VIRGINIA C. ANDREWS CARA DOLCE AUDRINA (My Sweet Audrina, 1982) Per Ann Patty, il mio editor, per Anita e Humphrey, i mi...
77 downloads
1855 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
VIRGINIA C. ANDREWS CARA DOLCE AUDRINA (My Sweet Audrina, 1982) Per Ann Patty, il mio editor, per Anita e Humphrey, i miei agenti, con gratitudine Ringrazio Richard W. Maurer Jr. per avermi coraggiosamente fornito un elenco di misfatti relativi al mercato azionario attribuiti, in questo libro, a Damian Jonathan Adare. Parte prima Whitefern C'era qualcosa di strano nella casa in cui sono cresciuta. C'erano ombre negli angoli e sussurri sulle scale e il tempo era insignificante come la chiarezza. Ma non saprei dire come facessi a saperlo. C'era in atto una guerra in casa nostra: una guerra silenziosa, senza rombi di cannoni, e i corpi che cadevano non erano che desideri morenti e le pallottole parole e il sangue versato si chiamava sempre orgoglio. Sebbene non fossi mai stata a scuola - avevo sette anni ed era ora che ci andassi - sembrava che sapessi tutto sulla Guerra Civile. Attorno a me la Guerra Civile infuriava ancora e, anche se fossero passati miliardi di anni, restava la guerra che non avremmo mai dimenticato giacché il nostro orgoglio ne era rimasto ferito e le nostre passioni bruciavano ancora. Eravamo stati ignobilmente sconfitti. Forse è per questo che continuava a far male. La mamma e zia Ellsbeth dicevano sempre che gli uomini amavano più di ogni altro argomento le discussioni accese sulla guerra, ma se è vero che esistevano altre guerre, quale che fosse la loro importanza, non se ne parlava mai in casa nostra. Papà leggeva qualunque libro, andava a vedere qualunque film, ritagliava qualunque fotografia che si riferisse a quella guerra tra fratelli, anche se i suoi antenati avevano combattuto contro quelli di mia madre. Era yankee di nascita ma sudista di elezione. La sera a tavola ci raccontava la trama dei lunghi romanzi sul generale Robert E. Lee e ci faceva resoconti raccapriccianti di tutte le battaglie più sanguinose. E
se buona parte di ciò che leggeva mi affascinava, non affascinava né mia zia, che preferiva la televisione, né mia madre, che preferiva leggere altri libri sostenendo che papà tralasciava sempre le parti migliori poiché non erano adatte a orecchie infantili. Cioè alle mie e a quelle di mia cugina Vera. Per quanto tutti credessero che Vera fosse mia sorella, io sapevo che era la figlia illegittima di mia zia - e che dovevamo tenerla al riparo dal pubblico disprezzo fingendo che fosse la mia sorella maggiore. Avevo anche una sorella maggiore legittima, ma era morta prima che venissi al mondo. Anche lei si chiamava Audrina e, sebbene fosse morta da un pezzo, era ancora fra noi. Papà non aveva mai dimenticato la prima - e migliore - Audrina e continuava a sperare che un giorno sarei diventata altrettanto eccezionale. A mia cugina Vera piaceva che la gente pensasse che era mia sorella. Non sapevo quanti anni avesse perché si rifiutava di dirmelo. Nessuno, in casa nostra, rivelava mai la propria età. Solo della mia si parlava in continuazione. Vera si vantava di poter avere gli anni che voleva: dieci, dodici, quindici e persino venti. Ed era vero : con qualche atteggiamento elegante e sofisticato riusciva a cambiare espressione e modi. Poteva sembrare adulta - o molto bambina - a seconda del suo stato d'animo. Si divertiva a prendermi in giro perché non avevo una chiara nozione del tempo. Diceva anche che ero saltata fuori, così com'ero, da un gigantesco uovo di struzzo all'età di sette anni. Diceva che avevo ereditato da quell'animale l'abitudine di nascondere la testa sottoterra fingendo che tutto andasse sempre bene. Non sapeva dei miei sogni e del disagio che mi procuravano. Fin dall'inizio capii che Vera mi era nemica anche se fingeva di essermi amica. Sebbene desiderassi disperatamente la sua amicizia sapevo che mi odiava. Era gelosa di me perché ero Audrina. Oh, quanto avrei voluto da Vera l'amore e l'ammirazione che talvolta provavo nei suoi confronti. E la invidiavo, anche, perché era normale e non doveva cercare di essere uguale a qualcuno che era morto. Nessuno sembrava curarsi del fatto che Vera non fosse eccezionale. Nessuno tranne Vera. Vera provava questo nel dirmi che neppure io ero speciale, ma solo stramba. A dire il vero anch'io pensavo che ci fosse qualcosa di strambo in me. Non ricordavo nulla della mia prima infanzia. Non ricordavo nulla del passato... di quello che avevo fatto la settimana o anche il giorno prima. Non avevo idea di come avessi imparato le cose che sapevo o per quale ragione sapessi cose che non avrei dovuto sapere. I molti orologi sparsi in quell'enorme casa contribuivano a confondermi
ulteriormente. Le pendole nei corridoi segnavano ore diverse; i cucù nelle loro casette di legno facevano capolino dalle porticine decorate contraddicendosi l'un l'altro; la splendida pendola francese nella camera dei miei genitori si era fermata da un pezzo a mezzanotte o a mezzogiorno, e un orologio cinese andava all'indietro. Con mia grande costernazione, per quanto frugassi ovunque, in casa non esistevano calendari, neppure vecchi. E i giornali non arrivavano mai il giorno giusto. Le uniche riviste erano vecchie, ammucchiate negli sgabuzzini, nascoste in soffitta. Niente veniva buttato via in casa nostra. Veniva conservato per i nostri discendenti, di modo che un giorno potessero venderlo e ricavarne una fortuna. Gran parte della mia insicurezza derivava dalla prima Audrina, morta esattamente nove anni prima che io nascessi. Era morta in circostanze misteriose nel bosco, dopo che alcuni ragazzi crudeli e senza cuore l'avevano deturpata in maniera indescrivibile, e per causa sua non dovevo inoltrarmi nel bosco, neppure per andare a scuola. E i boschi erano ovunque attorno a noi, ne eravamo quasi schiacciati. Ci circondavano su tre lati, il fiume Lyle sul quarto. Dovunque volessimo andare dovevamo traversare i boschi. La nostra casa era piena di fotografie della Prima e Migliore Audrina. Sulla scrivania del babbo c'erano tre suoi ritratti incorniciati, all'età di uno, due e tre anni. Non una sola, dico una, foto di me bambina, e questo mi feriva. La Prima Audrina era stata una bambina stupenda e quando la guardavo mi sentivo stranamente afferrare dal prepotente desiderio di essere come lei. Volevo essere lei per sentirmi amata ed eccezionale come tutti dicevano fosse stata; e poi, viceversa, volevo più di ogni altra cosa essere me stessa e conquistarmi per i miei meriti l'amore che mi veniva negato. Oh, i racconti che il babbo mi faceva sulle meraviglie della sua prima figlia, e le cose che mi diceva mi facevano capire che non ero la Migliore Audrina, quella preferita e speciale - ma la seconda e secondaria. I miei genitori conservavano la camera della Prima Audrina come il santuario di una principessa morta. Era stata lasciata esattamente come si trovava il giorno in cui aveva incontrato il suo destino, che non mi fu mai spiegato nei particolari. Quella camera traboccava talmente di giocattoli da non sembrare neppure una camera da letto. Era la mamma in persona che la puliva e la mamma odiava i lavori domestici. La sola vista della sua camera mi faceva capire che nulla era stato abbastanza bello per lei, mentre nella mia cameretta mancavano sia le mensole per i giocattoli, sia i giocattoli stessi. Mi sentivo ingannata, defraudata di un'infanzia. Audrina la Prima e la Migliore mi aveva rubato la giovinezza e tutti parlavano talmente
tanto di lei da impedirmi di ricordare qualsiasi cosa di me. Ero convinta che fosse per causa sua che la mia memoria era così piena di buchi. Il babbo cercava di riempire quei buchi mettendomi sulla sedia a dondolo e facendomi dondolare e cantare finché non diventavo «il vaso vuoto che si sarebbe colmato di ogni meraviglia». Voleva che mi colmassi dei suoi ricordi e catturassi i suoi poteri speciali giacché lei ormai era morta e non ne avrebbe più avuto bisogno. E, come se uno spettro non fosse stato abbastanza, ne avevamo un secondo che veniva ogni martedì alle quattro. «I tè del martedì», così chiamavamo il giorno della zia Mercy Marie. Troneggiava sul pianoforte, nella sua fotografia in bianco e nero dentro la cornice d'argento, il viso grasso illuminato da un sorriso vacuo, gli slavati occhi azzurri fissi su di noi come se potesse vederci, anche se non era vero. Era morta, eppure non lo era, come mia sorella. Mia zia e mia madre parlavano per la zia Mercy Marie e attraverso lei liberavano tutto il veleno che si tenevano dentro e serbavano per i «tè del martedì». Stranamente, mia cugina Vera amava tanto quei ricevimenti del martedì da inventarsi una scusa dopo l'altra per marinare la scuola, solo per essere presente e stare a sentire tutte le cose orrende che si dicevano mia madre e la sua sorellastra. Portavano entrambe il nome Whitefern e c'era stato un tempo lontano in cui ciò aveva rappresentato qualcosa di magnifico. Ora rappresentava solo qualcosa di triste, ma si rifiutavano di dirmi esattamente cosa. Tanto tempo prima la famiglia Whitefern era stata la famiglia più illustre di Tidewater, il distretto della Virginia in cui vivevamo noi, e aveva dato al paese senatori e vicepresidenti. Ma ora eravamo caduti in disgrazia e non solo agli occhi degli abitanti del villaggio, ma di tutti gli altri e non eravamo più rispettati né tanto meno stimati. La nostra casa era lontana da ogni città o cittadina. Il villaggio di Whitefern era a venticinque chilometri da casa nostra e per arrivarci si doveva percorrere una strada solitaria di campagna, raramente però ci andavamo. Era come se tanto tempo prima fosse stata dichiarata una guerra segreta e noi, nel nostro castello (come a papà piaceva chiamare casa nostra) eravamo odiati dai «servi» delle pianure. Ammesso che l'impercettibile altura sulla quale sorgeva Whitefern potesse essere chiamata collina, per contrasto con quelle pianure. Per andare al suo ufficio di agente di cambio papà doveva farsi in macchina tutti i giorni cinquanta chilometri all'andata e altrettanti al ritorno.
Tutti i nostri amici vivevano in città. I nostri vicini più prossimi stavano a venti chilometri di cammino, otto in linea d'aria. Papà prendeva l'unica macchina che avevamo per andare al lavoro, lasciandoci tutti quanti senza mezzo di trasporto. Spesso zia Ellsbeth rimpiangeva il giorno in cui aveva venduto la sua utilitaria per comperarsi il televisore. Mia zia, che non era mai stata sposata, adorava il suo televisorino portatile da dodici pollici. Raramente mi permetteva di guardarlo; per contro Vera, sua figlia, poteva guardarlo quanto voleva quando non era a scuola. Questa era un'altra cosa che non riuscivo a capire: perché a Vera era concesso di andare a scuola e a me no? La scuola era pericolosa per me, ma non per lei. Naturalmente sospettavo che ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato in me. I miei genitori erano costretti a nascondermi per tenermi al sicuro dagli estranei, quantomeno da me stessa. Questo era il pensiero più terrificante di tutti. All'età di sette anni, quando gli altri bambini tra risa e spintoni salivano sui piccoli bus gialli per andare a scuola, io me ne stavo seduta al tavolo della cucina e imparavo a leggere, a scrivere, a fare le addizioni e le sottrazioni sotto la guida di mia madre che suonava stupendamente il piano e che non sapeva fare altro che insegnare a suonare il piano. Fortunatamente, o forse no, c'era zia Ellsbeth a dare una mano. Un tempo aveva fatto la maestra elementare, pronta a menare le mani contro chiunque osasse affibbiarle un nomignolo poco piacevole. Uno scappellotto di troppo e i genitori avevano fatto in modo che mia zia venisse licenziata. Sebbene per parecchi anni avesse tentato di trovare un altro posto, la sua fama l'aveva preceduta: il pessimo carattere e le mani troppo lunghe. Zia Ellsbeth, come sua figlia Vera, era anche sempre pronta a criticare il nostro modo di vivere. Secondo lei, eravamo tutti «antidiluviani» quanto la nostra casa nella quale vivevamo. «Non sintonizzati con il resto del mondo,» diceva. Nei miei sogni, Whitefern torreggiava alta e bianca sullo sfondo di un cielo scuro e tempestoso, terribile a guardarsi. Minacciosa di notte, mi accoglieva a braccia aperte di giorno. Avevo l'abitudine di sedermi sul prato che la circondava in ammirazione della sua grandiosità. Era una dimora vittoriana piena di decorazioni, dall'intonaco bianco e screpolato e le persiane scure e cadenti. Si ergeva su due piani, e la cantina e la soffitta davano sul lato posteriore dove l'ampio prato digradava dolcemente verso il fiume Lyle. Guardandola non potevo fare a meno di pensare che avevamo
molte cose in comune: eravamo entrambe antidiluviane e»non sintonizzate». Le finestre erano innumerevoli, molte di esse abbellite da splendide vetrate colorate. Le persiane, tutte sul punto di crollare, erano di un rosso così cupo da sembrare nero a una certa distanza, come sangue disseccato. Dall'esterno la cosa più bella erano le balaustre che ornavano buona parte dei balconi e delle verande, e forgiate in modo da sembrare felci stilizzate. Proprio al centro del tetto scuro sorgeva una cupola tonda rivestita di rame ora verde di ruggine. Terminava in una cuspide sovrastata da una sfera dorata il cui strato d'oro veniva via un poco per volta, quando pioveva. La cupola aveva circa quattro metri di diametro e ciascuna delle sue innumerevoli finestre era decorata da vetrate colorate e piombate che raffiguravano scene di angeli di vita e di morte. All'interno e all'esterno grandi felci ricadevano a cascata da portavasi di vimini. C'erano anche altre piante, ma le felci sembravano rubare tutta l'umidità dell'aria cosicché le altre piante morivano. Reggendomi sulle gambe timide, furtive, facevo dei giochi solitari nel grande atrio dove le vetrate del portale di ingresso proiettavano sul pavimento arabeschi multicolori. Colori come sciabolate talvolta, che mi colpivano il cervello trafiggendolo. Recitavo dei versi che Vera mi aveva insegnato per proteggermi dai colori: Cammina sul nero, esci per sempre dal maniero. Cammina sul verde, nel male ci si perde. Cammina sul blu, faticherai sempre di più. Cammina sul giallo, cadrai giù dal piedistallo. Cammina sul rosso, dalla morte sarai scosso. Così per non camminare sui colori strisciavo lungo le pareti, tenendomi nell'ombra, ascoltando le pendole scandire ore diverse e gli sciocchi cucù impazzire nella notte. Quando il vento soffiava impetuoso le persiane sbattevano e i pavimenti scricchiolavano, la fornace nel sottoscala tossiva, sputacchiava, gemeva e le campanelle tibetane nella cupola tintinnavano e tintinnavano. Eppure alla luce del giorno c'erano in casa nostra cose così mirabilmente stupefacenti che mi sentivo come Alice nel Paese delle Meraviglie. Lampade art-decò, objets-d'art e pezzi di antiquariato erano disseminati ovunque. Lampade Tiffany sorgevano a spruzzare le pareti di nuovi colori.
Gocce di cristallo intagliato pendevano da paralumi, appliques, candelabri, lampade a gas, catturando colori, rifrangendo arcobaleni che lampeggiavano come la folgore ogni qualvolta il sole riusciva a penetrare attraverso i tendaggi di pizzo. C'era il camino in ogni stanza. Ne avevamo otto di marmo, molti di legno elegantemente intagliato e scolpito e nessuno di pietra. La pietra non era abbastanza raffinata per il nostro genere di casa che sembrava avere in spregio la semplicità. I soffitti erano alti, e formavano intricati disegni che fungevano da cornice a scene bibliche o romantiche. Nei tempi che furono la gente si vestiva troppo, o almeno così sembrava ai miei occhi infantili, oppure troppo poco. Mi chiedevo perché mai le scene bibliche normalmente mettessero in mostra più carne di quelle in cui i protagonisti erano decisamente malvagi. Era difficile credere che quella gente seminuda stesse sinceramente cercando di seguire il cammino indicato dal Signore. Seni nudi di imponenti proporzioni facevano sfacciatamente capolino in ogni stanza della nostra casa, fuorché la mia. George Washington e Thomas Jefferson e parecchi altri presidenti dallo sguardo vacuo fissavano giorno dopo giorno una signora nuda, languidamente adagiata in un divanetto sulla parete opposta, che si faceva dondolare un grappolo d'uva tentatore sopra la bocca spalancata. Puttini nudi svolazzavano qua e là senza pudore lanciando frecce pellegrine. Ma invariabilmente gli uomini nascondevano con modestia la loro virilità dietro una foglia o un grazioso panneggio strategicamente piazzati. Le donne, invece, non erano altrettanto abili a nascondere le loro grazie, mi dicevo spesso nel guardarle. Apparivano ritrose, ma agivano senza modestia. Un giorno zia Ellsbeth, sorprendendomi in loro contemplazione, mi aveva spiegato con amarezza che giacché la maggior parte dei pittori erano uomini era più che naturale per loro dilettarsi nello «sfruttamento» del nudo femminile. «Non giudicare le donne da quello che vedi nei quadri e nelle statue. Giudicale soltanto per quello che sai e vedi delle donne nella tua vita. Il giorno in cui un uomo capirà una donna sarà la fine del mondo. Gli uomini sono creature odiose e contraddittorie che dicono di volere una dea da mettere su un piedistallo. Ma una volta trovata, le strappano l'aureola, le tolgono la tunica, le tagliano le ali in modo che non possa più volare, dopo di che abbattono il piedistallo e quando finalmente la donna cade ai loro piedi possono urlare, mentre la calpestano: 'Puttana!' se non di peggio!». A sentire zia Ellsbeth si sarebbe potuto pensare che si fosse sposata al-
meno una dozzina di volte e avesse avuto un migliaio di uomini. Per quel che ne sapevo io, ne aveva avuto uno solo. I mobili erano in vari stili e tutti bellissimi. Si sarebbe detto che ogni sedia, ogni tavolo, ogni divano, lampada, cuscino, poltrona, scrivania facesse a gara per primeggiare rispetto agli altri. Per quanto zia Ellsbeth non facesse che criticarli, la mamma mi prendeva per mano e mi conduceva di stanza in stanza spiegandomi in tono reverenziale, che quella tale tavola era in stile «neoclassico» e che il centrotavola era un Berkey and Gay, un Grand Rapids, un Michigan. «Tutti pezzi di antiquariato, Audrina. Valgono tanto oro quanto pesano. Il letto in camera mia ha più di cinquecento anni. Un tempo re e regine hanno dormito sotto quel baldacchino». Alle nostre spalle mia zia grugniva di disprezzo e incredulità. Gli altri avevano la luce elettrica in tutte le stanze; noi soltanto in cucina e nei bagni. Nella altre stanze usavamo lampade a gas perché la mamma sosteneva che mettevano in risalto la sua carnagione. Mia zia le riteneva una rottura di... (ma non mi era permesso ripetere certe parole che la zia usava senza problemi). Ancor più delle lampade a gas la mamma adorava le candele e i ciocchi nel camino che scoppiettavano e crepitavano e formavano ombre che danzavano sui pannelli scuri alle pareti. La nostra cucina era come un pugno in un occhio con tutti i suoi attrezzi moderni che rendevano la vita sopportabile alla mamma, che detestava ogni genere di lavoro manuale ma amava cucinare i pranzetti di cui mio padre non poteva fare a meno. La stanza che tutti preferivamo era il Salone stile impero. Sull'ottomana di velluto color viola, con le rifiniture a trecce d'oro brunito che ricadevano nei punti in cui non erano legate da nappe ricamate, la mamma riposava avvolta in vaporosi negligés o in morbidi abiti estivi. Sembrava non accorgersi che l'imbottitura usciva da tutte le parti e che in certi punti spuntavano le molle. Elegantemente adagiata sull'ottomana leggeva i suoi romanzi e di tanto in tanto sollevava lo sguardo a contemplare il vuoto con espressione sognante. Mi figuravo che si stesse vedendo fra le braccia del bel protagonista illustrato sulla copertina del suo libro. Mi dicevo che un giorno avrei avuto anch'io il coraggio di leggere romanzi come quelli, belli e perversi al tempo stesso... anche se non so come mai li definissi tali non avendone mai letto neanche uno. Ma quei personaggi seminudi sulla copertina avevano un'aria terribilmente perversa. Nel gigantesco ufficio a pianta circolare del babbo, proprio sotto la cu-
pola, c'erano migliaia di vecchi libri e parecchie splendide edizioni di classici che nessuno leggeva all'infuori di me e di zia Ellsbeth. Il babbo diceva che non aveva tempo, eppure continuava ad aggiungere nuovi esemplari rilegati in pelle alla nostra biblioteca come se sperasse che i nostri amici pensassero che li leggesse. La mamma nascondeva le sue edizioni economiche negli armadi a muro della camera da letto e fingeva lei pure di essere un'appassionata di quegli edificanti racconti stampati su carta sottile e splendidamente rilegati. Alcuni di quei classici contenevano materiale molto perverso, almeno così sosteneva la cugina Vera che mi teneva sempre informata su ciò che era o non era perverso. A me piaceva guardare la mamma sdraiata sull'ottomana. Dietro di lei c'era un pianoforte da concerto che suo padre le aveva regalato il giorno in cui lei aveva vinto la medaglia d'oro in un concorso musicale. Infinite volte mi aveva raccontato che avrebbe potuto seguitare e suonare nelle migliori sale da concerto, ma che papà non aveva voluto una pianista professionista per moglie. «Non cercare di sviluppare troppe doti, Audrina. Agli uomini non va, soprattutto se poi finisci per guadagnare più di loro.» Languidamente la sua mano scivolava verso il basso. Senza neppure guardare trovava a colpo sicuro proprio il cioccolatino che voleva e se lo cacciava in bocca. Spesso mio padre la ammoniva di non mangiare troppo cioccolato se non voleva ingrassare, ma lei non ingrassava mai. Mia madre era alta, esile e tornita nei punti giusti. Papà mi diceva spesso che per la sua bellezza era la donna più famosa di tutta la East Coast e che era stata la reginetta del ballo delle debuttanti. Più di un uomo ricco e famoso aveva chiesto la mano di mia madre, ma era stato Damian Jonathan Adare che l'aveva fatta capitolare con la sua tenebrosa bellezza e il suo fascino irresistibile. «Torreggiava su ogni altro uomo che avessi mai conosciuto, Audrina,» mi raccontava mia madre. «Quando tuo padre tornava dal mare tutte le ragazze avrebbero fatto non so che cosa pur di portarselo a casa. Mi sono sentita così fortunata quando non ha avuto occhi che per me.» Poi si accigliava, come rammentando qualche altra ragazza per la quale, forse, il babbo aveva avuto «occhi». Vera diceva sempre che mio padre aveva sposato mia madre solo perché era rimasto stregato dal colore dei suoi capelli. «Capelli da strega», così, per l'appunto, Vera definiva i capelli della mamma e i miei. «Capelli da camaleonte», li definiva spesso papà. Erano capelli strani e certe volte pensavo che Vera avesse ragione. Le nostre chiome non sapevano di che colo-
re dovessero essere e, invece, erano di tutti i colori. Biondo cenere con una spruzzata d'oro, castano, rosso, castano scuro, rame e persino un po' d'argento. A papà piaceva lo strano colore prismatico dei nostri capelli. Io ero convinta che lui avesse ordinato a Dio di darmi i capelli che avevo; se Lui non l'avesse fatto, forse papà mi avrebbe rimandata indietro. Giacché anche la prima Audrina aveva capelli da camaleonte. Il mio papà, uno e novantacinque di altezza e oltre novanta chili di peso, era l'uomo più alto che avessi mai visto, sebbene Vera non facesse che ripetermi che c'erano molti uomini più alti di lui, soprattutto i giocatori di pallacanestro. I capelli di papà erano del nero più nero, con sfumature azzurrine, talvolta, alla luce del sole. Aveva stupendi occhi a mandorla, così scuri da sembrare neri e le ciglia erano talmente lunghe e folte da sembrare finte, anche se non lo erano. Lo sapevo, avevo cercato di strappargliele dopo aver visto la mamma incollarsi quelle finte. Il suo sguardo era denso come l'olio, terrificante e stupendo, soprattutto quando scintillava. Aveva una carnagione morbida e liscia spesso arrossata in inverno e bronzea in estate. Quando la mamma era in collera con papà perché spendeva più per sé che per lei, lo definiva «damerino» e «bellimbusto», ma io non conoscevo il significato di quelle parole. Sospettavo che intendesse che il mio grande, potente genitore si curasse più dei suoi abiti che dei suoi principi. Temeva di invecchiare, soprattutto di perdere i capelli. Controllava la spazzola ogni giorno, quasi contando uno per uno i capelli che vi trovava attaccati. Andava a farsi controllare dal dentista ogni tre mesi, si puliva i denti così spesso da disgustare la mamma, si faceva visitare dal medico con la stessa frequenza con cui andava dal dentista, si disperava per disturbi di poco conto che nessun altro, tranne lui, avrebbe notato, quale un'unghia del piede appena incarnita che faceva fatica a tagliare. Eppure quando sorrideva il suo fascino era irresistibile. I principi erano un'altra cosa che non capivo, se non che la mamma diceva spesso che papà ne era privo. Ancora una volta intuivo vagamente che intendeva dire che quando il babbo voleva una cosa la voleva a ogni costo ed era meglio che nessuno gli traversasse la strada o cercasse di impedirgli di prendere ciò che aveva deciso di prendere. Eppure, certe volte quando era con me, ed era tenero e affettuoso, faceva a modo mio. Ma solo certe volte. C'erano altre volte... terribili altre volte. Era stato convenuto, quando mia zia era venuta a vivere con noi, con Vera che aveva appena un anno, che avrebbe fatto tutti i lavori di casa in cambio di vitto e alloggio, mentre a mia madre sarebbe toccato cucinare.
Incomprensibilmente mia zia voleva cucinare (cosa che riteneva più facile) anziché fare i lavori di casa, ma era impossibile mangiare quello che mia zia preparava. La mamma non sopportava i lavori di casa, però poteva buttare qualsiasi cosa nella pentola e quello che ne veniva fuori era invariabilmente divino. Papà diceva che era una cuoca «creativa» poiché aveva la mentalità d'artista, mentre Ellie (solo lui la chiamava così) era nata per essere la schiava di un uomo. Che occhiate di fuoco gli lanciava mia zia quando diceva cose del genere! La zia era una donna temibile. Lunga, segaligna e meschina, era la descrizione di mio padre. «Non mi stupisco che nessun uomo voglia sposarti,» la stuzzicava spesso. «Hai la lingua di una vipera.» Non solo aveva la lingua tagliente, ma aveva anche le sue teorie circa chi ben ama ben castiga. E né a me né a Vera veniva risparmiata la verga quando era lei di servizio. Fortunatamente i miei genitori ci lasciavano di rado sole con lei. Per certi versi sembrava che mia zia odiasse sua figlia ancor più di quanto odiasse me. Avevo sempre creduto che le donne nascessero per essere madri e dolci. Però, se ci riflettevo sopra, non ricordavo come fossi arrivata a quella conclusione. Alla mamma piaceva che la zia castigasse Vera, così poteva spalancare le braccia e accoglierla dicendole più volte: «Va tutto bene, Vera, ti vorrò bene io anche se tua madre non ne è capace». «E questa è la tua debolezza, Lucietta,» replicava mia zia aspramente. «Puoi dare amore a qualunque cosa». Come se sua figlia, Vera, non fosse un essere umano. Mia zia Ellsbeth nominava il padre di Vera. «Era un bugiardo e un imbroglione. Non voglio ricordarne il nome,» diceva con disprezzo. Era molto difficile comprendere quello che avveniva in casa nostra. Correnti traditrici, come i fiumi che si gettavano nel mare che non era poi tanto lontano. Era vero che mia zia era alta, aveva il viso lungo ed era magrissima, anche se mangiava tre volte più di mia madre. Certe volte, quando il babbo le diceva cose crudeli, le sue labbra già sottili si stringevano fino a diventare una linea quasi invisibile. Le narici palpitavano, le mani si stringevano a pugno, come se non resistesse alla tentazione di mollargliene uno, se solo avesse avuto il coraggio. Forse era per via di zia Ellsbeth che i nostri amici di città non venivano più spesso. Doveva esserci una ragione se venivano solo quando davamo una festa. Allora la mamma diceva che i nostri «amici» saltavano fuori dal-
la tappezzeria come insetti venuti a far man bassa in un pic-nic. Papà adorava tutte le feste e se le godeva dall'inizio alla fine. Poi, per una ragione o per l'altra, aggrediva la mamma e la puniva di qualche stupidaggine che definiva «un errore di società», come guardare un bell'uomo troppo a lungo, oppure ballare con lui troppo spesso. Oh, era difficile essere una moglie, lo vedevo. Non si riusciva proprio a capire come comportarsi, o come trattare con gli altri. Era naturale che la mamma suonasse il piano per divertire la gente mentre ballava o cantava. Però non doveva suonare bene al punto da farsi dire che era stata sciocca a sposarsi e ad abbandonare una carriera musicale così promettente. Alla nostra porta non si presentavano mai visitatori casuali. E neppure i rappresentanti avevano accesso. C'erano cartelli da tutte le parti: «Vietato l'accesso agli estranei», «Attenti al cane», e «Proprietà privata. I trasgressori saranno perseguiti a norma di legge». Non di rado mi coricavo insoddisfatta della mia vita, come se una corrente sottomarina mi tirasse per i piedi e io mi dimenassi, mi dimenassi, destinata ad affondare e ad annegare. Avevo la sensazione di udire una voce bisbigliare, dirmi che c'erano fiumi da attraversare e luoghi dove andare, ma io non sarei mai andata da nessuna parte. Che c'era gente da conoscere e la vita da vivere, ma io non avrei mai avuto nulla di tutto ciò. Mi svegliavo e udivo il tintinnio delle campanelle a vento ripetermi a non finire che appartenevo al luogo in cui mi trovavo e che ci sarei rimasta per sempre e non ci avrei potuto mai fare niente. Rabbrividendo mi stringevo il petto sottile in un abbraccio. Nelle orecchie la voce di papà mi ripeteva in continuazione: «Questo è il tuo posto, è qui che devi restare, al sicuro con il tuo papà, al sicuro a casa tua». Perché mi era capitata una sorella maggiore morta e sepolta all'età di nove anni? Perché dovevo portare il nome di una bambina morta? Sembrava strano, innaturale. Odiavo la Prima Audrina, la Migliore Audrina, la Buona e Perfetta e Sempre-Giusta Audrina. Eppure dovevo sostituirla se volevo conquistarmi un posto sicuro nel cuore di papà. Odiavo il rituale della visita alla sua tomba ogni domenica dopo la funzione e odiavo deporvi i fiori acquistati dal fiorista, come se i fiori del nostro giardino non fossero abbastanza belli. La mattina correvo dal babbo e lui mi sollevava al volo e mi teneva stretta al petto mentre le pendole nei corridoi ticchettavano inesorabilmente. Attorno a noi la casa era muta e silenziosa come una tomba, come in attesa che la morte venisse a prenderci tutti quanti, come già aveva preso la
Prima e Migliore Audrina. Oh, quanto odiavo e invidiavo la mia sorella morta! Che maledizione era per me portarne il nome! «Dove sono gli altri?» bisbigliavo guardandomi attorno piena di paura. «Fuori in giardino,» rispondeva lui stringendomi più forte. «È sabato, amor mio. So che per te non conta, ma per me è importante. Il tempo non è mai importante per le persone eccezionali, dotate di doni straordinari. Eppure per me le ore del finesettimana sono le migliori. Sapevo che avresti avuto paura nel trovarti sola nella casa vuota, così ci sono rimasto io, mentre gli altri sono usciti a raccogliere il frutto delle loro semine.» «Papà, perché non riesco a ricordare i giorni come tutti? Non ricordo l'anno scorso, neppure l'anno prima... perché?» «Siamo vittime di duplici retaggi», rispondeva lui a bassa voce, carezzandomi i capelli e cullandomi dolcemente avanti e indietro nella sedia a dondolo che la mia bis-bisnonna aveva usato per allattare i suoi dodici bambini. «Ogni bambino eredita i geni da entrambi i genitori e questo determina il colore dei suoi capelli, degli occhi e la sua personalità. I bambini vengono al mondo e subiscono l'influenza di quei geni e dell'ambiente che li circonda. Tu sei ancora in attesa di colmarti con i doni della tua sorellina morta. Non appena ciò avverrà, tutto ciò che c'è di bello e di buono a questo mondo ti apparterrà, come era appartenuto a lei. E mentre noi due attendiamo quel giorno meraviglioso in cui il tuo vaso vuoto si colmerà, io mi farò in quattro per darti ciò che c'è di meglio.» In quel momento mia zia e mia madre entrarono in cucina, seguite da Vera che portava un cestino di fagiolini colti di fresco. Evidentemente zia Ellsbeth doveva aver udito buona parte di ciò che il babbo aveva appena detto, poiché osservò con sarcasmo: «Avresti dovuto fare il filosofo anziché l'agente di cambio, Damian. Forse in tal caso qualcuno avrebbe dato retta alle tue parole di saggezza». La fissai, scavando nella mia memoria traditrice qualcosa che potevo o non potevo aver sognato. Era anche possibile che si trattasse di un sogno appartenuto alla Prima Audrina, che era tanto intelligente, tanto bella ed eternamente perfetta. Ma prima ancora di poter catturare un ricordo sia pur illusorio era già tutto svanito. Sospirai, insoddisfatta di me stessa, insoddisfatta degli adulti che mi comandavano, della cugina che si ostinava a dire di essere la mia vera e unica sorella, perché voleva rubarmi il posto, quando già il mio posto era stato rubato dalla Prima e Migliore Audrina, che era una Audrina morta. E adesso ci si aspettava che io mi comportassi come lei, che parlassi
come lei e che fossi tutto ciò che lei era stata... Ma allora, dove sarebbe dovuto andarsene il mio vero io? Venne domenica, e non appena la funzione fu terminata papà si diresse, come sempre, verso il cimitero di famiglia nelle vicinanze di casa nostra e dove il nome Whitefern era inciso su un'enorme cancellata ad arco sotto la quale passavamo lentamente con la macchina. Al di là dell'arcata, tuttavia, bisognava procedere a piedi. Indossavamo tutti gli abiti migliori e portavamo fiori costosi. Papà mi tirò giù dalla macchina. Opposi resistenza odiando quella tomba che dovevamo visitare e quella bambina morta che mi derubava dell'amore di tutti. Avevo l'impressione che fosse la prima volta che mi riusciva di ricordare chiaramente le parole che papà doveva aver detto parecchie volte prima di allora. «Qui giace la mia Prima Audrina.» Addolorato fissava la pietra tombale piatta con la lapide di marmo sulla quale era inciso il mio nome, ma le sue date di nascita e di morte. Mi chiedevo quando i miei genitori si sarebbero ripresi dal colpo della sua morte misteriosa. Pensavo che se sedici anni non avevano rimarginato quella ferita forse neppure novanta sarebbero bastati. Non sopportavo di guardare quella lapide, per cui guardavo in alto, verso il bel viso di mio padre. Da grande, non mi sarebbe più stato possibile vedere dal basso uno scorcio del suo mento forte e quadrato, e poi il labbro inferiore proteso in avanti, e le narici dilatate e la frangia delle lunghe ciglia inferiori che incontravano quelle superiori, mentre sbatteva le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. Era come guardare Dio. Sembrava così potente, così al disopra di ogni cosa. Mi sorrise di nuovo. «La mia Prima Audrina è in quella tomba, morta all'età di nove anni. Quella Audrina meravigliosa ed eccezionale, meravigliosa ed eccezionale come te. Non dubitare mai, neppure per un istante, di non essere meravigliosa e dotata quanto lo era lei. Credi in ciò che ti dice il tuo papà e non sbaglierai.» Deglutii. Far visita a quella tomba e sentir parlare di quella Audrina mi faceva sempre dolere la gola. Certo che non ero meravigliosa né eccezionale, eppure come facevo a dirglielo quando lui sembrava così convinto? Nella mia testa di bambina mi figuravo che il mio valore ai suoi occhi dipendesse solo da quanto eccezionale e meravigliosa sarei diventata più avanti. «Oh, papà», esclamava Vera incespicandogli a fianco e aggrappandosi alla sua mano. «L'amavo tanto, tanto. Era così dolce e meravigliosa ed eccezionale. E tanto bella! Non ci sarà mai, neppure tra un milione di anni,
un'altra come la tua Prima Audrina.» E lanciava un sorriso maligno verso di me per dirmi, una volta di più, che non sarei mai stata graziosa quanto la Prima e Migliore e Più-Che-Perfetta Audrina. «Ed era così brava a scuola, anche. È stata una morte orrenda, davvero orrenda. Che vergogna se accadesse a me, oh una vergogna da morire.» «Chiudi il becco!» ruggiva il babbo con voce così possente che le anatre nel laghetto volavano via. Poi si affrettava a deporre il vaso di fiori su quella pietra tombale e, afferratami per la mano, mi tirava verso la macchina. La mamma si metteva a piangere. Già sapevo che Vera aveva ragione. Quale che fosse l'eccezionalità della Prima Audrina, essa era sepolta con lei in quella tomba. Nella cupola Non voluta, non degna, non bella e non abbastanza eccezionale erano le parole che mi passavano per la mente mentre salivo le scale che portavano alla soffitta. Desideravo che la Prima Audrina non fosse mai nata. Dovetti aprirmi un varco nella montagna di vecchiumi polverosi prima di arrivare alla scaletta a chiocciola di ferro arrugginito che mi avrebbe condotta, attraverso un'apertura quadrata nel pavimento, un tempo protetta da una ringhiera di ferro che un giorno papà avrebbe sostituito, nella stanza al piano di sopra. In quella stanza ottagonale c'era un tappeto turco rettangolare cremisi, oro e azzurro. Ogni volta che salivo lassù passavo le dita attraverso le sue frange come spesso faceva papà con i suoi capelli scuri quando era in collera o contrariato. Non c'erano mobili nella cupola, soltanto un cuscino sul quale sedermi. La luce cadeva attraverso le vetrate colorate sul tappeto in vortici simili alle piume iridescenti di un pavone e confondeva i disegni della lana con ghirigori di luce colorata. Anche le mie braccia e le gambe erano coperte da disegni, simili a effimeri tatuaggi. In alto, dal centro esatto del tetto a cuspide, pendevano lunghi rettangoli di vetro dipinto - campanelle a vento tibetane appese a cordoni di seta scarlatta. Erano così alte che il vento non riusciva a smuoverle, eppure spesso le udivo tintinnare, tintinnare. Se solo una volta le avessi viste ondeggiare, allora avrei potuto credere di non essere pazza. Mi lasciai cadere sul cuscino al centro del tappeto e cominciai a giocare con le vecchie bambole di carta che tenevo allineate lungo le pareti. A cia-
scuna avevo dato il nome di qualcuno che conoscevo, ma giacché non conoscevo molte persone, molte bambole avevano nomi uguali. Ma solo una si chiamava Audrina. Vagamente mi sembrava di ricordare che un tempo c'erano state bambole e bambolotti, maschi e femmine, ma ora avevo soltanto bambole femmine, bambine e signore adulte. Ero così assorta nei miei pensieri che non udii alcun suono, finché una voce mi chiese bruscamente: «Stai pensando a me, dolce Audrina?» Girai la testa di scatto. Fra i magici colori della luce della cupola c'era Vera. I suoi capelli lunghi erano color albicocca, diversi da qualsiasi altro colore avessi mai visto, tuttavia un colore non insolito nella nostra famiglia. I suoi occhi erano scuri, come quelli di sua madre, come quelli di mio padre. I colori che si rifrangevano dalle innumerevoli finestre disegnavano schemi fantastici sul pavimento, tatuavano simboli sul suo volto, e sono certa che i miei occhi scintillavano quanto i suoi, come gioielli dalle mille sfaccettature. La cupola era un luogo magico. «Mi stai ascoltando, Audrina?» mi chiese, in un bisbiglio da far paura. «Perché te ne stai seduta lì e non rispondi? Hai perso le corde vocali oltre alla memoria?» Mi irritava la sua presenza nella cupola. Era la mia stanza, la stanza in cui cercavo di ricordare ciò che avevo dimenticato, muovendo le bambole di qua e di là e fingendo che fossero la mia famiglia. Diligentemente sistemavo le bambole lungo gli anni della mia vita, cercando in tal modo di ricostruire e far affiorare il segreto che mi sfuggiva. Un giorno, un giorno stupendo, mi auguravo di poter ricavare da quelle bambole ciò che non riuscivo a rammentare così da ritornare a essere intera, e magnifica quanto lo era stata la mia sorellina morta. Al braccio sinistro di Vera era stata appena tolta l'ingessatura. Lo agitava violentemente mentre penetrava nel mio piccolo santuario. Malgrado l'alternarsi dei miei sentimenti per Vera, mi spiaceva che potesse rompersi un braccio solo andando a sbattere contro qualcosa di duro. A sentir lei aveva avuto undici fratture, e io neppure una. Un colpetto contro un tavolo ed ecco che si fratturava il polso. Una botta più leggera e grossi lividi violacei le segnavano la pelle per settimane. Se cadeva dal letto sul morbido tappeto imbottito riusciva ancora a rompersi una gamba, una caviglia, un avambraccio, qualcosa. «Il braccio ti fa ancora male?» «Non guardarmi con quella faccia!» mi redarguì Vera zoppicando nella
cupola, poi accoccolandosi sui talloni in una goffa posizione. I suoi occhi scuri mi scavavano dentro. «Io ho le ossa fragili, ossa piccole e delicate che si rompono facilmente perché nelle mie vene scorre più sangue blu che nelle tue.» Poteva tenerselo il suo sangue blu se significava rompersi le ossa due volte l'anno. Certe volte quando era così meschina con me pensavo che si trattasse di un castigo di Dio. E certe volte mi sentivo in colpa perché le mie ossa erano solide e rifiutavano di rompersi anche quando cadevo. Mi chiesi ancora una volta se la Prima, la Migliore e la Più-Che-Perfetta Audrina fosse stata aristocratica quanto Vera. «Sicuro che il braccio mi fa male!» strillò Vera, i neri occhi che mandavano lampi rossi, verdi e azzurri. «Mi fa un male del diavolo!» La sua voce si fece lamentosa mentre seguitava. «Quando hai un braccio rotto ci si sente inutili. È peggio che rompersi una gamba perché ci sono un sacco di cose che non si possono fare con un braccio rotto. Dal momento che tu mangi così poco proprio non mi spiego come mai le tue ossa non si rompano più facilmente delle mie... ma, naturalmente, si vede che hai ossa da contadina.» Non sapevo cosa dire. «C'è un ragazzo nella mia classe che mi guarda con tanta comprensione, e mi porta i libri e mi parla e mi fa un sacco di domande. È bello da non credere. Si chiama Arden Lowe. Non è un nome romantico e insolito per un ragazzo? Sai, Audrina, credo che si sia preso una cotta per me... E poi mi ha baciato due volte nello spogliatoio.» «Cos'è uno spogliatoio?» «Oddio, come sei stupida! Una memoria che fa acqua da tutte le parti, peggio di uno scolapasta, ecco che cos'è la dolce Audrina del suo papà.» Sghignazzava mentre mi lanciava la sua sfida. Io non avevo voglia di litigare, così lei riprese a raccontarmi del suo ragazzo di nome Arden Lowe. «Ha gli occhi color dell'ambra, gli occhi più belli che abbia mai visto. Quando li guardi, proprio da vicino, ci scopri delle pagliuzze verdi. Ha i capelli castano scuro, con striature rossastre quando ci batte il sole. Ed è anche intelligente. Ha un anno più di me, ma questo non vuol dire che sia scemo, vuol dire solo che ha viaggiato talmente tanto da rimanere indietro a scuola.» Sospirò e mi fissò con uno sguardo sognante. «Quanti anni ha Arden Lowe?» «Ieri avevo vent'anni, di conseguenza Arden era più giovane, naturalmente. Lui non è in grado di cambiare età, come me; penso abbia undici
anni, un bambino se io ne ho venti, ma un bambino tanto bello.» Mi sorrise, ma io sapevo perfettamente che lei non poteva avere più di... dodici anni? Tornai alle mie bambole. «Audrina, tu ami quelle bambole più di quanto ami me.» «No, non è vero...» Ma non ne ero così sicura, neppure nel dirlo. «Se è così dammi tutti i bambolotti maschi.» «I bambolotti maschi non ci sono più,» replicai con una strana vocetta che indusse Vera a spalancare gli occhi. «E dove sono andati a finire tutti i bambolotti maschi, Audrina?» bisbigliò sinistra e allusiva. Rabbrividii. «Non lo so,» bisbigliai di rimando, chissà perché spaventata. Mi guardai attorno con occhi atterriti. Tin-tin-tin suonavano le campanelle a vento sopra di me, sospese lassù perfettamente immobili. Sentii una mano stringermi il cuore. «Pensavo che li avessi presi tu.» «Sei una ragazzina cattiva, Audrina, davvero maligna. Vedrai, un giorno scoprirai davvero quanto sei cattiva e quel giorno desidererai morire.» Ridacchiò e si ritrasse. Cosa c'era in me che la spingeva a ferirmi in continuazione? Oppure c'era in lei qualcosa che non andava? Come mia madre e mia sorella... eravamo forse destinate a ripetere la storia all'infinito? Il volto pallido, gessoso, di Vera sogghignò malignamente, incarnando ai miei occhi tutto ciò che di male c'era al mondo. Poi, allorché voltò la testa, i colori scesero a giocare sulla sua pelle e i suoi capelli albicocca si fecero rossi, poi azzurri striati di viola. «Dammi le tue bambole, anche se le più belle sono andate all'inferno.» Allungò la mano per ghermire cinque o sei delle bambole più vicine. Muovendomi alla velocità della folgore le strappai le bambole dalle mani. Poi, balzando in piedi, corsi a salvare tutte le altre. Vera strisciò per graffiarmi le gambe con le unghie aguzze che teneva sempre lunghe e appuntite. Tuttavia riuscii a tenerla lontana da me puntandole un piede contro la spalla mentre raccoglievo precipitosamente l'ultima manciata di bambole e costumi. Con entrambe le mani piene, ora la respinsi col piede facendola cadere all'indietro e un istante dopo mi precipitavo giù dalla scala a chiocciola a rotta di collo, sicura che non mi avrebbe preso. Eppure la udii proprio dietro di me gridare il mio nome ordinandomi di fermarmi. «Se cado sarà colpa tua, tutta colpa tua!» Aggiunse alcuni improperi sconci per me assolutamente privi di significato. «Tu non mi vuoi bene, Audrina,» la udii gemere. Le sue scarpe dalle
suole rigide rimbombavano sui gradini di metallo. «Se davvero mi amassi come una sorella faresti quello che ti chiedo e mi daresti tutto ciò che desidero per ricompensarmi delle sofferenze che mi tocca sopportare.» La udii fermarsi e prender fiato. «Che non ti venga in mente di nascondere quelle bambole, Audrina! Non provarci! Sono mie quanto tue!» No, non era vero. Ero stata io a trovarle in un vecchio baule. Esistevano regole a proposito di chi trova una cosa e ne diventa il proprietario; e io credevo nelle regole, nei vecchi proverbi, nelle massime. Erano cose sperimentate e collaudate dal tempo che ne sapeva tanto più di me. Fu facile nascondermi mentre Vera arrancava goffamente, penosamente giù per la scaletta a chiocciola. Cacciai le bambole e i variopinti costumi edoardiani che le avevano condotte a varie importanti occasioni mondane sotto un'asse allentata del pavimento. Fu allora che udii Vera gridare. Oh, caspita! Era caduta di nuovo. Corsi e la trovai raggomitolata per terra. La gamba sinistra era piegata sotto di lei formando un angolo grottesco. Era la gamba che si era rotta due volte. Rabbrividii e mi ritrassi nel vedere un frammento d'osso spuntare dalla carne lacerata, da cui il sangue usciva a fiotti. «È tutta colpa tua,» si lamentava Vera con voce così agonizzante che il suo visetto grazioso era contorto e laido. «È tutta colpa tua per non avermi dato quel che ti chiedevo. È sempre colpa tua. Tutto quello che mi capita di brutto è colpa tua. Perché nessuno mi dà mai quello che voglio?» «Oh, adesso ti do tutte le bambole,» risposi debolmente, pronta a fare qualunque cosa ora che era ferita. «Ma prima corro a chiamare tua madre e la mia...» «Non voglio le tue maledette bambole, adesso!» gridò. «Levati dai piedi e lasciami sola! Se non fosse per te avrei qualsiasi cosa. Un giorno pagherai per tutto quello che mi hai rubato, Audrina. Sono io che dovrei essere la Prima e la Migliore, non tu!» Mi sentivo male all'idea di andarmene e di abbandonarla in quello stato, fratturata e dolorante, il sangue che sgorgava dalla gamba sinistra. Poi notai che anche il braccio sinistro se ne stava in una posizione strana. Oh, Signore! Si era rotto di nuovo. Adesso avrebbe avuto un braccio e una gamba ingessati. Ma anche così, Dio non aveva insegnato a Vera nulla sull'umiltà, come invece aveva insegnato a me, e insegnato bene... E come facevo a saperlo? Volando giù per le scale andai a urtare contro mio padre. «Non ti ho detto di startene alla larga dalla cupola?» mi aggredì, afferrandomi per il braccio e cercando di impedirmi di correre da mia
madre. «Ti proibisco di salire lassù finché non avrò rimesso la ringhiera. Potresti cadere e farti male.» Non mi andava di essere io a dovergli dire delle ossa rotte di Vera. Eppure non avevo scelta, giacché mi impediva di andarmene. «È lassù che sanguina, babbo. Sangue a fiotti, e se non mi lasci andare immediatamente e non chiami un'ambulanza magari muore.» «Ne dubito,» replicò lui; tuttavia vociò in direzione della mamma: «Chiama l'ambulanza, Lucky. Vera si è rotta di nuovo qualcosa. L'assicurazione finirà per alzarmi i premi se questa storia continua». Ciò nonostante, quando si trattò di passare all'azione, fu papà a calmare Vera e a sedere accanto a lei nell'ambulanza, a tenerle la mano e ad asciugarle le lacrime. Stesa sulla barella, in un'ambulanza che conosceva anche troppo bene, ancora una volta Vera fu trasportata all'ospedale più vicino per farsi ingessare il braccio e questa volta anche la gamba. Io restai sulla soglia del portone d'ingresso e guardai l'ambulanza sparire oltre la curva del nostro lungo viale. Sia mia madre che mia zia rifiutarono di andare all'ospedale e di sopportare una volta di più le lunghe ore di attesa mentre quella povera gamba rattrappita e martoriata veniva di nuovo rinchiusa nel gesso. L'ultima volta che si era rotta la gamba il medico di Vera aveva detto che se fosse accaduto di nuovo c'era la possibilità che non crescesse più quanto l'altra. «Non fare quell'aria preoccupata, tesoro,» mi confortò la mamma. «Non è stata colpa tua. Abbiamo detto a Vera un sacco di volte di non salire per quelle scale. È anche per questo che ti diciamo di non andare lassù, perché sappiamo che prima o poi arriva anche lei per vedere quello che stai facendo. E poi i medici si dilettano a fare sempre le predizioni più catastrofiche per ottenere la tua gratitudine quando non si avverano. Vedrai, la gamba di Vera crescerà come l'altra... per quanto Dio solo sappia come faccia a rompersi sempre la stessa con tanta pervicacia.» Zia Ellsbeth non disse niente del tutto. Sembrava che le ossa rotte della figlia la riguardassero meno della caccia che stava dando per tutta la casa a un vecchio aspirapolvere che finalmente trovò in un sottoscala. Si diresse verso la sala da pranzo dove sei presidenti fissavano dalle pareti la signora nuda intenta a mangiare l'uva. «Posso fare qualcosa, zia Ellsbeth?» chiesi. «No!» mi investì la zia. «Tu non fai mai niente di buono, e alla fine tocca rifare tutto quello che hai fatto. Perché diavolo non le hai dato quelle bambole di carta quando te le ha chieste?»
«Perché le avrebbe fatte a pezzi.» Mia zia grugnì, mi fulminò con lo sguardo, fissò con pari ostilità mia madre che mi aveva presa fra le braccia e alla fine si trascinò dietro l'aspirapolvere e scomparve. «Mamma,» sussurrai, «perché Vera mente sempre? Ha detto a papà che l'ho spinta giù per le scale, ma io non ero neppure vicina a lei. Ero in soffitta a nascondere le bambole, mentre lei scendeva giù dalle scale. Anche quando è caduta a scuola ha detto che ero stata io a spingerla. Mamma, perché dice una cosa simile quando io non sono mai neppure stata a scuola? Perché non posso andare a scuola? La Prima Audrina ci andava a scuola?» «Sì, certo che ci andava,» disse la mamma con voce strozzata. «Vera è una ragazzina molto infelice ed è per questo che mente. Sua madre non le dà retta e Vera sa che tu invece sei molto seguita. Ma è difficile amare una bambina così maligna anche se tutti noi facciamo del nostro meglio. C'è in lei una vena di crudeltà che mi fa molta paura. Temo che un giorno ti farà del male, farà del male a tutti quanti noi.» I suoi stupendi occhi viola fissarono il vuoto. «È una vera disdetta che tua zia non se ne sia stata lontana. Non avevamo bisogno che lei e Vera venissero a complicarci la vita più di quanto non lo sia già.» «Quanti anni ha Vera, mamma?» «Quanti anni ti ha detto di avere?» «Certe volte dice di averne dieci, certe volte dice di averne dodici e certe volte sedici o venti. Mamma, ride come se si prendesse gioco di me... perché in effetti non so quanti anni ho io.» «Ma certo che lo sai, ne hai sette. Non te l'abbiamo detto un sacco di volte?» «Ma io non riesco a ricordare il mio settimo compleanno. Mi avete fatto una festa? E a Vera, le fate le feste di compleanno? Non riesco a ricordarne nessuna.» «Vera ha tre anni più di te,» si affrettò a rassicurarmi la mamma. «E noi non possiamo permetterci di organizzare feste di compleanno. Non perché ci manchino i soldi... ma sai anche tu che le feste di compleanno ci rinverdiscono tragici ricordi. Né tuo padre né io possiamo più sopportarle, ormai, così abbiamo smesso di festeggiare anche i nostri compleanni e, perciò, restiamo dell'età che preferiamo. Io ho deciso di avere trentadue anni per sempre.» Ridacchiò e mi baciò di nuovo. «È una splendida età, non troppo giovane, non troppo vecchia.»
Ma io ero decisa e non ne potevo più di risposte vaghe. «Allora Vera non conosceva mia sorella morta, vero? Lei dice di sì, ma come avrebbe potuto conoscerla se ha solo tre anni più di me?» Di nuovo mia madre parve sconvolta. «In un certo senso l'ha conosciuta. Vedi, abbiamo parlato tanto di lei. Forse ne parliamo troppo.» E così, come sempre, ci furono risposte evasive e non rivelazioni, quanto meno non quelle che volevo davvero, quelle nelle quali avrei potuto credere. «E quando posso andare a scuola?» chiesi. «Un giorno,» mormorò mia madre, «presto...» «Ma, mamma,» insistetti, seguendola in cucina e aiutandola a tagliare le verdure per l'insalata, «io non cado e non mi rompo le ossa come Vera. Dunque a scuola sarei più sicura di quanto non lo sia lei.» «No, tu non cadi,» disse con voce tirata. «Probabilmente dovrei ringraziare Dio... ma tu hai altri modi di farti del male, vero?» Vero? Il sogno di papà Prima che l'imbrunire potesse rubare l'ultimo barlume rosato al crepuscolo, papà fu di ritorno dall'ospedale e trasportò Vera nel Salone impero. Come se pesasse quanto una piuma, persino con l'ingessatura fino all'anca sulla gamba sinistra, e una nuova di zecca sul braccio sinistro, mio padre depose teneramente Vera sull'ottomana color viola che mia madre amava avere solo per sé. Mia cugina sembrava molto soddisfatta della grande scatola di cioccolatini che si era divorata per metà nel tragitto dall'ospedale a casa. Non fece il gesto di offrirmene, quantunque morissi dalla voglia di averne uno. Poi vidi che papà le aveva comperato anche un nuovo puzzle, da fare con il braccio destro. «Va tutto bene, tesoro,» mi disse. «Ho portato un puzzle e dei cioccolatini anche per te. Però dovresti essere contenta in fondo, perché per ottenere un po' di attenzione non devi cadere e romperti le ossa.» A quelle parole Vera, con un gesto stizzito del braccio, spazzò via dal tavolo cioccolatini e puzzle. «Su, su,» la rabbonì papà raccogliendo le scatole e porgendogliele di nuovo. «Il tuo puzzle è molto grande, quello di Audrina è piccolissimo. A te ho preso una scatola di cioccolatini da un chilo. Quella di Audrina pesa meno di mezzo chilo.» Di nuovo felice, Vera mi lanciò un sorrisetto compiaciuto. «Grazie, pa-
pà. Sei così buono con me, tu.» Allungò le braccia verso di lui nella richiesta di un bacio. Dentro di me mi sentii rivoltare; non sopportavo che lo chiamasse papà quando sapevo bene che non era suo padre ma solo mio. Mi risentii anche per il bacio che lui le depose sulla guancia, per quella enorme scatola di cioccolatini, per quel puzzle più grande e dai colori più vivaci del mio. Incapace di stare a guardare oltre me ne andai a sedermi sulla veranda sul retro e a fissare la luna che si stava levando sopra l'acqua scura. Era un quarto di luna, quella che papà chiamava una falce ed ebbi l'impressione di scorgervi il profilo dell'uomo della luna, vecchio e rugoso. Il fruscio del vento fra le foglie estive aveva un suono solitario, e mi diceva che presto le foglie sarebbero morte e l'inverno sarebbe arrivato, e io non mi ero goduta affatto l'estate. C'erano in me vaghi ricordi di estati più felici, più calde, eppure non riuscivo a evocarli chiaramente per riviverli. Mi infilai un cioccolatino in bocca anche se dovevamo ancora cenare. Questo agosto somigliava più a un ottobre che a un mese estivo, davvero. Come se mi avesse udita chiamare, papà venne a sedersi accanto a me. Annusò l'aria come faceva sempre, una vecchia abitudine, mi aveva confidato più volte, rimastagli dai suoi giorni in marina. «Papà, perché le anatre vanno a sud se è estate? Pensavo che andassero a sud solo a fine autunno.» «Immagino che le anatre sappiano più di quello che sappiamo noi circa il tempo e forse stanno cercando di dirci qualcosa.» La sua mano mi carezzò delicatamente i capelli. Feci per cacciarmi un altro cioccolatino in bocca quando lui mi ammonì: «Mangiane solo uno». La sua voce era più dolce quando si rivolgeva a me, più gentile, come se la mia sensibilità avesse la consistenza di un guscio d'uovo, fragile quanto le ossa di Vera. «Ho visto che eri gelosa quando ho baciato Vera. Te la sei presa per i doni che le ho fatto. Qualcuno deve pur viziarla quando sta male. Ma tu sai di essere la luce dei miei occhi, il cuore del mio cuore.» «Ma amavi di più la Prima Audrina,» dissi con voce strozzata. «Non troverò mai il suo dono, babbo, per quante volte mi dondoli in quella sedia. Perché devo avere il suo dono? Non puoi accettarmi così come sono?» Col braccio attorno alle mie spalle, ancora una volta mi spiegò che voleva solo darmi fiducia in me stessa. «C'è della magia in quella sedia, Audrina. Io ti amo per quella che sei. Voglio solo che tu abbia quel tantino di extra in più che a lei non serve. E se a lei non serve, perché non averlo tu?
Allora la tua memoria di gruviera si riempirebbe fino a traboccare e io ne sarei felice per te.» Non ero affatto convinta che ci fosse alcun dono da conquistare in quella sedia. Era un'altra menzogna che procurava a me tanta angoscia quanto sembrava dare a lui speranza. La sua voce assunse un tono implorante. «Ho bisogno di qualcuno che creda in me fino in fondo, Audrina. Ho bisogno che tu mi dia la fiducia che mi dava lei. È l'unico dono che voglio che tu conquisti. La sua capacità di avere fede in me, e in te stessa. Tua madre mi ama, lo so. Ma non crede in me. Ora che la mia Prima Audrina non c'è più, dipendo da te per avere ciò che una volta mi faceva sentire pulito e meraviglioso. Ti prego, devi aver bisogno di me quanto ne aveva lei. Abbi fiducia in me quanta ne aveva lei. Poiché solo se ti aspetti il meglio lo otterrai.» Questo non era vero! Mi divincolai dalla sua stretta. «No, papà. Se lei si aspettava solo il meglio, e aveva tanta fiducia in te, perché è andata nel bosco disobbedendo ai tuoi ordini? Si aspettava forse il meglio il giorno in cui è stata trovata morta sotto la samonea dorata?» «Chi ti ha detto questo?» mi chiese papà a bruciapelo. «Non lo so!» gridai, sconvolta nell'udire le mie stesse parole. Non sapevo neppure che cosa fosse una samonea. Il suo volto affondò nei miei capelli, mentre la sua mano mi afferrava la spalla con tanta forza da farmi male. Quando alla fine trovò qualcosa da dire, le parole sembravano venire da chilometri e chilometri di distanza, come il luogo caldo verso cui volavano le anatre. «In un certo senso hai ragione. Forse io e tua madre saremmo dovuti essere più espliciti. Ma purtroppo ci sentivamo imbarazzati e non dicemmo abbastanza alla nostra Prima Audrina. Ma nulla di ciò che è accaduto è stato colpa sua.» «Nulla di cosa, babbo?» «A tavola,» ci chiamò la voce della mamma, quasi fosse stata in ascolto e sapesse esattamente a che punto interrompere la conversazione. La zia sedeva già al tavolo ovale in sala da pranzo e fissava con sguardo ostile mio padre che portava Vera nella stanza. Vera le ricambiò l'occhiata. Le sole volte in cui apparentemente mia zia amava sua figlia era quando non se la vedeva intorno. Ma quando mio padre non era nelle vicinanze riusciva a essere con Vera così crudele che persino io mi sentivo ribollire. Non era mai crudele con me. Mi trattava più che altro con indifferenza, a meno che in un modo o nell'altro non riuscissi a irritarla, cosa che accadeva spesso.
Prima di andarsi a sedere a capotavola papà abbracciò Vera. «Ti senti meglio, tesoro?» «Sì, papà,» rispose con un sorriso radioso. «Mi sento benissimo, adesso.» Non aveva ancora finito di dirlo che papà mi guardò con un ampio sorriso e mi strizzò l'occhio con un'espressione di intesa che certamente a Vera non sfuggì. Abbassò gli occhi e fissò il piatto, rifiutandosi di prendere la forchetta e mangiare. «Non ho fame,» disse, allorché mia madre cercò di convincerla a mandar giù qualcosa. «Mangia,» le ordinò zia Ellsbeth, «altrimenti non mangerai nulla fino all'ora di colazione. Damian, è stata una schiocchezza dare a queste bambine dei cioccolatini prima di cena.» «Ellie, tu hai la capacità di rompermi una certa mia parte anatomica che non nominerò davanti a mia figlia. Vera non morirà certo di fame. Domani si rimpinzerà come si rimpinzava prima di cadere.» Allungò la mano e strinse le lunghe dita esangui di Vera. «Avanti, tesoro, mangia. Fa' vedere a tua madre che puoi mangiare il doppio di lei.» Vera cominciò a piangere. Che cosa tremenda, questa crudeltà di mio padre! Finita la cena corsi di sopra, proprio come fece la mamma, mi gettai sul letto e piansi. Volevo una vita semplice, con un terreno solido sotto i piedi. Invece non avevo che sabbie mobili. Volevo genitori franchi, sempre uguali a se stessi un giorno dopo l'altro, non così mutevoli da non poter contare sul loro amore per più di qualche minuto alla volta. Un'ora più tardi, nel corridoio, risuonarono i passi pesanti di papà. Non si diede la pena di bussare, si limitò a spalancare la porta con un tale impeto che la maniglia urtò contro la parete e vi impresse un'altra tacca. C'era una chiave nella serratura di cui non osavo servirmi, nel timore che avrebbe finito per sfondare la porta se lo avessi fatto. Fece irruzione nella stanza indossando un abito diverso da quello che aveva per cena e mi annunciò che lui e la mamma sarebbero usciti. Si era fatto la doccia e sbarbato di fresco e i suoi capelli ricadevano in morbide onde perfettamente modellate. Sedette sul letto, mi prese la mano fra le sue, permettendomi di vedere le sue grandi unghie quadrate lucidate con la pelle di daino. I minuti passavano e lui si limitava a starsene lì, tenendomi la mano che sembrava sperduta nell'immensità della sua. Gli uccelli notturni sui rami degli alberi fuori della mia finestra cinguettavano sonnacchiosi. La piccola sveglia sul comodino segnava le dodici, ma l'ora non era quella. Sapevo
che lui e la mamma non sarebbero usciti a mezzanotte. In lontananza udii un fischio lacerare l'aria: qualche battello stava salpando. «Bene,» si decise a dire alla fine, «che cosa ho fatto questa volta per ferire il tuo fragile io?» «Non è giusto che tu sia gentile con Vera certe volte e che un minuto dopo tu sia così crudele. E poi non l'ho spinta io giù per le scale.» La mia voce suonava incerta; indubbiamente questo non era il genere di colloquio che avrebbe indotto qualcuno a credermi. «Lo so che non sei stata tu a spingerla,» replicò non senza una certa impazienza. «Non c'era bisogno di dirmelo, questo. Mai confessare un crimine, Audrina, finché non sei accusata.» Nella cupa penombra i suoi scuri occhi di carbone scintillarono: mi faceva paura. «Tua madre e io passiamo la serata con amici in città. Stasera non stare sulla sedia a dondolo. Fa' la brava bambina e fatti un bel sonno senza sogni.» Credeva forse che potessi controllare i miei sogni? «Quanti anni ho, babbo? La sedia a dondolo non me lo ha mai detto.» Si alzò dal letto e si diresse verso la porta e, dalla soglia, si voltò e indugiò a guardarmi. Le lampade a gas del corridoio gli facevano brillare i folti capelli neri. «Hai sette anni, presto ne compirai otto.» «Quanto presto, papà?» «Presto, vedrai.» Tornò a sedersi accanto a me. «Quanti anni vorresti avere?» mi chiese. «Solo gli anni che mi toccano.» «Saresti un bravo avvocato, Audrina. Non dai mai una risposta diretta.» Neppure lui. Stavo prendendo le sue abitudini. «Papà, dimmi di nuovo, perché non riesco a ricordare esattamente cosa facevo l'anno scorso, e l'anno prima?» Emise un sospiro desolato, come sempre quando ponevo troppe domande. «Tesoro mio, quante volte devo dirtelo? Tu sei una bambina speciale, con capacità così straordinarie che il concetto di tempo ti sfugge. Cammini da sola nel tuo spazio privato.» Questo già lo sapevo. «Non mi piace il mio spazio privato, papà. È un sentiero solitario, il mio. Voglio andare a scuola come fa Vera. Voglio salire sul piccolo bus giallo. Voglio amici con i quali giocare... e non riesco a ricordare di aver mai avuto una festa di compleanno.» «E riesci a ricordare una festa di compleanno di Vera?» «No.»
«È perché in questa casa non festeggiamo i compleanni. È molto più saggio dimenticare il tempo e vivere come se non esistessero orologi o calendari. In questo modo non si invecchia.» La sua risposta così simile a quella della mamma... troppo simile. Il tempo contava, i compleanni anche; contavano molto più di quanto non dicesse. Mi diede la buonanotte e chiuse la porta, lasciandomi stesa sul letto a pensare. Una notte fui svegliata da delle urla. Le mie. Ero seduta sul letto e mi aggrappavo alle lenzuola che mi ero tirata su fino al mento. Nel lungo corridoio udii il rumore sordo dei piedi nudi di papà che arrivava di corsa. Si protese sul letto per prendermi fra le braccia, lisciandomi i capelli aggrovigliati, mormorandomi parole dolci per placare le mie grida, continuandomi a ripetere che non avevo nulla da temere. Ero al sicuro lì con lui. Presto mi addormentai di nuovo, tranquilla fra le sue braccia. Mi svegliai alla luce del mattino e sulla soglia trovai papà che mi sorrideva radiosamente, come se non se ne fosse mai andato. «Domenica mattina, amore mio. Ora di alzarsi e di essere contenti. Mettiti i vestiti della domenica e usciamo.» Lo fissai con occhi imbambolati, disorientata. Era solo la settimana prima che Vera si era rotta la gamba? Oppure da molto tempo? Lo chiesi a papà. «Capisci cosa voglio dire, tesoro? È dicembre, adesso. Fra cinque giorni sarà Natale. Non dirmi che l'hai dimenticato.» Ma era così. Il tempo mi sfuggiva con agilità sorprendente. Oh Dio... Quello che Vera diceva di me doveva essere vero. Ero una testa vuota, smemorata, forse priva di cervello. «Papà,» lo fermai appena in tempo, mentre stava chiudendo la porta in modo che potessi vestirmi per andare in chiesa. «Perché tu e la mamma fate credere a tutti quanti che Vera è vostra figlia e non figlia di zia Ellsbeth?» «Adesso non c'è tempo per questi discorsi, Audrina. Inoltre ti ho già detto parecchie volte come è accaduto che tua zia se ne è andata per quasi due anni e poi è tornata con una figlia di un anno. Naturalmente si aspettava di sposare il padre di Vera. Non potevamo permettere che si sapesse in giro che una Whitefern aveva messo al mondo il frutto del peccato. È davvero un crimine per te far passare Vera come tua sorella e risparmiare a tua zia
la vergogna del suo errore? Qui non siamo a New York, Audrina. Viviamo nella Bible Belt, in terra timorata, dove i buoni cristiani devono attenersi alle regole divine.» Vera era figlia di un tizio senza nome e mio padre era generoso e indubbiamente stava facendo la cosa più giusta, e io ero la sua unica figlia vivente. Vera fingeva che lui fosse suo padre, ma non lo era. «Sono così felice di essere la tua unica figlia... la tua unica figlia viva.» Mi fissò con occhi vacui per alcuni secondi, stringendo le labbra piene. Mi era stato detto parecchie volte che gli occhi erano lo specchio dell'anima, così ignorai le sue labbra e osservai i suoi scuri occhi socchiusi. Nel fondo c'era qualcosa di duro e sospettoso. «Tua madre non ti ha mica detto nulla di diverso, vero?» «No, papà, ma Vera sì.» Di botto scoppiò a ridere e mi strinse con tale forza al petto da farmi male alle costole. «E che importa ciò che Vera dice o non dice? Certo che lei vorrebbe che io fossi suo padre. Dopo tutto sono l'unico padre che abbia mai conosciuto. E se tutti gli altri credono che Vera sia figlia di tua madre, ebbene lascia che lo credano. Non esistono al mondo famiglie senza scheletri nell'armadio. E i nostri non sono peggiori di quelli degli altri. Per giunta non credi che il mondo sarebbe noioso se tutti sapessero tutto su tutti? Il mistero è il sale della vita. E ciò che fa andare avanti la gente è la speranza di scoprire i segreti altrui.» Io pensavo che il mondo sarebbe stato un luogo migliore senza scheletri né misteri. Il mio mondo sarebbe stato perfetto se tutti quanti in casa mia avessero saputo essere chiari e trasparenti. La sedia a dondolo Quella sera, pochi istanti dopo essere andata a letto decisa ad avere solo pensieri felici prima di addormentarmi, nella speranza che si tramutassero in sogni felici, Vera venne in camera mia. Saltellando con straordinaria destrezza sulle stampelle alle quali era ormai abituata, riusciva anche a portare con sé in una sacca a tracolla le cose che le occorrevano... solo che questa sacca era diversa da tutte quelle che avevo visto prima di allora. «Ecco,» disse gettandola sul letto. «Guarda e impara. Quelle due donne in cucina non ti insegneranno mai ciò che ti insegnerò io.» Ero scettica ma felice, tuttavia, che Vera si interessasse alla mia educazione. Mi rendevo conto che perdevo molte cose non andando a scuola.
Scosse il contenuto della sacca sul letto e mi caddero addosso in un mucchio aggrovigliato dozzine di fotografie e ritagli di giornali. Non potevo credere ai miei occhi mentre mi accingevo a separare i ritagli uno dall'altro, fissando le figure che mostravano uomini e donne nudi allacciati in bizzarri e lascivi amplessi. Quelle mostruosità mi restavano incollate alle dita, così appiccicose che mentre cercavo di staccarmele da una mano me le ritrovavo attaccate all'altra. Poi, con mia grande costernazione, udii il passo pesante di mio padre dirigersi verso la porta. Vera l'aveva fatto apposta! Sapeva che papà veniva in camera mia ogni sera verso quell'ora. «Io vado,» annunciò Vera con un sogghigno di piacere. Saltellò verso la porta di camera sua comunicante con la mia, nell'intento di sfuggire a papà. «Che non ti salti in testa di dirgli che sono stata qui.» Ma doveva appoggiarsi alle stampelle e non riuscì a essere abbastanza veloce. Papà spalancò la porta e ci fulminò entrambe con lo sguardo. «Cosa succede qui?» chiese. Con le prove della colpa incollate alle dita esitai dando così a Vera l'occasione di gettarmi addosso tutta la responsabilità del crimine: «Ho trovato questa sacca in un armadio a muro e giacché c'era il suo monogramma sopra ho pensato che questa Audrina avesse diritto ad averla». Aggrottando tempestosamente la fronte, papà mi venne vicino e mi strappò i ritagli dalle dita. Bastò un'occhiata per farlo ululare infuriato; poi, voltandosi di scatto, colpì Vera e la mandò rotoloni per terra... anche se era già abbastanza a pezzi così com'era. Come chi è fuor di senno e in punto di morte Vera urlò tutta la sua rabbia: «Sono sue! Perché te la prendi con me?». Papà la sollevò e la tenne sospesa da terra come un cucciolo ripescato da un canale di scolo. La tenne sospesa a mezz'aria sopra il mio letto. «Tirale su adesso!» le ordinò perentoriamente. «La mia Prima Audrina non si sarebbe mai sognata di guardare quelle porcherie come non si sarebbe mai sognata di coprirti di pece e di piume... cosa che farò se non la smetti di provocarmi! E adesso mangiale,» seguitò quando le ebbe tutte quante nella mano esangue e nervosa. Io pensavo che stesse scherzando, e anche lei. «Adesso chiamo la mamma!» lo minacciò Vera. «Sono ferita! Ho la gamba e il braccio fratturati! Potrei morire! Se non mi lasci andare domani vado alla polizia e dico che hai abusato di me...» «Mangiale!» ruggì. «Le hai coperte di colla, non dovrebbero essere molto peggiori della robaccia che cucina tua madre.»
«Papà,» gemette, «non costringermi a mangiare carta e colla!» Con un grugnito disgustato la trascinò fuori della stanza. Pochi secondi più tardi la udii urlare mentre lui la colpiva sulla pelle nuda con la cintura. Non che sapessi per certo che lui usava la cintura sulla sua pelle nuda, ma ci avrei scommesso che Vera lo avrebbe affermato. Vera si metteva a urlare solo se una mosca le si posava sul braccio, dunque come facevo a sapere la verità se non mi alzavo e non andavo a vedere con i miei occhi? Ma non lo feci perché per qualche ragione avevo paura di scoprire che ciò che diceva fosse vero. I minuti passavano mentre il cuore mi batteva all'impazzata. Con l'andar del tempo le urla di Vera si calmarono, ma papà non tornava. Da qualche parte al piano di sotto un orologio batté le dieci, ma voleva dir poco. Ogni osso del mio corpo mi doleva, ogni muscolo era in tensione. Sapevo che quella sera mi sarebbe toccato sedermi sulla sedia a dondolo. Finalmente, quando la tensione si era fatta insopportabile, nella consapevolezza che non mi sarei mai addormentata finché non avessi fatto ciò che mi avrebbe costretta a fare, udii una porta richiudersi e subito dopo il tonfo dei suoi passi nel corridoio. L'andatura di papà era regolare, pesante, scricchiolante sulle tavole di vecchio legno stagionato del pavimento. Piano piano socchiuse la porta della mia camera ed entrò. Senza far rumore se la richiuse alle spalle. Torreggiava nella notte come un mostro gigantesco, proiettando una lunga ombra nell'oscurità della stanza rischiarata dalla luna. «Allora,» mormorò nella più suadente e strascicata cadenza meridionale, per anni coltivata e mitigata dalla patina yankee, «ora che ti sei messa a guardare fotografie oscene la tua mente si insozzerà. Me ne vergogno, Audrina, me ne vergogno davvero.» «Non sono stata io, papà,» implorai. «È stata Vera a portarle qui.... Ma non picchiarla di nuovo, ti prego. Potresti romperle l'altro braccio o l'altra gamba, e magari anche il collo. Non dovresti frustarla in queste condizioni.» «Io non la frusto,» replicò lui aspramente. «Mi sono limitato a sgridarla e lei si è messa a strillare che non l'amavo. Dio mio, come si fa ad amare una persona che ti crea tanti problemi? Ma anche se è stata Vera a portarti quelle foto orrende non era mica necessario che tu le guardassi, vero?» Vero? «Non mi sarei mai aspettato una cosa simile da te, Audrina, non permettere che Vera distrugga ciò che di meglio c'è in te.»
«Perché, papà, i ragazzi sono pericolosi per me e non per Vera?» «Certe ragazze sono nate per essere quello che è Vera. I ragazzi la fiutano a chilometri di distanza. Ecco perché non mi sto a preoccupare per lei. Non servirebbe a nulla. È per te che mi preoccupo, perché amo te. Sono stato ragazzo anch'io, e so come pensano i ragazzi. Mi dispiace dire che della maggior parte dei ragazzi non ci si può fidare. È per questo che devi stare alla larga dal bosco e sempre vicina a casa e anche lontano da scuola. È pericoloso per una bambina bella e sensibile come te. È proprio il genere di donna che un giorno diventerai che salverà il genere umano. È per questo che mi batto per salvarti e proteggerti dalla contaminazione.» «Ma, ma... papà...» «Non protestare, limitati ad accettare il fatto che i genitori si preoccupino. Gli adulti conoscono molto di più il mondo, soprattutto quando si tratta della carne della propria carne. Noi sappiamo che sei ultrasensibile. Desideriamo solo risparmiarti sofferenze superflue. Ti amiamo. Vogliamo che tu cresca sana e felice, nient'altro.» Venne a sedersi sull'orlo del letto nel quale giacevo supina, raggelata e cercando di trattenere il respiro. Strinsi gli occhi con forza. Le palpebre si sollevarono appena per spiarlo e vedere se pensava che mi fossi addormentata, addormentata tanto profondamente da sembrare morta, e forse nella morte avrei conquistato quella nobiltà della Prima e Migliore Audrina e mai più mi sarebbe toccato sedermi sulla sua sedia. Ma lui si fece più vicino. Ghermii il lenzuolo e me lo tirai sotto il mento. Le mani di ferro di papà si chiusero sulle mie spalle. Le forti dita, scavando nella mia tenera carne, mi costrinsero ad aprire gli occhi e a incontrare i suoi. I nostri sguardi si incrociarono e in un muto duello di volontà combattemmo finché la mia mente si fece vaga, remota, e ancora una volta fu lui il vincitore. «Su, su,» mi blandì, prendendo a carezzarmi i capelli, «non è poi così terribile, vero? L'hai già fatto, e puoi rifarlo. Sono certo che presto o tardi conquisterai il suo dono, purché tu abbia la costanza di continuare a provare. Tu puoi aiutarmi, Audrina.» «Ma... ma,» balbettai, augurandomi che la finisse. Ma lui andò avanti, sommergendomi con i suoi bisogni che dovevano essere anche i miei. Avevo paura. Ciò nonostante il mio amore per lui mi rendeva facile preda, desiderosa di essere coccolata, blandita e conquistata dalla consapevolezza che sarei stata desiderata per i «miei» doni, non appena li avessi avuti. «Non devi fare altro che sognare, Audrina, solo sognare.»
Sognare, sognare. Era proprio ciò che non volevo fare. Avrebbe insistito finché non fossi diventata vecchia oppure sarei stata in grado di afferrare il dono della Prima Audrina ed accontentare papà? Volesse Iddio che il dono della Prima e Migliore Audrina mi aiutasse a finire in modo diverso da come era finita lei. Perché non si preoccupava mai di questo? «Sogna, Audrina, amore mio, mia dolcezza. Lo stesso Shakespeare ha scritto: 'Dormire, forse sognare'. Sognare e conoscere la verità. Torna da me e regalami i tuoi sogni, Audrina, e fai avverare tutte le speranze di tuo padre per il futuro.» Lo fissai seduto sul letto. I suoi occhi scuri non erano più scintillanti e spaventosi, solo imploranti e colmi di amore... Come potevo continuare a resistergli? Era mio padre. I padri sapevano distinguere il bene dal male. E io gli dovevo molto. «Sì, papà,» bisbigliai. «Una sola volta. Credi che una sola volta sarà sufficiente?» «Forse lo sarà,» rispose lui, il volto rischiarato da un sorriso. Apparentemente felice, papà mi condusse per mano in fondo al corridoio, nell'ultima stanza. Una volta giunti lì, mi lasciò andare e prese una grossa chiave per aprire la serratura. Sentii una corrente gelida che mi fece rabbrividire. Era la tomba della prima Audrina che alitava su di me. Mi guardai attorno come facevo sempre, come se fosse la prima volta che entravo lì. Non avrei saputo dire quante volte c'ero già stata. Questa stanza sembrava essere l'unica cosa che riempiva i buchi della mia memoria, più potente di qualsiasi altra esperienza. Ogni volta che vi entravo era un colpo udire le campanelle a vento nella cupola iniziare il loro sommesso tintinnio. Persino nell'oscurità i colori prismatici dell'arcobaleno lampeggiarono dietro le mie palpebre. Forse avevo afferrato un ricordo... il ricordo di una stanza anche troppo familiare. Forse stavo cominciando a trarre beneficio dalla mia presenza in quella stanza. Se una volta non fosse stata la sua stanza l'avrei voluta per me. Era enorme, con un gran letto a baldacchino. C'erano due giganteschi armadi di legno scuro pieni di vestitini che una volta erano stati i suoi, vestitini che loro non volevano che io indossassi. C'erano file di scarpine ordinatamente allineate dalla misura di un anno a quelle adatte per una bambina di nove anni. Alcune erano vecchie e logore, altre lucide e nuove. I vestiti che vi erano appesi sopra si facevano più lunghi col passare degli anni. Le pareti erano ricoperte da ampi scaffali traboccanti di ogni cosa che una bambina potesse desiderare. C'erano bambole provenienti da tutti i paesi, vestite dei costumi locali. C'erano piccoli servizi da tè in miniatura, li-
bri di favole e libri illustrati, palle di gomma e palloni da spiaggia, corde per saltare con manici dalle fogge più diverse, bocce di legno, scatole di giochi, puzzle e tavolozze di colori... oh, non c'era nulla che non avessero comperato per la Prima, la Migliore e la Più-Che-Perfetta Audrina... molto più di quello che avevano comprato per me. Su quegli scaffali scuri e incombenti sui quali i balocchi erano riposti in sempiterno cordoglio, come in attesa di essere nuovamente amati, c'erano dozzine di animali di pelouche colorati, tutti con scuri occhi di giaietto che ammiccavano e luccicavano e sembravano seguire i miei movimenti. Non mancavano neppure sonagli da neonato con i segni dei dentini e le scarpette con le quali aveva mosso i primi passi, bronzate e fissate per sempre nel tempo. Non avevano serbato le mie né le avevano fatte bronzare, né avevano serbato quelle di Vera. Sotto le ampie finestre, protette da vaporose tende bianche arricciate c'era una casa di bambole. Un tavolino in miniatura con quattro seggioline era apparecchiato e pronto per una festa che nessuno avrebbe mai dato. Tappeti e stuoie multicolori erano disseminati in giro a suddividere le aree della stanza, formando stanze nella stanza, dedali nel dedalo. Silenziosi come ladri notturni, lasciammo la soglia e ci addentrammo in quella stanza che ci attendeva come col fiato sospeso. Le mie pantofoline da notte furono lasciate fuori nel corridoio, al pari di quelle di lui, a dimostrazione del nostro rispetto di questa stanza nella quale un tempo la figlia perfetta aveva regnato. Il modo stesso in cui papà mi aveva insegnato a chinare la testa e ad abbassare gli occhi e a parlare in bisbigli reverenziali una volta dentro, mi riempiva di soggezione. Pieno di aspettative tenne gli occhi fissi su di me, come in attesa che la sua singolarità mi esplodesse nel cervello, colmandomi la memoria di gruviera con i doni della Prima Audrina. Continuò a fissarmi, in attesa che accadesse qualcosa, ma alla fine, vedendo che continuavo a girare in tondo fissando ora questo ora quello, si fece impaziente e indicò l'unica sedia di misura normale presente nella stanza... la magica sedia a dondolo con lo schienale di pizzo e il cuscino di velluto. Mi appressai riluttante, trattenendo il fiato mentre mi constringevo a sedermi. Non appena fui rigidamente sistemata sulla sedia, lui venne a inginocchiarmisi accanto. Poi iniziò il rituale di baci sui miei capelli, il mio viso, persino le mie braccia e le mie mani, tutti volti a significare che amava me di più. Mormorò parole carezzevoli alle mie orecchie, il fiato umido e caldo, e prima che potessi protestare, balzò in piedi e corse fuori
dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle e chiudendola a doppia mandata. Non mi aveva mai lasciata sola lì dentro prima! «No, papà!» urlai, il panico nella voce, il terrore che mi avviluppava. «Torna indietro! Non lasciarmi qui da sola!» «Non sei sola,» mi gridò dall'altra parte della porta. «Dio è con te e io sono con te. Resterò qui fuori ad aspettare, guarderò dal buco della serratura, ascolterò, pregherò. Da quella sedia a dondolo non può venirti altro che bene. Abbi fiducia, Audrina; non potrà venirti altro che bene per riempire il tuo cervello e sostituire i tuoi ricordi perduti.» Strinsi gli occhi e udii le campanelle a vento tintinnare più forte, molto più forte ora. «Tesoro, non piangere. Non hai nulla da temere. Abbi fiducia in me. Fa' come ti dico, e il tuo futuro splenderà più luminoso del sole stesso.» Accanto alla sedia a dondolo c'era un tavolino con una lampada e una Bibbia, la sua Bibbia. Afferrai il librone nero rilegato in pelle e me lo strinsi al cuore. Mi dissi, come già mi ero detta altre volte, che non c'era nulla da temere. I morti non potevano far male a nessuno. Ma se così era... perché avevo tanta paura? Udii la voce suadente di papà al di là della porta sbarrata. «Tu possiedi i suoi doni, Audrina, li possiedi. Anche se non ci credi, io ho fiducia. E io so. Penso che la ragione per la quale abbiamo fallito fino a oggi è stata perché sono rimasto nella stanza con te. È la mia presenza che interferisce con la tua possibilità di riuscire. Adesso so che è la solitudine, la solitudine del cuore, che fa iniziare il processo. Devi liberarti la mente da ogni ansia. Non devi provare né paura, né gioia, né confusione; solo quando non ti aspetti nulla, tutto ti sarà dato. Non devi provare altro che il piacere di essere viva, di essere dove sei e quella che sei. Non chiedere nulla e riceverai tutto. Siedi lì e liberati di ciò che ti spaventa o ti preoccupa. Fa' che la serenità ti rilassi le membra e la mente e se il sonno vuole prenderti lascia che ti prenda. Mi senti? Mi stai ascoltando, Audrina? Niente confusione. Niente paura. Il tuo papà è qui.» Le sue parole erano familiari. Sempre la stessa esortazione a non avere paura quando la paura mi soffocava. «Papà,» gemetti per l'ultima volta, «ti prego non farmi...» «Oh,» replicò lui pesantemente, sospirando, «perché devo costringerti? Perché non puoi aver fiducia? Lasciati andare nella sedia a dondolo, poggia la testa contro lo schienale, tieniti ai braccioli e comincia a dondolare.
Canta se questo ti aiuta a liberarti la mente dalla paura, dalle tensioni, dai desideri e dalle emozioni. Continua a cantare finché non sarai il vaso vuoto. Nei vasi vuoti c'è posto per molte, molte cose, ma in quelli pieni non c'è spazio per altro...» Oh sì, l'avevo già sentito. Sapevo cosa stava facendo. Stava cercando di trasformarmi nella Prima Audrina... o forse stavo diventando lo strumento attraverso il quale sarebbe riuscito a comunicare con lei. Io non volevo essere lei. E se mai lo fossi diventata l'avrei odiato, oh quanto l'avrei odiato. Eppure continuava a blandirmi, ad adularmi e se non volevo rimanere lì tutta la notte mi toccava fare come voleva lui. Innanzi tutto mi guardai di nuovo attorno, mandando a memoria ogni particolare della stanza. Piccole sollecitazioni formicolanti presero a bisbigliare, bisbigliare che potevo essere lei, ero lei, la morta Audrina che non era altro che ossa e polvere nella tomba. No, no, dovevo pensare alle cose giuste e dare a papà ciò che doveva avere. Mi dissi che in fondo mi trovavo solo in una camera da letto piena di vecchi balocchi. Scorsi un ragno enorme tessere la sua tela da bambola a bambola. Alla mamma non piacevano i lavori di casa, neppure pulire questa stanza. Per quanto a prima vista sembrasse un tempio terso e immacolato, la pulizia era solo superficiale. Per qualche ragione la cosa mi rassicurava... la mamma si limitava a compiere quelli che il babbo definiva i «rituali esteriori» di un riverente lindore. E zia Ellsbeth si rifiutava di pulire questa stanza. Inconsciamente presi a dondolare. Dentro di me si insinuò un motivo vecchio, quasi dimenticato. Musica e ritornello continuavano a ripetersi nella mia mente. Le parole mi cullavano, mentre la melodia mi solleticava la spina dorsale e mi rallentava il battito cardiaco. La pace stava arrivando, non richiesta, ad appesantirmi le palpebre... poi, confusamente, udii la mia fragile voce levarsi in un canto: Solo una stanza, al sicuro a casa, Nient'altro che una stanza al sicuro a casa, Niente lacrime, niente timori E nessun bisogno di andare fuori, Perché il mio papà mi vuole sempre a casa, Nella mia stanza, al sicuro a casa. La stanza della Prima e Migliore Audrina. La Perfetta Audrina che non aveva mai procurato ai suoi genitori le sofferenze e i problemi che io arre-
cavo quotidianamente. Non volevo cantare la sua canzone. Ma non riuscivo a fermarmi. E continuai a sentire quel canto, cercando di tenere gli occhi aperti in modo che potessero vedere gli elefanti, gli orsacchiotti e le tigri sugli scaffali, che sentivo dolci e amichevoli finché non distoglievo lo sguardo. Ogni volta che tornavo a volgere gli occhi su di loro li sorprendevo a ringhiare ferocemente. La tappezzeria alle pareti era di un azzurro sbiadito, intessuto di scintillanti fili argentei che formavano ragnatele sulle pareti. C'erano altri ragni sui giocattoli. Uno gigantesco prese ad avviluppare insieme altre bambole, e un altro scese a riposare sull'occhio di una bambola che aveva i capelli più o meno uguali ai miei. Che cosa terribile. «Dondola, Audrina, dondola!» ordinò papà. «Fa' scricchiolare il pavimento. Fa' arrivare le grigie nebbie. Guarda le pareti svanire, ascolta le campanelle tintinnare. Ti prenderanno e ti porteranno con sé, là dove troverai i ricordi smarriti, i doni che erano i suoi. A lei non servono dove si trova adesso, ma a te sì. Dunque canta, canta canta...» Era mesmerizzante, come una cantilena che anche lui fosse costretto a cantare, senza tuttavia conoscerne le parole. Papà mi ama, sì mi ama. Papà ha bisogno di me, sì ha bisogno. Gesù mi ama, questo lo so, Se leggo la Bibbia ancor più lo saprò... I tondi occhietti di giaietto degli animali di pelouche sembravano ammiccare e luccicare con maggior consapevolezza di quanta ne avrei mai posseduta io. Linguette rosee o rosse spuntarono, pronte a parlare e svelarmi i segreti che papà non mi avrebbe mai rivelato. In alto le campanelle a vento squillavano via via che dondolavo e mi sentivo prendere dal benessere, dalla serenità. Non c'era nulla di sbagliato in me, giacché presto o tardi sarei cambiata, in un modo o nell'altro, in meglio... Dentro di me si fece strada una sensazione sempre più sonnolenta di irrealtà. La luce calda delle lampade a gas tremolava, strappando bagliori oro e argento alla tappezzeria. I colori nella stanza cominciarono a muoversi, a scintillare come diamanti incandescenti. La musica delle campanelle nella cupola mi danzava nel cervello, tintinnante, raccontandomi di giochi felici lassù, sornionamente sussurrandomi di una terribile volta lassù. Chi mi puntava la luce di quel prisma di cristallo negli occhi? Come aveva fatto il vento a entrare in casa e ad arruffarmi i capelli se tutte le fi-
nestre erano chiuse e sbarrate? C'erano forse correnti d'aria nella cupola e spettri in soffitta? Che cosa mi faceva muovere i capelli, che cosa? Lontano, dalle profondità della parte sana di me, volevo credere che tutto questo fosse inutile, che mai sarei diventata un «vaso vuoto» che si sarebbe colmato di ogni meraviglia. Sinceramente non volevo essere quella Prima Audrina, anche se era stata più bella e più dotata. Ciò nonostante dondolavo e cantavo e non riuscivo a smettere. La pace era in arrivo e mi avrebbe reso felice. Il mio cuore impazzito rallentò il suo battito. Il sangue smise di scorrere vorticoso nelle mie vene. La musica che udivo era bella mentre dietro di me, o forse davanti a me, una voce d'uomo cantava. Qualcuno che aveva bisogno di me mi chiamava, qualcuno che era nel futuro, in attesa; e come in un sogno vidi le pareti svanire davanti ai miei occhi via via che lentamente, lentamente le molecole si separavano, si sgretolavano, lasciando il posto a una superficie porosa attraverso la quale potevo volare senza difficoltà. Ero fuori nella notte che rapidamente stava diventando giorno. Libera! Ero libera dalla stanza. Libera da mio padre. Libera da Whitefern! Era il mio gran giorno e tornavo allegramente di corsa da scuola. Ed ero io. Felice saltellavo in un sentierino nel bosco. Ero appena uscita da scuola, e non mi sorprendevo né mi meravigliavo di questo fatto, pur sapendo che non ero mai stata a scuola. Qualcosa di saggio mi diceva che mi trovavo dentro la Prima e Più-Che-Meravigliosa Audrina, e che stavo per conoscerla bene quanto me. Ero lei, e lei era me, e «noi» indossavamo un bellissimo vestito di crepe-de-chine. Sotto portavo la mia sottoveste più bella... quella con l'orlo di merletto irlandese ricamato a trifogli. Era il mio compleanno e avevo nove anni. Questo significava che presto ne avrei avuti dieci e dieci non era lontano da undici, e non appena avessi compiuto i dodici anni la magia di trasformarmi in una donna sarebbe stata a portata di mano. Giravo su di me per vedere la gonna a pieghe gonfiarsi attorno alla vita. Chinai la testa e volteggiai ancora per vedere spuntare la sottoveste. Improvvisamente ci fu un rumore sul sentiero davanti a me. Qualcuno ridacchiava. Come per magia, di botto il cielo si fece scuro. Un lampo squarciò l'aria. Un tuono rombò, cupo e minaccioso. Non potevo muovermi. Restai pietrificata come una statua di marmo. Il cuore prese a battermi selvaggiamente come un tam tam nella giungla. Un sesto senso si svegliò in me e urlò che qualcosa di terribile stava per acca-
dere. Dolore, pulsava il mio sesto senso, vergogna, terrore e umiliazione. Mamma, papà, aiuto! Non lasciate che mi facciano del male. Non permettetelo! Andavo ogni settimana alle lezioni di religione, non mancavo mai anche quando avevo il raffreddore. Mi ero meritata la Bibbia nera con il nome inciso in oro sulla copertina, e avevo anche una medaglia d'oro. Perché la sedia a dondolo non mi aveva messa in guardia e non mi aveva detto come evitare il pericolo! Dio, ci sei!? Mi guardi, Dio? Fa' qualcosa! Fa' una cosa qualsiasi! Aiutami! Saltarono fuori dai cespugli. Tre. Corri, corri veloce! Non mi prenderanno mai se corro veloce abbastanza. Le gambe si mossero, corsero... ma non abbastanza. Urla, urla forte, più forte! Mi battei con calci e graffi, picchiai la testa contro i denti del ragazzo che mi inchiodò le braccia dietro la schiena. Dio non udì le mie invocazioni di aiuto. Nessuno le udì. Gridai, gridai e gridai ancora... finché non potei gridare più. Provavo solo vergogna e umiliazione, sentivo solo mani crudeli che strappavano e ghermivano e violavano. Vidi l'altro ragazzo alzarsi dai cespugli e guardarmi paralizzato, con i capelli appiccicati alla fronte per la pioggia che adesso scrosciava forte. Lo vidi fuggire di corsa! Alle mie grida, papà entrò di corsa nella stanza. «Tesoro, tesoro,» esclamò, lasciandosi cadere in ginocchio in modo da potermi prendere fra le braccia. Mi strinse al petto e mi carezzò la schiena, i capelli. «Non aver paura, sono qui. Ci sarò sempre.» «Non dovevi, non dovevi,» singhiozzai, tremando ancora per la paura. «Che cosa hai sognato questa volta, amore mio?» «Cose brutte, le stesse cose terribili.» «Racconta tutto al tuo papà. Lascia che ti porti via il dolore e la vergogna. Adesso capisci perché ti dico di stare lontana dal bosco? Quella era tua sorella Audrina, tua sorella morta. Non deve accadere anche a te. Tu non fai che rivivere quella scena quando l'unica cosa che desidero è che tu voli oltre quei boschi e ti prenda per te tutto ciò che di meraviglioso aveva lei. Hai visto quanto poteva essere felice? Quanto era piena di gioia? Hai sentito quanto era meravigliosa la vita per lei quando stava lontana dai boschi? È questo che io voglio per te. Oh, mia dolce Audrina,» sussurrò con il volto nascosto nei miei capelli, «non sarà sempre così. Un giorno, men-
tre sarai qui a dondolarti e a cantare, volerai oltre i boschi, dimenticherai i ragazzi e scoprirai la bellezza di essere viva. Non appena ciò accadrà, tutte le cose dimenticate, tutte le cose buone, ti torneranno di botto alla mente e ti renderanno di nuovo integra e intera.» Mi stava dicendo, in perfetta buonafede, che adesso non ero intera... e se fosse stato così, cos'ero allora? Pazza? «Domani lo rifaremo. Questa volta non è stata terribile quanto l'altra. Questa volta te ne sei tirata fuori e sei tornata da me.» Sapevo che dovevo evitare per sempre questa stanza e questa sedia a dondolo. In un modo o nell'altro dovevo convincerlo di essere volata oltre il bosco e di aver già trovato i doni di cui la Prima Audrina non aveva più bisogno. Teneramente mi rimboccò le coperte e, in ginocchio, recitò una preghiera per invocare per me sogni dorati, chiedendo agli angeli lassù di proteggermi quella notte. Mi baciò sulla guancia, disse che mi amava e mentre si richiudeva silenziosamente la porta alle spalle io mi chiedevo come fare a convincerlo di non farmi tornare più in quella stanza e su quella sedia a dondolo. Come potevo odiare ciò che mi faceva e amare l'idea di diventare ciò che voleva? Come preservarmi... se lui stava cercando di trasformarmi in lei? Giacqui supina per ore fissando il soffitto, cercando di ritrovare il mio passato nelle preziose volute degli stucchi del soffitto. Papà mi aveva fornito molti indizi circa ciò che poteva renderlo felice. Voleva tanto denaro, per se stesso, per la mamma, anche per me. Voleva rimettere a nuovo questa casa e renderla come era un tempo. Doveva mantenere le promesse fatte a Lucietta Lana Whitefern, l'ereditiera che ogni degno giovanotto della East Coast aveva desiderato, finché lei non aveva scelto lui. Che magnifica preda era stata mia madre. Se non avesse messo al mondo due Audrine! I tè del martedì Natale venne e passò, ma io ricordavo ben poco tranne una bambola vestita da damina, che avevo trovato sotto l'albero, con grande invidia di Vera, malgrado non facesse che ripetere che era troppo grande per giocare con le bambole. Mi spaventava il passare del tempo, così rapido che, prima ancora di rendermene conto, era in arrivo la primavera. I giorni precipitavano nei buchi della mia memoria. Vera si divertiva a torturarmi dicendo che
chiunque non avesse la cognizione del tempo doveva essere matto. Oggi era martedì, e zia Mercy Marie sarebbe tornata a farci visita, anche se mi sembrava appena ieri che Mercy Marie era stata tirata in ballo per il solito tè. Papà se la prendeva comoda quel martedì mattina. Si attardava seduto al tavolo della cucina, dilungandosi sui significati e le complessità dell'esistenza, mentre Vera e mia zia consumavano una frittella dopo l'altra come se fossero secoli che non toccavano cibo. Con gesti composti mia madre preparava tartine e altre ghiottonerie per l'ora del tè. «Erano i momenti migliori; erano i momenti peggiori,» esordì papà che amava ripetere in continuazione quella frase che sembrava irritare la mamma almeno quanto me. Lui aveva la capacità di rendere terribile il solo pensiero del domani. Andava avanti per ore, creando l'illusione che il tempo della sua gioventù fosse di gran lunga migliore di qualsiasi altro tempo che avrei mai conosciuto. La vita era perfetta quando papà era ragazzo; ai suoi tempi la gente era più gentile; le case venivano costruite per durare per sempre e non per crollare a pezzi come accadeva oggigiorno. Anche i cani, apparentemente, erano migliori quando lui era giovane: si poteva esser certi che avrebbero riportato al padrone qualsiasi cosa avesse lanciato. Persino il tempo era migliore, non così caldo in estate, non così freddo in inverno, tranne nei casi di tempesta di neve. Nessuna tempesta dei giorni nostri aveva la benché minima possibilità di uguagliare la gelida ferocia delle tempeste che papà aveva affrontato per tornare a casa da scuola. «Trentacinque chilometri,» blaterava, «fra vento e neve, pioggia e nevischio, ghiaccio e grandine, nulla mi teneva a casa... neppure la polmonite. Quando, ai tempi del liceo, facevo parte della squadra di football e mi ruppi una gamba, non riuscirono a impedirmi di andare e tornare da scuola a piedi, da solo, tutti i giorni. Ero duro, deciso a conquistarmi una buona educazione, a essere il migliore.» Mamma sbatté giù un piatto con tale foga da romperlo. «Smettila, Damian, stai esagerando.» La sua voce era aspra, spazientita. «Ma non ti rendi conto dei falsi valori che ficchi in testa a tua figlia?» «E che altro genere di valori le avete mai inculcato voialtri due?» si intromise la zia Ellsbeth acida. «Se Audrina ce la farà a diventare una persona normale sarà un vero miracolo.» «Amen,» concluse Vera. Sogghignò e poi mi fece una linguaccia. Papà non se ne accorse, era troppo preso a urlare contro mia zia.
«Normale? E che vuol dire normale? Secondo me normale è solo banale, mediocre. La vita appartiene a chi osa essere diverso.» «Damian, per favore, la finisci di inculcare false filosofie in una bambina troppo piccola per capire che l'unica cosa che sai fare bene è muovere la lingua tutto il giorno?» «Silenzio!» ruggì papà. «Non permetterò che mia moglie mi metta alla berlina davanti alla mia unica figlia. Chiedimi scusa immediatamente, Lucky!» Perché quel sorrisetto compiaciuto sul volto di zia Ellsbeth? Sotto sotto ero convinta che le piacesse sentir litigare i miei genitori. Vera emise un gorgoglio strozzato poi, con palese difficoltà, si alzò e zoppicò verso l'atrio. Presto sarebbe salita sul pullmino della scuola, e pensare che avrei dato un occhio per potermi trovare assieme a tutti gli altri bambini che non erano speciali quanto me. Invece sarei rimasta a casa, tutta sola, con quegli adulti che mi avrebbero rimpinzato la testa di concetti e di nozioni per poi rimescolarli tutti con un forchettone stregato. Non c'è da stupirsi che non sapessi chi fossi, o che giorno della settimana, del mese e persino dell'anno fosse. Non avevo né tempi migliori, né tempi peggiori. Vivevo, così mi pareva, su un palcoscenico, sul quale recitavano i miei e anch'io dovevo avere una parte... solo che non sapevo quale. Di punto in bianco, senza una ragione apparente, mentre mi guardavo attorno in cucina mi venne in mente un gattone rossiccio che dormiva accanto alla vecchia stufa di ghisa. «Vorrei che Tweedle Dee tornasse a casa,» dissi mestamente. «Mi sento tanto più sola da quando il mio gatto se n'è andato.» Papà trasalì. La mamma mi fissò. «Ma, Audrina, Tweedle Dee se ne è andato da molto, molto tempo.» La sua voce sembrava tesa, ansiosa. «Oh sì, certo,» mi affrettai a replicare, «lo so, ma vorrei che tornasse a casa lo stesso. Papà, non l'hai mica portato al recinto degli animali dispersi, vero? Non faresti uccidere il mio gatto, vero... solo perché ti faceva starnutire?» Mi lanciò un'occhiata preoccupata, poi si costrinse a sorridere. «No, Audrina, faccio del mio meglio per provvedere a tutte le tue necessità e se a quel gatto fosse andato bene di restare facendomi morire di starnuti, avrei sofferto in silenzio per amor tuo.» «Sofferto forse, ma non certo in silenzio,» borbottò la zia. Guardai i miei genitori abbracciarsi e baciarsi prima che papà si avviasse al garage. «Buon tè,» si voltò a gridare alla mamma, «anche se sa il cielo
se preferirei che lasciaste perdere Mercy Marie. Ci vorrebbe proprio qualcuno che venisse ad abitare il villino vuoto di nostra proprietà; allora avreste una simpatica vicina per farvi compagnia ai vostri tè.» «Damian,» lo redarguì la mamma in tono agrodolce, «tu esci e ti diverti, non è vero? Ma dal momento che noi siamo tenute prigioniere qui dentro, lascia almeno che Ellie e io ci divertiamo a modo nostro.» Grugnì e non aggiunse altro e un attimo dopo io ero alla finestra centrale a guardarlo mentre si allontanava in macchina. La sua mano si levò dal finestrino in un ultimo saluto prima di scomparire oltre la curva. Non volevo che se ne andasse. Odiavo i tè del martedì. Il ricevimento sarebbe dovuto cominciare alle quattro, ma da quando Vera aveva preso a inventarsi ogni scusa per marinare la scuola e tornare a casa per quell'ora, il tè era stato anticipato alle tre. Con addosso i miei abiti migliori, sedevo compunta in attesa che il rituale iniziasse. La mia presenza a quei ricevimenti era richiesta come parte della mia educazione mondana e se Vera aveva qualche motivo valido per restare a casa, era invitata anche lei. Più di una volta avevo pensato che Vera si rompesse le ossa così spesso per poter restare a casa e sentire quello che avveniva nel salotto buono. La mia tensione cresceva via via che aspettavo che arrivassero la mamma e la zia. Per prima arrivò la mamma, vestita con uno dei suoi raffinati abiti da pomeriggio... una morbida crepella di lana fluttuante di un bel color corallo, con profili viola per richiamare il colore dei suoi occhi. Portava un girocollo di perle e orecchini di diamanti e perle vere in parure con la collana. Erano i famosi gioielli della famiglia Whitefern che, me lo aveva detto molte volte, un giorno sarebbero stati miei. Gli stupendi capelli erano raccolti in uno chignon dal quale sfuggivano alcune morbide ciocche che attenuavano la severità dell'acconciatura e ne esaltavano l'eleganza. Poi venne mia zia, anche lei col suo abito migliore, un tailleur blu scuro con un'austera camicetta bianca. Come sempre portava i lucidi capelli neri in una crocchia bassa sulla nuca. Alle orecchie aveva piccoli bottoncini di diamanti e al dito mignolo portava l'anello col rubino della sua classe. Aveva un'aria molto professionale. «Per favore, Ellie, vuoi fare entrare Mercy Marie?» chiese la mamma dolcemente. Il martedì era l'unico giorno in cui mia madre era autorizzata a usare quel nomignolo. Soltanto papà poteva chiamarla Ellie ogni volta che voleva. «Oh santo cielo, sei in ritardo,» annunciò zia Ellsbeth alzandosi per sol-
levare il coperchio del pianoforte e tirar fuori la pesante cornice d'argento che racchiudeva la fotografia di una donna grassa dal volto dolcissimo. «Sul serio, Mercy Marie, ci aspettavamo che fossi puntuale. Hai sempre avuto l'irritante abitudine di essere in ritardo. Per far colpo, immagino. Ma, cara, faresti colpo anche se arrivassi in orario.» La mamma ridacchiò mentre la zia si sedeva e intrecciava compitamente le mani in grembo. «Il piano non è troppo duro per te, cara, vero? Tuttavia è abbastanza robusto... mi auguro.» Di nuovo la mamma ridacchiò, facendomi dimenare come sulle spine, sapendo che il peggio doveva ancora venire. «Sì, Mercy Marie, capiamo perché sei sempre in ritardo. Fuggire da tutti quei focosi selvaggi dev'essere davvero spossante. Ma saprai senz'altro che corre voce che tu sia stata cucinata in un pentolone da un capo cannibale e mangiata per cena. Non ti dico quanto siamo felici, Lucietta e io, nel constatare che si tratta solo di un pettegolezzo.» Con gesti guardinghi incrociò le gambe e fissò il ritratto sul pianoforte, sistemato nel punto in cui normalmente c'erano gli spartiti. Faceva parte del ruolo della mamma alzarsi e accendere le candele poste nei candelabri di cristallo mentre il fuoco crepitava e scoppiettava, e le lampade a gas tremolavano e strappavano bagliori multicolori alle gocce di cristallo appese ai lampadari, rifrangendoli per tutta la stanza. «Ellsbeth, mia cara, tesoro,» disse mia madre fingendo di essere la morta, anche se spesso il suo spettro era ribelle, «è forse l'unico abito che possiedi, quello? L'hai messo la settimana scorsa e anche quella prima, e i tuoi capelli, Dio buono, perché non cambi pettinatura per una volta? Ti fa sembrare una sessantenne.» La voce della mamma era sempre dolce fino alla nausea quando parlava per conto della zia Mercy Marie. «La mia pettinatura mi piace,» ribatté mia zia acida, guardando mia madre spingere il carrello carico di tutte le ghiottonerie che aveva preparato quella mattina. «Se non altro non cerco di somigliare a una mantenuta viziata che passa tutto il tempo a cercare di compiacere un egocentrico maniaco sessuale. Naturalmente mi rendo conto che in fondo gli uomini sono tutti così. Ed è proprio per questo che ho deciso di restare nubile.» «Non ne dubito, cara,» ribatté mia madre con la sua voce. Poi parlò col tono della fotografia sul pianoforte. «Ma, Ellie, ricordo che un tempo eri pazzamente innamorata di un egocentrico maniaco sessuale. Abbastanza innamorata da andare a letto con lui e da partorirgli una figlia. Un vero peccato che ti abbia usata soltanto per soddisfare la sua lascivia; un vero
peccato che non si sia mai innamorato di te.» «Oh, quello,» disse mia zia con un grugnito di disgusto. «È stato solo un colpo di testa passeggero. Per un attimo il suo magnetismo animale mi ha attratta, ma poi ho avuto abbastanza buon senso da dimenticarlo e da dedicarmi a cose migliori. Del resto so che lui se n'è trovata subito un'altra. Gli uomini sono tutti uguali... egoisti, crudeli, esigenti. Ora so che sarebbe stato il peggiore dei mariti.» «Peccato che non ti sia trovata un uomo meraviglioso come il bel Damian della nostra Lucky,» ribatté la vocina agrodolce dal pianoforte, mentre mia madre si sedeva e addentava una tartina prelibata. Contemplai la fotografia di una donna che non ricordavo di aver mai conosciuto, anche se la mamma sosteneva che l'avevo vista quando avevo quattro anni. Sembrava molto ricca. Aveva diamanti alle orecchie, al collo, alle dita. Il bordo di pelliccia attorno al colletto della giacca dava l'impressione che la sua testa appoggiasse direttamente sulle spalle. Spesso mi figuravo che se si fosse alzata avrebbe avuto una bordura di pelliccia fino ai piedi, attorno alle maniche e attorno all'orlo della gonna, come una regina medievale. Mercy Marie era andata fino in Africa nella speranza di redimere qualche anima perduta e convertirla al cristianesimo. Ora faceva parte anche lei dei miscredenti, mangiata, si spera, dopo essere stata uccisa e cucinata. Secondo quanto avevo appreso da quelle cerimonie del tè, zia Mercy Marie un tempo aveva avuto una passione addirittura smodata per le tartine al cetriolo e lattuga adagiati su uno strato sottilissimo di pane al formaggio. Per accontentarla mia madre doveva fare il pane con le sue mani, tagliar via la crosta e quindi appiattirlo con il matterello. Il pane veniva quindi tagliato con formelle per biscotti dalle forme più svariate. «Davvero, Mercy Marie,» disse mia zia nel suo modo brusco, «prosciutto, formaggio, pollo o tonno non sono appiccicaticci come credi. Noi ne mangiamo in continuazione... non è vero, Lucietta?» La mamma aggrottò la fronte. Tremavo all'idea di quello che avrebbe detto dopo, qualcosa di crudele e feroce. «Se Mercy Marie adora le tartine alla lattuga e cetriolo, Ellie, perché non gliene lasci qualcuna, anziché divorartele tutte quante? Non essere così ingorda. Impara a pensare anche agli altri.» «Lucietta, tesoro,» strillò la voce stridula dal pianoforte, prestata questa volta da mia zia, «ti prego di mostrare a tua sorella maggiore il rispetto che le devi. A tavola le dai delle porzioni talmente minuscole che deve compensare la tua tirchieria mangiando le tartine che io adoro.»
«Oh, Mercy, sei un tesoro, tanto carina! Ma certo, dovrei saperlo ormai che l'appetito di mia sorella è insaziabile. Un pozzo senza fondo non conterrebbe più dello stomaco di Ellie. Forse cerca di riempire così un grande vuoto della sua vita. Forse per lei sostituisce l'amore.» Ecco come si svolgevano i tè commemorativi, mentre le candele profumate bruciavano e il fuoco tossicchiava scintille rosse e zia Ellie consumava tutte le tartine, anche quelle al pâté di pollo che mi piacevano tanto... e anche a Vera. Io mandavo giù contro voglia una tartina che odiavo, del tipo che somigliava proprio a quelli che amava zia Mercy Marie: umido, vischioso, appiccicaticcio. «Sul serio, Lucietta,» interloquì zia Ellsbeth, usando la voce della cara estinta, lanciandomi un'occhiata addolorata constatando che detestavo così palesemente ciò che Mercy Marie doveva aver apprezzato più di ogni altra cosa. «Dovresti fare qualcosa per l'inappetenza di questa bambina. È tutta pelle e ossa e occhioni spaventati. E quella ridicola criniera di capelli. Perché ha sempre quell'aria spiritata? A guardarla si direbbe che basti un alito di vento a spazzarla via... se non impazzisce prima. Ma Lucietta, cosa le fai a quella figliola?» Più o meno in quel momento udii il cigolio della porta laterale che si apriva e pochi secondi più tardi Vera entrava furtivamente nella sala. Si nascose dietro una grande felce di modo che sua madre non la vedesse e si portò il dito alle labbra quando la guardai. Aveva con sé un'enorme enciclopedia medica con due corpi nudi sulla copertina, uno maschile e uno femminile, i cui organi di cartone si potevano asportare. Rabbrividii. Dietro di me Vera ridacchiò. Mi rifugiai nell'angolino del cervello in cui potevo stare sicura e tranquilla, ma il luogo mi dava la sensazione di una gabbia. Mi sentivo sempre in gabbia quando il fantasma dispettoso della zia Mercy Marie veniva a farci visita nel salotto buono. Lei era morta e irreale, ma chissà perché riusciva a far sentire me come un'ombra priva di sostanza. Non reale allo stesso modo in cui le altre ragazze erano reali. La mia mano salì nervosamente a tastarmi gli occhi «spiritati», a sfiorarmi le guance «scavate», giacché presto o tardi sarebbe arrivata a parlare anche di queste. «Mercy,» disse mia madre in tono accusatorio, «come puoi essere così insensibile davanti a mia figlia?» Si alzò flessuosa e regale, avvolta nel morbido abito fluttuante. Fissai il vestito, confusa. Ma se era entrata nella stanza con indosso qualcosa color corallo, come aveva fatto a cambiare colore? Era forse per
via della luce delle finestre che adesso mi sembrava viola, verde e azzurro? La testa cominciò a dolermi. Era estate, primavera, inverno o autunno? Ebbi l'impulso di correre alla finestra e guardare gli alberi: solo loro non mentivano. Vennero dette altre cose che cercai di non udire e poi la mamma andò al pianoforte e sedette per suonare gli inni che zia Mercy Marie amava cantare. Nell'istante stesso in cui mia madre sedette al pianoforte accadde qualcosa di miracoloso: assunse un'aria regale, come se si trovasse di fronte a un pubblico di migliaia di persone pronte ad applaudirla. Le sue lunghe dita indugiarono sopra la tastiera, quindi scesero, battendo un accordo perentorio per esigere attenzione. Suonò Rock of Ages e poi si mise a cantare con una voce talmente bella e dolce che mi venne voglia di piangere. Anche mia zia cominciò a cantare, ma io non mi unii a loro. Qualcosa dentro di me urlava, urlava. Tutto questo era falso. Dio non era lassù; non veniva quando avevi bisogno di lui... non era mai venuto e mai l'avrebbe fatto. La mamma vide le mie lacrime e bruscamente cambiò ritmo. Verrai alla chiesa nel bosco selvaggio, verrai alla chiesa nella pianura, cantava, dondolandosi di qua e di là, facendo ballare i seni. Mia zia ricominciò a mangiare dolci. Scoraggiata, mia madre lasciò il pianoforte e tornò a sedersi sul divano. «Mamma,» chiesi con una vocina piccola piccola, «che cos'è una pianura?» «Lucietta, perché non insegni a tua figlia qualcosa di valido?» chiese la voce implacabile dal pianoforte. Allorché mi voltai di botto, cercando di cogliere in flagrante zia Ellsbeth e la trovai intenta a sorseggiare tè caldo che, lo sapevo, era generosamente allungato con bourbon, proprio come quello della mamma. Forse era l'alcool che le rendeva così crudeli. Non sapevo se avessero amato zia Mercy Marie quando era in vita o se l'avessero odiata. Sapevo però che si divertivano a fare supposizioni sul modo in cui poteva essere morta, come se proprio non potessero credere a papà quando spiegava loro che era più probabile che zia Mercy Marie fosse la viva e vegeta consorte di qualche capo tribù africano. «In molte società primitive le donne grasse sono tenute in gran conto,» mi disse. «Mercy Marie scomparve due settimane dopo il suo arrivo laggiù per compiere la sua opera missionaria. Non credere a tutto quello che ti senti raccontare, Audrina.» Quello era il mio problema più grave... a cosa credere e a cosa non cre-
dere. Ridacchiando la mamma versò dell'altro tè nella tazza di mia zia e nella propria, poi prese una bottiglia di cristallo con una targhetta d'argento «bourbon» appesa al collo e riempì le due tazze sino all'orlo. Fu allora che scorse Vera. «Vera,» disse, «gradisci una tazza di tè caldo?» Naturalmente Vera la gradiva, ma aggrottò la fronte vedendo che non aggiungevano il bourbon anche al suo. «Cosa fai a casa da scuola così presto?» l'aggredì mia zia. «Gli insegnanti avevano una riunione e ci hanno lasciato uscire prima del solito,» si affrettò a spiegare Vera. «Vera, di' la verità alla presenza dei morti viventi,» ridacchiò mia madre, ormai quasi ubriaca. Io e Vera ci scambiammo un'occhiata. Una delle poche volte in cui riuscivamo a comunicare sul serio era quando entrambe ci sentivamo prese in giro e confuse. «E tu cosa fai per divagarti, Ellie cara?» chiese mia madre con la vocina agrodolce e stridula che usava per zia Mercy Marie. «Di sicuro ti annoierai, di tanto in tanto, vivendo così isolata, senza amici. Non hai uno splendido marito che ti riscaldi e ti dia gioia nel tuo freddo letto monacale.» «Ma figurati, Mercy,» replicò mia zia fissando la fotografia negli occhi, «come potrei annoiarmi vivendo con due esseri affascinanti come mia sorella e il suo agente di borsa che adorano combattere in camera da letto fino al punto in cui uno dei due si mette a urlare. Credimi, mi sento piuttosto sicura nel mio letto monacale, senza uno splendido bruto che ama brandire la cintura a mo' di frusta.» «Ellsbeth, come osi dire alla mia migliore amica una sciocchezza simile? Damian e io facciamo dei giochi, tutto qui. Aumenta la sua eccitazione e la mia.» La mamma fece un sorrisetto di scusa alla fotografia. «Sfortunatamente Ellie non sa nulla dei molteplici modi per compiacere un uomo, per dargli ciò che desidera.» Mia zia sbuffò sprezzante. «Sono più che sicura, Mercy cara, che tu non hai mai permesso a Horace di fare quel genere di giochetti con te.» «Se l'avesse fatto non sarebbe dove si trova ora,» ridacchiò la mamma. Gli occhi di Vera erano spalancati quanto i miei. Ce ne stavamo sedute mute e immobili. Ci avrei scommesso che si erano dimenticate entrambe della nostra presenza. «Sul serio, Mercy Marie, devi perdonare mia sorella che è un po' ubriaca. Come dicevo un momento fa, vivo con gente così affascinante che è impossibile annoiarsi. Una figlia muore nel bosco, un'altra viene a prende-
re il suo posto. E gli idioti le danno lo stesso nome...» «Ellsbeth,» scattò mia madre, sollevandosi dalla languida posizione riversa, «se odi tua sorella e suo marito a questo punto perché non te ne vai e non ti porti via tua figlia? Sono certa che da qualche parte deve pur esserci una scuola che ha bisogno di un'insegnante. E tu hai una lingua tagliente che davvero può tenere i bambini al loro posto.» «No,» replicò mia zia imperturbabile, sorseggiando il tè. «Non lascerò mai questa accozzaglia di pezzi da museo. È mia quanto sua.» Teneva il dito mignolo sollevato in una posizione arcuata che le ammiravo molto. Non sarei mai riuscita a fare altrettanto. Strano che mia zia avesse modi così raffinati e fosse così poco curata nel vestire. Mia madre, invece, aveva abiti molto raffinati e modi molto poco raffinati. Mentre mia zia teneva sempre le ginocchia unite, mia madre allargava le sue. Mentre mia zia sedeva eretta come se avesse ingoiato un manico di scopa, mia madre si raggomitolava e assumeva pose sensuali. Facevano di tutto per contrapporsi l'una all'altra, e ci riuscivano. Durante l'ora del tè non davo alcun contributo a meno che non mi venisse richiesto espressamente, e in genere Vera stava altrettanto zitta, nella speranza di carpire altri segreti. Vera era strisciata dietro lo schienale del divano e adesso se ne stava seduta lì, con la gamba più corta allungata e l'altra tirata su in modo da poggiare il mento al ginocchio, e intanto sfogliava lentamente quel libro illustrato d'anatomia umana. Subito dietro la copertina c'era l'uomo di cartone composto di parecchi strati. Nel primo strato era solo nudo. Girando la prima pagina di quell'uomo ritagliato ce n'era un altro con tutte le arterie dipinte di rosso e le vene di blu. Dietro quella tavola colorata c'era un altro uomo con tutti gli organi vitali esposti. L'ultima tavola mostrava lo scheletro, al quale Vera non si interessava minimamente. C'era pure una donna nuda, anche lei visibile all'interno, ma neppure per lei Vera sembrava provare eccessivo interesse. Da un pezzo aveva tirato via il «feto» dall'utero e usava quell'embrione etichettato come segnalibro. Un pezzo alla volta Vera prese a smontare l'uomo nudo, tirando via le parti numerate e studiandole da vicino. Ogni organo poteva essere rimesso nella posizione giusta riponendo le parti nei loro alveoli lievemente rientrati nello spessore della carta. Nella mano sinistra stringeva gli attributi maschili, mentre con l'altra tirava via il cuore e il fegato, girandoli e rigirandoli, prima di riprendere quell'affare di cartone dalla mano sinistra e tornare a esaminarlo nei dettagli. Come erano fatti strani gli uomini, pensavo, mentre rimetteva insieme,
con successo, l'uomo. Dopo di che cominciò di nuovo a smontarlo. Io distolsi lo sguardo. A quel punto ormai mia madre e zia Ellsbeth erano più che brille. «È tutto bello come pensavi sarebbe stato?» Malinconicamente gli occhi della mamma incontrarono quelli raddolciti di mia zia. «Amo ancora Damian, anche se non è stato all'altezza delle sue promesse. In fondo forse non facevo che ingannare me stessa, pensando di poter diventare una concertista di successo. Forse l'ho sposato proprio per evitare di scoprire quanto mediocre fossi in realtà.» «Non ci credo, Lucietta,» ribatté mia zia con sorprendente comprensione. «Sei un'ottima pianista e lo sai. Però permetti a quell'uomo di riempirti la testa di dubbi. Quante volte Damian ti ha convinta che se avessi seguitato non avresti avuto successo?» «Decine e decine e decine di volte,» canticchiò mia madre con una sciocca voce ubriaca che mi fece venir voglia di piangere. «Non parlarmene più, Ellie. Mi fai venire dei rimpianti. Mister Johanson sarebbe così deluso di me. Spero tanto che sia morto e che non sia mai venuto a sapere la fine che ho fatto.» «Lo amavi, Lucietta?» chiese mia zia in tono gentile. Di botto fui all'erta. Vera sollevò lo sguardo dal suo volgare uomo nudo di cui aveva in mano il cuore. Mr. Ingemar Johanson era stato l'insegnante di musica di mia madre quando era ragazzina. «Quando avevo quindici anni ed ero piena di idee romantiche, mi convinsi di amarlo.» Emise un sospiro desolato e si asciugò una lacrima che le scorreva giù per la guancia. Voltò la testa dall'altra parte in modo da mostrare il suo bel profilo e fissò verso le finestre dove il sole invernale filtrava appena allagando il nostro tappeto orientale di pallide pozze di luce. «È stato il primo uomo a darmi un vero bacio... altri compagni di scuola l'avevano fatto, ma il suo fu il primo vero bacio.» Non erano tutti uguali i baci? «E i suoi baci ti piacevano?» «Sì, Ellie, mi piacevano. Mi riempivano di desiderio. Ingemar mi risvegliò sessualmente e poi mi lasciò insoddisfatta. Quante notti insonni ho passato allora, e anche adesso quando mi sveglio la notte rimpiango di non averlo lasciato andare avanti e finire ciò che aveva iniziato anziché dire no e preservarmi per Damian.» «No, Lucietta, hai fatto la cosa giusta. Damian non ti avrebbe mai sposa-
ta se avesse sospettato che non eri vergine. Sostiene di essere un uomo moderno con idee liberali, ma in fondo è vittoriano. Sai benissimo anche tu che non è stato in grado di affrontare ciò che è accaduto ad Audrina più di quanto l'abbia fatto lei...» Cosa intendeva dire? Come poteva la Prima Audrina affrontare qualcosa dal momento che l'avevano trovata morta nel bosco? Di botto la mamma si voltò e mi vide seminascosta dietro la felce. Mi fissò, come per riordinare qualche pensiero nella sua testa prima di parlare. «Perché cerchi di nasconderti, Audrina? Esci fuori di lì e vieni a sederti in poltrona come una signora. E perché te ne stai così silenziosa? Partecipa alla conversazione anche tu. A nessuno piace una persona che non sa dire quattro parole.» «Cos'era che la Prima Audrina non avrebbe saputo affrontare meglio di papà?» chiesi alzandomi in piedi e lasciandomi cadere in una poltrona. «Audrina, stai attenta con quella tazza!» «Mamma, cosa è accaduto esattamente a mia sorella? Cos'è che l'ha uccisa... un serpente?» «Questo non è un discorso da salotto,» ribatté la mamma irritata. «Sul serio, Audrina, ti abbiamo detto tutto quello che ti occorre sapere sull'incidente di tua sorella nel bosco. E ricordati che sarebbe ancora viva se avesse imparato a obbedire ai nostri ordini. Spero che lo terrai bene a mente la prossima volta che ti intestardirai per qualche cosa e penserai che disobbedire è un ottimo sistema di ritorsione contro i tuoi genitori, che invece cercano solo di fare il tuo bene.» «La Prima Audrina era un soggetto difficile?» chiesi nella speranza di udire che non era poi così perfetta. «Insomma, basta,» disse la mamma con più dolcezza. «Ricorda soltanto che il bosco ti è vietato.» «Ma Vera nel bosco ci va...» Intanto Vera si era alzata anche lei e da dietro il divano sorrideva a mia madre con un'aria consapevole che rivelava che lei conosceva la causa della morte di mia sorella. Oh, accidenti, improvvisamente rimpiansi che avesse udito l'ammonizione della mamma poiché ciò le dava un'altra arma da usare contro di me. Dal modo in cui la festicciola languì dopo il mio intervento fu evidente che non avrei mai avuto successo in società. Zia Ellsbeth mise via la fotografia, Vera zoppicò in camera sua portandosi dietro una parte dell'uomo nudo, e io restai sola nel Salone impero, rendendomi conto una volta di più che non mi era possibile porre domande dirette e ricevere risposte. Dovevo
imparare a essere ambigua, come tutti gli altri, altrimenti non avrei mai saputo niente, neppure l'ora. Quella settimana stessa arrivò il giorno di san Valentino e Vera zoppicò a casa da scuola con un sacchetto di carta pieno di doni di tutti i suoi ragazzi. Venne in camera mia con un enorme cuore di raso rosso che conteneva tanti cioccolatini deliziosi. «Dal ragazzo che mi ama di più,» mi disse in tono arrogante, tirando via la scatola senza offrirmene neppure uno. «Un giorno mi porterà lontano di qui e mi sposerà anche. Glielo leggo negli occhi, nei suoi meravigliosi occhi color ambra. Presto si trasferirà... insomma, non importa dove si trasferirà, ma mi ama. So che mi ama.» «Quanti anni hai detto che ha?» «Che c'entra?» Sedette sul mio letto e pescò di nuovo nella scatola, sbirciandomi con aria strana. «Io posso avere dieci anni, dodici, quattordici, sedici, tutti gli anni che voglio. Poiché ho conquistato la magia della Prima Audrina, la Migliore e Perfetta e Bellissima Audrina. Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella Audrina del reame, e lo specchio risponde, sei tu, Vera, sei tu.» «Sembri pazza,» dissi, arretrando. «E non puoi avere un dono che è destinato solo a chi porta il mio nome. Me l'ha detto papà.» «Oh, tuo padre potrebbe dirti qualsiasi cosa e tu saresti così sciocca da crederci. Io non sarò mai tanto idiota. Mia madre è stata stupida e ha permesso a un tipo dagli occhi dolci di convincerla ad andare a letto con lui, ma questo a me non accadrà. Quando arriverà l'ora della seduzione sarò io a deciderlo. E so anche come fare. Quell'enciclopedia medica mi sta insegnando tutto quello che occorre sapere. Quegli stupidi corsi di educazione sessuale a scuola non ti danno abbastanza fatti.» Ben presto i cioccolatini scomparvero e Vera mi diede il cuore di raso rosso vuoto. Per qualche ragione quel cuore rosso mi commuoveva. Che gesto gentile da parte di quel ragazzo dare i cioccolatini a Vera. Non sapevo che Vera potesse ispirare amore dato che non riusciva a ispirarne neppure a sua madre. Leoni e agnelli Un giorno udii il postino dire alla mamma: «Ha visto che splendida giornata di primavera?». E così seppi che era primavera malgrado il gran freddo. Gli alberi non avevano ancora messo le gemme e gli uccelli non cantavano. Fui contenta di sapere almeno che stagione fosse, ma mi vergo-
gnavo troppo a chiedere il mese perché sapevo che la gente mi avrebbe guardato con compassione. Non era «speciale» non sapere nulla del tempo che passava... era folle. Forse era per questo che si vergognavano a dirmi la ragione per cui era morta la Prima Audrina. Forse era pazza anche lei. Sfidando il suo disprezzo, corsi dietro al postino e gli posi la mia sciocca domanda. «Ma siamo in marzo, bambina. Arriva come un leone, e presto se ne andrà come un agnellino.» Faceva freddo, il vento era impetuoso ed era facile associarlo a un leone. Il giorno seguente mi svegliai e il sole brillava, scoiattoli e coniglietti saltellavano nel nostro prato e non c'era nulla di storto al mondo, secondo mamma e papà. La sera successiva la cena terminò con papà che urlava a Vera: «Fuori dalla cucina. Ho sentito che sei stata colta in flagrante a sgraffignare foto pornografiche a un'edicola. Quando una ragazzina si fa trovare a rubare come una ladra ha già dimostrato che il detto 'non c'è fumo senza arrosto' è vero!». «Io non ho fatto niente, papà!» singhiozzò Vera. Più tardi, in camera mia, mi si scagliò contro. «Dio ha maledetto me dandomi ossa fragili e te dandoti un cervello fragile, fra noi due, quella che sta meglio sono io.» Ma piangeva. «Papà non mi vuol bene come a te... Ti odio, Audrina, ti odio sul serio!» Ero costernata. Io ero la figlia di papà, era naturale che mi amasse di più. Cercai di spiegarglielo. «Oh,» gridò, «ma tu che ne sai? Sei una poppante viziata e coccolata come se fossi troppo in alto per questo mondo... ma alla fine, vedrai, sarò io la prima. Aspetta e vedrai!» Decisa ad agire andai da papà che aveva un'aria terribilmente agitata. Camminava avanti e indietro a grandi passi nel Salone impero, guardando in continuazione l'orologio da polso. Ma non mi lasciò guardare l'ora. «Cosa vuoi, Audrina?» mi chiese spazientito. «Voglio parlarti di Vera, papà.» «Non mi va di parlare di Vera, Audrina.» Arretrai. «Anche se non è tua figlia non dovresti essere così cattivo con lei.» «E cosa è venuta a dirti questa volta?» mi chiese sospettoso. «Ha forse cercato di spiegarti perché fai quel sogno?» I miei occhi si dilatarono. Non avevo mai detto a Vera del mio incubo. Era lui l'unico a conoscenza dei miei sogni inquieti. Sapevo che non voleva che la mamma ne fosse a conoscenza. Quel sogno era la mia maledizio-
ne e la mia vergogna! Mai e poi mai ne avrei parlato con Vera. Scossi il capo negativamente mentre continuavo ad arretrare. «Perché ti comporti come se avessi paura di tuo padre? Quella ragazza ti ha forse riempito la testa con racconti sconci?» «No, papà.» «Non mentire con me, bambina. Io capisco al volo quando menti, te lo leggo negli occhi.» Lo stato d'animo meschino, indifferente, nel quale si trovava mi indusse a girare sui tacchi e a correre via. Urtai contro appendiabiti e portaombrelli, e infine mi accasciai in un cantuccio dove mi raggomitolai per riprendere fiato. Fu allora che udii mia zia sopraggiungere lungo il corridoio, seguita da mio padre. «Non mi importa di quello che dici, Ellie, sto facendo del mio meglio per curarla. Sto anche facendo tutto quello che posso per Vera, e non è facile. Dio, perché non hai messo al mondo una bambina come la mia Audrina?» «Non ci mancherebbe altro in questa casa,» replicò mia zia gelidamente. «Un'altra Audrina.» «Stanimi a sentire, Ellie, e ascoltami bene. Tieni Vera lontana da mia figlia! Continua a ricordare a Vera, ogni giorno della sua vita, di tenere la bocca chiusa se non vuoi che la scuoi viva e le strappi i capelli a uno a uno. Se mai dovessi scoprire che Vera ha avuto in qualche modo a che fare con...» «Ma no! Certo che no!» Le loro voci svanirono in lontananza. Rimasi sola nell'ombra, sentendomi male e cercando di dipanare quella matassa. Vera sapeva perché non potevo ricordare le cose come gli altri. Dovevo convincere Vera a dirmelo. Ma Vera mi odiava. Non mi avrebbe mai detto nulla. In un modo o nell'altro dovevo far sì che Vera smettesse di odiarmi. Dovevo indurla a volermi bene. Allora, forse, mi avrebbe svelato il segreto di me stessa. Il mattino seguente, a colazione, la mamma era allegra e sorridente. «Indovina,» mi disse, mentre mi sedevo a tavola, «presto avremo dei vicini. Tuo padre ha affittato il villino dove stava Mr. Willis prima di morire.» Quel nome mi era familiare. Avevo conosciuto Mr. Willis? «Traslocano oggi,» seguitò la mamma. «Se non aspettassimo tua zia Mercy Marie potremmo fare quattro passi nel bosco e andare a dar loro il benvenuto. Giugno è un mese stupendo.» La fissai a bocca aperta. «Mamma, ieri il postino ha detto che era marzo.»
«No, tesoro, è giugno. L'ultimo postino è venuto mesi fa.» Sospirò. «Vorrei che i grandi magazzini mi facessero una consegna tutti i giorni; così avrei qualcosa da aspettare oltre al ritorno di Damian la sera.» Tutta la gioia che avrei dovuto provare alla prospettiva di avere dei vicini fu guastata dalla mia memoria a pezzi. In quel momento Vera zoppicò in cucina e mi lanciò un'occhiata maligna prima di lasciarsi cadere su una sedia e di chiedere uova, prosciutto, frittelle e ciambelle. «Ho sentito bene che presto avremo dei vicini, mamma?» Mamma? Perché chiamava così mia madre? Questa volta fui io a lanciarle un'occhiata piena di astio. Cercai di non farmi vedere dalla mamma. Sembrava stanca, piuttosto turbata mentre si accingeva a preparare il pàté di fegato d'oca per il tè. Ma perché doveva darsi tanta pena quando quella donna era morta e soltanto zia Ellsbeth sarebbe venuta a ingurgitare ogni ben di Dio? «So chi sono i nuovi vicini,» sogghignò Vera. «Il ragazzo che mi ha dato la scatola di cioccolatini per il giorno di san Valentino mi ha fatto capire che forse sarebbe venuto ad abitare vicino a noi. Ha undici anni, ma è così alto che ne dimostra tredici o quattordici.» Mia zia si intromise, il volto lungo e severo. «Quand'è così, è troppo giovane per te,» l'aggredì facendomi pensare che davvero Vera fosse molto più grande di quanto credessi. Accidenti, ma perché non potevo sapere l'età degli altri? Loro la mia la conoscevano. «E non provarti a fare la civetta con lui, Vera, altrimenti Damian ci caccerà a calci tutte e due.» «Io non ho paura di papà,» replicò Vera con aria furba. «Io so come trattare gli uomini. Un sorriso, un abbraccio, un bacio e si squagliano.» «Sei una vera intrigante. Ma lascia in pace quel ragazzo. Mi ascolti, Vera?» «Sì, mamma,» rispose Vera nel suo tono più sprezzante. «Certo che ti ascolto! Anche un morto ti sentirebbe! E poi chi lo vuole un ragazzino di undici anni! Non sopporto di vivere in questo posto fuori del mondo dove non ci sono uomini se non quegli sciocchi ragazzotti del paese.» L'ultimo ad arrivare fu papà, portava un vestito nuovo di sartoria. Con gesti accurati si accinse a infilarsi il tovagliolo sotto il mento di modo che nulla potesse macchiare la sua cravatta di seta pura. Se essere senza macchia significa essere vicini a Dio, allora papà era un Dio in terra. «Davvero siamo in giugno, papà?» «Perché lo chiedi?» «Mi sembra solo ieri che era marzo... quell'uomo che ha portato il vesti-
to nuovo alla mamma ha detto che era marzo.» «Ma questo è stato mesi fa, tesoro, mesi fa. Certo che è giugno. Guarda i fiori in boccio, l'erba verde. Senti che tepore. Non ci sono giornate così in marzo.» Vera mangiò metà delle sue frittelle e poi si alzò e si diresse verso l'atrio per prendere i libri di scuola. Era stata bocciata e adesso doveva passare le otto settimane di vacanza alla scuola estiva. «Perché mi segui?» mi aggredì. Non mi lasciai distogliere dalla determinazione di farmi amare da Vera. «Perché mi odi, Vera?» «Non ho tempo di farti l'elenco delle ragioni.» La sua voce era altezzosa. «Tutti a scuola pensano che tu sia stramba; sanno che sei pazza.» La cosa mi sorprese. «E come fanno se non mi conoscono?» Voltandosi sorrise. «Io racconto a tutti quanti le tue stranezze, che strisci lungo le pareti, e poi che urli tutte le notti. Sanno che sei così 'speciale' che non sai neppure che giorno, mese o anno sia.» Che cosa sleale raccontare in giro i segreti di famiglia! Ferita nuovamente, il mio desiderio di indurla ad amarmi vacillò. Cominciavo a pensare che non ci sarei mai riuscita. «Non mi va che tu parli di me a gente che non può capire.» «Capire cosa... che sei una strampalata un po' tocca senza memoria? Credimi, ti capiscono perfettamente, e nessuno, assolutamente nessuno, vorrà mai esserti amico.» Qualcosa di duro e pesante mi si materializzò nel petto, facendomi male. Sospirai e voltai le spalle. «Volevo solo sapere quello che sanno tutti gli altri.» «Questo, mia cara sorellina, è assolutamente impossibile per chi non ha cervello.» Mi voltai di scatto e urlai: «Non sono tua sorella! Preferirei essere morta che essere tua sorella!». Per molto tempo dopo che fu scomparsa nel viale, rimasi sulla veranda pensando che forse ero davvero pazza. Ancora una volta, alle tre, zia Mercy Marie venne a piazzarsi sul nostro pianoforte. Come sempre mia madre e mia zia si diedero il turno a parlare per lei. Il bourbon venne versato nel tè fumante e a me venne data una tazza di coca-cola con due cubetti di ghiaccio. La mamma mi disse di fingere che fosse tè. Io sedevo tutta imbarazzata con addosso l'abito più bello. Poiché papà non c'era, presto venni dimenticata, via via che quelle donne si
scannavano, dando libero sfogo alle frustrazioni di tutta una settimana. «Ellsbeth,» strillò la mamma in seguito a un insulto alla casa che amava, «il problema è che tu sei dannatamente gelosa del fatto che nostro padre mi amasse più di te. Te ne stai lì a dire cose orrende su questa casa perché daresti l'anima perché ti appartenesse. Proprio come piangi tutte le tue lacrime ogni notte, da sola nel tuo letto, o te ne stai insonne, invidiosa perché ho sempre avuto quello che tu hai voluto... e sai benissimo che avresti potuto avere quello che ho io, se avessi tenuto chiusa quella tua dannata bocca!» «E non c'è dubbio che tu sai quando aprire la tua, Lucietta! Per tutta la vita non hai fatto che vagare in questo mausoleo, vantandoti della sua bellezza. Sicuro che nostro padre ha lasciato a te la casa e non a me. Mi facevi venire il voltastomaco con le tue sdolcinatezze. Tu ti sei messa di proposito a derubarmi di tutto quello che io volevo. Anche quando i miei corteggiatori venivano a prendermi a casa, c'eri tu pronta a sorridere e a fare la smorfiosa. Hai fatto la smorfiosa persino con nostro padre, adulandolo al punto da farmi passare per fredda e indifferente. Ma ero io che facevo tutto il lavoro qui attorno, e lo faccio ancora! Tu cucini e pensi che sia sufficiente. Ebbene, non basta! Il resto è tutto sulle mie spalle. Sono stufa marcia di fare la serva a tutti! E come se non bastasse adesso stai insegnando gli stessi trucchetti a tua figlia!» Il bel volto di mia madre si fece paonazzo d'indignazione. «Continua così, Ellsbeth, e presto non avrai più un tetto sopra la testa! So cosa ti rode, non credere che non lo sappia. Daresti un occhio della testa per avere tutto quello che ho io!» «Sei una sciocca. E hai sposato uno sciocco. Damian Adare voleva solo la ricchezza che credeva avresti ereditato. Ma tu non gli hai mai confessato, finché non è stato troppo tardi perché potesse tirarsi indietro, che il nostro caro papà non pagava le tasse da anni né che da anni non spendeva un soldo per la manutenzione di questa casa. Sostieni di amare le lampade a gas, ma la verità è che sai bene che la luce elettrica rivelerebbe a Damian lo stato di abbandono in cui si trova la casa. La cucina e questa stanza dominano le nostre vite. E in cucina la luce è talmente forte che quando poi lui viene qui non riesce a vedere più nulla. Nessuno di noi ci riesce. Al posto tuo io sarei stata sincera, e se tu pensi che essere sinceri sia un difetto, allora, perdio, tu sei senza difetti!» «Ellsbeth,» si intromise una vocetta stridula dal pianoforte, «finiscila di essere così sgarbata con la tua amata sorella.»
«Va' a farti friggere,» gridò zia Ellsbeth. «Mercy Marie,» disse mia madre nel suo tono più arrogante e altero, «penso sia meglio che tu vada, adesso. Dal momento che mia sorella non riesce a essere gentile con un'ospite, né con mia figlia, né con questa casa, o con chiunque, neppure verso la sua stessa carne, credo che non ci sia ragione di seguitare con questi incontri del martedì. Ti dico addio con riluttanza, poiché ti ho amata e non mi va di pensarti morta. Non sopporto di veder morire coloro che amo. E qui finisce il mio miserevole tentativo di tenerti in vita.» Non guardò mia zia mentre seguitava, rivolta a lei: «Ti prego, Ellsbeth, esci da questa stanza prima di dire qualche altra cosa che mi induca a odiarti di più». La mamma sembrava sul punto di scoppiare in lacrime mentre la voce le si spezzava. Aveva forse dimenticato che si trattava solo di un gioco, di una finzione? Ero anch'io una finzione per lei, un gioco, che le permetteva di tenere in vita la sua amata Prima Audrina? Venne la mattina del mercoledì e io ero trionfante per essermi scritta un appunto per ricordarmi che il giorno prima era martedì. Adesso, avevo un aggancio con la realtà. Era mercoledì. Stasera lo avrei scritto. Finalmente avevo escogitato un sistema per tenere il conto dei giorni. Mentre passavo davanti alla camera dei miei genitori diretta in cucina, mia madre mi chiamò. Si stava spazzolando i lunghi capelli con una spazzola d'argento antico. Papà era proteso verso lo specchio del comò, e si faceva il nodo alla cravatta. Con cura estrema compiva le dovute giravolte, infilava, tirava. «Diglielo tu, Lucky,» disse papà con voce dolce. Sembrava in procinto di scoppiare di felicità. La mamma si voltò e mi sorrise. Sempre desiderosa di affetto, corsi a farmi abbracciare e stringere contro le morbide protuberanze dei suoi seni. «Tesoro, tu ti lamenti sempre che non hai nessuno con cui giocare tranne Vera. Ma presto ci sarà qualcuno di nuovo a mettere in fuga la tua solitudine. A novembre o ai primi di dicembre avrai quello che hai voluto per tanto tempo...» Scuola! Stavano per mandarmi a scuola! Finalmente! Oh finalmente! «Tesoro, quante volte ci hai detto che ti piacerebbe avere un fratellino o una sorellina? Ebbene, presto ne avrai uno.» Non sapevo cosa dire. La prospettiva di giorni felici a scuola si dileguò. I sogni irraggiungibili non si avveravano mai per me, mai. Poi, mentre me ne stavo tutta tremante nella stretta delle sue braccia con papà che mi accarezzava dolcemente i capelli, sentii un'ondata inaspettata di felicità. Un fratellino. Un fratellino o una sorellina mi avrebbe certamente liberata da tut-
ta la loro opprimente attenzione. Allora, forse, sarebbero stati i primi a volermi fuori casa e a scuola, a imparare a fare cose che ora per me erano un mistero. C'era una speranza. Doveva esserci una speranza. La mamma lanciò a papà una lunga occhiata turbata, piena di cose non dette. «Damian, questa volta avremo un maschietto, non è vero?» Perché la metteva così? Non le piacevano le bambine? «Stai calma, Lucky. Le statistiche sono dalla nostra parte. Questa volta avremo un maschio.» Mi sorrise amorosamente, come se potesse leggermi nel pensiero, attraverso gli occhi spalancati. «Abbiamo già una femminuccia stupenda e speciale, dunque adesso il Signore ci deve un maschio.» Sì, Dio gli doveva un figlio maschio dopo essersi preso la Prima e Migliore Audrina rimpiazzandola solo con me. Quella sera, in ginocchio accanto al letto, giunsi le mani sotto il mento, chiusi gli occhi e pregai: «Signore che sei lassù, anche se i miei genitori vogliono un maschio, a me non importa se ci mandi una femminuccia. Solo non farle avere occhi viola e capelli da camaleonte come i miei. Non farla speciale. Ci si sente così soli a essere speciali. Vorrei tanto che tu mi avessi fatta normale e mi avessi dato una memoria migliore. Se la Prima e Migliore Audrina è lassù assieme a te, non usarla come modello, e non ispirarti neppure a Vera. Fa' che questo bambino sia meraviglioso, ma non così speciale da non poter neppure andare a scuola». Feci per concludere e dire amen ma aggiunsi un post scriptum. «E Signore Iddio, sbrigati a far venire qui i nuovi vicini. Ho bisogno di un amico, anche se quel ragazzino vuole bene a Vera.» Ora tenevo un diario per aiutare la mia memoria carente. Quel giovedì mia zia e mia cugina seppero la novità che io conoscevo da un giorno. Mi diede un senso di enorme importanza sapere che i miei genitori mi avevano confidato qualcosa di così grande rilievo per prima. «Sì, Ellie, Lucky è di nuovo incinta. Non è meraviglioso? Naturalmente, poiché già abbiamo la figlia che abbiamo voluto, adesso chiederemo un maschio.» Mia zia lanciò a mia madre un'occhiata sbigottita. «Oh, mio Dio,» replicò scoraggiata. «Certa gente non impara mai.» Il colorito pallido di Vera si fece ancora più terreo. Il panico sembrò appannarle anche gli occhi scurissimi. Poi si rese conto che la stavo guardando e si affrettò a ricomporsi prima di alzarsi. «Esco a far visita a un amico. Tornerò tardi.» Restò in attesa che qualcuno facesse obiezioni, come sicuramente sareb-
be accaduto se fossi stata io a pronunciare quelle stesse parole, ma nessuno aprì bocca, come se in fondo non fosse importante il suo ritorno. Con aria scontrosa Vera zoppicò fuori della cucina. Io balzai in piedi e la seguii sulla veranda. «A chi vai a far visita?» «Non sono fatti tuoi!» «Non abbiamo vicini, e c'è un bel pezzo di strada per andare dai McKennas.» «Non importa,» mi rispose con voce strozzata, gli occhi pieni di lacrime. «Torna dentro a sentir tutte quelle melensaggini sul nuovo fratellino, e io vado a far visita a un mio amico che non potrebbe reggerti neanche un minuto.» La guardai zoppicare lungo il vialetto, chiedendomi dove mai potesse andare. Forse non andava da nessuna parte, forse cercava solo un posto per piangere in solitudine. In cucina papà stava ancora parlando. «Hanno cominciato a portare la loro roba nel villino la settimana scorsa, ma sono venuti ad abitarci soltanto ieri. Io non li ho incontrati di persona, ma l'agente immobiliare dice che da parecchi anni vivono in paese e hanno sempre pagato l'affitto puntualmente. E pensa che meraviglia, Lucky, adesso avrai una donna in carne e ossa da invitare ai tuoi tè, così possiamo dire addio a Mercy Marie. Per quanto non dubiti che voialtre due vi divertiate un mondo a imitare il suo crudele umorismo, voglio che la finiate con quel gioco. Non è sano per Audrina assistere a una tale bizzarria. Inoltre, per quello che ne sappiamo, Mercy Marie potrebbe essere la grassa moglie di qualche capo tribù africano, e niente affatto morta.» Mia madre e mia zia sbuffarono... volevano credere che nessun uomo potesse desiderare Mercy Marie. «L'abbiamo fatta finita con i tè del martedì,» replicò la mamma con voce spenta come se con essi fosse terminata ogni vita sociale, adesso che aspettava un bambino. «Papà,» esordii esitante tornando a sedermi a tavola, «quand'è che ho visto per l'ultima volta zia Mercy Marie viva?» Protendendosi oltre il tavolo papà mi baciò sulla guancia. Poi avvicinò la sedia alla mia in modo da passarmi il braccio attorno alle spalle. Mia zia andò a sedersi sulla sedia a dondolo della cucina dove sferruzzava per ore. Nel giro di pochi secondi si irritò talmente con il suo lavoro a maglia che lo gettò da parte, prese un piumino e cominciò a spolverare le superfici nella stanza accanto, senza tuttavia allontanarsi troppo dalla porta per sen-
tire cosa stavamo dicendo. «Tu hai conosciuto Mercy Marie tanti e tanti anni fa; naturalmente non puoi ricordarla. Tesoro, smetti di tormentarti il cervello con questi sforzi per ricordare il passato. È l'oggi quello che conta, non l'ieri. I ricordi sono importanti solo per i vecchi che hanno già vissuto il meglio delle loro esistenze e non hanno più nulla da aspettarsi dalla vita. Tu sei solo una bambina e davanti a te c'è un futuro lungo e radioso. Le cose belle sono tutte davanti a te, non dietro. Ora non riesci a ricordare ogni dettaglio della tua infanzia, ma neppure io del resto. 'Il meglio deve ancora venire,' scrisse un poeta, e io gli credo. Il tuo papà farà in modo che a te spetti solo il migliore dei futuri. Il dono che c'è in te si sta facendo sempre più forte e tu sai perché, non è vero?» La sedia a dondolo. La sedia a dondolo mi stava dando il cervello della Prima e Migliore Audrina, e stava cancellando tutti i miei ricordi. Oh, quanto la odiavo! Perché non poteva starsene tranquilla nella sua tomba? Io non volevo la sua vita, volevo la mia. Mi sottrassi all'abbraccio di papà. «Esco in giardino a giocare, papà.» «Non andare nel bosco,» mi ammonì. Zia Ellsbeth sembrò venire calamitata nuovamente in cucina. Agitava quel piumino con un fare talmente minaccioso che ebbi l'impressione che volesse colpire papà. La mamma posò lo sguardo violetto sulla sorella e disse con voce mite: «Ellsbeth, ti prego, sollevi più polvere di quanta ne raccogli, con quel piumino». Non appena fui fuori, le parole di papà continuarono a risuonarmi nella testa. Non mi amava per davvero. Amava lei, la Prima e la Migliore, la Più-che-Perfetta Audrina. Per il resto della mia esistenza avrei dovuto adeguarmi all'esempio dato da lei. Come potevo essere tutto quello che lei era stata, se invece ero me stessa? Avevo in programma di andare di nascosto nel bosco per vedere i nuovi vicini, ma mia zia mi chiamò dentro e mi tenne occupata tutta la mattina ad aiutarla con le faccende di casa. La mamma non si sentiva bene. Qualcosa chiamata «nausea mattutina» la faceva correre in continuazione nel bagno, e mia zia sembrava compiaciuta quando ciò accadeva, parlando senza requie tra sé e sé degli sciocchi che rischiavano l'ira divina. Vera tornò a casa verso le tre, pallida, accaldata, sfinita. Mi lanciò un'occhiata inceneritrice e zoppicò su per le scale. Decisi di controllare cosa stesse facendo prima di battermela attraverso il bosco per conoscere i nuovi vicini. Non volevo che Vera mi seguisse. Di sicuro sarebbe corsa a dirlo
a papà e sarei stata punita. Vera non era in camera sua. E neppure nella mia, a frugare nei cassetti nella speranza di trovare qualcosa da rubare. Continuai a cercare, sperando di sorprenderla. Al contrario fu lei a sorprendere me. Nella camera della Prima Audrina, quella che papà teneva sempre chiusa tranne quando la mamma la puliva di persona, Vera sedeva sulla sedia a dondolo con lo schienale di gigli di pizzo. La sedia magica. Vera dondolava avanti e indietro, cantilenando una nenia come papà mi faceva fare tanto spesso. Chissà perché, ma il vederla lì mi rese furiosa. Adesso capivo come mai non riuscivo ad «afferrare» il dono... Vera stava cercando di rubarmelo! «Alzati da quella sedia!» urlai. Riluttante tornò alla realtà, aprendo i grandi occhi scuri che scintillavano come quelli di papà. Le sue labbra si incurvarono in un sogghigno crudele. «Come ti permetti di darmi ordini, mocciosa?» «Mi permetto!» l'aggredii coraggiosamente, entrando nella temuta stanza, pronta a difendere il mio diritto a sedere su quella sedia. Anche se non volevo i doni della Prima e Migliore Audrina, non volevo neppure che li avesse Vera. In un battibaleno, prima che potessi fare qualcosa, Vera fu in piedi. «Adesso stammi a sentire, Audrina Numero Due! Vedrai che alla lunga sarò io a prendere il posto della Prima Audrina. Tu non hai quello che lei aveva e mai lo avrai. Papà sta cercando di rimodellarti su quella che era lei, ma non ci riesce, e adesso comincia a rendersene conto. È per questo che mi ha detto di usare la sedia a dondolo. Perché adesso vuole che sia io ad avere i doni della Prima Audrina.» Non le credetti, eppure qualcosa di fragile in me si infranse e dolorò. Mi vide vacillare, mi vide tremare. «Tua madre non ti ama neppure un briciolo rispetto a quanto amava la Prima Audrina. Finge di amarti, Audrina, finge! I tuoi genitori ti vedrebbero volentieri morta se con questo potessero riavere indietro la bambina che davvero amavano.» «Smettila di dire queste cose!» «Non la smetterò mai di dire quello che deve essere detto.» «Lasciami in pace, esci da questa stanza! Sei bugiarda, Vera, sei una bugiarda della peggior specie!» Poi, prendendo la rincorsa, cercai di colpirla. Lei decise di tirarsi in piedi proprio in quel momento e se non avesse sincronizzato così bene il suo gesto, il mio pugno l'avrebbe mancata. Stando così le cose, la prese in pieno alla mascella. Ricadde sulla sedia a dondolo,
che si rovesciò. Ma di certo la caduta fece molto meno danni di quanto i suoi ululati di dolore avrebbero lasciato supporre... Zia Ellsbeth sopraggiunse di corsa. «Cos'hai fatto a mia figlia?» urlò, correndo in aiuto di Vera. Quando l'ebbe rimessa in piedi, si avvicinò contro di me e mi schiaffeggiò. Come un fulmine evitai che mi colpisse una seconda volta. Udii Vera gridare: «Aiuto, mamma! Non riesco a respirare!». «Ma sì che ce la fai,» replicò mia zia spazientita, ma un viaggio al pronto soccorso dimostrò che Vera aveva quattro costole rotte. Gli infermieri sull'ambulanza lanciarono a mia zia e alla mamma occhiate strane, come se sospettassero che non fosse possibile che Vera continuasse a farsi male da sola. Poi mi guardarono e sorrisero debolmente. Fui mandata a letto senza cena. (Quella sera papà sarebbe rincasato tardi per via di impegni di lavoro e la mamma si era ritirata presto in camera sua, lasciando campo libero a mia zia.) Per tutta la notte udii Vera gemere, boccheggiare e ansimare, incapace di prendere sonno. Piegata in due come una vecchia strega, venne in camera mia durante la notte e mi agitò il pugno davanti alla faccia. «Un giorno farò crollare questa casa e tutti quelli che vi abitano,» sibilò con voce ferale, «e tu sarai la prima che colpirò. Ricorda questo, Seconda e Peggiore Audrina, anche se non dovessi ricordare nient'altro nella vita». Arden Lowe Al mattino desideravo fuggire di casa a tutti i costi. Poiché Ellsbeth stava occupandosi di Vera e la mamma era rimasta a letto per via della nausea, ebbi la prima opportunità della mia vita di sgattaiolare via inosservata. Il bosco era pieno di ombre. Stavo disobbedendo proprio come la Prima Audrina, ma il cielo sopra di me diceva che non c'era pericolo di pioggia, e senza la pioggia non sarebbe potuto accadere di nuovo. Tremolanti raggi di sole filtravano attraverso la volta di trina verde delle foglie, disegnando sul sentiero macchie dorate di luce. Gli uccelli cantavano, gli scoiattoli si rincorrevano, i coniglietti zampettavano e ora che ero finalmente libera da Whitefern mi sentivo bene, seppure un po' a disagio. Tuttavia, se volevo degli amici tutti miei dovevo assolutamente fare la prima mossa e dimostrare qualcosa, se non altro a me stessa. Sarei andata a far visita alla nuova famiglia che ora viveva nel villino del giardiniere, rimasto inabitato per anni. Non avevo mai visto questa parte
del bosco, eppure mi sembrava familiare. Mi fermai a fissare il sentiero che si diramava verso destra e serpeggiava in lontananza. Una profonda consapevolezza dentro di me mi ordinò di svoltare da quella parte. Ogni minimo rumore mi faceva fermare di botto, l'orecchio teso a cogliere la risata satanica che udivo quando ero sulla sedia a dondolo, scatenando eventi accaduti alla Prima e Migliore e ora legati a quella sedia. Mormoni impercettibili risuonavano fra il fogliame estivo. Piccole farfalle di panico mi svolazzavano nella testa. Continuavo a udire tutti gli avvertimenti: «Pericolo nel bosco. Minaccia nel bosco. Morte nel bosco». Innervosita, affrettai il passo. Avrei cantato, come i sette nani della favola fischiavano per darsi coraggio... ma come mi veniva in mente una cosa simile? Questi non erano pensieri miei, questi erano pensieri suoi. Mi dicevo, mentre procedevo di buon passo, che per me era venuto il momento di sfidare il mondo, eccome se lo era! Mi dicevo che ogni metro di distanza da quella casa di penombre e bisbigli desolati mi faceva sentire meglio, più felice. Non ero debole, viziata o inadatta al mondo. Ero coraggiosa quanto qualunque altra bambina di... sette anni? Qualcosa in quel bosco... qualcosa nel modo in cui il sole filtrava attraverso la volta di foglie. I colori stavano cercando di parlarmi, di dirmi ciò che non riuscivo a rammentare. Se non avessi smesso immediatamente di pensare così, presto mi sarei messa a correre e a urlare, nella certezza che stava per accadere anche a me ciò che era accaduto a lei. Ero l'unica Audrina rimasta viva in questo mondo. Non avevo proprio di che temere. Il fulmine non colpiva mai due volte nello stesso posto. Ai margini di una radura mi imbattei finalmente nel villino del giardiniere. Era una casetta bianca col tetto rosso. Allorché vidi un ragazzo uscire dalla porta con un secchio e un rastrello in mano, arretrai precipitosamente, nascondendomi dietro il tronco di un vecchio noce. Era alto e snello e sapevo chi era. Era il ragazzo che aveva regalato a Vera la scatola di cioccolatini il giorno di san Valentino. Vera mi aveva detto che aveva undici anni e in luglio ne avrebbe compiuti dodici. Il ragazzo più popolare della sua classe... studioso, intelligente, spiritoso... e aveva una cotta per Vera. In un certo senso questo dimostrava che non poteva essere troppo intelligente. Ma a sentire mia zia gli uomini non erano che degli eterni bambini, e il sesso forte era pronto ad ascoltare solo la voce degli occhi e delle proprie ghiandole, e nient'altro. Guardandolo lavorare si capiva subito, dal modo diligente in cui si ac-
cingeva a ripulire il giardino - un groviglio di erbacce, radici di erica, digitali e amarillidi -, che doveva essere uno che amava lavorare sodo. Indossava un paio di jeans stinti e aderenti, come se ci fosse cresciuto dentro o se si fossero ristretti. Forse un tempo la camicia sottile che portava era stata blu, ma ora era di un grigio sbiadito. Di tanto in tanto si fermava per riposarsi, si guardava attorno e fischiava per imitare il canto di qualche uccello. Poi, dopo qualche secondo, tornava al lavoro, strappando erbacce e gettandole nel secchio che, a intervalli, andava a svuotare in un grosso bidone della spazzatura. Questo ragazzo non mi spaventava, quantunque papà e la sedia a dondolo mi avessero insegnato a provare terrore per ciò che i ragazzi potevano fare. Di punto in bianco si tolse i guanti di tela che portava, li scagliò lontano da sé e si voltò a guardare l'albero dietro il quale ero nascosta. «Non credi che sia ora di finirla di stare nascosta lì dietro a spiare?» chiese, voltandosi a tirare su il secchio di erbacce per svuotarlo nel bidone. «Vieni fuori e facciamo amicizia. Mica mordo.» La lingua mi si appiccicò al palato, anche se la sua voce era gentile. «Non ti farò alcun male, se è questo che temi. So persino come ti chiami Audrina Adelle Adare, la bambina dagli stupendi capelli lunghi che cambiano colore. Tutti i ragazzi in paese parlano delle ragazze di Whitefern e dicono che tu sei la più bella di tutte. Perché non vai a scuola come le altre bambine? E perché non mi hai scritto un biglietto per ringraziarmi della scatola di cioccolatini che ti ho mandato mesi e mesi fa, per il giorno di san Valentino? È stato scortese da parte tua, sai, molto scortese, non farmi neppure una telefonata...» Il fiato mi mancò. Aveva dato a me i cioccolatini e non a Vera? «Non sapevo che mi conoscessi, e nessuno mi ha dato i cioccolatini,» dissi con voce bassa, roca. Anche adesso non riuscivo a capacitarmi che avesse mandato a una ragazzina che neppure conosceva una costosa scatola di cioccolatini, quando Vera era così carina e già si stava facendo donna. «Sicuro che ti conosco. È per questo che ti ho scritto quel biglietto insieme ai cioccolatini. Ti vedo sempre con i tuoi genitori,» seguitò, «il problema è che tu non giri mai la testa e non vedi mai nessuno. Io sono un compagno di classe di tua sorella. Una volta le ho chiesto perché non andassi a scuola e lei mi ha risposto che eri pazza, ma non ci credo. Quando uno è pazzo glielo si legge negli occhi. Così sono andato in drogheria e ho cercato il più bel cuore di raso rosso. Mi auguro che dal momento che erano tutti tuoi, Vera ti abbia dato almeno un cioccolatino.»
Che conoscesse Vera abbastanza da sospettare che mi aveva mentito e si era mangiata tutto quanto? «Vera mi ha detto che la scatola di cioccolatini era per lei.» «Ah!» disse lui. «È esattamente quello che ha detto la mia mamma quando io le ho confessato che eri una ragazzina molto ingrata. Però, anche se non hai mangiato i cioccolatini, spero che tu ti renda conto lo stesso che in quel modo ho cercato di farti sapere che al mondo c'è un ragazzo convinto che sei la ragazzina più bella che abbia mai visto.» «Grazie per i cioccolatini,» bisbigliai. «Io faccio la consegna dei giornali del mattino e della sera. È la prima volta che spendo i miei sudati risparmi per fare un regalo a una ragazza.» «Perché l'hai fatto?» Voltò di scatto la testa cercando di cogliere un guizzo. Oh, i suoi occhi erano davvero color dell'ambra. Dentro c'era il sole, accecandoli quasi, ma facendo risaltare il loro stupendo colore, di alcune sfumature più chiare dei suoi capelli. «Sai, Audrina, penso che certe volte sia sufficiente una sola occhiata a una ragazza per capire che ti piace proprio tanto. E quando ti accorgi che lei non ti guarda mai devi pur fare qualcosa di drastico. Ma non ha funzionato.» Non sapendo che dire, non aprii bocca. Però mi scostai appena, di modo che potesse vedermi in faccia, pur restando al sicuro dietro i cespugli. «Mi venga un accidente se capisco perché non vai a scuola.» Come potevo spiegarglielo se neppure io lo capivo? A meno che non fosse come diceva zia Ellsbeth, che papà mi voleva tenere tutta per sé e «addestrarmi». «Dal momento che non me lo chiedi, mi presento da solo. Sono Arden Nelson Lowe.» Cautamente fece un passo avanti in direzione del mio nascondiglio, allungando il collo per vedermi meglio. «Anche il mio nome comincia per A, se questo significa qualcosa, e sono convinto di sì.» «E cosa credi che significhi?» chiesi perplessa. «Non avvicinarti, altrimenti scappo.» «Se scappi ti rincorro e ti prendo,» disse lui. «Io so correre forte,» lo misi in guardia. «Anch'io.» «E se mi prendi che cosa fai?» Rise e piroettò su se stesso. «Proprio non saprei, se non che avrei modo di vederti da vicino, e finalmente saprei se i tuoi occhi sono davvero viola o solo blu scuro.»
«E che differenza farebbe?» ero preoccupata. Il colore dei miei occhi era molto simile a quello dei capelli... ambiguo. Strani occhi che cambiavano colore a seconda dei miei stati d'animo, dal pervinca al viola scuro. Occhi spiritati, sosteneva zia Ellsbeth, che non faceva che dirmi in modo indiretto che ero stramba. «Nessuna,» disse. «Arden,» chiamò una voce femminile, «con chi stai parlando?» «Con Audrina,» gridò di rimando. «Sai, mamma, la più piccola delle due sorelle che abitano in quella grande casa strana dall'altra parte del bosco. È incredibilmente carina, mamma, ma tanto timida. Mai incontrato una ragazzina così timida in vita mia. Se ne sta dietro i cespugli pronta a scappare se mi avvicino. Di sicuro non somiglia a sua sorella, questo si vede subito. Ti sembra il modo di fare la conoscenza con un ragazzo?» Dall'interno della casa la madre rise gaiamente. «Potrebbe essere esattamente il modo per incuriosire un ragazzino come mio figlio, che perde la testa di fronte a un mistero.» Allungai il collo e scorsi una stupenda donna dai capelli neri seduta a una finestra aperta del villino, visibile dalla vita in su. Mi parve più bella di una diva del cinema con quei lunghi capelli nerissimi e inanellati giù per le spalle. Anche i suoi occhi erano scuri, ma la carnagione era candida e liscia come la porcellana. «Sei la benvenuta qui ogni volta che hai voglia di farci visita, Audrina,» mi disse in tono caldo, amichevole. «Mio figlio è un ragazzo bravo e rispettoso e non ti farebbe mai del male.» Mi mancò il fiato per la felicità. Non avevo mai avuto un amico. Al pari della Prima Audrina avevo disobbedito e sfidato il bosco... ma per trovare degli amici. Forse non ero maledetta come lo era stata lei. Il bosco non mi avrebbe distrutto come aveva distrutto lei... Feci per parlare, e avanzare timidamente, mostrandomi tutta intera e fare la conoscenza di quegli estranei. Ma proprio nel momento in cui mi accingevo a emergere dal mio nascondiglio dal profondo del bosco alle mie spalle udii chiamare ripetutamente, perentoriamente il mio nome. La voce era lontana e debole, ma a ogni richiamo suonava più vicina. Era papà! E come faceva a sapere dove mi trovavo? E cosa ci faceva a casa così presto? L'aveva forse chiamato Vera per dirgli che non ero in casa né in giardino? Mi avrebbe punita, ne ero certa. Anche se questa non era la parte peggiore, quella proibita del bosco, non voleva lo stesso che mi allontanassi di casa, lontano dagli occhi di coloro che mi controllavano dalla
mattina alla sera. «Addio, Arden,» salutai in fretta e furia, facendo capolino dietro il tronco e agitando la mano. Poi salutai di nuovo sua madre alla finestra. «Addio, Mrs. Lowe. Sono felice di aver fatto la sua conoscenza e grazie per avermi chiesto di essere vostra amica. Ho bisogno di amici, quindi tornerò presto, lo prometto.» Arden fece un ampio sorriso. «A presto allora.» Tornai indietro di corsa, nella direzione dalla quale proveniva la voce di papà, augurandomi che non indovinasse dove ero stata, e quasi gli andai a sbattere addosso nel momento in cui emerse dal sentiero appena tracciato. «Dove sei stata?» mi chiese con voce imperiosa, afferrandomi il braccio e facendomi ruotare su me stessa. «Da che cosa stai fuggendo?» Lo fissai. Come sempre era bellissimo, tutto in ordine e indossava un abito nuovo che gli stava a pennello. Mentre mi lasciava andare il braccio si tolse alcune foglie secche da una manica. Controllò i pantaloni per accertarsi che non vi fossero rimaste attaccate delle radici di erica. Se così fosse stato, forse mi avrebbe trattata peggio. Caso volle che avendo trovato, in seguito alla sua rapida ispezione, il suo abito del tutto a posto, mi sorrise quel tanto che bastava da sollevarmi il cuore dalla paura. «Sono dieci minuti che ti chiamo. Audrina. Non ti ho detto più volte di stare alla larga dai boschi?» «Ma, papà, è una giornata così bella e io volevo vedere dove corrono a nascondersi i coniglietti. Volevo raccogliere fragole di bosco e more e trovare i non-ti-scordar-di-me. Volevo prendere dei gigli selvatici da mettermi in camera da letto per sentirne il profumo.» «Non hai mica seguito questo sentiero fino in fondo, vero?» C'era qualcosa di indefinibile nei suoi occhi scurissimi, qualcosa che mi avvertì di non dirgli di aver incontrato Arden Lowe e sua madre. «No, papà. Mi sono ricordata della mia promessa e ho smesso di inseguire il coniglio. I conigli corrono così in fretta, papà.» «Bene,» disse, afferrandomi di nuovo la mano e facendomi ruotare su me stessa di modo che non potei far altro che arrancargli dietro nel tentativo di adeguarmi ai suoi lunghi, lunghissimi passi. «Spero che non mi menta mai, Audrina. I bugiardi fanno sempre una brutta fine.» A disagio deglutii. «Come mai sei a casa così presto, papà?» Mi guardò con un cipiglio. «Ho avuto un presentimento su di te stamattina a colazione. Avevi un'aria misteriosa. Mentre ero in ufficio mi è balenata improvvisamente l'idea che magari ti sarebbe venuta voglia di andare
a far visita ai nuovi inquilini del villino. Adesso stammi a sentire, bambina mia, non voglio che tu vada mai laggiù. Capito? Abbiamo bisogno del denaro dell'affitto, ma quella gente non appartiene al nostro stesso rango, dunque lasciala stare.» Era terribile avere un padre che poteva leggerti nel pensiero. Dovevo sforzarmi di nuovo di fargli capire quanto avessi bisogno di amici. «Ma, papà, mi sembrava che tu avessi detto che la mamma poteva invitare i nuovi vicini ai tè del martedì.» «No, non dopo quello che ho saputo di loro. Ci sono un sacco di vecchi detti a questo mondo e in buona parte sacrosanti. Gli uccelli si appaian coi loro pari... e io non voglio che il mio uccellino si appai con uccelli che volano più in basso di lei. Voglio che tu sia un esempio, una persona che emerge dalla massa. Le persone sono un branco di pecore, Audrina, sciocche pecore, pronte a seguire chiunque abbia la forza di essere diverso. E poi non devi preoccuparti di restare sola ora che la tua famiglia si fa più grande. Pensa a quanto sarà bello avere una sorellina o un fratellino. Sarà lui il tuo migliore amico.» «Come sono amiche la mamma e sua sorella?» Mi lanciò un'occhiata di traverso. «Audrina, tua madre e sua sorella devono essere compatite. Abitano sotto lo stesso tetto, dividono gli stessi piatti, ma rifiutano di accettare il meglio che ciascuna delle due può dare. Se solo riuscissero a superare quel muro di risentimento. Ma non ci riusciranno mai. Sono molto orgogliose. L'orgoglio è una cosa stupenda, ma può anche diventare spropositato. Ciò che vedi tutti i giorni non è che amore al rovescio e trasformato in rivalità.» Non capivo. Gli adulti per me restavano un mistero come le luci prismatiche, sempre di diverso colore per confondere i miei pensieri. «Tesoro, promettimi che non tornerai più nel bosco.» Promisi. Mi stringeva le dita con troppa forza per non promettere. Parve soddisfatto e allentò la presa. «E adesso senti cosa voglio che tu faccia. Tua madre ha tanto bisogno di te ora che non si sente troppo bene per via della gravidanza. Certe volte succede. Sforzati di aiutarla più che puoi. E promettimi di non sparire mai e di farmi sapere sempre dove vai.» Ma non mi avrebbe lasciata andare da nessuna parte, mai. Credeva forse che potessi fuggire? «Oh, papà,» gridai gettandogli le braccia al collo. «Non ti lascerò mai! Resterò e mi prenderò cura di te quando sarai vecchio. Ti amerò sempre, qualunque cosa accada!»
Scosse il capo, con espressione triste. «Lo dici adesso, ma te ne scorderai non appena incontrerai un giovanotto che crederai di amare. Mi dimenticherai e penserai solo a lui. È così che vanno queste cose, nella vita i vecchi devono lasciare il posto ai giovani.» «No, papà, puoi restare con me anche se mi sposo... ma non credo che mi sposerò.» «Spero di no. I mariti hanno il vizio di non volere attorno genitori. Nessuno vuole avere un vecchio fra i piedi che gli complichi la vita e aumenti le spese. È per questo che devo mettere da parte sempre più denaro, per risparmiare per la vecchiaia mia e di tua madre.» Fissandolo ebbi l'impressione che la vecchiaia non l'avrebbe mai sfiorato. Era troppo forte, troppo vigoroso perché gli anni potessero inargentargli i capelli e coprirgli il volto di rughe o appesantirgli le guance. «Anche le vecchie signore sono indesiderate?» chiesi. «Non del genere di tua madre,» mi disse con un sorriso amaro. «Ci sarà sempre qualcuno che vuole tua madre. E se nessun uomo la vorrà si rivolgerà a te... dunque non voltarle le spalle quando avrà bisogno. E non voltarle neppure a me.» Rabbrividii, ribellandomi internamente a quel genere di conversazione grave, da adulti, proprio quando avevo incontrato il primo ragazzo che mi piacesse. Ormai eravamo al limitare del bosco e gli alberi si stavano diradando in prossimità del prato. Papà non la smetteva di parlare. «Tesoro, in casa c'è una vecchia che non hai mai visto prima. Tua madre e io eravamo così ansiosi di sapere di che sesso sarà il neonato, che non siamo riusciti ad aspettare fino al giorno della nascita. E ho sentito dire che questa signora, Mrs. Allismore, è eccezionale nell'indovinare il sesso di un nascituro.» Mentre ci avvicinavamo a casa mi fermai per fissare quel grandioso edificio che vedevo come una torta di nozze stantia e corrosa dal tempo; la cupola si trovava al posto in cui sarebbero dovuti essere lo sposo e la sposa. Vidi le finestre alte e strette come sinistri occhi socchiusi che mi spiavano. Quando ero dentro, invece, vedevo le finestre come se guardassero all'interno, tenendo d'occhio tutto e tutti, soprattutto me. Papà mi diede una spinta per farmi camminare. Un'assurda macchina, piccola e nera, era parcheggiata sul viale d'accesso che aveva bisogno di essere lastricato di nuovo. Le erbacce spuntavano da tutte le numerose fessure che facevo sempre attenzione a non calpestare. Cercai di liberare la mia mano da quella di papà di modo da non dover assistere a qualcosa che
si prospettava spaventoso, ma papà mi fece entrare, impedendomi di correre nel mio nascondiglio nella cupola. Non appena le porte si furono richiuse alle nostre spalle mi lasciò andare. Con destrezza, evitai di mettere il piede sui disegni multicolori che il sole tracciava per terra penetrando dalle vetrate delle finestre e delle porte. Nel più sontuoso dei salotti trovammo riunite mia madre, zia Ellsbeth, Vera e una donna vecchissima. La mamma era adagiata sulla ottomana di velluto viola. Sopra di lei era protesa la vecchia. Nell'istante in cui ci vide entrare, prese dal dito di mia madre la fede nuziale e la legò a un filo. Interessatissima Vera si protese in avanti. Lentamente, lentamente la vecchia fece dondolare l'anello sopra il ventre di mia madre. «Se prende un moto verticale sarà un maschio,» borbottò la vecchia. «Se invece prende un moto rotatorio sarà una bambina.» Sulle prime l'anello si mosse con moto irregolare, terribilmente indeciso; poi si fermò e cambiò direzione e papà sorrise. Ben presto il suo sorriso svanì via via che l'anello accennava a muoversi in cerchio. Papà si protese in avanti e respirò affannosamente. Zia Ellsbeth sedeva eretta e immobile. Nei suoi occhi scuri c'era la stessa, intensa aspettativa che si leggeva negli occhi di papà. Vera si fece più vicina, gli occhi scuri dilatati. La mamma sollevò il capo e torse il collo per vedere cosa stava accadendo e come mai non si fosse ancora appurato nulla. Io cercai di cacciare giù il groppo che mi chiudeva la gola. «C'è qualcosa che non va?» chiese la mamma in tono preoccupato. «Cerchi di non agitarsi,» gracchiò Mrs. Allismore. Il suo volto da fattucchiera si raggrinzì come una mela. La bocca minuscola si strinse alla dimensione di un bottone. I secondi sembrarono ore mentre quell'anello appeso al filo continuava a cambiare direzione, come incapace a decidersi. «Il medico ha parlato di gemelli?» chiese la fattucchiera aggrottando la fronte perplessa. «No,» bisbigliò la mamma con aria sempre più allarmata. «L'ultima volta che ci sono andata ha detto che sentiva il battito di un solo cuore.» Papà si sporse a prendere la mano della mamma nella sua e se la portò alla guancia, strofinandola contro la barba incipiente. Nel silenzio ne percepii il rumore vagamente raschiante. Poi si chinò a baciare la mamma sulla guancia. «Non fare quell'aria preoccupata, Lucky. Sono tutte sciocchezze comunque. Il Signore ci manderà il figlio giusto; non dobbiamo preoccuparci.» Tuttavia la mamma insisté con Mrs. Allismore perché provasse di nuo-
vo. Cinque interminabili minuti trascorsero prima che la vecchia slegasse cupamente l'anello dal filo e lo porgesse alla mamma. «Mi dispiace, signora, ma ciò che porta in grembo non è né maschio né femmina.» Dalle labbra della mamma sfuggì un gridolino terrorizzato. Mai in vita mia avevo visto papà così in collera. «Fuori di qui!» urlò. «Guardi mia moglie! L'ha spaventata a morte.» Spinse la vecchia fuori dalla porta e con mio grande stupore le cacciò in mano un biglietto da venti dollari. Perché le dava tanti soldi? «Sono cinquanta dollari, signore.» «Per un verdetto come questo o venti o niente,» latrò papà spingendola fuori e richiudendole la porta alle spalle. Quando tornai in sala Vera si era ritirata nell'ombra e fissava papà con occhi duri. In mano aveva una fetta enorme di torta al cioccolato che era stata messa da parte per la mia cena... e la sera prima lei se n'era mangiato un pezzo due volte più grande di quello. Vedendo la mia espressione indignata sogghignò e si leccò le dita. «Tutta finita, dolce Audrina. Non ce n'è rimasto neppure un pezzetto per te, perché tu dovevi battertela. E dove sei andata, dolce Audrina?» «Chiudi il becco!» intimò papà, cadendo in ginocchio accanto alla poltrona dove giaceva la mamma in singhiozzi. Cercò di consolarla dicendole che erano tutte sciocchezze. La mamma gli gettò le braccia al collo e letteralmente ululò. «Ma cosa voleva dire, Damian? Tutti quanti dicono che le sue predizioni si avverano sempre.» «Ebbene, non questa volta.» Vera appallottolò la carta oleata della torta e se la cacciò in tasca. «Sono convinta che Mrs. Allismore abbia ragione al cento per cento. Un altro mostro arriverà presto in questa casa a Whitefern. Lo fiuto nell'aria.» Ciò detto si diresse verso l'atrio... ma non abbastanza in fretta. In un lampo papà era balzato in piedi e se l'era rovesciata sulle ginocchia. Sollevandole le gonne la sculacciò con tale forza che, attraverso le mutandine di nylon trasparente, vidi benissimo il rosso delle natiche. Vera urlava e si dibatteva, cercando di liberarsi, ma non era abbastanza forte per lui. «Finiscila, Damian!» urlarono simultaneamente mia madre e mia zia. «Basta, Damian,» concluse mia madre sollevandosi su un gomito con aria sempre più affranta. Senza tanti complimenti papà respinse lontano da sé Vera che cadde per terra. Cercando di tirarsi giù la gonna, coprendosi le mutandine, Vera prese a strisciare via. «Come hai potuto fare una cosa simile, Damian?» gli chie-
se mia zia. «Vera è una donna adesso... troppo grande per essere sculacciata. Non potrei biasimarla se non te lo perdonasse mai.» Dopo di che cenammo. Erano tutti quanti così arrabbiati che solo Vera e mia zia riuscirono a ripulire il piatto. Più tardi, quella notte, udii la mamma singhiozzare fra le braccia di papà, in ansia per il nascituro. «C'è qualcosa che non va, Damian, con questo bambino. Certe volte non fa che muoversi, tenendomi sveglia e certe altre non si muove affatto.» «Sssh,» la confortò lui a bassa voce. «I bambini non sono tutti uguali. Siamo due persone sane, noi. Avremo un altro figlio sano. Quella donna non ha più poteri divinatori di quanti non ne abbia io.» Quella che sarebbe potuta essere un'estate meravigliosa fu rovinata perché Vera si intestardì a seguirmi ovunque. Più di una volta cercai di squagliarmela per il bosco senza che Vera lo sapesse, ma sembrava fiutare i miei pensieri e, come un'indiana, me la trovavo sulle peste. Sebbene la madre di Arden ci esortasse ripetutamente a chiamarla Billie, a me sembrava strano. Ma di fronte alle sue insistenze alla fine lo feci. Era l'unica persona adulta che avessi mai incontrato disposta a dividere la sua esperienza di adulta con me in modo comprensibile. Più di ogni altra cosa mi piaceva quando potevo squagliarmela senza Vera che riusciva in un modo o nell'altro a dominare ogni conversazione. Ogni volta che andavamo a trovarla ce ne venivamo via chiedendoci perché mai Billie non ci invitasse a entrare in casa. Io ero troppo educata per farlo notare. Vera fingeva di essere compita, così neppure lei ne parlò mai. Un giorno udii Arden dire a Billie che Vera aveva dodici anni. Lo fissai, con un senso di sgomento. Ne sapeva di Vera più di quanto ne sapessi io. «Te l'ha detto lei?» chiesi. «Caspita, no,» rise. «Vera ha delle strane idee circa il fatto di svelare la propria età. Però è iscritta al registro della classe e così so che ha dodici anni.» Mi fece un sorriso timido. «Stai forse cercando di farmi credere che non sai l'età di tua sorella?» Precipitosamente ci misi una pezza. «Certo che la so. Vera sostiene che la gente ha la memoria lunga, per cui ha intenzione di dire tante bugie circa la sua età che da qui a qualche anno nessuno potrà sapere con certezza che età avesse quest'estate.» Malgrado Vera, mi divertii un mondo quell'estate. Avevo la sensazione che Billie mi desse tre volte il calore che dava a Vera e, per quanto vergognoso possa sembrare, sembrava preoccupata del mio benessere più di
quanto lo fosse mia madre. Ma la mamma non stava affatto bene e dunque potevo perdonarla. Cerchi scuri le erano apparsi sotto gli occhi. Quando camminava si sorreggeva la schiena con la mano. Aveva smesso di suonare il piano e persino di leggere i suoi tascabili. Si addormentava tutti i giorni sulla poltrona con il libro appoggiato ai seni rigonfi. Io l'amavo talmente che restavo a guardarla dormire, tanto in pena per lei e per il nascituro che non era né un maschietto né una femminuccia. Vera non faceva che ripetermi che sarebbe stato un bambino «neutro», senza sesso, come una bambola. «Niente in mezzo alle gambe,» rideva. «Succede certe volte. È un fatto. Uno scherzo di natura. È scritto nei libri di medicina.» Crampi mensili che costringevano Vera a letto mi fornivano l'occasione per correre da sola da Arden e Billie. Arden e io mangiavamo all'aperto sotto gli alberi, su grandi tovaglie di cotone a quadri bianchi e rossi. Non avevo mai paura di lui. Quando alla fine mi toccò fu per sfiorarmi i capelli. Non mi turbò. «Quand'è il tuo compleanno?» mi chiese un giorno, mentre me ne stavo sdraiata sull'erba a contemplare un albero sopra di me, cercando di vedere le nuvole attraverso i rami e di trasformarle in grandi velieri. «Il nove settembre,» risposi tutta mogia. «Sai, avevo una sorella maggiore che è morta esattamente nove anni prima che nascessi. Aveva il mio stesso nome.» Fino a quel momento Arden era stato occupato a scavare con un martello una tacca in una rotella che intendeva usare per chissà cosa. Nell'udire le mie parole smise di martellare e mi fissò in modo strano. «Una sorella maggiore? E con il tuo stesso nome?» «Sì. È stata trovata morta nel bosco sotto una samonea dorata e per questa ragione non devo venire qui da sola.» «Però sei qui,» ribatté lui con voce strana. «Come osi venire?» Sorrisi. «Oserei qualunque cosa per far visita a Billie.» «Per far visita alla mia mamma? È carino da parte tua, e di me che ne pensi?» Fu allora che mi voltai sul fianco affinché lui non mi vedesse in volto. «Oh, sei passabile.» Mi voltai a spiarlo e lo vidi seduto a gambe incrociate con i calzoncini bianchi corti e il petto nudo che luccicava sotto i raggi del sole. «Capisco,» replicò lui riprendendo il martello e rimettendosi a battere sulla sua rotella, «questo mi dice che hai ancora molta strada da fare... oppure mi dice che in fin dei conti somigli molto più a tua sorella di quanto non sembri.» «Non è mia sorella, Arden, è mia cugina. I miei genitori fingono che sia
figlia loro per coprire il peccato di mia zia. Lei se n'è andata di casa ed è tornata circa due anni dopo. Allora Vera aveva appena un anno. Mia zia era così sicura che al padre di Vera sarebbe bastato dare un'occhiata alla piccola per innamorarsi di lei. Ma le cose non andarono così. Mentre mia zia non c'era, lui aveva sposato un'altra.» Arden non aprì bocca. Si limitò a sorridere per farmi capire che non gli importava chi fosse Vera. Arden amava sua madre più di quanto credessi possibile. Quando lei lo chiamava, lui balzava in piedi e volava dentro. Le stendeva e le ritirava il bucato. Portava fuori la spazzatura, cosa che papà non si sarebbe mai sognato di fare. Arden aveva solidi principi circa l'onestà, la lealtà, la necessità di aiutare coloro che si trovavano in difficoltà, circa la dedizione al dovere e aveva anche qualcos'altro di cui non parlava, ma che a me non era sfuggito. Aveva un naturale senso estetico che gli faceva apprezzare la bellezza più di chiunque altro. Era solito fermarsi nel bosco e cercare per ore di scavare dal terreno un pezzo di quarzo che sembrava un gigantesco diamante rosa. «Modellerò questa pietra e la trasformerò in un ciondolo per la ragazza che un giorno sposerò. Solo non so che forma dovrebbe prendere. Tu che ne dici, Audrina?» Quando ci riuscì provai invidia per la ragazza che un giorno avrebbe sposato, mentre prendevo il cristallo e me lo rigiravo fra le mani. Aveva molte venature, ma al centro i colori erano così trasparenti e netti da ricordare una rosa. «Perché non una rosa? Ma il fiore tutto aperto, non un bocciolo.» «E sia una rosa aperta, dunque,» decretò infilandosi il quarzo nella tasca. «Un giorno, quando sarò ricco, darò alla ragazza che amo tutto ciò che abbia mai desiderato, e farò lo stesso per la mia mamma.» Un'ombra gli oscurò il volto. «Il problema è che il denaro non serve per comprare ciò che la mia mamma vuole più di ogni altra cosa.» «E che cosa sarebbe? Se non sono indiscreta.» «Lo sei, lo sei.» Ammutolì, ma non mi preoccupai. Io e Arden potevamo stare ore intere insieme senza aprire bocca e senza provare il minimo senso di imbarazzo. Mi sdraiai sull'erba e lo guardai riparare la bicicletta occhieggiando di tanto in tanto sua madre che, seduta alla finestra, preparava una torta. Intanto mi dicevo che così doveva vivere una vera famiglia, senza grida, discussioni, liti tutto il santo giorno. Le ombre della casa gettavano ombre nella mente. Quaggiù, sotto il cielo e gli alberi le ombre erano solo temporanee. A Whitefern le ombre erano dense, permanenti.
«Audrina,» chiese Arden di punto in bianco, senza smettere di armeggiare con i raggi della bicicletta, «cosa pensi sinceramente di me?». Mi piaceva più di quanto volessi ammettere, ma per nessuna ragione al mondo ero disposta a dirglielo. Per quale motivo un ragazzo di dodici anni doveva perdere il suo tempo con una ragazzina di sette? Indubbiamente Vera doveva interessargli molto di più. Però neppure questo ero disposta a chiedergli. «Sei il mio primo amico, Arden, e ti sono molto grata perché perdi il tuo tempo con me.» I suoi occhi incontrarono fugacemente i miei e vi scorsi luccicare qualcosa molto simile alle lacrime... perché le mie parole dovevano farlo piangere? «Un giorno dovrò dirti una cosa e dopo non mi vorrai più bene.» «Allora non dirmela mai se è questo che pensi. Perché non mi va di smettere di volerti bene, Arden.» Allora si voltò dall'altra parte. Perché mai doveva dirmi qualcosa che doveva indurmi a detestarlo? Che anche Arden avesse un segreto, come tutti gli altri? Una mattina presto corsi da lui per farmi insegnare a pescare e a mettere vermi vivi sull'amo. Vera mi arrancava dietro, malgrado avessi cercato di battermela di nascosto. Infilzare il verme sull'amo non mi piacque, così, dopo qualche tentativo, Arden tirò fuori il suo assortimento di bizzarre esche finte e si accinse a insegnarmi a lanciare l'amo da terra. Per mostrarmi la tecnica giusta si piazzò molto in alto sull'argine. Seduta accanto a me Vera si chinò a bisbigliarmi qualcosa circa il costume da bagno rosso di Arden, ridacchiando e additandomi il punto da cui venivano tutti i bambini. «Non credo a una parola di quello che dici,» le bisbigliai di rimando, diventando paonazza e sapendo alla perfezione che ciò che diceva era vero. Perché qualunque cosa dicesse sui ragazzi doveva sembrare così volgare e sporca? Per quanto non potessi sopportare Vera dovevo ammettere che aveva un vero talento per far saltare fuori fatti di cui nessun altro voleva parlare. Dedussi che il suo interesse per i libri di medicina le stava insegnando circa i fatti della vita più di quanto sarei stata mai in grado di scoprire da sola. «Scommetto che tu e Arden avete già giocato al dottore.» Ridendo ancora più forte spiegò cosa intendeva. La schiaffeggiai per avere sia pure solo pensato una cosa del genere. «Certe volte ti odio, Vera!» «Ehi, voi due,» gridò Arden tutto eccitato tirando la lenza. «Guardate che roba.» Era un branzino e grande abbastanza per tutti noi. «Portiamolo
dalla mamma e facciamolo fare arrosto per pranzo.» «Oh, Arden,» esclamò Vera congiungendo le mani e dilatando gli occhi scuri per l'ammirazione. «Credo proprio che sia il famoso pesce del nonno, quello che tutti i pescatori più esperti della zona stanno cercando di catturare da anni. E pensare che l'hai preso proprio tu. Come sei in gamba!» Normalmente Arden sembrava irritarsi alle moine di Vera, ma questa volta fece un ampio sorriso, lusingato dalle sue lodi. «Caspita, Vera, praticamente è saltato da solo sulla lenza.» Lo odiai per aver abboccato così facilmente alle sue stupide lusinghe, per essere così cieco da non rendersi conto che Vera avrebbe detto qualunque cosa pur di indurlo a guardarla più di quanto guardasse me. Balzai in piedi e corsi a rimettermi il vestito estivo. Dietro un sipario di cespugli speravo di potermi togliere il costume da bagno prima di infilarmi i vestiti. Ma i miei vestiti non c'erano più, e neppure i sandali! Già il mio costume da bagno era per terra, bagnato e infangato, e io mi guardavo attorno, pensando che il vento avesse portato più in là i vestiti. «Vera, hai nascosto tu i miei vestiti?» Proprio in quel momento, mentre guardavo dall'altra parte, con la coda dell'occhio ebbi la visione di una mano furtiva che afferrava il costume da bagno appena tolto. La riconobbi dall'anello che portava. Era la mano di Vera. Gridai e feci per rincorrerla, ma là fuori c'era Arden e io non avevo niente addosso. «Arden,» gridai, «fermala! Mi ha rubato i vestiti e adesso anche il costume da bagno.» Quasi in lacrime mi guardai attorno alla ricerca di qualcosa con cui nascondere la mia nudità. Udii Arden frugare fra i cespugli, chiamando Vera... e poi l'udii venire verso di me, facendo parecchio rumore. «Audrina, non riesco a trovarla. Dal momento che non può correre troppo forte deve essersi nascosta. Puoi infilarti la mia camicia. È abbastanza lunga da coprirti tutta quanta, per arrivare a casa.» Mi azzardai a fare capolino e lo vidi voltarsi e dirigersi nel punto in cui aveva lasciato i suoi vestiti. «Ehi!» gridò, «anche i miei vestiti sono scomparsi! Ma non preoccuparti, Audrina. Corro a casa e prendo qualcosa della mamma da prestarti fino a domani.» Proprio in quel momento mio padre arrivò di corsa attraverso i cespugli, scostandoli brutalmente e gridando in direzione di Arden: «Dov'è mia figlia?». Si guardò attorno selvaggiamente, poi tornò a guardare Arden con òcchi di fuoco. «E va bene, giovanotto... dov'è Audrina? Che cosa le hai fatto?»
Ammutolito per lo sbalordimento, Arden scosse il capo, incapace di dire una sola parola. Poi, mentre mio padre avanzava, le manone già chiuse a pugno, ritrovò la voce. «Signore, era qui un attimo fa. Deve essere diretta a casa.» «No,» ringhiò papà, aggrottando le folte sopracciglia in un fiero cipiglio. «L'avrei incontrata strada facendo se così fosse. Non è a casa, e non è qui. Allora dov'è? So che viene spesso a trovare te e tua madre. Me l'ha detto Vera. Allora, dove diavolo è Audrina?» Ci fu una sfumatura di panico nella voce di Arden. «Davvero non so, signore.» Si chinò a tirare su il pesce appena pescato. «Stavo insegnandole a pescare. Però non le piace far del male ai vermi, così le stavo insegnando a pescare con la mosca. Audrina ha preso questi due, e Vera ha preso questo. E questo qui l'ho preso io.» Papà aveva la schiena voltata verso di me. Se ne avessi avuto il coraggio forse sarei riuscita a sgusciare via e lui non mi avrebbe vista. Acquattandomi più che potei cominciai a strisciare via. Di botto fui spinta da dietro. Urlai mentre cadevo faccia avanti diritta diritta in un cespuglio d'erica. Papà gridò il mio nome. Si precipitò verso di me come un toro infuriato, calpestando l'aggrovigliato sottobosco, urlando nel trovarmi nuda, ululando la sua collera mentre si toglieva la costosa giacca sportiva e me la gettava sulle spalle. Girati i tacchi si precipitò verso Arden e lo prese per le spalle. Poi brutalmente lo scosse. «Smettila, papà!» urlai. «Arden non ha fatto niente di male! Stavamo solo pescando in costume da bagno per non rovinarci i vestiti. È stata Vera che mi ha rubato il prendisole e poi, non appena mi sono tolta il costume da bagno, l'ha preso ed è corsa via.» «Ti sei tolta il costume da bagno?» ruggì papà, il volto così paonazzo da dare l'impressione che fosse sul punto di esplodere. «Papà!» urlai mentre mio padre faceva un altro passo minaccioso in direzione di Arden. «Arden non ha fatto nulla di male. È l'unico amico che abbia mai avuto, e adesso lo punisci solo perché gli sono simpatica!» Corsi a mettermi fra Arden e mio padre. Lui mi fulminò con lo sguardo e cercò di scostarmi da parte, ma io mi afferrai al suo braccio, costringendolo ad abbassarlo con tutto il mio peso. «Mi stavo cambiando dietro i cespugli; Arden stava ancora pescando. Quando Vera mi ha rubato il prendisole e anche il costume da bagno, lui mi ha offerto la sua camicia, ma lei aveva rubato anche i suoi vestiti. Proprio un attimo prima che tu arrivassi, stava per correre a casa a prendere qualcosa di sua madre da farmi mettere... e
adesso vuoi punire lui per ciò che ha fatto Vera.» Dietro di me Arden balzò in piedi. «Se ha davvero tanta voglia di punire qualcuno punisca Vera. Audrina non ha mai fatto nulla che possa farla vergognare di lei. È Vera che fa questo genere di scherzi sporchi. E per quanto ne so, è probabile che sia stata lei a dirle che cosa intendevamo fare oggi, nella speranza che lei presumesse il peggio.» «E quale sarebbe il peggio?» chiese papà sarcastico, tenendomi però stretta al suo fianco. La giacca mi era scivolata dalle spalle quasi per terra. Disperatamente cercai di tenerla al suo posto. Mi affannavo a nascondere un seno che non esisteva. La collera di papà cominciò a sbollire, ma solo di poco. Il suo pugno si rilassò, ciò nonostante non mollò la presa alle mie spalle. «Giovanotto, ammiro il fatto che cerchi di difendere mia figlia, ma sei in colpa per il solo fatto di trovarti qui. Vera non mi ha detto nulla. È da ieri sera all'ora di cena che non vedo quella disgraziata. Mi è bastato guardare gli occhi della mia Audrina durante la colazione. Brillavano talmente che mi sono immediatamente venuti dei sospetti.» Il suo sorriso era affascinante e cattivo insieme mentre si voltava a guardarmi. «Vedi, amore mio, tu per me non hai segreti. Indovino quello che ti passa per la testa senza bisogno di quella pettegola di Vera. E se c'è una persona al mondo che dovrebbe avere abbastanza buon senso da non incontrarsi segretamente nel bosco con un ragazzo, quella sei proprio tu.» Sorrise, poggiò il palmo della mano contro il torace di Arden e lo sospinse via. «Quanto a te, giovanotto, se vuoi tenerti quel bel naso diritto così com'è, lascia in pace mia figlia!» Arden vacillò per la forza della spinta ma non cadde. «Ciao, Arden,» lo salutai tirando papà per la mano e cercando di trascinarlo via prima che desse a Arden un'altra spinta. Per tornare a casa papà scelse il sentiero più difficile e intricato, nel quale ogni cosa mi si attaccava al viso, alle gambe e ai piedi. Dopo un po' mi lasciò andare la mano per proteggersi la faccia dai rami più bassi. Io facevo del mio meglio per tenermi la giacca a posto. Il collo era così largo per me che continuava a scivolarmi giù dalle spalle. Non avevo ancora finito di tirarmelo su da una parte che mi scivolava giù dall'altra. Le maniche sfioravano il terreno e più di una volta inciampai e caddi. Dopo la terza caduta, papà aspettò spazientito che mi tirassi in piedi e poi prese le maniche e me le avvolse attorno al collo a mo' di sciarpa. Impotente lo fissai e mi chiesi come potesse essere così cattivo con me.
«Adesso cominci a sentirti in colpa, tesoro? Rimpiangi finalmente le tue azioni affrettate... il pensiero di poter rischiare la collera del tuo papà per vedere un ragazzino che alla fine non potrà che rovinarti? È solo spazzatura, non è degno di te.» «Non è affatto spazzatura, papà,» piagnucolai, lacerata e dolorante. Avevo i piedi pieni di tagli, le gambe graffiate. «Tu non conosci Arden.» «E neppure tu lo conosci!» gridò lui. «Adesso voglio mostrarti qualcosa.» Mi riprese per la mano e mi trascinò in un'altra direzione. Alla fine si fermò di botto. «Lo vedi quell'albero?» mi chiese indicandone uno stupendo, rigoglioso di foglie dorate che tremolavano al venticello estivo. «Quello è un salice.» Sotto l'albero c'era un monticello ricoperto di trifoglio attorno al quale ronzavano api industriose alla ricerca del nettare. «È laggiù che abbiamo trovato tua sorella, fredda come il marmo, morta. Solo che quel giorno di settembre pioveva, pioveva forte. Il cielo era scuro di nuvoloni e c'erano i lampi, così sulle prime abbiamo pensato che fosse stata colpita da un fulmine. Ma c'erano prove sufficienti a dimostrare che non era opera di Dio.» Il mio cuore era come un animale impazzito, picchiava selvaggiamente contro la cassa toracica, urlando di lasciarlo uscire. «Adesso stammi a sentire, con attenzione. Impara dagli errori altrui, Audrina. Impara prima che sia troppo tardi per salvarti. Non voglio trovare anche te morta.» Il bosco mi si chiudeva addosso, schiacciandomi. Gli alberi mi volevano, mi volevano morta perché ero un'altra Audrina che reclamavano per sé. Ma la sua lezione non era ancora finita, spietatamente papà mi trascinò più vicina. Adesso piangevo, completamente sconfitta, annientata dalle sue argomentazioni. Non avrei mai dovuto disobbedire, mai. Non avrei mai dovuto dimenticare l'altra Audrina. Mi stava portando alla tomba di famiglia. Odiavo quel luogo. Cercai di fare resistenza passiva, ma papà mi prese per la vita. Tenendomi sollevata da terra come una bambola di celluloide, si arrestò davanti alla snella lapide, simbolica della gioventù di colei che conteneva. Lo ripeté, come già l'aveva ripetuto centinaia di volte in passato e, come allora, le sue parole mi fecero gelare il sangue nelle vene. «Lei è lì sotto, la mia Prima Audrina. La Meravigliosa, Speciale Audrina che mi guardava come se fossi un dio. Aveva fiducia in me, credeva in me, riponeva le sue speranze in me. Mai in tutta la mia vita ho conosciuto qualcuno che mi abbia dato quel genere di amore incondizionato. Ma Dio ha voluto portarmela via e sostituirla con te. Deve esserci un significato in
tutto questo. Sta a te dare un senso alla sua morte. Non posso vivere con la consapevolezza che forse è morta invano. Audrina. Devi impadronirti dei doni di tua sorella, o sono certo che Dio andrà in collera, come sono in collera io. Tu non mi ami abbastanza da aver fiducia in me e credere che io sto facendo del mio meglio per proteggerti proprio da ciò che è accaduto a lei. Eppure ormai dovresti aver imparato dalla sedia a dondolo la lezione sui ragazzi nel bosco, quel giorno in cui è morta.» Fissando il suo bel volto che ora era rigato di lacrime, mi divincolai dalla sua presa in modo da passargli le braccia attorno al collo e nascondere il viso contro la sua spalla. «Farò tutto quello che vuoi, papà, purché tu mi lasci vedere ancora Arden e Billie di tanto in tanto. Mi siederò sulla sedia a dondolo e cercherò di riempirmi dei suoi doni, giuro che collaborerò come non ho mai collaborato prima.» Le sue forti braccia mi strinsero. Sentii le sue labbra sui capelli e un istante dopo si servì del fazzoletto per pulirmi la terra dalla faccia prima di baciarmi. «È un patto. Puoi andare a far visita a quel ragazzo e sua madre una volta alla settimana purché Vera venga con te e tu ti faccia riaccompagnare a casa e non ci vada mai dopo che si è fatto buio o quando piove.» Non osai chiedere di più. Rivalità Il cimitero e la sedia a dondolo mi avevano insegnato la lezione. Da quel momento in poi sarei stata la figlia che papà doveva avere per vivere bene e essere felice. Capivo che lui era convinto che la sua via fosse in assoluto la migliore e, per quel che mi riguardava, quasi mai riuscivo a distinguere il bene dal male. E volevo che papà mi amasse più di quella detestabile Prima Audrina che avrei voluto non fosse mai nata, proprio come certamente Vera avrebbe voluto non fossi mai nata io. «Non sarai mai meravigliosa quanto tua sorella,» decretò Vera con tale fermezza da darmi l'impressione che l'avesse conosciuta per davvero. Stava cercando di stirare la camicia di papà per dimostrargli che era capace, ma per il momento sembrava che fosse solo capace di rovinarla. Il ferro continuava ad attaccarsi lasciando l'impronta bruciata della piastra triangolare. Si vedevano persino i buchi del vapore. «La Prima Audrina stirava alla perfezione,» disse appoggiando il ferro. «E aveva sempre i capelli a posto. I tuoi capelli sembrano sempre un groviglio incolto.» Non che i capelli di Vera fossero così meravigliosi, poi. Le cadevano
davanti agli occhi in ciocche diritte come spinaci. Il sole che entrava a fiotti dalle finestre brillava sui suoi capelli albicocca accendendoli d'oro alle punte e di rosso all'attaccatura. Capelli di sole. Capelli di fuoco. «Proprio non capisco come si fa a chiamare una persona stupida come te con il nome di una ragazzina così intelligente. Tu non sai fare niente di niente,» seguitò. «Che sciocchi possono essere i genitori. Solo perché il caso ha voluto che tu le somigliassi fisicamente hanno pensato che avessi preso da lei anche l'intelligenza e la personalità. Ma tu sei solo la sua brutta copia. E per giunta sei stramba e sei noiosa e pesante.» Abbassò la temperatura del ferro, ma era già troppo tardi. La preoccupazione le aggrondava la fronte mentre studiava le tracce di bruciato e si chiedeva come rimediare. «Mamma,» chiese, «se brucio la camicia di papà cosa devo fare?» «Dartela a gambe,» le gridò di rimando mia zia, che se ne stava incollata al televisore a guardare un vecchio film. «Stupida,» disse Vera rivolta a me, «va' a chiedere a tua madre cosa si deve fare per togliere le tracce di bruciato dalla camicia.» «Sono troppo stupida per capire quello che vuoi,» replicai rimestando svogliatamente la colazione, certa che papà quella sera mi avrebbe rimesso sulla sedia a dondolo come faceva sempre, almeno due o tre volte la settimana, nella speranza che finalmente i doni fossero in arrivo. «Povera eterna-seconda Audrina,» seguitò Vera. «Troppo sciocca persino per andare a scuola. Qui nessuno ci tiene a far sapere in giro quanto sei idiota con la tua memoria senile.» Prese dalla credenza una grossa bottiglia di candeggiante, ne versò qualche goccia su una spugnetta e la strofinò sulla camicia nuova. L'impronta del ferro spiccava proprio nel punto in cui la giacca non l'avrebbe nascosta. Mi avvicinai per vedere cosa stesse combinando. In quel momento papà fece il suo ingresso in cucina a torace nudo, sbarbato di fresco, i capelli già pettinati e pronto per uscire. Si fermò accanto all'asse da stiro a guardare Vera che era graziosissima ora che stava prendendo le forme di una signorinella, assottigliandosi alla vita. Poi il suo sguardo passò da lei a me, poi di nuovo a lei. Ci stava forse paragonando? E cos'era che gli conferiva quell'espressione indecisa? «Cosa diavolo stai facendo con la mia camicia, Audrina?» chiese guardando per la prima volta l'asse da stiro. «Te la stava stirando, papà,» si affrettò a rispondere Vera facendosi più vicina, come per schierarsi dalla sua parte. «E poi questa scioccherella era così occupata a punzecchiarmi che ha lasciato il ferro sulla tua camicia
nuova.» «Oh, mio Dio,» esclamò papà afferrando la camicia e ispezionandola da vicino. Tornò a gemere nello scorgere qualcosa che non avevo notato finché non la vidi in controluce. Nell'impronta sbiadita di bruciato stavano apparendo dei buchi. «Guarda cosa hai combinato!» mi aggredì. «La mia camicia di seta pura! Mi sei appena costata cento dollari.» Vide il bottiglione di candeggiante e tornò a gemere. «Prima hai bruciato la camicia e poi ci hai messo sopra il candeggiante? Ma dove ce l'hai la testa, ragazzina, dove?» «Non prendertela,» lo rabbonì Vera togliendogli la camicia di mano. «Ti sistemerò la camicia fino a fartela tornare come nuova. Dopo tutto Audrina non sa fare niente.» Papà mi fulminò con lo sguardo, poi lo volse dubbioso su di lei. «E come puoi riparare una camicia corrosa dal candeggiante? Ormai è andata. E pensare che avevo deciso di metterla a una riunione importante.» Scagliò per terra la cravatta bordeaux, si guardò i calzoni grigio perla, quindi si avviò verso la porta. «Papà,» dissi esitante, «non ti ho bruciato io la camicia.» «Non mentire,» mi redarguì lui con disgusto. «Ti ho vista vicino al ferro da stiro e la bottiglia di candeggiante era a pochi centimetri. Per giunta sono convinto che a Vera non sarebbe importato un accidente se non avevo la camicia a posto. Mi è stato naturale dedurre che tu sola sai quanto mi piaccia essere sempre perfetto.» «Io non so stirare le camicie, papà. Come Vera non fa che dire, sono troppo stupida per fare qualcosa.» «È una bugia, papà, e inoltre io gliel'avevo anche detto di mettere il vapore e di usare un panno, ma lei non mi ha dato retta. Lo sai anche tu com'è Audrina.» Papà sembrava in procinto di esplodere allorché notò la mia espressione disperata. «E va bene, Vera, basta così. Se riesci a salvare questa camicia ti regalo dieci dollari.» Le fece un sorriso di traverso. Fedele alla parola data, quella sera quando papà rincasò Vera gli mostrò la sua camicia rosa. Sembrava nuova di zecca. Lui gliela tolse dalle mani, la girò e la rigirò cercando i punti del rammendo e non li trovò. «Non credo ai miei occhi,» disse infine, poi rise e tirò fuori il portafogli. Porse a Vera dieci dollari. «Tesoro, forse dopotutto ti ho sottovalutata.» «L'ho portata da una rammendatrice, papà,» annunciò Vera modestamente abbassando la testa. «Mi è costato quindici dollari, questo significa
che ci ho rimesso cinque dollari dei miei risparmi.» Papà l'ascoltò con attenzione. Se c'era al mondo un genere di persona che mio padre ammirava era chi sapeva risparmiare denaro. «E dove ti sei guadagnata il denaro dei tuoi risparmi, Vera?» «Faccio le commissioni per certe persone anziane,» disse lei con una vocina timida timida. «Ogni sabato vado in paese e faccio le commissioni. Certe volte bado anche ai bambini.» La mascella mi ricadde. Indubbiamente di tanto in tanto Vera scompariva il sabato, ma era difficile credere che si facesse trenta e passa chilometri a piedi all'andata e altrettanti al ritorno. Doppiamente colpito papà estrasse dal portafogli un altro biglietto da dieci e glielo porse. «Adesso questa camicia mi è costata centoventi dollari, ma è sempre meglio che buttarla via.» Non mi degnò neppure di uno sguardo mentre, di impulso, le dava un bacione sulla guancia. «Mi sorprendi, ragazza mia. Non sono sempre stato gentile con te. Ci avrei giurato che non ti sarebbe importato nulla della mia camicia rovinata. Ho persino pensato che non mi amassi.» «Oh, papà,» protestò lei con occhi scintillanti, «ti amo dalla cima dei capelli alla punta dei piedi.» La odiai. La odiai letteralmente. Perché lo chiamava papà quando lui era il mio papà, non il suo? Per chissà quale strana ragione lui fece un passo indietro e si guardò le scarpe come per controllare le unghie incarnite che lo infastidivano. Tossicchiò, si schiarì la gola e parve sconcertato. «Ebbene, forse è un complimento eccessivo, ma se è genuino ne sono commosso e compiaciuto.» Sbalordita lo guardai uscire dalla stanza senza degnarmi di una sola occhiata. Quella sera non venne a rimboccarmi le coperte o a darmi il bacio della buonanotte, o a sentirmi recitare le preghiere, e se quella notte avessi avuto un incubo e sognato i ragazzi del bosco ci avrei scommesso la testa che non sarebbe corso a salvarmi. Il mattino seguente fu Vera che versò il caffè a papà, dando il cambio alla mamma che sembrava sempre più pallida e sfinita. Balzò in piedi e infilò tre fette di pane nel tostapane e non se ne allontanò per non rischiare che si abbrustolissero troppo. A papà piacevano dorate all'esterno ma morbide all'interno. Fece friggere il bacon alla perfezione e non una lamentela uscì dalle labbra di papà. Quando ebbe finito di mangiare, la ringraziò e si alzò per andare a lavorare. Zoppicandogli dietro Vera lo prese per la mano. «Papà, anche se non sei il mio vero padre non possiamo fingere che tu...
eh, papà?» Papà sembrava a disagio, come se non sapesse cosa dire, ma fosse al tempo stesso commosso. Papà era mio e della mamma, non di Vera. Sbirciai mia zia che se ne stava seduta cupa e tesa, e mi augurai che lei e Vera se ne andassero ovunque, purché lontano da casa nostra. Ben presto papà uscì. Seguii con lo sguardo la macchina svoltare oltre il vialetto in terra battuta che lo avrebbe portato alla superstrada e in città, dove avrebbe pranzato con altri uomini d'affari chiamando lavoro quei pranzi fastosi. Con mia grande sorpresa si arrestò brevemente davanti alla cassetta della posta messa nel punto in cui si biforcava la nostra strada privata, incrociando la strada maestra. Mi chiesi perché non avesse preso la posta la sera prima. Possibile che fosse stato così ansioso di arrivare dalla mamma e di vedere come stava da aver dimenticato ancora una volta di guardare nella cassetta? Quando andai a vedere, notai che non era stata svuotata. Anzi, riviste e giornali traboccavano dallo sportello che rifiutava di chiudersi. Presi tutta la posta destinata a papà. Mi sarei riconquistata il suo affetto. Sapevo quello che lui voleva da me. Sapevo cosa gli premeva più di ogni altra cosa... il denaro. Dovevo usare il mio «dono» per fargli guadagnare tanto denaro. Poi mi avrebbe amata per sempre. Non ero ancora in cucina che già stavo cercando di leggere la prima pagina del Wall Street Journal mentre con aria assente gettavo il resto della posta sul tavolo. Corsi a prendere quello che mi occorreva: una matita e un blocco per appunti, un pezzo di spago e uno spillo. Nel ripostiglio sotto le scale di servizio c'era tutta la paccottiglia da buttare, prima o poi. Fu lì che trovai le vecchie copie del Journal. Presi tutte le pagine delle quotazioni in borsa e annotai i movimenti di alcune azioni, pensando che da due settimane costituivano un arco di tempo sufficiente. Pur essendo assorta nel mio lavoro sentivo Vera al piano di sopra discutere con la zia che voleva essere aiutata con il bucato. Vera voleva andare al cinema. Aveva un appuntamento. «No!» gridò mia zia. «Non mi vanno i tuoi appuntamenti.» Vera replicò qualcosa che non capii. «No, no e poi no!» udii invece distintamente. «Basta! Quando dico no è no... non sono come certe persone di mia conoscenza che prima dicono no e poi cambiano idea.» «Se non mi lasci andare, mi metto a sbandierare i segreti di famiglia in mezzo alla Main Street,» strillò Vera. «Li griderò ai quattro venti finché tutti quanti sapranno chi è mio padre, e quello che hai fatto... e il nome dei
Whitefern sprofonderà ancor più nel fango.» «Provati ad aprir bocca sui segreti di famiglia e non avrai più un centesimo da me né da nessun altro. Se ti comporti bene c'è qualche speranza che presto o tardi qualcosa tocchi anche a noi. Tu sei una sfida quotidiana a Damian e Lucietta. Per loro sei come una spina nel fianco, ma forse le cose cambieranno se ci saprai fare. Un tempo maledicevo il giorno in cui ti avevo concepita. Più di una volta ho rimpianto di non aver abortito, ma quando hai fatto aggiustare la camicia di Damian e ho visto come ne è rimasto colpito ho ritrovato qualche speranza.» Una nota implorante vibrò nella sua voce. «Non è detto che Audrina debba essere la cocca di famiglia, Vera. Ricorda che quello che le è accaduto ti dà un certo margine. Approfittane. Tu sai com'è lui e di cosa ha bisogno. Ammiralo. Rispettalo. Lusingalo e diventerai la sua preferita.» Seguì al piano di sopra un lungo silenzio carico di bisbigli che non riuscivo a interpretare. Quel groppo di piombo anche troppo familiare mi si piazzò di nuovo sul petto. Stavano tramando contro di me... loro sapevano quello che mi era accaduto, io no. Avevo quasi pensato che la zia mi volesse bene. Adesso scoprivo che anche lei mi era nemica. Tornai a immergermi nel mio lavoro più che mai decisa a trovare l'azione giusta che si mettesse a salire, salire, salire, rendendo papà molto, molto, molto ricco. Attaccai l'anellino con il mio segno zodiacale a un filo pensando di fare come aveva fatto Mrs. Allismore, per predire quale azione sarebbe stata la vincente. Papà non faceva che ripetere che la compravendita di titoli non era una scienza, ma un'arte e quello che stavo facendo in quel momento mi sembrava molto creativo. Con un po' di filo avevo legato lo spillo all'anello in modo da usarlo come indicatore. Due volte sfiorò lo stesso titolo. Cercai di costringerlo a toccarlo per la terza volta. Il tre era un numero magico. Ma l'anello si rifiutò di scegliere lo stesso titolo per tre volte di seguito, anche quando riaprii gli occhi e cercai di controllare l'anello. Sembrava avere un potere suo, errabondo, discontinuo, allo stesso modo in cui la fede nuziale della mamma era sembrata incerta, sospesa sopra il suo ventre. Proprio in quel momento udii un grido acutissimo. «Dove sono i miei orecchini di brillanti?» urlò zia Ellsbeth. «Sono l'unica cosa di valore lasciatami da mio padre, insieme all'anello di fidanzamento di mia madre. Scomparsi! Sei stata tu a rubarmi i gioielli, Vera?» «No,» strillò Vera. «Forse li hai lasciati da qualche parte come fai spesso e volentieri.»
«Sono anni che non metto quell'anello. Sai bene che tengo i gioielli più preziosi chiusi a chiave in uno scrigno. Non mentire, Vera. Sei l'unica che entra nella mia camera da letto. Avanti, dove li hai messi?» «Perché non lo chiedi a Audrina?» «A Audrina? Non essere ridicola. Quella bambina è incapace di rubare; è troppo seria. Sei tu che non lo sei affatto.» Tacque mentre io ripiegavo i giornali, dopo aver messo al sicuro la lista dei titoli. «Adesso so cosa hai fatto per aggiustare la camicia di seta rosa da cento dollari di Damian,» osservò mia zia in tono sprezzante. «Mi hai rubato gli orecchini e l'anello, li hai impegnati e gli hai comprato una camicia nuova. Che tu sia maledetta, Vera! No, non ci vai al cinema. Né oggi, né mai! Resterai a casa finché non ti sarai guadagnata abbastanza soldi da riscattare i miei gioielli.» Senza far rumore mi ero portata in fondo alle scale per sentire meglio; udii un tonfo, come qualcuno che cade. Poi Vera si precipitò giù dalle scale inseguita da mia zia che zoppicava. «Se ti prendo ti chiudo in camera tua per il resto dell'estate!» Vera arrivò al volo, vestita con il suo abito migliore e le scarpe bianche nuove. Le sbarrai il passo. Brutalmente mi scostò da parte e fu al portone prima che la zia riuscisse ad arrivare in fondo alle scale. «Audrina, di' a quella bestia di donna che la odio quanto odio te, tua madre, tuo padre e questa casa messi insieme! Vado in paese a vendere il mio corpo in mezzo alla strada. Mi piazzo proprio davanti al barbiere di papà e mi metto a gridare: 'Prendetevi la vostra ragazza Whitefern!'. Lo urlerò così forte che lo sentiranno tutti e gli uomini della città arriveranno di corsa! E io diventerò ricca!» «Baldracca!» gridò mia zia traversando di corsa la cucina e puntando su Vera. «Torna subito qui! Non provarti ad aprire quella porta e a uscire!» Ma la porta fu aperta e richiusa prima che mia zia potesse uscire sulla veranda. Da una finestra vidi Vera scomparire dietro la curva. Il paese era a più di trenta chilometri. La città a più di sessanta. Aveva intenzione di fare l'autostop? La zia mi si avvicinò. «Ti prego, non dire a tuo padre quello che hai sentito oggi. Certe cose è meglio che non saltino fuori.» Annuii, provando compassione per lei. «Posso fare qualcosa?» Scosse il capo, irrigidita. «Non svegliare tua madre. Ha bisogno di riposo. Salgo di sopra. Sarà meglio che ti prepari da sola la colazione.» Di sabato alla mamma piaceva dormire fino a tardi e questo dava a mia zia il modo di starsene nella saletta accanto alla sala da pranzo dove teneva
il televisore. Adorava i vecchi film e i polpettoni a puntate. Erano il suo unico svago. L'appetito mi era svanito insieme a Vera. Non avevo il minimo dubbio che avrebbe attuato la sua minaccia. Ci avrebbe distrutti tutti quanti. Sedetti e cercai di non pensare a quello che Arden e sua madre avrebbero pensato. La mia mente era una fucina di pensieri infelici, incapace di capire cosa rendesse papà quello che era, amabile e detestabile, egoista e generoso. Aveva costantemente bisogno di avere qualcuno vicino, soprattutto mentre si sbarbava, e poiché la mamma era occupata a preparare la colazione, in genere ero io che mi appollaiavo sull'orlo della vasca e ascoltavo tutte le cose interessanti che avvenivano nel suo ufficio di agente di cambio. Gli facevo molte domande sulla compravendita di titoli e su quello che faceva salire e scendere il loro prezzo. «La domanda,» era la sua riposta per i titoli in rialzo. «La delusione,» era la sua spiegazione per quelli che calavano. «Voci di fusioni e avvicendamenti manageriali sono utilissime per far salire i titoli alle stelle, ma normalmente quando queste notizie arrivano al grosso pubblico è ormai troppo tardi per entrare nel gioco. Tutte le banche e i grossi finanzieri ormai hanno già comprato e sono pronti a vendere al povero ignaro risparmiatore. Se hai le conoscenze giuste allora vieni a sapere per tempo le cose... se non hai queste conoscenze è meglio che tu ti tenga i soldi in banca.» Un passo alla volta mi ero fatta una competenza vera e propria sul mercato. Era il sistema d'insegnamento di papà anche per l'aritmetica. Non pensavo al denaro in termini di centesimi ma in ottavi di punto. Sapevo dei triple-top destinati a slittare e di double bottom destinati a salire. Mi mostrava grafici e mi insegnava a leggerli, sebbene la mamma lo prendesse in giro sostenendo che ero troppo piccola per capire. «Sciocchezze. I cervelli giovani sono i più pronti a recepire. Audrina capisce molto più di te.» Oh, sì, per certi versi amavo immensamente mio padre che, anche se non era in grado di restituirmi la memoria, poteva darmi speranze per il futuro. Un giorno si sarebbe messo in proprio e io sarei stata il suo amministratore. «Con i tuoi doni, non possiamo fallire,» così la metteva. «Ma non lo vedi fin d'ora, Audrina: D.J. Adare & Co.» Ancora una volta mi concentrai sulle liste più attive e rifeci il giochetto dell'anello e ancora una volta lo spillo sfiorò due volte lo stesso titolo. Mi si gonfiò il cuore di felicità. Non avevo abbandonato tutto alla Provvidenza. Di certo papà sarebbe diventato ricco quando gli avrei dato questo so-
gno. E se il titolo che avevo scelto fosse salito, e ormai non avevo più alcun dubbio, non mi sarebbe più toccato sedermi sulla sedia della Prima e Migliore Audrina. Avrei conquistato il suo dono... o uno ancora migliore. Conoscevo papà. Era il denaro che voleva, il denaro di cui aveva bisogno, e il denaro era l'unica cosa che non gli bastava mai. Corsi di sopra, certa che presto mi sarebbe tornata anche la memoria. Forse il gioco dell'anello avrebbe funzionato se l'avessi fatto sopra la Bibbia. Risi passando davanti alla camera della Prima Audrina per correre giù in cucina. Vi trovai la mamma, con i bigodini azzurri, quelli grossi come le lattine di birra nei capelli. «Audrina,» esordì con voce stanca, «ti dispiace guardare la pancetta mentre batto le uova?» Sotto gli occhi aveva cerchi scuri. «Mi sono girata e rigirata nel letto tutta la notte. Questo bambino è straordinariamente inquieto. Poi verso l'alba, quando avevo appena preso sonno, la sveglia di tuo padre ha suonato e da quel momento non ha fatto che parlare come un mulino a vento cercando di rassicurarmi circa le predizioni di quella vecchia. Pensa che io sia depressa, non stanca, così gli è venuta la bella idea di invitare venti persone per una festa stasera! Ma riesci a immaginare qualcosa di più ridicolo? Guardami, sono al sesto mese, così stanca che a malapena riesco ad alzarmi dal letto alla mattina, e lui si mette in testa che ho bisogno di distrarmi un po' a preparare tartine e altre ghiottonerie per i suoi amici. Mi dice che mi annoio, mentre è lui ad annoiarsi. Non sai quanto vorrei che si fosse messo a giocare a golf o a tennis o a qualunque cosa lo scaricasse in parte delle sue energie e lo tenesse lontano da questa casa durante i fine settimana.» Oh, oh, adesso capivo! Il sesto senso di papà doveva avergli detto che oggi avevo il dono... ecco perché ci teneva tanto a festeggiare. Almeno un centinaio di volte, se non di più, mi aveva detto che avrebbe celebrato con una grande festa il giorno in cui il dono sarebbe venuto alla luce. Dunque era vero. Dunque adesso possedevo il dono. Altrimenti l'anello non si sarebbe fermato due volte sullo stesso titolo in un elenco di dieci. Avevo voglia di gridare di gioia. «Dove sono Ellsbeth e Vera?» chiese la mamma. Non potevo raccontarle della lite e delle minacce di Vera. Per la mamma il suo nome da nubile era il bene più prezioso. E se davvero Vera era riuscita a ottenere un passaggio, in quel preciso istante era probabile che fosse in paese a urlare i nostri segreti ai quattro venti. Pensare a Vera era pensare alla realtà e presto la mia fiducia nel dono cominciò a vacillare. Per tutta la vita, o così mi pareva, papà mi aveva fic-
cato in testa ogni genere di sciocchezze circa il soprannaturale in cui egli credeva e la mamma no. Quando ero con lui mi convincevo che quel che diceva rispondeva a verità, ma cambiavo opinione non appena lui usciva di casa. «Dov'è Ellsbeth?» chiese la mamma. «È inciampata ed è caduta, mamma.» «La maledizione,» mormorò la mamma facendomi segno di girare il bacon nella padella. «Una casa di idioti decisi a far diventare idioti anche te e me. Non voglio che tu ti sieda più su quella sedia a dondolo, Audrina. L'unico vero dono di tua sorella era un amore e un rispetto sconfinati per tuo padre, ed è questo che adesso gli manca. Credeva in ogni sua parola. Prendeva sul serio tutte le sue folli teorie. Pensa col tuo cervello, Audrina, non permettere che ti domini. Limitati a stare alla larga dal bosco... in quello prendilo seriamente.» «Ma, mamma,» esordii a disagio, «Arden Lowe abita nella casetta del giardiniere in mezzo al bosco. È l'unico amico che ho. Preferirei morire piuttosto di non vederlo più.» «So che ti senti sola qui, senza amici della tua età. Ma quando arriverà il bambino avrai un amico. E poi puoi pure invitare Arden. E inviteremo anche sua madre a prendere il tè e non permetteremo che zia Mercy Marie venga di nuovo a piazzarsi sul pianoforte.» Corsi ad abbracciarla, fuori di me per la felicità. «Ti piace tanto, vero?» «Sì, mamma. Lui non mente mai. Non viene mai meno alla parola data. E poi non è schizzinoso, non ha paura di sporcarsi le mani come papà. Parliamo di cose concrete, non delle cose di cui parla così spesso papà. Una volta mi ha detto di aver letto da qualche parte che i codardi muoiono più volte. Dice che una volta è stato talmente paralizzato dal terrore che si è comportato da codardo e non se lo perdonerà mai. Sembra così turbato, mamma, quando lo dice.» La compassione riempì i suoi stupendi occhi. «Di' ad Arden che certe volte è meglio fuggire e vivere per combattere un'altra battaglia, se quella che si ha davanti è assolutamente disperata.» Avrei voluto chiederle cosa intendesse, ma ormai la colazione era pronta e servita in tavola e papà non era in casa e la zia al piano di sopra e Vera... Dio solo sapeva cosa stesse facendo Vera in quel momento. «Apparecchia, tesoro, e non fare quell'aria preoccupata. Arden è un nome molto nobile e sono convinta che lui faccia del suo meglio per esserne
all'altezza. Cerca solo di amare tuo padre quanto lo amava la sua prima figlia e lui smetterà di costringerti in quella sedia.» «Mamma, non appena arriva a casa gli dirò di rinunciare alla festa.» «Non è possibile,» replicò lei sconsolata. «Adesso è andato in città a comprare fiori freschi e tutto quello che occorre per la cena fredda. Vedrai che sarà di ritorno in un batter d'occhio non appena terminata la riunione di lavoro. Vedi, quand'era ragazzo tuo padre non ha mai fatto grandi feste, così adesso usa ogni scusa per recuperare il tempo perduto. In fondo al cuore gli uomini restano sempre bambini, Audrina, non dimenticarlo. Per quanto vecchi riescono sempre a tenersi dentro un fanciullino, che continua a desiderare ciò che hanno desiderato un tempo, senza rendersi conto che quando erano ragazzi la cosa che desideravano più di ogni altra era essere uomini anziché bambini. Strano, non ti pare? Quando ero bambina avrei voluto che non ci fossero mai ricevimenti perché io non venivo mai invitata e dovevo restare al piano di sopra, e morivo dalla voglia di scendere. Così mi nascondevo e spiavo di nascosto, sentendomi tanto indesiderata. È stato a sedici anni che ho ballato per la prima volta in casa mia.» «E dove hai ballato?» «Toglievamo i tappeti e ballavamo nel Salone impero oppure nel salotto sul retro. Certe volte scappavo dalla finestra e andavo a ballare in città col mio ragazzo. La mamma lasciava aperta la porta sul retro così potevo rientrare alla chetichella senza che mio padre lo sapesse. Poi quando mi sentiva rientrare veniva in camera mia, si sedeva vicino a me, sul letto, e io le raccontavo tutto quanto. È così che saranno le cose anche fra noi, Audrina. Quando sarai abbastanza grande da andare a ballare farò in modo che tu ci vada.» Se il mio dono non mi avesse liberata, forse ci sarebbe riuscita mia madre. «Hai avuto tanti corteggiatori, mamma?» «Sì, penso che si possa dire di sì.» Fissò con occhi nostalgici oltre la mia testa. «Avevo promesso solennemente a me stessa di non sposarmi fino ai trent'anni. Volevo fare la concertista più di quanto volessi un marito e dei figli... e adesso guarda che cosa ho avuto.» «Mi dispiace, mamma.» Un istante dopo mi accarezzò dolcemente i capelli. «Scusami, tesoro. Parlo troppo e ti faccio sentire in colpa, quando in realtà sono stata io a scegliere. Mi sono innamorata di tuo padre, e spesso l'amore spazza via ogni altra considerazione. Mi ha fatto perdere completamente la testa e se non mi avesse chiesto di sposarlo probabilmente sarei morta di crepacuore.
Tu, però, non permettere che l'amore ti derubi delle tue aspirazioni. Quantunque tuo padre non faccia che riempirti la testa di idee balzane, in una cosa ha perfettamente ragione: tu sei speciale. E sei piena di talento, anche se non sai bene in che cosa consista. Tuo padre è un brav'uomo che non sempre agisce per il meglio.» La fissai in volto, sempre più confusa. Prima diceva che papà mi infarciva di teorie strampalate, e adesso sosteneva che la più folle di tutte, quella secondo la quale io sarei stata speciale, era vera. Pochi minuti dopo, papà rincasò carico di ghiottonerie di tutti i generi e di fiori di serra. Vera lo seguiva a pochi passi. Aveva l'aria sporca, in disordine, e aveva pianto. «Mamma,» gemette correndo a rifugiarsi da mia madre e facendomi sentire ancora una volta meschina perché adesso stava cercando di reclamare per sé non solo mio padre ma anche mia madre. «Mi ha tirato in macchina per i capelli... guarda come mi ha conciata, e ho fatto la messinpiega ieri sera.» «Ti proibisco di consolarla, Lucky!» urlò papà allorché vide le braccia di mia madre circondare protettivamente Vera. L'afferrò e la sospinse su una sedia della cucina con tale forza da farla gemere. «Questa sciagurata stava facendo l'autostop sulla superstrada. Quando mi sono fermato e le ho ordinato di salire in macchina mi ha detto che aveva deciso di diventare una puttana e svergognarci tutti quanti. Se non ti riesce di tenere a bada tua figlia, Ellsbeth, allora userò i miei sistemi.» Non mi ero neppure accorta che zitta zitta anche la zia era arrivata in cucina, con addosso un grembiule da casa a quadretti che, a paragone dei bei vestiti che mia madre era solita indossare, sembrava ancora più ordinario e trasandato. «Vera, sali di sopra e restaci finché non ti dirò di scendere,» latrò papà. «E niente da mangiare finché non ci chiederai perdono a tutti quanti. Dovresti baciare la terra dove cammino perché ti tengo in questa casa.» «Vado di sopra ma non sarò mai grata a nessuno!» Vera si tirò in piedi e arrancò fuori della cucina. «E scenderò di sotto solo quando piacerà a me!» Papà fece un balzo in avanti. «Non permettere che la frusti, mamma!» gridai angosciata. «Altrimenti lei troverà il modo di farsi del male.» Vera causava i propri incidenti subito dopo aver fatto andare in bestia mio padre. Mia madre sospirò sempre più sfinita. «Sì, hai ragione. Lasciala andare, Damian. È già stata punita abbastanza.» Perché mia zia non interveniva in difesa di sua figlia? Certe volte sem-
brava nutrire nei suoi riguardi la stessa avversione che provava per papà. Fui assalita da sensi di colpa. Certe volte anch'io odiavo Vera con tutto il cuore. Le uniche volte che riuscivo a provare affetto per lei era quando mi faceva pena. Al piano di sopra Vera stava urlando con quanto fiato aveva in gola. «Nessuno mi ama! Nessuno mi vuole bene! Non provarti a mettermi di nuovo le mani addosso, Damian Adare! Se ci provi, parlerò! E sai a chi e di che cosa! Te ne pentirai, te ne pentirai!» In un lampo papà fu in piedi e su per le scale. Quell'idiota di Vera continuò a urlare finché lui non spalancò la porta, poi ci fu un tonfo. Un istante dopo si udì l'urlo più lungo e lacerante che le avessi mai sentito fare... e in vita sua di urla e grida ne aveva cacciate tante. Mi sentii gelare il sangue nelle vene. Un altro tonfo più forte... e poi silenzio. Noi tre in cucina fissammo il soffitto che corrispondeva al pavimento della camera da letto di Vera. Cosa le aveva fatto papà? Pochi minuti dopo mio padre tornò in cucina. «Che cosa hai fatto a Vera?» chiese la mamma con voce aspra, gli occhi incandescenti mentre lo fulminava con lo sguardo. «È solo una bambina, Damian. Non devi essere così duro con una bambina.» «Non ho fatto un accidente!» ruggì. «Ho solo aperto la porta della sua camera, lei ha fatto un passo indietro ed è inciampata in una sedia. È caduta e si è messa a urlare. Si è rialzata ed è corsa a nascondersi in quell'armadio a muro con un catenaccio all'interno e che io sia dannato se non è inciampata e caduta di nuovo. L'ho lasciata per terra senza neppure toccarla. Sarà meglio che tu salga, Ellie. Potrebbe essersi rotta qualcosa.» Incredula fissai papà. Se fossi caduta io, sicuramente sarebbe corso ad aiutarmi. Mi avrebbe baciata, mi avrebbe stretta al petto, detto migliaia di cose tenere, eppure per Vera non aveva fatto altro che voltare le spalle e andarsene. E soltanto ieri era stato così carino con lei. Guardai mia zia quasi trattenendo il fiato, chiedendomi cosa gli avrebbe fatto per la sua insensibilità. «Salirò dopo colazione,» rispose calma mia zia tornando a sedersi. «Un altro osso rotto mi rovinerebbe l'appetito.» La mamma fece per alzarsi e andare a vedere cosa era capitato a Vera. «Non ci provare!» le intimò papà. «Sei così stanca che sembri sul punto di svenire e invece io voglio che ti riposi per essere in gran forma al ricevimento di stasera.» Di nuovo sconvolta, mi alzai e mi avviai verso le scale. Papà mi ordinò di tornare, ma io proseguii, facendo i gradini tre alla volta. «Arrivo, Vera,»
gridai. Vera non era riversa sul pavimento della sua camera con tutte le ossa rotte come mi ero aspettata. Corsi di qua e di là chiedendomi dove potesse essere. Poi, con mia grande sorpresa, la udii cantare nella camera da letto della Prima Audrina. Solo una stanza al sicuro a casa, Niente lacrime, niente timori E nessun bisogno di andare fuori Perché il mio papà mi vuole sempre a casa Nella mia stanza, al sicuro a casa. Ebbi la sensazione di non aver mai udito un motivo così desolato, la sua voce era triste, come se fosse pronta a vendere l'anima al diavolo per essere me e perché qualcuno la costringesse a sedere su quella sedia che detestavo con tutte le mie forze. Riluttante tornai in cucina dove un papà inspiegabilmente gioviale stava dicendo a una mamma imbronciata che una festa era proprio quello che ci voleva per sollevarle il morale. «Come sta Vera?» chiese la mamma. Le dissi che Vera stava bene e non aveva nulla di rotto, non dissi tuttavia che era seduta sulla sedia a dondolo e che doveva aver rubato la chiave della stanza dal portachiavi di papà. «Non te l'avevo detto?» disse papà. «Non appena Audrina avrà finito di mangiare, Lucky, la porto con me a fare una passeggiata al fiume.» Si alzò, e con un gesto apparentemente intenzionale si liberò del tovagliolo di lino facendolo cadere nella tazza di caffè semivuota. La mamma lo tirò fuori dalla tazza e lanciò al marito un'occhiata come per dire: «Guarda che pasticcione sei sempre». Ma non osò rimproverarlo ad alta voce. Non sarebbe servito a nulla. Papà faceva sempre quello che voleva e sempre l'avrebbe fatto. Tenendomi per mano mi fece traversare il prato sul retro che digradava dolcemente verso il fiume. Le sue increspature scintillanti facevano sembrare la giornata stupendamente bella. Mi sorrise e disse: «Domani compi nove anni, tesoro». «Ma, papà,» esclamai guardandolo sbalordita. «Come è possibile che domani sia il mio nono compleanno se oggi ho solo sette anni?» Per un attimo parve senza parole. Come sempre quando era a corto di spiegazioni mi carezzò i capelli, poi mi sfiorò la guancia con le nocche
delle dita. «Dolcezza mia, non ti ho forse detto molte volte che è per questo che non ti mandiamo a scuola? Sei una di quelle rare persone che non hanno il senso del tempo.» Si esprimeva con precisione, guardandomi diritto negli occhi come per scolpirmi dentro questa nozione. «In casa nostra non festeggiamo i compleanni perché in un certo senso confondono il tuo calendario speciale. Due anni fa avevi sette anni.» Ciò che diceva era impossibile! Perché non mi aveva detto allora che avevo otto anni e non sette? Che stesse cercando deliberatamente di farmi impazzire? Mi coprii le orecchie con le mani per non voler sentire altro. Strinsi con forza gli occhi mentre mi tormentavo il cervello nel tentativo di ricordare se qualcuno mi avesse detto che avevo otto anni. Ma riuscivo a rammentare solo degli accenni al fatto che avevo sette anni. «Audrina, tesoro, non fare quell'aria spaventata. Non cercare di ricordare. Fidati di quello che ti dice il tuo papà. Domani è il tuo nono compleanno. Il papà ti ama, la mamma ti ama, e persino quella strega di Ellie ti ama, se solo osasse ammetterlo. Ma non può, perché c'è Vera, e Vera è gelosa di te. Anche Vera potrebbe amarti, se io le dimostrassi più affetto. Ci proverò. Mi sforzerò davvero di voler bene a quella ragazzina, di modo che tu non abbia nemici sotto il tuo tetto.» Deglutii, sentendo un bruciore alla gola e le lacrime pungermi gli occhi. C'era qualcosa di stregato nella mia vita. Per quante volte papà continuasse a ripetermi che ero speciale, non era naturale dimenticare un anno intero, non poteva essere naturale. L'avrei chiesto ad Arden. Ma così gli avrei fatto sapere che c'era qualcosa di terribile in me e allora neppure lui mi avrebbe più voluto bene. Dunque dovevo credere a papà. Mi ripetei che in fin dei conti non ero che una bambina e che importava se nel processo della crescita perdevo un anno? Che importava se il tempo volava più veloce di quanto riuscissi a seguire? In certi momenti paure inconsce cercavano di venire allo scoperto, bisbigliando proditoriamente, turbandomi. In testa mi lampeggiavano dei colori e sentii il moto ondulatorio del mio corpo, avanti e indietro, avanti e indietro. Voci cantilenanti mi bisbigliarono di feste di compleanno in cui avevo avuto otto anni e indossavo un vestito bianco a balze, stretto in vita con una fascia di taffetà pervinca. Ma che significato avevano i sogni della sedia a dondolo, se non che la Prima e Migliore Audrina aveva indossato un vestito bianco a balze con una fascia pervinca alla sua festa di compleanno? Quelle visioni di feste di
compleanno appartenevano ai suoi compleanni. Dove andare a trovare la verità? A chi potevo rivolgermi per avere tutta la verità? Nessuno era disposto a dirmi la verità poiché ne sarei rimasta ferita. Papà mi condusse al suo fianco giù per la china erbosa. Il sole era alto e ardente sopra i capelli mentre me ne stavo seduta accanto a lui. Ogni parola che pronunciava spazzava via immagini limpide dalla mia mente e le sostituiva con macchie appannate. Guardai le oche e le anatre spingersi con le loro invisibili zampe palmate verso il punto in cui la mamma dava loro da mangiare. In primavera adoravano mangiare i suoi tulipani e i suoi narcisi. «Parliamo del sogno che hai fatto la notte scorsa,» disse papà dopo un lungo silenzio. «Ti ho sentita gemere e lamentarti nel sonno e, quando sono venuto a vedere cosa avevi, ti ho trovata che ti giravi e rigiravi nel letto, borbottando parole incoerenti.» In preda al panico mi guardai attorno e vidi un picchio dalla testa rossa affaccendarsi sul tronco di uno dei nostri noci più belli. «Va' via!» gridai. «Va' a mangiare i vermi sui cespugli di camelie!» «Audrina,» riprese papà con una certa impazienza, «lascia perdere gli alberi. Gli alberi saranno qui molto tempo dopo che tu e io non ci saremo più. Dimmi che cosa hai visto sulla sedia a dondolo.» Se papà credeva nel gioco dell'anello e del pendolo di Mrs. Allismore, doveva trovare più che naturale che io mi servissi dello stesso sistema per compiacerlo. Stavo per aprire bocca e dirglielo quando mi sentii i capelli ritti sulla nuca. Mi voltai di scatto ed ebbi una visione fugace di Vera nella stanza in cui si trovava la sedia a dondolo. Ancora lassù, ancora a dondolare. Che dondolasse in eterno; non esisteva alcun dono se non quello che la fantasia evocava per compiacere chi a tutti i costi voleva della magia nella propria esistenza. E forse in fin dei conti la fantasia era un dono speciale. «E va bene, tesoro. Non intendo implorarti oltre. Dimmi cosa hai sognato la notte scorsa e facciamola finita.» Gli feci il nome del titolo che lo spillo aveva toccato due volte e poi ancora due volte. Papà parve incredulo, poi furibondo. Dalla sua reazione capii subito di non aver fatto la cosa giusta. «Ti ho forse chiesto qualche informazione di borsa, Audrina?» domandò irritato. «Certo che no. Ti ho chiesto di dirmi i tuoi sogni. Sto cercando di aiutarti a ritrovare la memoria. Non ti rendi conto che è per questo che ti faccio sedere sulla sedia a dondolo? Ho cercato di farti credere che la tua mancanza di memoria sia un fatto naturale, ma non lo è. Volevo solo aiu-
tarti a ritrovare quello che hai dimenticato.» Non gli credevo. Sapevo quello che voleva. Voleva trasformarmi nella Prima Audrina! È per questo che aveva nel suo studio tutti quei libri sulla magia nera e i poteri psichici. Arretrando guardai di nuovo la casa, sentendomi terribilmente sconvolta. Vera continuava a dondolarsi, su e giù. Oh Dio, e se avesse avuto quell'unico sogno che la sedia mi dava? Si sarebbe messa a urlare? E papà sarebbe corso a salvarla? E se invece quello che papà mi aveva detto era vero e realmente c'era un dono da conquistare? Se così era, da un momento all'altro avrebbe potuto sostituirmi nel suo cuore. Senza fiato cedetti, abbandonando ogni decisione. «C'ero io, papà, ma diventata donna, e lavoravo in un posto enorme pieno di macchine. Mandavano luci, cambiavano colore, parlavano con voci strane e trasmettevano messaggi attraverso l'aria. Io ci stavo davanti e insegnavo a un'intera classe come si usavano. È per questo che ho pensato... ma naturalmente avrei dovuto lasciare che fossi tu a decidere cosa voleva dire. Le lettere che ti ho detto erano su tutte le macchine, tutte quante dalla prima all'ultima, papà.» IBM. Come ricompensa arrivò il suo sorriso, sottile e tirato; ciò nonostante mi abbracciò. «E va bene, hai cercato di aiutarmi finanziariamente, ma non è questo che volevo. Ricorda, Audrina, colma i buchi nel tuo cervello con i ricordi giusti. Più tardi proveremo ancora con la sedia a dondolo e speriamo che la prossima volta passi oltre il bosco e ti collochi nel posto giusto.» Stavo per mettermi a piangere, perché avevo avuto uno strano sogno sulle macchine e lo spillo aveva voluto fermarsi su quelle iniziali ben quattro volte. «Non piangere, amore mio,» mi disse baciandomi di nuovo. «Ti capisco e magari investirò anche un po' di denaro in quelle azioni, anche se ormai sono già salite del trenta per cento e non possono che calare. Tuttavia,» seguitò assorto, «non sarebbe una cattiva idea aspettare che questa prima ondata si esaurisca e poi comprare in blocco prima di un'altra impennata. È intuitiva e il suo cuore è puro anche se...» Balzando in piedi fuggii alle sue imbarazzanti riflessioni. Avrebbe investito del denaro in quei titoli. E se avessero continuato a scendere dopo la compartecipazione degli utili? La povera mamma si stava facendo in quattro in cucina per preparare tutto quanto per quella stupida festa che proprio non le ci voleva, visto che si sentiva così male. Corsi alla finestra da dove scorsi papà ancora in riva al fiume, ma in piedi adesso, intento a lanciare
ciottoli piatti attraverso l'acqua come se non avesse un pensiero al mondo. La mamma non fece parola sul fatto che domani sarebbe stato il mio nono compleanno. Era forse perché in realtà non lo era affatto? Andai nel ripostiglio nel sottoscala e controllai i giornali. Domani era il nove settembre e, fedele a me stessa, avevo dimenticato che oggi era l'otto. Ma davvero compiere nove anni era così significativo? Sì, stabilii via via che la giornata passava e nessuno nominava il mio compleanno all'infuori di papà, compiere nove anni era pericoloso. La festa ebbe inizio alle nove e mezzo, poco dopo esser stata mandata a letto. Il rumore che facevano i venti amici di papà arrivava sino a me, sebbene la mia stanza fosse lontana dalle sale del ricevimento. Sapevo che di sotto c'erano banchieri e avvocati, medici e altre persone importanti che aspiravano ad arricchirsi. Amavano le nostre feste: i rinfreschi erano raffinati, i liquori abbondanti e, cosa ancora più importante, nel momento stesso in cui la mamma sedeva al pianoforte la riunione si animava. Poiché era una musicista attirava altri musicisti che amavano esibirsi insieme a lei, così medici e avvocati portavano con sé figli o figlie che sapevano suonare qualche strumento musicale. E insieme, ispirati dalla mamma, facevano una jam session. In camicia da notte e a piedi nudi corsi a guardarla di nascosto, seduta al pianoforte. Portava un vestito lungo di seta rossa con una scollatura talmente ampia che mostrava molto più di quanto papà avrebbe approvato. Gli uomini si assiepavano attorno al pianoforte, protendendosi oltre la spalla della mamma, guardandole come ipnotizzati nella scollatura e incitandola a suonare più veloce, sempre più veloce, a mettere più foga in quello che a me sembrava un ritmo abbastanza indiavolato. Sorridendo e ridendo a parole bisbigliatele nell'orecchio, la mamma suonava con una mano sola e con l'altra teneva una coppa di champagne dalla quale beveva a piccoli sorsi senza interrompersi. Mise giù il bicchiere vuoto, fece cenno a un ragazzo di circa vent'anni di attaccare con la fisarmonica, e insieme iniziarono la più scatenata delle polke al cui ritmo nessuno dei presenti poté resistere. Secondo papà, la mamma era tutto per tutti e fedele a nessuno, neppure a se stessa. Se il suo pubblico voleva musica classica, allora suonava classico; se voleva balli popolari, poteva accontentarlo allo stesso modo. Se le chiedevi quale musica preferisse rispondeva: «Mi piace tutta». Pensavo che fosse meraviglioso essere di mentalità così aperta e versatile. A zia Ellsbeth non piaceva nessun tipo di musica che non fosse di Grieg. Da quanto sembrava divertirsi, nessuno avrebbe potuto indovinare che la
mamma si era lamentata tutto il giorno di dover lavorare come una schiava per gente che neppure le era simpatica. «Davvero, Damian, ti aspetti troppo da me. Sono alla fine del sesto mese, e si vede, e tu vuoi che la gente mi veda in questo stato?» «Sei stupenda e lo sai, incinta o no. Sei sempre sensazionale quando ti trucchi e ti metti un vestito vivace e sorridi.» «Solo stamattina mi hai detto che avevo un aspetto terribile.» Lo sfinimento le arrochiva la voce. «E ha funzionato, non ti pare? Sei saltata giù dal letto, ti sei fatta lo shampoo, le mani, e non ti ho mai visto più bella di così.» «Damian, Damian,» aveva sussurrato allora mia madre, la voce strozzata per l'emozione, dopo di che la porta era stata richiusa bruscamente. Io ero rimasta impalata in corridoio, fuori della porta della loro camera, chiedendomi cosa stessero facendo dopo che papà l'aveva richiusa con un calcio. Le parole che si erano scambiati mi echeggiavano nella testa mentre guardavo la mamma al pianoforte. Era davvero bella. In confronto mia zia sembrava scialba nel suo vestito stampato adatto solo per stare in cucina. Uggiolai per il dolore di un pizzico sul braccio. Accanto a me c'era Vera in camicia da notte, quando non sarebbe neppure dovuta scendere di sotto finché papà non le avesse dato il permesso... e per il momento non glielo aveva dato. Vera non mi veniva mai vicino senza farmi male in un modo o nell'altro. «Tua madre non è altro che una grande esibizionista,» bisbigliò. «Una donna nel suo stato non dovrebbe mettersi in mostra.» Eppure, guardando Vera, colsi ammirazione nei suoi occhi mentre anche lei veniva trascinata dal ritmo della musica. «La Prima Audrina suonava il piano proprio così,» mi sussurrò Vera all'orecchio. «E sapeva anche leggere la musica, e dovevi vedere che acquerelli faceva! Tu non sai fare niente in confronto.» «E neppure tu!» l'aggredii, ma ero di nuovo ferita. «Buonanotte, Vera. Sarà meglio che tu scompaia insieme a me, altrimenti corri il rischio che papà ti veda e ti punisca di nuovo.» Feci per tornare in camera mia. Ero a metà scale quando mi voltai e vidi Vera ancora nascosta dietro la porta alla quale si sosteneva mentre con i piedi accennava a un passo di danza segnando il ritmo della musica; spiava fino alla fine. Fu solo quando il rumore al piano di sotto si acquetò che riuscii a cadere in un sonno profondo e senza sogni. Girarmi e rigirarmi agitata nel letto era il mio modo di dormire, mentre quello di Vera era profondo e immobi-
le. Stavo rimpiangendo di non avere quel dono allorché presi sonno, solo per essere risvegliata bruscamente pochi secondi più tardi o così mi parve. I miei genitori stavano litigando violentemente. Non c'era da meravigliarsi che alla mamma non piacessero i ricevimenti. Ogni volta che ne davamo uno, andava a finire così. Signore, pregai scivolando giù dal letto, oggi è il mio compleanno e questo non è un buon inizio. Ti prego, fa' che sia come marzo, che arrivi come un leone e se ne vada come un agnello. Vera era già ginocchioni sul tappeto del corridoio, intenta a sbirciare dal buco della serratura. Nel vedermi si mise un dito ammonitore sulle labbra e silenziosamente mi fece cenno di andarmene. Non mi piaceva che spiasse i miei genitori per cui non le ubbidii e mi inginocchiai accanti a lei cercando di spingerla via. La voce rombante di papà era udibilissima attraverso la porta di quercia. «E nelle tue condizioni, per giunta. Hai ballato come una puttanella da quattro soldi. Ti sei resa ridicola agli occhi di tutti, Lucietta.» «Lasciami in pace, Damian!» gridò la mamma, come già dovevo averla sentita gridare almeno un centinaio di volte se non di più. «Inviti ospiti senza avvertirmi prima. Esci e compri liquori che non possiamo permetterci, e fiori, e champagne, mi porgi persino il bicchiere pieno, e quando poi divento brilla vai su tutte le furie. Ma cosa dovrei fare secondo te a una festa? Starmene seduta buona buona in un angolo e guardarti far la parte del leone?» «Tu rovini sempre tutto,» urlò papà. Quando era arrabbiato aveva una voce da perforarti i timpani, che invece si faceva dolcissima quando voleva qualcosa da te. Perché non si mostrava più premuroso con la mamma che evidentemente aveva tanto bisogno di comprensione? Non pensava al bambino in lei che forse udiva la sua collera? Dentro ero tutta un tremito, in ansia per la salute della mamma. Era così che l'amore andava e veniva, come regolato da un interruttore elettrico? Tornai in camera da letto e mi calai un guanciale sulle orecchie, e ancora li udivo litigare. Nauseata non seppi fare altro che alzarmi di nuovo e tornare da Vera che ancora era intenta a spiare dal buco della serratura. Anche lei tremava, ma di ilarità repressa. Furiosa, ebbi l'impulso di schiaffeggiarla. «Hai civettato, Lucietta. Civettato. E nelle tue condizioni per giunta. Ti strofinavi talmente a quel bamboccio di pianista sulla panchetta del pianoforte da sembrare fusi in una persona sola. Ti dondolavi! Ti si vedevano i capezzoli.»
«Basta così!» gridò lei. D'istinto le mani corsero a coprirmi la bocca. Provavo l'impulso di urlare e di farli smettere. «Sei un bruto, Damian. Un bestione egoista, contraddittorio e insensibile. Vuoi che suoni il piano, ma vai su tutte le furie quando perdi le luci della ribalta. Te l'ho già detto altre volte e lo ripeterò finché campo: non hai alcun talento se non quello di far andare la lingua! E sei geloso del mio.» Adesso sì che l'aveva fatta bella! Adesso lui non avrebbe avuto misericordia. Lentamente, lentamente, come in un incubo, mi afflosciai sulle ginocchia accanto a Vera. Lei mi permise di sbirciare attraverso il buco della serratura appena in tempo per vedere la sua mano colpire con un sonoro ceffone il viso della mamma. Gemetti contemporaneamente a lei. Facendo miei dolore e umiliazione. Vera si mise a ridere mentre mi spingeva via e rimetteva l'occhio al buco della serratura. «Audrina,» sussurrò, «si sta togliendo la cintura. Adesso tua madre si prende quello che si merita. E ci godo, ci godo davvero! È ora che la punisca... come dovrebbe punire te.» Inferocita la schiaffeggiai: la mia collera era immensa quanto quella di papà mentre la spingevo da un lato e mi avvinghiavo alla maniglia aprendola. Ricaddi nella camera da letto addosso al corpo steso di Vera. Papà piroettò su se stesso, senza camicia, i calzoni slacciati per metà. Il suo volto era una maschera di collera. La mamma era raggomitolata sul letto, le braccia protettivamente avvolte attorno al ventre prominente. «Cosa diavolo ci state facendo voi due qui?» ruggì papà, gettando per terra la cintura e indicando la porta. «Uscite! E non provatevi più a spiarci!» Balzando in piedi e cercando di rendere la mia voce potente quanto la sua gridai: «Non provarti a colpire di nuovo mia madre, o a usare quella cintura per frustarla! Non ci provare!». Mi fulminò con lo sguardo. I suoi occhi scuri erano dilatati e feroci. Trasudava alcool. Mentre sostenevo il suo sguardo con occhi dilatati e furenti quanto i suoi, la sua collera cominciò a sbollire. Si passò la mano enorme sul viso, sbirciò la sua immagine in uno specchio e parve turbato. «Non picchierei mai tua madre, dovresti saperlo,» si difese debolmente, come spaventato o umiliato per ciò che avevo veduto. In corridoio Vera ridacchiava scioccamente. Mio padre si voltò di scatto e gridò: «Quante volte ti ho detto che questa parte della casa appartiene a me? Fuori dei piedi, Vera!». «Oh, papà, per favore non sgridarmi. Non è colpa mia. È stata Audrina
che è venuta in camera mia a svegliarmi da un sonno profondo per dirmi di correre qui. Non fa che spiarvi attraverso il buco della serratura, papà, tutte le volte che non riesce a dormire.» La testa di papà si voltò di scatto. Si vedeva bene che mi riteneva troppo onesta per spiare. «Torna in camera tua, Audrina,» mi ordinò gelidamente. «E non spiarci mai più. Una cosa simile da te non me l'aspettavo. Forse penserai che io sia un bruto, ma è solo perché sono l'unico uomo in una casa di donne decise a distruggermi. Anche tu ci provi a modo tuo. E adesso fuori! Fuori tutte e due!» «Ma non farai del male alla mamma?» restai dove mi trovavo e aspettai una risposta, sebbene lui avesse già fatto un passo avanti. «Ma certo che non farò del male alla mamma.» C'era del sarcasmo nella sua voce. «Se la picchiassi e le facessi del male dovrei pagare io le parcelle del medico, non ti pare? Dentro di lei c'è mio figlio ed è a lui che penso.» Debolmente mia madre si sollevò a sedere e mi tirò vicina. Le sue braccia si spalancarono mentre mi accostavo. I suoi baci sapevano di lacrime. «Obbedisci a tuo padre, tesoro. Non mi farà del male. Non mi ha mai fatto del male... fisicamente.» Incerta, il mio sguardo corse da lei a papà che intanto stava sospingendo Vera fuori della stanza, allentandole un sonoro scapaccione. Poi si voltò verso di me. Anch'io temetti uno scapaccione, ma al contrario mi prese fra le braccia. «Mi dispiace di averti svegliata. Quando bevo troppo mi guardo allo specchio e vedo uno sciocco che non sa quando è il momento di smettere, e allora finisco per voler punire qualcuno solo per aver deluso me stesso.» Non capii neppure una parola di quel discorso. «Andrà tutto bene. La festa è finita.» C'era un gemito nella sua voce, sofferenza nei suoi occhi, vergogna, anche. «Torna a letto e cerca di dimenticare quello che hai sentito e visto. Ti amo e amo tua madre e con stanotte abbiamo chiuso con le feste. È finita, per sempre.» A letto fui tormentata da dubbi sugli uomini, sul matrimonio. Quella notte decisi che non mi sarei mai sposata, neppure se fosse cascato il mondo, dato che forse tutti gli uomini potevano essere come papà, meravigliosi e terribili. Ingannevoli, adorabili e crudeli anche quando amavano, brandendo la cintura nell'intimità, urlando insulti, criticando, derubandoti della fiducia in te stessa e instillando insicurezza e odio e vergogna per il solo fatto di essere donna. Forse zia Ellsbeth aveva ragione. Gli uomini erano re della foresta e del-
le montagne, re della casa e dell'ufficio e di tutto quanto... per il solo fatto di essere maschi. Un giorno di incubi Quella notte, quando infine riuscii a prendere sonno mi girai e mi dimenai e sognai cose terribili ma non osai gemere o urlare per paura che papà arrivasse di corsa in camera mia a farmi domande. D'ora in poi, qualunque cosa accadesse nella mia vita, l'avrei affrontata per conto mio. Come potevo perdonargli anche un solo schiaffo a mia madre? La confusione mentale era una condizione costante del mio stato d'animo, dunque perché dovevo sentirmi così costernata e delusa da qualcuno che amavo quando neppure per un attimo avevo cessato di sapere che potevo anche odiarlo? Sconcertata dalla mia stessa contraddittorietà riuscii a scivolare in un sonno leggero, torturata da orribili visioni di gente scheletrica che si trascinava lentamente sopra un fragile ponte nel nulla. Mi costrinsi a svegliarmi e trovai il cuscino bagnato di lacrime. Sospettai che quella giornata mi avrebbe dato pochi piaceri e le lacrime che avevo versato inconsciamente avrebbero trovato riscontro nella realtà. La depressione mi schiacciava come una cappa di piombo all'alba mentre facevo il bagno, mi vestivo e silenziosamente scivolavo al piano di sotto. La casa era gravida di malinconia; la luce del sole non filtrava attraverso le vetrate colorate. Pur non dovendo assolutamente calpestare i colori, desiderai che apparissero per dare a quella giornata una parvenza di luminosità e normalità. Un'occhiata fuori della finestra della cucina mi rivelò un cielo torbido e plumbeo, gravido di pioggia. Brume mattutine aleggiavano sul fiume Lyle. Lontane sirene ululavano tristi e luttuose e ancora più in là battelli diretti verso il mare rimandavano singhiozzanti addii. I gabbiani che sempre volavano nel punto in cui la mamma dava da mangiare alle anatre si udivano ma non si vedevano. Spettrali e attutite le loro strida lamentose arrivavano fino a me, facendomi venire la pelle d'oca. In un giorno come questo solo cose terribili potevano accadere. Fa' uscire il sole, Dio, fa' uscire la luce. È il mio nono compleanno, Dio, e in un giorno come questo la Prima e Migliore Audrina morì nel bosco. Volevo che la nebbia si sollevasse per rassicurarmi e dirmi che questo mio nono compleanno non sarebbe stato foriero di cose terribili solo perché la giornata era così tetra. Attesi in fondo alle scale sul retro, nella spe-
ranza di udire i passi di mia madre o le dolci nenie che canticchiava tra sé e sé mentre si vestiva e si preparava a scendere, il ticchettio delle sue vezzose pantofoline di raso sul pavimento nei punti in cui non era coperto da tappeti. Sbrigati a scendere, mamma, ho bisogno di te. Lei avrebbe messo in fuga i miei timori. Uscii dalla cucina che sembrava così squallida senza la mamma e andai in sala da pranzo. Le sue venti sedie erano allineate attorno al grande tavolo rettangolare. Quella tavola costituiva uno splendido palcoscenico quando non c'era nessuno a guardare e non di rado mi toglievo le scarpe e ci montavo sopra. Ma oggi la stanza era un luogo troppo triste e desolato per ballare. Nessuno aveva aperto i pesanti tendaggi verdi per far entrare la luce. Era sempre la mamma a farlo non appena arrivava a pian terreno. Quando aprii le tende e mi guardai attorno la stanza più allegra della casa mi parve cupa come le altre. Da qualche parte doveva pur esserci un calendario su cui segnare con un cerchio rosso questo mio nono compleanno. Ma non volevo un cerchio rosso, perché questo era stato anche il suo compleanno. Se fosse stata ancora viva, oggi lei avrebbe compiuto diciotto anni. Quanto doveva essere stata giovane la mamma quando aveva sposato papà. Guardando fuori della finestra mi accorsi che stavano cadendo i primi goccioloni di pioggia. Oh, Dio mio, possibile che piovesse sempre il nove settembre? Lavoro. Zia Ellsbeth diceva sempre che quando lavorava sodo non aveva tempo di pensare ai suoi problemi. È quello che avrei fatto. Avrei preparato la pancetta, le uova strapazzate, le frittelle, avrei lavato i piatti dopo colazione e la mamma se ne sarebbe stata seduta tranquilla compiaciuta di me. Che bello se zia Ellsbeth e Vera avessero tenuto la bocca chiusa. Avevo appena messo la padella sul fuoco, attenta a metterci dentro la pancetta a freddo di modo che non si arricciasse, quando fui spinta senza tanti complimenti da parte. «Cosa diavolo credi di fare?» mi aggredì la zia. «Sto dando una mano alla mamma.» La povera zia Ellsbeth era un vero disastro in cucina. Nessuno ce la voleva attorno se non per sfregare i pavimenti o pulire i vetri. «Che cosa ti passa per quella testa?» mi latrò contro la zia, dandomi il cambio alla padella. Subito alzò troppo la fiamma. Non mi avrebbe dato retta se le avessi detto di tenerla bassa. Andai a prendere l'occorrente per apparecchiare la tavola per cinque, guardando mia zia. Una tazza mi scappò dalle mani e andò a infrangersi sul pavimento. Restai pietrificata. Era la tazza preferita di papà. L'unica
dalla quale accettava di bere. E adesso avrebbe avuto un'altra ragione per essere in collera con me. Mia zia mi lanciò un'occhiata sprezzante. «Guarda cosa hai combinato. Faresti meglio a star fuori dei piedi. Quella tazza era l'ultima di un servizio che i tuoi genitori avevano ricevuto come dono di nozze. Tuo padre ti salterà agli occhi quando vedrà quello che hai combinato.» «Allora, cos'ha combinato stavolta quella scema di Audrina?» chiese Vera zoppicando in cucina, e stendendo le braccia sul tavolo in modo da appoggiarci sopra la testa. «Ho ancora tanto sonno. Questa casa è un inferno; non si riesce mai a fare un sonno filato.» Apparecchiare la tavola era una delle cose che riuscivo a fare per bene, e adesso mia zia mi urlava che stavo usando troppi piatti. «Apparecchia per tre, ragazzina, basterà.» Mi voltai sgomenta. «Perché per tre?» Continuò a rivoltare la pancetta nella padella. «Le contrazioni di tua madre sono cominciate prima dell'alba. Sembra che tutti i suoi figli abbiano il vizio di arrivare proprio nel momento in cui finalmente riesco a prendere sonno.» «Le contrazioni significano che il bambino è in arrivo?» «Sicuro.» «Ma non è troppo presto?» «A volte succede. Non si può predire esattamente quando un bambino deciderà di arrivare. Ormai è alla fine del sesto mese, e anche se il medico non riesce a fermare le contrazioni c'è comunque una possibilità che sopravviva.» Oh, caspita, avrei tanto voluto che il bambino avesse tutto il tempo per nascere completo, con i capelli, le unghie alle manine e ai piedini e tutto quanto. «Quanto ci mettono i bambini a nascere?» chiesi timidamente. «Puoi star certa che per qualcuno come Lucietta ci vorrà tutto il giorno e buona parte della notte e di domani, visto che pare sia fatta apposta per far sembrare difficile e dolorosa anche la più semplice e naturale delle cose.» Zia Ellsbeth stirò le labbra sottili in un acido sorriso da zitella. «Viziata, viziata da quando è nata, solo perché ha avuto la fortuna di essere più bella delle altre.» «Per caso papà ha chiamato per dire che la mamma soffriva tanto? Ha forse detto che stava perdendo il bambino?» Avevo voglia di mettermi a urlare per la sua laconicità, quando si trattava della vita di mia madre e del mio fratellino o della mia sorellina. Il groppo che avevo in gola si fece
sempre più pesante via via che diventava più grande. La pioggia annunciava davvero guai. In un lampo rividi l'incubo della notte prima. Quella gente scheletrica... «Anche Audrina è viziata,» si intromise Vera, «e non è neppure la più bella.» Cercai di inghiottire un pastone orrendo che mia zia aveva gettato nel frullatore... una brodaglia che, aveva detto, mi avrebbe messo un po' di carne addosso e riempito le guance scavate. Vera ridacchiò nel sentirle dire quelle parole. La pancetta fu gettata nella spazzatura: era talmente bruciacchiata che neppure mia zia riuscì a mangiarla. Torva e irritata, Vera si lamentò delle uova strapazzate che sua madre aveva cercato di rendere più saporite. «Caspita, sarà difficile mangiare qualcosa di decente adesso che la mamma non è qui a cucinare.» Aveva sottolineato di proposito la parola mamma per vedere sua madre rabbuiarsi. Zia Ellsbeth cercò di fingere di non aver udito la provocazione. Fui io a ripulire la cucina mentre mia zia se ne andava a guardare la televisione e fui io a scopare per terra mentre Vera correva a vestirsi per la scuola. Mentre pulivo i fornelli mi chiesi se ero più carina di Vera e se ero carina la metà di quello che era stata la Prima e Migliore Audrina. Cupamente mi dissi che era impossibile giudicarla da quelle lodi sperticate che lui faceva a proposito della sua «eterea, trascendentale, radiosa bellezza». «Resta in casa e sta' lontana dal bosco,» mi ordinò mia zia dalla stanza accanto quando mi udì aprire la porta sul retro. «Sta piovendo. E le ultime parole pronunciate da tuo padre sono state di tenerti d'occhio e di non lasciarti vagabondare da sola. Se smette di piovere puoi giocare in giardino... ma non un passo più in là.» «E di me cos'ha detto?» volle sapere Vera, già pronta per correre alla fermata dove l'autobus della scuola sarebbe passato a prelevarla. Portava un impermeabile di incerata gialla, con un cappuccio calato sui capelli. «Damian non ti ha nominata.» Quanto gelo poteva mettere mia zia nella voce quando voleva! Non provava il minimo amore per quella sua figlia illegittima. Sorrisi a me stessa per aver formulato un pensiero così sciocco. Tutte le volte che di nascosto avevo guardato la televisione che mia zia egoisticamente teneva in un angolo per il suo piacere privato, avevo visto che in quei polpettoni che lei amava tanto le protagoniste avevano sempre «figli della colpa». «Non puoi fidarti di Audrina se c'è di mezzo Arden Lowe,» gridò Vera
odiosamente. «Farai meglio a chiudere a chiave tutte le porte e le finestre, altrimenti troverà il modo di scappare per incontrarsi con lui. Aspetta e vedrai, prima o poi finirà per lasciargli fare...» «Lasciargli fare cosa?» chiesi aggrottando la fronte. «Vera,» si intromise mia zia, «non una parola di più! Esci di qui se non vuoi perdere l'autobus.» Piena di invidia guardai Vera zoppicare verso la superstrada, facendo schizzare l'acqua da ogni pozzanghera. Un attimo prima di svoltare dietro la curva si girò verso di me e mi fece marameo. Vera era scomparsa da un pezzo, ma io ero rimasta immobile: pensavo alla mamma e speravo che non soffrisse troppo e non perdesse troppo sangue. Il dolore era sempre associato al sangue, e anche all'angoscia. Già lo sapevo. Questa forse era la sofferenza peggiore, poiché nessuno sa cosa sia all'infuori di chi la prova. Perché papà non telefonava per rassicurarmi? Volevo sapere cosa stava accadendo. Girai attorno al telefono talmente a lungo che la pioggia smise di cadere e la tetra casa silenziosa cominciò a innervosirmi. Quando smise di piovere scesi giù al fiume dove terminava il giardino. Alla pallida luce del sole, sotto un cielo slavato, lanciai nell'acqua ciottoli piatti, come avevo visto fare a papà. Una settimana senza la cucina della mamma mi avrebbe fatto dimagrire, e Dio sa se non lo ero già abbastanza. Papà non chiamò per tutta la giornata. Io mi agitai, mi crucciai, camminai avanti e indietro, andai decine di volte alle finestre. Vera scarpinò a casa e si lamentò che il minestrone di verdura che zia Ellsbeth aveva preparato per il pranzo faceva schifo. Poi vidi Arden arrivare al volo lungo il viale con una scatola enorme legata alla bicicletta. Gli corsi incontro, nel terrore che mia zia riferisse la sua visita a papà. «Buon compleanno!» mi gridò sorridendo, mentre metteva giù la bicicletta e mi correva incontro. «Sono di volata... ti ho portato qualcosa che la mia mamma ha preparato per te, e anche una cosuccia da parte mia.» Ero stata io a dirgli del mio compleanno? Mi sembrava di no; neppure io ne sapevo nulla fino al giorno prima. I suoi occhi mi guardarono caldi e luminosi, mentre con gesti affrettati aprivo la più grande delle due scatole. Dentro trovai uno stupendo vestito pervinca con polsini e colletto bianchi. Al colletto era appuntato un mazzolino di violette di seta. «L'ha fatto la mamma per te. Dice che può misurare le persone a occhio. Ti piace? Pensi che ti entri?» D'impulso gli buttai le braccia al collo, talmente felice da avere le lacrime agli occhi. Nessun altro si era ricordato del mio compleanno. Parve
imbarazzato e felice della mia reazione poi, frettolosamente, mi porse la scatola più piccola. «Non è gran che, davvero, però mi sono ricordato che una volta mi hai detto che facevi fatica a rammentare le cose e che tenevi un diario. Ho cercato dappertutto per trovarne uno del colore identico del vestito, ma sembra che di diari pervinca non se ne facciano, così ne ho comprato uno bianco con delle violette dipinte. E se ce la fai a fare un salto a casa nostra verso le cinque, la mamma ti ha preparato una bellissima torta di compleanno tutta decorata. Se non puoi venire allora te la porterò qui.» Mi asciugai gli occhi e ricacciai indietro lacrime di gratitudine. «Arden, sta arrivando il bambino, oggi. Mia madre è andata via da prima dell'alba e fino a ora non ho avuto notizie. Se papà telefona per dire che la mamma e il bambino stanno bene verrò. Altrimenti non posso muovermi.» Cautamente, come se temesse che mi mettessi a urlare o lo respingessi, mi abbracciò frettolosamente poi mi lasciò andare. «Non fare quell'aria preoccupata. I bambini nascono a ogni minuto del giorno, milioni di bambini. È un fatto naturale. Scommetto che tua zia si è dimenticata del tuo compleanno, vero?» Annuii e chinai la testa per nascondergli il dolore che provavo. Il grazioso diario che mi aveva regalato aveva una chiave d'oro per proteggere i miei segreti. Oh, se ne avevo di segreti, sconosciuti persino a me stessa! «Dopo la consegna dei giornali della sera ti aspetto al limitare del bosco. Aspetto finché non cala il sole e se non ti vedo ti porto qui la torta.» Non potevo permetterglielo. Papà l'avrebbe scoperto. «No, domani vengo di sicuro e festeggiamo insieme. Ringrazia Billie per questo vestito stupendo. È bellissimo. E grazie a te per il diario. È proprio quello che volevo. Non aspettare al limitare del bosco. Cose terribili accadono nel bosco, soprattutto in questo giorno. Non voglio che tu resti lì al buio.» L'occhiata che mi lanciò parve angosciata, strana e piena di cose che non capii fino in fondo. «Ci vediamo dopo, Audrina. Sono felice che tu abbia compiuto nove anni.» Un attimo dopo non c'era più e io rimasi con una sensazione di minor solitudine e abbandono. La cena di mia zia fu talmente insapore che persino lei mangiò senza eccessivo entusiasmo. Papà continuava a non telefonare. «Questo dimostra che razza di uomo orribile sia,» osservò Vera, «egoista e senza riguardo per i sentimenti altrui. Ci scommetterei che in questo momento è in qualche bar a distribuire sigari per festeggiare la nascita. E tu ci puoi scommettere il tuo ultimo dollaro, dolce Audrina, che non sarai più la sua favorita
quando avrà portato a casa il bambino... femmina o maschio che sia.» Quella notte non feci che passare da un incubo all'altro. Vidi bambini in attesa di nascere volteggiare attorno alle nubi, tutti quanti che gridavano e imploravano per essere scelti dalla mamma. Vidi papà servirsi di una gigantesca mazza da baseball per lanciare nell'universo tutte le femminucce e poi afferrare un grosso maschietto e chiamarlo «figliolo». Il fratellino che credevo di volere, nel giro di una notte crebbe fino a diventare un gigante che mi calpestava... e a papà non gliene importava proprio niente. Mi svegliai in una stanza scialba e livida. Il sole non era che una luminescenza rosea all'orizzonte. Ancora assonnata mi riaddormentai e questa volta la mamma venne ad abbracciarmi e a dirmi che ero la migliore e la più stupenda delle figlie, e che presto mi avrebbe rivista. «Fa' la brava bambina e obbedisci a papà,» bisbigliò e mi baciò. Non udii le sue parole, sentii solo che questo era ciò che mi diceva. La guardai svanire finché non divenne parte di una nube rosea che tremolava come certi suoi abiti da sera. Strano svegliarsi e sapere che i miei genitori non erano in casa. Ancora più strano aver sognato di loro. Quando sognavo qualcuno era solo perché mi aveva fatto qualcosa di male e di deludente. Sognavo molte volte di Vera. Quel giorno fu molto simile al precedente. La mia agitazione crebbe al punto che telefonai a Billie e le dissi di rimandare la festa di compleanno poiché papà non aveva ancora telefonato e io dovevo essere presente quando l'avesse fatto «Capisco, tesoro. La torta aspetterà. Se sarà necessario ne farò un'altra.» Verso le quattro mia zia mi chiamò giù in cucina: «Audrina,» esordì, mentre tirava fuori il frullatore, «tuo padre ha telefonato mentre eri di sopra. Il bambino è nato. È una femminuccia e si chiama Sylvia». Non una volta guardò verso di me, non una volta. Detestavo che la gente mi parlasse senza guardarmi. Per una volta Vera sembrava occupata a pelare patate. «Adesso sei sistemata,» disse con un sogghigno acido. «Vorrà più bene a lei che a te, testa vuota.» «Finiscila, Vera! Che non ti senta mai più chiamare Audrina a quel modo.» Era la prima volta che mia zia mi difendeva e io la guardai con gratitudine. «Vera, sali di sopra a fare i compiti. Finirà Audrina di pelare le patate.» La mia gratitudine svanì. Mi toccava sempre fare i lavoretti di Vera. Era come avere una sorellastra cattiva e come se io fossi stata Cenerentola. Ri-
bollivo mentre Vera sorrideva compiaciuta. «Mi dispiace,» disse mia zia in quello che per lei era un tono gentile, «ma voglio parlarti a quattr'occhi.» «Come sta la mamma?» chiesi cautamente. «Audrina, non è tutto, c'è dell'altro che devo dirti,» seguitò mia zia con voce esitante. Oltre la cucina scorsi una ciocca di capelli color albicocca mentre Vera cercava di nascondersi per spiarci. «Lascia perdere, Ellie,» disse papà che proprio in quel momento stava entrando in cucina da un'altra porta. Si lasciò cadere pesantemente su una sedia. «Glielo dirò io a modo mio.» Era spuntato così repentinamente e silenziosamente dal nulla che lo fissai come un estraneo. Mai l'avevo visto con la barba così lunga e incolta, mai con gli abiti così spiegazzati. I suoi occhi erano arrossati e gonfi, con profondi cerchi scuri attorno. Incontrò brevemente il mio sguardo, poi puntellò i gomiti sul tavolo e si nascose il viso fra le mani, mentre le sue spalle erano scosse da un tremito. Sempre più allarmata corsi da lui e cercai di abbracciarlo come così spesso lui abbracciava me. «Hai l'aria così stanca, papà.» Avevo la sensazione che il cuore mi fosse caduto nei calzini. Perché tremava? Perché si nascondeva la faccia? Che fosse così deluso che la neonata era una femminuccia da non poter affrontare l'idea di un'altra figlia come me? Ebbe un sussulto prima di sollevare la testa e abbassare le mani strette a pugno. Colpì più volte e con forza il piano del tavolo, facendo rovesciare un vaso di fiori. In un lampo mia zia accorse a rimetterlo in piedi. Andò a prendere una spugna per asciugare l'acqua mentre mi affrettavo a riempire di nuovo il vaso. «Papà, dai! Dimmi della mamma. Mi sembra un mese che se n'è andata.» I suoi occhi scuri erano colmi di lacrime trattenute. Scosse il capo da una parte e dall'altra, a mo' di cane che si scuote via l'acqua. C'era del panico che lottava per non invadergli gli occhi e quando parlò colsi con orrore la pesante lentezza delle sue parole: «Audrina, ti stai facendo grande, ormai». Lo fissai, detestando quell'esordio. «Ricordi che un tempo mi raccontavi sempre dei vostri tè del martedì e di come zia Mercy Marie faceva somigliare la vita e la morte a una eterna battaglia? Ebbene, è proprio così. La vita e la morte fanno parte dell'esperienza umana quanto il giorno e la notte, il sonno e la veglia. Qualcuno nasce, qualcuno muore. Perdiamo, vinciamo. È l'unico modo di guardare alla vita senza impazzire.» «Papà,» gemetti, «non...» «Oh, piantala con questa storia,» esplose mia zia. «Damian, perché non
la fai finita e non glielo dici? Non potrai proteggerla per sempre dalle asperità della vita. Più rimandi le cose, più duro sarà per lei quando alla fine dovrà affrontare la realtà. Smettila di ricacciare tua figlia in un mondo di fantasia.» Mio padre ascoltò le sue brutali parole e la sua voce brusca, abrasiva, e mi guardò con rimpianto. «Immagino che tu abbia ragione,» convenne con un sospiro. Una di quelle lacrime che gli luccicavano negli occhi scivolò giù, scorrendogli sulla guancia. Si sporse per prendermi fra le braccia, mi sollevò in grembo e mi strinse al petto. Poi dovette schiarirsi la gola. «Tesoro, non è facile per me dirtelo. Non ho mai dovuto dare una notizia come questa a nessuno, meno che mai alla bambina del mio cuore. Forse in passato ti hanno raccontato che tua madre ha fatto molta fatica a metterti al mondo.» Sì, sì, l'avevo sentito dire... ma aveva fatto fatica anche con la Prima Audrina. «E ne ha fatta ancora di più con Sylvia.» Mi strinse più forte, stritolandomi quasi. «Mi pare di averti spiegato, tempo fa, che i bambini vengono al mondo passando dal canale della nascita della loro mamma.» Indugiò, riempendomi di un'ansia ancora più spasmodica. «La povera Sylvia è rimasta prigioniera in quel canale... forse per troppo tempo.» Di nuovo si fermò. Il cuore mi batteva così forte che lo sentivo picchiare contro la cassa toracica. Vera era entrata in cucina e ora se ne stava in ascolto. I suoi occhi scuri, scurissimi, sembravano pieni di consapevolezza. «Tesoro, stringimi forte adesso. Devo dirlo. E tu devi sentirmelo dire. Tua madre ci ha lasciati, tesoro. È andata in cielo... È morta poco dopo la nascita di Sylvia.» Udii le sue parole ma non gli credetti. No, no. Non poteva essere così. Avevo bisogno di mia madre. Dovevo averla, e Dio già aveva derubato papà della sua Migliore Audrina. Possibile che fosse così spietato da colpirlo di nuovo? «No, papà. La mia mamma è troppo giovane e bella per morire.» Singhiozzai. Ero ancora una bambina. Chi mi avrebbe aiutata a crescere? Lo sbirciai dal basso verso l'alto per vedere se sorrideva e mi strizzava l'occhio, indicando che era un terribile scherzo escogitato da Vera. Lanciai un'occhiata a mia zia che se ne stava impalata con la testa china a tormentare con le mani il grembiule immacolato. Vera aveva fatto un'espressione strana, come se fosse stupefatta almeno quanto me. Allora la testa di papà si reclinò sulla mia spalla e finalmente cominciò a piangere. Oh, non a-
vrebbe pianto se non fosse stato vero! Mi sentii come intirizzita dentro e le lacrime nel mio cervello traboccarono sommergendo le urla sul mio volto. «L'amavo, Audrina,» singhiozzò mio padre. «Certe volte non ero quello che sarei dovuto essere, ma l'amavo lo stesso. Lei aveva rinunciato a tante cose per sposarmi. So bene che le ho impedito di seguire la carriera che desiderava e non ho fatto che ripetermi tutti i giorni che non sarebbe riuscita a nulla, ma non è vero, sarebbe riuscita se io non fossi entrato nella sua vita. Respingeva un uomo dietro l'altro, decisa a diventare una pianista, ma io non le ho permesso di rifiutare la mia proposta di matrimonio. La volevo e l'ho avuta, e poi le ho detto che era solo una musicista mediocre più per consolare me stesso che per consolare lei. Volevo essere il centro del suo universo e lei me lo ha concesso. Dava così tanto di sé, cercava di essere tutto ciò che volevo, anche quando ciò che volevo non era ciò che voleva lei. Ha saputo imparare a compiacermi e per questo sarei dovuto esserle riconoscente. Non le ho mai detto che le ero riconoscente...» Non riuscì a continuare e dovette asciugarsi gli occhi e schiarirsi la voce prima di seguitare. «Mi ha dato te, Audrina. Mi ha dato altre cose ancora, e adesso che è troppo tardi mi rendo conto che non l'ho mai apprezzata abbastanza.» Da qualche parte nel gelo del mio panico ebbi la visione di mio padre che torreggiava sopra di lei brandendo la cintura. Udii ancora una volta la voce di mia madre, così come aveva parlato l'ultima sera che l'avevo vista viva. «Non mi ha mai fatto del male... fisicamente.» Dunque doveva averla ferita psicologicamente. Sentii fiumi di lacrime roventi sgorgarmi dagli occhi, liquefacendomi il viso. Perché papà non aveva accennato al fatto che lei gli aveva dato la migliore di tutte le figlie, quella figlia morta nel cimitero? «No,» ripeté papà, tremando da capo a piedi e cercando di sommergermi nel suo dolore, «non l'apprezzavo abbastanza.» Ero in collera con lui per aver dato l'avvio a quel bambino. In collera con Dio per averla portata via. In collera con Vera e con tutti gli altri che avevano una madre mentre io no. Ora avevo solo una zia che mi odiava e Vera non era neanche meglio di lei e papà... che genere di amore era il suo? Non il genere di cui davvero avevo bisogno, quel genere di amore sicuro e leale che non mente mai. Con chi mi sarei confidata adesso? Non con mia zia. Lei non aveva mai voluto ascoltare quello che avevo bisogno di dire, né aveva mai acconsentito a dirmi ciò che mi occorreva sapere per crescere. Chi mi avrebbe insegnato adesso a indurre un uomo ad amarmi?
Il genere di amore di papà era egoista e crudele. In un certo senso avevo sempre saputo, fin dal primo momento in cui avevo aperto gli occhi quella mattina, che qualcosa di terribile sarebbe accaduto. Qualcosa in me che era saggio, ipersensibile, soprattutto riguardo alla tragedia, mi aveva preparata in anticipo... ed è per questo che avevo sognato di lei quella mattina. Forse era addirittura venuta da me a dirmi addio prima di svanire in una nuvola rosea. Perché qualcuno doveva sempre morire il giorno del mio compleanno? E se Dio si fosse preso anche papà e io fossi rimasta con mia zia, che avrebbe distrutto la parte migliore di me? «Dov'è il bambino?» chiesi con voce esile, fragile. «Tesoro, tesoro,» disse papà, «andrà tutto bene, vedrai.» Arretrando, folgorandolo con lo sguardo, capii che stava mentendo. Le sue ampie spalle si afflosciarono. «E va bene, lascia che provi a spiegarti. I neonati sono sempre molto fragili. Soprattutto quelli che nascono prematuri. Sylvia è molto piccola, pesa appena un chilo. Non è perfetta e finita come eri tu. Niente capelli, niente unghie, dunque ha bisogno di cure e attenzioni. Non è possibile darle qui ciò che le occorre. Adesso è stata messa in un'incubatrice, Audrina, una scatola di vetro riscaldata nella quale medici e infermieri possono tenere un occhio vigile su di lei. È per questo che Sylvia dovrà restare in ospedale ancora per un po'.» «Voglio vederla. Portami all'ospedale. Per quello che ne so io la mamma potrebbe anche non aver mai avuto nessun bambino ed essere morta di... di...» E che Dio mi aiuti, per quanto desiderassi dirlo, non riuscii a risolvermi a dire che l'aveva uccisa lui. «Tesoro,» riprese con voce piatta e atona, gli scuri occhi stanchissimi, «Sylvia è una neonata piccola, piccolissima. Le infermiere si prendono cura di lei ventiquattr'ore su ventiquattro. Portano delle maschere di tela davanti alla bocca per mantenere sterile l'atmosfera. I bambini come te si portano addosso molti germi; non ti permetterebbero di avvicinarti a lei. Non è neppure detto che sopravviva, dunque sarà meglio che ti prepari anche alla sua morte.» Oh, Dio! Se fosse andata così, la morte della mamma non avrebbe avuto alcun senso... se mai la morte ne avesse uno. Dissi a me stessa che Sylvia sarebbe vissuta, poiché avrei pregato mattino mezzogiorno e sera fino al giorno in cui fosse venuta a casa e io le avessi fatto da mamma. «Così piccola e già ha provocato tanta sofferenza e dolore,» mormorò papà pesantemente, nascondendo di nuovo la testa fra le braccia piegate
sul tavolo. Chiuse gli occhi e parve assopito. Zia Ellsbeth gli girava attorno, apparentemente desiderosa di consolarlo senza sapere come. A un certo punto fece persino il gesto di sfiorargli il viso, poi di botto ritrasse la mano e solo i suoi occhi indugiarono carezzevoli su di lui. Lo stava biasimando proprio come lo biasimavo io, mi dissi, senza che mi venisse in mente che forse la mamma non era fatta per mettere al mondo dei figli. Poi, come se avesse sentito mia zia volteggiargli attorno, papà sollevò la testa e la fissò diritto negli occhi con una strana sfida non detta nello sguardo stanco ma fermo. «Mi auguro che ti possa permettere un'infermiera che si occupi di Sylvia quando la porterai a casa,» disse zia Ellsbeth con voce piatta, indifferente. I suoi occhi scuri lo affrontarono, gli restituirono la sfida. «Se pensi che abbia intenzione di gettare dalla finestra il resto della mia vita restando qui a badare a due bambine non mie... allora ripensaci, Damian Adare.» Per lunghi istanti i loro occhi scuri combatterono una muta battaglia di volontà, e fu solo quando gli occhi di mia zia si abbassarono per primi che papà replicò. «Resterai,» disse con voce incolore. Allora lei lo guardò di nuovo, sostenendo il suo sguardo fermo con sfida. «Sì, Ellie, non partirai perché sarai la padrona di Whitefern e di tutto ciò che contiene.» Aveva forse messo un'enfasi speciale sull'aggettivo tutto? Forse era solo la mia immaginazione. E la mia immaginazione era vivace, persino nei momenti in cui ero sconvolta. Quella notte Vera scivolò nella mia camera da letto, mentre piangevo, per sussurrarmi all'orecchio che papà avrebbe potuto salvare la vita di mia madre se non avesse voluto a tutti i costi il bambino. «Ma non l'amava abbastanza,» seguitò spietatamente. «Voleva quel bambino ed era certo che sarebbe stato un maschio. Ci puoi scommettere fino all'ultimo centesimo che se avesse sospettato che si trattava solo di un'altra femmina, come te, avrebbe detto ai medici di sacrificare il bambino e salvare tua madre.» «Non ti credo,» singhiozzai. «Papà non mi ha detto che c'era la possibilità di una scelta.» «Perché non voleva che lo sapessi. Vedi, non sapeva neppure che tua madre aveva un problema di cuore, ed è per questo che stava sempre sdraiata su quell'ottomana viola o sul letto. È per questo che era sempre stanca. Dopo che sei nata tu il medico aveva detto che non doveva avere altri figli. Così quando Sylvia è rimasta incastrata in quello che tuo padre chiama il canale della nascita, avrebbe potuto dire ai medici di salvare la vita di tua madre e sacrificare il bambino. Ma lui voleva quel bambino.
Voleva un maschio. Tutti gli uomini vogliono un figlio maschio. Ed è questa la vera ragione per cui tua madre adesso giace su un duro e gelido tavolo di marmo in un grande frigorifero nella camera mortuaria dell'ospedale. E domani mattina presto apriranno quel cassetto, porteranno le sue spoglie nella camera ardente dove qualcuno le aspirerà via tutto il sangue. Poi le cuciranno le labbra e le palpebre insieme di modo che non si aprano durante la visita dei parenti... e addirittura infileranno del cotone nel...» «Vera!» ruggì mio padre facendo irruzione nella stanza e afferrandola per i capelli. «Come osi entrare in camera di mia figlia e riempirle la testa di racconti così orribili? Ma che razza di mente malata hai? Che razza di mente?» Piovve il giorno del funerale di mia madre. Erano tre giorni che pioveva a intermittenza. La nostra sparuta famigliola si strinse sotto un tetro baldacchino. La pioggerellina si addensava e scorreva in piccoli rivoli cadendo sulla bara di mia madre ricoperta da un gigantesco cuscino di rose rosse. A un'estremità della cassa c'era una croce di rose bianche con un fiocco viola sul quale era impresso il mio nome in oro. «Alla mia mamma, dalla sua adorata figlia, Audrina,» c'era scritto. «Papà,» mormorai tirandolo per la manica, «chi ha mandato quelle rose per me?» «Io,» mi mormorò lui di rimando. «Le rose rosse che le piacevano più di tutto sono mie, ma ho pensato che le rose bianche fossero più appropriate per esprimere amore filiale. Gli altri fiori sono stati mandati dai nostri amici.» Non avevo visto tanti fiori così belli in un luogo così lugubre. Attorno a noi si affollavano persone vestite di scuro con volti dolenti, eppure mi sentivo così sola, pur essendo attaccata a papà da una parte e ad Arden che mi teneva stretta la mano dall'altra. «Amici carissimi,» iniziò il ministro della chiesa che frequentavamo ogni domenica, «siamo qui riuniti in questa giornata piovosa a dare l'ultimo addio a un membro amato e rispettato della nostra comunità. Una donna bella e piena di talento che sapeva illuminare giornate come questa con il sole della sua presenza. Ella abbelliva le nostre vite e le rendeva migliori. E noi abbiamo tratto ricchezza dal suo passaggio su questa terra. Poiché ella era generosa ci sono bambini al villaggio di Whitefern che hanno trovato balocchi e vestiti nuovi sotto l'albero di Natale quando altrimenti ne sarebbero stati privi. Ci fu cibo sul tavolo dei poveri poiché questa donna li amava...» E via di questo passo udii tutte le opere buone che mia madre
aveva compiuto. Mai aveva lasciato capire che contribuiva ad alcuna delle numerose opere di carità della nostra chiesa. E quante volte mia zia aveva definito viziata ed egoista mia madre quando invece non aveva fatto che dare, indossando abiti vecchi che lei faceva sembrare nuovi. Soffiò il vento e giuro che mi parve neve. Freddo mi parve, così freddo. Stringendomi più vicino a papà mi aggrappai con maggior forza alla sua mano guantata che chiudeva la mia. Udii parole allora che sapevo che prima o poi quel ministro avrebbe pronunciato, anche se questo era il mio primo funerale: «Sì, per quanto cammini nella valle delle ombre e della morte, non temo il male, giacché tu sei con me...». Mi parve di restare lì un'eternità, con la pioggia che batteva forte adesso, scrosciando nelle pozzanghere. Dietro le palpebre abbassate mi figurai mia madre che cantava con la sua limpida voce da soprano: «Vengo da sola al giardino... finché la rugiada è sulle rose...». E ora non l'avrei mai più sentita cantare o suonare. Adesso l'argano avrebbe sollevato la cassa per calarla nella fossa. Non l'avrei più vista. «Papà!» gemetti lasciando andare la mano di Arden e voltandomi per premere il viso contro la sua giacca. «Non far mettere la mamma in quella fossa bagnata. Mettiamola in una di quelle cassette di marmo.» Che espressione triste aveva. «Non posso permettermi una cappella di marmo,» mi sussurrò, esortandomi a non dar spettacolo. «Ma quando saremo ricchi ne faremo fare una bellissima, un vero tempio per tua madre... mi ascolti, Audrina?» No, non ascoltavo con tutte e due le orecchie. La mia mente era occupata da mille pensieri mentre il mio sguardo si fissava sulla pietra tombale della Prima e Migliore Audrina. Perché non mettevano mia madre accanto a lei? Lo chiesi a papà. Il suo mento quadrato si protese in avanti: «Quando sarò morto voglio riposare fra mia moglie e mia figlia». «E io dove riposerò, papà?» chiesi con un dolore nel cuore che dovette riflettersi nel mio sguardo. Anche nella morte non avevo un luogo che mi appartenesse. «Presto o tardi conoscerai il tuo posto,» rispose con voce strozzata. «Non parlare più, Audrina. La gente del paese ti guarda.» Le sue parole mi indussero a guardarmi attorno, a guardare la gente di Whitefern che non veniva mai a farci visita, che non ci rivolgeva mai la parola né agitava la mano in segno di saluto quando passavamo per le strade. Ci odiavano per troppe ragioni, diceva mio padre, sebbene nulla di ciò
che era stato fatto in passato fosse colpa nostra. Eppure erano venuti al funerale di mia madre. Erano i poveri che lei aveva nutrito e vestito e consolato? Se così era, perché non piangevano? Tuttavia ricacciai indietro le lacrime, raddrizzai la schiena, sollevai la testa a imitazione di papà, sapendo che la mamma mi avrebbe approvato perché mi dimostravo coraggiosa e forte. «La gente di rango elevato non mostra mai i propri sentimenti; li serba per quando non ci sono occhi indiscreti.» Finalmente il funerale ebbe termine. Lentamente il piccolo gruppo di presenti si disperse, lasciando sola la nostra famiglia, pronta a tornare a casa nella macchina di papà. «Vado a New York,» annunciai a papà mentre lui mi teneva aperto lo sportello anteriore per farmi salire. «Ho deciso che farò la pianista come avrebbe voluto fare la mamma. Non c'è nulla, assolutamente nulla che tu possa fare per impedirmelo.» Arden mi stava dietro, in procinto di montare in macchina anche lui, sul sedile posteriore insieme a Vera e a mia zia. «Ma se non sai neppure suonare,» ribatté aspro. «Alla tua età la mamma suonava già da anni. Tu non hai mai messo le mani su una tastiera, neppure una volta. Una chiara indicazione che la musica non ti attira.» «Non attirava neppure lei, papà. Mi ha raccontato che i suoi genitori l'hanno letteralmente costretta a prendere lezioni di musica finché non ha imparato a suonare discretamente. Solo allora si è appassionata. Anch'io mi appassionerò, non appena avrò imparato a suonare un pochino.» «Le dia una possibilità,» si intromise Arden che per tutta la durata del funerale aveva tenuta stretta la mia mano. Ero ferita perché Billie non era venuta al funerale di mia madre. «Tu tienti fuori da questa faccenda, giovanotto,» ringhiò papà lanciando ad Arden un'occhiata significativa, carica d'odio. «Tu non sei che una bambina, Audrina, e ancora non sai cosa va bene per te. Tu hai altri doni, doni molto più importanti che picchiare su dei pezzetti di avorio.» Non credetti neppure lontanamente che papà rimpiangesse veramente di aver costretto la mamma a essere solo moglie e madre. Né, tanto meno, credevo che mi avrebbe lasciata sfuggire al suo dominio... ma ci avrei provato. Avrei realizzato tutto ciò che mia madre aveva desiderato per sé quando era giovane e piena di sogni. Avrei fatto diventare i suoi sogni realtà, piuttosto che continuare a sedermi su quella sedia a dondolo per fare diventare realtà quelli di mio padre. «È una sciocca ambizione,» esordì papà, fulminando Arden con lo sguardo come se si augurasse che cadesse morto sul posto e non mi infa-
stidisse più. «Aspetti un attimo, Mr. Adare. La finisca di sottovalutare Audrina. Non è una sciocca ambizione voler realizzare i sogni della propria madre. Audrina ha proprio quel genere di percettibilità, di sensibilità che fanno grande un musicista. E io conosco proprio il maestro giusto. Si chiama...» «Non voglio sapere come si chiama!» lo interruppe papà. «Hai forse intenzione di pagare tu le sue lezioni, ragazzo? Perché, stammi bene a sentire, che io sia dannato se lo farò! Il padre di mia moglie ha sperperato una fortuna convinto che sua figlia sarebbe diventata famosa in tutto il mondo e lei invece ha fatto fiasco su tutta la linea.» Perché dimenticava tutto ciò che aveva detto il giorno della morte della mamma? Non aveva alcun rimpianto! Proprio nessuno! «È stato perché ha sposato te, papà!» Mi infuriai a voce abbastanza alta perché le poche persone rimaste nel cimitero si voltassero a guardarci. Sbiancai sotto i loro sguardi incuriositi e posai gli occhi nel punto in cui la sottile pietra tombale bianca si stagliava scura contro il cielo tempestoso. Che cosa inquietante vedere il proprio nome su una lapide. «Questo non è il posto per discutere di carriere,» tagliò corto mio padre. Di nuovo si rivolse ad Arden. «E tu, giovanotto, da oggi in poi stattene alla larga da mia figlia. Non ha bisogno né di te né dei tuoi consigli.» «Ci vediamo dopo,» mi disse Arden agitando la mano in un gesto che, a modo suo, mostrava tutta la sua sfida. «Quel ragazzo non sarà che fonte di guai,» brontolò papà. Senza che ce ne rendessimo conto, Vera aveva scavalcato lo schienale del sedile e adesso si era sistemata fra me e lui, mandandolo ancor più su tutte le furie allorché, quando superammo Arden, si mise a salutarlo freneticamente con la mano. Adesso che la mamma non c'era più la casa sembrava vuota, priva di anima, e papà sembrava aver dimenticato la sedia a dondolo. Una notte insonne mi venne in mente che se lui era convinto che potessi mettermi in contatto con la Prima e Migliore Audrina dondolando e cantando su quella sedia, forse, allo stesso modo, sarei riuscita a mettermi in contatto anche con la mamma. Non mi sarei messa a urlare se avessi potuto rivedere la mia mamma. Quel pensiero mi impedì di addormentarmi. Avrei avuto il coraggio di andare furtivamente in quella stanza e di dondolare tutta sola, senza papà fuori della porta in corridoio? Sì, dovevo diventare adulta. Qualcuno doveva pur insegnarmelo, e certamente la mamma conosceva i
propri errori e mi avrebbe detto come evitarli. Silenziosamente, in punta di piedi, percorsi il corridoio e superai la camera da letto di Vera dalla quale proveniva la musica della radio. Giunta nella stanza accesi soltanto una fioca luce prima di richiudere la porta e guardarmi attorno. Non era pulita neppure la metà di come lo era stata quando la mamma era viva. Zia Ellsbeth sosteneva di aver troppo da fare a cucinare, lavare i piatti e fare anche il bucato. I pochi ragni che si erano ritirati nell'ombra alla presenza della mamma si erano riprodotti e adesso penzolavano dal soffitto. Alcuni tessevano le loro tele fra i gigli della sedia a dondolo. Con un senso di repulsione mi recai a uno degli armadi e frugai dentro alla ricerca di un vestitino infantile. Lo strappai dall'appendiabiti e spolverai la sedia a dondolo, poi lo usai per ripararmi la scarpa prima di schiacciare ogni ragno a uno a uno. Fu un'operazione macabra, raccapricciante, che non avevo mai fatto prima di allora. Debole e tremante sedetti con gesto di sfida sulla sedia a dondolo, pronta a saltare in piedi se fosse accaduto qualcosa. La casa era così silenziosa che udivo il mio respiro. Rilassarmi, dovevo rilassarmi. Dovevo diventare il vaso vuoto che si sarebbe colmato di pace e appagamento e allora la mamma sarebbe potuta venire da me. Fintanto che avessi pensato alla mamma e non all'Altra Audrina, i ragazzi del bosco non sarebbero venuti. Decisi di cantare una delle canzoni della mamma. ... E lui cammina accanto a me, e lui parla con me, e mi dice che sono sua... Per la prima volta dacché papà mi costringeva a dondolare, la sedia non mi terrorizzò, poiché ad attendermi c'era la mamma, come se avesse sempre saputo che l'avrei fatto. Con gli occhi dell'immaginazione, la vidi, diciannovenne, correre nei prati fioriti primaverili e io ero una neonata fra le sue braccia. Sapevo che ero io e non la Prima Audrina, perché al collo della bambina c'era l'anellino con la mia pietra zodiacale appesa a una catena d'oro. Poi vidi la mamma aiutarmi ad allacciarmi la cintura, insegnandomi a fare il fiocco. Poi, con mia grande sorpresa, mi teneva accanto a sé sulla panchetta del pianoforte e mi insegnava a fare le scale. Ero più grande questa volta e l'anellino che un tempo portavo alla catena d'oro adesso era al mio dito indice. Uscii da quella stanza terribilmente eccitata. Non era accaduto nulla di
orribile. E, cosa ancora più importante, avevo scoperto un segreto. Un ricordo smarrito aveva riempito un buco del mio cervello. All'insaputa di papà la mamma mi aveva dato lezioni di pianoforte. Ritornai a letto con quella consapevolezza, racchiusa al sicuro nel mio cuore, poiché adesso sapevo con certezza. Era stato desiderio di mia madre che prendessi il suo posto e seguissi la carriera di cui l'amore l'aveva derubata. Parte seconda Ricomincia la musica La vita si fece molto diversa in casa nostra dopo la morte della mamma. Non salivo più nella cupola per trovare pace e solitudine. Me ne stavo nella sedia a dondolo un tempo temuta, dove sentivo la vicinanza della mamma. Poiché la vita mi si stava dischiudendo sempre di più, facevo poco caso a Vera che aveva difficoltà a salire su per le scale. Ogni volta che pioveva zoppicava più di quando era sereno. Tuttavia non potevo fare a meno di notare che stava cominciando a dedicare molta attenzione al proprio aspetto. Si lavava i capelli tutti i giorni, si dipingeva le unghie così spesso che avevo l'impressione che la casa odorasse costantemente di smalto e acetone. Si stirava i vestiti, le mutandine e qualche volta addirittura i golf. Persino la sua voce era mutata. Si sforzava di parlare pacatamente e non col tono stridulo di un tempo. Per molti versi mi resi conto che Vera stava facendo del suo meglio per imitare le molteplici attrattive di mia madre... malgrado fossi convinta che spettavano solo a me di diritto. Le giornate autunnali che avevano visto la dipartita di mia madre, presto si tramutarono in inverno. Il Giorno del Ringraziamento e Natale furono tetre festività che mi fecero provare dolore, per papà e me. Persino Vera sembrava triste ogni volta che il suo sguardo cadeva sulla sedia vuota della mamma a capotavola. Quando papà era al lavoro restavo sola in una casa di nemici, un'ombra di ciò che un tempo ero stata quando mia madre era viva. Mi aggrappavo disperatamente al suo ricordo, cercando di tenere viva la sua immagine nella labilità della mia memoria nebulosa. Mai e poi mai avrei voluto che qualcosa di mia madre affondasse in quei pozzi senza fondo del mio cervello nei quali orrendi ricordi dimenticati lottavano per affiorare. Papà mi teneva quasi prigioniera in casa, aggrappandosi a me con una
sorta di disperazione che mi induceva a compatirlo, amarlo, odiarlo... e ad aver bisogno di lui, anche. Non avrei mai dovuto vedere Arden, ma spesso e volentieri riuscivo a squagliarmela e a correre al villino nel bosco. Ogni volta che ne avevo l'occasione sedevo davanti al pianoforte a coda e cercavo di figurarmi dove mettere le mani, come strappare per magia una melodia alla tastiera. Per ore e ore pestavo sui tasti finché non cominciai a intuire che il pianoforte si risentiva degli orrendi, dissonanti rumori che producevo. Non sapevo suonare. Anche se la mamma aveva cercato di insegnarmi tanto tempo prima, non avevo ereditato il suo talento, non più di quanto avessi ereditato i doni della Prima e Migliore Audrina. Nessun talento, nessun talento, mi aggiravo tormentandomi. «Audrina,» cercò di consolarmi Arden un giorno dopo la mia ennesima lamentela al riguardo, «nessuno impara automaticamente, per magia, a suonare.» «Stammi a sentire,» dissi, «dirò a papà che devo assolutamente prendere lezioni di piano. Me lo permetterà se insisto molto.» «Non ne dubito,» rispose distogliendo lo sguardo imbarazzato. Poi, mano nella mano, ci dirigemmo verso casa sua. Con mia grande delusione, Billie restava alla finestra e non mi invitava a entrare. Arden e io ci sedevamo sulla veranda sul retro e le parlavamo attraverso la finestra aperta. Le mosche potevano entrare facilmente in casa sua, e solo per questo mia zia avrebbe dato in smanie. Billie non sembrava prendersela per le mosche, e parve felice di rivedermi. Quella stessa sera affrontai papà circa le lezioni di musica. «Ti ho sentito pestare sul piano. Se c'è qualcuno che ha bisogno di lezioni sei tu. Certo che tua madre ne sarebbe stata elettrizzata. Ne sono elettrizzato anch'io.» Non potevo credere che avesse cambiato idea così drasticamente. Sembrava triste, annoiato, allorché mi fece avvicinare per mettergli le braccia al collo. Forse, dopo tutto, papà mi avrebbe aiutata a essere felice. «Mi dispiace per tutte le brutte cose che ti ho detto dopo la morte della mamma, papà. Non ti odio, né ti biasimo per la sua morte. Se solo portassi Sylvia a casa potrei pensare che non è morta per nulla. Ti prego, papà, porta presto Sylvia a casa.» «Tesoro mio,» replicò lui, lo sguardo sperduto in lontananza. «Lo farò. Non appena i dottori ce lo permetteranno, avrai la tua sorellina.» Quella notte mi dissi che forse Dio davvero sapeva ciò che faceva quando portava via le madri e dava ai padri nuove figlie. Forse aveva le sue buone ragioni per fare ciò che faceva. E anche se questo mi privava di una
madre di cui avevo disperatamente bisogno, Sylvia non avrebbe sentito la sua mancanza perché avrebbe avuto me e non avrebbe potuto fare paragoni. Era estate inoltrata allorché l'insegnante di musica che Arden conosceva rientrò da un lungo soggiorno a New York. Finalmente, un magnifico giorno, Arden mi caricò sul manubrio della bicicletta e mi portò in paese a fare la conoscenza di Lamar Rensdale. Era alto ed esile, con una bella fronte spaziosa e una gran testa di riccioli color cioccolata. Il colore dei suoi occhi riprendeva esattamente quello dei capelli. Mi squadrò da capo a piedi con aria di approvazione, sorrise, poi mi condusse al pianoforte e mi chiese di dimostrargli quello che sapevo. «Pasticcia, come mi hai detto che fai,» mi disse, mettendosi alle mie spalle mentre Arden sedeva e mi sorrideva incoraggiante. «Non è affatto terribile come dicevi,» disse poi Mr. Rensdale. «Hai le mani piccole, ma riesci a prendere un'ottava. È vero che tua madre è stata una pianista eccezionale?» Fu così che cominciò. Naturalmente papà sapeva che era Arden a portarmi in paese e riportarmi a casa, tuttavia non fece obiezioni. «Ma non giocare con lui nei boschi. Resta sempre sotto gli occhi di sua madre. Non devi mai restare sola con lui. Mai. Mi hai capito?» «Stammi a sentire, adesso, papà,» esordii, affrontandolo a faccia a faccia e sforzandomi di non apparire debole. «Arden non è il ragazzaccio spregevole e di basso ceto che credi. Non ci incontriamo mai nel bosco, ma sempre sul limitare. Sua madre se ne sta alla finestra e ci parla. Raramente ci allontaniamo. E lei è così bella, papà, per davvero. Ha i capelli scuri come i tuoi e gli occhi somigliano a quelli di Elizabeth Taylor solo che quelli di Billie sono addirittura più belli. E tu dici sempre che gli occhi di Elizabeth Taylor sono i più belli del mondo.» «Ma guarda un po'!» disse lui cinico, come se fosse convinto che nessuna donna del vicinato potesse essere bella come una stella del cinema. «Nessuna donna può essere bella quanto Elizabeth Taylor se non Elizabeth Taylor stessa. Gli esseri umani sono unici, Audrina. Unici e insostituibili. Un miracolo... che mai si ripeterà alla stessa maniera, quando pure questo vecchio mondo dovesse girare per altri cinque o dieci miliardi di anni. Non ci sarà mai più un'altra Elizabeth Taylor, un'altra Lucietta Lana Whitefern Adare, un'altra te o un altro me. Ed è proprio per questo che tu sei così speciale per me. Se mai avrò la fortuna di incontrare una donna bella come
tua madre e altrettanto dolce e sensibile, cadrò in ginocchio e ringrazierò Iddio. Ma non troverò mai un'altra donna come lei e sono tanto triste, Audrina, tanto solo.» Ed era vero. Lo si vedeva nelle ombre che gli offuscavano gli occhi, nella sua mancanza di appetito. «Papà, Billie è davvero tanto bella. Non ho esagerato.» «Non mi importa niente se è bella o brutta,» replicò lui irritato. «Io ho chiuso con le donne e il matrimonio. Adesso dedicherò tutte le mie energie a te.» Oh, non volevo che lui dedicasse tutte le sue energie a me! Ciò significava che non mi avrebbe mai concesso un po' di libertà. E ciò significava che avrebbe passato tutto il suo tempo a trasformarmi nella Prima e Migliore Audrina. E se davvero era tanto convinto che ciascuno di noi fosse unico e insostituibile, perché si sforzava tanto di trasformarmi in lei? Restai immobile davanti a lui, le sue mani mi cingevano la vita e non riuscii a controbattere. Mi limitai ad annuire e a sentire un vortice di confusione agitarsi come un maelstròm nel mio cervello. Giacché Arden andava in città tutti i giorni, mi furono accordate cinque lezioni alla settimana, cosa che mi indusse a pensare che presto avrei recuperato il tempo perduto. Ogni giorno stavo un'ora buona con Lamar Rensdale e mi sforzavo di imparare tutto quello che mi insegnava. Secondo lui, ero una studentessa eccezionale, dotata di grande abilità naturale. Volevo credere che fosse la verità, non che mi lusingasse solo per convincermi a tornare e a pagargli le lezioni. Dopo aver consegnato in fretta e furia i giornali della sera, Arden tornava a prendermi alla fine della lezione. Una sera tardi, otto mesi dopo la morte della mamma, scesi furtivamente al piano di sotto e di nuovo mi cimentai col pianoforte a coda della mamma. La sua voce era talmente meravigliosa, talmente fedele, molto migliore di quella del pianoforte da pochi soldi che usava il mio insegnante. Prima delle lezioni non mi ero neppure resa conto che avesse una voce. Seduta nel cuore della notte davanti al pianoforte, assorta nell'esecuzione del mio facile pezzettino da principiante, chiusi gli occhi e finsi di essere la mamma, che le mie dita fossero agili quanto le sue e che in loro potessi riversare tutte le sfumature che vi aveva riversato lei. Ma non fu così. La mia musica non mi diede i brividi come faceva la sua. Scoraggiata riaprii gli occhi e decisi che era meglio per me seguire la musica e non cercare di improvvisare. Fu allora che udii un piccolo rumore alle mie spalle. Mi voltai di scatto e mi trovai a faccia a faccia con Vera. Mi lanciò un sorriso ma-
lizioso che mi fece trepidare dentro. «Tutto d'un botto hai proprio perso la testa per la musica,» osservò. «Com'è questo tuo Mr. Rensdale?» «Simpatico.» «Non intendo dire questo, stupida. A scuola ho sentito dire dalle altre ragazze che è giovane, bello e sexy... e scapolo.» Mi dimenai imbarazzata. «Sì, forse è tutte queste cose, ma è troppo vecchio, Vera. Non guarderebbe neppure una ragazzina come te.» «Nessuno è troppo vecchio per me... ma tutti saranno troppo vecchi per te, dolce Audrina. Prima che tu riesca a sfuggire a papà, avrai le giunture scricchiolanti e porterai occhiali in tinta con i tuoi capelli grigi.» La cosa peggiore era che sapevo che ogni sua parola era vera. Papà mi avviluppava nella sua tela di ragno ogni giorno di più. Sotto ogni aspetto, a eccezione di quello sessuale, mi stava trasformando in sua moglie. A onor del vero ascoltavo i suoi racconti sul mercato dei titoli con molta più comprensione e tolleranza di quanto avesse mai fatto la mamma, e mia zia non aveva pazienza con quel genere di «chiacchiere noiose». «Chiederò a papà di farmi prendere lezioni di musica,» annunciò Vera, fulminandomi con lo sguardo, e in quel momento capii che me l'avrebbe fatta pagare se non l'avesse avuta vinta. Il mattino seguente Vera si mise tutta elegante. I suoi strani capelli color albicocca mettevano in risalto la carnagione pallidissima, e i suoi occhi scurissimi erano davvero straordinari. «Tu fai tanto per Audrina e niente per me,» disse a papà. «Ed è mia madre che ti fa da mangiare, che pulisce la casa, lava e stira, e non le dai un soldo. Anch'io voglio studiare musica. Sono in tutto e per tutto sensibile e dotata quanto Audrina.» Lui la fissò finché il suo volto pallido non avvampò e non si voltò, come sempre accadeva quando aveva qualcosa da nascondere. «Anch'io ho bisogno di un po' di bellezza nella vita,» seguitò lamentosamente, abbassando gli occhi scuri e tormentandosi una ciocca di capelli color albicocca. «Una volta alla settimana per te,» accondiscese lui cupamente. «Tu vai a scuola e devi fare i compiti. A Audrina ho concesso una lezione al giorno per tenere lontano dai guai la sua mente pigra.» Pensavo che Vera avrebbe protestato per questo ingiusto trattamento, ma stranamente parve soddisfatta. Quel venerdì presentai Vera a Mr. Rensdale. «Si vede che la bellezza è un dono comune nella famiglia Whitefern, proprio come dicono tutti in città,» disse lui mentre le porgeva la mano e sorrideva. «Non ho mai incon-
trato due sorelle più carine di voi.» Mi parve che le dita di Vera stringessero la sua mano con tale tenacia che quando lui cercò di ritrarla lei glielo impedì. «Oh, non sono carina neppure la metà di Audrina,» disse Vera con una vocetta timida timida, facendo palpitare le ciglia imbellettate. «E mi auguro di avere almeno metà del suo talento.» La fissai, ma la fissai davvero. La ragazza che in questo momento parlava a Mr. Rensdale non era la Vera che conoscevo. Lui la trovava simpatica, si capiva subito, ed era felice di avere un'altra allieva, soprattutto una che lo lusingava così e sembrava non riuscire a staccare gli occhi da lui. Ogni volta che ne aveva l'occasione gli toglieva un peluzzo dal vestito o gli scostava dalla fronte il ricciolo ribelle che si ostinava a cadergli davanti agli occhi. Tornando a casa mi confidò tutto quello che sapeva di lui tramite le compagne di scuola. «È poverissimo, un artista che lotta per farsi strada, dicono. Ho sentito dire che nel tempo libero compone musica e spera di vendere le sue canzoni a qualche produttore di Broadway.» «Spero che ci riesca.» «Mai quanto me,» disse lei fervidamente. I mesi trascorsero così veloci senza che Sylvia venisse a casa che la mia ansia per quella sorellina mai vista aumentò a dismisura. Sapevo che mio padre aveva portato più volte mia zia a vederla, dunque esisteva per davvero, ma non una volta mi aveva permesso di accompagnarlo. Mi portava al cinema, al giardino zoologico e, naturalmente, alla tomba della Prima Audrina, ma Sylvia era ancora terreno proibito per me. Papà rifiutava di portare Sylvia a casa a dispetto di tutte le mie implorazioni. Era più di un anno, ormai, che mia madre era morta e che Sylvia era nata. «Ormai dovrebbe pesare due chili e mezzo, vero?» «Sì, pesa un pochino di più ogni volta che la vedo,» ammise lui riluttante, come se si augurasse il contrario. «Papà, non è mica cieca o senza braccia o senza gambe... ha tutto quanto, non è vero?» «Sì,» disse lui con voce stanca, «ha tutti gli organi al posto giusto, due gambe e due braccia, e gli stessi organi femminili che hai tu. Ma non è abbastanza robusta,» mi spiegò papà per la centomilionesima volta. «Non è del tutto normale, Audrina. Ma non chiedere altri particolari finché non sa-
rò pronto a darteli spontaneamente.» I miei dubbi su Sylvia mi impedivano di star bene. Morivo dalla voglia di averla con me mentre spolveravo e passavo l'aspirapolvere. Vera non poteva passare l'aspirapolvere perché la gamba più corta le faceva male. Non poteva spolverare perché aveva poco controllo delle sue mani e faceva cadere tutto quello che toccava. Questo la esentava anche dall'apparecchiare o sparecchiare la tavola. Io facevo tutte le faccende che sarebbero dovute toccare a lei. Facevo persino tutti i letti, anche se in realtà, secondo mia zia, avrebbe dovuto farli Vera. Forse per gratitudine Vera sembrava detestarmi meno. Fiduciosa cercai di trattarla come un'amica. «Come ti va la musica? Non ti ho mai sentito esercitarti, come faccio io.» «È perché lo faccio da Lamar,» ribatté lei con un sorrisetto insinuante. «Gli ho detto che non mi lasciavi usare il pianoforte di tua madre e lui mi ha creduto.» Ridacchiò mentre io mi accigliavo e facevo per ribattere. «È talmente bello che mi fa venire i brividi per la schiena.» «Credo di sì, se ti piace quel genere di uomo.» «Non è il tuo tipo, vero? Io invece lo trovo straordinariamente bello. Mi ha anche raccontato tutto di sé. Scommetto che a te non ha raccontato nulla. Ha venticinque anni ed è diplomato al conservatorio di musica Juilliard. Al momento sta componendo il commento musicale per una commedia di cui è l'autore. È certo di poterla vendere a un produttore che ha conosciuto quando viveva a New York.» Si protese in avanti per bisbigliare. «Spero e prego perché venda davvero la sua commedia musicale e mi porti con sé.» «Oh, Vera, papà non ti permetterebbe mai di andare con lui. Sei troppo giovane.» «Quello che faccio o non faccio non sono fatti suoi! Non è mio padre, e io non sono proprietà sua come te. E non provarti a dirgli che ho dei progetti su Lamar Rensdale. In fondo siamo come due sorelle... non è vero?» Avevo bisogno della sua amicizia e con gioia le promisi di non rivelare nulla. I sogni si avverano Era di nuovo primavera. La mamma era morta da più di un anno e mezzo. Scomparsa ma non dimenticata. Io mi immergevo nella lettura dei suoi libri di giardinaggio e imparavo a curare le rose. Ogni petalo di rosa mi rammentava la mamma con la sua pelle di velluto, i capelli di luce, le guance rosee. Nel giardino sul retro zia Ellsbeth coltivava cipolle, cavoli,
radicchi, cetrioli e qualunque cosa fosse commestibile. I doni della terra che non potevano essere mangiati non avevano alcun valore per mia zia. Vera era talvolta odiosa, talvolta gentile. Io non mi fidavo di lei neppure quando lo volevo. Ora che Vera aveva preteso la sedia a dondolo per sé io l'evitavo come l'evitavo prima, quantunque papà ancora credesse che la usassi, forse convinto che presto o tardi il dono che racchiudeva sarebbe stato mio. «Quanti anni hai detto di avere?» mi chiese Mr. Rensdale dopo avermi spiegato ancora una volta che dovevo «sentire» la musica oltre che premere i tasti giusti. Per qualche strana ragione le lacrime presero a rigarmi il volto malgrado da un pezzo avessi imparato ad accettare la mia situazione più unica che rara. «Non lo so,» piagnucolai. «Nessuno mi dice la verità. Ho una memoria fallace zeppa di immagini colte a metà che mi sussurrano che forse un giorno sono andata a scuola, eppure mio padre e mia zia dicono che non è così. Certe volte penso di essere pazza ed è per questo che non mi mandano a scuola.» Aveva un modo aggraziato tutto suo di alzarsi, simile a un nastro che si srotola. Lentamente mi venne dietro le spalle. Le sue mani, molto più piccole di quelle di papà, mi carezzarono i capelli e la schiena. «Va' avanti, non fermarti. Mi piace sapere qualcosa di più di ciò che accade in casa tua. Tu mi sconcerti in tanti modi, Audrina. Sei così giovane e così vecchia. Certe volte ti guardo e in te vedo una persona braccata. Vorrei tanto cancellarti quell'espressione dal volto. Lascia che ti aiuti.» La tenerezza che c'era nella sua voce mi indusse ad avere fiducia in lui e rovesciai fuori tutto quanto, come un fiume che esplode attraverso una diga. Tutto ciò che sconcertava me sgorgò dalle mie labbra, tutto d'un fiato, compresa la mania di papà di farmi sedere sulla sedia a dondolo per «catturare» il dono che un tempo era appartenuto a mia sorella. «Detesto portare il suo nome! Perché non mi hanno dato un nome tutto mio?» Emise un mugolio di comprensione. «Audrina è un bel nome, e ti sta così bene. Non portare rancore ai tuoi genitori per il fatto che cercano di aggrapparsi a quella che deve essere stata una bambina eccezionale. Accetta il fatto che anche tu sei eccezionale, e forse ancora di più...» Ma nella sua voce colsi qualcosa che rivelava che lui sapeva di me più di quanto io stessa sapessi e mi compativa, e che più di ogni altra cosa desiderava proteggermi da quel qualcosa che io non dovevo sapere. Ed era proprio quella cosa che non sapevo che invece dovevo sapere.
Poi, prima di capire cosa stesse capitando, mi mise due dita sotto il mento e mi costrinse a guardarlo dritto negli occhi. Era strano essere così vicino a un uomo adulto che non era mio padre. Mi ritrassi, in un groviglio di emozioni prossime al panico. Mi piaceva, eppure non volevo che mi guardasse come mi stava guardando in quel momento. Ricordai le ammonizioni di papà a non restare mai sola con i ragazzi e gli uomini, e immagini lampeggianti di quel giorno di pioggia nel bosco quasi mi accecarono, assimilando anche lui a una confusa visione del passato. «Che c'è, Audrina?» chiese. «Non volevo spaventarti. Volevo solo rassicurarti. Non sei pazza, e sei magnifica, a modo tuo. C'è passione nella tua musica e anche nei tuoi occhi quando abbassi le difese. Un giorno la natura ti risveglierà, Audrina; e allora la bella addormentata che c'è in te reclamerà il suo diritto alla vita. Non schiacciarla, Audrina. Lasciala uscire. Dalle un'occasione di liberarti e allora tua sorella non ti perseguiterà più.» Traboccante di speranza lo fissai con sguardo implorante, incapace di dar voce ai miei bisogni. Eppure lui capì. «Audrina, se desideri tanto andare a scuola troverò un modo di fartici andare. È contro la legge tenere una minorenne a casa da scuola, a meno che non sia mentalmente o fisicamente incapace. Parlerò con tuo padre o con tua zia... e andrai a scuola, te lo prometto.» Gli credetti. Lo dicevano i suoi occhi color cioccolata che parlava sul serio. So che i miei occhi si illuminarono di gratitudine per Lamar Rensdale mentre giurava che il giorno appresso sarebbe andato a parlare con mia zia. Lo avvertii che con tutta probabilità mio padre non gli avrebbe dato retta. Arden, Vera e io quell'estate nuotammo nel fiume, pescammo e imparammo a pilotare la piccola barca a vela che papà aveva comprato. Ogni mese vedevo mio padre un pochino più ricco. Adesso stava progettando di restaurare la casa e restituirla alla sua antica grandezza. Ne parlava così tanto senza muovere un solo dito che cominciai a temere che non l'avrebbe mai fatto. A ogni modo ormai non importava, poiché la mamma era morta. Mia zia non era più scontrosa come un tempo; al contrario non di rado la vedevo addirittura felice. Papà non se ne usciva più con osservazioni sarcastiche e crudeli sul suo viso lungo e sulla sua magrezza. Aveva addirittura lodato la nuova pettinatura e il trucco che da poco aveva cominciato a usare. Papà si rifiutava ancora di dirmi la ragione per cui non portava a casa
Sylvia. Io risparmiavo parte della paga settimanale che mi dava per comprare a Sylvia sonagli e anelli d'osso per i denti, ma lui continuava a non portarla a casa. Ormai era troppo grande per quelle cose. Mi disse che all'ospedale non le permettevano di avere giocattoli suoi. Io continuavo a non capire cosa c'era che non andava in Sylvia. Giorno dopo giorno Arden si faceva più alto. Aveva quindici anni adesso ma ne dimostrava molti di più. Stava cominciando a fare progetti per il futuro. «Ti prego, non prendermi per sciocco,» esordì in tono esitante, «ma fin da quando ero piccolo ho sempre desiderato fare l'architetto. La notte sogno le città che costruirò, funzionali e belle al tempo stesso. Voglio progettare l'ambiente, far crescere tanti alberi in mezzo alla città. Farò le autostrade a più livelli in modo che non prendano tanto posto.» Mi sorrise. «Vedrai che città costruirò, Audrina.» Io desideravo per Arden ciò che lui desiderava per sé e più di una volta mi chiesi perché mai perdesse tanto tempo con me quando chissà quante ragazze più grandi dovevano fargli gli occhi dolci. Perché mai certe volte mi dava la sensazione che si sentisse legato a doppio filo a me e a nessun'altra? Arden aveva giorni sì e pochi giorni no. Gli piaceva stare all'aperto più di quanto gli piacesse stare in casa e io continuavo a ripetermi che era per quello che non entravamo mai in casa sua. E per Billie doveva essere proprio il contrario, perché non usciva mai. In tutto il tempo che avevo frequentato Billie e Arden, non una volta lei mi aveva invitata a entrare in casa loro. Naturalmente, io non potevo invitare Arden a casa mia, per via di papà, e forse era una sorta di ritorsione. Spesso Vera mi prendeva in giro e diceva che Billie pensava che io non fossi all'altezza di suo figlio, e neppure della sua casa. Sul limitare del bosco Arden e io ci fermammo per salutarci. Mentre il sole si tuffava sotto l'orizzonte Whitefern incombeva scura e solitaria contro un cielo che era viola e striato di cremisi e arancio. «Ma che razza di cielo è quello?» chiesi in un bisbiglio, stringendo più forte la sua mano. «Cielo da marinai,» disse lui a bassa voce, «che annuncia una giornata migliore, domani.» Tipico di Arden dire una cosa del genere anche se non era vera. Il mio sguardo corse dalla casa al viale e da lì in direzione del cimitero di famiglia. Dovetti schiarirmi la voce prima di poter chiedere: «Arden... da quanto tempo mi conosci?». Perché mi lasciò andare la mano, arrossì e distolse lo sguardo? Era forse
una domanda così terribile? Lo stavo forse convincendo con una domanda del genere che davvero ero pazza? «Audrina,» si decise a dire alla fine, con voce più tesa che mai, «ti ho conosciuta il giorno in cui hai detto di avere sette anni.» Non era la risposta che volevo. «Ehi, finiscila di fare quella faccia. Adesso corri a casa così ti vedo entrare sana e salva prima di andarmene.» Dalla porta mi voltai e lo vidi immobile dove lo avevo lasciato. Lo salutai con la mano, aspettai che mi ricambiasse il saluto. Riluttante mi immersi nella tetraggine di Whitefern. Il tempo era rallentato e adesso si trascinava. Le giornate umide e afose mi fecero desiderare una vacanza in un luogo fresco, ma noi non andavamo mai da nessuna parte. Dentro casa gli alti soffitti mantenevano la temperatura più fresca, ma la penombra delle stanze rendeva i colori delle vetrate troppo brillanti, e i colori carezzavano le campanelle tibetane che non la finivano di provare a bisbigliare segreti. «Papà,» dissi a settembre mentre Vera si accingeva a tornare a scuola, «Vera ha tre o quattro anni più di me?» «Ha tre, quasi quattro anni più di te,» rispose lui senza pensarci, poi mi lanciò una strana occhiata. «Che età dice di avere?» «Quello che dice non conta perché lei mente sempre, però ad Arden dice che è più grande.» «Vera ha quattordici anni,» disse papà indifferente. «Il suo compleanno è il dodici novembre.» Mi segnai quella data come possibile, ben sapendo che in casa nostra i compleanni non avevano scadenze normali. Ben sapendo, anche, che la festa-del-nulla della Prima Audrina aveva rovinato per sempre tutti i compleanni. Io ricordavo il mio undicesimo compleanno poiché quel giorno Arden mi aveva regalato il frammento di quarzo che aveva scolpito a forma di rosa. Lo portavo al collo appeso a una sottile catena d'oro e mi faceva sentire molto speciale. Nessuno in casa mia faceva regali per il compleanno... e neppure gli auguri. Usavo ancora il giochetto dell'anellino e del pendolo e davo a papà i miei elenchi. Certe volte li ritrovavo nel cestino della carta nel suo ufficio, altre volte, invece, lo vedevo contemplarli a lungo, come per mandare a
mente ogni titolo, uno per uno, prima di gettarli via. A novembre lo colsi sul fatto. «Tu vuoi che io ti aiuti e quando lo faccio fai finta di nulla. Perché ti dai tanta pena a convincermi che sono speciale, papà, e poi butti via gli elenchi che ti do come se fossi convinto del contrario?» «Perché sono uno sciocco, Audrina. Voglio vincere per i miei meriti non per i tuoi. E poi ti ho visto fare il tuo trucchetto del pendolo sopra i titoli. Voglio sogni sinceri, Audrina, non indotti. So quando sei sincera e quando non lo sei. Ti costringerò a essere quella che dovresti essere, dovessi metterci tutta la mia vita... e la tua.» Raggelata mi irrigidii, spaventata dal suo tono deciso. «E cosa vuoi che io sia?» «Come la mia Prima Audrina,» rispose lui risoluto. Ancora più fredda arretrai. Forse era lui il pazzo, non io. I suoi scuri occhi pensosi seguivano ogni mio gesto, come per intimarmi di correre da lui adesso, subito e amarlo come lei lo aveva amato... e non potevo fare ciò che lui voleva. Non volevo essere lei. Volevo essere me stessa. Vagai nel salone e ritrovai Vera stravaccata sull'ottomana viola della mamma. Da qualche tempo aveva preso l'abitudine di sdraiarsi scompostamente sulla poltrona favorita della mamma per leggere quegli stessi romanzi che la mamma adorava. Diceva che le insegnavano molte cose sull'amore e sulla vita. E indubbiamente era così, giacché qualcosa, al di là dei suoi libri di medicina, stava mettendo in fondo agli occhi scuri di Vera una vena di affettazione, rendendoli ancora più duri e taglienti. Più di una volta mi aveva ripetuto che sarebbe diventata così bella e affascinante che nessun uomo si sarebbe accorto che la sua gamba sinistra era di un paio di centimetri più corta della destra. «Vera,» chiesi, «perché non ti fai mettere sotto trazione la gamba più corta, come ti ha consigliato il medico? Dice che potrebbe diventare lunga quanto l'altra.» «Ma sarebbe doloroso. E tu sai che io non sopporto la sofferenza fisica, e poi odio gli ospedali.» Bell'infermiera sarebbe diventata. «Ma non credi che il risultato ti ripagherebbe della sofferenza?» Sembrò guardarsi dentro e soppesare i pro e i contro. «Un tempo lo pensavo.» Poi, dopo un'ulteriore riflessione disse: «Adesso però ho cambiato idea. Se camminassi normalmente mia madre mi trasformerebbe in una schiava, come fa con te. Adesso faccio una vita di lusso, come faceva tua
madre mentre mia madre lavorava fino a sfiancarsi». Sogghignò malignamente. «Non sono stupida, sciocca... né testa vuota. Io non smetto un solo attimo di pensare. E la mia gamba più corta mi servirà più di quanto ti serviranno le tue due gambe sane.» Non c'era modo di ragionare con Vera. Aveva sempre ragione lei. Vera non voleva fare niente. Quando le faceva comodo, e accadeva spesso, mi tormentava dicendo che mia madre aveva finto di essere sempre stanca per conquistarsi la compassione di papà e i servizi di sua sorella. Il pomeriggio seguente mentre correvo a far visita ad Arden il vento soffiava impetuoso fra le foglie, facendole turbinare da tutte le parti. Sopra di noi le anatre volavano verso sud. Presto sarebbe nevicato. Eravamo entrambi infagottati fino alle orecchie nei pesanti giacconi. Il fiato si condensava in nuvolette di vapore sopra le nostre teste. Cosa ci facevamo a camminare per i boschi con quel freddo da cani? Perché non potevamo vederci uno a casa dell'altro come la maggioranza delle persone? Sospirai fissandolo, poi abbassai gli occhi. «Arden, tu sai perché io non posso invitarti a Whitefern. Però non capisco perché Billie non mi inviti a casa vostra. Non mi ritiene all'altezza?» «So cosa pensi e ti capisco.» Abbassò la testa sempre più imbarazzato. «Sai, sta sistemando tutto quanto. Stiamo dipingendo e rimettendo la tappezzeria alle pareti. Sta cucendo con le sue mani nuove fodere per il divano, copriletti, tende. Lavora per sistemare la casa dal giorno che ci siamo trasferiti, ma perché deve sempre fermarsi e lavorare per gli altri, le nostre cose restano per ultime. Casa nostra non è bella dentro... non ancora. Un giorno presto, molto presto, sarà finita e allora potrai entrare e sederti e farci visita.» Venne il Giorno del Ringraziamento, e Natale e l'anno nuovo e ancora Arden e Billie non pensavano che casa loro fosse abbastanza bella perché io la vedessi. Operai arrivarono a frotte in casa nostra per dipingere, tappezzare, togliere vecchie finiture e ritinteggiare, lucidare e rifare l'intera casa. Avevamo molte, molte stanze. Il villino appena cinque. «Arden,» chiesi infine un giorno, «perché ci mettete tanto a sistemare casa vostra? A me non importa se è bella o brutta.» Aveva l'abitudine di tenermi la mano sovrapponendola alla sua come per paragonarne le dimensioni, un modo come un altro per distogliere il suo sguardo dal mio. Le sue dita erano il doppio delle mie. Sebbene fosse una sensazione dolce volevo che mi guardasse negli occhi e mi parlasse onestamente. Ciò nonostante era evasivo. «Ho un padre da qualche parte. Ci
ha lasciati quando... quando...» Esitò, balbettò, arrossì, si dimenò imbarazzato e sembrò in preda al panico. «Il fatto è che la mamma...» «Non mi vuole bene». «Sicuro che ti vuole bene!» Mi tirò con forza, come se avesse deciso di trascinarmi in casa sua che sua madre approvasse o no. «Non è facile parlarne, Audrina. Soprattutto dal momento che lei mi ha chiesto di non farlo. Io gliel'ho detto subito che doveva essere sincera e che questo ci avrebbe risparmiato un sacco di disagi, ma lei non mi ha dato retta. Ti ho vista, sai, guardare prima lei e poi me e chiederti cosa diavolo succedeva. So che tuo padre non mi vuole nella tua vita quindi non ti chiedo perché non vengo invitato a Whitefern. Ma facciamola finita. È tempo che tu sappia.» Sembrava che tutta la mia vita fosse trascorsa in una casa. Non ero mai stata in un'altra casa... Una priva di spettri del passato. Le stanze piccole e raccolte del villino non potevano essere cupe e terrificanti come le nostre sale gigantesche, né potevano traboccare di splendore appannato o di antichità in decomposizione. Per la prima volta in vita mia avrei visto una casa piccola, una casa intima, una casa normale. Arrivammo al villino dal cui tetto si srotolava verso il cielo un filo di fumo fluido come una sciarpa di seta. I gabbiani sfrecciavano e stridevano, dando un senso di gelo alla giornata. Mi arrestai di botto proprio nel momento in cui Arden si accingeva a tirarmi dentro. «Prima di entrare, rispondimi a una domanda. Da quanto tempo ci conosciamo? Te l'ho già chiesto e non mi hai dato una risposta diretta. Questa volta voglio una risposta sincera.» Una domanda tanto semplice per far rabbuiare così tanto il suo sguardo. «Se ci ripenso non ricordo un solo giorno della mia vita in cui non ti ho conosciuta. Forse ti sognavo prima ancora di incontrarti. Quando ti ho vista nel bosco, nascosta dietro i cespugli, è stato come l'avverarsi di un sogno... Quello è stato il giorno in cui per la prima volta ti ho vista nella realtà. Ma sono venuto al mondo che già ti conoscevo.» Le sue parole sparsero sulle mie spalle un magico manto di calore mentre, gli occhi negli occhi e mano nella mano, apriva la porta di casa e si faceva indietro per farmi entrare per prima. Questa volta non avevo visto Billie alla finestra. Né la vidi nella stanza nella quale ero entrata. Arden sussurrò: «Penso che la mamma volesse rimandare questo giorno in eterno, dunque fidati di me come io mi fido di te. Andrà tutto a meraviglia». E fu tutto quanto mi disse per prepararmi. Molte volte, più tardi, mi
chiesi perché non avesse detto molto, molto di più. Billie Arden si sbatté la porta alle spalle. Forte. Molto forte. Un segnale per lei. Alcune foglie morte erano volate dentro insieme a noi. Velocemente mi chinai per raccoglierle. Non appena le ebbi in mano mi raddrizzai e mi guardai rapidamente attorno con grande curiosità. Il soggiorno era molto grazioso, con un divano e due poltrone dall'aria accogliente ricoperte di cinz vivace. Paragonato ai nostri saloni sembrava minuscolo. Il soffitto era alto poco meno di due metri e mezzo e mi dava un senso di claustrofobia. Eppure la stanza aveva un fascino garbato che le nostre sale non avrebbero mai avuto, malgrado le cifre enormi spese per rinverdirne i fasti di un tempo, o a dispetto di tutti i cinz del mondo usati per ricoprire poltrone e divani. Non c'erano ombre qui, solo limpidi raggi di sole invernale che si riversavano dentro a fiotti. Non c'erano vetrate dai mille colori ad accecarmi la vista e a incantarmi con indesiderati sortilegi. «Mamma,» chiamò Arden, «c'è Audrina con me. Avanti, vieni. Non puoi tenere il tuo segreto per sempre.» Feci un mezzo giro per guardarlo in faccia, le foglie morte dimenticate nella mano chiusa. Segreti, segreti, tutti sembravano avere segreti attorno a me. Vidi la sua apprensione, le mani nervose che si cacciò nelle tasche mentre mi ricambiava lo sguardo pieno di ansia. Dall'espressione nei suoi occhi capii che presto avrei dovuto affrontare una prova. Dio, pregai, fammi essere all'altezza... qualunque cosa sia. «Esco subito,» rispose Billie dalla stanza accanto. Suonava ansiosa quanto suo figlio lo era nell'aspetto. La sua voce, normalmente calda, aveva perso ogni nota di benvenuto. Adesso mi sentivo a disagio, pronta a fare dietrofront e a fuggire. Tuttavia esitavo, vedendo Arden socchiudere gli occhi mentre mi guardava. No, questa volta non sarei fuggita. Sarei rimasta e mi si sarebbe svelato almeno un segreto. Nervosamente Arden lanciò un'occhiata in direzione di quella che pensai fosse la camera da letto di Billie. Non mi chiese di sedermi. Forse aveva persino dimenticato che indossavo un pesante giaccone invernale con cappuccio, poiché non mi invitò a toglierlo. Era troppo assorto in quella porta chiusa che non lasciava con lo sguardo. Abbassai il cappuccio ma tenni il giaccone mentre aspettavo e aspettavo e aspettavo ancora. Neppure Arden
si era tolto il giaccone, come se pensasse che non saremmo rimasti a lungo. Poi, mentre lui chinava la testa e si contemplava la punta delle scarpe, mi accorsi di un ripiano di legno alla parete che ospitava una dozzina di medaglie d'oro con tanto di data e nomi. Attratta irresistibilmente mi avvicinai. Oh, caspiterina! Deliziata feci una piroetta e lanciai ad Arden un sorriso radioso. «Arden! Ma Billie era una campionessa di pattinaggio? Che meraviglia! Guarda tutte queste medaglie olimpioniche! Ma come hai potuto tenere per tanto tempo un segreto così meraviglioso? Aspetta che lo dica a papà!» E adesso cosa avevo detto di male? Sembrava ancora più a disagio. Era meraviglioso quasi quanto il fatto che Billie somigliava a Elizabeth Taylor. Mi vedevo Billie volteggiare lieve sul ghiaccio, con un vezzoso costumino tutto paillettes. Saettava e volteggiava e faceva cose dal nome tipo doppia piroetta senza che mai le girasse la testa. E per tutto il tempo che li avevo conosciuti, né lei né Arden si erano vantati, né avevano accennato a una cosa del genere. Lei mi parlava come se non fosse stata niente di speciale, e invece lo era. Un leggero rumore attrasse la mia attenzione. Mi voltai di scatto e vidi Billie che doveva aver approfittato del fatto che avevo la schiena voltata per correre a sedersi in una poltrona. Ma perché portava una gonna così gonfia e lunga, a metà pomeriggio? La gonna sembrava molto costosa, di quelle adatte a qualche importante cerimonia ufficiale. I suoi meravigliosi capelli corvini erano raccolti alti sulla sua testa in una massa di riccioli anziché penderle sciolti sulle spalle, e questo la rendeva diversa. Il suo volto era pesantemente truccato, quasi volgare. Le sue ciglia erano più lunghe e folte di quanto mi fossi mai resa conto. E doveva essersi messa fino all'ultimo pezzo di bigiotteria che possedeva. Sorrisi debolmente, non sapendo come comportarmi in una situazione del genere. Senza quel trucco di scena era straordinariamente bella. Quell'elegante vestito di taffetà e la pesante bigiotteria finta la faceva sembrare volgare, falsa, una donna che non conoscevo. E, peggio ancora, un genere di donna che non volevo conoscere. «Mamma,» osservò Arden, con un sorriso vacillante che si sforzava di non morirgli sulle labbra, «non occorreva che ti dessi tanta pena.» No, Billie, non occorreva. Mi piacevi di più come eri prima. Molto di più. «Sì, e invece sì... e poi avresti dovuto avvertirmi, Arden, lo sai.»
Il mio sguardo corse dall'uno all'altra, intuendo che stava accadendo qualcosa di terribile. Le vibrazioni fra madre e figlio erano così forti da farmi tremare, fiutando la loro ansia solo perché io ero in casa loro... dove lei non mi voleva. Eppure Arden mi guardava con tanta supplica; i suoi occhi mi imploravano di fare come se nulla fosse. Così sorrisi e feci un passo avanti per stringerle la mano. Sedetti e iniziai una vacua conversazione. Era stato così facile parlarle quando sedeva alla finestra e io me ne stavo sull'erba, fuori. Adesso eravamo come due estranee che si incontrano per la prima volta. Presto addussi la debole scusa che dovevo correre a casa ad aiutare zia Ellsbeth. «Non ti fermi per cena?» chiese Arden. Gli lanciai una dolente occhiata di rimprovero. Per lo meno papà era più sincero con la sua ostilità e non si nascondeva dietro una falsa amicizia come faceva Billie. Cribbio, pensai infantilmente, sentendomi lacrime roventi pungermi gli occhi, la nostra amicizia era buona solo per l'esterno, non per l'interno. Era come mi aveva detto Vera... non ero rispettabile abbastanza per Billie. Ero davvero così stramba che la gente non mi voleva in casa propria? Ancora una volta i miei occhi si scontrarono con quelli di Arden... accusatori i miei, ancora imploranti i suoi. Ti prego, ti prego, supplicavano i suoi occhi. Decisi di fermarmi quel tanto che bastava per scoprire cos'era che ci rendeva tutti così imbarazzati. Qualcosa stava bruciando nel forno. Forse l'avevo interrotta mentre cucinava e la cosa la contrariava. Magari non ce n'era abbastanza per tre e non voleva che mi fermassi a cena. La casa era talmente minuscola che la cucina sembrava parte integrante del soggiorno. «Ho l'impressione che qualcosa stia bruciando nel forno, Billie. Posso tirarlo fuori?» Sbiancò, scosse il capo, lanciò ad Arden un segnale furtivo di allarme prima di sorridermi debolmente. «No, grazie, Audrina. Può occuparsene Arden. Ma ti prego, resta a cena con noi.» Un'incontrollabile espressione di ansia negli occhi, però, tradiva le sue parole. Sempre più turbata e imbarazzata, chinai la testa. «Grazie dell'invito. Ma come sai a mio padre non piace che attraversi il bosco e venga qui.» Arden guardò me, poi sua madre e infine disse con voce cupa: «Mamma, questo è troppo. Possibile che tu non possa dirglielo!?». Avvampò, poi impallidì. Adesso non volevo sapere. L'unica cosa che volevo era fuggire. Mi alzai per andarmene. E allora Billie esplose: «Oh, e perché no!?». Spalancando le sottili braccia muscolose seguitò: «Audrina, mia cara ragazza, la donna che stai guar-
dando un tempo è stata campionessa olimpionica di pattinaggio finché non è passata al professionismo. È durato circa diciotto anni. Sono stati tempi meravigliosi, pieni di emozioni indimenticabili. Arden potrà raccontarti milioni di episodi sulla nostra vita da vagabondi. Giravamo il mondo e davamo spettacolo e poi, un giorno fatale, caddi sul giacchio perché qualcuno vi aveva lasciato cadere una spilla. Avrei potuto rompermi una gamba, invece mi feci solo un taglietto con la lama del pattino. Quel taglietto avrebbe dovuto rimarginarsi in poco più di una settimana. Ma non si rimarginò in sei mesi perché in quell'occasione i medici scoprirono che avevo il diabete. Mi crederesti se ti dico che la mia gamba si stava decomponendo sotto i nostri occhi senza che nessuno potesse fare qualcosa per fermare la cancrena? Da quando avevo iniziato la mia carriera non ero mai stata dal dottore. Immagino che se avessi saputo prima che razza di malattia subdola avevo, avrei smesso di pattinare molto prima. Ma tant'è, ho avuto il mio giorno di gloria, non è così, figliolo?». «Sì, mamma. Hai avuto il tuo giorno di sole, e ne sono felice.» Gli occhi gli scintillavano d'orgoglio mentre sorrideva. «Se chiudo gli occhi ti vedo ancora pattinare, la stella dello spettacolo. Ed ero così fiero di te, così fiero!» Indugiò e sbirciò dalla mia parte. «Audrina, quello che mia madre sta cercando di dirti senza riuscirci è che...» «È che sono senza gambe... ecco cos'è!» strillò Billie. La fissai incredula. «Sì,» gridò, «speravo che non l'avresti saputo mai. Volevo che noi due fossimo amiche. Volevo che mi trattassi come un essere umano normale e non come un fenomeno da baraccone.» Tramortita dalla notizia mi sentii mancare, la fissai in volto, cercando di non guardare là dove sarebbero dovute esserci le gambe, sotto le gonne arricciate. Niente gambe? E come si muoveva? Volevo andarmene, fuggire, piangere. Giacché davanti a me avevo un'altra donna bella, gentile e meravigliosa che Dio aveva punito... e qualcun altro che papà avrebbe disapprovato. Un silenzio terribile saturò la stanzetta e invase l'intero villino, quasi che il tempo si fosse fermato. Eravamo tutti quanti in bilico sopra un baratro che avrebbe ingoiato Billie e separato per sempre me e Arden. Qualunque cosa dicessi o facessi, qualunque espressione fosse in quel momento dipinta sul mio volto avrebbe rivelato loro molto più delle mie parole. Non sapevo cosa fare, cosa dire né, tanto meno, cosa pensare. Annaspai miseramente, cercando di aggrapparmi a qualcosa che mi desse le parole
giuste... e poi pensai a mia madre. Supponiamo, supponiamo per assurdo che la mamma fosse tornata a casa dall'ospedale senza gambe. Avrei forse provato disgusto o repulsione? Avrei forse provato vergogna o imbarazzo se la gente la vedeva? No, l'avrei voluta indietro a qualsiasi condizione. Avrei fatto qualunque cosa per avere indietro la mia mamma, con o senza gambe. E fu allora che trovai la voce. «Sei la più bella donna bruna che abbia mai conosciuto,» dissi con sincerità. «Direi che sei la più bella che ho mai visto in assoluto, ma anche la mia mamma era bella. E se potessi avere di nuovo la mia mamma con me non mi importerebbe un bel niente se avesse le gambe o no...» Esitai, arrossii e mi sentii in colpa. Poiché alla mamma sarebbe importato. Non sarebbe stata in grado di affrontare una simile perdita. Avrebbe pianto, si sarebbe nascosta nell'ombra e forse sarebbe morta non volendo vivere senza gambe. Fui sopraffatta da un'ondata di ammirazione per Billie che aveva seguitato a vivere per Arden, per se stessa, a dispetto delle circostanze. «Penso anche che tu sia la donna più gentile e generosa che abbia mai conosciuto,» seguitai. «Ti ho scaricato sulle spalle tutti i miei problemi e neppure per un attimo mi hai dato a intendere che ne avevi abbastanza dei tuoi.» Di nuovo vergognosa e umiliata la mia testa tornò a reclinarsi. Mi ero tanto compatita solo perché la mia memoria era perforata da buchi attraverso i quali erano scivolati via i segreti della mia esistenza. Adesso che avevo cominciato a parlare Billie mi avrebbe detto tutto. «Mio marito mi lasciò poco dopo la seconda amputazione, due anni fa.» Non c'era amarezza nella sua voce. «Mio figlio bada a me; se non altro mi aiuta in tutte le cose che non posso fare da sola. Sebbene me la cavi abbastanza, non è vero, Arden?» «Certo, mamma, sei super. Ci sono davvero poche cose che non puoi fare per conto tuo.» Mi sorrise, fiero della sua mamma. «Naturalmente il mio ex marito mi manda un miserabile assegno ogni mese,» seguitò Billie. «Un giorno il babbo tornerà a casa, mamma. So che è così.» «Sicuro, sicuro! Quando gli asini avranno le ali, tornerà!» Balzai in piedi e corsi a baciarla sulla guancia imbellettata poi, di impulso, l'abbracciai stretta. Le sue forti braccia si richiusero attorno a me quasi automaticamente, come se non potesse resistere a un gesto di amore o di ammirazione, anche se grosse lacrime le rigavano le guance, lasciandosi dietro lunghe tracce nere di mascara. «Mi dispiace tanto di aver fatto que-
sta irruzione senza avvertirti,» dissi con voce strozzata, in lacrime anch'io. «E mi dispiace tanto che tu abbia perso le gambe, Billie. Però, sai, se fossi ancora una pattinatrice, non darmi dell'egoista, non avrei mai conosciuto né te né Arden. È stato il destino a portarvi da me.» Sorrisi e mi asciugai le lacrime con la mano. «Papà dice sempre che il destino è il capitano di tutti i nostri battelli, solo che noi non lo sappiamo.» «Bel modo di liberarsi di ogni responsabilità questo! E adesso corri a casa, Audrina, prima che tuo padre venga a cercarti qui, ci vediamo un altro giorno. Se avrai voglia di tornare.» «Oh, tornerò prestissimo,» replicai fiduciosa. Quel giorno Arden mi accompagnò fino a casa. Io traboccavo di ammirazione per Billie... e di meraviglia anche. Volevo sapere come se la cavasse a pulire la casa e a fare il bucato senza le gambe. Se solo avessi potuto dire a Vera tutte le cose che Billie poteva fare senza gambe, quando lei non riusciva a fare quasi nulla con tutte e due. Mi chiesi cosa avrei fatto il giorno in cui finalmente avrei visto Billie senza quelle voluminose gonne occultatrici. Giacché di certo non poteva portare abiti così pesanti in estate. Sul limitare del bosco ci dicemmo un frettoloso addio. Arden doveva fare la consegna dei giornali, e poi quelle del droghiere. Probabile che sarebbe sempre stato a corto di sonno fino al giorno della laurea. Io lo guardai voltarsi e correre verso casa. Era talmente coscienzioso, così devoto a sua madre e ansioso si darle una mano finanziariamente che gli restava sempre meno tempo da passare con me. C'era un prezzo da pagare per ogni cosa, mi disse tristemente, aprendo la porta laterale ed entrando nella nostra casa di ombre. Riversa sull'ottomana viola, Vera era assorta nella lettura di uno dei numerosi romanzi rosa che gremivano la biblioteca segreta della mamma. Era talmente rapita che non si accorse della mia presenza. Io avevo voglia di raccontarle di Billie, ma mi trattenni, per la paura che potesse dire qualcosa di orrendo. E non le sarebbe importato se le avessi detto di quanto duramente lavorava Billie. Vera era convinta che il lavoro fosse cosa da stupidi che non sapevano come cavarsela nella vita. «Ci penserà il mio cervello a farmi fare strada,» non faceva che ripetermi. Mentre la guardavo, inconsapevole della mia presenza, vidi la punta della sua lingua muoversi avanti e indietro sul labbro inferiore. Il suo sguardo era vitreo; i seni si gonfiarono e un istante dopo la sua mano corse dentro la camicetta, carezzevole. Poi mise giù il libro, rovesciò indietro la testa e si servì dell'altra
mano sotto le gonne. Fissai a bocca aperta ciò che stava facendo. «Finiscila, Vera! Sei volgare!» «Va' via,» mormorò senza neppure aprire gli occhi. «Che ne sai tu di queste cose? Tu sei una povera Biancaneve nel bosco... o sbaglio?» Ora che stavo diventando grande, papà mi portava spesso alla sua agenzia di cambio e mi permetteva di guardare, ascoltare e imparare i segreti del mestiere. Ero il suo fiore all'occhiello, al posto di mia madre, che spesso se ne stava in quella stessa poltrona che ora occupavo io, accanto alla sua scrivania. Uomini e donne anziane venivano a parlarmi e a scambiare qualche battuta con papà prima di iniziare quelle conversazioni specialistiche di affari che mio padre mi aveva insegnato a capire. «Un giorno mia figlia sarà la mia socia,» diceva fieramente a tutti coloro che non glielo avevano sentito dire almeno un centinaio di volte prima. «Con una figlia come la mia, un uomo non ha bisogno di un figlio maschio.» Mi faceva sentire importante in giornate come quelle, che terminavano con la cena in un bel ristorante e poi al cinema. Per le strade del centro vidi mendicanti senza gambe su carretti bassi coi quali si spingevano, talvolta con mani guantate. Usavano dei piccoli attrezzi somiglianti a uncini con l'impugnatura di gomma per afferrarsi ai marciapiedi e risparmiarsi le piaghe alle mani. E pensare che prima di allora non li avevo mai visti, oppure, se li avevo visti, avevo distolto lo sguardo fingendo che non esistessero. Il giorno seguente dovetti dire a Billie qualcosa che mi ero tenuta dentro fin da quella prima volta che avevo saputo delle sue gambe amputate. «Billie, ogni volta che sono andata in città ho guardato le persone senza gambe. Così sono sicura che adesso io potrei guardare senza ribrezzo se ti levassi quelle gonne lunghe.» Mi guardò aggrottando la fronte, poi voltò la testa. Aveva un profilo delizioso, classico e perfetto. «Capirò da sola quando sarai pronta a guardarmi senza gonne lunghe. Te lo leggerò negli occhi. Non sei ancora pronta. Non è un bello spettacolo, Audrina. Gli uomini che vedi per strada portano i pantaloni ripiegati sui monconi. Un tempo avevo gambe stupende; adesso ho due monconcini lunghi meno di venti centimetri che neppure io posso guardare senza provare disgusto.» Sospirò, si strinse nelle spalle, poi mi dedicò un caldo sorriso. «Certe volte ho l'impressione che le gambe mi facciano ancora male. Dolori fantasma, li chiamano i medici. Mi sveglio la notte e mi sento come se le gambe fossero ancora al loro posto e mi facessero un male terribile. Certe volte il dolore è così forte che non posso evi-
tare di chiamare Arden e lui arriva di corsa e mi dà una medicina prescritta dal medico. Non mi permette di tenerla vicina a me sul comodino perché ha paura che ne possa prendere troppa per sbaglio. Sai, mi fa venire la testa confusa, così non riesco a ricordare se ho preso una o due pillole. Poi, mentre aspetto che la pillola mi faccia effetto, lui siede accanto a me e mi racconta storielle buffe per farmi ridere. Certe volte questo caro ragazzo resta in piedi tutta la notte per distrarmi e tenermi compagnia se i dolori non se ne vanno. Dio è stato buono con me il giorno che mi ha detto di non distruggere il bambino che avrebbe potuto rovinare la mia carriera. Ci ho ripensato due volte e non ho abortito. Se avessi saputo, tanto tempo fa, che tutti i bambini che ho evitato sarebbero stati come Arden forse ne avrei messi al mondo dodici.» Intendeva dire con questo che aveva avuto parecchi aborti? Non mi piaceva pensarlo. Mi convinsi che in realtà intendeva dire di aver fatto ricorso ad altri rimedi per evitare di avere figli, rovinandosi così la carriera. Sapevo anche che se pure avesse avuto cento figli uno soltanto sarebbe stato come Arden; devoto, responsabile, un uomo prima ancora che finisse di essere un ragazzo. Non era mai triste né in collera, ma costante e solido e sempre presente quando c'era bisogno di lui. Come Billie. Traboccante di affetto balzai in piedi e corsi ad abbracciare Billie. Non ero mai riuscita a esternare impulsivamente i miei sentimenti a mia zia, anche se più volte l'avevo desiderato. Avevo bisogno che Billie fosse per me una seconda madre, anche perché zia Ellsbeth mi teneva sempre a distanza di sicurezza. «Va bene, Billie, forse non sono ancora pronta per vederti senza gonne lunghe, ma un giorno che entrerò qui e ti troverò senza i tuoi vestiti eleganti non proverò alcun disgusto. Mi guarderai negli occhi e non ci vedrai altro che ammirazione e gratitudine per essere quella che sei e per aver messo Arden al mondo, anche.» Rise e mi circondò con le forti braccia prima di guardarmi in fondo agli occhi. C'era malinconia nella sua voce quando, in istante dopo, parlò. «Non stare a innamorarti troppo presto, Audrina. Arden è mio figlio, e mi piace pensare che sia perfetto. Ma tutte le madri del mondo, del resto, sono convinte che i loro figlioli siano perfetti. Tu hai bisogno di un uomo speciale, Audrina. Mi piace pensare che Arden sia abbastanza speciale per te, poiché l'ultima cosa al mondo che vorrei è che ti deludesse... ma se ciò dovesse accadere, ricorda che nessuno di noi è perfetto. Tutti noi abbiamo il nostro tallone di Achille, per così dire.» E ancora una volta, con grande capacità introspettiva, mi frugava in fon-
do agli occhi, forse in fondo all'anima. «Cos'è che ti turba, Audrina? Perché tutte quelle ombre in fondo a quegli stupendi occhi viola?» «Non lo so.» Mi tenni stretta a lei. «Forse è che non sopporto di avere il nome di mia sorella più grande, morta misteriosamente all'età di nove anni. Non so cosa darei per essere stata la Prima Audrina, che era anche la Migliore Audrina. Mio padre non la finisce mai di dirmi quanto era meravigliosa, e ogni parola che pronuncia per lodarla è un'accusa nei miei riguardi per non essere all'altezza di ciò che è stata lei. È come una maledizione, e doppia, ora che la mamma è morta il giorno del mio nono compleanno, mettendo al mondo Sylvia, per di più. È strano e non è giusto che tante cose accadano quando arriva il nono giorno del nono mese.» Rassicurante mi tenne stretta, ascoltando con pazienza finché non ebbi finito. «Sciocchezze, nient'altro che sciocchezze. Non sei né maledetta, né condannata. Per quanto tuo padre dovrebbe farla finita di parlare così spesso di una bambina ormai sotto terra. Da quello che sento dire di te da mio figlio se fossi più perfetta di così ti spunterebbero le ali e l'aureola e dovresti montare su un piedistallo d'oro massiccio. È strano, non ti pare, che gli uomini desiderino donne dall'aspetto angelico che però si comportino come... lascia perdere. Sei troppo giovane per saperne di più.» Maledizione, eccola di nuovo a interrompersi proprio nel momento in cui stava per dire qualcosa di importante. Come la mamma, zia Ellsbeth e persino Mercy Marie. Parve imbarazzata e mi lasciò sospesa, in attesa di informazioni che non sarebbero mai arrivate. Un pomeriggio me ne stavo sulla sedia a dondolo, volteggiando pigramente al disopra dei ragazzi che, nel folto del bosco, aspettavano per compiere la loro violenza. Adesso sapevo che era la presenza di papà, anche quando se ne stava nel corridoio fuori della porta, ad impedirmi di scoprire nel bosco qualcosa al di là del terrore. Per conto mio, in solitudine, ero in grado di colmare il vaso vuoto di pace e appagamento, ma ogni qualvolta papà era nei paraggi, preferivo starmene in piedi dietro la sedia a dondolo, facendola andare su e giù con le mani in modo da far scricchiolare il pavimento. Solo quando si era convinto che ero al lavoro acconsentiva ad andarsene. Un giorno in cui non pensavo alla scuola, udii le voci alterate di un litigio provenire dalla camera di mia zia. Riluttante abbandonai l'immagine della Prima Audrina e tornai a essere me stessa. Mia zia urlava: «Quella bambina ha bisogno di andare a scuola, Damian! Se non la mandi a scuola,
prima o poi qualcuno ti denuncerà al provveditorato. Hai sparso in giro la voce che hai assunto dei precettori per farla studiare privatamente, ma è una bugia. E la bambina non è trascurata solo culturalmente; è violentata anche in altri modi. Non hai alcun diritto di costringerla a mettersi su quella sedia a dondolo!». «Ho il diritto di fare quel che mi pare con mia figlia!» l'aggredì lui di rimando. «Comando io in questa casa, non tu. Per giunta non ha più paura della sedia a dondolo, adesso. Ci si mette volentieri. Te l'ho detto che presto o tardi quella sedia avrebbe fatto miracoli.» «Non ti credo. E se pure va a sedersi volontariamente su quella sedia, cosa di cui dubito, voglio che vada a scuola. Ogni giorno la vedo seguire con lo sguardo Vera, desiderando così tanto ciò che Vera prende per scontato che mi viene voglia di piangere. Non credi che abbia sofferto abbastanza, Damian? Lascia che provi di nuovo a trovare il suo posto nel mondo. Dalle un'altra occasione. Te ne prego.» Il mio cuore balzava su e giù, Ma allora mia zia mi voleva bene, dopo tutto? Oppure Lamar Rensdale aveva trovato un modo per convincerla che avevo bisogno di andare a scuola se volevo crescere felice e normale? Mio padre capitolò. Sarei andata a scuola. Bastò questo a riempirmi di immensa gioia. Alla prima occasione mormorai a mia zia, mentre Vera era assorta nella lettura di un ennesimo romanzo rosa: «Perché, zia Ellsbeth? Credevo che non ti importasse che io avessi o no un'educazione». Mi tirò in cucina e chiuse la porta come se, lei neppure, volesse essere udita da Vera. «Voglio essere onesta fino in fondo, Audrina. E la verità è una cosa che in questa casa di matti non avrai facilmente, se non da me. Quell'uomo che ti insegna a suonare il piano è venuto un giorno e ha fatto pressione con me perché ti aiutassi. Ha anche minacciato di andare all'Ispettorato agli Studi e denunciare la tua situazione; niente di più facile che tuo padre venisse multato, o persino mandato in prigione, per aver tenuto una minorenne lontano da scuola.» Non potevo credere alle mie orecchie! Lamar Rensdale aveva mantenuto la sua promessa, anche se ci aveva messo parecchio. Risi, feci una piroetta e quasi abbracciai mia zia, ma lei arretrò. Non mi restava che correre di sopra e rifugiarmi nella sedia a dondolo e cantare, nella speranza di trovare la mamma, per darle la magnifica notizia. Una vita quasi normale
Papà mi portò a comprare l'occorrente per la scuola che avrei iniziato a metà trimestre, in febbraio. Tutti i miei regali di Natale consistettero in capi di abbigliamento... soprabiti, scarpe, persino l'impermeabile giallo, uguale a quello di Vera, che da anni desideravo. Era eccitante scegliere gonne e camicette, pullover e giacche. Papà non mi permise di comprare i jeans che le altre ragazze portavano. «Niente calzoni per mia figlia!» tempestò, facendo in modo che la commessa udisse. «Rivelano troppo. E stammi bene a sentire, siediti sempre con le gambe unite e non guardare in faccia i ragazzi... mi senti?» Il suo tono di voce era abbastanza alto da informare l'intero reparto del grande magazzino. Arrossii e gli dissi di abbassare la voce. Qualcosa di brutto si abbatteva sempre sopra mio padre ogni volta che parlava dei ragazzi. Quando finalmente febbraio arrivò ero come una bambinetta in attesa del circo. La paura del bosco non esisteva, poiché papà mi avrebbe portato in macchina tutte le mattine e per tornare a casa il pomeriggio avrei preso l'autobus della scuola. «La detesterai,» proclamò Vera. «Adesso credi che sarà divertente, che agli insegnanti interessi qualcosa se tu impari, ma non è così. Te ne starai seduta a scaldare la sedia in una classe con altri trenta, trentacinque ragazzi e presto ti accorgerai che c'è da morire dalla noia... noia vera e propria. Se non ci fossero i ragazzi sarei già scappata di casa da un pezzo e non sarei più tornata.» Non mi aveva mai detto una cosa simile prima di allora. Quando non poteva andare a scuola aveva una lista inesauribile di eccitanti racconti di tutte le attività divertenti che vi si svolgevano. Aveva centinaia di amici... ora mi diceva che non ne aveva neanche uno. «A nessuno piace una Whitefern, anche se si nasconde dietro il nome di Adare.» Papà ordinò a Vera di tenere a posto la lingua. Frettolosamente augurai a tutti la buonanotte e corsi al piano di sopra nella camera dei giochi per sedermi sulla sedia a dondolo e raccontare alla mamma della mia vita. Ero certa che da qualche parte lassù mi ascoltasse, felice per me. E mentre dondolavo ancora una volta le pareti parvero farsi porose e dissolversi e vidi la Prima Audrina traversare in una corsa scatenata un campo fiorito, ridendo mentre un ragazzino di dieci anni la inseguiva. Si voltò per affrontarlo allorché lui le tirò il fiocco alla vita che si disfece nelle sue mani. Chi era? Perché fissava la Prima Audrina a quel modo? La scena svanì e l'Altra
Audrina era di nuovo a scuola, con un enorme ragazzotto pieno di brufoli seduto dietro di lei, e di nuovo, ricciolo dopo ricciolo, le intingeva i lunghi capelli biondi nella bottiglietta di inchiostro. Era una lezione di disegno e lei non se ne accorse neppure. «Auuuu... driiiin... na,» chiamò una terribile voce cantilenante che mi fece tornare di soprassalto in me. Sulla soglia c'era Vera che mi fissava con occhi di brace. «Alzati da quella sedia! Ne hai avuto abbastanza! Non hai bisogno del suo dono! Alzati, e non sedertici più... è mia! Sono io che ho bisogno del suo dono.» Le lasciai la sedia, pensando in cuor mio che aveva ragione. Io non avevo bisogno del dono ignoto della Prima Audrina. In fondo non era riuscito a tenerla in vita fino a undici anni, come me. Io stavo sopravvivendo, lei non ce l'aveva fatta, e per il momento quello mi sembrava un dono abbastanza grande. Il mattino seguente mi preparai ansiosamente per il primo giorno di scuola. Portavo una gonna azzurro pervinca scuro, di un leggero tessuto di lana. Le mani mi tremavano mentre mi legavo il nastro di velluto nero attorno al collo della camicia bianca. «Sei bellissima,» mi disse papà dalla porta, sorridendo con approvazione. Dietro di lui c'era Vera, invidiosa. I suoi occhi scuri mi trapassarono da parte a parte, dalla testa ai piedi. «Oh, papà,» si decise infine a dire con disprezzo, «ma nessuno si veste più a questo modo. Vedrai, l'elegante Audrina diventerà lo zimbello della classe.» Lanciò un'occhiata al proprio abbigliamento: jeans stinti e un maglione. «Io sì che ho lo stile giusto.» Le sue parole contribuirono ben poco a darmi la fiducia che mi occorreva. Volevo inserirmi, non farmi additare come un pezzo da museo, ciò nonostante papà non permise che indossassi altro che gonne, camicette, golfini o vestiti interi. Mentre Vera montava sullo scuolabus giallo del suo liceo, papà mi portò alla scuola inferiore e mi accompagnò nell'ufficio della preside. Il mio ingresso a scuola era stato progettato da un pezzo, dunque non c'era altro da fare se non farmi dire dove andare e come comportarmi. Apparentemente la preside era convinta che fossi stata malata a lungo. Mi sorrise con simpatia. «Ti troverai benone non appena ti sarai ambientata.» Il panico mi assalì in una morsa, allorché papà voltò le spalle per andarsene. Mi sentivo una bambina di sei anni. Allora stetti ancora peggio perché non ricordavo di aver mai avuto sei anni. Papà mi guardò di traverso oltre la spalla. «È quello che hai voluto tu, Audrina. Per averlo hai scon-
giurato e implorato, dunque, se puoi, goditelo.» «Sei una bambina deliziosa,» disse la preside incamminandosi verso un lungo corridoio e facendomi segno di seguirla. «La maggior parte dei ragazzi qui sono disciplinati, ma non tutti. Tuo padre dice che tua zia è stata insegnante e ti ha tenuto al passo. Da quanto ho capito dovresti entrare in quarta o in quinta senza problemi. Cominceremo dalla quarta; così non ti sentirai spaesata e se te la cavi bene ti passiamo alla classe successiva.» Mi lanciò un altro sorriso incoraggiante. «Tuo padre è un uomo molto bello ed è convinto che sua figlia sia la ragazza più intelligente del mondo. E sono certa che sa quel che dice.» Guardai i visi degli altri ragazzi che mi fissavano. Il loro abbigliamento era estremamente disinvolto, proprio come aveva detto Vera. Eppure, proprio il giorno prima che andassimo a far spese, Vera mi aveva detto che i vestiti che portavo erano perfetti per la scuola. Avrei dovuto capirlo che stava mentendo. Le ragazze erano tutte in jeans. Nessuna portava nastri nei capelli. Con gesto furtivo mi tolsi il nastro e lo feci cadere sul pavimento. «Ehi!» esclamò il ragazzo che stava al banco dietro il mio. «Ti è caduto il nastro.» Parecchi studenti l'avevano già calpestato con le scarpe da ginnastica. Adesso non sapevo cosa farne se non nasconderlo nella borsetta. «Ragazze, ragazzi,» esordì la preside avvicinandosi al centro dell'aula. «Vi presento la vostra nuova compagna: Audrina Adare. Fate il possibile per riservarle una buona accoglienza.» Mi sorrise, indicò un banco vuoto e uscì. Fino a quel momento l'insegnante di quella classe non si era visto. Sedetti con il quaderno e le matite nuove allineati davanti a me, senza saper che fare. Da qualche parte mi venne il sospetto che mi occorrevano dei libri... gli altri li avevano. Davanti a me c'era una ragazza graziosa con i capelli scuri e gli occhi azzurri. Si voltò e mi sorrise. «Non fare quella faccia spaventata,» mi sussurrò. «Vedrai, la nostra insegnante ti piacerà. Si chiama Miss Trible.» «Non ho neanche un libro,» le sussurrai di rimando. «Oh, ne avrai fin che ne vuoi di libri. Più di quanto ti farà piacere trasportare avanti e indietro da casa a scuola ogni giorno.» Esitò, poi tornò a guardarmi. «Ehi, ma non sei mai stata a scuola prima?» Per qualche ragione non riuscii a dirle che non c'ero mai stata. Mentii e dissi: «Sì, certo che ci sono stata, ma è tanto che sono assente... perché... mi sono rotta una gamba». Finalmente Vera era servita a qualcosa di buono. Potevo attingere alle
sue numerose disavventure per fare un resoconto verosimile. Presto tutte le bambine mi furono attorno per sentire delle mie ossa fragili che mi avevano tenuto lontana da scuola fino all'età di undici anni. Quando Miss Trible entrò in classe mi lanciò un'occhiata lunghissima, incomprensibile. Il suo sorriso fu tirato. «Alziamoci tutti quanti e facciamo il saluto alla bandiera,» disse. «Poi faremo l'appello e ciascuno di voi risponderà 'presente'.» Un ragazzino da qualche parte dietro di me ridacchiò. «Perdiana, ma che le prende. Si comporta come se non l'avessimo mai fatto prima d'oggi.» Ero emozionata, eppure perplessa, preoccupata, tesa e niente affatto felice. Sospettavo che Miss Trible mi trovasse antipatica. Ero convinta che crocchi di ragazzini nei corridoi e alla mensa parlassero, bisbigliando, di me. Poter parlare con altre ragazzine della mia età non fu affatto piacevole. Mi sentivo talmente più vecchia di tutte loro. E poi, contraddittoriamente, ero come una bambinetta di prima elementare, terrorizzata sul da farsi se mi fosse venuta voglia di andare al gabinetto. Dov'era il gabinetto? Più riflettevo sulla questione, peggio stavo. Ben presto ebbi un bisogno così disperato da sentirmi morire. Presi a incrociare e a dimenare le gambe. «Audrina, c'è qualcosa che non va?» mi chiese l'insegnante. «No, signora,» mentii, vergognandomi di dire cosa c'era che non andava davanti ai ragazzi. «Se hai bisogno di assentarti, il gabinetto delle donne è in fondo al corridoio. Gira a sinistra, subito fuori della porta.» Paonazza e infelice balzai in piedi e corsi. Lasciai alle mie spalle l'intera scolaresca che rideva. Quando tornai mi vergognavo troppo per entrare. «Entra, Audrina,» mi ordinò Miss Trible. «Il primo giorno in una scuola nuova è sempre traumatico in un certo senso, ma vedrai che presto ti ambienterai. Chiedi pure quello che non sai.» Un istante dopo batteva il righello sulla lavagna per richiamare l'attenzione della scolaresca. In un modo o nell'altro superai quei primi, terribili giorni di scuola. Facevo quello che facevano le altre ragazze, confondendomi nelle loro ombre. Sorridevo quando sorridevano loro, ridevo quando lo facevano loro, e presto mi sentii completamente falsa. Parte di ciò che quelle ragazze bisbigliavano nelle toilette mi scandalizzò. Non sapevo che le ragazze parlassero a quel modo. A poco a poco scoprii cosa rendeva Vera ciò che era. Si uniformava. Io non potevo. Non ero capace di ridere per scherzi che mi sembravano solo volgari e per niente divertenti. Non ero capace di giocare a stuzzicare i ragazzi e poi a battermela, poiché avevo troppe visioni di
quel giorno di pioggia della Prima Audrina nei boschi. Mi feci un'amica, la bambina che sedeva al posto davanti al mio. «Andrà tutto bene, vedrai,» mi disse alla fine di quella prima lunghissima settimana di scuola. «Ma non cercare di battere in eleganza le ragazze ricche della città... a meno che non sia ricca anche tu.» Mi lanciò un'occhiata turbata. «Tu sei ricca, non è vero? C'è qualcosa di diverso in te. E non solo per i vestiti che indossi, o per i tuoi capelli, che sono i capelli più belli che abbia mai visto, il fatto è che sembri venire da un altro secolo.» Come potevo dirle che mi sentivo come se fossi addirittura arrivata da un altro mondo? Un mondo ottocentesco, vecchio e antiquato quanto la casa nella quale abitavo. La mia classe non era grande come aveva predetto Vera, ma piccola. La mia scuola era una scuola privata. Questo indusse Vera a detestarmi ancora di più giacché lei era stata iscritta alla scuola pubblica. Ogni giorno, finita la scuola, frequentavo fedelmente le lezioni di musica. Se avessi continuato con quel ritmo un giorno sarei diventata una brava pianista. Lamar Rensdale mi trattava con particolare gentilezza. «Sei contenta di essere a scuola? Adesso non rimpiangi che non mi sia fatto i fatti miei?» «No, Mr. Rensdale, le sarò grata in eterno per quello che ha fatto perché finalmente comincio a sentirmi reale come non mi sono mai sentita prima. Le sono debitrice per questo.» «A presto, buona fortuna e che la tua musica viva in eterno,» mi gridò dietro mentre scappavo dalla porta, balzando nel vecchio catenaccio che Billie aveva comprato per Arden. Tutti i miei insegnanti sembravano molto cauti con me, e io ero loro grata per questo. Mi sorridevano incoraggianti e mi davano i libri che portavo a casa tutti i giorni. Dopo due mesi di scuola scoprii che doveva esserci in me una fonte sconosciuta di sapere che mi faceva pensare di essere già stata a scuola prima. Forse avevo assorbito davvero i ricordi della Prima Audrina, oppure mia madre e mia zia avevano fatto un ottimo lavoro insegnandomi a quel tavolo di cucina. Probabilmente avevano contribuito anche quegli altri insegnanti che papà continuava a dire di aver assunto per me (e che io non ricordavo). Per la prima volta Arden ebbe il permesso di venirmi a fare visita e di sedere alla nostra tavola il giorno di Pasqua. Io avevo pregato e scongiurato e pianto e minacciato perché volevo anche Billie, ma Billie aveva rifiutato. «Venite a trovarmi dopo pranzo. Vi preparerò quella mousse al cioc-
colato che tu dici sempre che tua zia non sa fare.» Il pranzo di Pasqua fu una tortura giacché papà non smise un solo istante di interrogare Arden sulle sue origini, e chi fosse suo padre, e che cosa facesse, e perché aveva abbandonato moglie e figlio. Per tutto il tempo Vera civettò con Arden, sbattendo le lunghe ciglia, contorcendosi e arcuandosi per mettere in risalto il petto e rendendo chiaro a tutti quanti che non portava reggiseno. Arden sembrava intimidito dalle dimensioni della nostra casa. Si guardava attorno a disagio, come se pensasse che non sarebbe mai riuscito a permettersi nulla del genere. Arrivata l'estate, Arden e io passammo ogni minuto libero insieme. Mi insegnò a nuotare nel fiume Lyle, a nuotare per davvero come nuotava lui. Il fondo del fiume era fangoso e cosparso di ostriche e granchi; le triglie da fango saltavano e sfrecciavano soprattutto all'imbrunire. I loro piccoli tonfi nell'acqua ricorrevano nei mei sogni, talvolta svegliandomi e inducendomi ad avvicinarmi alla finestra per contemplare l'acqua scura, inargentata dalla luna. Qualcosa di meraviglioso stava accadendo in me quell'estate, colmandomi di un desiderio di risvegliarmi e fuggire da quella casa. Ma per quanto provassi a liberarmi di Vera, me la ritrovavo sempre accanto. Vera pretendeva che Arden le insegnasse a guidare la macchina. Io speravo tanto che lui non volesse, invece le insegnò a guidare lungo le tranquille strade di campagna. Un giorno, dopo una lezione di guida, corremmo al fiume e ci togliemmo i vestiti. Portavamo sempre il costume da bagno sotto il prendisole. La temperatura sfiorava i trentotto gradi. Mi girai e scorsi Arden che fissava a bocca aperta Vera nel ridotto bikini. I tre triangolini che portava erano verdi e donavano molto al colore dei suoi capelli. La sua pelle chiara si era dorata assumendo una sfumatura ramata e persino io dovetti ammettere che era estremamente graziosa. Già aveva sviluppato forme femminili, con due seni alti e pieni che spuntavano dal minuscolo reggipetto verde. Io ero ancora piatta come una tavola. Con aria noncurante, Vera si fece più vicina ad Arden con un asciugamano di un verde più chiaro gettato casualmente sulla spalla. Dimenava i fianchi. Apparentemente affascinato dal loro moto ondulatorio, Arden parve dimenticarsi completamente di me. «Sono terribilmente stanca dopo la lezione di guida e dopo la lunga camminata per arrivare quaggiù. Ti dispiace aiutarmi a scendere il pendio, Arden?» Si precipitò ad aiutarla giù per il lieve pendio che non avrebbe avuto difficoltà alcuna a discendere da sola. Per qualche ragione lui non riusciva a staccare le mani dalla sua vita o dal braccio. Le sue dita sulla parte supe-
riore del braccio sfioravano appena le nuove rotondità del suo seno. Io mi feci paonazza per la collera allorché lei gli dedicò un sorriso radioso. «Ti fai ogni giorno più bello, Arden.» Lui parve ancora più a disagio, arrossì, staccò le mani da lei come di forza e mi guardò contrito. «Grazie,» rispose con difficoltà. «Anche tu ti fai ogni giorno più carina.» I miei occhi si dilatarono mentre guardavo Vera stendersi a faccia in giù nella luce brillante del sole, mentre Arden le volteggiava attorno, incapace di allontanarsi. «Ti dispiace mettermi un po' di olio solare, Arden? Ho una pelle talmente sensibile che se non sto attenta mi scotto subito.» Aveva la pelle più chiara che avessi mai visto. Mentre ammiravo la sua bella abbronzatura ramata mi chiedevo dove se la fosse fatta. Poi, con mia grande sorpresa, Vera gli chiese di slacciarle il reggiseno. «Non mi vanno i segni del costume. Smettila di guardarmi a quel modo, Audrina. Non si vedrà proprio niente se mi muovo con calma. Non che Arden non abbia mai visto due tettine nude prima.» Ridacchiò vedendolo ritrarsi di colpo con aria sorpresa... e colpevole. Ciò nonostante si accovacciò accanto a lei e le slacciò il reggiseno e pur con aria imbarazzata e goffa riuscì a stenderle un po' di lozione solare sulla schiena... e quanto tempo ci mise per farlo! Troppo tempo. Mi pareva che le sue mani indugiassero troppo a lungo in certi posti. Sembrava così eccitato che le mani gli tremavano. Furiosa con lui, con Vera, balzai in piedi e corsi fino a casa, detestandoli entrambi. Ore più tardi Vera zoppicò in camera mia, rossa in volto e felice. «Che sciocca bigotta sei,» disse lasciandosi cadere sulla mia poltrona preferita. «Il tuo amichetto non mi interessa. Ho messo gli occhi su qualcun altro.» Non le credetti. «Lascia perdere Arden, Vera. Per averlo dovrai passare sul mio corpo, prima.» Sarebbe stato meglio se non l'avessi mai detto. I suoi occhi scuri si illuminarono. «Oh, se davvero lo volessi non sarebbe difficile da prendere,» ronfò come un grosso gatto sornione. «Ma è un ragazzino, troppo immaturo per me. Però chissà, forse è più maturo di quanto pensi e gli devo un'altra occasione. La prossima volta gli farò mettere l'olio abbronzante... dappertutto.» «Papà ti ucciderebbe.» Accavallò una gamba nuda sul bracciolo della mia poltrona di velluto, esponendosi così spudoratamente che dovetti guardare altrove. «Ma tu non glielo dirai, Audrina, la sua dolce Audrina, perché hai un grande segreto. Tu vai a prendere lezioni di piano dal dongiovanni di Whitefern. Lamar
Rensdale ha sedotto ogni vergine nel raggio di trenta chilometri.» «Sei pazza!» sbottai. «Lui non ha mai...» Si appoggiò al bracciolo opposto della poltrona di modo che i capelli sfiorarono il suolo. Il reggiseno del minuscolo bikini si sollevò talmente che vidi che si era abbronzata anche i seni. «Ma papà non ci crederà,» mi fece notare subdolamente, scuotendosi la sabbia dai capelli. «Papà crederà a qualunque cosa gli dicano gli abitanti del paese. Dunque ti conviene essere gentile con me, Audrina.» Mi venne il voltastomaco mentre lei si alzava, si avvicinava allo specchio e si toglieva il costume da bagno, mettendo in mostra ciò che lei aveva e io no. Poi, ancora nuda, saltellò fuori della mia stanza lasciando il costume bagnato sul tappeto. Adesso ero a disagio riguardo alle mie lezioni di musica, spaventata dall'uomo di cui fino a poco prima avevo avuto fiducia. Rabbrividivo quando si chinava al disopra della mia spalla e mi facevo piccola allorché la sua mano sfiorava accidentalmente la mia. Sul suo bel viso si dipingeva la perplessità allorché i suoi occhi cercavano di incontrare i miei e non ci riuscivano. «Che c'è che non va, Audrina?» «Nulla.» «Non sopporto che mi si dica così, quando è evidente che c'è qualcosa che non va. Perché hai smesso di fidarti di me?» «Forse perché ho sentito alcune cose,» bisbigliai, il capo chino. «Ho paura di non poter più venire qui.» «Così,» replicò amaramente, «sarai come tutti gli altri e crederai il peggio di me.» Balzò in piedi e prese a misurare a gran passi il piccolo soggiorno. «Si dà il caso che tu sia l'unica allieva che mi tiene legato a questa cloaca di città. Continuo a ripetermi che anche se non sono all'altezza di Broadway sto contribuendo a regalare al mondo una splendida musicista.» Ebbi compassione di lui, e anche di me stessa poiché nei paraggi non c'era un altro insegnante di musica qualificato, e non mi sarebbe stato possibile arrivare fino in città che era a oltre sessanta chilometri di distanza. «Mr. Rensdale...» esordii timidamente. «Lamar... perché non mi puoi chiamare per nome e dare del tu?» sbottò irritato, intrecciando le lunghe dita fra loro e flettendole avanti e indietro. «Non posso darle del tu. Papà mi ha detto di non farlo, poiché è il primo passo verso...» Esitai, cominciavo a sentirmi imbarazzata e accaldata. «Vera è una chiacchierona, non lo dimentichi. Se mai le venisse in mente di raccontare a papà della sua reputazione, lo avrebbe subito alle costole. Mio
padre è enorme, e non sente ragioni quando è arrabbiato. Crederebbe a qualunque cosa Vera gli dicesse... e lei mi odia. Lui lo sa che lei mi odia però crede a quello che gli dice, perché non ha fiducia di nessun uomo quando si tratta di far la corte alle ragazzine. Se non mi ritenesse assolutamente casta e pura di mente non mi permetterebbe mai di venire qui.» «Parlerò io a Vera quando viene per la prossima lezione.» Smise il suo andirivieni e mi si parò davanti. «Sta perdendo tempo con me, e anche soldi. Non è assolutamente portata per la musica, eppure insiste a continuare. È in competizione con te, Audrina. Vuole tutto ciò che hai tu. Vuole il tuo ragazzo, vuole l'amore che tuo padre dà a te e non a lei. È gelosa di te, e pericolosa anche. Guardati da Vera.» Lentamente i miei occhi si sollevarono a incontrare i suoi. Lui mi sfiorò i capelli, poi la guancia sulla quale mi era scivolata una lacrima. «Stai piangendo per me o per te stessa?» chiese a bassa voce. «Chi ti insegnerà a suonare il piano quando io non ci sarò più? Che ne farai allora del tuo talento? Lo seppellirai sotto i piatti che lavi e i bambini che porti in grembo, come ha fatto tua madre?» «Tornerò,» bisbigliai, terrorizzata all'idea di perpetuare le frustrazioni di mia madre. «Rischierò i pettegolezzi di Vera, ma faccia attenzione anche lei, la prego.» Arrivò il suo sorriso, tirato e sbilenco, mentre mi asciugava le lacrime. Un sorriso molto simile a quello di Vera. Ogni giorno suonavo meglio. Seduta al pianoforte a coda mi sentivo come la mamma, affascinata dalla musica che creavo e in un certo senso delusa dalla vita che conducevo. Qualcosa mancava, e non sapevo cosa fosse. Per tutto l'inverno contemplai la neve che cadeva in soffici fiocchi fuori della finestra, malinconica e derelitta, e mi concessi di credere che era di Sylvia che avevo bisogno per appagarmi. Non appena avessi avuto Sylvia a casa con me per darle tutto l'amore e le cure materne di cui doveva sentire un disperato bisogno, sarei stata felice. Mi chiesi, come migliaia di volte mi ero chiesta, cosa c'era che non andava. Possibile che fosse una cosa così tremenda da indurre papà a non parlarmene per non ferire la mia «sensibilità»? Davvero ero così sensibile? Mia zia ridicolizzava talmente spesso quell'idea che ormai avevo la certezza che lei e papà avessero in mano la prova della mia debolezza segreta. La neve danzava nel vento, volteggiando come una miriade di minuscole
ballerine, saltando in alto, ricadendo, scivolando lateralmente, formando figure, dicendomi, dicendomi in eterno che non sarei mai, mai stata libera, come mai lo era stata la mamma. Vera fece irruzione nella mia camera da letto, il pesante cappotto che ancora sapeva di freddo mentre lo gettava noncurante, macchiando un'altra poltrona delicata. «Indovina cos'ho fatto!» esplose, incapace di trattenersi. I suoi occhi scintillavano come tizzoni ardenti. Il vento le aveva colorito di rosso le guance come due mele. Sul suo collo c'erano segni rossi. Segni che mi indicò. «Sono baci,» annunciò con un sogghigno. «Ho segni come questi su tutto il corpo. Non sono più vergine, sorellina.» «Non sei mia sorella!» esplosi. «E che differenza fa, potrei esserlo benissimo. Adesso mettiti seduta e ascolta quello che succede nella mia vita, e prova a fare il paragone con la soffocante monotonia della tua. Ho visto un uomo nudo, Audrina, un uomo in carne e ossa, non una fotografia o un'illustrazione. È talmente peloso. Non ti puoi immaginare quanto può essere peloso, vedendolo vestito da capo a piedi. I peli dal torace arrivano oltre l'ombelico e da lì scendono in una punta e continuano a scendere e si fanno più cespugliosi fino...» «Basta! Non voglio sentire altro.» «E invece io voglio che tu lo senta. Voglio che tu sappia quello che ti perdi. È magnifico avere quei venticinque centimetri che ti frugano dentro. Mi hai sentito, Audrina? L'ho misurato... quasi venticinque centimetri ed è tutto gonfio e duro.» Corsi verso la porta ma lei mi sbarrò la strada. Con forza sorprendente mi gettò per terra e mi si mise sopra a gambe divaricate. Ebbi l'impulso di togliermela di dosso a calci, ma mi trattenni temendo che cadesse e si rompesse un altro osso. Mi poggiò i piedi sul petto che appena allora stava cominciando a spuntarmi. «Ha un corpo stupendo, sorellina, davvero fantastico. Le cose che facciamo ti scandalizzerebbero talmente che potresti metterti a urlare e magari perderesti i sensi... e io adoro ogni secondo di ciò che facciamo insieme. Non ne ho mai abbastanza, mai.» «Hai solo quattordici anni,» mormorai, disgustata dall'aspetto stralunato che aveva e dal modo sboccato in cui parlava. «Presto quindici,» mi corresse con una risata dura. «Perché non mi chiedi chi è il mio amante? Te lo dirò, te lo dirò con piacere.» «Non voglio saperlo. Tu menti sempre. Stai mentendo anche adesso. Lamar Rensdale non vorrebbe mai una bambina come te.»
«E come fai a saperlo? Solo perché non vuole te? E chi altri potrebbe volerti se non un ragazzino come Arden? Si sente in colpa con te, protettivo... e su questo potrei raccontarti certe cose che ti farebbero perdere la ragione che già è al limite della follia. Chiunque nel pieno del possesso delle sue facoltà mentali sa per filo e per segno cosa è accaduto nella propria vita... ma non tu.» «Lasciami in pace, Vera!» urlai. «Sei una bugiarda e sempre lo sarai. Lamar Rensdale non ti avrebbe mai preso dopo quello che gli ho detto di papà.» «E che cosa gli hai detto di papà?» chiese socchiudendo gli occhi in un'espressione gelida. «Gli ho detto che papà è enorme, e che ha un carattere orribile, e che anche se non è il tuo vero padre, tu potresti rovinare la nostra reputazione.» Rise così istericamente da cadere per terra e rotolarsi sul pavimento come qualcuno in preda alla follia. «Perdiana, che testa di rapa sei, Audrina! Rovinare la nostra reputazione? Come si fa a rovinare qualcosa che è già stato rovinato? E se non mi credi va' a chiederlo a Lamar. A lui non importa la mia età. Anzi, le ragazzine giovani gli piacciono. Piacciono a quasi tutti gli uomini. Vorrei che avessi potuto vederlo avanzare verso di me senza niente addosso, con quella grande spingarda innestata e puntata...» Sbigottita dalle sue parole, corsi fuori della stanza da zia Ellsbeth che si trovava in cucina. Dimenticai Vera e provai compassione per mia zia, sempre a lavorare così sodo, a fare metà delle mie incombenze e la maggior parte di quelle di Vera, adesso che non stavo più a casa tutto il giorno. Zia Ellsbeth sollevò lo sguardo dai piatti che stava lavando. Ciò che vidi nei suoi occhi scuri mi sbalordì. Scintillavano di felicità, come se avesse cercato per tutta la vita e finalmente avesse scoperto qualcosa in grado di farla gioire. Non diceva più che papà era crudele e insensibile come era solita una volta. E lui non la chiamava più un manico di scopa ambulante, lunga maligna e segaligna, con una lingua di serpe. «Audrina,» mi chiamò e nella sua voce colsi una sfumatura di calore, «devi stare attenta a non permettere che tuo padre domini la tua vita. Con Vera non accadrà mai perché a lei non importa quello che lui pensa di lei. Ma proprio perché a te importa ti rendi vulnerabile. È egocentrico al punto da poter essere così crudele da derubarti di ciò di cui hai bisogno. Mente, inganna e mistifica. È diabolicamente abile e piacevole ma, mi dispiace dirlo, interamente privo di scrupoli e d'integrità. Se mai gli sarà possibile ti
terrà qui con lui fino al giorno della sua morte e non ti permetterà di avere una vita tua. Io capisco che tu lo ami. E in un certo senso ti ammiro per la tua lealtà e la tua devozione. Ma i vincoli di sangue non devono essere catene. Tu non devi né a lui né a Sylvia la tua vita.» Oh, cosa intendeva dire? «Questa primavera porterà Sylvia a casa,» annunciò con quel piatto tono monocorde che mi fece venire i brividi. «E non appena lei sarà qui a te non resterà più tempo per le lezioni di musica, né tempo per fare altro che badare a lei.» Ero eccitata all'idea che finalmente Sylvia venisse a casa, ma la gioia di quel momento fu oscurata dalle sue parole e dalla sua espressione. «Sylvia ha compiuto due anni il settembre scorso, zia Ellsbeth. Credevo che questo volesse dire che ormai ha superato il momento più difficile della crescita.» Grugnì. «Tuo padre non vuole che io parli di Sylvia. Vuole che tu ti affezioni a lei. Ma io ti avverto, non permettere che questo accada.» La fissai completamente confusa. Non dovevo amare mia sorella? E Sylvia non aveva bisogno che io l'amassi? «Non guardarmi a quel modo. Sto pensando a te, non a lei. Per Sylvia non si può fare nulla, e questa è una tragedia, ma tu ti puoi salvare ed è quello che sto cercando di fare. Mantieni il tuo sangue freddo. Fa' per lei ciò che puoi, ma non amarla troppo. Vedrai che un giorno mi ringrazierai per averti detto questo ora e non quando sarebbe stato troppo tardi.» «È deforme!» proruppi in un urlo, sconvolta. «Perché papà non me l'ha detto, zia Ellsbeth? Ho diritto di saperlo. Cos'ha Sylvia che non va, zia Ellsbeth? Ti prego, dimmelo. Ho bisogno di essere preparata.» «Non è deforme,» mi rassicurò con voce gentile, guardandomi con occhi colmi di compassione. «È una bella bambina, eccome, e somiglia molto per certi versi a te alla sua età. Certo i suoi capelli non hanno il colore stupefacente dei tuoi, ma in fondo è poco più che una neonata, e potranno cambiare col tempo e diventare esattamente come sono i tuoi... e quelli di tua madre. Spero tanto che un giorno ti somiglierà. Signore Iddio che sei lassù, se questo accadesse, forse lui ti lascerebbe libera da quegli sciocchi sogni nei quali sembra credere così fervidamente e che ti impone. Per essere un individuo adulto e molto intelligente certe volte si comporta come un idiota superstizioso. Ti ho vista far dondolare l'anello sopra gli elenchi dei titoli, dunque ti do atto della tua abilità. Cerca di essere abbastanza abile da salvarti quando verrà il momento.» Cosa intendeva?
«Audrina, segui il mio consiglio e smetti di fare quello che stai facendo. Non cercare di aiutarlo. Cerca piuttosto di vederlo per quello che è, un uomo deciso a tenerti legata a sé con tutti i mezzi che gli riuscirà di escogitare. Si è autoconvinto che tu sei l'unica persona di sesso femminile su questa terra degna del suo amore e della sua devozione, e a te darà tutto ciò che possiede, senza rendersi conto che ti sta derubando di quanto di meglio il mondo abbia da offrire.» «Ma io non capisco!» «E allora pensaci. Pensa alla paura che ha di invecchiare e di ammalarsi e di finire in qualche ospizio. È una specie di chiodo fisso in lui, Audrina, una malattia. Tutti dobbiamo invecchiare. Non possiamo fare niente per evitarlo.» «Ma, ma...» borbottai. «Perché stai cercando di aiutarmi, zia Ellsbeth, io non credevo neppure che tu mi volessi bene.» «Lascia che ti spieghi,» disse, intrecciando le mani arrossate dalla fatica sulla lieve protuberanza del ventre. «Quando tornai in questa casa con mia figlia fui trasformata in una serva. A tutti i costi volevo impedirmi di provare qualcosa per te. Avevo Vera, e Vera non aveva altri che me. Il problema, però, era che Vera adorava Lucietta e presto prese a disprezzarmi perché ero una schiava, quando invece io non avevo scelta. Per me era così o andarmene, e io avevo invece buoni motivi per restare. E ho avuto ragione... perché le cose sono andate proprio come sapevo che sarebbero andate se avessi avuto pazienza.» Trattenni il fiato. «Va' avanti,» sussurrai. «Quanto a bellezza tua madre vinceva sempre, così, naturalmente, la invidiavo in tutti i sensi. Ero gelosa del suo corpo, del suo viso, del suo talento e, più di tutto, della sua abilità nell'indurre gli uomini ad amarla alla follia.» Un groppo in gola le strozzò la voce. «C'era un uomo che amavo, un uomo solo... e poi lui la vide. Bastò che la vedesse perché fosse finita per me. Fa male perdere, Audrina, fa talmente male certe volte che ci si chiede come si fa a vivere con la propria sconfitta. Ma vissi, e forse un giorno finirò addirittura per vincere la mia gara per mancanza di avversari.» Mi colpì allora, come uno schiaffo, il perché mia zia era sempre stata così gelosa della mamma, e perché la mamma non faceva che gettare in faccia alla sorella il fatto che lei aveva sempre avuto ciò che voleva mentre mia zia no. Mia zia Ellsbeth era stata innamorata di mio padre! E ora, mal-
grado il fatto che non faceva che litigarci, che lo disapprovava, lo amava ancora. Ebbi la sensazione che da qualche parte in fondo alla mia testa lo sapessi da un pezzo, ma avessi ricacciata accuratamente quella consapevolezza nei buchi della mia memoria. «Zia Ellie, lo ami anche se sai che è un imbroglione, privo di scrupoli e integrità?» Allarmati, i suoi occhi evitarono i miei. «Ho parlato abbastanza per oggi,» tagliò corto, dirigendosi in sala da pranzo con una tovaglia pulita. «Ma tu fa' tesoro di quello che ti ho detto e tieni a mente che le cose non sempre sono come sembrano a prima vista. Non fidarti degli uomini e, soprattutto, allontana i sogni che ti turbano.» Sylvia Il tempo era rallentato. Ora riuscivo a trattenere i ricordi e a custodirli in cantucci sicuri del mio cervello. Con l'aiuto del diario rivisitavo tutti i giorni le mie memorie per radicarle più profondamente dentro di me. La sedia a dondolo aiutava in più di un modo. Adesso mi sentivo in pace. Avevo un rifugio, un santuario nel quale ritrovare l'immagine della mamma che volteggiava aerea sulle nubi. Avevo undici anni e otto mesi il maggio in cui Sylvia venne a casa. Mia zia lo aveva confermato e questa volta credetti che stesse dicendo la verità. Mi aveva anche confermato che Vera aveva tre anni e dieci mesi più di me. Nulla, mi dicevo, mi avrebbe più indotto a dimenticare la mia età. Non avrei più permesso alle brume grigie dell'oblio di tornare a oscurare eventi importanti. Guardavo negli specchi e scorgevo piccoli seni duri tendermi i golfini. Portavo i golfini ampi e sciolti, nella speranza che Arden non notasse la differenza, ma già lo avevo visto guardare furtivamente, facendo finta di nulla. Vidi altri ragazzini a scuola interessarsi ai mutamenti del mio corpo. Li ignoravo e mi concentravo su Arden che frequentava ancora la stessa scuola di Vera. Ciò che io avevo sotto i golfini era nulla in confronto di ciò che Vera esibiva, indossando golfini più attillati possibili. Papà non protestava mai per i golfini attillati di Vera. Vera aveva il permesso di uscire con i ragazzi, di andare al cinema e alle feste scolastiche. Era iscritta a una mezza dozzina di circoli, o almeno così diceva quando tornava a casa molto tardi la sera. Io non avevo mai tempo per la vita mondana. Ogni giorno dopo la scuola dovevo correre da Mr. Rensdale, però adesso mi sentivo in imbarazzo con lui. Non potevo fare a meno di pen-
sare a quello che Vera mi aveva raccontato delle cose che facevano insieme. Una buona metà delle volte ero convinta che mentisse, l'altra metà pensavo che in fondo dicesse la verità. Un giorno che lui aveva la camicia sportiva aperta vidi che aveva il torace peloso, proprio come aveva detto lei. Vera mi aveva descritto il suo corpo nudo così dettagliatamente che era come se portasse vestiti trasparenti. Non riuscivo più a guardarlo. Le mie compagne di scuola mi invitavano alle loro festicciole, ma papà non mi permetteva di andarci. Mi voleva a casa con lui, ad ascoltarlo, a guardarlo sbarbarsi, a sentirlo raccontare delle sue vicissitudini e problemi di lavoro. Mentre si sbarbava, appollaiata sull'orlo della vasca da bagno, imparai cos'è un'azione, un'obbligazione e il significato dei buoni del tesoro, di mercato ristretto. Sentii parlare per la prima volta di vendite fittizie e di titoli municipali e imposte protezionistiche e tassi percentuali e riporti staccati e di titoli esentasse. La borsa era un folle gioco d'azzardo per ricchissimi. Soltanto i milionari avevano la certezza di arricchirsi ulteriormente... a meno di non essere in un certo senso... intuitivi. «Tu lo sei,» annunciò papà con un ampio sorriso mentre si toglieva i resti di schiuma da barba. «La sedia a dondolo ti è servita, Audrina, non è vero?» «Sì, papà. Posso andare adesso? Vorrei telefonare ad Arden e accordarmi per incontrarci domani. C'è un film che vorrei vedere.» «Ti porto io al cinema.» «Ma Vera va al cinema con i suoi amici, perché io non posso?» «Perché non mi importa un accidente di quello che fa Vera.» Ne avevamo già discusso altre volte e avevo perso, sicuramente avrei perso di nuovo. Poi papà mi sorrise. «Ebbene, amore mio, mio impaziente amore, presto avrai di nuovo ciò che vuoi più di ogni altra cosa al mondo. Domani mattina prendo la macchina e vado nel posto in cui Sylvia vive da quando ha lasciato l'ospedale. Ho già telefonato per prendere gli accordi necessari. Domani mattina Sylvia tornerà a casa con me.» «Oh, papà!» gridai esultante, «grazie, grazie!» Che strano il suo sorriso triste, che strano. Il mattino seguente di buon'ora, molto prima che papà si alzasse per prepararsi ad andare a prendere Sylvia, traversai all'impazzata il bosco verso la casetta sul lato opposto. Il bosco era verde e rigoglioso e pieno della bellezza della primavera. Speravo di trovare Arden prima che uscisse in bicicletta per consegnare i giornali del mattino. Il suo vecchio macinino aveva esalato l'ultimo respiro e adesso non era che un ferro vecchio che di tanto
in tanto Arden cercava di rimettere in sesto. Sull'erba saltellavano pettirossi e rondicchi che mi ignorarono mentre correvo al villino e spalancavo la porta senza bussare. Mi precipitai in cucina, e lì mi fermai pietrificata, con un gemito. C'era Billie con indosso un paio di calzoncini corti e un top rosso. Per la prima volta la vedevo senza quelle lunghe gonne arricciate che creavano l'impressione che sotto avesse due gambe normali, come tutti gli altri. Aveva i capelli sciolti sulle spalle e il top all'uncinetto rivelava un seno voluttuoso, ciò nonostante l'unica cosa che riuscivo a vedere erano quei due monconi da venticinque centimetri circa che spuntavano dai calzoncini. Somigliavano a due grosse salsicce che si stringevano al fondo, dove erano assicurate con un laccio. Una raggiera di pieghe sottili, simili a rughe, si irradiava dal punto in cui la pelle in eccedenza era stata tirata e legata. Mi ritrassi. Erano talmente terribili quei monconi, là dove un tempo c'erano state le sue stupende gambe. Il mio sguardo, involontariamente, corse verso il soggiorno dove teneva tutte quelle fotografie in costume. Soffocai un'esclamazione di sgomento, io che per nulla al mondo avrei voluto mostrare compassione. Avrei voluto vederli, quei due monconi, e far finta di nulla, come se non esistessero. Con mia grande sorpresa Billie scoppiò a ridere. Allungò la mano e mi sfiorò la guancia, poi mi arruffò i capelli già scompigliati dal vento. «Ebbene, fa' pure e guarda finché vuoi. Non posso biasimarti. Non sono belli da vedere, vero? Però non dimenticare che un tempo avevo un paio delle più belle e più abili gambe che ogni donna possa desiderare. Mi hanno servito egregiamente finché le ho avute e la maggior parte della gente non avrà mai ciò che ho avuto io.» Ancora una volta restai senza parole. «La gente impara ad adattarsi, Audrina,» seguitò a bassa voce, evitando di toccarmi di nuovo, come nel timore che io la respingessi. «In questo momento ti stai mettendo al posto mio e pensi che non sopporteresti di vivere con la mia disgrazia, ma in un certo senso, quando ti appartiene, non è così orribile come può sembrare agli altri. E in altri momenti, con la contraddittorietà tipica degli esseri umani, mi guardo attorno e penso perché me e non lei, o lui? Potrei lasciarmi precipitare in un baratro di autocommiserazione se volessi. Ma la maggior parte del tempo non penso neppure che non ho le gambe.» Me ne stavo impalata, tesa e goffa, sentendomi mortificata. Mi pareva
quasi di vedere le gambe che non c'erano. «Arden mi ha detto che lui ti vede con le gambe. Che non vede mai i monconi.» «Sì,» disse, gli occhi risplendenti, «è un figlio meraviglioso. Probabilmente senza di lui avrei rinunciato a vivere. Mi ha salvata. Avere Arden mi ha costretta a tirare avanti, a insegnarmi a cavarmela da sola. E Arden farebbe qualunque cosa per me. Siamo sopravvissuti perché eravamo tutto una per l'altro. Non è stato facile, eppure proprio perché è stato così difficile abbiamo qualcosa di cui dobbiamo essere maggiormente fieri. E adesso, tesoro, basta parlare di me. Cosa ci fai qui a quest'ora mattutina?» Vedendo che esitavo andò avanti con le sue conserve. L'alto sgabello su ruote era sistemato in modo da permetterle di correre da una parte e dall'altra della cucina con uno sforzo minimo, grazie a una semplice spinta delle braccia. Poi accadde più veloce del fulmine... scivolò dallo sgabello e cadde sul pavimento con un tonfo. Giacque ai miei piedi per un breve istante simile a una grande bambola tagliata a metà. Feci per aiutarla. «Non aiutarmi,» ordinò e in men che non si dica si era servita delle forti braccia per risollevarsi sullo sgabello. «Guarda nello sgabuzzino, Audrina, ci troverai un carrellino rosso che uso quando davvero ho fretta di andare di qua e di là. Me l'ha fabbricato Arden. Vuole dipingerlo di un colore diverso ogni anno, ma io non glielo permetto. Il rosso mi piace. La timidezza non è fra le mie caratteristiche, tesoro.» Debolmente sorrisi, augurandomi di poter essere altrettanto coraggiosa. Poi chiesi se Arden era già uscito. «Sì, è andato. Se quel tirchio di mio marito mandasse un po' più di denaro, mio figlio non dovrebbe lavorare come uno schiavo dalla mattina alla sera.» Si voltò, mi fece mezzo sorriso e chiese di nuovo: «Avanti, raccontami cosa ci fai qui a quest'ora antelucana». «Sylvia viene a casa oggi, Billie. Mia zia mi ha detto che non è normale, ma non mi importa. Mi sento così in colpa all'idea che quella povera bambina non ha mai avuto l'amore di una madre o di una famiglia, all'infuori di papà. Ma quello non basta, soprattutto perché lui va a farle visita una volta o due al mese... se pure lo fa. Non si può mai dire quando mio padre mente o dice la verità, Billie,» confessai non senza vergogna. «Mente, e tu sai che lui mente; e lui sa che tu sai che lui mente, e non gli importa.» «Tuo padre sembra un bel soggetto, a sentirti parlare.» «Ieri ho detto ad Arden che forse Sylvia tornava a casa oggi. Conoscendo papà non ne ero sicura al cento per cento, però l'ho spiato e l'ho sentito
a parlare al telefono con qualcuno ieri sera. La porta proprio a casa. Ha anche telefonato in ufficio e ha detto che oggi non sarebbe andato a lavorare. Ti ho già detto che l'hanno nominato dirigente?» «Sì, tesoro, me l'hai detto almeno venti volte. E adesso voglio dirti qualcosa che forse non sai. Tu sei fiera del tuo papà. E anche quando pensi di detestarlo lo fai con rammarico. Tesoro, non sentirti in colpa perché ami e odi tuo padre. Nessuno di noi è solo buono o solo cattivo. Nell'anima delle persone esistono tutte le sfumature del grigio. Niente diavoli dell'inferno o angeli e santi del cielo.» Sorrise. «Tesoro, continua ad amare il tuo papà anche se non è il migliore degli uomini. Arden prova esattamente gli stessi sentimenti per suo padre.» Due ore dopo, con il cuore in gola, in piedi sulla gradinata di Whitefern a fianco di mia zia aspettavo di vedere per la prima volta la mia sorellina. Mi guardavo attorno, consapevole di dover ricordare quella giornata in modo da potergliela raccontare per filo e per segno quando fosse cresciuta. Il sole brillava grande e luminoso. Non una nuvola in cielo. Una lieve foschia aleggiava sul bosco, soffocando le strida degli uccelli. Una semplice foschia mattutina, mi dissi, nient'altro. Il vento tiepido che soffiava dal fiume Lyle mi gonfiò i capelli. Il grande prato era stato falciato da un uomo del paese; aveva potato anche i cespugli, tolto le erbacce alle aiuole, spazzato il viale d'accesso. La casa era stata ridipinta in bianco e anche il tetto era nuovo... rosso scuro come sangue rappreso, al pari delle persiane alle finestre. Avevamo messo i nostri abiti migliori per dare il benvenuto a Sylvia. C'era anche Vera, pigramente adagiata sull'altalena, con un sorrisetto misterioso che le incurvava le labbra facendo scintillare malignamente i suoi occhi scuri. Sospettavo che su Sylvia ne sapesse molto più di me, come del resto su qualsiasi altra cosa. «Auuud... driin... aaa...» canticchiava, «presto vedrai... vedrai con i tuoi occhi. Caspita se ti dispiacerrrrààà di aver tanto pregato di aver a casa la tua sorellina... perché io la ripudio. Per me Sylvia Adare non esiste.» Non dovevo assolutamente permettere che Vera rovinasse la mia eccitazione né la mia felicità. Sospettavo che Vera fosse gelosa perché Sylvia era figlia di mia madre e non di mia zia. «Audrina,» mi disse mia zia, «sei davvero felice come sembri?» Di rado riusciva a evitare di accigliarsi allorché si nominava Sylvia ed evidentemente questo non era un giorno felice per lei. «Ecco, eccoli... arrivano!» esclamai eccitata, indicando la Mercedes di
papà emergere e scomparire di nuovo fra le folte file di alberi che costeggiavano il viale ricurvo. Mi accostai appena a mia zia che raddrizzò le spalle e si eresse in tutta la sua statura. Per un breve istante la sua mano accennò a prendere la mia, ma non la prese, come sempre. Dietro di noi Vera ridacchiava dondolandosi su e giù, su e giù, senza smettere di canticchiare il suo crudele motivetto. La lucente macchina nera si fermò davanti all'ingresso. Papà scese e lentamente si accostò allo sportello del passeggero, lo aprì... e per un attimo non riuscii a vedere nessuno dentro. Poi si chinò e dal sedile anteriore sollevò una bambinetta minuscola. «Ecco Sylvia,» mi annunciò papà facendomi il più accattivante dei sorrisi, poi la mise per terra. Fu allora che il cigolio dell'altalena cessò. Riluttante Vera si alzò in piedi e si fece più vicina. La guardai di traverso e vidi che aveva gli occhi fissi su di me, come se solo le mie reazioni la interessassero e non si curasse affatto di Sylvia. Non una volta guardò mia sorella. Che strano! Malgrado la presenza di Vera e l'espressione cupa di mia zia ero esultante mentre fissavo quella deliziosa bambina che era mia sorella. In capo a pochi secondi non la vidi solo graziosa ma stupenda. Aveva una gran testa di riccioli color castagna, ai quali il sole strappava riflessi biondo ramati e come splendevano! Vidi le sue manine grassocce tendersi imploranti verso papà perché la prendesse in braccio. Era così piccola che dovette chinarsi per prenderla per la mano, eppure lo fece, poi, piano piano, prese a guidarla verso la gradinata. «Un passo alla volta, Sylvia,» la incoraggiava. «È così che si fa, un passo alla volta.» Come erano tenere le sue scarpine bianche. Come sarebbe stato bello averla con me, una bambola vivente tutta mia da vestire e coccolare. Troppo eccitata per parlare, feci per andarle incontro, un solo gradino... ed esitai. Qualcosa... qualcosa nei suoi occhi, nel suo modo di camminare, nel modo di tenere la bocca. Oddio... ma cosa c'era che non andava? «Vieni, Sylvia,» la incitava papà, tirandola per la manina minuscola, che si perdeva nella sua. «E vieni avanti anche tu, Audrina. Scendi giù e fai la conoscenza della sorellina che hai tanto desiderato avere. Avvicinati e ammira il color acquamarina degli occhi a mandorla. Guarda che ciglia lunghe, scure e ricurve. Guarda com'è bella... e dimentica tutto il resto.» Si fermò, mi guardò e attese. Vera fece una risatina e si spostò in un punto dal quale poteva cogliere meglio ogni mia reazione. Raggelata, pensai che in quel preciso istante la natura intera si era ferma-
ta in attesa del mio verdetto, del mio giudizio su Sylvia. La prossima mossa toccava a me ora, ma io non potevo muovermi, non riuscivo a parlare. Spazientito, papà ruppe il silenzio. «Ebbene, se non puoi venire da noi, verremo noi da te.» Imperterrito come sempre, mi lanciò un sorriso affascinante che gli fece scintillare i denti ai raggi del sole. «Per più di due anni mi hai tormentato perché portassi a casa la tua sorellina. Ebbene, eccola. Non sei contenta?» Passo dopo passo, papà aiutava Sylvia a camminare. Non riusciva a sollevare i piedi con sufficiente abilità. Li trascinava invece, facendoli scivolare al disopra degli ostacoli. E intanto la sua testa dondolava a destra e poi a sinistra; cadeva in avanti; si sollevava di scatto e ricadeva indietro come se volesse guardare il cielo. Poi ricominciava, e sembrava che fosse il terreno ad attirare la sua attenzione... se pure quello sguardo poteva essere definito attenzione. Le ossa di Sylvia sembravano fatte di gomma. Non aveva ancora fatto cinque passetti che già le sue scarpette nuove erano tutte sporche, era caduta in ginocchio tre volte ed era stata tirata in piedi. Senza sforzo papà la trascinò su per i gradini, tirandola per il fragile braccìno. Via via che avanzavano io arretravo, senza neppure rendermene conto. Ciò malgrado Sylvia continuava ad avvicinarsi e io potevo cogliere i particolari. Le sue labbra non si incontravano mai, ma restavano semiaperte di modo che un filo di saliva le colava sul mento. I suoi occhi non erano mai a fuoco. Tremai, e mi sentii rivoltare lo stomaco. Era tutta colpa di papà! Era lui il responsabile della condizione di Sylvia! Tutte quelle liti, quelle volte che aveva usato la cintura come frusta. Singhiozzai dentro di me per la mamma che aveva fatto la sua parte, bevendo tutto quel tè caldo corretto al bourbon, anche se papà le diceva di non farlo. E adesso, a ogni secondo implacabilmente più vicina, c'era il risultato di tutti quegli eccessi, quella adorabile bambinetta dall'aspetto assolutamente deficiente. Arretrai finché non mi ritrovai con le spalle contro il muro di casa. Inesorabile papà avanzava, trascinandosi dietro mia sorella. Alla fine si chinò, la prese in braccio e la sollevò da terra, portandola all'altezza del mio viso. «Guarda, Audrina, guarda Sylvia. Non voltarti dall'altra parte. Non chiudere gli occhi. Guarda come sbava e come non è capace di tenere a fuoco gli occhi, né di muovere i piedi correttamente. Decine di volte allungherà la mano per prendere ciò che desidera prima di capire qual è il gesto giusto. Cercherà di cacciarsi in bocca il cibo e fallirà, anche se alla fine
troverà un modo di mangiare. È come un animaletto, una bestiolina selvatica... Ma non è stupenda, affascinante e terribile, anche? Adesso che la vedi forse capirai perché l'ho tenuta lontana così a lungo. Ti stavo dando la libertà e non una volta mi hai ringraziato. Non una volta.» «Sylvia è scema... scema... scema...» canticchiò Vera sullo sfondo. «E adesso Audrina ha una sorella deficiente... ente... ente...» Il babbo ruggì: «Vera, vai dentro e non farti più vedere!». Per qualche ragione, Vera impallidì. Si fece vicina a papà che ancora teneva Sylvia nell'incavo del braccio. «Preferisci questa scimunita a me, non è vero?» strillò fulminando lui e Sylvia con lo sguardo. Una sofferenza segreta le torceva la bocca, facendola sembrare vecchia e brutta. «Verrà il momento in cui mi vorrai più di quanto tu abbia voluto chiunque altro al mondo... ma io ti sputerò in faccia piuttosto che aiutarti quando ne avrai bisogno!» «Non mi stai dicendo niente di nuovo,» ribatté papà gelidamente. «Sei come tua madre... prodiga di odio e malanimo, avara del tuo amore. Ma io non ho bisogno del tuo aiuto, Vera. Non ora, e non nel futuro... ho Audrina.» «Se hai Audrina non hai nessuno!» gridò con voce stridula, tentando di colpirlo. «Anche lei ti odia, anche se ancora non se ne rende conto.» Malgrado avesse un braccio impegnato con Sylvia mio padre allungò senza sforzo la mano libera e assettò a Vera un tale ceffone da farla cadere sull'impiantito della veranda. Raggomitolandosi là dove era caduta prese a urlare quasi follemente. Sylvia le fece eco ululando con quanto fiato aveva in corpo. «Che il cielo ti fulmini per averla picchiata!» intervenne mia zia. «Questa ragazza, Damian, vuole solo un po' di affetto da parte tua. Tu non le hai mai dato altro che indifferenza. E tu sai chi è... lo sai!» «Io non so nulla,» replicò papà con voce così mortalmente gelida da farmi rabbrividire dalla paura. Fissò gli scuri occhi minacciosi su mia zia, ordinandole quasi con lo sguardo di tenere la bocca chiusa se non voleva che prendesse a schiaffi anche lei. Il panico mi stava travolgendo. Vera strisciò verso la porta schermata per aiutarsi ad alzarsi. Poi, sempre piangendo, scomparve dentro casa. E io intanto continuavo a guardare Sylvia che non poteva mettere a fuoco niente o nessuno. Che genere di occhi aveva? Occhi vuoti. Occhi nel nulla. Seppure il loro colore era stupendo e le lunghe ciglia erano scure e ricurve, che importa-
va? Che importava quando non c'era intelligenza dietro quello sguardo vuoto? Cercai di liberarmi di quel groppo dolorante che ancora una volta mi strozzava la voce riempiendomi gli occhi di lacrime. La mia mano si chiuse a pugno e spazzò via le lacrime, sforzandomi di non farle vedere a papà. Mi stava fissando. «Nessun commento, Audrina? Su, avanti, avrai pur qualcosa in mente.» Il mio sguardo incontrò il suo. E in quel momento arrivò il suo sorriso, sottile e cinico. «Perché Sylvia non può chiudere la bocca o mettere a fuoco gli occhi?» chiesi con voce tremante. «E perché non può camminare come qualunque altro bambino di quasi tre anni?» «Lasciaci soli,» ordinò papà a mia zia che sembrava paralizzata sul posto. Dalle scale di casa sentivo ancora provenire le urla di Vera. Sebbene la nostra grandiosa dimora fosse zeppa di mobili scuri e massicci, quando qualcuno urlava come Vera in quel momento, sembrava una casa completamente vuota, spettrale e rimbombante di echi. «Perché dovrei andarmene, Damian? Dimmelo.» «Non voglio che ci sia l'influenza di nessuno fra Audrina e sua sorella. Levati quell'espressione severa dalla faccia, Ellsbeth. Non ti dona.» Senza protestare oltre mia zia entrò in casa e si sbatté la porta alle spalle. Papà mise Sylvia sulla veranda e la lasciò sola. Lei prese a vagare di qua e di là, senza scopo apparente, andando prima a sbattere in una sedia di vimini, poi in una felce, sistemata in un portapiante di paglia bianco, facendo rovesciare pianta e tutto. «Oh! Ma è cieca, vero, papà?» gridai rendendomi conto di botto del perché i suoi occhi fossero vuoti e lontani. «Perché non me l'hai detto prima?» «Sarebbe meglio se fosse cieca,» disse papà tristemente. «Sylvia ti sembrerà pure cieca, ma ci vede bene quasi quanto te o me... solo che non può controllare i muscoli degli occhi. Subito dopo la nascita i medici hanno pensato che avesse una malattia nervosa e le hanno fatto tutte le analisi del caso. Ha passato ogni esame possibile e immaginabile noto alla medicina moderna per accertare cosa c'è che non va in lei. Ma ci vede, e ci sente, ciò nonostante non reagisce come dovrebbe. E adesso chiedimi pure come fanno i dottori a saperlo e io mi addentrerò in una miriade di dettagli noiosi per spiegarti per filo e per segno tutti i test a cui si è sottoposta non appena è sorto il sospetto che ci fosse qualcosa che non andava in lei.» «Dimmi,» mormorai. «Se guardi attentamente, vedrai che va a sbattere negli oggetti e rovescia
le cose, tuttavia puoi star certa che non cadrà giù dalle scale.» Aveva gli occhi fissi su di me, non su Sylvia che in realtà doveva essere guardata. «Se la chiami ripetutamente per nome, prima o poi reagirà. Magari ti supererà senza vederti, ma al tuo richiamo verrà. Volevo lasciarla nella casa di cura per un altro anno. Mi auguravo che per lo meno riuscissero a insegnarle a controllare le proprie funzioni corporali.» Vide l'espressione sul mio viso e disse a bassa voce: «Audrina, Sylvia porta i pannolini come molti altri bambini della sua età, ma al contrario degli altri bambini, indubbiamente Sylvia continuerà a portare pannolini per il resto dei suoi giorni». Oh, che cosa terribile! Fissai Sylvia con aria incredula. Papà seguitò. «Se ciò che gli specialisti dicono è vero, Sylvia è gravemente e irreversibilmente ritardata. Non mi piace crederci, eppure devo accettarlo come un fatto. Ciò nonostante una piccola parte di me continua a credere che forse un giorno Sylvia potrà essere normale se riceverà le cure giuste... vale a dire, se qualcuno di noi sarà in grado di sapere ciò che è normale e ciò che non lo è.» Mi ero preparata a tutto, ma non a questo. Cieca, sorda, zoppa: queste cose avrei potuto affrontarle... ma non questo. Non avevo bisogno di una sorella ritardata per complicarmi il resto dell'esistenza. Fu allora che mi voltai e vidi Sylvia pericolosamente vicina all'orlo delle scale. Con un balzo in avanti la presi al volo appena in tempo. «Ma papà, avevi detto che ci vede!» «E ci vede. È anche estremamente intuitiva. Non sarebbe caduta. È molto simile a una bestiolina che vive di istinto. Amala un poco, Audrina, se non puoi amarla molto. Ha bisogno di qualcuno che la ami e se tu sei in grado di amare ogni gatto o cane randagio e curare ogni uccellino ferito che trovi, allora amerai anche tua sorella e ti prenderai cura di lei fintanto che lei avrà bisogno di te.» Guardai in su, il suo bel volto pieno che cominciava a mostrare traccia di qualche ruga. Una spruzzata d'argento attutiva il nero dei suoi capelli alle tempie. Non avevo ancora dodici anni e mi stava gettando sulle spalle l'onere di una bambina che sarebbe rimasta una neonata in eterno. Molte volte papà mi aveva detto che ero intelligente, che ero in grado di fare qualunque cosa avessi deciso di fare. Un istante più tardi mi stava dicendo che in men che non si dica avrei insegnato a Sylvia a usare il vasino. L'amore poteva fare più della competenza professionale. Continuavo a fissarlo a occhi spalancati mentre seguitava a dire che le avrei anche insegna-
to a mettere a fuoco lo sguardo, a controllare le labbra, a camminare come si deve, a parlare. Non riuscivo a staccare gli occhi da Sylvia che goffamente scendeva a quattro zampe, all'indietro, le scale. Poi si tirò in piedi e prese ad aggirarsi per il giardino. Più volte cercò di strappare una camelia dal cespuglio. Il colore sembrava affascinarla e quando finalmente l'ebbe in mano, cercò di portarla al naso per annusarla. Non sapeva esattamente dove fosse il suo naso, oppure se lo sapeva, non sapeva come avvicinarvi la mano con precisione. Fui commossa, orripilata e traboccante di pietà. Nel breve lasso di tempo in cui era stata con noi era riuscita a imbrattarsi il vestito e a sporcarsi le scarpe irreparabilmente, e già i suoi bei capelli le cadevano sugli occhi. Avevo il cuore in subbuglio. Provavo compassione per Sylvia. La volevo e non la volevo. L'amavo e forse stavo già cominciando a odiarla un pochino. Settimane dopo, ebbi a sospettare che se in quel momento mi fosse stata data una scelta, prima che avesse modo di catturarmi il cuore, l'avrei rimandata là da dove era venuta. Ma ormai Sylvia era affidata a me. Forse non la volevo né avevo bisogno di lei, ma per amore della mamma mi sarei presa cura di lei, anche se significava rinunciare alla libertà che avrei avuto se lei non fosse mai nata. Avevo quasi dodici anni e stavo impalata a guardarla: qualcosa di tenero e amoroso mi pervase, avviandomi prematuramente verso il sentiero della maturità. Mi precipitai giù per le scale e la presi fra le braccia. Sulle guance tonde e paffute piantai dozzine di baci. Le presi la testolina nel palmo della mano e sentii la morbidezza setosa dei suoi capelli infantili. «Ti voglio bene, Sylvia! Ti farò da mamma. Da questo momento in poi non sarai più maltrattata. Un giorno ti insegnerò ad andare al gabinetto e a controllarti l'intestino. Ti salverò, Sylvia. Non accetterò di credere che sei ritardata, ma solo fisicamente trascurata. Ogni mattina, nell'aprire gli occhi, mi sforzerò di trovare nuovi modi per insegnarti ciò che devi sapere. Deve esserci un sistema per renderti normale, lo so, e lo troverò.» Sorelle Quella stessa sera papà mi prese in braccio per l'ultima volta. «Stai crescendo, Audrina. Ogni giorno ti vedo più donna. Vedo cambiamenti nel tuo corpo e mi auguro che tua zia abbia fatto un buon lavoro nell'insegnarti come affrontare certe situazioni. Da oggi in poi non potrò più coccolarti a questo modo. Spesso la gente pensa cose terribili... ma anche se non ti
prendo più in braccio, non significa che non ti amo.» Le sue mani erano tra i miei capelli mentre premevo il viso contro il suo petto. In quel momento l'unica cosa che sentivo era il suo amore. «Sono fiero e felice che ti sia impegnata a prenderti cura di Sylvia,» seguitò con voce commossa, come se finalmente stessi dimostrando di essere come la sua Prima e Beneamata Audrina. «È tuo dovere prenderti cura della tua sfortunata sorella. Devi impegnarti a non metterla mai in un istituto per malati mentali dove verrebbe violentata dagli altri pazienti; dagli inservienti che sono senza scrupoli quando si tratta di belle ragazze giovani. E bella sarà; questo è evidente. Non avrà alcuna capacità mentale, ma agli uomini non importerà. Gli uomini non si creeranno un problema di usare e abusare di lei. Prima ancora che abbia raggiunto la pubertà qualche ragazzo avrà cercato di rubarle la verginità, forse di renderla madre. E che Dio aiuti i suoi figli, che in quel caso ricadrebbero sulle tue spalle. Non guardarmi a quel modo e non pensare che stia scaricando il mio fardello su di te. Sylvia mi sopravviverà come mi sopravviverai tu. Ti sto preparando per il momento in cui io non ci sarò più, e neppure tua zia Ellsbeth.» Singhiozzavo sulla sua spalla, pensando quale pesante croce fosse Sylvia per me. Papà mi portò in braccio in camera mia per l'ultima volta, e per l'ultima volta mi rimboccò le coperte e mi diede il bacio della buonanotte. Vaghe memorie di tutte le volte che mi aveva messo a letto e mi aveva dato il bacio della buonanotte e aveva ascoltato le mie preghiere e mi aveva portato nella stanza della Prima Audrina a dondolare e sognare mi tornarono alla mente. Adesso, in piedi sulla porta, gli occhi tristi fissi su di me, mi stava dicendo che da quel momento in poi si aspettava che io mi comportassi da adulta. «Non preoccuparti, papà,» dissi con voce decisa. «Adesso non ho più paura di camminare al buio, la notte. Se Sylvia piange nel sonno corro io da lei e tu non devi preoccuparti. Ma amala anche tu, e fa' per lei tutto quello che hai fatto per me. Non ho più neppure paura di stare sulla sedia a dondolo. Quando tu non ti metti fuori della porta divento davvero il vaso vuoto che trabocca di ogni bellezza. I ragazzi nel bosco non mi tormentano più perché ho imparato a non temerli come li temevo una volta. Grazie, papà, per avermi aiutato a superare il terrore dei ragazzi.» Restò in silenzio per lunghi, lunghi istanti. «Sono felice di sentire che il vaso vuoto si è colmato.» «Quando dondolo sulla sedia adesso trovo la mamma e le parlo... pensi
che sia pazza, papà?» Un'ombra gli oscurò ulteriormente gli occhi scuri. «Sta' alla larga dalla sedia a dondolo, Audrina. Ormai non può fare più niente per te.» Come? Che cosa sorprendente. Ormai sapevo che non l'avrei più abbandonata. Mio padre mi stava proteggendo da qualcosa che non voleva che sapessi, e proprio quella cosa io dovevo sapere. Se ne andò, allora, richiudendosi la porta alle spalle e restai sola. Giacqui talmente immobile nell'oscurità che udivo la casa respirare, e le travi dei pavimenti sussurravano, cospirando per tenermi prigioniera per sempre. Nella penombra della mia stanza, con gli spettri di tutti i Whitefern defunti che mormoravano, udii lo scricchiolio della porta che si apriva e si richiudeva silenziosamente. Sulla soglia vidi un fantasma uscito in quel momento dall'inferno. Aveva i capelli ritti sulla testa. L'ampio camicione bianco che portava sfiorava il pavimento. Quasi urlai! «Audrina... sono io... Vera.» Il cuore mi batteva talmente all'impazzata per la paura che la voce mi tremò quando le chiesi cosa volesse. Deboli ed esitanti le sue parole vennero a tramortirmi. «Voglio esserti amica... se tu mi accetti. Sono stanca di vivere in una casa dove tutti mi odiano, persino mia madre. Audrina, non ho nessuno. Insegnami a farmi amare dalla gente come fai tu.» «Tua madre non mi ama,» dissi con voce strozzata. «Sì, invece. Per lo meno ti ama più di quanto ami me. Ti affida le porcellane e i cristalli più preziosi... e questa è la vera ragione per cui ti carica della maggior parte dei miei compiti. Non sono abbastanza brava per essere una schiava, Audrina. Hai notato quante volte aggredisce papà con questa frase? È la sua arma per colpirlo, come se sapesse che lo ferisce quando glielo dice. Perché è proprio questo che lui ha fatto a tua madre... l'ha resa sua schiava in cucina e in camera da letto.» Non mi piaceva la piega presa dal discorso, mi sembrava sleale. «Mia madre lo amava,» ribattei sulla difensiva. «E immagino che quando si ama si è disposti a rinunciare a parte di se stessi.» «E allora rinuncia a qualcosa per me, Audrina. Amami come sei disposta ad amare Sylvia, e lei è stupida e ritardata, anche se è piccola e da compatire e, in fondo, graziosa. Sarò la tua sorella migliore. Davvero. Da questo momento in poi giuro che non mi comporterò mai più odiosamente con te. Ti prego, sii mia amica, Audrina. Ti prego, fidati di me.» Mai prima di allora Vera mi si era avvicinata senza tentare di farmi del
male. Adesso tremava, accanto al mio letto, così patetica e vulnerabile a vedersi nella lunga camicia da notte bianca con quegli strani capelli ritti sulla testa che le davano un aspetto spaventevole. Eppure non potevo evitare di capire. Era terribile non sentirsi amate dalla propria madre... e se voleva il mio amore, ci avrei provato. Con una certa riluttanza le permisi di infilarsi nel mio letto e, strette una all'altra, presto ci addormentammo. Non mi chiesi mai la ragione per cui, proprio il giorno dell'arrivo di Sylvia, Vera avesse deciso di aver bisogno di me. Le fui solo riconoscente. Presto Vera e io diventammo così unite e ci divertimmo talmente insieme che mi pareva impossibile che solo poco tempo prima l'avessi ritenuta la mia peggiore nemica. Quantunque facesse lezione con Mr. Rensdale una volta alla settimana, prese l'abitudine di accompagnarmi a tutte le lezioni di piano. Composta e dimessa, sedeva sul divano e mi ascoltava suonare. Arden mormorava che era felice che Vera e io fossimo finalmente amiche. «È così che dovrebbe essere fra sorelle... o prime cugine. Le famiglie devono restare unite.» «Non mi dispiace se la chiami mia sorella. A ogni modo tutti credono che lo sia.» Adesso che avevo modo di vedere Vera e il mio insegnante di pianoforte insieme, pensai che avrei potuto giudicare da sola, dal loro comportamento, quanto di vero e di falso ci fosse in ciò che Vera mi aveva detto. Sul serio erano amanti? Un torrido pomeriggio estivo Vera non aveva indosso altro che un reggiseno di piquet bianco e un paio di calzoncini corti verde prato. Io avevo una camicetta bianca e una gonna che papà mi faceva indossare per le lezioni di musica. Ciò che Vera si metteva (o ometteva di mettersi) addosso era a suo parere sempre indecente... per me. Mentre mi affannavo a suonare, mettendoci tutta la sensibilità di una promettente pianista, Vera si stravaccò in una delle poltrone di Mr. Rensdale, accavallando una gamba di traverso su un bracciolo. Le sue dita tracciavano indolentemente piccoli cerchi sui suoi seni, definendo i contorni dei capezzoli già abbastanza eretti. Mr. Rensdale non riusciva a staccare gli occhi da quello spettacolo. Per quanto stupendamente suonassi, o per quanti errori facessi, non sembrava accorgersene. A cosa servivano diciotto ore di studio su un pezzo, se Vera lo distraeva a quel modo? Con aria assente Vera si abbracciava, si carezzava la coscia, le braccia, dimenava il seno come per liberarlo da briciole importune. Era incredibile come si affaccendava in continuazione attorno al proprio corpo.
«Vera, per l'amor del cielo, cosa c'è che non va?» esplose Lamar Rensdale. «Una vespa mi ha punto nel più imbarazzante dei posti, e mi fa male,» si lamentò, lanciandogli un'occhiata implorante. «Devo togliere il pungiglione, ma non riesco a vederlo. È nella parte inferiore del...» «Lo so bene dov'è,» tagliò corto lui. «È più di mezz'ora che cerchi di tirarlo via. Audrina, vai in bagno e aiuta tua sorella a levarsi il pungiglione.» Mr. Rensdale le aveva voltato le spalle e mi guardava con occhi imploranti. Dietro di lui Vera scuoteva violentemente la testa facendomi segno che no, che non voleva il mio aiuto. Mi alzai comunque e andai in bagno ad aspettare Vera. I minuti passarono. «Sbrigati, Vera. Presto arriva Arden per portarci a casa.» «Non importa,» annunciò Vera trionfante. «Sono riuscita a togliermi il pungiglione da sola.» Mentre tornavo nel soggiorno vidi che sorrideva nel tirarsi giù il reggiseno. «Mi è bastato avere uno specchio. Grazie per avermi dato le pinzette, Mr. Rensdale.» Ma perché aveva l'aria così accaldata? Poi vidi l'espressione compiaciuta di Vera e dedussi che si era tirata su il reggiseno e sotto i suoi occhi si era tolta il pungiglione... se mai c'era stato. Da quel giorno colsi piccoli scambi e segnali tra loro. Poiché ero lì, mi pareva, lui voleva dimostrare correttezza, ma poiché ero lì, Vera voleva rivelare di che natura fosse la loro relazione. Quando toccava a lei suonare il piano, si sforzava di eseguire qualche motivetto infantile che lo faceva rabbrividire... e sempre qualcosa nei suoi vestiti si slacciava, o il gonnellino da tennis rivelava le mutandine. Amoreggiava con gli occhi, con i gesti, con il modo noncurante, invitante di sedere, dicendogli in tutte le maniere possibili che sarebbe stata prodiga di se stessa... se e quando lui l'avesse voluta. Cominciai a detestarla di nuovo. Diceva battute che mi facevano arrossire e lui se ne stava a occhi bassi, stanchissimo in apparenza. Sembrava sempre stanchissimo. «È il caldo,» spiegava quando glielo chiedevo. «Questa umidità mi succhia ogni energia.» «Oh, ne conservi un po', Mr. Rensdale,» tubava Vera. «Ne conservi almeno un po', per amore del piacere.» Non fece commenti, si alzò e mi porse i compiti a casa. «Spero che casa vostra non sia umida come la mia.» Non diede alcun compito a Vera, ma si scambiarono un messaggio segreto con gli occhi. «Le stanze a piano terra sono piacevolmente fresche,» trillò Vera, «ma
quelle al piano di sopra sono calde e afose come questa. Io girerei sempre nuda se a papà e a mia zia non gli prendesse un colpo.» La fissai. Qualche rara volta, durante le ondate di caldo più terribili, il primo piano di casa nostra diventava afoso, ma mai tanto da dover girare nudi. Via via che le giornate estive si avvicendavano, lunghe e afose, la spiaggia era un occasionale refrigerio che mi concedevo con Arden accanto e papà che ci teneva costantemente d'occhio. Vera rifiutava di uscire con mio padre e mia zia aveva troppo da fare per divertirsi. Sylvia sgambettava sulla sabbia, penosamente diversa dagli altri bambini della sua età e della sua corporatura. Non riusciva a riempire di sabbia il secchiello, per quanto diligentemente ci provasse; non aveva abbastanza buon senso da evitare le onde che potevano risucchiarla nel ritirarsi e portarla in alto mare. Eravamo io e Arden che ci precipitavamo a salvarla innumerevoli volte. Papà se ne stava comodamente disteso sotto un gigantesco ombrellone variopinto e sbirciava le belle ragazze. Presto imparai che Sylvia lasciata a se stessa avrebbe mangiato qualunque cosa, persino l'erba. Andava carponi, in casa e fuori, si alzava e inciampava dappertutto, rovesciando gli oggetti. Miracolosamente, dopo il primo giorno, non ruppe mai nulla. Lasciata a se stessa in giardino solo per pochi secondi, andava alla ventura e si perdeva. Una volta, dopo un'ora di frenetiche ricerche e richiami, la trovai placidamente seduta sotto un albero intenta a mangiare fragole selvatiche, con un'espressione innocente da cherubino insensato. La notte urlava, dimostrando di avere ottime corde vocali e di essere perfettamente in grado di parlare se mai fosse riuscita a risvegliare il suo cervello assopito. Si nutriva ghermendo goffamente il cibo dopo innumerevoli tentativi infruttuosi e cacciandosi in bocca qualunque cosa si trovasse a portata di mano. Sfortunatamente non riusciva mai al primo colpo e faceva cilecca almeno due volte prima di centrarsi la bocca con le mani. Ogni pasto terminava con Sylvia ridotta in uno stato pietoso, con resti di cibo appiccicati sulla faccia, tra i capelli, sul naso. Il bavaglino non serviva a niente. Versava, rovesciava, lasciava cadere, vomitava spesso, soprattutto dopo aver mangiato erba. Peggio ancora... peggio di qualsiasi altra cosa... non aveva ancora il minimo controllo sulle sue funzioni corporali. «Non ha ancora tre anni,» mi incoraggiava papà quando, con aria disgustata, svuotavo il vecchio vaso da notte. «Neppure tu avevi smesso di portare i pannolmi alla sua età.»
«E invece sì,» lo smentiva mia zia. «A Audrina ha creato sempre molto imbarazzo essere sporca. Se ne stava sul vasino mentre Lucietta le leggeva filastrocche infantili e le faceva vedere delle illustrazioni colorate e la ricompensava con i biscotti quando si comportava bene.» Papà le lanciò un'occhiata di disapprovazione poi decise di ignorarla. «E sarà bene che tu la tenga più pulita, Audrina, se non vuoi che le si arrossi il sederino e le venga qualche piaga che ci vorrà del bello e del buono a curare... è per questo che la notte piange. Le fa male il sederino.» «Finiscila, Damian! Non puoi pretendere che una ragazzina della sua età si prenda cura di una bambina ritardata come Sylvia. Rimettila in quel posto o assumi un'infermiera.» «Non posso permettermi un'infermiera,» ribatté papà sonnacchioso, sbadigliando e allungando le gambe, pronto a farsi un pisolino sulla poltrona della veranda. «Ho te da mantenere, Ellie, e quella tua figliola. Così addio risparmi!» Fissai mio padre, odiandolo per il modo in cui poteva prendere la verità e rivoltartela sotto il naso. Mezz'ora dopo, cercai di nuovo di mettere Sylvia sul vasino, legandocela in modo che non si divincolasse. Per un'ora le lessi le storie di Mamma Oca, ma inutilmente. Nell'istante preciso in cui le rimisi i pannolini puliti, con le mutandine di plastica sopra, si sporcò. Vera arrivò proprio in tempo per vedermi mentre la cambiavo di nuovo. Rise sprezzante. «Caspita, sono felice che non sia stata affidata a me, altrimenti la lascerei sporca come si trova.» «Bell'infermiera sarai,» replicai irritata. Poi girai la testa di scatto per lanciarle un'occhiata di fuoco. «Dove sei stata?» Certe volte quando pensavo che Vera fosse a leggere in camera sua, non c'era affatto. E chissà dove si cacciava. Normalmente arrivava poco prima delle sei, l'ora in cui tornava papà. Sbadigliando insonnolita, si lasciò cadere in una delle poltrone della mia camera da letto. «Odio la scuola estiva. Odio la scuola invernale. So che la scuola finisce a mezzogiorno, però ho qualche amico in paese, anche se tu non...» Sorridendo misteriosa mi lanciò una tavoletta di cioccolato. «Un regalo per te. So che la cioccolata ti piace.» C'era qualcosa di nuovo nella vita di Vera, ma non indagai. Per quanto adesso non mi tormentasse più apertamente, continuava a non dare una mano con i lavori di casa, né con i piatti o con Sylvia. «Sono spompata,
Audrina, davvero spompata.» Sbadigliò e si rannicchiò nella poltrona come un grosso gatto sensuale. La sentivo quasi fare le fusa. Dato che mia zia e io preparavamo da mangiare, facevamo le pulizie di casa e cambiavamo le lenzuola dei letti insieme, un senso di intimità si sviluppò tra noi nel compiere le mille cose che Vera rifiutava di fare. Di tanto in tanto, adesso, mi permetteva persino di chiamarla zia Ellie. Oh, come si sforzava per cucinare bene come la mamma! Era suo desiderio (quantunque non si fosse mai confidata con me, lo intuivo) cucinare meglio di mia madre. Voleva che papà avesse tutti i suoi piatti preferiti. Certe volte non andava a letto fino alle due del mattino. Erano passati forse sei mesi dall'arrivo di Sylvia, e finalmente una sera il babbo, dopo essersi pulito la bocca col tovagliolo, disse sorridendo: «Ebbene, Ellie, questa volta hai davvero superato te stessa. Nessuno avrebbe potuto fare meglio. Una cena superba, davvero superba». Chi l'avrebbe mai detto che un giorno sarei stata felice di sentirgli dire che mia zia aveva superato mia madre in qualcosa? Apprezzai talmente quel complimento che mi vennero le lacrime agli occhi... forse perché vennero anche ai suoi. Una vita diversa si stava srotolando davanti a me. Una vita frenetica che mi derubò di quell'estate; mi derubava di tre lezioni di pianoforte alla settimana, lasciandomi ben poco tempo per Billie e per Arden. Arrivato l'autunno mi costringevo a scapicollarmi a casa da scuola e quando arrivavo, col fiato corto, mi mettevo alla ricerca di Sylvia che aveva la pessima abitudine di nascondersi da qualche parte. Era un compito ingrato quello che mi ero prefissa, un compito davvero impossibile cercare di addestrare Sylvia come si addestrerebbe un bambino di normale intelligenza. La sua capacità di concentrazione era minima. Non riusciva a starsene seduta più di qualche secondo. Non sapeva mettere a fuoco lo sguardo né la propria mente su altro che non fosse qualcosa in movimento. La cosa peggiore, però, fu che subito dopo avermi scaricato Sylvia sulle spalle, papà ne dimenticò completamente l'esistenza. Disperata mi rivolsi a mia zia e implorai aiuto. «Va bene,» accettò riluttante, «ti prometto di fare quello che posso quando sei a scuola, ma non appena metti piedi in casa e durante i fine settimana e le vacanze Sylvia è tua... tutta tua.» Più di una volta arrivai appena in tempo per salvare Sylvia da qualche orribile punizione che mia zia si sentiva perfettamente in diritto di infliggerle. «No!» urlavo precipitandomi in cucina e lasciando cadere i libri di
scuola, «guai a te se usi quella verga con Sylvia! Lei non sa che è sbagliato strappare i crisantemi. Pensa che sono carini e a lei piacciono le cose belle e colorate.» «Non piacciono a tutti?» ritorceva acida mia zia. «A me piace metterli in tavola per tuo padre. E non è tutto; Sylvia ha calpestato le aiole di verdura! Era tutto pronto per il raccolto e lei lo ha rovinato. Certe volte penso che cerchi deliberatamente di farmi diventare scema come lei.» Lacrime di autocommiserazione le facevano brillare gli occhi. La stanza di Sylvia era come una cella imbottita. In quella miserevole stanzetta c'era un lettino basso dal quale poteva cadere senza farsi male, sul folto tappeto. E davvero certe volte avevo la sensazione che mia zia avesse visto giusto: Sylvia non sarebbe mai dovuta nascere. Ma era nata, e c'era ben poco che potessi fare in proposito senza poi dover detestare me stessa. Sylvia aveva tre anni adesso e al contrario degli altri bambini che si divertivano a giocare con i dadi, la palla e le macchinette, non sembrava interessata a niente. Sembrava non saper che fare di se stessa se non vagare continuamente di qua e di là. Le piaceva arrampicarsi, mangiare e bere, girovagare, nascondersi: nient'altro. Non sapevo da che parte iniziare la sua educazione visto che i libri illustrati non catturavano minimamente il suo interesse e i giocattoli erano oggetti privi di significato per lei. Persino se la legavo alla sedia riusciva a torcere la testa da un'altra parte ed evitare di vedere quello che cercavo di mostrarle. Poi, un giorno stupendo, mentre mi dondolavo nella sedia della Prima e Migliore Audrina, ebbi una visione. Vidi una bambina che somigliava a me e all'altra Audrina, giocare con dei prismi di cristallo, seduta all'aperto a catturare il sole e rifletterlo sulle pareti, negli specchi che le rimandavano indietro i colori, trasformando la stanza in un caleidoscopio. Su uno degli scaffali della stanza trovai una mezza dozzina di prismi di cristallo dalle forme stupende, due a goccia, un altro a forma di stella, uno a cristallo di neve, e un altro come un gigantesco diamante. Li raccolsi tutti quanti, poi spalancai le tende, e andai a sedermi per terra per giocare io per prima con i prismi. Era consuetudine di Sylvia seguirmi dovunque andassi quando ero a casa, ombra così fedele che spesso, nel girarmi di scatto, le sbattevo addosso facendola cadere. La luce del sole catturata dai prismi creava arcobaleni nella stanza. Con la coda dell'occhio vidi che Sylvia si interessava ai colori. Fissava gli arcobaleni che danzavano nella stanza. Li indirizzai sul suo viso, facendo rossa una guancia, verde l'altra, poi per un attimo le mandai la luce negli
occhi. L'accecò e la confuse e per qualche ragione gridò. Fece qualche passo avanti e borbottando allungò le mani verso i prismi, li voleva per sé. Sono certa che agli occhi di Sylvia le cose che avevo in mano erano duri fiori iridescenti. Li prese e andò ad accoccolarsi in un angolo, come per nascondersi da me, e da lì cercò di far danzare i colori. Impossibile. La guardavo, incitandola mentalmente a venire alla luce del sole. Solo la luce del sole avrebbe dato vita ai colori. Girava e rigirava i prismi nelle mani, sbuffando di scontentezza, emettendo dalle profondità del suo essere un gemito prolungato, e poi arrancò a quattro zampe, un prisma stretto in ciascuna mano, finché si trovò in una chiazza di sole. Immediatamente i cristalli presero vita e riempirono la stanza di arcobaleni di colore. Per la prima volta vidi i suoi occhi dilatarsi per la sorpresa. Sylvia stava dando vita a qualcosa. Lo capiva. Vedevo la sua esultanza mentre faceva danzare i colori nella stanza. Le andai vicino e l'abbracciai stretta. «Colori belli, Sylvia. Tutti tuoi. Ti do quello che un tempo apparteneva a lei.» Un debole sorriso confuso increspò le sue labbra socchiuse. Sembrava che quei prismi non avrebbero mai più lasciato le sue mani ora che finalmente aveva trovato qualcosa che riusciva a fare senza sforzo. «Oddio, levale quella roba dalle mani,» si lamentò mia zia il mattino seguente mentre Sylvia, appollaiata sul seggiolone, lasciava cadere un prisma nel latte, mentre con la mano libera catturava raggi di luce e accecava tutti quanti in cucina. «Le hai dato tu quella roba?» «Lasciala in pace, Ellie,» intervenne papà. «Finalmente ha trovato qualcosa da fare. È affascinata dai colori e, chissà, forse le insegneranno qualcosa.» «E che cosa?» volle sapere mia zia con cinismo. «Ad accecarci?» «Ebbene,» replicò papà pensieroso, imburrandosi la terza fetta di pane tostato, «a evitare di lasciare le sue impronte digitali dappertutto, mobili e pareti, per lo meno. Si è aggrappata a quegli affari come se temesse di vederli fuggire se li molla... quindi vedi di lasciarla in pace.» Mentre io mi occupavo di Sylvia e Vera continuava a essere più dolce del miele con me, cercavo follemente di trovare il tempo di studiare il pianoforte almeno un'ora al giorno. A Sylvia non piaceva che suonassi il piano. Si sedeva al sole e lanciava raggi colorati sulla musica, e se la proteggevo in qualche modo, mi puntava i raggi negli occhi in modo da impedirmi di leggere le note. Seguitavo le lezioni con Lamar Rensdale, anche se avevo poco tempo
per studiare. Sapevo che si accingeva ad andare a New York. Questa volta progettava di insegnare musica al Juilliard. «È meglio che strappare un'esistenza stentata in un posto che tratta con disprezzo gli artisti,» mi aveva spiegato. Mi aveva telefonato la sera prima per darmi la buona notizia, sembrava esultante. «Preferirei che tu non dicessi niente a nessuno della mia nomina, Audrina. E devi giurarmi di seguitare a studiare il piano. Sono certo che un giorno sarò seduto in platea e mi dirò che sono stato io a iniziare la grande Audrina Adare sulla via del successo.» Non avevo detto a nessuno, fuorché ad Arden, che avevo deciso di passare da Mr. Rensdale per salutarlo. In tasca avevo un piccolo regalo di addio, un paio di gemelli d'oro che erano appartenuti al nonno materno. Un tempo Lamar Rensdale era stato il più ordinato degli uomini. Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto. Adesso il suo prato e il suo giardino, una volta impeccabili, erano una massa incolta di erbacce e rifiuti. L'erba aveva bisogno di essere tosata, c'erano erbacce ovunque e lattine di birra rotolavano spinte dal vento. Non aveva neppure rastrellato le foglie morte o abbattuto i vecchi nidi sopra gli stipiti. Feci per bussare alla porta sul retro, ma non appena l'ebbi sfiorata con le nocche si spalancò, aiutata da una folata di vento che mi colse di sorpresa. Ogni volta che entravo in casa sua lo sentivo suonare il piano, e se non era al pianoforte ero certa di trovarlo in cucina. Poiché la casa era immersa nel silenzio, dedussi che era andato in città. Decisi dunque di lasciare il mio dono con un biglietto sul tavolo e quindi di sedermi in veranda per aspettare che Arden passasse a prendermi. Presi a scribacchiare un biglietto sul blocchetto degli appunti che teneva in cucina. «Caro Mr. Rensdale,» avevo scritto allorché udii un rumore provenire dal soggiorno. Aprii la bocca per salutare allorché udii una familiare risatina femminile. Rabbrividendo mi irrigidii al pensiero che quelle storie scandalose che Vera mi aveva raccontato potessero essere vere. In punta di piedi mi avvicinai alla porta della cucina e la spinsi appena. Mr. Rensdale e Vera erano in soggiorno. Un bel ciocco di legna bruciava scoppiettando nel camino, mandando scintille su per la cappa. Novembre si era appena fatto abbastanza freddo per il fuoco. Il pomeriggio era deprimente, ma col fuoco quella piccola stanza sembrava allegra e intima mentre Lamar Rensdale si alzava per mettere un disco sul piatto. Dolcemente riempì la casa con le note della Serenata di Schubert e allora capii che stavo assistendo segretamente a una scena di seduzione. Restai impalata, senza sapere che fare. Ci sarebbe voluto più di un'ora
prima che Arden passasse a prendermi. Casa nostra era troppo lontana per andarci a piedi e poi era pericoloso camminare sull'autostrada. Non potevo essere così sconsiderata da fare l'autostop. No, mi sarei seduta sulla veranda, malgrado il freddo. Anziché muovermi, però, volevo trovare una ragione per restare e assistere a quello che accadeva in quel soggiorno. «Vedi,» disse Lamar Rensdale, «puoi ballare benissimo. Te l'ho detto più di una volta che non ci si accorge neppure che zoppichi. Ne fai una faccenda troppo seria, Vera. Quando una ragazza è carina come te, e ha un corpo come il tuo, nessun uomo è disposto ad accorgersi di un piccolo difetto...» «Allora ammetti che è un difetto? Speravo che tu mi trovassi perfetta, Lamar.» Nella sua voce c'era una dolce nota lamentosa, di rimprovero eppure commovente. Che lo amasse davvero? E come poteva? Aveva compiuto sedici anni solo la settimana prima. «Sul serio, Vera, sei molto graziosa, e attraente, e seducente. Ma sei troppo giovane per un uomo della mia età. Per due anni abbiamo passato momenti meravigliosi insieme, e spero che non lo rimpiangerai mai. Ma adesso parto. Dovresti trovarti un ragazzo della tua età, un ragazzo che ti sposi e ti porti via da quella casa che odi.» «Ma tu mi hai detto che mi amavi, e adesso parli come se non fosse vero,» gemette Vera, le guance ora rigate di lacrime. «Non mi hai mai amato, vero? L'hai detto solo per convincermi a venire a letto con te... e ora che ti sei stancato vuoi qualcosa di nuovo. E io ti amo tanto!» «Certo che ti amo, Vera. Ma non mi sento pronto per il matrimonio. Sai che ho bisogno di quell'incarico di insegnante. Alla scuola ho detto che non ero sposato e per loro è stato un elemento determinante. Avranno pensato che sarei stato più dedito all'insegnamento. Ti prego, Vera, ricorda che non sono l'unico uomo al mondo.» «Per me lo sei!» si lamentò ancora più forte. «Ti amo. Morirei per te. Mi sono data a te. Tu mi hai sedotta e hai giurato che mi avresti sempre amata, e adesso che sono incinta non mi vuoi più!» Sconvolta arretrai. Mr. Rensdale scoppiò in una risatina forzata. «Mia cara ragazza, non puoi assolutamente essere incinta. Non provare quel vecchio trucchetto con me». «E invece lo sono,» gemette Vera. Poi vedendo che la sortita non aveva effetto si divincolò, fece il broncio, si rannicchiò più vicina fra le sue braccia. Gli si strinse addosso con tale forza che sembrarono fusi in un corpo
solo. «Tu mi ami, Lamar, so che mi ami. Fai di nuovo l'amore con me, subito. Fammi capire ancora una volta quanto posso eccitarti...» Mi mancò il fiato nel vedere come gli passava le mani sulla schiena, poi sui glutei, mentre al tempo stesso apriva le labbra e lo baciava con tale sfrenata passione che la testa mi girò soltanto a guardare. Fece qualcosa che non riuscii a vedere mentre la musica continuava a suonare e il fuoco a scoppiettare. «Ti prego, no...» implorò mentre lei si faceva più aggressiva e cercava di tirare giù la lampo dei suoi calzoni. «Ieri sera Audrina ha detto che forse sarebbe passata a salutarmi...» «Stai insegnando anche a lei quello che hai insegnato a me?» chiese Vera con voce bassa e pigra. «Ci scommetto che io sono dieci volte meglio, meglio di...» Lui l'afferrò allora per le spalle e scuotendola con forza urlò: «Finiscila di dire cose del genere! Audrina è una bambina pura e innocente. Dio solo sa come avete fatto a diventare così diverse». Mentre lui continuava a sgridarla, Vera si sollevò il golfino rosso mostrandogli i seni nudi. Saltavano su e giù mentre lui continuava a scuoterla e lei continuava a ridere. Intanto, incurante delle proteste di lui, Vera si era slacciata la gonna e l'aveva lasciata cadere per terra. Un istante più tardi le sue dita erano infilate nelle mutandine che caddero per terra anch'esse. Lamar Rensdale non resistette allo spettacolo della sua nudità. Quel golfino, tirato su sotto le ascelle, sembrava ridicolo mentre lei lo stuzzicava. «Tu mi vuoi, tu mi vuoi, tu mi vuoi... Allora perché non mi prendi... oppure devo fare come ho fatto l'ultima volta... Mr. Rensdale?» Oh! Stava imitando il mio modo di parlare. Di botto lui la prese fra le braccia e la baciò con incredibile violenza, piegandola quasi in due finché temetti che si potesse spezzare. Caddero entrambi per terra, dove si avvinghiarono lottando e baciandosi, il fiato grosso per la passione, senza smettere di dirsi cose orrende l'un l'altra. Rotolando e rotolando... Paralizzata, come a sette anni e intrappolata ancora una volta nella sedia a dondolo, restai a guardare finché il loro violento atto sessuale non fu terminato e Vera giacque nuda sopra il suo corpo lungo e peloso. Teneramente gli sfiorò le guance, gli carezzò i capelli, baciandogli le palpebre e mordicchiandogli le orecchie mentre gli mormorava con voce subdola: «Se non mi porti con te a New York dirò a tutti che mi hai stuprato... a me e a Audrina. La polizia ti getterà in prigione perché io ho appena sedici anni e Audrina dodici. Crederanno a me, non a te, e non ti riuscirà più di trovare un lavoro decente. Ti prego, Lamar, non costringermi a fare una cosa del
genere perché ti amo. Ti amo davvero così tanto che mi fa male persino l'idea di una cosa del genere». Dette queste parole si tirò a sedere, si voltò e cominciò a giocherellare con le parti più intime del suo corpo. I suoi mugolii di piacere mi seguirono fuori della porta sul retro, che mi richiusi silenziosamente alle spalle. Una volta fuori respirai a fondo l'aria fredda novembrina, cercando di pulirmi i polmoni dall'odore penetrante di sesso che permeava quelle stanzette soffocanti. Non sarei tornata mai più. Qualunque cosa fosse accaduta, non sarei mai più tornata. Sedetti in silenzio accanto ad Arden per tutta la strada del ritorno. «Tutto bene?» mi chiese. «Perché non parli?» «Tutto bene, Arden.» «E invece no. Se andasse tutto bene chiacchiereresti come un mulino a vento, raccontandomi tutto di Lamar Rensdale e di che persona meravigliosa sia. Invece non dici niente... perché?» Come potevo dirgli a cosa stavo pensando? Solo alcuni giorni prima Vera si era vantata di aver fatto l'amore anche con Arden. Quella stessa sera Vera mi aggredì. «Sei stata lì, Audrina! Ci hai spiati. Se lo dici a papà la pagherai... farò in modo che la pagherai. Gli dirò che tu fai la stessa cosa con Arden e anche con Lamar!» mi scagliò addosso i gemelli d'oro che avevo lasciato sul tavolo per Mr. Rensdale. «Sono andata in cucina e ho trovato questi sulla tavola.» Minacciosa mi si fece sotto. «Ti avverto, Audrina, se osi dire qualcosa a papà ti concerò talmente per le feste che ti passerà la voglia di guardarti allo specchio per il resto dei tuoi giorni!» In quel momento la odiai e la disprezzai talmente che desiderai ferirla come lei minacciava di ferire me. «E volevi essermi amica. Bell'amica sei, Vera. Con un'amica come te chi ha bisogno di nemici?» «Già,» mi rimbeccò con un sorriso pigro che le illuminò gli occhi scuri di un bagliore sinistro. «Con un'amica come me hai certamente la peggiore delle nemiche. Volevo che mi amassi, Audrina, in modo da farti soffrire di più quando ti fossi resa conto di quanto ti odio! Di quanto ti ho sempre odiata!» La violenza delle sue stridule parole mi lasciò tremante. «Perché mi odi tanto? Cosa ti ho fatto?» Allargò le braccia, indicando la casa e tutto ciò che conteneva. Mi disse che le avevo rubato tutto ciò che le apparteneva di diritto. «Idiota! Come
fai a essere così cieca? Ma guardami in faccia, guarda i miei occhi, possibile che tu non capisca chi è mio padre? Sono io la Prima Audrina, non tu! Il tuo caro papà è anche mio padre! Io sono la maggiore e dovrei essere la prima, non tu! Tuo padre faceva la corte alla mamma prima ancora di conoscere tua madre, e l'ha messa incinta. Poi ha visto tua madre, che era più giovane e più bella. Però non ha detto una sola parola a mia madre finché lei non gli ha detto che era incinta di me. Lui ha rifiutato di ammettere di essere lui il padre e ha costretto mia madre ad andarsene dalla città. E quella stupida di mia madre gli ha dato retta. E per tutto il tempo non ha fatto che pensare che quando fosse tornata e lui mi avrebbe vista, deliziosa com'ero, l'avrebbe sposata. Io avevo appena un anno e lei mi aveva fatta tutta bella per farmi fare colpo su di lui... ma lui non si è lasciato colpire affatto, perché nel frattempo aveva sposato tua madre. Oh, Audrina, tu non puoi sapere quanto lo odio e lo disprezzo per quello che ha fatto a noi due. Non ero che una bambina, e già ero respinta dal mio stesso padre. Lui non mi ha mai dato una sola delle cose che mi appartenevano di diritto. Adesso pensa di lasciarti questa casa e anche tutto il suo denaro. L'ha detto alla mamma... e invece appartiene a me! Tutto quello che c'è qui dovrebbe appartenere a me!» singhiozzò e mi colpì. Con un balzo, evitai il colpo, arretrando. Roteando su se stessa nella sua folle rabbia, Vera colpì Sylvia. Sylvia cadde sul pavimento a faccia in giù, urlando con quanto fiato aveva in corpo. Fu allora che mi avventai contro Vera e intanto urlavo: «Non provarti a picchiare di nuovo Sylvia, Vera!». Adesso le ero addosso, e la tenevo giù malgrado si contorcesse e scalciasse e cercasse di cavarmi gli occhi. Lottava selvaggiamente, cercando di graffiarmi il viso con le sue unghie affilate. Sylvia continuava a urlare. Balzai in piedi e corsi a tirarla su. Servendosi di una sedia per alzarsi, infine anche Vera fu in piedi. Zoppicando si diresse verso la porta della camera da letto e il corridoio. Non vide uno dei prismi con i quali Sylvia aveva giocato fino a quel momento. Lo calpestò, perse l'equilibrio e ricadde per terra. Sylvia ululava sconvolta, ma fu Vera che lanciò le urla più forti. Quando guardai dalla sua parte restai sbalordita nel vedere una grande pozza di sangue sul pavimento. Stringendo Sylvia fra le braccia, corsi alla ricerca di mia zia. «Zia Ellsbeth, corri, vieni! Vera mi sta inondando il pavimento di sangue!» Indifferente mia zia mi guardò, un baffo di farina sul mento.
«Sanguina sul serio, e il sangue le cola giù per le gambe...» Solo allora mia zia si decise ad avvicinarsi al lavandino per lavarsi la farina dalle mani. Le asciugò nel grembiule immacolato. «Vieni con me allora. Potrei aver bisogno del tuo aiuto. C'è qualcosa di autodistruttivo, di selvaggio in quella ragazza e probabilmente è riuscita a cacciarsi nei guai.» Arrivammo giusto in tempo per vedere Vera strisciare sul pavimento, imbrattata del suo stesso sangue che ancora le scorreva fra le gambe, mentre tastava nella pozza di sangue già semirappreso come alla ricerca di qualcosa: «Il bambino... ho perso il bambino...». Con un'espressione folle sul volto sollevò la testa a guardarci. Abbracciai Sylvia più forte. «Eri incinta?» chiese mia zia gelida, senza muovere un dito per aiutare la figlia. «Sì!» strillò Vera, sempre tastando in mezzo al sangue. «Devo avere quel bambino! Devo assolutamente! Ho bisogno di quel bambino! È il mio biglietto di sola andata per fuggire da questo inferno, e adesso l'ho perso. Aiutami, mamma, aiutami a salvare il mio bambino.» Mia zia guardò il sangue sul pavimento. «Meglio così, se l'hai perso.» In preda alla follia, lo sguardo di Vera si fece forsennato mentre le sue dita si chiudevano attorno a un enorme grumo di sangue che scagliò contro sua madre. Colpì mia zia giusto al centro del grembiule e cadde per terra con un «plop» nauseabondo. «Adesso non mi porterà più con sé,» gemette Vera. «Pulisci questo disastro che hai fatto, Vera,» ordinò mia zia, prendendomi per la mano e cercando di trascinarmi via. «Quando torno voglio che questa stanza sia in perfetto ordine come era stamattina. Usa acqua fredda per il tappeto.» «Mamma,» esclamò Vera, debolmente adesso, come sul punto di perdere i sensi. «Ho appena abortito... e tu ti preoccupi del tappeto?» «È orientale, prezioso.» Richiudendosi la porta alle spalle, mia zia mi sospinse avanti a sé mentre Sylvia continuava a piagnucolare. «Avrei dovuto immaginarlo che sarebbe andata a finire così. È una poco di buono, come suo padre.» Si fermò come per riflettere prima di seguitare, «eppure lui ha fatto altri figli senza i difetti che ha lei...». Pur sconvolta in cuor mio, riuscii a trovare un filo di voce. «Davvero Vera è figlia di papà?» Senza rispondere, mia zia si precipitò in cucina dove immediatamente si lavò le mani, strofinandole con uno spazzolino. Gettò il grembiule mac-
chiato nel lavandino che riempì di acqua fredda, dopo di che prese un grembiule pulito dal guardaroba. Il grembiule era bianco con nitide pieghe di stiratura. Non appena si fu allacciata il grembiule dietro la schiena ricominciò a stendere la pasta della torta che aveva abbandonato poco prima. «Sei più pallida del solito,» disse papà a Vera durante la cena. «Ti sta venendo il raffreddore o qualcosa del genere? Se è così dovresti mangiare in cucina. Non è proprio il caso che tu sparga germi di qua e di là.» Lo sguardo che Vera gli lanciò era talmente saturo di odio da essere quasi tangibile. Si alzò e se ne andò senza terminare la cena. Non potei fare a meno di provare compassione per lei mentre zoppicava debolmente fuori della sala da pranzo. Zoppicava sempre di più quando era stanca. «Vera, posso fare qualcosa per aiutarti?» le chiesi. «Puoi startene fuori dei piedi!» Vera non fece neppure il gesto di lavare il sangue dal tappeto. Lasciò a me quell'incombenza. Per ore e ore quella sera, prima di andare a letto strofinai, in ginocchio per terra, le macchie di sangue che rifiutavano di scomparire dallo spesso tappeto di lana. Venne mia zia e, vedendo quello che stavo facendo, se ne andò per tornare dopo pochi minuti con un secondo secchio e una spazzola dura. A quattro zampe, vicine, lavorammo per pulire il tappeto. «Tuo padre se ne è andato a letto,» disse a bassa voce. «Non deve sapere mai nulla di tutto questo. La scorticherebbe viva. Audrina, dimmi com'è questo insegnante di musica. Mi ha detto che il padre è lui.» E cosa potevo dirle se non sapevo assolutamente nulla degli uomini? A me era sembrato meraviglioso, un uomo gentile e nobile che non avrebbe mai sedotto una ragazzina... ma che ne sapevo io di queste cose? Però la sedia a dondolo sapeva. Sapeva tutto quello che papà sapeva sulla malvagità degli uomini e sulle cose terribili che facevano alle ragazze. «Dov'è Vera?» mi chiese papà allorché portai una Sylvia lavata di fresco e profumata giù in cucina il mattino seguente. La assicurai per benino sul seggiolone, le legai l'enorme bavaglino sotto il mento e le diedi i prismi perché ci giocasse mentre preparavo la colazione. Finalmente papà sollevò gli occhi dal giornale del mattino e mi vide. «Che ti è successo sulla faccia? Hai litigato? Audrina... chi ti ha dato quel pugno nell'occhio e ti ha graffiato la guancia?» «Papà, sai che certe volte cammino nel sonno. Mi è capitato la scorsa notte e sono caduta.»
«Stai mentendo. Avevo già avuto la sensazione che la tua faccia fosse rossa ieri sera, ma Vera mi ha fatto talmente arrabbiare che non ci ho badato. E adesso dimmi la verità.» Decisa a non dire altro, mi occupai della pancetta ordinata da papà. Lui riprese il giornale e si rimise a leggere. Fino a poco tempo prima i giornali non venivano consegnati a casa nostra ma mandati per posta. Mi accigliai mentre riflettevo sulla cosa. «Papà,» dissi lasciando cadere due fette di pane nel tostapane, «perché adesso ci arrivano i giornali del mattino se prima che la mamma morisse non li volevi?» «È per avere qualcosa da fare, tesoro, oltre che litigare con tua zia.» Le sue parole fecero arrivare di volata mia zia in cucina. Non appena vide ciò che stavo facendo mi scostò da una parte e mi sostituì ai fornelli. La prima colazione terminò senza che lei dicesse una sola parola, poi, come se niente fosse, arrivò la notizia. «Se n'è andata, Damian.» «Chi è che se ne è andato?» chiese lui senza interesse, voltando la pagina del giornale e ripiegandola accuratamente per rimettersi a leggerlo. «Vera.» «Tanto meglio.» Mia zia impallidì. Abbassò la testa per qualche secondo, poi tirò fuori della tasca del grembiule un foglio di carta piegato in quattro. «Ecco qui,» disse porgendoglielo. «Ha lasciato questo biglietto per te sul cuscino. L'ho già letto. Vorrei che lo leggessi ad alta voce perché senta anche Audrina.» «Non mi importa leggerlo, Ellsbeth. È tua figlia e sono certo che nel biglietto non c'è niente che mi faccia vivere meglio.» Allora Ellsbeth porse il biglietto a me. Gli occhi mi si riempirono di lacrime mentre leggevo ciò che vi era scritto. «Aspetta un attimo, papà,» lo fermai mentre si alzava e faceva per infilarsi la giacca. «Devi sentire quello che c'è scritto per la pace della tua coscienza.» Per qualche ragione indugiò, sembrava a disagio mentre spostava il peso da una gamba all'altra. Tenne l'espressione del volto immobile mentre leggevo: Caro papà, non mi hai mai permesso di chiamarti padre o papà, ma questa volta ti disobbedirò e ti chiamerò papà come fa Audrina. Tu sei mio padre e lo sai, mia madre lo sa, Audrina lo sa e lo so anch'io. Quando ero molto piccola la cosa che desideravo di più al mondo era
che tu mi amassi, appena un poco. La notte stavo sveglia e pensavo a tutte le cose belle che potevo fare per indurti ad accorgerti di me e a dire: «Grazie, Vera». Ma non sono mai riuscita a conquistarmi il tuo affetto, per quanta buona volontà ci mettessi, così presto ho rinunciato. Guardavo tua moglie per imparare a essere come era lei... ben vestita, profumata, dolce di voce e di modi, e tu mi sculacciavi perché usavo il suo profumo e mi sculacciavi perché mi mettevo i suoi vestiti per giocare. Coglievi al volo ogni pretesto per sculacciarmi. Così ho smesso di cercare di compiacerti, soprattutto dopo l'arrivo della tua «dolce Audrina», che non sbagliava mai. Era lei che ti compiaceva in ogni modo possibile. Non dubito che nel momento in cui leggerai questa lettera sarai ben felice di esserti liberato di me, giacché non mi hai mai voluta. Sono certa che saresti felice di vedermi morta. Ma non ti sbarazzerai tanto facilmente di me. Perché tornerò, Damian Adare, e tutti coloro che mi hanno fatto piangere piangeranno dieci volte più di quanto abbia pianto io. Non svelerò niente in questa lettera, ma verrà un giorno in cui tutti i tuoi segreti saranno portati alla luce. Contaci, carissimo papà. Sognalo la notte. Pensa ai miei occhi scuri, cosi uguali ai tuoi, e chiediti cos'ho in programma per te e per la tua famiglia. E soprattutto non dimenticare mai che te la sei voluta tu, per essere stato crudele e senza cuore con la carne della tua carne. Senza più amore, la figlia che ti servirà meglio... e più a lungo. Vera Piano piano, il papà fece un mezzo giro e mi fissò. «Perché hai voluto che la leggessi, Audrina? Neppure tu mi ami?» «Non lo so,» risposi con una vocetta indecisa, «so solo che ho pensato che tu le dovessi molte cose che non le hai mai dato. Vera se n'è andata, papà... e quello che ha scritto è vero. Tu facevi finta di non sentire quando lei parlava. Cercavi di non vederla. Non le rivolgevi mai la parola se non per ordinarle di fare questo o quello. Papà, se davvero è tua figlia, non credi di doverle qualcosa? Davvero ti sarebbe costato troppo darle un po' di gentilezza e un po' di amore?» Papà raddrizzò le spalle massicce. «Per il momento hai sentito solo la campana di Vera, Audrina. Non la mia. Non intendo difendere il mio operato. Voglio dirti solo questo: guardati dal giorno in cui Vera tornerà nelle nostre vite. Inginocchiati per terra stasera e prega il cielo che se ne stia alla larga. Se non fosse stato per tua zia, l'avrei messa in qualche collegio lon-
tano già da un pezzo. Certe persone non dovrebbero mai nascere.» Senza vacillare guardò negli occhi mia zia. Ebbi la sensazione di udire i loro occhi scuri scontrarsi con un clamore di lame. Fu lei che abbassò i suoi per prima, poi la sua testa si chinò talmente che vidi il lungo collo bianco. Con voce bassa e tremula disse: «Hai parlato abbastanza, Damian. Avevi ragione tu, e mi sbagliavo io. Ma è mia e speravo che venisse su diversa». «La speranza è l'ultima a morire, non credi?» Dette queste parole, uscì. I nodi si sciolgono Sola con zia Ellsbeth non seppi che dire. Se ne stava seduta al tavolo di cucina e fissava nel vuoto. Io sparecchiai in silenzio e caricai la lavastoviglie, tolsi Sylvia dal seggiolone e le lavai di nuovo il viso, poi la portai con me al piano di sopra per prepararmi ad andare a scuola. Mi tolsi in fretta la vestaglia, temendo di essere in ritardo per l'autobus, e cercai nei cassetti i maglioncini che lavavo ogni sabato. Nei cassetti erano rimasti solo quelli vecchi o troppo piccoli: quelli buoni, di cachemere erano tutti spariti, così come le graziose camicette che papà mi regalava ogni tanto. Vera doveva essersi presa tutti i capi migliori del mio guardaroba. Corsi al comò per vedere cos'altro mancava. Della mia biancheria, che era tutta lì, non aveva saputo che farsene, ma non appena aprii il cofanetto dei gioielli che erano appartenuti alla mamma, scoprii che tutti gli oggetti di valore erano scomparsi. Anche i gemelli e il fermacravatte destinati al mio futuro marito si erano volatilizzati. Non potei trattenere le lacrime quando mi accorsi che erano spariti anche l'anello di fidanzamento e la fede nuziale della mamma. Che cosa orribile e odiosa, sottrarmi cose che avevo sempre considerato come tesori! Senza dubbio tutti i magnifici gioielli che la mamma aveva ereditato dalla sua famiglia erano finiti in qualche banco dei pegni. I soli oggetti di un certo valore che mi fossero rimasti erano l'anellino con la pietra del mio segno zodiacale, che portavo sempre al collo con la catenina, e la rosa di quarzo che Arden mi aveva regalato. Un vero miracolo che non avesse cercato di togliermeli nel sonno. Quando tornai in cucina con Sylvia in braccio, trovai la zia ancora seduta al tavolo. «Vera ha preso tutti i miei golfini buoni e le camicette, e anche tutti i gioielli che mi aveva lasciato la mamma.»
«Ha preso anche i miei,» disse la zia con voce incolore, «e perfino il mio cappotto. L'avevo comprato appena l'inverno scorso; è il primo cappotto nuovo che mi permettevo da cinque anni a questa parte, Dio sa quando potrò farmene un altro.» «Papà te lo ricomprerà.» Ma non ne ero così sicura. Per tutto il giorno, mentre mi sforzavo di seguire quel che diceva l'insegnante, non cessai di pensare a Vera e al modo in cui era scivolata via nella notte come una ladra, senza preoccuparsi della sofferenza che procurava agli altri. Non appena suonò la campana che annunciava la fine dell'ultima ora, corsi fuori per chiedere un passaggio a una ragazza che conoscevo. Il villino nel quale da tre anni andavo a studiare musica sembrava abbandonato. Mi fermai sotto il portico e continuai a bussare, mentre il vento alle mie spalle sibilava e mi scompigliava i capelli. «Ehi, ragazzina,» mi gridò la signora della porta accanto. «Non serve bussare a quel modo. Se n'è andato. L'ho sentito partire in macchina in piena notte; c'era una donna con lui.» «Grazie,» le risposi, allontanandomi senza sapere che fare. A quest'ora sicuramente Arden era a casa, di ritorno da scuola, e si stava preparando per uscire a consegnare i giornali, ma non avevo spiccioli per chiamarlo e dirgli dove mi trovavo. Non avevo osato chiedere un po' di soldi alla zia prima di uscire, giacché Vera le aveva svuotato il portafogli. Con lo stomaco in subbuglio, m'incamminai per affrontare i trenta chilometri che mi separavano da casa. Ero ancora molto distante allorché cominciò a piovere. Il vento sferzava gli alberi che costeggiavano la strada e mi scompigliava i capelli bagnati; nonostante il cappotto pesante, fui presto così infreddolita che cominciai a starnutire. Di tanto in tanto, qualche automobilista rallentava e mi offriva un passaggio. Un terrore folle mi pervadeva, mentre fingevo di non sentirli. Affrettai il passo. Infine, un'auto si fermò e ne scese un uomo che senza tanti complimenti fece per afferrarmi e trascinarmi dentro. Pazza di terrore urlai mentre mi davo alla fuga. Sembrava uno degli incubi della sedia a dondolo. Una mano mi serrò il braccio e mi costrinse a voltarmi. Colpii, continuando a gridare. Poi l'uomo riuscì a bloccarmi l'altro braccio e mi immobilizzò, malgrado continuassi a dibattermi e scalciare. «Ma che diavolo ti prende, Audrina!» L'uomo era Arden. I suoi occhi ambrati si fecero più vicini mentre mi attirava tra le sue braccia. I capelli bagnati gli si incollavano sulla fronte. «È tutto a posto, ora. Sono io. Perché tremi così? E che ci fai qui sull'autostra-
da con questo tempo da cani? Perché non mi hai telefonato?» I denti mi battevano così forte che non riuscii a parlare. Cosa mi era preso? Era solo Arden. Perché allora mi sentivo come se avessi voluto schiaffeggiarlo? Scuotendo la testa con aria sconcertata Arden mi condusse alla macchina. Mi raggomitolai sul sedile anteriore, quasi contro la portiera, per evitare di sfiorarlo. Azionò al massimo la ventola dell'aria calda, tanto che presto affermò che si andava arrosto lì dentro... eppure io ero percorsa da brividi. «Sta per venirti un malanno,» disse guardandomi. «Sembri già febbricitante. Perché sei andata in paese, Audrina? Ho sentito dire in giro che Mr. Rensdale è partito stanotte per New York.» «S... sì,» ammisi, tirando su col naso. Poi gli dissi di Vera. «Penso che sia lei la donna che ha portato con sé. A papà gli verrà un colpo. Sa che è scappata, ma non immagina che sia scappata proprio col mio insegnante di musica.» Rabbrividii e sentii la pelle delle braccia accapponarsi sotto il soprabito. «Mettiti a letto,» mi raccomandò Arden al momento di lasciarmi. Con un movimento rapido si chinò a sfiorarmi la guancia con un bacio. Quel bacio mi ridestò la voglia di gridare. «E non stare a preoccuparti per Vera. Sa badare benissimo a se stessa.» Rimasi inchiodata a letto con un tremendo raffreddore che mi permise per quattro giorni interi di non pensare ad altro che a Vera e Lamar Rensdale. «Pensi che la sposerà?» mormorai alla zia una sera subito dopo cena. «No,» disse lei perentoria. «Gli uomini non sposano ragazze come Vera.» Cominciò l'anno nuovo e per quanto Vera fosse ormai uscita dalle nostre vite, era tutt'altro che dimenticata. «Damian,» attaccò la zia una mattina, «perché non chiedi mai di Vera? Non ti manca? Non ti preoccupi di dove sia, e di cosa le stia accadendo? Ha solo sedici anni. Non ti interessa più niente di lei?» «E va bene,» disse papà piegando accuratamente il giornale e deponendolo accanto al piatto. «Non ho intenzione di chiedere di Vera perché non voglio sentirmi dire cose che potrei non aver voglia di sentire. Non sento la sua mancanza; anzi, si vive decisamente meglio in questa casa da quando lei non c'è più. Né mi preoccupo o sto in pena per lei. Quella ragazza si merita solo il mio disprezzo. Se poi ha fatto quel che penso io, e ho le mie
ottime ragioni per credere che sia così, sarei molto felice di prenderla per il collo e di torcerglielo per benino. Ma tu l'hai difesa e hai cercato di convincermi fino all'ultimo che non era poi così cattiva, e io sono stato così stupido da permetterti di proteggerla. E adesso passami il burro. Gradirei un'altra fetta di pane tostato e un'altra tazza di caffè.» Avrei voluto chiedere cosa avesse mai fatto Vera, perché lui volesse torcerle il collo: ma avevo già imparato che né lui né la zia rispondevano mai alle mie domande, se non per farmene altre a proposito di quel che ricordavo. Dal canto mio, non riuscivo a ricordare Vera prima dei dieci o dodici anni, o quale che fosse la sua vera età al momento in cui mi era tornata la memoria. «Senza dubbio è scappata con quel poco di buono del pianista,» affermò papà col boccone in bocca. «Circolano un sacco di voci in paese sulla donna che era con lui quella notte.» Mi rivolse un rapido sguardo indagatore, poi sorrise in segno di approvazione. «Audrina, tesoro, so che non ti rendi conto di cosa può accadere a fare la smorfiosa con i ragazzi. E allora, se non vuoi credere a quel che dico, credi a queste parole: per il tuo bene, non farmi mai uno scherzo del genere. Ti cercherei in capo al mondo per riportarti nella casa alla quale tu appartieni.» In un certo senso si viveva meglio senza Vera in casa; soltanto continuavo a chiedermi come se la cavasse con un uomo che l'aveva respinta. Ogni giorno chiedevo alla zia: «Ci sono notizie di Vera?» e ogni giorno ricevevo la stessa risposta. «No. Non mi aspetto sue notizie. Ho fatto il peggiore sbaglio della mia vita il giorno in cui sono tornata qui. Ma quel che è fatto è fatto ed è meglio far buon viso a cattivo gioco. Questo è il segreto per riuscire nella vita, non dimenticarlo mai, Audrina: una volta deciso quello che vuoi, non mollare finché non l'hai ottenuto.» «E tu, cos'è che vuoi?» Non rispose, continuava invece a ciabattare per la cucina con quelle babbucce che si toglieva prima che rincasasse papà. Quando mancava un'ora al suo rientro, correva di sopra, faceva il bagno, si vestiva, si sistemava i capelli, che aveva tagliato in modo da poterli portare anche sciolti. Sembrava ringiovanita di parecchi anni, forse perché ora aveva un sorriso da sfoggiare. Senza Vera la nostra vita prese un ritmo uguale, monotono forse, ma rassicurante. Compii tredici anni, poi quattordici. Sylvia cresceva, ma il suo intelletto non si sviluppò. Assorbiva tutto il mio tempo libero, ma io trovavo sempre il modo di vedere Arden ogni giorno. Papà si era rassegna-
to alla sua presenza, convinto che a forza di vederlo mi sarebbe presto venuto a noia. Mi sentii invadere dallo sgomento allorché Arden mi confidò che in autunno si sarebbe iscritto all'università, lontano dal paese. Non riuscivo a immaginare una vita senza Arden. «Oh, Audrina,» esclamò Arden prendendomi per la vita e facendomi girare così che la mia gonna bianca si gonfiò come una campana. «A volte quando ti guardo e mi rendo conto di quanto sei diventata bella, sento una fitta al cuore. Ho tanta paura che mentre sarò via ti troverai un altro. Audrina, ti prego, non innamorarti di nessuno. Serbati per me.» Inavvertitamente gli avevo circondato il collo con le braccia e me ne stavo aggrappata a lui. «Certe notti mi sveglio,» continuò, «e penso a quando sarai cresciuta, e in quei momenti penso, proprio come tuo padre, che finirai per provare per me solo l'affetto che si prova per un fratello. Non è questo che voglio, Audrina. Una volta la mamma mi ha detto che quando lei aveva la tua età cambiava idea sui ragazzi almeno tre volte alla settimana.» Di botto fui pienamente consapevole di essere tra le sue braccia, e mi divincolai fino a sfiorare il terreno con la punta dei piedi, nonostante lui non mollasse la sua stretta. «Io non sono tua madre, Arden.» Quanto mi sentivo seria, e quanto adulta e saggia, quando non ero né l'una né l'altra! Qualcosa di dolce e bellissimo accadde nei suoi occhi: le pupille divennero più grandi, più intense. La luce che li pervadeva mi disse, ancor prima che lui si chinasse su di me che, alla tenera età di quattordici anni, stavo per essere baciata dal solo ragazzo al quale avessi consentito di entrare nella mia vita. Come furono dolci le sue labbra sulle mie, così esitanti e lievi che provai brividi indefinibili corrermi giù per la schiena. La gioia si mescolava alla paura, mentre cercavo di capire se quel bacio mi fosse piaciuto o no. Cosa avrei dovuto temere? Poi lui mi baciò di nuovo, un poco più appassionatamente, e io sentii che l'apprensione mi pervadeva, mentre quel giorno di pioggia nel bosco tornava a ossessionarmi. «Perché tremi?» chiese Arden. Sembrava ferito. «Mi dispiace. Non ho potuto fare a meno di spaventarmi un po'. Non sono mai stata baciata così.» «Scusami, tesoro, se ti ho sconvolta... ma non ho potuto trattenermi. Milioni di volte mi sono tirato indietro... ma questa volta non ce l'ho fatta!» Mi pentii di quel che avevo detto. «Oh, Arden, che sciocca ad avere paura, quando non ho fatto che chiedermi perché aspettassi tanto.» Perché mai dicevo cose simili? Sarebbero state bene in bocca a Vera, ma a dire il vero mi ero spaventata a morte.
«Non starai mica diventando una sfacciata? Mia madre era così. Pensavo che tu fossi diversa, così avrei saputo che quello che ora proviamo durerà per sempre. Forse mia madre non te lo ha detto, ma è stata sposata più di una volta. La prima volta aveva diciassette anni, e dopo pochi mesi era tutto finito. Mio padre era il suo terzo marito e, a sentir lei, il migliore di tutti; anche se a volte penso che lo dica solo per non farmelo odiare.» Tre volte? «Non sono una sfacciata,» mi affrettai a ribattere. «È solo che ti amo. Amori infantili, li chiama zia Ellsbeth. Anche se non le confido mai niente, le basta uno sguardo per capire che non basta stare tanto fuori all'aria aperta per avere gli occhi splendenti e la carnagione colorita che ho io dopo che sono stata con te. Perfino papà dice che non ho mai avuto un'aria più sana e allegra. Ma io so che è per merito tuo, e anche perché ho imparato a voler tanto bene a Sylvia. E anche lei mi vuole bene, Arden. Quando sono lontana, si accuccia in un angolo buio come se volesse nascondersi agli occhi di tutti. Penso che sia terrorizzata da zia Ellsbeth. Poi, quando entro nella stanza, lei mi corre incontro e mi si aggrappa alla mano, oppure all'orlo della gonna, e rovescia all'indietro la testolina... mi ha messo al centro del suo mondo.» Mi parve infastidito, e rifiutò di voltarsi a guardare Sylvia che era sempre con me - se non proprio in vista, almeno nei paraggi. Lo faceva sentire a disagio, per quanto non lo dicesse mai. Credo che gli provocasse imbarazzo con i suoi odori spiacevoli, i suoi abiti in disordine, la sua incapacità di parlare e di concentrare lo sguardo su qualcosa. A pochi passi da noi, Sylvia camminava a quattro zampe per terra, seguendo una lunga fila di formiche che andavano e venivano dal loro buco. «Smettila di guardare Sylvia e le sue formiche,» protestò, «e guarda me, invece.» Mi diede un buffetto scherzoso perché rifiutavo di guardarlo. Io gli diedi una spinta e lui indietreggiò, poi rotolammo insieme per terra e facemmo la lotta finché non mi ritrovai circondata dalle sue braccia, gli occhi fissi nei suoi, che ricambiavano il suo sguardo pieno d'amore. «Io ti amo, ti amo,» sussurrò con voce un po' roca. «So di essere troppo giovane per questo sentimento, ma per tutta la vita non ho fatto che sognare che sarebbe stato proprio così, fin da ragazzo e proprio con una ragazza come te: unica, pulita, dolce.» Il cuore riprese a battermi angosciato allorché i suoi occhi scesero lentamente dal mio viso giù verso il collo, il seno, la vita. Quindi Arden guardò un punto ancora più in basso, e io arrossii. Finché mi aveva fissata negli occhi, o anche guardato il seno mi aveva fatta sentire desiderabile e bella,
ma quello sguardo fece sì che i brividi dei ricordi angosciosi mi si ridestassero nella mente, riportando alla superficie gli incubi della sedia a dondolo e tutto quel che aveva subito la Prima Audrina, che era morta perché quei tre ragazzi l'avevano tutti guardata lì, nonostante i suoi sforzi disperati di scalciare e divincolarsi. Mi sentii pervadere dalla vergogna, e bruscamente spostai le gambe per nascondere quella parte. Il mio gesto fece arrossire Arden. «Non devi vergognarti di essere donna, Audrina,» mormorò dopo essersi voltato. Di colpo scoppiai a piangere. Era per lei che provavo vergogna! Per tutta la vita ero stata tormentata per causa sua. La odiavo! Desideravo che non fosse mai nata, e allora forse tutto mi sarebbe sembrato sano e naturale, non sbagliato e perverso. Eppure brividi continuavano a scuotermi con sempre maggiore violenza. Di chi erano i passi sulla mia tomba? Suoi? «Ora devo rientrare,» dissi dura mentre mi alzavo, ripulendomi i calzoni con le mani. «Ce l'hai con me.» «No, affatto.» «Manca mezz'ora al tramonto. Abbiamo tanto tempo prima che faccia buio.» «Domani starò di più.» Corsi da Sylvia e, tirandola per la mano, la rimisi in piedi prima di voltarmi a rivolgere un debole sorriso ad Arden. «Per favore, rimani dove sei. Non c'è bisogno che ci accompagni fino al margine del bosco. Se dovesse succedere qualcosa ti chiamerò. Devo fare così, Arden.» Il sole declinante che gli illuminava gli occhi mi impedì di decifrare la sua espressione. «Dammi una voce appena raggiungi il prato, per avvertirmi che sei al sicuro.» «Senti, Arden, anche se a volte agisco stranamente, mi ritraggo e tremo, tu non allontanarti da me. Senza di te non avrei la forza di traversare il bosco, né le mie giornate.» Imbarazzata, mi voltai rapidamente e provai a correre: ma Sylvia non era in grado di seguirmi. Incespicava nelle radici sporgenti, s'impigliava agli sterpi, cadeva; ben presto fui costretta a prenderla in braccio. I prismi di cristallo di cui erano costantemente piene le sue tasche la rendevano ancor più pesante. Dopo un po' dovetti rimetterla a terra e rallentare i miei passi affannati. A casa prima che faccia buio, mi ripetevo meccanicamente; a casa prima che piova.
«Ci sono Arden,» gridai. «Siamo arrivate a casa!» «Entra dentro... dormi bene. E se devi sognare, sogna me!» La sua voce suonò vicinissima e mi suscitò un mesto sorriso. Ci aveva seguite, quasi avesse saputo quel che era accaduto alla Prima Audrina e avesse voluto proteggermi da un fato simile al suo. Arden era all'università già da un anno quando compii sedici anni. Prendeva ottimi voti ma per me fu un anno malinconico, sola nella casa e ancora più sola quando traversavo frettolosamente il bosco, tirandomi dietro Sylvia, per andare a trovare Billie. Era come se la piccola casa fosse vuota senza Arden, senza anima. Mi meravigliava che Billie potesse star lì da sola e riuscisse ancora a sorridere. Non si stancava mai di rileggermi le sue lettere, mentre io le leggevo alcuni brani di quelle che lui scriveva a me. Sorrideva quando ero costretta a saltare qualche piccola espressione affettuosa, giacché per lettera Arden era più audace di quanto non fosse di persona. Mi trovai meglio al liceo che non alle medie, solo che i ragazzi erano molto più insistenti. A volte era difficile pensare solo ad Arden, che vedevo così di rado. Ero sicura che s'incontrasse con altre ragazze delle quali certo non mi scriveva, ma gli restai fedele, e non uscii con nessun altro se non con lui, quando tornava a casa per le vacanze. Tutte le ragazze mi invidiavano perché avevo un ragazzo grande, già all'università. Il fatto che dovessi occuparmi di Sylvia riempiva la mia vita, sottraendomi ogni momento libero e impedendomi di fare amicizia con le mie coetanee: non avevo tempo per nessuna delle attività sociali alle quali loro si dedicavano. Ogni giorno dovevo affrettarmi per essere a casa il più presto possibile, in caso dovessi salvare Sylvia dalla verga di cui la zia si serviva generosamente. Non solo, ma la zia faceva soffrire Sylvia senza motivo e con la più completa indifferenza, aspettando che fossi io a sobbarcarmi tutti i suoi bisogni materiali. Passavo i pomeriggi con Billie, e negli anni in cui Arden rimase lontano, mi insegnò a cucinare e cucire e a far conserve. Di tanto in tanto cercava di insegnarmi anche qualcosa sugli uomini e su quello che loro si aspettavano da una moglie. «Il rapporto fisico non è tutto, ma è molto importante, per gli uomini soprattutto. Una buona vita sessuale è la base di un matrimonio felice.» Il Natale dopo che ebbi compiuto i diciassette anni arrivò una cartolina da New York, con una veduta della città dall'Hudson River, tutta azzurra e
spruzzata di lustrini di neve. Il messaggio che conteneva aveva strappato un brontolio alla zia. Diceva soltanto: «Mi rivedrete, niente paura» ed era firmata da Vera. Era la prima volta in tre anni che ricevevamo sue notizie. «Per lo meno è viva, e dovrei già ringraziare Dio. Ma perché ha mandato la cartolina a Damian e non a me?» Una settimana più tardi mi svegliai di soprassalto nel cuore della notte. Da quando Sylvia era entrata nella mia vita avevo sviluppato una specie di sesto senso che mi rendeva cosciente, anche nel sonno, del trascorrere del tempo e di quegli eventi che potevano rendere necessaria la mia presenza accanto a lei. Il mio primo pensiero fu per Sylvia quando risentii di nuovo delle voci forti. In un lampo fui fuori del letto e in camera sua, ma la trovai profondamente addormentata. Una sottile lama di luce filtrava sotto la porta della camera di papà poi, con crescente stupore, distinsi anche la voce di mia zia. «Damian, voglio andare a New York. Oggi Vera ha telefonato. Ha bisogno di me, e io andrò da lei. Ho fatto tutto quel che ho potuto per te e per le tue figlie. Puoi assumere una domestica per cucinare e pulire, e poi c'è sempre Audrina a badare a te. Sei riuscito a legarla mani e piedi a Sylvia. Non è giusto quel che stai facendo; so che le vuoi bene, e allora mandala all'università. Dalle la sua libertà, Damian, prima che sia troppo tardi.» «Ellie,» disse lui in tono conciliante, «cosa ne sarebbe di Audrina se andasse via di qui? È troppo sensibile per il mondo esterno. Sono certo che non sposerà mai quel ragazzo, e lui lo scoprirà non appena cercherà di ottenere qualcosa. Nessuno vuole una donna incapace di reagire fisicamente, e dubito che lei possa mai riuscirci.» «Certo che no!» gridò lei. «Sei tu che l'hai ridotta così! Quando lei ti disse che la sedia a dondolo le dava quelle allucinazioni, hai continuato a costringerla a usarla.» «Per darle la pace,» si difese papà stancamente, mentre io mi sentivo gelare dal terrore. Perché litigavano a causa mia? E cosa faceva la zia nella sua stanza alle tre di notte? «Adesso ascoltami bene, Damian,» continuò mia zia, «e non dirmi che sono stupidaggini. Tu vorresti fingere che Vera non esiste, ma lei esiste, eccome! Finché lei è al mondo né tu, né Audrina, né Sylvia potrete stare tranquilli. Se tu mi permetti di raggiungerla, potrò convincerla a ragionare. Lei sta costruendo tutta la sua esistenza attorno a te e alla sua vendetta. Se torna, può distruggere Audrina... Lascia che vada, ti prego! Dammi quanto basta per il viaggio e per andare avanti finché non trovo un lavoro. Io devo
stare vicino a Vera, e tu sei in debito verso di me, te ne rendi conto? Quella ragazza laggiù a New York è sangue tuo, né più né meno di Audrina e Sylvia, e tu lo sai. Una volta dicevi di amarmi.» «È acqua passata, Ellie,» disse lui infastidito. «Vivere è più importante che rimpiangere il passato. Pensiamo all'oggi, al presente.» «Perché dicevi di amarmi, se non era vero?» gridò la zia. «Eri affascinante, allora, Ellie. Eri più dolce, allora.» «Avevo delle speranze allora,» mormorò lei con amarezza. «Ellie, dimmi cos'è che Vera minaccia di fare nel caso che torni. Perché se quella ragazza si prova ancora ad alzare un dito contro Audrina, io la uccido.» «Oh Dio! Sei tu che l'hai fatta diventare quello che è, Damian! Dietro ogni sua cattiveria, c'erano le frustrazioni e il dolore per essere stata respinta dal proprio padre. Sai bene qual'è la minaccia di Vera. Quando tu e Lucietta mi avete detto per la prima volta quel che intendevate fare per Audrina, ho pensato che foste tutti e due ammattiti, ma me ne sono restata zitta e buona, con la speranza che funzionasse. È da tempo che ho smesso di cercare di compiacerti, Damian, perché mi è impossibile sottostare ai tuoi capricci. Ma voglio salvare Audrina. C'è stato un tempo in cui ho pensato che quella ragazza fosse senza spina dorsale, ma ha dimostrato il contrario. Ho pensato che non avesse carattere, grinta, però adesso applaudo ogni volta che ti si rivolta contro. Perciò continua pure a startene lì e a passarmi da parte a parte con quegli accidenti di occhi neri che hai, non m'importa un fico secco, ma di' la verità a Audrina... prima che lo faccia Vera.» «C'è una fortuna in questa casa, e una parte potrebbe essere tua,» la rimbeccò in tono carezzevole. «Ma non avrai un bel niente se tu o tua figlia vi azzarderete a dire una sola parola a Audrina.» La sua voce abbandonò il tono suadente e si fece più fredda. «E dove potrai andare senza denaro, Ellie? Chi può desiderarti, all'infuori di me?» «Tu non mi desideri,» gridò lei con una tale rabbia che caddi sulle ginocchia e incollai l'occhio al buco della serratura, proprio come era solita fare Vera anni prima, quando papà e la mamma litigavano. «Tu mi usi, Damian, proprio come usi tutte le donne.» Oh... vidi la mia sussiegosa e manierata zietta camminare avanti e indietro per la camera da letto di papà con nient'altro indosso che una vaporosa vestaglia trasparente che un tempo era appartenuta alla mamma. Sotto era nuda. Con mia sorpresa era più bella così che vestita. Non aveva i seni grandi e pieni della mamma, i suoi erano più piccoli, più compatti e molto
alti. I capezzoli della zia erano bruni e molto grossi. Quanti anni aveva, in fondo? Per quel che potevo ricordare, neanche una volta in vita mia la mamma mi aveva rivelato la sua età, e la sua vanità si era spinta al punto di impedire che incidessero la sua data di nascita sulla lapide. L'avevo sentita molte volte chiedere a papà di non permettere che i giornali pubblicassero la sua età. Non era la prima volta che mi rendevo conto che nessun compleanno al mondo era importante quanto il mio. I lunghi capelli scuri della zia erano sciolti sulle spalle, morbidi e si aprivano a ventaglio ogni volta che si girava di scatto. Guardando la zia, mi stupivo che non avesse trovato un altro uomo, dopo che mia madre le aveva portato via papà. A guardarla in quel momento mi parve stupenda e provocante, soprattutto a giudicare dalla luce che brillava negli occhi di papà, nonostante le parlasse con durezza per farla desistere dalla sua decisione di andare a New York. All'improvviso lui si fece avanti, la afferrò per la vita e se la tirò, scalciante e riottosa sulle ginocchia. Lei lo colpì più e più volte mentre lui, ridendo e schivando i suoi pugni, riuscì a premere la bocca su quella di lei. Ogni resistenza l'abbandonò di colpo mentre le sue braccia lo allacciavano bramose. Le loro bocche si incontrarono di nuovo poi lei gemette di piacere mentre le labbra di lui prendevano a esplorare voraci ogni rotondità e piega del suo corpo. Sconvolta, lo osservai baciarle i capezzoli, mentre le mani frugavano sotto la vestaglia. «Ti sbagli, Ellie,» disse con voce soffocata, il volto acceso di passione, mentre si alzava e la portava di peso verso il letto. «A modo mio ti amo. Proprio come amavo Lucky in un modo tutto speciale. Non è colpa mia se non riesco ad amare per sempre quello che è morto. Devo andare avanti, non ho ragione? E se tu pensi che ami me stesso più di chiunque altro, è segno che non ho cercato di ingannarti. Rispettami almeno per la mia sincerità, se non per altro.» Ora sapevo con certezza, senza colpevoli elucubrazioni, chi fosse l'uomo che mia madre aveva rubato alla sorella. Sapevo anche con altrettanta certezza che mio padre era anche il padre di Vera. Più ci pensavo, più provavo disagio nei confronti di mia madre. Aveva rubato di proposito l'amante alla sorella maggiore? Mi alzai e li lasciai sul letto. Ora la zia e mio padre erano di nuovo amanti. Stranamente, dopo averci riflettuto, non ero né sconvolta né avvilita come mi sarebbe accaduto un tempo. Forse il destino aveva davvero le sue
vie misteriose perché tutte le cose fossero equamente ripartite. Mi venne anche in mente che forse loro due erano già stati amanti quando la mamma era ancora viva... in questa casa, sotto il suo tetto. Di certo, c'erano abbastanza camere disabitate nelle quali potersi incontrare tranquillamente. I miei ricordi volarono frammentari ai tè del martedì, quando la fotografia di zia Mercy Marie veniva posta sul pianoforte, e nella mia testa risuonò l'eco delle aspre parole che mia madre e sua sorella si scambiavano. Non una volta la zia aveva lasciato trapelare segni di gelosia nei confronti di mia madre. No, decisi, zia Ellsbeth aveva troppo rispetto per se stessa, e disprezzo per papà, per lasciarsi andare a una relazione clandestina con l'uomo che un tempo l'aveva respinta, finché Lucietta Lana Whitefern era ancora in vita. Finii per catalogare i loro rapporti come un bisogno di papà e una sorta di rivalsa della zia e misi da parte il loro segreto, decisa a non far mai sapere loro che li avevo scoperti. Passò molto tempo prima che la zia nominasse ancora Vera. Il Natale in cui compii diciassette anni, Arden mi mise al dito un anello di fidanzamento, quindi mi prese tra le braccia. «Ora non dovrai più avere paura degli anni con il nove. A diciannove anni sarai mia moglie, e io veglierò su di te perché non ti accada mai niente di male.» Nel giugno di quell'anno presi la maturità. Portavo al collo l'anello di fidanzamento che mi aveva dato Arden, alla stessa catenina alla quale era stato appeso l'anellino con la pietra zodiacale. Cominciai a notare un cambiamento in mia zia, che non sembrava più appagata come un tempo. Non l'avevo mai immaginata felice, finché non ebbi davanti agli occhi lo spettacolo della sua infelicità. Usciva di rado. Le altre donne della sua età erano socie di circoli di bridge e frequentavano salotti, ma mia zia non aveva neanche un'amica. In casa portava vestiti vecchi, e quelli nuovi, che indossava solo per uscire, glieli sceglieva papà, proprio come sceglieva i miei abiti migliori. Non aveva svaghi, tranne sferruzzare guardando alla televisione quegli interminabili polpettoni a puntate. Aveva me, aveva Sylvia e papà, e quell'eterno affaccendarsi a cucinare e pulire... e la ricompensa di qualche ora davanti ai suoi nuovi televisori a colori. E dire che non mi era mai venuto in mente che potesse desiderare o meritare qualcosa di più. Non si lamentava. Non rivelava sintomi fisici evidenti che potessero indurre a credere che fosse malata, ma qualcosa era cambiato. Spesso interrompeva il lavoro con lo sguardo perso nel vuoto. Cominciò a leggere la
Bibbia, come per cercarvi conforto. Faceva lunghe passeggiate solitarie lungo il fiume tenendosi alla larga dal bosco. A volte le camminavo accanto, in silenzio come lei. Si fermava e fissava il suolo con indebito interesse, o contemplava le chiome degli alberi e il cielo con la stessa intensa curiosità, quasi che prima la natura non fosse esistita per lei e che ora fosse qualcosa di assolutamente nuovo. Rimaneva a guardare gli scoiattoli che popolavano i nostri alberi imponenti e antichi. Una volta le dissi che secondo me quegli alberi esistevano già quando Colombo lasciò la Spagna, lei sbuffò e disse che ero troppo romantica, come mia madre. La praticità era la virtù per eccellenza della zia. Ma se era così, perché non aveva messo gli occhi su un altro uomo quando aveva perduto per sempre papà? In nessun caso la mia mamma «sognatrice e romantica» sarebbe rimasta zitella tutta la vita. Ma come dirle queste cose, ora che per la prima volta cominciavo a comprendere mia zia? E con la comprensione venne quell'affetto che prima era mancato al nostro rapporto. Avrei voluto parlarle, ma era difficile comunicare con una donna che non aveva mai appreso l'arte del dialogo. Un giorno mi colse di sorpresa: «Ami quel ragazzo?». «Arden? Oh sì, certo. Mi fa sentire protetta e anche bella. Non fa che dirmi quanto sono magnifica e quanto mi ama.» Le mie stesse parole mi fermarono momentaneamente: era come se stessi permettendo ad Arden di convincermi che dovevo amarlo, per il fatto che lui amava me. Mia zia mi rivolse un'occhiata di traverso; poi guardò altrove. «Spero che proverai sempre questi sentimenti per lui. La gente cambia, Audrina. Lui cambierà. Tu cambierai. Ciascuno di voi vedrà l'altro in modo differente, perché sarà cambiata la visuale. Può darsi che a venti anni tu non lo amerai più come l'amavi a diciotto. Sei una bellissima ragazza, e potresti cogliere il meglio che il mondo ha da offrire. Inoltre, tu hai qualcosa in più, qualcosa di molto più importante della bellezza, perché quella non durerà. Puoi pensare che duri, pregare che duri, ma la bellezza, prima o poi, svanirà: e più bella sarai stata, più soffrirai quando non lo sarai più. In una cosa tuo padre ha ragione: tu sei speciale.» «No, non è vero.» Chinai la testa, imbarazzata. «Non ho doni speciali. I miei sogni sono banali.» «Oh!» disse lei, come avesse sempre saputo. «Che importanza ha il modo in cui si raggiungono i propri scopi? In fin dei conti adesso tuo padre ti lascia in pace la notte, e tu non gridi più. L'ho sempre considerato un mostro per averti costretta a stare in quella stanza di cui avevi tanta paura, ma
questo non c'entra. Senza di te Damian non sarebbe riuscito così bene, dunque non permettergli di addossarsi il merito esclusivo dei suoi successi. Sei tu che gli dai una motivazione, che gli dai una ragione per accumulare denaro. Percorrere da soli il cammino della vita è difficile e nessuno meglio di me può dirlo. Senza di te, Damian non sarebbe mai sopravvissuto alla morte di tua madre. Gli uomini sono creature strane, Audrina, ricordalo. E allora, fatti rispettare, ed esigi un'educazione universitaria. Non permettergli di farti rinunciare alle tue aspirazioni. Lui cercherà di impedirti di sposarti e di lasciarlo, non permettergli di allontanarti da Arden.» «No, non ha la forza per farlo, altrimenti Arden sarebbe già sparito da un pezzo. So che papà ci ha provato: Arden mi ha confidato che lui ha già tentato di allontanarlo da me.» «Allora va bene. Ma appena vedi la possibilità di andare via, coglila al volo e fuggi. Non c'è ragione che tu viva vicino a questi boschi, in questa casa piena di tristi ricordi. Sarebbe perfino meglio se vi trasferiste a vivere nel villino, con quella poveretta di sua madre...» Mi mancò il respiro. «Sai di Billie? Pensavo che non lo sapesse nessuno.» «Oh, per l'amor del cielo, Audrina! Tutti conoscono Billie Lowe. C'è stato un periodo in cui la sua foto era sulla copertina di tutte le riviste, e quando perdette una gamba, e poi l'altra, la notizia occupò le prime pagine. All'epoca eri troppo giovane per interessartene; e d'altronde tuo padre ti permette di leggere solo le pagine finanziarie.» Si fermò, come fosse sul punto di dire dell'altro, ma ci ripensò. «Non ti rendi conto che tuo padre ti indottrina sulla compravendita in borsa da quando eri in fasce? Audrina, usa le tue conoscenze per il tuo profitto, non per il suo.» Cosa intendeva dire? La interrogai, ma rifiutò di spiegarsi meglio. Ciò nonostante le volevo bene perché cercava di aiutarmi, senza immaginare che forse era lei ad aspettarsi un mio aiuto. Più tardi, quella sera, mi convinsi che era depressa perché papà non la sposava, perché in cinque anni non aveva ricevuto da Vera che una cartolina e una telefonata. Era terribile da parte di Vera trattare sua madre come se non fosse mai esistita! Dovevo parlare a papà, presto, molto presto. Ma papà era in casa di rado e quando rientrava c'era sempre la zia con noi e io non volevo farle sapere che intendevo spingerlo a sposarla. Com'era complicata la vita! Queste furono, più o meno, le prime parole che dissi ad Arden quando rientrò a casa per un fine settimana. «Mia zia sa
tutto di tua madre.» Sorrise e mi baciò quattro o cinque volte tenendomi talmente stretta e talmente a lungo che ebbi modo di sentire ogni muscolo del suo corpo giovane e forte. Sentii anche qualcos'altro, però, che mi fece ritrarre e sbirciare verso il basso. Quel turgore fece esplodere nella mia testa le campanelle a vento e mi colmò di timor panico sicché mi sentii mancare e pronta a fuggire. Se ne accorse e rimase male, così imbarazzato che richiuse la falda del cappotto per nascondere quella parte di sé che tradiva la sua eccitazione. In tono noncurante disse: «Be', ho fatto quello che potevo, e anche lei e anche tu, ne sono certo, ma i segreti volano, e forse è meglio che sia così». Continuò a parlare di sposarci non appena avesse finito l'università, e mancava poco al termine. Di nuovo il panico mi prese e mi disse che avevo bisogno ancora di tempo. Eravamo ancora nel bosco, diretti verso casa mia, quando mi abbracciò più appassionatamente di quanto avesse mai fatto. Fino a quel momento avevo sentito gli uccelli cantare sopra di noi, ma non appena mi toccò gli uccelli tacquero. Mi irrigidii, come di gelo, per una carezza troppo intima. Mi strappai al suo abbraccio e gli volsi la schiena, premendomi gli orecchi con le mani per non udire il frastuono delle campanelle a vento, che non avrei dovuto sentire da quella distanza. Arden mi fece scivolare dolcemente il braccio attorno alla vita e mi attirò di nuovo contro il suo corpo. «Non prendertela, amore. Capisco. Sei ancora molto giovane, dovrò fare in modo di ricordarlo. Voglio che tu sia felice per il resto della tua vita per ripagarti di... di...» si interruppe inducendomi a divincolarmi dalla sua stretta e a girarmi per guardarlo in viso. «Ripagarmi di che?» «Di tutto ciò che rende tristi i tuoi occhi. Voglio che il mio amore cancelli le tue paure. E voglio che nostro figlio risponda alle tue cure amorose come Sylvia non ha mai fatto.» Figlio, figlio, figlio. Non volevo un figlio. Raramente Arden pronunciava il nome di Sylvia, come se lui pure volesse far finta che non esistesse. Non faceva nulla per nuocerle, ma neppure per aiutarla. «Arden, se non riesci a voler bene a Sylvia, allora non puoi voler bene neanche a me. Lei è parte di me, per il resto della mia vita. Ti prego, cerca di rendertene conto subito e dimmi se puoi accettarla, oppure diciamoci addio prima che le cose vadano troppo avanti.» Guardò Sylvia intenta a fare un girotondo attorno all'albero più alto del bosco. Il suo braccìno era teso verso il tronco cosicché con le dita riusciva
a sfiorare appena la corteccia rugosa mentre continuava a girare in tondo, senza sosta. Dissi a me stessa che stava cercando di comunicare con l'albero sentendone la «pelle», e che quel che faceva non mancava di senso. Così era fatta Sylvia, sempre in movimento, mai ferma un solo istante da quando apriva gli occhi la mattina; sempre intenta a far qualcosa che, in sostanza, non era nulla. Arden ci accompagnò fino al limitare del bosco. Mi sentivo abbastanza bene, ormai, da scambiare con lui sereni progetti per quella sera e l'indomani. Mio padre e la zia stavano discutendo animatamente in cucina. Appena mi sentirono entrare in casa le loro voci tacquero, e io percepii la quiete innaturale che indica che si è interrotto qualcosa di riservato. Mi affrettai a salire di sopra con Sylvia. Arden tornò all'università per l'ultimo semestre, e io mi accinsi ad aiutare papà a rendere la casa più bella di quand'era nuova. Ora che aveva fama di trasformare tutto quel che toccava in oro, zia Ellsbeth si divertiva a fargli rimarcare con acredine che presto sarebbe diventato un tale pallone gonfiato da non riuscire più a passare per la porta di ingresso. Senza badarle più di tanto, papà ordinava agli operai di abbattere le pareti, di allargare certe stanze e ridurne altre. Fece aggiungere il bagno alla mia stanza, alla sua e ad altre due. Decise che gli occorrevano due guardaroba per i suoi numerosi abiti e le sue decine di paia di scarpe. La mia stanza fu allargata e munita di spogliatoio, oltre che del bagno privato. Mi sentivo fastosamente decadente con quella profusione di cristalli e cornici dorate e luci elettriche attorno al grande specchio della toilette. A conti fatti avremmo avuto una casa non uguale, ma superiore a quella di una volta. Papà si mise alla ricerca di tutti i pezzi di antiquariato originali che gli Whitefern avevano venduto nel corso degli anni, fornendo involontariamente la prova che quel che la zia aveva gettato più volte in faccia a mia madre riguardo i «falsi» di casa nostra era vero. Anche quel sontuoso letto che la mamma aveva creduto originale, si dimostrò un'imitazione. Ascoltavo con stupore tutti i suoi progetti: tanto poteva essere meschino sulle piccole cose, tanto poteva essere stravagante e megalomane quando si trattava della sua casa e dei suoi vestiti. Per tutto il mondo finanziario, era il «messia» della Borsa. Ciò gli conferì una tale fiducia in se stesso che nel tempo libero si mise a scrivere un bollettino di consulenza finanziaria. Dava la lista delle azioni da comprare,
ribassare, liquidare; dopo di che vendeva quel che aveva detto agli altri di comprare il giorno stesso della pubblicazione del suo bollettino. Comprava a termine e rivendeva quando gli altri erano a secco. Comprava quel che diceva ai clienti di vendere. In poche ore di vendita chiudeva con profitti di migliaia di dollari. Il gioco mi sembrava disonesto e glielo dissi. Mi rispose che la vita in genere era disonesta. «Uno scontro di astuzie per sopravvivere, Audrina. I vincenti nella vita sono quelli che agiscono più rapidamente e con più scaltrezza e questo non è ingannare il prossimo: dopo tutto, la gente potrebbe essere più accorta, non ti pare?» Mio padre inviò il bollettino finanziario a un amico di San Francisco, proprietario di una casa editrice, e tanti «amici» di quella risma furono ben felici di partecipare al gioco. Poi venne il giorno meraviglioso in cui Arden sarebbe tornato a casa dall'università con la laurea in tasca. Papà fu talmente spietato da non permettermi di assistere alla cerimonia della consegna del diploma. All'insaputa di mio padre, che non voleva che mi rendessi autonoma, anni prima Arden mi aveva insegnato a guidare. Mi fu facile dunque «prendere in prestito» una delle vecchie auto di papà mentre lui era al lavoro, poi, con Sylvia vestita a festa, andai all'aeroporto ad attendere l'arrivo del suo volo. Il momento era ormai prossimo. E io ero così ingenua da pensare di essere pronta a tutto. Una giornata interminabile All'aeroporto Arden mi corse incontro. Fui subito stretta in un abbraccio così appassionato e baciata con tanto impeto che dovetti indietreggiare, frastornata dalla veemenza delle sue effusioni. Con angoscia, cercai Sylvia che era scomparsa nel momento in cui Arden mi aveva presa tra le braccia. Dopo un'ora di ricerche la trovammo che guardava come ipnotizzata le copertine colorate delle riviste. Ormai era completamente scarmigliata e col vestito scomposto. E io avrei tanto voluto che Arden vedesse quanto era carina, tutta ordinata e pulita. A peggiorare le cose, qualcuno animato da buone intenzioni le aveva regalato un cono al cioccolato. Metà gelato le era finito in faccia, parte nei capelli e nelle narici, e solo una piccola parte aveva fatto centro, gocciolando, nella sua bocca. Lo tolsi alla sua stretta e la aiutai a finire di leccarlo. La cosa più sgradevole era il cattivo odore che saliva dai pannolini di Sylvia: ero un po' riuscita a insegnarle a controllarsi
e a servirsi del gabinetto, ma le sue incontinenze così frequenti mi costringevano a farle indossare i pannolini. Sulla via del ritorno Arden e io trovammo ben poco da dirci quando ogni gesto di Sylvia non faceva che creare nuovi e più imbarazzanti problemi. «Ci vediamo stasera,» mi salutò Arden all'angolo di casa sua. Cercò di non arricciare il naso allorché Sylvia, in uno slancio di affetto, gli si aggrappò addosso in un abbraccio maldestro. Sylvia e io avevamo appena messo piede in casa che udii la voce tonante di mio padre. In cucina era in corso un tremendo litigio. Mi fermai vicino alla porta con un braccio protettivo attorno alle gracili spalle di Sylvia. Zia Ellsbeth era impegnata nella laboriosa preparazione di uno di quei complicati manicaretti che piacevano tanto a papà. Indossava un abito nuovo, molto elegante e femminile che sarebbe potuto benissimo provenire dal guardaroba della mamma dove erano ancora appesi tutti i suoi abiti, ormai vecchi e odorosi di muffa. Zia Ellsbeth brandiva una mannaia con piglio talmente aggressivo che mi meravigliai che papà non temesse per la propria vita mentre lo fulminava con gli occhi. Lei non parve affatto intimorita quando lui tornò a tuonare: «Ellie, cosa diavolo c'è che non va?». «C'è bisogno di chiederlo?» lo investì sbattendo giù il coltello e voltandosi per affrontarlo. «Sei tornato a casa alle cinque e mezzo, stamattina. Hai passato la notte con una donna. Chi è? Voglio saperlo!» «La cosa non ti riguarda assolutamente,» rispose lui freddo. La sua gelida calma mi fece rabbrividire. Possibile che non capisse che lei lo amava e faceva del suo meglio per compiacerlo? «Non mi riguarda, eh?» lo rimbeccò lei. Il suo bel viso ovale si accese ancora di più. «Lo vedremo, Damian Adare!» Con gli occhi scuri e furibondi, la zia afferrò la grossa insalatiera piena di verdure già tagliate e la rovesciò senza tanti complimenti nel dispositivo di scarico. Poi cominciò a vuotare pentole e casseruole fumanti nell'acquaio. «Smettila!» ruggì papà. «Questa roba mi costa dei bei quattrini. Bada a quel che fai, Ellsbeth!» «Va' all'inferno,» gli urlò per tutta risposta. Si strappò il grembiule e glielo tirò in faccia, poi gridò: «Ho bisogno di vivere la mia vita, Damian! E lontano di qui. Ne ho abbastanza di farti da serva, cuoca, giardiniera, lavandaia e soprattutto ne ho abbastanza di essere la tua concubina quando ti fa comodo. E sono anche stufa di badare alla tua figlia deficiente... e quanto alla tua Audrina...».
«Sssì?» papà con gli occhi ridotti a fessure, nella voce quella sfumatura vellutata, mortale che mi faceva venire la pelle d'oca. «Cos'hai da dire sulla mia Audrina?» Rabbrividii e strinsi Sylvia nel mio abbraccio, cercando di coprirle gli occhi e le orecchie per evitarle quanto più era possibile un tale spettacolo. Dovevo assolutamente sentire quel che si sarebbero detti. Evidentemente non si erano accorti della nostra presenza. Vidi il rossore svanire dal volto solitamente pallido di mia zia. Nervosamente lei agitò implorante le mani verso di lui, in un gesto di resa. «Non glielo direi, Damian, davvero non glielo direi. Non le direi mai qualcosa che la rendesse infelice. Solo, lasciami andare. Dammi quel che mi spetta e lasciami andare.» «E cosa ti spetterebbe, Ellie?» chiese papà col medesimo tono mellifluo, andando a sedersi coi gomiti poggiati sul tavolo e le mani sotto il mento. «Sai bene cosa mi spetta,» disse con voce decisa. «Dopo aver perduto l'eredità di Lucietta ti sei attaccato a quel poco che mi era rimasto. Hai promesso che me lo avresti restituito raddoppiato in tre mesi. Che stupida a crederti! Ma non è sempre stata questa la mia debolezza, crederti? Avanti, Damian, rendimi i miei diecimila dollari raddoppiati!» «E dove andresti, una volta via di qui, Ellie? Cosa faresti?» Raccolse il coltellino pelapatate e prese a pulirsi le unghie, che del resto erano sempre pulitissime. «Andrò da mia figlia - che poi è anche tua, per quanto tu non voglia ammetterlo - che ora è rimasta sola in quella immensa città, abbandonata dall'uomo con cui è fuggita.» Papà la zittì con un gesto della mano, simile a un re costretto a stornare lo sguardo da un suddito immondo. «Non intendo sentire altro. Sei matta se vai da lei. Vera non ti vuol bene, Ellie, vuole solo mettere le mani su quello che porterai con te. Ho sentito dire in paese che Lamar Rensdale si è tolto la vita: e non dubito che tua figlia abbia avuto la sua parte in questo suicidio.» «Damian, ti prego,» esclamò lei, senza più fuoco, ormai. «Dammi soltanto quel che è mio, non chiedo altro. Me ne andrò e non ti darò più noie. Giuro che non sentirai più parlare di me o di Vera... basta che tu mi dia il necessario per non morire di fame». «Non ti darò un centesimo bucato,» sentenziò papà gelido. «Finché starai in casa mia avrai da mangiare e da vestirti, un tetto sopra la testa e anche il denaro che ti serve per i tuoi piccoli capricci: ma il mondo dovrà ca-
povolgersi prima che ti dia i soldi per andare a vivere con quella creatura infernale che hai partorito. E ricorda questo, Ellie: una volta partita, non potrai più tornare indietro. Mai più. Fuori di qui la vita è dura, Ellie, e tu non sei più una ragazzina. Anche se questo non sarà il paradiso, non è nemmeno l'inferno. Pensaci bene, prima di lasciarmi.» «Non è l'inferno?» gridò lei con voce stridula. «Ma questo è l'inferno con la I maiuscola, l'inferno allo stato puro! Cosa sono io qui, se non una serva senza stipendio? Dopo la morte di Lucietta hai cominciato a farmi gli occhi dolci, e io ho pensato che forse mi avresti amata di nuovo. Sei venuto a cercarmi, volevi sollievo e io te l'ho dato. Avrei dovuto respingerti, ma ti desideravo, ti ho sempre desiderato. Quando tu e mia sorella stavate qui insieme, rimanevo sveglia la notte immaginandovi a letto... e quanto la invidiavo, quanto la odiavo. Ho cominciato a odiarti anche più di lei. Avesse voluto Iddio che non fossi mai tornata qui con Vera! C'era un giovane medico, là all'ospedale dove ho partorito Vera, che mi voleva sposare: ma io portavo la tua immagine scolpita nel cuore. Era te che volevo, anche se sapevo bene quel che eri e quel che sei. Dammi il denaro,» concluse dirigendosi verso il suo studio, mentre io arretravo, tirandomi dietro Sylvia. Lei non ci vide, rannicchiate in un angolo scuro dell'ampio ingresso ingombro di mobili. In pochi secondi, mentre papà era ancora seduto al tavolo, la zia fu di ritorno con il libretto degli assegni dell'azienda di mio padre. «Scrivi,» gli ordinò. «Scrivi venticinquemila. Dopo tutto questa è anche casa mia, e mi spetta qualcosa se rinuncio al mio sacrosanto diritto di vivere sotto questo tetto. Non è stato carino da parte di mia sorella includermi nel testamento? Sembra quasi che ritenesse suo marito come parte dell'eredità... ma tu non mi servi neppure la metà di quanto mi serve quel denaro.» Lui lanciò al libretto una strana occhiata, poi lo prese e compilò con cura un lungo assegno azzurro che le porse con un sorrisetto sarcastico. Lei guardò la cifra, poi guardò di nuovo. «Damian, non ho chiesto cinquantamila dollari.» «Non lasciarmi, Ellie. Dimmi che ti dispiace di aver detto quelle cose tremende. Strappa l'assegno o tienilo, ma non andartene.» Alzatosi, cercò di prenderla tra le braccia. Lei continuava a fissare l'assegno. Mi accorsi che una vampata di eccitazione le aveva colorito il viso. Allora papà l'afferrò per le spalle e la costrinse a voltarsi, facendo aderire le sue labbra turgide, a quelle sottili di lei. Mentre la zia cercava di divincolarsi, l'assegno le scivolò dalle dita e planò lieve sul pavimento. Con
mia grande sorpresa, dopo tutte quelle cose che gli aveva urlato in faccia, lei circondò appassionatamente con le braccia il collo di mio padre e rispose ai suoi baci con ardore pari a quello di lui. Vinta, ormai incapace di resistere, si lasciò prendere in braccio e portare verso la scala posteriore. Stordita e sconvolta, lo stomaco stretto in una morsa, tirai in cucina Sylvia, tutta tremante. Raccolsi l'assegno e guardai i cinquantamila dollari tondi intestati a Ellsbeth Whitefern. Appuntai l'assegno alla bacheca di sughero dove certamente l'indomani mattina la zia lo avrebbe visto e avrebbe potuto usarlo per andarsene... se proprio voleva. Quella notte, le cose che avevo viste e sentite mi girarono per la testa in un vorticoso carosello di scheletrici cavalli da circo; su e giù, avanti e indietro. Lamar Rensdale si era ucciso... perché? E come facevano a saperlo giù in paese? La notizia della sua morte era apparsa sui giornali locali? E in tal caso perché io non l'avevo vista? Probabilmente Vera aveva telefonato alla zia per dirglielo, e ora era così angosciata da aver bisogno di qualcuno. E l'unica persona che avesse era sua madre. Davvero aveva amato il mio bel maestro di musica? Ma se era così, perché si era ucciso? Sospirai e udii la risposta del vento... e quella, probabilmente, era la sola risposta che avrei mai avuto. Avevo respinto nei recessi più profondi della mente la domanda più importante di tutte. Cos'era che mia zia aveva promesso di non dirmi? Qual era il segreto che mi avrebbe resa infelice, se ne fossi venuta a conoscenza? Sogni angosciosi mi destarono presto il mattino seguente. Alla sommità della scala principale, col mio primo sole che filtrava attraverso i vetri colorati, mi arrestai di colpo, raggelata. Sul pavimento dell'atrio, sul quale i raggi del sole disegnavano attraverso le vetrate sontuosamente colorate fantastici arabeschi multicolori, mia zia giaceva riversa a faccia in giù, perfettamente immobile. Cominciai a scendere piano, pianissimo, come chi cammina nel sonno e teme di trovarsi di fronte, a ogni passo, orrori insostenibili. Non è morta, dicevo a me stessa, non è morta, non è morta, solo ferita. Dovevo chiamare un'ambulanza prima che fosse tardi. La zia usava di rado lo scalone principale perché le scale posteriori la portavano direttamente in cucina, dove passava gran parte della sua giornata. Mi parve di cogliere un lieve rumore provenire dalla cucina, come di una porta chiusa con cautela. Mi avvicinai incerta alla figura inerte. «Zia
Ellie,» mormorai, attanagliata dalla paura. Mi chinai per girare sulla schiena il corpo di mia zia. «Non essere morta, zia,» implorai più volte. Era difficile spostarla, come se fosse di piombo. La sua testa continuava a ciondolare in modo innaturale, mentre io, tirando e spingendo, riuscii infine a metterla supina. I suoi occhi scuri e orgogliosi fissavano vitrei gli elaborati intarsi del soffitto. La pelle aveva preso un colore malato, verdastro e terreo. Morta. Era morta. In un abito da viaggio che non le avevo mai visto, era morta e già viaggiava per mettere a confronto il suo paradiso con l'inferno di quaggiù. Avevo nella gola un grido che non voleva uscire, impedito da singulti strozzati. Non volevo che morisse. Volevo che prendesse l'assegno e avesse la possibilità di godersi la vita, e allo stesso tempo volevo che restasse con noi. Piangendo a dirotto, ora, raddrizzai il fiocco della camicetta. Le abbassai la gonna per coprire le mutandine, e ricomposi le gambe spezzate finché non fu più evidente che lo erano. La pesante crocchia di capelli stretta dietro la nuca le faceva ciondolare la testa in una assurda posizione. Piangendo più forte, le sciolsi i capelli, spargendoglieli sulle spalle. Finalmente allora la testa rimase in posizione naturale. Quand'ebbi terminato udii le grida. Qualcuno gridava e gridava. Ero io. Dalla cucina arrivarono di corsa passi pesanti, una voce mi chiamò per nome. Mi voltai e vidi Sylvia scendere goffamente le scale, balbettava parole incoerenti e cercava di tenersi alla ringhiera e di stringere al tempo stesso i prismi di cristallo nella mano. Veniva verso di me più in fretta che poteva, il bel visetto illuminato da un sorriso. E i suoi occhi mi fissavano attenti! Ebbi quasi l'impressione che stesse per parlare quando all'improvviso, dietro di me, una voce... «Chi ha gridato?» chiese papà entrando di corsa nell'atrio. Si arrestò di colpo e guardò la zia. «Ellie... ma è... Ellie...» mormorò, pallido e stravolto. Sembrò che il suo viso si fosse improvvisamente oscurato. Corse a inginocchiarsi là dove ero inginocchiata io un attimo prima. «Oh, Ellie, c'era bisogno che facessi questo?» chiese con un singhiozzo, sollevandola per cullarla tra le braccia mentre la testa della zia penzolava sul collo floscio e innaturalmente lungo. «Ti avevo dato un assegno, Ellie, più di quanto avessi chiesto... Potevi andare via... Non dovevi cadere dalle scale solo per punirmi.» Come ricordandosi della mia presenza, si fermò e chiese: «Come è successo?». Aveva gli occhi ridotti a due fessure, mentre attiravo Sylvia tra le
mie braccia. Volevo proteggerla dallo sguardo duro che papà stava fissando sui prismi che teneva stretti in mano. Con la testa di Sylvia stretta al petto, lo affrontai. «Stavo scendendo quando l'ho vista... era a faccia in giù sul pavimento, come se fosse caduta.» Tornò a fissare il volto senza vita della zia. «Usava di rado questa scala. L'hai girata tu?» Com'erano vuoti i suoi occhi, com'era piatta la sua voce. Stava soffrendo come soffrivo io? «Sì, l'ho girata io.» «Ci hai sentiti la notte scorsa, vero?» chiese con tono di accusa. Prima che potessi rispondere, raccolse la borsetta, che non avevo notato, e vi rovistò dentro. «Niente assegno,» disse, come sorpreso. «La notte scorsa abbiamo litigato, Audrina, ma poi ci siamo rappacificati. Le avevo chiesto di sposarmi. Sembrava molto felice quando è tornata in camera sua...» Adagiò la zia sul pavimento e si alzò. «Non mi avrebbe lasciato... so che non mi avrebbe lasciato, specie dopo averle chiesto di sposarmi. Lei lo voleva, so che lo voleva...» Quindi si lanciò su per le scale, facendo tre gradini per volta. Presi la mano di Sylvia e la costrinsi a correre con me fino alla scala posteriore, con la speranza di arrivare in camera della zia in tempo per vedere cosa avrebbe fatto dell'assegno se l'avesse trovato. Anche se il percorso era più lungo, lui era già lì prima che io arrivassi trascinandomi dietro Sylvia. Le valigie della zia erano sul letto, aperte. Si mise a frugare febbrilmente tra le sue cose, aprendo e chiudendo le sue borsette una per una. «Non lo trovo! Audrina, devo trovare quell'assegno. Tu non lo hai visto?» Gli dissi che l'avevo appuntato alla bacheca giù in cucina, di modo che lo vedesse come prima cosa l'indomani mattina. Emise un gemito e si passò la mano sulle labbra. «Audrina, corri a vedere se è ancora lì.» Con Sylvia accanto, che mi inciampava dietro nella mia corsa, andai in cucina e trovai la bacheca vuota. Lo riferii a papà. Sospirò profondamente, gettando ancora uno sguardo alla forma immobile della zia nel suo severo abito scuro, quindi compose il numero della polizia. «Ora,» mi suggerì prima che andassi di sopra a vestirmi, «dirai loro esattamente come l'hai trovata... ma non dire che stava per andarsene. Adesso rimetto a posto tutti i suoi vestiti. Del resto, non riesco a credere che stesse partendo. Aveva delle cose così inutili nelle valigie, abiti che neanche le stavano più... Audrina, penso che sarebbe bene se togliessi a tua zia il tailleur da viaggio e le mettessi uno dei suoi soliti vestiti.»
Non volevo farlo, anche se capivo cosa aveva in mente. Col suo aiuto riuscii a togliere la giacca, la blusa e la gonna. In breve, le infilammo un vestito di cotone a quadri. Mentre papà la rimetteva in posizione, io le rassettavo i capelli: le dita mi tremavano, così il suo chignon riuscì scomposto come non era mai stato. Non avevo ancora finito di vestirmi che la polizia suonò il campanello. Rannicchiata con Sylvia accanto sull'ottomana di velluto viola, osservai e ascoltai papà che spiegava ai due agenti come la zia era caduta dalle scale. Sembrava calmo, appena un po' turbato; la desolazione e la tristezza gli davano un'aria di sincero abbattimento. Apparentemente i poliziotti lo trovarono affascinante, gradevole, mentre io, spietata, pensavo a che grande attore sapesse essere. Non l'avrebbe mai sposata. Che bugiardo a venirmi a dire una cosa del genere, come se davvero mi credesse così ingenua da bermi qualunque cosa. «Miss Adare,» disse il poliziotto più anziano, che aveva una faccia da buon padre di famiglia. «È stata lei a trovarla? Era sulla schiena?» «No, signore, era a faccia in giù. Non potevo credere che fosse morta, cosi ho dovuto voltarla per accertarmene.» Chinai la testa e ripresi a piangere. La sua voce suonò comprensiva quando chiese: «Sua zia andava per caso soggetta a vertigini?». Le domande continuarono, finché papà si lasciò cadere su una sedia e nascose il viso tra le mani. In qualche modo, dimenticai di far presente che avevo sentito la porta di servizio chiudersi silenziosamente; ma forse l'avevo soltanto immaginato. «Lei dove si trovava quando sua cognata è caduta?» chiese il poliziotto anziano indirizzando uno sguardo deciso a papà. «Dormivo,» rispose lui, alzando la testa e sostenendo con fermezza gli occhi dell'agente. La cosa continuò anche quando il corpo della zia fu posto su di una barella, coperto e portato via dalla polizia mortuaria. Ero sconvolta e oppressa, e mi ero dimenticata di Sylvia che ancora non aveva mangiato. Quando la polizia se ne fu andata mi misi a preparare la colazione. Anche papà si sedette con noi masticando con aria assente, ammutolito. Più tardi, sola in camera mia, mentre Sylvia riposava nella sua, continuai a pensare alla zia e alla lite della sera prima. Avrebbe voluto raggiungere Vera e ora era morta. Più ci pensavo, più cresceva in me l'angoscia per la mia situazione. Quante volte la zia mi aveva detto di fuggire, appena ne avessi l'occasione? Centinaia di volte. E ora che papà era fuori, occupato a
dar disposizioni per il funerale, era arrivata la mia occasione. Ma dove andare quando il Destino non si sazia di spezzarci il cuore più e più volte? Una vocetta dentro di me continuava a mormorarmi che papà era convinto che le bambine venissero al mondo tutti i giorni solo per soddisfare le sue necessità, una volta cresciute. E quando lui fosse divenuto vecchio e brutto, era convinto che il denaro gli avrebbe permesso di comprarle... e se neppure col denaro fosse riuscito, avrebbe sempre avuto me, per prendermi cura di lui e salvarlo da quegli istituti che sembrava aborrire. E dietro questo pensiero c'era un'altra minaccia bisbigliata... quell'accusa spaventosa che mia zia gli aveva gettato in faccia quando gli aveva detto che non si sarebbe fermato davanti a niente e nessuno pur di avere le cose a modo suo. Ero in preda a un'agitazione febbrile mentre ficcavo i vestiti nella valigia. Altrettanto frettolosamente corsi in camera di Sylvia e preparai il suo bagaglio. Fuggivamo prima che anche a noi succedesse qualcosa di tremendo, adesso che papà non c'era, e non poteva fermarci. Tirandomi dietro Sylvia, attraversai il salone, mi fermai sulla porta per salutare il pianoforte a coda della mamma. Mi parve di vederla ancora seduta lì, a suonare le sue melodie preferite di Rachmaninof, a una delle quali, trasformata in una ballata popolare, erano stati aggiunti i versi Luna piena... braccia vuote... Braccia d'acciaio, come quelle di mio padre. Assassine braccia d'amore. Mentre me ne stavo lì impalata, mi resi conto di aver dimenticato tutto ciò che di odioso e cattivo la zia avesse detto o fatto, sia a me che a Sylvia. Respinsi negli angoli più remoti del cervello tutto quel che aveva detto a proposito della mia sensibilità eccessiva e della mia incapacità di affrontare la realtà e ricordai solo le cose buone, i gesti premurosi. Le avevo perdonato tutto. Tirando Sylvia per la mano, sollevai le due pesanti valigie, e prendemmo la strada attraverso i boschi per raggiungere il villino dall'altra parte. Billie parve subito in ansia allorché le esposi il mio piano. Arden, invece, ne fu entusiasta. «Ma certo, questa sì che è una splendida idea. Ma non potremmo lasciare Sylvia a tua zia? Non sarà una gran luna di miele se dovremo tirarcela dietro.» A testa bassa, e con voce fioca dissi loro quel che era accaduto, e che il momento di fuggire era quello, o mai più. Avevo raccontato le cose in modo da far sembrare irreprensibile il comportamento di papà. Perché lo avevo risparmiato? Billie mi prese tra le braccia robuste. «Bisogna sempre pensare che ci sia
un disegno nelle cose che sfuggono al nostro controllo. Mi hai detto che per tutto l'inverno tua zia si è comportata come se fosse infelice, o malata. Forse è stata presa dalle vertigini. Ora, non c'è motivo perché tu non possa lasciare Sylvia qui da me, se davvero senti di dover fuggire in questo modo. Ma dimmi soltanto che ami abbastanza mio figlio: non sposare Arden oggi per pentirtene domani.» «Amerò Arden per sempre,» affermai con slancio; assolutamente convinta che fosse la verità. «E io posso dire altrettanto,» disse lui dolcemente. «Dedicherò tutta la vita a renderti felice.» Spostai nervosamente lo sguardo su Sylvia, che cominciò a piagnucolare non appena Billie tentò di toccarla, poi guardai Billie, e infine Arden. Non potevo lasciare mia sorella con Billie, che sembrava suscitarle avversione e paura. Tanto tempo prima avevo promesso a papà che mi sarei presa cura di Sylvia; mi era stata affidata, e non potevo abbandonarla. Mi si fermò il cuore aspettando la risposta di Arden, appena gli ebbi detto che Sylvia sarebbe venuta con noi. Arden si fece pallido poi, con calma, acconsentì. Forse Billie aveva ragione ad avere un'aria così preoccupata, mentre ci salutava con la mano. Io prendo te, Arden In una piccola città del North Carolina, dove la legge permetteva di sposarsi il giorno stesso dell'emissione della dispensa di matrimonio, Arden e io fummo uniti in matrimonio da un pastore grasso e sulla via della calvizie. Mentre sua moglie, una donna scialba e ossuta, suonava un'atroce musica nuziale su un vecchio organo sfiatato. Alla fine della breve cerimonia cantò (senza essere richiesta) Ti amo sinceramente. Sylvia, che non riusciva a star ferma, appollaiata su una specie di panca, faceva dondolare le gambe, giocando con i prismi di cristallo e farfugliando incessantemente tra sé, come se avesse scoperto all'improvviso la sua voce e ora volesse usarla, anche se non sapeva articolare parole dotate di senso - oppure cercava di cantare? Fu difficile concentrarmi sulla cerimonia. «Fra qualche anno lo rifaremo per bene,» promise Arden, mentre ci dirigevamo verso un bell'albergo che dava su una famosa spiaggia. «Sei bellissima con quest'abito viola. S'intona ai tuoi occhi. Hai occhi stupendi,
Audrina, così profondi. Mi chiedo se mi basteranno un milione di anni per scoprire tutti i tuoi segreti.» Con un senso di disagio replicai secca: «Non ho segreti, io». Al calare del buio ci sistemammo in albergo. Ben presto, nella sala da pranzo, Sylvia attirò su di noi gli sguardi di tutti gli ospiti ingozzandosi di cibo senza servirsi della forchetta. «Ho faticato anche per questo,» dissi ad Arden in tono di scusa. «E prima o poi imparerà.» Lui mi sorrise, e mi assicurò che insieme avremmo fatto di Sylvia una perfetta signorina. Fui contenta che la cena durasse tanto. Il momento che temevo di più era anche troppo vicino. Nonostante i miei sforzi, l'oscuro ed elusivo ricordo di quel giorno piovoso nei boschi continuava a balzarmi davanti agli occhi. Era stato il sesso che aveva ucciso la Prima Audrina, e quella era la mia prima notte di nozze. Arden non mi avrebbe fatto del male, dicevo a me stessa, per rassicurarmi. Con lui non sarebbe stato angoscioso. Il dolore, il terrore, l'oscenità appartenevano solo alla Prima Audrina, a quel folle sogno della sedia a dondolo; no, non apparteneva alla mia vita, con tanto di certificato di matrimonio nella borsetta. Arden fu meravigliosamente premuroso e paziente con Sylvia, pur cercando al tempo stesso di essere romantico con me... impresa quasi impossibile, però. Di fronte ai suoi sforzi sovrumani, provai pena per lui. Aveva preso due stanze con bagno comunicanti, in modo che anche Sylvia avesse il suo bagno. E fu nel suo bagno che, lentamente, coscienziosamente, feci quel che dovevo fare. Quando l'ebbi sistemata nell'ampio letto, le ordinai severamente di non alzarsi... altrimenti! Infine le misi un bicchiere d'acqua pieno a metà sul comodino. «Bevi meno che puoi, così non avrai incidenti durante la notte.» La baciai e mi allontanai a malincuore da lei che già stava scivolando nel sonno, sempre stringendo i suoi prismi di cristallo. Nella camera che io e Arden avremmo diviso lui camminò nervosamente avanti e indietro misurando a grandi passi il pavimento mentre io facevo un bagno di un'ora e mi lavavo i capelli. Quindi li misi in piega coi bigodini, li asciugai e mi passai la crema sul viso. Mentre i capelli finivano di asciugarsi, mi tolsi lo smalto e lo ripassai, alle mani e ai piedi. Ora che i capelli erano perfettamente asciutti, dovevo aspettare che anche lo smalto si seccasse. Quando mi sembrò pronto, mi tolsi accuratamente i bigodini e mi spazzolai le ciocche arrotolate in lunghe onde fluenti. Mi spruzzai addosso l'acqua di colonia e mi passai il talco. Compiute queste operazioni, mi infi-
lai in una lunga camicia da notte. Stupida, stupida, mi dicevo, ad avere paura di andare da tuo marito. Esaminai l'impalpabile camicia da notte che mi era stata regalata da Billie per il mio compleanno, rimpiangendo che fosse tanto trasparente, e dicendomi che in fondo lei me l'aveva regalata proprio per quella ragione. C'era anche una vestaglia, pure viola, assortita alla camicia con merletti color crema che avevano lo scopo di non nascondere nulla. Quando ormai ebbi messo a punto ogni minimo particolare, sedetti sull'orlo della vasca e fissai la porta chiusa, terrorizzata all'idea di aprirla e di andare di là. Intanto ripensavo alla mamma, la vedevo tanto simile a me, solo più vecchia. Pensai a papà e alla cintura che usava come frusta. Mi passò ancora davanti agli occhi tutto quel che era accaduto alla Prima Audrina in quello spaventoso giorno di pioggia, allorché era stata trovata morta sotto la samonea dorata. Una bambina stuprata, no, non era giusto! Fui assalita dal tremito e goccioline di sudore mi inumidirono le ascelle, nonostante avessi passato il deodorante. Vidi Vera che si rotolava sul pavimento avvinghiata a Lamar Rensdale, e il modo selvaggio in cui lui l'aveva presa, come una bestia in calore. Non poteva accadere anche a me. Non l'avrei sopportato. Mi alzai e cominciai a togliermi la vestaglia. Non potevo permettere che Arden mi vedesse vestita di niente. «Audrina,» chiamò Arden dalla camera con una voce vagamente irritata. «Perché ci metti tanto? Sono ore che sei lì dentro!» «Ancora cinque minuti,» risposi nervosamente. Glielo avevo già promesso due volte. Presi a giocherellare coi capelli, con la vestaglia, infine la tolsi, meditando di rimettermi le mutandine, se non di rivestirmi da capo a piedi. Presi a mordicchiarmi le unghie, abitudine abbandonata da un pezzo. Mi ripetevo che Arden mi conosceva da quando avevo sette anni, e mi aveva visto in abiti da gioco, in costume da bagno, in tutti i modi possibili... ma non in una camicia da notte provocante, prima di un rapporto intimo! Eppure adesso era mio marito. Perché sentirmi tanto sconvolta? Non sarei finita sotto la samonea dorata, né lui mi avrebbe picchiata con la cinghia... no? «Ancora un minuto,» mi intimò Arden, «il tempo massimo sta per scadere... Audrina... niente più scuse adesso.» Il suo tono fu così perentorio che ne ebbi paura. Non l'avevo mai sentito così duro. Oh, era proprio come avevano detto zia Mercy Marie, zia Ellsbeth e la mamma: non conoscerai mai un uomo
finché non l'avrai sposato. «Sono alla fine del conto alla rovescia,» mi informò Arden implacabile. «Ti restano trenta secondi. Se non sarai fuori come hai promesso, entrerò io. Anche se dovessi buttar giù a calci questa porta!» Mi appiattii contro il muro, col cuore impazzito di paura. Mi avvicinai di un passo alla porta e dissi una rapida preghiera per l'anima della zia, chiedendole perdono per essere mancata al suo funerale. «Tempo scaduto,» gridò. «Fatti in là... sto arrivando!» Certamente si sarebbe fatto male se avesse preso la rincorsa per abbattere la porta a spallate. Tentò dapprima con un paio di calci, ma quella non cedette. Lo sentii imprecare e pensai che davvero questa volta si sarebbe lanciato contro la porta; così feci scattare la serratura e la spalancai. Sfortunatamente lui si lanciò con tutto il suo peso proprio nell'istante in cui spalancavo il battente, cosicché andò a schiantarsi contro la parete piastrellata del bagno. Dopo il colpo scivolò a terra e lì giacque, intontito e dolorante. In un balzo gli fui accanto, premurosa. «Oh Arden, mi dispiace, mi dispiace tanto, ma non credevo che avresti davvero cercato di buttar giù la porta!» Con mia grande sorpresa, scoppiò a ridere e mi abbracciò. Cercò di consolarmi coprendomi di baci e fra l'uno e l'altro mi parlava. «Ho sentito dire che le sposine possono avere una fifa tremenda, ma credevo che tu mi amassi, Audrina.» Ancora baci sul viso, sul collo, sui rilievi dei seni. «In fondo mica ci siamo conosciuti ieri.» Mi liberai dalla sua stretta, mi alzai in piedi. Anche lui si alzò non senza fatica, dopo di che prese a tastarsi da tutte le parti per controllare i danni. «Per questa volta niente di rotto,» annunciò con un sorriso bonario. Mi prese dolcemente tra le braccia, guardandomi intensamente negli occhi. «Non devi avere quest'aria spaurita. Tutto questo è piuttosto buffo, in un certo senso, una specie di farsa, ma non voglio che la nostra prima notte sia una farsa. Ti amo, Audrina. Faremo tutto piano piano, con dolcezza. Vedrai, sarai la prima a stupirti di come ogni cosa riuscirà naturale.» Mi baciò leggermente con le labbra appena separate. «I tuoi capelli erano già stupendi prima, non era necessario che li lavassi di nuovo. Eppure non ti ho mai vista così bella... anche con quell'aria terrorizzata, riesci a togliermi il respiro.» Riprese a baciarmi, come se non volesse fermarsi più. «Sarò pronto in un lampo,» disse, staccandosi da me a malincuore ed entrando nel bagno.
Non c'era bisogno che lo dicesse. Sapevo benissimo che sarebbe stato pronto «in un lampo». Dovevo sopportare quella notte, e tutte le notti a venire, se volevo sfuggire a papà e trovare quel rapporto fisico che ogni donna doveva avere... e godere con l'uomo che amava. Dopo essermi sfilata la vestaglia che Arden non aveva neppure notato, scivolai tra le lenzuola di quel letto enorme. Avevo appena finito di sistemarmi che già Arden apriva la porta del bagno, avendo già fatto la doccia e quelle poche operazioni che gli uomini compiono prima di coricarsi. Si accostò rapidamente al letto, i contorni del suo corpo disegnati per un attimo controluce davanti alla porta del bagno. Con orrore vidi che non indossava altro che un asciugamano annodato attorno ai fianchi. Anche la luce più fioca di quell'albergo sembrò concentrarsi sulla sua pelle umida e lucente, costringendomi a notare la sua virilità anche se non volevo pensarci. Volevo soltanto che quella notte fosse finita e accantonata il più presto possibile. Quasi mi sfuggì un gemito per la noncuranza con cui si liberò dell'asciugamano e lo gettò da una parte: non colse la poltrona alla quale aveva mirato cosicché cadde a terra. Ecco, aveva già inaugurato l'abitudine alla sciatteria che tutti gli uomini ordinati prendono non appena hanno una moglie. «Hai dimenticato di spegnere la luce nel bagno.» «Perché tu hai spento tutte le luci della stanza,» rispose lui con la massima naturalezza. «E a me piace che ci sia un po' di luce. Se vuoi, posso aprire le tende e far entrare il chiaro di luna.» Aveva l'alito profumato di dentifricio. Indugiò accanto al letto, come volesse che lo guardassi alla tenue luce rosea dell'abat-jour che aveva acceso. «Non stare così voltata, tesoro... guardami... Sono anni e anni che aspetto questo momento. Ho fatto ogni sorta di esercizi per avere un corpo muscoloso e attraente, e non una volta tu hai detto una sola parola per farmi capire che te ne sei accorta. Hai mai notato qualcosa di me, a parte il viso?» Deglutii. «Sì, certo che ho notato.» Sorrise e appoggiò un ginocchio sul letto. Allarmata per ciò che mi si parò fugacemente davanti agli occhi, strinsi i denti e mi raggomitolai in me stessa in un groviglio di panico e sofferenza, intanto scivolavo verso l'orlo più lontano del letto. «Ma tu tremi, Audrina; eppure non fa freddo qui. Non aver paura. Noi ci amiamo. Ti ho baciata, abbracciata, e le poche volte che ho voluto andare un po' oltre sono stato subito scoraggiato. Fare
l'amore è molto di più di tutte queste cose messe insieme.» Una nota allarmata si insinuò nella sua voce, già bassa. «Tu sai di cosa si tratta, voglio dire... spero che...» Certo che sapevo. Forse anche troppo bene. Fissai le finestre, sentendomi male dall'angoscia. Il rombo di un tuono soffocato in lontananza penetrò nella camera. Insieme al temporale stava rovesciandosi su di me una nuova ondata di terrore, che portava con sé visioni di boschi tenebrosi oppressi da cieli plumbei. Come fossi stata nella stanza della Prima Audrina, avvertii la tremenda minaccia di ciò che mi aspettava. La pioggia no, mio Dio, ti supplico, fa che non piova proprio stanotte. Centimetro dopo centimetro si faceva più vicino. Lo sentivo in ogni poro: respiravo il suo particolare odore virile, sentivo la sua nudità, sentivo la mia stessa vulnerabilità sotto quella camicia da notte fatta di nulla. Ebbi la sensazione che la mia pelle si risvegliasse, liberando un milione di antenne, come se ogni singolo pelo fosse percorso da un fremito, gridandomi di far qualcosa, e di farlo immediatamente. Indietro, indietro... tornavo indietro alla sedia a dondolo e al terrore che mi causava, prima che imparassi a sfuggire all'orrore del bosco. Mi parve di dondolare, di udire una voce infantile cantare, vidi i ragni tessere tele, vidi occhi di animali ammiccare, udii l'impiantito scricchiolare. Il vento si era fatto impetuoso e presto sarebbero esplosi tuoni e lampi. Arden mi mormorò qualcosa di dolce. Perché non lo udivo distintamente? Vagamente lo sentivo ripetere: «Ti amo,» e la sua voce mi giunse come in un sogno. Il cuore mi batteva con tanta violenza che a malapena riuscivo a sentire le sue parole al disopra del frastuono del tumulto che mi squassava dentro. Ormai vicinissimo, Arden si coricò sul fianco e con mano esitante mi sfiorò il braccio, salendo coi polpastrelli fino al seno sinistro. No, no, provai l'impulso di urlargli. Giacqui immobile, ammutolita dal terrore, gli occhi spalancati al punto da dolermi. La lingua mi si seccò. Arden si schiarì la gola e mi si accostò finché la sua pelle fu a contatto della mia: pelle calda, villosa. Le sue labbra, ancor più calde e umide, sfiorarono le mie. Sprofondai nel cuscino, cercando di reprimere un grido. «Che ti prende,» domandò. «Hai già smesso di amarmi, Audrina?» Da una crepa della mia memoria emerse una flebile scusa: udii la mamma dire a papà che era tanto stanca. «È che sono tanto stanca, Arden. È stata una giornata interminabile. Mia zia è morta stamattina; perché non mi tieni stretta fra le braccia per questa notte e mi dici mille volte che mi ami?
Allora, forse, non avrò più tanta vergogna.» «Non c'è niente di cui vergognarsi,» mi rassicurò lui con voce pacata, per quanto già percepissi la sua tensione. «Ti senti semplicemente come tante donne appena sposate. Almeno così mi è stato detto, dato che per me sei la prima, e spero anche l'ultima moglie che ho, quindi non posso parlare per esperienza.» Volevo chiedergli se ero la prima ragazza con cui fosse stato a letto, ma temevo che rispondesse di no. Avrei desiderato che fosse stato assolutamente inesperto, come me. Poi, contraddicendomi, avrei voluto che sapesse esattamente quali gesti compiere per indurmi ad amare ciò che, ne ero certa, avrei aborrito. Se avessi avuto la garanzia che aveva aspettato me per fare l'amore per la prima volta, allora mi sarei convinta che mi amava davvero. Le sue dita scivolarono lievi sul mio braccio, su e giù, disegnando ghirigori mentre si chinava su di me, costringendomi a chiudere gli occhi. Mia madre non aveva forse detto più volte che gli uomini sono sempre più pronti e disponibili delle donne per le faccende del sesso? Era una battuta che si scambiava sovente con mia zia, ai tempi dei tè con zia Mercy Marie che ci sorrideva melensa dal suo posto d'onore sul pianoforte. Le mani di Arden si erano fatte più audaci, ora, e si spinsero a palparmi i seni, prima che le sue dita si incurvassero più decise: i suoi polpastrelli cominciarono a tracciare circoli attorno ai miei capezzoli, appena coperti di quel tessuto sottile. Rabbrividii, mi feci piccola, e chiesi con un filo di voce: «Hai mai fatto l'amore prima?». «Ti pare questo il momento di chiederlo?» «Perché, c'è un momento speciale?» Sospirò, con un principio di esasperazione. «Pare che ci sia una differenza fra l'uomo e la donna, così si dice. Può darsi che sia vero può darsi di no, non so. Certe donne possono stare tutta la vita senza sesso, ed essere felici lo stesso, così almeno ho sentito dire, mentre l'uomo ha un eccesso di sperma che deve essere eliminato in un modo o nell'altro: il modo più bello è insieme alla donna che ama. Amare significa dividere qualcosa, Audrina. Dividere il piacere reciproco, non il dolore o la vergogna!» «È stata Billie che ti ha detto di spiegarmi queste cose?» chiesi con voce arrochita. Le sue labbra ingorde mi frugarono brucianti nell'incavo del collo prima che mormorasse: «Sì. Prima che partissimo mi ha preso da parte e mi ha raccomandato di essere dolce con te, di non avere fretta e di darti il tempo
che ti occorreva, stanotte. Ma non c'era bisogno che me lo dicesse, lo sarei stato comunque. Voglio che tutto sia magnifico fra noi. Lasciami provare, Audrina: vedrai che non sarà terribile come pensi tu». «Perché parli così? Cosa ti fa pensare che io creda che sarà terribile?» Scoppiò in una risatina soffocata, triste, breve. «Non ci vuole molto a capirlo, sei come un violino con le corde così tese che ho la sensazione che basti sfiorarti per sentirti vibrare. Ma sei stata tu a correre da me oggi. Sei stata tu a gettarti tra le mie braccia e a chiedermi di sposarci, non è così? Sei voluta fuggire oggi stesso... non domani o la settimana prossima. E allora non è naturale che abbia pensato che tu fossi disposta a fare l'amore con me?» Ma io non ci avevo pensato. Mi ero limitata ad agire. Fuggire lontano da papà; solo questo contava per me. «Arden, non hai risposto alla mia domanda.» «Che domanda?» «Sono la prima?» «E va bene, visto che insisti. Ci sono state altre donne, ma non ne ho amata nessuna come te. E da quando ho deciso che ti avrei sposata, non ho più toccato nessun'altra ragazza.» «Chi è stata la prima?» «Lascia perdere,» mormorò, il viso premuto contro i miei seni, le mani che esploravano sotto la camicia. Non gli impedii di fare ciò che voleva. Mi aggrappai al mio dolore. No, non mi amava abbastanza. C'erano state altre donne, magari cento. E lui che si era comportato sempre come se fossi la sua prima e unica ragazza. Sapeva ingannare, proprio come papà. «Sei così bella, così morbida, così dolce. Hai la pelle così liscia...» mormorava, col respiro sempre più affannoso, come se quello che mi stava facendo fosse stato tutto ciò di cui aveva bisogno, e niente di quel che io facevo o non facevo avesse la minima importanza per lui. La sua mano era ormai sotto la stoffa impalpabile, il palmo aperto sul seno a carezzarlo e plasmarlo, mentre le sue labbra premevano voraci contro le mie. Ero stata già baciata molte volte da lui, ma mai così. Il panico mi riportava nella sedia a dondolo, mi faceva tornare piccola e traboccante di terrore in quella camera nella quale cose spaventose entravano in me a coprirmi di vergogna. Un lampo squarciò l'aria facendomi sobbalzare, inarcando la schiena all'indietro. Evidentemente Arden scambiò quel gemito per un principio di eccitazione, giacché il suo desiderio parve moltiplicarsi, e le sottili spalline
della camicia da notte si spezzarono per la foga con cui le tirò giù, mettendo a nudo i seni perché le sue labbra e la sua lingua potessero trastullarcisi. Avevo inarcato il collo e sprofondato la testa nel cuscino, mordendomi il labbro inferiore per impedirmi di urlare. Chiusi disperatamente gli occhi nel tentativo di sopportare l'umiliazione di ciò che mi faceva. Singhiozzavo dentro di me, proprio come quando avevano strappato di dosso a Audrina il bel vestitino nuovo, e fatto a brandelli la sua biancheria di seta. Piangevo, stavo piangendo e lui non mi sentiva né vedeva le mie lacrime. Gli occhi mi schizzarono fuori delle orbite allorché il tuono tornò a scoppiare. Il lampo illuminò la stanza quanto bastò perché vedessi il suo bel viso sopra il mio, preso dall'estasi, smarrito nell'esaltazione che stava provando. Quell'amplesso, quelle carezze, quei baci gli procurarono piacere, mentre a me non procuravano che terrore. Mi sentii ingannata, beffata, pronta a ferirlo con le mie grida allorché mi strappò di dosso la camicia e la gettò via come uno straccio. Anche loro l'avevano fatto! Le sue mani erano ovunque, alla febbrile ricerca di qualcosa che sembravano non trovare. Provai repulsione per il luogo in cui aveva messo la mano e fui perversamente felice allorché, imprecando fra i denti, intensificò l'affannarsi delle sue dita. Oh, la sedia a dondolo, ero di nuovo lì, avanti e indietro. Vidi il bosco, udii le parole oscene gridate, udii le risate. Ma era troppo tardi. Lo sentii affondare dentro di me, turgido, caldo, scivoloso. Lottai per liberarmi, inarcandomi, scalciando, graffiando. Artigliai a sangue la pelle della sua schiena, gli solcai con le unghie le natiche nude, ma non si fermò. Continuava a incalzarmi, suscitando la stessa vergogna, lo stesso dolore che avevano suscitato in lei. Il suo viso... non era quello di Arden, adolescente, i capelli appiccicati alla fronte, gli occhi che fissavano strabuzzati, prima che si voltasse e si desse alla fuga? No, no, Arden non era nato allora! Era solo un altro di loro, ecco tutto. Tutti gli uomini sono uguali... uguali, uguali... come... Stordita, mi smarrii... persi il senso della realtà. Aveva ragione zia Ellsbeth quando diceva che ero troppo sensibile. Non avrei mai dovuto incoraggiare Arden e lasciargli credere che sarei stata la moglie ideale. Non potevo essere nessun tipo di moglie. Poi arrivò il suo caldo orgasmo. Urlai e urlai, ma il tuono sopra di noi soffocò le mie urla. Nessuno mi udì, neanche lui. Sentii il sapore del mio sangue sulle labbra, che avevo morso nel tentativo di soffocare le grida.
Solo Arden che mi amava. Era così che doveva essere l'amore fisico... poi un ultimo sussulto spasmodico quasi mi lacerò... piano piano, il terrore e la vergogna si diradarono, dileguandosi mentre una misericordiosa insensibilità si impadroniva di me, e non percepii più nulla, assolutamente nulla. Mi svegliò la luce del mattino. Sylvia era accoccolata in un angolo della nostra camera e giocava con i suoi prismi, la camicia da notte sollevata fino alla vita. Gli occhi vacui che non guardavano nulla, la bocca semiaperta e gocciolante; se ne stava accucciata lì, floscia come uno straccio. Mio marito si rigirò, si svegliò, e subito fu sui miei seni, come se gli appartenessero. Li baciò, poi mi baciò sulle labbra. «Tesoro, non sai quanto ti amo.» Altri baci mi piovvero sul viso, sul collo, su ogni punto del mio corpo nudo e Sylvia ci guardava! anche se ero certa che lui non l'avesse vista. «Sulle prime sembravi così rigida, così spaventata. Poi, all'improvviso, mi hai seguito, e ti sei data a me con passione. Oh, Audrina, speravo tanto che tu fossi così!» Ma cosa diceva? Come potevo credere alle sue parole quando i suoi occhi mi imploravano in quel modo? E tuttavia gli permisi di simulare appagamento, nella consapevolezza che lui almeno ne aveva avuto un po' mentre per me non c'erano stati che dolore, vergogna e umiliazione. E lontano, molto lontano nella mia memoria porosa, fiutai odor di sangue, di terra fradicia, di foglie bagnate... e Audrina tornava incespicando a casa, cercando di tenere insieme i brandelli di un costoso vestitino, per coprire la sua nudità. Parte terza Ritorno a casa Appena l'auto imboccò la lunga curva del viale, scorsi papà in piedi nel portico, quasi avesse presagito che quello era il giorno in cui saremmo tornati a casa. Torreggiava gigantesco e possente, con uno splendido completo nuovo bianco, scarpe bianche, camicia azzurra e cravatta a righe bianche, blu e grigio argento. Ebbi un brivido e guardai Arden che mi restituì uno sguardo preoccupato. Cosa avrebbe fatto, papà? Stringevo con una mano il braccio di Arden e con l'altra quello di Sylvia, mentre tutti e tre salivamo lentamente gli scalini del portico. Per tutto il
tempo gli occhi severi di papà fissarono i miei, accusandomi silenziosamente di averlo tradito, di essergli venuta meno. Quand'ebbe finito con me, rivolse su Arden quegli occhi cupi e penetranti, come per misurarne la forza, quasi fosse un avversario. Poi, papà sorrise calorosamente e porse la gigantesca mano al mio sposo. «Bene!» disse giovialmente, «sono contento di rivedervi tutti qui.» Intanto strattonava su e giù il braccio di Arden, come se non dovesse smettere più. Vedendo che Arden non trasaliva, provai un grande orgoglio. Trasformare una stretta di mano amichevole in una morsa era il sistema di papà per misurare la forza fisica e la virilità di un uomo. Sapeva che la sua stretta poderosa faceva male, e colui che faceva la sia pur minima smorfia veniva cancellato dalla sua lista e bollato come «debole». Poi, volgendosi a me, disse: «Tu mi hai deluso profondamente». Intanto carezzava distrattamente la testolina di Sylvia, quasi fosse un cucciolo inquieto. Tre volte mi baciò sulle guance, da una parte e dall'altra; nel frattempo, mi fece scivolare la mano dietro e mi pizzicò le natiche con tale forza che avrei voluto gridare. L'obiettivo di quel pizzico era verificare le capacità di sopportazione delle donne; immediatamente ogni reazione veniva osservata, catalogata, archiviata. Che mi catalogasse come voleva. «Non pizzicarmi mai più in questo modo,» lo redarguii aspra. «Fa male, e non mi piace. Non mi è mai piaciuto - non piaceva neppure alla mamma o alla zia.» «Mio Dio, come siamo diventate tutto pepe in soli quattro giorni,» osservò, con un largo sorriso ironico. Poi mi diede un colpetto scherzoso sulla guancia che aveva il peso di uno schiaffo. «Non avevi bisogno di scappare, amore mio,» disse con voce carezzevole. «Sarei stato ben felice, tesoro, di accompagnarti all'altare con lo stupendo abito da sposa della tua mamma.» Proprio nel momento in cui cominciavo a pensare che niente di quel che faceva avrebbe potuto sorprendermi, mi colse con la guardia abbassata. «Arden, io e tua madre abbiamo parlato di te, e lei mi ha confidato che hai qualche difficoltà a trovare il genere d'impiego che ti interessa in un buono studio di architetto. Io ti ammiro perché non hai voluto accettare un posto di terz'ordine in un'azienda di secondo ordine. Ma intanto, in attesa di trovare la sistemazione ideale per te, perché non accettare un posto di procuratore junior nella mia agenzia di cambio? Audrina potrebbe aiutarti a studiare per passare l'esame, e naturalmente anch'io farò il possibile per aiutarti, per quanto lei ne sappia quasi quanto me.»
Non era questo che volevo; ma, guardando Arden, mi resi conto che aveva un'espressione di sollievo sul viso. Quell'offerta avrebbe risolto molti problemi. Avremmo avuto un reddito fisso e ci saremmo potuti permettere un appartamentino in città, lontano da Whitefern. Arden sembrava molto riconoscente e mi lanciò un'occhiata come se pensasse che in fondo ero stata esagerata a proposito delle pretese di papà di tenermi tutta per sé. Come era bravo mio padre a prendere in pugno una situazione svantaggiosa e rigirarla a suo vantaggio. I giovani procuratori di bella presenza erano molto richiesti e Arden era indubbiamente piacente e portato per la matematica. «Certo, Arden,» spiegò mio padre, passandogli paterno un braccio amichevole attorno alle spalle, «mia figlia può insegnarti le basi, e anche l'aspetto tecnico.» La sua voce era piena, disinvolta, tranquilla. «È esperta quasi quanto me, o forse più di me, perché la borsa non è una scienza ma un'arte. Audrina ha un dono di natura quanto a sensibilità e intuito... vero, Audrina?» Poi, mentre Arden guardava altrove, tornò fulmineamente a pizzicarmi, anche più forte. Sorrise, e quando Arden guardò di nuovo verso di noi, papà mi stava abbracciando innocentemente. «Ora,» continuò, «ho un'altra splendida sorpresa per voi.» Ci rivolse un sorriso radioso. «Mi sono permesso di togliere tua madre da quell'indecoroso villino. Adesso è sistemata di sopra, nelle nostre stanze migliori.» Il suo sorriso smagliante brillò ancora. «Cioè, le migliori dopo le mie.» Mi spiacque vedere Arden tanto riconoscente, quando invece avrebbe dovuto mostrare un po' più di senso critico. Forse tutti gli uomini erano più o meno uguali e s'intendevano a meraviglia tra loro. Scoppiavo di rabbia per il fatto che papà riuscisse ancora a controllare la mia vita, anche da sposata. Confortevolmente sistemata in quelle che erano state le stanze di mia zia, arredate fastosamente nell'inutile sforzo di compiacerla, trovammo Billie agghindata come una stella del cinema in un lussuoso abito di merletto, perfetto per un ricevimento di gran gala. Con gli occhi che le brillavano ci raccontò entusiasta: «Mi è piombato in casa circa un'ora dopo che voi eravate andati via, e mi ha fatto una scenata in piena regola per avervi incoraggiati a fuggire. Io non ho aperto bocca finché non si è calmato. Penso che solo allora mi abbia guardata per la prima volta. Mi ha detto che ero molto bella. Ero in pantaloncini, oltre tutto, con quei dannati monconi che spuntavano fuori, e lui è sembrato non farci neppure caso. Tesoro, non puoi immaginare cosa abbia significato
questo per il mio amor proprio». Papà era scaltro, molto scaltro. Avrei dovuto aspettarmi che avrebbe trovato il modo di sconfiggermi. Adesso aveva mia suocera dalla sua parte. «Poi ha detto che bisognava cavare il meglio da una situazione che ormai non poteva più essere cambiata, e così quell'uomo meraviglioso mi ha invitato a venire a vivere qui, a dividere le vostre e la sua vita. Non è stato delizioso da parte sua?» Sicuro che lo era! Guardai la stanza che immaginavo come un santuario alla memoria della zia, con un dolore segreto... ma dopo tutto, a che servivano i ricordi quando Billie era così riconoscente? Zia Ellsbeth non aveva mai mostrato di apprezzare gli sforzi fatti per abbellire le sue stanze. Certo, se mai qualcuno meritava stanze come quelle, era proprio Billie. «Audrina, non mi avevi detto che tuo padre è così gentile, comprensivo e affascinante. In un modo o nell'altro lo hai sempre presentato come insensibile, subdolo e prepotente.» Come potevo dirle che le belle apparenze e le artefatte cortesie di papà erano i suoi ferri del mestiere? Li usava con tutte le donne: giovani, anziane e decrepite. Il novanta per cento dei suoi clienti erano ricche signore attempate che si affidavano completamente ai suoi consigli, e il rimanente dieci per cento erano uomini ricchi, troppo vecchi per avere ancora un briciolo di discernimento. «Audrina, tesoro,» continuò Billie tenendomi stretta al suo seno pieno e sodo, «tuo padre è tanto caro. È dolce e si dà da fare affinché tutti abbiano il meglio dalla vita. Un uomo come Damian Adare non potrebbe mai essere crudele. Sono certa che hai travisato, se pensi che lui ti abbia fatto dei torti.» Poi ci aveva seguiti di sopra, e per un pezzo, assorta nel suo gaio chiacchiericcio, non mi resi conto che mio padre, tranquillamente appoggiato allo stipite della porta, si beveva ogni parola. Nel silenzio improvviso che seguì si rivolse ad Arden. «Mia figlia ha perso la testa per te da quando aveva sette anni. Com'è vero Dio, non ho mai creduto agli amori infantili. Parola mia, sono stato innamorato di una dozzina e passa di ragazze quando avevo dieci anni, e di un paio di centinaia prima di sposare la madre di Audrina.» Arden sorrise, un po' imbarazzato, e un istante più tardi ringraziò papà per avergli dato fiducia, per avergli offerto un lavoro quando nessun altro lo aveva fatto, e uno stipendio più che decoroso per uno che non aveva la minima esperienza in campo finanziario.
E così papà aveva vinto un'altra volta. Zia Ellsbeth era morta. Non mi aveva salvato più di quanto non era riuscita a salvare se stessa. Solo papà rimaneva, sempre più libero di ferire coloro che giurava di amare di più. Presto cominciò a chiedere seriamente, a me e a Arden, di dargli un nipotino. «Ho sempre desiderato un figlio,» disse guardandomi dritto negli occhi. Mi fece male, mi fece troppo male sentirglielo dire, quando aveva sempre asserito che io bastavo a farlo contento. Dovette accorgersi del mio dolore, perché sorrise, come se mi avesse messo alla prova, trovandomi ancora fedele. «Dopo una femmina volevo un maschio, questa è la verità. Mi ci vorrebbe proprio un nipotino, visto che ho già due figlie.» Io non volevo ancora un bambino, non ora che era già abbastanza traumatizzante essere la moglie di Arden. Poco alla volta, penosamente, stavo imparando ad assuefarmi a quei notturni atti d'amore che a me sembravano atroci e a lui meravigliosi. Avevo anche imparato a simulare il piacere, cosicché lui non sembrava più così ansioso di compiacermi ed era convinto che io godessi dell'atto sessuale quanto lui. Già da prima che Arden e io tornassimo dalla nostra luna di miele al mare, Billie era succeduta a zia Ellsbeth nella cucina recentemente abbandonata. Billie teneva lì il suo alto sgabello portatovi, insieme alla maggior parte delle cose che le appartenevano, da mio padre in persona che pure detestava i lavori manuali. Io lo osservavo mentre, ammirato, la guardava preparare senza sforzo apparente pranzi, cene e colazioni senza aver niente da ridire, e per giunta nel massimo lindore. Lei sorrideva, rideva, ai suoi continui scherzi. Badava ai suoi vestiti con mani esperte e teneva in ordine l'enorme casa con uno sforzo talmente minimo che papà non la finiva mai di lodare la sua straordinaria efficienza. «Ma come fai, Billie? E perché farlo, poi? Come mai non mi chiedi di assumere dei domestici per darti una mano?» «Oh no, Damian. È il minimo che io possa fare per ripagarti di tutto quello che ci dai.» Il suo sguardo era caldo e la sua voce dolce mentre lo fissava. «Ti sono così grata per avermi voluta, e per aver accolto mio figlio come se fosse tuo. E poi i domestici in casa guastano l'intimità.» Io la guardavo incredula, domandandomi come una donna della sua esperienza potesse lasciarsi raggirare con tanta facilità. Papà si serviva della gente. Possibile che non si rendesse conto che gli stava facendo risparmiare quattrini a palate facendogli da cameriera e da cuoca, e che la generosa offerta di assumere dei domestici altro non era che un'astuzia calcolata, per non farla sentire sfruttata?
«Audrina,» disse Billie un giorno - ero sposata da circa due mesi e Arden stava studiando per dare l'esame di procuratore -, «ho osservato Sylvia. Per qualche motivo le sono antipatica, e non mi vuole qui. Ho cercato di mettermi nei suoi panni, sai, e sono arrivata alla conclusione che è possibile che sia gelosa perché vede che vuoi bene anche a me mentre prima non ha mai dovuto dividere il tuo affetto con altri. Finché ero nel villino era un'altra cosa, ma adesso sono nella sua casa e le rubo quell'attenzione e quel tempo che prima erano incondizionatamente suoi. Anche Arden è un avversario, ma non so perché non è gelosa di lui, forse perché lui la lascia in pace. È di me che è gelosa. Inoltre, non credo affatto che sia ritardata come pensate. Imita i tuoi gesti, Audrina. Dovunque tu vada, lei ti segue. E sa camminare normalmente, proprio come te - quando sa che non la vedi...» Voltandomi all'improvviso sorpresi Sylvia proprio dietro di me. Sembrò spaurita, e subito le sue labbra chiuse si separarono e i suoi occhi attenti si fecero vacui, come quelli di un cieco. «Billie, non dovresti dire certe cose. Può sentire. E se quel che dici è vero - per quanto io non ci creda - potrebbe capire e soffrirne». «Ma certo che capisce,» affermò Billie. «Non sarà una grande cima, ma non è nemmeno senza speranze.» «Non capisco perché dovrebbe fingere...» «Chi ti ha detto che è ritardata irrimediabilmente?» Intanto Sylvia era uscita alla chetichella nel corridoio, tirandosi dietro il carretto rosso di Billie. Un attimo più tardi vidi che ci si era seduta sopra e lo manovrava con una certa destrezza, imitando Billie. «Papà l'ha portata a casa quando aveva già due anni e mezzo. Mi ha riferito quello che gli avevano detto i medici.» «Io provo grande ammirazione per Damian, sebbene non trovi giusto il fatto di averti caricato sulle spalle la cura di tua sorella, tanto più che potrebbe tranquillamente permettersi di assumere una bambinaia che badi a lei o, meglio ancora, un'infermiera specializzata per educarla. A ogni modo dammi retta, Audrina, continua a fare del tuo meglio per insegnarle quello che puoi, soprattutto insisti a insegnarle a parlare. Non darti per vinta. Anche se i medici hanno espresso un'opinione in perfetta buona fede, in questo genere di cose gli abbagli sono frequenti. C'è sempre speranza e la possibilità di un miglioramento inaspettato.» Nei mesi che seguirono Billie mi convinse che dopo tutto potevo aver
giudicato male mio padre. Era evidente che lei lo ammirava senza riserve, lo venerava quasi. Lui sembrava non far caso alla sua menomazione e la trattava con una galanteria che sorprese me e rese felice Arden. Papà ordinò anche una sedia a rotelle disegnata su misura per Billie. Detestava con tutto il cuore quel carretto rosso quantunque la lussuosa sedia, «modello esclusivo», con ruote nascoste che aveva fatto fare appositamente fosse ben lungi dall'essere abbastanza veloce per Billie che si guardava bene dal servirsene quando lui non era in casa. Arden lavorava come uno schiavo durante il giorno, poi studiava per metà della notte cercando di ricordare le nozioni necessarie per superare l'esame di procuratore. Era ciò che diceva di volere, ma io sapevo bene che non era vero. «Arden, se non vuoi diventare agente di cambio, lascia stare e fai qualcos'altro.» «Ma sì che voglio, su, andiamo avanti.» «Allora,» cominciavo quando lui sedeva al tavolo della nostra camera da letto, «ti faranno diversi tipi di test per valutare le tue capacità di lettura e comprensione delle parole scritte. Poi è la volta della scioltezza verbale e dovrai dimostrare di sapere quello che dici, cosa che naturalmente va da sé.» Sorridevo e scostavo il suo piede che intanto mi carezzava suadentemente le gambe. «Su, rispondi, preferisci dipingere un quadro, guardare un quadro o vendere un quadro?» «Dipingere un quadro,» rispose prontamente Arden. Mi accigliai e scossi la testa. «Seconda domanda: preferiresti leggere un libro, scrivere un libro o vendere un libro?» «Scrivere un libro... ma immagino che sia sbagliato. La risposta giusta è vendere un libro, vendere un quadro, esatto?» Dopo tre bocciature, mio marito superò l'esame e diventò un tirapiedi di Wall Street. Un giorno, finito il mio lavoro, andai nella camera dov'era il piano di mia madre. Sorrisi ironicamente a me stessa mentre tiravo fuori la fotografia di zia Mercy Marie per sistemarla sul piano a coda. Chi avrebbe mai pensato che un giorno avrei fatto una cosa tanto folle? Forse era perché stavo pensando a mia zia e al modo in cui ero mancata al suo funerale. Come per scusarmi di quell'assenza, andavo spesso al cimitero a deporre fiori sulla sua tomba, e anche su quella della mamma. Mai, mai, portai un fiore alla Prima Audrina. In loro memoria inaugurai la mia cerimonia del «tè del martedì». Appena cominciai a ripetere i gesti già compiuti dalle due sorelle, Sylvia strisciò
nella stanza e venne a sedere sul pavimento ai miei piedi, fissandomi in viso con un'espressione sconcertata. Una sensazione arcana, come di tempo che si ripete, s'impadronì di me. «Lucietta,» diceva la donna dalla faccia tonda che parlava con la mia voce. «Che bambina adorabile è la tua terza figlia. Sylvia, ma che bel nome! Chi era Sylvia? Ricordi quella vecchia canzone su una ragazza che si chiamava Sylvia? Lucietta, sii gentile, suona ancora quella canzone per me.» «Ma certo, Mercy Marie,» dissi, in un'ottima imitazione del modo in cui, nella mia memoria, si esprimeva mia madre. «Non è bellissima la mia dolce Sylvia? Credo che sia la più bella delle mie tre figliole.» In un modo penosamente dilettantesco tirai fuori dal pianoforte un abbozzo di motivetto. Ma, come una marionetta mossa dal destino, una volta cominciato non potei più arrestarmi. Sorridendo, porsi un pasticcino a Sylvia. «Fai tu la parte della signora nella foto.» Balzando in piedi con agilità sorprendente Sylvia corse al piano, afferrò la foto di Mercy Marie e la scagliò nel caminetto. La cornice d'argento si ruppe, il vetro si frantumò e presto la foto nelle sue mani non fu che una serie di frammenti. Quand'ebbe finito, l'aria un po' spaurita, Sylvia si allontanò da me. «Come ti sei permessa di fare una cosa simile?» le gridai. «Era il solo ritratto che avevamo della migliore amica di nostra madre! Non avevi mai fatto una cosa del genere prima!» Cadendo in ginocchio Sylvia si trascinò verso di me, uggiolando come un cagnolino; e aveva dieci anni! Accucciata ai miei piedi si aggrappò disperatamente alla mia gonna, allargando la bocca dalla quale ben presto la saliva colò bagnandole il mento, e gocciolando sul semplice grembiulino che portava. Un neonato non avrebbe potuto guardarmi negli occhi con più innocenza. Billie doveva essersi sbagliata. Sylvia non riusciva a mettere a fuoco lo sguardo per più di un secondo o due. Quella notte, mentre Arden dormiva tranquillamente al mio fianco, mi sembrò di sentire in sogno tamburi che battevano; canti di selvaggi; animali che ululavano. Svegliata di soprassalto fui sul punto di chiamare Arden finché mi resi conto che quegli ululati animaleschi altro non erano che le urla di Sylvia. Corsi nella sua stanza per prenderla fra le braccia. «Cosa succede, tesoro?» Avrei giurato che cercasse di dire: «Butto... butto... butto» ma non ne ero completamente sicura. «Hai detto brutto?» I suoi occhi acquamarina, dilatati dal terrore, accennarono di sì. Scoppiai
a ridere esultante e la strinsi più forte a me. «No, non è brutto che tu possa parlare. Oh Sylvia, mi è stato tanto, tanto difficile insegnarti qualcosa, e adesso finalmente ci stai provando. Hai fatto un brutto sogno, tutto qui. Torna a dormire e pensa quanto diventerà stupenda la tua vita, ora che puoi comunicare.» Sì, dissi a me stessa rannicchiandomi più vicina ad Arden e scoprendo la dolcezza delle sue braccia attorno a me quando la passione dormiva. Sylvia aveva fatto un brutto sogno, tutto qui. Mancava una settimana al Giorno del Ringraziamento. Ero più o meno felice mentre sedevo in cucina con Billie a fare progetti per il menù. Eppure continuavo a percorrere i lunghi corridoi piena di paure infantili, badando a non calpestare le figure colorate che le vetrate proiettavano sui pavimenti. Per lunghi istanti mi fermavo in contemplazione degli arcobaleni sulle pareti, proprio come facevo da bambina. I miei ricordi d'infanzia erano ancora tanto nebulosi. Mentre uscivo dalla cucina diretta verso le scale, con l'intenzione di andare nella stanza dei giochi a evocare il passato, forzandolo a rivelarmi la verità, mi voltai e mi accorsi che Sylvia mi seguiva come un'ombra. Naturalmente ormai ero abituata alla sua costante presenza; ma quel che mi sorprese fu il modo in cui, servendosi del prisma di cristallo, colse un raggio di sole e mi diresse il lampo colorato negli occhi. Quasi accecata, vacillai all'indietro, colma di un oscuro terrore. Nell'ombra vicino al muro abbassai la mano con la quale mi ero protetta gli occhi e vidi l'enorme lampadario che catturava la miriade di colori dal pavimento. Dalle pareti gli specchi li respingevano di nuovo verso Sylvia, che tornava a dirigerli contro di me, come per tenermi lontana dalla stanza dei giochi. Un senso di vertigine e d'irrealtà, visioni, balenarono nella mia mente. Vidi il viso senza vita della zia, immobile sul duro pavimento. E se Sylvia fosse stata giù nel vestibolo, e avesse usato quel prisma per accecare mia zia con i riflessi del sole? E se fosse stato sufficiente a farle venire un attacco di vertigini così forte da farla precipitare? E adesso Sylvia stava forse cercando di far cadere anche me? «Metti via quella roba, Sylvia,» le gridai. «Mettila via! Non mandarmi più quella luce negli occhi. Hai sentito?» Simile alla bestiola cui papà la paragonava, corse via. La guardai fuggire, ancora frastornata. Spaventata dalla stessa violenza della mia reazione, sedetti sul gradino in fondo alla scala e cercai di ricompormi; fu allora che la porta d'ingresso si aprì.
Sulla soglia si stagliò una donna alta e slanciata, con un elegante cappellino di piume a varie gradazioni di verde. Sulle spalle era gettata con noncuranza una stola di visone. Le scarpe erano verdi, perfettamente intonate al colore del vestito, evidentemente molto costoso. «Ciao,» disse con voce un po' volgare. «Salute a tutti, eccomi qua. Non mi riconosci, dolce Audrina?» Seconda vita «Ma che stai facendo?» disse Vera mentre io arretravo lentamente, facendo i gradini uno alla volta senza rialzarmi, alla maniera dei bambini piccoli. «Non sei un po' grande per questi comportamenti infantili? Davvero, Audrina, quando ti deciderai a cambiare?» Avanzando nell'atrio, Vera zoppicava appena. Guardando bene, però, mi resi conto che la suola sinistra delle scarpe dai tacchi altissimi era di un paio di centimetri più spessa dell'altra. Si avvicinò disinvolta alle scale. «Mi sono fermata giù in paese e mi hanno detto che è proprio vero che hai sposato Arden Lowe. Chi l'avrebbe mai detto che saresti diventata tanto adulta da sposare qualcuno? Allora, felicitazioni a lui, povero babbeo, e tanti auguri a te, la sposina che avrebbe dovuto avere un po' più di cervello.» Il guaio era che quel che diceva poteva benissimo essere vero. «Non sei felice di vedermi?» «Tua madre è morta.» Con quanta cattiveria lo dissi! Come se volessi pareggiare i conti e renderle male per male. «Ma certo, Audrina, lo so.» Mi squadrò dall'alto in basso coi suoi gelidi occhi scuri spiegandomi in quella sua speciale maniera silenziosa e inequivocabile che non ero certo un'avversaria degna di lei. «Diversamente da te, Audrina cara, io ho amici in paese che mi tengono al corrente di quel che succede qui. Vorrei poter dire che mi dispiace, ma non posso. Ellsbeth Whitefern non è mai stata una vera madre per me. Tua madre era più gentile.» Si voltò lentamente ed emise un lungo sospiro soffocato. «Ehi! Ma guarda questo posto. Una vera reggia! Chi avrebbe pensato mai che papà fosse così sciocco da rimettere a nuovo una casa decrepita come questa. Ne avrebbe comprate due nuove con quel che gli è costato restaurare questa oscenità.» In piedi a metà scala, cercavo di recuperare un po' della calma perduta.
«Sei tornata per un motivo preciso?» «Non sei contenta di vedermi?» sorridendo inclinò la testa da una parte e mi scrutò di nuovo, poi prese a ridere. «No, credo proprio di no. Hai ancora paura di me, Audrina? Paura che il tuo giovane maritino possa trovare una vera donna dieci volte più attraente di una sposina pudica e ritrosa che non è in grado di dargli il minimo piacere? Basta vedere quel vestito bianco che indossi per capire che non sei cambiata. È novembre, bambina. È inverno. La stagione dei colori caldi, delle feste, delle belle compagnie e delle vacanze, e tu porti un vestito bianco.» Rideva ancora, beffarda. «Non dirmi che a tuo marito non piace fare l'amore e che tu sei ancora il piccolo innocente tesorino di papà!» «È un vestito di pura lana, Vera; il colore si chiama bianco inverno. È un vestito costoso che ha scelto Arden. Gli piaccio in bianco.» «Ma certo che gli piaci,» replicò lei, ancor più sarcastica. «Asseconda il tuo bisogno di restare una cara bambina. La povera Audrina dolce e pudica! Audrina, la vergine innocente! La cara Audrina, il tesoruccio ubbidiente che non fa niente di male.» «Cosa vuoi, Vera?» chiesi, con un senso di gelo addosso. Avvertivo il pericolo, fiutavo la minaccia nell'aria. Avrei voluto ordinarle di andarsene. Va' via. Lasciami in pace. Dammi il tempo di crescere e di trovare la donna che si nasconde in qualche parte profonda di me. «Sono venuta per il Ringraziamento,» annunciò Vera disinvolta, con quella voce sexy che doveva aver preso da qualcuno che ammirava, come un tempo cercava di parlare come le attrici della televisione. «Se tu sarai carina con me, ma carina davvero, come conviene a una di famiglia, allora rimarrò anche per Natale. Però, mia cara, non è gentile lasciarmi qui in piedi nell'ingresso mentre i bagagli aspettano fuori. Dov'è Arden? Potrebbe portarmi dentro le valigie.» «Mio marito è al lavoro, Vera, e puoi portarti dentro la tua roba da sola. Papà non sarà affatto felice di vederti. Immagino che tu te ne renda conto.» «Ma certo, Audrina,» disse lei con quella sua voce agrodolce, satura di odio, «ma io dovevo proprio vederlo, invece. Mi deve molto, e intendo mettere le mani su quello che era di mia madre e che è mio.» Un lieve rumore mi fece volgere verso l'ingresso, dove scorsi Billie arrivare sul carretto rosso. Quasi avesse visto un topo, Vera fece un balzo indietro e mancò poco che perdesse l'equilibrio, per via della suola ortopedica. Con la mano guantata soffocò un gridolino mentre protendeva l'altra come per proteggersi da un contagio. Vidi che lottava per recuperare il
sangue freddo, mentre la piccola donna a metà, due volte più vecchia e tre volte più bella di lei, la scrutava con espressione indagatrice, sia pure con grande serenità. Ammirai Billie per il suo autocontrollo. Poi, con mia sorpresa, Vera rivolse a mia suocera un sorriso smagliante. «Ma certo, come ho fatto a non riconoscere subito Billie Lowe? Come sta, Mrs. Lowe?» Billie salutò Vera con calore. «Salve, cara, e benvenuta. Sei Vera, è così? Ma come sei bella! Che magnifica idea tornare a casa per le vacanze, e proprio in tempo per il pranzo. La tua stanza è in ordine; basterà mettere le lenzuola pulite perché tu ti senta a casa tua.» Mi guardò per rivolgermi un sorriso particolarmente caldo. «Hai visto, Audrina; il tuo prurito al naso davvero annunciava visite, alla fine!» «Anche lei abita qui, ora?» chiese Vera, presa un po' alla sprovvista. Evidentemente giù in paese non sapevano proprio tutto quel che succedeva a Whitefern. «Oh, sì,» ribatté Billie esultante, «questa è la casa più straordinaria che io abbia mai avuto il piacere di chiamare casa mia. Damian è stato assolutamente fantastico con me. Mi ha dato le stanze che appartenevano...» e qui esitò, forse con una punta di imbarazzo, «alla tua mamma.» Quel suo sguardo che cercava di conquistare la simpatia di Vera mi fece tenerezza. «Sulle prime ho pensato che sbagliavo ad accettare tutto quell'apparato di stanze quando Audrina avrebbe potuto volerle per sé, ma Audrina non ha detto una parola che potesse farmi sentire che usurpavo il posto di qualcuno. E la cosa più bella è che Damian stesso ha portato qui da casa mia tutte le cose che mi occorrevano. Lo ha fatto il giorno stesso in cui Arden e Audrina sono scappati.» Billie mi rivolse un altro sorriso affettuoso. «Audrina, tesoro, è ora di pranzo. Sylvia è già a tavola. Ce n'è per tutti.» «Dammi una mano a portare dentro le valigie, Audrina,» disse Vera, dirigendosi in fretta verso il portico, come stanca di mostrarsi conpiacente per l'accoglienza gentile e calorosa che Billie le offriva. «Me ne andrò fra qualche settimana, e non è il caso di fare quella faccia infastidita. Non voglio tuo marito.» «Perché ne hai uno tuo?» chiesi speranzosa. Ridendo, si girò a metà verso di me, con una smorfia maliziosa identica a quella di papà. «Ti piacerebbe, vero? Ma no, non ce l'ho... Lamar Rensdale era un miserabile fallito che ha preso la scorciatoia più facile non appena le cose si sono messe male. Che razza di vigliacco si è dimostrato!
Neanche un briciolo di talento, una volta strappato alla sua provincia. Tu suoni ancora il piano?» No, non avevo più tempo per il piano. C'erano troppe cose da fare. Però, mentre aiutavo Vera a portare dentro le valigie, due io e una lei, promisi a me stessa che quando avessi avuto tempo mi sarei trovato un altro insegnante di musica e avrei ripreso da dove avevo interrotto. «Vera, vorrei che tu mi parlassi ancora di Lamar Rensdale. È stato molto buono con me e mi dispiace che sia morto.» «Più tardi,» disse Vera seguendomi per le scale, «dopo mangiato faremo una bella chiacchierata aspettando che rientri papà e si rallegri nel rivedermi.» Mentre ci dirigevamo in camera sua incontrammo Sylvia che era salita sul carretto di Billie e lo manovrava con una certa destrezza. «Sylvia, riporta subito il carretto di Billie in cucina! Lo sai che non devi assolutamente usarlo, anche quando lei non c'è. Potrebbe averne bisogno in qualsiasi momento!» Riuscii a strappare Sylvia al suo passatempo preferito. Se c'era una cosa capace di rendere mia sorella cupa e astiosa era sottrarle quel carrettino rosso che voleva tutto per sé. «Dio buono,» proruppe Vera, fissando Sylvia come una bestiola allo zoo. «Perché sprechi il fiato con questa deficiente? Ma quando ti decidi a farla rinchiudere e non te ne liberi?» «Sylvia non è così ritardata come papà ci ha fatto credere,» dissi con una certa ingenuità, «un po' alla volta sta imparando anche a parlare.» Chissà perché Vera si volto a fissare Sylvia con occhi socchiusi e sospettosi, il disgusto stampato in volto. «Dio onnipotente, questa casa è piena di mostri. Una donna senza gambe e un'idiota balbuziente.» «Finché starai in questa casa non darai della deficiente e del mostro a nessuno. E tratterai Billie col rispetto che le è dovuto. Altrimenti, sta' pur certa che papà ti sbatterà fuori a calci. E se non lo farà lui, lo farò io.» Vera sembrò sorpresa e sorrise debolmente, poi mi voltò la schiena e si diresse verso la sua vecchia camera da letto per disfare i bagagli. Durante il pranzo io rimasi in silenzio, mentre Billie faceva del suo meglio per dare a Vera il benvenuto. Nel bel vestitino di maglia beige con cui si era cambiata, era d'una sofisticata eleganza. Il colore delicato esaltava la sua carnagione, che non sembrava più pallida come un tempo Il trucco era stato passato con mano esperta, e i capelli pettinati alla perfezione, mentre i miei erano, come al solito, scompigliati e incolti. Avevo le unghie corte e trascurate, da quando avevo dovuto mettermi ad aiutare Billie nei lavori di
casa. Ogni mio difetto risaltava come una montagna in confronto alla levigata bellezza di Vera. «Sono addolorata per tua madre, Vera,» disse Billie. «Spero che non ti offenda se Audrina mi ha detto tutto. È come una figlia per me, quella figlia che ho sempre desiderato.» Sorrisi con gratitudine, felice che non mi abbandonasse per quella Vera che sembrava essere diventata la quintessenza del fascino. Sapevo che Billie provava ammirazione per tutto quel che Vera rappresentava. Bei vestiti, lunghe unghie laccate e gioielli... fu allora che mi accorsi che erano i gioielli di mia madre, i gioielli di mia zia, quelli che Vera aveva addosso. I gioielli rubati. Gioielli che si tolse e fece sparire non so dove prima che papà e mio marito rincasassero insieme. Eravamo seduti nel Salone stile impero. Il sole era appena calato oltre l'orizzonte lasciando dietro di sé una scia sanguigna di nuvole incendiate, allorché papà spalancò la porta ed entrò seguito da Arden. Mio padre stava dicendo: «Maledizione, Arden, ma come fai a dimenticare, se prendi appunti? Ti rendi conto che i tuoi errori ci faranno perdere parecchi ottimi clienti? Devi assolutamente tenere nota di tutte le azioni che ogni cliente possiede, e avvertirli quando capitano sbalzi gravi, meglio ancora, prima che capitino! Battere il tempo, ragazzo, battere il tempo!». Fu allora che vide Vera. S'interruppe a metà di un altro rimprovero e fissò Vera con repulsione: «Che diavolo ci fai tu qui?». Billie ebbe un sussulto: papà l'aveva delusa. Arden gettò a Vera un'occhiata dura, poi venne a baciarmi sulla guancia prima di sistemarsi accanto a me sul divano, passandomi il braccio attorno alle spalle. «Stai bene?» chiese piano. «Sei così pallida.» Non risposi, ma mi rannicchiai contro di lui, sentendomi più sicura così, circondata dal suo braccio. Vera si alzò. Malgrado i tacchi alti era pur sempre almeno un palmo più bassa di papà, ma grazie a quei trampoli riusciva a incutere soggezione, nonostante tutto. In un angolo del salone Sylvia si acquattò per terra e prese a dondolare meccanicamente la testa avanti e indietro come un'idiota, quasi volesse intenzionalmente cancellare tutti i progressi che avevamo raggiunto con tanta fatica. «Sono dovuta venire, papà, per visitare la tomba di mia madre,» disse Vera, con la voce sommessa di chi si scusa, «un amico mi ha telefonato e mi ha detto che era morta. Ci ho pianto tutta la notte e avrei dato non so cosa per venire al funerale. Ma ero di turno e non ho potuto liberarmi fino
a ora. Adesso sono infermiera professionista. E poi non avevo abbastanza soldi per tornare e sapevo che tu non me ne avresti mandati. Si rimane così sconvolti quando una persona sana muore per disgrazia. Quello stesso amico mi ha spedito il necrologio. È arrivato il giorno stesso del funerale.» Adesso sorrideva, inclinando la testa in una posa accattivante, le gambe appena divaricate in un atteggiamento di fermezza, le mani sui fianchi. E subito non sembrò più così dolce, ma pronta alla sfida, virile. La sua figura incuteva rispetto quanto quella di papà allorché si piazzava a gambe larghe e si preparava all'attacco. Papà grugnì e la guardò con astio. Sembrò accettare la sfida. «Quando parti?» «Presto,» disse Vera abbassando gli occhi, subito mansueta e condiscendente nel tentativo di non mostrarsi offesa. Ma continuava a stare a gambe divaricate, smentendo la sua artificiosa espressione di umiltà. «Ho sentito che era un dovere verso la mamma tornare appena possibile.» Arden si protese in avanti per osservare meglio la sua espressione, tirandomi distrattamente con sé poiché aveva ancora il braccio attorno alle mie spalle. «Non ti voglio a casa mia!» scattò papà. «So quello che è successo prima che te ne andassi.» «Oh, mio Dio.» Vera gettò ad Arden un'occhiata nervosa e allarmata. Subito mi liberai dall'abbraccio distratto di Arden e mi spostai all'altro capo del divano. No, dissi a me stessa, Vera stava solo cercando di compromettere deliberatamente Arden e di mandare all'aria il mio matrimonio. Eppure Arden aveva un'aria colpevole. Sentii il cuore spezzarsi. Non faceva che giurare che ero stata l'unica donna che avesse amato. Ma forse c'era del vero quando, tanto tempo fa, Vera sosteneva di essere stata l'amante di Arden. «Papà,» implorò Vera con quella sua voce suadente, un po' roca, «ho fatto molti errori. Perdonami se non sono stata quella che sarei dovuta essere. Ho sempre desiderato la tua approvazione, essere come tu volevi, ma nessuno mi ha mai consigliata. Non sapevo cosa volesse quel Rensdale quando mi ha baciata e ha cominciato a carezzarmi. Mi ha sedotta, papà.» Singhiozzava, come vergognosa, reclinando il suo liscio caschetto di lucidi capelli ramati. «Sono tornata per rendere omaggio alla sepoltura di una madre, per passare il Giorno del Ringraziamento con la sola famiglia che ho, per rinnovare i nostri legami familiari. E vengo anche per prendere le cose di valore che mi ha lasciato la mamma.»
Mio padre grugnì di nuovo. «Tua madre non aveva niente di valore da lasciarti, dopo che sei scappata di qui, rubando tutti i gioielli che aveva e quelli che mia moglie aveva lasciato a Audrina. Manca una settimana al Giorno del Ringraziamento. Rendi omaggio alla tomba di tua madre oggi e parti domani mattina.» «Damian!» si intromise Billie in tono di rimprovero. «È questo il modo di parlare a tua nipote?» «È precisamente il modo di parlare a una nipote come questa!» tuonò papà girandosi e dirigendosi a grandi passi verso la scala. «E non chiamarmi mai più papà, Vera.» Gettò un'occhiata a Billie. «Si doveva andar fuori stasera, lo hai dimenticato? A cena in un buon ristorante, e poi al cinema. Perché non ti sei ancora vestita, perché non sei pronta?» «Non possiamo uscire proprio la sera in cui tua nipote torna a casa,» obiettò Billie con la sua solita soavità, «lei ti vede come un padre, Damian, indipendentemente da come tu chiami la vostra parentela. Possiamo sempre andare a cena fuori e al cinema. Damian, ti prego, non mettermi ancora in imbarazzo. Sei stato così gentile, così generoso - e io sarei tanto delusa se tu...» Qui si interruppe, guardandolo con gli occhi pieni di lacrime. Le sue lacrime sembrarono toccarlo in fondo al cuore. «Va bene,» disse rivolgendosi a Vera. «Voglio vederti il meno possibile, e il giorno dopo il Ringraziamento te ne vai. Siamo intesi?» Vera accennò di sì con umiltà. A testa bassa sedette con le gambe unite a formare un avvallamento nel quale depose con riserbo le mani incrociate, da ragazza modesta e ben educata. E la modestia era qualcosa che Vera non aveva mai posseduto. «Tutto quello che vuoi tu papà... zio Damian.» Mi girai in tempo per vedere Arden che la guardava con compassione. Volsi a più riprese gli occhi dall'uno all'altra, e capii che era già cominciata. La seduzione di mio marito. In men che non si dica, Vera e Billie furono amiche. «Che tesoro sei a fare tutto questo per la casa da sola, quando mio padre non avrebbe difficoltà a prendere una cameriera e una governante. Hai tutta la mia ammirazione, Billie Lowe.» «Audrina mi aiuta molto,» si schermì Billie. «Bisogna anche riconoscere i suoi meriti.» Io ero nella dispensa intenta all'ingrato compito di districare l'arruffata zazzera castana di Sylvia. Smisi per ascoltare ciò che Vera avrebbe ancora detto a Billie. Ma era Billie che invece continuava a parlare. «Adesso, cara, se vuoi fare la tua parte, potresti passare l'aspirapolvere
nelle due sale; te ne sarei tanto grata. Mi raccomando, molta delicatezza con i paralumi, i mobili e le tende. Sarà di grande aiuto per Audrina. Ha già troppo da fare da quando cerca di insegnare a Sylvia a parlare e muoversi come si deve, e pensa che ottiene già dei risultati!» «Stai scherzando,» Vera appariva sorpresa quasi avesse sperato che Sylvia non potesse parlare mai. «Quella ragazzina non è in grado di parlare, non credi?» «Invece sì, riesce a dire qualche parola facile. Non che pronunci bene, ma se ascolti con molta attenzione, si capisce.» Con Sylvia per mano, seguii Vera e la vidi entrare nel Salone stile impero dove cominciò a passare controvoglia l'aspirapolvere. Ero grata a Billie per averla messa al lavoro senza chiederle se era d'accordo, decidendo in partenza che avrebbe detto di sì. Un rifiuto avrebbe scoperto il gioco di Vera. Perché, in fin dei conti, io sapevo che si trattava di una finzione. Vera mandava l'aspirapolvere avanti e indietro, senza staccare gli occhi da tutti quei tesori. Mentre l'apparecchio aspirava, tirò fuori un blocchetto e cominciò a scrivere. Senza far rumore, lasciai Sylvia nell'ingresso e scivolai alle sue spalle per leggere. 1. Passare aspirapolvere, spazzare, dare cera mobili (specchi, immensi, laminati oro, una fortuna). 2. Raccogliere giornali, mettere in ordine riviste (lampade Tiffany e veneziane, ottone massiccio, impagabili). 3. Rifare letti prima di scendere (tutto antiquariato autentico, adesso, dipinti olio d'autore). 4. Dare mano per bucato. Niente candeggina su asciugamani (tappeti orientali e cinesi, soprammobili d'arte in porcellana e vetro soffiato, specie uccelli). 5. Correre presto a prendere la posta. Ricordarsi! (Assegni in cassaforte studio. Mai visti arrivare tanti assegni per posta!) «Ma che modo interessante di fare la lista delle faccende,» dissi non appena lei, intuita la mia presenza, si voltò di scatto con un'espressione imbarazzata sul viso. «Insieme alle cose di valore vuoi arraffare anche la posta? Stai pensando di derubarci, Vera?» «Brutta spiona,» soffiò, «come ti permetti di venirmi di nascosto dietro le spalle a leggere i fatti miei?» «Bisogna sempre stare in guardia quando la gatta diventa troppo docile.
Hai proprio bisogno di fare ogni giorno la lista dei lavori di casa? Non ti vengono spontanei? A parte questo, la maggior parte di queste cose erano già qui, solo che sono state restaurate o rimesse a nuovo. Papà ha recuperato parte dei mobili di Whitefern che avevamo venduto; se prima la casa non ti attraeva, come mai ti piace tanto adesso?» Per un attimo sembrò che volesse schiaffeggiarmi. Invece si lasciò andare su una poltrona, come sfinita. «Ti prego, Audrina, non attaccarmi. Se solo sapessi l'orrore di vivere con un uomo che non ti vuole. Lamar mi odiava per averlo costretto a portarmi a New York. Io giuravo e spergiuravo che ero incinta, e lui diceva che non poteva essere vero. Arrivati a New York siamo andati in una pensione e lui dava lezioni al Juilliard. Non faceva altro che sbattermi in faccia la tua immagine, diceva che gli sarebbe piaciuto che ti somigliassi di più e che allora, forse, avrebbe potuto amarmi. Che imbecille! Che razza d'uomo potrebbe star bene con una come te?» Poi mi lanciò un'occhiata strana e lasciò che le lacrime le spuntassero tra le ciglia. «Scusami. A modo tuo, sai essere molto bella.» Tirò su col naso e riprese a parlare. «Mentre lui insegnava ho cominciato il corso di infermiera. Lo stipendio non bastava neanche a mantenere un canarino. In quel po' di tempo libero che avevo, facevo la modella in una scuola d'arte. Ho detto a Lamar che poteva fare la stessa cosa a tempo perso, ma lui era troppo pudico per levarsi i vestiti. Si posa senza neanche un francobollo addosso. Sono sempre stata fiera del mio corpo. Lamar l'Idiota era troppo vergognoso, e troppo orgoglioso. Mi detestava ancora di più perché mi mostravo a tutti quegli uomini in un'aula. Ogni volta che posavo, tornavo a casa e lo trovavo ubriaco come una bestia. Presto ha cominciato a bere tanto che nessuno gli ha dato più lavoro. Non riusciva più a suonare, e mi ha costretta a traslocare in un sobborgo dove insegnava musica a dei ragazzini poveri che non avrebbero mai avuto i soldi per pagarlo - e allora l'ho piantato. Non ne potevo più. Il giorno che ho preso il diploma d'infermiera ho aperto un giornale e ho letto che Lamar si era annegato nell'Hudson.» Singhiozzava fissando un punto indefinito. «Così sono mancata a un altro funerale. Il giorno che l'hanno sepolto io ero di servizio. Sono contenta che i genitori siano venuti a richiedere il corpo, altrimenti avrebbe fatto la fine di quei cadaveri giù all'ospedale dove lavoravo.» Il suo viso si contrasse prima di abbassarsi. Un silenzio greve saturò la stanza. Chinai la testa, oppressa dal dolore per un uomo che aveva voluto aiutarmi e che era caduto ingenuamente nella trappola che Vera aveva teso.
Sapevo bene chi aveva fatto la parte del seduttore. «Immagino tu stia pensando che l'ho spinto io a uccidersi, non è vero?» «Non so che cosa pensare.» «No, certo che non lo sai,» gridò con disprezzo, «hai avuto la vita facile tu, che sei restata qui a farti accudire. Tu non hai mai dovuto fare i conti col mondo e il marciume che c'è là fuori, e con tutto quello che si deve fare per sopravvivere. Ma io, Audrina, io sì che ho conosciuto il fondo dello schifo! Sono tornata per starvi vicino e voi non mi volete!» Singhiozzando, con le lacrime che le rigavano le guance, si lasciò cadere sul sofà. Senza molta convinzione, la guardai piangere. Scivolando sulle rotelle, Billie, che doveva avere ascoltato, entrò nella stanza. In un attimo fu accanto a Vera sul divano e cercava di confortarla. Ma lei si ritrasse di scatto. Un gridolino isterico le sfuggì dalle labbra. Poi impallidì. «Oh... scusami. È solo che non sopporto di essere toccata.» «Capisco.» Billie si riaccucciò sul suo giocattolo e scomparve. «Hai ferito la sua sensibilità, Vera. E avevi promesso che fino a quando fossi rimasta qui non avresti mai detto o fatto niente per offenderla o farla sentire indesiderata.» Vera disse che si rendeva conto. Le dispiaceva, e mai, mai più si sarebbe tirata indietro. Soltanto, non era abituata a farsi toccare da una donna senza gambe, una storpia. Fissai le scarpe con la suola ortopedica, e il modo in cui sbiancò in volto mi colmò di gioia perversa. «Adesso non si vede che zoppico, vero? Abbiamo tutti le nostre magagne, come te con le tue amnesie.» Ben presto Arden cominciò a dirmi ogni volta che eravamo soli, e di solito mai prima che fossimo a letto, quanto Vera fosse d'aiuto, quanta fatica risparmiava a sua madre e a me. «Dovremmo essere tutti felici che sia tornata a dare una mano.» Mi giravo dalla mia parte e chiudevo gli occhi. Voltargli le spalle era il mio sistema per dirgli di lasciarmi in pace. Subito mi tirava verso di lui finché la mia schiena non combaciava con la calda curva del suo corpo. I nostri respiri prendevano lo stesso ritmo mentre quelle sue mani incontrollabili frugavano le curve che tracciavano e percorrevano infinite volte. «Non essere gelosa di Vera, amore,» mormorava muovendosi per strofinare la sua guancia contro la mia. «Sei tu che amo, solo tu.» E ancora una volta, dovevo permettergli di dimostrarlo. Il Giorno del Ringraziamento venne e passò, Vera rimase. Per qualche misteriosa ragione papà non le ordinò più di andarsene. Immaginai che si
rendesse conto di quale aiuto rappresentava per Billie mentre io insegnavo a Sylvia a parlare, camminare, vestirsi, pettinarsi, lavarsi viso e mani. Lentamente, molto lentamente, Sylvia cominciava a uscire dal suo guscio. Man mano che si impadroniva di qualcosa, i suoi occhi si facevano più fermi. Cominciò a impegnarsi seriamente per tenere le labbra unite e trattenere la saliva. In un certo senso era come ritrovare me stessa, via via che le insegnavo ciò che le serviva sapere. Sembrava che Sylvia apprendesse meglio nella stanza della Prima e Migliore Audrina. Dondolandomi con Sylvia seduta in grembo, le leggevo brani di Mamma Oca e facili libri per bambini di due o tre anni. In compagnia delle bambole e degli animali di pelouche sugli scaffali, certe volte io e lei sedevamo al tavolino da tè e pranzavamo insieme. Fu lì che Sylvia per la prima volta prese un cucchiaio e mescolò quel poco di tè che aveva nella tazzina. «E un giorno molto vicino Sylvia saprà tenere la sua forchetta e il suo coltello e si taglierà la carne da sola.» «...sola,» ripeté lei prendendo forchetta e coltello e cercando di imitare i miei gesti. «Chi è Sylvia?» «Chi... chi è...» «Dimmi il tuo nome. Lo voglio sentire.» «Dimmiii... sciuoo noomee...» «No. Il tuo nome.» «Nooo... Il sciuo nome.» «Sylvia, oggi stai andando benissimo. Però adesso cerca di capire bene il ragionamento che c'è dietro le mie parole. Tutte le persone e tutte le cose devono avere un nome, altrimenti non sapremmo come chiamarle, e come distinguere la sedia dalla lampada. Prendi me, per esempio. Il mio nome è Audrina.» «Immio... nooome... è... Au...di...na.» «Sì, il mio nome è Audrina, ma il tuo nome è Sylvia.» «Scii... mmio... nomee...» Presi dal comodino lo specchietto della Prima Audrina, lo misi di fronte a Sylvia e indicai: «Guarda, quella nello specchio è Sylvia». Poi spostai lo specchio in modo che riflettesse il mio viso e la feci guardare perché capisse quel che cercavo di insegnarle. «Quella nello specchio è Audrina,» e intanto accennavo verso di me. «Audrina,» accennai ancora verso di me, poi spostai lo specchio in modo che lei potesse vedersi in viso. «E questa è
Sylvia. Tu sei Sylvia.» Un'improvvisa scintilla di comprensione guizzò nei suoi occhi acquamarina, che si allargarono e si concentrarono sullo specchio. Me lo strappò di mano e fissò la sua immagine riflessa, tenendolo così vicino da schiacciare il nasetto sul vetro. «Scil...vi...a... Sciil...vi...a.» Lo disse ancora tante, tante volte, ridendo, saltando, ballando maldestramente per la stanza. Tenendo lo specchietto serrato contro il suo piccolo petto, raggiava di felicità. Alla fine, dopo numerosi tentativi, riuscì a dirlo correttamente. «Il mio nome è Sylvia.» Corsi ad abbracciarla, a baciarla, a ricompensarla con i dolci che avevo nascosto in un cassetto. Mi voltai con i dolci e vidi che tutta la felicità era fuggita da Sylvia. Si era fatta di ghiaccio. Gli occhi smarriti, la bocca semiaperta, il filo di saliva giù per il mento. Si era di nuovo ammutolita. Sulla porta c'era Vera. Aveva indossato una maschera angelica, tanta era la soavità con cui ci osservava. Agnelli da macello, pensai di sfuggita. «Vai via, Vera,» ordinai con freddezza, ansiosa di proteggere Sylvia. «Ti ho già detto di non venire qui quando mi occupo di Sylvia.» «Scema!» sbottò entrando nella stanza e sedendosi sulla sedia a dondolo. «Non si può insegnare niente agli idioti. Non fa che ripetere quello che ti sente dire, come un pappagallo. Va' tu ad aiutare Billie in cucina. Io mi sono rotta le scatole di fare da mangiare e lustrare la casa. Santo Dio, pare che in questa casa non si faccia altro che mangiare, dormire e lavorare. Ma quando vi divertite?» «Quando il lavoro è finito, Vera,» replicai con collera. «Dondolati, dondolati pure, Vera. Sono convinta che niente di quel che io ho visto su quella sedia ti farebbe urlare... visto che tu hai conosciuto il fondo dello schifo.» Strepitando come un demonio schizzato dal fondo dell'inferno, la mia sorellina si avventò contro Vera. Le si aggrappò graffiando, scalciando, e come Vera cercò di respingerla, Sylvia le affondò i denti nel braccio. Vera sbatté rabbiosamente Sylvia sul pavimento. «Piccola deficiente egoista! Vattene fuori. Io posso stare in questa camera come e quanto te!» Corsi a salvare Sylvia da danni peggiori perché Vera stava già alzando il piede pronta a colpirla al viso, ma prima che potessi raggiungerla, Sylvia rotolò da una parte, sottraendosi all'attacco. Così facendo, la sua scarpa agganciò il piede di Vera e le fece perdere l'equilibrio. Vera rovinò sul pavimento come un albero abbattuto: poi arrivarono le urla di dolore.
Prima ancora che m'inginocchiassi per controllare, capii dalla posizione stravolta che la gamba sinistra di Vera si era spezzata di nuovo. Accidenti! L'ultima cosa che ci voleva era un'invalida a cui badare. Stavo percorrendo a passi nervosi il Salone impero allorché papà e Arden rientrarono portando di peso Vera con una nuova ingessatura sulla gamba rotta. I suoi occhi neri, carichi di sfida, vennero a cercare i miei: teneva un braccio attorno al collo di Arden. Con l'altro si reggeva a papà. Loro due la sostenevano nella barella formata dalle loro braccia. «Audrina,» ordinò Arden, «corri a prendere dei cuscini da mettere dietro la schiena di Vera. E poi ce ne vorranno altri per tenere la gamba sollevata all'altezza del cuore. Dovrà portare quell'affare per sette o otto settimane.» Senza fretta raccolsi parecchi cuscini dagli altri divani e li sistemai dietro la schiena di Vera. Arden le sollevò delicatamente la gamba ingessata e vi ammonticchiò sotto altri cuscini. Allorché si chinò su di lei, le unghie laccate di rosso del suo piede si agitarono come bandierine d'allarme. «Non ho ancora capito come ha fatto Vera a cadere,» mi chiese Billie quella sera mentre la aiutavo a preparare la cena. «Un incidente. Ho sentito Vera quando ti diceva che Sylvia le aveva agganciato la caviglia con il piede di proposito, ma c'ero anch'io, ed è stato un incidente.» «Non è stato un incidente,» strillò Vera dall'altra stanza. «Quella carognetta l'ha fatto apposta!» «Audrina, spero che non sia vero.» Billie lanciò a Sylvia un'occhiata preoccupata. Ancora una volta Sylvia era salita sul carretto rosso e scorrazzava su e giù per il pavimento lucidato a cera dell'ingresso posteriore. «Senti Billie, io so che tu e Arden stentate a convincervi di quel che dico su Vera; non intendo essere eccessivamente pignola, ma davvero era la prima volta che la mente di Sylvia si apriva. Finalmente ho visto l'intelligenza brillarle negli occhi... e proprio in quel momento Vera ha fatto la sua apparizione.» Sentii Sylvia che cantava correndo su e giù per il corridoio sul carretto rosso. Solo una stanza... sicura in casa mia... solo una stanza... sicura... Quasi mi cadde il cucchiaio nel sugo bollente. Chi aveva insegnato quella canzone a Sylvia? «Ti senti bene, tesoro?» chiese Billie, tirandosi destramente al bancone della cucina per muoversi di qua e di là. «Sto benissimo,» risposi con aria assente. «Solo che non ricordo di avere
insegnato a Sylvia quella canzone. L'hai sentita, Billie?» «No, tesoro, non l'ho sentita; veramente mi pareva la voce di Vera. Lei canta sempre quella canzone. È una specie di cantilena per bambini, piuttosto malinconica. Sai, mi fa male l'idea che Damian non si sia dimostrato più gentile con Vera. Con tutto quello che cerca di fare per ottenere la sua stima.» Senza rispondere, travasai il sugo nella scodella e lo portai in sala da pranzo. Quando ritornai, tolsi di peso Sylvia dal carrettino e la rimproverai aspramente. «Quante volte devo dirti di lasciar stare questo carretto? Non è tuo! Va' a giocare col triciclo che ti ha regalato papà, che è rosso e bello.» Sylvia arricciò il labbro inferiore, mi volse la schiena e si allontanò. Con un piede spinsi il carretto in cucina. Quella sera papà e Arden portarono di peso in sala da pranzo l'ottomana viola con Vera distesa sopra come una Cleopatra dai capelli di cinabro, cosicché lei poté mangiare con tutti noi. Detestavo vederla sull'ottomana viola della mamma, ma Vera ci rimase giorno dopo giorno, leggendo quegli stessi romanzi in edizione economica che lei aveva letto tanti anni addietro. Sylvia tornò a chiudersi in se stessa, rifiutando di entrare nella stanza dei giochi e di imparare oltre. Dato che papà aveva bisogno di mangiare bene e Billie non poteva più permettersi lo svago di andare al ristorante con lui, mia suocera non faceva altro che cucinare. A me restavano tutti i lavori domestici e il bucato, per quanto Arden mi aiutasse come poteva. Papà, invece, aveva sempre troppi impegni, o era troppo stanco per fare qualcosa oltre che parlare o guardare la televisione. Capodanno era già passato da un mese, quando riportai Sylvia nella stanza dei giochi per continuare le nostre lezioni. «Mi dispiace di averti trascurata, Sylvia. Se Vera non si fosse rotta la gamba, scommetto che sapresti già leggere. Allora vediamo, dove eravamo rimaste? Avanti, dimmi: come ti chiami?» Eravamo appena arrivate alla porta della stanza dei giochi quando, con sorpresa mia e di Sylvia, trovammo Billie nella sedia a dondolo. Arrossì quando si vide scoperta. «È sciocco, lo so, ma se è vero che c'è della magia in questa sedia, allora ne voglio un po' anche per me.» Appariva fresca e graziosa, e fece una risatina fanciullesca. «Non prendermi in giro. Vedi, io ho fatto un sogno, un sogno stupendo che occupa quasi sempre i miei pensieri. Spero che questa sedia aiuterà il mio sogno ad avverarsi.» Mi sorrise, emozionata. «Ne ho parlato con tuo padre e lui
mi ha detto che tutto è possibile quando si crede, e adesso io... sì, io credo.» Sorrise e tese le braccia. «Vieni, Sylvia, lascia che ti tenga in braccio. Oggi sarai la mia piccolina e mi dirai come ti chiami.» «Nooo!» pianse Sylvia con impeto tale da attirare Vera, che arrivò arrancando sulle grucce che adesso il dottore le consentiva di usare. «Butta...» piagnucolava Sylvia indicando Vera. «But-taaa...» Sylvia non volle sedere sulle ginocchia di Billie, ma un altro giorno papà ci trovò sulla sedia a dondolo che cantavamo. «Solo tu, amore mio,» mi redarguì, guardando me e ignorando Sylvia. «Dondola da sola, diventa il vaso vuoto che si colma di ogni meraviglia.» Lo ignorai, decidendo di non dargli ascolto. Poi mi rivolsi a Sylvia, desiderando che si esibisse di fronte a papà. «Tesoro, di' al tuo papà come ti chiami.» L'aveva appena detto, proprio un istante prima che cominciassimo a cantare. «E digli anche il mio nome.» Gli occhi della mia sorellina, così belli eppure a volte così terrorizzati, si smarrirono, tanto che parvero trapassare papà da parte a parte senza vederlo, mentre dalla bocca le usciva un balbettio inintelligibile. Mi venne da piangere. Avevo faticato tanto e mi ero privata di tanti svaghi per stare con lei e per insegnarle qualcosa. E ora mi negava anche quella piccola ricompensa di cui sentivo il bisogno. «Ah,» esclamò papà infastidito. «Sprechi il tuo tempo. Lascia perdere.» Mio marito rincasava di rado prima delle nove o delle dieci di sera. Spesso saltava la cena e si scusava dicendo che aveva un mucchio di lavoro arretrato da sbrigare e di riviste tecniche da leggere per mantenersi aggiornato. «A casa ci sono tanti motivi di distrazione,» disse in tono evasivo. «No, non prendetevela con Damian. Non è colpa sua: sono io che non riesco a imparare in fretta come dovrei.» La notte successiva Arden rientrò con un fascio ancora più voluminoso di carte da studiare: bollettini finanziari, note consultive, grafici azionari, sgravi fiscali da valutare... più lavoro di quanto papà gli avesse mai dato. Alle due del mattino mi svegliai e lo vidi ancora al lavoro al piccolo scrittoio della nostra camera, intento a leggere e a prendere appunti, gli occhi stanchi e arrossati. «Vieni a letto, Arden.» «Non posso, amore.» Sbadigliò e mi sorrise. Sfinito com'era, ancora non perdeva la pazienza né con me né con papà. «Oggi tuo padre se ne è anda-
to non so dove e mi ha lasciato la responsabilità dell'ufficio. Così, dal momento che durante il giorno non ho avuto il tempo di occuparmi dei miei clienti, poiché i suoi sono più importanti, mi tocca farlo adesso.» Si alzò per stiracchiarsi, quindi si diresse verso il bagno. «Una bella doccia fredda mi sveglierà.» Era sulla porta del bagno e già cominciava a liberarsi degli abiti quando disse, con un tono di voce preoccupato: «Sai, ero lì nell'ufficio di Damian, con tutta la responsabilità sulle spalle, sapendo perfettamente che lui si augura che faccia tutti gli errori possibili, in modo da poter urlare e umiliarmi di fronte a tutti. Era una giornata tranquilla, e mentre stavo seduto dietro quella imponente scrivania ad aspettare che il telefono suonasse, ho cominciato a guardare qua e là e ho notato che i cassetti erano cortissimi. Non riuscivo a capire come mai una scrivania così grande avesse dei cassetti tanto corti. Così ho armeggiato un po' e ho scoperto che nel fondo dei cassetti c'erano tanti piccoli scomparti segreti». Ora si era tolto i vestiti e stava lì nudo, in piedi come volesse farsi guardare, cosa che non mi era mai riuscita senza rossore e turbamenti. Quantunque non facesse il minimo accenno al sesso, né mi lasciasse intendere esplicitamente di volere qualcosa da me al di là della mia attenzione, pure intuivo in lui una certa aspettativa. «Audrina, io non sarò un contabile esperto, ma se trovo un libro mastro in uno scomparto segreto non posso fare a meno di sfogliarlo e fare un po' di calcoli. Tuo padre, Audrina, fa 'prelievi' dai fondi più statici che amministra, li investe per conto suo, e quando ha realizzato un buon profitto, mesi più tardi, rimette il denaro dov'era. I suoi clienti non vengono a sapere degli ammanchi e non si accorgono di nulla. Sono anni e anni che lo fa.» Lo fissavo come paralizzata. «E non si limita a questo,» seguitò Arden. «Proprio l'altro giorno l'ho sentito dire a una delle sue clienti più ricche che certi certificati azionari trovati in soffitta erano buoni solo per essere incorniciati. Così lei gli ha spedito per posta i certificati, perché li mettesse in cornice nel suo ufficio un regalino - così gli ha detto. Audrina, quelle erano azioni della Union Pacific che sono letteralmente salite alle stelle dall'emissione. Quella vecchia, facendogli quel 'regalino' gli ha messo in mano centinaia di migliaia di dollari - e ha ottantadue anni. Ricca e decrepita. Probabilmente lui pensa che abbia avuto abbastanza e che non ha più le necessità che ha lui; inoltre penserà che è troppo vecchia per accorgersi che è stata truffata.»
Sbadigliò ancora, strofinandosi gli occhi, e mi sembrò tornato più giovane e indifeso. C'era qualcosa che mi commuoveva in lui. «Pensa, per tanto tempo mi ero domandato perché collezionava vecchi certificati azionari. Adesso so perché li vuole. Per rivenderli sulla West Coast. Non c'è da stupirsi che sia ricco, proprio no.» «Avrei dovuto capire che doveva aver fatto qualcosa di poco pulito per avere tanto liquido da investire, quando solo qualche anno fa neanche potevamo permetterci la carne a tavola.» Lo fissai angosciata. C'era qualcosa di dolce, di giovane, di turbato e struggente nei suoi occhi che m'imploravano di accostarmi a lui. E stavolta, cedendo al suo richiamo, avvertii il rimescolio dei sensi nel mio corpo. Preoccupata da quell'inaspettata eccitazione, feci dietrofront preparandomi a uscire. Non potevo permettere ad Arden di distrarmi. Papà doveva rendermi ragione della sua condotta disonesta. «Arden, tu non hai fatto parola con papà di quelle sue appropriazioni indebite, vero?» Lo sentii sospirare. «No. Tra l'altro, quando sono tornato a controllare gli scomparti segreti più tardi, li ho trovati vuoti.» Guardava verso la finestra a labbra strette, come avesse rinunciato a fare qualsiasi gesto per possedermi, e non disse nulla per indurmi a restargli vicina. «Immagino che Damian abbia pensato a ogni evenienza, e abbia qualche sistema per scoprire quando quei documenti e quei registri sono stati manomessi.» «Tu va' a letto. Io vado da lui.» «Preferirei che non lo facessi. Ti chiederà come fai a saperlo.» «Non dirò niente per fargli capire che me l'hai detto tu.» Mi aspettavo che protestasse ancora, invece si voltò e si avviò al letto. Mi chinai su di lui e gli diedi il bacio della buonanotte. «Audrina...» mormorò. «Mi ami davvero? Certe volte mi sveglio la notte e mi domando perché mi hai sposato. Spero che non sia stato solo per sfuggire a tuo padre.» «Sì, ti amo,» risposi senza esitare. «Può darsi che non sia il genere d'amore che vuoi tu... ma forse uno di questi giorni resterai sorpreso.» «Speriamo,» bofonchiò prima di sprofondare in un sonno pesante. Ah, se fossi rimasta a letto quella notte, e avessi dato ad Arden quello di cui aveva bisogno! Se non avessi avuto la presunzione di rimettere sempre tutto a posto! Mancava poco alle tre del mattino: mi aspettavo che papà dormisse. Quel che non mi aspettavo era di vedere una sottile lama di luce gialla fil-
trare sotto la porta della sua camera da letto, e tanto meno di sentire la sua risata confondersi a una sommessa risatina femminile. Mi fermai di colpo, senza sapere cosa fare o pensare. Possibile che fosse così rozzo da portarsi in casa una delle sue «femmine», come le definiva ironicamente la mamma? «Su, finiscila, Damian,» disse in quel momento una voce che non potei non riconoscere. «Adesso devo proprio andare. Non posso rischiare che i ragazzi ci scoprano.» Neanche per un istante mi fermai a riflettere su che fare ora che sapevo chi c'era con lui, e nemmeno pensai alle conseguenze del mio gesto impulsivo. Spalancai la porta ed entrai in quella stanza dalla luce soffusa che papà aveva riarredato riccamente dopo la morte della mamma. Il rosso screziato della tappezzeria e gli specchi dalle pesanti cornici dorate disseminati ovunque la rendevano simile a un fastoso bordello del XVIII secolo. Erano a letto insieme, la madre monca di Arden e mio padre, e si scambiavano carezze intime. Appena mi videro, Billie restò a bocca aperta e ritirò di scatto la mano. Papà tirò su bruscamente le coperte per nascondere i loro corpi. Ma io avevo visto abbastanza. La mia testa era così stravolta dal furore, che avrei voluto gridare tutte insieme le parole che mi sarebbero venute alla mente più tardi, non in quel momento. Tutto quello che mi riuscì di fare fu di gridare: «Puttana!...» e a lui: «Lurido figlio di troia! Esci da casa mia, Billie. Non voglio mai più vederti! Arden e io ce ne andiamo, papà, e portiamo via Sylvia». Billie scoppiò a piangere. Mio padre scivolò discretamente fuori delle coperte e si infilò una veste da camera di broccato rosso. «Bambina sciocca,» mi disse senza scomporsi, per niente imbarazzato, «Billie starà qui quanto le pare e piace.» Offesa, consapevole che Billie aveva tradito Arden e me, uscii e tornai di corsa in camera mia e lì scoprii che Arden si era rialzato per riprendere il lavoro, ma senza molto costrutto: difatti era crollato con la testa sulla scrivania, profondamente addormentato sulle sue carte. Un'ondata di tenerezza cancellò la mia rabbia: lo svegliai dolcemente e lo aiutai a togliersi la vestaglia. Poi, tenendogli la vita col braccio, lo aiutai a raggiungere il letto e rimasi tra le sue braccia finché non si addormentò. Mi arrovellai tutta la notte prima di trarre le mie conclusioni. La colpa non era di Billie, era di papà. Era stato lui che l'aveva sedotta con i suoi regali, il suo fascino, la sua bellezza e solo per il brivido perverso di fare l'amore con una donna senza gambe. Non potevo cacciare Billie. Era papà
che doveva andarsene perché tutti noi potessimo avere un'esistenza decente. E adesso avevo l'arma giusta per costringerlo a farlo. Avrei minacciato di svelare le sue frodi e le sue appropriazioni indebite. Quand'anche avesse nascosto i registri che lo incriminavano, io avevo tutte le informazioni necessarie sulle attività illecite della sua succursale di San Francisco - e questo sarebbe stato più che sufficiente. Ma le cose non sarebbero andate così. Billie venne da me il mattino seguente, subito dopo che Arden e papà furono usciti. Aveva gli occhi gonfi e cerchiati di rosso nel viso pallidissimo. Le voltai la schiena e continuai a spazzolarmi i capelli. «Audrina, ti prego... avrei voluto sprofondare sotto terra stanotte, quando sei piombata in camera sua e ci hai trovati a letto. So quello che pensi, ma non è così, ti giuro che non è così.» Io continuavo a strigliarmi i capelli con acredine. «Per favore, ascoltami,» supplicò piangendo. «Io amo Damian, Audrina. È lui il tipo d'uomo che ho sempre sognato e che non ho mai avuto!» I miei occhi lampeggiarono mentre provavo l'impulso irrefrenabile di sfogare su di lei tutta la mia rabbia, ma, chissà perché, le sue lacrime mi fermarono. Il colore dei suoi occhi mi fece uno strano effetto, come sempre mi avevano fatto troppi colori. Di solito Billie portava vestiti a tinte vivaci: cremisi, scarlatto, fucsia, blu elettrico, verde smeraldo, viola e giallo limone. Colori lampeggianti... barbagli di colori e campanelle che tintinnavano allorché arrivava il pericolo... Mi turai le orecchie con le mani e chiusi gli occhi, voltai la schiena per non dover più sostenere quello sguardo che implorava la mia comprensione. «Girati, Audrina, e tappati il cervello come stai facendo con le orecchie, però stammi a sentire bene. Io credo che anche lui mi ami, tesoro,» seguitò implacabile. «Forse tu pensi che lui non possa amarmi perché sono senza gambe. Invece io so che è vero, e anche se non fosse, io gli sarò grata in eterno perché mi ha dato un po' di ciò che mi è sempre mancato: un uomo vero. Di fronte a lui, i miei tre mariti non erano che ragazzini che giocavano a fare gli uomini. Damian non mi avrebbe mai abbandonata, sono sicura che non l'avrebbe fatto mai!» Allora dovetti guardarla, e capii che credeva sinceramente in ciò che diceva. I suoi splendidi occhi imploravano mentre le sue mani si tendevano verso di me. Arretrai appena. Lei si spinse più vicino a me. «Ascolta quello che dico, Audrina. Prova a
metterti nei miei panni, e allora forse capirai perché lo amo. Il padre di Arden ci ha abbandonati il giorno in cui ho perduto la seconda gamba. Era un debole, che si aspettava che lo mantenessi col pattinaggio. Quando non ho più potuto, si è trovato un'altra donna. Non scrive mai. Ha smesso di provvedere al mantenimento del ragazzo molto prima che Arden diventasse maggiorenne. Io ho dovuto consumarmi per guadagnare quattro soldi e tu stessa sai bene che Arden ha lavorato come un adulto da quando aveva dodici anni, e anche prima.» No! ebbi l'impulso di gridare. Quel che fai con lui è sporco, imperdonabile e tu avresti dovuto saperlo bene. Noi non potevamo non scoprirvi, per forza dovevamo... «Tuo padre è il tipo d'uomo che ha bisogno di una donna vicino, proprio come mio figlio. Damian non può stare solo, non può fare niente da solo. È contento quando torna a casa e sente un profumino venire dalla cucina. È contento se qualcuno bada alla sua casa, la tiene pulita, ha cura dei suoi vestiti, e io farei volentieri tutto questo per lui, anche se non mi sposerà mai. Audrina, l'amore non rende tutto meno brutto? Se c'è amore tutto cambia, non ti pare?» Non potevo credere che papà l'amasse. Sempre volgendole la schiena, mi irrigidii e mi venne voglia di gridare. «Va bene, tesoro,» mormorò con voce stanca. «Odiami pure se vuoi, ma non costringermi a lasciare la sola vera casa che abbia mai avuto e il solo vero uomo che mi abbia mai amato.» Mi voltai per guardarla in faccia e le dissi sarcastica: «Forse ti interesserà sapere che mia zia Ellsbeth lo amava come dici di amarlo tu, e che lui, oltre tutto, asseriva di ricambiarla. Ciò nonostante si è stancato presto di lei e tutte le sante notti, dopo che lei gli aveva fatto da serva preparandogli da mangiare, tenendogli pulita la casa e badando ai suoi figli dalla mattina alla sera, lui si vedeva con altre donne. Così lei ha finito col fargli da schiava e basta. Del resto era così che lei stessa si definiva: la sua schiava di cucina e di letto. È questo che desideri?». Dovetti fermarmi per riprendere fiato, e intanto sentii che dal televisore in camera di Vera provenivano le notizie del mattino. La pigra, pigra Vera, che difficilmente si alzava prima di mezzogiorno! «Verrà il giorno in cui smetterà di amarti, il giorno in cui ti guarderà e ti dirà delle cose così atroci che il tuo amor proprio andrà a pezzi. Ci sarà qualche altra donna alla quale dirà di amarla come nessun'altra prima di lei, e tu sarai solo una tacca sul suo cinturone, una tra le tante della sua car-
riera di conquistatore!» Sobbalzò come se l'avessi schiaffeggiata. Lacrime vive affiorarono negli occhi d'un azzurro tanto profondo; ma forse aveva già pianto troppe volte per riuscire a versarne ancora. «Se per Damian io non sono che una schiava in cucina, o un'altra conquista... anche così, Audrina, anche così gli sarei grata.» Parlò a voce più bassa. «Quando ho perduto le gambe ho pensato che mai più un uomo mi avrebbe voluta, tanto meno amata. Damian mi ha fatto sentire ancora donna. Tu mi vedi sorridente e serena, Audrina, ma questa è solo una maschera, qualcosa che metto addosso come un bel vestito. Ma il risvolto è che odio essere ridotta così. Non passa giorno in cui non pensi a com'ero prima: bella e forte, quando facevo tutto con scioltezza e per la strada attiravo le occhiate ammirate di tutti. Damian mi ha restituito il mio antico orgoglio. Tu non sai cosa significa sentirsi donna a metà. Sentirmi di nuovo ricostruita, completa, foss'anche per poco, è sempre meglio della desolazione che avevo di fronte prima.» Spalancò le braccia e implorò con gli occhi: «Tu sei come una figlia per me; perdere la tua stima mi fa troppo male. Audrina, perdonami se ti ho deluso e fatta soffrire. Ti voglio bene, Audrina, ti ho voluto bene da quando eri bambina e mi correvi incontro nel bosco come se avessi trovato una seconda mamma. Ti prego, non odiarmi proprio adesso, adesso che ho scoperto tutta questa felicità...». Non potendo più resistere mi gettai fra le sue braccia, perdonandole tutto, piangendo insieme a lei, e intanto dentro di me pregavo che al momento dell'abbandono, papà fosse più buono con lei di quanto non fosse stato con zia Ellsbeth o la mamma. «Ti sposerà, Billie,» dicevo abbracciandola tra le lacrime. «Capirà che deve farlo.» «No, tesoro, no... non così. Sarò sua moglie solo se lo vorrà. Senza costrizioni, senza ricatti. Che sia lui a decidere cosa è giusto fare. Nessun uomo trova la felicità in un matrimonio che non desidera.» Un leggero sbuffo di disgusto mi fece voltare verso la porta. Era comparsa Vera, col bastone che doveva usare finché la gamba zoppa non si fosse rinforzata. Da quanto tempo era lì a origliare? «Ma che meravigliosa notizia,» disse Vera asciutta, gli occhi neri duri e freddi... «Un altro scherzo di natura da aggiungere al museo di Whitefern.» «Non ho mai visto mia madre così felice,» commentò Arden qualche
settimana dopo mentre facevamo colazione insieme nel solaio ristrutturato. Eravamo circondati da centinaia di bellissime piante. Era aprile, e gli alberi cominciavano a mettere le gemme. I cornioli erano in fiore e le azalee effondevano i loro colori. Era una delle poche occasioni che avevamo di starcene soli. Vera era sdraiata in una delle verande con indosso soltanto un minuscolo bikini e fingeva di prendere il sole. Arden faceva grandi sforzi per non notare la sua presenza. Sylvia era sul pavimento con un gatto di pelouche preso dalla stanza dei giochi. «Micio,» aveva ripetuto più volte, «micio bello.» Poi, incapace di fissare la sua attenzione troppo a lungo, aveva abbandonato il gatto di pelouche per uno degli inseparabili prismi di cristallo, cominciando a orientarlo in modo da proiettare arcobaleni ovunque. Aveva acquistato una certa abilità nel dirigere i raggi e sembrò che volesse abbacinare Vera. Lei, comunque, portava gli occhiali da sole. Distolsi lo sguardo, con un senso di disagio. Sylvia camminava tranquillamente sugli arabeschi di colori rifratti che io avevo sempre evitato... ma cosa stava dicendo Arden? «La notte scorsa la mamma mi diceva che era così che aveva sempre desiderato vivere, in una casa meravigliosa, circondata da persone che ama. Audrina, ti è mai passato per la mente che forse mia madre si sta innamorando di tuo padre? Non possiamo denunciare le sue frodi. Questo lo rovinerebbe, e distruggerebbe lei. Gli parlerò io in privato e gli dirò che deve smettere.» Raccolse le sue carte in un fascio che batté sul tavolo per pareggiarne gli orli, quindi le ripose nella ventiquattr'ore e infine si chinò a baciarmi: «Ci vediamo alle sei. Divertiti con Sylvia giù al fiume. Abbi cura di te, e ricorda che ti amo...». Prima di andarsene non poté evitare di sbirciare ancora una volta furtivamente Vera che intanto si era tolta il reggiseno. Gli rivolsi un'occhiataccia, ma lui non se ne accorse. Aveva bei seni, né piccoli né grossi, e sodi gran bei seni che avrei preferito tenesse coperti. «Andiamo, Sylvia,» dissi alzandomi. «Aiutami a mettere i piatti nella lavastoviglie.» Papà fece il suo ingresso in cucina mentre stavo finendo di rigovernare. «Audrina, vorrei parlarti a proposito di Billie. Mi eviti dalla notte in cui ci hai sorpresi insieme. Ma Billie dice che ne ha parlato con te, e che hai capito. Hai capito veramente?»
Lo guardai dritto negli occhi. «Sì, ho capito lei, ma non te. Tu non la sposerai mai.» Sembrò sbalordito. «Perché, vorrebbe che la sposassi? Ma... che mi venga un colpo... non è poi un'idea da buttare.» Sogghignava e mi dava colpetti sotto il mento come se avessi due anni. «Se avessi ancora una moglie che mi adorasse non avrei più bisogno di una figlia, che ne dici?» Continuò a sogghignare mentre lo fissavo, cercando di capire se facesse sul serio o scherzasse. Lui però mi salutò e si affrettò a correre al lavoro insieme ad Arden. «Andiamo, Sylvia,» dissi, prendendola per mano e guidandola verso l'uscita laterale. «Oggi faremo una lezione sulla natura. I fiori sono tutti sbocciati, ed è ora che anche tu sappia come si chiamano.» «Dove andate?» ci gridò Vera vedendo che ci allontanavamo. Si era rimessa il reggiseno, ora che Arden se n'era andato. «Perché non mi chiedete di venire con voi? Adesso posso camminare... se non correte troppo.» Non le risposi nemmeno. Prima se ne andava, meglio era. Trotterellandomi dietro, Sylvia cercava di tenersi eretta. «Andiamo a vedere i pesciolini che saltano,» le dicevo, «le anatre, le oche, gli scoiattoli, i conigli e le rane e i fiori. È primavera, Sylvia, è primavera. I poeti scrivono sulla primavera più che sulle altre stagioni, perché questo è il tempo della rinascita, il tempo di festeggiare la fine dell'inverno e, se Dio vuole, la partenza di Vera. Poi verrà l'estate. Ti insegneremo a nuotare. Presto Sylvia sarà una signorina, non più una bambina. E quando lo sarà, noi vogliamo che Sylvia sappia fare quello che fanno le signorine della sua età.» Vicino alla riva del fiume mi voltai verso la mia sorellina che ormai aveva dieci anni. Ma lei non era più dietro di me. Guardai più lontano, verso casa, e vidi che Vera aveva steso una coperta sul prato e prendeva il sole leggendo un libro. Un leggero rumore sul limitare del bosco mi fece pensare che forse Sylvia voleva giocare a nascondino, cosa che avevo cercato di insegnarle a fare per mesi. «Okay, Sylvia,» dissi forte. «Sei pronta?... Sta' attenta, eccomi!» C'era un silenzio fitto nel bosco. Mi guardai attorno, ma Sylvia non si vedeva da nessuna parte. Cominciai a correre. Presi per sentieri poco battuti, tracciati come a caso, sentieri ignoti che in breve mi lasciarono frastornata e piena d'ansia. All'improvviso mi trovai davanti una samonea dorata, sotto c'era una bassa protuberanza erbosa. La fissai, facendomi di gelo. Era proprio su un rigonfiamento di terra sotto una samonea dorata che era stata
trovata morta la Prima Audrina, uccisa da quei ragazzi malvagi. Indietreggiai. Di solito il bosco era pieno di vita, risuonante di richiami degli uccelli che delimitavano il loro territorio. Perché c'era tanta calma? Calma di morte. Neppure le foglie frusciavano. Era discesa un'immobilità irreale, e io non riuscivo a staccare gli occhi da quella protuberanza erbosa che forse era proprio la stessa. Un tamburo prese a pulsarmi nelle orecchie. Morte. Sentivo odore di morte. Girando su me stessa, urlai ancora il nome di Sylvia. «Dove sei? Non nasconderti più, Sylvia... mi senti? Non riesco a trovarti. Adesso torno a casa, Sylvia. Dai, prova a prendermi.» Vicino a casa trovai in terra uno stelo spezzato di rosa eglantina. Era una traccia: quelle rose crescevano in un solo posto - vicino al villino nel quale avevano abitato Arden e Billie. Possibile che fosse andata e tornata di lì in così poco tempo? Dal primo giorno del suo arrivo, Sylvia aveva avuto l'abitudine di cogliere i fiori più belli per annusarli. Mi guardai di nuovo attorno, chiedendomi cosa fare. La rosa che in quel momento tenevo in mano era ancora tiepida, i delicati boccioli schiacciati, come fosse stata stretta troppo forte da una manina maldestra. Guardai in alto, il cielo si era rannuvolato e stava per piovere. Vedevo Whitefern, per quanto lontana... ma dove diavolo era Sylvia? Ma a casa, naturalmente, risposi a me stessa. Mentre percorrevo il sentiero che conduceva al fiume, convinta di averla ancora dietro, lei doveva aver cambiato strada e puntato verso il villino, pensando che fosse quella la nostra meta. Lì aveva colto le rose, poi si era stancata ed era rientrata: aveva una specie di istinto animale per il cattivo tempo. Ma non avevo certo intenzione di lasciarla sola, se per caso era ancora nel bosco. Tutti quegli anni avevo aspettato che Sylvia facesse qualcosa senza dipendere da me, a parte impossessarsi del carretto rosso di Billie... e lei doveva proprio scegliere quel giorno per andarsene in giro da sola! O forse Sylvia era arrivata fino al fiume a cercarmi, e mentre lei si trovava lì io ero nel bosco a contemplare paralizzata la samonea. Una folata di vento gelido sferzò i rami degli alberi che oscillarono bruscamente e mi colpirono il viso. Il sole sembrò un fuggiasco che corresse per sottrarsi al vento, tuffandosi dietro le nuvole plumbee che calavano sulle cime degli alberi come nere navi corsare. Cercai con gli occhi Vera sul prato, nella speranza che potesse dirmi se aveva visto Sylvia: non c'era
più. Ripresi a correre verso casa. Sylvia doveva essere lì per forza. Infilai la porta appena in tempo per sentire il primo tremendo scoppio di tuono proprio sopra la mia testa. Il fulmine si scaricò sibilando verso il fiume. La pioggia sferzò le finestre come se volesse schiantarle. La nostra casa era sempre in penombra, a parte i brevi momenti in cui il sole brillava attraverso le vetrate colorate; se non c'era il sole era quasi buia. Stavo pensando di cercare dei fiammiferi e accendere una lampada a kerosene, quando udii il grido: acuto, fortissimo, spaventoso! Qualcosa era rotolato pesantemente giù dalle scale. Lanciai un urlo e mi gettai in avanti per afferrare quel «qualcosa». Andai a urtare contro una sedia fuori posto... e sia io quanto Billie avevamo sempre cura di rimettere le sedie nella stessa impronta lasciata sui folti tappeti preziosi. «Sylvia... sei tu?» dissi con angoscia. «Sei caduta?» Oppure era Vera che ci riprovava per costringerci ad aspettare che un'altra frattura si rimarginasse prima di decidersi ad andarsene? All'altezza del pilastro della ringhiera inciampai contro una massa morbida. La mia mano sinistra scivolò su qualcosa di umido, di caldo, appiccicaticcio. Per prima cosa pensai all'acqua dei vasi delle felci, ma quell'odore... la sua viscosità... era sangue. Doveva essere sangue. Cercai a tentoni con la sinistra, muovendomi con cautela. Capelli. Capelli lunghi, folti, ondulati. Capelli forti, che al tatto riconobbi di un nero corvino. «Billie... Billie, Billie, per l'amor di Dio...» Lontano, nell'alto della cupola, le campanelle tintinnavano nel vento. Note limpide, cristalline, che mi corsero come un brivido giù per la schiena. Sollevato il corpo mutilato di Billie tra le braccia, piansi e la cullai, come avrei fatto con Sylvia. E intanto assurdi pensieri mi vorticavano la mente. Come era entrato in casa il vento? Chi aveva aperto le finestre della cupola, dove mai nessuno andava, tranne me? Le note squillanti continuavano, continuavano. Deposi dolcemente il corpo di Billie sul pavimento, mi trascinai carponi là dove doveva trovarsi un lume a petrolio, e alla cieca cercai i fiammiferi in un cassetto. Un istante dopo una fioca luce calda si diffondeva nell'atrio attraverso il paralume di perline. Non volevo voltarmi e vederla là, morta. Dovevo chiamare un medico, un'ambulanza, dovevo fare qualcosa: magari era ancora viva. Non potevo credere che fosse già morta. Zia Ellsbeth, Billie, zia Ellsbeth, Billie... si confondevano... e il refrain si
ripeteva... Riuscii a rialzarmi con uno sforzo enorme; come avessi avuto le gambe di piombo mi accostai alla forma immobile di Billie sul pavimento, i cui occhi sbarrati fissavano il soffitto decorato, come già un tempo gli occhi di mia zia. Adesso era ai miei piedi. Troppo tardi perché un medico potesse salvarla, mi dicevano quei suoi occhi vitrei. Fui presa dal panico, sentii che le forze mi abbandonavano, malgrado provassi un desiderio incontrollabile di mettermi a urlare. Alla luce tremolante e incerta della lampada non cessavo di contemplare la bellissima bambola senza gambe che giaceva in fondo alle scale. Un paio di metri più in là c'era il carrettino rosso sul quale doveva trovarsi quando aveva sbagliato i calcoli sulla sua posizione... o forse stava scendendo le scale, trascinandosi dietro il carretto... per venire ad accendere le lampade? Il tempo mi intrappolava in un tremendo déjà vu... zia Ellsbeth... Billie... ancora, ancora, le due donne si confondevano. Con la mano mi toccai il viso, che trovai insensibile. Mi scorrevano le lacrime tra le dita. Quella sul pavimento non era una bambola, in azzurro vivo, ma senza gambe, né piedi, né scarpe. Era invece un essere umano con le guance imbrattate di ombretto, nere di lacrime recenti. Chi aveva fatto piangere Billie dopo che papà se n'era andato? Chi aveva sbavato il suo rossetto scarlatto dopo che papà era uscito? Paralizzata dal terrore, fui richiamata in me stessa da un rumore familiare, lo scorrimento metallico di cuscinetti a sfera sul duro pavimento di marmo. Sul punto di urlare mi voltai di scatto, e vidi Sylvia che si spingeva sul carretto di Billie, danneggiato, ma ancora utilizzabile. «Sylvia... cos'hai fatto? Hai spinto Billie giù per le scale? Dovevi avere quel carretto a costo di far male a Billie? Sylvia, che hai fatto?» Proprio come una volta, come se non avessi passato una parte della mia vita a insegnarle a stare diritta, la testa di Sylvia ciondolò qua e là su un collo senza forza, come di gomma, e i suoi occhi si fecero vuoti e la bocca si socchiuse. Farfugliava, tremava, tentava di parlare, ma non riuscì a emettere niente di comprensibile. Sembrava tornata idiota come quando era arrivata a casa tanti anni prima. Corsi a prenderla tra le braccia, subito pentita e vergognandomi di me. Si strappò al mio abbraccio. I suoi occhi vacui parevano enormi nel visetto pallido e terrorizzato.
«Sylvia, perdonami, mi dispiace, mi dispiace. Anche se Billie non ti piaceva, non le avresti mai fatto del male, vero? Non l'avresti buttata per le scale, no, non l'avresti mai fatto.» «Che succede qui?» disse Vera, in cima alle scale. Un asciugamano lilla avvolgeva il suo corpo nudo, un altro le fasciava i capelli umidi. Teneva le braccia un po' allargate come se avesse appena finito di curarsi le unghie e temesse di rovinare lo smalto fresco. «Mi pareva di aver sentito gridare qualcuno. Chi ha gridato?» La guardai con occhi pieni di lacrime, poi indicai con la mano il pavimento. «Billie è caduta,» dissi debolmente. «Caduta...?» disse Vera mentre scendeva lentamente le scale appoggiandosi al corrimano. Quando fu sul primo gradino si sporse a scrutare il viso di Billie. Avrei voluto difendere Billie da quella oscena curiosità. «Oh...» sospirò Vera, «è morta. Si capisce dallo sguardo, l'ho visto cento volte. La prima volta che l'ho visto avrei gridato anch'io. Adesso, a volte, penso che alcuni siano meno infelici da morti. Giurerei di aver sentito gridare anche Sylvia quand'ero nella vasca.» Mi si mozzò il respiro. Tornai a guardare Sylvia, che continuava ad andare sul carretto rosso di Billie, con una luce d'intenso piacere negli occhi, come sapesse che adesso il carretto sarebbe stato suo per sempre, e correva su e giù, cantando sommessamente le canzoncine della stanza dei giochi. Stavo per sentirmi male. «Cos'altro hai sentito, Vera?» «Billie che gridava qualcosa a Sylvia. Pensavo che le stesse dicendo di lasciar stare il carretto, ma evidentemente non le ha dato retta. Lo voleva... e l'ha avuto.» Quando mi voltai, Sylvia non c'era più. Corsi a cercarla per tutta la casa, mentre Vera telefonava a papà in ufficio. Cosa aveva fatto Sylvia? Uno spiraglio di luce Sylvia sembrava scomparsa. In preda all'isterismo corsi fuori, incurante della pioggia, per cercarla. «Vieni fuori subito! Finiscila di nasconderti, Sylvia! Perché l'hai fatto? Hai spinto anche zia Ellsbeth? Oh, Sylvia... non voglio che ti rinchiudano in qualche istituto, non...» Inciampai e caddi per terra, dove rimasi riversa, singhiozzante e come tramortita dal dolore. Qualunque cosa cercassi di fare, per quanto mi sfor-
zassi, tutto andava sempre storto. Cosa c'era che non andava in me, in Whitefern, nel papà, in tutti noi? Era inutile cercare la felicità. Ogni volta che sembravo averla a portata di mano mi scivolava tra le dita, frantumandosi in mille pezzetti. Era ingiusto quello che era accaduto a mia madre, a mia zia, e adesso a Billìe. Picchiai i pugni per terra e mi rivolsi furiosa a un Dio spietato. «Smettila di farmi questo!» gridai. «Hai ucciso la Prima Audrina... stai cercando di uccidere anche me, uccidendo coloro che amo?» Un lieve tocco al braccio mi fece tornare in me. Attraverso le lacrime vidi Sylvia guardarmi con occhi imploranti, di nuovo capaci di mettere a fuoco: «Au... drii... naaa,» disse, nel suo lento modo stentato. Mi tirai su a sedere e, traboccante di sollievo, la presi tra le braccia. Sull'erba bagnata mi si accoccolò contro. «Non aver paura,» la rassicurai, «so che non volevi far del male a Billie.» Dolcemente la cullai avanti e indietro pensando, mio malgrado, alla sua ostilità nei riguardi di Billie e a quanto aveva desiderato il suo carretto rosso. Più di una volta aveva puntato i raggi dei prismi nei miei occhi. Un caso? Deliberatamente? Non c'era dubbio che qualunque cosa Sylvia avesse fatto, era stato fatto senza intenzione di uccidere. Aveva spinto Billie giù dal carretto dopo di che sia Billie che quest'ultimo erano rotolati fragorosamente giù per le scale. Ma non con un piano premeditato... giacché Sylvia non era capace di premeditare. Sylvia fece per parlare, ma le veniva difficile. Mentre si sforzava di cercare le parole giuste, ed eravamo inzuppate di pioggia come due pulcini, Arden arrivò di corsa. «Audrina, ha telefonato Vera. È successo qualcosa? Cosa ci fate voi due qui fuori sotto la pioggia?» Come dirglielo? Grazie a Dio Vera non ne aveva fatto cenno. La morte sembrava non essere niente per lei, un evento quotidiano che la rendeva a malapena curiosa, mai triste. «Andiamo dentro, tesoro,» dissi mentre lui mi aiutava ad alzarmi. Tenendo saldamente Sylvia per mano lo guidai verso la porta laterale e da lì al corridoio che portava in sala da pranzo. Restai impalata, lasciando che mi asciugasse i capelli con una salvietta che aveva preso dal bagno di servizio. Allo specchio vidi il mio tenue riflesso. «Si tratta di tua madre, Arden,» iniziai esitante. «Ebbene, che è successo a mia madre?» Subito allarmato, si passò una
mano nervosa fra i capelli. «Audrina, che cosa è successo?» «Sono andata al fiume con Sylvia; mi seguiva... o almeno così credevo...» Mi impappinai, poi dovetti dire tutto d'un fiato. «Quando sono tornata era scoppiato il temporale. L'atrio principale era buio. Qualcosa è rotolato giù per le scale. Ci ho inciampato contro. Poi, Arden... ho visto che... che era... Billie. È caduta per le scale. E il carretto le è arrivato addosso. Arden... è stato proprio come è accaduto a zia Ellsbeth...» «Ma, ma...» balbettò, lasciando cadere la salvietta e scrutandomi in fondo agli occhi. «Tua zia è morta... Audrina... la mamma... non è mica... non è mica morta?» Gli circondai il collo con le braccia, appoggiando la guancia contro la sua. «Sono desolata, Arden, desolata di dovertelo dire. Se n'è andata, Arden. È rotolata fino in basso. Credo che si sia rotta il collo proprio come è accaduto a mia zia...» Parve invecchiato di dieci anni. I suoi occhi si fecero vacui per nascondermi il dolore che non voleva che io vedessi, poi premette il viso nei miei capelli e pianse. Proprio in quel momento un ruggito assordante ci fece trasalire entrambi. La voce di papà urlava a Vera: «Cosa stai dicendo? Billie? Billie non può essere morta!». I suoi passi pesanti giunsero di corsa lungo il corridoio. «Billie non può essere caduta per le scale! Cose come queste non succedono due volte.» «E invece succedono quando in giro c'è Sylvia!» strillò Vera, zoppicando verso di noi. «Voleva il carretto rosso di Billie... e così l'ha spinta per farla cadere giù dalle scale. Io ero nella vasca da bagno. Ho udito le urla.» «In tal caso come fai a sapere che era Sylvia?» la investii. «Tu riesci a vedere attraverso i muri, Vera?» Nell'atrio papà si inginocchiò accanto alla sagoma immobile di Billie e la prese teneramente fra le braccia. La sua testa corvina dondolò all'indietro, in maniera molto simile a quella di Sylvia. «Le stavo facendo fare delle gambe artificiali,» annunciò con voce atona. «Mi aveva detto che non avrebbe mai potuto servirsene per camminare, ma io avevo pensato che le sarebbe piaciuto lo stesso avere due belle gambe da esibire quando la portavo in città. Sarebbe stato possibile sistemarle sopra i monconi di modo che non si vedessero. Così non sarebbe stata costretta a mettersi sempre quei soffocanti vestiti lunghi per... oh, oh, oh...» Scoppiò in singhiozzi. Amorevolmente ripose Billie sul pavimento poi balzò in piedi e fece per afferrare Sylvia. «Maledetta!» urlò mentre mi si avventava contro per por-
tarmela via. Mi parai davanti a Sylvia, sconvolta dal suo piagnucolio terrorizzato. «Aspetta un attimo, papà. Sylvia è stata sempre con me. Siamo andate insieme al fiume e quando siamo tornate Billie era stesa sul pavimento, morta.» «Ma Vera ha appena detto...» urlò, poi si fermò, guardando prima me poi Vera. «Sai bene com'è Vera, papà. Mente.» «Non ho mentito!» strillò Vera, il volto pallido ancora più bianco, i capelli color albicocca simili a un fiammeggiante incendio. «Ho sentito Billie sgridare Sylvia e poi l'ho udita urlare. È Audrina che mente!» Gli occhi di papà si strinsero mentre cercava di indovinare chi di noi due dicesse la verità. «E va bene, date due versioni differenti.» Tirò su col naso e si asciugò le lacrime, si strinse nelle spalle e si voltò in modo da non avere Billie sotto gli occhi. «È un fatto che Vera è una bugiarda, ma è anche un fatto che Audrina farebbe qualunque cosa per proteggere Sylvia. A prescindere da come Billie è morta... non sopporto più di avere Sylvia davanti agli occhi. La farò rinchiudere da qualche parte in modo che non faccia mai più male a nessuno.» «No!» urlai, stringendo Sylvia in un abbraccio protettivo. «Se fate rinchiudere Sylvia allora dovrete mandare anche me con lei! Qualunque cosa sia accaduta, è stato un incidente.» I suoi occhi duri si fecero due fessure. «Allora Sylvia non è stata tutto il tempo insieme a te?» In quel momento mi venne in mente qualcosa, togliendomi un peso dal cuore. «Papà, Sylvia non si sarebbe mai avvicinata a Billie. Rifiutava di lasciarsi toccare da lei, e non l'avrebbe mai toccata di sua spontanea volontà, neppure per portarle via il carretto. In genere glielo prendeva di nascosto quando Billie non guardava.» «Non ti credo,» ribatté papà guardando Sylvia con orrore. «Mi auguro solo, per il tuo bene, che almeno la polizia ti creda. Due incidenti mortali identici, e sulle stesse scale per di più, saranno piuttosto difficili da spiegare.» Toccò a lui chiamare la polizia e quando finalmente arrivò avevamo ritrovato tutti quanti il controllo dei nostri nervi. Dopo aver fotografato Billie almeno una dozzina di volte da tutti gli angoli, l'ambulanza della polizia la portò via. Camminando a grandi passi davanti al ricco camino, coperto di cuoio
sbalzato, papà costituiva un avversario spaventoso e temibile per il commissario di polizia venuto insieme ai due poliziotti che già avevano svolto le indagini sulla morte di mia zia. Gli disse la sua versione dei fatti senza tanti arzigogoli. Poi fu il turno di Vera. Non riuscii a credere alle mie orecchie quando vidi che non faceva menzione delle urla udite, né dei sospetti su Sylvia. «Ero nella vasca da bagno, mi stavo lavando i capelli, facendo la manicure, e quando sono uscita ho udito mia cugina già nell'atrio che urlava. Sono scesa e ho visto Mrs. Lowe in fondo alle scale.» «Aspetti un attimo, signorina. Ma lei non è la sorella di Mrs. Lowe?» «Siamo state tirate su come sorelle in questa casa, ma in realtà siamo solo prime cugine.» Papà aggrottò tempestosamente la fronte, ma parve anche tirare un sospiro di sollievo. Poi fu il mio turno di ripetere ciò che sapevo. Soppesai con la massima cautela ogni parola che pronunciai, facendo del mio meglio per proteggere Sylvia che intanto si era accoccolata in un angolo lontano, con la testa talmente reclinata che i lunghi capelli le coprivano del tutto il viso. Sembrava un cucciolo che si fa piccino per la paura, in un cantuccio sapendo di aver fatto qualche marachella. «In genere mia suocera scendeva le scale un gradino alla volta. Contemporaneamente si portava dietro il carretto, calandolo sul gradino successivo. Riusciva anche a salire le scale con lo stesso sistema. Aveva braccia fortissime. Aveva una scheggia nel dito. Probabilmente deve aver messo troppo peso su quel dito, perdendo l'equilibrio e cadendo. Non posso esserne certa giacché non ero presente. Avevo portato Sylvia, mia sorella, giù al fiume con me.» «E voi due siete rimaste insieme tutto il tempo?» «Sì, signore, tutto il tempo.» «E poi quando siete tornate lei ha trovato sua suocera morta sul pavimento?» «No, signore. Ero appena entrata in casa, non avevo ancora avuto modo di accendere le lampade, quando l'ho udita schiantarsi giù per le scale, insieme al carretto.» Vera teneva d'occhio il poliziotto più giovane, sulla trentina, che non la smetteva di fissarla. Oh mio Dio! Stava cercando di sedurlo, accavallava in continuazione le gambe, giocherellava con la scollatura dell'accappatoio semiaperto. Il poliziotto più anziano non sembrava altrettanto preso, ma
piuttosto disgustato. «Dunque questo significa, Miss Whitefern,» seguitò a bassa voce, «che lei era l'unica presente in casa nel momento in cui Mrs. Lowe è caduta.» «Stavo facendo il bagno,» ripeté Vera lanciandomi un'occhiata dura. «Stamattina ho preso il sole così mi sentivo tutta accaldata e appiccicaticcia. Sono tornata dentro per lavarmi i capelli e, come sempre faccio, sono rimasta a mollo nella vasca e mi sono fatta le unghie. Anche quelle dei piedi,» soggiunse. Protese le mani per mostrare le unghie curatissime. Le unghie dei piedi, lucenti e laccate di fresco, facevano capolino dai sandali. «Se avessi lottato con Mrs. Lowe avrei rovinato lo smalto.» «Quanto ci vuole per fare asciugare lo smalto?» L'aveva chiesto a me, non a Vera. «Dipende.» Mi sforzai di rammentare. «La prima mano asciuga in fretta, ma più mani si danno e più tempo ci vuole. Dopo l'ultima mano di smalto cerco di fare attenzione per almeno una trentina di minuti.» «Proprio così!» mi sostenne Vera, guardandomi con gratitudine. «E se lei sa qualcosa di unghie, smalto e manicure, vedrà bene che ho messo cinque strati di smalto, contando la base e il fissatore.» Il poliziotto parve smarrirsi nella complessità dei rituali femminili. Alla fine fu stabilito che il nostro salone principale era pericolosissimo per tutti, soprattutto dopo che, al termine di un'ispezione accurata, fu trovato un pezzo di passatoia fissata male. «Facile che abbia inciampato qui,» asserì il poliziotto più giovane. Fissai la guida rotta, cercando di ricordare come fosse potuto accadere, visto che casa nostra era stata rimessa a posto da cima a fondo e che quella guida sulle scale era nuova di zecca. E poi come poteva inciampare una donna senza gambe? A meno che in qualche modo non ci fosse rimasta impigliata con una mano, oppure che i suoi vestiti non si fossero agganciati a qualcosa... oppure che il raggio di luce di un prisma non le fosse stato diretto negli occhi per accecarla. Ma l'atrio era buio, dopo che il sole se n'era andato. Forse tutti quanti noi avevamo un'aria troppo sconvolta dal dolore per essere assassini, oppure papà aveva amicizie altolocate, giacché la nuova morte a Whitefern fu archiviata come accidentale. Adesso mi sentivo a disagio in presenza di Sylvia. Neppure zia Ellsbeth le andava a genio. Cominciai a tenerla d'occhio furtivamente, rendendomi conto ancora una volta, ma con maggiore chiarezza, che Sylvia detestava
chiunque potesse costituire una minaccia al posto che occupava nel mio cuore. Glielo si leggeva negli occhi, in ogni sua reazione, che io ero l'unica persona importante della sua vita, e che a me si sarebbe aggrappata. E questa situazione l'avevo creata io, con le mie stesse mani e... con una spintina da parte di papà. Il giorno del funerale di Billie mi sentivo malissimo, con la più brutta influenza che avessi mai avuto in vita mia. Febbricitante e depressa, me ne stavo distesa sul letto mentre Vera mi curava, apparentemente felice di esibire le sue conoscenze professionali. Girandomi e rivoltandomi nel letto in preda alla febbre, a malapena la udii mentre mi parlava di Arden e di quanto si era fatto bello. «Naturalmente è sempre stato attraente, ma quando era un ragazzino lo ritenevo debole. Adesso invece sembra aver acquisito parte della forza e della personalità di papà... l'hai notato?» Quello che diceva era vero. Arden era ambivalente nei riguardi di mio padre quanto lo ero io; lo detestava e lo ammirava e, poco per volta, ne stava acquisendo i modi affettati, la sua andatura, il suo modo fermo, deciso di parlare. Come in sogno vidi Billie seduta alla finestra del villino, passare ad Arden e a me quando eravamo bambini ogni genere di leccornie. La vidi come appariva l'ultima settimana di vita, radiosa di felicità perché era innamorata. Ma perché Billie aveva cercato di servirsi dello scalone principale quando le scale posteriori erano tanto più comode per andare in cucina? Proprio come zia Ellsbeth che aveva passato la maggior parte della sua vita in quella cucina. Possibile che dal momento che lo scalone principale portava direttamente al pavimento di marmo, senza le giravolte e i pianerottoli coperti dalla passatoia delle scale posteriori, fossero le uniche scale «mortali»? In tal caso era evidente che qualcuno aveva spinto deliberatamente sia mia zia sia Billie. Rivissi il giorno della morte di Billie decine di volte, udii le sue grida, poi il clamore e i tonfi del suo corpo e del carretto che si schiantavano giù per le scale. «Finiscila di piangere!» ordinò Vera aspramente, cacciandomi un termometro in bocca. «Ricordati quello che diceva mia madre: le lacrime non servono a nulla. Non sono mai servite e mai serviranno a nulla. Prenditi dalla vita quello che vuoi e non chiedere il permesso a nessuno, altrimenti non avrai nulla.» Malata com'ero, mi ritrassi alla durezza della sua voce che si faceva stridula quando non c'era attorno nessun uomo. Lanciò a Sylvia, accoccolata
in un angolo, un'occhiata maligna. «Quel mostricciattolo mi fa schifo. Perché non hai detto la verità alla polizia e non te ne sei sbarazzata? È stata lei a uccidere mia madre, ed è stata lei che ha ucciso Billie.» Si avvicinò a Sylvia e le si parò davanti, costringendomi a sollevarmi su un gomito, ansiosa di impedire ciò che sarebbe potuto accadere. «Stammi bene a sentire, Sylvia,» urlò Vera spingendola col piede. «Non provarti a scivolarmi dietro le spalle e a spingermi giù dalle scale perché starò in guardia... con me non ci riuscirai, capito?» «Lasciala in pace, Vera.» La voce mi mancava, avevo gli occhi appannati, ma ebbi l'impressione che Sylvia fosse molto più terrorizzata di Vera di quanto Vera non fosse di lei... così terrorizzata che strisciò carponi sotto il mio letto e ci restò nascosta finché papà e Arden non tornarono a casa. La vita si fece amara dopo la morte di Billie. Forse perché tutti quanti noi (tranne Vera e Sylvia) sentivamo tanto la sua mancanza, forse perché adesso soffrivo una duplice perdita ora che dubitavo e diffidavo di Sylvia. Rinunciai addirittura ai miei sforzi di insegnarle qualcosa. Non di rado, voltandomi di scatto, coglievo Sylvia che mi fissava malinconicamente con occhi supplichevoli. Non era tanto nei suoi occhi quanto nel suo atteggiamento allorché cercava di prendermi per mano o di compiacermi, portandomi fiorellini selvatici dal bosco. Il mio raffreddore si trascinò, facendomi tossire, per quasi tutta l'estate. Avevo diciannove anni e ancora aspettavo quel compleanno che me ne avrebbe fatto compiere venti. Allora sarei stata al sicuro, senza numeri nove a maledirmi. La vita sembrava così crudele con me: mi aveva portato via nello stesso anno la zia e Billie. E Vera era ancora con noi, facendosi carico delle faccende domestiche con un entusiasmo che sorprese e compiacque papà. Dimagrii e cominciai a trascurarmi. Il mio ventesimo compleanno venne e passò, e il sollievo di essere sfuggita a un anno con il nove non mi portò la felicità. Sempre più strisciavo nelle ombre lungo i muri e adocchiavo i colori con terrore. Rimpiangevo adesso che la mia memoria non avesse più buchi da riempire con la mia angoscia e i miei sospetti su Sylvia. Ma la memoria di gruviera ormai apparteneva alla mia infanzia e adesso sapevo anche troppo bene come aggrapparmi ai ricordi che mi tormentavano. Un altro autunno passò, un altro inverno. C'erano notti in cui Arden non rientrava affatto e io non me ne curavo. «Ecco,» mi disse Vera un giorno di primavera, prossimo all'anniversario
della morte di Billie, «bevi questo tè caldo e mettiti un po' di colore sulle guance. Sembri una morta in piedi.» «Preferisco il tè freddo,» replicai sospingendo via la tazza. Stizzita la sospinse di nuovo verso di me. «Bevi il tè, Audrina. Piantala di comportarti come una bambina. Non hai appena finito di dire un attimo fa che avevi i brividi?» Docilmente presi la tazza e accostai le labbra all'orlo, allorché Sylvia arrivò di corsa. Si gettò con tutto il suo peso contro Vera che cadde in avanti e si aggrappò a me per sorreggersi. Così facendo mi rovesciò la tazza di mano. Cadde per terra e andò in pezzi mentre io e Vera piombavamo rovinosamente sulla poltrona. Urlando di rabbia, il volto alterato dal dolore, Vera fece per punire Sylvia... ma si era lussata la caviglia. «Oh, maledetta deficiente! Adesso ne parlo con papà e la faccio rinchiudere!» Sbattendo le palpebre nel tentativo di ritrovare il controllo di me, mi tirai su e, per pura abitudine, presi Sylvia fra le braccia. «No, Vera, finché sarò viva io Sylvia non sarà rinchiusa da nessuna parte. Perché non te ne vai? Mi occupo io dei lavori di casa e della cucina. Non abbiamo più bisogno di te.» Scoppiò a piangere. «Dopo tutto quello che ho fatto per aiutarvi, adesso non mi volete più.» Singhiozzava come se il cuore le si volesse spezzare. «Sei viziata, Audrina, viziata. Se avessi un po' di sale in zucca avresti lasciato questo posto da un pezzo.» «Ti sono grata per esserti presa cura di me, Vera, ma da oggi in poi penserò io a me stessa.» Un giorno d'estate, Arden si precipitò a casa dall'ufficio prima del solito. Corse in camera mia e mi tirò giù dal letto. «Quel che è troppo è troppo!» urlò. «Avrei dovuto farlo da mesi! Non puoi gettare via la tua vita e la mia perché non sei abbastanza matura da affrontare la realtà. La morte ci circonda, Audrina; dal momento in cui veniamo al mondo camminiamo verso la nostra tomba. Ma prova a vederla in questo modo, Audrina,» seguitò con voce più dolce mentre mi prendeva fra le braccia, «nessuno muore fino in fondo. Siamo come le foglie degli alberi; sbocciamo nella primavera della nostra nascita e cadiamo nell'autunno delle nostre vite, ma torniamo. Proprio come le foglie in primavera, torniamo a vivere.» Per la prima volta da quel terribile giorno della caduta di Billie vidi per davvero lo sfinimento di mio marito, la sottile rete di rughe che circondava
i suoi occhi stanchi, orlati di rosso. Occhi che erano affondati nelle orbite, come i miei. Non si era sbarbato, e questo gli conferiva un aspetto rude, non suo; l'aspetto di un estraneo che non conoscevo e non amavo. Vidi difetti nel suo viso che mai avevo notato prima. Divincolandomi dal suo abbraccio, ricaddi sul letto e vi rimasi. Lui venne a inginocchiarsi accanto a me, mi appoggiò la testa sui seni, mi implorò di tornare da lui. «Ti amo, e giorno per giorno tu mi uccidi. Ho perso mia madre e mia moglie nello stesso giorno... eppure continuo a mangiare, a lavorare, a tirare avanti. Ma non ce la faccio più ad andare avanti con questa vita... se pure questa è vita.» Qualcosa dentro di me si spezzò. Le mie braccia si avvinghiarono attorno al suo collo e le mie dita affondarono nei suoi folti capelli. «Ti amo, Arden. Non perdere la pazienza. Tieni duro e vedrai che finirò per arrivare fino a te... so che è così, poiché lo voglio.» Quasi piangendo, baciandomi con passione pressoché frenetica, finalmente si ritrasse e sorrise. «E va bene. Aspetterò... ma non in eterno... Non dimenticarlo.» Poi andò in bagno a sbarbarsi e Sylvia si alzò dal suo cantuccio e venne ai piedi del letto a guardarmi. Pateticamente cercava di mettere a fuoco gli occhi. Le sue mani si protendevano imploranti verso di me, scongiurandomi di tornare anche da lei. Era cambiata. Quasi non la riconoscevo. A dodici anni Sylvia si era trasformata quasi nel giro di una notte (o mentre non guardavo) in una donna. Qualcuno le aveva spazzolato i capelli e glieli aveva legati in una coda di cavallo con un nastro di raso color acquamarina che richiamava quello di un grazioso vestito che non avevo mai visto prima. Totalmente sorpresa fissai il suo bel viso giovane, e il corpicino flessuoso che l'abito di cotone faceva risaltare. Che pazza ero stata a pensare che Sylvia potesse far del male a qualcuno! Lei aveva bisogno di me. Come avevo potuto dimenticare Sylvia nella mia apatia? Fissai Sylvia che intanto era ritornata nell'angolo più buio della stanza e vi si era accoccolata ripiegando le ginocchia sotto il mento mettendo in mostra l'orlo delle mutandine. Tirati giù il vestito, pensai, e la guardai obbedire senza alcuna sorpresa. Da un pezzo Sylvia e io avevamo sviluppato un rapporto telepatico. Madri e zie potevano morire, figlie e figli anche, eppure la vita continuava, il sole brillava e la pioggia cadeva e i mesi venivano e andavano. Papà cominciò a mostrare nel fisico i segni degli anni che passavano, ed
era anche meno duro di carattere. Sapevo che Arden si vedeva spesso con Vera fuori da Whitefern. Persino sotto il mio stesso tetto, non di rado li scorgevo sparire in qualche stanza non abitata. Chiusi gli occhi e la mente, fingendo di non accorgermi del volto arrossato di Arden e dei gesti furtivi con i quali Vera si lisciava l'abito che sembrava esserle stato dipinto addosso. Sorrideva compiaciuta, sprezzante, per dirmi che aveva vinto. Perché non me ne importava? Una sera tardi, quando ormai non mi aspettavo più che venisse in camera mia, Arden spalancò la porta e venne a sedersi sul mio letto. Con mio grande stupore cominciò a slacciarsi le scarpe, poi a togliersi i calzini. Feci per dire qualcosa di sarcastico circa Vera, che si era comportata da vera arpia per tutto il giorno, ma mi trattenni. «Nel caso ti interessasse,» annunciò con voce rigida, «non ho intenzione di toccarti. Desidero solo dormire in questa stanza e sentire il calore del tuo corpo vicino al mio, prima di decidere cosa fare della mia vita. Non sono felice, Audrina. E credo che neppure tu lo sia. Voglio che tu sappia che ho parlato con tuo padre e che lui non si appropria più indebitamente del denaro dei suoi clienti più creduloni. Adesso dice la verità sui certificati azionari di valore. Si è meravigliato che lo avessi smascherato e non ha negato. Si è limitato a dire: 'L'ho fatto per una buona causa'.» Mi diede quelle informazioni con voce atona, come se le parole servissero soltanto a riempire il baratro che c'era fra noi. Ora che era diventato vicepresidente dell'azienda di mio padre, Arden aveva smesso di parlare dell'antico sogno di tornare al suo primo amore, l'architettura. Aveva accantonato gli strumenti da disegno, insieme agli altri sogni della giovinezza. Più o meno tutti noi avevamo fatto la stessa cosa. Era il destino che indicava il sentiero da seguire. Eppure fece male vedere quegli strumenti sparire su in solaio, giacché le cose che salivano lassù raramente ne uscivano. Lo vidi mettere da parte le sue capacità creative come qualcosa di inutile e provai delusione nel constatare che aveva ereditato da papà il suo amore per il denaro, il potere, e ancora per il denaro. Per quanto avessi cercato a più riprese prove concrete del fatto che era l'amante di Vera, immagino che in fondo non volessi saperlo veramente, altrimenti avrei potuto coglierli sul fatto senza troppe difficoltà. E il tempo, una volta così veloce, poi così lento, tornò a scorrere turbinosamente proprio per la monotonia della quotidianità. E presto ebbi ventidue anni. Un'altra primavera e un'altra estate sarebbero presto scomparse, inghiottite nel vuoto che avevo creato attorno a me.
Tanto per fare qualcosa cominciai a coltivare seriamente le rose del giardino che la mamma aveva piantato tanto tempo prima. Acquistai libri di giardinaggio e mi iscrissi a circoli specialistici, portando Sylvia con me e per la prima volta presentandola in società. Poiché parlava poco l'opinione comune era che fosse estremamente timida. (Almeno così la gente fingeva di credere.) Le facevo indossare vestiti graziosi e le acconciavo i capelli. Lei sembrava perennemente spaventata e sollevata di tornare a casa per infilarsi i suoi vecchi indumenti. Un caldo sabato di fine maggio, stavo sarchiando la terra con un rastrello, in ginocchio a quattro zampe, prima di aggiungere il fertilizzante. Accanto a me avevo i bulbi di tuberosa che mi accingevo a infilare sotto terra. Sylvia era in casa a fare un sonnellino e Vera era andata con papà in città a fare acquisti. Improvvisamente una lunga ombra creò una pozza di fresco sopra di me. Sollevai la tesa del grande cappello di paglia e mi trovai a fissare Arden che pensavo fosse andato a giocare a golf con gli amici. Una piccola parte di me, invece, sospettava che lui e Vera si fossero accordati per incontrarsi in città. «Perché perdi tempo con queste cose e dimentichi la musica?» mi chiese aspramente, tirando un calcio al sacco di fertilizzante vicino agli attrezzi da giardinaggio. «Chiunque può far crescere dei fiori, Audrina. Ma non tutti hanno le capacità per diventare grandi pianisti.» «E che cosa ne è stato del tuo sogno di rendere bellissime tutte le città americane?» gli chiesi con sarcasmo, dicendomi che non appena avessi vinto un premio con i miei innesti di rose e tulipani, mi sarei dedicata alla coltivazione delle orchidee nella serra che avevo ordinato. E non appena le orchidee mi fossero venute a noia avrei trovato un altro hobby per tirare avanti finché anch'io, un giorno, sarei finita sottoterra nel cimitero di Whitefern. «Sei acida come tua zia,» osservò Arden, sedendosi sull'erba accanto a me. «Non abbiamo tutti quanti dei sogni, quando siamo giovani?» Nella sua voce e nel suo volto passò un'ombra di malinconia. «Un tempo pensavo che non avresti mai trovato qualcosa o qualcuno più affascinante o seducente di me. Come mi sbagliavo! Non ci eravamo ancora sposati che già chiudevi a chiave le porte per tenermi fuori. Tu non hai bisogno di me come pensavo. Ma guardati, ginocchioni per terra con quei guantoni di tela sulle mani, e per giunta tieni quel maledetto cappello sulla testa per coprirti il viso impedendomi di vederti in faccia. Non alzi neppure gli occhi per
incontrare i miei e hai smesso di sorridere quando torno a casa. Mi tratti come se fossi un mobile ingombrante che soffoca le tue giornate senza di me. Non mi ami più, Audrina?» Continuai a concimare le rose, a sarchiare il terreno per i tulipani, pensando alle orchidee, chiedendomi verso che ora si sarebbe svegliata Sylvia. Arden fece per passarmi il braccio attorno alle spalle. «Ti amo,» annunciò con voce così solenne che di botto smisi di fare ciò che stavo facendo. Stringendomi fra le braccia rovesciò il mio cappellaccio a tesa larga. «Se non puoi amarmi, Audrina, allora lasciami andare. Lasciami libero di trovarmi qualcuno che mi ami quanto io desidero amare ed essere amato.» Mi costrinsi a dire con voce indifferente: «Vera...?». «Sì,» ammise a denti stretti, «Vera. Per lo meno non è fredda e inerte. Mi tratta da uomo. Non sono né un santo né un diavolo, Audrina, solo un uomo con desideri che tu ti rifiuti di appagare. Ci ho provato per quasi tre anni... oh, se ci ho provato! Ma tu non ti arrendi e io sono stanco. Voglio andarmene! Voglio il divorzio per sposare Vera... a meno che tu non possa amarmi fisicamente quanto mi ami in altri modi.» Cambiai posizione per guardarlo in faccia. Davvero mi amava, era scritto nei suoi occhi. Vidi l'amore per me scintillargli in fondo agli occhi, insieme a una terribile tristezza. Divorziare da me e sposare Vera non l'avrebbe reso felice... non quanto una mia risposta fisica, per lo meno. Pensieri confusi mi turbinavano nella mente. Amore infantile, l'avevano definito mia zia e mio padre... e avevano visto giusto. Amore da adolescente che non chiedeva altro che abbracci, casti baci e mano nella mano. E adesso mi lasciava per Vera... e alla fine sarebbe stato un altro Lamar Rensdale. Vera non lo amava. Non avrebbe mai amato un uomo più di quanto non poteva amare se stessa, o forse proprio perché non poteva amare se stessa non avrebbe mai potuto amare qualcuno. Scossi il capo, chiedendomi se finalmente stavo crescendo. Possibile che la parte adulta in me sbocciasse proprio in quell'istante? Sentii il desiderio farsi strada in me, privo di quella paura che avevo provato la prima notte di nozze. Sarebbe potuto andarsene senza dirmi neppure una parola. Avrebbe potuto portare Vera con sé e io non avrei obiettato al divorzio, e lui lo sapeva. Eppure... mi stava dando un'altra occasione... mi amava... non era pietà... mi amava davvero. I suoi occhi frugarono nei miei e le sue mani mi ghermirono le spalle e la sua voce, piena di ansia, come se intuisse la battaglia che mi si stava svolgendo dentro, mi diceva con voce emozionata: «Possiamo ricomincia-
re da capo, questa volta possiamo cominciare col piede giusto. Solo tu e io, Audrina, senza Sylvia nella stanza accanto. Per Vera provo attrazione fisica, ma sei tu che amo nel modo dolce e romantico che suona sciocco con una donna pratica e poco romantica come Vera. Ogni volta che torno a casa e ti vedo seduta accanto alla finestra, lo sguardo perso nel vuoto, mi tocchi il cuore. Allora mi fermo e resto a guardare la luce che batte sui tuoi capelli e ti crea una specie di alone attorno, tanto che la tua carnagione sembra trasparente, e ogni volta provo la stessa incredulità e meraviglia al pensiero che sei mia moglie. Vera non mi fa sentire come se possedessi qualcuno di speciale, solo qualcuno che qualsiasi uomo può avere. Un tempo, quando ero più giovane, ero convinto che quando ti avessi conquistata sarebbe stato come conquistare una principessa che mi avrebbe amato per sempre, e da quel giorno saremmo vissuti felici e contenti, e avremmo camminato, mano nella mano, per tutta la vita, guardando alla vecchiaia senza timore. Ma non è così che sono andate le cose. Non posso continuare a questo modo, ad amarti prendendo Vera al tuo posto. Tu mi prosciughi, Audrina, mi prendi il cuore e lo strizzi, costringendomi a correre da Vera per trovare un po' di sollievo. E quando tutto è finito, provo solo soddisfazione fisica, nessun nutrimento spirituale. Tu sola puoi darmelo. Come puoi aspettarti che continui a desiderarti quando tu non mi desideri allo stesso modo? L'amore è come un fuoco che ha bisogno di essere attizzato in continuazione, non solo con teneri sorrisi e lievi carezze, ma anche con la passione. Ripetiamola, Audrina, la nostra notte di nozze, senza porte tra noi dietro le quali nasconderci. Senza vergogna; fai l'amore con me, adesso. Subito. Qui, all'aperto, dove ci troviamo. Damian è in città. Vera è andata con lui. Prima di venire qui ho visto Sylvia su quella maledetta sedia a dondolo, cantava e probabilmente andrà avanti a cantare finché non si addormenta...». Mi stava toccando il cuore, carezzandomi con gli occhi e facendomi ribollire il sangue come mai aveva fatto prima. I suoi occhi d'ambra erano incandescenti e persino la sua mano parve rovente allorché mi sfiorò appena il viso. Di scatto ritirò la mano come se la mia carne scottasse quanto la sua. «Tesoro, il matrimonio deve crescere, diventare adulto, avventuroso... Fa' qualcosa che non hai mai fatto prima. Non m'importa cosa. Prendi tu l'iniziativa. Non aspettare che sia io a cominciare.» No, mi dissi, non potevo farlo. Era dovere dell'uomo fare il primo passo. Sarebbe stato volgare, poco dignitoso, far la prima mossa. Ma i suoi occhi
erano imploranti, accesi di desiderio. Non lo meritavo... avrebbe dovuto lasciarmi, perché alla fine lo avrei deluso. Eppure lo volevo. Qualcosa mi diceva di fare come chiedeva, senza curarmi di quello che papà diceva degli uomini e dei loro desideri osceni che trascinavano nella vergogna la donna che li assecondava. Da un pezzo mio padre mi aveva fatto il lavaggio del cervello, mi dissi... Ma questa volta avrei ignorato tutti i segnali che mi dicevano pericolo, sozzura, malvagità... Non fu facile soffocare tutto ciò che urlava vergogna. Ero convinta che non sarei stata neppure in grado di iniziare a meno che non continuasse a guardarmi come mi guardava adesso. Si era fatto vulnerabile, aveva intrecciato le mani dietro la schiena e resisteva all'impulso di toccarmi per primo. Combattei le vocette instillatemi da papà e dai suoi insegnamenti... No, era mio marito, lo amavo, e lui mi amava davvero. «Ho paura, Arden... Ho tanta paura di perderti per Vera.» I suoi occhi erano caldi, dolci, incoraggianti. Occhi profondi e appassionati che mi incitavano ad andare avanti; non sarebbe stata la sua lussuria, solo il mio desiderio, e non era affatto la stessa cosa. Ciò che avrei fatto sarebbe stato ciò che volevo io... e se era male, ebbene che lo fosse. Arden aveva bisogno di me. Amava me, non Vera. Timidamente gli presi il viso fra le mani. Non si mosse. Le sue mani rimasero dove si trovavano, dietro la schiena. Lo baciai appena sulle guance, sulla fronte, sul mento, e, finalmente sulle labbra. Rimasero morbide, ma non troppo, appena socchiuse. Di nuovo lo baciai, con più passione e ancora non reagì. Con la immobilità mi diceva che avrei potuto fare di lui qualsiasi cosa, e mai mi avrebbe fatto del male. Azzardai un altro bacio che fu profondo e lungo ; intanto le mie braccia si chiusero attorno a lui e le mie mani presero a carezzargli la schiena, fin giù ai glutei. Qualcosa si stava risvegliando in me mentre lui mi permetteva di fare ciò che volevo, senza prendere iniziative o chiedere o suggerire. Una passione come mai avevo provato fino ad allora cominciò a gonfiarsi fonda e rovente e esigente in me. I miei seni si tesero e i capezzoli si indurirono di desiderio, mentre mi prendeva la frenesia di avere le sue mani sulla mia carne, di sentire il suo corpo, di introdurlo in me. Il mio respiro si fece più affannoso, anche il suo, eppure non fece nulla per stendermi al suolo, né per spogliarmi. Fui io che gli strappai la camicia di dosso. La cintura, anche, poi tirai giù la lampo dei calzoni e glieli abbassai. Senza vergogna gli tirai giù gli slip... e neppure allora lui mi toccò, sebbene si sollevasse sulle ginocchia per permettermi di liberarlo dei suoi indumenti,
dopo di che si sdraiò sulla schiena lasciando che gli togliessi le scarpe e i calzini. Sembrava ardere di impazienza, ma a me pareva ridicolo tenere scarpe e calze. Non una parola disse mentre cadevo sopra di lui e lo baciavo ovunque e ovunque lo frugavo, finché non resistetti più. E sotto un cielo di smalto azzurro, con i raggi caldi del solleone sopra di noi, guidai la sua penetrazione. Questa volta, questa meravigliosa prima volta, mi concessi di godere la sensazione del suo membro dentro di me, raggiungendo con lui quel genere di paradiso di cui avevo letto, ma che mai avevo provato. E allorché finalmente le sue braccia mi strinsero, gemetti per l'estasi di averlo reso finalmente tutt'uno con me. «Stai piangendo,» mi disse quando tutto fu finito. «È stato così meraviglioso. Finalmente ti ho trovata, Audrina. Dopo tanto tempo, ho abbattuto la barriera che tu hai innalzato tanto tempo fa.» Sì, aveva ragione. Una barriera che papà aveva costruito per tenermi per sempre legata a lui. «Certe volte ho pensato che fosse perché non mi amavi come un uomo, ma solo come un fratello.» «E tu hai continuato ad amarmi?» gli chiesi con meraviglia. «Non potrei mai smettere di amarti, Audrina, qualunque cosa accadesse.» La sua voce era roca, strozzata per l'emozione. «Sei nel mio sangue, fai parte della mia anima. Se anche non mi permettessi mai più di toccarti, continuerei a desiderare di svegliarmi accanto a te e di guardarti mentre dormi. Ho detto quelle cose prima solo per scuoterti e farti temere che avresti potuto perdermi. Certi momenti sembri così lontana, così assente, Audrina, quasi come se fossi in trance, oppure prigioniera di un incantesimo.» All'improvviso mi chinai a baciarlo, carezzarlo là dove non avevo mai voluto sfiorarlo prima. Con un gemito di esultanza mi strinse a sé. «Se mai dovessi avere la sventura di perderti, cercherei in tutto il mondo un'altra Audrina... e questo vuol dire che scenderei nella tomba senza trovarti. Perché al mondo non ci sarà mai un'altra Audrina.» «Un'altra Audrina? Hai mai conosciuto un'altra Audrina?» gli chiesi mentre un brivido mi correva su e giù per la schiena. Perché aveva detto una cosa simile? Le sue mani erano calde sulla mia pelle, gli occhi ancora più caldi. «È solo un modo per dire che devo avere te e nessun'altra.»
Fu dolce sentirglielo dire e facilmente mi sbarazzai di quell'improvviso brivido di apprensione scuotendomi via quella cappa di piombo che mi era calata sulle spalle, sul cuore e la coscienza. Giovane e gioiosa come mai ero stata, risi e tornai di nuovo a lui. Lo stuzzicai con baci e carezze, e sfrenatamente esplorai il suo corpo come tante volte aveva esplorato il mio. Giacché lo amavo talmente in quel momento che sarei potuta morire per lui. E pensare che una volta tutto questo mi era sembrato peccaminoso e perverso. Accidenti a mio padre per avermi inculcato quei preconcetti, per aver rovinato ciò che sarebbe potuto essere così sin dall'inizio. Il crepuscolo inondò il cielo con il suo roseo addio al giorno, tingendo di fiammeggiante cremisi la base delle nuvole, striando pennellate di viola con raggi di zafferano. Rincantucciata fra le braccia di mio marito, vidi il sole tuffarsi nella baia al di là del fiume. Guardai Arden mentre si addormentava profondamente. Per la prima volta dopo aver fatto l'amore mi sentivo pulita, degna di essere viva. Al contrario di papà che amava di più la Prima Audrina, Arden mi amava per quella che ero, non per quella che voleva che fossi. Lo strinsi in un abbraccio protettivo mentre guardavo i colori riflessi nell'acqua, diversi dai colori della casa. Giacevo immobile e intanto cominciavo a pensare che odiavo quelle vetrate colorate, quelle lampade e quei paralumi Tiffany, l'artificiosità di tutta quell'art déco e tutti quegli altri falsi colori creati dall'uomo che generavano in me false paure. Cosa dovevo temere, adesso? Nel cuore della notte mi svegliai. Mi era parso di sentire Sylvia chiamarmi per nome. «Au... drii... naa.» Ripetutamente, in lontananza, sentivo quel flebile richiamo. Vengo, Sylvia, la rassicurai col pensiero, come spesso facevo, e il mio messaggio in qualche modo le giunse. Per prima cosa dovetti togliermi il braccio di Arden dalla vita, poi, cautamente, spostai la sua gamba che intrappolava le mie. Una volta libera, mi chinai su di lui e gli carezzai la guancia, lo baciai sulle labbra. «Non andartene... dove vai?» mi chiese sonnacchioso. «Torno subito,» bisbigliai. «E farai bene,» mormorò lui insonnolito, sfinito da ore di passione. «Ti voglio... ancora... presto...» Un attimo dopo dormiva. Sylvia dormiva profondamente, raggomitolata sul fianco, angelica nel sonno, come sempre. Baciai anche lei, piena d'amore per tutti quanti. Nel sonno non era mai stata altro che stupenda e normale. Tornando verso la camera dove Arden dormiva e aspettava, mi parve di
sentirmi chiamare di nuovo per nome. La voce sembrava venire dalla stanza dei giochi... la sua stanza. Era forse gelosa perché finalmente avevo trovato un uomo che mi amava più di quanto qualcuno avesse mai amato lei? Dovevo andare nella sua stanza. Dovevo entrare e affrontare il suo terrore, che fino a quel momento mi aveva impedito di godere Arden come avrei potuto. Era stato da quella sedia a dondolo che avevo visto per la prima volta tre ragazzi aggredire la Prima Audrina e quello era stato il primo passo verso la strada della anormalità. Il secondo passo ad allontanarmi ulteriormente dalla possibilità di godermi il sesso era stato papà e tutte le cose che aveva fatto alla mamma e detto a me. E il terzo passo, quello che mi aveva allontanato di migliaia di chilometri, era stata l'indifferenza di papà verso il dolore di mia zia. Ma quello non era il mio orrore, mi dissi. Era quello di papà, era quello di mia zia, anche, e quello della prima figlia, morta prima che io nascessi. In un altro giorno di pioggia Che cosa mi aveva spinto nella stanza della Prima Audrina e costretto a sedermi in quella sedia a dondolo dove ora cantavo scioccamente? Via via che dondolavo si impadronì di me un inconscio terrore per questa sedia che aveva tormentato la mia infanzia, rendendomi di nuovo bambina. Qualcosa mi sussurrava di alzarmi e andarmene prima che fosse troppo tardi. Torna da Arden, diceva la parte saggia di me. Dimentica il passato che non si può cambiare, torna da Arden. No, mi dissi. Dovevo essere forte. Dovevo superare le mie paure e l'unico modo perché ciò fosse possibile era di evocare deliberatamente la scena di quel giorno di pioggia e riviverla di nuovo... ma questa volta avrei seguito il ricordo fino al momento della sua morte... e mi sarei liberata per sempre di lei. E ripetei da donna ciò che tante volte avevo fatto da bambina. Dondolai e cantai, e presto le pareti si fecero porose e mi si dissolsero davanti agli occhi e ancora una volta fui nella mente della Prima Audrina. Vidi mia madre come doveva essere stata allorché la Prima Audrina era viva, giovane e graziosa mentre l'ammoniva: «Audrina, prometti che non prenderai mai la scorciatoia attraverso il bosco. È pericoloso per le bambine traversare il bosco da sole». Indossava uno di quei vaporosi abiti di voile a tinte pastello che ondeggiavano alla brezza fresca del fiume. Tutti i colori preferiti, i suoi e i miei,
erano in quel vestito. Gradazioni di verde, azzurro, viola, acquamarina e rosa perla. I suoi stupendi capelli erano sciolti e gonfi di vento. E mentre pensavo queste cose meditavo anche di disobbedire e prendere la scorciatoia per venire a casa. La mamma si chinò a baciarmi sulla guancia. «Tesoro, obbediscimi anche se farai tardi per la festa del tuo compleanno. A ogni modo non può cominciare se tu non ci sei. Dimentica la scorciatoia e prendi l'autobus della scuola per venire a casa.» Ma anche Spencer Longtree prendeva l'autobus insieme alla sua banda di teppistelli. Non facevano che dirmi cose terribili, orrende. Non potevo ripetere le cose che mi dicevano. «B...R...U...T...T...A...» strillò Spencer Longtree che non aveva preso l'autobus per andare a casa. Affrontare il bosco non mi aveva risparmiato la sua orrenda presenza. «Audrina Adare ha i capelli brutti... Bi, erre...» «So già come si scrive brutto, Spencer Longtree,» gli gridai di rimando senza voltarmi, «e brutto è un aggettivo che ti si addice proprio alla P...E...R...F...E...Z...I...O...N...E!» «Adesso te la faccio vedere io... e magari dopo non ti sentirai più così superba e potente solo perché sei una Whitefern che abita in quella grande casa strana.» Che voglia di correre, saltellare, rotolare e divertirci nel bosco dove si nascondevano gli animaletti selvatici. Guarda le nuvole in cielo. Adesso coprono il sole e tutto si fa tenebra. Il temporale scoppierà prima di arrivare a casa? Mi rovinerà il vestito? I riccioli? Alla mamma sarebbe venuto un colpo se non fossi stata la più bella di tutte le bambine alla mia festa di compleanno... e quello stupido vestito era molto delicato e si sarebbe macchiato e ristretto. Arrivò la pioggia. Infilai il sentierino tortuoso a tutta velocità, sentendo il mormorio setoso del vestito rovinato che mi aderiva alle gambe. Mentre più avanti vidi i cespugli che costeggiavano il sentiero agitarsi. Esitai, pronta a fare dietrofront e a fuggire. La cortina di foglie sopra la mia testa formava una sorta di ombrellone dal quale la pioggia cadeva in goccioloni lenti ed enormi. Precipitavano sul terreno davanti a me, formando grosse macchie scure che presto si fusero tra loro, finché il terreno non fu tutto nero e fangoso. Certa gente fischiettava quando aveva paura. Io non sapevo fischiare. Avrei cantato. Buon compleanno a me, buon compleanno a me... Buon
compleanno, cara Audrina... buon compl... Interruppi la nota a metà e mi raggelai. Un inequivocabile movimento tra i cespugli davanti a me. Una risatina soffocata. Mi girai per fuggire dalla parte opposta, poi sbirciai dietro di me e vidi tre ragazzi sbucare dai cespugli contorti che costeggiavano il sentiero appena segnato. Graffi sanguinolenti sul viso davano loro un aspetto terrificante. Eppure anche sciocco. Sciocchi, stupidi ragazzini. Pensavano forse di potermi prendere? Io correvo più veloce di zia Ellsbeth, che si vantava che da ragazzina nessuno poteva batterla alla corsa. E proprio quando pensai di averli seminati, uno dei ragazzi fece un balzo e mi prese per i capelli. Quasi me li strappò dalla testa, tanto mi fece male. «Smettila, idiota!» gridai. «Lasciami andare! È il mio compleanno... lasciami andare!» «Sappiamo che fa male,» ringhiò la voce sgraziata di Spencer Longtree. «E siamo felici che faccia male. È il nostro regalo di compleanno, Audrina. Tanti auguri per i tuoi nove anni, piccola Whitefern.» «Piantala di tirarmi i capelli! Levami quelle sporche mani di dosso! Mi stai rovinando il vestito. Lasciami andare. Se vi provate a farmi del male mio padre vi farà mettere tutti in prigione e frustare!» Spencer Longtree sogghignò. La sua forte dentatura faceva concorrenza a quella di un cavallo. Avvicinò il suo foruncoloso viso equino al mio. Gli puzzava l'alito. «Sai cosa ti faremo adesso, faccia d'angelo?» «Mi lascerete andare,» dissi con aria di sfida, ma qualcosa dentro di me tremò. Un'ondata di terrore improvviso mi fece mancare le gambe, battere il cuore all'impazzata, tremare le vene ai polsi. «Nooo,» disse lui strascicando la voce. «No che non ti lasceremo andare... non prima di esserci accomodati. Ti strapperemo via questo bel vestitino, faremo a pezzi la tua biancheria e resterai nuda, e noi vedremo tutto.» «Non potete farlo,» annunciai in tono di sfida, cercando di farmi coraggio. «Le Adare che hanno i capelli del mio colore hanno il potere di gettare un incantesimo di morte su chi vuol far loro del male. Dunque attenzione a te e alla tua vita se mi fai del male, Spencer Longtree, zampe di ragno. Con i miei occhi viola posso bruciarti con le fiamme dell'eterno inferno, anche se sei vivo!» Sogghignando avvicinò il viso cosi tanto che il suo naso toccò il mio. Un altro ragazzo mi afferrò per le braccia e me le tenne imprigionate dietro la schiena «Avanti, strega» mi disse, «facci il tuo incantesimo!» La pioggia gli incollava i capelli alla fronte in una frangia appuntita. «Maledicimi e
salvati. Avanti, fallo; altrimenti fra un paio di secondi mi levo i calzoni e i miei amici ti terranno ferma mentre ciascuno farà i suoi comodi.» Allora urlai: «Vi maledico, Spencer Longtree, Curtis Shay e Hank Barnes! Che i demoni dell'inferno vi inghiottano tutti e tre fra le fiamme!». Per un istante esitarono, facendomi pensare che avrebbe funzionato. Guardando dall'uno all'altro pensai di poter correre e fuggire... ma proprio allora un quarto ragazzo sbucò da quegli stessi cespugli dietro i quali si erano nascosti loro, e io restai paralizzata a guardarlo. I suoi capelli scuri erano bagnati e incollati alla faccia. Deglutii e mi sentii mancare. Il sangue mi si fece acqua. Oh, no, non lui, non anche lui, mai lui! Lui non avrebbe mai fatto una cosa simile. Era venuto a salvarmi. Ecco perché era lì. Lo chiamai per nome, lo scongiurai di salvarmi. Lui sembrava in trance, lo sguardo fisso davanti a sé. Cosa gli era successo? Perché non prendeva un ramo, una pietra, e non li colpiva? Perché non li affrontava... perché non mi aiutava?! Non era così che doveva essere. Lui era mio amico. Se ne stava impalato, più pietrificato di me. Urlai il suo nome... e lui voltò le spalle e fuggì! La mia bocca si aprì per richiamarlo, ma qualcuno ci cacciò dentro uno straccio. «Avevo torto, Audrina. Sei proprio un bel pezzo di figliola.» Mi strapparono i vestiti. Il vestito nuovo fu lacerato da cima a fondo e scagliato per aria. Atterrò su un cespuglio sotto la samonea dorata. Poi fu la volta della sottoveste con il pizzo irlandese e i trifogli ricamati a mano, anch'essa strappata e gettata nel fango. Mi dibattei follemente, allorché mani rudi cercarono di tirarmi giù le mutandine, scalciando, urlando, contorcendomi, dibattendomi, cercando di strappare occhi profanatori dalle loro orbite. Poi il fulmine squarciò l'aria, il tuono rombò. Ero terrorizzata all'idea di essere all'aperto durante un temporale. Urlai ancora. Accadde velocemente, ma non abbastanza. Le mie vezzose mutandine furono tirate giù e strappate. Le mie gambe vennero spalancate mentre un ragazzo mi teneva per la testa... e uno alla volta tutti e tre parteciparono alla mia dissacrazione. E mentre venivo stuprata continuavo a pensare a lui. A quel codardo che mi aveva voltato le spalle ed era fuggito! Poteva restare e combattere, anche se era destinato a perdere, giacché così lo avrei perdonato. Forse lo avrebbero ucciso, come stavano uccidendo me... meglio quello che questo. Tornai alla sedia a dondolo nella stanza dei giochi. Avevo gli occhi spa-
lancati, spalancati tanto da farmi male. Lo avevo visto di nuovo con i capelli incollati al viso dalla pioggia. Arden! Era questo il nome che lei aveva urlato... e lui era fuggito. Oh, le menzogne che mi erano state dette solo per impedirmi di sapere chi era davvero Arden! Oh, nessuna meraviglia che papà mi avesse messa in guardia contro i ragazzi, e soprattutto Arden. Papà lo conosceva per quello che era... un codardo, perverso quanto gli altri, di più forse, poiché lei lo conosceva e si fidava di lui, lo riteneva un amico, e poi lui era venuto a me... anni dopo? Lui era stato presente! Attraverso me stava redimendo se stesso! Oh, oh, oh... adesso sapevo perché la mia memoria era piena di buchi. L'avevo già visto nei miei incubi, numerose volte, e mi ero costretta a dimenticare che lui c'era quando quei ragazzi avevano stuprato e ucciso la Prima Audrina solo perché era una Whitefern, odiata da tutti gli abitanti del villaggio. Papà mi aveva mentito quando mi aveva detto che la Prima Audrina aveva nove anni più di me! Vera aveva detto la verità! E papà mi aveva costretto a sedermi in quella sedia a dondolo per raggiungere pace e serenità. Aveva preso il mio vaso vuoto e l'aveva colmato di orrore, cosicché mai più avrei avuto fiducia in qualcosa che fosse di sesso maschile. Singhiozzai, consapevole di aver tradito anche lei, sposando l'amico da cui si era aspettata difesa e protezione... mentre invece l'aveva tradita e se l'era data a gambe. Balzai in piedi e fuggii da quella stanza. Oh, se l'avessi saputo prima non sarei mai andata al villino! Quel giorno non sarebbe mai arrivato. Papà, perché non mi hai raccontato tutto sulla tua prima figlia? Perché mi hai taciuto tante cose? Non sapevi forse che la verità serve molto più delle menzogne? Menzogne, quante menzogne... e pensare che invece Vera aveva sempre detto la verità quando sosteneva di aver conosciuto la Prima Audrina, che era stata tanto migliore di me... più graziosa, intelligente, simpatica... Mentre correvo verso la mia camera da letto, decisa a svegliare Arden e a gettargli in faccia la verità, una lampada a gas si avvicinò. Un istante dopo una torcia elettrica mi fu puntata negli occhi. Accecata dalla luce, dopo l'oscurità del corridoio, a malapena intuii i contorni di una mano che faceva ondeggiare un prisma di cristallo davanti al fascio di luce della torcia elettrica. Poi feci dietrofront e fuggii. Qualcuno mi seguì. Udii un rumore di passi. Urlai, mi girai e gridai: «Arden, sei venuto a finire quello che altri hanno cominciato? Cosa stai cercando di farmi?».
Altre luci esplosero. Disseminati lungo il corridoio del piano superiore, c'erano centinaia di prismi di cristallo, che catturavano colori scintillando, trafiggendomi gli occhi, accecandomi, minacciandomi. Piroettai su me stessa, confusa e disorientata, incace di trovare la direzione della mia camera. Poi le mani... mani che mi colpirono alle spalle, da dietro... Mani spietate, forti mani che mi fecero rotolare in avanti, nel vuoto... giù, giù, sempre più giù... con dolori tremendi, finché la mia testa non andò a sbattere... e poi fu l'oscurità. Bisbigliando, bisbigliando, sulle basse onde della marea serale voci galleggiavano. Chiamavano. Mi costringevano a tornare da un luogo che non potevo nominare. Ero io quella, quel minuscolo puntolino nel cielo? Come facevo a vedere davanti, di sotto, di dietro e di sopra? Che fossi soltanto un occhio nel cielo che vedeva tutto e non capiva nulla? Di chi era quel nome che sentivo sussurrare? Il mio? E di chi era questa stanza? La mia? Giacevo in un angusto lettino, gli occhi fissi al soffitto. Confusamente riconobbi il cassettone sulla parete opposta della stanza, l'ampio specchio che rifletteva ciò che avevo dietro il letto. La vista mi si schiarì e vidi la chaiselongue bianca che Arden aveva voluto comprarmi. Whitefern, ero ancora a Whitefern. Dalla stanza accanto la voce di Vera che parlava sommessamente ad Arden mi raggiunse. Rabbrividii, o ci provai. C'era qualcosa che non andava in me, ma non avevo tempo di soffermarmici. Dovevo concentrarmi su quello che in quel momento stava dicendo Vera. «Arden,» seguitò a voce più alta, «perché continui a opponi? È per il tuo bene, e anche per il suo. Sai che sarebbe lei la prima a volerlo.» A volere cosa? «Vera,» replicò la voce inconfondibile di mio marito, «devi darmi il tempo di prendere una decisione come questa... una decisione... irrevocabile.» «Ne ho abbastanza di te e di lei,» replicò Vera. «Devi deciderti, Arden, o lei o me. Credi che possa starmene qui a perdere tempo in eterno... aspettando che ti decida?» «Ma... ma...» balbettò mio marito, «in qualunque momento, oggi forse, o domani, potrebbe uscire dal coma.» Coma? Ero dunque in coma? Non potevo crederci. Vedevo, sia pure confusamente, udivo sia pure ovattatamente. Questo doveva significare qualcosa, vero?
«Arden,» riprese Vera con voce bassa e suadente, «io sono infermiera e di queste cose me ne intendo. Nessuno può restare per oltre tre settimane in coma e uscirne senza danni irreversibili al cervello. Pensaci un attimo, ma pensaci bene. Per il resto della tua vita saresti legato a un vegetale. E dopo la morte di Damian ti ritroverai anche Sylvia... non dimenticarlo. Con questi due pesi sulle spalle piangerai a calde lacrime per non aver seguito il mio consiglio. Ma allora sarebbe troppo tardi. Non ci sarei più. E tu, mio caro, non avresti mai il coraggio di farlo da solo.» Il coraggio di fare cosa? Si stavano avvicinando. Ebbi l'impulso di girare la testa per guardarli entrare. Volevo vedere l'espressione di Arden e scrutare gli occhi di Vera e vedere se davvero lo amava. Volevo tirar giù le gambe dal letto e alzarmi. Ma non potevo muovermi, non un solo dito. Potevo solo giacere dove mi trovavo, dura e immobile, schiacciata da un senso insopportabile di angoscia e di perdita. Ancora e poi ancora fui travolta dal panico. Sommersa dal panico. Come poteva essere accaduto? Non ero la stessa di oggi, di ieri sera, di una settimana fa? Che cosa mi aveva resa così? «Vera, tesoro,» disse Arden, più vicino adesso, «non sai come mi sento. Che Iddio mi aiuti, anche così com'è non posso smettere di amare mia moglie. Voglio che Audrina si riprenda. Ogni mattina, prima di uscire per andare al lavoro, vengo in questa stanza e mi inginocchio accanto al suo letto e prego per la sua guarigione. Ogni sera, prima di coricarmi, ripeto lo stesso gesto. Mi inginocchio e aspetto che i suoi occhi si aprano, che le sue labbra si schiudano, che parli. Sogno di rivederla viva e sana. Sono in croce e sempre lo sarò finché lei non tornerà in sé. Solo un segno di vita e non consentirei mai... mai...» Si interruppe, singhiozzò, tacque. «Anche così non voglio che muoia.» Ma Vera voleva. Non so come, sapevo che Vera era responsabile di questa situazione, come era responsabile degli avvenimenti più tragici della mia esistenza. «E va bene!» strillò Vera. «Se davvero ami ancora Audrina allora non puoi essere innamorato di me. Mi hai usata, Arden, usata! Mi hai derubata! Per quel che ne so potrei portare in grembo un altro tuo figlio... come già ne ho portato uno senza che tu lo sapessi.» «Siamo stati insieme una volta sola allora, Vera, una sola. Non puoi essere certa che il padre ero io. Troppe circostanze contro. Sei venuta tu a cercarmi, Vera. Mi hai fatto capire che mi volevi, che eri disposta a qualunque cosa e io ero giovane, e Audrina ancora una bambina.»
«E resterà per sempre una bambina!» strillò Vera. Poi la sua voce si abbassò di un'ottava mentre seguitava la sua opera di persuasione. «Anche tu mi volevi, Arden. Mi hai presa e ti è piaciuto, e il prezzo l'ho pagato io.» Oh Dio, oh Dio... Non finiremo mai, tutti quanti noi, di pagare, mi dissi, la mia mente in un vortice mentre cercava di afferrarsi a qualcosa di stabile. «Ma se tu l'ami, Arden, tientela. Ti auguro che le sue braccia ti diano conforto quando ne avrai bisogno e che i suoi baci ti scaldino le labbra e la sua passione appaghi il tuo desiderio. Dio sa se ho mai conosciuto un uomo che ha bisogno di una donna più di te. E non startene lì impalato a pensare di assumere un'altra infermiera al posto mio. Può darsi che tu non te ne renda conto, ma Audrina ha bisogno di me. Anche Sylvia ha bisogno di me. Malgrado quello che sostenevi circa il fatto che Sylvia non sopporta nessuno all'infuori della tua cara mogliettina, sono riuscita a indurla a fidarsi di me, persino a volermi bene.» «Sylvia non si fida e non ama nessuno all'infuori di Audrina,» disse Arden. Fissai Vera. I suoi lucenti capelli albicocca spuntavano da una cuffietta bianca inamidata. Ogni ciocca in ordine perfetto. La sua carnagione pallida sembrava morbida quanto lo stucco, ma anche così era estremamente graziosa in bianco, con quegli scintillanti occhi neri che aveva. Duri occhi crudeli da ragno, mi dissi. E proprio come facevo io, prese il bel volto di Arden fra le mani, sfiorando con le unghie cremisi le sue guance. «Tesoro, ci sono molti modi di capire se Sylvia si fida. E io comincio a conoscerla...» Oh Dio! Sylvia non si sarebbe mai fidata di lei! L'ultima persona al mondo di cui si sarebbe fidata era Vera! Come se mi avesse udita, Sylvia entrò nel mio campo visivo. Intuii che si era sollevata dal suo ripiegamento perpetuo e capii anche che adesso che non ero più lì a proteggerla era disperata. Con la sua andatura vagante venne verso il mio letto come per farmi scudo. Povera Sylvia, per tutta la vita non avevo desiderato altro che la sua salvezza, e adesso toccava a lei pensare alla mia. I suoi occhi acquamarina mi fissarono vuoti, come se vedesse attraverso me, oltre me, un luogo remoto. Sylvia, Sylvia, che peso era stata. La croce da portare per il resto dei miei giorni. E adesso io sarei stata la croce di qualcun altro. Cercai di deglutire l'autocommiserazione che provavo e scoprii di poter controllare a
malapena i muscoli della gola. Continuavo a pensare a quel lontano giorno di tanti anni prima, quando papà aveva portato a casa Sylvia. La mia sorellina, di nove anni più giovane di me, e nata nel giorno del mio compleanno. Povere, maledette ragazze Whitefern, nate ciascuna a nove anni di distanza una dall'altra. Era forse per questo che zia Ellsbeth continuava a dire: «Strano, strano,» e intanto mi guardava come per darmi un segno. E, naturalmente, era strano. La mia intera esistenza era costruita sulla menzogna. Quell'Audrina più vecchia non era di nove anni maggiore di me. Perché avevo quei pensieri? C'era qualcosa in fondo al mio cervello... qualcosa che era accaduto nella stanza dei giochi... qualcosa che mi aveva fatto odiare Arden... «Arrivederci, Arden», disse Vera, irrompendo nei miei pensieri mentre si dirigeva verso la porta, lasciando mio marito a guardarla con espressione sconvolta. Improvvisamente ciò che la sedia a dondolo aveva rivelato mi tornò alla mente e ricordai ciò che aveva fatto alla prima, morta Audrina. Eppure soffrivo per il suo terribile dilemma... tenermi, ora che ero un nulla, e tenere Sylvia, una creatura errabonda senza intelligenza, oppure lasciare tutto quanto e prendere quel poco di felicità che poteva trovare... o rubare. «Non andartene!» esclamò Arden. La sua voce suonò bassa e rauca, come se le parole gli fossero uscite dalla gola contro la sua volontà. «Ho bisogno di te, Vera. Ti amo. Forse non nello stesso modo in cui amo mia moglie, ma è pur sempre amore. Farò ciò che vuoi, qualunque cosa. Solo dammi un po' di tempo. Da' a Audrina un altro po' di tempo... e prometti di non far del male a Sylvia.» Di nuovo Vera rientrò nel mio campo visivo, tutta sorrisi, i suoi occhi da ragno scintillanti. La sua figura voluttuosa ondeggiava di qua e di là mentre scivolava fra le braccia vogliose di mio marito. Si fusero insieme, muovendosi all'unisono, seguendo il ritmo di una musica silenziosa mentre la loro lascivia esplodeva proprio sotto i miei occhi. Talvolta la natura è benigna. La vista mi si oscurò. Cominciai a perdere i sensi, ma scolpito nella mia memoria c'era il pensiero che dovevo salvare Sylvia e liberare Arden da una donna che alla fine avrebbe compromesso la sua personalità. Ma perché curarmene in fondo? Lui aveva tradito anche la Prima Audrina proprio nel momento in cui lei aveva avuto maggiormente bisogno di lui... e fu allora che seppi. Toccava a me punire Arden, non a Vera.
Dovevo restare viva per Sylvia, per salvarla dalla rovina. Papà doveva pur essere da qualche parte... dovevo salvare anche lui da Vera. Ma come, se non potevo muovermi, né parlare? Via via che i giorni passavano monotoni, cominciai a conoscere Vera come mai l'avevo conosciuta prima, dalle parole crudeli che mi diceva. Pensando che non la udissi, diceva sempre la verità. «Vorrei che potessi sentirmi e vedermi, Audrina. Chiavo con il tuo amato Arden. Lui lo chiama fare l'amore, ma io so bene cos'è. Pagherà per tutto quello che mi è toccato sopportare per averlo. Mi darà il mondo, questa casa, la fortuna di papà e tutto quanto c'è in questo orrore di posto verrà venduto all'asta. Non appena sarà tutto intestato a me mi libererò di Sylvia... e anche di papà.» Scoppiò in una risata crudele. «Arden è così attraente per certi versi, così dipendente dalle donne per la sua felicità. Che sciocchi gli uomini a lasciare che questo accada. Io ammiro gli uomini che sanno tenere la moglie al loro posto... ma nella nostra famiglia l'uomo sarò io. Presto o tardi Arden mi apparterrà, non dubitarne.» Le sue unghie appuntite mi graffiarono mentre mi rovesciava brutalmente sul fianco per cambiare le lenzuola. Mi aveva messa così precariamente vicina all'orlo del letto che quasi caddi per terra. Fui afferrata per i capelli e per una gamba e riportata al sicuro. Mi assestò una pacca sul sedere nudo, come se avessi cercato di proposito di rotolare giù dal letto. Poi mi rimise sulla schiena, fece il giro del letto, e finì di rimboccare le lenzuola pulite prima di scrutarmi il corpo nudo con aria inquisitrice. Era talmente terribile essere nuda e vulnerabile e incapace di proteggermi... e i suoi occhi non erano più gentili di quelli devastanti dei ragazzi del bosco. «Sì, capisco perché ti abbia amato un tempo. Bei seni,» disse, pizzicandomi i capezzoli di modo che provai un sordo dolore. Dolore... questo voleva dire che stavo riprendendomi... se me ne avesse dato il tempo. «Vita sottile, anche, ventre piatto, piacevole, molto piacevole. Ma la tua bellezza ti sta abbandonando, Audrina cara, in fretta. Queste giovani curve voluttuose che lui ama, presto non saranno che carne floscia, grigia e pendente e allora lui non ti rivorrà.» Immobile continuavo a scrutare il soffitto sopra di me. Dov'era papà? Perché non veniva a trovarmi? Dal suo angolo, Sylvia si protese in avanti, gli occhi acquamarina attenti mentre studiava Vera. Cautamente si faceva più vicina, sempre più vicina.
A malapena intuivo l'ondeggiare dei suoi lunghi capelli nella penombra dell'ampia stanza. Eppure con la mente continuavo a ordinarle di fare qualcosa per salvarmi. Se non vuoi essere rinchiusa in uno di quei posti orribili aiutami, Sylvia! Aiutami! Fa' qualcosa per salvare la mia vita e la tua! E intanto Sylvia si era avvicinata abbastanza da trovare una chiazza di sole pellegrino che le ricadde sui capelli trasformandoli in rame. Nella mano si rigirava in continuazione il prisma di cristallo, come un bambino piccolo ammirava i raggi multicolori disegnare miriadi di arcobaleni per la stanza. Un raggio di arancio e scarlatto puntò direttamente negli occhi da ragno di Vera. «Smettila!» urlò Vera. «È questo che hai fatto a mia madre, non è vero? E anche a Billie, eh?» Come un granchio, Sylvia strisciò al suo posto nell'ombra, senza staccare gli occhi da me e da Vera. Vera continuava a farneticare come se io fossi il suo confessore e quando finalmente mi avesse messa sotto terra avrei portato i suoi segreti con me e mai più sarebbe stata perseguitata dalle cose orribili che aveva fatto. «Vuoi sapere una cosa, sorellina? In certi momenti ho la sensazione che Arden pensi che sono stata io a spingere sua madre giù dalle scale. Certe volte, quando mi crede addormentata, si solleva su un gomito e mi guarda fisso, facendomi venire il dubbio di parlare nel sonno e di rivelare cose che non dovrei dire. Lui, sì, che parla nel sonno. Ti invoca in continuazione, cerca di richiamarti dalla tua catalessi. E se lo sveglio in quei momenti mi volta le spalle, a meno che non desideri fare l'amore. Capisco che non vuole altro da me. In un certo senso non credo che si fidi di me, né che mi ami davvero, ha solo bisogno di me di tanto in tanto. Ma io riuscirò a farmi amare più di quanto ami te. Dieci volte più di quanto ama te. Tu non sei mai stata una vera moglie per lui, Audrina. E come avresti potuto dopo quello che è accaduto?» La sua risata squillò tintinnante come cristallo, evocando le campane a vento della cupola. «Ma che bel regalo di compleanno avevano quei ragazzi per la cara Audrina!» Arden sopraggiunse proprio in quel momento. Afferrò Vera per le spalle. «Cosa le stai dicendo? Potrebbe sentirti! Ma non lo sai che i medici sostengono che una paziente in stato di coma può sentire e pensare senza che nessuno lo sappia? Ti prego, Vera, anche se dovesse morire, voglio che muoia credendo in me e amandomi.» Di nuovo rise. «Dunque è vero, tu eri lì e non hai mosso un dito per salvarla. Bell'innamorato sei diventato! Te la sei data a gambe, Arden, a
gambe! Ma capisco, capisco perfettamente. Erano talmente più grandi e più grossi di te, hai dovuto pensare a te stesso.» Confusa, cercai di tirare le fila di quelle parole... finalmente sapevo il segreto della Prima Audrina, che non aveva nove anni più di me. Ma perché papà mi aveva raccontato una menzogna così sciocca? Perché non dire la verità? Questo significava che Vera doveva aver giocato con la Prima e la Migliore, e che davvero l'aveva conosciuta e l'aveva amata talmente che mai io avrei potuto prendere il suo posto. Ma allora anch'io l'avevo conosciuta! La testa cominciò a dolermi. Menzogne, la mia intera esistenza era costruita su menzogne che non avevano senso. Giorno dopo giorno Vera mi curava con ribrezzo, mi squadrava con disgusto, mi spazzolava i capelli con tale rudezza che mi venivano via a ciocche. Con gesti spazientiti, mi inseriva il catetere, anche se Arden era presente nella stanza. Grazie a Dio aveva abbastanza rispetto e decenza da distogliere lo sguardo. Ma sovente, quando Vera era in giro da qualche parte, mio marito veniva da me e mi parlava con dolcezza mentre mi muoveva braccia e gambe delicatamente. «Tesoro, svegliati. Voglio che tu guarisca. Sto facendo il possibile per impedire che le tue gambe e le tue braccia si atrofizzino. Vera dice che non serve a nulla, ma i medici dicono il contrario. Non vuole che io parli con loro, a meno che non sia presente lei. Per qualche ragione sembrano terribilmente riluttanti a parlare; forse Vera sta cercando di impedirmi di sapere troppo. Ogni giorno mi tormenta perché tolga la spina all'apparecchio che ti mantiene in vita. Lei non ne ha il coraggio. Oh, Audrina, se solo potessi salvarti e salvare me dal fare qualcosa che mi rovinerebbe per il resto dei miei giorni. Vera mi dice che sono debole... e forse lo sono, perché quando ti vedo in questo stato, giorno dopo giorno, anch'io mi dico che forse staresti meglio morta. Poi dico di no, ti riprenderai... ma, Audrina, se dimagrisci ancora un po' ti ridurrai a un niente, anche se Vera e io non muoviamo un dito.» Era debole. Aveva tradito lei, e anche me. Malgrado le sue dichiarazioni d'amore continuava ad andare da Vera ogni notte. Poi un giorno, quando già avevo abbandonato la speranza, papà venne in camera mia, gli occhi traboccanti di lacrime che mi caddero sul viso come calda pioggia estiva. Cercai di sbattere le palpebre per fargli capire che ero cosciente, ma non avevo il controllo dei miei muscoli. Le palpebre si apri-
vano e si richiudevano senza la mia volontà. «Audrina,» singhiozzò, cadendo in ginocchio accanto a me e stringendo la mia scheletrica mano inerte, «non posso permettere che tu muoia! Ho perso tante donne nella mia vita. Torna da noi, non lasciarmi solo con Vera e Sylvia. Non sono quello che cerco o voglio. Tu sei l'unica sulla quale ho potuto contare. Che Iddio mi perdoni se ti ho messo un peso insopportabile sulle spalle amandoti troppo.» Ero stanca anche di papà. Non so se fosse tornato altre volte. La volta successiva che mi svegliai, mi parve che fossero passate parecchie settimane. Ma adesso ero tornata com'ero da bambina; il tempo non aveva più senso per me, dunque come facevo a sapere? Ero ancora nel letto. Nella stanza non c'era anima viva, tranne me. La casa era silenziosa; la sentii enorme e vuota. Giacevo immobile, paralizzata, cercando di escogitare un modo di fuggire mentre Vera era occupata altrove. La porta si aprì e Arden e Vera entrarono insieme. Lei gli si rivolgeva in tono irritato. «Arden, certe volte sembri un ragazzo e non un uomo. Deve pur esserci un modo legale per costringere Damian a lasciarti il suo denaro quando muore. Non può non rendersi conto che Audrina non ha alcuna possibilità di sopravvivergli, né di godere dei suoi milioni.» «Ma Sylvia avrà sempre bisogno di cure, Vera. Non posso biasimare Damian per aver pensato a lei. Quando, o se, Audrina dovesse morire, inserirà nel suo testamento una clausola in base alla quale se Sylvia verrà mai rinchiusa in un istituto, o morirà, la parte di eredità che mi viene da Audrina verrà sospesa. Ha intenzione di fare un lascito vincolato di modo che venga erogata in pagamenti mensili. A me non importa se mi lascia qualcosa. Posso sempre guadagnarmi abbastanza di che mantenere, vestire e nutrire comodamente te e me.» «Mantenere, nutrire e vestire? È questo quello che vuoi dalla vita? Fuori delle pareti di questo mausoleo c'è un mondo di piacere che ci aspetta. Inseguilo, Arden! E se non lo farai tu, lo farò io. Guardami. Ho venticinque anni, un anno meno di te. Il tempo passa così in fretta. Presto avremo entrambi trent'anni. È adesso o mai più. A che mi serve avere un sacco di denaro quando sarò troppo vecchia per godermelo? A che servono i bei vestiti e i gioielli costosi quando hai perso la linea e il collo è coperto di rughe? Io voglio tutto e subito, Arden, immediatamente! Finché sono abbastanza bella e giovane da essere soddisfatta di me. Decidi, Arden. Decidi quello che vuoi. Agisci per una volta nella tua vita! Hai permesso che i sensi di
colpa dominassero la tua esistenza perché quel giorno nel bosco hai fatto cilecca... e in un certo senso hai fatto cilecca di nuovo quando sei stato così babbeo da sposare Audrina. Dillo adesso che vuoi me e non lei, subito. Voglio uscire da questa situazione insopportabile... oggi stesso!» Palesemente dilaniato dal dubbio, Arden guardò prima me, poi Vera e infine Sylvia che strascicando i piedi era entrata nella stanza. Vagò senza meta nella mia stanza e infine si avvicinò al letto e con mani goffe cercò di carezzarmi i capelli mentre tentava di balbettare il mio nome. Ma c'era Vera, e la sua presenza gli faceva addirittura tremare le mani. Con espressione profondamente turbata, lentamente si voltò e allargò le braccia come a proteggermi. «Tutte le volte che può, Sylvia mi scivola dietro e mi salta addosso. Affonda i denti in qualunque parte del corpo le capiti a tiro. Io la picchio, scalcio, le pesto i piedi e le tiro i capelli per farla smettere, ma lei tiene duro come un mastino! È pazza.» E intanto Arden continuava a fissarla senza parlare. Poi il suo sguardo si posò su di me che me ne. stavo immobile come un pezzo di legno, gli occhi semichiusi, il labbro pendulo. Dalla fleboclisi una soluzione mi sgocciolava nelle vene e i miei capelli, opaca massa senza vita, erano sparsi sul cuscino. Sapevo di non poter attrarre nessuno. «Sì,» disse pesantemente mentre una nebbia si addensava attorno a lui e a Vera. «Immagino che tu abbia ragione. Audrina preferirebbe morire piuttosto che vivere in queste condizioni. È così giovane e ha sofferto tanto. Non è terribile che non sia mai stato in grado di aiutarla quando l'unica cosa al mondo che avrei voluto era evitarle altre sofferenze? Oh Dio, se avessi potuto comportarmi in maniera diversa, forse niente di tutto questo sarebbe accaduto!» Abbassò la testa. L'ultima cosa che vidi questa volta fu lui inginocchiato vicino a me, la mano aggrappata alla mia, e sulle nostre mani avvinghiate sentii la sua guancia bagnata di lacrime. E un istante prima che galleggiassi via in quel nulla che chiamano sonno, sentii il calore del suo volto, il bagnato delle sue lacrime. Cercai di parlare, di dirgli che non sarei morta, ma la mia lingua restò paralizzata e persi di nuovo conoscenza. Estremi preparativi In quella che più tardi avrei scoperto essere una limpida giornata estiva
sentii come in sogno che la mia morte era prossima. Tanto mi disse il passo deciso con cui Vera entrò in camera quella mattina. Si avvicinò al mio letto e mi fissò in volto. Tenni gli occhi quasi chiusi, sapendo che le ciglia avrebbero creato l'impressione che dormissi. La sua mano fredda mi toccò la fronte per sentire la temperatura. «Fredda,» disse, «ma non abbastanza fredda. Ti stai forse riprendendo, Audrina? La tua carnagione è più bella oggi... caspita, sembri quasi viva. E ho anche l'impressione che tu sia ingrassata un pochino. Per quanto Arden sicuramente non se ne accorgerà.» Ridacchiò. «Lui non vede altro che il tuo viso, anche quando viene di nascosto qui dentro per muoverti le braccia e le gambe. Anche papà lo fa, ma i suoi occhi sono sempre talmente pieni di lacrime che neppure lui ci vede. Sono entrambi talmente schiacciati dal senso di colpa che mi meraviglio che riescano ad alzarsi il mattino e ad andare al lavoro.» Lanciò un'occhiata a Sylvia che da qualche tempo aveva preso l'abitudine di dormire sul pavimento accanto al mio letto. «Via di là, idiota!» Fece un movimento che dedussi essere un calcio. Sylvia squittì di dolore, dopo di che balzò in piedi e corse a rifugiarsi nel suo cantuccio preferito. Vi si acquattò fissando Vera con occhi sospettosi. «Ultimo bagno,» canticchiò Vera. «Non vorrei che i poliziotti pensassero che ti ho trascurata. 'Ti laverò quell'uomo dai capelli',» cantò a gola più spiegata, «'ti dipingerò il viso e ti farò bella... ma non tanto bella da farlo piangere per molto'.» Rendeva la mia morte simile a una commedia musicale, mentre si dirigeva verso di me con un catino di acqua tiepida e numerose salviette. Rapidamente staccò la fleboclisi e mi coricò da un lato di modo che la mia testa penzolò fuori del letto, sopra il catino. Si servì di parecchie caraffe di acqua calda per lavarmi e sciacquarmi i capelli. Subito dopo mi ricoricò supina sul letto, mi lavò, e sopra la testa mi calò una delle mie camicie da notte più belle. Parve cogliere una differenza nella flessibilità delle mie membra. Sembrò turbata, esitò, poi scosse il capo e prese a spazzolarmi e a sistemarmi i capelli asciutti. Più volte avvicinò pollice e indice per spalancarmi le palpebre e sbirciarmi negli occhi. «Ti ho visto muoverti? Audrina, giurerei di averti visto muovere. Hai anche fatto una smorfia quando ti ho tirato i capelli. Stai forse fingendo di essere ancora in coma? Ebbene, non mi importa un accidenti. Tieni duro, fingi e ti ritroverai sotto terra. Hai già finto troppo a lungo, Audrina. Sei così immobile adesso che non puoi fare più niente per te stes-
sa. Troppo debole per camminare, troppo debole per parlare e papà e Arden sono via tutto il giorno per una conferenza a Richmond. Rincaseranno tardi stasera. Presto mi precipiterò dal parrucchiere con la macchina di Arden e sarà Nola, la nuova cameriera, a trovarti.» Ogni senso mi si affilò, mi mise all'erta. Il mio istinto di sopravvivenza si risvegliò mentre vibravo di apprensione, chiedendomi come pensasse di uccidermi e cosa potessi fare per salvarmi. Poco dopo Vera si servì della mia toilette per truccarsi con i miei cosmetici. Colsi la fragranza del mio profumo francese, annusai la mia cipria. Poi la udii frugare nel mio armadio. Trovato ciò che voleva, entrò nel mio campo visivo, indossando il mio vestito più bello. «È agosto, Audrina. Agosto a Parigi, che luna di miele sarà! Prima che il mese finisca, Arden Lowe mi apparterrà... e ha raccolto abbastanza prove su papà per farlo finire in gattabuia. Non vuole usarle, però, perché il caro papà si è ravveduto e adesso non imbroglia più. Il tuo nobile Arden l'ha fatto smettere. Del resto non voglio che papà finisca in prigione. Lo voglio dove posso mettergli addosso le mani e farlo pagare, pagare, pagare. E quando avrò tutti i suoi soldi, il caro vecchietto finirà in un ospizio, e la cara Sylvia avrà anche lei quello che si merita. Credo che sia molto romantico da parte tua morire in estate. Metteremo sulla tua tomba tutte le rose che ami. Ricordi la prima scatola di cioccolatini che Arden ti ha mandato per il giorno di san Valentino? Me li sono mangiati tutti quanti, fino all'ultimo! Ti odiavo anche allora per aver attirato la sua attenzione, quando io ero più adatta a lui. Sono tre mesi che sei senza conoscenza... lo sapevi? Credo che tu possa sentire. Secondo tuo marito tu e lui vi eravate finalmente 'trovati' proprio prima che cadessi giù dalle scale. Sul serio, Audrina, quante cose inventi per complicarti la vita. Troppe persone cadono dalle scale in questa casa. Sarebbe ora di far rinchiudere Sylvia prima che tocchi a qualcun altro. Hai protetto un'omicida, Audrina. Ma da oggi in poi non dovrai più preoccuparti di nulla. Adesso vado in paese e mi faccio vedere in giro per benino. E mentre io non ci sarò... la cosa si compirà. Tornerò a casa e ti troverò morta.» Rise poi lanciò un'occhiata dura a Sylvia. Il ticchettio dei tacchi alti sul pavimento suonò sinistro mentre si dirigeva verso la porta. Ero sola adesso, sola con Sylvia. Cercai di parlare, di chiamare, ed ebbi la sensazione di avere emesso un rumore gorgogliante, gracchiante, ma dalla gola non mi uscì altro. Sylvia,
le ordinai mentalmente, vieni da me. Fa' qualcosa per aiutarmi. Non permettere che mi trovi qui quando torna. Ti prego, Sylvia, ti prego... Nel suo cantuccio Sylvia giocava con parecchi prismi, usandoli per creare numerosi raggi multicolori che si incrociavano. Di tanto in tanto distoglieva lo sguardo dalla luce e mi fissava. Dovevo ritrovare la voce. La disperazione mi diede la forza di parlare. «Sylvia... aiutami...» mi uscì in poco più di un gemito, ma Sylvia udì e comprese. Pigramente si tirò in piedi. Con tormentosa lentezza vagò non verso il mio letto ma in direzione della toilette, che non si rifletteva nello specchio del cassettone. La udii però trafficare con i barattoli di crema e le bottigliette. Schiacciò l'atomizzatore del profumo, facendo giungere fino a me l'essenza di gelsomino. Sylvia, gemetti di nuovo. Aiutami. Portami via. Nascondimi. Ti prego, ti prego... Sylvia... aiuta Audrina. Qualcosa aveva attratto la sua attenzione. Adesso la vedevo riflessa nello specchio del cassettone. Guardava verso di me. Sbalordita, quasi spaventata. Centimetro dopo centimetro veniva verso il mio letto. In mano teneva il mio specchio d'argento, e di tanto in tanto guardava la sua immagine riflessa, come affascinata dalla avvenente ragazzina nello specchio... non c'era da meravigliarsi. Quando teneva la testa alta e tirava indietro la sua criniera di capelli arruffati era bella da togliere il fiato. Ritrovai la voce, debole e tremante: «Il carretto di Billie, Sylvia... il carretto rosso... cerca il carretto. Mettimici sopra». Lentamente, lentamente, venne a scrutare con occhi vacui il mio viso. Poi guardò nello specchio che teneva in mano. Capivo che cosa stava guardando. Somigliava più a me adesso di quanto io somigliassi a me stessa. «Ti prego... Sylvia... aiutami,» sussurrai. La porta si aprì. Il mio cuore quasi cessò di battere. Vera era tornata inspiegabilmente in fretta. Cosa era accaduto? Poi capii la ragione per cui era tornata. Aveva un sacchetto di plastica pieno di biscotti. Proprio il tipo di biscotti per i quali Sylvia andava pazza. «Guarda, Sylvia,» la blandì Vera nella più zuccherosa delle voci, «sono anni che la bella Sylvia non assaggia ghiottonerie del genere, non è vero? La brutta Audrina non ti fa mangiare biscotti, ma la bella Vera te lo permette. Vieni, Sylvia, mangia i tuoi biscotti da brava bambina e domani te ne porto altri. Guarda dove mette i biscotti la tua cuginetta... sotto il letto.» Cosa aveva in mente?
Pochi istanti dopo Vera si rialzò, prese la borsetta che in realtà era la mia borsetta e, ridacchiando sommessamente tra sé, si diresse di nuovo verso la porta. «Addio, Audrina, addio. Quando arriverai in cielo saluta tua madre da parte mia. E se trovi mia madre, ignorala. Morire non farà male. La tua scorta di cibo finirà, tutto qui. La macchina che ti tiene in funzione i reni smetterà di funzionare... vedrai, non soffrirai. Forse quando si fermerà il respiratore smetterai di respirare... è difficile dirlo, ma non puoi durare a lungo. Tutto quel piangere per Billie ti aveva già debilitato parecchio prima della caduta. E lo sapevi che io contribuivo drogandoti il tè? Appena appena, quanto bastava per tenerti in uno stato di costante apatia.» Bang! Sbatté la porta. Ancora non era uscita completamente che già Sylvia era carponi sotto il letto. Quando la rividi aveva la bocca piena e in mano teneva una manciata di biscotti... e nell'altra mano c'era quell'unica spina che collegava tutti gli strumenti medici alla presa della corrente... Buon Dio. Vera aveva legato i biscotti alla spina i cui cavi penzolavano dalla mano di Sylvia. Sylvia staccò il filo dai biscotti, lo lasciò cadere per terra, poi tornò a riempirsi la bocca. Mi sentivo strana, strana davvero. Sylvia si faceva confusa, più confusa... Stavo morendo! Tu vuoi che muoia, Sylvia? Disperata ora, concentrai ogni brandello residuo di forza di volontà per controllarla. Decisa a vivere, combattei la sonnolenza che cercava di inghiottirmi, sempre più giù. Come per consolidare la propria forza, cercando di mettere a fuoco lo sguardo e tenercelo, mia sorella sfiorò la lacrima che mi era scivolata dall'occhio destro. «Auuu... driii... naaaa...?» Mi amava. Il seme gettato nel terreno che era Sylvia stava germogliando, ridandomi messe in abbondanza. «Oh, Sylvia, svelta.» Vera sarebbe potuta rientrare più presto di quanto pensassi. E Sylvia era così lenta... Insopportabilmente lenta. Parvero ore prima che Sylvia tornasse col carretto rosso di Billie, tutto scassato dopo essere rotolato giù dalle scale. «Buuu... ttaaa... Vera...» borbottò Sylvia, afferrandomi per il braccio e cercando di tirarmi giù dal letto. «Buuu... ttaaa Vera...» Ansando, boccheggiando, riuscii a emettere un piccolo suono che ricordava un «si», poi con la mente ordinai a Sylvia di sollevarmi. Di sicuro non potevo pesare troppo. Ma la sua forza era talmente esigua che non poté far altro che tirarmi per un braccio e una gamba. Finalmente riuscì a ti-
rarmi giù dal letto cosicché atterrai sul folto tappeto. Il colpo irradiò onde concentriche di dolore per tutto il mio corpo. Onde che raggiunsero ogni terminale nervoso. «Auuu... driii... naaa...» «Sì, Audrina vuole che tu... la... porti via... in fondo al corridoio, in un posto... sicuro.» Era difficile per lei. Quando finalmente riuscì a issarmi i glutei sul carretto, la testa e la parte superiore del corpo penzolarono fuori del lato opposto e anche le gambe toccavano terra. Sylvia mi studiò con sguardo perplesso, poi si chinò per tirarmi su le ginocchia. Giacché la cosa parve funzionare, emise un gridolino di soddisfazione e, raddoppiando gli sforzi, mi tirò in posizione eretta. Ma non appena mi lasciò andare ricaddi lateralmente. Di nuovo mi sospinse sul carretto, poi si guardò attorno. Mi afflosciai con tutto il peso del tronco sulle ginocchia ripiegate e cercai di intrecciare insieme le dita in modo da tenermi ferme le gambe. La mia testa ciondolò goffamente, pesantemente, allorché cercai di sollevarla. Ogni minimo gesto tentassi di fare era così difficile, così doloroso da provocarmi l'impulso di gridare per la frustrazione di penare tanto a fare ciò che un tempo era stato così semplice. La disperazione mi rese frenetica, eppure mi diede anche un'inaspettata sferzata di energia. Cercai di tenermi unite le braccia con le dita in modo da impedire alle gambe di stendersi di nuovo. Ero come un pacco crudelmente legato. Sprizzando sudore da tutti i pori, attesi che Sylvia iniziasse a spingermi fuori della stanza. «Syyl... viiii... aaa, Auuu... driii... naaa,» mormorò felice mentre, a quattro zampe, cominciava a spingere. Fortunatamente quando era tornata col carretto aveva lasciato la porta aperta. Senza smettere un solo istante di dirmi nel suo farfugliante borbottio che adesso ero io la sua bambina, ripeté più volte che Vera era «buuttaaaa». Tutte le pendole del piano di sotto presero a scandire, con la loro miriade di voci tintinnanti le ore. A esse si unirono gli orologi sulle mensole dei camini, quelli da tavola, dei cassettoni e delle scrivanie, dicendo che erano le tre. Qualcuno finalmente aveva sincronizzato i nostri orologi. La folta passatoia dei corridoi, intesa ad attutire i rumori, impediva a Sylvia di spingermi rapidamente. Le piccole ruote affondavano nello spessore della lana e facevano resistenza. Non c'era da meravigliarsi che Billie avesse chiesto a papà di far togliere le passatoie. E adesso quelle passatoie osteggiavano la mia fuga. Dove poteva nascondermi Sylvia? Laboriosamente Sylvia spingeva, ansando e sbuffando e balbettando. Di
frequente si fermava per prendere fiato, ed estrarre i prismi dalle enormi tasche del suo camicione. «Auu... driii... na. Dolce Auu... driii... na.» Debolmente voltai la testa. Mi muovevo a scatti. Riuscii a sbirciarmi oltre la spalla e a cogliere l'espressione rapita di Sylvia. Mi stava aiutando ed era felice di rendersi utile. I suoi occhi scintillavano di gioia. Vederla così mi riempì di forza sufficiente a pronunciare poche, esitanti parole. «Hai... detto... il mio nome... proprio... bene.» «Auu... drii... naa,» ripeté raggiante e fece per fermarsi a giocare o parlare. «Nascondimi...» riuscii a sussurrare prima di perdere quasi i sensi. Allora tutto prese a vorticarmi attorno. Le pareti mi si strinsero addosso, poi si allontanarono. I soprammobili sui tavolini del corridoio si muovevano, statuine torreggiavano su di me. Le ricche volute del tappeto mi serpeggiavano attorno, cercando di soffocarmi mentre resistevo alle tenebre che di nuovo tornavano a reclamarmi. Dovevo restare sveglia per controllare la situazione, se non volevo cadere dal carretto. Ore e ore di Sylvia che spingeva e ansava. Dove mi stava portando? Di botto davanti a me vidi lo scalone. No! Volli urlare, ma la lingua mi si era seccata per il terrore. Sylvia stava per spingermi giù dalle scale. «Auud... driiin... naaa,» disse. «Dolce Auuud... driin..: naaa.» Silenziosamente, a rilento, il carretto descrisse una curva allontanandosi dalle scale e puntando verso l'ala ovest della casa, dove c'era la stanza della Prima Audrina. Più volte persi e ritrovai conoscenza, trafitta da ondate di dolore. In silenzio cominciai a pregare. Al piano di sotto udii sbattere il portone di ingresso. Accelerando appena il passo, Sylvia mi fece svoltare nella stanza dei giochi. No, no, no, fu tutto ciò che mi riuscì di pensare mentre Sylvia mi spingeva proprio in quella stanza nella quale avevano avuto inizio i miei incubi. Il grande letto a baldacchino mi torreggiò davanti. E Sylvia mi ci sospinse sotto proprio mentre io mollavo la presa alle ginocchia e ricadevo all'indietro appena in tempo per evitare di battervi contro. Le antiquate molle, foderate da anni di polvere accumulata, mi si pararono davanti agli occhi. Sylvia fece capolino sotto il copriletto e poi lasciò ricadere la balza arricciata. I passi lenti di mia sorella svanirono. Ero sola sotto il letto, con la polvere - e un ragno enorme stava tessendo la sua tela aggraziata da una
molla all'altra. Aveva occhi neri come quelli di Vera. Apparentemente consapevole della mia presenza, smise il suo affaccendarsi, mi guardò, poi tornò alla sua incompleta trama. Chiudendo gli occhi, mi abbandonai a ciò che il destino aveva in serbo per me. Cercai di rilassarmi e di non preoccuparmi per Sylvia che facilmente avrebbe potuto dimenticarsi di avermi nascosta lì. A chi mai sarebbe potuto venire in mente di cercarmi sotto quel letto e in quella stanza che più nessuno usava? Poi udii le urla di Vera: «Sylvia! Dov'è Audrina? Dov'è?». Ci fu un fragore, come se qualcosa fosse caduto, un altro grido, più vicino questa volta. «Ti prenderò, Sylvia, e ti concerò per le feste. Ti pentirai di avermi tirato quel vaso addosso! Sporca demente, cosa ne hai fatto di lei? Quando ti prendo ti strappo i capelli a uno a uno!» Udii porte aprirsi e chiudersi mentre l'inseguimento di Sylvia procedeva. Non sapevo neppure che Sylvia fosse in grado di correre. Oppure era Vera che correva all'impazzata per perlustrare ogni stanza prima che papà e Arden rincasassero? Cercava con tale furia che probabilmente non sarebbe stata in grado di svolgere un lavoro accurato. C'erano tante stanze in casa nostra, tanti armadi a muro e stanzini. Poi la udii entrare nella stanza dei giochi. La balza del copriletto arrivava a quasi un centimetro dal tappeto. Voltai la testa, incapace di resistere alla tentazione e vidi le sue scarpe blu farsi più vicine. Una aveva la suola più spessa dell'altra. Si stava avvicinando al letto. Dalla sedia a dondolo giunse il familiare rumore scricchiolante. «Fuori da quella sedia!» ringhiò Vera dimenticando di guardare sotto il letto, nella sua fretta di trascinare via Sylvia. Vera urlò mentre Sylvia se la dava a gambe fuori della stanza. E di nuovo riprese il suo zoppicante inseguimento. A malapena riuscii a vedere le scarpe blu allontanarsi. Credo che fu allora che persi i sensi. Non so quanto tempo passò fino al momento in cui udii un rumore di passi e di nuovo Sylvia faceva capolino sotto la balza arricciata del copriletto. Ancora una volta Sylvia mi tirava per il braccio. Cercai di collaborare, ma questa volta soffrivo davvero troppo. Eppure ci riuscii e più tardi mi risvegliai nella luce morente del giorno e mi scoprii seduta nella sedia a dondolo dallo schienale a gigli ricamati. Sylvia mi aveva sollevato le braccia in modo da farmi sostenere ai braccioli. Piansi. Non volevo morire! Non qui, non in camera sua!
Sylvia mi richiuse la porta alle spalle. Presi a dondolare. Dovevo dondolare per sfuggire al dolore e all'orrore di quanto stava accadendo. Subito il mio vaso colmo di affanni si svuotò per contenere altro. Non avevo più la forza di difendermi dalla violenza degli eventi. Rividi Vera come era stata negli anni della prima adolescenza. Mi stava stuzzicando perché non sapevo ciò che gli uomini e le donne facevano insieme per fare i bambini... ma un giorno lo scoprirai, presto, bisbigliava. E il giorno di pioggia nel bosco tornò. I ragazzi mi inseguirono e mi presero e come sempre nei miei incubi ero io la Prima Audrina e lei mi faceva subire e patire la sua vergogna. Fu Arden questa volta che mi strappò di dosso i vestiti che erano i suoi vestiti, e fu Arden che cadde su di lei che era me. E fu lui il primo a violare. Urlai. Poi urlai ancora, ancora e ancora. «Audrina,» la voce di mio padre mi raggiunse da tanto, tanto lontano, proprio nel momento in cui l'avevo invocato. Questa volta non Dio, ma papà aveva dato ascolto alle mie invocazioni... e appena in tempo. «Oh, Signore onnipotente che sei nei cieli, la mia dolce Audrina è uscita dal coma! Grida. Guarirà!» Come se pesassero tonnellate, riuscii a sollevare le palpebre a sufficienza per vedere papà corrermi accanto. A pochi passi di distanza lo seguiva Arden. Ma io non volevo vedere Arden. «Tesoro, tesoro,» singhiozzò papà mentre mi prendeva fra le braccia e mi teneva stretta. «Chiama un'ambulanza, Arden.» Ansimai, mentre respingevo le mani di Arden che cercavano di strapparmi a mio padre. «Il sogno, papà, la Prima Audrina...» la voce mi uscì gracchiante per l'inattività, buffa a sentirsi. Lui sospirò e mi tenne più stretta, mentre perdevo conoscenza. Vidi Arden correre via, probabilmente per chiamare l'ambulanza. «Sì, tesoro mio, ma è stato tanto tempo fa, adesso starai bene, vedrai. Il tuo papà si prenderà cura di te. E per il resto della mia vita ringrazierò il Signore in ginocchio per averti risparmiata, proprio quando avevo abbandonato ogni speranza.» Non ricordo cosa accadde dopo. Ma quando riaprii gli occhi ero in una stanza di ospedale dalle pareti rosa pastello e ovunque c'erano rose rosse e rosa. Papà sedeva in una poltrona accanto alla finestra. «Mi lasci parlare con lei,» disse all'infermiera che annuì e gli raccomandò di non stancarmi troppo. «Anche Mr. Lowe vuole stare un po' con sua moglie.»
Seduto sul letto mio padre mi abbracciò teneramente e mi tenne così stretta che sentii contro il mio petto il battito del suo cuore. «Hai passato una brutta avventura, Audrina. Ci sono stati momenti in cui sia io che Arden abbiamo temuto che non ne venissi fuori... ed è un pezzo che dura, non solo da oggi. Oggi è stato un inferno particolare per tutti e due. Abbiamo camminato avanti e indietro davanti alla porta mentre i medici si occupavano di te... ma adesso sembra che ti riprenderai.» Ma c'era qualcosa che io volevo sapere, dovevo sapere. «Papà, questa volta devi dirmi la verità...» La gola mi faceva male a parlare, ma mi costrinsi a seguitare. «Arden era presente quando la Prima Audrina morì? Ho visto la sua faccia nei miei sogni. C'era anche lui, vero? La Prima Audrina ha cercato di mettermi in guardia contro di lui, ma io non le ho dato retta.» Esitò e guardò la porta che Arden aveva aperto. Se ne stava impalato, con un'espressione sconvolta che non gli avevo mai visto prima, se non quando era un ragazzino senza un briciolo di coraggio nel bosco. «Vai avanti, Damian,» lo esortò Arden, «dille la verità. Sì, dille pure che io c'ero e sono fuggito! Proprio come fuggirò adesso poiché nei tuoi occhi leggo che mi odi. Ma tornerò, Audrina.» Nei tormentosi giorni che seguirono rifiutai di ammettere Arden nella mia stanza. Venne con fiori, cioccolatini, vezzose camicie da notte e liseuses, ma io rimandai indietro tutto quanto. «Digli di darle a Vera queste cose,» dissi a papà che aveva assunto un'espressione solenne, vedendo le lacrime rigarmi le guance. «Sei troppo dura con lui, anche se ti capisco. Ma questo devi saperlo, bambina mia,» ordinò mio padre prima che mi addormentassi. «Da quella notte che sei caduta, la mia vita e quella di Arden sono state un inferno. Ammetto che non volevo che tu sposassi Arden Lowe, ciò nonostante l'hai voluto e sua madre mi ha fatto capire qualcosa che non avevo mai capito prima. E adesso tu e io dobbiamo molto a sua madre. E se devi qualcosa a lei devi ancora di più a suo figlio. Da' ad Arden un'altra occasione, Audrina. Lui ti ama... lascialo entrare... per favore.» Lo fissai incredula. Papà non sapeva che Arden aveva tramato con Vera per uccidermi e fuggire con lei. Un'infermiera dai capelli grigi aprì la porta della stanza e cacciò dentro la testa. «È ora di andare, Mr. Adare, sono certa che Mrs. Lowe vorrà stare qualche minuto con suo marito.» «No!» replicai con fermezza. «Gli dica di andarsene.» Non ero ancora in grado di affrontare Arden. Mi aveva tradito con Vera.
E aveva tradito anche mia sorella morta mentre invece avrebbe potuto salvarla... e poi c'era qualcos'altro che dovevo capire prima. Qualcosa di elusivo che continuava a sfuggirmi pur bisbigliandomi senza requie che ancora non conoscevo la verità sulla Prima Audrina. I giorni vennero e andarono. Ritrovai le mie energie a forza di vitamine e alimenti ad alto contenuto proteico. Papà veniva a farmi visita due volte al giorno. Rifiutavo ancora di vedere Arden. Iniziai un trattamento fisioterapico per rinforzare i muscoli delle gambe e delle braccia, atrofizzati dalla lunga inattività. Mi insegnarono di nuovo a camminare. Per tutte le tre settimane che restai in ospedale non una volta permisi ad Arden di entrare in camera mia. Poi papà venne a prendermi. Accanto a lui c'era Sylvia. «Voleva venire anche Arden,» disse papà immettendosi sull'autostrada. «Davvero, Audrina, non puoi evitarlo in eterno. Devi affrontarlo prima o poi.» «Dov'è Vera, papà?» Emise un grugnito di disgusto. «Vera è caduta e si è rotta un braccio,» annunciò indifferente. «Ossa di cartapesta. Dio sa quanti conti di ospedale ho dovuto pagare per tenerla tutta intera.» «Voglio che se ne vada da casa nostra.» La mia voce era dura. Ciò che sarebbe accaduto fra me e Arden dipendeva da ciò che sarebbe accaduto fra Arden e Vera. «Se ne andrà non appena si toglie l'ingessatura.» La sua voce era dura e decisa quanto la mia. «Pare che sia stata Sylvia a farla inciampare. Sylvia ha un odio profondo per Vera.» Mi lanciò un'occhiata maliziosa. «Però non puoi biasimare Arden per quello che ha fatto con lei. Più di una mattina a colazione, prima ancora che Vera arrivasse, ho notato la sua espressione infelice. Sorrideva quando tu lo guardavi, ma quando voltavi la testa dall'altra parte gli si leggeva che le sue notti con te lasciavano molto a desiderare... e la cosa mi dava piacere, lo confesso.» Dava piacere anche a me, saperlo infelice. Mi augurai che per il resto della sua vita non avesse una sola ora di felicità. Pensieri orribili mi si gonfiarono dentro via via che ci avvicinavamo a quella grande, sfarzosa dimora restaurata. Whitefern. Che ironia della sorte essere stata così fiera che i miei antenati risalissero a quei primi pellegrini sbarcati sul nuove continente per piantare radici nella Colonia Perduta. Con papà che mi sosteneva da un lato e Sylvia dall'altro. salii lentamente i gradini della veranda. Arden spalancò il portone principale e ci venne in-
contro di corsa. Cercò di baciarmi. Mi ritrassi. Allora cercò di prendermi la mano Gliela strappai bruscamente e sibilai: «Non toccarmi! Va' a cercare sollievo da Vera... come facevi mentre ero in coma» Pallido e umiliato Arden arretrò e lasciò che papà mi guidasse dentro. Pochi minuti dopo mi lasciavo cadere su quella ottomana viola, ora completamente rinnovata con cordoni, tasselli d'oro e tutto il resto. Era arrivato il momento, tanto temuto, in cui sarei rimasta sola con Arden. Stancamente chiusi gli occhi e finsi di essere altrove. «Hai intenzione di startene lì con gli occhi chiusi senza parlare? Non vuoi neppure guardarmi?» Poi la sua voce si fece più alta. «Ma di cosa diavolo credi che sia fatto? Tu eri in coma e accanto a me c'era Vera, ansiosa di fare il possibile per aiutarmi a sopravvivere. Giacevi su quel letto fredda e inerte... e come facevo a sapere che ogni giorno miglioravi un pochino, quando non davi segno di vita?» Balzò in piedi e prese a misurare a gran passi la stanza, senza allontanarsi troppo dalla mia poltrona. Con una certa difficoltà mi alzai. «Salgo di sopra. Per favore, non seguirmi. Non ho più bisogno di te, Arden. So che tu e Vera avevate in mente di uccidermi. Avevo una fede talmente cieca in te, Arden; ero convinta di aver trovato l'unico uomo in questo odioso mondo che mi sarebbe stato accanto quando avessi avuto bisogno di lui. Ma mi hai deluso. Mi volevi morta per poter avere lei!» Il colpo fu tale per lui che sbiancò in volto e gli mancò la voce anche se aveva imparato a essere ciarliero come papà. Approfittai del mio vantaggio per dirigermi verso le scale. In un attimo mi fu accanto, era facile prendermi poiché mi muovevo molto lentamente. «E cosa ci aspetta adesso che tu mi odi?» chiese con voce roca. Senza degnarmi di rispondere, passai oltre la camera che un tempo avevamo diviso, per quanto lo stretto lettino da ospedale fosse scomparso, sostituito dal nostro grande letto matrimoniale. Tutto sembrava rimesso a nuovo, cosicché nulla in quella stanza mi ricordava quei terribili giorni di immobilità in attesa di morire. «Dove vai?» chiese. Che diritto aveva di farmi domande? Non faceva più parte della mia vita adesso. Che si tenesse pure Vera. Erano degni l'uno dell'altra. Faticosamente, ma acquistando forza a ogni passo, puntai verso altre scale che presto mi condussero in soffitta. Arden fece per seguirmi. Ruotai su me stessa e lo aggredii in una esplosione di collera. «No! Lasciami fare una cosa che ho cercato di fare per tutta la vita!
Mentre me ne stavo immobile su quel letto e sentivo te e Vera complottare per porre fine ai miei giorni, sai cos'era che mi tormentava più di ogni altra cosa? Ebbene, voglio dirtelo. C'è un segreto nella mia vita che devo scoprire. È più importante di te, e di qualunque altra cosa. Dunque lasciami sola, adesso, e fammi finire quello che avrebbe dovuto essere finito da un pezzo. E forse quando ti rivedrò avrò la forza di guardarti in faccia... perché ora come ora, Arden, non voglio vederti mai più.» Si ritrasse e mi fissò tragicamente, facendomi dolere il cuore mentre me lo rivedevo davanti agli occhi come il bambino che avevo tanto amato. Ripensai a Billie che mi aveva detto che tutti commettono degli errori e che neppure suo figlio era perfetto. Tuttavia seguitai verso la soffitta; su per la scala a chiocciola di ferro che mi avrebbe portata nella cupola dove già adesso udivo le campanelle tibetane tintinnare, tintinnare, cercando, come sempre, di riempire i buchi vuoti della mia memoria. Il segreto delle campanelle Laboriosamente riuscii a salire la stretta scala di ferro che tante volte mi aveva portato lontano da Vera. Il sole brillava luminoso attraverso le vetrate colorate e sul tappeto turco e i suoi raggi tracciavano miriadi di arabeschi confusi, trasformando la stanza in un caleidoscopio vivente. E io ero il centro di tutti i colori, attraverso me accadeva ogni cosa, mentre i colori si impigliavano nei miei capelli da camaleonte rendendoli color arcobaleno. Le mie braccia erano tatuate di luce e negli occhi sentivo i colori che mi arabescavano anche il viso. Guardai lungamente le scene che i miei occhi infantili avevano tanto amato e in alto vidi i lunghi, sottili rettangoli di vetro dipinto pendere dagli sbiaditi fili di seta. Mi guardai attorno, tremando nel farlo, in attesa che i ricordi infantili si risvegliassero come spettri per spaventarmi, ma solo ricordi dolci arrivarono; ricordi di me sola, che una volta di più esprimevo il desiderio di andare a scuola, di avere compagni di gioco, di godere della libertà che gli altri bambini della mia età avevano. Possibile che avessi fatto un simile sforzo per non arrivare a nessuna nuova conoscenza? Che cos'è? gridai alle campanelle a vento sospese sopra di me. «Vi sento sempre vibrare nel tentativo di dirmi qualcosa... allora ditela adesso che sono qui e disposta ad ascoltare! Prima non lo ero, me ne rendo conto adesso. Ditemelo adesso!» «Audrina,» la voce di papà mi giunse da dietro le spalle, «non fare l'iste-
rica. Non ti fa bene nel tuo stato di debolezza.» «È stato Arden a mandarti quassù?» urlai. «Non dovrò mai sapere nulla, dunque? Dovrò scendere nella tomba con la mente piena di buchi? Papà... svelami il segreto di questa stanza!» Non voleva. I suoi scuri occhi sfuggenti mi evitarono mentre prendeva a dirmi di quanto ero debole, e di quanto bisogno di riposo avessi. Mi avventai contro di lui per colpirgli il petto con i pugni. Senza sforzo mi prese entrambi i polsi con una mano e li tenne fermi, mentre tristemente mi fissava in fondo agli occhi. «E va bene. Forse l'ora è venuta. Chiedimi quello che vuoi.» «Dimmi tutto quello che devo sapere, papà. Ho l'impressione di impazzire, se non so.» «Okay,» disse guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa su cui sedersi, ma non c'era nulla fuorché il pavimento. Sedette e si appoggiò allo stipite di una finestra, tirandomi accanto a sé. Tenendomi fra le braccia cominciò a parlare con voce pesante. «Non è facile da dire, né sarà facile per te ascoltare, ma hai ragione. Devi sapere. Tua zia mi ha detto fin dal primo momento che dovevi sapere la verità sulla tua sorella maggiore.» Col fiato sospeso attesi. «Gli incubi che avevi le prime volte che ti sei seduta nella sedia a dondolo, quelli nei quali i ragazzi saltavano fuori dei cespugli... sono certo che ormai ti rendi conto che quei tre ragazzi hanno violentato la mia Audrina. Ma non è morta come ti avevo detto.» «Non è morta? Ma dov'è... papà?» «Stammi a sentire e ascoltami, e non farmi domande finché non avrò finito. Ti ho detto tutte quelle bugie solo per impedirti di conoscere l'orrore che avrebbe potuto rovinare la tua esistenza. Quel giorno in cui Audrina compì i nove anni, dopo lo stupro, arrivò a casa di corsa stringendo al petto i resti dei vestiti strappati, nel tentativo di nascondere la sua nudità. L'avevano talmente umiliata, non aveva più un briciolo di orgoglio. Infangata, bagnata fradicia, confusa, graffiata e sanguinante, era piena di vergogna e in casa venti bambini l'aspettavano per la sua festa di compleanno. Entrò dalla porta sul retro e cercò di salire furtivamente al piano di sopra senza che nessuno la vedesse, ma tua madre era in cucina, vide lo stato terrificante di Audrina e si affrettò a seguirla su per le scale. Audrina riuscì a dire una sola parola, ed era 'ragazzi'. Quello bastò a tua madre per capire ciò che era accaduto. Così tua madre la prese fra le braccia e le disse che non
era niente, che certe volte cose del genere accadevano, ma che lei era sempre la stessa stupenda bambina che noi amavamo. 'Non è necessario che tuo padre sappia,' disse a Audrina... e che errore fu mai quello! Quelle parole fecero capire chiaramente a Audrina che io mi sarei vergognato di lei, e che ciò che quei ragazzi le avevano fatto l'aveva diminuita ai miei occhi. Cominciò a urlare che avrebbe preferito che quei ragazzi l'avessero uccisa, lasciando il suo cadavere sotto la samonea dorata, poiché meritava di morire adesso che Dio l'aveva abbandonata proprio nel momento in cui lei aveva pregato perché l'aiutasse.» «Oh, papà,» mormorai, «so come deve essersi sentita.» «Sì, non ne dubito. Poi tua madre fece il secondo errore, e anche più terribile. Portò Audrina nel bagno, riempì la vasca di acqua bollente, poi costrinse la mia bambina a immergersi nell'acqua calda. Con una spazzola dura prese a grattare via la contaminazione dei ragazzi. Già era confusa e dolorante e graffiata e il suo corpo aveva già sopportato abbastanza violenza, ma Lucietta perse il lume della ragione e ci diede dentro con quella dura spazzola senza misericordia, come se così facendo potesse liberare il mondo intero di tutta la sozzura, di tutti i ragazzi, senza rendersi conto neppure per un istante di ciò che stava facendo a sua figlia. Era la degradazione che tua madre stava cercando di cancellare e se quella spazzola portò via buona parte della pelle di Audrina, non parve neppure accorgersene. «Di sotto i bambini che erano venuti per festeggiare chiedevano a gran voce gelati e torta e Ellsbeth li servì. Poi disse agli ospiti che Audrina aveva un raffreddore terribile e la febbre e quindi non sarebbe scesa per prendere parte ai festeggiamenti. Naturalmente la cosa fu presa piuttosto male e presto gli ospiti si accomiatarono. Alcuni lasciarono i loro doni, altri li riportarono indietro, quasi pensassero che Audrina avesse voluto mostrare il suo disprezzo rifiutando di scendere. «Ellsbeth mi telefonò in ufficio e in poche parole mi spiegò ciò che pensava fosse accaduto. La mia collera era talmente smisurata che mi meraviglio che non mi sia venuto un infarto mentre correvo alla macchina e poi a casa a velocità tale che ancora mi chiedo come mai la polizia non mi abbia fermato. Arrivai a casa appena in tempo per vedere tua madre infilare una camicia da notte bianca sopra la testa di Audrina. In una sola occhiata vidi il suo corpicino torturato, talmente rosso da sembrare sanguinante. Avrei potuto uccidere quei ragazzi e picchiare a sangue tua madre per essere stata così crudele con quella maledetta spazzola sulla pelle tenera che già aveva tanto patito. Non gliel'ho mai perdonato. Ho trovato mille piccoli
modi meschini per gettarglielo in faccia più avanti. Scorticando Audrina a sangue con quella spazzola, le aveva radicato nel cervello l'idea che la vergogna non sarebbe mai venuta via, che per sempre sarebbe stata rovinata ai miei occhi, agli occhi di tutti. Poi tua madre corse all'armadietto dei medicinali e tornò con una boccetta di iodio... non del genere che usiamo oggi, ma del genere antiquato che brucia come il fuoco. «Urlai a Lucietta: 'Basta!'. Allora lei lasciò cadere la boccetta e Audrina si diede alla fuga. Sembrava terrorizzata nel vedermi: nel vedere me, il padre che aveva sempre tanto amato! A piedi nudi si precipitò in soffitta. Le corsi dietro e altrettanto fece tua madre. Audrina non smise di urlare neppure per un istante, probabilmente per il dolore oltre che per lo stato di shock. Corse su per la scala a chiocciola proprio nella stanza nella quale ci troviamo adesso. Era giovane e veloce e quando anch'io arrivai nella cupola, lei era già in piedi su una sedia ed era riuscita ad aprire uno di quei finestroni là in alto.» Lo indicò con la mano. «Era lì, e il vento e la pioggia si avventavano dentro ululando, e il tuono rombava, i lampi squarciavano l'aria, e i colori qui dentro facevano esplodere il cervello a ogni lampo. Le campanelle a vento suonavano freneticamente. Era un inferno quassù. E Audrina, sulla sedia, aveva già scavalcato la finestra con una gamba e si accingeva a saltare, allorché in un balzo l'afferrai e la tirai dentro. Si dibatté, mi graffiò il viso, urlando come se io rappresentassi per lei tutto ciò che di male c'era in ogni maschio e come se, nel ferirmi, stesse ferendo loro... quelli che le avevano rubato il suo orgoglio e profanato il suo corpo.» Alzai gli occhi per guardare le campanelle a vento che pendevano immobili sopra la mia testa dai loro fili di seta; immobili, eppure avrei giurato di sentirle tintinnare debolmente. «Ma c'è di più, tesoro, molto di più. Vuoi che te lo dica un altro giorno, quando ti sentirai più in forze?» No, avevo già aspettato troppo. Era adesso o mai più. «Continua, papà, vai fino in fondo.» «Ripetei a tua madre a più riprese che non avrebbe dovuto fare il bagno a Audrina. Avrebbe dovuto consolarla e più tardi saremmo andati alla polizia. Ma tua madre non voleva che subisse altra vergogna e umiliazione da parte di uomini che le avrebbero fatto ogni genere di domande intime che mai si sarebbero dovute porre a una bambina. Ero così infuriato che avrei potuto uccidere quei ragazzi con le mie mani, torcere loro il collo, castrarli, far loro qualcosa di così terribile che indubbiamente mi sarei meritato la
prigione a vita... Ma la mia Audrina si rifiutava di fare i loro nomi... oppure non poteva fare i loro nomi per paura di rappresaglie. Forse l'avevano minacciata, non lo so.» E Arden era lì. Arden era lì e lei lo aveva scongiurato di aiutarla... e lui era fuggito. «Dov'è, papà?» Esitò, costringendomi a voltarmi in modo da guardarmi negli occhi; in alto, sopra di noi, le campanelle a vento ripresero il loro clamore e d'istinto seppi che avrebbero seguitato a quel modo finché non avessi conosciuto il segreto. Mi alzai in piedi, sempre stretta fra le braccia potenti di papà, al centro del tappeto turco dove lui mi aveva fatto sedere di modo che non fossi troppo vicina alla finestra. «Perché mi hai tirato via dalla finestra, papà?» «Il cielo. Hai visto che nuvoloni scuri? Sta per arrivare un temporale, e non mi piace essere quassù con il temporale. Scendiamo di sotto prima che ti dica il resto.» «Dillo subito, papà. È quassù che lei veniva sempre a giocare. Ho sempre saputo che quelle bambole di carta appartenevano a lei.» Si schiarì la voce come io avevo bisogno di schiarire la mia. Mi stava serrando la gola, costringendomi a respirare in fretta, facendomi provare un tale, repentino panico da farmi venire voglia di urlare. Era come essere di nuovo nella sedia a dondolo quando avevo sette anni e tanta paura, tanta! Mio padre sospirò a fondo, e mi lasciò andare quel tanto che bastava per coprirsi con le grandi mani la faccia, ma solo brevemente, come se avesse paura di lasciarmi per troppo tempo. «Amavo quella bambina, Dio quanto l'amavo. Dava così tanto a coloro che l'amavano, aveva tanta fiducia in me. Era l'unica donna sulla faccia della terra che si fidasse completamente di me e io avevo promesso a me stesso di non deluderla mai. E non era solo perché era una bambina straordinariamente bella; aveva anche la capacità di affascinare chiunque con il suo calore, la sua cordialità, la sua dolcezza. E aveva anche qualcos'altro, una capacità indefinibile di illuminarsi dal di dentro di felicità, con una voglia così contagiosa di vivere che pochi di noi hanno. Essere con lei ti faceva sentire più vivo. Una scampagnata alla spiaggia, una visita allo zoo, al museo, ai giardini, e illuminava la tua vita facendoti tornare bambino, concedendoti di vedere ogni cosa attraverso i suoi occhi. E poiché lei vedeva cose meravigliose, anche tu le vedevi. Un dono raro, che valeva più di qualunque altra cosa. Il minimo regalino e
impazziva dalla gioia. Amava il tempo, quello buono e quello cattivo. Era dotata di qualità incredibili, incredibili.» Gli mancò la voce, abbassò per un attimo gli occhi e incontrò i miei, poi rapidamente distolse lo sguardo. «Persino tua madre era felice quando Audrina le era vicino, e Dio sa se Lucky aveva abbastanza ragioni per essere infelice; e anche Ellsbeth. Le amavo entrambe. E cercavo di essere per entrambe tutto ciò di cui avevano bisogno. Credo di non essere mai riuscito a renderle felici.» La voce sembrò mancargli di nuovo, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime non versate. «Ma avrebbe dovuto obbedire alle mie raccomandazioni. Quante volte avevamo detto a Audrina di non prendere la scorciatoia... sarebbe dovuta essere più giudiziosa.» «Va' avanti, non fermarti,» lo incalzai nervosamente. «Dopo che tua madre ebbe lavato via ogni prova dello stupro, pensammo di poter tenere Audrina a casa e che il segreto restasse fra queste quattro mura. Ma i segreti hanno uno strano modo di filtrare, qualunque cosa si faccia per tenerli nascosti. Volevo trovare quei ragazzi e spaccargli la testa. Come ti ho già detto, rifiutava di dirci chi fossero, o di tornare a scuola dove avrebbe potuto rivederli. Rifiutava di mangiare, di alzarsi dal letto, di guardarsi allo specchio, persino. Una notte si alzò e fracassò tutti gli specchi di questa casa. Urlava nel vedermi, scorgendo in me non più il padre, ma un altro uomo in grado di ferirla. Odiava tutto ciò che è maschio. Prese a sassate il suo povero gatto finché non lo costrinse a fuggire. Non le permisi più di avere un altro gatto, spaventato di ciò che avrebbe potuto fargli se fosse stato maschio.» Attonita lo fissai incredula. «Oh, papà, sono così confusa. Stai forse cercando di dirmi che Vera è in realtà la Prima Audrina, quella Audrina che ho sempre invidiato per tutta la vita? Ma, papà, se neppure le vuoi bene, a Vera!» La luce sinistra nei suoi occhi mi spaventò. «Non potevo lasciarla morire,» seguitò, il suo sguardo incatenato al mio, inchiodandolo come una farfalla si inchioda nella teca. «Se fosse morta, parte di me sarebbe morta con lei. Si sarebbe portato il suo dono con sé nella tomba e mai più avrei avuto un attimo di felicità. La salvai. La salvai nell'unico modo che mi era possibile.» Come acqua che si infiltra nel cemento qualcosa stava cercando di infiltrarsi nel mio cervello, un'intuizione sospesa sul punto di diventare consapevolezza. «Come l'hai salvata?» «Mia dolce Audrina... non l'hai ancora indovinato? Non ti ho spiegato e
rispiegato, dandoti tutti gli indizi che ti occorrevano? Non è Vera la Prima Audrina... sei tu!» «No!» gridai. «Non è possibile! È morta, sepolta nel cimitero di famiglia! Ci siamo andati tutte le domeniche.» «Non è morta, perché tu sei viva. Non c'è stata nessuna Prima Audrina, perché sei tu la mia Prima e sola Audrina... e se davvero c'è una giustizia divina, allora che Dio mi fulmini se sto mentendo!» Le voci che udivo nella mia testa, le voci che dicevano: Papà, perché lo fanno? perché? È solo un sogno, amore mio, solo un sogno. Papà non permetterà che qualcosa di male accada alla sua Audrina, alla sua dolce Audrina. Ma tua sorella maggiore aveva il dono, quel dono meraviglioso che adesso voglio che appartenga a te, ora che non le serve più. Papà può usare il dono per aiutarti, per aiutare la mamma e zia Ellsbeth. Dio voleva morta la Prima e Migliore Audrina, non è vero? L'ha lasciata morire perché aveva disobbedito e usato la scorciatoia. Era stata punita perché le piaceva sentirsi bella nel suo costoso vestito nuovo, non è così? Quella Prima Audrina pensava che fosse divertente che i ragazzi le corressero dietro, dandole modo di dimostrare che poteva correre più forte di zia Ellsbeth. Più forte di qualsiasi altra bambina della scuola. Era convinta che loro non l'avrebbero mai, mai presa, e poi sapeva che Dio doveva proteggerla, non è così? Lei aveva pregato ma lui non le aveva dato ascolto. Se n'era stato lassù in cielo fingendo che tutto andasse a meraviglia nel bosco, mentre Lui sapeva, Lui sapeva. Era felice che un'altra fiera ragazza Whitefern venisse insozzata perché Dio è un uomo, anche lui! A Dio non importava, papà! - e questa è la verità pura e semplice - non è così? Dio non è così crudele, Audrina. Dio è misericordioso se glielo permetti. Ma ciascuno di noi ha il dovere di fare del suo meglio giacché lui ha tante cose a cui badare. Ma allora a che serve, papà, a che serve? Urlai e mi strappai dalla sua stretta. Poi mi gettai a capofitto giù per le scale a velocità folle, senza curarmi del pericolo mortale. La Prima Audrina Corsi fuori nel pomeriggio minaccioso, torbido, per sfuggire a Whitefern. Per sfuggire a papà, ad Arden, a Sylvia, a Vera e, soprattutto, per sfuggire allo spettro della Prima Audrina che ora stava cercando di dirmi
che non esistevo affatto. Lo stupro era accaduto a lei, non a me! Come in preda alla follia correvo, terrorizzata da tutti i suoi ricordi che mi inseguivano, pronti a balzarmi nel cervello e a riempire i buchi di gruviera con il suo terrore. Corsi, cercando di andare veloce e lontano per sfuggire da quella che ero, per sfuggire da tutto ciò che mi aveva tormentato per la maggior parte della mia esistenza. Menzogne, menzogne; fuggivo dove non potevano esistere e al tempo stesso non sapevo dove trovare un luogo simile. Dietro di me, Arden urlava, chiamandomi per nome... un nome che era anche il suo. Nulla era mio. «Audrina, aspetta! Ti prego, fermati!» Non potevo fermarmi. Era come se fossi un giocattolo a molla, caricato per anni e anni e che ora finalmente doveva scattare o rompersi. «Torna indietro!» gridava Arden. «Guarda il cielo!» Sembrava disperato. «Audrina, torna indietro! Non stai bene! Finiscila di comportarti come una pazza!» Pazza, mi stava dicendo che ero pazza? «Tesoro,» boccheggiava, senza smettere di inseguirmi, con una voce piena di panico, «le cose non sono terribili come pensi.» Che ne sapeva lui di me? Di me che ero come una mosca catturata nella vischiosa ragnatela di menzogne che papà mi aveva tessuto attorno, avviluppandomi nel bozzolo intricato delle sue trame così da prosciugare la mia vita di ogni piacere. Spalancai le braccia e urlai al cielo, a Dio, al vento che si era levato scarmigliandomi i capelli e sferzandomi selvaggiamente la gonna. E il vento rispose al mio grido, avventandomisi contro con maggiore violenza, tanto che fui sul punto di perdere l'equilibrio. Tornai a urlare, sfidandolo a farmi male. Niente e nessuno avrebbero più potuto dirmi cosa fare o cosa non fare, non avrei più creduto a nessuno se non a me stessa! Di botto qualcuno mi afferrò il braccio. Con uno strattone, Arden mi costrinse a voltarmi. Lo colpii con entrambi i pugni chiusi al viso, al petto e tuttavia, con la medesima facilità di papà, mi prese entrambe le mani nella sua e forse sarebbe anche riuscito a trascinarmi a casa... sennonché questa volta il destino fu dalla mia parte. Perse l'equilibrio e mollò la presa. Fui libera di fuggire di nuovo. Le lapidi di marmo del cimitero di Whitefern si stagliarono bianche in lontananza, nude contro il cielo torvo, gravido di pioggia. Lampi lontani annunciavano la tempesta. Un tuono profondo, sinistro, rombò al di là del-
le cime degli alberi, vicino al campanile della chiesa del villaggio. Ero terrorizzata dal temporale quando mi trovavo fuori da Whitefern. Ero all'aperto e speravo che Dio mi aiutasse, ma poiché non aveva aiutato lei, probabilmente non avrebbe aiutato neppure me. Terrorizzata, eppure nella necessità di scoprire la verità, mi guardai attorno e mi lanciai alla ricerca di qualcosa con cui scavare. Perché non avevo pensato a portare una vanga? Dove teneva gli attrezzi l'uomo incaricato di badare alle tombe? Da qualche parte dovevo trovare qualcosa con cui scavare. Il nostro lotto di famiglia consisteva in circa mezzo acro di terreno chiuso da un muricciolo decrepito con un'entrata su ciascun lato. Rossa vite canadese si abbarbicava sul muro, cercando di soffocarlo. Persino in inverno, quando papà ci costringeva a venire quaggiù almeno una volta alla settimana, preferibilmente di domenica, con la pioggia o col bel tempo, sani o malati, il luogo era tetro, cupo con gli alberi che artigliavano il cielo con le loro scure dita nodose. Adesso, a settembre quando altrove gli alberi erano verdi e lussureggianti, le foglie si inseguivano, turbinando secche e brune simili a fantasmi che in punta di piedi tornano alle loro tombe. Smisi di guardarmi attorno, e cominciai a tremare. Vidi la tomba di mia madre, di zia Ellsbeth e di Billie. C'era uno spazio vuoto accanto alla tomba di mia madre dove un giorno avrebbe riposato mio padre e accanto a lui c'era la tomba della Prima e Migliore Audrina. Irresistibilmente ero stata attirata quaggiù. Dalla sua bara ora mi chiamava, rideva di me, mi diceva in tutte le maniere possibili che non l'avrei mai eguagliata per bellezza, fascino, intelligenza e che i suoi «doni» erano suoi soltanto e mai avrebbe rinunciato a uno solo di essi per salvarmi dalla mediocrità. Era la sua la lapide che brillava di più. Alta, slanciata e aggraziata, quella singola lapide sembrava più luminosa di tutte le altre, catturando tutta la luce spettrale del cimitero. Mi dissi che vedevamo sempre ciò che volevamo vedere, nient'altro. Non c'era nulla di cui aver paura, nulla. Forte della mia decisione puntai diritto verso quella lapide. Quante volte ero stata proprio lì dove mi trovavo adesso, odiandola? «È qui giace la mia adorata,» udii papà intonare dentro di me, mentre esitavo. «Qui giace la mia prima figlia nella terra fredda. Al suo posto accanto al mio dove il buon Dio vorrà farmi riposare un giorno.» Oh! Basta, basta. Caddi in ginocchio e presi a scavare con le mani nell'erba morente. Le unghie mi si spezzarono; le dita doloranti si misero a
sanguinare. Eppure seguitavo a scavare; finalmente dovevo conoscere la verità. «Smettila!» ruggì Arden, precipitandosi nel cimitero. Si affrettò a tirarmi in piedi. Poi dovette lottare per impedirmi di ricadere al suolo e di fare ciò che sentivo di dover fare. «Cosa diavolo ti ha preso?» urlò. «Perché scavi in quella tomba?» «Devo vederla!» urlai. Mi guardò come se fossi pazza. Mi sentivo pazza. Una folata di vento ci sferzò impetuosa. Mi si avventò freneticamente tra i capelli, tra i vestiti. Come impazzito sferzò i rami degli alberi che quasi mi schiaffeggiarono. Arden mi aveva presa per la vita, e cercava di costringermi alla sottomissione allorché le cataratte del cielo si aprirono e un diluvio di pioggia e grandine si abbatté su di noi con forza dirompente. «Audrina, non fare l'isterica!» mi gridò, come poco prima papà. «Non c'è nessuno là sotto!» Urlai anch'io, poiché il vento ci assordava al punto da costringerci a gridare, anche se i nostri volti erano a pochi centimetri di distanza. «E tu come lo sai? Papà mente, lo sai anche tu! Direbbe qualunque cosa, farebbe qualunque cosa per tenermi legata a lui!» Preso in contropiede, Arden scosse la testa prima di tornare a scuotere me. «Sciocchezze!» urlò. «Smettila di comportarti così! Non c'è nessuno in quella tomba! Non c'è nessuna sorella maggiore ed è ora che tu guardi in faccia la verità.» Lo fissai con uno sguardo folle. Doveva esserci la Prima Audrina morta, altrimenti tutta la mia esistenza sarebbe stata una menzogna. Ripresi a urlare e a combatterlo, decisa a sconfiggerlo. Decisa, anche, a scavare in quella tomba e a trascinare fuori i suoi «dotati» resti. Sì, mi dicevo mentre lottavo con Arden, papà è un bugiardo, un imbroglione e un ladro. Come potevo credere a ciò che diceva? Aveva costruito la mia vita sulle sue menzogne. Fu allora che i miei piedi scivolarono nel fango. Arden cercò di impedirmi di cadere. Invece, rotolammo entrambi. E ancora continuavo a lottare, scalciando, graffiando, inarcandomi e cercando di fare ciò che l'altra Audrina non era stata capace di fare all'età di nove anni. Ferirlo! Arden mi cadde addosso, e allargò le braccia per inchiodare le mie al terreno. Le sue gambe si allacciarono alle mie caviglie impedendomi di scalciare. Il suo viso torreggiava sopra il mio, riportandomi ai suoi giorni, allorché Zampe di Ragno aveva cercato di baciarla nel bosco contro la sua volontà. Lo colpii con tale forza alla mascella con la testa che lui imprecò
allorché i suoi denti affondarono nel labbro inferiore. Sangue sul suo viso... come era stato sul loro. La pioggia mi sferzava il viso. In rivoletti scorreva da lui sopra di me. A sprazzi entravo e uscivo da quel giorno nei boschi, vedendolo come Spencer Longtree... vedendolo come tutti e tre i ragazzi, vedendolo come ogni ragazzo o uomo che mai avesse stuprato una giovinetta o donna... e questa volta per la Prima Audrina, per ogni donna dalla notte dei tempi, avrei avuto la meglio, pareggiando i conti. Udii lo strappo della mia camicetta mentre mi dibattevo. Sentii la gonna viola sollevarsi fino ai fianchi, ma mi curavo solo della vendetta! Il sangue dei miei graffi gli rigava la faccia e il vento gonfiava i miei capelli e i suoi. Attorno a noi infuriava la collera della natura impazzita, trascinandoci a sempre maggiori violenze. Mi schiaffeggiò due volte. Come papà aveva schiaffeggiato la mamma per la minima sciocchezza. Non l'aveva mai fatto prima. Aumentò la mia collera, ma non sentii neppure il dolore. Lo schiaffeggiai a mia volta. Lui mi afferrò le mani, come se si rendesse conto in quel momento che non poteva rischiare di lasciarmi di nuovo liberi i polsi. «Finiscila! Finiscila!» urlava Arden al disopra dello strepito del vento. «Non ti permetto di farmi questo, Audrina, né a me né a te stessa. Se proprio devi vedere cosa c'è in quella tomba corro a casa a prendere una vanga. Guardati le mani; queste povere, povere mani!» Le mie mani erano prigioniere delle sue, ma riuscii a liberarle e mi avventai contro i suoi occhi per strapparglieli dalle orbite. Poi lui le catturò di nuovo e se le premette, tutte sporche di terra, sulle anche mentre i suoi occhi si facevano dolci, rovistando nella furia dei miei. «Te ne stai qui per terra e mi fulmini con il tuo odio e io riesco solo a pensare a quanto ti amo. Non ti sei vendicata abbastanza; Audrina? Che altro vuoi farmi?» «Svergognarti, ferirti, come tu hai svergognato e ferito me!» «E va bene, avanti!» mi lasciò andare le mani e mi si accoccolò sopra, mettendo le sue dietro la schiena. «Avanti,» urlò, vedendo che esitavo. «Fa' quello che desideri. Usa quelle unghie spezzate, sporche sul mio viso. Infilami i pollici negli occhi, cavameli, e forse, quando sarò cieco, sarai contenta!» Lo schiaffeggiai ripetutamente, con tutte le forze, prima con una mano poi con l'altra. Strizzò appena gli occhi mentre la sua testa ondeggiava da una parte e dall'altra per l'impeto dei miei colpi violenti. La mia forza era pari a quella di un uomo per la rabbia che provavo. L'adrenalina mi scorre-
va a fiotti nelle vene mentre urlavo e lo colpivo. «Bestia! Vigliacco codardo, lasciami andare! Torna da Vera... non ti meriti altro.» Fieri e rabbiosi quanto i miei, ora i suoi occhi d'ambra parvero crepitare mentre mi fissavano. Sopra di noi il cielo si aprì. Fulmini lo squarciarono in lunghe linee zigzaganti e uno di essi colpì una quercia gigantesca che doveva aver mandato le sue radici in ogni Whitefern sepolto in questo cimitero. L'albero si spaccò in due e cadde con uno schianto fragoroso a pochi metri di distanza da noi, poi cominciò a bruciare. Non voltammo neppure la testa per guardar morire il gigante. Continuai a colpirlo al viso e al petto con i pugni, che ora erano scorticati e doloranti via via che perdevano forza e mi dolevano. Completamente fuori di sé, come un animale, Arden mi si gettò addosso, a corpo morto, quasi seppellendomi nel terreno soffice e poroso. Mi inarcai cercando di disarcionarlo, ma stavo perdendo le forze. Bestemmiò come mai aveva bestemmiato prima, poi si protese in avanti e premette le sue labbra sulle mie. Voltai la testa da una parte, poi dall'altra, e poi ancora dall'altra, ma per quanto provassi non riuscii a sfuggire al bacio brutale che mi ferì le labbra facendomi mordere involontariamente la tenera carne della mia bocca. Poi le sue mani rapaci furono dentro la camicetta stracciata, e slacciarono il gancio anteriore del mio reggiseno. La vista della sua animalesca lussuria mi fece venire il desiderio di uccidere. Mi contorsi, scalciai, mi dimenai e urlai mentre le sue mani strappavano via camicetta e reggiseno e li scagliavano entrambi lontano. Alla fine ogni conflitto fra uomo e donna si riduceva a questo. Lo odiavo! Lo odiavo con tale impeto da volerlo uccidere. E pur combattendolo con tutte le forze qualcosa di altrettanto selvaggio mi tradì e prese fuoco. Cominciai a dibattermi, ma fra un colpo e l'altro rispondevo ai suoi baci, aprendo le labbra mentre la forza dei miei pugni vacillava, poi le mie braccia improvvisamente lo strinsero e attirai il suo capo verso di me. Gli morsi le labbra, sfidandolo a ritrarsi, ma seguitò il suo bacio finché anch'io lo ricambiai, carezzandolo, odiandolo e amandolo, strappandogli via i vestiti bagnati, finché non fummo entrambi nudi nella tomba di mia sorella morta. Fra le sue braccia, su quella tomba, con l'uragano che infuriava su di noi in un selvaggio crescendo, mi arresi alla più grande passione della mia vita. Non all'amore dolce, tenero come era stato quell'unica volta, ma alla passione brutale che mi divorava ed esigeva. Boccheggiando e ansimando tornavo di tanto in tanto alla realtà e mi scoprivo fremente per un orgasmo
dietro l'altro. Poi lui cambiò posizione e venne in me in un modo diverso, trasformandomi nell'animale che sembrava essere. Le sue mani mi presero da dietro, racchiudendo i miei seni rigonfi. Gemette. E poi finì e ci ritrovammo avvinghiati uno all'altra in un folle abbraccio. E anche così continuava a baciarmi e io ricambiavo bacio dopo bacio, come se non ne avessimo mai abbastanza e volessimo farlo e rifarlo ancora e non fermarci mai fino alla morte. Su tremolanti onde di struggente desiderio di rifarlo in continuazione, qui fuori nella tempesta dove il mondo poteva finire a ogni secondo e nessuna colpa contava, piano piano tornai in me. Furiosa di scoprire che avevo perso di nuovo. Mai e poi mai avrei voluto arrendermi. «Non me ne andrò di qui finché non avrò visto il suo corpo,» annunciai, alzandomi in piedi e infilandomi i vestiti infangati, bagnati fradici e laceri... come lei, proprio come lei... «Se è quello che vuoi e che ti serve per convincerti,» replicò incollerito, «corro a casa a prendere una vanga... ma tu aspettami qui!» «E va bene. Ma fai in fretta.» Tirandosi su la lampo dei calzoni corse via e presto fu inghiottito dal pomeriggio che già si era fatto notte. Non potevano essere oltre le sei di sera e il crepuscolo avrebbe dovuto accendere l'orizzonte di colori vibranti, invece la notte era scura come la pece e l'uragano infuriava al suo apice, ma io non cercai neppure di ripararmi. Caddi a terra e piansi. Nel giro di quelli che mi parvero pochi minuti Arden fu di ritorno. Mi urlò di togliermi di lì, puntellò il piede sulla vanga e selvaggiamente prese a scavare nel terreno intriso d'acqua. Grugniva e ansimava sollevando palate di terra. Pochi minuti più tardi boccheggiò: «Questo appezzamento di terra è a poco più di un metro e mezzo sul livello del mare. Ecco perché per legge la camera mortuaria deve essere di cemento... dunque dovremmo trovarla presto». La pioggia mi accecava quasi. Mi avvicinai per guardare giù e vedere la sua camera mortuaria. E intanto Arden continuava a scavare, sinché ci fu l'acqua in quella fossa profonda. Mentre ero inginocchiata proprio sull'orlo, il fango cominciò a cedere. Lanciai un gridolino e cercai qualcosa a cui aggrapparmi mentre scivolavo, inutilmente. «Sta' indietro,» mi gridò Arden mentre gli rovinavo addosso ed entrambi scivolavamo giù, nella sua tomba vuota. Costernata lo fissai negli occhi: «Arden... davvero questo significa che sono io la Prima, la Migliore Audrina?».
Dolore nella sua voce fonda: «Sì, tesoro». Scagliò via la vanga e mi abbracciò. «Tuo padre non mentiva. Ti ha detto la verità.» Tutta la forza che mi aveva sorretta fino a quel momento svanì. Mi afflosciai fra le sue braccia, travolta dalla consapevolezza che ero proprio io colei che era stata violentata all'età di nove anni e che tutta la mia famiglia - mia madre, mio padre, zia Ellsbeth e persino Vera - avevano complottato per ingannarmi. Ma cosa pensavano che fossi, una smidollata incapace di reagire? Costringermi a sedere in quella maledetta sedia a dondolo per conquistare pace e serenità, per trovare quel qualcosa di speciale che chiamavano il suo «dono» quando ero sempre stata io, fin dal primo momento? Ero io la Prima, la Migliore Audrina e su questa tomba mi avevano portato di forza, e costretto a mettere fiori su quella lapide che in realtà era mia. Oh Dio, erano loro i pazzi, non io! In un modo o nell'altro Arden riuscì a farmi uscire dalla fossa per prima, poi balzò fuori anche lui. Voleva portarmi in braccio fino a casa, ma così avrebbe dimostrato a papà e a Vera che, ancora una volta, non ero abbastanza forte. Devastata e dilaniata riuscii a camminare accanto ad Arden mentre la pioggia ci incollava i vestiti addosso, i capelli alla testa. Come reduci di guerra, arrancammo alla cieca, lungo quel desolato sentiero di menzogne che ci conduceva a casa. Allorché ci arrivammo la pioggia ci aveva liberati da ogni traccia di fango. Non appena dentro, Arden mi sospinse in fretta e furia nella stanza da bagno del piano terra e mi asciugò i capelli. Mi tolse a uno a uno i vestiti bagnati mentre io me ne stavo impalata, tremando di freddo, battendo i denti intirizzita. Mi strofinò vigorosamente con una salvietta asciutta prima di premermi il viso fra le cosce. Sobbalzai per la scossa elettrica del suo bacio in quel posto... perché non mi aveva mai baciata prima là? «Non mi hai mai permesso di fare una cosa del genere,» mi disse prendendo un accappatoio di spugna bianca dal guardaroba e tenendomelo perché potessi infilarlo. Le sue labbra mi sfiorarono la spalla prima che mi avvolgesse teneramente nell'accappatoio asciutto. «Non allontanarti mai più da me, Audrina. Urla, strilla e combattimi, ma non cancellarmi più. Stasera mentre ti dibattevi e urlavi, mi sei parsa completamente viva, come se per la prima volta in vita tua fossi nel pieno controllo della tua vita. E anche se hai pensato di essere stata sconfitta, in realtà sei tu la vincitrice. Mi hai fatto capire quanto meravigliose sarebbero potute essere le nostre vite insieme, e quanto lo saranno da oggi in poi.» Non potevo prendere nessuna decisione in quel momento. Dovevo prima
trovare papà e affrontarlo. Avevo tante domande da fargli. Lo avrei costretto a rispondermi, anche con la forza se fosse stato necessario. Mi sottrassi all'abbraccio di Arden. «Devo vedere papà, solo dopo parleremo di noi.» Impaziente, attesi che anche lui si asciugasse i capelli e infilasse un accappatoio uguale al mio, poi, con Arden accanto, andai alla ricerca di mio padre. La storia di papà Nei corridoi le lampade gettavano ombre sulle pareti mentre Arden e io salivamo i gradini che conducevano in soffitta e di lì nella cupola... ma prima ancora che arrivassimo a metà della scala a chiocciola, udii Sylvia che cercava di parlare con papà. «Au... driii... naa...?» «Non so dove sia,» diceva papà, come fuori di sé. «È per questo che sono salito quassù. Da questo punto di osservazione posso guardare per chilometri e chilometri... ma non vedo un accidente!» «Sono qui, papà,» dissi, spuntando dalla botola nel pavimento e ritrovandomi ancora una volta sul tappeto turco. Prontamente mio padre richiuse la finestra per tenere fuori la pioggia e il vento che facevano suonare freneticamente le campanelle tibetane. Il mio gigantesco papà sembrava esausto, troppo esausto per rispondere alle domande che dovevo fargli. «Cosa mi hai fatto? Perché mi hai mentito, papà? Abbiamo scavato nella sua tomba... è vuota!» Si afflosciò sul pavimento, chinando la testa imponente. «Ho fatto ciò che ritenevo fosse meglio per te.» E come poteva sapere ciò che era meglio per me? Era un uomo, lui! Come poteva, un uomo, sapere cosa provasse una donna o una bambina, violentata e deflorata? Sollevò la testa e i suoi occhi scuri implorarono comprensione, dicendomi che aveva provato, provato disperatamente a ridarmi l'orgoglio che mi era stato sottratto. «Ti avevano lasciato così poco, così poco! E nove anni erano tanto, tanto lontani dalla morte,» disse con quella sua voce aspra, ferita mentre io lo fissavo dall'alto verso il basso e le braccia di Arden mi circondavano per darmi nuova forza. «E se tua madre ha mentito e io ho mentito, abbiamo fatto entrambi del nostro meglio per farti credere
che un tempo era davvero esistita una Prima Audrina e che era toccata a lei, non a te, quella brutta esperienza.» «Ma, papà!» sbottai, «come hai fatto a farmi dimenticare ciò che è accaduto? Cosa ti ha dato il diritto di prendermi la mente e di riempirla di buchi, facendomi vivere nella condizione di essere mezzo pazza?» «L'amore per te mi ha dato il diritto,» ribatté stancamente. «Non è difficile ingannare un bambino. Tesoro, ascoltami e non essermi ostile. Tua zia ha detto almeno un centinaio di volte che dovevamo essere sinceri con te e aiutarti ad affrontare la realtà e certe volte tua madre la pensava allo stesso modo. Ma ero io che non volevo che vivessi con ciò che era accaduto. Fui io a prendere la decisione di fare il possibile per cancellare quel giorno di pioggia nel bosco dalla tua memoria.» Mi liberai dalle braccia di Arden e presi a misurare avanti e indietro il tappeto turco, guardando di sottecchi Sylvia che intanto si era rifugiata nel vano di una finestra e fissava le campanelle a vento come se le udisse suonare, quando invece ora se ne stavano perfettamente immobili. «Sei tu l'unica Audrina,» proseguì papà, seguendomi con gli occhi colmi di disperazione. «Non ce n'è mai stata un'altra. Dopo che tu... dopo l'accaduto, feci scavare una fossa e vi misi sopra quella lapide per convincerti che avevi una sorella maggiore, morta. È stato il mio modo per salvarti da te stessa.» La sua voce si era fatta incolore. Dunque avevo sempre saputo e rifiutato di accettare la verità? Interrogativo inquietante. Avevo forse sempre saputo che ero io la prima ma non più la migliore Audrina? Emisi un gemito, sentendo che dentro di me qualcosa si frantumava. In un lampo rividi me stessa che incespicavo verso casa quel giorno di pioggia, sapendo che il salone era pieno di ospiti in attesa di festeggiare il mio compleanno. Le loro automobili erano parcheggiate lungo il viale... e non appena dentro, mia madre mi aveva afferrata e mi aveva costretta a lavarmi in quell'acqua bollente, mentre io gridavo e lei si dava da fare con quella spazzola dura, impietosa, a strofinare dove già sanguinavo e soffrivo tanto. Mia madre che mi feriva più di quanto avessero fatto quei ragazzi. Scorticandomi a sangue per mondarmi della vergogna e al tempo stesso comunicandomi che non sarei stata mai mondata giacché non sarebbe potuta entrarmi nel cervello e scorticarmi anche lì... e adesso papà non mi avrebbe più voluta... mai più... Girando su me stessa affrontai di nuovo mio padre. «E cosa hai fatto per farmi dimenticare? Come ci sei riuscito?» «Smettila di camminare e lascia che ti spieghi,» replicò, facendosi rosso
in volto. «Ti confesserò qualcosa che ho cercato di nascondere persino a me stesso... ero convinto che tu non potessi affrontare la realtà di quella violenza di gruppo... perché in realtà ero io che non potevo affrontarla. Per salvare me stesso e salvare il mio amore per... ho dovuto rigenerarti in quella casta bambina che non aveva mai conosciuto il male. Quando cominciasti a rifiutare di tornare a scuola e di mangiare, e persino di guardarti allo specchio, poiché rifiutavi di vedere il viso di una bambina così brutalmente stuprata, ti portai da uno psichiatra. Cercò di aiutarti, ma alla fine decise che la cosa migliore nel tuo caso era farti una serie di elettroshock. Ero presente quando ti legarono con le cinghie al lettino. Urlavi mentre ti legavano e ti mettevano fra i denti una fascia di pelle per impedirti di morderti la lingua. E dentro di me anch'io gridavo. Poi ti fecero passare la scarica elettrica nel cervello... e la schiena ti si inarcò mentre cercavi di urlare. Dalla gola ti uscì solo un orribile gorgoglio che ancora oggi mi sento nelle orecchie... e allora urlai anch'io. Non sopportavo che lo rifacessero. Ti portai a casa e decisi che a modo mio potevo ottenere lo stesso risultato senza tante torture.» Smisi di andare su e giù e lo guardai: «Ma, papà, certe cose le ricordo! Il gatto che si chiamava Tweedle Dee... e ricordo le visite alla tomba della Prima Audrina... e all'epoca avevo sette anni, papà, solo sette!». Sorrise cinicamente. «Eri una bambina intelligente, Audrina, e di conseguenza ho dovuto batterti in intelligenza. Ma per quanto dotata fossi, in fondo eri solo una bambina. Non è difficile per un adulto far credere ciò che vuole a un bambino. E io volevo che tu serbassi alcuni ricordi, così te li seminai a casaccio nella memoria. Avevi sette anni il giorno in cui incontrasti Arden; quel ricordo te l'ho lasciato. Ti prendevo in grembo e, seduto nella sedia a dondolo, ti raccontavo di tua sorella maggiore... intanto ti rimodellavo, ti ridavo la forma che era stata tua un tempo... pulita e pura, dolce e tenera. Sì, Audrina, sono stato io a radicare molte nozioni nel tuo cervello. Ti consideravo un angelo troppo bello per questo mondo che disprezza l'innocenza. Tu per me eri tutto ciò che c'è di dolce e femminile e saperti stuprata era un abominio col quale non potevo vivere. E ciò che feci lo feci anche per me stesso, per convincermi che non era mia figlia colei che era stata violentata, non la mia bella, buona e innocente bambina. E in fondo ti ho plasmata bene, non è così, Audrina? Ti ho salvato dall'idea di essere rovinata per sempre, non è così? Se non avessi fatto ciò che ho fatto, cosa ne sarebbe stato di te, Audrina? Cosa? «Tutta la tua fiducia in te stessa era svanita. Strisciavi lungo i muri, nel-
l'ombra. Cercavi di viverci, nell'ombra. Volevi morire e forse ci saresti riuscita se non ti avessi ricostruita. Ti ho raccontato tutto ciò che di buono c'era nella tua vita e ti ho indotto a dimenticare il resto... quasi tutto. Abbiamo bisogno di qualche brutta esperienza per apprezzare ciò che di buono abbiamo. Non eri stupida, Audrina, forse a modo tuo sei stata molto, molto accorta.» Annuii, quasi assente, rivivendo tutto quanto, rivivendo le cose che aveva escogitato nell'intento di sradicare l'orrore di ciò che quei ragazzi mi avevano fatto in quell'atroce giorno di pioggia. «Non te l'ho forse strappato dalla memoria?» implorò, gli occhi traboccanti di lacrime. «Non ti ho restituito l'integrità? Non ti ho forse costruito un castello meraviglioso in cui vivere, circondandoti solo di quanto c'è di meglio? Non per tua madre, Audrina, non per lei ho rubato e ingannato, ma per te! per darti ciò che potesse ripagarti di ciò che ti era stato sottratto. Non ho fatto abbastanza? Dimmi in che cosa ho mancato!» Si asciugò col pugno chiuso le lacrime di autocommiserazione, come se avesse sofferto più di me. «Giorno dopo giorno ti ho tenuta in grembo e ti ho ripetuto infinite volte che non era accaduto a te ma a tua sorella maggiore, che poi era stata uccisa e abbandonata su un tumulo sotto la samonea dorata. Ho persino cercato di rendere bella la sua morte. Non a te è accaduto, continuavo a ripetere, ma all'altra Audrina, quella morta nella fossa. Dopo un po' cominciasti a dimenticare e nella tua mente accadde qualcosa che sorprese persino me. Cancellasti lo stupro; si fece strada nella tua mente che la prima Audrina fosse morta per una causa misteriosa. Da sola scacciasti il ricordo dell'orrore di quel giorno dalla tua mente.» Rabbrividii, poi distolsi lo sguardo da papà che seguitava a parlare. «Ti cullavo, ti stringevo fra le braccia e ti dicevo che era tutto un incubo e tu mi guardavi con quegli occhioni spalancati e angosciati, così colmi di speranza, così ansiosi di credere che non fosse accaduto a te. Pensai di essere sulla strada giusta e seguitai così, giorno dopo giorno... a modo mio ho fatto del mio meglio.» Del suo meglio. Del suo meglio... «Mi stai ascoltando, tesoro? Ti ho restituito la verginità. Forse ti ho confuso un po' le idee nel farlo, ma ho fatto del mio meglio.» La pioggia che batteva sul tetto di rame della cupola produceva un secco rumore crepitante, martellando in me accettazione, ripetendomi senza sosta che dentro di me avevo sempre saputo.
«È stato facile giocare col tempo, papà, e farmi dimenticare persino che età avessi?» «Facile?» chiese rauco, strofinandosi gli occhi stanchi. «No, non è stato facile. Ho fatto il possibile per cancellare il tempo, per renderlo futile. Dal momento che vivevamo così isolati dal resto del mondo ho potuto ingannarti. Ho disdetto l'abbonamento a tutti i giornali. Gli unici giornali che ricevevamo erano quelli vecchi che io stesso infilavo nella cassetta delle lettere. Ti ho ringiovanito di due anni. Ho nascosto tutti i calendari e ho proibito a tua zia di lasciarti guardare la televisione. Ho puntato tutti gli orologi di casa su ore diverse. Ti davamo degli analgesici facendoti credere che fosse solo aspirina, così dormivi spesso. Certe volte ti svegliavi da un sonnellino di un'ora e ti facevamo credere che fosse passato un giorno intero. Eri confusa, pronta a credere qualunque cosa ti venisse detto purché potesse darti pace. Ho fatto giurare a Vera di non rivelarti mai la verità pena punizioni così severe da farle passare per sempre la voglia di guardarsi allo specchio... e neppure un centesimo avrebbe ereditato se mi avesse tradito, rivelandoti ciò che stavo facendo. Tua madre e tua zia tenevano i loro 'té del martedì' due volte alla settimana in modo da convincerti che il tempo si muovesse più in fretta. Chiedevi in continuazione che giorno fosse, che settimana, che mese. Persino che anno. Volevi sapere la tua età, perché non festeggiassimo i tuoi compleanni e quelli di Vera. Ti mentivamo e ti dicevamo qualunque bugia per confondere in te la percezione del tempo. Poi, una settimana dopo ti raccontavamo che erano passati mesi. E nel giro di diciassette mesi ti avevamo convinta dell'esistenza di una sorella maggiore, morta nel bosco... ecco quanto ci è voluto, Audrina. E tua madre e tua zia ti davano lezioni, tenendoti al passo con la scuola, quantunque a te dicessimo che non ci eri mai stata in vita tua. Ci sembrava più sicuro. Quando alla fine ci tornasti, fu in una scuola nuova, dove nessuno conosceva la tua storia.» Lacrime nei miei occhi. Niente Prima e Migliore Audrina. Soltanto io. «Va' avanti, papà,» mormorai, sentendomi debole, strana, conficcandogli addosso lo sguardo, come per strappargli ogni brandello di verità, finché lo avevo in pugno. Raccontare fu come rivivere, e per nulla piacevole, neppure per lui. «Audrina, ho mentito e ingannato solo per risparmiarti altra sofferenza. Avrei detto qualsiasi menzogna, fatto qualsiasi cosa per ritrasformarti in quella bambina fiduciosa, cordiale, che non temeva nulla. E se ora ti chiedi di certi incidenti non dimenticare mai, mai, che eri votata all'autodi-
struzione, potenzialmente suicida. A modo mio credo di aver salvato non solo la tua vita, ma anche il tuo equilibrio mentale.» Il cuore mi picchiava in petto. Qualcosa stava accadendo nel mio corpo, ma quelle rivelazioni che mi colpivano come pugni mi costringevano a nuovi interrogativi, quando avrei dovuto sapere benissimo da sola cos'era in realtà che non andava. Ero stata davanti alla tomba della Prima e Migliore Audrina e l'avevo invidiata perché lui aveva amato lei per prima e meglio di quanto avesse mai amato me. Avevo desiderato essere lei solo per conoscere quel genere di amore. Mi sembrava assurdo, folle sapere che ero sempre stata lei, la prima, la migliore... non la seconda, la peggiore. Grosse lacrime mi rigarono le guance mentre cadevo in ginocchio perché papà potesse prendermi fra le braccia. Lui mi cullò dolcemente avanti e indietro come se fossi di nuovo quella profanata bambina di nove anni. «Non piangere tesoro mio, non piangere. È finita e tu sei ancora quella stessa dolce bambina che sei sempre stata. Non sei cambiata. Niente potrà mai infangare certe persone, e tu sei una di quelle.» Eppure, lassù nella cupola, mi sentivo ancora come se avessi nove anni: brutalizzata, degradata, meno che umana. Solo allora volsi lo sguardo verso la botola nel pavimento e vidi che c'era anche Vera. I suoi bizzarri capelli albicocca sembravano vibrare di elettricità, mentre il suo sguardo mi inceneriva. Brandelli del passato mi lampeggiarono davanti agli occhi. Quell'espressione di invidia sul volto di Vera... ciò che provavo quando pensavo alla Prima Audrina. Con gioia Vera mi avrebbe vista morta, come con gioia io avevo visto morta la Prima Audrina. Ora ricordavo il giorno del mio nono compleanno! Ricordavo quella mattina, mentre mi preparavo per andare a scuola. Non avevo ancora finito di vestirmi nel bagno che Vera e io usavamo insieme. Vera continuava a fissarmi, mentre uscivo dalla vasca e finivo di asciugarmi. «Metti la tua sottoveste più bella, oggi, Audrina. Quella col merletto fatto a mano e i piccoli trifogli ricamati che ti piace tanto. Metti anche le mutandine uguali.» «No, le metterò quando torno. Odio i gabinetti della scuola. E non sopporto che la mamma mi costringa a mettermi i vestiti buoni per andare a scuola quando sa benissimo che le altre bambine sono gelose e mi invidiano le cose che ho.» «Sciocchezze, non è mica stata la mamma a dirlo. È stata un'idea mia. È tempo che in paese si sappia che bei vestiti hai. Però è d'accordo anche lei
che è una magnifica idea far vedere a tutti quanti che le ragazze Whitefern possono permettersi vestiti... e tutto il resto, di seta pura.» Sulla veranda indugiai e guardai Vera dirigersi verso la fermata dell'autobus della scuola. Si voltò e mi gridò: «Goditi il piedistallo per l'ultima volta, Audrina. Perché quando tornerai a casa sarai come tutte noi... non più così pura». Trasalii al ricordo e fissai Vera con nuova consapevolezza.. No, cercai di convincermi. Vera non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Non avrebbe mai messo quei ragazzi sulle mie tracce... oppure mi sbagliavo? Era la sola a sapere quale sentiero prendevo normalmente. Il bosco che circondava casa nostra per centinaia di acri era percorso da una miriade di sentierini tortuosi e appena tracciati. Furono i suoi occhi scuri a tradirla, l'espressione astuta con la quale mi squadrò da capo a piedi, sogghignando, ridendo silenziosamente di me nel suo intimo, come se in fin dei conti avesse avuto la meglio. «Sei stata tu a tradirmi, non è così, Vera?» chiesi, cercando di mantenere calma la voce, razionale il pensiero. «Mi odiavi e mi invidiavi al punto da volere che anche papà mi odiasse. Piangevo, nascondendo il viso nel grembo della mamma, convinta di aver fatto qualcosa per dare l'idea a quei ragazzi che in fondo ero cattiva. Mi biasimavo per averli presi in giro, stuzzicati. Mi dicevo che dovevo aver fatto qualcosa, senza rendermene conto, per far nascere in loro cattivi pensieri; ma non riuscivo a ricordare di aver detto una sola parola o fatto un solo gesto per indurii a sospettare che in fondo non fossi la brava bambina che il mio papà voleva che fossi. Sei stata tu che hai rivelato quale sentiero prendevo normalmente!» Mio malgrado stavo alzando la voce, assumendo un tono accusatorio. Mi alzai in piedi e feci alcuni passi verso di lei. «Oh, finiscila!» strillò. «Ormai quel che è fatto è fatto, non ti pare? Come potevo sapere io che proprio quel giorno avresti disobbedito e preso la scorciatoia? Non è stata colpa mia, Audrina... è stata colpa tua!» «Aspetta un secondo!» ululò papà, balzando in piedi e correndomi accanto, mentre Arden faceva altrettanto. «In parecchie occasioni ho sentito mormorare, allo spaccio del villaggio, che proprio in questa casa c'era qualcuno che aveva tradito mia figlia. Pensavo che fosse il ragazzo che veniva a tosare il prato e a potare i cespugli. Ma certo che eri tu, invece! Quel ragazzo non era di casa, né ha mai varcato quella porta... ci siamo allevati una serpe in seno. Chi poteva desiderare la rovina di Audrina più della bambina indesiderata che non aveva mai conosciuto suo padre?!»
Terrorizzata in volto, Vera arretrò di qualche passo. «Che la tua anima marcisca eternamente all'inferno!» ruggì papà, avanzando con piglio minaccioso, come se volesse farla finita una volta per tutte con Vera. «Ho sempre pensato che fosse una coincidenza eccessiva. Proprio il giorno del suo compleanno... ma tua madre continuava a dirmi che tu non c'entravi. Ora so. Hai architettato tutto tu con quei ragazzi per far stuprare Audrina!» Vera si portò la mano alla gola e con il braccio ingessato cercò un sostegno dietro di sé. C'era terrore nei suoi grandi occhi neri, così simili a quelli di papà. Lo investì urlando: «Sono tua figlia e tu lo sai! Negalo finché ti pare, Damian Adare, ma io ti somiglio! Farei qualunque cosa per ottenere ciò che voglio... proprio come te. Ti odio, Damian, ti odio con tutta l'anima! Odio quella donna che mi ha portato in grembo! Ho odiato ogni momento che ho passato in questa fossa infernale che chiamate Whitefern! Tu hai dato un assegno a mia madre quando voleva venire a New York per stare con me... un assegno che non era coperto. Un maledetto assegno in bianco per ripagarla di tutti quegli anni durante i quali non è stata altro che una schiava in questa casa». Papà fece un altro passo minaccioso in direzione di Vera. «Non osare dirmi un'altra parola, ragazza, se non vuoi rimpiangere il giorno che sei venuta al mondo! Non sei stata altro che una spina nel fianco per me, dal giorno stesso in cui tua madre ti ha portata qui. E sei stata proprio tu a venirci a dire di tua spontanea volontà che Arden Lowe era presente durante lo stupro di mia figlia e che non aveva alzato un dito per aiutarla. Ridevi mentre mi dicevi che se l'era squagliata. Eri gongolante, Vera. Se non me l'avessi ricordato proprio ora, forse l'avrei dimenticato.» Gli occhi di papà si strinsero pericolosamente. «Tu!» sibilò lei. «E cosa diavolo me ne frega di quello che pensi? Tu non mi hai dato niente dopo la nascita di Audrina. Mi hai trattata come se neppure esistessi dal momento in cui la cara, dolce Audrina è arrivata a casa dall'ospedale. Sono stata scacciata dalla bella stanzetta che avevate arredato per me, per trasformarla in una nursery per lei. Dolce Audrina di là e dolce Audrina di qua, roba da far venire il voltastomaco. Mai che mi dicessi una parola gentile. Le uniche volte che ti degnavi di accorgerti della mia esistenza era quando stavo male o mi ferivo da qualche parte. Io volevo che tu mi amassi e tu rifiutavi di amare chiunque tranne Audrina...» Singhiozzava adesso, mentre correva a nascondere il viso contro il petto
di Arden. «Portami via di qui, Arden... portami via. Voglio sentirmi amata. Non sono cattiva, non sono cattiva davvero...» E fu allora che papà ruggì e caricò come un toro. Urlando, Vera lasciò andare Arden, girò sui tacchi e si lanciò verso le scale. Ma aveva dimenticato che indossava le scarpe dalla suola rinforzata e che non era possibile correre con scarpe simili. La suola rialzata della scarpa sinistra fece sì che la sua caviglia cedesse, stirandosi. Perse l'equilibrio e cominciò a cadere... e la botola della scala a chiocciola la guatava come una grande bocca spalancata proprio dietro le spalle. Come un fantoccio ripreso al rallentatore cadde a testa in avanti nel baratro che la inghiottì. Le sue grida lacerarono l'aria in brevi orribili sprazzi. Prima la sua spalla batté contro un fianco della balaustrata di ferro, un istante dopo rimbalzava e batteva con l'altra in direzione opposta. Rotolando e capitombolando cadde, sbattendo ripetutamente contro il duro metallo finché il suo ultimo urlo fu spezzato a mezz'aria e con un tonfo si abbatté in fondo alla scala, dove giacque immobile. In un lampo Arden scese le scale e le fu accanto in ginocchio mentre papà, Sylvia e io stessa ci affrettavamo a raggiungerlo. Giaceva immobile, come stupefatta, gli occhi scuri vuoti e già appannati mentre fissava Arden che le teneva la testa sulle ginocchia. «Portami via, Arden,» gorgogliò in un bisbiglio impercettibile. «Portami lontano da questo posto dove tutti mi hanno sempre odiato. Portami via di qui, Arden... portami...» Perse i sensi. Con delicatezza Arden poggiò la testa sul pavimento e senza guardarmi una sola volta corse a chiamare un'ambulanza per portare Vera in ospedale... ancora una volta. Passarono ore prima che udissi il portone d'ingresso sbattere in lontananza, a indicare che Arden era tornato dal prontosoccorso. Abbassai la lampada che tenevo vicina al letto e chiusi di occhi, augurandomi che se ne andasse e non mi tediasse con un ennesimo racconto delle ossa fratturate di Vera e di quanto tempo ci avrebbero messo a rimettersi a posto. Temevo di udire nella sua voce comprensione per lei, temevo di sentirmi dire che aveva accettato di portarla via, lontano da qui. Come una bambina che ha ancora paura del buio, nell'oscurità totale mi sentivo indifesa. Eppure l'oscurità totale fu proprio ciò che mi augurai allorché venne da me con la notizia. Silenziosamente la porta della mia camera da letto si aprì e si richiuse. Il profumo di Arden arrivò fino a me. «Ho appena parlato con Damian per dirgli di Vera... vuoi che te ne parli
adesso?» chiese, venendo a sedersi sull'orlo del letto. I suoi occhi stanchi mossero il mio cuore a compassione. Una inopportuna comprensione cercò di farmi vacillare nella mia determinazione di non lasciarmi dissuadere da ciò che avevo deciso di fare. Di ciò che dovevo fare. «Inutile che ti tiri indietro,» mi disse con una certa, rassegnata impazienza. «Non intendo toccarti. Vera è morta circa due ore fa. Aveva riportato troppe ferite interne per poter sopravvivere. Non un solo osso era rimasto intatto dopo quella caduta.» Cominciai a tremare. Una parte di me aveva sempre cercato di raggiungere Vera e di far di lei una sorella. «So come ti senti,» disse Arden stancamente. «Una parte di noi resta sempre menomata quando qualcuno muore. Vera ci ha fatto un regalo prima di spirare, Audrina, Tre morti accidentali per una caduta dalle scale hanno fatto storcere il naso ai poliziotti i quali mi stavano interrogando quando Vera ha mormorato di essere inciampata e caduta da sola... e che era tutta colpa sua.» Mi voltai dall'altra parte, dandogli le spalle, e presi a singhiozzare silenziosamente. Nell'oscurità intuii che si accingeva a spogliarsi, con l'intenzione di starmi vicino per tutta la notte. Tutto d'un fiato parlai. «No, Arden. Non ti voglio nel mio letto. Va' a dormire nell'altra stanza finché non avrò riflettuto su tutto quanto. Se Vera ha detto che è caduta da sola è perché è proprio così, non ti pare? Nessuno l'ha spinta... invece è stata proprio lei che ha spinto me e più ci rifletto e ripenso alla porta che ho sentito chiudersi furtivamente il mattino che ho trovato mia zia morta... più sono convinta che è stata Vera a spingere sua madre giù dalle scale e a prendere l'assegno che avevo appuntato al riquadro di sughero. E poi c'è Billie... anche lei caduta dalle scale. C'era la possibilità che lei e papà si sposassero e questo avrebbe creato un nuovo pretendente alla fortuna di Whitefern, poiché non ho dubbi sul fatto che deve sempre aver meditato di liberarsi di me, prima o poi.» Non ebbi risposta da lui, se non nella porta che si richiudeva. Solo allora mi alzai e infilai una vestaglia per andare a vedere Sylvia. Ma non era in camera sua. La trovai nella stanza dei giochi che un tempo era stata mia. Dolcemente dondolava avanti e indietro, canticchiando fra sé la sua strana cantilena. La conoscevo, ora, mentre mi guardavo attorno con nuova consapevolezza e riconoscevo le bambole che papà aveva vinto per me a più di una fiera, sparando al tiro a segno. E tutti quegli animali di pelouche, altri premi che lui aveva conquistato per me.
Guardai il volto dolce e grazioso di Sylvia, mentre cantava, assorta come una delle streghe prese dalle storie degli antenati di papà. Quelle storie che un giorno mi avevano fatto urlare la maledizione delle streghe a ragazzi che non avevano avuto paura... Piccole bambole si materializzarono nelle mani di Sylvia, forse pescate nelle capaci tasche del suo grembiulone. Bambole minuscole che io stessa avevo comprato per lei. Bambole neutre, senza sesso, più mascoline che femminili, però. Arden era entrato dopo di me e guardava Sylvia voltarsi verso di noi, fissarci e quindi lentamente alzarsi e uscire dalla stanza. «Siediti,» sibilò Arden costringendomi a entrare e spingendomi sulla sedia a dondolo. Si lasciò cadere in ginocchio accanto a me e cercò di imprigionarmi le mani nelle sue. Sospirò e io ripensai a Billie e a tutte le sue piccole allusioni per farmi capire che suo figlio non era perfetto. Ma io avevo voluto che lui fosse perfetto. Forse tutto questo era nei miei occhi mentre lo fulminavo con lo sguardo e silenziosamente lo accusavo, offesa e sconvolta, per come mi aveva deluso proprio quando avevo avuto maggiormente bisogno di lui. Tristezza e colpa offuscavano i suoi occhi tanto che quasi gli lessi nel pensiero. Aveva sopportato tanto da me per riscattarsi da quella vergognosa giornata. E tuttavia lo amavo, lo amavo pur disprezzando la sua debolezza. «Questo è il momento che ho temuto dal giorno del tuo nono compleanno. Stavo correndo a casa con l'intenzione di sbrigarmi per arrivare in tempo alla tua festa. Non ero mai stato a Whitefern e per me quello era un gran giorno. Nel bosco, sul sentiero di casa mia, tre ragazzi mi chiamarono e mi dissero di restare a godermi lo spettacolo. Non sapevo cosa intendessero. Tutto il mio tempo libero, quel poco che avevo, lo passavo a lavorare, e divertirmi con ragazzi più grandi di me era qualcosa che non avevo mai fatto. Ero fiero che finalmente mi considerassero uno di loro, così restai e obbedii quando mi dissero di acquattarmi fra i cespugli. Poi arrivasti tu, saltellando lungo il sentiero, canticchiando sottovoce. Nessuno parlò. Quando balzarono fuori e ti corsero dietro, urlando ciò che intendevano farti, mi parve di trovarmi in un incubo. Le gambe mi mancarono... non sapevo cosa fare per fermarli. Stavo male per la paura che provavo per te e per l'odio che provavo per loro... e non riuscivo a muovermi. Mi costrinsi ad alzarmi, Audrina... e tu mi vedesti. Mi implorasti con gli occhi, con la voce, prima che ti cacciassero qualcosa in bocca... e la mia vergogna nel sentirmi così paralizzato mi rese ancora più debole. Sapevo che mi avresti
disprezzato per non aver agito, come ancora mi disprezzo io per non aver saputo fare altro che correre a cercare aiuto. Perché è per questo che corsi via, giacché non avevo una sola speranza di vincere in un corpo a corpo con loro. Uno alla volta, forse, potevo pensare di farcela, ma tre insieme... scusami, Audrina. So che scusarsi non serve, me ne rendo conto. Adesso rimpiango di non essere rimasto e di non essermi battuto per difenderti... perché allora non mi guarderesti come mi guardi ora, con tanto disprezzo sul viso e negli occhi.» Si interruppe e si protese per prendermi fra le braccia e con i suoi baci, forse, avrebbe potuto accendere un altro fuoco in me, come quello che aveva fatto divampare nel cimitero e io sarei stata di nuovo sua, pronta a perdonare. «Perdonami per averti deluso, Audrina. Perdonami per averti deluso ogni volta che hai avuto bisogno di me... dammi un'altra occasione e non dovrai mai più perdonarmi per non essere stato all'altezza dell'immagine che avevi di me.» Perdonarlo? E come avrei potuto perdonarlo, quando mai avrei potuto dimenticare? Per due volte non si era mosso per salvarmi da coloro che mi volevano distrutta. Non volevo dargli una terza occasione. L'ultimo filo della ragnatela In un soleggiato giorno di primavera mettemmo Vera a riposare accanto a zia Ellsbeth. Strano che avessi assistito a questo funerale, quando ero mancata a quello di zia Ellsbeth e di Billie. Avevo amato le altre due, eppure fu la bara di Vera che vidi calare nella fossa. Mentre dicevo addio a Vera, la capii. Forse con la comprensione un giorno avrei dimenticato e allora avrei potuto ricordare solo i momenti di amore provati per lei. Tornammo a casa dal funerale e non appena ebbi aiutato Sylvia a togliersi l'abito da cerimonia papà suggerì che una partita di pallone sul prato ci avrebbe aiutati tutti quanti a superare la tristezza che sembrava opprimerci come una cappa di piombo, tetra e ostile. Non avevo quasi rivolto la parola ad Arden dalla sera della morte di Vera, e adesso, tre giorni dopo, facevo progetti mentre papà, sdraiato sulla poltrona di fronte alla mia cercava, come sempre, di scoprire ogni mio più intimo segreto. Allorché Sylvia rientrò nel soggiorno seguita a ruota da Arden notai che la sua andatura strascicata era molto migliorata. L'aria fresca e il sole le avevano colorito il viso e quei meravigliosi occhi color acquamarina perlu-
strarono la stanza prima di trovarmi e sorridere. Uscii prima che Arden avesse modo di rivolgermi la parola e mi affrettai su per le scale. In camera mia sedetti sul letto e cercai di figurarmi il futuro in modo da fare la scelta più giusta per me e per Sylvia. Mio padre venne alla porta e rimase sulla soglia, scongiurandomi di non lasciarlo. Che mi leggesse nel pensiero? «L'hai promesso, Audrina, l'hai promesso. Per tutta la vita non hai fatto che giurare che saresti rimasta con me. E che ne sarà di Sylvia? Intendi abbandonarla e privarla dell'unica persona di cui si fida?» «Me ne vado, papà,» dissi con voce stanca. «Ti ho promesso di non lasciarti quando ero una bambina e non capivo cosa volessi da me, ma non posso restare. C'è qualcosa che assolutamente non va in questa casa. Vi regna qualcosa che impedisce a chi ci abita di essere normale o felice. Voglio la libertà.» «Pensa a Sylvia,» esclamò papà. «Per quanto sia migliorata non sarà mai in grado di parlare ed esprimersi correttamente. Non sarà mai abbastanza normale da eseguire operazioni mentali complesse... come farà a sopravvivere se io muoio?» Non intendevo lasciare Sylvia, ma non volevo dirglielo. Non ancora. «E come sopravviverà quando tu te ne sarai andata?» I suoi scuri occhi da arabo scintillavano di una luce che presi per astuzia. «Allora, dopo tutto, hai perso davvero il dono. Hanno ucciso ciò che ti rendeva unica, la tua capacità di amare altruisticamente, la sensibilità che ti faceva sempre intervenire quando qualcuno aveva bisogno di te. Non sei più la ragazza speciale con quel raro, prezioso dono.» Ribattei con fiero disprezzo: «Non esiste nessun dono, papà. Non ti credo più. È solo il rituale di sedere nella sedia a dondolo e di viverne la magia che ti ipnotizza al punto di farti credere qualunque cosa. Compatisco la bambina che sono stata per averti creduto in tutto e per tutto». «E va bene,» ammise. Mi lanciò un'altra delle sue lunghe, penetranti occhiate, costringendomi ad abbassare gli occhi. Poi fece per andarsene, fissandomi dalla soglia con tale tristezza che dovetti voltare la schiena per non cedere alla sua insistenza. Adesso era persino più chiaro... dovevo andarmene da quel posto. Uscì sbattendo la porta. Mi lasciai cadere sul letto e fissai il soffitto. Dormire, pensai, e non sognare mai più. Così volevo che fosse. Non avevo bisogno di Arden ormai. Avevo Sylvia e mi sarebbe bastato. Tuttavia per tutta la notte Arden apparve e scomparve nei miei incubi cosicché la mat-
tina mi svegliai con la testa frastornata, la bocca impastata. Per tutta la colazione papà non aprì bocca. Normalmente entrava in cucina chiacchierando e ne usciva allo stesso modo. Nessun talento se non quello di agitare la lingua dalla mattina alla sera, udii mia madre bisbigliare spettralmente. Era quasi sempre spiritoso e di buon umore, apparentemente incontaminato dalla tragedia, ma io ero riuscita a fargli abbassare la cresta. Alla fine parlò mentre Sylvia si cacciava in bocca il cibo e Arden mangiava silenziosamente, senza appetito: «Vera doveva essere qui la notte in cui Ellie e io litigammo per l'ultima volta. È stata Vera che l'ha vestita con quel completo da viaggio ed è stata Vera che ha gettato i suoi vestiti nella valigia per farci credere che Ellie progettava di lasciarmi». Chinò la testa fra le mani e per un istante le sue ampie spalle si afflosciarono come se dopotutto la tragedia potesse contaminare anche lui. «Sapevo che Ellie non mi avrebbe mai lasciato. Avrei potuto darle un milione di dollari e lei sarebbe rimasta comunque. Vivere per anni e anni in un posto ti fa piantare radici in profondità, anche quando non vuoi. Periodicamente Ellie affermava che sarebbe stata più felice altrove, ma ogni volta che cercava di andarsene per davvero scopriva di non farcela. Diceva sempre che tornando qui aveva commesso l'errore più grande della sua vita.» Non mi guardava, ma io sapevo anche così cosa stava cercando di farmi... stava cercando di convincermi che non potevo esistere fuori di questa casa, lontana dalle sue cure amorose. Mi stava dicendo quanto mi volesse e avesse bisogno di me, senza esprimerlo direttamente. I numerosi orologi di casa ticchettavano inesorabili il tempo, ogni quadrante in sincronia con gli altri, adesso. Il lavandino della cucina sgocciolava... sgocciolava... Sylvia terminò di mangiare, tirò fuori i suoi prismi e i colori sfavillarono e la cupola nella cupola prese a tintinnare tintinnare... Scossi il capo per liberarmi dell'incantesimo ammaliante che mi veniva lanciato non solo dai colori, ma anche dai suoni familiari. Papà aveva rovinato la mia vita ritenendomi una smidollata incapace di affrontare la verità, quando in realtà era lui a non riuscirci. Mentiva per convincere se stesso più ancora di me. E aveva rovinato anche la vita di Vera, detestandola fin dal primo momento poiché lo riempiva di sensi di colpa ogni volta che guardava i suoi neri occhi infidi, così simili ai suoi. Ma adesso era venuto il momento di dimostrargli di che pasta ero fatta.
In questa casa scivolavo ancora nell'ombra, lungo le pareti, ancora evitavo gli arabeschi multicolori sul pavimento. Ero rimasta una bambina, inchiodata all'età di nove anni. Avrei dimostrato a papà e ad Arden che ero in grado di svellere le mie radici per quanto mi costasse. Sarei fuggita da questa casa. Mi costrinsi a tirare giù le valigie dall'armadio a muro e con folle determinazione presi a correre di qua e di là, gettando alla rinfusa oggetti e indumenti nella valigia spalancata sul letto. Non piegai nulla, mi limitai a gettare maglioni, camicette, indumenti intimi, e feci altrettanto per Sylvia. Incurante dell'ordine pigiai dentro calze e sottovesti, scarpe, borsette, cosmetici... proprio come aveva fatto zia Ellsbeth. La sveglia sul comodino segnava le dieci e dieci, e su di lei regolai il mio orologio da polso. Per mezzogiorno sarei stata in viaggio con Sylvia. «Audrina,» disse Arden, entrando nella camera, venendomi vicino, e cercando di abbracciarmi, «non voltarmi le spalle.» Mi tirò contro il suo petto e cercò di premere le labbra sulle mie. Girai la testa in modo da evitare il suo bacio. «Ti amo,» disse con fervore, «ti ho sempre amata. Cose terribili, cose peggiori accadono a molte persone che però restano insieme. Trovano di nuovo la felicità. Aiuta te stessa, Audrina... Sii coraggiosa. Aiuta me. Aiuta Sylvia.» Ma io non volevo aiutare nessuno se questo significava rimanere a Whitefern. Non avevo più bisogno di Arden ormai. Mi aveva deluso due volte ed era ragionevole supporre che mi avrebbe deluso una terza, e forse ogni volta che avessi avuto maggiormente bisogno di lui. Singhiozzando mi divincolai dalla sua stretta e lo respinsi lontano da me. «Ti lascio, Arden. Credo che tu non sia migliore di papà. Avreste dovuto avere più buon senso, tutti e due, che cercare di basare la mia esistenza sulle menzogne.» Nessuna scusa da lui questa volta. Niente da dire mentre mi guardava terminare i bagagli. Riempita una valigia, lottai per chiuderla. Spuntava un piccolo lembo di una camicia ma non me ne curai. Arden non fece nulla per aiutarmi mentre premevo sul coperchio con tutte le mie forze nel tentativo di costringerla a chiudersi. Alla fine ci riuscii. Chiusi tutti i miei bagagli, cinque colli. Arden sospirò. «Così adesso te ne vai Dio sa dove. Non mi chiedi neppure cosa voglio io. Non te ne importa. Non ascolti scuse o spiegazioni. E questa la chiami giustizia? Oppure dispetto? O vendetta? Il tuo amore è capriccioso, Audri-
na. Non credi che sia giusto nei miei riguardi restare e vedere se non si può salvare il nostro matrimonio?» Non lo guardai. «Non posso permettere che Sylvia resti qui. C'è qualcosa di strano in questa casa che invischia i ricordi e li fa diventare parte del futuro. Questa casa contiene troppi dolori per permettere che qualcuno che viva sotto il suo tetto abbia qualche gioia. Sii felice che ti lascio. Ripetiti tutti i santi giorni che sei sfuggito per il rotto della cuffia al pericolo di diventare esattamente ciò che è mio padre, un imbroglione, un ladro pronto a rubare a chiunque, persino alle sue stesse figlie.» Mi lanciò una lunga occhiata severa, girò sui tacchi e si diresse verso la porta. Da lì pronunciò le ultime, terribili parole: «Potrei dire fin da ora che Damian ha cercato di aiutarti, ma immagino che sia troppo tardi per fartelo capire». Afferrai un costoso fermacarte e glielo scagliai contro, mirando alla testa. Mancai il bersaglio e cadde a terra. Arden se ne andò, sbattendosi la porta dietro le spalle. Pochi minuti dopo la porta si riaprì lentamente. Silenziosamente, su vellutate zampe feline, Sylvia scivolò dentro e mi fissò senza parlare. «Sì, Sylvia, me ne vado e ti porto con me. Ho già fatto i tuoi bagagli e non appena arriveremo a destinazione ti comprerò tanti bei vestiti nuovi. Questa casa è troppo malsana per pensare di viverci un'intera esistenza. Voglio darti giorni di scuola, parchi in cui giocare, amici della tua età. La mamma ha lasciato a tutte e due una parte della casa in modo che se mai avessimo voluto andarcene papà avrebbe dovuto versarci la nostra quota in contanti, oppure vendere. Dunque, diciamo addio con gioia a Whitefern e benvenuta a una viva molto migliore altrove.» I suoi occhi acquamarina si spalancarono mentre arretrava da me. Con violenza scosse la testa. «Nooo,» alitò mentre sollevava le mani come per tenere lontano un nemico. «Rest... restare qui, a casa.» Di nuovo le spiegai che sarebbe venuta con me, che non sarebbe rimasta sola e di nuovo scosse il capo con pari violenza, in tutte le maniere possibili, fuorché con le parole, mi disse che mai avrebbe lasciato papà o Whitefern. Fui io ad arretrare questa volta. Non avrei permesso che il suo attaccamento a nostro padre minasse la mia determinazione ad andarmene per la mia strada, per la prima volta in vita mia. Che restasse pure a Whitefern... forse si meritavano a vicenda. «Addio, papà,» dissi un'ora dopo. «Riguardati, mi raccomando. Sylvia
avrà ancora più bisogno di te, dopo che io non ci sarò più.» Grosse lacrime gli rigarono le guance piene e caddero sulla camicia immacolata. La voce di papà mi seguì mentre mi dirigevo verso l'ingresso. Portavo solo una piccola borsa da viaggio. Sarei tornata dopo a prendere il resto dei bagagli. «Tutto quello che chiedevo dalla vita era una donna che mi vedesse per sempre nobile e magnifico. Ero convinto che questa donna fossi tu, Audrina. Non andartene, ti scongiuro. Ti darò tutto quello che possiedo, tutto...» «Hai Sylvia, papà,» gli replicai con un sorriso tirato. «E quando me ne sarò andata da questa casa non dimenticare quello che sto per dirti. Sei stato tu a far di Vera quello che era, e a far di me quella che sono, e allo stesso modo hai plasmato il destino di Sylvia. Sii buono con lei, papà. E pensaci prima di cominciare a raccontarle le tue storie. Non sono ancora convinta fino in fondo...» Mi morsi la lingua, esitando nel vedere che Sylvia era spuntata nell'atrio, proprio sulla porta del Salone stile impero. Per un istante l'orrore colmò gli occhi scuri di papà. Come se sapesse che Sylvia mi aveva appena imitato una volta di troppo e che si era dondolata su quella sedia molto più spesso di quanto l'avessi fatto io dietro sua imposizione. Adesso aveva lei il dono... quale che fosse o potesse essere. «Prendo la tua Mercedes, papà. Spero che tu sia d'accordo.» Come attonito annuì. «Le macchine non significano più niente per me,» mormorò. «La mia vita è finita se tu te ne vai.» Oltre la mia spalla fissò Sylvia che era venuta a mettersi sulla porta di ingresso. Qualcosa nella sua statura, ora imponente, mi ricordava zia Ellsbeth. C'era anche un vago ricordo della mamma nel suo sorrisetto ironico. Oh, mio Dio! La testa prese a dolermi, come temevo che sempre avrebbe fatto in questa casa di fusi, aghi e ragnatele, con l'oro e il bronzo delle sue decorazioni, con la sua miriade di colori turbinanti per confondermi le idee e distogliermi da altre, più importanti verità. Strane creature eravamo noialtre ragazze Whitefern. Sfidando la banalità nei più bizzarri dei modi. Parole che avevo sentito dire da zia Ellsbeth alla mamma e al ritratto di zia Mercy Marie e che avevano reso i tè del martedì simili a una commemorazione funebre, per niente divertenti. Mentre mi accingevo a lasciare Arden, per non vederlo mai più, papà mi scongiurava di restare con i suoi scuri, foschi occhi pur cercando di negare a Sylvia il diritto di prendere il mio posto. Che pagasse il giusto prezzo per
averla resa quella che era... e Dio solo sapeva se fosse Vera o Sylvia a odiare il babbo con più accanimento. Sospettavo che Sylvia fosse pronta a distruggere qualunque donna, tranne me, che avesse avuto la ventura di entrare nella vita di papà dopo che me ne fossi andata... ammesso che lui desiderasse un'altra donna. «Buona fortuna e addio, Sylvia. Se mai dovessi aver bisogno di me verrò a prenderti per portarti a casa... dovunque sia la mia nuova casa.» Di nuovo feci un cenno con la testa in direzione di papà che continuava a stare seduto, immobile, tetramente assorto. Rifiutai di guardare Arden che era appena sceso, vestito di tutto punto per andare al lavoro. Di nuovo ringraziai Sylvia per aver risposto al mio appello quando avevo avuto bisogno di lei. Una sorta di strana saggezza baluginava nei suoi occhi mentre annuiva, senza cercare di parlare. Dopo di che si voltò e inchiodò papà alla sedia con il suo sguardo penetrante. Rabbrividii al sospetto che in fin dei conti non avrebbe avuto tanto da stare allegro con quella figlia minore la quale, con l'incanto dei suoi prismi lampeggianti, controllava il destino di coloro che cercavano di imporsi troppo. Con estrema riluttanza, tutta la sua infelicità chiaramente dipinta in volto, Arden trasportò le valigie alla macchina e le caricò ordinatamente nel baule mentre io sedevo al volante e mi accingevo a mettere in moto. «Addio, Arden, non dimenticherò mai i bei momenti che abbiamo trascorso insieme quando ancora pensavo che tu mi amassi. Anche se non sempre ti ho accontentato sessualmente come avresti voluto tu, ti ho amato, a modo mio.» Fece una smorfia di sofferenza di fronte alla leggerezza del mio commiato, quindi proruppe amaramente. «Tornerai, Audrina. Credi di poter dire addio a me, a Whitefern, a Sylvia e a tuo padre, ma tornerai.» Le mie dita strinsero il volante in uno spasimo, mentre mi dicevo che questo era l'ultimo e più costoso regalo che papà mi faceva. Mi guardai attorno e mi resi conto che il temporale, durato tre giorni, si era finalmente sfogato e ora l'atmosfera era limpida e frizzante. Il mondo odorava di nuovo, di fresco, di puro. Respirai a fondo e di botto mi sentii immensamente felice. Libera, finalmente libera! Libera da quella rafferma torta nuziale di casa, derubata della coppia di sposi sulla cima. Era la penombra che dominava all'interno di quelle mura che rendeva protagonisti i colori. Da qualche parte lontano di qui avrei potuto ricominciare con le mie forze e diventare una persona vera che sapeva
chi era. Cosa fu a ordinarmi, mio malgrado, di voltare la testa e di ripensare al da farsi? Io non volevo rimanere! Lentamente, lentamente la mia testa fu quasi costretta a voltarsi cosicché presto mi trovai a guardare la casa. I miei occhi salirono a quella finestra al primo piano... a quella stanza che avevo sempre pensato che fosse la sua stanza, e attraverso i vetri offuscati vidi un visetto pallido guardare verso di me... un visetto che somigliava talmente al mio da strapparmi un gemito. Incorniciato da una folta criniera di capelli dal colore indefinibile, che poteva cambiare adattandosi all'ambiente, quel piccolo ovale pallido si avvicinava, arretrava, si avvicinava, arretrava. Vedevo distintamente che le labbra si muovevano, che dicevano qualcosa, forse cantavano la filastrocca della stanza dei giochi. La mano mi tremava quando, distogliendo lo sguardo, cercai di girare la chiave dell'accensione. Che le prendeva, alla mia mano? Non riuscivo a farla obbedire! No! urlai dentro di me, mentre Arden mi fissava come fossi impazzita. No, Sylvia, lasciami andare! Ho fatto quello che ho potuto per te, ti ho dedicato anni e anni della mia vita. Anni, Sylvia! Dammi un'occasione di vivere e di trovare me stessa, ti prego! Più forte tintinnavano le campanelle a vento, imperiose, facendomi dolere la testa tanto da farmi urlare, urlare, ma mi mancava la voce. Nella mia mente lampeggiò una premonizione. Qualcosa di orribile stava per accadere a papà. E dopo avrebbero rinchiuso Sylvia in un ospizio e mai più avrebbe rivisto la luce del sole. Lasciai andare la chiave dell'accensione e aprii lo sportello della macchina, poi scesi e corsi da Arden i cui occhi si illuminarono, di gioia mentre mi tendeva le braccia per accogliermi. Con un singulto, mi affondò il volto nei capelli mentre le mie braccia lo allacciarono con la stessa frenesia con la quale lui stringeva me. Ci guardammo in fondo agli occhi poi, insieme, tirammo fuori le valigie dal baule della Mercedes. Valigie che furono abbandonate sul viale. Al pari dell'amore di papà per me, avevo appena compiuto il gesto più nobile della mia vita. Ero la Prima e Migliore Audrina che aveva sempre messo amore e lealtà al primo posto. Non c'era luogo per me in cui fuggire. Stringendomi nelle spalle, con una punta di tristezza, eppure pervasa da una sensazione di pulizia come mai avevo provato da quel giorno di pioggia nel bosco, mi lasciai travolgere da un senso di serena accettazione mentre Arden mi circondava le spalle con il braccio. Automaticamente, il
mio braccio salì a cingergli la vita poi, insieme, ci dirigemmo verso la veranda dove papà e Sylvia erano usciti ad attenderci. Vidi felicità e sollievo in ambedue i volti. Arden e io avremmo ricominciato a Whitefern e, se avessimo fallito, avremmo cominciato una terza volta, una quarta... FINE