rubato la scena? «Scusa, sai, ma come cavolo faccio a sapere cos'ho in mano, se sono appena arrivata?» disse, sorprendendosi del tono che aveva involontariamente usato. Si alzò di scatto e raccolse borsa e cappotto, dirigendosi verso il suo ufficio. «C'è una conferenza stampa in questura alle dieci e mezzo» le gridò dietro Ingvar Johansson. Annika guardò l'orologio mentre apriva la porta. Ancora cinquanta minuti, aveva giusto il tempo di fare qualche telefonata prima di andare. Cominciò dal numero di cellulare che in teoria avrebbe dovuto appartenere a Christina Furhage. Il direttore generale del comitato organizzatore delle Olimpiadi non aveva ancora rilasciato alcuna dichiarazione, quindi nemmeno la segreteria doveva averla rintracciata. C'era qualcosa di molto sospetto nel silenzio della donna, a questo punto Annika ne era convinta. Con sua grande sorpresa, sentì che il telefono squillava. Allora, era acceso. Si affrettò a schiarirsi la voce, ma dopo il quinto squillo entrò in fun-
zione la segreteria telefonica della Telia. Adesso, almeno, Annika sapeva che il telefono era in uso e funzionava. Memorizzò il numero. Patrik e Berit comparvero insieme sulla porta. «Sei occupata?» «No, no, venite, così facciamo un attimo il punto.» Si alzò, girò intorno alla scrivania e si sedette sul vecchio divano. «Ottimo lavoro, tutti e due, quello di ieri» disse. «Siamo stati solo noi a riportare la notizia degli oggetti ritrovati nello stadio e le dichiarazioni del barista del club.» «L'altro giornale del pomeriggio, però, aveva un'intervista con Samaranch decisamente buona» osservò Berit. «L'hai vista? Pareva incazzato, e ha minacciato di annullare i Giochi se il dinamitardo non viene preso.» «Già, l'ho sentito» disse Annika. «È un vero peccato essercelo lasciato scappare. Anche se, in effetti, mi sembra strano che si sia espresso in quei termini. Se davvero vuole annullare i Giochi, perché non lo afferma pubblicamente? Agli altri media e nei comunicati stampa ha detto che si svolgeranno a qualunque costo.» «Possibile che tutti gli altri siano rimasti sul vago mentre il "concorrente" dispone delle più intime riflessioni di Samaranch?» si chiese Berit. Annika aprì il giornale alla pagina dell'intervista. «L'autore è il loro corrispondente da Roma, un tipo in gamba. Credo che sia tutto vero, ma Samaranch smentirà comunque oggi pomeriggio.» «Perché oggi pomeriggio?» chiese Patrick. «Perché la Cnn avrà fatto in tempo a preparare uno "speciale"» rispose Annika sorridendo. «"Le Olimpiadi sono in bilico" sarà il titolo, con un enfatico sottofondo musicale...» Berit sorrise. «Sembra che ci sia un'altra conferenza stampa, tra poco.» «Già» osservò Annika. «Probabilmente riveleranno il nome della vittima, e mi chiedo se non sarà il direttore del comitato organizzatore in persona.» «La Furhage?» chiese Patrik sbarrando gli occhi. «Pensaci un momento» disse Annika. «O si nasconde, oppure qualcosa non torna. Nessuno riesce a rintracciarla, nemmeno i suoi più stretti collaboratori. Non esiste un posto sulla terra in cui la notizia non sia arrivata. Non può non essere stata informata. O non vuole farsi viva, e dunque si nasconde, oppure non può, perché è malata, morta o è stata rapita.» «Ci ho pensato anch'io. In effetti, ieri l'ho chiesto agli investigatori quando ho parlato con loro dei ritrovamenti sul luogo del delitto, ma hanno
negato recisamente.» «Non significa niente» disse Annika in tono pensoso. «La Furhage è al centro dell'attenzione anche oggi, qualsiasi cosa accada. Dobbiamo continuare a scavare sulla minaccia di morte: in cosa consisteva, realmente? Se la vittima è lei, dobbiamo concentrarci sulla sua vita passata. Abbiamo qualche coccodrillo pronto?» «Non certo su di lei» rispose Berit. «Non era propriamente tra quelli con un piede nella fossa.» «Ricordiamoci di far tirar fuori foto e ritagli prima di andare in questura. Qualcuno di voi ha parlato con Eva-Britt, ieri?» Berit e Patrik scossero la testa. Annika andò alla scrivania e compose il numero di casa della segretaria di redazione. Quando lei rispose, Annika le spiegò in breve la situazione. «Lo so che è l'ultima domenica prima di Natale, ma sarebbe utile che venissi lo stesso. Noi tre dobbiamo andare alla conferenza stampa in questura, e ci servirebbe che tu tirassi fuori tutto quello che abbiamo su Christina Furhage, sia foto che testi, prima che torniamo...» «Ho appena messo a lievitare l'impasto delle ciambelle» rispose EvaBritt Qvist. «Mi dispiace» disse Annika. «Solo che, vedi, oggi qui possono succederne delle belle, e noi siamo messi un po' male. Patrik è rimasto in redazione fino alle quattro e mezzo, stanotte, io ieri ho lavorato fino alle undici di sera, e lo stesso più o meno vale per Berit. Fra l'altro, abbiamo bisogno di un aiuto proprio nel tuo settore, quello della consultazione di database, raccolta di materiale e...» «Ti ho detto che non posso» la interruppe Eva-Britt Qvist. «Ho una famiglia, nel caso non lo sapessi.» Annika ingoiò la prima risposta che le era salita alle labbra, e disse invece: «Sì, lo so cosa vuol dire dover cambiare i propri programmi. È orribile dover deludere marito e figli. Naturalmente, ti verrà pagato lo straordinario e potrai prenderti la giornata di compensazione quando ti pare, fra Natale e Capodanno, o se vuoi durante la settimana di vacanza da scuola di febbraio. Ma sarebbe magnifico se ci facessi trovare pronto il materiale in tempo per quando torniamo dalla conferenza stampa...». «Sto facendo le ciambelle, ti ho detto! Non posso! Cos'è, sei un po' dura di comprendonio?» Annika rimase senza fiato. «Okay» tagliò corto. «Allora mettiamola così, se preferisci. Ti convoco d'autorità al giornale. Mi aspetto che tu sia in
redazione tra un quarto d'ora.» «E le mie ciambelle?» «Falle fare alla tua famiglia» rispose Annika riattaccando. Si accorse che la mano le tremava per l'irritazione. Odiava queste cose. Non si sarebbe mai sognata di comportarsi come Eva-Britt Qvist se un suo superiore le avesse telefonato per chiederle di fare gli straordinari. Se si lavorava in un giornale, e accadeva qualcosa di particolare, bisognava essere disposti a collaborare senza piantare grane. Se invece si voleva avere un lavoro con orario canonico dal lunedì al venerdì era meglio farsi assumere negli uffici della compagnia telefonica, o qualcosa del genere. Naturalmente, c'erano altre persone in grado di fare quel tipo di ricerche: lei stessa, Berit o qualche redattore. Ma in una situazione come quella tutti erano sotto pressione. E tutti volevano festeggiare il Natale. Perciò, era più razionale distribuire i favori in maniera più equa possibile e lasciare che ciascuno svolgesse i suoi compiti, sebbene fosse domenica. Non poteva cedere e lasciare a casa Eva-Britt perché, come caposervizio, le si sarebbe scatenato addosso l'inferno, questo era poco ma sicuro. La mancanza di rispetto che la segretaria di redazione le aveva appena dimostrato non poteva certo essere premiata con dei giorni di vacanza. «Eva-Britt sta arrivando» comunicò agli altri, intuendo l'ombra di un sorriso sulle labbra di Berit. Andarono alla conferenza in due auto. Annika e Berit insieme al fotografo Johan Henriksson, Patrik con Ulf Olsson. Il caos, se possibile, era ancora più esasperato della volta precedente. Henriksson fu costretto a parcheggiare nella Kungsholmstorg, perché sia la Bergsgatan che l'Agnegatan erano ingombre fino all'inverosimile di pulmini muniti di parabole e di Volvo con il logo dei diversi mass media impressi sulle portiere. Annika si godette la breve passeggiata tra i palazzi. L'aria era cristallina e trasparente, dopo la nevicata della sera prima, e il sole faceva scintillare i piani alti dei caseggiati. Sotto le loro scarpe la neve scricchiolava. «Io abito là» disse indicando l'edificio di fine Ottocento ristrutturato di recente a metà della Hantverkarga tan. «Sei in affitto o è tuo?» chiese Berit. «In affitto» rispose Annika. «Come diavolo sei riuscita a trovare un appartamento in quel palazzo?» chiese Henriksson pensando al suo bilocale in subaffitto a Brandbergen.
«Grazie alla mia testardaggine» rispose Annika. «Otto anni fa stipulai un contratto per un piccolo trilocale senza acqua calda nella parte che dà sul cortile. Il palazzo doveva essere completamente ristrutturato e mi furono concessi sei mesi. Ma sopravvenne la crisi edilizia e il proprietario andò in fallimento. A quel punto, eravamo già quasi in quattro: io, Thomas, Kalle ed Ellen che stava per nascere. Quando finalmente il palazzo è stato ristrutturato, siamo riusciti ad avere un appartamento di cinque locali che dà sulla strada. Mica male, eh?» «Fortunella!» esclamò Berit. «E quanto paghi d'affitto?» chiese Henriksson. «Ecco, questo è l'unico aspetto poco piacevole della faccenda» rispose Annika. «Chiedimi qualcos'altro, magari com'è il parquet o quanto sono alti i soffitti.» «Maledetti snob capitalisti» commentò Henriksson e Annika rise alla battuta. I giornalisti della "Stampa della Sera" erano in ritardo e stavano giusto entrando quando la conferenza stampa ebbe inizio. Annika finì per rimanere sulla porta, senza poter vedere quasi niente. Allungando il collo notò come i reporter, uno dopo l'altro, facessero del loro meglio per mostrare agli altri quanto erano importanti e concentrati sul loro lavoro. Henriksson e Olsson si fecero strada a gomitate fino al podio e ci arrivarono proprio mentre gli oratori entravano in corteo nella sala. Erano meno numerosi del giorno prima. Annika riusciva a intravedere solo il procuratore capo Kjell Lindström e il portavoce della polizia. Evert Danielsson non c'era, e nemmeno qualcuno degli investigatori. Sporgendosi oltre la testa di una giornalista, Annika scorse il portavoce che si schiariva la gola e prendeva la parola. Riassunse la situazione dando informazioni già note, come il fatto che il Tigre era ricercato e che l'indagine tecnica proseguiva. Parlò per dieci minuti scarsi. Poi Kjell Lindström si sporse in avanti, imitato dai rappresentanti della stampa. Tutti immaginavano cosa stava per dire. «Il lavoro di identificazione della vittima deceduta allo stadio è pressoché concluso» esordì il procuratore capo, mentre tutti i giornalisti allungavano il collo. «I parenti sono stati informati, perciò abbiamo ritenuto di poter rendere pubblica la notizia, sebbene il lavoro non sia ancora completamente concluso... La morta è Christina Furhage, direttore generale del Socog, il comitato di Stoccolma per l'organizzazione dei Giochi olimpici.»
La reazione di Annika fu quasi fisica: sì! Lo sapevo! Era proprio come pensavo! Quando le voci eccitate all'interno della sala salirono di volume soffocando ogni altro suono, lei stava già uscendo dalla questura. S'infilò l'auricolare e compose il numero di cellulare che aveva memorizzato. Annika si fermò nel piccolo atrio tra l'ingresso e il portone esterno, inspirò profondamente, chiuse gli occhi e, concentrandosi, cercò di inviare un messaggio telepatico: per favore, qualcuno risponda! Tre squilli, quattro squilli... si sentì uno scatto! Qualcuno stava rispondendo! Dio santo, chi poteva essere? Annika serrò gli occhi ancora più forte e parlò lentamente, in tono sommesso. «Buongiorno. Mi chiamo Annika Bengtzon e sono una giornalista della "Stampa della Sera". Con chi parlo, per favore?» «Sono Bertil Milander» rispose qualcuno sottovoce. Bertil Milander... non era il marito di Christina Furhage? Annika preferì accertarsene e chiese con la stessa lentezza di prima: «Parlo con Bertil Milander, il marito di Christina Furhage?». L'uomo al telefono sospirò. «Sì, esatto.» Annika aveva il cuore in gola. Telefonare a casa di una persona alla quale era appena morto un congiunto era la cosa più sgradevole che un giornalista potesse ritrovarsi a fare. Nel mondo della stampa si discuteva da tempo sull'opportunità di contattare i parenti, ma lei era del parere che fosse meglio telefonare che astenersi, se non altro per riferire le intenzioni del giornale. «Innanzi tutto, vorrei farle le condoglianze per la tragedia che ha colpito la sua famiglia. La polizia ha appena reso noto che la vittima dell'esplosione allo stadio Vittoria era sua moglie.» L'uomo non disse nulla. «A proposito, questo è il numero del cellulare di Christina?» sentì chiedere dalla sua stessa voce. «No, è quello della famiglia» rispose l'uomo, sorpreso. «Ecco, le telefono per comunicarle che domani scriveremo sul giornale della morte di sua moglie...» «Veramente, lo avete già fatto» disse l'uomo. «Sì, certo, ci siamo occupati dell'esplosione.» «"La Stampa della Sera"... Non siete stati voi a pubblicare la foto? Quella in cui...» La voce dell'uomo s'incrinò, cedendo il passo a singhiozzi incontrollati. Annika si tappò la mano con la bocca e alzò gli occhi: Dio santo, aveva vi-
sto la fotografia di Henriksson in cui i medici raccoglievano i pezzetti di sua moglie! Inspirò senza far rumore. «Sì, siamo stati noi» disse calma. «Mi dispiace molto di non averla potuto avvertire, ma abbiamo saputo solo adesso che si trattava di sua moglie. Se quella foto l'ha turbata, le chiedo scusa. È per questo che ritengo così importante parlare con lei adesso. Domani si scriverà ancora parecchio di questa storia.» L'uomo all'apparecchio piangeva. «Se c'è qualcosa che vuole dire, l'ascolterò volentieri» proseguì Annika. «Se desidera esprimere una critica o chiederci di scrivere qualcosa di particolare, o di non scriverlo, me lo dica, signor Milander. Signor Milander?» Lui si soffiò il naso. «Sì, sono qui.» Attraverso le porte a vetri, Annika vide il branco di giornalisti che usciva dall'edificio. Uscì e si piazzò di fianco alla scalinata. Sentì nell'auricolare i due brevi segnali che indicavano che qualcun altro stava cercando di chiamare l'altro cellulare. «Capisco benissimo che per lei sia un momento terribile» disse. «Ma si tratta di un avvenimento di interesse internazionale, uno dei peggiori delitti mai avvenuti nel nostro paese. Sua moglie era un personaggio di primo piano, un modello per tutte le donne. Per questo è nostro dovere occuparci di ciò che è accaduto. E per la stessa ragione le chiedo di parlare con noi, di darci la possibilità di mostrarle rispetto, di farci sapere come vuole che venga affrontato l'argomento. La cosa più terribile è che, senza volerlo, possiamo peggiorare le cose scrivendo qualcosa di sbagliato e ferendola senza averne l'intenzione.» Di nuovo si udì il segnale di "chiamata in attesa". L'uomo esitava. «Posso darle il mio numero diretto e quello del direttore responsabile, così potrà chiamare quando vuole...» «Venga qui» la interruppe l'uomo. «Voglio parlare.» Annika chiuse gli occhi e si vergognò della gioia che provava. Il marito della vittima le avrebbe rilasciato un'intervista! Annotò l'indirizzo segreto della famiglia sul retro di uno scontrino che trovò nella tasca. Prima di valutare se fosse o meno corretto dal punto di vista etico, si affrettò ad aggiungere: «Da questo momento in poi, il suo telefono squillerà senza interruzione. Se questo la può turbare, non esiti a spegnerlo». Era arrivata al traguardo. Meglio che nessun altro giornalista facesse altrettanto. Tornò dentro la questura in cerca dei suoi colleghi. La prima in cui s'im-
batté fu Berit. «Sono riuscita a contattare la famiglia» le disse. «Ci vado con Henriksson. Se tu ti metti a lavorare sulle ultime ore della Furhage, Patrik può occuparsi della caccia all'assassino, che ne dici?» «Benissimo» rispose Berit. «Henriksson è sul retro da qualche parte, si è portato fuori Kjell Lindström per una foto... Mi sa che arrivi prima se fai il giro.» Annika si precipitò fuori e trovò Henriksson sulla Bergsgatan, in piedi su un container per la carta da riciclare con Lindström sotto e sullo sfondo il tunnel d'acciaio che portava alla guardiola. Salutò Lindström e prese da parte il giovane fotografo. «Vieni con me, Henriksson, vedrai che domani avrai di nuovo le pagine centrali tutte per te» gli disse. Helena Starke si asciugò la bocca con il dorso della mano. Si accorse che era sporca ma non percepì l'odore di vomito. Tutti i suoi sensi erano bloccati, spenti, spazzati via. Odorato, vista, udito, gusto, non c'erano più. Gemette e si sporse ancora sul water. Era davvero buio, là dentro, o era diventata cieca? Il cervello non funzionava, non riusciva a pensare, non c'erano più pensieri, tutto ciò che faceva parte di lei era stato messo su una griglia e arrostito, carbonizzato. Sentì le lacrime salate che le scendevano sul viso, ma non capì che stava piangendo. L'unica cosa rimasta era un'eco nel suo corpo, il suo corpo era uno spazio vuoto che veniva colmato da un ritornello assordante: "Christina è morta, Christina è morta, Christina è morta...". Sentì bussare forte. «Helena, cosa succede? Hai bisogno di aiuto?» Gemette di nuovo e si accasciò sul pavimento, raggomitolandosi sotto il lavandino. "Christina è morta, Christina è morta, Christina..." «Apri, Helena! Stai male?» "Christina è morta, Christina è morta..." «Forzate questa porta!» Qualcosa la investì, qualcosa di forte. Era la luce della lampada al neon dell'ingresso. «Santo cielo, aiutatela ad alzarsi. Cos'è successo?» Non capirebbero, pensò, accorgendosi di essere ancora in grado di farlo. Non capirebbero mai. Mai. Si rese conto che la stavano sollevando. Sentì che qualcuno gridava, e capì di essere lei. Il palazzo era color ocra scuro, stile art nouveau. Era situato nella zona
più alta di Östermalm, in una di quelle vie tranquille ed eleganti dove tutte le auto sono lucide e le signore portano al guinzaglio cagnolini bianchi. L'atrio, ovviamente, era magnifico: pavimenti di marmo, porte a specchio con il vetro molato, ascensore in faggio e ottone, pareti marmorizzate in una calda tonalità gialla e un finestrone che dava sul cortile interno con vetro ornamentale a mosaico con motivi di fiori e foglie. Dall'ingresso partiva una spessa passatoia verde che arrivava fino alla scala. Ad Annika parve di ricordare di averne vista una simile al Grand Hotel. L'appartamento della famiglia Furhage-Milander si trovava all'ultimo piano. «Procediamo con il massimo tatto» sussurrò Annika a Henriksson. Poi suonò il campanello: una sequenza di cinque note trillanti. La porta si aprì immediatamente, come se l'uomo fosse stato lì dietro, in attesa. Annika non lo riconobbe, non lo aveva mai visto neanche in fotografia. Christina non era una che si trascinasse dietro il marito. Bertil Milander era grigio in volto e aveva occhiaie profonde. Non si era rasato. «Avanti» disse soltanto. Si voltò e andò dritto in quello che sembrava un grande salone. Sotto la giacca marrone la schiena era curva, Annika rimase colpita dal fatto che pareva piuttosto anziano. Si tolsero i cappotti, Henriksson si appese una Leica alla spalla e lasciò il resto dell'attrezzatura nell'ingresso. I piedi di Annika sprofondavano negli spessi tappeti, quella doveva essere una casa piuttosto costosa da assicurare. L'uomo si era seduto su un divano, Annika e il fotografo finirono per accomodarsi su un altro, di fronte. Lei aveva tirato fuori blocco e penna. «Siamo qui soprattutto per ascoltare» disse in tono calmo. «Se c'è qualcosa che vuole raccontarci, che desidera che scriviamo, lo prenderemo in considerazione.» Bertil Milander abbassò lo sguardo sulle proprie mani intrecciate. Poi si mise a piangere piano. Henriksson si inumidì le labbra. «Ci racconti di Christina» lo incoraggiò Annika. L'uomo si soffiò il naso in un fazzoletto ricamato che aveva estratto dalla tasca dei pantaloni. Si pulì a lungo prima di rimetterlo via. Sospirò profondamente. «Christina era la persona più fantastica che abbia conosciuto in vita mia» disse. «Era assolutamente formidabile. Non c'era nulla che non riuscisse a fare. Vivere con una donna come lei era...» tirò fuori il fazzoletto e si soffiò di nuovo il naso «un'avventura, ogni giorno. Si occupava lei di tutto,
qui a casa: cibo, pulizie, inviti, bucato, economia, la responsabilità di nostra figlia. Si prendeva cura di ogni cosa...» L'uomo si fermò a riflettere. Sembrava che d'un tratto si fosse reso conto della portata di quanto appena detto. D'ora in poi, tutte quelle incombenze sarebbero ricadute sulle sue spalle. Abbassò lo sguardo sul fazzoletto. «Vuole raccontarci di come vi siete conosciuti?» chiese Annika, tanto per dire qualcosa. Non pareva che l'uomo l'ascoltasse. «Stoccolma non avrebbe mai ottenuto di ospitare i Giochi olimpici, senza di lei. È stata lei a incantare Samaranch fino a trasformarlo in un cagnolino ubbidiente. Ha messo in piedi l'intera organizzazione della campagna per la candidatura e l'ha portata a buon fine. Poi, raggiunto l'obiettivo, volevano toglierla di mezzo e mettere qualcun altro al posto di direttore generale del comitato organizzatore, ma non ci sono riusciti. Era l'unica a poter svolgere quel ruolo, alla fine l'hanno capito.» Annika prendeva appunti e sentiva aumentare sempre più il senso di confusione. Aveva incontrato spesso persone in stato di choc dopo incidenti stradali o delitti, e sapeva che potevano reagire in maniera strana e irrazionale, ma Bertil Milander non pareva affatto un coniuge affranto. Le sue parole ricordavano piuttosto quelle di un dipendente in lutto. «Quanti anni ha vostra figlia?» «È anche stata eletta "Donna dell'Anno" da quella rivista americana, come si chiama?... Era la donna dell'anno. La donna di tutta la Svezia. Di tutto il mondo.» Bertil Milander si soffiò ancora il naso. Annika mise giù la penna e fissò il blocco. Tutta la situazione aveva un che di sconclusionato. Quell'uomo non sapeva esattamente quel che stava dicendo. Non sembrava neanche aver capito cosa ci facessero lì lei e il fotografo. «Quando è stato informato della morte di Christina?» tentò di chiedere Annika. Bertil Milander alzò gli occhi. «Non è mai arrivata a casa» disse. «Era andata alla festa di Natale della segreteria generale e non è più tornata.» «Si è preoccupato, non vedendola arrivare? Stava spesso fuori? Immagino che viaggiasse molto.» L'uomo raddrizzò la schiena e guardò Annika come se solo in quel momento si fosse accorto della sua presenza. «Perché questa domanda? Cosa intende dire?» Annika rifletté per un secondo. Qualcosa non andava. Era sconvolto,
troppo per essere intervistato. Reagiva in maniera confusa e incoerente, non sapeva quel che faceva. C'era solo un'altra domanda che sentiva di dover porre. «La vostra famiglia ha ricevuto delle minacce» disse. «Di che tipo di minacce si trattava?» L'uomo la fissò a bocca aperta. Sembrava che non l'avesse sentita. «Le minacce» ripeté Annika. «Può dirmi qualcosa a proposito delle minacce indirizzate alla vostra famiglia?» Bertil Milander la guardò con aria di rimprovero. «Christina ha fatto tutto quello che ha potuto. Non è una persona cattiva. Non è stata colpa sua» Annika sentì un brivido correrle lungo la schiena. Decisamente, qualcosa non andava. Raccolse blocco e penna. «Grazie per averci voluto incontrare in questa dolorosa circostanza» disse alzandosi. «Abbiamo intenzione di...» Lo sbattere di una porta la fece sussultare. Si voltò di scatto. Una giovane donna, pallida, con il viso accigliato e i capelli spettinati, era in piedi dietro il divano. «Cosa volete?» La figlia di Christina, pensò Annika riprendendosi. Rispose che erano della "Stampa della Sera". «Iene» li apostrofò la ragazza in tono di disprezzo. «Siete qui perché avete sentito l'odore del sangue? Volete rosicchiarvi i resti del cadavere, eh? Succhiarvi la parte più ghiotta finché siete in tempo.» Girò lentamente intorno al divano e si avvicinò ad Annika, che si costrinse a rimanere seduta e a mantenere una calma apparente. «Mi dispiace molto per la morte di sua madre...» «A me non me ne frega niente!» gridò la figlia di Christina. «Sono contenta che sia morta! Contenta!» Scoppiò a piangere a dirotto e corse di nuovo fuori dalla stanza. Bertil Milander, dal suo divano, non reagì, continuando a tenere gli occhi bassi e ad attorcigliarsi il fazzoletto tra le dita. «Le dispiace se le faccio una foto?» chiese Henriksson. Questa volta Bertil Milander si riscosse. «No, certo che no» disse alzandosi. «Qui può andare?» «Sarebbe meglio vicino alla finestra, così abbiamo un po' più di luce.» Bertil Milander si mise in posa accanto all'alta finestra. La foto sarebbe venuta molto bene: la tenue luce del giorno filtrava attraverso i pannelli, e le preziose tende azzurre incorniciavano l'immagine. Mentre il fotografo scattava, Annika seguì velocemente la giovane donna nella stanza accanto. Era una biblioteca arredata con gusto, con preziosi
mobili inglesi in stile e migliaia di libri. La ragazza si era seduta su una poltrona di pelle bordeaux. «La prego di scusarci se le siamo sembrati invadenti» disse Annika. «Non abbiamo intenzione di causarvi alcun disagio, al contrario. Vogliamo solo informarvi di quello che stiamo facendo.» La ragazza non rispose, sembrava che non si fosse nemmeno accorta della presenza di Annika. «Sia lei che suo padre potete telefonarci quando volete, se c'è qualcosa che desiderate comunicare, se vi sembra che scriviamo qualcosa di sbagliato o se volete aggiungere o raccontare un particolare.» Nessuna reazione. «Lascio a suo padre il mio numero di telefono» proseguì Annika uscendo dalla stanza e chiudendosi piano alle spalle la splendida porta a due ante. Henriksson e Bertil Milander erano nell'ingresso. Annika li seguì, estrasse dal portafoglio un biglietto da visita e ci scrisse sopra anche il numero diretto del direttore responsabile. «Ci telefoni non appena lo riterrà opportuno» disse. «Il mio cellulare è sempre acceso. E scusate ancora per il disturbo.» Bertil Milander prese il biglietto senza guardarlo e lo appoggiò su un tavolino dorato di fianco al portoncino d'ingresso. «Mi manca da morire» sussurrò, e Annika seppe di aver appena trovato il titolo da mettere sopra la foto al centro della pagina. Il direttore sospirò quando udì bussare alla porta. Si era ripromesso di smaltire almeno una delle pile di carte che ingombravano la sua scrivania, ma da quando era arrivato al giornale, qualche ora prima, il telefono aveva continuato a squillare e la porta ad aprirsi e richiudersi. «Avanti» disse. Cercò di rilassarsi: nonostante tutto, considerava un punto d'onore la propria disponibilità nei confronti dei dipendenti. Era Nils Langeby, e Anders Schyman sentì il suo umore peggiorare. «Allora, cosa c'è che ti angustia, oggi?» chiese senza alzarsi dal suo posto dietro la scrivania. Nils Langeby si piazzò in mezzo all'ufficio d'angolo tormentandosi platealmente le mani. «Sono preoccupato per la redazione della cronaca nera» esordì. «Non funziona più niente.» Anders Schyman alzò gli occhi sul giornalista e soffocò un sospiro. «In
che senso?» «Rischiamo di perdere il controllo. La sensazione è di totale mancanza di affidabilità. Dopo il mutamento al vertice tutti si sentono insicuri. Come si evolverà il nostro modo di seguire la cronaca nera?» Il direttore gli indicò una sedia dall'altra parte della scrivania, e Nils Langeby si accomodò. «Tutti i cambiamenti, anche quelli che implicano un miglioramento, comportano un periodo di turbolenza e irrequietezza» disse Schyman. «È del tutto naturale che la redazione della nera sia un po' instabile, siete rimasti a lungo senza caposervizio e adesso ne è appena stato designato uno.» «Appunto, il problema è proprio questo» rispose Nils Langeby. «Secondo me, Annika Bengtzon non è all'altezza del compito.» Anders Schyman rifletté un istante. «Ne sei convinto? Io penso esattamente il contrario. La trovo una giornalista formidabile e una brava organizzatrice. Sa individuare le priorità e delegare. Inoltre, non esita mai a fare ciò che può risultare sgradevole. Ha spirito d'iniziativa ed è preparata, basta guardare il giornale di oggi, per rendersene conto. Cosa ti spinge a dubitare?» Nils Langeby si sporse in avanti con aria confidenziale. «Non si fidano di lei. Pensa di essere chissà chi. Pesta i piedi alla gente e non sa come comportarsi.» «E tu in che modo sei stato colpito da tutto ciò?» Il giornalista spalancò le braccia. «Be', personalmente non mi ha fatto niente, ma le chiacchiere girano...» «Dunque, tu sei qui sulla base di una preoccupazione diffusa fra i tuoi colleghi?» «Sì, e poi stiamo perdendo di vista i reati contro l'ambiente e all'interno della scuola.» «Ma non sono i settori di tua competenza?» «Sì, ma...» «Annika ha forse tentato di sottrarteli?» «No, affatto.» «Allora, se ci lasciamo scappare la possibilità di pubblicare notizie su questi argomenti specifici, la responsabilità ricade su di te, giusto? In realtà non ha nulla a che fare con Annika Bengtzon, mi pare.» Sul viso di Nils Langeby si disegnò un'espressione confusa. «Io credo che tu sia un bravo cronista, Nils» proseguì il direttore in tono
calmo. «Gli uomini come te, dotati di autorità ed esperienza, sono ciò di cui ha bisogno questo giornale. Spero che continuerai a fornirci materiale per le civette e i titoli di testa del giornale ancora per molti anni. Ho piena fiducia in te, così come ho piena fiducia in Annika Bengtzon come caposervizio della redazione di cronaca nera. È per questo che il mio lavoro qui migliora di giorno in giorno, le persone maturano e imparano a lavorare insieme, per il bene del giornale.» Nils Langeby ascoltava con attenzione. A ogni parola, lievitava di un palmo. Erano queste le cose che voleva sentirsi dire. Il direttore credeva in lui: avrebbe continuato a sfornare titoli di testa, era una forza, uno su cui fare affidamento. Quando uscì dalla stanza si sentiva leggero e con il cuore in pace. Mentre attraversava la redazione, si mise persino a fischiettare. «Ehi, Nisse, cosa combini oggi?» sentì gridare alle sue spalle. Era Ingvar Johansson, il caporedattore. Nils Langeby si fermò e rifletté per un attimo. Veramente non aveva alcuna intenzione di lavorare, quel giorno, e nessuno l'aveva convocato. Ma le parole del direttore avevano risvegliato in lui il senso di responsabilità. «Eh, ho parecchia carne al fuoco...» rispose. «L'azione terroristica, sai, l'ipotesi del sabotaggio. Ecco cos'ho da fare, oggi.» «Bene, sarebbe utile che ti ci mettessi subito, così è pronto quando arrivano i redattori. Gli altri saranno impegnatissimi con la Furhage.» «La Furhage?» disse Nils Langeby. «Perché, cosa le è successo?» Ingvar Johansson alzò gli occhi a guardare il giornalista. «Come, non hai saputo? La carne trita allo stadio era sua.» «Ah, sì... Be', io ho le mie fonti, e loro sono certi che si è trattato di un'azione terroristica pura e semplice.» «Fonti della polizia?» chiese Ingvar Johansson sorpreso. «Fonti della polizia, e della massima attendibilità» gli assicurò Nils Langeby gonfiando il torace. Si sfilò la giacca di pelle, cominciò ad arrotolarsi le maniche della camicia e si diresse verso il suo ufficio, nel corridoio che dava sul parcheggio. "Adesso te la faccio vedere io, brutta puttana." Anders Schyman aveva appena fatto in tempo a sollevare il primo foglio della pila più alta quando, di nuovo, qualcuno bussò alla porta. Questa volta era Ulf Olsson, il fotografo, a volersi togliere un peso dallo stomaco. Era di ritorno dalla conferenza stampa in questura e voleva parlare in privato con il direttore del modo in cui la caposervizio della cronaca nera, Annika
Bengtzon, l'aveva trattato il giorno prima. «Non sono abituato a essere ripreso per il mio abbigliamento» si lagnò il fotografo, riferendo di aver indossato, il giorno prima, un abito Armani. «Perché, lo sei stato?» chiese Anders Schyman. «Sì, Annika Bengtzon ha espresso il proprio disappunto perché portavo un vestito firmato. Non ritengo di dover accettare questo tipo di trattamento. Non è mai successo, nei miei precedenti posti di lavoro.» Anders Schyman osservò l'uomo per alcuni secondi, prima di rispondere. «Non so cosa vi siate detti con Annika Bengtzon. Non so neanche dove hai lavorato prima e che tipo di abitudini vigevano lì sull'abbigliamento. Per quanto mi riguarda, e ciò vale anche per Annika Bengtzon, lo so per certo, puoi benissimo indossare tutti gli Armani che vuoi, in miniera come nei luoghi dove si sono svolti degli omicidi. Ma non devi dare la colpa ad altri che a te stesso se sei vestito nel modo sbagliato per un certo compito. Io e i membri della direzione di questo giornale pretendiamo inoltre che, prima di venire a lavorare, tu e tutti i giornalisti siate al corrente, almeno a grandi linee, di ciò che accade. Se si è verificato un omicidio eccellente o un attentato dinamitardo, puoi stare certo che verrai mandato sul posto. Ti suggerisco di procurarti un bel borsone e di munirti di calzamaglia di lana e di una tuta da tenere in macchina...» «Ho già avuto la borsa» lo interruppe il fotografo, accigliato. «Da Annika Bengtzon.» Anders Schyman guardò il giovanotto con uno sguardo neutro. «Posso esserti utile in qualcos'altro?» chiese. Il fotografo si alzò e uscì. Il direttore sospirò quando la porta si richiuse. A volte, il fattore "asilo nido" in quel giornale saliva decisamente oltre il livello che considerava tollerabile. Gli era venuta voglia di andare a casa da sua moglie e bersi un bel bicchiere di whisky. Annika e Johan Henriksson si fermarono al McDonald's della Sveavägen per prendere due Big Mac con patatine fritte, che mangiarono in auto mentre tornavano in redazione. «Trovo che queste occasioni siano terribili» osservò Henriksson una volta ingoiata l'ultima patatina. «Andare a trovare i parenti delle vittime? Sì, credo che sia tra le cose più pesanti» rispose Annika ripulendosi le dita dal ketchup. «Non posso farci niente, mi sento come una maledetta sanguisuga,
quando sono seduto lì» disse Henriksson. «Come se volessi sguazzare nella loro infelicità, impadronirmi del loro dolore, solo perché così la foto sul giornale verrà meglio.» Annika si pulì la bocca con il tovagliolino e rifletté. «Sì, è una sensazione che si prova spesso. Ma, a volte, la gente vuole davvero raccontare. Non si possono dichiarare incapaci di intendere e di volere delle persone soltanto perché sono sotto choc. Certo, bisogna essere rispettosi. Non è detto che si scriva dei parenti solo perché li hai ascoltati e hai parlato con loro.» «Ma quelli che hanno appena perso un congiunto non sempre sanno cosa stanno facendo» osservò Henriksson. «Come puoi esserne sicuro?» chiese Annika. «Chi siamo noi per stabilire se qualcuno deve o non deve parlare? Chi è più indicato per giudicare cos'è meglio per una persona in una determinata situazione? Tu, io o la persona stessa? Negli ultimi anni c'è stato un gran parlare sulla questione, e a volte il dibattito stesso ha turbato i parenti più di quanto abbiano fatto le interviste che avevano rilasciato.» «Be', io lo trovo ugualmente disgustoso» disse Henriksson imbronciato. Annika sorrise. «Be', certo che lo è. Incontrare una persona che ha appena subito la perdita più grande che si possa immaginare è molto difficile, non si può negare. Non riesci a vederne molte, in un mese. Comunque, ti dirò, ci si abitua anche a questo. Pensa alla gente che lavora negli ospedali o nelle organizzazioni umanitarie, che ogni giorno si trova davanti delle tragedie.» «Loro però non devono mica esporle sulle civette» obiettò Henriksson. «Oh, ma che palle!» esclamò Annika, improvvisamente arrabbiata. «Non sarà mica una punizione finire su una civetta! Dimostra che si è importanti, che si conta qualcosa! Dovremmo fregarcene di tutte le vittime di delitti e ignorare i parenti? Pensa un po' al casino che è successo dopo il naufragio dell'Estonia: i parenti si lamentavano di aver ricevuto scarsissima attenzione da parte dei media. Secondo loro, i giornali non facevano altro che scrivere di passerelle di prua difettose, e avevano ragione. Per un po' è stato praticamente un tabù parlare con i parenti delle vittime dell'Estonia, se lo facevi venivi immediatamente attaccato da tutti i falsi moralisti.» «Non c'è bisogno che t'incazzi così» ribatté Henriksson. «Io m'incazzo quanto mi pare e piace, chiaro?» rispose Annika. Rimasero in silenzio per il resto della strada. Nell'ascensore che li portava in redazione, il fotografo esibì il più affabile dei sorrisi e disse: «Credo che la foto del signor Milander davanti alla finestra sia venuta molto be-
ne». «Perfetto. Vedremo se sarà pubblicata.» Annika spinse la porta dell'ascensore e uscì in fretta senza aspettare la risposta. Quando Annika superò la sua scrivania dirigendosi verso il proprio ufficio, Eva-Britt Qvist era impegnatissima a raccogliere il materiale su Christina Furhage. La segretaria di redazione era circondata da vecchie buste di ritagli e stampate chilometriche di computer. «C'è una quantità allucinante di roba, su quella donna» disse Eva-Britt ostentando un tono acido. «Credo di aver tirato fuori quasi tutto.» «Puoi fare una prima selezione, in modo che qualcun altro possa continuare dopo?» chiese Annika. «Certo che hai proprio il dono di saper travestire gli ordini da domande» osservò Eva-Britt. Annika non si curò di replicare, andò nel suo ufficio e appese il cappotto all'attaccapanni. Prese un caffè al distributore automatico e si diresse alla scrivania di Pelle Oscarsson. Si accomodò su una sedia girevole e studiò lo schermo del computer. Era occupato da foto piccole come un francobollo, tutte provenienti dall'archivio del giornale e tutte di Christina Furhage. «Ne abbiamo pubblicate oltre seicento, di quella donna, scattate direttamente da noi» disse Pelle Oscarsson. «Dobbiamo averla fotografata in media una volta alla settimana negli ultimi otto anni. Più di quanto abbiamo fatto con il re.» Annika sorrise. Già, forse era proprio così. Tutto ciò che Christina aveva fatto negli ultimi anni era stato riportato dalla stampa, e alla donna la cosa non era dispiaciuta affatto. Guardò di nuovo il monitor: Christina Furhage inaugura l'arena olimpica, Christina Furhage informa il primo ministro, Christina Furhage incontra Lill-Babs, Christina Furhage abbraccia Samaranch, Christina Furhage mostra il suo nuovo guardaroba autunnale nell'inserto domenicale. Pelle Oscarsson cliccò e sullo schermo comparve un'altra serie di immagini: Christina Furhage saluta il presidente degli Stati Uniti, va alla prima del Teatro Drammatico, prende il tè con la regina, parla a una conferenza sulla leadership femminile... «C'è qualche foto di casa sua o della famiglia?» chiese Annika. Il photo editor rifletté un attimo. «No, non credo» rispose sorpreso. «Adesso che me lo chiedi, mi pare che non ce ne sia nessuna che la ritragga in un qualche contesto privato.»
«Be', dovremmo cavarcela lo stesso» commentò Annika mentre le foto le scorrevano davanti. «Per la prima pagina avrei scelto questa» disse Pelle cliccando su una foto scattata negli studi del giornale. Dopo qualche secondo l'immagine andò a coprire l'intero schermo, e Annika si accorse che il photo editor aveva ragione. Era uno splendido ritratto di Christina Furhage. Era stata truccata professionalmente, i capelli erano lucidi e freschi di piega, le luci calde e morbide le attenuavano le rughe del viso. Indossava un tailleur elegante e stava seduta, rilassata ma dignitosa, su una poltrona antica. «Quanti anni aveva, in realtà?» chiese Annika. «Sessantadue. Le abbiamo fatto una breve intervista per il suo ultimo compleanno.» «Cavoli» fece Annika «ne dimostra quindici di meno.» «Chirurgia plastica, stile di vita salutista o un buon patrimonio genetico» disse Pelle. «Oppure tutte queste cose insieme.» Anders Schyman passò davanti a loro reggendo una tazza da caffè vuota e sporca. Aveva l'aria stanca, i capelli dritti in testa e si era allentato la cravatta. «Come va?» chiese fermandosi. «Siamo stati a casa della Furhage.» «Ne è uscito qualcosa di buono?» Annika esitò. «Sì, credo di sì. In parte, almeno. Henriksson ha fatto una foto al marito, che era un po' in stato confusionale.» «Bisogna valutare bene la situazione, prima di decidere» disse Schyman proseguendo verso la caffetteria. «Che foto scegliamo, tra quelle per la cronaca?» chiese Pelle Oscarsson cliccando via dallo schermo la foto ritratto. Annika scolò l'ultimo sorso di caffè. «Facciamo il punto appena arrivano gli altri.» Gettò il bicchierino di plastica nel cestino di Eva-Britt Qvist, andò nel suo ufficio e chiuse bene la porta. Era il momento delle telefonate. Cominciò con la sua fonte, il poliziotto aveva il turno di giorno, oggi. Compose un numero diretto che aggirava il centralino della polizia: l'uomo era in ufficio e rispose al primo squillo. «Come ha scoperto la faccenda della cancellazione dei dati?» «Quando avete capito che si trattava della Furhage?» contrattaccò Annika.
Il poliziotto sospirò. «Quasi subito. Erano suoi gli oggetti rinvenuti nello stadio. Anche se l'identificazione definitiva ha richiesto tempi più lunghi. Sa, volevamo essere certi di non sbagliarci...» Annika aspettò in silenzio, ma lui non continuò. «Il vostro prossimo passo?» domandò. «Continuare con le verifiche a tappeto. Non è stato il Tigre, comunque.» «Perché no?» chiese Annika sorpresa. «Non lo posso dire, ma comunque non è lui. Si tratta di qualcuno all'interno dell'organizzazione, proprio come pensava lei ieri.» «Oggi devo scriverla, questa roba, immagino lo capisca.» L'uomo sospirò di nuovo. «Già, lo immaginavo. Grazie di aver tenuto la bocca chiusa per un giorno.» «Do ut des» disse Annika. «Allora, cosa vuole?» chiese l'uomo. «Perché le avevano cancellato i dati?» «C'era una minaccia, una minaccia scritta che risale a tre o quattro anni fa. E anche una forma di aggressione, seppure non troppo grave.» «Che tipo di aggressione?» «Non voglio addentrarmi nei particolari. La persona in questione non è mai stata denunciata. Christina non voleva "mandarla in rovina", si era espressa proprio così. Tutti meritano una seconda occasione, sembra che abbia detto anche. Si è limitata a cambiare casa e richiedere, ottenendola, la cancellazione dei dati per sé e la sua famiglia.» «Che comportamento generoso» commentò Annika. «Indubbiamente.» «La minaccia aveva a che fare con le Olimpiadi?» «Nemmeno per sogno.» «Era qualcuno che conosceva, un parente?» Il poliziotto esitò. «Sì, si potrebbe anche dire così. Era una questione di carattere strettamente privato. È per questo che non la vogliamo rendere pubblica, la tocca in modo troppo diretto. Non c'è proprio nulla che indichi che l'esplosione allo stadio sia stata un'azione terroristica. Pensiamo che fosse mirata a colpire Christina, ma ciò non comporta necessariamente che l'autore del delitto sia una persona a lei vicina.» «Interrogherete la persona che l'ha minacciata?» «L'abbiamo già fatto.» Annika sbatté le palpebre. «Certo che non perdete tempo. E il risultato?» «Non posso fare dichiarazioni in merito. Però mi sento di dirle questo: al
momento non c'è nessuno che venga ritenuto più sospetto di altri.» «E chi sarebbero questi "altri"?» «È compito suo intuirlo. Tutti quelli che in un modo o nell'altro sono venuti a contatto con la Furhage. Direi un quattro-cinquemila persone. Una parte le possiamo escludere, ma non ho intenzione di rivelarle quali.» «Ci deve essere un sacco di gente dotata di pass» tentò Annika. «Lei a chi pensava?» «I vertici della segreteria generale, i membri del comitato, i custodi dello stadio, il personale delle imprese che hanno l'appalto per i lavori agli impianti, gli elettricisti, gli operai, i fonditori, gli addetti alle ditte di trasporto, le società di architetti, i pubblicitari, quelli degli istituti di vigilanza, i giornalisti sportivi...» L'uomo restava in silenzio all'apparecchio. «Ho torto?» chiese Annika. «No. In effetti, tutti i gruppi che ha appena nominato hanno, hanno avuto o avranno dei pass.» «Ma?...» «Un pass non basta per entrare in un impianto a notte fonda» rispose l'uomo. I pensieri di Annika correvano a tutta velocità. «I codici degli allarmi! Quelli devono essere noti a una cerchia molto più ristretta di persone!» «Già, solo che, per il momento, su questo deve tenere la bocca chiusa.» «Okay. Per quanto? Chi ha accesso ai codici degli allarmi?» L'uomo si mise a ridere. «Lei è davvero incorreggibile. Stiamo esaminando la cosa proprio adesso.» «Ma non è possibile che nello stadio gli allarmi non fossero stati azionati la sera prima?» «Sì, e vuole che abbiano anche lasciato aperta la porta? Ma per favore, Bengtzon!» In sottofondo, si udirono due voci. L'uomo all'altro capo del filo mise una mano sul ricevitore e disse qualcosa. Poi la tolse e riprese: «Mi spiace, ma devo andare...». «Un'ultima cosa!» lo pregò Annika. «Va bene, ma si sbrighi.» «Cosa ci faceva Christina Furhage allo stadio olimpico nel bel mezzo della notte?» «Ah, cara mia, questa è proprio una bella domanda. Ci sentiamo.»
Riattaccarono, e Annika telefonò a casa. Nessuna risposta. Tentò con Anne Sapphane, ma sentiva solo il rumore del fax. Provò a chiamare il cellulare di Berit finché non si inserì la segreteria. Il fanatico di telefonini, Patrik, rispose invece al primo squillo, come sempre. Era una sua caratteristica distintiva. Una volta, aveva risposto ad Annika addirittura dalla doccia. «Sono alla segreteria generale del comitato olimpico» urlò lui nel ricevitore. Era un'altra delle sue particolarità. Nonostante il suo amore per i cellulari, sembrava non se ne fidasse del tutto, e gridava sempre come un ossesso per essere sicuro di farsi sentire. «Cosa sta facendo Berit?» chiese Annika accorgendosi di aver automaticamente alzato il volume anche lei. «È qui con me, sta lavorando all'ultima serata della Furhage» sbraitò Patrik. «Io, invece, mi occupo della segreteria in stato di choc.» «Dove ti trovi, in questo momento?» chiese Annika costringendosi ad abbassare il tono di voce. «In un corridoio. La gente è davvero giù di corda, qui» ululò Patrik. Annika quasi arrossì, al pensiero dei funzionari che dai loro uffici con le porte accostate ascoltavano le urla del giornalista. «Okay. Vediamo di mettere insieme qualcosa sulla caccia all'attentatore scatenata dalla polizia. Quando sarai qui?» «Tra un'ora, circa» abbaiò Patrik. «Bene, ci vediamo» rispose Annika. Mentre riattaccava, non poté fare a meno di sorridere. Evert Danielsson chiuse la porta per evitare di ascoltare un giornalista che gridava nel suo telefonino in corridoio. Tra un'ora si sarebbe riunito il consiglio d'amministrazione, composto da esperti, che Christina chiamava "la mia orchestra". Il consiglio era un organismo operativo, a differenza dei Papaveri, che per lo più si mettevano in posa per le fotografie. Ufficialmente, tutte le decisioni più importanti venivano prese dai Papaveri, o comitato d'onore, come in effetti si chiamava, ma erano solo atti formali. I membri del comitato d'onore potevano essere paragonati ai deputati del parlamento, mentre il consiglio era l'esecutivo dell'unico partito esistente. Il segretario generale era nervoso. Sapeva benissimo di aver commesso una sfilza di errori da quando si era verificata l'esplosione. Per esempio, avrebbe dovuto convocare il consiglio fin dal giorno prima. Alla fine l'aveva fatto il presidente, con un giorno di ritardo, e quello era stato un gros-
so punto a suo sfavore. Lui, invece, era andato in pubblico a dare in pasto ai mass media una serie di informazioni, cosa per la quale, in realtà, non possedeva alcuna delega. Aveva sventuratamente fatto cenno all'ipotesi terroristica, ma non bastava: aveva fornito anche i particolari della ricostruzione della tribuna. Sapeva benissimo che la questione avrebbe prima dovuto essere affrontata all'interno del consiglio. Ma nel corso della breve riunione strategica tenutasi la mattina del giorno precedente - che a posteriori gli appariva sempre più caratterizzata da un senso di panico -, il gruppo dirigente informale aveva deciso di prendere in mano la situazione e di non nascondere niente né mostrare reticenze ipocrite. Avrebbero preso il toro per le corna e affrontato le contrapposizioni. In attesa che Christina si facesse viva, era stato deciso di mandare avanti lui, il segretario generale, invece degli addetti stampa, in modo che le sue parole avessero una maggior rilevanza. Ma il potere decisionale del gruppo dirigente informale era della massima inconsistenza. A prendere le decisioni effettive era solo il consiglio d'amministrazione, costituito dai veri pesi massimi: il rappresentante dello Stato nella persona del ministro del Commercio e dell'Industria, un assessore comunale della città di Stoccolma, i viceamministratori delegati per i diversi settori di attività, un esperto del Cio, due rappresentanti degli sponsor e un esperto di diritto internazionale. Il presidente del consiglio d'amministrazione era un altro rappresentante dello Stato, il prefetto di Stoccolma, Hans Bjällra. Anche se il gruppo dirigente era veloce ed efficiente, la sua influenza era assolutamente irrilevante, rispetto a quella del consiglio. Il gruppo consisteva di quel nucleo di persone che portavano avanti il progetto di giorno in giorno: il direttore finanziario, lui e Christina, Helena Starke e l'addetto stampa, un paio dei viceamministratori delegati e poi Doris, del reparto amministrativo. Insieme, il gruppetto riusciva a varare i provvedimenti pratici in maniera rapida ed efficiente. In seguito, Christina faceva in modo che il consiglio d'amministrazione approvasse le decisioni. Potevano riguardare di tutto: bilancio, questioni ambientali, infrastrutture, costruzione di impianti, questioni legali di ogni genere. La differenza era che adesso non c'era più una Christina a raccogliere i cocci quando commettevano qualche errore. Evert Danielsson sapeva di non avere scampo. Il segretario generale appoggiò i gomiti sulla scrivania, tenendosi la testa tra le mani. Non riuscì a impedire che un lungo singhiozzo gli scuotesse il corpo. Cazzo, cazzo! Con tutto il daffare che si era dato negli ultimi anni! Non meritava davvero quella fine. Le lacrime gli gocciolarono tra le dita,
finendo sui documenti che aveva sulla scrivania e formando piccole chiazze rotonde che cancellavano lettere e diagrammi. Non se ne curò. Annika accese il computer e si sedette a scrivere. Cominciò con le informazioni ricevute durante il colloquio telefonico con la sua fonte. Le cose che veniva a sapere attraverso i suoi canali ufficiosi, le sue "gole profonde", le conservava in assoluta segretezza. Non registrava mai le conversazioni, c'era sempre il rischio che la cassetta venisse dimenticata nel registratore e qualcun altro l'ascoltasse. Prendeva invece appunti, li ricopiava subito nel computer e li salvava su un dischetto. I dischetti li custodiva in un cassetto della scrivania chiuso a chiave, e buttava via gli appunti scritti a mano. Nel corso di discussioni o riunioni della redazione non riferiva mai i particolari sulle informazioni ricevute. L'unico che, se proprio necessario, veniva a conoscenza degli aspetti confidenziali delle sue informazioni era il direttore responsabile, cioè Anders Schyman. Non si faceva illusioni sul motivo per cui quelle notizie le venivano date: non che lei fosse migliore o più degna di altri giornalisti. Però era affidabile, e questo, insieme al fatto che poteva influenzare le riunioni di redazione della "Stampa della Sera", faceva di lei una persona adatta a ricevere le informazioni che la polizia desiderava diffondere. I motivi per cui dovevano essere diffuse erano naturalmente i più vari, ma per la polizia valeva la stessa regola di altre organizzazioni: si voleva rendere pubblica sui media la propria versione di un certo avvenimento. Soprattutto nel caso di eventi drammatici, la televisione e i giornali tendevano spesso a ingigantire le cose e commettere errori di valutazione. Far filtrare qualche notizia consentiva alle forze dell'ordine di arginare per lo meno le bufale più grosse. In certi ambienti giornalistici veniva considerato immorale non scrivere tutto ciò che si sapeva, in qualsiasi occasione. Si era sempre giornalisti, prima di tutto giornalisti, nient'altro che giornalisti. Ciò comportava, fra l'altro, che non ci si poteva esimere dallo scrivere in prima persona di ciò che riguardava i vicini di casa, gli amici dei figli, la propria suocera e Babbo Natale, se si veniva a sapere qualcosa. Una conversazione informale con un poliziotto o un politico era assolutamente impensabile. Per Annika, quest'impostazione era da respingere. Riteneva di essere prima di tutto un essere umano, poi una madre, una moglie e per ultimo una dipendente della "Stampa della Sera". Quanto al concetto di giornalista, nell'accezione di inviato da Dio o da un altro potere soprannaturale, pensava che non avesse nulla a che fare con lei. La sua esperienza le aveva anche insegnato che i
giornalisti che vivevano secondo i principi più elevati e nobili erano spesso gli esseri più spregevoli. Perciò, che la gente facesse pure tutte le ipotesi che voleva sulle sue fonti e considerasse con disprezzo i suoi metodi. Lei riteneva che il suo lavoro fosse importante. Una volta messo al sicuro il dischetto, scrisse un breve articolo sulla visita a casa di Bertil Milander. Mantenne un tono austero e dignitoso, sottolineando che l'uomo aveva invitato spontaneamente il giornale e dando rilievo al suo giudizio positivo sulla moglie. La figlia non la nominò affatto. Poi archiviò il testo nel server. Si alzò, irrequieta, e fece qualche passo per sgranchirsi le gambe dentro il suo ufficio a vetrata, che si trovava a metà tra due redazioni, la cronaca e lo sport. Non c'era luce naturale, solo quella indiretta che le arrivava attraverso le pareti trasparenti su entrambi i lati. Per combattere l'impressione di essere in un acquario, uno dei suoi predecessori aveva fatto confezionare delle tendine azzurre in un tessuto a trama fitta, in modo che nessuno potesse curiosare da fuori. Dovevano essere passati almeno cinque anni da quando qualcuno aveva lavato o semplicemente spolverato quei pezzi di stoffa. Forse, un tempo, potevano essere sembrati freschi e moderni, ma adesso avevano un aspetto decisamente squallido. Annika voleva che qualcuno se ne occupasse, in un modo o nell'altro. Di una cosa, comunque, era certa: non sarebbe stata lei. Uscì e andò da Eva-Britt Qvist, la cui postazione di lavoro era subito fuori dal suo ufficio. La segretaria di redazione era andata a casa senza avvertire. Il materiale risultato dalla ricerca su Christina Furhage era sistemato in pile ordinate sulla scrivania, contrassegnate con dei bigliettini gialli. Annika si sedette sulla scrivania e cominciò a dare un'occhiata, mossa solo dalla curiosità. Santo cielo, quanta roba era stata scritta su quella donna! Prese la stampata in cima alla pila contrassegnata dalla scritta "Sintesi" e cominciò a leggere. Era una lunga intervista comparsa sull'edizione domenicale di uno dei quotidiani del mattino, un pezzo pieno di calore e di intelligenza che riusciva davvero a trasmettere un'idea di Christina Furhage come persona. Tema delle domande, comunque, erano argomenti impersonali come gli aspetti economici dei Giochi olimpici, l'organizzazione, il rapporto tra donne e carriera, l'importanza dello sport come fattore di coesione nazionale. Annika scorse velocemente il testo e constatò con sorpresa che Christina Furhage era riuscita con grande abilità a evitare di rivelare qualsiasi particolare personale. D'altra parte, l'articolo era tratto da un quotidiano del mattino. Loro non
si curavano degli aspetti privati delle persone ma solo di quelli pubblici. In altre parole: si toccava solo ciò che era virile, politically correct e civile, evitando ogni cosa che potesse risultare delicata, interessante e femminile. Annika sfogliò nel mucchio in cerca di un'intervista tratta da un supplemento dei quotidiani del pomeriggio. Eccoli, infatti, con il classico riquadro riepilogativo dei dati. Nome: Ingrid Christina Furhage. Famiglia: marito e figlia. Abitazione: villa a Tyresö. Reddito: alto. Fumo: no. Bevande: acqua, vino e caffè. Migliore qualità: lascio giudicare agli altri. Peggiore difetto: lascio giudicare agli altri... Annika sfogliò ancora, le risposte contenute nei riquadri erano sempre le stesse, nel corso degli ultimi quattro anni, da quando c'era stata la cancellazione dei dati. Niente nomi di marito e figlia, e l'abitazione veniva indicata soltanto come una villa a Tyresö. Nell'inserto domenicale trovò un articolo risalente a sei anni prima, dove la famiglia era costituita da Bertil e Lena. Ah, ecco come si chiamava la figlia. Presumibilmente, il cognome era Milander. Lasciò il mucchio degli articoli di sintesi e puntò alla pila più bassa, contrassegnata dal biglietto "Conflitti". Evidentemente, non ne aveva avuti molti. Il primo articolo riguardava una questione con uno sponsor che si era ritirato. Non aveva niente a che fare con Christina Furhage, che era solo nominata in calce, ma questo aveva fatto comparire l'articolo nella ricerca svolta al computer. Il testo successivo parlava di una manifestazione di protesta contro i problemi ambientali causati dalla costruzione dello stadio olimpico. Annika si arrabbiò. Quella roba non aveva niente a che fare con i conflitti intorno alla persona di Christina Furhage! Eva-Britt aveva compiuto un lavoro raffazzonato. Gli articoli di quel genere erano inutili. Lei doveva raccogliere il materiale in maniera da far risparmiare tempo ai giornalisti nei momenti di maggiore pressione. Prese in mano l'intera pila dei "conflitti" e la sfogliò rapidamente: manifestazioni, proteste, un articolo d'opinione e... si bloccò. Quello cos'era? Mise tutto da parte tranne un breve trafiletto. Il comitato olimpico licenzia una segretaria per questioni sentimentali diceva il titolo. Annika non ebbe nemmeno bisogno di controllare la testata: naturalmente, era "La Stampa della Sera". Portava la data di sette anni prima. Una giovane donna aveva dovuto lasciare la segreteria generale appena costituita perché aveva una relazione con un dirigente. "Sento di essere stata trattata in maniera ingiusta e reazionaria" aveva detto la donna al giornalista della "Stampa della Sera". Christina Furhage aveva dichiarato che la persona in questione non era stata assolutamente licenziata, ma aveva smesso di lavorare presso la cancelleria perché il suo incarico
a tempo determinato era scaduto. La cosa non aveva assolutamente nulla a che fare con la sua relazione sentimentale. Non si facevano né il nome della donna né del suo superiore. Nessun altro giornale aveva riportato la vicenda, ma in questo non c'era niente di strano. Era un argomento abbastanza inconsistente, ma anche l'unica controversia in cui era rimasta coinvolta Christina Furhage che in qualche modo fosse giunta all'orecchio dei media. Doveva essere stata una dirigente e un'organizzatrice fenomenale, constatò Annika. Pensò per un attimo alle tonnellate di articoli che, nel corso degli anni, avevano riguardato i conflitti nel suo stesso luogo di lavoro, non certo peggiore di tanti altri. «Trovato qualcosa di interessante?» chiese Berit alle sue spalle. Annika si alzò dal bordo della scrivania. «Meno male che sei tornata. No, niente di speciale. Anzi, forse sì. La Furhage aveva cacciato una ragazza per via di una relazione con uno dei dirigenti. Può essere utile tenerselo a mente... Tu cos'hai tirato fuori?» «Un bel po' di roba. Facciamo il punto della situazione?» «Aspettiamo Patrik» rispose Annika. «Sono qui!» urlò lui dalla postazione del photo editor. «Devo solo...» «Noi andiamo nel mio ufficio, intanto» disse Annika. Berit appese il cappotto accanto alla sua postazione. Poi si accomodò sul vecchio divano di Annika con gli appunti e un bicchierino di caffè in mano. «Ho cercato di mettere insieme le ultime ore di Christina Furhage. Gli uffici del comitato organizzatore avevano organizzato una festa per i dipendenti in un locale di Kungsholmen, venerdì sera. Christina è rimasta lì fino a mezzanotte. Sono andata a trovare il personale e poi ho parlato a quattr'occhi con Evert Danielsson, il segretario generale.» «Ottimo!» commentò Annika. «E cos'ha fatto?» Berit estrasse il blocco degli appunti. «È arrivata al locale piuttosto tardi, verso le dieci. Gli altri avevano già finito il cenone. Menu basco, a proposito. È uscita insieme a un'altra donna, Helena Starke, subito prima di mezzanotte. Da allora, nessuno l'ha più vista.» «L'esplosione è avvenuta alle tre e diciassette, quindi c'è un buco di più di tre ore» osservò Annika. «Cosa dice questa Helena Starke?» «Non lo so, ha un numero telefonico segreto. In anagrafe risulta abitante a Södermalm, non ho fatto in tempo ad andarci.» «La Starke è importante, dobbiamo raggiungerla» disse Annika. «C'è altro? Cos'ha fatto la Furhage prima di andare al locale?»
«Danielsson pensa che sia rimasta in ufficio, ma non ne è certo. Sembra che lavorasse normalmente dalle quattordici alle quindici ore al giorno.» «La superdonna» borbottò Annika ripensando all'elogio del marito riferito a tutto ciò di cui si occupava Christina in casa. «Chi fa la "Furhage Story"?» chiese Berit. «Uno della cronaca. Io sono andata a trovare la famiglia, ma non è che ne abbia tirato fuori granché. Sono dei tipi strani...» «In che senso?» Annika rifletté. «Il marito, Bertil, è vecchio e ingrigito. Era parecchio confuso. Sembrava che più che amarla, questa moglie, l'ammirasse. La figlia è arrivata urlando e ha detto di essere contenta che sua madre fosse morta.» «Alla faccia!» disse Berit. «Come va?» chiese Patrik entrando. «A gonfie vele» rispose Annika «e a te?» «Proprio bene. Questa roba verrà fuori una figata» disse il giornalista sedendosi accanto a Berit. «Fino adesso la polizia ha trovato centoventisette parti del corpo di Christina Furhage.» Berit e Annika fecero involontariamente una smorfia. «Ma che schifo! Non vorrai mica scrivere una roba del genere!» esclamò Annika. Il giovane reporter sorrise tranquillo. «Hanno trovato schizzi di sangue e denti persino vicino all'ingresso principale, cioè a diverse centinaia di metri di distanza.» «Mi stai facendo venire voglia di vomitare! Non hai niente di più disgustoso?» disse Annika. «Non sanno ancora cos'abbia usato l'attentatore per ridurla in polpette. Oppure non vogliono dirlo.» «E allora che cos'hai intenzione di scrivere?» «Ho parlato della caccia all'assassino con un bravo poliziotto. Questo lo posso scrivere.» «Okay» fece Annika. «Io posso aggiungere qualche particolare. Tu cos'altro hai?» Patrik si sporse in avanti con gli occhi che luccicavano. «La polizia sta cercando il Powerbook di Christina Furhage. Sanno per certo che aveva un computer portatile nella ventiquattrore, venerdì sera, l'ha visto una ragazza alla segreteria generale. Ma il computer è sparito, in mezzo all'altra roba nello stadio non c'è. Sono convinti che l'abbia preso
l'assassino.» «Potrebbe essere stato fatto a pezzi dall'esplosione?» disse Berit. «No, è escluso, almeno secondo la mia fonte» rispose Patrik. «Il computer è sparito, e fino a questo momento è la loro pista migliore.» «Poi?» chiese Annika. «Stanno valutando la possibilità di emettere un mandato internazionale per il Tigre, via Interpol.» «Non è stato lui» disse Annika. «Si tratta di un insider job, ne sono certi.» «E come fanno a saperlo?» chiese Patrik sorpreso. Annika pensò alla sua promessa di non dire niente sui codici segreti degli allarmi. «Credimi, ho un'ottima fonte. Altro?» «Ho parlato con il personale della segreteria generale. Sono tutti fuori di sé. Sembra che Christina Furhage fosse una specie di divinità, per loro. Piangono tutti, anche Evert Danielsson. L'ho sentito da dietro la porta. Non so come se la caveranno, senza di lei. Pare che avesse tutte le migliori qualità possibili.» «Perché quel tono sorpreso?» chiese Berit. «Ti sembra impossibile che una donna di mezz'età potesse essere tanto amata e apprezzata?» «No, affatto, ma c'è un limite a tutto...» «Christina Furhage ha fatto una carriera fulminante, e riusciva a svolgere il suo lavoro di direttore generale del comitato olimpico in maniera ineccepibile. Se una donna si rivela capace di portare a termine un progetto di queste dimensioni, puoi star certo che si tratta di qualcuno fuori dall'ordinario. Ti rendi conto di cosa sono le Olimpiadi? È come ventotto campionati mondiali in simultanea» disse Berit. «Scusa, ma allora le sue imprese sarebbero degne di maggior nota solo perché era una donna?» chiese Patrik in tono canzonatorio, e Berit si arrabbiò sul serio. «Senti un po', ragazzino, vedi di crescere, per piacere.» Patrik si alzò in tutto il suo metro e novanta. «Che cazzo intendi dire?» «Ehi, ehi, datevi una calmata» intervenne Annika cercando di apparire tranquilla. «Siediti, Patrik. In quanto uomo sei risparmiato dal fenomeno dell'oppressione femminile. È evidente che è più difficile per una donna che per un uomo fare il direttore generale di un comitato olimpico, proprio come lo sarebbe di più per un sordomuto rispetto a uno sano. Essere donne è come soffrire di una sorta di handicap. Hai altro da riferire?» Patrik si era riseduto, ma era ancora arrabbiato. «Ma che cavolo vai di-
cendo? Handicap? Che razza di stronzate femministe!» «Hai altro?» Patrik sfogliò tra i suoi appunti. «La caccia al dinamitardo, la segreteria olimpica in stato di choc... No, è tutto.» «Okay, Berit fa l'ultima giornata di Christina Furhage, io faccio la famiglia e aggiungo qualcosa sulla caccia all'assassino. Siamo a posto?» Si separarono senza dire altro. Cominciamo a essere un po' logori, pensò Annika accendendo la radio per sentire il notiziario delle sei meno un quarto. Naturalmente, il pezzo d'apertura era ancora sulla morte di Christina Furhage, una delle donne più potenti e conosciute della Svezia. Partirono con i commenti sulla sua vita e i suoi successi per poi passare alle conseguenze per i Giochi e lo sport in generale. Come previsto, Samaranch smentiva le dichiarazioni rilasciate al "concorrente". Solo dopo undici minuti entrarono nel merito del fatto che si era trattato di un omicidio. Quello era il modo di procedere tipico del giornale radio: prima gli aspetti piacevoli, generici e impersonali e poi - nella misura in cui li prendevano in considerazione - quelli spiacevoli o che potevano causare qualche turbamento. Se il giornale radio parlava di un omicidio concentrava sempre l'attenzione sugli aspetti più tipicamente legali, mai sulla vittima, sui parenti o sull'autore del delitto. Poi, magari, facevano diciassette "speciali" sulle perizie psichiche a cui veniva sottoposto l'omicida, perché quello riguardava la ricerca scientifica e quindi aveva tutt'altra dignità. Annika sospirò. Venivano citate anche le informazioni presenti nel suo articolo di quel giorno, relative alle minacce e alla cancellazione dei dati, ma solo a margine. Annika spense la radio e raccolse il materiale per la riunione di redazione nell'ufficio del direttore. Si avviò con una sensazione sgradevole allo stomaco. Ingvar Johansson si era comportato in modo strano per tutto il giorno, esibendo un atteggiamento scostante e sbrigativo. Annika capiva di aver commesso qualche errore, ma non sapeva quale. Adesso era come scomparso. Anders Schyman stava parlando al telefono. Dalla voce sembrava che all'altro capo del filo ci fosse un bambino. Pelle Oscarsson aveva già preso posto al tavolo delle riunioni con le foto. Annika andò davanti alla finestra a fissare la propria immagine riflessa. Se faceva schermo con la mano alla luce della stanza e si metteva molto vicina al vetro riusciva a scorgere cosa c'era dietro. Il buio, fuori, era compatto. Le luci gialle dell'ambasciata russa galleggiavano come puntini dorati in mezzo a isole di tenebre. Persino quel pezzettino di Russia appariva triste e solitario. Annika rabbrividì per
il freddo che filtrava dalla finestra. «Tutto bene?» chiese alle sue spalle Jansson, riposato dal suo pisolino, rovesciando ancora una volta un po' di caffè sul tappeto del direttore. «Ultima notte con la banda, poi sono libero per tre turni. Dove diavolo è Ingvar Johansson?» «Sono qui. Cominciamo?» Annika si sedette al tavolo e si accorse che Ingvar si preparava a riprendere il comando. Dunque era proprio come aveva immaginato, ieri lei aveva parlato troppo durante la riunione. «Sì, cominciamo» disse Anders Schyman riattaccando. «Cos'abbiamo e cosa possiamo tirare fuori?» Ingvar Johansson distribuì la sua lista e iniziò a parlare mentre completava il giro del tavolo. «Secondo me, possiamo procedere con la traccia di Nils Langeby, cioè che la polizia pensa a un'azione terroristica. Stanno seguendo la pista di un gruppo straniero.» Annika rimase a bocca aperta. «Ma cosa stai dicendo?» chiese sconvolta. «Nils è qui, oggi? Io non lo sapevo nemmeno. Chi è che l'ha convocato?» «E che ne so io?» ribatté Ingvar Johansson irritato. «Naturalmente, ho dato per scontato che l'avessi fatto tu, dopo tutto sei il suo capo.» «Da dove cavolo l'ha pescata questa notizia dell'atto terroristico?» chiese Annika, sentendo che a mala pena riusciva a tenere sotto controllo la propria voce. «Perché dovrebbe rivelare le sue fonti? Non mi sembra che tu lo richieda, di norma» osservò Ingvar Johansson. Annika si sentì avvampare. Le persone sedute intorno al tavolo la stavano fissando in attesa di una risposta. Di colpo, si rese conto che erano tutti uomini, a parte lei. «Dobbiamo lavorare con più coordinazione» disse con voce strozzata. «Io ho informazioni di segno completamente opposto, cioè che non si è trattato di terrorismo ma di un attentato contro la persona di Christina.» «In che senso?» chiese Ingvar Johansson, e Annika si rese conto di essere in trappola. Se rivelava ciò che sapeva, sia Jansson che Ingvar Johansson avrebbero chiesto e ottenuto che scrivesse un articolo sui codici segreti degli allarmi, visto che non esisteva un caporedattore che avrebbe rinunciato a una notizia tanto succulenta. Altrimenti doveva stare zitta, ma questo non poteva farlo, perché l'avrebbero massacrata. Scelse rapidamen-
te una terza alternativa. «Posso telefonare e riparlare con la mia fonte» disse. Anders Schyman la osservò pensoso. «Aspettiamo un attimo a decidere sulla pista terroristica. Intanto, andiamo avanti.» Annika aspettò in silenzio che Ingvar Johansson proseguisse, e lui non si fece certo pregare. «Faremo un inserto speciale: "Un ricordo di Christina Furhage. Commenti e immagini sulla sua vita". Abbiamo un sacco di dichiarazioni di vip: il re, la Casa Bianca, il governo, Samaranch, diverse stelle dello sport, personaggi televisivi ecc. Tutti vogliono farne un elogio. Sarà un bel fascicoletto consistente...» «E dell'inserto sportivo, cosa ne è stato?» chiese Anders Schyman senza alzare la voce. Ingvar Johansson parve perplesso. «Be', ecco, ci siamo accaparrati lo spazio a favore dell'inserto su Christina, sedici pagine in quadricromia, e poi ne aggiungiamo due allo sport normale.» «Quadricromia?» chiese Anders Schyman in tono pensoso. «Ma questo significa passare un sacco di pagine a colori dal corpo del giornale all'inserto, o sbaglio? Praticamente, il giornale in sé diventa quasi completamente grigio. Giusto?» Per poco Ingvar Johansson non arrossì. «Be', in effetti...» «Come mai non sono stato informato di questi cambiamenti?» chiese Anders Schyman calmo. «Sono qui da stamattina. Potevi venire da me in qualsiasi momento per discuterne.» Il caporedattore avrebbe voluto scomparire. «Non so cosa rispondere. È accaduto tutto molto in fretta.» «È un peccato» rispose Schyman. «Perché non ci sarà nessun inserto in quadricromia su Christina Furhage. Non era una persona che godeva della popolarità che intendi tu. Era un alto dirigente, certo molto ammirata in alcuni ambienti, ma né di sangue reale né eletta dal popolo, e nemmeno la si può paragonare a un noto personaggio televisivo. Inseriamo nel corpo del giornale le pagine con i commenti su di lei, eliminiamo l'inserto e aumentiamo invece il numero di pagine complessivo. Perché immagino che lo sport non abbia cominciato a fare nessun inserto, oppure mi sbaglio?» Ingvar Johansson tenne lo sguardo fisso sul tavolo. «Cos'altro abbiamo?» Nessuno aprì bocca. Annika aspettò in silenzio. La situazione era terribilmente imbarazzante.
«Bengtzon?» Annika raddrizzò la schiena e guardò i suoi appunti. «Possiamo fare un pezzo interessante sulla caccia all'assassino. Patrik ha saputo che non si trova il computer della Furhage e, come ho già detto, io ho una fonte sicura sulla teoria dell'insider job...» Smise di parlare, ma visto che nessuno diceva niente riprese: «Berit fa la sua ultima giornata, e io ho incontrato la famiglia». «Ah, già, com'è andata?» chiese Schyman. Annika rifletté prima di parlare. «Il vecchio era un po' confuso, devo dire. La figlia è fuori di testa, non l'ho nemmeno citata. Mi chiedo se vale la pena di pubblicare qualcosa al riguardo. Potremmo subire delle critiche pesanti per esserci buttati sul marito.» «L'hai indotto a parlare con qualche stratagemma?» chiese Anders Schyman. «Assolutamente no» rispose Annika. «Si è dimostrato restio in qualche modo?» «No. Ci ha chiesto di andare a trovarlo perché voleva parlare di Christina. Ho trascritto quello che ha detto, ma non era molto. L'articolo è nel server.» «Abbiamo qualche foto?» chiese Schyman. «Ce n'è una fantastica, scattata da Henriksson» disse Pelle Oscarsson. «L'uomo è in piedi accanto alla finestra, con i lucciconi agli occhi. Davvero bella.» Schyman guardò il photo editor con un'espressione neutra. «Bene. Voglio vederla prima che vada in stampa.» «Certo» rispose Pelle Oscarsson. «Okay» disse Anders Schyman. «Desidero sbrigare anche un'altra faccenda. Meglio farlo subito, così ce la togliamo di torno.» Si passò le mani tra i capelli, alzandoli sulla testa, allungò la mano verso una tazza di caffè ma si bloccò. Ad Annika venne la pelle d'oca. Aveva commesso qualche altro errore? «C'è un assassino a piede libero» continuò il direttore, che all'occorrenza sapeva recitare piuttosto bene. «Voglio che ne siamo consapevoli, quando pubblichiamo foto e interviste con quelli che avevano a che fare con Christina Furhage. La maggior parte degli omicidi vengono commessi da persone vicine alla vittima. Probabilmente è così anche in questo caso, il dinamitardo può essere qualcuno che voleva vendicarsi di Christina.» Smise di parlare e fece passare lo sguardo intorno al tavolo. Nessun altro
prese la parola. «Be', immagino che abbiate capito dove voglio arrivare. Sto pensando all'omicidio di Bergsjön, ve lo ricordate? La bambina uccisa in cantina, e tutti che consolavano la mamma piangente mentre il padre era sospettato. Poi si scoprì che l'assassina era la madre.» Alzò la mano come per arrestare le proteste dei presenti, che non si fecero attendere. «Sì, sì, lo so, non siamo poliziotti e non è compito nostro giudicare, ma stavolta penso che dovremmo tenerne conto.» «Se vogliamo dar retta alle statistiche, l'assassino dovrebbe essere suo marito» disse Annika. «Quasi tutti gli omicidi di donne sono commessi da conviventi o mariti.» «Può essere così, in questo caso?» Annika rifletté un istante. «Bertil Milander è vecchio e curvo. Ho qualche difficoltà a immaginarlo mentre si intrufola negli stadi carico di esplosivo. Anche se, naturalmente, non è detto che si sia occupato della faccenda personalmente.» «Chi altri potrebbe essere sospettato? Che tipo di gente lavora alla segreteria generale?» «Evert Danielsson è il segretario generale» rispose Annika. «Poi ci sono i delegati per le diverse divisioni: accrediti, trasporti, impianti, gare, villaggio olimpico. Sono parecchi. Il presidente del consiglio d'amministrazione, Hans Bjällra, i membri del consiglio: ne fanno parte assessori e ministri...» Schyman sospirò. «Okay, non vale la pena di pensarci. Cosa mettiamo nel resto del giornale?» Ingvar Johansson spiattellò la sua lista: una stella della musica pop che aveva avuto l'autorizzazione per costruire un giardino d'inverno nonostante le proteste dei vicini, un gatto sopravvissuto a cinquemila giri di centrifuga, una vittoria sensazionale nel derby di hockey, il nuovo record d'ascolto per il programma d'intrattenimento del sabato sera sul primo canale. Conclusero la riunione piuttosto rapidamente, e Annika si affrettò a raggiungere il suo ufficio. Si chiuse la porta alle spalle e sentì che le girava la testa. In parte era dovuto al fatto che aveva saltato la cena, in parte si rendeva conto che le lotte interne al giornale che si verificavano durante le riunioni la stavano logorando. Si appoggiò al ripiano della scrivania mentre andava verso la sedia. Si era appena seduta quando udì bussare alla porta. Era il direttore.
«Cosa ti ha detto la tua fonte?» chiese Schyman. «Che è stata un'azione diretta contro la persona» rispose Annika aprendo l'ultimo cassetto della scrivania. Se non ricordava male doveva esserci una ciambellina dolce, lì. «Alla Furhage stessa?» La ciambellina era ammuffita. «Sì, non certo ai Giochi. I codici segreti degli allarmi sono noti solo a una cerchia molto ristretta di persone. La minaccia nei suoi confronti non aveva nulla a che fare con le Olimpiadi. Veniva da una persona vicina a lei.» Il direttore fischiò. «Quanto puoi scrivere, di questa roba?» Lei fece una smorfia. «Un bel niente, a essere sinceri. È difficile scrivere che i suoi familiari erano stati seriamente minacciati, perché in questo caso verrebbe loro richiesta una dichiarazione in merito e non sono disposti a farla. Gliel'ho chiesto oggi. Quanto ai codici degli allarmi, ho promesso di tenere la bocca chiusa. I codici, insieme al computer mancante di cui ha saputo Patrik, sono in pratica gli unici elementi in mano alla polizia fino a questo punto.» «Questo è quanto ti hanno detto loro» disse Schyman. «Ma può darsi che non abbiano voglia di spiattellare proprio tutto.» Annika abbassò gli occhi sul ripiano della scrivania. «Vado da Langeby a chiedergli che cavolo sta combinando. Non andare via, torno fra un attimo.» Si alzò e chiuse piano la porta. Annika rimase seduta, con la testa vuota e la pancia ancora più vuota. Doveva mangiare qualcosa, altrimenti sarebbe svenuta. Thomas arrivò a casa con i bambini verso le sei e mezzo. Erano bagnati fradici, esausti e raggianti. Ellen si era quasi addormentata sullo slittino, mentre tornavano dal Kronobergsparken, ma un'ultima canzoncina e una breve battaglia a palle di neve la fecero ridere di nuovo. Una volta entrati, si accasciarono nell'ingresso, aiutandosi a vicenda a togliersi i vestiti bagnati. I bambini afferrarono uno scarpone di Thomas per uno cercando di sfilarglieli, e continuarono a tirare ognuno dalla propria parte finché lui non finse di essere sul punto di spaccarsi a metà. Dopo li portò in bagno, dove li lasciò a sguazzare nella vasca mentre preparava un po' di semolino, un pasto tipico da domenica sera, con tanta cannella e zucchero e le fette di pane imburrato con sopra il prosciutto. Colse l'occasione per lavare i lun-
ghi capelli di Ellen e buttarci sopra l'ultimo goccio del balsamo di Annika. I capelli sottili di Ellen si ingarbugliavano facilmente. Mangiarono ancora avvolti negli accappatoi, poi si infilarono tutti e tre nel letto matrimoniale a leggere la storia dell'orsetto Bamse. Ellen si addormentò dopo due pagine, mentre Kalle ascoltò a occhi spalancati l'intero racconto. Finita la lettura, il bambino si raggomitolò e infilò il pollice in bocca. «Ti voglio bene, papà» disse, e Thomas si sentì colmare da un'ondata di calore. «Ti voglio bene anch'io, piccolino. Vuoi addormentarti nel mio letto?» Kalle annuì, Thomas sfilò al bambino l'accappatoio umido e gli infilò il pigiama. Poi portò Ellen nel suo letto e le mise la camicia da notte. Rimase a osservarla per qualche istante, stesa nel suo lettino. Non si stancava mai di guardarla. Era la copia di Annika, ma aveva ereditato i capelli biondi di Thomas. Kalle aveva esattamente lo stesso aspetto di lui alla sua età. Erano davvero due piccoli miracoli. Osservazione banale, ma era proprio così. Spense la luce e chiuse piano la porta. In quel fine settimana i bambini avevano visto la madre solo di sfuggita. Thomas dovette riconoscere che quando Annika lavorava così tanto la cosa lo irritava. Si calava nel lavoro in modo quasi fanatico. Si lasciava assorbire completamente, tutto il resto veniva messo in secondo piano. Perdeva la pazienza con i bambini, pensava solo ai suoi articoli. Andò nel salotto, prese il telecomando e si sedette sul divano. Quella faccenda dell'esplosione e della morte di Christina Furhage era innegabilmente un fatto grave. Tutte le emittenti, comprese Sky, Bbc e Cnn non facevano che parlarne. Il secondo canale svedese stava trasmettendo un programma incentrato sulla vita della massima responsabile del comitato olimpico: in studio, le dichiarazioni di uno stuolo di personaggi sull'opera compiuta da Christina e sui Giochi erano intervallate da spezzoni di un'intervista con la morta registrata da Britt-Marie Mattsson un anno prima. Christina Furhage era effettivamente di un'intelligenza e una prontezza eccezionali. Thomas guardò affascinato il programma per qualche minuto. Poi chiamò Annika per sentire quando sarebbe tornata a casa. Berit infilò la testa nella fessura della porta. «Hai un minuto?» Annika le fece cenno di entrare nello stesso istante in cui il telefono cominciò a squillare. Gettò un'occhiata al display e riprese a scrivere. «Non rispondi?» chiese Berit. «È Thomas» disse Annika. «Vuole sapere quando avrò finito. Cerca
sempre di essere gentile e premuroso, ma in sottofondo si sente il tono di rimprovero. Se non rispondo è contento, pensa che io sia già uscita.» Appena il telefono sulla scrivania smise di squillare, si sentì il segnale del cellulare, una melodia elettronica che Berit riconobbe vagamente. Annika ignorò anche quello, lasciando che scattasse la segreteria. «Non riesco a rintracciare questa Helena Starke» disse Berit. «Ha un numero di telefono segreto. Ho chiesto ai vicini di suonare il campanello e infilare dei biglietti nella cassetta delle lettere pregandola di chiamarci, ma lei non si è fatta sentire. Non ho tempo di andarci di persona, perché adesso devo mettere insieme la "Christina Furhage Story"...» «Perché?» chiese Annika sorpresa smettendo di scrivere. «Non doveva occuparsene qualcuno della cronaca?» Berit fece un sorriso storto. «Sì, solo che gli è venuta l'emicrania quando ha saputo che l'inserto era stato soppresso, così mi ritrovo davanti la bella prospettiva di tre piacevoli ore di scrittura.» «C'è da mettersi le mani nei capelli» commentò Annika. «Passo io dalla Starke mentre torno a casa. Abita a Södermalm, o sbaglio?» Berit le diede l'indirizzo. Quando la porta si fu richiusa, Annika tentò di nuovo di chiamare la sua fonte, senza risultato. Gemette piano. Adesso doveva scrivere, non poteva tenere per sé quell'informazione. Doveva fare i salti mortali per evitare di nominare il termine "codici degli allarmi" pur facendone trasparire il significato. Andò meglio di quanto pensasse. L'impostazione era incentrata sull'insider job. Che gli allarmi non erano inseriti e che non era stata forzata alcuna porta poteva scriverlo. Citò altre fonti riguardo all'accesso ai pass e alla possibilità di entrare nell'impianto di notte. Era anche in grado di dire che la polizia stava circoscrivendo il numero delle persone che teoricamente avrebbe avuto modo di preparare l'attentato. Insieme all'articolo di Patrik, venivano fuori due pezzi sensazionali. Poi scrisse un trafiletto in cui diceva che la polizia aveva già interrogato la persona che un paio d'anni prima aveva minacciato Christina Furhage. Aveva quasi finito quando Anders Schyman bussò di nuovo alla sua porta. «Che mestiere del cavolo, quello del direttore» osservò sedendosi sul divano. «Allora, cosa si fa? Ci buttiamo sul gruppo terroristico internazionale o mettiamo in piazza la segreteria generale del comitato?» chiese Annika. «Credo che Nils Langeby sia un po' fuori di testa» disse Schyman. «Sostiene che il suo articolo è fondato, ma si è rifiutato di rivelare le sue fonti e anche di precisare meglio quello che gli hanno detto.»
«Dunque?» «Naturalmente, puntiamo sull'insider job. Voglio solo leggerlo prima.» «Certo. Ecco qui.» Annika cliccò sul documento facendolo comparire sullo schermo del computer. Il direttore si alzò dal divano e si avvicinò alla scrivania. «Vuoi sederti?» «No, no, stai comoda...» Anders Shyman scorse velocemente il testo. «Chiaro come il sole» commentò preparandosi ad andarsene. «Vado a parlare con Jansson.» «Cos'altro ha detto, Langeby?» chiese Annika a voce bassa. Lui si fermò e la guardò serio. «Credo che Nils Langeby stia diventando un grosso problema sia per te che per me» disse, e uscì. Helena Starke abitava in un caseggiato degli anni Venti sulla Ringvägen. Il portone aveva un codice per l'apertura, e Annika non lo conosceva. S'infilò l'auricolare e chiese al servizio informazioni di darle un paio di numeri di telefono degli abitanti al numero 139 della Ringvägen. «Non possiamo dare i numeri in questo modo» rispose la telefonista, irritata. Annika sospirò. A volte funzionava, ma non sempre. «Okay» disse. «Cerco un certo Andersson abitante sulla Ringvägen al 139.» «Arne Andersson o Petra Andersson?» «Entrambi» rispose Annika prendendo nota dei numeri sul blocco. «Grazie mille.» Provò con il primo numero, quello di Arne. Non rispondeva nessuno, forse dormiva. Erano quasi le dieci e mezzo. Petra era in casa, e pareva un po' scocciata. «Scusi tanto» disse Annika «devo salire da un'amica che abita vicino a lei, ma ha dimenticato di darmi il codice...» «Quale vicina?» chiese Petra. «Helena Starke» rispose Annika. Petra Andersson rise. E non era una risata gentile. «Deve andare dalla Starke alle dieci e mezzo? Buona fortuna» le augurò dandole la combinazione. Certo che se ne sentono di cose strane, pensò Annika salendo le scale e suonando il campanello. La Starke abitava al quarto piano. Suonò ancora, ma non aprì nessuno. Annika si guardò intorno sul pianerottolo e cercò di intuire da che parte si affacciava l'appartamento e quanto poteva essere
grande. Poi scese di nuovo sul marciapiede. La Starke doveva avere almeno tre finestre che davano sulla strada, e due erano illuminate. Probabilmente, era in casa. Annika rientrò, salì con l'ascensore e premette a lungo il campanello. Poi aprì la fessura nella porta da cui si infilavano le lettere e disse: «Helena Starke? Mi chiamo Annika Bengtzon, sono della "Stampa della Sera". So che è in casa. Può aprirmi, per favore?». Rimase ad aspettare in silenzio per un po', poi udì che la catena di sicurezza tintinnava. La porta si socchiuse appena e comparve una donna con il viso gonfio di pianto. «Cosa vuole?» chiese Helena Starke a voce bassa. «Scusi se la disturbo, ma è tutto il giorno che cerchiamo di contattarla.» «Lo so. Ho ricevuto quindici biglietti nella cassetta della posta, da lei e da tutti gli altri.» «Posso entrare un momento?» «Perché?» «Sul giornale di domani scriveremo della morte di Christina Furhage. Mi chiedo se potrei farle qualche domanda.» «Su cosa?» Annika sospirò. «Glielo spiego volentieri, magari non qui sul pianerottolo, però.» La Starke aprì la porta e la fece entrare nell'appartamento. Era in condizioni pietose, ad Annika sembrò di sentire odore di vomito. Andarono in cucina. I piatti sporchi straripavano dal lavello, su una delle piastre elettriche c'era una bottiglia di cognac vuota. Helena Starke indossava solo una maglietta e le mutande. Aveva i capelli spettinati ed era in condizioni pietose. «La morte di Christina rappresenta una perdita terribile» disse. «Non si sarebbero mai fatte le Olimpiadi a Stoccolma, se non fosse stato per lei.» Annika tirò fuori blocco e penna e cominciò a prendere appunti. Come mai la gente diceva sempre le stesse cose di Christina Furhage? «Com'era, di persona?» chiese. «Fantastica» rispose Helena Starke abbassando gli occhi sul pavimento. «Era un modello per tutti noi. Piena d'iniziativa, intelligente, determinata, simpatica... tutto. Riusciva in ogni cosa che faceva.» «Se non ho capito male, lei è stata l'ultima persona a vederla viva.» «A parte l'assassino, sì. Siamo venute via insieme dalla festa di Natale. Christina era stanca e io decisamente brilla.»
«Dove siete andate?» Helena Starke s'irrigidì. «Come, "dove siete andate"? Ci siamo separate alla metropolitana, io sono venuta a casa e Christina ha preso un taxi.» Annika alzò un sopracciglio. Fino adesso non era saltato fuori che Christina Furhage avesse preso un taxi dopo mezzanotte. Allora c'era qualcun altro che aveva visto la donna in vita dopo Helena Starke: il tassista. «Christina aveva dei nemici all'interno dell'organizzazione?» Helena Starke soffocò un singhiozzo. «E chi poteva essere?» «Be', glielo sto chiedendo. Lavora anche lei alla segreteria generale, no?» «Ero l'assistente personale di Christina» rispose la donna. «Significa che era la sua segretaria?» «No, ne aveva tre, di segretarie. Ero il suo braccio destro, si può dire. Adesso però è meglio che lei se ne vada.» Annika raccolse le sue cose in silenzio. Prima di uscire si voltò e chiese: «Christina licenziò una ragazza dalla segreteria generale perché aveva una relazione con uno dei dirigenti. Come reagì il personale alla faccenda?». Helena Starke la fissò. «Se ne vada.» «Eccole il mio biglietto da visita. Mi chiami, se c'è qualcosa che vuole aggiungere o rettificare» recitò Annika appoggiando il biglietto sul tavolino dell'ingresso. Si accorse che sul telefono era attaccato un foglietto con il numero, e lo annotò rapidamente. Helena Starke non l'accompagnò alla porta. Annika se la richiuse piano alle spalle. UMANITÀ Mi è sempre piaciuto passeggiare. Adoro la luce, il vento, le stelle e il mare. Ho fatto passeggiate così lunghe che alla fine il mio corpo camminava da solo, sfiorando appena il terreno, mischiandosi agli elementi intorno e trasformandosi in un giubilo invisibile. Altre volte, le mie gambe hanno contribuito a farmi concentrare sull'esistenza. Invece di far dissolvere il paesaggio intorno a me l'hanno ristretto fino a renderlo un unico puntino sempre più nero. Ho camminato sui marciapiedi concentrandomi sul mio corpo, lasciando che l'urto dei tacchi sull'asfalto mi risalisse attraverso le membra. A ogni passo riecheggiava la stessa domanda: "Cosa sono io? Dove sono? Cos'è che mi rende ciò che sono?". Al tempo in cui la domanda era importante per me, abitavo in una città
dove soffiava sempre il vento. Qualsiasi direzione prendessi, ero sempre controvento. Le folate erano talmente intense che a tratti restavo senza fiato. Mentre l'umidità mi penetrava nelle ossa, io passavo in rassegna, gradualmente, la carne e il sangue, cercando di scoprire in che punto di me risiedeva il mio essere. Non nei talloni, non nella punta delle dita, non nelle ginocchia, nel sesso o nella pancia. La mia conclusione, dopo queste lunghe passeggiate, non poteva essere considerata ambigua: la mia essenza è da qualche parte dietro i miei occhi, sopra la nuca ma sotto la fronte, in un punto interno tra la parte posteriore della bocca e le orecchie. Lì esiste ciò che realmente sono io. Lì sono io. Quella è la mia casa. All'epoca abitavo in un appartamento stretto e buio, ma io me lo ricordo come sconfinato, impossibile da riempire e conquistare. Il mio unico intento era capire cos'ero io. Alla sera, nel mio letto, chiudevo gli occhi e cercavo di capire se ero un uomo o una donna. Come avrei potuto saperlo? Il sesso mi pulsava in un modo tale da non poter far pensare ad altro che al desiderio. Se non avessi saputo che aspetto aveva, avrei potuto descriverlo soltanto come qualcosa di forte, profondo e palpitante. Uomo o donna, bianco o nero? La mia coscienza non era in grado di definirmi se non come un essere umano. Quando aprivo gli occhi, venivano investiti dai raggi elettromagnetici che chiamiamo luce. Interpretavano i colori in un certo modo, ma non avevo mai la certezza che fosse lo stesso delle altre persone. Il colore che io chiamavo rosso e percepivo caldo e pulsante poteva essere visto in maniera diversa da altri. Ci eravamo messi d'accordo e avevamo imparato denominazioni comuni, ma forse la nostra percezione era comunque del tutto individuale. Non lo sapremo mai. LUNEDÌ 20 DICEMBRE Thomas uscì dall'appartamento prima che Annika e i bambini si fossero svegliati. Aveva un sacco di lavoro da sbrigare entro Natale, e quel giorno doveva andare presto a prendere i suoi figli alla scuola materna. Avrebbero fatto a turno, quella settimana, per portarli a casa possibilmente verso le tre. Un po' perché i bambini erano stanchi e risentivano ormai del freddo invernale, un po' perché bisognava organizzarsi in vista del Natale. Annika aveva appeso una stella di Natale di rame e tirato fuori i candelabri elettrici da mettere alle finestre, ma si era fermata lì. Non avevano ancora comin-
ciato a fare la spesa per il cenone, né a comprare i regali, preparare il salmone, cuocere il prosciutto e scegliere l'abete, per non parlare delle pulizie: per quello erano in ritardo di almeno sei mesi. Annika avrebbe voluto chiamare qualcuno, una polacca, la stessa che andava da Anne Sapphane, ma Thomas si era rifiutato. Santo cielo, non poteva lavorare come consulente del lavoro nell'Unione Comuni Svedesi e contemporaneamente prendere una domestica in nero. Annika lo capiva, ma continuava a trascurare le pulizie. Thomas sospirò profondamente e uscì, affondando con i piedi nella neve fradicia. Quest'anno, Natale cadeva proprio male: la vigilia era di venerdì, e tra Natale e Capodanno c'erano solo giorni feriali. Sospirò di nuovo mentre attraversava l'Hantverkargatan puntando verso la fermata dell'autobus numero 48 dalla parte opposta della Kungsholmstorg. Gli faceva un po' male la schiena, quando allungava il passo, cosa che gli succedeva spesso se aveva dormito in una posizione scomoda. Quella mattina si era trovato Kalle nel letto, messo per traverso, con i piedi contro la sua schiena. Girò il busto da un lato e poi dall'altro, come un pugile, per stirare i muscoli irrigiditi. Thomas fece in tempo a bagnarsi e infreddolirsi prima che il mezzo pubblico si fermasse nella neve davanti alla vetrina della banca. Thomas odiava prendere l'autobus, ma le alternative erano tutte peggiori. La metropolitana era dietro l'angolo, ma era la linea blu che girava a una profondità tale che per arrivarci sembrava di scendere all'inferno. Ci si metteva più tempo ad attraversare tutti i tunnel sotterranei per raggiungere i treni che ad andare a piedi fino alla stazione centrale. E bisognava cambiare dopo una sola stazione. Altri tunnel e scale mobili, passaggi e ascensori che puzzavano di urina. Poi il percorso fino allo Slussen, ancora vagoni appannati e centinaia di gomiti di pendolari che leggevano il giornalino gratuito distribuito agli ingressi della metropolitana. Di usare la macchina, neanche a parlarne. All'inizio si era portato la sua Toyota Corolla in città, ma quando il totale delle multe per sosta vietata aveva cominciato a superare il costo dell'asilo, Annika aveva posto il veto e lui aveva rinunciato. Ora l'auto stava ad arrugginire sotto un telone cerato a Vaxholm, a casa dei suoi genitori. A lui sarebbe piaciuto comprare una villetta fuori città, ma Annika si rifiutava. Lei adorava il loro costosissimo appartamento in affitto. Il 48 era affollato e Thomas fu costretto a stare in piedi stretto fra i passeggini, ma all'altezza del Municipio l'autobus cominciò a svuotarsi. A
Tegelbacken riuscì a sedersi, in fondo e proprio sopra la ruota, ma meglio di niente. Tirò su le gambe, e mentre il mezzo pubblico passava davanti agli uffici di Rosenbad gli gettò un'occhiata, senza poter fare a meno di pensare a come sarebbe stato lavorare lì. Perché no? La sua carriera, da capufficio affari sociali a Vaxholm a dirigente dell'Unione Comuni Svedesi, era progredita a gran velocità. Il vantaggio di avere per moglie una giornalista come Annika non l'avrebbe mai ammesso neanche con se stesso. Di questo passo, avrebbe potuto lavorare al parlamento o in qualche ministero anche prima di compiere quarant'anni. L'autobus proseguì oltre Strömsborg e Riddarhuset. Thomas si sentiva impaziente e inquieto, ma non voleva ammettere che la cosa dipendeva da Annika. Praticamente non si erano scambiati nemmeno una parola, durante il fine settimana. La sera prima aveva pensato che stesse tornando a casa, visto che non rispondeva al telefono in redazione, e aveva preparato sandwich caldi e tè per accoglierla. Invece, c'erano volute diverse ore prima di sentire il tintinnio delle chiavi dall'ingresso, ma ormai il tè aveva in superficie una sgradevole pellicola, Thomas si era già fatto fuori la sua parte di sandwich e aveva letto fino all'ultima pagina di "Time" e "Newsweek". Quando finalmente era entrata in salotto, aveva ancora l'auricolare e stava parlando con qualcuno al giornale. "Ciao. Hai avuto una giornata lunga, eh?" l'aveva accolta lui andandole incontro. "Ti chiamo da un altro telefono" aveva detto Annika, spegnendo il cellulare e facendogli una carezza sulla guancia mentre gli passava davanti. Poi era andata dritta alla sua scrivania, aveva lasciato cadere cappotto e sciarpa per terra e richiamato il giornale. Aveva parlato di un passaggio in taxi da controllare con la polizia, mentre lui sentiva l'irritazione crescere dentro di sé a dismisura. Finita la telefonata, Annika era rimasta in piedi appoggiata alla scrivania come se le girasse la testa. "Scusa, se sono arrivata così tardi" aveva mormorato, senza alzare gli occhi. "Tornando, sono dovuta passare da Södermalm per un'intervista." Thomas non aveva replicato, era rimasto lì con le braccia penzoloni a guardarle la schiena. Lei aveva ondeggiato appena, sembrava esausta. "Non puoi ammazzarti così di lavoro" le aveva detto, con un tono più secco di quanto avrebbe voluto. "Lo so" aveva risposto lei, appoggiando i vestiti sulla scrivania e andando in bagno. Lui si era infilato in camera e mentre piegava il copriletto aveva ascoltato lo scroscio dell'acqua e Annika che si lavava i denti. Quan-
do lei era venuta a letto, aveva finto di dormire, e Annika non si era accorta di niente. L'aveva baciato sul collo e gli aveva fatto una carezza sui capelli, per poi addormentarsi come un sasso. Thomas era rimasto sveglio a lungo, ascoltando le auto che passavano per strada e il respiro regolare della moglie. Scese allo Slussen per fare a piedi i pochi isolati che lo separavano dal suo ufficio, di fianco alla Hornsgatan. Dalla baia soffiava un vento umido, e un ambulante mattiniero aveva già messo su il suo baracchino con le decorazioni natalizie davanti all'ingresso della metropolitana. «Un po' di glögg per iniziare meglio la giornata, signore?» chiese l'ambulante porgendogli una tazza fumante mentre passava. «Ma sì, perché no?» rispose Thomas tirando fuori una banconota dalla tasca della giacca. «E mi dia anche un biscotto allo zenzero, per favore. Uno a forma di cuore, il più grosso che ha, grazie!» «Mamma, posso salire anch'io?» fece Kalle montando dietro il passeggino e facendolo quasi ribaltare. Annika lo prese appena in tempo. «No, credo che oggi lo lasceremo qui il passeggino, la neve è una poltiglia.» «Ma mamma, io voglio andare in passeggino» disse Ellen. Annika tornò all'ascensore, spinse fuori la bambina, chiuse il cancello e la porta. Poi si accovacciò davanti a Ellen, sulla moquette dell'atrio, e l'abbracciò. Il pellicciotto finto della tuta bianca era freddo contro la sua guancia. «Oggi possiamo prendere l'autobus, e poi ti porto in braccio. Va bene?» La bimba annuì e le gettò le braccia al collo, stringendola forte. «Però io voglio stare con te, oggi.» «Lo so, ma non si può, devo lavorare. Però, da venerdì siamo tutti in vacanza, perché sapete che giorno è venerdì?» «La vigilia, la vigilia di Natale!» gridò Kalle. Annika rise. «Esatto, proprio così. E sapete quanti giorni mancano?» «Tre settimane» rispose Ellen sollevando tre dita. «Ma va' là, tonta» disse Kalle. «Solo quattro giorni.» «Non si dice tonta, però è vero, sono quattro giorni. Dove ce li hai i guanti, Ellen? Li abbiamo dimenticati? Ah, no, eccoli qui...» Sul marciapiede la neve era ormai acqua sporca. Piovigginava, e il mondo era di un grigio uniforme. Annika teneva in braccio Ellen e dava la mano a Kalle. A ogni passo, la borsa le rimbalzava sulla schiena.
«Hai un buon odore, mamma» disse Ellen. Annika risalì la Scheelegatan e prese il 40 davanti a un negozio di spezie indiane. Dopo due fermate, scese di fronte all'edificio bianco degli anni Ottanta sede degli studi di Radio Stockholm. Al terzo piano c'era l'asilo dei bambini. Kalle ci andava dall'età di quindici mesi, Ellen aveva iniziato a frequentarlo appena compiuto un anno. Parlando con gli altri genitori, Annika si rendeva conto di avere avuto fortuna: il personale era aggiornato e competente, la coordinatrice s'impegnava molto e la metà degli educatori, nelle classi dei più grandicelli, erano maschi. L'atrio era affollato e regnava una gran confusione, la ghiaia e la neve avevano formato un mucchietto davanti alla porta. I bambini gridavano e gli adulti facevano raccomandazioni. «Va bene se mi fermo per il raduno, stamattina?» chiese Annika a uno degli educatori. I bambini stavano seduti allo stesso tavolo, durante i pasti. Nonostante litigassero spesso e volentieri, a casa, all'asilo andavano d'amore e d'accordo, e Kalle manteneva un atteggiamento protettivo verso la sorellina. Durante la colazione, Annika rimase seduta con Ellen in braccio e mangiò qualcosa per fare compagnia ai piccoli. «Mercoledì andiamo in gita, bisogna portare il pranzo al sacco» annunciò una delle educatrici dei più grandi. Dopo colazione, si riunirono tutti nella stanza dei cuscini per fare l'appello e cantare. Diversi bambini erano già a casa per le vacanze di Natale. Quelli che restavano si esibirono nelle classiche C'era una casetta e Sono un coniglietto. Poi si parlò un po' del Natale e si concluse con un'ultima canzoncina. «Adesso devo andare» disse Annika uscendo dalla stanza, ed Ellen si mise a piangere, mentre Kalle le si appendeva a un braccio. «Voglio stare con te» piagnucolò Ellen. «Papà vi viene a prendere presto, oggi, subito dopo la merenda» li consolò Annika in tono allegro, cercando di liberarsi dall'abbraccio dei bambini. «Bello, no? Così potete andare a casa e fare qualcosa per Natale, magari comprare l'albero. Cosa ne pensate?» «Sììì!» esclamò Kalle, ed Ellen gli fece eco. «Ci vediamo stasera» li salutò Annika, affrettandosi a chiudere la porta davanti ai nasini dei figli. Rimase un attimo immobile, dall'altra parte, cercando di sentire se c'era qualche reazione. Non ne udì. Con un sospiro, si diresse all'uscita.
Prese il 56 davanti al palazzo della Trygg-Hansa e arrivò al giornale solo verso le dieci e mezzo. La redazione era piena di gente che chiacchierava. Per qualche strana ragione, Annika non riusciva ad abituarcisi. Per lei lo stato normale della redazione era quando non si vedeva che un grande stanzone vuoto con poche persone concentrate sul lavoro, schermi di computer in stand-by e qualche insistente squillo di telefono. Ma era così solo nei fine settimana e di notte, mentre adesso, lì dentro, c'erano quasi novanta persone. Prese una pila di giornali e si diresse verso il suo ufficio. «Ottimo lavoro, Annika!» gridò qualcuno che non individuò. Lei alzò una mano sopra la testa per ringraziare. Eva-Britt Qvist stava scrivendo al computer. «Nils Langeby ha preso un giorno di compensazione, oggi» disse senza alzare gli occhi. Era ancora arrabbiata, dunque. Annika si tolse il cappotto, andò a prendere un caffè al distributore automatico e passò davanti alle caselle della posta. La sua straripava. Sospirò e si guardò intorno in cerca di un cestino dove buttare il bicchiere: non sarebbe mai riuscita a portare tutta quella posta senza versare caffè in giro. «Come mai questo sospiro?» chiese Anders Schyman alle sue spalle, e lei sorrise imbarazzata. «Niente, è solo che aprire tutte queste buste mi distrugge. Ogni giorno arrivano più di cento tra stampe e lettere, e ci vuole un sacco di tempo per passarle in rassegna.» «Scusa, ma non c'è nessuna ragione per cui lo debba fare tu» commentò Anders Schyman sorpreso. «Credevo io facesse Eva-Britt.» «Macché, ho cominciato quando il caposervizio che c'era prima è andato a New York e poi ho semplicemente continuato.» «Eva-Britt se ne occupava prima che lui venisse nominato corrispondente. È molto più sensato che sbrighi lei la corrispondenza, a meno che tu non voglia farlo di persona. Cosa dici, gliene parlo?» Annika sorrise e bevve un sorso di caffè. «Grazie, sarebbe un immenso sollievo.» Anders Schyman prese il mucchio di posta e lo mise nella casella di Eva-Britt Qvist. «Vado a dirglielo subito.» Annika andò da Ingvar Johansson che, come al solito, era seduto con la cornetta incollata all'orecchio. Indossava gli stessi abiti del giorno prima, e anche di due giorni prima. Annika si chiese se quando andava a letto si svestisse. «La polizia è incazzatissima per il tuo articolo sui codici segreti degli al-
larmi» disse lui riattaccando. Lei s'irrigidì, sentì il terrore afferrarla e una fitta allo stomaco. «Perché? Cos'è successo?» «Dicono che hai bruciato la loro pista migliore. Che avevi promesso di non scrivere dei codici.» Annika sentì il panico montarle nelle vene come un veleno ribollente. «Ma io non ho parlato dei codici! Non l'ho nemmeno nominata, quella parola!» Buttò via il caffè e afferrò un giornale. Il dinamitardo conosceva Christina. Interrogato un sospetto era il titolo sulla prima. Nella pagina interna il titolo era a caratteri grandi e in grassetto: La soluzione è nei codici degli allarmi. «Ma che cazzo è 'sta roba!» sbottò Annika. «Chi diavolo ha messo questo titolo?» «Abbassa la voce, sei isterica?» disse Ingvar Johansson. Annika sentì andarle il sangue agli occhi. Il suo sguardo cadde sull'uomo robusto seduto sulla poltroncina da ufficio. Dietro la facciata indifferente, vide che era soddisfatto. «Chi lo ha approvato?» chiese. «Sei stato tu?» «Lo sai che io non ho niente a che vedere con i titoli delle pagine interne, no?» disse lui voltandosi per riprendere a lavorare. Ma non se la sarebbe cavata così a buon mercato. Annika gli fece girare di scatto la sedia, mandandolo a sbattere con le gambe contro il cassetto della scrivania. «Smettila di fare il finto tonto» sibilò. «Non importa un bel niente che la cosa ricada su di me, non lo capisci? Ricade su tutto il giornale. Su di te, su Anders Schyman, su tua figlia che lavora in portineria d'estate. Lo scoprirò chi ha messo questo titolo, e su iniziativa di chi, stanne certo. Con chi parlavi, al telefono?» L'espressione compiaciuta di lui adesso era scomparsa, sostituita da una smorfia. «Non scaldarti tanto» disse. «Era l'addetto stampa della polizia.» Annika raddrizzò la schiena, sorpresa. Quello raccontava balle. L'addetto stampa della polizia non aveva idea di cosa lei avesse promesso o meno. Probabilmente era incazzato perché la faccenda era trapelata, e di quel titolo si sarebbe davvero potuto fare a meno. Ma a Ingvar Johansson non sarebbe mai stato fatto un rimprovero perché lei si era bruciata una confidenza. Girò sui tacchi e se ne andò, sentendosi addosso gli sguardi di tutti. Scenate di quel genere erano abbastanza frequenti, in redazione, ed era sempre
divertente quando erano i capi a litigare. I presenti aprirono il giornale, guardarono l'articolo di Annika alle pagine sei e sette, ma non trovarono niente di strano e il litigio cadde nel dimenticatoio. Ma Annika non dimenticava. Aggiunse il subdolo attacco di Ingvar Johansson in cima agli altri, sul mucchio di letame che aumentava di giorno in giorno. Temeva che, prima o poi, il mucchio sarebbe finito nel ventilatore, e allora nessuno, in redazione, avrebbe potuto evitare gli schizzi. «La tua posta privata la vuoi, o preferisci che mi occupi io anche di quella?» Eva-Britt Qvist era in piedi sulla porta con un paio di lettere in mano. «Cosa? No, grazie, mettila pure qui...» La segretaria di redazione si avvicinò ad Annika facendo battere i tacchi e gettò le buste sulla scrivania. «Ecco. E se vuoi che cominci anche a farti il caffè, dimmelo subito, invece di mandare il direttore!» Annika alzò gli occhi attonita. Il viso della donna davanti a lei grondava disprezzo. Prima che Annika facesse in tempo a replicare, era già uscita come una furia. Oh, no, pensò Annika, non è possibile! Adesso se l'è presa perché pensa che io le abbia ordinato di occuparsi della posta senza avere il coraggio di farlo di persona. Buon Dio, dammi la forza di sopportare tutto questo! E il mucchio di letame lievitò di uno strato. Evert Danielsson fissava la sua libreria, con il cervello svuotato e un'eco risonante nel petto. Aveva la strana sensazione di essere cavo. Con le mani stringeva saldamente il ripiano della scrivania, nel tentativo di tenerla dov'era, o forse di restarci attaccato. Ma non ci sarebbe riuscito, lo sapeva. Era solo questione di tempo, poi il consiglio d'amministrazione avrebbe emesso il comunicato stampa. Non avevano intenzione di aspettare che fossero chiariti i suoi nuovi compiti, volevano dimostrare forza e capacità decisionale anche in mancanza di Christina. Dentro di sé, Evert Danielsson si rendeva perfettamente conto di non aver saputo gestire tutti gli aspetti del proprio lavoro, nel corso degli anni, ma con Christina come sua immediata superiore si era sentito protetto. Adesso che non era più lì a fargli da parafulmine, a lui non rimaneva niente a cui attaccarsi. Era finito, e lo sapeva. Qualcosa aveva imparato, comunque, per esempio come andavano le cose alla gente non più desiderabile. Spesso non c'era nemmeno bisogno di prendere decisioni formali sul trasferimento ad altro incarico, perché le
persone se ne andavano di loro spontanea volontà. I modi per mettere qualcuno con le spalle al muro erano molti e lui li conosceva quasi tutti, pur non avendoli usati se non in rare occasioni. Una volta presa la decisione, veniva informato il personale. La reazione interna era quasi sempre positiva, di rado chi era costretto a lasciare era riuscito a mantenere una qualche popolarità fra i colleghi. Poi la notizia veniva resa pubblica, e se si trattava di qualcuno di una certa notorietà, i mass media si scatenavano. A quel punto, la faccenda poteva prendere due direzioni. O i media si mettevano dalla parte della persona sollevata dall'incarico lasciandole spazio per le sue rimostranze, oppure si cavalcava la disgrazia altrui al grido di "ben ti sta". Il primo caso riguardava soprattutto le donne, a meno che non rivestissero incarichi troppo elevati. Il secondo annoverava più che altro uomini attivi nel settore privato, che avevano ottenuto buonuscite favolose. Evert Danielsson intuiva che sarebbe entrato a far parte della seconda categoria. A suo vantaggio, poteva giocare il fatto di essere stato licenziato e trasformato nel capro espiatorio per la morte di Christina Furhage. Sarebbe stato possibile indirizzare l'opinione pubblica in questo senso. Evert Danielsson lo sentiva, senza però riuscire a formulare compiutamente le parole nel suo cervello svuotato. Sentì bussare alla porta, e la sua segretaria fece capolino. Aveva gli occhi un po' gonfi e i capelli in disordine. «Ho scritto il comunicato stampa, e Hans Bjällra è qui per dargli un'occhiata con lei. Lo faccio entrare?» Evert Danielsson guardò la sua fedele collaboratrice di vecchia data. Aveva quasi sessant'anni e non avrebbe mai ottenuto un altro lavoro. Era così, infatti, quando qualcuno era costretto a lasciare: seguivano a ruota anche i collaboratori più stretti. Nessuno voleva prendersi in carico i subalterni di qualcun altro. Non funzionava. Non c'era mai la stessa lealtà. «Certo, lo faccia passare.» Il presidente del consiglio d'amministrazione entrò, alto ed elegante nel suo abito scuro. Portava il lutto per Christina, quello stronzo, quando tutti sapevano benissimo che non la sopportava. «Penso che dovremmo chiudere questa faccenda nella maniera più decorosa e nel più breve tempo possibile» esordì Bjällra sedendosi sul divano senza essere stato invitato a farlo. Evert Danielsson annuì enfaticamente. «Sì, tengo anch'io al fatto che venga gestito tutto in modo elegante e dignitoso...» «Bene, allora siamo d'accordo. Il comunicato stampa dirà che lasci il tuo
posto di segretario generale del Socog, lo Stockholm Organizing Committee of the Olympic Games perché, dopo la tragica morte di Christina Furhage, andrai a ricoprire altri incarichi. Quali saranno, non è ancora stato deciso, in quanto verranno definiti insieme a te. Non si parlerà né di licenziamento, né di capri espiatori e cavolate varie, né della tua buonuscita. L'intero consiglio è d'accordo sul fatto di mantenere una certa riservatezza. Cosa ne dici?» Evert Danielsson lasciò che l'eco delle parole del presidente si dissolvesse. Era molto meglio di quanto avesse osato sperare, quasi una promozione. Mollò il ripiano della scrivania. «Sì, mi sembra che vada benissimo.» «Ci sono un paio di cose di cui vorrei parlarti» disse Annika a Eva-Britt. «Puoi venire nel mio ufficio?» «Perché? Dimmelo pure qui. Ho molto da fare.» «Adesso, immediatamente» intimò Annika rientrando nell'ufficio e lasciando la porta aperta. Udì Eva-Britt continuare a battere ostentatamente sulla tastiera per qualche secondo, poi la donna si piazzò sulla soglia con le braccia incrociate. Annika si sedette alla scrivania facendole segno di accomodarsi. «Siediti e chiudi la porta.» Eva-Britt si sedette senza chiudere. Annika sospirò e si alzò per farlo lei. Si accorse di essere tesa, le situazioni come quella erano sempre sgradevoli. «Eva-Britt, posso sapere cosa c'è?» «Come, scusa? Che vuoi dire?» «Mi sembri così... arrabbiata, ombrosa. È successo qualcosa?» Annika si costrinse a un tono calmo e gentile, e la donna si contorse sulla sua sedia. «Non capisco di cosa stai parlando.» Annika si sporse in avanti e notò che Eva-Britt teneva le gambe e le braccia incrociate, in posizione di difesa. «È da una settimana che sei scostante con me. Ieri, poi, ci siamo scontrate di brutto...» «Ah, allora mi stai facendo la predica perché non sono abbastanza gentile?» Annika sentì montare la collera. «No, il punto è che tu non fai quello che dovresti. Ieri non hai selezionato il materiale, non hai lasciato istruzioni
per chi doveva completare il lavoro, sei andata a casa senza avvertire. Non sapevo che in passato la posta rientrava fra i tuoi compiti, non sono stata io ma Schyman stesso a suggerire che riprendessi in mano tu la cosa. Devi collaborare con gli altri, se no questa redazione non funzionerà mai.» La donna la guardò con freddezza. «Questa redazione funzionava perfettamente ben prima che arrivassi tu.» Quel colloquio non portava da nessuna parte. Annika si alzò in piedi. «Okay, lasciamo perdere. Devo fare delle telefonate. A proposito, hai passato in rassegna proprio tutto ciò che possiamo avere qua dentro su Christina Furhage? Archivio, libri, immagini, articoli?...» «Ho frugato ovunque» rispose Eva-Britt Qvist andandosene. Annika rimase in piedi con un gusto amaro di sconfitta nella bocca. Non era una brava coordinatrice, era una responsabile senza nerbo che non sapeva motivare i collaboratori. Tornò a sedersi, e abbassò la testa. Cosa doveva fare, adesso? Ah, sì, l'addetto stampa della polizia. Si sollevò, alzò la cornetta e compose il numero diretto. «Lo capisce anche lei, no, che se scrivete praticamente tutto quello che sappiamo il nostro lavoro viene ostacolato?!» disse l'uomo. «Alcune cose non devono essere pubblicate, altrimenti l'inchiesta si blocca.» «Ma allora perché ce le dite?» chiese Annika in tono innocente. L'addetto stampa sospirò. «Be', è una questione di opportunità. Alcune notizie bisogna che escano, ma non è detto che sul giornale debba venire proprio fuori tutto.» «Ma come, scusi!» fece Annika. «Chi mai può avere la capacità di giudicare cosa dev'essere reso noto e cosa no? Non posso mica essere io, e nemmeno i miei collaboratori, a cercare di indovinare cos'è meglio per l'inchiesta! Sarebbe un errore professionale imperdonabile anche solo tentare di farlo.» «Ma certo, naturale, non era questo che intendevo. Il fatto è che la faccenda dei codici degli allarmi proprio non doveva venire fuori.» «Già, e mi dispiace davvero. Come forse avrà notato, non si parla di codici nel testo. Si è trattato di una parola messa per sbaglio nel titolo. Sono desolata se questo ha in qualche modo danneggiato il lavoro della polizia. Perciò ritengo che sia molto importante avere un dialogo ancora più stretto, in futuro.» L'addetto stampa si mise a ridere. «Certo, Bengtzon, che lei riesce sempre a girare la frittata, eh? Se avessimo una collaborazione ancora più stretta, tra poco avrebbe il suo ufficio accanto a quello del commissario!»
«Non è mica una cattiva idea» osservò Annika sorridendo. «Oggi cosa succede?» Il poliziotto si fece serio. «In questa fase dell'inchiesta non posso dire niente.» «Coraggio, abbiamo diciassette ore davanti, prima che il giornale vada in stampa. Quello che mi dirà non verrà fuori che domattina. Qualcosa potrà ben lasciarsi scappare.» «Be', visto che la cosa ormai è nota posso dire che stiamo proseguendo le ricerche tra le persone che hanno accesso ai codici segreti degli allarmi. L'assassino è tra loro, ne siamo certi.» «Dunque gli allarmi dello stadio erano in funzione, la sera prima?» «Sì.» «Di quante persone si tratta?» «Un numero sufficientemente alto per renderci la vita difficile. Scusi, ma adesso devo rispondere a un altro telefono...» «Un'ultima cosa» disse Annika in fretta. «Christina Furhage ha preso un taxi dopo mezzanotte, la notte in cui è morta?» L'addetto stampa della polizia rimase in silenzio, e Annika sentì un altro telefono squillare in sottofondo. «Perché me lo chiede?» «Mi è stata data questa informazione. È corretta?» «Christina Furhage aveva un autista privato. L'autista l'ha accompagnata al locale dove si teneva la festa, poi è stato lasciato libero e ha anche partecipato alla festa. Christina Furhage aveva una carta di credito aziendale per la Taxi Stockholm ma, per quanto ne sappiamo, quella notte non è stata usata.» «E allora dov'è andata dopo la festa di Natale?» L'uomo rimase in silenzio un istante, poi disse: «È una di quelle cose che non devono essere rese note, sia per l'inchiesta che per Christina Furhage». Riattaccarono, e Annika si sentì più perplessa che mai. C'erano diversi particolari che non tornavano. Prima di tutto, i codici degli allarmi. Se erano così numerose le persone che vi avevano accesso, perché allora bisognava evitare di diffondere la notizia? Qual era l'oscuro segreto che si nascondeva nella vita perfetta di Christina Furhage? Perché Helena Starke aveva mentito? Telefonò alla sua fonte, ma non ottenne risposta. Se c'era qualcuno che aveva tutte le ragioni di essere arrabbiato, era il suo poliziotto. Chiamò il centralino e chiese se Berit o Patrik avevano fatto sapere a che
ora sarebbero arrivati. Verso le due, avevano detto entrambi quando erano andati a casa la notte prima. Annika appoggiò i piedi sulla scrivania e cominciò a passare in rassegna i giornali. Uno dei due quotidiani del mattino aveva trovato un passo interessante in uno dei protocolli giuridici che regolamentavano i rapporti tra il Socog e il Cio, il Comitato internazionale olimpico. Esistevano montagne di accordi, non solo relativi al diritto di organizzare la manifestazione sportiva ma anche riguardo alla sponsorizzazione internazionale, nazionale e locale. Il quotidiano aveva individuato una clausola che dava allo sponsor principale la possibilità di ritirarsi se lo stadio olimpico non fosse stato pronto entro il primo gennaio dell'anno in cui si sarebbero tenuti i Giochi. Annika non aveva voglia di leggere tutto il pezzo. Se non ricordava male c'erano migliaia di clausole, e il loro contenuto era irrilevante fino al momento in cui una delle parti non avesse manifestato l'intenzione di impugnarle. Ma l'autore dell'articolo non era riuscito a contattare lo sponsor principale per ottenere una dichiarazione. Sipario. Il "concorrente" aveva parlato con diversi collaboratori di Christina, tra cui il suo autista, ma non con Helena Starke. L'autista riferiva al giornale di aver accompagnato Christina al locale, che lei era serena e sorridente come al solito, né preoccupata né agitata, solo concentrata. Lui era molto triste per la sua morte, perché come datrice di lavoro era sempre stata piacevole e gentile. "Tra poco le spunteranno le ali" borbottò tra sé Annika. Per il resto, i giornali non riportavano nulla di nuovo. Ci volle un'eternità a sfogliarli tutti, erano traboccanti di pubblicità. Novembre e dicembre sono i mesi migliori in assoluto dal punto di vista economico, per i quotidiani svedesi, mentre gennaio e luglio sono i peggiori. Annika andò alla toilette per fare pipì e lavarsi le mani macchiate dell'inchiostro di stampa. Vide la propria immagine allo specchio, e non fu un incontro piacevole. Non ce l'aveva fatta a lavarsi i capelli, quella mattina, si era limitata a tirarli su con un fermaglio sulla nuca. Erano piatti e stopposi, e si dividevano in ciocche scure. Aveva gli occhi cerchiati e una leggera irritazione sulle guance. Si frugò le tasche in cerca di un po' di fondotinta con cui coprire i piccoli brufoli, ma non lo trovò. Eva-Britt Qvist era andata a pranzo, il suo computer era spento. Chiudeva tutto ogni volta che lasciava la sua postazione, aveva una gran paura che qualcuno ne approfittasse per inviare falsi messaggi dalla sua posta elettronica. Annika andò nella sua stanza e si spalmò un po' di crema idra-
tante sul viso, poi fece un giro in redazione. Che cosa aveva bisogno di sapere? Qual era il prossimo passo? Si diresse verso la zona dove si trovavano i testi di consultazione e cercò nell'Enciclopedia Nazionale il direttore generale del Socog: Christina Furhage, nata Faltin, unica figlia di una famiglia di buon livello ma di scarsi mezzi economici, cresciuta per un certo periodo presso dei parenti nel Norrland settentrionale. Carriera nel settore bancario, elemento di spicco nella campagna per la candidatura di Stoccolma ai Giochi, direttore generale del Socog. Coniugata con Bertil Milander, direttore di un gruppo di aziende consociate. Non c'era altro. Annika alzò gli occhi dal libro. Che il cognome da ragazza di Christina fosse Faltin le risultava nuovo. Da dove veniva, allora, il cognome Furhage? Passò al nominativo precedente, Carl Furhage, nato alla fine dell'Ottocento a Härnösand da una famiglia di proprietari terrieri, dirigente nel settore forestale. Sposato in terze nozze con Dorotea Adelcrona. Si era assicurato un posto nella storia e nell'Enciclopedia Nazionale grazie all'elargizione di ingenti borse di studio per giovani uomini che intendevano dedicarsi allo studio della selvicoltura. Morto negli anni Sessanta. Annika chiuse il volume di colpo. Si avvicinò rapidamente al terminale e digitò "Carl Furhage". Sette risultati. Da quando l'archivio era stato computerizzato, all'inizio degli anni Novanta, erano dunque stati scritti sette articoli su quell'uomo. Annika premette il comando "visualizza" ed emise un fischio. Mica male, come borse di studio, ogni anno veniva assegnato un quarto di milione di corone. Di Carl Furhage non si diceva altro. Chiuse il programma, andò a prendere il suo pass e uscì da una porta antincendio accanto alla redazione sportiva. Una ripida scala la condusse due piani più in basso. Superò un'altra porta che richiedeva sia il pass che un codice e si ritrovò in un lungo corridoio con il pavimento di linoleum consumato e rumorosi tubi di lamiera sul soffitto. In fondo c'era l'archivio di testi e immagini del giornale, protetto da doppie porte d'acciaio antincendio. Annika entrò e salutò il personale chino sui terminali. Gli schedari grigio ferro, dove si trovava tutto ciò che era stato scritto sulla "Stampa della Sera" e sul maggiore dei quotidiani del mattino fin dall'Ottocento, riempivano l'enorme stanzone. Lentamente, Annika si mise in cerca. Arrivò alla sezione biografie personali e lesse: A-Ac, Ad-Af, Ag-Ak; saltò alcune file e trovò lo schedario contrassegnato dalle iniziali "Fu". Tirò fuori un grosso cassetto, che scivolò agevolmente lungo le guide. Sfogliò fino ad arrivare a "Furhage, Christina", ma non c'era alcun "Furhage, Carl". Sospirò. Tentativo fallito.
«Se stai cercando i ritagli su Christina Furhage, la maggior parte è stata già portata via» disse qualcuno alle sue spalle. Era il responsabile dell'archivio, un ometto molto preparato con opinioni ben precise sui criteri di ordinamento del materiale. Annika sorrise. «In effetti sto cercando un altro Furhage, Carl Furhage.» «Abbiamo scritto di lui?» «Sì, ha messo su una fondazione che eroga borse di studio di una certa consistenza. Doveva essere ricco come un sultano.» «È morto?» «Sì, negli anni Sessanta.» «Allora, può darsi che non figuri più sotto il suo nome. I ritagli ci saranno di sicuro, ma archiviati secondo un altro criterio. Da che cosa pensi che dovremmo cominciare a cercare?» «Non ne ho idea. Borse di studio, magari?» Il capo dell'archivio sembrava dubbioso. «C'è parecchia roba. Ne hai bisogno oggi?» Annika sospirò e fece per andar via. «No, direi di no. Era solo un'intuizione. Grazie lo stesso...» «A proposito, per caso potremmo averlo in fotografia?» Annika si fermò. «Sì, magari in occasione di qualche ricorrenza, o roba del genere. Perché?» «Perché, in questo caso, nell'archivio fotografico ci dovrebbe essere ancora.» Annika andò dritta all'estremità opposta dello stanzone, passando davanti all'archivio dello sport e ai manuali di consultazione. Trovò il cassetto giusto e cercò "Furhage". Le buste con le foto di Christina lo riempivano quasi per intero, ma in fondo ce n'era una piccola e piatta dai bordi strappati. Sopra, un po' scolorita, la scritta "Furhage, Carl". La polvere vorticò, quando Annika tirò fuori la busta. Si sedette sul pavimento e rovesciò il contenuto. C'erano quattro fotografie. Due erano in bianco e nero formato tessera e ritraevano un uomo accigliato con i capelli radi e il mento volitivo: Carl Furhage a cinquant'anni e a settanta. La terza foto era stata scattata al matrimonio di un Carl Furhage anzianotto e di una donna in età avanzata, Dorotea Adelcrona. La quarta era la più grande. Era capovolta, Annika la girò ed ebbe un sussulto. Sotto la foto c'era una didascalia attaccata con il nastro adesivo: "Il direttore Carl Furhage, 60 anni oggi, con la moglie Christina e il figlio Olof". Annika dovette leggere il foglietto due volte prima di credere a ciò che vedeva. Quella era senza dubbio Christina
Furhage, una Christina incredibilmente giovane. Non poteva avere più di vent'anni. Era molto magra, con i capelli raccolti in una pettinatura da signora che non le donava affatto, e indossava un tailleur scuro con la gonna al polpaccio. Fissava timidamente la macchina fotografica, cercando di sorridere. Sulle sue ginocchia era seduto un incantevole bambino con i riccioli biondi che doveva avere un paio d'anni. Indossava una maglietta bianca e pantaloncini all'inglese con le bretelle, e teneva in mano una mela. L'uomo stava in piedi dietro il divanetto con un'espressione decisa e la mano appoggiata in un gesto protettivo sulla spalla della giovane moglie. Tutta la foto era estremamente rigida e impostata, e sembrava risalire più alla fine dell'Ottocento che agli anni Cinquanta, che era invece l'epoca in cui doveva essere stata scattata. Annika non aveva mai letto nemmeno una riga sul fatto che Christina era stata sposata con un direttore, per non parlare del figlioletto. Aveva due figli! Annika abbassò lo sguardo sulle proprie ginocchia. Non sapeva come né perché, ma sentiva che quella scoperta si sarebbe rivelata determinante. Un figlio non poteva scomparire. Si trovava da qualche parte, e sicuramente ne avrebbe avute di cose da raccontare su mamma Christina. Infilò di nuovo le foto nella busta e andò dal capo dell'archivio. «Vorrei portare via questa roba» disse. «Okay. Firma qui» rispose lui senza alzare gli occhi. Annika ritirò la busta e tornò al suo ufficio attraverso il tunnel sotterraneo. Aveva la sensazione che sarebbe stato un lungo pomeriggio. Il comunicato sull'abbandono di Evert Danielsson arrivò all'agenzia TT alle undici e trenta. Successivamente, fu mandato via fax a tutte le grandi redazioni attraverso l'ufficio stampa della segreteria generale del comitato olimpico: prima ai quotidiani del mattino e alla televisione, poi alla radio, alla stampa pomeridiana e ai giornali locali più importanti. Danielsson non era una figura di spicco, per cui la notizia del suo allontanamento non suscitò grande clamore. Dopo una quarantina di minuti dall'arrivo del comunicato stampa alla TT, che aveva sede sulla Kungsholmstorg, uscì una breve agenzia la quale riferiva che il segretario generale lasciava i suoi incarichi attuali per occuparsi delle ripercussioni causate dalla morte di Christina Furhage. Mentre i fax si susseguivano, Evert Danielsson era seduto nel suo ufficio. Avrebbe mantenuto la sua stanza finché non fossero state definite le sue nuove mansioni. Il senso di angoscia era come un martello nella fronte.
Non riusciva a concentrarsi nemmeno per leggere una sola riga di una relazione o di un giornale. Aspettava che i lupi attaccassero, che la caccia si scatenasse. Adesso era una preda disponibile, e il branco avrebbe presto cominciato a mordicchiarlo alle gambe. Con sua sorpresa, il telefono non aveva ancora preso a squillare. In qualche modo, si era immaginato che la situazione sarebbe stata la stessa che si era verificata dopo la morte di Christina: tutti i telefoni dell'ufficio che suonavano senza interruzione, contemporaneamente. Invece niente. Un'ora dopo l'uscita del comunicato stampa, il maggiore quotidiano del mattino si fece vivo per avere una dichiarazione. Evert Danielsson si accorse che la sua voce suonava normale e controllata mentre rispondeva che, da parte sua, considerava la faccenda come una promozione, che qualcuno doveva pur mettere ordine nel caos provocato dalla morte di Christina Furhage. La giornalista si accontentò della sua spiegazione. La segretaria entrò nell'ufficio e pianse un po', per poi chiedergli se poteva fare qualcosa per lui. Desiderava un caffè? Un dolce? Magari un'insalata? Lui la ringraziò ma declinò l'offerta, non sarebbe riuscito a mandare giù niente. Afferrò il bordo della scrivania con le mani e aspettò la telefonata successiva. Annika stava scendendo in mensa per mettere qualcosa sotto i denti, quando Ingvar Johansson la raggiunse con un foglio in mano. «Questo non è uno dei tuoi?» chiese tendendole un comunicato stampa della segreteria olimpica. Lei lo prese e lesse due righe. «Be', dire uno dei miei è un po' un'esagerazione» rispose. «Ha risposto lui al telefono una volta che ho chiamato. Perché, secondo te la cosa ci interessa?» «Non lo so, pensavo che fosse il caso di informarti.» Annika piegò il foglio. «Certo. Sta succedendo qualcos'altro?» «No, non nel tuo settore» rispose lui andandosene. Brutto stronzo, pensò Annika, e deviò verso la caffetteria. Tanto, le sembrava di non avere fame. Prese un'insalata di pasta e una bibita e tornò nel suo ufficio. Divorò l'insalata nel giro di pochi minuti e poi tornò al bar a comprare altre tre bibite. Stava bevendo la seconda quando telefonò alla segreteria olimpica chiedendo di parlare con Evert Danielsson. L'uomo aveva una voce vagamente assente. Disse che vedeva quel cambiamento di incarico come una promozione. «Ah. E di cosa si occuperà, adesso?» chiese Annika.
«Non è ancora definito» rispose Evert Danielsson. «Allora come fa a sapere che si tratta di una promozione?» L'uomo all'altro capo del filo rimase in silenzio. «Be', ecco, non considero la cosa come un licenziamento» disse poi. «Perché, invece lo è?» domandò Annika. Evert Danielsson rifletté un attimo. «Dipende dai punti di vista.» «Certo. Ma lei ha dato le dimissioni?» «No.» «E chi ha preso la decisione di farle cambiare lavoro, il consiglio d'amministrazione?» «Sì, hanno bisogno di qualcuno che metta ordine nello scompiglio che si è venuto a creare dopo...» «E non avrebbe potuto farlo lei nelle sue funzioni di segretario generale?» «Naturalmente.» «A proposito, lo sapeva che Christina Furhage ha un figlio?» «Un figlio?» chiese lui confuso. «No, ha una figlia. Lena.» «Ha anche un figlio. Sa dove si trovi?» «Non ne ho idea. Un figlio, ha detto? Non ne ho mai sentito parlare.» Annika rifletté un istante. «Okay» disse poi. «Lei sa quale tra i dirigenti aveva una relazione con una donna che sette anni fa dovette lasciare il suo incarico alla segreteria generale?» Evert Danielsson si accorse di essere rimasto a bocca spalancata. «Da chi ha avuto questa notizia?» domandò quando si riebbe dalla sorpresa. «Un trafiletto sul giornale. Lei sa di chi si trattava?» «Sì, lo so. Perché?» «Come andarono le cose?» Evert Danielsson rifletté un attimo, e poi chiese: «Ma lei cosa vuole, in realtà?». «Non lo so» rispose Annika, ed Evert Danielsson si accorse che era sincera. «Desidero solo sapere in che modo questa faccenda ha a che fare con il resto.» Rimase a dir poco sorpresa quando l'uomo la invitò a passare da lui per un colloquio. Berit e Patrik non erano ancora arrivati in redazione quando Annika partì alla volta del porto di Hammarby. «Mi trovi sul cellulare» disse a Ingvar Johansson, che le fece un breve
cenno del capo. Annika prese un taxi e pagò con la carta di credito del giornale. Il tempo era orrendo. La neve si era completamente sciolta lasciando sul terreno una poltiglia acquitrinosa. La zona sud del porto di Hammarby era davvero una parte squallida della città, con il villaggio olimpico vuoto e ancora incompleto, gli anonimi uffici del comitato e lo stadio sventrato. Il fango qui fluiva senza freno, dato che aiuole e cespugli piantati nell'estate non avevano fatto in tempo a mettere radici. Cercò di saltare le pozzanghere più grosse, ma si sporcò ugualmente i pantaloni di fango. La reception del Socog era molto ampia, ma in confronto gli uffici risultavano tanto più angusti e spogli. Annika li paragonò con quelli dell'unico edificio amministrativo che conosceva bene, quello dell'Unione Comuni Svedesi in cui lavorava Thomas. Erano locali più eleganti e nello stesso tempo più funzionali. La segreteria generale del comitato olimpico appariva decisamente spartana: pareti bianche, pavimenti in plastica, lampade al neon sui soffitti, librerie di compensato, scrivanie che avrebbero potuto essere dell'Ikea. L'ufficio di Evert Danielsson si trovava a metà di un lungo corridoio, e non era molto più grande rispetto a quelli dei semplici impiegati, cosa che ad Annika parve alquanto strana. Un divano leggermente sfondato, una scrivania e qualche scaffalatura per i libri: non c'era altro. E pensare che lei era convinta che un segretario generale dovesse avere i mobili di mogano e un ufficio panoramico! «Cosa le fa pensare che Christina avesse un figlio?» chiese Evert Danielsson invitandola a sedersi sul divano. «Grazie» disse lei accomodandosi. «Ho una sua foto.» Si sfilò il cappotto ma decise di non tirare fuori blocco e penna, studiando invece l'uomo che aveva davanti. Era seduto alla scrivania e si teneva al ripiano con una mano. La cosa faceva una strana impressione. Aveva circa cinquant'anni, i capelli grigio acciaio e un aspetto piuttosto attraente. Ma gli occhi erano stanchi e la bocca tirata. «Devo dire che ho qualche dubbio in proposito» fece lui. Annika estrasse dalla borsa una copia dell'immagine che ritraeva la famiglia Furhage. L'originale l'aveva restituito all'archivio, perché non lo si poteva far uscire dall'edificio. Tanto, ormai, grazie allo scanner si impiegava solo qualche minuto a copiare una foto su carta. Porse la foto a Evert Danielsson, che la esaminò con sorpresa crescente. «Certo che se ne sentono e se ne vedono delle belle» disse. «Non avevo
la più pallida idea di questa storia.» «Quale? Del marito o del figlio?» «Di entrambi, a dire il vero. Christina non parlava volentieri della sua vita privata.» Annika aspettò in silenzio che l'uomo proseguisse. Non capiva bene come mai l'avesse invitata a venire lì. Lui si contorse un po' sulla sedia e poi aggiunse: «Mi aveva chiesto della segretaria licenziata». «Già, ho letto un trafiletto sulla faccenda, in archivio. Ma non si diceva né che era una segretaria né che era stata licenziata, solo che lavorava qui e che aveva lasciato il lavoro.» Evert Danielsson annuì. «Christina voleva che così apparisse. All'esterno, doveva sembrare tutto corretto. Ma Sara era un'ottima segretaria, e sarebbe rimasta di sicuro se non fosse stato per...» L'uomo s'interruppe. «Esiste una regola, nell'organizzazione olimpica, che stabilisce che due dipendenti nello stesso luogo di lavoro non possono avere una relazione amorosa» continuò. «Christina era irremovibile, su questo punto. Diceva che disturbava il lavoro, diminuiva la concentrazione, minava la lealtà, esponeva gli altri collaboratori a una situazione di inutile stress e li costringeva a riguardi particolari.» «Chi era l'uomo?» chiese Annika. Evert Danielsson sospirò. «Io.» Annika si accorse di aver alzato un sopracciglio. «E la regola di chi era?» «Di Christina. E valeva per tutti.» «Ancora adesso?» Evert Danielsson lasciò andare il ripiano della scrivania. «Non lo so. Ma una cosa è certa: per quanto mi riguarda, è indifferente.» Si coprì il viso con le mani, e un singhiozzo gli scosse il corpo. Annika aspettò in silenzio che l'uomo si ricomponesse. «Io amavo davvero Sara, ma allora ero sposato» disse alla fine, appoggiando una mano sul ginocchio e afferrando di nuovo il ripiano con l'altra. Aveva gli occhi asciutti ma un po' arrossati. «Adesso non lo è più?» Lui fece una risatina amareggiata. «Eh, no. Qualcuno raccontò a mia moglie di Sara, che prese le distanze da me quando non riuscii a farle mantenere il lavoro. E così sono rimasto in braghe di tela: senza moglie, senza figli e senza il mio grande amore.»
Tacque per qualche istante e poi riprese, quasi parlando a se stesso: «A volte, mi chiedo se mi abbia sedotto perché credeva che la cosa l'avrebbe potuta aiutare nella carriera. Quando poi è successo il contrario, mi ha scaricato senza esitazioni». Rise di nuovo, una risata breve e piena di amarezza. «Allora, forse, non è stata una gran perdita, nonostante tutto» disse Annika. Lui alzò gli occhi. «Già, ha ragione. Ma cosa pensa di fare con questa storia, vuole scrivere un articolo?» «Non adesso, comunque» rispose Annika. «Forse mai. Avrebbe qualcosa in contrario?» «Non lo so, dipende da quello che scrive. Cosa sta cercando, in realtà?» «E lei perché mi ha invitato qui?» Evert Danielsson fece un sospiro. «In giornate come queste sono molte le cose che tornano in superficie, pensieri, emozioni, ci si sente in preda al caos. Lavoro qui dall'inizio, avrei così tanto da raccontare...» Annika rimase in attesa. L'uomo abbassò gli occhi sul pavimento, si perse nel proprio silenzio. «Christina era una brava principale?» chiese Annika alla fine. «Era il presupposto perché io potessi ottenere questa posizione» rispose Evert Danielsson mollando il ripiano della scrivania. «Adesso lei non c'è più e io sono fuori gioco. Ora, però, penso che andrò a casa.» Si alzò, e Annika lo seguì. Si rimise il cappotto, si appese la borsa alla spalla, gli strinse la mano e lo ringraziò per averla voluta incontrare. «A proposito, dov'è l'ufficio di Christina?» «Non l'ha visto? Proprio all'ingresso, se vuole l'accompagno, così glielo mostro.» Indossò il cappotto, si mise una sciarpa al collo, prese la ventiquattrore e guardò pensieroso la propria scrivania. «Oggi non c'è bisogno che mi porti via nemmeno un foglio.» Spense la luce e uscì con la sua valigetta vuota, chiudendo a chiave. Infilò la testa nella stanza accanto e avvertì: «Io vado. Se telefona qualcuno, rimandi al comunicato stampa». Camminarono uno di fianco all'altra fino in fondo al corridoio bianco. «Christina aveva diversi uffici» spiegò. «Questo era quello di tutti i giorni, per così dire. Qui ci sono due delle sue segretarie.» «E Helena Starke?» chiese Annika. «La sua "torpedo", vuol dire. Ha l'ufficio vicino a quello di Christina»
disse Evert Danielsson girando l'angolo. «Eccolo qui.» La porta era chiusa, l'uomo sospirò di nuovo. «Non ho la chiave. Be', comunque non c'è niente di speciale, una stanza d'angolo con le finestre ai lati, una grande scrivania con due computer, zona salotto con tavolino basso...» «Mi sarei aspettata qualcosa di più sfarzoso» commentò Annika ricordando una foto d'archivio scattata in una fantastica sala con una scrivania inglese, boiserie di legno scuro e lampadario di cristallo. «Be', qui sbrigava il grosso del lavoro. L'ufficio di rappresentanza era in città, subito dietro a Rosenbad. Lì lavora la sua terza segretaria, si tengono tutte le riunioni e le trattative, là riceveva la stampa e i vari ospiti... Vuole un passaggio da qualche parte?» «No, grazie, avevo pensato di andare a trovare un'amica nella Lumahuset» rispose Annika. «Non può mica andarci a piedi, con questo fango» disse Evert Danielsson. «L'accompagno io.» Aveva una Volvo di servizio nuova di zecca - ovviamente, la Volvo era uno degli sponsor principali - azionò un telecomando interno alla chiave. Accarezzò la vernice sul tettuccio prima di aprire la portiera. Annika si sedette dalla parte del passeggero, si allacciò la cintura e chiese: «Secondo lei chi è che l'ha fatta saltare in aria?». Evert Danielsson avviò l'auto e diede gas un paio di volte prima di innestare con delicatezza la retromarcia e accarezzare il volante. «Mah. Una cosa è certa: c'erano diverse persone che ne avrebbero avuto motivo.» Annika sussultò. «Cosa intende dire?» L'uomo non rispose e continuò a guidare in silenzio per i cinquecento metri che separavano gli uffici olimpici dalla Lumahuset. Si fermò fuori dal cancello. «Vorrei sapere se ha intenzione di scrivere qualcosa su di me.» Annika gli diede il suo biglietto da visita pregandolo di telefonarle se fosse saltato fuori qualcosa di particolare, ringraziò per il passaggio e saltò giù. "Una cosa è certa" pensò tra sé usando le stesse parole del segretario generale, mentre le luci della Volvo scomparivano nella foschia piovigginosa "questa storia diventa sempre più complicata." Salì negli studi televisivi dove lavorava Anne Sapphane. Anne era ancora all'opera e sembrò quasi sollevata dall'interruzione. «Ho quasi finito» disse. «Vuoi del glögg?»
«Mah, soltanto se è leggero» rispose Annika. «Avrei bisogno di fare qualche telefonata.» «Usa pure l'apparecchio sulla mia scrivania. Io, intanto, finisco qui.» Annika andò alla postazione di Anne Sapphane e gettò il cappotto sulla scrivania. Cominciò chiamando Berit. «Ho parlato con l'autista privato» disse Berit. «L'aveva già fatto il "concorrente", ieri, ma mi ha detto delle cose nuove. Per esempio, conferma che Christina aveva con sé il portatile: l'aveva dimenticato, e così sono dovuti tornare indietro a prenderlo. Erano solo due mesi che lavorava per lei. Pare che ci fosse un turnover notevole, tra i suoi autisti.» «Ah, sì?» fece Annika. Sentì che Berit stava sfogliando il suo blocco. «Mi ha anche raccontato che aveva una gran paura di essere seguita. Lui aveva l'ordine di non fare mai la strada più corta per andare a casa, dalla segreteria generale. E doveva anche controllare l'auto con cura tutti i giorni. Christina aveva paura delle bombe.» «Tombola!» «E cos'altro... Ah, ecco, non doveva assolutamente far avvicinare alla macchina la figlia, una certa Lena Vattelapesca. Strano, vero?» Annika si lasciò scappare un sospiro. «Sembra che la nostra Christina avesse sviluppato una vera e propria paranoia. Comunque, per noi viene fuori un articolo eccezionale: Christina aveva paura di saltare in aria. La faccenda della figlia, però, la dobbiamo lasciare fuori.» «Certo. Sto inseguendo la polizia per farmi rilasciare una dichiarazione.» «E cosa sta facendo Patrik?» «Non è ancora arrivato, ha lavorato quasi tutta la notte. Tu dove sei?» «Da Anne Sapphane. Prima ho fatto una chiacchierata con Evert Danielsson. È a spasso.» «Buttato fuori?» «Non proprio. Non lo sapeva nemmeno lui, con esattezza. Mi sa che non vale neanche la pena di scriverne, a chi vuoi che importi? Non era disposto né a piangere sulla sua sorte né ad andare all'attacco.» «E allora, cos'ha detto?» «Non molto. Era stato lui ad avere quella relazione all'interno della segreteria generale, abbiamo parlato soprattutto di quella. E mi ha fatto capire che Christina aveva molti nemici.» «Eh, già, piano piano salta fuori tutto» disse Berit. «Cos'altro possiamo fare?» «Christina era già stata sposata e aveva un figlio. Pensavo di svolgere
qualche ricerca in proposito.» «Un figlio? Ma come, ieri sera ho scritto tutta la storia della sua vita, di figli non ce n'erano.» «È stata brava a nasconderlo. Mi chiedo se abbia altri scheletri nell'armadio...» Riattaccarono, e Annika tirò fuori il suo blocco. Sul retro della copertina aveva annotato il telefono di Helena Starke. Compose il numero, le cui prime cifre erano 702, come spesso accade per gli abitanti della Ringvägen, e sperò in bene. Helena Starke aveva dormito malissimo, si era svegliata ripetutamente assillata dagli incubi più tremendi. Quando poi si era alzata e aveva guardato fuori dalla finestra, le era venuta voglia di tornare a letto. Pioveva, una maledetta pioggia grigiastra che annientava tutti i colori dell'ampia via sottostante. La puzza che veniva dall'ingresso era aumentata fino a diventare insopportabile, e lei si era infilata un paio di jeans per scendere in lavanderia e prenotare la lavatrice comune del condominio. Naturalmente, non c'era un turno libero fino a dopo Capodanno. Così, aveva svuotato una delle macchine in funzione, aveva buttato i panni bagnati in una cesta ed era andata a prendere il suo tappeto. Lo aveva fatto entrare a forza nella macchina, ci aveva messo una montagna di detersivo e si era affrettata ad andarsene. Poi aveva fatto una lunga doccia per togliersi l'odore di vomito dai capelli, e finalmente aveva lavato il pavimento dell'ingresso. Si era soffermata un attimo sulla possibilità di andare a riprendere il tappeto, ma aveva lasciato perdere: meglio aspettare la sera, in attesa che alle bisbetiche offese fosse sbollita la rabbia. Andò in cucina per accendersi una sigaretta. A Christina non piaceva che fumasse, ma ora non aveva più importanza. Niente aveva più importanza. Rimase in piedi accanto al tavolo, e aveva appena fatto il secondo tiro dalla sigaretta quando il telefono sul davanzale si mise a squillare. Era la tizia del giorno prima, quella della "Stampa della Sera". «Non lo so se ho voglia di parlare con lei» disse Helena Starke. «Be', non è necessario che lo faccia... Sta fumando?» «Sì, perché? A lei che gliene frega?» «Niente. Perché la chiamano la "torpedo" di Christina?» La donna rimase di sasso. «Si può sapere che cazzo vuole da me?» «Niente, come le ho detto. È Christina che mi interessa. Perché non voleva far sapere di suo figlio? Si vergognava di lui?»
La testa di Helena Starke prese a girare. Si sedette e spense la sigaretta. Come faceva, quella lì, a conoscere la storia del figlio di Christina? «È morto» disse. «Il bambino è morto.» «Morto? E quando?» «Quando aveva... cinque anni.» «Davvero? Che tragedia. Cinque anni, proprio come Kalle.» «Chi?» «Mio figlio, ha cinque anni anche lui. Che cosa tremenda! E di cosa morì?» «Melanoma maligno, cancro alla pelle. Christina non ha mai superato il trauma. Non voleva parlarne.» «Mi dispiace, io... Scusi. Non avevo idea...» «Voleva sapere qualcos'altro?» chiese Helena Starke cercando di suonare il più possibile fredda. «Sì, diverse cose, in effetti. Ha tempo di parlare cinque minuti?» «No, devo pensare alla lavatrice.» «La lavatrice?» «Perché, le sembra incredibile?» «No, no, è solo che... Voglio dire, lei conosceva Christina così bene e le era talmente vicina, non pensavo che si sarebbe occupata di cose come il bucato a così breve tempo da...» «Sì, la conoscevo bene!» gridò Helena Starke, mentre le lacrime prendevano a scorrerle sul viso. «La conoscevo meglio di tutti!» «A parte la famiglia, forse?» «Già, proprio, la sua maledetta famiglia! Il vecchio rincoglionito e quella pazza che aveva per figlia. Lo sapeva lei, che è una piromane? Proprio così, matta da legare, è andata dallo psichiatra per tutta l'adolescenza. Dava fuoco a tutto quello che trovava. Il centro di rieducazione di Botkyrka, quello bruciato sei anni fa, se lo ricorda? È stata lei, Lena. Alla faccia del caso psichiatrico, non era nemmeno da tenere in casa!» Si mise a piangere, senza pudore. Si accorgeva da sola di quanto il suo pianto suonasse straziante, come quello di un animale in trappola. Riattaccò e lasciò cadere le braccia sul tavolo della cucina, la fronte finì sulle briciole rimaste sul ripiano. Versò tante e tante lacrime, finché fuori non fu tutto buio e dentro di lei non rimase che il vuoto. Annika quasi non credeva alle sue orecchie. Rimase seduta a lungo con il ricevitore attaccato all'orecchio ad ascoltare il silenzio seguito al grido
lacerante di Helena Starke. «Cosa c'è? Perché stai seduta così?» chiese Anne Sapphane mettendole davanti sulla scrivania una tazza di glögg caldo e qualche biscotto allo zenzero. «Cavolo» disse Annika abbassando lentamente il telefono. Anna Sapphane smise di masticare il suo biscotto. «Hai un'aria distrutta. Cos'è successo?» «Ho appena parlato con una donna che conosceva Christina Furhage. Sono un po' scossa.» «Perché?» «È scoppiata a piangere, a dirotto. È sempre triste quando ci si accorge di aver spinto un po' troppo.» Anne Sapphane annuì con aria comprensiva e indicò la tazza e i biscotti. «Vieni con me in studio, ti faccio vedere l'inizio del nostro programma di Capodanno. S'intitola Le cose che ricordiamo... e che loro vorrebbero dimenticare. Parla di personaggi famosi e delle loro brutte figure.» Annika lasciò il cappotto e si mise la borsa sulla spalla, seguendo l'amica con i biscotti in una mano e il glögg nell'altra. Gli studi erano quasi vuoti, le produzioni della stagione erano ormai pronte e le prossime si sarebbe cominciato a girarle solo dopo le feste. «Sai già di cosa ti occuperai in futuro?» chiese Annika mentre scendevano la scala a chiocciola che portava al reparto tecnico. Anne Sapphane fece una smorfia. «Magari! In ogni caso, spero di evitare Il divano delle donne, ho girato e rigirato la stessa frittata centinaia di volte. Lui mi ha tradito con l'amica, l'amica mi ha tradito con mio figlio, mio figlio mi ha tradito con il mio cane... eh, no, adesso basta...» «E cosa ti piacerebbe fare, invece?» «Qualsiasi cosa. Forse vado in Malaysia per un nuovo programma di primavera. Due gruppi di persone dovranno cavarsela a vivere su un'isola deserta il più a lungo possibile senza essere rimandati a casa dal voto del pubblico. Bello, no?» «Veramente, mi sembra una barba» rispose Annika. Anne Sapphane la guardò con aria compassionevole e imboccò il corridoio successivo. «Meno male che non sei tu la responsabile del palinsesto. Secondo me, susciterà un gran scalpore e otterrà un enorme successo di pubblico. Ecco, siamo arrivate.» Entrarono in una stanza piena di monitor, videoregistratori, tastiere, pannelli di controllo e cavi. Era decisamente più grande delle cabine nelle
redazioni dei telegiornali. C'erano persino un divano, due poltrone e un tavolino in un angolo. Su una sedia girevole, davanti alla console più grossa, era seduto il redattore, un ragazzo che curava il montaggio del programma. Guardava un monitor su cui scorrevano velocemente le immagini. Annika lo salutò e si sedette su una delle poltrone. «Manda la sigla» disse Anne stravaccandosi sul divano. Il giovane si allungò a prendere una grossa cassetta e la infilò in uno dei videoregistratori. Lo schermo più grande si accese e comparve un'immagine sfarfallante seguita dall'orologio per il conto alla rovescia. Poi partì la sigla del programma di Capodanno e un noto conduttore entrò nello studio, acclamato dal pubblico. Presentò la trasmissione, che si sarebbe occupata di politici che avevano vomitato al Café Opera, dei divorzi più sensazionali dell'anno, delle papere televisive più clamorose e così via. «Okay, abbassa pure il volume» disse Anne. «Cosa ne pensi? Mica male, no?» Annika annuì e bevve un sorso dalla tazza. Il vino era piuttosto forte. «La conosci una certa Helena Starke?» Anne abbassò il biscotto che si stava portando alla bocca. «Starke... il nome non mi è nuovo. Cosa fa?» «Lavorava insieme a Christina Furhage alla segreteria generale del comitato olimpico. Abita a Södermalm, sui quarant'anni, capelli neri corti...» «Helena Starke, ma sì, adesso ho capito! È una macho-lesbica militante.» Annika guardò l'amica con aria scettica. «Ma dài, non dirne più!» «Davvero, fa parte dell'Associazione svedese per la libertà sessuale, scrive articoli sull'argomento e roba del genere. Sta cercando di togliere di dosso alle lesbiche il marchio di donnicciole, per esempio parla in maniera piuttosto critica del sesso soft.» «E tu come lo sai?» Questa volta toccò ad Anne Sapphane assumere un'espressione scettica. «Senti un po', cosa pensi che faccia io qui dalla mattina alla sera? Non c'è un solo fricchettone in questo paese di cui non abbia il numero di telefono. Come credi che li mettiamo insieme, i nostri programmi?» Annika abbozzò un cenno di scusa e scolò l'ultimo sorso di glögg. «La Starke è stata ospite del Divano?» «No, non sarebbe mai venuta. Ora che ci penso, ci abbiamo provato diverse volte. Diceva che rispondeva della sua sessualità ma non aveva intenzione di farsi sfruttare.»
«Ha fatto bene» commentò Annika. Anne Sapphane sospirò. «Per fortuna non tutte ragionano come lei, altrimenti non ci sarebbe nessun Divano delle donne. Ancora un po' di vino?» «No, grazie, devo tornare nel nido di serpenti. Si staranno chiedendo tutti dov'è finito il coniglio.» Il pomeriggio di Anders Schyman era stato interessante. Aveva avuto una riunione con due rappresentanti della divisione marketing, il responsabile delle tirature e quello dei costi. Due economisti che avevano come compito quello di ficcare il naso in cose che non li riguardavano. Entrambi avevano bocciato i suoi investimenti in un giornalismo sociale e d'inchiesta di un certo livello. Il responsabile delle tirature aveva tirato fuori i suoi lucidi mostrandogli grafici e percentuali in cui si confrontavano, giorno per giorno, i tre maggiori giornali del pomeriggio. «Qui, per esempio, il "concorrente" ha venduto esattamente 43.512 copie in più rispetto alla "Stampa della Sera"» aveva detto indicando una data all'inizio di dicembre. «Il tipo di civette seriose con cui siamo usciti quel giorno non sarebbe mai stato usato dalla concorrenza.» Il ragioniere aveva rincarato la dose. «Tutto l'investimento in qualità dell'informazione fatto all'inizio di dicembre ha dato risultati tutt'altro che buoni. Non abbiamo aumentato granché, rispetto all'anno scorso. Fra l'altro, per realizzarlo, lei ha usato fondi destinati ad altre voci di bilancio.» Mentre gli uomini del marketing parlavano, Anders Schyman si era rigirato una penna tra le dita con aria pensosa. Quando i due avevano finito, aveva detto: «Sì, certo, quel che dite in parte è vero. Per quanto riguarda quel giorno in particolare, a posteriori possiamo senz'altro concordare che la civetta non è stata delle migliori, ma dobbiamo anche chiederci: che alternative avevamo? La notizia dello scoperto nel bilancio della Difesa non avrà provocato l'assalto alle edicole, ma era una notizia nostra e gli altri media ce ne hanno dato atto. Lo stesso giorno il "concorrente" è uscito con un inserto speciale sui regali di Natale poco costosi e con l'intervista a un noto personaggio televisivo che parlava dei suoi disturbi alimentari. Dal punto di vista della tiratura è improprio basarsi su un singolo giorno». Il direttore si era alzato e si era avvicinato alla finestra che dava sull'ambasciata russa. Fuori era tutto grigio. «L'inizio di dicembre dell'anno scorso, come forse ricorderete, è stato e-
stremamente denso di avvenimenti. Un aereo era precipitato durante l'atterraggio all'aeroporto di Bromma, il calciatore più famoso del paese era stato colto a guidare in stato di ebbrezza ed era stato buttato fuori dalla sua squadra, un divo della televisione era stato condannato per violenza carnale. Le vendite di dicembre, l'anno passato, sono state da record, e il fatto che quest'anno siano ulteriormente aumentate, seppure di poco, non è affatto un fallimento, al contrario. Nonostante abbiamo investito in maniera significativa su notizie di prima mano e inchieste nostre abbiamo migliorato i risultati. Aver perso la gara contro il "concorrente" in una sola giornata non significa che uno sguardo vigile sul modo in cui viene gestito il potere sia una priorità sbagliata. Trovo che sia troppo presto per trarre questa conclusione.» «Ma la nostra economia si basa sui progressi di vendita nelle singole giornate» gli aveva ricordato seccamente il ragioniere. «Soltanto se si privilegia una visione superficiale» aveva risposto Anders Schyman voltandosi verso i due uomini. «Quello che dobbiamo costruire adesso è il nostro capitale di credibilità. Per troppo tempo questo aspetto è stato trascurato. C'è bisogno di civette che fanno vendere, con le tettone bionde e gli incidenti d'auto, ma l'investimento in qualità, sulla lunga distanza, deve continuare.» «Be'» aveva obiettato il ragioniere «dipende dalle risorse che abbiamo.» «O che riteniamo di avere» aveva ribattuto Schyman. «Per quanto riguarda gli storni all'interno del bilancio, nell'ambito del quadro stabilito, ho la delega del consiglio d'amministrazione.» «Penso che sia una questione che vale la pena di rimettere all'ordine del giorno» aveva detto il ragioniere. Anders Schyman aveva sospirato. «Troverei spiacevole dover riprendere un'altra volta questa discussione. Non mi va troppo a genio.» «E invece dovrebbe» aveva insistito il ragioniere agitando le sue cartelline di plastica. «Tra le nostre informazioni c'è la formula per il vero successo di un giornale del pomeriggio.» Anders Schyman si era messo di fronte all'uomo, aveva appoggiato le mani sui braccioli della sua sedia, si era chinato su di lui e aveva detto: «Eh, no, caro signore. Su questo si sbaglia di grosso. Secondo lei perché sono qui, allora? Perché non sistemate una calcolatrice in questa stanza, risparmiando il mio stipendio, se basta mettere insieme i più e i meno? I giornali del pomeriggio e le loro civette non si fanno con le analisi delle vendite, si fanno con il cuore. Invece di venire qui con queste critiche re-
dazionali di ben poca sostanza, gradirei che vi concentraste sul marketing vero e proprio. Quando vendiamo di più? E come mai? Possiamo migliorare la distribuzione? Dobbiamo cambiare gli orari dell'andata in stampa? Possiamo guadagnare, in termini di tempo, stampando via satellite in altri luoghi? Ecco, cose di questo genere». «Tutto ciò è già stato esaminato a fondo» aveva risposto freddamente il ragioniere. «E allora esaminatelo ancora, e meglio» aveva ribattuto Anders Schyman. Quando i due si erano richiusi la porta alle spalle, si era lasciato scappare un sospiro. Nonostante tutto, quelle discussioni non erano prive di utilità. Dieci anni fa non se ne sarebbe potuto parlare: a quell'epoca il reparto marketing e la direzione della redazione erano compartimenti stagni. La crisi di un paio di anni prima aveva fatto crollare tutti i muri, e adesso lui considerava suo compito quello di costruire almeno dei piccoli argini tra "numeri" e "lettere". Quelli del marketing non dovevano credere di poter decidere sul contenuto redazionale del giornale, ma la loro competenza aveva un'importanza vitale per il suo successo, questo lo capiva perfettamente. Sapeva benissimo che i dati di vendita riguardo alle singole giornate erano importantissimi, e trascorreva diverse ore ogni settimana con l'analista delle tirature. Ma ciò non significava che i ragionieri dovessero insegnargli il suo mestiere. Anders Schyman si sedette al computer e si collegò alla TT, leggendo velocemente tutte le agenzie uscite nel corso delle ultime ventiquattr'ore. Erano duecento circa, e riguardavano lo sport, la cronaca interna e quella estera. Quelle informazioni rappresentavano il nucleo centrale su cui si basavano tutte le redazioni svedesi, a partire dal quale si operava la selezione delle notizie. Anders Schyman pensò all'ultima trovata del ragioniere. In quell'occasione era stato presentato il "Lettore", l'immagine standardizzata del lettore medio della "Stampa della Sera". L'uomo con il berretto a visiera, cinquanta quattro anni, che comprava il giornale da quando ne aveva venti. Tutte le testate del pomeriggio hanno i loro lettori fedelissimi, quelli che camminerebbero sui carboni ardenti pur di trovare il loro quotidiano. Venivano chiamati "Pelle d'elefante" e, nel caso della "Stampa della Sera", erano una razza in via d'estinzione, Anders Schyman se ne rendeva conto. La categoria successiva veniva semplicemente definita "Lettori fedeli" e consisteva nel gruppo che comprava il giornale diverse volte alla settima-
na. Se questi lettori smettevano di acquistare la loro copia anche solo una volta alla settimana, le conseguenze per la tiratura erano devastanti. La crisi di due anni prima era iniziata proprio così. Ora si stava cominciando a individuare nuovi gruppi, Anders Schyman ne era certo, ma questi non avevano ancora messo fuori gioco l'"uomo con il berretto a visiera". Era solo una questione di tempo, e per portare avanti questo lavoro aveva bisogno di interlocutori in grado di dialogare con lui in modo nuovo. Non si poteva continuare a fare il giornale soltanto con giornalisti uomini sopra i quarantacinque anni. Di questo, Anders Schyman era assolutamente convinto, e aveva chiaro in testa come avrebbe dovuto agire per cambiare la situazione. Quando arrivò in redazione, ad Annika girava un po' la testa, dopo la tazza di vino caldo. Si concentrò cercando di mantenere un'andatura costante, e non rivolse la parola a nessuno mentre si dirigeva verso il suo ufficio. La postazione di Eva-Britt Qvist era vuota. Era già andata a casa, anche se avrebbe dovuto fermarsi fino alle cinque. Annika si tolse il cappotto e lo gettò sul divano, per poi andare a prendere due tazze di caffè. Perché aveva bevuto quel maledetto glögg? Cominciò telefonando alla sua fonte. Era occupato. Allora si mise a scrivere quello che aveva saputo dei figli di Christina: il bambino morto e la figlia piromane. Scolò la prima tazza di caffè e si portò l'altra a un terminale da cui fece una ricerca d'archivio. Era esatto, a Botkyrka sei anni prima era bruciato un centro rieducativo giovanile. Era stata una quattordicenne a dare fuoco all'edificio, non c'erano stati feriti ma lo stabile era andato completamente distrutto. Fino a quel punto, dunque, le informazioni date da Helena durante il suo sfogo corrispondevano a verità. Tornò in ufficio e richiamò la sua fonte. «Lo so che ha tutti i diritti per essere arrabbiato per la faccenda dei codici degli allarmi» fu la prima cosa che disse quando lo udì rispondere. L'uomo al telefono sospirò. «Arrabbiato? Lei ha buttato al vento la nostra pista migliore, perché pensa che sia arrabbiato? Sono soltanto disperato e incazzato, soprattutto con me stesso e con la mia maledetta abitudine di spiattellare informazioni in giro...» Annika chiuse gli occhi e sentì il cuore scenderle sotto le scarpe. Non valeva la pena cercare di scusarsi parlando di redattori che mettevano titoli che non avrebbero dovuto: l'unica soluzione era andare all'attacco. «Ma scusi tanto» disse cercando di assumere un tono di rimprovero. «Chi ha
spiattellato cosa? Io sapevo tutta la storia e me la sono tenuta in tasca ventiquattr'ore per fare un piacere a lei. Mi sembra un'ingiustizia bella e buona.» «Un'ingiustizia? Porca puttana, questa è un'inchiesta su un omicidio! Cosa crede, che sia giusta?» «Be', lo spero proprio» rispose Annika seccamente. L'uomo sospirò. «Okay, mi faccia le sue scuse così chiudiamo.» Annika respirò a fondo. «Mi dispiace veramente per l'uso dell'espressione "codici degli allarmi". Come forse avrà notato, nel testo dell'articolo non veniva mai usata. Il redattore ha messo il titolo alle ore piccole, ha solo cercato di fare un buon lavoro.» «Questi redattori» commentò il poliziotto. «Sembra che saltino fuori come folletti nel bel mezzo della notte. Allora, adesso cosa vuole sapere?» Annika sorrise. «Avete interrogato la figlia di Christina, Lena Milander?» «Riguardo a cosa?» «Su come ha trascorso la notte tra venerdì e sabato.» «Perché me lo chiede?» «Ho sentito parlare della sua piromania.» «Ossessione per il fuoco» la corresse l'uomo. «La piromania è una patologia abbastanza rara. Il piromane è una persona morbosamente affascinata ed eccitata dagli incendi e da tutto ciò che ha a che fare con il fuoco: pompieri, estintori...» «Va bene, ossessione per il fuoco. L'avete interrogata?» «L'abbiamo controllata, sì.» «E allora?» «Non posso dire di più.» Annika tacque. Rifletté sulla possibilità di aggiungere qualcosa sul figlio morto, ma decise di evitare. Un bambino morto a cinque anni non poteva avere niente a che fare con la faccenda. «Com'è andata, poi, con i codici degli allarmi?» «Siamo sicuri che posso parlarne?» «Forza, adesso basta» disse Annika. L'uomo sospirò. «Stiamo controllando.» «Avete dei sospetti?» «No, non in questa fase.» «Qualche indizio?» «Be', certo, cosa crede che facciamo, qui?»
«Okay» fece Annika abbassando gli occhi sui suoi appunti. «Possiamo riassumere così: continuate a lavorare sui codici degli allarmi - adesso posso scriverlo, dato che tanto è già venuto fuori, no? - avete interrogato diverse persone senza avere dei veri e propri sospetti e state lavorando su diverse piste. Giusto?» «Più o meno» disse la fonte. Annika riattaccò, delusa. Quell'idiota che aveva messo il titolo sui codici degli allarmi le aveva mandato in fumo anni di lavoro. Il rapporto di fiducia si era incrinato, "La Stampa della Sera" non avrebbe più avuto le informazioni per prima. Le cose che aveva appena saputo erano niente, le solite cazzate. D'ora in poi, avrebbe dovuto fare affidamento sui suoi collaboratori e sui loro contatti. Nello stesso istante, Berit e Patrik si affacciarono alla porta. «Sei occupata?» «No, avanti. Sedetevi, buttate pure il mio cappotto per terra. Tanto è tutto sporco.» «Dove l'hai ridotto in questo stato?» chiese Berit appendendo a un gancio il soprabito di Annika. «Nel fango fuori dalla segreteria olimpica. Spero che oggi a voi le cose siano andate meglio che a me» disse in tono depresso, e fece un breve riassunto del colloquio con la sua fonte. «Incidenti sul lavoro» commentò Berit. «Cose che capitano.» Annika sospirò. «Okay, allora partiamo. Cosa scrivi, oggi, Berit?» «Come ti ho detto, ho parlato con l'autista privato della Furhage, che fra l'altro non è per niente male. Poi ho fatto qualche telefonata per verificare la faccenda del taxi, e qui c'è qualcosa di strano. Nessuno vuole dire dov'è andata Christina dopo la festa di Natale. Il buco tra mezzanotte e le tre e diciassette diventa sempre più misterioso.» «Okay, allora hai due cose: "Christina aveva paura di saltare in aria - il suo autista racconta", e poi "Il buco delle sue ultime ore - il mistero si infittisce". E tu, Patrik?» «Be', io sono appena arrivato, ma sono riuscito a fare qualche telefonata. Nel corso della serata verrà emesso un mandato per il Tigre via Interpol.» «Caspita» commentò Annika. «In tutto il mondo?» «Sì, credo di sì. La zona due, hanno detto.» «Allora è l'Europa» fecero in coro Annika e Berit, mettendosi a ridere. «Qualche paese in particolare?» «Non saprei» rispose Patrik.
«Allora occupati tu di quello che salta fuori nel corso della serata» disse Annika. «Io, purtroppo, non ho in mano abbastanza materiale da trasformare in un articolo, ma ho scoperto una serie di cose interessanti. Sentite un po' qua!» Raccontò del primo marito di Christina Furhage, il vecchio direttore ricco sfondato, del figlio morto e della figlia piromane, della rovinosa storia d'amore di Evert Danielsson sul posto di lavoro e del suo incerto futuro, dell'inaspettato sfogo di Helena Starke e del fatto che era una lesbica militante. «Ma perché ti occupi di queste faccende?» chiese Patrik con aria scettica. Annika lo guardò con indulgenza. «Perché, caro mio, è proprio questo tipo di ricerche che alla fine sfocia nella cosa migliore che ci sia nel giornalismo: il nesso causa-effetto, la comprensione della persona e della sua influenza sulla società. Lo imparerai con gli anni.» Patrik aveva l'aria di non crederle. «Be', io voglio solo scrivere articoli da prima pagina.» Annika sorrise. «Bene. Ci diamo una mossa?» Berit e Patrik uscirono. Annika ascoltò il giornale radio prima di andare alla riunione, "l'adunata delle sei", come veniva generalmente chiamata. Il giornale radio riprese la rivelazione del giornale del mattino sulla clausola giuridica riguardo ai meccanismi di sponsorizzazione, poi passò alle elezioni in Pakistan. Annika spense. Mentre andava alla riunione, passò davanti alla cucina e bevve un bicchiere d'acqua. Per fortuna, la testa non le girava più. Il direttore era solo nel suo ufficio, quando lei entrò. Sembrava di buon umore. «Buone notizie?» chiese Annika. «No, porca miseria, pare che vendiamo troppo poco. Ho avuto un bello scontro con quelli del marketing, cosa che mi fa sempre piacere. E a te come va?» «Il titolo sui codici degli allarmi sul giornale di oggi è stato un vero disastro. Pensavo di parlarne qui. Mi si è scatenato addosso un piccolo inferno. Poi ho trovato un po' di scheletri nell'armadio della Furhage, magari ti racconto qualcosa dopo la riunione, se hai tempo...» Ingvar Johansson, Pelle Oscarsson e "Chiodo", il secondo caporedattore di notte, entrarono insieme. Parlavano a voce alta e ridevano. Annika rimase seduta in silenzio mentre prendevano posto.
«Vorrei cominciare da un argomento che mi sta a cuore» esordì Anders Schyman, prendendo una sedia. «So che nessuno, qua dentro, ha niente a che vedere con la cosa, ma voglio affrontarla sul piano dei principi. Si tratta del titolo che prendeva le pagine sei e sette di oggi, quello che diceva "La soluzione è nei codici degli allarmi". Le ultime parole non andavano usate, dopo le discussioni di ieri non dovevano sussistere dubbi sulla faccenda. Eppure il titolo è finito sul giornale e, naturalmente, è stato un errore madornale. Subito dopo la riunione chiamerò Jansson a casa e gli chiederò come cavolo è potuto capitare.» Alle parole del direttore, Annika si sentì avvampare. Tentò di apparire indifferente, ma senza riuscirci. Era anche troppo chiaro a tutti i presenti quali fossero i personaggi coinvolti nella questione e chi godesse dell'appoggio del direttore. «Trovo molto spiacevole dover dire queste cose. Pensavo fosse chiaro che le decisioni prese nelle riunioni e le mie direttive devono essere osservate. In certe occasioni veniamo a conoscenza di cose che non è il caso di scrivere, e spetta a me decidere quando questo deve accadere. Il patto stretto da Annika con la sua fonte era di non nominare i codici degli allarmi, cosa che infatti lei ha evitato di fare. Eppure, alla fine, le cose sono andate così. Come cazzo può essere successo?» Nessuno rispose, Annika tenne lo sguardo fisso sul tavolo. Irritata, sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime, ma deglutì e le ricacciò indietro. «Okay» disse Anders Schyman. «Visto che nessuno ha una risposta in merito, cercheremo di imparare da questo errore e faremo in modo che una cosa del genere non si verifichi mai più. Siamo d'accordo?» Gli uomini intorno al tavolo borbottarono qualcosa di incomprensibile, e Annika deglutì di nuovo. «Ora passiamo alla giornata di oggi» proseguì il direttore. «Annika, cosa fa la redazione di cronaca nera?» Le labbra di Ingvar Johansson si assottigliarono quando Annika si raddrizzò sulla sedia e si schiarì la voce. «Berit ha due tracce: è andata a parlare con l'autista privato di Christina Furhage, il quale riferisce che lei aveva una gran paura di saltare in aria, e poi sta scavando nelle ultime ore di Christina. Patrik è stato informato che stasera verrà emesso un mandato internazionale per il Tigre, via Interpol. Seguirà gli avvenimenti nel corso della serata, visto che mi sono bruciata le fonti. Quanto a me, ho incontrato Evert Danielsson, il collaboratore più stretto della Furhage, che oggi è stato scaricato...» Smise di parlare e ab-
bassò lo sguardo sul tavolo. «Sembra promettente, ma domani sulla civetta niente più caso Furhage» disse Schyman pensando al ragioniere. I calcoli del marketing dicevano che nessuna notizia vendeva per più di due, tre giorni al massimo, a prescindere dalla gravità della cosa. «Siamo al quarto giorno e dobbiamo cambiare argomento. Cosa possiamo piazzarci, invece?» «Ma siamo davvero sicuri di voler abbandonare la pista terroristica?» chiese Chiodo. «Secondo me, abbiamo cannato del tutto.» «In che senso?» chiese il direttore. «Tutti gli altri sono usciti con dei buoni pezzi sui vecchi attentati agli impianti olimpici, e hanno passato in rassegna i gruppi ipoteticamente responsabili dell'attentato di sabato. Noi, invece, non abbiamo nemmeno imboccato quella strada.» «Lo so che non hai lavorato, negli ultimi giorni, ma immagino che il giornale arrivi anche all'edicola di Järfälla, o no?» chiese Anders Schyman in tono mite. Chiodo strinse le labbra. «Abbiamo riportato l'elenco degli attentati olimpici storici sia sabato che domenica, ma ci siamo astenuti di proposito da illazioni sui diversi gruppi terroristici. Siamo usciti con notizie nostre ed è stato molto meglio. Possiamo solo sperare che quell'idiozia del titolo di oggi non abbia messo la parola fine a questo modo di agire, per il futuro. Invece di unirci al mucchio che gridava al terrorismo abbiamo fornito notizie al resto dei media, e dovremmo esserne orgogliosi. Le nostre fonti dicono che la cosa non era indirizzata ai Giochi, né all'organizzazione né agli impianti. Pare che si tratti di un conto saldato con Christina Furhage, e noi crediamo alle nostre fonti. Perciò non pubblicheremo alcuna lista di possibili gruppi terroristici. Ma cosa mettiamo nella civetta, caporedattore?» Ingvar Johansson si ringalluzzì subito e cominciò a snocciolare il suo copioso elenco. Annika doveva ammettere che era molto efficiente e che in genere aveva buon fiuto. Mentre l'uomo parlava, lei avvertiva su di sé lo sguardo irritato di Chiodo. Fu un sollievo quando la riunione finì e gli uomini uscirono dalla stanza. «Allora, cos'hai scoperto, oggi?» domandò Schyman. Annika raccontò quel che sapeva e gli mostrò la foto di Christina da giovane, del marito e del figlioletto. «Più scavo nel suo passato, più si fa oscuro» disse. «Dove credi che ti possa portare?» chiese il direttore.
Lei esitò. «Le informazioni di cui dispongo fino a questo punto non sono pubblicabili. Ma sono certa che da qualche parte, ben nascosta, c'è la spiegazione di tutto.» «E cosa ti fa pensare che la verità sia pubblicabile?» Annika arrossì. «Non lo so. Voglio solo essere certa di come stanno le cose, essere un passo avanti. Così posso fare le domande giuste alla polizia, in modo da avere per prima le risposte.» Il direttore sorrise. «Bene. Sono molto soddisfatto del lavoro che hai svolto in questi giorni. Non ti arrendi, è un'ottima qualità, e quando è necessario affronti i conflitti, il che è anche meglio.» Annika abbassò gli occhi e arrossì ancora di più. «Grazie.» «Adesso chiamo Jansson e gli chiedo cos'è successo stanotte con quel titolo infelice.» Annika si avviò verso il suo ufficio ma si accorse di quanta fame aveva. Così, si avvicinò a Berit e le chiese se aveva voglia di andare a mangiare con lei. Presero i buoni pasto e scesero in mensa. Quella sera, il menu prevedeva prosciutto natalizio con patate e salsa di mele. «Santo cielo» commentò Berit. «Ecco che si comincia. Non cambieranno menu prima di Capodanno.» Ignorarono il prosciutto e si servirono un'insalata al self-service. La grande sala era quasi vuota, e loro si sedettero in un angolo. «Secondo te, cos'ha fatto Christina dopo mezzanotte?» chiese Berit addentando una carota. Annika rifletté mentre infilava una forchettata di mais dietro l'altra. «È uscita dal locale, nel bel mezzo della notte, insieme a una macholesbica. Potrebbero essere andate insieme da qualche parte.» «Helena Starke era ubriaca fradicia. Forse Christina l'ha aiutata ad arrivare a casa.» «E con che cosa, con l'autobus notturno?» Annika scosse la testa e proseguì il ragionamento. «Aveva due carte di credito per il taxi, contanti e circa duemilacinquecento dipendenti che potevano darsi da fare perché una sua collaboratrice arrivasse a casa in auto. Perché mai proprio lei, il direttore generale del comitato organizzatore di Stoccolma, la Donna dell'Anno, avrebbe dovuto trascinarsi dietro una lesbica sbronza in metropolitana? Non ha senso.» L'intuizione le colse contemporaneamente. «A meno che...» «Non potrebbe essere che?...»
Si misero a ridere. L'idea di Christina Furhage come omosessuale non dichiarata era troppo assurda. «Magari sono andate in Comune a farsi registrare come coppia convivente» scherzò Berit facendo sbellicare Annika dalle risa. Poco dopo, però, si ricomposero. «E se invece fosse proprio così? Se avessero avuto una relazione?» Continuarono a mangiare la loro insalata mentre cercavano di abituarsi all'idea. «Perché no?» azzardò Annika. «Helena Starke mi ha gridato che lei conosceva Christina meglio di chiunque altro.» «Questo non significa necessariamente che andassero a letto insieme.» «È vero» ammise Annika. «Però può significarlo.» Una delle inservienti della mensa si avvicinò al loro tavolo. «Scusate, una di voi due è Annika Bengtzon?» «Sì, sono io» disse Annika. «La cercano in redazione. Dicono che il dinamitardo ha colpito ancora.» Quando Annika tornò in redazione, gli altri erano già riuniti nell'ufficio del direttore. Nessuno alzò gli occhi quando lei entrò nella stanza, con qualche grano di mais ancora infilato tra i molari e la borsa appesa alla spalla. Gli uomini stavano mettendo a punto la strategia su come spremere al massimo l'ipotesi terroristica. «Siamo troppo indietro, non abbiamo speranza» stava dicendo Chiodo a voce un po' più alta del necessario. Annika capì il sottinteso. Aveva saputo a spizzichi e bocconi ciò che era accaduto mentre saliva dalla sala mensa. Si sedette a un angolo del tavolo, facendo grattare la sedia sul pavimento e inciampando nelle sue stesse gambe al punto che quasi finì per terra. Tutti tacquero e attesero. «Scusate» disse lei, e la parola rimase ambiguamente sospesa nell'aria, ghignandole soddisfatta in faccia. Adesso sì, che avrebbe mangiato merda! Soltanto un'ora prima, seduta a quello stesso tavolo, aveva portato avanti la sua linea dell'attacco personale del dinamitardo a Christina Furhage, convinta che non ci fosse il minimo collegamento con i Giochi olimpici, ed ecco che BUM!, era scoppiata un'altra bomba in un altro stadio. «Qualcuno è sul posto?» chiese Anders Schyman. «Ci è andato Patrik Nilsson» rispose Chiodo sottolineando le parole. «Dovrebbe essere al palazzetto di Sätra tra dieci minuti.» «Il palazzetto di Sätra?» ripeté Annika sorpresa. «Credevo che fosse sal-
tato in aria un altro impianto olimpico.» Chiodo la guardò con aria di superiorità. «Si dà il caso che il palazzetto di Sätra sia in effetti un impianto olimpico.» «Ah, sì? E per quale specialità? Lancio del peso?» Chiodo distolse lo sguardo. «No, salto con l'asta.» «Adesso la questione è come procedere» li interruppe Anders Schyman. «Dobbiamo cercare di ricapitolare come hanno lavorato gli altri sull'ipotesi terroristica in questi giorni e tentare di far sembrare che anche noi fossimo della stessa idea fin dall'inizio. Chi se ne occupa?» «Janet Ullberg è di turno, stanotte, potremmo convocarla un po' prima» propose Ingvar Johansson. Annika si sentì persa in un vortice che la trascinava giù sul pavimento e poi in alto, lungo le pareti. Era un incubo, come aveva potuto sbagliare così grossolanamente? Possibile che la polizia le avesse mentito per tutto il tempo? Aveva messo in gioco il proprio prestigio insistendo perché il giornale impostasse la cosa come voleva lei. Poteva davvero restare al suo posto di caposervizio, dopo una batosta del genere?» «Dobbiamo fare un giro e controllare la sicurezza anche negli altri impianti» disse Chiodo. «Bisognerà convocare altra gente, la squadra notturna di riserva, quella serale...» Gli uomini si misero a confabulare, le loro voci fuse in un'unica cacofonia echeggiante. Annika, alle loro spalle, si appoggiò allo schienale cercando di riprendere fiato. Era finita, sapeva di essere finita. Come avrebbe potuto rimanere al giornale dopo un fatto così grave? La riunione fu breve e concisa, vista l'unanimità totale sul da farsi. Tutti non vedevano l'ora di andare in redazione e riprendere a lavorare sull'ipotesi terroristica. Solo Annika restò seduta nell'angolo. Era sicura che, se si fosse alzata per uscire dalla stanza, sarebbe crollata in mille pezzi. L'angoscia le premeva sul diaframma come un mattone. Anders Schyman andò alla sua scrivania a fare una telefonata, Annika sentiva la sua voce salire e scendere di volume. Poi le si avvicinò e si sedette accanto a lei. «Annika» disse cercando di incontrare il suo sguardo. «Non è successo niente. Capisci quello che dico? È tutto sotto controllo.» Lei distolse la faccia e sbatté le palpebre cercando di ricacciare indietro le lacrime. «Tutti possiamo sbagliare» continuò il direttore a voce bassa. «È la verità più antica del mondo. Ho sbagliato anch'io, ho ragionato proprio come
te. Adesso sono successe altre cose che ci costringono a cambiare opinione, e bisogna solo trarre il meglio da questa situazione. Abbiamo bisogno di te, per questo lavoro. Annika...» Lei sospirò, guardandosi le ginocchia. «Sì, certo, hai ragione. Ma mi sento uno schifo, ero così sicura che la mia teoria fosse giusta...» «E non è detto che non sia così» disse Schyman in tono pensoso. «In effetti, sembra improbabile, ma Christina Furhage potrebbe aver avuto qualcosa a che fare con il palazzetto di Sätra a livello personale.» Annika non poté fare a meno di ridere. «Difficile» mormorò. Il direttore le appoggiò una mano sulla spalla e si alzò. «Non lasciarti sopraffare dagli eventi. Hai avuto ragione su tutto il resto, in questa storia.» Lei fece una smorfia, alzandosi a sua volta. «Come abbiamo saputo dell'esplosione?» chiese. «È stato Leif, a chiamare?» «Sì, lui o Svelto, da Norrköping. È stato uno di loro.» Schyman si sedette con un profondo sospiro sulla poltrona girevole dietro la sua scrivania. «Hai intenzione di andare là, stasera?» chiese. Annika spinse in dentro la sedia e scosse la testa. «No, non ne vale la pena. Stanotte è meglio che se ne occupino Patrik e Janet. Io mi ci metto domattina.» «Okay. Secondo me, dovresti prenderti una bella vacanza quando le acque si saranno calmate. Soltanto nell'ultimo fine settimana devi aver accumulato una settimana di ferie compensative.» Annika sorrise mesta. «Sì, credo proprio che lo farò.» «Adesso vai a casa a dormire e lascia che per stasera se la sbrighino i ragazzi là fuori, sono già abbastanza su di giri.» Il direttore sollevò la cornetta, facendole capire che la conversazione era finita. Lei prese la borsa e uscì dalla stanza. La redazione era in fermento, tutti erano concentrati, come sempre quando accadeva qualcosa di davvero sensazionale. In superficie l'atmosfera pareva abbastanza calma, ma la tensione si avvertiva negli occhi vigili dei capiservizio e nelle schiene diritte dei redattori. Ci si scambiavano poche frasi essenziali, i cronisti e i fotografi si dirigevano decisi verso l'uscita. Persino i centralinisti venivano risucchiati nel vortice, la loro voce si faceva più profonda e le dita più determinate mentre volavano sulla tastiera. Di solito, Annika godeva di quella sensazione, ma questa volta attraversare il salone non fu affatto piacevole. Fu Berit a correre in suo aiuto. «Annika! Vieni un po' a sentire!»
Aveva portato su il suo piatto d'insalata e si era seduta nella stanza della radio, un piccolo locale adiacente alla redazione della cronaca nera da cui si potevano ascoltare tutti i canali della polizia di Stoccolma e uno di quelli nazionali. Una parete era interamente ricoperta di piccoli altoparlanti muniti di interruttori e manopole per il volume. Berit aveva messo al massimo i canali delle stazioni nella zona sud e nel centro città, cioè le squadre che si sarebbero potute occupare dell'esplosione nel palazzetto di Sätra. Annika sentiva solo fischi e brusii. «Cos'è successo?» domandò. «Non lo so, esattamente» rispose Berit. «La polizia è arrivata sul posto qualche minuto fa. Una squadra ha chiamato la centrale su uno dei canali in codice...» In quell'istante, il borbottio si fece sentire di nuovo. La polizia di Stoccolma aveva due canali protetti, i cosiddetti canali "scrambled": si sentiva parlare qualcuno, ma quel che veniva detto era del tutto incomprensibile. Sembrava di sentir parlare al contrario con la voce di Paperino. I canali scrambled venivano usati molto di rado, e soprattutto durante le operazioni antidroga. Anche l'unità investigativa regionale poteva ricorrervi, nel caso di retate importanti, quando si sospettava che i delinquenti avessero accesso ai canali radio della polizia. Una terza ragione del loro uso poteva essere che le informazioni fossero talmente confidenziali da volerle mantenere segrete. «Dobbiamo procurarci uno scrambler» disse Annika. «Altrimenti, rischiamo di perderci delle cose importantissime.» Il gracidio si spense e fischi e brusii continuarono sugli altri canali. Annika fece passare lo sguardo sugli altoparlanti. Gli otto distretti di polizia della regione di Stoccolma usavano due diversi sistemi radio, il System 70 e il System 80. Il 70 comprendeva i canali che partivano dai 79 megahertz, l'80 cominciava da 410 megahertz e si chiamava così solo perché era entrato in funzione negli anni Ottanta. L'intenzione era che il passaggio all'80 venisse completato in breve tempo, ma a causa delle drastiche riorganizzazioni avvenute nell'ultimo decennio non si era ancora riusciti a farlo. Annika e Berit ascoltarono per qualche minuto gli scoppiettii e i fruscii, in attesa, poi le nebbie elettroniche furono disperse da una voce maschile sul canale 2 della zona sud della città: «Qui ventuno dieci, passo». Dai numeri si capiva che il richiamo veniva da un'auto di Skärholmen. La risposta dalla centrale di Kungsholmen arrivò dopo qualche secondo:
«Sì, ventuno dieci, siamo in ascolto». «Ci serve un'ambulanza all'indirizzo dato, anzi, meglio un furgone...» Per un attimo la voce fu coperta dalle scariche elettrostatiche; Annika e Berit si guardarono in silenzio. "Furgone" era un modo per dire carro funebre. L'indirizzo non poteva che essere il palazzetto, in quel momento non stava accadendo nient'altro di particolare nella zona sud. La polizia si esprimeva spesso così, quando non voleva parlare troppo chiaramente, diceva "il posto" o "l'indirizzo", e i sospettati venivano a volte definiti "l'oggetto". Poi la centrale si fece sentire di nuovo: «Ventuno dieci, ambulanza o furgone, passo?». Annika e Berit si sporsero in avanti contemporaneamente: la risposta era determinante. «Ambulanza, passo e chiudo.» «Un morto, ma non a polpette come la Furhage» disse Annika. Berit annuì. «A quanto pare la testa è ancora al suo posto, ma il resto è decisamente morto.» Perché un poliziotto potesse dichiarare la morte di una persona, la testa doveva essere separata dal corpo. Evidentemente, in questo caso non era così, anche se era fuor di dubbio che la persona in questione era morta. Altrimenti il poliziotto non avrebbe parlato del carro funebre, il furgone. Annika andò al banco della cronaca. «Sembra che ci sia una vittima» disse. Tutti quelli seduti intorno al grande sistema di tavoli sui quali il giornale veniva composto di notte si fermarono e alzarono gli occhi. «Cosa te lo fa pensare?» chiese Chiodo con voce priva di espressione. «La radio della polizia» rispose Annika. «Chiamo Patrik.» Girò sui tacchi e andò nel suo ufficio. Patrik rispose al primo squillo, come al solito doveva avere il telefono in mano. «Com'è la situazione?» s'informò Annika. «Pessima, ci sono lampeggianti dappertutto» ululò Patrik. «Riesci a entrare?» chiese Annika sforzandosi di mantenere il tono di una normale conversazione. «No, non c'è verso» sbraitò Patrik. «Hanno transennato tutto il centro sportivo di Sätra.» «Hai avuto informazioni sul ritrovamento di qualche vittima?» «Cosa?» «Hai saputo se ci sono vittime?»
«Ma perché urli? No, niente vittime, non si vedono ambulanze né carri funebri.» «Ne arriverà una, l'abbiamo sentito alla radio. Fermati lì e fai rapporto a Chiodo, io vado a casa.» «Cosa?» si sentì urlare nella cornetta. «Io vado a casa, adesso. Parla con Chiodo!» gridò Annika di rimando. «Okay!» Annika riattaccò e vide Berit sulla porta piegata in due dalle risate. «Non c'è bisogno che mi dica con chi stavi parlando» disse Berit. Erano passate da poco le otto quando Annika arrivò a casa, al suo appartamento sulla Hantverkargatan. In taxi le era venuto un terribile capogiro. L'autista era arrabbiato per qualcosa che aveva scritto il giornale e si era messo a questionare sulle responsabilità dei giornalisti e sul dispotismo dei politici. «Ne parli con qualcuno dei redattori, io pulisco le scale» aveva risposto Annika, per poi appoggiarsi all'indietro con gli occhi chiusi. Il senso di vertigine si era trasformato in nausea mentre l'auto faceva zigzag tra le corsie della Norr Mälarstrand. «Non stai bene?» chiese Thomas, che era arrivato nell'ingresso con uno strofinaccio in mano. Lei fece un gran sospiro. «Mi gira un po' la testa» disse scostandosi i capelli dal viso con entrambe le mani. Erano in condizioni pietose, doveva assolutamente lavarli. «È rimasto qualcosa?» «Non hai mangiato, al lavoro?» «Mezza insalata. Sono successe delle cose...» «È ancora in tavola: filetto di maiale e patate arrosto.» Thomas si gettò lo strofinaccio sulla spalla e si avviò verso la cucina. «I bambini dormono?» «Da un'ora. Erano esausti, mi chiedo se Ellen non stia covando qualche malanno. Era stanca, stamattina?» Annika rifletté. «No, non particolarmente. Faceva un po' la mammona. Si è fatta portare in braccio fino alla fermata.» «Io non posso stare a casa, in questi giorni» disse Thomas. «Se si ammala toccherà a te.» Annika sentì montare la collera. «Ma io non posso stare a casa dal lavoro, in questo momento! Stasera c'è stato un altro omicidio che ha a che fare con le Olimpiadi, non hai sentito il telegiornale?»
Thomas si voltò. «Oh, cazzo. No, ho ascoltato solo il giornale radio oggi pomeriggio, non hanno parlato di omicidi.» Annika andò in cucina. Sembrava ci fosse stato un bombardamento. Sul tavolo, però, l'aspettava la sua pietanza. Thomas le aveva messo nel piatto filetto, patate, salsa alla panna, funghi passati nel burro e un po' di insalata di cavolo. Accanto al bicchiere c'era una bottiglia di birra che un paio d'ore prima doveva essere stata molto fredda. Annika mise il piatto nel forno a microonde e programmò tre minuti. «L'insalata farà schifo» si scusò Thomas. «Ho sbagliato tutto, fin dall'inizio» disse Annika. «Ho costretto il giornale a non sbilanciarsi sull'ipotesi terroristica perché avevo avuto informazioni diverse dalla mia fonte. Sembra che abbia preso la cantonata dell'anno, stasera è saltato il palazzetto di Sätra.» Thomas si sedette e buttò lo strofinaccio sullo scolapiatti. «Come, la palestra di atletica? Praticamente non ha tribune, non si possono mica fare le Olimpiadi, laggiù.» Annika si versò un bicchiere d'acqua e tolse lo strofinaccio. «Non metterlo qui, è sporco. Sembra che ogni dannato impianto, in città, abbia a che fare con i Giochi. Sono più di cento quelli che, in un modo o nell'altro, hanno qualche aggancio con le Olimpiadi, come spazi per le gare o per l'allenamento e il riscaldamento degli atleti.» Il microonde emise tre segnali acustici. Annika prese il piatto e si sedette di fronte al marito. Mangiò avidamente, in silenzio. «E a te com'è andata, oggi?» chiese aprendo la bottiglia di birra tiepida. Thomas sospirò e si stirò. «Be', avevo idea di preparare la riunione della commissione del giorno 27, ma proprio non ce l'ho fatta. Il telefono non smetteva mai di squillare. La questione regionale non fa che ingigantirsi, cosa che in sé mi fa piacere, ma a volte non riesco a far altro che partecipare a riunioni e parlare al telefono.» «Domani vado io a prendere i bambini sul presto, così magari riesci a sbrigare un po' di lavoro» disse Annika, sentendosi improvvisamente in colpa. Masticò bene il filetto, il microonde l'aveva indurito un po'. «Quasi quasi pensavo di mettermi adesso a dare un'occhiata a una delle relazioni settoriali. L'ha fatta uno dei ragazzi, sono mesi che ci sta dietro. Probabilmente è del tutto illeggibile, succede spesso quando lavorano troppo a lungo su un testo, il gergo da cancelleria diventa incomprensibile.» Annika sorrise debolmente. A volte, si sentiva la coscienza davvero
sporca. Non solo era una pessima coordinatrice dei suoi collaboratori e una cronista di scarso valore, ma anche una moglie ingrata e una madre inqualificabile. «Vai pure a leggere, tesoro. Metto a posto io, qui.» Lui si chinò e la baciò sulla bocca. «Ti amo» disse. «In forno c'è il prosciutto di Natale. Tiralo fuori quando arriva a settantacinque gradi.» Annika spalancò gli occhi, sorpresa. «Ma come, hai trovato il termometro da arrosto?» chiese. «Dov'era?» «In bagno, accanto a quello per la febbre. L'ho misurata a Ellen quando siamo tornati a casa e l'ho trovato. Credo che sia stato Kalle a mettercelo. Anche se lui nega, naturalmente.» Annika attirò a sé Thomas e lo baciò a labbra aperte. «Ti amo anch'io» disse. FELICITÀ Nel profondo della foresta, oltre i granai e le paludi, c'era Långtjärn, il laghetto. Nei primi anni della mia infanzia rappresentava per me il confine del mondo, probabilmente perché il territorio degli adulti finiva lì. Ne sentivo parlare spesso come di una frontiera simbolica, e immaginavo il lago come un baratro senza fondo di tenebre e terrore. Il giorno in cui finalmente ottenni il permesso di andarci per conto mio, tutti questi pensieri svanirono. Långtjärn era un luogo assolutamente meraviglioso. Il laghetto, immerso nella foresta vergine, era lungo poco meno di un chilometro e largo un paio di centinaia di metri, con l'acqua scintillante e le rive coperte di aghi di pino. Mi invase una sensazione di innocenza, di alba primordiale: ecco com'era il mondo prima dell'arrivo degli uomini. Un tempo il lago doveva essere stato pieno di pesci, perché vicino allo sbocco nell'emissario c'era una cadente catapecchia di legno in mezzo ai rami. Era stata usata come capanno da pesca e da caccia ed era costruita in maniera sorprendentemente ambiziosa. Era composta da un'unica stanza, con un camino nell'angolo più lontano dalla porta, il pavimento di assi piallate e una finestrella che dava sull'acqua. L'arredamento consisteva in due brande fissate alle pareti, due sgabelli di legno grezzo e un tavolino. Quando ripenso al passato, mi rendo conto di aver trascorso in quella casupola gli attimi più felici della mia vita. A intervalli irregolari ho fatto ritorno alla pace in riva al lago. La sua superficie e il suo splendore sono
cambiati nel corso delle stagioni, il progresso dell'uomo ha lasciato le sue impronte. Gli alberi lungo il viottolo che conduce al lago sono stati tagliati, ma lassù, intorno allo specchio d'acqua, li hanno risparmiati. Ho acceso il fuoco nel camino e guardato la superficie liscia dell'acqua, sentendo dentro di me una completa armonia. È possibile che questo ragionamento possa apparire provocatorio e magari essere interpretato come un atto di ingratitudine o indifferenza, ma nulla potrebbe essere più errato. Ho tratto grande soddisfazione dal mio successo, dai risultati che ho raggiunto, ma non devono essere scambiati per felicità. La fissazione della società sul trionfo e sull'estasi rappresenta l'opposto della vera felicità. Siamo tutti diventati dei drogati. Il fatto di aspirare sempre a qualcosa di più e di meglio non ci renderà mai soddisfatti della nostra vita. In realtà, il successo e il benessere sono molto meno interessanti dell'insuccesso e della miseria. Un grande successo dà origine a un'emozione che confina con l'erotismo, un banale ed effimero soggiorno tra le stelle. Un insuccesso di quelli pesanti, invece, presenta molte più sfumature e maggiore profondità. Costringe all'analisi e alla riflessione su di sé, e alla fine conduce a una vita più degna. Il benessere, nel migliore dei casi, genera tolleranza e generosità, ma più spesso invidia e indifferenza. Il segreto della felicità, nella vita, è essere contenti di ciò che si ha, smetterla di tendere verso la cima e trovare la propria pace. Purtroppo, l'ho fatto di rado anch'io, eccetto che nel capanno sul lago. MARTEDÌ 21 DICEMBRE Quando Annika si svegliò, il profumo di prosciutto aleggiava ancora nell'aria: uno dei pochi vantaggi derivanti dal fatto di non avere una cappa efficiente in cucina. Adorava il prosciutto natalizio, ma doveva essere caldissimo, appena sfornato e con la salamoia ancora gocciolante. Inspirò profondamente e gettò le coperte di lato. Ellen si mosse nel sonno, accanto a lei. Annika baciò la bimba sulla fronte e le accarezzò le gambette rotonde. Quel giorno doveva arrivare presto al lavoro, in modo da sbrigare le sue faccende e poi andare a prendere i bambini verso le tre. Si piazzò sotto la doccia e lasciò cadere l'urina direttamente nel pozzetto del piatto di ceramica. L'odore intenso risalì verso di lei insieme al vapore dell'acqua calda, investendole il viso, e Annika si girò istintivamente. Si lavò la testa con uno shampoo antiforfora e imprecò quando si accorse che
il balsamo era finito. Adesso i suoi capelli avrebbero avuto l'aspetto di una massa di trucioli fino al prossimo lavaggio. Uscì dalla doccia, si asciugò e strofinò l'asciugamano anche per terra, dove era schizzata l'acqua, si passò il deodorante sotto le ascelle e si spalmò la crema sul viso. Lo sfogo non voleva passare, così, per precauzione, ci mise sopra un po' di pomata al cortisone. Mascara, ombretto, ed era pronta. Entrò in camera in punta di piedi e aprì l'anta dell'armadio. Il cigolio fece rigirare Thomas nel sonno. Era rimasto alzato a leggere le sue carte per un bel po', dopo che lei era andata a dormire. La relazione generale della commissione sulla questione regionale, per la quale Thomas aveva la responsabilità, in teoria avrebbe dovuto essere pronta in gennaio. Ma i collaboratori di Thomas non avevano ancora finito le relazioni settoriali su cui doveva basarsi quella generale, e lui avvertiva la pressione su di sé. Annika si rese conto che aveva tutte le ragioni di sentirsi stressato quanto lei, nonostante le sue scadenze fossero più dilazionate nel tempo. Per una maggiore sintonia con l'atmosfera natalizia, Annika indossò un top di maglina e una giacca, entrambi rossi, e pantaloni neri. Quando ebbe finito di vestirsi erano le sei e mezzo, giusto in tempo per il primo telegiornale della giornata. Le immagini del palazzetto di Sätra non erano troppo drammatiche. La troupe televisiva, evidentemente, non era riuscita ad andare oltre gli sbarramenti della polizia e aveva filmato soltanto i soliti nastri blu e bianchi che svolazzavano nel vento della notte. Lo speaker riferiva che l'esplosione era avvenuta in uno degli spogliatoi nella parte vecchia dell'edificio. Lì i vigili del fuoco avevano trovato i resti del cadavere di un uomo. Era in corso una diatriba con la polizia su chi dovesse raccogliere i resti delle persone decedute in caso di incidente. I pompieri si rifiutavano, affermando che non rientrava nelle loro mansioni. La polizia sosteneva la stessa cosa. Rapport dedicò grande spazio alla disputa, annunciando che sarebbero tornati sul tema nel corso del successivo approfondimento in studio. Poi fu inquadrato un reporter che si aggirava in uno stadio vuoto in qualche sobborgo della città, gridando: «Ehi, c'è nessuno?». Visto che non c'era risposta, il reporter concludeva che era un vero scandalo. «Come gestisce la polizia il controllo degli impianti?» era la domanda retorica conclusiva. Dopodiché, comparve la faccia esausta del portavoce della polizia, il quale affermava che era impossibile sorvegliare ogni ango-
lo degli impianti ventiquattr'ore su ventiquattro. «E allora come farete a riuscirci durante i Giochi olimpici?» chiese il cronista in tono insinuante. Il portavoce sospirò, e Annika si rese conto che alla polizia era capitato fra capo e collo il dibattito che più aveva cercato di evitare. La discussione sulla sicurezza nel periodo delle Olimpiadi avrebbe assunto toni sempre più concitati a mano a mano che il tempo passava senza che il dinamitardo venisse preso. Poi fu la volta di Samaranch, il quale dichiarò al reporter della Reuter qualcosa sul fatto che i Giochi non correvano alcun pericolo. Il telegiornale si chiuse con un'analisi approfondita in vista dell'assemblea della Banca Nazionale che avrebbe avuto luogo nella mattinata. Il cronista anticipò che, a suo parere, il tasso d'interesse sarebbe rimasto invariato, e Annika pensò che sicuramente sarebbe stato alzato o abbassato. Spense il televisore e andò a prendere i giornali del mattino che le venivano recapitati direttamente alla porta di casa. Nessuno dei due riportava qualcosa di più o di diverso rispetto al telegiornale. Non avevano neppure fatto in tempo a realizzare la grafica dell'esplosione, e Annika non l'avrebbe vista prima di arrivare in redazione e dare un'occhiata a uno dei giornali del pomeriggio. Mangiò una scodella di latte fermentato alla fragola con i cereali, si asciugò i capelli con il phon e si imbacuccò per bene prima di uscire. Durante la notte aveva cominciato a nevicare e c'era un forte vento. Aveva pensato di prendere il 56 fino al giornale, ma rivide rapidamente i suoi piani quando la prima raffica di vento misto a neve le investì il viso facendole sciogliere il mascara. Salì su un taxi. Il giornale radio delle sette cominciò nello stesso istante in cui lei prendeva posto sul sedile posteriore. Persino la raffinata redazione della radio era andata durante la notte negli stadi a gridare "C'è nessuno?", il portavoce della polizia era sempre stanco e stressato, e Samaranch stava iniziando a diventare petulante. Annika smise di ascoltare e fissò lo sguardo sulle facciate che le passavano accanto lungo la Norr Mälarstrand, una delle vie più costose della Svezia. Non che lei ne capisse il motivo, a dire il vero. Quei palazzi non le sembravano niente di speciale. Avevano strette facciate che davano sullo specchio d'acqua e qua e là si vedeva qualche balcone, ma niente di più. Oltre tutto, il largo viale a più corsie sempre trafficato impediva di stare seduti a godersi il panorama. Pagò con una carta Visa e sperò che il giornale le rimborsasse la corsa. Nei giorni feriali, Annika prendeva sempre una copia del giornale nel
grande espositore all'ingresso. Di solito riusciva a sfogliarlo fino alle pagine centrali mentre saliva in ascensore al quarto piano, ma questa volta non ci fu verso. Era talmente infarcito di pubblicità che a mala pena si riusciva a leggerlo. Chiodo era già andato a casa, il che le fece piacere. Ingvar Johansson era appena arrivato e stava seduto davanti alla prima tazza di caffè della giornata, immerso nella lettura di uno dei quotidiani del mattino. Annika prese una copia del "concorrente" e un caffè al distributore automatico e si chiuse nel suo ufficio senza salutare. Entrambi i giornali riportavano il nome e la foto della nuova vittima. Si trattava di un certo Stefan Bjurling, un lavoratore edile trentanovenne di Farsta, sposato con tre figli. Da quindici anni era dipendente di una delle centinaia di imprese a cui erano stati affidati diversi appalti dal Socog. Patrik aveva parlato con il suo datore di lavoro. "Stefan era il miglior caposquadra che si potesse avere in un cantiere" diceva il capo della vittima. "Si assumeva le responsabilità, finiva il lavoro entro i termini stabiliti, si dava da fare finché non era tutto a posto. Nella squadra di Stefan non si poteva oziare, questo è certo." Inoltre, Stefan Bjurling era molto popolare e apprezzato per il suo buonumore e lo spiccato senso dell'umorismo. "Era un ottimo compagno di lavoro, con cui si sgobbava volentieri, sempre allegro" diceva un collega. Annika sentì la rabbia crescerle dentro. Maledetto chi aveva ucciso quell'uomo, distruggendo l'esistenza a tutta la sua famiglia. Tre bambini che avevano perso il loro papà, Annika poteva immaginare come avrebbero reagito Ellen e Kalle se Thomas fosse morto all'improvviso. E lei, cos'avrebbe fatto? Come si sopravvive a tragedie del genere? E che modo terribile di morire, pensò, avvertendo un vago senso di nausea mentre leggeva le prime ipotesi della polizia sull'assassinio. Probabilmente, la vittima era stata legata a una sedia, con mani e piedi incatenati e una carica di esplosivo fissata alla schiena, più o meno all'altezza dei reni. Non erano ancora stati stabiliti il tipo di esplosivo e di innesco, ma l'assassino doveva aver usato una qualche forma di timer o di meccanismo ritardante. «Allucinante» disse Annika a voce alta, chiedendosi se non sarebbe stato il caso di risparmiare ai lettori i dettagli più raccapriccianti. Vedeva davanti a sé l'uomo seduto, con la bomba che gli ticchettava sulla schiena, mentre lottava per liberarsi. Cosa pensa uno in un frangente del genere? Vede
passare davanti a sé tutta la sua vita? O pensa ai suoi figli, alla moglie? Oppure soltanto alla corda intorno ai polsi? Il dinamitardo non era soltanto un pazzo, ma anche un vero sadico. Annika rabbrividì, nonostante il riscaldamento che rendeva secca l'aria della stanza. Continuò a sfogliare, superando la vivace descrizione di un ulteriore stadio vuoto senza sorveglianza notturna, e cominciò a leggere le pubblicità. Una cosa era certa, di giocattoli, al mondo, ce n'erano anche troppi. Andò a prendere un altro caffè e, tornando, passò dalla stanza dei fotografi. Johan Henriksson stava leggendo uno dei giornali del mattino. «Un omicidio davvero raccapricciante, vero?» disse Annika sedendosi sulla poltrona di fronte a lui. Il fotografo scosse la testa. «Già, sembra davvero un pazzo furioso. Non ho mai sentito niente del genere.» «Hai voglia di andare a dare un'occhiata?» chiese Annika con voce speranzosa. «È ancora troppo buio» rispose Henriksson. «Non si vedrebbe un cavolo.» «No, fuori no, ma forse adesso è possibile entrare. Magari hanno tolto i sigilli.» «È improbabile. Non avranno ancora fatto in tempo a rimettere insieme tutti i pezzi del tizio.» «Stamattina dovrebbero arrivare gli operai, i colleghi della vittima...» «Con quelli abbiamo già parlato.» Annika si alzò, irritata. «Va be', allora lascia perdere, aspetterò che arrivi qualcuno con il culo meno pesante...» «Ehi, ehi» la chiamò Henriksson «certo che ci vengo, non volevo fare il lavativo.» Annika si fermò e tentò di sorridere. «Okay, scusa se mi sono inalberata. Cerco solo di trovare un po' di entusiasmo.» «Certo» disse Henriksson andando a prendere la borsa delle macchine fotografiche. Annika finì il caffè e andò da Ingvar Johansson. «Sai per caso se la squadra di stamattina ha bisogno di Henriksson, oppure posso portarmelo dietro per vedere se riusciamo a entrare al palazzetto di Sätra?» «Quelli di stamattina non riusciranno a cacciar dentro neanche una sillaba, a meno che non scoppi la terza guerra mondiale: il giornale è pieno fino all'orlo» rispose Ingvar Johansson chiudendo il "concorrente". «Abbiamo sedici pagine in più solo per l'edizione dell'hinterland, inserzioni in o-
gni millimetro libero. Inoltre, hanno mandato fuori una squadra per riferire sul caos del traffico nella tempesta di neve, ma non so proprio dove pensano di ficcare il servizio.» «Be', allora sai dove trovarci» disse Annika andando in ufficio per mettersi il cappotto. Presero una delle auto del giornale, Annika si sedette al volante. La situazione delle strade era davvero pessima, sull'Essingeleden si procedeva sui cinquanta chilometri l'ora. «Non c'è da meravigliarsi se poi ci sono i tamponamenti a catena» commentò Henriksson. Se non altro cominciava a far luce, meglio di niente. Annika si diresse verso sud, sulla bretella tra la E4 e la E20, dove il traffico era un po' meno intenso. Aumentò fino a sessanta all'ora. Svoltò e percorse lentamente la Skärholmsvägen oltrepassando il centro commerciale di Bredäng. Sulla destra sfilavano una dopo l'altra le schiere di villette gialle tutte uguali, sulla sinistra brutti capannoni di lamiera che dovevano essere magazzini o piccole fabbriche. «Mi sa che hai mancato la svolta giusta» disse Henriksson nello stesso istante in cui il palazzetto scompariva alla loro destra in mezzo al turbinio di neve. «Merda!» esclamò Annika. «Adesso ci tocca andare fino al centro commerciale di Sätra e tornare indietro.» Rabbrividì vedendo i palazzoni grigi i cui piani alti scomparivano nella foschia nevosa. Li aveva visitati una sola volta, quando Thomas voleva comprare la prima bicicletta per Kalle. Secondo Thomas, doveva essere una bici usata, quindi meno cara e più ecologica. Aveva fatto una ricerca su un giornale di annunci e quando ne aveva trovata una che sembrava andare bene gli era venuta una gran paura che fosse rubata. Non aveva pagato finché non aveva visto lo scontrino d'acquisto e il bambino che se ne voleva disfare. La famiglia abitava proprio in uno di quei palazzi. Annika si lasciò alle spalle i casermoni e percorse la Eksätravägen. Giunta alla Björksätravägen svoltò a sinistra. L'esplosione era avvenuta nello spogliatoio numero sei, quello degli arbitri, situato nella zona posteriore, tra la palestra e la vecchia pista del ghiaccio. «Chiuso» constatò Henriksson. Annika non rispose e si limitò a invertire la marcia. Tornò indietro e posteggiò in un'area deserta sul lato opposto della Eksätravägen, spazzata dalle folate di neve.
Si mise a guardare l'edificio ricoperto da una sorta di pannello di legno dipinto di rosso. Il lato più corto aveva la forma di un Ufo irregolare: ai lati il tetto era abbastanza piatto, per poi innalzarsi in un arco piuttosto ripido e terminare con una punta leggermente inclinata. «Sei mai stato qui?» chiese a Henriksson. «Mai» rispose lui. «Prendi le macchine fotografiche, e vediamo se da qualche altra parte si riesce a entrare.» Si fecero strada in mezzo alla neve e raggiunsero il retro dell'impianto. Se Annika aveva calcolato giusto, si trovavano nel punto più lontano dall'ingresso principale, in diagonale. «Qui sembra ci sia un'entrata di servizio per i camion» disse avviandosi verso il centro della parete corta. Il portone era chiuso. Proseguirono in mezzo alla neve, girarono l'angolo e avanzarono sul lato più lungo dell'edificio. Al centro c'erano due strette aperture che somigliavano alle portefinestre di un balcone: uscite d'emergenza, pensò Annika. La prima era chiusa a chiave, ma la seconda no. Non si vedevano sigilli della polizia. Sentì un brivido di gioia. «Benvenuto» borbottò aprendo la porta. «Ma si può entrare così, in questo modo?» chiese Henriksson. «Certo» rispose Annika. «Basta mettere un piede davanti all'altro con movimento continuato.» «Ma scusa» obiettò Henriksson preoccupato «non è che per caso sia violazione di domicilio?» «Tra poco lo sapremo, comunque penso di no. Questo è un impianto sportivo di proprietà comunale. È aperto al pubblico, e la porta non era chiusa a chiave. Non dovrebbero esserci problemi.» Henriksson entrò, con un'espressione scettica sulla faccia, e Annika richiuse. Si trovavano in alto, sulla piccola tribuna del palazzetto. Annika si guardò intorno, era una bella costruzione. Sette grandi archi di legno reggevano l'intera struttura. Lo strano apice del lato che ricordava un Ufo era in realtà costituito da una fila di finestre di vetro in cima al tetto. Una pista inclinata dominava l'arena e, in fondo a destra, si vedevano la buca e i supporti per il salto con l'asta. Dall'altra parte della pista si scorgeva qualcosa che poteva essere una fila di uffici. «Laggiù c'è una luce accesa» disse Henriksson indicando la segreteria in fondo a sinistra.
«Allora andiamoci» fece Annika. Seguirono la parete e arrivarono a quella che doveva essere l'entrata principale dell'impianto. Da una stanza adiacente si udivano dei singhiozzi. Henriksson si fermò. «Eh, no» disse. «Io più avanti di così non vado.» Annika fece finta di non sentirlo e si diresse verso l'ufficio da cui provenivano i singhiozzi. La porta era socchiusa. Annika bussò piano e rimase in attesa. Non sentendo niente, si affacciò. Più che una stanza, si trattava di un cantiere: dalle pareti spuntavano i cavi elettrici, nel pavimento c'era una grossa buca, e su un banco da falegname erano appoggiate delle assi e un trapano. In mezzo a tutta quella confusione, una giovane donna bionda stava seduta su una sedia di plastica e piangeva. «Scusi» disse Annika. «Sono una giornalista della "Stampa della Sera". Ha bisogno di aiuto?» La donna seguitò a piangere come se non avesse sentito. «Devo andare a chiamare qualcuno?» chiese Annika. La donna non alzò nemmeno gli occhi, continuando a singhiozzare con le mani davanti al viso. Annika aspettò per qualche istante in silenzio sulla soglia, poi si girò e fece per chiudersi la porta alle spalle. «Lei riesce a capire come si possa essere tanto malvagi?» Annika si fermò e si voltò di nuovo verso di lei. «No» rispose. «È assolutamente inconcepibile.» «Mi chiamo Beata Ekesjö» si presentò la donna soffiandosi il naso in un pezzo di carta igienica. Si asciugò su un altro pezzo e le tese la mano per salutarla. Annika la strinse senza battere ciglio. Le strette di mano erano importanti. Ricordava ancora la prima volta che aveva incontrato una ragazza contagiata dal virus dell'Hiv che aveva contratto la malattia partorendo il suo secondo figlio. Le era stata fatta una trasfusione di sangue, e il sistema sanitario svedese aveva pensato bene di donarle anche il virus mortale. La sua stretta, calda e morbida, le era rimasta impressa sulla mano come un marchio di fuoco fino a quando era rientrata al giornale. Un'altra volta era stata presentata al presidente di un club gemellato con gli Hell's Angels. Annika aveva teso la mano per salutare, il presidente l'aveva guardata dritto negli occhi mentre lentamente leccava la propria mano destra dal polso fino alla punta delle dita. "Certa gente è così stupida" aveva detto poi tendendole la mano bagnata di saliva. Annika l'aveva presa senza esitare. Il ricordo le attraversò veloce la mente mentre stringeva la mano della donna piangente e sentiva i rima-
sugli di lacrime e muco tra le dita. «Annika Bengtzon» rispose. «Lei ha scritto di Christina Furhage» disse Beata Ekesjö. «Ha scritto di Christina Furhage sulla "Stampa della Sera".» «Sì, è esatto» confermò Annika. «Christina Furhage era la donna più fantastica che esistesse» mormorò Beata Ekesjö. «Per questo è così terribile che sia accaduta una cosa del genere.» «Certo» annuì Annika. La donna si soffiò di nuovo il naso e si scostò i capelli dal viso, portandoli dietro le orecchie. Era un biondo pallido naturale, notò Annika, niente radici scure come per esempio Anne Sapphane. Doveva avere poco più di trent'anni, la stessa età di Annika. «Io conoscevo Christina» disse Beata Ekesjö abbassando lo sguardo sul rotolo di carta igienica che teneva in grembo. «Ho lavorato con lei. Per me era un modello di vita.» Annika cominciò a sentirsi a disagio. Qui non c'era niente di interessante da sapere. «Lei crede nel destino?» domandò la donna all'improvviso, alzando gli occhi su Annika. Annika si accorse che Henriksson l'aveva seguita e si era messo dietro di lei. «No» rispose. «Non se lo si intende nel senso che tutto è predeterminato. Credo che siamo noi a dare forma al nostro destino.» «Perché?» chiese la donna, interessata, raddrizzando la schiena. «Il nostro futuro cambia a seconda delle decisioni che prendiamo. Ogni giorno facciamo valutazioni decisive per il corso della nostra vita. Meglio attraversare adesso o aspettare che sia passata quell'auto? Se la decisione è sbagliata, forse la vita si chiude. Dipende da noi stessi.» «Dunque, lei non crede che ci sia qualcuno che veglia su di noi?» chiese Beata a occhi sbarrati. «Un Dio, vuole dire? Sono convinta che il periodo che passiamo sulla terra abbia uno scopo, se è questo che intende. Ma qualunque esso sia, non abbiamo modo di scoprirlo, altrimenti lo avremmo saputo, non crede?» La donna si alzò e parve riflettere su quelle parole. Era piccola di statura, non superava il metro e sessanta, e sottile come un'adolescente. «Cosa fa lei qui, in questa stanza, proprio oggi?» chiese alla fine Annika. La donna sospirò e fissò lo sguardo su un foro per i cavi elettrici nel mu-
ro. «Io lavoro qui» rispose, lottando di nuovo per non piangere. «Lavorava con Stefan?» Lei annuì, e le lacrime ripresero a scorrerle sulle guance. «Malvagità, malvagità, malvagità» mormorò mentre si dondolava da un lato all'altro tenendosi le mani sul viso. Annika prese il rotolo di carta igienica che la donna aveva messo sul pavimento e ne staccò un bel pezzo. «Ecco, tenga.» Beata si voltò con tanta veemenza che Annika fece un passo indietro, pestando un piede a Henriksson. «Se il destino non esiste, chi, allora, ha deciso che Christina e Stefan dovevano morire?» chiese con gli occhi lucidi. «È stato un essere umano» rispose Annika calma. «È stato qualcuno che ha assassinato entrambi. Non mi sorprenderebbe che fosse la stessa persona.» «Io ero qui quando c'è stata l'esplosione» disse Beata voltandosi di nuovo. «Ero stata io a chiedergli di fermarsi a controllare gli spogliatoi. Questo significa che ho la mia parte di responsabilità?» Annika non rispose e osservò la donna con maggiore intensità. In qualche modo, le sembrava che fosse fuori luogo, lì. Cosa voleva dire, in realtà, e cosa ci faceva in quel palazzetto? «Se non è stato il destino a far sì che Stefan si trovasse dove c'è stata l'esplosione, allora è colpa mia, non è vero?» continuò Beata. «Perché pensa che sia colpa sua?» chiese Annika, e nello stesso tempo udì delle voci alle spalle. Era un poliziotto in uniforme che entrava dalla porta principale insieme a otto o nove operai. «Posso farle una foto?» si affrettò a chiedere Henriksson alla donna. Beata Ekesjö si passò una mano sui capelli. «Sì» disse. «Voglio che scriviate di questa cosa. È importante che si sappia. Scrivete quello che ho detto.» Fissò lo sguardo sulla macchina fotografica, e Henriksson scattò un paio di foto senza il flash. «Grazie di aver parlato con noi» disse Annika velocemente, strinse la mano alla donna e si affrettò verso il poliziotto. Forse lui avrebbe potuto raccontare qualcosa di interessante, a differenza di quella poveretta. Il gruppo di uomini si stava dirigendo verso la pista quando Annika li raggiunse. Presentò se stessa e Henriksson, e il poliziotto si arrabbiò subito. «Come diavolo siete entrati? Avete ignorato i sigilli, eh?»
Annika lo guardò calma negli occhi. «Mi dispiace, agente, ma stanotte avete fatto un lavoro poco accurato. Non avete messo i sigilli sul lato sud e non avete chiuso a chiave le uscite di sicurezza.» «Be', fa lo stesso, perché tanto ora voi andate fuori» disse il poliziotto prendendo Annika per un braccio. Nello stesso istante, Henriksson scattò una foto, questa volta con il flash. Il poliziotto trasalì e lasciò andare Annika. «Adesso cosa succede?» chiese lei pescando blocco e penna dalla borsa. «Interrogatori, indagini tecniche?» «Sì, e voi smammate.» Annika sospirò e abbassò il braccio che teneva blocco e penna. «Avanti, agente. Veniamoci incontro. Ci lasci parlare cinque minuti con i ragazzi e scattare una foto di gruppo dentro il palazzetto, e poi noi ce ne andiamo.» Il poliziotto serrò la mascella, si girò e si fece strada in mezzo al gruppo di operai verso l'ingresso principale. Probabilmente, stava andando a chiamare un collega. Annika si rese conto che doveva agire con prontezza. «Okay, possiamo farvi una foto di gruppo?» chiese, e gli operai si affollarono esitanti nella piccola tribuna. «Scusate, forse vi sembreremo un po' invadenti, ma stiamo solo cercando di svolgere al meglio il nostro lavoro. È importantissimo che l'assassino di Stefan venga catturato al più presto, e i mass media possono fornire il loro contributo» spiegò Annika mentre Henriksson scattava una foto dopo l'altra. «Innanzi tutto, vogliamo farvi le condoglianze per la morte del vostro compagno, dev'essere terribile perdere un collega in questo modo.» Gli uomini non risposero. «C'è qualcosa che volete raccontare a proposito di Stefan?» proseguì Annika. Il fotografo aveva sistemato il gruppo sulla tribuna, e gli operai erano tutti rivolti verso di lui con l'intero impianto alle spalle. Ne sarebbe uscita un'immagine suggestiva. Gli uomini esitarono, nessuno voleva rispondere. Erano tutti controllati, seri. Probabilmente, erano un po' scossi. «Stefan era il nostro caposquadra» disse uno del gruppo che indossava una tuta azzurra e logora. «Ed era un gran bravo ragazzo.» Gli altri borbottarono in segno di approvazione. «Che lavoro state facendo, qui?» chiese Annika. «Stiamo revisionando l'edificio e sistemando alcune cose in vista dei
Giochi. Ci occupiamo della sicurezza, dell'impianto elettrico, delle tubazioni... È un lavoro che viene fatto in tutti gli impianti che hanno a che fare con le Olimpiadi.» «E Stefan era il vostro unico principale?» Il gruppo ricominciò a borbottare, finché l'uomo non prese di nuovo la parola. «Be', il nostro diretto superiore era lui. Ma la capoprogetto era lei, la biondina.» Annika alzò un sopracciglio. «Beata Ekesjö?» chiese sorpresa. «È lei il capo, qui?» Gli uomini si lasciarono scappare un sorriso e si scambiarono qualche occhiata d'intesa. Già, era proprio Beata, il capo. Le risatine, però, erano prive di allegria e ricordavano più che altro degli sbuffi spazientiti. Poveraccia, pensò Annika. Non deve avere vita facile, con questi qui. In mancanza di altri spunti, chiese al gruppo se conoscevano Christina Furhage, e tutti annuirono con espressione ammirata. «Quella sì che era una vera donna» disse Tuta Blu. «Nessuno, a parte lei, sarebbe riuscito a mettere in piedi tutto questo.» «Perché lo crede?» domandò Annika. «Andava in ogni cantiere a parlare con gli operai. Nessuno sapeva come facesse a trovare il tempo, ma voleva conoscere tutti di persona e sentire come procedevano le cose.» Gli uomini si zittirono, mentre Annika batteva pensosa la penna sul blocco. «Oggi lavorate o no?» «Dobbiamo parlare con i poliziotti, poi credo che andremo a casa. E osserveremo un minuto di silenzio per Steffe» rispose Tuta Blu. Nello stesso istante, il poliziotto tornò insieme a due colleghi. Avevano l'aria piuttosto arrabbiata e si dirigevano dritti verso il gruppetto. «Grazie mille» disse Annika a voce bassa prendendo in mano la borsa delle macchine fotografiche di Henriksson, visto che era lei la più vicina. Poi girò sui tacchi e si avviò lungo il muro in direzione dell'uscita di emergenza da cui erano entrati. Sentì che il fotografo le correva dietro. «Ehi, voi!» chiamò il poliziotto. «Grazie, non vi disturberemo più!» gli gridò Annika facendogli un cenno di saluto con la mano senza rallentare. Tenne aperta la porta per far passare Henriksson e la lasciò chiudere di colpo alle sue spalle. Sulla via del ritorno, il fotografo rimase seduto in silenzio mentre lei guidava. La neve continuava a cadere, ma adesso c'era la luce del giorno. Il
traffico era ancora più intenso, oltre al solito flusso di macchine si era aggiunto quello di Natale. Ormai, mancavano solo tre giorni. «Dove festeggerai il Natale?» chiese Annika per rompere il silenzio. «Cos'hai intenzione di fare di questa roba?» fu la risposta di Henriksson. Annika lo guardò sorpresa. «Come, scusa? Cosa vuoi dire?» «Si può davvero pubblicare qualcosa quando ci si è introdotti in un posto in questo modo?» Annika sospirò. «Parlerò con Schyman e gli spiegherò cos'è successo. Ma credo che si farà così: mettiamo una foto con gli operai sulla tribuna e qualcosa sul minuto di silenzio per Steffe. Praticamente, poco più di una didascalia. Nell'articolo a fianco possiamo riportare la ricostruzione dei fatti della polizia e dire che gli interrogatori con gli operai e l'indagine tecnica continuano e bla, bla, bla.» «E la ragazza?» Annika si morse il labbro. «Di lei non parlerò. Era troppo sconvolta e non ha detto niente di nuovo. Non mi sembrava del tutto in sé, tu che ne dici?» «Non ho sentito l'inizio della conversazione» rispose il fotografo. «Ha parlato di malvagità e di colpa tutto il tempo?» Annika si grattò il naso. «Più o meno. Perciò, credo proprio che non ne farò cenno. Si trovava nell'impianto quando è avvenuto lo scoppio, però non ci ha saputo dire niente in proposito. L'hai sentita anche tu. In questo caso bisogna prendere delle precauzioni per evitare di esporla, anche se era proprio lei a volerlo. Non credo che sappia quale sia il suo bene.» «Però tu hai detto che non sta a noi decidere chi vuole comparire sul giornale» obiettò Henriksson. «È vero» ammise Annika. «Ma sta a noi valutare se la persona in questione è abbastanza in sé da capire chi siamo e cosa diciamo. Quella tipa era troppo fuori di testa, e non deve finire sul giornale. Però, posso scrivere che la capoprogetto si trovava nell'edificio al momento dell'esplosione, che è completamente sconvolta dalla morte di Stefan e biasima se stessa per l'accaduto. Ma non ritengo che dobbiamo pubblicare il suo nome e la sua foto.» Rimasero in silenzio fino al giornale. Annika fece scendere Henriksson all'ingresso prima di portare l'auto nel parcheggio coperto. Bertil Milander era seduto davanti alla Tv nella sua splendida biblioteca in stile art nouveau e sentiva il sangue pulsargli nelle vene. Il suo respiro
riempiva la stanza. Capì che stava per addormentarsi. Il volume del televisore era stato abbassato fino a ridursi a un sussurro che gli arrivava a intermittenza attraverso i rumori del lavorio interno al suo corpo. In quel momento alcune donne parlavano e ridevano insieme, ma lui non sentiva cosa dicessero. A intervalli, comparivano sullo schermo le immagini di un gioco a premi. Milander non capiva di cosa si trattasse. I sedativi rendevano tutto sfocato. A tratti, si lasciava sfuggire un singhiozzo. «Christina» mormorò. Doveva essersi appisolato, ma all'improvviso si ritrovò del tutto sveglio. Riconobbe l'odore, sapeva che significava pericolo. Il segnale di allarme gli si era ormai impresso dentro con tanta forza da raggiungere la sua coscienza nonostante i calmanti. Si alzò a fatica dal divano di pelle, aveva la pressione talmente bassa che ebbe un capogiro. Tenendosi alla spalliera, cercò di localizzare l'odore. Veniva dal salone. L'uomo cominciò a camminare lentamente, appoggiandosi alle librerie, finché non sentì che la pressione era tornata a un livello accettabile. Sua figlia era accovacciata davanti al camino e ci stava infilando qualcosa, un cartoncino di forma rettangolare. «Che stai facendo?» chiese Bertil Milander confuso. Il tiraggio del vecchio camino non era dei migliori, e piccoli sbuffi di fumo si diffondevano nel salone. «Faccio pulizia» rispose la figlia Lena. L'uomo si avvicinò alla giovane e si sedette sul pavimento accanto a lei. «Hai acceso un fuoco?» disse con delicatezza. La figlia lo guardò. «Già, ma non sul parquet, questa volta.» «Perché?» chiese lui. Lena Milander fissò la fiamma, che si stava esaurendo rapidamente. Staccò un altro cartoncino e ce lo mise dentro. Il fuoco lo catturò, ingoiandolo. Per qualche secondo rimase dritto e piatto, poi si accartocciò rapidamente e scomparve. Gli occhi sorridenti di Christina Furhage svanirono per sempre. «Non vuoi avere qualche ricordo della mamma?» domandò Bertil. «Me la ricorderò per sempre» rispose Lena. Staccò altri tre fogli dall'album e li gettò nel camino. Eva-Britt Qvist alzò gli occhi mentre Annika le passava davanti, diretta al suo ufficio. Annika la salutò cortesemente, ma Eva-Britt tagliò corto. «Ah, sei già tornata dalla conferenza stampa?» chiese trionfante.
Annika capì subito cosa voleva che rispondesse la segretaria di redazione, e cioè "Quale conferenza stampa?", così Eva-Britt Qvist avrebbe avuto modo di sostenere che era lei, poveretta, a dover tenere sotto controllo tutto quanto nella redazione di cronaca nera. «Non ci sono andata» rispose, poi le fece un ampio sorriso e andò difilato nel suo ufficio, chiudendo la porta. "Eccoti servita, adesso cerca pure di indovinare dove sono stata." Chiamò Berit sul cellulare. Era acceso, ma dopo alcuni squilli partì la segreteria telefonica. Berit teneva sempre il cellulare in fondo alla borsa e non riusciva mai a tirarlo fuori in tempo. Annika aspettò qualche secondo e riprovò. Questa volta Berit rispose subito. «Sono alla conferenza stampa in questura» disse. «Visto che tu eri uscita con Henriksson, sono venuta qui io con Ulf Olsson.» E brava ragazza! pensò Annika. «Cosa dicono?» «Cose interessanti. Tra poco sono lì.» Riattaccarono. Annika si appoggiò allo schienale e mise i piedi sulla scrivania. Nel cassetto delle penne trovò una barretta di cioccolato al latte mezza sciolta e la spezzò in diversi tronchetti. Si erano formati dei cristalli di zucchero, ma era ancora mangiabile. Non poté fare a meno di pensare, anche se probabilmente non avrebbe avuto il coraggio di sostenerlo in redazione, che il collegamento fra entrambi gli omicidi e le Olimpiadi era piuttosto debole. In effetti, c'era da chiedersi se, nonostante tutto, non si trattasse di due omicidi distinti. Il palazzetto di Sätra era quanto di più lontano da un'arena olimpica ci potesse essere. Dovevano esserci tantissimi denominatori comuni tra Christina Furhage e Stefan Bjurling. Uno poteva essere rappresentato dalle Olimpiadi, ma non era detto. In qualche punto del loro passato c'era qualcosa che li collegava allo stesso assassino, Annika ci avrebbe scommesso. Soldi, amore, sesso, potere, invidia, odio, soprusi, prestigio, parenti, amici, vicini di casa, vacanze, scuole, asili, trasporti... Le loro vite potevano essersi sfiorate in migliaia di modi. Soltanto al cantiere, quella mattina, c'erano almeno dieci persone che avevano conosciuto sia Christina Furhage che Stefan Bjurling. Non era nemmeno necessario che le due vittime si conoscessero direttamente. Chiamò la sua fonte. L'uomo fece un sospiro profondo. «Credevo che io e lei avessimo smesso di parlarci.»
«Già, e ha visto che bel risultato? Molto divertente il dibattito sulla sicurezza, vero? "Ehi, c'è nessuno?"» disse imitando il reporter della radio. Il poliziotto sospirò di nuovo e Annika rimase in attesa. «Non posso più parlare con lei.» «Va bene, d'accordo» si affrettò a replicare Annika. «Capisco che lei abbia molto da fare, perché credo che stiate cercando febbrilmente un collegamento tra Stefan Bjurling e Christina Furhage. Magari avete già trovato quello giusto. Quanti avevano accesso ai codici degli allarmi e conoscevano anche Stefan?» «Cerchiamo febbrilmente di difenderci da ulteriori richiami a una più stretta sorveglianza degli impianti...» «Non ci credo» disse Annika. «Trovate anzi un bene che l'attenzione si sia spostata dalla teoria su cui puntate voi a un dibattito del tutto irrilevante sulla sicurezza.» «Non dirà sul serio» obiettò il poliziotto. «La responsabilità della sicurezza, in fin dei conti, ricade sempre sulla polizia.» «Non sto parlando dell'intero corpo di polizia, ma di lei e dei suoi amici, che cercate di risolvere questi due casi. Sta a voi, no? Se ce la fate, il dibattito si esaurisce da solo.» «Se?» «Diciamo "quando". Perciò ritengo che lei debba ricominciare a parlare con me, perché l'unico modo di progredire in qualche modo, nella vita, è la comunicazione.» «Ah, era questo che stava facendo stamattina al palazzetto di Sätra, stava comunicando?» Oh, cazzo, gliel'avevano detto. «Sì, tra le altre cose» rispose. «Adesso devo riattaccare.» Annika inspirò e disse: «Christina Furhage aveva un altro figlio, un maschio». «Questo lo so già. Arrivederci.» Era davvero incazzato nero. Annika riattaccò nello stesso istante in cui entrava Berit. «Che tempo» disse scuotendo via la neve dai capelli. «Hanno preso l'assassino?» chiese Annika offrendole un pezzo di cioccolata. Berit lo guardò disgustata e rifiutò cortesemente. «No, ma pensano si tratti della stessa persona. Sostengono che non c'è alcuna minaccia nei confronti dei Giochi.» «E che argomentazioni hanno usato?»
Berit estrasse il blocco degli appunti e cominciò a sfogliarlo. «Non sono state rese pubbliche minacce contro qualche impianto o persona che avessero un qualsivoglia collegamento con i Giochi. Le minacce eventualmente pervenute sono sempre state di carattere personale.» «Si riferiscono a quelle nei confronti di Christina Furhage. Ne sono state rivolte anche a Stefan Bjurling?» «Spero di riuscire a saperlo oggi pomeriggio, perché incontrerò sua moglie.» Annika alzò le sopracciglia. «Davvero? È disposta a parlarti?» «Già, non ha niente in contrario. Vedremo che cosa salta fuori. Forse sarà troppo sconvolta e confusa per rilasciare un'intervista.» «Be', comunque è un'ottima cosa. Altro?» Berit sfogliò ancora i suoi appunti. «Sì, sono quasi pronti i primi risultati dell'analisi sull'esplosivo del primo omicidio. Speravano di poter emettere un comunicato subito dopo pranzo. Avevano creduto di averlo pronto in tempo per la conferenza stampa, ma a Londra c'è stato qualche intoppo.» «Per quale motivo, poi, il materiale è stato mandato a Londra?» chiese Annika. Berit sorrise. «Perché le attrezzature del laboratorio di Linköping sono fuori uso. Semplice, no?» «Ma perché scartano così drasticamente l'ipotesi del sabotaggio?» «Immagino che vogliano lavorare con calma» rispose Berit. «Non lo so, non credo che sia solo questo» disse Annika. «Secondo me, stanno per risolvere i due casi.» Berit si alzò in piedi. «Io ho fame. E tu?» Andarono alla caffetteria. Berit prese le lasagne e Annika un'insalata di pollo. Avevano appena preso i piatti, quando arrivò Patrik. I suoi capelli erano scompigliati, e dava l'impressione di aver dormito vestito. «Buongiorno» disse Annika. «Gran bel lavoro, stanotte. Come hai fatto a trovare tutti quei colleghi del morto?» Il giovanotto si schermì, imbarazzato per l'elogio. «Boh, ho solo chiamato a casa e li ho svegliati.» Annika sorrise. Parlarono un po' di angosce natalizie, stress e regali. Berit aveva già fatto i suoi acquisti all'inizio di dicembre, Patrik e Annika non avevano nemmeno cominciato. «Pensavo di riuscire a comprare qualcosa oggi» disse Annika. «Io prenderò una scatola di cioccolatini per mia madre direttamente
sull'aereo» assicurò Patrik. Sarebbe andato a festeggiare il Natale dai suoi genitori in Småland, mentre Berit avrebbe ricevuto la visita di sua figlia che viveva negli Stati Uniti e del figlio che abitava a Malmö. «Abbiamo lavorato come schiavi, in questi ultimi giorni. Cosa ne dite di organizzarci in modo da avere qualche momento di libertà, per questi ultimi giorni?» propose Annika. «Io starei volentieri a casa giovedì» rispose Patrik «così posso partire prima.» «Io, invece, domani avrei bisogno di fare un po' di pulizie, Yvonne e la sua famiglia arrivano giovedì» disse Berit. «Be', ma allora è perfetto. Io vado via presto oggi e abbastanza presto anche giovedì.» Si alzarono da tavola e decisero di fare rapidamente il punto della situazione nell'ufficio di Annika. Patrik si allontanò per procurarsi una copia del "concorrente". Annika e Berit si sedettero ai soliti posti: Berit sulla poltrona e Annika con i piedi sulla scrivania. Un secondo più tardi, Patrik fece irruzione come un uragano. «Sappiamo cosa ha ridotto in polpette Christina Furhage!» Stava sventolando il comunicato stampa della polizia. «Bene» disse Berit. «Cosa c'è scritto?» Patrik lesse in silenzio per qualche secondo. «Normale dinamite» commentò un tantino deluso. «Che tipo di dinamite?» chiese Annika allungando una mano verso il comunicato. Patrik lo tirò indietro. «Calma, calma. Ecco cosa dice: "È stata conclusa l'analisi dell'esplosivo usato per l'attentato allo stadio Vittoria di Stoccolma delle tre e diciassette e bla bla bla... in cui ha perso la vita il direttore generale del Socog, Christina Furhage. Il materiale è un esplosivo gelatinoso che contiene una parte di nitroglicerina invece del solo nitroglicole. Si trova in commercio con il marchio Minex ed è disponibile in formati e pesi diversi. È stato calcolato che la carica in oggetto pesava intorno ai ventiquattro chili ed era composta da quindici candelotti plasticati delle dimensioni di 50 per 550 mm...".» «Ventiquattro chili? Non sono tantissimi?» chiese Annika. «Soprattutto in superficie» osservò Berit. «Non c'è da meravigliarsi se lo spostamento d'aria si è sentito fino a Södermalm.» Patrik continuò a leggere: «"L'esplosivo è stato prodotto nella Polonia
meridionale negli ultimi tre anni. È caratterizzato da un alto rapporto peso/potenza, alta densità e alta velocità di detonazione. La consistenza è morbida e l'odore relativamente poco intenso. Il materiale ha un alto grado di flemmatizzazione..." Che cazzo vorrà dire?». «Ha qualcosa a che fare con la sicurezza» rispose Berit. «Si tratta di un esplosivo sicuro.» «E tu come fai a saperlo?» chiese Annika, impressionata. Berit alzò le spalle. «Sono brava anche a risolvere le parole crociate.» «"Il contenuto energetico è elevato, il volume dei gas poco più alto della norma, il rapporto peso/potenza è il 115 per cento di Anfo e la densità circa 1,45 kg per decimetro cubo. La velocità di detonazione raggiunge i 5500-6000 m/s."» «Okay, che significa tutta questa pappardella?» chiese Annika. «Calma, ora ci arrivo. "Il Minex è uno dei marchi di dinamite più diffusi in Svezia. Nel corso degli ultimi tre anni, il materiale è stato venduto attraverso un grossista di Nora a un centinaio di progetti edilizi. Non è stato possibile stabilire di quale partita facesse parte originariamente la carica in oggetto."» «Normale dinamite edile, dunque» concluse Berit. «Che lavori si fanno con la dinamite?» chiese Annika. «Di tutto. Si utilizza nella costruzione di strade, nelle miniere e nelle cave, per trasformare il granito in ghiaia, per appianare la base per le fondamenta di abitazioni... Noi abbiamo chiamato un esperto, quando abbiamo fatto il pozzo per la nostra casa di campagna. Si usa quotidianamente, insomma.» «Ora che ci penso, è vero» disse Annika. «Hanno fatto saltare cariche a tutto spiano, quando hanno costruito le case nella zona dell'ospedale di Sankt Erik, dalle mie parti.» «Ascoltate, non ho finito. "L'ordigno è stato fatto esplodere con l'aiuto di detonatori elettrici collegati a un meccanismo ritardante in forma di timer e a una batteria d'automobile..."» Patrik abbassò il foglio e guardò le colleghe. «Cavoli» commentò. «Alla faccia della pianificazione.» Rimasero in silenzio per qualche istante a rimuginare su quanto appena sentito. Annika tolse i piedi dalla scrivania e si riscosse. «Porca vacca, ne abbiamo di lavoro da fare. Chi fa cosa? Berit, tu hai la famiglia della vittima, e tu, Patrik, ti prendi l'analisi e la caccia all'assassino.»
I due reporter annuirono e Annika proseguì: «Ho scritto quaranta righe sugli operai che si sono presentati al lavoro e hanno osservato un minuto di silenzio per il loro collega morto. Questo per far vedere quanto sentono la mancanza del loro amico». «È stato un lavoraccio?» chiese Berit. «Mah, c'era una donna che piangeva, assolutamente inconsolabile. Parlava in maniera incoerente di colpa, punizioni e malvagità, e la cosa non è stata piacevole. L'ho lasciata fuori dall'articolo. Non mi sembra il caso di coinvolgerla.» «Credo che tu abbia ragione» concordò Berit. «Abbiamo dimenticato qualcosa? C'è altro, in questo momento?» I due cronisti scossero la testa e si avviarono verso le loro postazioni. Annika archiviò l'articolo nel server, si mise il cappotto e uscì. Era solo l'una e mezzo, ma non aveva alcuna voglia di trattenersi un attimo di più. Nevicava ancora, quando Annika si avviò verso la fermata del 56 sulla Fyrverkarbacken. La temperatura si aggirava intorno allo zero e i fiocchi si tramutavano in una poltiglia grigiastra non appena toccavano l'asfalto. Riuscivano a restare intatti e a formare uno strato più o meno bianco soltanto sulla distesa d'erba che saliva verso l'ambasciata russa. Annika si sedette pesantemente sulla panchina della fermata. Era sola, il che le fece sospettare di aver appena perso un autobus. Avrebbero festeggiato il Natale in città, per la vigilia sarebbero venuti i genitori di Thomas. Quanto a lei, praticamente non aveva più contatti con la propria famiglia. Suo padre era morto, sua madre abitava a Hälleforsnäs, in Sörmland, dove lei era cresciuta. Sua sorella abitava a Flen e lavorava come cassiera in un supermercato. Non si vedevano quasi mai, ma non le importava. Non avevano più niente in comune, a parte il periodo trascorso in un moribondo paese di campagna. Anche se a volte Annika si chiedeva se avevano davvero vissuto nello stesso posto, tanto era diverso il loro modo di descriverlo. L'autobus era quasi vuoto. Annika si sedette in fondo e rimase a bordo fino alla Hötorget. Entrò nel grande magazzino Pub e comprò dei giocattoli con la sua carta Visa per un valore di 3218 corone, consolandosi al pensiero che, per lo meno, avrebbe accumulato un bel po' di punti. Per Thomas comprò un libro sulla preparazione delle salse e una camicia, mentre per la suocera scelse uno scialle di lana. Al suocero ci doveva pensare Thomas, tanto voleva sempre e solo del cognac. Alle due e mezzo, era già a casa. Dopo qualche attimo di esitazione, nascose i giocattoli in fondo al
suo guardaroba. A pensarci bene, Kalle li aveva trovati proprio lì, l'anno prima, ma in quel momento non aveva voglia di pensare a un nascondiglio migliore. Uscì di nuovo nella poltiglia della strada e, colta da un'improvvisa ispirazione, andò al negozio di antichità nell'isolato accanto. Lì si trovava la più incredibile delle collezioni di bigiotteria: collane e orecchini, grandi come quelli portati dalle star del cinema degli anni Quaranta. Entrò e comprò una spilla classica placcata oro con granate per Anne Sapphane. L'uomo compito dietro al banco avvolse la scatolina in una carta da regalo color oro e la legò con un nastrino blu luccicante. Non appena Annika mise piede nell'asilo, i bambini le corsero incontro in preda alla felicità. I sensi di colpa l'assalirono come una coltellata al petto. Forse era così che avrebbe dovuto comportarsi sempre una vera madre... Entrarono nel supermercato Konsum all'angolo tra la Scheelegatan e la Kungsholmsgatan e comprarono pasta di mandorle, panna, sciroppo di glucosio, mandorle tritate, pasta per i biscotti allo zenzero e cioccolato amaro. I suoi figli cinguettavano come usignoli. «Cosa facciamo, mamma? Verrà buono? Ci dai i dolci, oggi, mamma?» Annika rise e li abbracciò mentre erano in coda alla cassa. «Sì, ma oggi i dolci ce li facciamo noi. Divertente, no?» «A me piacciono i gattini di gelatina» disse Kalle. Quando arrivarono a casa fece indossare ai bambini due lunghi grembiuli, e decise di fregarsene del risultato lasciando semplicemente che si divertissero. Prima fece sciogliere la cioccolata nel forno a microonde in modo che fosse cremosa al punto giusto, poi i bambini vi mescolarono i pezzetti di pasta di mandorle. Non ne vennero fuori troppe, di palline, e non avevano certo un bell'aspetto. Sua suocera avrebbe di certo arricciato il naso, però i suoi figli se la spassavano, soprattutto Kalle. Aveva pensato di preparare anche i croccantini, ma si rese conto che i bambini non avrebbero potuto aiutarla, il caramello era troppo bollente. Così, accese il forno e si dedicò all'impasto per i biscotti allo zenzero. Ellen era al settimo cielo. Stendeva la pasta con il mattarello, ricavava le figurine con lo stampino e si rimpinzava con i ritagli tra un biscotto e l'altro. Alla fine, ne vennero fuori un paio di teglie quasi presentabili. «Siete stati bravissimi!» disse Annika. «Guardate come sono venuti bene!» Kalle, gonfio d'orgoglio, prese un biscotto e un bicchiere di latte anche
se in realtà era sazio da scoppiare. Annika piazzò i bambini davanti al televisore mentre sistemava la cucina. Ci vollero tre quarti d'ora. Poi andò a sedersi con loro sul divano nel punto più angosciante del Re Leone, quello in cui moriva il papà di Simba. Visto che il film non era ancora finito, ne approfittò per chiamare Anne Sapphane. Anne viveva da sola con la sua figlioletta al piano superiore di una villa a Lidingö. La bambina, che si chiamava Miranda, stava con il suo papà a settimane alterne. Quando Annika chiamò, erano a casa entrambe. «Non ho ancora avuto la forza di cominciare a preparare per il Natale» gemette Anne. «Perché tu trovi sempre l'energia per fare tutto e io no?» In sottofondo, Annika sentì la musica del Gobbo di Notre-Dame. Anche a Lidingö stavano vedendo un film della Disney. «Ma come, non sono io quella che non fa mai in tempo a fare le cose?» ribatté. «Casa tua è sempre pulita e in ordine. Ogni volta che vengo a trovarti mi prendono i sensi di colpa.» «Guarda, ti dico solo questo: Tonja, domestica polacca» rispose Anne. «Per il resto, tutto bene?» Annika sospirò. «Al lavoro ho vita dura. C'è una ristretta cerchia di persone che ogni volta cerca di mettermi i bastoni tra le ruote.» «Lo so, all'inizio è un inferno, quando si viene promossi. I miei primi sei mesi come producer pensavo di morire, avevo male al cuore ogni santo giorno. C'è sempre qualche diavoletto invidioso che vuole sabotarti.» Annika si morse il labbro. «Ogni tanto mi chiedo se ne è valsa la pena. In realtà, sono queste le cose a cui dedicarsi: fare i biscotti con i tuoi figli e stare accanto a loro quando qualcosa li turba...» «Diventeresti matta nel giro di una settimana» rispose Anne. «Già, probabilmente hai ragione. Però sono sempre loro la cosa più importante, i bambini. Su questo non ci piove. Quella donna che è stata assassinata, Christina Furhage, aveva un figlio maschio che è morto a cinque anni, e lei non ha mai superato il trauma. Pensi che il suo lavoro e i suoi successi avrebbero mai potuto cancellare quel ricordo?» «Dio mio, che tragedia» disse Anne. «E di che cosa è morto?» «Melanoma maligno, cancro alla pelle. Terribile, vero?» «No, micio, scendi di lì... Quanti anni hai detto che aveva?» «Cinque, proprio come Kalle.» «E sarebbe morto di melanoma maligno? Impossibile!» Annika non capiva. «Cosa vuoi dire?» «Non può essere morto di melanoma maligno, se aveva cinque anni.
Non è possibile.» «E tu come lo sai?» chiese Annika sorpresa. «Credi che mi sia rimasto qualche neo, sul corpo? Eh? Oppure credi che me li sia fatti togliere tutti, fino all'ultimo, prima di compiere vent'anni? Pensi che proprio io, fra tutti quelli che conosci, potrei sbagliarmi su una cosa del genere? Ma per favore...» Annika si sentiva sempre più confusa. Poteva aver capito male quello che le aveva detto Helena Starke? «E perché non potrebbe aver avuto un melanoma maligno?» chiese stupidamente. «Perché la variante maligna del melanoma non si presenta mai prima della pubertà. Ma può darsi che la sua pubertà sia stata un tantino precoce. Non sarebbe il primo. Si chiama...» Annika stava cercando di riflettere. Anne Sapphane aveva senz'altro ragione. Era un'ipocondriaca purosangue, non c'era malattia che non pensasse di aver avuto, non esisteva esame medico a cui non si fosse sottoposta. Non si contavano le volte in cui era stata portata in ambulanza al pronto soccorso, e ancora di più quelle in cui si era presentata ai diversi ambulatori della città, pubblici e privati. Sapeva tutto di ogni immaginabile forma di cancro, era in grado di elencare a occhi chiusi la differenza tra i sintomi della sclerosi multipla e dell'amiloidosi familiare. Non poteva sbagliarsi. Dunque, era Helena Starke a sbagliarsi. Oppure mentiva. «... Annika?» «Scusa, devo riattaccare.» Mise giù il ricevitore e sentì dei brividi correrle lungo la schiena. Era una scoperta determinante, lo sentiva. Il figlio di Christina Furhage non era morto di melanoma maligno, forse era morto in tutt'altro modo. Era stato colpito da un'altra malattia, aveva avuto un incidente, o era stato addirittura assassinato? E se non fosse neanche morto? Magari era vivo e vegeto. Cominciò a camminare avanti e indietro per la cucina, con l'adrenalina alle stelle. Sì, se lo sentiva: quella era la pista giusta. D'un tratto si fermò. La sua fonte! Il poliziotto sapeva che Christina aveva un figlio, l'aveva detto subito prima di riattaccare. Allora, anche la polizia seguiva quella pista! «Mamma, Il Re Leone è finito.» Erano arrivati in cucina come una piccola processione, Kalle davanti ed Ellen dietro. Annika ricacciò indietro i pensieri su Christina Furhage, nascondendoli in un luogo inaccessibile del suo cervello. «Vi è piaciuto? Avete fame? No, basta biscotti, adesso. Che ne dite di un
piatto di spaghetti per cena? No? E di una pizza?» Chiamò la pizzeria Il Sole di fronte a casa e ordinò una capricciosa, una porzione di spaghetti al ragù e un calzone ripieno di pancetta. Thomas si sarebbe arrabbiato, ma pazienza. Se voleva un'altra volta lo spezzatino d'alce, doveva tornare a casa alle due e cominciare a prepararlo. Evert Danielsson lasciò la Sollentunavägen per infilarsi nella stazione di servizio di Helenelund. C'era un grande autolavaggio fai-da-te da cui andava una volta alla settimana per lavare la sua macchina. La segretaria gli aveva prenotato tre ore dalle diciannove in avanti. Probabilmente non sarebbe stato necessario, ma lui preferiva non rischiare. Tre ore di seguito non erano facili da ottenere senza prenotazione. Entrò nel negozio e raccolse ciò che gli serviva: un barattolo di spray sgrassante, lo shampoo per auto senza cera, due confezioni di cera originale Turtle e un pacchetto di pezze di pelle. Pagò alla cassa: 31.50 per lo sgrassante, 29.50 per lo shampoo e 188 corone per le due confezioni di cera. La prenotazione dell'autolavaggio costava 64 corone all'ora per i soci, e dunque si arrivava complessivamente a più di 400 corone. Evert Danielsson sorrise alla cassiera e pagò con la carta aziendale. Uscì e portò la macchina nell'autolavaggio, chiuse il portone, tirò fuori lo sgabello da campeggio e piazzò il suo stereo portatile sulla panca nell'angolo. Scelse una raccolta di arie tratte da diverse opere: Aida, Flauto Magico, Carmen, Madama Butterfly... Mentre la Regina della Notte intonava i suoi fa diesis a quattro tempi, cominciò a sciacquare l'automobile. La poltiglia di fango, ghiaia e ghiaccio cominciò a scivolare a rivoli nel pozzetto al centro del pavimento. Danielsson passò a spruzzare lo sgrassante. Mentre aspettava che facesse effetto, si sedette sullo sgabello da campeggio ad ascoltare La Traviata di Verdi. Non è che dovesse per forza sentire l'opera, mentre lavava la macchina, a volte erano Muddy Waters o Hank Williams. Di tanto in tanto si lanciava anche su pezzi moderni, gli piacevano Rebecka Törnqvist e alcune canzoni di Eva Dahlgren. Lasciò che i pensieri vagassero in libertà, ma ben presto si ritrovò a rimuginare sull'argomento che in quel momento dominava la sua esistenza, e cioè i suoi futuri incarichi professionali. Aveva trascorso la giornata cercando di inquadrare quello che avrebbe potuto essere il suo lavoro, dando priorità agli incarichi più urgenti e cominciando a pensare ai provvedimenti da prendere. In qualche modo provava un certo sollievo per il fatto che
Christina non c'era più. Chi l'aveva fatta saltare in aria, forse, aveva reso un gran favore al mondo. Quando il pezzo fu finito, cambiò Cd sostituendolo con una musica da pianoforte di Eric Satie. Le note tristi risuonarono nell'autolavaggio mentre Danielsson afferrava di nuovo la pompa dell'acqua e cominciava a sciacquare l'auto. Quella parte del lavoro non gli piaceva troppo: era la fase finale che attendeva con piacere, il momento in cui avrebbe dato la cera e lucidato la vernice fino a farla scintillare. Passò una mano sul tettuccio. Sentiva che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Thomas mise a dormire i bambini poco dopo le sette e mezzo. Annika aveva letto loro la storia di una bambina che andava all'asilo e della sua mamma. Nel libro la mamma raccontava alle maestre del suo capo, a cui nessuno voleva ubbidire, e tutti lo trovavano molto divertente. «Pensa un po', i capi vengono presi in giro dappertutto, persino nei libri per bambini» commentò Annika. «Cosa vuoi dire?» chiese Thomas aprendo il giornale alle pagine economiche. «Prendi questo test, per esempio» ribatté Annika mostrandogli una rivista femminile. «Se rispondi a tutte queste domande, ti dicono come ti va sul lavoro. Guarda la quattordici: "Com'è il tuo capo?". Le alternative sono: a) vile e incompetente, b) presuntuoso e incapace, c) arrogante. Hai capito? Che cavolo di impostazione è? E poi, nella pagina dopo, ti danno i consigli su come diventare un capo. La morale è che tutti quelli che fanno i capi sono idioti, mentre chi non lo è vuole diventarlo. Ma le cose non stanno mica così.» «È chiaro che non stanno così» convenne Thomas girando la pagina. «Però, l'intera società è strutturata secondo questi falsi miti!» «Be', tu stessa eri molto critica nei confronti dei tuoi superiori al giornale, in passato. Te ne sei dimenticata?» Annika abbassò la rivista sulle ginocchia e guardò Thomas con aria di rimprovero. «Scusa, sai, ma quelle erano proprio le persone sbagliate nel posto sbagliato.» «Ecco, vedi?» rispose Thomas riprendendo a leggere. Annika rimase seduta in silenzio a riflettere mentre il servizio meteorologico parlava del tempo previsto per i giorni successivi. Sarebbe stato un bianco Natale in tutto il paese, almeno fino al 25, quando sarebbe arrivata una perturbazione da ovest con piogge che avrebbero colpito il Bohuslän
già dalla sera della vigilia. «Anche tu hai avuto qualche difficoltà all'Unione dei Comuni, prima di trovare la tua strada, no?» chiese Annika. Thomas abbassò il giornale, spense la Tv e tese le braccia verso Annika. «Vieni qua, amore mio.» C'era un gran silenzio, una volta spento il televisore. Annika si alzò dalla poltrona e si accoccolò sul divano tra le braccia del marito, con la schiena contro il suo petto e le gambe appoggiate al tavolino. Lui la strinse a sé e le accarezzò le spalle, le soffiò sul collo e la baciò all'attaccatura della clavicola. Annika sentì un brivido al basso ventre, forse quella sera avrebbero trovato la forza di fare l'amore. Proprio in quel momento squillò il suo cellulare, i segnali soffocati provenienti dalla borsa arrivarono fino al salotto. «Fregatene» sussurrò Thomas mordendole il lobo dell'orecchio, ma era troppo tardi. Annika aveva già perso quella sensazione di intimità, ed era rigida e tesa. «Guardo solo chi è» borbottò alzandosi. «Devi cambiare la suoneria a quel telefono» le gridò dietro Thomas. «Che cavolo di orrenda melodia è quella?» Annika non riconobbe il numero comparso sul display e decise di rispondere. «Annika Bengtzon? Buonasera, sono Beata Ekesjö. Ci siamo viste stamattina al palazzetto di Sätra...» Annika alzò gli occhi al cielo. «Certo» rispose brevemente. «Di cosa si tratta?» «Ecco, volevo sapere cosa scriverà di me sul giornale di domani.» La voce della donna suonava allegra e vivace. «Perché?» domandò Annika sedendosi sulla panca dell'ingresso. «Così, me lo chiedevo soltanto. Sa, è importante che siano informazioni corrette.» Annika sospirò. «Non potrebbe essere più precisa?» chiese guardando l'orologio. «Potrei raccontare qualcosa di più su di me, su come lavoro e così via. Ho una casa davvero bella, se vuole può venire a vederla.» Annika sentì che Thomas riaccendeva la Tv. «Temo che sia impossibile. Lo spazio che abbiamo a disposizione sul giornale è molto limitato, come capirà senz'altro. Lei non verrà citata.» All'altro capo del filo ci fu qualche secondo di silenzio. «Cosa vuol dire,
che non scriverà di me nel suo articolo?» «Non questa volta.» «Ma come... lei ha parlato con me! E il fotografo ha anche scattato una foto.» «Capita spesso che parliamo con persone di cui poi non scriviamo niente» replicò Annika sforzandosi di essere il più possibile cortese. «La ringrazio ancora una volta per averci voluto dedicare il suo tempo, stamattina, ma non pubblicheremo la conversazione che abbiamo avuto.» Il silenzio si fece ancora più pesante. «Voglio che lei scriva quello che ho detto stamattina» insisté la donna a voce bassa. «Mi dispiace, non è possibile» disse Annika. Beata Ekesjö sospirò. «E va bene. Grazie comunque.» «Grazie a lei, arrivederci» la salutò Annika chiudendo la telefonata. Si affrettò a tornare sul divano da Thomas, gli prese il telecomando di mano e spense l'apparecchio. «Dov'eravamo rimasti?» «Chi era?» domandò Thomas. «Una che ho conosciuto oggi, sembrava un po' fuori di testa. È responsabile della ristrutturazione del palazzetto di Sätra.» «Allora farà una vita d'inferno, almeno stando alle statistiche» disse Thomas. «Le donne giovani nei luoghi di lavoro dominati dai maschi sono quelle messe peggio in assoluto.» «Sul serio? È provato?» chiese Annika sorpresa. «Proprio così. C'era scritto su una relazione appena uscita. Diversi studi dimostrano che sono le donne che intraprendono carriere tipicamente maschili ad avere maggiori problemi sul mercato del lavoro. Vengono sottoposte a pressioni, minacce e molestie sessuali molto più spesso degli uomini e delle altre donne. Una ricerca svolta presso l'Istituto nautico del Politecnico di Chalmer ha dimostrato che quattro marinaie su cinque sono state molestate a causa del proprio sesso» rispose Thomas. «Come fai a ricordarti tutto?» Thomas sorrise. «Più o meno come tu ricordi tutti i particolari degli articoli di Berit Hamrin. Esistono esempi diversi, quello militare è soltanto uno. Molte donne rinunciano alla carriera nell'esercito, pur avendo fatto domanda. I problemi con i colleghi di sesso maschile rappresentano una delle cause principali. Gli ufficiali di sesso femminile corrono dei veri e propri pericoli a livello di incolumità personale, soprattutto se vengono
tormentati dai colleghi.» «Certo che è interessante, dovremmo occuparcene, al giornale» disse Annika cercando di alzarsi. «Già, lo penso anch'io, ma non adesso, perché ti devo massaggiare le spalle. Togliti la maglia. Ecco, così. E poi slacciamo anche questo, via.» Annika tentò di protestare mentre le veniva sfilato il reggiseno. «Ma i vicini ci possono vedere...» Thomas si alzò e spense la luce. La stanza, adesso, era illuminata soltanto dai lampioni oscillanti per la strada, molto più in basso. La neve continuava a cadere con fiocchi enormi. Annika tese le braccia verso il marito e lo attirò a sé. All'inizio se la presero calma, spogliandosi con la lingua e accarezzandosi. «Mi fai impazzire» mormorò Thomas. Si distesero sul pavimento e cominciarono a fare l'amore, prima con infinita lentezza, poi con maggiore intensità, senza badare al rumore. Nel momento del piacere, Annika lanciò un grido, Thomas si dominò un po' di più. Poi lui andò a prendere una coperta, ci si avvolsero dentro tutti e due e si misero di nuovo sul divano. Esausti e rilassati, rimasero lì stesi al buio ad ascoltare i rumori della città. Per strada, l'autobus numero 48 si fermò con un cigolio di freni. Dal vicino la televisione era accesa. Qualcuno, sul marciapiede, schiamazzava e imprecava. «Non vedo l'ora di essere in vacanza» disse Annika. Thomas la baciò. «Sei la migliore.» MENZOGNE Ne ho avuto la certezza fin dall'inizio: il mondo era un palcoscenico costruito appositamente per ingannarmi, le persone intorno a me non erano altro che attori di quel dramma. L'obiettivo era farmi credere che fosse tutto vero: la terra, il bosco, i campi, il trattore di Nyman, il paesino, la bottega e il postino. Il mondo alle spalle del Furuberg e della sua cima bluastra era una quinta amplificata. Tendevo le orecchie per individuare i toni falsi, aspettavo paziente che qualcuno si tradisse. Quando uscivo da una stanza mi voltavo all'improvviso proprio sulla porta, per vedere le persone lì dentro per quello che erano veramente. Fallivo ogni volta. D'inverno mi arrampicavo sul cumulo di neve appena fuori dalla finestra della sala e spiavo all'interno. Quando io non ero presente, loro si toglievano la maschera, appoggiavano la testa stanca alle mani e si riposavano. Parlot-
tavano a bassa voce, finalmente sul serio, in modo naturale, confidenziale, vero e sincero. Quando mi accingevo a entrare, erano costrette a reimpossessarsi dei loro scomodi corpi, le dimore in cui non si trovavano a loro agio, con il viso amareggiato e la lingua pronta a mentire. Avevo la ferma convinzione che ogni cosa mi sarebbe stata svelata il giorno in cui avrei compiuto dieci anni. Tutti sarebbero venuti da me, quella mattina, con i loro luminosi corpi, reali, autentici, e mi avrebbero fatto indossare abiti bianchi. I loro visi sarebbero stati sereni e sinceri. Mi avrebbero portato in processione fino al fienile, in mezzo agli alberi. Là, all'entrata, mi avrebbe atteso il Regista, che avrebbe preso la mia mano nella sua e mi avrebbe condotto al Regno rivelato. Mi avrebbe spiegato come stavano davvero le cose. Di tanto in tanto, andavo al vecchio fienile. Non so dire quanti anni avessi, ma le mie gambe erano ancora corte, le braghe lunghe di lana mi davano prurito e la tela cerata dei pantaloni impacciava i miei passi. Una volta affondai in un cumulo di neve, fino alla vita. Il fienile sorgeva nel folto del bosco, su quello che un tempo era stato un campo coltivato. Il tetto era crollato, i muri di legno grigio sembravano d'argento, in mezzo alla sterpaglia. Un pilastro d'angolo si ergeva verso l'alto come un segnale rivolto al cielo. L'ingresso era sul lato corto dalla parte opposta alla mia, e mentre facevo il giro sfioravo le pareti ruvide. Il foro d'entrata era piuttosto alto, tanto che faticavo ad arrivarci. Là dentro, il tempo si fermava: polvere nell'aria, fasci obliqui di luce. La sensazione contrastante di muri protettivi e cielo aperto era inebriante. La luce filtrava tra le chiome frastagliate degli alberi e i ruderi del tetto. Anche il pavimento aveva cominciato a cedere, mentre camminavo dovevo prestare molta attenzione. Laggiù, sotto l'assito, c'era l'ingresso del palcoscenico. Io lo sapevo. Da qualche parte, sotto le tavole di legno marcito, la Verità aspettava. Una volta mi feci coraggio e m'infilai là sotto, ispezionai il terreno per cercare la strada che portava alla Luce. Ma non trovai altro che fieno e ratti morti. MERCOLEDÌ 22 DICEMBRE Toccava a lei portare i bambini all'asilo, e Annika si concesse qualche minuto di relax nel letto, dopo che Thomas fu uscito. Mancavano solo due
giorni alla vigilia di Natale, ormai si era vicini alle vacanze. Strano, come bastasse così poco a farle tornare la voglia di vivere. Dopo un'ora in città, qualche biscotto allo zenzero e una bella scopata era di nuovo pronta ad affrontare gli avvoltoi. Per una volta, era riuscita a dormire tutta la notte senza i bambini, ma adesso si erano svegliati precipitandosi in camera. Li accolse tra le braccia e si mise a giocare con loro nel lettone, tanto che per poco non fecero tardi all'asilo. Ellen aveva inventato il gioco delle polpettine: bisognava farsi il solletico sotto i piedi a vicenda gridando tutto il tempo "polpettine, polpettine". A Kalle piaceva invece il gioco dell'aeroplano: Annika, supina, se lo metteva in equilibrio sui piedi e lo faceva volare in alto. A intervalli regolari, l'aeroplano precipitava con grandi risate da parte di tutti. Avevano terminato costruendo una tana con tutti i cuscini, la coperta e il pigiama di Thomas. Consumata una rapida colazione a base di yogurt alla fragola e cereali al miele, avevano preparato i panini per la gita con l'asilo ed erano arrivati appena in tempo per il raduno mattutino. Annika non si era fermata ed era uscita subito dopo aver consegnato i bambini a due educatrici. Nevicava ancora, la poltiglia grigiastra giaceva in cumuli lungo i marciapiedi. Da quando il Comune di Stoccolma aveva istituito le circoscrizioni, nessuno più si preoccupava di spazzarla via. Per un attimo, Annika considerò l'ipotesi di impegnarsi in politica. Prese al volo l'autobus 56. Arrivata al giornale, ritirò una copia all'ingresso, salì in ascensore e salutò i fattorini davanti alla porta della redazione. Quando vide che uno di loro si trascinava dietro il saccone della seconda tornata di posta, inviò un pensiero riconoscente al direttore Schyman. In effetti, la vita era diventata più leggera da quando Eva-Britt Qvist aveva riassunto il compito di vagliare la corrispondenza. Mentre andava verso il suo ufficio prese al banco della cronaca una copia del "concorrente" e una di ciascuno dei giornali del mattino, e poi un caffè al distributore automatico. Eva-Britt era seduta al suo posto e la salutò imbronciata. In altre parole, tutto come al solito. Berit aveva fatto un lavoro fantastico con la moglie dell'ucciso, Stefan Bjurling. L'articolo si trovava alle pagine centrali, con un'unica grande foto di lei insieme ai tre figli, seduti sul divano di pelle marrone nella villetta a schiera della famiglia a Farsta. La vita deve continuare, era il titolo. La donna, che aveva trentasette anni e si chiamava Eva, aveva un'espressione composta e seria. I bambini, di undici, otto e sei anni, fissavano l'obiettivo con gli occhi spalancati.
"La malvagità, nel mondo, si presenta sotto svariate forme" diceva Eva nell'articolo. "È stupido pensare che in Svezia ne siamo esenti solo perché è dal 1809 che non partecipiamo a una guerra. La violenza e la viltà si trovano dove meno ci si aspetta." Quando la polizia aveva suonato alla sua porta per darle la notizia della morte del marito, Eva era in cucina a preparare le frittelle. "Non ci si può lasciar andare, se si hanno tre figli" continuava Eva. "Adesso dobbiamo fare del nostro meglio per tirare avanti." Annika guardò la foto a lungo. Una vaga sensazione che qualcosa non quadrasse le si insinuò nella mente. Quella donna non era un po' troppo misurata? Perché non esprimeva dolore o disperazione, nell'intervista? Comunque, il testo era buono e la foto funzionava. Annika allontanò i suoi dubbi. Patrik, come al solito, aveva fatto un ottimo lavoro riguardo alla perizia tecnica sull'esplosivo e sulla caccia della polizia al dinamitardo. La teoria che dietro entrambi gli attentati ci fosse la stessa mano rimaneva valida, sebbene fosse stato appurato che l'esplosivo non era esattamente identico. "La violenza dello scoppio è stata molto più limitata, questa volta" diceva il portavoce della polizia. "Le analisi preliminari indicano che il materiale era diverso, oppure che è stato usato in minore quantità." Alla prossima riunione dei capiredattori, Annika avrebbe raccomandato Patrik per un'assunzione definitiva. Il suo pezzo con la foto degli operai nel palazzetto di Sätra occupava una pagina intera, e l'effetto era niente male. Sfogliò il resto del quotidiano, lasciando indietro il dinamitardo e arrivando alla sezione CulDo, che stava a significare Cultura Donna. Al giornale, naturalmente, veniva sempre e soltanto chiamata la "sezione del culo". Quel giorno la redazione aveva avuto la brillante idea di parlare di un libro americano con pretese pseudopsicologiche, condendo l'articolo con la citazione di alcune svedesi famose. Il libro s'intitolava La donna ideale ed era opera di una scrittrice con il cognome doppio e un naso ultrasottile, uno di quelli che si ottengono soltanto tirandone via una buona metà con la chirurgia plastica. Oltre che dalla foto-ritratto dell'autrice, l'articolo era corredato da un'immagine di Christina Furhage che occupava cinque colonne. Si diceva che il libro dava finalmente a tutte la possibilità di diventare una vera "donna ideale". A margine, erano riportati i dati salienti di Christina, e Annika capì che il mito sul direttore generale del comitato organizzatore delle Olimpiadi aveva già cominciato a germogliare. C'era
scritto che era riuscita in tutto: aveva fatto una carriera fantastica, viveva in una bella casa, era felicemente sposata e aveva una figlia con grandi doti. Inoltre, curava il proprio aspetto fisico, era magra, in forma e dimostrava quindici anni in meno rispetto alla sua età effettiva. Annika avvertì in bocca un gusto amaro, che non dipendeva solo dal caffè del distributore, ormai freddo. Quelle informazioni non corrispondevano al vero. Il primo matrimonio di Christina era andato a rotoli, suo figlio era morto o scomparso, la figlia era una piromane e lei stessa era stata fatta saltare in aria sulla tribuna deserta di uno stadio olimpico perché qualcuno la odiava. Era così, Annika non aveva dubbi. E quel qualcuno odiava anche Stefan Bjurling, ci avrebbe giurato. Stava per alzarsi e andare a prendere un altro caffè, quando squillò il telefono. «Venga qui» piagnucolò un uomo. «Le racconterò tutto.» Era Evert Danielsson. Annika infilò blocco e penna nella borsa a sacco e chiamò un taxi. Helena Starke si svegliò sul pavimento della cucina. All'inizio non capì dove si trovasse. Si sentiva la bocca asciutta e come di carta vetrata, aveva freddo e male a un'anca. La pelle del viso era tesa, dopo tutte le lacrime versate. Si alzò con difficoltà e rimase seduta con la schiena contro l'anta di legno sotto il lavello, guardò fuori dalla finestra sporca e vide cadere i fiocchi di neve. Respirò piano, costringendosi a far arrivare l'aria in fondo ai polmoni. La sentiva raschiare sulle pareti. È strano, pensò, la vita, all'improvviso, sembra tutta nuova. Il cervello è vuoto, il cielo bianco, il cuore calmo. Ormai, aveva toccato il fondo. Lentamente, si sentì invadere da una grande pace. Rimase seduta a lungo sul pavimento della cucina, guardando il nevischio accumularsi sui vetri. I ricordi degli ultimi giorni vagavano come spettri grigi nel profondo della sua coscienza. Pensò che avrebbe dovuto avere fame. Non ricordava di aver mangiato nulla da un'eternità, solo bevuto acqua e una birra. La conversazione con quella giornalista, lunedì, aveva abbattuto tutti gli argini. Per la prima volta nella sua vita, Helena Starke aveva provato un grande, autentico dolore. Le ore trascorse da quel momento le avevano fatto capire di aver amato, per la prima e unica volta nella sua vita. L'intuizione di essere in grado di amare davvero aveva lentamente preso forma dentro di lei nel corso della notte appena passata, facendole sentire un do-
lore ancora più intenso. La confusione e la nostalgia di Christina si erano trasformate in una forte autocommiserazione, che aveva compreso di dover imparare ad accettare. Era la classica vedova in lutto, con la differenza che non avrebbe mai avuto il supporto e la comprensione del prossimo, riservati ai rapporti eterosessuali che godono del riconoscimento istituzionale. Si raddrizzò a fatica, aveva le giunture irrigidite. Era rimasta seduta a lungo al tavolo della cucina, fumando una sigaretta dietro l'altra. Nelle prime ore del mattino, non riuscendo più a stare dritta sulla sedia, si era spostata sul pavimento. Poi doveva essersi addormentata. Prese un bicchiere dal lavello, lo sciacquò sotto il rubinetto, bevve e sentì che lo stomaco si contraeva. Ricordò ciò che le diceva spesso Christina, riuscendo quasi a udire la sua voce nella testa: "Devi mangiare, Helena. Devi prenderti cura di te stessa". Sapeva di essere stata importante per lei, forse la persona più importante in assoluto nella sua vita. Ma l'intuizione dei lati oscuri di Christina le aveva impedito di farsi troppe illusioni sul loro rapporto. Per Christina, semplicemente, le persone non avevano alcuna rilevanza. Aprì il frigo e trovò uno yogurt scaduto da soli due giorni. Prese un cucchiaino, si sedette al tavolo e cominciò a mangiare. Vaniglia, il suo gusto preferito. Guardò fuori, verso la poltiglia di neve e acqua, davvero sconsolante. Il traffico rimbombava come al solito, giù sulla Ringvägen, Helena si chiese come facesse a resistere in quella casa. D'un tratto, si rese conto che non era necessario. Meritava qualcosa di meglio. Aveva un bel po' di soldi in banca e poteva trasferirsi in qualsiasi parte del mondo. Appoggiò il cucchiaino e raccolse il resto dello yogurt con l'indice. Era ora di andare. Il ristorante Sorbet era all'ottavo piano della Lumahuset, nella zona del porto di Hammarby, e oltre ai piatti svedesi serviva pietanze indiane. I gestori non erano troppo rigidi, riguardo agli orari, e a Evert Danielsson era stato permesso di sedersi con una tazza di caffè anche se mancavano ancora cinquanta minuti all'apertura. Annika trovò il segretario generale dietro un graticcio a destra, nel locale. Era grigio in volto. «Cos'è successo?» chiese sedendosi di fronte a lui. Si sfilò sciarpa, guanti e cappotto e gettò il tutto sulla sedia accanto. Evert Danielsson sospirò e abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Come d'abitudine, le teneva sul bordo del tavolo, saldamente ancorate al ripiano.
«Mi hanno mentito» disse con voce soffocata. «Chi?» Lui alzò gli occhi. «I Papaveri» rispose. «E sarebbero?» domandò Annika. L'uomo si lasciò scappare un singhiozzo. «Anche il consiglio d'amministrazione e Hans Bjällra. Mi hanno mentito tutti. Avevano detto che avrei ricoperto altri incarichi, che mi sarebbe stata affidata la gestione della fase apertasi dopo la morte di Christina. Mi hanno ingannato!» Annika si guardò intorno, a disagio. Non aveva tempo di fare da balia a un burocrate. «Adesso mi racconti cos'è successo» disse in tono brusco, e la cosa ebbe l'effetto desiderato. L'uomo si ricompose. «Hans Bjällra, il presidente del consiglio d'amministrazione, aveva promesso che la definizione dei miei nuovi incarichi sarebbe stata portata avanti in accordo con me, e invece non sarà affatto così. Stamattina, quando sono andato al lavoro, ho trovato una lettera, inviatami poche ore prima...» Tacque e si guardò le nocche bianche. «E?...» chiese Annika. «C'era scritto che avrei dovuto lasciare libero il mio ufficio entro l'ora di pranzo. Il Socog non intendeva avvalersi dei miei servizi per il futuro. Non era dunque necessario che rimanessi a disposizione dell'organizzazione ma potevo ritenermi libero di cercare un altro lavoro. La buonuscita mi verrà liquidata il 27 dicembre.» «E a quanto ammonta?» «Cinque anni di stipendio.» «Poverino» commentò Annika acida. «Già, non è una tragedia?» disse Evert Danielsson. «E mentre ero lì seduto a leggere la lettera è entrato un tizio del reparto servizi, senza neanche bussare, e mi ha comunicato di essere venuto a ritirare le chiavi.» «Ma non avrebbe dovuto lasciare libero l'ufficio all'ora di pranzo?» «Le chiavi della macchina, mi hanno tolto l'auto aziendale!» L'uomo si chinò sul tavolo e si mise a piangere. Annika osservò i suoi capelli brizzolati. Parevano un po' rigidi, come se li asciugasse con il phon e facesse uso di lacca. Notò che si stavano diradando alla sommità del capo. «Be', potrà usare parte della buonuscita per comprare un'auto nuova» osservò Annika. Nello stesso istante in cui pronunciava quelle parole, si rese conto della loro inutilità. Non era il caso di dire a una persona che ha ap-
pena visto morire il suo cagnolino che può sempre procurarsene uno uguale. L'uomo si soffiò il naso e si schiarì la voce. «Per questo non ho più motivo di mostrarmi leale. Christina è morta, e a lei non posso più fare alcun danno.» Annika tirò fuori dalla borsa blocco e penna. «Cosa vuole raccontare?» Evert Danielsson la guardò con espressione provata. «Io so quasi tutto. Christina non è mai stata la persona più ovvia da mettere a capo del Socog, e nemmeno della campagna per la candidatura di Stoccolma come città ospite dei Giochi. C'era un sacco di altra gente, soprattutto uomini, che veniva considerata più adatta a quella posizione.» «Come mai lei conosceva Christina?» «Come forse saprà, veniva dall'ambiente economico, quello bancario, per la precisione. Io la conobbi circa undici anni fa, quando lavoravo come capo del reparto amministrativo nella banca in cui lei era viceamministratore delegato. Christina era abbastanza malvista dal personale. Veniva considerata dura e ingiusta. La prima cosa era vera, la seconda no. Lei teneva un comportamento di grande coerenza, non se la prendeva mai con nessuno che non lo meritasse. Però, giustiziava spesso le persone pubblicamente, e questo faceva sì che la gente avesse una paura tremenda di fallire. Forse poteva influire positivamente sull'utile della banca, ma era devastante per l'atmosfera tra i dipendenti. Il sindacato aveva proposto una mozione di sfiducia nei suoi confronti, e nel ramo bancario queste cose non succedono quasi mai, noti bene. Ma Christina riuscì a fermarla. I rappresentanti sindacali che avevano lanciato la proposta si licenziarono e lasciarono la banca quello stesso giorno. Non so come riuscì a toglierseli di torno, ma la mozione non fu mai più ripresentata.» Uno dei gestori del ristorante portò una tazza di caffè ad Annika e riempì una seconda volta quella di Evert Danielsson. Lei ringraziò. Le sembrava di aver già visto quell'uomo, forse nella pubblicità per una carta di credito. Aveva buona memoria, quanto alle facce della gente, e in questo caso era quasi certa di non sbagliarsi. L'emittente televisiva che aveva i suoi uffici nello stesso stabile probabilmente usava le comparse più a portata di mano. «E com'è riuscita a mantenere il suo posto, se era così detestata?» chiese Annika quando l'uomo della reclame si fu allontanato. «Già, me lo chiedevo anch'io. Christina era viceamministratore delegato da quasi dieci anni, quando arrivai io. Nel frattempo, si erano avvicendati due amministratori delegati, e Christina non era mai stata presa in conside-
razione. Era inamovibile nella sua posizione, ma più in su non andava.» «Perché?» chiese Annika. «Non saprei, forse il solito "soffitto di cristallo" che blocca la carriera delle donne. Oppure il consiglio d'amministrazione temeva quello che lei avrebbe potuto fare se avesse avuto in mano il potere assoluto. Evidentemente, intuivano di che pasta era fatta» disse Evert Danielsson prendendo una zolletta di zucchero. Annika attese mentre lui mescolava il caffè. «Alla fine, Christina comprese che non avrebbe potuto pretendere di più dalla sua carriera e così, quando Stoccolma decise di candidarsi per le Olimpiadi, fece in modo che la banca partecipasse in qualità di sponsor, uno dei più importanti. Credo che avesse ben chiaro in mente il suo piano fin da allora.» «E cioè?» «La responsabilità dei Giochi doveva andare a lei. Si impegnò fortemente nei preparativi. Con una serie di manovre ottenne l'aspettativa dalla banca e assunse il ruolo di coordinatrice facente funzione per la candidatura di Stoccolma a città ospite. La sua nomina non ebbe grande risalto, sebbene fosse una sconosciuta messa in un posto di una certa importanza. Il lavoro era piuttosto malpagato, lo stipendio decisamente inferiore a quello che percepiva dalla banca. Per questo i top manager dell'ambiente economico non erano troppo interessati alla posizione. Inoltre, non era un incarico che comportasse un futuro certo, forse ricorderà anche lei lo scetticismo diffuso e i dibattiti pubblici all'inizio della vicenda. In effetti, le Olimpiadi non suscitavano particolari entusiasmi in molta gente. Fu proprio Christina a ribaltare l'opinione pubblica.» «Dicono tutti che ha fatto un lavoro fantastico» osservò Annika. «Certo» ammise Evert Danielsson con una smorfia. «Era bravissima a gestire le sue lobby e a nascondere nelle varie voci di bilancio i costi relativi alle pressioni esercitate. Il ribaltamento della posizione degli svedesi sulle Olimpiadi è stato la campagna più costosa mai realizzata in questo paese.» «Mai letto niente in proposito» disse Annika in tono scettico. «Be', naturale. Christina non avrebbe mai permesso che la cosa si venisse a sapere.» Annika prese nota e rifletté per qualche istante. «E lei quando è entrato nell'organizzazione dei Giochi?» Evert Danielsson sorrise. «Ah, si sta chiedendo quanta merda ho sulle scarpe io, e quanta ne ho spalata? Un bel po'. Quando Christina intraprese
la campagna per la candidatura, io rimasi alla banca e mi venne assegnata una parte dei suoi compiti, soprattutto di tipo amministrativo. Fu per caso che finii anch'io a lavorare per le Olimpiadi.» L'uomo si appoggiò allo schienale della sedia, apparentemente riconfortato. «Una volta andati a buon fine gli sforzi di Christina, la situazione era completamente cambiata. Il posto di direttore generale del Socog rappresentava un incarico di prestigio. E tutti erano d'accordo sul fatto che dovesse andare a una persona competente e dotata di un'esperienza significativa in ambito economico.» «I candidati erano parecchi, e tutti uomini, vero?» disse Annika. «Sì, in particolare uno che, allora, era dirigente di una delle maggiori aziende statali.» Annika frugò nella memoria e rammentò il viso aperto e simpatico dell'uomo. «Giusto, se non sbaglio si ritirò dalla corsa per motivi personali e poi fu nominato prefetto, vero?» Evert Danielsson sorrise. «Proprio così. Ma i cosiddetti motivi personali erano in realtà rappresentati dal conto di un bordello di Berlino, finito sulla mia scrivania in banca subito dopo che Stoccolma si era accaparrata i Giochi.» Annika alzò gli occhi sorpresa. L'ex segretario generale gongolava. «Non so come, ma in qualche modo Christina venne a sapere che l'uomo si era portato un gruppetto di colleghi in un club porno durante un importante forum socialista in Germania. Naturalmente, tutto era stato pagato con i soldi dei contribuenti. Lei ripescò lo scontrino della carta di credito, e poi è stato uno scherzo.» «Come? E perché mai finì sulla sua scrivania?» Evert Danielsson allontanò la tazza di caffè e si sporse in avanti sul tavolo. «Ottenuti i Giochi, teoricamente Christina avrebbe dovuto tornare a lavorare in banca. Il comitato olimpico riprese a indirizzare tutta la sua posta presso di noi, e dato che avevo già assunto diverse mansioni che la riguardavano, era naturale che fossi io a occuparmi delle fatture in arrivo.» «Ma tra queste mansioni era compreso anche il fatto di aprire effettivamente la sua corrispondenza?» chiese Annika con leggera ironia. Il volto dell'uomo s'irrigidì. «Non sto affermando di essere candido come la neve» disse. «Trasmisi la fattura in originale a Christina senza fare commenti, ma prima mi premurai di fare una fotocopia. Il giorno dopo, il candidato alla carica dichiarò di non avere intenzione di accettare il posto
di direttore generale del Socog, raccomandando la nomina di Christina Furhage. E così fu.» «E lei, a che punto della vicenda entra in scena?» Evert Danielsson si appoggiò allo schienale e sospirò. «Ormai ero davvero stufo della banca. Il fatto che mi fosse stata affidata parte degli incarichi meno significativi di Christina rendeva lampante cosa pensasse di me la direzione. Non avevo futuro, lì. Così, mostrai a Christina quella fotocopia e le dissi che volevo un lavoro alla segreteria generale del comitato, un buon lavoro. Dopo neanche un mese potei assumere le funzioni di segretario generale.» Annika chinò la testa e rifletté. Poteva essere vero. Se il dirigente statale era andato in un bordello insieme a "un gruppetto di colleghi" dopo un forum socialista internazionale, non era solo la sua reputazione a essere messa a repentaglio. Gli altri uomini coinvolti saranno stati tutti personaggi influenti, e anche le loro carriere erano in pericolo. Potevano essere politici di vario livello, alti funzionari statali o rappresentanti sindacali. Comunque fosse, avevano di certo molto da perdere, se fossero stati messi alla gogna come puttanieri. Di sicuro avrebbero perso i loro incarichi o sarebbero stati allontanati, e subito dopo sarebbe partita la denuncia per truffa o abuso d'ufficio. Anche le loro famiglie ne avrebbero subite le conseguenze, magari sarebbero andati a rotoli dei matrimoni. Per il dirigente statale non doveva essere stata una scelta difficile: o rinunciava al posto di direttore generale del comitato organizzatore, oppure si sarebbe vista crollare addosso la sua vita e quella dei colleghi. «Ce l'ha ancora la copia della fattura?» chiese Annika. Evert Danielsson alzò le spalle. «Purtroppo, no. Dovetti consegnarla a Christina in cambio del lavoro.» Annika osservò l'uomo di fronte a lei. Forse diceva la verità, la storia aveva una sua logica e non lo metteva certo in buona luce. Poi le venne in mente all'improvviso dove aveva visto la faccia sorridente e simpatica del dirigente statale: in una foto insieme a Christina Furhage, su una delle pagine in ricordo della donna pubblicate negli ultimi giorni. «Ma il dirigente non è nel consiglio d'amministrazione?» chiese. Evert Danielsson annuì. «Sì, anche se adesso è prefetto.» Annika si sentì invadere da una sensazione di disagio. Evert Danielsson poteva anche essere mosso dal desiderio di vendicarsi, e forse stava cercando di ingannarla. Per Christina, come aveva detto anche lui, non cambiava niente, ormai, però poteva ancora danneggiare i membri del consi-
glio che gli avevano dato il benservito. Decise di portare avanti la conversazione per vedere dove andava a parare. «E Christina come se l'è cavata, con il lavoro?» «In maniera fantastica, naturalmente. Conosceva tutti i trucchi del mestiere ed era ammanicata con diversi tra i più influenti membri del comitato. Non so proprio come facesse, ma alcuni erano davvero in sua balia. Sesso, soldi o droga, immagino, oppure anche tutti e tre insieme. Christina non lasciava nulla al caso.» Annika prendeva nota, cercando di mantenere un'espressione neutra sul viso. «Mi ha già detto che aveva molti nemici.» Evert Danielsson si lasciò scappare una breve risata. «Già» disse. «Mi viene in mente una lunga lista di persone risalente al periodo in cui lavoravamo insieme in banca, e anche dopo, che l'avrebbero vista volentieri morta e fatta a pezzi. Umiliava così spesso quei colleghi che tenevano comportamenti da macho che alla fine diversi sono crollati davanti a tutti. Credo che provasse piacere nel vederli soccombere.» «Non le piacevano gli uomini?» «Non le piacevano gli esseri umani, ma comunque preferiva le donne. Almeno a letto.» Annika sbatté gli occhi. «Cosa glielo fa pensare?» «Aveva una relazione con Helena Starke, ci metterei la mano sul fuoco.» «Dunque, non lo sa con sicurezza?» L'uomo guardò Annika. «Si vede, quando due persone hanno un legame di tipo sessuale. Invadono le rispettive sfere private, stanno un po' troppo vicine, mentre lavorano le loro mani si sfiorano. Piccole cose, ma determinanti.» «Però non le piacevano tutte le donne, vero?» «No, affatto. Odiava quelle che facevano le civette. Metteva loro i bastoni tra le ruote, bocciava ogni cosa che facevano e le sottoponeva a un tale logorio che, alla fine, si licenziavano. A volte penso che ci godesse, ad allontanare la gente. Una delle occasioni più clamorose è stato quando ha cacciato su due piedi una ragazza, Beata Ekesjö, davanti a un sacco di persone...» Annika spalancò gli occhi. «Vuole forse dire che Beata Ekesjö odiava Christina Furhage?» «Nella maniera più assoluta» rispose Evert Danielsson, e Annika sentì che i capelli le si rizzavano sulla nuca. Ecco, adesso era certa che quell'uomo mentiva. Soltanto il giorno prima, Beata Ekesjö aveva detto di
ammirare Christina Furhage. Christina era il suo modello, e lei si sentiva affranta per la sua morte. Su questo non c'era alcun dubbio. Evert Danielsson si era dato la zappa sui piedi, d'altra parte non poteva sapere che Annika conosceva quel nome e quella persona. Ormai si erano fatte le undici e mezzo e il ristorante stava cominciando a riempirsi di gente. Evert Danielsson si guardò intorno a disagio. Probabilmente, il posto era frequentato anche dal personale della segreteria generale, e lui non voleva essere visto insieme a una giornalista. Annika decise di porgli le ultime domande decisive. «Secondo lei, chi ha fatto saltare in aria Christina, e perché?» L'ex segretario generale si leccò le labbra e afferrò di nuovo il ripiano del tavolo. «Non so chi possa essere stato, non ne ho la più pallida idea. Ma di certo qualcuno che la odiava. Non si distrugge mezzo stadio se non si è davvero incazzati.» «Per quanto ne sa, c'è qualche collegamento tra Christina Furhage e Stefan Bjurling?» Evert Danielsson parve confuso. «E chi è Stefan Bjurling?» «La seconda vittima. Lavorava per una delle vostre ditte appaltatrici, la Bygg&Rör.» «Ah, la Bygg&Rör, una delle ditte a cui ci siamo appoggiati di più. In pratica, ha partecipato alla costruzione di tutti i cantieri in cui si è impegnato il Socog negli ultimi sette anni. È stato uno dei loro a lasciarci la pelle?» «Ma lei non li legge i giornali?» gli chiese a sua volta Annika. «Era un caposquadra, trentanove anni, capelli biondo cenere, piuttosto robusto...» «Ah, ho capito» disse Evert Danielsson. «Sì, in effetti lo conosco, Steffe. È, anzi era, una persona piuttosto sgradevole.» «I suoi colleghi dicono che era allegro e amichevole.» L'uomo rise. «Santo cielo, cosa non si racconta dei morti!» «Ma esiste un qualche collegamento tra lui e Christina Furhage?» insistette Annika. L'ex segretario generale sporse in fuori le labbra e rifletté. Scrutò un gruppo di persone che stava entrando in quel momento nel locale, si irrigidì per poi tornare a rilassarsi. Evidentemente, non era gente che conosceva. «Be', in effetti uno c'è.» Annika aspettò senza battere ciglio. «Christina era seduta vicino a Stefan durante la grande festa di Natale della settimana scorsa. Sono rimasti a parlare a lungo, dopo che noi ci sia-
mo alzati da tavola.» «È stato nel locale basco?» chiese Annika. «No, no, lì c'è stato il banchetto natalizio della segreteria generale del comitato, mentre questa era la grande festa delle Olimpiadi con tutti i funzionari, i volontari, i dipendenti delle ditte appaltatrici... Non ne faremo un'altra così fino a quando non saranno finiti i Giochi.» «Dunque, Christina Furhage e Stefan Bjurling si conoscevano?» disse Annika. Il viso di Evert Danielsson si rabbuiò all'improvviso. Gli era venuto in mente che non poteva più parlare in prima persona delle Olimpiadi e che probabilmente non avrebbe partecipato ad altre feste della segreteria. «Mah, proprio conoscersi non lo so, comunque quella sera sono rimasti seduti a parlare. Adesso, però, credo che sia meglio se...» «Ma come mai proprio Stefan Bjurling è finito accanto al direttore generale?» chiese Annika. «Perché Christina non era seduta di fianco al presidente del consiglio d'amministrazione, per esempio, o a qualche altro pezzo grosso?» Evert Danielsson la guardò irritato. «Perché ovviamente quelli non c'erano, era una festa riservata a chi lavorava sul campo. Anche se, in effetti, il posto era magnifico, l'aveva scelto Christina: la Sala Blu del Municipio.» Si alzò spingendo indietro la sedia. «E secondo lei di cosa hanno parlato?» «Non ne ho idea. Adesso devo andare.» Si alzò anche Annika, raccolse le sue cose dalla sedia accanto e strinse la mano al segretario generale licenziato. «Mi chiami, se c'è qualcosa che vuole farmi sapere» disse. L'uomo annuì e si affrettò a lasciare il ristorante. Uscendo, invece di girare a destra Annika scese di un piano per andare a trovare Anne Sapphane, ma le riferirono che era già in vacanza. Buon per lei. La ragazza alla reception chiamò un taxi per Annika. In macchina, cercò di organizzare nella sua mente le informazioni ricevute. Non poteva raccontare la faccenda alla polizia, le sue fonti erano segrete per ragioni professionali. Però poteva usare lo sfogo di Evert Danielsson per porre le domande giuste, anche quelle che lo riguardavano direttamente. Lena udiva canterellare Sigrid, la domestica, mentre metteva i piatti della sera prima nella lavastoviglie. Sigrid era una donna quasi cinquantenne
il cui marito aveva abbandonato la famiglia quando le figlie erano diventate adulte e la moglie troppo grassa. Ormai da due anni puliva, andava a fare la spesa, lavava e preparava da mangiare per la famiglia FurhageMilander, per un orario complessivo corrispondente a un lavoro a tempo pieno. Lena ricordò che sua madre si era rallegrata per la crisi dell'occupazione: prima avevano avuto difficoltà a trovare delle domestiche, e soprattutto a farle restare, ma negli ultimi tempi la gente si era accorta che non poteva permettersi di lasciare il lavoro con tanta facilità. In effetti, tutte le promesse di segretezza e le minacce di denuncia che Christina le costringeva a firmare contribuivano probabilmente a dissuadere le domestiche dal rimanere al servizio della famiglia. Sigrid, però, pareva trovarsi bene, e mai quanto negli ultimi giorni. Sembrava crogiolarsi nel fatto di essere al centro dell'attenzione e di potersi muovere a suo piacere nella casa della vittima ormai famosa in tutto il mondo. Probabilmente, rimpiangeva un po' di aver firmato l'impegno a tenere la bocca chiusa: se solo avesse potuto, non si sarebbe certo tirata indietro davanti ai mass media. Aveva piagnucolato, ogni tanto, ma erano le stesse lacrime che la gente aveva versato per la principessa Diana, e Lena le riconosceva. Sigrid, infatti, una volta firmato l'impegno a tacere, non aveva praticamente più visto Christina, anche se era da parecchio tempo che toglieva gli schizzi di dentifricio dallo specchio del suo bagno e lavava le sue mutande sporche. Forse anche questo poteva dare un senso di intimità con una persona. Sigrid aveva comprato una copia della prima edizione di tutti e due i giornali del pomeriggio e li aveva messi sul ripiano sotto lo specchio dell'ingresso. Lena se li portò nella biblioteca, dove il suo papà era steso a dormire sul divano con la bocca aperta. Si sedette sulla poltrona e appoggiò i piedi sul tavolino antico a colonna. Entrambi i quotidiani erano naturalmente dominati dal nuovo attentato, ma c'erano anche diversi articoli sulla morte di sua madre. Lena non riuscì a trattenersi dal leggere i particolari della perizia sull'esplosivo. Forse lo psicologo aveva sbagliato, in fin dei conti, a non classificarla come piromane. Lei sapeva benissimo di godere alla vista del fuoco e di tutto ciò che aveva a che fare con le esplosioni e gli incendi. Anche cose come i camion dei pompieri, gli estintori, gli idranti e le maschere antigas le davano un senso di eccitazione e di esaltazione. Be', in ogni caso era stata dichiarata sana e non aveva nessuna intenzione di informare i medici che la diagnosi poteva essere sbagliata. Sfogliò tutto il giornale e poi prese in mano l'altro. Aprendo le pagine immediatamente precedenti a quelle centrali, le sembrò di ricevere un pu-
gno nello stomaco. Sua madre la guardava, i suoi occhi sorridevano e sotto la foto c'era scritto a grandi caratteri: LA DONNA IDEALE. Lena gettò via il giornale con un grido che lacerò il silenzio luminoso dell'appartamento. Il suo povero papà si svegliò e la guardò stupito, con la saliva che gli colava dall'angolo della bocca. Lena si alzò, scaraventò il tavolino a colonna contro la porta e afferrò la libreria più vicina a lei. L'intera sezione si rovesciò, i ripiani di legno e i libri caddero con un frastuono assordante investendo il televisore e il mobile dello stereo lì accanto. «Lena!» La ragazza udì il grido disperato del padre dal profondo della nebbia di odio che l'avvolgeva, e si bloccò. «Lena, Lena, cosa stai facendo?» Bertil Milander tese le braccia verso sua figlia, e l'espressione afflitta sul viso del padre le fece traboccare dal cuore la sua disperazione. «Oh, papà!» disse gettandosi tra le sue braccia. Sigrid chiuse piano la porta e andò a prendere i sacchi della spazzatura, una scopa e l'aspirapolvere. Tornando in redazione, Annika andò quasi a sbattere contro Patrik ed Eva-Britt Qvist. Stavano scendendo in mensa, e Annika decise di unirsi a loro. Si accorse che la cosa infastidì la segretaria di redazione, evidentemente aveva progettato di sparlare di lei. La mensa del personale, che in realtà avrebbe avuto nome "Tre Corone", veniva sempre chiamata "Sette Ratti" dopo un leggendario controllo dei nuclei antisofisticazione. In quel momento era talmente affollata che a mala pena ci sarebbe entrato un cucciolo di ratto. «È venuto proprio bene il tuo pezzo, ieri» si congratulò Annika con Patrik mentre prendeva un vassoio di plastica arancione al banco del selfservice. «Ti è piaciuto? Sono contento» disse il reporter illuminandosi. «Sei riuscito a rendere interessante l'analisi, anche se era così piena di dettagli tecnici. Mi è sembrato uno in gamba l'esperto di esplosivi che hai recuperato per fargli spiegare i diversi tipi di dinamite. Dove l'hai pescato?» «Pagine Gialle, sotto "Esplosivi". Era un tipo fantastico! Pensa che ha fatto scoppiare tre cariche di prova soltanto per farmi sentire al telefono la differenza tra le diverse marche.» Annika rise, mentre Eva-Britt Qvist non fece una piega.
Il piatto del giorno era costituito da aringhe in insalata con prosciutto o baccalà. Annika optò per un hamburger al formaggio con patatine fritte. Gli unici posti liberi erano nella zona della caffetteria, riservata ai fumatori. Mangiarono in fretta senza chiacchierare, poi salirono in redazione a bere il caffè e discutere del lavoro della giornata. S'imbatterono in Nils Langeby che stava tornando al lavoro dopo aver trascorso a casa le giornate di recupero per il fine settimana di straordinari. Quando vide Annika e gli altri, l'uomo si raddrizzò e gonfiò il petto. «Facciamo il punto della situazione, oggi, o no?» chiese in tono aggressivo. «Sì, tra un quarto d'ora, nel mio ufficio» rispose Annika. «Oh, meno male. Trovo che negli ultimi tempi si discuta un po' troppo poco, fra di noi» disse Nils Langeby. Annika finse di non aver sentito e si diresse verso il bagno delle donne. Doveva stringere i denti per non rispondere a tono al cronista più anziano. Secondo lei era un essere squallido, perfido e stupido al limite dell'inverosimile. Ma faceva parte della redazione che lei coordinava, perciò era costretta a fare in modo che la loro collaborazione funzionasse. Sapeva che quell'uomo cercava in tutti i modi di metterle i bastoni fra le ruote, e lei non aveva intenzione di facilitargli il compito. Quando tornò dalla toilette, Nils Langeby si era già accomodato sul divano nel suo ufficio. Il fatto che fosse entrato in sua assenza la irritò, ma decise di non darlo a vedere. «Dove sono Patrik ed Eva-Britt?» domandò. «È compito tuo saperlo, credevo che fossi tu il capo qua dentro, non io» rispose Nils Langeby. Annika uscì e disse a Patrik ed Eva-Britt Qvist di venire nel suo ufficio, poi andò dal caporedattore Ingvar Johansson e chiese anche a lui di raggiungerli. Mentre tornava indietro passò a prendersi una tazza di caffè. «Non ne hai portato una tazza anche a me?» chiese Nils Langeby offeso, quando lei rientrò. Respira con calma, si disse lei, accomodandosi dietro la scrivania. «No» rispose. «Non sapevo che volessi del caffè. Ma fai in tempo ad andarlo a prendere, se non ci metti troppo.» L'uomo non si mosse di un centimetro. Gli altri entrarono e si sedettero. «Okay» disse Annika. «Quattro cose. La prima è la caccia al dinamitardo, ormai la polizia una pista deve averla. Dobbiamo cercare di cavargliela di bocca. Qualcuno ha delle entrature che fanno al caso nostro?»
Lasciò la domanda in sospeso, mentre il suo sguardo passava in rassegna i colleghi: Patrik si stava spremendo le meningi, Ingvar Johansson ostentava una scettica indifferenza, Eva-Britt Qvist e Nils Langeby non aspettavano altro che trovare un punto debole per approfittarne. «Posso darmi da fare io» disse alla fine Patrik. «Cosa dicevano i poliziotti, stanotte?» chiese Annika. «Hai avuto la sensazione che stiano cercando un collegamento tra le vittime?» «Sì, assolutamente» rispose Patrik. «Può essere rappresentato da qualsiasi cosa, magari anche dai Giochi stessi, ma sento che c'è dell'altro. Sembrano concentratissimi e hanno la bocca cucita, il che può far pensare a un arresto imminente.» «Dobbiamo darci da fare, su questo punto» insisté Annika. «Non basta tenere sotto controllo la radio della polizia e affidarci agli informatori, dobbiamo cercare di capire se stanno per emettere un mandato di cattura. La foto del dinamitardo in manette che sale su una macchina della polizia sarebbe uno scoop mondiale». «Cercherò di scucirgli qualcosa» disse Patrik. «Bene, farò qualche telefonata in giro anch'io. Punto secondo: io so già che un legame tra i due esisteva, le vittime si conoscevano. Erano seduti vicini e hanno parlato a lungo durante una festa di Natale, la settimana scorsa.» «Cavoli» esclamò Patrik «questa sì che è una notizia!» A quel punto, si riscosse anche Ingvar Johansson. «Pensa se ci fosse una foto. Incredibile! Ve l'immaginate? Le vittime degli attentati si abbracciano sotto il vischio, e poi il titolo: "Ora sono morti entrambi".» «Darò un'occhiata» disse Annika. «Ci potrebbero essere altri legami tra le vittime. Stamattina ho parlato con Evert Danielsson, quando gli ho descritto Stefan Bjurling ha capito subito a chi mi riferivo. "Steffe", l'ha chiamato. Può darsi che anche Christina Furhage lo conoscesse fin da prima della festa.» «Perché sei andata a trovare Danielsson?» domandò Ingvar Johansson. «Voleva parlare» rispose Annika. «Di che?» chiese Ingvar Johansson, e Annika si rese conto di essere caduta in trappola. Ora doveva dire qualcosa, altrimenti si sarebbe ritrovata di nuovo nella merda come nella riunione di lunedì nell'ufficio del direttore. Non era quel che voleva, soprattutto in presenza di Nils Langeby e di Eva-Britt Qvist. «Mi ha detto che pensava che Christina Furhage fosse lesbica» rispose.
«È convinto che avesse una relazione con una donna che lavora alla segreteria generale, Helena Starke, ma non ha prove. È solo una sua sensazione.» Nessuno fece commenti. «Terzo punto: Stefan era mai stato minacciato? Qualcuno ha sentito qualcosa, in proposito? No? Allora me ne occupo io. Infine, quarto punto: cosa succederà, adesso? La sicurezza, i Giochi eccetera: se sarà tutto pronto in tempo, i gruppi terroristici che vengono tenuti sotto controllo e così via. Ve ne state occupando voi della cronaca generale?» Ingvar Johansson sospirò. «No, praticamente non ho neanche un cronista, oggi. Sono tutti in vacanza.» «Nils, potresti occupartene tu?» chiese Annika. Era stata formulata come una domanda, ma in realtà era un ordine. «Scusate» disse Nils Langeby «ma per quanto tempo dobbiamo stare qui a sorbirci questa manfrina?» «Cosa intendi dire?» chiese Annika raddrizzando la schiena. «Cosa dovremmo fare, starcene qui seduti come dei bravi scolaretti mentre tu ci propini gli incarichi con l'imbuto? Dove cazzo è finita l'analisi? La riflessione? La valutazione? Tutto quello che distingueva "La Stampa della Sera", insomma, eh?» Annika rifletté un attimo su come reagire. Poteva affrontare la situazione, pregando Nils Langeby di essere più preciso, per poi inchiodarlo quando avesse dimostrato di non essere in grado di farlo, metterlo all'angolo e spaventarlo, ma ci sarebbe voluta almeno un'ora, e Annika sentiva di non averne la forza. «Va bene, allora te ne occupi tu» disse invece, alzandosi. «Qualcos'altro?» Ingvar Johansson e Patrik uscirono per primi, Eva-Britt Qvist e Nils Langeby li seguirono. Ma Nils Langeby si fermò sulla porta, voltandosi. «Mi rattrista davvero constatare quanto è scaduta questa redazione. Ormai, non facciamo che stronzate. Non ti accorgi che gli altri media ci stanno sopravanzando?» Annika gli si avvicinò e mise la mano sulla maniglia della porta. «Non ho tempo per queste cose, adesso» ringhiò con voce strozzata. «Fuori.» «È davvero patetico che un caposervizio non sappia affrontare una semplice discussione» disse Nils Langeby. Poi si allontanò a passo volutamente lento. «Non so più cosa fare, con quell'uomo» sussurrò Annika. «La prossima
volta che comincia a rompere gli mollo un calcio nei denti.» Chiuse la porta per riuscire a pensare, e andò a sedersi alla scrivania. Cercò la Bygg&Rör sull'elenco telefonico e nel riquadro vide un numero di cellulare. Era quello di un dirigente dell'azienda, che si trovava in qualche cantiere. «Sì, certo» disse. «C'ero anch'io alla festa di Natale.» «Non è che, per caso, avesse con sé una macchina fotografica?» chiese Annika. L'uomo disse qualcosa a qualcuno accanto a lui. «... una macchina fotografica? No, perché?» «Forse ce l'aveva qualcun altro? Qualcuno che ha scattato delle foto durante la festa?» «Cosa? È laggiù, dietro l'impalcatura... Delle foto? Sì, credo di sì. Perché me lo chiede?» «Sa se Stefan Bjurling si era portato una macchina fotografica?» L'uomo rimase in silenzio un istante, e in sottofondo si udì soltanto il motore di un camion. Quando il responsabile dell'azienda riprese a parlare, aveva cambiato tono. «Senta un po', signora, da dov'è che chiama?» «Gliel'ho detto, il giornale "La Stampa della Sera". Mi chiamo Annika Be...» L'uomo aveva chiuso la conversazione. Annika mise giù il ricevitore e rifletté. Chi poteva aver scattato una fotografia di Stefan Bjurling insieme al direttore generale dei Giochi olimpici, una donna nota a livello internazionale? Inspirò a fondo un paio di volte e poi compose il numero di Eva Bjurling, a Farsta. Quando rispose, la voce suonava stanca ma controllata. Annika pronunciò le consuete frasi di circostanza, ma la donna la interruppe. «Cosa vuole?» «Mi chiedevo se lei o suo marito conoscevate personalmente il direttore generale del Socog, Christina Furhage» disse Annika. La donna rifletté. «Io no di sicuro. Ma Steffe l'aveva conosciuta, a volte ne parlava.» Annika accese il registratore. «E cosa diceva?» Eva Bjurling sospirò. «Non lo so. Raccontava di lei, diceva che era una dura, roba del genere. Non mi ricordo...» «Ma ha avuto l'impressione che si conoscessero bene?» «No, non saprei. Perché lo pensa?»
«Niente, me lo chiedevo soltanto. Erano seduti vicini alla festa di Natale della settimana scorsa.» «Ah, sì? Steffe non me ne ha parlato. Anzi, ha detto che era stata una festa piuttosto noiosa.» «Aveva portato con sé una macchina fotografica alla festa?» «Steffe? No, guardi, per lui le macchine fotografiche erano una stupidata.» Annika era incerta, ma poi decise di fare la domanda a cui stava pensando dall'inizio. «Le chiedo scusa se le sembrerò inopportuna, ma come fa a essere così calma e composta?» La donna sospirò di nuovo. «Naturalmente sono triste, ma Steffe non era un angioletto. È stato piuttosto pesante essere sposata con lui. Ho fatto domanda di separazione due volte, ma l'ho sempre ritirata. Non c'era verso di levarselo di torno. Tornava sempre, e continuava come prima.» Lo scenario era quello classico, Annika sapeva quale sarebbe stata la sua domanda successiva. «La maltrattava?» Eva Bjurling esitò un attimo, ma si vede che aveva deciso di essere sincera. «Una volta è stato condannato per lesioni personali e minacce. Il tribunale emise un'ordinanza che gli vietava di avvicinarmi a cui lui contravveniva regolarmente. Alla fine non ce l'ho più fatta e me lo sono ripreso» rispose la donna in tono pacato. «Sperava che sarebbe cambiato?» «Aveva smesso di fare promesse del genere, quella fase ce l'eravamo lasciata alle spalle da un pezzo. Però, in effetti, le cose erano un po' migliorate, dopo. L'ultimo anno non è andato troppo male.» «Si è mai presentata al servizio di emergenza per le donne maltrattate?» La domanda fu posta in modo del tutto naturale, Annika l'aveva ripetuta in centinaia di occasioni, nel corso degli anni. Eva Bjurling esitò un secondo, ma decise di rispondere anche questa volta. «Una volta o due, ma per i bambini era uno strazio. Non potevano andare all'asilo e a scuola, com'erano abituati. Era tutto troppo complicato.» Annika attese in silenzio. «Si sta chiedendo perché non sono affranta, vero?» proseguì Eva Bjurling. «Certo, sono addolorata, soprattutto per i bambini. Volevano bene al loro papà, ma sono convinta che staranno meglio adesso che non c'è più. Ogni tanto tornava a casa ubriaco fradicio. Così è la vita...» Rimasero in silenzio per qualche istante.
«Non voglio trattenerla» disse Annika. «La ringrazio per la sua sincerità, è importante che queste cose siano chiare.» La donna parve improvvisamente agitata. «Ha intenzione di scrivere quello che le ho detto? I vicini, qua attorno, non sapevano di come andavano le cose in casa nostra.» «Stia tranquilla» rispose Annika «non ho intenzione di rendere nota questa faccenda, ma è bene che io la conosca, così forse potrò evitare che venga fuori nel modo sbagliato in una prossima occasione.» Annika spense il registratore. Rimase seduta alla scrivania con lo sguardo perso nel vuoto. I maltrattamenti alle donne erano all'ordine del giorno in qualsiasi ambiente, ormai l'aveva imparato. Aveva scritto diversi articoli sulle violenze a cui venivano sottoposte, e mentre i suoi pensieri correvano liberamente si rese conto all'improvviso di un altro comune denominatore tra le due vittime. Entrambi venivano portati in palmo di mano da chi non li conosceva troppo bene, ed entrambi, a un esame più approfondito, si rivelavano delle vere carogne, a meno che Evert Danielsson non mentisse su Christina. Sospirò e accese il suo Macintosh. Meglio mettere tutto per iscritto adesso che ce l'aveva fresco in mente. Intanto che il computer si avviava, estrasse il blocco dalla borsa. Proprio non riusciva a inquadrare Evert Danielsson. A tratti sembrava professionale e competente, subito dopo si metteva a piangere perché gli avevano tolto l'auto aziendale. Possibile che gli uomini di potere fossero davvero tanto fragili e ingenui? La risposta era: probabilmente sì. Gli uomini di potere non erano diversi dagli altri. Se perdevano il lavoro, o qualcos'altro di importante, andavano in crisi. E una persona in crisi non agisce in maniera razionale, a prescindere dal suo titolo professionale. Aveva quasi finito di trascrivere gli appunti quando squillò il telefono. «Mi aveva detto di chiamare se aveste scritto qualcosa di sbagliato» esordì qualcuno. La voce era quella di una giovane donna, ma Annika non riuscì subito a collegarla a un viso. «Certo» rispose, cercando di mantenere un tono neutro. «Cosa posso fare per lei?» «L'ha detto quando è venuta a casa nostra, domenica, che avrei potuto chiamarla se sul giornale usciva qualche notizia non vera, e questa volta avete passato il segno.» Era Lena Milander. Annika spalancò gli occhi e accese impacciata il registratore.
«In che senso?» chiese. «L'avrà pur letto, no, il suo giornale? Avete messo una foto gigantesca di mia madre con sotto la scritta "La donna ideale". Che cosa ne sapete, voi?» «Secondo lei cosa avremmo dovuto scrivere, invece?» chiese Annika. «Un bel niente. Lasciatela in pace. Ancora non è stata nemmeno sepolta.» «Secondo le informazioni che abbiamo noi, sua madre era una donna ideale» disse Annika. «Come facciamo a sapere qualcosa di diverso, se non ce lo dice nessuno?» «E perché dovete parlare di lei?» «Sua madre era una persona in vista, e aveva scelto lei stessa di esserlo. Si è creata da sola la propria immagine. Se nessuno ce ne fornisce una diversa, quella rimane l'unica disponibile.» Lena Milander rimase in silenzio per qualche istante, poi disse: «Venga al Pellicano, a Södermalm, tra mezz'ora. Poi mi dovrà promettere che non scriverete mai più stronzate del genere». Riattaccò, e Annika fissò perplessa il ricevitore. Salvò in un dischetto gli appunti sull'incontro con Evert Danielsson e cancellò il documento dal disco fisso. Prese borsa e cappotto e uscì. Anders Schyman era seduto nel suo ufficio a passare in rassegna i dati sulle vendite dell'ultimo fine settimana. Si sentiva soddisfatto, erano quelli i risultati che voleva vedere. Nella giornata di sabato, il "concorrente" aveva venduto più copie della "Stampa della Sera", proprio come al solito. Ma la domenica si era verificata un'inversione di tendenza storica rispetto al passato: "La Stampa della Sera" vinceva la battaglia della tiratura per la prima volta da più di un anno a quella parte, sebbene il "concorrente" avesse un inserto domenicale più consistente e lussuoso. Era stato il lavoro della cronaca sull'esplosione allo stadio olimpico a fare la differenza, soprattutto l'articolo in prima pagina, il cui titolo era stato riportato sulla civetta, cioè il pezzo di Annika con la scoperta che Christina Furhage aveva ricevuto minacce di morte. Si sentì bussare. Eva-Britt Qvist era in piedi sulla porta. «Avanti» disse il direttore. La segretaria di redazione abbozzò un sorriso, raddrizzò la gonna e si schiarì la voce. «Ecco, c'è qualcosa di cui sento il bisogno di parlare.» «Accomodati» la invitò Anders Schyman indicandole la sedia sul lato opposto della scrivania e appoggiandosi allo schienale. Allacciò le mani
dietro la nuca e osservò Eva-Britt Qvist attraverso gli occhi socchiusi. Stava per ascoltare qualcosa di sgradevole, ne era certo. «Mi sembra che, ultimamente, l'atmosfera in redazione sia peggiorata parecchio» iniziò la segretaria di redazione. «Non c'è più nessun entusiasmo nel lavoro. Io, che sto qui da tanto tempo, ritengo che non sia giusto accettare questa situazione.» «È naturale» convenne Anders Schyman. «Potrei avere qualche esempio pratico?» Eva-Britt Qvist si agitò sulla sedia e rifletté. «Be', ecco, diciamo che non è piacevole sentirsi convocare d'ufficio al lavoro mentre si stanno infornando dei dolci, e subito prima di Natale, per giunta. In redazione deve esserci un minimo di flessibilità.» «Perché, chi è stato convocato al lavoro mentre preparava dei dolci?» chiese Schyman. «Io, da Annika Bengtzon.» «Per caso aveva a che fare con la faccenda del dinamitardo?» «Sì. Trovo che Annika sia davvero troppo rigida.» «Dunque, non ritieni che sia giusto venire a lavorare, quando tutti gli altri sono qui?» chiese il direttore in tono calmo. «Per fortuna, tragedie come queste si verificano molto di rado, nel nostro paese.» La donna arrossì leggermente ma decise di andare all'attacco. «Annika Bengtzon è una maleducata! Sai cos'ha detto dopo pranzo, oggi? Che avrebbe dato un calcio nei denti a Nils Langeby!» Anders Schyman riuscì a mala pena a trattenere una risata. «Ah, davvero?» commentò. «Ma l'ha detto sul serio a Nils Langeby?» «No, parlava tra sé e sé, ma io l'ho sentita. Trovo che abbia passato il segno, non è il modo di esprimersi sul posto di lavoro.» Il direttore si sporse in avanti e piazzò le mani intrecciate sul bordo della scrivania. «Hai tutte le ragioni, Eva-Britt, è stato sconveniente esprimersi in quei termini. Ma sai cosa ritengo sia molto peggio? Il fatto che i colleghi di lavoro corrano dal capo a fare la spia come dei mocciosi.» Eva-Britt Qvist divenne bianca come un cencio, per poi avvampare. Anders Schyman continuò a fissarla senza distogliere lo sguardo. Lei abbassò gli occhi, li rialzò, li riabbassò. Poi uscì. Probabilmente, avrebbe trascorso il quarto d'ora successivo a piangere in bagno. Il direttore si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò. Si era illuso di aver raggiunto il limite per quella settimana, quanto al fattore "asilo nido", ma evidentemente non era così.
Annika scese dal taxi sulla Blekingegata, al numero 40, e per un attimo rimase spiazzata dal tipo di locale scelto da Lena Milander, abituata alla vita dei quartieri alti. Il Pellicano era una birreria classica che offriva anche alcuni piatti tipici svedesi, un locale dove, verso sera, il volume si alzava di parecchio. Per il momento, nella sala regnava ancora la calma. La gente chiacchierava ai tavolini lungo le pareti davanti a una birra e magari a un panino. Lena Milander era appena arrivata, si era seduta girata verso l'ingresso, con le spalle al muro, e stava fumando avidamente una sigaretta arrotolata a mano. Con i suoi capelli corti, gli abiti neri e l'espressione tormentata del viso, si adattava perfettamente all'ambiente. Forse era una cliente abituale. La teoria di Annika fu confermata quando la cameriera si avvicinò per le ordinazioni. «Il solito, Lena?» Annika prese una tazza di caffè e una tartina al prosciutto e formaggio, Lena una birra e un piatto di verdure saltate con bocconcini di carne. Spense la sigaretta quando era ancora a metà, guardò Annika e fece un sorriso storto. «In realtà non fumo, ma mi piace accendere le sigarette» disse fissando con insistenza Annika. «Lo so che le piace dar fuoco alle cose» rispose Annika soffiando sul caffè. «La casa di accoglienza di Botkyrka, per esempio.» Lena rimase impassibile. «Per quanto tempo ancora avete intenzione di mentire su mia madre?» «Finché non la conosceremo meglio» rispose Annika. Lena riaccese la sigaretta e soffiò il fumo in faccia ad Annika, che non batté ciglio. «Ha già comprato i regali di Natale?» chiese Lena togliendosi un frammento di tabacco dalla bocca. «Una parte. E lei, ne ha comprato uno per Olof?» Lo sguardo della ragazza si indurì. Inspirò a fondo il fumo della sigaretta. «Suo fratello, intendo» continuò Annika. «Tanto vale che cominciamo da lì, no?» «Non ci frequentiamo» disse Lena guardando fuori dalla finestra. Annika sentì un brivido correrle lungo la schiena. Olof era vivo! «Come mai non vi vedete?» chiese cercando di mantenere un tono neutro. «Non ci siamo mai frequentati. Mia madre non voleva.»
Annika tirò fuori blocco e penna, ma anche la copia su carta della foto in cui Olof aveva due anni, e la mise davanti a Lena, sul tavolo. Lei la guardò a lungo. «Questa non l'ho mai vista. Da dove è saltata fuori?» «Dall'archivio del giornale. Se vuole, gliela posso dare.» Lena scosse la testa. «Non ne vale la pena, tanto la brucerei.» Annika la rimise nella borsa. «Cosa vuole raccontarmi di sua madre?» La ragazza si mise a giocherellare con la sigaretta. «Tutti scrivono che era fantastica. Sul suo giornale, oggi, a momenti la santificavano. Ma mia madre era una persona terribile. Aveva fallito in una quantità di cose. E i suoi insuccessi li nascondeva minacciando e tradendo la gente. A volte penso che doveva esserci qualcosa di malato, in lei. Era talmente perfida.» Tacque e guardò di nuovo fuori dalla finestra. Cominciava già a fare buio, e la neve non voleva smettere di cadere. «Potrebbe spiegarsi meglio?» chiese Annika con delicatezza. «Prenda Olle, per esempio» disse Lena. «Non sapevo nemmeno della sua esistenza, finché non me l'ha detto la nonna. Avevo undici anni.» Annika prese nota e aspettò in silenzio. «Il nonno morì quando mia madre era piccola. La nonna la mandò a stare da certi parenti, al Nord, e lì crebbe. Loro non le volevano bene, ma ricevevano dei soldi dalla nonna. A dodici anni fu messa in collegio, e lì rimase finché non si sposò con Carl, il tizio della foto. Aveva quasi quarant'anni più della mamma, ma era di buona famiglia. Era importante, per la nonna. Era stata lei a organizzare tutto.» Lena cominciò ad arrotolarsi un'altra sigaretta. Non era molto abile, e un po' di tabacco le cadde nel piatto, che non aveva ancora toccato. «Mia madre non aveva ancora vent'anni quando nacque Olof, e quel vecchio bavoso di un Carl amava mettere in mostra la sua famiglia giovane e fresca. Solo che poi la ditta andò a rotoli e i soldi finirono, e allora una moglie squattrinata con figlio non gli sembrò più tanto divertente. Quel porco mollò mia madre e Olle e si risposò con una vecchia carampana piena di soldi.» «Dorotea Adelcrona» disse Annika, e Lena annuì. «Dorotea era la vedova di un vecchio proprietario di foreste alle porte di Sundsvall. Nuotava nell'oro, e Carl si prese molto a cuore i suoi averi. La vecchia morì dopo un paio d'anni, e Carl divenne il vedovo più ricco della Svezia settentrionale. Istituì una specie di premio per una qualche attività idiota in ambito forestale.»
Annika annuì. «Esatto. Le borse di studio vengono assegnate ancora oggi, ogni anno.» «Comunque, mia madre non vide un centesimo. Dal punto di vista sociale, naturalmente, era un'emarginata. Negli anni Cinquanta una donna al verde, separata e con un figlio, non era esattamente apprezzata in società, e per lei questo aspetto era importantissimo. Aveva una specie di diploma in materie economiche che aveva ottenuto in collegio, e così si trasferì a Malmö e cominciò a lavorare come segretaria personale di un direttore nel settore della rottamazione. Olle lo affidò a un'anziana coppia di Tungelsta.» Annika alzò gli occhi dal blocco. «Abbandonò il bambino?» «Sì. Aveva cinque anni. Non so se l'abbia mai più incontrato, da allora.» «Ma perché?» chiese Annika, scossa. Il solo pensiero di affidare a qualcun altro il suo Kalle la faceva star male. «Era un bambino difficile, così diceva lei. Anche se la vera ragione, naturalmente, era che intendeva lavorare senza trascinarsi dietro un moccioso. Voleva fare carriera.» «Già, e non si può dire che non ci sia riuscita» mormorò Annika. «All'inizio, condusse una vita d'inferno. Il suo primo principale la violentò, mettendola incinta, o almeno questo era quanto affermava lei. Andò in Polonia ad abortire e per poco non ci lasciò la pelle. I medici pensavano che non avrebbe mai potuto avere altri figli. Fu licenziata, naturalmente, ma trovò lavoro in una banca, a Skara. Lì si diede da fare, e in seguito fu trasferita alla sede centrale di Stoccolma. Fece presto a scalare la piramide gerarchica, e in qualche punto della scalata conobbe papà, che se ne innamorò perdutamente. Si sposarono dopo un paio d'anni, e lui cominciò a menargliela con il fatto che desiderava un figlio. Mia madre non voleva, ma smise di prendere la pillola per compiacerlo. Tanto, credeva che non sarebbe più rimasta incinta.» «E invece accadde.» Lena annuì. «Ormai, aveva più di quarant'anni. Può immaginarsi quanto la cosa la fece incazzare. L'aborto era ormai legale, ma per una volta mio padre le tenne testa. Lui non avrebbe accettato una simile decisione: minacciò di lasciarla, se lei non l'avesse assecondato. Così, lei fece buon viso a cattiva sorte e mi partorì.» Fece una smorfia e bevve un sorso di birra. «Chi le ha raccontato tutto questo?» chiese Annika. «Mia madre, è ovvio. Non era affatto ipocrita, riguardo ai sentimenti che nutriva per me. Diceva sempre che mi detestava. Il mio primo ricordo di
lei è quando mi diede una spinta facendomi cadere. Papà mi voleva bene, ma non ha mai osato mostrarlo apertamente. Temeva molto la mamma.» Rifletté un istante su ciò che aveva appena detto, e poi riprese: «Credo che la maggior parte della gente la temesse. Aveva il dono di incutere terrore. Tutte le persone che in qualche modo entravano in contatto con lei avevano l'obbligo di firmare un impegno di segretezza. Non potevano parlare pubblicamente di Christina senza il suo permesso». «Ma c'era un fondamento legale, in questo?» chiese Annika. Lena Milander alzò le spalle. «Non ha importanza, la gente ci credeva e stava zitta per paura.» «Non c'è da meravigliarsi che al giornale non siamo riusciti a sapere un bel niente» commentò Annika. «Quanto alla mamma, lei aveva paura solo di due persone, cioè di me e di Olle.» Che tristezza infinita, pensò Annika. «Aveva una gran fifa che io la bruciassi viva» disse Lena con una smorfia di sarcasmo. «Fin da quella volta che diedi fuoco al parquet nella sala della villa di Tyresö è sempre stata attentissima, per quanto riguardava me e i fiammiferi. Mi spedì in una comunità di recupero per giovani disturbati, ma dopo che l'ebbi bruciata dovetti tornare a casa. Finisce sempre così per i ragazzi che nessuno riesce a gestire. Quando i servizi sociali non ce la fanno più, i genitori si ritrovano di nuovo tra i piedi i loro diavoletti.» Accese la nuova sigaretta, tutta bitorzoli. «Una volta feci un esperimento nel garage con una carica esplosiva fatta in casa. Scoppiò prima del previsto scardinando la porta, io me la cavai con qualche scheggia in una gamba. La mamma si convinse che l'avrei fatta saltare in aria, e da quel momento le venne il terrore delle autobombe.» Rise senza allegria. «Come aveva imparato a preparare una carica esplosiva?» chiese Annika. «C'erano in giro le istruzioni anche prima che esistesse Internet, non è affatto difficile. Vuole che glielo insegni?» «Grazie, non ce n'è bisogno. Perché aveva paura di Olof?» «Veramente non lo so, non me l'ha mai detto. Mi raccomandava soltanto di stargli alla larga, che era pericoloso. Deve averla minacciata, in qualche modo.» «L'ha mai visto?» La ragazza scosse la testa e gli occhi le si velarono. Soffiò fuori il fumo
e scosse una quantità inesistente di cenere della sigaretta contro il bordo del piatto. «Non so nemmeno dove sta» disse. «Ma crede che sia vivo?» Lena tirò una lunga boccata e guardò Annika. «Perché, altrimenti, la mamma sarebbe stata così spaventata? Se Olle fosse morto non avremmo avuto bisogno di avere i dati protetti.» Vero, pensò Annika. Esitò un istante, poi decise di porre una domanda sgradevole: «Lei crede possibile che sua madre abbia incontrato qualcun altro, di cui si è innamorata?». Lena alzò le spalle. «Non me ne frega niente» disse. «Comunque, lo ritengo improbabile. La mamma odiava gli uomini. A volte penso che odiasse anche papà.» Annika lasciò cadere l'argomento. «Come vede, era ben lungi dall'essere una donna ideale» continuò la ragazza. «Già, non lo era affatto» convenne Annika. «Lo scriverete ancora?» «Spero di poterlo evitare» rispose Annika. «Ma da quello che mi ha detto, ho l'impressione che sua madre fosse anche una vittima.» «In che senso?» chiese Lena, subito all'erta. «In fondo, è stata mandata via dalla sua famiglia, proprio come Olof.» «C'era una differenza. La nonna non poteva prendersi cura di lei, c'era una guerra, in Europa, ma le voleva davvero bene. Il suo grande rimpianto era proprio che la mamma non avesse potuto crescere con lei.» «È ancora viva, sua nonna?» «No, è morta l'anno scorso. La mamma è persino andata al funerale: in caso contrario avrebbe fatto una cattiva impressione, disse. Con la nonna si vedevano in occasione di tutte le feste e le vacanze scolastiche, quando la mamma era piccola, e festeggiavano insieme anche tutti i suoi compleanni.» «Da quello che dice, sembra che lei riesca a perdonare sua nonna ma non sua madre» osservò Annika. «Ah, sì? E da quando è diventata una cazzo di psicologa?» Annika alzò le mani. «Chiedo scusa.» Lena la guardò, aspettando la prossima mossa. «Okay» disse alla fine, scolando l'ultimo sorso di birra. «Io ho intenzione di rimanere qui e di ubriacarmi. Vuole farmi compagnia lungo la discesa verso le grandi nebbie?»
Annika sorrise debolmente. «Mi dispiace, ma non posso» rispose, cominciando a raccogliere le sue cose. S'infilò il cappotto e si appese la borsa alla spalla. «Secondo lei, chi l'ha uccisa?» Gli occhi di Lena si ridussero a una fessura. «Non io, questo è certo.» «Conosceva un certo Stefan Bjurling?» «La nuova vittima? Non ne ho idea. E adesso veda di non scrivere altre cazzate» disse Lena Milander voltando la testa. Annika capì l'antifona. Andò dalla cameriera, pagò entrambe le consumazioni e uscì dal locale. La donna entrò nell'ingresso ultramoderno della "Stampa della Sera" cercando di muoversi come un'addetta ai lavori. Indossava un soprabito dalla linea diritta, che a seconda della luce variava dal blu marino al lilla. I capelli erano nascosti da un basco marrone. Dalla spalla sinistra le pendeva un'elegante borsetta modello Chanel, nella mano destra guantata teneva una cartella di pelle bordeaux. Quando le porte scorrevoli si chiusero silenziosamente alle sue spalle, si fermò e si guardò intorno. I suoi occhi si posarono sul box a vetri della reception nell'angolo in fondo a sinistra. Si sistemò la sottile tracolla della borsetta e si avviò in quella direzione. Dentro il box c'era il custode Tore Brand, che aveva sostituito la persona di turno per permettergli di andare a prendere un caffè e fumarsi una sigaretta. Tore Brand premette il pulsante di apertura dello sportello quando la donna era quasi arrivata al banco. Assunse un'espressione ufficiale e chiese brevemente: «Desidera?». La donna si sistemò ancora una volta la borsetta sulla spalla e si schiarì la voce. «Ecco, sto cercando una giornalista. Si chiama Annika Bengtzon. Lavora al...» «Sì, lo so» la interruppe Tore Brand. «Non c'è.» Il custode teneva pronto il dito sul pulsante per richiudere lo sportello. La donna giocherellò confusa con la maniglia della cartella di pelle. «Ah, non c'è... E quando torna?» «Impossibile dirlo. È fuori per lavoro, e quindi non si può mai prevedere cosa succederà o quanto tempo ci vorrà.» Tore Brand si sporse in avanti e, con aria confidenziale, aggiunse: «Questo è un giornale, sa». La donna fece una risatina, a disagio. «Sì, sì, grazie, lo so. Ma avrei proprio bisogno di incontrare Annika Bengtzon. C'è una cosa che vorrei darle.»
«Ah, e cosa?» chiese il custode, curioso. «Posso prenderla in consegna io?» La donna fece un passo indietro. «No, è personale, voglio che lo abbia lei. Ci siamo parlate ieri, è piuttosto importante.» «Se vuole lasciare dei documenti o qualcosa del genere, non c'è problema, mi incarico io di farglieli avere.» «Grazie, ma credo che tornerò un'altra volta.» «Guardi, qui tutti i giorni arrivano balordi con casse piene di carta, lettori intransigenti, vittime delle assicurazioni, squinternati di ogni tipo, e noi accettiamo qualunque cosa. Mi lasci pure quello che deve darle, me ne occuperò io.» La donna girò sui tacchi e si avviò verso l'uscita quasi di corsa. Tore Brand chiuse lo sportello e sentì che aveva una gran voglia di una sigaretta. Annika stava avanzando a fatica in mezzo alla gente che faceva compere natalizie lungo la Götgatan, quando si rese conto di essere solo a un paio di isolati dalla casa di Helena Starke. Invece di lottare contro la folla che saliva dalla metropolitana di Skanstull, girò e seguì il flusso, dirigendosi verso la Ringvägen. Anche qui nessuno aveva sgomberato la neve, come a Kungsholmen. La sua memoria per i numeri non la tradì: ricordava ancora il codice del portone al numero 139 della via. Questa volta Helena Starke le aprì dopo il primo squillo di campanello. «Lei non si arrende, eh?» disse sulla porta. «Posso farle solo un paio di domande?» chiese Annika in tono implorante. Helena Starke gemette. «Ma si può sapere cosa cazzo vuole da me?» «La prego, non sul pianerottolo.» «Non importa, tanto sto per traslocare.» Le ultime parole le gridò forte, in modo che la sentissero anche le linguacce del condominio. Almeno avrebbero avuto qualcosa di cui spettegolare. Annika guardò oltre la spalla della donna. In effetti, sembrava proprio che stesse imballando le sue cose. Helena Starke sospirò. «Va be', venga dentro. Ma si sbrighi. Stasera me ne vado.» Annika decise di andare subito al sodo. «So che mi ha mentito sul ragazzo, Olof, ma non me ne frega niente. Sono qui per chiederle se è vero che
lei aveva una relazione con Christina Furhage.» «E se anche fosse, che cazzo c'entra lei?» disse Helena Starke, calma. «Niente, se non fosse che sto cercando di far tornare i conti. Ce l'aveva o no?» La donna sospirò. «E se io glielo confermassi, domani me lo ritroverei su tutti i giornali, non è così?» «Assolutamente no» rispose Annika. «La sessualità di Christina non aveva niente a che vedere con il suo ruolo pubblico.» «Va bene» disse Helena Starke, quasi divertita. «Lo confermo. Soddisfatta?» Annika rimase un attimo perplessa. «E adesso cosa vuole sapere?» continuò Helena Starke in tono acido. «Come scopavamo? Se usavamo il pene artificiale o le dita? Se Christina gridava quando veniva?» Annika abbassò gli occhi, sentendosi un'idiota. Non erano fatti suoi. «Mi scusi. Non volevo essere invadente.» «Peccato che invece lo sia stata» disse la Starke. «C'è altro?» «Lei conosceva Stefan Bjurling?» chiese Annika rialzando lo sguardo. «Un vero stronzo. Se c'era qualcuno che si meritava un pacchetto di dinamite sui reni era proprio lui.» «Christina lo conosceva?» «Sapeva chi era.» Annika chiuse la porta, rimasta accostata. «Per favore, mi potrebbe dire com'era Christina in realtà?» «Ma, santo cielo, è tutta la settimana che riempite i giornali di articoli su di lei.» «Voglio dire Christina come persona, non la sua immagine pubblica.» Helena Starke si appoggiò allo stipite della porta del soggiorno e guardò Annika con un'espressione interrogativa. «Perché è così curiosa?» Annika inspirò. L'aria, lì dentro, era davvero viziata. «Ogni volta che parlo con qualcuno che conosceva Christina, la sua immagine cambia. Credo che lei fosse l'unica persona a esserle davvero vicina.» «Si sbaglia» disse la donna. Si voltò e si sedette sul divano del soggiorno. Annika la seguì senza essere stata invitata a farlo. «E chi la conosceva, allora?» «Nessuno» rispose Helena. «Nemmeno lei stessa. A volte aveva paura di ciò che era, o meglio di ciò che era diventata. Christina portava dentro di sé demoni terribili.»
Annika osservò il viso della donna, girato di lato. La luce dell'ingresso le cadeva sulla nuca e sul profilo ben delineato. Doveva ammettere che Helena Starke era veramente bella. Il resto della stanza era immerso nell'oscurità, fuori rimbombava il traffico del viale sottostante. «E che origine avevano questi demoni?» chiese Annika a bassa voce. Helena Starke sospirò. «Ha avuto una vita d'inferno, dall'infanzia in poi. Era molto intelligente, ma non le è mai valso a nulla. La gente la tormentava in ogni modo, e lei è riuscita ad andare avanti diventando fredda e inaccessibile.» «Cosa intende dire quando afferma che la gente la tormentava?» «Era una pioniera, come dirigente donna nell'industria privata, nel mondo bancario, nelle stanze dei bottoni. La gente tentava continuamente di metterla al tappeto, ma nessuno c'è mai riuscito.» «C'è da chiedersi se invece non ci siano riusciti, nonostante tutto» disse Annika. «Si può andare in pezzi dentro, anche se la superficie rimane intatta.» Helena Starke non rispose. Teneva lo sguardo fisso nel buio, dopo un po' si portò una mano agli occhi. «La gente sapeva che... stavate insieme?» Helena Starke scosse la testa. «No. Giravano delle voci, ma nessuno ce l'ha mai chiesto esplicitamente. Christina aveva molta paura che la cosa saltasse fuori, cambiava autista ogni otto settimane perché non si accorgesse del motivo per cui veniva qui così spesso.» «E perché ne aveva tanta paura? Ormai, sono molte le persone in vista che rendono pubblica la propria omosessualità senza vergognarsene.» «Non è solo questo» disse Helena Starke. «I rapporti sentimentali tra i dipendenti della segreteria erano assolutamente vietati, era stata Christina stessa a deciderlo. Se la nostra relazione fosse stata resa pubblica, probabilmente non sarei stata la sola a dovermene andare. Non avrebbe potuto rimanere al suo posto di direttore generale, dopo aver contravvenuto a una delle sue regole più severe.» Annika lasciò che le parole della donna si depositassero dentro di lei. Ecco un'altra cosa di cui Christina Furhage aveva avuto paura. Osservò il profilo del volto chino di Helena Starke e si rese conto di quanto la situazione fosse paradossale. Per amore di questa donna, Christina Furhage aveva messo a repentaglio ciò per cui aveva lottato tutta la vita. «Era qui, l'ultima sera, vero?» «Abbiamo preso un taxi, credo che Christina abbia pagato in contanti.
Non ne sono sicura, ma di solito faceva così. Ero ubriaca fradicia, però ricordo che lei era arrabbiata. Non le piaceva che fumassi e bevessi. Abbiamo fatto l'amore in modo un po' violento, poi io sono crollata. Quando mi sono svegliata, Christina non c'era più.» Smise di parlare e rifletté. «Lei era morta, quando mi sono svegliata.» «Ricorda qualcosa, di quando Christina è uscita?» La donna, seduta nella penombra, sospirò. «No, ma la polizia dice che il suo cellulare ha ricevuto una telefonata alle due e cinquantaré. Lei ha risposto e ha parlato per tre minuti. Dev'essere successo dopo che avevamo scopato, perché Christina non può aver parlato mentre lo facevamo...» Girò il viso verso Annika e fece un sorriso storto. «È difficile non poter parlare apertamente di quello che sente?» chiese Annika. Helena Starke alzò le spalle. «Quando mi innamorai di Christina sapevo a cosa andavo incontro. Non fu facile convincerla a cedere, ci misi più di un anno.» Fece una risatina. «Era incredibilmente inesperta. Era come se non avesse mai goduto sessualmente prima di allora, ma quando capì com'era bello, non ne aveva mai abbastanza. Non ho mai avuto un'amante così fantastica.» Annika si sentiva a disagio, queste cose non la riguardavano. Non voleva figurarsi la splendida quarantenne che faceva l'amore con un'ultrasessantenne fredda come un ghiacciolo. Si scosse per allontanare quelle immagini. «Grazie di aver parlato con me» disse soltanto. La donna non rispose. Annika si voltò dirigendosi verso la porta. «A proposito, dove andrà ad abitare?» chiese. «Los Angeles.» Annika si fermò e si gettò un'occhiata alle spalle. «Non è stata una decisione un tantino improvvisa?» Helena Starke la guardò da dietro lo stipite e la trapanò con lo sguardo. «Non sono stata io a farli saltare in aria.» Annika arrivò in redazione giusto in tempo per il giornale radio delle cinque meno un quarto. La prima notizia era uno scoop, almeno per gli standard dell'emittente. Erano riusciti ad avere in anteprima la proposta di governo sulla politica regionale che avrebbe dovuto essere presentata in parlamento alla fine di gennaio. La politica regionale non era di particolare interesse alle orecchie di Annika, ma il secondo servizio lo era molto di
più. Riguardava alcune indiscrezioni sul materiale esplosivo usato per l'assassinio di Stefan Bjurling. Le componenti sembravano essere le stesse dello scoppio allo stadio: una miscela di nitroglicerina e nitroglicole ad alta densità, ma la potenza della carica non corrispondeva. Secondo il giornale radio, questa volta si trattava probabilmente di candelotti di dimensioni inferiori: il diametro doveva aggirarsi tra i 22 e i 29 millimetri. La polizia non intendeva commentare queste informazioni, limitandosi a dire che l'analisi tecnica era ben lungi dall'essere stata completata. Bisogna che se ne occupi Patrik, pensò Annika prendendo nota sul suo blocco. Il giornale radio non aveva altre notizie che riguardassero il suo lavoro, così Annika spense e cominciò le sue telefonate. Gli operai che lavoravano con Stefan Bjurling dovevano essere a casa, ormai. Cercò nel giornale la didascalia della foto che accompagnava il suo articolo e cominciò chiamando il servizio informazioni. Alcuni degli operai avevano nomi troppo comuni per essere rintracciati sull'elenco abbonati, ma cinque erano sufficientemente rari da evitarle di fare cinquanta telefonate chiedendo se stava parlando con la persona giusta. Alla quarta chiamata trovò quello che cercava. «Sì, avevo una macchina fotografica alla festa» disse l'idraulico Herman Ösel. «Per caso ha scattato qualche foto a Christina Furhage?» «Certo che gliene ho scattate.» Il cuore di Annika si mise a battere più forte. «E di Stefan Bjurling?» «Mah, non da solo, ma credo che si veda su una foto che ho fatto a Christina.» Non può essere vero. Che fortuna sfacciata, pensò Annika. «Non lo sa ancora?» chiese. «No, perché non ho sviluppato il rullino. Pensavo di fare qualche foto ai nipotini per Natale e...» «Herman, potremmo svilupparlo noi alla "Stampa della Sera". Naturalmente gliene forniremo uno nuovo, e se in quello che ci dà trovassimo qualche foto che ci interessa, pensa che potrebbe vendercela?» L'idraulico non aveva capito bene. «Come, volete comprare il mio rullino?» chiese incerto. «No, il rullino rimane suo, e noi glielo restituiremo. Ma forse potremmo essere interessati a comprare i diritti per una delle sue foto. È così che funziona quando acquistiamo delle foto dai freelance, e in questo caso lei di-
venterebbe un fotografo freelance.» «Mah, non saprei...» Annika inspirò a fondo e gli spiegò tutto per filo e per segno. «Vede, le cose stanno così» disse. «Noi della "Stampa della Sera" riteniamo importantissimo che il responsabile delle morti di Christina Furhage e Stefan Bjurling venga preso e messo in prigione. È importante sia per le famiglie e i colleghi di Christina e di Stefan, che per tutta la nazione, anzi, direi per il mondo intero. I Giochi olimpici sono in pericolo, ce lo dobbiamo mettere in testa. Il modo migliore per diffondere le informazioni e scuotere l'opinione pubblica è che i mass media facciano la loro parte, il che per "La Stampa della Sera" significa scrivere delle vittime e del lavoro della polizia. E qui è compreso anche il fatto di parlare con i colleghi delle vittime, per esempio. Per questo le chiedo se non potremmo pubblicare una foto di Christina e Stefan insieme, se per caso ce ne fosse una sul suo rullino...» Aveva la gola secca, ma evidentemente aveva ottenuto l'effetto desiderato. «Ah, va bene, si può fare. Ma come? La posta è già stata ritirata, da queste parti.» «Dove abita?» s'informò Annika, che non aveva chiesto gli indirizzi al servizio telefonico. «A Vallentuna.» «Herman, domanderò a uno dei nostri collaboratori di venire a casa sua a ritirare il rullino...» «Ma rimangono ancora diversi scatti.» «Le daremo un rullino nuovo, gratis. Domattina le restituiremo anche quello vecchio. Se troviamo qualche foto che desideriamo pubblicare, le pagheremo 930 corone, cioè il prezzo fissato sindacalmente per le foto d'archivio. In questo caso, domani il nostro photo editor la chiamerà e le chiederà i suoi dati per il pagamento. Va bene?» «930 corone? Per una foto?» «Sì, secondo la tabella sindacale.» «Perché cavolo non ho fatto il fotografo? Certo che può venire a prendere il mio rullino! Quando sarete qui?» Annika prese nota dell'indirizzo e del percorso e riattaccò. Passò a prendere un rullino al banco dei fotografi e andò da Tore Brand, in portineria, per chiedergli di mandare a Vallentuna uno dei fattorini. Non c'erano problemi, rispose Tore Brand. «A proposito, l'ha cercata una persona, oggi» disse mentre Annika stava
andando via. «Ah, e chi era?» «Non l'ha detto. Doveva darle qualcosa.» «Cosa?» «Non mi ha detto neanche quello. Preferiva farlo di persona.» Annika sorrise, ma represse un sospiro. I custodi dovevano imparare a prendere nota delle visite con maggiore precisione. Poteva trattarsi di qualcosa di importante. Mentre tornava nel suo ufficio, passò davanti alla postazione di Patrik, ma lui era fuori. Pazienza, l'avrebbe chiamato sul cellulare in modo da prendere accordi prima della riunione delle sei. Mentre superava la scrivania di Eva-Britt Qvist, sentì squillare il telefono nella sua stanza. Fece di corsa l'ultimo tratto. Era Thomas. «A che ora vieni a casa?» «Non lo so, temo che farò tardi. Verso le nove, direi.» «Io devo tornare al lavoro, abbiamo una riunione alle sei.» Annika sentì montare la collera. «Alle sei? Ma io sto lavorando! Ho una riunione alla stessa ora! Perché non mi hai chiamato prima?» Thomas aveva la voce controllata, ma Annika sentì che si stava arrabbiando anche lui. «Il giornale radio ha riportato delle anticipazioni sulla proposta di governo per le regioni» disse. «La cosa è scoppiata come una bomba all'Unione dei Comuni, diversi dei politici che se ne occupano stanno venendo qui. Devo essere presente, lo capisci, no?» Annika inspirò, chiudendo gli occhi. Merda, doveva tornare a casa. «Eravamo d'accordo che io avrei potuto lavorare fino a tardi lunedì e mercoledì, e tu martedì e giovedì» disse. «Io ho rispettato la mia parte dell'accordo. Il mio lavoro è importante quanto il tuo.» Thomas cambiò tattica e passò a implorarla. «Ti prego, amore. Lo so, hai ragione, ma io devo tornare là. È una riunione di emergenza, non durerà molto. Ho preparato da mangiare, puoi venire e cenare con i bambini. Io sarò a casa subito dopo la riunione. Alle otto avremo già finito, non è che ci sia tanto da dire. Potrai tornare al lavoro quando arrivo io.» Annika sospirò e chiuse gli occhi, premendosi una mano sulla fronte. «Okay» disse. «Prendo subito un taxi.» Uscì per informare Ingvar Johansson della foto di Herman Ösel, ma il caporedattore non era al suo posto. Pelle, il photo editor, stava parlando al telefono, e lei gli si piazzò davanti facendogli dei segni. «Cosa c'è?» chiese seccato, appoggiando il ricevitore alla spalla.
«Arriveranno delle foto di Christina Furhage e Stefan Bjurling da Vallentuna. Fai sviluppare il rullino e stampale tutte. Devo andare, ma sarò qui verso le otto, va bene?» Pelle annuì e tornò alla sua telefonata. Annika non chiamò il taxi per telefono ma ne prese uno di quelli in fila sulla Rålambsvägen. Sentiva come un grosso nodo all'altezza del diaframma, che cresceva fino a renderle difficile respirare. Non era davvero quello che le ci voleva in quel momento. Appena arrivata a casa, i bambini le si precipitarono incontro. Thomas le diede un rapido bacio mentre usciva per prendere lo stesso taxi con cui lei era arrivata. «Aspettate, devo togliermi il cappotto. Ehi, per favore, datevi una calmata...» Ellen e Kalle si bloccarono, sorpresi del suo tono irritato. Lei si chinò e li abbracciò frettolosamente, poi andò al telefono. Chiamò Ingvar Johansson, ma era già in riunione. Ecco, ora non avrebbe fatto in tempo a informare gli altri del lavoro svolto dalla sua redazione durante la giornata. Pazienza, avrebbe parlato con Chiodo più tardi. La cena era in tavola, i bambini avevano già mangiato. Si sedette e cercò di ingoiare qualche boccone di coscia di pollo, ma il cibo non voleva andare giù. Alla fine, dovette sputare quello che aveva in bocca. Prese qualche forchettata di riso e buttò via il resto. Quando era così stressata, difficilmente riusciva a trangugiare qualcosa. «Non si butta via la roba da mangiare» le disse Kalle in tono di rimprovero. Annika mise i bambini davanti alla Tv a guardare il programma natalizio, chiuse la porta del salotto e chiamò Patrik. «Ha telefonato il Tigre» ululò il cronista. «È incazzato nero.» «Perché?» chiese Annika. «È in viaggio di nozze a Tenerife, Playa de las Americas. È partito giovedì e torna domani. Dice che i piedipiatti lo sapevano benissimo, avevano controllato tutte le partenze dall'aeroporto di Arlanda, e lui c'era. Così, invece, la polizia spagnola è andata a pescarlo e l'ha costretto a un interrogatorio che è durato un intero pomeriggio, e lui si è perso il barbecue e un drink in piscina. Pensa un po' che sfiga!» Annika sorrise debolmente. «Ci scrivi su qualcosa?» «Certo.» «L'hai sentita la notizia del giornale radio sull'analisi del materiale e-
splosivo?» «Sì, me ne sto occupando proprio adesso. Io e Ulf Olsson siamo entrati in un magazzino di esplosivi e stiamo facendo le foto ai diversi materiali. Lo sai, assomigliano a grossi wurstel!» Benedetto Patrik! Era sempre entusiasta, in qualsiasi situazione, e riusciva a trovare da solo spunti interessanti per impostare gli articoli. «Hai saputo qualcosa sulla caccia al dinamitardo da parte della polizia?» «Niente, hanno le bocche cucite. Credo che stiano restringendo la cerchia dei sospettati.» «Bisogna procurarsi una qualche conferma. Posso cercare di farlo io stasera» disse Annika. «Adesso dobbiamo uscire di qui, se no ci viene mal di testa, dice il nostro esperto. Ci sentiamo.» Il programma in televisione doveva essere finito, perché i bambini si stavano disputando un giornalino dell'orsetto Bamse. Annika andò nel salotto e si sintonizzò sul secondo canale, in attesa dei notiziari regionali. «Mamma, facciamo un puzzle?» Si sedettero sul pavimento e tirarono fuori un puzzle da venticinque pezzi che raffigurava Alfons Åberg e Milla nella casetta sull'albero. Annika giocherellava assente con le tessere di legno. Rimasero lì fino a quando non si sentì la sigla del telegiornale Abc delle sette e dieci. A quel punto, mandò i bambini a lavarsi i denti, mentre controllava cos'era riuscito a mettere insieme il telegiornale della seconda rete. Una troupe era entrata nello spogliatoio degli arbitri nel palazzetto di Sätra. Le immagini non erano particolarmente drammatiche, questa volta i danni non sembravano molto ingenti. Ogni traccia del povero Stefan era stata cancellata. Di catture imminenti non se ne parlava. Annika andò in bagno ad aiutare i bambini a lavarsi i denti mentre il telegiornale proseguiva con un servizio sugli acquisti natalizi. «Mettetevi il pigiama, così poi leggiamo Micio Codamozza. E non dimenticate le pastigliette di fluoro.» Lasciò che litigassero un po' nella loro stanza mentre ascoltava i titoli del telegiornale Rapport, sul primo canale. Gran parte del notiziario era dedicata allo scoop della radio sulla proposta di governo in materia di politica regionale. Ad Annika non interessava. Lesse qualche pagina di Gösta Knutsson e mise a letto i bambini, che però continuavano a fare chiasso e trovare scuse per non dormire. «Guardate che tra poco è Natale, e tutti i bambini devono fare i bravi, al-
trimenti Babbo Natale non viene» disse Annika in tono minaccioso. La frase ebbe l'effetto desiderato, e dopo qualche minuto dormivano entrambi. Chiamò Thomas al lavoro e sul cellulare, ma naturalmente lui non rispondeva. Annika accese il vecchio Pc in camera da letto e scrisse velocemente le informazioni raccolte da Helena Starke. Salvò il documento su un dischetto, sentendosi sempre più nervosa. Dove cazzo era finito Thomas? Arrivò poco dopo le otto e mezzo. «Grazie, amore» ansimò aprendo la porta. «Hai chiesto al taxi di aspettare?» chiese lei tagliando corto. «Oh, merda. Me ne sono dimenticato.» Annika si precipitò giù dalle scale nella speranza di acchiappare l'auto, ma naturalmente se n'era già andata. Scese alla Kungsholmstorg, ma di taxi non ce n'erano. Passò davanti alla farmacia e si avviò verso la Kungsholmsgatan, dove c'era un'altra stazione di taxi. Vide una sola macchina, di un'ignota società di qualche sobborgo. Arrivò in redazione alle nove meno cinque. Era deserta e silenziosa. Ingvar Johansson era andato a casa da un pezzo, e quelli che montavano di notte stavano cenando giù in mensa. Annika si fiondò nel suo ufficio e si attaccò al telefono. «Guardi che sta cominciando a esagerare» disse la sua fonte. «La smetta di essere così scostante» rispose lei stancamente. «Sono quattordici ore che corro, e comincio a essere stufa. Lei sa benissimo cosa voglio e quanto può contare su di me, e allora facciamola finita. Armistizio?» Il poliziotto all'altro capo del filo sospirò. «Non è l'unica che lavora dalle sette di stamattina.» «L'avete individuato, vero?» «Cosa glielo fa pensare?» «Di solito lei rispetta i normali orari di lavoro, almeno subito prima delle feste. Qualcosa bolle in pentola.» «Certo che bolle. Bolle sempre qualcosa.» Annika sbuffò sonoramente. «Per l'amor di Dio!» sbottò. «Ma che cazzo, mica possiamo diffondere la notizia che siamo alle calcagna del dinamitardo, lo capisce anche lei, no? Sparirebbe subito.» «Però lo siete!» «Io non l'ho detto.» «Ma è così?» L'uomo non rispose.
«Quanto posso scrivere?» chiese Annika cauta. «Neanche una riga, altrimenti va tutto a puttane.» «Quando lo arresterete?» Il poliziotto rimase in silenzio per qualche secondo. «Non appena lo avremo trovato.» «Trovato?» «È scomparso.» Annika sentì che i capelli le si rizzavano sulla nuca. «Allora sapete chi è?» «Riteniamo di sì.» «Cavoli» sussurrò Annika. «E da quanto tempo lo sapete?» «È da un paio di giorni che ci giriamo intorno, ma ora siamo abbastanza sicuri da poterlo convocare per un interrogatorio.» «Possiamo essere presenti?» chiese Annika. «Dice alla cattura? È difficile. Non abbiamo la più pallida idea di dove si trovi questa persona.» «Siete in molti a cercarlo?» «Non abbiamo ancora emesso un mandato. Prima vogliamo controllare i posti che conosciamo.» «Quando emetterete il mandato?» «Non lo so.» Annika si stava spremendo le meningi. Come avrebbe potuto scrivere questa storia senza scriverla? «So a cosa sta pensando» proseguì il poliziotto «e tanto vale che la smetta. Lo prenda come un test. Ho dimostrato di avere fiducia in lei, adesso. Ci pensi bene prima di usare le informazioni che le ho dato.» La conversazione era finita, e Annika rimase seduta nel suo ufficio polveroso con il cuore che batteva forte. Forse lei era l'unica giornalista a conoscenza della notizia, e non poteva sfruttarla in alcun modo. Uscì dalla stanza per calmarsi e per parlare con Chiodo. La prima cosa che vide fu una stampata di computer in bianco e nero in preparazione della civetta del giorno dopo, con la scritta: "CHRISTINA FURHAGE ERA LESBICA - L'amante racconta le loro ultime ore insieme". Annika sentì che la stanza le girava intorno. Non può essere vero, pensò. Buon Dio, ma da dove arriva questa roba? Con il campo visivo ridotto a un tunnel, camminò come un automa fino al listello a cui era attaccato il foglio e lo strappò, per poi buttarlo sul tavolo davanti a Chiodo. «Che cazzo è 'sta roba?» chiese.
«L'articolo più importante di domani» rispose il caporedattore di notte senza battere ciglio. «Non possiamo stamparlo» disse Annika, senza riuscire a controllare la voce. «Non ha niente a che vedere con la faccenda. Christina Furhage non si è mai espressa pubblicamente sulla sua sessualità, e noi non abbiamo il diritto di spiattellarla in questo modo. Non ha voluto parlarne mentre era in vita, e dunque non possiamo farlo adesso che è morta.» Il caporedattore di notte si raddrizzò, intrecciò le mani e se le portò dietro la testa, per poi appoggiarsi sullo schienale facendo quasi ribaltare la sedia. «Non c'è mica niente da vergognarsi, se si ha un debole per le donne. Piacciono anche a me» sghignazzò. Si gettò un'occhiata dietro le spalle per ottenere il consenso dei redattori seduti intorno al banco della cronaca. Annika si costrinse a rimanere obiettiva. «Era sposata e aveva una figlia. Ti prendi tu la responsabilità di guardare i suoi familiari negli occhi, domani, se vai in stampa con quella roba?» «Guarda che era un personaggio pubblico.» «Ma non c'entra un cazzo!» esclamò Annika, non riuscendo più a tenere a freno la sua agitazione. «Quella donna è stata assassinata! Chi diavolo ha scritto l'articolo?» Chiodo si alzò faticosamente. Adesso si era arrabbiato. «Nisse ha scovato delle informazioni preziose. Ha saputo da fonte certa che la Furhage era dell'altra sponda. Aveva una relazione con la macho-lesbica Starke...» «Ma sono mie, quelle informazioni!» gridò Annika, furibonda. «L'ho detto io, come pettegolezzo, mentre facevamo il punto della situazione dopo pranzo. Che fonte certa sarebbe, questa?» Il caporedattore di notte piazzò la sua faccia a dieci centimetri da quella di Annika. «Me ne sbatto delle fonti, io» sibilò. «Nisse ha messo insieme il pezzo migliore di domani. Se quelle informazioni ce le avevi tu, perché cazzo non hai scritto l'articolo? Sarebbe ora che diventassi grande anche tu!» Annika sentì che quelle parole si depositavano dentro di lei all'altezza del diaframma, aggiungendosi al nodo di stress, tanto che i suoi polmoni diventarono improvvisamente troppo piccoli. Si costrinse a soprassedere sull'attacco personale e a concentrarsi sulla discussione giornalistica. Poteva davvero sbagliarsi? Sul serio la sessualità di Christina Furhage poteva essere il pezzo forte del giorno dopo? Respinse quell'idea. «Con chi scopava Christina Furhage è del tutto irrilevante» disse a bassa
voce. «Quello che ci interessa è chi l'ha assassinata e quali conseguenze avrà la sua morte sui Giochi olimpici, sullo sport, sulla reputazione della Svezia nel mondo. È importante scoprire perché è stata uccisa, chi è l'assassino e cosa l'ha spinto a farlo. Me ne sbatto di sapere con chi andava a letto, a meno che non abbia a che fare con la sua morte. E lo stesso dovresti fare tu.» Il caporedattore di notte inspirò attraverso le narici facendo un rumore simile a un ventilatore. «La sai una cosa, caposervizio della cronaca nera? Hai torto marcio. Avresti dovuto accertarti di essere all'altezza della situazione prima di assumerti l'incarico che hai. Nils Langeby ha ragione, evidentemente non riesci a gestire il tuo lavoro. Possibile che non ti renda conto che sei patetica?» Il nodo di stress esplose dentro di lei, le sembrò di andare fisicamente in pezzi. Non percepiva più alcun suono e davanti agli occhi vedeva come dei lampi. Con sua sorpresa si accorse che era ancora in piedi, che respirava. Girò sui tacchi e andò nel suo ufficio, cercando di mantenere il controllo mentre attraversava la redazione, sentendo gli occhi dei giornalisti come frecce che le si piantavano nella schiena. Raggiunse la sua stanza e chiuse la porta. Si sedette sul pavimento, tremando in tutto il corpo. Non morirò, non morirò, non morirò, pensava. Passerà, passerà, passerà. Non riusciva più a respirare, boccheggiò più volte, ma l'aria non arrivava ai polmoni. Inspirò di nuovo, e ancora, alla fine cominciarono a venirle i crampi alle braccia. Si accorse che stava andando in iperventilazione e che aveva troppo ossigeno nel sangue. Si alzò e raggiunse barcollando la scrivania, tirò fuori una busta di plastica dall'ultimo cassetto e ci respirò dentro. Richiamò alla mente la voce di Thomas: "Calma e tranquilla, calma e tranquilla, va tutto bene, tesoro. Respira, non andrai in pezzi, amore mio. Calma e tranquilla, calma e tranquilla...". Il tremore diminuì d'intensità e Annika si accasciò sulla sedia. Sentiva che voleva piangere, ma ricacciò indietro le lacrime e chiamò invece a casa di Anders Schyman. Fu sua moglie a rispondere, e Annika tentò di parlare con una voce normale. «È a una cena di Natale al piano della direzione» disse la signora Schyman. Annika chiamò il centralino e chiese che le passassero la direzione. Si accorse di parlare in modo sconnesso, a mala pena riusciva a farsi capire. Dopo un lungo istante in cui all'altro capo del filo si udiva solo l'acciottolio di piatti e stoviglie, sentì la voce di Anders Schyman.
«Scusa, scusa... se ti disturbo durante la cena» disse Annika a voce bassa. «Avrai senz'altro una buona ragione» rispose brevemente il direttore. In sottofondo, si udiva un brusio di voci e delle risate. «Ti chiedo scusa, anche per non essere potuta venire alla riunione delle sei, stasera. C'è stata un'emergenza a casa...» Cominciò a piangere, senza controllo e singhiozzando forte. «Cos'è accaduto? Qualche problema con i bambini?» chiese Anders Schyman allarmato. Lei si ricompose. «No, no, niente di grave, ma devo chiederti una cosa: durante la riunione avete discusso della frase che Chiodo ha messo sulla civetta, e cioè che Christina Furhage era lesbica?» Per diversi secondi Annika sentì solo il brusio e le risate. «Che cosa?» domandò Anders Schyman alla fine. Annika si mise una mano sul petto e si costrinse a respirare regolarmente e con calma. «"L'amante racconta le loro ultime ore insieme", così sarà scritto sulla civetta.» «Santo Dio. Vengo subito» disse il direttore, riattaccando. Annika mise giù la cornetta e si appoggiò alla scrivania, piangendo a dirotto. Il mascara si sparse sui suoi appunti, il corpo le tremava in maniera incontrollata. Non ce la faccio, non posso, non ci riesco, muoio, pensava. Si rese conto che stava facendo una figura meschina, che si stava bruciando, che correva il rischio di giocarsi il posto. I suoi singhiozzi si sarebbero uditi da sotto la porta fin nella redazione, tutti avrebbero capito che non resisteva alla pressione, che era al posto sbagliato, che la sua nomina era stata un fiasco. Ma rendersene conto non le servì, non riusciva a fermare i singhiozzi. Il nodo di stress e stanchezza aveva avuto il sopravvento, non era in grado di frenare il tremito e le lacrime. Poi sentì una mano sulla spalla e una voce che veniva da qualche parte, in alto. «Annika, Annika, va tutto bene, adesso. Qualsiasi cosa abbia causato tutto questo, la sistemeremo. Annika, senti cosa ti sto dicendo?» Lei trattenne il respiro e alzò la testa. Sentiva un dolore pulsante agli occhi. Era Anders Schyman. «Scusami, io...» disse cercando di togliersi dalla faccia il trucco sfatto con il dorso delle mani. «Scusa...» «Ecco, tieni il mio fazzoletto. Siediti bene e asciugati, io vado a prendere un bicchier d'acqua.» Il direttore scomparve dalla porta e Annika fece meccanicamente come
le era stato detto. Anders Schyman tornò con un bicchiere di plastica pieno di acqua fresca, e si richiuse la porta alle spalle. «Bevi un po', e raccontami cos'è successo.» «Hai parlato con Chiodo della civetta?» chiese Annika. «Ci vado dopo, non è così importante. Invece, sono preoccupato per te. Perché sei così sconvolta?» Lei ricominciò a piangere, piano e in silenzio, questa volta. Il direttore attese senza parlare. «Dev'essere colpa della stanchezza, sono esausta» si scusò Annika dopo essersi ricomposta. «E poi Chiodo ha detto tutte quelle cose che ci si sente dire solo negli incubi: che sono un'idiota, che non valgo una cicca, che non sono all'altezza del mio compito e così via...» Si appoggiò allo schienale. Ecco, l'aveva detto, e stranamente si era calmata. «Non ha nessuna fiducia in me come caposervizio, è lampante. E credo che molti altri la pensino come lui.» «È possibile» ammise Anders Schyman «ma non mi interessa. L'importante è che io ho fiducia in te e sono convinto che sei la persona giusta per questo posto.» Annika inspirò a fondo. «Voglio mollare» disse. «Non puoi» rispose Schyman. «Do le dimissioni.» «Non le accetto.» «Voglio andarmene adesso, stasera.» «Purtroppo è impossibile. Ho deciso di promuoverti.» Annika si bloccò e fissò perplessa il suo capo. «Perché?» chiese stupita. «Avevo pensato di aspettare a parlartene, ma a volte si è costretti a cambiare i propri piani. Ho grandi progetti per te, Annika. Tanto vale che te li illustri adesso, prima che tu decida di lasciare il giornale definitivamente.» Annika fissò Anders Schyman con aria incredula. «Questo giornale dovrà affrontare a breve grandi cambiamenti» disse il direttore. «Per come stanno le cose adesso, credo che nessuno dei dipendenti riesca a immaginarne la portata. Dobbiamo adattarci a realtà completamente nuove, alla società dell'informazione e all'aumento della concorrenza, ma soprattutto dobbiamo evolverci nel nostro modo di fare giornalismo. Per riuscirci c'è bisogno di capiredattori che abbiano la competenza necessaria in tutti questi settori, e non crescono certo sugli alberi. Quindi, o stiamo qui seduti ad aspettare sperando che ne salti fuori qualcuno, oppure dobbiamo fare in modo che le persone in cui crediamo di più si ade-
guino ai nuovi presupposti prima che sia troppo tardi.» Annika lo ascoltava con gli occhi sbarrati. «Io lavorerò ancora per dieci anni al massimo, forse solo cinque. Ci devono essere persone preparate in grado di prendere il mio posto, al momento opportuno. Non dico che sarai tu, ma sei una delle tre persone che tengo presenti. Ci sono ancora molte cose che devi imparare, fra le altre a imbrigliare il tuo temperamento. Ma si tratta di dettagli all'interno di un quadro che ti rende la mia sostituta più probabile. Sei creativa e perspicace, ti assicuro che non ho mai conosciuto qualcuno che lo sia quanto te. Ti assumi le responsabilità e affronti i conflitti con la stessa autorevolezza. Sei affidabile, competente e intraprendente. Non ho intenzione di lasciare che un idiota di un caporedattore di notte ti faccia andare via di qui, spero che tu lo capisca. Non sei tu a dovertene andare, sono gli idioti.» La potenziale direttrice responsabile sbatté gli occhi per la sorpresa. «Quindi, ti sarei grato se aspettassi a rassegnare le tue dimissioni fino a dopo Capodanno» continuò Schyman. «Ci sono un paio di persone, in redazione, che ti vogliono male, e difendersi contro la malvagità è difficile. Bisogna estirparla. Dammi il tempo di prendere qualche provvedimento in proposito, poi ne riparleremo quando la faccenda del dinamitardo si sarà calmata. Vorrei discutere anche della tua preparazione e di eventuali corsi di perfezionamento che potrebbero fare al caso tuo. Dovremo fare anche un piano per individuare le posizioni che è il caso tu ricopra nel frattempo. È importante che tu acquisisca ogni tipo di competenza, a tutti i livelli della redazione, devi padroneggiare anche la tecnologia e l'organizzazione nel resto dell'azienda. Devi essere accettata e rispettata ovunque, questo è essenziale, e se porteremo avanti la cosa come si deve, lo sarai.» Annika era rimasta a bocca aperta. Non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito. «Certo che ci hai davvero riflettuto sopra» disse ammirata. «Guarda che questa non è un'offerta di lavoro come direttore, è un incoraggiamento a portare avanti la tua preparazione e a fare esperienze diverse in modo che in futuro tu possa essere presa in considerazione per la posizione. Desidero anche che per ora non parli a nessuno di questa cosa, se non a tuo marito. Cosa ne dici?» Annika si riscosse. «Grazie» disse. Anders Schyman sorrise. «Adesso prenditi una vacanza fino all'anno nuovo. Devi aver accumulato una montagna di giorni di recupero alta come l'Himalaya.»
«Avevo pensato di venire a lavorare domattina, e non voglio cambiare i miei piani solo perché Chiodo si è comportato male. Spero che avrò finito di farmi un'idea precisa di Christina Furhage per mezzogiorno.» «C'è qualcosa che possiamo pubblicare?» Annika scosse la testa, dispiaciuta. «Non lo so, davvero. Bisogna che ne parliamo con calma. È una storia terribilmente tragica.» «E sarà anche interessante. Ce ne occuperemo un'altra volta.» Anders Schyman si alzò e uscì. Annika rimase seduta, invasa da una sensazione di pace e di sorpresa. Com'era semplice tornare a star bene, quanto poco ci voleva per cancellare una disperazione nera come la notte. Bastava una riabilitazione sincera, e poi era come se l'umiliazione che aveva ricevuto in pubblico non si fosse mai verificata. Si mise il cappotto e uscì dall'ingresso di servizio, prese un taxi e andò a casa. Thomas dormiva. Annika si sciacquò via i resti del mascara, si lavò i denti e s'infilò sotto le coperte accanto al marito. Fu solo allora, nel buio, guardando il soffitto sospeso sopra di lei nelle tenebre, che ricordò quello che aveva detto la sua fonte: la polizia sapeva chi era il dinamitardo, e presto l'avrebbero preso. MALVAGITÀ La mia intuizione mi rivelò molto presto la sua esistenza e la sua grande forza. La ragionevolezza che mi circondava, sotto forma di adulti e di libri di fiabe, cercava di convincermi del contrario. "È solo per finta" dicevano. "Non è mai così per davvero, e poi alla fine sono sempre i buoni a vincere." Sapevo che erano bugie, perché avevo sentito il racconto di Hansel e Gretel. Lì la malvagità la faceva da padrona, anche se la prospettiva del narratore sosteneva che ciò accadeva alle condizioni dei buoni. La malvagità attirava i bambini nel bosco, la malvagità faceva ingrassare Hansel e scaldare il forno, ma Gretel si dimostrava la più malvagia di tutti, perché era l'unica a mettere in atto un vero e proprio omicidio. Le favole di quel tipo non mi facevano mai paura. Ciò che si conosce bene non spaventa. E questo mi ha dato qualche vantaggio rispetto al mondo che mi circonda. Le esperienze successive mi hanno confermato che avevo ragione. Nel nostro paese abbiamo commesso il grosso errore di eliminare la malvagità. Ufficialmente, non esiste. La Svezia è uno Stato di diritto, la compren-
sione e la logica ne hanno preso il posto. Ciò ha fatto sì che la malvagità si trasferisse nelle viscere della terra e lì, nelle tenebre, si è ambientata benissimo. È cresciuta alimentata dall'invidia e dall'odio represso, diventando impenetrabile, e con il tempo tanto nera da non vedersi più. Io, però, la individuo sempre. Chi ne ha fatto la conoscenza una volta la percepisce a fiuto, ovunque si trovi. Chi ha imparato dalla sua Gretel, sa come bisogna affrontarla. Il male dev'essere scacciato con il male, non ci sono altri mezzi. Io vedevo la malvagità nei visi indisponenti sul mio posto di lavoro, negli occhi e nei sorrisi rigidi dei colleghi, e sorridevo a mia volta. Il mostro dalle sette teste non si manifestava mai da nessuna parte, si nascondeva dietro le trattative sindacali e le discussioni apparentemente obiettive. Ma io sapevo, e stavo al gioco. Era impossibile ingannarmi. Alzavo uno specchio, e la sua energia vi si rifletteva. Ma le vidi compiere altri progressi, nella società. Notavo come la violenza nei confronti di diversi tra i miei dipendenti veniva trascurata da polizia e procuratori. Una donna del mio ufficio aveva denunciato il suo ex marito una ventina di volte, e la polizia registrava ogni denuncia come "tafferugli familiari". I servizi sociali nominarono un mediatore, ma sapevo che era inutile. Sentivo odore di malvagità, e sapevo che era scoccata l'ora. La donna sarebbe morta, perché nessuno la prendeva sul serio. "Lui non aveva cattive intenzioni, in realtà voleva solo vedere i suoi bambini" sentii dire una volta al mediatore. Chiesi allora alla mia segretaria di chiudere la porta, perché l'inettitudine delle persone mi mette sempre di cattivo umore. Poco tempo dopo, la donna venne sgozzata con un coltello per il pane e la gente reagì con sorpresa e sgomento. Si cercarono delle spiegazioni, ignorando però la cosa più evidente. La malvagità l'aveva fatta franca ancora una volta. GIOVEDÌ 23 DICEMBRE Quando Annika si svegliò, l'appartamento era vuoto. Erano le otto e mezzo e il sole splendeva nella stanza da letto attraverso la finestra. Si alzò e trovò un grosso biglietto attaccato sul frigorifero con delle calamite a forma di Babbo Natale: Grazie di esserci.
Baci da tuo marito. P.S. Porto io i bambini all'asilo. Tocca a te andarli a prendere. Si preparò un sandwich al formaggio mentre sfogliava i giornali del mattino. Anche loro davano spazio alla proposta di governo sulle regioni e avevano cominciato a tirare fuori il materiale natalizio, rassegne storiche sulla festa nelle varie epoche e così via. Sulla caccia al dinamitardo non c'erano novità. Si fece una doccia rapida, scaldò un po' d'acqua nel microonde e ci mescolò dentro del caffè solubile che bevve mentre si vestiva. Prese il 62 fino alla vecchia entrata del giornale e salì in redazione dalla scala di servizio. Non voleva incontrare nessuno prima di aver verificato cosa era stato pubblicato sulle attitudini sessuali di Christina Furhage. Sul giornale non c'era una sola riga sconveniente su Christina Furhage o Helena Starke. Annika accese il computer e aprì il server, dove si potevano vedere gli articoli scartati nell'arco delle ventiquattr'ore precedenti. Nils Langeby aveva in effetti scritto un pezzo intitolato Christina Furhage lesbica. L'articolo era stato eliminato alle ventidue e cinquanta della sera prima. Annika aprì il documento e fece volare lo sguardo sulle righe. A mano a mano che leggeva, le membra le si facevano pesanti. La fonte certa che avrebbe confermato le inclinazioni sessuali di Christina Furhage era una donna della segreteria generale di cui Annika non aveva mai sentito parlare. La donna diceva: "Sì, certo, ci facevamo delle domande. Christina voleva sempre lavorare con Helena Starke, e in molti pensavano che fosse un po' strano. Lo sapevano tutti che Helena Starke era una che... In diversi credevano che avessero una relazione". Il cronista citava poi un paio di fonti, senza nominarle, che sostenevano di aver visto le due donne insieme in città. In fondo all'articolo c'era una dichiarazione di Helena Starke: "L'ultima volta che ho incontrato Christina è stato al ristorante Il Cinghiale, sulla Fleminggatan, venerdì sera. Siamo andate via dal locale insieme, verso mezzanotte, e ognuna di noi è andata a casa propria". Era tutto. Non c'era da meravigliarsi se Schyman aveva cancellato l'articolo. Annika continuò a leggere e venne colpita da un pensiero sgradevole. Come cazzo aveva fatto Nils Langeby a trovare il numero di telefono segreto di Helena Starke, sempre ammesso che le avesse parlato per davvero? Aprì l'archivio telefonico computerizzato e si accorse di aver commesso
un errore. Aveva inserito il numero nell'elenco comune invece che nel suo privato. Senza esitare, sollevò il ricevitore per chiamare Helena Starke e scusarsi a nome di Nils Langeby. Le rispose il nastro registrato della Telia: "Su richiesta del cliente, il numero non è più attivo. Non è stata data indicazione del nuovo recapito". Helena Starke aveva lasciato il paese. Annika sospirò e diede un'occhiata a ciò che era stato effettivamente pubblicato. Avevano scelto di mettere sulla civetta una notizia che non aveva niente a che fare con il dinamitardo: un personaggio noto che rivelava di avere un disturbo incurabile. Era un conduttore sportivo che raccontava com'era cambiata la sua vita dopo la diagnosi di intolleranza al glutine fattagli un anno prima. Come notizia d'apertura andava benissimo, in una giornata come quella, cioè il giorno prima della vigilia. Anne Sapphane ci si sarebbe buttata sopra a pesce. La foto di Herman Ösel che raffigurava Christina Furhage e Stefan Bjurling era di pessima qualità, ma funzionava. Le due vittime erano sedute vicine in un locale buio, il flash aveva fatto risultare rossi gli occhi di Christina Furhage e bianchissimi i denti. Stefan Bjurling stava facendo una specie di smorfia. L'immagine era un po' sfocata e occupava le pagine sei e sette, insieme all'articolo di Patrik sulle indagini della polizia. Il titolo era quello coniato immediatamente da Ingvar Johansson: Ora sono morti entrambi. L'articolo di Patrik sul materiale esplosivo era a pagina otto. La prossima volta che lo vedeva, doveva davvero lodare il giovane cronista. Annika sfogliò il "concorrente", che aveva scelto di mettere in prima pagina un consiglio economico: "Fate oggi la dichiarazione dei redditi. Risparmierete migliaia di corone". Funzionava sempre, alla fine di dicembre, perché in quei giorni cambiava sempre qualche regola fiscale. Annika lasciò perdere l'articolo. Quelle avvertenze non riguardavano mai le persone come lei, cioè che non possedevano fondi né immobili e nemmeno disponevano dell'auto aziendale. Titoli così facevano aumentare le tirature, ma trovava che vi si dovesse ricorrere con parsimonia. Recuperò il dischetto in cui aveva archiviato le vere rivelazioni dell'amante di Christina Furhage sulle loro ultime ore insieme e lo mise nel cassetto con il resto del materiale scottante. Chiamò la sua fonte, ma era a casa a dormire. Colta da un attacco di irrequietezza, uscì dal suo ufficio, constatò che Berit non era ancora arrivata, chiese al banco dei fotografi di chiamare Herman Ösel per il pagamento, andò a prendere un caffè e salutò Eva-Britt Qvist. «Che cosa è successo, ieri sera?» chiese la segretaria di redazione senza
riuscire a nascondere il proprio compiacimento. «Ho sentito che c'è stata maretta.» «Maretta?» fece Annika fingendo stupore. «Cosa intendi dire?» «Ma sì, qui in redazione. Fra te e Chiodo.» «Ah, ti riferisci a quell'assurda civetta su Christina Furhage lesbica? Non so cosa sia successo, comunque Anders Schyman deve aver bloccato la cosa. Povero Chiodo, che figura» disse Annika entrando in ufficio e chiudendo la porta. Non era riuscita a reprimere una nota sarcastica. Bevve qualche sorso di caffè e cominciò a buttar giù la scaletta della giornata. Forse la polizia avrebbe preso il dinamitardo quel giorno, ma probabilmente non avrebbero comunicato via radio. Quindi, bisognava affidarsi a fonti diverse dai soliti informatori. Doveva parlarne con Berit e Ingvar Johansson. Per quanto la riguardava, aveva pensato di fare un tentativo per delineare in modo preciso il passato di Christina Furhage: avrebbe cercato di trovare suo figlio Olof. Chiuse il blocco per gli appunti ed entrò in Internet. Quando poteva, preferiva evitare di chiamare il servizio informazioni e faceva le sue ricerche direttamente nel sito della Telia. Ci voleva più tempo, ma costava meno ed era anche più affidabile. A volte i centralinisti non trovavano i dati più elementari. Fece una ricerca su scala nazionale inserendo il nome di Olof Furhage. Il risultato fu assolutamente inequivocabile: ce n'era uno solo, in Svezia, e abitava a Tungelsta, a sud di Stoccolma. «Tombola» disse Annika. Era stato a Tungelsta che Christina aveva lasciato il suo bambino di cinque anni, quasi quarant'anni fa, e oggi c'era un uomo con lo stesso nome che ci abitava. Rifletté per un istante sulla possibilità di chiamarlo prima, ma decise di fare una breve gita. Aveva bisogno di allontanarsi dalla redazione. Nello stesso istante, sentì bussare alla porta. Era il direttore, che teneva in mano una grossa caraffa d'acqua e aveva un aspetto orribile. «Cos'è successo?» domandò Annika preoccupata. «Emicrania» rispose laconicamente Anders Schyman. «Ieri sera ho bevuto un bicchiere di vino rosso per accompagnare la bistecca di cervo, perciò non ho diritto di lamentarmi. Tu, invece, come stai, oggi?» Chiuse la porta alle proprie spalle. «Benissimo, grazie» disse Annika. «Mi è sembrato di capire che hai bloccato la civetta delle avventure lesbiche di Christina.» «Non è stato difficile, l'articolo su cui si basava non reggeva assoluta-
mente.» «Chiodo ti ha spiegato come mai l'aveva scelto?» chiese Annika. Il direttore si sedette sulla scrivania di Annika. «Non aveva letto l'articolo, ma soltanto sentito la descrizione che ne aveva fatto Nils Langeby. Quando poi siamo andati da lui e abbiamo chiesto di vedere il testo, la cosa si è risolta da sé. Non c'erano testimonianze sicure, ma anche in caso contrario non le avremmo pubblicate. Sarebbe stato diverso se Christina stessa avesse deciso di parlare del suo amore, ma scrivere un pezzo sui segreti più intimi di un morto rappresenta la violazione peggiore della sua sfera privata. Chiodo l'ha capito.» Annika abbassò la testa e constatò che la sua reazione istintiva era stata corretta. «Era vero» disse. «Cosa?» «Avevano una relazione, ma nessuno ne era a conoscenza. Helena Starke ha passato giorni d'inferno. Fra l'altro, è partita per gli Stati Uniti.» «Caspita» disse il direttore. «E cos'altro hai saputo che non possiamo stampare?» «Christina detestava i suoi figli e spaventava a morte chi le stava attorno. Stefan Bjurling beveva e maltrattava sua moglie.» «Bella coppia. Oggi che programmi hai?» chiese il direttore. «Devo incontrare un tizio, e poi controllare una faccenda con la mia fonte. Hanno individuato il dinamitardo.» Anders Schyman alzò un sopracciglio. «E domani lo potremo leggere sul giornale?» «Lo spero» rispose lei sorridendo. «Tuo marito cos'ha detto dei nostri progetti per il futuro?» «Non gliene ho ancora parlato.» Il direttore si alzò e lasciò l'ufficio. Annika mise in borsa blocco e penna e si accorse che la batteria del cellulare era quasi finita. Per sicurezza, ne infilò dentro una di riserva. «Io esco per un po'» disse a Eva-Britt, quasi invisibile dietro i mucchi di posta. In portineria le diedero le chiavi di un'auto del giornale senza logo sulla portiera e Annika scese in garage. Era una splendida giornata invernale. La neve era alta una trentina di centimetri e ammantava la città come su una cartolina illustrata. Bello, un Natale imbiancato, così i bambini potranno usare lo slittino al parco, pensò. Imboccò l'Essingeleden in direzione della bretella di Årsta e accese la
radio della macchina, sintonizzandosi su uno dei canali privati. Beccò un pezzo classico dei Supremes: "You can't hurry love. No, you just have to wait. Love don't come easy. It's a game of give and take...". Annika si mise a cantare a voce alta mentre l'auto sfrecciava verso la Huddingevägen. Da lì, prese l'Örbyleden fino alla Nynäsvägen. Alla radio venivano trasmesse canzoni che conosceva anche lei. Cantava a squarciagola, mentre le sue risate risuonavano nell'abitacolo. Tutto era bianco e trasparente come cristallo, presto avrebbe avuto una settimana di vacanza, e sarebbe diventata direttore del giornale! Be', magari non proprio, ma avrebbe avuto la possibilità di seguire dei corsi e di maturare, e la direzione credeva in lei. Le sarebbe certo capitato di prendere altre porte in faccia, ma erano inconvenienti che bisognava accettare, e quando Art & Paul intonarono "I am just a poor boy and my story's seldom told" alzò il volume. Tungelsta era una piccola città piena di giardini trentacinque chilometri a sud di Stoccolma, simile a un'oasi tranquilla dopo il deserto di pietra del centro commerciale di Västerhaninge. Era stata costruita intorno al 1910, e ancora oggi non era molto diversa dalle altre cittadine residenziali di quell'epoca, con un'eccezione: tutti i giardini avevano delle serre o resti di serre. Alcune erano incredibilmente belle e ben conservate, altre erano ridotte a scheletri arrugginiti. Annika arrivò verso metà mattina. Alcuni vecchi che stavano spalando la neve la salutarono con la mano al suo passaggio. Olof Furhage abitava sulla Älvvägen, Annika dovette fermarsi fuori dalla pizzeria locale e chiedere indicazioni. Uno degli uomini, che aveva fatto il postino a Tungelsta per tutta la vita, le parlò con grande vivacità dei vecchi quartieri e sapeva esattamente dove abitava Olof Furhage: «Una casa azzurra con una grande serra». Annika superò il passaggio a livello e capì da lontano che la direzione era quella giusta. La serra si trovava giù, vicino alla strada, e un po' più in alto, verso il bosco, c'era una vecchia casa di legno verniciata d'azzurro. Annika parcheggiò oltre il cancello, spense il motore nel bel mezzo di una canzone degli Abba, si mise la borsa sulla spalla e scese. Decise di lasciare in macchina il cellulare, che aveva appoggiato sul sedile del passeggero per sentire se squillava. Diede un'occhiata alla casa: una classica costruzione di legno a un piano più la mansarda. Le finestre e la facciata indicavano che doveva essere stata costruita intorno agli anni Trenta. Il tetto era spiovente e coperto di tegole rosse. Era una bella casetta, armoniosa e ben tenuta.
Si stava avvicinando, quando sentì una voce alle sue spalle: «Posso esserle utile in qualche modo?». Era un uomo sulla quarantina, con i capelli castani a mezza lunghezza e gli occhi azzurro chiaro. Indossava un maglione fatto a mano e un paio di jeans sporchi di terra. «Sì, grazie. Cerco una persona di nome Olof Furhage» disse Annika tendendo la mano. L'uomo sorrise e gliela strinse. «È venuta nel posto giusto, sono io.» Annika ricambiò il sorriso. L'incontro poteva rivelarsi complicato. «Vengo dal giornale "La Stampa della Sera". Mi chiedevo se avrei potuto farle alcune domande personali.» «Ah, e che tipo di domande?» «Sto cercando l'Olof Furhage figlio del direttore generale del Socog Christina Furhage» disse lei calma. «È lei?» L'uomo abbassò lo sguardo per un istante, poi lo rialzò scostandosi i capelli dal viso. «Sì. Sono io.» Rimasero in silenzio per alcuni secondi. Il sole era talmente forte che faceva lacrimare gli occhi. Annika sentì il freddo penetrarle attraverso le sottili suole delle sue scarpe. «Non voglio sembrarle invadente» disse «ma ho parlato con molte persone vicine a Christina Furhage, negli ultimi giorni. Ho ritenuto importante parlare anche con lei.» «Come mai?» chiese Olof Furhage, guardingo, ma senza risultare scortese. «Sua madre era una persona molto nota, e la sua morte ha avuto ripercussioni a livello mondiale. Ma sebbene fosse un personaggio pubblico, la sua sfera privata era praticamente sconosciuta. Questo ci ha indotto a parlare con chi le stava vicino.» «E perché? A quanto pare, voleva che rimanesse sconosciuta. Non potreste rispettare il suo desiderio?» Quell'uomo non era uno stupido, era chiaro. «Naturalmente» rispose Annika. «È proprio per rispetto nei confronti dei suoi cari e del suo stesso desiderio di riservatezza che sto facendo questo. Dato che non sappiamo niente di sua madre, c'è il rischio di commettere degli errori grossolani, scrivendo di lei, errori che possono danneggiare la sua famiglia. Purtroppo, è già successo una volta. Ieri abbiamo pubblicato un articolo dove sua madre era descritta come la donna ideale. La cosa ha sconvolto sua sorella Lena. Ieri mi ha telefonato, ci siamo viste e abbiamo parlato a lungo. Voglio essere sicura di non fare lo stesso torto anche a
lei.» Olof Furhage la guardò perplesso. «Certo che ha la lingua sciolta, lei. Riuscirebbe a convincere anche i sassi.» Annika non sapeva se stare al gioco o rimanere seria. L'uomo si accorse della sua indecisione e rise. «Va bene» disse «parliamo. Vuole un caffè o ha fretta?» «Entrambe le cose» rispose Annika ridendo a sua volta. «Le piacerebbe dare un'occhiata alla mia serra, prima?» «Sì, volentieri» accettò Annika, sperando che dentro facesse più caldo. Non si sbagliava. L'aria era tiepida e profumava di terra umida. La serra era un vecchio impianto, molto grande, almeno cinquanta metri per dieci. Era completamente spoglia, con la terra coperta da enormi teli di plastica verde scuro. Due corridoi correvano paralleli al lato più lungo. «Coltivo pomodori biologici» spiegò Olof Furhage. «In dicembre?» chiese Annika. L'uomo rise di nuovo, era uno che rideva spesso. «No, non adesso. Ho estirpato le piantine in ottobre, d'inverno la terra riposa. Quando si coltivano verdure biologiche è importantissimo tenerla pulita per evitare i batteri e i funghi. Gli agricoltori moderni usano spesso la lana di roccia o la torba, ma io mi limito alla terra. Venga, le faccio vedere.» Percorse rapidamente il corridoio e si fermò in fondo. Fuori, si vedeva un'apparecchiatura in lamiera. «È una macchina a vapore» spiegò Olof Furhage. «Attraverso questi grossi tubi spingo il vapore che, penetrando nella terra, la riscalda, e in questo modo i funghi muoiono. L'ho fatta funzionare un po', stamattina, è per questo che qui dentro fa così caldo.» Annika guardò interessata. Erano tante le cose che non sapeva. «E i pomodori, quando arrivano?» chiese educatamente. «Non bisogna cominciare prima del tempo, altrimenti le piantine vengono fuori sottili e sparute. Io comincio alla fine di febbraio, e a ottobre raggiungono i sei metri di altezza.» Annika si guardò intorno nella serra. «Ma come fa, scusi? Qui dentro non ci stanno.» Olof Furhage rise ancora. «Sì, che ci stanno. Vede i fili che corrono lassù? Quando la pianta è arrivata a quell'altezza, la si piega sul filo. A circa mezzo metro da terra corre un altro filo. Funziona allo stesso modo: si piega lo stelo sul filo e quello ricomincia a crescere verso l'alto.»
«Davvero ingegnoso» commentò Annika. «Prendiamo il caffè, allora?» Uscirono dalla serra e salirono verso la casa. «Lei è cresciuto qui a Tungelsta, vero?» chiese Annika. L'uomo annuì mentre le teneva aperta la porta. «Si tolga pure le scarpe, se vuole. Sì, sono cresciuto sulla Kvarnvägen, qui vicino. Ciao, tesoro, come stai?» Le ultime parole erano indirizzate verso l'interno della casa, e dal piano superiore rispose una vocina di bimba. «Bene, papà, però non riesco ad andare avanti. Mi puoi aiutare?» «Sì, fra un attimo. Ho visite.» Olof Furhage si sfilò i pesanti stivali. «Ha avuto l'influenza, è stata proprio male. Le ho comprato un nuovo videogioco per consolarla. Prego, da questa parte...» Un visetto fece capolino dalla scala che portava di sopra. «Ciao» salutò la bambina. «Io mi chiamo Alice.» Aveva nove o dieci anni. «E io Annika.» Alice si dileguò per tornare al suo gioco al computer. «Sta con me a settimane alterne, mentre sua sorella Petra si è trasferita definitivamente qui. Petra ha quattordici anni» disse Olof Furhage versando l'acqua nella caffettiera americana. «Allora lei è separato?» domandò Annika sedendosi al tavolo della cucina. «Sì, ormai sono quasi due anni. Latte o zucchero?» «Niente, grazie.» Olof Furhage finì di preparare il caffè, mise in tavola le tazze e si sedette di fronte ad Annika. Era una bella cucina, con il pavimento e i pensili di legno, la tovaglia a quadri rossi e bianchi e la stella dell'avvento alla finestra. Da lì si aveva una vista perfetta della serra. «Lei quanto sa?» chiese l'uomo. Annika tirò fuori dalla borsa blocco e penna. «Ha qualcosa in contrario, se prendo appunti? So che suo padre si chiamava Carl e che Christina la affidò a una coppia di Tungelsta quando lei aveva cinque anni. So anche che ha preso contatto con Christina un paio d'anni fa, e che sua madre aveva molta paura di lei.» Olof Furhage rise, ma questa volta senza gioia. «Già, povera Christina, non ho mai capito perché fosse così atterrita. Le scrissi una lettera subito dopo il divorzio, forse soprattutto perché stavo
male. Le feci le domande su cui avevo sempre rimuginato e a cui non avevo mai saputo dare una risposta. Perché mi aveva abbandonato, se mi aveva mai amato, perché non veniva a trovarmi, perché Gustav ed Elna non avevano avuto il permesso di adottarmi... Ma lei non rispose.» «Così andò a casa sua?» L'uomo sospirò. «Sì, cominciai ad andare a Tyresö e a rimanere fuori dalla sua casa nelle settimane in cui le bambine stavano dalla loro mamma. Volevo vedere com'era, dove abitava, come viveva. Era diventata un personaggio, come direttore generale del Socog, compariva sempre sui giornali.» La caffettiera americana cominciò a borbottare. Olof Furhage si alzò e la mise sul tavolo. «Aspettiamo che finisca di filtrare» disse andando a prendere un vassoio con delle fette di torta. «Una sera tornò a casa da sola. Era primavera, me lo ricordo. Si stava dirigendo verso la porta d'ingresso, quando io scesi dall'auto e l'avvicinai. Appena le dissi chi ero, temetti che svenisse. Mi fissava come se fossi stato uno spettro. Le chiesi perché non aveva mai risposto alla mia lettera, ma lei non pronunciò una parola. Quando cominciai a farle le stesse domande che le avevo scritto, si voltò e si avviò verso la porta, sempre senza aprire bocca. Allora divenni una furia e le urlai "Brutta stronza! Potresti almeno dedicarmi un minuto del tuo tempo". Lei si mise a correre e inciampò sulle scale. Io le corsi dietro e l'afferrai per un braccio, facendola voltare e gridandole "Guardami", o qualcosa di simile.» L'uomo chinò la testa, come se quel ricordo lo addolorasse. «E lei non disse niente?» chiese Annika. «Sì, una parola: "Sparisci". Poi entrò, chiuse la porta a chiave e chiamò la polizia. Mi arrestarono qui in cucina quella stessa sera.» Versò il caffè e prese una zolletta di zucchero. «Non aveva mai avuto contatti con lei, prima d'allora?» «No, da quando mi aveva lasciato da Gustav ed Elna. Ricordo ancora benissimo la sera in cui arrivai da loro. Prendemmo un taxi, io e la mamma, e a me sembrò un viaggio lunghissimo. Ero contento, lei mi aveva descritto la cosa come un'avventura, una gita divertente.» «Voleva bene a sua madre?» chiese Annika. «Sì, certo. L'adoravo. Era mia madre, mi leggeva le storie e mi cantava le canzoncine, mi abbracciava spesso e mi faceva recitare le preghiere accanto al letto, tutte le sere. Era sottile e luminosa come un angelo.» Tacque e abbassò gli occhi sul tavolo.
«Quando arrivammo da Gustav ed Elna ci diedero da mangiare: salsicce di maiale con purè di rape. Me lo ricordo ancora. Non mi piaceva, ma la mamma mi ordinò di finire quello che avevo nel piatto. Poi mi portò nell'ingresso e mi disse che sarei rimasto con Gustav ed Elna, perché lei doveva andare via. Diventai isterico, si vede che ero piuttosto mammone. Gustav mi tenne fermo mentre la mamma raccoglieva le sue cose e si precipitava fuori. Mi sembra che piangesse, ma può darsi che ricordi male.» Bevve un po' di caffè. «Continuai a tremare per tutta la notte, quando ne avevo la forza gridavo e piangevo. Ma poi le cose migliorarono. Elna e Gustav avevano entrambi superato la cinquantina e non avevano mai avuto figli loro. Si può dire senza esagerare che mi viziavano. Con il tempo arrivarono ad amarmi sopra ogni altra cosa, nessuno potrebbe dire di aver avuto genitori migliori. Adesso sono morti.» «E lei non incontrò mai più sua madre?» «Sì, una volta. Avevo tredici anni. Gustav ed Elna le avevano scritto perché volevano adottarmi. Io le avevo spedito una lettera e un disegno, mi ricordo. Allora, una sera, venne qui e protestò che dovevamo lasciarla in pace. La riconobbi subito, sebbene non l'avessi più rivista da quando ero piccolo. Disse che di adozione non se ne parlava, e che per il futuro non voleva saperne di lettere e disegni.» Annika rimase senza parole. «Santo cielo.» «Ero affranto, naturalmente, e chi non lo sarebbe stato, a quell'età?» «Ma perché non permise ai suoi genitori putativi di adottarla?» «Ci ho riflettuto sopra» rispose Olof Furhage versando altro caffè nella sua tazza e in quella di Annika. «L'unica ragione che mi è venuta in mente è che nel giro di poco tempo io avrei ereditato una gran quantità di soldi. Carl Furhage non aveva altri figli, oltre a me, e dopo la morte della sua terza moglie era diventato ricco come un nababbo, forse lo sa anche lei. Già, allora saprà anche che istituì un'importante borsa di studio a cui destinò una grossa fetta delle sue risorse. Io, comunque, ebbi la parte che mi spettava per legge, e la mamma l'avrebbe amministrata a nome mio. Lo fece con impegno: quando diventai maggiorenne, non era rimasto quasi più nulla.» Annika non riusciva a credere alle sue orecchie. «Sul serio?» Olof Furhage sospirò. «Sì, purtroppo. I soldi mi bastarono appena per comprare questa casa e un'auto nuova. Arrivarono comunque a proposito: ero ancora studente e avevo conosciuto Karin. Ci trasferimmo qui e co-
minciammo la ristrutturazione: non era abitabile, all'inizio. Dopo il divorzio, mia moglie mi lasciò la casa. È stata una separazione consensuale, si può dire.» «Ma lei avrebbe dovuto denunciare sua madre!» esclamò Annika, turbata. «Aveva sperperato i suoi soldi!» «A essere sincero, non me ne fregava niente» disse Olof, sorridendo. «Non volevo avere niente a che fare con lei. Ma quando il mio matrimonio è andato a rotoli, la mia infanzia è tornata a galla con prepotenza, evidentemente cercavo la causa del fallimento dentro di me e nel mio passato. È per questo che ho ripreso contatto con mia madre. Ma non è servito a migliorare le cose, come forse avrà intuito.» «E come ha fatto ad andare avanti?» «Ho preso il toro per le corna e sono entrato in analisi. Volevo spezzare il circolo vizioso che induceva i membri della mia famiglia a essere pessimi genitori.» In quell'istante, Alice entrò in cucina. Indossava un pigiammo rosa e una vestaglia, e teneva una Barbie in mano. Gettò un'occhiata timida ad Annika e poi si arrampicò in braccio a suo padre. «Come va?» chiese Olof Furhage baciando la bambina sui capelli. «Hai avuto molta tosse, oggi?» La bambina scosse la testa e nascose poi il viso nel maglione del padre. «Cominci a stare meglio, vero?» La piccola prese una fetta di torta e corse in soggiorno. Poco dopo, attraverso la porta aperta, si udì la sigla della Pantera Rosa. «Sono contento che possa essere qui anche per la vigilia di Natale» disse Olof allungandosi verso una fetta di dolce. «L'ha fatta Petra. Non è mica male, l'assaggi!» Annika ne prese un pezzetto, era molto buona. «Alice è arrivata qui venerdì scorso dopo la scuola, e la sera ha cominciato a stare male. Verso mezzanotte ho chiamato la guardia medica, aveva la febbre a quarantuno. Sono rimasto con la bambina che scottava in braccio fino alle tre e dieci del mattino, l'ora in cui è arrivato il dottore. Così, quando sabato pomeriggio è venuta la polizia, avevo un alibi inattaccabile.» Annika annuì, aveva già tratto quella conclusione da sola. Rimasero seduti in silenzio ascoltando le imprese della Pantera Rosa. «Be', adesso devo tornare al giornale» disse Annika. «Grazie per avermi dedicato il suo tempo.»
«Non c'è di che. Come coltivatore di pomodori, d'inverno non ho molto da fare.» «Ma lei si mantiene con i pomodori?» L'uomo rise. «No, è impossibile. A mala pena si riesce a non perderci. Mettere in piedi un business con le verdure coltivate in serra è praticamente impossibile. Persino quelli che coltivano i pomodori nel Sud, con i contributi statali, il caldo e la mano d'opera a buon mercato riescono a stento a starci dentro. Io mi ci dedico perché mi piace, non mi costa altro che impegno e lavoro, e poi lo faccio per l'ambiente.» «Ma allora come si mantiene?» «Sono ricercatore al Politecnico, in tecnologia dei prodotti di scarto.» «Compost e roba del genere?» L'uomo sorrise. «Sì, tra le altre cose.» «E quando diventerà professore universitario?» chiese Annika. «Probabilmente, mai. Una cattedra è appena stata assegnata, l'altra è al Politecnico di Luleå, e non mi voglio trasferire lì, per le bambine. E poi, forse, tra me e Karin le cose si sistemeranno. Petra è da lei, adesso, festeggeremo il Natale tutti insieme.» Annika sorrise, e il suo sorriso veniva dal cuore. Anders Schyman era seduto nel suo ufficio con i gomiti sulla scrivania e la testa fra le mani. Era inconcepibile che il dolore potesse essere così intenso. Gli veniva l'emicrania un paio di volte all'anno, e sempre quando cominciava a rilassarsi dopo un periodo di particolare tensione. Oltre tutto, il giorno prima aveva commesso l'errore di bere vino rosso. Ora aveva la nausea, non solo a causa del mal di testa ma anche per la prospettiva che lo attendeva. Stava per fare una cosa che non aveva mai fatto, e non sarebbe stata un'esperienza piacevole. Era rimasto al telefono per metà della mattinata, prima con l'amministratore delegato e poi con l'avvocato del giornale. Il mal di testa era aumentato con il protrarsi delle conversazioni. Con un sospiro, appoggiò le mani sulle pile di carte che ingombravano la scrivania. Aveva gli occhi iniettati di sangue e i capelli arruffati. Rimase a fissare il vuoto per qualche istante, poi si allungò verso il tubetto delle pillole e il bicchiere buttando giù un altro analgesico. Ecco, adesso era certo di non poter andare a casa guidando l'automobile. Si sentì bussare alla porta, e Nils Langeby fece capolino nella stanza. «Volevi parlarmi?» chiese con aria speranzosa.
«Sì, entra» rispose Anders Schyman alzandosi faticosamente dalla sedia. Girò intorno alla sua scrivania e indicò al cronista uno dei due divani. Nils Langeby si sedette al centro del più grande e si spaparanzò il più possibile. Sembrava teso, e molto desideroso di non darlo a vedere. Poi guardò con aria interrogativa il tavolino davanti a sé, come se si fosse aspettato una tazza di caffè e qualche dolcetto. Anders Schyman si sedette su una poltrona di fronte a lui. «Volevo parlarti, Nils, perché ho un'offerta da farti...» Il cronista si illuminò, nei suoi occhi si accese una luce. Credeva che sarebbe stato promosso, che gli sarebbe stato dato un riconoscimento di qualche tipo. Il direttore se ne accorse e si sentì una carogna. «Allora?» disse Nils Langeby dopo qualche istante di silenzio. «Mi chiedevo: cosa ne diresti di continuare a lavorare per il giornale come freelance?» Ecco, l'aveva detto. Sembrava una domanda normalissima, pronunciata con voce normalissima. Il direttore si sforzò di assumere un'espressione calma e controllata. Nils Langeby era andato in confusione. «Come freelance? Ma... perché? Freelance? Ma io sono un dipendente del giornale!» Il direttore si alzò e andò a prendere il bicchiere d'acqua sulla sua scrivania. «Be', certo, lo so che sei un dipendente del giornale, Nils. Lo sei da diversi anni, e potrai rimanerci per altri dieci, dodici, fino alla pensione. Ma quello che ti offro adesso è un modo per lavorare in modo più autonomo durante il resto della tua vita professionale.» Nils Langeby aveva lo sguardo perso. «Cosa vuoi dire?» chiese. Aveva la bocca aperta, simile a un buco nero. Schyman sospirò e si sedette di nuovo sulla sedia con in mano il bicchiere dell'acqua. «Ti sto chiedendo se ti farebbe piacere firmare un contratto alquanto remunerativo come freelance, che comporterebbe un incentivo a metterti in proprio, o magari costituire una società. Poi, potresti lavorare per noi in forma più libera.» Il cronista, sempre con la bocca aperta, sbatté gli occhi un paio di volte. A Schyman sembrò che assomigliasse a un pesce fuor d'acqua. «Che cazzo...» disse «che cazzo significa questa roba?» «Esattamente quello che ti ho detto» rispose indifferente il direttore. «L'offerta di un nuovo tipo di collaborazione. Non hai mai pensato a evolverti dal punto di vista professionale?»
Nils Langeby chiuse la bocca e tirò le gambe sotto il bordo del divano. Mentre la situazione prendeva lentamente forma nel suo cervello, diresse lo sguardo verso il palazzo di fronte, strinse le mandibole e deglutì. «Potremmo aiutarti a trovare un ufficio in città. Ti garantiremo un reddito pari a cinque giorni di servizio al mese, contrattati con la direzione, cioè 12.500 corone più i contributi e le ferie, per cinque anni. Naturalmente, continuerai a occuparti dei tuoi settori di competenza, i reati all'interno della scuola e...» «È stata quella fighetta, vero?» disse Nils Langeby con voce roca. «Scusa?...» chiese Anders Schyman perdendo per un attimo l'autocontrollo. Langeby rivolse lo sguardo verso il direttore, il quale per poco non indietreggiò quando vide l'odio che balenava in quegli occhi. «La fighetta, la puttana, la stronza. C'è lei, dietro questa faccenda, non è così?» «Di cosa stai parlando?» disse Schyman, accorgendosi di aver alzato la voce. Il cronista serrò i pugni, soffiando dal naso. «Cazzo, cazzo, cazzo. Quella stronza vuole buttarmi fuori.» «Non ho mai parlato di buttarti fuori...» «Stronzate!» gridò Langeby alzandosi talmente di scatto che la sua grossa pancia oscillò. Era paonazzo, e continuava ad aprire e serrare i pugni. «Siediti» disse Schyman con voce calma e gelida. «Non rendere questa faccenda più spiacevole di quanto non sia già.» «Spiacevole?» sbraitò Langeby, e Schyman si alzò a sua volta. Il direttore fece due passi verso il cronista, fermandosi a venti centimetri dal suo viso. «Siediti, per favore, e fammi finire di parlare» sibilò. Langeby non ubbidì e andò invece alla finestra, mettendosi a guardare fuori. Il cielo era limpido e faceva freddo, il sole splendeva sull'ambasciata russa. «A chi ti riferisci, usando quel linguaggio?» chiese Schyman. «Al tuo diretto superiore, Annika Bengtzon?» Langeby sbottò in una risata sarcastica. «Il mio diretto superiore, già, che Dio ce ne scampi. È proprio a lei che mi riferisco. La puttana più incompetente che abbia mai conosciuto. Non capisce niente! Non sa niente! Si sta rendendo antipatica a tutti, ed Eva-Britt Qvist la pensa esattamente come me! Grida e urla di continuo. Nessuno di noi riesce a capire perché
sia stata nominata caposervizio. Non ha nessuna autorevolezza, e nemmeno esperienza a livello di redazione.» «Esperienza di redazione?» chiese Anders Schyman. «E questo cosa c'entra?» «Lo sanno tutti di quel tizio che morì, tanto perché te ne renda conto anche tu. Lei non ne parla mai, ma lo sanno tutti lo stesso.» Il direttore inspirò, con le narici dilatate. «Se ti riferisci a quanto accadde prima che Annika Bengtzon venisse assunta stabilmente dal giornale, il tribunale ha accertato che si trattò di una disgrazia. È davvero meschino tirare fuori adesso quella faccenda.» Il cronista non rispose, e si mise a dondolare sui talloni trattenendo le lacrime. Schyman decise di sferrare il colpo finale e chiudere la questione. «Trovo davvero spiacevole che ti esprima in questo modo parlando di un tuo superiore» disse. «E un'esternazione come quella di cui mi hai appena reso testimone potrebbe sfociare in un'ammonizione scritta.» Nils Langeby non reagì, continuando a dondolarsi davanti alla finestra. «Bisogna poter discutere del tuo lavoro al giornale, Nils. Il tuo cosiddetto articolo, ieri sera, era una vera catastrofe. Forse non avrebbe dato adito a un'ammonizione, ma negli ultimi tempi hai dimostrato più volte di non saper minimamente valutare le notizie. Prendi il tuo pezzo di domenica sui sospetti della polizia riguardo al fatto che la prima esplosione fosse da attribuire a un'azione terroristica: non hai saputo precisare nemmeno una fonte.» «Non sono obbligato a rendere note le mie fonti» replicò Langeby in tono soffocato. «Sì, invece, se te lo chiedo. Per la miseria, sono io il direttore responsabile di questo giornale. Se prendi un granchio, sono io che finisco nei pasticci, non l'hai ancora capito, dopo tutti questi anni?» Il cronista continuò a dondolarsi. «Per adesso non ho contattato il sindacato, sulla faccenda» proseguì Schyman. «Ho preferito parlarne prima con te. Possiamo risolvere la cosa nel modo che preferisci, con o senza il sindacato, con o senza conflitti. Sta a te decidere.» Il cronista alzò le spalle senza rispondere. «Puoi stare lì in piedi, oppure puoi sederti e lasciare che ti spieghi come avevo pensato di organizzare la cosa.» Langeby smise di dondolarsi, esitò un attimo per poi voltarsi lentamente. Schyman si accorse che aveva pianto. Si sedettero di nuovo entrambi sui
divani. «Non voglio umiliarti» disse il direttore a voce bassa. «Desidero che questa faccenda venga risolta nella maniera più dignitosa possibile.» «Non mi puoi buttare fuori» biascicò Nils Langeby. «Sì che posso» rispose Schyman. «Ci costerebbe tre anni di stipendio al Tribunale del lavoro, forse quattro. Ne risulterebbe una matassa sgradevolissima di calunnie e accuse reciproche che non gioverebbero né a te né alla testata. Probabilmente, non avresti un'altra occasione. Il giornale, in effetti, apparirebbe come un datore di lavoro duro e spietato, ma non sarebbe una cosa poi così terribile. Anzi, potrebbe anche servire alla nostra reputazione. Avremmo delle ottime motivazioni da addurre in difesa del nostro operato nei tuoi confronti. Ti verrebbe Subito consegnata, oggi stesso, un'ammonizione scritta. E a quella ci appelleremmo. Sosterremmo che tenti di sabotare il lavoro, che molesti la tua immediata superiore con insulti ed espressioni a sfondo sessuale, che la boicotti. Potremmo dimostrare la tua incompetenza e la tua scarsa capacità di valutazione, basterebbe fare riferimento agli eventi di questi ultimi giorni e poi contare gli articoli con la tua firma conservati nei nostri archivi. Quanti possono essere, negli ultimi dieci anni? Trenta? Trentacinque? Significa tre articoli e mezzo all'anno, Nils.» «Sabato hai detto che avrei continuato a scrivere articoli da prima pagina per "La Stampa della Sera" ancora per molto. Erano soltanto chiacchiere, allora?» Anders Schyman sospirò. «No, affatto. Per questo ti sto offrendo di continuare a lavorare per il giornale con un'altra forma di collaborazione. Noi ti procuriamo l'aiuto che ti serve per metterti in proprio e per trovare un ufficio, in più ti paghiamo cinque giorni al mese del tuo tempo per cinque anni. Il compenso giornaliero per un giornalista freelance si aggira sulle 2500 corone al giorno più le ferie pagate e i contributi. Significa che per cinque anni ti rimarrà più della metà del tuo stipendio attuale e, contemporaneamente, potrai lavorare quanto vuoi per chiunque altro.» Langeby si pulì il naso con il dorso della mano e abbassò gli occhi sul tappeto. Dopo un istante di silenzio, chiese: «E se vengo assunto da un'altra parte?». «In questo caso, faremo in modo che i soldi ti vengano pagati sotto forma di liquidazione, 169.500 corone all'anno o 508.500 per tre anni. Di più non possiamo dare, come liquidazione.» «Ma prima hai detto cinque anni!» esclamò Langeby, improvvisamente
agguerrito. «Sì, ma in quel caso tu produci per noi. Il contratto come freelance non è mica una buonuscita. Noi ci aspettiamo che tu continui a lavorare per noi, anche se con una formula diversa.» Il cronista abbassò di nuovo gli occhi. Schyman attese qualche momento, poi passò allo stadio successivo, quello del conforto. «Mi sono accorto che in redazione non ti trovi più a tuo agio, Nils. Non sei riuscito a calarti nella nuova cultura, ed è triste che tu debba venire a lavorare sentendoti continuamente insoddisfatto. Quello che ti offro è un modo vantaggioso per mettere in piedi qualcosa di tuo, diventare imprenditore di te stesso. Non ti trovi bene alle dipendenze di Annika Bengtzon, e mi dispiace. Ma Annika resterà, ho grandi progetti per lei. Non sono affatto d'accordo con te, nella valutazione che ne fai. Trovo che sia coraggiosa e anche abbastanza accorta. Sì, a volte si inalbera in modo repentino, ma con gli anni anche questo lato del suo carattere si smusserà. Negli ultimi tempi si è sentita sotto pressione, soprattutto a causa tua, Nils. Io voglio che il giornale possa avvalersi sia della sua competenza che della tua, e dunque credo che un contratto di questo tipo possa essere la soluzione migliore per tutti...» «508.500 corone sono solo due anni di stipendio» disse Nils Langeby. «Certo, sono due anni pieni di stipendio, e li avrai senza combattere e senza dover usare parole pesanti. Non c'è nemmeno bisogno che qualcuno venga a sapere di quei soldi. Comunicherai semplicemente che vuoi proseguire nella carriera come professionista freelance. Il giornale esprimerà il proprio dispiacere per la perdita di un valido dipendente, e apprezzerà comunque il fatto che tu voglia continuare a lavorare per noi con un contratto di collaborazione come corrispondente...» Nils Langeby alzò gli occhi sul direttore con un'espressione di disprezzo. «Che schifo. Sei un maledetto serpente, falso e servile. Che schifo!» Senza aggiungere una parola, si alzò e uscì sbattendo la porta. Anders Schyman udì i suoi passi mescolarsi a quelli degli altri nella redazione. Il direttore andò alla sua scrivania e bevve un altro bicchiere d'acqua. Il mal di testa si era attenuato, ma pulsava ancora dietro la fronte. Fece un sospiro profondo. Era andata bene, forse meglio del previsto. Perché una cosa era certa: Nils Langeby doveva andarsene, sparire dalla redazione e non metterci più piede. Purtroppo, non avrebbe mai dato le dimissioni spontaneamente. Fosse stato per lui, sarebbe rimasto ad appestare l'aria per altri dodici anni senza fare altro che sabotare il lavoro altrui.
Schyman si sedette e guardò verso l'ambasciata. Alcuni bambini stavano cercando di scivolare con lo slittino in mezzo alla fanghiglia sulla discesa davanti all'edificio. Quella mattina, era stato autorizzato a ricollocare un paio di voci di bilancio per ottenere l'uscita di scena di Nils Langeby con un impegno economico pari a un massimo di quattro anni di stipendio. Sarebbe stato meno costoso che pagargliene dodici, cosa che l'editore avrebbe dovuto fare nel caso che lui fosse rimasto al suo posto. Se Nils Langeby possedeva un minimo di intelligenza, ma non era detto, avrebbe accettato l'offerta. In caso contrario, c'erano altri mezzi, più lunghi da mettere in pratica. Poteva essere assegnato alla correzione bozze, per esempio. Naturalmente il sindacato avrebbe fatto casino, ma non sarebbe riuscito a impedire il trasferimento o a dimostrare che era stato commesso un errore formale. Come cronista, uno dei presupposti è essere in grado di correggere le bozze, per cui non avrebbero dovuto esserci problemi. Il sindacato non avrebbe avuto appigli. Anders Schyman aveva soltanto fatto un'offerta a Nils Langeby. Alla gente si offriva spesso una buonuscita, anche se in quel giornale non era accaduto di frequente. L'Ordine dei giornalisti non avrebbe potuto fare altro che sostenere il suo membro durante le trattative e assicurarsi che ottenesse il miglior accordo possibile. Se poi tutto fosse andato a puttane, uno degli avvocati del giornale, esperto del settore, era già pronto ad affrontare una causa spinosa presso il Tribunale del lavoro. In questo caso, l'Ordine si sarebbe costituito parte lesa rappresentando in tribunale Nils Langeby, ma il giornale non avrebbe perso. L'unico obiettivo di Schyman era sbarazzarsi di quell'uomo, e ci sarebbe riuscito. Il direttore bevve un altro sorso d'acqua, sollevò il ricevitore e chiese a Eva-Britt Qvist di venire nel suo ufficio. Quanto a Chiodo, gli aveva dato una lezione con i fiocchi già la sera prima: d'ora in avanti, non sarebbe più stato un problema. Tanto valeva occuparsi di tutti quanti in una sola volta. La chiamata di Leif arrivò in redazione alle undici e quarantasette, solo tre minuti dopo il fatto. Fu Berit a rispondere. «Stockholm Klara è saltata in aria, ci sono almeno quattro feriti» disse l'informatore riattaccando subito. Prima che la notizia si fosse depositata nel cervello di Berit, Leif aveva già composto il numero di un altro giornale. Bisognava fare in fretta, altrimenti niente soldi. Berit abbassò il ricevitore solo un istante, poi chiamò il centralino della
polizia. «È vero che c'è stata un'esplosione alla posta centrale?» «Non sappiamo ancora nulla» rispose un poliziotto con la voce stressata. «Ma è vero, è scoppiata una bomba?» insisté Berit. «Pare di sì» disse il poliziotto. Riattaccarono, e Berit gettò l'ultimo pezzo del suo sandwich nel cestino. A mezzogiorno, Radio Stockholm fu il primo media a rendere pubblica la notizia. Annika lasciò Tungelsta con una sensazione di calore nell'anima. La psiche umana, nonostante tutto, aveva una straordinaria capacità di autorisanarsi. Salutò con la mano Olof Furhage e la sua Alice mentre svoltava sull'Älvvägen e si dirigeva verso l'Allévägen, per poi attraversare lentamente i bei quartieri residenziali e imboccare la statale 257. In effetti, non le sarebbe dispiaciuto abitare lì. Oltrepassò Krigslida, Glasberga e Norrskogen in direzione di Västerhaninge e dell'autostrada che portava a Stoccolma. Una volta immessa nella corsia giusta, prese in mano il cellulare, che era rimasto sul sedile del passeggero. Sul display c'era la scritta "Chiamata senza risposta". Annika premette un tasto e vide che il centralino del giornale l'aveva cercata. Sospirò e rimise il telefonino sul sedile. Meno male che tra poco sarebbe stato Natale. Accese di nuovo la radio e cantò Forever Young degli Alphaville. Subito dopo l'uscita di Dalarö, il cellulare squillò di nuovo. Annika abbassò il volume, infilandosi l'auricolare. «Annika Bengtzon? Buongiorno, sono Beata Ekesjö. Ci siamo conosciute al palazzetto di Sätra, martedì, e poi alla sera l'ho chiamata...» Annika gemette dentro di sé. Se la ricordava bene, la capoprogetto fuori di testa. «Buongiorno» disse sorpassando un Tir russo. «Volevo chiederle se aveva un attimo di tempo per parlare.» «Veramente, no» rispose Annika riprendendo la corsia di destra. «È piuttosto importante» insisté Beata Ekesjö. «Mmh. Di che si tratta?». «Credo di sapere chi è stato a uccidere Christina Furhage.» Per poco Annika non uscì di strada. «E come fa a saperlo?» «Ho trovato una cosa» rispose Beata Ekesjö. Il cervello di Annika era in ebollizione. «Cosa?» «Non glielo posso dire.» «Ne ha parlato con la polizia?»
«No, prima la voglio mostrare a lei.» «A me? E perché?» «Perché lei ha scritto degli articoli sulla vicenda.» Annika rallentò per riuscire a pensare e venne subito sorpassata dal Tir russo, la scia di neve sollevata dal camion riempì la corsia. «Non sono io a dover risolvere il caso, è la squadra Omicidi» disse. «Non vuole scrivere di me nel suo prossimo articolo?» Quella non si rassegnava: voleva finire sul giornale a ogni costo. Annika valutò i pro e i contro. La ragazza era fuori di testa e probabilmente non sapeva niente, mentre lei aveva una gran voglia di andare a casa. Però non si può riattaccare quando qualcuno ti telefona offrendoti la soluzione di un omicidio. «Mi dica che ha trovato e io le dirò se scriverò della cosa.» Era difficile guidare nel vortice di neve alzato dal camion. Annika passò sulla corsia di sorpasso e lo superò di nuovo. «Gliela posso mostrare.» Annika guardò l'orologio. L'una meno un quarto. «E dove ce l'ha questa cosa?» «Qui, allo stadio olimpico.» L'auto oltrepassò l'uscita di Trångsund e Annika si rese conto che praticamente sarebbe passata davanti allo stadio mentre andava al giornale. «Okay» disse «posso essere lì tra un quarto d'ora.» «Benissimo. L'aspetto sulla piattaforma sotto...» Il telefono emise tre brevi segnali e la linea cadde. La batteria era scarica. Annika cominciò a cercare l'altra in fondo alla borsa, ma ci rinunciò quando si accorse di essere finita di nuovo nella corsia di sorpasso. Il telefono avrebbe dovuto aspettare finché non fosse scesa dalla macchina. Alzò di nuovo il volume della radio e si accorse con piacere che avevano appena messo su un vecchio successo di Gloria Gaynor, I will survive: First I was afraid, I was petrified, Kept thinking I could never live without you by my side, But then I spent so many nights Just thinking how you did me wrong And I grew strong, And I learned how to get along...
Quando Berit e Johan Henriksson arrivarono, davanti al palazzo della posta centrale si erano già riuniti diversi fotografi e giornalisti. Berit alzò lo sguardo verso la facciata futuristica, il sole si rifletteva sul vetro e sui profili cromati. «Il nostro attentatore è un eclettico» disse. «Di pacchi bomba non s'era ancora occupato.» Henriksson mise i rullini nelle macchine fotografiche mentre salivano la scala che portava all'ingresso principale. Gli altri giornalisti stavano aspettando nel luminoso vestibolo. Berit si guardò intorno, mentre entravano. L'edificio era un tipico complesso degli anni Ottanta, tutto marmi, scale mobili e soffitti che sfioravano il cielo. «C'è qualcuno, qui, del giornale "La Stampa della Sera"?» chiese un uomo in piedi vicino agli ascensori. Berit e Henriksson si guardarono sorpresi. «Sì» disse Berit. «Volete seguirmi, per favore?» Le transenne erano state tolte e la salita che portava all'ingresso dello stadio era sgombra dalla neve, così Annika poté arrivare con l'auto fino alla scala sottostante. Si guardò intorno. Il sole era così intenso che dovette socchiudere gli occhi, ma in giro non si vedeva un'anima. Rimase seduta per un po' con la macchina in folle e finì di ascoltare I Only Wanna Be With You di Dusty Springfield. Quando qualcuno batté sul finestrino a pochi centimetri dalla sua testa, trasalì. «Mamma mia, che spavento!» esclamò Annika spalancando la portiera. Beata Ekesjö le sorrise. «Non deve preoccuparsi.» Annika spense il motore e infilò il cellulare nella borsa. «Non può parcheggiare qui» disse Beata Ekesjö. «Le faranno una contravvenzione.» «Tanto non mi fermerò a lungo» ribatté Annika. «Già, però dobbiamo fare un pezzo a piedi. Qui la multa è di settecento corone.» Annika represse un moto d'impazienza. «Allora, dove la devo mettere?» Beata le indicò un punto con il dito: «Là, dall'altra parte del ponte pedonale. Io l'aspetto qui». Annika risalì in macchina. "Perché permetto alla gente di farmi fare quello che vuole?" pensò mentre tornava da dove era venuta e parcheggiava tra le altre macchine vicino ai nuovi condomini. Va be', una passeggiata di qualche minuto al sole non le avrebbe fatto male, non capitava tutti i
giorni di poterselo concedere. L'importante era non arrivare in ritardo all'asilo. Annika tirò fuori il cellulare e cambiò la batteria. Si udì un segnale acustico quando inserì quella nuova, e la letterina che stava a significare l'arrivo di un messaggio cominciò a lampeggiare. Annika premette il tasto per cancellare il testo e chiamò l'asilo. Chiudevano alle cinque, cioè un'ora prima del solito, ma era comunque più tardi di quanto avesse immaginato. Tranquillizzata, imboccò il ponte pedonale. Beata l'aspettava sorridente, con l'alito che nell'aria gelida le formava una nuvoletta intorno alla testa. «Cosa voleva farmi vedere?» chiese Annika avvertendo nella sua stessa voce l'irritazione che non era riuscita a reprimere. Beata continuò a sorridere. «Ho trovato qualcosa di molto strano, quaggiù» disse indicando un punto. «Non ci vorrà molto.» Annika sospirò in silenzio e si avviò. Beata la seguì. Nello stesso momento in cui Berit e Henriksson mettevano piede nell'ascensore di Stockholm Klara, il procuratore capo Kjell Lindström telefonò al giornale. Voleva parlare con il direttore, e il centralino gli passò la segretaria. «Purtroppo è uscito a pranzo» rispose la donna vedendo che Schyman le faceva un cenno di diniego con la mano. «Desidera lasciare un messaggio? Sì? Aspetti un istante, vedo se riesco a rintracciarlo...» L'emicrania di Schyman non voleva passare. Il suo più grande desiderio, in quel momento, sarebbe stato quello di stendersi in una stanza buia e dormire. Nel corso della mattinata, però, nonostante il mal di testa aveva concluso parecchio. La conversazione con Eva-Britt Qvist era filata sorprendentemente liscia. La segretaria di redazione aveva ammesso di trovare Annika Bengtzon una caposervizio molto promettente e che lei aveva intenzione di sostenerla in ogni modo. Era decisa a collaborare per far funzionare al meglio la redazione di cronaca nera sotto la direzione di Annika. «È un procuratore, e molto insistente» disse la segretaria sottolineando la parola "molto". Con un sospiro, Anders Schyman sollevò la cornetta. «Sempre in azione, eh?, persino a Natale. Guardi, però, che state andando nella direzione sbagliata: siamo noi che dovremmo inseguire voi...» «Le telefono riguardo all'esplosione verificatasi a Stockholm Klara» lo interruppe Kjell Lindström. «Sì, abbiamo appena mandato qualcuno...»
«Lo so, stiamo parlando con loro in questo momento. L'obiettivo da colpire era uno dei vostri dipendenti, una cronista di nome Annika Bengtzon. Dev'essere messa immediatamente sotto protezione.» Le parole penetrarono nel cervello di Anders Schyman attraverso una nebbia di analgesici. «Annika Bengtzon?» «La busta è scoppiata per errore all'interno del palazzo della posta. Crediamo sia stata inviata dalla stessa persona responsabile delle esplosioni allo stadio olimpico e al palazzetto di Sätra.» Anders Schyman sentì che le ginocchia gli si piegavano. Si sedette sulla scrivania della segretaria. «Santo cielo.» «Dov'è Annika Bengtzon, in questo momento? Si trova in redazione?» chiese il procuratore. «No, non credo. È uscita stamattina, doveva intervistare qualcuno. Non ho controllato se è tornata.» «Donna o uomo?» «Quello che doveva vedere? Uomo, credo. Perché?» «È indispensabile che Annika Bengtzon venga posta sotto sorveglianza continua. Non deve andare a casa sua e non deve stare al giornale finché la persona in questione non sarà stata presa.» «Come fate a sapere che la bomba era destinata ad Annika?» «Era indirizzata a lei in una busta raccomandata, di quelle imbottite. Stiamo investigando sui dettagli proprio in questo momento. La cosa più importante è che Annika Bengtzon venga subito nascosta in un luogo sicuro. Abbiamo inviato una pattuglia al giornale, arriverà tra poco. Gli uomini faranno in modo che venga portata in un luogo protetto al più presto. Ha famiglia?» Anders Schyman chiuse gli occhi e si passò una mano sul viso. Non è possibile, pensò, e sentì che il sangue gli defluiva dal cervello. «Sì, marito e due figli piccoli.» «I bambini sono all'asilo? Quale? Chi lo sa? Dove lavora suo marito? Si può raggiungerlo telefonicamente?» Anders Schyman promise di occuparsi della cosa e di informare la famiglia di Annika in modo che fosse messa al sicuro. Diede alla polizia il numero di cellulare di Annika e chiese al procuratore capo di fare del suo meglio. Si allontanarono dal Sickla Kanal e oltrepassarono un boschetto che fiancheggiava l'arena olimpica. I bassi pini erano stati danneggiati dall'e-
splosione, uno era a terra con le radici rivolte verso l'alto, gli altri avevano tutti i rami spezzati. La neve, profonda una ventina di centimetri, entrava nelle scarpe di Annika. «È lontano?» chiese. «No, non molto» rispose Beata. Continuarono ad arrancare nella neve, mentre l'irritazione di Annika aumentava. Il campo per gli allenamenti torreggiava sopra di loro, più in là Annika riusciva a vedere gli ultimi piani del palazzone riservato ai media. «Come si fa a salire? Non vedo scale» disse guardando il muro di cemento alto tre metri che sosteneva il lato più lungo della pista. Beata l'affiancò. «Non dobbiamo salire. Segua il muro.» Annika proseguì. Lo stress cominciava ad aumentare. Prima di andare a casa doveva scrivere un articolo sulla probabile imminente cattura del dinamitardo, e ancora non aveva incartato i regali dei bambini. Va be', l'avrebbe fatto quella sera, quando erano già a letto. Forse la scoperta di Beata avrebbe indotto la polizia a sputare il rospo. «Vede che il muro finisce, laggiù?» disse Beata alle sue spalle. «Si scende di un paio di metri sotto la pista. È lì che siamo dirette.» Annika rabbrividì, all'ombra del muro faceva freddo. Udiva il proprio respiro un po' affannato e il rumore attutito delle auto sulla tangenziale sud alle sue spalle. Per il resto, regnava il silenzio. Adesso, almeno, sapeva dove stavano andando. La pattuglia della polizia era formata da due agenti in uniforme e due della squadra Omicidi in borghese. Anders Schyman li ricevette nel suo ufficio. «Stanno venendo qui due squadre di artificieri, con i cani addestrati» disse uno della Omicidi. «È probabile che abbia piazzato altre bombe, forse anche qui in redazione. I locali devono essere immediatamente evacuati.» «È proprio indispensabile? Non abbiamo ricevuto telefonate minatorie» obiettò Anders Schyman. Il poliziotto lo guardò serio. «Fino adesso, questa qui non ha mai avvertito nessuno.» «Questa qui?» chiese Schyman. L'altro agente della Omicidi fece un passo avanti. «Pensiamo che il dinamitardo sia una donna.» Anders Schyman guardò prima l'uno e poi l'altro. «Cosa ve lo fa pensa-
re?» «Purtroppo, non possiamo ancora dirglielo.» «Ma perché non l'arrestate?» «È scomparsa» rispose il primo agente, e cambiò argomento. «Non siamo ancora riusciti a raggiungere telefonicamente Annika Bengtzon. Avete un'idea di dove possa trovarsi?» Anders Schyman scosse la testa, aveva la bocca asciutta. «No, ha detto soltanto che aveva un'intervista.» «Con chi?» «Non l'ha detto. Un uomo, mi pare.» «È uscita con la sua macchina?» «Non credo.» I poliziotti si scambiarono un'occhiata. Certo che quell'uomo non aveva un gran controllo della situazione. «Okay, dobbiamo scoprire con che mezzo è andata via e lanciare la ricerca per radio. Nel frattempo, cominciamo a sgomberare l'edificio.» «Qui sopra gli atleti faranno riscaldamento prima delle competizioni» disse Beata. Sotto il tetto di cemento regnava la penombra, per non dire il buio. Annika guardò fuori attraverso l'apertura bassa e lunga. Sul lato opposto c'era il villaggio olimpico, le case bianche che risaltavano nel sole. Tutte le finestre splendevano, luccicanti. La sostituzione dei vetri rotti era stata una delle priorità assolute. C'era il rischio che le tubature dell'acqua nei nuovi edifici si congelassero, finendo per scoppiare. «Gli atleti devono potersi portare rapidamente sul terreno di gara» spiegò Beata. «Questa zona è aperta al pubblico, e per evitare che gli atleti debbano mettersi in coda all'ingresso principale abbiamo costruito un tunnel sotterraneo che parte da qui e arriva nello stadio vero e proprio.» Annika si voltò e guardò verso il buio. «Dove?» chiese sorpresa. Beata sorrise. «Non è che abbiamo messo fuori un cartello per indicarlo. Altrimenti, ci si sarebbe infilato anche il pubblico. Laggiù nell'angolo. Venga, le faccio vedere.» Penetrarono ancora di più sotto il tetto di cemento, e Annika sbatté gli occhi per abituarli all'oscurità. «Ecco qui» disse Beata. Annika si trovò davanti un portoncino verniciato di grigio, appena distinguibile nel buio, sprangato da una pesante barra di ferro. Sembrava portare in uno sgabuzzino per i rifiuti o qualcosa del genere. Accanto, sul
muro, c'era una cassetta, che Beata aprì. Annika vide che tirava fuori dalla tasca del cappotto una tessera plastificata e la faceva passare attraverso il lettore ottico. «Ma come, lei ha la carta magnetica per entrare qui?» chiese sorpresa. «Ce l'hanno tutti» rispose Beata sollevando la barra di ferro. «Cosa sta facendo?» domandò Annika. «Apro» rispose Beata spingendo il portoncino. I cardini non emisero il minimo cigolio. Dentro, il buio era compatto. «Ma come, si può aprire così? Non sono in funzione gli allarmi?» Annika avvertì una sensazione sgradevole insinuarsi nel suo corpo. «No, di giorno no. Su nello stadio stanno lavorando a pieno ritmo. Entri, le faccio vedere una cosa davvero singolare. Aspetti, che accendo la luce.» Beata fece scattare un interruttore di fianco all'entrata e una serie di tubi al neon sul soffitto si accese. Il corridoio aveva le pareti di cemento e il pavimento coperto di linoleum giallo. L'altezza del soffitto era di due metri e mezzo circa. Proseguiva diritto per una ventina di metri, poi svoltava a sinistra e saliva verso lo stadio olimpico. Annika inspirò ed entrò nel corridoio. Si voltò e vide Beata che richiudeva il portoncino. «Secondo il regolamento, non lo si può lasciare aperto» disse sorridendo. Annika rispose al sorriso e si avviò lungo il corridoio. «È qui?» chiese. «Sì, appena dietro l'angolo.» Annika sentì il sangue pompare più veloce. La cosa era elettrizzante. Camminava a passo svelto, sentendo il rumore dei tacchi riecheggiare nel corridoio. Girò l'angolo, e poco più su vide un mucchio di ciarpame. «Laggiù c'è qualcosa!» esclamò voltandosi verso Beata. «Sì, è proprio quello che volevo mostrarle. È davvero interessante.» Annika si sistemò meglio la borsa sulla spalla e si mise quasi a correre. C'erano un materasso, due semplici sedie da giardino, un tavolino da campeggio e una borsa termica. Annika si avvicinò ed esaminò gli oggetti. «Qualcuno ha dormito qui» disse, e nello stesso istante vide la cassa di dinamite. Era piccola e bianca e recava su un fianco la scritta "Minex". Boccheggiò involontariamente, e nello stesso istante qualcosa le fu gettato intorno al collo. Le sue mani volarono alla gola, ma non riuscirono a infilarsi sotto il cappio. Tentò di urlare, ma la corda era già troppo stretta. Cercò di divincolarsi, di mettersi a correre, ma ottenne l'unico effetto di stringere il nodo ancora di più. L'ultima cosa che vide prima che diventasse tutto buio fu Beata con la
corda nelle mani guantate, che torreggiava sopra di lei sotto il soffitto di cemento. L'evacuazione dell'edificio in cui si trovavano i locali della "Stampa della Sera" avvenne in maniera abbastanza rapida e senza incidenti. Fu azionato l'allarme antincendio, e nel giro di nove minuti l'intero palazzo era vuoto. L'ultimo a uscire fu il caporedattore Ingvar Johansson, protestando che aveva cose più importanti da fare che le prove di evacuazione. Abbandonò il suo posto solo quando il direttore gli ebbe ruggito al telefono di venire fuori. Il personale era relativamente calmo. Nessuno sapeva che la bomba scoppiata a Stockholm Klara era indirizzata a una loro collega. Vennero fatti entrare nella sala mensa del palazzo accanto, dove furono offerti caffè e panini. Nel frattempo, gli artificieri perlustrarono tutti i locali del giornale. Anders Schyman si accorse all'improvviso che la sua emicrania era scomparsa. I vasi sanguigni si erano decongestionati e il dolore era cessato. Stava seduto insieme alla sua segretaria e alla responsabile del centralino in un ufficio contiguo alla cucina dell'edificio che li ospitava. Rintracciare il marito di Annika si era rivelato più difficile del previsto. Il centralino dell'Unione Comuni Svedesi aveva chiuso all'una e nessuno, al giornale, conosceva il suo numero diretto o quello del cellulare. Né alla Telia né alla Comviq né all'Europolitan risultava un Thomas Samuelsson tra gli abbonati. Anders Schyman non sapeva nemmeno che asilo frequentassero i suoi figli. La segretaria si stava dando da fare telefonando a tutti gli asili del terzo circolo, a Kungsholmen, chiedendo dei piccoli. Quello che non sapeva era che l'asilo non rilasciava mai informazioni sui figli di Annika, a nessuno. Non erano nemmeno presenti nell'elenco telefonico degli alunni che veniva distribuito a tutti i genitori. Dopo una serie di articoli su una fondazione che si era data il nome di Paradiso, Annika era stata minacciata di morte, e da allora sia lei che Thomas prestavano estrema attenzione a non lasciare il proprio indirizzo a nessuno. Il personale dell'asilo era informato della cosa, e quando arrivò la telefonata della segretaria di Schyman, la coordinatrice negò che i figli di Annika si trovassero lì. Poi chiamò subito Annika sul cellulare, senza ottenere risposta. Anders Schyman sentiva lo stress come un gusto metallico in bocca. Incaricò la responsabile del centralino di chiamare ogni numero che potesse portare a una scrivania dell'Unione Comuni, prima quello del centralino e
poi nell'ordine gli interni 01, 02 eccetera, finché non avesse trovato qualcuno in grado di rintracciare Thomas. La polizia aveva già spedito una pattuglia davanti all'abitazione di Annika. Il direttore non sapeva cos'altro fare, e così andò dai poliziotti per sentire come procedeva il lavoro. «Fino adesso non abbiamo trovato nulla. Avremo finito tra mezz'ora» disse il comandante. Anders Schyman andò ad aiutare la sua segretaria a chiamare gli asili della zona di Kungsholmen. Lentamente, Annika riprese i sensi. Sentiva qualcuno gemere forte, e dopo un attimo capì di essere lei. Quando aprì gli occhi fu colta dal panico. Era diventata cieca. Si mise a gridare come un'ossessa, spalancando gli occhi nel buio impenetrabile. Il terrore aumentò quando si rese conto che il suo grido era in realtà un pigolio rauco, in falsetto. Poi si accorse che i suoni spezzati che le uscivano dalla bocca echeggiavano nell'oscurità, rimbalzando e tornando verso di lei come uccelli terrorizzati che battono contro un vetro, e si ricordò del tunnel sotterraneo dello stadio olimpico. Smise di urlare e per qualche minuto rimase ad ascoltare il suo respiro affannoso. Doveva trovarsi nel tunnel. Si concentrò nell'esame del proprio corpo, per assicurarsi di essere ancora tutta intera. Prima sollevò la testa: le faceva male ma era a posto. Si trovava distesa su qualcosa di abbastanza morbido, probabilmente il materasso che aveva visto prima di... «Beata...» sussurrò. Rimase immobile per un po'. Quella donna l'aveva portata lì e le aveva fatto qualcosa, ecco com'era la faccenda. Beata le aveva gettato una corda intorno al collo, e adesso se n'era andata. Forse credeva che lei fosse morta? Annika si accorse che le faceva male un braccio, era come incastrato sotto di lei. Quando cercò di spostarlo, capì che non era possibile. Era stata legata con le mani dietro la schiena, voltata sul fianco. Provò a sollevare le gambe e sentì di avere anche i piedi legati, non solo uno all'altro ma anche alla parete accanto. Muovendo le gambe si rese conto anche di un'altra cosa. Mentre era priva di sensi, gli sfinteri si erano rilasciati e urina e feci l'avevano sporcata tutta. Si mise a piangere. Cos'aveva fatto? Perché era toccato a lei? Piangeva così forte da tremare. Il corridoio era gelido, il suo pianto filtrava attraverso l'aria fredda e il buio. Si mise a dondolarsi piano sul materasso, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. Non voglio, pensava. Non voglio, non voglio, non voglio...
Anders Schyman era di nuovo seduto nel suo ufficio e fissava la facciata scura dell'ambasciata russa. Nei locali della redazione non erano state trovate bombe. Il sole era tramontato dietro il vessillo dell'antico emblema degli zar colorando il cielo di un rosso intenso per qualche minuto. I dipendenti del giornale erano tornati al lavoro, ma nessuno, eccetto il direttore, la segretaria e la responsabile del centralino, sapeva ancora che l'ordigno era indirizzato ad Annika. Anders Schyman aveva ricevuto alcune informazioni, e i dati in possesso della polizia fino a quel momento confermavano che il dinamitardo, anzi, la dinamitarda, era un'assassina improvvisata ma senza scrupoli. La busta contenente la carica esplosiva era arrivata a Stockholm Klara alle diciotto e cinquanta di mercoledì sera. Era stata consegnata all'ufficio Stoccolma 17, quello della Rosenlundsgatan a Södermalm, alle sedici e cinquantatré. Dato che si trattava di una raccomandata, invece di seguire le vie normali era finita sul furgone per trasporto valori che partiva dall'ufficio postale leggermente più tardi. La busta marroncina non era stata notata in modo particolare. Quello di Stockholm Klara è il centro di smistamento più grande della Svezia, e si trova sul Klarabergsviadukten, nel cuore della città. Ha otto piani e occupa un intero isolato tra il terminal dell'aeroporto, il Municipio e la stazione centrale. In quei locali transita normalmente un milione e mezzo di effetti postali. Dopo essere approdato a uno dei quattro punti di scarico dell'edificio, il plico era finito al reparto valori del quarto piano, dove il personale addetto seguiva particolari procedure. Poiché "La Stampa della Sera" disponeva di una sua casella postale, la cartolina di avviso era stata inviata direttamente a questa. La casella veniva svuotata diverse volte al giorno, e il contenuto trasmesso alla redazione del giornale, a Marieberg. Alla posta centrale erano state depositate diverse deleghe permanenti che consentivano ai custodi del giornale di firmare la ricevuta relativa agli invii destinati ad altri collaboratori. Le raccomandate e le assicurate venivano prelevate una volta al giorno, di solito subito dopo pranzo. Quel giovedì, nella prima tornata di posta, c'erano numerose raccomandate e pacchetti inviati da aziende: d'altra parte, si era sotto Natale. La ricevuta della lettera di Annika Bengtzon era dunque finita insieme a una mazzetta di altre simili nella cartella della portineria. L'esplosione si era verificata quando Tore Brand si trovava allo sportello
della posta aziendale per ritirare la posta raccomandata. Uno degli addetti al reparto valori era scivolato e aveva lasciato inavvertitamente cadere la busta. Il dislivello non superava il mezzo metro, e la raccomandata era finita nuovamente nella cassa, dove era rimasta per tutta la notte, ma l'urto aveva innescato il meccanismo. Quattro persone erano state ferite, tre di queste in maniera grave. L'uomo che si trovava più vicino, quello che aveva lasciato cadere la busta, era in prognosi riservata. Anders Schyman sospirò. Sentì bussare alla porta, e uno dei poliziotti entrò senza attendere il permesso. «Non riusciamo a rintracciare neanche Thomas Samuelsson» disse. «Abbiamo mandato una pattuglia nel suo ufficio all'Unione Comuni, ma non c'era. Pensavano che fosse andato a parlare con qualche politico locale. L'abbiamo chiamato sul suo cellulare, senza ottenere risposta.» «Avete trovato Annika, o la macchina?» chiese Schyman. Il poliziotto scosse la testa. Il direttore si girò e ricominciò a fissare il tetto dell'ambasciata. Buon Dio, pregò, fa' che non sia morta. D'un tratto, Annika tornò a vedere. Udì lo scatto dell'interruttore e i tubi al neon lampeggiarono prima di accendersi. Per un attimo, rimase abbagliata, e un rumore di tacchi lungo il corridoio la indusse a raggomitolarsi e a chiudere gli occhi. I passi si avvicinarono e si fermarono accanto al suo orecchio. «Sei sveglia?» chiese una voce sopra di lei. Annika aprì gli occhi e sbatté le palpebre. Vide il linoleum giallo e la punta di un paio di stivali di marca Pertti Palmroth. «Bene. Abbiamo un lavoro da fare.» Qualcuno l'afferrò e la mise con la schiena contro il muro di cemento e le gambe vicino al corpo, piegate al ginocchio e voltate di lato. Era una posizione terribilmente scomoda. Beata Ekesjö si chinò su di lei e annusò l'aria. «Te la sei fatta addosso? Che schifo!» Annika non reagì. Continuò a fissare la parete di cemento di fronte e a gemere piano. «Adesso ti sistemiamo come si deve» disse Beata prendendo Annika sotto le ascelle. Spingendo e tirando, la costrinse a sedersi piegata in avanti, con la testa vicina alle ginocchia. «La volta scorsa è andata a meraviglia» continuò Beata. «È piacevole
sentire che ci si comincia ad abituare a qualcosa, non trovi?» Annika non udiva quello che diceva l'altra donna. Il terrore premeva su di lei come una massa compatta, annullando ogni attività cerebrale. Non sentiva neanche il fetore che proveniva dai suoi pantaloni. Pianse in silenzio mentre Beata armeggiava con qualcosa al suo fianco, canticchiando nel frattempo a mezza voce una vecchia canzonetta. Annika tentò di mettersi a cantare con lei, senza riuscirci. «Non cercare di parlare» disse Beata. «La fune ti ha compresso le corde vocali.» Si alzò davanti ad Annika. In una mano teneva un rotolo di nastro adesivo da pacchi e nell'altra quella che sembrava una confezione di candele di cera bordeaux. «Questo è Minex, venti candelotti avvolti nella carta, 22 per 200 millimetri, da 100 grammi l'uno. Due chili. È sufficiente, l'ho già verificato con Stefan. Si è diviso in due.» Annika capì. Intuì cosa stava per accadere e vomitò, chinandosi in avanti, con il corpo che si contraeva in spasmi. «Che casino stai combinando!» esclamò Beata in tono contrariato. «Dovrei farti pulire tutto.» Annika inspirò boccheggiando e sentì la bile colarle dalle labbra. Muoio, pensò. Chi l'avrebbe immaginato che sarebbe andata in questo modo. Nei film non finisce mai così. «Che cazzo ti aspettavi?» gracchiò. «Ma che bella sorpresa» disse Beata allegra. «Comincia a tornarti la voce. Ottimo, perché ci sono alcune domande a cui voglio che tu risponda.» «Vaffanculo. Con te non parlo.» Beata non rispose, si piegò in avanti e le appoggiò qualcosa sulla schiena, appena sotto le costole. Annika pensò, respirò, sentì l'odore di umido e di esplosivo. «Dinamite?» «Già. Adesso te l'attacco con il nastro da pacchi.» Beata cominciò ad avvolgerlo intorno al corpo di Annika, cingendola con le braccia un paio di volte. Lei intuì che era l'occasione per tentare la fuga, ma non riusciva a pensare come. Le mani erano ancora legate dietro la schiena e i piedi assicurati al muro con un gancio di metallo. «Ecco fatto, abbiamo finito» disse Beata alzandosi. «L'esplosivo è abbastanza sicuro, ma il detonatore può essere un tantino instabile, per cui dobbiamo stare attente. Lo vedi questo filo? È quello che userò per far scoppiare la carica. Lo tiro fino a qui, e adesso attenta: una piccola batteria da
torcia elettrica. È sufficiente per far scattare il detonatore. Fantastico, vero?» Annika guardò il sottile cavo gialloverde che si snodava fino al tavolino da campeggio. Si rese conto di non sapere un bel niente di materiale esplosivo, non riusciva nemmeno a valutare se Beata stesse bluffando o dicesse la verità. Per l'assassinio di Christina aveva usato una batteria da automobile. Perché, se bastava una piletta da torcia elettrica? «Mi dispiace veramente che sia andata a finire così» riprese Beata. «Se solo tu fossi rimasta al lavoro, ieri pomeriggio, tutto questo si sarebbe potuto evitare, e sarebbe stato meglio per tutti. Il compimento di una simile vicenda dovrebbe avvenire nel luogo giusto, nel tuo caso alla redazione della "Stampa della Sera". Solo che, invece, l'esplosione è avvenuta alla posta centrale, ed è un vero peccato.» Annika fissò la donna. Era davvero pazza da legare. «Cosa vuoi dire? C'è stata un'altra esplosione?» La donna sospirò. «Be', non è certo per divertirmi che ti ho portato qui. A questo punto, è l'unico sistema per risolvere la faccenda. Adesso me ne vado per un po'. Se fossi in te, cercherei di riposare. Ma non stenderti sulla schiena, e non tentare di staccare la catena dal muro. I movimenti bruschi possono far scattare il detonatore.» «Perché?» chiese Annika. Beata la guardò con un'espressione indifferente per qualche secondo. «Ci vediamo tra un paio d'ore» disse avviandosi verso l'impianto sportivo. Annika udì il ticchettio dei suoi passi svanire dietro l'angolo, poi cadde di nuovo l'oscurità. Si girò con cautela, allontanandosi dal vomito, e si stese con infinita lentezza sul fianco sinistro. Dava la schiena alla parete e fissava le tenebre, non osando quasi respirare. Era esplosa un'altra carica. Erano morte altre persone? La bomba era destinata a lei? Come poteva uscire da quella situazione? Beata aveva detto che lo stadio era pieno di gente che lavorava. Doveva trovarsi all'altra estremità del corridoio. Se avesse chiamato abbastanza forte, forse avrebbero potuto sentirla. «Aiuto!» urlò Annika con tutte le sue forze, ma le corde vocali erano ancora malandate. Aspettò qualche secondo e fece un altro tentativo. Capì che nessuno l'avrebbe sentita. Appoggiò la testa al muro e avvertì un senso di panico crescente. Le sembrava si sentire uno scalpiccio di animali intorno a lei, ma poi si rese
conto che era soltanto il rumore delle catene ai suoi piedi. Se solo Beata avesse lasciato la luce accesa, avrebbe potuto tentare di liberarsi. «Aiuto!» gridò di nuovo, con un risultato ancora peggiore. Non lasciarti prendere dal panico, niente panico, niente panico... «Aiuto!!» Iniziò a respirare veloce, a scatti. Non troppo in fretta, ti vengono i crampi, calmati, trattieni il respiro, uno due tre quattro, respira. Uno due tre quattro... Va tutto bene, calmati, ce la farai... Improvvisamente, nel buio, si udì il suono digitale della Sinfonia n. 40 di Mozart, prima frase. Annika smise di iperventilare per la sorpresa. Il suo cellulare funzionava anche là sotto! Dio benedica la Comviq! Si accovacciò. Il suono era soffocato e veniva da destra. La frase musicale continuò, nota dopo nota. Annika era l'unica, in tutta la città, ad avere proprio quel tipo di suoneria, la numero 18 del Nokia 3110. Con prudenza, cominciò a strisciare mentre la musica ricominciava da capo. Si rese conto che il tempo era quasi scaduto: subito dopo, si sarebbe inserita la segreteria. Nello stesso istante, la catena che le legava i piedi finì. Non riusciva ad arrivare alla borsa. Il telefono tacque, Annika udiva distintamente nel buio il rumore del suo respiro. Rimase in ginocchio sul linoleum giallo, a riflettere. Poi, con cautela, tornò verso il materasso. Là faceva più caldo e il materasso era più morbido. «Vedrai, si sistemerà tutto» si disse a voce alta. «Finché la pazza non è qui, va tutto bene. Un po' scomodo, forse, ma se mi muovo con attenzione, non c'è pericolo.» Si stese e, come se fosse uno scongiuro, cominciò a cantare piano il vecchio successo di Gloria Gaynor: «First I was afraid, I was petrified...». Poi pianse in silenzio, nell'oscurità. Thomas si stava allontanando a grandi passi dalla stazione centrale quando il suo cellulare squillò. Fece appena in tempo a tirarlo fuori dalla tasca interna prima che la segreteria s'inserisse. «Ve l'abbiamo detto, che oggi chiudevamo alle cinque» disse uno degli educatori dell'asilo. «Arrivate o no?» Il traffico sulla Vasagatan faceva un tale rumore che Thomas udiva a mala pena i suoi stessi pensieri. Entrò nell'androne di un negozio e chiese cosa stava succedendo. «Allora, state arrivando sì o no?» ripeté l'uomo al telefono.
Thomas venne investito da un violento accesso di collera. Maledetta Annika! Quella mattina l'aveva lasciata dormire, aveva portato lui i bambini all'asilo, adesso stava tornando a casa presto nonostante la faccenda della politica regionale, e lei non trovava nemmeno il tempo di andare a riprendere i suoi figli. «Chiedo scusa per il ritardo. Sarò lì tra cinque minuti» rispose chiudendo la telefonata. Furioso, si avviò verso il Kungsbron. Girò l'angolo del Burger King, evitò per un pelo di andare a sbattere contro un passeggino carico di regali di Natale e si affrettò verso l'Oscarsteatern. Fuori dal Fashing, il jazz club, c'era un assembramento di neri, Thomas dovette scendere dal marciapiedi per passare. Ecco cosa riceveva in cambio della sua comprensione e della condivisione dei compiti. I suoi figli restavano affidati all'ente pubblico il giorno prima della vigilia di Natale perché sua moglie, che avrebbe dovuto andarli a prendere, anteponeva il lavoro alla famiglia. Ne avevano discusso altre volte. Nel brusio della città, riusciva a sentire nella sua mente la voce della moglie. "Il mio lavoro è importante, per me" diceva spesso. "Più importante dei bambini?" le aveva gridato lui, una volta. Lei era impallidita e aveva risposto: "No, certo", ma lui le aveva creduto a fatica. In un paio di occasioni avevano litigato di brutto sulla faccenda, soprattutto quella volta che i genitori di Thomas li avevano invitati nella loro casa delle vacanze su un'isola dell'arcipelago di Stoccolma per la festa di mezz'estate. C'era stato un omicidio da qualche parte, e Annika, naturalmente, aveva deciso di mandare tutto all'aria e partire. "Non è soltanto perché mi piace spostarmi per lavoro" aveva detto. "È che ho anche fatto in modo di ottenere un'intera settimana di vacanze in cambio di questo incarico." "Non pensi mai ai bambini" aveva risposto lui, furibondo, e allora lei si era fatta fredda e distante. "Adesso sei davvero ingiusto" aveva detto. "Avrò un'intera settimana in più da passare con loro. Là sull'isola non avranno affatto nostalgia di me, ci saranno un sacco di persone. Ci sei tu, i nonni, tutti i cugini..." "Sei una maledetta egoista" l'aveva interrotta lui. Lei, calmissima, gli aveva risposto: "No. Sei tu l'egoista, adesso. Vuoi che sia là con te per mettere in mostra la tua bella famiglia e far vedere ai tuoi genitori che non è vero che io lavoro sempre. Sì, lo so che tua madre
ne è convinta, e trova che i bambini passino troppo tempo all'asilo. Non contraddirmi, l'ho sentita io stessa". "Per te il lavoro viene sempre prima della famiglia" era sbottato lui, soltanto per ferirla. Lei l'aveva fissato disgustata e poi aveva detto: "Ah, sì? E chi è stato a casa con i bambini per due anni? Chi rimane più spesso con loro quando sono malati? Chi li porta all'asilo tutti i giorni e li va a riprendere quasi sempre?". Gli si era avvicinata, fermandosi a pochi centimetri da lui. "Sì, Thomas, hai ragione. Ho intenzione di mettere il lavoro davanti alla famiglia. Per una volta lo farò, e tu ti dovrai adeguare, che ti piaccia o no." Poi aveva girato sui tacchi ed era uscita senza prendere nemmeno lo spazzolino. L'intero fine settimana, naturalmente, era stato un disastro: per lui, non per i bambini. Loro non avevano sentito la mancanza di Annika neanche per un secondo, proprio come lei aveva previsto. Erano invece stati felici di tornare a casa e trovarla già lì, con le ciambelle appena sfornate e dei regalini per loro. A posteriori, aveva dovuto darle ragione. Non metteva il lavoro davanti alla famiglia troppo spesso, solo a volte, proprio come lui. Ma ciò non toglieva che, in quel momento, Thomas si sentisse furibondo. Negli ultimi due mesi, tutto era ruotato intorno al giornale. Quel posto di caposervizio non andava bene per lei, gli altri le stavano troppo addosso e lei non era pronta ad affrontarli. Aveva notato altri segni che testimoniavano il suo stato di disagio: per esempio, aveva ricominciato a mangiare irregolarmente. Per seguire un caso di omicidio di gruppo che l'aveva portata lontano da casa per otto giorni aveva perso cinque chili. Le ci erano voluti mesi per recuperarli. Al controllo sanitario aziendale l'avevano avvertita che stava andando sotto peso. Lei l'aveva preso come un complimento e lo raccontava orgogliosa al telefono a tutte le sue amiche. Ciononostante, ogni tanto le saltava in testa di mettersi a dieta. Svoltò dalla Fleminggatan e imboccò la scala passando davanti al ristorante Klara Sjö, poi giù lungo la Kungsholm Strand e infine salì all'asilo passando dall'entrata posteriore. I bambini aspettavano seduti vicino alla porta, con il cappotto e pronti per uscire. Erano stanchi e avevano gli occhi infossati. Ellen teneva in braccio il suo orsacchiotto azzurro. «È la mamma che deve venirci a prendere, oggi» disse Kalle perentorio. «Dov'è la mamma?» L'educatore che era rimasto con i bambini appariva decisamente seccato.
«Questo quarto d'ora non lo potrò mai recuperare.» «Chiedo scusa» tentò di giustificarsi Thomas, accorgendosi di avere il fiatone. «Non capisco dove sia finita mia moglie.» Si affrettò a uscire con i bambini, con una corsa fecero in tempo a salire sul 40 davanti alla tavola Calda Pousette å Vis. «Non si corre per prendere l'autobus» disse l'autista in tono di rimprovero. «Come si può insegnarlo ai bambini, se lo fanno anche i genitori?» Thomas si trattenne a stento dal dare un pugno sui denti a quel deficiente. Mostrò l'abbonamento e spinse i bambini verso il fondo. Ellen cadde e si mise a piangere. Adesso divento pazzo, pensò Thomas. Dovettero rimanere in piedi in mezzo a pacchi e pacchetti, cani e passeggini. Quando arrivarono alla loro fermata, per poco non riuscirono a scendere. Thomas sbuffò spalancando il portone del numero civico 32, e mentre batteva i piedi per togliersi la neve dalle scarpe sentì qualcuno rivolgergli la parola. Alzò gli occhi, sorpreso, e vide due poliziotti in uniforme che si dirigevano verso di lui, dalle scale. «Lei è Thomas Samuelsson? Purtroppo, dobbiamo pregarla di venire con noi. Anche i bambini.» Thomas fissò il poliziotto. «È tutto il pomeriggio che cerchiamo di rintracciarla. Non ha ricevuto nessuno dei nostri messaggi o di quelli del giornale?» «Papà, dove andiamo?» chiese Kalle infilando la manina in quella di Thomas. D'un tratto, l'intuizione che era successo qualcosa di terribile lo colpì. Annika! Buon Dio! «È?...» «Non sappiamo dove sia sua moglie. È scomparsa stamattina. I nostri investigatori le potranno dare maggiori dettagli. Se volete seguirci...» «Perché?» «Temiamo che nel suo appartamento possa esserci un ordigno esplosivo.» Thomas si chinò e prese entrambi i bambini in braccio. «Andiamo via di qui» disse con voce strozzata. La riunione delle sei fu la più singolare che si fosse mai tenuta da molti anni in redazione. Anders Schyman sentiva il panico sottopelle, il suo istinto gli diceva che il giornale non sarebbe dovuto uscire, che avrebbero dovuto cercare Annika, sostenere la sua famiglia, dare la caccia alla dinamitarda, qualsiasi cosa.
«Venderemo una marea di copie» esordì Ingvar Johansson entrando nella stanza. Non lo disse in tono soddisfatto o trionfante, ma con tristezza, come mera constatazione. Tuttavia, Anders Schyman esplose. «Come ti permetti?» gridò afferrando Ingvar Johansson per il bavero con una violenza tale che il caporedattore si rovesciò il caffè sulla coscia. Ingvar Johansson rimase talmente scioccato che non sentì nemmeno di essersi scottato. Non aveva mai visto Anders Schyman perdere la testa. Il direttore respirò affannosamente sulla faccia dell'altro per qualche istante, poi si ricompose. «Scusa» sussurrò lasciandolo andare e voltandosi, con le mani sul viso. «Scusa, oggi non sono in me.» Jansson entrò nella stanza, come al solito per ultimo, ma senza le sue solite esclamazioni. Il caporedattore di notte era pallido e compunto. Quello sarebbe stato il giornale più difficile da mettere insieme, lo sapeva. «Okay» disse Schyman guardando i pochi uomini intorno al tavolo: Pelle, il photo editor, Jansson e Ingvar Johansson. I capi-servizio dello spettacolo e dello sport erano andati a casa. «Cosa facciamo?» Per qualche secondo, nell'ufficio regnò il silenzio. Stavano tutti a testa china. La poltroncina su cui si sedeva di solito Annika sembrò lievitare fino a occupare l'intera stanza. Anders Schyman si voltò verso la notte fuori dalla finestra. Ingvar Johansson cominciò a parlare, a voce bassa, concentrato. «Ecco, quello che abbiamo messo insieme fino adesso è solo un abbozzo. Ci sono diverse decisioni da prendere...» Sfogliò incerto le sue carte. La situazione sembrava assurda, irreale. Accadeva molto di rado che le persone in quella stanza fossero toccate personalmente dagli argomenti di cui trattavano. Ora la discussione riguardava una di loro. Quando Ingvar Johansson riprese a illustrare la sua scaletta e il lavoro svolto, anche gli altri trovarono nonostante tutto un po' di conforto nella routine. Non potevano esimersi dal loro compito, e l'unica cosa da fare, a quel punto, era compiere il proprio dovere nel miglior modo possibile. Ecco come ci si sente a essere i colleghi della vittima, pensò Anders Schyman fissando lo sguardo fuori dalla finestra. Poteva essere utile ricordarsi di quella sensazione. «Prima abbiamo la bomba alla posta» proseguì Ingvar Johansson. «Un articolo dovrà parlare delle vittime, il ferito più grave è morto un'ora fa. Gli altri sono fuori pericolo. I loro nomi verranno resi noti nel corso della serata o della notte, e naturalmente speriamo di poter avere a disposizione
le loro fototessere. Poi, c'è la distruzione del locale...» «Lasciate stare i parenti» disse Schyman. «Cosa?» chiese Ingvar Johansson. «Parlo degli impiegati postali feriti. Lasciate in pace i familiari.» «Non abbiamo ancora i loro nomi» rispose Ingvar Johansson. Schyman si voltò verso il tavolo. Confuso, si passò una mano tra i capelli. «Okay» disse. «Scusa. Continua pure.» Ingvar Johansson inspirò più volte, poi si fece forza e ricominciò a parlare. «Siamo andati nel locale distrutto dalla bomba. Non so come abbia fatto Henriksson, comunque è riuscito a entrare e ha scattato un intero rullino. In quella stanza, di solito, non ha accesso nemmeno il personale della posta non addetto. Lì dentro sono custoditi i valori. Comunque, abbiamo le foto.» «A questo possiamo aggiungere una discussione di principio» disse Schyman passeggiando lentamente per la stanza. «Che responsabilità ha la posta in un caso come questo? Fino a che punto dovrebbero spingersi i controlli sugli effetti in arrivo e in uscita? Qui abbiamo il classico compromesso tra la salvaguardia della privacy e la sicurezza del personale. Dovremo parlare con il direttore generale della posta, con il sindacato e il ministro competente.» Anders Schyman si fermò davanti alla finestra e fissò di nuovo lo sguardo sulla notte nera là fuori. Ascoltò il fruscio del sistema di ventilazione e cercò di percepire il rumore del traffico quattro piani più giù. Non si sentiva nulla. Ingvar Johansson e Jansson prendevano appunti. Dopo un po', il caporedattore riprese a parlare. «Adesso viene la parte che ci riguarda da vicino, cioè che la bomba era destinata alla nostra caposervizio della nera. Dobbiamo riferire tutto quanto, dalla pausa pranzo durante la quale Tore Brand è andato a ritirare la busta, al lavoro della polizia per rintracciare il mittente.» Gli uomini al tavolo presero nota, il direttore ascoltava dando loro le spalle. «Annika è scomparsa» disse Ingvar Johansson a voce bassa. «Dobbiamo farcene una ragione, e credo che dovremmo parlarne, sul giornale, non vi pare?» Anders Schyman si voltò. Ingvar Johansson pareva incerto. «La questione è se far sapere che la bomba era indirizzata a noi» continuò il caporedattore. «Rischiamo di farci piovere addosso pacchi bomba a
iosa, e magari sollecitiamo lo spirito di emulazione in squilibrati che potrebbero cominciare a rapire e minacciare di morte i nostri cronisti...» «Non possiamo ragionare così» lo interruppe Schyman. «Se no, non si dovrebbe mai parlare di nessuna disgrazia, a chiunque sia capitata. Invece, dobbiamo riferire quello che è successo, compreso ciò che riguarda noi e la nostra caposervizio. Ma prima voglio parlare con Thomas, il marito, su come trattare le informazioni di carattere personale.» «È stato rintracciato, finalmente?» chiese Jansson, e Anders Schyman sospirò. «La polizia l'ha raggiunto poco dopo le cinque e mezzo. Era stato a Falun tutto il giorno, e non aveva acceso il cellulare. Non sapeva cosa Annika avesse in programma per oggi.» «Be', allora facciamo un articolo sul fatto che Annika è scomparsa» disse Jansson. Schyman annuì e si voltò di nuovo verso la finestra. «Parliamo del suo lavoro, ma stiamo attenti alle informazioni che diamo su di lei e sulla sua sfera privata» riassunse Ingvar Johansson. «Il pezzo successivo dovrà riguardare le supposizioni della polizia sul motivo per cui proprio Annika... sia stata scelta.» «Lo conoscono?» chiese Pelle, e il caporedattore scosse la testa. «Non ci sono connessioni tra lei e le altre vittime, non si erano mai incontrati. La loro teoria è che Annika abbia scavato nella faccenda a un punto tale da aver capito qualcosa che non avrebbe dovuto. È stata quella che ha seguito la storia più da vicino fin dal primo istante, e il motivo dev'essere lì, da qualche parte. Evidentemente, sapeva troppo.» Gli uomini tacquero, ascoltando il loro respiro affannoso. «Non è detto» osservò Schyman. «Questa folle non agisce in modo razionale. La bomba può essere stata inviata per qualche ragione incomprensibile a tutti tranne che a lei.» Gli altri alzarono gli occhi contemporaneamente. Il direttore sospirò. «Sì, la polizia pensa si tratti di una donna. A questo punto lo diciamo, me ne frego di loro e della loro dannata inchiesta. Annika sapeva da stamattina che la polizia l'aveva individuata, ma non le avevano rivelato chi era. Scriviamo che stanno cercando una persona sospetta, una donna che non riescono a trovare.» Anders Schyman si sedette al suo posto e nascose il viso tra le mani. «Che cazzo facciamo se Annika è nelle sue mani?» chiese. «Cosa facciamo se muore?»
Gli altri restarono in silenzio. Da qualche parte, in redazione, qualcuno aveva acceso il televisore. Era iniziato il telegiornale, e attraverso le pareti di cartongesso si udiva la voce del conduttore. «Sarà il caso di fare un riepilogo delle esplosioni fino a questo momento» osservò Jansson. «Qualcuno dovrà sentire la polizia su come hanno agito per arrivare proprio a quella donna. Di certo, ci saranno dei particolari che...» Tacque. All'improvviso, non era più così scontato cosa poteva essere interessante e cosa no. L'orizzonte era scomparso, tutte le coordinate di riferimento erano sballate, l'obiettivo da mettere a fuoco ribaltato. «Dobbiamo cercare di gestire la faccenda nella maniera più normale possibile» disse Anders Schyman. «Fate come al solito. Io mi fermo qui, stanotte. Cos'abbiamo, come immagini?» Il photo editor prese la parola. «In archivio ci sono poche foto di Annika, ma ne abbiamo scattata una l'estate scorsa per la galleria di ritratti del personale. Dovrebbe poter andare.» «Ne abbiamo qualcuna mentre sta lavorando?» chiese Schyman. Jansson fece schioccare le dita. «Ce n'è una di quando era a Panmunjom, nella zona demilitarizzata tra la Corea del Nord e quella del Sud, a fianco del presidente degli Stati Uniti. Era lì con una borsa di studio, e ha fatto parte di una delegazione stampa in vista delle trattative a quattro a Washington, l'autunno scorso. Ve ne ricordate? Per caso, era scesa dal pullman nello stesso istante in cui il presidente usciva dalla limousine, e l'Associated Press ha scattato una foto in cui sono uno accanto all'altra...» «Va bene quella» disse Schyman. «Ho tirato fuori le foto d'archivio dello stadio danneggiato, del palazzetto di Sätra, della Furhage e del caposquadra Bjurling» fece sapere Pelle. «Okay» approvò Schyman «cosa mettiamo in prima pagina?» Rimasero tutti in silenzio, lasciando che fosse il direttore a dirlo. «Un ritratto di Annika, preferibilmente con un'aria contenta e simpatica. È lei la notizia. La bomba era destinata a lei, e adesso è scomparsa. Siamo solo noi a saperlo. Credo sia meglio attenerci a un criterio logico e cronologico. Sulla sei e la sette: l'esplosione a Stockholm Klara; sulla otto e la nove: le nuove vittime; sulla dieci e la undici: la nostra cronista è scomparsa; sulla dodici e la tredici: il dinamitardo è una donna, la polizia l'ha individuata; sulla quattordici e la quindici: ricapitolazione degli attentati, discussione sulla sicurezza degli effetti postali e sulla salvaguardia della privacy; nelle pagine centrali: l'articolo su Annika e sul suo lavoro, la foto
dell'Associated Press...» Tacque e si alzò, nauseato dalle sue stesse decisioni. Tornò a guardare verso l'ambasciata immersa nel buio. La cosa giusta sarebbe stata non fare niente. Il giornale non sarebbe dovuto uscire. Avrebbero dovuto lasciar perdere tutto ciò che riguardava l'assassino. Si sentiva un mostro. Gli altri passarono rapidamente in rassegna il resto del giornale. Uscendo dall'ufficio, nessuno disse una parola. Annika rabbrividì. Faceva piuttosto freddo, nel corridoio, la temperatura non poteva superare gli otto-dieci gradi. Per fortuna, quella mattina si era messa la calzamaglia di lana, dato che aveva pensato di tornare a casa a piedi dal lavoro. Per lo meno, non sarebbe morta congelata. Ma adesso la calzamaglia era bagnata, dopo la camminata nella neve fresca, e i piedi erano ghiacciati. Cercò di agitare le dita per scaldarli un po'. I movimenti erano comunque lenti, Annika aveva paura che la carica sulla sua schiena esplodesse, se fosse stata troppo brusca. A intervalli irregolari cambiava posizione per riposare le diverse parti del corpo. Se si stendeva sul fianco, un braccio rimaneva schiacciato sotto, se stava prona le veniva male al collo, in ginocchio o accovacciata le si addormentavano le gambe. Ogni tanto piangeva, ma più tempo trascorreva più si rinfrancava. Ancora non era morta. Il panico si ritirò, per lasciar posto di nuovo al ragionamento. Rifletté su come avrebbe potuto fare per cavarsela. Liberarsi e fuggire era irrealistico, almeno per il momento. Richiamare l'attenzione degli operai era escluso. Probabilmente Beata aveva mentito, dicendo che di sopra stavano lavorando a pieno ritmo. Perché avrebbero dovuto cominciare la ristrutturazione il giorno prima della vigilia? Fra l'altro, Annika non aveva visto nemmeno un'auto o una persona intorno allo stadio. Se gli operai avessero davvero iniziato i lavori, lì vicino avrebbero dovuto essere parcheggiati diversi veicoli, e non era così. E comunque, a quell'ora, sarebbero stati già tutti a casa. Ciò significava che avevano cominciato a cercarla. Si mise di nuovo a piangere quando le venne in mente che nessuno era andato a prendere i suoi figli all'asilo. Sapeva quanto poteva arrabbiarsi il personale, era capitato a Thomas, una volta, l'anno prima. I bambini erano rimasti lì ad aspettare di andare a casa per decorare l'albero di Natale, e lei non era arrivata. Forse non sarebbe mai più tornata. Forse non li avrebbe visti crescere. Ellen, probabilmente, non si sarebbe nemmeno più ricordata di lei. Kalle avrebbe magari avuto qualche vago ricordo della sua mamma, soprattutto se avesse guardato le foto di quell'estate, quando erano tutti in-
sieme in campagna. Si mise a piangere a dirotto. Era tutto così terribilmente ingiusto. Dopo un po', le lacrime cessarono. Non aveva più energie per piangere. Non doveva abbandonarsi a pensieri funesti, perché altrimenti la morte sarebbe di sicuro arrivata, come una profezia che si avverava. Ce l'avrebbe fatta, invece. Sarebbe stata a casa prima delle tre del pomeriggio del giorno dopo, in tempo per i tradizionali cartoni animati della vigilia. Non era ancora detta l'ultima parola. La dinamitarda aveva un piano per lei, se no l'avrebbe già uccisa, ne era certa. Inoltre, il giornale e Thomas avevano di certo lanciato l'allarme per la sua scomparsa, la polizia avrebbe cominciato a cercare la sua macchina. Peccato che fosse parcheggiata in modo assolutamente discreto in mezzo a una fila di altre auto a mezzo chilometro dallo stadio. E chi mai avrebbe avuto l'idea di scendere in quel corridoio? Nessuno l'aveva fatto, fino a quel momento, altrimenti avrebbero scoperto il nascondiglio di Beata. Come aveva fatto la polizia a non pensarci? Evidentemente, l'ingresso dalla parte della pista doveva essere ben nascosto. Il cellulare squillava a intervalli regolari. Annika aveva cercato un bastone o qualcos'altro per tirare a sé la borsa, ma non aveva trovato niente. Il suo raggio di spostamento era inferiore ai tre metri in ogni direzione e, a giudicare dal suono, il telefono doveva trovarsi a una decina di metri di distanza. Be', almeno significava che la stavano cercando. Non sapeva che ora fosse o quanto tempo avesse trascorso nel tunnel. Quando ci aveva messo piede, era da poco passata l'una e mezzo, ma non sapeva per quanto era stata priva di sensi, e nemmeno riusciva a farsi un'idea di quanto tempo era rimasta in preda al panico, ma da allora erano trascorse almeno cinque ore. Quindi, secondo i suoi calcoli, dovevano essere almeno le sei e mezzo. Oppure anche molto più tardi, forse le otto o le nove. Aveva fame e sete, e si era fatta la pipì addosso un'altra volta. Non aveva avuto grandi dubbi, in proposito. Le feci avevano cominciato a seccarsi e a darle prurito, era davvero sgradevole. Ecco come devono sentirsi i bambini piccoli con il pannolino, pensò. D'un tratto, fu colpita da un altro pensiero. E se Beata non fosse tornata? E se l'avesse lasciata lì a morire? A nessuno sarebbe venuto in mente di scendere là sotto, durante la pausa natalizia. E una persona può resistere al massimo un paio di giorni, senz'acqua. Il 26, sarebbe stato tutto finito. Riprese a piangere in silenzio, esausta. Poi si costrinse a smettere. Beata sarebbe ritornata. Si era prefissa un obiettivo, tenendola prigioniera lì sotto. Cambiò di nuovo posizione. Doveva cercare di ragionare. Aveva già in-
contrato Beata Ekesjö, doveva partire da quello che sapeva di lei. Durante la breve conversazione al palazzetto di Sätra, Beata aveva espresso le sue emozioni in maniera veemente. Era sinceramente addolorata per qualcosa, qualunque fosse, e aveva mostrato di sentire il bisogno di parlare. Era un appiglio che Annika avrebbe potuto sfruttare. C'era solo da capire in che modo. Non aveva idea di come bisogna comportarsi quando si è prigionieri di un folle. Da qualche parte aveva sentito dire che esistono corsi appositi, o forse l'aveva letto? O visto in televisione? Sì, ecco, era stato in televisione! In una puntata della serie poliziesca New York, New York, una delle poliziotte veniva presa prigioniera da un pazzo. Cagney, o forse era Lacey, aveva frequentato un corso su come ci si comportava nel caso si fosse presi in ostaggio. Aveva raccontato tutto di sé e dei suoi bambini, dei suoi sogni e dei suoi amori, ogni particolare avesse potuto suscitare l'empatia del rapitore. Se fosse stata abbastanza loquace e gentile, per chi l'aveva rapita sarebbe stato più difficile ucciderla. Annika cambiò posizione ancora una volta, inginocchiandosi. Forse la cosa poteva funzionare con una persona normale, ma quella donna era una pazza. Aveva già fatto saltare in aria altra gente. La faccenda dei figli e dell'empatia non avrebbe sortito alcun effetto su di lei, finora non aveva mostrato grande interesse per bambini e famiglie. Doveva pensare a qualcos'altro, seppure partendo dal presupposto di Cagney: stabilire una comunicazione con la rapitrice. Cos'aveva detto Beata, che Annika aveva frainteso il suo stato emotivo? Era davvero quello il motivo per cui adesso si trovava lì? Bisognava che in futuro stesse più attenta a captare ogni messaggio della dinamitarda. Doveva ascoltare bene tutto quello che diceva e compiacerla il più possibile. L'avrebbe fatto, avrebbe imbastito una conversazione con lei e finto di capirla e di condividere le sue ragioni. Non avrebbe protestato, l'avrebbe assecondata. Si stese sul materasso sul fianco destro, con il viso rivolto verso il muro, e decise di riposare. Non aveva paura del buio, l'oscurità che la circondava non era pericolosa. Poco dopo sentì quel tenue sussulto che precede il sonno, e un attimo più tardi dormiva. MORTE La scuola dove andavo era un edificio di legno a tre piani. Più diventa-
vamo grandi, più in alto si trovavano le aule. Una volta all'anno, in primavera, tutta la scolaresca doveva partecipare a un'esercitazione antincendio. Le vecchie scuole bruciavano come fiammiferi, a quell'epoca, e nessuno aveva il permesso di sottrarsi all'esercitazione o di svignarsela. Nella mia classe c'era un bambino che soffriva di epilessia, ho dimenticato il suo nome. Per qualche motivo, non riusciva a tenere le mani sopra la testa. Tuttavia, partecipò anche lui all'esercitazione antincendio, l'anno successivo alla fine della seconda guerra mondiale. Ricordo con estrema chiarezza quel giorno. Il sole splendeva di una luce fredda e pallida, e soffiava un vento forte, a folate. Io odio l'altezza, da sempre, e quando uscii sul pianerottolo della scala esterna m'irrigidii per il terrore. Il mondo, giù verso il fiume, stava per ribaltarsi. Mi afferrai al corrimano. Lentamente, mi voltai verso la parete di pino rossiccio della scuola, e per tutta la discesa lungo la scaletta a pioli mantenni la stessa presa spasmodica. Quando raggiunsi il suolo, non avevo più forze. Mi tremavano le gambe. Rimasi lì in piedi, cercando di ricompormi mentre i miei compagni si avviavano verso l'aula. Fu allora che alzai lo sguardo e vidi il bambino epilettico scendere lentamente la scaletta. Aveva raggiunto l'ultimo piolo quando lo sentii dire: "Non ce la faccio più". Si stese per terra, girò il viso verso la parete e morì sotto i nostri occhi. Arrivò l'ambulanza, era la prima volta che ne vedevo una. Mi trovavo accanto alla porta quando lo misero sulla lettiga. Aveva lo stesso aspetto di sempre, solo un po' più pallido. Gli occhi erano chiusi e le labbra blu. Quando la lettiga fu issata nel veicolo, le sue braccia sussultarono appena, un ultimo alito di vento gli scompose i riccioli biondi prima che lo sportello si chiudesse. Ricordo ancora la mia meraviglia di fronte al fatto di non provare terrore. Avevo visto una persona morta, non più grande di me, e la cosa non mi aveva toccato. Quel bambino non era né sgradevole né tragico, solo immobile. In seguito, ho riflettuto spesso su cosa renda davvero viva una persona. La nostra coscienza non è altro che elettricità e neurotrasmettitori. Il fatto che io pensi oggi al bambino epilettico fa sì che egli, in effetti, esista ancora. È presente qui, in questa dimensione che chiamiamo realtà, non in virtù dei suoi neurotrasmettitori, ma dei miei. C'è da chiedersi se non sia possibile fare del male alle persone in maniera peggiore che uccidendole. A volte sospetto di aver annientato qualcuno, anche se in maniera diversa dal maestro che costrinse il bambino a
scendere dalla scala antincendio. La domanda ultima, quindi, è se ho bisogno di un'assoluzione e, in caso affermativo, da parte di chi. VENERDÌ 24 DICEMBRE Thomas era seduto alla finestra e guardava fuori, verso lo specchio d'acqua gelata. Era una sera fredda e trasparente, il ghiaccio là sotto sembrava uno specchio scuro. La facciata grigio-marrone del Palazzo Reale era illuminata e somigliava a una quinta stagliata contro il cielo invernale, mentre sullo Skeppsbron i taxi scivolavano verso un locale della Città Vecchia, la Gamla Stans Bryggeri. S'intravedeva anche la coda di avventori fuori dal Café Opera. Si trovava nel salottino della suite d'angolo al quinto piano del Grand Hotel. Era grande come un appartamento composto di ingresso, salotto, camera da letto e un bagno enorme. Era stata la polizia a scortarli. Il Grand Hotel era uno dei luoghi che la polizia riteneva più adatti per alloggiare le persone minacciate. In occasione delle visite di Stato, spesso re e presidenti venivano ospitati lì. Il personale era abituato a gestire le situazioni delicate. Naturalmente, Thomas non era stato registrato sotto il suo nome. Nella suite adiacente, in quel momento, c'erano due agenti. Un'ora prima, la polizia gli aveva fatto sapere che nel loro appartamento non erano stati rinvenuti ordigni. Tuttavia, sarebbero stati costretti a rimanere nascosti finché la dinamitarda non fosse stata presa. Anders Schyman aveva deciso che Thomas e i bambini avrebbero trascorso il Natale all'hotel a spese del giornale, se fosse stato necessario. Thomas spostò lo sguardo dal panorama e lo fece vagare nella stanza immersa nel buio. Avrebbe voluto che Annika fosse lì, per godere insieme di quel lusso. I mobili erano lucidi e preziosi, la moquette verde spessa come un materasso. Si alzò e andò dai bambini, nella camera accanto. Dormivano profondamente, sfiniti dopo l'avventura della minivacanza imprevista. Avevano fatto il bagno schizzando tutto il pavimento, e Thomas non si era dato la pena di asciugare. Per cena avevano mangiato polpettine di carne e purè, fatti arrivare con il servizio in camera. A Kalle il purè non era piaciuto affatto. Era abituato a quello in polvere che faceva sempre Annika. Thomas non gradiva che lei preparasse wurstel e purè per cena, una volta l'aveva definito cibo per i maiali. Ripensando a quello stupido litigio, si mise a piangere, cosa che gli accadeva molto di rado.
Di Annika, nessuna traccia. Era come se fosse stata inghiottita nel nulla. Anche l'auto che aveva preso dal giornale era scomparsa. La donna ritenuta l'autrice degli attentati non si era vista a casa sua da quando i sospetti si erano appuntati su di lei, cioè martedì sera. Nei suoi confronti, era stato emesso un mandato di cattura su tutto il territorio nazionale. La polizia non gli aveva riferito il nome, ma solo detto che in passato era stata la responsabile del cantiere dello stadio olimpico nel porto di Hammarby. Si mise a passeggiare come un'anima in pena, poi si costrinse a sedersi davanti alla televisione. Poteva scegliere tra settanta canali, ma Thomas era troppo irrequieto per guardare la Tv. Andò invece in bagno, dove gettò gli asciugamani sul pavimento. Si sciacquò il viso con l'acqua gelida e si lavò i denti con lo spazzolino dell'hotel, mentre sotto i suoi piedi la spugna spessa assorbiva il bagnato. Si svestì mentre andava verso la stanza da letto, gettò gli abiti su una sedia dell'ingresso ed entrò in camera. Come al solito, i bambini si erano scoperti. Thomas li guardò per qualche istante. Kalle aveva spalancato gambe e braccia, tanto che occupava gran parte del letto matrimoniale. Ellen era raggomitolata sui guanciali. Uno dei poliziotti aveva comprato da Åhléns due pigiamini e qualche gioco per il Game Boy. Thomas ricompose Kalle e gli rimboccò la coperta, poi fece il giro del letto e si stese accanto a Ellen. Infilò piano il braccio sotto la testa della bambina e l'attirò a sé. La piccola si mosse nel sonno, infilando il pollice in bocca. Thomas non si curò di toglierlo. Inspirò a fondo il profumo di sua figlia e lasciò scorrere liberamente le lacrime. Il lavoro, in redazione, procedeva con estrema concentrazione e nel silenzio più assoluto. Il livello di inquinamento acustico era diminuito sensibilmente da quando, diversi anni prima, il lavoro era stato computerizzato, ma non c'era mai stato silenzio come quella sera. Erano tutti seduti intorno al banco al quale il giornale veniva preparato durante la notte. Jansson parlava ininterrottamente al telefono, come sempre, ma in tono più basso e trattenuto che mai. Anders Schyman si era barricato nella postazione occupata di giorno dal redattore che scriveva l'articolo di fondo. Faceva ben poco, più che altro fissava il vuoto o parlava a voce bassa al telefono. Berit e Janet Ullberg, che di solito stavano sedute ai due angoli opposti della redazione, si trovavano ora alla scrivania dei cronisti di notte per poter seguire tutto ciò che accadeva. C'era anche Patrik Nilsson. Ingvar Johansson l'aveva chiamato sul cellulare nel pomeriggio. Il cronista, che si trovava sull'aeroplano diretto a Jönköping, aveva risposto subito.
«È vietato tenere il cellulare acceso in aereo» aveva detto Ingvar Johansson. «Lo so!» aveva ululato Patrik tutto contento. «Volevo solo controllare se è vero che l'aereo precipita se lo tieni acceso.» «E sta precipitando?» aveva chiesto il caporedattore in tono ironico. «Non ancora, ma se succede, domani avrai uno scoop da leccarti i baffi: "Cronista della 'Stampa della Sera' coinvolto nella tragedia aerea: le sue ultime parole".» Si era messo a ridere come un matto, e Ingvar Johansson aveva alzato gli occhi al cielo. «Credo che la tragedia aerea dovrà aspettare, abbiamo già una di noi protagonista di un dramma: di bombe, però. Quando potrai essere qui?» Una volta a Jönköping, Patrik non era nemmeno sceso dall'aereo, che sarebbe ripartito subito per Stoccolma. Alle cinque del pomeriggio si trovava già in redazione. In quel momento, stava scrivendo l'articolo sulla caccia della polizia alla dinamitarda. Anders Schyman lo osservava senza darlo a vedere. L'entusiasmo e l'efficienza di quel giovanotto suscitavano la sua ammirazione. L'unica cosa che deponeva a suo sfavore era il piacere palese con cui si crogiolava in incidenti, omicidi e altre disgrazie. Ma con un po' di esperienza, probabilmente, quella gioia malriposta sarebbe diminuita. Nel giro di qualche anno sarebbe diventato un ottimo giornalista. Anders Schyman si alzò con l'intenzione di prendere un altro po' di caffè. Avvertiva un vago senso di nausea per quanto ne aveva bevuto fino a quel momento, ma sentiva il bisogno di muoversi. Voltò le spalle alla redazione e si diresse lentamente verso la fila di finestre oltre il banco dell'inserto domenicale. Si mise a guardare i palazzi di fianco al giornale. Diverse finestre erano ancora illuminate, nonostante fosse passata la mezzanotte. La gente restava alzata a guardare il giallo sul terzo canale e bere glögg, alcuni stavano impacchettando gli ultimi regali. Diversi balconi erano decorati da alberi di Natale e le luci delle feste scintillavano alle finestre. Nel corso della serata, Anders Schyman aveva parlato con i poliziotti diverse volte. Era diventato l'anello di congiunzione tra la redazione e la squadra Omicidi. Quando Annika, alle cinque, non si era fatta viva all'asilo, la polizia aveva cominciato a trattare la faccenda come un caso di scomparsa. Dopo aver parlato con Thomas, il comando aveva escluso categoricamente che si fosse resa irreperibile di sua volontà. La sua sparizione era dunque stata classificata come sequestro di persona. Qualche ora prima, la polizia aveva proibito alla redazione di chiamare il
cellulare di Annika. Il direttore aveva chiesto il perché, senza ottenere risposta. Comunque, aveva trasmesso l'ordine agli altri e, per quel che ne sapeva, nessuno aveva tentato di telefonarle. Erano tutti scossi e provati, Berit e Janet Ullberg avevano pianto. È strano, pensò Anders Schyman, scriviamo di queste cose tutti i giorni, usiamo la sofferenza per dare sapore alle notizie, per scuotere la gente e suscitare emozioni. Eppure, siamo del tutto impreparati quando ne rimaniamo vittime noi stessi. Si allontanò per andare a prendere un'altra tazza di caffè. Annika si svegliò sentendo una corrente d'aria fredda insinuarsi nel tunnel. Capì subito cosa significava. La porta di ferro sotto lo stadio era stata aperta, la dinamitarda stava tornando. Il terrore la indusse a rannicchiarsi di nuovo sul materasso, respirando a scatti mentre le luci al neon si accendevano sul soffitto. Il suo subconscio si mise in moto: "Calmati, ascolta quella donna, cerca di capire cosa vuole, fa' quel che dice, tenta di conquistarti la sua fiducia". Il rumore di tacchi si avvicinava. Annika si alzò a sedere. «Ma guarda un po', sei sveglia» disse Beata avvicinandosi al tavolino, sul quale cominciò ad appoggiare i generi alimentari a mano a mano che li tirava fuori da un sacchetto di plastica con il marchio 7-Eleven, allineandoli intorno alla batteria da torcia elettrica e al timer. Annika vide qualche lattina di Coca-Cola, dell'acqua minerale Evian, alcuni panini e una barretta di cioccolato. «Ti piace il Fazers Blu?» chiese Beata. «È il mio cioccolato preferito.» «Anche il mio, in effetti» convenne Annika, sforzandosi di mantenere la voce sotto controllo. Il cioccolato non le piaceva, e non aveva mai assaggiato il Fazers Blu. Beata ripiegò il sacchetto e lo infilò nella tasca del cappotto. «Abbiamo parecchio lavoro da sbrigare» disse sedendosi su una delle due seggioline da campeggio pieghevoli. Annika cercò di sorridere. «Ah, e cosa dobbiamo fare?» Beata la osservò per qualche secondo. «Dobbiamo finalmente far emergere la verità» rispose. Annika cercò senza riuscirci di seguire il ragionamento della donna. Il terrore le aveva fatto venire la bocca secca. «Quale verità?» Beata girò intorno al tavolino e si chinò a prendere qualcosa. Quando si rialzò, Annika vide che teneva in mano un cappio, quello che le aveva gettato intorno al collo. Sentì il ritmo cardiaco aumentare, ma si costrinse a
non distogliere lo sguardo. «Non ti preoccupare» disse Beata sorridendo. Si avvicinò al materasso tenendo tra le mani la lunga corda. Annika si accorse che il suo respiro si stava facendo affannoso, non riusciva a tenere sotto controllo il panico. «Calmati, te lo faccio solo passare sopra la testa» la tranquillizzò Beata ridacchiando. «Mi sembri un po' nervosa.» Annika riuscì a cavare un sorriso dalle labbra irrigidite. Il cappio le pendeva dal collo, con la corda sul petto come una cravatta. Beata ne teneva in mano l'estremità. «Ecco qui. Adesso ti giro attorno, calmati. Rilassati, ho detto!» Annika vide con la coda dell'occhio che la donna scompariva alle sue spalle, sempre con la corda tra le mani. «Ti sciolgo i polsi, ma non tentare di scappare. Se fai la furba, stringo il cappio e non mollo.» Annika respirò, riflettendo febbrilmente. Ben presto arrivò alla conclusione che non poteva fare nulla. Era incatenata al muro per i piedi, aveva il cappio intorno al collo e la carica esplosiva sulla schiena. Beata slegò la corda che le serrava i polsi, le ci vollero quasi cinque minuti per riuscirci. «Uff, certo che era stretta» sbuffò quando ebbe finito. Annika sentì immediatamente un formicolio intenso alle dita: il sangue stava ricominciando a circolare. Con molta lentezza, portò le mani in avanti e trasalì vedendo com'erano conciate. All'altezza dei polsi la pelle era scorticata, per via della corda, o forse per l'attrito con il muro e il pavimento. Due nocche della mano sinistra sanguinavano. «Alzati in piedi» disse Beata. Annika fece come le era stato ordinato, appoggiandosi al muro. «Allontana il materasso con un calcio» continuò Beata, e Annika ubbidì. Il vomito, ormai secco, scomparve sotto la gommapiuma. Nello stesso istante, vide la sua borsa. Si trovava a sei-sette metri di distanza, in direzione della pista per gli allenamenti. Camminando all'indietro, sempre con la corda nella mano destra, la dinamitarda tornò al tavolino. Mise sul pavimento la batteria e il timer senza distogliere lo sguardo da Annika. Poi afferrò il tavolino per il ripiano e lo trascinò più vicino. Il rumore delle gambe che strusciavano sul linoleum echeggiò nel tunnel. Quindi tornò indietro ancora una volta e prese una delle seggioline da campeggio. «Siediti.» Annika si portò la sedia più vicino e si accomodò piano. Alla vista della
roba da mangiare sul tavolino, le si contrasse lo stomaco. «Mangia qualcosa» disse Beata. Annika cominciò aprendo la bottiglia d'acqua. «Ne vuoi?» chiese a Beata. «Prenderò una Coca più tardi, bevi pure» rispose la donna, e Annika bevve. Prese anche una piccola baguette con prosciutto e formaggio e si costrinse a masticare con calma. Arrivata a metà, le si chiuse lo stomaco. «Finito?» chiese Beata, e Annika sorrise. «Sì, grazie. Era ottimo.» «Mi fa piacere che ti sia piaciuto» osservò Beata soddisfatta. Si sedette sull'altra sedia da campeggio. Su un lato aveva il pacco di Minex, sull'altro uno scatolone di cartone con i lembi aperti. «Be', allora cominciamo» disse con un sorriso. Annika le sorrise a sua volta. «Posso chiederti una cosa?» «Certo» rispose Beata. «Perché sono qui?» Il sorriso della donna si spense all'istante. «Davvero non l'hai ancora capito?» Annika inspirò a fondo. «No. Però capisco che devo averti fatto arrabbiare di brutto, anche se non era mia intenzione. Ti chiedo scusa.» Beata si mise a mordicchiarsi il labbro superiore. «Non solo hai mentito, hai anche scritto sul giornale che ero disperata per la morte di quello schifoso solo perché il tuo articolo venisse fuori meglio. Non hai voluto ascoltare me e la mia verità, hai dato retta solo a quegli operai.» «Mi dispiace aver frainteso il tuo stato d'animo» disse Annika con tutta la calma di cui era capace. «Non volevo attribuirti delle frasi che ti facessero pentire di aver parlato con me. Eri molto turbata, stavi piangendo.» «Sì, ero disperata per la malvagità umana, per il fatto che delle carogne come Stefan Bjurling avevano ricevuto il dono della vita. Perché il destino doveva servirsi proprio di me per porre fine a questa disgrazia? Perché devo sempre fare tutto io, eh?» Annika decise di aspettare e ascoltare. Beata continuò a mordicchiarsi il labbro. «Tu hai mentito, diffondendo un'immagine falsa di quello schifoso» riprese dopo un po'. «Hai scritto che era buono, simpatico e apprezzato dai suoi colleghi. Hai lasciato parlare loro, e non me. Perché non hai scritto quello che ti avevo detto?» Annika sentì la confusione aumentare nella sua mente, ma si sforzò di
sembrare calma e amichevole. «Quale, tra le cose che hai detto, avrei dovuto riportare nell'articolo?» «La verità. Che era un peccato che Christina e Stefan avessero dovuto morire. Che era colpa loro, e quanto fosse sbagliato che toccasse a me farlo. Non mi sto divertendo, se è questo che pensi.» Annika raccolse le energie per stare al gioco. «No, certo che non lo penso. Lo so che a volte si può essere costretti a fare delle cose che non si vorrebbe.» «Cosa vuoi dire?» chiese Beata. Annika esitò, prima di rispondere. «Ho dovuto sbarazzarmi di una persona, una volta. So quello che si prova.» Alzò gli occhi. «Non è di me che dobbiamo parlare, adesso, ma di te e della tua verità.» Beata la osservò in silenzio per qualche istante. «Forse ti sarai chiesta come mai non sei ancora morta. Prima devi scrivere la mia storia. Dovrà essere pubblicata sulla "Stampa della Sera", con la stessa evidenza di quando è morta Christina Furhage.» Annika annuì e sorrise meccanicamente. «Adesso ti faccio vedere cos'ho trovato» disse Beata tirando fuori qualcosa dallo scatolone al suo fianco. Era un piccolo computer portatile. «Il Powerbook di Christina!» esclamò Annika. «Sì, ci teneva molto. L'ho caricato per bene.» Beata si alzò e si avvicinò ad Annika tenendo il portatile nella mano destra. Sembrava pesante, la mano della donna tremava leggermente. «Ecco qui. Accendilo.» Annika prese il portatile. Era un Macintosh ricaricabile, con il drive per i dischetti e la presa per il mouse. Sollevò lo schermo e accese il computer, che con un ronzio si mise in moto. Aveva pochi programmi, tra i quali Microsoft Word. Dopo qualche momento, comparve lo sfondo della scrivania: un tramonto di colori sfumati tra il rosa, l'azzurro e il lilla, e tre icone: quella del disco rigido, il simbolo di Word e poi una cartella intitolata "IO". Annika fece un doppio clic sull'icona di Word, e la versione 6.0 si avviò. «Sono pronta» disse Annika. Aveva le dita irrigidite dal freddo e doloranti, se le massaggiò con discrezione sotto il tavolino. Beata si era accomodata sulla sua sedia a un paio di metri di distanza. In una mano teneva la batteria, nell'altra il cavo giallo-verde. Con la schiena si era appoggiata al muro. Aveva accavallato le gambe e sembrava decisamente a suo agio.
«Bene. Voglio che questo articolo risulti perfetto.» «Okay, certo» assentì Annika, preparandosi. «Voglio che tu scriva quello che dico io, con le mie parole, in modo che quello che emerge sia il mio racconto.» «Naturale» rispose Annika. «Però bisogna che tu lo sistemi un po' in modo che venga fuori bene, scorrevole e ben scritto anche dal punto di vista stilistico.» Annika alzò gli occhi sulla donna. «Fidati di me. Faccio questo lavoro tutti i giorni. Allora, cominciamo?» Beata raddrizzò la schiena. «Il Male esiste ovunque. Divora gli esseri umani dall'interno. I suoi apostoli sulla terra si fanno strada fino al cuore dell'umanità, lapidandola a morte. La battaglia lascia tracce di sangue nello spazio, poiché il Destino oppone resistenza al Male. Dalla sua parte, la Verità ha un cavaliere, un essere umano in carne e ossa...» «Scusa se ti interrompo» disse Annika. «Ho l'impressione che questo concetto possa risultare un po' confuso. Il lettore non riuscirà a seguire il tuo ragionamento.» Beata la guardò stupita. «Perché no?» Annika rifletté. Era il momento di scegliere le parole giuste. «La maggior parte delle persone non ha la tua stessa profondità di pensiero e non possiede ancora la tua consapevolezza» osservò. «Non ti capirà, e in questo caso l'articolo non ha senso. Il tuo obiettivo è che la gente si avvicini di più alla verità, no?» «Certo» rispose Beata, e questa volta era lei a essere confusa. «Forse potremmo aspettare un attimo prima di parlare di Destino e Male, e magari procedere con un ordine un po' più cronologico. Così, per il lettore diventa più facile avvicinarsi progressivamente alla verità. Okay?» Beata annuì decisa. «Avrei un'idea: io potrei farti qualche domanda, e tu rispondi a quelle che ti interessano.» «Va bene» disse Beata. «Puoi raccontare qualcosa della tua infanzia?» «Perché?» «Perché così il lettore può immaginarti bambina e identificarsi con te.» «Ah. E cosa devo raccontare?»
«Quello che vuoi» rispose Annika. «Dove sei cresciuta, chi erano i tuoi genitori, se avevi dei fratelli, degli animali domestici, dei giocattoli a cui eri particolarmente affezionata, come andavi a scuola... roba del genere.» Beata la fissò a lungo. Annika capì dall'espressione della donna che i suoi pensieri risalivano a un tempo lontano. Cominciò a parlare, e Annika mise insieme la sua storia trasformandola in un racconto leggibile. «Sono cresciuta a Djursholm, i miei genitori erano medici. Sono medici, anzi, lavorano ancora entrambi e abitano sempre nella villa dietro il cancello di ferro. Ho un fratello più grande e una sorella più piccola, e la mia infanzia è stata abbastanza felice. La mamma lavorava part time come psicologa infantile, mio padre aveva uno studio privato. Avevamo delle babysitter che si occupavano di noi, anzi, anche dei maschi. Erano gli anni Settanta, e i miei genitori erano di vedute aperte e credevano nella parità tra i sessi. «Cominciai presto a interessarmi alle case. In giardino avevamo una casetta delle bambole, mia sorella e le sue amiche mi ci chiudevano dentro. Nel corso dei lunghi pomeriggi che passavo lì, nella penombra, io e la mia casetta cominciammo a parlarci. Le baby-sitter sapevano che rimanevo spesso chiusa lì dentro, così venivano ad aprirmi la porta. A volte sgridavano mia sorella, ma a me non importava.» Beata tacque e Annika smise di scrivere. Si alitò sulle mani. Faceva davvero freddo. «Puoi raccontarmi qualcosa dei tuoi sogni da adolescente?» chiese. «Che ne è stato dei tuoi fratelli?» La donna riprese. «Mio fratello è diventato medico, come i nostri genitori, e mia sorella ha preso il diploma di fisioterapista. Poi si è sposata con Nasse, un amico d'infanzia, e non ha più avuto bisogno di lavorare. Abitano con i loro bambini in una villa a Täby. «Io andai un po' controcorrente, rispetto alla tradizione di famiglia, perché scelsi di diventare architetto. I miei genitori erano scettici, ritenevano che una formazione come insegnante di scuola materna o di psicologa del lavoro sarebbe stata più adatta a me, ma non si opposero, d'altra parte sono persone moderne. Così mi iscrissi al Politecnico e mi laureai a pieni voti. «Perché scelsi di dedicarmi alle case? Io adoro gli edifici! Sanno parlare
alla gente in modo talmente immediato e sincero! Mi piace tantissimo viaggiare solo per poter conversare con le case di posti diversi, con le loro forme, le loro finestre, i loro colori e il loro splendore. I cortili sul retro mi eccitano sessualmente. Mi corrono dei brividi lungo la schiena, quando passo in treno attraverso i sobborghi della città, con il bucato che penzola quasi sui binari della ferrovia e i balconi che sporgono. Io non guardo mai davanti a me quando faccio una passeggiata, guardo in alto. Sono andata a sbattere contro cartelli stradali e cabine del telefono, per studiare le facciate. Gli edifici sono il mio principale interesse. Volevo solo lavorare con quella che era la mia grande passione. Per molti anni, mi dedicai all'apprendimento del disegno tecnico. «Ma una volta conclusi gli studi, mi resi conto di aver sbagliato tutto. Le case disegnate sulla carta non parlano. I progetti sono solo un pallido riflesso della costruzione concreta. Così, dopo soli sei mesi di lavoro, tornai al Politecnico e mi iscrissi al corso di laurea in ingegneria civile. Ci vollero parecchi anni. Quando finii, stavano formando l'organico per l'azienda comunale che avrebbe costruito il nuovo stadio olimpico nel porto di Hammarby. Fui assunta, ed è stato così che ho incontrato per la prima volta Christina Furhage.» Beata tacque di nuovo, e Annika rimase a lungo in attesa che riprendesse a parlare. «Vuoi leggere?» chiese Annika alla fine, ma Beata scosse la testa. «So che lo stai mettendo giù in modo che venga bene. Leggerò dopo, quando avrai finito.» Sospirò, e riprese a parlare. «Naturalmente, sapevo chi era. L'avevo vista sul giornale un sacco di volte, fin da quando era partita la campagna per la candidatura, con la conseguente designazione di Stoccolma come città ospite delle Olimpiadi e la nomina di Christina a direttore generale dell'intero progetto. «Dove abitavo a quell'epoca? Be', dove abito adesso, in una deliziosa casetta dalle parti dello Skinnarvikspark, a Södermalm. Conosci la zona intorno all'Yttersta Tvärgränd? È sotto la tutela delle Belle Arti, per cui l'ho dovuta ristrutturare con molta attenzione. La mia casa, quella in cui abito e respiro, è molto importante per me. Ci parliamo ogni giorno, io e lei. Ci scambiamo esperienze e saggezza. È necessario che dica che sono io la novizia, tra le due? La mia casa si trova là sulla collina dalla fine del Sette-
cento, per cui nelle nostre conversazioni di solito sono io che ascolto e imparo. Christina Furhage mi venne a trovare là, una volta. Mi fece piacere che la mia casa facesse la sua conoscenza. Questo mi ha aiutato, in seguito, a prendere la mia difficile decisione.» La donna smise di nuovo di parlare. «Di cosa ti occupavi?» chiese Annika. «Davvero ha importanza?» chiese Beata sorpresa. "No, proprio per un cazzo" pensò Annika "ma mi farà guadagnare tempo." «Sì, certo» rispose. «Un sacco di persone lavorano. Vorranno sapere che tipo di incarichi avevi, a che pensavi quando li svolgevi, queste cose qui...» Beata raddrizzò le spalle. «Be', è chiaro. Lo capisco.» "Brutta stronza di un'egocentrica" pensò Annika, e sorrise. «Non so quanto tu t'intenda di edilizia, forse non sai come funziona una gara di appalto. Be', comunque in questo contesto non ha grande importanza, la costruzione dello stadio Vittoria era talmente particolare che sfuggiva alla procedura ordinaria. «Stoccolma era stata designata città ospite dei Giochi olimpici sotto la direzione di Christina Furhage, questo lo sai. Non fu una decisione scontata, lei dovette combattere per ottenere quel posto. «Christina era davvero straordinaria. Faceva e disfaceva a suo piacimento, con quei vecchi bacucchi del comitato. Noi donne eravamo contente di avere un capo del genere. Io non è che la incontrassi tanto spesso ma, dato che lei teneva sotto controllo ogni particolare dell'organizzazione, di tanto in tanto la incrociavo. «Nutrivo per lei un'ammirazione sconfinata. Quando arrivava lei, tutti davano il massimo. Aveva questo effetto sulle persone. Ciò che lei ignorava dell'organizzazione e della costruzione degli impianti, non valeva la pena di essere saputo. «Comunque, fu l'Arena Bygg ad assumermi. Dato che ero sia architetto che ingegnere civile, mi furono subito affidati diversi importanti incarichi. Partecipavo alle trattative, disegnavo, facevo calcoli, andavo dai titolari dei subappalti e mettevo a punto i contratti. Un po' di tutto, insomma, a livello medio-alto. «La costruzione dello stadio Vittoria doveva iniziare cinque anni prima delle Olimpiadi. Fu Christina stessa ad affidarmi l'incarico di responsabile
del progetto. Ricordo ancora benissimo quando me lo propose. Ero stata convocata nel suo ufficio, una stanza grandiosa vicina a Rosenbad, con la vista sullo Ström. Si informò su ciò che avevo fatto fino a quel momento e mi chiese come mi trovavo. Credo di non essere stata particolarmente disinvolta, balbettavo un po' e avevo le mani sudate. Lei era fantastica, dietro la sua scrivania lucida: imponente eppure sottile, affilata e insieme bella. Mi chiese se ero disposta ad assumermi la responsabilità della costruzione dello stadio Vittoria. Quando pronunciò quelle parole, mi venne un capogiro. Oh, sì! avrei voluto esclamare, e invece mi limitai ad annuire e dissi che sarebbe stato un compito stimolante, una sfida per affrontare la quale mi sentivo sufficientemente matura. Christina si affrettò ad aggiungere che avrei avuto sopra di me diversi capi, e che in cima alla piramide c'era lei. Ma aveva bisogno di un garante operativo in cantiere, qualcuno in grado di accertarsi che le scadenze venissero rispettate, che non si sforassero i preventivi di spesa e che la consegna dei materiali avvenisse al momento giusto e nel luogo giusto. Naturalmente, avrei avuto alle mie dipendenze una serie di capisquadra, ciascuno dei quali si sarebbe visto assegnare la responsabilità di un determinato comparto. Questi capisquadra avrebbero riferito direttamente a me, in modo che a mia volta io potessi portare avanti il mio lavoro e informare Christina e il gruppo dirigente. «"Mi serve lealtà" disse Christina, sporgendosi verso di me. "Ho bisogno della sua assoluta convinzione che ciò che io faccio sia giusto. È il presupposto per chi si assume quest'incarico. Posso fidarmi di lei?" «Ricordo la luce che irradiava in quel momento, il modo in cui mi colmò della sua energia e del suo potere. Volevo gridare "Sì!" e invece mi limitai ad annuire. Perché avevo capito cos'era accaduto: mi aveva ammesso nella sua cerchia. Ero la sua erede designata. Ero un'eletta.» Beata si mise a piangere. Chinò il capo, mentre il suo corpo era scosso dai singhiozzi. La corda del cappio giaceva ai suoi piedi, le sue mani stringevano convulsamente la batteria e il cavetto. Basta che con le lacrime non provochi un corto circuito nella batteria e faccia esplodere la carica, pensò Annika. «Scusa» disse Beata, pulendosi il naso sulla manica del cappotto. «Mi risulta difficile parlare di questo.» Annika non rispose. «Era una grande responsabilità, ma nella pratica non si trattava di un
compito difficile. Si sarebbe iniziato con lo sbancamento, per poi riempire il terreno e dare la forma desiderata. In una fase successiva, sarebbero arrivati operai e falegnami. Il tutto doveva essere concluso in quattro anni. Un anno prima dell'inizio dei Giochi, l'impianto doveva essere pronto per le gare di qualificazione. «Da principio, le cose andarono piuttosto bene. Gli operai lavoravano con efficienza e rispettavano le consegne. Io avevo l'ufficio in una delle baracche giù vicino al canale. Forse le avrai viste, se sei passata di lì. «Be', comunque io svolgevo la mia funzione, parlavo con i coordinatori al cantiere, mi assicuravo che portassero a termine i loro compiti. Gli uomini che si occupavano dell'esecuzione pratica dei lavori non erano molto loquaci, ma per lo meno mi ascoltavano quando davo le indicazioni sui tempi di realizzazione. «Una volta al mese andavo da Christina per aggiornarla sulla situazione. Lei mi accoglieva con grande calore. Dopo ogni visita mi sembrava sempre che lei sapesse già da prima tutto quello che le avevo detto e che intendesse solo verificare la mia lealtà. Uscivo dall'ufficio con un vago senso di vuoto allo stomaco e una strana emozione, fatta di gioia e di luce. Rientravo ancora nella sua cerchia, l'energia era mia, ma avrei dovuto continuare a lottare per mantenerla. «Amavo davvero il mio lavoro. A volte, la sera, mi fermavo dopo che gli operai erano andati via. Da sola, mi aggiravo tra i resti pietrosi della vecchia pista da sci di Hammarby e immaginavo lo stadio realizzato, le enormi tribune che s'innalzavano verso il cielo, i settantacinquemila posti a sedere, la curvatura del tetto in acciaio traforato. Accarezzavo i disegni, avevo perfino appeso una planimetria sulla parete della mia baracca. Fin dall'inizio, cominciai a parlare con lo stadio. Come un neonato, lui non rispondeva, ma sono certissima che mi ascoltasse. Osservavo tutti i particolare del suo sviluppo, come una madre che allatta si meraviglia di ogni piccolo progresso del suo bambino. «I problemi iniziarono quando le fondamenta furono pronte e arrivarono i carpentieri. Erano diverse centinaia di uomini che dovevano eseguire il lavoro per il quale io ero responsabile. Dipendevano da una serie di capisquadra, trentacinque in totale, tutti tra i quaranta e i cinquantacinque anni. I miei incarichi, a questo punto, lievitarono. Dietro mia richiesta furono assunti tre supervisori che dovevano condividere gli impegni con me, anche loro tutti maschi. «Non so cosa andò storto. Continuai a comportarmi allo stesso modo di
prima, cercando di essere chiara, diretta e concreta. I conti tornavano, le scadenze anche, il materiale arrivava in tempo e al posto giusto, il lavoro progrediva secondo i criteri di qualità prestabiliti. Cercavo di essere allegra e gentile, mi sforzavo di affrontare gli uomini mostrando loro il rispetto dovuto. Non saprei dire quando arrivarono i primi segnali che qualcosa non andava, ma fu abbastanza presto. Conversazioni interrotte a metà, smorfie che non avrei dovuto vedere, sorrisi di falsa condiscendenza, sguardi gelidi. Tenevo con regolarità degli incontri per lo scambio di informazioni, e li trovavo costruttivi, ma non riuscivo a far passare il mio messaggio. Venne il giorno in cui i capisquadra non si presentarono alla riunione. Andai al cantiere, ma molti di loro si limitarono a comunicarmi che erano occupati. Mi fecero sentire un'idiota. I pochi presenti misero in discussione tutto quello che dicevo. Secondo loro, avevo ordinato il materiale sbagliato e nel posto sbagliato, e comunque l'ordinazione era inutile perché loro avevano già risolto il problema in tutt'altro modo e utilizzando tutt'altro prodotto. Naturalmente, mi arrabbiai e chiesi con che autorità avevano ignorato i miei ordini arrogandosi il diritto e il potere di decidere da soli. Loro risposero che se il progetto doveva essere portato a termine secondo i tempi stabiliti, qualcuno doveva pur sapere dove mettere le mani. Ricordo la sensazione che provai all'udire quelle parole, come se qualcosa si rompesse dentro di me. Non posso morire, pensai. Gli uomini si alzarono e se ne andarono, con il disprezzo che traspariva dai loro occhi. I miei supervisori uscirono a parlare con i capisquadra. Li udii trasmettere i miei ordini e le informazioni che avevo scritto sul foglio che tenevo in mano, e questa volta furono ascoltati. Le mie disposizioni andavano benissimo, se era qualcun altro a impartirle. Non erano il mio lavoro, la mia capacità di valutazione e la mia competenza ad avere qualcosa che non andava, ero io come persona. «Dopo quella riunione, convocai i tre supervisori e li informai che era necessario pianificare le prossime mosse. Volevo che noi quattro, insieme, gestissimo l'organizzazione prendendo il comando diretto sugli operai e facendo in modo che il lavoro progredisse nella direzione stabilita. Loro si sedettero intorno alla mia scrivania, uno su ciascun lato e il terzo di fronte. «"Tu non sei in grado di gestire questo lavoro" disse il primo. «"Non ti accorgi che ti stai rendendo ridicola, in questo cantiere?" rincarò la dose il secondo. «"Come responsabile del progetto sei un vero disastro" concluse il terzo. "Non hai alcuna autorevolezza e competenza."
«Io li fissai. Non riuscivo a credere alle parole che avevo appena sentito. Sapevo che si sbagliavano. Ma ormai erano partiti, e non c'era nulla che potesse fermarli. «"L'unica cosa che sai fare è l'arrogante" riprese il primo. «"Chiedi troppo ai ragazzi" aggiunse il secondo. "Se ne accorgono, non lo capisci?" «"Ti emargineranno" terminò il terzo. "Sei arrivata qui per la ragione sbagliata e con un curriculum sbagliato." «Ricordo che li guardai e che i loro visi subirono una trasformazione. I loro tratti si confusero in una massa bianca e indistinta. Non riuscivo a respirare, pensavo che sarei morta soffocata. Così, mi alzai e me ne andai, e temo che lo spettacolo non sia stato troppo dignitoso.» La donna tirò su con il naso, a testa china. Annika le gettò un'occhiata ostile. "E allora?" avrebbe voluto dire. "Guarda che è così per tutte." Ma non disse niente, e Beata riprese. «Quella sera, a letto, la mia casa mi parlò sussurrandomi frasi di consolazione fra le tappezzerie a fiori. Il giorno dopo non riuscii ad andare al lavoro. Il terrore mi paralizzava, confinandomi a letto. Fu Christina a salvarmi. Mi telefonò e mi chiese di andare in cantiere il giorno successivo. Aveva delle informazioni importanti da comunicare a tutti. «Il mattino dopo, mi diressi verso la mia baracca sentendomi invadere dalla pace. Eravamo stati convocati per le undici alla tribuna nord. I supervisori non mi rivolsero neppure la parola, ma io sorrisi a tutti e tre, in modo che capissero. Presto sarebbe giunta Christina. «Aspettai che fossero tutti presenti prima di uscire, e feci in modo di arrivare contemporaneamente a Christina. Con la sua bella voce chiara che si udiva fino alle ultime file della tribuna disse che era venuta a informare il personale di un cambiamento ai vertici. Io sentivo il suo calore, e sorrisi. «"Beata Ekesjö non sarà più la responsabile del progetto e verrà sostituita dai tre supervisori" disse Christina. "Io ho molta fiducia in loro e spero che tutto procederà senza intoppi come è accaduto finora." «Fu come se il cielo fosse diventato bianco, lacerato da lampi accecanti. La mia percezione dei suoni mutò, le persone intorno a me si trasformarono in statue di ghiaccio. «Quel giorno nacque l'intuizione di ciò che avrei dovuto fare, ma dentro di me non avevo ancora individuato l'obiettivo. Lasciai lo stadio e la tribu-
na mentre gli altri erano ancora lì in piedi ad ascoltare la voce carismatica di Christina. Dentro la baracca avevo la mia borsa con la roba da ginnastica, dato che avevo pensato di andare direttamente in palestra dopo il lavoro. Svuotai il contenuto nel mio armadietto e la portai con me sul retro delle baracche, dove a intervalli di circa cento metri ci sono i depositi della dinamite. Esistono regole precise riguardo alla vicinanza dei vari depositi, a causa del rischio di esplosione. Un pacco di candelotti entra perfettamente in una borsa sportiva, sembra quasi che sia fatta apposta. Erano pesanti, insieme alla borsa facevano più di venticinque chili, ma d'altra parte corrispondono più o meno al peso di una normale valigia. Per un tratto breve si riesce a portare facilmente, soprattutto se si va in palestra tre volte alla settimana...» «Aspetta un attimo» la interruppe Annika. «La dinamite, di solito, non è protetta da una serie di norme di sicurezza? Come hai fatto a entrare e prelevare il materiale esplosivo così, senza problemi?» Beata la guardò con aria compassionevole. «Ero io la responsabile di quel cantiere, e avevo le chiavi di tutte le serrature. Non interrompermi.» «Nel primo scatolone c'erano quindici candelotti, avvolti in plastica rosa, da 1600 grammi l'uno, misura 50 per 550 millimetri. Misi lo scatolone nel baule della macchina e, con estrema cautela, portai il mio tesoro a casa. Quella sera accarezzai i candelotti. A un'estremità erano attaccate delle piccole mollette di metallo. La plastica era fredda, alla vista e al tatto le mie armi sembravano wurstel rimasti per qualche ora in frigorifero. Erano abbastanza morbidi, di sera stavo lì a piegarli da una parte e dall'altra. Già, proprio come würstel, ma più pesanti.» Beata fece una risatina, al ricordo. Annika aveva la nausea, non solo per quella dimostrazione di chiara follia ma anche per la stanchezza. «Possiamo fare una pausa?» chiese. «Vorrei bere una Coca.» La dinamitarda alzò gli occhi su di lei. «E va bene, ma solo un attimo. Dobbiamo finire entro stanotte.» Annika si sentì gelare. «Non sapevano cosa fare, con me. Il mio contratto era relativo alla costruzione dello stadio e del villaggio olimpico. Gli sarebbe costato troppo darmi il benservito, e non avevano intenzione di spendere quei soldi. Inol-
tre, conoscevo il lavoro, sarebbe stato stupido pagare per perdere una competenza di cui avevano bisogno. Alla fine, mi nominarono capocantiere del centro tecnologico accanto allo stadio, un banale edificio di dieci piani costruito per ospitare centraline, sale di controllo e uffici. C'è forse bisogno che ti dica che quella costruzione mi sembrava muta e morta, in confronto alla mia arena? Un guscio vuoto di cemento, senza linee né forma, che non imparò mai a parlare. «C'era già un capocantiere, lì, un tizio che si chiamava Kurt, abituato a bere grandi quantità di alcol. Mi odiò fin dall'inizio, accusandomi di essere lì per spiarlo e fargli le scarpe. Fin dal primo giorno, i tratti del suo viso sparirono dal mio campo visivo. Non lo vedevo e basta. «In cantiere regnava il caos più assoluto. Era tutto in grave ritardo e il preventivo era stato sforato di un bel po'. Cominciai con cautela a sistemare i pasticci creati da Kurt, senza che lui se ne accorgesse. Le rare volte in cui si rendeva conto che io avevo preso qualche decisione, mi faceva una sfuriata. Ma da quando ero arrivata io, lui non aveva più combinato niente. Molte mattine non si presentava nemmeno al lavoro. La prima volta feci rapporto, ma lui s'infuriò a tal punto che in seguito ci rinunciai. «Fra l'altro, dovevo girare continuamente in mezzo agli operai, cosa che non avevo mai fatto prima. Il cemento mutava spesso di colore, a volte camminavo a dieci centimetri dal suolo, priva di peso e senza niente che mi ancorasse al terreno. Gli operai cambiavano forma e massa. Quando mi pregavano di sistemare più angoli di visuale e mi chiedevano di farlo a occhio, io entravo in confusione. Sapevo che mi prendevano in giro, ma ero priva di difese. Cercavo di essere flessibile e insieme forte. Andavo a parlare con gli uomini, ma l'edificio si rifiutava di rispondermi. Ero tornata a occuparmi di scadenzari e calcoli, giravo per il cantiere, ma la gabbia di vetro intorno a me era impenetrabile. Finimmo entro i tempi previsti e con uno scoperto di bilancio marginale. «Sarebbe stata Christina a presiedere all'inaugurazione. Ricordo il mio entusiasmo e il mio orgoglio, quel giorno. Ce l'avevo fatta, mi ero ripresa, non avevo rinunciato. Avevo fatto in modo che il centro tecnologico fosse ultimato in tempo per le gare di qualificazione. Detestavo quell'edificio, ma avevo fatto il mio dovere. Christina lo sapeva, Christina se ne sarebbe accorta, Christina avrebbe capito che ero di nuovo degna di apparire alla luce del sole. Mi avrebbe vista com'ero e mi avrebbe restituito la posizione che mi spettava, al suo fianco, come sua erede designata. «Mi vestii con cura, quel giorno: camicetta, pantaloni ben stirati, mocas-
sini. In quell'occasione fui tra i primi ad arrivare, volevo assicurarmi un posto vicino all'ingresso. «Era parecchio che non incontravo Christina, l'avevo solo intravista da lontano una volta che era venuta a ispezionare il cantiere dello stadio. Le cose non andavano troppo bene, avevo saputo. Era difficile che venisse finito in tempo. Ed eccola, ancora più attraente e luminosa di come la ricordavo. Pronunciò un bel discorso sulle Olimpiadi e sul villaggio olimpico, lodò gli operai e i coordinatori che avevano fatto in modo che tutto funzionasse al meglio. Poi volle chiamare al suo fianco il responsabile del progetto, che si era adoperato affinché l'edificio del centro tecnologico fosse pronto entro i tempi stabiliti e con quei risultati, e pronunciò il nome di Kurt. Tutti applaudirono, Kurt si alzò e si avvicinò a Christina, sorridendole e stringendole la mano. Le loro bocche ridevano ma l'audio era sparito. Fottute carogne, fottute carogne... «Quella sera andai ai depositi e prelevai il secondo scatolone e un sacchetto di accenditori elettrici per micce. Lo scatolone era pieno di piccoli candelotti di carta da cento grammi l'uno, tubicini color rosa intenso che sembrano quei bastoncini alla menta che si trovano nei negozi di dolci. Sì, sono proprio quelli che hai sulla schiena. Ce n'erano duecentocinquanta, e sebbene ne abbia già usati diversi, me ne restano ancora parecchi.» Rimase in silenzio per qualche istante. Annika ne approfittò per appoggiare la testa tra le mani. Il corridoio era immerso nel silenzio, si udiva solo il leggero ronzio dei tubi al neon sul soffitto. Il cellulare non squilla più, pensò Annika. Hanno già smesso di cercarmi? Beata ricominciò a parlare e Annika raddrizzò la schiena. «Quest'anno ho fatto parecchie assenze per malattia. Formalmente, faccio parte del pool di esperti che girano per i diversi impianti a fare ispezioni e mettere a punto i dettagli. Negli ultimi due mesi ho lavorato al palazzetto di Sätra, destinato agli allenamenti del salto con l'asta. Lo vedi da te a quale degradazione sono stata sottoposta: dal più superbo degli edifici agli insignificanti particolari degli impianti più vecchiotti, riservati agli allenamenti. Ormai non faccio più in tempo a stabilire alcuna comunicazione con i miei luoghi di lavoro. Anche gli edifici mi scherniscono, proprio come gli uomini. Il peggiore era Stefan Bjurling. Era un caposquadra della ditta subappaltatrice che si occupava del palazzetto. Si metteva a sghignazzare non appena gli rivolgevo la parola. Non mi dava mai retta. Mi chia-
mava "mocciosa" e ignorava qualsiasi cosa gli dicessi. Le uniche volte che faceva riferimento a me era quando gli operai gli chiedevano dove dovevano buttare i detriti e gli scarti. "Dateli alla mocciosa" rispondeva. Rideva di me, e quel bel palazzetto si univa alle sue risa. Era un suono insopportabile.» Beata smise di parlare e rimase in silenzio tanto a lungo che Annika cominciò ad agitarsi sulla sedia. La stanchezza le faceva dolere i muscoli, le era venuto anche un forte mal di testa. Le braccia parevano fatte di piombo, era la sensazione paralizzante che la coglieva sempre quando stava alzata fin dopo le tre e mezzo del mattino. Aveva fatto tanti turni di notte al giornale, e sapeva riconoscerla. Poi pensò ai suoi bambini, a dov'erano, si chiese se sentissero la sua mancanza. "Chissà se Thomas troverà i regali di Natale, non ho fatto in tempo a dirgli che li ho nascosti nel guardaroba" pensò. Guardò Beata. La donna era seduta con la testa tra le mani. Annika girò lentamente il capo e gettò un'occhiata alla sua borsa, che si trovava dietro di lei. Magari avesse potuto prendere il telefono e dire dov'era! Sebbene si trovasse in un tunnel, il segnale arrivava. Sarebbe stata libera nel giro di un quarto d'ora. Ma era impossibile, finché era legata, e soprattutto finché Beata stava lì. Avrebbe dovuto andare lei a prenderle la borsa e tenersi le mani sulle orecchie mentre Annika chiamava... D'un tratto, le mancò il respiro: le era venuto in mente un articolo che aveva scritto quasi due anni prima. Era una splendida giornata di primavera, un sacco di gente era uscita a passeggiare sul ghiaccio in mezzo all'arcipelago... «Cosa fai, sogni a occhi aperti?» chiese Beata. Annika trasalì ma sorrise. «No, nient'affatto. Non vedo l'ora di sentire il seguito.» «Un paio di settimane fa, Christina aveva organizzato una grande festa nella Sala Blu del Municipio. Era l'ultima grande festa prima delle Olimpiadi, eravamo tutti invitati. Attendevo con impazienza quella serata. Il Municipio è uno dei miei migliori amici. Salgo spesso sulla torre, su per le scale, sentendo le pareti di mattoni che danzano sotto le mie dita. Mi lascio accarezzare dalla corrente che proviene dalle feritoie e mi riposo solo quando raggiungo la cima. Insieme godiamo del panorama e del vento, è una sensazione erotica che mi lascia stordita. «Sono arrivata troppo presto, e mi sono resa conto quasi subito di essere
vestita troppo elegante. Ma non importava, il Municipio era il mio premuroso cavaliere, e tanto mi bastava. Sarebbe venuta anche Christina, e io speravo che l'atmosfera riconciliante di quello splendido edificio avrebbe chiarito ogni fraintendimento. Mi muovevo in mezzo alla gente, bevendo un bicchiere di vino e parlando con i muri intorno a me. «Poi, d'un tratto, il brusio nel locale si è fatto più intenso ed eccitato, e ho capito che era arrivata Christina. È stata accolta da regina qual era, io sono salita in piedi su una sedia per poter vedere meglio. È difficile spiegarlo, ma Christina emanava una sorta di luce, un'aura che la faceva sembrare costantemente illuminata da un riflettore. Era fantastico, lei era fantastica. Tutti la salutavano, mentre distribuiva cenni con la testa e sorrisi, aveva una parola per tutti. Stringeva mani come un presidente americano in campagna elettorale. Io mi trovavo quasi in fondo alla sala, ma lei avanzava lentamente proprio nella mia direzione. Sono saltata giù dalla sedia e l'ho persa di vista, sono talmente bassa... Ma all'improvviso me la sono trovata davanti, bellissima, circondata dal suo alone luminoso. Ho sentito che la bocca mi si apriva in un ampio sorriso, credo che mi siano quasi venute le lacrime agli occhi. «"Benvenuta, Christina" le ho detto tendendole la mano. "Sono davvero lieta che sia potuta venire!" «"Grazie" ha risposto lei. "Ci conosciamo?" «Lo sguardo di Christina ha incrociato il mio, e le sue labbra sorridevano. Io vedevo che sorrideva, ma il sorriso si è trasformato e il suo viso si è spento. Non aveva denti. Dalla bocca le uscivano i vermi e i suoi occhi erano vuoti. Sorrideva, ma aveva un alito di morte e di fogna. Mi sono accorta che stavo indietreggiando. Non mi aveva riconosciuta, non sapeva chi ero. Non si era accorta della sua erede designata. Parlava, e la sua voce veniva da un abisso, sorda e indistinta come un nastro registrato che gira troppo lento. «"Proseguiamo?" ha tuonato, mentre i vermi le strisciavano fuori dalla testa, e in quel momento ho capito che dovevo ucciderla. Lo capisci anche tu, no? Devi capirlo, che non poteva continuare a vivere. Era un mostro, un angelo malefico circondato da un'aureola. Il male l'aveva divorata, corrompendola dall'interno. La mia casa aveva ragione: lei era l'incarnazione del male sulla terra, io non me n'ero accorta, gli altri non se n'erano accorti, avevano tutti visto solo quello che avevo visto io, la sua superficie gloriosa, la luce che emanava, i capelli ossigenati. Ma io ho aperto gli occhi, Annika, ho scoperto il suo vero io, a me si è mostrata finalmente per il mo-
stro che era, esalante veleno e sangue marcio...» Annika sentì che la nausea aumentava fino a risultare insopportabile. Beata aprì una lattina di Coca e bevve a piccoli sorsi. «Veramente sarebbe meglio bere la Coca-Cola Light, per le calorie, ma mi fa schifo. Tu che ne dici?» Annika deglutì. «Hai proprio ragione» rispose. Beata sorrise. «La mia decisione mi ha consentito di sopravvivere a quella serata, perché l'incubo non era finito. Sai chi ha scelto come principe, come cavaliere al suo tavolo? Ah, già, lo sai: avete pubblicato una foto di loro due insieme. D'un tratto, tutte le tessere sono andate al loro posto. Ho capito lo scopo dei freddi tesori che conservavo in casa mia. Tutto era chiaro e manifesto. Lo scatolone grande era per Christina, i candelotti più piccoli per coloro che camminavano nella sua scia. «Il mio piano era semplice. Seguivo spesso Christina, a volte mi convincevo che avvertisse la mia presenza. Si guardava intorno con aria preoccupata prima di affrettarsi a salire sulla sua lunga macchina, sempre con il computer sotto il braccio. Mi chiedevo spesso cosa ci scrivesse, se scriveva di me, o magari di Helena Starke. Sapevo che andava spesso a casa di Helena Starke. Aspettavo fuori e la vedevo andare via la mattina presto. Avevo capito che si amavano, e sapevo che sarebbe stato fatale per Christina se si fosse saputo in giro. Per questo era tutto molto semplice, almeno in teoria. Alcune cose diventano subito più incasinate quando le si mette in pratica, non trovi? «Be', comunque, venerdì scorso, quando ho visto Christina e Helena uscire insieme dalla festa di Natale, ho capito che era scoccata l'ora. Sono andata a casa a prendere il mio tesoro più grande. L'ho sistemato accanto a me, sul sedile del passeggero. Sotto, ho appoggiato una batteria da automobile che avevo comprato a un distributore di Västberga. Il timer l'ho preso all'Ikea, la gente usa spesso quel tipo di aggeggi nelle seconde case. «Ho parcheggiato la macchina dove adesso si trova la tua. La borsa pesava, ma sono più forte di quel che sembra. Ero un po' nervosa, non sapevo esattamente quanto tempo avevo a disposizione. Dovevo finire i preparativi prima che Christina lasciasse la casa di Helena. Per fortuna, sono riuscita a fare tutto piuttosto in fretta. Sono salita con la borsa all'entrata posteriore, ho spento gli allarmi e aperto con la chiave. Per poco non andava tut-
to a rotoli: un uomo mi ha visto, stava entrando in quell'orribile club. Se fossi stata ancora io la responsabile del progetto, non avrei mai permesso che mettessero su un locale del genere accanto allo stadio. «Quella notte l'arena olimpica era fantastica. Splendeva, immersa nella luce della luna. Ho piazzato lo scatolone sulla tribuna nord, la scritta biancheggiava nel buio: "Minex 50 x 550, 24 kg, 15 pezzi 1600 g". Ho appoggiato il nastro da pacchi vicino allo scatolone. Sarebbe stato facilissimo far scoppiare tutto: bastava infilare il pezzetto di ferro in uno dei "wurstel" e tirare il filo fino all'ingresso principale. Lì ho piazzato la batteria e ho programmato il timer come avevo imparato a fare con un po' di allenamento. Dove ho fatto le prove? In una cava di ghiaia nei pressi di Rimbo, nel comune di Lohärad. L'autobus che ci va fa soltanto due corse al giorno, ma ho avuto tutto il tempo. Ho fatto saltare solo piccole cariche, un candelotto di quelli piccoli alla volta. «Quando ho finito con i miei preparativi, sono andata ad aprire l'ingresso principale, però poi sono uscita dal tunnel. L'entrata, dallo stadio, è in profondità sotto l'ingresso principale. Si può scendere con l'ascensore, ma io ho preso le scale. Sono andata di corsa fino alla Ringvägen, temevo di essere arrivata troppo tardi. Invece no, anzi. Ho dovuto attendere a lungo nel portone di fronte. Quando Christina è uscita, ho composto il suo numero dal mio cellulare. Non potranno mai risalire a me, avevo comprato una carta prepagata da trenta minuti senza abbonamento. E non possono rintracciare nemmeno la chiamata di ieri sul tuo cellulare, mi erano rimasti diversi minuti sulla carta. «È stato facile convincere Christina a venire allo stadio. Le ho detto che sapevo tutto di lei e Helena, che avevo le foto di loro due insieme, che avrei consegnato i negativi a Hans Bjällra, il presidente del consiglio d'amministrazione, se lei non fosse venuta a parlare con me. Bjällra odia Christina, lo sanno tutti quelli che lavorano alla segreteria generale. Si sarebbe buttato a pesce su qualsiasi possibilità di umiliarla. Così, Christina è venuta, ma deve aver esitato. È arrivata a piedi dal ponte pedonale di Södermalm, incazzata come una iena, e ci ha messo parecchio. Per un po' ho quasi pensato che non si sarebbe fatta viva. «Io l'aspettavo dietro il portone dell'ingresso principale, nascosta da due statue. Avevo il sangue che ribolliva, l'intero atrio esultava. Il mio stadio era con me, stava al mio fianco. Volevo fare le cose a puntino. Christina doveva morire nello stesso luogo in cui mi aveva annientato. Sarebbe stata fatta a pezzi sulla tribuna nord dello stadio Vittoria, perché era quello che
lei aveva fatto a me. Quando fosse arrivata, l'avrei colpita alla testa con un martello, l'attrezzo più classico dell'operaio edile. Poi l'avrei portata su alla tribuna, l'avrei preparata, e mentre i miei serpenti di plastica rosa avvolgevano il suo corpo nelle loro spire le avrei spiegato perché si trovava lì. Le avrei svelato che avevo visto il mostro che albergava in lei. La mia superiorità avrebbe brillato di luce propria come una stella nella notte. Christina mi avrebbe chiesto perdono, e con l'esplosione tutto sarebbe arrivato a compimento.» Beata tacque per un istante e bevve un po' di Coca. Annika si sentiva sul punto di svenire. «Purtroppo, le cose non sono andate così» riprese Beata a bassa voce. «Ma la verità deve venire a galla. Il mio obiettivo non è diventare un'eroina. Qualcuno, di sicuro, penserà che ho sbagliato. Per questo è importante non mentire. Devi scrivere com'è andata per davvero, e non edulcorare le cose.» Annika annuì sinceramente. «È andato tutto storto. I colpi di martello non hanno fatto perdere i sensi a Christina, che invece è diventata una furia. Ha cominciato a gridare come un'ossessa che ero una pazza incapace e che dovevo lasciarla in pace. Io ho continuato a picchiare alla cieca. Una martellata le è arrivata sulla bocca, facendole cadere i denti. Gridava e gridava, e io sferravo colpi. Il martello le danzava sul viso. Dagli occhi si può perdere molto sangue. Alla fine è caduta a terra, non era un bello spettacolo. Gridava ancora, e perché non si rialzasse in piedi le ho rotto le ginocchia a martellate. Non è stato piacevole, solo faticoso e pesante. Non la smetteva di urlare, e io l'ho colpita alla gola. Quando ho cercato di trascinarla sulla tribuna nord ha cominciato a graffiarmi le mani, così le ho dovuto spaccare anche le dita e i gomiti. Poi, piano piano, sono salita verso la tribuna, il luogo dove si trovava il giorno in cui mi aveva distrutto la vita. Ho cominciato a sudare, perché era piuttosto pesante, e ancora urlava. Quando finalmente sono arrivata dove avevo messo la dinamite, le mie braccia tremavano per lo sforzo. L'ho stesa in mezzo alle poltroncine e ho iniziato ad avvolgerle intorno i candelotti con il nastro da pacchi. Ma Christina non aveva capito che doveva rassegnarsi, che adesso il suo ruolo era quello di chi ascoltava. Si contorceva da quel verme che era, ed è riuscita a trascinarsi fino ai gradini lì accanto. Poi si è messa a rotolare verso il basso, sempre gridando. Ho sentito che stavo per-
dendo il controllo sulla mia opera, è stato orribile. L'ho afferrata e l'ho colpita forte alla schiena, non so se si sia rotta. Alla fine, stava abbastanza ferma da permettermi di fissarle addosso i quindici candelotti. Non era un bello spettacolo, e non c'è stato tempo per il perdono e la riflessione. Ho infilato il pezzetto di metallo in uno dei "wurstel" e sono corsa verso la batteria. Il timer era fissato a cinque minuti, io l'ho abbassato a tre. Le grida di Christina erano disumane, come quelle di un mostro. Sono rimasta in piedi all'ingresso ad ascoltare il suo canto di morte. Quando mancavano solo trenta secondi è riuscita a sfilarsi di dosso due candelotti, nonostante le membra fracassate. Doveva essere parecchio forte, non trovi? Purtroppo, non ho potuto seguire lo spettacolo fino alla conclusione. Mi sono persa i suoi ultimi secondi, perché dovevo rifugiarmi nella mia caverna. Ero a metà scala quando è arrivato lo spostamento d'aria, di un'intensità sorprendente. I danni sono stati enormi, è andata distrutta tutta la tribuna nord. Non era mia intenzione, lo capisci, vero? Non volevo ferire lo stadio, quello che era accaduto non era colpa sua...» Annika sentiva scorrere le lacrime sulle guance. Non le era mai capitato di dover scrivere niente di così orribile in tutta la sua vita. Sentiva che tra poco sarebbe svenuta. Erano diverse ore che stava seduta su quello scomodo sedile, le gambe le facevano talmente male che aveva voglia di urlare. Dopo un po', i candelotti sulla schiena avevano cominciato a pesarle. Era così stanca che avrebbe voluto stendersi per terra, anche se significava innescare la carica e morire. «Perché piangi?» chiese Beata in tono sospettoso. Annika respirò per un secondo prima di rispondere: «Perché ti ha reso tutto difficile. Non poteva fare semplicemente in modo che ogni cosa andasse come doveva?». Beata annuì e si asciugò una lacrima anche lei. «Lo so» disse. «La vita è ingiusta.» «Con Stefan le cose sono andate lisce, più o meno come avevo pianificato. Lo incaricai di completare lo spogliatoio degli arbitri entro Natale. La scelta del luogo è stata semplice. Era lì che avevo incontrato Stefan la prima volta, e sempre lì mi aveva detto che sarei stata emarginata dagli operai del palazzetto di Sätra. Sapevo che avrebbe portato avanti il lavoro personalmente. Stefan giocava ai cavalli e coglieva tutte le opportunità per attribuirsi gli straordinari. Faceva in modo di rimanere in cantiere da solo e poi
infarciva la tabella degli orari. Dovevano essere anni che andava avanti così, nessuno lo aveva mai controllato. D'altra parte, era il caposquadra. Inoltre, spesso lavorava in modo frettoloso e piuttosto approssimativo. «Lunedì scorso sono andata al lavoro come al solito. Tutti parlavano dell'esplosione e della morte di Christina Furhage, ma nessuno mi ha rivolto la parola. Non che mi aspettassi niente di diverso, comunque. «Alla sera, mi sono fermata in ufficio con le mie carte. Quando è calato il silenzio, ho fatto un giro e ho visto che Stefan Bjurling stava lavorando nello spogliatoio. Allora sono andata a prendere la borsa nell'armadietto. Lì avevo messo i miei tesori: i bastoncini alla menta, i fili gialloverdi, il nastro da pacchi e il timer, ma non il martello, dopo il macello di sabato notte. Invece, avevo comprato una corda da John Wall, di quelle che si usano per attaccarci le altalene e roba del genere. La corda che hai intorno al collo viene dallo stesso rotolo. Mentre Stefan trapanava il muro sono entrata, gli ho infilato il cappio e ho stretto. Questa volta ero decisa. Non avrei tollerato urla e casino. Ha mollato il trapano ed è caduto all'indietro, io ero pronta e ne ho approfittato per tirare il cappio ancora più forte. Ha perso i sensi, e con un po' di fatica sono riuscita a sistemarlo sulla sedia lì accanto. L'ho legato e vestito per il suo funerale. Bastoncini alla menta, cavetto, timer e batteria da torcia elettrica. Gli ho assicurato tutto alla schiena e poi ho aspettato pazientemente che si svegliasse. «Non ha aperto bocca, mi sono soltanto accorta che aveva un tremito alle palpebre. Allora gli ho spiegato cosa stava per accadere e perché. L'era del male sulla terra era finita. Doveva morire perché era un mostro. Gli ho detto che molti altri avrebbero fatto la sua stessa fine. Ci sono ancora parecchi tesori, nel mio scatolone. Poi ho puntato il timer su cinque minuti e sono tornata nel mio ufficio. Lungo il percorso mi sono assicurata che nessuna delle porte fosse chiusa a chiave: il dinamitardo non avrebbe avuto problemi a entrare nell'edificio. Quando la carica è esplosa, ho finto di essere sotto choc e ho chiamato la polizia. Mi hanno portato al pronto soccorso dell'ospedale di Söder avvertendomi che mi avrebbero interrogato la mattina dopo come teste a conoscenza dei fatti. Ho deciso di continuare a mentire per un po'. Non era ancora il momento di dire la verità, mentre adesso è scoccata l'ora. «Sono stata visitata, ho spiegato ai medici che stavo bene e me ne sono andata a piedi attraversando la città, passando dall'Yttersta Tvärgränd. Ho capito che era giunto il momento di lasciare per sempre la mia casa. Quella notte, ho dormito per l'ultima volta nella mia camera. È stato un congedo
breve e composto. Sapevo già allora che non sarei più tornata. Il mio cammino si concluderà altrove. «Martedì mattina presto sono tornata in ufficio per raccogliere le mie ultime cose. Quando sono entrata nel palazzetto sono stata accolta dal rimprovero immediato e ingiusto dell'edificio. Un'ondata di dolore mi ha investita, mi sono nascosta in una stanza dove la costruzione non poteva vedermi. Ma naturalmente è stato tutto inutile, perché in quel momento sei arrivata tu.» Annika sentì che non ce la faceva più a scrivere. Appoggiò le mani in grembo e chinò il capo. «Cosa c'è?» chiese Beata. «Sono sfinita. Posso alzarmi un attimo per sgranchire un po' le gambe? Mi si sono addormentate.» Beata la osservò in silenzio per qualche secondo. «Va bene, ma non fare scherzi.» Annika si tirò su lentamente e dovette appoggiarsi al muro per non cadere. Allungò e piegò le gambe per quanto poteva, con le catene che tintinnavano ai suoi piedi. Senza farsi notare, vide che Beata aveva usato due piccoli lucchetti per chiuderle. Se solo fosse riuscita a prendere le chiavi... «Non credere di poter scappare» disse Beata. Annika alzò gli occhi, sorpresa. «Certo che no. Non abbiamo ancora finito il nostro lavoro.» Spostò la sedia da campeggio un po' in fuori rispetto al tavolino per avere più posto per le gambe. «Ormai, non manca molto» dichiarò Beata. Si mise a fissare Annika, la quale si rese conto che la donna sembrava incerta. «Vuoi dare un'occhiata?» chiese Annika girando il computer in modo che lo schermo fosse rivolto verso Beata. Lei non rispose. «È meglio che tu rilegga il testo in modo da controllare se ho capito tutto in maniera corretta, e poi vorrei che valutassi se il tono è quello giusto. Non ho usato il tuo linguaggio parlato, ho cercato di rendere il tutto un po' più letterario.» Beata la guardò con attenzione per qualche secondo, poi si avvicinò al tavolino e lo attirò a sé. «Posso riposare un po'?» chiese Annika, e Beata annuì. Annika si stese voltando le spalle alla dinamitarda. Doveva riflettere sulla sua prossima mossa.
Due anni prima, un uomo di sessant'anni si era perso in mezzo ai ghiacci dell'arcipelago di Stoccolma. Era primavera, il sole splendeva e faceva caldo. L'uomo era andato a fare una passeggiata e si era perso. La guardia costiera e la polizia l'avevano cercato per tre giorni. Annika si trovava sull'elicottero che alla fine l'aveva salvato. D'un tratto, seppe esattamente cosa doveva fare. Thomas si alzò dal letto. Tanto, non sarebbe più riuscito a dormire. Andò in bagno, poi si rimise a guardare fuori dalla finestra, verso il Palazzo Reale. Il traffico si era diradato. La vista che si godeva da lassù era davvero splendida: le facciate illuminate dei palazzi circostanti, il luccichio dei lampioni, la profondità del nero specchio d'acqua. Eppure, sentiva che non avrebbe sopportato quel panorama un attimo di più. Gli sembrava di aver perso Annika, in quella stanza. Era stato lì che aveva capito che forse era sparita per sempre. Si strofinò gli occhi rossi e asciutti e sospirò. Aveva deciso. Non appena si fossero svegliati i bambini, avrebbero lasciato l'hotel per andare dai suoi genitori a Vaxholm. Avrebbero festeggiato là il Natale. Doveva sperimentare come avrebbe potuto essere una vita senza Annika, doveva prepararsi, altrimenti avrebbe potuto soccombere. Cercò di immaginare come avrebbe reagito se gli fosse stato comunicato che era morta. Non ci riuscì. L'unica cosa che vedeva era un buco nero senza fondo. Sarebbe stato costretto a continuare a vivere, per amore dei bambini, per amore di Annika. Avrebbero avuto foto della mamma sparse per tutta la casa, avrebbero parlato spesso di lei e festeggiato i suoi compleanni... Si girò allontanandosi dalla finestra e ricominciò a piangere. «Perché sei triste, papà?» Kalle era in piedi sulla porta della camera da letto. Thomas si ricompose velocemente. «Sono triste perché la mamma non è qui. Ho soltanto nostalgia di lei.» «Anche i grandi sono tristi, a volte?» chiese Kalle. Thomas si avvicinò al bambino e lo prese tra le braccia. «Sì, piangiamo anche noi quando qualcosa ci preoccupa. Tu, però, dovresti tornare a dormire. Lo sai che giorno è oggi?» «La vigilia di Natale!» esclamò il bambino. «Shh, sveglierai Ellen. Sì, è proprio la vigilia, e stasera arriva Babbo Natale. Devi essere ben sveglio, quindi infilati ancora un po' sotto le coperte.» «Prima, però, devo fare pipì» annunciò Kalle divincolandosi dalle brac-
cia di Thomas. Tornando dal bagno, chiese: «Perché la mamma non arriva?». «Arriverà più tardi» rispose Thomas senza un attimo di esitazione. «Oggi ci sono i cartoni animati di Natale, alla mamma piacciono tanto. Sarà a casa, quando cominceranno?» «Penso proprio di sì» disse Thomas baciando il bambino sui capelli. «Adesso marsch, a letto!» Mentre rimboccava il soffice piumino del Grand Hotel sotto il mento di Kalle, lo sguardo gli cadde sulla radiosveglia accanto al letto. Le cifre digitali rosse tingevano di rosa l'angolo del cuscino. Indicavano le cinque e quarantanove. «Sta venendo bene» osservò Beata soddisfatta. «Era proprio così che lo volevo.» Annika era caduta in un leggero dormiveglia, ma quando la donna ricominciò a parlare si alzò subito a sedere. «Sono contenta che lo pensi. Ho fatto del mio meglio.» «Sì, davvero. È bello che ci siano in giro dei professionisti» disse Beata sorridendo. Annika le sorrise a sua volta. Rimasero sedute a guardarsi, finché Annika non decise di mettere in atto il suo piano. «Lo sai che giorno è, oggi?» chiese continuando a sorridere. «La vigilia, naturalmente» rispose Beata ridendo. «Vuoi che non lo sappia?» «Già, solo che il periodo subito prima di Natale passa velocissimo. Non faccio quasi mai in tempo a comprare tutti i regali. Però la sai una cosa? Ho un regalino per te, Beata.» La donna assunse subito un'espressione sospettosa. «Impossibile che tu mi abbia comprato un regalo di Natale, non mi conosci.» Annika continuò a sorridere, tanto che le dolevano le mandibole. «Adesso, però, ti conosco. Il regalo l'avevo comprato per un'amica, una ragazza che se lo meritava. Ma tu ne hai più bisogno.» Beata era incredula. «Perché dovresti fare un regalo a me? Io sono la dinamitarda.» «Il regalo non è per la dinamitarda» rispose Annika con voce ferma. «È per Beata, una ragazza che ha avuto una vita d'inferno. Hai davvero bisogno di un regalo di Natale, dopo tutto quello che ti è capitato.» Si accorse che le sue parole avevano messo in difficoltà Beata. Lo
sguardo di lei cominciò a vagare irrequieto per le pareti, mentre le dita giocherellavano con la miccia. «Quando l'hai comprato?» chiese. «L'altro giorno. È molto bello.» «E dov'è?» «Nella mia borsa. In fondo, sotto gli assorbenti.» Beata trasalì, proprio come aveva immaginato Annika. Aveva un pessimo rapporto con le sue funzioni femminili. «È un bel pacchettino» continuò Annika. «Se mi vai a prendere la borsa ti do il tuo regalo.» Beata non ci cascò, Annika se ne accorse subito. «Non fare scherzi» disse minacciosa, alzandosi. «Non sono io quella che va in giro con la dinamite nella borsa. Lì dentro non c'è nient'altro che un blocco a spirale, qualche penna, un pacchetto di assorbenti e un regalo per te. Vattelo a prendere da sola!» Trattenne il respiro: quella era una mossa rischiosa. Beata esitò un istante. «Non voglio frugare nelle tue cose.». Annika fece un profondo sospiro. «Peccato. Ti sarebbe stata molto bene.» Fu la frase che indusse Beata a decidersi. Appoggiò per terra la miccia e la batteria e prese in mano l'estremità della corda. «Se tenti di fare qualsiasi cosa, tiro.» Annika alzò le mani davanti a sé e sorrise. Beata arretrò fino al punto in cui la borsa era stata gettata più di sedici ore prima e prese le due tracolle con una mano, sempre tenendo la corda nell'altra. Lentamente, si avvicinò ad Annika. «Guarda che ti tengo d'occhio» disse lasciandole cadere in grembo la borsa. Il cuore di Annika batteva talmente forte da riecheggiarle nel cervello. Il corpo le tremava. Era la sua unica possibilità. Alzò il viso sorridente verso Beata, sperando che le vene sulle tempie non rivelassero l'accelerazione del battito cardiaco. Poi abbassò lo sguardo sulle gambe della donna. Reggeva ancora le due tracolle. Infilò piano la mano nella borsa e trovò subito il pacchettino, la scatola con la spilla di granate che avrebbe dovuto andare ad Anne Sapphane. Si mise a frugare tra gli oggetti sul fondo. «Cosa fai?» chiese Beata strappandole via la borsa. «Scusami» disse Annika riuscendo a mala pena a distinguere la propria
voce, coperta dai battiti frenetici del cuore. «Non lo trovo. Fammi riprovare.» Beata esitò alcuni secondi. Il cervello di Annika era fermo. Non doveva implorarla, altrimenti sarebbe stata la fine. Doveva far leva sulla sua curiosità. «Non voglio dirti di cosa si tratta, altrimenti non è più una sorpresa. Però, credo che ti piacerà.» La donna le porse di nuovo la borsa e Annika inspirò profondamente. Decisa, infilò la mano, sentì il pacchetto, e subito accanto il cellulare. Buon Dio, pensò, fa' che il cavetto dell'auricolare sia inserito! Il labbro superiore era imperlato di sudore. Il telefono era girato con il lato della batteria verso l'alto. Meno male, altrimenti si sarebbe vista la luce verde del display che si illuminava. Fece scivolare le dita sui tasti cercando quello più grande, ovale, e lo premette, veloce e leggera. Poi spostò le dita due centimetri più sotto, a destra, premette, e tornò infine a quello grande per l'ultima volta. «Ecco, l'ho trovato!» esclamò Annika prendendo il pacchettino. Le tremava la mano, quando lo tirò fuori, ma Beata non se ne accorse. Vide soltanto la carta dorata della scatola e il nastrino blu che brillava nella luce intensa. Dalla borsa non proveniva alcun rumore, quindi il cavetto doveva essere inserito. Beata arretrò e mise la borsa accanto allo scatolone con la dinamite. Ad Annika mancava il fiato. Aveva premuto menu, 1, menu: rubrica, telefono del caporedattore di notte, okay. «Posso aprirlo adesso?» chiese Beata speranzosa. Annika non riuscì a rispondere. Annuì e basta. Jansson aveva appena inviato l'ultima pagina allo stampatore. La prima notte che era di turno si sentiva spesso abbastanza stanco, ma questa volta era assolutamente paralizzato. Di solito, quando aveva finito, andava a mangiare alla caffetteria, un panino al formaggio e una grossa tazza di tè, ma quel giorno era intenzionato a saltare. Si era alzato dalla sedia e aveva cominciato a infilarsi la giacca a vento, quando squillò il telefono. Jansson gemette spazientito e fu sul punto di rinunciare a controllare sul display da chi venisse la chiamata. Ma poteva essere lo stampatore, a volte i file con i colori non venivano trasferiti correttamente e le foto risultavano di cattiva qualità. Si allungò verso il ricevitore e riconobbe subito il numero. Nello stesso istante, gli venne le pelle d'oca. «È Annika!» urlò. «Annika sta chiamando il mio diretto!»
Anders Schyman, Patrik, Berit e Janet Ullberg si voltarono insieme, dalla postazione del photo editor. «È il cellulare di Annika!» gridò ancora Jansson. «Allora rispondi, cazzo!» urlò Schyman precipitandosi verso di lui. Jansson inspirò a fondo e sollevò il ricevitore. «Pronto! Annika!» Gli altri l'avevano raggiunto e gli si erano radunati intorno. «Pronto! Pronto! Sei lì?» «Passami il telefono» disse Schyman. Il direttore l'appoggiò a un orecchio e chiuse con l'indice l'altro per sentire meglio. Udiva fruscii e brusii, e poi un rumore che saliva e scendeva, come delle voci soffocate. «È viva» sussurrò, poi ripassò la cornetta a Jansson e andò nel suo ufficio a chiamare la polizia. «Oh, ma è splendida! Davvero stupenda.» Beata sembrava deliziata. Annika si sentì colmare di nuove energie. «È vecchia, quasi antica» spiegò. «Granate autentiche e argento placcato oro. È una di quelle spille che piacerebbe avere anche a me. Sono questi i regali che si fanno più volentieri, non trovi?» La donna non rispose, continuando a fissare la spilla. «Mi sono sempre piaciuti i gioielli» proseguì Annika. «Quando ero piccola, mi misi a risparmiare i soldi per comprarmi un cuoricino d'oro bianco con una ghirlanda di diamanti. L'avevo visto in un catalogo del gioielliere in città, uno di quelli che arrivano a tutti per posta sotto Natale, sai. Impiegai parecchi anni a mettere insieme la somma. Quando finalmente ci fui riuscita, ero cresciuta e del cuoricino non m'importava più, così mi comprai l'attrezzatura completa da sci...» «Grazie infinite» mormorò la dinamitarda. «Prego» rispose Annika. «Mia nonna ne aveva una simile, forse è per questo che mi ha colpito.» Beata slacciò qualche bottone del cappotto e si fissò la spilla alla maglia. «Forse, stavolta ci siamo» disse il poliziotto. «Potete riagganciare, la chiamata è stata intercettata. Ora tocca a noi fare il resto insieme all'operatore.» «E cioè?» domandò Schyman. «Prenderemo contatto con la centrale operativa della Comviq, a Kista. Vedremo se sarà possibile identificare il segnale.» «Posso venire anch'io?» chiese Schyman d'impulso.
Il poliziotto esitò solo un istante. «Certo» rispose. Anders Schyman si affrettò a uscire dal suo ufficio. «La polizia sta localizzando la chiamata, potete riattaccare» gridò mentre si infilava il cappotto. «Credi che ci siano dei problemi se restiamo in ascolto?» chiese Berit che in quel momento era seduta con il ricevitore incollato all'orecchio. «Non lo so, vi farò sapere. Non andate a casa tutti!» Imboccò le scale che scendevano all'ingresso principale e si accorse che le gambe gli tremavano per la stanchezza. Non è il caso di mettersi a guidare in questo stato, pensò, e corse alla fermata dei taxi della Rålambsvägen. Fuori era ancora buio pesto e la strada che portava a Kista era deserta. Lungo il percorso incrociarono soltanto un altro paio di taxi, l'autista salutò con la mano quelli che appartenevano alla sua stessa società. Arrivarono alla Borgarfjordsgata e, mentre Anders Schyman pagava con la carta di credito, un'auto civetta della polizia accostò fermandosi lì accanto. Schyman scese dal taxi e andò a salutare l'agente in borghese. «Se abbiamo una fortuna sfacciata, forse riusciamo a localizzarla» disse il poliziotto. Era pallido in viso per la stanchezza e aveva la bocca tirata. A un tratto, Anders Schyman intuì chi doveva essere. «Lei conosce Annika?» Il poliziotto inspirò e lo guardò di sfuggita. «In un certo senso, sì» rispose. Nello stesso istante, arrivò un custode assonnato e li guidò nell'edificio che ospitava la sede della Comviq e di Tele2. Li precedette attraversando lunghi corridoi e passaggi, alla fine entrarono in uno stanzone enorme pieno di schermi televisivi giganteschi. Anders Schyman si lasciò scappare un fischio. «Sembra proprio un film americano di spionaggio, vero?» disse un uomo venendo loro incontro. Anders Schyman annuì e si presentò. «Ha anche qualcosa della sala controllo di una centrale nucleare» osservò. «Io sono un operatore dei sistemi. Benvenuti. Vi faccio strada» disse l'uomo precedendoli verso il centro dello stanzone. Anders Schyman si incamminò dando un'occhiata al locale. C'erano centinaia di computer, e alcuni potenti proiettori trasformavano le pareti in giganteschi schermi elettronici.
«Da qui controlliamo tutta la rete della Comviq» continuò l'operatore. «Di notte siamo in due a lavorare. La ricerca che mi avete chiesto è facilissima da eseguire, è sufficiente un comando sul mio terminale, e la ricerca parte.» Mostrò la sua postazione. Anders Schyman non capiva niente di quello che aveva davanti. «Ci vorrà forse un quarto d'ora, sebbene abbia circoscritto la ricerca in modo che parta dalle cinque. Sono passati dieci minuti o poco più, adesso vediamo se succede qualcosa...» Si chinò su una tastiera e batté alcuni tasti. «No, non ancora.» «Un quarto d'ora non è un lasso di tempo incredibilmente lungo?» chiese Anders Schyman accorgendosi di avere la bocca secca. L'operatore lo guardò indifferente. «Un quarto d'ora è un tempo brevissimo» rispose. «È la mattina della vigilia, e il traffico in questo momento è decisamente poco intenso. Per questo penso che un quarto d'ora possa bastare.» Nello stesso istante, sullo schermo comparve una serie di dati. L'operatore voltò immediatamente le spalle a Schyman e al poliziotto e prese posto sulla sua sedia. Per un paio di minuti continuò a battere sulla tastiera, poi sospirò. «Non trovo niente. Siete sicuri che la chiamata venisse proprio dal suo cellulare?» Il battito cardiaco di Schyman aumentò. Non poteva andare storta proprio adesso! Si sentiva sempre più disorientato. Quell'uomo sapeva in realtà cos'era successo? Si rendeva conto dell'importanza di quel tentativo? «Il nostro caporedattore di notte riconoscerebbe quel numero anche dormendo. Erano ancora lì seduti che ascoltavano le scariche al ricevitore, quando sono uscito io.» «Ah, questo spiega tutto» disse l'operatore battendo un altro tasto. I dati scomparvero dallo schermo, che diventò nero. «Adesso non ci resta che aspettare» proseguì, voltandosi nuovamente verso Schyman e il poliziotto. «Ma cosa sta succedendo?» chiese Schyman accorgendosi che la sua voce era tesissima. «Se la telefonata è ancora in corso, non abbiamo ricevuto le informazioni che ci servono. Tutti i dati vengono immagazzinati all'interno del telefono per trenta minuti» spiegò alzandosi dalla sedia. «Dopo mezz'ora, il telefono crea una bolletta che invia qui alla centrale. Tra i dati possiamo vedere il numero A e il numero B, la stazione di base e la cellula.»
Anders Schyman fissò gli schermi tremolanti, più disorientato che mai. La stanchezza gli martellava nel cervello, si sentiva come risucchiato in un incubo surreale. «E questo... cosa significa?» chiese. «Secondo quanto ci avete comunicato, la chiamata di Annika Bengtzon è arrivata alla redazione della "Stampa della Sera" subito dopo le sei, vero? Se la linea non è stata interrotta, la prima informazione riguardo alla chiamata arriva qui subito dopo le sei e trenta. Ormai manca pochissimo.» «Non capisco» disse Schyman. «Come fate a sapere dove si trova tramite il cellulare?» «Guardi, le spiego come funziona» rispose l'operatore con gentilezza. «Il cellulare è esattamente come una ricetrasmittente. I segnali vengono inviati attraverso una serie di stazioni di base, cioè i ripetitori, in tutto il paese. Ogni stazione di base dispone di diverse cellule che captano i segnali provenienti da luoghi e direzioni diversi. I telefoni cellulari accesi entrano in contatto con la centrale ogni quattro ore. Abbiamo fatto la prima ricerca sul numero di Annika Bengtzon già da ieri sera.» «Davvero?» chiese Schyman sorpreso. «Lo potete fare su chiunque, senza problemi?» «No, naturalmente» rispose l'operatore calmo. «Questo tipo di ricerche si può effettuare solo con l'autorizzazione di un tribunale. Credo che il reato connesso preveda più di due anni di carcere.» Si allontanò verso un altro computer e digitò qualcosa sulla tastiera. Poi andò alla stampante e aspettò che uscissero i fogli. «In ogni caso, l'ultima chiamata partita dal cellulare di Annika Bengtzon, a parte quella attuale, è stata inviata alle tredici e zero nove di ieri» disse esaminando i dati. «Era diretta all'asilo sulla Scheelegatan 38 B, a Kungsholmen.» Si appoggiò la stampata sulle ginocchia. «Il segnale proveniente dal cellulare era stato inviato tramite una stazione di Nacka.» Il poliziotto in borghese prese la parola. «La telefonata è stata confermata dalla coordinatrice dell'asilo. Annika non sembrava né strana né sotto pressione, dalla voce. È parsa sollevata quando ha saputo che l'asilo chiudeva alle cinque. Dunque, si muoveva ancora liberamente subito dopo le tredici, e doveva trovarsi da qualche parte a est di Danvikstull.» L'operatore continuò a leggere dai suoi fogli. «Il segnale successivo risale alle diciassette e zero nove. Un cellulare acceso si connette con la centrale dell'operatore ogni quattro ore» ripeté. Anders Schyman non aveva quasi più la forza di ascoltare. Si sedette su
una sedia girevole e si strofinò la fronte con la punta delle dita. «In ogni telefono c'è un orologio interno che comincia il conto alla rovescia ogni volta che viene acceso» seguitò il tecnico. «Dopo quattro ore il conto finisce, e parte un segnale che riferisce al sistema dove si trova il telefono. Dato che i segnali sono stati trasmessi, evidentemente Annika Bengtzon ha tenuto acceso il cellulare. Da quello che si capisce qui, praticamente non si è spostata, durante la notte.» Schyman si irrigidì. «Sapete dov'è?» chiese con voce soffocata. «Sappiamo che il suo cellulare si trova nelle vicinanze del centro di Stoccolma» rispose l'operatore. «Possiamo intuire soltanto la zona: si tratta delle isole principali, oltre ai sobborghi più vicini.» «Quindi, potrebbe essere vicinissima?» «Sì, il suo cellulare non si è spostato dalla zona durante la notte.» «Era per questo che non dovevamo chiamarla?» Il poliziotto fece un passo avanti. «Sì, e anche per altri motivi. Se qualcuno è con lei e si accorge che il telefono suona, magari lo spegne, e in questo caso non sapremmo se viene spostata.» «Sempre ammesso che si trovi anche lei dove si trova il telefono» disse Schyman. «Non è passato un quarto d'ora?» chiese il poliziotto. «Non ancora» rispose l'operatore. Concentrarono l'attenzione sullo schermo e attesero. Anders Schyman aveva bisogno di andare in bagno e lasciò lo stanzone per qualche minuto. Mentre svuotava la vescica si accorse che gli tremavano le gambe. Quando tornò, non era ancora successo niente. «Nacka» disse con un'espressione assente. «Cosa diavolo ci faceva, là?» «Ecco, ci siamo» lo interruppe il tecnico. «Sì, è lui: il numero A è quello del cellulare di Annika, il numero B il centralino della "Stampa della Sera".» «Si capisce dove si trova?» chiese il poliziotto con voce tesa. «Sì. Ho un codice, qui. Un attimo.» L'operatore digitò qualcosa sulla tastiera e Schyman si accorse di avere freddo. «527 D» disse il tecnico, titubante. «Cosa c'è che non va?» chiese il poliziotto. «In genere, non abbiamo mai più di tre cellule in ogni stazione di base: A, B e C. Qui ne abbiamo di più. La cosa è alquanto rara. Le cellule D hanno qualcosa di speciale, di solito.» «Dove si trova?» si informò il poliziotto.
«Un attimo» disse l'operatore, si alzò velocemente e andò a un altro terminale. «Cosa sta facendo?» chiese Schyman. «Abbiamo più di mille ripetitori sparsi per la Svezia, è impossibile ricordarli tutti a memoria» spiegò come per scusarsi. «Eccola qui, stazione di base 527. Porto di Hammarby.» Anders Schyman sentì che la testa gli girava e i capelli gli si rizzavano sulla nuca. Cazzo! Era il villaggio olimpico. L'operatore continuò a cercare. «La cellula D si trova nel tunnel che collega lo stadio Vittoria alla pista di allenamento A.» Il poliziotto era ancora più pallido di prima. «Quale tunnel?» L'operatore li guardò serio. «Purtroppo, questo non lo so. Però, evidentemente, c'è un tunnel che collega la pista principale a un impianto per gli allenamenti nelle immediate vicinanze.» «Ne è sicuro?» «La telefonata è stata inviata attraverso una cellula che è dentro il tunnel. Spesso le cellule coprono un'area più vasta, ma nei sottopassaggi la copertura è molto più limitata. Abbiamo una cellula che copre soltanto il tunnel della tangenziale sud, per esempio.» «Dunque Annika si trova in un tunnel sotto il villaggio olimpico?» chiese il poliziotto. «Be', il suo telefono è lì, questo glielo posso garantire» rispose il tecnico. Il poliziotto era già sulla porta dello stanzone. «Grazie» disse Anders Schyman stringendo tra le sue la mano destra dell'operatore. Poi si affrettò a seguire il poliziotto. Annika si era appisolata quando, all'improvviso, si accorse che Beata sistemava qualcosa sulla sua schiena. «Cosa stai facendo?» chiese. «Continua pure a dormire. Sto solo controllando che sia tutto a posto. È quasi ora.» Annika si sentì come se qualcuno le avesse appena gettato addosso un secchio d'acqua ghiacciata. Tutti i nervi si contrassero andando a formare una sorta di nodo all'altezza del diaframma. Cercò di parlare, senza riuscirci, e iniziò a tremare in maniera incontrollata. «Cosa ti succede?» chiese Beata. «Non dirmi che cominci a fare come Christina, eh? Lo sai che non mi piace sporcare in giro.»
Annika si mise a respirare veloce, a bocca aperta. Calmati, reagisci, parla con lei, guadagna tempo. «Mi stavo... mi stavo solo chiedendo... cosa farai del mio articolo» riuscì a balbettare. «Verrà pubblicato sulla "Stampa della Sera", con la stessa evidenza di quando è morta Christina Furhage» rispose Beata soddisfatta. «È un ottimo articolo.» Annika si fece forza. «Temo che non funzionerà» disse. Beata smise di armeggiare dietro di lei. «E perché no?» «Come glielo fai arrivare il testo? Qui non c'è un modem.» «Manderò il computer intero al giornale.» «Ma il mio direttore non sa che sono stata io a scriverlo. Non si capisce in alcun modo. L'articolo è scritto in prima persona. Così com'è adesso, è soltanto una lettera al direttore, e i giornali non ne pubblicano di tanto lunghe.» Beata non si smosse. «Questa la pubblicheranno.» «Perché dovrebbero? Il mio direttore non ti conosce. Forse non capirà quanto è importante pubblicare questo testo. E chi glielo spiegherà se io... non ci sarò più?» Ecco, adesso qualcosa su cui riflettere te l'ho dato, pensò Annika quando la donna si alzò e tornò a sedersi sulla sua sedia. «Hai ragione» ammise Beata. «Devi scrivere un'introduzione all'articolo in cui spieghi esattamente cosa devono fare.» Annika gemette dentro di sé. Forse era stato un errore assecondare in tutto quella donna. Poteva aver soltanto peggiorato le cose. Poi, però, scacciò quei dubbi. Christina si era ribellata, e in cambio le erano stati sfracellati viso e membra. Se proprio doveva morire, era meglio farlo scrivendo al computer che subendo delle torture. Si alzò a sedere. Le faceva male tutto il corpo. Il pavimento sembrava ondeggiare e sentì di avere delle difficoltà a mettere a fuoco gli oggetti. «Okay» disse. «Ridammi il computer, così concludiamo la faccenda.» Beata rimise il tavolino al suo posto. «Scrivi che sei tu l'autrice e che devono pubblicare l'intero articolo.» Annika eseguì. Si rese conto che doveva cercare di guadagnare altro tempo. Se aveva agito correttamente, ormai la polizia doveva essere vicina. Non sapeva con quanta precisione il cellulare poteva farla localizzare, ma l'uomo che si era perso tra i ghiacci due anni prima era stato individuato quasi subito. Per quell'uomo si era persa ogni speranza. I parenti erano già
preparati al peggio quando l'anziano signore aveva chiamato il figlio dal suo cellulare, esausto e completamente disorientato. Non aveva idea di dove si trovasse. Non sapeva dare alcun punto di riferimento, diceva che era tutto bianco. Eppure, era stato portato in salvo nel giro di un'ora. Con l'aiuto dell'operatore telefonico, la polizia aveva circoscritto un raggio di seicento metri, e l'uomo si trovava all'interno di quel cerchio. L'operatore era riuscito a determinarlo grazie al segnale trasmesso dal cellulare. «A proposito» chiese Annika «come hai fatto a entrare nell'arena?» «Non è stato difficile» rispose Beata con aria di superiorità. «Avevo sia la carta magnetica che il codice.» «Ma com'è possibile, scusa? Sono diversi anni che non lavori più allo stadio.» Beata si alzò in piedi. «Te l'ho già raccontato» disse in tono eccitato. «Lavoravo nel pool che girava per i cantieri a controllare ogni particolare che avesse a che fare con le Olimpiadi. Avevamo accesso all'ufficio centrale dove si conservano tutte le carte magnetiche e i codici. Naturalmente, bisognava firmare per ritirarli e poi riconsegnarli, ma io ne ho fregati un bel po'. Volevo poter visitare di nuovo gli edifici che mi parlavano amichevolmente. Con lo stadio olimpico sono sempre andata d'accordo, la carta per entrare l'ho sempre avuta.» «E il codice?» Beata sogghignò. «Sono in gamba, quanto a computer. I codici degli allarmi vengono cambiati ogni mese, e gli aggiornamenti vengono inseriti in un file speciale per accedere al quale bisogna conoscere la password. La cosa assurda è che non la cambiano mai.» Annika ricominciò a scrivere. Doveva assolutamente trovare altre domande. «Cosa stai scrivendo?» Annika alzò gli occhi. «Spiego quanto è importante che pubblichino l'articolo con la stessa evidenza di quelli sulla morte di Christina Furhage» rispose in tono allegro. «Stai mentendo!» gridò Beata, e Annika trasalì. «Cosa vuoi dire?» «Non è possibile che gli dedichino lo stesso numero di pagine di quando è morta Christina. Lo sai che sei stata tu la prima a chiamarmi dinamitardo? Lo capisci quanto odio quell'appellativo? Sei tu la peggiore, eri sempre tu a scrivere gli articoli che finivano in prima pagina. Ti odio.» Gli occhi di Beata erano di fuoco e Annika si accorse di non avere rispo-
ste. «Sei entrata in quella stanza quando ero stata sopraffatta dal dolore» continuò Beata avvicinandosi lentamente ad Annika. «Mi hai visto in tutta la mia miseria e non mi hai aiutata. Hai dato ascolto agli altri, e a me no. È sempre stato così, ogni giorno della mia vita. Nessuno ha ascoltato i miei richiami. Nessun altro a parte le mie case. Adesso però è finita. Vi farò fuori tutti.» La donna si allungò verso la corda che pendeva dal collo di Annika. «No!» gridò Annika. L'urlo fece perdere la testa a Beata. Afferrò la corda e tirò più forte che poteva, ma Annika era preparata, e aveva fatto in tempo a infilare entrambe le mani tra il collo e la corda. La dinamitarda diede un altro strattone e Annika cadde dalla sedia, riuscendo però a torcere il busto in modo da atterrare sul fianco e non sulla carica esplosiva. «Adesso morirai, brutta puttana!» gridò Beata, e nello stesso istante Annika si accorse che c'era qualcosa di strano nell'eco della sua voce. Un attimo dopo, sentì una corrente fredda all'altezza del pavimento. «Aiuto!» urlò con quanto fiato aveva in gola. «Smettila di strillare!» tuonò Beata tirando ancora più forte. Lo strattone mandò Annika a strusciare con la faccia sul linoleum. «Sono qui, dietro l'angolo!» gridò, e un attimo dopo Beata doveva essersi accorta di loro. Mollò la corda, si girò e frugò con lo sguardo il pavimento verso la parete opposta. Annika capì cosa stava cercando. Come al rallentatore, vide Beata lanciarsi verso la batteria e la miccia. Lo sparo esplose una frazione di secondo più tardi e aprì un cratere in alto sulla schiena della donna, scaraventandola con violenza in avanti. Fu esploso un altro colpo, e Annika voltò istintivamente le spalle verso il muro. «No!» gridò. «Non sparate, per l'amor del cielo! Potete colpire i candelotti!» L'eco dell'ultima detonazione si spense, Annika vide il fumo e la polvere volteggiare nell'aria. Beata era stesa immobile a un paio di metri da lei. Nel silenzio, Annika non udiva altro che un ronzio alle orecchie provocato dai colpi. D'un tratto, sentì qualcuno lì accanto. Alzò gli occhi e vide un poliziotto pallido, in borghese, chino su di lei con la pistola in mano. «Lei?» chiese meravigliata. L'uomo la guardò con un'espressione ansiosa e le allargò il cappio intorno al collo. «Già, proprio io. Come si sente?» Era la sua fonte segreta, la sua "gola profonda". Annika sorrise spossata
mentre l'uomo le faceva passare la corda sopra la testa. Con sua sorpresa, scoppiò a piangere a dirotto. Il poliziotto prese la radio e chiamò la centrale dando il suo numero di identificazione. «Mi servono due ambulanze» disse guardando su e giù per il tunnel. «Io sto bene» sussurrò Annika. «Di corsa. Abbiamo una ferita da arma da fuoco» continuò l'agente. «Io, però, ho una carica esplosiva sulla schiena.» L'uomo abbassò la radio. «Cos'ha detto?» «Qui dietro ho una carica esplosiva. Guardi.» Si girò e il poliziotto vide i candelotti legati alla sua schiena. «Oh, cazzo. Non si muova.» «Non c'è pericolo» rispose Annika pulendosi il viso con il dorso della mano. «È tutta la notte che ce l'ho lì, e finora non è esplosa.» «Evacuate il tunnel!» urlò l'agente girandosi verso la porta. «E fate aspettare quelli delle ambulanze, qui c'è una carica innescata!» L'uomo si chinò su di lei e Annika chiuse gli occhi. Avvertiva la presenza di altre persone intorno, sentiva i passi e le voci. «Stia calma, adesso ce ne occupiamo noi» la tranquillizzò il poliziotto. Beata, poco più in là, emise un gemito. «Stia attento che non riesca a raggiungere la miccia» disse Annika a voce bassa. L'uomo si alzò in piedi e seguì la miccia con lo sguardo. Poi fece due passi, afferrò il filo gialloverde e se lo mise vicino. «Ecco fatto. Adesso diamo un'occhiata a questa roba.» «Si tratta di Minex» spiegò Annika. «Candelotti piccoli, rosa.» «Sì» fece il poliziotto. «Cos'altro sa?» «Pesano un paio di chili, il meccanismo di detonazione può essere instabile.» «Cazzo, non sono mica tanto esperto di questa roba» disse il poliziotto. In lontananza, Annika sentì l'ululo delle sirene. «Stanno venendo qui?» «Sì. È una fortuna che sia ancora viva.» «Non è stato facile, mi creda» disse Annika tirando su con il naso. «Adesso resti immobile.» Per un paio di secondi, fissò concentrato la carica esplosiva. Poi afferrò il filo, nella parte superiore della carica, e lo staccò. Non successe niente. «Grazie a Dio» mormorò. «Era facile come pensavo.» «Cosa?» chiese Annika. «È una carica di quelle normali, che si usano nei cantieri, non una bom-
ba. È bastato staccare il pezzetto di metallo dal candelotto per metterla fuori uso.» «Scherza?» chiese Annika scettica. «Mi sta forse dicendo che avrei potuto staccarlo io quando volevo?» «Più o meno.» «E perché cazzo sono rimasta qui seduta tutta la notte, allora?» si chiese Annika, furibonda con se stessa. «Be', aveva anche un cappio intorno al collo che avrebbe potuto ucciderla in modo altrettanto efficace. Ha dei brutti segni sulla gola, fra l'altro. Se avesse lasciato che il filo sfiorasse la batteria, sarebbe stata la fine, sia per lei che per quella là.» «C'era anche un timer.» «Aspetti, le stacco la dinamite dalla schiena. Con che cosa glieli ha legati addosso?» Annika fece un profondo sospiro. «Nastro da pacchi.» «Okay. Nel nastro non ci sono pezzi di metallo, vero? Bene, adesso le tolgo tutto... Ecco fatto.» Annika sentì che il peso le veniva sollevato di dosso. Si appoggiò alla parete e si liberò dei resti di nastro sul davanti del cappotto. «E comunque non sarebbe arrivata lontana, con quelle» disse il poliziotto guardando le catene. «Sa dove teneva le chiavi?» Annika scosse la testa e indicò Beata. «Deve averle in tasca.» Il poliziotto prese la radio e comunicò agli altri che potevano rientrare, la carica era stata disinnescata. «C'è dell'altra dinamite là» lo avvertì Annika indicando lo scatolone con la mano. «Bene, ci occuperemo anche di quella.» Prese i candelotti uniti dal nastro e li mise insieme agli altri, avvicinandosi poi a Beata. La donna giaceva immobile, prona, con il sangue che le colava da un foro sulla spalla. Il poliziotto le tastò il polso e guardò sotto le palpebre. «Se la caverà?» chiese Annika. «Perché, a chi importa?» disse il poliziotto. Annika sentì la sua stessa voce rispondere: «Importa a me». In fondo al tunnel comparvero due lettighieri che spingevano una barella. Insieme all'agente adagiarono Beata sulla lettiga. Uno degli uomini le frugò le tasche e trovò le chiavi dei lucchetti. «Faccio da sola» disse Annika, e il poliziotto le gettò le chiavi. I lettighieri controllarono le funzioni vitali di Beata mentre Annika si li-
berava delle catene. Si alzò in piedi, con le gambe che tremavano e rimase a guardare mentre gli uomini si avviavano spingendo la lettiga verso l'uscita del tunnel. Le palpebre della donna fremettero, aprendosi, e Beata vide Annika. Sembrava che volesse dire qualcosa, ma la voce non usciva. Annika seguì la barella con lo sguardo mentre scompariva dietro l'angolo. Nel tunnel cominciarono a entrare diverse persone e altri poliziotti. Le voci si accavallavano. Annika si portò le mani alle orecchie, sentiva che tra poco sarebbe crollata. «Ha bisogno d'aiuto?» le chiese il suo poliziotto. Lei sospirò e sentì che stava per rimettersi a piangere. «Voglio andare a casa» sussurrò. «Dovrebbe passare in ospedale a farsi dare un'occhiata» disse il poliziotto. «No» rispose Annika in tono deciso, pensando ai suoi pantaloni sporchi. «Prima devo andare a casa mia.» «Aspetti, le do una mano. Ha le gambe che tremano.» Il poliziotto le cinse la vita e l'accompagnò verso l'uscita. Annika si accorse all'improvviso che le mancava qualcosa. «Aspetti... la mia borsa» disse fermandosi. «Voglio la mia borsa, e il Powerbook.» Il poliziotto parlò a un collega in uniforme, e qualcuno porse ad Annika la sua borsa. «Questo computer è suo?» chiese il poliziotto. Annika esitò. «È necessario che risponda adesso?» «No, possiamo aspettare. Adesso la portiamo a casa.» Si avvicinarono all'uscita, e Annika scorse un muro di persone nel buio sotto l'arena. Si bloccò istintivamente. «Ci sono solo poliziotti e personale sanitario» la tranquillizzò l'uomo accanto a lei. Nello stesso istante in cui metteva piede fuori dal tunnel, qualcuno le fece esplodere un flash in faccia. Per un paio di secondi rimase completamente abbagliata e sentì di essersi messa a gridare. Poi le immagini tornarono ad avere dei contorni e Annika mise a fuoco la macchina fotografica e il fotografo. Con due balzi lo raggiunse e lo gettò a terra sferrandogli un diretto con il pugno destro. «Brutto stronzo!» gridò. «Ma Bengtzon, cazzo, cosa stai facendo?» esclamò il fotografo. Era Henriksson.
Annika chiese al poliziotto di fermarsi al minimarket vicino a casa sua e di comprarle del balsamo per capelli. Poi salì i due piani di scale fino al suo appartamento, aprì la porta ed entrò nell'ingresso silenzioso. Sembrava un'altra epoca, come fossero passati anni da quando ci aveva messo piede l'ultima volta. Si spogliò, lasciando cadere i vestiti sul pavimento. Prese un asciugamano e si strofinò la pancia, il sedere e in mezzo alle gambe. Poi andò dritta nella doccia e ci rimase sotto a lungo. Sapeva che Thomas era al Grand Hotel, sarebbe venuto a casa non appena si fossero svegliati i bambini. Si vestì, indossando abiti freschi e puliti. Quelli sporchi, compresi scarpe e cappotto, li infilò in un grande sacco di plastica nera che gettò nella spazzatura del condominio. Era rimasta una sola cosa da fare prima di mettersi a letto e dormire. Accese il computer di Christina. La batteria era quasi esaurita. Andò a prendere un dischetto e ci copiò sopra il suo articolo. Esitò qualche secondo, poi fece un doppio clic sulla cartella di Christina intitolata "IO". C'erano sette documenti, sette capitoli che iniziavano tutti con una sola parola: Esistenza, Amore, Umanità, Felicità, Menzogne, Malvagità e Morte. Annika aprì il primo documento e cominciò a leggere. Aveva parlato con tutte le persone che circondavano Christina Furhage e che, in qualche modo, le erano state vicine. Ciascuna di loro aveva contribuito all'immagine che Annika si era fatta del direttore generale dei Giochi olimpici. Alla fine, Christina stessa aveva deciso di parlare. EPILOGO Alla fine di giugno, a sei mesi esatti dall'ultimo attentato che aveva compiuto, Beata Ekesjö fu condannata dal Tribunale di Stoccolma per tre omicidi, quattro tentati omicidi, incendio doloso, danni alla cosa pubblica, tentata strage, sequestro di persona, furto e guida illegale. Nel corso dell'intero processo non pronunciò una sola parola. La condanna prevedeva il ricovero in un ospedale psichiatrico con riserva di giudizio per la dimissione finale. La sentenza non fu appellata e passò in giudicato tre settimane più tardi. Probabilmente nessuno se ne accorse, ma per tutto il processo, che durò
cinque settimane, l'imputata portò sempre lo stesso gioiello appuntato al bavero della giacca. Era una modesta spilla di granate in argento placcato oro. L'articolo che spiegava come l'ingegnere civile Beata Ekesjö era diventata una serial killer non venne mai pubblicato. RINGRAZIAMENTI Questo libro è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a persone reali è puramente casuale. Nemmeno il giornale "La Stampa della Sera" esiste. Presenta alcuni aspetti di diverse aziende editoriali, ma è il prodotto della fantasia dell'autrice. Tutti i luoghi visitati dai personaggi del romanzo sono invece descritti per come sono o sarebbero stati, e ciò vale anche per lo stadio Vittoria e il villaggio olimpico. Alla fine, vorrei ringraziare tutte le persone che con la loro disponibilità e la loro competenza hanno reso possibile questo romanzo: - Arne Rosenlund, di Stockholm 2004, che mi ha spiegato come è costruita l'organizzazione che ruota attorno ai Giochi olimpici; - Per-Axel Bergman, responsabile del progetto della città portuale di Hammarby, che mi ha descritto lo stadio e il villaggio olimpico; - Bosse Daniels, operatore nelle cave della Frölanders Järn AB a BredsSkälby, alle porte di Enköping, per le dimostrazioni esemplificative dei diversi tipi di materiale esplosivo, micce, detonatori eccetera; - Gunnar Gustafsson, viceresponsabile operativo della Comviq, per le informazioni specialistiche sui segnali in partenza e in arrivo dai cellulari; - Lotta Wahlbäck, laureanda in ingegneria civile, per i suoi contributi sulla posizione delle donne nel mondo dell'edilizia, sulla loro formazione e sulle gerarchie del settore; - Lotta Byqvist per la descrizione dell'analisi delle tirature in un giornale del pomeriggio; - Lotta Snickare, coordinatrice dei programmi dell'Unione Comuni Svedesi, che mi ha spiegato il lavoro all'interno dell'Unione; - Stefan Wahlberg, produttore del programma televisivo Efterlyst, che mi ha descritto il linguaggio e i canali delle radio della polizia;
- Robert Braunerhielm, amministratore delegato della MGT Publishing, e Annika Rydman, del sindacato del giornale "Expressen", che mi hanno fornito informazioni sui meccanismi che regolano l'indennità di fine rapporto; - Thomas Hagblom, viceresponsabile della produzione all'ufficio centrale di Stockholm Klara, per i chiarimenti sul funzionamento della posta; - Conny Lagerstedt, che mi ha spiegato le basi della coltivazione biologica dei pomodori; - Johanne Hildebrandt per le telefonate senza fine e i suoi incoraggiamenti; - Sigge Sigfridsson, il mio editore, che ha creduto nel progetto fin dal primo istante. E, soprattutto, ringrazio Tove Alsterdal, che ha letto ogni singola riga attraverso la posta elettronica e ha commentato, ascoltato, discusso, analizzato e fornito consigli e proposte formidabili. Grazie a tutti! Gli eventuali errori che fossero ancora presenti sono, com'è ovvio, da attribuire soltanto a me. FINE