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Bruno Vespa Dieci anni che hanno sconvolto l'Italia 1989-2000 I libri di Bruno Vespa Copyright 1999 RAI, Radiotelevisione italiana, Roma Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano RAI-ERI Mondadori
Le due assoluzioni per Andreotti dalle accuse di omicidio e di associazione mafiosa e le furiose polemiche seguite alle rivelazioni contenute nel dossier Mitrokhin sui rapporti tra Pci e Kgb hanno segnato la conclusione di un decennio sconvolgente per la storia italiana. Come in una rapida virata, hanno proiettato indietro la memoria del nostro paese, costringendolo a fare i conti con avvenimenti troppo presto archiviati nell'illusione che il tempo potesse seppellire per sempre il passato con verità talvolta di comodo. In questo libro, Bruno Vespa ripercorre in presa diretta avvenimenti in apparenza distanti, talvolta addirittura dimenticati, che sono invece intrecciati strettamente gli uni agli altri. A partire dalla crisi italiana della Prima Repubblica nata dalla caduta del Muro di Berlino, nel novembre dell''89, e dal ruolo decisivo svolto dal primo papa polacco della storia. Vespa racconta la drammatica accelerazione che portò al tramonto del Pci e alla nascita del Pds, la miopia della classe dirigente che non seppe prevedere le conseguenze della fine della guerra fredda, il duello fratricida nella Dc concluso dall'elezione di Scalfaro, la nascita dei governi di transizione, la discesa in campo di Berlusconi e la caduta del suo esecutivo, la vittoria del centrosinistra prima con Prodi e poi con D'Alema a palazzo Chigi, l'elezione unitaria di Ciampi al Quirinale. E, ancora, il fallimento della Bicamerale, il ruolo spesso decisivo di Bossi e Bertinotti, lo "sdoganamento" di
Fini, la frantumazione della Dc, la morte di Falcone e Borsellino e gli anni di Tangentopoli, con le loro durevoli conseguenze politiche e giudiziarie. Vespa tenta per la prima volta di riannodare i Dieci anni che hanno sconvolto l'Italia svelando inediti retroscena e dando voce a protagonisti e testimoni di questo secolo che si chiude.
Bruno Vespa (L'Aquila 1944) ha cominciato a sedici anni il mestiere di giornalista nella sua città e a diciotto le collaborazioni con la RAI. Dopo la laurea in giurisprudenza (con un tesi sul diritto di cronaca), nel 1968 si è classificato al primo posto in un concorso nazionale per radiotelecronisti ed è stato assegnato al telegiornale. Dal 1990 al 1993 ha diretto il TG1. Da quattro anni la sua trasmissione "Porta a porta" (alla quale è intervenuto telefonicamente anche papa Giovanni Paolo II) è il programma politico più seguito. Fra i suoi libri ricordiamo: E anche Leone votò Pertini (Cappelli 1978), Intervista sul socialismo in Europa (Laterza 1980) e, per Mondadori, Telecamera con vista (1993), Il cambio (1994), Il duello (1995), La svolta (1996), La sfida (1997), La corsa (1998) e Il superpresidente (1999). [p. 1] Questo libro è dedicato a Karol Wojtyla. Senza di lui il secolo sarebbe stato diverso. "Non abbiate paura!" Giovanni Paolo II, 22 ottobre 1978, primo giorno del suo pontificato. [p. 3] Premessa: Un giorno, sul Monte Bianco "Te Deum laudamus" Per tre volte l'elicottero fu ricacciato indietro dal vento. Era un apparecchio piccolo, con un solo pilota, e Joaquìn Navarro-Valls, il medico e giornalista spagnolo che da sei anni era il portavoce del papa, temette di aver fatto un'imprudenza. Ma Karol Wojtyla non è tipo da tirarsi indietro. I suoi volevano fargli una sorpresa e, a questo punto, lui volle che fosse portata fino in fondo.
Al quarto tentativo, il pilota sconfisse il vento e il piccolo elicottero riuscì a posarsi sulla vetta del Monte Bianco. Era una limpida giornata del luglio '90. Le nubi erano state sospinte lontano. Il papa scese sulla neve e gli sembrò di poter abbracciare l'Europa intera. Dalla vetta del suo monte più alto, egli dominava il continente e lo vedeva per la prima volta nella sua storia millenaria libero da ogni oppressione. La caduta del Muro di Berlino, pochi mesi prima, aveva compiuto l'ultimo, inatteso miracolo. Quando, la sera del 9 novembre 1989, Navarro-Valls gli aveva detto che i cattolici di Berlino Est uscivano dalle chiese tenendo in mano le fiaccole e poco dopo che la gente poteva muoversi liberamente da un lato all'altro della città e poco dopo ancora che da Berlino Est erano stati dati al Muro i primi colpi di piccone senza che nessuno intervenisse e anzi in un clima di gioia collettiva, il papa aveva mormorato: "Dio ti ringrazio". Adesso che aveva l'Europa libera davanti a sé, ai piedi del [p. 4] Monte Bianco, Karol Wojtyla sentì la commozione salirgli nell'animo e da solo, come se celebrasse la funzione più importante della sua vita e perfino quella per la quale Dio l'aveva mandato sulla terra, ruppe il silenzio della montagna e cantò: "Te Deum laudamus, te Dominum confitemur". A quel punto, chi gli stava accanto proseguì: "Te@ aeternum Patrem@ omnis terra@ veneratur...". Cambiava la storia del mondo. Cambiava la storia d'Italia. [p. 5] I: "Buonasera, signor Dub¬cek" "Se tutto questo è vero, amico..." "Buonasera, signor Dub¬cek." L'eroe della Primavera di Praga mi guardò imbarazzato con gli occhi liquidi da cerbiatto. Avevo un microfono in mano e una telecamera che mi seguiva in diretta. Nel suo sguardo si leggeva qualcosa del genere: io non so, amico, chi tu sia; ma se la televisione italiana può muoversi liberamente sulla pista dell'aeroporto di Praga, se io che nel '68 ho cercato invano di salvare dai carri armati sovietici il "socialismo dal volto umano" (e per questo fui degradato a giardiniere) adesso sono il presidente del Parlamento cecoslovacco, se i vecchi gerarchi comunisti che tu vedi accanto a me sono impettiti sull'attenti e hanno preso dall'armadio l'abito scuro migliore, se tutto questo è vero, amico, come sta
documentando in diretta la tua telecamera, ed è la conseguenza della caduta del Muro di Berlino, il merito è di quel polacco vestito di bianco che sta scendendo dalla scaletta dell'aereo. Eccolo là, il papa polacco. Scende e abbraccia un vecchissimo prete con lo zucchetto rosso, "il generale senza truppe", come lo chiamava fino a poco fa il regime di Gustav Husàk. L'"intrepido pastore", lo definisce invece Wojtyla. E a Franti¬sek Toma¬sek, novantunenne primate ceco, campione della "Chiesa del silenzio", arrestato e tenuto in un campo di lavoro dal '51 al '54, spuntano le lacrime agli occhi. Mormora Vàclav Havel, drammaturgo amatissimo dalla folla, passato in pochi mesi dal carcere alla guida dello Stato: "Non so, se so, cosa sia [p. 6] un miracolo. Nonostante ciò oso dire che, in questo momento, sto partecipando a un miracolo". Commenta Giovanni Paolo II: "Ancora un anno fa non era pensabile che potesse venire il papa, anch'egli slavo e figlio di una nazione sorella". Mi dice oggi Joaquìn Navarro-Valls: "La visita non era prevista così presto. Havel insistette perché avvenisse immediatamente: "Venga subito, Santità". Il viaggio fu organizzato in quindici giorni". Aggiunge uno strettissimo collaboratore del pontefice: "La Cecoslovacchia era una nazione simbolo della repressione contro la Chiesa. Lì si faceva lezione perché gli altri paesi dell'Est imparassero". Tutto questo fino al tardo autunno dell''89. Nella primavera del '90, il papa polacco veniva accolto a Praga come il Salvatore. Un miracolo, appunto. D'Alema: "Questo papa ci preoccupava..." Il Muro di Berlino cominciò a franare alle 18,18 del 16 ottobre 1978, undici anni e ventiquattro giorni prima del crollo ufficiale. A quell'ora il cardinale Angelo Felici, camerlengo di Sua Santità, si affacciò alla Loggia delle Benedizioni, al centro della facciata di San Pietro, e disse: "Habemus papam". Stavo facendo la telecronaca per il Tg1 e i vaticanisti della mia redazione mi avevano detto: "Hanno eletto Giovanni Colombo". Tenevo ben spiegata davanti la biografia dell'arcivescovo di Milano quando Felici disse "Carolus" ed era già una sorpresa - "Wojtyla" e cambiò la storia del mondo. "Il papa è polacco!" gridai con la voce strozzata, mentre la folla radunata in piazza San Pietro si stava abituando all'eventualità di un papa nero. "Per noi" mi confessa Massimo D'Alema a palazzo Chigi "l'elezione del papa polacco fu senza dubbio un motivo di preoccupazione. C'era
la novità rappresentata dalla rottura della continuità italiana. Ed era una novità stimolante. Però c'era anche il timore di un papa che guidasse una crociata. L'Uomo venuto dal Freddo..." [p. 7] Chiedo a D'Alema: pensa che Giovanni Paolo II abbia contribuito alla caduta del comunismo? "In una certa misura sì: ha fatto emergere il vuoto spirituale e di valori che c'era in quella società. Le grandi personalità, più che determinare gli avvenimenti della storia, hanno il merito di saperli capire e interpretare prima degli altri. La crisi del comunismo era matura. Il papa l'ha capito prima di altri." A Wojtyla non aveva pensato nessuno. Il "Corriere della Sera" aveva preparato diciassette biografie: quella giusta non c'era. Avevo conosciuto il nuovo pontefice esattamente un anno prima. Stavo organizzando un viaggio in Polonia, quando un collega, Pierluigi Varvesi, mi disse: "C'è un cardinale polacco di passaggio a Roma, abbiamo la possibilità di incontrarlo a cena". Andammo. Il cardinale era un pretone alto, solido e prestante di cinquantasette anni. Pelle chiara con segni forti stampati sul viso, scarpe grosse, voce baritonale. Mangiammo in cinque (Wojtyla era accompagnato da un giovane segretario, don Stanislaw Dziwisz, che sarebbe stato poi il suo inseparabile collaboratore in Vaticano) gli affettati e il parmigiano offerti da Bogumil Lewandowski, portavoce della conferenza episcopale polacca. Al momento del whisky, il cardinale ingaggiò una gagliarda competizione con il mio amico che aveva studiato dai gesuiti e sosteneva che i preti non dovessero gestire scuole. Wojtyla si scaldò: "Non riuscite a capire la diversità di situazioni. In un paese come il vostro, la scuola cattolica deve essere integrativa di quella pubblica. Ma in paesi come il mio, senza la scuola privata, il cattolicesimo verrebbe cancellato". Varvesi restò impressionato dai suoi pugni serrati. Le mani rosse e le nocche bianche. "Sembrava una scultura di Rodin" commentò. Saputo del mio viaggio in Polonia, il cardinale mi invitò a Cracovia. Andai a trovarlo. Il regime, che doveva la precaria convivenza con la maggioranza cattolica al carisma e all'equilibrio del primate Stefan Wyszynski, detestava Wojtyla. La polizia politica mi aveva seguito a Praga nei fortunosi incontri [p. 8] con i dissidenti Michnik e Kuron e non mi mollò nemmeno sotto l'abitazione del cardinale. Il governo polacco mi aveva fatto chiedere (invano) dal nostro ambasciatore la pellicola con le interviste "proibite". Non poteva sequestrarla perché il leader polacco Gierek stava per venire in visita ufficiale in Italia, ma non gradì affatto che io
completassi il mio giro con Wojtyla. Seppi perfino di fortunate pressioni sulla Segreteria di Stato vaticana perché alla morte di Wyszynski (che sarebbe avvenuta quattro anni dopo), il cardinale di Cracovia non diventasse primate di Polonia. Lo Spirito Santo avrebbe punito quell'accordo, ma alla fine del '77 - con Bre¬znev trionfante al Cremlino - la "cortina" era davvero di ferro. Frequentando Wojtyla e il suo mondo per qualche giorno credetti di capire le ragioni di tanto odio. L'uomo che avrebbe rivendicato la difesa dei diritti umani davanti a Pinochet e a Fidel Castro facendoli inginocchiare entrambi, l'uomo che avrebbe ignorato ogni scomunica internazionale contro il demone Saddam Hussein non aveva paura di niente. Non a caso avrebbe incominciato il suo pontificato, il 22 ottobre del 1978, gridando agli uomini: "Non abbiate paura!". "Lo avrebbe ripetuto in Polonia nel suo primo viaggio" mi ricorda un suo strettissimo collaboratore. "E fu una scelta rivoluzionaria. I regimi comunisti giocavano tutto sull'intimidazione, sulla paura. Nessuno pensava che sarebbe arrivato un papa slavo a gridare di non averne..." Fin da quando era cardinale, Wojtyla sosteneva che non è compito della Chiesa impartire lezioni ai non credenti, né avere il monopolio della morale. Ma non accettava in alcun modo la discriminazione contraria. A Paolo VI, il papa che dieci anni prima l'aveva fatto cardinale, era proibito visitare la Polonia. Nella sede del giornale dei cattolici "Settimanale universale", che avrebbe certo venduto più dell'organo di partito "Trybuna Ludu", mi dissero che il regime faceva mancare la carta e mi mostrarono i buchi che segnalavano gli interventi della censura. (In compenso venivano pubblicate ogni tanto poesie inviate dal cardinale.) Lo stesso Wojtyla mi [p. 9] parlò dell'odissea per avere il permesso di costruire ogni nuova chiesa e riprese il discorso di Roma sull'educazione giovanile: "Dobbiamo lottare perché la scuola non diventi luogo di ateizzazione". Aggiunse: "I posti più importanti nell'amministrazione e nell'industria, i posti da direttore sono quasi tutti riservati ai membri del partito. Un credente che viva la fede coerentemente non può essere membro di un partito fondato sull'ateismo e sul materialismo. Come vede, ancora una volta è in gioco la libertà religiosa". (Avrei ripensato a quelle parole quando in Italia le polemiche avrebbero sfiorato il pontefice sui temi dell'unità politica dei cattolici e sulla parità scolastica. Il 26 giugno 1993 e il 10 gennaio 1994, Giovanni Paolo II pronunciò due discorsi che ne fecero capire l'apprezzamento per l'unità dei cattolici, prossima a
frantumarsi sugli scogli della crisi democristiana. Chi conosce il papa sa che sue interferenze nella vita politica italiana sono impensabili. Ma alla luce dell'esperienza polacca si può capirne la sorpresa per la diaspora dei credenti che in Polonia potevano ottenere risultati, sia pur modesti, solo dando prova di grandissima unità. Mi racconta oggi Andreotti: "Ogni tanto qualcuno andava dal papa per lamentarsi della Dc. Lui rispondeva: esiste un'alternativa? Se non esiste, cercate di dare una mano a quel che c'è".) "Che ne direbbe di un papa polacco?" Una qualunque domenica di fine novembre, quando non c'erano speciali festività da celebrare, andammo a filmare la messa del cardinale Wojtyla nella chiesa di Sant'Anna. Non avevo mai visto - né avrei più visto - tanta gente pregare insieme. Arrivai tardi per via di un appuntamento precedente e sapevo che la troupe mi aspettava vicino all'altare. Ma dovetti fermarmi davanti a un muro umano invalicabile. Un signore si girò, gli spiegai il mio problema e lui senza dire una parola mi prese in braccio e mi passò alla persona che gli stava davanti. Così, come la statua di un santo portata in [p. 10] processione da persone ferme che se la passano l'un l'altra, arrivai vicino a Wojtyla. Il cardinale aveva gli occhi socchiusi, pregava in quel modo ineguagliabile che il mondo avrebbe presto conosciuto. La città cattolica era schierata davanti a lui. Migliaia di occhi guardavano i suoi, migliaia di bocche rispondevano alle sue parole. Decine di giovani suonavano e cantavano, pur sapendo che così non sarebbero mai diventati "direttori". Quella gente non lo amava soltanto come un credente può amare il suo vescovo. Lo amava e lo seguiva come il leader delle proprie battaglie sociali e civili. Fu per questo che la sera stessa, quando andai a casa sua per intervistarlo, dopo gli abbracci e i saluti sulla porta gli chiesi: Eminenza, non le pare arrivato il momento di avere un papa polacco? Lui non obiettò che da cinque secoli avevamo papi italiani e non c'era nessuna ragione per cambiare. Sorrise, mi appoggiò la mano sulla spalla e disse: "E' ancora un po' presto". Un poco, soltanto un poco. Manifestazioni a Berlino Est Il 9 novembre 1989 nell'Europa centrale era un freddo giovedì qualunque. Molti giornali pubblicavano in prima pagina la foto di un
gruppo di giovani della Germania orientale che erano andati senza difficoltà in Cecoslovacchia, "paese fratello" del blocco comunista. Da lì avevano raggiunto in treno la località di Cheb Pomezi, al confine con la Germania occidentale, ed erano stati ripresi da un reporter dell'Associated Press mentre marciavano a piedi verso la libertà. Per andare dall'Est all'Ovest la strada più breve per quei ragazzi sarebbe stata attraversare a Berlino il Check-point Charlie facendo marameo ai Vopos comunisti di guardia. Ma questo dal '61 non era possibile. Avrebbero allora potuto attraversare un punto qualunque della sterminata frontiera che tagliava la Germania da Amburgo a Francoforte. Ma questo era impensabile. E allora da qualche settimana potevano ottenere lo straordinario risultato [p. 11] entrando in Cecoslovacchia, prendendo un treno per Cheb e proseguendo a piedi per Arzberg, oscuro paese della Germania centrale, non lontano dalla Bayreuth di Richard Wagner. Questo ipocrita minuetto aveva la sua premessa in uno storico avvenimento. Il 7 ottobre, quarantesimo anniversario della nascita della Repubblica democratica tedesca, si erano svolte a Berlino Est manifestazioni di piazza senza precedenti contro il regime. Undici giorni più tardi s'era dovuto dimettere Erich Honecker, padrone della Sed (il Partito socialista unitario) dal '71, quando aveva sostituito Walter Ulbricht, che ne era stato il titolare per conto di Mosca dal '46. La Germania Est aveva avuto, dunque, due soli principi in quarant'anni. L'ultimo era stato sostituito a furor di popolo. Il successore, naturalmente, era un altro funzionario di partito, Egon Krenz. Appena nominato capo dello Stato e delle forze armate (cariche che facevano un tutt'uno con quella di leader della Sed), dette ordine di rendere liberi i cinquemilaseicento suoi compatrioti che si erano rifugiati a Praga, sotto la protezione fisica dell'ambasciata della Germania occidentale. Erano cominciati così quei tortuosi viaggi verso la libertà ai quali abbiamo accennato poco fa. Rispetto al vecchio tiranno Honecker, Krenz era un liberatore. Ma, ormai, i tedeschi dell'Est avevano imparato a giocare al rialzo e volevano a capo dello Stato, del partito e di tutto il resto Hans Modrow, già battezzato il "Gorbaciov tedesco". Per parare il colpo, l'8 novembre Krenz aveva nominato Modrow primo ministro. Ma evidentemente non bastava. Nel mese intercorso tra la cacciata di Honecker - che prudentemente se n'era andato nella casa madre sovietica - e la nomina di Modrow per mano di Krenz, la Germania Est aveva ruggito come un vulcano prima dell'eruzione. Nel gerontocomio comunista dove per decenni
nulla s'era mosso all'ombra del Muro, tutti si dimettevano da tutto. [p. 12] Il telegiornale disse: "Uscita libera" Per salvare il salvabile, l'8 novembre Krenz aveva giocato due carte: attaccare il suo predecessore (il che, nel mondo comunista, era come se il papa entrante avesse sparlato di quello uscente) e lasciar intravedere qualche ambiguo spiraglio di libertà politica. "I nuovi gruppi politici che si muovono all'interno della Costituzione potranno essere legalizzati." Frase oscura, visto che la stessa Carta garantiva al Partito comunista il ruolo guida del paese. Al povero Krenz sembrò tuttavia di aver fatto già molto e quella fredda sera d'autunno uscì dall'ufficio e si mescolò alla folla per saggiarne la reazione. Purtroppo per lui, fu riconosciuto e fischiato. Eppure, nessuno pensava che la situazione sarebbe precipitata in poche ore. Nemmeno Helmut Kohl, che pure in quei giorni aveva rilanciato l'utopia della riunificazione tedesca. L'indomani, 9 novembre, Kohl andò a Varsavia per complimentarsi con i dirigenti di quel paese non a caso lo stesso in cui era nato il papa - per i passi avanti compiuti e chiudere una pratica sui confini aperta da Hitler. "Quella mattina" mi racconta Giulio Andreotti, che allora era presidente del Consiglio "erano a Roma il presidente del Parlamento europeo Baron Crespo e i rappresentanti della Commissione europea. Ci arrivò un prudente messaggio di Kohl. Lo stesso Gorbaciov invitava alla prudenza, forse preoccupato per la governabilità della transizione. Sembrava che i dirigenti della Germania Est, avendo sacrificato i loro massimi esponenti governativi, potessero tenere in mano la situazione. Ma ormai la frana era incontenibile e di ora in ora si sovrapposero i dispacci di un terremoto che andava ben oltre la Germania dell'Est..." "Eppure" mi dice Carlo Azeglio Ciampi "ebbi la sensazione che i dirigenti dell'Est fossero ancora convinti di farcela. L'indomani della caduta del Muro ero a Berlino e il mio collega governatore della Germania Est pensava che il terremoto avrebbe avuto un assestamento, ma insomma che la casa non sarebbe crollata. Nessuno immaginava che di lì a poco [p. 13] Kohl, contro il parere della Bundesbank, avrebbe deciso che il marco dell'Est valeva quanto quello dell'Ovest..." Il 9 novembre, Krenz capì che per riuscire a reggere doveva fare qualcosa di straordinario. Nell'ultima settimana, da quando erano state definitivamente aperte le frontiere tra la Cecoslovacchia e la
Germania occidentale, quarantottomila tedeschi dell'Est erano scappati all'Ovest. L'unico modo per fermare l'emorragia era aprire i confini interni. Così, al telegiornale della sera di quel venerdì, comparve un membro del Politburo, Günter Schabowski, per dire che gli uffici di polizia erano stati autorizzati a concedere il visto d'espatrio a chiunque lo avesse chiesto. Inutile scappare, quindi, come anche quel 9 novembre avevano fatto altri undicimila tedeschi: l'uscita era libera. Né Schabowski, né Krenz, che l'aveva mandato davanti alle telecamere, né alcun altro nel mondo intero potevano immaginare quel che sarebbe accaduto di lì a poco. "Eravamo già a letto, quando abbiamo sentito la notizia" dissero ai cronisti due ragazzine di Berlino Est. "Ci siamo rivestite e adesso corriamo in discoteca fino all'alba." La novità era che la discoteca si trovava a Berlino Ovest. Fino a poco prima le due ragazze per andare a ballare all'Ovest avrebbero dovuto fare il giro della Cecoslovacchia. Fino a un mese prima non avevano nemmeno il diritto di sognarlo. I poliziotti dell'Est, quella sera, si preparavano a firmare un po' di visti di uscita. Furono travolti da una piena umana. Nella notte stellata, per la prima volta il Muro perse l'aspetto drammatico che aveva dalle 2,30 del 13 agosto 1961, quando migliaia di soldati e di poliziotti si mossero insieme per dividere Berlino in due. In dodici anni, da quando esisteva la Germania di Pankow - come si chiamava allora -, 2.634.699 tedeschi dell'Est erano fuggiti all'Ovest. Krusciov, che da Mosca comandava su tutta l'Europa orientale, disse che era ora di finirla. Considerava Kennedy un debole e ordinò a Ulbricht di procedere. Ulbricht obbedì e quella tragica notte d'agosto del '61 andò personalmente a verificare - mattone dopo mattone - la costruzione di quello che gli occidentali [p. 14] chiamarono subito "il muro della vergogna". Un muro insanguinato perché per più di vent'anni le guardie di frontiera dell'Est spararono su chiunque vi si avvicinasse. Pertini davanti al Muro con gli occhi lucidi (Vedere il Muro da vicino era un'esperienza traumatica, nonostante la sua immagine fosse apparsa migliaia di volte in televisione. Una volta mi capitò di andarci con Sandro Pertini, che era presidente della Repubblica in visita di Stato in Germania. Il vecchio socialista salì su un palco che le autorità occidentali tenevano pronto per gli ospiti illustri. E quando vide il Muro dall'alto, gli
enormi cespugli di filo spinato e di filo elettrico che ne erano lo spettrale cappello, le guardie di frontiera che vigilavano dall'altra parte con i mitra spianati e l'infinita malinconia della gente che si muoveva in lontananza al rallentatore o si metteva quietamente in fila anche per comprare un gelato, discese dal palco scuotendo la testa con gli occhi lucidi.) Quando migliaia di persone si presentarono quella notte al mitico Check-point Charlie e videro che potevano andare tranquillamente dall'altra parte, piansero, risero, urlarono di gioia e d'incredulità. "E' come se fosse Natale, Pasqua e Capodanno nello stesso momento" gridò un ragazzo. "Vado a bermi una birra alla Ku' damm" gli fece eco un altro che aveva visto la più famosa strada di Berlino Ovest soltanto alla Tv. Arrivò una ragazza: "Oggi è il mio compleanno e il mio ragazzo m'ha detto: ti porto a ballare di là". I Vopos avevano riposto i mitra. Quando qualche ragazzo si presentò al confine perfino sprovvisto di documenti, una guardia fece desolata: "Questo è troppo". Ma per lo più i militari della Germania comunista passarono il tempo a fare le hostess. Una ragazza arrivò a baciare il gendarme che qualche ora prima l'avrebbe arrestata e che adesso le sorrideva. Massimo Nava del "Corriere della Sera" fu testimone del simbolico incontro. "Posso davvero tornare indietro?" chiese [p. 15] la ragazza. "Certo, lei può andare dove vuole" le rispose il militare con una margherita all'occhiello. Mentre tanti ragazzi ballavano e cantavano, mentre Mstislav Rostropovi¬c si metteva in viaggio con il suo mitico violoncello per suonare sotto il Muro, tanta altra gente andò a casa a prendere martelli e picconi. Quella notte stessa cominciò la demolizione più liberatoria del dopoguerra, senza che nessuno sparasse più a chi saltava a cavallo del Muro. "La settimana successiva, il 18 novembre" ricorda Andreotti "ci vedemmo a Parigi con tutti gli alleati europei. Quasi tutti - e il quasi è generoso - riconobbero che gli eventi avevano camminato molto più rapidamente del previsto. Attorno al caminetto dell'Eliseo, fu una serata di grande commozione." Quelle mani, l'una sull'altra Le mani. Quelle mani, l'una sull'altra, facevano pensare a due fratelli che si ritrovano dopo settantadue anni e si riconoscono nel cuore prima che nel volto. Settantadue anni. Tanti ne erano trascorsi dal 6 novembre 1917, quando Vladimir Il'i¬c Ul'janov detto Lenin aveva portato i bolscevichi al potere nella Santa Russia tagliando i
rapporti diplomatici con il Vaticano. E adesso, il 1o dicembre 1989, ventidue giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, quei rapporti venivano ristabiliti dall'incredibile incrociarsi di mani tra Giovanni Paolo II e Michail Gorbaciov. Per la prima volta un imperatore sovietico aveva capito sulla propria pelle che Stalin sbagliava a chiedersi quante divisioni avesse il papa. Si può vincere una guerra anche con le nude mani contro uno dei più spaventosi apparati militari che abbia conosciuto la storia dell'umanità. Ora quelle mani s'erano fermate tra le mani del nemico di ieri per sei secondi al primo incontro. Ma nel lungo colloquio a quattr'occhi (settantadue minuti, annotò Bruno Bartoloni sul "Corriere") avvenuto nella biblioteca del pontefice, esse si tennero a lungo. [p. 16] Chi le avvicinò per primo all'altro?, chiesi a Gorbaciov nell'ottobre del '98, a vent'anni dall'elezione di papa Wojtyla. "Lo facemmo insieme" rispose. E aggiunse: "In quel nostro primo incontro, il papa mi disse che l'Europa doveva vivere con due polmoni". Liberi di respirare entrambi?, chiesi. "Liberi di respirare" sorrise Gorbaciov. In quel colloquio che avemmo in diretta a Porta a porta, il padre della perestrojka usò per Giovanni Paolo II espressioni che nel tradizionale vocabolario marxista-leninista erano state riservate per quasi tutto il secolo solo a comunisti e a loro illustri fiancheggiatori: "portatore di pace", "difensore dei poveri e degli oppressi", "auspice della caduta dei blocchi". A tanti anni dalla caduta del Muro, sembrava ancora di vivere un sogno. E frutto di un fotomontaggio appariva l'immagine, anch'essa in diretta, di Egon Krenz dalla porta di Brandeburgo nella Berlino ormai unita. "Fecero bene a eleggere quel papa" ammise un po' imbarazzato l'ultimo capo della Germania comunista. E riconobbe con un giro complicato e prudente di parole che, insomma, la spallata buona l'aveva data proprio quel prete polacco. La svolta di Occhetto "Qui cambia tutto!" esclamò Achille Occhetto. La sera di quel 9 novembre stava davanti a un televisore in una saletta dell'hotel Atlantic di Bruxelles. Con lui si trovava Neil Kinnock, il leader della sinistra laburista inglese arrivato a conquistare la presidenza del partito. Era la prima volta che il capo del Labour Party incontrava un segretario del Pci. Adesso D'Alema e Veltroni parlano di Tony Blair come di uno di famiglia che vive all'estero. Ma quando c'era il Muro i comunisti erano comunisti anche per la sinistra sindacale del Labour. "Cambia tutto" convenne Kinnock, senza
nascondere la sorpresa per le immagini che gli stavano scorrendo sotto gli occhi in diretta mondovisione. Si trovava a Bruxelles per una riunione di socialisti e aveva dato appuntamento lì al segretario del Pci, che era pure parlamentare europeo. [p. 17] Occhetto stava facendo il giro delle sette chiese per ottenere l'ammissione nell'internazionale socialista. Aveva scritto a Brandt una lettera in tal senso, quindici anni dopo i primi incontri di Berlinguer con il leader della socialdemocrazia europea. Ma poiché ogni decisione che riguardava l'Italia veniva rimessa alla volontà di Craxi, il segretario del Pci tentava una manovra di accerchiamento per strappare il maggior numero di consensi esterni. L'improvvisa e inattesa caduta del Muro poteva a questo proposito rivelarsi provvidenziale, anche se era immaginabile il trauma che avrebbe prodotto su un'intera generazione di comunisti italiani abituati ancora a considerare l'Urss il migliore dei paesi. (Nel '77, a sessant'anni dalla rivoluzione d'Ottobre, un sondaggio realizzato dalla Doxa per il Tg1 rilevava che per il 94 per cento pensava che in Unione Sovietica i cittadini avessero maggiori possibilità di fare un lavoro adatto alle proprie capacità e ai propri meriti. Il 72 per cento era convinto che in Urss fossero assicurate prospettive migliori al lavoro dei figli e soltanto il 48 per cento era convinto che in Italia libertà di pensiero e diritti individuali fossero garantiti meglio che a Mosca. D'altra parte, rispondendo ad alcune mie domande nel novembre di quell'anno, Paolo Bufalini, a nome della segreteria del Pci, affermò che l'economia italiana doveva arrivare al socialismo "attraverso una programmazione democratica che abbia determinati strumenti pubblici, che lasci spazio all'iniziativa privata, come del resto è accaduto in alcune società socialiste. Per esempio, nella Repubblica democratica tedesca per lunghi anni - e ancora oggi in parte - è coesistita un'iniziativa privata sia nell'industria sia nell'agricoltura". In quegli anni, non era soltanto la base comunista a essere legata all'Urss. Nonostante gli strappi di Berlinguer, come rivela Valerio Riva nel suo libro Oro da Mosca pubblicato da Mondadori nell'ottobre del '99, fino agli anni Ottanta sono continuati flussi finanziari regolari dal Pcus al Pci.) [p. 18] Assediato dai giornalisti italiani dopo il colloquio con Kinnock, Occhetto disse che la caduta del Muro era "un avvenimento clamoroso". Anzi, a ben vedere, era "l'atto che più d'ogni altro mette fine alla guerra mondiale poiché ci pone davanti, per la prima volta, a un mondo totalmente diverso da quello che abbiamo imparato a conoscere dal 1945 in poi".
Questo accadeva venerdì 10 novembre. Il giorno dopo, Occhetto tornò in Italia e si fermò a Mantova per vedere una mostra di Giulio Romano, il pittore che dipinse con Raffaello la sala di Costantino in Vaticano ed eresse e decorò per i Gonzaga il palazzo del Te, perla della bella città lombarda. Domenica 12 avvenne, inattesa, la svolta. La sera prima, durante una cena dell'Arci, Occhetto era stato invitato alla Bolognina da un vecchio partigiano ("William") che voleva commemorare solennemente la battaglia di porta Lame contro i tedeschi. La battaglia s'era svolta a due isolati di distanza da quella che sarebbe diventata una delle sezioni storiche del Pci. Tra stendardi, gagliardetti e bandiere rosse, i compagni emiliani s'aspettavano una parola rassicurante dopo la caduta del Muro. Ma niente di speciale, visto che "l'Unità" diretta da Massimo D'Alema - non aveva ritenuto opportuno nemmeno mandare un inviato al seguito del segretario. Arrivò invece la bomba. Mi raccontò Occhetto: "Senza consultare nessuno, feci ai partigiani lo stesso discorso che Gorbaciov aveva fatto ai veterani sovietici: "Voi avete vinto la Seconda guerra mondiale, ma se non cambiate tutto finirete per perderne i frutti". Un cronista si avvicinò ai piedi del palco e mi chiese: "Le sue parole lasciano presagire che tutto è possibile, anche un cambiamento del nome?". Gli risposi di sì e poco dopo le agenzie di stampa annunciarono: forse il Pci cambia nome". Nel suo intervento, in realtà, Occhetto non aveva parlato del nome. L'unico a conoscere quel segreto era proprio William, il partigiano che l'aveva invitato. Confermandogli, dopo qualche perplessità, l'impegno di celebrare la battaglia di porta Lame, il segretario (che aveva in testa il parallelo con Gorbaciov) gli aveva detto: "Guarda, William, verrò a fare un discorso importante. Dopo quel che è successo, qui [p. 19] cambia tutto. Anche il nome del partito". Per il vecchio partigiano non fu una bella notizia. Ma da combattente abituato a obbedire non ne fece parola con nessuno e a Occhetto rispose: "Per me sarà sufficiente portare quel nome sempre nel mio cuore". William presagiva quale trauma politico e sentimentale sarebbe nato alla Bolognina, ma non immaginava forse che nel punto critico della battaglia Fabio Mussi, con il suo micidiale sarcasmo toscano, avrebbe accusato i più nostalgici di restare legati al nome del Pci come si fa con un vecchio e rassicurante bambolotto di pezza. Torniamo alla sera della svolta. Mi raccontò Occhetto: "La notizia uscì sulle agenzie che era già tardi. Quando i giornalisti mi cercarono al telefono per avere chiarimenti, ero in volo per Roma. Così, l'indomani, "l'Unità" pubblicò la notizia del possibile cambio
di nome con il punto interrogativo". "Io non mi chiamo. Mi chiamano gli altri..." Occhetto mi ricordò che, nel febbraio dell''89, al XVIII Congresso del partito, aveva annunciato "tra gli applausi" che il Pci "non avrebbe mai cambiato nome sotto la pressione di Craxi e che solo una nuova costituente delle forze di sinistra ci avrebbe fatto muovere". "L'Unità" si fece interprete dello sconcerto che l'annuncio di Occhetto alla Bolognina avrebbe potuto provocare nel partito. Il servizio da Bologna del corrispondente Walter Dondi fu pubblicato lunedì 13 novembre in modo sorprendentemente riduttivo. L'apertura del giornale era infatti dedicata all'annuncio che Modrow sarebbe diventato primo ministro della Repubblica democratica tedesca. E solo al centro della pagina si dava conto della storica svolta della Bolognina: "Occhetto ai veterani della Resistenza: dobbiamo inventare strade nuove. A chi gli chiede se il Pci cambierà nome risponde: tutto è possibile". "La prudenza dell'"Unità"" mi dice oggi Massimo D'Alema "era dovuta al fatto che in quelle ore non riuscimmo a fare [p. 20] una valutazione compiuta. L'improvvisa accelerazione di Occhetto ci colse di sorpresa. Ma il problema del cambio di nome era già presente nelle nostre discussioni. Pochi giorni prima della Bolognina, ebbi una conversazione con Occhetto basata sul nostro ingresso nell'Internazionale socialista e sul conseguente cambio del nome: come avremmo potuto continuare a chiamarci comunisti?" La domenica sera, Occhetto era tornato a casa schivando ogni telefonata di chiarimento. Si era chiuso nello studio affacciato sulla cupola della sinagoga e per la prima volta aveva deciso di usare personalmente una macchina da scrivere: voleva che nessuno conoscesse in anticipo il discorso che avrebbe pronunziato l'indomani in segreteria e martedì in direzione. Quella notte, gli tennero compagnia le ventisette pipe di una collezione ordinatamente schierate su una rastrelliera, una foto con Arafat e un fantastico Pulcinella tutt'altro che allegro: riassumeva, anzi, in sé il logorante cammino che avrebbe accompagnato il Pci negli anni successivi. Alla riunione di segreteria del lunedì intervennero D'Alema, Bassolino, Veltroni, Fassino, Mussi, Petruccioli, Livia Turco. "Occhetto" ricorda D'Alema "presentò una relazione scritta non usuale per la segreteria. Una relazione molto bella, uno dei documenti più
vivi della svolta." Mi raccontò Occhetto: "Tutti accolsero le mie proposte con entusiasmo, tanto che a un certo punto fui io a manifestare qualche perplessità: fermiamoci un momento, ditemi subito con franchezza se debbo andare avanti. Per non creare equivoci, interpellai i presenti uno a uno. E tutti mi risposero sì, siamo d'accordo". La proposta era di lanciare un appello "a tutte le forze democratiche e di progresso" perché dessero vita con i comunisti a un nuovo soggetto politico che naturalmente avrebbe avuto anche un nome diverso. A sessantotto anni dalla scissione di Livorno, il Pci dava così l'avvio ai tentativi, generosi quanto sfortunati, di aggregare altre masse a una Cosa (allora era la Cosa 1, D'Alema avrebbe tentato di lanciare una Cosa 2) che sarebbe rimasta pur sempre il partito di Botteghe Oscure con un progressivo cambiamento di nome: Pci, Pds, Ds. [p. 21] Craxi: "Il fiume risponde alla sorgente" In quest'ottica rinnovata, fu rilanciata la richiesta d'ammissione all'Internazionale socialista, già proposta a Willy Brandt il 4 novembre, cinque giorni prima del crollo del Muro. Martedì 14, Giorgio Forattini riassunse la situazione in una micidiale vignetta. Craxi, dipinto nei consueti abiti di Mussolini, trascinava per mano un piccolo Occhetto piagnucolante. Didascalia: "Buono a papà, che ti porto all'anagrafe a cambiare nome". (L'indomani, altra vignetta. Nilde Iotti, ammantata di nero, lasciava sul sagrato di una chiesa il frutto del peccato: Occhetto in una culla. Didascalia: "L'innominato". Ancora un giorno e il solito Benito Craxi accarezzava il ciuffo dello scolaro Occhetto. "Come ti chiami, piccino?" "Io non mi chiamo, mi chiamano gli altri.") Il commento del leader socialista all'iniziativa del segretario comunista fu favorevole: "Se il Pci cambiasse nome, sarebbe cosa buona e giusta. Nessun problema per il Psi". Craxi accusava in quel periodo il Pci di aver fomentato "esplosioni di settarismo". "Ma il settarismo" aggiunse "può essere considerato una malattia infantile del Pci. E quindi se ne può guarire." Invito Craxi a ripensare a quei giorni, mentre pranziamo in un ristorante di Hammamet. "A quel tempo, mi ero proposto di seguire nei confronti del Pci la via del dialogo, dell'accordo, di un processo di unità. Tra una guerra aperta, mentre crollava attorno al Pci il mondo del socialismo reale, e un trattato di pace che ponesse fine a storiche divisioni, avevo scelto la seconda via." E sulla questione dell'adesione del Pci all'Internazionale?
"Occhetto, Fassino e altri sanno che fin dall'inizio da parte mia non vi fu un atteggiamento di opposizione. Willy Brandt mi parlò personalmente del problema. Fu esplicito, dicendomi: "La Spd è favorevole all'ingresso del Pci, però la decisione spetta a te". Altri leader socialisti me ne parlarono manifestando perplessità e consigliandomi prudenza." E lei? "Parlai a favore e proposi di accettare la richiesta del [p. 22] Pci. Pensavo a quella che allora andavo definendo come l'Unità socialista e che, come presto si vide, si rivelò un'astrazione e una perfetta illusione. In questi anni, mi sono tornate spesso in mente le parole che una volta, a proposito dei comunisti, mi disse Pietro Nenni: "Ricordati che il fiume risponde sempre alla sorgente"." "'A Nilde, aripensace!" Mentre la sinistra intellettuale e sociale (da Bobbio a Trentin) guardava con simpatia alla traumatica scelta di Occhetto, nel partito si scatenò la bufera. La riunione di direzione fu assai più agitata di quella di segreteria. Non ci fu un voto sulla sostanza e anche sul metodo della proposta, ma i pareri contrari grandinarono. Natta, Pajetta, Chiaromonte, Chiarante, Magri, Luciana Castellina erano tra i più perplessi. Cossutta, contrarissimo, chiese un referendum per consultare la base. Da almeno otto anni, l'Armando era sul crinale del "frazionismo". Amatissimo dalla base dura e pura del partito, aveva sempre guardato con preoccupazione il progressivo distacco di Berlinguer dalla casa madre sovietica. Nel '78, sosteneva ancora come fosse "assurdo per un partito comunista, cioè rivoluzionario, prescindere dagli insegnamenti del più grande rivoluzionario di tutti i tempi, cioè Lenin, e dai risultati conquistati dall'Urss malgrado gli errori e le storture". (Berlinguer era su posizioni assai più avanzate, ma nel congresso del Pci del '79 mi colpì vedere sul tavolo del suo ufficio congressuale un libro di Lenin sulla scuola.) Nell''81, Cossutta ammoniva i suoi compagni che "la nostra autonomia non può trasformarsi in antisovietismo". Nel dicembre di quell'anno il generale Jaruzelski - temendo forse un intervento militare sovietico - mise fuori legge il sindacato libero Solidarno¬s¬c, che aveva in Lech Walesa il suo braccio operativo ma in Karol Wojtyla il suo padre spirituale. La direzione del Pci scrisse in un documento la famosa frase berlingueriana che definiva "esaurita la capacità propulsiva delle [p. 23] società dell'Est". E Cossutta sbottò: "E' uno strappo con la nostra tradizione". Un anno più tardi, in un memorabile libro dallo stesso titolo (Lo strappo, Mondadori),
rivendicò in duecentodue pagine appassionate le ragioni che per sessant'anni avevano legato il Pci all'Urss riconoscendo il ruolo di guida del partito unico. Cossutta non era un visionario. Se Berlinguer non lo aveva espulso dal partito, come era toccato nel '69 ai quattro eretici del "manifesto" (Natoli, Pintor, Rossanda e Magri), era stato perché il vecchio Armando aveva le sue brave truppe alle spalle. Quando, in qualcuno dei tanti colloqui riservati avuti con Berlinguer dalla metà degli anni Settanta in poi, Andreotti gli rimproverava di fare il riformista a parole, ma di mantenere in realtà solidi legami con Mosca, il segretario del Pci ribatteva che soltanto in quel modo poteva evitare che i russi gli facessero nascere accanto un altro Pci fondato su quella che Ponomarëv, l'uomo duro del Cremlino, chiamava la "parte sana" del Partito comunista italiano. E chi era la parte sana del Pci se non Cossutta? Questi, peraltro, non volle fare la scissione quando avrebbe fatto piacere a Ponomarëv, riuscito nell'intento con il partito finlandese, anche perché fu neutralizzato dal più intelligente Andropov, capo del Kgb e poi segretario del Pcus, che, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, non voleva vedere il Pci indebolito nella battaglia finanziata senza risparmio da Mosca e condotta per non far installare a Comiso i missili Pershing e Cruise che invece furono piazzati a partire dall''81 e fino all''88. A dimostrazione, comunque, di quanto fosse forte il potere di Cossutta, basta leggere tra i moltissimi dati presenti nel libro di Riva un finanziamento di quattrocento milioni per la rivista cossuttiana "Orizzonti" approvato dal comitato centrale del Pcus a una settimana dalla richiesta arrivata dall'Italia. Con Cossutta, Occhetto fece propria la prudenza di Berlinguer. Un sondaggio commissionato dal "Corriere della Sera" per verificare la reazione della base comunista alla proposta di Occhetto registrò infatti soltanto il 39 per cento di militanti [p. 24] favorevoli, mentre i contrari erano il 30 per cento e altrettanti gli incerti. Tra i più perplessi, le donne del partito. Il vero scontro avvenne il 20 e il 21 novembre in un comitato centrale, svoltosi mentre Leonardo Sciascia si spegneva a sessantotto anni per una rara forma di leucemia e ne veniva celebrato a Racalmuto - secondo il desiderio dello scrittore - "un funerale religioso, il più semplice e sommesso possibile". La riunione del "parlamento rosso" si aprì sotto gli auspici peggiori. Una cinquantina di militanti della sinistra interna si
piazzò all'ingresso del Bottegone e infilzò con insulti spietati tutti i dirigenti sospettati d'intelligenza con il segretario, per la gioia del taccuino di Barbara Palombelli che ne riferì sul "Corriere della Sera". Questo il caloroso saluto alla presidente della Camera dei deputati: "'A Nilde, aripensace! 'Sto partito t'ha dato da magnà e mo' glie vorti le spalle!". L'auto del mitico Luciano Lama fu presa a calci: "'A Lama, fatte comunista!". Non andò meglio a Bruno Trentin, suo successore alla guida della Cgil: "Vattene a via der Corso, dai socialisti!". Ben diversa fu l'accoglienza ai contestatori di Occhetto (che riuscì a volatilizzarsi, evitando quelle forche caudine preparate da quanti ne chiedevano la radiazione dal partito). Pajetta fu incoraggiato: "Vai, Giancarlo, resisti!". Cossutta acclamato come un calciatore: "Ar-man-do! Ar-man-do!". Ingrao osannato come una Madonna pellegrina: "Pietro, non ci abbandonare! Salva il Pci!". D'Alema: "Occhetto? Onesto e coraggioso..." Ingrao fu in effetti l'oppositore più fermo, più forte e più autorevole di Occhetto. Quando la notizia del cambiamento di nome era venuta fuori, il vecchio Pietro si trovava in Spagna. Allora i cellulari erano ancora roba americana e, comunque, anche se fossero stati di uso comune, Ingrao non era tipo da mettersi a dettare i propri pareri al telefonino. Per conoscerne l'opinione si dovette aspettare quindi il suo ritorno. Antonio [p. 25] Bassolino andò a prenderlo a Fiumicino - come usa quando c'è un lutto grave in famiglia e si desidera confortare personalmente il congiunto più colpito - e gli raccontò la storia. A quel punto, Ingrao dovette rilasciare una dichiarazione. Si limitò a dire: "Non sono d'accordo". E lo fece con quella sua voce grave come l'espressione del volto, anticipando nei toni e nella mimica la sua requisitoria al comitato centrale. "L'emozione rispetto al nome "comunista"" disse dalla tribuna "non è un lamento di "reduci". E' un grumo di vissuto, di esperienza sofferta da milioni di italiani." Chiese un congresso straordinario con una considerazione profetica: "Non sono riuscito a capire se abbiamo in mente un partito socialdemocratico o un partito democratico o semplicemente una forza progressista". Dieci anni dopo avrebbe potuto riproporre la stessa domanda con le stesse parole senza che alcuno se ne meravigliasse. In quel drammatico comitato centrale, Occhetto fu difeso con un'intelligente e in parte decisiva opera di mediazione dall'uomo che
di lì a cinque anni lo avrebbe sostituito alla guida del partito, aprendo una lacerazione personale mai più ricomposta. Massimo D'Alema, quarantenne direttore dell'"Unità", definì "onesta e coraggiosa" la scelta di Occhetto. D'Alema passava per uno dei dirigenti meno aperti al Psi e intuì fin da allora il percorso obbligato del partito, senza immaginare che Tangentopoli gli avrebbe tolto di mezzo qualunque ostacolo. "Se non si agisce nell'ambito del socialismo europeo" disse "la funzione autonoma dei comunisti italiani rischia di esaurirsi." Alla fine, pur nella prospettiva di un congresso straordinario a brevissima scadenza, Occhetto la spuntò: 219 voti a favore, 73 contrari, 34 astenuti. Per la prima volta nella storia del partito, una minoranza forte e autorevole si opponeva al leader così scopertamente. Anche la base si schierò, in ogni caso, con il segretario. "Immaginavo di dover formare una corrente minoritaria nel partito" mi avrebbe raccontato il leader del Pci "e invece mi dettero ragione sette iscritti su dieci." [p. 26] Il nome della Cosa Per un anno il Pci fu davvero l'Innominato, come aveva previsto Forattini. Non si chiamava più Pci, non si chiamava ancora in un altro modo. Era semplicemente una "Cosa", con tutte le complicazioni che l'incertezza alimentava in una base e in una dirigenza periferica abituate a non averne. Il 22 marzo 1990, Craxi si trovava a Rimini per la conferenza programmatica del Psi. Premeva per l'unità socialista e ne parlò con D'Alema e Veltroni, che andarono a trovarlo nel suo ufficio, ricavato all'interno di un camper. "Dissi loro" mi racconta Craxi "che dovevano cambiare nome al partito e adottare la denominazione "socialista". Le risposte furono evasive. Mi dissero che non avevano ancora deciso. Probabilmente, un salto troppo brusco come quello che gli suggerivo io era considerato molto rischioso." "Decidemmo di non chiamarci socialisti per una ragione precisa" mi spiega D'Alema. "Noi avevamo il 25 per cento dei voti e chi sceglieva noi, non voleva votare socialista. Questa parola non evocava Brandt, evocava Craxi. L'ideologia non c'entra. L'impronta del Psi di Craxi era considerata negativamente non solo da noi, ma dalla maggioranza degli italiani." E' vero che in quei mesi una parte del Pci sbandò e qualcuno pensò a una confluenza nel Partito socialista?
"A una confluenza no. Il craxismo aveva aperto un varco nella parte del Pci che aveva maggiore propensione politico-culturale verso il socialismo democratico. Ma la separazione etica era così forte... Anche lo stile personale dei Napolitano e dei Chiaromonte era così lontano da quello dei De Michelis da determinare una reazione di pelle. La politica, paradossalmente, non c'entrava. Ma anche la nostra componente favorevole all'unificazione socialista doveva confrontarsi in concreto con quel che era realmente il Psi." Assai diversa, com'è naturale, la posizione di Craxi. "Il superamento delle storiche divisioni era un processo naturale. A seconda delle condizioni e delle contraddizioni, poteva verificarsi in forme e tempi diversi. Poi tutto si irrigidì. I comunisti [p. 27] del Pds cavalcarono una falsa rivoluzione e concorsero tra i primi alla distruzione del Psi e alla persecuzione socialista." D'Alema, in ogni caso, riconosce oggi a Craxi di aver dato in quell'occasione una mano al Pci. "L'aspetto positivo di quel colloquio fu che lui si impegnò a evitare elezioni anticipate che ci cogliessero in mezzo al guado. Craxi ci promise che non ci avrebbe colpito nel momento di passaggio e rispettò l'impegno." Un giorno del tardo autunno del '90, chiesi a Walter Veltroni, responsabile dell'informazione del partito, di poter mostrare in diretta nell'edizione principale del Tg1, che dirigevo da poco, il nuovo nome e l'attesissimo nuovo simbolo del partito. "E' vero che c'è una quercia?" domandai. C'era. Veltroni accompagnò Occhetto per la presentazione in società della Cosa. Quando spacchettammo il misterioso involucro che il giovane dirigente portava con sé, constatammo che lo strappo finale non era stato compiuto, né probabilmente poteva esserlo. Una falce e un martello, piccoli ma ben visibili, stavano accucciati ai piedi della Quercia, quasi volessero scortarla e garantirne la sicurezza nel nuovo e incerto viaggio che andava profilandosi. (Da lì a quattro anni, non avrebbe usato la stessa cautela Gianfranco Fini, conservando una piccola fiamma tricolore nel simbolo rinnovato di Alleanza nazionale? E nella primavera del '99, Rocco Buttiglione non avrebbe dovuto ringraziare lo scudo crociato di buona memoria democristiana per l'imprevista affermazione alle elezioni europee? Tutti, prima di buttare le vecchie botti, hanno atteso che le nuove si stagionassero per bene...) Quella sera di autunno del '90, Occhetto era gasatissimo. Presentando la nuova creatura, disse al Tg1: "E' bella la quercia, è solida. E anche la definizione di segretario della Quercia suona
bene, è imponente". ("Scelsero un brutto nome da democrazia popolare" mi disse Craxi.) Il leader del Pci si trovava ancora a metà del guado. Aveva avuto un primo via libera dal congresso di marzo, aspettava di consumare lo strappo definitivo nel congresso costituente fissato a Rimini per il febbraio del '91. [p. 28] Occhetto aveva superato agevolmente nei numeri il primo ostacolo congressuale, pur dovendosi confrontare aspramente con il rinnovato dissenso di Ingrao, Cossutta, Natta e Aldo Tortorella, uomo che non ha mai figurato nella prima fila dei capi storici del partito (da Ingrao a Pajetta, da Amendola a Natta e Bufalini), ma che è stato sempre un potente king maker di segretari. I giornali scrissero che il segretario aveva vinto psicologicamente il congresso negli ultimi dieci minuti, con un invito alla lotta unitaria per il socialismo. Una frase magica che gli valse l'abbraccio di Ingrao e l'applauso liberatorio dei delegati presenti in sala, che soltanto poco prima avevano portato in trionfo Ingrao al canto di Bandiera rossa. A testimonianza di come ancora nell''89 il Pci fosse abissalmente lontano da certe posizioni di dieci anni dopo, giova ricordare che Occhetto riuscì a tenere insieme il partito anche gridando che la Germania unita sarebbe dovuta uscire dalla Nato. Le tensioni in ogni caso lasciarono il segno. Annotò sulla "Repubblica" un'autorevole osservatrice interna al partito come Miriam Mafai: "Occhetto vince [a Bologna] con un buon margine di maggioranza, ma appare meno brillante e sicuro di sé. Forse è stanco, la battaglia contro compagni che gli furono assai vicini nel passato sembra averlo in qualche modo segnato". Da Saddam Hussein a Otello Montanari A complicare la vita di Occhetto giunse il pessimo risultato delle elezioni regionali di maggio. I cinque punti percentuali di svantaggio sulla Dc dell''85 (30,2 contro 35 per cento) diventarono nove (24 contro 33,6). E, mentre la Dc aveva guadagnato un punto rispetto alle elezioni europee dell''89, il Pci ne aveva persi quattro. Il Psi era al 15,3 per cento e la Lega, schizzata al 5 dal nulla, era diventata dalla sera alla mattina il quarto partito italiano e il secondo in Lombardia (19 per cento contro il 18,8 del Pci e il 28,7 della Dc). Un altro elemento di drammatica tensione nel Pci si ebbe [p. 29] nel mese di agosto. Il leader iracheno Saddam Hussein aveva invaso il
Kuwait, dichiarandone addirittura l'annessione e aveva poi sequestrato molti cittadini occidentali (tra cui un gruppo di italiani) per bloccare le ritorsioni straniere. L'Onu aveva ovviamente condannato l'aggressione, autorizzando di fatto la Nato a predisporre un intervento armato se il rais non si fosse ritirato. Nel Pci si confrontarono in maniera drammatica due anime: Giorgio Napolitano guidava con discrezione quella filoatlantica, decisa ad astenersi sulla mozione del governo che appoggiava le iniziative occidentali, mentre Pietro Ingrao era decisamente contrario. Passò la posizione di Napolitano e il Pci si astenne, ma il gruppo di Ingrao si rifiutò di partecipare alla votazione segnando per la prima volta nella storia del partito una spaccatura aperta e formale nel gruppo parlamentare. In settembre, la Festa dell'Unità a Modena fu rovinata dalle clamorose rivelazioni di Otello Montanari, combattente comunista della Resistenza e per lungo tempo deputato del Pci. In una lettera aperta pubblicata dal "Resto del Carlino" il 31 agosto, Montanari rivelò le pesanti responsabilità dei suoi compagni di partito in una serie di delitti politici compiuti nell'area di Reggio Emilia nel primissimo dopoguerra. La denuncia fu tutt'altro che generica. Montanari fece nome e cognome dei dirigenti comunisti che coprirono quei delitti e aiutarono poi i responsabili a riparare in Cecoslovacchia. Lo scalpore fu naturalmente enorme. Il partito sbandò, i dirigenti si riunirono in un vertice riservato alle Frattocchie e decisero che la scissione rischiava di essere un colpo mortale. Perciò fecero quadrato. Alle tensioni di quelle settimane non sopravvisse Giancarlo Pajetta. In cinquant'anni di militanza (e di dirigenza) non era mai stato in corsa per guidare il partito. Ma ne era l'anima. La caduta del Muro e i riflessi sulla politica italiana lo avevano proiettato fuori dei tempi nuovi. "Non ho mai sofferto tanto in vita mia" disse poco prima che un infarto lo portasse via a settantanove anni. Spiazzando Cossutta e gli altri della sinistra interna, Ingrao a fine anno fece capire che non avrebbe abbandonato il [p. 30] Pci. Il dirigente a lui più vicino, Antonio Bassolino, fondò una sua corrente di minoranza per un Pci "antagonista e riformatore", uscendo in mare aperto per candidarsi alla leadership del partito. "Fatevelo voi, il segretario" "Adesso fatevelo voi, il segretario!" La mattina di lunedì 4 febbraio 1991 Achille Occhetto salì furibondo sull'aereo messo a
disposizione da Nilde Iotti, presidente della Camera, e pronto al decollo per Roma. Dopo quattro giorni era finito a Rimini il congresso che aveva seppellito il Pci e partorito il Pds. I giornali parlavano di un segretario ammaccato e di un partito - scrisse Gianfranco Piazzesi sul "Corriere della Sera" - che "ha scoperto le correnti proprio quando la gente non ne può più". Massimo D'Alema, numero due del partito, aveva imposto "con toni quasi sprezzanti" (annotò Paolo Franchi sullo stesso giornale) la nascita di un Grande Centro del partito in una "prospettiva vagamente dorotea". Ma nessun quotidiano fece in tempo a dar notizia di quel che era accaduto nella notte: per dieci voti Occhetto non venne rieletto segretario, nel primo scrutinio segreto del Pds. Furono invocate ragioni tecniche. In realtà, si disse, un pugno di militanti della destra interna - la corrente "migliorista" di Giorgio Napolitano - aveva fatto pagare a Occhetto un atteggiamento ambiguo e sbilanciato nei confronti della sinistra ortodossa di Ingrao e di quella scissionista di Cossutta. Il congresso di Rimini si aprì sotto la neve a quindici giorni dall'inizio della guerra dell'Occidente contro Saddam Hussein, che si rifiutava di andarsene dal Kuwait. L'Italia partecipava al conflitto con una forza simbolica - tre navi e una decina di Tornado infinitamente più ridotta di quella che nel '99 avrebbe combattuto nella guerra del Kosovo, e con un mandato dell'Onu e in una situazione di diritto internazionale di certo più trasparente di quella che si sarebbe verificata alla fine del decennio in Jugoslavia. La situazione era così tesa che [p. 31] intorno a Capodanno il governo italiano aveva tentato di impedire prima che intervistassi per la Rai il leader iracheno - al pari di quel che stavano facendo le principali televisioni del mondo - e poi che l'intervista andasse in onda. A rendere il clima più incandescente aveva contribuito - poco prima che si aprisse il congresso - l'abbattimento di due nostri Tornado e la cattura dei piloti Bellini e Cocciolone. La sinistra del Pci aveva ottenuto dal segretario una mozione, approvata in congresso, favorevole al ritiro delle nostre unità. Occhetto era in mezzo al guado. Da un lato temeva di scontentare Napolitano, che era su posizioni prudentemente filoatlantiche, né voleva lasciargli l'esclusiva dei rapporti con Craxi e la socialdemocrazia europea (alla quale, fin da allora, D'Alema guardava con molta attenzione). Dall'altro voleva far di tutto per togliere alla sinistra gli argomenti per una scissione ormai annunciata. Oggi, da presidente del Consiglio e dopo la guerra del Kosovo,
D'Alema riconosce che allora il suo partito sbagliò. Dice a Federico Rampini nel libro Kosovo, uscito da Mondadori agli inizi di settembre del '99: "In quel caso l'intervento militare era motivato, ed era proporzionale alla lesione del diritto internazionale compiuta da Saddam invadendo il Kuwait con la forza". Torniamo al congresso del '91. Forse Occhetto aveva sbagliato ad aspettare quattordici mesi per formalizzare l'eccellente intuizione politica avuta nel momento stesso in cui cadeva il Muro di Berlino. Disse più tardi Nilde Iotti a Gianni Corbi: "Francamente, non ho mai capito perché siamo andati al congresso di Rimini, dove inevitabilmente le incrinature apparse a Bologna si allargarono fino a diventare una spaccatura. Subito dopo Bologna il compagno Occhetto avrebbe dovuto realizzare in tempi brevissimi quel che il congresso aveva deciso, cioè il cambiamento del nome con tutto ciò che ne derivava... Mi azzarderei a pensare che Togliatti e Longo, in quelle circostanze, non si sarebbero comportati in modo diverso da Occhetto. Con una sola differenza: una volta deciso il cambiamento del nome e la nascita del nuovo partito, né Togliatti né Longo avrebbero permesso che quella decisione [p. 32] adottata a grande maggioranza da un congresso fosse poi rimessa in discussione". Mentre Occhetto era andato a sfogare la sua amarezza in Maremma, D'Alema rimetteva insieme i cocci. Cinque giorni dopo, il segretario del Pci veniva rieletto segretario del Pds. Per la prima volta le correnti andarono alla conta: il segretario controllava il 53 per cento del partito, Napolitano quasi il 15, Bassolino poco più del 6. Un quarto del partito andò con Armando Cossutta, Sergio Garavini e Lucio Libertini, che il 10 febbraio 1991 fondarono il Movimento per la rifondazione comunista, trasformatosi due mesi dopo in partito con Garavini primo segretario. Rispetto al massimo storico di iscritti del '76 (1.800.000), nel '90 il Pci ne aveva persi 500.000. [p. 33] II: Tra le crepe del sistema "Appesi come pomi a un vecchio ramo" Giuliano Ferrara (Psi) era ancora un bel ragazzone con i capelli arruffati. Jas Gawronski (Pri) era uguale a quello di dieci anni prima e di dieci anni dopo. Roberto Formigoni e Alberto Michelini (Dc) avevano la faccia ispirata di cattolici molto perbene. Mino Martinazzoli (Dc) sembrava perfino allegro. Umberto Bossi (Lega nord) posava felice accanto alla statua di Alberto da Giussano: da Varese a
Bergamo, si preparava a conquistare la Padania. Martedì 20 giugno 1989, le loro foto di parlamentari europei appena eletti riempivano le pagine del "Corriere della Sera". C'era anche quella di Achille Occhetto (Pci), raggiante per aver salvato la pelle contro le previsioni. Bettino Craxi, invece, appariva cupo: con il 14,8 per cento aveva conquistato il miglior risultato nella storia recente del Psi, ma s'aspettava altro dall'"onda lunga". Ed era cupo sebbene fosse fallita l'alleanza di Giorgio La Malfa (Pri), Renato Altissimo (Pli) e Marco Pannella (Pr) per dar vita a quella federazione laica che avrebbe dovuto rompere le uova nel paniere proprio ai socialisti e al loro scorbutico leader. Intenzionati a raggiungere il 10 per cento dei voti, accreditati alla vigilia dell'8 per cento, ne avevano portati a casa poco più della metà. A chi dettero la colpa La Malfa e Altissimo? A Pannella, naturalmente. La Dc, nonostante gli affanni, restava il primissimo partito, con il 32,9 per cento. Il Pci, che l'aveva superata nell''84 grazie all'emozione per la morte di Berlinguer, aveva perso [p. 34] quasi sei punti rispetto ad allora, ma ne aveva recuperato uno sulle politiche dell''87. Nel nuovo Parlamento europeo dominavano i socialisti, con un rapporto di forza sui popolari che dieci anni dopo si sarebbe perfettamente ribaltato. Era questo, nei numeri, il ritratto dell'Italia politica dell''89, a cinque mesi dalla caduta del Muro di Berlino, che nessuno s'aspettava. La Prima Repubblica era gravemente malata da tempo, ma se qualche medico se n'era accorto (e non devono essere stati in molti) non ebbe il coraggio di dirlo al paziente. Il Pci restava di gran lunga il più forte partito comunista occidentale, contro l'andamento della storia e contro le previsioni dei suoi stessi dirigenti. Vincono solo il Pci e i Verdi, titolò candidamente "l'Unità". E Michele Serra, ancora non convertito come corsivista eccellente al giornale di partito, ironizzava in versi su "Cuore": "Achille è fatta...@ Resistiamo appesi come pomi a un vecchio ramo@ e ci conforta sentirci duri e inermi@ di polpa sana e resistente ai vermi". Il Pci sembrava pago della sua condizione politica. Controllo assoluto delle "regioni rosse" e di molti importanti comuni grazie alle alleanze locali con il Psi. Controllo di fatto delle scelte governative più importanti, soprattutto sulla spesa pubblica, grazie alla debolezza e alle divisioni endemiche della maggioranza. Era molto raro, da almeno quindici anni, che una legge di spesa importante passasse senza un compromesso palese o occulto con il Pci.
A questo si aggiunga che uomini in qualche modo di fede comunista, o comunque apertissimi al dialogo con il Pci, dirigevano le principali case editrici e avevano ruoli chiave nelle università, nei grandi giornali e anche alla Rai. Nella magistratura i ruoli direttivi erano ancora ricoperti in larga parte da giudici moderati o comunque collegabili al potere governativo. Ma la crescente politicizzazione a sinistra dei sostituti procuratori della Repubblica, le cui inchieste (non sempre fondate) venivano fortemente sponsorizzate dalla stampa d'opinione, aveva chiuso i capi in un fortino sempre più espugnabile, che sarebbe caduto anch'esso di lì a poco, chiudendo una battaglia ventennale. Nel suo libro Storia della magistratura in Italia da piazza Fontana [p. 35] a Mani pulite (Baldini & Castoldi, 1996), Romano Canosa ricorda che nel "convegno ideologico" di Magistratura democratica tenutosi a Pisa nel '71 la corrente toscana teorizzava lo smantellamento della struttura gerarchica del pubblico ministero e sosteneva la necessità della "critica pubblica dell'operato dei magistrati che controbilanci i condizionamenti cui essi sono sottoposti dal sistema". (Questa critica pubblica sarebbe stata respinta molti anni dopo dagli stessi magistrati, una volta che essi ebbero assunto direttamente la gestione dei processi "politici" più delicati.) La corrente romana sollecitava invece esplicitamente il collegamento dei magistrati alle "lotte esterne". E si sa che cosa questo volesse dire in quel periodo. "Non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia" scrive Francesco Misiani, elemento di spicco di Magistratura democratica (Francesco Misiani e Carlo Bonini, La toga rossa, Tropea, 1998). Dieci anni dopo si ebbero furiose polemiche tra la grande industria e i pretori del lavoro progressisti a proposito del ricorso "politico" alla cassa integrazione. E nell''82 un uomo certo non reazionario come Leo Valiani al "Corriere della Sera" disse di essere assai preoccupato per "l'arresto dei cinque appartenenti al corpo di polizia specializzato nella lotta antiterroristica che parteciparono all'operazione che salvò la vita a Dozier [alto ufficiale americano della Nato sequestrato dalle Br nel Veneto] e che alcuni giudici hanno invece incarcerato e colpito con mandati di cattura immediatamente eseguiti sotto l'imputazione di aver sequestrato e seviziato un terrorista".
La democrazia bloccata La democrazia italiana era bloccata. Nonostante i progressi fatti in politica estera sin dai tempi di Berlinguer e di Amendola, e quelli compiuti da Giorgio Napolitano, il Pci restava un partito antiatlantico. Lo avrebbe confermato ancora nell'inverno del '91 chiedendo il ritiro italiano dalla guerra del Golfo. [p. 36] In quelle condizioni, l'alternativa di governo veniva giudicata impraticabile. Mi dice oggi Andreotti: "L'alternativa di governo in Italia era determinata prevalentemente dalla politica estera. Era inconcepibile avere un governo una volta filoccidentale, un'altra filosovietico, una terza non allineato. Era un prezzo che si pagava alla situazione internazionale, ma era un prezzo pesante e dannoso". Andreotti mi rivela di aver tentato fin dagli anni Sessanta di convincere gli americani che un vero centrosinistra avrebbe avuto senso soltanto con il diretto coinvolgimento dei comunisti. "Quell'alleanza fatta con i soli socialisti, per mio conto fu un errore. Se ci fosse stata una guerra, aver recuperato il Psi e non il Pci non sarebbe servito a un fico secco. Quando Dean Rusk [segretario di Stato americano con Kennedy e Johnson dal '61 al '69] mi chiese le ragioni del mio atteggiamento gli risposi: a parte il fatto che questi sono problemi nostri, noi dobbiamo portare il Pci a ritenere il Patto atlantico una necessità. Ci saremmo arrivati nel '77 quando i comunisti, con il governo di solidarietà nazionale, accettarono di votare un ordine del giorno in questo senso." (Berlinguer aveva anticipato la svolta fin dalla primavera del '76. In una famosa intervista rilasciata a Giampaolo Pansa per "La Repubblica", alla vigilia delle elezioni politiche, ammise di sentirsi più protetto "al di qua" della Cortina di ferro che non al di là. L'affermazione fece molto scalpore. Oggi un motivo di riflessione viene suggerito dal libro di Valerio Riva Oro da Mosca, in cui sono pubblicate, tra moltissime altre, copie dei seguenti documenti: una lettera di Ponomarëv del 1976 che tratta l'autorizzazione di un finanziamento al Pci, su richiesta del suo segretario Enrico Berlinguer; quietanze di Guido Cappelloni, amministratore del Pci, per un milione di dollari ricevuto il 27 febbraio 1976, un altro milione il 9 maggio 1976, un milione e mezzo di dollari il 12 settembre 1976, un milione di dollari "quale contributo straordinario per la campagna elettorale 1976" il 27 giugno dello stesso anno. Secondo i documenti del dossier Mitrokhin, pubblicati in Inghilterra nel settembre del '99, nel '76 il Pci ricevette dal Pcus sei milioni e mezzo di dollari, pari a ottanta
miliardi di oggi. Alla [p. 37] vigilia di quelle elezioni, come risulta da un altro documento interno del Pcus, la direzione del Pci propose a Mosca una serie di proposte di "scambi di partito" che il comitato centrale del Pcus accettò "ai fini di una maggiore influenza sul corso politico del Pci [e] di una sua affermazione su posizioni marxiste-leniniste".) Osserva D'Alema dal suo scranno di palazzo Chigi: "Prima della caduta del Muro, difficilmente il Pci sarebbe potuto essere il perno di un governo. Quanto a parteciparvi, la scelta non dipendeva da noi, ma dalla forza delle classi dirigenti italiane. I comunisti francesi sono entrati nel governo prima della caduta del Muro nonostante fossero più arcaici e filosovietici di noi. Perché? Perché la Francia è garantita dalla borghesia, con o senza i comunisti al governo. In Italia, la nostra partecipazione era impossibile per la debolezza e l'inaffidabilità della classe dirigente italiana". D'Alema visse le elezioni del '76, e la svolta di Berlinguer da membro della direzione del partito, come segretario della Federazione giovanile comunista. "Berlinguer era molto diffidente nei confronti dei sovietici. Quando parlava della "diversità" del Pci ripeté più volte questo doppio concetto: noi siamo diversi dagli altri partiti italiani, ma siamo diversi anche dagli altri partiti comunisti. Riprendeva in qualche modo l'idea togliattiana dell'originalità del Pci. Berlinguer era intimamente antisovietico, per quanto lo si possa dire di un segretario comunista. Non sopportava l'idea di essere fotografato con il colbacco, partiva dall'Italia per la Russia con il cappellino tirolese. Era chiaro che la nostra idea di socialismo sarebbe stata schiacciata con i carri armati dall'altra parte. Era l'ultima cosa che i sovietici potevano tollerare: si può sopportare il nemico, non l'eretico, che infatti viene bruciato. Da questo punto di vista, la sua intervista del '76 aveva una logica molto forte. Non era la prima volta che lui poneva questo tema non solo come elemento di rispetto delle alleanze internazionali dell'Italia, quanto come convenienza nostra: l'idea che lo scudo della Nato potesse difendere anche nel campo democratico l'esperienza di un socialismo diverso." [p. 38] E Craxi disse: "Repubblica presidenziale" Nei rapporti con il Psi sui temi della politica nazionale le baruffe prevalevano sul dialogo e l'idea di una sinistra unita di matrice socialdemocratica non veniva neppure presa in considerazione. (Le stesse grandi socialdemocrazie europee erano in crisi. "Il
comunismo è crollato, la socialdemocrazia è esaurita" avrebbe scritto Ralf Dahrendorf all'indomani della caduta del Muro.) Tutto questo portava il vecchio centrosinistra - pentapartito o quadripartito che fosse, secondo l'umore dei repubblicani - a una rendita di posizione che sembrava inesauribile. La Dc rappresentava una parte cospicua degli interessi sociali, grazie alla sterminata quantità di anime esistente al suo interno. Gli eredi di don Sturzo riuscivano mirabilmente a tenere insieme le posizioni politiche che dieci anni dopo avrebbero fatto riferimento a Prodi e a Casini, a Marini e a Cossiga, a Rosy Bindi e a Gustavo Selva, a Dini e a Mastella, a Leoluca Orlando e a Mariotto Segni, a Buttiglione e a Berlusconi. Lo sposalizio della libertà d'iniziativa economica con il solidarismo sociale, l'assoluta fedeltà atlantica temperata dall'ammiccamento filoarabo, i patti con la grande industria a braccetto con l'attenzione al sindacato, i benefici fiscali e previdenziali ai commercianti e agli artigiani, uniti a quelli per gli agricoltori, avevano retto fino a metà degli anni Settanta, producendo nell'ultimo quindicennio un deficit progressivamente incontrollabile, un tasso d'inflazione esploso all'inizio degli anni Ottanta e una notevole disinvoltura politica e morale. "La cultura economica in quel periodo non era forte nel mondo politico" mi dice Andrea Monorchio, dall''89 ragioniere generale dello Stato su proposta di Guido Carli. "Quasi tutti erano convinti che il sistema potesse reggere qualunque spesa. La richiesta di titoli di Stato da sottoscrivere superava largamente l'offerta. Nessuno pensava a chi avrebbe pagato in futuro. Un esempio? Per la legge finanziaria dell''85 furono stanziati cinquemila miliardi a sostegno della riforma delle [p. 39] pensioni. In Parlamento diventarono prima undicimila e poi quattordicimila..." Naturalmente, è difficile trovare leader disposti a fare autocritica su questo punto. "Durante il periodo del cosiddetto craxismo" mi dice Craxi "e cioè negli anni in cui io guidai governi di coalizione, diminuirono il fabbisogno dello Stato e anche la spesa pubblica complessiva. Il grande debito fu limitatamente ridotto. La corsa riprese negli anni seguenti." Osserva Andreotti: "La Dc si è "incartata" con il centrosinistra. Nei primi decenni della Repubblica, quel che contava erano i programmi: la riforma agraria, la Cassa del Mezzogiorno... Poi siamo stati corrosi dalla polemica sulle alleanze: solo sulle alleanze. Craxi temeva che noi volessimo scavalcarlo andando direttamente con i
comunisti. Noi pensavamo che Craxi volesse farci le scarpe alleandosi con il Pci. Questi sospetti, per la verità, non erano nuovi nella politica italiana. Nel '53, Saragat aveva fatto cadere il governo De Gasperi sospettando che questi volesse tradirlo con Nenni, e non era vero. Ma al di là delle polemiche con Craxi, la Dc era fortemente indebolita dall'accentuazione delle correnti, da un personalismo molto forte di cui tutti - me compreso - abbiamo responsabilità. Non dimentichiamo, tuttavia, che l'Europa è nata con la Dc e che l'Italia ha fatto parte fin dal '90 degli accordi di Maastricht prevalentemente per merito della Dc...". I tentativi di riformare le istituzioni erano sempre falliti per i contrasti tra i partiti. Il veto dei cosiddetti "partiti laici minori", refrattari a ogni alleanza tra loro (del resto mai incoraggiata dall'elettorato), aveva bloccato la riforma della legge elettorale con l'introduzione di un qualsiasi tipo di sbarramento. ("Anche se mi rendo conto che la proposta non è realistica" mi dice Andreotti "oggi la migliore riforma elettorale sarebbe un ritorno al sistema proporzionale con lo sbarramento del 5 per cento. Perché non ci riuscimmo prima? Perché, al di là dei problemi di maggioranza, siamo rimasti fedeli al testamento di De Gasperi. Nel '53, disse ai sostenitori del sistema maggioritario: "Cancellare liberali e repubblicani dalla vita politica italiana sarebbe un errore. Il nostro è [p. 40] un paese pluralista. Non conta solo il voto: contano la cultura, l'università, il giornalismo, le banche"." Aggiunge Craxi: "Il bipolarismo italiano veste i panni di Arlecchino. Meglio, molto meglio una proporzionale corretta con sbarramento ed eventualmente a due turni con premio di maggioranza".) Si era alla fine di un quindicennio che aveva prostrato l'Italia con il terrorismo. Con l'ultimo delitto prima di quello compiuto undici anni dopo contro Massimo D'Antona, nell'aprile dell''88 le Brigate rosse avevano massacrato Roberto Ruffilli, l'uomo che De Mita aveva incaricato di studiare la riforma dello Stato. Commentava Arnaldo Forlani, all'epoca segretario della Dc: "La riforma elettorale è come la formazione della nazionale di calcio. Ciascuno ne ha in mente una diversa". (Dieci anni più tardi le cose non sono cambiate.) Il Pci voleva risolvere il problema con un referendum, nella Dc era favorevole il solo De Mita (una volta uscito da palazzo Chigi), mentre i socialisti minacciavano sfracelli se fosse passata la riforma sull'elezione diretta del sindaco: era evidente che in quel caso il loro potere d'interdizione sarebbe stato fortemente indebolito.
Bettino Craxi - resuscitato nel '76 un Psi che era precipitato sotto il 10 per cento e ormai avvitato su se stesso - aveva progettato a sua volta una Grande Riforma che oggi riassume così: "Era in primo luogo la Repubblica presidenziale". De Mita cadde sotto le piramidi socialiste Craxi, dunque, voleva l'elezione diretta del capo dello Stato. La voleva, probabilmente, per migliorare un sistema costituzionale debole. La voleva, certamente, perché sapeva di avere i numeri per poter concorrere alla conquista del Quirinale. Nella storia della Repubblica un'idea del genere era stata sempre giudicata pericolosa e impraticabile. Ne sapeva qualcosa il povero Randolfo Pacciardi: segretario del Pri nel dopoguerra per due anni e per cinque ministro della Difesa nei governi centristi, quando aveva fondato nel '64 il Movimento [p. 41] per la Nuova Repubblica d'ispirazione gollista era stato liquidato in un battibaleno come golpista. Pacciardi visse abbastanza per sentire Craxi riproporre la Repubblica presidenziale al congresso socialista dell''89, che si svolse in un tripudio di rampantismo nell'ex fabbricone dell'Ansaldo a Milano, tra le celebri piramidi telematiche di Filippo Panseca. A testimonianza di quanta strada abbia compiuto la sinistra nel decennio successivo, la proposta craxiana fu bollata dall'intellettuale francese Maurice Duverger, candidato del Pci alle imminenti elezioni europee, con queste parole pronunciate in un seminario dell'Istituto Gramsci a Bologna: "Se non fosse accompagnata dalla riforma dell'intero sistema politico italiano, l'elezione diretta del capo dello Stato risulterebbe inutile e potrebbe addirittura far nascere tentazioni golpiste". In quel congresso, Craxi mandò a casa il governo De Mita. I due non sono mai andati d'accordo. Nonostante Giulio Andreotti mi abbia confermato, mentre scrivevo questo libro, di non aver mai amato i socialisti ("Le volpi prima o poi finiscono in pellicceria" fu il celebre anatema pronunciato da Craxi nel '79), tra Bettino e Ciriaco, accomunati dal destino di nomi inconsueti, c'era un rapporto di pelle semplicemente urticante. Entrambi erano uomini politici di notevole spessore e, come accade a tutti i leader, con un'altissima considerazione di sé. Costretti alla convivenza, si sopportavano. Ma il carattere dell'uno era allergico al carattere dell'altro. De Mita è stato segretario della Dc per quasi sette anni, dall''82
all''88: un record straordinario per un partito che faceva ruotare gli incarichi direttivi come la biancheria. Per quattro di quegli anni (1983-87) Craxi fu presidente del Consiglio. I Dc sostengono che a metà percorso il leader socialista avrebbe dovuto passare il testimone cedendo l'incarico allo scudocrociato, e Cossiga, eletto capo dello Stato nell''85, avrebbe dovuto favorire il disbrigo della pratica. Craxi non ci stette e guidò il governo fino alla vigilia delle elezioni anticipate. Ma nell''89 già fremeva. La nuova legislatura, iniziata da appena due anni, gli sembrava interminabile. E quando [p. 42] De Mita, nell'aprile dell''88, sostituì Goria a palazzo Chigi mantenendo la guida della Dc e sommando per alcuni mesi dosi di potere che non furono perdonate nemmeno a De Gasperi, Craxi caricò la lupara. Sostenuto, per ragioni di bottega, da molti democristiani e specialmente dagli amici dell'onorevole Andreotti che volevano riportare per la sesta volta il loro leader alla guida del governo. De Mita sperò, invano, che la Dc facesse quadrato intorno a lui. "Ma ai quadrati di De Mita" diceva Andreotti "manca sempre un lato." Così - dopo una crisi durata quasi due mesi e drammatizzata dalle elezioni europee - il divo Giulio tornò a palazzo Chigi. "Non ne avevo alcuna voglia" mi confida ora. Al mio sguardo incredulo, ritrova il famoso sorriso malizioso che ha fatto la fortuna di generazioni di imitatori. "Avevo ambizioni europee. Sa, magari una carica a Strasburgo..." La presidenza del Parlamento europeo?, provo a sondare. Risponde anche qui con un sorriso. Diavolo d'una volpe. L'aveva pensata bene, il divo Giulio. Era di gran lunga il politico italiano più conosciuto (e più stimato, insieme con Craxi) all'estero. Aveva fatto il presidente del Consiglio cinque volte: un po' meno di De Gasperi e Depretis, ma assai di più di Giolitti, Crispi, Nitti e Salandra. Mancavano tre anni all'elezione del nuovo capo dello Stato. Quale migliore pole position per il Quirinale che un lungo distacco dalle beghe italiane e la collocazione al vertice delle istituzioni europee? "Mi telefonò Craxi mentre ero a Fiuggi per il premio. "Per carità" mi disse "i rapporti tra noi socialisti e la Dc sono pessimi, se tu fai il presidente del Consiglio magari riesci a mettere nella macchina un po' d'olio lubrificante..." Insomma, mi lasciai incastrare. Accettai di presiedere il governo, e me ne sarei pentito amaramente. Se fossi andato al Parlamento europeo, probabilmente a nessuno sarebbe venuto in mente di pensare che io potessi essere mafioso e non sarebbero nate neppure tutte le altre storie. Comunque, pazienza..."
[p. 43] La guerra tra Agnes e Berlusconi La lista dei ministri del sesto governo Andreotti dimostra come anche nella fase più critica della Prima Repubblica i politici allora più autorevoli, e di lì a poco più discussi, s'incrociassero senza problemi con personalità della "società civile" che nel decennio della Transizione avrebbero mantenuto intatto il loro prestigio e spesso accresciuto il loro potere. Accanto a una generazione oggi politicamente estinta (Gava, Cirino Pomicino, Prandini, Bernini, Formica, Battaglia, Mammì, Vizzini, Fracanzani, De Lorenzo, Gaspari, Misasi) sedevano politici che dopo lunghe traversie sarebbero resuscitati senza dar troppo nell'occhio (Martelli e De Michelis), che avrebbero svolto di nuovo ruoli di rilievo (Russo Jervolino, Maccanico, gli stessi Giorgio Ruffolo e Mino Martinazzoli) o che godevano e avrebbero continuato a godere di una considerazione indiscussa anche fuori della politica (Guido Carli, Giuliano Vassalli, Renato Ruggiero, Franco Carraro). Per la prima volta, la Dc non aveva la maggioranza in consiglio dei ministri. Nacque quello che la sinistra avrebbe presto chiamato il Caf, dalle iniziali di Craxi, Andreotti e Forlani (che aveva sostituito da alcuni mesi De Mita alla segreteria della Dc. E nacque - abbiamo visto - anche con buone iniezioni ricostituenti di "società civile". Naturalmente, si ebbero contraccolpi nella gestione del potere. Romano Prodi e Biagio Agnes, vicini entrambi alla sinistra democristiana, lasciarono la presidenza dell'Iri e la direzione della Rai che avevano tenuto per sette anni. Prodi fu sostituito da Franco Nobili, Agnes da Gianni Pasquarelli: due manager più vicini al nuovo corso. Agnes si dimise il 10 novembre 1989: nonostante i giornali strabordassero di servizi sulla caduta del Muro di Berlino, la sua uscita polemica finì in prima pagina. Mi hanno detto che finché resterò non arriverà una lira, titolò il "Corriere della Sera" citando il direttore dimissionario. In quegli anni, alla Rai avevamo una sola parola d'ordine: battere la Fininvest di Silvio Berlusconi. "Chillo ha da murì" [p. 44] aveva sintetizzato Agnes lanciando il grido di battaglia al quale ci eravamo volentieri associati. L'uomo che nel '94, in tre mesi, avrebbe inventato un partito e conquistato palazzo Chigi, in poco più di un lustro, negli anni Ottanta, aveva fondato un impero televisivo. I detrattori di Berlusconi hanno sempre detto che senza l'appoggio di
Craxi il Cavaliere non avrebbe fatto niente. In realtà, Craxi (e anche molti democristiani) protesse quel che Berlusconi aveva costruito con il suo indiscusso genio imprenditoriale. Non tutti sarebbero stati capaci di trasformare, nel '79, Telemilano in Canale 5 e di inventare, nell''80, la corazzata Publitalia. Mario Formenton è stato tra i più geniali editori italiani, ma la sua Retequattro stava mandando a picco l'intera Mondadori quando - supportato dall'intellighenzia di sinistra che temeva per la casa editrice - andò da Berlusconi per chiedergli di comprarla. I periti avevano valutato l'azienda televisiva molto al di sotto delle attese di Formenton. La riunione decisiva stava per finire male, quando l'editore chiese a Berlusconi di parlargli da solo. Quasi con le lacrime agli occhi, gli disse: "Guardi, se la cifra è quella di cui parlate voi, è inutile sacrificare Retequattro. La Mondadori morirebbe comunque". Berlusconi accettò allora di pagare la somma necessaria per salvare la casa editrice. Poco dopo, un uomo scaltro e a sua volta geniale come Edilio Rusconi s'affrettò a cedere al Cavaliere Italia 1 prima di rimetterci il collo. Tra l''84 e l''85, per una carenza legislativa ormai anacronistica, tre pretori cominciarono a spegnere i ripetitori Fininvest e Craxi salvò l'azienda con il famoso "decreto Berlusconi". La Dc ottenne come contropartita la restituzione ad Agnes di quei formidabili poteri sulla Rai che aveva avuto Ettore Bernabei e che erano indispensabili per gestire un'azienda il cui consiglio d'amministrazione era un autentico parlamento (sei democristiani, quattro comunisti, tre socialisti, un socialdemocratico, un repubblicano, un liberale. Craxi ne fece un famoso numero telefonico: 643111). Da questa posizione Agnes, nell''87, aveva trattato con Veltroni la nascita della nuova Raitre e il suo appalto al Pci, per [p. 45] bilanciare il potere socialista sulla seconda rete e quello democristiano sulla prima. E aveva dovuto combattere con Berlusconi una guerra a colpi di miliardi per trattenere fino all''87 Raffaella Carrà e Pippo Baudo e per competere sul mercato internazionale del cinema. Il Cavaliere arrivava come un fulmine a Los Angeles e a Cannes e comprava tutto staccando assegni a dieci zeri. Il dirigente della Rai che avrebbe dovuto contrastarlo non faceva nemmeno in tempo ad avvertire il suo direttore di rete, il quale avrebbe dovuto avvertire il direttore generale, il quale avrebbe dovuto riunire il consiglio d'amministrazione... Per mantenersi competitiva, la Rai - abituata a prodotti di qualità superiore alla concorrenza, ma soggetta anche alle dimensioni e alla
pigrizia del monopolio - dovette dissanguarsi. Il deficit galoppava, l'Iri avrebbe dovuto mettere mano al portafoglio. Agnes - l'uomo che dopo Bernabei ha mantenuto più forte l'identità della Rai negli anni difficili - riteneva che la sua presenza costituisse un ostacolo al risanamento e si dimise in un autunno triste, segnato da un'ecatombe di personaggi famosi e popolari. Tra ottobre e dicembre dell''89, oltre a Leonardo Sciascia, se ne andarono Benigno Zaccagnini, segretario della Dc durante il sequestro Moro, e Edoardo Amaldi, Carlo Dapporto e Bette Davis, Vittorio Caprioli e Romano Bilenchi, Dolores Ibarruri e Luciano Salce. E ancora Zavattini, Horowitz, Sakharov, Silvana Mangano. Da Fini a Rauti a Fini "Giorgio Almirante mi ha nominato suo erede un giorno di settembre dell''87. In un discorso a Mirabello, in provincia di Ferrara, propose di fare un congresso per l'elezione del successore. Qualche giorno prima mi chiamò qui, in quella che era la sua stanza di segretario e che oggi è la mia. Mi disse che le forze lo stavano abbandonando, non si sentiva più all'altezza del compito, avrebbe voluto un congresso in cui non si sarebbe ricandidato. Pensava a me per la successione [p. 46] saltando la generazione dei Rauti, dei Valensise, dei colonnelli dell'Msi. "Non preoccuparti" mi disse "ti starò vicino." Era già ammalato, il congresso si fece nel dicembre dell''87 e lui morì nel maggio successivo." Così Gianfranco Fini mi raccontò la sua ascesa ai vertici di un partito che in dieci anni ha cambiato nome, struttura, risultati, e che alla fine del secolo egli guida ancora, dopo aver superato la crisi peggiore della nuova stagione, arrivata con le elezioni europee del giugno '99. Quando fu eletto per la prima volta segretario dell'Msi, aveva trentasei anni. Quando perse la segreteria per un biennio ne aveva trentotto. La sconfitta avvenne in una fredda giornata riminese del gennaio '90. L'Msi appariva ancora come era stato descritto per più di quarant'anni. Nonostante gli uomini che avevano conosciuto direttamente il fascismo fossero soltanto il 12 per cento dei 170.000 iscritti, l'ombra di Mussolini - lo si voglia o no - era ancora presente in tutte le grandi assemblee politiche del partito, disturbata - al massimo - da quella di Julius Evola. I cronisti accreditati al congresso del '90 più che analizzare le diverse tesi contavano quante volte la parola fascismo era presente nei documenti congressuali: sette in quelli di Fini, una in quelli di Rauti, nessuna in quelli di Servello e Mennitti, venticinque in
quelli di Tremaglia, il ragazzo di Salò. Se gli amici di Fini volevano insultare Servello, passato con Rauti, gli gridavano: "Badoglio!". Il saluto romano era molto frequente e nei momenti di massima eccitazione gli scalmanati della platea intonavano: "Duce, duce!" come ai bei tempi. Un altro mondo, insomma. Bolognese, Fini era approdato a Roma nel '71, quando aveva diciannove anni al seguito del padre funzionario di una compagnia petrolifera. A Bologna era diventato missino perché dopo essere stato visto entrare nel cinema dove si proiettava Berretti verdi, l'unico film che sosteneva la guerra del Vietnam, fu accolto a scuola da un tazebao: "Fini@ fascista@ sei il primo della lista". A Roma si laureò in pedagogia senza aver frequentato. "Perché? Perché era impossibile farlo per quelli che la pensavano come me. Erano gli anni di Autonomia, [p. 47] gli anni in cui "uccidere un fascista@ non è reato". Quando andavo a fare gli esami, bastava che uno del collettivo comunista di Monteverde, il mio quartiere, mi riconoscesse, per essere cacciato a calci nel sedere, nella migliore delle ipotesi, o a bastonate, se andava male. Nello stesso periodo, d'altra parte, nessuno protestò quando a Cantagallo, sull'autostrada del Sole, i camerieri entrarono in sciopero alla comparsa di Almirante "perché a un fascista non si dà da mangiare". Avevamo l'impressione di essere come i negri in Sudafrica. Nei nostri confronti c'era l'apartheid, e questo accentuava naturalmente il senso di appartenenza alla comunità." "Lo sdoganamento? Ci provò Almirante..." La "comunità" era l'Msi, guidato fin dal '69 da Giorgio Almirante. "Per capire perché quasi vent'anni dopo l'Msi era così chiuso" mi dice oggi Gianfranco Fini "dobbiamo tornare molto indietro. Subito dopo l'affermazione elettorale del '72 che ci aveva portato al 9 per cento (la Dc aveva ormai sposato il centrosinistra e l'Msi ne raccoglieva una parte degli elettori scontenti), Almirante tentò lo sfondamento al centro. Fece cioè con la Costituente di destra quel che venticinque anni dopo io avrei fatto con Alleanza nazionale. Pochissimi oggi ricordano che in questo modo entrarono nell'Msi-Destra nazionale numerosi esponenti di quella che molto tempo dopo si sarebbe chiamata società civile. Entrò l'ammiraglio Birindelli, che comandava il fronte Nato su tutta l'area mediterranea. Entrò un partigiano combattente come Giacchero. I monarchici erano già entrati e parteciparono anch'essi al tentativo
di Almirante di trasformare geneticamente la destra da nostalgica, o comunque legata al fascismo, a democratica, perfettamente accettata e inserita nel gioco politico." Ma il disegno fallì. "Fallì perché nel '77 metà del gruppo dirigente dell'Msi se ne andò e diede vita a Democrazia nazionale. Su questa scissione ci fu la fortissima influenza della Dc e della P2. Il famoso "progetto di rinascita democratica" di [p. 48] Licio Gelli prevedeva appunto la scissione dell'Msi e la nascita di una destra affidabile." Democrazia nazionale scomparve con le elezioni politiche del '79, ma intanto Almirante si sentiva sconfitto. "Dopo il fallimento di quello che oggi chiameremmo lo sdoganamento dell'Msi" ricorda Fini "dopo aver verificato che la congiura era stata condotta soprattutto dalla Dc, Almirante tirò il chiavistello dall'interno. Aveva verificato che l'apertura non aveva portato all'allargamento della destra, ma al tradimento e allo smembramento. E ci furono anni in cui sembrava che davvero tutto fosse finito." Nelle elezioni politiche dell''83, le prime dopo la scomparsa di Democrazia nazionale, l'Msi riuscì a portare a casa il 6,8 per cento di voti che ne consolidava la posizione come quarto partito italiano. Almirante era riuscito a tenerne insieme le due anime riunendo, si disse, "manganello e doppiopetto". Riassorbì la dissidenza dei duri di Pino Rauti, usciti per fondare il movimento di estrema destra Ordine nuovo e poi rientrati. Dette alla parte più conservatrice dell'opinione pubblica un'immagine nel complesso rassicurante ma, politicamente, l'Msi era del tutto fuori gioco. I suoi voti erano "in frigorifero" o - come disse Andreotti - "in libera uscita". "La lunga fase che va dalla metà degli anni Settanta all'ultima segreteria Almirante che si conclude nell''87" ricorda Fini "fu quella dell'"orgogliosa diversità" dell'Msi. Molti ricordano la "diversità" berlingueriana, ma Almirante usò questa espressione almeno cinque anni prima. Diversità per noi non significava soltanto rivendicare la moralità dell'Msi in tempi in cui la corruzione politica era già evidente. Significava riconoscersi anche in altre coordinate di carattere politico e culturale. Fu la fase della forte identità dell'Msi, quella in cui Almirante arrivò perfino a dire: "Se fascisti vuol dire essere... [e aggiunse una serie di parole sull'onorabilità della persona], fascista ce l'ho scritto in fronte". In quindici anni, avemmo un solo interlocutore nel mondo politico: Marco Pannella, che venne a un nostro congresso e disse: "Io vi riconosco come gli eretici"..."
Fini, chiamato da Almirante a un posto di comando già nel [p. 49] '77 per arginare la crisi del Fronte della gioventù, era diventato segretario del partito nell''87, al congresso di Sorrento, per un pugno di voti, grazie alla benedizione del leader e all'alleanza con Mennitti e Tremaglia. "Si candidò alla segreteria anche Servello" ricorda Fini "che non accettò l'indicazione di Almirante. Ma non riuscì a guadagnare il ballottaggio e tra Rauti e me scelse me." Due anni dopo, alla vigilia del congresso di Rimini, Mennitti e Servello, visto che Fini non voleva legarsi a un "cartello", offrirono la segreteria a Rauti, un giornalista colto e professionalmente capace che aveva fatto propria la dottrina della sinistra sociale del primo fascismo e martellava prima Almirante e poi Fini con una durissima contestazione anticapitalistica. Se la sua passione per Evola e la fondazione di Ordine nuovo lo facevano passare per filonazista, nella politica estera e sociale Rauti ammesso che abbia ancora un senso usare questi termini - contestava, e contesta, Fini da sinistra. Curiosamente, aveva molti proseliti tra i giovani piuttosto che tra i reduci: essi vedevano in lui una guida e un martire, per le lunghe e ingiuste carcerazioni subite in seguito alle accuse di complicità nella strage di piazza Fontana e di ricostituzione del Partito fascista dalle quali fu prosciolto. (Non immaginandone la replica, alla fine del '99, con il sospetto di aver ideato la strage del '74 in piazza della Loggia a Brescia.) Al congresso di Rimini, Rauti vinse. Per soli quarantasette voti, ma vinse. Perché? "Perché non facciamo i figli di puttana?" "I miei due anni di segreteria" mi avrebbe raccontato Fini "non erano stati un granché: una gestione incolore, senza infamia e soprattutto senza lode. L'Msi era all'angolo, i consensi cominciavano ad assottigliarsi, la morte di Almirante aveva prodotto una forte crisi di leadership. Con i due eterni litiganti, Rauti e io, il partito si stava lacerando. Così, nel dicembre dell''89, i colonnelli del partito si misero d'accordo con Rauti in una riunione all'hotel Bernini di Roma. [p. 50] "Quell'accordo" rammenta Fini "fu un patto generazionale. I dirigenti dell'Msi avevano allora trenta e perfino quarant'anni più di me. Avevano combattuto in guerra, erano stati nella Repubblica sociale, potevano fidarsi di un ragazzino che aveva finito da poco il servizio militare? Servello, Valensise, Tremaglia, Romualdi, Franchi,
Marchi, Tripodi erano la classe dirigente di Almirante e consideravano Rauti uno di loro. O meglio: Rauti aveva sempre incarnato, a differenza di loro, il fascismo di sinistra. Ma tra lui e un ragazzino come me che si era permesso di chiedere le mani libere, la classe dirigente di Almirante preferì lui, chiedendogli una riserva indiana che garantisse a tutti un posto in Parlamento, con una quarantina di parlamentari..." Il "cartello del Bernini" si stimava potesse contare sul 70 per cento dei voti congressuali. E, invece, a Rimini Rauti fu eletto al posto di Fini soltanto con il 52 per cento. Pinuccio Tatarella disse allora: "L'Msi ha perso un segretario, la destra ha trovato un leader". "A Rimini" dice Fini "era accaduta in effetti una cosa curiosa: il delfino aveva cominciato a nuotare da solo. Come mai? Forse ha ragione mia moglie quando sostiene che, dopo il tradimento dei "colonnelli", o dimostravi di avere un po' di palle o era finita. E allora diciamo che in quel congresso ero riuscito a esprimere ciò che prima mi era mancato, togliendomi di dosso tutti i complessi che mi erano venuti per la difficoltà di trovarmi a dirigere, a trentasei anni, un partito carico di storia, insieme con personaggi che hanno scritto una parte di quella storia e una classe dirigente che aveva un'età doppia della mia." Obietto a Fini che, nonostante "il delfino avesse cominciato a nuotare" e la sua candidatura avesse una carica innovatrice, se non altro per ragioni d'età, il suo discorso al congresso di Rimini, ancora nel gennaio del '90, era pieno di nostalgie e di vecchi schemi. "Per forza" risponde Fini "non esisteva altra logica oltre a quella. C'era tra noi qualche eretico come Domenico Mennitti, Adolfo Urso che era un ragazzino, e Beppe Nicolai che pensava [p. 51] a un'alternativa al centro, immaginando di sanare da destra l'equivalente di quella che era stata la scissione a sinistra del '14 tra l'anima nazionale e l'anima massimalista del socialismo [Mussolini fu espulso dal partito come interventista. Lasciata la direzione dell'"Avanti!", fondò "Il popolo d'Italia"]. Io per primo consideravo eretiche le proposte che anni dopo avrei fatto mie. Ma era presto. Noi ci consolavamo dicendo: siamo un mondo chiuso, siamo i soli a poter camminare a testa alta in un mondo infetto e corrotto, il corpo elettorale un giorno ci darà ragione. Orgogliosa non era soltanto la nostra diversità, ma anche la nostra estraneità alla politica di allora. E non eravamo pazzi: vivevamo in una società che
rifiutava puramente e semplicemente la nostra comunità politica." I due anni di Rauti furono tutt'altro che brillanti. Ai democristiani e ai socialisti faceva molto comodo tenere congelati i due milioni di voti lasciati in eredità da Almirante. Al congresso di Rimini essi tifarono per Rauti, sapendo che la posizione antistorica del nuovo leader avrebbe scongelato il prodotto: non come avrebbe fatto nel '94 Berlusconi, servendosene per andare a palazzo Chigi, ma sciogliendosi al sole come un sorbetto. Cosa che avvenne puntualmente nelle elezioni amministrative del maggio '90. Rauti perse novecentomila voti rispetto alle elezioni europee dell'anno prima, scendendo al 3,9 per cento, minimo storico dell'Msi, con soli centomila voti in più di un pur calante Partito repubblicano. Quel risultato pose fine a un equivoco. Rauti aveva fatto opposizione ad Almirante riscoprendo la vena sociale del fascismo e di Salò e accentuando le critiche al materialismo capitalista. Conquistò così molti giovani che s'illudevano di far concorrenza con la "Nuova destra" ai loro compagni-avversari dell'estrema sinistra. Un momentaneo riflusso aveva portato Rauti alla segreteria ("Data la crisi del comunismo, parlar male del capitalismo non spaventa più nessuno, anzi è di moda" commentò Franco Ferraresi sul "Corriere della Sera"), ma disorientò l'elettorato, in larga parte conservatore. Che cos'era diventato quel partito che univa la critica alla società occidentale ai gagliardetti neri, mai riposti dalle frange più nostalgiche? [p. 52] "Rauti" spiega oggi Fini "accentuava lo slogan secondo cui noi non eravamo soltanto diversi dagli altri, ma migliori. Noi uomini, gli altri omuncoli. In quegli anni, la destra era una comunità di credenti e di combattenti. Molti giovani erano entusiasti di entrare in questa comunità diversa di uomini onesti, belli, puliti, con lo sguardo rivolto al sole: vincere! E vinceremo!" E perché ci fu il crollo elettorale del '90? "Almirante aveva incarnato la destra d'ordine che strizzava l'occhio ai ceti medi, alla borghesia, alla maggioranza silenziosa. Rauti era l'espressione del fascismo di Salò, il fascismo di sinistra "immenso e rosso". Era l'uomo che cercava nel fascismo la terza via tra comunismo e capitalismo. Questa politica fu percepita come un tentativo di sfondamento a sinistra. Il problema fu che da sinistra non arrivò un voto e molti che votavano per noi contro la sinistra se ne andarono con la Dc. E Rauti si dimise." Fu così che, dopo un travaglio doloroso, nel luglio del '91 Fini tornò alla guida del partito. "Il dramma si era già consumato" mi
racconta. "Se ne erano andati Pisanò, Mennitti, Staiti di Cuddia e non c'era nessuno che giurasse sul fatto che il partito sarebbe arrivato alla fine dell'anno, anche perché io ero un cavallo di ritorno. Insomma, mi ritrovai solo. Se ne era andato anche il portavoce; chiamai Francesco Storace e gli chiesi di darmi una mano. Feci a tutti questo discorso: "Poiché stiamo morendo, non ho interesse a che ci venga celebrato un bel funerale così che, a salma tumulata, tutti dicano: be', in fondo erano delle brave persone. No, non ci sto. Perché non cerchiamo invece di dimostrare a tutti che siamo dei figli di puttana?"." Lega lombarda batte Pci Prima dell'arrivo di Berlusconi, come vedremo, Fini fu molto aiutato tra il '91 e il '92 dal piccone di Cossiga e dalle manette di Di Pietro. Ma torniamo per ora alle elezioni regionali [p. 53] del '90 e allo sconquasso che determinarono nella politica italiana. Il Pci crollò al 24 per cento, perdendo sei punti rispetto alle amministrative precedenti e oltre quattro sulle europee dell'anno prima. La caduta del Muro di Berlino, che avrebbe travolto di lì a poco l'intero sistema politico italiano, all'inizio sembrò sommergere di macerie soltanto il palazzone rosso delle Botteghe Oscure. Occhetto non aveva completato la svolta coraggiosa annunciata alla Bolognina, rinviandone l'attuazione al congresso che si sarebbe tenuto a Rimini all'inizio del '91. Le elezioni lo colsero a metà del guado, lo punirono e ridettero fiato ai nostalgici del vecchio nome, del vecchio simbolo e della vecchia politica, che avrebbero tenuto sotto schiaffo il segretario ancora per parecchio tempo. La campagna di Occhetto per l'alternativa di sinistra fu archiviata per sempre. Craxi - dall'alto del suo 15,3 per cento ("onda lunga, ma lenta") - aveva in mente di realizzarla alle sue condizioni e con rapporti di forza invertiti. "Era appunto l'idea dell'Unità socialista" mi dice ora ad Hammamet. "In Italia i rapporti di forza erano più favorevoli ai comunisti, ma è evidente che la guida di una simile alleanza, che lungo la strada avrebbe potuto trasformarsi anche in qualcosa di più organico, non poteva che essere socialista. Da qui l'accusa che mi rivolgevano i comunisti di voler egemonizzare, annettere e chi più ne ha più ne metta." La Dc di Forlani con il 33,6 per cento portò a più di nove punti il suo distacco dal Pci, perdendo al Nord e migliorando al Sud (in Sicilia sfiorò il 50 per cento, mettendo insieme i voti di Leoluca
Orlando e Salvo Lima). Dai maggiori giornali si levò l'appello a riformare il sistema elettorale. Occhetto alzò la voce, ma Craxi fece finta di non sentire. Scriveva Gianfranco Piazzesi sul "Corriere della Sera": "il nostro sistema politico... è molto fragile, composto com'è da cinque partiti con una maggioranza di poco superiore al 50 per cento e che una volta alla settimana trovano il modo per litigare". Nessuno avrebbe immaginato che, dopo la riforma elettorale fatta di lì a poco (il "Mattarellum"), il governo D'Alema si sarebbe retto [p. 54] nove anni più tardi su una maggioranza di dodici partiti che avrebbero messo insieme faticosamente meno del 40 per cento dei voti. Ma il vero terremoto, il vero sconvolgimento del sistema politico italiano avvenne per mano di uno studente fuori corso di medicina che al Senato aveva conquistato nell''87 l'unico seggio parlamentare del suo movimento. Si chiamava Umberto Bossi e aveva inventato la Lega lombarda. Nella regione più industrializzata d'Italia, la Lega aveva conquistato oltre il 19 per cento dei voti, superando il milione di preferenze e diventando il secondo partito dopo la Dc. Spalmati a livello nazionale, quei voti portavano Bossi a rappresentare quasi il 5 per cento dell'elettorato italiano e la Lega a diventare il quarto partito, vista la crisi dell'Msi. Prima dell'appuntamento elettorale, Forlani aveva detto scoraggiato: "In Italia le elezioni sono un infinito ritorno all'uguale". Bossi lo aveva smentito. Se in un salotto entra inattesa una donna di successo, le signore presenti fanno a gara per demolirla: chi attacca i fianchi, chi le caviglie, chi i tratti del viso. Così fecero i partiti tradizionali con la Lega. De Mita: "Le Leghe [allora la Liga veneta era divisa dalla Lega lombarda] sono il cancro della democrazia". Gava: "La Lega è laurismo e qualunquismo". Occhetto: "Un rafforzamento delle Leghe sarebbe un salto nel buio tremendo". Angius: "La connotazione della Lega è conservatrice e reazionaria". Amato, quand'era vicesegretario del Psi: "Il leghismo è il più grave fenomeno eversivo degli ultimi anni". Ammette oggi Craxi: "Non mi resi conto della portata di questa protesta. Non mi avvertirono gli amici, i compagni di partito, gli osservatori della politica. Bossi era venuto a trovarmi in via del Corso prima delle elezioni. Andando via mi disse: "Tieni duro"". Anche chi scrive era convinto che la Lega fosse frutto di una momentanea irritazione lombarda e sarebbe presto scomparsa. Si sbagliava di grosso. E pochi dettero peso all'allarme lanciato da Vittorio Moioli nel suo libro Il tarlo delle Leghe (Comedit, 1991):
per lui il successo di Bossi era "l'inquietante segnale del [p. 55] profondo distacco che si è determinato tra chi governa e chi è governato, tra la sfera degli interessi e delle sensibilità dei politici e le istanze che emergono dalla società civile". "Vedendomi friggere, mia madre pianse" "Era l'inizio degli anni Ottanta, facevamo la prima festa della Lega lombarda. Venne anche mia madre e restò sconvolta vedendo che friggevo il pesce. "Ma come, Umberto, dopo tanti anni di studio e di sacrificio ti sei ridotto così?" Pianse. Ricordo i suoi lacrimoni come fosse adesso." Abbozza un sorriso dolce, l'onorevole Bossi, e poi lo spezza infilandosi in bocca un mezzo toscano. E' una pigra sera del luglio '99 e lui sta preparando la ghigliottina per Domenico Comino e altri "traditori" al congressino che alla fine del mese gli darà il via libera per il movimentismo da giocarsi nel congressone del 2000, all'immediata vigilia delle elezioni regionali di primavera. Prima di entrare nel suo ufficio alla Camera guardo i dettagli con la curiosità della prima volta, ma con occhi diversi. Già in ascensore, schiacciando il pulsante del secondo piano, leggo: "Lega nord per l'indipendenza della Padania". Ha ancora un senso quel nome? O è diventato soltanto un simbolo, un'aspirazione solenne e astratta, una vetrina di valori come "Democratici di sinistra" o "Partito popolare" o "Alleanza nazionale"? Se non addirittura un'esclamazione come "Forza Italia"? Nel salone dove i deputati leggono i giornali c'è un cartello: "Si prega di non portarli via". Stessa disciplina di dieci anni fa. Nella vecchia sede di quattro stanze in piazza Massari a Milano non stava forse scritto: "Ai collaboratori della segreteria politica: ogni sera, prima di uscire, siete pregati di vuotare i cestini"? Nel locale dove i parlamentari smanettano con il computer alla ricerca di novità politiche, c'è un altro cartello, psicologicamente un po' ingiallito: "Benvenuti in Padania". Aria di casa, come i distributori di acqua gelata [p. 56] collocati all'ingresso degli uffici delle ambasciate americane. Sull'uscio della sua segreteria sta inchiodata una targa: "On. U. Bossi" e, sotto, una scritta più temibile: "Con la porta chiusa non entrare". Una volta, il sostituto procuratore di Milano Piercamillo Davigo mi disse che l'Italia è un paese anomalo perché non basta scrivere "Vietato", per sperare in un minimo di attenzione, ma bisogna
sottolineare "E' severamente vietato". Quella scritta sulla porta di Bossi non è un qualsiasi "Attenti al cane". Vale più di un "Alta tensione. Pericolo di morte", con tanto di teschio. E' difficile crederci, ma nessuno ha il diritto di interrompere Bossi. Mai. Per nessuna ragione. Se è in casa sua a Gemonio, gli si può telefonare soltanto in caso di guerra. Altrimenti si usa il fax che sta sul camino e sputa fogli in continuazione raccolti con pazienza dalla signora Manuela e portati ogni tanto nella mansarda dove il Senatùr lavora. Negli uffici di Milano e di Roma nessuno osa intervenire. "Il segretario è occupato." Si può disturbare? "No." E' urgente, può fargli avere un biglietto? "Scherza?" Non può entrare nemmeno un commesso? "Impossibile." Quando ci conoscevamo meno e non avevo il numero del suo cellulare, che uso nelle occasioni disperate (le stesse in cui al presidente degli Stati Uniti viene allungata la valigetta nucleare), Bossi mancò un collegamento diretto in trasmissione perché nessuno aveva avuto il coraggio di ricordarglielo. Quando infine uscì dalla stanza, il satellite stava già da un'altra parte. E' di buonumore, l'Umberto, in questa serata dell'estate '99. Le battaglie lo gasano e stavolta lui, che ha un finissimo naso politico, ha capito che nelle regionali del 2000 si gioca la pelle. Adesso gli si spalanca il cuore perché gli chiedo come e quando è cominciata l'avventura che ha fatto piangere la mamma davanti al pesce fritto, ma poi lo ha portato dove nessuno - forse nemmeno lui sperava di arrivare. "La storia cominciò nel '79. La politica italiana sembrava una torre di Babele. C'era la ventata delle autonomie, l'esplosione delle liste civiche. La gente ne aveva le tasche piene di Roma e del sistema politico romano. Il Nord capì che lo Stato [p. 57] nazionale non aveva alcuna parentela con la società civile. La torre di Babele, insomma, poteva crollare. Il sistema politico poteva essere semplificato. Io ci credetti." Nel '79, Umberto Bossi era uno studente fuori corso di medicina finalmente prossimo alla laurea. Aveva sposato da tre anni la prima moglie, Gigliola Guidali, "una bella donna borghese molto diversa da me" mi disse. E aveva avuto un figlio, che ora ha ventidue anni. Davanti all'università di Pavia incontrò un tizio che affiggeva manifesti autonomisti dell'Union Valdôtaine. Si chiamava Bruno Salvadori e "trovò in me" ricorda oggi Bossi "un terreno fertile". Appena approdato a Montecitorio con un cospicuo gruppo parlamentare, il Senatùr gli fece dedicare la grande sala rossa dove per decenni si
erano riuniti i deputati democristiani che, nel '78, l'avevano intitolata a Moro. Salvadori era morto in un incidente stradale un anno dopo aver incontrato Bossi. Gli aveva lasciato ventiquattro milioni di debiti accumulati durante la loro comune attività politica, ma aveva fatto in tempo a cambiargli la vita. Superata presto l'indecisione di Pinocchio (faccio il bravo ragazzo o seguo il gatto e la volpe?), Bossi era diventato un militante dell'Union Valdôtaine, l'unico partito federalista d'Italia. Da lì ad allargarsi in Lombardia il passo era breve. Il Senatùr mi confessò di aver votato fino ad allora per la Dc o per il Psi. Il suo primo compagno stabile d'avventura fu uno scapestrato di Varese, appena laureatosi in legge, che era transitato dal Psiup al Pci a Democrazia proletaria, e che da ministro dell'Interno della Lega avrebbe avuto il rimpianto di non aver potuto votare per il Partito marxista-leninista d'Italia, assente dalla sua circoscrizione. Si chiamava Roberto Maroni, e una notte, all'inizio dell''80, andò con Bossi a dipingere sul cavalcavia della Milano-Laghi, all'altezza di Castronno, la prima scritta: Lega Autonomista Lombarda. Purtroppo, l'auto della mamma di Maroni restò macchiata di vernice e la cosa finì male. Nell''82, Bossi conobbe quella che sarebbe diventata la seconda moglie e la regolatrice suprema e assoluta della sua vita. Manuela Marrone, origini siciliane, incontrò Umberto [p. 58] alla Famiglia Bosina di Varese, in un convegno sui dialetti. Si innamorarono a prima vista, hanno avuto tre figli e Bossi ha usato per descrivere questa donna parole di una dolcezza che certamente il pubblico televisivo stenterebbe a riconoscergli. Un giorno, eravamo a tavola insieme con tutto il vociante stato maggiore leghista: lui si girò verso Manuela e, incurante del contesto, cominciò ad accarezzarle i capelli e a sussurrarle parole che non mi sforzai di ascoltare, ma che dovevano essere molto diverse da quelle che il Senatùr usa abitualmente con Berlusconi. Manuela faceva la maestra, divise con Umberto un monolocale bohémien e divenne un'attivissima militante della Lega. Bossi si presentò senza successo alle elezioni europee dell''84 sotto le insegne dell'allora più nota Liga veneta. Nell''85, la Lega conquistò tre consiglieri comunali e provinciali a Gallarate e Varese. Nell''87, i primi seggi parlamentari: Bossi al Senato (da qui l'appellativo di Senatùr che non l'avrebbe mai abbandonato) e Luca Leoni (poi uscito di scena) alla Camera. Nell''89, Francesco Speroni e Luigi Moretti guadagnarono due seggi a Strasburgo. Fino
all'esplosione delle regionali '90: quarto partito italiano, secondo in Lombardia con quindici seggi al Pirellone e cinquantamila voti più del Pci. Allora, Bossi veniva additato come un orco dai leader dei partiti tradizionali. In realtà, era assai più moderato di quanto non sarebbe stato negli anni successivi. Disse a Guido Vergani della "Repubblica" dopo la vittoria elettorale: "La gente chiede federalismo, che non vuol dire separatismo, chiede che i comuni e le regioni abbiano un'autonomia impositiva e che il grosso delle tasse non finisca a Roma". Dieci anni dopo, magari con qualche sfumatura diversa, questa frase è entrata a far parte del patrimonio di quasi tutte le forze politiche. Non è ancora chiaro quale tipo di federalismo avrà l'Italia, ma che ne avrà uno è ragionevolmente assodato. E occorre riconoscere che, senza Umberto Bossi, questa parola sarebbe rimasta un'esclusiva degli studiosi di Carlo Cattaneo. [p. 59] Un magistrato bussò a palazzo Chigi... Francesco Cossiga fu eletto presidente della Repubblica nella tarda primavera dell''85. Per cinque anni, i suoi rapporti con la Dc andarono a corrente alternata. Lui stesso mi rivelò (per il mio libro La corsa) che i dirigenti del suo partito s'aspettavano che interrompesse la presenza di Craxi a palazzo Chigi garantendo alla Dc l'agognata "staffetta". Non ottennero il risultato e se la presero anche con il Quirinale. I rapporti del presidente con il Pci erano buoni. Cossiga era stato eletto grazie a un patto stretto tra De Mita e Natta a casa di Biagio Agnes: De Mita si pentì della scelta, i comunisti no, almeno per i primi cinque anni di mandato. Il 1o maggio 1990, Cossiga celebrò il centenario della Festa dei lavoratori con un sorprendente discorso a Milano. Perché sorprendente? "Dissi" mi raccontò "che bisognava prendere atto dello scontro sociale che dolorosamente c'era stato nel paese. Ricordai i caduti di Portella della Ginestra, i braccianti di Avola, gli operai uccisi dalla polizia a Modena. Poi pronunciai la famosa frase che tanto scandalizzò: a tutelare l'integrità morale e territoriale dello Stato, a fianco del presidente della Repubblica e delle altre istituzioni, vi sarebbe stata fermamente la classe lavoratrice italiana, proprio per il suo sentirsi e voler essere classe generale. Classe generale, capisce?" Capirono anche gli altri. Bossi mi avrebbe confessato di essersi sentito tra i bersagli di quel discorso. "I democristiani" mi disse
Cossiga "si chiesero se io non stessi manovrando per ottenere l'appoggio della sinistra per la mia rielezione. Craxi e Occhetto furono i primi a stringermi la mano. L'indomani, Occhetto mi telefonò per dirmi che il mio discorso era stato alto e nobile. E aggiunse, scherzoso, che il suo partito, se io avessi voluto, aveva forse trovato il suo presidente..." In quel periodo, il Pci fu sorprendentemente vicino a Cossiga anche nella durissima controversia che oppose il capo dello Stato al Consiglio superiore della magistratura. "La prima volta che io ebbi uno scontro con il Csm" racconta l'ex capo dello Stato "fu nell''85, quando voleva approvare [p. 60] una mozione di censura nei confronti del presidente del Consiglio, Bettino Craxi. [Cossiga bloccò la mozione definendo il Csm un "organo di alta amministrazione" senza alcun rilievo politico, nemmeno indiretto.] La direzione del Pci si schierò dalla mia parte... Il senatore Perna e il giudice costituzionale Malagugini vennero a comunicarmela: per carità, non mollare, difendi le tue prerogative, difendi la divisione dei poteri, sennò qui chissà come andrà a finire..." Anche negli anni successivi, i rapporti tra Quirinale e comunisti furono buoni. Fino a quando, nell'estate del '90, a un magistrato veneziano non venne una certa idea. Il 13 giugno 1990, la guerra tra il Csm, ormai vicino alla scadenza del mandato, e il Quirinale ebbe un drammatico epilogo. Cossiga inviò una lettera al Consiglio accusandolo di aver assunto un "carattere politico" e prendendo atto di non poter presiedere l'organismo "senza venir meno ai miei doveri d'imparzialità". Respinse inoltre ogni richiesta di dibattito con i consiglieri negando che il Consiglio avesse "una qualche competenza a sindacare gli atti del capo dello Stato". Nel biennio successivo, come vedremo, lo scontro con i giudici si sarebbe fatto più forte. Ma nonostante la lettera di giugno fosse determinata da un conflitto apertosi con le dimissioni di Elena Paciotti (esponente storico di Magistratura democratica e oggi parlamentare europeo dei Ds), Botteghe Oscure aspettò l'autunno per aprire una guerra improvvisa, durissima e irreversibile contro il capo dello Stato, culminata nella richiesta di processarlo davanti all'Alta Corte di giustizia per attentato alla Costituzione. Tutto cominciò la mattina del 20 luglio, in un'estate segnata da un conflitto senza esclusione di colpi tra le più alte istituzioni dello Stato, con il pieno coinvolgimento dei Servizi segreti, mentre a Palermo la mafia viveva la stagione d'oro della sua potenza. Quel
giorno un giovane magistrato veneziano, Felice Casson, fu ricevuto a palazzo Chigi da Giulio Andreotti, al quale chiese di togliere il vincolo della riservatezza ad alcuni documenti che avrebbe voluto consultare negli archivi del Sismi, il Servizio segreto militare. [p. 61] Casson aveva interrogato Vincenzo Vinciguerra, un terrorista condannato all'ergastolo per aver fatto saltare in aria nel '72, a Peteano, un'automobile, uccidendo tre carabinieri e ferendone gravemente un quarto. Il magistrato sospettava che Vinciguerra avesse preso l'esplosivo in un deposito gestito da una struttura militare riservata, nota ai codici Nato come Stay Behind (che significa "star dietro le linee") e ribattezzata in Italia Gladio. L'ammiraglio Fulvio Martini, nel '90 direttore del Sismi, avrebbe ricordato in un libro pubblicato da Rizzoli nell'estate del '99 (Nome in codice: Ulisse), che nel dopoguerra nacquero in seno all'Alleanza atlantica strutture parallele per condurre, in caso d'invasione per opera del Patto di Varsavia, operazioni clandestine a supporto delle forze regolari. "Stay Behind" scrive Martini "era un'organizzazione che ricalcava, in forma aggiornata, i modelli di quella che era stata la Resistenza in Europa contro i nazisti." Aderirono all'iniziativa, oltre all'Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania federale, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca e Norvegia. Tutti paesi, secondo Martini, che prevedevano di essere occupati, in parte o del tutto, nella fase iniziale di un'offensiva delle forze sovietiche. "La prova che ci fosse il pericolo di un'invasione" mi racconta Andreotti "ce la dette dopo la caduta del Muro lo stesso primo ministro ungherese Antall: quando lui aveva fatto il servizio militare, l'esercito ungherese si era addestrato per occupare la Valle Padana." (L'ex ministro dell'Interno democristiano Paolo Emilio Taviani - partigiano e fondatore di Gladio - testimoniò che i piani militari scoperti dopo l''89 confermavano che obiettivo delle colonne ungheresi e sovietiche era raggiungere Bergamo dopo aver attraversato l'Austria.) Pur esistendo un coordinamento centrale, le diverse Gladio nazionali facevano capo ai Servizi segreti dei singoli paesi. Il primo a sospettare che esistesse qualcosa del genere in Italia fu, nell''88, Carlo Mastelloni, un magistrato che aveva in comune con Casson la passione per le inchieste sui Servizi. Indagava sul misterioso incidente accaduto a un aereo Argo-16 che il Sismi usava per alcune missioni riservate e che [p. 62] serviva per trasportare periodicamente i "gladiatori" a addestrarsi in Sardegna. Scoprì l'esistenza di una struttura segreta, ma non poté far niente perché,
su richiesta di Martini, l'allora presidente del Consiglio De Mita oppose il segreto di Stato. Andreotti dette invece il via libera a Casson il quale fece due scoperte: l'organizzazione era formalmente ancora in piedi e ne facevano parte 622 persone. Gladio tra Andreotti e Cossiga Chi erano questi "patrioti"? Lo chiarisce lo stesso Martini: "Dovevano essere persone il meno Rambo possibile nell'aspetto esteriore, perché sarebbero dovute servire soprattutto per operazioni condotte oltre le linee dalle forze speciali o regolari, oppure per la raccolta di informazioni, per operazioni di intelligence dietro le linee...". Appena tredici giorni dopo la visita di Casson a palazzo Chigi, Andreotti riferiva in Parlamento sull'esistenza di una "struttura segreta controllata dai Servizi, predisposta ipotizzando un'invasione da nordest...". E a metà ottobre inviava alla Commissione stragi un dettagliato dossier su Gladio. Apriti cielo. I nomi dei 622 membri dell'organizzazione vennero dati in pasto ai giornali e la sinistra gridò che finalmente s'era scoperto chi stava dietro la "strategia della tensione" e le "stragi di Stato". Cossiga si trovava all'estero e restò spiazzato. "La mia prima preoccupazione" disse al giornalista della "Stampa" Paolo Guzzanti "fu di rassicurare i comunisti. Chiamai Occhetto e lo pregai di aspettare il mio ritorno e gli elementi di giudizio che avrei potuto fornirgli, per dimostrare al di là di ogni dubbio che si trattava di una faccenda che aveva radici antiche ed era del tutto legittima... Non ci fu niente da fare: il Pci aveva deciso di partire in quarta contro di me, e i suoi dirigenti non vollero aspettare che io tornassi per parlarne pacatamente." [p. 63] Cossiga era direttamente coinvolto nella questione perché negli anni Sessanta, come sottosegretario alla Difesa, si era occupato dei "richiami" del personale quando questo doveva assentarsi dal lavoro. "Roba da fureria" commentò Taviani. Ma l'occasione era troppo ghiotta per non essere inserita a pieno titolo nel corposo volume dei segreti d'Italia. "In realtà" mi spiegò Cossiga "il Pci fu colpito dal fatto di non aver saputo mai niente di Gladio. E, in effetti, aver mantenuto per decenni un segreto del genere in Italia era un vero miracolo." Dopo
la caduta del Muro si è saputo che il Kgb conosceva perfettamente l'esistenza di Gladio, ma non ne aveva parlato ai dirigenti del Pci perché - mi disse l'ex capo dello Stato - non erano da tempo "in odore di fedeltà". Dal '56, i responsabili dei Servizi avevano sempre informato dell'esistenza della struttura il presidente del Consiglio e il ministro della Difesa. Martini dimenticò di avvertire negli ultimi anni Fanfani e Gaspari: sostiene di averlo fatto perché non dava più a Gladio nessun peso, ma è comprensibile che siano circolate ipotesi più maliziose. Resta da chiedersi la ragione per cui Andreotti abbia consentito a Casson quel che De Mita aveva vietato a Mastelloni. "Una volta che era venuto fuori il problema" mi spiega "era doveroso e utile dare tutti gli elementi al Parlamento e all'opinione pubblica." La stessa motivazione fornì Occhetto (Giovanni Maria Bellu e Giuseppe D'Avanzo, I giorni di Gladio, Sperling & Kupfer, 1991): "Andreotti ha ritenuto di controllare meglio un inevitabile processo di trasparenza". E la pubblicazione dei nomi? Mi risponde il senatore: "Quelle persone andavano additate alla riconoscenza nazionale". Gli interessati la presero in altro modo: trattati pubblicamente da bombaroli, si sentirono traditi dallo Stato e ancora a dieci anni di distanza, come riconosce lo stesso Andreotti, "continuano a protestare nelle loro riunioni". In realtà, è difficile spiegare l'iniziativa del presidente del Consiglio di non limitarsi a informare il Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti ma di inviare anche i documenti su Gladio alla Commissione stragi, che dovrebbe [p. 64] occuparsi evidentemente d'altro ("Il presidente Gualtieri chiese la relazione" mi dice oggi il senatore). A meno che Andreotti non considerasse Gladio un'organizzazione stragista, ed è da escludere che lo pensasse. In ogni caso, nell'estate del '96 la procura di Roma, alla quale l'inchiesta era stata trasferita per competenza, ne chiese l'archiviazione perché non erano emersi fatti di rilevanza penale. Rispondendo ad Alberto Statera di "Panorama" Nino Cristofori, il più stretto collaboratore di Andreotti a palazzo Chigi, disse: "Forse il presidente temeva che il giudice Casson tirasse fuori faccende che non c'entravano un bel nulla e che potevano procurare a Giulio un danno". Più maliziosa l'interpretazione di Indro Montanelli richiamata da Bellu e D'Avanzo: "Andreotti sapeva benissimo quel che faceva e lo ha fatto per togliere di mezzo Cossiga e garantirsene la successione al Quirinale accaparrandosi i voti dei comunisti, gli
unici beneficiari di questa pantomima". E' comunque curioso che, ancora nel 1990, esistesse una struttura del genere, sia pure depotenziata negli organici, negli addestramenti e nella reale capacità operativa. E' un destino che la democrazia italiana sia stata sempre segnata dall'intervento - diretto o indiretto, volontario o involontario dei corpi dello Stato nella lotta politica. Negli anni Novanta questa influenza - spesso decisiva - è stata esercitata dalla magistratura. Nei decenni precedenti il compito se lo assunsero i Servizi segreti. Un mese prima che Casson bussasse alla porta di Andreotti, l'ammiraglio Martini aveva consegnato al procuratore generale di Roma, Filippo Mancuso, un dossier sullo spionaggio italiano in favore dei regimi dell'Est e in particolare di quello cecoslovacco che ne rappresentava la punta avanzata, specialmente per le indagini sul Vaticano. Secondo il Sismi, che era andato a prendersi un misterioso dossier a Praga, lo studioso cattolico Ruggero Orfei, consulente di De Mita per la politica estera a palazzo Chigi, era una spia dell'Est. Come accade sempre in Italia, prima che la magistratura verificasse se le accuse avevano un minimo di fondamento, il dossier era entrato [p. 65] in possesso dei giornali. E mentre questi si crogiolavano nello scandalo, la storia veniva fortemente ridimensionata: i magistrati non cavarono un ragno dal buco e scagionarono Orfei, che nove anni più tardi avrebbe ritrovato il suo nome nella lista di presunti informatori del Kgb, ricavata dal dossier Mitrokhin. E Martini? Aveva fatto sapere che non era stato il Sismi ad aver fretta di informare la magistratura, ma palazzo Chigi. Cioè Andreotti. Per colpire, si fece intuire, De Mita. Il quale se la prese molto anche con l'ammiraglio che ancora oggi, nelle sue memorie, dice: caro onorevole, dovevano essere altri ad avvertirla. Altri chi? I vertici dello Stato. Cioè, ancora una volta, Andreotti che, pur avendo sostituito Martini alla guida del Sismi, oggi ha accettato di scrivergli una rispettosa prefazione al libro. Gli ultimi misteri del caso Moro C'è ancora un capitolo oscuro scritto in quell'interminabile 1990, intristito non solo dalla caduta dei calciatori azzurri ai campionati mondiali di Roma. Il 9 ottobre, gli operai che conducevano i lavori di ristrutturazione in un appartamento di via Monte Nevoso a Milano s'accorsero che il vano murato di una finestra era un sorprendente
deposito di armi e documenti. La casa in questione era stata un covo delle Brigate rosse, scoperto dai carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa cinque mesi dopo l'assassinio di Aldo Moro. I documenti sono una copia parziale del memoriale redatto dal presidente della Dc durante la prigionia. Ci sono anche alcuni fogli dell'"interrogatorio" condotto dagli uomini delle Br. Nessuno crede che quel deposito fosse sfuggito agli uomini di Dalla Chiesa e che quei documenti fossero rimasti tranquilli per dodici anni dietro un pannello. Craxi parlò di "una manina" che ce li aveva portati. Andreotti si chiese: manina o manona? Ogni volta che in Italia capitava qualcosa di strano (cioè quasi tutti i giorni) lo sguardo finiva inevitabilmente su Andreotti, [p. 66] che a un certo punto cominciò a rammaricarsene. Questo episodio non fece eccezione. Ancora oggi, non è chiaro dove siano gli originali di quei documenti e le famose borse sottratte al leader democristiano al momento del sequestro. Non lo hanno confessato i terroristi, nemmeno quelli che hanno usufruito di grandi benefici penitenziari. Non lo hanno scoperto gli investigatori. Non lo hanno intuito i politici. Alla fine del secolo, e a oltre vent'anni dall'episodio più drammatico della nostra esperienza democratica, alcuni grandi e decisivi misteri sono lontani dall'essere chiariti. Al punto che, nell'agosto del '99, si è sviluppata sul "Corriere della Sera" una polemica che in altri paesi sarebbe inconcepibile. Il senatore Giovanni Pellegrino (Ds), presidente della Commissione stragi, ha avanzato in una relazione il sospetto (fondato) che il caso Moro sia tuttora non chiarito fino in fondo. E ha chiesto, a sorpresa, di approfondire ancora la famosa e già indagatissima vicenda della seduta spiritica fatta a Bologna durante il sequestro, alla quale partecipò Romano Prodi. Quella sera, lo "spirito" suggerì un nome: Gradoli. Le forze di polizia, informate, rivoltarono come un calzino il paese laziale di Gradoli. La prigione di Moro era invece in via Gradoli, una traversa della via Cassia a Roma. Naturalmente allo "spirito" credettero in pochi: si sospettò che tra i molti partecipanti alla seduta spiritica ci fosse qualcuno che aveva avuto una soffiata da ambienti vicini alle Brigate rosse e aveva trovato un modo singolare, ma efficace, per dare l'allarme. Da qui, ventun anni più tardi, la rinnovata curiosità di Pellegrino. Al senatore rispose in modo ruvido Ernesto Galli della Loggia, che quando scrive non usa certo il fioretto. Il professore in sostanza diceva che la Commissione stragi non serve a niente perché non ha mai scoperto niente. Pellegrino, naturalmente, se la prese e Galli della
Loggia si appellò a un arbitro autorevole, il magistrato Rosario Priore, ultimo giudice istruttore dell'organico giudiziario italiano per via delle inchieste sulla strage di Ustica, l'attentato al papa, la scomparsa mai chiarita di Emanuela Orlandi, figlia di un dipendente del Vaticano. Priore accettò di fare l'arbitro e come prima [p. 67] risposta disse: i politici non si sostituiscano alla magistratura. I misteri, intanto, restano e le rivelazioni - reali o presunte - che vengono sfornate anno dopo anno li rendono sempre più ambigui. Nel maggio del '99, fece un gran rumore sui giornali la rivelazione che un famoso direttore d'orchestra russo, Igor Markevi¬c, stabilitosi a Firenze e sposato con una principessa italiana, avrebbe permesso alle Brigate rosse di usare la sua casa romana, vicina al luogo dove fu trovato il corpo di Moro, come prigione del presidente della Dc. La notizia non trovò solidi riscontri e fu dimenticata. La riprese Paolo Guzzanti sul "Giornale" del 17 settembre successivo: "Quell'indiscrezione provocò una profonda agitazione in casa comunista perché di nuovo indicava che Moro fu probabilmente fatto rapire e ammazzare sotto regia sovietica per impedire l'ulteriore slittamento berlingueriano verso Occidente...". Guzzanti riesumò la vicenda perché era appena uscito in Inghilterra un libro -The Mitrokhin Archive - firmato dal giornalista Christopher Andrew e dall'ex agente del Kgb Vasilij Mitrokhin, che aveva diligentemente copiato nell'archivio del Servizio segreto sovietico migliaia di documenti utili a ricostruire i rapporti riservati tra l'Urss e il resto del mondo. Riassumeva Guzzanti: "Ma apprendiamo oggi dalle memorie del signor Mitrokhin... che Giorgio Amendola - il "destro" del partito che Longo sconsigliò a Mosca per caldeggiare la nomina di Enrico Berlinguer - era terrorizzato all'idea che i brigatisti rossi fossero catturati e che qualcuno di loro rivelasse i legami con i Servizi segreti cecoslovacchi dell'Stb, tanto che andò ad affrontare su questo rovente argomento l'ambasciatore di Praga a Roma, Vladimir Kouchy, spalleggiato dall'ambasciatore sovietico Nikita Rizov". Il mistero continua. [p. 68] III: "Il Muro era caduto su di noi..." Andreotti tra La Malfa e Cicerone "Nemo enim est tam senex qui se annum non putet posse vivere." Non
lo diceva pure Cicerone che nessuno è così vecchio da non pensare di poter vivere ancora un anno? E allora che volete da me? Ispirandosi a questo ineccepibile viatico Giulio Andreotti battezzò il 17 aprile 1991 il suo settimo governo, deciso a portarlo fino alla scadenza naturale della legislatura fissata al '92. Fu una delle tante crisi che dimostrarono come la Prima Repubblica non avesse molta voglia di campare. Lo sfondo ancora una volta era nobile (le riforme istituzionali), l'epilogo fu purtroppo assai misero. Da molto tempo era noto che la Costituzione del '48 aveva i suoi acciacchi e che uno dei paesi più importanti del mondo - quale bene o male noi siamo - aveva bisogno di un fisico più robusto. Ma sulla terapia - allora come oggi - i medici erano radicalmente divisi. Democristiani, socialdemocratici e repubblicani suggerivano solo qualche iniezione ricostituente. "Bisogna avviare la seconda fase della Prima Repubblica" suggeriva con la sua voce flebile Leopoldo Elia. Socialisti e liberali (allora andava di moda la sigla lib-lab) volevano, al contrario, che un intervento chirurgico portasse alla nascita della Seconda. Reclamavano, cioè, una fase costituente che consentisse il passaggio dal regime parlamentare a quello presidenziale. Oggi si discute delle stesse cose senza combinare nulla, ma [p. 69] almeno senza complessi. Allora il solo evocare la repubblica presidenziale era blasfemo. E sentirlo fare da uno come Craxi, che Giorgio Forattini disegnava sulla "Repubblica" con la camicia nera e gli stivaloni di Mussolini, provocava i brividi a buona parte della classe politica. Repubblicani compresi. Mentre nasceva il settimo governo Andreotti, veniva seppellito a novantadue anni Randolfo Pacciardi. Una signora ormai attempata ne salutò la salma ricordando che da ragazza scappava di casa per andarlo a sentire in piazza ("Con quegli occhi azzurri, era bellissimo"). E Cossiga onorava "il grande patriota democratico che per viltà dei più e a motivo di una torbida egemonia ideologica dovette subire false e infamanti accuse". Cioè, quattro anni di inchiesta per golpismo - lui, repubblicano storico, eroe della Grande Guerra, convinto antifascista e combattente in Spagna - solo per essere stato un sostenitore della Nuova Repubblica presidenziale. Trovandosi in minoranza (per i comunisti, appena diventati Pds, la repubblica presidenziale era una bestemmia), Craxi aveva affidato a quella peste di Giuliano Amato la ricerca di una soluzione. E il "dottor Sottile", allora vicesegretario socialista, l'aveva pensata
bene. Siamo nel '91 - questo era più o meno il suo discorso - e manca un anno alla scadenza elettorale del '92. Impieghiamo questo tempo per una riforma dell'articolo 138 della Costituzione (quello che avrebbe permesso di cambiarne gli altri articoli) che autorizzi un referendum bifronte: i cittadini sarebbero chiamati alle urne per pronunciarsi sia sulla proposta costituzionale vincente sia su quella perdente uscita dai lavori parlamentari. Facciamo su questi temi la campagna elettorale del '92, suggeriva Amato, mandiamo subito dopo Craxi a palazzo Chigi (questo lo pensava, ma non lo diceva a tutti) e impieghiamo l'anno successivo per modificare la Costituzione, chiamando poi il popolo a pronunciarsi. Amato sapeva che la repubblica presidenziale sarebbe stata bocciata in Parlamento, ma grazie al referendum bifronte avrebbe vinto nelle piazze. I democristiani non abboccarono. "De Mita" mi racconta Andreotti "avrebbe voluto lo scioglimento delle Camere con [p. 70] un anno di anticipo. Immaginava, così, di impedire l'esplosione che la Lega avrebbe avuto nel '92. Nella pura ottica di partito aveva ragione lui. Io ero contrario per ragioni diverse e più generali: si stavano discutendo gli accordi di Maastricht e lo scioglimento delle Camere avrebbe messo l'Europa di fronte all'alternativa di tenerci fuori o di fermarsi per aspettarci. Cosa pericolosa, vista la posizione nettamente contraria a Maastricht della signora Thatcher." Il presidente del Consiglio era contrario forse anche per ragioni di bottega: la crisi di governo portò infatti dal sesto al settimo governo Andreotti ed ebbe due motivazioni di non eccelso prestigio: reimbarcare la sinistra democristiana, dimessasi dal gabinetto precedente per protestare contro i rinnovi del famoso "decreto Berlusconi" che autorizzava le reti Fininvest a trasmettere; e sbarcare i repubblicani, che entrarono a loro volta in crisi perché Andreotti e i partiti della maggioranza volevano mantenere alle Poste Oscar Mammì (autore di una legge sull'emittenza televisiva tuttora in vigore), mentre La Malfa voleva sostituirlo con Giuseppe Galasso. Andreotti alla fine affidò il ministero al socialdemocratico Vizzini e ne nacque una rissa. Mammì accusò La Malfa di avergli dato, di fatto, lo stesso "consiglio" che Hitler dette a Rommel: spararsi una rivoltellata alla tempia. La Malfa non si accontentò delle compensazioni ministeriali propostegli da Andreotti e per la prima volta dall''81 (governo Spadolini) tenne fuori il Pri dalla maggioranza a cinque, diventata per questo a quattro. Il mondo
tra Saddam e Gorbaciov All'estero nessuno si accorse di niente. Le crisi italiane erano come il colore degli abiti indossati da una stessa persona: potevano passare dal verde al blu, ma l'identità di chi li portava non cambiava. Solo un vestito rosso avrebbe destato una certa curiosità, ma i tempi erano prematuri. E quando fossero maturati, avrebbero trovato il rosso abbastanza stinto. Altre erano, quell'anno, le preoccupazioni del mondo. Mentre [p. 71] Andreotti partoriva la sua faticosissima lista di ministri, si seppe che Carlo e Diana d'Inghilterra conducevano vite separate. La notizia incuriosì l'opinione pubblica e la distrasse da più gravi avvenimenti. Per quarantadue giorni, dal 16 gennaio, s'era combattuta in Medio Oriente una piccola guerra mondiale per l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq. Le armate occidentali (e soprattutto quelle americane e inglesi) avevano costretto le truppe irachene al ritiro, ma Saddam Hussein aveva salvato il posto e nessuno avrebbe onestamente giurato che da quel posto, quasi dieci anni dopo, alla fine del '99, egli avrebbe perfino atteso il papa, all'inizio del suo cammino sulla strada di Abramo. In Italia nessuno metteva ancora nel conto che le macerie del Muro di Berlino sarebbero rovinate sui palazzi del potere romano. E lo stesso Andreotti mi conferma che nessuno immaginava tanto imminente la tragedia jugoslava. Sloveni e croati chiesero l'indipendenza dalla Federazione jugoslava sulla quale, invece, i nazionalisti serbi volevano mantenere il pugno di ferro. Li guidava il figlio di un prete ortodosso e di un'insegnante comunista, Slobodan Milo¬sevi¬c. Cominciarono allora la guerra civile e i massacri che nel '99 avrebbero avuto nel Kosovo una replica orrenda. Un mondo ancora inconsapevole si divideva tra chi considerava Milo¬sevi¬c il Gorbaciov dei Balcani e chi lo aveva già identificato nel traditore della Realpolitik di Tito. Contemporaneamente, esplodeva l'Albania, che cominciò a riempirci di profughi. Esplodevano le repubbliche baltiche: Lituania, Estonia e Lettonia chiedevano un'indipendenza che Mosca non era pronta a concedere. Intervennero dunque ancora una volta i carri armati di buona memoria e Gorbaciov ne fu lentamente stritolato: non poteva assumersi la paternità della repressione, non poteva sconfessare i generali, e non riuscì a evitare che l'impero sovietico gli si sfaldasse tra le mani. L'Occidente, pur sapendolo indebolito, lo acclamava ancora: Nobel per la pace a Oslo, invito al tavolo dei Sette grandi, assedio delle televisioni e dei media ovunque
sbarcasse. [p. 72] "Gorbaciov aveva iniziato la politica di distensione nell''85" mi ricorda Craxi. "La contrastata decisione italiana di installare i missili nucleari come risposta all'installazione degli SS-20 sovietici aprì la strada al negoziato e della nuova situazione di pace. Lo riconobbe il ministro americano della Difesa Caspar Weinberger, ringraziandomi pubblicamente a Washington. Lo riconobbe poi anche il ministro sovietico degli Esteri, Shevarnadze. Si giunse all'accordo per l'eliminazione di tutti i missili nucleari a medio raggio. Eravamo nell''88. Gorbaciov decise il ritiro di cinquantamila soldati sovietici dai paesi dell'Est e la riduzione unilaterale della forze armate. Nel febbraio dell''89 cominciò il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan. A maggio fece la stessa cosa con l'Ungheria, la Cecoslovacchia e la Germania dell'Est. Caddero le barriere. Cadde il Muro di Berlino." Ma il capo di quello che fu il più grande e monolitico impero del mondo era ormai sconfessato in casa propria e cercava invano l'aiuto politico dell'Occidente. "Nella conferenza di Londra del '91" mi racconta Andreotti "Gorbaciov ci fece un discorso molto patetico. Guardate, disse, io ho bisogno di denaro e di tutto quanto voi gentilmente mi offrite. Ma la cosa più importante che vi chiedo è di lasciarmi il tempo per poter creare un sistema di autonomie differenziate nelle diverse repubbliche dell'Urss. Se voi invece pigiate sull'acceleratore sostenendo pur con qualche ragione che non avete mai riconosciuto la vecchia annessione dei paesi baltici all'Unione Sovietica e che quindi trovate giusto il loro diritto all'indipendenza immediata, mi fate saltare tutto. Questo ci disse Gorbaciov. Mitterrand e io lo appoggiammo. Tutti gli altri no. Forse Gorbaciov sarebbe caduto lo stesso perché doveva disinnescare contemporaneamente due bombe: l'unificazione della Germania e lo scioglimento del Partito comunista sovietico. Ma chissà..." Il leader emergente a Mosca era ormai Boris Eltsin, un russo massiccio che amava la vodka e le parole forti, ma, si scoprì dieci anni dopo, anche le carte di credito per spese private (per sé e famiglia) coperte all'estero da generosi benefattori [p. 73] (che smentirono sempre di averlo aiutato). Fu chiamato "il kamikaze della perestrojka". Gridava: "Gorbaciov è un dittatore". E la piazza lo seguiva. Un referendum schizofrenico stabilì che l'Urss dovesse restare grande e unita, ma al tempo stesso che la Russia dovesse avere un proprio presidente e un proprio governo. La prima
aspirazione era ormai pura utopia visto che, nonostante i carri armati, le repubbliche baltiche riuscirono a conquistare l'indipendenza. La seconda fu rapidamente realizzata da Eltsin, acclamato all'istante nuovo zar. La nostalgia del passato era fortissima: Leningrado tornò a chiamarsi San Pietroburgo come ai tempi della Santa Madre Russia. Gorbaciov era ormai un orfanello provvisto di un enorme patrimonio apparente, ma non spendibile. I vecchi comunisti provarono a fare un golpettino d'agosto: non si potevano mandare all'aria su due piedi settantacinque anni di sano marxismo-leninismo. Durò tre giorni. Eltsin si mise alla testa dei controrivoluzionari e restituì un Cremlino intatto al pallido Gorbaciov sorpreso (sorpreso?) dal golpe mentre villeggiava in Crimea. Ma l'avventura era ormai finita. Quando anche l'Ucraina decise di andarsene, l'impero non esisteva più. Gorbaciov si dimise a Natale, primo leader comunista a lasciare il potere senza scendere nella tomba e con i polsi liberi. Una sera di fine anno le televisioni di tutto il mondo trasmisero in diretta l'ammainabandiera del vessillo dell'Urss dalla torre più alta del Cremlino. Era la fine di un sogno. O di un incubo. Il Palazzo tra Segni e Cossiga Negli stessi mesi del '91, l'Italia ebbe due sentinelle che denunciarono - l'una inascoltata, l'altra acclamatissima l'approssimarsi delle macerie del Muro ai bordi di Montecitorio, con tutto quel che ne sarebbe seguito. Si chiamavano Francesco Cossiga e Mariotto Segni. Entrambi sardi di Sassari, entrambi democristiani, il primo allievo del padre del secondo, che si chiamava Antonio e l'aveva [p. 74] preceduto al Quirinale tra il '62 e il '64: un ictus l'aveva poi messo fuori gioco, nonostante il "sensorio vigile" assicurato dai comunicati stampa. Cossiga era all'apice di una carriera che nessuno ha maturato nei primi cinquantaquattro anni di Repubblica: ministro dell'Interno (durante il caso Moro), presidente del Consiglio, presidente del Senato, presidente della Repubblica dall''85. Il cursus honorum di Segni era assai più modesto. Il padre scoprì alla fine degli anni Trenta che l'inviato di Lorenzo il Magnifico mandato dal principe a costruire un castello a Poppi, in Toscana, si chiamava Mariotto Segni. Il nome era simpatico e così, nel '39, quando gli nacque un figlio maschio, il professor Antonio Segni
glielo impose. Conoscendo le asperità e le ingratitudini della politica, Segni padre - che pure era arrivato ai vertici dello Stato - sconsigliò vivamente al figlio di imitarlo. All'inizio, Mariotto gli dette retta e se ne andò a insegnare diritto civile all'università di Padova. Ma parecchi anni dopo la morte del padre decise di saltare il fosso e, alle elezioni del '76, fu eletto deputato per la Dc. Confermato per quattro legislature, fece una carriera onesta e senza picchi. A metà degli anni Ottanta, fu promosso sottosegretario all'Agricoltura, che era un po' la materia di famiglia (il padre ne fu ministro e da quella posizione promosse una coraggiosa riforma agraria). Nel partito, s'era collocato nella nicchia più moderata. Anche per lui, come per il padre, i comunisti erano fumo negli occhi. Appena entrato in politica, aveva cominciato a dar noia alla segreteria Zaccagnini, aperta al dialogo con il Pci, fondando il Movimento dei Cento, composto da moderati come lui, convinti che la Dc pescasse i voti a destra e li spendesse a sinistra. Nel '79, aveva guidato la rivolta dei peones: si chiamavano così i deputati che si sentivano frustrati per non aver altro ruolo che quello di schiacciare il bottone alle votazioni. Segni suonò la squilla e i peones democristiani ottennero che alla guida del gruppo parlamentare alla Camera arrivasse il più illustre di loro, il professor Gerardo Bianco, un raffinato latinista che sarebbe poi diventato presidente e segretario del Partito popolare. I peones guardavano volentieri [p. 75] all'alleanza con il Psi e Segni, nell''80, fu tra i sostenitori del famoso "preambolo" a un documento Dc (letto ai giornalisti da Carlo Donat Cattin) che ribaltò la maggioranza del partito e restituì a Craxi il ruolo di interlocutore privilegiato. Dieci anni più tardi, alla fine del '90, lo stesso Craxi lo costrinse a dimettersi dalla guida del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. "Quella vicenda mi colpì e mi amareggiò" disse Segni "perché furono tirati in ballo mio padre e le trame oscure del '64", quando l'ex capo dello Stato fu accusato di essersi messo nelle mani di poco limpidi ufficiali dei carabinieri. In realtà, Mariotto Segni non s'è mai tolto dalla testa che l'improvvisa avversione di Craxi nei suoi confronti fosse nata dall'ostinazione con cui lui aveva messo in piedi tre referendum per la riforma delle leggi elettorali dei Comuni e del Senato e per l'introduzione della preferenza unica nelle elezioni della Camera dei deputati. Quest'ultimo fu il solo ammesso dalla Cassazione e fu ritenuto sulle prime il meno qualificante: in realtà, era la porta da cui due anni dopo, nel '93, sarebbe passato il referendum per l'introduzione del
sistema maggioritario nella legge elettorale. Un referendum contro i partiti Il giudizio politico e tecnico su quest'ultimo referendum non fu univoco. Alcuni, come Angelo Panebianco sul "Corriere della Sera", scrissero che esso avrebbe prodotto una riduzione dei brogli, un minimo di moralizzazione nelle campagne elettorali, un allentamento del controllo che "mazzieri" e "capi-partito locali" esercitano, in certe zone d'Italia, sul voto. Altri obiettarono che il costo della politica in effetti non sarebbe diminuito e che la preferenza unica avrebbe blindato al potere proprio i capipartito che Panebianco s'illudeva di colpire, impedendo alle segreterie di inserire in lista giovani e personalità comunque meritevoli che mai avrebbero avuto la forza politica di essere indicati nella preferenza unica. In realtà, il nuovo sistema avrebbe portato comunque a una maggiore trasparenza [p. 76] della politica e indotto i partiti a selezionare con maggior cura le candidature. Ma quando si sarebbe passati - com'era fatale - al sistema maggioritario, i partiti avrebbero imposto una quota proporzionale del 25 per cento per salvare il seggio a notabili che lo scontro elettorale diretto avrebbe probabilmente sacrificato. Torniamo al referendum del '91. Segni ebbe il merito di capire prima di altri il risentimento dell'opinione pubblica verso la classe politica. Il referendum è nato come strumento di democrazia diretta necessario a dirimere con un sì o con un no questioni fondamentali, ma proposte all'elettorato con grande semplicità: volete la monarchia o la repubblica? Siete favorevoli o no al divorzio? E all'aborto? Proporre per via referendaria la modifica di un meccanismo tecnicamente complesso come una legge elettorale è ai limiti del temerario. Ma in un paese che per cinquant'anni ha avuto la politica bloccata, visto che le elezioni politiche erano esse stesse un referendum (volete stare con l'Occidente o con l'Unione Sovietica?), il desiderio di democrazia diretta su qualunque tema era molto forte. Inoltre, come scrisse Renato Mannheimer sul "Corriere della Sera", i referendum erano visti come una critica "verso una gestione della politica attuata dai partiti tradizionali e la partitocrazia in generale. Negli ultimi mesi, l'orientamento di riprovazione verso i partiti nel loro insieme è stato ripreso e amplificato dalla maggioranza dei giornali e periodici, ciò che ha portato di fatto la disistima nei confronti delle forze politiche (e dei loro esponenti)
a far parte in qualche misura del senso comune, rendendola una sorta di atteggiamento quasi scontato, di dover essere, paradossalmente, ripreso da molti degli stessi personaggi politici messi sotto accusa". Naturalmente, i partiti capirono (tardi) che il referendum di Segni poteva costituire una prima leva per scardinare il sistema politico e si regolarono di conseguenza. I democristiani lasciarono libertà di voto, ma senza entusiasmo. Gli ex comunisti di Occhetto cavalcarono la consultazione al galoppo. Craxi e il sorprendente Bossi (che poi cercò di girare il voto a proprio vantaggio) invitarono gli elettori ad andarsene al mare. [p. 77] Fu il leader socialista, soprattutto, a caratterizzare politicamente la consultazione e a favorire curiosamente l'affollamento dei seggi. Su di lui, che durante il voto se ne era andato a Beirut a svolgere una missione come rappresentante personale del segretario generale dell'Onu per i problemi della pace, ricadde il peso della sconfitta. Che fu clamorosa: nonostante si fosse votato all'inizio dell'estate, si presentarono ai seggi oltre ventotto milioni di italiani, il 62,5 per cento del corpo elettorale. Ventisette milioni votarono sì. Da quella domenica 9 giugno 1991 la politica italiana non sarebbe stata più la stessa. Il moderatissimo Segni, l'uomo che detestava i comunisti e veniva da loro cordialmente ricambiato, ricevette un memorabile abbraccio da Achille Occhetto. I giornali d'opposizione lo elevarono all'istante alla gloria degli altari. Scrisse Giovanni Valentini sulla "Repubblica" che Segni era a suo modo un rivoluzionario, in quest'Italia malata di corruzione e di malcostume; era il nemico numero uno della partitocrazia, "il Grande Riformatore", l'astro nascente della politica italiana negli anni Novanta; il campione in carica e, nello stesso tempo, lo sfidante. Il dado era tratto. "Volete un cancelliere alla Kohl o alla Hitler?" Quasi che gli incubi della classe politica quel lunedì 10 giugno fossero pochi, a moltiplicarli ci si mise anche il Gran Dispettoso del Quirinale. Nel tardo pomeriggio, Francesco Cossiga convocò i "quirinalisti" dei tre telegiornali della Rai per farsi intervistare sull'esito del referendum. Appena le telecamere furono accese, il presidente sparò: "Il corpo elettorale ha certamente bocciato la legge con la quale è stata eletta questa Camera dei deputati". Era il preavviso di uno
scioglimento anticipato del Parlamento? Occhetto, che se l'aspettava, tentò il contropiede: "Non accetteremo colpi di mano o interventi atti a drammatizzare la situazione". Nemmeno Andreotti gradì la mossa. In realtà, Cossiga voleva ribaltare la situazione in favore di Craxi, il [p. 78] grande sconfitto del referendum, e del presidenzialismo da questi propugnato. Aggiunse infatti nell'intervista: "La gente ha dimostrato di voler decidere lei. Lo vuole fare direttamente evitando le mediazioni perfino dei partiti, delle lobby, dei gruppi di pressione e di interesse... Riesce difficile pensare che sia legittimo un referendum sulle preferenze per eleggere i deputati e negare domani al popolo... di dire se vogliamo la repubblica presidenziale, semipresidenziale, alla Bush, alla Mitterrand... o se vogliamo un primo ministro alla Major o un cancelliere alla Kohl o alla Hitler...". Durante gli ultimi diciotto mesi della presidenza Cossiga, la televisione diventò il suo principale strumento di colloquio con il paese e di demolizione del Palazzo. Ma non sarebbe corretto attribuire a lui né la primogenitura come esternatore né il primato delle interferenze nell'attività del governo, che egli, anzi, evitò con cura. Il presidente della Repubblica che usò per primo la televisione come strumento di dialogo diretto con il popolo (e quindi di delegittimazione sostanziale dei partiti e del governo) fu Sandro Pertini. Prima di lui - con Saragat e con Leone - le telecamere del servizio pubblico (esisteva soltanto quello) erano lo strumento di cronache talvolta spettacolari e spesso agiografiche, secondo un costume al quale certo non si sottraevano i maggiori quotidiani del tempo. L'unico motivo di dissenso che poteva capitare al cronista (e a chi scrive capitò di frequente) era, sul piano delle riprese, un contenzioso con il cerimoniale quirinalizio che voleva tenere le telecamere distanti dal capo dello Stato impedendo inquadrature efficaci, e, sul piano del merito, qualche bacchettata (sorprendentemente restituita, visti i tempi) quando l'agiografia presentava delle pecche. I messaggi di fine anno del capo dello Stato erano noiosi e scontati. Venivano sempre registrati, talvolta addirittura con un paio di giorni di anticipo sulla sera del 31 dicembre, in modo da non disturbare le vacanze presidenziali. Una sola volta Leone decise di rivolgersi improvvisamente al paese: fu la sera del 15 giugno 1978, quando la pavidità e le convenienze democristiane lo costrinsero a dimettersi per l'affare [p. 79] Lockheed (tangenti sulle forniture di
aerei militari) dal quale fu poi completamente scagionato. (A testimonianza del potere che il Pci ha sempre esercitato sulle istituzioni, anche dall'opposizione, basta ricordare che due soli furono i capi dello Stato eletti con il loro voto contrario e con una spintarella missina: Segni, che fu accusato di golpismo, e Leone, che dovette andarsene su richiesta di Berlinguer dopo una furiosa campagna di stampa condotta dall'"Espresso". Il terzo, Cossiga, che pure fu eletto in virtù di un patto di ferro tra Natta e De Mita, appena uscì dai binari concordati e si trovò d'accordo più con Craxi che con i suoi sponsor, si beccò da Occhetto una richiesta di giudizio davanti all'Alta Corte per attentato alla Costituzione. E poiché il fiuto gli diceva che il suo partito non si sarebbe certo immolato per salvarlo, cominciò a strillare come un'aquila per non fare la fine di Leone.) Pertini e Scalfaro, gli esternatori Pertini dimostrò subito di adorare le telecamere. Presentarsi in certe occasioni pubbliche senza la Tv sarebbe equivalso per lui a uscire di casa senza pantaloni. Quando capitava, per qualche accidente, che le telecamere non fossero al posto giusto nel momento giusto, la reazione del presidente faceva tremare le mura pontificie del Quirinale. Qualche mese dopo l'elezione, nell'autunno del '78, durante un viaggio in Liguria - la sua terra - il corteo presidenziale fu fermato in strada da un gruppo di bambini festanti. Pertini ci si tuffò con lo stile che alle olimpiadi aveva reso inconfondibile Klaus Dibiasi. Riemerso, si accorse che la Tv non c'era. "La Rai non mi vuole bene" commentò sconsolato risalendo in automobile. Quattro anni più tardi, lo seguii in una visita di Stato in Germania. A Monaco visitammo la fabbrica di autocarri Man, strapiena di operai italiani. Questi lo acclamarono (la popolarità di Pertini era immensa) e lui rispose lietamente. Ma dopo aver detto quattro parole, mi guardò e chiese angosciato: "E il microfono dov'è?". Una "giraffa" stava sopra la [p. 80] sua testa e lui non l'aveva vista. Parlare per i soli operai italiani - sia pure patriotticamente entusiasti - gli sembrava uno spreco. La televisione era il suo scendiletto, la sua vestaglia, le sue pantofole, la sua coperta di Linus: ma chiedere a Pertini un po' di gratitudine sarebbe stato eccessivo. Così, quando nell''83 Sergio Zavoli e Biagio Agnes lo implorarono di celebrare con un'intervista gratificante i trent'anni della televisione, Claudio
Angelini gli chiese quali meriti avesse acquisito la Rai in un tempo così lungo. La gelida risposta di Pertini, che aveva fatto di tutto per evitare l'intervista, fu: "Nessuno". Risposta tagliata, naturalmente. Il vecchio presidente socialista aveva una sua strategia mediatica infallibile: si costruiva un'enorme popolarità abbracciando bambini e partecipando commosso a funerali di Stato e poi la utilizzava per picconare governo e partiti, moltiplicandola ulteriormente. Quando, alla fine di novembre dell''80, l'Irpinia fu sconvolta da un terremoto, Pertini rilasciò un'esplosiva intervista al Tg1 senza che il governo - attaccato con inconsueta durezza dal capo dello Stato ne sapesse niente. Forlani, che era presidente del Consiglio, ne venne a conoscenza per caso incrociando Angelini al Quirinale. Scalfaro, successore di Cossiga e suo oppositore dichiarato proprio per le esternazioni, in un primo tempo dette l'impressione di voler caratterizzare il proprio mandato con un basso profilo mediatico. All'inizio, rifiutò perfino un "quirinalista" fisso della Rai al seguito. "Mandate chi volete" diceva il suo portavoce Tanino Scelba. "Se il presidente va in una capitale estera può provvedere il corrispondente locale, se visita una città italiana va benissimo la redazione regionale." Ci accorgemmo subito che la cosa non avrebbe retto. Le esternazioni di Scalfaro divennero alluvionali e chi aveva imprecato contro gli eccessi di Cossiga dovette ammettere che il professore di Sassari, al confronto del magistrato di Novara, era un "sardomuto". Per far fronte alla piena, la Rai non solo dovette distaccare al Quirinale diversi giornalisti, ma per coordinarli aprì nel palazzo dei papi un vero e proprio ufficio con un responsabile che faceva da filtro. I messaggi di fine anno - [p. 81] trasmessi rigorosamente in diretta s'allungarono sempre di più. Chi aveva l'abitudine di ascoltarli prima di mettersi a tavola per il cenone, con il passare degli anni si trovò a consumare almeno il secondo quando il capo dello Stato passava finalmente agli auguri. L'interventismo di Scalfaro non si limitava alle esternazioni quotidiane. Cossiga sostiene di aver sempre firmato senza sollevare eccezioni le nomine decise dai governi perché riteneva che la Costituzione non gli consentisse altro. Scalfaro (e in parte Pertini) dette invece della Carta un'interpretazione estensiva e impose a tutti i presidenti del Consiglio un'udienza settimanale di tabella per essere informato minuziosamente di ogni sospiro. Tutte le nomine governative sono passate nel suo settennato attraverso il filtro
attento e sostanzialmente discrezionale del capo dello Stato (e del suo autorevole e vigile segretario generale, Gaetano Gifuni, confermato da Ciampi). Quando fu costretto a dare l'incarico a Berlusconi, vincitore a sorpresa delle elezioni del '94, Scalfaro gli scrisse una lettera con alcune prescrizioni di galateo costituzionale che il Cavaliere - ne era certo - non conosceva. Questi gli fece rispondere garbatamente, ma per le rime, da Giuliano Ferrara, ministro per i Rapporti con il Parlamento, ma poi dovette adattarsi alla ricetta. Cossiga, una valanga contro i giudici A Cossiga è rimasta comunque attaccata l'etichetta di grande esternatore e di grande interventista. Nei primi cinque anni di mandato egli stette rigorosamente zitto. Questo non vuol dire affatto che se ne sia stato anche buono. I suoi rapporti con la Dc, per esempio, si guastarono molto presto, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Ma di questo dissidio non trapelò nulla. Mentre fu subito chiaro il dissenso con l'organo di autogoverno dei magistrati. Dopo la polemica con il Csm su Craxi di cui abbiamo parlato, la brace covò sotto la cenere per quattro anni, spuntando di tanto in tanto per dimostrare di essere [p. 82] ben viva. Cossiga l'attizzò tra l''89 e il '90 in due polemiche con i magistrati che avevano bloccato la promozione di un collega massone e con il giudice Casson che voleva chiamare a deporre il capo dello Stato sul caso Gladio. Il 13 giugno 1990, la guerra tra il Csm, ormai in scadenza di mandato, e il Quirinale ebbe un drammatico epilogo. Cossiga inviò una lettera al Consiglio accusandolo di aver assunto un "carattere politico" e prendendo atto di non poter presiedere l'organismo "senza venir meno ai miei doveri d'imparzialità". Respinse inoltre ogni richiesta di dibattito con i consiglieri negando che il Consiglio avesse "una qualche competenza a sindacare gli atti del capo dello Stato". Fece infine divampare l'incendio tra la primavera e l'estate del '91. Vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (di cui il capo dello Stato è presidente di diritto) era Giovanni Galloni, proveniente dalla stessa sinistra democristiana di Cossiga. Questi aveva criticato il Csm per aver mandato in prima linea contro la malavita del Sud magistrati privi di esperienza, i "giudici ragazzini", come furono chiamati. Galloni gli rispose per le rime e rincarò la dose dicendo, al Congresso nazionale dei magistrati, che non si era mai dato il caso di rivoluzioni guidate dai vertici
istituzionali. Cossiga non ci vide più. Ritirò a Galloni ogni delega, mandò dal Quirinale alla sede del Consiglio un camion di mobili per l'arredamento del suo studio e si installò a palazzo dei Marescialli. La sua opinione - provvista di solide basi - era che il Csm rappresentava (o almeno si proponeva di farlo con fermezza) la guida politica di una magistratura intesa come contropotere a tutti gli effetti. Istruita dall'esperienza di Pertini, la Tv seguiva ormai Cossiga dappertutto. Quando fece la prima clamorosa esternazione, seduto al banco della presidenza del Consiglio superiore della magistratura, invece di parlare, il capo dello Stato gridò. Il rossore sempre più acceso del volto, il tono della voce sempre più sferzante, il volume sempre più clamoroso si abbatterono come onde oceaniche contro le scogliere pallide e immobili dei volti dei magistrati in ascolto. La visione di quelle immagini [p. 83] fu devastante. Poiché era la prima volta che Cossiga eccedeva in quel modo, da direttore del Tg1 decisi di proteggerlo. "E' pur sempre il capo dello Stato" dissi ai miei colleghi "e se non calchiamo la mano più di tanto facciamo un favore non a lui, ma a quel che rappresenta." Sentendo quelle urla, un pubblico poco avvertito avrebbe immaginato che ai vertici delle istituzioni fosse in corso una guerra civile. Questa supposizione non sarebbe stata lontana dal vero, ma per quella volta ci limitammo a riferire con molto scrupolo i termini dell'attacco di Cossiga, trascurando le grida. La scelta mi costò un durissimo scontro con il caporedattore della cronaca, comunista militante e ottimo professionista, che aveva capito perfettamente quanto nocive fossero quelle riprese all'immagine del capo dello Stato. E per questo voleva che non un solo urlo fosse risparmiato al pubblico. (Oggi, da direttore, farei prevalere - sia pure con misura e comunque con molta sofferenza - le necessità della cronaca rispetto a quelle della tutela istituzionale.) Trasmettere quelle grida sarebbe stata una sottile vendetta per la sfuriata che il capo dello Stato aveva fatto contro il Tg1 quando, poco prima della mia nomina, era andata in onda un'inchiesta esplosiva: un sedicente agente segreto americano, Richard Brenneke, aveva rivelato un supposto finanziamento della Cia alla P2 per armare il terrorismo in Italia. Poiché veniva chiamata in causa la stessa Casa Bianca, Cossiga si trovò senza preavviso in anticamera l'ambasciatore degli Stati Uniti che, sconvolto, chiedeva spiegazioni. Andreotti, presidente del Consiglio, condannò quel servizio in Parlamento, anche perché agli autori dell'inchiesta non
fu possibile fornire riscontri di quel che Brenneke aveva detto. Il messaggio incompreso Capimmo presto, comunque, che Cossiga era improteggibile. Anzi, per dirla tutta, di essere "protetto" non gliene importava proprio niente. Aveva compreso prima di altri che il [p. 84] sistema politico italiano poteva essere risanato soltanto da una drammatica rivoluzione costituzionale e copriva d'insulti chiunque osasse mettersi sulla sua strada, amico o avversario politico che fosse. Era convinto che il suo partito volesse cacciarlo dal Quirinale facendo eleggere il successore dalle vecchie Camere, prima delle elezioni politiche del '92. Ma, al contrario di Leone, che mise rassegnato il capo sotto la ghigliottina, Cossiga fece sapere a tutti che se fosse morto Sansone, non uno dei filistei sarebbe sopravvissuto. Un giorno provai a chiedergli in un'intervista se fosse sensato demolire la casa vecchia prima di aver costruito la nuova. Ma lui era persuaso che, senza la distruzione della prima, non si sarebbe mai vista l'apertura del cantiere della seconda. L'intera classe politica e quasi tutti noi giornalisti sottovalutammo il suo profetico messaggio alle Camere del 26 giugno '91: furono le ottantadue cartelle più dirompenti dell'Italia repubblicana. Cossiga parlò di elezione diretta del capo dello Stato, di sistema uninominale, di referendum propositivi, di riforme costituzionali. Denunciò la crisi dei partiti e dello Stato e provò a suggerirne la soluzione. Anticipò di almeno cinque anni una fase costituente che la fine del secolo non ha ancora visto compiuta. Firmò il certificato politico di morte della Prima Repubblica. Ma i capi della Dc lo presero ancora una volta per matto. Andreotti, presidente del Consiglio, con una lettera drammatica scritta nella notte, gli disse che si rifiutava di controfirmare il documento e delegò l'incombenza al ministro Guardasigilli Martelli. "Era un messaggio molto profondo, pieno di idee" riconosce oggi Andreotti "ma suonò come una critica a tutto il sistema che naturalmente i partiti non accettavano. A cominciare dalla Dc, dove era noto il rapporto molto critico di De Mita verso il Quirinale..." Perché era così forte la resistenza a riformare le istituzioni? "Eravamo tutti convinti che le cose non funzionassero bene. Sapevamo, per esempio, come lo sviluppo economico non fosse sostenuto abbastanza da un sistema amministrativo vecchio, ma..." Ma? [p. 85] "...le curve a U sono quelle che spaventano la gente.
Certo, bisognerebbe avere il coraggio di farle. Ma sa, poi c'è il rischio di finire come Schumacher: una manovra sbagliata e si rimane a piedi..." Nessuno, evidentemente, pensò che rinunciando a quell'ardita manovra sarebbe rimasto lo stesso a piedi. Peggio, sarebbe per sempre uscito di gara... "Il messaggio" ammette Cossiga, che tracciò quel percorso omicida o salvifico, secondo i punti di vista "fu la deflagrazione totale. Uno dei più influenti dirigenti della Dc venne a dirmi: siamo andati avanti così per cinquant'anni, perché dovremmo cambiare? Risposi: voi non ve ne accorgete, ma tra poco ci tireranno le pietre per strada. Non avevano capito che il Muro di Berlino era caduto su di noi. Venivano meno le ragioni ecclesiali, storiche e politiche dell'unità dei cattolici. Pochi mesi dopo, la vicenda della mia successione al Quirinale avrebbe segnato la fine di un'epoca, la fine dei Buddenbrook..." Il messaggio aprì una forte discussione anche all'interno Pds. Cossiga mi avrebbe detto sette anni dopo che era sua intenzione, con la testimonianza di quel discorso, integrare finalmente nel sistema l'ex Pci (quel che sarebbe accaduto nell'ottobre '98 con la determinante benedizione di Cossiga e della sua Udr all'ingresso di Massimo D'Alema a palazzo Chigi). "Ma i postcomunisti" osservò rassegnato "non capiscono mai niente..." E concluse: "Sono pronti a far la pace con gli altri. Sempre che si riconosca che in questi cinquant'anni abbiano avuto ragione loro e non gli altri...". Poco dopo, il Pds decise di chiedere la messa in stato d'accusa del capo dello Stato. L'idea fu di Claudio Petruccioli, braccio destro di Occhetto, e passò dopo traumatiche discussioni all'interno del partito e con i giuristi (Valerio Onida, Vladimiro Zagrebelsky) a esso vicini. Petruccioli mi disse che nell'annuncio finale Occhetto fu influenzato dal timore di essere preceduto da Leoluca Orlando e dalla Rete. Il progetto, come è noto, non ebbe comunque successo. [p. 86] E l'"uomo solo" pianse Dopo le drammatiche elezioni del 5 aprile 1992, la nomina di Oscar Luigi Scalfaro a presidente della Camera - concordata da Forlani con Craxi - fu per Cossiga uno schiaffo inaccettabile. Scalfaro era il suo nemico peggiore. Era il democristiano che insieme con Antonio Gava aveva criticato nel modo più feroce il suo messaggio alle Camere del '91. Era il parlamentare della vecchia destra cattolica diventato il beniamino dei comunisti (Ingrao attraversò l'aula di Montecitorio
per abbracciarlo) quando, alla nascita del settimo governo Andreotti, aveva attaccato in nome della dignità del Parlamento le esternazioni del capo dello Stato. Allora Cossiga consumò l'ultima, sottile vendetta del suo settennato. Si tolse l'ultimo "sassolino dalla scarpa" (aveva annunciato questi fastidi alle calzature nel gennaio del '90 ai giornalisti che l'avevano seguito in un viaggio in Francia pensando di avere, come al solito, pochissimo da lavorare). E si dimise. Mentre il Palazzo si chiedeva se il capo dello Stato avrebbe affidato l'incarico di formare il nuovo governo successivo alle elezioni a Ciriaco De Mita, a Mino Martinazzoli o a Enzo Scotti, il 25 aprile Cossiga invitò al Quirinale per le 18 i direttori dei telegiornali: aveva un nuovo messaggio televisivo da trasmettere al paese. Arrivai al Quirinale con mezz'ora di anticipo e vidi il suo scrittoio inquadrato tra le bandiere con particolare solennità: mi convinsi che si sarebbe dimesso. Ma non c'era nessuno in grado di confermarlo. Anzi, poco prima Cossiga aveva assicurato il contrario sia al presidente del Consiglio Andreotti sia al presidente del Senato Spadolini. Aveva invece anticipato la verità in via riservatissima - per uno dei paradossi tipici dell'uomo - proprio al suo "nemico" Scalfaro, che era andato a trovare per un caffè nella sua casa alla periferia di Roma. Quando Cossiga entrò nella sala dove eravamo noi, la tensione si tagliava a fette. Si sedette dietro un fascio di microfoni e mi guardò: "Chi mi dà il via?". Vidi che la sua immagine era già inquadrata in un monitor e gli feci un cenno con il capo. Parlò per quarantaquattro minuti: forse i più lunghi e [p. 87] politicamente più drammatici della Prima Repubblica. Liquidò con poche parole il vecchio sistema dei partiti, penalizzato dal voto del 5 aprile. "Un voto" disse ai telespettatori "che è il vostro colpo di spugna a un sistema politico che non privilegia la scelta dei programmi, ma la mediazione e il compromesso come fini a se stessi; usa il potere non per proteggere, ma solo per gestirlo... Con questo voto io credo che si sia voluto aprire uno spazio al rinnovamento del nostro sistema politico." Accennò alle "chiare resistenze a cambiare", disse di avvertire il "dovere di permettere che qui venga un presidente forte, che sia almeno forte perché eletto dal nuovo Parlamento... Non posso esserlo io: sono un uomo solo". Si scusò con "le vittime dei suoi eccessi verbali". Concluse con un appello: "Ai giovani io voglio dire di amare la patria, di onorare la nazione, di credere nella libertà e nel nostro paese". E qui Cossiga
pianse. Pianse per davvero. Ce ne accorgemmo noi che eravamo a due passi da lui, se ne accorsero milioni di telespettatori. Cercò con la mano un bicchier d'acqua. Ne bevve un sorso. Si riprese. Chiuse. Quando si alzò, è inutile nasconderlo, eravamo un po' commossi anche noi. Il "quirinalista" della radio, Franco Bucarelli, andò a baciargli la mano. Noi gliela stringemmo e lui ci trattenne. Si lasciò cadere su un divano e ordinò a un commesso: "Oggi niente spumante italiano, porti una bottiglia di Krug millesimato. Pago io". Pochi minuti dopo scendeva da solo, per l'ultima volta, lo scalone d'onore del Quirinale. Ad aspettarlo nel cortile del palazzo c'era un reparto del corpo a lui più caro: i Granatieri di Sardegna. Ascoltò l'inno nazionale con la mano sul petto. Quando mosse il primo passo per la rassegna, la fanfara attaccò a sorpresa la Marcia del principe Eugenio, la preferita dal presidente. Cossiga si commosse di nuovo e s'infilò lesto nell'auto che l'aspettava con la portiera aperta. Fuori, i turisti del 25 aprile che passeggiavano nella piazza del Quirinale lo salutarono senza sapere che s'era appena dimesso. L'indomani i giornali si chiesero: chissà se tornerà in politica. Oh, se sarebbe tornato... [p. 88] IV: Agonia e morte dell'Antico Regime Il terremoto del 5 aprile Erano i tempi in cui il signor Cossiga Francesco, come lo chiamava Tullio Pericoli prendendolo elegantemente per matto nelle sue vignette sull'"Espresso", faceva un gran rumore anche sospirando. Ogni sospiro del capo dello Stato, come quelli degli orchi delle fiabe, o come quando i valligiani sentono un rombo qualsiasi e lo attribuiscono alla tana dell'orco, faceva tintinnare i quattromila cristalli degli arredi da tavola del Quirinale, scuotere i ventimila pezzi d'argento della posateria, rabbrividire le gocce degli innumerevoli lampadari di Murano, scostare per un istante dalle solenni pareti dell'antica reggia i duecentoquaranta magnifici arazzi fiamminghi, spostare impercettibilmente in avanti o all'indietro le lancette dei duecento orologi d'epoca disseminati nel palazzo, vibrare gli elmi dei corazzieri, prima di rovinare sulla Roma politica uscendo da una delle duemila porte del Quirinale e, finalmente, da una delle tremila finestre. Sotto il Colle, i valligiani di Montecitorio e di palazzo Madama, di palazzo Chigi e di via del Corso, del Bottegone e del Gesù, si
toglievano ogni volta il cappello come i contadini ai rintocchi dell'Angelus e pregavano il signore che stavolta il sacrificio richiesto dal sovrano inquilino del Quirinale non fosse particolarmente cruento. Essi gli avevano offerto, tra l'inizio del '90 e quello del '92, vittime a profusione: politici, magistrati e giornalisti d'ogni colore e rango. Che cosa voleva ancora il signor Cossiga Francesco per avviarsi finalmente a chiudere il [p. 89] suo settennato (perché gli orchi moderni e democratici dopo sette anni, al massimo, oggi vanno in pensione)? Voleva sciogliere le Camere. A dire il vero, anche le Camere dopo cinque anni hanno la batteria costituzionale completamente scarica e devono essere rinnovate. Cossiga le avrebbe sciolte volentieri già l'anno precedente, ma non gli era stato possibile. Andreotti, perduta per colpa di una telefonata di Craxi la presidenza del Parlamento europeo, voleva starsene ancora un anno a palazzo Chigi e concorrere ormai da lì all'elezione a capo dello Stato. Occhetto nel '91 aveva il terrore che i resti del Muro di Berlino gli crollassero addosso e pretese un anno di tregua per mettere insieme qualcosa che assomigliasse a una trincea. Nel '92, i tempi erano ormai maturi. Ma Cossiga non sarebbe stato Cossiga se non avesse provocato lo spaventevole rumore dell'orco anche con un atto ordinario e aveva perciò anticipato la firma pur dovuta di qualche settimana (anche per evitare l'"ingorgo istituzionale" con la nomina del proprio successore), facendo dell'annuncio un evento traumatico. Cossiga delegittimò ancora una volta il vecchio sistema dei partiti con un messaggio televisivo a reti unificate "Ho ritenuto che fosse giunto il momento di porre termine a una rappresentanza nazionale ormai politicamente esaurita" disse. E aggiunse, a scanso di equivoci, che le Camere sciolte "toglievano legittimità alle istituzioni". Si sarebbe votato dunque il 5 aprile '92 con la maledizione del Quirinale sull'Antico Regime. Dopo un viatico del genere, era naturale che gli elettori si sentissero quasi obbligati a provocare con il voto il terremoto politico così autorevolmente sollecitato. Anche perché, nel giro di poche settimane, altri avvenimenti avevano turbato la pubblica opinione e delegittimato le istituzioni nel loro complesso. Una lettera proveniente dall'Unione Sovietica - dove nei due anni successivi alla caduta del Muro era cominciato un lucroso commercio di dossier - e attribuita a Palmiro Togliatti documentava che il leader comunista avrebbe giustificato "politicamente" la sorte degli
alpini italiani dell'Armir, [p. 90] morti nelle prigioni siberiane, sostenendo che essa sarebbe stata il miglior antidoto per convincere gli italiani dell'assurdità della guerra di Mussolini. Cossiga, che pochi giorni prima aveva definito "zombi con i baffi" Achille Occhetto, successore in carica di Togliatti, ci si buttò a pesce chiedendo l'intervento della Camera dei deputati che era presieduta dalla compagna del "Migliore", Nilde Iotti. Al tempo stesso, nuovi depistaggi arricchivano il già soffertissimo caso Moro e il presidente della Commissione stragi, Libero Gualtieri, chiamava in causa politici, magistrati e generali dell'Aeronautica per la tragedia di Ustica, sulla quale tuttora, a vent'anni di distanza, non è stato possibile conoscere la verità, ma semmai solo supporla. Tutto questo mentre l'economia andava male, la Fiat prepensionava diecimila dipendenti, mafia e camorra la facevano da padrone. "La Lega? Qui non esiste..." Eppure, a riguardare i risultati delle elezioni del 5 aprile con la freddezza ormai consentita dagli anni trascorsi, i partiti di governo non uscirono massacrati. E' vero che la Dc perse quattro punti e mezzo e quarantasei parlamentari, ma il Pds - alla sua prima uscita elettorale - perse dieci punti e centosette parlamentari rispetto alle ultime elezioni politiche (quelle del '92) affrontate con la bandiera del Pci. Il Psi - nonostante l'arresto di Mario Chiesa e la campagna di stampa che ne seguì - perse due deputati, ma guadagnò alcuni senatori. E la rappresentanza complessiva di liberali e socialdemocratici uscì rafforzata. La Dc era intorno al 30 per cento, il Pds al 16: mai il distacco tra le due colonne della politica italiana era stato così forte, se si pensa che alle elezioni europee dell''84 il Pci aveva sorpassato il Partito democristiano. Eppure, il 5 aprile 1992 si aprì una crisi profonda e irreversibile, frutto di un malessere grave che i cittadini covavano da anni. La volontà di cambiamento era fortissima. Quelle elezioni segnarono infatti il trionfo di Umberto [p. 91] Bossi e della Lega: quasi il 9 per cento su scala nazionale con cinquantacinque deputati e venticinque senatori. Quel 9 per cento significava il 20 a Milano (dove la Lega sorpassò per tremila voti come primo partito una Dc in picchiata), il 15 a Torino (più di Psi e Pds), tra il 21 e il 29 per cento nelle altre province della Lombardia ricca e scontenta, il 17 per cento nel Veneto (dove il leader della Liga veneta, Franco Rocchetta, prese il doppio delle
preferenze del doge socialista Gianni De Michelis), il 19 in Friuli, il 14 perfino in Liguria dove la Dc non riuscì a far eleggere Guido Carli, il suo candidato più prestigioso, ministro del Tesoro del governo Andreotti. "Io non avevo capito che la Lega sarebbe andata così forte" ammette oggi Andreotti. "Faccio l'esempio di Genova. Tenevo molto all'elezione di Guido Carli e non fidandomi delle assicurazioni del partito sul "collegio sicuro" andai personalmente a Genova per verificare la situazione. I più autorevoli dei miei interlocutori mi dissero: guardi, l'unica sorpresa in città sarà il successo di Riccardo Garrone, il petroliere candidato dai repubblicani. "E la Lega?" chiesi io. "No" mi fu risposto "qui la Lega non esiste." Finì che un illustre sconosciuto della Lega prese gli stessi voti di Garrone e Carli non fu eletto." Andreotti non rivela la sua fonte genovese, ma sappiamo che non lascia mai una città senza un colloquio con i vertici della curia. Neppure la Chiesa, dunque, che ha in genere antenne assai più lunghe dei politici, aveva previsto il trionfo di Bossi a tutto campo. A destra, forte del suo rapporto con Cossiga che aveva chiesto scusa all'Msi per aver parlato di "bomba fascista" nella strage dell''80 alla stazione di Bologna, Gianfranco Fini festeggiò la sostituzione di Rauti alla guida del partito con una truppa consolidata di cinquanta parlamentari. A sinistra, lo scontento determinò il successo della neonata Rifondazione comunista: Cossutta e Garavini portarono a casa cinquantacinque parlamentari. E Leoluca Orlando, uscito dalla Dc per fondare La Rete, guadagnò dodici seggi. [p. 92] "Una transizione lunga, confusa, penosa..." Il quadripartito mantenne una risicatissima maggioranza numerica, ma si capì che le urne avevano partorito una via crucis lunga e dall'esito molto incerto. Scrisse Angelo Panebianco sul "Corriere della Sera": "Ciò che ci aspetta è una lunga, confusa e certamente penosa fase di transizione, in cui il vecchio si dovrà lentamente mescolare con il nuovo. E solo quando il mixage sarà completato dando vita a un composto dalle proprietà chimiche oggi sconosciute e imprevedibili, si potrà cominciare a capire dove andremo davvero a parare". Panebianco fu, tra i commentatori, quello con la vista più lunga, ma nemmeno lui osò immaginare che alla fine del secolo ci saremmo trovati ancora in mezzo al guado. E che quel Parlamento,
scopertosi l'indomani del 5 aprile 1992 scandalosamente provvisto di quindici sigle politiche, alla fine del '99 ne avrebbe contate più del doppio. E ancora: Renato Altissimo, fiero di non essere più un microbo della politica per aver portato il Partito liberale a conquistare uno spettacolare 3 per cento, se fosse sopravvissuto con gli stessi numeri sette anni dopo, sarebbe stato ossequiato come leader di un partito di massa. Nell'articolo citato, Panebianco mise in guardia gli italiani dall'illudersi sull'efficacia di "soluzioni miracolistiche del tipo: Segni alla testa della Dc e tutti o quasi tutti i nostri guai saranno rapidamente risolti". Il leader referendario ebbe infatti un forte successo personale, 73.000 preferenze (ma il record assoluto spettò al neofita Franco Marini, già segretario della Cisl che con 116.000 superò sul filo di lana il mitico Vittorio Sbardella), e si candidò effettivamente alla guida del suo partito e poi anche a quella del governo (con Rosa Russo Jervolino che sbottò: "E allora io voglio fare il papa"). Suscitando, però, la gelosia del ministro forlaniano Gianni Prandini che, prima di essere travolto da Tangentopoli, fece in tempo a dire a Dario Fertilio del "Corriere della Sera" che "se ci fosse una gara tra Segni e Martinazzoli e nessun altro venisse a rappresentare una Dc popolare, nazionale, di ispirazione [p. 93] cristiana e vocazione europea, ebbene io mi candiderei. Come terzo outsider e sicuro di vincere". Prandini, che contendeva a Martinazzoli l'ambito ruolo di signore di Brescia, era considerato tutto fuorché uno sprovveduto. Se si era avventurato in un'intervista del genere, alla luce di quel che sarebbe accaduto di lì a poco, significava che la sensibilità di larga parte della classe politica era tragicamente lontana da quella del paese. Scriveva ancora Panebianco: "Per capire dove andrà il sistema politico italiano è dunque a quanto accadrà dentro la Dc che bisognerà prima di tutto guardare". Con il 30 per cento dei voti - un traguardo che nell'ultimo decennio del secolo soltanto Forza Italia alle elezioni europee del '94 sarebbe riuscita a eguagliare - la Dc conservava il diritto-dovere di compiere le scelte decisive per il governo e l'imminente scadenza del Quirinale. I commentatori più autorevoli le raccomandavano di riconquistare alla maggioranza il Pri di Giorgio La Malfa (che aveva migliorato le posizioni, ma aveva fallito l'annunciato sfondamento) e semmai di avvicinarsi al prudentissimo Pds di Achille Occhetto. Nessuno osava chiedere al partito di maggioranza di tirarsi indietro: si immaginava più realisticamente
che esso avrebbe diviso con il Psi le due più importanti cariche dello Stato. Al tempo stesso, nessuno osava prevedere che la cecità dei dirigenti democristiani avrebbe rinnovato nella campagna per la successione a Cossiga le faide interne che - mai edificanti nel passato - si sarebbero rivelate suicide nella drammatica situazione della primavera '92. Celestino V? Un carrierista rampante "Sì, la vicenda del Quirinale nel '92 fu la botta definitiva. Per un anno intero Cossiga mi aveva invitato a cena insieme con Forlani. Dovete mettervi d'accordo voi due, diceva, escludendo in modo tassativo che lui si sarebbe dimesso in anticipo, come invece poi fece. Craxi? Si fosse saputo un po' [p. 94] prima che preferiva Forlani... Sarebbe bastato questo a creare intorno ad Arnaldo un po' di solidarietà in più..." Avevo parlato a lungo con Giulio Andreotti di questa vicenda chiave della storia italiana preparando La corsa. Ma è irresistibile il tentativo di portarlo di nuovo sul luogo del delitto adesso che ripercorriamo insieme i dieci anni che sconvolsero l'Italia. E lui liquida la storia in poche parole dette controvoglia: la bocca si chiude poi in un'espressione che nemmeno Leonardo riuscì a dare alla Gioconda. Gli occhi si riducono a due fessure intelligenti (questo non l'ha mai negato nessuno: intelligentissime) e le lunghe braccia s'incrociano sul tavolo pieno da sei anni di carte processuali (delitti, mafia, pentiti...) lasciando curiosamente abbandonate a se stesse le mani lunghe, sottili, aristocratiche. Mani che ne hanno strette altre a decine di migliaia: i potenti della terra e gli elettori di Frosinone, cinque papi e, secondo il dottor Caselli, anche Totò Riina, con annessi baci e abbracci. Ma poiché ogni suicidio ha dietro di sé una storia drammatica e complessa, anche quello della Dc maturato nel maggio del '92 merita qualche parola di spiegazione in più delle poche fornitemi da Andreotti. Forlani perse il Quirinale per ventinove voti. Quei voti (e altri ancora) gli furono fatti mancare dagli amici di Andreotti, convinti - secondo le migliori tradizioni della Prima Repubblica che, caduto il primo cavallo, avrebbe vinto il secondo. L'equivoco sulle intenzioni di Craxi non regge. Claudio Martelli, che voleva sostituirlo alla guida del Psi, provò a dirgli di candidarsi lui. Ma Craxi capì che non era aria. Voleva tornare invece a palazzo Chigi e sapeva che l'unica persona in grado di
garantirglielo con certezza era Forlani. Questo lo sapevano tutti ed era impossibile che non lo sapesse Andreotti. Ma Andreotti conosceva la politica italiana meglio di ogni altro. Sapeva bene che l'improbabile può diventare possibile in un batter di ciglia. E aveva dalla sua un alleato formidabile nello stesso Forlani. "E' difficile capire quando Arnaldo abbia voglia di una cosa e quando no" mi disse Antonio Gava [p. 95] con la voce bassa e stanca quando andai a chiedergli com'erano andate le cose. E mai ritratto fu più somigliante. In realtà, Forlani nella sua vita politica non si è mai candidato a niente. Nemmeno alla segreteria della Dc le due volte che la raggiunse, nel '69 e vent'anni più tardi. Si candidò invece nel '76 contro Zaccagnini - che la spuntò per un soffio - in dispetto a Fanfani che ne aveva annunciato il ritiro. Ma fu appunto un dispetto in risposta a un dispetto di quello che a torto o a ragione era considerato suo padre politico. Né prima né dopo si poté dire che Forlani fosse candidato a qualcosa. Celestino V, al confronto, era un carrierista rampante. A disdoro di Forlani bisogna tuttavia aggiungere che non era tanto l'umiltà a frenarlo, quanto l'indolenza. Ogni mattina, svegliandosi, doveva porsi il problema se scendere dal letto fosse indispensabile. E quando le ragioni di Stato, di governo, di partito e, perché no?, un po' di passione politica e civile lo costringevano a farlo, c'è da giurare che un'ora dopo doveva essersene pentito. "Non ho mai desiderato andare al Quirinale e non ho mai creduto che il segretario della Dc potesse diventare capo dello Stato" mi disse asciutto sei anni più tardi. Aggiunse: "Quella carica non mi era congeniale, né per carattere né per inclinazione personale". Ancora una pausa: "Non è un caso che il segretario politico della Dc non sia mai andato al Quirinale". E scandì l'elenco delle vittime reali o a buon titolo presunte: "De Gasperi, Fanfani, Moro, Piccioni...". Non c'è motivo di dubitare di queste dichiarazioni, salvo una realistica e parziale correzione che mi venne fornita da Craxi: "Non credo che Forlani fosse contrario. Era solo prudente. Aspettava probabilmente una designazione convincente". Traduzione: se fosse stato eletto, Forlani non avrebbe certo rifiutato. Ma, conoscendo la "lealtà" dei suoi compagni di partito e la ferma avversione del Pds, si sarebbe convinto che la cosa era possibile soltanto dopo lo scrutinio decisivo. [p. 96] "Ragazzi, vi dovete mettere d'accordo..."
La pantomima, in ogni caso, andò avanti oltre l'immaginabile. Una sera del gennaio '92, Forlani si presentò nello studio privato di Andreotti a San Lorenzo in Lucina: "Giulio" gli disse "il candidato sei tu". L'altro volle essere sicuro di aver capito bene e ricambiò la cortesia: "Arnaldo, sei tu il segretario del partito. Se vuoi candidarti, io non ho difficoltà". Forlani, naturalmente, insistette e Paolo Cirino Pomicino, braccio destro di Andreotti, testimone del colloquio e assai lesto a cogliere ogni occasione propizia, verbalizzò: "Ragazzi, vi dovete mettere d'accordo. Questo balletto rischia di portarci al disastro. Allora, chi ha il diritto di opzione? Il segretario politico. Dunque, Arnaldo, ti candidi tu? No? Dici che il candidato è Andreotti? Allora va bene così". In realtà, l'accordo non andava bene affatto. I due "ragazzi" avevano ripetuto spesso il numero davanti a Cossiga ("Una volta" mi raccontò l'ex capo dello Stato "fui costretto a lasciare la cena con loro perché se la sbrigassero da soli"). Ma con l'avvicinarsi del momento della scadenza s'avvicinava anche quello della chiarezza. O della fatale confusione. Cirino Pomicino sapeva benissimo che Andreotti aveva due importanti nemici all'interno della maggioranza: Antonio Gava, grande capo dei dorotei e azionista di maggioranza della Dc, e Bettino Craxi. Andò da Gava con Renato Altissimo, segretario liberale, e cercò di convincerlo che l'ascesa di Andreotti al Quirinale era una "necessità politica". "Se Forlani abbandona la segreteria della Dc" gli disse "noi e i liberali temiamo che possa sostituirlo un uomo della sinistra." Lasciò entrare nella stanza il fantasma di De Mita, ma Gava (che voleva diventare segretario al posto di Forlani) fece finta di non vederlo. Cirino Pomicino, com'è nel carattere dell'uomo, non si dette per vinto. S'avvicinò al telefono e chiamò Craxi. Fece intravedere anche a lui la replica di quel che era accaduto dieci anni prima, quando il suo mandato a palazzo Chigi ebbe in De Mita una costante spina nel fianco. Ma anche qui riscosse scarso successo. Organizzò infine una segretissima cena a quattro: [p. 97] Andreotti, Forlani, Gava e Craxi. Un inedito vertice del Caf al massimo livello. "Commisi l'errore di non andarci io" mi avrebbe raccontato Cirino Pomicino "perché nemmeno lì combinarono nulla." "Giulio, il prescelto devi essere tu..." Come era accaduto quasi sempre nelle elezioni presidenziali, si cominciò sparando a salve. La sera del 12 maggio, poche ore prima che
si riunissero in seduta congiunta le Camere, i gruppi democristiani si incontrarono per stabilire il candidato del partito. Mario Segni sparò a zero sul vertice Dc: "Una fase politica del sistema dei partiti è finita. La nomenklatura democristiana deve andare a casa. Il Quirinale è un'ottima occasione per voltare pagina...". Andreotti, come d'uso, strinse le labbra e stette zitto. Forlani - che, d'accordo con De Mita, aveva deciso di non esporsi subito - gli rispose seccamente: "Ci sono volti nuovi sgraditi ai più. Quel che conta è il consenso". Per due giorni tutti i partiti votarono i candidati di bandiera: figure eminenti con l'assoluta certezza di non venire mai elette. I Dc fecero risuonare circa trecento volte il nome di Giorgio De Giuseppe, parlamentare di Maglie e presidente dei senatori: l'orgoglio di vedere così a lungo il proprio nome rimbalzare dai televisori e dalle radio fu attenuato dalla presenza di una sessantina di franchi tiratori. Per non perdere l'abitudine, molti parlamentari democristiani avevano cominciato a impallinare la propria bandiera. Si arrivò così al tardo pomeriggio del 14 giugno. "Forlani" mi racconta Andreotti "venne da me e mi disse: "Guarda, Giulio, io non voglio essere candidato nel modo più assoluto, il prescelto devi essere tu. Vado a piazza del Gesù a preparare la proposta che domattina farò ai gruppi parlamentari"." Tornato a piazza dei Gesù, Forlani scoprì di essere in minoranza: i suoi compagni di corrente e i dorotei non avrebbero mai votato Andreotti. E si sapeva che non l'avrebbero fatto nemmeno De Mita e la sinistra del partito. [p. 98] Enzo Scotti, ministro dell'Interno, s'incaricò di dirlo a Cirino Pomicino perché ne riferisse ad Andreotti. "Abbiamo deciso di candidare Forlani" comunicò con la sua voce asciutta, grave e ispirata, da monsignore. "Abbiamo chi?" gridò Pomicino. "Antonio Gava, io, Gianni Prandini, Pino Leccisi, Silvio Lega e Carlo Bernini." Era un plotone d'esecuzione. Pomicino implorò Andreotti di chiamare Forlani. E quando il presidente del Consiglio lo fece, si sentì riassumere così la tragedia in atto: "Giulio, in effetti ci sono un po' di problemi. De Mita è molto agitato, gli amici dorotei stanno esercitando su di me pressioni fortissime. Ci sentiamo più tardi". Quella sera Forlani se ne andò a cena nella villa di Gava all'Eur. Lo aspettavano, oltre al padrone di casa, Craxi e Martelli. Come se vi fosse capitato per sbaglio, appena entrato Forlani andò a sedersi davanti al televisore: si trasmettevano in diretta le regate della
Coppa America e tutta l'Italia era sentimentalmente al timone del Moro di Venezia, la mitica barca di Raul Gardini. "Guarda, Arnaldo" dicevano Craxi e Gava interessati a un'altra regata dall'esito incerto "se la maggioranza di governo non riesce a gestire la scadenza del Quirinale, può accadere qualunque cosa." "Sì, certo" ammise distratto Forlani senza staccare gli occhi dal video. E alle insistenze degli altri, che rischiavano di fargli perdere le fasi più appassionanti della gara, rispose: "Forse non sono io l'uomo più adatto per un incarico come questo. Non avete valutato se il candidato giusto potrebbe essere Andreotti?". Infilzato da una raffica di no che avrebbe scoraggiato qualunque insistenza, prostrato da una trattativa che ormai durava da un anno e mosso dal fatto che la gara di Coppa America era ormai finita, Forlani dovette prendere atto delle assicurazioni sui voti disponibili dentro il quadripartito e forse perfino fuori e cedette: "Se questa è la decisione della Dc e del Psi, non mi sottrarrò". Lo fece con l'entusiasmo di un condannato al patibolo alla lettura della sentenza. Chiamò a tarda sera Andreotti, gli disse che il gruppo socialista non lo avrebbe votato [p. 99] e incassò un viatico a denti stretti. Mi avrebbe raccontato Martelli: "Si finì con il giocare per prima la carta che avremmo dovuto tenere per ultima". Il suicidio della Dc Ciascun gruppo politico, naturalmente, giocava in proprio. Bossi aveva fatto credere ad Andreotti fin dall'anno precedente che la Lega al momento giusto avrebbe votato per lui. Era una delle tante "menzogne strategiche" del Senatùr. Fini temeva fortemente che alcuni dei suoi, all'ultimo istante, avrebbero votato per il candidato democristiano, così come era accaduto per Segni e Leone. Rispose no a Casini che gli chiedeva di nascosto i voti per Forlani. "Ve li do se me li chiedete ufficialmente" provocò Fini. E l'altro fu costretto a rifiutare: allora l'appoggio scoperto dell'Msi era un bacio della morte. Pinuccio Tatarella vagheggiava una candidatura Montanelli. Occhetto voleva far saltare il Caf e vendicarsi di Craxi che aveva fatto eleggere Scalfaro alla presidenza della Camera pur di non mandarci Giorgio Napolitano: il leader socialista voleva in cambio un accordo per il Quirinale (che significava anche un accordo per rispedire il segretario socialista a palazzo Chigi) e Occhetto aveva rifiutato. Pomicino giocava su due tavoli: da un lato implorava i voti di Gava per Andreotti al Quirinale perché Forlani restasse segretario del partito e a piazza del Gesù non andasse un uomo della
sinistra; dall'altro aveva tramato in segreto fin da gennaio perché, con Andreotti al Quirinale, si facesse un ribaltone per portare a piazza del Gesù Mino Martinazzoli. Il piano - suggerito pure da Franco Marini e Sergio D'Antoni - fu concordato in una cena a casa Pomicino alla quale intervennero anche Mastella, Cristofori, Goria e lo stesso Martinazzoli. Ma ogni gioco, interno o esterno alla Dc, era ormai inutile. Il partito di don Sturzo e di De Gasperi aveva deciso infatti di suicidarsi. Come accade a tanti disgraziati che prendono la stessa decisione, attuò il suo proposito con lucidità esemplare: [p. 100] comprò la corda e il sapone, salì su uno sgabello, legò un cappio ben confezionato a un gancio del soffitto di Montecitorio e ci mise il collo dentro tra gli applausi di larga parte dell'assemblea. La mattina di sabato 16 maggio, Forlani, ormai candidato ufficialmente, mancò l'obiettivo per trentanove voti. I franchi tiratori del quadripartito che non lo votarono furono settantasette: una ventina di socialisti che avevano Craxi sullo stomaco e almeno cinquanta democristiani, con la pattuglia compatta degli amici di Andreotti, alcuni uomini della sinistra guidati da Clemente Mastella e qualche sparuto sostenitore di Scalfaro. Nel pomeriggio a Forlani mancarono ventinove voti, dieci in meno rispetto a quelli della mattina: ma erano pur sempre ventinove e i franchi tiratori sessantasette. Al segretario democristiano, che seguì lo scrutinio in televisione, non parve vero di ritirarsi. Craxi provò a dissuaderlo, ma non ebbe argomenti convincenti. Per una settimana intera, come era facile prevedere, Montecitorio si trasformò in un suk nella crescente indignazione di un'opinione pubblica che già alle elezioni del 5 aprile aveva dato evidenti segni di fastidio. Come era prevedibile, il nome di Andreotti non fu mai messo in votazione. Tutti sapevano che erano stati i suoi ad affondare Forlani ed è sorprendente che un uomo navigato e intelligente come Pomicino non avesse capito per tempo che, seppellendo il segretario del partito, aveva costruito una tomba a due piazze collocandovi suo malgrado anche il presidente del Consiglio. Occhetto provò a insidiare il mondo cattolico candidando Giovanni Conso, illustre giurista, che accettò "con un leggero tremore delle mani". Ma i democristiani si rifiutarono di votarlo. Craxi e Forlani provarono con Giuliano Vassalli, vecchio giudice costituzionale socialista e padre del nuovo Codice di procedura penale. Ma anche qui la base Dc rispose picche, con un numero sconvolgente di franchi tiratori. Stessa storia con Leo Valiani. Fu a questo punto che
Forlani si dimise da segretario democristiano, parendogli poco dignitoso vendere merce ormai avariata. La candidatura di Andreotti [p. 101] mostrò l'improvviso ma brevissimo miglioramento degli agonizzanti poco prima della morte. Non restavano che le "candidature istituzionali": Giovanni Spadolini, presidente del Senato, e Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Camera. Spadolini contro Scalfaro Spadolini era nato per fare il presidente della Repubblica. In verità, non avrebbe trovato nulla di strano se i cardinali, illuminati in conclave dallo Spirito Santo, fossero andati a far visita per invocare la sua ascesa al soglio di Pietro. Ma nell'attesa... Accortosi di non essere nato con la tiara in testa, al posto delle fasce chiese subito un abito da cerimonia e non lo smise più. Quando, giovanissimo, dirigeva "Il Resto del Carlino" e più tardi il "Corriere della Sera", Spadolini non scriveva articoli ma encicliche. Non riceveva persone, ma accordava udienze. Non parlava, pronunciava omelie. Le sue telefonate di complimenti venivano percepite come onorificenze. Le sue telefonate di protesta come scomuniche. Personalmente, lasciavo a lui la decisione sul darci di volta in volta del tu o del lei. Se la telefonata era amichevole, il tu era d'obbligo. Se aveva qualche recriminazione da fare, usava un gelido lei. Intendiamoci: Spadolini è stato uno degli uomini migliori che l'Italia repubblicana abbia avuto. Ma solo a sentire "uno degli..." e non "il migliore..." si rivolterà nella tomba. La sua innocente, disarmante pienezza di sé era tale che entrando nella principale libreria delle città in cui presentava i propri scritti, andava a cercare i volumi precedenti della sua inarrestabile attività di storico e pubblicista. Non si meravigliava mai nel trovarli tutti, anche i meno recenti: la sua segreteria - naturalmente all'insaputa dell'interessato - provvedeva a farli recapitare per tempo, ritirandoli l'indomani e reimballandoli per l'appuntamento successivo. Nominato ministro della Difesa, non avrebbe voluto lasciare più quell'incarico, innamorato com'era del cerimoniale e dell'efficienza dei militari. [p. 102] Nominato presidente del Consiglio, considerò di aver avuto un solo predecessore: Cavour. E se avesse dovuto fare una seconda eccezione, al massimo avrebbe aggiunto Giolitti. Costruendo il Quirinale, Maderno e Bernini dovevano aver avuto in testa un papa-re come lui. E papa-re Spadolini sarebbe stato, se non si fosse messo di traverso Oscar Luigi Scalfaro.
Scalfaro aveva una considerazione di sé certo non inferiore a quella di Spadolini. Ma, poiché era un fervente cattolico, dava mostra di nasconderla dietro un'apparente patina d'umiltà. Pur essendo uno dei padri costituenti, era stato sempre ai margini dell'attività politica democristiana. Allievo di Mario Scelba, ne era rimasto l'unico seguace e, per rinverdire ogni giorno l'antica consuetudine, ne aveva conservato come stretto collaboratore un nipote, Tanino, che l'avrebbe seguito al Quirinale come direttore dell'ufficio stampa. Venne ricordato per decenni il celebre schiaffo di Scalfaro a una signora: inflessibile custode dei buoni costumi, si era sentito scandalizzato per l'abbigliamento della malcapitata in un ristorante. Erano gli anni Cinquanta. Nessuno, né allora né nei quarant'anni successivi, avrebbe mai immaginato per Scalfaro una carriera folgorante. Tutti ritenevano che avesse raggiunto l'apice del cursus honorum come fedele ministro dell'Interno di Bettino Craxi per un quadriennio. Ma anche se non aveva fatto carriera nella Dc, Scalfaro conosceva tutte le malizie della politica. Difensore strenuo delle prerogative parlamentari in opposizione alla presidenza Cossiga, si era così conquistato molte simpatie anche a sinistra. Ma la sua indiscussa collocazione a dir poco moderata (era sostenitore di Forlani e aveva con Craxi "un rapporto di amicizia e di solidarietà politica", mi avrebbe confermato il leader socialista) lo portò alla presidenza della Camera subito dopo le elezioni politiche del '92. Sarebbe potuto andarci Ciriaco De Mita, ma rifiutò immaginando che volessero pensionarlo. Cossiga considerò la designazione di Scalfaro come un affronto personale e con la sua consueta lungimiranza predisse sciagure alla Dc. "Bravo!" gridò a Forlani. "Avete eletto insieme il presidente della Camera e il nuovo capo dello Stato." [p. 103] "Un segnale contro Andreotti" Scalfaro, che conosceva il Parlamento come le sue tasche, lavorò con l'implacabile abilità di una talpa. Cominciò a farsi strada tra i peones democristiani che non volevano Forlani. Sapeva, inoltre, che la candidatura di Spadolini andava via via indebolendosi, anche se il diretto interessato era convinto di farcela. Il presidente del Senato - capo dello Stato supplente dopo le dimissioni di Cossiga - aveva preso male l'avviso di garanzia inviato al deputato repubblicano milanese Antonio Del Pennino per i finanziamenti al partito. Ma considerò un vero agguato personale l'arresto dell'ex presidente della provincia di Milano, Giacomo Properzj, avvenuto mercoledì 20
maggio appena i giornali fecero il nome di Spadolini come possibile capo dello Stato. Il "Corriere della Sera" - guidato da Giulio Anselmi per l'infermità del direttore Ugo Stille - dette grande risalto alla notizia, come faceva del resto con tutti gli avvenimenti, ormai incalzanti, di Mani pulite. Spadolini, che aveva diretto il grande giornale milanese, recepiva ogni notizia come sale sparso sulle proprie piaghe. Nella stretta finale gli furono fatali almeno tre elementi. Il proverbiale ecumenismo che lo aveva avvicinato a Cossiga, guardato ormai da tutto il mondo politico (con l'eccezione dell'Msi) come il fumo negli occhi. L'avversione di Craxi ("E' la nave ammiraglia della borghesia azionista") e infine quella di Occhetto, che fra l'altro non sopportava l'ossessiva campagna di stampa della "Repubblica" a favore di Spadolini ("Scalfari vuole Spadolini al Quirinale. E' un'eccellente ragione per non mandarcelo" disse in una riunione di partito). Sapendo che in politica le carte vanno giocate anche quando la partita sembra persa, Andreotti non s'era affatto rassegnato alla sconfitta. Così, il pomeriggio di sabato 23 maggio invitò Claudio Martelli nel suo studio privato. "Capisco la vostra correttezza nei confronti di Forlani" gli disse "ma vedete come stanno andando le cose... Ove mai venisse proposta una mia candidatura, non capirei l'ostracismo del principale alleato di governo... Mi pare di essermi comportato in [p. 104] questi anni con grande lealtà politica nei confronti dei socialisti..." Mi racconta Martelli: "Stavo per rispondergli che se Forlani aveva incontrato qualche resistenza in casa nostra, una candidatura Andreotti avrebbe spaccato il partito, quando squillò il telefono". Era Scotti, ministro dell'Interno. Andreotti ascoltò per qualche istante in silenzio, poi coprì la cornetta con una mano e sussurrò a Martelli: "C'è stato un attentato a Falcone. Meno male, è incolume". Il ministro, amico del magistrato, non se la sentì di riprendere il discorso sul Quirinale. Andreotti gli mise a disposizione l'aereo della presidenza del Consiglio per correre a Palermo. Poco dopo ricevette un'altra telefonata di Scotti: Falcone era morto. Accadde a quel punto qualcosa di tuttora misterioso e sconvolgente. Mi avrebbe raccontato Claudio Petruccioli, braccio destro di Occhetto: "Mi chiamò Cristofori, sottosegretario di Andreotti, chiedendo d'incontrarmi immediatamente. Era prostrato e mi comunicò una valutazione che non dimenticherò mai. Lui e il suo capo interpretavano la strage di Capaci come un atto diretto ad Andreotti,
un modo per sbarrargli la strada per il Quirinale. Mi impressionò che quella terribile analisi venisse svolta a caldo, a ridosso di un avvenimento così sconvolgente: come se il messaggio fosse talmente chiaro e dirompente da indurli a rinunciare a un obiettivo coltivato per lunghissimo tempo". Nelle stesse ore, Andreotti inviò un giornalista a lui molto legato, Stefano Andreani, a Luciano Violante, allora presidente dell'Antimafia, per fargli lo stesso discorso che Cristofori aveva fatto a Petruccioli. Quest'ultimo era convinto che, in un momento di tragica emergenza, Andreotti avrebbe potuto volgere a proprio favore la battaglia per il Quirinale (non aveva gestito con fermezza anche gli anni cruciali del terrorismo e il caso Moro?). "Ci fu invece" mi disse Petruccioli "uno spirito di rinuncia che mi impressionò." (Aggiungo, per completezza, che quando nell'autunno del '99 chiesi ad Andreotti perché avesse visto nel delitto Falcone un segnale così preciso [p. 105] contro di lui, Andreotti negò di aver fatto una valutazione del genere.) In quel momento, al contrario, Giovanni Spadolini era convinto di avercela fatta. Il lunedì mattina, mentre un aereo militare li portava a Palermo per i funerali di Falcone, il capo dello Stato supplente confidò al ministro dell'Interno Scotti: "Ho lavorato stanotte per scrivere il messaggio da leggere dopo l'elezione al Quirinale". Nessuno lo aveva informato che nella notte i capi democristiani, conosciuta l'intenzione di Occhetto di sfondare su Scalfaro, avevano deciso di candidarlo per primi. Fu Forlani a proporlo e gli altri accettarono. Così, mentre la chiesa di San Domenico a Palermo ribolliva di umori violenti contro lo Stato, il capo della polizia, Vincenzo Parisi, accostò leggermente la testa brizzolata a quella di Scotti. "Ministro, a Roma hanno deciso per Scalfaro. Anche Occhetto è d'accordo..." Scotti sussurrò la notizia all'orecchio di Spadolini, che scosse il gran corpo come per una drammatica scarica elettrica e si rabbuiò. La sua corsa per il Quirinale era finita a un metro dal traguardo. Un sabato di giugno, a Capaci "Ha chiamato Palermo. C'è stato un attentato" mi disse Ottavio Di Lorenzo. Era vicedirettore del Tg1 e quel giorno la "macchina" del telegiornale toccava a lui. Erano le 18,30 di sabato 23 maggio 1992 e fino a quel momento ogni notizia era passata in second'ordine rispetto al drammatico incartarsi dei veti incrociati per la nomina
del presidente della Repubblica. Ormai si era alla frutta e come sempre si chiamavano in causa le "istituzioni": sarebbe toccato a Spadolini, presidente del Senato, o a Scalfaro, presidente della Camera? Poco dopo, la redazione di Palermo richiamò: vittima dell'attentato era un giudice. Ancora qualche minuto: il giudice è Falcone. Infine la mazzata: Falcone è morto. Anche chi non è appassionato di calcio avrà visto qualche volta la disperazione sulla faccia dei tifosi quando la loro squadra subisce [p. 106] un gol decisivo. Quel pomeriggio la mafia aveva fatto gol all'Italia. E l'Italia aveva perso una partita che non avrebbe più recuperato. Guardai il foglietto che reggevo in mano: era un editoriale sulla lotta per il Quirinale. Lo strappai e tracciai a matita gli appunti di un altro commento, freddo e disperato. Ormai ogni frase era inutile. Falcone aveva cinquantatré anni ed era figlio di un impiegato statale di Palermo. Con lui avevano ammazzato la moglie Francesca Morvillo, trentasei anni, magistrato anche lei, e tre uomini della scorta. ("Perché non fate figli?" chiesero a Falcone. "Si fanno figli, non orfani" fu la risposta.) La mafia, dimostratasi ancora una volta più forte dello Stato, sapeva che Falcone rientrava a Palermo da Roma su un Falcon dei Servizi segreti. Ne conosceva l'itinerario, l'ora di partenza, l'ora d'arrivo e il piano di volo. L'autostrada che collega Palermo all'aeroporto di Punta Raisi era stata minata all'altezza di Capaci. Quando passò l'automobile del giudice, Giovanni Brusca schiacciò un bottone. Nemmeno nei reportage dai fronti di guerra il telegiornale aveva mostrato immagini come quelle che arrivarono da Palermo la sera del 23 maggio 1992. Al processo, Brusca avrebbe rivelato che gli assassini dopo l'attentato erano corsi a casa per rivederselo in televisione. Poiché tardavamo a dare la notizia che Falcone era morto (fu portato ancora vivo in ospedale), Salvatore Cancemi strillava come un ossesso: "Questo cornuto non vuole morire". Finché gli altri, infastiditi, non lo buttarono fuori dalla stanza. Il destino poco dopo fece il suo corso e finalmente Cancemi, rasserenato, poté scendere a comprare lo champagne per brindare alla strage. "Io sono siciliano" aveva detto un giorno Falcone. "Per me la vita vale quanto il bottone di questa giacca. Uno o è un uomo oppure non lo è. Non penso alla morte. Il fallito attentato all'Addaura non ha cambiato nulla della mia vita." La mafia aveva infatti provato ad ammazzarlo già tre anni prima, il 21 giugno 1989. Falcone aveva preso in affitto una villetta sul lungomare dell'Addaura, a Mondello. Ma
non ci andava quasi mai. Doveva andarci, invece, proprio quel 21 giugno: erano [p. 107] arrivati alcuni magistrati svizzeri e Falcone voleva portarli a pranzo al mare. La mafia, naturalmente, lo sapeva. Un commando era riuscito ad arrivare sugli scogli e a nascondervi un arsenale "dimenticato" in una borsa da sub. Come a Capaci, l'esplosione sarebbe stata comandata a distanza. E avrebbe distrutto ogni oggetto incontrato nel raggio di alcune centinaia di metri. All'Addaura un uomo della scorta vide la borsa e dette l'allarme. Ma la mafia sa aspettare. "Con me ha aperto un conto" diceva Falcone "che sarà saldato soltanto con la mia morte. Naturale o no." Non è vero che Falcone non avesse paura della morte. Sarebbe stato disumano. Nel libro Cose di Cosa Nostra pubblicato da Rizzoli sei mesi prima della strage di Capaci, rivelò: "Tommaso Buscetta, il superpentito della mafia, mi aveva messo in guardia fin dall'inizio delle sue confessioni. "Prima cercheranno di uccidere me, ma poi verrà il suo turno. Fino a quando ci riusciranno." Il pensiero della morte mi accompagna ovunque. Ma, come dice Montaigne, diventa presto una seconda natura...". Il pensiero della morte e le contromisure per allontanarla scandivano la giornata e la vita di Falcone. Un giorno passai a Palermo sotto casa sua e mi si strinse il cuore. Il giudice era un sepolto vivo. La strada era bloccata. I carabinieri controllavano gli accessi alla palazzina da un torrino blindato. Erano blindati la portineria, il pianerottolo, l'abitazione. Tutto. Chi era questo Falcone? I giovani sentono ogni tanto (sempre più raramente) parlare di questo Falcone, di questo "Giovanni", anche da parte di chi fece di tutto per isolarlo e rendergli la vita difficile, quasi che la mafia non avesse provveduto di suo. E forse non sanno - o almeno non lo sanno tutti - perché Falcone è il magistrato più importante della nostra storia e perché, morto lui, la nostra civiltà giuridica e investigativa in fatto di mafia ha compiuto un passo indietro irreparabile. [p. 108] Falcone sapeva che a mettersi seriamente contro la mafia si rischia la pelle. Professionalmente, era allievo del consigliere istruttore Rocco Chinnici. E Chinnici era saltato sul tritolo che la mafia gli aveva fatto trovare sotto casa. Aveva istruito il primo grande, organico processo alla "mafia vincente" di Totò Inzerillo e Rosario Spatola (legato a Michele Sindona) grazie al coraggio del procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa: questi aveva
firmato le richieste di rinvio a giudizio che qualche suo sostituto non s'era sentito di firmare. Ed era stato ucciso a colpi di lupara da qualche mafioso all'antica. Eppure - nonostante l'eroismo dei suoi due colleghi e degli altri che avevano pagato con la vita il loro impegno, Giangiacomo Ciaccio Montalto e Rosario Livatino, Pietro Scaglione, Antonino Saetta e Cesare Terranova, i funzionari di polizia Giuseppe Montana e Nini Cassarà - Falcone era riuscito per primo a infliggere alla mafia un colpo mortale: aveva inventato i pentiti. Fino a quando non avvenne il suo incontro con Tommaso Buscetta nel 1984, si pensava che il pentitismo fosse roba da terroristi cinici o fragili (e più tardi, magari, roba da tangentari cinici o fragili). Ma non era assolutamente previsto dal codice d'onore di Cosa Nostra. Falcone e Buscetta si videro per la prima volta a Brasilia. Gianni De Gennaro, che era allora un giovane funzionario di polizia e oggi ne è il vicecapo, aveva preparato bene il terreno per la grande confessione. Ma se al posto di Falcone ci fosse stato un altro magistrato, difficilmente Buscetta si sarebbe aperto. I due, da siciliani, si capivano e si rispettavano. "Il giudice è onesto e non è un persecutore" riconobbe il boss. Secondo la testimonianza di Enzo Biagi, che parlò con entrambi, Buscetta disse a Falcone: "Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori, per i quali sono pronto a pagare interamente i miei debiti, senza pretendere sconti. Voglio raccontare quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia, affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano". Questa formuletta di abiura sarebbe diventata una premessa rituale alle confessioni dei futuri pentiti, [p. 109] ripetuta più o meno alla lettera, come quell'altra: "Giuro di dire la verità...". Naturalmente, Buscetta non era un missionario. Era un perdente e voleva vendicarsi di chi lo aveva messo in un angolo ammazzandogli tutti quelli che gli stavano attorno. (Salvatore Cancemi gli strangolò due figli con le sue mani e, una volta pentitosi, nonostante gli fosse assai superiore per grado mafioso, gli avrebbe chiesto perdono in un memorabile confronto.) Decise dunque di vendicarsi e la prima volta, con Falcone, lo fece raccontando cose vere e documentabili. Morto il magistrato diventò pure lui un juke-box, chiamato a riferire anche di molte cose delle quali non poteva avere cognizione diretta. Con Falcone vivo, questo e tante altre cose non sarebbero accadute. Anche se difendendo Andreotti nei processi di Perugia e di Palermo chiusi in primo grado nell'autunno del '99 - l'avvocato Franco Coppi
disse che Buscetta aveva mentito anche a Falcone. In ogni caso, partendo dalle rivelazioni di Buscetta, il magistrato riuscì a portare in aula per quasi due anni - dall'inizio dell''86 alla fine dell''87 - 460 imputati (di cui 163 nel primo maxiprocesso alla mafia che si concluse con 16 ergastoli e molte altre condanne pesantissime. Falcone non sollecitava i pentiti a servirgli il gusto di gelato lui preferito, non mandava in cella agenti di polizia a rinfrescare la memoria di questo o di quello, secondo improbabili copioni. Falcone i pentiti li pesava, come Cuccia faceva con le azioni dei gruppi industriali: sapeva distinguere le buone dalle bufale. Un pentito calunniatore Un caso per tutti. Nella primavera del '90 venne arrestato un mafioso catanese, Giuseppe Pellegriti. Questi si pentì (la moda era ormai cominciata) e rivelò chi aveva ammazzato Piersanti Mattarella, il presidente democristiano della regione siciliana ucciso all'uscita della messa il giorno dell'Epifania del 1980. Fece il nome dei killer e soprattutto fece il nome del [p. 110] mandante: il deputato democristiano Salvo Lima, potentissimo plenipotenziario della corrente andreottiana in Sicilia. Falcone fece i suoi riscontri e scoprì che la cosa non stava in piedi: il giorno dell'omicidio Mattarella i due presunti assassini si trovavano entrambi in carcere. Così mandò a giudizio Pellegriti per calunnia. E proseguendo nelle indagini verificò che il "pentito" aveva avuto come suggeritore Angelo Izzo, un attivista dell'estrema destra condannato all'ergastolo per il massacro di due ragazze al Circeo e politicizzatosi in carcere. Falcone informò Andreotti della calunnia di Pellegriti telefonandogli a Cortina, nel convento delle Orsoline di cui il presidente del Consiglio era ospite. Si seppe più tardi da Giuseppe Ayala che Falcone commentò così la circostanza: "Pellegriti ha detto una fesseria. Il problema è di capire chi gliel'ha messa in bocca". Andreotti avrebbe ricordato l'episodio dopo la sua assoluzione al processo di Palermo. Il fatto che Lima fosse uscito pulito dalla storia non convinse Leoluca Orlando, già allora sindaco di Palermo, ma per conto della Dc. Intervistato il 19 maggio 1990 nella trasmissione televisiva di Michele Santoro Samarcanda, disse: "Dentro i cassetti del palazzo di giustizia di Palermo ce n'è abbastanza per fare chiarezza su questi delitti". Falcone, che era diventato procuratore aggiunto della Repubblica (per diretto intervento di Cossiga), naturalmente si sentì
chiamato in causa e rispose a mezzo stampa: "Orlando deve assumersi la responsabilità di quel che ha detto. Se sa qualcosa, lo dica chiaramente, faccia i nomi, citi i fatti. Altrimenti stia zitto. Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario". Ricostruendo più tardi la polemica, l'Ansa avrebbe scritto: "Falcone ebbe il sospetto che qualcuno gli avesse voluto tendere una trappola [fu questo il termine usato] sperando che egli firmasse una comunicazione di garanzia per Lima nel momento stesso in cui piazza del Gesù [cioè la segreteria democristiana] era chiamata in causa da Leoluca Orlando che si propone come candidato al Parlamento europeo per la Dc in alternativa a Lima. Orlando chiedeva che il deputato uscente non fosse riproposto: o io o lui. La "strumentalizzazione del [p. 111] processo penale per fini politici" è stata sempre ritenuta, negli interventi e negli scritti di Falcone, un regalo "oggettivo" agli interessi della mafia che va combattuta "da tutti, con uguale impegno, senza dividersi"". Cossiga, attentissimo a questi problemi, sollecitò un'inchiesta giudiziaria alla magistratura siciliana. Naturalmente, a carico di Falcone non risultò niente e il procedimento fu archiviato. Questa conclusione aveva permesso a Cossiga di polemizzare ancora una volta con il Consiglio superiore della magistratura che due mesi prima della strage di Capaci aveva giudicato Falcone inidoneo a fare il superprocuratore antimafia. Disse il capo dello Stato: "Da quando Falcone, dopo averlo interrogato sette ore, ha incriminato per calunnia il terrorista nero che aveva indicato Lima come il mandante degli omicidi di Mattarella e La Torre [il deputato e segretario regionale del Pci siciliano assassinato nell''82 e autore, con Virginio Rognoni, di un'importantissima legge antimafia] sembra che non sia più il campione della lotta contro la criminalità organizzata". E aggiunse: "Qui l'indipendenza consiste solo nel fatto che coincida con l'opinione di una parte politica. Questa è una delle ultime sacche di socialismo reale rimaste nel nostro paese". Falcone indegno della superprocura Forte di un'esperienza decennale, Falcone riteneva che per combattere efficacemente la mafia servisse un organismo forte e centralizzato. Una superprocura specializzata, insomma. E pensava non a torto, viste le referenze - di essere la persona giusta per occuparne il vertice. Ma non ce lo mandarono. Nel Consiglio superiore della magistratura sostennero la sua candidatura gli esponenti della
sinistra moderata. Furono battuti dai consiglieri del Pds e dell'ala sinistra più intransigente dei giudici. Gianfranco Viglietta, a nome di Magistratura democratica, affermò che Falcone non aveva la legittimazione "tecnica" per assumere l'incarico (per il quale fu proposto il procuratore [p. 112] di Palmi, Agostino Cordova, poi bloccato dal veto del ministro della Giustizia, Martelli). Più sinceramente, Cesare Salvi - il responsabile del Pds per i problemi dello Stato - pur riconoscendo "l'impegno antimafia" di Falcone, disse con chiarezza che il suo "problema" era il ministro Martelli. "Si vorrebbe stabilire che gli incarichi direttivi possano essere dati solo ai giudici sui quali il ministro della Giustizia esprima parere favorevole. La carriera del giudice sarebbe così nelle mani del governo, con le conseguenze sull'autonomia della magistratura e sulla possibilità di spezzare l'intreccio tra mafia e politica." Commentò Maria Antonietta Calabrò sul "Corriere della Sera" a cadavere di Falcone ancora caldo: "Implicita [nelle parole di Salvi] la censura: Falcone con la sua popolarità si sarebbe "prestato" (per protagonismo, per sete di potere) a coprire quest'operazione politica di assoggettamento al governo del pubblico ministero. Ieri l'"Unità" titolava: Questa volta ci sono riusciti: hanno ucciso Giovanni Falcone, il simbolo della lotta contro la mafia. Quel simbolo, però, non doveva diventare superprocuratore". Su questo punto occorre chiarezza: i socialisti perseguivano l'assoggettamento del pubblico ministero al potere esecutivo, secondo l'uso delle maggiori democrazie europee. Tutte le altre forze politiche erano contrarie, e non a torto: in un paese come il nostro, dove le guerre per bande sono la regola anche nelle istituzioni, un pubblico ministero formalmente assoggettato al governo non avrebbe aumentato la serenità dell'azione penale. Ad alcuni anni di distanza da quella polemica, si può constatare che molti pubblici ministeri hanno svolto una netta azione politica trincerandosi dietro l'indipendenza della propria funzione. Paradossalmente, se fossero stati alle dipendenze del governo, esso sarebbe stato responsabile dei loro arbìtri, rimasti invece senza alcuna conseguenza. Ma questo è il senno del poi. Allora la vicenda era squisitamente politica: il Pds non aveva mandato giù l'idea che Giovanni Falcone, diventato un mito nazionale, avesse accettato l'offerta di Claudio Martelli di assumere al ministero di Grazia e Giustizia la direzione degli Affari penali. "Falcone aveva [p. 113] accettato la mia proposta perché l'atmosfera di Palermo era diventata per lui invivibile" mi raccontò Martelli. "Da un lato lo condizionavano il procuratore capo Giammanco
e il sostituto Lo Forte in nome dei vecchi equilibri della procura con Palermo e la Sicilia [dopo le stragi del '92 Giammanco fu sostituito da Caselli che fece di Lo Forte il suo principale collaboratore per sei anni e mezzo]. Dall'altro, l'ala sinistra della magistratura lo contestava con l'accusa infame di non essere più indipendente perché lavorava al ministero di Grazia e Giustizia." Falcone, in effetti, se n'era dovuto andare da Palermo per disperazione. Nel gennaio dell''88 - quattro anni dopo la sensazionale svolta impressa alla lotta contro la mafia con le confessioni di Buscetta - il Consiglio superiore non lo ritenne titolato ad assumere l'incarico di capo dell'Ufficio istruzione di Palermo come successore di Antonino Caponnetto, che pure l'aveva pubblicamente indicato per quel posto. Ma gli fu preferito Antonino Meli. Nell''89, quando fu trovata la santabarbara sulla spiaggia dell'Addaura si mormorò che fosse stato Falcone a organizzare la messa in scena per ingigantire il proprio mito presso l'opinione pubblica. Poco dopo, nel palazzo di giustizia palermitano cominciarono a circolare alcune lettere diffamatorie di un anonimo che, per la qualità degli scritti, fu subito ribattezzato "il Corvo". Bene, il Corvo accusava Falcone di aver "abbracciato il papa della mafia", cioè Michele Greco, e di aver "portato un vassoio di cannoli" al pentito Totuccio Contorno, come antipasto per un patto inconfessabile. Un anno dopo l'attentato dell'Addaura, nel '90, Falcone andò a trovare Andreotti nel suo studio privato insieme a Salvo Lima, della cui "mafiosità" il magistrato non doveva evidentemente essere del tutto convinto. Disse al presidente del Consiglio che voleva andarsene da Palermo, ma più tardi ci ripensò. Infine, alla vigilia della nomina di Falcone direttore degli Affari penali, Orlando - che intanto aveva costituito La Rete -tornò all'attacco trasmettendo al Csm un dossier di ritagli stampa e rinnovando la richiesta di "aprire i cassetti del palazzo di giustizia di Palermo". Falcone e altri magistrati [p. 114] palermitani chiesero di nuovo a Cossiga, come presidente del Consiglio superiore della magistratura, di farsi promotore di una nuova, approfondita indagine sulle denunce della Rete. L'inchiesta fu aperta e, dopo che i consiglieri ebbero ascoltato Orlando e i suoi, fu archiviata due mesi prima dell'assassinio del magistrato. A breve distanza dalla strage di Capaci, e poco dopo la sua bocciatura come superprocuratore antimafia, era stato chiesto a Falcone perché i suoi colleghi ce l'avessero tanto con lui. "Perché
sono un uomo libero" aveva risposto. "Perché non ho padroni. Il fatto è che non sono etichettabile. Una volta passavo per amico dei comunisti, ora dicono che sono diventato socialista. In realtà, sono soltanto un magistrato..." "Mi stanno delegittimando" aveva confidato a un giudice amico, qualche settimana prima di Capaci. "E' il primo passo. Cosa Nostra fa sempre così: prima insozza la sua vittima e poi la fa fuori. Questa volta mi ammazzano sul serio." Ancora una volta, aveva visto giusto. Dopo Giovanni, Paolo "Non bisogna cercare lontano le cause della strage di Capaci. I mandanti sono qui in Sicilia. E i motivi sono più tecnici di quello che si dice. Giovanni aveva contattato alcuni pentiti che potevano rivelarsi preziosi. Ma veniva ostacolato in tutti i modi. Con le rivelazioni di quelle persone si poteva fare molto. Alcune erano ai margini di Cosa Nostra. Ma erano lo stesso in grado di infliggerle un colpo durissimo. Ecco perché lo hanno ucciso. Ora questo compito spetta a noi, a me soprattutto..." Non erano ancora le otto del mattino di una giornata del luglio '92 che Paolo Borsellino, amico del giudice assassinato e cervello dell'inchiesta sulla strage di Capaci, confidava queste impressioni a Gianluca Di Feo, inviato del "Corriere della Sera". Falcone e Borsellino erano diversi. Vicino alla sinistra il primo, alla destra il secondo. Convinto della necessità [p. 115] di una procura nazionale antimafia Falcone, fermamente contrario Borsellino. Ma erano amici, avevano la stessa visione della mafia, la stessa correttezza, lo stesso coraggio, gli stessi orientamenti investigativi, la stessa volontà un po' fatalistica di arrivare fino in fondo. Borsellino era convinto che Falcone se ne fosse andato da Palermo al colmo della frustrazione, quando aveva visto che dopo le polemiche con il consigliere istruttore Meli, il pool antimafia era stato di fatto smantellato. Falcone vedeva la mafia come un unico enorme soggetto da combattere, Meli era favorevole alla frammentazione delle inchieste. Quando Falcone saltò in aria sull'autostrada, il mondo politico incapace di decidere per anni, ma sollecito a rispondere confusamente all'emozione popolare - voleva nominare su due piedi Borsellino procuratore antimafia. Nonostante il Csm avesse bene o male indicato Cordova (che non avrebbe mai potuto prendere possesso dell'incarico) e Borsellino fosse contrario alla superprocura.
Borsellino fu ammazzato alle cinque del pomeriggio di domenica 19 luglio. Aveva pranzato al mare con la famiglia, ospite dell'amico Giuseppe Tricoli, deputato missino. Poi aveva deciso di andare a far visita alla madre. Non lo sapeva nessuno. Ma la mafia sì. (Borsellino fu pedinato da Salvatore Cancemi durante l'intero percorso domenicale.) Lo aspettò sotto la casa materna e quando il giudice, circondato da un esercito di scorta, suonò il citofono, esplose comandata a distanza - un'autobomba con cinquanta chili di esplosivo. Vennero giù parti dei palazzi circostanti. Di Borsellino e di cinque uomini della sua scorta (tra cui Emanuela Loi, una bella ragazza sarda prossima alle nozze) restò solo il ricordo. S'era visto qualcosa del genere soltanto nei momenti peggiori della guerra civile libanese. Parole, indignazione e lacrime erano già state spese tutte per Falcone. Restava soltanto la rivolta. E rivolta fu. Gli agenti di pubblica sicurezza di Palermo si consegnarono in caserma e minacciarono di farsi giustizia da soli. Per evitare il peggio, il governo mandò nella notte in Sicilia duemila [p. 116] agenti e carabinieri con l'aggiunta di ottocento soldati. Spedì i boss nelle supercarceri e gettò la chiave delle celle. Non bastò. La famiglia Borsellino rifiutò i funerali di Stato, e a quelli dei cinque agenti della scorta le alte cariche dello Stato subirono una violentissima contestazione che non risparmiò nemmeno il nuovo presidente della Repubblica. "Molti pentiti non sono uomini d'onore..." Dalla morte di Falcone e Borsellino la lotta alla mafia ha fatto enormi passi avanti. Sono stati arrestati e condannati i responsabili della strage di Capaci e dei principali delitti di mafia, a cominciare da quel Totò Riina che per molti anni ha diretto indisturbato la "cupola" dalla sua casa nel centro di Palermo. Ma, al tempo stesso, la lotta alla mafia è stata occasione di uno spettacolare regolamento di conti politico che alla fine del secolo è tutt'altro che concluso e continua anzi a svolgersi in acque assai torbide. A quindici anni dalle confessioni di Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone, i pentiti di mafia sono diventati un esercito: millecinquantasei persone con quattromila familiari giudicati meritevoli di protezione. Molti di essi hanno avuto un ruolo importante nella lotta alla criminalità organizzata. Ma la pubblica opinione è rimasta spesso sconcertata constatando che personaggi
responsabili di assassinii di un'efferatezza sinora ignota alle comuni conoscenze criminali (un bambino, vittima di una vendetta trasversale, è stato ucciso e il suo corpo disciolto nell'acido) sono stati graziati di colpo per decine di delitti, vivono liberi a spese dello Stato e quel che è peggio hanno restituito solo una parte minima del colossale tesoro accumulato dalla mafia in tanti e tanti decenni di malaffare. Un moto di indignazione attraversò giustamente i cittadini quando un giornale pubblicò le foto di Tommaso Buscetta in crociera con la sua signora: ma ben altre e ben più gravi sono state le concessioni che lo Stato ha fatto ai pentiti. Francesco Marino Mannoia e Balduccio Di Maggio - due esempi [p. 117] fra i tanti - hanno chiesto e ottenuto dallo Stato il pagamento anticipato di somme ingenti come acconto sui futuri "stipendi", per rinfrescarsi la memoria prima dei processi più importanti. Dopo la sua doppia assoluzione, Andreotti disse che alla fine del '99 Mannoia percepiva uno stipendio mensile di venticinque milioni. Negli Stati Uniti - dove la lotta alla criminalità è una cosa distinta dalla lotta politica - i pentiti godono di alcuni benefici a condizione che confessino subito tutto quel che sanno e svelino dove hanno nascosto il malloppo. Da noi, nonostante lo stanco inseguirsi di proposte di legge, nulla di tutto questo è stato fatto. Così, i pentiti scandiscono negli anni i loro ricordi seguendo l'uso dei gentiluomini che, quando mandano fiori a una signora, cercano di rammentare il profumo e il colore preferiti. Quando arriveremo al processo Andreotti - cominciato nel '93 e concluso in primo grado dopo sei anni e mezzo con un'assoluzione - condurremo il lettore tra baci improbabili e rivelazioni contraddittorie. Ma per chiarire fin d'ora che cosa è cambiato nella metodologia antimafia dopo la morte di Falcone, leggiamo le dichiarazioni rilasciate negli Stati Uniti da Tommaso Buscetta il 12 ottobre 1997 e riportate da Lino Jannuzzi sul "Giornale" del 26 luglio 1999. "Io non voglio fare il professore" disse don Masino. "Ho però un'opinione che mi viene dall'esperienza. Quando cominciai a fare le mie dichiarazioni nel 1984 al giudice Falcone, nessuno sapeva delle mie confessioni. Nessuno sapeva nulla. E nessun provvedimento giudiziario fu firmato prima di verificare quel che avevo detto. Falcone ordinò, come disse poi il giudice Pietro Grasso in Tv [Grasso è stato nominato successore di Giancarlo Caselli alla guida della procura di Palermo nell'estate del '99], oltre duemilacinquecento riscontri. Solo allora firmò i mandati di cattura per i mafiosi. Oggi
succede che il primo verbale di interrogatorio finisce sui giornali. Le dichiarazioni del pentito non sono state ancora riscontrate e già quel pentito finisce in aula, obbligato a raccontare quel che sa o può sapere... Io non sono né il padre né il profeta dei più di mille pentiti di mafia. Sono tanti, no? Tra questa gente, molti non sono uomini [p. 118] d'onore: di Cosa Nostra hanno conosciuto soltanto l'orrore dell'assassinio, desiderato la grande possibilità di arricchirsi, voluto l'impunità per la loro avidità e le loro debolezze. Non ho nulla a che fare con la maggior parte di loro, è gente priva di ogni dignità. Una storia è finita. Quella storia che è cominciata in una caserma della polizia intorno a un tavolo - da una parte c'era Falcone, dall'altra io - è chiusa per sempre. Ora bisogna scrivere un altro libro, un'altra storia. Con altre regole. Con altre leggi. Con altri uomini." Jannuzzi scrisse quest'articolo nel quadro di una campagna contro il vicecapo della polizia Gianni De Gennaro, candidato nell'estate del '99 alla guida della polizia o dei servizi di sicurezza. De Gennaro fu difeso dal pubblico ministero di Milano Ilda Boccassini sulla "Stampa" e dal nuovo direttore dell'amministrazione penitenziaria, Giancarlo Caselli, al quale in primis l'articolo di Jannuzzi era dedicato, a commento dei suoi sei anni e mezzo alla guida della procura palermitana. Caselli ricordò un articolo pubblicato nell'ottobre del '91 da Jannuzzi sul "Giornale di Napoli" e dedicato alla coppia Falcone-De Gennaro. "E' una coppia" scriveva allora il giornalista "la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per i pentimenti e i maxiprocessi, è approdata al più completo fallimento: sono Falcone e De Gennaro i maggiori responsabili della débacle dello Stato di fronte alla mafia..." Imbarazzante, non c'è dubbio. Ma a proposito delle osservazioni di Buscetta sui pentiti di prima e i pentiti di oggi, Caselli non replicò nulla. Nella sua lunga gestione della procura palermitana, Caselli ha acquisito meriti indiscutibili nella lotta alla mafia. Ha avuto coraggio - come ne ebbe negli anni della lotta al terrorismo - e merita profonda gratitudine. Ha avuto e ha tuttora un potere enorme, che a Falcone e a qualunque altro magistrato italiano è stato negato. Ha messo in campo per l'inchiesta su Andreotti uomini e mezzi che non si ricordano in nessuna inchiesta giudiziaria. La differenza con Giovanni Falcone e con tanti altri magistrati meritevoli è soprattutto una: Caselli è stato sempre sostenuto da quella che in politica si è rivelata da molto tempo la parte giusta.
[p. 119] "Martelli premier? Una carognata..." Torniamo al giorno tremendo dei funerali di Falcone e all'elezione di Scalfaro. Per lui, a tredici giorni dalla prima riunione congiunta delle Camere, votarono 672 parlamentari su 1002. Il quadripartito (Dc, Psi, Psdi, Pli) e il Pds. I leghisti gli preferirono Miglio, i missini Cossiga, i rifondatori comunisti lo scrittore Paolo Volponi, i repubblicani Leo Valiani ("Tra Scalfaro e Andreotti" ringhiò Giorgio La Malfa "avrei scelto secondo"). Occhetto e Craxi votarono Scalfaro per ragioni opposte. Il primo aveva capito che, mandando al Quirinale l'uomo in apparenza più a destra della Dc, in realtà vi mandava l'uomo più lontano da quel partito. Il secondo, anche in virtù di solidi precedenti, giocava con Scalfaro l'ultima carta per andare a palazzo Chigi. Il problema, quando cominciarono le consultazioni per il nuovo governo, fu che nessuno - tranne il liberale Altissimo - propose Craxi per palazzo Chigi. Scotti giocava in proprio ed era pronto a imbarcare in un suo gabinetto Pds e repubblicani. Martelli sapeva che l'arresto di Chiesa e l'avvio di Tangentopoli avevano indebolito Craxi e si preparava a prenderne il posto, con il sostegno di Occhetto. Fu così che Martelli invitò a pranzo Scotti al ristorante Toulà di Milano e gli propose di fare insieme il governo: il padrone di casa sarebbe stato il presidente, l'ospite il vice. I camerieri del prestigioso ristorante avevano appena servito il dessert che i due ministri furono convocati al Quirinale. Motivo dell'incontro, il decreto antimafia firmato da Scotti e Martelli: con il trasferimento di quattrocento boss all'Asinara e altri provvedimenti eccezionali, esso era servito a placare l'opinione pubblica, ma presentava qualche aspetto di dubbia costituzionalità. Come era intuibile, il discorso, tuttavia, cadde presto sull'incarico al presidente del Consiglio. Per indurre Craxi a rinunciare - mi raccontò il leader socialista - Scalfaro aveva detto che nei suoi confronti "si stava preparando un massacro". Ai due ministri confermò le sue difficoltà nell'affidare l'incarico a un uomo oggetto "nel paese di una [p. 120] campagna di stampa violentissima". E giudicava opportuna, mi disse Scotti, "una pausa che gli consentisse di ritornare più tardi sulla scena politica con maggior forza". Secondo il racconto che mi fece Martelli, Scalfaro, alla fine di un lungo monologo che lo aveva portato a scartare le pur degne candidature di Forlani e di Martinazzoli, disse che non trovava
giusto un sacrificio dei socialisti e fece il nome di Martelli, che sostiene di aver ripetutamente interrotto il capo dello Stato ricordandogli le aspettative di Craxi. Anche Scotti mi parlo di un rapido passaggio sul nome di Martelli come possibile presidente del Consiglio, che avrebbe beneficiato dell'astensione del Pds. I due ministri divergono sulla conclusione dell'incontro: Martelli attribuisce a Scotti una battuta sulla coppia di candidati, Scotti l'attribuisce a Martelli. Fatto sta che i due ministri non avevano ancora ricevuto il saluto dei corazzieri di guardia all'uscita, che dal Quirinale era appena partita una telefonata per Silvio Andò, presidente dei deputati socialisti, e per Gennaro Acquaviva, capo della segreteria di Craxi, con l'annuncio che Martelli era appena andato a candidarsi. "Scalfato era indignato" mi disse Andò "e ci teneva ad apparirlo. Era preoccupato che potesse venir messa in discussione la sua antica lealtà nei confronti di Craxi." Quando Andò gli riferì della telefonata del capo dello Stato, Craxi s'infuriò: "E' una carognata". E per diciassette volte si rifiutò di rispondere al telefono a Claudio Martelli, che inutilmente si protestò innocente e che da allora vide tagliati i ponti con il suo padre politico. Quando dovette rassegnarsi alla rinuncia, Craxi presentò a Scalfaro una rosa di tre nomi: "Amato, De Michelis, Martelli, e non solo in ordine alfabetico". Il "dottor Sottile", che per anni era stato il suo collaboratore più fidato e intelligente, diventò presidente del Consiglio. [p. 121] V: Ricordate Mario Chiesa? "Andiamo a cena alla Scala?" "Andiamo a cena alla "Scala di Milano"? Almeno so quel che ci danno..." Viene un brivido a sentire un invito del genere da Bettino Craxi. La Scala? Milano? Di quale secolo parliamo? Da quanto tempo quello che fu l'uomo più potente d'Italia non mette piede nel salotto della sua città? ("Riconosciamolo. Bettino Craxi è in esilio. Volontario, ma di esilio si tratta. E questa situazione mi dispiace." Parola di: Achille Occhetto. Da Aldo Cazzullo, "La Stampa", 19 settembre 1999.) "Ma no, meglio farvi assaggiare la cucina di qui. Andiamo da Sidi Slim, si mangia bene..." E' la fine di luglio del '99, quando torno ad Hammamet per incontrare il "latitante" più celebre e meno braccato d'Europa. Meno braccato non perché le nostre autorità l'abbiamo dimenticato qui, ma perché le leggi sono leggi e, quando c'è di mezzo
la politica, le estradizioni diventano assai difficili, se non impossibili. Quanti terroristi italiani s'è tenuti la Francia? I processi a Craxi si svolgono con una velocità e un'efficienza che, trasferite all'interno del sistema giudiziario, farebbero dell'Italia un esempio nel mondo. Se una sentenza della Cassazione gli dà ragione, nel giro di dodici mesi i due giudizi successivi lo stroncano irreparabilmente. (Parlando alla stampa estera il 23 luglio 1999, il pubblico ministero di Milano Gherardo Colombo, coordinatore del Pool Mani pulite dopo la nomina di Gerardo D'Ambrosio alla guida della procura, ha paventato la prescrizione di circa millesettecento [p. 122] posizioni processuali legate alla corruzione dicendo: "Mediamente, in Italia, per arrivare a una sentenza di primo grado ci vogliono dai tre ai cinque anni". Nel caso di Craxi - come a suo tempo di Sergio Cusani e del processo Eni-Sai - in trentasei-quarantotto mesi si è arrivati alla sentenza di Cassazione.) Nonostante le corsie preferenziali, a Tunisi la pratica Craxi è ferma. E se mai si muovesse, la richiesta italiana verrebbe respinta. Non sono tutte "riconducibili alla politica" le accuse a Craxi? Dunque... Dunque, eccolo qui: sessantacinque anni ancora ben portati, il fisico asciutto, il volto segnato da sei anni di guerra, la cancrena diabetica al piede sinistro che gli stravolge il colore e la salute della gamba; il cuore funziona male e gli procurerà una gravissima crisi a fine ottobre. Hammamet non è più quella che fece innamorare Bettino nei primi anni Sessanta. E meno che mai quella che negli anni Venti incantò Paul Klee e André Gide. Il clima è dolce, il caldo mitigato dalla brezza, il mare trasparente, la spiaggia poco profonda ma pulita. I prezzi sono bassi per il mercato del turismo mondiale e così, dalla mia ultima visita alla fine del '96, i grandi alberghi si sono moltiplicati e ne stanno costruendo ancora a perdita d'occhio, sulla costa del Sud. Palazzi da sceicchi, marmi a profusione, piscine e centri di talassoterapia dappertutto, come i sorrisi, la cortesia, gli inchini, i gelsomini profumati. Il "signor Craxi" è riverito dovunque: dai direttori di alberghi e ristoranti e da molti degli imprenditori italiani che vengono qui a fabbricare scarpe, vestiti, mutande. "Il costo del lavoro è un quarto di quello italiano" racconta "le tasse sono meno della metà e quasi non esistono per i beni destinati all'esportazione. La qualità della manodopera? Stanno imparando... Così il tasso di sviluppo della Tunisia è del cinque per cento all'anno." L'Italia è amata, Raiuno è seguitissima anche nelle sue trasmissioni politiche.
Craxi scende in città dal suo rifugio di montagna, la famosa casa costruita molti anni fa "tra vipere, volpi e sciacalli" quando un paio di imbrogli lo costrinsero a rinunciare alla [p. 123] dolcezza della costa. Scende perché la casa è ingombra di nipotini ed è giusto lasciarli in pace. A dividere con noi il cuscus e il pesce al sale di Sidi Slim c'è Sergio Colleoni, il vicedirettore generale dei libri Mondadori. E' uno dei tanti che non s'è rassegnato alla morte del socialismo in Italia ed è venuto a conoscere l'uomo che per diciassette anni ne è stato l'incarnazione. "Sa quando ho incontrato la prima volta Arnoldo Mondadori?" gli chiede Craxi. "Nel '67. Ero segretario della federazione di Milano e lui mi chiama: "Ho un problema da sottoporle, posso venire a trovarla?". "Ci mancherebbe, vengo io." "Allora passi stasera alle otto, qui in via Bianca di Savoia a quell'ora non c'è nessuno." Vado, e mi dice che la Mondadori deve trasferirsi in un grande complesso a Segrate, ma la licenza di costruzione è bloccata. "Sa, il sindaco del paese è socialista...". La pratica si sblocca, Mondadori mi ringrazia e la storia si chiude qui. L'anno dopo, nel '68, mi candido per la prima volta alle elezioni politiche. Mondadori mi chiama di nuovo: "Sappia che noi abbiamo una tipografia a Verona: se ha bisogno di qualcosa...". Mi fecero stampare un libretto, ci misero la copertina rossa, la Mondadori mi mandò una fattura di sette milioni. Quietanzata. Fui eletto, ma Ugo Alfassio Grimaldi mi attaccò su "Critica sociale": allora la propaganda personale era vietata... Andai all'opposizione e non misi piede per anni nella sede milanese del partito." Ricordate Mario Chiesa? Craxi fa emergere con cura il suo sarago dal sale, muovendo lentamente le posate con le dita lunghe e aristocratiche. E la memoria torna di colpo indietro di sette anni, alla sera del giugno 1992. Mancava mezz'ora alle 20 e Maurizio Losa, il cronista giudiziario di Milano, mi chiamò alla direzione del Tg1: "Chiesa ha incastrato Craxi. Ho un pezzetto di verbale senza intestazione. Ce l'hanno anche altri colleghi, e credo che prima o poi l'Ansa batterà qualcosa. Che facciamo?". [p. 124] Ricordate Mario Chiesa? Tangentopoli cominciò con lui, il potentissimo presidente del Pio Albergo Trivulzio, la mitica Baggina dei milanesi, un efficientissimo ricovero sanitario pubblico per anziani. Il 17 febbraio 1992, era stato arrestato con i sette milioni
di una mazzetta appena incassata: l'anticipo sul 10 per cento di un appalto da centoquaranta milioni assegnato a un'impresa di pulizie. Il fornitore, Luca Magni, s'era ribellato e i carabinieri avevano segnato le banconote. Poi avevano nascosto una telecamera nella valigetta di Magni e gli avevano infilato un registratore nella giacca. Perché un uomo tanto potente s'era perso per così poco? Dopo l'arresto gli fu attribuita questa risposta: "Se passa il principio che qualcuno possa farla franca, qui non si becca più un quattrino". (Mi dice Craxi ad Hammamet: "Chiesa fu arrestato in flagranza di reato. Non si trattava di finanziamento politico, ma di corruzione o concussione. Il caso Chiesa fu tuttavia ingigantito a bella posta e partendo da lì furono gettate le basi della grande operazione denominata Mani pulite".) Il "Corriere della Sera" pubblicò la notizia a piena pagina, ma nella cronaca cittadina. Scrisse che nella caserma dei carabinieri il presidente della Baggina e dei gloriosi Martinitt era stato interrogato dal sostituto procuratore Di Pietro, senza nemmeno aggiungere il nome di battesimo del magistrato, lasciando quasi intendere che fosse quello di turno. "In realtà" mi spiega Gerardo D'Ambrosio nell'ottobre del '99, facendo un bilancio di Mani pulite "Di Pietro non arrivò per caso a quell'inchiesta, né Chiesa fu arrestato per caso." Secondo il procuratore di Milano, per capire gli inizi di Mani pulite occorre tornare un po' indietro. "Ancora a metà del '91" dice "le indagini sulla corruzione si svolgevano tra difficoltà enormi ed erano di fatto bloccate dall'omertà. Al punto che, all'inizio dell'anno, quando i disturbi cardiaci mi consentivano di stare in ufficio soltanto poche ore al giorno, per fare un lavoro meno stressante mi feci trasferire dal coordinamento della lotta alla criminalità organizzata a quello dei reati contro la pubblica amministrazione." Nel luglio del '91, un trapianto di cuore restituì D'Ambrosio a nuova vita e [p. 125] nell'autunno egli suggerì ai suoi sostituti di utilizzare, per scoprire le mazzette, i sistemi investigativi in uso contro la criminalità organizzata: pedinamenti e intercettazioni telefoniche. "Ci aiutò anche il nuovo Codice di procedura penale entrato in vigore nell''89" mi dice il procuratore. "Prima di allora qualunque indagine doveva essere preceduta dall'invio dell'informazione di garanzia. Questo bloccava le inchieste perché gli interessati si chiudevano a riccio e trovare le prove era difficilissimo. Non a caso, i pochi processi maturati negli anni precedenti prendevano avvio da altri reati, come le false
fatturazioni e i fallimenti. La stessa inchiesta sulla corruzione alla Metropolitana milanese (MM) contro Antonio Natali [amico e fiduciario di Craxi, presidente fino all''87 della Metropolitana milanese, fu il primo teorico della distribuzione di tangenti, che a Milano, mi disse l'ex segretario socialista, finanziavano oltre ai partiti politici perfino importanti istituzioni religiose] nacque dal fallimento di un imprenditore che rivelò di non essersi messo in tasca i soldi degli ammanchi, ma di averli dati ai partiti per poter lavorare." (Ricorda Craxi: "Borrelli avanzò una richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Natali, senatore di Milano. Il Senato, a larga maggioranza, approvò un ordine del giorno che riconosceva il carattere di società privata della MM, per cui i fatti contestati a Natali non costituivano reato. Non ci furono al riguardo proteste o polemiche di sorta". Evidentemente, anche la configurazione giuridica delle imprese - pubbliche o private? dipendeva dal clima politico dominante nel paese.) Chiamai Craxi al telefono... "Di Pietro si era occupato dell'inchiesta su Lombardia Informatica" racconta D'Ambrosio "e quando gli dissi di studiarsi il diritto amministrativo, la legislazione sugli appalti, le norme comunitarie si rivelò un allievo modello. Il nuovo Codice ci consentiva di delegare molte operazioni alla polizia giudiziaria e così cambiò il sistema investigativo. A Chiesa arrivammo [p. 126] dopo una serie di intercettazioni telefoniche e di indagini che ci avrebbero poi permesso di trovare i conti svizzeri, le proprietà nascoste, i depositi in titoli per sette miliardi. Di Pietro, che era uno dei cinque sostituti impegnati nella repressione dei reati contro la pubblica amministrazione, si occupava di una querela per un articolo comparso sul "Giorno" in cui si parlava di sfruttamento dei morti della Baggina. L'impresa di pompe funebri querelò il giornale. Nacque tutto da lì." Quando fu arrestato il presidente della Baggina, il "Corriere della Sera" pubblicò anche le reazioni del consiglio comunale, che la notizia aveva trovato riunito a palazzo Marino. Bobo Craxi, consigliere comunale e segretario cittadino del Psi, affermò imprudentemente a caldo: "Non conosciamo i fatti. Ma qualsiasi essi siano, il Partito socialista milanese ne è completamente estraneo". Il padre di Bobo, Bettino Craxi, successivamente, nel commentare l'arresto, aveva definito Chiesa "un mariuolo". E il "mariuolo" s'era vendicato raccontando a Di Pietro di aver ricevuto dal leader
socialista assicurazioni circa l'elezione al consiglio comunale di Milano nel '90 e la presidenza del Pio Albergo Trivulzio in cambio di un appoggio massiccio alla campagna elettorale di Bobo Craxi alle stesse elezioni. Quella sera di giugno del '92 né il Tg3 delle 19 né il Tg2 delle 19,45 dettero la notizia e l'Ansa si guardò bene dal batterla. Chiamai allora Craxi attraverso il centralino del ministero dell'Interno, che lo rintracciò a Milano. Era la prima volta che gli parlavo al telefono. Craxi è un uomo timido e un po' introverso che cela queste sue difficoltà dietro un modo di fare sbrigativo e talvolta scortese. Non ama i giornalisti e aveva avuto anche con me qualche ruvida polemica pubblica. Gli parlai delle indiscrezioni raccolte da Losa, ne registrai la reazione indignata, ma la totale assenza di smentite mi confortò nel trasmettere per primo la notizia. Anche se Craxi mi richiamò qualche minuto dopo per dirmi che l'Ansa non aveva battuto un bel niente. Lo fece poco dopo, citando il Tg1 come fonte, e il sangue mi si raggelò: se la notizia fosse stata appena imprecisa, ne avrei certo pagato le conseguenze. [p. 127] Naturalmente, trasmettemmo anche la prima reazione di Craxi, che in serata si sarebbe fatta più dura: "Questa non è che l'ultima delle aggressioni e delle mascalzonate che sono state fatte contro di me, mio figlio, mia figlia e mia moglie. Naturalmente, l'obiettivo da colpire è il sottoscritto. Lo ero e lo sono". Tangentopoli aveva cominciato a mirare in alto e nel giro di un anno avrebbe distrutto il vecchio sistema italiano dei partiti. Il ruolo dei grandi gruppi privati Durante la campagna elettorale, la procura di Milano si fermò. E non si può dire che l'arresto di Mario Chiesa abbia influito sul terremoto politico del 5 aprile: abbiamo visto che le ragioni del malcontento e del turbamento dei cittadini avevano ben altra origine. Lo riconosce lo stesso Craxi, che osserva tuttavia come, nei quarantacinque giorni che separarono l'arresto di Chiesa dalle elezioni, i grandi quotidiani cominciarono a martellare il Psi. "Verrebbe in questo modo suffragata la tesi secondo la quale il Pool di Milano non fu la guida della "falsa rivoluzione", ma solo uno dei bracci armati" mi dice Craxi. "Nelle settimane che precedettero le elezioni la punta di diamante della campagna contro di noi in particolare fu il "Corriere della Sera"." I sostenitori di questa opinione - che Craxi raccoglie con prudenza, non avendone riscontri
certi, ma che analizza con evidente interesse - ritengono che Mani pulite sarebbe stata incoraggiata da due filoni di interessi, l'uno interno, l'altro internazionale. Il discorso, in sostanza, sarebbe questo. I partiti italiani al governo non avevano né la forza né l'autorevolezza per imporre al paese le riforme economiche, amministrative e costituzionali necessarie alla sua modernizzazione. Per garantirsi la sopravvivenza elettorale, essi tenevano larghi i cordoni della spesa pubblica, pagando a un Pci pur debolissimo dopo la caduta del Muro un "pizzo" politico per andare avanti. Nonostante questa sostanziale paralisi e l'incapacità di superarla, i [p. 128] partiti di governo controllavano - con l'Eni, l'Iri, l'Enel e alcune galassie minori una parte rilevantissima dell'economia italiana, che i grandi gruppi industriali avrebbero visto volentieri privatizzata. Dai qui il sostegno dei loro giornali a una campagna giudiziaria che era cominciata in un clima politico favorevole e avrebbe fatalmente e facilmente prodotto l'azzeramento dell'intera classe di governo. Le aziende di Stato furono decapitate. L'Eni fu diviso in "buono" e "cattivo" e quello "buono" collaborò in modo determinante alla distruzione di quello "cattivo". (Personaggi chiave di Tangentopoli molto collaborativi, come Pierfrancesco Pacini Battaglia - vedremo più tardi - restarono indisturbati per anni e la cosa, certo, non fu dovuta a distrazione.) L'Iri fu massacrata, anche se era difficile scambiare Franco Nobili per uno spregiudicato dispensatore di mazzette. L'Enel fu sventrata, salvo tardivi ripensamenti. Anche i privati pagarono prezzi alti. L'intera industria delle costruzioni, coinvolta in modo pesantissimo nella corruzione, fu sostanzialmente azzerata. I grandi gruppi privati, tuttavia, non dovettero pensare, almeno all'inizio, a un loro massiccio coinvolgimento. La Fiat resistette fino a quando le fu possibile e Carlo De Benedetti, che stabilì un proficuo rapporto di collaborazione con il Pool di Milano, soltanto a Roma fu costretto a riconoscere di aver fatto larghissimo uso di strumenti di corruzione. Mi dice Giulio Anselmi, che in quei mesi diresse il "Corriere della Sera" in assenza di Ugo Stille, ammalato: "Non ebbi mai una sola telefonata dagli editori. Il mio interlocutore era Giorgio Fattori, presidente della Rizzoli, e mi sembrava che condividesse la nostra linea. Piuttosto, quando in estate nell'inchiesta furono coinvolte Fiat e Mediobanca, fui io ad avere problemi con i poteri forti". Alla debolezza sul piano interno, la classe italiana di governo dei primi anni Novanta dovette aggiungerne una internazionale. La caduta
del Muro di Berlino rendeva gli Stati Uniti padroni del mondo e annullava di colpo il cinquantennale ruolo strategico dell'Italia, paese di frontiera con l'Est, dotato del più forte e potente Partito comunista dell'Occidente. Pur [p. 129] frenando le dietrologie che vedono in Tangentopoli le vendette americane nei confronti di Craxi per l'episodio di Sigonella e di Andreotti per la tradizionale politica filoaraba dei governi italiani, va registrata per completezza questa brevissima testimonianza che sulla questione mi rende l'ex segretario socialista: "All'inizio degli anni Novanta ricevetti a più riprese "appunti riservati" che segnalavano un superattivismo della Cia e del Mossad [l'efficientissimo Servizio segreto israeliano]. Erano state concesse loro più ampie libertà di movimento anche in materia di intercettazione. Le segnalazioni che ricevetti erano generiche". "Di Pietro, facci sognare" Dopo l'arresto di Chiesa, abbiamo detto, la procura si fermò. "Non volevamo influenzare la campagna elettorale" mi conferma D'Ambrosio. E poi? Quando, nel '93, chiesi a Borrelli - procuratore capo della Repubblica da cinque anni - come mai se ne fossero aspettati quattro per ingabbiare Chiesa, prima negò che questo fosse vero citando l'inchiesta contro la Codemi dell'architetto De Mico, poi riconobbe che "gli scenari sono cambiati, i movimenti di protesta hanno acquistato sempre maggiore spazio nell'opinione pubblica, soprattutto nel Nord, la situazione di instabilità politica che andava profilandosi prima delle elezioni del 5 aprile 1992 ha costituito il clima favorevole perché certe verità emergessero". Sei anni dopo, mi dice il suo successore D'Ambrosio: "Quando, dopo le elezioni, capimmo che il quadripartito non avrebbe raggiunto la maggioranza in Parlamento, intuimmo che era il momento di dare un'accelerazione all'inchiesta: gli imprenditori si sarebbero sentiti scoperti, senza protezione, e avrebbero collaborato alle indagini". E aggiunge: "L'intuizione si rivelò ottima. Avemmo un formidabile appoggio dai media e qui fuori cominciò a formarsi la coda degli imprenditori che volevano parlare. Mani pulite visse improvvisamente il suo momento magico". [p. 130] Mi dice Craxi, nell'estate del '99: "Il finanziamento illegale della politica era una pratica diffusa da decenni. Che la magistratura non fosse consapevole di questo fenomeno non è nemmeno lontanamente immaginabile. Che io ricordi, il Psi e i suoi dirigenti non avevano mai avuto a Milano nessun problema di qualche rilievo. A
parte episodi di corruzione personale che fanno parte della vita di ogni convento, la scoperta dell'illegalità non fu affatto una scoperta. Decisero di andare all'assalto, ma l'attacco fu portato in una sola direzione, non in altre. A Milano, il Pci, forte di una burocrazia di gran lunga superiore a quella degli altri partiti, non viveva certo con il ricavato della vendita di salamelle alle Feste dell'Unità". Nei quattro anni che precedettero l'arresto di Mario Chiesa, la procura della Repubblica di Milano era già guidata da Francesco Saverio Borrelli. Napoletano, figlio e nipote di magistrati, Borrelli si era occupato più di diritto civile che di quello penale. Non aveva mai fatto il sostituto procuratore e veniva dalla Corte d'assise ("Fa bene" mi disse "arrivare in procura dopo essere stato in un collegio giudicante. Si capisce meglio come istruire i processi"). Mi racconta Craxi: "Non avevo mai sentito nominare Borrelli, quando Paolo Pillitteri, sindaco di Milano, mi chiese un interessamento perché la nomina del nuovo procuratore, ritenuto magistrato assolutamente meritevole, seguisse senza intralci e fino a compimento, meglio in tempi rapidi, il suo corso regolare. Pillitteri non mi chiese interventi di favore in violazione di norme dello Stato o in contrapposizione ad aspirazioni altrui. Feci dunque il mio intervento nell'ambito dei responsabili del settore giustizia e degli addetti per conto e in rappresentanza ufficiale del partito". (Craxi sostiene di aver saputo in ritardo che, dopo la nomina, Borrelli avrebbe telefonato alla sua segreteria di Roma per ringraziarlo. Non trovandolo, avrebbe lasciato il numero di telefono alla segretaria personale del leader socialista, Serenella Carloni, oggi scomparsa. Quando Bobo Craxi riferì l'episodio, Borrelli lo smentì furiosamente querelandolo per diffamazione. E nel nostro colloquio Craxi considera "incomprensibile" [p. 131] l'accusa, che Borrelli continuò a portare avanti con determinazione in sede giudiziaria.) Torniamo a Mani pulite. L'inchiesta riprese il suo cammino il 1o maggio 1992 e assestò un bel colpo a due uomini simbolo del Psi: gli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli ricevettero entrambi un avviso di garanzia. Pillitteri era cognato di Craxi e doveva a lui la propria fortuna politica. Si capì che i procuratori di Milano puntavano in alto e per questo ebbero subito i loro tifosi. L'indomani, in zona San Siro, comparve su un muro la prima scritta: "Grazie Di Pietro". Fu cancellata immediatamente, ma ormai il movimento di sostegno ai magistrati era inarrestabile. Come accade per i grandi giocatori di calcio, si arrivò a scrivere: "Di Pietro
facci sognare". Nel giro di una settimana, l'inchiesta aveva perso la prudenza iniziale: per la prima volta furono arrestati due dei maggiori costruttori italiani, Mario Lodigiani, amministratore delegato dell'omonima impresa, ed Enzo Papi, capo della Cogefar Impresit del gruppo Fiat; e con loro Sergio Radaelli (Psi), Massimo Ferlini (Pds) e due pezzi da novanta della Dc milanese, Maurizio Prada e Gianstefano Frigerio. Tra gli arrestati di maggio ci fu un importante commercialista milanese, socialista, che insegnava anche alla Bocconi ed era consigliere d'amministrazione di diverse aziende e assessore comunale ai cimiteri. Si chiamava Walter Armanini, e ammise di aver ricevuto da alcuni imprenditori, che considerava "amici e sostenitori" (ma che improvvisamente si trasformarono in vittime concusse), trecento milioni per le spese elettorali. Gli venne invece contestata anche la concussione e gli furono dati cinque anni e sette mesi di carcere: una condanna più pesante in appello che in primo grado. Quando la Cassazione confermò la pena a tempo di record, Armanini scappò per tre mesi. Se li godette con una bella donna, Demetra Hampton, alla quale era probabilmente legato da un vero, grande amore. Ma l'opinione pubblica non gliela perdonò. Come sarebbe accaduto per il ministro della Sanità De Lorenzo e per i coniugi Poggiolini, la gente trovava (giustamente) gravissimo che si percepissero tangenti, e giudicava intollerabile [p. 132] che la "transazione" riguardasse pratiche delicate come la malattia e la morte. E le tangenti di Armanini riguardavano, appunto, i cimiteri. L'assessore si costituì a Orvieto, dove esiste un carcere modello. Restò in Umbria per il lavoro in semilibertà (faceva il contabile per un antiquario) e a Orvieto è morto di cancro a Ferragosto del '99. "Adesso sono rimasto il solo detenuto di Mani pulite" commentò Sergio Cusani, che non lo conosceva. Armanini, Moroni, Balzamo Armanini - a parte la breve parentesi con la Hampton - non avrebbe fatto notizia se il suo processo non fosse stato una delle pagine più nere della nostra storia giudiziaria. Non tanto per la condanna, che lo stesso procuratore D'Ambrosio giudicò eccessiva. Né per il fulmineo passaggio dall'arresto al giudizio di Cassazione, che andrebbe bene se corruttori famosi e potenti dopo anni non fossero ancora protetti da indagini preliminari abilmente insabbiate e ormai destinate alla prescrizione. Ma perché Armanini fu messo alla gogna televisiva, durante il processo, come non sarebbe accaduto a nessun
altro, facendo scrivere anche alla Rai una delle pagine più nere della sua storia, per fortuna da allora unanimemente giudicate irripetibili. "Poiché sapeva di poter giustificare ogni suo lusso, ogni sua proprietà," scrisse "Il Foglio" dopo la morte di Armanini "poiché sapeva di non aver mai intascato una lira, poiché amava mettersi in mostra, accettò il processo in televisione. Non tenne conto di tre cose: che essere accusato di un delitto abietto significa già essere colpevole; che la gente detesta chi conduce una vita brillante, irriverente; che la gente non sopporta chi porta bene gli abiti." Armanini era elegantissimo e per di più aveva la faccia antipatica. Di Pietro, "che aveva invece ogni buona qualità", fu acclamato fino al delirio dalla platea mediatica per il suo combattimento nell'arena, anche se il toro era stordito e sfiancato. [p. 133] Nessun animalista protestò. La dignità dell'uomo fu distrutta ben oltre la sua colpa. Una volta che cercavo una casa di vacanza all'Argentario, mi fu offerta la sua. Non lo conoscevo, non ci siamo mai parlati, nemmeno in quella occasione, che poi non si concretizzò. Mi impressionò il fatto di dover trattare solo con avvocati, curatori, procuratori e altri personaggi del genere: Armanini non poteva disporre più di nulla di ciò che era stato suo. Diceva, d'altra parte, che entrare in carcere significa "sentirsi zero". Chiese la grazia a Scalfaro, protestando per la clamorosa disparità di trattamento che aveva subito. Il capo dello Stato, audace nel concedere la grazia ai terroristi, con Armanini non volle sporcarsi le mani. Il "condannato esemplare" commentò: "Ho trovato tanta forza in Dio. Per questo non mi sento abbandonato". Ha detto il parroco, benedicendo la sua salma: "Preghiamo per farlo uscire dalle cronache ed entrare nel Regno del Signore". Riposi in pace. Nei giorni in cui fu arrestato Armanini, nella rete di Di Pietro finirono, come indagati, i segretari amministrativi della Dc e del Pri, Severino Citaristi e Antonio Del Pennino. Il Parlamento era riunito in seduta comune per l'elezione del capo dello Stato: non sospettando che cosa sarebbe accaduto nei mesi e negli anni successivi, deputati e senatori restarono sconvolti dalla notizia, e poiché Del Pennino era uomo di Spadolini, alcuni ne approfittarono per sostenere che nel ballottaggio finale sarebbe stato preferibile Scalfaro. Mani pulite ormai dilagava. I dirigenti nazionali dei partiti cercavano di circoscrivere i confini dell'inchiesta, ma vennero
travolti dai fatti. A Citaristi e Del Pennino si aggiunse in ottobre il segretario amministrativo del Psi, Vincenzo Balzamo. Era depositario di troppi segreti e il suo cuore non resse: morì d'infarto in novembre. Balzamo fu la quarta vittima di quella che sarebbe stata una lunga serie. La prima fu il segretario socialista di Lodi, Renato Amorese, che si uccise il 17 giugno. La seconda il costruttore comasco Mario Majocchi, ammazzatosi il 27 luglio. Il terzo suicida (2 settembre) fu il deputato socialista [p. 134] Sergio Moroni. Il mandato parlamentare gli aveva evitato l'arresto, ma Moroni non aveva sopportato la vergogna del sospetto. Prima di suicidarsi, scrisse una lettera amarissima al presidente della Camera, Giorgio Napolitano: "Mi rendo conto che non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto uno strumento di interessi personali. Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive". Lo chiamavano ladro e Moroni protestò: "Non lo accetto, nella serena coscienza di non avere mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto". Una fucilata in bocca. Quel pranzo con Di Pietro Balzamo era morto da poco, quando alla vigilia di Sant'Ambrogio del '92 invitai a pranzo Antonio Di Pietro. Anch'io avevo simpatia per lui: le sue origini modeste, l'adolescenza trascorsa in una regione povera (il Molise) contigua al mio Abruzzo, la breve emigrazione in Germania per fare l'operaio, la carriera da segretario comunale a commissario di polizia e, infine, a pubblico ministero. Mi piacevano la sua serietà temperata da un sorriso schietto, la sua indiscutibile capacità di svecchiare con l'elettronica i metodi d'indagine, l'immagine di "tecnico" della giustizia che non guarda in faccia nessuno, la sua resistenza assoluta a parlare in pubblico, a concedere interviste. Non si conoscevano allora le sue strette frequentazioni con personalità milanesi che sarebbero state tra i protagonisti di Mani pulite, né si immaginavano i prestiti senza interessi, i regali, gli abiti, la disponibilità di garçonnière, le ambiguità nei rapporti politici con Berlusconi che avrebbero fatto infuriare i suoi colleghi del Pool, l'uso politico della propria immagine. Quando incontrai Di Pietro, il Pool giocava ancora a carte [p. 135]
abbastanza coperte. Si sapeva che D'Ambrosio e Colombo erano uomini di sinistra e che Davigo faceva parte dell'ala giustizialista di Magistratura indipendente, la corrente più conservatrice dei giudici. Borrelli non si era ancora esposto e Di Pietro passava per l'ariete del gruppo: il cavaliere senza macchia e senza paura. Ma, a dieci mesi dall'arresto di Chiesa, c'erano già tre cose che non funzionavano. Innanzi tutto, la griffe "Mani pulite" cominciava ad avere pericolosi imitatori, come quei magistrati dell'Aquila che avevano appena fatto arrestare in blocco l'intera giunta regionale d'Abruzzo (assolta altrettanto in blocco alcuni anni dopo). Di Pietro mi fece capire che il marchio di qualità stava a Milano e non era facilmente esportabile. Inoltre, cominciavano a intravedersi storie completamente diverse. Finivano in carcere sia persone che avevano intascato denaro per uso personale, sia politici onestissimi che avevano procurato qualche finanziamento ai rispettivi partiti, ma ai quali era noto che non fossero rimaste attaccate mille lire. "E' vero" confermò Di Pietro "persone di quest'ultima specie ce ne sono dappertutto." Feci qualche nome. Il magistrato annuì. La terza e più delicata questione riguardava fin da allora la carcerazione preventiva. Salvatore Ligresti, uno dei maggiori costruttori italiani e uno dei più grandi amici di Craxi, era finito a San Vittore il 16 luglio. La legge, in questi casi, impone per la carcerazione preventiva un massimo di tre mesi. Ma, allo scadere dei termini, per Ligresti agli inquirenti fu concessa una proroga di un mese. E allo scadere del mese a don Salvatore arrivò un nuovo ordine di custodia cautelare. Finché il costruttore disse ai magistrati alcune delle cose che questi volevano sentirsi dire e tornò in libertà. "Le pare questa la strada maestra del diritto?" chiesi a tavola a Di Pietro. Lui non commentò, ma ebbi la sensazione che l'affare Ligresti non l'avesse convinto. In altre inchieste successive, come quella sul presidente dell'Iri Franco Nobili, il magistrato simbolo di Mani pulite si sarebbe comportato peraltro allo stesso modo dei suoi colleghi. [p. 136] Sorte identica a quella di Ligresti era toccata a Enzo Papi della Cogefar Impresit. L'iniziale strategia della Fiat era di non collaborare con i magistrati: Papi restò a San Vittore cinquantacinque giorni scanditi da lettere drammatiche. E anche lui uscì solo dopo aver fatto qualche ammissione. Ancora una volta, a Milano la legge veniva interpretata in senso assai estensivo: essa prevedeva (e prevede tuttora) che l'imputato può essere arrestato
soltanto se è pericoloso socialmente, se esiste il pericolo concreto che scappi o se si ritiene che - libero - possa ripetere il delitto per il quale è stato imprigionato. Nel '92 e nel '93 la pubblica opinione era quasi del tutto indifferente a queste garanzie che pure sono il cardine di uno Stato di diritto. Di Pietro era la madonna e la madonna (tantomeno la sacra famiglia che le sta intorno) non può fare per definizione qualcosa che sia anche solo lievemente imperfetta. Lo constatai di persona quel 6 dicembre del '92, all'uscita dal ristorante. Faceva freddo. Ci passò davanti sferragliando un tram: quando s'accorsero di aver visto Di Pietro i passeggeri schiacciarono in silenzio il naso contro i vetri della vettura. Non avevano l'aria un po' tonta di chi fa la stessa cosa in Colazione da Tiffany di Truman Capote. Incarnavano l'estasi di chi assiste a un'apparizione. Della madonna, appunto. Nel maggio dell'anno successivo, quando incontrai per la prima volta Borrelli, gli manifestai le mie perplessità e lui mi dette una risposta nella quale è racchiusa, a ben vedere, l'intera filosofia di Mani pulite. "Perché noi abbiamo aspettato assai spesso le confessioni per porre fine alla custodia cautelare? Non già perché la custodia fosse finalizzata a confessioni di cui sovente non avevamo neppure bisogno, ma perché l'ammissione dei fatti e l'indicazione di ulteriori particolari di quei fatti o addirittura di altri episodi, costituiva per noi la riprova che la persona aveva ormai reciso i propri legami con il tessuto dell'ambiente di provenienza. Come, rispetto a una banda armata o a una banda di criminali, il pentito, in quanto tale, perde affidabilità e quindi pericolosità perché nessuno dei suoi complici di un tempo lavorerebbe più con lui dopo che costui ha iniziato a collaborare con l'autorità giudiziaria, così - e non [p. 137] dispiaccia l'analogia - in questo campo la circostanza che una persona - sia essa un imprenditore, un funzionario di partito, un uomo politico o un amministratore - inizi a collaborare con l'autorità giudiziaria contribuendo a svelare questo immenso continente sommerso di corruzione, è la riprova che essa ha deciso di scindersi ormai dall'ambiente di provenienza e che non è più affidabile per coloro che, invece, in quell'ambiente sono rimasti e continuano a operare con quelle modalità." "L'aula era piena. Nessuno aprì bocca..." L'estate del '92 fu una delle più drammatiche della nostra storia recente. La maggioranza politica, sconvolta dalle elezioni del 5
aprile, era stata messa in quarantena dall'elezione di Scalfaro al Quirinale. Mani pulite colpiva duro, la mafia ammazzava Falcone e Borsellino, l'opinione pubblica era sconvolta e si sentiva senza guida. Craxi non era riuscito a riconquistare palazzo Chigi, ma aveva ottenuto che vi andasse il socialista a lui più vicino, Giuliano Amato, un professore universitario intelligente e onesto al quale tutti riconoscevano notevoli capacità politiche. Il leader socialista sapeva che il suo passo indietro non gli avrebbe procurato una tregua, né con la magistratura né con l'opinione pubblica. E sentiva che le inchieste giudiziarie sui "contributi al costo della politica" non sarebbero state equanimi. Per questo, il 3 luglio 1992 pronunciò alla Camera un discorso che riletto oggi fa riflettere. "Purtroppo, anche nella vita dei partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette sia per l'impossibilità oggettiva di un controllo adeguato, sia talvolta per l'esistenza e il prevalere di logiche perverse. E così, all'ombra di un finanziamento irregolare ai partiti e al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E, tuttavia, ciò che bisogna dire - e che tutti del resto sanno - è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali o associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative sono ricorse e ricorrono all'uso di risorse aggiuntive in forma [p. 138] irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro." Mi racconta Craxi ad Hammamet: "Parlai di fronte all'assemblea riunita al completo. Dissi come stavano le cose. Usai il linguaggio della verità. Descrissi il funzionamento del sistema di finanziamento ai partiti. Chiesi un'inchiesta parlamentare. Quando invitai i miei colleghi ad alzarsi per smentirmi, nessuno si alzò. Nessuno parlò. Un silenzio impressionante. Fu uno storico momento di verità. Per la gran parte di loro fu il solo". Nessuno parlò, dunque, o commentò o protestò. Ma Craxi si illudeva che questa chiamata di correo all'intero sistema politico italiano -
di maggioranza e di opposizione - fatta nella sede istituzionale più solenne fosse sufficiente a garantire una generale sanatoria. Si illuse di dare un avvertimento al Pci dicendo: "Nella materia tanto scottante dei finanziamenti dall'estero sarebbe solo il caso di ripetere l'arcinoto "tutti sapevano e nessuno parlava"". E si illuse ancor di più nel drammatico appello finale: "Un finanziamento irregolare e illegale al sistema politico, per quante reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato, non è e non può essere considerato e utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un'opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l'avventura". [p. 139] "Bettino, smetti di attaccare Di Pietro" La classe politica (quella di governo, s'intende) fu completamente abbattuta, nonostante la sua distruzione sembrasse impossibile non soltanto a Craxi. Ma, dopo il suicidio di Moroni, ci fu forse un momento in cui Di Pietro vacillò. Me ne parlò lo stesso Craxi nell'estate del '95, nella prima intervista accordata a un giornalista italiano dopo la sua fuga ad Hammamet. "Ai primi di settembre del '92" mi raccontò "venne a trovarmi in ufficio Vincenzo Parisi, il capo della polizia, con il quale avevo mantenuto rapporti di cordialità e di stima anche dopo aver lasciato palazzo Chigi. Disse che bisognava interrompere la polemica con Di Pietro: avrebbe provocato soltanto danni. Comprendeva il mio stato d'animo e mi assicurò che si sarebbe adoperato per ottenere qualche risultato." Compiendo un grave errore di prospettiva, Craxi durante l'estate aveva cominciato una campagna durissima contro il magistrato simbolo di Mani pulite. Negli anni successivi, si sarebbe saputo che alcuni rapporti patrimoniali di Di Pietro con Giancarlo Gorrini e Antonio D'Adamo - pur non costituendo reato secondo quanto avrebbe stabilito la magistratura di Brescia - non giovavano certo alla sua immagine. Ma questo non sminuiva la portata gigantesca di Tangentopoli, anche concedendo la doverosa distinzione tra finanziamenti procurati dagli uomini politici al proprio partito e finanziamenti procurati a se stessi. L'indebolimento personale di Di Pietro all'inizio dell'inchiesta non sarebbe stato sufficiente a interromperla. "Alcuni giorni dopo la visita del capo della polizia" mi disse
Craxi "venne a trovarmi in albergo Giuliano Amato, presidente del Consiglio. Mi parlò a nome di Parisi che diceva di parlare a nome di Di Pietro. In sostanza, anche Amato mi consigliò di non attaccare il magistrato. Secondo Parisi, Di Pietro avrebbe riconosciuto qualche eccesso giudiziario nell'inchiesta e si sarebbe adoperato per la scarcerazione dei due soli dirigenti socialisti allora in carcere: Claudio Dini, presidente della Metropolitana milanese, succeduto a Natali, e [p. 140] Loris Zaffra, che era stato segretario regionale del Psi. Io cessai la polemica. I due furono liberati subito." Craxi mi raccontò di aver ricevuto una visita di Dini subito dopo la scarcerazione. Il presidente della Metropolitana milanese gli consegnò tre paginette riempite con una calligrafia grande e chiara, dicendo di averle scritte in carcere il 7 settembre '92 subito dopo un incontro con Di Pietro e poco prima della propria scarcerazione. Craxi mi disse che nell'estate del '95 aveva consegnato il manoscritto al suo difensore Enzo Lo Giudice perché lo trasmettesse all'autorità giudiziaria. E Lo Giudice lo tradusse in una memoria consegnata in aula al processo per la Metropolitana milanese e finita anche agli atti del processo Eni-Sai. (Nell'autunno del '99, Lo Giudice mi fece sapere che, nella stessa udienza in cui presentò la memoria, lui e Craxi furono incriminati per calunnia. Denuncia poi archiviata.) Secondo Dini, Di Pietro gli apparve turbato per il recente suicidio di Moroni e tenne a fargli sapere di aver dato personalmente al Gip il parere favorevole alla sua scarcerazione. Scriveva il manager: "Di Pietro lamenta l'esagerato consenso alla sua azione e attribuisce la conferma alle sue tesi da parte del Tribunale della libertà e della Cassazione più a una operazione di schieramento che a una convinzione del diritto. In queste condizioni, non può più avere un rapporto sincero ed equo da parte di chi deve controllare le sue decisioni, e nel dubbio mi scarcera". Ancora: "Di Pietro attribuisce grande coinvolgimento ideologico" ad altri due magistrati del Pool, "preannuncia una possibile guerra del suo palazzo contro di sé, proprio a causa di questa sua presa di coscienza, e teme di essere stritolato da una parte e dall'altra". Dini, infine, riferì che a questo punto il magistrato si commosse e, quando arrivò il Gip con il provvedimento di scarcerazione, lo salutò "con forti e solidali strette di mano". Se la testimonianza di Dini corrisponde a verità, quali erano le ragioni del turbamento di Di Pietro? Una reale crisi di coscienza? L'effetto dell'intimidazione di Craxi? La convinzione che i suoi
rapporti privati con Gorrini e D'Adamo lo [p. 141] avrebbero messo in imbarazzo con i suoi colleghi del Pool, come in effetti sarebbe accaduto anni dopo? ("Son forse io il custode di mio fratello?" rispose biblicamente il suo amico e collega Piercamillo Davigo a una mia richiesta di chiarimenti.) Se crisi ci fu, passò presto. E Craxi si accorse a sue spese che il rullo compressore di Mani pulite procedeva schiacciando ogni ostacolo. "Ci fu in tutti" mi dice oggi "un grande disorientamento da cui derivarono debolissime difese. Io stesso arrivai a organizzare la difesa in ritardo, quando già si era creato un clima irresponsabile e violento di fanatismo e di demagogia." "Ladro! In galera!..." Il 15 dicembre 1992 - tra gli auguri di Natale ancora numerosi Craxi trovò un'informazione di garanzia a firma Di Pietro: gli veniva contestato un concorso in corruzione per diciassette diversi episodi e per un ammontare complessivo di sessantacinque miliardi di tangenti al Psi. Parecchi imprenditori avevano ammesso di aver pagato per ottenere tutti gli appalti milanesi più importanti: Metropolitana, Ferrovie Nord, Passante ferroviario... In un'intervista rilasciata il 13 agosto 1999 a Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo per il "Corriere della Sera", il procuratore federale svizzero Carla Del Ponte, da poco nominata procuratore capo del Tribunale internazionale dell'Aja per i crimini di guerra in Jugoslavia, rivelò che il nome di Craxi era stato fatto già nel marzo del '92, pochi giorni dopo l'arresto di Mario Chiesa. Giovanni Falcone, di cui la Del Ponte era amica, le disse di non meravigliarsi. Ma, evidentemente, i magistrati di Milano vollero acquisire elementi più solidi e aspettare un clima politico più favorevole al colpo finale. (La cosa non convince il difensore di Craxi, Giannino Guiso: "A che si riferivano concretamente quelle informazioni? Perché, visto che il nome di Craxi veniva fatto nel marzo del '92, bisogna aspettare il dicembre di quell'anno per l'avviso di garanzia?". Mi dice D'Ambrosio [p. 142] nell'ottobre del '99: "Subito dopo l'arresto di Chiesa, non venne fuori il nome di Bettino Craxi, ma quello del figlio. Chiesa riferì di aver favorito Bobo Craxi con un'organizzazione elettorale molto forte, utilizzando uffici messigli a disposizione da un'impresa di pompe funebri".) Craxi anticipò immediatamente quella che sarebbe poi stata la sua linea di difesa: "Vengo chiamato in causa per fatti che possono rientrare nella sfera di responsabilità dell'amministrazione del partito e ai quali, nell'esercizio delle mie funzioni di direzione
politica, sono estraneo... Viene citata una serie di episodi cui io non ho partecipato o concorso né direttamente né indirettamente e per gran parte dei quali non avevo neppure conoscenza indiretta". L'opinione pubblica non stette a sentirlo. Alle cinque del pomeriggio di giovedì 17 dicembre, una piccola folla di giovani di destra (e non solo) si mischiò alla grande folla di signore e signori in giro per i regali di Natale e aspettò che Craxi arrivasse alla sede del partito in via del Corso. "Scemo!" "Buffone!" "Ladro!" "In galera!" Sul leader socialista, che fino a quel momento era stato uno degli uomini più potenti d'Europa, piovvero insulti, fischi, monetine. Riuscì a entrare in ufficio grazie alla scorta di polizia. Alla direzione del partito, in larga parte pronta ad accoglierne le dimissioni, disse a muso duro: "Non ho nessuna intenzione di piegare la testa e nessuna intenzione di dimettermi". Si sapeva già che avrebbe lasciato la segreteria all'assemblea nazionale di fine gennaio '93, ma qualcuno dei suoi osò commentare: "E' pazzo". Martelli, che voleva subito le dimissioni, masticò amaro. Amato, al contrario, difese Craxi: "Tu stesso, prima di altri e più coraggiosamente di altri, lo hai detto in Parlamento e te ne sei assunto la responsabilità morale. Questa responsabilità - e qualunque responsabilità ti venga addebitata per questo ruolo - non è e non può essere solo tua perché te la sei assunta per tutti noi. Per questo voglio esprimerti la solidarietà che tutti ti dobbiamo". Quel giorno non era accaduta che la centesima parte di quel che sarebbe avvenuto nei due anni successivi: i processi, [p. 143] le pesantissime condanne a raffica, la fuga ad Hammamet. Ma per l'opinione pubblica si era chiusa un'era. E nel modo peggiore. I sedici anni del craxismo I sedici anni del craxismo tornarono tutti insieme alla memoria in un cocktail di immagini straordinarie. Chi era quel giovanotto un po' in carne che bloccai in un sottoscala dell'hotel Midas di Roma mentre tentava di sottrarsi all'assedio dei cronisti? Ma sì, era Gianni De Michelis. Scusi, onorevole, è vero che anche lei è passato con Craxi per sostituire De Martino? De Michelis gorgogliò un sì e cambiò la storia dell'Italia d'oggi. Era il 20 giugno 1976, il Psi era sceso sotto il 10 per cento (minimo storico) alle elezioni politiche che avevano segnato il trionfo di Berlinguer e il quasi sorpasso del Pci sulla Dc. De Martino scosse l'albero e i comunisti raccolsero le pere. Per forza: aveva detto che senza il Pci non avrebbe mosso paglia, tanto valeva votare direttamente per Berlinguer.
"Primum vivere" disse il nuovo segretario. Nasceva autonomista, figlioccio di Pietro Nenni da cui il "Nennino Craxi" di Fortebraccio, che era il Michele Serra nobile dell'"Unità" degli anni Sessanta e Settanta. Due anni dopo feci un'inchiesta sul socialismo europeo. Chiesi di Craxi al vecchio Bruno Kreisky e al giovane Felipe Gonzàlez, a François Mitterrand, a Olof Palme e a Mario Soares. Tranne forse Palme, erano tutti accesi anticomunisti e perciò nessuno si fidava dei socialisti italiani: ma a quel giovane segretario guardavano con simpatia... Craxi - sbeffeggiato come pilastro del Caf - voleva in realtà l'alternativa di sinistra. Ma alle sue condizioni, cioè alle condizioni europee. Voleva ripetere quel che Mitterrand aveva fatto nel '71 a Epernay: prendere la rincorsa per invertire i rapporti di forza con i comunisti. "Sarebbe stata l'Unità socialista alla quale puntavo" mi conferma oggi. "E' vero che i rapporti di forza erano più favorevoli ai comunisti, ma la guida di una [p. 144] simile alleanza, che lungo la strada avrebbe potuto trasformarsi anche in qualcosa di più organico, non poteva che essere socialista. Di qui l'accusa che mi rivolgevano i comunisti di voler egemonizzare, annettere, e chi più ne ha più ne metta." Eppure, Craxi stava forse per riuscire nel suo disegno subito dopo la caduta del Muro di Berlino ("Non voglio che nemmeno un calcinaccio mi cada addosso" disse a Martelli). Ma l'ampio respiro della sua politica riformatrice (che nemmeno D'Alema avrebbe mai criticato) era diventato affannoso per l'immagine di spregiudicato rampantismo che il Psi aveva dato di sé. Il giorno in cui Craxi fu insultato per la prima volta in strada, "la Repubblica" regolò i conti con un ritratto firmato da Sandra Bonsanti. "Era l'uomo del destino di un'Italia superficiale, ma che si vedeva ricca e moderna, il nocchiero della "nave che va"." Ecco dunque le piramidi di Panseca, Sandra Milo che regala al suo leader cuori di garofano, la procace Eleonora Vallone che sventola mazzi di rose rosse, il viaggio ufficiale in Cina con una sessantina dei "suoi cari", come ironizzò Andreotti, l'arroganza di dirigenti di partito che si consideravano i padroni d'Italia, i nani e le ballerine che avrebbero rinnegato il loro benefattore, gli stilisti famosi che facevano a gara per vestire la signora Craxi e avrebbero poi fatto finta di non conoscerla. Scriveva ancora la Bonsanti: "Ha avuto come bersagli l'antifascismo, la fermezza contro il terrorismo, l'unità sindacale, l'autonomia della magistratura". Gli venne rimproverato di aver restituito all'Msi di Almirante una dignità pari a quella degli altri partiti, di aver opposto a Marx il
socialismo libertario di Proudhon, di aver rifiutato l'egemonia comunista sulla Cgil e quindi sul sindacato, di aver sollecitato la responsabilità civile dei magistrati. Battaglie nobili e cadute di stile, ideali riformisti generosi e rampantismo d'accatto: tutto veniva mescolato in un orrido impasto per festeggiare la caduta del tiranno. Come accade in ogni processo sommario, quel che conta non è la distinzione tra peccati (e Craxi ne commise di gravi) e virtù (che a Craxi non furono estranee), ma è l'esecuzione immediata ed esemplare. E Craxi la ebbe. [p. 145] Pentimento di Larini, autogol di Conso A caricare i fucili del plotone d'esecuzione - come accade sempre in casi del genere - contribuì uno degli uomini più fedeli al leader socialista. Il 7 febbraio 1993, l'architetto Silvano Larini si consegnò a Di Pietro al valico di Ventimiglia. Era latitante a 18 maggio 1992, quando la magistratura milanese gli aveva contestato la raccolta di ventun miliardi di tangenti. Larini disse di non voler fare la fine di Michele Sindona, avvelenato in carcere, e restò per quattro giorni in una caserma dei carabinieri. Subito dopo ottenne gli arresti domiciliari nel suo lussuoso attico con piscina nel cuore di Milano. Non sarebbe mai entrato a San Vittore. In compenso firmò ottantanove pagine di verbale che erano altrettante pugnalate per Craxi. Perché lo fece? Scrissero Chiara Beria di Argentine e Giuseppe Nicotri sull'"Espresso" del 21 febbraio '93: "A novembre, quando muore Balzamo, il sostituto procuratore Piercamillo Davigo dice a Bovio [noto penalista milanese] che se Larini si illude di scaricare le sue colpe sul defunto non solo finisce in prigione, ma "fondiamo la chiave della cella per impedire che venga ritrovata"". (Motivando cinque anni più tardi la sentenza di condanna di Craxi, la Corte d'appello di Milano rilevò tuttavia "che il Larini risulta tornato in Italia spontaneamente e che non è stato indicato alcun serio indizio dal quale dedurre che il predetto sia stato convinto o costretto dagli inquirenti in modo non lecito a rendere le dichiarazioni che ha reso".) Larini dichiarò di essere un semplice "fattorino delle tangenti" sugli appalti della Metropolitana milanese: riceveva il denaro da Maurizio Prada, segretario amministrativo della Dc milanese e da Luigi Carnevale, consigliere d'amministrazione della Metropolitana milanese per conto del Pci. Fece mettere a verbale che tra l''87 e il
'91 aveva avuto dai "predetti" sette o otto miliardi "e ogni volta li ho portati negli uffici dell'onorevole Craxi al numero 19 di piazza Duomo, depositandoli nella stanza accanto alla sua". L'architetto rivelò anche di essere l'intestatario del famoso Conto protezione presso l'Unione banche svizzere di Ginevra dove, su richiesta di [p. 146] Craxi e di Martelli, nell''80 accettò che fossero versati sette milioni di dollari sborsati dal vecchio Banco ambrosiano di Roberto Calvi come tangente per un prestito ottenuto dall'Eni attraverso il suo direttore finanziario Florio Fiorini. Quando i giornali pubblicarono gli estratti della deposizione di Larini, Martelli dovette dimettersi da ministro della Giustizia e la storia dei miliardi portati nell'ufficio personale di Craxi scatenò giustamente l'opinione pubblica. Fu questo episodio, con ogni probabilità, a rendere impossibile fin dall'inizio una "soluzione politica" per Tangentopoli, che veniva però sorprendentemente sollecitata dallo stesso Di Pietro. Un paio di giorni dopo aver raccolto la confessione di Larini, il magistrato sbottò: "Non se ne può più, occorre trovare una soluzione, io non faccio guerra al sistema". Scalfaro gli andò dietro. Scrisse Franco Vernice sulla "Repubblica", chiarendo che la proposta del capo dello Stato si limitava a coloro che erano imputati di finanziamento illecito dei partiti: "Che restituiscano il maltolto, poi tornino a casa pur evitando l'onta della prigione. Insomma: forse non una proposta di condono, ma qualcosa di simile a un ragionevole compromesso". Il governo si trovò, così, incoraggiato a procedere e il 5 marzo approvò quattro disegni di legge e tre decreti per favorire una "soluzione politica" di Tangentopoli. In particolare, il finanziamento irregolare dei partiti veniva distinto dagli altri reati. I percettori, invece di andare in carcere, potevano cavarsela restituendo il triplo della somma percepita illegalmente: anche a rate, se l'importo era rilevante, e rivalendosi, se necessario, sul partito. Il provvedimento, simile a un progetto già approvato in commissione al Senato, aveva due punti deboli. Si applicava anche agli imprenditori che avevano versato tangenti, e che quindi sarebbero stati meno disposti a collaborare, e non prevedeva con chiarezza la fine della carriera politica dei percettori del finanziamento. "Nessun colpo di spugna" disse comunque ai giornalisti il ministro della Giustizia Giovanni Conso. "Si tratta di misure che, accogliendo quel che i magistrati chiedono da tempo, semplifichino i riti processuali per arrivare prima alle sentenze." [p. 147] Sul ruolo degli imprenditori in Tangentopoli bisogna
essere chiari: era grottesco mettere sullo stesso piano il titolare della piccola impresa di pulizie della Baggina di Mario Chiesa e le maggiori aziende italiane. Il primo poteva essersi trovato il coltello alla gola, le seconde facevano parte a pieno titolo del sistema delle tangenti e non c'era certo bisogno che i segretari politici ricorressero a telefonate minatorie per indurli a pagare. Quale miglior antidoto di un accordo generale all'odioso rito della corsa al ribasso negli appalti pubblici? Quale migliore garanzia per i bilanci della durevole certezza di grandi commesse pubbliche? ("Il vecchio sistema corruttivo" riconosce oggi D'Ambrosio "era di assoluta convenienza anche per le grandi imprese, che evitavano tutte le incognite e le lungaggini degli appalti e degli intralci burocratici.") Gli imprenditori, tuttavia, una volta capito che il vecchio sistema stava crollando, erano stimolati a collaborare solo facendo gratis la parte delle vittime. Se avessero dovuto pagare anch'essi una penale sulle tangenti versate, il beneficio si sarebbe fortemente ridotto. Quindi... Quindi i procuratori di Milano si ribellarono. Domenica 7 marzo, Francesco Saverio Borrelli convocò nel suo ufficio giornalisti e telecamere e lesse un durissimo proclama. Sostenne che "il decreto non ci aiuta e disincentiva ogni forma di collaborazione, quindi ostacolerà il nostro lavoro". Era la prima volta nella storia italiana che un magistrato criticava il governo in modo così clamoroso. Una parte del mondo politico disse che era stata calpestata la separazione dei poteri. Ma Borrelli non se ne dette per inteso. Aveva dalla sua l'opinione pubblica. Sapeva che l'indomani, 8 marzo, i giornali sarebbero stati con lui e che le istituzioni, persino al livello più alto, ne sarebbero state intimidite. Lo stesso lunedì, infatti, Scalfaro si rifiutò di firmare il decreto, compiendo anche lui un vistoso strappo costituzionale. Ma l'aspetto comico di una vicenda drammatica fu che alla fine il presidente del Consiglio Amato si trovò in mano un decreto figlio di nessuno. Il documento era stato soppesato [p. 148] parola per parola e concordato ai massimi livelli. E invece niente. Lo sconfessava perfino colui che per forza di cose era stato suo padre, il ministro Conso, al punto da invitarmi con gran garbo negli anni successivi a non parlare più nei miei libri di "decreto Conso". Quale decreto? Quale Conso? "Il non decreto del non Conso" mi disse amareggiato Giuliano Amato nell'autunno del '93. Quando, nel giugno di quell'anno, chiesi a Francesco Saverio Borrelli se il Parlamento che sarebbe nato dalle ormai prevedibili
elezioni anticipate avrebbe potuto ridiscutere qualcosa che assomigliasse al decreto Conso, il procuratore mi rispose gelido: "Il Parlamento farà quello che riterrà opportuno. Naturalmente c'è da domandarsi se l'opinione pubblica sia disponibile a soluzioni che possano avere il sapore dell'assoluzione o dell'autoassoluzione". Conclusione: come fa il potere politico a prendere qualunque decisione che non stia bene a noi magistrati, se è sufficiente un nostro comunicato a invalidarla? Craxi salvato, il Pds lascia Ciampi Il mondo politico, tuttavia, le grane andava a cercarsele con una determinazione irresponsabile. Nei primi mesi dell'anno, la frattura tra classe politica e opinione pubblica s'era fatta insanabile. Come vedremo nel prossimo capitolo, la rivolta antipartito dilagò nel '93 come non sarebbe mai più capitato nel decennio. Mario Segni trionfava sugli scudi dei suoi referendum, mentre il governo di Giuliano Amato doveva dimettersi per aver perso sei ministri in cinquanta giorni. Cinque perché furono colpiti da informazioni di garanzia (Martelli, Pomicino, De Lorenzo, Goria, Fontana e Reviglio), uno (Ripa di Meana) perché saltò giù dalla barca per distinguersi. Nonostante questa serie di pesantissimi avvisi, la sera del 29 aprile il Parlamento, con un tentativo estremo e disperato di autoassoluzione, respinse a scrutinio segreto le richieste di autorizzazione a procedere della procura di Milano contro [p. 149] Bettino Craxi. O meglio, furono respinte quelle per i reati più gravi, la corruzione e la concussione, mentre fu accettata la richiesta per i finanziamenti illeciti al Psi, sempre ammessi dallo stesso Craxi. Il leader socialista aveva lasciato a Giorgio Benvenuto la segreteria del Psi l'11 febbraio, dopo quindici anni e sette mesi di regno assoluto. Quella sera d'aprile parlò tre quarti d'ora per difendersi. "Tre quarti d'ora con voce ferma e piana" riferì sul "Corriere della Sera" Paolo Graldi. "Solo quando ha ricordato i morti suicidi e d'infarto, le famiglie distrutte, uomini schiantati da una spirale di "violenza giudiziaria" è quasi scoppiato in un singhiozzo, si direbbe un singulto nella voce strozzata." Craxi ripeté le sue accuse all'intero sistema dei partiti, finanziato illecitamente. Contestò ai giornali campagne a senso unico, con "brutali semplificazioni" e avvalendosi di sistematiche violazioni del sistema istruttorio. Censurò il mondo imprenditoriale. Accusò i pubblici ministeri di aver fatto un uso distorto del sistema giudiziario,
costruendo un teorema. E concluse così: "Tante verità negate o sottaciute sono venute l'una dopo l'altra a galla, e tante altre ancora ne verranno, ne possono e dovranno venire ancora. E mentre molti si considerano tuttora al riparo dietro una regola di reticenza e di menzogna, non si è posto mano a nessun rimedio umano, ragionevole e costruttivo". Queste parole dovettero impressionare l'uditorio, perché nel segreto dell'urna molti che avrebbero dovuto votare contro Craxi gli votarono a favore. "Ciechi, sordi, suicidi." Così Giulio Anselmi definì i deputati nell'editoriale del "Corriere della Sera", interpretando uno sconcerto che percorse l'Italia intera. Carlo Azeglio Ciampi aveva appena giurato con il suo nuovo gabinetto, che per la prima volta portava al governo gli ex comunisti Visco, Berlinguer e Barbera. E già Occhetto ritirava indignato l'intera delegazione, imitato dal verde Rutelli che si dimise. La Rete di Orlando si autosospese dal Parlamento, mentre La Malfa parlava di suicidio politico, Fini bollava gli ignoti assolutori come ladri e mascalzoni, e Bossi minacciava: "A Milano la pagheranno". [p. 150] Urla e monetine all'hotel Raphaël L'indomani i giornali ribollivano di un'autentica dichiarazione di guerra al Parlamento del procuratore Borrelli, il quale sosteneva che la decisione della Camera era viziata da illegittimità e annunciava un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale: era la prima volta che in Italia accadeva qualcosa del genere. Al mattino presto inviai un biglietto all'hotel Raphaël. Il destinatario, naturalmente, era Craxi. Gli chiedevo un'intervista che il leader socialista non aveva mai rilasciato da quando in dicembre gli era giunto il primo avviso di garanzia. Me l'accordò per il pomeriggio, in albergo. Scese dal suo appartamento riposato e di buonumore. Non volle conoscere in anticipo le domande, al contrario di altre volte. Rispose con sicurezza: si sentiva perseguitato da una manovra politico-giudiziaria, sapeva perfettamente quale fosse il ruolo di Larini, disse che il denaro consegnato alla sua segretaria in piazza Duomo serviva al partito e lui non vi aveva attinto. Feci appena in tempo a uscire dall'albergo che il Raphaël fu circondato da una folla rumorosa e minacciosa: a due passi da lì, in piazza Navona, il Pds aveva organizzato una manifestazione contro Craxi. Questi doveva uscire per registrare una puntata dell'Istruttoria, la trasmissione di Giuliano Ferrara. La
polizia, intervenuta in forze a circondare l'albergo, gli chiese di uscire da una porta secondaria. Lui si rifiutò e fu investito da urla, grida, sputi, monetine. Due anni dopo lo incontrai ad Hammamet: vive lì dal 5 maggio 1994. "Conoscevo Hammamet da quasi trent'anni" mi dice nell'estate del '99. "Avevo una casa di famiglia. Vi cercai rifugio per difendere la mia libertà e con essa la mia vita." (Questo riferimento ai pericoli che avrebbe corso restando in Italia è stata una costante in tutti i miei colloqui con Craxi di questi cinque anni.) Gli chiesi di nuovo di quei soldi che Larini gli portava in piazza Duomo: come fa la gente a credere che siano serviti solo per finanziare attività di partito? Mi rispose così: "Quando [p. 151] venne trovato questo conto, i giornali parlarono di dieci miliardi. In realtà, era praticamente in rosso. Movimenti complessivi per otto o dieci miliardi vi erano stati nell'arco di un decennio. Le mie spese personali le ho pagate con i miei soldi. Su quel conto erano accreditati i duecento milioni all'anno che mi venivano corrisposti come segretario del Psi e che ho sempre regolarmente denunciato al fisco. Poi arrivavano piccoli contributi e venivano pagate le spese di "Critica sociale", del Centro Brera... Comunque non c'è niente da nascondere. Vadano a controllare voce per voce... Se io avessi avuto bisogno di somme maggiori, il partito me le avrebbe date senza difficoltà. C'è l'articolo 47 dello Statuto che lo prevede...". Mi fece poi un quadro delle finanze del partito. "Contribuivano Fiat, Olivetti, Fininvest... Prima delle campagne elettorali, Balzamo veniva con un prospetto. Vi era annotata una rosa di società e accanto a ciascun nome Vincenzo scriveva quel che immaginava potesse essere il contributo straordinario. Mi chiedeva se poteva muoversi con tutti. Talvolta gli rispondevo di no: è capitato, per esempio, con De Benedetti a proposito di una certa operazione all'Iri. Nei mesi successivi alle elezioni si faceva un consuntivo. Qualche mese prima di morire, venne a pranzo da me in albergo. Gli dissi che ero molto preoccupato per i debiti del partito e lui mi tranquillizzò: abbiamo centoventi miliardi di debiti, è vero, ma abbiamo anche sessantacinque miliardi di crediti per contributi promessi e non ancora versati, e un patrimonio immobiliare di cento miliardi." "Anche Mazzini chiedeva tangenti" Ricordai a Craxi l'immensità dello scandalo di Tangentopoli, l'enormità delle somme rubate.
"I soldi sono nella politica" rispose "quel che le armi sono nella guerra. Il sistema illegale del finanziamento della politica è sempre esistito. Quando Crispi era ministro, Giuseppe Mazzini - dico Giuseppe Mazzini - gli scrisse raccomandandogli due ditte amiche per un appalto delle ferrovie meridionali. [p. 152] Nella lettera c'è una annotazione: quei soldi non servono a lui, ma alle casse del partito..." E le degenerazioni? Come mai Craxi, che per sedici anni è stato il padre-padrone del Psi, non è intervenuto? "Ma di che cosa stiamo parlando? Ho letto, nelle carte raccolte dopo la morte di Balzamo dal suo segretario particolare, che il bilancio del Psi era di ottantacinque miliardi all'anno e che tra l''87 e il '91 ci sono state entrate illegali per una cinquantina di miliardi all'anno. La spesa pubblicitaria di una media azienda... E gli altri? Balzamo trattava dei finanziamenti delle "cooperative rosse" con Marcello Stefanini, il tesoriere del Pci-Pds. Sono morti entrambi di infarto, vittime di Tangentopoli. E mi chiedo se c'era bisogno di usare tanta violenza nelle indagini... Su quelle faccende io ho notizie di seconda mano, ma si trattava comunque di roba normale. Io, nella direzione centrale del Psi a Roma, avevo centosessanta dipendenti. La sola federazione di Bologna del Pci ne aveva duecentocinquanta. Chi li pagava? Anche i nostri in Emilia erano a libro paga delle cooperative. E si è sempre saputo che l'apparato del Pci costava molto di più di quello democristiano e moltissimo di più di quello socialista. [Craxi mi disse che fino all'autunno del '92 il costo mensile del Psi era di cinque miliardi e seicento milioni al mese, che furono ridotti nell'inverno a quattro miliardi.] Lei mi chiede se ci sono state omissioni nelle indagini sulle cooperative rosse? La madonna, se ci sono state. Ma può star sicuro che prima o poi si dimostrerà. E' stata un'azione deliberata. Perché? Perché l'insieme delle lobby che contano e che hanno patrocinato la falsa rivoluzione hanno considerato il Pds un elemento necessario in questa fase politica... A proposito, perché nessuno ha indagato sulla colossale speculazione sulla lira avvenuta nel settembre del '92, quando si dovette svalutare? Una sola giornata di speculazione ha fruttato quanto dieci anni di Tangentopoli... Il problema è di capire a chi stanno vendendo il paese, a quali famiglie..." Quando obiettai che nel suo e in altri partiti molti dirigenti avevano avuto una certa disinvoltura nell'approvvigionamento [p. 153] di fondi, Craxi diventò prudente. "I dirigenti dei singoli uffici del
partito ricevevano somme per l'attività politica dei loro dipartimenti. Poi c'erano i contributi elettorali, e qui certo la vicenda va ricostruita con attenzione. Alcuni facevano la raccolta in proprio. Avevano la loro correntina, gli amici da sostenere..." E lei? "Non l'ho mai fatta, non ne avevo bisogno... Da un punto di vista elettorale non avevo problemi, e poi ci sono tanti amici che mi potevano e mi possono aiutare". Nel senso che andavano da lui e gli chiedevano di quanto avesse bisogno? "Ci mancherebbe altro. Non si permettevano. Facevano come si fa dal dentista. Passavano dalla segretaria..." "Incontrai soltanto Roberto Calvi" Incontrava personalmente i grandi imprenditori che finanziavano il Psi? "Mai. Non c'è mai stato alcun imprenditore né alcun amministratore che abbia detto: Craxi mi ha chiesto soldi. Con la sola eccezione di Roberto Calvi. Era il '79, l'instabilità italiana era a massimo, i comunisti erano fortissimi. Il Psi aveva un debito di quindici-sedici miliardi con il Banco ambrosiano. Calvi venne da me in ufficio e mi disse che un gruppo di amici voleva aiutare il partito a ridurre il suo indebitamento. Quali amici? Non lo so. Debbo pensare che l'andamento della situazione politica abbia portato personalità del mondo cattolico e dell'establishment economico e finanziario a interessarsi del rafforzamento del Psi. Calvi mi parlò di un suo interessamento a garantire la stabilità democratica e non mi chiese niente. Promise versamenti estero su estero per venti milioni di dollari. In realtà ne arrivarono soltanto sei o sette, tra l'ottobre dell''80 e il marzo dell''81. Nacque così il famoso Conto protezione presso l'Ubs di Ginevra. Poi Calvi morì e i versamenti s'interruppero... Il giro interessato all'operazione era quello dello Ior, la banca vaticana, di Gelli e di Ortolani. Ma io Gelli e Ortolani non li ho mai conosciuti, né ho conosciuto il ruolo di Ortolani in questa operazione. [p. 154] Adesso mi hanno condannato a otto anni e mezzo per concorso nella bancarotta dell'Ambrosiano. "E' straordinario, visto che al processo sia Carlo Azeglio Ciampi, che era governatore della Banca d'Italia, sia Lamberto Dini, che ne era il direttore generale, dissero che tra l''89 e il '92 l'Ambrosiano era una banca solidissima..." (In appello la condanna fu ridotta a cinque anni e sei mesi. Successivamente è stata annullata in Cassazione e nell'autunno del '99 pendeva ancora il giudizio di rinvio, sempre dinanzi alla Corte d'appello.)
Craxi mi disse che il segretario particolare di Balzamo dopo la morte di quest'ultimo gli consegnò una busta con l'indicazione di sei conti esteri intestati a fiduciari del partito. Ma aggiunse di ritenere che - al momento in cui c'incontrammo - ne esistessero altri "che a suo tempo facevano capo al partito e di cui oggi ignoro chi abbia la disponibilità... I conti esteri" mi spiegò "nascevano perché le imprese preferivano darci i soldi con operazioni estero su estero. Quando si presentava la necessità, chiedevamo a nostri amici di aprire a loro nome un conto che in realtà era del partito". E suoi conti personali all'estero? "Non esistono. Anzi, autorizzo fin d'ora tutte le banche del mondo a rivelare se ci sono stati conti di cui io e la mia famiglia siamo stati procuratori o beneficiari." Il suo patrimonio personale? "Una villa in campagna in provincia di Como, che abbiamo affittato per compensare le spese di manutenzione. A Milano vivo in affitto. All'hotel Raphaël di Roma non ho mai pagato una lira per venticinque anni. Mi ospitava Spartaco, proprietario dell'albergo e mio amico da sempre. Ho fatto vita politica per quarant'anni, ma non c'è nessuno che possa dire che mi sia venduto una legge o un appalto." Le sue fonti di reddito? "La pensione da deputato, i diritti d'autore dei libri, i proventi delle cartelle litografiche che hanno un sorprendente mercato internazionale. In tutto quattrocento milioni di lire dichiarati al fisco." Gli chiedo, nel nostro ultimo incontro del '99: non ritiene [p. 155] di aver sottovalutato la diffusione della corruzione personale nel suo partito? "Non penso che nel Psi ci fosse più corruzione che altrove" risponde. "Mentre si può dire che il fenomeno del finanziamento illegale del partito e anche delle attività politiche di gruppi e di singoli era generalizzato, non si può dire che vi fosse una corruzione diffusa." Quando capì che anche importanti dirigenti del Psi avevano fatto i loro interessi prima di quelli del partito? "I casi si contano sulle dita di una mano. Di alcuni sapevo o immaginavo, di altri no." Quanti finanziamenti esteri del Psi non sono mai stati trovati? "Si sarebbe dovuto trattare di somme consistenti." (Mi aveva detto in una precedente occasione: "Nel processo Cusani ero lì, ma Di Pietro non mi chiedeva niente. Perché non mi ha torchiato sui conti esteri del Psi?".)
La giustizia è uguale per tutti? Nell'aprile del '96, Craxi fu condannato a otto anni e tre mesi di carcere per le tangenti della Metropolitana milanese: i soldi raccolti da Larini e portati nell'ufficio di piazza Duomo. La sentenza, confermata l'anno successivo (con una pena ridotta), fu annullata dalla Cassazione nel '98 con una motivazione che fece scalpore. "Benedetto Craxi" vi si legge "conosceva molto bene il sistema di illecito finanziamento del suo partito e i meccanismi perversi che alimentavano tale sistema, entrato paradossalmente a far parte, per prassi consolidatasi negli anni, della fisiologia organizzativa del partito e nulla fece per porre fine a esso, al quale anzi aderì. Questa inerzia di fronte alla chiara commissione di illeciti di rilevanza penale da parte di soggetti che a vario titolo gravitavano nell'area del partito e operavano per esso può integrare gli estremi del concorso omissivo? La risposta non può che essere negativa." [p. 156] In sostanza, secondo la Cassazione, Craxi non doveva essere condannato perché non esistevano prove che egli si fosse appropriato del denaro versato alla sua segreteria (i giudici di merito avevano sostenuto il contrario "con non poca forzatura"). E perché la consapevolezza dell'illecito non basta a configurare il reato di corruzione. In particolare, "in capo al segretario politico di un partito non può configurarsi una posizione di garanzia avente come specifico contenuto l'impedimento di reati da parte di soggetti che a vario titolo gravitino nell'area del partito e operino a favore di esso. Per rivestire tale posizione, infatti, il garante dev'essere titolare di un potere giuridico idoneo a impedire il compimento di alcuni reati, potere che esula dalle funzioni esercitate dal segretario politico di un partito". Questa sentenza stabiliva, in pratica, che il segretario di partito commette un reato soltanto se lo compie personalmente e non se non lo impedisce in virtù della carica. Trattandosi di Craxi, era impensabile che una tesi del genere reggesse. Infatti, venti giorni dopo la decisione della Cassazione, il presidente della quarta sezione penale della Corte d'appello di Milano, Renato Caccamo, titolare inflessibile di molti processi di Tangentopoli, con una procedura del tutto irrituale prima telefonò e poi fece scrivere alla Cassazione per avere gli atti del processo e "assegnarselo", nonostante non fosse ancora stata scritta la motivazione della
sentenza, per evitare rischi di prescrizione. La lettera era dell'8 maggio 1998. La Cassazione trasmise gli atti appena tre giorni più tardi e il 24 luglio successivo Craxi veniva di nuovo condannato (ma con la pena dimezzata a quattro anni e sei mesi). Il 20 aprile 1999, una diversa sezione della Cassazione confermava la condanna. La motivazione fu pubblicata nell'ottobre successivo. E ci fu una sorpresa. La Suprema corte prese atto che non c'erano prove che Craxi si fosse intascato il denaro, ma stabilì che "la prova della attribuibilità dei singoli fatti storici (in ipotesi costituenti reato) a un determinato soggetto può essere ricavata anche da argomentazioni logiche". Un'analoga, inedita procedura fu seguita da un'altra [p. 157] sezione della Corte d'appello di Milano per il processo Enimont. Il 1o ottobre 1999, Craxi fu condannato a tre anni (in tribunale ne aveva avuti quattro). Ma per la prima volta la Corte ha letto la motivazione in aula, anche qui per evitare la prescrizione. Riferì Paolo Foschini sul "Corriere della Sera": ""Non ricordo casi" ha detto l'avvocato di Craxi, Giannino Guiso "in cui in nome dell'urgenza-prescrizione sia stata scritta una motivazione contestuale". "Ma la prescrizione" gli ha risposto il procuratore generale Piero De Petris "è sempre una sconfitta, anche per gli imputati." "Giusto, se la stessa fretta valesse per tutti" ha ribattuto Guiso". "I miei processi" dice Craxi "come si conviene a ogni rivoluzione, anche a quelle "false", sono stati processi speciali... Alcuni di loro, del resto indispensabili per immobilizzarmi, sono volati come il vento. Una velocità sconosciuta nel nostro paese." In effetti, nonostante i rallentamenti determinati dalle procedure parlamentari, la prima condanna definitiva (cinque anni e sei mesi per le tangenti Eni-Sai, Cagliari-Ligresti) si è avuta il 12 novembre 1996, a quattro anni scarsi dal primo avviso di garanzia. Un record assoluto per la giustizia italiana, battuto solo da altri "condannati esemplari" come Cusani e Armanini. Perché questa corsia preferenziale? Nessuno dei magistrati ai quali ho rivolto tale domanda, nemmeno il procuratore D'Ambrosio, mi ha fornito una risposta chiara. La risposta sta nei fatti. Mani pulite non è stata un'inchiesta come le altre. E' stato un processo che, partendo da reati gravi, molto spesso effettivamente commessi, ha perso fin dall'inizio la sua valenza tecnica per acquistarne una politica. Poche pagine più indietro si è visto che lo stesso D'Ambrosio trovò nelle gravissime
difficoltà postelettorali del quadripartito (il Caf, per intenderci) la spinta decisiva alle indagini. Da quel momento, il processo è diventato politico per sua natura. Sappiamo, per esempio, che molto spesso il reato commesso era il finanziamento illegale ai partiti. Ma poiché il giudizio morale e penale su di esso poteva non essere sufficientemente grave, quasi sempre i magistrati vi hanno [p. 158] attaccato la corruzione e la concussione. La stessa cosa vale per la rapidità delle sentenze, che ha dimostrato, una volta di più, quanto possa essere soggettiva e discrezionale, finanche nelle procedure, l'attività dei magistrati. Il processo Enimont era il giudizio penale sulla Prima Repubblica. Craxi soprattutto, ma anche Forlani, Citaristi e Martelli, La Malfa e Altissimo dovevano essere condannati immediatamente con sentenza definitiva. L'antipatico Armanini era il piccolo mostro mediatico che rubava nei cimiteri. Cusani, come vedremo, era il simbolo duro di un mondo perverso: si era rifiutato di fare nomi e andava punito. Bastavano pochi "processi esemplari" a dare all'Italia la sensazione tangibile che la Prima Repubblica era finita per sempre. Secondo la Costituzione, però, la giustizia è uguale per tutti. Così non è stato in Tangentopoli. Va benissimo chiudere in tre anni primo caso nella storia italiana - il processo Cusani. Non va bene aver setacciato tante posizioni politiche con la paletta da spiaggia invece che con la ruspa. Non va bene trascinare fino all'ormai certa prescrizione la posizione di corruttori confessi che hanno le giuste amicizie politiche e editoriali. Non va bene. Se Craxi è stato un "mostro", non è stato certo il solo. Ma questo i cittadini non lo sapranno mai. [p. 159] VI: "Il carcere, un immenso canile" "E' una sconfitta" disse Di Pietro "E' una sconfitta" disse Di Pietro. E si lasciò cadere come un sacco vuoto sulla sedia. Era il 20 luglio 1993 e l'avevo invitato a pranzo. Poi seppi che s'era ammazzato in carcere il presidente dell'Eni, Gabriele Cagliari, e pensai che il magistrato non sarebbe più venuto. Invece venne. Con un'ora di ritardo, ma venne. E gliene fui grato. Era stravolto. "Non si può promettere e non mantenere" mi disse. "Per me e per il Gip Italo Ghitti, Cagliari poteva stare a casa da più di un mese. E invece..."
E invece Cagliari s'era ammazzato soffocandosi con un sacchetto di plastica nel bagno della sua cella a San Vittore. Con Di Pietro, Cagliari aveva ammesso le proprie responsabilità, riconoscendo che sotto la sua gestione alla Dc e soprattutto al Psi, il suo partito, erano andate tangenti per ventisette miliardi. "Ma i giudici volevano i nomi, i nomi... E lui non si sentiva di tradire le amicizie" avrebbe detto la moglie Bruna "l'anima della mia anima", come l'ha chiamata Cagliari nelle lettere dolci e disperate dal carcere. Il presidente dell'Eni si uccise dopo centotrentatré giorni di carcere, un record anche per Mani pulite. Nonostante avesse deciso di non fare nomi, per Di Pietro e Ghitti poteva andarsene agli arresti domiciliari. Per Fabio De Pasquale, no. Questo pubblico ministero indagava sulle tangenti versate ai partiti da Salvatore Ligresti in segno di gratitudine per un colossale affare con l'Eni: polizze assicurative per i centoquarantamila [p. 160] dipendenti della holding petrolifera stipulate con la sua compagnia di assicurazioni, la Sai. De Pasquale era un magistrato con la fama di duro, al punto che la Camera dei deputati aveva definito "persecutorio" il suo atteggiamento contro gli onorevoli Altissimo, Sterpa, Del Pennino e Pellicanò. Due giorni dopo l'arresto a Ginevra di Giuseppe Garofano, l'uomo che custodiva i segreti Enimont, Cagliari chiese di vedere De Pasquale: non si sentiva più vincolato al segreto e parlò degli accordi tra Ligresti e il Psi per la ripartizione delle tangenti. Ma il magistrato non si accontentò. Durante l'interrogatorio affrontò il presidente dell'Eni in termini durissimi. E se ne andò in vacanza, dopo aver trasmesso al Gip Grigo un provvedimento di rigetto della richiesta di arresti domiciliari. Disse Vittorio D'Ajello, difensore di Cagliari: "Si è agito con una violenza inaudita. Un professionista serio non fa quello che ha fatto De Pasquale". E accusò il magistrato di aver promesso a Cagliari la scarcerazione e successivamente di essersi rimangiato l'impegno. De Pasquale negò, e il Consiglio superiore della magistratura non ebbe niente da obiettare. Ma intanto Cagliari, stremato da una carcerazione senza limiti, s'era ammazzato. E prima di farlo aveva scritto alla moglie lettere terribili. Ecco quella del 3 luglio, due settimane prima del suicidio: "L'obiettivo di questi magistrati, quelli della procura di Milano in modo particolare, è di costringere ciascuno di noi a rompere con quello che loro chiamano il nostro ambiente. Ciascuno di noi deve adottare un atteggiamento di collaborazione che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile...
Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve essere dunque precluso ogni futuro, quindi la vita, in quello che loro chiamano il nostro ambiente. Si vuole creare, insomma, una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l'altro complice infame della magistratura che è il sistema carcerario." In quattro mesi e mezzo di carcere, Cagliari non aveva voluto che la moglie e i figli andassero a trovarlo: "Non avevo nessuna idea del carcere" scrisse. "Ho scoperto che è un immenso canile." [p. 161] Come durante la Rivoluzione francese Il suicidio del presidente dell'Eni (e quello di Raul Gardini, che avvenne tre giorni dopo), turbò profondamente l'opinione pubblica, pure in larga parte favorevole a che i magistrati usassero le maniere spicce contro il sistema politico. (Scrisse Indro Montanelli che gli italiani si comportavano come le tricoteuses durante la Rivoluzione francese: passavano le giornate sotto la ghigliottina e quando sentivano sferragliare le catene di un condannato gridavano "A morte!" senza sollevare gli occhi dal lavoro a uncinetto, senza curarsi di chi fosse il malcapitato e di quali colpe fosse accusato.) I giornali americani, che avevano sposato completamente la causa del rinnovamento italiano, fecero all'improvviso marcia indietro. Scrisse "Time": "Come cani in un canile. Il suicidio di due industriali getta un'ombra sui sistemi d'indagine contro la corruzione". E "Newsweek" osservò che, in fatto di custodia cautelare, gli imputati in Italia non godono delle garanzie del diritto anglosassone: "La conseguenza è che i giudici di Milano hanno sistematicamente messo in prigione le persone indagate fino a farle confessare". (Mi disse in quei mesi Giovanni Agnelli: "Gli americani non ci capiscono. Noi teniamo in prigione la gente prima del processo e magari poi la scarceriamo. Loro fanno il contrario. Fino alla condanna si è liberi, spesso su cauzione, come nel caso di John Gotti. Dopo la condanna, il carcere si sconta sul serio".) Quel giorno, a tavola, Di Pietro era pallidissimo. Mi confidò che il suicidio di Cagliari l'aveva sconvolto: "Più di quello di Moroni, che pure mi colpì profondamente". Voleva salvare l'unità della procura, ma mi fece capire che il marchio doc di Mani pulite si limitava a cinque persone: Borrelli, D'Ambrosio, Davigo, Colombo e lui. De Pasquale, tanto per capirci, non c'era. Ed erano altra cosa dal Pool quei colleghi che giocavano in tutta Italia a travestirsi da Di Pietro e, non di rado, facevano grosse sciocchezze. Quando gli
comunicai di essere rimasto colpito dalle parole di Borrelli, secondo cui soltanto i "pentiti" potevano uscire dal carcere, non ebbe l'atteggiamento [p. 162] sfumato del nostro incontro avvenuto sette mesi prima, ma sposò interamente le tesi del capo. Nonostante quel 20 luglio fosse la giornata più nera per la procura di Milano, Di Pietro mi dette l'impressione di considerare Mani pulite una corazzata inaffondabile. Gli dissi che il sistema politico nato dalle macerie della Prima Repubblica - bianco, rosso o giallo che fosse - avrebbe ringraziato il regicida, ma lo avrebbe messo in condizione di non nuocere. "Non ci credo" mi rispose. Aveva ragione lui. Non lo turbava nemmeno la polemica avuta due settimane prima con il capo dello Stato. La procura milanese doveva essersi fatta la convinzione che se l'Eni era la cassaforte del Psi, l'Iri lo era della Dc. Sbagliava i conti, perché le possibilità di manovra (anche all'estero) della holding petrolifera e la sua struttura finanziaria erano enormemente superiori a quelle della holding industriale pubblica. Visto che ormai si stava scavando dappertutto, Di Pietro decise comunque di mettere sotto torchio quello che sei anni dopo sarebbe diventato un suo autorevole compagno di partito: Romano Prodi. Questi era stato richiamato da poco alla presidenza dell'Iri, che aveva già tenuto dall''82 all''89. E Di Pietro, domenica 4 luglio, lo convocò in procura per chiedergli a quali partiti il suo istituto avesse dato i soldi. La data festiva era stata scelta per ragioni di riservatezza. Ma un "uccellino" aveva allertato i cronisti, che sentirono uscire dalla porta dell'ufficio del magistrato urla che avrebbero annichilito un toro: "I soldi alla Dc chi glieli ha dati?". L'indomani mattina si sparse così la voce (falsa) che il presidente dell'Iri stava per essere arrestato. La Borsa andò a picco, mentre Prodi, indignato e con le lacrime agli occhi, varcava la soglia dello studio di Scalfaro al Quirinale per sfogarsi contro i metodi usati dai procuratori di Milano. Il racconto dovette essere convincente perché tre giorni dopo, intervenendo a un convegno, Scalfaro disse: "L'avviso di garanzia è diventato una condanna implacabile, il carcere deve essere l'eccezione e non la regola, e si debbono accelerare i tempi dei processi, perché gli inquisiti e l'opinione pubblica debbono avere certezze del diritto". [p. 163] Parole dure che, come tante altre della doccia scozzese inflitta per sette anni da Scalfaro all'opinione pubblica, ebbero sulla procura di Milano l'incidenza di una goccia sul marmo. Di Pietro, infatti, non mi parve per nulla turbato. Anche perché, come annunciavano vistose locandine nell'edicola vicina al ristorante, la
stampa giustizialista gli era accorsa in aiuto. "L'Espresso" pubblicava in copertina un fotomontaggio con l'immagine di un Di Pietro in catene portato via dai carabinieri. Titolo: Operazione Mani Legate. "L'Europeo" non era da meno: Contro Mani pulite usano un Oscar. Gardini: "La chimica sono io" "Buongiorno, sono Idina Ferruzzi..." La voce sembrava uscita dal memorabile documentario radiofonico di Sergio Zavoli, Clausura. Prima d'allora, le suore sepolte dietro una grata non avevano mai parlato. Zavoli ne carpì le voci senza volto, che sembravano per questo più belle e misteriose. Come la voce di Idina. Da dove veniva, quel pomeriggio di primavera del '99, per parlare di padre Pio, di cose nobili e benefiche? In quale eremo s'era ormai sepolta quella che fu, accanto al marito Raul Gardini, una delle donne più potenti e invidiate d'Italia? Quanti secoli erano passati da quella sera memorabile del luglio '90, in cui Idina aveva ricevuto in veste di padrona di casa a Caracalla gli ospiti del primo straordinario concerto di Pavarotti, Carreras e Domingo per i campionati mondiali di calcio? Eccola accanto a Raul, al fratello Arturo con Cristina Busi, al cognato Carlo Sama con la bella Alessandra Ferruzzi. Come "sparava" quella sera il sorriso bianchissimo e aggressivo di Raul Gardini. Sembrava che il mondo fosse ai suoi piedi. Cinque mesi prima, il 24 febbraio, aveva detto: "La chimica sono io. Ci ho messo uomini e soldi. E' bene che mi si ascolti e si creda in me". Appena tre anni dopo, il 10 agosto, si sarebbe scoperto che il buco del gruppo Ferruzzi era di 1165 miliardi: in Borsa il [p. 164] valore delle azioni precipitava da 1000 a 5 lire. Ma Gardini non avrebbe visto quello scempio: s'era ucciso venti giorni prima, il 23 luglio del terribile '93: un colpo di pistola alla tempia nella sua abitazione di Milano. La storia era cominciata il 15 dicembre 1988. Quella sera, nello studio del Tg1, intervistai Franco Reviglio e Raul Gardini, gli imperatori dell'Eni e della Montedison: annunciarono insieme e in diretta la nascita di Enimont e insieme tracciarono il ritratto della grande chimica italiana, finalmente competitiva a livello mondiale. Prima di entrare in studio, li ricevemmo nella stanza del direttore, Nuccio Fava. Fu allora che ci dissero con un po' d'imbarazzo: abbiamo ancora una cosa da sistemare. Uscimmo tutti e loro restarono soli.
S'erano dimenticati di firmare gli ultimi protocolli dello storico contratto: 40 per cento di Enimont all'uno, 40 all'altro, 20 per cento sul mercato. Come s'intuì subito, questo 20 per cento sarebbe stato la fonte d'ogni guaio. Sembrava messo lì per essere "scalato", e Gardini infatti lo scalò nel giro di un anno, annunciando infine: la chimica sono io. Già, e i partiti? Figurarsi se lo avrebbero lasciato padrone del campo. Mentre Pavarotti e i suoi amici gorgheggiavano a Caracalla, e mentre l'Italia perdeva il campionato del mondo di calcio, si combatteva sott'acqua una delle partite più furibonde per il controllo di fette immense di denaro e di potere. A fine anno Gardini, che voleva tutto, fu costretto a vendere la sua quota all'Eni per 2805 miliardi, sui quali venne pagata, anche giocando sugli interessi, la più colossale mazzetta nella storia della corruzione politica italiana: 150 miliardi ai cinque partiti di governo. La metà andò al Psi, 35 miliardi alla Dc, il resto a repubblicani, socialdemocratici e liberali. Ma Gardini non si arrese. Persa la chimica, soffiò la Fondiaria al controllo di Enrico Cuccia (che non lo perdonò) e cercò di tramandare ai propri figli la guida dell'impero. Ma Arturo Ferruzzi, Carlo Sama e le loro donne non ci stettero, e Gardini fu liquidato nell'agosto del '91 con 550 miliardi. Si sentiva tutt'altro che sconfitto. Lo incontrai, raggiante con la bellissima figlia Eleonora, all'inaugurazione della Scala, [p. 165] il 7 dicembre di quell'anno: sentiva aria di rivincita. Nemmeno cinque ore di Parsifal erano riuscite a prostrarlo. Era ancora felice nel '92, con il Moro di Venezia, perla della Coppa America. Un colpo di pistola alla tempia La tragedia scoppiò nell'estate successiva e fu legata alla enorme tangente Enimont pagata nel novembre del '90. Il 22 luglio 1993, il "Corriere" sparò questo titolo: Fondi neri. Gardini e i Ferruzzi sapevano tutto. E in occhiello: Panzavolta conferma le accuse di Garofano, conoscevano i canali segreti. Panzavolta - detto "Panzer" e Garofano - detto "il Cardinale" - erano i manager più importanti rispettivamente della Montedison e della Ferruzzi. Garofano, in particolare, conosceva tutti i segreti della colossale truffa ai danni dello Stato che fu l'affare Enimont. Si era lasciato arrestare in Svizzera il 13 luglio, dopo mesi di latitanza, e verosimilmente in seguito a una trattativa, visto che invece di finire a San Vittore andò nel carcere di Opera, altrimenti conosciuto come il Grand Hotel
Mani Pulite, dove i procuratori di Milano mandavano solo gente disposta a collaborare. Garofano era legato all'Opus Dei e strapazzò un incauto sostituto procuratore che, avendo scambiato Mani pulite per la Rivoluzione francese, chiese al "cittadino imputato" di dirgli quanti soldi aveva dato all'Opera. Di Pietro capì che la strada da seguire doveva essere un'altra e diventò il confidente processuale di Garofano, il quale fu una sorgente inarrestabile di notizie. In quel periodo, il segreto istruttorio fu sospeso: la pubblicazione sui giornali dei verbali d'interrogatorio faceva parte della strategia investigativa. Comprando "L'Espresso" ogni settimana, gli stessi avvocati potevano risparmiarsi le spese per la copia degli atti. Per Garofano si fece un'eccezione. I verbali furono passati al settimanale economico "Il Mondo". Garofano, dunque, aveva raccontato a Di Pietro che nel corso del '91 un'operazione immobiliare fatta da una società del gruppo Ferruzzi, la Simmont, aveva procurato un [p. 166] "differenziale" tra gli ottanta e i cento miliardi da destinare alla "questione chimica". Questa "disponibilità extracontabile" era stata procurata da Garofano insieme con Carlo Sama, cognato di Gardini e suo braccio destro, e Sergio Cusani, un brillante finanziere di fiducia del Psi. Il denaro era stato poi utilizzato "per impegni assunti dal Gardini con i vertici dei partiti di governo relativi alle vicende chimiche". "Il Mondo" uscì venerdì 23 aprile, ma la sera precedente il succo dell'articolo e delle rivelazioni di Garofano fu anticipato dalle agenzie di stampa. Alle 20,30, la segretaria consegnò a Gardini i dispacci. "Tutto come previsto" disse lui. L'indomani, il Contadino - così veniva chiamato Gardini per il formidabile business agricolo lasciatogli dal suocero Serafino Ferruzzi e per i suoi modi spicci - lesse prestissimo i giornali, si stese sul letto, estrasse dal comodino la sua Browning 7,65 e si uccise con un colpo alla tempia. Come nella sequenza finale di un film, mentre il sangue macchiava l'accappatoio bianco di Gardini, il telefono squillò a lungo. Gli avvocati volevano avvertire il loro cliente di prepararsi: l'ordine di carcerazione era stato firmato. E fu eseguito poco dopo per Sama, Cusani e Vittorio Giuliani Ricci, presidente di un'altra società del gruppo. "Gardini" mi raccontò Cusani quando lo incontrai a San Vittore "confidava a me, e soltanto a me, i suoi segreti. Lei lo ha conosciuto? Le pareva il tipo che andava a raccontare gli affari suoi ai manager? Sa come li chiamava lui i manager? Cani da riporto. Per questo, Sama e Garofano sono innocenti. Ero io il suo unico
confidente. Con il suicidio ha fatto una scelta di silenzio e ha scaricato tutto su di me." Lei se l'aspettava? "No." Perché l'ha fatto? "Secondo me, per la figlia Eleonora. Per caricare su di sé tutta l'onta della vicenda, per salvaguardare la famiglia e in particolare Eleonora che stravedeva per il padre." Si è detto che un uomo orgoglioso come lui non avrebbe retto all'umiliazione del carcere. [p. 167] "No, non è vero. A me tante volte lui ripeté che voleva dare battaglia. All'inizio diceva: me ne vado all'estero e da lì pianto un casino. Voleva giocare la partita da protagonista." E invece? "Invece la procura l'ha tenuto a bollire: i suoi avvocati chiedevano incontri e i procuratori li negavano. Gardini era diventato un personaggio comodo, spendibile. La spaccatura della famiglia Ferruzzi lo aveva indebolito, ma anche da ex potente lui era famoso nel mondo. Per i media internazionali il suo sarebbe stato l'arresto del secolo. Gardini amava la caccia in botte e quando passava l'anatra lui diceva che era una bella preda. Per la procura di Milano, era diventato lui una bella anatra da buttar giù." "Non era più un potere forte" Le aveva mai parlato dell'ipotesi di finire in carcere? "Di finire in carcere no, ma pensava di poter affrontare seriamente i problemi giudiziari. Lui era convinto di subire lo stesso trattamento di Romiti e De Benedetti. Pensava che la procura si sarebbe accontentata di un memoriale di poche pagine presentato con decoro in questura. Credeva, insomma, che sarebbe stato rispettato il copione classico di Tangentopoli: salvaguardare l'economia e i poteri forti, che sono i produttori di denaro, e colpire gli intermediari politici." Ma per Gardini non andò così. "No, perché Gardini non aveva valutato la cosa più importante. Non era più un potere forte dopo la spaccatura della Ferruzzi." Secondo Cusani, la procura di Milano arrivò a Gardini proprio mettendo sotto torchio i veri poteri forti. Borrelli, mi raccontò, fece propria una frase pronunciata da Francesco Greco, il sostituto procuratore specializzato in reati finanziari: "Abbiamo acceso un faro su Mediobanca". Bastarono queste sei parole a gettare nel panico
il capitalismo italiano: quello vero, quello che conta, quello che faceva di Mediobanca [p. 168] da quarant'anni il salotto buono dove veniva decisa ogni operazione e ogni alleanza importante. Enrico Cuccia, per l'intera seconda metà del secolo, è stato il venerato custode di tutti i segreti dell'economia italiana. Eppure, i magistrati di Mani pulite non gli hanno proposto nemmeno un contratto di consulenza. Mi raccontò Cusani: "Sa come rispose Mediobanca alla storia del faro? Dando a Guido Rossi [il principe degli avvocati d'affari] il consenso perché mollasse l'osso della Ferruzzi. In questo modo venivano lasciati in pace i poteri forti". La Ferruzzi non lo era più. E meno che mai lo era la pur ricchissima Gardini srl. Così, Gardini scrisse "Grazie" su un biglietto per la famiglia, e se ne andò. Poco prima del suicidio, un notissimo industriale che lo conosceva bene mi disse: "Per anni, a ogni mossa degli avversari, Gardini ha rilanciato. Sempre e sempre più in alto. Gli avversari non se la sentivano di seguirlo su quella strada e non sono mai andati a vedergli le carte. Così lui vinceva sempre. Carlo Sama, subentrato al suo posto dopo la scissione familiare, aveva una diversa struttura imprenditoriale e una diversa fama al tavolo da gioco. Quando si è visto sommerso dai debiti (il buco Montedison del '92 fu di trecentoventi miliardi), ha provato a rilanciare. Ma stavolta gli altri hanno chiesto subito di vedere le carte. Chi può dire che cosa sarebbe successo se Gardini fosse rimasto alla guida del gruppo? Forse avrebbe rilanciato anche stavolta, che aveva in mano le carte peggiori. Forse gli altri avrebbero avuto paura ancora una volta di vedere. E forse lui sarebbe riuscito a passare il guado, come nelle paludi della sua terra". Intrigo internazionale su Enimont Quando risento Cusani nell'ottobre del '99, sta scontando l'ultima parte della pena con l'affidamento in prova al servizio sociale. E' tornato al suo lavoro di finanziere occupandosi dell'Agenzia della solidarietà per i detenuti da reinserire [p. 169] attivamente nella vita produttiva. "Era tempo che lei ci lavorasse in modo serio" gli ha detto il procuratore D'Ambrosio, che ne sostiene gli sforzi. "Quando sarà di nuovo un uomo libero, questo sarà il suo lavoro a tempo pieno." A dieci anni dalla grande guerra della chimica, Cusani è un
testimone privilegiato per ricostruire retroscena mai conosciuti compiutamente. "Quando il presidente dell'Eni Gabriele Cagliari e il consigliere Antonio Sernia seppero dall'Ansa che la Ferruzzi Finanziaria aveva deciso un aumento di capitale di duemilacinquecento miliardi, si agitarono moltissimo. Avevano capito che Gardini voleva comprare la loro quota in Enimont. Il loro 40 per cento valeva, infatti, quanto la quota di Gardini. Duemilacinquecento miliardi più trecento come premio di maggioranza. La stessa quota che avrebbe pagato l'Eni più tardi, frutto di una media fra tre perizie. La novità è che Gardini avrebbe comprato l'intera Enimont senza sborsare materialmente una lira. Come? Lui aveva acquisito con un'Opa da duemila miliardi il controllo totalitario di Himont (chimica fine) ed Erbamont (farmaceutica). Queste due aziende erano valutate tra gli otto e i dieci miliardi. Gardini voleva conquistare il 40 per cento dell'Eni in Enimont e conferire a Enimont le due società, coprendo così un aumento di capitale di diecimila miliardi. I sindacati non avrebbero obiettato niente: a fronte della smobilitazione nel settore dei fertilizzanti che costava cento miliardi di perdite all'anno, ci sarebbero state nuove prospettive di sviluppo. Enimont sarebbe diventata leader mondiale in quattro settori chiave." Non era un banchetto troppo grosso per la pancia di Gardini? "Nel momento in cui avesse acquisito il controllo totale di Enimont, Gardini avrebbe rivenduto la quota Eni agli americani della Dow Chemical e ai francesi della Elf. Garofano aveva già incontrato il presidente europeo della Dow, mentre il secondo contatto era stato favorito dal finanziere Gianni Varasi. La finanza internazionale era interessatissima a questa crescita di Enimont da società italiana, ancora troppo legata a [p. 170] vincoli territoriali e clientelari, a grande gruppo leader a livello mondiale. Per tale motivo, Garofano riuscì a negoziare con estrema facilità negli Stati Uniti un prestito di due miliardi di dollari." Quali interessi specifici avevano americani e francesi? "La Dow era già proprietaria del 5 per cento delle azioni Montedison, mentre la sua concorrente Union Carbide era legata all'Eni. La Himont aveva brevettato un procedimento molto più sofisticato di quello usato dalla Union Carbide per la produzione del polipropilene: per questo la Dow desiderava partecipare all'affare Enimont. I francesi della Elf volevano, invece, entrare in Italia per far concorrenza all'Eni e all'Agip. Lo scontro di interessi era enorme e la massoneria americana proteggeva fortemente gli interessi della Union Carbide."
Cinquecento miliardi per i politici Gardini aveva il fiato per gestire una simile operazione? "Se qualcuno gli avesse garantito tranquillità per sei mesi, sì. Le perplessità di Garofano nascevano proprio dal fatto che per rivendere la quota Eni agli americani e ai francesi magari sarebbero occorsi sei mesi. In qualche momento, i debiti complessivi del gruppo sarebbero stati di venticinquemila miliardi. Gardini sarebbe entrato in un canyon: Garofano aveva paura che qualcuno gli tirasse addosso dei massi..." L'affare, soprattutto per quei tempi, era comunque colossale. "Era un affare da quaranta, cinquantamila miliardi. Per portarlo avanti Gardini era disposto a finanziare il sistema politico con cinquecento miliardi. Non li avrebbe tirati fuori tutti insieme, certo, ma un po' alla volta..." Qual era la strategia dell'Eni? "Prendere Gardini per la gola. Con la crisi del Golfo persico, Enimont perdeva novanta miliardi al mese. In quel momento, l'Eni guadagnava tremilacinquecento miliardi all'anno: per Cagliari ripianare la propria quota di perdite era uno scherzo. [p. 171] Per Gardini, no. Non vanno sottovalutati, inoltre, dopo il fallimento dell'operazione Telit con Marisa Bellisario - manager pubblico rifiutato dal sistema privato -, l'angoscia e il desiderio di rivalsa dell'industria di Stato. Gardini aveva in mente di sbattere fuori tutti i manager dell'Eni e dell'Agip, e questo loro lo sapevano. Anche se poi li avrebbe in qualche modo ricollocati concedendo l'onore delle armi, agli altri la prospettiva non faceva piacere." Nacque così l'idea di far sequestrare le azioni di Gardini. "L'idea di Pompeo Locatelli - commercialista di fiducia di Gabriele Cagliari - e dell'avvocato Ledda fu geniale. Per dimostrare equità, chiesero il fermo temporaneo delle azioni Eni e Montedison. Era l'8 novembre 1990. Il provvedimento fu adottato immediatamente dal presidente vicario del tribunale civile di Milano, Diego Curtò, che nominò custode giudiziario delle azioni l'avvocato Vincenzo Palladino, vicepresidente della Banca commerciale italiana. Gardini restò sconvolto perché i suoi avvocati, che pure temevano un colpo di mano, gli dissero che il tribunale era presidiato. Quando andarono a depositare una memoria, Curtò disse: "Volete tornare lunedì per discutere del sequestro delle azioni?". Era finita." E Gardini?
"Quella notte stessa decise di vendere. Mi chiamò all'ultimo piano del palazzo romano che occupava all'Ara Coeli e mi disse: adesso dobbiamo preoccuparci di difendere il fatturato che ci rimane. Erano trentamila miliardi. Gardini temeva soprattutto per la sorte di Eridania: per metterlo in ginocchio sarebbe bastato che il ministero dell'Agricoltura avesse giocato sul prezzo dello zucchero." "Diamo la paghetta ai politici" E lui mise mano al portafoglio... "Disse: ormai con Enimont il sistema politico può tirare su tutti i soldi che vuole. Gli abbiamo già dato la greppia. Pensi a quanto s'era pagato per l'oleodotto di Marghera e per il [p. 172] cracker di Brindisi, che era costato milleduecento miliardi, il triplo del previsto. Dobbiamo dare ai politici la paghetta, piano piano, per tenerli sulle spine. Fu dato un sacco di soldi a un sacco di gente. Ma l'ottica non era quella di pagare per la vendita di Enimont: lì, ormai, i politici potevano mangiarci quanto volevano." Quanti soldi ha dato complessivamente Gardini al sistema dei partiti? "Abbiamo detto che la tangente Enimont era tra gli ottanta e i novanta miliardi. Una fetta importante di quella provvista restò a disposizione di Gardini. Altri quindici miliardi servirono a finanziare la campagna elettorale del '92, mentre Giuseppe Berlini il banchiere estero della Ferruzzi - credo che abbia speso sette-otto miliardi per ottenere da quattro governi lo sgravio fiscale sulla nascita di Enimont che doveva mettere Montedison nelle stesse condizioni di Eni." Ha raccontato queste cose alla magistratura? "Le ho raccontate nel '93 al pubblico ministero di Brescia, Guglielmo Ascione. Non mi pare che fosse interessato ai grandi meccanismi internazionali. Voleva verificare se il presidente del tribunale di Milano, Piero Pajardi, era a conoscenza della corruzione che aveva portato Curtò a decidere come decise." Dopo la deposizione di Cusani a Brescia, fu arrestato l'avvocato Palladino. Per alcune settimane di lavoro, Palladino incassò dalle parti parcelle per sette miliardi, tre dei quali in nero. In manette, rivelò di aver corrotto Curtò con quattrocentomila franchi svizzeri. Curtò fu arrestato a sua volta e condannato, aprendo uno squarcio inquietante sul ruolo della magistratura in una delle vicende finanziarie e politiche più delicate e tuttora più oscure della
nostra storia recente. Trecento milioni a un giudice fecero saltare un'operazione di almeno quarantamila miliardi. Chiedo a Cusani: Di Pietro, il grande accusatore del suo processo, era interessato ai retroscena internazionali? "No. Lui disse a Giuliano Spazzali, il mio avvocato: la storia non mi riguarda, io lavoro sulle carte che ho in mano. In [p. 173] realtà, a Mani pulite premeva fornire carne fresca ai mass media per tenere alta la pressione." Notava qualche differenza tra i magistrati di Mani pulite? "C'era chi pensava alla carriera in toga, come Greco, Davigo, Colombo. Ho la sensazione che in qualche momento loro volessero tenere Di Pietro un passo indietro. E Di Pietro, che con i suoi metodi da commissario di polizia voleva trasformare i testi in dichiaranti, desiderava capitalizzare e sfruttare la sua popolarità in altri campi. E' un peccato che la vicenda Enimont non sia stata approfondita." La procura di Milano trasformò il processo Cusani in un processo alla classe politica di governo. Il finanziere in carcere stette zitto. E nonostante ogni imputato abbia il diritto di farlo e abbia perfino diritto di mentire, i procuratori di Milano non accettavano che questo avvenisse. La carcerazione preventiva, il processo e la condanna a Cusani - peraltro colpevole di un reato grave - non hanno precedenti nella storia giudiziaria italiana. "Quando i magistrati di Milano hanno avuto bisogno di fare un processo esemplare" mi disse Cusani "chi è stato scelto tra la folla di Tangentopoli? Un soggetto-oggetto eclatante di suo: ex sessantottino, amico di Craxi, amico di Gardini. Insomma, ero perfetto. E così hanno deciso per il giudizio immediato." Craxi e Forlani in aula "Craxi Benedetto, detto Bettino. Nato a Milano il 24 febbraio 1934." Cominciò così, alle 16,25 del 17 dicembre 1993, uno dei momenti cruciali nella storia della Repubblica. Il processo Cusani doveva essere il giudizio sommario sulla Prima Repubblica. E lo fu: per la rapidità dei tempi, l'eccellenza degli imputati (tutti i segretari e gli amministratori dei partiti di centrosinistra), l'enorme impatto mediatico (la Tv riprese e trasmise gli interrogatori più importanti), l'esemplarità delle sentenze esemplari. Naturalmente, la materia prima non mancava, visto che era in discussione la più grossa tangente della storia [p. 174] repubblicana. Ma il clima non era certo quello dell'accertamento e della condanna di un metodo di
finanziamento della politica in vigore dal '74, quando lo scandalo dei petroli proibì il finanziamento occulto dei partiti e ne stabilì quello pubblico e ufficiale. Il processo Cusani fu gestito per umiliare e dare in pasto a un'opinione pubblica giustamente smarrita e indignata quelli che appena qualche mese prima erano indiscutibilmente i padroni del Palazzo. Negli accordi del Caf, Arnaldo Forlani sarebbe dovuto diventare nel '92 presidente della Repubblica e Craxi sarebbe dovuto tornare alla presidenza del Consiglio. Eccoli, invece, entrambi "imputati di reato connesso" sotto il torchio del magistrato-vendicatore per eccellenza, il pubblico ministero Antonio Di Pietro. La differenza tra le due deposizioni fu abissale e assai diverso fu il comportamento del magistrato. Con Craxi, Di Pietro fece lo sparring partner, l'allenatore-stimolatore rispettoso: non una domanda fuori posto, nessun atteggiamento inquisitorio, nessun tentativo di approfondire i segreti finanziari del Psi (per esempio, sui fondi esteri). Il leader socialista apparve d'altra parte sicuro di sé: sparò sui finanziamenti occulti del Pci (fino all''81), rivelò i dettagli sulla rete clandestina di ricetrasmittenti del partito installate dal Kgb e con esso direttamente collegate, disse che documenti d'archivio sovietici confermavano che questa rete fu smantellata in gran fretta dopo l'attentato al papa (maggio dell''81) nel timore che fosse scoperta. Confermò quel che aveva denunziato l'anno prima in Parlamento: i bilanci dei partiti erano tutti falsi, a cominciare da quelli del suo. Ma aggiunse sorridendo: "Qualcuno crede che il ravennate Gardini, con interessi diffusi in tutta l'Emilia, non finanziasse il Pci? O che il presidente del Senato Spadolini, che per anni è stato segretario del Pri, abbia avuto sempre un finanziamento regolare e che le irregolarità siano state commesse soltanto dal vecchio e dal giovane La Malfa? O che il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, per anni ministro degli Esteri del Pci, non si accorgesse dei rapporti tra gli imprenditori legati al [p. 175] suo partito e quelli dei paesi dell'Est?". Quando Di Pietro gli disse: "Un migliaio di imprenditori sono venuti da me dicendo di essere concussi", Craxi osservò: "Mentono. Loro potevano spaventare, non essere spaventati. Erano proprietari di banche e giornali. Hanno sostenuto la stabilità del governo e l'amicizia con l'opposizione". Parlò dei contributi al Psi della Fiat e della Ferruzzi, ricordò di aver vietato a Balzamo di accettare un contributo elettorale della Olivetti in cambio di affari con l'Iri. Respinse come "maxi balla" la storia che il Psi potesse aver avuto
una tangente da settantacinque miliardi per l'affare Enimont. Invitò i magistrati a indagare sul proprio patrimonio. Poco mancò che se ne andasse tra gli applausi. Del tutto opposto l'andamento dell'interrogatorio a Forlani. Scrisse Andrea Pamparana nel suo libro dedicato al processo (Mondadori, 1994): "Forlani è tesissimo, Di Pietro particolarmente aggressivo, il pubblico assetato di vendetta, al punto che in diverse occasioni il presidente Giuseppe Tarantola sarà costretto a intervenire. Nelle immagini del processo Cusani il volto terreo di quell'uomo un tempo potente, la bava alla bocca e lo sguardo impaurito, sono tra i ricordi più nitidi. Di Pietro vuole dimostrare che un segretario politico di un partito non poteva non sapere quanto denaro occorreva per la gestione della mastodontica macchina politica, né poteva ignorare che i finanziamenti che giungevano alla segreteria amministrativa erano prevalentemente illeciti". Mi raccontò più tardi Forlani: "Ricordo che quando qualcuno andava da De Gasperi dicendo che voleva aiutare il partito, lui lo indirizzava a Restagno, l'amministratore. Si pensi a quanto erano forti i flussi finanziari che arrivavano al Pci, che doveva tenere in piedi un'organizzazione ben più poderosa della nostra. Se non ci fossimo mantenuti e avessero vinto i comunisti, gli storici avrebbero accusato di insipienza una classe politica che, pur disponendo di un grande potere, non aveva saputo contrapporsi al Pci... Anche al processo volevo far capire la complessità di questo quadro, ma in quelle aule si attaccano a una virgola per impiccarti". [p. 176] Forlani sbagliò perché non seppe sintonizzarsi sulla lunghezza d'onda dell'opinione pubblica. Chiunque l'abbia incontrato per pochi minuti sorride all'idea che sia capace di imbastire un qualunque discorso corruttivo. Ma al processo - dove la sentenza di colpevolezza era scontata - avrebbe dovuto fare come Craxi: rispondere a testa alta. Ci sono stati finanziamenti irregolari, sapevo che il partito viveva di quelli e che le più importanti imprese del paese collaboravano volentieri senza che nessuno le costringesse, i dettagli li conosce il segretario amministrativo. Non lo fece, pronunciò troppi "Non so... non ricordo...". E l'immagine di un leader onesto e capace ("Forlani è una persona perbene" mi disse una volta Agnelli) resta fissata nella memoria del decennio come quella di un uomo impaurito con la bava alla bocca. Citaristi, trent'anni e nove mesi
A metà ottobre del '99, Severino Citaristi ricevette una buona notizia, per la prima volta dal '92. Il tribunale di sorveglianza di Brescia gli rinviava al 2002, per gravi ragioni di salute, l'esecuzione di una lunga pena detentiva. Citaristi aveva settantotto anni e un tumore. Era stato segretario amministrativo della Dc dall''86 al '93, con tre segretari tanto diversi tra loro come De Mita, Forlani e Martinazzoli. Nessuno gli ha mai contestato di essersi intascato una lira, ma è l'uomo che ha riportato le condanne di gran lunga più pesanti di Tangentopoli. "Tanti anni di carcere, certo. Quanti? Secondo me, circa ventisei..." Glielo dico io quanti sono: trent'anni, nove mesi e dieci giorni. Sedici anni sono già definitivi, sugli altri pende l'appello. Nove processi debbono essere ancora celebrati ed è improbabile che si concludano con un'assoluzione. Se guardiamo alla media delle condanne ricevute finora, quest'uomo potrebbe totalizzare tranquillamente mezzo secolo di prigione. "A questo si aggiungano" mi racconta Citaristi "sei miliardi e quattrocento milioni, perché dovrei pagare [p. 177] personalmente imposte e multe sui contributi illeciti, e un paio di miliardi per altre ammende." Non credo gliene importi nulla: non fosse bastata Tangentopoli, la sua vecchiaia è stata distrutta dall'incidente aereo che nel '98 gli ha portato via la figlia e il nipotino. Erano tornati in Italia per Pasqua, il nonno aveva portato il ragazzo a Cervinia perché voleva imparare a sciare. Il lunedì li accompagnò a Linate. Volo per Parigi, poi per Bogotà, poi per Quito. Ma a Quito non arrivarono mai. Della personale onestà di Citaristi nessuno ha mai dubitato: glielo disse anche Di Pietro. Ma, a quanto pare, non è un'attenuante. Motivandone la condanna per il processo Eni-Sai, il presidente della Corte d'appello di Milano, Renato Caccamo, scrisse: "Che altro magistrato possa aver definito Citaristi persona integerrima non interessa niente a questa Corte. Anzi, questa Corte è di avviso diametralmente opposto. Non dà infatti particolare rilievo alla circostanza che Citaristi non si fosse messo niente in tasca, ma avesse passato tutto al partito. Resta il fatto che il denaro proveniva da indecenti intrallazzi di ogni genere... Citaristi non appare meritevole pertanto delle attenuanti generiche". "Io ho sempre ammesso il finanziamento illecito al partito" mi racconta oggi Citaristi "ma la gran parte delle condanne mi ha riconosciuto la corruzione. Sa con quale formula? "Per aver concorso
con pubblici ufficiali ignoti oppure con pubblici ufficiali da identificare a favorire quella o quell'altra impresa." Ne avessero trovato uno di pubblico ufficiale. Non era possibile. Io non ho mai corrotto nessuno..." Quando andai a trovarlo la prima volta nell'estate del '94 al passo della Presolana, sulle Prealpi orobiche, Citaristi aveva settantatré anni e settantaquattro procedimenti a carico. "Mangio, passeggio, prego" mi disse. "Ma il mio pensiero è sempre lì. La sera non riesco a guardare i telegiornali. Ho il terrore di sentire il mio nome." Mi rifece i conti del partito: "La Dc costava dai sessanta ai settanta miliardi all'anno. Il Pci? Con esattezza non lo so, ma molto più di noi. Lo Stato dava alla Dc ventiquattro miliardi. [p. 178] Altri tredici o quattordici venivano dal tesseramento, e qualcosa dovevamo lasciare alle sezioni e ai comitati periferici. Soldi venivano poi dalle manifestazioni. Due o tre miliardi erano il frutto di contributi che gli imprenditori accettavano di iscrivere in bilancio. Il resto, diciotto-venti miliardi all'anno, veniva da contributi irregolari. Noi, naturalmente, avremmo preferito contributi alla luce del sole: non dovevamo pagarci le tasse e saremmo stati tranquilli. Ma gli imprenditori ci dicevano: capiteci, dobbiamo mantenere buoni rapporti con tutti...". "Mi mossi solo per De Benedetti, Sama e Gardini" Citaristi riceveva gli imprenditori nel suo ufficio a piazza del Gesù. Nessuno ha raccontato di aver subito minacce o ricatti ("Tranne un paio di casi, in cui non fu fornita peraltro alcuna indicazione precisa"), tutti lo descrivono come un signore assai garbato. "Mi sono mosso soltanto per tre persone" mi disse. "Andai a trovare De Benedetti nei suoi uffici romani a piazza di Spagna, Sama nella sede della Montedison all'Ara Coeli, Gardini al Grand Hotel. Sama mi consegnò i contributi: una volta tre miliardi, un'altra uno. De Benedetti e Gardini ce li accreditarono su conti esteri: il primo poco più di un miliardo, il secondo due." La Fiat non aveva bisogno di esporsi direttamente: provvedevano le sue imprese di costruzioni, come la Cogefar Impresit. Ogni tanto, Citaristi riferiva al segretario del partito. Prima che scoppiasse Tangentopoli, mi racconta, gli dicevano: verrà da te Tizio; oppure: va a trovare Caio. Quando l'amministratore illustrava l'andamento del bilancio, non entrava nei dettagli, spiegava solo:
abbiamo avuto tanto dallo Stato, tanto dal tesseramento e dalle manifestazioni, tanto da finanziamenti irregolari. "Gli imprenditori chiedevano loro di essere ricevuti, io non li conoscevo. Erano abituati a dare contributi, continuavano a darli. Per loro il vantaggio era duplice. Avevano [p. 179] interesse a mantenere in piedi un sistema politico che gli consentiva di sopravvivere, e questo sistema si reggeva sui partiti. E poi chiedevano segnalazioni per farsi pagare presto i lavori. Un conto è vedersi saldata una fattura da venti miliardi in un mese, un altro è aspettare un anno. Chiedevano inoltre raccomandazioni per poter partecipare alle gare d'appalto. Non ho mai detto a nessun imprenditore: se non paghi non vinci. Non era nei miei poteri e nemmeno nel mio temperamento. "Dove abbiamo sbagliato? Nella certezza che i partiti avrebbero potuto seguitare sulla loro strada - la strada vecchia indipendentemente dal cambiamento della società. Dopo la caduta del Muro di Berlino, abbiamo continuato con i vecchi sistemi - privilegi, lottizzazioni, mantenimento dei vecchi apparati - anche se ne mancava ormai il fondamento politico. Eppure ancora non mi rendo ben conto del perché Tangentopoli sia scoppiata soltanto nel '92. Anche gli uscieri sapevano che i partiti vivevano di contributi irregolari, come tutti sapevano che nella Guardia di finanza qualcosa non funzionava. E allora? Motivazioni politiche? Francamente non so... "Tutti mi rispettano, certo, nessuno mi contesta. Dicono che Citaristi è un galantuomo. Quel che mi angustia è la scarsa solidarietà del mio partito..." Citaristi ha raccontato la sua storia a Enzo Carra, che pubblica alla fine del '99 da Sellerio un libro su di lui. Carra è stato il portavoce di Forlani: fu portato in aula in ceppi e condannato. Aveva rubato? No. Aveva corrotto? No. Si rifiutò di "ammettere di aver sentito parlare di una tangente. Magari nel "cesso" di piazza del Gesù, come sospettò Di Pietro. Per questo, se le sue foto non saranno messe in ordine negli archivi, tra qualche anno potranno essere confuse con quelle dei più pericolosi boss di mafia. L'arresto di Carra sarà ricordato anche perché fu essenziale per radicare a Milano la competenza, assai dubbia, del processo Enimont. [p. 180] Nobili, il silenzio e la condanna La sera stessa dell'assoluzione dall'accusa di aver fatto ammazzare Mino Pecorelli, nel settembre del '99, Giulio Andreotti ricevette un
vecchio amico andato a felicitarsi di persona. Era Franco Nobili. I due si conoscono da cinquantasei anni: fecero insieme attività clandestina dall'agosto del '43. Nobili, diciottenne, in divisa dell'Ordine di Malta, con la complicità di alcuni ufficiali italiani distribuiva armi agli antifascisti e stampa clandestina. Il 4 giugno 1944, giorno della liberazione di Roma, fece parte con Andreotti della redazione improvvisata che pubblicò il primo numero del "Popolo" fuori della clandestinità. Nobili, di cinque anni più giovane di Andreotti, non entrò mai in politica e fece l'imprenditore: come presidente della Cogefar, prima che questa entrasse nell'orbita Fiat, guidò per decenni la principale impresa italiana di costruzioni internazionali. Quando alla fine dell''89 Andreotti volle sostituire Romano Prodi, da sette anni alla guida dell'Iri, ci mandò Nobili. E l'incarico gli fu fatale. Nobili fu arrestato nella primavera del '93 per questa dichiarazione dell'ingegner Fulvio Tornich, amministratore delegato dell'Italimpianti (una delle quattrocento società del gruppo Iri) verbalizzata dal pubblico ministero Colombo: "Nei primi mesi del '90, non ricordo esattamente dove - mi pare non presso l'Iri, ma nel corso di qualche convegno - riferii a Nobili che esistevano rapporti con Enel, che c'era una certa ambientalità e che c'erano da assumere impegni. Nobili ne prese atto come se fosse assolutamente scontato che si dovesse pagare. Io non ricordo esattamente che cosa mi rispose Nobili, non mi ricordo nemmeno se mi rispose a parole o con cenni, fatto sta che non solo non si stupì di quel che gli dicevo, non solo mi diede l'impressione di essere perfettamente al corrente dell'abitudine, ma io mi considerai autorizzato a disporre il pagamento che mi era stato richiesto". In carcere, Nobili ricevette la visita prima del giudice Ghitti e poi del sostituto procuratore Colombo. Nobili fece mettere a [p. 181] verbale la sua segnalazione alla magistratura della pratica sospetta di Italsanità (una tentata truffa ai danni dell'Iri per un programma di case di riposo). A ciò si sarebbe aggiunta la testimonianza di Giuliano Graziosi, amministratore delegato della Stet: Nobili aveva ordinato di rifiutare lavori per i quali si sarebbe dovuta pagare una tangente sollecitata da Giuseppe Parrella, dominus della telefonia di Stato. L'incontro fra Nobili e Di Pietro avvenne dopo un mese di detenzione. Sei anni più tardi, l'ex presidente dell'Iri conserva ancora una copia del verbale piegata nel portafoglio. Il merito dell'interrogatorio è raccolto in poche righe: Nobili non ricevette
alcuna contestazione, si limitò a ribadire che nessuno gli aveva mai detto nulla delle ragioni per cui si trovava a San Vittore o altre cose simili. Nobili era entrato all'Iri il 5 dicembre 1989. L'amnistia, che si rivelò provvidenziale per la Tangentopoli pre-Tangentopoli, aveva sanato tutto quello che era avvenuto fino al 29 ottobre 1989. Tornich non ricordava la data dell'incontro con Nobili, ma la collocava comunque dopo l'amnistia, anche se l'appalto Enel all'Italimpianti era stato aggiudicato nel maggio dell''89. Estraneo per forza di cose a ogni trattativa (presidente dell'Iri era allora Prodi), Nobili veniva arrestato perché un suo dirigente s'era sentito silenziosamente autorizzato a pagare una tangente postuma. Religiosissimo, a San Vittore lesse della persecuzione subita padre Pio per opera di Agostino Gemelli e si mise tranquillo. Riuscì a trascinare a messa anche Roberto Cappellini, segretario cittadino del Pci, detenuto pure lui, che testimoniò: "Nobili ci ha insegnato in carcere la dignità dell'uomo". Scrisse molto e ricevette tremilacinquecento lettere di solidarietà. Sopportò una lunga trasferta in cellulare fino a Salerno, dove lo tennero in prigione e poi lo rinviarono a giudizio per un appalto che non poteva aver assegnato lui, perché non era ancora arrivato all'Iri (sarebbe poi stato assolto). E quando lo riportarono a San Vittore, dovette aspettare il suicidio di Cagliari e di Gardini perché lo mandassero agli arresti domiciliari [p. 182] dopo settantasette giorni di carcere, senza che fosse intervenuto alcun fatto nuovo. Nei sei anni successivi, l'accusa contro Nobili non trovò alcun riscontro. Tornich, che sarebbe stato condannato per altri episodi corruttivi, in questo caso patteggiò la pena e uscì dal processo. Convocato all'udienza di Nobili, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Nobili ha sempre escluso l'incontro tra loro e ha accertato che in nessuna sede Iri si parlò mai del contratto per il quale Tornich - si seppe poi - versò ai partiti seicento milioni di lire. La sola parola di quest'ultimo su un incontro di cui si ignorano il luogo e la data, e in cui Nobili avrebbe risposto con il silenzio, è valsa all'ex presidente dell'Iri una condanna (gennaio del '99) a due anni e sette mesi per corruzione e illecito finanziamento ai partiti politici. Ricorrendo in appello nell'ottobre successivo, i difensori hanno chiesto che venga sentito Romano Prodi, suo predecessore, in carica al momento della concessione dell'appalto per cui è stata pagata la tangente. Per quanto se ne sa, nemmeno a lui Tornich disse niente.
Darida, Guardasigilli risarcito Quattro giorni dopo Nobili, fu scarcerato il suo vicino di cella: Clelio Darida, già sindaco di Roma e ministro di Grazia e Giustizia. Darida, che fu poi assolto e risarcito con cento milioni per la lunga e ingiusta carcerazione subita, mi raccontò di essersi sentito una specie di "Caritas della tangente" perché avrebbe commesso i suoi reati senza averne tratto alcun profitto, né personale, né politico. Nessuno lo accusava infatti di aver intascato una lira per conto proprio o altrui. Il capo dell'Ufficio romano di rappresentanza della Fiat, Umberto Belliazzi, aveva detto che, incontrandolo a un ricevimento, da lui avrebbe raccolto le lamentele dei partiti per la taccagneria della Fiat Impresit, che pure aveva vinto un appalto per la metropolitana di Roma. Secondo i magistrati milanesi, Darida era "l'ideatore [p. 183] dello schema di ripartizione" delle tangenti, ma la cosa suonò subito singolare perché l'ex sindaco di Roma, potentissimo negli anni Settanta e potente fino alla metà degli anni Ottanta, con l'arrivo di Vittorio Sbardella a controllare per conto di Andreotti la politica romana, dall''88 contava quanto una scartina a briscola. Eppure, restò parcheggiato a San Vittore quasi due mesi. Uscì all'improvviso dopo un inutile e frettoloso confronto con Belliazzi. Darida mi disse di non averne capito la ragione. Me la spiegò Cusani: per uno di quegli stranissimi rapporti che si instaurano tra magistrato e detenuto, Ghitti aveva pregato il finanziere di segnalargli ogni possibile ano malia che mettesse in pericolo i detenuti. E, dopo il suicidio di Cagliari e Gardini, Darida non era più lo stesso. Non si curava più, non faceva più i meticolosi controlli medici delle prime settimane. Cusani pensò al peggio, lo fece sapere a Ghitti e Darida uscì. Il processo fu trasferito nella capitale, com'era naturale che fosse. Se i partiti stanno a Roma, era statisticamente difficile che le principali tangenti si consegnassero - guarda caso - tutte a Milano, e singolarissimo che lì fossero avvenuti anche gli accordi per la spartizione delle mazzette sulla metropolitana romana. Belliazzi fece a Roma una sostanziale ritrattazione, motivando le accuse di Milano con la paura del carcere. Darida fu prosciolto in istruttoria e la cosa infastidì il Pool Mani pulite. Nel '96, il pubblico ministero romano del processo, Francesco Misiani, raccontò al "Messaggero" che Francesco Greco lo aveva pregato di ricorrere in appello contro il proscioglimento di Darida (avvenuto nel luglio del
'94) perché era in corso a Milano l'ispezione ordinata dal ministro Biondi ed era fastidioso veder concluso, con una sconfitta così clamorosa, il procedimento contro un ex Guardasigilli. Si vendicò in questo modo di un torto che gli avrebbe fatto Greco: quando, all'inizio del '96, fu trovata una microspia nel bar Tombini di Roma messa per intercettare il capo dei Gip romani Renato Squillante (che sarebbe stato poi arrestato), Misiani chiese informalmente a Greco chi l'avesse ordinata. [p. 184] Questi lo riferì ai suoi e Misiani, esponente storico di Magistratura democratica, fu trasferito d'ufficio dal Csm. Greco smentì tuttavia di aver avanzato a Misiani la richiesta su Darida e il ministro Flick non poté procedere "per l'insanabile contrasto tra le versioni rese dai due magistrati". Le decorazioni di Pomicino "Ma come fa Cirino Pomicino a essere sempre assolto visto che tutto è tranne che un santo?" mi chiede un noto industriale. "Quell'industriale deve essere un peccatore" risponde beffardo l'interessato. "Perciò non conosce il mondo dei beati." In effetti, negli anni bui di Tangentopoli nessuno avrebbe predetto al potentissimo braccio destro di Andreotti diciotto assoluzioni e tre sole condanne (di cui una definitiva) per semplice finanziamento illecito ai partiti, senza l'ombra di corruzione o concussione. E' vero che, alla fine del secolo, Cirino Pomicino ha ancora in sospeso una quantità imprecisata di giudizi ("Non ricordo se sono dieci o dodici") e che quindi tutto è ancora possibile, ma questi anni ci insegnano che anche con i "mostri" bisogna andare cauti. E Cirino Pomicino "mostro" fu a ogni effetto. In particolare a Napoli, la sua città, la procura gli contestò di tutto: "Corruzione, concussione, camorra, l'ira di Dio". E invece? "E invece quelle condanne per il solo finanziamento illecito del partito per me sono come croci di commendatore..." Be', non esageriamo... "E invece sì. Ma scusi, è stato accertato che io ho preso sei miliardi dalla Ferruzzi - dico sei miliardi - e che li ho interamente versati alla corrente andreottiana senza farmi restare attaccata nemmeno una lira e lei non mi vuole dare la croce di commendatore?" La cosa andò così: "Nel maggio del '91, Carlo Sama, braccio destro di Gardini, venne da me e mi disse: Agnelli finanzia il Pri e la Dc, De Benedetti il Pri e il Pci, Berlusconi è vicino [p. 185] al partito socialista. Noi della Ferruzzi non abbiamo mai avuto un rapporto
strutturato con una componente politica e vogliamo farci carico delle necessità elettorali del presidente del Consiglio Andreotti". Secondo Cirino Pomicino, la prima croce di cavaliere gliel'attaccò sul petto proprio l'inflessibile Di Pietro: "Lui ha sempre saputo come stanno le cose. Tant'è vero che nel '96 - era ministro dei Lavori pubblici - gli scrissi una lettera in cui gli ricordavo che quando io volevo fare una transazione con Montedison offrendo settecento milioni, lui aveva detto: ma perché glieli deve dare? Sono venuti loro a offrirle il contributo." Se Cirino Pomicino incontra il diavolo, potete giurare che dopo cinque minuti stanno giocando a tressette. Così conquistò Di Pietro parlandogli di politica. "Quando mi interrogò sulla vicenda Enimont il 30 novembre 1993" ricorda "io gli spiegai che, una volta sputtanati e spazzati via noi moderati della vecchia classe dirigente, lui sarebbe dovuto entrare in politica come Rudolph Giuliani a New York. E siccome la politica per chi non la fa è come una sirena, ne abbiamo riparlato sempre." Di Pietro strinse con Cirino Pomicino un singolarissimo patto che lui si dimostrò pronto a onorare. "Ci incontrammo nella sua casa vicino al Duomo di Milano nel gennaio del '95. Gli dissi: sto andando a Houston per fare una coronarografia. Spero di rientrare e di avere il tempo per sconfiggere nell'immaginario collettivo il ruolo di grande profittatore che mi è stato cucito addosso. Ma se non dovessi tornare, non vorrei lasciare in eredità alla mia famiglia il marchio di corrotto. Poiché lei sa che ho preso soldi solo ed esclusivamente per finanziare il mio partito, le chiedo l'impegno di pronunciare l'orazione funebre davanti alla mia bara. Di Pietro accettò." Nel gennaio del '97, Cirino Pomicino fu colpito da un secondo infarto. Prima di entrare in terapia intensiva pregò la figlia Ilaria di avvertire soltanto due persone: Andreotti e Di Pietro. "Papà sta molto male e le ricorda quel vecchio impegno..." L'ex magistrato si precipitò a Roma. Ma quella volta Pomicino aveva deciso di non morire. [p. 186] De Benedetti, prescritto Sergio Cusani ha raccontato che Gardini si illudeva di uscire da Mani pulite come Romiti e De Benedetti: un "decoroso memoriale", arrivederci e grazie. Carlo De Benedetti, a suo tempo patron dell'Olivetti e tuttora potentissimo editore del gruppo L'Espresso-Repubblica, ha attraversato tre fasi. Prima, la negazione. Seconda, la costrizione a
pagare. Terza, la corruzione. Se per Cusani in tre anni si è arrivati alla sentenza definitiva (inchiesta, arresto, rinvio a giudizio, tribunale, appello e cassazione), per De Benedetti (e per tanti altri) dopo sei ancora non si è arrivati all'udienza preliminare. Come tutti i grandi industriali, De Benedetti dovette porsi a un certo punto il problema del rapporto finanziario con i partiti. Nel marzo del '93, lui stesso mi disse che in passato non c'era scandalo se il presidente di un'importante unione industriale si presentava a nome dei propri associati ai principali leader politici portando un contributo elettorale. Era solidarietà, che nasceva in anni difficili da una comune visione ideologica e politica. E in anni recenti? "Non so se noi di Confindustria avremmo potuto fare di più" mi rispose. "Certo abbiamo promosso il cambiamento molto prima degli altri." Allora, De Benedetti era ancora fuori da Tangentopoli. A un preoccupato azionista che gli aveva chiesto se la Olivetti avesse mai pagato mazzette, rispose di no. Ma quando, due mesi dopo il nostro incontro, venne arrestato Giuseppe Parrella, onnipotente direttore generale del ministero delle Poste, il suo segretario Giuseppe Lo Moro dichiarò: "L'Olivetti, nella persona del dottor Cherubini, mi ha fatto pervenire la somma di nove miliardi". A questo punto, comincia una storia rivangata il 7 ottobre 1999 dal "Foglio" di Giuliano Ferrara in risposta a un articolo di Claudio Rinaldi, "berlusconologo" del gruppo L'Espresso, che il giorno precedente su "Repubblica" aveva dedicato una pagina alla tecnica dilatoria di Cesare Previti per ritardare la sua presenza alle udienze che lo riguardano. [p. 187] Quando i giornali parlarono della confessione di Lo Moro, De Benedetti, prima di essere indagato, consegnò a Di Pietro un memoriale in cui sosteneva di essere stato costretto a pagare, tra l''87 e il '91, per ottenere lavori alle Poste e più in generale per non far uscire la Olivetti dal mercato internazionale dei computer. I suoi giornali, "L'Espresso" e "la Repubblica", che massacravano chiunque avesse a qualunque titolo alimentato il mercato delle tangenti, ebbero un momento di imbarazzo. Ne uscirono con una dolce intervista di Giampaolo Pansa all'ingegnere: "Perché non hai detto niente, Carlo? Lo sai che siamo molto incazzati con te?". Pansa glielo disse con la bocca a cuore, tanto che "Prima Comunicazione", giornale specializzato in media, la interpretò così: "Carlo, sono incazzato. Sono talmente incazzato che... baciami". Qualche giorno dopo la consegna del memoriale a Di Pietro, fu arrestato Davide Giacalone, strettissimo collaboratore del ministro delle Poste repubblicano Oscar Mammì. Secondo Giacalone, nell''88
l'Olivetti voleva rifilare alle Poste ventimila telex: pezzi di archeologia industriale, visto che ormai dappertutto stava dilagando il fax. Le resistenze del ministro, secondo Giacalone, vennero superate dalle pressioni di De Benedetti su Bruno Visentini, gran patron del Pri. I telex furono acquistati (centocinquanta miliardi), e dopo alcuni anni si trovavano ancora nei magazzini del ministero. Indipendentemente dalle responsabilità personali che sarebbero poi state valutate in giudizio (oppure, nel nostro caso, cadute in prescrizione), abbiamo visto che per molto, molto meno Nobili e Darida furono rinchiusi per mesi a San Vittore. De Benedetti, per fortuna, incontrò magistrati garantisti, sia a Milano sia a Roma. Un magistrato tosto della capitale, Maria Cordova, non accettava che tutte le corruzioni e le concussioni romane fossero giudicate nel capoluogo lombardo, diventato una sorta di procura nazionale inappellabile. Propose dunque un "contrasto" con Milano davanti al procuratore generale della Cassazione, mentre il Gip romano proponeva, sempre in Cassazione, un parallelo conflitto di competenza. Di Pietro, che sapeva di perderlo, si precipitò a [p. 188] Roma e offrì alla Cordova una spartizione delle inchieste: a Roma il fumo, a Milano l'arrosto. Fra l'altro, voleva indietro De Benedetti. Scrisse i suoi appunti su un foglietto, che la Cordova fu lesta a far sparire e a inviare in Cassazione. Vinse Roma e, in novembre, De Benedetti fu arrestato e tenuto a Regina Coeli per sole dodici ore, poiché ottenne immediatamente gli arresti domiciliari. Lo avessero messo in cella gettando la chiave, come in uso altrove, forse i magistrati romani avrebbero potuto togliersi qualche curiosità su tutti i rapporti finanziari dell'industriale con il mondo politico, Pci compreso. Ma poiché la legge non prevede questa forma di sequestro e di estorsione, De Benedetti passò tra le lenzuola profumate di casa già la prima notte successiva all'arresto. Poco dopo, confessò per iscritto di aver dato ai funzionari delle Poste dieci miliardi. Nel '94, la Cordova acquisì documenti che provavano a suo giudizio la vendita di telex malfunzionanti a prezzi più alti di quelli di mercato. Per la logica degli accoppiamenti tra pubblico ministero e Gip, che ogni tanto variano, cambiò il giudice per le indagini preliminari che seguiva il caso. Trascorsero quattro anni e il nuovo Gip che aveva ereditato l'inchiesta si accorse, nel '98, di non essere competente. La pratica passò al Tribunale dei ministri, dove la fine del secolo la trovò sonnecchiante, in attesa dell'ormai certa prescrizione.
Il caso Fiat La storia della presenza Fiat in Tangentopoli merita un discorso a sé, se non altro perché Giovanni Agnelli è l'unico grande imprenditore italiano a non essere mai stato sfiorato da un avviso di garanzia. Qualche croce l'ha portata Cesare Romiti (per iniziativa delle procure di Torino e di Roma, più che di Milano) e l'hanno portata i grandi manager del gruppo. Ma l'Avvocato no. "Non sapeva e basta" scrive Giancarlo Galli nel suo libro dedicato alla storia della famiglia Agnelli (Mondadori, 1997). "Un trattamento analogo è stato riservato [p. 189] solo a Romano Prodi, presidente dell'Iri, e parzialmente a Enrico Cuccia, su un altro filone d'indagini." (Dello scontro tra Prodi e Di Pietro abbiamo detto. Cuccia non fu mai inquisito dalla procura di Milano e convinse quella di Ravenna di non sapere nulla delle vicende Ferruzzi e anzi di essere stato ingannato.) Il caso Fiat è scritto in due capitoli. Il primo di chiusura totale alla collaborazione con i magistrati milanesi, il secondo di massima apertura. Quando, all'inizio della storia, fu arrestato Enzo Papi, presidente della Cogefar, si ebbe la sensazione che i procuratori di Mani pulite volessero fermarsi alla periferia dell'impero. In fondo, le tangenti si pagavano regolarmente soprattutto nel mondo delle costruzioni, che è soltanto uno dei tanti settori di interesse del gruppo di Torino. Era il 6 magio 1992. Papi, come abbiamo visto nel capitolo precedente, restò in carcere quasi due mesi scrivendo lettere disperate. Ma la linea di difesa era: tacere. E tacere con sdegno. Per uscire, alla fine, però qualcosa ammise. E questo qualcosa, otto mesi dopo, portò alla carcerazione di Francesco Paolo Mattioli, direttore finanziario del gruppo Fiat. Per capire chi è Mattioli - uomo prestante, capace e simpatico converrà rifarsi alla famiglia reale inglese. Se Giovanni Agnelli è la regina, se Umberto è il principe Carlo (andrà mai sul trono?), se il nuovo, giovane e brillante erede designato, John Elkann, è il principino William, Mattioli nella gerarchia del gruppo conta assai più di un Filippo d'Edimburgo. Mattioli tacque. E quando il tribunale della libertà, secondo l'uso meneghino, confermò l'arresto, l'avvocato Vittorio Chiusano e lo stesso Romiti reagirono sdegnati. Anche perché i magistrati non ebbero la mano leggera. Scrissero infatti: "è emerso un parziale spaccato della corruttela esistente all'interno del più grande sistema industriale italiano", e sottolinearono la "gravità della condotta tenuta al massimo livello dalla Fiat, gruppo industriale in grado d'influenzare gli indirizzi
politici del paese". Che la Fiat sia potentissima da quand'è nata, lo si sapeva, ma che un tribunale del riesame, chiamato a pronunciarsi all'istante sulla congruità di un arresto, esprima [p. 190] giudizi degni di un'ampia e meditata motivazione di una sentenza definitiva di condanna la dice lunga sul clima giudiziario del tempo. Romiti definì quella pronuncia "arbitraria, grave e profondamente distorcente la realtà della Fiat". Ma dopo questa sentenza - che equivaleva a gettare via la chiave della cella di Mattioli - il direttore finanziario forse qualcosa disse. E un mese dopo il suo trasferimento agli arresti domiciliari, il 31 marzo, partirono gli ordini di custodia cautelare per Giorgio Garuzzo, direttore generale del gruppo, e per altri tre alti dirigenti. I quattro si trovavano all'estero "per lavoro" e vi si trattennero in attesa che si chiarissero i rapporti tra Torino e i procuratori di Milano. Per dieci giorni, la Fiat visse uno dei momenti più drammatici della sua storia, anche perché si sparse la voce - smentita (ma chi allora poteva dormire tranquillo?) - che gli uomini di Borrelli stessero per ingabbiare Cesare Romiti. Fu allora che l'Avvocato prese in mano la situazione e sabato 17 aprile 1993 fece a Venezia il discorso della svolta. "Sulle inchieste vorrei essere molto chiaro" disse alla Fondazione Giorgio Cini. "Credo sia errato e fuorviante pensare che le indagini della magistratura facciano parte di un complotto o di oscure manovre politiche. E' augurabile che l'inchiesta giunga quanto prima alla reale portata degli episodi che riguardano noi e le altre imprese, distinguendo tra chi ha fatto seriamente industria e chi invece ha fondato le proprie fortune quasi solo sulla sistematica collusione con il sistema politico." Ma il passaggio decisivo fu questo: "Sì, anche in Fiat si sono verificati episodi di commistione con il potere politico". L'Avvocato con quel discorso aprì alla collaborazione con la procura di Milano, ma ne dettò anche i confini che la difesa degli uomini Fiat avrebbe fatto propri nei processi degli anni successivi (specie in quelli a carico di Romiti, il capo di tutti i manager chiamati in causa). La Fiat - era la sostanza del discorso - ha fatto parte a pieno titolo del sistema e se ne assume la responsabilità, ma soltanto una parte assai modesta del suo [p. 191] fatturato è frutto di contratti pubblici inquinati dalle tangenti. Siamo pronti a pagare per le nostre responsabilità, non desideriamo, però, essere confusi con chi ha prosperato quasi esclusivamente sulle degenerazioni del sistema.
Con la procura di Milano il discorso si chiuse lì. Altri ne furono aperti contro Romiti a Torino (un anno in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito al Psi) e a Roma (doppia assoluzione per la costruzione della metropolitana). [p. 192] VII: I Greganti del Pds Una mattina, in casa D'Alema Massimo D'Alema conserva da presidente del Consiglio la buona abitudine di alzarsi presto al mattino e di preparare la colazione per la famiglia. Cosa che stava facendo anche il 14 settembre 1995, quando bussarono alla porta due ufficiali della Guardia di finanza. Gli trasmisero un'informazione di garanzia firmata dal sostituto procuratore della Repubblica di Venezia, Carlo Nordio. L'accusa era questa: a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, insieme con Achille Occhetto, allora segretario del Pci, sarebbe stato al corrente di finanziamenti irregolari provenienti dalle "cooperative rosse". Poiché Nordio è un magistrato corretto, D'Alema ebbe il privilegio di leggere l'avviso di garanzia prima degli altri. E ne dette subito pubblica comunicazione, chiamando uno a uno i direttori dei telegiornali e dei principali quotidiani per spiegare la propria posizione. Qualche giorno dopo, la illustrò anche alla base del partito riunita a Reggio Emilia per la Festa dell'Unità. Disse ad Augusto Minzolini della "Stampa": "Secondo questo teorema, io ero una persona che non poteva non sapere. E' un principio indegno di un paese civile". E' noto che quasi tutti i guai giudiziari di moltissime persone, da Silvio Berlusconi a Bettino Craxi, sono nati dal "non poteva non sapere" teorizzato dalla procura di Milano. Ma D'Alema fu fortunato, Milano si spogliò del processo e lo trasmise a Venezia dove c'è un giudice al quale non basta che alcune cose siano probabili e magari verosimili: vuole le prove. E poiché [p. 193] le prove, nel caso di Occhetto e D'Alema, mancavano, alle ore 15 dell'11 novembre 1998 e con la collaborazione dell'assistente giudiziaria Viviana Bellese, Nordio chiedeva il proscioglimento dei due imputati con un memoriale di duecentosei pagine in cui veniva contestualmente chiesto il rinvio a giudizio di un centinaio di persone che secondo l'accusa avevano finanziato di dritto e di rovescio il Pci-Pds. Quando venne fuori la notizia dell'avviso di garanzia a D'Alema, Eugenio Scalfari scrisse un articolo sulla "Repubblica" in cui
trovava debole l'impianto accusatorio contro il segretario del Pds, ma giudicava "estremamente convincenti" la documentazione e le testimonianze raccolte da Nordio sul finanziamento delle cooperative rosse al Pci: "Le cooperative erano destinatarie di una percentuale di circa il 20 per cento degli appalti banditi dalla pubblica amministrazione e dagli enti locali e il Pci vigilava affinché questo patto - concluso con gli altri maggiori partiti nazionali - fosse rigorosamente rispettato. Quando non lo era, i rappresentanti del Pci nelle regioni e nei comuni ponevano il veto alla gara, che in realtà era una gara truccata a beneficio dei soliti noti; ma bastava che le percentuali pattuite fossero ripristinate e il veto cadeva... Per ottenere questi sostegni, il Pci chiuse tutti e due gli occhi sul malaffare ben più rilevante che gli altri due consoci, Dc e Psi, compivano allo stesso tavolo e in forza dello stesso patto". Non era la prima volta che il Pci veniva accusato di essere coinvolto nel traffico delle tangenti. Già vent'anni prima, a Parma, il partito era stato pesantemente coinvolto in uno scandalo. Secondo la testimonianza di Gianni Cervetti (L'oro di Mosca, Baldini & Castoldi, 1993), Berlinguer disse allora in una riunione di segreteria: "Occorre ammettere che ci distinguiamo dagli altri non perché non siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili, ma perché nel ricorrervi il disinteresse dei nostri è stato assoluto". Vedremo più tardi che tra i "finanziamenti deprecabili" probabilmente Berlinguer includeva anche i milioni di dollari che arrivavano dall'Urss. Ma questo è un altro discorso. Nel '95, era chiamato a rispondere direttamente il segretario del Pds, l'unico scampato al massacro di Milano. Allo [p. 194] scoppiare di Tangentopoli, D'Alema non era salito sul carro degli inquisitori e aveva mantenuto un atteggiamento prudente. Pochi giorni prima del provvedimento di Nordio mi aveva detto: "Deve esserci una separazione netta tra le ragioni della politica e quelle della giustizia... Quando l'azione del giudice entra in cortocircuito con le vicende politico-istituzionali, persino l'iscrizione nel registro degli indagati di una persona, che poi potrà risultare totalmente estranea ai fatti, può condizionare la vita di un partito e le stesse elezioni politiche... In un paese normale, la giustizia non ha bisogno di eroi. Se un sostituto procuratore diventa un eroe popolare, qualcosa non funziona". E a proposito degli eccessi di custodia cautelare: "L'emergenza ha rischiato di diventare normalità. Questo non può essere per sempre".
"Per la corrente di..." L'inchiesta di Nordio è stata il primo tentativo organico di analizzare la complessa ed ermetica struttura finanziaria che ha consentito prima al Pci e poi al Pds di mantenere per decenni il più gigantesco apparato politico europeo. Già all'inizio di Mani pulite, l'inchiesta sulla Metropolitana milanese aveva aperto uno squarcio che la procura milanese lasciò dentro gli stretti confini locali. Luigi Carnevale dichiarò di essere stato incaricato dal segretario cittadino del Pci, Roberto Cappellini, di sostituire Sergio Soave come "garante per il partito nell'acquisizione e nella consegna delle somme che versavano gli imprenditori". Soave era il punto di collegamento tra il Pci e la Lega delle cooperative e aveva avuto il compito di procurare al partito tangenti in denaro, visto che Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese e fiduciario del Psi, pensava di tacitare il Pci solo dirottando importanti quote di lavoro alle cooperative. Dall''87, la spartizione fu più soddisfacente, ma Soave in ogni caso era poco efficiente e gli subentrò Carnevale, arrestato nel maggio del '92 nella prima inchiesta successiva a quella di Mario Chiesa. (E' probabile che di queste tangenti [p. 195] milanesi si riprenda a parlare nel nuovo secolo. Il 4 ottobre 1999, uno degli inquisiti della prima ora, Maurizio Prada, fiduciario della Dc, ha confermato in aula che dall''87 il Pci avrebbe svolto un ruolo organico nella spartizione delle mazzette. Il pubblico ministero Paolo Ielo ha chiesto gli atti per avviare eventualmente una nuova inchiesta.) Nordio collegò queste dichiarazioni con il caso di Renato Morandina. Questi era un maestro elementare residente a Camponogara, un comune di diecimila abitanti in provincia di Venezia, prima responsabile regionale della scuola per il Pci e poi funzionario del partito. Morandina aveva ricevuto dalla Fiat duecento milioni su un conto svizzero per un'improbabile "consulenza". Si seppe, in realtà, che l'amministratore delegato della Fiat Impresit Antonio Mosconi faceva perno su Morandina per i suoi rapporti con Cesare De Piccoli, vicesindaco di Venezia e segretario regionale del Pci. Nel '94, Ugo Montevecchi, dirigente della Fiat Engineering, aveva dichiarato ai procuratori di Milano di aver versato su un conto bancario di Lugano ducento milioni per questa ragione: "Mosconi mi spiegò che il Pci veneto, e significativamente il candidato De Piccoli, facevano parte del gruppo dei candidati che sostenevano la linea politica di D'Alema, linea politica che era bene sostenere economicamente con un nostro intervento economico". Montevecchi versò i primi cento milioni
nel '90, e i restanti cento per sostenere la campagna elettorale del '92. Mosconi mi disse che vi erano notevoli conflitti all'interno dell'ex Pci e che bisognava aiutare quegli esponenti che esprimevano la posizione di D'Alema... La persona del partito che avrebbe ricevuto la somma per conto dell'onorevole D'Alema sarebbe stato l'onorevole De Piccoli." Fallimenti pilotati a catena Abbiamo visto che la procura di Milano ha esercitato negli anni di Tangentopoli una vera e propria funzione di procura nazionale. Ma stavolta, correttamente, dirottò per competenza gli atti [p. 196] su Torino, che li dirottò su Venezia. Si arrivò così alla fine del '96, con la scadenza dei termini per svolgere nuove indagini. Nordio, in questo come in altri casi che vedremo, non fece sua la tesi del "D'Alema non poteva non sapere" e non ravvisò, giustamente, gli elementi per un rinvio a giudizio. Notò, peraltro, che nella vicenda Morandina-De Piccoli "anche il sistema di accredito risponde all'estrema prudenza e compartimentazione con la quale il Pci-Pds predisponeva gli accorgimenti per evitare quell'"effetto domino" che ha invece coinvolto altre formazioni meno sensibili a queste cautele: tante operazioni, tanti conti esteri e alla fine la confluenza in un conto solo. Esattamente come ha fatto Primo Greganti", il "gran maestro della tangente rossa". Alla fine del '94, D'Alema fu chiamato indirettamente in causa anche dalle dichiarazioni rilasciate da Nino Tagliavini, presidente di una cooperativa rossa, l'Unieco, al pubblico ministero di Roma. Nel gennaio del '91, Tagliavini andò a un appuntamento con il segretario amministrativo del Pci, Marcello Stefanini, "in quanto era doveroso per noi presidenti delle cooperative rispondere a una chiamata del tesoriere del Pci". Dopo quell'incontro, dichiarò di aver portato duecento milioni in contanti - in due occasioni, nel '91 - alla segreteria nazionale del partito e di averli consegnati a un collaboratore di Stefanini. Disse inoltre di aver partecipato, il 5 febbraio 1992, a una riunione ufficiale presieduta da D'Alema (Tagliavini sostenne di aver saputo da Stefanini che D'Alema avrebbe diretto il risanamento finanziario del partito). In quella riunione, dopo che erano stati illustrati i piani di spesa dei grandi enti pubblici, dall'Enel alle Ferrovie, "D'Alema ci ricordò l'onere delle spese che sosteneva il partito per il suo funzionamento, dicendoci che successivamente Marcello Stefanini ci avrebbe chiamato, ricordandoci inoltre che alle porte c'erano sempre i grossi gruppi
privati che bussavano". In vista delle elezioni politiche del '92, Tagliavini dichiarò di aver versato al partito altri centosettanta milioni. La competenza di questa inchiesta passò a Reggio Emilia. Le affermazioni di Tagliavini non ebbero riscontri, il giudice per le indagini preliminari di Reggio archiviò il caso e Nordio trovò giusto che l'avesse fatto. [p. 197] Nel corso degli accertamenti, il pubblico ministero veneziano scoprì che il meccanismo finanziario che legava il Pci-Pds alle cooperative rosse era stato rivelato fin dal '94 ai suoi colleghi milanesi da Agostino Borello, consigliere d'amministrazione di una di queste società, l'Aica, controllata dalla Finaica. Disse Borello: "Nel 1988, Finaica, una finanziaria di Bologna, ha erogato al Pci finanziamenti per circa trenta miliardi. Il meccanismo era quello solito: venivano concessi finanziamenti a cooperative o società che, a loro volta, finanziavano direttamente i partiti. Tali società simulavano perdite inesistenti e venivano poste in liquidazione", con la complicità - aggiunse - di liquidatori nominati dal ministero del Lavoro su segnalazione della stessa Lega delle cooperative. Aggiunse Borello: "L'Aica è stata messa in liquidazione dal '90. Prima della liquidazione fatturava settecento miliardi l'anno... Circa cinquanta miliardi l'anno erano devoluti al Pci e al Psi per il finanziamento di convegni, giornali di partito, e il pagamento di funzionari circa cento - formalmente inseriti nelle strutture del consorzio, ma che di fatto lavoravano per il partito, non avendo mai svolto concreta attività lavorativa per conto del consorzio...". Borello spiegò a Nordio tutti i meccanismi tecnici che servivano a simulare il fallimento delle cooperative. Con queste informazioni, il pubblico ministero veneziano risalì ad Alberto Fontana, responsabile delle principali cooperative rosse del Veneto: secondo l'accusa, con la piena autorizzazione di Botteghe Oscure si era procurato un'enorme quantità di denaro attraverso una serie di fallimenti e di insolvenze delle coop e questi soldi erano verosimilmente andati al partito, visto che Fontana risultava nullatenente. "Non poteva non sapere." A Venezia non vale Da Fontana, Nordio non riuscì a ottenere una parola. Se gli scucì qualche monosillabo, fu per sentirsi negare l'evidenza. Occhetto e D'Alema, interrogati dal magistrato, negarono "ogni cointeressenza economica tra partito e cooperative e in [p. 198] definitiva
qualsiasi loro interesse alla vita e alla gestione di queste ultime". A conclusione della sua inchiesta, il pubblico ministero - pur considerando acquisito il legame diretto tra Fontana e Pci - dovette prendere atto che non sarebbe stato corretto risalire dal dominus finanziario del partito per il Veneto agli altri dirigenti del Pci nella regione e meno che mai a Occhetto e a D'Alema. Ancora una volta, un conto era la verosimiglianza di certi rapporti, un altro conto le prove. E le prove non c'erano. Concluse, dunque, il pubblico ministero: "E' stata acquisita una serie di indizi convergenti sulla diretta partecipazione degli onorevoli D'Alema e Occhetto alla gestione economica delle risorse del partito, e in particolare dei finanziamenti pervenuti in modo anomalo e clandestino... E' stata acquisita la prova che il Pci-Pds disponeva di persone di assoluta fiducia, incaricate dell'acquisizione di contributi e della loro gestione finanziaria illegale e clandestina, attraverso sistemi di accantonamento e occultamento all'estero di fondi depositati su singoli conti bancari, tanti quante erano le operazioni eseguite... E' stata acquisita la prova che il Pci-Pds dispone di un immenso patrimonio immobiliare, gestito attraverso cosiddetti fiduciari o mandanti senza rappresentanza, che nel linguaggio corrente si dicono prestanome. La sua estensione è assolutamente incompatibile con le elargizioni ordinarie dei simpatizzanti e ancor più con i bilanci ufficiali del partito...". Ciò premesso, conclude Nordio, "anche ai soli fini della richiesta di rinvio a giudizio, è del tutto inaccettabile l'assioma che chi stava al vertice della struttura "non poteva non sapere". La responsabilità penale è personale e va dimostrata in relazione ai singoli indagati. La presunzione di colpevolezza conseguente all'occupazione di una carica è un oltraggio ai canoni minimi di legalità e di buon senso e questo ufficio la respinge con vigore". Mi dice il procuratore: "I reati societari accertati sono moltissimi. Ma la verifica della destinazione finale ha urtato contro un muro di omertà. D'altra parte, come diceva Martelli? [p. 199] "Noi abbiamo avuto Mario Chiesa, loro Primo Greganti". Non è accettabile, in ogni caso, chiamare a rispondere per responsabilità oggettiva chi sta ai vertici di un partito e di un'organizzazione. Anche Di Pietro ha accertato che una fetta della tangente Enimont arrivò a Botteghe Oscure, ma non sapeva chi l'avesse presa. Resta peraltro un mistero come un partito che dichiarava un certo tipo di bilancio fosse il proprietario occulto di centinaia di società immobiliari il cui
patrimonio complessivo variava dai trecento ai mille miliardi. Con un'aggravante: quante di quelle aree possedute da prestanome che nessuno sapeva legati al Pci-Pds sono passate da agricole a edificabili grazie all'intervento del partito?". Marco Fredda, responsabile del patrimonio immobiliare del partito, parlò all'"Unità" di un valore di mille miliardi. Questa valutazione è un'arma a doppio taglio: forse Fredda sovrastimò tale patrimonio per tranquillizzare le banche con le quali il partito aveva un'esposizione fortissima. Ma, al tempo stesso, rivelò una capacità finanziaria che certo non era compatibile con le sole raccolte di fondi alle Feste dell'Unità. (Craxi, abbiamo visto nei capitoli precedenti, mi disse che Balzamo gli aveva parlato di un patrimonio immobiliare del Psi di cento miliardi: e anche lì, certo, la provenienza del denaro non era sempre trasparente.) All'inizio del '96, quando l'esposizione del Pds verso cinque banche aveva superato i limiti di guardia, il partito costituì una società (Beta) alla quale furono conferiti beni immobili per un valore complessivo di 131 miliardi. Secondo quanto risultava al procuratore Nordio, alla fine del '98 le società confluite in Beta erano 38 sulle 118 considerate dal procuratore detentrici fiduciarie del patrimonio immobiliare del Pds. Nordio ha scritto nelle sue richieste finali di non aver potuto procedere nell'inchiesta sul patrimonio immobiliare del Pci-Pds per la scomparsa dei documenti relativi. Il 19 settembre 1993, Tiziana Parenti, allora pubblico ministero a Milano, ordinò una perquisizione negli uffici di Marco Fredda. I carabinieri rinunciarono a trasferire i fascicoli a Milano su richiesta dei funzionari del Pds che lamentarono la propria [p. 200] impossibilità a lavorare. Lasciarono le carte al loro posto nella stanza di Fredda, ma la sigillarono. Tre giorni più tardi, la Parenti mandò la Guardia di finanza a esaminare i documenti. I sigilli erano stati violati e la documentazione era sparita. Vale la pena di aggiungere che l'inchiesta di Nordio procurò una metastasi di processi contro le cooperative che si estese dalla Lombardia alla Sicilia, dall'Emilia alla Puglia. Il presidente della Lega, Giancarlo Pasquini, denunciò "il moto inarrestabile che sta spazzando via la certezza del diritto e delle regole" e addirittura uno sconvolgimento "nel quale si muovono poteri occulti e forti, gli stessi che si sono mossi negli episodi di stragismo più cupi della Repubblica italiana".
Greganti nel palco centrale Il 22 gennaio 1999, il tribunale di Milano ha pronunciato la prima sentenza di un processo almeno in parte destinato alla prescrizione. Per tangenti versate ai partiti in vista dell'appalto per la desolforazione delle centrali Enel sono stati condannati Bettino Craxi (cinque anni e cinque mesi), l'ex segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi (cinque anni e due mesi) e Primo Greganti (tre anni e sette mesi). Chi è Greganti per meritare un posto nel palco centrale di uno dei tanti processi di Tangentopoli? Il suo certificato penale aggiornato alla fine del secolo porta altre due condanne: la prima a dieci mesi, confermatagli alla fine del '98 dalla Corte d'appello di Torino (falso in bilancio per centocinquanta milioni dati al Pci-Pds), e la seconda a sei mesi, resa definitiva dalla Cassazione nel '97 per una tangente connessa alla costruzione di un depuratore sul Po. Non è gran che, per quel che vedremo dopo. Ma è un po' troppo per far bere alla gente l'idea che Greganti sia quell'affarista solitario, quel ladro di polli che qualcuno cercò di dipingere nel '93 quando il nome del "compagno G." iniziò a comparire sulle prime pagine dei giornali. Tracciandone un ritratto in un mio libro di quell'anno [p. 201] scrissi: "La storia di Greganti è esattamente l'opposto di quella di un millantatore o di un truffatore". Greganti apprezzò e stampò la frase sulla copertina di un suo libro. Nemmeno a lui stavano bene, evidentemente, le reazioni a caldo dei massimi dirigenti del partito. D'Alema, che ne era il numero due, parlò di una provocazione dei Servizi segreti. Occhetto, che ne era il segretario, disse un po' più prudentemente: "Non posso escludere che tre anni fa qualcuno abbia chiesto soldi a nome del Pci in un bar, ma è certo che quei soldi non sono stati depositati in un conto di cui io sia a conoscenza". Quali soldi? Quale bar? Lorenzo Panzavolta era il più importante manager della Ferruzzi. Raccontò ai giudici di Milano che una società del gruppo voleva vincere l'appalto per la desolforazione delle centrali Enel: roba da ottocentosettanta miliardi. Figurarsi l'esosità dei partiti. A quel punto, si fece vivo Primo Greganti: prese appuntamento con Panzavolta al caffè Doney di via Veneto e gli chiese a nome del Pci una "stecca" pari a un miliardo e duecentoquarantadue milioni. Greganti non aveva l'aria del millantatore: rivelò all'uomo di Gardini dettagli inequivocabili sulla presenza e il ruolo del Pci nell'Enel e gli anticipò che il consigliere d'amministrazione Giovanni Battista Zorzoli, all'oscuro della tangente, gli avrebbe chiesto di far
lavorare in subappalto quattro grossi consorzi aderenti alla Lega delle cooperative. Panzavolta disse che la richiesta gli stava bene, ma fece una verifica con Vincenzo Balzamo, amministratore del Psi. Sì, confermò Balzamo, ai comunisti spetta una percentuale. L'uomo di Gardini accreditò così metà della somma (seicentoventuno milioni) sul conto Gabbietta, che Greganti aveva aperto sei mesi prima in Svizzera. Quando venne arrestato, Greganti disse che quei soldi erano suoi, per una consulenza in Cina prestata alla Calcestruzzi, altra società della Ferruzzi. E da quella deposizione non si è più schiodato. Nemmeno più tardi, nel momento in cui Panzavolta ammise di avergli saldato anche la seconda rata [p. 202] nel '92, quando la bufera di Tangentopoli era ormai scoppiata. Sempre consulenza cinese, nonostante dalla Cina piovessero smentite. (Panzavolta confessò di aver dato la stessa quota al Psi e di aver promesso l'equivalente alla Dc, a cui peraltro versò soltanto la metà.) Naturalmente, a Greganti non credette nessuno, anche perché mi disse un magistrato milanese - "Panzavolta è un uomo di una lealtà assoluta". Ma anche Primo Greganti era leale. Un comunista da leggenda, che infatti - mollato per ragioni intuibili dal vertice del partito - lo diventò per i militanti della base. Aveva cominciato a lavorare a dodici anni come operaio, nelle condizioni più dure. Fu sempre un elemento centrale nella struttura finanziaria del partito, tanto da alternarsi con il segretario amministrativo del Pci Renato Pollini in alcune cariche societarie fino all'inizio degli anni Novanta. Per dimostrare l'affidabilità di Greganti, basta un solo esempio. Nell'estate dell''89, fu fermato da una pattuglia della Guardia di finanza mentre con un compagno andava da Torino a Roma in auto. Dentro una valigetta portava un miliardo in contanti. "E' una raccolta di fondi per il Pci" disse. "Telefonate pure per verificare." La Finanza telefonò al Bottegone: "E' vero, sono soldi nostri". Greganti ripartì per Roma con il suo miliardo. La storia del conto Gabbietta si complicò quando uno dei sostituti procuratori aggregati al Pool di Milano, Tiziana Parenti, emise un avviso di garanzia contro Marcello Stefanini, senatore di Pesaro, di cui era stato sindaco per otto anni, nuovo tesoriere del Pds, gran fumatore di sigari. La Parenti avrebbe voluto chiedere l'autorizzazione a procedere contro di lui, convinta che Greganti fosse soltanto il braccio della tangente e Stefanini la mente. Ma Gerardo D'Ambrosio, allora coordinatore del Pool Mani pulite, glielo impedì e dette una lettura sorprendentemente riduttiva della
questione: "Sarebbe scorretto da parte nostra anticipare avvisi di garanzia che non significano assolutamente nulla, che non costituiscono condanne né incriminazioni, che potrebbero non portare neanche a una [p. 203] richiesta di autorizzazione a procedere nel caso che l'interessato venisse qui e fornisse spiegazioni convincenti". La dichiarazione fu così sorprendente che "La Repubblica" scrisse: "E' la prima volta in un anno e mezzo di inchiesta che i vertici della procura si spendono in una lettura tanto minimalista". Ma era anche la prima volta che veniva toccata la struttura centrale del Pds. E D'Ambrosio scoprì il contratto... Il caso Greganti si rivelò un contenitore pieno di sorprese. La Parenti fece un'indagine bancaria sul "compagno G." e scoprì che pagava rate di mutuo salatissime nonostante il suo conto fosse in rosso. Si venne a sapere che i soldi del conto Gabbietta erano stati investiti da Greganti nell'acquisto di un appartamento in via Tirso a Roma. Mi disse la Parenti, diventata nel '94 deputato di Forza Italia: "Perché Greganti si è fatto cento giorni di carcere senza dire che con quei soldi si era comprato una casa? Perché D'Ambrosio scoprì il contratto d'acquisto il giorno in cui stava per partire la richiesta di autorizzazione a procedere contro Stefanini, che venne così fermata? Quando con Di Pietro andai da Greganti e gli mostrai il contratto, impallidì: "Dove l'avete trovato?" chiese. In realtà, la tangente al Pci fu pagata negli stessi tempi e con le stesse scadenze di quelle alla Dc e al Psi. Anzi, più in fretta, perché premevano i debiti degli Editori Riuniti [la casa editrice gestita dal partito]". Quando girai a D'Ambrosio l'obiezione sul contratto misteriosamente comparso all'ultimo momento, il magistrato mi rispose digitando sul suo computer, che ha l'accesso diretto all'anagrafe tributaria, per dimostrare come fosse facilissimo scoprirlo. Ma la Parenti restò della sua opinione. E un dossier della Guardia di finanza che avanzava molti dubbi sull'acquisto immobiliare di Greganti fu dichiarato irricevibile dalla procura di Milano. Successivamente, Paolo Ielo, che ereditò l'inchiesta dalla Parenti, sposò la tesi della [p. 204] tangente finita al Pci-Pds: "Anche se Greganti nega, lui i soldi li ha dati al partito. Su una menzogna non si può costruire nulla, tanto meno la fortuna politica di un partito". In quel drammatico '93, si scoprì che anche il miliardo intercettato sull'autostrada del Sole dalla Guardia di finanza era la
caparra per la vendita di un immobile del partito. Lo rivelò Bruno Binasco, manager del gruppo Gavio: "L'affare poi andò a monte e io riebbi indietro soltanto settecentocinquanta milioni. Greganti mi chiese di fare un'offerta al Pci e io gli lasciai duecentocinquanta milioni per mantenere buoni rapporti in vista di affari futuri". Chi era, insomma, Greganti? Questo il racconto che nel '95 ne fece a Nordio Giuliano Peruzzi, consulente della Lega delle cooperative fino al '92: "Greganti era notoriamente il cassiere del Pci-Pds incaricato di raccogliere i finanziamenti illeciti provenienti dalle fonti più svariate, essenzialmente fondi neri costituiti dalle cooperative o mazzette provenienti da altri imprenditori... Pagato Greganti, tutti sapevano che il consenso del Pci era un fatto acquisito e pertanto sia gli appalti nazionali sia le esportazioni verso l'Est avevano il beneplacito di questa forza politica. Greganti era ai livelli più alti nell'amministrazione del partito e interveniva in tutte le missioni commerciali che andavano all'estero...". Arriva il dossier Mitrokhin Nel settembre del '99, "The Penguin Press" pubblicò in Inghilterra un librone di 996 pagine. Copertina nera, titolo in rosso: The Mitrokhin Archive. The Kgb in Europe and the West. Un titolo più avventuroso sarebbe potuto essere: "La vendetta dell'archivista". Vasilij Mitrokhin aveva lavorato una trentina d'anni nel Servizio segreto sovietico, il più segreto e temuto del mondo. Nel '92, quando la baracca era stata smantellata, s'era consegnato ai colleghi inglesi portandosi dietro un po' di dote per garantirsi una vecchiaia agiata e sicura. Che dote, ragazzi! C'era tanta di quella roba che si capì subito quanto [p. 205] lavoro di copiatura doveva esserci stato dietro: altro che frettolose fotocopie dell'ultim'ora. Un mese dopo l'uscita del libro, un altro ex agente del Kgb rivelò che per almeno vent'anni Mitrokhin doveva aver lavorato clandestinamente per duplicare l'archivio, vendicandosi così della modesta considerazione in cui i colleghi sovietici tenevano il suo lavoro. Ottanta pagine al giorno copiate a mano, custodite in vasetti di vetro come fossero pomodori da conservare per l'inverno e sotterrati diligentemente nell'orto di casa, da dove ogni tanto prendevano la strada della più sicura ambasciata britannica a Mosca. Il libro pubblicato a Londra è curato dal professor Christopher Andrew, considerato il più attento analista occidentale di spionaggio. La sua pubblicazione ha destato interesse in tutto il
mondo, ma ormai si tratta più di storia che di politica. Tranne che in Italia, dove ancora una volta la politica ha prevalso sulla storia. Per due ragioni. La prima: per decenni, da noi, il Pci e poi anche il Pds hanno considerato qualunque lista segreta di nomi come un attentato alla democrazia; nel dossier Mitrokhin si parlava di attività spionistica compiuta in Italia dal Kgb attraverso il Pci e questo, come vedremo più avanti, ha prodotto nell'ottobre del '99 una fortissima polemica sui nomi degli spioni italiani, presunti o reali, venduti al "nemico". Il centrodestra e le frange più moderate dell'Ulivo hanno avuto finalmente di che vendicarsi. La seconda ragione è che da noi c'è stato per cinquant'anni il più forte e potente Partito comunista occidentale. Con quali soldi viveva? Nel dopoguerra, democristiani e comunisti lottarono voto su voto per la conquista del potere in Italia: la vittoria dei primi trattenne il nostro paese nell'orbita occidentale, la vittoria dei secondi ci avrebbe trasformato in una nuova Jugoslavia. Le campagne delle due parti furono robustamente finanziate con dollari e rubli. Ma poi? Quando nessuno discuteva più la collocazione internazionale dell'Italia, perché e fino a quando Mosca ha continuato a finanziare il Pci? E dopo aver finanziato il partito come tale, fino a quando e perché ha continuato a finanziare la corrente di Armando Cossutta, considerata dal potentissimo [p. 206] Boris Ponomarëv - controllore e finanziatore dell'ortodossia comunista del mondo - "la parte sana del Pci"? Abbiamo visto quanto devastante sia stato per la Dc, il Psi e i piccoli partiti laici finanziarsi attraverso le tangenti sugli appalti. Abbiamo visto che il Pci era tutt'altro che estraneo a questa pratica, anche se la svolgeva con una prudenza e un'abilità professionali che agli altri mancavano. Eppure, le spese del partito erano enormi. Fino a quando i soldi di Mosca hanno contribuito a coprirle? Interrogato il 13 novembre 1991 dai pubblici ministeri romani Ionta, Palma e De Ficchy, Armando Cossutta disse: "In base ai miei contatti personali presumo che tali finanziamenti [del Pcus al Pci] proseguissero, credo, fino al 1981, epoca in cui vi fu lo "strappo" da Mosca. Tali finanziamenti potrebbero essere ripresi dopo la "ricucitura" dei rapporti tra il segretario del Pci Alessandro Natta e il segretario del Pcus Michail Gorbaciov". Natta fu segretario del Pci dall''84 all''88, quando fu sostituito da Achille Occhetto. Una figura centrale nei rapporti finanziari tra i partiti comunisti italiano e sovietico è Guido Cappelloni, incaricato di riscuotere i
dollari dai russi prima per conto del partito e poi per la corrente di Cossutta di cui era fidatissimo collaboratore. Sulla base dei documenti di Mitrokhin, Andrew scrive che nel '76 (versamento documentato dal Pcus al Pci di sei milioni e mezzo di dollari) il Kgb prese maggiori precauzioni per la consegna dei dollari a Cappelloni (nome in codice "Alberto"), che fino a quel momento aveva avuto luogo nella sede dell'ambasciata sovietica a Roma. Le nuove consegne avvenivano la domenica mattina alla periferia di Roma. La vettura di Cappelloni era seguita da auto della vigilanza del Pci. Il denaro veniva poi trasferito su un altro mezzo e recapitato in un ufficio segreto del partito. Una delle polemiche scoppiate nell'ottobre del '99 riguardava il rilancio della notizia secondo cui gli uomini della vigilanza di Botteghe Oscure erano a loro volta sponde fidate del Kgb al quale riferivano anche i movimenti interni dei dirigenti comunisti italiani. [p. 207] Cossutta ebbe poi, tra l''85 e l''87, 1.930.000 dollari per salvare un giornale amico, "Paese sera", e viene ricordato da Andrew sia perché dopo lo strappo da Mosca dell''81 guidò la "parte sana" del Pci, sia perché dopo il fallito colpo di Stato dell'agosto del '91 a Mosca proclamò il proprio disgusto perché "comunismo è diventato una parolaccia anche nella patria di Lenin". Come vedremo, l'archivio Mitrokhin è importante perché mette in relazione i fondi sovietici con un'intensa attività spionistica in Italia (compresa la famosa rete di radio clandestine) che ebbe i suoi momenti più drammatici nel '78 (sequestro Moro) e nell''81 (attentato a Giovanni Paolo II). Oro da Mosca Un'analisi più dettagliata dei contributi segreti di Mosca al Pci è contenuta in un altro librone (880 pagine) uscito da Mondadori nell'ottobre del '99: Oro da Mosca di Valerio Riva. L'autore ricorda che nel '92, con lo scioglimento del Pcus, alcuni magistrati russi scoprirono l'esistenza di un Fondo di assistenza internazionale ai partiti e alle organizzazioni operaie di sinistra. Secondo le rivalutazioni monetarie calcolate da Riva, che ha avuto accesso diretto ai documenti (per la parte italiana largamente riprodotti in fotocopia), tra il '50 e il '91 questo Fondo avrebbe distribuito l'equivalente di 3900 miliardi di lire (il condizionale non si riferisce alle somme, che sono tutte documentate nei valori originari, quanto alla rivalutazione monetaria che può essere fatta anche secondo altri criteri). Di questi, 889 sarebbero andati al Pci,
40 al Psi di Pietro Nenni nel periodo frontista, 35,2 al Psiup (scissione a sinistra del Psi finanziata da Mosca e durata dal '64 al '72), 9 miliardi e mezzo alla Cgil, poco meno di 6 miliardi e mezzo alla corrente di Cossutta, poco più di un miliardo alla corrente di Lelio Basso. Nell'immediato dopoguerra, fu poderosamente finanziato (quasi otto miliardi di oggi) il partito comunista del Territorio libero di Trieste, filojugoslavo. In tutto, [p. 208] dall'Urss all'Italia - via Kgb, come abbiamo visto - sarebbero arrivati 989 miliardi. Tra il '50 e l''81, il Pci e gli altri partiti che abbiamo citato hanno assorbito due terzi di tutti i soldi del Fondo, precipitando all'uno per cento nel decennio '81-91, quando per il Pci ricevette denaro - documentato - il solo Cossutta. Abbiamo appena visto che, nel '91, Cossutta disse ai magistrati romani di non poter escludere una ripresa dei finanziamenti del Pcus al Pci nella seconda metà degli anni Ottanta, dopo la ricucitura tra Natta e Gorbaciov. Bettino Craxi, che sui finanziamenti occulti al Pci ha il dente avvelenato, ha detto a Gianni Pennacchi che lo intervistava per "il Giornale" (21 settembre 1999) che quando Gorbaciov venne in visita in Italia alla fine del '90, "a Firenze, su domanda di un giornalista, rispose tranquillamente che sì, il Pcus aveva sempre continuato ad aiutare i partiti fratelli. Li gettò nel panico perché li scopriva dall'amnistia [intervenuta nell''89]. Così, il giorno dopo, a Roma gli fecero rimediare la gaffe e Gorbaciov aggiunse un "fino al 1989". Ma non è vero, Mosca li ha finanziati almeno sino al '90 e più...". Né le affermazioni di Craxi, né i sospetti di Cossutta trovano peraltro riscontro documentale negli archivi sovietici. E' certo, invece, un costante finanziamento indiretto attraverso provvigioni passate a società fiduciarie del Pci che costituivano il tramite indispensabile per lavorare nei paesi dell'Est europeo. Secondo Riva, che cita dati Istat, dal '50 all''87 le esportazioni italiane verso l'Urss a prezzi rivalutati sono di circa 400.000 miliardi di lire. Poiché la provvigione media sugli affari alle società di intermediazione (società miste o Lega delle cooperative) sarebbe stata dell'uno e mezzo per cento, ecco fondi aggiuntivi nel periodo per seicento miliardi. La Commissione parlamentare d'indagine sulle stragi, presieduta dal senatore Ds Giovanni Pellegrino, commissionò uno studio al professor Victor Zaslavskij, docente di sociologia politica nell'università Luiss di Roma. Secondo Gian Marco Chiocci e Maurizio Sgroi, che hanno
letto il capitolo sui finanziamenti sovietici alle forze italiane di sinistra [p. 209] ("il Giornale", 21 e 22 settembre 1999), il professore scrive: "L'interessamento sovietico alla situazione politica italiana, gli aiuti e le sovvenzioni a certe forze e correnti politiche e a certe imprese commerciali e di intermediazione, continuarono fino al crollo del regime sovietico... ovvero fino al 1991". Il rapporto Zaslavskij è prodigo di dettagli sugli aiuti "in natura" del Pcus al Pci e lamenta che le nostre autorità (anche quella giudiziaria) non sono andate fino in fondo nelle loro indagini. "Non si è tentato seriamente di superare le reticenze di molti testimoni, né le deposizioni discordanti di dirigenti e funzionari del Pci hanno portato a un confronto reciproco..." si legge nel documento. "Nemmeno l'arrivo, nel '93, dell'importante documentazione degli archivi sovietici, oggetto di una rogatoria internazionale, ha indotto a richiedere nuove audizioni, dopo quelle del '91, che avrebbero permesso di contrapporre alle dichiarazioni dei testimoni il nuovo materiale sovietico." Qualunque sia l'opinione su questi dati, si può convenire sul fatto che una vera indagine sui finanziamenti al Pci non sia mai stata fatta. Da quanto abbiamo visto deriva, tuttavia, spontanea una conclusione. I milioni di dollari da Mosca, almeno sotto forma di erogazione continua, si sono esauriti all'inizio degli anni Ottanta. Poiché la struttura del partito non fu smantellata, quei fondi in qualche modo dovevano pur essere sostituiti. Di qui il ruolo dei Greganti, in Italia e all'estero. Uomini di fede incrollabile, muti come gli eroi della Resistenza, ammirati dalla base del Pci-Pds e dai dirigenti degli altri partiti. Ma D'Alema dice: "Nessun finanziamento illecito" "No, non c'è stato un uso sistematico del sistema delle cooperative per finanziare il mio partito." Massimo D'Alema su questo è tassativo. Gli chiedo, nell'autunno del '99 a palazzo Chigi, di commentare la decisione di Nordio: richiesta di archiviazione per lui e per Occhetto, ma richiesta di rinvio [p. 210] a giudizio per un centinaio di persone coinvolte in quello che il pubblico ministero veneziano ha definito l'uso sistematico delle cooperative per finanziare il Pci-Pds. "Se quest'uso sistematico" risponde D'Alema "ci fosse stato, poiché le cooperative non sono mai state esclusivamente nostre..."
E infatti Craxi mi ha detto che pagavano gli stipendi anche ai dirigenti del partito socialista... "...Se ci fosse stato un finanziamento sistematico, non si riesce a capire come ragionevolmente sarebbe potuto rimanere nascosto. Noi non eravamo un'organizzazione blindata e bolscevica che potesse nascondere le cose. C'erano i comunisti, i socialisti, i repubblicani: si sarebbe saputo." E infatti... "Ci sono stati certamente episodi e situazioni che hanno assunto mille forme. Ma poi, parliamoci chiaro: come ha spiegato una volta Di Pietro, nessuna legge proibisce i finanziamenti ai partiti. Il problema era di farli in modo legale e noi abbiamo cercato di farlo. Esistevano mille forme legali di finanziamento. Era sufficiente, per esempio, che le cooperative comprassero gli stand pubblicitari alla Festa nazionale dell'Unità e li pagassero con regolare fattura. Era una forma legale di sostegno al partito." Il problema non esiste, dunque? "Il vero problema è che in altri partiti questo sistema era volto all'arricchimento personale e non al finanziamento delle forze politiche, che incameravano una minima parte di quanto veniva raccolto. Per questo i contributi non potevano essere fatturati. Noi abbiamo avuto certamente sostegni da parte delle cooperative e li abbiamo avuti in forme in gran parte assolutamente legali e previste dalla legge." Ma qualcosa sarà pure scappato... "Ci sono stati anche episodi di finanziamento non legale, tant'è vero che si sono avuti processi e sentenze. Si può tuttavia concludere che il novanta per cento dei casi giudiziari che hanno riguardato il nostro partito si è concluso con il procedimento. E si tratta di quasi tutti i casi più clamorosi: [p. 211] siamo stati prosciolti io e Occhetto, Burlando e Stefanini, Cervetti e la Pollastrini a Milano. Gente che ha pagato anche duramente. C'era un teorema politico, ma nessun riscontro." Ha avuto la sensazione che si sia calcata la mano sulla Dc e sul Psi? Processi rapidissimi, sentenze definitive emesse a tempo di record... "Non esagererei. Anche lì ci sono state assoluzioni e processi annullati. Si è verificata qualche forzatura nei confronti di alcune persone e in un momento determinato. Ma tra la gente colpita non c'erano soltanto democristiani e socialisti. Non a caso ho parlato di Stefanini e Cervetti, che hanno pagato un prezzo molto alto. Se poi
lei vuole dimostrare che noi siamo stati risparmiati e gli altri perseguitati..." Personalmente, non credo che l'apparato politico più importante d'Italia sia stato sostenuto soltanto dalle Feste dell'Unità. "Noi avevamo un'enorme capacità di autofinanziamento. Avevamo un milione e mezzo di persone che pagavano la tessera. Tuttora, io passo al partito metà del mio stipendio di parlamentare..." Presidente, i costi che sosteneva il Pci erano enormi. La Federazione comunista di Bologna aveva duecentocinquanta dipendenti contro i centosessanta della sede centrale del Psi. Era noto che i funzionari di partito comunisti e socialisti in Emilia fossero pagati dalle cooperative... "Questo sistema cominciò a diminuire rapidamente già da molti anni. In ogni caso, un partito che ha avuto anche più di trecento parlamentari, ciascuno dei quali ha sempre versato metà del proprio stipendio, ha avuto tanti deputati europei, tanti consiglieri regionali, può già disporre di un cespite enorme. Perché da noi ci sono disciplina e un certo modo di concepire la politica. E' un'autentica scemenza pensare che un grande complotto sia riuscito a mantenere segreto il nostro marchingegno finanziario. Se fosse stato così, un giorno qualcuno si sarebbe alzato a raccontare la verità. E invece è una scemenza che vado spiegando da dieci anni. Vuol dire che insisterò." [p. 212] "Nessun rancore verso Craxi" Potrà avere un seguito la proposta di Anna Finocchiaro, presidente della Commissione giustizia alla Camera, di alleggerire il peso di Tangentopoli con patteggiamenti straordinari? "La Finocchiaro è persona di grandissimo valore e io sono per depoliticizzare al massimo questo confronto. Abbiamo bisogno di una giustizia rapida ed efficiente. E abbiamo bisogno anche di sbloccare la situazione." Che significa sbloccare? "Significa trovare un modo di risolvere il più rapidamente possibile il contenzioso che si è accumulato." Perché è stato sempre contrario a una commissione d'inchiesta su Tangentopoli? "Perché le inchieste storiche le fanno le università." Come giudica l'ipotesi di far rientrare Craxi? "Io non ho nessun motivo di rancore personale verso Craxi e da diversi anni sono assolutamente sereno nei suoi confronti. L'ho
combattuto politicamente, ma non mi sono mai appassionato alle persecuzioni personali. Il giudizio su Craxi è davvero affidato alla storia. Ma esiste anche un problema giudiziario che è quello dell'eguaglianza tra i cittadini dopo che sono state pronunciate sentenze definitive. Nel mio animo non c'è volontà alcuna di incrudelire nei confronti di nessuno. Ma bisogna stare molto attenti a lanciare messaggi che diano la sensazione dei due pesi e due misure." Quale fu la sua reazione quando lesse nel libro del pubblico ministero di Milano Gherardo Colombo che il Parlamento non può pronunciarsi serenamente sui problemi della giustizia perché si sentirebbe sotto ricatto? "La considerai molto grave. La giustizia è importante, ma la democrazia è un valore ancora più importante." Ha avuto la sensazione che in questi anni il potere giudiziario abbia cercato di sostituire il potere politico e qualche volta si sia trovato a farlo? "C'è stato senza dubbio un momento in cui l'appannarsi del prestigio della politica ha lasciato il campo ad altri poteri. [p. 213] Non solo a quello giudiziario. C'è il potere del denaro e della grande impresa che in Italia ha la singolare connessione con i mezzi di comunicazione di massa. Ci sono poi i grandi apparati. Pensi a quale è stato il potere di certi manager di Stato designati dai partiti e che con la scomparsa di questi si sono trovati a essere proprietari delle imprese loro affidate. Se mettiamo insieme magistratura, apparati pubblici e grande impresa proprietaria dei giornali, troviamo una - diciamo così - piccola anomalia, perché questo non avviene in nessuna parte del mondo." Sta dicendo che i grandi imprenditori proprietari di giornali hanno un interesse a tenere sempre sotto schiaffo il potere politico, di qualunque colore esso sia? "Non c'è il minimo dubbio. Quando ti attaccano vuol dire che ti stai affermando, che sono preoccupati per quello che fai. Quando ti blandiscono vuol dire che ti temono. Un interesse di questo tipo esiste perché un potere politico democratico sotto schiaffo, per sopravvivere, deve adattarsi alle transazioni. E quindi le grandi corporazioni, i grandi poteri organizzati non democratici, ne traggono vantaggio." Ma lei non dice sempre che in Italia i giornali li legge poca gente? Come mai hanno tutto questo potere? "I giornali influenzano le televisioni e alla lunga si rivelano
strumenti importanti di condizionamento." Ha mai immaginato che un magistrato potesse sedere al suo posto, dietro la scrivania di presidente del Consiglio? "Magistrati e militari non possono presiedere governi. C'è la famosa divisione dei poteri..." Non ha la sensazione che si stia scivolando verso la soggettività dell'azione penale? Il nuovo giudice unico sceglie sulla base della gravità del reato e dell'interesse della persona offesa, indipendentemente dalla data in cui è avvenuto il fatto. Se posso decidere sulla gravità di un episodio, faccio ciò che voglio... "Ma di fatto è stato sempre così. L'obbligatorietà dell'azione penale è stata temperata dalla discrezionalità del magistrato che ha deciso quali reati perseguire e quali no. Questa [p. 214] è la verità. Se allora la legge stabilisce la discrezionalità del magistrato, questi almeno può risponderne meglio di quando la discrezionalità c'era lo stesso ma non era prevista." In conclusione, qual è il suo giudizio storico su Tangentopoli? "E' stato un grande evento positivo perché ha cambiato il paese e ha consentito di cambiare la classe dirigente. Il problema non era la corruzione, ma la democrazia bloccata che genera corruzione. La corruzione era la febbre, la democrazia bloccata era la malattia che la genera. Il vero bilancio di Tangentopoli è il mutamento della classe dirigente che ha ridotto il tasso di corruzione." D'Ambrosio: "Quanta gente ha visto qui fuori?" "Mi chiede se Mani pulite è finita? Quanta gente ha visto qui fuori? Nessuno? E allora..." Com'è cambiata la stanza del procuratore capo della Repubblica di Milano! Gerardo D'Ambrosio ha ereditato gli stessi mobili di Borrelli: l'enorme tavolo da riunioni dell'anticamera, la scrivania massiccia, il salotto sotto il quadro ottocentesco di una signora ritratta nel tramonto. Ma negli ultimi mesi non è cambiato soltanto il titolare dell'ufficio e del mobilio. E' cambiato il clima. Qui fuori non c'è nessuno. Né gli imprenditori in fila per giurare di essere stati concussi da politici ormai in disgrazia, né legioni di carabinieri, poliziotti, finanzieri pronti a intercettare perquisire arrestare fior di colletti bianchi. D'Ambrosio parla spesso con i giornalisti, ma di come sconfiggere la criminalità cittadina che uccide orefici e tabaccai. A metà ottobre del '99, la Boccassini ricompare in televisione. Se alzi il
volume aspettando la scoperta di nuovi filoni corruttivi o gli ultimi colpi di coda del caso Previti-Ariosto, ti sbagli. "Ilda la rossa" è lì per commentare l'arresto di un assassino. Così, quando vengo a parlare con D'Ambrosio di Mani pulite, mi accorgo di distrarlo da altri pensieri. Mani pulite cosa? [p. 215] "L'inchiesta Mani pulite che abbiamo conosciuto è finita ed è irripetibile. Gli stimoli dall'esterno non arrivano più, sono cambiati i metodi difensivi. Per sconfiggere la corruzione dobbiamo riprendere i metodi di indagine che portarono all'arresto di Mario Chiesa. In assenza di denunce esterne, cercheremo di risalire alla corruzione dall'interno di processi per altra causa. Come dieci anni fa." Se lei ripensa in una prospettiva più fredda ai momenti drammatici dell'inchiesta, ritiene che si sia fatto un uso spregiudicato dei giornali e delle televisioni, con la frequente e mai occasionale uscita di notizie riservate e di verbali? "L'attenzione dell'opinione pubblica si concentra quasi esclusivamente sulla fase delle indagini preliminari. Se tanti giornalisti contemporaneamente cercano una notizia, alla fine qualcosa esce. In ogni caso, certo le campagne di stampa ci hanno aiutato. Ricorderà che qualcuno dei nostri imputati andava in giro indossando magliette con la scritta "Mani pulite"..." Non trova che abbiate fatto alcuni "processi esemplari" per dare un segnale all'opinione pubblica? "Noi cercammo di accelerare la fase delle indagini preliminari, ma si vide subito che il processo previsto nel nuovo Codice di procedura penale era destinato al fallimento. Si immaginava che l'ottanta-novanta per cento dei processi potesse finire con riti alternativi, come il patteggiamento. Non siamo arrivati nemmeno al trenta per cento. I tempi del dibattimento si sono così enormemente allungati e per molti processi si sarebbe rischiata la prescrizione, che si rischia oggi per tanti altri." Lei sa che siete stati accusati di aver avuto un occhio di riguardo nei confronti del Pci-Pds. "Probabilmente, questo partito non aveva bisogno di finanziarsi come gli altri. Quando abbiamo trovato degli illeciti, li abbiamo perseguiti. Ma non è un segreto che una parte rilevante dei finanziamenti al Pci venisse dal monopolio del commercio con l'estero affidato alle sue società di intermediazione." [p. 216] Ritiene che la classe politica sia stata criminalizzata oltre il dovuto?
"No, assolutamente. Il sistema precedente aveva mandato a rotoli il bilancio dello Stato. Alcuni appalti sono stati assegnati negli ultimi anni alla metà di quanto costavano prima. C'è stato poi un ricambio politico che garantisce l'alternanza tra maggioranza e opposizione." [p. 217] VIII: "Forza Italia? Come i pannolini..." "Riuscirà il Cavaliere a vendere?..." "Riuscirà il Cavaliere a vendere la sua Forza Italia come un qualunque pannolino? Che farà la Lega di Bossi, oggi parecchio appannata nella sua immagine di detersivo di regime, dopo l'incresciosa sorpresa della mazzetta incassata da Montedison? Che farà Mariotto Segni? Andrà per suo conto o si metterà sottobraccio con i cascami del vecchio potere Dc? Finirà magari per strizzare un occhio nel Nord a Berlusconi e l'altro nel Sud a Gianfranco Fini?..." Con questi interrogativi, Massimo Riva chiudeva il 29 dicembre del '93 sulla "Repubblica" il bilancio di un anno drammatico e pieno di sconvolgimenti politici. Che ci faceva il presidente della Fininvest in mezzo ai Bossi, ai Fini, ai Segni? Che cos'era quel Forza Italia da vendere come un pannolino? Il cavalier Berlusconi non s'era messo per caso in testa... Ebbene sì, alla fine di quel drammatico '93 aveva deciso solennemente di lasciare "la trincea del lavoro" e di "bere l'amaro calice" per "scendere in campo" nel confuso e polveroso agone della politica. La sinistra era indecisa se salutare l'iniziativa con disprezzo, con fastidio o con entrambi i sentimenti. E, tanto per chiarire, lo stesso Riva annotava elegantemente: "Deposto Craxi, è ora il suo fratello siamese, Silvio Berlusconi, a farsi rumorosamente avanti con il programma di una nuova alleanza fra politica e affari che, facendo esplicita leva sul controllo delle Tv, minaccia campagne elettorali e battaglie politiche di inquietante stampo sudamericano...". [p. 218] Era dunque uscito pazzo il Dottore, come lo chiamavano (e lo chiamano tuttora) i suoi collaboratori? Forse sì, forse no. In quelle feste di fine anno del '93, nessuno poteva dirlo con certezza. Per capire in ogni caso perché Berlusconi aveva deciso di scendere in campo bisogna tornare indietro di qualche mese e rivivere il clima politico e giudiziario di quel periodo. Mani pulite dilagava ormai in tutta Italia. Venivano arrestate, in
media, tre persone al giorno. Politici di ogni livello, amministratori importanti e sconosciuti, faccendieri d'ogni specie, imprenditori d'ogni dimensione. Tutte le mattine, la gente leggeva con avido sdegno i giornali e sentiva covare dentro di sé una repulsione crescente verso l'intero mondo politico. I risultati non si fecero attendere. Il 18 aprile, una valanga di Sì sancì il trionfo di Mario Segni e dei suoi referendum. L'affluenza alle urne era stata strepitosa: 84,9 per cento al Nord, 81,2 al Centro, 64,3 al Sud. Oltre il 90 per cento dei votanti decise l'abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti, con una scelta che fu il frutto tipico dell'emotività. Se Tangentopoli aveva dimostrato che i partiti si finanziavano illecitamente, l'abolizione del finanziamento lecito li costringeva a una drammatica alternativa: rubare ancora o sparire. L'opinione pubblica italiana (che nel '78 aveva respinto un'analoga proposta referendaria) era evidentemente per la seconda soluzione. In ogni caso, rifiutava per principio l'idea che una parte dei soldi pubblici - cioè delle proprie tasse - andasse a "quei signori là". Da un punto di vista strettamente politico, il risultato più significativo del referendum fu il passaggio al maggioritario della legge elettorale per il Senato, che avrebbe portato alla riforma generale del sistema dopo mesi di ulteriori confusioni e polemiche. Ma colpì la voglia popolare di abbattere tutto quello che sapeva di Stato e di potere: scomparvero tre ministeri (ma uno, quello dell'Agricoltura, dovette essere ripristinato clandestinamente perché non si sapeva chi mandare a Bruxelles), fu proibito l'intervento governativo nella nomina dei vertici delle Casse di risparmio, fu depenalizzato l'uso [p. 219] della droga. Votare Sì era segno di novità qualunque cosa si votasse. E il "Corriere della Sera", che come gli altri giornali si mise sulla scia della volontà popolare, l'indomani titolò: Trionfo dei Sì, nasce la nuova Italia. "Le elezioni? Un cataclisma..." Il trionfo antipartito nacque anche dalla malasorte del governo Amato, che nell'autunno precedente aveva varato la manovra economica più coraggiosa della nostra storia (novantatremila miliardi), mentre la Banca d'Italia aveva dissanguato invano le proprie riserve per salvare la lira dalla svalutazione e dall'uscita dallo Sme. Ma proprio nei giorni del referendum, Amato dovette dimettersi. Le ipotesi più accreditate per la successione erano quattro:
Napolitano o Spadolini, presidenti delle Camere, come risposta istituzionale, un reincarico ad Amato o un incarico a Mario Segni. Quest'ultima sarebbe stata la scelta più popolare, ma Scalfaro non poteva farla. Venti giorni prima del referendum, infatti, Segni s'era dimesso dalla Dc. "Il drammatico accelerarsi della crisi" aveva detto "soprattutto in questi ultimi giorni, mi ha definitivamente convinto che il tentativo di riformare dall'interno questo partito è senza alcuna speranza... Non voglio lasciare il dubbio che una vittoria del Sì possa contribuire in qualche modo a rafforzare i vecchi apparati." Il colpo fu particolarmente duro perché appena due giorni prima il nuovo capo della procura di Palermo, Giancarlo Caselli, aveva trasmesso al Senato una richiesta di autorizzazione a procedere contro Giulio Andreotti. Non era la solita storia di mazzette che in quei mesi sembrava non risparmiare nessuno. Si trattava di qualcosa di enormemente più grave: concorso in associazione per delinquere e concorso esterno in associazione mafiosa, diventato poi concorso in associazione mafiosa puro e semplice. La Dc, senza distinzione di correnti, visse l'abbandono di Segni come una pugnalata. "Quello è uno che per cambiare [p. 220] casa la vuole distruggere" commentò De Mita. E Martinazzoli: "Non gli affiderei nemmeno l'amministrazione di un condominio". Scalfaro capì che per la Dc l'incarico a Segni sarebbe stato uno schiaffo e telefonò a Prodi. "Gli offrii palazzo Chigi" avrebbe raccontato il capo dello Stato "e gli dissi che, se voleva, poteva portarsi appresso come vicepremier Segni. Poi telefonai a Mariotto. La risposta fu: "Ma veramente aspettavo per me un ruolo più importante..."." Mi avrebbe confermato Prodi: "Era fatta. Se Mariotto Segni avesse detto di sì quel pomeriggio, era fatta. Eravamo d'accordo con Scalfaro che dovesse nascere qualcosa di profondamente innovativo". Ma Segni gli rispose: "Caro Romano, tu dovrai rinunciare. E dopo di te Scalfaro non potrà che chiamare me alla guida del governo". Si sbagliava. Il capo dello Stato fece una scelta a sorpresa e per il primo "governo del presidente" chiamò a palazzo Chigi il governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi. I referendum e l'uscita da palazzo Chigi dell'ultimo uomo indicato dal vecchio sistema di potere erano soltanto l'antipasto della rivoluzione politica italiana. Il piatto forte arrivò con le elezioni amministrative del 6 giugno che rinnovarono le amministrazioni di molti comuni, tra cui Milano, Torino e Catania. Scrisse Paolo Mieli, nuovo direttore del "Corriere della Sera": "Se un anno fa si era parlato di terremoto per i risultati delle elezioni del 5 aprile,
come dovremmo definire quel che è venuto fuori dalle urne domenica scorsa? Un cataclisma, un'esplosione termonucleare, un big bang... Da un giorno all'altro abbiamo visto ridursi ai minimi termini l'insieme di forze che ha governato l'Italia per quasi cinquant'anni". Il cataclisma s'era avvertito soprattutto al Nord. A Milano la Lega di Bossi aveva toccato il 40,9 per cento dei voti, roba da far leccare i baffi alla buonanima di De Gasperi. La Dc - scesa sotto il 10 per cento - si manteneva mezzo punto sopra il Pds che come lei aveva quasi dimezzato i voti nel giro di un anno. Ma entrambi questi partiti storici venivano scavalcati da Rifondazione comunista che superava il tetto dell'11 per cento. Il Psi - ridotto all'1,6 per cento - perse dodici punti [p. 221] in un anno e diciassette punti in tre anni. Segni andava bene, ma non sfondava. Anche a Torino la Lega era il primo partito (23,4 per cento, il doppio dell'anno precedente), Rifondazione il secondo con quasi il 15 per cento (anche qui il doppio del '92), la Dc il terzo (12,4), il Pds il quarto (9,5). La Dc - guidata da Martinazzoli dopo l'abbandono di Forlani e in procinto di trasformarsi in Partito popolare - tenne le posizioni nel Mezzogiorno e conservò il primo posto a Catania. Ma nemmeno lì riuscì a entrare in ballottaggio: Enzo Bianco, repubblicano, superò Claudio Fava della Rete, il nuovo partito di Orlando. A Milano, il leghista Formentini batté Nando Dalla Chiesa, candidato sindaco del cartello delle sinistre. A Torino, Valentino Castellani, professore universitario del Pds, si affermò sul sindaco storico della città, Diego Novelli, proposto da Rifondazione comunista. La Democrazia cristiana restò il primo partito su base nazionale, ma ormai l'immagine contava più dei numeri. Il Pds di Occhetto, per esempio, subì sia nel '92 sia nel giugno del '93 due batoste micidiali. Ma, nel '92, i grandi giornali mimetizzarono la portata della sconfitta sommando nei raffronti i suoi voti con quelli di Rifondazione, come se si fosse trattato di due partiti gemelli e non di fierissimi avversari originati da una drammatica scissione. Nel '93 Occhetto, forte delle affermazioni a Siena e ad Ancona, disse: "Siamo l'unica forza nazionale". E i giornali gli andarono dietro. Strane bombe d'estate Quando si andò a votare nelle elezioni di giugno, oltre che dai continui sviluppi di Tangentopoli, l'opinione pubblica era turbata da una strana ripresa del terrorismo. Strana perché si trattava di attentati diversi dai soliti, sia per gli obiettivi, sia per le
modalità d'esecuzione. Il 14 maggio, un'autobomba aveva sventrato un palazzo in via Fauro, ai Parioli. Erano rimaste ferite quindici persone, ma restò incolume il [p. 222] vero obiettivo, Maurizio Costanzo, inviso alla mafia per una sua insistente e coraggiosa campagna. Nella notte tra il 26 e il 27 maggio, i terroristi avevano alzato il tiro. Era saltata a Firenze la torre del Pulci, a un passo dagli Uffizi. La bomba aveva sterminato la famiglia della custode dell'Accademia dei Georgofili: con Angela Fiume persero la vita suo marito, il vigile urbano Fabrizio Nencioni, e le due figliolette, l'una di otto anni, l'altra nata da neppure due mesi. Tra le macerie fu trovato un quaderno, c'era una poesia struggente sul tramonto visto da quell'angolo di pace: l'aveva scritta Nadia, la bambina dei Nencioni, e commosse il mondo. Morì anche un ragazzo di vent'anni che dormiva con la sua ragazza in un appartamento vicino. E andò distrutta, dentro gli Uffizi, la Natività di Cristo di Gherardo delle Notti. Altri quadri più importanti furono risparmiati dal caso. Il frastuono elettorale, i suicidi di Cagliari e Gardini e l'ondata di nuovi arresti eccellenti avevano di nuovo distratto l'opinione pubblica, quando la notte tra il 27 e il 28 luglio avvennero altri e più gravi attentati. Tre autobombe scoppiarono contemporaneamente a Roma e a Milano dove, nei giardini di via Palestro, morirono tre vigili del fuoco, richiamati sul posto dal fumo, un vigile urbano e un immigrato marocchino che dormiva all'aperto. Ai funerali, la folla rumoreggiò contro lo Stato. Fu acclamato soltanto il procuratore Borrelli, e il ministro Conso disse di essere rimasto molto impressionato da quel che aveva visto. A Roma non ci furono vittime, ma gli artefici degli attentati arrivarono lì dove nessuno aveva osato. Fu distrutta la bellissima chiesa di San Giorgio al Velabro, sorta nel luogo dove si vuole che la lupa capitolina abbia raccolto Romolo e Remo. E furono sventrati la cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano e l'appartamento del cardinale vicario, Camillo Ruini, che in quei giorni si trovava all'estero. L'indomani, andai a San Giovanni per salutare il cardinale, ignorando che fosse assente. Incontrai due ministri, Rosa Russo Jervolino e Alberto Ronchey, che vi erano andati per proprio conto. Nessuno aveva avvertito il governo che stava [p. 223] per arrivare il papa e nessuno aveva comunicato che per accogliere il papa stava arrivando Scalfaro. Nell'attesa, girai tra le macerie. Il cratere aveva le dimensioni esatte di quello lasciato dalla bomba alla stazione di Bologna. Gli affreschi offesi ricordavano quelli appena
colpiti agli Uffizi. I portali abbattuti e le panche divelte mi riportarono alle chiese distrutte dai terremoti in Irpinia e in Friuli. Una lapide commemorativa, trafitta da fori che sembravano prodotti da tiri d'artiglieria, faceva pensare a Beirut e a Belfast. Arrivarono Scalfaro e il papa. Mi ero dimesso da poco dalla direzione del Tg1 e in azienda si riteneva che il mio volto fosse impresentabile (tanto è vero che non potei mostrarlo nel brevissimo servizio della sera, autorizzato all'ultim'ora perché ero stato l'unico giornalista testimone dell'incontro). Ma all'esterno, per fortuna, queste cose non avevano peso e così fui in grado di seguire quei due vecchi signori a un passo di distanza, insieme con il capo della polizia Vincenzo Parisi. Il papa e il capo dello Stato si scambiarono pochissime parole. Scalfaro era ingessato dalla rabbia, Wojtyla era turbatissimo. I tecnici sostenevano che gli attentatori non avevano voluto uccidere. Ma tra Firenze e Milano c'erano stati dieci morti e l'oltraggio di Roma era altissimo. Secondo lei chi può essere stato?, chiesi a Parisi. Che parentela può esserci con le altre bombe della triste storia italiana? Il capo della Polizia mi rispose con una frase che rivelo per la prima volta e che mi turbò profondamente: "Quelle bombe stabilizzavano. Queste mi preoccupano di più". Non me la sentii di proseguire il discorso, anche perché Scalfaro e il papa erano a un passo. Ma mi si gelò il sangue, non tanto per il presente, quanto per il passato. E il lettore capirà perché, senza che spenda altre parole. Aggiungo soltanto che Parisi, stretto collaboratore di Scalfaro fin dai tempi in cui questi era ministro dell'Interno, era assai stimato da ogni parte politica ed è stato il capo della polizia più influente e autorevole dai tempi di Angelo Vicari. Alcuni giorni più tardi, l'inquietudine per gli attentati crebbe. Si seppe che nella notte del 27 luglio, subito dopo le [p. 224] esplosioni di Milano e di Roma, palazzo Chigi era rimasto isolato telefonicamente dal resto del paese per due ore e mezzo. Lo ammise lo stesso ministro dell'Interno Mancino, uomo abituato a pesare le parole, che in un'intervista al "Corriere della Sera" chiamò in causa sia la criminalità organizzata sia i consueti spezzoni deviati dei Servizi segreti e parlò apertamente di "preoccupazioni per possibili involuzioni autoritarie di fronte alla crisi del sistema". A sei anni di distanza dai fatti, Craxi me ne propone una lettura diversa. Anzi, non me la propone lui, me la riferisce perché gli è stata proposta da altri. Debbo chiarire che, nei tre colloqui che abbiamo avuto tra il '95 e il '99 ad Hammamet, l'ex presidente del
Consiglio è stato assai prudente e corretto nel distinguere fatti di cui ha conoscenza diretta e sui quali si sente di esprimere giudizi da fatti che non conosce direttamente e sui quali gli sono pervenute interpretazioni di seconda mano. Una di queste si riferiva alle bombe dell'estate '93. Il 4 agosto di quell'anno, parlando alla Camera, Craxi chiese ai deputati di lasciarlo ormai al suo destino di inquisito. Parlò proprio nel giorno in cui il Parlamento licenziava la nuova legge elettorale. E disse di prevedere altre bombe: "C'è una mano invisibile che punta a esasperare tutti i fattori di rottura". Oggi, rivela che, per alcune sue fonti, quelle bombe furono messe per compattare l'opinione pubblica scossa dai continui arresti eccellenti di Mani pulite e dai suicidi di Gardini e di Cagliari, avvenuti solo pochi giorni prima degli attentati di Milano e di Roma. "Chissà dove ci porteranno stanotte..." In realtà, quella notte il presidente del Consiglio Ciampi temette che fosse in atto un movimento contro la democrazia. Il suo portavoce Paolo Peluffo stava mangiando la pizza con la moglie e una coppia di amici quando fu avvertito della bomba di Milano. Chiamò Ciampi a casa e il presidente disse che per l'indomani mattina avrebbe convocato il comitato per l'ordine [p. 225] e la sicurezza pubblici. Pochi minuti dopo, come gran parte dei romani che si trovavano in centro, Peluffo sentì il rumore delle esplosioni al Velabro e a San Giovanni. Ciampi decise a quel punto di andare a palazzo Chigi. Peluffo, che era più vicino, vi arrivo per primo e si rese conto che nessuno degli uomini di guardia era stato informato dell'arrivo del presidente del Consiglio. Entrò nella sala stampa e scoprì che i telefoni erano isolati. Salì nel suo ufficio, poi fece aprire lo studio del presidente del Consiglio: stessa cosa. Poco dopo, arrivò Ciampi: aveva provato a chiamare anche lui senza riuscirvi. Fu allora che il capo del governo disse al suo giovane collaboratore: "Chissà dove ci porteranno stanotte". Tre attentati simultanei nelle due più importanti città italiane con conseguenze gravissime e il contemporaneo blackout telefonico della presidenza del Consiglio lasciavano presagire il peggio. Dal cellulare, Peluffo chiamò i cronisti politici dei principali quotidiani e li invitò a correre a palazzo Chigi: voleva che il maggior numero di persone fosse presente nel più importante palazzo del potere nazionale. Era una notte inquieta e la presenza di testimoni qualificati poteva rivelarsi rassicurante, anche se per evitare allarmi ulteriori Peluffo non fece
menzione del blackout telefonico e inventò una gracile bugia: "Di notte, stacchiamo i telefoni". Per parlare con le alte cariche dello Stato, Ciampi usò il centralino del ministero dell'Interno. Conferì con Scalfaro: il presidente aveva intenzione di convocare immediatamente una riunione con i responsabili dell'ordine pubblico. Ciampi lo pregò di soprassedere: avrebbe provveduto lui. E lo fece quella notte stessa. Il blackout durò ancora molte ore e fu attribuito dai tecnici a un "guasto erratico": imprevedibile, insondabile, inspiegabile. Dopo un'inchiesta istruttoria e dibattimentale durata cinque anni, il 6 giugno 1998 la Corte d'assise di Firenze condannò all'ergastolo quattordici persone per le bombe di via dei Georgofili, dei giardini di via Palestro a Milano e delle basiliche romane. Ne attribuì la paternità a mafiosi d'alto rango, da Leoluca Bagarella al latitante Bernardo Provenzano, salito sul trono di Cosa Nostra dopo la forzata abdicazione di Totò [p. 226] Riina. Giovanni Brusca ebbe vent'anni perché s'era pentito. Come avevate scelto obiettivi così raffinati?, gli fu chiesto durante il processo. Consultando le guide, rispose Brusca. Nessuno, ovviamente, gli credette. Poiché le duemila pagine della motivazione furono depositate soltanto nell'estate del '99, il giudizio d'appello alla fine del secolo è ancora di là da venire. Insieme con il chiarimento reale e definitivo di un altro mistero italiano. La sinistra fa bingo La "rivoluzione italiana" marciava, intanto, inarrestabile. Per arrivare alla vera liquidazione della Dc e all'ulteriore presa di potere della Lega nelle medie città del Nord e del Pds nel resto d'Italia si dovettero aspettare le elezioni amministrative di novembre. La sinistra conquistò tutte le città italiane più importanti. Leoluca Orlando sfondò a Palermo fin dal primo turno. Rutelli a Roma e Bassolino a Napoli dovettero aspettare il ballottaggio, come Cacciari a Venezia, Illy a Trieste, Sansa a Genova. Il partito di Martinazzoli scese, rispetto alle pur difficili elezioni politiche del '92, dal 27 all'11 per cento a Roma, dal 32 al 10 a Napoli, dal 22 al 14 a Trieste. A Venezia e a Genova, la Dc aveva perfino cambiato nome facendo spuntare la definizione "popolare", ma ciò nonostante aveva perso rispettivamente sette e otto punti. Ne perse venti a Caserta, tredici a Macerata, nove a Benevento: eppure, queste furono indicate tra le città dove la
resistenza scudocrociata era stata maggiore. Il Pds non ebbe affermazioni numeriche vistosissime, ma recuperò un po' dovunque rispetto alle elezioni politiche e soprattutto fece il pieno di sindaci sfruttando con abilità il gioco delle alleanze e presentando, con la sola eccezione di Bassolino, personalità della "società civile" (Cacciari, Illy, Sansa) o politici meno usurati degli altri (Rutelli) a un'opinione pubblica che aveva una spaventosa crisi di rigetto nei confronti dei partiti. Ma la vera, clamorosa novità di queste elezioni fu l'esplosione [p. 227] del Movimento sociale. A Roma, a Napoli e in altre città del Centrosud tradizionalmente democristiane come Chieti e Latina il vero carnefice della Dc fu Gianfranco Fini. Al punto da ispirare una crudele vignetta di Giannelli sulla prima pagina del "Corriere della Sera" dove la fiamma missina rosolava un pollo allo spiedo con l'immagine contrariata di Mino Martinazzoli. Titolo: "Exit-poll". Avevamo lasciato Fini all'inizio del '91: il congresso di Rimini gli aveva restituito un Msi stremato dopo la disastrosa parentesi di Rauti e avviato a un'onesta sopravvivenza. Nel primo anno della nuova gestione, il segretario era riuscito a consolidare le posizioni sia a Roma sia a Napoli, dove le simpatie di destra non sono mai mancate, sfiorando alle politiche del '92 in entrambe le città il 10 per cento: un risultato di tutto rispetto che sembrava, a ragione, insuperabile. Bene, domenica 21 novembre 1993 l'Msi raggiungeva il 32 per cento a Roma: quasi il doppio del Pds e quasi il triplo della Dc. E superava il 31 per cento a Napoli: un terzo in più del Pds del panzer Bassolino e il triplo abbondante della Dc. Il risultato più clamoroso, comunque, l'Msi lo ottenne a Bolzano: il doppio dell'Svp, il quadruplo dei democristiani. Che cos'era successo? "Era successo" mi dice oggi Gianfranco Fini "che la Dc non aveva capito il cambiamento impresso alla storia dalla caduta del Muro di Berlino. Il principale problema dei democristiani non era la corruzione, che pure certo ne erodeva il consenso, il problema era che - caduto il comunismo - cadeva anche il vincolo ideologico di votare Dc. I cittadini erano finalmente liberi di scegliere secondo le loro effettive convinzioni, senza più doversi turare il naso e votare per i candidati democristiani, come aveva una volta suggerito Montanelli." L'Msi dalle fogne all'altare Dalla sera alla mattina l'Msi - accompagnato per decenni dal dolce viatico "fascisti@ carogne@ tornate nelle fogne" - diventò un partito
rispettabile. Alessandra Mussolini, tenace [p. 228] avversaria di Bassolino a Napoli, era corteggiatissima dalla stampa straniera alla quale non pareva vero di poter riscrivere un nome che aveva riempito per vent'anni i giornali di tutto il mondo. E la ragazza, orgogliosa di tanto nonno, non aveva difficoltà a farsi ritrarre con il braccio destro alzato. Anche ai comizi di Fini c'era molta nostalgia del Ventennio, ma il segretario aveva cominciato l'ampia virata che di lì ad appena quattro mesi l'avrebbe portato clamorosamente al governo. Volete che un terzo dei romani e dei napoletani siano fascisti?, chiese Fini l'indomani del primo voto. E lasciò intuire il programma di trasformare il vecchio Msi in un partito della destra gollista. Magari - questo era il sogno - associandovi il signor Cossiga Francesco. Il risultato più clamoroso del primo turno a Roma fu la secca eliminazione del candidato democristiano. Martinazzoli aveva scelto un eccellente funzionario dello Stato, il prefetto Camillo Caruso, che aveva operato assai bene sia a Milano sia a Roma e sarebbe morto alcuni anni dopo le elezioni. "Era una brava persona" ricorda Fini "ma capii una domenica allo stadio che non ce l'avrebbe fatta. Si giocava Roma-Lazio. In tribuna c'eravamo tutti: Rutelli, grande tifoso della Lazio, io che tengo per il Bologna ma a Roma tifo Lazio. E c'era il prefetto Caruso. Mia moglie gli chiese candidamente. "Lei per chi fa il tifo?". Caruso, in perfetto stile democristiano, evitò di schierarsi: "A me stanno simpatiche entrambe le squadre. Vinca il migliore". Quelli che si trovavano intorno a noi cominciarono a rumoreggiare: al derby non puoi stare con entrambe le squadre. O di qua o di là, si sentiva dire alle nostre spalle. Il derby anticipava il bipolarismo e Caruso non andò al ballottaggio." Gli analisti più attenti furono colpiti dal fatto che l'Msi aveva espugnato a Roma molte borgate che erano autentiche roccaforti comuniste. Nessuno poteva immaginarlo, ma lì covava uno degli elementi che determinarono il successo del centrodestra alle elezioni del '94. "In pochi mesi il clima politico era cambiato enormemente" mi dice Fini. "Ci sono quartieri - [p. 229] piazza dei Mirti, villaggio Breda, villa Gordiani - in cui per fare una manifestazione nella campagna elettorale del '92 avevamo dovuto attrezzarci con il servizio d'ordine. Quando, nell'autunno del '93, ci tornai prima del ballottaggio con Rutelli, non solo non ci fu più bisogno del servizio d'ordine, ma non ci fu nessuno che volesse contestarmi. E ancora oggi mi chiedo come fosse possibile."
Se il ghiaccio di un iceberg dopo cinquant'anni si sciolse improvvisamente al sole, secondo Fini, il merito decisivo lo ebbe la televisione. "I cittadini eleggevano per la prima volta direttamente il sindaco" ricorda "e per la prima volta alla vigilia del ballottaggio ci furono i duelli televisivi. Fini contro Rutelli, Mussolini contro Bassolino. Sono andato a rivedermeli di recente ed erano davvero uno spettacolo. La Mussolini, una simpatica via di mezzo tra Sofia Loren e non so che cosa, apostrofava l'avversario: "'A Bassolì, con quella faccia fai cadere la lira!". Rutelli e io eravamo tutti e due giovani, sembravamo persone perbene, davamo insomma l'idea della novità. E la gente usciva dallo psicodramma della corruzione, delle manette, degli arresti eccellenti. Cadeva l'idea della politica fatta nell'opinione generale da ladroni o da signori polverosi e impagliati che parlavano il linguaggio oscuro delle "convergenze parallele". Quando io dicevo cose pesanti come: "Bisogna bonificare la stazione Termini, ci sono troppi clandestini", dicevo esattamente quello che tanta gente voleva ascoltare da un uomo politico, anche nelle periferie più estreme. Mi disse un signore francese: lei dice a voce alta quel che molti pensano, ma si vergognano di dire." E il Cavaliere disse: "Voterei Fini" Poiché i giornalisti italiani, per antica tradizione, annusano il vento con straordinaria tempestività, i colleghi del "Secolo d'Italia" scoprirono di essere passati nel giro di poche ore dalle fogne all'altare. Alla Rai, secondo consuetudine, ci furono gli avanguardisti. Cambi di casacca a viale Mazzini, titolò il [p. 230] "Corriere della Sera" Non è di moda dirsi democristiani. Massimo Magliaro, il capo ufficio stampa di Almirante assunto da poco a Saxa Rubra, raccontò al giornale milanese di essere rimasto interdetto per la processione di colleghi "democratici" che in mensa erano andati a complimentarsi con lui. Non furono da meno i giornalisti della stampa parlamentare. Raccontò Italo Bocchino, giovane cronista del "Secolo d'Italia": "Fino a ieri mi guardavano come un insetto. Oggi sono una star. E le telefonate di complimenti al partito non si contano". Al di là degli omaggi rituali suggeriti da lealtà sportiva e soprattutto dal "non si sa mai...", lo choc per l'affermazione missina fu comunque fortissimo. Le grandi anime laiche si divisero. "Non giochiamo con la Fiamma" ammonì Leo Valiani. E ricordò che, nel
'52, Pio XII temeva l'affermazione dei comunisti a Roma e ordinò a Sturzo, che durante il fascismo se ne era andato in esilio a Londra, di fare una santa alleanza tra Dc e Msi. "De Gasperi" scrisse Valiani "riuscì a opporsi a questa pressione vaticana solo facendo presente che essa avrebbe portato alla rottura tra il suo partito e i partiti laici antifascisti che dell'alleanza democratica anticomunista, allora esistente su scala mondiale, facevano organicamente parte." Più lungimirante fu Vittorio Foa. Disse a Maria Latella: "Per il momento, nella nuova destra, mi preoccupa più la Lega dell'Msi". E aggiunse: "Non mi stupirei se l'Msi affrontasse un passaggio difficile come quello sostenuto dal Pci nell''89. Dopo la Bolognina di Occhetto potrebbe esserci una Predappina...". E infatti ci sarebbe stata, tredici mesi dopo, a Fiuggi. Al ballottaggio del 5 dicembre, un miracolo come quello che Giorgio Guazzaloca avrebbe fatto sei anni più tardi a Bologna non ci fu, né avrebbe potuto esserci. Fini arrivò a uno strabiliante 47 per cento. Si fermò lì e fu la sua fortuna, per quel che sarebbe accaduto poco dopo. La Mussolini toccò il 42 per cento e anche questo fu un risultato superiore a ogni attesa. Quella domenica, allo stadio di San Siro, il presidente del Milan Silvio Berlusconi fu contestato da un gruppetto di tifosi [p. 231] di sinistra. "Presidente vergognati" gli scrissero su uno striscione. Era la prima volta che il Milan giocava in casa dopo il turno elettorale. Due giorni dopo il voto del 22 novembre, Berlusconi aveva inaugurato un ipermercato a Casalecchio di Reno, in Emilia. Un cronista gli chiese per chi avrebbe votato nel ballottaggio romano tra Fini e Rutelli e lui senza battere ciglio rispose: "Fini". Apriti cielo. Larga parte del mondo politico dipinse Berlusconi come un pericolo per la democrazia, la grande stampa lo mise in croce. "L'Espresso" - proseguendo una campagna cominciata con la "guerra di Segrate" per il controllo della Mondadori e cessata soltanto nell'estate del '99 con la fine della direzione di Claudio Rinaldi lo mise in copertina vestito da fascista con tanto di fez. (Nella campagna elettorale del '94, Berlusconi sarebbe rimasto un pericolo pubblico, mentre Fini sarebbe stato accreditato come interlocutore democratico. E questa distinzione di ruoli si sarebbe ripetuta di tanto in tanto fino alla fine del secolo.) La domenica del ballottaggio, Berlusconi non parlò di Gianfranco Fini. Confermò invece che avrebbe cercato di convincere Bossi, Segni e Rosy Bindi a fare una grande coalizione in grado di battere le sinistre alle elezioni politiche previste per la primavera
successiva. Interpellato nella sua villa di Macherio da Dario Di Vico del "Corriere della Sera" subito dopo il risultato finale delle elezioni, il Cavaliere disse: "Tutto è andato secondo le previsioni. Appare chiaro che, per evitare una vittoria della coalizione strettasi intorno al Pds, occorre scendere in campo con un'alleanza delle forze democratiche che credono nel liberismo". Alle incertezze del giornalista, che non riusciva a figurarsi il Senatùr a braccetto con la pasionaria democristiana, Berlusconi sospirò e rispose che avrebbe bevuto "l'amaro calice" e sarebbe sceso direttamente in lizza. Aggiunse, con l'espressione che ormai il lettore conosce bene: "Da diversi sondaggi emerge... che su certe mie prese di posizioni c'è stato un plebiscito". Agnelli: "Ne ha parlato a Berlusconi?" "Professore, stasera verrebbe a prendere un aperitivo da me ad Arcore?" Giuliano Urbani non conosceva personalmente Silvio Berlusconi, ma sapeva la ragione dell'invito e accettò. Uscendo il 29 giugno 1993 dalla sua casa al parco Sempione disse alla moglie che sarebbe rincasato per cena. Rientrò invece alle due del mattino del giorno dopo, convinto in compenso che la sua vecchia idea di contrapporre qualcosa di organico all'egemonia delle sinistre forse stava facendo qualche passo in avanti. Urbani era professore di scienza della politica alla Bocconi di Milano. Di area liberale, pur stimato da tutti, aveva contato poco o nulla in politica perché quel mondo era schiacciato dalla Dc e dal Pci: qualche modesta incursione veniva consentita (e nemmeno tanto) ai soli intellettuali socialisti. Nel dibattiti ideologici in Tv degli anni Settanta, invitavamo ogni tanto Urbani soltanto se al tavolo era libero il posto dei "laici minori". Anche quando sono esclusi dal circolo dei media, per fortuna, i cervelli che ne sono capaci non smettono di pensare e così, dopo il primo turno delle elezioni amministrative (6 giugno 1993), Urbani si convinse, dati alla mano, che la sinistra unita con il 30 per cento dei voti alla Camera - grazie al nuovo sistema elettorale che andava definendosi in quelle settimane - avrebbe conquistato i due terzi dei seggi, facendo cappotto. Come evitarlo? Nelle sue conferenze di quei giorni ai Rotary Club e alle associazioni degli industriali del Nord, Urbani dettò una ricetta che i presenti apprezzarono come un buon dessert, ma alla quale non accreditarono un briciolo di realismo. Nel
vecchio sistema proporzionale, diceva in sostanza Urbani, contavano i grandi partiti. Nel maggioritario contano gli uomini che devono affrontarsi collegio per collegio. Per contrastare l'egemonia della sinistra, bastava dunque che un polo moderato presentasse persone rispettabili con un forte radicamento locale. "Quando feci questo discorso al comitato direttivo di [p. 233] Confindustria" mi raccontò Urbani "vidi tutti interessati alla diagnosi, ma poco disposti a tentare la terapia." Il professore non dovette meravigliarsene. Gli industriali italiani sono filogovernativi per natura e vocazione. Quasi nessuno di loro è uomo di sinistra, ma si sa come va il mondo: bisogna pur vivere. E in quel mese di giugno '93, l'avanzata delle truppe di Occhetto faceva impallidire quella del Terzo Reich nel '39. Dunque, invece di compromettersi chiudendo le porte della cittadella che sarebbero state sfondate con facilità, era meglio spolverare i mobili di famiglia per accogliere degnamente i vincitori che minacciavano di non andarsene per un pezzo. Il 22 giugno, Urbani trovò la stessa aria allo stato maggiore della Fiat. Con una preziosa variante. "Ne ha parlato con Berlusconi?" gli chiese Giovanni Agnelli. "Non lo conosco" replicò il professore. La domanda dell'Avvocato era in realtà una raffinatissima provocazione. Anche se guidava il secondo gruppo privato italiano, Silvio Berlusconi non era mai entrato nel salotto buono della grande industria. Per dirla tutta, anzi, era considerato un parvenu. A parte De Benedetti, sponsor storico della sinistra, nessuno dei grandi industriali italiani aveva mai avuto fremiti rivoluzionari. Ma era immaginabile che un Agnelli, un Pirelli, un Falck, un Lucchini, un Pesenti, un Merloni, un Orlando si mettessero in un'impresa come quella suggerita da Urbani? Nemmeno a pensarci. Berlusconi era davvero l'unico che potesse prendere in considerazione una follia del genere. Non era il più straordinario uomo di marketing apparso sulla scena negli ultimi decenni? Non aveva creato un impero televisivo comprando reti da grandi editori che avevano fallito? Non aveva trasformato perfino il mondo del calcio, costruendo la dittatura del Milan? Ma non era per le indiscutibili capacità imprenditoriali che l'Avvocato aveva pensato a Berlusconi. In quell'estate del '93, era chiaro a tutti che la sinistra avrebbe cercato di stroncare la Fininvest. Nel '90, quando la legge Mammì permise al Cavaliere di mantenere la proprietà [p. 234] di tre reti televisive come la Rai, i ministri della sinistra democristiana si
dimisero per protesta. Il Pds scatenò l'inferno, ma il pentapartito fondato sull'accordo tra Craxi, Forlani e Andreotti aveva allacciato le cinture di sicurezza e la legge resse. Fino a quando? Se la sinistra avesse conquistato una larghissima maggioranza assoluta dei seggi, c'era da giurare che la Mammì avrebbe avuto la stabilità di un francobollo senza colla al centro di un tornado. "E infatti" mi raccontò Urbani "all'inizio trovai in Berlusconi un cocktail di sentimenti in cui l'allarme individuale era una componente dominante all'ottanta per cento." Nella successiva campagna elettorale, a dimostrazione della volontà del Pds di distruggere Berlusconi e le sue aziende, alcuni giornali attribuirono a Massimo D'Alema una frase rimasta famosa: "Manderemo il Cavaliere a mendicare all'angolo della strada". Quando, cinque anni dopo, invito il presidente del Consiglio a confermare quella bieca intenzione, D'Alema risponde asciutto: "Non ho mai pronunciato quella frase. E' uno dei falsi più famosi". Prego? "Dissi, con una tipica battuta da Transatlantico: altro che andare al governo, se le banche gli chiedono di rientrare quello finirà con il chiedere l'elemosina in via del Corso. Ma è fuori del mio carattere mandare qualcuno a fare qualunque cosa..." Segni e Bossi, uomini del destino Il colloquio tra il Cavaliere e Urbani, abbiamo detto, si concluse alle due del mattino del 30 giugno 1993. Qualche ora dopo a villa San Martino di Arcore, quartier generale di Berlusconi, fu convocato un giovanotto alto, calvo e malmesso per un recente intervento chirurgico. Era Gianni Pilo, responsabile del marketing editoriale della Fininvest. "Rimettiti subito in sesto" ordinò il Cavaliere al giovanotto "qui c'è il rischio di dover fare un partito in quattro e quattr'otto." Pilo commissionò alcuni riservatissimi sondaggi a due istituti demoscopici, il francese Sofres e l'italiano [p. 235] Abacus. Vennero confermate alcune idee che a Berlusconi già frullavano nella testa. La grande maggioranza dell'elettorato era disposta ad appoggiare un'iniziativa politica moderata, a patto che non fosse la Dc a guidarla. Aveva sfiducia nel mondo politico, non sapeva nulla del nuovo sistema maggioritario, ma era compatta nel richiedere un cambiamento che coinvolgesse persone nuove. I leader più graditi erano Mario Segni e Umberto Bossi, ma quest'ultimo non oltrepassava il Po e non superava un certo sbarramento culturale.
Berlusconi trasse le conseguenze. L'uomo designato a guidare il cambiamento era Segni, ma occorreva coinvolgere la Lega. La Dc, tutt'al più, avrebbe potuto avere un ruolo sussidiario. "Aveva capito" mi disse Urbani "che se Craxi era diventato la vittima sacrificale di Tangentopoli come persona, la Dc lo era diventata come partito." Con il passare delle settimane, Berlusconi cominciò a innamorarsi del giocattolo che stava costruendo. "La preoccupazione per l'avvenire del mio gruppo" mi confessò "veniva via via sostituita da una preoccupazione più generale. Fu così che cominciai a dedicare alla politica il dieci, il trenta, il cinquanta per cento del mio tempo." Le consultazioni diventarono sempre più frenetiche e allargate: Letta e Confalonieri, Dell'Utri e Del Debbio, Urbani e Martino, Previti e Pannella, Vertone e Scognamiglio e, naturalmente - a quattr'occhi - Segni e Bossi. Nel mese di luglio, Berlusconi inventò anche il nome del suo movimento (la parola "partito" era allora bandita da qualunque discorso sensato): si sarebbe chiamato Forza Italia. In agosto, tuttavia, Berlusconi dovette subire in casa le contestazioni più serie e più dure. Fedele Confalonieri e Gianni Letta gli dissero in termini disperati che l'avventura politica avrebbe portato alla rovina lui e le sue aziende. I due si dividevano alla pari il cuore del Cavaliere e le responsabilità dell'azienda in campi diversi e complementari. Confalonieri, braccio destro di Berlusconi nella conduzione del gruppo, uomo intelligente e di grandissimo buonsenso, era l'amico di [p. 236] sempre, il compagno d'avventure giovanili che suonava il pianoforte mentre Silvio cantava canzoni francesi: così entrambi arrotondavano dignitosamente il magro budget studentesco. L'amicizia e la collaborazione con Letta erano più recenti, ma Berlusconi non si stancava (e non si stanca) di ripetere che senza di lui non sarebbe mai arrivato dov'è (tranne che a palazzo Chigi, e vedremo perché). Letta aveva compiuto tutta la sua carriera al "Tempo" di Roma, fino a diventarne direttore alla morte di Renato Angiolillo nel '73 e a restarvi per quattordici anni, salvando il giornale da gorghi fin da allora assai insidiosi. Da quando era passato a lavorare con Berlusconi, diventando il vicepresidente della Fininvest Comunicazioni, si occupava dei rapporti più riservati con il mondo politico e non solo. Tanto per capirci, senza le sue instancabili mediazioni Oscar Mammì non avrebbe mai partorito la sua famosa e controversa legge sull'emittenza televisiva. Letta non ha nemici, con la gente che conosce ha soltanto rapporti di maggiore o
minore amicizia. Riuscì perfino a restare nel consiglio d'amministrazione dell'Editoriale L'Espresso dopo la guerra di crudeltà bosniaca tra Berlusconi e De Benedetti per il controllo della Mondadori. L'agenda, che da decenni la sua segretaria Lina Coletta gli aggiorna, potrebbe concorrere senza problemi al Guinness dei primati. Non c'è infatti famiglia che conti in Italia la quale, perdendo un parente, non abbia letto l'indomani sui giornali la commossa partecipazione di Gianni e Maddalena Letta. "Silvio, non farlo..." In quella cruciale estate del '93, i tempi delle decisioni erano così stretti che per una volta il Cavaliere rinunciò alla tradizionale vacanza di lavoro con i suoi alle Bermuda, dove possiede una villa accanto a quella di Ross Perot, e precettò Letta e Confalonieri per un breve ma intenso soggiorno alla Certosa, la più bella delle sei ville che possiede in Costa Smeralda ("Sa, ho cinque figli e come ogni buon padre non voglio [p. 237] che litighino..." mi disse una volta per giustificare tanta magnificenza). Per quattro giorni li fece trottare nel jogging lungo il percorso golfistico del Pevero, sperando di sfiancarli e di ridurli al silenzio. Ma, con il penultimo alito di vita, Letta e Confalonieri gli fecero il seguente, implacabile discorso: "Caro Silvio, se tu scendi in campo, vai certamente incontro a due conseguenze: il suicidio aziendale e il fallimento politico. Ammettiamo che tu riesca a far nascere Forza Italia: noi siamo sicuri che i partiti al potere ti faranno abortire prima delle elezioni. Possono spazzarci via su due piedi con una nuova legge sulla televisione. Possono dire alle banche di chiuderci il credito. [La Fininvest era allora indebitata per tremilacinquecento miliardi.] Possono istigarci contro qualche magistrato che non ci ama. E tu, caro Silvio, sai che se un giudice ti prende di punta, anche il giusto pecca sette volte. [Questa frase per anni sarebbe tornata all'orecchio del Cavaliere.] C'è poi il discorso più strettamente politico. Come fai a costituire in così poco tempo un movimento credibile che convinca la gente a votare per qualcosa di completamente inedito? Come fai a convincere i candidati a gettarsi allo sbaraglio senza garanzia alcuna? E, soprattutto, come fai a mettere insieme forze politiche che si detestano tra loro e non mancano occasione per distinguersi l'una dall'altra?". Quando lasciarono la stupenda dimora affacciata sull'isola di Tavolara e allietata dalle vasche d'acqua chiara realizzate da Andrea Cascella, Letta e Confalonieri erano di parere opposto. Letta, che
aveva inondato Berlusconi di fluviale pessimismo, pensava d'averlo convinto a mollare. Confalonieri no. Aveva ragione "Fidel". Al rientro dalle vacanze, il Cavaliere continuò a giocare su due tavoli. Da un lato testava la propria eventuale credibilità come leader politico. Dall'altro cercava di mettere ordine nell'armata Brancaleone di chi non voleva allearsi con il Pds. I risultati dei sondaggi sull'eventuale discesa in campo di Berlusconi furono sorprendenti: anche mescolato con quelli di Agnelli, De Benedetti, Benetton e di altri imprenditori, il [p. 238] nome del Cavaliere emergeva. I problemi nascevano sul fronte delle alleanze. Per venticinque giorni di seguito, in ottobre, nei salotti riservati dell'hotel Four Seasons di via Gesù a Milano, Urbani condusse per conto del Cavaliere frenetiche trattative con gli uomini di Bossi e di Segni. Giulio Tremonti (che allora stava con Segni) partorì l'idea del federalismo fiscale. Letta, preoccupato di scoprire troppo il fianco politico della Fininvest, pur continuando a gridare a Berlusconi che stava correndo verso la rovina, cercava almeno di ancorarlo al centro, favorendo i suoi incontri con Martinazzoli. I due si videro tre volte: ad Arcore, nello studio del segretario democristiano a Brescia, in casa di Gianni Letta a Roma. L'accordo naufragò per due ragioni. Da un lato Martinazzoli non credeva ai sondaggi sullo straripamento della sinistra, dall'altro non aveva nessuna intenzione di allearsi con la Lega e meno che mai con l'Msi. Cercò di convincere Berlusconi a schierare alcuni dei suoi uomini con il nuovo Partito popolare prevalentemente in Lombardia e comunque su posizioni di seconda fila. ("Non sapeva" mi disse Urbani "che i sondaggi di Berlusconi erano univoci nel sostenere che la Dc non avrebbe potuto gestire il cambiamento.") Mi raccontò Martinazzoli: "Quando chiesi a Berlusconi se considerava indispensabile l'alleanza con Fini, si mantenne sulle generali. Gli spiegai che il partito non ci avrebbe seguiti su quella strada. E che non potevamo allearci con Bossi, che si dichiarava nemico mortale della Dc e ci avrebbe fatto la guerra in tutti i collegi del Nord". Alla fine, di fronte all'insistenza di Berlusconi con i numeri, Martinazzoli sbottò nella celebre frase: "Cavaliere, non si fa politica con il pallottoliere". All'inizio di ottobre, con un colpo di scena Berlusconi nominò Franco Tatò amministratore delegato della Fininvest con l'incarico preciso di risanarne i bilanci. Anche i nemici del Cavaliere dovettero ammettere che era la scelta giusta. "Per il solo fatto di esistere" diceva un suo collaboratore "Franco fa risparmiare." A chi
gli chiedeva le ragioni del successo, Tatò rispondeva con l'aria assorta di chi legge Musil in tedesco: "Sto seduto sulla cassa". In realtà, incrociando il suo [p. 239] sorriso nei corridoi, qualunque dipendente delle aziende da lui amministrate avrebbe ammesso che quello di Dracula al confronto era la lieta réclame di un dentifricio. Una sua passeggiata su qualunque bilancio avrebbe fatto assomigliare Attila a un amorevole giardiniere. Agli occhi di Berlusconi, Tatò aveva un inestimabile valore aggiunto: l'aveva giurata a Carlo De Benedetti. Gli aveva risanato l'Olivetti e ancora alla fine del '99 gli avrebbe rimproverato di averla distrutta. Tatò era poi passato in Mondadori dopo la vittoria di Berlusconi nella "guerra di Segrate". E ora veniva promosso nel cuore dell'impero. "L'Espresso" ebbe un travaso di bile. Piazzò Berlusconi in copertina con la faccia incorniciata da due titoli. A sinistra: A me i soldi. A destra: A me i voti. Era voce comune, ormai, che il Cavaliere sarebbe sceso in campo. "La Repubblica" lo annunciò il 17 ottobre. Ma subito dopo Berlusconi smentì in un'intervista a "Epoca", pur mostrando per la prima volta il simbolo del Club Forza Italia, presentato peraltro come il movimento fiancheggiatore di un polo moderato ancora da costruire. La sua non era soltanto pretattica. Urbani mi avrebbe confermato che quelli furono gli ultimi giorni in cui il Cavaliere cercò un accordo tra Segni e Bossi. Ma i sondaggi ormai bocciavano l'accoppiata: i due venivano percepiti come persone troppo diverse per andare d'accordo. E Scalfaro disse: "Non ci sto" I frenetici contatti di Berlusconi venivano considerati dal Palazzo con la cinica indifferenza che i bambini crudeli manifestano nel guardare una mosca impazzita sotto un bicchiere. Alle elezioni di novembre, la sinistra guidata dal Pds aveva conquistato tutti i sindaci delle grandi città italiane e la straordinaria quantità di voti portata a casa dall'Msi veniva interpretata soltanto come il certificato di morte della Democrazia cristiana. Quanti lustri sarebbero occorsi ancora per scongelare merce che era in freezer da cinquant'anni? I [p. 240] grandi giornali facevano a gara nel riconoscere al Pds un ruolo che ancora l'anno precedente nessuno avrebbe osato immaginare. Paolo Mieli parlava sul "Corriere della Sera" di "effetto obiettivamente stabilizzante del voto", mentre sulla "Repubblica" Eugenio Scalfari esaltava la "Grande alleanza stipulata tra la società civile e la sinistra riformatrice e
riformata, tra la borghesia progressista e il lavoro dipendente produttivo". Perfino la gravissima crisi che toccò il Quirinale nel novembre del '93 rappresentò in qualche momento per la sinistra l'occasione di completare il cappotto, con l'ipotesi di congedare Scalfaro e di eleggere al suo posto - sei anni prima del tempo - Carlo Azeglio Ciampi. Era accaduto che il 28 ottobre il signor Maurizio Broccoletti, dopo trentasette giorni trascorsi nello scarso comfort del carcere militare di Forte Boccea, si era spontaneamente presentato al procuratore aggiunto di Roma Ettore Torri. Broccoletti era stato direttore amministrativo del Sisde, il Servizio segreto civile. I magistrati romani erano incappati per caso in un conto di quattordici miliardi di cui il funzionario disponeva insieme con altri quattro colleghi, anch'essi arrestati. Convinto che qualcuno si sarebbe attivato per tirarlo fuori dagli impicci, Broccoletti si accorse presto che questo era soltanto un sogno. E parlò. Ammise che tutti quei soldi non erano fondi del Servizio, come aveva detto subito dopo l'arresto, ma denaro personale. Perché aveva mentito? Perché, disse, in un "accordo di vertice" c'era stata la "formale promessa di chiusura della vicenda con la successiva restituzione delle somme". Chi aveva potuto promettere tanto? Broccoletti fece un prestigioso elenco di nomi: oltre al capo della polizia Parisi e ad altri funzionari, c'erano il ministro dell'Interno Mancino, l'ex presidente del Consiglio Amato e addirittura il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Tutti smentirono con forza. Il Quirinale protestò immediatamente parlando di "falsità e intrighi contro il capo dello Stato", ma la situazione s'aggravò il 3 novembre. Antonio Galati, cassiere del Sisde fino alla scoperta dei conti, disse che era abitudine del Servizio [p. 241] corrispondere a quasi tutti i ministri dell'Interno a partire dall''82 un appannaggio mensile di cento milioni. Nell'elenco c'era anche Scalfaro, che per quattro anni era stato al Viminale nel governo Craxi. Il palazzo di Montecitorio visse una delle serate più drammatiche della sua storia. Scalfaro convocò d'urgenza il capo dell'ufficio della Rai presso il Quirinale, Giovanni Garofalo, che in pantofole e giacca da camera aveva appena attaccato un piatto di spaghetti nella sua casa vicino a piazza Navona. Corri, gli dissero, il presidente ha deciso di rivolgere un messaggio televisivo al paese. Quel 3 novembre del '93, alle 22, la Rai stava trasmettendo sul primo canale una partita del Cagliari valida per la Coppa Uefa. Gli spettatori furono avvertiti da
un "serpentone" scorrevole nella parte bassa del teleschermo che "alle 22,15 il presidente della Repubblica rivolgerà un messaggio agli italiani". Non essendo l'ultimo dell'anno e non essendo mai successa una cosa del genere nella storia italiana, doveva essere capitata qualche enorme tragedia di cui il capo dello Stato per primo voleva dare l'annuncio. L'angoscia crebbe alle 22,15: i programmi di Rai e Fininvest furono effettivamente interrotti, ma del capo dello Stato non si avevano notizie. O meglio, le avevano i tecnici che non riuscivano a stabilire i necessari collegamenti e che si sentivano ripetere dall'autorevole voce: "Ce la faremo prima di Natale?". Finalmente, alle 22,30 Scalfaro apparve. Per fortuna non era accaduta nessuna tragedia, se non un oscuro intrigo dal quale il capo dello Stato voleva tirarsi fuori immediatamente. Fu la sera del famoso e replicatissimo "Non ci sto". Disse, per l'esattezza, il presidente: "A questo gioco al massacro io non ci sto. Io sento il dovere di non starci e di dare l'allarme... Il tempo che manca per le elezioni non può consumarsi nel cuocere a fuoco lento, con le persone che le rappresentano, le istituzioni dello Stato". Tutti capirono che tra Scalfaro, ministro dell'Interno di Craxi, e i cento milioni generosamente elargiti ogni mese dal Sisde per le spese riservate non c'era alcun nesso. E invece [p. 242] sei mesi più tardi - quando Eugenio Scalfari gli fece notare sulla "Repubblica" che durante il processo Sisde il suo nome veniva tirato in ballo tutti i giorni - mentre visitava il santuario di Oropa Scalfaro disse: "Sfido chiunque a dimostrare che chi è stato ministro dell'Interno, e non solo io, ha speso una lira fuori dei fini istituzionali". Commentò il deputato di Forza Italia Pietro Di Muccio con Francesco Verderami del "Corriere della Sera": "Prima nega semper, poi concede parum, infine distingue. Sui soldi dei Servizi Scalfaro ha prima negato e poi concesso in parte. Il terzo atto verrà, non si sa quando...". A Oropa, Scalfaro stava di nuovo consolidando la sua posizione al Quirinale, anche perché le nuove Camere non avrebbero consentito alla sinistra di sostituirlo con un proprio candidato. Ma dopo il discorso a reti unificate di novembre, Gerardo Bianco disse a "Panorama": "Ormai mi pare chiaro. Dopo le elezioni anticipate faranno la festa al capo dello Stato...". Osservò Stefano Brusadelli, autore dell'intervista: "Nessuno vuole cacciare Scalfaro, per ora. Al contrario, molti lo vogliono così: al Quirinale, ma indebolito da voci infamanti... La Lega può continuare a ricattarlo... Occhetto ha puntato tutto sul voto. E uno Scalfaro debole significa una Dc
debole. Forse può significare persino l'incarico a un esponente del Pds per guidare il primo esecutivo della prossima legislatura". Divisi sulla sorte di Scalfaro, gli osservatori su una cosa erano tutti d'accordo: la sinistra avrebbe vinto le elezioni. Nino Andreatta mi avrebbe raccontato di essersi convinto che Occhetto avrebbe voluto fare il primo ministro ("Un brivido mi attraversò la schiena"). L'alternativa era Prodi, con un ribaltone al Quirinale. Avrebbe scritto "La Voce" di Montanelli domenica 27 marzo, giorno delle elezioni: "Nei salotti romani della politica già da un paio di mesi si gioca sull'accoppiata che vede Prodi a palazzo Chigi e Ciampi al Quirinale". A una vittoria del Cavaliere credeva soltanto lui. [p. 243] IX: Il terremoto del '94 E Berlusconi disse: "Ah..." "Ah..." Berlusconi disse proprio "Ah..." quando la sera del 28 marzo 1994 il direttore del Tg5, Enrico Mentana, gli annunciò che Forza Italia aveva vinto le elezioni: i sondaggi accreditavano al partito azzurro il 25 per cento dei voti e la prima posizione assoluta. Erano passati appena due mesi e due giorni dal momento in cui il Cavaliere si era tagliato i ponti alle spalle annunciando il suo impegno politico diretto e quel 25 per cento (che poi i dati reali avrebbero ridotto al 21) non gli bastava? Non gli bastava. Non gli bastava vincere, umiliando i due partiti storici del centro e della sinistra, che per adeguarsi ai tempi nuovi avevano perfino dovuto lasciare le vecchie e gloriose bandiere della Dc e del Pci. Voleva stravincere. Il problema è che Gianni Pilo l'aveva illuso: "Prenderemo il 30 per cento". E l'aveva illuso anche Nicola Piepoli del Cirm: "Forza Italia è al 28 per cento". Già un mese prima, incontrandomi per caso su un aereo, questi mi aveva detto: "Se la sinistra non ha un colpo di fantasia, Berlusconi ha già vinto". Il pomeriggio stesso delle elezioni me lo aveva confermato con un'allusione esplicita e singolare: "Chi ha mangiato Nutella fino al venerdì, perché dovrebbe cambiare gusti alla domenica?". La maggioranza dell'elettorato, infatti, non li cambiò. Rispetto ai sondaggi, naturalmente. Perché rispetto alle elezioni politiche di due anni prima, ci fu il più grande sconvolgimento della storia italiana. Il Polo delle libertà e del buongoverno - [p. 244] coalizione inesistente fino a poco prima del voto - conquistò alla Camera il 42,9 per cento dei voti e 366 deputati su 630. I
progressisti guidati dal Pds ebbero il 34,4 per cento dei voti e 213 seggi. Il Centro, frutto di una faticosa alleanza tra il Patto Segni e il neonato Partito popolare di Martinazzoli, ottenne meno del 16 per cento. La dura legge del maggioritario gli assegnò soltanto 46 seggi alla Camera: la sola Dc, nelle sfortunate elezioni del '92, aveva portato a casa 206 deputati. Rete, Verdi, Alleanza democratica e Psi non superarono la soglia di sbarramento del 4 per cento. Quando, la notte del 28 marzo, mi raggiunse davanti alle telecamere del Tg1 per la prima intervista in diretta da vincitore delle elezioni, il presidente di Forza Italia era un fiume in piena e coniugò al presente quel che fino a due giorni prima aveva promesso al futuro: "Abbiamo rafforzato la libertà, ora prepariamo il buongoverno che il paese chiede". Quella notte, tagliando l'enorme torta tricolore che il cuoco personale Michele Persichini gli aveva preparato, Berlusconi non poteva immaginare che la sua esperienza da presidente del Consiglio sarebbe durata meno del più fragile governo democristiano della Prima Repubblica. Perfino Veronica, in lacrime... "Gianni, ricordi la promessa?" Era la vigilia di Natale del 1993, ed erano passati sei mesi dalla notte dei santi Pietro e Paolo in cui Giuliano Urbani era andato ad Arcore segnalando che la sinistra avrebbe conquistato il paese con la stessa facilità con la quale un coltello affilato sarebbe penetrato in un panetto di burro dimenticato fuori del frigorifero. Nella magnifica sala da pranzo di villa San Martino ad Arcore, dominata dall'affresco settecentesco di un convito campagnolo, la tavola era arricchita dai tovagliati e dalla posateria da gran sera che Veronica Berlusconi aveva controllato con la consueta cura. I commensali erano sedici: oltre ai padroni di casa, attorno al tavolo - alternandosi alle signore avevano preso [p. 245] posto Fedele Confalonieri, Franco Tatò, Gianni Letta, Marcello Dell'Utri, Adriano Galliani, Ennio Doris e Carlo Bernasconi. L'intero stato maggiore del gruppo Fininvest riunito come sempre dal Cavaliere per Natale, ma convocato quel 24 dicembre 1993 anche per un annuncio definitivo e fatale: Silvio Berlusconi si sarebbe candidato alla guida di un polo moderato alle elezioni politiche che su pressione della sinistra (ma anche dell'Msi e della Lega) Oscar Luigi Scalfaro avrebbe indetto per la primavera successiva. Al momento del brindisi, dopo aver consegnato personalmente a ogni
signora un omaggio prezioso, il Cavaliere guardò in direzione di Letta e gli disse: "Gianni, ricordi la promessa? Quel giorno è arrivato...". La ricordava bene, Gianni Letta, quella promessa. Nelle settimane precedenti, stremato da discussioni sempre più accese, aveva detto a Berlusconi: "Per l'affetto che ti porto, Silvio, per lealtà e senso di responsabilità cercherò di impedirti fino all'ultimo questa folle avventura. Ma il giorno in cui tu sciaguratamente dovessi decidere di scendere in campo, smetterei di oppormi e starei al tuo fianco come sempre". Letta e Confalonieri, lo abbiamo visto, avevano fatto di tutto per dissuadere il loro capo dalla scelta politica. E avevano drammatizzato il clima al punto che la stessa Veronica, in lacrime, aveva scongiurato il marito di tirarsi fuori dalla storia. Ma Berlusconi era diventato sempre più irremovibile. E in quella vigilia di Natale aveva chiesto a Gianni Letta con dolce perfidia di onorare la promessa. Letta alzò il calice e incrociandolo con quello dell'amico cedette: "Va bene, smetto di fare opposizione". Si convenne quella sera stessa che nessuno dei presenti avrebbe lasciato il proprio ruolo in azienda per seguire il Cavaliere. Meno che mai l'avrebbero fatto Letta e Confalonieri. Soltanto Marcello Dell'Utri, il raffinatissimo bibliofilo padre-padrone di Publitalia, si sarebbe distratto dal formidabile business pubblicitario alimentato dalle reti Fininvest per occuparsi della campagna elettorale di Berlusconi. "Publitalia era l'unica squadra esistente pronta a scattare immediatamente" [p. 246] avrebbe raccontato a Giorgio Bocca. "E' stata sempre la task force della Fininvest, i marines pronti all'impiego immediato... Ora occorrevano ventisei responsabili per le ventisei circoscrizioni elettorali e ogni responsabile doveva rispondere per il suo territorio, aprire i primi club, selezionare i candidati... Solo Publitalia poteva compiere il miracolo: conoscevamo migliaia di inserzionisti con cui avevamo da anni rapporti di conoscenza e magari di amicizia..." "Tra Natale del '93 e Capodanno del '94" ricorda Berlusconi sei anni dopo "ebbi una profonda crisi. Chi mi convinse definitivamente, una sera all'inizio di gennaio, fu mia madre. Mi disse: "Se te sentet debùn che l'è un to duvér fall, te devet truvà el curàgg de fall"". Bossi: "Berlusconi appariva nuovo..." L'annuncio dato ai più diretti collaboratori nella sala da pranzo
di villa San Martino segnava certo una svolta, ma i termini dell'alleanza che Berlusconi avrebbe dovuto guidare erano tutt'altro che chiari. Con Martinazzoli la questione era chiusa. Con Segni pure: Berlusconi gli avrebbe affidato volentieri la leadership del nuovo polo, ma con Bossi il leader pattista non si intendeva e l'alleanza con l'Msi lo spaventava. Il Cavaliere sapeva da mesi che la carta missina sarebbe stata l'ultima da giocare. Non era certo bastata la dichiarazione di Casalecchio di Reno a cancellare d'un colpo cinquant'anni di ghetto e di prevenzioni che tuttora serpeggiavano in larga parte dell'elettorato, nonostante il sorprendente risultato di Roma e di Napoli. Infatti, soltanto il 21 dicembre Berlusconi confidò a Fini il suo proposito di scendere in campo e propose al leader missino un'alleanza con Bossi, scoprendo che tra i due c'era una fortissima diffidenza. "Eppure qualcosa dovevamo farla" mi racconta Fini. "I nostri dirigenti del Nord temevano la meridionalizzazione del partito. Erano i mesi in cui si parlava di un Nord leghista, un Centro pidiessino e un Sud democristiano, con crescenti probabilità, dopo il risultato di novembre, che la sinistra vincesse dappertutto..." [p. 247] Anche Bossi sapeva che se si fosse presentato da solo non avrebbe avuto risultati straordinari. L'onda lunga rischiava di fermarsi e il Senatùr ne aveva avuto un'avvisaglia alle ultime amministrative, non riuscendo a conquistare i sindaci di Torino, di Genova e di Venezia, le tre città simbolo del Nord insieme con Milano. "A differenza di Gianfranco Miglio e di Francesco Speroni" mi racconta oggi Bossi "io ero contrario non solo a qualunque alleanza, ma pure allo stesso sistema maggioritario. Squadra che vince non si tocca, dicevo. Ma ormai la nuova legge era passata e occorreva scegliere. Mandai Bobo Maroni a un incontro con Segni. Quando tornò mi disse: guarda Umberto, questi vogliono fare un partito di centro. Allearci con loro sarebbe stato come sostenere la Democrazia cristiana, la nostra gente non avrebbe capito niente. Allora meglio Berlusconi..." All'interno della Lega, c'erano pareri molto diversi sulle prospettive politiche del Cavaliere. "Miglio, che nel nostro gruppo aveva il suo peso, non credeva che Berlusconi potesse fare in quattro e quattr'otto un partito virtuale, senza sedi e senza organizzazione territoriale. Io obiettavo: non avrà sedi, ma con le sue televisioni può essere ogni sera in casa della gente. Miglio insisteva e voleva che corressimo da soli: da una parte noi, dall'altra il resto dello
schieramento politico." Secondo Bossi, un'influenza decisiva sulla scelta finale fu esercitata da due elementi: l'arresto del segretario amministrativo della Lega Alessandro Patelli per un finanziamento al partito di duecento milioni da parte di Montedison, e il rischio di un formidabile indebolimento della Lega, dovuto anche alla discesa in campo del Cavaliere. Il lettore sa bene che Berlusconi ha sempre attribuito alla magistratura un ruolo pesantissimo nell'ostacolare la sua attività politica. Sorprendentemente, anche Bossi ritiene che la vicenda dei duecento milioni non sia casuale. "Un mese dopo che Berlusconi era entrato in politica" mi dice Bossi "la magistratura ci attaccò sui duecento milioni. La mia impressione è che tutto fosse stranamente sincronizzato... Dall'altra parte c'era un [p. 248] partito che si chiamava Forza Italia e aveva il tricolore come simbolo. Tornava il nazionalismo, l'invito ai cittadini disorientati di raccogliersi intorno alla loro bandiera. Accadde allora una cosa incredibile: la sola comparsa di Berlusconi sulla scena politica aveva fatto precipitare nei sondaggi il nostro consenso all'1,8 per cento. Paradossalmente, Berlusconi appariva "nuovo". Io che dovevo fare? Il rischio era di morire subito. D'altra parte, allearsi con Berlusconi provocava un dolore terribile a tutti i militanti della Lega. Ricordo un congresso drammatico a Bologna, all'inizio del '94. Ma non avevo scelta." E Montanelli se ne andò In realtà, Bossi cercò di giocare fino all'ultimo la carta di un'alleanza con Segni, non trascurando nemmeno l'ipotesi di un patto con Martinazzoli. "A metà gennaio" mi raccontò Maroni "Martinazzoli mi chiese se eravamo disposti a presentarci con il simbolo unico del patto Segni, rinunciando alle insegne della Lega. Gli risposi che per noi significava tagliarci le palle. Rilanciai provocatoriamente: noi leghisti rinunciamo al simbolo, voi democristiani non vi presentate al Nord. Com'era ovvio, non se ne fece niente." Anche con Segni le cose andarono male, ma dopo un percorso più ambiguo. Il 24 gennaio, ad appena due mesi dalle elezioni e quando Berlusconi non aveva ancora annunciato la sua discesa in campo, Segni incontrò una delegazione composta da Roberto Maroni, Vito Gnutti e Giuseppe Valditara. Sottopose ai leghisti una bozza di accordo politico e quelli la bevvero d'un fiato. Maroni la lesse per telefono a Bossi, il Senatùr sentì che il documento s'apriva con la frase "La Repubblica italiana è una e indivisibile" (sia pure con il massimo di
autonomie locali) e chiese di aggiungere soltanto che la nuova legislatura sarebbe stata costituente. Segni accettò e il documento fu firmato quello stesso pomeriggio, suscitando la furia di Occhetto che accusò Segni di tradimento. [p. 249] Da Arcore, Berlusconi chiamò Maroni: "Visto il vostro accordo, posso rinunciare alla mia discesa in campo?". E l'altro, che conosceva i suoi polli: "Aspetta un paio di giorni...". Non servirono. Segni sperava di forzare le resistenze di Martinazzoli ad allearsi con la Lega, ma Bossi lo precedette. L'indomani vide che nel corridoio dei suoi uffici milanesi bivaccava una troupe di Retequattro e la chiamò: "Mai con la Dc". Martinazzoli tirò un sospiro di sollievo, Segni disse che Bossi s'era assunto una responsabilità gigantesca. Berlusconi capì che doveva rompere gli indugi. Nel giro di pochi giorni erano capitati due avvenimenti che avevano preso il Cavaliere in contropiede. Indro Montanelli se n'era andato dalla direzione del "Giornale": l'aveva fondato vent'anni prima, quando Piero Ottone lo cacciò dal "Corriere della Sera", la casa in cui era nato e che ne aveva fatto il principe indiscusso del giornalismo italiano. A sessantacinque anni Montanelli, che non si riteneva capace nemmeno di amministrare un condominio, fondò un quotidiano rivolto a quella borghesia moderata che non si riconosceva più nel "Corriere" di Ottone, marcatamente spostato a sinistra. Montanelli capì subito che un giornale costava molti soldi e trovò un giovane costruttore milanese - Silvio Berlusconi - disposto a dargliene molti e per molti anni, senza mai influenzare la linea politica del quotidiano, come riconobbe lo stesso giornalista. Nel '90 la legge Mammì, che tuttora non consente grandi concentrazioni editoriali, impose a Silvio Berlusconi di cedere la proprietà del "Giornale": lo comprò il fratello Paolo, le cose restarono in famiglia e i rapporti con Montanelli rimasero quelli di prima. Naturalmente, Berlusconi aveva parlato dei suoi progetti politici anche all'influentissimo direttore. E se Letta e Confalonieri gli avevano manifestato fermamente il loro dissenso, Montanelli glielo aveva gridato: per lui (e per il suo condirettore Federico Orlando) l'uomo della Provvidenza era Mario Segni. Il Cavaliere doveva lasciare per intero a lui il campo del rinnovamento. Se non aveva dato ascolto ai suoi più fedeli e diretti collaboratori, Berlusconi non intendeva darlo nemmeno a [p. 250] Montanelli. Ma capì - come scrissero tre brillanti giornalisti della "Stampa" - che mentre lui si preparava al grande tuffo, l'altro gli toglieva l'acqua dalla piscina. Si arrivò così al giorno dell'Epifania del '94. Emilio Fede
- che tratta il Cavaliere come un padre Pio vivente - sbottò: "Montanelli continua ad appoggiare Segni contro Berlusconi. Ma la famiglia Berlusconi continua a pagare i debiti del suo giornale. Allora scelga: si faccia pagare i debiti da Segni o se ne vada". Montanelli la prese malissimo, com'era ovvio. Ad aggiungere sale sulla piaga intervenne lo stesso Cavaliere che si presentò inopinatamente e senza alcun titolo apparente all'assemblea dei redattori del "Giornale": suonò a Montanelli una serenata di quelle che solo lui sa fare, ma fece capire ai giornalisti che il potenziamento del quotidiano era legato a una linea politica più chiara. "Non si può giocare di fioretto" disse "se la sinistra usa la clava." Montanelli se ne andò così dal "Giornale" e s'è discusso a lungo e inutilmente su chi - tra lui e Berlusconi - avesse più voglia di chiudere il rapporto. Probabilmente, entrambi. Dopo aver fondato il primo quotidiano a sessantacinque anni, Montanelli fondò a ottantacinque il secondo: si chiamava "La Voce", in omaggio al prestigioso foglio di Giuseppe Prezzolini. Ebbe poca fortuna (anche perché alla direzione del "Giornale" passò quell'autentica macchina da guerra che è Vittorio Feltri, che ne moltiplicò la tiratura), ma campò abbastanza per dire del Berlusconi politico tutto il male possibile e altro ancora. Montanelli diventò così l'idolo della sinistra, che prese ad amarlo come un nuovo Che Guevara e ne fece la star di alcune Feste dell'Unità, dopo averlo bollato per cinquant'anni come il peggiore dei reazionari. Dalla Dc nacquero due gemelli Mentre chiedeva a Maroni se dovesse ritirarsi in buon ordine, Berlusconi aveva già in tasca il testo del messaggio televisivo con cui avrebbe annunciato agli italiani la sua discesa [p. 251] in campo. Oltre alla lite con Montanelli, infatti, le prime settimane di gennaio gli avevano riservato un'altra grana: il 16, Scalfaro aveva sciolto le Camere e le elezioni erano state fissate per la prima data utile, il 27 marzo. La scelta era assai favorevole al Pds, il partito di gran lunga più strutturato, e metteva in grossa difficoltà sia Martinazzoli sia Berlusconi e i suoi potenziali alleati. Il Cavaliere aveva meno di due mesi per annunciare la nascita di Forza Italia, decidere le alleanze, fondare un polo moderato da opporre ai progressisti, scegliere i candidati e formare le liste. Anche Martinazzoli fu colto in contropiede: infatti, aveva fissato soltanto per il 18 gennaio lo scioglimento della Democrazia cristiana
e la fondazione di un nuovo Partito popolare: fu scelto il settantacinquesimo anniversario del messaggio ai "liberi e forti" con il quale Luigi Sturzo, nel '19, aveva dato vita all'omonimo partito dei cattolici. Lo stesso giorno, da un "parto gemellare" della Dc come lo chiamò Pierferdinando Casini - nacque anche il Centro cristiano democratico, guidato dallo stesso Casini e da Clemente Mastella con una complessa gestione consolare. La diaspora dei cattolici si era dunque consumata, nonostante il disperato tentativo della Chiesa di evitarla. Erano scesi in campo tutti i più importanti prelati della curia pontificia: dal segretario di Stato Angelo Sodano al presidente della Conferenza episcopale italiana Camillo Ruini. Perfino il papa esercitò una discreta pressione con una lettera ai vescovi del 10 gennaio ribadendo che "i laici cristiani devono testimoniare attraverso una presenza unita e coerente nel campo sociale e politico". Ma non servì a niente. "Rimarremo uniti sui valori" assicurò Casini, confermando che sul piano politico la rottura era totale e irreversibile. Fin da novembre, Casini e i suoi avevano firmato un documento critico nei confronti della segreteria Martinazzoli. "Avevamo paura" mi disse il leader del Ccd "che il futuro Ppi e lo stesso Ciampi si facessero mallevadori di un governo delle sinistre." L'inquietudine sulla linea politica fermentava nella frustrazione diffusa nell'intero gruppo parlamentare democristiano. "La gran parte dei nostri" mi raccontò De Mita "si [p. 252] sentiva bollata come vecchia, mentre vedeva esaltato come nuovo tutto ciò che ci era estraneo. Così i gruppi parlamentari vennero colti dal panico." Casini tentò invano di convincere fino all'ultimo Martinazzoli ad allearsi con Bossi e con Berlusconi. Il segretario, a sua volta, mise in campo Forlani, De Mita e Cossiga perché agissero rispettivamente su Casini, Mastella e D'Onofrio, per evitare che se ne andassero. Cossiga capì che gli scissionisti non avrebbero mollato e tentò a sua volta con un viaggio a Brescia di portare Martinazzoli alla guida di uno schieramento moderato alternativo ai progressisti. "Al ritorno" riferì Casini "ci disse di aver ascoltato molte belle parole, ma di aver constatato che la differenza che ci divideva era ormai incolmabile." De Mita giocò con Mastella la carta della candidatura e si sentì rispondere: "Come fai a rassicurare me, se è in forse anche la tua candidatura?". Aveva visto bene. Mettendo sulla bilancia degli equilibri politici la spada di Brenno della "novità", Segni impose a Martinazzoli come prezzo dell'accordo di non candidare De Mita e di inserire Nicola Mancino e Sergio Mattarella nelle liste proporzionali
del Ppi e non in quelle comuni con il Patto. Né Segni né Martinazzoli sospettavano che la "novità" di Berlusconi sarebbe stata percepita dall'elettorato come molto, molto più forte. "Qui ho le mie radici e le mie speranze..." Alle 19 del 26 gennaio 1993, Emilio Fede comparve in video nel suo telegiornale con il sorriso radioso che sforna soltanto in due circostanze: quando deve mascherare una colossale bugia o quando deve annunciare una colossale e piacevole novità. Quel 26 gennaio, si trattava della seconda ipotesi. Silvio Berlusconi aveva deciso di scendere in campo e Fede (imitato mezz'ora dopo da Studio aperto di Paolo Liguori) sarebbe stato il primo a trasmettere integralmente il messaggio di nove minuti con l'annuncio destinato a rivoluzionare la politica italiana come mai era accaduto nell'era repubblicana. [p. 253] Berlusconi l'aveva registrato la notte del 24 gennaio, poche ore prima che Bossi mandasse a picco l'accordo con Segni. D'intesa con Miti Simonetto, responsabile della sua immagine, aveva scelto lo studio della villa Belvedere di Macherio. Voleva entrare nelle case degli italiani parlando dalla propria. Era il primo segnale: sono uno come voi, uno che si è fatto strada da solo, potrei andarmene dovunque a godermi i miei soldi, ma ho deciso di entrare in politica per togliere di mano ai "politicanti" i destini dell'Italia e costruire per ciascuno di voi e dei vostri figli le condizioni di un futuro migliore. Per far passare questo messaggio occorrevano due condizioni: una scenografia che mettesse gli spettatori a loro agio e parole semplici, in grado di convincerli senza enfasi. Berlusconi sostituì la scrivania del suo studio, troppo grande, con un'altra più piccola, dello stesso legno chiaro della libreria. Sistemò molti libri sugli scaffali, ma senza esagerare. Fu attento ad alternarli con foto di famiglia incorniciate semplicemente. Il Cavaliere non poteva travestirsi da povero, ma non voleva abbagliare con un arredamento sfarzoso il pubblico nazionalpopolare sul quale puntava per vincere le elezioni. Restava il problema più delicato e complesso: con quale faccia avrebbe dovuto debuttare in politica? Si scontrarono due scuole di pensiero. I "romani", guidati dal direttore degli studi Fininvest capitolini Paolo Vasile, suggerivano una faccia stanca (quella vera): in politica si soffre per gli altri ed è bene farlo capire subito. I "milanesi", guidati dalla Simonetto, erano di avviso opposto: andava usata la tecnica pubblicitaria che vuole espressioni
serene, rassicuranti. Non era forse un Mulino Bianco quello che Berlusconi prometteva agli italiani? Vinsero i milanesi e il volto di Berlusconi diventò luminoso, scaldato da una luce morbida e un po' sognante. Una luce sapientemente filtrata. Una luce da "calza". I vecchi del cinema avvolgevano l'obiettivo con una calza da donna color carne per ammorbidire i contorni del volto. Lo stesso risultato ottennero gli uomini del Cavaliere, giocando sulle luci. E, in effetti, venne fuori una faccia che al confronto i papà del Mulino Bianco sembravano reduci da un funerale. [p. 254] "L'Italia è il paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato da mio padre e dalla vita il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a un passato fallimentare... Rinuncio al mio ruolo di editore e di imprenditore per mettere il mio impegno a disposizione e offrire un'alternativa credibile alle sinistre e ai comunisti... Ma affinché il nuovo sistema funzioni, è indispensabile che alla sinistra si opponga un Polo delle libertà capace di attrarre a sé il meglio di un paese pulito, ragionevole, moderno..." Già nelle prime parole del suo discorso, Berlusconi dette al pubblico quelli che nella sua strategia erano due messaggi chiari sull'identità di Forza Italia: l'antipolitica e l'anticomunismo. Sapeva meglio dei suoi avversari che la pregiudiziale antifascista per cinquant'anni punto fermo della politica italiana - era caduta sorprendentemente prima della pregiudiziale anticomunista. La valanga di voti a Fini e alla Mussolini nelle elezioni amministrative di due mesi prima aveva dimostrato che una quantità enorme di elettori aveva lasciato la Democrazia cristiana e pur di non votare a sinistra aveva scelto il delfino di Almirante e la nipote del Duce. Da almeno vent'anni, dai tempi dello "storico compromesso" con il Pci, i democristiani non usavano più slogan anticomunisti. I sondaggi avevano invece rivelato al Cavaliere che la maggior parte degli italiani non si rassegnava alla resa dei partiti storicamente moderati e all'egemonia della sinistra, ma non riteneva più credibili per guidare l'alternativa i pronipoti di De Gasperi, massacrati dalle lotte di potere interne (le picconate di Cossiga, la faida che ha preceduto l'elezione di Scalfaro) e soprattutto da Tangentopoli. Berlusconi, dunque, cercò di delegittimare il fronte progressista che avrebbe affrontato alle elezioni ("I loro uomini sono sempre gli
stessi", "Guardate i loro telegiornali pagati dallo Stato", "Leggete la loro stampa"). Ne denunciò ciò che [p. 255] giudicava assenza di valori ("Non credono più in niente"), i toni minacciosi ("Vorrebbero trasformare il paese in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna"), la sostanziale inconcludenza ("Basta con la politica delle chiacchiere incomprensibili" con i "politicanti senza mestiere"). Offrì in alternativa il rilancio di alcuni dei punti che erano stati lo storico caposaldo della Dc (famiglia, lavoro, vita libera e serena) e il cardine delle nuove battaglie sociali che i moderati chiedevano allo Stato di combattere (ordine ed efficienza nella lotta a criminalità, corruzione, droga). Richiamò infine il miraggio di qualcosa che era restato nel cuore e nelle ambizioni degli italiani e che nessuno dei partiti storici aveva i titoli per evocare: un nuovo miracolo economico. Alla fine del suo messaggio, il Cavaliere dichiarò: "Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano". La tacita risposta era nel garbato sorriso finale (l'unico sorriso in nove minuti, dopo quello iniziale): chi può assicurarvelo meglio di un imprenditore che si è fatto da solo e ha costruito con le sue mani il secondo gruppo privato italiano dopo la Fiat, per di più senza mai aver avuto una lira di contributo dallo Stato? Obiettivo di quel messaggio era certo l'Italia del Nord ribollente di partite Iva, desiderosa di aprirsi un piccolo spazio nel mondo che cambia e offre nuove opportunità, basta che si abbia il braccio sufficientemente lungo per coglierle. Ma anche l'Italia della piccola borghesia sempre più impoverita e ininfluente, l'Italia delle borgate urbane che si era sempre schierata a sinistra ma che continuava a stare nei ghetti, l'Italia meridionale che aveva sempre votato scudocrociato e che cercava disperatamente una nuova Dc alla quale aggrapparsi. Come era ampiamente previsto, le reazioni al messaggio di Berlusconi della grande stampa, del mondo politico e del "salotto buono" imprenditoriale oscillarono tra l'indifferenza e lo scherno. Scrisse "La Stampa": "I toni sono da tema scolastico da quarta elementare... La banalità al potere". Ed Eugenio Scalfari, nell'editoriale della "Repubblica": "Scende [p. 256] in campo il ragazzo coccodè", collocando Berlusconi tra le ballerine di fila un po' oche di un varietà di Gianni Boncompagni. Occhetto definì "risibile" l'intervento del suo sfidante. Gelida l'accoglienza in Confindustria: nessuno voleva scottarsi con un velleitario perdente annunciato.
Con Forza Italia "italiani brava gente" Durante i due mesi di campagna elettorale, Berlusconi dovette combattere tre avversari: uno temuto, uno previsto, uno drammaticamente inatteso. Quello temuto fu Umberto Bossi, che non pronunciò mai una parola di apprezzamento per Berlusconi e per Fini, anzi tenne sempre a prendere le distanze da entrambi. "Fin da quando, all'inizio del '94, maturò con Berlusconi l'ipotesi di fare un cartello nazionale a tre con la Lega" mi racconta Fini "Bossi si oppose. Non voleva accordi con noi. Non c'eravamo mai incontrati. E i suoi atteggiamenti nei nostri confronti erano così duri che un giorno andai a trovarlo per chiedergliene ragione. Il suo veto a un'alleanza generale fu irremovibile e lì si manifestò la grande capacità di Berlusconi di fare da cerniera a due movimenti così lontani tra loro..." La cerniera consistette nel far finta che nel Nord Bossi e Fini non fossero alleati. Il Polo per le libertà nel sistema maggioritario metteva insieme soltanto i candidati di Forza Italia e della Lega nord. L'Msi, che s'era ribattezzato d'urgenza Alleanza nazionale già un anno prima della svolta e della rifondazione di Fiuggi, correva da solo. Nel Centrosud, dove la Lega non c'era, Berlusconi e Finì erano invece alleati nel Polo per il buongoverno. L'avversario previsto da Berlusconi fu lo scherno continuo da parte della grande stampa nazionale, la divertita e incredula curiosità di quella internazionale, l'estrema attenzione che all'estero veniva accreditata a Occhetto. In febbraio, il segretario del Pds fece un giro nella City londinese per tranquillizzare i mercati internazionali e andò alla Nato di Bruxelles per [p. 257] consolidare i rapporti con gli alleati atlantici dell'Italia: dovunque venne accolto come il vincitore delle imminenti elezioni. Nonostante la prima convention di Forza Italia mostrasse un interesse sociale ampiamente diffuso per il nuovo movimento, nessuno avrebbe scommesso un soldo su Berlusconi. Scrisse Giampaolo Pansa sull'"Espresso": "Cipolla rosa trionferà. L'Alleanza progressista vincerà... Berlusconi con la sua Forza Italia può anche combattere per un pugno di parlamentari che tutelino gli interessi Fininvest... E il missino Fini non è così pazzo da immaginarsi alla conquista del governo...". L'unica firma di un quotidiano di sinistra che resistette alla tentazione di schernire Forza Italia e cercò di capire invece che
cosa si nascondesse dietro le bandiere di Berlusconi fu Sandro Viola della "Repubblica", che inopinatamente avrebbe trovato alla fine del '99 il suo nome tra i giornalisti presunti "coltivati" dagli agenti del Kgb sovietico. Forse perché abituato ai grandi reportage internazionali e a guardare le cose senza il paraocchi provinciale di tanti suoi importanti colleghi, a fine febbraio Viola fece un viaggio nell'Oltrepò leghista e ne ricavò le seguenti impressioni: "Non solo "nani e ballerine", non solo "yuppie" di provincia, non solo calciatori e funzionari Fininvest. Sono gli stessi italiani che votavano per la Dc, per il Psi, per il Psdi, per il Pli e che sul finire degli anni Ottanta hanno cominciato a votare per la Lega. Malgrado l'ignoranza, malgrado tante pecche (l'insulto facile per l'ambulante di colore, l'evasione fiscale, la convinzione che i napoletani siano tutti ladri e i siciliani tutti mafiosi), brava gente. E in più, molto spesso italiani con partita Iva: quelli che hanno lavorato, prodotto, risparmiato, consentendo al paese di sopravvivere nonostante la gestione disastrosa della cosa pubblica condotta dai vecchi partiti". Viola registrò che a Pavia i leghisti doc piantavano in asso Bossi vedendo che Berlusconi candidava imprenditori onesti e rispettati da tutti. Gli disse Lorenzo Rampa, che guidava un Pds assai provato dagli scandali: "L'impressione è che la Lega abbia fornito una carica di protesta, ma non un modello, e che Berlusconi [p. 258] funzioni adesso proprio in questo senso, il modello da ammirare e imitare". Così, un mese giusto prima delle elezioni, Viola spedì dalle colonne progressiste della "Repubblica" questo ammonimento ai "veri democratici": "Niente polemiche sulla vittoria degli avversari. Solo una disamina coraggiosa, il più possibile lucida e sincera, dei propri errori". Borrelli mise in guardia il Cavaliere? Berlusconi si accorse presto che non tutti i suoi problemi sarebbero venuti dalla politica. Il terzo avversario che dovette fronteggiare fin dalla campagna elettorale del '94 fu la magistratura. I sondaggi, la sua arma letale, non avevano potuto avvertirlo che sarebbe scesa in campo in maniera così poderosa. Abbiamo visto che almeno fino al 20 luglio 1993 la procura di Milano non aveva immaginato di dover compiere alcuna indagine su Silvio Berlusconi. Me lo confermò quel giorno Antonio Di Pietro, l'ho scritto in altri libri e il senatore, correttamente, non ha mai smentito la circostanza. Per questo il Cavaliere è tuttora convinto
che la procura di Milano abbia cominciato a interessarsi a lui appena avuta la sensazione che sarebbe sceso in politica. Egli si ritenne destinatario dell'avvertimento del procuratore Borrelli apparso sul "Corriere della Sera" il 20 dicembre 1993: "Quelli che si vogliono candidare, si guardino dentro. Chi non è pulito è meglio si tiri indietro. Chi lo è, vada avanti tranquillo". E ripreso in un articolo di metà febbraio sullo stesso giornale: "Chi vuole candidarsi si faccia un esame di coscienza". Dirà Berlusconi a Domenico Mennitti, direttore di "Ideazione", nell'autunno del '98: "Poche date: il 6 febbraio del '94 presentai Forza Italia a Roma, l'8 febbraio la presentai a Milano, l'11 febbraio fu arrestato mio fratello Paolo e decine di perquisizioni si abbatterono sulle mie aziende". A Paolo Berlusconi, Di Pietro aveva contestato di aver versato una tangente di novecento milioni per la vendita al Fondo [p. 259] pensioni della Cariplo di tre palazzi di Milano 3 tra l''83 e l''86. L'imputato replicò che quei soldi erano una normale mediazione d'affari corrisposta a un ex dipendente della banca che aveva lasciato il servizio e s'era messo a fare il consulente del servizio immobiliare. Gli vennero concessi gli arresti domiciliari, ma il Cavaliere capì che un'indagine sul fratello per un episodio avvenuto dieci anni prima non prometteva niente di buono. A diciotto giorni dalle elezioni, il 9 marzo, il Tg5 trasmise una notizia clamorosa: i magistrati della procura milanese avevano chiesto di arrestare per falso in bilancio sei persone, tra cui Marcello Dell'Utri, amministratore delegato di Publitalia (la cassaforte del gruppo Fininvest), amico fraterno di Berlusconi e cervello della campagna elettorale di Forza Italia. La notizia era vera e, nel darla, forse Mentana salvò Dell'Utri dall'arresto. Ma i magistrati milanesi s'arrabbiarono molto per quella violazione del segreto istruttorio e aprirono un'indagine che apparve in realtà sorprendente, visto che per due anni niente di analogo era accaduto per le decine di verbali fatti arrivare ai giornali che se ne servivano per fiancheggiare Mani pulite. Quello stesso pomeriggio, Dell'Utri fu interrogato a lungo, mentre la Guardia di finanza perquisiva accuratamente gli uffici della Fininvest. La notizia colse Berlusconi sulla soglia di palazzo Pallavicini Rospigliosi, al Quirinale. La principessa Elvina Pallavicini, grande sostenitrice di Gianfranco Fini, aveva invitato anche il Cavaliere nella sua splendida residenza - che ospita una delle più importanti quadrerie private del mondo, con tredici Rubens - per presentarlo
all'aristocrazia romana. Berlusconi era furibondo e disse ai discendenti delle storiche famiglie che avevano dato all'Italia molti pontefici: "Mi vergogno di quello che sta succedendo. Mi sembra che la volontà d'intervenire in un momento delicato come questo per cambiare i risultati elettorali sia una cosa indegna di un paese civile". L'indomani consegnò a Scalfaro un esposto contro Gherardo Colombo, titolare dell'inchiesta. Borrelli commentò: "E' un'infamia". I sondaggi regalarono altri due punti a Forza Italia. [p. 260] Quattro inchieste in quaranta giorni Non era finita. Domenica 20 marzo, a una settimana dal voto, cominciarono a circolare altre voci su Dell'Utri: mafia. I magistrati siciliani smentirono (la notizia invece era vera e fu l'inizio di una lunghissima vicenda processuale che la fine del secolo non vede conclusa). Ma l'indomani "La Repubblica" titolò: Berlusconi ai raggi X. Ordinate indagini sui rapporti con nove boss. Il Cavaliere si trovava in Sicilia per la convention siciliana del suo partito. Parlò di "golpe bianco" e incuriosì Augusto Minzolini, inviato della "Stampa". Chi sono i registi degli attacchi a Berlusconi?, si chiese il giornalista. Ed ebbe la seguente risposta da Domenico Mennitti, uno dei consiglieri politici di Berlusconi: "Facciamo un esempio. Io sono sicuro che Andreotti è tutt'altro che uno stinco di santo, ma al bacio di Riina proprio non ci credo. Però per dimostrarlo bastano tre pentiti [che col passare degli anni sarebbero diventati ventisette]. E anche qui per Berlusconi, come al solito, escono tre pentiti. E allora? C'è qualcuno che vuole fare qualche operazione... Chi? Solo dei coglioni come i democristiani potevano dare la presidenza dell'Antimafia a uno come Violante. [In quel ruolo, l'attuale presidente della Camera aveva portato a deporre in Commissione Tommaso Buscetta facendogli domande sui rapporti tra quella che il pentito chiamò "l'Entità politica" e la mafia, concludendo: "Risultano certi alla Commissione i collegamenti tra Salvo Lima e uomini di Cosa Nostra. Egli era il massimo esponente in Sicilia della corrente democristiana che fa capo a Giulio Andreotti".] Ormai quelli hanno conquistato le procure. Per dirla tutta, anche Occhetto e D'Alema sono tenuti a bagnomaria... Perché noi non ci rivolgiamo a Scalfaro? Ma che volete che faccia Scalfaro, anche lui è sotto schiaffo. Il vero potere è quello: sono stati i magistrati in questi ultimi due anni a prendere le decisioni politiche più importanti. Ecco perché l'unica cosa che possiamo fare è alzare la voce. Anche
perché, dall'altra parte, non tutti hanno il coraggio". Tornato a Roma, l'indomani 21 marzo Minzolini incrociò a Montecitorio proprio Violante. Secondo il giornalista, il presidente dell'Antimafia gli disse: "La verità è che Dell'Utri è [p. 261] iscritto sul registro degli indagati della procura di Catania, non di quella di Caltanissetta. E non si tratta di pentiti, questa volta. C'è un Pm di lì, si chiama Marino, che sta conducendo un'indagine di mafia su un traffico d'armi e stupefacenti. E l'inchiesta si basa non su dichiarazioni di pentiti, ma a quanto pare su intercettazioni ambientali. La cosa poteva venir fuori già in queste settimane, ma il capo della procura ha preferito che tutto fosse rinviato a dopo le elezioni". Violante smentì duramente queste dichiarazioni, confermate da Minzolini, querelò per diffamazione il giornalista, ma dovette dimettersi, anche perché non fu sostenuto dal Pds. Il giorno stesso delle sue dimissioni, incontrai uno dei leader dello schieramento progressista: "Meglio così" mi disse. "Dovessimo vincere noi, ci risparmieremmo un pericoloso ministro dell'Interno." ("Ho ricevuto ventiduemila messaggi di solidarietà" replicò Violante quando gli raccontai l'episodio senza citare la fonte. "Forse faccio paura perché so fare il mio lavoro.") A urne quasi aperte, in quell'interminabile marzo del '94, a Maria Grazia Omboni, magistrato applicato alla procura di Palmi ed erede dell'inchiesta di Agostino Cordova sulla massoneria, venne in mente di accertare se tra gli iscritti a Forza Italia c'erano massoni. La richiesta era comunque singolare, ma sarebbe bastata una telefonata alla segreteria del partito per avere gli elenchi. La Omboni spedì invece contestualmente la polizia nelle sedi forziste di Roma e Milano. Stavolta, Berlusconi non fu il solo a gridare. Quattro clamorose iniziative giudiziarie contro la Fininvest in quaranta giorni di campagna elettorale misero in allarme anche la sinistra: quanta acqua avrebbero portato al mulino elettorale di Berlusconi? Tanta... Cadde Mirafiori, cadde Sesto San Giovanni... "Perché perdemmo? Noi non avevamo un candidato alla presidenza del Consiglio e loro sì. E poi loro dettero l'impressione di essere più innovativi." Così Luciano Violante mi [p. 262] spiegò la sconfitta dei progressisti alle elezioni del '94. Non si capì mai, in effetti, se il candidato della sinistra sarebbe stato Prodi o Occhetto. La scelta sarebbe dipesa dai rapporti di forza usciti dalle urne. Segni
e Martinazzoli, alleati naturali della sinistra, s'illudevano di condizionarne le scelte. Fatto sta che al duello televisivo finale su Canale 5 (dieci milioni di spettatori) Berlusconi se la vide con Occhetto. I tecnici accreditarono un punto a entrambi. Ma il fatto stesso d'incontrare il segretario del Pds favoriva Berlusconi: un imprenditore di successo che scendeva in politica aveva comunque più fascino di un uomo capace e intelligente come Occhetto, che portava tuttavia legata al piede la palla di ferro di essere l'ultimo segretario del Partito comunista italiano. Il terremoto elettorale fu più forte del previsto. Cadde la rossa Mirafiori. Cadde Sesto San Giovanni, la Stalingrado d'Italia. Caddero città democristiane da cinquant'anni e quartieri in cui i comunisti non avevano fatto filtrare nemmeno un ago. Gli inviati dei grandi giornali che avevano dipinto Berlusconi con il profilo della macchietta avventurista percorsero l'Italia come formiche impazzite a scavare nelle macerie della sinistra e di quel che restava della Dc per trovare qualche indizio sulle cause della tragedia. Scrisse Riccardo Chiaberge sul "Corriere della Sera": "Mentre Occhetto sfoggiava i Bobbio e i Foa e volava a Londra per captare la benevolenza della City, Berlusconi chiamava a raccolta i "ghepensimì" della Brianza, del Friuli, della dorsale adriatica. E ne ha avuto in cambio un consenso plebiscitario". L'indomani del voto, Martinazzoli si dimise con un fax, senza nemmeno tornare a Roma da Brescia. Occhetto l'avrebbe fatto dopo le elezioni europee di giugno. Quando poche ore dopo il trionfo andai a intervistarlo sui divani bianchi di via dell'Anima, dove abitava allora a Roma, Berlusconi mi ricevette (e si fece riprendere) in tuta blu e scarpe da ginnastica. Era la sua divisa da lavoro. Si mise in grembo dei fogli e li mostrò alla telecamera: "Sto già stendendo il programma di governo". Anche per il milione di posti di lavoro che ha promesso in campagna elettorale?, gli chiesi. "Certo" rispose. [p. 263] Quando, il 15 aprile, si aprirono le Camere, i commessi per la prima volta nella storia di Montecitorio dovettero chiedere i documenti a chi sosteneva di essere parlamentare. Le facce nuove erano centinaia. Tra i vecchi titolari del palazzo era scomparso l'intero stato maggiore del pentapartito (Forlani, Craxi, Cariglia, La Malfa, Altissimo), oltre a De Mita, Amato, Scotti, Rognoni, Bodrato, Fracanzani, Citaristi, Prandini, Vitalone, Gaspari, Sbardella, Cirino Pomicino, De Lorenzo, De Michelis, Di Donato, Martelli, Formica, Tognoli, La Ganga, Intini, Fabbri, Acquaviva, Pillitteri, Andò, Capria, Reichlin, Tortorella, Stefanini, Lama,
Boldrini, Pecchioli, Chiarante. Un'intera generazione di governo e di opposizione era stata inghiottita dai tombini di Tangentopoli e del Rinnovamento a qualunque costo. Gli artigiani, i professionisti, i piccoli imprenditori piovuti a Roma dal Nord erano riconoscibili dal distintivo: Alberto da Giussano d'oro se erano leghisti, rettangolo tricolore se erano di Forza Italia. Gli uomini di An ostentavano all'occhiello la storica fiamma. Si aggiravano tutti nel palazzo come truppe d'occupazione imbaldanzite dalla vittoria, ma intimidite dalla storia. Si smarrivano nei corridoi, tallonati da commessi stremati che imponevano ai nuovi arrivati lezioni accelerate di galateo parlamentare. Scalfaro e il galateo di Berlusconi Il primo ingresso in aula di Berlusconi fu spettacolare. Seguito da una poderosa scorta di parlamentari, si diresse verso il suo seggio con la mano dolorante per le strette continue, ma senza accennare a un sorriso. Aveva appena vinto le elezioni e l'ora era già grave. C'erano da eleggere i presidenti delle Camere. Berlusconi avrebbe voluto per uno dei suoi la presidenza della Camera e assegnare alla Lega quella del Senato. Ma si ritrasse sgomento dinanzi alla candidatura di Francesco Speroni, che indossava giacche rosse e cravatte con le donnine nude. Allora preferì lasciare a Bossi il [p. 264] presidente dell'assemblea di Montecitorio. Anzi, la presidente, perché fu eletta Irene Pivetti ("donna, giovane, cattolica" secondo la definizione del suo sponsor Gianfranco Fini). Berlusconi avrebbe voluto confermare Spadolini alla presidenza del Senato, ma gli alleati non vollero. "E' un simbolo della Prima Repubblica" dissero. Il problema è che il Polo non aveva la maggioranza a palazzo Madama (per garantirgliela, più tardi, un paio di senatori della minoranza cambiarono schieramento). Quel pomeriggio, il Cavaliere annullò un'intervista che avevamo già fissata e mi lasciò di stucco in casa sua, uscendo prima di me con questo commiato: "Tra poco, forse, eleggeranno in Senato Spadolini senza il nostro voto. E allora potrà accadere di tutto. Io non farò più il governo. E' finita, è finita...". Ce la fece invece, per un voto, Carlo Scognamiglio, dopo un grottesco errore di conteggio che portò Occhetto a festeggiare a vuoto e procurò una tragica delusione a Spadolini, già affetto dal tumore che l'avrebbe ucciso quattro mesi dopo.
Scalfaro dette l'incarico a Berlusconi il 28 aprile, un mese dopo le elezioni. Non poteva non darglielo (Segni invano lo scongiurò di non farlo), ma il gesto gli costò moltissimo. Veniva dall'emisfero politico e sociale opposto a quello del Cavaliere e non riuscì per cinque anni interi, sino alla fine del suo mandato, a farsi una ragione dell'esistenza di un politico di nome Berlusconi e di un partito chiamato Forza Italia. Sopravvissuto alla morte dei grandi partiti storici che avevano esalato l'ultimo fiato proprio al momento di partorire lui come capo dello Stato, Scalfaro cercò di vendicarli rendendo la vita al Cavaliere sempre più difficile e talvolta persino impossibile. Cominciò il giorno stesso in cui il governo Berlusconi ottenne la fiducia delle Camere. Il capo dello Stato scrisse al nuovo presidente del Consiglio una lettera rimasta segreta fino a quando non ne ebbi per caso notizia alla fine del '98. Con una procedura assolutamente inedita nei rapporti costituzionali italiani (che mai lo stesso Scalfaro avrebbe rinnovato con i tre successori di Berlusconi), il presidente della [p. 265] Repubblica dettava al capo del governo le regole di un'insolita "coabitazione all'italiana". Gli ricordò di essere il garante della politica estera e gli scrisse una ricetta di politica sociale ed economica. Costruì insomma una gabbia costituzionale, ordinando a Berlusconi di entrarvi e di consegnargli la chiave. Ai suoi perplessi collaboratori, il capo dello Stato spiegò che il nuovo premier era un neofita della politica ed era dunque opportuno insegnargli un po' di galateo. Berlusconi non immaginava allora quanti (e soprattutto quali) supplizi Scalfaro gli avrebbe inflitto. Affidò dunque la stesura della risposta al suo ministro per i Rapporti con il Parlamento, Giuliano Ferrara, e con elegante e rispettosa perfidia disse al capo dello Stato che non avrebbe rinunziato ad alcuna delle sue prerogative. Ma Scalfaro non si arrese. Impose al primo ministro un'udienza settimanale al giovedì (lo aveva fatto pure con Ciampi e lo ripeté anche dopo Berlusconi) per essere aggiornato sull'attività di governo. E quando, poche settimane dopo aver vinto le elezioni, Berlusconi partecipò a un vertice dei capi di Stato e di governo dei paesi più industrializzati, dovette subire al rientro una sfuriata da parte di Scalfaro che gli rimproverò di non essere passato da lui né prima né dopo l'incontro. "Nudo, lo voglio" disse Bossi
Quando Berlusconi gli presentò la lista dei ministri, Scalfaro minacciò di non firmarla se Cesare Previti non fosse stato trasferito dalla Giustizia a un altro ministero. In quel caso aveva ragione. Previti, che non incarnava ancora "il caso Previti", era uno dei più influenti avvocati civilisti di Roma e da molti anni assisteva Berlusconi e la Fininvest in delicate transazioni. Era del tutto inopportuno, pertanto, che l'avvocato del presidente del Consiglio diventasse ministro della Giustizia. Ma Previti ha un carattere assai fermo e Berlusconi, che gli era amico da vent'anni, non si sentiva di contrastarlo più di tanto, anche [p. 266] perché ne condivideva alcune idee sulla riforma del sistema giudiziario: prima tra tutte la separazione della carriera del pubblico ministero da quella del magistrato giudicante. Alla fine, Scalfaro l'ebbe vinta e Previti si scambiò di posto con Alfredo Biondi, uno stimato avvocato liberale destinato alla Difesa. Cinque anni dopo chiedo a Berlusconi: non fu un errore inserire nel governo o comunque in posti di grande responsabilità avvocati Fininvest come Previti o Dotti? "Con il senno del poi si deve dire di sì" risponde. "Ma erano entrambi ottimi professionisti. Purtroppo in forte competizione professionale tra di loro, una competizione che in seguito si trasformò in contrasto politico." Un altro problema riguardava Mastella. Berlusconi non poteva soffrirlo e l'antipatia era in larga parte ricambiata. Poiché nell'immagine pubblica Mastella significava De Mita (di cui era stato a lungo il più stretto collaboratore) e De Mita significava Primissima Repubblica, Berlusconi non voleva Mastella nel governo. Ma Pierferdinando Casini, segretario del Ccd, gli fece capire che se Mastella non fosse entrato al governo, lui avrebbe dovuto fare harakiri. Berlusconi cedette e Mastella andò al Lavoro. C'era, infine, il problema della Lega. Bossi non aveva avuto una sola parola gentile verso Berlusconi prima delle elezioni e non la ebbe nemmeno dopo. Cominciò ad attaccarlo subito sul conflitto d'interessi. "Nudo, lo voglio" mi disse in proposito. E quando riferii la battuta al Cavaliere, questi, poiché eravamo in Tv, dovette controllarsi: "Umberto non vorrà che prenda il raffreddore...". In realtà, Bossi non voleva entrare nel governo, avendo già deciso di abbatterlo il giorno dopo le elezioni. "Io cercai subito di chiamarmi fuori" mi conferma oggi. "Dissi a Berlusconi: tu fai il tuo governo come vuoi e io ti appoggio dall'esterno. Era il primo tentativo di sfuggire all'assorbimento, visto che lui aveva voglia di fare subito il partito unico della
destra. Gli feci notare che c'era un equivoco: noi della Lega eravamo il partito unico del Nord, destra e sinistra erano roba romana. Se lui voleva fare il partito unico fin dalle elezioni europee del giugno '94, [p. 267] allora era chiaro che voleva assorbirci. Ma nel governo dovemmo entrare. Anche perché Berlusconi mi disse chiaro: guarda Umberto, se qui non facciamo l'accordo, si torna subito a votare..." Bossi, che s'era fatto pagare profumatamente l'accordo elettorale in seggi (aveva avuto 176 parlamentari, contro i 148 di Forza Italia, nonostante avesse preso meno della metà dei voti), chiese per entrare nel governo il ministero dell'Interno. Come i guerrieri più crudeli miravano a cavare il cuore dal corpo della vittima in segno di spregio e di vittoria, così la Lega - arrivata vincitrice a Roma voleva per sé il Viminale, autentico cuore del potere nella Prima Repubblica. Scalfaro, che nella Prima Repubblica aveva passato tutta la sua vita e al Viminale era stato quattro anni nel governo Craxi, si oppose disperatamente. Anche perché recava ben visibili nel corpo le cicatrici delle polemiche sul Sisde, e affidare il controllo della sicurezza a un leghista significava consegnargli le chiavi che aprivano ogni porta. "Pronto, dottor Di Pietro? Sono Berlusconi..." Ma Bossi fu irremovibile e lo stesso Berlusconi dovette confessare a Scalfaro che il Senatùr aveva posto come condizione per entrare al governo il controllo del Viminale. Per aggirare l'ostacolo, Pinuccio Tatarella - che appena vedeva uno spigolo pensava a come arrotondarlo -fece il nome di Di Pietro. L'uomo che tre mesi prima aveva incarcerato il fratello del presidente del Consiglio per una tangente vecchia di dieci anni. A Scalfaro nemmeno l'idea di Di Pietro andava bene (avrebbe preferito Raffaele Costa, piemontese come lui). Ma il Cavaliere conosce bene gli uomini e sapeva che fare il ministro dell'Interno per uno che aveva fatto il poliziotto, e continuava a farlo dallo scranno di pubblico ministero più popolare d'Italia, sarebbe stata una tentazione probabilmente irresistibile. Pazienza, se gli aveva arrestato il fratello. Averlo nel governo poteva essere una magnifica polizza assicurativa. Perciò, la mattina di [p. 268] sabato 7 maggio, lo chiamò sul cellulare proprio dallo studio di Scalfaro. Gianni Letta formò il numero e al primo squillo passò la cornetta a Berlusconi. Di Pietro si trovava al palazzo di giustizia
di Roma. Era andato a portare personalmente ai colleghi romani gli abiti del marito di Alberica Filo della Torre, vittima del "giallo dell'Olgiata", e stava rinfrescando la sua popolarità con un magnifico bagno di folla. Nel momento in cui Berlusconi disse: "Buongiorno, dottor Di Pietro..." Scalfaro lasciò la stanza. L'appuntamento tra il presidente del Consiglio e il simbolo di Mani pulite fu fissato per le due del pomeriggio nello studio di Cesare Previti. Quando Di Pietro entrò nella stanza foderata di cuoio e di legni pregiati, Berlusconi non fece nemmeno in tempo a formalizzare l'offerta che l'altro lo precedette nel rifiuto. Perché? Dov'era andato Scalfaro quando aveva abbandonato il suo studio mentre Berlusconi chiamava Di Pietro? Era andato a telefonare a Francesco Saverio Borrelli. A chi giovava incoronare il governo Berlusconi con l'eroe di Mani pulite alla guida del portafoglio più prestigioso? Borrelli intervenne su Di Pietro e questi rifiutò. Si disse che era stato lusingato con la prospettiva di incarichi ancora più prestigiosi. Vero? Falso? Certo è che la settimana precedente, il 1o maggio, Borrelli aveva dichiarato al "Corriere della Sera": "Dovrebbe accadere un cataclisma per cui resta solo in piedi il presidente della Repubblica che, come supremo tutore, chiama a raccolta gli uomini della legge. E soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo... una folla oceanica raccolta sotto i nostri balconi. Ma a un appello di questo genere del capo dello Stato si potrebbe rispondere con un "servizio di complemento", questo sì". Il Polo aveva appena vinto le elezioni che si immaginava dovessero chiudere due anni di angosciosa instabilità, e già il procuratore di Milano metteva nel conto di essere chiamato dal capo dello Stato a presidiare le macerie di un governo democratico in fase di costituzione. Chi scrive crede ai complotti solo dopo aver visto con i propri occhi le impronte digitali dei congiurati sul luogo del delitto. Ma resta affascinato da tali capacità divinatorie. [p. 269] Come forse ricorda il lettore, al posto di Di Pietro al Viminale andò Bobo Maroni, che dissacrò la stanza del cinquantennale potere democristiano attaccando dietro la scrivania di De Gasperi il poster del complesso di cui era apprezzato tastierista: il Distretto 51 and the Capric Horns with the Sweet Soul Sisters. Scalfaro, stranamente, non batté ciglio. Lo garantiva il suo grande amico, protetto e protettore, Vincenzo Parisi, capo della polizia. Era stato a cena con Maroni e con Enzo De Chiara, l'uomo d'affari italoamericano sul quale il pubblico ministero di Aosta David Monti scatenò il polverone dell'inchiesta Phoney Money. Non si sa che cosa
si dissero in quell'incontro Maroni e Parisi. Ma l'indomani il governo Berlusconi era fatto. Alle europee il Cavaliere fece cappotto Il governo Berlusconi non navigò mai in acque tranquille. La burrasca che l'avrebbe affondato cominciò il 13 luglio con il decreto Biondi. Ma il giorno di vera bonaccia fu uno solo, il 12 giugno. Alle elezioni europee (che, vista la replica del '99, portano bene al Cavaliere) Forza Italia conseguì un autentico trionfo. Come accade costantemente nella nostra storia, gli italiani amano correre in soccorso del vincitore. Il partito di Berlusconi passò dal 21 per cento delle politiche al 30,6. Il Pds scese dal 20,3 al 19,1, la Lega dall'8,4 al 6,6, An dal 13,5 al 12,5, i popolari dall'11,1 al 10. Complessivamente, il Polo arrivò al 51,8, i Progressisti si fermarono al 31,3, il Centro si acquattò al 14,7. L'osservatorio della facoltà di sociologia di Roma rilevò che Forza Italia aveva trionfato soprattutto nelle aree depresse e affollate del Sud: Napoli, Bari, Palermo, Catania, Taranto e Messina, dove il Pds era crollato rispetto alle elezioni politiche. Nel Nord, il campo d'azione della Lega si stava pericolosamente riducendo. La sera stessa delle elezioni, Berlusconi dichiarò: "O l'opposizione ci lascia governare o andremo a un nuovo voto". Poi, come talvolta gli accade, il piede scivolò sulla frizione: [p. 270] "Se queste elezioni fossero state politiche, Forza Italia sarebbe stata vicina al 40 per cento. Anzi, penso a un obiettivo ancora superiore". Pur essendo l'antipolitico per eccellenza, Berlusconi era stato colpito dal virus fatale ai leader politici da alcune migliaia di anni: il virus dell'onnipotenza. Si sarebbe accorto a sue spese di lì a poco di quanto sia forte la disperata resistenza di chi sta per essere eliminato. Nel giugno del '94, la situazione era in ogni caso paradossale. Pur avvertendo l'impotenza di non poter fare quel che avrebbe desiderato ("Sono entrato nell'automobile, ma non c'era il volante" avrebbe confessato a D'Alema), Berlusconi era di gran lunga il leader riconosciuto del paese. Gli industriali, che l'avevano snobbato, cercarono un frettoloso recupero: all'inizio dell'estate, Gianni Agnelli aprì per festeggiarlo la sua reggia romana di via XXIV maggio e Berlusconi fu particolarmente corteggiato dal suo avversario storico, Carlo De Benedetti. Ma soltanto le elezioni anticipate gli avrebbero assicurato una
maggioranza finalmente solida. Trasferito alle politiche, il voto delle europee avrebbe consentito a Forza Italia di avere la maggioranza assoluta al Senato. Il partito di Berlusconi era primo in 14 regioni su 20, secondo nelle altre e in 72 province su 94, contro le 37 delle elezioni del 27 marzo. Ma Scalfaro gli fece subito capire che non avrebbe sciolto di nuovo il Parlamento e anzi minacciò di sostituire il governo del Polo con un "governo istituzionale". Berlusconi aveva tuttavia in casa le ragioni della crisi. E se ne accorse mercoledì 13 luglio. Biondi presentò un decreto... Quel giorno, il Guardasigilli Alfredo Biondi portò in discussione nel Consiglio dei ministri un decreto legge per la modifica di alcune norme del Codice di procedura penale. Da almeno un anno uno schieramento trasversale alle forze politiche sollecitava una seria riflessione sull'uso che ormai le procure di tutta Italia facevano della carcerazione preventiva. [p. 271] Le vecchie forze politiche di governo erano state integralmente decapitate, ma con gli arresti sistematici dei grandi manager, la magistratura milanese stava ridisegnando uno a uno anche gli organigrammi delle principali aziende italiane. La magistratura di Milano aveva inoltre incarcerato un intero reparto della Guardia di finanza, quello delegato alle verifiche fiscali più importanti. Commentava Biondi: "So bene, per la mia esperienza di avvocato, che se arresti un funzionario del catasto e gli dici che lo terrai in prigione fino a quando non avrà ammesso che la mappa incriminata l'ha vista anche il suo direttore, questi finirà per confessarlo. Ma allora, per piacere, non facciamo più i convegni sulle garanzie della difesa...". Quando Biondi presentò il provvedimento ai colleghi di governo, esso era stato vagliato per settimane intere dalle direzioni generali dei ministeri della Giustizia e dell'Interno e modificato su richiesta sia di leader politici (Fini aveva domandato un rinvio del patteggiamento allargato, tuttora limitato a due anni) sia del capo della polizia, Parisi, attento a che il numero delle scarcerazioni non fosse eccessivo. Nelle lunghe riunioni che cominciavano nei ministeri e a palazzo Chigi e si protraevano per buona parte della notte in casa di Berlusconi, il ministro dell'Interno Maroni non sollevò particolari obiezioni. Ai colleghi di governo, quel mercoledì 13 luglio, Biondi presentò tre documenti: il testo del decreto, la relazione tecnica degli uffici ministeriali, una sintesi scritta dallo stesso Biondi in
linguaggio comune perché tutto fosse chiaro. Il provvedimento era politicamente sbagliato per due ragioni. La prima: era un decreto legge, aveva cioè effetto immediato; il dibattito parlamentare sarebbe venuto dopo. Ai ministri che espressero qualche perplessità in questo senso, Biondi replicò che in tema di libertà personale tutti i governi si erano regolati allo stesso modo. Ma, come vedremo, non tenne presente l'impatto sull'opinione pubblica dell'improvvisa liberazione di alcuni personaggi simbolo di Mani pulite. La seconda (e più grave) ragione fu l'aver sottovalutato le [p. 272] conseguenze di alcune disparità di trattamento tra un reato e l'altro. Perché, chiese il ministro dell'Ambiente Altero Matteoli, la polizia può arrestare subito il responsabile di maltrattamenti in famiglia e non un ladrone di Stato? "Perché" rispose Biondi "la moglie maltrattata non denuncerà mai il marito se non è certa che la polizia lo allontanerà da casa." Mentre il ladro di Stato, secondo Biondi, poteva essere messo in condizione di non nuocere anche agli arresti domiciliari. Sotto un profilo strettamente tecnico, il ministro poteva aver ragione. Poiché, tuttavia, la carcerazione era vista dall'opinione pubblica non come "cautela" prima del processo, ma come anticipo della punizione successiva, si dava alla gente l'orribile sensazione che il governo Berlusconi avesse un occhio di riguardo per i vip incappati nella rete di Mani pulite. ...e Di Pietro glielo affondò Quando vide serpeggiare attorno al grande tavolo di palazzo Chigi qualche perplessità, Biondi disse: "Se non c'è unanimità, ritiro il decreto e propongo un disegno di legge". Il presidente del Consiglio gli andò dietro: "Biondi ha ragione. C'è qualcuno contrario all'adozione del decreto?". Nessuno alzò la mano, il decreto Biondi fu votato all'unanimità. L'indomani, alle otto del mattino, Scalfaro firmò il provvedimento che così ebbe immediato valore di legge. Il capo dello Stato conosceva perfettamente ogni dettaglio del documento e anzi aveva dato il suo contributo a inasprire alcuni articoli, come quello sulla decadenza dalla carica degli amministratori pubblici infedeli. I giornali, d'altra parte, avevano pubblicato la notizia al quarto posto dopo la vittoria della nazionale di calcio sulla Bulgaria (doppietta di Baggio), il condono fiscale e l'eliminazione degli esami di riparazione nelle scuole medie superiori. L'opposizione, è
vero, aveva annunciato battaglia, ma la controversia sembrava gestibile in Parlamento. Biondi era convinto di non fare la fine del suo collega Conso il cui decreto, conosciuto e approvato da tutti, [p. 273] dovette essere miseramente ritirato dopo la diffida di Francesco Saverio Borrelli. Il pomeriggio fu tuttavia inquieto. Un rullare indistinto di tamburi di guerra scandì le ore del Palazzo, e alle 19 se ne capirono finalmente le ragioni. A quell'ora, Antonio Di Pietro apparve in diretta al Tg3 circondato dai suoi colleghi del Pool Mani pulite. Aveva il volto così sapientemente devastato da sembrare uscito da ore di trucco in vista della scena madre di un grande film d'azione. E scena madre fu. Pallidissimo, le occhiaie così profonde da sembrare cicatrici, la camicia slacciata senza cravatta, i fogli tenuti come carboni ardenti, Di Pietro puntò sulla telecamera gli occhi dell'onesto tutore della legge che combatteva a mani nude contro una classe politica corrotta e un governo che sembrava volerle andare in soccorso. Lui, che con le sue celebri grida aveva terrorizzato potenti d'Italia e manager dal cuore d'acciaio, conquistò immediatamente il pubblico con una battuta magistrale: "Scusate, sono emozionato...". Poi dettò la sentenza di morte del decreto Biondi: "L'odierno decreto legge a nostro giudizio non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato. Infatti, persone raggiunte da schiaccianti prove in ordine a gravi fatti di corruzione non potranno essere associate al carcere neppure per evitare che continuino a delinquere o a tramare per impedire la scoperta dei precedenti misfatti, talora perfino comprando gli uomini a cui avevamo affidato le indagini nei loro confronti [allusione alla gigantesca retata di ufficiali e sottufficiali della Guardia di finanza ordinata da Piercamillo Davigo]. Abbiamo pertanto informato il procuratore della Repubblica della nostra determinazione a chiedere al più presto l'assegnazione ad altro e diverso incarico nel cui espletamento non sia stridente il contrasto tra ciò che la coscienza avverte e ciò che la legge impone. Firmato Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo". In realtà, più che un problema di coscienza, Di Pietro e i suoi colleghi posero un serio problema operativo: avevano fatto dell'arresto il più importante mezzo istruttorio. Arrestavano [p. 274] un imprenditore e lo tenevano in carcere fino a quando questi non aveva confessato il meccanismo delle tangenti e fatto i nomi dei politici ai quali le pagava; misteriosamente i verbali degli
interrogatori finivano sui giornali, l'imprenditore usciva e il politico entrava. E così via. Non era indispensabile l'immediata acquisizione della prova (che spesso sarebbe stato faticoso produrre anche al processo). Bastava la pubblica chiamata di correità, seguita magari dal patteggiamento di una pena lieve, senza la necessità di ripetere in aula le accuse formulate nella confessione al pubblico ministero. Messi agli arresti domiciliari invece che a San Vittore, pochi inquisiti avrebbero avuto lo stimolo drammatico alla confessione. E Mani pulite si sarebbe arenata nelle secche delle difficoltà investigative. Scrisse in quei giorni Angelo Panebianco sul "Corriere della Sera": "Che la carcerazione preventiva sia stata usata in questo paese in molti casi per estorcere la confessione all'indagato, è un fatto certo e una ennesima violazione dei principi elementari della civiltà giuridica liberale... Il problema sta nel fatto, come ha dichiarato al "manifesto" il magistrato Bruti Liberati, che in un sistema di giustizia penale fallimentare e barbaro come il nostro il carcere preventivo è la sola certezza di pena. Ma ciò configura una doppia barbarie perché fa conoscere il carcere a tanti cittadini... che poi ai processi, come dicono le statistiche, risulteranno innocenti... e non fa scontare in molti casi la pena a coloro che risulteranno effettivamente colpevoli". Mi disse Piercamillo Davigo per giustificare la detenzione in carcere: "Liberi, i politici fanno ancora paura. Il potere non deriva dalle cariche che si ricoprono. Le cariche sono il segno esteriore del potere che si detiene. E il potere deriva da una serie di relazioni personali e soprattutto dalla capacità di ricatto che il potente ha nei confronti delle persone che hanno commesso reati insieme con lui". Con questo criterio, obiettai, nessun corrotto dovrebbe mai uscire dal carcere. E Davigo: "Queste persone vengono scarcerate quando rompono i vincoli di omertà esattamente come accade nel crimine organizzato". Cioè con la confessione e la delazione. [p. 275] Comincia il derby Di Pietro-Berlusconi In Parlamento si levarono subito i tumulti dell'opposizione. Mentre Berlusconi annunciava che, se la maggioranza si fosse frantumata intorno al decreto, lui si sarebbe dimesso, né Fini né Bossi sollevarono obiezioni. Augusto Minzolini, attentissimo "origliatore" della "Stampa", sentì il leader di An trincerarsi dietro la firma del capo dello Stato e vide Roberto Maroni allargare le braccia: "Il decreto è ingiusto, ma necessario".
Tutto sembrava dunque sotto controllo, seppure a fatica. Ma stavolta furono i cittadini a rivoltarsi. L'opinione pubblica vive spesso di simboli e quando i telegiornali mostrarono l'uscita dal carcere di Francesco De Lorenzo e dei coniugi Poggiolini, la protesta esplose senza controllo. De Lorenzo era l'ex ministro incarcerato per lo scandalo della Sanità. Duilio Poggiolini era il più influente direttore generale del ministero, si occupava del settore farmaceutico e con la complicità della moglie aveva incamerato illecitamente una spettacolare quantità di soldi, che gli investigatori scoprirono perfino cuciti nei divani di casa. Sia De Lorenzo sia Poggiolini, anche senza il decreto Biondi, sarebbero usciti dopo pochi giorni per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Ma sembrò che il governo stesse per restituire la libertà a persone che apparivano come l'incarnazione del male e così partiti e giornali furono travolti dalle proteste. Fini fece marcia indietro, annunciando che avrebbe chiesto di reintrodurre la carcerazione preventiva anche per i reati di corruzione e concussione. Bossi andò oltre: mandò Maroni in televisione e il ministro dell'Interno, che delle autosmentite ha fatto un'arte, disse di essere stato imbrogliato dai suoi colleghi di governo. Berlusconi alla fine fu costretto a far cadere il decreto. In Consiglio dei ministri Alfredo Biondi, quasi con le lacrime agli occhi, guardò in faccia i suoi colleghi uno a uno e disse: "Se qualcuno di voi sostiene ora che il provvedimento non è stato adottato in piena legittimità con decisione unanime e [p. 276] collegiale del governo, rimetto il mio mandato nelle mani del presidente del Consiglio". Berlusconi mise ai voti un documento di solidarietà verso il ministro della Giustizia e anch'esso, per beffa estrema della sorte, fu approvato all'unanimità. Maroni compreso. L'indomani, il ministro dell'Interno, con la sua simpatica faccia da giocatore di poker, mi disse: "Berlusconi è sceso in campo? E Di Pietro è andato a sfidarlo. Ormai è un derby, un Milan-Inter. E la gente ha scelto di tifare Inter, cioè Di Pietro". Mi disse più tardi Berlusconi: "Il decreto Biondi rappresenta un caso limite di malainformazione. Noi non abbiamo mai avuto intenzione né di fare amnistie, né indulti, né di tirare fuori questo piuttosto che quello. Per effetto del decreto sono uscite di prigione duemilasettecento persone. Caduto il decreto, ne sono state riarrestate quarantacinque ["I militi ignoti della giustizia italiana" li avrebbe chiamati Biondi], segno che per tutte le altre non c'erano
ragioni così inderogabili da giustificare il loro arresto in carcere". Disse che i procuratori di Milano avevano protestato perché è più facile fare le indagini esercitando sull'indagato la pressione del carcere ("Mai s'era vista analoga sollevazione del potere giudiziario su quello esecutivo"). Lamentò l'uso strumentale che fu fatto della scarcerazione dei De Lorenzo e dei Poggiolini e la retromarcia degli alleati di governo. Ma, infine, ammise: "Con il senno di poi, il decreto Biondi è stato un errore. Non abbiamo tenuto conto del fatto che l'opinione pubblica non era pronta ad accettare un provvedimento del genere. Un governo deve saper sfidare anche l'impopolarità e io ritengo tuttora che i contenuti di quel decreto fossero giusti. Ma forse avremmo dovuto aspettare tempi più maturi". [p. 277] X: La stangata Carabinieri a palazzo Chigi Per un uomo sapientemente goloso come Silvio Berlusconi, andare a tavola è spesso una festa. Ma quel lunedì 21 novembre 1994, mangiò di malavoglia soltanto un po' di pesce con i suoi collaboratori più stretti nella suite presidenziale che i proprietari dell'hotel Vesuvio a Napoli hanno dedicato a un celebre e amatissimo cliente, Enrico Caruso. La domenica appena trascorsa aveva portato a Forza Italia pessimi risultati nelle elezioni amministrative parziali. Il governo inoltre non carburava a causa delle bizze di Bossi e della guerra continua delle opposizioni, dei giornali e di quasi tutti quelli che in Italia contavano qualcosa. Guardando fuori delle finestre Castel dell'Ovo, le barche sonnecchianti per via dell'autunno nel porticciolo di Santa Lucia, la sagoma imponente del Vesuvio e più lontano, appena percepibili nella foschia, i profili d'Ischia e di Capri, il presidente del Consiglio dovette ripensare con amarezza al clima festoso che appena sei mesi prima aveva circondato il vertice, proprio lì a Napoli, dei sette grandi della Terra. Com'era diverso quello stesso paesaggio che ora gli si apriva dalla suite Caruso, da quando, insieme con Veronica, lo aveva mostrato a Bill e Hillary Clinton, augurando fuori protocollo all'augusta coppia una notte d'amore illuminata dalla luna del golfo... Mentre, verso sera, Berlusconi scriveva un fiacco comunicato stampa per spiegare il brutto risultato delle elezioni [p. 278] amministrative, due ufficiali dei carabinieri si presentavano a
palazzo Chigi. Erano Emanuele Garelli, comandante del reparto operativo dei carabinieri di Milano, e il maggiore Paolo La Forgia, comandante del nucleo operativo. Per mesi interi, La Forgia era vissuto nell'anticamera di Di Pietro e aveva avuto la triste e delicata incombenza di arrestare le persone più in vista incappate nella rete di Mani pulite. I due ufficiali chiesero all'ingresso del presidente del Consiglio, ma Berlusconi non c'era e così furono dirottati sul consigliere Giampiero Massolo, un diplomatico che Berlusconi aveva chiamato a dirigere la sua segreteria. Massolo avvertì Gianni Letta: dopo aver giurato al Cavaliere che si sarebbe occupato soltanto della Fininvest in seguito alla discesa in campo dell'amico, non aveva potuto resistergli quando questi l'aveva scongiurato di fargli da sottosegretario alla presidenza. Cioè, da capo della macchina di palazzo Chigi e radar dell'intero governo. Chi conosce Letta e il suo pessimismo non ha difficoltà a immaginare che, ascoltato Massolo, il colore delle sue gote fosse diventato più acceso di quello delle prosperose baccanti che gli guardavano le spalle da un quadro attribuito a Tiziano, nonostante una firma palesemente falsa (Tiziano con la z, invece che con la t alla latina, come se a scriverla fosse stato Er Piotta). Che vogliono?, chiese Letta a Massolo. Che volete?, chiese Massolo ai due ufficiali. Parlare con il presidente del Consiglio, risposero. E' a Napoli, dove sta presiedendo la conferenza mondiale sulla criminalità, replicò Massolo stupito del fatto che i suoi interlocutori non lo sapessero. Bene, andiamo a Napoli, dissero gli ufficiali. Massolo - che non a caso fa il diplomatico - riuscì a temporeggiare. Estorse agli ufficiali la ragione della visita: essi dovevano consegnare una busta personalmente al capo del governo e, com'era ovvio, non potevano rivelarne il contenuto. A quel punto, il capo della segreteria di Berlusconi cercò il generale Luigi Federici, un amabile e valente ufficiale degli alpini diventato comandante generale dei carabinieri. Lo rintracciò a tavola: mangiava pesce con il suo amico e predecessore Lorenzo Valditara e le rispettive consorti [p. 279] in un ristorante di via Chiana, nel quartiere Salario a Roma. Federici non sapeva nulla del viaggio dei suoi subordinati, tenuti rigorosamente al segreto istruttorio, ma chiese a Massolo: "Qual è l'intestazione della busta?". "Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano" rispose l'altro. E Federici ne trasse una conclusione dolorosa quanto scontata: "Dottor Massolo, difficilmente contiene un invito a cena del dottor Borrelli per il
presidente Berlusconi". Il generale chiese che gli fosse passato al telefono il colonnello Garelli. Venne a sapere della sua intenzione di consegnare la temutissima busta a Napoli e gli disse: "Se avete bisogno di un elicottero per andarci subito, consideratelo a disposizione". Garelli ringraziò e disse che glielo avrebbe fatto sapere. Anche Massolo prese tempo e ottenne il numero di cellulare di La Forgia in cambio della promessa che di lì a poco avrebbe richiamato. Con il numero di La Forgia in mano, Letta telefonò a Berlusconi. Erano passate le 20 e il presidente stava per andare al San Carlo dove pochi minuti più tardi sarebbe cominciato un concerto di Luciano Pavarotti in onore dei rappresentanti dei centoquaranta paesi partecipanti alla conferenza. "Chiama Previti, cerca di sapere qualcosa in più" disse Berlusconi a Letta, con l'umor nero. E gli dette appuntamento alla fine dello spettacolo. All'alba, Letta svegliò Berlusconi... Cesare Previti, ministro della Difesa e quindi responsabile politico anche dell'Arma dei carabinieri, stava cenando in un ristorante di Siviglia con i suoi colleghi francese e spagnolo per discutere della nascita imminente di una task force trilaterale. Ricevuta la telefonata di Letta, si scusò con gli altri commensali e chiamò Federici. Questi confermò di ignorare i motivi della trasferta romana dei due ufficiali, chiese di potersi informare, richiamò Previti e gli dette una notizia pessima, ma ormai attesa: nella busta portata da Garelli e La Forgia [p. 280] era contenuto un avviso di garanzia per Berlusconi con invito a comparire davanti al procuratore di Milano. Previti non fece in tempo ad avvertire Letta prima della fine del concerto di Pavarotti. Appena ebbe ascoltato, si può immaginare con quanta attenzione, l'ultimo bis del tenore ('O sole mio), Berlusconi, dall'automobile che lo riportava all'hotel Vesuvio, richiamò Letta e questi, in assenza di notizie più dettagliate, gli dettò il numero di cellulare di La Forgia. Il presidente del Consiglio fece comporre da un suo assistente le dieci cifre necessarie sul radiotelefono dell'automobile e chiese al maggiore di leggergli il messaggio che doveva consegnargli. L'ufficiale strappò un lembo della busta che recava la sinistra intestazione della procura milanese e a Berlusconi non venne in mente che quel rumore secco aveva emozionato tante volte i concorrenti del
suo amico Mike Bongiorno negli anni lontani di Lascia o raddoppia?. La notizia contenuta nel plico era durissima: il presidente del Consiglio era invitato a comparire davanti ai pubblici ministeri di Milano per rispondere di corruzione. In concorso con il fratello Paolo e con il capo dei servizi fiscali della Fininvest Salvatore Sciascia (entrambi arrestati nell'estate del '94) avrebbe versato tangenti per complessivi duecentotrenta milioni a militari della Guardia di finanza per evitare accertamenti fiscali su Mondadori e Mediolanum Vita (entrambe controllate dalla Fininvest). La Forgia non citò un terzo capo d'accusa: una tangente contestata a un'altra società del gruppo, Videotime. Berlusconi chiamò Letta, gli riferì il capo d'imputazione, aggiungendo: "Ma io che c'entro?", e poiché l'automobile era ormai arrivata davanti all'hotel, lo congedò per richiamarlo più tardi con comodo. Tra mezzanotte e le due il presidente del Consiglio sentì per un paio di volte ancora il suo sottosegretario, dopo essersi sfogato anche con il presidente della Fininvest, Fedele Confalonieri. Finalmente, andò a letto. Ma vi restò poco più di tre ore. Alle 5,40, infatti, Gianni Letta gli telefonò di nuovo. Venti minuti prima era stato svegliato da Enrico Mentana, direttore [p. 281] del Tg5, chiamato a sua volta da Cintia Paladini, la redattrice incaricata di preparare "Prima pagina", il rullo di notizie del telegiornale del mattino. Il "Corriere della Sera" sparava la notizia dell'avviso di garanzia a Berlusconi: per la prima volta in Italia, un presidente del Consiglio in carica veniva inquisito e la sgradevole circostanza si verificava mentre egli era chiamato a presiedere un'importante assise mondiale dedicata, guarda caso, alla criminalità. "E adesso come faccio?" disse Berlusconi a Letta. "Tra poco ricominciano i lavori dell'assemblea e all'ordine del giorno c'è la corruzione internazionale. Come posso presiederla, visto che mi si accusa di corruzione? No, Gianni, torno subito a Roma." Letta lo convinse a restare. Berlusconi avrebbe dovuto presiedere serenamente i lavori del mattino, ascoltare l'intervento del ministro italiano dell'Interno (dirà Maroni ai giornalisti: "La magistratura non può scandire i tempi della politica"), poi rientrare a Roma, incontrare i due ufficiali dei carabinieri e infine ricevere il presidente egiziano Mubarak in visita in Italia. Il Cavaliere obbedì. Ma prima di bere l'amaro calice si tolse il gusto di svegliare a New York Giovanni Agnelli, editore del "Corriere della Sera". Il tono e l'entità della protesta erano tali che Berlusconi avrebbe potuto fare
a meno del telefono: dall'altra sponda dell'oceano Agnelli l'avrebbe sentito ugualmente. L'Avvocato gli disse che non ne sapeva nulla e anzi si premurò di buttare giù dal letto a sua volta Paolo Mieli, direttore del giornale, reduce da una notte più angosciosa di quella del manzoniano Innominato. A Roma, Berlusconi si sfogò con misura anche con i due ufficiali dell'Arma e in serata riuscì perfino a raccontare qualche barzelletta all'egiziano Mubarak, dopo aver fatto conoscere al paese, attraverso i telegiornali, la sua indignazione per l'accaduto. "La notizia è stata fatta filtrare a un giornale allo scopo di colpire il presidente del Consiglio e sbalzarlo di sella per via giudiziaria..." [p. 282] Due ufficiali, con la mantella di gala... L'"invito a comparire per persona sottoposta a indagine" a carico di Silvio Berlusconi fu scritto personalmente da Antonio Di Pietro lunedì mattina 21 novembre. E la circostanza, come vedremo, non è affatto irrilevante. Borrelli controllò il provvedimento e lo passò a Davigo per la trascrizione al computer. Per evitare che l'operazione avvenisse in cancelleria, dove circola troppa gente, Davigo decise di scriverla sul proprio personal. Ma poiché questo non era abilitato, chiamò un tecnico perché ne modificasse il programma. Gianluca Di Feo, giovane cronista giudiziario del "Corriere della Sera", vide Davigo uscire dall'ufficio di Borrelli, ma notò che lo faceva dopo che vi erano entrati i due più alti ufficiali dei carabinieri in servizio a Milano: il generale Nicolò Bozzo, comandante dell'Arma della regione Lombardia e il colonnello Sabino Battista, comandante provinciale di Milano. Di Feo, figlio a sua volta di un ufficiale dell'Arma, notò che i due indossavano la mantella di gala: erano stati forse convocati d'urgenza senza avere il tempo di cambiarsi? Il cronista ne chiese ragione a Davigo e il magistrato, che in un gioco a quiz schiaccerebbe il bottone della risposta prima di aver ascoltato la domanda, sparò: "Oggi è la festa della Virgo Fidelis, protettrice dell'Arma". Ma Di Feo lo gelò: "A meno che Di Pietro non sia davvero la Madonna, il giorno della Virgo Fidelis si va in visita dal cardinale e poi i più alti magistrati vanno a pranzo nella caserma dell'Arma". Davigo incassò, e Dio sa quanto gli fu difficile farlo. Ma continuò a muoversi per tutta la procura come una mosca prigioniera sotto un bicchiere: voleva attrarre l'attenzione su di sé per liberare Di Pietro. Il quale, nel pomeriggio, se ne andò a Parigi per interrogare
Ferdinando Mach di Palmstein, appena arrestato in casa della bella Domiziana Giordano. Quando il programma del computer di Davigo consentì l'iscrizione dell'esplosivo provvedimento (erano ormai le 14), Borrelli consegnò la busta arancione ai due ufficiali. Perché non direttamente a La Forgia come tante volte aveva fatto Di [p. 283] Pietro? Perché voleva renderli personalmente responsabili del segreto. Di Feo mi raccontò di aver capito già da questi movimenti che la giornata era strana. Aveva avuto un intuito formidabile o gli era giunta all'orecchio qualche dritta? I cronisti giudiziari erano d'altra parte allertati su Berlusconi da quando, il 5 ottobre, in una sorprendente intervista a Goffredo Buccini - giovane inviato del "Corriere della Sera" Borrelli disse che nell'inchiesta su Telepiù, allora gravitante nell'orbita Fininvest, si era arrivati a livelli altissimi. ("Be', è inutile nascondersi dietro un dito. E' vero, siamo a un momento importante, cruciale. Quello che è apparso sui giornali, sul problema di Telepiù, mostra abbastanza chiaramente che si rischia di arrivare a livelli finanziari e politici molto elevati.") Visto che Paolo Berlusconi era già stato arrestato, coprendo così i "livelli finanziari", non restavano che quelli politici: Borrelli aveva tracciato l'identikit del presidente del Consiglio. E si parlò, infatti, di un "preavviso di garanzia a mezzo stampa" del procuratore di Milano al capo del governo. Allertato da Di Feo, il capocronista Alessandro Sallusti chiamò proprio Buccini, che si trovava a Roma, ordinandogli di rientrare a Milano. Intanto Di Feo interpellò una sua fonte affidabile e questa dapprima gli rispose: "Oggi non posso dirti niente" e poi: "Chiamami da un telefono pulito stasera dopo le dieci". "Finisco in mezzo a una strada?" Alle 20,30, mentre Pavarotti cominciava il suo concerto al San Carlo di Napoli e Berlusconi cercava di immaginare quale tipo di grana dovessero comunicargli i due carabinieri che si erano presentati a palazzo Chigi, Buccini e Di Feo si chiusero nella stanza del direttore del "Corriere della Sera" Paolo Mieli. Prima di passare al giornale, Buccini era andato a trovare "una fonte molto qualificata" che gli aveva confermato la notizia. Bastava per pubblicarla? Borrelli e Davigo, chiamati al telefono, si erano rifiutati di rispondere. "Aspettiamo [p. 284] ancora" suggerì Mieli. Poco dopo le 22, Di Feo chiamò la sua fonte. Quando questa provò a
difendersi con il solito "Non posso dirti niente", il cronista decise di giocare pesante. "Se scrivo che Berlusconi è indagato, finisco in mezzo a una strada?" "Che significa?" chiese l'altro. "Significa che io resto senza posto, licenziano il direttore e chiudono il "Corriere"" mentì Di Feo. "Gola profonda" cedette: "Allora scrivilo". Anche Mieli dette il via libera. Prima di procedere, Di Feo sottopose al suo direttore un delicato problema di coscienza. Almeno altri tre giornalisti al mattino avevano fatto la guardia nei corridoi della procura, ma soltanto Paolo Foschini, il cronista giudiziario dell'"Avvenire", aveva capito che Berlusconi era finito nella rete di Borrelli. Gli mancava la conferma definitiva. "Posso avvertirlo?" chiese Di Feo. Mieli gli rispose di no: "Nel giro di dieci minuti lo saprebbero tutti i giornali". Secondo quanto si sarebbe appreso successivamente, è possibile che Foschini sia stato il primo ad avere la soffiata. Nel suo libro Due pesi, due misure (Mondadori, 1999), Giancarlo Lehner riporta una testimonianza resa ai magistrati di Brescia dell'ufficiale di polizia giudiziaria Felice Maria Corticchia: il cronista giudiziario della "Repubblica" Luca Fazzo (presente anche lui quella mattina in procura) gli avrebbe confidato che la soffiata era arrivata a Foschini. Questo spiegherebbe il problema di coscienza di Di Feo. La decisione di Mieli di mantenere l'esclusiva sarebbe invece dovuta al fatto che solo il "Corriere" era riuscito ad avere la conferma. La fonte decisiva, evidentemente, doveva essere adeguata al prestigio, al livello e alla prudenza del grande quotidiano milanese. Una "gola profonda" di primissimo livello. Prima di dare il via libera alla stampa, Mieli si era consultato a lungo con Alberto Ronchey, presidente della Rizzoli, e insieme avevano deciso di tener fuori dalla storia la proprietà, cioè Agnelli e Romiti. Buccini e Di Feo scrissero il pezzo a quattro mani, rielaborando quello pubblicato in luglio dopo l'arresto di Paolo Berlusconi e di Sciascia. Aggiunsero in cima [p. 285] la ciliegina: "Silvio Berlusconi è indagato". Erano convinti che i magistrati milanesi si fossero limitati a iscriverlo nel registro degli indagati e che non si fossero spinti fino all'invito a comparire, che è una formula più grave, soprattutto se colui al quale è rivolto è il presidente del Consiglio dei ministri. Poi se ne andarono a spasso fin quasi all'alba con il capocronista Sallusti aspettando reazioni
che non arrivavano perché Mieli aveva ritardato l'uscita del giornale. Mentre il direttore del "Corriere" scriveva un editoriale scaramantico di dimissioni nel caso in cui la notizia si fosse rivelata falsa (ma chi conosce Mieli sa che non rischia fino a questo punto), i due cronisti andarono a casa nella certezza di essere arrestati di lì a poco. Di Feo si preparò una borsa "modello Zamorani", seguendo cioè i consigli del dirigente Italstat che aveva pubblicato il manualetto del perfetto detenuto con i beni di prima necessità da portarsi in carcere: due tute, scarpe da ginnastica e di cuoio, scatolette di tonno, un paio di libri. Di Feo scelse la Bibbia e le Novelle per un anno di Pirandello, pensando allo spirito e allo scorrere dei tempi. Buccini drammatizzò ancor di più e predispose l'immediato trasferimento della moglie e della figlioletta in casa di amici: voleva evitare alla piccina lo choc del papà in manette e della casa messa a soqquadro da una perquisizione generale. Soltanto tra le sette e mezzo e le otto i due giornalisti poterono riacquistare il controllo dei propri nervi. Prima con una telefonata di Buccini a Davigo: "Ho letto il giornale. Parlerà Borrelli". Poi con una chiamata a Mieli: svegliato da Agnelli, aveva avuto conferma che Berlusconi già sapeva... Chi era "Gola profonda"? "L'immagine del paese è turbata dal fatto che il presidente del Consiglio è sottoposto a procedimento penale, non dal fatto che si sappia... Vorrei ricordare che sono i reati a determinare discredito, non il comportamento di chi li reprime." Si dice che nell'alto dei cieli l'arcangelo Gabriele abbia dato [p. 286] disposizioni che Piercamillo Davigo campi il più a lungo possibile. Vuole ritardare infatti a tempo indeterminato il momento dell'incontro: ha paura che il magistrato gli rubi il posto, e anche gli arcangeli tengono famiglia. Si dice che quando, in prima elementare, Davigo sbagliò a scrivere una vocale, la maestra si guardò bene dal segnalarglielo: temeva il trasferimento e l'incriminazione per abuso d'ufficio. Si dice - e di questo ho testimonianza diretta - che i due agenti della polizia stradale che un giorno, sciaguratamente, fermarono il magistrato per contestargli un'infrazione (naturalmente inesistente) maledissero per mesi di non aver fatto un altro mestiere. Davigo non si qualificò, ma i due temettero di dover trascorrere il resto della giornata a riempire un verbale di controcontestazione.
Così, quando dissi al magistrato che, screditando il premier italiano davanti ai rappresentanti dei centoquaranta paesi membri dell'Onu presenti a Napoli per la conferenza mondiale sulla criminalità, i procuratori di Milano l'avevano fatta proprio grossa, lui replicò asciutto, sgranando gli occhi come fa quando pronuncia una sentenza inappellabile (cioè sempre), che l'unico ad aver sbagliato - cretino io a dubitarne - era stato solo e soltanto il signor presidente del Consiglio dei ministri. Di diverso avviso si dimostrò l'amico e collega più caro a Davigo. Ammise, infatti, Antonio Di Pietro un anno dopo i fatti sull'"Espresso": "Il vero dramma di quella vicenda è stata la pubblicizzazione della notizia. Noi dovevamo fare quell'atto... Solo che qualcuno commise l'errore di parlarne fuori del nostro gruppo e la notizia finì sui giornali." Visto che per evitare fughe di notizie, come mi confermarono gli stessi magistrati, nessun impiegato o cancelliere fu incaricato di trascrivere il provvedimento sul computer, e che l'operazione fu eseguita personalmente da Davigo, a chi si riferiva Di Pietro? La fonte di quella gigantesca violazione è rimasta senza nome. Borrelli fece aprire un fascicolo contro ignoti, ma lo tenne nella sua procura prima di trasferirlo a Brescia, sede competente a giudicare su reati eventualmente commessi da [p. 287] magistrati milanesi. A Brescia ricorsero direttamente Silvio Berlusconi e - cosa sorprendente - Antonio Di Pietro. Quando, nell'ottobre del '95, lesse sul "Corriere della Sera" le anticipazioni del mio libro Il duello con la prima ricostruzione di quel che era accaduto il 21 novembre dell'anno precedente, decise di rivolgersi direttamente ai magistrati bresciani perché indagassero su eventuali responsabilità dei colleghi milanesi nella diffusione di una notizia che Di Pietro giudicò subito un fatto gravissimo. Ma tutte le richieste si conclusero senza l'identificazione di "Gola profonda". Perché Borrelli decise di iscrivere Berlusconi nel registro degli indagati in coincidenza con un così rilevante appuntamento internazionale? "La legge" mi disse il procuratore "prevede che si proceda senza indugio nel momento stesso in cui si individuano le responsabilità. Nei giorni precedenti l'emissione dell'invito a comparire, ci erano pervenute informazioni che avevano arricchito la notizia del reato delle concordanze necessarie. A quel punto, il procedimento era doveroso." Queste notizie, mi dissero i magistrati milanesi, arrivarono all'immediata vigilia di domenica 20 novembre in cui si votava per le elezioni amministrative d'autunno. Decisero di
aspettare il lunedì successivo, "sufficientemente lontano da domenica 4 dicembre, giorno dei ballottaggi". Se il procedimento a carico di Berlusconi fosse stato formalizzato anziché il lunedì, poniamo, il mercoledì, quando ai ballottaggi invece di tredici giorni ne mancavano undici, l'indagine non ne avrebbe sofferto. Ma la conferenza mondiale sulla criminalità a Napoli sarebbe finita. Perché poi tanta cautela nell'allontanarsi da elezioni amministrative marginali (non però da un convegno mondiale sulla criminalità e la corruzione) se i procuratori di Milano erano sicuri della propria riservatezza? "Ci siamo chiesti" mi disse Davigo "quanto tempo saremmo riusciti a tenere nascosto un avviso di garanzia a Berlusconi. Alla fine, prevalse la mia tesi: la riservatezza avrebbe retto pochi minuti." Per questo la comunicazione all'interessato doveva essere pressoché contestuale all'iscrizione nel computer. [p. 288] Mi disse Borrelli: "Non volevamo che Berlusconi sapesse la notizia da altri". Altri chi? I giornali? E chi poteva dare la notizia ai giornali, visto che a Milano la conoscevano soltanto i magistrati? E se per caso essa si fosse propagata a un ristrettissimo numero di collaboratori (ma abbiamo visto che furono adottate tutte le cautele per evitarlo), come mai l'indagine della procura più efficiente d'Italia e quelle avviate a Brescia si chiusero senza aver individuato il responsabile? Nell'autunno del '99, ho ricostruito quei momenti con Gerardo D'Ambrosio, nominato da qualche mese procuratore capo di Milano al posto di Francesco Saverio Borrelli, passato al più alto grado di procuratore generale. D'Ambrosio era coordinatore del Pool Mani pulite e mi pare di capire che fosse contrario a recapitare l'invito a comparire a Berlusconi in coincidenza con la conferenza internazionale di Napoli. Ma restò in minoranza. "Ci fu tra noi un'ampia discussione" mi racconta D'Ambrosio "e non gliene riferisco i dettagli perché sono fatti nostri. Alla fine, si decise di procedere per non avere contraccolpi negativi a causa di una ritardata comunicazione." Non creaste una coincidenza forte, visto che a Napoli Berlusconi presiedeva una conferenza dell'Onu? "Con me sfonda una porta aperta. Non avevamo valutato la forza dei media..." Borrelli informò Scalfaro. Quando? Lamentò Scalfaro parlando davanti al Consiglio superiore della
magistratura il 9 luglio 1998: "Perché la notizia dell'avviso di garanzia fu anticipata da un giornale?... Non si poteva attendere qualche giorno? Se pure fosse arrivata un mese dopo non sarebbe cambiato niente... Perché non sono state valutate con attenzione le conseguenze politiche?... Perché il Csm non si è mosso con tempismo ed efficacia? Io non ho mai visto aprire procedure per violazione del segreto istruttorio... Io non dico che sia sempre e solo il magistrato a violare il silenzio, [p. 289] ma non potete nemmeno dirmi che sia sempre il poliziotto o il funzionario o chi pulisce il pavimento che con eccezionale ingegno giuridico ha colto il problema...". A questa sfuriata di Scalfaro replicò Di Pietro con grande violenza: "E' partita in grande stile l'offensiva della Prima Repubblica" disse quello che ormai era un senatore dell'Ulivo. "Vogliono far salire sul banco degli imputati i magistrati che hanno svolto il proprio dovere e sul banco degli accusatori la politica della Prima Repubblica." E poiché già allora veniva richiesta a gran voce l'istituzione di una commissione d'inchiesta su Tangentopoli, Di Pietro ammoniva: "Si vuole metterla in piedi per arrivare all'assurdo teorema che tutti colpevoli e quindi nessun colpevole...". (Un anno dopo, nell'autunno del '99, Di Pietro cambiava radicalmente parere, chiedendo a gran voce la commissione d'inchiesta per sapere se fossero falsi i bilanci di tutti i partiti - "di centro, di destra e di sinistra" - e per accertare se i diversi tesorieri avessero agito d'accordo con le rispettive direzioni politiche. Questo gesto colse del tutto in contropiede i Ds Veltroni contropropose una commissione di saggi - e fu letto come l'apertura di una pesante offensiva del simbolo di Mani pulite e dei Democratici contro il Pds, rimasto solo nel rifiutare la commissione.) Scalfaro fu informato da Borrelli del procedimento contro Berlusconi il giorno stesso dell'iscrizione nel registro degli indagati, ma è possibile che tra i due fosse corsa già prima qualche telefonata. Perché fu informato? E a che ora? Anche questa delicatissima circostanza non è chiara. Disse Borrelli il 14 luglio 1998, quando si aprì una polemica dopo l'intervento del capo dello Stato: "La sera del 21 novembre 1994 contattai Scalfaro subito dopo aver ricevuto la telefonata di Goffredo Buccini del "Corriere" che mi chiedeva conferma alla notizia dell'invito a comparire. Lo avvisai e gli dissi più o meno queste parole: "L'ho chiamata perché stiamo parlando del presidente del Consiglio e perché credo che la notizia
stia già trapelando...". Il presidente pronunciò più o meno questa frase: "Ah, proprio in questo momento a Napoli...". Sì, [p. 290] manifestò una punta di stupore. Ma io gli spiegai che non si era ritenuto di dover ritardare l'iscrizione e lui non disse più nulla". Stando a questa dichiarazione, Borrelli avvertì Scalfaro dopo la telefonata di Buccini. Scrive nella sua relazione l'ispettore ministeriale Domenico Platania che si occupò della vicenda: "Il dottor Borrelli ha dichiarato che ritenne opportuno, anzi doveroso, fare la telefonata "in considerazione dei supremi equilibri costituzionali e reputando sconveniente che una notizia virtualmente di quel rilievo pervenisse al capo dello Stato soltanto attraverso la stampa"". La decisione di Borrelli di informare Scalfaro sembrerebbe dunque dettata dall'emergenza del momento. Ma questa motivazione è smentita dalla ricostruzione di Di Pietro: "Ci riunimmo nell'ufficio del procuratore e insieme decidemmo che fosse opportuno informare il capo dello Stato. Era un atto di straordinaria rilevanza e ci sembrò giusto che il garante dei rapporti tra i vari poteri dello Stato ne fosse messo al corrente. E' stato un atto di responsabilità e non un abuso. A Borrelli è toccato solo il compito di effettuare la telefonata a Scalfaro per dar corso a un'esigenza comune manifestata dal Pool". Il giorno fatale, 21 novembre 1994, Di Pietro partì per Parigi nel primo pomeriggio. La riunione nello studio di Borrelli avvenne quindi in mattinata. La decisione di informare Scalfaro non sarebbe dunque una conseguenza della telefonata serale di Buccini a Borrelli e Davigo. Un governo del Presidente Altro elemento. Il capo dello Stato non è un ufficiale di polizia giudiziaria e non può essere quindi per legge fatto partecipe di alcun segreto istruttorio. Un invito a comparire al presidente del Consiglio dei ministri è un atto delicatissimo e dovrebbe essere questi a comunicarlo riservatamente al presidente della Repubblica. In ogni caso, Berlusconi e Letta sostengono che la telefonata di Borrelli a Scalfaro precedette la [p. 291] comunicazione informale di Garelli e La Forgia al capo del governo. Il presidente della Repubblica sapeva. Il presidente del Consiglio direttamente interessato - a quanto pare - no. Il procuratore Borrelli ha sempre sostenuto il contrario, dicendo di aver avvertito Scalfaro intorno alle 21,30. Berlusconi e Letta sostengono che il presidente del Consiglio non fu informato del
contenuto della busta prima delle 23. Quando, nell'estate 1998, scoppiò la polemica tra Scalfaro, il Csm e Di Pietro, "il Giornale" ricordò che il 21 novembre '94 - giorno dell'invito a comparire per Berlusconi - il capo dello Stato aveva esplicitamente escluso lo scioglimento delle Camere invocato da Berlusconi stesso per difendersi dall'infedeltà di Bossi. Aveva scritto quel giorno Marzio Breda sul "Corriere" che Scalfaro aveva dichiarato di lavorare "perché questo Parlamento viva il più a lungo possibile". Dal resoconto di Breda, ricordava "il Giornale", si capiva che "il presidente non era affatto d'accordo con il "dopo di me il diluvio come vorrebbe il cavaliere di Arcore", ma che in caso di crisi verrebbe semmai quello che si usa definire un governo istituzionale, "del presidente", come tentativo ultimo ma indispensabile di mantenere in vita il Parlamento". Era l'annuncio del governo Dini un mese prima delle dimissioni del governo Berlusconi. E' possibile che quel discorso pronunciato da Scalfaro nelle ore in cui a Milano si procedeva contro Berlusconi sia frutto di una coincidenza. Resta da annotare che il 14 luglio '98, in un'intervista al giornale della sua città, "la Prealpina" di Varese, Roberto Maroni, nel '94 ministro dell'Interno, raccontava: "Finora ho taciuto, ma Scalfaro seppe del provvedimento non il 21 novembre '94... ma prima. Qualche giorno prima. Me lo rivelò lui stesso... Nell'inverno del '94, io ero di casa sul Colle... Scalfaro mi disse che Borrelli, con il quale aveva un franco rapporto di amicizia, l'aveva messo al corrente dell'iscrizione del premier nel registro degli indagati. Quando? Non mi precisò una data esatta. Tuttavia, sicuramente qualche giorno prima che s'aprisse la conferenza di Napoli". Mentre Maroni rilasciava questa intervista, filtrava da Palermo la seguente notizia: "Alla vigilia della discesa in campo [p. 292] di Berlusconi, Cosa Nostra avrebbe finanziato Forza Italia con sette miliardi sperando nella futura riconoscenza del movimento politico. La somma sarebbe stata raccolta da Marcello Dell'Utri durante un viaggio in Sicilia alla fine del '93. L'accusa è del finanziere Filippo Alberto Rapisarda, ex socio del deputato di Forza Italia, ora suo implacabile accusatore, ed è agli atti depositati oggi dalla procura di Palermo nel processo Dell'Utri...". Altro giro, altra corsa. Quando Bossi
si presentò in canottiera L'avviso di garanzia a Berlusconi - coronato in dicembre da un drammatico confronto di sette ore con Borrelli e i suoi colleghi del Pool - fu provvidenziale per Umberto Bossi, che aveva deciso di disarcionare il capo del governo già l'indomani del trionfo di Forza Italia alle elezioni europee di giugno. In agosto, approfittando di una breve vacanza del Senatùr in Sardegna in casa di Gnutti, Berlusconi lo aveva invitato nella sua villa "La Certosa", dalle parti di Porto Rotondo. E aveva invitato anche le telecamere: voleva che la cordialità dell'incontro fosse pubblica. "In luglio si preparava la legge finanziaria per l'anno dopo" ricorda oggi Bossi "e vidi che Berlusconi voleva tagliare le pensioni. Allora andai in canottiera all'incontro per ricordare che ero dalla parte dei lavoratori." Il Cavaliere, che tiene all'eleganza formale in modo rigoroso, fece finta di niente. Si lasciò anzi astutamente riprendere mentre cingeva con il braccio le spalle nude e per niente abbronzate di Bossi. Quel che i microfoni non riuscirono a registrare furono le imprecazioni soffocate del Senatùr: "Giù le mani. Tira giù quelle mani" gridava al Cavaliere. Ma Berlusconi continuava a sorridere e a far finta di niente. Avrebbe volentieri strozzato l'ospite, ma si trattava pur sempre di un partner di governo. Già, fino a quando? La riforma delle pensioni era per Bossi soltanto un pretesto. Il piano messo a punto dal governo serviva infatti ad avvicinare la normativa italiana a quella europea e a liberare [p. 293] risorse per gli investimenti e l'occupazione esattamente nei termini invocati per anni dagli imprenditori del Nord che erano stati i primi sostenitori della Lega. La riforma sarebbe andata a regime all'inizio del nuovo secolo. Prevedeva alla fine l'elevazione degli anni di contributi obbligatori da trentacinque a quaranta (si sarebbe cominciato con un anno in più ogni diciotto mesi a partire dal '95) e, inoltre, una penalizzazione del 3 per cento all'anno per chi voleva andarsene prima, una graduale parificazione delle pensioni per i settori pubblici e privati, la riduzione della percentuale di stipendio da incassare con la pensione e un forte sviluppo delle pensioni integrative. La proposta sarebbe potuta essere migliorata e addolcita nella discussione parlamentare. Il problema esisteva tuttavia nella sua crudezza, tant'è vero che, da presidente del Consiglio, D'Alema avrebbe invano tentato di anticipare alla fine del '99 una ridiscussione del patto di revisione concordato con i sindacati per
il 2001. Ma Berlusconi era Berlusconi e il 12 novembre 1994 i sindacati riunirono una folla oceanica in piazza San Giovanni per mandare a casa il governo, aiutando nel modo più efficace il disegno di Bossi di ridimensionare la corsa del Cavaliere. Nella sua congiura contro il presidente del Consiglio, il Senatùr trovò alla ripresa autunnale tre alleati. Del più importante, Scalfaro, parleremo più avanti. Adesso presentiamo gli altri due, saliti da poco alla guida di quel che restava del Partito comunista e della Democrazia cristiana. D'Alema, "il pugno del partito" Massimo D'Alema era entrato nel Pci a tredici anni: l'età in cui nelle campagne poverissime i bambini più intelligenti pensavano al seminario e le bambine più brutte al convento. Figlio di un importante deputato comunista, si mise sull'attenti davanti a Togliatti nel congresso del '62 e gli portò il saluto dei "pionieri". Alla Normale di Pisa, Nicola Badaloni gli [p. 294] affinò la formazione marxista. Seguì una carriera rapida all'ombra di Berlinguer, che tra il '75 e l''80 ne fece il segretario della Federazione giovanile comunista. D'Alema fu poi responsabile del partito in Puglia; da qui nacque la candidatura parlamentare nel collegio di Gallipoli. Nell''87, il giovanotto giocava seriamente in proprio e "Panorama" lo salutava così: D'Alema: sarò io il Massimo?. "E' il giovane, potente capo dell'apparato comunista, nemico di miglioristi e socialisti. Emancipatosi da Occhetto, ha già in mente il Pci del 2000: la fotocopia di quello di Berlinguer." Il settimanale metteva in luce alcuni tratti comuni dei due: la vita schiva, il modo di vestire sobrio, il sorriso non frequente, l'insistenza un po' ossessiva sulla "diversità comunista", "il disprezzo per chi non è d'accordo con lui, l'aria di chi ne sa di più e mette soggezione". Dalla campagna elettorale del '96, le esigenze d'immagine hanno sensibilmente modificato (in meglio) alcuni di questi tratti, dagli abiti al sorriso. L'aria di chi ne sa di più gli è rimasta e anche l'intima convinzione della "diversità" (in meglio, naturalmente) della classe dirigente del suo partito - divenuta nel frattempo classe di governo - rispetto a quella degli altri. Nel '94, quando Berlusconi vinse le elezioni politiche, D'Alema era di fatto il vice di Occhetto. Il segretario si dimise l'indomani del trionfo di Forza Italia alle europee. "Appena arrivarono le prime proiezioni dei risultati" mi
raccontò Occhetto "mi appuntai alcune frasi da scrivere nella lettera di congedo. La situazione era diventata insostenibile fin dalla metà di aprile. Il mio totodimissioni era diventato lo sport nazionale. Appena scendevo da un palco in una qualunque città italiana, trovavo subito un cronista che mi chiedeva quando mi sarei dimesso." Costretto a lasciare, Occhetto espresse un'ultima volontà: il successore in nessun caso sarebbe dovuto essere D'Alema. I rapporti tra i due erano conflittuali da tempo e s'erano guastati definitivamente a una settimana dalle elezioni di marzo. Convinto ormai che i progressisti sarebbero stati battuti dal Polo, D'Alema tentò un colpo di reni con un'intervista alla "Repubblica": "Se vinciamo" disse "presidente del Consiglio [p. 295] sarà Ciampi". Occhetto, che come leader della sinistra aveva ritagliato per sé l'ipotesi di andare a palazzo Chigi, la prese malissimo. E sostenne apertamente la candidatura di Walter Veltroni, direttore dell'"Unità", alla segreteria del partito. Figlio di Vittorio, pioniere negli anni Cinquanta delle radiocronache Rai e primo responsabile del telegiornale nel '54, Veltroni avrebbe fatto volentieri il regista, ma abbandonò per la politica l'Istituto sperimentale di cinematografia. La sua carriera era maturata interamente nello stato maggiore del Pci, al Bottegone. Nell''87, era stato lui a trattare con Agnes l'ingresso di Tg3 (Curzi) e di Raitre (Guglielmi) nell'area d'influenza del Pci e una serie di posizioni di potere assai ben distribuite all'interno dell'azienda. Ed era stato tra i primissimi a capire l'importanza della televisione nell'influenzare il modo di vivere e di pensare della gente. "I miei compagni" diceva "si affannano a cronometrare quanti secondi di spazio politico ci danno i telegiornali della Fininvest. Bisogna chiedersi invece come Dallas e Beautiful abbiano cambiato gli italiani." Come in tutti i duelli, i padrini cercarono le armi su misura per far vincere il proprio campione. Petruccioli, Fassino, Mussi e il sindaco di Bologna Vitali - che tenevano per Veltroni - proposero di far eleggere il segretario da un referendum tra gli iscritti. D'Alema sentì puzza di bruciato (Veltroni aveva la stampa di partito e d'informazione dalla sua) e propose un congresso. Alla fine si arrivò a un compromesso: consultazione via fax tra gli iscritti ed elezione del nuovo segretario in consiglio nazionale. Veltroni vinse con un buon margine la "guerra dei fax", ma D'Alema ribaltò il risultato stravincendo in consiglio nazionale. Il pugno del partito, titolò "La Repubblica" che sosteneva Veltroni e dipingeva D'Alema come un
trinariciuto uomo d'apparato. E' vero che il nuovo segretario controllava meglio la base del partito. E' altrettanto vero che in un momento di grave crisi il Pds, che rischiava di morire nella culla, preferì il latte vaccino doc di D'Alema ("Temo un appannamento della nostra identità...") allo champagne "blairclintoniano" promesso da Veltroni ("Mi interessa la sinistra occidentale che cerca la difficile via del cambiamento..."). [p. 296] Buttiglione, Rocco come Angela Rocco Buttiglione è agli antipodi di D'Alema. Il destino ha voluto che avessero entrambi rapporti strettissimi con la cittadina pugliese di Gallipoli: il primo per nascita, il secondo per elezione politica. Ma Buttiglione viene dall'Accademia esattamente come D'Alema è figlio del Partito. Questo è cresciuto alla scuola di Palmiro Togliatti, quello alla scuola di Augusto Del Noce. Per la politica, D'Alema ha rinunciato a una laurea brillante che certo non gli sarebbe sfuggita alla Normale di Pisa. Buttiglione è invece approdato a Montecitorio dalle accademie filosofiche del Liechtenstein e di Lublino, dai seminari cattolico-liberali di Michael Novak a Washington. Incontrai Buttiglione per la prima volta nella primavera del '94 e mi parve di conoscerlo da sempre: era il fratello minore di Angela, mia collega e compagna di concorso alla Rai. E ne era la copia, in ogni senso. Quando al mattino presto Angela arrivava in redazione, noi ci chiedevamo: quale altra ne avrà pensata, stanotte? Hanno entrambi una nidiata di figli e negli anni scorsi ce li saremmo immaginati a trafficare con pannolini e biscotti al plasmon. E invece no. Angela, come Rocco, non riesce a tenere il cervello fermo un istante. Intelligentissimi entrambi, quando l'Italia si sveglia hanno già deciso quale compito assegnarle per la giornata. La sola differenza che ho notato tra i due è nel fumo: Angela fuma sigarette, Rocco sigari toscani. In politica - come Angela nel vecchio sindacato dei giornalisti - Rocco è rigorosamente tolemaico. Lui è la terra e il sole gli gira intorno. Il problema è che il sole, cominciando ogni mattina il suo lavoro, si chiede: oggi da dove lo prendo Rocco, da destra o da sinistra? L'unico che in famiglia conosce la verità è il magnifico cane Theo, un alaskan malamute che assiste (non si sa mai) a tutte le interviste del padrone. Ma Theo ha il cuore tenero e lascia Rocco nell'illusione che Copernico non sia mai nato. La prima cosa che Buttiglione mi disse, poco prima di diventare segretario del Ppi, fu lapidaria: "Bisogna portare al centro
Berlusconi". Il Cavaliere era già convinto di starci e lo [p. 297] è tuttora, allo spirar del secolo. Solo che allora ci stava da presidente del Consiglio. Buttiglione gli diceva queste cose da sinistra, poi andò con lui per dirgliele da destra (anzi, dal centro), poi gliele ripeté da sinistra e adesso gliele raccomanda di nuovo da destra (anzi, dal centro). Quando Rocco lo chiama al telefono e Berlusconi non fa in tempo ad aprire la finestra per vedere da che parte sta il sole, si fa negare. Buttiglione ha una dote innegabile: è uno dei pochissimi che con la Prima Repubblica non "ci azzecca" niente. Non è mai stato un militante democristiano, anche se verosimilmente ha sempre votato Dc. E appena s'è iscritto al Partito popolare, ne è diventato segretario. Battendo lo stesso Berlinguer per il quale la malalingua di Pajetta inventò la celebre battuta: "Si iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci". La segreteria piovve addosso a Buttiglione nella torrida giornata del 29 luglio 1994. Ma lui, tolemaico come sempre, me lo aveva anticipato in maggio, descrivendo il funerale della Dc: "Il capofamiglia è morto, la vedova vuole che tutto rimanga come l'ha lasciato la buonanima. Non si fanno acquisti, non si pagano debiti, non si spostano mobili. Qualcuno pensa che per far nascere il nuovo Partito popolare sia stato sufficiente che la sinistra abbia espulso una parte del vecchio. E invece, se vogliamo rinnovarci davvero, tutti quanti - sinistra compresa - dobbiamo cambiare pelle. E per cambiare pelle il partito ha bisogno di una guida. Chi? Io, per esempio". Alla candidatura di Buttiglione, lanciata appena Martinazzoli ebbe inviato a piazza del Gesù il fax di dimissioni, la sinistra del partito reagì come i passeggeri di un catamarano quando il mare supera forza sette. Rosy Bindi, piuttosto che consegnare il partito a quello lì, avrebbe accettato di fare la cubista in una discoteca da spiaggia, e gran parte dell'ex Dc stava con lei. Ormai, nel partito era rimasta quasi la sola sinistra. I dirigenti dell'ala destra scampati alle macerie di Tangentopoli si erano uniti con Casini per fondare il Ccd o erano approdati a Forza Italia e perfino ad Alleanza nazionale. A salvaguardare le posizioni più moderate, accanto alla falange di Comunione e liberazione guidata da Roberto Formigoni, [p. 298] era rimasta la vecchia sinistra sociale che Franco Marini aveva ereditato da Carlo Donat Cattin. L'altra sinistra (Bindi, Mattarella, Andreatta, Russo Jervolino) candidò Giovanni Bianchi, milanese di Sesto San Giovanni, già
presidente delle Acli. Ma Bianchi non passò. Per conquistare i voti di De Mita, la sinistra fece un passetto al centro e candidò Nicola Mancino. Ma Marini si oppose e Buttiglione la spuntò per 55 voti contro 45 tra urla, lacrime e spintoni, come titolò "Il Messaggero". (Mancino non l'ha mai perdonata a Marini: quella vecchia ruggine non sarebbe stata estranea alla freddezza con cui Marini, nel '99, avrebbe considerato la candidatura di Mancino al Quirinale.) De Mita perse sportivamente. Criticando l'atteggiamento della sinistra più dura del suo partito, mi disse: "Non si può vivere nel ricordo [di quel che era stata la vecchia sinistra democristiana] con una superbia intellettuale che di fatto porta all'impotenza. Insomma, tra Rosy Bindi e Buttiglione, il moderno è Buttiglione". E arrivò il "Ribaltone day" Se esistono al mondo due persone che incontrandosi sulla banchisa polare stenterebbero a chiedersi un'informazione qualsiasi, questi sono D'Alema e Buttiglione. Ma si sa che la politica è imperscrutabile. Così, eletti nel luglio del '94 leader dei rispettivi partiti, i due s'incontrarono il 7 agosto a un tavolo d'angolo del ristorante "Il bastione" a Gallipoli. "Doveva essere un incontro riservato" mi disse D'Alema "ma ne dette notizia l'ufficio stampa del Partito popolare." Fu un pranzo d'amore, che decretò la morte del governo Berlusconi. Naturalmente, D'Alema e Buttiglione da soli non avrebbero potuto far niente, oltre ai sospiri di desiderio. Ma l'aiuto di Bossi non tardò ad arrivare. Ci furono appuntamenti carbonari in autunno nella modesta abitazione romana del Senatùr che, in un'occasione, offrì sardine nella cucina di casa e in un'altra, per guadagnar tempo, consigliò sbrigativamente a D'Alema di portarsi dietro un paio di panini. [p. 299] Si sapeva da tempo che Bossi stava preparando a Berlusconi un trappolone parlamentare. Due importanti onorevoli leghisti sostengono di aver saputo che il Senatùr arrivò a confidare il suo piano addirittura all'avvocato Agnelli, che non aveva in simpatia Berlusconi, freddissimo sull'ipotesi di concedere la rottamazione delle auto che anni dopo la Fiat avrebbe ottenuto da un Prodi recalcitrante. Bossi venne allo scoperto una prima volta il 6 novembre, all'assemblea federale di Genova. Alle perplessità dei suoi (e soprattutto di Maroni) rispose accelerando i tempi della crisi. Buttiglione, eccitatissimo all'idea del ribaltone, gli andò subito
dietro. Chi si aggregò per ultimo - e dopo forti perplessità - fu proprio D'Alema. Incontrò in segreto Berlusconi in casa di Gianni Letta e si sentì proporre una specie di patto per arrivare presto a elezioni anticipate che eliminassero una volta per sempre tutto quello che c'era tra il Pds e Forza Italia. D'Alema non accettò e le perplessità del Cavaliere fecero fallire l'ipotesi di un "governo di tregua" sul quale avevano trescato Letta e Veltroni incontrandosi a cena in casa di Maria Angiolillo e mandando di traverso a Giuliano Ferrara uno strepitoso petit chou aux fines herbes. Alla fine, D'Alema chiese una mozione unitaria di sfiducia firmata anche da Bossi e Buttiglione, che prima accettarono e poi ne prepararono una separata da quella del Pds sul divanetto di pelle rossa dello studio del Senatùr a Montecitorio. La scelta leghista non fu indolore: molti parlamentari del Nord sapevano bene che i loro elettori avrebbero preferito mettere lo zucchero nella polenta piuttosto che vedere la Lega insieme con i "comunisti". Ma Bossi fece un blitz domenica 18 dicembre e il lunedì i dissidenti si trovarono in minoranza. Le mozioni di sfiducia furono presentate il 21 dicembre. Quel giorno, Rosy Bindi e gli altri della sinistra popolare decretarono che tra Rocco Buttiglione e Winston Churchill non c'era paragone: a favore del primo, naturalmente. Cinque mesi prima, come abbiamo visto, la Bindi avrebbe fatto la cubista pur di non ammettere una cosa del genere, ma il discorso del professore contro Berlusconi fu giudicato di commovente [p. 300] efficacia. "Buttiglione è la reincarnazione di Moro e in più sa farsi capire" commentò Teodosio Zocca, un "popolare", che in luglio ne era stato tra i più fieri avversari. E Giovanni Bianchi, che gli aveva conteso la segreteria: "Rocco sta compiendo un grande capolavoro. E' accorto e concreto". Berlusconi difese il suo governo con un discorso di ventisei minuti tutto rivolto contro "il tradimento e la truffa all'elettorato" di Bossi. Il quale, dal canto suo, ridacchiava e brindava "alla caduta del dittatore". "Mi assumo la responsabilità di porre fine alla Prima Repubblica" disse con solennità il capo della Lega. Replicò Fini: "Onorevole Bossi, oggi non finisce la Prima Repubblica, finisce la Lega". E poi, rivolto a D'Alema e Buttiglione: "Attenti, in privato Bossi è molto peggio che in pubblico". Poi propose di andare al voto anticipato il 26 marzo, primo anniversario della grande vittoria del Polo. Berlusconi era d'accordo. Scalfaro no. Operazione
"Prigioniero di Zenda" "L'estremismo cattolico di Scalfaro mi garantiva" racconta oggi Umberto Bossi. Che vuol dire? "Vuol dire che uno così non poteva essere tanto favorevole a un imprenditore." E allora? "Allora quando mi chiamò per chiedermi che cosa diavolo stessi facendo o che cosa diavolo volessi fare, io gli dissi che dovevo uscire dalla tenaglia." Quale tenaglia? "Lasciarmi assorbire da Berlusconi o andare alle elezioni anticipate subito dopo l'approvazione della legge finanziaria. In questo caso, Berlusconi sarebbe andato davanti all'elettorato per dire che io gli rompevo le scatole e che dunque doveva dargli la forza per governare da solo." E Scalfaro? "Dovetti verificare che non mi chiudesse subito la legislatura. [p. 301] E Scalfaro diede un segnale preciso. Lui non era d'accordo con avventure, con elezioni immediate. Alla fine mi convinsi che non si sarebbe andati a votare per consegnare il paese a Berlusconi." Bossi conferma dunque in termini chiari quello che era il segreto di Pulcinella, ma che lui all'esterno aveva sempre presentato in termini sfumati (a Maroni, naturalmente, aveva raccontato le cose come stavano). E, cioè, solo dopo aver avuto la certezza che il capo dello Stato non avrebbe sciolto a breve le Camere, è partito con l'operazione "Prigioniero di Zenda". Si chiamava così, mi disse, la fuga da Berlusconi. "Piazzare l'esplosivo nel castello con i temporizzatori e scappare prima che venga giù tutto. Non fossimo venuti via, il Cavaliere e Fini avrebbero comandato per vent'anni..." (D'Alema, mi conferma Bossi, era d'accordo. Aveva avuto la tentazione di restare a vedersela con il solo Berlusconi spazzando via tutto il resto, ma poi aveva calcolato che il Pds sarebbe uscito ancora più debole da elezioni ravvicinate.) Soltanto dopo alcuni mesi, tuttavia, Berlusconi si accorse di aver subito quella che in un celebre film si chiamò la "stangata". Il "giorno della stangata" cadde di giovedì. Era il 12 gennaio 1995 e la Chiesa onorava San Modesto. Ancora due sere prima, mentre Scalfaro gli sussurrava il nome di Dini, il Cavaliere mi aveva detto che avrebbe accettato solo un governo Berlusconi bis in attesa di elezioni anticipate a brevissima scadenza. Se il capo dello Stato,
come accade di regola in questi casi, avesse rinviato il governo alle Camere, forse Berlusconi sarebbe riuscito a ottenere per il rotto della cuffia una pur fragilissima fiducia incuneandosi nella crisi della Lega dove Maroni guidava la pattuglia dei dissidenti. Ma Scalfaro non lo fece. La sera del 12, Berlusconi mi consentì a sorpresa di dare in anteprima al Tg1 la notizia che Lamberto Dini avrebbe avuto l'incarico. "Il Polo resta tuttora convinto che solo un governo di legislatura può risolvere i problemi della lira e della situazione economica generale. Ma per venire incontro alle esigenze manifestate ancora una volta da questo benedett'uomo di settantasei anni [chiamava [p. 302] così Scalfaro], ho deciso di farmi da parte in favore di Dini, ministro del Tesoro del mio governo e persona di indiscusso prestigio internazionale. L'accordo prevede due clausole. La prima è che si vada al voto l'11 e il 12 giugno, accorpando le elezioni politiche con le regionali. La seconda è che il programma di Dini si limiti a tre punti: la nuova legge elettorale regionale, la manovra economica, le norme sulla par condicio alla Rai e nelle televisioni private. Su quest'ultimo punto, io non ho mai sollevato problemi. Per quanto mi riguarda, la Fininvest può anche smettere di occuparsi di politica." "Allora si vota l'11 giugno..." Dove e come Scalfaro aveva preso questi impegni decisivi con Berlusconi? I due s'erano incontrati quella stessa mattina di giovedì al vecchio "palazzaccio" di piazza Cavour, là dove all'inizio del secolo lo scultore Ernesto Quattrini aveva collocato la Giustizia tra la Legge e la Forza, non immaginando quante volte la poveretta sarebbe stata sballottata tra la prima e la seconda, come un passeggero d'aeroplano sprovvisto di cinture di sicurezza durante un vuoto d'aria. Nei loro altissimi ruoli istituzionali, il capo dello Stato e il presidente del Consiglio avevano presenziato all'inaugurazione dell'anno giudiziario. Il procuratore generale, Vittorio Sgroi, aveva accarezzato le orecchie del Cavaliere facendo capire che, se i procuratori di Milano non fossero stati intoccabili, be', insomma, lui che era titolare dell'azione disciplinare insieme con il ministro Guardasigilli non avrebbe girato tante volte la testa dall'altra parte... Alla fine della cerimonia, come il lupo con Cappuccetto Rosso, Scalfaro aveva dissuaso Berlusconi dall'andare a casa con la nonna (Gianni Letta) e lo aveva invitato a pranzo nella sua. Era la prima
volta che i due si vedevano a tu per tu, senza la vigile testimonianza del segretario generale Gifuni e dello stesso Letta. Pranzarono frugalmente (brodo vegetale) e al ritorno Berlusconi riferì al suo fedele sottosegretario: "Scalfaro è stato molto affettuoso, mi ha abbracciato e baciato. Forse, Gianni, avevi [p. 303] ragione tu a sollecitare un chiarimento personale a quattr'occhi. Mi ha detto subito che, se mi tiro indietro, voteremo a giugno. Domattina ci vedremo di nuovo per i dettagli". Fini e Casini erano meno sereni di Letta: sentivano puzza di bruciato e avrebbero voluto che Berlusconi insistesse per far rinviare il governo alle Camere, dove la Lega era squassata dalle divisioni interne. In ogni caso, se nuovo governo doveva essere, che fosse politico: tanto per capirsi, con un Tatarella e un Mastella dentro. I due chiesero invano di essere ricevuti a loro volta da Scalfaro insieme con Berlusconi, ma il Capo dello Stato fece sapere di aver chiuso le consultazioni. Quando, il 13 gennaio, Berlusconi salì al Quirinale, al nuovo colloquio con Scalfaro assistettero anche Gifuni e Letta. Il presidente del Consiglio, com'è sua abitudine, riassunse il colloquio precedente: si sarebbe votato l'11 giugno, il governo sarebbe stato tecnico e avrebbe esaurito il suo mandato dopo aver risolto i tre problemi concordati. Unica divergenza: Scalfaro voleva Cossiga a palazzo Chigi, Berlusconi, invece, Dini. Per la data dell'11 giugno fu perfino consultato un calendario da tavolo e, quando Berlusconi chiese garanzie formali sulla data, Scalfaro rispose: non posso certo comunicarla io, ma è sufficiente che voi togliate la fiducia al governo perché si vada a votare. Berlusconi chiese il permesso di rendere pubblico l'accordo ai propri alleati e un'ora di tempo per sciogliere la riserva sulla coppia Dini-Cossiga. Dopo il vertice del Polo, Letta comunicò a Scalfaro che il prescelto era Dini e nel giro di un'ora il ministro del Tesoro fu convocato al Quirinale per l'incarico. Berlusconi e Letta erano convinti del fatto loro. Dopo essersi consultato con il segretario generale Gifuni e con il consigliere per gli affari giuridici e costituzionali Sechi, Scalfaro comunicò che i referendum fissati per la primavera sarebbero stati rinviati dallo scioglimento delle Camere. Quando informò gli alleati dell'accordo, Berlusconi li trovò freddi. "Silvio, ti ha fregato" lo gelò Pannella. Eppure di quel voto promesso per l'11 giugno, il capo dello Stato avrebbe parlato anche con Cossutta e Bertinotti.
[p. 304] Dini, l'amante sulle scale Un celebre e romantico amante dell'Ottocento disse che il momento più bello dell'amore si vive quando si salgono con la compagna le scale che portano alla camera da letto (aveva evidentemente una casa distribuita su due piani). Lamberto Dini provò la stessa sensazione quel 13 gennaio 1995, mentre nella splendida residenza ereditata da Guido Carli in piazza Borghese si cambiava d'abito per presentarsi all'udienza del pomeriggio. Quando, nel '79, il governo Andreotti l'aveva richiamato dal Fondo monetario internazionale di Washington per assumere l'incarico di direttore generale della Banca d'Italia, Dini non immaginava che sarebbe stato per tre lustri un perfetto isolato. Ciampi era diventato governatore al posto di un Baffi offeso e umiliato da un'inchiesta giudiziaria che aveva portato all'arresto (e poi alla piena assoluzione) del suo braccio destro Mario Sarcinelli. E come direttore avrebbe voluto Tommaso Padoa Schioppa. Ma arrivò Dini dagli Stati Uniti e la potentissima nomenklatura della Banca non gli perdonò la trasferta. Né allora né mai. Dini se ne accorse quando Ciampi diventò presidente del Consiglio nel '93 e si fece sostituire come governatore da Antonio Fazio, saltando a piè pari il direttore generale. E quando il destino aveva risarcito Dini con la nomina a ministro del Tesoro del governo Berlusconi (idea di Gianni Letta, che lo frequentava da anni nel salotto di Maria Angiolillo), Scalfaro ne aveva preteso le dimissioni dalla Banca d'Italia, imponendo che non gli fosse accordata l'aspettativa. Quello stesso Scalfaro ora l'aspettava per incaricarlo di formare un governo. Chissà se, annodandosi la cravatta, quel fortunato venerdì 13 Dini canticchiò una delle melodie care alla Vanoni con le quali aveva insospettabilmente conquistato (aiutato anche da una famosa anatra al pepe verde cucinata personalmente) il cuore dell'affascinante Donatella Pasquale, vedova dell'imprenditore miliardario Renzo Zingone. Ma certo era il suo momento più bello. Il medesimo pomeriggio, dopo aver ascoltato in diretta televisiva [p. 305] le prime dichiarazioni del presidente incaricato, Berlusconi chiamò Letta. Era nervoso. "Gianni, hai sentito? Dini ha accennato anche alla riforma delle pensioni. Non era nei patti..." Era stato infatti un inserimento di Scalfaro. Il nuovo premier tranquillizzò subito gli amici ai quali doveva l'incarico: avrebbe mantenuto come d'accordo tempi strettissimi in vista delle elezioni anticipate. "Se ci fossero delle difficoltà" disse "sarà come aver esaurito anche questo punto." E suggellò la rinnovata intesa offrendo a Gianni Letta di fargli da sottosegretario alla presidenza, proprio per mantenere la continuità
con il governo Berlusconi. Venne concordata anche la presenza di ministri "tecnici" chiaramente riconducibili all'area del Polo. Sarebbero entrati quattro professori d'università: Martino (Forza Italia), Fisichella (An), D'Onofrio (Ccd) e Tremonti, passato dal Patto Segni al gruppo misto. Sarebbero inoltre stati inseriti nel gabinetto alcuni tra i più alti funzionari dello Stato. Mi conferma oggi Berlusconi: "Dini si era impegnato a formare un governo che in qualche modo, e pur nelle diverse condizioni di un gabinetto tecnico, si ponesse in continuità ideale con il mio governo, anche per non interrompere la spinta riformatrice avviata e non gettare al macero tutto il lavoro già impostato e non ancora completato. Si era impegnato cioè a fare il governo in accordo con il Polo delle libertà oppure a rinunciare. Avevamo per questo concordato anche la presenza di tre nostri ministri tecnici e del sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Ma poi Dini fu preso per mano da Scalfaro e, subendo le pressioni del Quirinale, si avviò su un'altra strada e alla fine presentò in Parlamento un governo completamente diverso". Differente la versione di Dini: "Fu il Polo a cambiare le carte in tavola chiedendo l'inserimento di personalità vicine al centrodestra. Allora Bossi si impuntò: o tutti tecnici, disse, oppure voglio dentro Maroni e un superministero economico per Pagliarini". Tutto questo avveniva la sera di venerdì 13 gennaio. La sera di domenica 15, Dini e Letta si videro di nuovo: lo scenario si era capovolto. Letta non era più sottosegretario alla presidenza perché Scalfaro non voleva continuità con il [p. 306] governo Berlusconi. (Letta rifiutò il ministero per i Rapporti con il Parlamento.) Nessuno dei quattro professori era stato inserito nella lista. Si era inoltre saputo che Scalfaro aveva fatto personalmente una serie di telefonate per formare il governo, ottenendo rifiuti da Livio Paladini, Gian Domenico Pisapia e Giovanni Agnelli che, declinando l'offerta degli Esteri, l'aveva girata alla sorella Suni, ben lieta d'accettarla. Era stato inoltre inserito alla Sanità Adriano Ossicini, un autorevole accademico della sinistra cattolica che proprio il governo Berlusconi aveva sostituito alla guida del comitato di bioetica con un professore assai gradito al Vaticano. Quando Letta e Dini comunicarono a Berlusconi le novità, questi rispose lapidario: "Bene, il governo non si fa". La stessa cosa il Cavaliere ripeté al presidente del Consiglio lunedì 16 gennaio, quando ebbe constatato che - a parte lo spostamento di Ossicini dalla Sanità alla Famiglia - nulla era mutato. "Ci penserò stanotte" replicò mestamente Dini. Appena uscito da palazzo Chigi, il presidente
incaricato chiamò Scalfaro e gli disse che forse avrebbe rinunciato. Scalfaro, che ha il naso fino, per non trovarsi scoperto aveva già consultato Cossiga offrendogli di sostituire Dini. Cossiga avrebbe accettato volentieri, ma rifiutò scoprendo che la lista dei ministri gliel'aveva già preparata il Quirinale. Il capo dello Stato non poteva permettersi dunque di perdere anche Dini. Fece cercare d'urgenza D'Alema che stava registrando negli studi di Luciano Rispoli una puntata del Tappeto volante. Il segretario del Pds interruppe la trasmissione e dal camerino di Rispoli chiamò Dini. Uomo del Sud, dunque caliente, D'Alema si mosse come avrebbe fatto con una bella ragazza in lacrime (Dini) perché oppressa dai ricatti di un fidanzato ormai non più amato (Berlusconi) che chiedeva il rispetto del patto nuziale. Si comportò dunque cavallerescamente, certo che la fanciulla (Dini), una volta consolata, per gratitudine sarebbe finita dritta nel suo letto. "Se lei accetta, dottor Dini" disse D'Alema "avrà tutto il nostro appoggio." E ribaltone fu. Un referendum contro Mediaset Domenica 11 giugno 1995, in effetti, si votò. Ma non per le elezioni politiche, come voleva Berlusconi. Si votò per assestare al cavaliere il colpo finale. Il centrosinistra promosse un referendum contro le reti Mediaset (era stata battezzata così la società televisiva del gruppo Fininvest). Sterilizzato politicamente con il ribaltone del governo Dini, sotto l'attacco dei giudici di Milano, Berlusconi sarebbe dovuto essere liquidato con il colpo finale alla sorgente del suo potere: le televisioni, appunto. Ma gli elettori bocciarono clamorosamente il quesito e il centrosinistra non fece una gran figura. Quando si accorsero che rischiavano di passare per liberticidi, in verità, D'Alema e Veltroni tentarono di correre ai ripari. Durante un dibattito a Milano, Veltroni e Confalonieri gettarono le basi per un accordo e quando chiesi al direttore dell'"Unità" se il conflitto d'interessi di Berlusconi sarebbe potuto considerarsi risolto nel caso in cui il Cavaliere fosse sceso a controllare meno della metà di Mediaset, lui rispose di sì. Si misero di traverso Bossi e gli stessi popolari che volevano Berlusconi sul lastrico. Così, il referendum si fece e il centrosinistra lo perse. Riconobbe D'Alema: "Siamo stati risospinti dentro il vecchio sistema culturale di una sinistra pedagogico-oscurantista, limitatrice delle opportunità". E oggi, da presidente del Consiglio, non ha cambiato
idea: "Quel referendum" mi dice "fu senza dubbio un errore e io l'avrei evitato volentieri. A lungo noi abbiamo attaccato Berlusconi sui punti in cui non era debole. Lui come uomo di televisione è forte. E' invece del tutto inadeguato a governare il paese...". In quell'occasione, come in tante altre, i cittadini si dimostrarono più maturi della classe politica. Mi confidò, per esempio, Bertinotti, con grande onestà, che era molto difficile far passare nel suo elettorato l'idea di votare contro la Fininvest. La stessa cosa avvenne per la base dei popolari, in netto dissenso con la posizione dei vertici. Una notevole maturità i cittadini avevano peraltro dimostrato nelle elezioni regionali di primavera, negando a Berlusconi [p. 308] il plebiscito richiesto. Era ormai chiaro che l'azionista di riferimento del governo Dini era D'Alema e non il Cavaliere: Scalfaro aveva compiuto il capolavoro di far lavorare contro il Polo un presidente del Consiglio indicato dal leader del Polo. Ricordate la sorpresa del leader di Forza Italia nell'apprendere dalla televisione che nei programmi del nuovo governo ci sarebbe stata la riforma del sistema pensionistico? Bene, Dini la fece nell'agosto del '95 con i voti del centrosinistra, l'astensione assai sofferta di Forza Italia e il voto contrario di Fini e Bertinotti. Durante il governo Berlusconi, la sinistra aveva dipinto Dini come un affamatore di vecchiette e quando lo invitai a confrontarsi in televisione con i suoi oppositori, all'allora ministro del Tesoro gli occhi diventarono lucidi dalla rabbia. Adesso, Lambertow - come lo chiamano i suoi amici americani veniva portato a spasso da D'Alema e Cofferati come la Madonna pellegrina. E la sua riforma pensionistica era assai più debole e "concertata" di quella che lui stesso aveva propugnato come tesoriere del governo del Polo. Si capisce, dunque, perché Berlusconi avesse suonato alle regionali la carica della vendetta: voleva un plebiscito per chiedere a furor di popolo elezioni politiche anticipate. "Ma la gente non aveva voglia di votare per tornare subito dopo a votare ancora" mi confessò Fini. Se si fossero tenute le elezioni politiche, probabilmente il Polo avrebbe vinto. E se ne sarebbe capita la ragione. Ma le amministrative erano una cosa diversa. Forza Italia non aveva ancora un credibile radicamento territoriale: dovette perciò affiancare a persone valide molti transfughi malamente mascherati che nella Prima Repubblica trafficavano in quarta fila. Alleanza nazionale, quasi dappertutto in provincia, era né più né meno che la copia dell'Msi, senza che i dirigenti locali avessero il carisma di Fini né l'appeal
un po' sfacciato della Mussolini. Là dove il Pds - uscito sostanzialmente indenne da Tangentopoli per la modesta quantità di casi di corruzione personale e per l'abilità con cui aveva mascherato quella politica - conservava la pur smagrita struttura territoriale del Pci, che era pur sempre la più efficiente d'Italia. Alla fine, D'Alema poté dire di essere il leader del [p. 309] primo partito italiano: aveva portato a casa il 25 per cento contro il rispettabilissimo 23 per cento di Forza Italia che aveva migliorato le posizioni delle politiche pur correndo senza il Ccd di Casini, che raccolse da solo oltre il 4 per cento. L'analisi dei flussi elettorali mostrò due dati che negli anni successivi si sarebbero rivelati strategici. Il primo fu il marcato astensionismo da cui fu colpita Forza Italia, dovuto verosimilmente alla modestia di alcuni candidati locali (da presidente del Consiglio, Berlusconi mi aveva confidato di essere in dubbio perfino se presentare il suo partito alle regionali e alle comunali del '95: "Come faccio a mettere in lista dietro al mio nome migliaia di persone di cui non so nulla?"). Il secondo dato era che nei ballottaggi per l'elezione dei sindaci gli elettori di Lega e Rifondazione avevano votato in maniera massiccia e decisiva per i candidati del centrosinistra. Alla fine, delle quindici regioni a statuto ordinario, il centrosinistra ne conquistò nove (alcune come il Lazio e l'Abruzzo con un conteggio all'ultimo voto) e il Polo sei. I sondaggi della vigilia davano vincente il Polo dieci a cinque e la sera stessa delle elezioni le proiezioni di Datamedia indussero Emilio Fede, in televisione, a disseminare di bandierine azzurre una grande carta dell'Italia. Altri istituti demoscopici avrebbero avuto negli anni successivi problemi analoghi convincendo i leader politici a usare la massima prudenza. Prodi-Buttiglione, il Ppi si spacca Alle elezioni regionali, Forza Italia si era presentata insieme con un nuovo alleato: il Centro democratico di Rocco Buttiglione. Buttiglione? Sbaglio o qualche pagina fa il coltissimo fratello di Angela aveva fatto cadere il governo Berlusconi dividendo fraternamente con D'Alema pane e sardine nella cucina romana di Umberto Bossi? Già, ma quante cose erano accadute in poche settimane nel palazzo di famiglia di Beatrice Cenci a piazza del Gesù... Abbiamo detto che il cervello di Rocco non può star fermo [p. 310] nemmeno un istante, pena la paralisi. Il 25 gennaio 1995, il governo
Dini aveva incassato da poche ore una turbolenta fiducia dal Parlamento (solo i sondaggi convinsero Berlusconi a un'astensione fatta assai controvoglia). Buttiglione chiamò Nino Andreatta, presidente dei deputati popolari, facendogli - per come me lo riferì il professore amico di Prodi - uno stranissimo discorso. Gli disse che si sarebbe dovuta varare al più presto una legge severa sul conflitto di interessi per completare l'indebolimento di Berlusconi, ma che al tempo stesso occorreva "riportare il partito cattolico nel suo alveo naturale, la destra cara ai ceti medi proprietari". "Mi confida alla fine" proseguì Andreatta "di contare sull'aiuto di Di Pietro e di un possibile Movimento Mani pulite che possa aggiungere quattro milioni di voti ai cinque del Ppi, rendendo questo raggruppamento determinante per future maggioranze". Andreatta restò interdetto, ma quando il fratello di Angela si mette in testa una cosa fa impallidire la Wehrmacht del '39. Nonostante l'inondazione di fischi subita a Fiuggi al discorso di saluto per la nascita di Alleanza nazionale, Buttiglione disse nei giorni successivi ai suoi compagni di partito che alle elezioni regionali voleva allearsi con Forza Italia. E di fischi ne raccolse, se possibile, ancora di più. Buttiglione era tuttavia meno matto di quel che sembrava. Malgrado gli svenevoli complimenti ricevuti per la sua sentenza di condanna a morte del governo Berlusconi, si accorse di essere isolato ai vertici del partito. L'intero gruppo dirigente intorno a lui era della vecchia sinistra democristiana. Se quell'area del cattolicesimo politico non aveva mai potuto sopportare le idee del grande maestro di Buttiglione, Augusto Del Noce, figuriamoci se avrebbe sopportato a lungo quelle dell'allievo. Se ne ebbe una clamorosa riprova giovedì 2 febbraio. Quel giorno si riunirono in segreto nella piccola stanza di Nino Andreatta a Montecitorio il presidente del partito Giovanni Bianchi, il presidente dei senatori popolari Nicola Mancino, Rosetta Jervolino, Sergio Mattarella, Leopoldo Elia, Rosy Bindi e Roberto Pinza. Ospite d'onore, l'ex presidente dell'Iri Romano Prodi. Questi ha in comune una caratteristica con [p. 311] Carlo Azeglio Ciampi: ha fatto sempre l'economista pur essendo laureato in legge (Ciampi lo è anche in lettere). Nel '71, a trentadue anni, Prodi diventò professore ordinario di economia industriale a Bologna. Nel '78, ricopri l'incarico di ministro dell'Industria nel governo Andreotti e tra l''82 e l''89, prescelto da De Mita, guidò l'Iri. Vi fu richiamato proprio da Ciampi nel '93, dopo l'arresto di Franco Nobili, e si dimise un anno dopo quando Berlusconi vinse le elezioni.
Dopo aver fatto per trent'anni il consigliere del principe, Prodi aveva deciso nella primavera del '94 di fare politica da politico e non più da tecnico. "Vidi la trasmissione elettorale del 28 marzo alla televisione" mi raccontò "e capii che nulla sarebbe stato più come prima." In verità, avrebbe fatto politica già nel '93 come presidente del Consiglio, ma abbiamo visto che Mariotto Segni mandò tutto per aria. Nel maggio del '94, il suo maestro all'università Nino Andreatta (Prodi avrebbe continuato a dargli del lei anche avendolo come ministro nel proprio governo) gli propose di guidare il Ppi al posto di Buttiglione. Ma Prodi rifiutò. "Non volevo fare il segretario della scissione" mi disse "visto che il partito ha due anime inconciliabili tra loro." In realtà, l'incarico dovette sembrargli riduttivo e soprattutto ostativo alla conquista di palazzo Chigi. E Prodi aveva invece voglia di provare cominciando dal gradino più alto. Un primo segnale esplicito lo dette il 10 agosto nel consueto incontro pubblico annuale con l'allora direttore della "Gazzetta di Reggio" Umberto Bonafini. In un bar ristorante di Valestra, vicino a Scandiano, suo paese natale, disse: "Vista la situazione [con Berlusconi al governo], un impegno sulla politica seria diventa un dovere. Dipenderà solo dalle circostanze decidere se si tratterà di un impegno operativo o intellettuale". "Romano, ma sei pazzo?" L'autunno del '94 travolse il governo del Polo con la doppia tempesta dell'invito a comparire per Berlusconi e della guerra politico-sindacale sulle pensioni. Si arrivò così, dopo una cena [p. 312] propiziatrice nell'attico di Vittorio Ripa di Meana affacciato su piazza di Spagna, all'incontro segreto di Prodi e dei vertici del Ppi (escluso il segretario Buttiglione) nell'ufficio di Nino Andreatta a Montecitorio. Prodi dette la sua disponibilità a candidarsi per il centrosinistra come presidente del Consiglio alle nuove elezioni politiche che allora sembravano ragionevolmente vicine. Mentre Andreatta scriveva un fumoso comunicato, Giovanni Bianchi uscì dalla stanza e comunicò raggiante la notizia alla segretaria di Pinza, senza avvedersi che era presente un giornalista dell'Ansa. Poco dopo l'agenzia annunciava: "Romano Prodi si è detto pronto a guidare un cartello di centrosinistra... Prima dell'incontro ha avuto un illuminante colloquio con Scalfaro...". Quando lesse la notizia sul terminale video, Silvio Sircana - che era stato con Prodi capo della comunicazione dell'Iri - gli gridò nel cellulare: "Romano, ma sei
pazzo a far diffondere certa roba?". Prodi, salito ignaro sul Pendolino che l'avrebbe riportato a Bologna, fece appena in tempo a gemere: "Dio buono, ma Bianchi non sa trattenersi nemmeno la pipì..." prima di essere inghiottito dalle gallerie della "direttissima ferroviaria". L'accordo del 2 febbraio fu decisivo per due ragioni. La prima - la più importante - è che nel giro di qualche settimana il Pds sottoscrisse con Prodi un accordo che gli cedeva palazzo Chigi in cambio dell'alleanza di centrosinistra, rinnegando la disastrosa corsa solitaria di progressisti e popolari del '94. Dieci giorni dopo l'incontro nello studio di Andreatta, Prodi poteva annunciare che accanto alla Quercia "forte, solida e frondosa" poteva nascere "una solida e ben radicata pianta d'Ulivo" (l'idea del nome venne a Sircana durante un colloquio con il direttore del "Corriere della Sera" Paolo Mieli, che aveva lamentato la semplice moltiplicazione di "cespugli" attorno alla Quercia). Ma quell'accordo segnò anche la definitiva frattura all'interno del Partito popolare. Buttiglione aveva ormai deciso di virare a destra, ma candidando Prodi alla presidenza del Consiglio, senza informare il segretario del partito, Andreatta e i suoi amici l'avevano fatta grossa. La scissione fu evitata [p. 313] per miracolo il 9 febbraio, quando una mediazione di Franco Marini, Nicola Mancino e Peppino Gargani (che nel '99 sarebbe diventato parlamentare europeo di Forza Italia) garantì che il Ppi non avrebbe fatto alleanze con An. Ma un mese dopo la frittata fu inevitabile. Buttiglione mi disse che D'Alema gli stava cambiando sotto il naso l'intera struttura dirigente periferica del Partito popolare. Erano gli ultimi sopravvissuti della Dc al 30 per cento e quando il nemico ormai vincente - l'ex Pci - invece di stritolarli si presentava con l'offerta di presidenze regionali e di assessorati, la tentazione diventava irresistibile. L'8 marzo Buttiglione, accompagnato da Roberto Formigoni, si presentò a casa di Berlusconi in via dell'Anima a Roma. Tentò di dividere l'Italia politica in due: in nove regioni avrebbe fatto l'accordo con Forza Italia e Ccd, unendosi ad An nel ballottaggio per i sindaci. Nelle altre sei si sarebbe lasciato le mani libere per unirsi eventualmente anche al Pds. Berlusconi e i suoi alleati rifiutarono e alla fine Buttiglione firmò l'alleanza integrale, senza dir niente agli organismi dirigenti del partito. La scissione era fatta, anche se nessuno voleva ammetterlo. Occorreva stabilire soltanto chi controllava la maggioranza del partito, lasciando ai perdenti di scegliere tra l'opposizione e
l'uscita. L'11 marzo, si andò alla conta. Durante lo spoglio, passeggiai con Buttiglione. Era convinto di avere 106 voti e con essi la maggioranza. Ne ebbe 99. Gli avversari ne ebbero 102. Aveva perso e fondò un altro partito. La svolta di Fiuggi Quanti ricordano la storia di Lauro De Bosis? Pochi. Vi ha accennato di sfuggita Silvio Berlusconi a fine agosto del '99 per benedire con l'incenso della storia gli aeroplanini che giravano sulle spiagge portandosi dietro una coda con la scritta "Forza Italia=Libertà". De Bosis aveva rischiato di più. Il 3 ottobre 1931 quando il fascismo viveva gli anni del Grande Consenso - era partito da Marsiglia con un piccolo [p. 314] velivolo e appena sette ore di esperienza alle spalle come pilota. Era arrivato a luci spente su Roma, aveva bombardato piazza Venezia con migliaia di volantini ed era scappato, precipitando poi nel mare della Corsica. Che c'era scritto in quei volantini? Italiani, unitevi nella resistenza passiva al regime, unitevi in un'Alleanza nazionale... Già, un'Alleanza nazionale. La nascita dell'Ulivo non è stata l'unica grande novità politica del '95. A fine gennaio si ebbe la "svolta di Fiuggi": Gianfranco Fini seppellì l'Msi e fece nascere il nuovo soggetto politico della destra, chiamato appunto Alleanza nazionale. Il debutto alle elezioni regionali di lì a tre mesi fu molto deludente: Fini, che maneggia i numeri con cautela, mi disse d'aspettarsi il 17 per cento. Qualche sondaggio lo spingeva perfino oltre il 19. Gli elettori fermarono il nuovo partito al 14, nove punti meno di Forza Italia. Ma la svolta di Fiuggi non perse nemmeno un grammo del suo valore, perché segnò il vero inizio di un lungo cammino: quello che era stato il Movimento sociale di dichiarata nostalgia fascista repubblichina si avviava a diventare un partito della moderna destra democratica europea. L'idea di un'Alleanza nazionale del genere era venuta nel '92 a Domenico Fisichella, professore di scienza della politica a Firenze. Abbiamo visto nei capitoli iniziali di questo libro che Almirante aveva tentato di uscire dal guscio dell'Msi formando a sua volta una destra nazionale. E, prima di lui, il problema se l'erano posto Arturo Michelini, Augusto De Marsanich e perfino Pino Romualdi. La Dc, che con la destra non si sarebbe mai alleata ma aveva un assoluto bisogno dei suoi voti, fomentò la scissione di Democrazia nazionale (Ernesto De Marzio e Gastone Nencioni) e, a uscire dal guscio, Almirante non pensò più fino alla morte.
A Fisichella nessuno diede retta. All'inizio nemmeno Fini, che pensava a una trappola. Per un singolare capriccio della storia, il leader che alla fine del '99 avrebbe raccolto le firme per la celebrazione di un nuovo referendum per votare alla Camera con il sistema maggioritario secco, nel '93 era convinto che il referendum di Segni avrebbe portato l'Msi all'estinzione. [p. 315] Tanto da convocare un comitato centrale con il seguente ordine del giorno: come fare politica con 5 deputati (nel '94, grazie al maggioritario e a Berlusconi, ne avrebbe portati a casa 109). Prima delle comunali del '93, Fini si convinse tuttavia che lo slogan di Fisichella "Collegarsi per vincere" non era campato in aria e autorizzò il professore a fare qualche sondaggio con la Dc per confluire su un candidato comune a sindaco di Roma. Furono fatti i nomi di Buttiglione e del prefetto Caruso (che poi corse da solo per la Dc), ma le porte restarono chiuse. Nicola Mancino spiegò a Fisichella che lo scudocrociato aveva ormai messo nel conto di perdere le amministrazioni delle grandi città, ma era convinto che a livello nazionale le cose non sarebbero mutate in modo sostanziale. "Sole che sorgi..." Con Alleanza nazionale diventata partito di governo nel '94, Fini doveva cancellare al più presto il ricordo delle adunate in piazza del Popolo con il braccio alzato e con la gente che cantava "Sole che sorgi@ libero e giocondo". L'aveva capito così bene anche nella campagna elettorale per le elezioni politiche, che quando a Firenze il federale lo salutò con la musica dell'Inno a Roma Fini lo freddò: "Abbiamo cambiato musica. Cambia disco". Fu così che, dopo la vittoria di marzo, il segretario dell'Msi incaricò Gennaro Malgieri di buttar giù le tesi di un congresso di rifondazione. Malgieri è un giornalista colto e brillante che aveva da tempo cominciato a demolire vecchi miti e a togliersi vecchi complessi. Come quando aveva unito in un articolo due deputati, il fascista Armando Casalini e l'antifascista Giacomo Matteotti, stimati anche dagli avversari politici e ammazzati entrambi nel '24 da opposte squadracce. Perché non onorarli insieme, aveva proposto Malgieri, in un comune "tempio dell'amore"? La revisione proseguì per tutto l'autunno. Fisichella si [p. 316] occupava del nuovo statuto, Pietro Armani della parte economica, Gustavo Selva del capitolo internazionale. Malgieri tracciò il profilo ideologico di An. Provò a scrivere: "Il patrimonio di Alleanza nazionale è formato di molte cose, intessuto di quella
cultura nazionale che ci fa essere comunque figli di Dante e di Machiavelli, di Rosmini e di Gioberti, di Mazzini e di Corradini, di Croce, di Gentile, ma anche di Gramsci". "Anche Gramsci?" chiese Fini quando Malgieri gli presentò la bozza. "Anche Gramsci, Gianfranco" fu la risposta. "An deve inserirsi nel pensiero nazionale inteso nella sua globalità. I nuovi movimenti popolari non possono pensarsi separati da quello che è accaduto in questo secolo straordinario." "Va bene" disse Fini. Va bene, dissero gli altri del comitato che lessero la relazione. Si dichiararono d'accordo anche su una frase scritta tre pagine prima del riferimento a Gramsci e perfino più impegnativa: "E' giusto chiedere alla destra italiana di affermare senza reticenza che l'antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato". Pur riconoscendo che nel dopoguerra "non tutto l'antifascismo è stato antitotalitarismo" e che "i comunisti hanno promosso l'antifascismo a ideologia per legittimarsi". Su questa frase, pure importantissima, Malgieri era più tranquillo perché Fini l'aveva pronunciata negli stessi termini il 20 maggio 1994, durante il dibattito sulla fiducia al governo Berlusconi. Eppure, a Fiuggi ogni parola pesò come una pietra, fuori e dentro il partito. La tensione si tagliava a fette quando Fini attaccò: "Poniamo fine all'esperienza politica del Movimento sociale italiano. So quanto vi costi abbandonare la casa paterna che è stata per noi una palestra di moralità. So quanta sofferenza c'è tra noi. So di chiedervi molto, moltissimo". Pronunciò per l'ultima volta la parola camerati: "Gli impagabili camerati che per più di settant'anni sono rimasti fedeli alle proprie convinzioni non in nome di un'ideologia, ma della patria". Ma avvertì tutti con chiarezza: "La destra politica non è figlia del fascismo". [p. 317] Il discorso di Fini fu interrotto dagli applausi trentasette volte. Ma lasciò ferite profonde. Mirko Tremaglia, arruolatosi ragazzino nella Repubblica di Salò, definì "una bestemmia storica" la frase sull'antifascismo. Teodoro Buontempo, detto "Er Pecora", demolì la relazione del segretario facendola a fettine più sottili dei sedani tritati da Antonello Colonna, lo chef della destra. Rauti chiese gelido se quello era il nuovo Dna del partito e Fini, gelido, gli rispose di sì. Aggiunse, a scanso di equivoci: "Stiamo già dall'altra parte del fiume. Non possiamo tornare indietro". Fini riuscì a recuperare con abilità Buontempo e Tremaglia
(l'antifascismo escludeva il riconoscimento degli stalinisti del Pci), ma Rauti restò nella vecchia casa: "Se andassi con loro, per me significherebbe diventare buddista". Poi, quando rimase alla testa di un manipolo di cinquanta persone a votare contro la relazione mormorò: "E' finita". La sera di venerdì 27 gennaio 1995, la sala del gran circo di Fiuggi si vuotò mestamente. In fondo, s'era pur sempre celebrato un funerale. Il battesimo della nuova creatura sarebbe avvenuto l'indomani. Sulla sinistra dell'enorme capannone accanto al palco vuoto, qualcuno intonò: "Sole che sorgi@ libero e giocondo...". Lo intonò con la voce bassa, più che un inno era un'orazione funebre: tornava alla mente il coro sommesso e disperato degli ebrei nel Mosè in Egitto di Rossini. Alla prima si aggiunsero altre voci, poi altre ancora, fino a diventare moltissime: "Sul colle nostro@ i tuoi cavalli doma...". Piangevano tutti, senza ritegno: vecchi combattenti che forse non l'avevano fatto mai nella vita e giovanotti che amavano un fascismo mai conosciuto. "Tu non vedrai@ nessuna cosa al mondo@ maggior di Roma." Era finita. Da quelle lacrime, prima che da ogni discorso, si capiva che la svolta c'era stata sul serio. [p. 318] XI: Berlusconi-Di Pietro, il derby infinito "Quei drammatici giorni di luglio..." La drammatica notte tra il 21 e il 22 novembre 1994 non segnò il primo incontro di Silvio Berlusconi con Mani pulite. C'era stato, nell'estate dello stesso anno, un altro momento di grandissima tensione rimasto a lungo riservato. Martedì 26 luglio ero andato a trovare Francesco Saverio Borrelli. Gli riferii una battuta di Saverio Vertone: "A forza di lavare un panno per farlo diventare sempre più bianco, si finisce con lo strapparlo". Borrelli sorrise, ma dissentì: "Questo paese aveva bisogno di uno choc...". In quel momento, s'affacciò Di Pietro: maniche di camicia, colletto slacciato, espressione indecifrabile. "Entra, Antonio" disse Borrelli. Di Pietro assistette in silenzio ai nostri ultimi dieci minuti di conversazione, poi rimase da solo per mezz'ora con il procuratore. Poco dopo si seppe di un mandato d'arresto per Paolo Berlusconi: tangenti per trecentotrenta milioni complessivi pagate dal gruppo Fininvest a ufficiali della Guardia di
finanza. La stessa imputazione che avrebbe portato all'incriminazione del presidente del Consiglio e alla sua successiva condanna. Nell'estate del '94, i rapporti tra Berlusconi e Di Pietro erano buoni. "Quando gli offrii il ministero dell'Interno" mi raccontò il Cavaliere "mi disse che avrebbe accettato, se Scalfaro non fosse intervenuto su Borrelli per fermarlo. Di Pietro ha raccontato questa circostanza anche a Paolo Cirino Pomicino." Il quale me la confermò: "Nel luglio del '94, al palazzo [p. 319] di giustizia di Milano, Di Pietro mi raccontò che avrebbe accettato di entrare nel governo Berlusconi se Scalfaro non glielo avesse impedito". Berlusconi e Di Pietro si parlavano attraverso un amico comune: l'imprenditore Antonio D'Adamo, che era in rapporti d'affari con il Cavaliere e ritroveremo come generoso benefattore del magistrato. "Quando ricevetti l'invito a comparire dai procuratori di Milano" mi raccontò Berlusconi "mi chiamò D'Adamo: dottore, non si preoccupi, Di Pietro sta dalla sua parte, non consentirà a quelli del Pool di mettere in atto il loro disegno." Alla fine del '96, Berlusconi confermò questa tesi davanti ai pubblici ministeri di Brescia: "L'ingegner D'Adamo mi disse che il dottor Di Pietro l'aveva pregato di riferirmi che lui dissentiva dalle posizioni che il Pool andava assumendo nei miei confronti, che vi era un disegno politico del Pool contro di me, che nei miei confronti la procura di Milano non aveva niente in mano, che non voleva interrogarmi perché non intendeva essere strumento di questo disegno, che aveva firmato l'invito a comparire che mi riguardava solo per prassi dell'ufficio, in quanto certi atti venivano firmati da tutti i sostituti. In quell'occasione, l'ingegner D'Adamo mi disse anche che il dottor Di Pietro aveva deciso di dimettersi a breve scadenza... L'ingegner D'Adamo mi riferì l'invito da parte del dottor Di Pietro di posticipare la mia presentazione avanti all'autorità giudiziaria di Milano... Identico invito mi venne fatto anche dall'imprenditore Renato Della Valle, il quale mi disse di aver avuto espresso mandato in tal senso dall'avvocato Lucibello, che parlava su incarico di Di Pietro...". Concluse Berlusconi nella nostra conversazione: "Non mi meravigliai, perché D'Adamo da prima che io formassi il governo e fino all'autunno del '95 mi ha portato i saluti e gli attestati di amicizia di Di Pietro". Altro tramite più autorevole era Francesco Di Maggio, un importante magistrato ora scomparso che era stato vicedirettore dell'amministrazione penitenziaria. Di Maggio, che certo non passava per essere un amico del Polo, era stato incaricato [p. 320] di
organizzare la conferenza mondiale di Napoli sulla criminalità. L'idea del summit era nata in giugno, durante l'incontro tra Berlusconi e Clinton, come premessa per la costituzione in Italia, sotto l'egida dell'Onu, di un'Alta scuola per funzionari di polizia di tutto il mondo. (Dopo lo scandalo dell'avviso a Berlusconi il progetto, naturalmente, naufragò.) Per evitare discriminazioni, Di Maggio concordò con Franco Frattini, segretario generale di palazzo Chigi fin dai tempi di Ciampi, di invitare i soli procuratori generali. Di Pietro si lamentò e chiamò Di Maggio, di cui era vecchio amico: "Non sono forse il simbolo di Mani pulite nel mondo?". Chiese dunque di essere invitato, ma Di Maggio, d'accordo con Frattini, gli disse che non poteva invitare un pur famosissimo sostituto procuratore quando aveva dovuto escludere tutti i procuratori della Repubblica. Berlusconi lo seppe a cose fatte e lì per lì rimase male per non essere stato consultato. Perché parliamo di Di Maggio? Ascoltiamo di nuovo il Cavaliere: "Nei giorni drammatici del luglio '94, Di Maggio ci fece sapere che Di Pietro aveva pronta una nuova richiesta di arresto per mio fratello Paolo, ma che era disposto a rinunciarvi se io avessi ammesso di conoscere le vicende per cui volevano incriminare mio fratello. Io non ero al corrente di nulla, ovviamente, e obiettai che se il presidente del Consiglio avesse fatto una dichiarazione del genere avrebbe dovuto dimettersi. Risposta di Di Pietro, sempre attraverso Di Maggio: è vero, ma nascerebbe subito un secondo governo Berlusconi perché non sarebbero possibili altre soluzioni. Ciò che in seguito emerse mi fece capire che Di Pietro mirava assolutamente a farmi dimettere convinto com'era che avrebbe ricevuto lui l'incarico di formare il nuovo governo". "Io quello lo sfascio..." Anche se ogni parola detta su questo tema deve essere valutata con estrema prudenza, sono molte le testimonianze sulle grandi ambizioni politiche maturate da Di Pietro già [p. 321] nei mesi precedenti e immediatamente successivi alle sue dimissioni dalla magistratura. Mi disse Franco Frattini, oggi deputato di Forza Italia e presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti: "Per almeno due volte, tra l'estate e l'autunno del '94, Di Maggio mi confidò che Di Pietro puntava alla presidenza del Consiglio. Erano amici, e Di Maggio prendeva queste affermazioni per battute. "Cose dell'altro mondo!", esclamò un giorno. "Ma lo sai che cosa andava dicendo in giro Di Pietro? Che lui sarebbe diventato
presidente del Consiglio"". Mi raccontò Gianni Pilo, deputato di Forza Italia: "Nel maggio del '95 Gabriele Cimadoro, cognato di Di Pietro e deputato del Ccd (poi passato ai Democratici), mi chiese un appuntamento per dirmi: "Se Berlusconi si toglie di mezzo, Tonino è pronto a fare il capo del Polo. Fammi sapere". Restai così sbalordito che tutto finì lì". Mi disse ancora Berlusconi: "Come può un sostituto procuratore della Repubblica ambizioso come Di Pietro rifiutare il ministero dell'Interno se non ha l'aspettativa di un incarico più importante? Di Pietro, d'altra parte, non ha fatto mistero di queste ambizioni con i suoi amici di allora, da Gorrini [altro benefattore del magistrato] a D'Adamo. Gorrini gli disse: "Non ti sarai montato la testa?". E quando D'Adamo gli parlò della possibilità di fare il ministro, lui gli rispose: "Soltanto il ministro?"". Secondo queste testimonianze, Di Pietro - che politicamente era sempre stato moderato - aveva bisogno che Berlusconi lasciasse al più presto palazzo Chigi. Era d'altra parte in ottima compagnia: dal Quirinale ai sindacati, dai grandi giornali alla grande industria, il desiderio di sfrattare da palazzo Chigi un marziano straricco come il Cavaliere incontrava molti consensi. Se attraverso alcuni amici mandava segnali di pace al Cavaliere, in altre occasioni Di Pietro manifestava opinioni diverse. La sera del 22 novembre 1994, l'indomani dell'invito a comparire a Berlusconi, il magistrato si trovava a Parigi per l'arresto del finanziere Mach di Palmstein. Incontrò la [p. 322] giornalista Rosanna Santoro che scrisse su "Panorama" il 14 agosto 1997: ""Questa è una guerra. Solo uno ne uscirà vivo: o io o lui...". Antonio Di Pietro passeggiava nervoso in una pungente notte parigina, visibilmente irritato per la fuga di notizie sulla clamorosa iscrizione di Silvio Berlusconi nel registro degli indagati di Milano. Quella dell'eroe di Mani pulite sembrava allora una battuta. Che però oggi, a quasi tre anni di distanza...". Rientrato a Milano, Di Pietro confermò questo suo stato d'animo al procuratore Borrelli, che ne riferì due anni più tardi testimoniando in aula durante un processo a Brescia: "Il 25 novembre 1994, Di Pietro mi disse: "Ci vado io al dibattimento, io quello", cioè Silvio Berlusconi, cioè il presidente del Consiglio in carica, "lo sfascio"". Di Pietro, in verità, non doveva essere solo nel suo desiderio di "sfasciare" il presidente del Consiglio. Nel novembre del '96, Michelangelo Agrusti, ex parlamentare democristiano, scrisse al
Cavaliere una lettera. Gli rivelava una frase di Raffaele Tito (un magistrato goriziano già sostituto procuratore a Pordenone, suo conoscente), che nel '94 prestava servizio alla procura di Milano come aggregato al Pool (inquisì D'Adamo quando questi entrò nell'inchiesta Mani pulite per una storia di mazzette a Segrate e Di Pietro chiese di non occuparsene): "O arriviamo prima noi a colpire Berlusconi o arriverà prima lui a rafforzarsi e a normalizzare la situazione". Questo clima venne confermato dallo psichiatra Giorgio Fiorini, suocero di Tito. Nell'aprile del '97, infastidito da una battuta di Borrelli su Berlusconi, impegnato nei lavori della Bicamerale, scrisse al procuratore della Repubblica di Brescia queste parole (che Giancarlo Lehner riporta nel suo libro Due pesi e due misure): "Nelle conversazioni avute in quel periodo [tra il '93 e il '94] con mio genero venni ad apprendere che il Pool si era totalmente concentrato... nella ricerca di notitiae criminis riguardanti direttamente o indirettamente la persona dell'onorevole Silvio Berlusconi. Quel gruppo di procuratori, a detta di mio genero, non solo era animato da una vera e propria volontà persecutoria, c'era in realtà dietro l'azione [p. 323] dei suddetti magistrati il disegno politico, la volontà di far cadere il governo, di favorire il cambiamento di maggioranze. Anzi, mio genero riteneva che tutto questo loro moltiplicarsi di iniziative verso Berlusconi e il suo gruppo industriale fosse necessario e utile agli interessi complessivi del paese. Le parole del mio familiare... evidenziavano una chiara e forte determinazione politica, fino al punto di manifestare a priori la certezza che comunque una qualche prova di colpevolezza, in chicchessia del gruppo Fininvest, sarebbe venuta fuori e sarebbe poi stata applicata la teoria del "non poteva non sapere". Mio genero era animato da una sorta di odio ideologico nei confronti di Berlusconi e ripeteva a più riprese che loro, i magistrati del Pool, presto o tardi, in un modo o nell'altro, lo avrebbero allontanato da palazzo Chigi...". E Di Pietro disse: "Me ne vado" Domenica 27 novembre 1994, Antonio Di Pietro entrò nella piccola stanza di Piercamillo Davigo, si lasciò cadere pesantemente sulla sedia davanti alla scrivania dell'amico e gli disse: "Me ne vado. Lascio la magistratura". Davigo spalancò gli occhi ancor più del solito e lo fissò. L'altro continuò: "Sono stanco e avverto un
profondo disagio. Ormai ogni decisione viene interpretata in chiave politica. Se fai una cosa protestano, se ne fai un'altra protestano lo stesso. Basta". Appena due giorni prima aveva detto a Borrelli che voleva gestire lui il caso Berlusconi in dibattimento ("Io quello lo sfascio"). Come mai aveva cambiato idea così rapidamente? Davigo non fece in tempo a chiederselo che già aveva investito l'amico con una requisitoria delle sue. Gli ricordò di aver avuto tanti anni prima un dissenso con Francesco Di Maggio, caro amico di entrambi, quando questi volle andarsene agli uffici dell'Onu a Vienna. "Il nostro posto è qui, a fare le piccole cose quotidiane" gli aveva detto e lo ripeteva ora a Di Pietro. Gli prospettò le difficoltà del rientro in magistratura, dando per scontato che volesse assumere qualche incarico [p. 324] speciale. Ma lui tagliò corto: "Non so che lavoro andrò a fare, te lo giuro. Esco di qua e non ho più neanche lo stipendio. Non so come farò a guadagnarmi da vivere domani". Davigo e Di Pietro si parlarono di nuovo nei due giorni successivi, il lunedì e il martedì, ma nessuno di loro disse nulla ai colleghi. Martedì 29 novembre, un collegio di Cassazione formato da magistrati progressisti decise di trasferire da Milano a Brescia il processo contro il generale della Guardia di finanza Giuseppe Cerciello, e il Pool, che ne fu espropriato, la prese malissimo. L'indomani, duemila persone con le bandiere di tutti gli schieramenti politici, dalla Lega a Rifondazione, si affollarono sotto il palazzo di giustizia di Milano per manifestare il loro sostegno ai magistrati del Pool. Di Pietro era ancora con Davigo. Andò alla finestra, vide quella gente e disse: "Non me la sento più di vivere tra fischi e applausi". Il 2 dicembre, finalmente, i due amici si decisero ad avvertire Borrelli. Il procuratore s'infuriò. Cercò di convincere il suo sostituto prima a rivedere la decisione, poi a dilazionarla nel tempo per aspettare la celebrazione del processo Berlusconi (in procura si dava per scontato, evidentemente, che il Gip avrebbe rinviato a giudizio il Cavaliere, pur trattandosi tecnicamente di un processo indiziario). Infine, lo invitò ad aspettare almeno i pochi giorni necessari a condurre il primo interrogatorio del presidente del Consiglio. "Me ne vado prima" rispose Di Pietro, irremovibile. E Borrelli, fuori di sé, lo accusò di tradimento. Il magistrato simbolo di Mani pulite se ne andò martedì 6 dicembre, a chiusura della sua requisitoria nel processo Enimont, che era diventato giorno dopo giorno il processo alla classe politica della
Prima Repubblica, con la sola esclusione del Pci-Pds. Durante l'ultima parte della requisitoria, a Di Pietro fu consegnata una busta: Scalfaro voleva parlargli con urgenza. Il magistrato interruppe il suo intervento (stava trattando il caso Craxi) e salì nell'ufficio di Borrelli. "E' sicuro della sua decisione?" gli chiese il capo dello Stato. "Presidente, non ce la faccio più" rispose. [p. 325] Alle 16,43, il magistrato si tolse la toga in diretta televisiva, con un gesto che il sistema mediatico consegnò immediatamente alla storia moderna d'Italia. "Si libera della toga con un gesto ampio, da torero" scrisse Paolo Guzzanti sulla "Stampa". "E rapido, come se, una volta libero, ne temesse il contatto." Si disse che la telefonata di Scalfaro evitò forse una comunicazione pubblica delle dimissioni di Di Pietro che certo sarebbe stata dirompente. Il magistrato si limitò in ogni caso a distribuire ai giornalisti copia di una lettera a Borrelli, costruita in ogni parola per commuovere il paese: "Mi sento usato, utilizzato, tirato per le maniche, sbattuto ogni giorno in prima pagina sia da chi vuole contrappormi ai suoi nemici, sia da chi vuole accreditare un inesistente fine politico in ciò che sono le mie normali attività... Sperando... che senza di me... le passioni si plachino... lascio l'ordine giudiziario senza alcuna polemica, in punta di piedi... con la morte nel cuore e senza alcuna prospettiva per il futuro". Una lettera da eroe romantico di Senza famiglia che si sarebbe rivelata poco utile per capire le reali ragioni dell'abbandono di Di Pietro. "Lascio la magistratura per la politica" Seguendo il consiglio di Davigo, Di Pietro si mise in ferie, rinviando ad altra data le dimissioni effettive dall'ordine giudiziario. Ma si seppe che aveva preso la decisione di andarsene già in primavera. Lavorando al mio libro Il duello, venni a conoscenza di un colloquio tra Di Pietro e il suo amico Italo Ghitti, il giudice per le indagini preliminari che si è occupato delle prime inchieste di Mani pulite. Era l'ultima settimana dell'aprile '94, Ghitti aveva ricevuto la proposta di candidarsi al Consiglio superiore della magistratura ed era indeciso se accettare o meno. Ne parlò con Di Pietro, che gli consigliò di andarci. Anch'io me ne vado, gli disse per incoraggiarlo, aspetto di concludere la requisitoria Enimont e poi entro in politica. Ci hai pensato bene?, chiese Ghitti. E lo ammonì: [p. 326] per far politica non bisogna avere nessuno scheletro
nell'armadio. E io non ne ho, rispose Di Pietro. Fu così che Ghitti andò al Csm e Di Pietro si dimise dalla magistratura. Alla fine del '94, tuttavia, se era ormai scontato che il governo Berlusconi non aveva prospettive, non era affatto certo che Di Pietro sarebbe diventato presidente del Consiglio di un eventuale governo di salvezza nazionale. Il fervore che nel maggio del '94 aveva portato Borrelli a mettere il Pool a disposizione di Scalfaro per una chiamata d'emergenza, s'era in realtà molto attenuato. E allora? Borrelli mi disse che il Di Pietro entrato nella sua stanza per annunciargli le dimissioni "era un uomo logoro e stanco". Il Pool ha attribuito a lungo la causa scatenante dell'abbandono all'inchiesta ministeriale sulla procura di Milano ordinata dall'allora ministro della Giustizia Alfredo Biondi, in corso da alcune settimane, e alla decisione della Cassazione di trasferire da Milano a Brescia un processo chiave come quello a carico di Cerciello. Nessuna delle due motivazioni reggeva. La Cassazione decise su Cerciello il 29 novembre, mentre Di Pietro comunicò la sua volontà di andarsene a Davigo due giorni prima. Quanto all'ispezione ministeriale, Di Pietro fu l'unico magistrato di Mani pulite a collaborare con gli ispettori. L'ispezione era stata ordinata da Biondi nell'ottobre del '94. Sul suo tavolo erano piovuti parecchi esposti contro il Pool di Milano e le motivazioni tecniche per una verifica c'erano tutte. Ma la procura di Milano non era (e non è) un ufficio come gli altri. Godeva - al pari della procura di Palermo durante la gestione Caselli - di una speciale extraterritorialità giuridica, politica e morale sancita da quella insindacabile cassazione che sono il sistema mediatico e la pubblica opinione. Il solo permettersi di verificare se certe denunce corrispondevano o no al vero era considerato un atto di lesa maestà. Così Biondi - che s'era pure sentito dare dell'ubriacone dal procuratore Borrelli in un'intervista al "Corriere della Sera" - trovò la strada in salita. Vittorio Sgroi, procuratore generale della Cassazione e titolare, insieme con il ministro, [p. 327] della proposta di azione disciplinare nei confronti dei magistrati (la decisione è di competenza del Csm), gli disse che non se la sentiva di procedere. Considerava "intoccabili" - e lo ammise pubblicamente i magistrati di Milano e non voleva certo bruciarsi la promozione a primo presidente della Suprema corte, poi puntualmente avvenuta. Quando gli chiesi perché considerasse intoccabili Borrelli e i suoi mi rispose: "Un giorno lontano le dirò". Cinque anni dopo, quel giorno è ancora prematuro. Oltre che da Sgroi, il ministro fu sconsigliato dal procedere anche
da Ugo Dinacci, il capo dell'ispettorato nominato a suo tempo da Giuliano Vassalli e confermato poi da cinque ministri. Sentiva che si sarebbe giocato la carriera (cosa puntualmente avvenuta e seguita dalla morte) e voleva evitarlo. Quando parlò dell'intenzione del ministro con il suo vice Vincenzo Nardi, che aveva una lunghissima esperienza di ispezioni, anche questi scosse la testa. "Ugo" gli disse "saremmo sommersi dalle polemiche. Inchieste come quelle di Milano non si possono valutare a caldo. Ricordi il caso Montesi? Fu incriminato il figlio di Piccioni e il giustizialismo stroncò la carriera dell'uomo politico. Rileggendo anni dopo quelle carte, in un clima cambiato, non era difficile accorgersi che a carico di Piero Piccioni non risultava niente." Eppure Biondi dovette far partire ugualmente l'ispezione. Era stato sollecitato per ben sei volte dallo stesso procuratore generale di Milano, Giulio Catelani, superiore di Borrelli (che nel '99 avrebbe ottenuto lo stesso incarico). Come poteva sottrarsi? Bastarono i primi interrogatori a Roma, quando gli ispettori non avevano ancora messo piede a Milano, per scatenare la procura milanese. Il 21 novembre, giorno dell'invito a comparire per Berlusconi, Borrelli scrisse due lettere durissime. Una al procuratore generale Catelani per accusarlo di fare il doppio gioco ("Lei, eccellenza, che mai, dico mai, aveva ritenuto di indirizzarci se non elogi..."), e l'altra al capo dello Stato, nella sua veste di presidente del Csm, per chiedere se poteva aprire un'azione penale contro Nardi, incaricato da [p. 328] Dinacci di guidare l'ispezione, e i suoi collaboratori ("Chiede... se in presenza di anomalie penalmente rilevanti nella conduzione dell'inchiesta amministrativa, i magistrati del pubblico ministero assoggettati alla medesima e pertanto in virtuale conflitto d'interessi abbiano l'obbligo ovvero la facoltà ai sensi... di promuovere l'iscrizione delle notizie di reato nel registro di cui all'articolo..."). Quando l'indomani mattina, appena preso posto sul Pendolino per Milano, Nardi sfogliò il "Corriere della Sera" e lesse la notizia dell'invito a comparire per Berlusconi, capì bene su quale via crucis si stava incamminando. E, infatti, tutti i magistrati della procura (con l'esclusione di Di Pietro) gli esibirono la lettera di Borrelli, mettendo gli ispettori dinanzi a un'altra grana: avrebbero dovuto denunciare il procuratore per minaccia (e qui, visto che il reato è perseguibile solo in seguito a querela di parte, potevano far finta di non aver visto la lettera) o per abuso d'ufficio (e qui, invece, se non
l'avessero fatto avrebbero potuto essere perseguiti a loro volta)? A Nardi tornò in mente un'ispezione fatta molti anni prima a un altro altissimo magistrato, il procuratore generale di Roma Franz Sesti. Questi aveva accolto gli ispettori più o meno come Borrelli, ventilando cioè di tenerli sotto schiaffo. E dovette dimettersi un minuto prima che il Csm lo trasferisse per incompatibilità ambientale. Ma Nardi pensò che Sesti era Sesti e Borrelli era Borrelli. Meglio quindi lasciar perdere. Meglio sentirsi urlare in faccia dal procuratore, che conosceva da tanti anni e al quale era legato da stima reciproca: "Dovevi fare obiezione di coscienza, dovevi fare disobbedienza civile, dovevi comunque rifiutarti di fare questa ispezione su di noi". Meglio subire l'assalto non amichevole dei cronisti giudiziari e gli insulti dei pasdaran in attesa permanente fuori degli uffici giudiziari. Meglio tornarsene a casa. Tanto, l'ispezione era morta prima di cominciare. Ma, come vedremo tra poco, Nardi e i suoi colleghi dovettero bere l'amaro calice fino in fondo. [p. 329] Quando Di Pietro andò ad Arcore... Di Pietro fu l'unico a collaborare amichevolmente con gli ispettori, senza mai fare riferimento alla lettera di Borrelli. Nardi restò stupito dall'eccezionale capacità del magistrato di gestire elettronicamente grandi processi come quello Enimont, manovrando gli archivi computerizzati. E ripensò a Giovanni Falcone, che quando doveva istruire le sue poderose inchieste di mafia si ritirava in campagna da solo e spandeva sul pavimento centinaia di faldoni. Il giorno delle dimissioni, Di Pietro disse al ministro Biondi di non avere ricevuto pressioni per andarsene. E, poiché sui giornali nessuno ci credette, il magistrato scrisse il 9 dicembre al Guardasigilli una lettera che lui tenne riservata per un anno e mi mostrò alla fine del '95: "Continuo a sentire distorsioni, tra le tante, della telefonata intercorsa tra noi l'altra sera... Ho ripetuto anche a Lei quel che avevo scritto al mio Procuratore Capo e che questa mattina ho ribadito al Signor Capo dello Stato: con il mio gesto ho sperato (e spero ancora) di riportare serenità. Non ho doppi fini né ambizioni politiche da coltivare. Non intendo sollevare polemiche con alcuno, né all'interno né all'esterno della Magistratura [e quindi nemmeno con gli ispettori ministeriali]. Lascio la Magistratura perché ho avvertito (e il clamore di questi giorni mi convince ancora di più) le strumentalizzazioni che si
stanno facendo sulla mia persona e sul mio ruolo di magistrato. Nella speranza che al più presto si spengano per me le luci, colgo l'occasione per augurare a Lei e alla Sua famiglia un sereno Natale". Abbandonata la toga, Di Pietro lasciò credere a lungo che se ne era andato perché non condivideva l'atteggiamento del Pool nei confronti di Berlusconi. Mi disse Pierferdinando Casini: "Nei primi mesi del '95, Di Pietro venne a colazione a casa mia. Mi spiegò che lui aveva abbandonato il Pool perché riteneva che vi fosse stata un'azione persecutoria contro Berlusconi. Ricordo le parole esatte: "Berlusconi non è certo uno stinco di santo, come tutti gli industriali avrà fatto carne di porco, però l'accanimento di carattere politico del Pool non posso condividerlo"". [p. 330] La stessa tesi, Di Pietro confidò a Cossiga, e la cosa fu più impegnativa sia per il ruolo istituzionale che l'ex capo dello Stato aveva ricoperto, sia perché in lui il magistrato molisano aveva trovato sempre un'autorevolissima sponda. Nell'estate del '95, Cossiga mi confidò: "Dispiacerà molto a Borrelli ciò che sto per dirle, anche perché non l'ho mai detto e lei è la prima persona a cui lo dico. Ma immaginando che prima o poi l'avrei detto, il procuratore capo di Milano, che io non avevo mai conosciuto, un giorno mi coprì d'insulti affermando che io ero bugiardo come Berlusconi e Previti... Dai discorsi che Di Pietro mi ha fatto io ho sempre capito che lui ha lasciato il Pool perché non era d'accordo con le forme dell'inquisizione nei confronti del presidente del Consiglio dei ministri... Credo che non abbia condiviso l'avviso di garanzia e credo anche che abbia avuto il timore che il Pool volesse esporlo in prima persona, volesse presentarlo come il Vendicatore, lo Sterminatore, il Giustiziere della notte. E lui non si è prestato a questo ruolo". Aveva capito male, Cossiga? Lo escluderei, visti i rapporti con Di Pietro, e visto che le stesse cose il simbolo di Mani pulite le aveva dette anche a Silvio Berlusconi. A Berlusconi? Già proprio a lui, quando questi ignorava di essere l'uomo da "sfasciare". Lo rivelò lo stesso Cavaliere la sera del 13 aprile 1995, Giovedì Santo, intervenendo telefonicamente alla trasmissione di Michele Santoro Tempo reale: "Di Pietro firmò di malavoglia l'avviso di garanzia contro di me, me l'ha detto lui". A Borrelli e ai suoi venne un colpo per almeno due buone ragioni. La prima era che Di Pietro aveva parlato con Berlusconi e nessuno ne sapeva niente. La seconda era che gli aveva raccontato di aver firmato di malavoglia l'invito a comparire, quando tutti nel Pool sapevano che il vero motore
dell'incriminazione del Cavaliere era stato proprio lui, e che sempre lui, la mattina del 21 novembre 1994, aveva scritto il provvedimento di suo pugno. La prima notizia (l'incontro) era terribile, ma poteva essere ingoiata. La seconda, no. E così Borrelli e i suoi aspettarono una smentita di Di Pietro, che non arrivò. Rintracciato al telefono, lui si limitò a dire: "Nessuno mi ha mai obbligato a firmare cose che non condividessi". Borrelli [p. 331] s'infuriò: "Sono amareggiato e deluso. Di Pietro ha smentito troppo poco. Parole troppo blande, le sue, rispetto a quel che Silvio Berlusconi ha detto in televisione". Ma l'ormai ex magistrato non si spinse più in là. Né poteva farlo. Due smentite dell'incontro di Arcore pubblicate dall'"Espresso" furono a loro volta smentite da Di Pietro. L'incontro di Arcore, infatti, c'era stato. Oltre ad aver riferito al Cavaliere la stessa versione dell'invito a comparire fornita a Cossiga, a Casini e ad altri, Di Pietro aveva parlato di politica. Affermò che "il suo cuore era vicino agli elettori di Forza Italia che avevano creduto, come me, nel rinnovamento" (queste parole del Cavaliere furono confermate dallo stesso Di Pietro in un articolo per "la Repubblica"), gli confidò che il ruolo istituzionale rivestito in Mani pulite non gli consentiva di presentarsi alle elezioni: lui, comunque, non si sarebbe schierato con la sinistra. Si disse in ogni caso disponibile ad assumere la guida del Viminale o dei Servizi segreti. Nell'incontro di Arcore si parlò anche di un possibile appoggio di Di Pietro al Polo - se fosse stato necessario - nelle elezioni politiche anticipate che allora sembravano imminenti. Quando Maurizio Losa, il giornalista a lui più vicino, gli contestò l'incontro, Di Pietro rispose: "Volevo capire che cosa stesse accadendo nel mondo della politica. Per questo stavo incontrando tutti. Mi sarebbe sembrato scortese rifiutare l'invito di Berlusconi". Una grande busta bianca. Anonima Cinque giorni dopo la telefonata di Berlusconi a Tempo reale, Di Pietro fu invitato da Colombo con gli altri colleghi del Pool per una cena a casa sua la sera del martedì di Pasqua, ma non ci fu alcun chiarimento. Mi disse Borrelli: "Antonio teneva molto a mostrarsi equidistante. Non so se il suo desiderio di non volersi sbilanciare verso nessuna formazione politica lo abbia sconsigliato dal dare spiegazioni". Aggiunse D'Ambrosio: "Antonio ci sembrò reticente. Perché? Non lo [p. 332] so. E un giorno mi piacerebbe sapere sul
serio che cosa è successo". (A cinque anni di distanza, il mistero sulle dimissioni di Di Pietro rimane fitto, anche se la certezza dell'azione disciplinare nei suoi confronti può essere stata determinante. Il 4 settembre 1999 uno storico di sinistra come Nicola Tranfaglia scrisse sulla "Stampa": "Nel mezzo di uno dei processi più gravi e importanti dell'inchiesta, [Di Pietro] si è tolto la toga in maniera teatrale e ha lasciato la magistratura. Quasi cinque anni dopo, nessuno sa ancora perché".) Berlusconi seppe del vero ruolo giocato da Di Pietro nell'invito a comparire soltanto nell'estate del '95. Mi raccontò il Cavaliere: "Il 25 luglio, durante un interrogatorio a Brescia, scoprii che era stato Di Pietro a insistere perché mi fosse mandato l'invito a comparire. Rimasi stupefatto e chiamai D'Adamo che insistette: non è assolutamente possibile. Lui stesso mi disse di essere andato a trovare, di notte, Di Pietro che avrebbe confermato la sua versione impegnandosi a fare una dichiarazione pubblica di smentita". Secondo Berlusconi, D'Adamo si convinse che l'amico magistrato non gli diceva la verità quando, in ottobre, Di Pietro scrisse un articolo per "la Repubblica" in cui faceva capire che le "bugie di Berlusconi" stavano portando il suo cuore lontano da quello degli elettori di Forza Italia. Fu allora che l'imprenditore accettò di raccontare a Berlusconi i suoi rapporti patrimoniali con Di Pietro... Qui dobbiamo fare un passo indietro. Di amicizie imbarazzanti per il simbolo di Mani pulite s'era parlato fin dal 17 luglio 1993. Roberto Chiodi aveva curato per il settimanale cattolico "Il Sabato" un dossier contro Di Pietro. Il giornalista partiva dall''84, quando il giovane magistrato lavorava a Bergamo e il suo diretto superiore Giuseppe Cannizzo, capo della procura della Repubblica, trasmetteva questo suo ritratto al Consiglio giudiziario della Corte d'appello: "Disponibilità a trattare con i confidenti sostituendosi alla polizia giudiziaria, metodo eccessivamente inquisitorio nella conduzione delle indagini, protagonismi non sempre corretti". L'inchiesta di Chiodi arrivava agli anni a cavallo tra gli Ottanta e i [p. 333] Novanta, quando c'era ancora la "Milano da bere". Di Pietro, scriveva il giornalista, frequentava personaggi milanesi tutti successivamente coinvolti a vario titolo in inchieste giudiziarie: da Claudio Dini, presidente della Metropolitana milanese (l'abbiamo incontrato nel capitolo su Craxi), all'assicuratore Giancarlo Gorrini, a quelli che sarebbero stati i collettori di tangenti per la Dc e il Psi milanesi, Maurizio Prada e Sergio Radaelli. Chiodi definiva inoltre "amici del cuore" di Di Pietro due persone di cui si sarebbe parlato molto:
l'avvocato Giuseppe Lucibello e l'immobiliarista Antonio D'Adamo. Gorrini e D'Adamo, secondo Chiodi, erano stati invitati da Di Pietro a intervenire nel ripianamento dei debiti di gioco di un altro amico comune, il capo dei vigili urbani di Milano Eleuterio Rea. Quando "Il Sabato" pubblicò questa inchiesta, Di Pietro fu sommerso dalla generale solidarietà e si disse che dietro al dossier di Chiodi si nascondeva la mano di Bettino Craxi. Della storia non si parlava più da un anno e mezzo, quando, nell'ottobre del '94, il portiere dello stabile in cui abitava Ugo Dinacci consegnò al magistrato, insieme con la posta, una grande busta bianca. Anonima. Dentro c'era la fotocopia di una lunga lettera scritta a mano da Giancarlo Gorrini e un dossier di trenta pagine. Gorrini era stato il "patron" della compagnia d'assicurazioni Maa e s'era preso una condanna per appropriazione indebita e falso in bilancio: i magistrati gli avevano contestato uno spettacolare giro contabile che aveva prodotto all'azienda un buco di decine di miliardi. Nella lettera recapitata a Dinacci, Gorrini scriveva due cose. La prima: nell''89, aveva prestato a Di Pietro, attraverso il suo braccio destro Osvaldo Rocca, centoventi milioni (cento servivano alla ristrutturazione della casa di Curno dove il magistrato era andato ad abitare con la seconda moglie, l'avvocato Susanna Mazzoleni, e i figli del nuovo matrimonio; venti, invece, per l'acquisto di una Mercedes usata). La seconda: Di Pietro aveva sollecitato il suo intervento per ripianare i debiti di gioco di Eleuterio Rea, amico del magistrato dai tempi in cui questi faceva ancora il commissario di polizia e Rea dirigeva la Digos di Milano. [p. 334] Sia Dinacci sia il suo braccio destro Domenico De Biase giudicarono il dossier di Gorrini "robaccia" e dello stesso avviso fu il Guardasigilli Biondi, che non volle nemmeno vederlo e anzi condivise la proposta di non protocollarlo per il modo irrituale con cui era stato ricevuto. Di Pietro telefonò a Previti Il 21 novembre Silvio Berlusconi fu iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Milano. L'indomani, il ministro della Difesa Cesare Previti, che aveva reagito furibondo al sospetto di essere stato il piccione viaggiatore del dossier di Gorrini, telefonò a Dinacci comunicando che l'assicuratore chiedeva di essere ascoltato. Il 23 novembre, Gorrini confermò quello che aveva scritto e aggiunse succosi particolari: Di Pietro avrebbe partecipato nel '90
a una cena in casa di D'Adamo, presenti Rea, Rocca, Gorrini, Prada, Radaelli e addirittura il sindaco di Milano Pillitteri. In quell'occasione, il magistrato avrebbe sollecitato D'Adamo e Gorrini a soccorrere Rea, anche per un riguardo a Pillitteri che l'aveva nominato. Previti, che aveva anticipato a Dinacci l'arrivo di Gorrini, lo richiamò a nome di Di Pietro, che voleva inviare un testimone. Il ministro della Difesa e il simbolo di Mani pulite erano in eccellenti rapporti. Dopo essersi incontrati nel maggio del '94 nello studio legale di Previti, quando Berlusconi aveva proposto al magistrato di fare il ministro dell'Interno, i due si erano rivisti un'altra volta, in casa della sorella di Di Pietro a Ciampino, prima che lui abbandonasse la toga. E si sarebbero incontrati poi altre tre volte nel '95, due nello studio Previti la sera tardi e una a palazzo San Macuto, sede della Commissione stragi di cui Di Pietro sarebbe diventato consulente per interessamento di Cossiga. Il testimone caro a Di Pietro era Osvaldo Rocca. Nella testimonianza raccolta a verbale, questi disse che alla famosa cena Pillitteri non aveva partecipato e che D'Adamo e Gorrini avevano offerto aiuto a Rea di loro iniziativa, senza lo [p. 335] stimolo del magistrato. E i centoventi milioni ricevuti in prestito? Secondo Rocca, Tonino non sapeva che provenivano da Gorrini e comunque aveva provveduto a restituirli in tre rate tra il giugno e l'ottobre del '94. Perché questo ritardo?, chiese Marco Brando dell'"Unità" a Gorrini il 15 settembre 1995. Questa la risposta: "Intanto non era un prestito. Io [i soldi] glieli avevo dati quattro o cinque anni prima a fondo perduto. Ho aiutato tanta gente. Lui ne aveva bisogno per ristrutturare una casa. Poi, improvvisamente, dopo che ero stato dagli ispettori, arrivò Rocca che mi restituì i soldi". (Rocca disse, invece, di averlo fatto un mese prima dell'ispezione.) Ma Rocca non aveva affermato che Di Pietro non sapeva che i soldi erano di Gorrini? "Tutte palle" rispose l'assicuratore. "Qualcuno deve avergli detto nel frattempo di andare a raccontare quelle cose." D'accordo con il ministro Biondi, Dinacci decise di archiviare l'inchiesta. Era il 1o o il 2 dicembre, quattro o cinque giorni prima delle dimissioni di Di Pietro. L'abbandono della toga in diretta Tv accelerava intanto l'avvicinarsi al Golgota della via crucis di Nardi e degli altri ispettori impegnati a Milano. Accusato di essere il "killer" di Di Pietro, Nardi ricevette telefonate anonime e fax di minaccia. Suo figlio, magistrato a Trani, fu insolentito dai colleghi. Nardi e i
suoi decisero di dimettersi, dissuasi a fatica da Biondi. Finalmente, il 14 febbraio l'ispettore consegnò al nuovo Guardasigilli, Filippo Mancuso, una relazione di trecentocinquanta pagine rilegate con cartoncino grigio. Il Pool Mani pulite veniva assolto. A cose fatte, Nardi mi disse: "Se la grande stampa decide di attaccarti, sei morto. Bastano i titoli di cinque giornali ad ammazzarti". Cento milioni in una scatola da scarpe Torniamo ora ad Antonio D'Adamo (lo abbiamo lasciato nell'ottobre del '95 quando dovette smettere suo malgrado di cercare di convincere Berlusconi che Di Pietro stava dalla sua [p. 336] parte), che non voleva la sua incriminazione e via dicendo. D'Adamo è un pugliese che ha fatto fortuna a Milano, ha sposato una ricca contessa con villa sul Naviglio e ha lavorato per il Cavaliere in anni lontani. Nella Milano degli anni Ottanta, fu presentato a Di Pietro da Eleuterio Rea e ne diventò amico carissimo. Al punto, confessò in seguito a Berlusconi, da beneficarlo in ogni modo. Se Gorrini aveva svenduto a Di Pietro una Mercedes, lui gli aveva regalato una Lancia Dedra. In più, gli aveva concesso l'uso stabile di un pied-à-terre affacciato sul Duomo di Milano, badando a che il frigorifero fosse sempre ben fornito. Gli aveva messo a disposizione per lunghi periodi una suite al residence Mayfair di Roma, vicino a via Veneto, e biglietti Alitalia per raggiungerla. Di Pietro poteva inoltre vestirsi nel bel negozio Tincati di Milano: al conto provvedeva l'amico, che gli concesse anche un prestito di cento milioni. Alla fine del '94, il magistrato si ricordò di questo debito e lo restituì in contanti, mettendo le banconote in una scatola da scarpe di cartone che D'Adamo perfidamente consegnò ai procuratori di Brescia. ("Mi sono sempre domandato: perché Di Pietro ha fatto una cosa del genere?" mi dice D'Ambrosio alla fine del '99. "Perché non ha chiesto quei soldi a noi? I cento milioni di D'Adamo glieli avrei trovati in cinque minuti, magari con una colletta...") Quando queste notizie divennero di dominio pubblico, l'immagine di Di Pietro subì un durissimo colpo, peggiore di quello ricevuto con le rivelazioni di Gorrini. Il "patron" della Maa gli aveva dato del denaro contante, restituito cinque anni dopo, con l'ultima rata frutto degli anticipi su un libro che certo nell''89 il magistrato non immaginava di scrivere. E Rocca era pur sempre il braccio destro di Gorrini che era entrato nella Tangentopoli milanese tra il '92 e il '93. Perché il prestito non fu restituito subito? Perché è stato
concesso senza interessi? Quale banca non avrebbe accordato un mutuo a un magistrato, sposato per di più con un avvocato che svolgeva fiorentemente la professione (anche grazie alle cause passate da Gorrini e alle consulenze garantite da D'Adamo)? Con molta perfidia, Ernesto Galli della Loggia ricordò sul [p. 337] "Corriere della Sera" il tono sprezzante con il quale Di Pietro si rivolgeva ai percettori di tangenti: "Glieli davano avvolti nella carta i soldi? Erano cioccolatini?". Allora nessuno sapeva che il magistrato aveva restituito cento milioni a D'Adamo in una scatola da scarpe. Mi disse Berlusconi: "Sono convinto che Di Pietro abbia restituito i cento milioni a D'Adamo, che non si attendeva in alcun modo di riaverli indietro, non solo perché temeva gli ispettori del ministero, ma anche e soprattutto perché pensava di essere in procinto di diventare il presidente del Consiglio incaricato". Chi scrive ha già detto di essere poco convinto che a cavallo tra il '94 e il '95 esistessero ancora le condizioni per far nascere un governo Di Pietro (il Pds avrebbe controllato agevolmente il governo Dini senza mettersi nelle mani di un magistrato conservatore e del tutto imprevedibile). E' invece molto probabile che Di Pietro si sia visto nel giro di qualche settimana piombare addosso il rischio di pesanti sanzioni disciplinari che avrebbero distrutto il mito del cavaliere senza macchia e senza paura e pregiudicato in modo irreparabile qualunque aspirazione futura. Prosciogliendolo dalla richiesta di rinvio a giudizio formulata dai pubblici ministeri di Brescia Salamone e Bonfigli, il Gip bresciano Anna Di Martino - di cui tutto si può dire, tranne che non sia stata attenta alle ragioni del magistrato - scrisse: "Le vicende [cento milioni e Mercedes da Rocca/Gorrini] avrebbero potuto assumere legale apprezzamento solo sotto l'aspetto disciplinare, potendo apparire censurabile l'instaurazione di un prolungato rapporto debitorio con persone che, successivamente all'insorgere dello stesso, ebbero a entrare in relazione con l'ufficio di Procura di Milano". Ma la storia di Gorrini e la generosità di D'Adamo erano soltanto l'antipasto di grane ben più grosse per Di Pietro, che - occorre dirlo con chiarezza fin d'ora - tanti procedimenti ha subito e tante archiviazioni ha avuto. Anche sulla storia dei debiti di Rea, D'Adamo andò giù pesante. Interrogato a Brescia nell'estate del '97, disse: "Rea mi chiese dei soldi per ripianare debiti di gioco sui cavalli. In un [p. 338] primo momento ho cominciato a dare qualcosa, circa cinquanta milioni.
Successivamente, con l'intervento del dottor Di Pietro, che ha fatto rinunciare il dottor Gorrini ai suoi crediti verso Rea, mi sono accordato con Gorrini di dividerci il debito di Rea verso terzi per circa seicento milioni... La sistemazione dei debiti è avvenuta per le richieste fatte da Di Pietro e sotto la sua costante regia". Accertò il tribunale di Brescia: "Vi è stato un intervento di Di Pietro al fine di ottenere il consenso sia di D'Adamo sia di Gorrini per aiutare finanziariamente Rea". Anche qui nessun illecito penale, ma probabilmente la sezione disciplinare del Csm avrebbe storto il naso... Perché D'Adamo ha aiutato così generosamente Di Pietro, pur non avendo la fama di Babbo Natale che s'era fatto Gorrini? L'imprenditore fornì una spiegazione indimostrabile. Occorre ricordare che egli presentò al magistrato Maurizio Prada e Sergio Radaelli, rivelatisi poi i "cassieri" delle tangenti milanesi per la Dc e il Psi. Radaelli era anche membro del comitato esecutivo della Cariplo e Di Pietro ottenne da lui, come molte altre persone che contavano nella "Milano da bere", un appartamento a equo canone nel centro della città. Prada e Radaelli furono tra i primissimi a entrare nell'inchiesta Mani pulite, ma ne uscirono entrambi con il minimo disturbo. Radaelli fu arrestato il 5 maggio 1992, ma la sera stessa era già agli arresti domiciliari. Prada l'indomani, e andò agli arresti domiciliari dopo una notte trascorsa a San Vittore. Entrambe le indagini furono seguite da Di Pietro, e gli imputati furono difesi da Giuseppe Lucibello, molto amico del magistrato. Bettino Craxi, che aveva ancora qualche amico tra gli spioni, diffuse nel giugno del '95 alcuni tabulati della Sip. Il 1o maggio 1992, Di Pietro chiamò Lucibello quattro volte. Il 2 maggio, una volta, e un'altra volta fu Radaelli a chiamare l'avvocato. Il 3, Di Pietro chiamò tre volte sia Lucibello sia Radaelli. Il 4, Lucibello fu chiamato tre volte da D'Adamo e una da Di Pietro. Il 5, Radaelli fu arrestato e mandato a casa in giornata. Il 6, Lucibello fu chiamato tre volte da Radaelli, due da Di Pietro e una da D'Adamo. Mezz'ora dopo la chiamata di Di Pietro a Lucibello, quest'ultimo chiamò Radaelli. [p. 339] Si può capire che un imprenditore come D'Adamo facesse di tutto per rendersi la vita meno difficile. O almeno così disse di aver fatto. Quando venne fuori la storia dei soldi e degli appartamenti in uso a Di Pietro, le sue parole furono più o meno queste: alla fine degli anni Ottanta ho avuto la sensazione che Sergio Radaelli non fosse stato trattato male da Di Pietro
nell'inchiesta sulla Metropolitana milanese. Radaelli, disse D'Adamo, era un mio socio occulto e - quel che contava di più - era il "braccio armato" di Craxi e Pillitteri. E ammetteva, in sostanza: lui mi faceva lavorare, Di Pietro è stato gentile con lui, io sono stato gentile con Di Pietro. Naturalmente, quest'ultimo negò con vigore di essere mai stato gentile con Radaelli e la spiegazione di D'Adamo si ripiegò su se stessa come un fiore senz'acqua. Arrivò Pacini Battaglia. Senza posate Quando D'Adamo snocciolò l'elenco dei favori fatti a Di Pietro, l'ex magistrato non smentì. Diventò invece una furia - e si può capirlo - quando l'imprenditore gli assestò quello che era di gran lunga il colpo più duro (e che restò anch'esso processualmente indimostrato). Il colpo riguardava un'altra persona: Pierfrancesco Pacini Battaglia, l'uomo chiave di Tangentopoli, i cui segreti - alla fine del secolo e nonostante decine di indagini di molte procure - sono ancora in larga parte da scoprire. Pacini Battaglia è un toscanaccio di Bientina (in provincia di Pisa) che alla fine del secolo ha compiuto sessantacinque anni. Parla come mangia, e mangia senza posate. Nonostante queste ruvide abitudini, ha amicizie potentissime: prima tra tutte quella con Susanna Agnelli, sua vicina di casa all'Argentario, che ha frequentato con grande assiduità fino ad anni recenti. Se i magistrati di Milano lo hanno collocato "un gradino sotto Dio", vuol dire che Pacini Battaglia con i soldi faceva quello che gli pareva. Ha più dimestichezza con i miliardi che con le parolacce, e di parolacce ne ha dette oltre [p. 340] l'immaginabile. Come abbia fatto i soldi è un mistero. Li ha fatti in Svizzera, la sentina della finanza internazionale, di cui acquisì anche la cittadinanza. E li ha fatti non appena si è trasferito là. La sequenza è impressionante. 1980: trasferimento a Neuchâtel e avvio di un'azienda che produceva etichette per bottiglie. 1981: inizio di un'importante attività finanziaria. 1985: la sua società finanziaria diventa la famosa Banca Karfinco. Tra l''87 e il '92, la Karfinco ha dispensato per conto dell'Eni tangenti per un centinaio di miliardi ai partiti italiani e a tanti illustri signori, politici e imprenditori. E' chiaro che il segugio Di Pietro non poteva non mettere Pacini Battaglia in testa alla lista dei "catturandi", come si dice in gergo
poliziesco. E, invece, il trasferimento di Pacini Battaglia dalla Svizzera a Milano (e ritorno) fu comodo come la marcia su Roma di Mussolini, che ci andò in vagone letto. "Ho avuto garanzie che vado e torno con le mie gambe" disse alla moglie annunciandole il breve disturbo della trasferta italiana. E poiché Di Pietro e Ghitti sono uomini di parola, così fu. Pacini Battaglia entrò in Italia il 10 marzo 1993, incontrò i due magistrati in una caserma, venne formalmente arrestato, depose, raccontò parecchie cose sull'Eni e se ne tornò a casa. Chi nominò come difensore? L'infaticabile avvocato Lucibello, la cui fama aveva evidentemente superato i confini nazionali. Un Beccaria? Un Calamandrei? Un Carnelutti? Un Porzio? Ma no, disse qualche anno più tardi Pacini Battaglia ai magistrati di Brescia, meglio un avvocato sveglio e in contatto con la procura che un principe del Foro. (Il povero Lucibello, come spesso accade, ha assunto in questi anni una fama che andrebbe equamente divisa con altri principi milanesi del Foro il cui fatturato professionale dell'ultimo decennio è sufficiente a garantire generazioni per il "millenium adveniens". Ma questo è un altro discorso.) Come vedremo più avanti, la memoria di Pacini Battaglia è simile a un computer: apre soltanto i file sui quali il titolare clicca. E nell'incontro con Di Pietro e Ghitti, lui cliccò soltanto su una parte dell'Eni, dimenticando (cioè salvando) l'altra. [p. 341] Di Pietro, che s'è sempre astenuto nei processi che riguardavano D'Adamo, disse ai magistrati di Brescia: "Allorché venne emesso il mandato di cattura nei confronti di Pacini Battaglia, io proprio per evitare accuse di favoritismi, chiesi agli altri colleghi del Pool che gestissero direttamente loro i contatti con l'avvocato Lucibello". Salamone e Bonfigli ritennero invece che Di Pietro lo avesse interrogato più volte alla presenza di Lucibello, ma ognuno è rimasto sulle proprie posizioni. Pacini Battaglia è tuttavia un uomo fortunato, oltre che altolocato, e vide scomparire il proprio nome da un'altra inchiesta scottante: lo spettacolare giro di tangenti che gravitavano intorno alla cooperazione italiana con i paesi del Terzo mondo. Poiché il ministero degli Esteri si trova a Roma, la competenza sull'inchiesta era romana. Se ne occupava infatti il pubblico ministero Vittorio Paraggio. Di Pietro gli scrisse, però, che anche lui stava lavorando allo stesso processo e fece presente che era utile evitare "inopportune sovrapposizioni" ("Il Messaggero", 16 ottobre 1996). Molti magistrati, con l'esclusione di un paio di donne, di fronte a Di Pietro si comportarono come i figli del contadino quando arriva il
figlio del barone: se stanno giocando con la palla, la lasciano a lui. Così, Paraggio cancellò il nome di Pacini Battaglia dall'elenco degli indagati e trasmise il fascicolo a Milano. Arrivarono mai quelle carte a destinazione? Sta di fatto che Pacini Battaglia uscì dall'inchiesta romana, senza mai entrare in quella milanese. "M'ha sbancato." O no? Nel settembre del '96, Pacini Battaglia si accorse che la collaborazione con la procura di Milano non era un'assicurazione kasko, cioè a copertura totale. Fu infatti arrestato insieme con l'avvocato Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, uomo di notevole fascino intellettuale, fino a quel momento uno dei potenti d'Italia. Per farsi bello con [p. 342] un suo compare, Pacini Battaglia aveva inguaiato l'amico in una delle sue famose conversazioni telefoniche intercettate: "E poi vogliamo parlare di chi ha salvato Lorenzo da Tangentopoli? Io e soltanto io. Ora ti racconto. Doveva essere interrogato Sergio Cragnotti. Gli telefono. Gli dico: ahò, scordati di quella mazzetta di sei miliardi divisa con Lorenzo e finita alla Karfinco, mi raccomando. Non ho mai creduto che lo facesse. E infatti non l'hanno portato nemmeno in cella che già vomitava la storia. E chi è che lo ha contraddetto? Io. A chi ha creduto il Pool? A me. Sono stato io ad aver salvato Necci, ricordatelo...". Quando Pacini Battaglia fu arrestato, durante una perquisizione fu trovata nei suoi uffici un'informativa di reato del nucleo di polizia giudiziaria della Guardia di finanza di Milano che a suo tempo era stata inviata a Di Pietro. C'erano notizie di reato e accuse all'allora amministratore delegato dell'Eni, Franco Bernabè. (Bernabè era stato sentito come teste per le mazzette dell'Eni. Scrive Filippo Facci in Di Pietro. La biografia non autorizzata, Mondadori, 1997: "[Bernabè] compare al processo Enimont... Ha chiesto di non essere ripreso. E dei verbali che lo chiamavano in causa, nessuno gli chiede niente. Della maxitangente da 152 miliardi, spiega a Di Pietro, non ha mai saputo nulla. Dei fondi neri, invece, nulla. Arrivederci. Se ne va. Forse non c'è mai stato. Forse non l'hanno interrogato. Bernabè? Hanno interrogato Bernabè?".) Altra intercettazione, 11 gennaio 1996. Disse Pacini Battaglia: "Quando hai bisogno te l'ho detto, qui c'è una cassa aperta... Cioè, ti spiego. Noi siamo usciti, voi siete usciti da Mani pulite o io sono uscito da Mani pulite perché s'è pagato, non cominciamo a rompere i coglioni: quelli più bravi di noi non ci sono nemmeno
entrati [Pacini Battaglia avrebbe spiegato che si stava riferendo a Bernabè], forse se io avessi studiato la strada prima non sarei nemmeno entrato in Mani pulite". Ancora, a proposito di Di Pietro e Lucibello: "Se li arrestano per me è solo un piacere... perché a me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato, te lo dico perché so che non lo riferirai a nessuno". [p. 343] Sapeva di essere intercettato Pacini Battaglia? Forse sì, forse no. Qualche volta forse sì, qualche altra forse no. Lo "sbancato" diventò "sbiancato", "stangato", "stancato". Poi tornò a essere quello che era: sbancato, appunto, ma Pacini Battaglia chiarirà che non voleva dire quello che aveva lasciato capire. Disse, infatti (altra intercettazione): "Io a Di Pietro non glieli ho dati", mentre rivela le enormi cifre pagate a Lucibello. Ai procuratori di Brescia spiegò di essersi riferito alla severità processuale di Di Pietro (ma allora perché "quei due"? Anche Lucibello faceva le indagini?). L'unico contatto inequivocabile - anche se indiretto - tra Pacini Battaglia e Di Pietro restò una scheda svizzera per cellulari Gsm non intercettabile in Italia. Pacini Battaglia acquistò un certo numero di queste carte in Svizzera e le intestò al suo autista che normalmente pagava le bollette. Alcune carte andarono a Lucibello, due a Cesare Previti, una a Emo Danesi e una ad Antonio Di Pietro. Questi si dimise a tutti gli effetti dalla magistratura soltanto nell'aprile del '95. Fu interrogato dai pubblici ministeri di Brescia una prima volta nel febbraio e una seconda nel luglio di quello stesso anno. Tra l'una e l'altra convocazione smise di usare la scheda Gsm di Pacini Battaglia. E quest'ultimo negò di avergliela mai data. "Io le ho date a Lucibello" disse. "Che ne so a chi le ha date il mio avvocato?" Veniamo alla deposizione di D'Adamo, che fece infuriare Di Pietro come non s'era mai visto. Nel '93, la D'Adamo Editore - che si occupava prevalentemente di testi scolastici - andava malissimo e aveva bisogno di ossigeno. Tra i più generosi "fornitori" su piazza c'era Pacini Battaglia che versò a D'Adamo nove miliardi (senza solide garanzie di restituzione) per acquisire il controllo di un'azienda decotta. Ma i pozzi senza fondo sono appunto senza fondo e così D'Adamo chiese altri tre miliardi. Pacini Battaglia li versò e un suo uomo, delegato al controllo dell'azienda, se li vide sparire sotto il naso. Allora Pacini Battaglia disse a D'Adamo di restituirgli i nove miliardi (agli ultimi tre aveva rinunciato) e di riprendersi la casa editrice, ma quello gli rispose che non li [p. 344] aveva. Si impegnò a restituirgliene quattro e mezzo, ma di fatto non
andò oltre i duecento milioni. Perché Pacini Battaglia s'accontentò di quattro miliardi e mezzo (che per altro non rivide) quando vantava un credito di nove? Perché D'Adamo sostiene di essersi accordato con lui per tenere l'altra metà a disposizione di Di Pietro. Apriti cielo. Pacini Battaglia negò. Di Pietro andò su tutte le furie e a poco servì l'assicurazione di D'Adamo che, in effetti, poi al magistrato lui non aveva dato una lira. Questa storia venne fuori nella sua interezza nell'estate del '97, quando D'Adamo ripeté davanti ai procuratori di Brescia quel che aveva raccontato a Berlusconi (e che uomini del suo giro avevano prudentemente provveduto a registrare). Non si è mai capito perché Pacini Battaglia, che ne sa una più del diavolo, sia andato a perdere dodici miliardi in un'azienda decotta (disse di essere interessato a certi affari petroliferi di D'Adamo, ma insomma...), e perché D'Adamo andò a invischiarsi in una denuncia che non è riuscito a dimostrare. Tanto che Di Pietro - indagato dai magistrati bresciani per corruzione e concussione - ebbe soddisfazione anche su quest'ultimo punto, ottenendo dal Gip l'archiviazione del caso. Di Pietro tra Prodi e Tremaglia Tra un'inchiesta e l'altra, Di Pietro aveva fatto in tempo a diventare ministro dei Lavori pubblici nel governo Prodi e a dimettersi pochi mesi dopo. Abbiamo visto come, fin dal '95, avesse deciso di utilizzare l'enorme popolarità acquisita con l'inchiesta Mani pulite per dedicarsi alla vita politica. Aveva mantenuto buoni contatti sia a destra sia a sinistra. Nel '94, con la toga ancora addosso, aveva incontrato in segreto Gianfranco Fini nell'ufficio per gli italiani all'estero che Mirko Tremaglia aveva in largo Chigi. Poi, all'inizio del '95, si era visto - sempre in segreto - con Berlusconi ad Arcore. Il primo incontro di Di Pietro con personalità del centrosinistra avvenne il 5 ottobre 1995 a Firenze, [p. 345] dove pranzò con Prodi e Veltroni. Un mese dopo, l'11 novembre, altro pranzo segreto con Prodi, stavolta a Bologna. Il 17 novembre, Prodi accettò di presentare a Bologna il mio libro di quell'anno, Il duello. Annunciò che l'Ulivo aveva rotto con la Lega, e a proposito di Rifondazione rispose con quella che si sarebbe rivelata per lui (e per il centrosinistra) una provvidenziale bugia. Scrisse Vittorio Monti sul "Corriere della Sera": "[Prodi] assicura che con Bertinotti non ci ha nemmeno provato: "Credetemi, non ho mai
pensato di accordarmi con Rifondazione comunista. Del programma abbiamo parlato appena venti secondi". Ma la famosa desistenza? "Non so nemmeno cosa sia, non mi riguarda."". Prodi parlò anche - e molto - di Di Pietro. Riferì Michele Smargiassi sulla "Repubblica": "Insomma l'abbraccio tra l'uomo del Pullman e il signore dalle Mani pulite è ormai cosa fatta, Prodi ci mette ancora qualche cautela: "Di Pietro non ha ancora deciso", però "stiamo lavorando fortemente e seriamente sul programma": e quel programma "è il programma dell'Ulivo". A questo punto Bruno Vespa... prova ad avere di più: "Stai dicendo che Di Pietro, dopo aver trattato con Fini, Berlusconi e Casini è ormai un uomo del centrosinistra?". Prodi, evangelico: "Tu l'hai detto... Il processo non si è ancora concluso, ma è partito con lealtà"". I giornali spararono la notizia e Di Pietro si arrabbiò. Disse a Pietro Colaprico della "Repubblica": "Questo Prodi la deve smettere di giocare con Di Pietro che sta con l'Ulivo. Di Pietro è Di Pietro". Poi fece un esame pubblico al Professore rivolgendogli, sempre sulla "Repubblica", otto domande sulla linea politica dell'Ulivo, alle quali Prodi rispose in modo affermativo, accettando anche il presidenzialismo (cosa che poi D'Alema gli ricorderà perfidamente quando il Professore tuonerà contro questa ipotesi di accordo con il Polo). La raffica di richieste di rinvio a giudizio che la procura di Brescia gli sparò addosso alla fine di quell'anno (e dalle quali sarebbe stato prosciolto l'anno successivo, all'immediata vigilia delle elezioni politiche di primavera) indusse Di Pietro a non candidarsi. Dai verbali emergevano intanto frasi [p. 346] ambigue, come il progetto di "esportare Mani pulite nel mondo" e l'intenzione di "raccogliere prove sul gruppo Berlusconi, lasciando ad altri la fase dibattimentale". E Di Pietro: "Che falsità accusarmi di aver fatto Mani pulite per ambizione...". Nonostante il rapporto ormai consolidato con il centrosinistra, l'ex magistrato teneva un piede anche a destra. Qualche giorno prima delle elezioni del '96, il 13 aprile, incontrò (di nuovo in segreto) Gianfranco Fini nell'abitazione bergamasca di Mirko Tremaglia. Di Pietro garantì che prima delle elezioni non avrebbe preso posizione per nessuna parte politica (e mantenne la promessa). Fini ricambiò dicendo che un'eventuale vittoria del Polo non avrebbe portato automaticamente Berlusconi a palazzo Chigi e tenne calda così una possibile candidatura ministeriale di Di Pietro. Il leader di An uscì peraltro dal colloquio convinto che l'ex magistrato avrebbe fondato
un proprio movimento. Per fare che cosa? Rispose dopo le elezioni l'avvocato Vittorio D'Aiello, amico di Di Pietro: "Più che conquistare Forza Italia, Di Pietro vuole conquistare il suo elettorato. E qui scatta l'ipotesi più probabile: Tonino crea un suo movimento e fa saltare il quadro politico... raccogliendo prima i moderati del Centro e poi pensando a un accordo con An". Il 1o maggio, incontrando in casa propria a Curno Mirko Tremaglia, Di Pietro sembrava andare in questa direzione: "Perché non facciamo un Polo B?" chiese all'ospite. Cioè? "C'è sempre il problema di creare una posizione centrale, moderata, che possa poi allearsi con An. Dobbiamo togliere le etichette e fare una formazione unica." Mandando a casa Berlusconi, naturalmente. Erano le 16. Alle 18,30, Di Pietro faceva capire che sarebbe entrato nel governo Prodi. L'indomani mattina, 2 maggio, chiamò al telefono Francesco Merloni, ministro dei Lavori pubblici nei governi Amato e Ciampi, per chiedergli chiarimenti sul funzionamento del ministero. Soddisfatto delle referenze, accettò la proposta di Prodi, dopo aver fatto una dichiarazione pubblica di fedeltà all'Ulivo, impostagli da D'Alema. Vittorio Feltri infierì a tavola con [p. 347] Tremaglia. "Se Di Pietro non fosse stato un opportunista" gli disse "avrebbe incastrato anche i comunisti e i pidiessini. Invece ha colpito qualche scartina, ma ha risparmiato i carichi." Secondo il racconto di Feltri, "Mirko rischiava di esplodere nella giacca sempre più stretta". E si sfogò con una lettera aperta al "Giornale": "Sono stato fregato. Il mio non è stupore, ma una grande amarezza con rabbia". "Sono una persona..." "La notte, le luci dell'ufficio di Di Pietro sono sempre accese. I romani che mangiano il gelato sotto Porta Pia guardano il ministero illuminato e, cinici come sono, scuotono le spalle: "Se crede già d'esse er duce". In realtà, crede di essere Di Pietro: l'uomo di Mani pulite, dice agli altri quando parla di sé. Infatti, non fa finta." Così, sulla "Stampa" del 29 maggio 1996, Massimo Gramellini ritrasse il nuovo ministro. Di Pietro aveva chiesto di entrare nel gabinetto Prodi prima come vicepresidente del Consiglio, poi come ministro dell'Interno. Gli avevano offerto i Lavori pubblici e aveva accettato. Per sei mesi fu un ciclone. I giudizi favorevoli furono compensati dalle critiche, soprattutto di alcuni colleghi di governo che non ne apprezzavano lo stile irruento e personalistico. Lui, che aveva mandato in galera il gotha dei costruttori italiani, promise che avrebbe riaperto i cantieri. Quando andò all'assemblea dell'Igi,
che raggruppa le grandi imprese, cedette la poltrona a Franco Nobili, l'ex presidente dell'Iri che rappresentava la Vianini: Di Pietro nel '93 lo aveva lasciato in prigione per i novanta giorni regolamentari (Nobili fu mandato d'urgenza agli arresti domiciliari dopo il suicidio di Cagliari). Mentre parlavano di costruzioni, Nobili aveva nel portafoglio una copia dell'interrogatorio di Di Pietro e Ghitti, avvenuto soltanto trentuno giorni dopo l'arresto. Quindici righe di verbale in cui lui escluse di sapere nulla di fondi neri. Quando, nel novembre del '96, la procura di Brescia aprì su Di Pietro una nuova indagine (Pacini Battaglia aveva detto: [p. 348] "Quei due m'hanno sbancato"), il ministro scrisse da Istanbul una durissima lettera di dimissioni dal governo che fece recapitare a Prodi dalle agenzie di stampa, rendendosi irreperibile ("Signor Presidente, il tiro al piccione continua perché mi si deve far pagare a ogni costo di aver fatto fino in fondo il mio dovere. A questo punto dico: basta!". Seguirono altri sei "basta!", in tredici righe). Pochi giorni dopo, all'alba, duecentotrenta finanzieri fecero contemporaneamente sessantotto perquisizioni in sette regioni italiane. Furono visitati tutti i possibili domicili di Di Pietro e anche quelli di Lucibello, Prada, D'Adamo. Fu perquisita l'abitazione del maresciallo Salvatore Scaletta, il più stretto collaboratore di Di Pietro. Il "Corriere della Sera" ricordò che Scaletta aveva raccolto le confidenze di Pacini Battaglia fuori verbale e si parlò da allora dell'uso del finanziere italosvizzero come fonte confidenziale del Pool, che gli avrebbe garantito tre anni di pace, tra il '93 e il '96, fino agli arresti decisi da La Spezia. (Di Pietro ha sempre ribattuto alle accuse di presunti favoritismi ricordando che per chiedere il rinvio a giudizio di Pacini Battaglia era tornato in ufficio il 7 dicembre 1994, il mattino dopo essersi tolto la toga in diretta Tv.) Gli uomini della Finanza non trovarono Di Pietro in nessuna delle sue abitazioni. L'eco delle perquisizioni fu enorme, anche perché la moglie e i figli del magistrato furono svegliati traumaticamente all'alba. Si scrisse che tanta spettacolare violenza era inutile. Si replicò che Di Pietro aveva sconvolto la giornata di tante famiglie nello stesso modo. Quando chiesi al procuratore di Brescia, Giancarlo Tarquini, se quel film di massa fosse indispensabile, mi rispose: "Le perquisizioni, se non sono fatte così, non hanno senso". Il 17 dicembre 1996, la nemesi colpì ancora Di Pietro al processo di Brescia in cui era parte lesa. Scrisse sul "Corriere" Luigi Corvi: "Un Tonino mai visto, quasi impaurito e smarrito davanti al
tribunale, alla fine è costretto ad andarsene senza poter leggere, come chiedeva, una breve spiegazione del perché si avvale - come fecero decine di suoi inquisiti - della facoltà di non rispondere". La televisione, che tante volte aveva [p. 349] mostrato i trionfi di Di Pietro e l'umiliazione dei suoi imputati, quella volta fu impietosa con lui. Ai ripetuti inviti a chiarire se voleva rispondere o no alle domande del presidente, Di Pietro cercò di replicare leggendo il suo foglietto. Finché il presidente concluse: "Sì o no, dottor Di Pietro?". E lui, pallido e incerto: "Non... non... Mi perdoni... No, non... Sono una persona". Già, una persona. Quando in un'aula di giustizia non si ha il coltello dalla parte del manico, tutti diventano "persone". Anche Antonio Di Pietro. [p. 350] XII: L'Ulivo in fiore del '96 E Mancuso offrì il petto Filippo Mancuso fu il quarto ministro della Giustizia "fucilato" dal Pool di Milano. Martelli fu dimissionato da un avviso di garanzia, Conso e Biondi videro affondare i propri decreti su Tangentopoli nel disprezzo dei magistrati di Mani pulite e della pubblica opinione, Mancuso offrì il petto al plotone d'esecuzione replicando le ispezioni ministeriali che non avevano certo portato bene al suo predecessore. Al Guardasigilli del governo Dini, che era stato un inflessibile e temutissimo procuratore generale a Roma, non era andata giù la lettera con cui Borrelli aveva accolto gli ispettori di Biondi, chiedendo al Csm se poteva incriminarli. "Un enorme caso di abuso continuato della posizione d'ufficio": così il ministro aveva bollato la lettera, avviando il procedimento disciplinare. Nemmeno lui aveva capito che Borrelli e i suoi sono come la Mummia protagonista di un kolossal cinematografico che avrebbe avuto grande successo nell'autunno del '99: un'entità soprannaturale di straordinario potere distruttivo contro cui nulla possono i normali mezzi di difesa inventati dall'uomo. E infatti, partita nel maggio del '95, l'azione disciplinare di Mancuso fu bocciata dal Csm nel settembre successivo. L'intraprendente ministro fece di più: dopo aver dato degli incapaci agli ispettori mandati da Biondi a Milano, inviò un nuovo manipolo destinato anch'esso a non cavare un ragno dal buco. Quattordici i punti dell'ispezione, di cui un [p. 351] paio segnalati a Mancuso da quel Nardi che a Milano s'era fatto la sua infelice
esperienza, pur dando del Pool un giudizio complessivamente positivo: come un bambino che, costretto a bere un flacone di olio di ricino, ne esalti alla fine il delizioso sapore di Coca-Cola. Il primo dei due punti controversi riguardava i Gip che dovevano pronunciarsi sui provvedimenti richiesti dalla procura. Gli uomini di Borrelli facevano confluire tutte le inchieste di Tangentopoli in un unico filone: esse finivano perciò a un solo giudice per le indagini preliminari. Da quando Italo Ghitti se n'era andato al Csm, il suo posto era stato preso da Andrea Padalino, da soli tre anni in magistratura, catapultato dal tribunale del lavoro di Monza a occuparsi dei processi più delicati. Era normale tutto questo? Era un caso che non si ricordassero feroci duelli tra il giovanotto e i superprocuratori sull'interpretazione delle garanzie processuali? "E' come se un giovane segretario di legazione dovesse giudicare i rapporti di ambasciatori di rango" scrisse scettico Sergio Romano su "Epoca". Ma quando girai l'obiezione a Borrelli, egli mi rispose che i giovani magistrati sono in realtà assai ardimentosi e si fanno un punto d'onore di contrastare i grandi procuratori. Dove e quando questo sia accaduto con Padalino sarà compito degli storici accertarlo. L'altro punto segnalato da Nardi a Mancuso era la sensazione che Mani pulite non usasse nei confronti del Pci-Pds la stessa inflessibile costanza investigativa mostrata nei confronti dei partiti di governo. E citò il caso Greganti di cui ci siamo già occupati. Le iniziative di Mancuso suscitarono le proteste della sinistra. Il governo Dini si reggeva sulle stampelle offertegli da D'Alema: era tollerabile che il suo Guardasigilli si comportasse in modo così scopertamente provocatorio? Non lo era. Cesare Salvi, presidente dei senatori del Pds e uomo chiave del partito per le questioni della giustizia, mise Mancuso nel mirino. Dini cercò di sottrarlo, evitando il dibattito parlamentare, che invece il ministro, al quale l'odore del sangue fa l'effetto d'un afrodisiaco, pretese, uscendone poi sfiduciato in diretta televisiva. Mancuso commise l'errore di non leggere alcune [p. 352] pagine della sua relazione: si seppe poi che accusava il presidente del Consiglio Dini di aver secretato le accuse del Guardasigilli sulle iniziative secessionistiche di Bossi, temendo una crisi di governo. Ma quel gesto fu interpretato come un segnale obliquo e Mancuso non ne uscì bene. Il Polo difese il ministro e presentò una mozione di sfiducia che fu bocciata. Berlusconi contava sulla vecchia promessa di Fausto
Bertinotti che si diceva pronto ad allearsi anche con il diavolo pur di mandare a casa Dini. Ma la notte precedente il voto di fiducia, D'Alema e Veltroni fecero intravedere al leader di Rifondazione una guerra senza quartiere città per città, fabbrica per fabbrica, casa per casa. Bertinotti s'astenne e Dini si salvò. D'Alema disse a Letta... Si era ormai al 26 ottobre 1995. Il presidente del Consiglio aveva portato a casa in agosto - e con la soffertissima astensione di Forza Italia - una riforma delle pensioni che era assai più debole di quella da lui sostenuta con le lacrime (di rabbia) agli occhi quand'era ministro del Tesoro del governo Berlusconi. D'altra parte, questa è la vita. Per ottenere l'astensione di Bertinotti sulla fiducia aveva promesso solennemente alla Camera che alla fine dell'anno se ne sarebbe andato: e così fece. Il 30 dicembre portò in un sol colpo a Scalfaro gli auguri per l'anno nuovo e le dimissioni del governo. Il capo dello Stato gli concesse quel rinvio alle Camere che aveva negato a Berlusconi, perché decidessero sul da farsi. E il da farsi non era per niente chiaro. Fin da novembre, entrando per la prima volta in casa di Maria Angiolillo e incontrandovi naturalmente Gianni Letta, D'Alema aveva fatto capire di essere disponibile a un governo "di larghe intese" che traghettasse l'Italia dalla Prima alla Seconda Repubblica, favorendo un'ampia intesa sulla riforma della Costituzione. All'antivigilia di Natale, Letta convinse Berlusconi a dare il via libera, e il 17 gennaio si misero al [p. 353] lavoro nel più assoluto riserbo quattro professori d'università prestati ormai irreparabilmente alla politica: Giuliano Urbani (Forza Italia, delegato al federalismo), Franco Bassanini e Cesare Salvi (Pds, delegati rispettivamente alle garanzie e al ruolo del Parlamento), Domenico Fisichella (An, delegato a studiare la forma di governo). I quattro lavorarono di buona lena e con una sorprendente volontà di mettersi d'accordo. Poiché Fini guardava con grande sospetto alla cosa, Fisichella si premurò di tenerlo costantemente informato. Il 22 gennaio, i quattro concordarono una complicatissima bozza di accordo stilata materialmente da Fisichella (che si sentiva cucito addosso più degli altri il passato accademico) e riassunta in un documento di sei pagine e una riga. "Questo testo è riservato ai leader" avvertì Urbani. "Poi dovremo tradurlo in due paginette per la comunicazione." In poche parole, l'accordo prevedeva quanto segue.
Il 90 per cento dei seggi dei deputati sarebbe stato eletto con il sistema in vigore per il Senato (tre quarti con il sistema uninominale maggioritario). Il restante 10 per cento sarebbe stato attribuito alla maggioranza per renderla inattaccabile. Il capo dello Stato avrebbe limitato le proprie funzioni alla pura garanzia costituzionale, mentre primo ministro sarebbe diventato il capolista della coalizione vincente. La sfiducia al presidente del Consiglio avrebbe comportato la caduta del governo e il presidente sfiduciato non avrebbe potuto ricandidarsi nelle nuove elezioni. I partiti avrebbero potuto sostituire senza elezioni il premier che si fosse dimesso spontaneamente. Le elezioni sarebbero avvenute con il doppio turno, ma su questo esisteva una riserva del Polo. Accordo bocciato. Anzi, no La sera del 22 gennaio, Urbani consegnò la sua copia dell'accordo a Berlusconi (che ottenne un primo assenso telefonico da Casini, Mastella e Buttiglione). Nelle stesse ore, Salvi e Bassanini informarono D'Alema. Fini era influenzato e [p. 354] ricevette il documento la mattina del 23 gennaio. Lo scorse senza entusiasmo ("Non ci si capisce niente") e ne fece quattro copie per Taradash, Calderisi, Vito e Nania. Il 24 gennaio, il documento fu pubblicato a sorpresa dal "Giornale", accompagnato da un articolo di fondo di Vittorio Feltri che ne celebrava il "de profundis". Da Forza Italia e dal Pds il documento non poteva essere uscito perché la pubblicazione - nei termini in cui poi è avvenuta - ne avrebbe garantito la bocciatura. Tutti i sospetti si appuntarono perciò su uno dei quattro destinatari delle fotocopie distribuite da Fini. Fisichella, sdegnato per il processo al quale lo sottoposero i suoi, si dimise dal partito e fu riacciuffato per i capelli da Fini, che pure considerava la bozza inaccettabile. Ma quando la commissione si rimise al lavoro con l'aggiunta di D'Onofrio, che rappresentava Ccd e Cdu, il professore fu sostituito dal più duro e "politico" Domenico Nania. Il nuovo gruppo di lavoro nel giro di una settimana raggiunse l'accordo su una base completamente diversa dalla precedente. Stavolta bastarono undici righe e mezza. Un furioso scambio di fax tra Salvi e Urbani consentì di sistemare in poche ore le ultime parole del documento che portava il titolo: Per una riforma della Costituzione repubblicana (parte II) secondo lo schema della Quinta Repubblica francese. La sinistra, dunque, s'era rassegnata ad accettare una forma pur
morbida e attenuata di quel presidenzialismo che sempre, nella sua storia, aveva con ostinazione combattuto. Il presidente della Repubblica sarebbe stato eletto anche in Italia direttamente dal popolo a suffragio universale. Avremmo avuto un "sistema semipresidenziale con l'attribuzione al presidente della Repubblica dei poteri previsti dal titolo secondo della Costituzione francese, salvo l'indizione dei referendum, e con una equilibrata divisione di posizioni costituzionali tra governo e Parlamento". Venivano soddisfatte in questo modo le aspirazioni storiche di An: Almirante, all'inizio di ogni legislatura, presentava un disegno di legge costituzionale per l'elezione diretta del capo dello Stato. Sapeva che nessuno l'avrebbe mai discusso, ma almeno si metteva a [p. 355] posto la coscienza. Il presidenzialismo era dal '94 una bandiera del Polo e così era soddisfatto anche Berlusconi, che sperava segretamente di abitare un giorno al Quirinale. Il centrosinistra era d'altra parte garantito dal ridimensionamento dei poteri del nuovo capo dello Stato e dal mantenimento delle garanzie parlamentari che sono il nerbo della Costituzione del '48. Il Polo aveva inoltre fatto qualche concessione sulla legge elettorale. L'accordo prevedeva infatti "collegi uninominali maggioritari a doppio turno [forse con ballottaggio fra candidati di coalizioni di governo alternative], più una quota di seggi [15-20 per cento] da assegnare mediante ripartizione proporzionale". Il 30 gennaio 1996 fu una giornata lunghissima. Nell'arco di dieci ore, la bozza definitiva fu scritta, sottoposta ai leader interessati e accettata. Alle 20, Berlusconi la lesse a D'Alema, che si dichiarò d'accordo, ma volle assicurarsi che lo fosse anche il presidente di An. "Non posso" disse "tener fuori da un'intesa Bertinotti e Fini." Quest'ultimo, invitato a cena dal Cavaliere, accettò. Berlusconi chiamò al telefono D'Alema con il viva voce in modo che tutti potessero ascoltare. L'intesa era fatta. Quella notte stessa, Urbani poté annotare felice sul suo diario: "Il dato è tratto". E Prodi scrisse: "No" Raggiunte le "larghe intese costituzionali" occorreva un governo che vi corrispondesse. Vennero esaminate quattro candidature alla presidenza del Consiglio. Dini fu bocciato dal Polo. "E' l'uomo di Scalfaro" ruggì Fini, e bastò. Ciampi fu bocciato da D'Alema. Era il nemico storico di Dini e sostituire l'uno con l'altro avrebbe inferto all'uscente un dolore che il capo del Pds voleva risparmiargli. Amato andava bene alle due parti, ma D'Alema, che pure gli era amico,
dovette scartarlo temendo reazioni da Hammamet, dove il fantasma di Craxi era pur sempre in agguato. [p. 356] Restava Maccanico, che andava bene a tutti. Era stato segretario generale della Camera e del Quirinale e per un breve periodo anche alla guida di Mediobanca. Le sue attitudini mediatorie erano indiscusse. "E' capace di mettere d'accordo due sedie vuote" si diceva di lui. ("Purtroppo, le trovai piene" mi confessò mesto dopo il fallimento del suo tentativo.) Letta andò di persona a comunicargli l'intesa sul suo nome e si tirò dietro segretamente Fini, che ha l'ufficio proprio sotto l'appartamento di Maccanico e poté salirvi senza che nessuno lo sapesse. Il presidente di An fu tuttavia profetico: "Ho accettato di far partire questo tuo tentativo" disse al candidato "per dimostrare che anche tu, cioè l'unica persona in grado di provare seriamente, alla fine non ce la farai". L'indomani, 1o febbraio 1996, Maccanico salì al Quirinale per ricevere l'incarico. Mentre la lira consolidava le sue quotazioni sui mercati internazionali e la Borsa guadagnava punti su punti, a pochi passi dal palazzo dei papi, nel piccolo ufficio che l'Ulivo aveva aperto in largo di Brazzà, Romano Prodi scriveva: "No". La negazione messa in cima al comunicato era una perfida idea del suo portavoce Silvio Sircana. "Non si dovrebbe mai avviare un discorso con una negazione" scrisse "ma non esiste altra parola per esprimere il mio rifiuto." Quale rifiuto? Le larghe intese, il governo Maccanico e tutto il resto. Prodi constatò mestamente che era passato giusto un anno dall'annuncio del suo ingresso in politica. E in quell'anno egli aveva dato tutto se stesso per consolidare la crescita dell'esile piantina d'ulivo messa a simbolo del centrosinistra. Aveva fatto trentamila chilometri su e giù per l'Italia a bordo del suo mitico pullman, scritto un programma elettorale in ottantotto punti, fondato centinaia di "Comitati per l'Italia che vogliamo" incaricati di diffonderlo e di trovare proseliti, ingoiato la freddezza della gerarchia ecclesiastica... E adesso? "Le reciproche paure e le comuni convenienze di D'Alema e Berlusconi hanno fermato la grande e necessaria evoluzione." Hai capito, il Professore? Sembrava tutto sorrisi e piadine e guarda che artigli ti sfodera. In due righette aveva detto che l'"inciucio" [p. 357] tra i capi di Forza Italia e del Pds era un patto inconfessabile per ridimensionare la magistratura e conservarsi reciprocamente il posto in attesa di tempi migliori. In effetti, D'Alema aveva giocato in proprio la partita con Berlusconi. Aveva ignorato i popolari (non rappresentati tra i
professori che avevano steso la bozza di riforma costituzionale). E aveva ignorato Prodi. Passare da Dini a Maccanico e costruire sotto questo governo la nuova Carta significava verosimilmente mettere le basi per un futuro duello elettorale tra sé e Berlusconi, con una legittimazione reciproca che non avrebbe più costretto la sinistra a candidare un "democristiano" alla presidenza del Consiglio per tentare la conquista del potere. Se mai fosse stata ancora necessaria una figura mediatrice, D'Alema sarebbe di nuovo potuto ricorrere a Dini, con il quale aveva raggiunto un'intesa assoluta. Era questo, forse, ciò che temeva Prodi. E gridò il suo allarme ai quattro venti. Il fallimento di Maccanico D'Alema seppe della novità mentre si faceva ritoccare i baffi dal barbiere di Montecitorio. Superò gelido il capannello di cronisti che lo aspettava al varco e si diresse verso l'ufficio di Prodi, suonò il citofono e salì. Prodi non c'era, si trovava in piazza del Gesù per discutere con i popolari dell'accordo tra D'Alema e Berlusconi e di lì programmava di tornarsene a Bologna. Ma D'Alema lo costrinse a fare marcia indietro. "Se sarà necessario, pernotterò su quel divano e ne darò notizia alla stampa" disse il segretario del Pds agli allibiti collaboratori di Prodi. Quando il Professore si chiuse nel suo ufficio con il leader del Pds, le grida si sentirono così nitidamente che il portavoce di D'Alema, Claudio Ligas, le trasmise in viva voce dal cellulare a Claudio Velardi, capo dello staff del segretario, che aspettava nel suo ufficio alle Botteghe Oscure. Prodi rimproverò a D'Alema di aver fatto tutto di testa sua. D'Alema, offeso dal comunicato, gli rispose che non aveva il [p. 358] diritto di strappare un progetto politico non soltanto suo. Era furibondo perché la sera prima, in una cena a casa di Veltroni, riteneva di aver ricevuto dagli altri commensali un sostanziale via libera. E gli altri erano Veltroni, Prodi, Dini e Bianco. Poco prima di mezzanotte, Scalfaro aveva chiamato Dini per informarlo che l'indomani avrebbe dovuto conferire a Maccanico l'incarico di formare il nuovo governo. Prodi si stizzì, denunciò un'aria consociativa che non gli piaceva. D'Alema cercò di rassicurarlo: se Maccanico avesse fallito, al Professore nessuno avrebbe tolto la "premiership" dell'Ulivo. Il segretario del Pds era andato a letto rassicurato, ma Prodi durante la notte doveva aver fatto i ragionamenti che abbiamo illustrato nelle pagine precedenti e aveva risposto con quel comunicato di guerra. Alla fine, i due uscirono pallidissimi dall'ufficio di Prodi,
scesero a prendere un caffè e ostentarono un'armonia che non c'era. Anche perché, mentre aspettava che il Professore rientrasse, D'Alema s'era lasciato sfuggire - forse non per caso - una frase che aveva gelato i collaboratori di Prodi: "Meno male che ho Dini di riserva...". Il destino aveva comunque deciso di venire incontro al Professore che, come è noto, tra le sue molte virtù ha anche quella - talvolta decisiva - di essere fortunato. Dodici giorni dopo aver ricevuto l'incarico di formare il nuovo governo, Maccanico rinunciò. Fin dall'inizio del suo tentativo, dovette affannarsi a destra e a sinistra per la composizione del nuovo governo. D'Alema e Berlusconi avevano pensato di garantirsi affiancando al presidente del Consiglio, come vicepresidenti, Gianni Letta e Luigi Berlinguer. Gli Esteri sarebbero andati a Dini, l'Economia a Ciampi, gli Affari sociali a Letizia Moratti (o a Gaetano Rebecchini di An), le Poste al direttore generale della Rai Raffaele Minicucci, gradito sia a Forza Italia sia al Pds. Per un superministero che unisse Trasporti e Lavori pubblici si era fatto il nome di Lorenzo Necci, l'allora potentissimo amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato che aveva rapporti stretti sia con D'Alema sia con Letta e Berlusconi. [p. 359] Prodi, Veltroni, Fini e Casini capirono che un governo così blindato sarebbe durato ben più d'una quaresima. Fini (e il suo braccio destro Tatarella) non accettava che An non avesse una posizione eminente nel governo. Casini era terrorizzato all'idea di tenersi in casa un Mastella senza ministero. I popolari avrebbero avuto il ruolo delle hostess su un aereo pilotato da altri. Prodi e Veltroni avrebbero visto appassire l'Ulivo per sempre. Tutti si attivarono, dunque, perché Maccanico fallisse. E non fu difficile raggiungere lo scopo. Dopo aver respinto con sdegno pesanti allusioni al "governo del compasso", cioè con larga rappresentanza di massoni, Maccanico contribuì a scavarsi la fossa, usando alacremente il badile che con luciferina destrezza Scalfaro gli aveva messo in mano. Il 10 febbraio, leggendo all'uscita dal Quirinale un comunicato sullo stato della crisi, il presidente incaricato fece un riassunto delle riforme senza citare la parola "semipresidenzialismo". Entrando nello studio del capo dello Stato, Maccanico la parolina ce l'aveva, ma Scalfaro l'aveva convinto a cancellarla e questo mise Berlusconi in forte difficoltà con Fini. D'Alema cercò di rimediare scrivendo due giorni dopo una lettera di chiarimento a Berlusconi. ("Voleva la parolina e gliel'ho data" mi disse più tardi "ma lui non ebbe la
forza di decidere. Si sentì isolato.") In realtà, il Cavaliere fu diffidato da Fini e Casini dall'accettare una doppia maggioranza, una per il governo e una per le riforme costituzionali. Casini e Dini s'illusero insieme che, se Maccanico fosse caduto, le elezioni anticipate non si sarebbero svolte prima dell'autunno, visto che l'Italia fino a giugno avrebbe presieduto il Consiglio dei ministri della Comunità europea. Fini aveva invece capito perfettamente che Scalfaro avrebbe sciolto subito le Camere, e voleva andare alle elezioni: se il Polo avesse vinto, bene; se avesse perso, era convinto di togliersi definitivamente di torno Berlusconi e di assumere lui la leadership del centrodestra. Se Maccanico, invece di accettare la fatale correzione di Scalfaro, gli avesse portato la lista dei ministri, avrebbe avuto [p. 360] la fiducia delle Camere. Non lo fece e fu costretto alla rinuncia. Accusò il Polo di aver fatto fallire il suo tentativo, e non aveva torto. Ma a quasi quattro anni di distanza, Fini è sereno su quella scelta. "Non ne sono pentito" mi dice. "Dopo la caduta di Berlusconi, avemmo quindici mesi di governo tecnico con Dini. Se fosse nato il governo Maccanico, avremmo avuto per altri dodici-quindici mesi un governo senza legittimità elettorale. Tre anni senza votare, e questo, in una fase di transizione tumultuosa come quella che vivemmo allora, avrebbe dato il colpo di grazia a quel poco di bipolarismo e di maggioritario che abbiamo tuttora. Certo, ogni tanto quando è arrabbiato Berlusconi mi dice: che cosa ci abbiamo guadagnato? Abbiamo perso le elezioni... E' vero, personalmente non ci abbiamo guadagnato proprio niente. Ma se si ha lo sguardo lungo, se vogliamo parlare di storia e non di cronaca, meno male che quel governo non si è fatto. Forse non avremmo avuto più il Polo e l'Ulivo, Prodi e Berlusconi. Chissà che cosa avremmo avuto..." Commenta Berlusconi: "Ero convinto che se fossimo andati alle elezioni in quella situazione, avremmo perso. Nel '94 avevamo vinto di misura avendo con noi la Lega, ma ormai la Lega stava con la sinistra. Bossi era stato l'artefice del ribaltone, si era consegnato alla sinistra proprio per condannarci alla sconfitta (e fu un miracolo ottenere che se ne staccasse). I miei alleati dicevano invece: si vince, si vince. Mi trovai così di fronte a una situazione difficile, ma dalla soluzione obbligata, anche se contraria alla mia valutazione che era invece suffragata dalla realtà e da tutti i sondaggi. Se avessi dato vita al governo Maccanico senza di loro, senza gli alleati An e Ccd, il Polo sarebbe finito e con il Polo anche quel bipolarismo che avevo contribuito a costruire fra tante
diffidenze e resistenze e che si andava faticosamente affermando nella coscienza collettiva. Non solo, ma in caso di nuove elezioni, Forza Italia si sarebbe ritrovata sola portandosi dietro il sospetto e l'accusa di "inciucio" con il Pds. Si aggiunga che quando chiesi a D'Alema una garanzia sulla durata del governo Maccanico, lui mi rispose di non poterla [p. 361] dare. Scelsi perciò la fedeltà all'alleanza, privilegiai l'unità del Polo non solo per coerenza personale, ma anche in sintonia e nel rispetto della volontà popolare che quell'alleanza aveva riconosciuto e consacrato con il voto". Il piano segreto di Lamberto D. Nel giro di ventuno mesi, dal maggio del '94 al febbraio del '96, Lamberto Dini aveva avuto un'impennata spettacolare di vita e di carriera. Da direttore generale della Banca d'Italia, isolato da una nomenklatura nemica e ormai bocciato nella candidatura a governatore, era diventato prima ministro del Tesoro e poi presidente del Consiglio. Adesso che il suo governo era agli sgoccioli, Dini poteva constatare con soddisfazione di aver raggiunto l'obiettivo primario della sua esistenza: restare a palazzo Chigi più dell'eterno rivale Carlo Azeglio Ciampi. Poiché, tuttavia, come insegna Voltaire, "la furia del dominio è la più terribile di tutte le malattie dello spirito umano", egli non si rassegnò a fare un passo indietro in attesa di nuove e prestigiose chiamate, ma volle mettersi in proprio. La sera dell'8 febbraio 1996 Lamberto Dini, nascosto nell'auto della sua scorta, lasciò l'abitazione di Gianni Letta alla Camilluccia dove Silvio Berlusconi gli aveva ripetuto per la sesta volta in un anno l'invito a schierarsi con il Polo alle elezioni politiche. L'8 febbraio, Maccanico aveva ancora buone possibilità di farcela; ma poiché, se avesse fallito, le mosse della politica sarebbero state fulminee, Berlusconi volle rassicurare Dini. "Se vinciamo" gli annunciò il Cavaliere "resterai alla presidenza del Consiglio." Glielo disse anche a nome di Fini e il premier ormai uscente non mostrò di fidarsene più di tanto: in quelle ore il presidente di Alleanza nazionale stava combattendo contro l'ipotesi di inserire Dini nel governo Maccanico come ministro degli Esteri. Né Berlusconi né Letta sapevano che nelle ultime ventiquattro ore Dini aveva avuto, grazie all'intensa attività [p. 362] diplomatica della moglie Donatella, due colloqui con Gaetano Rebecchini, ambasciatore di An in Vaticano, e con lo stesso Pinuccio Tatarella,
numero due del partito. Aveva chiesto il ritiro di una fastidiosa interrogazione parlamentare che un paio di deputati della destra avevano presentato sulle attività finanziarie della signora Dini in Costa Rica, e soprattutto il ritiro del veto di Fini al passaggio di Dini da palazzo Chigi alla Farnesina nel nascente governo Maccanico. Dini disse che il vero responsabile dei malintesi tra lui e il Polo era Scalfaro e che solo l'insipienza del centrodestra aveva spinto tra le braccia di D'Alema un moderato del suo calibro. Sia le interrogazioni che il veto furono ritirati, con grande soddisfazione del presidente del Consiglio e della signora Dini. Questo poderoso lavoro di ricucitura andò avanti fino al 13 febbraio, quando Maccanico fu costretto alla rinuncia. Ma il 14 "la Repubblica" annunciava: "Dini candidato a Firenze con il "placet" dell'Ulivo". Quello stesso giorno, Gianfranco Fini fu rassicurato da Donatella Dini, che lo incontrò a palazzo Pallavicini. Elvina Pallavicini lasciò soli i suoi ospiti nel salotto dei Rubens, detto così perché nel Seicento il pittore fiammingo, amico di famiglia, per disobbligarsi di una lunga ospitalità regalò ai padroni di casa tredici quadri: i dodici apostoli e il Signore. Nelle medesime ore, a un preoccupatissimo Gianni Letta tornato a palazzo Chigi per ripetere ancora a Dini l'offerta suprema del Polo, il presidente del Consiglio rispose: "Il problema, caro Gianni, è che mi pare arrivato il momento di entrare in Parlamento". "E chi te lo impedisce?" gli rispose Letta. "Presentati da solo in un collegio senatoriale a Firenze e il Polo e l'Ulivo ti garantiranno con la doppia desistenza un'elezione plebiscitaria." "D'accordo, Gianni" replicò Dini. "Questa soluzione risolverebbe il mio problema personale, ma non quello della squadra che debbo portare in Parlamento." Sul volto di Letta comparve l'improvviso rossore che accompagna i momenti di grande imbarazzo o di grande emozione. Dunque, il suo amico Lamberto voleva fondare un [p. 363] partito. Capì a quel punto che solo un intervento diretto di Fini avrebbe potuto sbloccare la situazione. L'incontro vi fu e i due protagonisti ne dettero versioni opposte: Fini disse ai suoi di aver ricevuto garanzie sulla neutralità dell'interlocutore. Dini riferì di non aver preso alcun impegno. Una settimana dopo, il 20 febbraio, Donatella Dini fece fissare un appuntamento del marito con Fini per il 27 febbraio. Ma il 23 un comunicato di palazzo Chigi annunciava che il presidente del Consiglio aveva deciso di fondare un partito (Rinnovamento italiano)
che si sarebbe collocato nel centrosinistra. Riciclaggio, titolò perfido l'indomani "il manifesto", mentre a Letta, che gli partecipava al telefono la sua costernazione, Dini rispose gelido: "Mi avete lasciato solo". Prodi vinse, con meno voti di Berlusconi Caduto Maccanico, Scalfaro non aveva altra scelta che sciogliere le Camere. D'Alema e Berlusconi si trovarono così a dover improvvisare una campagna elettorale che non volevano. D'Alema era spesso visitato dal fantasma di Achille Occhetto. Se avesse perso, difficilmente si sarebbe sottratto alla sorte del predecessore, e non aveva alcuna voglia di diventare un velista di professione a meno di cinquant'anni di età. Berlusconi è un perfezionista. Lui che avrebbe cominciato con due anni di anticipo la preparazione per le elezioni politiche del 2001 si trovava ora a dover mettere in piedi in meno di due mesi una macchina elettorale enormemente più complicata di quella del '94. Era venuto meno l'effetto novità. Era ormai lontano l'effetto ribaltone. I popolari - che nel '94 avevano partecipato da soli alle elezioni erano organici al centrosinistra. La Lega - che nel '94 s'era presentata con il Polo - adesso correva per conto suo. Rifondazione s'era legata all'Ulivo con un decisivo patto di desistenza, sempre smentito da Prodi, da Bianco e Dini e infine accettato. Dini, che era l'ala destra del governo Berlusconi, aveva legato al centrosinistra il suo nuovo partito: andava alle elezioni da presidente del Consiglio in [p. 364] carica e avrebbe comunque pescato voti nell'acqua dei moderati. Infine, il radicamento di Forza Italia nel territorio era ancora troppo modesto per poter consentire a Berlusconi di presentare dappertutto candidati rappresentativi. E i limiti di gran parte della squadra del '94 sarebbero costati la mancata rielezione al 40 per cento dei deputati uscenti ripresentati dal partito azzurro. Infine, accanto all'Ulivo era schierato l'intero establishment del paese: i grandi giornali, la grande impresa, la maggior parte dell'industria culturale, la fascia più alta e previdente della burocrazia statale. Era inoltre noto da tempo da che parte stesse la magistratura che conta: il Pool di Milano evitava in ogni caso che gli italiani lo dimenticassero inondando il Cavaliere di accuse d'ogni genere, dalla corruzione di magistrati e ufficiali della Guardia di finanza all'evasione fiscale, dall'illecito sportivo a quello edilizio.
E' vero che per la prima volta alcuni intellettuali di peso ebbero il coraggio di schierarsi dalla parte comunque più scomoda: Lucio Colletti, Marcello Pera, Piero Melograni, Sergio Ricossa, Vittorio Mathieu, Giorgio Rebuffa. ("Non fu Berlusconi a cercare gli intellettuali" mi disse Pera. "Sono stati gli intellettuali a scommettere su di lui.") Ma non bastava un po' di fard, sia pure d'eccellente qualità, a rendere florido e vincente un viso sofferente. Nonostante questi formidabili elementi di debolezza, l'Ulivo vinse sul filo di lana, come si dice nelle gare di atletica leggera. Alla Camera, Prodi ebbe una maggioranza di soli sette seggi, che negli anni successivi si allargò per le "crisi di coscienza" di decine di deputati poco inclini alle durezze dell'opposizione. Ma restò fin dall'inizio prigioniero di Bertinotti che con i suoi trentacinque deputati era in grado di far ballare il governo come e dove voleva. Il Pds diventò il primo partito con il 21,1 per cento di voti, mezzo punto più di Forza Italia. Alleanza nazionale si consolidò come terzo partito con il 15,7 per cento dei voti, assai meno del previsto. La delusione di Fini fu amarissima: Berlusconi restava indiscutibilmente il leader del Polo. Quarta arrivò la Lega, travolgendo tutti i sondaggi e superando la soglia del 10 [p. 365] per cento. Bossi, che alleato di Berlusconi aveva avuto 111 deputati con l'8,4 per cento dei voti, con quasi due punti in più scendeva a 58 per la dura legge del maggioritario. Premiati invece i Popolari per Prodi: 67 seggi con il 6,8 per cento dei voti. Bene anche Rifondazione comunista (8,6 per cento), mentre Pannella (1,9 per cento) dimezzò quasi il risultato del '94. Dini ebbe un raccolto assai deludente: qualche sondaggio riservato gli accreditava fino al 10 per cento dei voti, se l'avesse ottenuto il presidente del Consiglio uscente avrebbe chiesto di essere anche quello entrante. Dovette accontentarsi invece di uno striminzito 4,3 per cento, il minimo per essere rappresentato anche nella quota proporzionale (e assai meno del 5,8 per cento ottenuto da Ccd e Cdu insieme). Avrebbe fatto di peggio se D'Alema non avesse ordinato una robusta trasfusione di voti "rossi" all'amico. L'aspetto paradossale delle elezioni fu che il Polo ebbe nella quota proporzionale, dove si mette il segno sui simboli di partito, 250.000 voti più dell'Ulivo: 16.478.000 contro 16.228.000. Il Polo perse nel Nordest...
Nonostante questi elementi da soli rendessero ragionevolmente impossibile un'affermazione del centrodestra, il Polo avrebbe vinto se non avesse commesso una serie di errori gravi. Mi spiegò Maurizio Pessato, della Swg di Trieste, che attraverso i sondaggi dal '94 teneva sotto controllo gli umori degli italiani per conto dello staff di D'Alema: "La campagna elettorale ha avuto due fasi nettamente distinte. Dal 20 marzo a Pasqua (6 aprile) fu nettamente a favore del Polo anche nei collegi del maggioritario. La concentrazione degli sforzi di Berlusconi in quel periodo fu massiccia, il tema fiscale ebbe successo. Subito dopo Pasqua, cominciò l'inversione di fronte. In Italia ci sono undici milioni di lavoratori dipendenti e parecchi milioni di pensionati. I lavoratori autonomi sono moltissimi, ma rappresentano pur sempre una minoranza. E il Polo, a nostro avviso, ha commesso alcuni errori". [p. 366] Quali? "I suoi leader si mostrarono troppo aggressivi nei dibattiti, come se la loro politica si fosse ristretta, come se parlassero a una fetta di società più piccola di quella reale. Poi, negli ultimi dieci giorni, è schizzata su la Lega." Mi disse Berlusconi, dopo avermi spiegato le eccellenti ragioni per cui non voleva andare alle elezioni: "Abbiamo pagato una campagna elettorale moderata: non abbiamo raccolto i voti di quei cittadini esasperati che hanno scelto la Lega". Sul voto del Nord, Berlusconi ha tuttavia più di un'autocritica da fare. Trascorse, per esempio, tre giorni a trattare con Pannella un apparentamento che alla fine gli avrebbe dato metà dei voti sperati e dedicò invece al decisivo Nordest soltanto mezza giornata, con un incontro elettorale a Verona. Oggi, Berlusconi si muove anche per il ballottaggio nel più piccolo capoluogo di provincia. Nel '96, nonostante la legge sulla par condicio gli avesse tagliato le gambe, si fidava ancora della sua potenza mediatica. Bossi trascorre tuttora la gran parte delle sue serate in giro per paesi di cui la maggioranza degli italiani ignora perfino l'esistenza. Se Berlusconi avesse fatto un blitz in qualche osteria del Veneto (senza trascurare naturalmente le città più importanti) l'eco mediatica gli avrebbe restituito molti voti leghisti e la vittoria. A proposito della par condicio televisiva, Berlusconi - da tecnico eccellente della comunicazione qual è - mi spiegò: "Quella legge consentì a Bossi di presentarsi con noi e con il centrosinistra come fosse un terzo partner alla pari. E' scattata lì una legge commerciale infallibile. Si chiama share of voice, quota di voce: quando due prodotti sono leader di mercato, la sola apparizione -
alla pari - di un terzo prodotto, aumenta la quota di mercato di quest'ultimo". (Memore di questa esperienza, Berlusconi avrebbe inondato di spot le proprie televisioni alle europee del '99 trionfando alle elezioni e difendendo allo spasimo nell'autunno successivo il suo diritto di trasmettere pubblicità politica, opponendosi al divieto previsto da un disegno di legge governativo.) La grande visibilità televisiva di Bossi non fu tuttavia la sola ragione del suo successo. La verità è che Berlusconi, [p. 367] fidandosi di sondaggi sbagliati, aveva sottovalutato l'enorme rabbia del Nordest nei confronti del potere centrale. In un viaggio che feci dopo le elezioni nelle province del leghismo più duro, Treviso e Vicenza, vidi che imprenditori ormai famosi, che esportavano larga parte del loro prodotto, lavoravano nella più assoluta assenza di servizi pubblici. Mi disse a Montebelluna (Treviso) Giovanni Caberlotto, titolare di una fabbrica con quasi quattrocento dipendenti che produce abbigliamento sportivo esportato in ottanta paesi e con cinquecento miliardi di fatturato: "Io non sono leghista, ma voto Lega perché è quella che capisce meglio i nostri problemi". E mi spiegò: "Qui, nel '94, abbiamo votato tutti per Berlusconi e per i candidati del Polo. Dicevamo: sono persone serie e capaci, hanno passato una vita nelle aziende, adesso arrivano loro e risolvono tutto. E invece, non conoscevano l'acqua della politica, l'acqua di Roma, e sono annegati". Gli imprenditori più grossi, come i Benetton, s'erano costruiti una rete privata di servizi autosufficiente. Mi disse Luciano, con distaccata amarezza: "Se crolla una villa veneta, nessuno dice niente. Ma per restaurarne una a nostre spese, abbiamo dovuto aspettare cinque anni per i permessi. In Germania, in cinque anni hanno sistemato una città complessa come Lipsia". Gli altri imprenditori maledicevano Roma (anche quando non c'entrava perché le strade strette erano provinciali) e votavano Bossi. E Bossi, maledicendo nei comizi e in televisione "Roma Polo e Roma Ulivo", raccoglieva i voti a piene mani. "Il Nordovest ha la grande industria rassegnata allo Stato centralistico" mi spiegò Roberto Maroni. "Visto che deve conviverci, succhia al governo di Roma più vantaggi possibili. Nel Nordest tutto questo non esiste. I suoi imprenditori debbono confrontarsi con la Baviera e con gli Stati dell'Est che sono più leggeri e aggressivi. Non si sentono con le spalle coperte ed esplodono." "Bossi è in politica da diciassette anni" mi disse sconfortato Berlusconi "Prodi da trentadue, io da un paio e alla fine i nuovi
sembravano loro." [p. 368] ...e grazie alla Fiamma di Rauti Se avesse fatto una campagna elettorale più aggressiva, il Polo avrebbe vinto. Ma avrebbe vinto anche con una campagna elettorale più moderata sui temi sociali. Accompagnando a Torino Berlusconi per un reportage (la stessa cosa feci con D'Alema in Puglia), fui testimone della preoccupazione del presidente della Regione, il forzista Ghigo, per l'ambiguità del messaggio del Polo sull'assistenza sanitaria. Su questo punto Giovanna Melandri, alcuni giorni dopo, mise seriamente in difficoltà Pierferdinando Casini nel dibattito Polo-Ulivo che andò in onda per la trasmissione televisiva Linea tre di Lucia Annunziata. Berlusconi, parlando all'Italia con partita Iva, dimenticò i timori dei lavoratori dipendenti e le piccole rassicurazioni che uno stato sociale pasticcione, ma pur sempre presente, garantiva in un momento di grande confusione globale. Un altro decisivo elemento di debolezza del centrodestra fu la minore capacità tecnica nella valutazione dei collegi. L'Ulivo fu in grado di individuare scientificamente ottantasei "collegi marginali", quelli in cui, su centomila elettori, si vinceva o si perdeva per quattromila voti. Quaranta collegi si trovavano al Nord, dove il Polo perse le elezioni perché la Lega conquistò il seggio o perché, indebolendo il Polo, lo lasciò all'Ulivo. Appena quattro collegi stavano nelle regioni "rosse", che allora, erano blindate, quattordici tra Lazio, Abruzzo e Molise e ventotto nel Mezzogiorno e nelle isole. Prodi e Veltroni si divisero i collegi marginali e con i loro pullman li raggiunsero uno a uno, analizzando in modo magistrale i problemi economici e sociali di ciascuna zona. Berlusconi viaggiò poco e Fini pensò soprattutto a consolidare in televisione e nelle grandi piazze la sua immagine di leader nazionale. Un abile tecnico della politica come Franco Marini portò a casa un numero impressionante di deputati anche perché si fece assegnare parecchi collegi marginali dove fece vincere i propri candidati. Una volta dissi a Berlusconi che per vincere le elezioni avrebbe dovuto nominare Marini proprio consulente (pagato con regolare parcella) per un giorno e farsi sistemare [p. 369] quattro o cinque collegi chiave. Berlusconi ci restò male, ma sapeva che la mia provocazione aveva un fondamento. Questo discorso, oltre che i collegi marginali, riguarda anche i rapporti con la Fiamma di Pino Rauti. Quando, pochi giorni prima
delle elezioni, dissi a Fini che Rauti avrebbe preso l'1 per cento, lui mi guardò incredulo e replicò che la cosa era impossibile. Invece, andò proprio così, e i suoi voti furono decisivi nei collegi uninominali per far perdere al Polo una trentina di seggi. E' vero che, secondo un sondaggio della Diakron di Gianni Pilo, un elettore di Alleanza nazionale su cinque, messo di fronte a un facsimile, aveva confuso i simboli mettendo la croce sulla fiamma di Rauti invece che sulla fiammella di Fini. (Molti elettori non riconobbero nemmeno il nuovo simbolo del Polo.) Ma è anche vero che i rapporti con gli scissionisti della destra non furono gestiti con la necessaria accortezza. Un patto di desistenza formale avrebbe imbarazzato An reduce dalla svolta di Fiuggi, ma i tecnicismi elettorali avrebbero consentito in qualche collegio di salvare capra e cavoli. "Noi avremmo avuto qualche deputato" mi disse Rauti "e il Polo avrebbe vinto le elezioni." Un esempio per tutti: nelle due circoscrizioni del Lazio, Forza Italia e An ebbero 1.600.000 voti, quasi il doppio del Pds. Ma l'Ulivo guadagnò 27 deputati contro i 16 del Polo. Alla fine, il Polo perse per colpa di quegli elettori che Gianni Pilo definì "anfibi": 1.400.000 persone nel proporzionale avevano votato per il Polo e nel maggioritario per l'Ulivo. Tra chi cambiò bandiera, 270.000 votarono Lega, 300.000 Rauti, 570.000 l'Ulivo. Commentò il politologo Giorgio Galli: "Gli elettori hanno votato per i candidati espressi dall'Ulivo senza sentirsi rappresentati dai singoli partiti. Nel Polo è avvenuto esattamente il contrario". Un giorno Bossi fondò la Padania "Il Po è la spina dorsale della Padania. Siamo andati a festeggiare una bambina che è ancora nel pancione della Storia. Una bambina che si chiama Padania. Ha il cuore a Mantova, la [p. 370] testa a Venezia, i nervi disseminati nelle tredici città in cui sorgono i ministeri più importanti..." Così, nell'autunno del '96, Umberto Bossi mi spiegava la secessione. Usava paragoni facili e avventurosi, come quel professore di filosofia che per spiegarci la maieutica socratica ci diceva: "Avete presente una levatrice? Bene, Socrate faceva lo stesso mestiere". Bossi pontificava, Maroni annuiva. Quando, con la mia educazione risorgimentale da libro Cuore, opposi al Senatùr le guerre d'indipendenza, il sangue versato, il mito dell'unità nazionale, lui cominciò a raccontarmi la complicatissima storia di Oreste e
Clitennestra, con adeguato intervento di Atena ed Erinni, per spiegarmi che c'è sempre stato nella società il problema di trovare una sintesi tra il sentimento e la ragione, per poi concludere sbrigativo (si fa per dire): "Io sento di meno lo strappo perché ho già qualcos'altro nell'animo. Insomma, non soffro la perdita dell'Italia, se è quello che voleva sapere". Da dove pensate di cominciare?, chiesi. "Dalla moneta" rispose Bossi. "Cominceremo con il battere moneta, come facevano una volta le banche con i miniassegni quando mancavano i soldi spicci." Come si chiamerà la vostra moneta? "Lega." Quale sarà il suo valore? "Dieci volte la lira meridionale." Addirittura. "La globalizzazione dei mercati sta facendo saltare il sistema produttivo italiano. Nella classifica mondiale della competitività, il Nord è tra il decimo e il quindicesimo posto, il Sud sta intorno al centocinquantesimo. Dunque..." E come maturerebbe la secessione? "Con un referendum. Indipendentemente dal colore politico, gli elettori del Nord voterebbero a favore. Non c'è alternativa. Un anno, un anno e mezzo ed è fatta." La secessione, che al contrario di quella americana prevedeva il distacco del Nord dal Sud, era cominciata simbolicamente il 13 settembre 1996, alle cinque del pomeriggio, presso le sorgenti del Po. Bossi s'era chinato a raccogliere un'ampolla d'acqua, l'aveva offerta al cielo dicendo gravemente: "Quest'acqua della Padania, acqua sacra, sarà portata da una staffetta d'uomini e d'acqua fino a Venezia". Annotò Gian Antonio Stella, inviato del "Corriere della Sera": "Affida l'ampolla al primo [p. 371] "ampolloforo", un pensionato in braghette e canottiera che sembra il fratello corto di Picasso. Vai. E l'Albino va, con le giunture scricchiolanti, giù verso la grande pianura celtica". Il 15 settembre, dopo aver attraversato la valle Padana con una modesta mobilitazione di folla, Bossi ripeté il rito a Venezia: "Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana". Aveva già la sua Costituzione: capo dello Stato eletto dal Parlamento federale, lingue regionali parificate all'italiano, magistratura scelta su base regionale. "L'idea ce l'avevamo in testa da sempre" mi dice Bossi tre anni dopo. "La Padania non era ancora la secessione, era la questione settentrionale: se non diventava una bandiera, restava chiusa negli scaffali delle biblioteche." Curiosamente, fu Berlusconi a far venire fuori dalla testa di Bossi
l'idea di Padania: "Sì, vedevamo che Berlusconi prendeva voti qualunque cosa facesse perché aveva chiamato il suo partito Forza Italia. E allora rispondemmo a modo nostro, cominciando con cautela, sondando la gente, facendo a Mantova un parlamento del Nord". Che già procurò alla Lega un bel po' di grane: "Quando l'aprimmo d'imperio, un magistrato ci denunciò, venne fuori la storia di Mancuso che aveva sollevato il problema nel governo Dini, insomma ricevemmo degli avvertimenti, dei segnali e ci fu anche una settimana in cui corremmo il rischio di essere arrestati tutti...". E' vero che temevate l'ingresso dell'Italia nella moneta unica europea? "Sì, pensavamo che se fossimo entrati nell'euro saremmo morti. Secondo me i tedeschi ci volevano dentro perché, restando fuori, avremmo dovuto svalutare la lira e gli avremmo fatto così una concorrenza insopportabile. Allora, Pagliarini disse: facciamo una doppia moneta per tirarci via comunque. Se non entriamo marchiamo la differenza tra l'economia settentrionale e quella meridionale. Se entriamo evitiamo di morire soffocati dall'assistenzialismo." Le cose andarono diversamente. E come vedremo la crisi della Lega cominciò proprio con l'ingresso dell'Italia nella moneta unica. [p. 372] L'Ariosto tra Dotti e Previti Il destino ha deciso che Silvio Berlusconi in campagna elettorale debba guardare con un occhio i suoi avversari politici e con l'altro i missili che la magistratura gli spara addosso. Abbiamo visto i fuochi d'artificio giudiziari che caratterizzarono le ultime settimane della campagna del '94. Ma questo fu niente dinanzi all'accusa che gli piovve sulle spalle a un mese e mezzo dalle elezioni del '96. Il 12 marzo di quell'anno, vennero arrestati il magistrato Renato Squillante e l'avvocato Attilio Pacifico. Quest'ultimo amministrava i conti svizzeri di parecchia gente. Tra i suoi clienti c'era, purtroppo, anche il presidente dei giudici per le indagini preliminari di Roma, che era appunto Squillante. Dico purtroppo perché - se un conto svizzero in genere suona male - il conto svizzero di un magistrato suona malissimo, soprattutto se su quel conto sono affluiti diversi miliardi che a quasi quattro anni dall'arresto - e mentre è ancora in corso un'interminabile udienza preliminare - risultano di incerta provenienza. Che c'entra Berlusconi con Squillante e Pacifico? Secondo la procura di Milano, il Cavaliere avrebbe dato molto denaro a Cesare Previti, suo avvocato e poi ministro della Difesa del suo governo,
perché corrompesse alcuni magistrati romani per "aggiustare" processi. A quattro anni e mezzo dall'inizio delle indagini, non risulta ancora a quali magistrati Squillante a sua volta avrebbe dato il denaro, mentre Previti, come vedremo, contesta lo stesso passaggio di denaro tra lui e il giudice, che pure risulta agli atti. Tutto cominciò il 21 luglio 1995, con la "presentazione spontanea della signora Stefania Ariosto per rendere al pubblico ministero Francesco Greco dichiarazioni in ordine alle indagini condotte dalla procura di Milano sulla corruzione di alcuni appartenenti alla Guardia di finanza". Greco, che si trovava in vacanza in Sardegna, rientrò a razzo. Segno che la signora non voleva inguaiare un maresciallo qualsiasi e la procura lo sapeva. Ma l'Ariosto era indecisa se deporre e fece mettere a verbale: "Poiché alcune informazioni in mio possesso potrebbero [p. 373] arrecarmi un grave pregiudizio anche nei miei rapporti sociali, chiedo un differimento del mio esame testimoniale in quanto devo ancora maturare la mia scelta". Greco accordò il rinvio e, appena quattro giorni più tardi, la scelta dell'Ariosto era matura, ma sofferta, perché coinvolgeva l'onorevole Vittorio Dotti, suo compagno di vita da sette anni. L'Ariosto, una donna bella e inquieta, aveva avuto due sfortunati matrimoni dai quali erano nati tre bambini, tutti morti in età tenerissima. Si era poi avvicinata a Giorgio Casoli, un magistrato entrato in politica con i socialisti e s'era legata infine a Dotti. Questi è un avvocato civilista che aveva assistito per vent'anni Berlusconi e poi la Fininvest, fino a diventarne consigliere delegato per gli affari legali e procuratore alle liti. I suoi contrasti con Previti, nati per ragioni professionali, esplosero al momento della discesa in campo di Berlusconi nel '94. Quando vide che Dotti aveva avuto un buon collegio a Milano, Previti ne pretese uno a Roma. Berlusconi all'inizio nicchiò perché voleva che il collegio romano andasse a Gianni Letta. Ma, quando questi rinunciò, dovette darlo a Previti. Dopo le elezioni, la par condicio aziendale avrebbe voluto Previti capogruppo di Forza Italia al Senato e Dotti suo omologo alla Camera, invece Previti andò al governo e Dotti digerì malissimo questa promozione. La pace armata tra i due diventò così una guerra esplosa nel modo più drammatico e imprevedibile. "'A Renà, te stai a scordà 'a busta..." All'Ariosto i magistrati di Milano arrivarono seguendo il percorso di un libretto al portatore (seicento milioni) passato da Silvio
Berlusconi a Vittorio Dotti. Il Cavaliere era generoso sia con i propri familiari sia con i collaboratori più stretti. Quando decideva di fare un regalo in contanti, attingeva a libretti al portatore frutto di beni personali incassati - ha sempre chiarito - dopo averci pagato le imposte. Dotti aveva un grosso volume d'affari con la Fininvest ed emetteva le sue parcelle soltanto a fine anno. Ma una volta ebbe bisogno [p. 374] urgente di contanti e Berlusconi gli dette il libretto. Quei soldi servivano in parte a Stefania Ariosto (che in certi periodi della sua vita, confessò, andava tutti i giorni al casinò di Campione, accumulando debiti pesantissimi con i "cambisti") e così i magistrati entrarono in contatto con la signora. Che cosa disse l'Ariosto? Disse di aver saputo da Previti che questi aveva a disposizione "fondi illimitati" da Berlusconi per corrompere i magistrati. Chi erano questi magistrati? Be', intanto Renato Squillante. Prove? L'Ariosto raccontò di essere stata per due volte testimone oculare della corruzione. La prima, al termine di una partita di calcetto al Circolo canottieri Lazio di Roma, avrebbe visto Previti consegnare una busta gonfia di denaro a Squillante. "'A Renà, te stai a scordà 'a busta..." La seconda volta, in casa Previti in via Cicerone, avrebbe visto l'avvocato spartire mazzette di denaro fascettate tra Squillante e Pacifico. In occasione del nostro incontro nell'estate del '96, Stefania Ariosto mi ripeté una per una le accuse a Previti, ricordando che durante quella partita di calcetto la moglie dell'avvocato, Silvana, stringeva preoccupata la busta con il denaro che poi sarebbe finita a Squillante. (La signora Previti querelò l'Ariosto per calunnia.) Quando, il 25 luglio 1995, l'Ariosto si decise a parlare con Greco, nella caserma della Guardia di finanza dove avvenne l'incontro anche se non risultò dai verbali - c'erano anche un altro sostituto procuratore, Piercamillo Davigo, e lo stesso Vittorio Dotti. Su queste ultime presenze esistono due versioni leggermente discordanti. Secondo la prima, l'Ariosto era ancora indecisa se deporre o no. Chiamò allora Dotti sul cellulare, l'avvocato arrivò subito, i due si appartarono e dopo il colloquio lei accettò di deporre. La seconda versione racconta invece che Dotti arrivò dopo la deposizione, quando la sua compagna era indecisa se sottoscriverla oppure no. ("Buon Dio, parliamo di Previti e di Berlusconi, lui deve essere messo a conoscenza.") Quest'ultima versione fu fatta propria dall'Ariosto nel libro La gazzella e il leone, pubblicato da Larus nell'estate del '96. L'Ariosto scrive inoltre che, quando chiamò Dotti, [p. 375] questi fu informato dai magistrati del "fatto" e che Davigo avrebbe
promesso, "nei limiti delle sue possibilità istituzionali, un'operazione di ingegneria giuridica" al fine di dare la massima discrezione al progetto. L'operazione evidentemente riuscì, perché della storia non si seppe niente fino al giorno dell'arresto di Squillante, avvenuto otto mesi dopo. Resta tuttavia da chiedersi perché non si sia dato atto nel verbale della presenza di Dotti, evidentemente decisiva qualunque sia delle due versioni quella giusta. L'arresto di Squillante, abbiamo visto, è avvenuto il 12 marzo 1996. Due giorni dopo, intervistato da Enzo Biagi nella rubrica televisiva Il fatto, Dotti chiudeva via etere il rapporto con l'Ariosto. Mi disse la signora: "Dotti avrebbe dovuto prendere una posizione chiara fin da quando ci incontrammo nel palazzo di giustizia di Milano il 25 luglio 1995... Se avesse voluto sospendere il rapporto con me avrebbe dovuto farlo allora. E non comunicarmelo la sera del 14 marzo 1996 per televisione... Lui conosceva gli sviluppi della situazione... conosceva situazioni la cui gravità io probabilmente avevo sottovalutato. E allora perché l'ha fatto? Perché voleva presentarsi come il salvatore di tutto?... Fino all'8 marzo noi abbiamo cenato insieme, siamo stati insieme e poi lui il 14 sera [due giorni dopo l'arresto di Squillante] dice: "La nostra storia è già scritta"?". "Vittorio, smentisci Stefania" Quando, nell'estate del '96, chiesi a Dotti come mai non avesse avvertito Berlusconi - di cui era il principale consulente legale delle gravissime deposizioni di Stefania Ariosto, mi rispose: "Io ignoravo che cosa l'Ariosto dicesse di Previti. Non sapevo quanto sapesse Stefania. Lei è una che parla pochissimo di sé e vuole conoscere molto degli altri". Otto giorni prima dell'arresto di Squillante, l'Ariosto disse a Ilda Boccassini che, prima di presentarsi all'autorità giudiziaria, aveva riferito a Dotti, senza essere entrata nei dettagli, che Berlusconi aveva a libro paga alcuni magistrati per [p. 376] tramite di Previti. Secondo l'Ariosto, Dotti affermò che la decisione di denunciare questi fatti alla magistratura gli pareva giusta. La signora aggiunse di aver tenuto, nel corso dei mesi, il suo compagno al corrente dei frequenti colloqui con i magistrati milanesi. Dotti, interrogato a sua volta, dichiarò invece di essere rimasto completamente estraneo alle iniziative della sua compagna e di averla
pregata di non riferirgli niente di quanto andava raccontando ai procuratori di Milano. Escluse che l'Ariosto gli avesse detto che Previti operava per conto di Berlusconi. Quando gli ricordai le parole dell'Ariosto ("Vittorio mi ha armato la mano"), Dotti esplose: "E' pazzesco... Non è vero che io sono stato il suggeritore dell'Ariosto. Non fa parte della mia cultura. Io sarei il Grande Vecchio di questa storia? Il Grande Vecchio che si taglia i... ? E già, perché sono l'unico che ha pagato...". L'arresto di Squillante e il coinvolgimento di Dotti nella vicenda avvennero mentre i partiti preparavano le liste per le elezioni politiche del 21 aprile 1996. Il 15 marzo Berlusconi, alla presenza di Letta, chiamò Dotti nella sua abitazione di via dell'Anima. "Vittorio" gli disse "tu sei da anni consigliere delegato della Fininvest per gli affari legali. Tu sai che quello che ha detto Stefania non è vero. Ti prego di fare una smentita piena delle sue affermazioni." Dotti replicò: "Non posso farlo. Io non so nulla di quello che ha detto. Stefania ha la sua testa, il suo mondo. Non potete dirmi: è la tua donna, ne rispondi oggettivamente. Come se ne fossi il padrone. Bel modo di concepire i rapporti umani". A quel punto, per Berlusconi sarebbe stato imbarazzante ricandidare il compagno della donna che l'accusava di tenere a libro paga i magistrati per tramite di un altro altissimo dirigente di Forza Italia. Il Cavaliere gli chiese invano di rinunciare e alla fine sentito il comitato di presidenza del partito - decise di non ricandidarlo. L'indomani, si seppe che almeno fin dal 25 luglio 1995 Dotti era a conoscenza, di dritto o di rovescio, delle accuse della sua compagna. Nei giorni successivi, Lamberto Dini provò a prenderlo con sé, ma glielo impedirono D'Alema e Prodi. [p. 377] Berlusconi era peraltro convinto da molto tempo che i disegni di Dotti fossero conflittuali con i suoi. Al Cavaliere qualcuno andava dicendo che quando alla fine del '94 si cercava una soluzione "moderata" per accompagnare la crisi del suo governo, Dotti s'era convinto di poter portare con sé una bella fetta di Forza Italia immaginando di candidarsi da quella posizione a palazzo Chigi, con l'appoggio di Carlo Scognamiglio e di Rocco Buttiglione. Naturalmente, una conferma di questo disegno, se esso è davvero esistito, non si è avuta mai. Ma le voci si infittirono dopo che un giorno, atterrando con il suo aereo personale a Ciampino, Berlusconi incrociò Dotti e Scognamiglio di passaggio su un aereo della flotta di Stato. Il presidente del Consiglio pregò il suo assistente Nicolò Querci di trattenerli mentre si lavava le mani. Ma quando uscì dalla
toilette, Querci gli riferì che i due erano apparsi imbarazzati per l'incontro e avevano detto: "Scusaci con il presidente, ma dobbiamo scappare". Forse era soltanto una coincidenza. "Lei qui non c'è mai stata" Cesare Previti smentì l'Ariosto su tutta la linea e la querelò per calunnia (ma i magistrati milanesi decisero l'archiviazione in attesa dell'esito del processo principale). Mi disse Previti: "L'Ariosto, qui in via Cicerone, dove sostiene di aver visto il passaggio di denaro durante una cena, non è venuta mai, dico mai. Sostiene che la cena è avvenuta nell''88, ma io già dall'anno precedente abitavo in piazza Farnese e gli appartamenti di via Cicerone erano impraticabili per via dei lavori di ristrutturazione. Dice che abbiamo banchettato con aragoste e champagne? Una cosa del genere è avvenuta tre anni dopo, nel '91, quando vincemmo la causa Mondadori per conto di Berlusconi. No, non c'era nessun magistrato. Eravamo cinque avvocati, compreso Dotti, e due dirigenti Fininvest". E il denaro consegnato a Squillante al Circolo canottieri Lazio? "Nessuno ha mai visto l'Ariosto alla Canottieri Lazio e lei non sa descrivere la sede del circolo. Nell'incidente [p. 378] probatorio, il Gip ha perso la pazienza perché lei ha detto di essere stata solo due volte nel circolo, mentre prima aveva detto di esserci stata molte volte. Inoltre, non ha saputo indicare il nome di magistrati presenti alla Canottieri Lazio, mentre in precedenza aveva parlato di una lobby di magistrati." L'incidente probatorio citato da Previti - cioè l'interrogatorio della teste alla presenza dei pubblici ministeri e dei difensori degli imputati - avvenne alla fine di maggio del '96. Fu ripreso da una telecamera a circuito chiuso e le immagini mostrano un'Ariosto molto indecisa. Per venti minuti, sfogliò le sue agende del '97 e del '98 senza poter risalire alla data della famosa cena in casa Previti. Non ricordava se fosse estate o inverno, né chi le sedesse accanto. Quando la incontrai poche settimane dopo, l'Ariosto mi disse: "Che sia stato l''87, l''88 o l''89 poco importa. Non mi sento nemmeno colpevole di qualche brutta figura fatta durante l'incidente probatorio. Il fatto oggettivo non cambia". Il confronto con gli avvocati degli imputati ebbe risvolti drammatici. Quando la signora manifestò una delle sue incertezze più vistose, l'avvocato Ignazio La Russa le gridò: "Lei mente sapendo di mentire. Lei sta scappando, la sua è una fuga. Vergogna!". L'Ariosto svenne e il pubblico ministero Davigo s'indignò: "In vent'anni non ho
mai visto un testimone trattato così". Un altro momento critico si ebbe quando si parlò dei debiti dell'Ariosto. La signora disse che nel luglio del '94 i suoi debiti ammontavano complessivamente a due miliardi e novecento milioni. Ricordando che in precedenza la teste aveva detto di aver estinto una parte del debito con la vendita di gioielli di famiglia, l'avvocato Gaetano Pecorella le chiese a chi li avesse venduti. In aula scoppiò il pandemonio. L'Ariosto disse di sentirsi violentata nel suo privato, Davigo e la Boccassini le corsero in aiuto e alla fine la domanda fu ritirata. La posizione patrimoniale dell'Ariosto è stata sempre monitorata con attenzione dalla difesa che ha sospettato - senza peraltro poterlo mai provare - che la teste sia stata aiutata in qualche modo a sistemare i suoi conti. [p. 379] Rosario Priore è il giudice istruttore che nel settembre del '99 chiuse la sua annosa inchiesta sulla strage di Ustica chiedendo il rinvio a giudizio di alcuni ufficiali dell'aeronautica. Fu indicato dall'Ariosto come appartenente a un gruppo di magistrati che nell''88 andarono negli Stati Uniti su invito della Niaf, la potente associazione degli italoamericani. Allora si premiava Craxi, come nel '96 fu premiato Prodi. L'Ariosto disse che Previti si era occupato di pagare i biglietti del volo per alcuni giudici. L'avvocato smentì, Priore denunciò l'Ariosto per calunnia (e venne controcitato). Quando si trattò di notificarle la denuncia, l'avvocato di Priore sostenne che l'Ufficio anagrafe di Milano si era rifiutato di comunicare l'indirizzo della signora, coperto da segreto per ordine della magistratura. Il magistrato decise di notificare la sua denuncia al servizio centrale di protezione dei collaboratori di giustizia, presso la direzione centrale della Criminalpol. La scelta di Priore fu molto maliziosa. "L'atto venne regolarmente accettato" mi raccontò il giudice "e io non me ne meravigliai perché avevo letto che la signora aveva debiti per circa tre miliardi e che la sua situazione era particolarmente seguita dalla Guardia di finanza." Pochi giorni dopo, il "servizio pentiti" rispediva al mittente la notifica e finalmente l'Anagrafe di Milano forniva l'indirizzo giusto. Più tardi, l'avvocato dell'Ariosto mi fece sapere, lamentandosi delle "pretese difficoltà" della controparte nella notifica dell'atto, che la signora era stata sempre residente a Sant'Abbondio Acquaseria (Menaggio) e non capiva perché l'avvocato di Priore si fosse rivolto all'Anagrafe di Milano per ottenere il suo indirizzo e soprattutto come l'ufficio avesse poi potuto rilasciarlo.
Ci siamo soffermati su questi dettagli per dare al lettore l'idea del colossale polverone sollevato dal caso Previti-Ariosto, che vedrà comunque il suo epilogo quando il nuovo secolo avrà già messo la barba. La vicenda giudiziaria ebbe un suo clamoroso epilogo, diciamo così, mondano. La signora Ariosto fu una precorritrice della moda oggi purtroppo dilagante - di fotografare tutto e tutti. Salì una volta con Dotti sulla barca di Previti, quando ne era ospite anche Berlusconi. [p. 380] E partecipò con il suo compagno ad alcune delle cene di fine anno in cui il Cavaliere faceva generosi regali alle mogli dei più alti dirigenti del suo gruppo. L'Ariosto scattò in quelle occasioni decine di fotografie. Scoppiato l'affare Squillante, le cedette all'"Espresso" che ci campò di rendita per settimane. "Ho fatto quel gesto in una condizione psicologica emotiva" mi spiegò la signora "perché tutti mi davano della pazza in televisione e volevo dimostrare almeno che c'era una verità fotografica. Poi sono stata incentivata dal settimanale con la promessa che avrebbero versato dei fondi all'associazione per la lotta alla fibrosi cistica..." Previti tra Squillante e Rovelli Nell'autunno del '97, la magistratura milanese chiese alla Camera l'autorizzazione ad arrestare Cesare Previti, che fu negata a scrutinio segreto. La procura accusò in quell'occasione l'avvocato di aver versato 434.000 dollari, pari a mezzo miliardo di lire, sul conto svizzero di Renato Squillante il 6 marzo 1991. Quando obiettai a Previti che l'anno prima, assicurandomi di non aver mai pagato un magistrato, mi aveva detto una bugia, egli lo negò con forza. Mi spiegò che l'avvocato Pacifico era incaricato di recapitargli ogni tanto a Roma somme di denaro in contanti prelevandole dal conto aperto da lui stesso in Svizzera presso la Società bancaria ticinese. Nel marzo del '91, gli portò mezzo miliardo che l'avvocato di Berlusconi spese in maniera - sostenne - documentabile. Perché negli stessi giorni un'identica cifra veniva accreditata sul conto di Squillante? Secondo Previti, si trattò di una compensazione operata da Pacifico a sua insaputa. Questi doveva versare cinquecento milioni sul conto svizzero di Squillante - mi disse in sostanza il deputato e doveva prelevarne altri cinquecento dal conto svizzero di Previti per portarglieli in Italia. Avrebbe fatto dunque una semplice compensazione valutaria. "Io" aggiunse Previti "non ho mai saputo che Squillante avesse un conto in Svizzera, né che ci [p. 381] fossero dentro nove miliardi, né tantomeno che lo gestisse Pacifico."
Obiettai che nessuno avrebbe creduto a questa versione. "Non ci crede chi non vuole crederci" rispose Previti "ma è la pura verità e io sono in grado di poterla provare assolutamente." Il processo, quando sarà celebrato, stabilirà le ragioni e i torti. Chiedendo l'arresto di Previti, la magistratura milanese si è detta tuttavia finora convinta che "sulla dazione di denaro... non si può non prendere atto che a livello indiziario le affermazioni dell'Ariosto non sono contraddette". La signora è stata giudicata finora una teste credibile e i magistrati che hanno chiesto l'arresto di Previti ritengono di aver avuto "riscontri decisivi" alle sue affermazioni. ("L'Ariosto è ormai un teste inconferente" mi disse Davigo, sostenendo di avere prove che prescindono dalle dichiarazioni della signora.) La richiesta d'arresto fu respinta perché la Camera ritenne che a tanti anni dai fatti non stesse ormai in piedi nessuna delle ragioni per le quali un cittadino deve essere mandato in carcere. Quando chiesi a Previti se il gruppo Fininvest gli avesse mai versato soldi estero su estero, l'avvocato rispose di sì e li quantificò in tredici miliardi complessivi. Disse che questi onorari si riferivano all'attività di assistenza legale svolta nell'arco di alcuni anni in Spagna, Francia, Germania e Stati Uniti. La procura di Milano ritiene che una parte di questi soldi sia servita per corrompere magistrati e nella primavera del '98 si ebbe notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati di Berlusconi, Squillante, Previti, Pacifico con l'accusa di aver corrotto con quattrocento milioni nel '91 l'allora giudice della Corte d'appello di Roma, Vittorio Metta. Berlusconi ne avrebbe ottenuto così i favori nella causa vittoriosa contro il gruppo De Benedetti-Caracciolo per il controllo della Mondadori. Il presidente di Forza Italia si chiamò risolutamente fuori dalla vicenda e, alla vigilia dell'invito a comparire per domenica 19 settembre 1999, tornò a parlare di "persecuzione giudiziaria" nei suoi confronti. "L'azione giudiziaria" disse [p. 382] "si ha quando si individua un reato e si cerca il colpevole. La persecuzione giudiziaria si ha quando prima si individua il colpevole e poi si cercano i reati da attribuirgli." C'è un'altra storia che coinvolge Previti, stavolta senza che Berlusconi c'entri niente. Nino Rovelli, magnate della chimica, perse un impero che secondo i suoi avvocati valeva diecimila miliardi. I suoi nemici dissero che aveva dilapidato un tesoro finanziato dal denaro pubblico. I suoi amici replicarono che era stato vittima di una feroce macchinazione politico-giudiziaria. Alla fine, Rovelli si
ritenne creditore di un istituto finanziario pubblico, l'Imi, per un migliaio di miliardi. La Cassazione gli riconobbe il credito, per una clamorosa circostanza: la procura degli avvocati dell'Imi non era negli atti. Dimenticata o sottratta? Alla famiglia Rovelli, tolte le tasse, andarono comunque seicentosettantotto miliardi netti. Di questi, trentatré miliardi furono versati ufficialmente agli avvocati Mario Are e Michele Giorgianni per la loro lunga assistenza professionale. Sessantasette miliardi, il 10 per cento circa della somma incassata, andarono a Previti e agli avvocati Giovanni Acampora e Attilio Pacifico: il primo ne ebbe ventuno, il secondo tredici e il terzo trentatré. "Due erano una mia parcella" mi disse Previti. "Dieci sono andati a tre avvocati stranieri di cui non posso fare il nome a tutela del segreto professionale. Nove sono stati versati a una società, la Codava. Soltanto da poco ho scoperto che faceva capo a Pacifico." Alla mia meraviglia per l'enorme quantità di denaro andata a Pacifico e al mio scetticismo sul fatto che Previti avesse pagato la società di Pacifico senza conoscerne il titolare, il deputato obiettò che delle attività professionali di Pacifico sapeva poco o niente. Ed escluse anche qui in modo tassativo di aver pagato magistrati. Gli eredi di Rovelli incassarono i seicentosettantotto miliardi alla fine del '93 e pagarono gli avvocati agli inizi del '94. Previti e gli altri sono stati incriminati tre anni dopo. Alla fine del secolo, la storia continua. [p. 383] XIII: Cade Prodi, sorge D'Alema Bertinotti tra Prodi e D'Alema Mancavano undici giorni al Natale del '96, ma Romano Prodi non aveva l'animo in festa. La mattina del 14 dicembre un articolo trasmessogli via fax da palazzo Chigi gli mandò di traverso la prima colazione in un piacevole albergo di Dublino. Titolo, sulla prima pagina della "Repubblica": Sì, difenderò Romano, ma non sono soddisfatto. In un'intervista rilasciata a Federico Geremicca, Massimo D'Alema, azionista di maggioranza del governo, metteva sull'avviso l'amministratore delegato. "L'Ulivo" diceva il segretario del Pds "non può ridursi a una forza di gestione e resistenza contro "un paese cattivo", che non capisce... Se andassimo avanti solo rovesciando olio bollente su chi ci assedia, non andremmo avanti
ancora molto..." Un preavviso di licenziamento? Prodi era presidente del Consiglio da appena sei mesi e l'istituto demoscopico Swg di Trieste (che dal '94 lavora stabilmente anche per il Pds) aveva rivelato che il 68 per cento degli italiani era scontento del governo. L'opinione pubblica aveva ingoiato, ma non digerito, l'ultima durissima legge finanziaria. L'annunciata manovra da trentaduemila miliardi per il '97 (con un terzo di nuove tasse) s'era improvvisamente quasi raddoppiata (sessantaduemila miliardi) grazie alla "tassa per l'Europa" fortemente progressiva ("Un'imposta bulgara, un esproprio" secondo Dini), che il governo assicurò sarebbe stata in parte rimborsata. (La promessa, incredibilmente - viste le abitudini del fisco italiano -, sarebbe stata mantenuta.) Mi avrebbe detto Ciampi, gestore [p. 384] e garante dell'economia nazionale: "Gli altri paesi hanno sempre ritenuto difficilissimo poter fare una cosa del genere. In Italia questa mossa è stata possibile perché da noi, evidentemente, la fiducia e la speranza nell'Europa erano maggiori". Il che era vero, ma in quell'autunno del '96 una botta simile, sommata alle altre imposte che fanno del nostro erario uno squalo bianco, fu accolta molto male. L'intervista di D'Alema fu l'ennesima dimostrazione del fatto che tra il segretario del Pds e il presidente del Consiglio i rapporti erano politicamente assai tesi. Prodi, che di mestiere faceva il professore universitario, non sopportava che D'Alema volesse dargli costantemente lezioni. D'Alema, il politico più abile su piazza, non sopportava che il Professore, invece di affrontare i problemi, li aggirasse. In settembre, alla Festa dell'Unità, aveva fatto un discorso coraggioso sullo stato sociale e s'aspettava che Prodi gli andasse dietro. Invece, questi, intimidito da Bertinotti, che era il cardine della sua maggioranza, aveva rinviato alle nuove necessità qualunque discorso sull'adeguamento del sistema pensionistico. E la tassa per l'Europa era nata proprio dall'impossibilità di agire su altri terreni. Fausto Bertinotti è un elegante signore sulla soglia dei sessant'anni che dal '94 dirige il partito della Rifondazione comunista. Padre della scissione dal Pds, come sappiamo, fu nel '91 Armando Cossutta, che fece nominare primo segretario Sergio Garavini. Bertinotti, che era approdato al Pci dalla sinistra socialista, non seguì subito gli scissionisti, pur avendo votato contro la nascita del Pds insieme con Natta, Tortorella e Ingrao. Veniva dalla Cgil, aveva guidato i tessili e ha sempre mantenuto visibili sulla pelle i
segni delle grandi sconfitte sindacali subite nell''80 alla Fiat (conserva nel suo ufficio i manifesti di quelle lotte). Nel '94, fu Cossutta a promuoverlo segretario, ritagliando per sé il ruolo di presidente del partito e battendo l'estrema sinistra interna di quel Guido Cappelloni che abbiamo incontrato come "cassiere" del Pci nei rapporti finanziari con Mosca. Fino alla vigilia della campagna elettorale, sia Prodi sia il segretario del Ppi, Gerardo Bianco, avevano giurato che mai [p. 385] avrebbero stretto un'alleanza con Bertinotti. Ma la prospettiva di una sconfitta elettorale li portò alla famosa desistenza e ora il leader di Rifondazione non perdeva l'occasione per presentare il conto. "Il governo" mi spiegò D'Alema "si poneva come mediatore dei rapporti tra Pds e Rifondazione, quasi che Bertinotti fosse stato un problema nostro. Come se Prodi avesse detto: uffa, adesso ho questo Bertinotti che litiga con D'Alema e mi tocca mediare un po' con l'uno, un po' con l'altro. A mio giudizio questo atteggiamento ha comportato dei prezzi da pagare." "Nego di aver seguito Bertinotti" mi disse Prodi nella replica. "Ho seguito semplicemente una linea di politica economica coerente." Anche senza l'ingombro di Bertinotti, Prodi e D'Alema non trascuravano occasione per marcare le distanze e addirittura per farsi dispetti. Il 7 febbraio 1997, il presidente del Consiglio andò in visita ufficiale dal cancelliere Kohl. Chi aveva incontrato riservatamente nella stessa stanza Kohl il giorno prima? D'Alema. E via di questo passo. Trascorsi due mesi, scoppiò la crisi albanese. Bertinotti fece di nuovo il Bertinotti: cioè votò contro l'invio delle truppe italiane incaricate di svolgere una missione umanitaria e di garantire libere elezioni. Il provvedimento passò con i voti del Polo, che non se la sentì di mettere in difficoltà l'Italia nelle sedi internazionali. Invece di ringraziare Berlusconi e di tirare le orecchie a Bertinotti, Prodi nel suo discorso in Parlamento fece esattamente il contrario. Dopo qualche giorno, mise la pezza. Ma D'Alema se la legò al dito. I sondaggi del suo istituto di fiducia, Swg, gli mostravano che già a pochi mesi dalle elezioni del '96 le preferenze dell'elettorato si erano trasferite sul Polo. Nell'autunno del '96, Berlusconi, Fini e Casini avevano occupato con un milione di persone un luogo sacro della sinistra italiana, quella piazza San Giovanni che aveva visto i trionfi di Togliatti e Berlinguer. Se si fosse votato nella primavera del '97, il risultato avrebbe
presentato molte incertezze. Ma il rischio eccita il segretario del Pds, il quale, fin dal 6 aprile, domenica in Albis, aveva [p. 386] fatto titolare "l'Unità": D'Alema: se si apre la crisi, siamo pronti alle elezioni. Non scherzava. Voleva regolare una volta per tutte i conti con Bertinotti e - cosa che nessuno seppe - anche con Prodi. Un sondaggio riservato gli diceva che Berlusconi probabilmente avrebbe vinto, se l'Ulivo si fosse presentato senza la desistenza di Rifondazione. Ma il divario tra gli schieramenti, molto elevato se il candidato fosse stato ancora Prodi, si sarebbe di molto assottigliato se il centrosinistra avesse proposto D'Alema per palazzo Chigi. Il segretario del Pds era pronto a correre il rischio. Scalfaro avrebbe dovuto sciogliere le Camere perché senza il Pds nessuna maggioranza parlamentare sarebbe stata possibile. Una data utile per le elezioni era stata individuata nel 15 giugno, ventiduesimo anniversario della grande vittoria comunista alle elezioni amministrative del '75. Prodi riuscì a scongiurare il pericolo, ma il governo navigava a vista. Gloria e tormento della Bicamerale Dal 22 gennaio 1997, Massimo D'Alema era presidente della Commissione bicamerale per la riforma della Costituzione. Il segretario del Pds aspirava da un pezzo ad assumere un incarico istituzionale. Come leader del maggiore partito italiano, avrebbe certamente preferito palazzo Chigi. Ma senza Prodi il centrosinistra non avrebbe vinto le elezioni e quindi... Il Polo aveva accettato malvolentieri la Bicamerale. Berlusconi e Fini ritenevano che la strada maestra per rifare una Costituzione ormai piena di acciacchi non fosse il lifting operato dalla Commissione, ma un profondo intervento di chirurgia estetica eseguito da un'Assemblea costituente. L'Ulivo non ci stava: la Costituente sarebbe stata eletta con il sistema proporzionale e la vittoria di strettissima misura ottenuta dal centrosinistra alle elezioni politiche del '96 grazie al maggioritario sarebbe stata verosimilmente vanificata. Nell'autunno del '96, presentando con D'Alema il mio libro La svolta, Berlusconi aveva tuttavia lasciato uno spiraglio aperto [p. 387] alla nascita della Commissione. Il segretario del Pds disse infatti in quell'occasione: "Non c'è dubbio che il disegno costituzionale abbia prevalenza su quello di governo". Prodi s'infuriò, ma Berlusconi cominciò a sognare che la Commissione fosse l'anticamera di un governo di "larghe intese". Come le porte che separano la
cucina dei ristoranti dalla sala da pranzo, lo spiraglio sulla Bicamerale s'era aperto e richiuso innumerevoli volte nell'ultima parte del '96. All'inizio dell'anno successivo, Fini, contrarissimo alla Commissione, era convinto di essere riuscito a bloccarla, stimolato da Cossiga che vedeva come il fumo negli occhi ogni avvicinamento tra D'Alema e Berlusconi. Al ritorno da una vacanza natalizia in Messico, il presidente di Forza Italia decise tuttavia per il sì e il suo alleato di An tentò invano di fargli cambiare idea. Quando scoprì che Berlusconi avrebbe addirittura accettato D'Alema come presidente della Bicamerale, reagì come il toro davanti al drappo rosso: "Attento, Silvio, D'Alema ha già vinto le elezioni, se gli diamo anche la presidenza della Bicamerale lo incoroniamo come re Mida. Fa diventare oro tutto ciò che tocca". Ma Berlusconi era convinto che solo con la presidenza D'Alema la Commissione avrebbe ottenuto qualche risultato e convinse i suoi a votarlo. Fini non arrivò a tanto e si astenne. Incrociando il primo scoglio, la Bicamerale vi si incagliò. Era la forma di governo da dare al paese: semipresidenzialismo o premierato? I cittadini avrebbero dovuto eleggere direttamente il capo dello Stato o il capo del governo? Si ricorderà che prima dello sfortunato tentativo di Antonio Maccanico di formare il governo di unità nazionale, D'Alema s'era acconciato all'idea del semipresidenzialismo sul modello francese. Poiché, tuttavia, questa ipotesi era respinta da larghissimi strati della sinistra e dai popolari, eccolo proporre all'inizio di aprile la preferenza per il premierato. Berlusconi non era del tutto contrario, ma Fini alzò le barricate. E D'Alema, che durante i lavori passa il tempo stritolando tappi di bottiglie d'acqua minerale o facendo origami, inviò a Giuliano Urbani, vicepresidente della Commissione per conto di Forza Italia, la seguente [p. 388] poesia, La frittata: "Contro il frutto della fretta@ qui si scaglia una gran frotta@ la Bicamerale è fritta@ e D'Alema va per fratta". Il tritolo di Bossi In maggio, quando i postumi di un intervento chirurgico tennero il Cavaliere fuori gioco per l'intero mese, Fini respinse con durezza a nome del Polo l'ipotesi avanzata da D'Alema. Questi avrebbe avuto comunque via libera se la Lega non avesse mandato tutto a carte quarantotto. Obiettivo di Umberto Bossi è stato sempre quello di far fallire qualunque "inciucio romano". Quando domenica 1o giugno Roberto Maroni e Alberto Morandi, allora capo dell'ufficio
legislativo della Lega alla Camera, andarono a Gemonio a prospettargli che una carica di tritolo ben messa poteva far saltare i piani manifesti di D'Alema e quelli segreti di Berlusconi, Bossi si lasciò prendere da un'eccitazione irrefrenabile. Al di là della sua antica vocazione di guastatore, il Senatùr voleva mandare tutto all'aria per un lucido ragionamento politico. Il federalismo proposto da Francesco D'Onofrio attribuiva alle regioni ampie autonomie: se fosse passato, Bossi avrebbe dovuto seppellire gli slogan contro "Roma ladrona" che gli avevano procurato tanta fortuna. Inoltre, temeva che Berlusconi e D'Alema concordassero una legge elettorale assai punitiva per la Lega: l'esperienza delle elezioni amministrative aveva insegnato al Polo che al secondo turno Bossi dava ordine di votare per il candidato del centrosinistra contro quello del centrodestra. Ogni accordo sulla nuova legge elettorale doveva perciò ragionevolmente passare attraverso la sterilizzazione della Lega. Fino all'inizio di giugno, la delegazione leghista non aveva di fatto partecipato ai lavori della Bicamerale, non riconoscendo alla commissione alcuna utilità. Qualche parlamentare del Carroccio era comparso come "osservatore", ma niente di più. Il tritolo esplose mercoledì 4 giugno. Quella mattina "il Giornale" di Vittorio Feltri scrisse: "E se vincesse il [p. 389] semipresidenzialismo?". Ma nessuno gli diede retta. D'Alema temeva che Bossi volesse far saltare la Bicamerale votando contro entrambi i sistemi per dimostrare che a Roma non si può combinare nulla. Quando tutti i parlamentari furono seduti, Urbani mandò un biglietto a Maroni: "Se passa il premierato, avrete un sistema elettorale basato sul premio di maggioranza. Se non volete quella roba lì, dovete per forza votare per il semipresidenzialismo". Maroni annuì, ma naturalmente Urbani non gli credette. Il luogotenente di Bossi poco prima aveva parlato in segreto con Tatarella facendogli capire qualcosa. Tatarella aveva informato Fini spalancando gli occhi, ma nemmeno lui si fidava fino in fondo. La Lega ne aveva combinate troppe per poter chiedere che le si credesse sulla parola. Con un accorato appello che lo fece accusare da Fini di scorrettezza istituzionale, D'Alema perorò la causa del premierato, anche per far tornare all'ovile cinque pecorelle smarrite del centrosinistra guidate da Achille Occhetto. Per evitare che la Lega affondasse entrambi i sistemi, si votò per proposte alternative. Il premierato ottenne 31 voti. Il semipresidenzialismo ne avrebbe avuti 30, ma quando il segretario della Commissione, Marco Boato, stava per cominciare la conta, la
mano paffuta di Maroni si alzò e con essa quella degli altri cinque commissari leghisti. Il semipresidenzialismo aveva vinto per 36 a 31 e il risultato stava stampato sulla faccia terrea di D'Alema. I deputati di An gridarono la loro gioia. Berlusconi, che s'era preparato ad accettare il premierato, pur senza ammetterlo, chiese a Fini: "Gianfranco, e adesso che succede?". La risposta fu: "Silvio, succede che abbiamo vinto". La Commissione non saltò immediatamente soprattutto per merito di due persone, Gianfranco Fini e Franco Marini. Quest'ultimo era diventato segretario dei popolari all'inizio di gennaio, in sostituzione di Gerardo Bianco, che, pur non candidandosi espressamente, avrebbe gradito la conferma. A sinistra, però, scalpitava Pierluigi Castagnetti, mentre l'ala moderata del partito voleva Franco Marini. Nicola Mancino, presidente del Senato, tentò di trovare un accordo sulla candidatura di Bianco: ma poiché il gruppo dirigente era diviso, Bianco - che aspirava a una designazione unitaria - illustrò [p. 390] con grande scrupolo i motivi per cui avrebbe dovuto ritirarsi. Mancino, desolato, commentò: "Gerardo, hai fatto come Alfredo De Marsico in una celebre arringa: invece di difendere il suo cliente, parlò in favore dell'avversario". Marini fu eletto con il 58 per cento dei voti. Castagnetti ebbe il 42 per cento, molto di più di quanto era prevedibile alla vigilia. Gli disse Marini: "Hai avuto la stessa quota di voti che ebbi io alla Cisl contro Carniti. So quello che significa". Castagnetti si sarebbe ricordato di queste parole quasi tre anni dopo, nell'ottobre del '99, quando avrebbe sostituito Marini ricevendone all'ultimo momento l'appoggio imprevisto. La solitudine di D'Alema Torniamo alla Bicamerale. Subito dopo il voto che aveva fatto vincere il semipresidenzialismo, Marini disse allo sconfortato D'Alema che occorreva trovare una soluzione, e la stessa cosa fece capire il sabato successivo a Fini, che gli aveva dato un passaggio sul volo privato per Roma dopo la partecipazione di entrambi al convegno dei giovani industriali a Santa Margherita Ligure. Il presidente di An, da parte sua, mise a frutto il successo con una politica di grande apertura verso gli sconfitti. Da questi contatti nacque una delle famose cene a casa di Gianni Letta alla Camilluccia, con corredo di crostata preparata dalle sapienti mani abruzzesi della signora Maddalena. Commensali, oltre al padrone di casa, D'Alema, Berlusconi, Marini e Fini, con
l'inseparabile Tatarella. In quell'occasione fu deciso di affidare a quattro esperti (Mattarella, Salvi, Nania e Urbani) la realizzazione di ciò che nemmeno a padre Pio sarebbe stato lecito chiedere: un sistema elettorale in grado di far convivere semipresidenzialismo cioè il presidente della Repubblica eletto dal popolo - con l'elezione diretta del primo ministro e della maggioranza di governo. E' vero che i cittadini sono pronti a eleggere direttamente chiunque: ma se il capo dello Stato fosse, poniamo, dell'Ulivo e il capo del governo [p. 391] del Polo, essendo entrambi legittimati dall'elezione popolare chi li farebbe convivere in modo proficuo? I quattro incaricati riuscirono, tuttavia, a concordare una bozza di legge che risparmieremo al lettore: essendo poi fallito l'accordo, è inutile infliggergli un mal di testa. Buona o cattiva che fosse, essa prevedeva alla fine un doppio turno di coalizione. Per farla breve, se una coalizione avesse raggiunto il 51 per cento al primo turno, le sarebbe stato assegnato a tavolino un altro 20 per cento per garantirle di governare in pace. Se non l'avesse raggiunto, come è capitato nel '94 e nel '96, al secondo turno gli elettori avrebbero dovuto scegliere l'una o l'altra coalizione. Il tutto condito di un calcolo di percentuali, di seggi, di proporzionale e di maggioritario che evitiamo per ragioni umanitarie. In previsione dell'accordo finale, Maddalena Letta preparò una crostata speciale la sera di mercoledì 18 giugno 1997. Gli ospiti, questa volta, erano otto: al tavolo di Gianni Letta sedevano Berlusconi, D'Alema, Fini, Marini, Tatarella, Nania, Mattarella e Salvi. Fino a sei persone la riservatezza era assicurata. In nove (la moglie di Letta non cenò), non lo fu più. Sicché alcuni giornalisti arrivarono a casa Letta perfino prima degli ultimi invitati, costringendo la scorta di D'Alema a infilarsi in strade improbabili nel vano tentativo di seminare i cronisti in motorino. "Gli è andata bene" avrebbe commentato caustico Augusto Minzolini, uno di questi intrepidi. "In fondo il mio inseguimento poteva finire come quello della povera Diana." Tra fusilli ai funghi e vitello tonnato, Berlusconi e Fini ottennero che il capo dello Stato, pur non potendo presiedere il Consiglio dei ministri, detenesse una certa leadership riguardo alla politica estera e alla difesa. D'Alema ne tracciò questo identikit: "Un capo dello Stato è in grado di esercitare un ruolo di leader effettivo quando può contare sulla maggioranza parlamentare, oppure di garante, compiendo un passo indietro rispetto a un ruolo di
governo, quando la maggioranza in Parlamento è di diverso segno politico". Guadagnata l'elezione diretta del capo dello Stato, Fini - [p. 392] che aveva cercato sempre di ostacolare i lavori della Bicamerale - ne diventò il più acceso sostenitore. Ottenne che il capo dello Stato, eletto in un momento successivo a consultazioni politiche che hanno formato una maggioranza di colore diverso dal suo, potesse sciogliere il Parlamento e chiedere nuove elezioni. Anche D'Alema era soddisfatto del risultato ottenuto, ma la sua solitudine nel partito divenne insopportabile. Il segretario del Pds aveva collezionato una lunga serie di risultati positivi. Aveva fatto cadere dopo sette mesi il governo Berlusconi. Aveva portato dalla sua parte Dini, che era stato designato a palazzo Chigi dal presidente di Forza Italia. Dopo il fallimento di Maccanico, era andato a elezioni non volute e le aveva vinte. Era riuscito a tenere in piedi la Bicamerale e a non indebolire il governo Prodi, cosa che sembrava impossibile. Eppure, i più alti dirigenti del suo partito non gliene furono grati. Gli avevano sempre rimproverato un rapporto troppo stretto e fiduciario con il suo staff (Minniti, Velardi, Rondolino, Cuperlo), e accolsero nel gelo i risultati della Bicamerale. Quando il braccio destro di Occhetto, Claudio Petruccioli, disse: "Al posto di D'Alema mi suiciderei", nessuno si alzò per difendere il segretario. Dovette farlo Minniti, ma la sua restò una voce solitaria. Veltroni propose di azzerare tutto, delegittimando il presidente della Bicamerale. Così, intorno al 10 luglio, D'Alema decise di dimettersi dalla carica di segretario del partito, mantenendo soltanto quella di presidente della Bicamerale. Non ne parlò con nessuno, nemmeno con i collaboratori più stretti. Minniti però intuì qualcosa e nel chiuso di una stanza gli consigliò di non fare pazzie. Ma la solitudine e l'amarezza del segretario restarono. Di Pietro, senatore del Mugello Nei giorni della grande solitudine, proprio mentre stava decidendo di lasciare la guida del partito, D'Alema era riuscito a togliere Di Pietro dal campo delle mine vaganti e a incasellarlo [p. 393] nella Santabarbara dell'Ulivo. E, ancora una volta, Mirko Tremaglia - il "ragazzo di Salò" amico dell'ex magistrato - prese una solenne fregatura da Tonino. Se ne accorse la sera del 16 luglio, entrando a Montecitorio. Sandra Miglioretti del Giornale Radio Rai gli andò incontro per chiedergli con una certa dose di sadismo: "Ha visto che
Di Pietro ha incontrato D'Alema?". Tremaglia rispose secco: "Non è possibile, mi ha appena detto il contrario". I due s'erano incrociati poco prima all'aeroporto di Ciampino. E Tremaglia aveva chiesto all'amico chiarimenti sulle voci di strani incontri che avrebbe avuto la sera prima in uno stabile del Testaccio dove abita Giuliano Ferrara. L'ex magistrato ammise di aver incontrato Antonio Bargone, sottosegretario ai Lavori pubblici e uomo di fiducia di D'Alema in Puglia, ma negò l'incontro con il segretario del Pds, che invece era avvenuto in gran segreto proprio nel palazzone del Testaccio dove abita sì Giuliano Ferrara, ma anche Nicolino La Torre, allora segretario di Bargone e oggi capo della segreteria di D'Alema a palazzo Chigi. In quell'incontro a Ciampino, Di Pietro disse a Tremaglia di trovarsi in un momento di svolta: "O me ne torno a Montenero, o chiudo con queste aggressioni che vogliono troncarmi la carriera e scendo in campo. E la presenza di Berlusconi mi impedisce di schierarmi con il Polo". "Entra in politica con una iniziativa autonoma" suggerì l'amico, che sognava sempre i agganciarlo ad An. "Vedrò in questi giorni" replicò Di Pietro. Ventiquattr'ore prima, a Curno, l'ex magistrato gli aveva detto che l'idea di un movimento trasversale gli sembrava ancora la migliore, e invece aveva già preso con D'Alema l'appuntamento fatale, preparato una settimana prima durante una cena riservata a Brindisi in occasione del compleanno di Bargone. Di Pietro era ogni giorno sulle prime pagine dei giornali. "la Repubblica" riportava le dichiarazioni di D'Adamo: "Gli regalai auto, telefonino, garçonnière e più di cento milioni per favorire gli amici indagati...". E inoltre: "Chiesi aiuto a Di Pietro e lui disse: vai da Pacini...". Il Gip di Brescia ancora una volta, mesi dopo, avrebbe archiviato le accuse di D'Adamo. Ma [p. 394] intanto il clima s'era fatto irrespirabile e Di Pietro al Testaccio aveva avuto da D'Alema una cuccia calda e inespugnabile: il seggio di Pino Arlacchi nel collegio toscano del Mugello, rosso che più rosso non si può. "Ho trasformato un pericolo in una risorsa" mi disse il leader del Pds, al quale nei due anni successivi Di Pietro non avrebbe risparmiato qualche amarezza. Per evitare scherzi e ambiguità, in cambio del seggio blindato del Mugello, aveva ottenuto da lui una dichiarazione di fedeltà all'Ulivo e al suo programma. "Niente spighe" aveva detto D'Alema per evitare che l'uomo simbolo di Mani pulite scivolasse su liste personali senza etichetta. Contro Di Pietro furono presentati due illustri candidati
forestieri: Giuliano Ferrara per il Polo e Sandro Curzi per Rifondazione. Quest'ultimo, noto al grande pubblico per aver diretto il Tg3 (Telekabul), era un vecchio militante comunista. Salvo distinzioni dichiarate, i comunisti erano confluiti nel Pds. E così aveva fatto lui. Ma quando seppe della candidatura di Di Pietro, chiamò al telefono Bertinotti. "Hai visto che vergogna?" gli disse. E lo trovò d'accordo. Qualche giorno dopo, si offrì come contraltare, e Bertinotti ne fu lieto. Giuliano Ferrara è uomo da battaglia. Non gli importa di vincere o perdere: si diverte nel combattimento. Il Mugello del '97 non era la Bologna del '99, e Ferrara non era un Guazzaloca. Sapeva bene che le sue campagne giornalistiche contro Di Pietro erano state memorabili, e ricambiate con tonnellate di querele. Così, appena fu informato della candidatura del suo storico avversario al Mugello, chiamò Berlusconi: "Voglio andarci anch'io". "Come fa?" gli chiese il Cavaliere "lei è direttore di "Panorama"." Nessun problema, Ferrara si dimise. Era, in verità, stanco da un pezzo di lavorare contemporaneamente al settimanale e al suo "Foglio". Prese a pretesto il rifiuto di Mondadori di ristampare una cassetta con la sintesi dell'incidente probatorio di Stefania Ariosto nel processo contro Previti (c'era stato il divieto del tribunale civile dopo la diffusione della prima tiratura) e se ne andò. Berlusconi, dopo aver tentato invano di trattenerlo, proprio mentre Ferrara stava per entrare nello studio del Maurizio Costanzo Show gli telefonò per [p. 395] chiedergli di candidarsi. L'annuncio della candidatura venne dato in trasmissione, e Costanzo allungò al giornalista un biglietto con il consenso di Fini. La campagna elettorale fu diversa da ogni altra. Ferrara inseguì Di Pietro dappertutto, nella speranza di un confronto. L'ex magistrato si vendicò con il risultato: anche se il suo colore era quanto di più lontano si potesse immaginare dal rosso, l'obbediente Mugello lo consacrò con un plebiscito. Ferrara e Curzi si leccarono sportivamente le ferite. Serenissimi all'assalto di San Marco Alle quattro del mattino di venerdì 9 maggio 1997, Umberto Bossi che scambia d'abitudine il giorno per la notte - lesse sul televideo la seguente notizia: "Commando del Veneto Serenissimo Governo ha occupato il campanile di San Marco". Ora, finché si scherza si scherza, ma al Senatùr venne un colpo constatando che, mentre lui
predicava la secessione nei comizi, qualcuno la stava attuando sul serio. Se il Serenissimo commando fosse stato della Lega, l'avrebbe saputo, ma essendo all'oscuro di tutta la faccenda pensò al peggio, cioè a una manovra dei Servizi segreti. Svegliò Roberto Maroni: era stato ministro dell'Interno, chiamò mezza Italia, ma non riuscì a cavare un ragno dal buco. Svegliò anche Stefano Stefani, un orafo di Vicenza che fa il presidente della Lega nord e che forse quella notte maledisse una volta di più il pasticcio in cui s'era messo lasciando le collane d'oro per il Parlamento. All'alba, Bossi dettò alle agenzie di stampa: "E' una roba da matti, una provocazione. Chiedete al Viminale per saperne di più". Chi erano i conquistatori di San Marco? Un gruppo di otto, tra uomini e ragazzi, che non amavano il Senatùr, consideravano la Padania una cosa senza capo né coda e desideravano soltanto una forte autonomia per una grande regione che comprendesse il Veneto, il Trentino e il Friuli, insomma le tre Venezie eredi della Serenissima Repubblica. Guardi che la [p. 396] Fondazione Agnelli vuole le stesse "macroregioni", dissi a Fausto Faccia, il capo del commando, intervistandolo in carcere. Lui annuì senza scomporsi. Il suo linguaggio era assai più moderato di quello usato abitualmente da Bossi. Gli dispiaceva che l'identità veneta andasse frantumandosi. Un robusto federalismo gli stava benissimo. La secessione? "Ma quando mai" mi rispose. "La Padania è un'assurdità. Adesso ci mettiamo a inventare Stati nuovi, mentre la storia torna indietro a riscoprire le origini di quelli esistenti e delle regioni che li formano." E quando gli chiesi se lui e i suoi soldati non fossero stati un po' matti a rischiare tanti anni di carcere, replicò: "Un rapinatore fa i conti. Un idealista no". "Non mi piace la secessione e non mi piace parlar male dei meridionali" mi spiegò in un altro carcere Gilberto Buson, il vecchio del gruppo, sposato, cinque figli. "Mi piacerebbe un Veneto autonomo dentro l'Italia, come è sempre esistito. Cesare voleva cavalli veneti..." Le stesse cose mi dissero gli altri membri del commando. Luca Peroni, agli arresti domiciliari a Caldiero, provincia di Verona, mi raccontò la battaglia di Marcantonio Bragadin contro i turchi a Famagosta. Come si chiama il figlioletto di Peroni? Marcantonio. Andai a mangiare pane e salame a casa di Cristian Contin a Urbana, un paese del profondissimo Veneto, tra Padova, Verona, Vicenza e Rovigo. Sul tavolo del tinello c'era "Il Gazzettino" del 15 settembre: Bossi: Padania nata, Italia divisa. Era nata la "doppia legalità", che di lì a due anni avrebbe portato il Senatùr alla prima
grande sconfitta del decennio. Ma in casa Contin le parole Padania o Zaire avevano lo stesso fascino. Mi disse Cristian: "Per imparare l'italiano c'è tempo quando si cresce. Anche nella mia scuola tutti parlavano veneto. Il veneto non è un dialetto, è una lingua. A scuola mi piacevano tanto le storie della grande Roma. Ma nessuno mi ha insegnato che esisteva una grandissima repubblica veneta. Quando l'ho scoperto, è stata una cosa stupenda. Una cosa che uno si sente dentro". Spinti da questa "cosa", venti minuti dopo la mezzanotte di giovedì 8 maggio, gli otto del commando si presentarono all'isola del Tronchetto, dove stava partendo l'ultimo traghetto [p. 397] per il Lido, e fecero salire il "tanko". Era questo un curioso mezzo blindato che Flavio Contin, lo zio di Cristian, aveva costruito con le sue mani una quindicina d'anni prima. "Pensavamo ad azioni di difesa, se ci fossero stati problemi con l'Est" mi spiegò Fausto Faccia. Ma sarebbe bastato uno starnuto dei carristi sovietici per toglierlo di mezzo. Il "Serenissimo tanko" salì sul traghetto senza problemi, perché il comandante aveva preso il commando per un reparto di Lagunari. Faccia gli ordinò di puntare su San Marco, ove erano in attesa polizia e carabinieri, allertati da un paio di telefonate. "Ve tiro zò tuti, ve copo!" gridò alle forze dell'ordine, pur mantenendo rivolto verso l'alto il suo vecchio mitra (unica arma della squadra). Quelli non si mossero e gli otto salirono sul glorioso campanile di San Marco come per una scampanata. S'illudevano di restarci tre giorni, fino al 12 maggio, duecentesimo anniversario della caduta della Veneta Serenissima Repubblica. Nel frattempo, lo Stato italiano avrebbe dovuto trattare con un misterioso ambasciatore della Serenissima, Umberto Segato, l'ideologo del gruppo, che sarebbe stato arrestato più tardi e che quel giorno si guardò bene dal rivelarsi, perché quando arrivò in piazza San Marco l'impresa era già finita. Anche per un paese scombinato come l'Italia tre giorni di figuraccia internazionale erano troppi. Così, poco dopo le otto del mattino, mentre parlava a distanza con il sindaco Cacciari, Faccia si ritrovò puntati addosso i mitra dei Gis, le teste di cuoio dei carabinieri. "Non fare scherzi, altrimenti ti spariamo in testa" gli dissero quelli del commando vero. E lui ebbe poco da obiettare. Al processo non fu difficile documentare che nel corso dell'azione, pur grave e clamorosa, il capo del commando e i suoi sette compagni non commisero violenze di alcun genere, né tentarono di farlo. Il
giudice fu comprensivo: condannò Faccia e i più anziani del gruppo a sei anni, e i più giovani a quattro anni e nove mesi, ma agli arresti domiciliari; pene che vennero ridotte in appello, con la scarcerazione di [p. 398] tutti gli imputati. Non furono invece comprensivi i giudici dell'esecuzione, che negarono l'affidamento ai servizi sociali per Fausto Faccia, Andrea Viviani e Luca Peroni. Li ritennero pericolosi socialmente perché non rinnegarono le proprie idee. Fu proibita loro anche la consultazione dei documenti dell'archivio di Stato di Venezia. In un paese molto "perdonista" come il nostro, dove tornano prestissimo in libertà responsabili di gravi delitti contro la persona, questa eccessiva severità non ha fatto che moltiplicare in Veneto le attestazioni di solidarietà nei confronti dei Serenissimi. La capriola di Bertinotti "Ho investito molto nel rapporto personale con Bertinotti. Ho pagato pesantemente l'esposizione del governo verso Rifondazione. E vengo ricambiato così?" Lunedì 6 ottobre 1997, Romano Prodi visse una delle giornate più amare della sua stagione politica. La crisi di governo era ormai certa. Dopo un mese di scaramucce, doveva arrendersi all'evidenza. Fausto Bertinotti era tornato dalle vacanze con la ferma intenzione di uscire dalla maggioranza e di far cadere il primo gabinetto dell'Ulivo. Non aveva aperto la crisi sull'Albania in aprile perché non era quello il suo terreno elettorale. Ma già da allora aveva deciso di aprirla in autunno sullo stato sociale. Il segretario di Rifondazione e il suo presidente, Armando Cossutta, facevano un ragionamento che mi venne riassunto così da Ersilia Salvato, voce solista del partito: "Noi siamo nati come forza alternativa. Di questo passo viene messa in discussione la nostra identità. Il contrattualismo senza respiro politico ci soffoca. C'è il rischio dell'omologazione". Bertinotti aveva definito la nuova legge finanziaria "inemendabile": non c'erano margini per evitarne la bocciatura, aprendo la crisi. A metà settembre, il segretario della Cgil, Sergio Cofferati, aveva detto a D'Alema: "Io sono pronto a fare un passo in [p. 399] avanti sulle pensioni di anzianità, ma debbo avere la garanzia assoluta di non essere scavalcato da Prodi". Da quando era nato il governo, infatti, il Pds aveva guardato con crescente inquietudine al rapporto tra Prodi e Bertinotti, ritenendo che il Professore fosse troppo arrendevole nei confronti del leader di Rifondazione. Questo sospetto aveva ingessato la Cgil, di per sé poco disposta a fare concessioni e
comprensibilmente allarmata all'idea di essere smentita, se ne avesse fatte. Il 19 settembre, Bertinotti, in un incontro a quattr'occhi con D'Alema, chiese di affiancare un tavolo politico sullo stato sociale a quello che vedeva di fronte sindacati e imprenditori. Lui rifiutò, sapendo che in quel modo entrambi i tavoli sarebbero saltati. Capì, in ogni caso, che il leader di Rifondazione voleva sul serio la crisi. Dieci giorni dopo, i gruppi parlamentari e la direzione del partito bocciarono definitivamente la legge. Prima di rompere, D'Alema e Bertinotti decisero di incontrarsi di nuovo. Il segretario del Pds rinunciò a trattare il merito del problema e lanciò all'alleato (fino a quando?) un pesante avvertimento politico: "Fausto, se esci dalla maggioranza, ti isoli, non conterai più niente. Non ti inviteranno più nemmeno al Maurizio Costanzo Show. Non illuderti di poter evitare il voto anticipato. Se alle elezioni l'Ulivo vince, tu cesserai di esistere. Certo, avrai un po' di deputati per fare le tue battaglie, ma sarai considerato un arnese da museo. La gente dirà: guarda, c'è anche Bertinotti. Se invece l'Ulivo perde, sarai inseguito nei secoli dalla maledizione della sinistra. Berlusconi torna al governo e, qualunque cosa sciagurata faccia, la colpa ricadrà su di te. Pensaci, Fausto, pensaci". D'Alema sapeva quel che diceva. I sondaggi riservati della Swg mettevano nel conto che Rifondazione, correndo da sola, non avrebbe preso nemmeno uno dei 475 seggi assegnati con il sistema maggioritario e ne avrebbe guadagnati a stento una quindicina nelle liste proporzionali. Per il resto, il Polo stava un po' meglio dell'Ulivo e poteva essere favorito da un possibile calo della Lega nord. La mattina di giovedì 9 ottobre, D'Alema stava esaminando [p. 400] questi dati nel suo studio alle Botteghe Oscure, quando da palazzo Chigi Walter Veltroni gli annunciò la crisi. Bertinotti, chiamato subito al telefono, confermò. Quel giorno, Prodi lesse il proprio necrologio in trentacinque minuti e lo concluse lanciando questo anatema nei confronti di Bertinotti, che guardò fisso, con le labbra serrate, attraverso le spesse lenti da miope: "Dipende da lei, onorevole Bertinotti, il futuro dei malati cronici, dei lavoratori di Brescia, dei disoccupati del Sud". Il presidente del Consiglio aveva toccato così, con sole diciotto parole, lo stato sociale, la disoccupazione, la condizione dei lavoratori nell'ultima riserva dura e pura della sinistra sindacale italiana.
Quella sera, alla fine di un dibattito televisivo, Marco Minniti annunciò le elezioni anticipate a un provatissimo Bertinotti. "Vi capisco" gli rispose il leader di Rifondazione. Contemporaneamente Marini chiese a D'Alema quarantott'ore di tempo per convincere Casini e Mastella a entrare nell'Ulivo. Mastella avrebbe subito volentieri quella che i romani chiamavano "vis grata puellae", cioè una violenza con apprezzabili risvolti erotici. Ma Casini ne salvò ancora per un anno la virtù, e Marini rimase a bocca asciutta. Venerdì 10, Bertinotti ricevette uno schiaffo dal "manifesto": Facciamoci del male era il titolo della prima pagina. Il giornale dava voce al malessere che tormentava la base comunista assai più di quanto Cossutta e Bertinotti avessero immaginato. La Fiom, la punta più avanzata del sindacato metalmeccanici, spingeva per l'accordo. I militanti di Rifondazione nelle fabbriche bresciane erano pesantemente attaccati dai compagni del Pds e facevano pressione su Roma. Mi disse Piero Fassino, che conosce bene gli operai della Fiat: "A Mirafiori, molti esponenti di Rifondazione si sono messi in malattia pur di non affrontare la discussione con i compagni del Pds". In quel drammatico fine settimana, avvenne il miracolo. In genere, per ottenerlo, ciascuno si rivolge al santo di casa. Prodi, invece, trovò il suo a Parigi. Il primo ministro francese Lionel Jospin propose, infatti, la riduzione per legge dell'orario di lavoro a trentacinque ore. Per il presidente del Consiglio [p. 401] fu una bombola d'ossigeno, per Bertinotti un'iniezione tonificante. Restava lo scoglio di dover votare senza modifiche una legge finanziaria definita "inemendabile". Domenica 12, il leader di Rifondazione fu contestato duramente alla Marcia della pace di Assisi. Finita la manifestazione, fu invitato da Enrico Micheli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che ha una bella casa nella vicina Montefalco. Dall'incontro nacque una proposta che fu formalizzata in quella stessa serata festiva: la finanziaria sarebbe rimasta intatta, ma il governo si sarebbe impegnato a far proprio il progetto francese delle trentacinque ore. D'Alema in seguito tentò di forzare: Bertinotti faccia entrare un paio dei suoi nel governo. Prodi si oppose: temeva che saltasse il tavolo delle trattative e sapeva che Scalfaro era pronto ad affidare al presidente della Camera Violante l'incarico di formare un governo istituzionale. La sera di lunedì 13 ottobre, D'Alema intervenne alla mia trasmissione Porta a porta dove, in suo onore, Gianfranco Vissani
preparò un memorabile risotto. Aveva in tasca due paginette scarse con il testo dell'accordo appena scritto, ma evitò di parlarne, nonostante l'insistenza mia e di Ferruccio De Bortoli, direttore del "Corriere della Sera". La crisi era comunque scongiurata. Mi disse uno dei più alti dirigenti del Pds per commentare la capriola di Bertinotti: "Portare fino in fondo una sfida e poi saperla capovolgere: solo i grandi gesuiti e i comunisti riescono a farlo". Da Pds a Ds: sposo su, sposa giù L'inizio del '98 fu segnato dalla trasformazione del Partito democratico della sinistra - il Pds che nel '91 aveva sostituito il Pci - in Democratici di Sinistra. Come si sarebbe visto nei due anni successivi, la trasformazione fu irrilevante. Se la Cosa sognata da Occhetto nell''89 aveva portato alla nascita di un partito socialdemocratico di governo, la Cosa Due sognata da D'Alema, dopo una gestazione frustrante, portava, [p. 402] il 12 febbraio 1998 a Firenze, alla ratifica di un fallimento. Il rifiuto di Giuliano Amato di entrare nel nuovo partito da protagonista ne aveva bloccato all'origine ogni spinta innovativa. Me lo confermò lo stesso D'Alema, al quale il realismo non ha mai fatto difetto: "Questo processo non ha dato finora i risultati che potevamo aspettarci. Abbiamo fatto incontrare gruppi dirigenti politici che rappresentavano storie passate. E' stata l'iniziativa ristretta di persone attente più a chiudere la storia trascorsa delle divisioni a sinistra che ad aprire una porta sul futuro. Il processo costituente ha avuto pochi elementi di novità". Il segretario dei Ds - con qualche fatica, ora si doveva chiamarli così - disegnava con gelida efficacia il parterre del palazzo fiorentino dello sport. Come nei matrimoni in cui i parenti della sposa hanno un'immagine modesta, la famiglia dello sposo fece uno scatto di dignità presentandosi al gran completo per non deludere troppo gli invitati. Ecco, dunque, allineati dietro lo sterminato tavolo della presidenza (ricordo di antichi congressi) D'Alema e Veltroni, Salvi e Mussi, Minniti e Bassolino, Visco e Bersani, Livia Turco e Giovanna Melandri, Anna Finocchiaro, Cofferati e perfino l'eretico Macaluso, a dimostrazione che non ci si era dimenticati nemmeno dei cugini con cui i rapporti si erano raffreddati. E i parenti della sposa? Gente assai perbene, ma come dice D'Alema, tolta da un qualche "amarcord": il vecchio socialista Giorgio Ruffolo e il laburista Valdo Spini, il cristiano sociale Ermanno Corrieri e il
comunista unitario Famiano Crucianelli, il socialdemocratico Gianfranco Schietroma e il sindaco fiorentino Mario Primicerio, allievo di Giorgio La Pira. Infine, la new entry Pietro Larizza, capo della Uil, e Pierre Carniti con il sigaro spento. D'Alema celebrò le nozze con un discorso insieme sofferto e svogliato e della cosa non si parlò più. Lo sposo continuò a fare la vita da scapolo e della sposa, che s'accontentò dell'anello nuziale e di una piccola rendita elettorale, nessuno avrebbe sentito più parlare. Il 27 febbraio si aprì a Verona la grande assemblea di [p. 403] Alleanza nazionale. Fini era stato chiaro: "Il fascismo" mi disse in volo verso il Veneto "l'abbiamo sepolto a Fiuggi nel '95. A Verona parleremo di politica". Ricordò, in effetti, nel discorso inaugurale che nella città termale "definimmo la nostra condanna di ogni forma di autoritarismo e totalitarismo... stigmatizzammo come immorale e ignobile ogni atteggiamento razzista, antisemita e xenofobo". E terminò con una frase di grande effetto: "Alleanza nazionale non ha alcuna intenzione di utilizzare la storia e le tragedie del secolo che si sta chiudendo come arma impropria nella lotta politica quotidiana... Questo vale anche per la sinistra democratica e per tutte le formazioni centriste". Tali buoni propositi avrebbero impedito, nell'ottobre del '99, di approfittare della pubblicazione delle liste di presunti informatori del Kgb per accusare Cossutta di essere un "traditore della patria", suscitandone così la sdegnata reazione. Ma Fini, allora, si sentiva pronto a uno scatto in avanti e ne avrebbe dato prova il 14 marzo a Trieste. Quel giorno il presidente di An fu invitato a un dibattito con il presidente della Camera, Luciano Violante. Si ricorderà che subito dopo le elezioni del '96, pur di non votare Violante alla guida di Montecitorio, Fini fece perdere al Polo la presidenza del Senato. Fin da allora, tuttavia, bastarono pochi minuti al presidente della Camera per conquistare il cuore della destra, sdoganando chi aveva creduto nella Repubblica di Salò. A Trieste, dunque, dibattendo su "Democrazia e identità nazionale", Violante fece un passo che la sinistra italiana non aveva mai compiuto: affiancò per la prima volta la risiera di San Sabba lager nazista dove furono uccisi quattromila tra ebrei, partigiani e sloveni - alle foibe, voragini frequenti in Istria dove i partigiani di Tito gettarono migliaia di italiani. Fini dette atto a Violante dell'enorme passo in avanti. "Ancora una volta" scrisse l'inviato della "Stampa" Pierluigi Battista "Fini ha
ancora una volta assaporato il frutto della rilegittimazione, dello sdoganamento ormai compiuto... non intende apparire revanscista, rivendicativo, nostalgico, passatista." [p. 404] "Il libro nero" di Berlusconi cadde su Fini Torniamo all'assemblea veronese di An. Dopo aver sepolto il fascismo e rinunciato a utilizzare la storia come arma impropria della politica, Fini fece perno sulla città in cui s'era tenuto il primo congresso del Partito fascista repubblicano per ammonire i suoi che An era ormai "un partito di programma che guarda al futuro, senza complessi di inferiorità e senza ideologie". Silvio Berlusconi sembrò apprezzare. "Sorriso largo e tondo" scrisse l'inviato della "Repubblica" Vittorio Testa "ha l'aria appagata di un'ape colma di miele, quando si avvia al brindisi nella saletta riservata a Gianfranco Fini." L'indomani il Cavaliere fece tuttavia al suo principale alleato una sorpresa che, in altri momenti, sarebbe stata forse gradita, ma che quel giorno mandò di traverso a Fini l'assemblea nazionale di An. Berlusconi si presentò infatti a Verona con duemilacinquecento copie del Libro nero del comunismo. Era questo un saggio pubblicato in Francia da un gruppo di storici autorevoli, coordinati da Stéphane Courtois, appena tradotto dalla Mondadori. Berlusconi aveva scorso l'originale durante le vacanze natalizie. Era bastata una frase a caricarlo: "I regimi comunisti, per consolidare il loro potere, hanno fatto del crimine di massa un autentico sistema di governo". E giù con i numeri della carneficina: venti milioni di morti in Urss, sessantacinque in Cina, uno in Vietnam. Poi la Cambogia, l'Europa orientale e tutto il resto. Secondo Courtois, la somma totale dei morti era cento milioni. Troppi perché il Cavaliere rinunciasse all'opportunità di commemorarli nel modo più solenne. Come principale azionista della Mondadori, beneficiò di uno sconto del 63 per cento sul prezzo di copertina e per le duemilacinquecento copie distribuite a Verona pagò di tasca propria una fattura di 29.600.000 lire. La distribuzione del corposo volume avvenne in un tripudio di folla e in un eccitante rigurgito di anticomunismo. Ci fu un'autentica ressa e una delle hostess che lo distribuivano si ritrovò con una spalla nuda. [p. 405] L'intervento politico di Berlusconi fu all'altezza del gesto appena compiuto: "La sinistra è ancora fatta degli uomini che hanno incensato l'ideologia dell'oppressione di massa, l'ideologia
che la storia ha dimostrato essere responsabile di crimini contro l'umanità". Essi oggi governano "con metodi legati all'ideologia, e usano i giudici amici per eliminare gli avversari politici". All'entusiasmo della platea, Fini oppose il gelo. Sebastiano Messina, inviato della "Repubblica", gli sentì dire: "Ma come gli è saltato in mente a Berlusconi di venire in casa mia a darmi lezioni di anticomunismo?". Quella sera lo trovai seccato, perplesso e preoccupato. Pur sapendo che Il libro nero sarebbe stato distribuito all'assemblea (la segretaria di Berlusconi, Marinella Brambilla, aveva concordato il numero di copie con Altero Matteoli, capo dell'organizzazione di An), Fini non aveva previsto l'entusiasmo riservato al presidente di Forza Italia dalla sua base. E prese adeguate contromisure. L'indomani oppose al Cavaliere tre fermi "no". Non si può fare una politica anticomunista "perché in Italia il comunismo non c'è più". Le riforme vanno approvate "perché le chiedono gli italiani". "La separazione delle carriere dei magistrati non può essere pregiudiziale." Berlusconi la prese malissimo e vide nella reazione di Fini il concretarsi di un'autentica strategia politica ai suoi danni. Ai suoi collaboratori più stretti, fece questo discorso: "Vedo confermato un dubbio che mi tormenta da tempo. Fini mi considera al tramonto, immagina che le difficoltà della Bicamerale liquideranno la mia stagione politica. Ritiene che penda sulla mia testa come un macigno il rischio delle condanne giudiziarie, giudica imminente il mio ritiro. E allora vuole proporsi come l'interlocutore naturale di D'Alema e vuole fare con lui l'intesa costituzionale per spazzare via ogni residuo di pregiudizio antifascista che ancora frena una parte dell'elettorato moderato. Se il nuovo capo dello Stato sarà eletto direttamente dal popolo, Gianfranco vorrà candidarsi. Sarà battuto, ma diventerà al tempo stesso il leader del Polo". Quando gli riferirono questo discorso, Fini non ne accettò nemmeno una parola, ma il rapporto con Berlusconi restò a [p. 406] lungo incrinato, per colpa di una strategia ormai diversa tra i due sulla Bicamerale. Per capire l'entità della frattura che di lì a qualche mese avrebbe portato al fallimento della Commissione presieduta da D'Alema, bisogna tornare indietro di quasi un anno. Abbiamo visto che Fini, dopo aver osteggiato in ogni modo la nascita della Bicamerale e la nomina a suo presidente del segretario del Pds, aveva mutato radicalmente atteggiamento il 4 giugno 1997,
quando il "golpe" della Lega aveva fatto passare il semipresidenzialismo. Poco dopo, Berlusconi fece a Fini questo discorso: io ti seguo sul semipresidenzialismo, dettane tu le condizioni, per me andranno bene. Tu però seguimi sulla giustizia. Fini accettò. Il Polo, con l'iniziale sostegno del Ppi, era favorevole alla separazione della carriera dei pubblici ministeri da quella dei magistrati giudicanti. L'Associazione nazionale magistrati ha sempre respinto fermamente questa soluzione, esistente peraltro in quasi tutti i paesi europei. E il Pds, che non ha mai voluto aprire fronti con i magistrati, ne ha sempre sostenuto le ragioni. Dopo una logorante discussione, tuttavia, la Bicamerale aveva deciso di istituire due Consigli superiori della magistratura, uno per i pubblici ministeri e l'altro per i magistrati giudicanti. Se non fossero state separate, le carriere delle due categorie sarebbero state almeno "distinte". Pur urtando la suscettibilità del sindacato dei giudici, la sinistra era stata costretta a trattare. Il 30 gennaio 1998, Fini tolse inaspettatamente a D'Alema le castagne dal fuoco. Intervenendo all'assemblea dell'Associazione nazionale magistrati, si disse disponibile a rinunciare alla divisione in due del Csm, purché venissero ridimensionati il peso dei rappresentanti del pubblico ministero all'interno del consiglio e il ruolo delle correnti. Commentò soddisfatto Cesare Salvi, uomo chiave del Pds sui problemi della giustizia: "Adesso si riparlerà di un asse D'Alema-Fini: ma che possiamo farci?". Una successiva precisazione del presidente di Alleanza nazionale non convinse Berlusconi. Per questo a Verona, un mese dopo, il Cavaliere suonò la carica facendo capire che senza il suo consenso le riforme non si sarebbero fatte. [p. 407] Il "nulla" di Forza Italia riempì Milano Non sappiamo se Berlusconi a Verona avesse già deciso di far saltare la Bicamerale. Certamente, il colpo finale lo dette il 15 aprile, all'immediata vigilia del primo congresso di Forza Italia. Mi disse il Cavaliere in un'intervista per "Panorama": "Il rischio è di non avere un sistema presidenziale e neppure un governo parlamentare. Ma allora c'è da chiedersi se non sia addirittura preferibile il sistema del cancelliere eletto in Parlamento con la proporzionale, lo sbarramento del 5 per cento e il premio di maggioranza". Berlusconi non sarebbe stato equanime se dopo aver seminato zizzania nelle file avversarie (Cossiga, Bertinotti, Bossi e Marini
erano favorevoli al sistema proporzionale) non avesse assestato una botta a Fini. Aggiunse infatti: "Fini, che è stato a lungo un miscredente delle riforme e della Bicamerale, un miscredente che io e solo io ho convertito, è diventato adesso un fervente sostenitore e quasi un apostolo della Bicamerale. E qualche volta mostra di esserlo anche a prescindere dai contenuti. Forse pensa più ai vantaggi di una solenne e definitiva legittimazione che deriverebbero dal nuovo patto costituzionale al suo partito, che è stato appunto escluso dal vecchio patto costituzionale". Fini si accontentò di una telefonata di chiarimento, D'Alema - che si trovava in Cina - sperò invano in un malinteso. L'indomani, aprendo il congresso di Forza Italia, Berlusconi non tornò sul sistema proporzionale e complessivamente fu più prudente. Ma la sorte delle riforme, come vedremo, era segnata. Il congresso cominciò il 16 aprile al Forum di Assago. Cinquecento invitati e cinquecentocinquanta giornalisti vi si recarono come alla prima visita guidata a una tribù di marziani. Quanti nasi avevano gli elettori del "partito di plastica"? Quale lingua parlavano? Quale menomazione da Cottolengo poteva aver portato otto milioni di italiani a votare per Sua Emittenza? Per quattro anni, la gran parte del mondo politico e giornalistico italiano aveva seriamente pensato che il Cavaliere avesse alle spalle soltanto le telecamere di [p. 408] Mediaset e avesse raccattato voti grazie a una geniale e irripetibile campagna fondata sull'abuso della credulità popolare. D'Alema, ottimo professionista della politica, dopo le elezioni del '96 si rese conto di aver staccato sul traguardo Forza Italia soltanto di un centesimo di secondo e grazie agli indiscutibili errori commessi dal Polo. Lo disse ai suoi amici e compagni: ragazzi, abbiamo la maggioranza in Parlamento, ma siamo minoranza nel paese. Gli altri, naturalmente, avevano preso per una provocazione quella che invece era una realistica valutazione politica. Adesso, con lo spalancarsi delle porte di Assago, tutti - giornalisti e ospiti politici - scoprivano attoniti che i seguaci di Berlusconi erano tanti e avevano addirittura un solo naso. Chi erano i tremilacinquecento delegati eletti in centotredici congressi provinciali e metropolitani? Secondo un sondaggio riservato di Datamedia, l'elettore di Forza Italia ha maggiore fiducia degli altri nella Chiesa, nei carabinieri, nella polizia e anche nella Guardia di finanza (nonostante il gran numero di partite Iva). Ama, naturalmente, Mediaset più della Rai e, rispetto al campione nazionale, ha minore fiducia nelle istituzioni
politiche e nel sindacato. Infine, soltanto il 20 per cento degli elettori di Forza Italia ha fiducia nella magistratura: la metà del campione nazionale. Berlusconi aveva rinviato a lungo quel congresso perché voleva che fosse perfetto nella forma e nella sostanza. Se lo era costruito pezzo su pezzo e perfino sedia su sedia. Quando entrò nel Forum di Assago, i tremilacinquecento delegati lo accolsero non come un leader politico, ma come una divinità che ha deciso di fare una scampagnata sulla terra. Il Cavaliere incassò centoventidue applausi in un discorso di due ore pronunciato a braccio. Celebrò i padri fondatori della democrazia italiana, da Alcide De Gasperi a Luigi Einaudi, da Giuseppe Saragat a Ugo La Malfa. Attaccò il governo e la magistratura. Sui pentiti disse: "Mia zia, con tre foglie di lattuga, portava a spasso cinquanta galline, come questi portano i pentiti dove vogliono con i soldi dei contribuenti". Giurò di nuovo sulla testa dei propri figli di non aver mai autorizzato pagamento di tangenti alla Guardia di finanza. Né Marina né [p. 409] Piersilvio, presenti con la nonna Rosa e lo zio Paolo, furono visti accarezzarsi il collo né abbandonarsi con discrezione a un qualunque tipo di scongiuro. La frase di Berlusconi, diventata un classico nelle battute giornalistiche, scatenò un applauso che fece venir giù il Forum. Cinquecentocinquanta increduli cronisti scoprirono che il Cavaliere era il più moderato della compagnia. Il congresso si concluse in piazza Duomo a Milano il 18 aprile, cinquantesimo anniversario della storica vittoria democristiana sul Fronte popolare. La questura parlò di settantamila persone, Forza Italia di trecentomila. In ogni caso, la manifestazione riempì di tricolori il cuore di Milano con uno spettacolo che gli esperti dissero di non aver mai visto. A Prodi scappò un commento infelice: "A Milano c'è stato un piccolo congresso fatto di nulla". Berlusconi rispose: "Il nulla ha riempito Milano". Bicamerale, il caro estinto Una settimana dopo il trionfo congressuale, Berlusconi decise definitivamente di affondare la Commissione sulle riforme. Rientrando in aereo a Milano con Urbani gli disse: "Dobbiamo avere il coraggio di prendere una decisione definitiva". L'altro tagliò corto: "Silvio, stacchiamo la spina". L'encefalogramma del paziente era ormai piatto e non c'erano nemmeno organi da espiantare. L'agonia, peraltro, fu
lunga. D'Alema e Fini si illusero che Berlusconi, caratterialmente più portato alla mediazione che alla chiusura, alla fine avrebbe mollato. Mi spiegò invece Salvi: "Il mio giudizio sulle capacità politiche del Cavaliere è più alto di quello abituale del mio schieramento. Per questo non ho mai creduto che la condizione per il successo della Bicamerale fosse la soluzione politica delle sue questioni giudiziarie. Attraverso la Commissione, Berlusconi mirava invece a un successo che riportasse il Polo al governo con una Grande Coalizione o comunque gli garantisse un ruolo e una statura indiscussi al termine di un percorso che magari [p. 410] avrebbe portato anche a grandi rotture con la magistratura. Ha visto che non accadeva niente di tutto questo, ha constatato che il paese era molto tiepido sulle riforme e che il suo elettorato su questo punto non lo seguiva e ha staccato la spina". Nelle prime due settimane di maggio, come capita agli aerei che continuano a bombardare quando l'esito della guerra è già deciso, la procura di Milano intensificò il fuoco su Berlusconi: perciò si disse che il Cavaliere aveva deciso di rompere prima che gli fosse comunicata la richiesta di condanna per il processo All Iberian (questa, pesantissima, cinque anni e mezzo di carcere, sarebbe arrivata il 2 giugno, al formale esaurirsi della Bicamerale). Il 13 maggio D'Alema disse a Porta a porta: "Berlusconi sia responsabile, separi le riforme dalle sue vicende personali. Il "patto della crostata" in casa Letta [semipresidenzialismo e nuova legge elettorale] è ragionevole, io lo difenderò". In quei giorni, D'Alema era ancora convinto di farcela. Fini era più pessimista. Ma entrambi ritenevano possibile un accordo sulla giustizia (principi generali nella Costituzione, legge ordinaria sulla distinzione delle carriere in magistratura) e un compromesso sul semipresidenzialismo. L'indomani, mentre i giornali titolavano sull'asse Fini-D'Alema in grado di far ripartire le riforme, Forza Italia riportò tutti bruscamente alla realtà: senza Berlusconi, nessun accordo è possibile. All'ultimo istante utile, i Ds proposero che il capo dello Stato presiedesse il Consiglio dei ministri sulle questioni di politica estera. Lo fecero senza avvertire i popolari, che s'infuriarono. Ma fu inutile. Il 27 maggio, Berlusconi annunciò in aula il voto contrario al compromesso sui poteri del capo dello Stato. Fini replicò: "Non condivido questa decisione, ma il Polo non si spacca". Il 2 giugno, cinquantaduesimo anniversario della Repubblica, la Bicamerale chiuse. Disse D'Alema: "In questo momento, il Parlamento non apre il glorioso cammino della Costituente, ma
registra una sconfitta". Quel giorno, come usa dopo i funerali, Berlusconi e Fini commemorarono l'estinto a pranzo con accenti diversi. Per la prima volta, pur sedendo l'uno di fronte all'altro nel salone di palazzo Grazioli, non incrociarono mai gli sguardi. [p. 411] Riconosce oggi Fini, ripensando a quegli avvenimenti con freddezza: "Berlusconi al congresso di Forza Italia aveva detto con molta chiarezza: signori, a queste condizioni le riforme non le faccio. Allora sottovalutai la solennità di quell'affermazione. Non capii che quel giorno Berlusconi aveva smesso gli abiti dell'impolitico per indossare quelli del politico professionista. Dopo un impegno pubblico di quel genere, non poteva dire il giorno seguente: signori, stavamo scherzando. Il problema è che, rompendo, Berlusconi non aveva davanti a sé nessuna alternativa: tanto è vero che il decennio si chiude senza riforme". "N" come nemico La sera dell'11 agosto 1998, il magistrato Luigi Lombardini si uccise con un colpo di pistola nel suo ufficio del tribunale di Cagliari. Il suicidio avvenne alla fine di un interrogatorio condotto da quattro procuratori di Palermo guidati dal loro capo Giancarlo Caselli. Lombardini, che aveva gestito a modo suo alcuni sequestri di persona, badando forse più al risultato che al rispetto della procedura, non aveva buoni rapporti con il procuratore di Palermo, se non altro perché aveva cercato di avere lui quell'incarico. Dovendo indagare su Lombardini, Caselli avrebbe forse potuto farlo in modo più discreto, anche se il Guardasigilli lo scagionò completamente. Si presentò a Cagliari con altri quattro magistrati provocando l'assedio dei giornalisti e dei fotografi intorno all'ufficio in cui Lombardini si sarebbe ucciso. L'indomani Paolo Gambescia, freschissimo direttore dell'"Unità", scrisse sul suo giornale: "Bisognerà capire se l'inchiesta aveva delle ragioni valide o se, come spesso accade, il desiderio di arrivare comunque a un risultato abbia spinto gli inquirenti a forzare la mano... E' un fatto che troppe inchieste siano ormai segnate da eventi luttuosi". In quelle settimane, infuriava sui giornali un'aspra polemica che s'allargò anche ad altre inchieste giudiziarie. I [p. 412] magistrati delle procure erano sostenuti da giornalisti "giacobini", come sostenne Ernesto Galli della Loggia, o invece gli autori dell'accusa erano a loro volta "liberali alle vongole", come insinuò Eugenio Scalfari?
Edmondo Berselli, un editorialista estraneo a simpatie per il centrodestra, scrisse sul settimanale "Liberal": dopo la vittoria dell'Ulivo nel '96 "si è visto che Berlusconi era battibile elettoralmente, ma non era così facilmente liquidabile come presenza politica. Dopo l'aggancio dell'euro, il presunto "regime" dell'Ulivo è cominciato ad apparire come una possibile parentesi. Ha preso a circolare una certa inquietudine. Dietro la figura del Cavaliere si è ricominciato a vedere il solito blocco sociale irriducibile alla sinistra: la piccola impresa, il lavoro autonomo, il popolo delle partite Iva, i revanscisti antitasse, gli insofferenti alle regole. Qualcuno - Bertinotti - può cavarsela evocando l'incanaglimento della "plebe borghese". Qualcun altro invece sente irresistibile la tentazione di assecondare la liquidazione del nemico per via giudiziaria. E' la scorciatoia classica. Si prende Berlusconi e lo si colloca in una nicchia intoccabile come sintesi del male". Titolo dell'articolo di Berselli: Il fattore N. Sommario: "N come nemico. E' la pietra angolare su cui si fonda lo spirito giacobino-gauchista. Berlusconi è solo l'ultimo della serie. Prima di lui c'erano gli amerikani, la P2, Gladio, Craxi, Belzebù, i Padroni, la Mafia, i Servizi e tutte le Forze Oscure della Reazione in Agguato". Berselli ha toccato un problema centrale della nostra democrazia, che la fine del secolo trova irrisolto: il capo dell'opposizione parlamentare - già presidente del Consiglio dei ministri e ragionevolmente candidato a riproporsi per quel ruolo - è investito da sei anni da una bufera giudiziaria oggettivamente senza precedenti. Quando pranzai con Di Pietro il giorno del suicidio di Cagliari, il 20 luglio 1993, gli chiesi come mai Berlusconi e la Fininvest fossero rimasti estranei alla bufera. "Perché Berlusconi" mi rispose "aiuta i partiti regalandogli gli spot elettorali in Tv. E questo non è reato." Seppi più tardi che quella di Di Pietro [p. 413] non era una battuta, ma faceva seguito a un'accurata richiesta di chiarimenti rivolta alla Fininvest dalla procura di Milano. La vita è fatta anche di coincidenze, ma è difficile smentire Berlusconi quando ancora oggi - a me che gli chiedo di collocare nel tempo il primo sospetto di essere "curato" con attenzione dai procuratori di Milano - ricorda le quattro inchieste che gli capitarono tra capo e collo nei quaranta giorni precedenti la campagna elettorale del '94. Da allora, sottolineano i suoi difensori, 97 persone a vario titolo
riconducibili all'area Fininvest sono state coinvolte in 70 procedimenti penali "rilevanti" per un totale di 363 posizioni processuali, se si sommano le posizioni di ciascun soggetto in ciascun procedimento. Fra il '93 e il '96 fu chiesto l'arresto per 26 persone, mentre a metà del '99 ne risultavano assolte 27. Sono stati esaminati 150 conti correnti in cinquanta banche italiane e straniere e sequestrati 173 libretti al portatore. Negli ultimi sei anni, polizia giudiziaria e tributaria hanno compiuto nelle aziende Fininvest 450 tra perquisizioni e sequestri esaminando circa un milione di pagine di documentazione aziendale. "Ho guardato i giudici negli occhi..." Silvio Berlusconi ha subito tre condanne in primo grado. Un anno e quattro mesi (condonati) per falso in bilancio su un fondo nero per l'acquisto della Medusa Cinematografica. Due anni e quattro mesi per i ventidue miliardi usciti nel '91 dalla società estera All Iberian. Secondo l'accusa, era un finanziamento illecito a Craxi; secondo la difesa, la All Iberian era estranea all'orbita Fininvest e i soldi sarebbero andati a un produttore cinematografico che li avrebbe girati alla causa palestinese. (Se nella vicenda ci fosse lo zampino di Craxi, è possibile che i palestinesi ne siano stati realmente i beneficiari. Perché, altrimenti, nell'ottobre del '99 Yasser Arafat avrebbe offerto all'ex segretario socialista addirittura un passaporto diplomatico per garantirgli, in segno di stima e di amicizia, la [p. 414] libera circolazione internazionale?) In ogni caso, il tribunale dichiarò prescritto il reato alla fine di ottobre del '99. La terza condanna (due anni e nove mesi per corruzione) è politicamente e giuridicamente la più grave perché si riferisce al ruolo di Berlusconi nel pagamento della tangente alla Guardia di finanza per cui fu emesso l'invito a comparire durante la conferenza dell'Onu a Napoli. Era questo un classico processo indiziario: l'accusa non era riuscita a provare l'intervento personale del Cavaliere nell'autorizzazione dei pagamenti. Giuseppe De Luca, che con Ennio Amodio difendeva Berlusconi, poco prima della sentenza chiamò il suo cliente: "Mi sono riletto le carte" gli disse "non c'è una prova che sia una contro di lei". E aggiunse candidamente: "Ho guardato i giudici negli occhi: non possono condannarla". Quel giorno, il professor De Luca aveva la vista difettosa. Ma alcuni mesi dopo, scrivendo la motivazione della sentenza, il
tribunale di Milano gli dette un briciolo di soddisfazione, confermando che l'imputato era stato condannato senza prove. I magistrati ammisero, infatti, di aver maturato la decisione mettendo insieme "numerosi, singoli tasselli, dai quali sono emersi molteplici dati, storicamente e logicamente concatenati che, riordinati secondo il raziocinio e l'esperienza, hanno consentito di giungere a emettere un giudizio motivato e a renderne conto". Essi hanno dunque deciso sulla base non di una prova, ma di un'"ipotesi preferibile rispetto a ogni altra". E' difficile sostenere che, in casi come questo, la tradizione giuridica italiana consenta una condanna. A Berlusconi non riconobbero neppure le attenuanti generiche. L'atteggiamento della procura nei confronti del Cavaliere fu oggetto di cinque ore di discussione amichevole, ma vivacissima che ebbi una notte dell'estate '98 a Cortina con Piercamillo Davigo. Il magistrato convenne che per quel tipo di reati la media delle condanne è sui diciotto mesi, e mi spiegò che Berlusconi ne aveva avuti quasi il doppio per il suo comportamento processuale. Un altro magistrato che assisteva alla nostra conversazione, chiamato in causa, dovette ammettere: "Per la verità, Piercamillo, anche a me all'università [p. 415] hanno insegnato che le attenuanti generiche non si negano a nessuno". Quella notte dissi a Davigo che dei quattordici procedimenti giudiziari avviati a Milano contro Berlusconi, curiosamente mi aveva colpito più di tutti quello per il pagamento in "nero" del calciatore Gianluigi Lentini del Milan. Nel '91, la Juventus aveva comprato dal Torino Dino Baggio, sborsando sei miliardi sotto banco. Si scoprì che la somma "in nero" era stata "erogata dalla persona fisica (e da ente a costui facente capo) dell'avvocato Giovanni Agnelli". Niente falso in bilancio e proscioglimento generale. La Fininvest - "ente facente capo" a Silvio Berlusconi - fece la stessa cosa con Lentini. Ma qui ci fu il rinvio a giudizio per falso in bilancio. Nelle pagine dedicate al '94 e alla discesa in campo del Cavaliere, abbiamo ricordato l'incidente tra Luciano Violante, allora presidente della Commissione antimafia, e il giornalista Augusto Minzolini a proposito di un'inchiesta siciliana su Berlusconi, che allora venne smentita. Gli anni successivi hanno dimostrato che il Cavaliere è stato tenuto sotto attenta osservazione dai magistrati di Palermo. "Le inchieste siciliane sono le più incredibili" mi dice oggi Berlusconi "ma nessuno potrà mai trovare riscontri oggettivi a teoremi interessati frutto soltanto di faziosità ideologica e politica. Le menzogne di pluriassassini, anche se ribattezzati "pentiti", non possono costituire una fonte degna di fede, come ha
dimostrato la sentenza del processo Andreotti. Dieci menzogne non costruiscono né una verità, né una prova. Se può valere qualcosa, il 93 per cento degli italiani la pensa come me." Quale fu il primo avviso di questa storia? "Mi disse Filippo Mancuso: devi sapere che tra poco due mafiosi diranno che tu e Dell'Utri, negli anni Settanta, eravate i cassieri della mafia. Certi carichi non erano di legno, ma di eroina, e voi eravate interessati a comperare case in un quartiere al centro di Palermo." E invece? "E invece, per pura fortuna, la Sicilia è una realtà rimasta [p. 416] sempre estranea e lontana dalla mia attività imprenditoriale. Non solo non ho mai intrattenuto alcun rapporto con siciliani, non ho mai fatto affari con loro, non mi sono mai recato in Sicilia, non ho condotto una sola trattativa, non ho acquistato un solo mattone né a Palermo né in altre città della Sicilia, credo anzi di non avere mai fatto, in quegli anni, neppure una telefonata in Sicilia. Storia tutt'affatto diversa è quella del fattore di Arcore." Perché lo sceglieste? "Stavamo cercando un fattore, che avesse competenza anche nell'allevamento dei cavalli. Avevo da poco acquistato dalla famiglia Casati una proprietà che comprendeva un impianto ippico con scuderie, paddock, piste di allevamento. A Marcello Dell'Utri, dopo molte ricerche che non avevano portato ad alcun risultato, venne in mente di aver conosciuto questo signor Mangano, che aveva pratica sia di campagna sia di cavalli. L'aveva conosciuto perché Mangano seguiva a Palermo le partite delle squadre ragazzi della Bacigalupo, allenate proprio da Marcello, e aveva una sua campagna in cui allevava cavalli da concorso. Interpellato, si dichiarò interessato all'offerta e si trasferì ad Arcore con la madre, la moglie e due figlie che divennero le compagne di gioco dei miei due figli. Devo dire che era serio, lavoratore, competente. Poi si scoprì che aveva avuto delle disavventure giudiziarie per una storia di assegni scoperti. E la collaborazione finì." Il topo con le corna Torniamo ai rapporti con la magistratura milanese. Quando chiesi a Borrelli come spiegasse la straordinaria e improvvisa attenzione riservata a Berlusconi, il procuratore mi rispose sostenendo che quando una persona appare sul proscenio, è più facile che arrivino informazioni sul suo conto. Questa tesi mi fu
splendidamente illustrata da Davigo nella nostra notte cortinese del '98: "Conosce la storia del topo con le corna? Un gruppo di topi viveva beato. Poteva mangiare formaggio [p. 417] a volontà, perché nel magazzino dove viveva c'era un buco a rappresentare sempre una provvidenziale via di fuga. Il buco era comodo, ma sufficientemente piccolo perché un gatto non potesse entrarvi. Un giorno, un topo più intraprendente degli altri disse che gli sembrava giusto distinguersi dal gruppo. E si applicò un paio di nobili corna affinché i suoi compagni potessero riconoscerlo sempre. Ma quando si trattò di scappare per l'arrivo del gatto, tutti i topolini entrarono nel buco, tranne il topo più in vista. Le corna, infatti, lo frenarono e il gatto ne fece un solo boccone". Senza mai nominare Berlusconi, Davigo ne tracciò un perfetto identikit giudiziario. Anche D'Ambrosio, nel nostro colloquio dell'autunno '99, ritiene probabile che se il Cavaliere fosse rimasto imprenditore, la sua storia giudiziaria sarebbe stata diversa, se non altro per un suo diverso comportamento. "Il suo ruolo politico" mi dice "ha inciso sulle reazioni di Berlusconi, non sulle sue incriminazioni." E aggiunge: "Ci fu una terribile campagna di delegittimazione compiuta nei nostri confronti. Fin dai primi giorni di Mani pulite dissi a Di Pietro, Davigo e Colombo che facevano parte del primo nucleo del Pool: badate, qui si indaga contro i poteri forti, arriveremo al livello di guardia e ci sarà una reazione. E' un momento favorevole aggiunsi, ma dobbiamo stare attenti. Ci stupimmo che per molto tempo questa reazione non fosse arrivata. Lo spiegammo con il forte sostegno dell'opinione pubblica e anche con l'atteggiamento favorevole all'inchiesta dei governi che si ebbero nei primissimi anni di Mani pulite". E la reazione quando arrivò? "L'invito a comparire consegnato a Berlusconi in coincidenza con la Conferenza internazionale di Napoli avviò una campagna televisiva di delegittimazione nei nostri confronti. Quell'invito a comparire, sul cui recapito - come ho già detto - discutemmo molto al nostro interno, scatenò una reazione mediatica contro di noi la cui forza non eravamo riusciti a prevedere. Lo spettatore medio fu scosso da una campagna molto abile." [p. 418] D'Ambrosio, dunque, fa discendere la crisi di Mani pulite dall'episodio più clamoroso dell'inchiesta, anche se la percezione dell'opinione pubblica sui riflessi generali dell'episodio fu più tarda. Il nuovo procuratore di Milano, provvisto di realismo politico
più degli altri suoi colleghi del Pool, sostiene dunque di aver perso una battaglia mediatica: nella prima fase di Mani pulite '92-94) giornali e televisioni ebbero un ruolo decisivo nel sostenere l'azione del Pool di Milano, dal '95 in poi il vento è girato. D'Ambrosio commetterebbe tuttavia un errore se facesse dipendere la "sconfitta" del Pool dalla potenza del Berlusconi editore televisivo. Con tutto il rispetto per due ottimi colleghi, né Emilio Fede, né Paolo Liguori da soli - come nessun altro protagonista del video avrebbero potuto ribaltare lo stato d'animo dell'opinione pubblica italiana. "Condannati 6 Dc su 88" Il problema sta nella misura e nelle circostanze dell'accusa. Indipendentemente dalle sentenze di Perugia e di Palermo, la gran parte degli italiani non ha mai creduto che Andreotti avesse ordinato l'assassinio di Mino Pecorelli, baciato Totò Riina e partecipato a molti incontri segreti con i boss mafiosi andando a incontrarli nelle loro abitazioni siciliane. Come non ha mai creduto alla casualità delle quattro inchieste giudiziarie su Berlusconi nei quaranta giorni precedenti le elezioni del '94, dell'invito a comparire recapitato al presidente del Consiglio mentre presiedeva una conferenza dell'Onu che riguardava la criminalità e, guarda caso, anche la corruzione; e non ha mai creduto, infine, che Berlusconi fosse quel delinquente abituale che risulterebbe dalla somma di tutti i procedimenti scaricatigli addosso. Non ci crede e basta. La Fininvest non va confusa con la Caritas né Berlusconi con san Carlo Borromeo. Ma nemmeno con Al Capone. E più condanne gli arrivano, più indizi vengono scambiati per prove, meno attenuanti gli vengono riconosciute, più vacilla l'istintiva fiducia di gran parte dei cittadini nella giustizia. L'influenza [p. 419] mediatica è terribile: oggi ti esalta, domani ti seppellisce. Se si fanno le inchieste giudiziarie incoraggiati dai giornali, se ne deve temere il necrologio che arriverà puntuale. Non a caso, alle mie obiezioni sull'incidenza delle condanne sul suo futuro politico, Berlusconi risponde: "Confido che nei successivi gradi di giudizio possa finalmente emergere senza possibilità di dubbio quel che ho sostenuto dall'inizio di questa vicenda, e cioè che il mio comportamento da imprenditore è sempre stato corretto, che non ha mai recato danno o offesa ad alcuno, e che quindi non può essere sanzionato. Spero ancora, come vede, di trovare un giudice a Berlino". Finora non ne ha trovato nessuno?
"In un solo caso, sfuggito di mano ai registi politici. Ed è stata assoluzione. Per il resto il gioco delle assegnazioni delle cause a un collegio piuttosto che a un altro è stato tale da far venire ai miei avvocati la tentazione di rinunciare alla difesa. Spero solo che questo gioco non continui anche in appello, come forse qualcuno tenta di fare. D'altronde la corrente della magistratura fiancheggiatrice del Pci/Pds/Ds, Magistratura democratica, è arrivata a dichiarare apertamente nelle sue assemblee e per bocca dei suoi presidenti che i suoi componenti hanno il dovere morale di utilizzare i processi come strumento di lotta politica per abbattere lo Stato borghese. Ci sono in parte riusciti con la rivoluzione giudiziaria del '92-94 che ha eliminato dalla scena politica tutti e cinque i partiti di tradizione democratica e occidentale che avevano governato l'Italia per cinquant'anni garantendoci libertà e benessere. Il tutto, diciamo così, con il concorso esterno dei più importanti giornali italiani, che hanno barattato l'impunità dei loro editori con un sostegno completo e acritico alle procure militanti della sinistra." Il discorso, naturalmente, non vale solo per Milano. Nell'autunno del '99, il vicepresidente della Camera Carlo Giovanardi (Ccd) ha rivelato quanto segue: "I deputati democristiani eletti nel '92 furono 206: nei due anni successivi venne avanzata dalla magistratura richiesta di autorizzazione a procedere per 88 di loro, il 43 per cento dell'intero gruppo parlamentare. Le accuse andavano dalla corruzione alla [p. 420] concussione, al finanziamento illecito del partito, all'abuso d'ufficio, al voto di scambio, fino all'omicidio e al concorso esterno in associazione mafiosa. Alle soglie del 2000, la situazione è questa: sono stati già completamente scagionati per archiviazione o assolti 48 deputati Dc, oltre la metà degli inquisiti. Devono essere giudicati 19 deputati, molti dei quali hanno già avuto assoluzioni plurime da altre accuse. Soltanto in sei casi si è arrivati a una condanna e soltanto in quattro (di cui tre per finanziamento illecito al partito) essa è definitiva. Ci sono stati 6 patteggiamenti e 5 deputati sono morti". Tra i parlamentari scagionati, molti sono i nomi noti: Salvatore Cardinale e Antonio Matarrese, Riccardo Misasi e Vito Napoli, Angelo Sanza, Bruno Tabacci e Remo Gaspari (per togliere agli elettori abruzzesi il diritto di giudicarlo politicamente, quest'ultimo fu inquisito per aver raggiunto, quand'era ministro, una manifestazione volando su un elicottero dei vigili del fuoco). Come diremo a conclusione di questo libro, Tangentopoli ha avuto meriti decisivi per la dignità del paese. Ma farne l'occasione per
regolare tutti i conti politici del passato e anche quelli che si prospettavano per il futuro, è stato un errore imperdonabile. Se politico - oltre che giudiziario - è stato il motore di tante inchieste, politica - oltre che giudiziaria - deve essere la soluzione. Ma qui il Parlamento è diviso e il governo si chiama fuori. Disse Ottaviano Del Turco, presidente dell'Antimafia, a Giovanni Maria Flick, Guardasigilli di Prodi: "Caro Gianmaria, c'è un gioco del biliardo in cui vince chi riesce a fare cadere tutti e cinque i birilli. La procura di Milano ne ha fatti cadere quattro, Martelli, Conso, Biondi e Mancuso. Quattro birilli, quattro ministri della Giustizia. Tu sei il quinto birillo. Ti capisco, caro Gianmaria, ti capisco". Flick è un eccellente giurista e da avvocato ha difeso nomi molto importanti di Tangentopoli esponendosi in ardite polemiche dottrinarie con Borrelli. Ma da Guardasigilli non riuscì a tradurre in pratica quel che sosteneva da teorico. Cesare Salvi, che non lo ha mai amato, mi disse un giorno: "Sei mesi dopo la nascita del governo Prodi, una sera sentii dal telegiornale questa notizia: Borrelli sostiene la proposta Flick per la [p. 421] soluzione politica di Tangentopoli. Ma su quella proposta nessuno era d'accordo. Era sbagliata. Suggeriva, per sommi capi, un patteggiamento allargato in seduta segreta: ammetti i fatti, paghi un sacco di soldi e te ne vai libero, ottenendo anche per reati gravi la sospensione condizionale della pena, la non menzione e così via. Parliamoci chiaro: era una proposta fatta su misura per un grande imprenditore non impegnato in politica". Fu trasparente l'allusione a Carlo De Benedetti. Aggiunse Salvi: "A Berlusconi non serviva. L'ammissione dei fatti, uno che sta in politica non può farla. Era quindi una proposta illusoria. Sparata quella cartuccia il governo non ha più avuto una politica per la giustizia". Su questo punto, nemmeno il governo D'Alema ha fatto grandi passi avanti, anche se l'approvazione parlamentare del "giusto processo" (migliori condizioni di parità per accusa e difesa) ha migliorato il clima generale. I dissensi sulla giustizia hanno certamente contribuito al fallimento della Bicamerale, ma sarebbe paradossale immaginare che Berlusconi abbia fatto saltare il tavolo perché voleva nella Costituzione una norma che gli garantisse l'impunità. Egli sostiene di non aspirare nemmeno a un'amnistia perché non riconosce la propria colpevolezza. In ogni caso, la "soluzione politica" per Tangentopoli - se mai avvenisse - dovrebbe essere frutto di una profonda riforma giudiziaria in cui il destino del paese non sia più appeso
all'iniziativa discrezionale di un pubblico ministero. La caduta di Prodi, per un voto Il governo Prodi cadde il 9 ottobre 1998 a causa di Fausto Bertinotti e dell'ostinazione del Professore a non chiedere a Francesco Cossiga l'aiuto che fu poi decisivo per l'insediamento di Massimo D'Alema a palazzo Chigi. In maggio, il governo era riuscito a ottenere un risultato memorabile: l'ingresso dell'Italia nella moneta unica europea. Ricevendomi al Quirinale nell'autunno del '99, Carlo Azeglio Ciampi si apre a un sorriso di grande soddisfazione [p. 422] ricordando la sua ostinata battaglia, anche personale, con l'ostinatissimo amico tedesco Theo Waigel. "Il mio merito fu uno soltanto" mi disse Ciampi poco dopo la vittoria del maggio '98 "di aver capito che tecnicamente il risultato era possibile. L'anomalia maggiore del bilancio italiano era che noi pagavamo il doppio dei tassi d'interesse degli altri paesi. Allora dicemmo: riduciamo il disavanzo al netto degli interessi, facciamo cioè il risanamento sostanziale. Procuriamoci così la fiducia dei mercati. Questa procurerà a sua volta un abbassamento dei tassi di interesse e così via. Quando formai il mio governo, nel '93, l'Italia pagava tassi maggiori di sei punti di quelli tedeschi e francesi. Adesso paghiamo quanto loro." Nel celebrare anche lui la vittoria, Prodi mi raccontò di aver vissuto i momenti più difficili nella primavera del '97: "Qualche ministro delle Finanze dell'Europa del Nord disse: quel che non faranno i governi, lo faranno i mercati. Tememmo una speculazione internazionale molto dura contro la lira. Quando lessi quella dichiarazione sull'Economist, era un venerdì. Chiamai al Tesoro Robert Rubin, il segretario americano del Tesoro. Il lunedì mattina lui era qui...". Subito dopo aver ottenuto quel risultato straordinario, il governo si deconcentrò e per alcuni mesi non fece praticamente più nulla. In estate, Bertinotti decise di abbatterlo portando alla luce un drammatico contrasto con Armando Cossutta, latente dall'autunno del '97. "Agli occhi della pubblica opinione" mi raccontò Cossutta "la composizione della crisi nell'ottobre del '97 apparve il frutto della mia saggezza. Questo deve aver ferito psicologicamente Fausto. Da allora, non l'ho mai visto una sola volta chiudere una discussione
facendo considerazioni diverse da quelle che aveva esposto all'inizio. Questo prendere o lasciare ha portato, passo dopo passo, alla lacerazione." Nell'estate del '98, Bertinotti era tuttavia convinto che Cossutta lo avrebbe seguito nel voto contro il governo Prodi e avrebbe regolato i conti interni al congresso successivo. Entrambi, alla ripresa autunnale, furono ricevuti da Scalfaro. E il capo dello Stato, confermando ancora una volta di essere il più [p. 423] autorevole tutore del governo di centrosinistra li ammonì con lo spettro di elezioni anticipate che - disse - avrebbero fatto vincere Berlusconi e Fini. La spaccatura di Rifondazione avvenne al comitato politico nazionale del 3 e 4 ottobre. Cossutta parlò di "mutazione genetica del partito" e Bertinotti capì che era finita: con la stessa frase il vecchio Armando aveva motivato nel '91 la scissione dal Pci. Cossutta annunciò il divorzio da Bertinotti il 6 ottobre a Porta a porta in un tripudio di bandiere rosse. Tre giorni più tardi, i deputati rimasti con il segretario votarono contro il governo Prodi. Fu un giorno drammatico. In piazza Montecitorio Bertinotti temette lo scontro fisico con gli avversari, e quando tornò negli uffici della direzione in viale del Policlinico avvertì drammaticamente il trauma della scissione: anche gli impiegati erano divisi, la segretaria di Bertinotti passò con Cossutta, quella di Cossutta con Bertinotti. D'Alema fece di tutto per evitare la crisi di governo. Dando prova della sua incrollabile fiducia nelle proprie capacità politiche, mi disse nel suo primo giorno da presidente del Consiglio: "Mi sono allontanato per dieci giorni ed è successo quel che è successo. Fossi rimasto, non ci sarebbe stata la crisi...". Il segretario dei Ds aveva fatto un lungo viaggio in Sudamerica. In una telefonata da Buenos Aires, l'ultimo fine settimana di settembre, aveva detto a Prodi: "Ignora le minacce di Bertinotti e chiedi i voti di chi - come il partito di Cossiga - ha votato il documento programmatico del governo. Se Bertinotti presenterà in Parlamento una mozione di sfiducia, Rifondazione si spaccherà e tu galleggerai su una maggioranza che andrà da Cossutta a Cossiga". A Prodi, il nome di Cossiga procurava l'orticaria e il Professore si illuse fino all'ultimo di poter contare su qualche compiacente assenza dei leghisti, anche se Bossi aveva escluso questa eventualità con D'Alema. Si arrivò così al mattino di venerdì 9 ottobre dopo una notte in cui gli uomini di Prodi avevano sperato di vincere con 314 voti contro 313. Marco Minniti fu svegliato da una telefonata di Francesco Cossiga. L'ex capo dello Stato aveva letto una
dichiarazione del leader dei Verdi, Manconi, a Sebastiano Messina della "Repubblica": "L'ingresso dell'Udr in maggioranza? Non lo prendo neanche [p. 424] in considerazione". Disse dunque Cossiga a Minniti: "Se Manconi dice che l'Udr fa schifo, quelli dell'Udr che dovessero votare per Prodi tradendo la nostra linea farebbero schifo due volte". Fu così che alle 8,30, entrando nella sua stanza al secondo piano di Botteghe Oscure, D'Alema annunciò: "Ragazzi, il governo cade". Eppure, fino all'ultimo momento Cossiga dette al Professore la possibilità di salvarsi. Suggerì un intervento sul presidente della Camera Violante perché al termine del dibattito chiedesse a Prodi se aveva qualcosa da aggiungere. Cossiga e D'Alema sperarono in un estremo appello del premier. Ma quando Violante, con un vistoso strappo al regolamento, gli chiese se aveva qualcosa da dire, Prodi rispose muovendo in segno di diniego l'indice della mano destra. Credeva di vincere per un voto, ma Arturo Parisi aveva fatto male i calcoli e per un voto il governo cadde. In piedi, ma cadde. Prodi sperava forse di andare a elezioni anticipate ancora come candidato premier dell'Ulivo, ma Scalfaro non aveva nessuna intenzione di sciogliere le Camere. D'Alema a palazzo Chigi Un incontro a colazione tra Prodi e D'Alema, nella casa bolognese del Professore sabato 10 ottobre, andò malissimo: il segretario dei Ds gli offrì il reincarico, ma giudicò inaccettabili le condizioni di Prodi. La domenica, sempre a Bologna, Prodi tenne con Veltroni un comizio in cui gridando tre famosi "No!" sembrò chiudere ogni possibilità di dialogo. Tanto che, la sera stessa, D'Alema raggiunse la villetta di Ciampi a Santa Severa e pregò il ministro del Tesoro di accettare palazzo Chigi. Ciampi accettò e nelle ore successive stese la lista dei ministri. Quando seppe che Ciampi avrebbe guidato di fatto un governo Prodi senza Prodi, il Professore si dimostrò improvvisamente disponibile a esaminare l'eventualità di un reincarico. Qualcuno disse che lo faceva per bruciare il ministro del Tesoro e qualunque altra soluzione; in ogni caso, la disponibilità ci fu. Per ratificarla, il 14 ottobre Prodi fu sottoposto da D'Alema e Marini [p. 425] a una dolorosa penitenza, dovette sottoscrivere una dichiarazione che modificava radicalmente la linea dell'Ulivo: fine della maggioranza del 21 aprile, appello alle forze che avevano firmato il Documento di programmazione economica (e quindi anche a Cossutta e all'Udr) e annuncio della disponibilità di D'Alema ad azzerare la lista dei ministri per favorire Cossiga. L'inchiostro
ancora non era asciutto che Mastella comunicava il no di Cossiga: gli ulivisti avevano fatto una riunione dell'Ulivo e questo per l'Udr era inaccettabile. La notte stessa di quel 14 ottobre, Marco Minniti andò a trovare Marini in piazza del Gesù: "Franco, non ne usciamo. Dobbiamo mettere in campo D'Alema". Il segretario dei Ds restò per trentasei ore incerto se accettare e alla fine si orientò verso il rifiuto temendo di restare schiacciato da una possibile spaccatura dell'Udr tra Cossiga e Mastella. Quando all'ora di pranzo di venerdì 16 ottobre Cossiga uscì dallo studio di Scalfaro incoraggiando D'Alema con parole di imprevista solennità, il segretario dei Ds dovette ricredersi e andò a casa a indossare abito scuro e camicia bianca per l'incarico che ricevette quello stesso pomeriggio. La formazione del governo avvenne secondo le più rigorose tradizioni del "manuale Cencelli", così chiamato dal nome del collaboratore di Adolfo Sarti che nel '68 stabilì scientificamente il peso dei diversi ministeri da distribuire tra le correnti democristiane. D'Alema assegnò metà dei ministeri al proprio partito e alla sinistra. L'altra metà andò ai centristi secondo questa ripartizione: 50 per cento al Ppi, 33 per cento all'Udr, 17 per cento a Dini. Ciampi e Amato, con loro sollievo, furono considerati fuori quota. All'Udr spettavano tre ministri e mezzo. Per non tagliarne uno a metà, compensarono con i sottosegretari. Walter Veltroni, che aveva gridato il suo "No!" in piazza con Prodi, fece la pace con D'Alema e fu insediato come segretario dei Ds. Tre fedelissimi prodiani (Enrico Micheli, Enrico Letta e Paolo De Castro) entrarono nel nuovo gabinetto. Quando gli chiesi nel primo giorno del nuovo lavoro quale fosse il sentimento prevalente, D'Alema mi rispose: "La paura". [p. 426] XIV: Ciampi trionfa nell'anno del Guazza "Vede quant'è bello, il mio Carlo?" "Vede quant'è bello, il mio Carlo?" Le scappò, all'improvviso, questa frase d'ammirazione e d'amore. Ogni volta che leggo sui giornali i sondaggi sulla crisi del maschio, della coppia e dell'amore che non c'è più perché lui s'è scocciato delle aggressioni
di lei, ripenso alle parole pronunciate d'impeto da Franca Ciampi in un limpido pomeriggio dell'autunno '99. Ecco finalmente una donna che non si vergogna di dirsi innamorata (dopo cinquantatré anni di vita in comune!), di stringere la mano del suo uomo, anche se lui è il capo dello Stato e su quelle mani intrecciate è sempre puntato lo zoom di una telecamera o il teleobiettivo di una macchina fotografica. Eravamo a L'Aquila, la mia città, e il presidente m'aveva invitato a passare qualche momento insieme, come fa con altri in ogni città che visita, ricordandosi di quanti ci sono nati e poi se ne sono andati altrove. Ascoltammo un concerto dei Soliti Aquilani e Franco Mannino, che li dirigeva per la prima volta e che conosce da tanti anni Franca Ciampi, osò dedicarle una sua struggente trascrizione per archi dell'ouverture del terzo atto della Traviata. Roba che Carlo Azeglio avrebbe potuto sfidarlo a duello nel vicino parco, e invece andò a stringergli la mano, sorridendo alle battute sulla gelosia. Cenammo al castello aragonese (costruito "ad reprimendam audaciam aquilanorum"). Il presidente volle vicino a sé gli amici della Resistenza a Scanno, all'alba del Partito d'Azione, e qualche imprenditore che ha fatto grande il nome [p. 427] dell'Abruzzo. Accanto ad Arrigo Levi, ora consigliere del presidente, c'era Gianni Letta, che è di Avezzano. Non metteva piede a L'Aquila da almeno vent'anni, e volle rintracciare nella notte l'ufficio di corrispondenza del "Tempo", lasciato giusto quarant'anni prima per tentare l'avventura romana. A cena, non c'erano uomini politici: non ce ne sono mai, in queste visite che portano Ciampi in tutte le regioni italiane. Qualcuno, ogni tanto, ci resta male. Il presidente ama dividere gli impegni: i politici li vede a Roma e nelle sedi istituzionali, gli amministratori locali li incontra nelle cerimonie di benvenuto, ma a cena vuole parlare con la gente del posto, per farsi raccontare, per ricordare, per conoscersi meglio. Fino alla sua elezione al Quirinale, l'Italia conosceva poco Ciampi. Sapeva che quell'austero signore - visto spesso in televisione ma assai parco di dichiarazioni pubbliche - era stato presidente del Consiglio in un momento drammatico (il '93) e cinque anni più tardi aveva portato la lira nella moneta unica europea. Non erano in molti a capire esattamente che cosa questo significasse, ma quelli che capivano dicevano che era una cosa buona, anzi ottima, e dunque a quel signore (e al capo del suo governo, Prodi) bisognava essere assai grati. La gente aveva cominciato a conoscerlo e ad amarlo dopo l'elezione
al Quirinale ed era rimasta colpita dal voto unitario del Polo e dell'Ulivo al primo turno. In un paese spaccato a metà come una mela, se ne era sentita rassicurata. E lo fu in misura crescente nei sei mesi successivi, perché Ciampi non perse occasione per dimostrarsi uomo al di sopra delle parti. Pochi giorni prima del viaggio a L'Aquila, un invito a colazione al Quirinale mi consentì di conoscere meglio l'equidistanza del presidente e la sua strategia per fare davvero dell'Italia un "paese normale". Come si fa un paese normale?, gli chiesi. "Con la stabilità economica e la stabilità politica" mi rispose. Abbiamo visto nel capitolo precedente quanto fosse difficile raggiungere il primo risultato. Ci siamo riusciti e per questo Ciampi ne parla con la piacevole memoria di una guerra vinta: i nostri partner europei non ci erano ostili per partito preso, semplicemente non avevano fiducia in noi e, pur [p. 428] considerando il ministro del Tesoro italiano una persona assai capace e corretta (lo conoscevano bene dai tempi della Banca d'Italia), forse lo trattavano con il simpatico paternalismo con cui si giudica Don Chisciotte. Finché un giorno... E la stabilità politica? "Passa attraverso le riforme." Questa parola astratta e sfuggente acquistava una curiosa concretezza sulle labbra di un uomo abituato a far quadrare i conti. Nonostante gli ottant'anni ormai incombenti, Ciampi s'infervorava con giovanile entusiasmo sul nuovo obiettivo che doveva essere più facile dell'altro da raggiungere: non c'erano tasse da imporre ai cittadini, né disavanzi mostruosi da ripianare, né fiducia da implorare alle arcigne banche centrali del Nord Europa. Era sufficiente un accordo politico tra i partiti, chiamati a soddisfare per una volta - insieme con gli interessi pubblici - i loro interessi privati: una classe politica più rispettata perché più capace e più solida, perché garantita da governi durevoli. "Se un governo dura" mi disse il presidente "anche la burocrazia migliora. I funzionari sanno che non te ne andrai dopo pochi mesi e saranno allora più motivati a collaborare." Ciampi fece mostra di una virtuosa ostinazione, in quella tavola elegante e familiare che vedeva riuniti anche Gaetano Gifuni, segretario generale del Quirinale, e i consiglieri Arrigo Levi e Paolo Peluffo. Mi impressionò per il distacco assoluto e non formale dalle beghe quotidiane dei Poli e degli Ulivi, per la neutralità con cui giudicava i più seri elementi di divisione politica e, soprattutto, per il fatto che questa neutralità non fosse un'ostentazione protocollare, ma rimbalzasse in ogni discorso
concreto e perfino nella divertita e innocente curiosità per questo e quell'episodio della vita politica quotidiana. E Marini fu investito dal treno Secondo la "smorfia" del Palazzo, Ciampi, in realtà, al Quirinale non doveva andarci affatto. Con l'eccezione di Segni e Leone (che per questo pagarono un prezzo molto alto), tutti i [p. 429] capi dello Stato sono stati eletti in base a un accordo tra democristiani e comunisti. Oggi, Dc e Pci non esistono più e al loro posto, si fa per dire, ci sono Ppi e Ds. Bene, se Massimo D'Alema, nell'ottobre del '98, è potuto andare a palazzo Chigi guidando una maggioranza eletta nel '96 per la premiership di Romano Prodi, lo deve certo a Francesco Cossiga, ma soprattutto a Franco Marini. La notte in cui Marco Minniti, dopo la seconda bruciatura di Prodi, andò a dirgli: "Franco, dobbiamo passare a D'Alema", la scelta, per Marini, non fu facile. Anche se i rapporti con il Professore non erano mai stati eccellenti, il Ppi si era presentato alle elezioni del '96 con una lista intitolata "Popolari per Prodi". E il Professore, disarcionato con dolore, avrebbe fatto di tutto per non vedere D'Alema al suo posto. Come poteva dargli questo schiaffo il leader del suo partito d'elezione? Se Marini decise di darglielo, fu per due ragioni. La prima: rompere l'alleanza di governo. Se D'Alema avesse fallito, sarebbe nato un esecutivo istituzionale con il Polo o ci sarebbero state le elezioni anticipate, con esiti assai incerti per il Ppi. La seconda ragione fu un patto per il Quirinale: al posto di Scalfaro sarebbe andato un popolare. Marini si legò a questo patto in maniera fermissima, dopo aver constatato quanto fosse difficile far rimarginare in casa propria le ferite del cambio della guardia a palazzo Chigi: non tanto la caduta di Prodi (in fondo, se l'era cercata), ma la sua sostituzione con D'Alema. E' vero che i vecchi nomi sono scomparsi e che tanta acqua è passata sotto i ponti del Tevere, ma nel profondo dell'anima, e spesso anche nelle conversazioni private, i Ds chiamano "democristiani" i popolari e vengono da questi chiamati "comunisti". Per la base "democristiana" non era stato facile accettare l'idea di aver consegnato palazzo Chigi a un "comunista". "Vi siete venduti il partito!" si lamentavano molti dirigenti periferici nelle telefonate e nei fax agli uomini di Marini. E il segretario voleva dimostrare che il sacrificio sarebbe stato ripagato con l'ascesa del terzo democristiano consecutivo al
Quirinale. Non glielo aveva forse promesso Massimo D'Alema? [p. 430] D'Alema nega con forza una lettura del genere. Spiegandomi la sua verità sull'elezione di Ciampi, il presidente del Consiglio non resiste alla tentazione di impartire la consueta lezione di logica politica. "La politica" mi dice "è fatta di cose facili. Se si guardano i problemi per come sono realmente, li si analizza e li si risolve. La forma più incredibile di stupidità italiana consiste invece nel veder arrivare un treno, chiedersi che cosa c'è dietro ed esserne travolti in attesa della risposta. Non converrebbe prima scansarsi?" Mentre mi chiedo chi sia il reale destinatario della lezione, D'Alema mi fa capire che si tratta di Franco Marini. "Lui è stato convinto fino all'ultimo momento che Berlusconi avrebbe votato un popolare. Invece non era così, in nessun momento si è affacciata questa ipotesi." Il segretario del Ppi, secondo D'Alema, è stato dunque travolto dal treno azzurro del Cavaliere. "Marini" mi spiega il presidente del Consiglio "sapeva benissimo come stavano le cose. Noi potevamo riuscire a eleggere il capo dello Stato con una convergenza delle maggiori forze politiche, cioè con l'accordo del Polo, oppure no. Se la prima ipotesi fosse caduta, avremmo sostenuto una candidatura popolare." E aggiunge: "Io ho sempre detto questo e Marini lo ha sempre saputo. Il giorno in cui Berlusconi ci avesse detto: io sono disposto a votare... nessuno avrebbe potuto impedirlo, sarebbe stato un suicidio dinanzi al paese. Marini conosceva perfettamente questo punto di vista, ma era convinto che Berlusconi, al momento di eleggere il presidente della Repubblica sulla base di una larga convergenza, avrebbe optato per un popolare. E invece così non fu. Anche perché il Cavaliere è stato condizionato dai suoi alleati. Fini non avrebbe votato un popolare per ragioni politiche: non voleva favorire il disegno neocentrista e il collegamento di Berlusconi con i popolari europei. Casini non l'avrebbe votato per comprensibili ragioni di natura elettorale. Il punto dirimente è stato questo. Fin dall'inizio, io ho detto che una larga convergenza avrebbe portato molto probabilmente al nome di Ciampi. C'erano molte ragioni per sostenerlo: fra l'altro, eravamo in piena campagna elettorale e l'elezione di Ciampi non dava vantaggi a nessuno". [p. 431] Secondo D'Alema, "la novità di questa stagione politica è che all'appuntamento si è presentato un convitato di cui occorre tener conto: l'opinione pubblica. L'operazione "Bonino for president", pure molto discutibile, aveva avuto l'effetto positivo di chiamare in campo l'opinione pubblica in modo assai stringente. E noi
conosciamo bene quale sia la sensibilità di Berlusconi, che è anche la sua forza. Lui ha visto che il suo elettorato era schierato per la Bonino e non avrebbe votato nessun presidente della Repubblica che non avesse avuto un largo consenso da parte dell'opinione pubblica. Mi permetto di dire: signori, impariamo... Prima di scendere in campo, Berlusconi ha fatto sondaggi, ha constatato che votando Ciampi non avrebbe pagato prezzi: la gente lo stimava al di là dei partiti, perché la candidatura del ministro del Tesoro aveva una sua trasversalità. Questi erano i dati della situazione: rispetto a essi, non avevamo la possibilità di fare nulla più di ciò che abbiamo fatto". Franco Marini dissente radicalmente da questa ricostruzione: eppure tre o quattro giorni prima dell'elezione di Ciampi - racconta agli amici - il braccio destro di D'Alema, Marco Minniti, gli disse: "Con la Jervolino che va al Quirinale, pensiamo subito a un altro ministro dell'Interno che vada bene a noi e a voi. Non portateci un nome all'ultimo momento". E lui convenne che il presidente del Consiglio su una scelta del genere aveva diritto a non trovarsi davanti a sorprese. Mancino no, Jervolino sì La candidatura di Ciampi era stata lanciata da Walter Veltroni il 13 marzo. Timoroso di un patto a tre fra D'Alema, Berlusconi e Marini, il segretario dei Ds aveva illustrato in un'intervista alla "Repubblica" sette ottime ragioni per votare Ciampi. Veltroni si mosse in proprio, facendo arrabbiare D'Alema, Marini e Dini, storico avversario del ministro del Tesoro e anche lui candidato silenzioso al Quirinale. "Ciampi è un candidato dell'estrema sinistra" sparò il ministro degli Esteri, conoscendo i buoni rapporti del ministro del Tesoro con Bertinotti. [p. 432] Ma fu un colpo a salve. Per difendere Ciampi, il leader dei Verdi Luigi Manconi disse che l'ostilità nei confronti del ministro nasceva dal fatto che alcuni gruppi cattolici lo accusavano di essere massone, "accusa che ritengo totalmente falsa e totalmente ingiusta". Ciampi non apprezzò affatto l'allusione, smentì furiosamente e capì che la marcia verso il Quirinale non sarebbe stata una passeggiata. Il ministro restò convinto fino all'ultimo momento che i partiti avrebbero scelto uno dei loro uomini. Lui alla politica era arrivato molto tardi e per caso. Aveva vissuto una breve parentesi con il Partito d'Azione, cui lo aveva avvicinato Guido Calogero, suo professore alla Normale di Pisa (laurea in lettere), incontrato
riparando a Scanno dopo l'8 settembre 1943. Poi, però, era arrivato il lavoro in Banca d'Italia, dalla filiale di Macerata al mitico Ufficio studi, fino alla direzione generale, ottenuta nel '78 e seguita immediatamente dalla designazione a governatore, quando nel '79 Baffi, amareggiatissimo, lasciò l'incarico per protesta contro l'inchiesta giudiziaria sulle ispezioni all'Imi, che aveva portato all'arresto dell'innocente Mario Sarcinelli, vicedirettore generale. Ciampi avrebbe voluto che gli succedesse Bruno Visentini, ma Baffi insistette sulla sua candidatura, e il governo nominò lui. Di lì, era passato a palazzo Chigi nella drammatica situazione del '93. Ma, pur non nascondendo le sue simpatie (era stato iscritto per decenni alla Cgil), s'era tenuto fuori dal gioco dei partiti, rifiutando negli ultimi anni la candidatura parlamentare offertagli dal centrosinistra. Adesso sapeva in cuor suo di essere per forza di cose candidato al Quirinale, ma cercava di dimenticarsene e, comunque, non muoveva un dito per acquistare consensi. Allarmato dall'intervista del segretario dei Ds, Marini chiese a D'Alema un incontro segreto e collegiale per chiarirsi le idee. L'incontro avvenne il 18 marzo a casa di Veltroni, che invitò a cena il presidente e il vicepresidente del Consiglio e il segretario del Partito popolare. E, in quell'occasione, comunicò formalmente a Marini che il suo partito non avrebbe votato Nicola Mancino. Il presidente del Senato aveva due difetti: piaceva a Berlusconi e per la base diessina profumava troppo [p. 433] di Prima Repubblica. In compenso, aggiunse, avrebbe votato volentieri il ministro dell'Interno Rosa Jervolino vedova Russo. "Rosetta fu proposta con entusiasmo da loro" mi raccontò Marini. E Mattarella me lo confermò. "Alla fine della cena" mi racconta ancora Marini a fine '99 "ci alzammo tutti e brindammo in piedi all'accordo raggiunto." Quella sera, forse, il Ppi perse il Quirinale. Se Marini avesse detto: noi voteremo il presidente del Senato con chi ci sta, avrebbe messo in crisi sia D'Alema sia Veltroni. Come avrebbero potuto i Ds rifiutare il voto alla seconda carica dello Stato? Come avrebbero potuto affermare pubblicamente che Mancino veniva dalla Prima Repubblica? Lui gli avrebbe risposto: e voi? In verità, al di là delle apparenze, Mancino non era il reale candidato nemmeno di Berlusconi. Fini aveva detto che non l'avrebbe votato, Casini non gradiva un popolare per le ragioni esposte da D'Alema. Il Cavaliere aveva un ottimo rapporto personale con il presidente del Senato, ma lo avrebbe votato soltanto in chiave istituzionale e quindi con una larga maggioranza. Se Marini avesse costretto i Ds a votarlo, il
Cavaliere difficilmente si sarebbe tirato indietro, e a quel punto anche Fini e Casini l'avrebbero seguito. (Alla fine, infatti, accettarono di inserirlo nella rosa, ma come candidatura di estrema riserva, nella certezza che sarebbe stato eletto Ciampi.) La cosa non ebbe seguito perché Marini cedette su Mancino. Al di là delle smentite, tra i due c'è freddezza da quando, nel '94, Marini fu decisivo per l'elezione di Buttiglione alla segreteria del Ppi, battendo la candidatura Mancino. Marini ha poi sempre coltivato la segreta speranza di essere lui il prescelto per il Quirinale, come garanzia per il centrosinistra e garante di correttezza per il centrodestra. Berlusconi, nei giorni caldi precedenti le votazioni, gli disse personalmente che, se l'Ulivo lo avesse candidato, i voti di Forza Italia non sarebbero mancati. Anche lì, Fini e Casini erano contrari, ma chissà... [p. 434] Incontro segreto Ciampi-Berlusconi Con la stessa franchezza, Berlusconi - stavolta d'intesa con gli altri due alleati - gli disse anche che mai il Polo avrebbe votato la Jervolino: Rosetta era sponsorizzata da Scalfaro e l'idea di avere "uno Scalfaro in gonnella" procurava al Cavaliere un'istantanea ricrescita di capelli perché potessero drizzarglisi. La sera del 18 aprile, i giochi si fecero più chiari grazie a un "infortunio" dell'istituto demoscopico Abacus, incaricato dalla Rai di anticipare i risultati del referendum per l'abolizione della quota proporzionale nelle elezioni alla Camera. Per l'intera serata del dibattito del Tg1, le proiezioni lasciarono intendere che i referendari avevano vinto e, contravvenendo sorprendentemente alla sua abituale prudenza, Fini affermò che mai avrebbe votato per mandare un sostenitore del No al Quirinale. Il Ppi e il suo segretario erano i più accesi antireferendari e Marini prese l'annuncio di Fini, che gli sedeva accanto, per un'esecuzione in diretta. Quella sera, si materializzò l'accordo tra Fini e Veltroni per tagliare qualunque accordo tra Marini, D'Alema e Berlusconi sulla candidatura di un popolare alla successione di Scalfaro. L'Abacus, tuttavia, si sbagliava, il dibattito televisivo si rivelò surreale e Marini, dopo aver festeggiato lo scampato pericolo chiudendosi in un bagno (unico posto riservato di Saxa Rubra) con Bertinotti, l'indomani riprese a minacciare sfracelli se qualcuno si fosse messo sulla sua strada. Violante dovette invitarlo a pranzo con Veltroni perché si riconciliassero, e un'impresa altrettanto
difficile fu quella di far tornare il sereno tra Fini e Berlusconi, perché il Cavaliere non aveva mai guardato al referendum con entusiasmo. Nel mese di marzo era avvenuto un episodio, rimasto finora sconosciuto, che aveva di fatto chiuso la partita. In una riservatissima sede privata, Silvio Berlusconi aveva incontrato Carlo Azeglio Ciampi e gli aveva assicurato la sua disponibilità a votarlo per il Quirinale. Sponsor dell'incontro era stato, come al solito, Gianni Letta. L'ambasciatore di Berlusconi è il [p. 435] maggior inserzionista italiano di necrologi: poiché la partecipazione al lutto è una delle forme più nobili di considerazione e di amicizia, basta poco a capire quanto sia sterminata la cerchia delle conoscenze di Letta e con quanta garbata attenzione egli la coltivi. Tra i conoscenti di primissima fila c'è, naturalmente, Carlo Azeglio Ciampi. Nel gennaio del '99, questi affermò in un'intervista televisiva a Enzo Biagi che, dopo aver ricevuto tanto dal paese, gli sembrava giunta l'ora di ritirarsi. Ascoltate queste parole, Letta s'era affrettato a chiamare il ministro del Tesoro: "Caro presidente" gli disse "lei può fare ancora molto per l'Italia...". Avvicinandosi il voto per il Quirinale, Letta si ricordò che Berlusconi e Ciampi si conoscevano molto superficialmente. Quando il Cavaliere vinse le elezioni del '94, Ciampi gli passò le consegne come presidente del Consiglio uscente, ma tutto si esaurì in una breve formalità. Era dunque opportuno un nuovo incontro, che avvenne appunto in marzo e fece capire al ministro del Tesoro che, al momento opportuno, il sostegno del Polo non gli sarebbe mancato. Il 30 aprile, Letta incontrò in forma riservata D'Alema. Ne verificò la contrarietà alle candidature di Mancino e Amato, che era ben visto da Berlusconi ma nei Ds evocava il timore di reazioni da Hammamet. Gli comunicò che Forza Italia non avrebbe votato né la Jervolino né Mattarella e constatò che il presidente del Consiglio avrebbe votato volentieri Ciampi, ma si sentiva frenato dal timore delle reazioni di Marini. Centottantacinque franchi tiratori Berlusconi, intanto, con una pubblica e ruggente dichiarazione aveva minacciato una rivolta di piazza se a qualcuno fosse venuto in mente di confermare Scalfaro. L'ex capo dello Stato, come tutti i suoi predecessori, puntava fermamente su un secondo mandato, sia pure a termine, in attesa delle riforme costituzionali. Il Cavaliere era
stato informato che, in assenza di un accordo generale, l'Ulivo avrebbe bruciato nelle [p. 436] prime tre votazioni la Jervolino e, subito dopo, Mattarella. Dinanzi a un'opinione pubblica indignata, avrebbe poi frettolosamente confermato il capo dello Stato uscente: Marini avrebbe dovuto accettare perché Scalfaro era l'esponente più autorevole del suo partito, e D'Alema non avrebbe battuto ciglio perché Scalfaro, con il quale andava perfettamente d'accordo, era forse fin dall'inizio il suo candidato segreto. A far perdere la trebisonda a Berlusconi erano poi arrivate notizie secondo cui alcuni parlamentari di An nel segreto dell'urna avrebbero dato una mano a Scalfaro. La sua pubblica minaccia di rivolta popolare era perciò diretta sia all'interno sia all'esterno. Nei primi giorni di maggio, Marini arrivò allo scontro con i Ds. Chiese che la maggioranza presentasse il solo nome della Jervolino; D'Alema e Veltroni vollero affiancargli quello di Ciampi, già sapendo del consenso di Berlusconi. Mentre il segretario del Ppi proseguiva nella sua opera di sfondamento, Ciampi apponeva un'altra tessera preziosa al suo silenzioso mosaico. Il 4 maggio, alle 8,45, ricevette nel proprio ufficio Altero Matteoli. Il responsabile dell'organizzazione di Alleanza nazionale era stato introdotto nell'entourage di Ciampi da Luciano Magnalbò, avvocato di Macerata e senatore di An alla prima legislatura, che conosceva da molti anni il ministro del Tesoro. Parlando a nome di Fini, fece capire a Ciampi che due cose premevano al suo partito e al Polo intero: se si fosse verificato un altro ribaltone come quello che espulse Berlusconi da palazzo Chigi, il Parlamento sarebbe stato sciolto; se mai le riforme avessero portato all'elezione diretta del capo dello Stato da parte dei cittadini, il presidente in carica, cioè Ciampi, si sarebbe fatto da parte. Uscì dal colloquio convinto che su questi due punti il ministro del Tesoro non avrebbe creato problemi. Un successivo vertice del Polo, tenutosi a casa di Berlusconi, decise di opporre formalmente al binomio Ciampi-Jervolino il binomio Ciampi-Mancino, nella consapevolezza che sarebbe stato votato il primo nome della coppia. Il 10 maggio, chiamato d'urgenza da Marini a un tavolo del [p. 437] ristorante Sant'Andrea, a due passi dal suo ufficio, Gianni Letta confermò che il Polo non avrebbe votato la Jervolino e che, invece, aveva aggiunto Ciampi al nome di Mancino. Marini replicò: "Imporremo il nome di Rosetta nelle prime tre votazioni". "E alla quarta?" chiese Letta. Capì che il suo interlocutore avrebbe ottenuto sul nome
del ministro dell'Interno la confluenza di Bossi, che avrebbe votato chiunque pur di essere determinante, e forse anche quella di Bertinotti. Se il piano non avesse funzionato, i giochi si sarebbero riaperti. E allora tutto sarebbe stato possibile. Alle tre del mattino di mercoledì 12 maggio, Marini nella sua casa ai Parioli serviva affettati e vini d'Abruzzo al vicesegretario del Ppi Dario Franceschini e al suo portavoce Piero Martino, ai quali manifestò la convinzione che, di lì a poche ore, il vertice del centrosinistra avrebbe dovuto arrendersi alla candidatura secca della Jervolino. Non sapeva che, qualche ora prima, D'Alema aveva confidato a un amico l'ormai certa vittoria di Ciampi, né sapeva che, otto ore più tardi, Gianni Letta sarebbe salito nell'ufficio del ministro del Tesoro per confermargli che il Polo lo avrebbe votato. Il vertice del 12 maggio fu il più drammatico nella storia del centrosinistra. D'Alema ottenne dai suoi il mandato a trattare e alle quattro del pomeriggio ratificò con Berlusconi l'accordo su Ciampi. Un disperato ripiegamento serale di Marini su Mancino fu stroncato dalla pubblica e sdegnata rinuncia del presidente del Senato. A tarda sera, dopo una riunione assai dolorosa, anche il Ppi si rassegnò a votare per il ministro del Tesoro. Maturò allora una rottura personale e politica, mai ricomposta, tra Marini e D'Alema. L'indomani mattina presto, Angelo Polverini, il portiere dello stabile al quartiere Salario dove abitava Ciampi, indossò la divisa gallonata perché s'annunciava una giornata speciale. Poco dopo, in piedi e in silenzio dietro la scrivania di Quintino Sella, il ministro del Tesoro accolse la notizia di essere diventato il decimo presidente della Repubblica italiana con 707 voti, 33 più del necessario. La Lega votò per il senatore Luciano Gasperini, Rifondazione per Pietro Ingrao, i radicali [p. 438] per la Bonino. I franchi tiratori furono molti: 185. I cronisti parlamentari credettero di identificarli negli amici di Dini, Cossiga, Mastella, in qualche piccola frangia di Forza Italia e in larga parte del Partito popolare. I numeri resero trasparente il disegno di far crollare il grande accordo. Ma il miracolo avvenne comunque. "Il papa ci disse tre volte..." "Vede quant'è bello, il mio Carlo?" mi disse, dunque, con un sorriso la signora Ciampi a L'Aquila, nel cortile della caserma del reggimento alpino che porta il nome della città. In onore del presidente, gli alpini gridarono il loro motto: "L'Aquila!", e la
signora si strinse alla moglie del prefetto: "Vede, io mi commuovo". Ascoltammo l'inno nazionale e lei, incoraggiata da Arrigo Levi, mormorò: "Certo, i calciatori della nazionale dovrebbero proprio impararlo". A Franca Ciampi l'inno nazionale piacerebbe eseguito più lentamente. Le raccontai di un'esecuzione struggente per soli archi diretta a Roma da Sergio Celibidache in onore di Francesco Cossiga, alla fine della quale avevo detto a Riccardo Muti di averla trovata bellissima. Lui mi guardò con l'aria del napoletano impertinente: "Le è piaciuta?" mi chiese incredulo. "Guardi che l'inno di Mameli va eseguito a marcetta: rappresenta il carattere degli italiani, tataata... tataata..." Salimmo sul Gran Sasso con l'elicottero del presidente che non atterrava mai, perché dalla cuffia Ciampi chiedeva al pilota sempre nuove deviazioni intorno a quelle cime meravigliose nella limpida giornata d'autunno. Quando visitammo il laboratorio scavato nella montagna, ci spiegarono che l'isolamento delle viscere della terra da ogni inquinamento e interferenza consente di avvicinarsi meglio che altrove ai segreti della fisica. Franca Ciampi non indossò il casco da minatore, verosimilmente perché l'acconciatura - perfetta - ne avrebbe risentito. Alla scienziata che l'accompagnava confidò: "Una mia nipotina s'è appena iscritta allo scientifico. [p. 439] Da grande vuole fare l'astronoma, e mi ha promesso che quando scoprirà una cometa la chiamerà Franchina". Più tardi, i Ciampi raggiunsero il teatro comunale passeggiando a piedi nel centro. "Guardi" dissi alla signora, indicandole le colonne dei portici "già ai miei tempi i ragazzi si davano lì gli appuntamenti amorosi. Voi avevate una vostra colonna?" Una risata: "A Pisa, avevamo un bellissimo giardino dove incontrarci. Carlo era ancora un ragazzo, aveva saltato l'ultimo anno di liceo ed era entrato alla Normale a diciassette anni...". E poi lei gli consigliò di sistemarsi in banca... "Certo. Avevo mio padre che lavorava lì. Gli dissi: senti Carlo, in Banca d'Italia lo stipendio è buono e non si è impegnati nemmeno molto. Così avrai anche il tempo di continuare negli studi di latino e greco che ti piacciono tanto. Lo sa che continua anche oggi?" Fu allora che le chiesi se il mutamento di vita le fosse pesato. Nella colazione di qualche giorno prima, il presidente mi aveva raccontato: "Ho deciso di abitare al Quirinale nel momento stesso in cui sono stato eletto. Ho detto a Franca: se non ci andiamo subito, rischiamo di non andarci più. Abbiamo fatto la valigia e ci siamo trasferiti. Scalfaro e sua figlia Marianna avevano lasciato
l'appartamento in condizioni perfette". Ciampi motivò questa sua scelta - assolutamente condivisibile - con il desiderio di rafforzare il prestigio, anche formale, delle istituzioni. Nacque da lì il ripristino di un solenne cambio della guardia fuori del Quirinale e la grande festa pubblica con le bande militari per la notte di fine secolo. Mi confidò la signora a proposito della nuova casa: "Sa che ci siamo ristretti? L'appartamento al Quirinale è molto più piccolo di quello che avevamo al quartiere Salario". In compenso, potrà passeggiare a lungo nei giardini, come suo marito... "Pensi ai tacchi, con tutta quella ghiaietta! No, preferisco passeggiare sul lungo balcone dell'appartamento." Per il resto? [p. 440] "I primi mesi non sono stati facili. Fossimo più giovani. Anzi, fossimo meno vecchi... Chissà Quello lassù [sollevò gli occhi al cielo] quanto tempo ci lascia ancora... Carlo mi aveva promesso di passare in casa gli ultimi anni con i figli e i nipotini." E invece... "Ma chi ci credeva? Io gli dicevo: Carlo, com'è possibile una cosa del genere senza un partito dietro? Quell'elezione è stata un miracolo." Per come è avvenuta, direi proprio di sì. "Sa che il 13 maggio, il giorno in cui Carlo è stato eletto, era la festa della Madonna di Fatima? Ce lo ha ricordato il papa. Ha detto a Carlo: sono molto contento che lei sia lì. Glielo ha ripetuto tre volte." Com'è l'Italia vista dal Quirinale? Carlo Ciampi si fermò e mi fissò, mentre la sua bocca prendeva una piega amara. "E' tanto bella, ma tanto difficile. Lei non ha idea delle lettere che arrivano. A me, non a mio marito: mio figlio è drogato, mio figlio non ha lavoro, mio figlio non ha la casa. I prefetti s'informano con discrezione, verificano, c'è sempre qualche mitomane, ma purtroppo le segnalazioni spesso sono vere e tante situazioni sono disperate. E allora? Quando si può si dà un piccolo aiuto, ma le assicuro che il senso d'impotenza è terribile." Prese per mano suo marito, la signora Ciampi. E se ne ripartì per il piccolo appartamento al Quirinale. Da quando Ciampi è lì, i partiti sembrano aver perso ogni fretta di far eleggere direttamente dai cittadini il nuovo capo dello Stato. Si fidano di lui, anche se a sinistra qualche orfano di Scalfaro scalpita perché lo vorrebbe meno
super partes. Ciampi ha il compito difficile di tenere per mano l'Italia, aiutandola a crescere. Se ci riuscirà, dovrà condividerne il merito con quella piccola, simpatica, effervescente signora che gli sta a fianco da cinquantatré anni e ne è tuttora splendidamente innamorata. [p. 441] L'Italia in guerra con Milo¬sevi¬c L'elezione del capo dello Stato avvenne mentre l'Italia partecipava alla guerra mossa dalla Nato contro la Serbia per mettere fine alla pulizia etnica che Milo¬sevi¬c stava compiendo nel Kosovo: una provincia della Serbia abitata da due milioni di persone, di cui soltanto duecentomila erano serbi, tutti gli altri albanesi. Pur essendo in minoranza, i serbi per nessuna ragione volevano rinunciare al Kosovo che consideravano la culla della loro nazione da quando, nel 1389, essi furono sconfitti qui dai turchi, che vi si stabilirono per cinque secoli. Gli albanesi, d'altra parte, consideravano il Kosovo cosa loro: la popolazione locale era, sotto ogni punto di vista, omogenea a quella della madrepatria, al punto che i nazionalisti hanno sempre sognato di unirsi al Kosovo nella "grande Albania". Tito, che conosceva bene le divisioni e gli odii della sua gente, era riuscito a evitare la guerra civile concedendo al Kosovo una larga autonomia. Milo¬sevi¬c, che temeva di non controllare i movimenti indipendentisti kosovari, scelse la linea dura e nell''89 revocò, giudicandola illegittima, quell'autonomia che gli albanesi del Kosovo si restituirono, da soli, due anni dopo. Per arginare la repressione di Milo¬sevi¬c, l'Occidente - che considerava ottimale la soluzione adottata a suo tempo da Tito - si impegnò in una logorante mediazione che si concluse nel mancato accordo di Rambouillet, alle porte di Parigi, all'inizio del '99: gli albanesi avrebbero mantenuto la loro autonomia all'interno della Federazione jugoslava e la zona sarebbe stata demilitarizzata. Milo¬sevi¬c, che di fatto non avrebbe più controllato la regione, si rifiutò di firmare l'intesa. Provò quindi a risolvere il problema alla maniera balcanica, cioè sterminando il nemico. Il 16 gennaio 1999, fecero il giro del mondo le immagini provenienti da Racak, dove civili albanesi erano stati massacrati dai serbi. La certezza che episodi del genere si sarebbero ripetuti, dopo il fallimento del vertice di Rambouillet, convinse la Nato a intervenire. Alle 19,20 del 24 marzo 1999, una tempesta di missili lanciati da navi e aerei si abbatté su Serbia e Montenegro. Era cominciata la guerra e l'Italia si [p. 442] trovava in prima
linea, sia perché la Jugoslavia è a poche bracciate di nuoto da casa nostra, sia perché l'intera penisola diventò una portaerei della Nato e, infine, perché partecipammo alle operazioni con i nostri aerei e le nostre navi in misura assai meno simbolica di quanto non avevamo fatto nel '91 contro l'Iraq. Al contrario della guerra del Golfo, questa non aveva la benedizione dell'Onu e nemmeno della Russia e della Cina. Era stata mossa per evidenti ragioni umanitarie (gli orrori di Milo¬sevi¬c sarebbero venuti presto alla luce in tutta la loro atrocità), ma si discusse a lungo se il diritto internazionale consentisse questo tipo di interventi. L'ampia eppur fragile maggioranza che sosteneva il governo D'Alema andava, come si sa, da Cossiga a Cossutta, teneva cioè insieme gli opposti. L'idea di sostenere una guerra della Nato faceva drizzare i capelli al vecchio Armando, e infatti fece opposizione e minacciò per tre mesi una crisi di governo che tuttavia non aprì mai, arretrando la linea del Piave secondo le circostanze. Come era accaduto l'anno prima per la crisi albanese, il Polo aprì comunque il paracadute a D'Alema per difendere - dissero Berlusconi e Fini l'onore della nazione dinanzi alla comunità internazionale. A guerra finita, chiesi a D'Alema se il rischio della crisi ci fosse mai stato davvero e lui mi rispose con garbata insofferenza, come se la mia domanda non avesse il benché minimo fondamento: "Questo rischio non c'è mai stato. Eravamo tra persone serie che sapevano benissimo che, durante la guerra, non si poteva aprire una crisi di governo. Da questo punto di vista, il paese è in buone mani". Rammentò poi che qualche pubblica baruffa era comunque avvenuta e aggiunse: "Questa classe dirigente dovrebbe avere maggiore rispetto di sé e fare meno polemiche. In ogni caso, in nessun momento abbiamo avuto un rischio di crisi e c'è stato tra me e la maggioranza un forte rapporto di delega. Ho detto con chiarezza: debbo assumermi delle responsabilità e non posso essere sottoposto a un controllo quotidiano. Alla fine, se il mio comportamento non vi sarà piaciuto, mi manderete via". La "forte responsabilità individuale" di cui mi parlò D'Alema lo costrinse a tacere anche alcune operazioni inevitabili [p. 443] della nostra aviazione. Si disse che saremmo dovuti intervenire soltanto in azioni difensive e per alcuni giorni si capì che i nostri aerei avrebbero fatto in pratica i guardacoste. Cossutta scoprì nello studio di Porta a porta, durante una mia intervista al ministro della Difesa Scognamiglio, che l'aeronautica militare bombardava obiettivi serbi a tutela degli aerei alleati. Fece una vibrata protesta, ma
tutto finì lì. In realtà, quello trascorso nelle varie fasi e trattative della guerra è stato il periodo migliore della permanenza di D'Alema a palazzo Chigi. Pur dovendo mediare tra Cossutta che rispondeva al popolo comunista, Scognamiglio che rispondeva a Cossiga, e Dini che occhieggiava a Bertinotti per riceverne eventualmente il voto per il Quirinale, egli tenne alto l'onore nazionale, anche se adoperandosi per chiudere la partita il più presto possibile. Gli chiesi più tardi da quante manifestazioni avrebbe dovuto difendersi Berlusconi se si fosse trovato a palazzo Chigi in circostanze analoghe. "Non da quelle del mio partito" rispose i presidente del Consiglio, memore del fatto che nella guerra balcanica due miti della sinistra democratica italiana come Clinton e Blair erano falchi che più falchi non si può. Pressato dagli alleati di governo, a metà maggio D'Alema propose di sospendere i bombardamenti. Ma gli inglesi furono i primi a dichiararsi contrari e per arrivare alla pace si dovette attendere la capitolazione di Milo¬sevi¬c. La sera del 3 giugno, nel vertice europeo di Colonia, il cancelliere Schröder annunciò: "La pace è a portata di mano. E' una svolta politica e non ce la lasceremo sfuggire". Due mesi e mezzo di guerra erano bastati a far crescere la dimensione internazionale di D'Alema e a fargli "passare gli esami" ai quali era stato sottoposto con molta attenzione in sede atlantica. Quando gli domandai se in quella delicata circostanza palazzo Chigi si fosse trovato più avanti del suo partito di riferimento, il presidente del Consiglio rispose: "Non lo so. La responsabilità di governo costringe a guardare i fatti politici nell'ottica degli interessi generali del paese. Uno può farcela o no, ma l'ottica cambia". [p. 444] La guerra servì anche a mutare in maniera radicale il rapporto della sinistra con le forze armate, che durante e dopo la guerra si comportarono in Kosovo in maniera ineccepibile. Marco Minniti tenne un rapporto quotidiano con i generali e non è un caso, forse, che il comandante delle forze alleate Nato che ha gestito le squadre aeree, Leonardo Tricarico, sia poi diventato il consigliere militare di D'Alema. Prodi, dall'Asinello a Bruxelles Mentre i primi missili della Nato cadevano sulla Serbia, il 24
marzo Romano Prodi veniva designato alla presidenza dell'Unione europea. Come scrisse Arrigo Levi sul "Corriere della Sera", scegliendo la destinazione di Bruxelles il Professore dette prova di una forte "cultura europea" perché scelse di sacrificare "una prepotente vocazione politica nazionale". Nell'autunno del '98, avevo chiesto a Prodi se fosse interessato al Quirinale e lui mi rispose di no, perché gli piaceva un lavoro più operativo. Mi ero informato allora se gli sarebbe piaciuta la presidenza dell'Unione europea e lui mi rispose di sì, poi aggiunse, con un sorriso sospettoso, calcando sulle "ci" emiliane: "Ma non mi vorrete mica cassiare da palazzo Chigi...". Una volta cassiato per opera di D'Alema, Cossiga e Marini, il Professore tenne fede a un efficace ritratto che ne fece Pietro Armani, a lungo suo vicepresidente all'Iri: "Prodi gronda bonomia da tutti gli artigli". Ora che la bonomia non serviva più, restavano gli artigli. E lui ne fece l'uso più feroce che la natura gli consentiva: fondò un partito per dissanguare quelli di D'Alema e di Marini. Il debutto in società avvenne sabato 27 febbraio. Come tutti i partiti della Seconda Repubblica, anche questo cominciò con il definirsi "movimento". Sia il nome (Democratici), sia il simbolo (un asinello) erano un chiaro riferimento al Partito democratico americano di Clinton. Poiché, per far nascere il governo D'Alema, Cossiga aveva preteso lo sradicamento [p. 445] dell'Ulivo, sulle gigantografie che presentavano l'Asinello, Prodi fece mettere simboli dell'Ulivo in ogni centimetro quadrato disponibile. Il movimento chiarì subito la sua strategia trasversale. Accanto a Prodi si schierarono Di Pietro (organizzatore capace e forte raccoglitore di voti, ma uomo di incerta fisionomia politica) e i sindaci Rutelli (Roma), Cacciari (Venezia) e Bianco (Catania). Sia D'Alema sia Marini, naturalmente, presero malissimo la cosa e restò spiazzato anche Veltroni, che del Professore era stato il partner prediletto nell'Ulivo. Fu a quel punto che il presidente del Consiglio capì che, se non fosse corso ai ripari, avrebbe avuto ogni mattina fuori della porta il fantasma di Banco. Fino a morirne come accadde all'infelice Macbeth. Due giorni dopo l'annuncio della nascita dell'Asinello, il premier inglese Tony Blair lanciò il nome di Prodi come presidente dell'Unione europea. Grazie, rispose il Professore, ma non abbocco: mi tengo il partito. La crisi della Commissione uscente, presieduta da Jacques Santer, esigeva tuttavia una soluzione immediata, e si sapeva che la soluzione passava per la cancelleria tedesca. Se
l'Europa fosse stata tranquilla, Prodi avrebbe probabilmente dovuto cedere allo spagnolo Solana. Ma la Nato stava per muovere guerra alla Serbia ed era impensabile sostituirne il segretario generale. Il cancelliere Schröder avrebbe accettato che un italiano guidasse l'Unione europea? Da un'indagine riservata risulta che un elemento decisivo a favore dell'Italia sia stata la castagna ardente che D'Alema aveva accettato di togliere dal fuoco tedesco, anche a costo di qualche ustione. La "castagna" Abdullah Ocalan. Pochi giorni dopo essere salito a palazzo Chigi, il nuovo premier italiano s'era trovato di fronte la questione dell'arresto del leader del movimento rivoluzionario curdo Pkk, sul quale pendeva un mandato di cattura internazionale per terrorismo. Chi aveva spiccato il mandato? La Germania. Appena ebbe Ocalan tra le mani, D'Alema ne offrì lo scalpo a Schröder, che si guardò bene dall'accettarlo. Se me lo porto in casa, rispose, tra turchi e curdi qui scoppia una guerra civile. D'Alema, che non se l'aspettava, rimase con il cerino acceso in mano. [p. 446] Il nostro Codice penale consentiva di processare Ocalan a Roma, su richiesta del Guardasigilli. Ma Diliberto evitò di presentarla sia perché il suo partito era tutt'altro che estraneo all'arrivo in Italia di Ocalan, nella speranza di un asilo politico che il tribunale avrebbe giudicato legittimo quasi un anno dopo, sia per evitare gli atti di terrorismo che il processo avrebbe innescato. Ocalan fu dunque prima tenuto sotto scorta e poi rispedito in Russia, da dove era venuto, per poi fare un giro tortuoso che l'avrebbe portato all'unica soluzione indesiderata: l'arresto e il processo in Turchia. La pace tedesca era salva e al tavolo delle trattative per la candidatura di Prodi, D'Alema lo fece pesare in maniera discreta ma efficace. Il Professore aveva tutti i titoli per guidare l'Unione europea, l'Italia li acquisì grazie a Ocalan. Sfumata la guida di Prodi, che dovette rinunciare a presentarsi alle elezioni europee come in un primo momento avrebbe desiderato, l'Asinello restò senza padrone. Se ne contesero le briglie gli altri soci, anche se il Professore le affidò all'amico Parisi. Molti elettori persero tuttavia interesse. Se in queste condizioni alle europee i Democratici sfiorarono l'8 per cento, guidati da un Prodi vendicativo avrebbero superato largamente il 10, mettendo seriamente in crisi la leadership di D'Alema nel governo. Il terremoto del 13 giugno Nelle elezioni europee del 13 giugno 1999 - le sole, ormai, che si svolgevano con il sistema proporzionale puro - i partiti poterono
misurare la propria forza individuale. La consultazione avrebbe dovuto regolare alcuni conti: di Cossutta con Bertinotti, di Buttiglione con Mastella e Cossiga, ma soprattutto di Fini con Berlusconi e di Prodi con D'Alema e Marini. Il partito di Prodi, come abbiamo appena visto, aveva la vendetta scritta nella propria ragione sociale. Era nato per far pagare al presidente del Consiglio e al leader dei popolari la sostituzione del Professore con D'Alema a palazzo Chigi [p. 447] nell'ottobre del '98 e, nonostante la nomina di Prodi alla guida dell'Unione europea, si sapeva che nella conta finale ogni voto sarebbe equivalso a una stilla di sangue. Meno chiaro e più complesso fu il disegno che ancora una volta contrapponeva Fini a Berlusconi. Alla vigilia delle elezioni, si era intensificata a Bruxelles la lotta tra socialisti e popolari per il controllo del futuro Parlamento europeo. I popolari, per rafforzarsi, avevano assorbito perfino i conservatori inglesi. I socialdemocratici avevano un punto di forza negli ex comunisti italiani. Forza Italia era stata ammessa nel gruppo parlamentare del Ppe fin dal 9 giugno 1998, nonostante le fermissime proteste di Prodi, di Cossiga e del Ppi. Il segretario del gruppo popolare europeo, lo spagnolo Alejandro Agag Longo, premeva perché l'ingresso formale di Forza Italia nel partito avvenisse prima delle elezioni. La cerimonia fu poi rinviata di poche settimane, ma Berlusconi si sentiva ormai il rappresentante per l'Italia di quel moderatismo centrista che per cinquant'anni era stato identificato nella Dc. Dichiarò, dunque, alla "Stampa" del 31 maggio: votate per me o votate per D'Alema, scegliere chi rappresenta in Italia i popolari e i socialisti è l'unico modo per far contare il nostro paese in Europa. Il presidente del Consiglio ringraziò per lo spot gratuito, ma Fini s'infuriò. L'indomani, "la Repubblica" riassunse efficacemente la sua reazione: "Berlusconi crede che il Polo sia suo. Adesso basta". Di lì a due giorni, Fini alzò il tiro: alle prossime elezioni politiche il candidato premier del Polo avrebbe dovuto essere scelto attraverso elezioni primarie. Traduzione: caro Silvio, scordati di essere tu il nostro leader naturale. Lo stesso giorno i quotidiani registrarono una dichiarazione di Mario Segni: "Bisogna battere la linea centrista di Berlusconi". Con chi stava Segni? In questo libro abbiamo già incontrato più d'una volta quello che alla vigilia delle elezioni europee la Repubblica definì "l'ex tutto". Seguendo la strategia di Pinuccio Tatarella (bisogna "andare oltre il Polo"), Fini aveva formato con Mariotto - deluso dall'Ulivo - un'alleanza elettorale denominata "Elefante". La base di An aveva digerito assai male il
fidanzamento, ma lui era convinto di rafforzarsi. Tre giorni prima delle elezioni disse [p. 448] a Carlo Fusi del "Messaggero": "I pattisti di Segni allargano la coalizione, Berlusconi pensi al centro". Ancora una volta, Fini cercava nell'urna l'affrancamento dal Cavaliere. Ma i risultati provocarono un terremoto che nessuno osava immaginare. Forza Italia stravinse con il 25,2 per cento e quasi otto milioni di voti: due milioni e mezzo più dei Ds che si fermarono al 17,3. Rispetto alle politiche del '96 Berlusconi, che ebbe tre milioni di voti di preferenza personale, guadagnò cinque punti, mentre il partito di D'Alema e Veltroni ne perse quattro. Pur confermandosi il terzo partito italiano (alle europee si presentarono decine di liste), An, che si presentava con il Patto Segni, crollò al 10,3 per cento, cinque punti meno delle politiche. Al quarto posto si piazzò clamorosamente la Lista Bonino: sfruttando l'onda lunga di una magistrale campagna per le elezioni presidenziali, l'allieva di Pannella ottenne l'8,5 per cento, quadruplicando i voti presi dai radicali nelle elezioni precedenti. A ruota venne l'Asinello di Prodi (7,7 per cento). Il Partito popolare crollò al 4,2 per cento e Rifondazione al 4,3, dimezzando il risultato delle politiche. Il nuovo partito di Cossutta ottenne il 2 per cento. Crollò per la prima volta nella sua storia decennale anche la Lega di Umberto Bossi: 4,5 per cento contro il 10,1 delle politiche del '96. Il partito di Lamberto Dini rischiò la scomparsa, fermo all'1,1 per cento, un quarto di quanto aveva avuto alle politiche. Il Cdu di Buttiglione, forte del simbolo dello scudo crociato democristiano, raggiunse un sorprendente 2,2 per cento, che fece morire d'invidia sia Mastella (1,67 con la sua Udeur), sia Casini (2,6 con il Ccd), sia Marini che, d'accordo con quest'ultimo, aveva accreditato a Buttiglione meno di un punto. Quattro leader dimissionari L'analisi dei flussi elettorali dimostrò che la Lista Bonino aveva pescato in modo consistente nell'elettorato leghista e anche in quello di An, mentre - com'era nelle previsioni - l'Asinello s'era abbeverato alla fonte del Ppi e dei Ds. Il governo [p. 449] D'Alema si trovò in una condizione imbarazzante: era formato da dodici partiti e alcuni di essi (i popolari e Dini) avevano più ministri che punti percentuali, mentre Verdi (anch'essi puniti) e socialisti pareggiavano il conto. D'Alema fece una battuta ("Siamo più forti del Polo"), ma da professionista della politica comprese che non gli si
prospettavano mesi facili. Il centrosinistra sparò subito a palle incatenate contro Berlusconi, attribuendone la vittoria alla massiccia campagna di spot elettorali trasmessi da Forza Italia sulle reti Mediaset. Nacque da lì la controversa proposta del governo di vietarli per legge. In realtà, prima delle elezioni, nessuno aveva immaginato che la pubblicità televisiva sarebbe stata così efficace, altrimenti anche altri partiti vi avrebbero investito. I venti miliardi spesi da Forza Italia e i sei miliardi spesi dalla Lista Bonino furono infatti recuperati con i rimborsi elettorali, che premiano chi prende più voti. Al di là della comprensibile propaganda postelettorale, nessun analista serio si azzardò ad attribuire agli spot uno sconvolgimento così drammatico del quadro politico italiano. Accadde invece che, per la prima volta, non veniva premiato il partito del presidente del Consiglio: D'Alema, come riconobbe lui stesso in autunno, non riusciva evidentemente a vendere bene la propria merce. Una parte della sinistra non gli perdonava la gestione "atlantica" della guerra, mentre era chiaro che i moderati continuavano a considerarlo un "comunista". Lo schiaffo a Prodi aveva penalizzato Marini: convinto di fare "in autostrada" le elezioni europee se avesse portato un popolare al Quirinale, era stato brutalmente sconfitto da un accordo generale che ne aveva del tutto vanificato l'asse privilegiato con D'Alema e quindi l'intera strategia politica. I piccoli partiti erano stati puniti da un elettorato stufo del proliferare delle sigle e delle continue migrazioni dei parlamentari da una lista all'altra. I moderati si riconoscevano ormai largamente in Berlusconi. A Fini non aveva giovato l'insofferenza verso il Cavaliere e l'improvvisa simpatia per Segni. La Bonino, invece, nonostante sia in politica da qualche decennio, aveva saputo far [p. 450] cogliere la sua "nuova" immagine e aveva raccolto con straordinaria abilità il voto di protesta. Nessun turno elettorale degli ultimi decenni provocò un simile terremoto. Si dimisero subito quattro leader: Fini, Bossi, Manconi e Marini. I primi due ripresero agevolmente, ma con molte cicatrici, il controllo dei rispettivi partiti. Manconi fu sostituito poco dopo le votazioni da Grazia Francescato, presidente del Wwf; e, in ottobre, Pierluigi Castagnetti subentrò a Marini al termine di un congresso infuocato. Fini: "Perché abbiamo perso"
Il 18 giugno, Gianfranco Fini scelse l'hotel Plaza per rappresentare lo psicodramma più doloroso nella storia di Alleanza nazionale. Per evitare che i giornali ricamassero sui retroscena, decise di presiedere la direzione del partito in una pubblica riunione. La sede era molto bella e solenne: lo spettacolare salone liberty di quello che fu l'Albergo di Roma di palazzo Lozzano, che vide negli anni Settanta e Ottanta i fasti di Gianni De Michelis e della sua allegra corte socialista. "E' finita la fase magica in cui si delegava tutto perché tutto andava bene. Mi avete caricato di ogni responsabilità con il compito di non sbagliare mai". La tensione si tagliava con il coltello. "E' finita ogni rendita di posizione." Silenzio. "Non può accadere che io lasci Alleanza nazionale per fare altro." Applauso liberatorio (s'era detto che Fini, stanco dei suoi, volesse mettersi in proprio). "Il colpo d'arresto alla nostra strategia è arrivato da Berlusconi, non da altri, con il fallimento della Bicamerale." Applausi perplessi. Poi una totale autocritica sull'alleanza con Segni. "Abbiamo giocato a calcio con le regole del basket" ammise Fini per chiarire un fondamentale errore di strategia: le alleanze si fanno per valorizzare il sistema maggioritario, alle europee si è votato con il proporzionale, così abbiamo finito per annacquare la nostra identità. Rilanciando il referendum sull'abolizione della quota proporzionale [p. 451] nella legge elettorale, seminò il panico nell'enorme salone gremito: "Entro il 31 agosto dovete raccogliere seicentocinquantamila firme". Annunciò in tempi brevi un'assemblea nazionale e un congresso e chiuse il discorso. Alla fine del suo intervento, avvicinai i "colonnelli", cioè la prima fila dei quadri dirigenti: erano sconvolti. Fini aveva dettato le condizioni per restare alla guida del partito: le avrebbero accettate (e in effetti raccolsero le firme), ma capirono che il cammino compiuto dal '93 in poi s'era bruscamente arrestato. "Misi in scena quello psicodramma" mi racconta Fini mesi dopo "per dire che ero pronto a pagare e per sollecitare la gente a indicarmi dove avevamo sbagliato. Non potevo cavarmela come Saragat, che una volta parlò di destino cinico e baro, né mi sembrava una seria analisi politica dire, come ha fatto qualcuno, che Segni porta sfortuna. E, infatti, sono arrivati pacchi di lettere il cui filo conduttore era questo: che c'entra Segni con noi? Per carità, un galantuomo, ma stava dall'altra parte ed era bene che ci rimanesse. Il mio gravissimo errore, da licenziamento in tronco, era stato di aver portato avanti un progetto politico quando invece avremmo dovuto
riaffermare soltanto la nostra identità. E l'identità di An non è quella di Segni, di Taradash e di Calderisi." E per il futuro avete imboccato la strada referendaria? "Abbiamo raccolto le firme per il referendum sul maggioritario, ma non mi passa nemmeno per la testa l'idea di proporne altri. Il nostro compito è ribadire la nostra identità, come già abbiamo fatto nell'autunno del '99: sicurezza, attenzione ai ceti medi e ai valori nazionali. E infatti Berlusconi, che nel ramo è un maestro, mi ha detto subito: Gianfranco, sei già risalito nei sondaggi al 15 per cento..." Mai più oltre il Polo, quindi? "Su questo bisogna intendersi. Credo che ognuno di noi, all'interno del Polo, debba lavorare per avere un consenso generale maggiore rispetto a quello di partenza. Chiamiamolo modello Guazzaloca, chiamiamolo "andare oltre il Polo", chiamiamolo come vogliamo, il problema è non inseguire le sigle dei partiti. Siamo in una fase così postideologica e di tale [p. 452] mobilità elettorale che nessuno ha in tasca gli elettori. Non è necessario mettersi d'accordo con Bossi per avere i voti leghisti e nemmeno con Segni per avere i voti referendari. Guazzaloca ha vinto a Bologna perché, dopo aver garantito per molti anni una buona qualità della vita, la sinistra non ha capito che erano emersi altri bisogni: la sicurezza, innanzi tutto. Non puoi togliere ai bolognesi il gusto di passeggiare sotto i portici perché sono invasi da un'immigrazione incontrollata o da drogati che gettano siringhe." Guazzaloca: "Quando Biffi mi disse..." "Me lo diceva Stefani dieci anni fa... Chi è Stefani? E' il fornaio che teneva bottega accanto alla mia macelleria. Mi diceva: "Guazzaloca, lei deve fare il sindaco!". Un macellaio indipendente sindaco della rossa Bologna? Lo so, quando mi sono candidato, nel dicembre del '98, l'idea veniva giudicata sacrilega da molti. Ignoranti. Sì, ignoranti. Sa che cosa facevano i Bentivoglio, signori di Bologna nel Quattrocento, prima di diventare notai? Facevano i macellai come me. E anche quando guidavano la città hanno tenuto sempre aperta una macelleria, a memoria della loro origine. Dunque..." Dunque, eccolo qua il "Guazza". E' una tiepida sera d'ottobre del '99, a Capri. Che fa così fuori zona e fuori stagione il signor sindaco della dotta Bologna? Fa la Madonna pellegrina. Guazza di qua, Guazza di là. A Capri, il Guazza ha fatto il suo debutto nel salotto
buono del potere italiano, invitato dai giovani imprenditori di Confindustria - unico sindaco - a parlare dinanzi al Gotha del denaro e del potere sulle ragioni per cui la politica tradizionale non funziona più e un uomo come lui ha potuto sfondare in soli sei mesi d'assedio una rocca inespugnabile, costringendo a mangiar polvere il partito più tosto d'Italia. Così, dinanzi a due cocktail analcolici del bar del Quisisana ("Prima ha offerto lei, adesso offro io"), sotto il tiro di fotografi che non lo lasciano respirare un momento, il Guazza [p. 453] mi racconta la sua favola di Cenerentola entrata trionfante nel palazzo del principe nonostante tutto quel che le hanno combinato matrigna e sorellastre. "A parte la preveggenza del fornaio Stefani, un po' di voglia m'è venuta all'inizio del '98, quando i Ds mi hanno tirato giù dalla presidenza della Camera di commercio che avevo tenuto per sei anni. Era l'unica carica della provincia che non fosse loro. Io m'ero comportato senza inciuci e senza pregiudiziali ideologiche. Cercavo di collaborare, ho fatto manifestazioni importanti con Fellini e Moravia, promosso seminari letterari, illuminato chiese. Alla fine, mi hanno tirato giù per occupare loro anche quella poltrona, sia pure con una degna persona come Carlo Sangalli. Fu uno sbaglio. Scrisse Nicola Matteucci: "E' l'inizio della fine dei comunisti". Lasciando la carica dissi: "Questi cambieranno palazzo della Mercanzia [sede della Camera di commercio] con palazzo D'Accursio [sede del Comune]". E sa perché lo feci? Vede, la gente non sa nemmeno che cosa sia una Camera di commercio. Eppure per mesi in tanti mi fermavano per strada: Guazzaloca, le hanno fatto un'ingiustizia. Allora mi domandai: perché non provare? Nella primavera del '98 andai a trovare Giacomo Biffi, il cardinale di Bologna. Gli dissi: eminenza, non mi permetto di sollecitarle un parere politico, le chiedo un consiglio personale. E' un rischio troppo gravoso candidarmi alla carica di sindaco in nome dell'affetto che nutro verso la mia città? Sa che cosa mi diceva sempre la mia mamma, eminenza? Giorgio, se le disgrazie non ti vengono da sole, vai tu a cercartele. Mi rispose il cardinale: è un gran complimento. Non aggiunse altro ma, uscendo, sentii di avere una specie di approvazione "morale". Cominciò così l'"operazione lievito". Che roba è? Il passaparola, gli incontri con la gente per la strada e in autobus, l'entusiasmo di tanti amici, da Gianni Monduzzi a Franco Degli Esposti, che era stato vicesindaco socialista in una giunta rossa. Ne parlai, naturalmente, anche con Pierferdinando Casini, bolognese come me. Fu una chiacchierata
informale, come quella che feci una volta con Fini incontrandolo in un convegno a Bologna e con Berlusconi a un convegno romano della Confcommercio. Chiacchiere così. [p. 454] Casini l'altra volta aveva sostenuto Gazzoni e aveva perso. Anche adesso era convinto che, se mi fossi candidato, avrei battuto il muso." "Ricorda quando mi prese per mitomane?" "Ricorda quando ci incontrammo ai giardini Margherita nel novembre del '98? Lei era venuto a presentare un suo libro e io le sussurrai in un orecchio: mi candiderò a fare il sindaco di Bologna. Sbaglio, o mi prese per un mitomane? Non sbaglio. Anche perché, la stessa sera, un altro signore le annunciò la stessa cosa. Bene, pochi giorni dopo, il 19 dicembre, mi candidai. Lo feci con una brevissima conferenza stampa: diciannove minuti, domande e risposte comprese, annotò Andrea Fontana sul "Resto del Carlino". Dissi che mi rivolgevo a tutti i bolognesi, a trecentosessanta gradi. Volevo restituire alla città l'antica, buona amministrazione, vista la perdita di spessore e di mordente degli ultimi anni. Non avevo preclusioni ideologiche e nei confronti dei partiti mi ponevo come lo scapolo che non si è sposato non perché ce l'abbia con le donne, ma perché non ha incontrato quella della sua vita. Per parlare ai giornalisti, scelsi un albergo della Bolognina, davanti alla casa del sindaco Walter Vitali. E Vitali mi rispose mezz'ora dopo che era venuta fuori la notizia: Guazzaloca è un ipocrita, è il candidato del Polo mascherato. "E invece sa da chi mi venne il primo fuoco di sbarramento? Dai bolognesi di Forza Italia. Mi attaccò anche la parte più a destra di An, ma Filippo Berselli - l'uomo di Fini, che a Bologna conta - mi disse: tu non sei dei nostri, ma poiché a noi interessa vincere dopo cinquantaquattro anni, se pensi di riuscire, prova pure. Le stesse cose, più o meno, me le comunicò Casini. La battaglia con i Ds fu subito dura. Mi attaccarono con disprezzo gli elementi più in vista del partito. Alessandro Ramazza, il segretario di federazione, mi dette del provinciale. Carlo Flamigni, presidente del Consiglio comunale, disse che non poteva fare un dibattito con me che sostenevo [p. 455] l'importanza di aver cominciato a lavorare a quindici anni e avrei detto che la cultura era una balla. Tutto questo mi colpì perché la loro base era fatta anche da gente che aveva cominciato a lavorare presto. L'indomani, mi disse un tassista: anch'io lavoro da quando avevo quindici anni. Un voto guadagnato. Era cominciata la campagna elettorale. Ripetevo ai miei amici: ragazzi, io mi tuffo da cinquanta
metri, per favore fatemi trovare almeno trenta metri d'acqua sotto. Lo fecero, ah se lo fecero. In tre settimane mettemmo in piedi una quarantina di comitati con quaranta persone l'uno, distribuiti in tutte le categorie. Dicevo loro: se va bene, avremo fatto il colpo; se va male, daremo una spinta per far uscire la città da questa lunga stagnazione. Il programma è nato da loro e dai venti amici con i quali ci riunivamo tutti i lunedì. Al primo posto mettemmo la sicurezza, come avevo annunciato fin dall'inizio. D'Alema s'è accorto del problema nell'autunno del '99, tant'è vero che ancora in marzo il suo sottosegretario Minniti era venuto a tranquillizzarci: Bologna è una città sicura. Sicura un accidenti: era la meno sicura d'Italia dopo Brindisi e Reggio Calabria. Intanto, i sondaggi mi accreditavano di un indice di riconoscibilità del sessanta per cento. Ero secondo soltanto a Gazzoni e a Roversi Monaco, il rettore dell'università, che stavano al settanta. Ma Gazzoni, quando s'era candidato alla carica di sindaco nelle elezioni precedenti, aveva un indice soltanto di quaranta. E quando i miei avversari cominciarono a dire che il Guazza era un uomo solo, io rispondevo: sì, come Coppi, un uomo solo al comando. "I Ds passarono presto dal disprezzo alla preoccupazione, e cominciarono a lottare tra loro. Vitali fu eliminato perché dopo la sconfitta del partito a Parma i sondaggi lo davano perdente. Tirando via Vitali, veniva eliminato per contrappeso anche il suo avversario interno Ramazza. Si provò con Mauro Zani, che veniva dal Bottegone ed era uno forte nel partito. Ma lo provocarono dicendo che doveva passare le primarie, così lui si offese e se ne andò." [p. 456] "Com'è la Bartolini? Nervosa..." "Alle primarie, come previsto, trionfò Silvia Bartolini. Fin dal primo dibattito mi accorsi che era nervosa. Glielo dissi e diventò una specie di refrain. Com'è la ragazza? Nervosa... Nei dibattiti io restavo calmo, lei si agitava, tanto che Michele Smargiassi scrisse sulla "Repubblica": la Bartolini fa la parte della sfidante, Guazzaloca non alza mai la voce, non fa polemica... Qualcuno dei miei mi incitava: devi reagire! E io: non capite niente, lei sta sopra le righe, io do ai cittadini un'immagine solida e rassicurante. Lei era in difficoltà anche nel giudizio sull'amministrazione precedente: non poteva esaltare Vitali perché si candidava a sostituirlo, ma non poteva nemmeno parlarne male perché gli era compagna di partito. La cosa buffa è che Dozza, il mitico sindaco comunista, lo evocavo io e
non lei. Dozza era una figura unificante: la mia mamma, vecchia democristiana, sosteneva che, però, quel sindaco era proprio un brav'uomo. Un'esperienza simile m'è capitata nel settembre del '99 alla Festa dell'Unità di Modena. All'inizio sono stato accolto nel gelo. Poi mi hanno chiesto perché ho vinto e ho risposto: perché s'è esaurita la spinta propulsiva della sinistra, come diceva Berlinguer dell'Urss. E aggiunsi: se non lo ricordo io, Berlinguer, qui non lo ricorda nessuno. E partirono gli applausi. "Aspettai l'ultimo dibattito televisivo per picchiare duro sulla Bartolini, fino ad accusarla di non avere i nervi saldi. Poi arrivammo al voto. Lei mi chiede se il sostegno pubblico di Gianni Pecci, braccio destro di Prodi a Nomisma, significa che anche il Professore mi ha dato una mano. Direi di no, ma i voti sono arrivati da ogni parte. [Inserire Prodi tra i sostenitori di Guazzaloca è un falso storico, ma qualcuno a Bologna sostiene che, se Pecci ha agito di testa sua, l'ha fatto per la prima volta.] "Al momento di votare, i sondaggi davano la Bartolini in vantaggio di tre punti. Due mesi prima, in aprile, il suo vantaggio era di dieci punti. La lista che avevamo messo su noi, "La tua Bologna", prese il 17 per cento, nonostante 7700 schede nostre annullate. Forza Italia (che si presentava con il Ccd) [p. 457] e An presero poco più del 10 per cento ciascuno. I Ds si fermarono a meno del 26. Questo significa che noi eravamo arrivati in sei mesi a soli nove punti dal partito che aveva governato la città per più di mezzo secolo. La Bartolini prese il 46,7 per cento, io il 41,5. Tutti dicevano che la ragazza al secondo turno avrebbe vinto grazie ai voti di Rifondazione. Io ero tranquillo, sapevo che Rifondazione l'aveva già votata al primo turno. Prima del ballottaggio, l'entusiasmo dei nostri arrivò alle stelle. Pensi che al primo turno eravamo riusciti a mettere insieme soltanto cento rappresentanti di seggio, al secondo arrivammo a quattrocento, riuscimmo, cioè, a presidiare tutte le sezioni. Che cosa accadde la notte del 27 giugno? Vinsi io per tremila voti, centotredicimila contro centodiecimila. Il nostro comitato stava sulla strada Maggiore, di fronte a via Gerusalemme dove abita Prodi. (Un giorno gli dissi: "Se scendi in bicicletta e ti si rompono i freni, entri dritto nei nostri uffici".) Per arrivare alla sede del Comune ci sono seicento metri. Impiegammo un'ora a percorrerli. In piazza Maggiore c'erano trentamila persone. In municipio erano rimasti soltanto un paio di vigili, i Ds erano andati tutti via dieci minuti prima che arrivassi io."
"Hanno sciolto il voto a San Luca..." "Che cosa è successo nei primi tre mesi? Be', intanto mi sono arrivate trenta cartoline da San Luca. Che roba è? Il santuario dove i bolognesi si recano a piedi per sciogliere i loro voti. Se trenta persone mi hanno scritto, pensi a quante ci sono andate e non mi hanno scritto... Poi è nata la popolarità del Guazza, che mi lascia prudente: faccio conto che parlino di un'altra persona. Questa, però, devo raccontargliela. L'estate scorsa sto passeggiando a Milano Marittima e incontro Christian Vieri fuori di un bar. Arriva un'automobile carica di ragazzi che fanno grandi cenni di saluto. Mi volto verso Vieri, pensando che ce l'hanno con lui. Poi si avvicinano e uno grida: Guazza, sei un mito. Io, capisce? Che roba... In giunta, su dieci assessori, [p. 458] ne ho messi soltanto tre dei partiti: uno ciascuno a Forza Italia, An e Ccd. E si tratta di persone che avevano già avuto incarichi istituzionali, nei quali erano state apprezzate. Tutti erano lì con il fucile spianato: il Guazza sta con i partiti o contro? Né l'una cosa, né l'altra. Senza i partiti del centrodestra io non vincevo, senza di me i partiti del centrodestra non vincevano. Serve un giusto dosaggio, insomma. La prima grana? Be', arrivò Valerio Monteventi, consigliere comunale di Rifondazione. Mi fece chiedere come volevo regolarmi con quelli del Rave Party, ma sì, il ballo in cui fanno un casino d'inferno. Allora ricevo Monteventi e lui dice: in quattro anni Vitali non l'aveva mai fatto. Poi mi chiede come risolvere il problema del luogo del concerto e io gli dico di portarmi quelli là. Li ha presenti? mi chiede Monteventi. Hanno capelli viola, arancione... Che mi frega? Che vengano. Vennero con i capelli di ogni colore, negammo i giardini Margherita, concedemmo piazza Maggiore e altri luoghi, alla fine il concerto andò benissimo, senza incidenti. Poi arrivò il 25 luglio, celebrato sempre dai partigiani dell'Anpi, e finì con un abbraccio collettivo. Poi il 2 agosto, anniversario della strage di Bologna. Prima di quella data, venne da me Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime, per sapere le mie intenzioni. E io: guardi, Bolognesi, che dall''80 io partecipo sempre. An chiese a gran voce che mi dissociassi dalla tesi della "strage fascista". In effetti, non pronunciai quella frase (anche se criticai la scarcerazione di Fioravanti, il terrorista di destra condannato per l'attentato) e vidi che negli ultimi due anniversari nemmeno Vitali l'aveva pronunciata. Le nomine? Il potere? Ho chiamato i novanta dirigenti del Municipio e ho detto: io non ho nessun pregiudizio nei vostri
confronti, vi prego di non averne nei miei. Vedremo nel 2000, al rinnovo delle cariche nelle municipalizzate (che fatturano centinaia di miliardi), chi meriterà la conferma e chi no. Lei mi chiede quanto potere si può amministrare dal Municipio di Bologna. Tanto. Oggi, un sindaco può fare davvero tutto... A proposito, mi ha domandato se sento Berlusconi. No, perché?" [p. 459] Bossi rovinato dalla guerra Dopo le elezioni europee del '99, Bossi poté ben dire, come Alberto Sordi, "A me m'ha rovinato 'a guera". Il Senatùr è una divinità pagana, che per dieci anni ininterrotti ha portato il suo popolo al successo senza che nessuno osasse chiedergli nulla: era venerato e basta. E' stato uno dei protagonisti assoluti del decennio politico. Con un fiuto animalesco infallibile e un'abilità istintiva rarissima tra i leader (il paragone più immediato, anche nel carattere e nella presa sui suoi, è Bettino Craxi), è riuscito a portare la destra al governo per la prima volta nella storia repubblicana e a espellerla dopo pochi mesi. Ha garantito la sopravvivenza del governo Dini, ricevendone in cambio legittimazione (fu secretata e resa inefficace la denuncia del Guardasigilli Mancuso sulla secessione). Deridendo l'inciucio tra "Roma-Polo e Roma-Ulivo" ha sfondato nelle elezioni politiche del '96 il muro del 10 per cento. Ha retto per tre anni rilanciando su una secessione impossibile e nel '99 è caduto rovinosamente per due ragioni: l'ingresso della lira nell'Euro e la sconfitta di Milo¬sevi¬c nella guerra del Kosovo. Negli ultimi anni, Bossi aveva accentuato i toni anticapitalistici e antiamericani, ma ben pochi tra i suoi elettori potevano immaginare che nella guerra balcanica si sarebbe schierato con il dittatore serbo. Quando andò in missione a Belgrado, si comportò con il nostro governo in modo corretto: informò riservatamente palazzo Chigi di ogni suo passo e si mosse in accordo con D'Alema e Minniti, che portavano con pochissime altre persone la responsabilità di un'Italia coinvolta dopo cinquantaquattro anni in una guerra europea. Ma pochi tra i suoi elettori riuscirono a condividerne le sparate antioccidentali in Tv, mentre negli stessi studi televisivi erano presenti famiglie kosovare vittime della pulizia etnica. A dieci giorni dalle elezioni (e a guerra ormai finita), Bossi capì d'aver sbagliato, cercò di correggere la rotta, disse di aspettarsi una perdita di tre punti rispetto al '96. Ne perse il doppio e, quando lo incontrai più tardi, sembrava un leone ferito che ruggisce nella sua tana, mentre aspetta di poter tornare in combattimento.
[p. 460] Attribuisce ai tedeschi di Kohl la responsabilità dell'ingresso dell'Italia nella moneta unica e il conseguente fallimento della secessione padana. "Incontrammo i tedeschi l'ultima volta in Slovenia, alla fine del '97. Venne un rappresentante di Kohl con l'aereo presidenziale e mandai un mio uomo che fu sbrigativo: o facciamo la secessione o arrivederci. L'altro rilanciò con il federalismo, si sentiva in colpa, voleva darci una mano. Ma alla fine non se ne fece niente." Lei però ha cancellato la parola secessione dal vocabolario della Lega subito dopo l'ingresso della lira nella moneta unica. "Lo feci perché nella Lega arrivarono per me grosse difficoltà. Mi accorsi che i dirigenti avevano due tipi di paura: quella di perdere il posto in Parlamento e quella dei procuratori della Repubblica come Papalia. Avevo sulle spalle duecentoventi inchieste giudiziarie per ragioni ideologiche... E intorno a me vedevo gente spaventata per un avviso di garanzia, che andava da Papalia piangendo che non c'entrava niente. Insomma, mi dicevano: grazie Bossi, ci hai insegnato molte cose, ma adesso dobbiamo cambiare registro. Insomma, ognuno se ne tornava da dove era venuto. E io per un anno sono rimasto prigioniero di tutta questa gente." La sua strategia? "Piantare la bandiera della Lega in qualche regione." Un giudizio sul decennio trascorso? "Niente sarà come prima." Quando gli dissi che il suo elettorato non mi sembrava di sinistra e che, invece, lui teneva più al rapporto con D'Alema che a quello con Berlusconi, Bossi rispose protestando la sua equidistanza. Ma espulse Domenico Comino, capo dei deputati leghisti, reo di aver fatto un accordo con il Polo nelle otto province piemontesi in cui si votava a giugno (il nuovo cartello se ne aggiudicò cinque). Comino ha sempre sostenuto di averlo informato dell'alleanza e, poiché nella Lega è difficile spostare un soprammobile senza il consenso di Bossi, si stenta a non credergli. Il Senatùr mi dice di essere stato colto alla sprovvista: non volle rompere in campagna elettorale, ma poi gridò al tradimento ed espulse Comino. Che si vendicò [p. 461] spaccando il gruppo parlamentare della Lega nella nomina del proprio successore. Fondò poi un suo "Piemont". Se ne andò anche Vito Gnutti, già ministro dell'Industria nel governo Berlusconi, nella speranza di poter fare da ponte tra Bossi e il Polo. Se ne andò il mitico Babbini, ex consigliere comunale e factotum del Senatùr nei tempi d'oro. Fu sospettato d'eresia polista perfino il presidente della
Lega, Stefani. Mentre l'ex sindaco di Milano Formentini fece la scissione da sinistra. La fine del decennio trova Bossi solo, in attesa di decidere chi sarà il suo nuovo alleato. Stretto tra il Piemonte di Comino, la Lombardia di Gnutti e il Veneto di Comencini e di Ceccato, che vararono un patto federale orientato verso il centrodestra, Bossi cerca di restituire alla Lega l'identità perduta. E' tornato sul Po a prendere l'acqua sacra e a Venezia per gridare di nuovo contro Roma Ladrona. Ha ricominciato da capo, insomma. Anche se sotto la linea del Po il suo nome è impronunciabile e sopra sono in molti ad averlo dimenticato, la storia gli deve l'onore delle armi: senza di lui, di federalismo in Italia non avrebbe mai parlato nessuno. Berlusconi come Beethoven? La deferenza che i musicisti manifestarono nell'alzarsi all'ingresso di Myung-Whun Chung non lasciava trasparire i profondi dissapori che ormai dividevano l'orchestra sinfonica di Santa Cecilia dallo stimato maestro coreano. La sera di giovedì 9 settembre 1999, si davano la Seconda e la Terza sinfonia di Beethoven. Era la replica del primo di cinque appuntamenti che, nell'arco del mese, consentirono ai melomani romani (e non solo) di godere dell'intero ciclo delle nove sinfonie composte - e mai interamente ascoltate dallo straordinario musicista tedesco, colpito poco dopo i trent'anni da una progressiva e implacabile sordità. Gianni Letta, che sedeva in dodicesima fila accanto alla moglie Maddalena, dovette chiedersi se al suo amico Silvio Berlusconi sarebbe toccato lo stesso beffardo destino: comporre la [p. 462] parte più eccelsa del suo repertorio, la sua Nona sinfonia, senza poterla ascoltare. E cioè - fuori di metafora - vincere le elezioni politiche del 2001, sull'onda lunga di sondaggi trionfali, senza poter godere di nuovo della poltrona di palazzo Chigi. Sarebbe accaduto questo, al Cavaliere? Avrebbe dedicato all'ultimo istante il suo capolavoro a un Fazio o a un Monti come Beethoven fece con il principe Franz Joseph von Lobkowitz? Ascoltando la Terza sinfonia, detta l'Eroica, Letta dovette constatare che il succedersi dei movimenti ricordava curiosamente la carriera politica di Berlusconi. L'Allegro con brio iniziale richiamava alla mente la trionfale discesa in campo del '94. La celebre Marcia funebre del secondo movimento il ribaltone, l'accanimento giudiziario contro Berlusconi, la sua annunciata e devastante morte politica. Lo Scherzo successivo la sua piena e
imprevedibile resurrezione maturata fin dai primi mesi del '99, consolidatasi con l'accordo per l'elezione di Ciampi, esplosa con il trionfo delle elezioni europee, consacrata a metà settembre con l'ingresso ufficiale di Forza Italia nel Partito popolare europeo. Restava l'Allegro molto del finale. Da assiduo frequentatore di sale musicali, Letta sapeva bene che nel comporla Beethoven s'era ispirato a Prometeo: non ai supplizi impostigli da Zeus per castigarlo del dono del fuoco agli uomini (non aveva forse donato il Cavaliere il fuoco del bipolarismo alla politica italiana smarritasi nel '93?), quanto alla virtuosa attività creatrice del Titano. Berlusconi si sarebbe sacrificato per il bene perpetuo della nazione, secondo la lettura cristiana che del mito di Prometeo fecero Agostino e Tertulliano paragonando le sue eccelse sofferenze addirittura alla passione di Cristo? O avrebbe goduto dell'immortalità creando uomini a sua volta? "Alcune chiusure del trillo suonano spiritose, come se un colosso terrestre si mettesse in moto" suggerì Joachim Kaiser, nume della critica tedesca, al giovane direttore d'orchestra Christian Thielemann, che - Letta lo ricordava bene - aveva proposto l'intero ciclo delle sinfonie di Beethoven proprio in quella sala nel '95, annus horribilis per il Cavaliere. Una sera dell'ottobre '99 Alfredo serviva nella sala da pranzo [p. 463] di palazzo Grazioli una cena raffinata e frettolosa, perché Marinella rammentava al Dottore che di lì a un'ora l'aeroporto di Linate sarebbe stato chiuso e occorreva partire. Sotto la silenziosa e attenta vigilanza di Gianni Letta, Paolo Bonaiuti e Nicolò Querci, chiesi a Berlusconi come avrebbe reagito se il centrosinistra gli avesse teso il "trappolone", varando una legge sul conflitto d'interessi, cucitagli su misura come un abito di Caraceni, per impedirgli di candidarsi di nuovo a palazzo Chigi. "Ne prenderei atto" rispose "e resterei il regista del centrodestra." Il suo governo - cioè un gabinetto da lei diretto o comunque da lei ispirato - avrebbe la stessa caratura di quello del '94? Converrà che, a parte alcune punte, il suo primo governo non esprimeva il massimo delle qualità politiche... "E, infatti, il nuovo governo di centrodestra sarebbe, anzi sarà, di un livello incomparabilmente più alto di quello del '94, che portò il segno di una coalizione nata in circostanze necessitate. Una squadra davvero credibile formata dai protagonisti dell'Italia che lavora." Gli interessati già lo sanno?
"Non posso certo farle i nomi, ma alcuni importantissimi numeri uno sono già disponibili." E' migliorata in questi anni la squadra di Forza Italia? "I nostri parlamentari costituiscono senza dubbio il gruppo del Parlamento di più alto livello professionale e culturale. Non abbiamo funzionari allevati nelle segreterie di partito, ma uomini che hanno già dimostrato le proprie capacità nella vita professionale e di lavoro e che portano competenza ed esperienze nella gestione della cosa pubblica. E questo non succede soltanto a Roma, alla Camera o al Senato, ma anche nelle regioni, nelle tante città e nei paesi dove ormai contiamo su ottomila eletti nelle amministrazioni locali." Se torna con la memoria indietro di cinque anni, riconosce che con il suo ingresso in politica ha salvato le sue aziende? "E' vero esattamente il contrario. Se fossi restato fuori della politica e avessi mostrato un atteggiamento compiacente nei confronti del Pds, come hanno fatto altri, che hanno messo le [p. 464] loro gazzette a disposizione del vincitore, sarei vissuto in una prospera tranquillità. Certo non avrei potuto più guardarmi allo specchio. Nelle maggiori democrazie il conflitto di interessi si risolve affidando a un blind trust la gestione delle imprese dell'uomo di governo. Pensa davvero che sarebbe immaginabile che Berlusconi presidente del Consiglio varasse una norma che potesse favorire, pur nel modo più indiretto, qualcuna delle sue aziende?" Torniamo alla politica. Entrata a vele spiegate nel Partito popolare europeo, possiamo dire che Forza Italia è la nuova Dc? "No. Il nostro partito, come del resto il nostro elettorato, è composito, abbraccia un orizzonte più vasto e più ricco. Culture diverse e tradizioni di diversa ispirazione convivono armonicamente nel riconoscimento degli stessi valori e dei comuni principi liberali. Anche per questo, sia a livello centrale sia a tutti i livelli periferici, siamo attentissimi a che in ogni organismo direttivo, oltre all'anima cattolica, siano presenti la liberale, la socialista, la repubblicana e quella dei riformatori." E' stato complicato entrare nel salotto buono di Kohl e di Aznar? "Conoscevo già tutti e due questi leader, come del resto Mitterrand e Gonzàlez. Li conobbi quando da imprenditore televisivo lavoravo all'espansione continentale delle mie televisioni. Con Aznar c'è un'amicizia personale che nasce anche dal suo rapporto con Fraga Iribarne e che ha data più antica del mio ingresso in politica, ma che la politica ha successivamente consolidato e rafforzato. Aznar ha realizzato il nostro stesso programma. In Italia dovrebbero essere
contenti del rilancio che sto facendo dei valori di Sturzo e di De Gasperi, anche attraverso l'ingresso di Forza Italia nei popolari europei. E invece..." D'Alema: "Sì, mi sento socialista..." "Totti è una risorsa per il paese!" esclamò D'Alema e ricominciò a mangiare affettati e parmigiano. La ripresa politica [p. 465] autunnale si era avviata da poco, i popolari m'avevano invitato a coordinare un dibattito tra D'Alema e Mattarella alla Festa nazionale dell'Amicizia, in provincia di Parma. Dopo aver tentato invano di cogliere qualche differenza tra il presidente del Consiglio e il suo vicepresidente (andavano d'accordo anche sui colori delle cravatte), ci fermammo a guardare una partita della nazionale di calcio nel giardino di una magnifica tenuta aperta agli ospiti da un industriale e dalla sua famiglia. Totti, purtroppo, fu impiegato tardi da Zoff e la partita fu deludente. D'Alema, acceso tifoso romanista, soffocò il suo disappunto dentro l'abito istituzionale e ce ne tornammo a Roma. Il presidente del Consiglio aveva davanti a sé un autunno assai difficile, che alla fine d'ottobre lo avrebbe portato a offrire ai Democratici di Prodi la partecipazione diretta a un nuovo governo per rilanciare una coalizione ormai sfilacciata. E alle spalle c'era il pessimo risultato delle elezioni europee. "Dopo il raggiungimento dell'Euro, in tutta l'Europa si era diffusa la convinzione che la sinistra avrebbe garantito la crescita economica e l'aumento dell'occupazione." E invece? "E invece la stagnazione ha procurato delusione ed effetti elettorali negativi. In Francia, dove l'economia è andata meglio, sono andati meglio anche i socialisti. Noi, in più, avevamo il problema del partito di Prodi. Se nasce un terzo partito nello spazio politico che prima era diviso tra due, evidentemente i conti non tornano." Il risentimento di Prodi nei suoi confronti è cessato? "Non lo so." L'Asinello è un alleato o un concorrente? "Non lo sento come un concorrente. Per quanto riguarda la guida della coalizione di centrosinistra, essa si misura sul valore delle persone. Ho già detto che se venisse avanti una candidatura con maggiori possibilità della mia di guidare la coalizione e di avere più
consensi, sarei io il primo a promuoverla. Nell'attesa, danneggiare chi si trova nella posizione più esposta senza avere i ricambi è un danno, un modo di farsi del male." [p. 466] Tornerebbe a fare il segretario di partito? "Se riuscirò a fare il lavoro attuale con serenità e senza insidie, potrò andarmene con altrettanta serenità. Le scelte successive dipendono anche dall'animo con cui si lascia. Se uno se ne va incattivito, cerca la rivincita; se se ne va sereno, dopo può fare un lavoro più dedicato allo studio, alla riflessione. Dipende dai tempi e dai modi." Una volta entrato nel salotto buono internazionale, non è rimasto sorpreso dal fatto che i suoi colleghi socialisti facciano nettamente prevalere gli interessi nazionali rispetto a una solidarietà, per così dire, ideologica? Prenda il caso Ocalan... "Be', sul caso Ocalan ho visto che i tedeschi, essendo tedeschi, si sono comportati in modo diverso da come uno si sarebbe aspettato." Vuol dire che hanno fatto gli italiani? "Abbiamo capito che per loro si poneva un problema drammatico e allora abbiamo puntato a comportarci con una certa signorilità..." E s'aspettava un Blair così scatenato sulla guerra? "Sì. In alcuni momenti non ho condiviso il suo atteggiamento, perché a mio giudizio c'è stata una forzatura nella ricerca di una soluzione puramente militare. Però anche questo fa parte della loro tradizione e del loro modo di vedere la guerra, che è molto diverso dal nostro. Abbiamo comunque mantenuto un rapporto dialettico molto civile." Lei si sente socialista? "Sì, personalmente non ho il minimo dubbio. Vede, la politica è molto diversa da come la percepiscono i cittadini attraverso un sistema di informazione che è certo deformante. Il sessanta per cento della politica quotidiana di cui io mi occupo è politica internazionale, nei confronti con i vari Blair, Jospin, Schröder." I democratici di sinistra sono un partito socialista? "Sono un partito del socialismo europeo non dissimile da altri, sia pure all'interno di un panorama sufficientemente complesso. Ma sul fatto che noi siamo socialisti non c'è il minimo dubbio." [p. 467] Per lei è stato un affare dare a Di Pietro il collegio del Mugello? "Di Pietro è una personalità politica che esprime il cambiamento italiano. Aveva un patrimonio di credibilità e ce l'ha ancora, anche se forse meno di prima, perché la politica logora. Era giusto offrirgli una possibilità. Nulla è più pericoloso che tenere fuori
della politica uno che ha un'indubbia personalità politica." Appena entrato nella macchina di palazzo Chigi, Berlusconi le disse che non aveva trovato il volante. E lei? "Io sapevo che non c'era, e questo mi ha fatto risparmiare il tempo della ricerca. Governare in Italia è un lavoro doppio rispetto a quello che si fa negli altri paesi. Altrove si guida la macchina, da noi la si guida dovendola riparare contemporaneamente. I cambiamenti che stiamo compiendo avranno un effetto positivo nella storia del paese. Il ministro delle Finanze, per esempio, sta facendo un cambiamento di portata storica, sta cioè eliminando l'evasione fiscale." Le riforme sono saltate definitivamente? "Assolutamente no. Bisogna continuare a lavorare per fare tutte quelle possibili." Questo libro si è aperto con la caduta del Muro di Berlino e con l'influenza che Giovanni Paolo II ha avuto su di essa. Lei mi ha detto che, nel '78, voi comunisti aveste timore dell'"uomo venuto dal freddo". Che giudizio ne dà ventun anni dopo? "Credo che il bilancio di questo papato sia molto positivo. Naturalmente, ci sono aspetti che non condivido, come la fatica della Chiesa a misurarsi con il grande tema della libertà femminile. Ma non c'è dubbio che Giovanni Paolo II ha interpretato in modo straordinario questo passaggio d'epoca, e cioè la caduta del comunismo e la necessità di costruire una critica della società contemporanea basata sui valori. Il papa ha avvertito che la caduta del comunismo, concepita addirittura come un traguardo, rischiava di essere interpretata come fine della critica degli assetti sociali e dei valori dominanti. Giovanni Paolo II ha percepito che la Chiesa doveva occupare questo spazio: lo spazio dello stimolo, lo spazio della critica." [p. 468] XV: Andreotti 2, la vendetta La mano sugli occhi Un istante. Fu soltanto un istante. Giulio Andreotti chinò appena la testa e si mise la mano destra sugli occhi. Quando la tolse aveva gli occhi lucidi di commozione. Era la prima volta, forse, che questo accadeva davanti a testimoni. Non ci furono le famose "prime parole" che in un momento storico tutti cercano di attribuire al protagonista. Il senatore non ebbe il tempo di dirne nemmeno una
perché nello studio di palazzo Giustiniani risuonò immediatamente l'Inno alla gioia dalla Nona di Beethoven. Era lo squillo del suo cellulare, scelto dai figli quando gli regalarono il telefonino. "Grazie..." A chiamarlo era un ebreo libico, la telefonata veniva da Israele. Mancavano due minuti alle undici del mattino di sabato 23 ottobre 1999. Nell'aula giudiziaria ricavata in un carcere della periferia palermitana, sotto l'occhio delle televisioni di mezzo mondo, Francesco Ingargiola aveva appena detto: "In nome del popolo italiano, il tribunale di Palermo, quinta sezione penale...". Andreotti guardava il televisore e io guardavo lui. La storia dell'Italia moderna era lì, quasi accucciata su una sedia senza braccioli. Indossava il solito cardigan blu da lavoro, le braccia lunghe abbandonate sul grembo, lo sguardo affilato come un raggio laser ma non febbrile. "Visto l'articolo 530..." E' andata!, mi scappò detto a voce alta. Lui restò immobile e silenzioso ancora per qualche istante, poi spostò impercettibilmente il busto in avanti. Voleva che, dopo sette anni di tormento, non ci fossero equivoci. Voleva sentire con le sue orecchie un'altra parola. "...secondo comma, [p. 469] del Codice di procedura penale, assolve Andreotti Giulio dalle imputazioni ascrittegli perché il fatto non sussiste." Quella parola - "assolve" - sfondò il televisore, dilagò nello studio affrescato di palazzo Giustiniani, sfiorò la foto giovanile di Andreotti con De Gasperi e il libro di Saverio Lodato in cui Buscetta dice, dopo la sentenza di Perugia, il contrario di ciò che aveva detto nel primo incontro con Caselli, rimbalzò sulle lacrime delle segretarie e sull'emozione dei pochissimi cronisti presenti, accarezzò infine quell'uomo di ottant'anni vissuto abbastanza per avere giustizia. Fu allora che Giulio Andreotti si portò per un istante la mano sugli occhi: volle riacquistare il rapporto privato con se stesso ("Ho ringraziato Dio" mi avrebbe confidato poi), al quale aveva rinunciato ospitando qualche giornalista perché fosse testimone della grazia o dell'esecuzione. Ci aveva fatti accomodare su divani e poltrone disposti a semicerchio davanti al televisore, aveva messo sul tavolinetto centrale un pacco di fogli bianchi per gli appunti. S'era accertato che nessuno fosse rimasto in piedi e aveva tenuto per sé l'ultima sedia di sinistra, una delle meno comode. Aveva incontrato poco prima una delegazione del Polisario, il Fronte per la liberazione del Sahara occidentale, e ne parlò con
qualcuno di noi, come se quella fosse una giornata qualsiasi. Il clima dell'attesa era surreale. Andreotti sapeva che la sua sentenza sarebbe uscita in parallelo con quella che avrebbe riammesso la Ferrari alla guida del campionato mondiale di Formula Uno e commentò sorridendo: "Ma la Ferrari aveva almeno qualche millimetro di troppo...", a significare che sette anni di indagini e di processo non erano riusciti a produrre una sola prova della sua mafiosità. Una sera, a San Lorenzo in Lucina Al mattino presto aveva mandato "garbatamente a farsi friggere" la troupe delle Iene che, con straordinario buon gusto, fermandolo in strada gli aveva proposto di interpretare [p. 470] alcune macchie in senso positivo o negativo per la sua sorte. Ora scherzava vedendo qualcosa di analogo nel programma L'albero azzurro che Raiuno mandava in onda in attesa della diretta da Palermo. Quando poi cominciò la trasmissione "giudiziaria" e vide inquadrato Tommaso Buscetta, le labbra sottili, lunghe e rigorosamente parallele gli si mossero appena in un'espressione incerta tra il sorriso e la smorfia. Non era stato forse Don Masino, nell'aprile del '93, a fare una bella iniezione ricostituente alle prime dichiarazioni rilasciate, nell'estate precedente, da Leonardo Messina, Gaspare Mutolo e Giuseppe Marchese e già considerate sufficienti da Caselli per avanzare la richiesta di autorizzazione a procedere contro Andreotti fin dal 27 marzo di quell'anno? L'Inno alla gioia non cessò di risuonare per tutta la mezz'ora successiva alla lettura della sentenza. Tra un "grazie, Nicola" a Mancino e un "grazie, Francesco" a Cossiga, riuscì a sorridere ancora sul processo. "Avrebbero potuto contestarmi allo stesso modo di aver fatto abigeato in Sardegna... Hanno detto che se non avessi avuto i voti siciliani, sarei rimasto chiuso nel ghetto laziale. Nella trascrizione, anzi, misero: ghetto razziale. Li pregai di correggere almeno questo." Non riuscendo a mettersi in contatto con la moglie perché il telefono di casa era sempre occupato e il suo cellulare squillava in continuazione, il senatore prima tranquillizzò gli astanti ("Mia moglie è abituata ad avere pazienza") e poi, trascorsa una mezz'ora, se ne andò a casa per risolvere il problema di persona. Lo rividi la sera stessa nel suo studio privato di piazza San Lorenzo in Lucina, dove era transitato tutto il mondo politico italiano, e non solo. Non c'ero mai stato e fui introdotto in un
saloncino affacciato sulla piazza, che non assomigliava affatto a uno studio, era piuttosto il salotto-sala da pranzo di una bella casa borghese, con un ampio tavolo inglese al centro, divani e poltrone allegre e raffinate. Bastava guardare dietro il divano per capire chi ne fosse il proprietario: tre interi scaffali erano sommersi da foto con dedica di pontefici e capi di Stato di tutto il mondo che manifestavano la loro [p. 471] considerazione all'uomo che, nella seconda metà del secolo, è stato certamente il politico italiano più importante. Ora Andreotti era una persona diversa da quella con cui avevo aspettato la sentenza del mattino. Non più un vecchio e garbato signore curvo, in cardigan da lavoro, che attendeva di conoscere la propria sorte da un televisore, ma di nuovo un uomo di Stato sicuro di sé, ringiovanito di almeno due lustri, con la pelle tirata e l'umore eccellente di chi veniva dalla cresima di un nipote e aveva ricevuto congratulazioni invece di solidarietà. "Mia moglie? No, lei era serena anche prima. I figli, piuttosto, erano nervosi. E sa perché? Perché avevano paura che il tribunale non avesse il coraggio di assolvermi. Coraggio, capisce? Come si può immaginare che un tribunale non abbia il coraggio di fare una cosa giusta?" Il coraggio di un tribunale E invece avevano ragione i suoi figli. Assolvendo Andreotti, Ingargiola e i due giudici a latere del tribunale di Palermo hanno avuto coraggio. Molto coraggio. Hanno cancellato con un colpo di penna sette anni di indagini, un milione di carte processuali, ventisette pentiti, quattrocentocinquanta testimoni e, soprattutto, il più colossale teorema giudiziario del mondo moderno. L'editore Pironti ha intitolato La vera storia d'Italia un volume di 976 pagine con tutti gli atti dell'inchiesta della procura di Palermo. Sottotitolo: Interrogatori, testimonianze, riscontri, analisi. Giancarlo Caselli e i suoi sostituti ricostruiscono gli ultimi vent'anni di storia italiana. Hanno scritto nella prefazione Silvestro Montanaro e Sandro Ruotolo: "E' un documento potente e, seppur per approssimazione, foriero di verità". Se i procuratori di Palermo hanno fatto gentile omaggio del volume ai testimoni eccellenti convocati al dibattimento, a cominciare dall'ultimo segretario della Dc Mino Martinazzoli, loro in quel libro devono essersi riconosciuti fino in fondo. Il volume fu pubblicato nel '95, alla vigilia del processo. Ne era [p. 472] l'architrave
politico-giudiziario. La sentenza del 23 ottobre l'ha cancellato nei trentacinque secondi impiegati da Ingargiola per leggere la sentenza. E non ci voleva coraggio? Chissà che i tempi lunghi del processo, alla fine, non le siano venuti di vantaggio, dissi ad Andreotti la sera della sentenza. Lui annuì. Mi aveva appena raccontato che il "clima" di Palermo (parola terribile per significare che si può essere assolti o condannati non per la consistenza delle prove, ma per l'aria che si respira nei palazzi di giustizia) era migliorato. E togliendosi - a proposito dell'"orgoglio" di Caselli per il comportamento della procura palermitana - uno dei tanti sassolini accumulati nelle scarpe in sette anni interminabili aggiunse: "Non so se la mafia esista ancora oppure no. Sono stati impegnati così a lungo su di me che non hanno avuto tempo di fare altro". La storia cominciò il 13 agosto 1992. Quel giorno un pentito di mafia, Leonardo Messina, disse che il maxiprocesso di Palermo (quello istruito a suo tempo da Giovanni Falcone) non preoccupava Cosa Nostra "perché, se le cose fossero andate male, sarebbe intervenuta la Cassazione ad annullare tutto". Per Cassazione, Messina intendeva Corrado Carnevale, presidente della prima sezione penale, chiamato dai giornali "ammazzasentenze" per la sua fama di demolitore. Carnevale è una singolare figura di magistrato: la sua bravura tecnica è fuori del comune, come la sua considerazione di sé e la scarsa considerazione di molti altri colleghi. Questi tre elementi, mescolati in un cocktail perverso, hanno fatto sì che annullasse processi importantissimi per violazioni di legge talvolta magari banali, ma sufficienti a far saltare un intero giudizio. Il magistrato era diventato per questo - secondo l'accusa - il santo protettore di molti malviventi, e a un certo punto, nel '93, fu inquisito, rimosso dall'incarico e infilato in un tritacarne. Uscito illeso dal primo processo (flotta Lauro a Napoli), fu reintegrato in Cassazione, insieme con Claudio Vitalone, proprio il giorno della sentenza di Palermo su Andreotti. Ma da molti anni gli restava attaccato addosso un altro processo a Palermo, collegato in qualche [p. 473] modo a quello di Andreotti. Poiché non si credette che Carnevale avesse agito di testa sua, agli atti del processo palermitano si scrisse che il magistrato era una pedina del senatore, anche lui ben inserito nello scacchiere della mafia. A conferma di questo perverso rapporto, veniva citata la testimonianza di un importante magistrato, Mario Almerighi, che per un paio di giorni fu anche presidente dell'associazione di categoria, e fu costretto a dimettersi in
seguito a un "clamoroso infortunio". Disse infatti Almerighi di aver saputo dal ministro della Giustizia Virginio Rognoni e dal suo capo di gabinetto Pier Paolo Casadei Monti che, nell''87, Andreotti era intervenuto per fermare un'indagine disciplinare su Carnevale ("Non si tocca"). Rognoni e Casadei Monti smentirono, e Andreotti, che dopo l'assoluzione di Palermo ha pure assunto un atteggiamento conciliante su tutte le calunnie subite ("Mettiamoci una pietra sopra"), ha confidato la notte stessa dell'assoluzione al giornalista Renato Farina che un esposto al Csm contro Almerighi l'avrebbe fatto. L'indomani, Almerighi confermò tutto e annunciò querele. "Magari..." replicò il senatore. "Rischiai di perdere il senno" Torniamo a Leonardo Messina. Nell'agosto del '92, il pentito raccontò che la mafia era seccata perché gli andreottiani e i craxiani non proteggevano a dovere Carnevale. Aggiunse che il capo della corrente andreottiana in Sicilia, Salvo Lima, non era uomo d'onore (cioè mafioso) "ma era stato molto vicino a esponenti di Cosa Nostra per i quali aveva costituito il tramite presso l'onorevole Andreotti per le necessità della mafia siciliana". Si tenga conto del fatto che erano stati appena ammazzati Falcone e Borsellino (Lima fu ucciso nel marzo del '92) e che il governo aveva preso provvedimenti antimafia talmente duri da essere ai limiti della correttezza costituzionale e forse un po' oltre. Già nell''89, Andreotti aveva dovuto fronteggiare una [p. 474] durissima opposizione parlamentare per far convertire in legge un decreto che proibiva la rimessa in libertà, per decorrenza dei termini di carcerazione, degli imputati del maxiprocesso. ("Era diventato giustizialista" mi disse la sera prima della sentenza di Palermo Francesco Cossiga, che nell''89 non voleva firmare il decreto e che avrebbe cominciato il 24 ottobre 1999 una durissima campagna contro Caselli chiedendone la destituzione.) Comunisti (a cominciare da Violante) e garantisti d'ogni colore (da Pannella a Biondi) avevano cercato in tutti i modi di bocciare il provvedimento, che dovette per questo essere rinnovato. Ciò consentì ad Andreotti di dire al processo: se avessi voluto favorire la mafia, sarebbe stato sufficiente arrendermi all'opposizione e non ripresentare il divieto. E per la deportazione dei mafiosi dopo la strage di Capaci avrei potuto evitare qualunque gesto, visto che il governo era ormai dimissionario dopo le elezioni del 5 aprile 1992. Nel marzo di
quell'anno, il governo aveva inoltre approvato un altro decreto antimafia di dubbia costituzionalità, rispedendo in carcere i boss usciti per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Per cinque mesi Messina, il primo dei ventisette pentiti, non aggiunse altro. L'8 gennaio 1993, si fece coraggio e disse che alcuni colleghi mafiosi gli avevano riferito che "la loro sicurezza in Cassazione erano Lima e Andreotti". A queste dichiarazioni seguirono quelle, all'inizio generiche, di Gaspare Mutolo e di Giuseppe Marchese. A metà gennaio, in coincidenza con il tuttora misterioso arresto di Totò Riina, arrivò alla procura di Palermo il nuovo capo, Giancarlo Caselli. Dopo due mesi di ulteriori indagini, ritenne sufficienti i riscontri delle dichiarazioni dei primi tre pentiti e sparò il missile contro Andreotti. Il 27 marzo, Caselli chiese infatti al Senato l'autorizzazione a processare Andreotti per associazione mafiosa. "Quando mi telefonò Spadolini per dirmelo" mi racconta il senatore "restai traumatizzato. Sapevo bene che la cosa non esisteva e che si stava tessendo una manovra contro di me, ma restai traumatizzato e anche mortificato. Per alcuni giorni credetti [p. 475] veramente di perdere il senno, sì, di diventare matto. Poi mi aiutò molto il sentimento religioso, la serenità della mia famiglia e anche un certo calore umano che sentivo attorno. Ma ci furono alcune settimane molto dure." Il bacio a Riina In quei giorni, la lettura dei giornali non rallegrò il senatore. Scrisse il 28 marzo Eugenio Scalfari sulla "Repubblica" a proposito di Caselli: "Il coraggio in lui va di pari passo con la prudenza... Ora è arrivata la mazzata. La statua del divo Giulio giace in pezzi tra le mozze colonne del Foro". Osservò Giorgio Bocca sullo stesso giornale: "L'anima nera della Repubblica. Sono quindici anni che lo scriviamo, non ci si potrà accusare, speriamo, di infierire su uno sconfitto". Leoluca Orlando: "Finalmente con l'avviso di garanzia ad Andreotti si va verso un'Italia normale". Pietro Folena: "Questo avviso di garanzia conferma l'analisi che è sempre stata del Pci a proposito del patto tra la mafia e una parte della classe dirigente nazionale". Pino Arlacchi, candidato a presiedere l'ultima Commissione antimafia al posto di Ottaviano Del Turco e, attualmente, vicesegretario generale dell'Onu, avrebbe aggiunto all'inizio del processo nel settembre del '95: "E' a certe accuse precise che Andreotti dovrebbe rispondere, smettendola di fare la vittima
politica... Un giorno sì e uno no imperversa sulla Tv pubblica e privata difendendosi, discolpandosi, lanciando anatemi contro i suoi accusatori". Anche Fini e la Lega usarono parole durissime. Ma Caselli dovette accorgersi subito che le pezze d'appoggio alla richiesta di processare Andreotti erano in realtà assai deboli. Così, nel giro di soli tredici giorni, nel mese di aprile l'inchiesta decollò verso i suoi risultati più clamorosi. All'inizio di quel mese, Caselli e Lo Forte andarono negli Stati Uniti per sentire Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia. Buscetta disse (il 6 aprile, a New York) di aver saputo da Tano Badalamenti di un suo incontro a Roma con il senatore, che gli [p. 476] avrebbe detto: "Uomini come lei dovrebbero stare in ogni piazza d'Italia" ("Non l'avrei detto nemmeno a Carlo Rubbia, premio Nobel" avrebbe commentato Andreotti). Mannoia - reo confesso di ventun omicidi rivelò (il 3 aprile, in Florida) di essere stato testimone di un incontro tra Andreotti e il boss mafioso Stefano Bontade in una villa di Boccadifalco, vicino all'aeroporto di Punta Raisi. E di aver saputo dallo stesso Bontade di un altro incontro tra il boss e il senatore. Se la testimonianza di Buscetta fu ritenuta credibile perché ormai Don Masino veniva considerato una specie di padre nobile dei collaboranti, una più clamorosa Caselli la trovò il 16 aprile al rientro in Italia. Balduccio Di Maggio, altro omicida di rango, era stato arrestato nel gennaio del '93 e aveva rifiutato di parlare con i magistrati, eleggendo a suo confidente soltanto l'allora colonnello dei carabinieri Francesco Delfino. Improvvisamente, in aprile, cambiò idea e si confidò con Caselli, raccontandogli di un incontro del senatore con l'allora latitante Totò Riina in casa di Ignazio Salvo, a quell'epoca agli arresti domiciliari. In un momento di tenerezza utile anche a confermare la sua affiliazione mafiosa, Andreotti avrebbe dato a Riina uno dei più celebri baci di tutti i tempi. Su questa storia si sono scritti autentici romanzi. Quando nel '94 chiesi a Caselli se gli sembrasse credibile una cosa simile, mi rispose: non è il bacio che conta, ma l'incontro. Lui riteneva che fosse avvenuto. (Mi avrebbe detto dopo la sentenza Giulia Bongiorno, la giovane e brillante assistente dell'avvocato Franco Coppi nella difesa di Andreotti: "Dopo l'assoluzione di Perugia, provai a baciare Andreotti ed è stata una delle imprese più difficili della mia vita perché la sua faccia era irraggiungibile".) Grazie a queste nuove confessioni, un mese dopo il Senato concesse l'autorizzazione a procedere, sollecitata dallo stesso Andreotti.
Il nuovo procuratore di Palermo, Pietro Grasso, per difendere il suo ufficio dall'ondata di accuse che lo investirono subito dopo l'assoluzione di Andreotti, disse che le indagini avevano superato il vaglio del Senato e del giudice per le indagini preliminari. Grasso forse non tenne presenti due [p. 477] condizioni. La prima: la paura, la viltà e la convenienza di molti compagni di partito di Andreotti che, con un sol colpo, ottennero la gratitudine dei procuratori (nel '93, gli avvisi di garanzia piovevano come coriandoli) ed eliminarono il più ingombrante degli avversari interni, mentre il Pds (ricordate Folena?) guadagnava una formidabile vittoria a tavolino. La seconda: quale Gip avrebbe avuto la forza di bloccare con un gesto la macchina da guerra della procura (a Palermo, come a Milano e altrove) dicendo che il lavoro di centinaia di investigatori era acqua fresca? Andreotti aveva bisogno di Lima... Quando, in quel periodo, incontrai Andreotti, gli dissi le stesse parole che anni dopo avrei ripetuto a Berlusconi: lei sarà rinviato a giudizio e condannato in primo grado. Il clima, rispetto a quei tempi, è molto cambiato sia a Milano sia a Palermo. Berlusconi è stato trafitto con processi più rapidi, Andreotti s'è salvato grazie a un processo più lento. All'inizio, al senatore fu contestato il "concorso esterno in associazione mafiosa": questo reato non è previsto da alcun codice e spiegarlo a un giurista straniero è impossibile. Un provvidenziale intervento della Cassazione è servito a inventare uno stato di quasi mafiosità o, per meglio dire, di ufficio di rappresentanza della mafia in luoghi diversi. Per questo fu condannato Bruno Contrada e furono giudicati Calogero Mannino e Marcello Dell'Utri. Ma se Andreotti fosse stato il referente romano della mafia, sarebbe stato competente a giudicarlo il tribunale dei ministri, cioè un collegio estratto a sorte tra i magistrati in servizio a Roma. E questo i procuratori di Palermo non potevano accettarlo. L'accusa fu allora trasformata in quella di "partecipazione in associazione di stampo mafioso". Il cardine politico del processo era questo: il senatore aveva bisogno del sostegno elettorale di Lima in Sicilia per fare carriera a Roma. Questo fu un autentico scoop politico. [p. 478] "Lima" mi disse Andreotti "è venuto con me nel '68, dopo aver lasciato il gruppo fanfaniano per una lite con Giovanni Gioia a proposito delle preferenze in campagna elettorale. Quando era sindaco
di Palermo stava con Fanfani. Ma Fanfani non è stato sentito nemmeno come testimone. Allora, è diventato mafioso nel '68 o lo era anche prima? E poi è abbastanza comico che io avessi bisogno del suo battesimo politico. Nel '68, ero già stato per sei anni ministro della Difesa, per quattro ministro delle Finanze e per sette sottosegretario con De Gasperi. Quindi..." Quando gli chiesi se non si rimproverasse qualche leggerezza nelle sue frequentazioni siciliane, il senatore mi rispose: "Probabilmente, avrei dovuto capire che chi fa politica in Sicilia - o chi la faceva, non so se le cose siano migliorate - poteva avere qualche rapporto trasversale. Forse non ho approfondito abbastanza e non voglio fare il processo di beatificazione di Lima, ma a tutt'oggi debbo ancora avere la prova provata che fosse mafioso e comunque una sola cosa concreta che si attribuisca a me. Del resto Buscetta ha detto che Lima non era mafioso e la stessa cosa Falcone disse a De Mita". Il processo cominciò il 26 settembre 1995. Nel collegamento da Palermo con il Tg1, quella sera dissi che Andreotti era accusato di essere mafioso. Qualcuno in procura se ne dolse: si apriva il processo del secolo, ma si capiva che il fatto stesso di annunciare a milioni di persone che l'uomo politico più famoso d'Italia - per sette volte presidente del Consiglio - era mafioso suscitava molte perplessità. Il tribunale non ammise alcuni incartamenti della procura. Tra questi, due studi "politici" già commissionati a Sergio Flamigni e Giorgio Galli, in qualità di consulenti tecnici d'ufficio. Flamigni, per vent'anni parlamentare del Pci, aveva scritto un saggio sul delitto Moro (La tela del ragno, Kaos, 1993) con prefazione di Luciano Violante. I procuratori palermitani gli avevano chiesto di verificare i riferimenti ad Andreotti nei memoriali di Moro sequestrati nei covi delle Brigate rosse. Galli era stato incaricato di studiare l'origine e l'evoluzione della corrente andreottiana. Il giornalista Fabrizio Feo, poi, doveva [p. 479] reperire presso la videoteca della Rai tutti i servizi trasmessi su ventuno argomenti, da Ciancimino a Falcone. Era evidente che tra Perugia e Palermo - con le pubbliche accuse che si davano continuamente reciproche patenti di credibilità - si volesse davvero scrivere "la vera storia d'Italia". Il tribunale disse di lasciar perdere. "Niente quaglie a quei signori" Il materiale probatorio era comunque immenso. Alla fine del
processo, ho contato personalmente nello studio Coppi quattrocento faldoni (sono grossi raccoglitori di atti giudiziari), utili alle sole consultazioni d'urgenza, che riempivano una stanza. L'accusa ottenne l'ammissione di trecentosessantotto testimoni. Secondo l'avvocato Coppi, le persone avvicinate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini (partite nel '92 e finite nel novembre del '98, al termine dell'istruttoria dibattimentale) sono tra le ottocento e le mille. Quelle che non sapevano nulla di utile all'inchiesta non sono state naturalmente citate. L'intera isola di Lipari, dal sindaco al benzinaio, dalle maestre al maresciallo dei carabinieri, è stata interrogata senza esito: nessuno aveva visto Andreotti in compagnia dei cugini Salvo, due potentissimi esattori di Palermo in odore di mafia. Il personale della sartoria Litrico a Roma fu interrogato sullo stesso punto: sia Salvo sia Andreotti erano loro clienti, ma non si erano mai incontrati. E così camerieri, cuochi e sguatteri di un ristorante del centro di Roma, specializzato nella cucina delle quaglie, dove l'incontro fatale sarebbe avvenuto, ma di fatto non avvenne. "Mai servite quaglie a quei signori." Fin dall'inizio della vicenda, mi colpì la durissima battaglia tra Andreotti e i suoi accusatori sulla conoscenza tra il senatore e i cugini Salvo. Poco dopo l'incriminazione, chiesi ad Andreotti come fosse possibile che lui non li avesse mai incontrati, visto che non si nascondevano certo. Mi rispose: "Appunto perché sarebbe stato normale incontrarli, non vedo perché non avendoli mai incontrati dovrei dire una bugia". [p. 480] Per una singolare coincidenza, un testimone del fatto che Andreotti diceva la verità era proprio il suo difensore Franco Coppi. Al momento di nominarlo, il senatore si sentì chiedere: "Mi vuole come difensore o come testimone?". Coppi aveva infatti difeso Ignazio Salvo e sapeva da lui che i due cugini non avevano mai conosciuto il senatore. "Ogni volta che i pentiti ci hanno fornito una qualunque data e un qualunque luogo, anche approssimativi" mi hanno detto Coppi e la Bongiorno "siamo riusciti a documentare che mentivano." Andreotti, almeno in questo, è stato fortunato. Conserva da decenni un diario quotidiano dettagliatissimo. Ho avuto modo di constatarlo personalmente proprio scrivendo questo libro. Gli ho chiesto dove si trovasse il giorno in cui è caduto il Muro di Berlino e lui me ne dette il resoconto dettagliatissimo. "Scoprimmo che una sera in cui avrebbe incontrato alcuni mafiosi" mi raccontò Coppi dopo la sentenza "giocava ai cavalli all'ippodromo di Tor di Valle. Ci mandò perfino
il programma delle corse con i piazzamenti." Così, il giorno e l'ora del bacio a Riina (20 settembre 1987) stava rilasciando un'intervista al giornalista Alberto Sensini nelle sale dell'albergo Villa Igea di Palermo. Nei giorni indicati per l'incontro con Bontade nella riserva di caccia dei Costanzo, a cavallo tra il giugno e il luglio del '79, era in viaggio tra Tokyo, Mosca e Strasburgo. Il 1o luglio 1979, data giudicata attendibile dai pubblici ministeri per un incontro di Andreotti con il boss Nitto Santapaola (testimone oculare il barman Vito Di Maggio), si trovava nella tenuta presidenziale di Castelporziano, dove Sandro Pertini gli stava affidando l'incarico di formare il nuovo governo. I difensori del senatore si sentirono spiazzati quando, interrogando un collaborante che parlava di un incontro di Andreotti in un albergo siciliano, scoprirono che il pentito era già stato contraddetto dal proprietario dell'albergo, suo parente, ma che i procuratori non avevano depositato l'interrogatorio tra gli atti del processo. [p. 481] Di Maggio: "Un miliardo e mezzo per pentirmi" Secondo Giulia Bongiorno, la svolta si ebbe il 27 e il 28 gennaio 1998, durante il drammatico confronto in aula tra l'avvocato Coppi e Balduccio Di Maggio, boss pluriomicida di San Giuseppe Jato. Abbiamo visto che Di Maggio fu arrestato nel gennaio del '93 e parlò di Andreotti a Caselli nell'aprile successivo. Dopodiché, tornò libero grazie a un lucroso contratto di protezione che gli fruttò cinquecento milioni: cifra che ammise nell'interrogatorio condotto da Coppi, ma che era soltanto un acconto del miliardo e mezzo concordato con lo Stato, come lui stesso chiarì più tardi in aula con l'avvocato Gioacchino Sbacchi, altro difensore di Andreotti. Di Maggio si stabilì in Toscana, ma la sua libertà di movimento era tale che, tra il '93 e il '97, poté tornare parecchie volte (ne ha ammesse quattro) a San Giuseppe Jato, dove rimise in piedi la sua cosca, riprese il traffico di droga e ammazzò anche qualcuno. "Quanti omicidi furono attribuiti a lei e al suo gruppo dopo il suo pentimento?" gli chiese in aula l'avvocato Sbacchi. "Dunque... ehm... tre omicidi e due tentati omicidi." Incalzato da Coppi, Di Maggio ammise che negli ultimi anni prima del nuovo arresto, cioè dal '95 in poi, non aveva subito nessun controllo, poteva incontrare chi voleva (quindi anche altri pentiti), disponeva di telefoni cellulari ed era
libero di muoversi in tutta Italia. Riconobbe poi con chiarezza, a proposito dei delitti compiuti dopo il pentimento: "Se mi scopriva la procura di Palermo, per la mia eccellente collaborazione alla cattura di Riina e per Andreotti il mio contributo allo Stato mi poteva perdonare, ma ho fatto i conti sbagliati". Coppi insistette: "Pensava seriamente che avrebbe potuto essere perdonato in cambio delle dichiarazioni che aveva fatto sul senatore Andreotti e sulla cattura di Riina?". Di Maggio: "Certo, perché aveva per me una certa importanza che mi sentivo io al di sopra di ogni cosa". C'è un altro episodio ancora più clamoroso. Poco prima di essere arrestato, Di Maggio fu intercettato al telefono mentre partecipava al padre la sua preoccupazione per la sorte del figlio [p. 482] Andrea. Se la procura di Palermo gli crea fastidi, disse in sostanza il pentito, io faccio l'opera (che per i siciliani significa l'opera dei pupi, con duelli e ammazzamenti vari) e mi tiro "appresso", cioè dietro, tre magistrati, tre pubblici ministeri. In aula, Coppi chiese a Di Maggio di specificare chi fossero questi magistrati che, certo calunniosamente, voleva coinvolgere in uno scandalo per avergli suggerito di accusare falsamente Andreotti. E lui disse: Lo Forte, Scarpinato e Natoli, il procuratore aggiunto di Caselli e due sostituti. Le indagini dei procuratori di Palermo sono costate allo Stato alcuni miliardi. E lo stesso Andreotti ha sopportato con grande dignità un forte disagio economico. Lui non ha lo status di un Balduccio Di Maggio e quindi lo Stato non gli ha dato cinquecento milioni a fondo perduto come acconto su una promessa di un miliardo e mezzo. Né gli paga l'avvocato. L'opinione pubblica non sa, infatti, che se non si è ammessi al "gratuito patrocinio" (previsto per i soli nullatenenti), l'imputato deve assumersi tutti gli oneri della propria difesa. Si tratta, in casi come questo, di oneri enormi. La sola trascrizione dattilografica delle requisitorie dei pubblici ministeri è costata ad Andreotti novemila lire a cartella, cioè più di cento milioni. Per comprensibili ragioni di dignità personale, poi, non ha mai chiesto al presidente Ingargiola di posticipare di un'ora l'inizio delle udienze che richiedevano la sua presenza. Il senatore è puntualissimo e constatò che, anche prendendo l'aereo dell'alba per Palermo, sarebbe arrivato tardi. Partiva dunque la sera prima e doveva provvedere alle spese in proprio di soggiorno e a quelle della scorta... Questo senza considerare gli oneri assai più pesanti subiti dai difensori.
Alcuni giorni dopo la sentenza, il procuratore nazionale antimafia rivelò che il 48 per cento dei fondi stanziati dallo Stato per la tutela dei pentiti serve a coprire le spese legali. Poiché questo fondo si aggira sui duecento miliardi all'anno, circa cento vanno ai difensori di chi accusa e niente a chi da quelle accuse è stato assolto. [p. 483] Quale Buscetta aveva ragione? La valenza politica del processo di Palermo fece subito passare in secondo piano l'assoluzione di Perugia. "Io che non sono nemmeno un tipo collerico addirittura avrei fatto ammazzare una persona, oltretutto senza una ragione..." Così mi disse Andreotti poco prima della sentenza sul delitto Pecorelli, senza perdere quel sottile velo di umorismo che gli ha consentito di sopravvivere per quasi sette anni ad accuse che avrebbero distrutto chiunque. E quando venne nello studio di Porta a porta tre ore dopo la sentenza sembrava rinato. "Non basta avere ragione" affermò entrando "bisogna trovare qualcuno che te la dia." A sentire i commenti di quella sera, a leggere le beatificazioni del giorno successivo (nella copertina del "manifesto" il ritratto di Andreotti sembrava quello di san Domenico Savio), pareva quasi che per sei anni e mezzo fosse stato il protagonista di una specie di gioco di società, di una partita di gin rummy come quelle che una volta faceva la domenica sera con gli amici e che domenica 24 ottobre ha ripreso a giocare con Sandra Carraro, a seguito dell'appuntamento telefonico preso dieci minuti dopo la lettura della sentenza di Palermo. Erano stati, invece, anni da incubo, per lui e per quella parte della Repubblica che rifiutava l'idea di essere stata governata per cinquant'anni da un assassino. Ma già quella sera tutto sembrava svanito. Il cadavere del povero Pecorelli, le copertine di "Op" stampate per lanciare messaggi obliqui e poi magari ritirate, Buscetta, Lima, i cugini Salvo, Badalamenti, l'assassinio del generale Dalla Chiesa... Tutti gli ingredienti messi insieme nel tritacarne: non è vero niente, aveva detto il tribunale di Perugia, arrivederci e grazie, senatore, scusi per il disturbo. Già, il disturbo. Commentando quella sentenza con Saverio Lodato per un libro (La mafia ha vinto) uscito da Mondadori nell'ottobre del '99, don Masino Buscetta - che era stato il motore del processo cascò dalle nuvole. "Sono convinto che anche il mio racconto ha contribuito all'assoluzione di tutti gli [p. 484] imputati." Gli
chiede Lodato: lei non indicò mai in Andreotti il mandante di quell'omicidio? "Io ho raccontato ai giudici le cose che avevo saputo da Stefano Bontade e Tano Badalamenti sul delitto Pecorelli" risponde Buscetta. "Nessuno dei due mi aveva detto che Andreotti aveva ordinato l'omicidio del giornalista. E io questo non lo dissi mai..." E' stato, dunque, tutto un gigantesco equivoco? Per oltre sei anni, sono stati celebrati prima un'inchiesta di polizia giudiziaria, poi un'indagine preliminare, poi un processo in Corte d'assise: tutto virtuale? Il nome del senatore, in realtà, Buscetta lo fece eccome. Era il 6 aprile 1993, e a Caselli (terza pagina del verbale, riga 23) il re dei pentiti disse di aver saputo da Tano Badalamenti che Pecorelli era stato ucciso "su richiesta di Andreotti". Nei successivi interrogatori nell'aula di Perugia, corresse il tiro: l'omicidio era avvenuto su richiesta dei cugini Ignazio e Nino Salvo (il primo morto ammazzato, il secondo di morte naturale). "E Andreotti che c'entra?" chiese Franco Coppi. "Una mia deduzione" rispose Buscetta. Si sarebbero mossi i Salvo se il delitto non avesse interessato Andreotti? No, che non si sarebbero mossi. Dunque, disse Don Masino rendendo memorabili sia la risposta sia la propria antica saggezza, la deduzione "è praticità di vita". La contraddizione era clamorosa, visto che Buscetta smentiva uno dei cardini del processo. Ma i pubblici ministeri non gliela contestarono mai. Aveva sentito quel nome o non l'aveva sentito? Avevano funzionato le orecchie o la "praticità di vita"? Mistero. Gli occhi grandi di Madre Teresa Torniamo indietro per sommi capi. Pecorelli venne assassinato il 20 marzo 1979 con quattro colpi sparati da una pistola calibro 7,65. Per tredici anni e mezzo, nebbia; poi, il 26 novembre 1992, Buscetta fece il nome di Andreotti e venne fuori il teorema: Pecorelli fu ucciso da una "joint-venture" tra mafia (Pippo Calò e Michelangelo La Barbera) e banda romana della Magliana (Massimo Carminati) per ordine di due pezzi da [p. 485] novanta come Tano Badalamenti e Stefano Bontade su richiesta dei cugini Salvo, che volevano fare un favore al giudice Claudio Vitalone, a sua volta desideroso di compiacere il senatore. E perché Andreotti, che non è "nemmeno un tipo collerico", aveva dato l'ordine di procedere? Perché Pecorelli custodiva segreti del caso Moro che, se rivelati, gli avrebbero creato fastidi. E, visto che gli stessi segreti li conosceva anche il generale Dalla Chiesa, per soprannumero era stato ammazzato anche lui.
Buscetta disse di aver saputo da Bontade (morto) e da Badalamenti (di fatto mai ascoltato) la perversa catena di sant'Antonio che abbiamo raccontato. "La cosa interessava Zu' Giulio" disse in aula. Spiegò di non aver parlato a Falcone degli uomini politici perché i tempi non erano maturi, ma di averlo fatto dopo le stragi di Capaci (Falcone) e di via D'Amelio (Borsellino) "per onorare la memoria di quei caduti". Arrivò, come d'uso, una frotta di pentiti a confermare, e i pubblici ministeri chiesero l'ergastolo per il senatore vista "la comprovata verità del contesto". E si scoprì, nelle ultime udienze, che i segreti di Pecorelli e Dalla Chiesa sul caso Moro non esistevano. L'avvocato Giulia Bongiorno mise a confronto il memoriale sequestrato dai carabinieri nel covo brigatista milanese di via Monte Nevoso e quello rinvenuto nello stesso luogo nel 1990, murato dietro un pannello: nessuna omissione, nessuna differenza apprezzabile. Insomma, niente da nascondere. Dopo sette anni di tormento, nel giro di un mese esatto - tra il 24 settembre e il 23 ottobre 1999 - Andreotti tornò a essere Andreotti. "Vorrei un supplemento di vita per dimenticare" disse la sera della sentenza di Perugia. E la sera dell'assoluzione di Palermo confidò a Franco Coppi: "A ripensarci, dovevo aspettarmela. Madre Teresa di Calcutta mi disse: non preoccuparti. Me lo disse fissandomi con quegli occhi grandi grandi. E poi il papa...". Già il papa. Nella lettera autografa di auguri per gli ottanta anni, il 13 gennaio 1999, Giovanni Paolo II gli aveva scritto: "Auspico che le prove e le sofferenze, su di Lei riversatesi [p. 486] in questi ultimi tempi, possano, nei misteriosi disegni della Provvidenza, rivelarsi fonte di bene per la Sua persona e per l'intera società italiana". Tre fantasmi alla porta Il ritorno del terrorismo, il dossier Mitrokhin sulle spie al servizio del Kgb e le sentenze dei processi contro Giulio Andreotti sono tre fantasmi che bussano alla porta della fine del secolo per fermarne la tentazione dell'oblio. La sera di domenica 17 ottobre 1999, Graziano Trerè, segretario organizzativo della Cisl, trovò socchiusa la porta del piccolo appartamento che occupa in via Boncompagni, a pochi passi dall'ambasciata americana, in una delle zone centrali più presidiate di Roma. Entrò con cautela e su un tavolinetto del soggiorno trovò un volantino firmato dalla "colonna romana del partito comunista
combattente". Le Brigate rosse. Trerè veniva minacciato insieme con il collega della Cgil Carlo Ghezzi per il contributo dato al "disegno neocorporativo" della nuova legge sulle rappresentanze sindacali in azienda, che in quei giorni era in discussione alla Camera. L'episodio fu giudicato molto allarmante per tre motivi. Pochissimi sapevano che il dirigente della Cisl abitava in quello stabile: non aveva il nome sul citofono, né targhe alla porta. Due settimane prima, nella sede centrale della Cisl, alcune stelle a cinque punte simbolo storico delle Br - erano state disegnate con il pennarello in ambienti diversi: dal corridoio della mensa all'ascensore. Nessun progresso, infine, era stato fatto nelle indagini per l'assassinio di Massimo D'Antona, professore universitario, consulente della Cgil e stretto collaboratore di Bassolino e di Bassanini nella stesura del patto sociale predisposto dai governi Prodi e D'Alema. La mattina di giovedì 20 maggio, D'Antona aveva bevuto il caffè con la moglie nel tinello della casa in affitto che la famiglia occupa da molti anni in via Salaria. Sceso in strada, aveva fatto pochi passi del consueto percorso di ogni giorno [p. 487] ed era stato freddato da un commando terroristico: un'esecuzione molto professionale, senza alcun margine di errore e di ripensamento. Mi disse mesi dopo Gianfranco Fini: "Per me la notizia più drammatica non è stata la pesante sconfitta elettorale alle europee, ma l'assassinio di D'Antona. Io non lo conoscevo sapendo che lavorava con Bassolino sono andato istintivamente al Policlinico. Ho rivisto le stesse scene degli anni Settanta. I volti del dolore sono sempre identici. Lo stesso parente, lo stesso carabiniere. Tornando indietro di vent'anni, mi sono trovato in un film di fantascienza, con desiderio fortissimo di scappare. E ho ripensato che il dovere della destra deve essere la costruzione di una democrazia dell'alternanza, fondata sul rispetto delle diversità, per dare ai nostri figli un'Italia migliore di quella che abbiamo alle spalle". Come Ruffilli e Tarantelli Ai funerali laici di D'Antona, davanti al ministero del Lavoro, l'intero mondo politico e sindacale era impietrito per il dolore e la paura. Il dolore per la scomparsa di un uomo sobrio e onesto, che mai avrebbe sognato di essere un nemico dei lavoratori. La paura, come mi disse la moglie Olga qualche ora dopo il delitto, perché "l'ha ammazzato chi non lo conosceva. Hanno ucciso lui per dare un segnale ad altri". E, soprattutto, perché il fantasma del terrorismo, ormai archiviato nei libri di storia, era tornato prepotente a bussare alla
porta con gli stessi abiti che indossava nell''85, quando venne ammazzato Ezio Tarantelli, capo dell'ufficio studi della Cisl, e nell''88, quando ci fu quella che si credette l'ultima vittima, Roberto Ruffilli, primo artefice delle riforme istituzionali per conto di Ciriaco De Mita, ucciso nella sua casa di Forlì mentre ascoltava un disco. Tarantelli fu assassinato in piena campagna elettorale per il referendum sulla scala mobile, promosso e poi perduto dal [p. 488] Pci e dalla Cgil. Allievo di Franco Modigliani, aveva progettato con Mario Sarcinelli e Guido Rey il modello econometrico della Banca d'Italia: per raffreddare il meccanismo perverso della scala mobile, i salari sarebbero stati rivalutati sull'inflazione futura piuttosto che su quella passata. Su questa base teorica, Ciampi fondò la "concertazione" del '93 con imprenditori e sindacati. E ora, a una settimana appena dall'elezione a capo dello Stato, si stringeva terreo alla vedova di Massimo D'Antona, vittima della stessa logica che aveva assassinato Tarantelli. Quattordici anni erano passati inutilmente? Quale maledizione costringeva Sergio Cofferati a ripetere la sfida ("Non vinceranno!") lanciata nel '79 da Luciano Lama, davanti alla bara di Guido Rossa, il sindacalista ucciso dalle Br all'Italsider di Genova? Il delitto D'Antona presentò una sola, trasparente differenza con gli immediati precedenti. Già alla prima lettura, il volantino di rivendicazione - un autentico saggio socioeconomico - appariva scritto da almeno due persone assai diverse tra loro per formazione e forse per attività professionale. La prima e l'ultima parte risentivano della vocazione militarista. Il corpo centrale avrebbe potuto benissimo figurare senza scandali in una rivista della sinistra politica e sindacale. Per questo, ospite di Porta a porta la sera del delitto con Franco Bassanini e Carol Beebe Tarantelli, Fausto Bertinotti disse che alcune valutazioni contenute in quel foglio incoronato dalla stella a cinque punte erano, in astratto, "condivisibili". Ne nacque un'odiosa campagna contro il leader di Rifondazione comunista, che invece s'era semplicemente sforzato di capire come da una pur forte dialettica politica e sindacale fosse maturato un delitto così orribile. Il sindacato si ribellò quando qualcuno insinuò che la mente dell'omicidio andasse forse cercata in quell'ambiente. Quel che sarebbe accaduto in autunno nella sede della Cisl e nell'abitazione di un suo dirigente rafforzava, al contrario, quest'ipotesi. Una gigantesca operazione di polizia, preparata da tempo e compiuta
due giorni dopo il ritrovamento del volantino in [p. 489] casa del dirigente della Cisl, consolidò il sospetto che in Italia si stesse verificando di nuovo quel che è sempre avvenuto in tutti i movimenti rivoluzionari europei, dall'Ira irlandese all'Eta spagnola: a un gruppo politico o sociale che agiva allo scoperto corrispondeva un livello armato clandestino. Si sospettò in particolare, dopo sessanta perquisizioni compiute in tutto il paese, che frange dei famosi "centri sociali" coprissero una struttura armata in collegamento con alcuni elementi superstiti della Raf tedesca (la Rote Armee Fraktion di Andreas Baader e Ulrike Meinhof, fondata nel '68 e formalmente scioltasi nel '98) e altri militanti del meno conosciuto Grapo spagnolo (Grupos de resistencia antifascista primeiro de octubre). Il ritorno del terrorismo politico, che aveva condizionato nel modo più drammatico quindici anni di vita italiana dal '73 all''88 (venti, se si parte dalla strage di piazza Fontana), rigettò in ogni caso bruscamente all'indietro la faticosa marcia dell'Italia verso la condizione di "paese normale". Vasilij Mitrokhin, archivista frustrato Le persone frustrate sono spesso le più pericolose. Ne viene una conferma dalla storia di Vasilij Nikiti¬c Mitrokhin, autore con lo storico inglese Christopher Andrew, professore di storia contemporanea a Cambridge e principe degli analisti scientifici di spionaggio, di un libro uscito a Londra nell'autunno del '99 che fu la miccia di un'esplosione politica le cui schegge, come spesso accade, piovvero sull'Italia. Mitrokhin, che alla fine del secolo ha compiuto settantasette anni, nei primi periodi della guerra fredda era un promettente funzionario del Servizio segreto sovietico. Fu addestrato per quattro anni e poi mandato in missione a Londra, nel '52. Evidentemente, non dovette rivelarsi brillantissimo se, nel '56, fu richiamato a Mosca e sbattuto senza tanti complimenti a lavorare in archivio. "Un luogo d'esilio, una via senza uscita" confidò alla Bbc in un'intervista uscita quando da settimane si [p. 490] fantasticava sulla stessa esistenza del personaggio. Per sedici anni, fece il travet; finalmente, nel '72, la grande occasione. Il Cremlino decise di trasferire i trecentomila fascicoli del proprio formidabile archivio dalla sede storica della Lubjanka, nel cuore di Mosca, a una più idonea sede periferica. Mitrokhin, che un minimo di carriera l'aveva pur fatta diventando archivista capo, fu incaricato di vigilare sul
trasloco, di controllare i fascicoli e infine di sigillarli. Lui aveva considerato ingiusto, a suo tempo, essere stato richiamato da Londra e sentiva fortissimo il desiderio di vendicarsi. Così copiò i fascicoli, uno per uno, fino al momento di andare in pensione, nella seconda metà degli anni Ottanta. Li copiava a mano e portava a casa il compito al termine della giornata. Buonasera, compagno Mitrokhin, gli dicevano le guardie all'uscita. Buonasera, compagni, rispondeva lui con la "marmellata" infilata nelle scarpe o nelle mutande. "Se mi avessero preso" confidò alla fine del '99 "mi avrebbero processato e fucilato. Il rischio era enorme, ma mi eccitava." Nella sua dacia fuori Mosca, nei fine settimana il compagno Mitrokhin trascriveva a macchina le centinaia di migliaia di pagine copiate a mano. "I nastri dattilografici si consumavano" raccontò più tardi "e io li riciclavo per non comprarne di nuovi e per non creare sospetti." Infilava i fogli dattiloscritti in vasetti di vetro o in barattoli per la conserva e li seppelliva in giardino. Mitrokhin completò il trasferimento degli archivi dalla Lubjanka alla nuova sede e ricevette per questo i complimenti di Vladimir Krju¬ckov, capo del Kgb. Per tagliare la corda con il suo tesoro in tasca, l'archivista del Kgb aspettò che nel '91, due anni dopo il Muro, crollassero anche il regime sovietico e il Pcus. Nell'estate di quell'anno il Kgb tentò un golpe per far saltare Gorbaciov, ormai indebolito. Ma c'era alle viste un nuovo padrone della Russia, Boris Eltsin, che sventò il tentativo di colpo di Stato e decapitò il Kgb. Mitrokhin, che si sentiva ormai libero, l'anno successivo andò in Inghilterra. Provò a contattare la Cia. "Vu cumprà?" chiese agli americani. Questi, che sono un po' burocrati, gli dissero di mettersi in fila. [p. 491] Dato che ormai aveva una certa età e voleva godersi l'affare, si rivolse perciò al British Secret Intelligence Service, il migliore del mondo, secondo l'ammiraglio Fulvio Martini, capo del Sismi dall''84 al '91. Così, un agente britannico andò a Mosca con le chiavi di casa Mitrokhin e fece il trasloco: sei bauli pieni di documenti. La credibilità del vecchio archivista venne messa immediatamente alla prova: furono scoperte, per esempio, alcune insospettabili spie britanniche del Kgb, tra cui una deliziosa bisnonna, Melita Norwood di ottantasette anni, che confessò di aver passato ai sovietici segreti nucleari. Dopo sette anni di intenso lavoro, una parte del materiale raccolta nel libro The Mitrokhin Archive. The Kgb in Europe the West, curato da Christopher Andrew. "L'ho fatto per il bene dell'umanità e come
patriota russo" spiegò l'archivista capo alla Bbc. Ma il suo lavoro precipitò di nuovo l'Italia in uno dei consueti prolungamenti di una guerra fredda sopita, e mai spenta del tutto. 261 spie italiane del Kgb? Nelle sue quasi mille pagine, The Mitrokhin Archive non era prodigo di dettagli personali sui leader comunisti italiani. Togliatti veniva citato una sola volta, Longo cinque, Berlinguer otto, Natta una, Cossutta due e una Guido Cappelloni, cassiere dei soldi di Mosca prima per conto del Pci e poi, dall''81, per la corrente cossuttiana. Il volume consentiva tuttavia di analizzare in un'ottica nuova l'impianto complessivo dei rapporti riservati tra il Partito comunista sovietico e i partiti fratelli d'Occidente, e l'influenza del Kgb e degli altri Servizi segreti dell'Est nelle vicende chiave della nostra vita nazionale. Nel capitolo dedicato ai finanziamenti irregolari al Pci abbiamo parlato delle avventurose modalità di consegna del denaro dagli emissari sovietici ai compagni italiani e della straordinaria generosità di questi contributi, erogati da Boris Ponomarëv, signore assoluto al Cremlino per i rapporti con i comunisti stranieri e interlocutore privilegiato di [p. 492] Armando Cossutta, con adeguate contropartite che, all'ortodossia ideologica sempre più fragile, affiancavano efficaci meccanismi di controllo territoriale cominciati negli anni della guerra fredda e protrattisi nei decenni successivi. Il libro parlava di depositi di armi, esplosivi e ricetrasmittenti nascosti nell'area dei Castelli Romani e rivelava la presenza in Italia di oltre duecento agenti e informatori del Kgb (in un primo elenco ne sarebbero stati poi identificati 261) reclutati tra diplomatici, militari, giornalisti, uomini politici, funzionari ministeriali. Poiché l'archivista aveva fermato la sua copiatura alla metà degli anni Ottanta (poi era andato in pensione) venivano riproposte alcune inquietanti letture anche del caso Moro. Secondo Andrew e Mitrokhin, la direzione del Pci era convinta che i Servizi segreti cecoslovacchi appoggiassero le Brigate rosse. Essi riferiscono che, cinque giorni prima che Moro fosse ammazzato, il 4 maggio 1978, Giorgio Amendola disse all'ambasciatore cecoslovacco a Roma che, se i brigatisti fossero stati arrestati, i loro contatti con Praga sarebbero venuti alla luce. Lo stesso ambasciatore sovietico a Roma era convinto che i Servizi cecoslovacchi fossero in contatto con le Br e ammonì invano il suo collega a prendere provvedimenti. (Secondo il leader di Autonomia operaia Oreste Scalzone, latitante dal 1981, il Pci era a
conoscenza dei rapporti tra Br e Servizi cechi e cercò di depistare l'opinione pubblica attribuendo agli americani collusioni terroristiche; "Tempi", 21 ottobre 1999). Dopo la morte di Moro, la direzione del Pci continuò a essere preoccupata che venissero fuori i propri rapporti riservati con il Kgb, tanto che, nell''81, decise di smantellare tre stazioni radio clandestine installate in funzione antigolpista nel '74 e ne dette comunicazione alla stazione romana del Servizio segreto sovietico. Si scoprì anche che la presenza dei comunisti al governo nei due anni successivi alla liberazione, consentì al Kgb di infilare spie in ruoli chiave dell'amministrazione italiana: per esempio, un certo "Dario" - che Andrew considera l'uomo più importante del Kgb in Italia - per più di trent'anni, fino al '79, ha lavorato al ministero degli [p. 493] Esteri reclutando altro personale e fornendo ai sovietici informazioni a tonnellate. "Dario" fu successivamente identificato in Giorgio Conforto, padre della donna nella cui abitazione furono arrestati i terroristi delle Br Adriana Faranda e Valerio Morucci. I giorni del 25 ottobre 1999 pubblicarono la notizia che "Dario" avrebbe acquisito per conto del Kgb i documenti più importi del sequestro Moro tra cui quelli in cui si parlava di Gladio. Secondo un'informativa trasmessa nel '90 dal questore di Roma Umberto Improta al capo della polizia, tutto questo avrebbe fatto parte di un complotto per destabilizzare la situazione italiana e manovrare contro il capo dello Stato Francesco Cossiga, che per l'affare Gladio, come abbiamo visto, venne messo in stato d'accusa dal Pci. Dal libro emerse inoltre che il Kgb, potentissimo in Italia proprio per la presenza del Pci, interferiva pesantemente nella vita interna del partito, dove il controllo reciproco era superiore all'immaginabile. Il progressivo allontanamento di Berlinguer dall'ortodossia comunista (anche se la nascita dell'eurocomunismo non gli impedì di chiedere al Pcus e di ottenere un finanziamento di ottanta miliardi al valore d'oggi per la campagna elettorale del '76) convinse il Kgb a studiare piani di delegittimazione del segretario. Il suo collega francese, George Marchais, più tiepido delle aperture rispetto a Berlinguer e allo spagnolo Santiago Carrillo, era ricattato per la sua collaborazione con i nazisti. Dini e Prodi non sapevano niente? The Mitrokhin Archive fu pubblicato a Londra nel settembre del '99.
Ne nacque una furiosa polemica politica e venne fuori l'Intelligence Service aveva dato a rate al nostro Sismi nell'arco di quattro anni dal '95 (governo Dini) al maggio del '99 (governo D'Alema), passando per i due anni e mezzo del governo Prodi - dossier che riguardavano l'Italia. Erano stati informati i nostri presidenti del Consiglio? [p. 494] D'Alema affermò di non aver mai saputo nulla e, appena i dossier gli furono consegnati, di averli passati alla magistratura. Dini e Prodi prima dissero di essere totalmente ignari di un elenco di presunte spie, poi ammisero di aver sentito qualcosa in termini molto generali, senza essere allertati della gravità delle segnalazioni inglesi. Prodi fu messo in difficoltà da Nino Andreatta, ministro della Difesa del suo governo che, il 7 ottobre, dichiarò: "Io fui informato dal Sismi". Quando chiesi all'ammiraglio Martini - che è stato il più autorevole capo dei Servizi segreti italiani degli ultimi decenni - come si regolassero in questi casi i direttori del Servizio, mi rispose di aver sempre tenuto al corrente i presidenti del Consiglio che si alternarono nel suo periodo e di aver sempre ottenuto una firma di presa visione in calce ai documenti mostrati. Secondo Martini, era impensabile che i suoi successori avessero taciuto loro una simile notizia. Quando il governo trasmise i fascicoli alla magistratura, una generale campagna di stampa ne sollecitò la pubblicazione, che avvenne lunedì 11 ottobre, dopo la consegna del dossier (645 pagine) alla Commissione bicamerale d'inchiesta sul terrorismo e le stragi, presieduta dal senatore Ds Giovanni Pellegrino. Tra i 261 nomi c'era di tutto: agenti veri e propri le cui responsabilità effettive restarono sul momento misteriose, un ambasciatore italiano a Mosca ricattato secondo tradizione per una storia di sesso, molti giornalisti famosi che sostennero d'aver scoperto solo in quel momento d'essere stati "coltivati", magari bevendo un aperitivo con un collega russo che invece era un agente del Kgb. Un caso limite fu rappresentato da Emanuele Macaluso, che venne a sapere d'essere stato denunciato ai sovietici, qualche decennio prima, da un importante compagno di partito: quel Paolo Robotti, cognato di Togliatti, che Stalin fece a suo tempo imprigionare e torturare perché tradisse l'illustre parente. Robotti era un comunista tutto d'un pezzo: non tradì né Togliatti né l'Urss stalinista. Ma accettò di diffamare Macaluso definendolo debole contro la mafia e in fondo ricattabile per una sua drammatica vicenda sentimentale.
[p. 495] Cossutta, "la parte sana del Pci" Il nome di maggiore spicco nell'elenco era quello di Armando Cossutta, fondatore e presidente dei Comunisti italiani, stampella essenziale del governo D'Alema. Indicato tra i principali informatori del Kgb, Cossutta protestò che il dossier intendeva in questo modo degradarlo. E aveva ragione. Egli era rimasto fino all'ultimo (lo è anzi tuttora, a quasi un decennio dalla scomparsa del Pcus) quella che Ponomarëv definì "la parte sana del Pci". Aveva contatti di vertice con il Cremlino, trattava direttamente i finanziamenti e non lesinava certo notizie o pareri. Non c'è dubbio che, tra il duro Ponomarëv e il revisionista Gorbaciov, nel profondo dell'animo Cossutta tenesse per il primo. Scrive infatti Andrew che, quando nell'agosto del '91 fallì il colpo di Stato ordito dal Kgb contro Gorbaciov, Cossutta "dichiarò il suo disgusto per il fatto che comunismo fosse ormai una parolaccia anche nella patria di Lenin". Se fosse stato in possesso di informazioni da scambiare, non avrebbe avuto certo bisogno di incontrarsi con un qualunque residente romano del Kgb, lo avrebbe fatto ai più alti livelli politici. Quando venne fuori il dossier Mitrokhin, il presidente dei Comunisti italiani rivendicò con orgoglio l'intera sua militanza. Commentando gli enormi finanziamenti ricevuti dall'Urss (che agli occhi dell'opinione pubblica erano l'aspetto più imbarazzante, vista la conclamata "diversità" dei comunisti), egli cercò prima di pareggiare i conti con i soldi che i partiti filoccidentali avevano ricevuto dalla Cia (ma questo era accaduto agli inizi della guerra fredda), poi chiamò in causa per il salvataggio di "Paese sera" due dirigenti comunisti scomparsi, il segretario di Berlinguer Antonio Tatò e il teorico del compromesso storico Franco Rodano. "Non voglio dire con questo che Tatò ne avesse parlato con Berlinguer" aggiunse. Il problema è che Berlinguer morì nell''84 e gli ultimi finanziamenti sovietici a "Paese sera", per l'equivalente di sei miliardi di oggi, avvennero tra l''85 e l''87. [p. 496] A testimonianza del ruolo svolto da Cossutta e dei segreti che vi erano connessi, lo stesso dirigente ricordò che nel '91 quando il Pcus si disintegrò - egli temette per la propria vita e lasciò custoditi presso un notaio molti nastri registrati. "Quando attraverso la strada, guardo chi viene da destra e da sinistra" mi disse con un sorriso durante una trasmissione di Porta a porta. Il Polo rilevò inutilmente che il governo D'Alema si reggeva sull'appoggio di Cossutta, e dal Partito popolare non venne fuori
niente di più di un'orgogliosa frase del nuovo segretario Pierluigi Castagnetti: "Dovremmo fare un monumento alla Dc". Quando uscirono le liste della P2 e di Gladio, l'Italia fu messa a ferro e a fuoco. Adesso non accadeva nulla, come protestò Francesco Cossiga in una fluviale lettera aperta a Massimo D'Alema sul "Corriere della Sera" del 14 ottobre: "Fui crocifisso... come eversore e organizzatore di bande contro la democrazia e il regime di libertà per aver compiuto il mio dovere di sottosegretario di Stato per la Difesa... nell'organizzazione di una struttura legittima, Gladio, posta a tutela e a difesa, in tutta l'Alleanza atlantica, dei nostri paesi in caso di conflitto". Cossiga chiese una commissione d'inchiesta sull'affare Mitrokhin. Se qualcuno, scrisse, "comunisti o no, ha tradito il paese, non c'è niente da archiviare! E non c'è niente da archiviare se - spero, anche se temo, non per opera di una parte "operativa" del vostro apparato - il Kgb ha infiltrato le nostre istituzioni e ha disseminato il nostro paese di depositi di armi e ricetrasmittenti, in vista di un'invasione sovietica che non sarebbe stata certo una "marcia della pace" né un'edizione della Festa dell'Unità". "Voglio la verità" gli rispose l'indomani sul "Messaggero" il presidente del Consiglio. Ma la maggioranza bocciò la proposta del Polo di allargare l'inchiesta ai finanziamenti al Pci. Mi disse in quei giorni Cossiga: "Noi siamo stati migliori di loro. Per chiudere una lunga e dolorosa pagina di divisioni, alla fine ho detto: va bene, siamo pari. Ma loro non ci stanno a essere uguali a noi". Al di là di una polemica che si sarebbe trascinata per [p. 497] settimane incrociandosi con le fibrillazioni per la sorte del governo D'Alema, una cosa colpì più di tutte. Pochissimi osservarono che l'Italia aveva fatto democraticamente le sue scelte atlantiche e che contro quelle scelte l'Unione Sovietica - paese ostile alla Nato - si batteva con tutti i mezzi, leciti e illeciti. Chi in casa nostra ne sosteneva liberamente le ragioni in Parlamento, aveva il pieno diritto di farlo. Ma chi per farlo attingeva centinaia di miliardi alle casse di un paese ostile, certo meritava la gratitudine della nazione. Senza contare le oscure complicità in attività sovversive sulle quali forse non si farà mai luce, se si pensa che solo alla fine del secolo si ricominciò a parlare delle carte segrete che il presidente cecoslovacco Havel consegnò al nostro governo nel '90 e che le indagini giudiziarie sull'argomento - la cosiddetta "Gladio rossa" - sono state messe prudentemente a dormire. Cossiga è l'uomo che più di ogni altro ha cercato di chiudere in
maniera dignitosa cinquant'anni di controversa storia nazionale. Ma il suo appello a D'Alema sul "coraggio di accertare se anche una parte della vostra storia sia stata sporca" e sul "coraggio di condannarla con il nostro concorso" aspetta una risposta effettiva all'inizio del nuovo secolo. [p. 498] Post scriptum: Un paese normale? Una coincidenza I primi arresti di massa di Tangentopoli a Milano sono del maggio '92, le prime dichiarazioni di un pentito contro Andreotti a Palermo sono dell'agosto '92. Le elezioni politiche di aprile avevano dato uno scossone fatale alla Prima Repubblica e gli omicidi di Falcone e Borsellino avevano eliminato una scuola d'indagini sulla mafia rigorosamente fondata sulla cautela, sui riscontri, sull'assoluta imparzialità ideologica degli investigatori. Questo accostamento di date è certamente frutto di una coincidenza, ma non c'è dubbio che la spallata elettorale alla Prima Repubblica abbia incoraggiato la tentazione di scrivere La vera storia d'Italia - come si intitola il già citato libro dossier che raccoglie gli atti di accusa contro Andreotti a Palermo - sostituendo le aule di giustizia alla cabina elettorale. Per sette anni, molti magistrati - a Palermo, a Milano e in altre città italiane - non si sono curati soltanto di identificare e di punire il singolo reato, quanto di processare un sistema politico. Che era forse inadeguato a portare l'Italia nel terzo millennio, ma certamente non è quello disegnato da alcune sentenze di Milano e dalla gigantesca inchiesta di Palermo su Andreotti. Per azzerare la Prima Repubblica, a Milano si sono celebrati processi esemplari, per qualità degli imputati e rapidità dell'esecuzione - come quello Enimont -, mentre a Palermo sono stati ricompensati, con la libertà personale e con ricchissime retribuzioni, i pentiti che hanno giurato, mentendo, [p. 499] di aver visto Andreotti baciare Totò Riina, stringere la mano a Nitto Santapaola, rassicurare Stefano Bontade che nulla il governo avrebbe fatto contro la mafia. La storia, per fortuna, punisce sempre l'arroganza e il delirio di onnipotenza. Punì i politici della Prima Repubblica che ne facevano un uso spesso insopportabile. Censura oggi i magistrati che, incoraggiati dai nuovi direttori di macchina, hanno creduto di poterla riscrivere con le manette, la gogna televisiva, i
collaboratori di giustizia. Naturalmente, la corruzione era enorme, il suo costo economico, sociale e politico immenso: se oggi molti corrotti d'ogni lignaggio sono ai margini della società e se, sottolinea il procuratore D'Ambrosio, gli appalti costano molto meno di prima, i meriti di Tangentopoli sono indiscussi e indiscutibili. D'altra parte, i rapporti tra mafia e politica esistono dai tempi di Garibaldi e di Giolitti e non sono certo scomparsi negli ultimi decenni. Anzi, come precisa il presidente della Commissione antimafia Del Turco, quel che distingue la mafia dalle altre organizzazioni criminali è proprio la sua capacità d'infiltrazione politica. Purtroppo, a un certo punto le indagini su entrambi i fronti sono deragliate. Era credibile che i finanziamenti illeciti fossero andati alla Dc, al Psi, al Psdi, al Pri e perfino alla Lega nord risparmiando come per incanto il partito che aveva la struttura organizzativa più possente e costosa? Tutti i disonesti da una parte e tutti gli onesti dall'altra? Non era credibile. Ed ecco, puntuale, l'arrivo del dossier Mitrokhin e dei documenti sfuggiti agli archivi segreti di Mosca dove figurano ricevute di pagamento al Pci per centinaia di miliardi d'oggi; e i dettagli sulle colossali intermediazioni con l'Est e sull'attività delle cooperative rosse in anni anche recenti. I processi non hanno coinvolto il vertice del Pci-Pds perché esso ha trovato giudici garantisti che non impiccavano gli indagati all'albero del "non poteva non sapere". Cercavano prove concrete che non hanno trovato. Ed è difficile ignorare la clamorosa ammissione fatta il 27 ottobre dal procuratore della Repubblica di Milano Gerardo D'Ambrosio: "Aveva [p. 500] ragione Craxi nel suo discorso del 4 luglio 1992 alla Camera. Finanziamenti illeciti sono andati a tutti i partiti". Era credibile, d'altra parte, che il potentissimo Andreotti ordinasse di uccidere un giornalista ingombrante e che dovesse precipitarsi a baciare i capimafia perché da loro dipendevano le sue fortune? Non era credibile, ed ecco arrivare sentenze che hanno fatto rumore perché in pochi si aspettavano che nell'Italia della giustizia sommaria ci fosse "un giudice a Palermo", come il mugnaio ne trovò uno a Berlino alla nascita dello Stato di diritto. Il filo rosso di fine secolo Andreotti non vuole vendette e ha ragione. Non risponde alla ghigliottina con la ghigliottina, anche se non ha potuto tacere sull'evidente contiguità tra le conclusioni della Commissione parlamentare antimafia guidata da Luciano Violante e il processo
condotto dalla procura di Giancarlo Caselli. Né ha ormai molto senso stabilire se siano prescritti i reati di chi, in nome del proprio credo politico, ha lavorato a lungo, come spia o come referente politico primario, per un paese ostile all'Italia. Le commissioni parlamentari d'inchiesta - che per anni hanno processato i partiti dominanti - oggi che gli sconfitti di ieri sono i nuovi vincitori possono tranquillamente limitarsi a rifare - esse sì - la vera storia del nostro paese. Molti capitoli di questo decennio e di questo libro sono stati dedicati alle inchieste giudiziarie e ai processi penali: essi hanno costituito il vero filo rosso che ha unito gli ultimi spezzoni del secolo. Per molti anni, la magistratura è stata ossequiente al potere moderato dominante, lo ha favorito insabbiando inchieste ed emettendo sentenze di comodo. I magistrati di quella generazione hanno protetto gli amici: parecchi l'hanno fatto per un malinteso senso dello Stato, qualcuno per meschine convenienze personali. Ma non hanno mai cercato di distruggere i nemici. Se le prime lesioni del garantismo sono avvenute negli anni del terrorismo, esse sono state possibili solo [p. 501] perché ci fu la ferma copertura del Pci. I democristiani, da soli, forse ne avrebbero avuto la voglia, certamente non la forza. Nell'ultimo decennio, invece, quando le correnti di magistrati della sinistra radicale e della destra giustizialista hanno assunto il controllo di tutti i posti chiave, la distruzione dell'avversario è cominciata implacabile. Claudio Vitalone incarna il prototipo del magistrato vicino al potere dominante di ieri. Sarebbe impensabile immaginarlo con la stessa influenza nei tempi nuovi, anche se alcuni procuratori in questi anni hanno sostituito di fatto l'autorità politica. Eppure, fa una certa impressione leggere nel libro della "toga rossa" Francesco Misiani la seguente testimonianza: "...di fatto, quel potere si è interrotto soltanto nel '93, quando Claudio è finito nel processo Pecorelli come imputato di concorso in omicidio volontario. Quando i pentiti della banda della Magliana hanno cominciato a rovesciargli addosso accuse di cui una Corte d'assise dovrà valutare la fondatezza o meno, ma certo in grado di stroncare chiunque". Dopo sei anni e mezzo, Vitalone è stato assolto, ma la sua carriera era irreparabilmente distrutta. E' un peccato che il Codice penale sia entrato in modo così dirompente nella disputa politica, che poche decine di magistrati si siano lasciati cogliere dallo stesso delirio d'onnipotenza dei politici e degli amministratori che hanno perseguito. E' un peccato, perché la persecuzione giudiziaria ha indebolito un severo giudizio
morale e politico sulle devianze della Prima Repubblica. Esso è stato talvolta perfino vanificato da enormità determinate sempre più dall'odio e dalla vendetta politica e sempre meno dalla "giustizia giusta" che è alla base di una convivenza equilibrata e civile. Questo clima ha spaccato come una mela anche la magistratura di sinistra, se un uomo come Pietro Pintus, procuratore generale di Cagliari ed ex parlamentare eletto nelle liste del Pci, si è tolto la toga e ha sbattuto la porta per protesta contro il giustizialismo dei suoi colleghi. Quando riacquisteremo la serenità per giudicare la politica, i meriti ma anche gli errori di Giulio Andreotti dopo sette anni di persecuzione che non ha l'uguale nel mondo occidentale? [p. 502] Come potremo dibattere sull'arroganza politica e sulla disinvoltura contabile che spesso lesionarono la statura altrimenti indiscussa di Bettino Craxi se per cacciarlo dal consesso civile il Codice penale è stato stravolto? La polemica di fine ottobre su un suo ipotetico rientro segnala un clima più aperto alla discussione? A Berlusconi, una sera di ottobre del '99, ho detto: lei potrebbe essere sorpreso da una mamma mentre ne insidia il figlio ai giardini pubblici e ormai non ci crederebbe più nessuno. Bel risultato, vero, per la credibilità della magistratura? Bella prova di democrazia averlo cacciato dal governo dopo un trionfo elettorale, impedendogli di essere messo alla prova e di compiere quegli errori che, ad anni di distanza, lui stesso riconosce di aver corso il rischio di commettere con un governo in larga parte improvvisato! Errori vecchi, errori nuovi La crisi della Prima Repubblica è stata salutare, ma dalla democrazia bloccata siamo passati alla democrazia ingestibile. Nel momento di massima confusione, allora, c'erano dodici partiti in Parlamento. Alla fine del decennio, ce n'erano altrettanti nella sola maggioranza di governo. Alcuni dei nuovi leader, da D'Alema a Berlusconi, da Fini a Bossi, nei momenti felici hanno commesso gli stessi peccati d'immodestia dei loro predecessori: per questo sono scivolati e talvolta sono caduti. Il Pds, morente dopo la caduta del Muro e resuscitato grazie a Tangentopoli, ha compiuto un decisivo passo falso ("la gioiosa macchina da guerra") proprio quando, nel '94, s'apprestava a egemonizzare il paese tra gli applausi della grande industria e della grande stampa. E allorché D'Alema, convinto di essere migliore di Prodi e dell'intero panorama politico, ha immaginato di governare l'Italia con la mano sinistra, ha subito una
poderosa sberla elettorale e ha dovuto attestarsi su una fragile posizione di retroguardia, costretto a far proprie le avvilenti mediazioni che segnarono il declino della Prima Repubblica. [p. 503] Forza Italia, nata per la geniale intuizione di raccogliere la rappresentanza di molti milioni di elettori rimasti orfani del vecchio pentapartito, è caduta per la trappola di Bossi, ma anche perché Berlusconi (quanto sarebbe maturato negli anni...) era convinto che sarebbe bastato affacciarsi ogni tanto alla Tv per dominare il paese per vent'anni. E ha sbattuto il muso. Fini s'è trasformato in pochi mesi da commissario liquidatore dell'Msi in uomo chiave della politica e del governo, ma, invece di completare dall'interno la maturazione politica di Alleanza nazionale, ha cercato una prematura emulazione di Berlusconi ed è stato pesantemente sconfitto. Bossi è stato il primo a capire e a capitalizzare il malessere del nord, però ha sperperato il suo patrimonio tra una secessione impossibile e un'improbabile politica filoserba durante la guerra del Kosovo. I partitini nati dalla diaspora della Dc non sono mai stati capaci di costruire un polo unitario e si lacerano a colpi di zerovirgola: assetati di visibilità individuale, rischiano di annegare nel nulla. Gli elettori sono percorsi da un'inquietudine costante e da un furioso desiderio di novità: per questo saltano da Prodi alla Bonino, pronti a ulteriori ripensamenti già annunciati dai sondaggi di fine secolo. La frammentazione e gli egoismi di partito hanno impedito, ancora una volta, di approvare la riforma della Costituzione, ormai sofferente per gli anni, e di dare sfogo al desiderio di protagonismo di una popolazione politicamente sempre più matura, consentendo l'elezione diretta del capo dello Stato o del primo ministro. Gli scontri fra i partiti e le pressioni antigarantiste dei pubblici ministeri hanno rallentato l'adeguamento del nostro processo penale ai comuni canoni occidentali, e le polemiche successive alle due sentenze Andreotti di Perugia e di Palermo hanno dimostrato che pluriomicidi pentiti continuano a percepire compensi di centinaia di milioni all'anno e a vivere in libertà, senza essere perseguiti per i delitti compiuti prima di cominciare la "collaborazione". Alcuni meriti indiscutibili, tuttavia, la nuova classe politica li ha: è più onesta della precedente e forma un parlamento bipolare. Più confuso nel centrosinistra, più asciutto nel [p. 504] centrodestra, ma bipolare. Anche se tutte le battaglie si combattono per la conquista del centro dello schieramento politico, nessuno pensa ormai al pendolarismo delle alleanze. Si sta o di qua o di là. L'assenza di
una legge elettorale favorisce però l'immoralità dei ribaltoni e consente ai micropartiti con l'uno per cento di indossare i panni di Ghino di Tacco (se vuoi passare, paga pegno) che Craxi indossava con il quindici. L'economia italiana nell'ultimo decennio è migliorata, il debito pubblico resta enorme, ma i disavanzi d'esercizio sono sotto controllo, la coscienza fiscale è cresciuta, l'ingresso della lira nella moneta unica ha costituito un traguardo fondamentale. Ma al capitalismo di Stato si sono sostituite privatizzazioni talvolta malfatte, rivelatesi in qualche occasione autentiche svendite di beni pubblici. Il ristrettissimo "salotto buono" di Enrico Cuccia s'è allargato a pochi altri soggetti, il numero dei disoccupati è aumentato, il divario tra Nord e Sud s'è allargato così come quello tra ricchi e poveri. Eppure, si può chiudere il secolo con un cauto ottimismo. Superando situazioni drammatiche che avrebbero messo in ginocchio molti altri paesi, l'Italia ha confermato di essere una nazione coraggiosa e tenace. L'elezione al Quirinale di un uomo miracolosamente al di sopra delle parti come Carlo Azeglio Ciampi significa che l'influenza della pubblica opinione può condizionare anche scelte decisive. La politica attraversa di nuovo una crisi di credibilità ma, al contrario di quanto avvenne all'inizio del decennio, i leader dei partiti se ne rendono perfettamente conto. Chi è consapevole del suo male, può curarlo meglio di chi lo ignora. Immaginavamo di chiudere il secolo con la nascita della Seconda Repubblica, che invece non è alle viste. Ma sappiamo tutti che presto dovrà esserci e ci sarà, con una classe politica rispettosa dei vincitori e degli sconfitti e con una magistratura finalmente tornata a svolgere il suo ruolo: inflessibile, ma equilibrato. Senza favoritismi, ma senza persecuzioni. Qualcuno non aveva parlato di "paese normale"? [p. 505] Cronologia 1989 |Gennaio 6. A Tokyo muore Hirohito, imperatore del Giappone. 14. Il fisico italiano Carlo Rubbia è il nuovo direttore generale del Cern, il Centro europeo per le ricerche nucleari di Ginevra. 20. Nell'ambito dello scandalo sulle "lenzuola d'oro", vengono accusati di truffa e corruzione Lodovico Ligato, ex presidente delle
Ferrovie dello Stato, e Giovanni Coletti, ex direttore generale. 23. Muore a Figueras il grande pittore spagnolo Salvador Dalì. 26. Il tribunale civile di Milano emette una sentenza secondo cui la morte del banchiere Roberto Calvi non fu suicidio bensì omicidio. |Febbraio 3. Deposto da un golpe militare il dittatore paraguaiano Alfredo Stroessner, al potere da 35 anni. 14. Il mondo islamico esprime violente proteste contro il libro Versetti satanici di Salman Rushdie: l'ayatollah Khomeini pronuncia la condanna a morte dello scrittore, colpevole di blasfemia. 28. Muore ad Altenberg Konrad Lorenz, considerato il padre dell'etologia. |Marzo 10. La Corte d'appello di Brescia assolve tutti gli imputati al processo per la strage di piazza della Loggia (1974). 17. Il crollo improvviso della Torre civica, una costruzione del XII secolo nel centro di Pavia, provoca la morte di 4 persone e il ferimento di altre 15. 20. Muore a Milano Cesare Musatti, il padre della psicoanalisi italiana. 30. Il film Rain Man di Berry Levinson si aggiudica 4 Oscar. |Aprile 1. Nasce una nuova nazione, la Namibia, finora colonia del Sudafrica. 2. Il Consiglio centrale dell'Olp, riunito a Tunisi, elegge all'unanimità Yasser Arafat presidente dello Stato palestinese. [p. 506] 10. Nasce il gruppo editoriale più importante d'Italia: la casa editrice Mondadori acquisisce infatti il controllo dell'Editoriale L'Espresso, che possiede il 50 per cento del quotidiano "La Repubblica" e numerosi fogli locali. 12. Muore in California Ray "Sugar" Robinson, uno dei più grandi pugili di tutti i tempi. 15. Nell'ambito del cosiddetto "maxiprocesso ter" la Corte d'appello di Palermo assolve i presunti capi della "cupola" Michele Greco, Giuseppe Calò, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. 22. Muore a San Francisco il fisico Emilio Segrè. 25. L'Unione Sovietica inizia il ritiro di parte delle proprie truppe dall'Ungheria.
|Maggio 17. Imponenti manifestazioni popolari a Pechino e in molte altre città della Cina protestano contro Deng Xiaoping e il primo ministro Li Peng, chiedendo libertà e democrazia. 19. Il presidente del Consiglio Ciriaco De Mita rassegna le dimissioni. Il premier cinese Li Peng, accusando la protesta studentesca di aver scatenato il caos, proclama lo stato d'emergenza e la legge marziale. 21. A Pechino una catena umana formata da migliaia di persone impedisce a 250.000 militari di entrare nel centro della città e di sgombrare la piazza Tienanmen, occupata dagli studenti. 25. A Mosca il Congresso dei deputati del popolo elegge Michail Gorbaciov presidente del Soviet supremo, una carica che equivale a quella di capo dello Stato. 26. Nei pressi di Palermo viene arrestato il pentito Salvatore Contorno, da poco rientrato in Italia dagli Stati Uniti. 29-30. Nell'ambito dello scandalo delle "carceri d'oro", la procura della Repubblica di Roma chiede alla Camera l'autorizzazione a procedere nei confronti dell'ex ministro socialdemocratico Franco Nicolazzi. |Giugno 1. Primo viaggio di Giovanni Paolo II nei paesi scandinavi. 3. A Pechino l'esercito irrompe in piazza Tienanmen: centinaia di studenti vengono falciati dalle mitragliatrici o stritolati dai carri armati. 4. Muore presso Teheran l'ayatollah Ruhollah Khomeini, leader della Rivoluzione islamica e massima autorità politica e religiosa dell'Iran; viene nominato come suo successore Ali Khamenei. 11. In Cina vengono arrestate centinaia di persone, accusate di aver organizzato le manifestazioni e le rivolte sfociate nel massacro di piazza Tienanmen. 13. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga incarica Ciriaco De Mita di formare il nuovo governo. 17. Il Parlamento della Repubblica slovena approva una modifica costituzionale che sancisce il diritto del popolo sloveno all'autodeterminazione. [p. 507] 20. Si costituisce alle autorità italiane dopo sette anni di latitanza il finanziere Umberto Ortolani, ritenuto il capo della
loggia massonica P2 e accusato di bancarotta fraudolenta in relazione al crac del Banco Ambrosiano. 21. La mafia tenta di uccidere Giovanni Falcone con un ordigno posto tra le rocce dell'Addaura, la località dove il giudice trascorre le vacanze estive. 22. Il regime cinese colpisce i responsabili delle manifestazioni di Pechino e Shanghai con decine di esecuzioni capitali. 28. Nell'ambito delle indagini sul delitto Calabresi, il pubblico ministero milanese Ferdinando Pomarici chiede il rinvio a giudizio degli ex dirigenti di Lotta continua Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, considerati i mandanti dell'omicidio, e di Ovidio Bompressi e Leonardo Marino, ex militanti del movimento, ritenuti gli esecutori materiali. 30. L'assemblea della Montedison dà il via alla creazione dell'Enimont, la più grande società chimica italiana. |Luglio 6. Il presidente del Consiglio uscente Ciriaco De Mita rinuncia all'incarico di formare il nuovo governo. 8. Il vertice del Patto di Varsavia, riunito a Bucarest, annuncia l'abbandono della "dottrina Breznev" sulla sovranità limitata dei paesi satelliti dell'Unione Sovietica. 9. Giulio Andreotti riceve dal capo dello Stato l'incarico di formare il nuovo governo. 11. Muore a Londra l'attore Laurence Olivier. 12. Nell'ambito dell'inchiesta sulla loggia P2, la magistratura romana emette venti mandati di comparizione per cospirazione e attentato contro lo Stato: tra gli accusati Licio Gelli, Umberto Ortolani, Gian Adelio Manetti e l'ex comandante della Guardia di finanza, Raffaele Giudice. 16. Muore il direttore d'orchestra Herbert von Karajan. 27. Il governo Andreotti ottiene la fiducia del Senato. |Agosto 10. Il presidente americano George Bush nomina capo di stato maggiore della Difesa il generale Colin Powell, il primo nero a raggiungere il vertice delle forze armate statunitensi. 12. Secondo l'esame delle impronte digitali rilevate su una delle lettere anonime, "il Corvo" di Palermo sarebbe il giudice Alberto Di Pisa, che sarà poi scagionato. 27. Assassinato nella sua casa presso Reggio Calabria Lodovico
Ligato, ex deputato democristiano ed ex presidente delle Fs, incriminato per corruzione e altri reati. |Settembre 4. Muore a Losanna lo scrittore francese Georges Simenon. 7. Lo scandalo della filiale di Atlanta della Banca nazionale del lavoro (Bnl) costringe alle dimissioni il presidente dell'istituto, Nerio Nesi, e il [p. 508] direttore generale Giacomo Pedde: il direttore della filiale americana, Chris Drogoul, ha prestato 4200 miliardi all'Iraq senza le necessarie garanzie. 11. La procura di Palermo chiede l'emissione di mandati di cattura nei confronti dei terroristi neri Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, ritenuti i sicari assoldati dalla mafia per uccidere il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella (1980). 12. In Polonia ottiene l'approvazione del Parlamento il governo presieduto dall'esponente di Solidarno¬s¬c Tadeusz Mazowiecki: si tratta del primo esecutivo a guida non comunista in un paese del Patto di Varsavia. 21. Dopo 11 anni di occupazione, il Vietnam si ritira definitivamente dalla Cambogia. 26. Nell'ambito delle indagini sulla strage di Ustica (1980), tre sottufficiali dell'aeronautica rivelano che la notte del disastro un aereo libico con a bordo un'alta personalità (forse lo stesso Gheddafi) volava sulla stessa rotta del DC9. |Ottobre 1. Muore a Roma l'attore Carlo Dapporto. 5. Conferito il premio Nobel per la pace al Dalai Lama, in esilio da 30 anni. 13. Muore a Roma lo scrittore Cesare Zavattini. 16. Storico incontro in Egitto fra il presidente egiziano Hosni Mubarak e il leader libico Muammar Gheddafi. 18. Dopo le imponenti manifestazioni di piazza contro il regime, si dimette il presidente della Repubblica democratica tedesca, Erich Honecker. Una serie di modifiche alla Costituzione dà vita alla nuova Repubblica d'Ungheria e pone fine al monopolio politico del Partito comunista. |Novembre 3. Il governo nomina presidente dell'Eni Gabriele Cagliari, mentre
alla guida dell'Iri è designato Franco Nobili. 5. Muore a Ravenna Benigno Zaccagnini, segretario della Democrazia cristiana dal 1975 al 1980. Scompare negli Stati Uniti il grande pianista Vladimir Horowitz. 7. Il Consiglio superiore della magistratura dispone il trasferimento del sostituto procuratore di Palermo, Alberto Di Pisa, sospettato di implicazioni nella vicenda delle lettere anonime al giudice Giovanni Falcone; immediatamente dopo è trasferito anche Giuseppe Ayala. In seguito alle manifestazioni popolari, si dimette il governo comunista della Ddr. La Chiesa anglicana approva il sacerdozio femminile. Vittoria dei democratici alle elezioni amministrative negli Stati Uniti; David Dinkins è il primo nero a diventare sindaco di New York. 9. Crolla il Muro di Berlino, che dal 1961 tagliava in due la città. 10. Biagio Agnes lascia la carica di direttore generale della Rai. Si dimette Todor Zhivkov, presidente della Bulgaria dal 1971. 20. Muore a Palermo lo scrittore Leonardo Sciascia. [p. 509] 28. Il cancelliere Helmut Kohl presenta al Parlamento federale un progetto per la riunificazione delle due Germanie. |Dicembre 2. Storico incontro fra il presidente degli Stati Uniti, George Bush, e il leader sovietico, Michail Gorbaciov; i due capi di Stato dichiarano la fine della guerra fredda. 5. Muore a Roma il fisico Edoardo Amaldi, uno dei padri dell'energia atomica. 7. Prima tra le Repubbliche sovietiche, la Lituania vota a favore del sistema multipartitico. 11. In Cecoslovacchia i comunisti non hanno più il controllo del governo; abbattuta la "cortina di ferro", il filo spinato che da 36 anni segnava il confine con l'Austria. 13. Muore in Unione Sovietica Andrej Sacharov, il fisico premio Nobel per la pace nel 1975. Storico incontro fra Nelson Mandela, leader dell'African National Congress, e Frederik De Klerk, presidente della Repubblica sudafricana. 16. Scompare a Madrid l'attrice Silvana Mangano. 20. Gli Stati Uniti invadono Panama e rovesciano il regime del colonnello Manuel Antonio Noriega.
25. Il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu e la moglie Elena, catturati dopo essere fuggiti da Bucarest per sottrarsi alla protesta popolare, vengono giustiziati con l'accusa di abuso di potere, genocidio e furto. 29. Vàclav Havel è il nuovo presidente della Cecoslovacchia. 1990 |Gennaio 15. Il governo sovietico invia l'esercito in Azerbaigian nel tentativo di porre fine alla guerra civile scatenatasi fra armeni e azeri per la questione del Nagorno-Karabah. 23. Scompare a Vicenza Mariano Rumor, per cinque volte presidente del Consiglio. 25. Silvio Berlusconi è eletto presidente della Arnoldo Mondadori Editore. 26. Muore a Londra l'attrice Ava Gardner. 29. A Varsavia i comunisti votano lo scioglimento del Partito operaio unificato polacco (Poup). 31. Dopo oltre due anni di sequestro, viene rilasciato in Calabria Cesare Casella. |Febbraio 1. Gianni Pasquarelli è il nuovo direttore generale della Rai. 11. Dopo 28 anni di carcere, viene rimesso in libertà Nelson Mandela, simbolo della lotta contro l'apartheid in Sudafrica. [p. 510] 13. Storico incontro a Ottawa fra i ministri degli Esteri della Nato e quelli del Patto di Varsavia per discutere la riunificazione delle due Germanie. 24. Scompare a Roma Sandro Pertini, presidente della Repubblica dal 1978 al 1985. 25. In Nicaragua il Fronte di liberazione nazionale sandinista, al potere da 10 anni, è sconfitto alle elezioni; il nuovo presidente è Violeta Barrios de Chamorro, leader dell'Unione di opposizione nazionale. 26. Le truppe sovietiche iniziano il ritiro dalla Cecoslovacchia, invasa dall'Urss nel 1968. |Marzo 7. Il Soviet supremo dell'Unione Sovietica approva la proprietà privata di beni e mezzi di produzione. 11. La Lituania proclama l'indipendenza da Mosca.
13. Abrogato in Urss l'articolo della Costituzione che attribuisce il monopolio del potere al Partito comunista. 21. La Namibia diventa uno Stato indipendente. 22. Truppe sovietiche invadono Vilnius, capitale della Repubblica ribelle di Lituania. 27. Nuovo cinema Paradiso, diretto da Giuseppe Tornatore, vince l'Oscar per il miglior film straniero. |Aprile 2. Arrestato a Palermo Giuseppe Lucchese, ritenuto l'assassino del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie e della loro scorta. Muore a Roma l'attore Aldo Fabrizi. 15. Muore a New York l'attrice Greta Garbo. 22. Tutto il mondo celebra la Giornata della Terra, istituita per richiamare l'attenzione sul continuo aggravarsi dei problemi ambientali del pianeta. |Maggio 2. La Corte d'assise di Milano condanna a 22 anni di reclusione Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani per l'assassinio del commissario Luigi Calabresi; il pentito Leonardo Marino dovrà scontare 11 anni di carcere. 7. Carri armati sovietici invadono Riga, la capitale della Lettonia proclamatasi indipendente il 4 maggio. 8. L'Estonia proclama la propria indipendenza da Mosca. 18. Firmato dai ministri delle Finanze tedeschi il trattato che istituisce l'unificazione monetaria sotto il marco occidentale. |Giugno 6. Gianni Bugno si aggiudica il Giro d'Italia. 8. A Milano, cerimonia d'apertura allo stadio Meazza-San Siro della quattordicesima edizione del campionato mondiale di calcio. [p. 511] Dopo oltre 40 anni di partito unico, si tengono in Cecoslovacchia le prime elezioni libere. 12. Nelle elezioni amministrative svoltesi in Algeria il Fronte di salvezza islamico si aggiudica oltre il 50 per cento dei voti, ottenendo il controllo delle principali città del paese. 21. In Iran, un violento terremoto con epicentro nel Mar Caspio provoca 40.000 morti.
|Luglio 1. Data storica per la Germania: sono abolite tutte le frontiere che dividevano Est e Ovest e il marco occidentale diventa la moneta unica per entrambi i paesi. 8. La Germania vince il Campionato mondiale di calcio, battendo in finale l'Argentina. 18. La Corte d'assise di Bologna emette una clamorosa sentenza d'assoluzione per la strage alla stazione del capoluogo emiliano (2 agosto 1980). |Agosto 1. Approvata dalla Camera la legge Mammì che regolamenta il sistema radiotelevisivo. 2. L'esercito iracheno invade il Kuwait, assumendo il controllo del paese. 3. La Lega araba, riunita in un vertice straordinario al Cairo, condanna l'invasione irachena del Kuwait. 6. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota durissime sanzioni contro l'Iraq; il presidente degli Stati Uniti George Bush dispone l'invio di truppe in territorio saudita per l'operazione "Scudo del deserto". 13. Gli Stati Uniti decidono l'uso della forza per sostenere l'embargo totale contro l'Iraq. Con un decreto l'Unione Sovietica riabilita le vittime delle purghe staliniane tra il 1920 e il 1950. 22. Il Senato approva la decisione di estendere la presenza militare italiana al Golfo Persico. 30. Perez de Cuellar incontra ad Amman il ministro degli Esteri iracheno, Tareq Aziz, ma il tentativo di mediazione fallisce. |Settembre 8. Scompare a Milano il filosofo Nicola Abbagnano. 12. Rottura definitiva tra Eni e Montedison: l'Enimont dovrà ora avere un unico proprietario. I quattro paesi vincitori della Seconda guerra mondiale e i rappresentanti delle due Germanie firmano a Mosca il trattato sulla riunificazione tedesca. 13. Muore a Roma Giancarlo Pajetta, una delle figure di spicco del comunismo italiano. 18. Le indagini sulla "Duomo Connection" rivelano un intreccio fra mafia, affari e politica al Nord.
[p. 512] Riuniti a Parigi, i paesi dell'Ueo (Unione dell'Europa occidentale) annunciano di essere favorevoli al blocco aereo nei confronti dell'Iraq e discutono del coordinamento militare nel Golfo. 24. L'Onu ribadisce la necessità del ritiro dal Kuwait dell'esercito iracheno, affermando che l'Occidente risponderà con la forza all'uso della forza. 25. L'Onu vota l'embargo aereo contro l'Iraq. 26. Muore a Roma lo scrittore Alberto Moravia. |Ottobre 1. Crisi del Golfo Persico: George Bush si dichiara disposto ad avviare negoziati diplomatici con l'Iraq solo se Saddam Hussein ritirerà le proprie truppe dal Kuwait. 2-3. Solenne proclamazione della riunificazione delle due Germanie: migliaia di persone si radunano nella notte a Berlino per festeggiare lo storico evento. 8. La sterlina inglese entra a far parte dello Sme. 8-21. La polizia israeliana uccide 20 manifestanti palestinesi innescando una catena di scontri tra arabi ed ebrei; le Nazioni Unite votano una risoluzione contro Israele. 10. La direzione del Pci accoglie la proposta di rifondazione del partito avanzata dal segretario Achille Occhetto, che prevede un nuovo nome, "Partito democratico della sinistra", e un nuovo simbolo, la quercia. In un ex covo delle Brigate rosse a Milano vengono ritrovate le lettere scritte da Aldo Moro durante il sequestro. 15. Il presidente sovietico Michail Gorbaciov vince il premio Nobel per la pace. 18. La Commissione parlamentare sulle stragi riceve da palazzo Chigi un dossier relativo all'esistenza in Italia di un'organizzazione paramilitare clandestina detta "Gladio", nata nel 1956 e guidata da alcuni ufficiali dei Servizi segreti in collaborazione con la Cia. 20. Gianni Bugno vince il titolo di campione mondiale di ciclismo su strada. 30. Si dimette dall'incarico di presidente della Commissione pontificia per lo Stato della Città del Vaticano l'arcivescovo Paul Marcinkus, ex presidente dello Ior (la banca vaticana) e coinvolto nello scandalo relativo al crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.
|Novembre 2. Scoppiano le polemiche sul "dossier Gladio": la struttura clandestina dei Servizi segreti avrebbe avuto obiettivi di politica interna e non solo di sicurezza nell'ambito dei paesi Nato. 3. In relazione al caso Gladio, la Sinistra indipendente chiede l'impeachment di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, per il reato di alto tradimento. 4. I fratelli Abbagnale vincono per la sesta volta i campionati mondiali di canottaggio. [p. 513] 12. Con una solenne cerimonia, Akihito è incoronato imperatore del Giappone. 17. Il Soviet supremo approva le riforme proposte da Michail Gorbaciov: l'Unione Sovietica diventerà una repubblica presidenziale sul modello americano. 22. Il primo ministro britannico Margaret Thatcher, al potere da 11 anni, rassegna le dimissioni; al suo posto viene eletto John Major. 25. Ciriaco de Mita viene riconfermato alla presidenza della Dc. 29. Crisi del Golfo: il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota una risoluzione che autorizza l'uso della forza contro l'Iraq se Saddam Hussein non ritirerà le truppe di occupazione dal Kuwait entro il 15 gennaio 1991. |Dicembre 1. Cambio della guardia nella segreteria di Stato del Vaticano: al cardinale Agostino Casaroli subentra l'arcivescovo Angelo Sodano. 2. Le prime elezioni politiche della Germania unita vedono la netta vittoria dei cristiano-democratici del cancelliere Helmut Kohl. 6. Un aereo militare si schianta su una scuola a Casalecchio di Reno, nei pressi di Bologna, causando la morte di 12 studenti. 9. Lech Walesa, il leader di Solidarno¬s¬c, è eletto presidente della Polonia con il 77 per cento dei voti. 19. Crisi politica nell'Unione Sovietica: si dimette il ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze, mentre si accentuano le tendenze secessioniste delle Repubbliche baltiche. 23. Dopo la Serbia e la Croazia, anche la Slovenia vota l'indipendenza dalla Federazione jugoslava. 1991 |Gennaio 2. La Commissione parlamentare sulle stragi indaga sui legami tra Gladio e il tentativo di colpo di Stato del generale De Lorenzo nel
1964. Scoppia in Somalia la guerra civile; violenti combattimenti oppongono le forze del presidente Siad Barre ai ribelli del Congresso dell'unità somala. 12. Il segretario generale dell'Onu Perez de Cuellar si reca a Baghdad per un ultimo tentativo diplomatico. 16. Aerei statunitensi e inglesi bombardano Baghdad e i centri nevralgici dell'Iraq. 17. La Casa Bianca conferma ufficialmente l'inizio delle operazioni militari nel Golfo Persico, finalizzate alla liberazione del Kuwait. In Italia, il Parlamento vota a favore della partecipazione alla guerra, nonostante l'opposizione delle sinistre e le manifestazioni di piazza dei pacifisti. Nella notte, l'Iraq risponde agli attacchi con il lancio di missili Scud su Tel Aviv e Haifa, in Israele. [p. 514] Helmut Kohl viene riconfermato cancelliere federale della Germania riunificata. 18. Un Tornado italiano in missione nel Golfo è abbattuto dalla contraerea irachena; il maggiore Gianmarco Bellini e il capitano Maurizio Cocciolone, dati per dispersi, vengono catturati dalle forze di Saddam Hussein. 23. La procura di Roma chiede al presidente del Consiglio Giulio Andreotti di eliminare ogni forma di segreto di Stato sul caso Gladio. Il Pentagono afferma di voler proseguire le incursioni aeree su Iraq e Kuwait prima di passare all'offensiva terrestre. 25. Per ostacolare un eventuale sbarco dei marines americani, Saddam Hussein danneggia alcune installazioni petrolifere sulle coste del Kuwait causando un'immensa fuoriuscita di greggio. 27. In Somalia, le forze ribelli sconfiggono le truppe del presidente Siad Barre, costretto a riparare in Kenia. 30. Guerra del Golfo: iniziano gli scontri terrestri; muoiono i primi soldati americani. |Febbraio 1. Il presidente sudafricano Frederik De Klerk annuncia ufficialmente che l'apartheid, il sistema di segregazione razziale in vigore da decenni, verrà abolita entro il mese di giugno. 3. Si conclude a Rimini il congresso del Pci, che si trasforma ufficialmente in Pds (Partito democratico della sinistra). 10. Circa 6000 ex comunisti che non aderiscono al Pds di Achille Occhetto danno vita a Rifondazione comunista, guidata da Sergio
Garavini e Armando Cossutta. 18. Costretto dall'ostilità dei suoi colleghi a lasciare Palermo, Giovanni Falcone viene chiamato dal ministro della Giustizia Claudio Martelli a dirigere a Roma l'Ufficio affari panali del ministero. Guerra del Golfo: Michail Gorbaciov presenta un piano di pace che prevede l'immediato ritiro dell'Iraq dal Kuwait, ma il presidente americano boccia la proposta. I paesi europei si dividono: Francia e Gran Bretagna appoggiano le decisioni della Casa Bianca, mentre Italia e Germania sostengono la proposta sovietica. 22. L'Iraq accetta di sottoscrivere il piano di pace sovietico, ma gli Stati Uniti impongono un nuovo ultimatum. 24. Parte l'offensiva terrestre contro l'Iraq sotto il comando del generale Norman Schwarzkopf; per ostacolare l'avanzata delle truppe nemiche, gli iracheni incendiano vari pozzi petroliferi. 25. I ministri degli Esteri e della Difesa dei 6 paesi aderenti al Patto di Varsavia votano lo scioglimento dell'Alto comando unificato. 27-28. George Bush annuncia la cessazione della guerra del Golfo: Saddam Hussein ha definitivamente capitolato, accettando le risoluzioni americane. [p. 515] |Marzo 3. Nuove ondate di profughi albanesi raggiungono le coste della Puglia; nel giro di pochi giorni sbarcano oltre 20.000 persone: le amministrazioni locali dichiarano lo stato di emergenza. 4-5. Liberati i due piloti italiani catturati dagli iracheni nel corso della guerra del Golfo. 14. Il Senato approva il decreto legge che impone alle famiglie dei rapiti il blocco totale dei beni. L'emiro kuwaitiano rientra dall'esilio. Nonostante il cessate-il-fuoco, la situazione nel Golfo Persico rimane difficile; in Iraq si prospetta il rischio di una guerra civile. 21. La Camera approva la legge sulla parità lavorativa tra uomo e donna. 25. Il film Balla coi lupi, diretto e interpretato da Kevin Costner, vince 7 Oscar. |Aprile 4. La Corte d'appello di Bologna assolve i neofascisti Mario Tuti e Luciano Franci dall'accusa di aver organizzato la strage del treno Italicus (1974). 5. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga incarica il
presidente del Consiglio uscente, Giulio Andreotti, di formare un nuovo governo. 9. La Georgia dichiara la propria indipendenza dall'Unione Sovietica. 11. Di fronte al porto di Livorno, il traghetto Moby Prince, dopo aver speronato una petroliera, s'incendia: 141 morti e un solo superstite. Nel golfo di Genova, la petroliera cipriota Haven esplode, provocando alcuni morti e riversando in mare parte del carico. 15. Il Partito repubblicano conferma la segreteria a Giorgio La Malfa. 20. Il settimo governo Andreotti ottiene la fiducia in Parlamento; viene varato un nuovo ministero, quello per l'Immigrazione. Il diciannovenne veronese Pietro Maso, con l'aiuto di tre coetanei, uccide a colpi di spranga il padre e la madre per appropriarsi dell'eredità. 24. Saddam Hussein concede l'autonomia al Kurdistan. 30. Sergio D'Antoni è il nuovo segretario della Cisl. |Maggio 1. Nell'enciclica Centesimus annus, il papa celebra il crollo dei regimi comunisti e denuncia le ingiustizie sociali del sistema capitalista. 20. Il Soviet supremo approva la legge che concede ai cittadini sovietici la piena libertà di espatriare e rimpatriare con il solo passaporto. 21. Viene assassinato presso Madras l'ex primo ministro indiano Rajiv Gandhi, leader del Partito del congresso. Scoppia in Etiopia la guerra civile: il dittatore Menghistu fugge da Addis Abeba; seguono sanguinosi scontri tra i ribelli e le forze governative. 22. Il presidente libanese Elias Hrawi e il presidente siriano Hafez el Assad firmano un trattato di cooperazione in base al quale la Siria riconosce lo Stato libanese. [p. 516] |Giugno 1. Gianni Agnelli, Giulio Andreotti, Francesco De Martino e Paolo Emilio Taviani sono nominati senatori a vita. 12. Continua l'afflusso di profughi albanesi sulle coste della Puglia; l'Italia stipula un accordo con l'Albania per limitare il fenomeno e agevolare il rimpatrio di molti albanesi.
Boris Eltsin viene eletto presidente della Repubblica russa. 16. Si apre a Firenze una conferenza mondiale sull'Aids. La situazione italiana è allarmante: il paese è al secondo posto nell'Europa occidentale per numero di malati. 20. Berlino diviene capitale della Germania unita. 25. Slovenia e Croazia si proclamano indipendenti dalla Federazione iugoslava; il governo di Belgrado mobilita l'esercito. 27. In Jugoslavia scoppia la guerra civile: si combatte in Slovenia e in Croazia. L'Italia prende posizione contro il governo federale di Belgrado. |Luglio 1. In Algeria scoppia la guerra civile: vengono arrestati 2500 integralisti islamici. 2. Guerra civile in Jugoslavia: il capo di stato maggiore federale dichiara guerra alla Slovenia, mentre in Croazia l'esercito federale spara sui civili. 3. La Cee propone il blocco degli aiuti economici al governo di Belgrado. 31. La Cee accetta la richiesta di adesione avanzata dall'Austria. Il presidente degli Stati Uniti George Bush e il presidente dell'Unione Sovietica Michail Gorbaciov firmano uno storico trattato per la riduzione degli armamenti nucleari. |Agosto 1. In Croazia le truppe serbe si rendono responsabili di numerosi massacri. 2. Nello Sri Lanka muoiono circa 2000 persone nella più sanguinosa battaglia della guerra civile che oppone da anni i guerriglieri tamil alle forze governative. 9. In un agguato mafioso, viene ucciso a Reggio Calabria il giudice Antonio Scopelliti. 19. Golpe a Mosca: Michail Gorbaciov viene deposto da alcuni esponenti del Pcus e del Kgb, che decretano lo stato d'emergenza. La popolazione sfida i carri armati dei golpisti e il presidente russo Boris Eltsin guida la resistenza. 21. A Mosca i golpisti sono costretti alla fuga. 26. Guerra in Jugoslavia: numerosi combattimenti insanguinano Vukovar, nella Slavonia orientale, la Dalmazia e il confine con la Bosnia-Erzegovina. 27. La Cee riconosce la sovranità di Estonia, Lettonia e Lituania;
nel frattempo la Moldavia proclama la sua indipendenza dall'Unione Sovietica. 29. Viene ucciso a Palermo l'imprenditore Libero Grassi, simbolo della protesta contro il racket mafioso dei taglieggiatori. [p. 517] 30-31. L'Azerbaigian, l'Uzbekistan e il Kirghizistan dichiarano la loro indipendenza dall'Unione Sovietica. |Settembre 7. Storico cambio di nome: Leningrado torna a essere San Pietroburgo. 11. Michail Gorbaciov annuncia la fine degli aiuti economici al governo castrista di Cuba. 17. Viene riabilitato in Unione Sovietica lo scrittore dissidente Aleksandr Sol"zenicyn. Estonia, Lettonia e Lituania entrano a far parte dell'Onu. |Ottobre 1. Il presidente del Consiglio Giulio Andreotti presenta la manovra economica varata dal governo, che prevede la parziale privatizzazione degli enti pubblici, il pagamento di un nuovo ticket sui medicinali e il blocco degli stipendi dei pubblici dipendenti. Golpe militare ad Haiti; il presidente Jean Bertrand Aristide è costretto a fuggire. 3. Golpe della Serbia nel parlamento federale jugoslavo, che sancisce la fine della Confederazione. La città di Dubrovnik, patrimonio mondiale dell'umanità, è gravemente bombardata. 14. Il premio Nobel per la pace è assegnato a Aung San Suu Kyi, leader dell'opposizione alla dittatura militare birmana, agli arresti domiciliari da più di 2 anni. 15. A Mosca, con la mediazione di Michail Gorbaciov, il presidente serbo Slobodan Milo¬sevi¬c e quello croato Franjo Tudjman sottoscrivono una tregua, che tuttavia non viene rispettata. 17. La Nato decide la riduzione dell'80 per cento degli arsenali nucleari in Europa. 25. Il Consiglio dei ministri approva una serie di provvedimenti antimafia, tra cui la costituzione della Dna (Direzione nazionale antimafia) e della Dia (Direzione investigativa antimafia). 27. Il teatro Petruzzelli di Bari è distrutto da un incendio le cui cause rimangono misteriose. 30. Si apre a Madrid la Conferenza di pace per il Medio Oriente a cui prendono parte Stati Uniti, Unione Sovietica, una rappresentanza
della Cee e varie delegazioni mediorientali; si avviano nuove trattative diplomatiche tra israeliani e palestinesi. |Novembre 9. Scoppiano alcuni disordini in Cecenia (Unione Sovietica), dove si moltiplicano le manifestazioni antirusse. 16. Si aggrava la guerra tra serbi e croati: Vukovar cade in mano ai serbi e proseguono i massicci bombardamenti su Dubrovnik. Si sospettano massacri a danno della popolazione civile. [p. 518] 19. Si chiude dopo 10 anni l'inchiesta sulla loggia massonica P2 con 16 rinvii a giudizio per cospirazione politica e attentato contro la Costituzione. |Dicembre 3. Viene eletto a New York il nuovo segretario generale dell'Onu, l'egiziano Butros Butros-Ghali. 8. A Minsk, i presidenti di Russia, Bielorussia e Ucraina sottoscrivono un trattato per la creazione di una Comunità di Stati indipendenti (Csi); il Parlamento sovietico abolisce il trattato che nel 1922 aveva fatto nascere l'Unione Sovietica. 9. Ha inizio a Maastricht il vertice dei 12 paesi della Cee; si decide la moneta unica europea, l'istituzione di una Banca centrale e la creazione di una "cittadinanza europea". 13. Viene arrestato in Sicilia il boss mafioso Salvatore Madonia, accusato dell'omicidio del capo della squadra mobile di Palermo, Ninni Cassarà. 20. I presidenti di 11 delle 15 Repubbliche dell'ex Unione Sovietica aderiscono alla Csi, da cui rimangono escluse le tre Repubbliche baltiche e la Georgia. 26. Si tengono in Algeria le prime elezioni politiche libere, vinte dal Fronte di salvezza islamico. 31. L'inviato speciale dell'Onu, Cyrus Vance, inizia la quinta missione di pace in Jugoslavia, dove la guerra prosegue nonostante le trattative. 1992 |Gennaio 1. In Salvador, un piano di pace pone fine alla guerra civile che in 7 anni ha causato più di 75.000 morti. 7. Un elicottero della Cee viene abbattuto dai serbi: muoiono 4 italiani e 1 francese. L'ambasciatore italiano a Belgrado rientra in
patria per protesta. 15. L'Anonima sarda rapisce a Porto Cervo un bambino di 7 anni, Farouk Kassam. La Cee riconosce la Slovenia e la Croazia come Stati indipendenti. 17. L'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, viene condannato a 10 anni di reclusione per associazione mafiosa. 21. L'Onu vota una risoluzione che impone a Muammar Gheddafi di estradare i due cittadini libici accusati della strage di Lockerbie. 29. A conclusione dell'inchiesta su Gladio, il presidente della Commissione stragi, Libero Gualtieri, ne sottolinea il carattere illegittimo e il ruolo chiave nella strategia della tensione. |Febbraio 3. Il procuratore della Repubblica di Roma, Ugo Giudiceandrea, firma la richiesta di archiviazione dell'inchiesta su Gladio. 17. Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, viene arrestato a [p. 519] Milano con l'accusa di concussione: si apre l'inchiesta sul sistema delle tangenti. 19. Walter Pedullà subentra a Enrico Manca come presidente della Rai. 23. Si chiudono le Olimpiadi invernali di Albertville; Alberto Tomba vince l'oro nello slalom e l'argento nello speciale, Deborah Compagnoni e Stefania Belmondo conquistano l'oro rispettivamente nel supergigante e nella 30 km di fondo. 29. Si conclude a Verona il processo a Pietro Maso, condannato a 30 anni di reclusione per aver massacrato i propri genitori. |Marzo 2. La Bosnia-Erzegovina vota a larga maggioranza la propria indipendenza da Belgrado; la minoranza serba contesta le elezioni e scoppiano numerosi scontri a Sarajevo. 6. Scoppia la guerra civile in Azerbaigian. 8. Muore a Tel Aviv Menachem Begin, uno dei fondatori dello Stato di Israele. 12. Viene ucciso a Mondello Salvo Lima, esponente di spicco della Dc siciliana, ex sindaco di Palermo, già sospettato di collusioni mafiose. 14. I caschi blu dell'Onu entrano in Bosnia, dove gli scontri si trasformano ben presto in aperto conflitto; l'artiglieria serba bombarda numerose città bosniache. 30. Il film Il silenzio degli innocenti vince 5 Oscar e
Mediterraneo, del regista italiano Gabriele Salvatores, ottiene la statuetta come miglior film straniero. |Aprile 5. Infuria la guerra in Bosnia; Sarajevo viene pesantemente colpita dai serbi. 7. Vengono resi noti i risultati delle elezioni politiche italiane: la maggiore novità è costituita dal successo della Lega lombarda, che ottiene il 9 per cento dei voti. 9. I conservatori inglesi di John Major vincono le elezioni per la quarta volta consecutiva e mantengono la maggioranza alla Camera dei Comuni. Si conclude a Miami, in Florida, il processo contro l'ex dittatore di Panama, Manuel Noriega, riconosciuto colpevole di traffico di stupefacenti e riciclaggio di narcodollari. 15. Scatta l'embargo contro la Libia deciso dall'Onu. 16. Il tribunale di Milano emette la sentenza definitiva sulla vicenda del crac del Banco Ambrosiano: 33 condanne, tra cui quelle di Carlo De Benedetti e Giuseppe Ciarrapico, e nessuna assoluzione. Il presidente afgano Mohammed Najibullah viene destituito da alcuni militari, vicini politicamente ai mujaheddin, gli integralisti islamici che per anni hanno combattuto il governo filosovietico di Kabul. 24. In seguito alle rivelazioni di Mario Chiesa, si allarga a Milano lo scandalo sulle tangenti: decine di imprenditori dichiarano al sostituto [p. 520] procuratore Antonio Di Pietro di aver versato numerose tangenti a esponenti di vari partiti. Prende così l'avvio Tangentopoli. 25. Il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, rassegna le dimissioni. 27. La Russia entra a far parte del Fondo monetario internazionale. 30. Scoppia a Los Angeles una violenta rivolta nera: il bilancio è di 44 morti e 2000 feriti. |Maggio 1. Si allarga Tangentopoli: i sostituti procuratori Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo emettono una serie di avvisi di garanzia contro gli ex sindaci milanesi, i socialisti Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. Ben presto lo scandalo coinvolge anche esponenti di altri partiti, come la Dc e il Pds. 2. Sarajevo è in fiamme in seguito ai pesanti bombardamenti serbi.
4. Gli integralisti islamici afgani bombardano Kabul. 6. Muore a Parigi l'attrice Marlene Dietrich. 8. In seguito agli scandali di Tangentopoli, la giunta regionale della Lombardia è costretta a dimettersi. 18. Secondo l'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, sono oltre 600.000 i profughi bosniaci costretti all'esodo dalla "pulizia etnica" messa in atto dai serbi. 23. In un attentato mafioso, vengono assassinati a Capaci il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e 3 agenti della scorta. 25. Viene eletto presidente della Repubblica italiana l'onorevole Oscar Luigi Scalfaro. 30. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu vara l'embargo totale ai danni della Serbia e del Montenegro (la nuova Federazione jugoslava) e ne decreta l'esclusione da qualsiasi competizione sportiva internazionale, ma la risoluzione non arresta la guerra. |Giugno 10. Le milizie serbe che assediano Sarajevo attaccano un convoglio di caschi blu dell'Onu. A Belgrado, migliaia di studenti manifestano contro il presidente Slobodan Milo¬sevi¬c. 16. Il presidente degli Stati Uniti, George Bush, e il presidente della Russia, Boris Eltsin, sottoscrivono un accordo per la riduzione dei rispettivi arsenali atomici. 18. Oscar Luigi Scalfaro incarica l'onorevole Giuliano Amato, socialista, di formare il nuovo governo. 23. Le elezioni politiche in Israele vedono la sconfitta del Likud, il partito del primo ministro Yitzhak Shamir, e la vittoria dei laburisti di Yitzhak Rabin. 26. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu invia un ultimatum alla Serbia. 27. Un'imponente manifestazione ricorda a Palermo la lotta alla mafia combattuta dal giudice Giovanni Falcone. [p. 521] 29. Viene ucciso in un attentato il presidente dell'Algeria, Mohamed Boudiaf. |Luglio 10. La manovra finanziaria decisa dal Consiglio dei ministri stabilisce la privatizzazione di Iri, Eni, Enel e Ina. 11. Viene liberato il piccolo Farouk Kassam; voci non confermate sostengono che la liberazione sia avvenuta con la mediazione dell'ex
bandito Graziano Mesina. 16. Emesso un ordine di cattura per il costruttore e finanziere Salvatore Ligresti, accusato di corruzione. 19. Nuovo agguato di mafia: a Palermo, in via D'Amelio, vengono assassinati il giudice Paolo Borsellino e 5 agenti della sua scorta. 25. Iniziano le XXV Olimpiadi di Barcellona; il Sudafrica viene riammesso ai giochi dopo 32 anni. 26. La mafia uccide ancora: a Catania viene assassinato Giovanni Lizzio, ispettore di polizia. 31. Di comune accordo, governo e sindacati liquidano la "scala mobile". Parte da Cape Canaveral (Florida) la navetta Atlantis; tra i membri dell'equipaggio c'è l'italiano Franco Malerba. |Agosto 2. La Croce rossa internazionale denuncia l'esistenza in Bosnia di campi di concentramento serbi. 6. Una missione Onu giunge in Somalia; prendono il via anche i primi soccorsi dell'Unicef, di Medici senza frontiere e della Croce rossa internazionale: sembra che più di 350.000 bambini siano morti dall'inizio della guerra civile. 10. Giuseppe De Gennaro viene designato alla direzione della Superprocura antimafia. 25. Il governo italiano autorizza una missione umanitaria di soldati in Bosnia. 31. Viene arrestato a Gioia Tauro uno dei più potenti boss della 'ndrangheta calabrese, Saro Mammoliti. |Settembre 2. Il deputato socialista Sergio Moroni si suicida a Brescia: era indagato per corruzione nell'ambito dell'inchiesta denominata "Mani pulite" condotta dalla procura di Milano. 6. Il latitante Giuseppe Madonia, numero due della mafia dopo Totò Riina, viene catturato dalla polizia nei pressi di Vicenza. Gianni Bugno vince per la seconda volta consecutiva il titolo di campione mondiale di ciclismo su strada. 9. Il democristiano Ciriaco de Mita viene eletto alla presidenza della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. 11. Viene catturato in provincia di Napoli Carmine Alfieri, re della camorra ed erede di Raffaele Cutolo. [p. 522] 12. A Lima viene catturato dalla polizia Abimael Guzman,
il leader di Sendero luminoso. 16. La federazione composta da Serbia e Montenegro viene espulsa dall'Onu; potrà essere riammessa solo dopo aver dato inizio alle trattative di pace con la Bosnia. A causa della continua ascesa del marco, la Gran Bretagna decide di far uscire la sterlina dallo Sme. 22. Il Csm apre un'indagine sul presidente della prima sezione penale della Corte di cassazione, Corrado Carnevale, responsabile dell'annullamento di numerose sentenze contro mafiosi e camorristi. |Ottobre 6. Viene istituita all'Onu una commissione incaricata di indagare sui crimini di guerra commessi nell'ex Jugoslavia; nel frattempo, il conflitto in Bosnia non accenna a placarsi. 8. Muore a Bonn Willy Brandt, ex cancelliere tedesco e leader dei socialdemocratici. 11. Si apre presso la Corte d'assise di Roma il processo contro la loggia massonica P2; sono imputati, tra gli altri, Licio Gelli e Umberto Ortolani. 16. Il premio Nobel per la pace viene assegnato alla guatemalteca Rigoberta Menchù. 21. I pentiti Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo svelano le collusioni tra mafia e politica dietro l'omicidio di Salvo Lima. 23. La Corte di cassazione annulla la sentenza di condanna emessa contro Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. 27. Rosa Russo Jervolino viene eletta presidente della Dc. 29. I carabinieri sequestrano alcuni archivi nell'ufficio del ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, sospettando la concessione di favori in cambio di voti. Il Csm nomina Bruno Siclari alla Superprocura della Direzione nazionale antimafia. |Novembre 1. In relazione all'inchiesta sulle logge massoniche deviate, il procuratore della Repubblica di Palmi Agostino Cordova emette centinaia di avvisi di garanzia contro personaggi di rilievo del mondo politico e giornalistico, sospettati di associazione a delinquere. 3. Elezioni presidenziali negli Stati Uniti: il presidente uscente, il repubblicano George Bush, viene sconfitto dal candidato
democratico Bill Clinton, ex governatore dell'Arkansas. 5. Dopo Grecia, Italia, Lussemburgo, Francia e Irlanda, anche il Belgio ratifica il Trattato di Maastricht, bocciato invece dalla Danimarca. 7. Muore Alexander Dub¬cek, storico leader della Primavera di Praga. 10. Serbi, croati e bosniaci sottoscrivono una tregua per il cessate-il-fuoco in Bosnia. [p. 523] 16. Tommaso Buscetta, superpentito di Cosa Nostra, depone davanti alla Commissione nazionale antimafia sostenendo fra l'altro che l'omicidio del generale Dalla Chiesa è stato voluto dallo Stato. 28. L'ex presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, Mario Chiesa, è condannato a 6 anni di carcere. |Dicembre 1. La Commissione bicamerale per le riforme approva il progetto di una nuova legge elettorale a sistema misto, con una quota di maggioritario e una di proporzionale. 2. Il sostituto procuratore di Palermo, Domenico Signorino, si suicida in seguito alle rivelazioni di un pentito che lo accusa ingiustamente di collusione con la mafia. 6. In Svizzera i cittadini bocciano con un referendum la proposta di ingresso nella Cee. 8. Sbarcano in Somalia i marines della missione Onu "Restore Hope". 10. La Camera concede l'autorizzazione a procedere contro l'ex ministro degli Esteri Gianni De Michelis, accusato di concorso in corruzione. Parte per la Somalia il primo contingente italiano. 13. Clamorosi risultati alle elezioni italiane per il rinnovo dei consigli comunali: la Lega di Umberto Bossi è il secondo partito italiano. 15. I giudici milanesi di Mani pulite inviano un avviso di garanzia a Bettino Craxi, segretario del Psi, per corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. 17. Il giudice Giancarlo Caselli è nominato dal Csm capo della procura della Repubblica di Palermo. 24. Bruno Contrada, ex funzionario dei Servizi segreti, viene arrestato con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Partono per unirsi alla missione Onu in Somalia anche i paracadutisti della Folgore; nuovi scontri tra i soldati Onu e le
bande di ribelli locali. 1993 Gennaio 1. Vengono eliminate le barriere doganali tra i paesi della Cee. La Cecoslovacchia si divide pacificamente in due Stati sovrani: la Repubblica ceca, con capitale Praga, e la Repubblica slovacca, con capitale Bratislava. 2. Si apre a Ginevra la Conferenza di pace sull'ex Jugoslavia; i negoziati falliscono e l'artiglieria serba continua a bombardare Sarajevo. 5. Una petroliera liberiana perde 85.000 tonnellate di greggio al largo delle isole Shetland: è uno dei più gravi disastri ecologici degli ultimi anni. 13. In seguito ad alcuni raid delle forze irachene in territorio kuwaitiano, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia lanciano il primo attacco aereo [p. 524] contro le basi missilistiche di Saddam Hussein; le missioni militari degli occidentali proseguiranno nei giorni successivi. 15. I carabinieri catturano a Palermo il superlatitante Totò Riina, considerato il numero uno della mafia, già condannato all'ergastolo e imputato di numerosi omicidi. 16. Pietro Pacciani, un contadino di Mercatale, viene arrestato con l'accusa di aver compiuto gli otto duplici omicidi del cosiddetto "mostro di Firenze". 20. La procura di Roma apre un'inchiesta su Enimont, la società nata dall'accordo tra Eni e Montedison. 26. Vàclav Havel viene eletto primo presidente della Repubblica ceca. 28. Approvata dalla Camera la legge che prevede l'elezione diretta del sindaco nei comuni italiani con più di 10.000 abitanti. 29. In relazione all'inchiesta Mani pulite, i giudici della procura di Milano emettono 6 nuovi avvisi di garanzia contro i socialisti Bettino Craxi, Gianni De Michelis e Paris Dell'Unto e i democristiani Severino Citaristi, Bruno Tabacci e Giorgio Moschetti. |Febbraio 2. Secondo un rapporto presentato al Consiglio dei ministri degli Esteri della Cee, circa 20.000 donne bosniache musulmane sarebbero state stuprate dai serbi. 3. Il papa parte per il decimo viaggio pastorale: sarà in Benin,
Uganda e Sudan. 7. Rientra in Italia il socialista Silvano Larini, latitante da un anno e inseguito da un ordine di cattura per corruzione e concussione. Nuovi avvisi di garanzia colpiscono il democristiano Vittorio Sbardella e il repubblicano Antonio Del Pennino. 10. Il democristiano Severino Citaristi riceve il nono avviso di garanzia; Bettino Craxi, che riceve il sesto, si dimette dalla segreteria del Psi. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli si dimette dopo aver appreso che i giudici milanesi gli hanno inviato un avviso di garanzia. 11. Il pubblico ministero dell'inchiesta Mani pulite Antonio Di Pietro chiede una via d'uscita politica agli scandali di Tangentopoli. 13. Paolo Cirino Pomicino, ex ministro del Bilancio ed esponente di spicco della Dc, riceve un avviso di garanzia in relazione allo scandalo del porto di Manfredonia. 17. Il Parlamento concede l'autorizzazione a procedere contro il ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, nei cui confronti la magistratura di Napoli ha ipotizzato il reato di "voto di scambio". 19. In seguito agli scandali e alle accuse, si dimettono il ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, e il ministro delle Finanze, Giovanni Goria. 21. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu vota a maggioranza l'istituzione di un tribunale internazionale per giudicare i crimini di guerra compiuti nell'ex Jugoslavia. 25. Giorgio La Malfa si dimette dalla segreteria del Pri dopo aver [p. 525] ricevuto un avviso di garanzia per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. 26. Raul Gardini, ex presidente della Montedison, riceve un avviso di garanzia dai giudici milanesi che indagano sul caso Enimont. |Marzo 1. I magistrati milanesi arrestano Primo Greganti, al quale sarebbe intestato il conto segreto dell'ex Pci in una banca svizzera. 8. Sette ospiti della comunità di San Patrignano sono arrestati con l'accusa di aver ucciso il compagno Roberto Maranzano. 9. Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni, viene arrestato con l'accusa di corruzione aggravata. 16. Guerra in Bosnia: la città musulmana di Srebrenica è ridotta allo stremo dopo 11 mesi di assedio da parte dei serbi; l'Onu cerca
di inviare aiuti. 17. I magistrati romani emettono 6 ordini di custodia cautelare in relazione allo scandalo Safim-Italsanità; vengono colpiti anche Mauro Leone, figlio dell'ex presidente della Repubblica, e Giuseppe Ciarrapico, presidente della Roma Calcio. 18. Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità di San Patrignano, riceve un avviso di garanzia per favoreggiamento. 20. Il presidente russo Boris Eltsin, in seguito a un duro braccio di ferro con il Parlamento, decide di assumere poteri speciali. 21. Il ministro dell'Agricoltura, Gianni Fontana, si dimette dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per ricettazione continuata e violazione della legge sul finanziamento dei partiti. In Francia, il centro-destra vince il primo turno delle elezioni legislative. 22. Si allarga lo scandalo delle "lenzuola d'oro" e delle commesse legate alle Fs; un avviso di garanzia colpisce l'ex ministro socialista Claudio Signorile. 24. Il laburista Ezer Weizman è eletto presidente di Israele; si riapre il dialogo con l'Olp. 27. Viene raggiunto da un avviso di garanzia l'ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti; il reato ipotizzato è associazione di stampo mafioso. 28. Cinque avvisi di garanzia per associazione a delinquere di stampo camorristico emessi dalla magistratura napoletana raggiungono i democristiani Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino, Alfredo Vito e Vincenzo Meo e un deputato socialista, Raffaele Mastrantuono. 29. Federico Fellini è premiato a Los Angeles con un Oscar alla carriera. 30. Nel corso dell'indagine sulle tangenti Eni, la procura milanese emette un avviso di garanzia contro Francesco Reviglio, ministro socialista delle Finanze. |Aprile 2. Viene concesso il regime di semilibertà a Renato Curcio, leader storico delle Brigate rosse. 5. Un avviso di garanzia per ricettazione e violazione della legge sul finanziamento dei partiti raggiunge l'ex segretario Dc Arnaldo Forlani. [p. 526] 7. La procura milanese emette un mandato di custodia cautelare per Giorgio Garuzzo, direttore generale della Fiat Auto per il coinvolgimento in un giro di tangenti pagate a Dc e Psi.
La Macedonia entra a far parte dell'Onu. 9. I pentiti di mafia Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, interrogati dal procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, lanciano pesanti accuse contro Giulio Andreotti, che sarebbe anche implicato nell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli. 14. Il presidente egiziano Hosni Mubarak e il premier israeliano Yitzhak Rabin riprendono i negoziati di pace nel Medio Oriente. 16. I serbi conquistano la città musulmana di Srebrenica. 18. Gli italiani votano per 8 referendum, esprimendo parere favorevole sull'abolizione della legge per il finanziamento pubblico dei partiti, sull'abolizione del carcere per i tossicodipendenti, sulla soppressione di 3 ministeri (Turismo e spettacolo, Partecipazioni statali, Agricoltura) e sulle modifiche alla legge elettorale del Senato il cui sistema diviene maggioritario. 19. Si conclude in tragedia l'assedio della polizia alla fattoria di Waco (Texas) in cui da due mesi sono asserragliati i membri di una fanatica setta religiosa: 87 persone si suicidano. 21. La procura catanese emette un avviso di garanzia contro il ministro della Difesa, il socialista Salvo Andò, per il reato di "voto di scambio". 25. Il 99 per cento degli eritrei si pronuncia favorevole all'indipendenza dall'Etiopia. Due giorni più tardi, l'Italia è il primo paese a riconoscere il nuovo Stato africano. 26. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro incarica il governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi, di formare il governo; nel nuovo esecutivo entrano per la prima volta Verdi e Pds. Ne usciranno subito, dopo che un voto a sorpresa nega l'autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi. 27. Scattano le nuove sanzioni imposte dall'Onu alla Federazione serbo-montenegrina; in risposta, le truppe di Slobodan Milo¬sevi¬c lanciano un massiccio attacco contro l'enclave musulmana di Bihac. |Maggio 4. Antonio Fazio è il nuovo governatore della Banca d'Italia. Il Psi approva la proposta del segretario Giorgio Benvenuto di sospendere dagli incarichi di partito tutti gli esponenti inquisiti. 5. La Camera decide l'abolizione del voto segreto nelle concessioni delle autorizzazioni a procedere. 11. 240 tra donne e bambine muoiono nel rogo di una fabbrica di bambole presso Bangkok; le spaventose condizioni di lavoro e la mancanza di uscite di sicurezza sono le cause della tragedia.
12. I giudici milanesi arrestano il presidente dell'Iri Franco Nobili con l'accusa di corruzione e violazione della legge sul finanziamento dei partiti. 14. Esplode un'autobomba nel quartiere Parioli di Roma; obiettivo dell'attentato è il giornalista Maurizio Costanzo. [p. 527] 15. Romano Prodi è il nuovo presidente dell'Iri. 16. Il presidente dell'Olivetti, Carlo De Benedetti, ammette il pagamento di tangenti ai partiti. 18. Arrestato in Sicilia il superlatitante Nitto Santapaola, uno dei più importanti boss mafiosi, già condannato all'ergastolo. Con un nuovo referendum la Danimarca accetta il Trattato di Maastricht. 19. Il sindaco pidiessino di Genova, Claudio Burlando, finisce agli arresti per truffa ai danni del comune e abuso in atti d'ufficio. 20. La Camera dei Comuni britannica ratifica il Trattato di Maastricht. 21-22. I magistrati milanesi inviano un avviso di garanzia all'ex ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì e all'ex segretario del Pri Giorgio La Malfa per violazione della legge sul finanziamento ai partiti. 25. La magistratura napoletana invia un avviso di garanzia al democristiano Ciriaco De Mita e al direttore della Protezione civile Elveno Pastorelli per concussione aggravata. 27. Attentato terroristico mafioso a Firenze: esplode un'autobomba in via dei Georgofili; 5 vittime e gravi danni alla Galleria degli Uffizi. 29. Cinque donne turche perdono la vita in un incendio a Solingen (Germania); per gli inquirenti si tratta di un'aggressione razzista. |Giugno 2. Arrestato in Sicilia il latitante Giuseppe Pulvirenti, appartenente al clan mafioso di Nitto Santapaola. 4. Guerra in Bosnia: il Consiglio di sicurezza dell'Onu approva l'invio di altri 10.000 caschi blu per difendere le aree musulmane. 5. 23 soldati del contingente di pace Onu vengono uccisi in Somalia dai ribelli del generale Mohammed Farah Aidid. 7. La magistratura milanese fa arrestare a Roma il democristiano Clelio Darida, ex sindaco di Roma ed ex ministro della Giustizia, accusato di corruzione. 9. La procura della Repubblica di Roma accusa Giulio Andreotti di essere il mandante dell'assassinio di Mino Pecorelli.
Un servizio fotografico pubblicato da "Epoca" testimonia atti brutali compiuti in Somalia dai soldati italiani: i militari respingono ogni accusa. 15. La grave crisi finanziaria della Ferruzzi provoca il crollo in Borsa di tutti i titoli del gruppo (Montedison, Ferfin, Fondiaria). 16. Guerra in Somalia: dopo ripetuti raid americani su obiettivi strategici, le truppe dell'Onu iniziano la caccia al generale Aidid, "il signore della guerra" accusato di crimini contro l'umanità. 24. Esponenti del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan che da anni si batte per l'indipendenza dal governo di Ankara, attaccano le ambasciate turche di 5 paesi europei. 26. Gli Stati Uniti lanciano un nuovo attacco missilistico contro Baghdad. 28. I periti di parte civile che indagano sulla strage di Ustica concludono che il DC9 dell'Itavia venne colpito da due missili. 30. Il presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi emana una direttiva che prevede la privatizzazione di Enel, Agip, Stet, Credit, Comit e Ina. [p. 528] |Luglio 2. A Mogadiscio (Somalia) i miliziani del generale Aidid attaccano un convoglio di soldati italiani: 3 morti e 22 feriti. 13. Viene arrestato a Ginevra, dopo 7 mesi di latitanza, Giuseppe Garofano, ex presidente della Montedison ed ex amministratore delegato della Ferruzzi Finanziaria, accusato di violazione della legge sul finanziamento ai partiti, appropriazione indebita e falso in bilancio. Claudio Demattè è il nuovo presidente della Rai. 20. Gabriele Cagliari, ex presidente dell'Eni, si suicida nel carcere di San Vittore dove era detenuto con l'accusa di violazione della legge sul finanziamento ai partiti. 23. Raul Gardini, a capo dell'impero Ferruzzi, si suicida nella propria abitazione di Milano in seguito alle rivelazioni di Giuseppe Garofano. I magistrati milanesi che indagano sulle tangenti pagate dal gruppo Ferruzzi all'atto della rottura tra Eni e Montedison, emettono un ordine di custodia cautelare per Carlo Sama, ex amministratore delegato della Montedison, e per il finanziere socialista Sergio Cusani. Gianni Locatelli, direttore del "Sole-24 Ore", è il nuovo direttore generale della Rai. Dopo una lunga battaglia parlamentare, anche la Gran Bretagna
ratifica il Trattato di Maastricht. 29. In seguito alle rivelazioni di Giuseppe Garofano e Carlo Sama, i magistrati milanesi impegnati nell'inchiesta Enimont emettono 8 avvisi di garanzia a carico di Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Paolo Cirino Pomicino, Claudio Martelli, Severino Citaristi, Giorgio La Malfa, Renato Altissimo e Carlo Vizzini. |Agosto 3. Storica fine in Italia del sistema proporzionale: il Senato approva la nuova legge elettorale basata sul sistema maggioritario. 9. Il papa inizia un nuovo viaggio pastorale che lo condurrà in Giamaica, in Messico e negli Stati Uniti. 11. Il venticinquenne Luigi Chiatti confessa di essere l'autore dei delitti di Simone Allegretti, ucciso il 4 ottobre 1992, e di Lorenzo Paolucci, assassinato il 7 agosto 1993. |Settembre 11. Si allarga la guerra nell'ex Jugoslavia: l'artiglieria di Slobodan Milo¬sevi¬c lancia missili su Zagabria e scoppiano violenti combattimenti in Krajina, regione contesa da serbi e croati. 13. A Washington, israeliani e palestinesi firmano la Dichiarazione di principi con la quale si avvia definitivamente il processo di pace in Medio Oriente. 15. La mafia uccide don Giuseppe Puglisi, parroco di una borgata palermitana da anni impegnato contro la malavita. [p. 529] 21. Storico incontro nella residenza di Castel Gandolfo: Giovanni Paolo II accoglie Meir Lau, rabbino capo d'Israele. 30. Durante una perquisizione nella villa di Duilio Poggiolini, ex direttore generale del Servizio sanitario nazionale, coinvolto nello scandalo sulle tangenti pagate dalle aziende farmaceutiche ai politici, le forze dell'ordine scoprono un tesoro in lingotti, monete d'oro, gioielli e diamanti stimato 200 miliardi di lire. |Ottobre La Georgia entra a far parte della Comunità di Stati indipendenti (Csi). La Germania ratifica il Trattato di Maastricht. Donatella Di Rosa denuncia ai magistrati di Firenze un progetto golpista, chiamando in causa il generale Franco Monticone, il generale Biagio Rizzo e l'ex terrorista nero Gianni Nardi, ufficialmente morto nel 1976. Contro i due generali scatta una serie
di provvedimenti disciplinari. 15. Il premio Nobel per la pace viene assegnato a Nelson Mandela, storico leader dell'Anc, e a Frederik De Klerk, presidente della Repubblica sudafricana, artefici dell'abolizione dell'apartheid. 21. L'ex brigatista rossa Adriana Faranda rivela al pubblico ministero che conduce l'istruttoria sul caso Moro che non fu Prospero Gallinari ma Germano Maccari, già sospettato di essere il "quarto uomo" del covo di via Fani, a uccidere lo statista. 28. Viene approvata in Senato la riforma dell'immunità parlamentare, in base alla quale i magistrati potranno indagare su deputati e senatori senza previa autorizzazione delle Camere. 29. La procura di Roma ordina l'arresto di Riccardo Malpica, ex direttore del Sisde, nell'ambito dell'indagine sui fondi neri dei Servizi segreti. 31. Muore a Roma il regista Federico Fellini. |Novembre 7. Nasce ufficialmente il Patto di rinascita nazionale di Mario Segni, ex-parlamentare democristiano. 11. In seguito alle dichiarazioni di un pentito, la procura di Caltanissetta emette 18 ordini di cattura per i responsabili della strage di Capaci, il cui comandante è il boss Totò Riina. 17. In relazione all'inchiesta sulla maxitangente Enimont, la magistratura milanese chiede la custodia cautelare per Sergio Cragnotti, presidente della Lazio ed ex braccio destro di Raul Gardini. 22. Terminano i lavori di restauro del Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina. |Dicembre 2. I carabinieri arrestano a Montecarlo il latitante Maurizio Broccoletti, ex direttore amministrativo del Sisde. 5. Vincono il ballottaggio finale per l'elezione a sindaco: Francesco [p. 530] Rutelli a Roma, Antonio Bassolino a Napoli, Massimo Cacciari a Venezia e Riccardo Illy a Trieste; la Lega festeggia la vittoria in alcuni centri del Nord. 7. La magistratura milanese fa arrestare Alessandro Patelli, segretario organizzativo ed ex amministratore della Lega, con l'accusa di aver intascato una tangente dal gruppo Ferruzzi. 15. Il sostituto procuratore di Milano Tiziana Parenti abbandona il Pool di Mani pulite dopo numerosi contrasti con i colleghi.
20. Il Partito socialista di Slobodan Milo¬sevi¬c si conferma alle elezioni il primo partito della Serbia. 29. Presso Verona, un masso lanciato da un cavalcavia dell'autostrada sfonda il tettuccio di un'auto e uccide la venticinquenne Monica Zanotti. 30. A Gerusalemme, la Santa Sede e Israele sottoscrivono un documento con cui si riconoscono ufficialmente come Stati sovrani. 1994 |Gennaio 1. Nello Stato messicano del Chiapas numerosi scontri oppongono le forze dell'ordine agli indios in rivolta, appartenenti all'Esercito di liberazione nazionale Emiliano Zapata guidato dal subcomandante Marcos. 5. Il segretario della Dc, Mino Martinazzoli, dà vita a una nuova formazione politica, il Partito popolare, mentre alcuni esponenti democristiani come Pierferdinando Casini, Ombretta Fumagalli Carulli e Clemente Mastella battezzano il neonato Centro cristiano democratico. 11. Indro Montanelli, direttore del "Giornale", rassegna le dimissioni per insanabili divergenze con l'editore Silvio Berlusconi. 22. Il segretario dell'Msi, Gianfranco Fini, annuncia ufficialmente la nascita di Alleanza nazionale, una nuova formazione politica di destra. 26. Silvio Berlusconi annuncia ufficialmente la propria candidatura politica e la nascita di Forza Italia, la nuova formazione attorno a cui ruoterà il Polo delle libertà. |Febbraio 3. Ancora una strage di civili a Sarajevo: 66 persone muoiono per un colpo di obice sparato sulla piazza del mercato. 11. Il Pool milanese di Mani pulite accusa Antonio Mosconi, presidente della Toro Assicurazioni ed ex manager Fiat, di aver versato tangenti a esponenti del Pds. 16. Massimo D'Alema, numero due del Pds, viene iscritto nella lista degli indagati in seguito a un'inchiesta sui finanziamenti illeciti da parte delle cooperative "rosse". 18. Il Pool di Mani pulite chiude l'inchiesta sugli appalti per la Metropolitana milanese con 94 richieste di rinvio a giudizio, tra cui quella per Bettino Craxi, ex segretario del Psi. 27. Si chiudono le Olimpiadi invernali di Lillehammer; l'Italia
conquista [p. 531] 20 medaglie grazie agli exploit, fra gli altri, di Alberto Tomba, Deborah Compagnoni e Manuela Di Centa. 28. Si avvia ufficialmente la privatizzazione della Banca commerciale italiana. |Marzo 5. Lo scandalo Whitewater scuote la Casa Bianca: l'Fbi invia 9 mandati di comparizione ad alcuni stretti collaboratori del presidente, sospettati di aver intralciato le indagini sulla società immobiliare creata nel 1979 in Arkansas dai coniugi Clinton. 10. Viene ufficialmente annunciata la fine della missione italiana in Somalia. Muore in California lo scrittore Charles Bukowski. 12. In relazione all'inchiesta sui fondi neri dei Servizi segreti, il giudice per le indagini preliminari Vincenzo Terranova rinvia a giudizio Riccardo Malpica, ex direttore del Sisde, e Maurizio Broccoletti, ex direttore amministrativo del Sisde. 20. Vengono uccisi a Mogadiscio (Somalia), in circostanze poco chiare, la giornalista Rai Ilaria Alpi e il cameraman Milan Hrovatin. 22. Il film di Steven Spielberg, La lista di Schindler, vince 7 premi Oscar. 23. Muore a Roma l'attrice Giulietta Masina. 28. Si concludono le prime elezioni politiche della Seconda Repubblica: netta la vittoria del Polo delle libertà, rappresentato da Forza Italia, Lega nord e Alleanza nazionale. |Aprile 7. Scoppia in Ruanda la guerra civile tra i ribelli tutsi e le forze governative hutu. 10. Partono gli attacchi della Nato in Bosnia: aerei statunitensi decollano dalla base di Aviano per bombardare le truppe serbe appostate intorno alla città musulmana di Goradze. 16. Carlo Scognamiglio, esponente di Forza Italia, viene eletto presidente del Senato e la leghista Irene Pivetti presidente della Camera. 23. Muore a New York l'ex presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. 26. Storiche elezioni in Sudafrica: per la prima volta 23 milioni di neri esercitano il diritto di voto. 28. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro affida a Silvio Berlusconi l'incarico di formare il nuovo governo.
Il tribunale di Milano condanna Sergio Cusani a 8 anni di carcere per illecito finanziario, falso in bilancio e appropriazione indebita. |Maggio 1. Il pilota brasiliano Ayrton Senna perde la vita in un incidente durante il Gran premio di Formula 1 di San Marino. 6. Viene rintracciato in Argentina Erich Priebke, braccio destro di Herbert Kappler e responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine; l'Italia avvia le procedure per l'estradizione. [p. 532] Il presidente della Francia François Mitterrand e la regina Elisabetta II inaugurano ufficialmente il nuovo tunnel sotto la Manica. 9. Dopo la netta vittoria dell'Anc alle elezioni politiche, Nelson Mandela viene eletto presidente della Repubblica sudafricana. 12. Finisce in carcere l'ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo su cui pendono ben 67 capi d'imputazione. 14. Secondo la Croce rossa internazionale, la guerra civile in Ruanda ha causato più di 500.000 morti e l'esodo di oltre 2 milioni di profughi. 20. Muore a New York Jacqueline Kennedy Onassis. 26. A 19 anni dalla conclusione della guerra, gli Stati Uniti decretano la fine dell'embargo ai danni del Vietnam, con cui riavviano normali relazioni diplomatiche. 27. Dopo 20 anni di esilio, ritorna in Russia lo scrittore dissidente Aleksandr Sol¬zenicyn. 29. Muore in Cile Erich Honecker, l'ultimo capo di Stato della Germania Est. 31. Romano Prodi si dimette dalla guida dell'Iri. |Giugno 4. Muore a Roma l'attore e regista Massimo Troisi. 8. Il Parlamento svedese accorda pieno valore legale alle unioni tra coppie omosessuali. 13. Dopo la sconfitta alle elezioni per il Parlamento europeo, Achille Occhetto si dimette dalla segreteria del Pds. 29. Sergio Cofferati viene eletto segretario generale della Cgil. |Luglio 1. Massimo D'Alema viene eletto segretario nazionale del Pds. 5. Il Pool milanese di Mani pulite scopre un giro di maxitangenti
versate dagli imprenditori alla Guardia di finanza in cambio di controlli fiscali compiacenti; finiscono in carcere alcuni ufficiali delle Fiamme gialle. 9. Si suicida il maresciallo della Guardia di finanza Agostino Landi, agli arresti domiciliari perché coinvolto nello scandalo delle maxitangenti alle Fiamme gialle. Il giudice per le indagini preliminari Italo Ghitti rinvia a giudizio Paolo Berlusconi, coinvolto nello scandalo delle tangenti Cariplo. 13. Si suicida il generale della Guardia di finanza Sergio Cicogna, a capo di uno dei reparti coinvolti nell'inchiesta di Mani pulite. Letizia Moratti è presidente della Rai. 17. Fine della guerra civile in Ruanda: i ribelli tutsi ottengono il controllo su vaste aree del paese e annunciano il cessate-il-fuoco e la prossima formazione di un governo di unità nazionale. Il Brasile vince la quindicesima edizione del Campionato mondiale di calcio disputatosi negli Stati Uniti, battendo in finale l'Italia ai rigori. 25. Uno storico accordo di pace viene firmato a Washington dal premier israeliano Yitzhak Rabin e da re Hussein di Giordania: saranno riaperte le frontiere tra i due paesi. [p. 533] 27. Nasce la Telecom Italia in seguito all'assorbimento di Iritel, Italcable, Sirm e Telespazio nella Sip. 29. Il tribunale di Milano condanna Bettino Craxi e Claudio Martelli a 8 anni e 6 mesi per concorso nel crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Rocco Buttiglione diviene segretario del Partito popolare italiano (Ppi). |Agosto 3. Gianni Billia è direttore generale della Rai. 4. Muore a Roma il senatore repubblicano Giovanni Spadolini. 6. Muore a Lampedusa il cantante Domenico Modugno. 15. Viene catturato in Sudan il terrorista internazionale "Carlos". 26. Il ministero della Pubblica istruzione abolisce gli esami di riparazione a settembre. |Settembre 5. In Cecenia è guerra aperta: le truppe fedeli al presidente separatista Dzhokhar Dudaev si scontrano violentemente con gli oppositori filorussi.
10. Giovanni Paolo II parte per un viaggio di pace in Croazia. 20. La procura di Napoli emette un ordine di cattura per associazione a delinquere di stampo camorristico nei confronti di Antonio Gava, politico democristiano ed ex ministro dell'Interno. 29. Gianfranco Fini annuncia durante una riunione della direzione del partito la trasformazione del Movimento sociale in Alleanza nazionale. |Ottobre 5. Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo della Repubblica di Milano, sostiene che le indagini di Mani pulite conducono verso alti livelli politici e finanziari e critica l'operato del ministro della Giustizia, Alfredo Biondi, che presenta le proprie dimissioni, poi ritirate. 8. La nazionale italiana di pallavolo è campione del mondo. 14. Il premio Nobel per la pace è assegnato al premier israeliano Yitzhak Rabin, al leader dell'Olp Yasser Arafat e al ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres, artefici dell'accordo israelo-palestinese per la pace in Medio Oriente. 16. La Finlandia esprime parere favorevole all'ingresso nell'Unione europea. 21. Scompare a Los Angeles l'attore Burt Lancaster. |Novembre 1. La Corte d'assise di Firenze riconosce Pietro Pacciani colpevole di 7 degli 8 duplici omicidi compiuti dal "mostro di Firenze" e lo condanna all'ergastolo. 6. Liguria e Piemonte sono colpite da una disastrosa alluvione che provoca 54 morti e danni per migliaia di miliardi. 8. Presso il tribunale internazionale per i crimini di guerra nell'ex [p. 534] Jugoslavia inizia il processo contro il serbo Dusan Tadic, accusato di genocidio e deportazioni di massa. 10. L'Iraq riconosce ufficialmente l'esistenza del Kuwait. 12. Catturato a Torino il boss del Brenta, Felice Maniero. 13. In Svezia gli elettori si pronunciano a favore dell'ingresso nell'Unione europea. 15. Il tribunale di Rimini condanna Vincenzo Muccioli a 8 mesi di carcere per favoreggiamento, assolvendolo invece dall'accusa di omicidio colposo. Per la quinta volta consecutiva Helmut Kohl è eletto cancelliere della Germania.
21. Guerra in Bosnia: partono dalle basi Nato italiane oltre 30 aerei per una vasta operazione di guerra. Si apre a Napoli la conferenza dell'Onu contro la criminalità organizzata. 22. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi riceve un avviso di garanzia in relazione all'indagine sulle tangenti pagate alla Guardia di finanza condotta dai magistrati di Milano. 23. Giungono alla procura di Milano gli ispettori mandati dal ministro della Giustizia Alfredo Biondi per far luce sull'inchiesta a carico del Pci-Pds. 24-26. Catturato uno dei presunti killer della Uno bianca, il poliziotto Fabio Savi; due giorni dopo viene arrestato un altro componente della banda, Alberto Savi, fratello di Fabio. 26. Truppe filorusse ostili al presidente Dzhokhar Dudaev assumono il controllo di Grozny, capitale della repubblica caucasica di Cecenia. 27. I cittadini norvegesi si esprimono contro l'ingresso nella Ue. |Dicembre 2. La procura di Roma ordina una perquisizione delle sedi delle cooperative "rosse" a Bologna, Rimini e Reggio Emilia, sospettate di aver illecitamente finanziato il Pci-Pds. 3. Arrestato a Palermo il boss mafioso Michelangelo La Barbera, accusato di essere tra i mandanti dell'omicidio di Mino Pecorelli, di Salvo Lima e dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. 6. Antonio Di Pietro rassegna le proprie dimissioni dalla magistratura. Muore a Roma l'attore Gian Maria Volonté. 5. Il procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli denuncia l'attacco alla magistratura condotto dal governo presieduto da Silvio Berlusconi. 9. Interrogato in relazione alle indagini sulle tangenti "rosse", Nino Tagliavini, ex presidente dell'Unieco di Reggio Emilia, ammette il coinvolgimento di Botteghe Oscure nella violazione della legge sul finanziamento ai partiti. 11. L'esercito russo invade la Cecenia. 13. Arrestato a Palermo Pino Mandalari, accusato di aver gestito gli affari di diversi boss del clan dei Corleonesi. 22. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi presenta le dimissioni al capo dello Stato. 28. La Corte d'assise di Perugia condanna a due ergastoli Luigi
Chiatti, il "mostro di Foligno". [p. 535] 1995 |Gennaio 3. Nell'ambito dell'inchiesta sulle tangenti "rosse", la procura di Venezia emette un avviso di garanzia contro Giancarlo Pasquini, presidente della Lega delle cooperative. 12. Inizia dalle Filippine il viaggio del papa in Estremo Oriente. 13. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro conferisce a Lamberto Dini l'incarico di formare il nuovo governo. Muore a Milano l'attore teatrale Tino Carraro. 17. In relazione all'inchiesta sulle cooperative "rosse", vengono interrogati a Roma Achille Occhetto e Massimo D'Alema, i quali si dichiarano estranei alla vicenda. |Febbraio 4. Identificati i presunti mandanti dell'attentato di via dei Georgofili a Firenze: si tratterebbe dei mafiosi Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. 9. Una troupe del Tg2 rimane vittima di un agguato dei ribelli a Mogadiscio, in Somalia: muore l'operatore Marcello Palmisano, mentre rimane illesa la giornalista Carmen Lasorella. 13. Arrestati con l'accusa di collusione con la mafia l'ex ministro Calogero Mannino e l'ex senatore democristiano Vincenzo Inzerillo. |Marzo 15. Alberto Tomba vince la Coppa del mondo di sci. 20. Entra in vigore la legge sulla par condicio, che regolamenta la propaganda elettorale offrendo a tutte le forze politiche uguali opportunità. Attentato terroristico con il gas nervino nella metropolitana di Tokyo: 5 morti e migliaia di intossicati. 25. In Europa scompaiono le frontiere tra i paesi aderenti alla Convenzione di Schengen: Francia, Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Spagna e Portogallo. 27. Assassinato nel centro di Milano l'imprenditore Maurizio Gucci. 28. Nell'ambito delle indagini sulle tangenti vengono spiccati a Bari numerosi ordini di custodia cautelare: tra gli arrestati, gli ex ministri Vito Lattanzio e Rino Formica, e il sindaco di Bari Giovanni Memola. Il regista Michelangelo Antonioni riceve l'Oscar alla carriera.
|Aprile 8. Muore a Roma Edda Ciano, figlia di Benito Mussolini. 9. Scompare a Varese l'attrice Paola Borboni. 25. Scompare a Los Angeles Ginger Rogers. 29. Guerra in Bosnia: fonti dell'Onu rivelano che i serbi hanno utilizzato bombe al fosforo (vietate dalla Convenzione di Ginevra) contro i civili nella Bosnia settentrionale. [p. 536] |Maggio 7. Il gollista Jacques Chirac è eletto presidente della Repubblica francese. 11. Il ministro della Giustizia Filippo Mancuso giustifica l'inchiesta ordinata sul Pool di Mani pulite sostenendo l'uso irregolare della carcerazione preventiva, l'intimidazione nei confronti degli ispettori ministeriali e la mancata tutela dei diritti degli indagati. Emergenza in Zaire per il diffondersi di Ebola, il virus mortale per il quale non esistono medicine né vaccini efficaci. 16. Arrestato a Tokyo Shoko Asahara, il capo della setta della Suprema verità, accusato di strage per gli attentati con il gas nervino. 17. Viene arrestato a Creta Marco Furlan, ritenuto colpevole di vari omicidi e di una lunga serie di attentati commessi insieme al complice Wolfgang Abel e rivendicati con il nome di "Ludwig". 25. La Siria dichiara la propria disponibilità a ritirare l'esercito dalla zona di confine sulle alture del Golan, dando così una svolta alle trattative di pace con Israele. 26. La procura di Torino spicca un mandato d'arresto per Marcello Dell'Utri, presidente e amministratore delegato di Publitalia: l'accusa riguarda i presunti fondi neri della società. 28. Il segretario della Lega nord Umberto Bossi dichiara costituito il Parlamento del Nord, con sede a Mantova. |Giugno 1. Guerra in Bosnia: viene costituita una task force europea con lo scopo di proteggere i caschi blu in servizio in Bosnia e Croazia. 3. Antonio Di Pietro si difende dalle accuse rivoltegli dall'avvocato del generale Cerciello, Carlo Taormina, presentando un esposto-querela alla procura di Brescia. 6. Il Sudafrica abolisce la pena di morte.
12. Muore a Lugano il grande pianista Arturo Benedetti Michelangeli. 13. La Francia annuncia la ripresa dei test nucleari in Polinesia. 15. Un commando di guerriglieri ceceni prende in ostaggio la popolazione della città russa di Budennovsk: i terroristi chiedono il ritiro dell'Armata rossa dalla Cecenia. 19. L'Unione europea rimanda al 1999 l'entrata in vigore della moneta unica prevista dal Trattato di Maastricht. 24. Arrestato a Palermo il boss Leoluca Bagarella, considerato il mandante di quasi tutti i più gravi attentati mafiosi. 28. Guerra in Bosnia: i serbi bombardano il palazzo della televisione a Sarajevo, provocando numerosi feriti tra i giornalieri stranieri. |Luglio 2. Durante un interrogatorio durato 17 ore, Antonio Di Pietro racconta ai giudici bresciani la storia dell'inchiesta Mani pulite, i motivi delle sue dimissioni e i rapporti con Giancarlo Gorrini e con Eleuterio Rea. 8. Giunge alla procura di Brescia l'esposto di Silvio Berlusconi contro i [p. 537] magistrati di Mani pulite per abuso d'ufficio e violazione del segreto istruttorio. 11. La procura di Milano emette un ordine di cattura internazionale nei confronti dell'ex leader socialista Bettino Craxi. 11-12. Guerra in Bosnia: Srebrenica si arrende ai serbi e una folla di musulmani lascia la città; il giorno successivo inizia la "pulizia etnica". 16. Nell'ambito di un'inchiesta sull'intreccio tra mafia e magistratura, la Dia arresta il presidente della Corte d'assise di Reggio Calabria Giacomo Foti. 18. Durante il Tour de France, il ciclista Fabio Casartelli muore in seguito a una caduta. 25. Guerra in Bosnia: si arrende la "città protetta" di Zepa; il tribunale dell'Aja per i crimini di guerra spicca i mandati di cattura contro il leader dei serbo-bosniaci Radovan Karadzi¬c e contro il generale Ratko Mladi¬c. 30. Firmata a Mosca la tregua militare fra ceceni ed esercito russo. |Agosto 17. Lo scoppio di una bomba collocata nel centro di Parigi provoca
il ferimento di 17 persone, tra cui 4 italiani. 21. Scoppia lo scandalo "Affittopoli": importanti personalità pubbliche vivono nelle case dell'Inps pagando affitti molto inferiori ai prezzi di mercato. Muore a Roma il regista Nanni Loy. 30. Guerra in Bosnia: iniziano i bombardamenti Nato nelle regioni intorno a Sarajevo, Gorazde, Tuzla e Mostar. |Settembre 1. Da una serie di fusioni nascerà Supergemina, secondo gruppo industriale italiano: vi faranno parte, tra le altre, Montedison, Snia, Rizzoli, Il Messaggero e Fondiaria. 5. Effettuato a Mururoa (Polinesia) il primo test nucleare deciso dal governo Chirac. 8. Guerra in Bosnia: primo accordo di pace a Ginevra tra serbi, croati e musulmani. Base dell'intesa è il riconoscimento della Repubblica di Bosnia-Erzegovina. 14. Nell'ambito delle indagini sulle cooperative venete, la procura di Venezia emette due avvisi di garanzia nei confronti del segretario del Pds, Massimo D'Alema, e dell'ex segretario Achille Occhetto, accusati di finanziamento illecito ai partiti e ricettazione. Il papa inizia il suo undicesimo viaggio in Africa: visiterà Camerun, Sudafrica e Kenia. 19. Muore a Rimini Vincenzo Muccioli. 20. Le dichiarazioni del ministro delle Finanze tedesco Theo Waigel, secondo il quale l'Italia non ha i requisiti per entrare nella moneta unica, provocano il crollo della lira e ribassi in Borsa. 24. Firmato a Gerusalemme da Shimon Peres e Yasser Arafat l'accordo che prevede il ritiro dell'esercito israeliano da un terzo della Giordania. 26. Inizia a Palermo il processo per mafia a Giulio Andreotti. [p. 538] |Ottobre 6. Arrestato a Napoli Paolo Cirino Pomicino, ex ministro del Bilancio ed esponente della Dc, accusato di concussione ed estorsione. 7. Sotto inchiesta il gruppo Gemina e la Rizzoli: la procura di Milano ipotizza a loro carico falso in bilancio e false comunicazioni sociali. Sospesa l'operazione "Supergemina". 14. Il tribunale di Milano decide di processare Silvio Berlusconi,
il fratello Paolo e 4 manager della Fininvest per le tangenti pagate alla Guardia di finanza tra il 1989 e il 1994. 18-19. Il ministro della Giustizia Filippo Mancuso ordina un'azione disciplinare contro il procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli, accusato di violazione del segreto investigativo nella vicenda dell'avviso di garanzia all'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Il giorno successivo viene votata la sfiducia nei confronti del Guardasigilli. 27. Il tribunale di Milano condanna tutti gli uomini politici accusati di aver ricevuto parti della maxitangente Enimont: sono inflitti 4 anni di carcere a Bettino Craxi, 3 anni all'ex amministratore della Dc Severino Citaristi, 2 anni e 4 mesi ad Arnaldo Forlani e Paolo Cirino Pomicino, 1 anno a Claudio Martelli, 8 mesi a Umberto Bossi, 6 mesi a Giorgio La Malfa. La sentenza condanna inoltre a 4 anni e 8 mesi Giuseppe Garofano, allora presidente della Montedison, e Carlo Sama, ex amministratore delegato del gruppo. |Novembre 4. Il tribunale di Perugia decide di processare Giulio Andreotti, il magistrato Claudio Vitalone e i boss mafiosi Pippo Calò e Gaetano Badalamenti per l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Al termine di un comizio a Tel Aviv, il premier israeliano Yitzhak Rabin viene assassinato da un estremista ebreo. 8. Arrestato a Palermo Francesco Musotto, presidente della Provincia, accusato tra l'altro di aver protetto il boss mafioso Leoluca Bagarella. 11. La Corte d'assise d'appello di Milano conferma la condanna a 22 anni di carcere per Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, ritenuti colpevoli dell'omicidio Calabresi. 20. Entra in vigore il decreto sull'immigrazione clandestina, che prevede l'espulsione entro 5 giorni per i colpevoli di reati quali lo spaccio di droga e lo sfruttamento della prostituzione, l'espulsione amministrativa per chi non ha permesso di soggiorno, la possibilità di regolarizzare la presenza per chi ha un lavoro. Previste pene più severe per l'introduzione di clandestini, accusati d'ora in poi del reato di "sfruttamento della manodopera". 21. Estradato dall'Argentina, arriva in Italia Erich Priebke, l'ex capitano delle SS accusato di complicità nell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Dayton (Stati Uniti): Bill Clinton annuncia la fine della guerra nell'ex Jugoslavia. Il territorio della Bosnia sarà suddiviso in una
Federazione croato-musulmana e una Repubblica serbo-bosniaca; una forza multinazionale di 60.000 uomini garantirà il rispetto degli accordi. [p. 539] 23. Confermate dalla Corte di cassazione le condanne per i colpevoli della strage alla stazione di Bologna: inflitto l'ergastolo agli esecutori materiali, i neofascisti Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, e Francesco Pazienza devono scontare 10 anni per depistaggio delle indagini. |Dicembre 1. La Nato designa segretario generale Javier Solana, ministro degli Esteri spagnolo. 9. Muore il disegnatore Franco Bonvicini, in arte Bonvi, creatore di Sturmtruppen. 14. Firmato a Parigi l'accordo di pace tra i presidenti della Serbia Slobodan Milo¬sevi¬c, della Bosnia Alija Izetbegovi¬c e della Croazia Franjo Tudjman. I caschi blu dell'Onu saranno sostituiti dall'Ifor, una forza multinazionale composta da 60.000 uomini. 20. Fabio Salamone e Silvio Bonfigli, sostituti procuratori di Brescia, chiedono il rinvio a giudizio per Antonio Di Pietro, accusato di abuso di atti d'ufficio e concussione. Accuse anche per altri membri del Pool Mani pulite: i pubblici ministeri Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco sono inquisiti per abuso di atti d'ufficio. 1996 |Gennaio 8. Muore a Parigi François Mitterrand, presidente della Repubblica francese dal 1981 al 1995. 9. Il pentito Tommaso Buscetta depone al processo che vede Giulio Andreotti imputato dell'omicidio di Mino Pecorelli. Secondo la sua testimonianza, Pecorelli e il generale Dalla Chiesa vennero fatti uccidere perché in possesso di informazioni relative al sequestro di Aldo Moro. 11. Lamberto Dini conferma le dimissioni del governo, respinte il 30 dicembre da Oscar Luigi Scalfaro. 27. La Corte d'assise di Caltanissetta condanna all'ergastolo Giuseppe Orofino, Salvatore Profeta e Pietro Scotto, ritenuti gli esecutori materiali della strage di via D'Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. 29. Un incendio distrugge il teatro La Fenice di Venezia.
|Febbraio 1-16. Il 1o Oscar Luigi Scalfaro affida ad Antonio Maccanico il compito di formare il nuovo governo; il 14 Maccanico rinuncia all'incarico e il 16 il presidente della Repubblica scioglie le Camere. Le elezioni sono indette per il 21 aprile. 2. Scompare a Los Angeles l'attore e ballerino Gene Kelly. 5. Ha inizio il viaggio del papa in America Latina. [p. 540] 14. La Corte d'appello di Firenze assolve Pietro Pacciani dall'accusa di essere il "mostro di Firenze". Approvata dal Senato la nuova legge sulla violenza sessuale: lo stupro è ora reato contro la persona, mentre la violenza di gruppo non è più semplicemente un'aggravante, ma un reato autonomo. 23. Il tribunale di Brescia condanna Diego Curtò, ex giudice del tribunale di Milano, a 4 anni di carcere per corruzione. 27. Gianni Agnelli lascia la guida della Fiat: il nuovo presidente è Cesare Romiti, ex amministratore delegato del gruppo. 28. Presentato Rinnovamento italiano, il partito di Lamberto Dini cui aderiscono il ministro delle Finanze Augusto Fantozzi e quello del Lavoro Tiziano Treu. |Marzo 3. Muore a Parigi la scrittrice Marguerite Duras. 7. La Confindustria elegge presidente Giorgio Fossa. 8. Muore a Roma la giornalista e scrittrice Colette Rosselli, meglio nota come Donna Letizia. 12. La procura di Milano dispone l'arresto di Renato Squillante, presidente dei giudici per le indagini preliminari del tribunale di Roma. Squillante è accusato di corruzione per aver accettato denaro da Cesare Previti, ex ministro della Difesa e deputato di Forza Italia, e da Attilio Pacifico in relazione ad alcune inchieste, tra cui quella sui fondi neri dell'Iri. 16. Il pugile Mike Tyson è campione mondiale dei pesi massimi. 18. In accordo con il trattato di Dayton, i serbi di Bosnia lasciano l'ultimo quartiere di Sarajevo, bruciando dietro di sé case e palazzi. 20. Esplode in Inghilterra la vicenda della "mucca pazza", un virus che attacca il sistema nervoso dei bovini e che potrebbe essere la causa di alcuni decessi avvenuti fra la popolazione inglese. 22. Catturato in Spagna Majed Al Moqui, evaso dal carcere romano di Rebibbia il 2 marzo: capo dei terroristi che nel 1985 sequestrarono
l'Achille Lauro, Al Moqui deve scontare una pena di 30 anni. 25. In seguito allo scandalo della "mucca pazza", l'Unione europea blocca le importazioni di carne bovina dalla Gran Bretagna. 26. Il film di Mel Gibson Braveheart conquista 5 Oscar. 30. Al termine della conferenza della Ue svoltasi a Torino vengono stabiliti alcuni criteri che permetteranno ai paesi in ritardo sul raggiungimento dei parametri di Maastricht di entrare a far parte della moneta unica in un secondo tempo: nasce l'Europa "a due velocità". |Aprile 5. Il tribunale di Palermo condanna l'ex agente del Sisde Bruno Contrada a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. 6. Un corteo di skinhead, legalmente autorizzato, manifesta davanti al campo di sterminio di Auschwitz, provocando la reazione indignata della comunità ebraica internazionale. [p. 541] 11. Dopo uno scambio di colpi tra hezbollah sciiti e Israele, inizia l'operazione "Furore" lanciata dal governo di Tel Aviv: Beirut è di nuovo sotto i bombardamenti e i profughi sono circa 400.000. 16. Nell'ambito dell'inchiesta sulle tangenti per la costruzione della metropolitana milanese, il tribunale di Milano condanna l'ex leader socialista Bettino Craxi a 8 anni e 3 mesi di carcere. 19. Marco Tronchetti Provera diviene presidente del gruppo Pirelli. 21. La coalizione di centro-sinistra, guidata da Romano Prodi, vince le elezioni politiche: l'Ulivo, formato da Pds, Ppi, Rinnovamento italiano, Unione democratica e Verdi, ha la maggioranza assoluta solo al Senato, mentre alla Camera sarà necessario l'appoggio di Rifondazione comunista. 23. Formalizzate le dimissioni del presidente della Rai Letizia Moratti e del consiglio di amministrazione dell'azienda. 26. Raggiunto l'accordo per una tregua in Libano fra hezbollah filoiraniani e Israele. |Maggio 9-10. Nicola Mancino, esponente del Ppi, viene eletto presidente del Senato; il giorno successivo, alla guida della Camera dei deputati è designato il pidiessino Luciano Violante. 15. Il tribunale di Milano ordina l'arresto di 7 manager della Fininvest: l'accusa è di falso in bilancio per centinaia di miliardi
e costituzione di fondi neri all'estero. 16. Oscar Luigi Scalfaro incarica Romano Prodi di formare il nuovo governo. 20. Arrestato ad Agrigento il boss mafioso Giovanni Brusca, accusato tra l'altro di essere l'esecutore materiale della strage di Capaci. 30. Interrogata dagli avvocati di Renato Squillante, Stefania Ariosto accusa Cesare Previti di essere a capo di una lobby di giudici. Il tribunale di Napoli condanna a 5 anni di carcere Antonio Gava, ex ministro dell'Interno, accusato di ricettazione. I risultati delle elezioni politiche in Israele decretano la vittoria di Benjamin Netanyahu, leader della destra, che sconfigge il premier uscente, il laburista Shimon Peres. 31. Muore a Roma Luciano Lama, esponente di spicco del sindacalismo italiano. |Giugno 1. Nell'ambito delle indagini su un traffico internazionale d'armi, la procura della Repubblica di Torre Annunziata emette numerosi avvisi di garanzia: fra gli inquisiti, Licio Gelli, ex capo della P2, l'arcivescovo di Barcellona Ricard Maria Charles e il leader nazionalista russo Vladimir Zhirinovskij. 2. Nel corso di una manifestazione leghista a Pontida si insedia il Clp (Comitato di liberazione della Padania) e si costituisce il governo provvisorio della Padania, guidato da Giancarlo Pagliarini. [p. 542] 14. Scompare a Ragusa lo scrittore Gesualdo Bufalino. 15. Muore a Los Angeles la cantante Ella Fitzgerald. 18. Muore a Milano l'attore comico Gino Bramieri. 23. Muore ad Atene l'ex primo ministro Andreas Papandreu, esponente di spicco della politica greca del dopoguerra. |Luglio 3. Il ballottaggio per l'elezione del presidente russo riconferma Boris Eltsin, che sconfigge il comunista Gennadij Zyuganov. 8. I presidenti delle Camere nominano lo scrittore Enzo Siciliano presidente della Rai. 12. Raggiunto l'accordo per il divorzio tra l'erede al trono d'Inghilterra Carlo e la moglie Lady Diana. 16. Germano Maccari, ritenuto il "quarto uomo" del sequestro Moro, è condannato all'ergastolo dalla Corte d'assise di Roma.
17. Nell'ambito dell'inchiesta sulla Tangentopoli partenopea, il tribunale di Napoli condanna a pene detentive gli ex ministri Francesco De Lorenzo e Paolo Cirino Pomicino; in carcere anche l'ex vice segretario del Psi Giulio Di Donato. 18. Si svolge ad Atlanta la cerimonia d'inaugurazione della XXVI Olimpiade. 20. In Burundi un commando di guerriglieri hutu massacra 300 profughi di etnia tutsi: si rompe così la fragile intesa, raggiunta nel 1994, che ha finora impedito l'estendersi della guerra civile tra le due etnie. 27. Due morti e oltre cento feriti è il bilancio dell'esplosione di una bomba nel Centennial Olympic Park di Atlanta: il Comitato olimpico internazionale decide comunque la prosecuzione dei Giochi. 31. La "Pravda", il quotidiano fondato da Lenin nel 1912, cessa le pubblicazioni. |Agosto 1-2. Il tribunale militare di Roma riconosce Erich Priebke colpevole dell'eccidio delle Fosse Ardeatine; tuttavia l'ex capitano delle SS viene rimesso in libertà perché il reato è caduto in prescrizione. La protesta dei parenti delle vittime provoca l'intervento del ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, che ordina l'arresto di Priebke in virtù della richiesta di estradizione avanzata dalla Germania. 2. In seguito alle ferite riportate nel corso di uno scontro, muore il generale somalo Mohammed Farah Aidid, leader di una delle fazioni che si combattono dal 1991. 15. Arrestato in Belgio il pedofilo e pluriomicida Marc Dutroux, noto come il "mostro di Marcinelle". 31. L'esercito iracheno penetra in territorio curdo, occupando la città di Arbil. Russi e ceceni firmano l'armistizio che pone termine a 20 mesi di guerra costati 40.000 morti. [p. 543] |Settembre 3-5. In seguito ai contrasti sorti con gli altri azionisti, il presidente dell'Olivetti Carlo De Benedetti si dimette dalla guida dell'azienda. 3. Gli Stati Uniti danno inizio all'operazione "Desert Strike" contro l'Iraq, per convincere Saddam Hussein a ritirare le proprie truppe dal Kurdistan.
16. La procura di La Spezia ordina l'arresto dell'amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, Lorenzo Necci, accusato di corruzione e associazione a delinquere. 17. Le procure di Venezia e Mantova mettono sotto inchiesta Umberto Bossi con l'accusa di attentato all'unità dello Stato. 18. I risultati delle prime elezioni presidenziali in Bosnia dopo la guerra sanciscono la vittoria del leader musulmano Alija Izetbegovi¬c. 26. I talebani, gli integralisti islamici afgani, conquistano la capitale Kabul: il presidente Burbanuddin Rabani e le truppe governative abbandonano la città. |Ottobre 9. Secondo un rapporto presentato dalla Guardia di finanza alla procura di La Spezia, il Pool milanese di Mani pulite avrebbe usato un trattamento di favore nei riguardi del banchiere Francesco Pacini Battaglia, accusato di aver versato tangenti a Lorenzo Necci. 11. Il premio Nobel per la pace è assegnato a Carlos Felipe Ximenes Belo, amministratore apostolico di Dili, capoluogo di Timor Est, e a José Ramos Horta, leader del movimento indipendentista in esilio a Sydney. 15. La Corte di cassazione annulla il processo contro Erich Priebke. 23. Nello Zaire orientale, a causa degli scontri tra l'esercito e i ribelli tutsi, 500.000 profughi hutu provenienti dal Ruanda sono costretti alla fuga, privi di cibo e acqua. |Novembre 3. Le elezioni politiche in Jugoslavia decretano il successo del Partito socialista di Slobodan Milo¬sevi¬c e dei suoi alleati. 5. Sconfiggendo il repubblicano Bob Dole, il democratico Bill Clinton viene rieletto presidente degli Stati Uniti. 7. Il Csm nomina Pier Luigi Vigna alla carica di procuratore nazionale antimafia. 11. Annunciata a Bruxelles dal ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi la prossima fusione tra la Stet e la Telecom Italia. 12. Sentenza definitiva nel processo Eni-Sai: condannati tra gli altri Bettino Craxi e l'ex tesoriere della Dc Severino Citaristi (per entrambi 5 anni e 6 mesi), il finanziere Sergio Cusani (4 anni) e l'ex presidente della Sai, Salvatore Ligresti (2 anni e 4 mesi). 13-14. Dopo la notizia dell'iscrizione di Antonio Di Pietro nel
registro degli indagati per il presunto trattamento di favore nei confronti del banchiere Francesco Pacini Battaglia, l'ex magistrato si dimette dall'incarico di ministro dei Lavori pubblici. [p. 544] 21. La procura di Verona emette 17 avvisi di garanzia contro militanti della Lega nord appartenenti alle "camicie verdi": l'accusa è costituzione di associazione militare. 24. La Ue decide il rientro della lira nello Sme. 25. Nell'ambito dell'inchiesta sulla privatizzazione del gruppo Cirio-Bertolli-De Rica (1993), la procura della Repubblica di Roma chiede il rinvio a giudizio di Romano Prodi, allora presidente dell'Iri: l'accusa è di abuso d'ufficio e violazione della legge che impone di astenersi dalle deliberazioni qualora vi siano conflitti d'interesse. 28. Ottiene l'approvazione popolare la nuova Costituzione algerina voluta dal presidente Liamine Zeroual: l'Islam è religione di Stato, sono vietati partiti politici confessionali e aumentano i poteri del presidente rispetto a quelli del Parlamento. 29. Il tribunale internazionale per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia emette la prima sentenza: viene condannato a 10 anni di carcere il croato-bosniaco Drazen Erdemovi¬c, colpevole di crimini di guerra e crimini contro l'umanità. |Dicembre 1. In seguito all'annullamento delle elezioni municipali vinte dall'opposizione a Slobodan Milo¬sevi¬c, centinaia di migliaia di dimostranti scendono in piazza a Belgrado per protestare contro il regime. 4. Il deputato di Rinnovamento italiano Ottaviano Del Turco è eletto presidente della Commissione parlamentare antimafia. 5. Il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton nomina Madeleine Albright segretario di Stato. 6. Nell'ambito della vicenda che vede coinvolto il banchiere Pacini Battaglia, la procura di Brescia ordina la perquisizione delle case e degli studi di Antonio Di Pietro. 13. Firmato dai paesi membri dell'Ue il "patto di stabilità" che stabilisce i criteri per garantire il rispetto dei parametri economici previsti dal trattato di Maastricht. Il diplomatico ghanese Kofi Annan è il nuovo segretario generale dell'Onu. 16. Dopo le dimissioni di Arrigo Sacchi, Cesare Maldini è il nuovo commissario tecnico della nazionale azzurra di calcio.
18. Scompare a Parigi l'attore Marcello Mastroianni. Un commando di guerriglieri tupamaros occupa la residenza dell'ambasciatore giapponese a Lima e prende in ostaggio 490 persone. I membri del movimento chiedono al governo il rilascio di circa 500 militanti detenuti. 20. Varata la nuova legge sul finanziamento pubblico dei partiti che prevede tra l'altro un prelievo del 4 per mille dall'Irpef. 27. Il lancio di un sasso da un cavalcavia dell'autostrada Torino-Piacenza nei pressi di Tortona causa la morte di Maria Letizia Berdini, colpita alla testa mentre viaggiava sull'auto guidata dal marito. [p. 545] 1997 |Gennaio 12. Il congresso del Ppi elegge segretario l'ex leader della Cisl Franco Marini. Deraglia nei pressi della stazione di Piacenza il Pendolino, provocando 8 morti e circa 30 feriti. 15. Sassi dal cavalcavia: per ordine del procuratore di Tortona, Aldo Cuva, vengono fermati tre fratelli, Paolo, Sandro e Sergio Furlan, con l'accusa di omicidio volontario. Nei giorni successivi vengono fermate altre 8 persone, tutte accusate di concorso in omicidio volontario. Benjamin Netanyahu e Yasser Arafat raggiungono l'accordo sul ritiro delle truppe israeliane dalla città di Hebron, in Cisgiordania. 22. La Camera dei deputati approva la legge che istituisce la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, incaricata di elaborare un progetto di modifica della seconda parte della Costituzione italiana. La Corte di cassazione conferma la condanna a 22 anni di carcere inflitta a Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi ritenuti responsabili dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi. 27. Il tribunale di Genova assolve il ministro dei Trasporti Claudio Burlando dall'accusa di truffa e abuso d'ufficio formulata a suo carico nel 1993, quando il ministro era sindaco di Genova. 30. Dopo le proteste degli allevatori contro il pagamento delle multe connesse al superamento delle "quote latte" che hanno provocato numerosi blocchi stradali e l'interruzione dei collegamenti con l'aeroporto di Linate a Milano, il governo vara un decreto che prevede fra l'altro la rateizzazione del pagamento delle penali. 31. Il Gip del tribunale di Milano Maurizio Grigo ordina l'arresto
della vedova di Maurizio Gucci, Patrizia Reggiani, accusata di aver fatto assassinare il marito. |Febbraio 5. Il segretario del Pds Massimo D'Alema è eletto presidente della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali. 11. Nell'ambito delle indagini sul deragliamento del Pendolino, la procura di Piacenza emette un avviso di garanzia nei confronti di Lorenzo Cimoli, amministratore delegato delle Fs, del suo predecessore Lorenzo Necci, dell'ex amministratore straordinario Mario Schimberni e dell'ex direttore generale Cesare Vaciago: l'accusa è di omicidio plurimo colposo e disastro ferroviario colposo. 19. Muore a Pechino Deng Xiaoping, uno dei principali esponenti della vita politica cinese. 21. Nasce la pecora Dolly, risultato della prima clonazione da una cellula di animale adulto, realizzata da scienziati dell'Istituto Roslin di Edimburgo. [p. 546] |Marzo 1. La protesta dei cittadini albanesi diventa una vera e propria guerra civile: da Valona la rivolta si estende a tutto il paese, costringendo il presidente Sali Berisha a proclamare lo stato d'emergenza. 8. Il tribunale di Napoli condanna a 8 anni e 4 mesi di carcere l'ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, ritenuto responsabile di aver creato un'organizzazione che intascava tangenti pagate dalle case farmaceutiche. 15. Viene momentaneamente chiuso il porto di Brindisi dove continuano ad arrivare migliaia di profughi in fuga dall'Albania. 17-23. Il Tg1 delle ore 20 viene interrotto da una voce che inneggia al "Veneto serenissimo governo". Il tenore del proclama fa pensare a un'azione promossa dalla Lega nord, la quale però smentisce ogni coinvolgimento. Il 20 si verifica un nuovo episodio di disturbo del Tg1 e il 23 la procura di Verona apre un'inchiesta, ipotizzando tra l'altro l'istigazione a delinquere, l'apologia di reato e l'attentato all'unità dello Stato. 20. Si apre a Helsinki il vertice tra Usa e Russia per l'allargamento a est della Nato, in particolare a Polonia, Ungheria e Repubblica ceca. 22. La cometa Hale-Bopp, scoperta nel 1995 dai due astronomi
statunitensi cui deve il nome, passa nel punto più vicino al nostro pianeta. 25. Il film Il paziente inglese di Anthony Minghella conquista 9 Oscar. 27. Al processo per la strage di Capaci che si tiene a Caltanissetta, il boss Giovanni Brusca ammette di essere stato l'esecutore materiale dell'attentato e afferma che il piano per uccidere Giovanni Falcone, voluto da Salvatore Riina, era pronto fin dal 1983. 28-29. Nel canale di Otranto la collisione tra una corvetta della Marina militare italiana e una nave militare albanese carica di profughi provoca 89 morti. La procura di Brindisi apre un'inchiesta sulla sciagura. |Aprile 2-9. Dopo un lungo dibattito, il Parlamento autorizza la partecipazione italiana alla missione "Alba", promossa da una forza multinazionale per ristabilire la normalità in Albania. 5. Muore a New York Allen Ginsberg, il poeta simbolo della Beat generation. 9. Nell'ambito del processo sui fondi neri della Fiat, il tribunale di Torino condanna il presidente dell'azienda, Cesare Romiti, a 1 anno e 6 mesi di carcere, mentre 1 anno e 4 mesi sono inflitti al direttore finanziario, Francesco Paolo Mattioli. 15. Sbarcano a Durazzo i primi contingenti italiani, spagnoli e francesi della missione "Alba". 22. Le forze speciali peruviane fanno irruzione nella residenza dell'ambasciatore giapponese a Lima, dove un commando di tupamaros è asserragliato da mesi con alcuni ostaggi: nell'assalto vengono uccisi tutti i guerriglieri e uno degli ostaggi. [p. 547] |Maggio 1. Il Partito laburista vince le elezioni politiche in Gran Bretagna dopo 18 anni di monopolio conservatore: Tony Blair succede al premier uscente, John Major. 7. Entra in vigore la legge sulla tutela della privacy. 9. Marta Russo, una studentessa di 22 anni della facoltà di giurisprudenza dell'università La Sapienza di Roma, viene colpita alla nuca da un colpo di pistola: morirà quattro giorni più tardi. Un commando di 8 uomini che si autoproclamano secessionisti occupa il campanile di piazza San Marco a Venezia: la vicenda ha fine poche
ore dopo per l'intervento dei carabinieri del Gis. Tutti i membri del gruppo vengono arrestati. Muore a Parigi il regista Marco Ferreri. 10. Giovanni Paolo II compie la sua prima visita pastorale in Libano. 17. Dopo la fuga del dittatore Sese Seko Mobutu, i guerriglieri di Laurent Desiré Kabila entrano a Kinshasa: Kabila si autoproclama capo dello Stato e lo Zaire si chiamerà di nuovo Repubblica democratica del Congo. 19. Il tribunale di Palermo rinvia a giudizio l'ex presidente di Publitalia e deputato forzista Marcello Dell'Utri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Scompare a Roma l'attore comico Paolo Panelli. 24. Con il 70 per cento dei voti il moderato Mohammad Khatami viene eletto presidente della Repubblica islamica dell'Iran. |Giugno 1. La sinistra vince le elezioni politiche in Francia: il socialista Lionel Jospin è il nuovo primo ministro. 5. Secondo un servizio pubblicato dal settimanale "Panorama", i paracadutisti italiani della Brigata "Folgore" che partecipavano alla missione di pace in Somalia tra il 1992 e il 1994 avrebbero compiuto torture e atti di violenza su cittadini somali. 8. Il ciclista Ivan Gotti si aggiudica il Giro d'Italia. 14. La procura di Milano emette un provvedimento di custodia cautelare per gli ex militanti neofascisti di Ordine nuovo Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, accusati di essere gli esecutori materiali della strage di Piazza Fontana (1969). 15. Nell'ambito dell'inchiesta sull'omicidio di Marta Russo vengono arrestati due dottorandi di ricerca dell'Istituto di filosofia del diritto, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, entrambi accusati di omicidio volontario. Le elezioni confermano Franjo Tudjman alla presidenza della Croazia. 17. Ustica: secondo le conclusioni della perizia sui tracciati radar acquisiti presso la Nato, al momento della sciagura era in corso una vera e propria battaglia aerea, condotta da velivoli militari italiani, libici, francesi e statunitensi. 29. In Albania le elezioni per il rinnovo del Parlamento, che si svolgono [p. 548] sotto il controllo di osservatori dell'Osce, decretano il successo del leader socialista Fatos Nano.
30. La Commissione bicamerale per le riforme costituzionali approva il progetto di modifica della seconda parte della Costituzione: fra le altre proposte, l'elezione diretta del capo dello Stato e il rafforzamento dei suoi poteri. |Luglio 1. Toni Negri, l'ex leader di Autonomia operaia che deve scontare una condanna a 4 anni e 11 mesi per associazione sovversiva, decide di rientrare in Italia e di costituirsi. La colonia inglese di Hong Kong torna alla Cina. 6. In seguito alla denuncia presentata da Tiziana Parenti, deputato di Forza Italia ed ex pubblico ministero del Pool di Mani pulite, viene iscritta nel registro degli indagati il sostituto procuratore di Milano Ilda Boccassini. 9. Tutti condannati gli 8 componenti del commando che occupò il campanile di piazza San Marco a Venezia. 10-12. I terroristi dell'Eta (l'organizzazione armata per l'indipendenza basca) sequestrano vicino a San Sebastiàn Miguel Angel Blanco, consigliere comunale del Partito popolare: in cambio del suo rilascio chiedono il trasferimento nelle carceri basche di 600 militanti reclusi nei penitenziari spagnoli. Allo scadere dell'ultimatum, Blanco viene ritrovato in fin di vita. 15. Assassinato a Miami lo stilista Gianni Versace: presunto omicida sarebbe Andrew Cunanan, un serial killer ricercato per altri 5 delitti, che viene trovato morto qualche giorno più tardi. Il Parlamento di Belgrado elegge Slobodan Milo¬sevi¬c presidente della Repubblica federale di Jugoslavia. 22. Il tribunale militare di Roma condanna Erich Priebke a 15 anni di carcere, di cui 10 condonati, per la strage delle Fosse Ardeatine. |Agosto 6. Nell'ambito dell'inchiesta sulle "toghe sporche" relativa a presunti episodi di corruzione di alcuni magistrati tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, la procura di Perugia iscrive nel registro degli indagati il generale della Guardia di finanza Giovanni Verdicchio, che si dimette dall'incarico di direttore della Dia. 8. Secondo le conclusioni della commissione d'inchiesta sui presunti abusi dei soldati italiani in Somalia, le violenze sono accertabili in tre degli otto casi esaminati, mentre si esclude la responsabilità dei vertici militari.
29. Le testimonianze dei massacri commessi dagli integralisti islamici ai danni della popolazione civile in Algeria provocano le reazioni indignate della comunità internazionale. 31. Muore in un incidente automobilistico a Parigi la principessa Diana: insieme a lei perdono la vita il suo compagno, il miliardario egiziano Dodi Al Fayed, e l'autista Henri Paul. [p. 549] |Settembre 3. La procura di Milano chiede alla Camera l'autorizzazione per la custodia cautelare nei confronti del deputato di Forza Italia Cesare Previti, accusato di aver corrotto alcuni magistrati per conto del costruttore Nino Rovelli. 5. Muore a Calcutta Madre Teresa. 10. Madeleine Albright inizia una missione in Medio Oriente nel tentativo di riavviare il dialogo di pace tra Israele e Olp interrottosi a causa dell'eccessiva intransigenza del governo Netanyahu. 26. Due forti scosse di terremoto colpiscono l'Italia centrale, in particolare Umbria e Marche, provocando 11 morti e 115 feriti; decine di migliaia di persone rimangono senza tetto e si registrano gravissimi danni al patrimonio artistico. La Corte d'assise di Caltanissetta infligge 24 ergastoli contro altrettanti imputati al processo per la strage di Capaci: tra i condannati a vita, il boss Salvatore Riina, mentre Giovanni Brusca dovrà scontare 26 anni di carcere. |Ottobre 9. Dario Fo, attore, scrittore e regista teatrale vince a sorpresa il premio Nobel per la letteratura. 24. L'Italia aderisce all'accordo di Schengen che decreta l'Europa un'area di libera circolazione; è ora possibile passare le frontiere tra Italia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia, Germania, Spagna e Portogallo senza esibire i documenti. 30. La Commissione bicamerale per le riforme costituzionali conclude la prima fase dei lavori, approvando fra l'altro l'elezione diretta del presidente della Repubblica e lo Stato federalista. 31. All'Istituto ortopedico Galeazzi di Milano muoiono 11 persone in un rogo sviluppatosi all'interno della camera iperbarica. |Novembre 1. L'accordo siglato tra governo e sindacati abolisce le cosiddette
"pensioni baby" che consentivano il pensionamento dei dipendenti pubblici prima dei 35 anni di contribuzione. 5. Con il 57 per cento dei voti viene rieletto sindaco di New York il repubblicano Rudolph Giuliani. 9. Antonio Di Pietro viene eletto al Senato, nelle liste dell'Ulivo, con i voti del collegio del Mugello. Muore Helenio Herrera, storico allenatore dell'Inter. 11. Termina il lungo sequestro (9 mesi) di Silvia Melis. Gli inquirenti sospettano che sia stato pagato un riscatto aggirando il blocco dei beni previsto dalla legge. |Dicembre 2. L'Enel, France Telecom e Deutsche Telekom lanciano Wind, una nuova società telefonica in diretta concorrenza con Telecom Italia. [p. 550] Il tribunale di Milano concede la semilibertà all'assassino di Aldo Moro, l'ex brigatista rosso Mario Moretti. Ha inizio a Londra la conferenza sull'oro degli ebrei sequestrato dai nazisti e mai restituito. 3. Il Senato approva la legge di riforma dell'esame di maturità, immutato da 30 anni. Muore, a 74 anni, il fumettista Benito Jacovitti, celebre inventore di Cocco Bill. 4. Il tribunale di Milano condanna Silvio Berlusconi a 1 anno e 4 mesi di carcere per falso in bilancio, ma il leader di Forza Italia usufruisce dell'amnistia e ottiene il condono della pena. 11. Viene rapita a Milano l'imprenditrice Alessandra Sgarella. A Londra ha luogo uno storico incontro tra il premier inglese Tony Blair e Gerry Adams, presidente del Sinn Fein, ala politica dell'Ira. 13. Muore a soli 33 anni Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto ed erede designato dell'impero Fiat. 25. Muore il regista teatrale Giorgio Strehler, fondatore insieme a Paolo Grassi del Piccolo Teatro di Milano. 1998 |Gennaio 2. Entra in vigore la legge sulla tutela della privacy, approvata dal Parlamento nel 1997. 4-13. Proseguono in Algeria le stragi compiute dai terroristi del Gruppo islamico armato; si calcola che dall'inizio della guerra civile vi siano stati circa 10.000 morti. 10. Il ministro della Sanità Rosy Bindi autorizza l'inizio della
sperimentazione della cura anticancro messa a punto dal professor Luigi Di Bella. 17. Il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, viene interrogato dai legali di Paula Jones, vittima di presunte molestie sessuali; Linda Tripp lo accusa di aver mentito sotto giuramento, negando la relazione con la stagista della Casa Bianca, Monica Lewinsky. 21. La Camera respinge la richiesta di arresto nei confronti di Cesare Previti presentata dal Pool di Mani pulite. Giovanni Paolo II compie una storica visita a Cuba. 22. Il presidente della Rai Enzo Siciliano annuncia le proprie dimissioni. 23. Cesare Romiti lascia la presidenza della Fiat per raggiunti limiti di età; gli subentra Paolo Fresco. Monica Lewinsky ammette di aver avuto una relazione con Bill Clinton; le prove (17 nastri) sono consegnate da Linda Tripp al procuratore Kenneth Starr: si apre lo scandalo denominato "Sexgate". 29. La procura di Verona chiede il rinvio a giudizio per Umberto Bossi e altri 40 dirigenti della Lega; fra le accuse, quella di attentato contro l'integrità e l'unità dello Stato. [p. 551] |Febbraio 4. Un jet militare statunitense partito dalla base di Aviano trancia i cavi della funivia del Cermis, provocando la caduta di una cabina e la morte di 20 persone; il ministro della Difesa Nino Andreatta sostiene l'ipotesi secondo cui i piloti volavano fuori rotta e ad altezza non regolamentare. 6. Le autorità militari statunitensi rigettano le accuse sul disastro del Cermis; il portavoce del Pentagono ribadisce l'esclusiva competenza delle autorità statunitensi a giudicare l'operato dei piloti coinvolti nella tragedia. 10. Dopo il pagamento di 5 miliardi di riscatto, viene liberato nei dintorni di Firenze l'imprenditore Giuseppe Soffiantini. 17. Varato un decreto legge che stabilisce le norme cui attenersi nella sperimentazione del metodo Di Bella. 18. Termina il monopolio della Telecom nell'ambito della telefonia fissa e mobile; concesse licenze di fornitura a Wind e Infostrada (joint venture tra Olivetti e Mannesmann). Claudio Demattè è il nuovo presidente delle Ferrovie dello Stato. 19. Il Senato approva la legge sull'immigrazione, che prevede l'espulsione immediata dei clandestini. Gli immigrati in regola da più
di 5 anni, invece, potranno ottenere nuovi diritti, tra cui l'assistenza sanitaria gratuita. 23. Il leader iracheno Saddam Hussein e il segretario generale dell'Onu Kofi Annan sottoscrivono un accordo che consente agli ispettori internazionali di riprendere le attività di controllo degli arsenali iracheni. |Marzo 1. In Kosovo, regione serba a maggioranza albanese, scoppiano violenti scontri fra indipendentisti e forze di polizia. 2. Viene consegnata ai magistrati trentini la perizia sull'incidente della funivia del Cermis: causa della tragedia è ritenuta l'imprudenza dei piloti dell'aereo che volava a una quota non consentita. 5. Truppe speciali serbe intervengono nel distretto di Drenica, considerata una delle basi dell'esercito clandestino di liberazione del Kosovo (Uck); le testimonianze parlano di massacri compiuti sulla popolazione civile. 7. La Corte d'appello militare, riunita nell'aula bunker del Foro Italico a Roma, condanna all'ergastolo Erich Priebke e Karl Hass, riconosciuti responsabili dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. 8. In Cile parte dell'opinione pubblica protesta contro la nomina a senatore a vita dell'ex dittatore Augusto Pinochet. Le immagini delle atrocità commesse in Kosovo dalla polizia serba di Slobodan Milo¬sevi¬c fanno il giro del mondo. 18. La Corte d'appello di Milano respinge la richiesta di revisione del processo per l'omicidio Calabresi avanzata da Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani. 23. Il presidente russo Boris Eltsin destituisce l'esecutivo presieduto da Victor Cernomyrdin; l'incertezza provoca il crollo della Borsa di Mosca. [p. 552] 24. Approvato dal governo il disegno di legge che prevede la riduzione a 35 ore dell'orario di lavoro per le imprese con più di 15 dipendenti. Titanic, il kolossal diretto da James Cameron, conquista 11 Oscar. 25. La Commissione europea include l'Italia fra gli 11 paesi che dal 1o gennaio 1999 adotteranno la moneta unica (l'euro). Il Gruppo di contatto per la Bosnia (di cui fanno parte Italia, Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania) prende posizione contro l'intervento serbo in Kosovo e minaccia un inasprimento delle sanzioni economiche nei confronti della
Federazione jugoslava se entro 4 settimane le parti in causa non avvieranno un negoziato. |Aprile 10. La procura di Brescia accusa il generale dei carabinieri Francesco Delfino di favoreggiamento e concussione nel caso del rapimento di Giuseppe Soffiantini. Viene sottoscritto a Belfast l'accordo di pace tra cattolici e protestanti: l'intesa pone fine a 30 anni di guerra civile, costati 3000 vittime. 15. Muore Pol Pot, ex dittatore della Cambogia, responsabile dello sterminio di circa 2 milioni di persone fra il 1975 e il 1979. 16. La Corte di cassazione annulla la condanna inflitta a Bettino Craxi per le tangenti sulla metropolitana milanese. Craxi sarà successivamente condannato di nuovo. 19. Inizia a Roma il processo per l'omicidio di Marta Russo: imputati due assistenti universitari, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. 29. Il leader israeliano Benjamin Netanyahu rifiuta di attenersi agli accordi per il ritiro delle truppe dalla Cisgiordania. |Maggio 1. I ministri delle Finanze europei sanciscono la nascita dell'euro. 5. In Campania un'alluvione provoca oltre 100 vittime e danni per miliardi: il paese più colpito è Sarno. 6. Viene arrestato a Genova il serial killer Donato Bilancia, responsabile di 9 omicidi. 9. In occasione dell'incontro a Londra dei G8, il segretario di Stato americano Madeleine Albright dichiara "inaccettabile" la situazione in Kosovo. 11. L'India effettua tre test atomici sotterranei nel deserto del Rajasthan. 13. Bill Clinton annuncia sanzioni contro i test atomici condotti dall'India, in applicazione del trattato contro la proliferazione nucleare. 15. Muore a Los Angeles Frank Sinatra, "Voce" leggendaria della musica. 21. In seguito ai gravissimi disordini che sconvolgono Giakarta, il presidente Suharto si dimette, lasciando la guida del paese al figlioccio Jusuf Habibie.
28. In risposta ai test atomici indiani, il Pakistan fa esplodere cinque testate nucleari nel deserto del Baluchistan. [p. 553] |Giugno 7. Marco Pantani si aggiudica il Giro d'Italia. 10. Arrestato in Argentina l'ex dittatore Jorge Rafael Videla. 16. Passa al Senato la legge che riconosce il diritto all'obiezione di coscienza; ai giovani che non intendono prestare il servizio di leva basterà una semplice dichiarazione. 24. Fallito ogni tentativo di mediazione, si apre una grave crisi militare fra Etiopia ed Eritrea. |Luglio 2. Francesco Cossiga fonda l'Unione Democratici per la Repubblica (Udr) che raggruppa deputati, senatori ed europarlamentari provenienti dal Cdu di Rocco Buttiglione, dal gruppo di Clemente Mastella staccatosi dal Ccd, dal Patto Segni e dai liberali di Carlo Scognamiglio. 7. Il tribunale di Milano condanna Silvio Berlusconi a 2 anni e 9 mesi di carcere per le tangenti pagate alla Guardia di finanza. 12. La Francia vince il Campionato mondiale di calcio. 13. Il leader di Forza Italia viene condannato a 2 anni e 4 mesi di reclusione nell'ambito del processo "All Iberian", per un finanziamento illecito versato all'allora segretario del Partito socialista Bettino Craxi. In sede di appello, il reato sarà prescritto. 18. Alla presenza di Kofi Annan viene firmato in Campidoglio il Trattato di Roma che istituisce il tribunale penale internazionale, con sede all'Aja; giudicherà i delitti di genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra e aggressione. 23. In relazione al sequestro Melis, la procura della Repubblica di Palermo accusa di tentata estorsione l'imprenditore Nicola Grauso, il procuratore della Repubblica Luigi Lombardini e l'avvocato Antonio Piras. 25. Il procuratore Kenneth Starr emette un'ingiunzione contro Bill Clinton per la vicenda Lewinsky. 28. L'Istituto superiore di Sanità rende pubblici i dati sulla cura Di Bella, secondo i quali la terapia non ha alcun beneficio nel trattamento dei tumori. 30. Approvata dal Parlamento italiano la legge contro la pedofilia, che prevede un inasprimento delle pene anche per i colpevoli di
sfruttamento sessuale dei minori. |Agosto 1. La procura di Roma chiede il rinvio a giudizio per 4 generali dell'aeronautica militare accusati di depistaggio e alto tradimento in riferimento alla strage di Ustica. 2. Marco Pantani vince il Tour de France. 6. Proseguono gli scontri in Kosovo e inizia l'esodo di migliaia di profughi. 7. Due gravi attentati alle sedi diplomatiche statunitensi di Nairobi (Kenia) e Dar Es Salaam (Tanzania) provocano decine di morti; secondo l'Fbi la responsabilità ricadrebbe sul Fronte internazionale islamico, l'organizzazione terroristica guidata dal miliardario saudita Osama Ben Laden. [p. 554] 11. Si suicida a Cagliari il giudice Luigi Lombardini. 13. Le banche svizzere decidono di risarcire le vittime dell'Olocausto o i loro eredi dei beni depositati durante la seconda guerra mondiale e mai restituiti. 17. Bill Clinton, interrogato da Kenneth Starr, ammette di aver avuto una relazione "impropria" con Monica Lewinsky. 21. La procura di Lagonegro (Potenza) emette un avviso di garanzia per associazione a delinquere finalizzata all'usura nei confronti del cardinale di Napoli Michele Giordano. |Settembre 2. Il tribunale penale internazionale dell'Onu condanna per genocidio il sindaco della città ruandese di Taba, teatro di alcuni massacri nel corso della guerra tra etnie hutu e tutsi (1994). 4. Liberata nella Locride l'imprenditrice milanese Alessandra Sgarella dopo 9 mesi di sequestro; il rilascio è avvenuto grazie ad alcune concessioni giudiziarie in favore di esponenti della 'ndrangheta calabrese. 5. Si dimette il presidente del Coni Mario Pescante, in seguito all'inchiesta condotta dal procuratore di Torino Raffaele Guariniello sulla pratica del doping negli ambienti del calcio italiano. 6. Muore il regista giapponese Akira Kurosawa. 9. Muore a Milano il cantante Lucio Battisti. Kenneth Starr consegna alla Commissione giustizia della Camera il rapporto sullo scandalo Clinton-Lewinsky. Il presidente è accusato di falsa testimonianza, depistaggio e abuso di potere. 10. Catturato in Francia Licio Gelli, latitante da 4 mesi.
27. In Germania, il Partito socialdemocratico vince le elezioni politiche; Gerhard Schröder succede come cancelliere a Helmut Kohl. |Ottobre 2. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu condanna le stragi in Kosovo, ingiungendo formalmente al presidente jugoslavo Slobodan Milo¬sevi¬c di individuare i responsabili. 7. Nel dibattito alla Camera sulla fiducia al governo Prodi si consuma la rottura all'interno di Rifondazione comunista tra Fausto Bertinotti (contrario) e Armando Cossutta (favorevole), il quale annuncia l'intenzione di costituire un nuovo partito politico, i Comunisti italiani. 8. Dopo la Camera, anche il Congresso americano approva l'apertura del procedimento di impeachment nei confronti del presidente Bill Clinton in merito alla vicenda Lewinsky. 9. Cade il governo Prodi, al quale la Camera nega la fiducia per un solo voto. 13. Il presidente jugoslavo Slobodan Milo¬sevi¬c accetta di ritirare le truppe serbe dal Kosovo e di permettere il dispiegamento di una forza internazionale composta da 2000 osservatori dell'Osce. 16. Il premio Nobel per la pace è assegnato a John Hume, cattolico, e a [p. 555] David Trimble, protestante, per l'impegno nel raggiungimento dell'accordo di pace per l'Irlanda del Nord. 17. Per ordine della magistratura spagnola viene arrestato a Londra, dove è ricoverato per un intervento chirurgico, l'ex dittatore cileno Augusto Pinochet. 21. Entra ufficialmente in carica il governo guidato da Massimo D'Alema, segretario del Pds. 23. Firmato a Washington l'accordo di pace tra Benjamin Netanyahu e Yasser Arafat: l'intesa prevede, tra l'altro, il ritiro di Israele dal 13 per cento del territorio della Cisgiordania. 25. Primo giorno per il nuovo aeroporto milanese "Malpensa 2000". |Novembre 1. La Mclaren del pilota finlandese Mika Hakkinen si aggiudica il campionato del mondo di Formula 1. 3. Nasce a Strasburgo la nuova Corte per i diritti umani, formata da 40 giudici, uno per ogni paese membro del Consiglio d'Europa. 6. Walter Veltroni è il nuovo segretario dei Ds. 13-14. Arrestato all'aeroporto di Fiumicino Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), accusato di omicidio
dalla magistratura turca e tedesca. Il giorno dopo, Ocalan chiede asilo politico all'Italia. 17. Scongiurata la crisi con l'Iraq, tornano a Baghdad gli ispettori delle Nazioni Unite. 20. La Corte d'appello di Roma revoca il mandato di cattura spiccato dalle autorità turche nei confronti di Abdullah Ocalan, in quanto in Turchia vige la pena di morte. Il governo di Ankara minaccia pesanti ritorsioni nei confronti dell'Italia. 25. I cinque giudici della Camera dei Lord britannica decretano la legittimità dell'arresto dell'ex dittatore cileno Augusto Pinochet. 28. La nazionale azzurra di pallavolo si laurea campione del mondo per la terza volta consecutiva. |Dicembre 10. Celebrati a Parigi i 50 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani. 16-17. In seguito al comportamento del presidente iracheno Saddam Hussein, il quale continua a intralciare il lavoro dell'Unscom, ha inizio l'operazione militare statunitense denominata "Desert Fox". 20. Termina l'operazione "Desert Fox" lanciata da Stati Uniti e Gran Bretagna contro l'Iraq. 27. Nonostante la tregua firmata nell'ottobre precedente, riprendono in Kosovo gli scontri tra le forze di Belgrado e i ribelli dell'Uck. 31. A Bruxelles i ministri economico-finanziari e i governatori delle Banche centrali fissano le parità delle monete degli undici paesi dell'euro, che rimarranno fisse fino al 1o gennaio 2002: un euro vale 1936,27 lire. [p. 556] 1999 |Gennaio 7. Si apre negli Stati Uniti il processo al presidente Bill Clinton, accusato di spergiuro e ostruzione alla giustizia in relazione alla vicenda Lewinsky. 9. Per rappresaglia al rapimento di otto militari da parte dell'Uck (l'Esercito di liberazione del Kosovo), l'artiglieria jugoslava bombarda i villaggi albanesi del Kosovo settentrionale. 13. Si tengono a Carignano (To) i funerali pubblici del cantautore Fabrizio De André. 16. Il leader del Pkk, Abdullah Ocalan, lascia l'Italia con destinazione ignota.
Gli osservatori dell'Osce accusano la polizia speciale serba del massacro di 45 civili albanesi a Racak, nei pressi di Pristina. 23. In relazione al processo per la strage di via D'Amelio, la Corte d'appello di Caltanissetta conferma la pena all'ergastolo solo per Salvatore Profeta, ritenuto l'esecutore materiale del delitto. 29. Il Gruppo di contatto dell'Onu presenta un piano di pace per il Kosovo che prevede l'apertura di un negoziato tra le parti nel castello di Rambouillet, alle porte di Parigi. |Febbraio 5. Nasce il gruppo politico Democratici per l'Ulivo, di cui fanno parte tra gli altri Romano Prodi e Antonio Di Pietro e che ha come simbolo un asinello. 6. Mentre re Hussein di Giordania è mantenuto artificialmente in vita, viene nominato reggente il primogenito Abdallah Ibn al-Hussein. Il presidente francese Jacques Chirac apre ufficialmente i negoziati sul Kosovo a Rambouillet. 8. Funerali di Stato ad Amman per re Hussein di Giordania. 12. Bill Clinton viene assolto da ogni accusa in relazione alla vicenda Lewinsky. 16. Il velista Giovanni Soldini, impegnato nel giro del mondo in solitario, salva la concorrente francese Isabelle Autissier. Abdullah Ocalan viene catturato a Nairobi e trasportato in un carcere turco di massima sicurezza. 18. Francesco Cossiga lascia l'Udr, il partito da lui stesso fondato, e si iscrive al Gruppo misto del Senato. 23. La conferenza di Rambouillet si chiude senza un accordo definitivo. 26. Il presidente serbo Slobodan Milo¬sevi¬c raduna le truppe lungo le frontiere del Kosovo e blocca gli inviati dell'Osce. |Marzo 1. Entra in vigore il trattato di Ottawa, che mette al bando la produzione e la vendita di mine antiuomo; l'accordo, sottoscritto da 134 paesi, non è accettato da Stati Uniti, Russia e Cina. 4. La Corte marziale americana assolve il pilota Richard Ashby da ogni accusa per la sciagura del Cermis. [p. 557] 7. Inaugurata a Padova la prima banca etica italiana. Scompare in Inghilterra il regista americano Stanley Kubrik. 11. Il tedesco Oskar Lafontaine si dimette da ministro delle Finanze e da presidente della Spd.
12. Ratifica ufficiale dell'ingresso di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria nella Nato. 15. La Corte marziale americana assolve dall'accusa di omicidio colposo Joseph Schweitzer, il navigatore del caccia che ha provocato la sciagura del Cermis. 18. Il piano di pace elaborato a Rambouillet viene firmato solo dalla delegazione albanese; la mancata adesione serba provoca il fallimento dei negoziati. 20. I massicci bombardamenti serbi sul Kosovo determinano la fuga di decine di migliaia di civili albanesi. 21. Il film di Roberto Benigni La vita è bella vince 3 Oscar, mentre il film di Steven Spielberg Salvate il soldato Ryan si aggiudica 5 statuette. 23. Il segretario generale della Nato, Javier Solana, ordina al comandante supremo delle Forze alleate in Europa, generale Wesley Clark, di iniziare le operazioni militari contro il regime di Slobodan Milo¬sevi¬c. 24. Un incendio sviluppatosi all'interno del traforo del Monte Bianco provoca 45 morti. Il vertice dell'Ue elegge all'unanimità Romano Prodi a capo dell'esecutivo comunitario. Parte l'attacco aereo della Nato contro Belgrado. 26. La Camera approva a larga maggioranza l'intervento della Nato in Kosovo e l'impegno dell'Italia a fianco degli alleati. 27. Il gruppo francese Renault assume il controllo azionario della giapponese Nissan. 29. Aumenta il numero dei profughi kosovari in fuga, vittime della pulizia etnica serba; il governo italiano vara la missione "Arcobaleno": un ponte aereo e navale porterà aiuti umanitari alla popolazione. 30. Fallisce a Belgrado la missione diplomatica del premier russo Evghenij Primakov. 31. Il Senato approva la legge sulla donazione di organi che si basa sul principio del silenzio-assenso. |Aprile 4. Il tribunale per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia con sede all'Aia apre un'inchiesta ufficiale sulle atrocità commesse in Kosovo. 5. Il leader libico Muahammar Gheddafi consegna alla comunità internazionale i due presunti autori dell'attentato di Lockerbie.
12. Un missile Nato colpisce per errore un treno di civili nella Serbia meridionale. 15. Il ministro dell'Interno britannico Jack Straw conferma la decisione secondo la quale l'ex dittatore cileno Augusto Pinochet potrà essere estradato in Spagna. [p. 558] 23. Un attacco missilistico della Nato distrugge a Belgrado la televisione di Stato serba. La Commissione europea approva l'embargo petrolifero contro la Serbia. 26. Il governo di Belgrado impone alla stampa estera una rigida censura. |Maggio 2. Con una cerimonia solenne in piazza San Pietro, Giovanni Paolo II proclama beato padre Pio. 4. Il governo italiano decide di accogliere 10.000 profughi kosovari rifugiatisi in Macedonia. 5. Il leader kosovaro moderato Ibrahim Rugova è ospite del governo italiano. 6. La Camera approva il provvedimento che vieta la clonazione di esseri umani. 8. La Nato bombarda l'ambasciata cinese a Belgrado provocando 4 morti: in Cina si registrano violente manifestazioni antiamericane. 13. Carlo Azeglio Ciampi viene eletto presidente della Repubblica italiana. 17. Il laburista Ehud Barak sconfigge il conservatore Benjamin Netanyahu nelle elezioni politiche israeliane. 20. In un agguato a Roma, rivendicato in seguito dalle Brigate rosse, viene ucciso il giurista Massimo D'Antona. 24. Si conclude dopo un ventennio il restauro dell'Ultima cena, l'affresco di Leonardo da Vinci ubicato nel complesso della chiesa milanese di Santa Maria delle Grazie. Le Assicurazioni Generali consegnano al Museo dell'Olocausto di Gerusalemme un elenco di 100.000 polizze stipulate da ebrei fra il 1918 e il 1948 e mai riscosse, impegnandosi a risarcire gli eventuali eredi. 28. Il ministero della Sanità belga impone il ritiro dal commercio di polli e uova di produzione interna, dopo che alcuni test hanno rilevato alte concentrazioni di diossina. |Giugno
1. In relazione all'omicidio di Marta Russo, vengono condannati Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente a 7 anni per omicidio colposo e a 4 per favoreggiamento. 3. Il Parlamento di Belgrado approva il piano di pace per il Kosovo proposto dal mediatore europeo Martti Ahtisaari e dal russo Viktor Cernomyrdin; nel giro di pochi giorni inizieranno le trattative militari per il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo. 4. In seguito allo scandalo dei mangimi alla diossina, viene bloccata in tutta Europa la commercializzazione di carni bovine, suine e di latte provenienti dal Belgio. 5. Marco Pantani viene escluso dal Giro d'Italia perché positivo a un test antidoping. [p. 559] 9. Il generale Michael Jackson annuncia il raggiungimento dell'accordo con i serbi per il ritiro delle truppe di Milo¬sevi¬c dal Kosovo e l'ingresso del contingente di pace Kfor, formato da soldati britannici, tedeschi, statunitensi, francesi, italiani e russi. 10. Il segretario generale della Nato ordina l'interruzione dei bombardamenti sulla Serbia. 11. Firmato l'accordo per il rientro in Italia di Silvia Baraldini. 14. Buona affermazione di Forza Italia e della Lista Bonino alle elezioni europee. 18. Approvato dal Consiglio dei ministri il decreto di riforma sulla sanità che prevede, fra l'altro, l'obbligo per i medici di scegliere tra impiego pubblico e libera professione. 19. In Kosovo i guerriglieri dell'Uck iniziano a consegnare le armi nel rispetto degli accordi sottoscritti. 29. Abdullah Ocalan viene condannato a morte per tradimento dal tribunale speciale per la sicurezza dello Stato turco. |Luglio 1. La regina Elisabetta II inaugura il primo Parlamento scozzese della storia britannica. 3. I quattro fratelli Furlan e Paolo Bertocco vengono condannati a 27 anni e 6 mesi di reclusione, in quanto ritenuti colpevoli della morte di Letizia Berdini, uccisa da un sasso lanciato da un cavalcavia dell'autostrada. 23. Muore il re del Marocco Hassan II. |Agosto 5. Il tribunale di Roma concede la semilibertà a Toni Negri, ex
leader di Autonomia operaia. 10. I fondamentalisti islamici della Shura proclamano l'indipendenza del Daghestan dalla Russia. 17. Violento terremoto in Turchia: decine di migliaia le vittime. |Settembre 3. Il Consiglio dei ministri approva il progetto per la graduale abolizione del servizio militare di leva e la professionalizzazione delle forze armate. 4. In Egitto, il premier israeliano Ehud Barak e il leader palestinese Yasser Arafat sottoscrivono ufficialmente gli accordi "Wye-2" (applicazione degli accordi di Wye Plantation, 1998), che prevedono il ritiro delle truppe di Tel Aviv dalla Cisgiordania in tre tappe successive. Schiacciante vittoria degli indipendentisti al referendum popolare per l'autonomia di Timor Est dall'Indonesia; i miliziani filoindonesiani scatenano sanguinose rappresaglie contro la popolazione civile e i funzionari dell'Onu. 7. Il presidente indonesiano Jusuf Habibie proclama la legge marziale e il coprifuoco a Timor Est, dove proseguono i massacri e i saccheggi. [p. 560] 9. Con la Dichiarazione di Sirte, sottoscritta da 43 leader africani, nasce l'Unione africana, che nel 2000 si doterà di un proprio Parlamento. 13. Scoppia il caso del dossier Mitrokhin: secondo il documento consegnato dalla Gran Bretagna all'Italia, giornalisti, diplomatici ed esponenti dei principali partiti politici italiani passavano informazioni ai sovietici durante il periodo della guerra fredda. 15. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu approva una risoluzione che prevede l'intervento a Timor Est di una forza di pace internazionale (Interfet), sotto il comando dell'Australia. 17. Nell'ambito della privatizzazione dell'Enel, il presidente del Consiglio Massimo D'Alema stabilisce che lo Stato mantenga la golden share dell'ente per almeno 5 anni. 18. Muore a Milano il senatore a vita Leo Valiani. 20. Muore in Germania Raissa Gorbaciova, moglie dell'ex leader sovietico Michail Gorbaciov. 21. Il governo russo chiude le frontiere con la Cecenia e accusa i guerriglieri indipendentisti di essere i responsabili dei gravi attentati terroristici degli ultimi mesi. 23. In seguito alle testimonianze di saccheggi a danno degli aiuti
umanitari italiani compiuti nel porto di Valona (Albania) sotto gli occhi di poliziotti italiani e funzionari della Protezione civile, la procura di Bari apre un'indagine penale sulla missione "Arcobaleno". Aerei russi bombardano l'aeroporto di Grozny, capitale della Cecenia. 24. La Corte d'assise di Perugia assolve Giulio Andreotti dall'accusa di essere il mandante dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli. 29. La Camera approva la legge che prevede il servizio militare femminile su base volontaria. Passa al Senato la legge costituzionale che garantisce il diritto di voto per gli italiani residenti all'estero. La Corte d'assise di Caltanissetta condanna all'ergastolo 4 mafiosi accusati dell'omicidio del giudice Rosario Livatino. 30. Lo scrittore tedesco Günther Grass riceve il premio Nobel per la letteratura. Ottobre 1. L'antitrust condanna a una multa miliardaria sia Omnitel sia Tim accusate di aver siglato un'intesa sulle tariffe in violazione delle leggi vigenti. L'esercito russo avanza in territorio ceceno per contrastare la guerriglia islamica. Alcuni giorni più tardi il presidente ceceno Aslan Maskhadov proclama la legge marziale e chiede al clero musulmano di dichiarare la guerra santa contro la Russia. 2. Pierluigi Castagnetti è il nuovo segretario del Ppi. 11. La Commissione stragi riceve il dossier Mitrokhin e rende pubbliche le informazioni in esso contenute. 12. Golpe militare in Pakistan: il generale Parvez Musharraf depone il primo ministro Nawaz Sharif e dichiara lo stato d'emergenza. [p. 561] 13. Si chiude il processo per il rogo della camera iperbarica dell'ospedale Galeazzi di Milano, con condanne a carico del primario del reparto e dell'allora presidente dell'istituto Antonino Ligresti. 14. L'ex ministro della Difesa inglese George Robertson è il nuovo segretario generale della Nato. 15. Il premio Nobel per la pace viene assegnato all'organizzazione "Médecins sans frontières". 19. Il Parlamento indonesiano ratifica l'indipendenza di Timor Est. 20. Inizia nell'aula bunker di Mestre il processo di revisione per l'omicidio Calabresi: imputati Leonardo Marino, Adriano Sofri, Ovidio
Bompressi e Giorgio Pietrostefani. 23. Il tribunale di Palermo assolve con formula piena Giulio Andreotti dall'accusa di associazione mafiosa. 26. Craxi ricoverato d'urgenza nell'ospedale militare di Tunisi per un attacco cardiaco. Nei giorni successivi, vivacissime polemiche politiche sull'ipotesi del suo rientro. [p. ] Tabelle 8: La Camera dei deputati nella Prima Repubblica... Legenda: 1) Elezioni 3/6/79 2) Elezioni 26/6/83 3) Elezioni 14/6/87 4) Elezioni 5/4/92 1) Dc 38,3 (262); Pci-Pds 30,4 (201); Psi 9,8 (62); Pri 3,0 (16); Psdi 3,8(20); Pli 1,9 (9); Msi-Dn 5,3 (30); Radicali 3,5 (18); Verdi -; Lega -; Rifondazione -; Pdup 1,4 (6); Dem. Prol. 2) Dc 32,9 (225); Pci-Pds 29,9 (198); Psi 11,4 (73); Pri 5,1 (29); Psdi 4,1 (23); Pli 2,9 (16); Msi-Dn 6,8 (42); Radicali 2,2 (11); Verdi -; Lega -; Rifondazione -; Pdup -; Dem. Prol. 1,5 (7) 3) Dc 34,3 (234); Pci-Pds 26,6 (177); Psi 14,3 (94); Pri 3,7 (21); Psdi 2,9 (17); Pli 2,1 (11); Msi-Dn 5,9 (35); Radicali 2,6 (13); Verdi 2,5 (13); Lega 0,5 (1); Rifondazione -; Pdup -; Dem. Prol. 1,7 (8) 4) Dc 29,7 (206); Pci-Pds 16,1 (107); Psi 13,6 (92); Pri 4,4 (27); Psdi 2,7 (16); Pli 2,8 (17); Msi-Dn 5,4 (34); Radicali -; Verdi 2,8 (16); Lega 8,7 (55); Rifondazione 5,6 (35); Pdup -; Dem. Prol. :::::::::::::::::::::::::::::::::::::: 8: nella Seconda Repubblica... Legenda: 1) Elezioni 27/3/94 2) Elezioni 28/4/96 1) Pds 20,3 (164); Forza Italia 21 (113); Alleanza nazionale 13,5 (109); Partito popolare italiano 11,1 (33); Lega nord 8,4 (117); Rifondazione comunista 6,0 (39); Lista Pannella 3,5; Verdi 2,7; Psi 2,2; La Rete 1,9; Alleanza democratica 1,2; Ccd - (27); Rinnovamento
italiano-Dini -; Fiamma (Rauti) -; Gruppo misto - (28) 2) Pds 21,1 (172); Forza Italia 20,6 (123); Alleanza nazionale 15,7 (91); Partito popolare italiano 6,8 (67) (*); Lega nord 10,1 (58); Rifondazione comunista 8,6 (34); Lista Pannella 1,9 (**); Verdi 2,5; Psi -; La Rete -; Alleanza democratica -; Ccd 5,8 (30) (*); Rinnovamento italiano-Dini 4,3 (26); Fiamma (Rauti) 0,9; Gruppo misto - (29) :::::::::::::::::::::::::::::::::::::: 8: NOTE: (*) Con Prodi (**) Con Sgarbi (*) Con Cdu e nell'ottobre 1999 Democratici di sinistra-Ulivo 163; Forza Italia 109; Gruppo misto 112; Alleanza nazionale 91; Popolari e democratici-L'Ulivo 61; Lega nord 48; Gruppo comunista 21; I Democratici-L'Ulivo 21 :::::::::::::::::::::::::::::::::::::: 8: Elezioni europee del 13/6/99 Democratici di sinistra 17,3; Forza Italia 25,2; Alleanza nazionale-Patto Segni 10,3; Partito popolare 4,2; Lega nord 4,5; Rifondazione comunista 4,3; Comunisti italiani 2,0; Verdi 1,8; Ccd 2,6; Cdu 2,2; Rinnovamento italiano-Dini 1,1; Movimento sociale tricolore 1,6; Socialisti democratici italiani 2,2; Socialista 0,1; I Democratici 7,7; Lista Bonino 8,5; Pri-Lib-Eldr 0,5 :::::::::::::::::::::::::::::::::::::: Indice dei nomi campora, Giovanni, 382 Acquaviva, Gennaro, 120, 263 Agag Longo, Alejandro, 447 Agnelli, Giovanni, 161, 176, 184, 188-189, 233, 237, 270, 281, 284-285, 299, 306, 415 Agnelli, Susanna, 306, 339 Agnelli, Umberto, 189
Agnes, Biagio, 43-45, 59, 80 Agrusti, Michelangelo, 322 Almerighi, Mario, 47 Almirante, Giorgio, 45, 47-52, 144, 230, 254, 354 Altissimo, Renato, 33, 92, 96, 158, 160, 263 Amaldi, Edoardo, 45 Amato, Giuliano, 54, 69, 120, 137, 139, 142, 147-148, 219, 240, 263, 346, 355, 402, 425, 435 Amendola, Giorgio, 28, 35, 67, 492 Amodio, Ennio, 414 Amorese, Renato, 133 Andò, Salvo, 120, 263 Andreani, Stefano, 104 Andreatta, Nino, 242, 298, 310-312 Andreotti, Giulio, 9, 12, 15, 36, 39, 41-43, 48, 60-65, 68-72, 77, 83-84, 86, 89, 91, 94, 96, 98-100, 104-105, 109-110, 113, 117, 119, 129, 144, 180, 183, 184-186, 219, 234, 260, 304, 311, 415, 468-486, 498-501, 503 Andrew, Christopher, 67, 205-207, 489, 491-493, 495 Andropov, Jurij, 23 Angelini, Claudio, 80 Angiolillo, Maria, 299, 304, 352 Angiolillo, Renato, 236 Angius, Gavino, 54 Annunziata, Lucia, 368 Anselmi, Giulio, 103, 128, 149 Arafat, Yasser, 413 Are, Mario, 382 Ariosto, Stefania, 214, 372-381, 394 Arlacchi, Pino, 394, 475 Armani, Pietro, 316, 444 Armanini, Walter, 131-133, 157-158 Ascione, Guglielmo, 172 Ayala, Giuseppe, 110 Aznar, José Maria, 464
Baader, Andreas, 489 Babbini, Eugenio, 461 Badalamenti, Tano, 475, 483-485 Badaloni, Nicola, 293
Baffi, Paolo, 304, 432 Bagarella, Leoluca, 225 Baggio, Dino, 415 Baggio, Roberto, 272 Balzamo, Vincenzo, 133, 134, 145, 151-152, 154, 175, 199, 201 Barbera, Augusto, 149 Bargone, Antonio, 393 Baron Crespo, Enrique, 12 Bartolini, Silvia, 456-457 Bartoloni, Bruno, 15 Bassanini, Franco, 353, 486, 488 Basso, Lelio, 207 Bassolino, Antonio, 20, 24-25, 30, 32, 226-229, 402, 486-487 Battaglia, Adolfo, 43 Battista, Pierluigi, 403 Battista, Sabino, 282 Baudo, Pippo, 45 Bellese, Viviana, 193 Belliazzi, Umberto, 182-183 Bellini, Gianmarco, 31 Bellisario, Marisa, 171 Bellu, Giovanni Maria, 63-64 Benetton Luciano, 237, 367 Benvenuto, Giorgio, 149 Beria di Argentine, Chiara, 145 Berlinguer, Enrico, 17, 22-23, 33, 35-37, 67, 79, 143, 193, 294, 297, 385, 456, 491, 493, 495 Berlinguer, Luigi, 149, 358 Berlini, Giuseppe, 172 Berlusconi, Marina, 408 Berlusconi, Paolo, 249, 258, 280, 283-284, 320, 355, 409 Berlusconi, Piersilvio, 409 Berlusconi, Rosa, 409 Berlusconi, Silvio, 38, 43-45, 51, 52, 58, 70, 81, 134, 184, 192, 217-219, 230-239, 242, 243-276, 277-317, 318-339, 344-345, 352-361, 363-382, 385-394, 399, 404-419, 421, 423, 430-437, 442-443, 447-449, 451, 453, 458, 460-464, 467, 477, 502-503 Berlusconi, Veronica, 244-245, 277 Bernabè, Franco, 342 Bernabei, Ettore, 44-45 Bernasconi, Carlo, 245
Bernini, Carlo, 43, 98 Bersani, Pierluigi, 402 Berselli, Edmondo, 412 Berselli, Filippo, 454 Bertinotti, Fausto, 303, 307-308, 345, 352, 384-386, 394, 398-401, 407, 412, 421-423, 431-432, 434, 437, 443, 446, 488 Biagi, Enzo, 108, 375, 435 Bianchi, Giovanni, 298, 300, 310, 312 Bianco, Enzo, 221, 445 Bianco, Gerardo, 74, 242, 358, 384, 389-390 Biffi, Giacomo, cardinale, 453 Bilenchi, Romano, 45 Binasco, Bruno, 204 Bindi, Rosy, 38, 231, 297-299, 310 Biondi, Alfredo, 183, 266, 269-272, 275-276, 326, 329, 334-335, 350, 420, 474 Birindelli, Gino, 47 Blair, Tony, 16, 443, 445, 466 Boato, Marco, 389 Bobbio, Norberto, 22, 262 Bocca, Giorgio, 246, 475 Boccassini, Ilda, 118, 214, 375, 378 Bocchino, Italo, 230 Bodrato, Guido, 263 Boldrini, Arrigo, 263 Bolognesi, Paolo, 458 Bonafini, Umberto, 311 Bonaiuti, Paolo, 463 Boncompagni, Gianni, 256 Bonfigli, Silvio, 337, 341 Bongiorno, Giulia, 476, 480-481, 485 Bongiorno, Mike, 280 Bonini, Carlo, 35, 141 Bonino, Emma, 431, 438, 448, 449, 503 Bonsanti, Sandra, 144 Bontade, Stefano, 476, 480, 484-485, 499 Borello, Agostino, 197 Borrelli, Francesco Saverio, 125, 129-131, 135-136, 147-148, 150, 161, 167, 190, 214, 222, 258-259, 268, 273, 279, 282-292, 318, 322-324, 326-331, 350-351, 416, 420 Borsellino, Paolo, 114-116, 137, 473, 485, 498
Bossi, Umberto, 33, 54, 55-58, 59, 76, 90-91, 99, 149, 217, 220, 231, 235, 238-239, 246-249, 252, 253, 256-257, 263, 266-267, 275, 277, 291-293, 298-301, 307, 309, 352, 360, 365-367, 369-371, 388-389, 395-396, 407, 423, 448, 450, 459-461, 502 Bozzo, Nicolò, 282 Bragadin, Marcantonio, 396 Brambilla, Marinella, 405 Brando, Marco, 335 Brandt, Willy, 17, 21 Bre¬znev, Leonid, 8 Breda, Maurizio, 291 Brenneke, Richard, 83 Broccoletti, Maurizio, 240 Brusadelli, Stefano, 242 Brusca, Giovanni, 106, 226 Bruti Liberati, Edmondo, 274 Bucarelli, Franco, 87 Buccini, Goffredo, 283, 285, 289-290 Bufalini, Paolo, 17, 28 Buontempo, Teodoro, 317 Burlando, Claudio, 211 Buscetta, Tommaso, 107-109, 113, 116-118, 260, 469-470, 475-476, 478, 483-485 Bush, George, 78 Busi, Cristina, 163 Buson, Gilberto, 396 Buttiglione, Angela, 296, 309-310 Buttiglione, Rocco, 27, 38, 296-300, 309-313, 353, 377, 446, 448
Caberlotto, Giovanni, 367 Caccamo, Renato, 156, 177 Cacciari, Massimo, 226, 397, 445 Cagliari, Bruna, 159 Cagliari, Gabriele, 159-160, 169-171, 181, 183, 222, 224, 347, 412 Calabrò, Maria Antonietta, 112 Calderisi, Giuseppe, 354, 451 Calò, Pippo, 484 Calogero, Guido, 432 Calvi, Roberto, 146, 153 Cancemi, Salvatore, 106, 109, 115
Cannizzo, Giuseppe, 332 Canosa, Romano, 35 Caponnetto, Antonino, 113 Cappellini, Roberto, 181, 194 Cappelloni, Guido, 36, 206, 384, 492 Capria, Nicola, 263 Caprioli, Vittorio, 45 Cardinale, Salvatore, 420 Cariglia, Antonio, 263 Carli, Guido, 38, 43, 91, 304 Carlo d'Inghilterra, 71 Carloni, Serenella, 130 Carminati, Massimo, 484 Carnevale, Corrado, 472-473 Carnevale, Luigi, 145, 194 Carniti, Pierre, 390, 402 Carra, Enzo, 179 Carrà, Raffaella, 45 Carraro, Franco, 43 Carraro, Sandra, 483 Carreras, José, 163 Carrillo, Santiago, 493 Caruso, Camillo, 228, 277, 315 Casadei Monti, Pier Paolo, 473 Casalini, Armando, 315 Caselli, Giancarlo, 94, 118, 219, 326, 411, 469-471, 474-476, 481-482, 500 Casini, Pierferdinando, 38, 99, 251-252, 266, 297, 303, 309, 329, 331, 345, 353, 359, 368, 385, 400, 433, 448, 454 Casoli, Giorgio, 373 Cassarà, Nini, 108 Casson, Felice, 60-64, 82 Castagnetti, Pierluigi, 389-390, 450, 496 Castellani, Valentino, 221 Castellina, Luciana, 22 Castro, Fidel, 8 Catelani, Giulio, 327 Cattaneo, Carlo, 58 Cavour, Camillo Benso, conte di, 102 Cazzullo, Aldo, 121 Ceccato, Giuseppe, 461
Celibidache, Sergiu, 438 Cerciello, Giuseppe, 324, 326 Cervetti, Gianni, 193, 211 Cherubini, Luigi, 186 Chiaberge, Riccardo, 262 Chiarante, Giuseppe, 22, 263 Chiaromonte, Gerardo, 22, 26 Chiesa, Mario, 90, 119, 123-130, 135, 141-142, 147, 194, 199, 215 Chiocci, Gian Marco, 208 Chiodi, Roberto, 332-333 Chiusano, Vittorio, 189 Churchill, Winston, 299 Ciaccio Montalto, Giangiacomo, 108 Ciampi, Carlo Azeglio, 12, 81, 149, 154, 220, 224-225, 240, 242, 251, 265, 295, 304, 311, 320, 346, 355, 358, 361, 383, 421, 424-425, 426-440, 462, 488, 504 Ciampi, Franca, 426, 438-440 Ciancimino, Vito, 479 Cimadoro, Gabriele, 321 Cirino Pomicino, Ilaria, 185 Cirino Pomicino, Paolo, 43, 96-97, 100, 148, 184-185, 263, 318 Citaristi, Severino, 133, 158, 176-179, 200, 263 Clinton, Bill, 277, 443-444 Clinton, Hillary, 277 Cocciolone, Maurizio, 31 Cofferati, Sergio, 308, 398, 402, 488 Colaprico, Pietro, 345 Coletta, Lina, 236 Colleoni, Sergio, 123 Colletti, Lucio, 364 Colombo, Gherardo, 121, 135, 161, 173, 180, 212, 259, 273, 331, 417 Colombo, Giovanni, arcivescovo di Milano, 6 Colonna, Antonello, 317 Comencini, Fabrizio, 461 Comino, Domenico, 55, 460 Confalonieri, Fedele, 235-237, 245, 249, 280, 307 Conforto, Giorgio, 493 Conso, Giovanni, 100, 146, 148, 222, 272, 350, 420 Contin, Cristian, 396-397 Contin, Flavio, 397 Contorno, Totuccio, 113
Contrada, Bruno, 477 Coppi, Franco, 109, 476, 479-482, 484-485 Corbi, Gianni, 31 Cordova, Agostino, 112, 115, 261 Cordova, Maria, 187-188 Corticchia, Felice Maria, 284 Corvi, Luigi, 348 Cossiga, Francesco, 38, 41, 52, 59-60, 62-64, 69, 73, 77, 79-87, 88-90, 91, 93, 96, 102-103, 111, 114, 228, 252, 254, 303, 306, 330-331, 334, 387, 407, 421, 423-425, 429, 438, 442-444, 446-447, 470, 474, 493, 496-497 Cossutta, Armando, 22-24, 28-30, 32, 91, 205-206, 208, 303, 384, 398, 400, 403, 422-423, 442-443, 446, 448, 491-492, 494-496 Costa, Gaetano, 108 Costa, Raffaele, 267 Costanzo, Maurizio, 222, 395 Courtois, Stéphane, 404 Cragnotti, Sergio, 342 Craxi, Bettino, 17, 19, 21, 26-27, 31, 33, 38-44, 53-54, 59-60, 65, 69, 72, 75-77, 79, 81, 86, 89, 93-100, 102-103, 119-120, 121-123, 125-127, 129-130, 135, 137-158, 173-175, 192, 199-200, 208, 210, 212, 217, 224, 234-235, 241, 263, 267, 324, 333, 338-339, 355, 379, 412, 413, 459, 500, 502, 504 Craxi, Bobo, 126, 130, 142 Crispi, Francesco, 42, 151 Cristofori, Nino, 64, 99, 104 Crucianelli, Famiano, 402 Cuccia, Enrico, 109, 164, 168, 189, 504 Cuperlo, Gianni, 392 Curtò, Diego, 171, 172 Curzi, Sandro, 295, 394-395 Cusani, Sergio, 122, 132, 155, 157-158, 166, 168, 172-173, 175, 183, 186
D'Adamo, Antonio, 139-140, 319, 321, 332-340, 343-344, 348, 393 Dahrendorf, Ralf, 38 D'Ajello, Vittorio, 160, 346 D'Alema, Massimo, 6-7, 16, 18-20, 24-27, 30-32, 37, 53, 85, 144, 192-198, 201, 209-211, 234, 260, 270, 293-296, 298-301, 306-309, 313, 345-346, 351-353, 355-361, 363, 365, 368, 376, 383-394, 398-401,
405-406, 409-410, 421, 423-425, 429-437, 442, 444, 446-449, 455, 459-460, 464-467, 486, 493-497, 502 Dalla Chiesa, Carlo Alberto, 65, 483, 485 Dalla Chiesa, Nando, 221 D'Ambrosio, Gerardo, 121, 124, 125, 129, 132, 135, 141, 147, 157, 161, 169, 202, 203, 214, 288, 331, 336, 417-418, 499 Danesi, Emo, 343 D'Antona, Massimo, 40, 486-488 D'Antona, Olga, 487 D'Antoni, Sergio, 99 Dapporto, Carlo, 45 Darida, Clelio, 182-184, 187 D'Avanzo, Giuseppe, 63-64, 141 Davigo, Piercamillo, 56, 135, 141, 145, 161, 173, 273-274, 282-283, 285-287, 290, 323-325, 374-375, 378, 381, 414-417 De Benedetti, Carlo, 128, 151, 167, 178, 184, 186-188, 233, 236, 237, 239, 270, 421 De Biase, Domenico, 334 De Bortoli, Ferruccio, 401 De Bosis, Lauro, 313 De Castro, Paolo, 425 De Chiara, Enzo, 269 De Ficchy, Luigi, 206 De Gasperi, Alcide, 39, 42, 95, 99, 175, 220, 230, 254, 269, 408, 464, 469, 478 De Gennaro, Gianni, 108, 118 De Giuseppe, Giorgio, 97 Degli Esposti, Franco, 453 Del Debbio, Luciano, 235 Delfino, Francesco, 476 Della Valle, Renato, 319 Dell'Utri, Marcello, 235, 245, 259-260, 292, 415-416, 477 Del Noce, Augusto, 296, 310 De Lorenzo, Francesco, 43, 131, 148, 263, 275-276 Del Pennino, Antonio, 103, 133, 160 Del Ponte, Carla, 141 Del Turco, Ottaviano, 420, 475, 499 De Luca, Giuseppe, 414 De Marsanich, Augusto, 314 De Marsico, Alfredo, 390 De Martino, Francesco, 143
De Marzio, Ernesto, 314 De Michelis, Gianni, 26, 43, 91, 120, 143, 263, 450 De Mico, Bruno, 129 De Mita, Ciriaco, 40, 41-42, 43, 54, 59, 62-65, 69, 79, 84, 86, 96, 97, 102, 176, 220, 251-252, 263, 266, 298, 311, 478, 487 De Pasquale, Fabio, 159-160 De Piccoli, Cesare, 195-196 Depretis, Agostino, 42 De Pretis, Piero, 157 Di Donato, Giulio, 263 Di Feo, Gianluca, 114, 282-285 Diliberto, Oliviero, 446 Di Lorenzo, Ottavio, 105 Di Maggio, Balduccio, 116, 476, 481-482 Di Maggio, Francesco, 319-321, 323 Di Maggio, Vito, 480 Di Martino, Anna, 337 Di Muccio, Pietro, 242 Dinacci, Ugo, 327-328, 333-335 Dini, Claudio, 139, 333 Dini, Donatella, 362-363 Dini, Lamberto, 38, 291, 301-307, 310, 337, 350-352, 355, 357-358, 360-363, 365, 371, 376, 383, 392, 431, 438, 443, 448, 449, 459, 493-494 Di Pietro, Antonio, 52, 124-125, 131-136, 139-141, 145-146, 155, 159, 161-163, 165, 172-175, 179, 181, 185, 187, 189, 203, 210, 258, 267-269, 273, 276, 278, 282-283, 286-287, 289-291, 310, 318-349, 392-395, 412, 417, 445, 467 Di Vico, Dario, 231 Domingo, Placido, 163 Donat Cattin, Carlo, 75, 298 Dondi, Walter, 19 D'Onofrio, Francesco, 252, 305, 354, 388 Doris, Ennio, 245 Dotti, Vittorio, 266, 373-377, 379 Dozza, Giuseppe, 456 Dub¬cek, Alexander, 5 Duverger, Maurice, 41 Dziwisz, don Stanislaw, 7
Einaudi, Luigi, 408 Elia, Leopoldo, 68, 310 Elkann, John, 189 Eltsin, Boris, 72-73, 490 Evola, Julius, 46, 49
Fabbri, Paolo, 263 Facci, Filippo, 342 Faccia, Fausto, 396-398 Falcone, Giovanni, 104-119, 137, 141, 329, 472-473, 478-479, 485, 498 Fanfani, Amintore, 63, 95, 478 Faranda, Adriana, 493 Farina, Renato, 473 Fassino, Piero, 20, 21, 295, 400 Fattori, Giorgio, 128 Fava, Claudio, 221 Fava, Nuccio, 164 Fazio, Antonio, 304, 462 Fazzo, Luca, 284 Fede, Emilio, 250, 252, 309, 418 Federici, Luigi, 278-279 Felici, Angelo, cardinale, 6 Fellini, Federico, 453 Feltri, Vittorio, 250, 346-347, 353, 388 Feo, Fabrizio, 478 Ferlini, Massimo, 131 Ferrara, Giuliano, 33, 81, 150, 186, 265, 299, 393-395 Ferraresi, Franco, 51 Ferruzzi, Alessandra, 163 Ferruzzi, Arturo, 163-164 Ferruzzi, Idina, 163 Ferruzzi, Serafino, 166 Fertilio, Dario, 92 Filo della Torre, Alberica, 268 Fini, Gianfranco, 27, 46-50, 52, 91, 99, 217, 227-231, 246, 254, 256-257, 259, 264, 271, 275, 300-301, 303, 308, 314-317, 344-346, 353-356, 359-364, 368-369, 385-386, 389-391, 395, 403-407, 409-411, 423, 430, 433-434, 442, 447-451, 453-454, 475, 487, 502-503 Finocchiaro, Anna, 212, 402 Fioravanti, Giusva, 458
Fiorini, Florio, 146 Fiorini, Giorgio, 322 Fisichella, Domenico, 305, 314-315, 353, 354 Fiume, Angela, 222 Flamigni, Carlo, 454 Flamigni, Sergio, 478 Flick, Giovanni Maria, 184, 420 Foa, Vittorio, 230, 262 Folena, Pietro, 475, 477 Fontana, Alberto, 197, 198 Fontana, Andrea, 454 Fontana, Gianni, 148 Forattini, Giorgio, 21, 26, 69 Forlani, Arnaldo, 40, 43, 53-54, 80, 86, 93-100, 102, 103-105, 120, 158, 174-176, 179, 234, 252, 263 Formentini, Marco, 461 Formenton, Mario, 44 Formica, Rino, 43, 263 Formigoni, Roberto, 33, 297, 313 Foschini, Paolo, 157, 284 Fracanzani, Carlo, 43, 263 Fraga Iribarne, Manuel, 464 Francescato, Grazia, 450 Franceschini, Dario, 437 Franchi, Franco, 50 Franchi, Paolo, 30 Frattini, Franco, 320-321 Fredda, Marco, 199-200 Frigerio, Gianstefano, 131 Fusi, Carlo, 448
Galasso, Giuseppe, 70 Galati, Antonio, 240 Galli, Giancarlo, 188 Galli, Giorgio, 369, 478 Galliani, Adriano, 245 Galli della Loggia, Ernesto, 66, 336, 412 Gambescia, Paolo, 411 Garavini, Sergio, 32, 91, 384 Gardini, Eleonora, 164, 166
Gardini, Raul, 98, 161, 163-173, 178, 181, 183, 184, 186, 201, 222, 224 Garelli, Emanuele, 278-279, 291 Gargani, Peppino, 313 Garibaldi, Giuseppe, 499 Garofalo, Giovanni, 241 Garofano, Giuseppe, 160, 165-166, 169-170 Garrone, Riccardo, 91 Garuzzo, Giorgio, 190 Gaspari, Remo, 43, 63, 263, 420 Gasperini, Luciano, 437 Gava, Antonio, 43, 54, 86, 94, 96, 98, 99 Gawronski, Jas, 33 Gazzoni, Giuseppe, 454-455 Gelli, Licio, 47-48, 153 Gemelli, Agostino, 181 Geremicca, Federico, 383 Ghezzi, Carlo, 486 Ghigo, Enzo, 368 Ghitti, Italo, 180, 183, 325-326, 340, 347, 351 Giacalone, Davide, 187 Giammanco, Pietro, 113 Giannelli, Emilio, 227 Gierek, Edward, 8 Gifuni, Gaetano, 81, 303-304, 428 Gioia, Giovanni, 478 Giolitti, Giovanni, 42, 102, 499 Giordano, Domiziana, 282 Giorgianni, Michele, 382 Giovanardi, Carlo, 419 Giovanni Paolo II, papa (Karol Wojtyla), 3-4, 5-10, 22, 66, 71, 174, 207, 223, 467, 485 Giuliani Ricci, Vittorio, 166 Giuliani, Rudolph, 185 Gnutti, Vito, 248, 292, 461 Gonzàlez, Felipe, 143, 464 Gorbaciov, Michail, 12, 15-16, 18, 70-73, 206, 208, 490, 495 Goria, Giovanni, 42, 99, 148 Gorrieri, Ermanno, 402 Gorrini, Giancarlo, 139-140, 321, 333-338 Gotti, John, 161
Graldi, Paolo, 149 Gramellini, Massimo, 347 Grasso, Pietro, 117, 476 Graziosi, Giuliano, 181 Greco, Francesco, 167, 173, 183-184, 273, 382-383 Greco, Michele, 113 Greganti, Primo, 196, 199-204, 209, 351 Grigo, Maurizio, 160 Grimaldi, Ugo Alfassio, 123 Gualtieri, Libero, 64, 90 Guazzaloca, Giorgio, 230, 451-458 Guglielmi, Angelo, 295 Guidali, Gigliola, 57 Guiso, Giannino, 141, 157 Guzzanti, Paolo, 62, 67, 325
Hampton, Demetra, 131-132 Havel, Vàclav, 5-6, 497 Hitler, Adolf, 12, 70, 78 Honecker, Erich, 11 Horowitz, Vladimir, 45 Husàk, Gustav, 5 Hussein, Saddam, 8, 28-29, 30, 70-71
Ibarruri, Dolores, 45 Ielo, Paolo, 195, 203 Illy, Riccardo, 226 Improta, Umberto, 493 Ingargiola, Francesco, 468 Ingrao, Pietro, 24, 28, 29, 384, 437 Intini, Ugo, 263 Inzerillo, Totò, 108 Ionta, Franco, 206 Iotti, Nilde, 21, 24, 30-31, 90 Izzo, Angelo, 109
Jannuzzi, Lino, 117-118 Jaruzelski, Wojciech, 22
Jospin, Lionel, 400, 466
Kaiser, Joachim, 462 Kennedy, John F., 13 Kinnock, Neil, 16, 18 Kohl, Helmut, 12-13, 78, 385, 460, 464 Kouchy, Vladimir, 67 Kreisky, Bruno, 143 Krenz, Egon, 11, 12-13, 16 Krju¬ckov, Vladimir, 490 Krusciov, Nikita Sergeevi¬c, 13 Kuron, Jacek, 8
La Barbera, Michelangelo, 484 La Forgia, Paolo, 278-280, 282, 291 La Ganga, Giusi, 263 Lama, Luciano, 24, 263, 488 La Malfa, Giorgio, 33, 70, 93, 119, 149, 158, 174, 263 La Malfa, Ugo, 408 La Pira, Giorgio, 402 Larini, Silvano, 145, 150, 155 Larizza, Pietro, 402 La Russa, Ignazio, 378 Latella, Maria, 230 La Torre, Nicola, 393 La Torre, Pio, 111 Leccisi, Pino, 98 Lega, Silvio, 98 Lehner, Giancarlo, 322 Lenin (Vladimir Il'i¬c Ul'janov), 15, 22, 495 Lentini, Gianluigi, 415 Leone, Giovanni, 78-79, 84, 99, 428 Leoni, Luca, 58 Letta, Enrico, 425 Letta, Gianni, 235-238, 245, 249, 268, 278-281, 290-291, 299-300, 302-305, 352, 358, 361-363, 373, 376, 390-391, 410, 427, 434-435, 437, 461-463 Letta, Maddalena, 236, 391, 461 Levi, Arrigo, 427-428, 444
Lewandowski, Bogumil, 7 Libertini, Lucio, 32 Ligas, Claudio, 357 Ligresti, Salvatore, 135, 159-160 Liguori, Paolo, 252, 418 Lima, Salvo, 53, 110-111, 113, 473-474, 477-478, 483 Livatino, Rosario, 108 Locatelli, Pompeo, 171 Lodato, Saverio, 469, 483-484 Lodigiani, Mario, 131 Lo Forte, Guido, 113, 475, 482 Lo Giudice, Enzo, 140 Loi, Emanuela, 115 Lombardini, Luigi, 411 Lo Moro, Giuseppe, 186-187 Longo, Luigi, 31, 67, 491 Losa, Maurizio, 123, 126, 331 Lucibello, Giuseppe, 319, 333, 338, 340-343, 348
Macaluso, Emanuele, 402, 494 Maccanico, Antonio, 43, 356-363, 387, 392 Mach di Palmstein, Ferdinando, 282, 321 Mafai, Miriam, 28 Magliaro, Massimo, 230 Magnalbò, Luciano, 436 Magni, Luca, 124 Magri, Lucio, 22-23 Majocchi, Mario, 133 Malagugini, Alberto, 60 Malgieri, Gennaro, 315 Mammì, Oscar, 43, 70, 187, 233-234, 236, 249 Mancino, Nicola, 224, 240, 252, 298, 310, 313, 315, 389-390, 432-433, 435-437, 470 Manconi, Luigi, 423, 432, 450 Mancuso, Filippo, 64, 335, 350-351, 371, 415, 420, 459 Mangano, Silvana, 45 Mannheimer, Renato, 76 Mannino, Calogero, 477 Mannino, Franco, 426 Mannoia, Francesco Marino, 116-117, 475-476
Marchais, George, 493 Marchese, Giuseppe, 470, 474 Marini, Franco, 38, 92, 99, 298, 313, 368, 389-391, 400, 407, 424-425, 429-437, 444-445, 448-450 Markevi¬c, Igor, 66 Maroni, Roberto (Bobo), 57, 247, 248-250, 269, 271, 275-276, 281, 291, 299, 301, 305, 367, 370, 388-389, 395 Marrone, Manuela, 57-58 Martelli, Claudio, 43, 84, 94, 98-99, 103-104, 112-113, 119-120, 142, 144, 146, 148, 158, 198, 263, 350, 420 Martinazzoli, Mino, 33, 43, 86, 92-93, 99, 120, 176, 220-221, 226-228, 238, 244, 246, 248-249, 251-252, 260, 297, 471 Martini, Fulvio, 61-63, 65, 491, 494 Martino, Antonio, 235, 305 Martino, Piero, 437 Massolo, Giampiero, 278-279 Mastella, Clemente, 38, 99-100, 251-252, 266, 303, 353, 359, 400, 425, 438, 446, 448 Mastelloni, Carlo, 61, 63 Matarrese, Antonio, 420 Mathieu, Vittorio, 364 Mattarella, Piersanti, 109-111 Mattarella, Sergio, 252, 298, 310, 390-391, 433, 435-436, 465 Matteoli, Altero, 272, 405, 436 Matteotti, Giacomo, 315 Matteucci, Nicola, 453 Mattioli, Francesco Paolo, 189-190 Mazzini, Giuseppe, 151 Mazzoleni, Susanna, 333 Meinhof, Ulrike, 489 Melandri, Giovanna, 368, 402 Meli, Antonino, 113, 115 Melograni, Piero, 364 Mennitti, Domenico, 46, 49, 50, 52, 258, 260 Mentana, Enrico, 243, 259, 280 Merloni, Francesco, 346 Messina, Leonardo, 470, 472-474 Messina, Sebastiano, 405, 423 Metta, Vittorio, 381 Micheli, Enrico, 401, 425 Michelini, Alberto, 33
Michelini, Arturo, 314 Michnik, Adam, 8 Mieli, Paolo, 220, 240, 281, 283-285, 312 Miglio, Gianfranco, 247 Miglioretti, Sandra, 393 Milo¬sevi¬c, Slobodan, 71, 441-443, 459 Milo, Sandra, 144 Minicucci, Raffaele, 358 Minniti, Marco, 392, 400, 402, 423-425, 429, 431, 444, 459 Minzolini, Augusto, 192, 260-261, 275, 391, 415 Misasi, Riccardo, 43, 420 Misiani, Francesco, 35, 183-184, 501 Mitrokhin, Vasilij Nikiti¬c, 36, 204-206, 486, 489-495, 499 Mitterrand, François, 72, 78, 143, 464 Modigliani, Franco, 488 Modrow, Hans, 11, 19 Moioli, Vittorio, 54 Mondadori, Arnoldo, 123 Monduzzi, Gianni, 453 Monorchio, Andrea, 38 Montana, Giuseppe, 108 Montanari, Otello, 28-29 Montanaro, Silvestro, 471 Montanelli, Indro, 64, 99, 161, 227, 242, 248, 250-251 Montevecchi, Ugo, 195 Monteventi, Valerio, 458 Monti, David, 269 Monti, Mario, 462 Monti, Vittorio, 345 Morandi, Alberto, 388 Morandina, Renato, 195-196 Moratti, Letizia, 358 Moravia, Alberto, 453 Moretti, Luigi, 58 Moro, Aldo, 45, 65-67, 74, 95, 104, 207, 300, 478 Moroni, Sergio, 134, 139-140, 161 Morucci, Valerio, 493 Morvillo, Francesca, 106 Mosconi, Antonio, 195 Mubarak, Muhammad Hosni, 281 Mussi, Fabio, 19, 20, 295, 402
Mussolini, Alessandra, 227, 229, 254, 308 Mussolini, Benito, 21, 46, 69, 90, 254, 340 Muti, Riccardo, 438 Mutolo, Gaspare, 470, 474 Myung-Whun Chung, 461
Nania, Domenico, 354, 390-391 Napoli, Vito, 420 Napolitano, Giorgio, 29, 30, 32, 35, 99, 134, 174, 219 Nardi, Vincenzo, 327-329, 335, 351 Natali, Antonio, 125, 139, 194 Natoli, Gioacchino, 23, 482 Natta, Alessandro, 22, 28, 59, 79, 206, 208, 384, 491 Nava, Massimo, 14 Navarro-Valls, Joaquìn, 3, 6 Necci, Lorenzo, 341-342, 358 Nencioni, Fabrizio, 222 Nencioni, Gastone, 314 Nencioni, Nadia, 222 Nenni, Pietro, 22, 39, 143, 207 Nicolai, Beppe, 50 Nicotri, Giuseppe, 145 Nitti, Francesco Saverio, 42 Nobili, Franco, 43, 128, 135, 180-182, 187, 347 Nordio, Carlo, 192-198, 200, 204, 209 Norwood, Melita, 491 Novak, Michael, 296 Novelli, Diego, 221
Ocalan, Abdullah, 445-446, 466 Occhetto, Achille, 16-19, 21, 23-25, 27-28, 30-34, 53-54, 59, 62, 76-77, 79, 85, 89-90, 93, 99, 103-105, 119, 121, 149, 192-193, 197-198, 201, 209, 211, 221, 230, 233, 242, 248, 256, 260, 262, 264, 294-295, 363, 389, 392, 401 Omboni, Maria Grazia, 261 Onida, Valerio, 85 Orfei, Ruggero, 64-65 Orlandi, Emanuela, 66 Orlando, Federico, 249
Orlando, Leoluca, 38, 53, 85, 91, 110, 113-114, 149, 221, 226 Ortolani, Umberto, 153 Ossicini, Adriano, 306 Ottone, Pietro, 248
Pacciardi, Randolfo, 40-41, 69 Pacifico, Attilio, 372, 374, 380-382 Pacini Battaglia, Pierfrancesco, 128, 339-344, 347-348 Paciotti, Elena, 60 Padalino, Andrea, 351 Padoa Schioppa, Tommaso, 304 Pagliarini, Giancarlo, 371 Pajardi, Piero, 172 Pajetta, Giancarlo, 22, 24, 28, 29, 297 Paladini, Cintia, 281 Paladini, Livio, 306 Palladino, Vincenzo, 171, 172 Pallavicini, Elvina, 259, 362 Palme, Olof, 143 Palombelli, Barbara, 24 Pamparana, Andrea, 175 Panebianco, Angelo, 75, 92-93, 274 Pannella, Marco, 33, 48, 235, 303, 365-366, 448, 474 Pansa, Giampaolo, 36, 187, 257 Panzavolta, Lorenzo, 165, 201-202 Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, 8 Papalia, Guido, 460 Papi, Enzo, 131, 136, 189 Paraggio, Vittorio, 341 Parenti, Tiziana, 199-200, 202, 203 Parisi, Arturo, 424, 446 Parisi, Vincenzo, 105, 139, 223, 269, 271 Parrella, Giuseppe, 181, 186 Pasquale, Donatella, 304 Pasquarelli, Gianni, 43 Pasquini, Giancarlo, 200 Patelli, Alessandro, 247 Pavarotti, Luciano, 163-164, 279-280, 283 Pecchioli, Ugo, 263 Pecci, Gianni, 456
Pecorella, Gaetano, 378 Pecorelli, Mino, 180, 418, 483-484, 501 Pellegrino, Giovanni, 66, 208, 494 Pellegriti, Giuseppe, 109-110 Peluffo, Paolo, 224-225, 428 Pennacchi, Gianni, 208 Pera, Marcello, 364 Pericoli, Tullio, 88 Perna, Edoardo, 60 Peroni, Luca, 396, 398 Persichini, Michele, 244 Pertini, Sandro, 14, 78-82, 48 Peruzzi, Giuliano, 204 Pessato, Maurizio, 365 Petruccioli, Claudio, 20, 85, 104, 295, 392 Piazzesi, Gianfranco, 53 Piccioni, Attilio, 95, 327 Piepoli, Nicola, 243 Pillitteri, Paolo, 130-131, 263, 334, 339 Pilo, Gianni, 234, 243, 321, 369 Pinochet Ugarte, Augusto, 8 Pintor, Luigi, 23 Pintus, Pietro, 501 Pinza, Roberto, 310 Pio da Pietralcina, 163, 181 Pisanò, Giorgio, 52 Pisapia, Gian Domenico, 306 Pivetti, Irene, 264 Platania, Domenico, 290 Poggiolini, Duilio, 131, 275-276 Pollastrini, Barbara, 211 Pollini, Renato, 202 Polverini, Angelo, 437 Ponomarëv, Boris, 23, 36, 492, 495 Prada Maurizio, 131, 195, 333-334, 338, 348 Prandini, Gianni, 43, 92-93, 98, 263 Previti, Cesare, 186, 214, 235, 265-266, 268, 279, 330, 334, 343, 372-382, 394 Previti, Silvana, 374 Prezzolini, Giuseppe, 250 Primicerio, Mario, 402
Priore, Rosario, 66, 379 Prodi, Romano, 38, 43, 66, 162, 180-182, 189, 220, 242, 262, 310-312, 344-346, 348, 356-360, 363-365, 367-368, 376, 379, 383-387, 392, 398-401, 409, 420-424, 427, 429, 444-449, 456-457, 465, 486, 493-494, 502-503 Properzj, Giacomo, 103 Provenzano, Bernardo, 225
Quattrini, Ernesto, 302 Querci, Nicolò, 377, 463
Radaelli, Sergio, 131, 333-334, 338-339 Ramazza, Alessandro, 454-455 Rampa, Lorenzo, 257 Rampini, Federico, 31 Rapisarda, Filippo Alberto, 292 Rauti, Pino, 46-52, 91, 227, 317, 369 Rea, Eleuterio, 333-334, 336-338 Rebecchini, Gaetano, 358, 362 Rebuffa, Giorgio, 364 Reichlin, Bruno, 263 Restagno, Enzo, 175 Reviglio, Franco, 148, 164 Rey, Guido, 488 Ricossa, Sergio, 364 Riina, Totò, 94, 116, 225-226, 260, 418, 476, 480-481, 499 Rinaldi, Claudio, 186, 231 Ripa di Meana, Carlo, 148 Ripa di Meana, Vittorio, 312 Rispoli, Luciano, 306 Riva, Valerio, 17, 36, 207-208, 217 Rizov, Nikita, 67 Robotti, Paolo, 494 Rocca, Osvaldo, 333-336 Rocchetta, Franco, 91 Rodano, Franco, 495 Rognoni, Virginio, 111, 263, 473 Romano, Giulio, 18 Romano, Sergio, 351
Romiti, Cesare, 167, 186, 188-191, 284 Romualdi, Pino, 50, 314 Ronchey, Alberto, 222, 284 Rondolino, Fabrizio, 392 Rossa, Guido, 488 Rossanda, Rossana, 23 Rossi, Guido, 168 Rostropovi¬c, Mstislav, 15 Rovelli, Nino, 382 Roversi Monaco, Fabio, 455 Rubbia, Carlo, 476 Rubin, Roberto, 422 Ruffilli, Roberto, 40, 487 Ruffolo, Giorgio, 43, 402 Ruggiero, Renato, 43 Ruini, Camillo, cardinale, 222, 251 Ruotolo, Sandro, 471 Rusconi, Edilio, 44 Rusk, Dean, 36 Russo Jervolino, Rosa, 43, 92, 222, 298, 310, 431, 433-437 Rutelli, Francesco, 149, 206, 228-229, 231, 445
Sacharov, Andrej Dmitrievi¬c, 45 Saetta, Antonino, 108 Salamone, Filippo, 337, 341 Salandra, Antonio, 42 Salce, Luciano, 45 Sallusti, Alessandro, 283, 285 Salvadori, Bruno, 57 Salvato, Ersilia, 398 Salvi, Cesare, 111, 351, 353-354, 390-391, 402, 406, 409, 420-421 Salvo, Ignazio, 476, 479-480, 483-485 Salvo, Nino, 479-480, 483-485 Sama, Carlo, 163-164, 166, 168, 178, 184 Sangalli, Carlo, 453 Sansa, Adriano, 226 Santapaola, Nitto, 480, 499 Santer, Jacques, 445 Santoro, Michele, 110, 330 Santoro, Rosanna, 322
Sanza, Angelo, 420 Saragat, Giuseppe, 78, 408, 451 Sarcinelli, Mario, 304, 432, 488 Sarti, Adolfo, 425 Sbacchi, Gioacchino, 481 Sbardella, Vittorio, 92, 183, 263 Scaglione, Pietro, 108 Scaletta, Salvatore, 348 Scalfari, Eugenio, 103, 193, 240, 242, 255, 412, 475 Scalfaro, Oscar Luigi, 80-81, 86, 100-105, 119-120, 133, 137, 147, 162-163, 219-220, 223, 225, 240-241, 245, 251, 254, 260, 264-268, 272, 288-291, 293, 300-305, 308, 312, 318-319, 324-326, 352, 358-359, 362-363, 386, 401, 422, 424-425, 429, 434-436 Scalzone, Oreste, 492 Scarpinato, Roberto, 482 Scelba, Mario, 102 Scelba, Tanino, 80 Schabowski, Günter, 13 Schietroma, Gianfranco, 402 Schröder, Gerhard, 443, 445, 466 Sciascia, Leonardo, 24, 45 Sciascia, Salvatore, 280, 284 Scognamiglio, Carlo, 235, 264, 377, 443 Scotti, Enzo, 86, 98, 104-105, 119-120, 263 Sechi, Salvatore, 303 Segato, Umberto, 397 Segni, Antonio, 73-74, 99, 231, 235, 428 Segni, Mario, 38, 73-77, 92, 97, 217-219, 221, 238-239, 244, 246-249, 252, 253, 260, 311, 314, 447-448, 450-452 Sella, Quintino, 437 Selva, Gustavo, 38, 316 Sensini, Alberto, 480 Sernia, Antonio, 169 Serra, Michele, 34, 143 Servello, Franco, 46, 49, 50 Sesti, Franz, 328 Sgroi, Maurizio, 208 Sgroi, Vittorio, 302, 326-327 Shevardnadze, Eduard, 72 Simonetto, Miti, 253 Sindona, Michele, 108, 145
Sircana, Silvio, 301, 356 Smargiassi, Michele, 345, 456 Soares, Mario, 143 Soave, Sergio, 194 Sodano, Angelo, cardinale, 251 Solana, Javier, 443 Spadolini, Giovanni, 86, 101-105, 133, 174, 219, 264, 474 Spatola, Rosario, 108 Spazzali, Giuliano, 172 Spencer, Diana, 71, 391 Speroni, Francesco, 58, 247, 263 Spini, Valdo, 402 Squillante, Renato, 183, 372, 374-377, 380-381 Staiti di Cuddia, Tommaso, 52 Stalin (Iosif Vissarionovi¬c D¬zuga¬svili), 494 Statera, Alberto, 64 Stefani, Stefano, 395, 461 Stefanini, Marcello, 152, 196, 202, 203, 211, 263 Stella, Gian Antonio, 370 Sterpa, Egidio, 160 Stille, Ugo, 103 Storace, Francesco, 52 Sturzo, Luigi, 38, 99, 230, 251, 464
Tabacci, Bruno, 420 Tagliavini, Nino, 196 Taradash, Marco, 354, 451 Tarantelli, Carol Beebe, 488 Tarantelli, Ezio, 487 Tarantola, Giuseppe, 175 Tarquini, Giancarlo, 348 Tatarella, Pinuccio, 50, 99, 267, 303, 359, 362, 389-391, 447 Tatò, Antonio, 495 Tatò, Franco, 238-239, 245 Taviani, Paolo Emilio, 61, 63 Teresa di Calcutta (Agnese Gonxha Bojaxhiu), 485 Terranova, Cesare, 108 Testa, Vittorio, 404 Thatcher, Margaret, 70 Thielemann, Christian, 462
Tito (Josip Broz), 71, 403, 441 Tito, Raffaele, 322 Togliatti, Palmiro, 31, 89-90, 293, 296, 385, 491, 494 Tognoli, Carlo, 131, 263 Toma¬sek, Franti¬sek, 5 Tornich, Fulvio, 180, 182 Tortorella, Aldo, 28, 263, 384 Totti, Francesco, 464 Tranfaglia, Nicola, 332 Tremaglia, Mirko, 46, 49, 50, 317, 344, 346-347, 393 Tremonti, Giulio, 238, 305 Trentin, Bruno, 22, 24 Trerè, Graziano, 486 Tricarico, Leonardo, 444 Tricoli, Giuseppe, 115 Tripodi, Enzo, 50 Turco, Livia, 20, 402
Ulbricht, Walter, 11, 13 Urbani, Giuliano, 232-235, 238-239, 244, 353-355, 387, 389-390, 409 Urso, Adolfo, 50
Valditara, Giuseppe, 248 Valditara, Lorenzo, 278 Valensise, Raffaele, 50 Valentini, Giovanni, 77 Valiani, Leo, 35, 100, 119, 230 Vallone, Eleonora, 144 Varasi, Gianni, 169 Varvesi, Pierluigi, 7 Vasile, Paolo, 2-53 Vassalli, Giuliano, 43, 100, 327 Velardi, Claudio, 357, 392 Veltroni, Vittorio, 295 Veltroni, Walter, 16, 20, 26-27, 44, 289, 295, 307, 345, 358-359, 368, 400, 402, 425, 431, 433-434, 436, 445, 448 Verderami, Francesco, 242 Vergani, Guido, 58 Vernice, Franco, 146
Vertone, Saverio, 235, 318 Vespa, Bruno, 345 Vicari, Angelo, 223 Vieri, Christian, 457 Viglietta, Gianfranco, 111 Vinciguerra, Vincenzo, 61 Viola, Sandro, 257 Violante, Luciano, 104, 260-261, 401, 403, 415, 424, 474, 478, 500 Visco, Vincenzo, 149, 402 Visentini, Bruno, 187, 432 Vissani, Gianfranco, 401 Vitali, Walter, 295, 454-455 Vitalone, Claudio, 263, 472, 485, 501 Vito, Alfredo, 354 Viviani, Andrea, 398 Vizzini, Carlo, 43, 70 Volponi, Paolo, 119
Wagner, Richard, 11 Waigel, Theo, 422 Walesa, Lech, 22 Weinberger, Caspar, 72 Wojtyla, Karol, vedi Giovanni Paolo II, papa Wyszynski, Stefan, cardinale, 7-8
Zaccagnini, Benigno, 45, 74, 95 Zaffra, Loris, 140 Zagrebelsky, Vladimiro, 85 Zani, Mauro, 455 Zaslavskij, Victor, 208-209 Zavattini, Cesare, 45 Zavoli, Sergio, 80, 163 Zingone, Renzo, 304 Zocca, Teodosio, 300 Zoff, Dino, 465 Zorzoli, Giovanni Battista, 201par Fine