STEVE MOSBY 50/50 KILLER (The 50/50 Killer, 2007) A Lynn PROLOGO «Non dobbiamo andarci per forza, se non te la senti», d...
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STEVE MOSBY 50/50 KILLER (The 50/50 Killer, 2007) A Lynn PROLOGO «Non dobbiamo andarci per forza, se non te la senti», disse lei. John Mercer si guardò allo specchio e non rispose. Si limitò a fissare le mani della moglie che, da dietro, gli sistemava la cravatta. Si prendeva cura di lui, come aveva sempre fatto. Sollevò appena il mento, per facilitarle il lavoro. Lei fece un nodo lento, che poi strinse dolcemente. «Capirebbero.» Come avrebbe voluto che fosse vero. A prima vista, magari si sarebbero dimostrati comprensivi, ma in realtà tutti l'avrebbero letto per quello che era: sottrarsi al proprio dovere. Non faticava a immaginare le chiacchiere in mensa. Tutti a commentare la sua assenza: certo che l'ha presa proprio male, avrebbero detto, e quello che davvero pensavano era che almeno al funerale avrebbe dovuto farsi vedere, per quanto stesse male. Stringere i denti e assumersi le sue responsabilità. Era il minimo che poteva fare. E avrebbero avuto ragione. Non andarci sarebbe stato imperdonabile. Anche se non aveva idea di come se la sarebbe cavata. Eileen gli infilò l'estremità della cravatta tra i bottoni della camicia e lisciò il tutto. «Non dobbiamo andarci per forza, John.» «Tu non capisci.» Alla luce del mattino, l'aria nella stanza aveva uno splendore azzurro metallico. La sua pelle riflessa nello specchio era bianca e flaccida, il viso quasi esanime. Quanto al corpo, be', doveva ancora sforzarsi un po' per abbracciarsi completamente, ma certo non si sentiva più robusto come prima. Ogni volta che sollevava qualcosa gli sembrava immancabilmente più pesante di quanto si fosse aspettato. Si stancava troppo in fretta. In quel preciso istante, la sua espressione era una via di mezzo fra la tristezza e il vuoto totale. Lungo il percorso, chissà dove, era invecchiato. Sembrava un'evoluzione piuttosto recente. Eileen gli disse: «Posso capire che tu non ti senta bene». «Sto bene.» Ma non era vero. Al semplice pensiero di stare in piedi di fronte a tutta
quella gente, gli si stringeva il cuore, sempre più stretto. Se ci pensava troppo, diventava difficile persino respirare. Dietro di lui, Eileen sospirò. Poi lo abbracciò all'altezza delle spalle, appoggiandogli il viso contro la schiena. Si sentì sollevato. Quando lei lo abbracciava, sentiva di essere soltanto quello che era, in quel posto e in quel momento, e scordava tutti i doveri e le responsabilità, tutto il peso che gli gravava addosso. Lentamente sollevò una mano, a coprire quella di lei. Aveva mani piccole e calde. Rimasero per un momento in quella posizione, marito e moglie che si abbracciavano, e lui si guardò nello specchio. Nonostante la stretta confortante di Eileen, lui sembrava ancora una statua, raffigurata in un momento di vuoto totale. Ogni tanto un barlume di emozione gli accendeva lo sguardo, ma era come quando si scorgono schegge di terreno da un aereo, in mezzo alle nuvole. La sua mente non riusciva a trovare un posto sicuro per atterrare. Ma non poteva neppure restare in volo per sempre. Diede un'ultima strizzata alle mani di Eileen e si liberò dall'abbraccio. «Devo fare le prove del discorso.» I funerali erano sempre tristi per centinaia di motivi, ma lui rimase colpito dalla quantità di gente. Di certo ogni trapassato rimarrebbe sorpreso nell'accorgersi di com'era stato popolare e di quante vite avesse sfiorato, magari senza neppure accorgersene. La morte aveva la singolare capacità di radunare coloro che avevano avuto anche solo un vago rapporto col defunto. Venivano sempre tutti. Ai funerali di un poliziotto, l'effetto s'intensificava. Mercer si guardò attorno: c'era la maggior parte del dipartimento, compresi agenti che non avevano mai lavorato con Andrew e che forse neppure lo conoscevano. Condotti lì dal senso di responsabilità e di appartenenza alla medesima famiglia. Ognuno di loro, entrando, si era fermato a rendere omaggio alla famiglia di Andrew e poi era andato a sedersi sul lato destro della cappella, quella riservata ai colleghi. Erano quasi tutti in uniforme. Mercer era seduto in prima fila, su quello stesso lato, attorniato dagli altri membri della squadra. Eileen sedeva in fondo a sinistra, e lui continuava a guardarsi indietro, sperando di vederla. Quando ci riusciva, sentiva allentarsi leggermente la sensazione di panico e si rilassava sulla panca. Avvertiva un desiderio crescente e disperato di stare vicino a lei, ma il suo posto era quello, con Pete, Simon e Greg. Sedevano tutti e quattro in silenzio; al centro della cappella c'era il quin-
to, dentro la bara. Mercer continuava a fissarla. Non era forse troppo piccola per contenere l'uomo che aveva lavorato per lui - con lui - per tutti quegli anni? La morte rimpiccioliva. Ecco un altro aspetto triste dei funerali. Persino in una cerimonia religiosa, in fondo, si avvertiva l'assenza di Dio. Raddrizzò il capo e ascoltò il mormorio soffocato delle conversazioni, lo scalpiccio delle persone che raggiungevano i banchi. Di tanto in tanto echeggiava una folata di colpi di tosse, simile al frullio di uno stormo di uccelli impigliati fra le travi del tetto. Alla fine entrò l'officiante e prese posizione dietro il leggio. Scese il silenzio. L'uomo parlava attraverso un microfono che amplificava la sua voce, ma soltanto di poco. «Siamo oggi qui riuniti per rendere omaggio alla vita e alla memoria di Andrew Dyson, caduto il quindici dicembre nell'adempimento del dovere. Andrew non era credente, quindi si è preferito evitare una cerimonia religiosa. Io sono un officiante accreditato presso la Humanist Association, e mi trovo qui per celebrare una cerimonia laica.» Sollevò lo sguardo verso il fondo della cappella, il volto soffuso di luce ambrata. «Il mondo è una comunità di cui Andrew ha fatto parte insieme con tutti noi», riprese. «Nella vita di tutti i giorni, mentre ci occupiamo dei fatti nostri, è facile dimenticarsene. Ma in effetti la vita e la morte di ciascuno di noi coinvolgono e influenzano tutti gli altri.» Mercer diede un'occhiata alla sua sinistra e scorse la moglie di Andrew. Era seduta tra le due figliolette, le teneva strette per mano, cercando di farsi forza per loro. Quando si era presentato a casa sua per informarla della morte del marito, lei aveva pianto intensamente e a lungo, ma si era anche dimostrata concreta e piena di buonsenso. Quella sera, le era rimasto a lungo seduto accanto, ed era stato allora che lei gli aveva chiesto di tenere l'elogio funebre per Andrew, durante la cerimonia. Non aveva potuto rifiutare, ma già allora si era sentito travolgere dal panico. E adesso eccolo alla testa di un lato della cappella, proprio come lei era alla testa dell'altro. Però non aveva neppure una briciola della risolutezza di quella donna. «Possiamo anche essere privati del conforto di un amico o di un collega stimato, ma non del conforto di averlo avuto con noi. Certo, abbiamo subito una perdita, eppure dobbiamo riflettere non solo sulla scomparsa di un amico, ma anche sul beneficio che abbiamo tratto dalla sua amicizia.» L'officiante diede un'occhiata agli appunti che aveva davanti e riprese: «La morte non può essere cancellata né revocata. Abbiamo tuttavia la possibili-
tà di trasformarla, perseverando nell'amore per coloro che ci hanno lasciato, e amandoci l'un l'altro». Fu a quel punto che Mercer iniziò a rendersi conto che qualcosa non andava. Cominciò con una specie di ronzio acuto nelle orecchie. Mentre fissava l'officiante, tutto ciò che lo circondava sembrò diventare sfocato e lontano. Fu attraversato dai brividi e il cuore prese a battergli all'impazzata. Qualcosa non andava. «Il distacco definitivo della morte porta con sé dolore e tristezza», stava dicendo l'officiante. «Chi nutre sentimenti più profondi proverà anche un più profondo dolore. Nessuna religione e nessuna disciplina di pensiero sono in grado di prevenire una reazione così naturale.» Mercer si voltò, guardando la gente che si affollava alle sue spalle. Un mare di corpi e di teste. In fondo alla cappella, la porta era spalancata, e altra gente era accalcata oltre la soglia. «Eppure, quale che sia la relazione interrotta dalla morte e quale che sia il nostro credo personale, di una cosa possiamo essere certi: coloro che ci hanno lasciato sono finalmente in pace.» Mercer cercò di cogliere qualche volto familiare, ma in quella massa di gente non riusciva a individuare nessuna faccia conosciuta, anche se alcune teste si voltarono a guardarlo. Qualche sguardo cominciò a puntare verso di lui. L'officiante aveva smesso di parlare. Mercer si voltò, accorgendosi che l'uomo aveva lasciato libero il leggio e stava guardando lui, in attesa. Aveva perso l'attacco. Educati colpi di tosse echeggiarono nella cappella, mentre lui si alzava e si avviava verso il leggio. I fogli che aveva preparato erano già al loro posto. Li raccolse con mani tremanti e si avvicinò al microfono. «Sono John Mercer», esordì. «Mi sento nel contempo molto triste e molto onorato per essere qui oggi a parlare davanti a voi. Mi sento onorato di aver conosciuto Andrew Dyson, sia come amico sia come collega.» Ascoltava la propria voce che pronunciava le parole, ma gli sembrava che venissero da un'altra persona. Sudava freddo. Si sentì improvvisamente debole e fragile come un vecchio, e il cuore gli batteva così forte che sembrava volesse schizzargli fuori dal petto. «Ho lavorato... Ho avuto il piacere di lavorare con Andrew per cinque anni.» Deglutì.
Dalla prima fila, gli uomini della sua squadra lo fissavano, preoccupati. Pete, il suo vice, aveva la fronte aggrottata. Sciolse le braccia che aveva tenuto conserte, come se volesse alzarsi per raggiungerlo. Mercer scosse il capo: Sto bene. Ma non era vero. Faceva caldo, là dentro, eppure lui aveva i brividi. Le gambe... «In quel periodo...» Eileen. La cercò con lo sguardo, in fondo alla cappella. Aveva una vaga idea di dov'era, ma adesso che aveva bisogno di vederla non riusciva più a localizzarla. Continuò a parlare e a cercarla, sentendo crescere il terrore davanti a ogni volto che non era quello della moglie. «In quel periodo si è dimostrato uno dei collaboratori più professionali con cui abbia mai avuto modo di lavorare.» Qualcosa colpì la sua attenzione... ma poi lui lo perse. Cercò di rintracciarlo. «Spero che possa essere di qualche conforto...» Infine lo ritrovò, e le parole gli vennero meno. Una faccia in mezzo a tutte le altre, che lo fissava, inquisitoria. Non era Robert Parker? Parker, quello che aveva assassinato cinque ragazzini in una città poco più a sud? L'ultima volta che Mercer l'aveva visto era stato in una stanza ben illuminata. Parker, vestito di arancione, si stava accendendo una sigaretta, i movimenti resi goffi dalle manette. Qualche mese più tardi era morto, ucciso da un altro detenuto. «... di qualche conforto per la moglie di Andrew e per i suoi figli.» Esitò. Non poteva essere Parker. Ma poi vide l'uomo seduto due file più indietro. Capelli impomatati sopra un viso rotondo, infantile. Sam Phillips. Mercer aveva fatto da consulente per quel caso, e dell'uomo aveva visto solo alcune foto. Però aveva esaminato l'attrezzatura di ferro arrugginito costruita da Phillips nel seminterrato di casa. Neppure lui poteva essere lì: era in prigione a centinaia di chilometri di distanza. Parker e Phillips si alzarono. «No», disse Mercer. Si guardò rapidamente attorno e vide altri uomini che si stavano alzando in mezzo alla folla. Li fissò, il respiro più affannoso a ogni volto che riconosceva. Charles Yi, che era penetrato nell'abitazione di tre donne e aveva lascia-
to i loro cadaveri incatenati ai radiatori. Jacob Barrett, l'assassino della cava. «No.» Craig Harris, che aveva sterminato famiglie intere, l'una dopo l'altra. E quell'ultima figura, che si stagliava solitaria in fondo alla cappella. Mercer non riusciva a distinguerla con chiarezza, perché era immersa nell'ombra. Però c'era qualcosa che non andava nella forma della sua testa. C'erano anche delle corna... Si mossero all'unisono, da ogni lato, scivolando tra le ginocchia della gente seduta e puntando verso il passaggio al centro. Tutti con lo sguardo fisso su di lui. Si sentì sprofondare. Nessuna tensione, non più. Non c'era niente. Non esisteva nemmeno più. L'unica cosa che restava, l'unica sensazione che ancora provava, era il terrore assoluto. «No.» Pete era accanto a lui. Gli appoggiò una mano sul braccio... «John, va tutto bene.» ... ma Mercer si divincolò e lo guardò in faccia. «Non li vedi?» gli chiese, indicando il corridoio. Pete aveva sempre un'aria triste, da cane bastonato, però Mercer non l'aveva mai visto con un'espressione così affranta. Non riuscì a sostenere lo sguardo del suo capo e abbassò gli occhi, la bocca piegata in una smorfia triste. «John...» mormorò Pete. «Vieni a sederti, ti prego.» «No, tu non capisci!» Mercer guardò di nuovo verso il passaggio centrale. Procedevano lentissimi, col passo dei morti. E lo fissavano con occhi vuoti. Pete gli rimise una mano sul braccio. «John, sono io... sono Pete.» «Tu non capisci.» «Ma sì.» Pete lo cinse con un braccio. «Sì che capisco.» Mercer esitò, smarrito, poi lo abbracciò e si mise a piangere. Pete lo tenne stretto e gli sussurrò: «Va tutto bene. Andiamo». Lo accompagnò lungo il passaggio. Mercer cercò di tenere gli occhi serrati. Quando li apriva, anche solo per un istante, scorgeva quei volti pallidi vicino al suo, quegli occhi che lo guardavano passare. Si lasciò guidare da Pete, mentre Greg e Simon li seguivano. A metà della cappella, sentì che Eileen gli toccava l'altro braccio. La folla si aprì per lasciarli passare. E, in quel modo, stretti come per proteggersi, uscirono nella luce.
DUE ANNI DOPO PARTE PRIMA «Iniziando un'indagine, una delle prime cose che s'imparano è che non bisogna saltare alle conclusioni. E fino a un certo punto è anche vero. Per esempio, mai dare nulla per scontato all'arrivo sulla scena del crimine, per quanto chiara e ovvia possa sembrare. Qualsiasi decesso in assenza di testimoni va considerato (e trattato) come un omicidio, almeno finché non si dimostri il contrario, e le indagini devono essere condotte di conseguenza. Anzitutto è necessario individuare ogni traccia evidente e basare le proprie deduzioni esclusivamente su quelle. Devono essere i fatti a stabilire l'andamento del caso e bisogna lasciare che siano essi a condurci verso l'inevitabile destinazione. «Tutto assolutamente vero, ma, come potrà dirvi ogni agente con un minimo di esperienza, c'è sempre spazio per l'istinto. Col passare degli anni, si perfeziona la sintonia di quella voce interiore, s'impara ad ascoltarla anche quando gli altri non la sentono. E, finché si resta nell'ambito del buonsenso, non c'è niente di male nel seguire la direzione che essa ci indica.» da Il danno è fatto di JOHN MERCER 2 dicembre, ore 17.15 14 ore all'alba Difficile che la gente vada in soffitta. E ciò valeva anche per Kevin Simpson. C'era salito giusto una volta, quando si era trasferito in quella casa; aveva infilato testa e spalle nell'apertura polverosa, illuminato in giro con la torcia e si era baloccato con la vaga idea di sfruttare quello spazio in qualche modo, già sapendo che non l'avrebbe mai fatto. Dopodiché era ridisceso lungo la precaria scaletta retrattile e se n'era completamente scordato. Se ci fosse tornato quel giorno - quattro anni dopo la prima, breve esplorazione - ci avrebbe trovato il diavolo, accucciato in un angolo e immerso in una luce azzurrognola.
Il diavolo era quasi completamente immobile, concentrato sul piccolo monitor che aveva davanti. Attraverso un auricolare, ascoltava ciò che veniva trasmesso dall'attrezzatura di sorveglianza piazzata nella casa sottostante. È probabile che, in un primo momento, Simpson non avrebbe neppure capito cos'aveva di fronte. Forse avrebbe pensato che non era reale, che quel diavolo era soltanto un'incongrua, vecchia statua accovacciata. Con la luce che balenava su quel volto implacabile, poteva quasi sembrare il cadavere di un uomo in una stanza buia, col televisore ancora acceso. Ma Kevin Simpson, come la maggior parte della gente, non andava mai in soffitta. Il diavolo aveva passato giornate intere lassù senza essere disturbato Aveva dormito direttamente sopra la sua testa, con le provviste in una borsa e la spazzatura in un'altra. Lo aveva spiato. Quel giorno lo aveva trascorso a osservare e ad ascoltare la coppia che si muoveva per casa, inconsapevole della sua presenza sopra di lei. La ragazza era arrivata alle nove e un quarto di mattina. Avevano preso un caffè e mangiato insieme. Avevano chiacchierato. La ragazza se n'era andata alle quattro e un quarto. Tutto quello che avevano detto e fatto, il diavolo l'aveva sentito e visto. Quando la ragazza se n'era andata, lui aveva aspettato. E aspettato. Alla fine si mosse. Si alzò dall'angolo, mentre la luce del monitor gettava lunghe ombre alle sue spalle. Gli oggetti essenziali - la corda e il liquido infiammabile - erano nascosti di sotto, nella stanza per gli ospiti di Simpson. Prese il martello e scivolò agilmente lungo le travi fino alla botola. Un giorno in cui Simpson era fuori, al lavoro, aveva oliato bene il chiavistello e il meccanismo della scaletta metallica: si aprirono silenziosamente. Dall'ingresso sottostante, in soffitta penetrò un raggio di luce, illuminando le ragnatele grigie che pendevano dai travicelli. Poi il diavolo scese. Il risveglio di Kevin Simpson era avvenuto in un momento preciso. Il ritorno alla realtà era stato più che altro un graduale acuirsi della coscienza. Aveva tenuto gli occhi chiusi. Gli era sembrata la cosa più sensata, benché non fosse ancora in grado di capire perché. Anche senza un suo apporto cosciente, le sensazioni si erano fatte più definite. Lo sciacquio di un calore bagnato su tutto il corpo.
Una vaga pressione attorno. L'aria fresca sul viso... però accompagnata dalla sensazione del sudore che gli imperlava la fronte e il naso. Quanto alla temperatura, era come trovarsi nella sauna del Leisure Club. Cera acqua che scorreva e sciabordava. Bolle calde gli ribollivano attorno ai piedi. Sono nella vasca da bagno. Si era biasimato all'istante. Se non ci penso, non è vero. Ma non poteva negare tutto e, pur con riluttanza, era stato costretto a registrare altre sensazioni. Benché ancora indistinto, il mondo aveva cominciato a prendere forma attorno a lui. Sapeva di essere disteso, nudo e immerso nell'acqua. Sentiva la porcellana dura contro la nuca, e le pareti della vasca contro le braccia. E un dolore tremendo e pulsante alla spalla... Era stato allora che si era ricordato dell'intruso. C'era un uomo in camera sua, gli era saltato addosso e... Travolto dal terrore, aveva provato a dibattersi, però una corda gli bloccava le braccia lungo i fianchi. Anche i piedi erano legati. Gli era entrata dell'acqua nel naso. Aveva cercato di tossire, ma invano... Gesù, aveva anche qualcosa sopra la bocca... Il panico era diventato un trillo acuto nella sua testa. Aveva soffiato disperatamente l'acqua fuori dal naso, cercando di aspirare aria. In bocca aveva un liquido amaro e salato. Aveva ingoiato freneticamente, cercando di non vomitare. «Sta' calmo, altrimenti finisce che affoghi.» Kevin s'immobilizzò di colpo, con gli occhi sempre chiusi. Un ladro. Se si fosse sforzato di dimenticare che, dopo che lei se n'era andata, si era seduto al computer per scriverle un'email, forse Kevin si sarebbe convinto di aver soltanto disturbato un ladro. Poco importava che, girandosi, l'avesse visto improvvisamente sulla soglia, con una maschera da diavolo sul viso e un martello in mano. Quell'uomo era soltanto in cerca di soldi ed era stato costretto a legarlo. Ben presto avrebbe preso quello che voleva e se ne sarebbe andato. Quando lui chiuse i rubinetti, Kevin sentì un cigolio e poi nient'altro che il rumore smorzato dell'acqua nelle tubature. Come se le vene della casa ribollissero sotto l'intonaco. «Apri gli occhi.» Non voleva, però obbedì. Il bagno era saturo di vapore: una patina umi-
da e opaca sulle ante a specchio dell'armadietto. Se lo sentiva anche sulla fronte, gli colava lungo le tempie. L'uomo era seduto sul coperchio del water, accanto alla vasca. Portava ancora quell'orrenda maschera: pelle rosa di gomma; mazzetti di peli neri appiccicati sul mento e, sopra la testa, corna che sembravano fatte di vecchie ossa. Il diavolo. Kevin si limitò a fissarlo. «Così va meglio», disse l'altro, annuendo. Kevin si rese conto di essere disteso e legato in una vasca piena di acqua calda, alla mercé di quello spaventoso estraneo. Di uno che indossava quella maschera. È uno sbaglio, pensò. Dev'essere uno sbaglio. L'uomo allungò una mano e raccolse il martello che era ai suoi piedi. Il terrore di Kevin aumentò, ma stavolta lui cercò di rimanere assolutamente immobile. Non affogare. «Mi dispiace per tutto questo.» L'uomo guardò l'arma, perplesso. Come se non fosse ben certo del danno che avrebbe potuto provocare. «Può darsi che tu ne esca vivo e, in tal caso, mi dispiace di averti colpito. È stato necessario.» Può darsi. Necessario. «Se hai capito, fa' un cenno col capo.» Kevin annuì meglio che poté. Era uno sbaglio, continuava a ripetersi. Se soltanto quel tipo gli avesse tolto il bavaglio, permettendogli di parlare, avrebbe potuto spiegarsi. L'uomo posò il martello. «So a chi stavi scrivendo», disse. «Vi ho osservati tutti e due, per un bel po'.» Oh, Gesù. «E ho anche letto le altre e-mail che vi siete scambiati. Ho tutte le tue password. Ho anche la copia delle tue chiavi... le ho ricavate dalle impronte che ho preso da tutte le serrature. Vedi?» Sollevò un enorme mazzo di chiavi e lo scrollò. Gli occhi di Kevin saettarono dall'una all'altra chiave, ma lui le muoveva troppo velocemente perché potesse distinguere le sue. Ma non importava. Annuì lo stesso. L'uomo appoggiò le chiavi in terra. «A volte entro in casa tua quando non ci sei. Frugo nelle tue cose, leggo le tue lettere, dormo nella tua soffitta, ti seguo quando vai e torni dal lavoro.» Allora non era uno sbaglio. Kevin fissò l'uomo e cercò di ripercorrere il
passato, di ricordare se avesse visto qualcuno o qualcosa di sospetto. Niente. Di solito badava ai fatti suoi e basta, no? Senza dare troppa importanza a chi aveva attorno. Uno in gamba poteva seguirlo senza problemi. «Tu non mi hai mai visto», disse l'uomo. «Sto sempre attento. Però io ho visto te e lei. Vi ho osservati tutto il giorno, entrambi.» Kevin annuì con cautela. Dalla fronte il sudore gli scorreva negli occhi, e lui sbatté le palpebre per liberarsene. L'uomo dalla maschera di diavolo allungò una mano e raccolse di nuovo qualcosa da terra. Una latta rossa e gialla. Liquido infiammabile. Lo stomaco di Kevin diventò di colpo gelido, contratto, morto. Lui cercò di ritrarsi, ma non riusciva a muoversi. Si accorse invece di essersi pisciato addosso. L'uomo intrecciò le mani, tenendo la latta nel mezzo. Una latta di quelle con cui spruzzare la carbonella del barbecue per far divampare meglio le fiamme. La stava puntando vagamente in direzione di Kevin. Inclinò la testa e persino attraverso la maschera riuscì a sembrare pensieroso. «Adesso facciamo un gioco sull'amore», disse. 3 dicembre, ore 7.23 8 minuti dopo l'alba Era sufficiente. Il corpo di Simpson sussultava ancora nell'acqua, ma lui aveva smesso di lottare. Attraverso il fumo che invadeva la stanza, il diavolo vide che la maggior parte dei capelli era bruciata e la pelle del viso carbonizzata. Non sembrava più in grado di respirare. Se ancora non era morto, lo sarebbe stato presto. Era sempre una questione di gradi. Spense il registratore digitale e controllò il display. Otto minuti e quindici secondi di audio. Gliene sarebbe servito solo una minima parte. Il bagno puzzava, e lui fu lieto di tornare sul pianerottolo, chiudendo la porta su quel macello. Sopra la sua testa ciondolavano i fili del rilevatore di fumo che aveva messo fuori uso prima di concludere il gioco, in modo che l'allarme non turbasse la morte di Simpson. Prima di andarsene, doveva ancora sistemare alcune cose. Aveva lasciato Simpson da solo per brevi periodi, approfittandone per far sparire dalla casa ogni traccia del suo equipaggiamento di sorveglianza. Non che avesse
molta importanza, ormai, ma quell'attività l'aveva tenuto occupato, in attesa che Simpson riprendesse conoscenza. Aveva anche controllato se erano arrivate delle e-mail. Si chiese cosa stesse facendo in quel momento la ragazza che era stata lì il giorno prima. Probabilmente dormiva, inconsapevole di quello che aveva provocato. Ma non lo sarebbe rimasta a lungo. C'erano ancora un paio di cose da prendere. Scese al piano di sotto, infilandosi il registratore nella tasca della tuta. Gli sarebbe servito per la telefonata. 3 dicembre, 8.40 22 ore e 40 minuti all'alba Mark Considerato quanto ne sentivo la mancanza, era strano che sognassi così raramente Lise. Negli ultimi sei mesi, era successo forse una manciata di volte, e anche allora non avevo sognato proprio lei. Ogni volta brillava per la sua assenza. Proprio come quand'ero sveglio. Il sogno di quella mattina non era stato diverso dal solito. Ero seduto sulla spiaggia, in calzoni corti, a fissare l'orizzonte. Avevo la pelle umida e coperta di sabbia, e rabbrividivo. Davanti a me, il mare era calmo e tranquillo, le onde si frangevano leggere sulla riva. Le creste si arrotondavano piano, si assottigliavano distendendosi sulla battigia, prima di ritrarsi con un lieve sibilo. Il cielo sopra di me era azzurro e indistinto, e in lontananza si schiariva gradatamente, sino a confondersi con la superficie del mare. Uno strano alfabeto di uccelli disegnava frasi in corsivo su quello sfondo. Nient'altro. In apparenza un sogno del tutto innocuo, eppure mi svegliai sconvolto, oppresso da una disperazione schiacciante. Per un attimo, non riconobbi neppure la stanza quasi vuota che avevo attorno. Cosa...? Poi ricordai il trasloco da un capo all'altro del Paese. L'appartamento, il lavoro. Cercai di strofinarmi via il sonno dagli occhi, e mi ritrovai la mano bagnata di sudore. Cristo, Lise, pensai. Hai scelto il giorno giusto per venirmi a trovare. Poi mi fermai, perché c'era qualcosa che non andava. Mi ci volle solo un istante per capire cosa. Nella mia nuova camera da letto si sentiva della musica. Eppure avevo il vago ricordo di una musica completamente diver-
sa sentita appena prima di ripiombare nel sogno. Girai la testa di lato e diedi un'occhiata alla radiosveglia. «Merda!» esclamai, ma non bastava. «Oh, cazzo!» Avrei dovuto fare la doccia e prendere il caffè già da un'ora. Chiusi gli occhi. Hai proprio scelto il giorno giusto per venirmi a trovare. Un uomo di minor conto sarebbe schizzato fuori dal letto di corsa, ribadendo i concetti di «merda» e «cazzo» a volume sempre più alto, ma c'erano cose più importanti dell'essere in ritardo. Perciò me ne restai disteso per qualche altro secondo a respirare profondamente, cercando di mantenere la presa sul sogno che già svaniva. La disperazione opprimente rimase, ma a volte persino la disperazione è meglio di niente. A volte è la sensazione giusta da provare. Hai scelto davvero il giorno giusto per venirmi a trovare, pensai. Ma sei sempre la benvenuta. E solo allora, finalmente, mi strappai dal letto e mi precipitai in corridoio, cercando di ricordare dove diavolo fosse il bagno nella mia nuova casa. Alle nove e mezzo, in ritardo di mezz'ora per il mio primo giorno di lavoro, parcheggiai sulla ghiaia scricchiolante di un posto auto delimitato da catene. Il tempo si annunciava schifoso e deprimente, un giusto sfondo per la mia frustrazione. Il cielo era chiazzato di nuvole sudicie, come neve fradicia dopo una giornata d'impronte melmose. Sembrava indeciso se mettersi a piovere sul serio o no; per il momento, si limitava a incupirsi e sputacchiare di tanto in tanto. I cigli erbosi che delimitavano gli spazi del parcheggio si erano trasformati in fanghiglia. Lungo il tragitto, il meteorologo di una radio locale aveva annunciato allegramente che c'erano notizie buone e notizie cattive. Avrebbe smesso di piovere nella tarda mattinata. Però dopo sarebbe arrivata la neve. All'estremità opposta del parcheggio si stagliava il primo edificio della centrale di polizia, tozzo e quadrato. Dietro, s'intravedeva una ragnatela di edifici collegati da passerelle di cemento beige, e le rare finestre visibili riflettevano il cielo scuro senza rivelare nulla dell'interno. Quand'ero stato lì, un mese prima, per il colloquio, mi era venuto da pensare che il dipartimento sembrava più il luogo adatto a commettere un delitto, che quello in cui andare a denunciarlo. Pareva un manicomio in disuso. Spensi il motore dell'auto, e il picchiettio della pioggia sul tettuccio si
fece più smorzato. Le gocce coprirono il parabrezza, offuscando gradualmente la visuale. In ritardo il primo giorno. Non sarei sembrato meno professionale se mi fossi presentato con un costume da clown. Per un attimo tamburellai con l'indice destro sul gomito sinistro, ma non potevo farci più niente e così la piantai di tirarla per le lunghe, mi ricomposi, scesi dall'auto e attraversai il parcheggio, diretto all'ingresso. La zona della reception era standard: soffitto nero sopra, moquette consumata sotto e pallidi tramezzi di calcestruzzo a suddividere lo spazio nel mezzo. C'erano brochure appese ai tabelloni - PROTEGGI LA TUA BICICLETTA! - e una fila di seggiole di plastica arancioni in una saletta d'attesa dove non c'era nessuno in attesa. Se da fuori somigliava a un ospedale psichiatrico, dentro ricordava piuttosto un centro sportivo. Dietro il banco della reception, di fronte alla porta, erano sedute due ragazze ragionevolmente attraenti. Quando mi avvicinai, quella sulla sinistra mi sorrise e io ricambiai il sorriso. Aveva i capelli castano chiaro raccolti in un'ordinata coda di cavallo, e un trucco leggero applicato con cura. L'altra ragazza, con la cuffia da centralinista, era indaffarata a smistare telefonate. «Salve. Sono il detective Mark Nelson, il nuovo membro della squadra di John Mercer.» «Ah, sì.» Si allungò per prendere un portablocco. «Il nuovo tirapiedi di Mercer. La aspettavamo.» «Un traffico spaventoso», mentii. «Non starei a preoccuparmi.» Mi passò il blocco. «Dovrebbe mettermi qualche firma.» Il mio nome era stampato in diversi punti del foglio, e io cominciai a firmare accanto a ognuno. La ragazza continuò a osservarmi per tutto il tempo. «È il suo primo incarico, vero?» Sorrisi senza sollevare lo sguardo. «Le voci corrono in fretta.» «È sorpreso?» «No, in effetti no.» E in realtà non lo ero; era ovvio che ci sarebbero state speculazioni su chiunque John Mercer avesse scelto per la propria squadra, non solo su di me. In parte per via del fatto che era più famoso di quanto potesse essere un qualsiasi altro poliziotto ancora in servizio. Oltre a essere un funzionario di polizia assai conosciuto e rispettato, era anche un personaggio ri-
chiestissimo per conferenze, convegni, consulenze, articoli, documentazioni e perfino per qualche apparizione televisiva. E, per chiudere in bellezza, aveva scritto un libro di successo sulla sua esperienza di cacciatore di killer senza nemmeno avere, prima, la creanza di ritirarsi a vita privata. Invece aveva descritto il carico eccessivo di lavoro e di pressioni che due anni prima lo avevano condotto a un esaurimento nervoso. Era un libro brutalmente sincero, ma di certo non gli aveva fatto guadagnare troppi amici. E, nel ruvido ambiente della polizia, si diceva che neppure l'esaurimento avesse contribuito alla sua popolarità. Però Mercer non era tipo da preoccuparsi troppo delle opinioni altrui. Da quando aveva ripreso il lavoro, poco meno di un anno prima, ai suoi ordini si era alternata una serie di collaboratori che, per quanto non di primo pelo, non si erano tuttavia dimostrati all'altezza dei suoi famigerati standard. Tutti motivi per cui non c'era da stupirsi se chiunque si fosse aggiudicato quel posto sarebbe stato considerato con un misto di risentimento e di pietà. Nel mio caso, sapevo bene che l'interesse sarebbe stato anche maggiore e che quelle due reazioni si sarebbero gonfiate all'estremo. In termini di esperienza, per Mercer rappresentavo l'estremo opposto dello spettro: quello era il mio primo incarico. Il che spiegava perché, in effetti, non mi sorprendeva che alla ragazza della reception fossero già arrivate tutte le voci possibili. Probabile che in quel momento ne sapesse più lei di me. «Il primo incarico», ribadì, scuotendo la testa con finta compassione. «E le tocca Mercer. Certa gente nasce proprio sfortunata.» «Ah, ma è proprio quello che volevo.» «Be', ne riparliamo tra una settimana.» Sorrise, ma non ero sicuro che stesse scherzando. «Intanto guardi in su e faccia ciao ciao alla macchina fotografica.» C'era una palla nera che pendeva dal soffitto. Sollevai il viso e notai la luce rossa di lato. Flash. Faccia ciao ciao alla macchina fotografica. Quella foto mi ritrae com'ero all'epoca: poco meno di trent'anni, altezza superiore alla media, corporatura atletica che sembrava più snella per via dell'abito nuovo cui non ero abituato. Capelli castani, taglio corto e ordinato. Niente di speciale, a essere onesti. Neppure un granché come foto, ma io e le macchine fotografiche non siamo mai andati troppo d'accordo.
Sembra che abbiano l'abitudine di sorprendermi sempre a metà tra due espressioni. In quella foto sembro abbastanza deciso e sicuro di me, ma si scorge anche un certo nervosismo. Di persona, faccia a faccia, riuscirei a nasconderlo meglio. Ma quella foto mi ha scoperto. La foto correda un file che contiene una sintesi della mia storia personale. Nome: Mark Nelson. Età: ventotto anni. A quel punto ero ormai ufficialmente, anche se con poco successo, un detective. Da circa mezz'ora. Il mio background. Per formazione, ero quello degli interrogatori: la mia specializzazione era parlare con indiziati, vittime, testimoni, nonché condurre indagini porta a porta. Mettere la gente a proprio agio per poi scucire le giunture dei loro segreti. Prima di entrare in polizia, avevo completato un dottorato in psicologia che aveva richiesto, tra l'altro, una serie di colloqui con serial killer. Ne era emerso un certo interesse verso la materia e, da quel momento, credo di aver sempre saputo che avrei finito per lavorare nel campo della psicologia comportamentale. Proprio come nei film. Solo che non era andata proprio così. Per quanto la cosa fosse decisamente meno spettacolare, avevo scoperto di essere più portato per i colloqui, che non era il ramo in cui avevo progettato di specializzarmi. Però a volte la vita fa dei lanci a effetto, e in certi casi capita persino di prendere la palla. Il file diceva pure che mi ero diplomato all'Accademia cinque anni prima e che, da allora, avevo fatto parte del gruppo di riserva, dal quale le squadre incaricate dei singoli casi pescavano di volta in volta e secondo necessità. Non era un gran divertimento, ma qualcosa dovevo pur fare, e intanto avevo frequentato tutti i corsi di formazione di un certo interesse che mi capitavano a tiro, collezionando esperienze e incarichi di minore responsabilità. Di fatto campavo timbrando il cartellino, però continuavo a tener d'occhio ogni possibile avanzamento. Almeno in prospettiva. Due mesi prima, avevo scoperto che nella squadra di Mercer c'era un posto vacante per il lavoro porta a porta e, quando avevo letto l'annuncio, avevo pensato: Perché no? Cos'ho da perdere? Mi sarei presentato per il colloquio, avrei lasciato che le mie qualifiche parlassero per me, e avrei argomentato la mia candidatura di persona come meglio potevo. Punta alle stelle e accontentati di qualcosa di meno, come si suol dire. Per strano che possa sembrare, non mi aspettavo di ottenere il posto. Perciò due settimane prima, quando avevo ricevuto la lettera d'incarico, mi ero letteralmente messo a saltellare nel mio vecchio appartamento, quasi fossi un bambino. La domanda e il colloquio non mi erano mai passati di mente, tuttavia avevo cercato di convincermi che non avevo la minima
possibilità di successo e che, ovviamente, non me ne importava. In quel preciso istante, però, altrettanto ovviamente, mi ero reso conto di quanto invece me ne importasse. La sera stessa mi ero messo a rileggere da cima a fondo il libro di Mercer. E l'eccitazione aveva cominciato a venarsi di nervosismo e d'incertezza. Dopotutto Mercer era una leggenda; come potevo esserne all'altezza? E soprattutto: se non ci fossi riuscito? Per tutta risposta, mi tornò in mente quello che diceva sempre Lise, cioè che dovevo avere più fiducia in me stesso, che invece di starmi a preoccupare del futuro dovevo buttarmi e basta. Mi ero guardato attorno in quell'appartamento pieno di scricchiolii dove lei, proprio come nei sogni, brillava per la sua assenza, e mi ero sforzato di far germogliare un minimo di sicurezza dai semi delle nostre vecchie conversazioni. Eppure, con la reputazione di cui godeva Mercer, era del tutto normale che una parte di quel sacro timore restasse. Riguardando ora quella foto, lo vedo emergere sotto la patina di sicurezza, e non è difficile ammettere che ero decisamente nervoso, quel primo giorno di lavoro. E ancora non avevo la minima idea di ciò che mi aspettava. Mi fermai davanti alla quinta porta lungo il corridoio e controllai la targa. Poi respirai a fondo e aprii. Dentro non c'era nessuno. La stanza era silenziosa, a parte il ronzio dei computer in standby. Vista l'ora, immaginai che la squadra fosse già fuori; se così era, certo al mio esordio non avevo fatto buona impressione. Sospirai pesantemente. Chiedi scusa e cerca di non farlo più. E basta. Chiusi la porta e accesi la luce. Ronzò e lampeggiò prima di accendersi, e il chiarore non sembrò valere tutto quello sforzo. Era quel genere di luce esangue e malaticcio tipico dei vecchi uffici, e quello che c'era sotto non si prospettava come l'incarico che avevo sempre sognato. Cinque vecchie scrivanie, sepolte sotto cumuli di fogli di gran lunga troppo numerosi perché una squadra di cinque persone potesse gestirli; alcuni monitor e ingombranti unità centrali; matasse di cavi; vecchi raccoglitori impilati accanto a sedie che avevano visto tempi migliori. Su ognuna delle scrivanie c'era una targhetta triangolare. Trovai subito la mia. Avrei preferito una scrivania vuota e ordinata, ma ovviamente non era così. Tra la polvere e le graffette c'erano diverse cartelle stracolme di fogli, che ci avrei messo giorni a esaminare. C'era anche una pila di CD le-
gati con un elastico e un post-it appiccicato sopra, che lo segnalava alla mia attenzione. Li presi e poi li rimisi a posto. Casi aperti, pronti per il tribunale. Gesù! La mattinata si prospettava ancor più insormontabile del previsto. In poche ore, avrei dovuto rimettermi in pari su settimane di arretrati. Fulminai con lo sguardo quella catasta di scartoffie, cercando di convincerla che adesso comandavo io e che, in un modo o nell'altro, l'avrei domata. Ma non sembrò particolarmente intimidita. Oltre la mia scrivania, vidi quella di Mercer. «Cazzo!» Non sapevo bene se esserne sorpreso oppure se in fondo me lo aspettassi, comunque non c'era letteralmente un centimetro libero su cui appoggiarsi per lavorare. Tra le pile di fogli che la seppellivano, sembrava che nessun documento avesse il minimo rapporto con gli altri. Abbassai lo sguardo e vidi che pure sotto lo spettacolo era lo stesso. L'indicatore rosso della segretaria telefonica mostrava che aveva raggiunto il limite dei quindici messaggi. Così quello era il mio nuovo capo: il famoso sergente John Mercer, dell'Investigativa. Il suo posto di lavoro era un guazzabuglio dettato dal genio oppure dalla follia. Impossibile dire quale dei due, ma avevo la netta sensazione che, se Mercer fosse improvvisamente finito sotto un camion, almeno una cinquantina di casi in corso avrebbe dovuto ricominciare da zero. Nessuno poteva ereditare quel casino e sperare di cavarne qualcosa. Guardai la parete dietro la scrivania. C'era la fotocopia di un'istantanea in cui si riconoscevano Mercer e il sindaco. Proprio quell'anno lui aveva ricevuto un riconoscimento per i servigi resi alla comunità. Nell'angolo superiore, aveva scritto con una biro nera: Ah! Ah! Ah!, come se quell'encomio fosse più imbarazzante che altro, quasi a dire: Visto cosa mi tocca sopportare? Però la foto l'aveva appesa; più la guardavo, più mi sembrava che la sua espressione fosse in netto contrasto col commento scarabocchiato sopra. Se la memoria non mi tradiva, quando gliel'avevano assegnato non aveva ripreso il lavoro da molto e c'era un velo di tristezza attorno agli occhi e alla bocca. Nella foto, il sindaco gli stava infilando una medaglia al collo e Mercer sembrava timoroso che fosse troppo pesante da sopportare. Ovviamente l'avevo conosciuto durante il colloquio, e lo ricordavo piuttosto distratto. Mi era sembrato interessato alle interviste che avevo condotto al Niceday Institute - soprattutto quella a Jacob Neils, che aveva arrestato lui -, però aveva lasciato la maggior parte delle domande alla sua
squadra. Stavo ancora osservando la fotografia, perplesso dai dati contrastanti che vi leggevo, quando squillò il telefono sulla scrivania di Mercer. Rimasi a fissarlo per un attimo, sentendomi stranamente colto in fallo. Mark, datti una calmata, pensai. Risposi al terzo squillo. «Ufficio del sergente Mercer. Sono Mark Nelson.» «Buongiorno, detective Nelson.» La voce femminile era calda e tranquilla, e suonava vagamente divertita. «Sono Eileen Mercer, e credo sia la prima volta che ci sentiamo. Sbaglio o lei è il nuovo schiavo di mio marito?» Non rise, ma sottolineò la parola «schiavo» quanto bastava per farmi capire che non diceva sul serio. Sorrisi. «È quello che c'è scritto sul mio nuovo biglietto da visita.» Stavolta la donna rise apertamente. «Ci scommetto. Mio marito c'è?» «No, mi dispiace, ma non c'è.» Mi guardai attorno come se potesse materializzarsi di colpo. «In effetti non c'è nessuno.» «Proprio nessuno?» «Solo io.» «È il suo primo giorno, vero?» «Sì.» «Mi sembrava. John mi ha parlato di lei. Ha detto che era rimasto molto impressionato dal suo curriculum, e che non vedeva l'ora di metterla al lavoro.» «Davvero?» «Ma certo.» Sembrava non rendersi conto di avermi rivelato qualcosa di stupefacente, però aggiunse: «Glielo dico io perché sono sicura che lui non lo farà. Per adesso come si trova?» «Non troppo bene.» Mi lasciai scivolare sulla sedia di Mercer. «Sono arrivato in ritardo e, a dirla tutta, non so neppure dove siano gli altri in questo momento.» «Sarebbe stata la mia prossima domanda.» «Mi dispiace.» «Oh, no, non si preoccupi. Poveretto. Se la può consolare, sono sicura che capiranno. Ora come ora, le strade sono un incubo. Lo scorso weekend, mio marito si è perso, quindi non gli permetta di prendersela con lei.» «D'accordo.» «Suppongo sia arrivato in città da poco.» «Sì. Mi sono trasferito qui dalla costa un paio di giorni fa. Ma ancora
non mi so capacitare di essere arrivato in ritardo.» «Posso chiamarla Mark?» «Certo.» «Quanti anni ha, Mark?» «Ventotto.» «Com'è giovane. Lasci che le dica una cosa, Mark. Lei mi sembra un ragazzo a posto e so quanto mio marito possa intimidire la gente. Perciò ho una proposta: se lei mi farà un favore, io mi assicurerò che John si comporti bene con lei. Di solito mi dà retta.» «È molto gentile da parte sua. Ma il favore glielo farei comunque.» «Be', si tratta di una cosa facile. Voglio che riferisca a mio marito che ho telefonato. E gli dica: 'Non dimenticarti'.» «Non dimenticarti», ripetei. «Già. Credo che non gli farà molto piacere. E non gli chieda cosa vuol dire.» La sua voce si ridusse a un sussurro teatrale. «Servirebbe solo a farlo arrabbiare.» «Credo di potercela fare.» «Molto bene...» Un altro trillo acuto c'interruppe. Ruotai sulla sedia e guardai verso la mia scrivania. La spia del telefono lampeggiava. «Ehm...» Eileen Mercer mi trasse d'imbarazzo. «Sarà qualcuno della squadra, Mark. Deve andare.» «Speriamo.» «Si ricordi del messaggio, e buona giornata. Sono sicura che avremo occasione di risentirci presto.» «D'accordo. Stia bene.» «Anche lei.» Riappesi e mi precipitai alla mia scrivania, continuando a ripetermi: «Non dimenticarti, non dimenticarti...» Se mi fossi scordato di trasmettere quel messaggio, sarebbe stata l'ironia a uccidermi, prima ancora di Mercer. «Detective Nelson.» «Mark? Sono Pete.» Pete Dwyer era il vice di Mercer. Al colloquio era stato lui a farmi la maggior parte delle domande, vagamente frustrato e innervosito da tutte le scartoffie che doveva riempire. Sembrava un grosso orso amichevole, costantemente accigliato, ma aveva fatto del suo meglio per mettermi a mio agio, e gliene ero stato grato. «Ciao, Pete. Mi...»
«Non preoccuparti. Ci servi qui sul campo. Hai una penna?» «Ah-ah.» Mi spiegò brevemente la situazione. C'era un cadavere, in periferia. Circostanze sospette. Simon Duncan, il nostro uomo della Scientifica, era al lavoro con gli esperti della scena del crimine, per cui non si potevano ancora esprimere pareri ufficiali, ma quasi certamente si trattava di omicidio. Mi aspettavano per la routine d'interrogatori porta a porta dei vicini di casa... almeno mezz'ora prima. «Giusto», borbottai, prendendo furiosamente appunti. «Dov'è che devo venire?» 3 dicembre, ore 10.10 21 ore e 10 minuti all'alba Eileen Dopo aver parlato con Mark Nelson, Eileen si ritrovò a vagare da una stanza all'altra. Come se aspettasse qualcosa che doveva accadere e non volesse mettersi a fare altro nel frattempo. E intanto non riusciva a star ferma. Strano. Perché quello era il suo giorno libero e, sebbene qualche volta sua sorella passasse a trovarla, non arrivava mai senza preavviso. Nessun impegno pressante, nessun appuntamento; la sua agenda era vuota. Eppure, quando bussarono alla porta, il rumore improvviso e apparentemente inaspettato sembrò risolvere una questione in sospeso. Era da prima del weekend che aveva quella sensazione addosso; fin dal sogno di venerdì notte le era rimasto quel disagio. Eileen ci aveva ripensato appena sveglia, e in seguito ne aveva parlato con John. Il sogno era stato breve e privo di avvenimenti: lei si aggirava per casa, accorgendosi che c'erano dei cambiamenti e che alcune cose mancavano. Come succedeva nei sogni, la sua mente aveva elaborato un complesso preambolo per spiegare la situazione, ma tutto quello che lei riusciva a ricordare era che John l'aveva lasciata. Erano le cose di John a mancare. I libri di sghimbescio sugli scaffali, a reggersi a vicenda. Le foto staccate dalle pareti, che avevano lasciato segni chiari sul muro. Gli abiti di lei, nell'armadio condiviso, che formavano un codice a barre multicolore. «Spero che tu non stia pensando di scappare», aveva detto a John, men-
tre facevano colazione. Il tono era stato scherzoso, ma lei aveva comunque atteso la risposta. Eileen gli raccontava spesso i sogni che la preoccupavano. A volte le capitava persino d'inventarli, per poter affrontare con circospezione argomenti che le stavano a cuore. John ignorava quello stratagemma, ma erano sposati da parecchio tempo, e conosceva Eileen abbastanza bene da capire quando voleva essere rassicurata. Dopo più di trent'anni, sarebbe stato ben strano che non riuscisse a leggere tra le righe. «Sono troppo vecchio per farlo», aveva risposto. «È l'unico motivo?» Ci aveva riflettuto. «Sono anche troppo stanco.» «Allora va bene.» Ma leggere tra le righe funzionava in entrambi i sensi, ed Eileen si era accorta che, se la prima risposta era stata scherzosa, la seconda era stata invece più meditata. C'erano almeno cento altri motivi per cui John non l'avrebbe mai lasciata, ovviamente, ma sapevano entrambi che quelli erano scontati. Invece ne aveva scelto un altro. Troppo stanco. Lo aveva tenuto d'occhio per l'intero weekend, e aveva concluso che non era soltanto questione di stanchezza. La stanchezza si poteva risolvere con una bella dormita; invece John, pur avendo dormito senza problemi nelle ultime settimane, dava l'idea di svegliarsi ogni mattina più esausto di quand'era andato a letto. Troppo disorientato: ecco forse una spiegazione più accurata. Per scappare da qualche parte, in fondo, bisogna avere idea della direzione da prendere. Perciò, dopo aver parlato con Nelson, Eileen si era messa a vagare per casa, chiedendosi se fosse per caso l'incontro con quel nuovo detective a preoccupare il marito. «Mi ricorda me stesso», le aveva detto lui, con l'aria di non avere ben capito se fosse un bene o un male. Forse era quello che lo tormentava. Forse era solo l'idea di rimpiazzare Andrew. O forse non era niente in particolare. Negli ultimi due anni, c'erano stati un sacco di momenti buoni e di momenti cattivi, e non sempre lei era riuscita a comprenderli. A volte, John sembrava avere appena l'energia sufficiente per alzarsi dal letto; altre volte sembrava esattamente lo stesso di prima del crollo. Ma, di qualunque cosa si trattasse, qualcosa c'era, e lei avrebbe tanto voluto che lui gliene parlasse, proprio come... Toc-toc, toc-toc. S'immobilizzò. C'era qualcuno alla porta laterale, quella riservata ai pazienti. Non aveva bisogno di controllare l'agenda per sapere che non si era
dimenticata di nessun appuntamento. Era giovedì, il suo giorno libero. La sua settimana lavorativa era finita il giorno prima. «Un momento.» Si guardò rapidamente nell'anta di vetro di uno degli armadietti della cucina. Quando non c'era nessuno, aveva la tendenza a lasciarsi un po' andare e, benché non fosse vanitosa, per i pazienti era importante trovarsi sempre di fronte a un aspetto professionale. Per la natura stessa del suo lavoro di counseling, era essenziale che il flusso delle informazioni personali avvenisse in un senso soltanto. Era appena vagamente arruffata, in jeans e camicia, però i capelli erano a posto. Niente maschera di bellezza sul viso, perlomeno. Toc, toc, toc. «Un momento, ho detto.» Chiunque fosse continuò a bussare, imperterrito. Eileen andò alla porta, seccata e inquieta nel contempo. Mentre allungava la mano verso la maniglia, nascose meglio che poteva la prima emozione: un'espressione arrabbiata sarebbe stata ancora più incongrua di una maschera di bellezza. Prima di aprire, controllò dallo spioncino. Davanti alla porta c'era James Reardon. Teneva una mano in tasca e si agitava, impaziente, lanciando occhiate ansiose verso il vialetto come se temesse l'arrivo di qualcuno. Eileen allungò la mano per sfilare la catenella di sicurezza, poi esitò. Reardon era in terapia da lei da ormai più di un anno; era uno dei suoi rari pazienti con trascorsi penali e una certa tendenza a diventare violento. Nella sua attività clinica ci era abituata, ma quell'attività si svolgeva necessariamente in ambiti di lavoro che garantivano tutta la sicurezza necessaria. Non avrebbe mai fatto entrare nessuno di quei soggetti in casa sua, neppure se fossero stati liberi di venirci. Nel caso di James Reardon, però, lei sapeva bene che la maggior parte dei suoi problemi dipendeva dalla situazione domestica e dall'alcol. Nel corso delle loro sedute, si era sempre mostrato tranquillo, cortese e rispettoso. Reardon era un giovanotto confuso e a volte rabbioso, ma era anche intelligente e interessato alla terapia: deciso a impegnarsi, insomma. Le era capitato spesso di vederlo agitato per quello di cui parlavano, ma non si era mai sentita in pericolo. Però non l'aveva mai visto così. Eileen aprì la porta, lasciando la catenella di sicurezza. L'attenzione di Reardon scattò su di lei. «Eileen.»
«Buongiorno, James», disse, circospetta. «Non mi sembra che avessimo un appuntamento, oggi.» «Lo so. Mi dispiace.» Distolse lo sguardo e poi lo riportò su di lei. Aveva un'espressione spaventata, mesta. «Volevo solo dirti che mi dispiace.» «Ti dispiace per cosa, James?» «Ce l'ho messa tutta, giuro. Quest'ultimo anno è stato davvero difficile.» «Lo so che è stato difficile.» «Ma tu mi hai aiutato sul serio, davvero. Sei stata l'unica su cui ho potuto contare.» Eileen mantenne un'espressione neutrale, ma quello che lui aveva appena detto stava modificando la loro relazione. In circostanze normali, lo avrebbe corretto, con cautela. Lui pagava per poter contare su di lei, e l'aiuto per cui pagava era decisamente circoscritto: niente di più complicato che starlo ad ascoltare. Lei gli dava modo e spazio per comprendere i frammenti della propria vita, un pezzetto per volta. Non era certo una sua amica. «Sei tu che ti sei aiutato da solo», replicò. Lui scosse il capo, come a dire che non aveva importanza. «Voglio solo che tu sappia che ci ho provato sul serio. Non voglio che pensi che ho mollato.» Eileen aggrottò la fronte. «James, cosa c'è che non va?» «Qualunque cosà ti raccontino di me, ricordati che lo faccio per Karli.» Quello fece squillare un campanello d'allarme. Karli, la bambina di Reardon, era il risultato di una breve riconciliazione con l'ex moglie, Amanda. A quanto Eileen aveva capito, la loro relazione era stata precaria fin dall'inizio, ma i due figli erano stati il legame che ne aveva impedito lo scioglimento naturale. Reardon rimaneva convinto che Amanda non fosse una buona madre, ma il tribunale aveva deciso a favore della donna, fino a emettere un'ordinanza restrittiva nei confronti di James, impedendogli di vedere i figli. Non era compito di Eileen esprimere giudizi in proposito. Il suo ruolo richiedeva un'assoluta imparzialità, in modo che fosse lui stesso a trarre le conclusioni del caso sul proprio comportamento. Non c'era dubbio che James costituisse un pericolo per l'ex moglie, ma fin dall'inizio era stato chiaro che teneva moltissimo ai figli. La ragione principale per cui era entrato in terapia era raggiungere un livello di comprensione e di autocontrollo tale da poter essere di nuovo una presenza costante nella loro vita. I risultati variavano moltissimo da una seduta all'altra. A volte Reardon sembrava consumato dall'odio e dalla rabbia. In altre occasioni era più in-
trospettivo e sembrava procedere bene. In generale, secondo Eileen, stava facendo progressi. Ma ora... «James, cos'hai fatto?» «Qualunque cosa tu senta raccontare, io l'ho fatto per lei.» La guardò con aria supplichevole, poi si girò verso il vialetto. Eileen prese una decisione. Sganciò la catenella di sicurezza. «Perché non entri un momento? Così possiamo parlare.» Lui stava già arretrando e scuoteva il capo. «No, non sarei dovuto venire.» Lei oltrepassò la soglia. «Ma adesso sei qui. Perché non entri?» «Mi dispiace.» «James...» Lui si voltò e si mise a correre. Eileen scese nel vialetto e lo chiamò di nuovo, ma lui la ignorò, raggiunse la strada e scomparve. La donna abbassò lo sguardo sui propri piedi: ciabatte. Con quelle non poteva raggiungere James, che indossava scarpe da ginnastica. Qualunque cosa tu senta raccontare, io l'ho fatto per lei. La pioggia gelida cominciò a tamburellarle sulla camicia. Eileen rabbrividì, strofinandosi le braccia, ma rimase immobile ancora per un momento, fissando il vialetto deserto. Oh, James, cos'hai fatto? 3 dicembre, ore 10.20 21 ore all'alba Mark Con una sfilza d'infrazioni minori alle regole della circolazione riuscii a raggiungere la scena del delitto abbastanza alla svelta. La strada si rivelò un cul-de-sac che terminava in un bulbo asfaltato a una cinquantina di metri dalla strada principale. Due file di casette a schiera grigie e tutte uguali si fronteggiavano ai lati dell'angusta stradina. Realisticamente non ci sarebbe stato spazio per marciapiedi e aiuole, ma l'amministrazione comunale era riuscita a infilarceli comunque. Per il resto, la strada era piena di poliziotti. Auto e furgoni erano allineati su un lato. Accanto a uno di essi c'era un gruppetto di agenti in impermeabile nero. Erano in attesa, le mani in tasca, mentre altri agenti chiacchieravano coi vicini di casa che stavano com-
prensibilmente sfidando il maltempo pur di capire cosa diavolo succedeva. Uno dei risultati che gli agenti stavano perseguendo, senza dare nell'occhio, era tenerli separati, preservando così l'integrità delle dichiarazioni dei testimoni come il nastro giallo preservava l'integrità della scena del crimine. Fui felice di notarlo. Se non lo avessero fatto, sarei stato costretto a ricordarglielo io. Proseguii in auto fino al nastro giallo che dondolava sotto la sferza della pioggia e un poliziotto mi corse incontro. Abbassai il vetro del finestrino e gli mostrai il distintivo; lui lo prese e lo studiò per qualche secondo. Al bavero del suo impermeabile era attaccata una piccola videocamera che passava quasi inosservata, ma che stava registrando un'immagine della mia faccia. «Detective Nelson», gli suggerii. «Della squadra di Mercer.» Il poliziotto mi rese il distintivo. «È dentro.» Parcheggiai, assunsi un'espressione professionale e mi diressi verso la casa. Due tecnici della Scientifica erano al lavoro in giardino e un agente montava la guardia all'ingresso. Altre videocamere. Mostrai di nuovo il distintivo. «Signore.» L'agente alla porta mi consegnò una videocamera tutta per me: avrebbe scattato foto a intervalli prestabiliti e registrato l'audio, poi trasmessi entrambi su una frequenza criptata all'equipaggiamento di registrazione che si trovava su uno dei furgoni. Quell'enorme massa d'informazioni - ore e ore di registrazione per un'unica scena del crimine - sarebbe stata poi classificata e quindi trasformata in frammenti di dati significativi. L'agente mi accompagnò dentro. «La maggior parte della sua squadra è di sopra. Ma il detective Duncan è in cucina: deve presentarsi prima a lui.» «Grazie.» Attraversai la casa. A destra dell'ingresso c'era il salotto. Diedi un'occhiata all'interno e vidi altri tecnici in ginocchio, diligentemente al lavoro sulle assi del pavimento. Mentre distoglievo lo sguardo e proseguivo, ci fu il lampo di una macchina fotografica. Subito dopo il salotto, sempre sulla destra, c'erano la scala che conduceva al piano di sopra e il corridoio, che finiva davanti a una porta spalancata. La stanza su cui essa si apriva era decorata in toni sanguigni: tappeto rosso, pareti color crema, tende cremisi che pendevano ai lati di una portafinestra che dava sul patio. Altre persone lavoravano in silenzio. La lampadina che pendeva dal soffitto, senza paralume e troppo brillante, gettava ombre crude e troppo nette sui volti. Altri
flash, vividi e improvvisi. La scena di un crimine appena avvenuto è sempre così: la festa più strana alla quale vi sia mai capitato di partecipare. Simon Duncan era in cucina, separata dal tinello grazie a una porta a battente. I mobili erano chiari, lineari e costosi, illuminati da una striscia di faretti incassati nel soffitto. Sfilandosi un paio di guanti bianchi di lattice, Simon emerse dalla cucina. Mi scoccò prima un sorriso, poi mi strinse forte la mano. «Nelson, vero?» Il tono era tranquillo, ma lui parlava velocemente: scoppi di conversazione che ti sfidavano a tenere il ritmo e stare al gioco. «Almeno così mi pare di ricordare. Mark Nelson, no?» Era più alto di quanto ricordassi, abbronzato, la corporatura robusta ma slanciata da rocciatore, quasi completamente calvo se non per qualche ricciolo brizzolato, attorno alle orecchie, che sembrava fare pendant coi ciuffi di peli sul dorso delle mani. Durante il colloquio, aveva continuato a girare una penna tra le dita e mi aveva fatto una sola domanda, ma a una velocità tale che quasi me l'ero persa. Era intervenuto un paio di volte con rapidi commenti, accompagnati da un sopracciglio inarcato e un sorriso sardonico. Anche lui era piuttosto conosciuto in Accademia: un intellettuale piantagrane. «Esatto», risposi. «Lieto di rivederti.» «Alla fine ce l'hai fatta ad arrivare, eh?» «Il traffico.» Non sembrava arrabbiato; mi superò nello spazio ristretto e tornò nell'ingresso. «Il morto è nel bagno, ma c'è stata attività in tutta la casa. Pare che l'abbia tenuto sotto sequestro a lungo prima di ucciderlo.» «È sicuramente un omicidio, allora?» chiesi. Simon inarcò il solito sopracciglio. «Pete non te l'ha detto?» «Abbiamo parlato solo un minuto.» «Be', ti aggiorneranno. Diciamo che ti aspetta un primo giorno di lavoro piuttosto interessante. Seguimi, ti faccio vedere il cadavere.» «Bene.» Prima che potessi chiedere altro, stava già sparendo lungo la scala, verso il piano superiore, e fui costretto a darmi una mossa per stargli dietro. Avevo la sensazione che avrei dovuto farlo spesso, quel giorno. Ci fermammo sul pianerottolo buio. La moquette era rossa, come al piano inferiore, e le tende dell'unica finestrella erano chiuse. Al primo respiro sentii l'odore: forte e disgustoso. L'aria ne era satura. Mi resi conto di aver
fatto una smorfia. Simon fece un cenno in direzione del bagno. «Là dentro. Sei pronto?» Doveva essere una specie di prova, riflettei. Ma avevo già visto altri cadaveri e mi sforzai di cancellare la smorfia. «Certo.» Entrammo nel bagno - almeno per quanto si poteva - e quell'odore tremendo diventò ancora più forte. Petrolio, fumo, carne. Gesù... La stanza era piuttosto piccola, gradevole e ben organizzata. A sinistra della porta c'era la cabina doccia; l'intero bagno era largo circa il doppio della cabina, e lungo forse tre volte tanto. In fondo, sotto la finestra, la vasca da bagno occupava l'intera parete. Sul davanzale c'era un assortimento di gel e schiume sufficiente a riempire il supplemento speciale di una rivista maschile, mentre un'argentea radio hi-tech a prova di umidità era appesa alla parete, sopra i rubinetti. Nel bagno c'erano altri due uomini, che alzarono lo sguardo al nostro ingresso. Uno ritornò subito al proprio lavoro. Simon mi presentò l'altro. «Mark, questo è Chris Dale. Lavora per il Dipartimento di medicina legale e ha preso in carico il nostro cadavere. Chris, questo è Mark Nelson.» Rispetto all'idea che mi ero fatto di un medico legale, Dale sembrava più giovane, ma probabilmente lui pensava lo stesso di me. «Lieto di conoscerti.» «Altrettanto.» Simon fece un cenno verso il fondo della stanza. «E ovviamente la vittima è quella nella vasca.» Sbirciai tra i due uomini. L'acqua nella vasca era rossastra. Non si scorgeva granché oltre la superficie, se non che l'uomo era nudo e aveva una corda legata attorno. La metà inferiore del corpo era invisibile, ma il dorso delle mani galleggiava, formando due isole immobili e pallide. Sembrava che gli mancasse qualche dito, e uno di quelli rimasti di certo era stato piegato a forza all'indietro. All'estremità opposta della vasca c'era la testa. Era rovesciata all'indietro, fissando il soffitto senza vederlo. Il viso era ustionato, irriconoscibile. La pelle carbonizzata si era spaccata e sfogliata, e i pochi ciuffi di capelli superstiti erano neri e appiccicati. La testa sembrava più piccola di quanto avrebbe dovuto essere, come un arrosto che si riduce se rimane troppo sul fuoco. Sta' calmo. «L'acqua è fredda», commentò Dale a mio beneficio. «A giudicare dalla
pelle e dalle mani, sembra che sia rimasto legato qui dentro per la maggior parte della notte.» «Okay.» C'era qualcosa di strano nella mia voce. «In base alla temperatura del corpo rispetto all'acqua, direi che l'ora del decesso si colloca da tre a quattro ore fa. Più o meno verso le sette di stamattina.» Non replicai, limitandomi a buttar fuori l'aria, col desiderio di poter tornare sul pianerottolo e chiudere la porta su quell'orrore. Eppure, mentre fissavo la vittima e sperimentavo quella strana, tipica sensazione da scena del crimine - un misto di repulsione, paura, pietà e attrazione - l'addestramento ebbe la meglio, trasformando la morte in un rompicapo di cui cercavo di ritrovare tutte le tessere. La vittima era rimasta legata nella vasca da bagno per tutta la notte, ma era stata uccisa soltanto la mattina. Il che faceva sorgere alcune domande, le cui risposte ci avrebbero avvicinato alla soluzione del caso. Stavo già vagliando la possibilità di una rapina, di qualche tipo di estorsione... «Cosa gli hanno fatto?» Dale gettò uno sguardo al morto. «Inizialmente... Ci sono ferite evidenti sulle mani, qui, che si ripetono sulla maggior parte del corpo; molti tagli superficiali e qualcuno più profondo. Quanto al viso e alla testa, credo che l'abbiano cosparso di liquido infiammabile e gli abbiano dato fuoco.» «Okay.» «Ci sono ustioni all'interno della bocca e della gola, com'è ovvio, e dimostrano che ha anche ingerito parte del liquido infiammabile. Ma, nonostante le ferite esterne più evidenti, credo verrà fuori che la morte è avvenuta per asfissia.» Su di noi scese il silenzio. Fissai il viso devastato della vittima, incapace d'immaginare una morte così orrenda. Provai un brivido, in parte di raccapriccio e in parte di dolore. E avvertii una profonda tristezza per il fatto che qualcuno avesse dovuto sopportare una sofferenza del genere, e che qualcun altro fosse arrivato al punto d'infliggerla. «Tutto bene?» mi chiese Simon. «Sì. Stavo solo riflettendo.» «Andiamo di là, il resto della squadra è nella camera degli ospiti. John sta per assegnare gli incarichi.» Seguii Simon fuori dal bagno, grato di poter tornare sul pianerottolo, e ci avviammo verso la camera in fondo al corridoio. C'era odore di vomito e subito ne individuai l'origine: una macchia sulla moquette. C'erano anche
schizzi di sangue sulla parete. Vari tecnici della Scientifica si stavano dedicando a entrambi, benché l'uomo inginocchiato accanto alla pozza di vomito avrebbe di certo preferito trovarsi al piano di sotto, a esaminare le assi del pavimento. Il resto della mia squadra si trovava nell'angolo opposto, attorno a un tavolo da computer. Sul monitor si vedeva un programma di posta elettronica; Mercer e Pete Dwyer erano ai lati del membro più recente del gruppo, Greg Martin, seduto invece davanti al computer. Greg era il più giovane di tutti, appena più anziano di me, ed era l'esperto d'informatica. Aveva capelli nerissimi e basette ordinatamente regolate alla stessa lunghezza, e costosi occhiali alla moda. In effetti, era uno dei geek più modaioli che avessi mai visto in circolazione: ero sicuro che la sua collezione di lozioni da bagno rivaleggiasse con quella sul davanzale della nostra vittima. Però, al colloquio, a parte una certa arroganza latente, si era dimostrato tutto sommato amichevole. «C'è Mark», annunciò Simon. Mercer sollevò un dito senza neppure guardare verso di noi. «Un momento.» Greg cliccò su qualcosa e l'immagine cambiò. L'hard disk ronzava, facendo le fusa come un gatto ancora inconsapevole della morte del padrone. Cavi fluorescenti lo collegavano al portatile della polizia su cui lavorava Greg. Mi guardai attorno nella stanza, e vidi un fotografo che si teneva un po' in disparte, piegato all'indietro e concentrato sulla parete dietro la porta. Quando il flash della sua macchina lampeggiò, mi avvicinai di un passo per capire quale fosse il suo soggetto. Mi venne la pelle d'oca. Qualcuno aveva tracciato un disegno sulla parete con un pennarello nero. Era un disegno del tutto sconosciuto - un'enorme ragnatela o forse un acchiappasogni -, ma per qualche inesprimibile ragione mi disturbava. Qualunque cosa significasse, mi bastò un attimo per capire che non era opera del morto nella vasca da bagno. Quanto ai sospetti di rapina o estorsione... dopo un semplice sguardo a quella ragnatela avevano perso ogni consistenza. Ciò che era avvenuto là dentro aveva motivazioni completamente diverse. Diciamo che ti aspetta un primo giorno di lavoro piuttosto interessante. Un altro flash. Ancora concentrati sul computer, Greg e Mercer c'ignoravano. Greg
continuava ad aprire le cartelle che Mercer gli indicava, per controllare i file del morto. Pete invece si staccò da loro per parlare con me. Sembrava grato di quella possibilità di fuga. Aveva i capelli arruffati, e il motivo fu chiaro quando ci passò di nuovo le dita, arruffandoli ancora di più. Mi era già capitato d'incontrare gente con l'aria più distrutta di lui, ma non a quell'ora del giorno. «Hai visto il cadavere?» mi chiese. «Sì, proprio ora.» Sbuffò pesantemente, poi fece un cenno alle sue spalle. «Be', noi pensiamo che la vittima fosse al lavoro qui al computer quand'è stata colta di sorpresa e aggredita da un intruso, probabilmente ieri sera. Sembra che sia stata sopraffatta dopo una breve lotta e abbia poi trascorso la notte legata nella vasca da bagno. Prove evidenti di tortura. Stamattina l'hanno bruciata viva. Nessun segno di effrazione.» «Conosciamo l'identità della vittima?» «Non ufficialmente. Ci sarà l'identificazione formale più tardi. Per ora ci limitiamo a supporre che si tratti del proprietario della casa, Kevin James Simpson.» Pete mi espose gli elementi del caso raccolti fino ad allora, servendosi delle grosse dita per elencare un punto alla volta. Kevin Simpson aveva trent'anni, e abitava in quella casa fin da quando l'aveva acquistata, quattro anni prima. Era il titolare di una piccola azienda informatica, la CCL, che forniva soluzioni business: soprattutto database e siti web. Dal modo in cui Pete lo disse, non sembrava stimasse molto quel settore di specializzazione. «È stata la CCL a chiamarci, stamani.» L'azienda aveva ricevuto una telefonata anonima poco dopo le otto, con la breve registrazione di un urlo terrificante. Dopodiché alla centralinista, sconvolta, erano stati forniti nome e indirizzo di Simpson. La CCL non registrava le chiamate in arrivo, ma la squadra informatica di Greg aveva già controllato i tabulati dell'abitazione di Simpson. La chiamata era partita da quel numero, dalla derivazione nel tinello. Secondo il medico legale, era trascorsa circa un'ora tra la morte di Simpson e la telefonata. Altre domande. Oltre ad aver atteso tanto prima di uccidere la sua vittima, cos'aveva fatto l'assassino dopo averla uccisa? «Simpson abitava da solo?» chiesi. Pete annuì. «Non abbiamo notizie di nessuna ragazza, per ora. Stiamo controllando la lista delle sue passate conquiste fin dove si può, e la posta elettronica.» «Bene.» Accennai alla ragnatela sul muro. «E quella?»
Pete la guardò. Il suo viso sembrò improvvisamente più stanco di prima. Era evidente che quella ragnatela lo preoccupava, che non sapeva come collocarla. Ma fu salvato da un'interruzione: dalla parte opposta della stanza, Mercer e Greg erano arrivati a un punto morto delle loro ricerche, qualunque cosa stessero cercando, e Mercer venne verso di noi. Per un attimo, mi scordai della ragnatela. «Mark.» Stringendomi la mano, mi dedicò il più breve dei sorrisi, ma era evidentemente troppo preoccupato per averlo fatto apposta. «Piacere di rivederti.» «Altrettanto.» In realtà, più che un piacere, rivederlo mi risultò strano. Mentre Mercer ritraeva la mano mi resi conto che - a parte la foto sulla quarta di copertina del libro - l'avevo visto soltanto seduto, oppure da lontano. Ora, avendolo davanti in carne e ossa, mi colpì il fatto che sembrava davvero piccolo di statura. In realtà era di statura media, ma dava la sensazione di essere stato più robusto e più corpulento e di essersi poi ridotto, quasi raggrinzito, come se portasse una camicia troppo grande per lui. E appariva decisamente più vecchio di quanto mi aspettassi. Non era una questione di stanchezza: quando gli uomini invecchiano, è la debolezza del corpo a tradire l'età. Mi stupì vedere che John Mercer sembrava aver raggiunto il punto estremo di quella debolezza. Aveva una cinquantina d'anni, ma era come se gliene fossero piombati addosso altri quindici, schiacciandolo sotto il loro peso. «Ricordi Greg?» mi chiese. «Certo.» Lo salutai con un cenno del capo. Greg sollevò una mano per ricambiare, ma sembrava assorto in qualcos'altro, e preoccupato; usava i talloni per far muovere avanti e indietro la sedia da ufficio, con tutta probabilità in grave violazione delle regole da rispettare su una scena del crimine. In effetti, sembravano tutti piuttosto distratti. Era evidente che mi sfuggiva qualcosa, e avevo la netta sensazione che avesse a che fare con la ragnatela che l'assassino aveva tracciato sulla parete di Kevin Simpson. «Bene», esclamò Mercer. «Gli incarichi. Pete ti ha già aggiornato sugli elementi essenziali, vero?» «Su quelli essenziali sì.» Feci una pausa e indicai il disegno. «Ma non su quello.» Mercer lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. «Ah, sì. Ne stavamo giusto parlando prima che tu arrivassi.» Mi aspettavo una spiegazione, ma ci fu solo uno spiacevole silenzio.
Mercer non ne sembrò infastidito. Si limitava a fissare la ragnatela. Il suo sguardo seguiva le linee, muovendosi dall'una all'altra, come se ne fosse ipnotizzato. Poi lampeggiò un altro flash e Mercer sbatté le palpebre. La sua attenzione tornò su di me, quindi lui guardò l'ora. «Okay, bene. Diamoci una mossa. Terremo il primo briefing alle due, perciò cercate di essere tutti in ufficio per quell'ora o almeno assicuratevi l'accesso a un terminale. Simon, mi servono tutti gli elementi che la Scientifica riesce a mettere insieme. Greg, tu occupati del computer e dei tabulati telefonici. Pete, la CCL è tua.» «D'accordo.» Mercer lo guardò. «Sai dove devi andare?» Pete, con le mani ancora sprofondate nelle tasche, gli lanciò un'occhiataccia. «Certo.» «Chiunque debba andare, si muova. Mark, tu aspetta un momento.» Pete e Simon lasciarono la stanza e Mercer mi si avvicinò. «Porta a porta», disse. «Hai altri tre uomini a tua disposizione. Ti aspettano al piano di sotto.» «Bene.» «Devi esaminare tutte le case, una per una. Prendi nota di dove non c'è nessuno: quelle le ricontrolleremo in seguito. Anzitutto ci servono opinioni su Simpson in generale. Amici, ragazze, eventuali attività osservate in strada...» Erano tutte cose ovvie. «Sì, signore.» «Trambusto in casa...» continuò lui, ignorandomi. «Ogni fatto precedente che possa avere rilevanza, per quanto vaga.» Cominciavo a innervosirmi. Non tanto per quello che stava dicendo, ma per il modo in cui lo faceva: la sua attenzione era altrove, lo sguardo era diretto più sulla parete alle mie spalle che su di me. Mi ritrovai ad annuire, fremendo nell'attesa di uscire da quella stanza e darmi da fare. Mercer conosceva bene i miei precedenti e, a sentire sua moglie, ne era rimasto colpito, eppure sentiva il bisogno di darmi istruzioni su procedure che avrei seguito comunque. Forse, se mi avesse spiegato qualcosa di quella ragnatela, tutto quello non sarebbe stato necessario e... La moglie, ricordai. Tienilo a mente. «... eventuali veicoli fuori dell'ordinario», concluse Mercer, pignolo. «E visitatori, soprattutto donne.» «Sì, signore.» «C'è altro?»
«Ha telefonato sua moglie. Appena prima che lasciassi l'ufficio.» La sua espressione si fece imperscrutabile. «Mi ha chiesto di dirle: 'Non dimenticarti'. Ha aggiunto che lei avrebbe capito.» «Bene, grazie.» Mi voltai per andarmene. «Ancora una cosa», mi fermò lui. «Rammenta alla tua squadra che deve tenere le videocamere accese. Bisogna che ogni cosa sia registrata. Sempre.» Una procedura standard, che avrei seguito senza neppure pensarci. «Sì, signore.» Probabilmente il mio tono aveva rivelato una certa irritazione, perché Mercer si accigliò. Mi aspettavo un rimbrotto, ma lui sembrava incapace di concentrarsi abbastanza a lungo per farmelo. La ragnatela lo stava chiamando di nuovo. Tornò a dedicarle tutta la sua attenzione. Ma il cipiglio rimase. «Bene», mormorò, soprappensiero. Ero stato congedato. Scesi al piano inferiore e uscii dalla casa, facendo una smorfia di fronte alla pioggia. Sarà anche stata una reazione stupida, però non riuscivo a nascondere la delusione: si finisce sempre per immaginarsi le cose diversamente da quelle che sono. Nelle settimane precedenti, mi ero figurato almeno cento volte il mio incontro con John Mercer, e ogni volta era stato più trionfante, più simile a una rivincita per tutto il duro lavoro fatto, che a quello che si era appena svolto. In realtà, mi ero sentito escluso, nonché trattato con una buona dose di paternalismo. Niente a che fare col momento «da foto ricordo» in cui avevo sperato. È soltanto il suo modo di fare, cercai di convincermi. Non per niente era considerato un tipo difficile con cui lavorare. Mi tornò in mente quello che aveva detto la ragazza alla reception: Ne riparliamo tra una settimana. Ce l'avrei fatta. Certo che ce l'avrei fatta. Se non altro sarei riuscito a dimostrarmi all'altezza del resto della squadra o almeno mi sarei comportato come se sapessi benissimo cosa stavo facendo. Scossi il capo, sorridendo per la mia stessa aggressività, poi misi da parte ogni emozione, superai il cancello e puntai verso il furgone dove la mia nuova squadra mi aspettava. 3 dicembre, ore 11.55
19 ore e 25 minuti all'alba Jodie Jodie attraversò in fretta l'ufficio e si appollaiò sul bordo della scrivania. Michaela sussultò e alzò gli occhi dal lavoro, sorpresa, come se la sua amica le fosse apparsa davanti per magia, invece di fare la stessa cosa tutti i giorni. «Okay.» Jodie si chinò su di lei e tamburellò con la penna sul blocchetto di post-it gialli dove aveva già annotato le altre ordinazioni. «Cosa prendi oggi? Stupiscimi!» Per Jodie era il rituale dell'ora di pranzo, ogni giorno della settimana. Ci metteva venti minuti per arrivare da Theo, comprava i panini per gli altri cinque impiegati temporanei dell'ufficio, e altri venti minuti per tornare indietro con calma. Lo considerava un atto di solidarietà fra membri della truppa. Erano tutti nella stessa barca, dopotutto, scimmie che inserivano dati per una compagnia assicurativa, e passavano ogni santo giorno a digitare gli importi delle fatture. Era un lavoro ingrato, quello di scolpire nella pietra i dettagli del denaro sborsato. All'azienda non piaceva dover pagare, perciò la contabilità rimborsi era esiliata in una vecchia stanza polverosa ai piani alti dell'edificio, uno sporco segreto da tener lontano dagli impiegati come si deve, quelli che facevano soldi anziché registrarne l'uscita. I computer dell'ufficio erano decrepiti, appiccicaticci e chiazzati di caffè versati e di adesivi attaccati e poi rimossi. Le scrivanie erano precarie. Le luci crepitavano e ammiccavano, come se il loro vero scopo fosse attirare e sterminare gli insetti. Niente radiatori, niente luce del giorno. Inserire ed estrarre dati. Jodie lo considerava sfruttamento digitale. Se proprio non poteva fare a meno di pensarci, comunque. Di solito, gli altri impiegati erano studenti che sarebbero spariti nel giro di poche settimane per essere sostituiti da altri che non si sarebbero di certo fermati più a lungo. Michaela invece era con lei da più di un anno e Jodie la considerava un'amica. E ciò la faceva sentire anche peggio per averle mentito su dov'era stata il giorno prima. Michaela allungò la mano verso il blocchetto. «Oggi ci vado io.» «Uh-uh.» Jodie lo tirò indietro. «Cosa prendi?» «Tu non ti senti bene, e io ci vado volentieri.» «Sto bene, davvero. Era solo uno stupido mal di testa. Adesso è passato... Vedi?» Dondolò la testa, come a dire: Nessun danno permanente.
L'altra sorrise e Jodie si sentì meglio. Al suo arrivo, quella mattina, Michaela era subito andata ad abbracciarla. Tipico da parte sua. Più tardi, durante la pausa caffè, le aveva detto che sperava che Scott si fosse preso cura di lei. Jodie avrebbe voluto mettersi a piangere. L'intero universo sembrava coalizzato per farla sentire in colpa, e lei proprio non ne sentiva il bisogno. Quand'era tornata da casa di Kevin, il giorno prima, aveva fatto del suo meglio per comportarsi come al solito, buttando la borsa su una sedia e lasciandosi cadere sul divano accanto a Scott. Lungo la strada, aveva cercato di convincersi che era stato soltanto un grosso errore, che doveva lasciarselo alle spalle, dimenticare tutto e andare avanti. Ma Scott si era accorto che qualcosa non andava. Alla fine le era toccato rifugiarsi in camera e stendersi sul letto: per non tradirsi, doveva stare lontana da lui. Dormirci sopra l'aveva aiutata un po' e si era svegliata provando una nuova risolutezza. C'erano stati dei problemi, d'accordo. Doveva dare tempo al polverone che aveva in testa di depositarsi; poi lei e Scott ne avrebbero parlato con calma e riflettuto su cosa non andava. Il loro rapporto stava prendendo una brutta piega, era necessario qualche aggiustamento. Ci sarebbero forse stati altri scossoni, ma non succedeva sempre così nelle relazioni di lunga durata? Ce l'avrebbero fatta. In men che non si dica, si sarebbero rimessi in carreggiata. Valeva la pena di mettercela tutta. Nel frattempo, non doveva dimenticare che, per quanto fosse stato brutto mentire a Scott, dirgli la verità sarebbe stato anche peggio. Però non era facile, e voleva starsene un po' per conto suo. Aveva sentito il bisogno di rimanere sola fin dall'abbraccio colpevole con cui Michaela l'aveva salutata. «Sul serio, non mi dispiace andarci», disse Michaela. «No, davvero.» Dio santo! pensò Jodie. «Ci vado volentieri. L'aria fresca farà sparire ogni traccia dei diavoletti dell'emicrania.» Con le dita imitò due piccole corna, poi lanciò all'amica un'occhiataccia minacciosa. Michaela sorrise di nuovo. «Scema.» «Sì, come no. Forza, non ho mica tutto il giorno. Cosa prendi?» «Quello che prendi tu di solito. Non sembra male.» «Anatra in agrodolce.» Jodie annuì e prese nota. «Ottima scelta.» «Vuoi un po' di compagnia?» Michaela si voltò sulla sedia. «Potrei fare due passi con te.» Jodie le sorrise. «Non preoccuparti, tesoro.» Fece scattare la biro, strappò il foglietto dal blocco e lo ripiegò. «Ascolterò un po' di musica e non
penserò ad altro. Ma grazie lo stesso.» Scese nell'atrio con uno degli ascensori posteriori. Decimo piano. Tirò fuori l'iRiver dalla borsa. Quaranta giga, che al momento contenevano più di cinquemila brani. Involucro nero e argento. Come le succedeva per tutti i gadget tecnologici su cui posava gli occhi, Jodie l'aveva subito adorato. Agganciò il lettore alla cintura dei jeans, il telecomando al bordo della giacca e sistemò comodamente gli auricolari. Premette il pulsante ON sul telecomando, sentì il leggero bip e attese il caricamento della libreria digitale. Sesto piano. L'illuminazione dell'ascensore non era certo l'ideale per guardarsi nello specchio, ma lei lo fece comunque. Di solito, il risultato variava: a volte si convinceva di essere carina; quel giorno invece si sentiva appena passabile. Capelli castano scuro lisci e sottili raccolti in una coda, anche se una ciocca si era sciolta. Si tolse il fermaglio e se lo infilò in bocca, risistemò i capelli e li legò di nuovo. Poi ricontrollò il trucco, come sempre ridotto al minimo. Secondo piano. L'illuminazione dall'alto le colorava d'ambra la pelle. Fece un paio di smorfie buffe, strabuzzando gli occhi prima che l'ascensore si fermasse al pianterreno. Poi sorrise al proprio riflesso: non ancora amiche, ma quasi. Non sei la persona peggiore del mondo. Sei semplicemente umana. Con un tintinnio, le porte si aprirono su un corridoio secondario dietro l'atrio. Mentre Jodie usciva, sentì una vibrazione che veniva dalla borsa. Si fermò tra un termosifone e un estintore per cercare il cellulare. Presto, presto, presto... Sul display si leggeva 1 MESSAGGIO RICEVUTO e lei premette il pulsante verde per visualizzarlo. Era Scott. Aveva aspettato quel messaggio per tutta la mattina, ma, invece di leggerlo, premette il pulsante rosso per farlo sparire e andò a CREA MESSAGGIO. Il cellulare aveva la funzione BOZZA e lei ne aveva già composto uno. Un generico: Come stai, spero la giornata proceda bene, ti amo. Apparve infatti sul display, e Jodie premette il pulsante INVIO. In tal modo, Scott avrebbe pensato che i loro messaggi si erano incrociati. Continuò a premere i tasti e lesse il messaggio che le aveva inviato lui. Era più o meno il solito che le mandava tutti i giorni, simile al proprio. Sorrise vedendo quanti baci aveva aggiunto alla fine, si sentì un po' triste, poi bloccò la tastiera e rimise il cellulare in borsa.
Se fosse stato un giorno normale, forse gli avrebbe mandato subito un altro messaggio, uno di quelli Ma che coincidenza, ci siamo scritti insieme, le grandi menti funzionano all'unisono... Ma non riuscì a farlo. Quel pizzico di falsità che ci aveva messo la fece sentire più in colpa del solito. Premette invece il PLAY del lettore e si avviò verso l'ingresso principale. Quando Jodie uscì sulla strada trafficata, la musica nelle sue orecchie aveva un volume spaccatimpani e una coppia la guardò storta, chiedendosi evidentemente perché diavolo quella ragazza volesse rovinarsi l'udito. Jodie la ignorò e sollevò gli occhi verso il cielo, infastidita dalla pioggia. Poi alzò il cappuccio e svoltò a sinistra. Il solito, familiare tragitto per uscire dal centro, verso la periferia. Tutto normale. Una pausa pranzo schifosa. Il cielo sembrava quello sopra un impianto industriale, troppo grigio perché si potessero anche soltanto distinguere le nuvole. Mentre lei lasciava il centro, gli alberi si agitavano, innervositi, ritraendosi al tocco della pioggia. La gente le si affrettava attorno, le spalle curve, le espressioni sofferenti. Tutti erano più frenetici di quando c'era il sole. Una giornata schifosa. Speriamo che finisca alla svelta. Per Jodie, intrappolata in ufficio, la maggior parte delle giornate era altrettanto schifosa: ragione di più per compiere il rituale della pausa pranzo. Nel corso degli anni, aveva imparato che la musica era il modo migliore per estraniarsi, per ritagliarsi un minuscolo spazio tutto suo. Col volume al massimo, pensavi solo al brano che ti risuonava nelle orecchie, e il deludente mondo reale lentamente svaniva. La pioggia non aveva più importanza, e non l'aveva più neanche quella giornata schifosa in quello schifoso ufficio; persino la tetra, stramaledetta città in cui vivevi non era poi così male. A parte l'altruismo, era quella la ragione principale per cui Jodie si era offerta volontaria per la corvée panini. Le dava la possibilità di rivendicare un minimo di controllo sulla propria vita, sottraendosi a essa. L'iRiver, in modalità SHUFFLE, passò a un brano che non le piaceva: un'orrenda ballata che di certo si era insinuata lì a causa della sua fissa di collezionare un po' di tutto. Jodie azionò il pulsante del telecomando e la saltò. Partì una musica più tosta. Meglio. Quel giorno, però, fuggire dentro se stessa sembrava più difficile del solito. Indipendentemente dai suoi sforzi, la mente continuava a tornare a Kevin e a Scott, e a quello che lei aveva rischiato di perdere per il suo stupido, stupido comportamento del giorno prima.
Jodie saltò un altro brano, e poi un altro ancora. Qualche secondo più tardi, mentre ancora cercava un pezzo di suo gradimento, arrivò al margine del terreno abbandonato. Immaginò che, dal cielo, quella zona sembrasse una specie di ulcera aperta nella terra, pallida, rugosa e decisamente poco attraente, annidata accanto all'imboccatura della strada. Vecchia ghiaia ovunque, punteggiata da qualche cespuglio e alberello. Lì, per San Valentino, gli zingari montavano le giostre. Per il resto dell'anno, la gente parcheggiava l'auto e ci portava i cani. La strada gli girava attorno, ma in quel modo ci voleva di più: era più semplice e veloce tagliare nel mezzo. Se Scott avesse saputo che lo faceva tutti i giorni si sarebbe preoccupato, però, anche quando non c'era nessuno, Jodie restava abbastanza vicina alla strada principale per sentirsi comunque al sicuro. E poi, quello che Scott ignorava non poteva fargli male. Jodie lo aveva deciso da tempo. Girò attorno alla vecchia transenna arrugginita e proseguì. In lontananza, si vedeva un gruppo di case popolari squadrate e grigie; dietro le case, c'erano un bosco e poi la sagoma indistinta delle montagne. Come il resto della città, anche le case popolari avevano un'aria triste e gelida. Giunta in mezzo al terreno abbandonato, la giornata le sembrò ancora più schifosa di prima. Il terreno era scolorito dal freddo e tirava anche un gran vento. L'aria era gelida, quasi dolorosa. Continuava a schiaffeggiarla di lato. Era a metà strada sul viottolo che passava tra vecchi cespugli scheletrici quando lo sentì. Era qualcosa di estraneo alla musica. Era un rumore del mondo reale, come una sirena; un'ambulanza o un'auto della polizia, lontana. Premette PAUSA sul telecomando. La musica sparì, ma il rumore non cessò. Il pianto di un bimbo. Jodie si fermò, allarmata, benché il rumore in sé non fosse pericoloso. Si guardò attorno, però non vide nessuno davanti a sé e neppure alle sue spalle. Di colpo, le auto sulla strada le sembrarono lontanissime; nel punto in cui lei si trovava, non si sentivano che il pianto del bambino e l'inquietante picchiettio della pioggia. Le venne la pelle d'oca. Veniva da destra, pensò, dall'altra parte dei cespugli. Ma non si sentiva nessuna voce di adulto. Nulla si muoveva. Tranne che per l'ondeggiare dei cespugli, il terreno incolto appariva immobile e desolato. La pioggia rinforzò leggermente e il bimbo si mise a strillare. Era come
una sirena d'allarme, e fece scattare un istinto sepolto profondamente dentro di lei. Si spinse a un passo dal cespuglio. «Ehi?» Nessuna risposta. Jodie sbatté le palpebre per liberarsi gli occhi dalla pioggia e fece un altro passo. Voleva andare a vedere, ma qualcosa la tratteneva. E se avesse trovato il bambino con la madre? Nessun genitore ama i ficcanaso; immischiarsi equivaleva a dire che lo consideravi inadeguato. Jodie esitò, ma proprio allora il pianto riprese, più acuto che mai, come un motore imballato, e lei pensò: 'Fanculo, se sei venuta in un posto così, allora sei per forza una cattiva madre! e cominciò a farsi strada tra i cespugli. «Ehi?» ripeté. «C'è qualcuno?» Ancora nessuna risposta. Era pieno di fango, lì in mezzo. I rami aguzzi la pungevano e le s'impigliavano nei fili degli auricolari. Ma lei ci mise solo qualche secondo per superarli. Tra i cespugli c'era un varco e proprio lì, abbandonata tra il fango come un vecchio cesto da picnic, stava la fonte degli strilli. Il bimbo era avvolto in una coperta rosa, disteso sulla schiena e piangeva, disperato. Il visetto sembrava una minuscola rosa rossa. «Oddio», mormorò Jodie. «Povero piccolo.» Si sfilò velocemente l'iRiver e lo cacciò nella tasca del cappotto. La situazione era così irreale che lei fu sul punto di darsi un pizzicotto per essere sicura di non stare sognando. Era una di quelle cose che si vedevano al cinema o si leggevano sui giornali... e invece stava succedendo proprio a lei. Qualche orrendo individuo aveva abbandonato quel Piccolino al freddo, sotto la pioggia. Jodie non si considerava un tipo materno - mai andata d'accordo coi bambini che le era capitato d'incontrare -, tuttavia non esitò neppure un istante a chinarsi per raccoglierlo. Mentre lo faceva, sentì una vibrazione contro il fianco. Il cellulare. Un altro messaggio. Non ora, Scott, pensò, abbassando rapidamente lo sguardo sulla tasca. Poi, con la coda dell'occhio, vide un uomo tra i cespugli alla sua sinistra. Era come se fino a quel momento fosse rimasto completamente immobile e adesso si stesse muovendo verso di lei. Il primo pensiero di Jodie fu: Oh, dev'essere il padre... ma poi lo vide in faccia e i segnali mentali cambiarono, si confusero. L'uomo portava una maschera rosa da diavolo: grandi occhi, ciocche flosce di capelli neri. Jodie rimase completamente impietrita per un secondo, e non occorse di più. L'uomo teneva in mano uno spruzzatore da giardino che sciaguattò men-
tre lui lo sollevava, poi ci fu un sibilo e una nube vaporizzata avvolse la faccia di Jodie. Naso e bocca si contrassero, gli occhi si serrarono. Ammoniaca. Bruciava tutto. Cadde in ginocchio, tossendo, con le mani che annaspavano nel fango. Poi lui le sferrò un calcio in testa e lei cadde di lato, stordita da tanta ferocia. Riuscì ad aprire gli occhi e di colpo si trovò a fissare il cielo. A guardare, senza comprendere, la pioggia che si materializzava sopra di lei, mentre il cielo grigio lampeggiava, diventando bianco. 3 dicembre, ore 13.55 17 ore e 25 minuti all'alba Mark Era strano prendere il comando di una squadra mia, e non importava se piccola. Soprattutto perché ero dolorosamente consapevole che il passaparola doveva essere in pieno svolgimento, e di certo i tre agenti a me assegnati sapevano già che si trattava del mio primo incarico. Quella semplice verità mi colpì mentre mi avvicinavo al furgone dove loro mi aspettavano, e un improvviso nervosismo m'insidiò come un filo teso in mezzo al sentiero. Respirai a fondo e salii sul furgone. Dovevo soltanto essere me stesso e procedere a orecchio. Se mi avevano dato quell'incarico, era segno che potevo ricoprirlo. Per fortuna i tre agenti - Dave, Ross e Bellerby - sembravano propensi a comportarsi bene. Ascoltarono attenti mentre li aggiornavo sul caso e spiegavo su cosa dovevamo concentrarci; poi divisi il nostro quartetto in due coppie, per coprire i due lati della strada. Non dimenticai di aggiungere che ogni suggerimento da parte loro sarebbe stato benaccetto. A me, in passato, aveva fatto piacere sentirmelo dire. Speravo che avrebbe addolcito la pillola, giacché dovevo concludere con le istruzioni di Mercer. «Assicuratevi che le vostre videocamere siano sempre accese.» Mi guardarono come se fossi scemo. «Lo so che è ovvio», dissi. «E so che è la regola. Ma si tratta anche di un ordine preciso di Mercer.» Si scambiarono un'occhiata, anche se fecero del loro meglio per nasconderlo. Per l'ennesima volta mi resi conto che c'erano cose da cui ero escluso perché ero l'ultimo arrivato. Però non ci badai. Se non altro, avevano capito che non volevo fare lo stronzo. «Coraggio, muoviamoci.»
Gli interrogatori porta a porta andarono come previsto. Tutti erano sconvolti da ciò che era successo e ansiosi di aiutare come potevano. L'omicidio non è poi così comune, dopotutto: l'esperienza che ne ha la maggior parte delle persone si riduce ai film o ai telegiornali, non a qualcosa che succede al tizio della porta accanto. Per i vicini, la morte di Simpson era la brusca e sconvolgente dimostrazione che gli omicidi avvenivano pure nel mondo reale. Ma era anche la prova della loro vulnerabilità. Capire perché fosse toccato proprio a lui li avrebbe aiutati ad allontanare l'orrore; tuttavia nessuno di loro era in grado di suggerire un motivo plausibile. Per quanto ne sapevano, sarebbe potuto capitare a chiunque di loro. Un'idea spaventosa da affrontare. Avrei voluto poterli rassicurare del contrario. Setacciammo tutta la strada, a eccezione di due case in cui non c'era nessuno. In quei casi lasciammo un messaggio e prendemmo nota di ripassare più tardi. Nessuno ricordava litigi, risse, discussioni o escandescenze in pubblico. A tutti Simpson era sembrato un tipo a posto. Non avevano idea se si vedesse con qualcuno. Di tanto in tanto c'era stata qualche ragazza di passaggio, ma non di recente. Sembravano tutti disperatamente ansiosi di farsi venire in mente qualcosa, e io feci del mio meglio per non sembrare disperatamente ansioso di sentirlo. Non c'erano solo cattive notizie. Alla fine ci ritrovammo con due testimoni che avevano notato un furgone bianco parcheggiato lì il giorno precedente. Il primo avvistamento risaliva a poco dopo mezzogiorno: il furgone si trovava più avanti, sempre lungo la strada; il secondo verso le otto di sera, proprio davanti alla casa di Simpson. Nessuno dei testimoni l'aveva visto arrivare o andarsene, e non avevamo numero di targa né indicazioni di altri contrassegni particolari. Però era un inizio. Ottenemmo qualcosa di più al numero quindici, la casa di fronte a quella di Kevin Simpson. La donna che ci abitava, Yvonne Gregory, fu sintetica ma precisa. Yvonne era in pensione e, il pomeriggio precedente, era rimasta in casa a guardare la televisione. Durante un'interruzione pubblicitaria, verso le cinque meno un quarto, era andata in cucina a prepararsi una tazza di tè. Dalla sua finestra si vedeva chiaramente la casa di Simpson. Lo sapevo perché ero entrato per controllare, appoggiandomi prima a un lato del lavandino e poi all'altro, mentre lei mi raccontava della ragazza. «Stava uscendo da casa sua», disse Yvonne, facendo un cenno in direzione della porta. «Ricordo che si è girata a salutarlo quand'è arrivata in fondo al vialetto.» «Che aspetto aveva?» le chiesi.
«Capelli castani, lunghi fin qui.» Indicò le spalle. «Indossava un impermeabile e aveva una borsa, mi sembra. E anche gli auricolari.» «Età?» «Abbastanza giovane. Direi più o meno come lei, detective.» Mi resi conto che mi stava bonariamente prendendo in giro. Le sorrisi. «L'aveva mai vista prima?» «No, no.» «C'è nient'altro che riesce a ricordare?» Yvonne rifletté, poi disse: «Ho pensato che sembrava un po' scombussolata. Be', forse non proprio scombussolata, ma come se qualcosa la turbasse, non so se mi spiego. Sembrava preoccupata». Non lo sembriamo tutti? pensai. Insomma, avevamo la descrizione generica di un veicolo e di una ragazza che era stata a casa di Kevin Simpson, in apparenza poco prima dell'aggressione. Niente che potesse rivoluzionare le indagini, ma io ero comunque soddisfatto e, mentre tornavo al dipartimento per fare rapporto e per il briefing pomeridiano, mi sentivo decisamente più ottimista: persino l'irritazione per le istruzioni troppo pignole di Mercer era svanita. Ovvio che non potessi inserirmi perfettamente nella squadra già dal primo giorno; dovevo prima dimostrare le mie capacità, e le interviste della mattinata erano un primo passo nella giusta direzione. Ma, a quanto pareva, il mio rapporto doveva aspettare. Quando entrai in ufficio, il resto della squadra era già concentrato su qualcosa. Stavano ascoltando una registrazione digitale, e qualcosa di assai simile all'inferno si stava propagando nell'aria. «Mi senti? Faremo un gioco sull'amore.» La voce registrata era strana. Piatta e monotona, ma con guizzi imprevedibili, come se, più che alla vittima, l'uomo stesse parlando a se stesso, ponendosi ogni tanto qualche domanda retorica. «Si tratta di te, Jodie e Scott», disse l'uomo. Mercer schioccò le dita, come a dire: Ricordate i nomi. Poi tornò alla posizione in cui l'avevo trovato: coi gomiti sulla scrivania, teneva le dita congiunte, tamburellandosi le labbra con gli indici e fissando nel vuoto. Apparentemente calmo, ma con un filo di tensione in più rispetto agli altri. Simon era immobile; Greg teneva la testa piegata di lato e ascoltava la registrazione con aria professionale; Pete aveva gli occhi chiusi. Quanto a me, ogni frase mi arrivava come un pugno nello stomaco.
«Oggi ti ho osservato», riprese l'uomo. «Con lei. E ho letto le tue e-mail. So cosa sta succedendo qui. E tutti e due sappiamo dov'è adesso lei, vero? A casa, col suo ragazzo.» Jodie, pensai. Capelli castani lunghi fino alle spalle. Più o meno la mia età. «Come credi che si senta, adesso?» chiese l'uomo. «Pensi che si senta in colpa per aver mentito a Scott in modo da passare la giornata con te?» L'unica risposta fu lo scroscio improvviso dell'acqua calda nelle tubature, seguita dal tranquillo sciacquio nella vasca. Simpson non replicò. Nella mia mente, lo vedevo nella vasca, con un bavaglio stretto attorno al viso pallido. «Sarà contenta di essere a casa?» continuò la voce. «Oppure preferirebbe trovarsi ancora qui con te? Ti starà scrivendo un'e-mail, proprio come stavi facendo tu?» Mercer sollevò lo sguardo. «Greg?» Greg scosse la testa. «Nessuna e-mail da o per 'Jodie'. E nessuno 'Scott'. E nessuna traccia neppure nella rubrica. L'assassino deve aver cancellato tutto.» Mercer si accigliò. Batteva freneticamente il piede, sotto la scrivania. La voce disse: «Tu credi di amarla». Niente. «Non è vero?» Ancora nessuna reazione, neppure uno sciacquio. Quando riprese a parlare, l'uomo sembrava seccato di non aver ricevuto neppure un cenno di risposta. «Be', vedremo di scoprirlo. Le regole del gioco sono molto semplici, ma tu potrai farci ben poco. Se Jodie ti manda un'e-mail prima dell'alba, io smetto di farti del male e ti lascio andare. Ma se non lo fa...» Ci fu una pausa, seguita da uno scricchiolio. Ebbi la sensazione che l'uomo si fosse voltato a prendere qualcosa. «... ti verserò questo sulla faccia e giù per la gola, e poi ti darò fuoco. Se hai capito, annuisci.» Un'altra pausa. «Ho detto: se hai capito, annuisci.» Simpson cominciò ad agitarsi nella vasca da bagno, muovendosi come poteva. Non potevo vederlo, ma sapevo che l'assassino gli aveva versato addosso il liquido infiammabile, per chiarire il concetto. «Così va bene.» Un altro scricchiolio.
«Cerca di star calmo. Abbiamo diverse cose di cui parlare.» La registrazione continuò ancora per un momento, poi s'interruppe. Greg si voltò verso di me. «La mia squadra informatica ha lavorato sul computer di Simpson», mi spiegò. «Hanno trovato due nuovi file audio salvati sul desktop. Questo era il primo.» «Apri il secondo», mormorò Mercer. Lo guardammo tutti. La testa gli era scivolata tra le mani, che ora nascondevano il viso. Il piede non batteva più. Non c'era ragione di essere impazienti. Lui sapeva cosa aspettarsi dal secondo file - lo sapevamo tutti , ma nel contempo dovevamo esserne certi. La CCL non aveva registrato la telefonata di quella mattina, con l'urlo terrificante, ma con tutta probabilità l'avremmo sentito presto. E non c'era da rallegrarsene. «Okay.» Greg cliccò due volte e l'audio partì. «Mi dispiace», disse la voce. «Spero che tu ti renda conto di come sei stato stupido. Di come quella donna non meritasse tutto ciò che hai investito su di lei.» Una pausa. «Mi capisci?» Seguì un rumore frenetico: sciacquii disperati e grida soffocate. «Se ti può essere di consolazione, Jodie e Scott sono una delle mie coppie. Più tardi andrò a trovarli e toccherà a loro giocare. Invece il nostro gioco finisce qui.» Il cuore mi batteva troppo in fretta. Mi scoprii a strofinarmi il mento con la mano, mentre l'ufficio sembrava ritrarsi attorno a me. «Fa' conto di vederla, adesso. Immaginala che dorme tranquilla tra le braccia del suo ragazzo.» Altro rumore nella vasca. «Ssst», sussurrò l'uomo. Doveva aver tolto il bavaglio a Simpson perché di colpo, alla fine, sentimmo la sua voce. Era stridula e piena di terrore. Supplicava e implorava per la propria vita, ma parlava così rapidamente che non riuscivamo a distinguere le parole. S'interruppero quasi subito, sostituite da un orrendo gorgoglio quando il liquido gli fu versato sulla faccia e in bocca. La registrazione era piena di colpi di tosse e di respiri convulsi. Mi faceva male al cuore ascoltare tutto ciò. Niente avrebbe potuto prepararmi a quello; il dolore che provavo era quasi spirituale. Complicità, frustrazione... Quando sentii lo scatto di un accendino, chiusi gli occhi. Forse mi aspettavo il rumore di una fiammata, ma non ci fu niente del
genere. Si capiva che aveva dato fuoco a Simpson dal modo in cui lui si era messo a gridare, ma la maggior parte delle grida rimase inudibile. Quell'uomo stava soffocando tra le fiamme e poteva dar voce al terrore e allo strazio soltanto con un flebile guaito sfiatato. Immaginai la gola contratta. Il bruciore insopportabile che gli accartocciava i polmoni come carta velina. Era la cosa più orrenda che avessi mai sentito. Sapendo come sarebbe finita, avrei voluto che Simpson morisse alla svelta. Ma non lo fece. Non dipendeva da lui. Il suo corpo rifiutava di arrendersi, lottava contro un oblio che avrebbe dovuto essergli gradito. L'omicidio sembrò protrarsi all'infinito. E, per tutto il tempo, ci fu un altro suono in sottofondo, più soffocato. Era un sibilo disumano. Mi ci volle un istante per capirne l'origine. Era l'assassino. Rabbrividii. Mentre la sua vittima stava morendo, in preda a dolori atroci, lui se ne stava lì a guardarla, a registrarla, con la bocca aperta, aspirando il fumo e l'odore. Era come se, attraverso i denti, succhiasse l'anima di Kevin Simpson, un pezzo alla volta. Aprii gli occhi e mi guardai attorno. L'avevamo sentito tutti e sui volti degli altri scorsi il riflesso delle mie sensazioni: orrore e incredulità. Ma non vedevo la faccia di Mercer, perché lui stava fissando la scrivania. Teneva le mani strette davanti a sé, quasi in preghiera. Il rumore continuò, calando poco a poco, poi la registrazione pietosamente s'interruppe. Persino il silenzio che piombò di colpo nell'ufficio sembrava contaminato. Per qualche istante nessuno parlò; nessuno si mosse. Poi Mercer si abbandonò lentamente all'indietro e si passò le mani sul viso, come se si fosse appena svegliato. «Cinque minuti di pausa, per tutti», disse. Uscii nella fredda aria pomeridiana, uno schiaffo in pieno viso, proprio quello che mi ci voleva. La pioggia era cessata, ma il cielo era ancora coperto da dense nuvole grigio scuro e il vento, quando arrivò, era gelido. Un sacchetto di patatine vuoto pattinò sull'asfalto. Le previsioni annunciavano neve e così sembrava. Persino col cappotto addosso stavo tremando, ma quello dipendeva anche dall'eccesso di adrenalina. Sentivo che avrei potuto correre all'infinito. E mi sarebbe piaciuto farlo. La morte è uno dei grandi tabù. Avevo già visto la mia parte di cadaveri,
orrendi quanto bastava. Ma, per quanto fossero spaventosi, erano soltanto il risultato finale. Suscitavano dolore e tristezza, ovvio, però ci si trovava davanti a qualcosa di già morto. Tutta un'altra cosa rispetto al vedere la morte o a sentirla accadere. Rispetto allo sperimentare quel terribile processo in cui un essere umano, in nulla diverso da te, viene fiaccato e distrutto, in cui le scintille vitali vengono spente a una a una, finché non rimane altro che un guscio vuoto. Inevitabilmente il mio pensiero corse a Lise. Ma non volevo, non me lo potevo permettere, non in quel momento. Era già difficile affrontare l'epilogo della storia - la morte di lei -, figuriamoci rappresentarsi l'orrore di ciò che aveva provato. Di ciò che aveva pensato mentre la sua vita svaniva. Scossi la testa e riportai i pensieri su Kevin Simpson. Cinque minuti? Nemmeno cinque anni sarebbero serviti: quella registrazione avrebbe continuato a perseguitarmi. Ma cinque minuti dovevano bastare. In ufficio, tutti avevano ancora un'aria cupa, accompagnata però da una determinazione professionale. Ognuno di noi aveva messo da parte i sentimenti suscitati dalla registrazione, forse per ripensarci, forse per dimenticarli per sempre. Di nuovo, Mercer sembrava il più distaccato. Quando rientrai, aveva lo sguardo fisso nel vuoto, come se non provasse nulla. Doveva essere una questione di esperienza... mi chiesi se sarei mai arrivato a estraniarmi completamente dalla situazione e considerarla solo come un rompicapo da risolvere. Poteva sembrare insensibile, però non dubitavo che l'accaduto lo avesse sconvolto, come aveva fatto con tutti noi. Quello era soltanto il suo modo di affrontarlo: concentrarsi per risolvere il delitto e catturare l'uomo che l'aveva commesso. Cominciò Greg: «Come dicevo, non ci risulta nessuna Jodie e nessuno Scott...» «Ma l'assassino ha parlato di e-mail», lo interruppe Mercer. «Da qualche parte ci devono essere.» «Sì, e se le ha cancellate potrebbe esserci il modo di recuperarle. Ma dipende dal sistema che ha utilizzato. Ci proveremo, ma non contiamoci troppo.» Mercer aggrottò la fronte. «Dalla registrazione sembra evidente che questa Jodie, chiunque sia, aveva una relazione con Simpson. Se non riusciamo a trovare lei e il suo ragazzo in tempo, lo farà il nostro uomo: sempre che non lo abbia già fatto.»
«Abbiamo una descrizione», intervenni. Lui si voltò di scatto. «Dimmi tutto.» Raccontai di Yvonne Gregory e riferii i dettagli che mi aveva fornito sulla ragazza uscita dalla casa di Simpson, presumibilmente Jodie. Sulla trentina, capelli castani, borsa, auricolari. Vaga com'era, quella descrizione non poteva esserci di grande aiuto e, mentre parlavo, me ne rendevo perfettamente conto. Dopo aver ascoltato la registrazione, il mio ottimismo era svanito. Conclusi parlando del furgone bianco e a quel punto Mercer annuì, quasi se lo fosse aspettato. M'interruppe per chiedere a Greg: «Ci sono telecamere di sicurezza?» «La più vicina è sulla strada principale.» Respirò a fondo. «Non inquadra la via di Simpson, ma credo si possa controllare il passaggio.» «Bene, allora quella è la tua priorità, adesso. Trova tutti i furgoni bianchi che sono passati davanti alla telecamera fra le otto e le nove di stamattina. Controlla anche ieri pomeriggio tra le quattro e mezzo e le cinque e mezzo. Vediamo se riusciamo a trovare la ragazza. Dobbiamo trovarla.» Greg non disse nulla. «Cosa c'è?» gli chiese Mercer. L'altro faceva ruotare la sedia a forza di talloni, come aveva fatto a casa di Simpson. Sembrava preoccupato. «Credo di non essere del tutto convinto.» Mercer allargò le mani, come se fosse tutto talmente ovvio da non capire il motivo della perplessità di Greg. Di certo non era ovvio per me, ma naturalmente non ero ancora al corrente di tutto ciò che faceva da sfondo agli eventi della giornata. «C'è la sua firma», riprese Mercer. «C'è un furgone bianco sulla scena del delitto. C'è il gioco. C'è la tortura. E, nonostante quello che sembrava all'inizio, c'è anche una seconda vittima.» «Non sto dicendo che manchino le similitudini convincenti.» «Allora cosa stai dicendo?» Greg sospirò, e io mi stupii perché mi sembrava un'aperta ribellione. Mercer era il capo e mi aspettavo che Greg si limitasse a eseguire gli ordini. Era evidente che nutriva dei dubbi sull'opportunità di proseguire, ma, dopo qualche istante, sembrò prendere una decisione: 'Fanculo. «Sto dicendo che i furgoni bianchi sono piuttosto comuni. Le ragazze sono piuttosto comuni. La firma sembra convincente, come ho già detto e, sì, parla anche di un gioco. Ma per il resto la scena è diversa.» Elencò i vari punti, contandoli sulle dita. «L'assassino lo ha tenuto nella vasca da bagno. La
ragazza se n'è andata ieri pomeriggio e non è stata parte attiva del gioco...» Rimase a corto di punti da elencare e si appoggiò allo schienale. «È completamente diverso.» «Certo che è diverso. Sono passati due anni.» «Lo so che sono passati due anni.» «Be', ci ha lavorato sopra. Non dovrebbe sorprenderci - voglio dire, sorprenderti - che sia cambiato. Sta a noi capire come e perché.» Greg si era incupito. Non era d'accordo, però non poteva ribattere ancora. Vidi che Pete lo osservava con attenzione. Ma Mercer non avrebbe permesso a Greg di cavarsela tanto facilmente. «Allora?» Greg sollevò lo sguardo e la mia sorpresa aumentò. C'era qualcosa di tagliente nella sua espressione. Non sapevo perché e neppure cosa ci fosse sotto, ma di certo non prometteva niente di buono. «Forse non è questione di essere convinto», disse. «C'è proprio qualcosa che mi mette a disagio, signore.» I due si fissarono e l'atmosfera nell'ufficio divenne tesa e imbarazzante. Nessuno parlava, così decisi che era il momento giusto e forse anche opportuno per intervenire. Con cautela. «Posso chiedere...?» «Sì, certo.» Mercer si voltò verso di me, il volto impietrito. «La situazione è questa. Io sono convinto che questo omicidio sia collegato a un caso precedente. Ci sono fin troppe somiglianze, molte delle quali irrefutabili. D'altra parte, Greg non ha tutti torti nel sottolineare che ci sono anche alcune lievi differenze. A mio parere il soggetto ha leggermente alterato il proprio modus operandi.» «Capisco», mormorai. «Quindi...» «Subito dopo il briefing potrai leggere il rapporto e metterti in pari coi dettagli.» «Bene.» Il disagio si sarebbe potuto tagliare col coltello. Se non altro, Greg aveva smesso di fissare Mercer e si era messo a guardare il pavimento, mantenendo però la stessa espressione. Roba da far rinsecchire la moquette. «Pete?» esclamò Mercer. «Simon? Avete niente da aggiungere?» Sembrò che si rivolgesse soprattutto a Pete, il suo vice, ma quest'ultimo sembrava poco entusiasta dell'attenzione riservatagli e riluttante a offrirgli appoggio. Cosa c'era di non detto?
Simon salvò tutti dall'imbarazzo. «Comunque stiano le cose, noi procediamo alla stessa maniera, giusto?» Il suo tono era pratico e deciso. «Seguiamo il furgone e la ragazza. Quindi non ha molta importanza, in fondo: possiamo stare a vedere quali altre prove vengono fuori.» Fece una pausa, e la sua ultima frase mi sembrò meno neutra. «E allora decideremo.» Pete annuì. Greg scrollò le spalle. Era soddisfatto, ma ostentava disinteresse. «Sono d'accordo», dichiarò Mercer. «Procederemo così. Nel pomeriggio, Mark leggerà i rapporti. Dividiamo tra noi il resto delle cose da fare.» Così dovevo rimettermi in pari. Giustissimo. Alla luce di quel contrasto, ero curioso di vedere cosa avrei scoperto dal file, se avrebbe chiarito quello che stava succedendo all'interno della squadra. Nel frattempo seguii attentamente l'assegnazione degli incarichi. Pur senza tralasciare il lavoro sul computer, la squadra informatica di Greg avrebbe controllato le riprese della telecamera. Simon doveva seguire il lavoro della Scientifica. Nel giro di mezz'ora, Pete avrebbe tenuto una breve conferenza stampa in cui avrebbe reso nota l'identità di Simpson, lanciando anche un appello a suoi conoscenti di nome Scott o Jodie affinché si facessero avanti. Poi avrebbe cercato di rintracciare le ex di Simpson, verificando se qualcuna di loro corrispondeva alla descrizione della ragazza, in caso Jodie non fosse il suo vero nome. «Dobbiamo trovare quella coppia prima dell'alba», insistette Mercer. Alla fine del briefing ognuno raccolse le proprie cose. Greg sembrava ansioso di lasciare la stanza; Simon si mise a telefonare, indifferente alla tensione; Pete si muoveva lentamente. Lo sentii sospirare mentre raccoglieva le sue carte. Mercer mi passò un foglietto col numero di pratica di un caso e col codice di accesso. Decisi di escludere dalla mia mente tutto il resto. C'era del lavoro da fare. Mi piazzai al computer e inserii i codici. La macchina si bloccò mentre caricava i dati e, qualche secondo più tardi, apparve il riferimento del caso in questione. Caso nr. A6267 - 50/50 Killer 3 dicembre, ore 14.30 16 ore e 50 minuti all'alba Scott
Numero 273. Ci scambiamo SMS in contemporanea. Scott si appoggiò allo schienale, usando il mouse per scorrere la lista e vedere se l'aveva già incluso. Se non l'avesse fatto, sarebbe stato davvero ridicolo... No, non c'era. Come aveva potuto saltarlo? Tornò in cima alla lista. Cinquecento motivi per cui ti amo. Tornò di nuovo in fondo e digitò: Numero 274 . Poi si fermò, le dita sospese sulla tastiera. Quindi sorrise, fissando il cursore che ammiccava. Dopo aver superato i duecento, era diventato decisamente più difficile: non sapeva più dove attingere. Certo, di ragioni ne spuntavano fuori, ma di solito soltanto perché Jodie aveva detto o fatto qualcosa che l'aveva colpito, com'era successo con gli SMS che si erano incrociati poco prima. Non che avesse importanza, almeno finché continuavano a venirgli in mente, rifletté. E continuavano. Persino con le difficoltà emerse tra loro negli ultimi tempi, si stupiva di notare ancora in lei dettagli adorabili e tornava alla lista per aggiungerli subito. Era una cosa che lo rendeva felice. E nel contempo lo rattristava. In quel momento, la sua mente era vuota. Non gli veniva altro. Gli serviva qualche spunto. Per adesso lascia perdere. Scott premette CTRL+S per salvare il documento e poi ALT+TAB per passare dal file Word al software di grafica. La schermata mostrava tre diverse foto del suo viso: avrebbe dovuto occuparsi di quelle e non di altro. Negli ultimi tempi, si stava dedicando a lavori composti da sette o nove dipinti di un oggetto o di una persona. Il primo era sempre realistico, benché virato su colori insoliti. Il viso sulla sinistra, per esempio, era stampato nei toni del verde e del giallo, ma, a parte quello, avrebbe potuto essere una normale fotografia. Una volta terminato il primo quadro, lo passava allo scanner e lo salvava come file, per poi manipolarlo con un programma di fotoritocco: magari sfocandolo leggermente o esaltando gli stacchi di
colore, in modo che l'intera immagine sembrasse composta a blocchi. Quindi la stampava e ne dipingeva una copia. Quello era il secondo pezzo della serie. E così via. Era un procedimento ripetitivo. Aveva ormai una serie di piccole tele che mostravano la progressiva disintegrazione di un'immagine, ridotta ai suoi componenti base di forma e colore. Lungo il percorso, l'osservatore finiva per perdere traccia dell'oggetto di partenza. L'ultimo dipinto di quella serie di autoritratti sarebbe stato composto da quattro rettangoli arancioni e verdi, appena fuori centro rispetto alla tela, simili a una vetrata. Dopo soltanto tre passaggi, l'immagine all'estrema destra era già diventata aliena. Pur riconoscibilmente umana, Scott non ci ritrovava molto di sé. Arte. C'erano una teoria e uno scopo precisi dietro quello che faceva, ma il suo diploma risaliva ormai abbastanza indietro negli anni per consentirgli di rilassarsi, da quel punto di vista. Lui stesso, da giovane, forse avrebbe disapprovato quel lavoro, ma Scott dipingeva in quel modo perché gli interessava farlo così e, a parte ogni altra considerazione, il risultato sembrava buono. Cominciava a raccogliere anche qualche consenso. Una piccola galleria in città aveva esposto alcuni dei suoi pezzi singoli e ne aveva venduti un paio; non ci aveva guadagnato molto, ma era già qualcosa. Gli avevano telefonato una quindicina di giorni prima, interessati a esporre qualcos'altro di suo, quindi lui si era preso una settimana di ferie per mettere insieme un po' di materiale. La telefonata l'aveva entusiasmato, ma la reazione di Jodie era stata una delusione. Era felice, almeno così aveva detto, dimostrando però quella stessa mancanza di slancio - quasi indifferenza - che ormai permeava il resto della loro esistenza. La sera prima, per esempio. Era tornata dal lavoro e si era afflosciata sul divano. Lui le aveva chiesto cosa c'era che non andava e lei aveva risposto: «Niente». Ma Scott non era tipo da lasciar cadere la cosa, perciò ne era scaturita una discussione e alla fine lei se n'era andata a letto. Succedeva spesso. Il loro appartamento era ben arredato, spazioso e ordinato, ma, quando lui la guardava percorrerlo mentalmente avanti e indietro, aveva la sensazione che Jodie avesse bisogno di trovare una stanza nascosta. Altrimenti sarebbe impazzita. Era un atteggiamento contagioso. Da mesi non erano felici e, benché l'istinto gli suggerisse di trovare un modo per rimettere tutto a posto, lui non aveva idea di come agire. Jodie rifiutava di parlare di quello che la turbava, facendo così nascere in Scott un groviglio di frustrazione che a volte cre-
sceva sin quasi a soffocarlo. Guardò il volto sul monitor. Forse dipendeva dalla foto di partenza o dai colori, ma di certo sembrava triste. E quindi non proprio estraneo, dopotutto. Tornò di nuovo alla lista e la fece scorrere. Numero 87: Anche quand'è insignificante, sostieni il mio lavoro artistico. La prima parte rifletteva la sua solita tendenza ad autodenigrarsi; se ti disprezzi da solo, diminuisci il rischio di farti umiliare. Nei primi anni della loro relazione, Jodie lo avrebbe rimproverato per quello, soprattutto a proposito della sua arte, ma ora... Scott si chiese come avrebbe reagito. Forse il numero 87 non era nemmeno più vero. Lui ne era ancora assolutamente convinto, ma forse era solo un elemento della loro infelicità generale, come tutto il resto. Niente di male a perseguire un sogno finché si era giovani, ma a un certo punto si doveva pure abbandonarlo, no? Di certo non sarebbero stati i suoi quadri a farli diventare ricchi e neppure i lavori meschini che facevano per campare. In mancanza di novità impreviste, la situazione era quella. Avrebbero tirato avanti in quel modo per il resto della loro vita: una prospettiva che, al momento, sembrava semplicemente impossibile. Tornò di nuovo in fondo alla lista. Numero 274 ... Era l'ultimo della pagina: se fosse riuscito ad aggiungere almeno quello, sarebbero state tre pagine complete. Prese il cellulare dalla scrivania, accanto alla tastiera, per rileggere il messaggio che lei gli aveva mandato: riciao tesoro. qui giornata pallosa, cm va la pittura? non vedo l'ora di vdt. Scs x cm mi sono comportata. tvb da morire. x x x x x. Scott lo posò con un sorriso. Non gli occorreva altro: un SMS, due parole come ai vecchi tempi, ed era pronto a ricominciare. Una sensazione passeggera, certo, e i soliti dubbi sarebbero tornati, ma in fondo la vita si riduceva a fare un passo alla volta. Finché avessero tenuto duro entrambi, ce l'avrebbero fatta. E affrontare insieme i problemi, anziché dividerli, forse li avrebbe riavvicinati.
Numero 274 . Nonostante tutto, con me non ti arrendi mai. Aveva cominciato a compilare la lista all'inizio dell'anno. Si erano trasferiti da poco in quell'appartamento e stavano cominciando a rendersi conto di quanto fosse «vivace» il quartiere. Nella loro pur breve permanenza, avevano già assistito a un furto d'auto, in pieno giorno e col proprietario a bordo; avevano ascoltato un alterco che era sfociato in un accoltellamento - per fortuna non letale - nel vicolo retrostante alla casa, ed erano stati evacuati per un allarme bomba al vicino negozio che vendeva oggetti per beneficenza. Non potevano permettersi l'affitto in una zona migliore, e in fondo l'appartamento era abbastanza carino, ma nessuno dei due si sentiva al sicuro, felice, o anche solo vagamente a casa. C'erano ancora scatoloni ovunque: alcuni svuotati solo a metà, altri sigillati col nastro adesivo, quasi a ribadire che non avevano intenzione di restare lì. Avevano tirato fuori le stoviglie di cucina e un po' di vestiti, ma le uniche concessioni al «casa dolce casa» erano lo stereo e il televisore, entrambi sistemati fin dalla prima sera. Stavano guardando la televisione, in salotto: Jodie non si sarebbe mai persa le sue soap-opera, che Scott poteva indifferentemente guardare o no (di solito no). Nonostante quello, o forse proprio per quello, la devozione di lei stava per diventare il numero 56. Ma, prima di arrivarci, lui si era lasciato sopraffare dagli eventi. «Che vita di merda», aveva detto. Jodie lo aveva guardato e poi gli aveva appoggiato la testa sulla spalla. «Già. Ma sopravvivremo.» Le aveva cinto le spalle con un braccio. «Tu dici?» Facevano a turno: quando uno si lamentava, l'altro era ottimista. Una specie di tacito accordo. Se si fossero lasciati andare tutti e due contemporaneamente, non sarebbe rimasto nessuno per tirarli su. «Certo», aveva affermato lei. «Perché ti amo.» Le aveva sfiorato i capelli. Erano scuri, lisci e sottili; a Jodie non piacevano, ma a lui sì. Toccando i capelli si arrivava subito alla testa. La faceva sembrare più fragile di quanto non fosse. «Ma io ti amo di più», aveva replicato lui. Lei gli aveva tirato una manata sul petto. «No, non è vero.» «Sì, che è vero.» Quello, uno dei loro giochetti abituali, sarebbe diventato il numero 5. «Dimostralo.»
«Dimostrarlo? Avrò almeno cento motivi per amarti.» Lei si era sollevata per guardarlo negli occhi. «Forza, allora.» «Cosa?» «Cento motivi.» Ci stava prendendo gusto. «Sentiamoli.» «Mmm.» «Visto? Tutte chiacchiere.» «No.» Scott si era alzato. «Stavo solo pensando a dove trovare carta e penna.» In realtà stava pensando: Cazzo! Ma poteva anche rivelarsi un'occasione per fare qualcosa di buono, qualcosa capace d'infondere un po' di luce in quella situazione. Quindi era andato nell'ingresso e si era messo a rovistare in un paio di scatoloni, tornando poi armato di blocco e penna. Jodie aveva sfoderato un sorriso divertito. Ma era anche felice. «Non devi mica farlo per forza, sai.» Scott le aveva premuto un dito sulle labbra, quindi si era seduto accanto a lei. «Ssst. Guardati la tua soap, donna.» «Okay.» Jodie si era dedicata al programma televisivo e lui aveva cominciato a scrivere. Una riga dopo l'altra. Di tanto in tanto Jodie allungava il collo per sbirciare e allora Scott sollevava il foglio perché lei non vedesse. «Ah, ah!» «Fammi vedere!» «Non ancora.» Cento motivi. Quando aveva iniziato, non aveva idea di come sarebbe stato difficile. Non sapeva neppure se ce l'avrebbe fatta. Ma accanto a sé avvertiva la presenza di Jodie, che sorrideva in silenzio, cercando di nascondere quanto fosse lusingata. Più felice di quanto non fosse stata da secoli. Quello bastava per spingerlo a continuare, a scrivere un motivo dietro l'altro. Mantieni quel sorriso. Pochi minuti più tardi, i titoli di coda erano scorsi sullo schermo. Lui aveva voltato pagina, continuando a scrivere. Ora, quasi un anno dopo, Scott ridusse a icona il documento Word e si spostò in una delle stanze vuote. Uno dei vantaggi di quella zona così a buon mercato era potersi permettere una casa con tre camere da letto. Delle due che non utilizzavano per dormire, una era praticamente riservata a Scott, che ci teneva l'attrezzatura per dipingere da una parte e i pesi dall'altra. Sciogliendo i muscoli del collo, sistemò la sbarra sulla panca e accese il
piccolo stereo a tutto volume. I pesi erano un rimasuglio dell'adolescenza, quando lui era gracile e fisicamente indifeso. Aveva cominciato a quindici anni e, con grande sorpresa sua e di chi gli stava attorno, a ventotto anni non li aveva ancora mollati, anzi li aveva fatti diventare una parte integrante della sua esistenza. Si allenava tre volte alla settimana, per almeno un'ora; se gli capitava di saltare più di una sessione, gli prendeva l'ansia e la sua autostima diminuiva. Sapeva che era stupido, ma era quello che provava. A parte tutto, era un modo per staccare un po'. Una via di fuga... o almeno quella era l'intenzione. Cominciò il riscaldamento con soli trenta chili, prima di caricare le estremità della sbarra di sollevamento e aumentare a novanta. Poi si distese sulla panca, si assicurò una buona presa, sistemò meglio le mani, inspirò ed espirò. Quell'incremento dei pesi era sempre uno shock, all'inizio. Sollevò, espirò, abbassò, sollevò. Numero 8: La sensazione che mi danno i tuoi capelli, pensò. Sollevò la sbarra. Ancora. I muscoli del petto cominciavano già a bruciare. Ancora. Numero 34 . A volte sei proprio una ragazzina. «’Fanculo!» Lei gli aveva assestato un pugno scherzoso, prima di voltare la pagina. Numero 35. Okay, non sei così ragazzina. «Davvero furbo. Ritiro tutto.» Scott completò una serie di quindici sollevamenti con la sbarra e poi si sforzò di aggiungerne ancora uno, alzando il peso di una frazione alla volta, con le braccia che tremavano per lo sforzo. Quando li riappoggiò sui sostegni, i pesi tintinnarono. Si rizzò a sedere, sbuffando. Numero 8 9, pensò, mentre recuperava. Quando mi sveglio la mattina e tu mi stai guardando.
Mentre leggeva la lista, Jodie aveva continuato a sorridere. Una tranquilla felicità che sembrava soprattutto interiore, ma trapelava anche sul suo viso, e dava a Scott più gioia di quanto lui potesse esprimere. Una sensazione così forte che minacciava di esplodergli dentro. Un sorriso che lui annotò mentalmente come motivo numero 101. «Ti amo, ti amo davvero tanto», gli aveva detto. «Ti amo anch'io.» Era avvampato di soddisfazione. Alla fine, si era rivelato molto più facile di quanto avesse temuto: in effetti, arrivando al numero 100 gliene frullavano ancora parecchi in mente, e altri ancora - ne era certo - sarebbero venuti. Avrebbe potuto continuare tutta la notte. E quello, insieme col desiderio di mantenere il sorriso di lei, lo aveva spinto al passo successivo. «È stato facile. Sarei potuto arrivare a cinquecento.» «Balle.» «D'accordo. Allora dammi quel coso.» Jodie aveva allontanato il blocco. «Non fare lo scemo. Rimarresti qui tutta la notte.» «Okay, però lo ricorderò. Magari diventerà un regalo di Natale.» «Sì, potrebbe andare.» Aveva posato il blocco accanto a sé, sul divano, e gli aveva dato qualche colpetto per tenerlo al sicuro. «Però dovrai ricominciare da capo, perché questo me lo tengo io.» «Nessun problema.» Era così che le aveva detto... con un certo sollievo, a essere onesto. Ma era anche deciso. Mancavano ancora undici mesi a Natale, perciò restava un sacco di tempo per escogitare quattrocento motivi. Gli era persino venuta la folle idea di arrivare a mille. Ma ormai mancavano appena tre settimane a Natale e lui non era più tanto convinto che non ci fosse «nessun problema». Non sarebbe neppure riuscito a completare quello che aveva promesso. Scott ridusse i pesi a quaranta chili e cominciò con le distensioni sopra la testa. Uno, due, tre. Trecento motivi potevano bastare? Lei se ne aspettava cinquecento: che senso aveva presentarsi con meno? Non sarebbe stato come dire che non la amava quanto credeva? Ma non poteva neppure essere troppo duro con se stesso. Quanti sarebbero riusciti a mettere insieme trecento motivi, per non parlare di cinquecento? E quanti ci avrebbero anche solo provato? Perciò il semplice tenta-
tivo aveva già un significato. Fece una smorfia per lo sforzo, ma tenne duro. Nove, dieci... Trecento motivi era come dire: Faccio quello che posso. Era come dire: Mi rendo conto che niente è perfetto, e men che meno lo sono io, però ci provo. Perché sto disperatamente cercando di non perderti. Clang. Nei successivi tre quarti d'ora completò la sua routine di esercizi: rematori col tronco disteso, rematori con manubrio; curl per i bicipiti; estensioni dei tricipiti. Terminò con un centinaio di addominali, i piedi incastrati sotto la sbarra poggiata a terra. Quando ebbe finito si alzò, bevve l'acqua rimasta e spense la musica. Ma si sentiva ancora qualcosa. Scott rimase immobile per un attimo, in ascolto. Non era musica. Era un rumore diverso, rimasto fino ad allora in sottofondo, e che adesso si avvertiva meglio. Aggrottò la fronte e si diresse verso la porta. Il primo pensiero fu che, per qualche ragione, Jodie fosse rientrata prima del solito, mettendosi a guardare la televisione. Aprì la porta e la chiamò. «Jodie?» Sì, c'era il televisore acceso. Scott si avviò nel corridoio. La porta d'ingresso era chiusa. Per un attimo, lui provò una fitta di delusione: era rientrata senza neppure salutarlo? Subito dopo, però, fu colto dall'inquietudine. Se era tornata prima del previsto, allora forse c'era qualcosa che non andava. Si avviò verso il soggiorno, chiamando di nuovo: «Jodie?» Aprì lentamente la porta, in preda a un vago disagio che gli impedì di entrare subito. La porta cigolò. Il televisore era nell'angolo opposto, ma non c'era traccia di Jodie. Scott avanzò fino al centro della stanza. Troppo tardi pensò alla porta della cucina, nell'angolo a destra. Con la coda dell'occhio, fece in tempo a scorgere un movimento nella sua direzione e istintivamente cercò di schivarlo, ma invano. Fu come andare a sbattere a tutta velocità contro un lampione: una botta terrificante. Di colpo, Scott si ritrovò a fissare il soffitto. Cazzo! E poi il diavolo torreggiò sopra di lui.
PARTE SECONDA «Col procedere dell'indagine - e in generale, per questo settore , è importante tener sempre presente una verità forse scomoda ma necessaria: il Bene e il Male non esistono. Potete anche non pensarla così, però, in base alla mia esperienza, ragionare in questo modo non vi farà dormire meglio la notte, e di certo non vi sarà d'aiuto per catturare i criminali. «Etichettare qualcuno come 'cattivo' è fin troppo facile. L'effetto devastante che simili individui possono avere sulle esistenze altrui è tale che non possiamo liquidarli con tanta disinvoltura. In realtà, essi sono rotelle dell'ingranaggio sociale uscite dalla loro sede. Al loro passaggio, la macchina che sforna cittadini utili e responsabili come me e voi è impazzita e ha prodotto i 'mostri' che ora vediamo. Bisogna almeno cercare di comprendere l'errore del procedimento che li ha originati: lo dobbiamo alle loro vittime e alle vittime di altri mostri simili a loro. «Nel lavoro del poliziotto non c'è nessun Dio e nessun demonio. Non ci sono neppure il Bene e il Male. Non ci sono mostri. Ci sono soltanto persone che hanno subito un danno. Gli individui cui diamo la caccia si collocano, come chiunque altro, a metà strada fra il danno che hanno subito e quello che possono causare.» da Il danno è fatto di JOHN MERCER 3 dicembre, ore 15.30 15 ore e 50 minuti all'alba Mark Erano trascorsi sei anni da quando avevo percorso la lunga strada ondulata che conduceva al Niceday Institute per intervistare Jacob Barrett. Era estate, un'estate calda e opprimente. Avevo le maniche della camicia arrotolate, il finestrino abbassato e, lungo la strada, avevo ammirato le distese boschive che la fiancheggiavano, ascoltando dapprima il canto degli uccelli sugli alberi e poi, mentre mi avvicinavo all'edificio, il sibilo e il ronzio di un giardiniere al lavoro col decespugliatore. L'istituto dava un'illusione di pace e di riserbo, in stridente contrasto con le persone che vi e-
rano ricoverate. In effetti, quel posto era organizzato come una caserma. Ero ancora uno studente, stavo lavorando alla mia tesi ed ero nervoso. Per la prima volta in vita mia, stavo per trovarmi faccia a faccia con uno dei più vituperati, temuti e intrattabili membri della società: un serial killer. Ero ovviamente tesissimo, ma ben presto avevo scoperto che non ce n'era motivo. L'esperienza sarebbe stata caratterizzata da un singolare anticlimax. Jacob Barrett era soltanto un uomo. Avendo già letto molto su di lui, i suoi crimini gli aleggiavano attorno come un'aura oscura, ma, senza quella conoscenza pregressa, lo avrei quasi sicuramente giudicato noioso. Era una vera nullità, arrogante ed egocentrico, benché nulla potesse giustificare un simile atteggiamento. Infarciva i suoi discorsi con commenti tipo: «Be', magari non sono un'aquila, ma...» e non c'era mai nessuna ragione per quei «ma». Sapeva a malapena leggere e scrivere ed emanava una scaltrezza così evidente da poterla quasi fiutare. Era grasso, con rotoli di ciccia che tendevano la stretta camicia azzurra, e il viso era butterato. Gli occhi erano piccoli e penetranti, e lui sbatteva le palpebre con troppa energia e troppo spesso, come se la luce lo infastidisse. Però aveva braccia robuste. Era così che ci riusciva. Jacob non era certo affascinante; poteva contare soltanto sulla propria forza. Per l'intera durata del colloquio era rimasto afflosciato sulla sedia, con le braccia conserte, le mani da strangolatore appoggiate sui grossi bicipiti flaccidi, godendosi tutta quell'attenzione di cui era oggetto. Gli piaceva mettere paura alla gente, emanare un'aura di pericolo, sebbene fosse rinchiuso; gli piaceva credere che l'interlocutore lo temesse. Quindi io non gli piacevo, perché non sembravo spaventato né incline a trattarlo con timore reverenziale. Da parte mia, non m'interessava tanto ascoltarlo mentre si vantava dei crimini commessi, quanto piuttosto farlo parlare della propria infanzia. Sapevo bene che, dietro quelle palpebre che sbattevano troppo spesso, non c'era il minimo legame emotivo col prossimo. Nel corso della sua adolescenza, la normale gamma dei desideri sessuali era stata calpestata e sconvolta. Un adulto normale desidera dare e ricevere piacere da un altro adulto consenziente; Jacob aveva altre fissazioni. Per lui, le persone erano semplici oggetti. Esistevano soltanto per farsi utilizzare secondo quanto suggerito dalle sue pulsioni deviate. Era sessualmente deforme, ma, nel corso degli anni, aveva imparato a nasconderlo, simulando la normalità. Com'era diventato così? Era quello il motivo per cui mi trovavo al Niceday. Scopo del mio dottorato era tracciare una mappa dell'area grigia che si
estendeva tra il bambino che Jacob era stato e l'adulto che era diventato. Alla fine, il contributo della giornata si sarebbe limitato a un brano non essenziale di una tesi non certo memorabile, ma l'esperienza in sé mi aveva accompagnato a lungo. A casa, quella sera, ero rimasto silenzioso. Lise aveva fatto del suo meglio per liberarmi dall'inquietudine, ma all'epoca non ero stato in grado di esprimere quello che provavo. Forse mi troverei in difficoltà anche adesso. Dal passato di Jacob emergeva un'unica certezza: nessun killer «esordiente» rapisce una ragazza per strada e la strangola in una cava. Come per ogni altra cosa nella vita, anche l'omicidio richiede un minimo di pratica. Ed era stato proprio grazie a quel fatto che l'avevano catturato. John Mercer aveva giustamente ipotizzato che l'assassino della cava si fosse allenato prima di compiere quel particolare omicidio. Era assai probabile che, per esempio, avesse raccolto altri autostoppisti, realizzando così le sue fantasie segrete un passo alla volta. La polizia aveva quindi lavorato risalendo la corrente, controllando denunce di tentato rapimento e aggressione e investigando su segnalazioni di comportamenti sospetti. Partendo dalla relativa abilità ostentata dall'assassino della cava, era risalita ai possibili errori che lui doveva aver commesso all'inizio della carriera e poi imparato a evitare. Di solito, funziona così per i killer a orientamento sessuale. È più facile che vengano catturati mentre muovono i loro primi passi, in modo non tanto diverso dagli scrittori che ricevono montagne di lettere di rifiuto prima di riuscire a pubblicare un libro. Nel caso di un killer, non è insolito trovare precedenti di atti di libidine violenti o di altre attività registrate dalla polizia; inciampi di poco conto, per lui, ma che gli hanno consentito di evolversi, mettendo a frutto l'esperienza accumulata soprattutto sui possibili intoppi. Era stato così che avevano catturato Jacob Barrett. Non era uscito dall'inferno già fatto e finito. Nessuno lo è. Troppo facile pensarla così. Eppure il file che avevo davanti in quel momento sembrava sfidare apertamente quei principi. I primi delitti attribuiti all'individuo ormai noto come 50/50 Killer erano così elaborati e condotti con una tale sicurezza da far pensare che lui avesse già affinato la propria tecnica. Ma le indagini sui possibili precedenti, per quanto estesi all'intero Paese, non avevano rivelato nulla che avesse anche una minima similitudine con quegli assassini. Sembrava davvero comparso dal nulla. Le sue prime vittime conosciute erano Bernard e Carol Litherland. Studiai i dettagli. Entrambi sulla settantina, sposati da circa cinquant'anni, vi-
vevano nella stessa casa da trenta. Avevano due figli, ormai grandi e con una famiglia propria. I Litherland erano considerati buoni vicini, tranquilli, attivi nella comunità locale, persone piacevoli con cui fare due chiacchiere. Era stato un vicino, preoccupato per aver visto la porta d'ingresso socchiusa, a scoprire i loro cadaveri, la mattina dopo il delitto. Nel file c'era una foto della casa. Sembrava grigia e inquietante, e la porta socchiusa pareva uno squarcio su un inferno pronto a risucchiarti se lo osservavi troppo a lungo. Lessi velocemente il referto autoptico, ridimensionando le orrende ferite a semplici dati di fatto. I Litherland erano stati ammanettati al letto, mani e piedi. Carol Litherland era stata ustionata con un ferro da stiro, tagliuzzata e accoltellata. Su di lei si contavano cinquantasei ferite diverse, inclusi l'accecamento di un occhio e il taglio alla gola che l'aveva uccisa. Anche il marito era stato torturato, e aveva subito ustioni e ferite da taglio alle gambe, al petto e alla testa. Pure lui era stato accecato da un occhio, ma era morto per un attacco di cuore, probabilmente causato dallo shock. Mi feci coraggio e passai alle foto della scena del crimine, ricontrollando nel mentre i corrispondenti passaggi del rapporto. I cadaveri sul letto, illuminati dal flash della polizia, erano oggetti orrendi, con le mani esangui che sporgevano dalle manette agganciate alla testiera, le dita tese e immobili. I volti martoriati erano rivolti in direzione opposta l'uno rispetto all'altro, e appoggiati sui cuscini rossi di sangue. Feci scorrere velocemente i dettagli delle ferite, fermandomi su una foto della parete dietro il letto. Di colpo, gli eventi della giornata acquistarono un senso. Con le dita, l'assassino dei Litherland aveva tracciato un grande disegno sul muro, quasi identico a quello trovato nello studio di Kevin Simpson. Si trattava di un acchiappasogni o di una ragnatela, eppure era diverso dall'altro. Le linee della tela erano confuse e spezzate. Qualunque cosa volesse rappresentare, il rapporto confermava che era stato tracciato col sangue dei Litherland. Fin dall'inizio era stato chiaro che l'omicidio dei Litherland non si poteva ricondurre a una rapina andata storta. Dopo aver finito con loro, l'assassino si era preoccupato di pulire la casa e, per andarsene, aveva atteso che la strada fosse deserta. Nessuna impronta digitale, neppure un brandello di prova per la Scientifica. Sembrava altresì che non mancasse niente. Le indagini erano cominciate da zero e lì erano rimaste. Col passare del
tempo, il numero di agenti assegnati al caso era stato ridotto. All'epoca, il caso era stato gestito dal sergente Geoff Hunter e dalla sua squadra. Mercer lo aveva ereditato soltanto cinque mesi più tardi, quand'erano state trovate altre due vittime e la polizia aveva cominciato a rendersi conto dell'individuo con cui aveva a che fare. Dopo aver letto la prima parte del file, tornai alla foto della ragnatela disegnata sulla parete dei Litherland e ingrandii l'immagine al massimo. Poi mi appoggiai allo schienale e mi misi a studiarla. Come aveva detto Mercer, era troppo simile al disegno in casa di Simpson per essere una coincidenza. Era evidente che lo stesso assassino era responsabile di entrambi i delitti. Perciò rimuginai di nuovo sull'iniziale resistenza di Greg e sulla riluttanza inespressa del resto della squadra: da dove veniva? In effetti c'erano alcune differenze - certi aspetti del precedente delitto sembravano assenti in questo -, però gli elementi raccolti fornivano sufficienti certezze... Non riuscivo davvero a capire cosa preoccupasse tanto gli altri. Forse non è questione di essere convinto. C'è proprio qualcosa che mi mette a disagio, signore. Ripensando alle parole di Greg, aggrottai la fronte. Poi tornai al file. Nell'abbandonare la seconda scena del crimine, il 50/50 Killer si era preoccupato di richiudere la porta d'ingresso e ciò aveva fornito il primo, vero indizio sul suo modus operandi e sulle sue motivazioni. La porta dei Litherland era rimasta aperta perché erano morti entrambi. Ma una vittima della seconda coppia era ancora viva e in grado di attirare l'attenzione di qualcuno. Il 50/50 Killer voleva che le sue vittime fossero trovate. I Roseneil, ventitreenni e appena sposati, erano legati nello stesso modo dei Litherland. Daniel Roseneil era stato imbavagliato durante l'ordalia e a un certo punto era svenuto, per il dolore o per la paura oppure per entrambi. Quando aveva ripreso conoscenza, l'assassino era sparito e la moglie giaceva morta al suo fianco. Il killer gli aveva tolto il bavaglio, ma lo aveva lasciato ammanettato al letto. Daniel aveva urlato per più di un'ora prima dell'arrivo dei vicini. L'omicidio Roseneil era stato assegnato alla squadra di Mercer prima che ci fosse stato modo di collegarlo all'altro caso. In circostanze diverse, Hunter si sarebbe occupato di entrambi, ma in quei delitti Mercer aveva riconosciuto qualcosa che non era poi riuscito a scrollarsi di dosso. Quindi
aveva brigato finché non gli erano state affidate le indagini. Immagino che la sua iniziativa non fosse vista di buon occhio, ma, a prescindere dalle complicazioni interne, da quel momento la caccia al 50/50 Killer era diventata affar nostro. Mi misi a leggere i dettagli del secondo caso. Il cadavere di Julie Roseneil mostrava lesioni simili a quelle di Carol Litherland sia per intensità sia per numero. Larghe ferite da taglio e ustioni; sfregi sui seni e sui genitali; mutilazioni al viso e alla testa. Come a Carol, anche a Julie era stata tagliata la gola. Daniel Roseneil era stato torturato come Bernard Litherland... però alla fine il killer lo aveva lasciato in vita. Feci scorrere le foto della scena del crimine, cercando invano di mantenere un certo distacco. Pure sulla parete dietro il letto dei Roseneil era stato tracciato un disegno simile al precedente. A metà tra un acchiappasogni e un simbolo occulto, la ragnatela era segnata da minuscoli tratti, che sembravano interromperla. Era la firma del 50/50 Killer, sempre presente eppure un po' diversa. Nessuno di quegli schemi era mai stato rintracciato in qualche libro, però era evidente che aveva un significato importante per l'assassino. Quale che fosse la motivazione per i delitti, quei disegni giocavano un ruolo chiave nella psicopatologia da cui scaturivano. La serie d'immagini si concludeva con una foto in bianco e nero del matrimonio dei Roseneil, scattata quattro mesi prima del delitto. Erano entrambi in piedi, davano le spalle al fotografo, ma si erano voltati per guardare l'obiettivo e tenevano le mani intrecciate. Era tremenda, rispetto a quelle scattate dopo. Sembravano così giovani e felici... la stretta delle mani era forte e fiduciosa. E poi Daniel aveva ripreso i sensi per scoprire la moglie morta al suo fianco... C'era anche un'intervista filmata. Era in bianco e nero, come la foto del matrimonio, ma quella era l'unica somiglianza. Nelle immagini, Daniel, col viso tumefatto, stava a capo chino, il linguaggio corporeo limitato a un continuo ritrarsi. Non guardava verso la telecamera. Quel video mi ricordava le riprese dei soldati americani catturati durante la guerra del Golfo e costretti a rilasciare dichiarazioni, però era molto peggio, anche perché le ferite erano decisamente più visibili e devastanti. Il testo in un angolo del monitor spiegava che l'intervista era stata condotta dal detective Andrew Dyson. M'infilai le cuffie. Dyson: «Daniel, puoi raccontarmi cosa ricordi di quella notte?»
Lo sguardo di Daniel Roseneil puntava in basso a sinistra. L'uomo aveva i lineamenti gonfi e deformati. Quando parlava, le labbra gli si appiccicavano e lui, per separarle, emetteva un leggero schiocco. Roseneil: «C'era un uomo in camera da letto. Non so che ora fosse. Mi sono svegliato con un coltello alla gola». Dyson: «Ha detto qualcosa?» Roseneil: «Sussurrava. Credo che volesse rassicurarmi. Ma non rammento le parole esatte». Dyson: «Va bene così. Ricordi cos'è successo dopo?» Roseneil: «Aveva delle manette. Mi ha costretto ad ammanettare Julie, mani e piedi. Quindi lui ha ammanettato me nello stesso modo». Dyson: «E poi cos'ha fatto?» Nessuna risposta. Dyson cambiò tattica. «Che aspetto aveva?» Roseneil: «Era il diavolo». Una pausa. Dyson: «Il diavolo?» Veniva fuori che l'aggressore portava una maschera da diavolo di gomma rosa, assicurata alla testa con un elastico. Per l'intera durata del supplizio, l'uomo era rimasto calmo e controllato. Daniel si era tenuto sempre all'erta, in attesa di un momento adatto per tentare qualcosa e fermare quello che stava succedendo, ma non ce n'era stata l'opportunità. Dal momento in cui Daniel si era svegliato, era destinato a finire o legato al letto oppure con la gola tagliata. Il diavolo non aveva commesso errori. Roseneil: «Un gioco. Ha detto che avremmo fatto un gioco». Dyson: «Che tipo di gioco? Tranquillo, Daniel, con calma, quando vuoi». Roseneil: «Un gioco... sull'amore. Avrebbe fatto del male a uno di noi. Ha detto... che dovevo decidere io a chi dei due». Dyson: «Sì...» Roseneil: «Uno dei due sarebbe morto e io dovevo decidere chi. Ha detto che avrei potuto cambiare idea in qualunque momento, fino all'alba». Dyson: «Riesci a ricordare cos'è successo dopo?» Roseneil (deciso): «Ho scelto me». Da quel momento in poi, la sua ricostruzione diventava confusa. Era comprensibile. C'erano flash e impressioni, ma i veri ricordi dei tagli e delle bruciature erano sepolti troppo in profondità. Molto semplicemente,
non riusciva a rammentare e ogni tentativo di spingerlo in quella direzione sfociava in un blocco temporaneo. Non ricordava neppure che Julie era stata torturata, né accettava il fatto che, a un certo punto, lui doveva aver cambiato idea, sopraffatto dal dolore. Ogni volta che veniva menzionato il nome di lei, distoglieva ancora di più lo sguardo, come se il semplice sforzo di richiamarla alla memoria gli fosse intollerabile. Dyson aveva lasciato perdere. Io approvai. Erano tornati un po' indietro nel tempo, rispetto ai fatti di quella notte. L'assassino aveva parlato molto con lui. Le parole esatte erano andate perdute, però di certo l'uomo era rimasto calmo, quasi amichevole, come se li conoscesse da anni. Daniel ricordava di aver pensato: Come fa a saperlo? però non cosa gli avesse detto in particolare l'assassino per farglielo pensare. Era finito tutto negli appunti per gli ulteriori approfondimenti - Forse un conoscente? - però, nonostante approfondite indagini, non era emerso nessun indiziato con un possibile collegamento ai Roseneil. La squadra aveva scavato a lungo in quella direzione, ma invano. Da parte sua, Daniel era convinto di non aver mai visto prima quell'uomo. Chiusi la finestra dell'intervista e continuai a cliccare all'interno del file. Simon e Greg avevano cercato di capire come facesse il killer a sapere tante cose sui Roseneil. Proprio come coi Litherland, l'assassino aveva ripulito il più possibile la scena del delitto, ma c'erano alcune cose che non aveva potuto nascondere. Dai residui di polvere, sembrava che le prese di corrente e gli attacchi delle lampade fossero stati in qualche modo manomessi. Anche lì, comunque, non c'erano segni di effrazione. Inizialmente un po' sconcertanti, quelle scoperte avevano finito per acquisire un senso alla luce di ciò che Daniel era riuscito a ricordare. Lessi il rapporto della squadra informatica. Greg aveva fatto una lista dei possibili sistemi di sorveglianza utilizzati: microfoni e telecamere nascosti nelle prese di corrente oppure occultati in giro per la casa; congegni per intercettare posta elettronica e per decrittare password; sostanze e kit per riprodurre chiavi dal calco delle serrature. Era spaventoso scoprire con quanta facilità tutto si potesse reperire. L'ipotesi era che l'assassino si fosse introdotto in casa molto prima dell'aggressione, studiando e osservando a lungo le sue vittime. Registrando le loro conversazioni. Passando una notte dopo l'altra in soffitta. Vivendo con loro per un certo periodo, forse addirittura per mesi. Aveva scoperto i loro pensieri e le loro menzogne, sfruttando poi quelle conoscenze per
infliggere tormenti emotivi, oltre a torture fisiche. Tutto ciò faceva parte del suo «gioco». Torturava qualcuno per forzarlo ad abbandonare la persona che amava. Chiusi gli occhi. Gli omicidi erano agghiaccianti, certo, eppure io stavo pensando con pari intensità anche ai sopravvissuti. Alla scelta che erano stati obbligati a compiere. «Morirei per te...» «Non potrei vivere senza di te...» Tutte cose che si dicono, però difficilmente capita di doverle mettere in pratica. Le vittime che il 50/50 Killer si lasciava alle spalle dovevano vivere col rimorso di non aver rispettato la loro promessa. Al di là di ciò che avevano detto, non avevano amato abbastanza il loro partner, che per questo era morto. Avevano scelto di salvare se stesse. Aprii di nuovo la foto di Daniel e Julie Roseneil, quella del matrimonio. Sembravano così felici e inconsapevoli, l'immagine stessa della possibilità e della speranza. Non puoi mai sapere cosa ti aspetta: ecco qual era il monito di quella fotografia. I giorni si susseguono, del tutto normali, poi arriva un giorno che non lo è affatto. E, per sua stessa natura, noi non lo vediamo arrivare. Le cose orribili dell'esistenza ti travolgono come un camion spuntato da una strada laterale. Tornai all'intervista di Daniel Roseneil, alla sua faccia tanto devastata quanto la vita che gli restava da vivere. All'improvviso, la moglie era morta, lui si ritrovava solo e in qualche modo responsabile di quella morte. Per quanto non avesse aiutato le indagini, di certo non lo biasimavo perché non ricordava cos'era accaduto. Non biasimavo nessuno di loro. C'erano state altre due aggressioni, avvenute entrambe l'anno successivo. Le vittime della terza erano state Dean e Jenny Tomlison, una coppia sulla trentina. In quel caso, l'assassino aveva rovesciato il suo modus operandi, lasciando a Jenny la scelta di chi doveva essere torturato e ucciso. Lei era rimasta gravemente ferita, però era sopravvissuta alla nottata; Dean era morto al suo posto. Sette mesi più tardi, il 50/50 Killer aveva preso di mira la quarta coppia. La scelta era stata affidata a Nigel Clark. Aveva riportato ferite così serie da non essere più in grado di camminare, mentre sua moglie Sheila, poco più di vent'anni, era stata uccisa. In entrambi i casi la tecnica del killer era stata impeccabile. Nessun segno di effrazione. Nessuna traccia utile per la Scientifica. Non avevo bisogno di vedere le foto anche di quegli ultimi delitti. Dato che il tempo scarseggiava, preferii invece tornare al menu principale e a-
prire i due rapporti riassuntivi. Il primo riguardava le impressioni dei testimoni; il secondo era un profilo psicologico. Nel primo, il 50/50 Killer era stato ridotto a una lista di attributi fondamentali. Di razza bianca, statura leggermente sopra la media, capelli castano scuro, snello ma atletico, pacato e cortese, eloquente. Durante le aggressioni, non sembrava godere particolarmente di quello che stava facendo, ma nel contempo dava l'impressione di non trovarlo difficile. Le torture erano meccaniche, condotte senza emozione né piacere. Era insolito, per quel tipo di killer. In casi simili, la vittima di solito rappresenta l'oggetto con cui soddisfare una fantasia o una necessità. Ma lo stupro, benché rientrasse nei crimini del 50/50 Killer, sembrava più uno dei suoi strumenti operativi - un altro modo per ferire e terrorizzare - che un fine. Appariva calmo e distaccato, mutilava le vittime prima di ucciderle e poi le abbandonava quando morivano, quando il gioco era finito. Se anche godeva di quel procedimento, lo teneva ben nascosto. Eppure, ripensando a quel tremendo sibilo che aveva prodotto, era evidente che qualcosa provava. Passai al profilo psicologico, pronto ad affrontare con una robusta dose di scetticismo ogni pretesa di definizione risolutiva. Ma rimasi sorpreso: in quel rapporto c'erano più che altro punti interrogativi, congetture di cui non si nascondeva il carattere marcatamente ipotetico. Per la precisione, emergeva una certa riluttanza a definire l'esatta natura della patologia dell'assassino. Perché faceva quello alle sue vittime? Utilizzava la tortura e il dolore per manipolarle, obbligandole a tradire il proprio partner. Per ricavarne cosa? Per ogni ipotesi formulata, ce n'era subito un'altra, contraddittoria. In sintesi, il rapporto si limitava a trarre poche conclusioni generiche. M'immersi nella loro rassicurante familiarità. Era probabile che avesse più di venticinque anni, perché la raffinatezza dei delitti suggeriva un criminale più anziano e con maggiore esperienza. Sicuramente era dotato di un'intelligenza superiore alla media, ma era altresì del tutto privo di qualcosa che somigliasse a una vita emotiva. A giudicare dal costo dell'attrezzatura di sorveglianza, doveva essere facoltoso. Aveva facilità di movimento, ma non era un vagabondo. Un furgone bianco, mai identificato, era stato visto su due scene del crimine, e l'equipaggiamento che lui utilizzava poteva essere trasportato e controllato con maggiore facilità proprio grazie a un furgone. Inoltre era presumibile che quel tipo di veicolo non destasse particolari sospetti. La stabilità finanziaria e l'età facevano ritenere che fosse ben inserito nel
tessuto sociale, che riuscisse a mascherare con successo la sua vera natura, come Jacob Barrett. Ma ogni eventuale relazione interpersonale era solo una facciata. La sua vera esistenza si svolgeva di notte, nelle case di altre persone, e il perseguimento di quell'esistenza era ciò che lo teneva costantemente occupato. Le amicizie e i contatti erano al massimo superficiali, ed era probabile che i conoscenti nutrissero qualche preoccupazione al suo riguardo. S'ipotizzava che fosse affascinato dalle armi, e che possedesse o avesse letto libri sulla tortura, sulle tecniche d'investigazione e su argomenti militari in genere. E così via. Non c'era nulla da obiettare, però in quel rapporto mancavano del tutto le certezze. In quell'uomo e nei suoi delitti c'era qualcosa che impediva di formulare precise asserzioni. Non si poteva dare niente per scontato... e forse alla base di tutto c'era la maschera da diavolo che lui portava. Nessuno l'avrebbe mai ammesso, ma la facilità con cui procedeva, i metodi che utilizzava, le carneficine e gli scempi che si lasciava alle spalle... Be', sarà anche stato stupido, tuttavia non si poteva evitare di pensarci. Era il diavolo, aveva detto Daniel Roseneil. Ovvio che non lo era. Non esisteva niente del genere. Eppure nel suo profilo c'erano soltanto congetture. Abbozzi d'ipotesi che orbitavano attorno a un buco nero, timorose di toccarlo. 3 dicembre, ore 16.30 14 ore e 50 minuti all'alba Jodie Il sentiero nel bosco era disseminato di relitti dell'autunno: una poltiglia di foglie rosse che si disfacevano nella fanghiglia marrone. Le sue scarpe sprofondavano, rendendole difficile mantenere l'equilibrio. Il terreno la risucchiava, oppure le scivolava via da sotto i piedi, ma lei cercava comunque di procedere il più in fretta possibile, subito dietro Scott, le mani tese in avanti per sostenerlo, in caso fosse scivolato. Jodie non si era mai considerata particolarmente pratica o assennata, e la sorprendeva sentirsi così calma. Nonostante l'uomo col coltello. E sebbene fosse ammanettata. Una voce dentro la testa continuava a dirle cosa fare. In quel momento, le stava suggerendo di badare a dove metteva i piedi, di ricordare ogni pos-
sibile dettaglio e, soprattutto, di prendersi cura di Scott. Pure lui era ammanettato, però l'uomo gli aveva anche infilato sulla testa un sacchetto nero, perciò non era in grado di vedere il terreno fangoso sui cui camminavano. Quel sacchetto sembrava avergli sottratto forza e decisione. Era domato: un uomo che avanzava incespicando verso il patibolo. Ha bisogno di te, continuava a dirle la voce. Prenditi cura di lui. Una cosa alla volta. La voce era rassicurante e ragionevole, quindi Jodie la assecondò, aggrappandosi ai suggerimenti che le offriva. Se fosse scomparsa, il panico ne avrebbe preso il posto... Invece, finché continuava a parlarle, lei poteva non pensare a quello che stava succedendo, frazionare tutto in istanti e ostacoli e preoccuparsi di affrontare un problema per volta. Una cosa alla volta. Osserva. Ricorda il percorso. Pensa a Scott. Guardò a destra e vide un grosso albero nero che sbucava da un rialzo del terreno. La terra era fradicia, come argilla da vasaio. Grosse radici contorte si allargavano sul sentiero e rami sottili pendevano dall'alto, simili a capelli vecchi. Si sarebbe rammentata di quell'albero. Foglie più nuove sul terreno sembravano indicarlo. Frecce rosso vivo. Se necessario, devi fingere di non ricordare nulla, la ammonì la voce. Quella voce concreta e saggia non era stata con lei fin dall'inizio. Prima c'erano stati solo terrore e panico. Quando si era risvegliata, dopo l'aggressione nel terreno abbandonato, era distesa sul metallo gelido e irregolare, respirando il puzzo acre del diesel. Il suo corpo era rattrappito, contorto; le facevano male i polsi e le spalle; un lato della testa sembrava gonfiarsi e sgonfiarsi. Aprendo gli occhi, aveva visto ruggine e corda. Inoltre tutto vibrava, come se la strada che scorreva sotto di lei facesse sussultare le sospensioni del furgone. Questa non è un'ambulanza. Aveva la vaga consapevolezza di aver come subito un incidente, quindi trovarsi in un'ambulanza avrebbe avuto senso. La memoria le era tornata poco a poco, sottolineando con tratti sempre più neri la sensazione di qualcosa di sbagliato, di terribilmente sbagliato. Il neonato. L'uomo con la maschera da diavolo. Poi aveva visto il disegno sulla fiancata del furgone, dipinto sul metallo bianco del vano interno, e aveva cominciato ad avere paura. Stupro, aveva pensato. Tortura. E anche peggio. Dalle profondità della memoria, la sua
mente setacciò orrori agghiaccianti. Aveva un bavaglio legato attorno alla testa e non poteva urlare, ma, rovesciando il capo all'indietro, era riuscita a scorgere prima il tetto del furgone, poi la sommità dei sedili anteriori. Aveva intravisto la sagoma della testa del guidatore e, attraverso il parabrezza sussultante, un confuso spicchio del cielo sopra la città. Sentiva ancora il pianto del bambino. L'uomo si era girato verso il sedile del passeggero, allungando una mano, e aveva detto qualcosa al piccolo per calmarlo. In quel momento, il panico aveva minacciato di sopraffarla. Era stato come se, per qualche istante, lei avesse perso la ragione. Ma quell'intervallo di tempo non aveva più importanza, e Jodie lo escluse dalla propria mente, come le suggeriva la voce. Adesso contava soltanto affrontare il terreno: l'appoggio precario, il fango e le foglie che scivolavano sotto i piedi. Gli alberi si scagliavano l'uno contro l'altro come nere corna di cervo; si spingevano, una cresta di terra fradicia che lottava per ottenere la supremazia sull'altra. Il terreno s'innalzava, ripido, poi ridiscendeva. Per lunghi tratti, era praticamente uno scivolo fangoso. Nelle radure, il fango aumentava. Poi, più avanti, c'erano altri alberi. E, al di là degli alberi, le montagne, in lontananza. Faceva freddo, si gelava. Quasi non si sentiva più la faccia. Nel tentativo di generare un minimo di calore, Jodie contrasse e rilassò i muscoli. Per Scott doveva essere anche peggio. Aveva un aspetto curioso, coi pantaloni felpati, con la T-shirt bianca e col cappotto voluminoso. Jodie allungò le mani e gli toccò una spalla, sperando che comprendesse. Ti amo. Ma il cappotto era liscio e freddo. Probabilmente non se n'era neppure accorto. Jodie staccò le mani legate, però le tenne vicino a lui. Ripensò al momento in cui il furgone si era fermato e lei era stata certa che qualcosa di tremendo stava per accadere. Invece era rimasta sola per un po'. Quindi il doppio portellone si era spalancato e la luce del pomeriggio era filtrata all'interno. «Entra.» La voce dell'uomo era calma e ragionevole, quasi cortese. «Stenditi. Se cerchi di fuggire o di lottare, me ne vado e me la prendo con lei.» Sollevando lo sguardo con cautela, Jodie aveva visto Scott che si arrampicava sul furgone, con le mani ammanettate davanti come le sue e con l'espressione cupa. Era rimasta stupita e confusa. Mentre lui si muoveva, di-
stendendosi goffamente accanto a lei, il furgone aveva sussultato, ondeggiando. L'uomo all'esterno era una sagoma indistinta contro il cielo. Aveva sbattuto i portelloni per chiuderli. «Andrà tutto bene», aveva sussurrato Scott. Il tono serio della sua voce rivelava quanto fosse terrorizzato. «Ce la caveremo.» Dopo qualche istante, il motore si era riavviato e si erano rimessi in movimento. Jodie aveva dato un'occhiata alla testa del guidatore e poi a Scott. Incapace di rispondergli per via del bavaglio, era rotolata verso di lui - un giro e mezzo - appoggiandosi con la schiena contro il suo petto, nella stessa posizione in cui talvolta dormivano. Sentiva il groppo delle mani ammanettate che le premevano contro la schiena, ma almeno era confortata dal suo calore. Lui le aveva baciato la testa attraverso i capelli, teso contro di lei. C'erano dentro insieme, e ne sarebbero usciti insieme. Era stato allora che era comparsa la voce. Jodie ricordava di essere stata abbastanza calma. Adesso che c'era pure Scott, le sembrava di comprendere meglio la situazione, e ciò le permetteva di placare il nervosismo, di adattarsi ai nuovi parametri. Ribellarsi non era un'opzione. E la fuga era poco probabile. L'osservazione: ecco qual era la chiave. Si era concentrata sui possibili motivi per cui lei e Scott erano stati rapiti. Senza dubbio non si trattava di un fatto casuale; l'uomo con la maschera da diavolo aveva un piano e lo stava seguendo. Con successo, anche. Jodie ignorava le sue intenzioni, ma era evidente che lui sapeva esattamente cosa stava facendo. Nessun piano è perfetto, le aveva detto la voce. Nessun piano è compatto. Ci dovevano essere collegamenti fra i vari stadi, spazi e varchi in cui lui avrebbe dovuto contare sulla fortuna. Se fossero stati attenti, e con un po' di buona sorte, avrebbero potuto approfittarne. Le possibilità che sarebbero emerse in quei brevi intervalli avrebbero fatto la differenza tra salvarsi o rimetterci la pelle. Dentro di sé, Jodie aveva chiamato a raccolta ogni riserva di rabbia e di determinazione. Ne uscirai viva. Ma fino ad allora non c'erano stati intoppi. Il piano si era tranquillamente dipanato da un passaggio all'altro, preciso come un cronometro. C'era stata un'altra sosta, quando l'uomo aveva scaricato il bambino dal furgone. Ancora un breve tratto e poi aveva parcheggiato. Al riaprirsi degli sportelli del furgone si erano ritrovati su una strada che costeggiava il bosco. «Se cercate di scappare, ucciderò quello che rimane indietro», aveva det-
to lui. Era una scena quasi surreale. Nella luce del tardo pomeriggio, sul ciglio di una strada di solito piuttosto trafficata, c'era un uomo con una maschera da diavolo sul viso e con in mano un coltello dalla lunga lama crudelmente sottile. Loro due avevano le mani ammanettate davanti. La scena era inequivocabile. Eppure non era passata neppure un'auto. «C'infileremo là dentro.» Aveva indicato il sentiero che si addentrava nel bosco e Jodie aveva pensato: Una possibilità. Non poteva tenerli sempre sotto controllo. Ma poi lui aveva infilato il sacchetto sulla testa di Scott e lo aveva fatto andare avanti, mentre lui si teneva qualche passo dietro di loro. Non c'era stata nessuna possibilità. Non c'era stato niente. Scott inciampò davanti a lei, vacillando. Lei lo vide incespicare, ma non riuscì a trattenerlo. Mentre allungava una mano verso di lui - «Attento!» un piede lo tradì e Scott cadde pesantemente a terra. Fango e foglie si sollevarono davanti a lui. «Merda.» Un sasso schizzò via sulla destra, rumoreggiando lungo la scarpata. Rotolò velocemente, andò a sbattere contro un albero con uno schianto sonoro come un colpo di pistola, per poi fermarsi ancora più in basso, contro una fila di vecchie pietre. Ce n'erano moltissime sparse nel bosco, e sporgevano dal terreno come mascelle di giganti semisepolti. Rovine di muri ormai distrutti. Jodie si accoccolò accanto a Scott. «Stai bene, tesoro? Ti sei fatto male?» Lui scosse la testa come meglio poteva, ma non disse nulla. Lo sentì piangere. «Coraggio, amore, ce la faremo.» Lo aiutò a rialzarsi in piedi, lottando per non mettersi a piangere anche lei. Non poteva permetterselo, in quel momento. Era ammesso piangere solo a turno, uno alla volta. Era accettabile sentirsi disperati, impauriti e terrorizzati, finché l'uno riusciva a essere forte anche per l'altra. Adesso toccava a lei. E poteva farcela. Mentre lottavano per rialzarsi, l'uomo non li aiutò. Si limitò a stare indietro, osservandoli attraverso quell'imperscrutabile maschera del cazzo. Con una mano teneva il coltello, con l'altra reggeva la tracolla della borsa che aveva portato con sé. Per un po', Jodie si era chiesta cosa ci fosse dentro. Poi la voce le aveva ordinato di piantarla. «Attenti», disse l'uomo. «E zitti. In questo bosco c'è gente che potrebbe farvi più male di me.» Jodie cercò di togliere un po' di fango dal cappotto di Scott, ma invano.
Anzi glielo spalmò ancor di più sulla manica e s'insudiciò le mani. L'uomo aveva ragione, naturalmente, e non aveva bisogno di ricordarglielo. Giravano parecchie storie su quella zona. Era un posto pericoloso e, da quanto lei poteva giudicare, si erano già allontanati un bel po' dalla strada. La mente prese a giocarle brutti scherzi, evocando immagini di loro due legati agli alberi. Sangue nel fango. I loro cadaveri inariditi e secchi come vecchie corde, la primavera seguente. Ma, se c'era gente pericolosa in quel luogo, l'uomo non sembrava preoccuparsene. D'altra parte, aveva la faccia da diavolo, un coltello e Dio solo sapeva che altro. Si muoveva come se appartenesse a quel bosco. Di certo, Jodie non riusciva a immaginare che ci fosse in circolazione qualcuno o qualcosa più pericoloso di lui. L'uomo fece un gesto col coltello: Andate avanti. Ripartirono. Tu non hai paura, disse la voce a Jodie. Ma stavolta aveva torto. Era spaventata, e non soltanto per l'uomo, per il suo coltello e per qualunque altra cosa tenesse in quella borsa. Poteva stare attenta al percorso, ma la verità era che si stavano dirigendo nel fitto di quel bosco, verso il luogo che l'uomo aveva scelto. Lui conosceva i sentieri, i pericoli e i trabocchetti da evitare; era a casa sua. Invece Jodie non si era mai sentita così isolata, così lontana da tutto ciò che le era familiare. La sua mente si raggomitolò attorno alla voce ma, anziché prestare attenzione ai suoi tentativi di confortarla, evocò fiabe e leggende. Viaggiatori che imboccavano sentieri proibiti e si trovavano ad affrontare mostri, a varcare soglie che portavano alla morte. Il fiume Stige, col suo scheletrico, gracchiante traghettatore che conduceva i passeggeri nell'oltretomba. Dante che vagava là non avrebbe dovuto e scopriva i cerchi infernali. Ecco cos'era: il diavolo li stava portando all'inferno. E allora, nonostante il pianto silenzioso di Scott, nonostante quello che si era ripromessa, Jodie cominciò a piangere. 3 dicembre, ore 17.30 13 ore e 50 minuti all'alba Mark Uno dei problemi col file del 50/50 Killer erano le sue dimensioni. C'erano alcuni riepiloghi, però io mi stavo sforzando di leggere tutto, fin
dall'inizio, in modo che i fatti e le teorie assumessero un senso nel loro contesto. In effetti, avrei voluto avvicinarmi al caso come aveva fatto il resto della squadra. Ma era un grosso file e richiedeva molto tempo. Il testo era difficile da leggere, le foto erano difficili da guardare. Di tanto in tanto avevo bisogno di una pausa, e di solito andavo al bar della mensa a prendere un caffè per me e per Mercer. Mentre tornavo in ufficio reggendo le due tazze di plastica, sentii il cellulare che mi ronzava in tasca. «Merda.» Posai le tazze sul pavimento e pescai il cellulare per leggere il messaggio. Era dei miei genitori. Ciao Mark. Pensavamo a te. Speriamo che il tuo primo giorno sia andato Uscio e che tu stia bene. Stiamo in pensiero. Chiamaci quando puoi. Ti vogliamo bene. M&P xx. Guardai l'orologio, sorpreso nell'accorgermi che il mio primo giorno era ufficialmente finito, anche se di fatto non lo era. Quell'indagine aveva un TUTTA LA NOTTE timbrato sopra a caratteri cubitali. Mi chiesi se fosse il caso di rispondere. I miei genitori erano perennemente in pensiero. Tanto per cominciare, non avrebbero voluto che facessi il poliziotto e, benché ormai avessi quasi trent'anni, continuavano a temere che potesse capitarmi qualcosa. Da quand'era morta Lise era stato anche peggio; a volte dovevo evitare di rispondere, semplicemente perché non ce la facevo più. E adesso mi ero trasferito dalla parte opposta del Paese... Immagino che le loro preoccupazioni fossero del tutto naturali, e fino a un certo punto le apprezzavo pure, ma restava il fatto che non sempre le sopportavo. Avevo bisogno di starmene per conto mio. Era come se volessero vedermi addolorato e derelitto e si preoccupassero per me se non lo ero. In realtà, io avevo il mio sistema per convivere col dolore. E parlare di quello che era successo non ne faceva parte. Non ancora, almeno. Decisi di non rispondere. Lasciai scivolare in tasca il cellulare e rientrai in ufficio, appoggiando il caffè di Mercer sulla scrivana accanto a lui e riprendendo la mia posizione al computer. «Grazie.» Non aveva neppure sollevato lo sguardo, ma andava bene lo stesso. Mentre lottavo contro le insidie del file, Mercer faceva lo stesso con l'indagine in corso. Il resto della squadra era fuori sul campo oppure lavorava in altri uffici. Dopo il briefing, in quella stanza eravamo rimasti soltanto noi due. Non avevamo parlato granché, ma avevamo entrambi da fare. Ogni tanto si faceva vivo qualcuno per un rapporto o un aggiornamento
e, se non era impegnato a discutere con loro, Mercer teneva la medesima posizione, con la testa china sulle carte, come se stesse coordinando tutto dai confini della propria mente. Se non era impegnato a fare qualche telefonata, la stava ricevendo; se non faceva neppure quello, allora leggeva documenti estratti dalle cataste che aveva davanti o ne cercava altri. Non si alzava mai dalla sedia, ma, ogni volta che sollevavo lo sguardo, coglievo un flusso continuo di attività interiore. Oltre al resto, c'erano le telefonate a intervalli regolari al suo superiore, l'ispettore Alan White, per tenerlo aggiornato sugli sviluppi. Mercer sembrava sempre ansioso di chiuderle alla svelta. Forse detestava dover rendere conto a qualcuno dell'indagine che lui stava conducendo, ma, quale che fosse la ragione del suo comportamento, tendeva sempre a sminuire l'importanza del caso, a un punto tale che cominciai a notarlo. Non menzionò mai il 50/50 Killer, concentrandosi invece sulle minuzie dell'indagine, il che mi sembrò decisamente strano, dopo tutto quel suo insistere sui collegamenti esistenti. I progressi erano scarsi e arrivavano col contagocce. Simon chiamò dal laboratorio della Scientifica: in casa di Simpson avevano rilevato due serie d'impronte. La prima era di Kevin; l'altra era sconosciuta. Anche se era possibile che il killer ci avesse fatto un regalo, era più probabile che la seconda serie appartenesse a Jodie. Ma ciò non ci aiutava a far luce sulla sua identità. Pete aveva parlato con le ex ragazze di Simpson, facendo rapporto dopo ogni conversazione. Ero rimasto a osservare, impassibile, mentre venivano escluse dalla lista delle possibili Jodie, l'una dopo l'altra. La mia squadra porta a porta era stata ugualmente prolifica e i suoi risultati erano stati altrettanto inutili. Le case che ancora mancavano erano state completate, e le interviste si erano estese alle strade vicine, ma nessun nuovo indizio ne era emerso. Per tutto il tempo, continuai a osservare Mercer, silenziosamente stupefatto per il modo in cui lui dirigeva le indagini. Sembrava ricordare tutto simultaneamente, fissava concentrato il monitor a ogni rapporto, annuiva. Mentre incasellava i nuovi dati al loro posto, la sua espressione si faceva vuota e lontana. Per quanto mi riguardava, avevo già le mie difficoltà a riguadagnare terreno sul file, figuriamoci tener dietro ai nuovi sviluppi. Se non altro, adesso avevo uno schema in cui collocare la scena del delitto di Kevin Simpson. Per quanto la chiave fosse costituita dalla firma e dal gioco, Greg aveva ragione nel sostenere che la scena di quella mattina era in
qualche modo diversa. Chiunque fosse Jodie, non era stata coinvolta con le stesse modalità delle precedenti vittime. Sono passati due anni. Ha avuto il tempo di studiarci sopra. Mi chiesi quale fosse il quadro che Mercer stava mettendo insieme, ma per il momento era un problema suo. Noi dovevamo raccogliere Ogni minimo dettaglio disponibile; sarebbe toccato a lui cavarne un senso. E così procedemmo. Poco prima delle sei, Greg si collegò in videoconferenza. Aveva il rapporto della squadra informatica. Cattive notizie. Anche ammesso che nel computer di Simpson ci fosse stata traccia di Jodie o di Scott - nelle cartelle di posta, nella rubrica o in qualche documento -, il killer aveva cancellato tutto. Come Greg aveva anticipato, non era attraverso il computer che saremmo arrivati a identificarli. «Comunque abbiamo ottenuto un bel successo», disse. Il suo tono era piuttosto scostante, però Mercer non aveva tempo per il sarcasmo. «Continua.» Greg inviò le immagini, sei in tutto. Fotogrammi delle telecamere sulla strada principale vicino alla casa di Simpson. Sei diversi furgoni bianchi. Non si distingueva il numero di targa, però i tecnici erano riusciti a ottimizzarle e avevamo raggiunto un'identificazione sicura per tutti e sei. «Sono state prese stamattina, più o meno verso l'ora in cui il killer dev'essersene andato.» Greg si stava grattando distrattamente le basette. «Inutile dire che a quell'ora ci sono un sacco di furgoni bianchi in circolazione.» «Però l'hai detto lo stesso, Greg. Ben fatto. Nomi e indirizzi.» «Stanno arrivando.» Mercer si voltò verso di me. «E la tua squadra?» «Sta ancora setacciando le strade attorno alla casa di Simpson. Con sempre minori risultati.» «Toglila di lì e mettila invece al lavoro su questo. Probabilmente non troverà nulla, come dice Greg, però non si sa mai.» «D'accordo.» «Video e audio sempre accesi.» Rieccoci. Mi sorpresi a digrignare i denti, poi cercai di convincermi che quello era soltanto il suo modo di fare e mi misi in contatto con la squadra, trasmettendo loro i nomi e gli indirizzi da controllare. Ripetei deliberatamente le istruzioni di Mercer - con una certa malizia da parte mia -, però la sua attenzione era altrove: stava componendo un numero al telefono, con
tutta probabilità per riferire a White gli ultimi sviluppi. La sua espressione era imperscrutabile. Mi sorpresi a pensare che guardare quell'uomo era come osservare un campo di battaglia attraverso le nuvole. Dopo aver parlato con la squadra, tornai a concentrarmi sul file. C'era una grossa sezione, verso la fine, che ancora dovevo leggere, e che mi avrebbe fornito più dettagli sugli eventi della giornata di quanti avrei voluto averne. Era la parte che riguardava il detective Andrew Dyson. Padre di tre figli, Dyson aveva lavorato nella squadra di Mercer per oltre dieci anni. Lo avevo ascoltato intervistare Daniel Roseneil, che gli aveva raccontato del diavolo. Un anno più tardi, Dyson lo aveva incontrato faccia a faccia, diventando così l'ultima vittima conosciuta del 50/50 Killer. Adesso, due anni più tardi, sedevo a quella che era stata la sua scrivania, a guardare il filmato del giorno in cui era morto. Le riprese venivano da una telecamera piazzata su un lampione, in una strada tranquilla di un sobborgo residenziale. A una cinquantina di metri dall'obiettivo vidi Dyson. Aveva parcheggiato davanti a una normalissima casa bifamiliare e si stava avviando verso la porta d'ingresso. L'orologio in un angolo del monitor indicava che erano le 14.13. Erano gli ultimi momenti di Dyson, l'ultima volta che era stato visto vivo. In quel caso, a vederlo era stata l'unità di registrazione digitale, più fredda e clinica di qualunque testimone, e ciò lo faceva apparire ancor più vulnerabile. Era già una figura solitaria: con le mani in tasca, si stringeva nel cappotto per difendersi dal freddo. Avrei voluto tendere la mano e avvertirlo, ma stavo osservando un fantasma e non potevo far altro che allungare una mano verso il caffè. E guardare gli ultimi attimi della sua storia ormai conclusa che si ripetevano. Erano trascorsi tre mesi dall'aggressione ai Clark e le indagini erano finite in un vicolo cieco. Gli indizi sulla scena del crimine erano risultati praticamente inesistenti e, su quel poco, ogni possibile filone di ricerca si era esaurito. Le risorse di Mercer diminuivano costantemente: i suoi uomini venivano assegnati a casi più nuovi e urgenti. Ma la squadra non aveva ancora intenzione di arrendersi o almeno non ce l'aveva Mercer. Continuavano a riesaminare ogni dato disponibile: parlavano di nuovo con amici, familiari, vicini; ripercorrevano le lacune, cercando di raccogliere ulteriori dettagli ovunque possibile. Sapevo bene cosa si provava a essere coinvolti negli stadi finali di un'in-
dagine che non conduceva da nessuna parte: c'era un senso d'inevitabilità. Sapevi di aver fallito, eppure continuavi lo stesso, nella speranza di qualche novità. Ma certo non di quel tipo di novità. La casa che Dyson stava per visitare era squadrata e piatta, come i mattoni rosso chiaro con cui era costruita; sembrava che fosse stata eretta per fare la guardia alle magioni che sorgevano in lontananza. C'era un vialetto laterale, lungo e dritto, che conduceva a un garage scuro. Due bidoni, uno nero per la spazzatura generica, uno verde per il riciclo. Il giardino era abbastanza in ordine, anche se non sembrava che fosse stato curato nei mesi invernali. Riuscivo a vedere i cespugli che ondeggiavano appena nel vento. Sullo sfondo, il cielo era grigio e chiazzato di nuvole. Inquietante. Insieme con lo spazio tra una casa e l'altra, quel cielo faceva somigliare l'intera strada a una fila di monotone pietre tombali, gelide e segnate dal tempo, in qualche cimitero in cima a una scogliera. Dyson aveva suonato il campanello e stava battendo i piedi per il freddo. Sembrava troppo piccolo rispetto alla casa che gli torreggiava sopra, come se fosse pronta a ingoiarlo. Forza, forza, pensai. Lui si fregò le mani. Fa un freddo cane. Guardò lungo la strada prima di premere di nuovo il campanello. L'attrezzatura per la sorveglianza utilizzata dal killer era costosa ed elaborata, ma c'erano almeno due negozi in città che la vendevano, senza contare i siti dai quali si poteva acquistare online. Per natura, la gente che commerciava in quel genere di equipaggiamento non era troppo incline a collaborare con la polizia, ma poi, dopo qualche pressione, l'aveva fatto. Erano stati controllati elenchi di esperti in sicurezza, di mariti gelosi e di svitati assortiti, eliminando ogni possibile indiziato. Quel giorno, Dyson stava ripercorrendo un terreno già battuto. La casa apparteneva a Frank Walker, che aveva comprato un paio di aggeggi per la sorveglianza qualche anno prima. Era già stato interrogato senza che ne fosse emerso nulla: nessun segnale, nessuna preoccupazione. La visita era dunque una semplice formalità, e quel giorno doveva essere del tutto privo di eventi. Dyson non aveva ragione di sospettare un pericolo. Nel file s'ipotizzava che quello fosse il probabile motivo per cui non aveva ancora acceso il suo equipaggiamento di registrazione. Quando arrivai a quel punto, mi sforzai di rileggerlo. Eccolo lì: un attimo di distrazione, probabilmente causato dalla noia della routine. Un calo di attenzione. Se fosse stato in guardia, forse sarebbe andata diversamente.
L'audio dell'aggressione sarebbe passato dal dispositivo che lui aveva alla cintura al ricevitore nell'auto, e da lì al dipartimento. Avrebbe potuto salvarsi. Lanciai un'occhiata a Mercer. Era immerso nei rapporti e non si accorse di me, ma ora lo vedevo sotto una luce leggermente diversa. Mi ero risentito per la sua insistenza nel verificare che video e audio fossero sempre accesi durante le interviste. In parte ero ancora risentito, ma adesso almeno ne comprendevo il motivo. I secondi ticchettavano sull'orologio nell'angolo del monitor. Ne passarono almeno quindici prima che Dyson allungasse la mano e spingesse la porta. Doveva essere socchiusa, perché si aprì verso l'interno. Lui si sporse oltre la soglia, reggendosi alla cornice. Immaginai che urlasse qualcosa come: «Polizia! C'è nessuno in casa?» Poi lui esitò e il mio stomaco si contrasse. Era quello il momento. Non avremmo mai saputo ciò che era successo dopo finché non avessimo catturato l'uomo che si nascondeva là dentro, e anche in quel caso forse non avremmo mai scoperto perché Dyson avesse deciso di entrare. Secondo una teoria, aveva visto qualcosa in cucina che l'aveva spinto a entrare; secondo un'altra, aveva sentito un rumore, forse una falsa invocazione d'aiuto. Quale che fosse la spiegazione, pochi secondi dopo aver aperto la porta, era entrato in cucina ed era scomparso. La successiva telecamera che l'avrebbe inquadrato sarebbe stata quella del tecnico della Scientifica. Continuai comunque a guardare. Chiunque avesse montato il filmato, aveva lasciato altri dieci secondi in cui si scorgevano soltanto la casa immobile e l'erba che tremolava nel giardino. Forse dimostrando una mancanza di rispetto, mi sorpresi a pensare a cosa stava accadendo là dentro, nascosto alla mia vista, e fui felice quando la ripresa s'interruppe. Tornando al rapporto principale, lessi che il cadavere di Dyson era stato scoperto tre ore più tardi. Lui non aveva risposto né alla chiamata di controllo né ai solleciti. Era sin troppo facile immaginare il crepitio della radio che aveva echeggiato senza risposta nel soggiorno vuoto in cui era stato poi trovato; lo avevano individuato grazie all'auto parcheggiata fuori. La casa appartenente a «Frank Walker» risultò completamente vuota. Pareti e pavimenti assolutamente spogli, nulla che somigliasse a un arredamento, a eccezione di un materasso al piano di sopra e della linea telefonica. Sebbene Walker avesse quella casa in affitto da diversi anni, era evidente che nessuno ci aveva mai abitato, nemmeno per poco tempo. Frank
Walker era un personaggio immaginario, una frode abilmente concepita, con tanto di storia personale tanto elaborata quanto falsa, vuota e priva di contenuto come la casa stessa. Il 50/50 Killer lo aveva inventato come identità fantasma. Sia il nome sia la casa erano per lui soltanto delle vie di fuga. Immaginai l'assassino che svolazzava tra i vari nidi che si era costruito in città, lasciandosi dietro le vecchie identità come certi ragni abbandonano il proprio esoscheletro. La casa del filmato era soltanto una sacca di aria fetida, una bolla apparsa sulla superficie del nostro mondo. Era stata scoperta, perciò lui era passato a un'altra. Nidi. Lo facevano sembrare sempre di più un mostro. Quando lo trovarono, Andrew Dyson giaceva sul pavimento del soggiorno, raggomitolato su un fianco, le mani strette contro le ferite da perforazione allo stomaco. Il killer lo aveva aggredito con calma, usando due coltelli dalla lama lunga e sottile, trafiggendolo sei volte. Metodico e deliberato. I tagli erano netti e profondi, in due serie: prima davanti e poi dietro. Non si vedevano altre lesioni. Dyson era morto lentamente, per lo shock e l'emorragia. Mentre il suo assassino girava per casa e ripuliva con cura ogni possibile traccia, stanza per stanza. All'arrivo della polizia se n'era andato da tempo: scomparso dal retro, presumibilmente a piedi. Nessun veicolo era mai stato registrato a suo nome. Nessuno lo conosceva. Sul suo conto c'erano diverse migliaia di sterline, ma ogni transazione era complessa e impossibile da ricostruire. Nessuno aveva mai tentato di recuperare il denaro, gettato via insieme con la vecchia identità. Frank Walker era semplicemente svanito, lasciandosi dietro il cadavere di Dyson: un'ultima vittima, come un esoscheletro abbandonato nella ragnatela. C'era altro nel file, ma, com'era successo per la coda del filmato, era qualcosa di più, di non necessario. Greg aveva effettuato una sorta di dissezione completa dell'identità di Frank Walker, esplorando ogni possibile direzione prima di bloccarsi in vari punti morti. La casa di Walker era stata praticamente smontata sino alle fondamenta, rivelando solo la totale assenza di qualsiasi traccia utile, come ogni altra scena del crimine di quel killer. Tutti i vicini erano stati interrogati. Nessuno l'aveva mai visto. Non ne avevano cavato nulla. Verso la fine del rapporto, mi resi conto che mi preoccupava soprattutto
quello che nel file non c'era. La squadra aveva mantenuto il controllo dell'indagine anche dopo la morte di Dyson, però il nome di Mercer brillava per la sua assenza. Il caso era tornato sotto la responsabilità del sergente Geoff Hunter. Distolsi l'attenzione dal file e guardai Mercer. Era ancora nella sua solita posizione: gomiti sulla scrivania, la testa china e le dita allargate a tirare indietro i capelli sulla fronte. Ancora profondamente immerso nei rapporti contro cui lottava. Lo studiai senza farmi notare, pensando al libro che aveva scritto, quello che avevo letto non appena ricevuta la notizia della mia nomina. Nella parte iniziale, il libro esaminava in dettaglio alcuni dei più importanti casi seguiti dalla squadra, compresi due rimasti insoluti, ma quello del 50/50 Killer non rientrava fra essi. Nei capitoli finali, in cui veniva descritto il suo esaurimento nervoso, Mercer raccontava dell'enorme carico di lavoro che aveva sopportato e della pressione derivante dalla necessità di condividere il proprio spazio mentale con vari assassini. Sembrava implicare che fosse stato lo stress a farlo temporaneamente cadere nel baratro della depressione. L'omicidio di Dyson non era citato. Ripensandoci, però, mi resi conto che le date corrispondevano e che quindi non poteva essere una coincidenza. Mercer aveva spinto la sua squadra fino al limite, uno di loro era morto, e poco dopo lui era finito in ospedale. E non per un'indagine qualsiasi, ma proprio per questa... Mercer mi stava guardando. Tornai a fissare il monitor. «Cosa c'è?» «Niente, signore.» Lui però non smise di guardarmi e io mi sentii avvampare. Gli lanciai un'occhiata. Sembrava impassibile, ma ebbi la sensazione che mi leggesse nel pensiero. Mi stavo insinuando in un'area della sua esistenza che non mi riguardava e lui lo aveva capito. Sul viso gli comparve un barlume di comprensione. «Sono quasi le sette, vero?» «Oh... sì», replicai. «Ma non importa.» Si appoggiò contro lo schienale. «No, è stata una lunga giornata. Mi dispiace, ma temo che sia una di quelle volte che... Insomma, credo che ci sarà da fare ancora per un bel po'. Qualche problema?» «Fa parte del lavoro.» «Certo, ma non hai mangiato niente.» Diede un'occhiata all'orologio. «Prenditi una mezz'ora.»
Stavo per protestare, ma mi resi conto che stavo morendo di fame. Ed ero stanco morto. Più che altro, volevo uscire dall'ufficio e allontanarmi da quegli orrori. «Coraggio», insistette. «Ci penso io a difendere il forte.» «Sì, signore.» «E poi devo anche chiamare mia moglie. La mensa è in fondo al corridoio. Puoi prenderti qualcosa da mangiare lì.» Mi avviai alla porta, e mi resi conto di quello che lui aveva detto. Sbirciai la sua scrivania. La tazza di caffè che gli avevo portato era nell'angolo, vuota. Pareva gli fosse sfuggito che ero già stato diverse volte in mensa. «Vuole che le porti un caffè?» chiesi. «No, grazie.» Aveva già riportato l'attenzione alle carte che aveva davanti, prendendo appunti e spostando lo sguardo dall'una all'altra. «Non stavolta.» 3 dicembre, ore 19.00 12 ore e 20 minuti all'alba Eileen Erano bastate due paroline a farle stringere lo stomaco: «Farò tardi». Al telefono dello studio, Eileen giocherellava col filo. Se lo attorcigliava sul dito, lo sfilava, ricominciava. Si costrinse a smettere. «Starai attento, vero?» John non disse nulla. Nel corso degli anni, lei si era abituata a decifrare quei silenzi e non ebbe difficoltà a raffigurarsi il marito. Seduto alla scrivania, a fissare qualcosa che aveva davanti. A concentrarsi. Non che volesse davvero liberarsi di lei, ma era incapace di focalizzare l'interesse sulla conversazione. Ci voleva qualche istante prima che le domande si facessero strada attraverso le altre cose che gli affollavano la mente. In sottofondo lo sentì battere sulla tastiera. «Certo, che starò attento.» Come se fosse sottinteso. La prima volta in cui John le aveva detto che pensava di tornare al lavoro, Eileen aveva sperimentato una ridda di emozioni contrastanti, e anzitutto un'assoluta incredulità. Lui era in vestaglia, stravaccato sul divano del salotto. Sembrava che gli costasse fatica persino spostarsi da una stanza all'altra; si muoveva lentamente, come un invalido. Quindi lei non l'aveva
preso sul serio. Poi era diventato chiaro che, in un modo o nell'altro, era proprio quello che lui intendeva fare, e allora l'incredulità si era di colpo trasformata in rabbia. «Che diavolo credi di fare?» gli aveva urlato. Non solo a se stesso, visto che non sembrava preoccuparsene, ma a lei! Gli aveva rammentato le cure di cui aveva avuto bisogno, la pazienza con cui lei gliele aveva prestate e i sacrifici che aveva dovuto fare. Gli aveva parlato della spaventosa preoccupazione che avrebbe potuto distruggere anche lei. Quando il marito era crollato, a Eileen era sembrato che tutta la sua vita trattenesse il fiato, mentre lei raccattava i pezzi e li rimetteva a posto, cercando di farli stare insieme e pregando che ci rimanessero. Lui non aveva nessun diritto di farle passare di nuovo tutto ciò. Le doveva qualcosa di meglio, gli aveva detto. Si supponeva che fossero una coppia, no? Punto sul vivo, John aveva tenuto conto di quelle parole. Eppure, con l'andar del tempo, Eileen si era ammorbidita. Lo osservava, un giorno dopo l'altro, e si accorgeva di vederlo appassire mentalmente ed emotivamente. Si sentivano entrambi impotenti, in quel periodo. John aveva lo sguardo spento. Era come svuotato di ogni energia, e sembrava peggiorare di giorno in giorno. Non migliorava, e neppure rimaneva stabile, no: il peggioramento era visibile. E lei non sapeva come fare per aiutarlo. Ecco perché, dopo qualche tempo, era stata lei a suggerirgli - con cautela - di riprendere il lavoro. Ma non come prima: quella era la condizione imprescindibile. Non avrebbe mai più dovuto farle una cosa del genere, aveva insistito, e lui si era detto d'accordo. Non sarebbe più vissuto dentro i file delle indagini, a spese della loro vita in comune; basta lavorare per tutta la notte. Il suo lavoro doveva rimanere solo un lavoro, chiuso a chiave e messo via alla fine di ogni giornata. Le avrebbe telefonato a intervalli regolari. Era quella la promessa che pretendeva da lui. Per quanto ne sapeva, John l'aveva mantenuta e, negli ultimi due mesi, era migliorato. Soltanto nell'ultima settimana, più o meno, Eileen aveva ripreso a preoccuparsi per lui. Di nuovo. E adesso quelle due paroline: «Farò tardi». «Non c'è nessuno che può sostituirti? Sembri stanco.» «Sto bene.» Stava di nuovo attorcigliando il cavo. «Bene, allora è meglio che ti lasci, no?» «Mi dispiace, non è per quello. È che... c'è da fare, ecco tutto.» Torna a casa! avrebbe voluto urlargli. Invece sospirò, assicurandosi che
lui la sentisse. «Va bene, John, ti lascio lavorare. Ti amo.» «Ti amo anch'io.» Ma, dal tono della sua voce, sembrava non si rendesse neppure conto di quello che stava dicendo, figuriamoci provarlo. Erano soltanto le parole necessarie per chiudere la conversazione, come una frase aveva bisogno del punto. Non era bello farsi venire quei pensieri. Lui ti ama. È solo distratto. Ai vecchi tempi, sarebbe andata bene così. Ma no, andava ancora bene. Era lei, che stava reagendo con troppa violenza. Non era preparata a quella fitta di panico che l'aveva percorsa. Eileen riappese e restò immobile, a respirare profondamente, cercando di riprendere il controllo. Dopotutto aveva compagnia. Geoff Hunter era ancora in salotto, dove lei lo aveva lasciato, ma durante la sua assenza si era messo a dare un'occhiata in giro. Era un uomo alto e dinoccolato, abituato a tenere le mani in tasca e il mento in avanti. Guardava le persone dall'alto in basso, come se fossero ragazzini che si erano comportati male e, in quella posizione, l'orlo dei pantaloni gli si sollevava un po' sul davanti, scoprendo un paio di centimetri di calzini neri sopra le scarpe lucide. Rientrata nella stanza, Eileen riprese subito a detestarlo. «È stato gentile da parte sua venire», mentì. Hunter non replicò. Stava osservando una foto sulla mensola del camino: lei e John il giorno del matrimonio. Il fotografo si era strizzato sul sedile del passeggero, e aveva scattato la foto all'indietro, tra i sedili. Loro erano al centro dell'inquadratura, vicini, sorridenti e felici. Hunter avrebbe potuto tranquillamente mandare un agente di grado inferiore a raccogliere la sua deposizione e, in quel caso, lei se ne sarebbe già liberata. Però era convinta che quell'uomo non si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione per niente al mondo. Entrare in quella stanza piena degli oggetti privati e personali di John per lui era come guadagnarsi l'accesso al diario di un rivale. Se ne stava là, con la massima faccia tosta, a leggere quello che trovava, alla ricerca di qualche segno di debolezza. «Cortesia professionale», le disse con aria assente. «Be', dovete essere piuttosto indaffarati.» «Ci prendiamo sempre cura delle nostre cose.» Eileen tenne a bada l'enorme ondata di rabbia che quella frase aveva suscitato. Dunque lei era una semplice «cosa» di John. Avrebbe voluto dirgli che suo marito non apparteneva a loro. La sua vita era lì, con lei, non certo
in giro con una specie di gang. «Lo so», gli disse. Lui finalmente smise di esaminare la fotografia e si voltò a fronteggiarla. «Era John, al telefono?» «Sì.» «Gli ha detto che ero qui?» «No. Quello che è successo non ha niente a che vedere con lui. Sbaglio?» Hunter inclinò la testa di lato, non del tutto convinto, ma lasciò cadere la questione. «Come sta? John, intendo. Lavoriamo insieme, ma non abbiamo avuto molti contatti da quand'è rientrato.» Eileen s'irrigidì. «Sta bene.» Hunter diede un'occhiata all'orologio. «Credevo che non si trattenesse più fino a tardi.» «A volte lo fa.» Svariate bugie in meno di un minuto. Hunter aveva più o meno la stessa età di suo marito, ed Eileen sapeva bene che nutriva del risentimento verso di lui. Poteva anche atteggiarsi ad amico, ma in realtà somigliava più a uno sciacallo che annusava in giro in cerca di sangue. Era stupefacente la velocità con cui i colleghi di John riuscivano a farle arruffare le penne, persino quei pochi che si preoccupavano davvero per lui. Da quando lui era crollato, Eileen era perennemente sulla difensiva e faceva il possibile per evitare d'incontrarli. Erano tutti uguali, in fondo: o traevano un piacere perverso dalla debolezza di John oppure cercavano di rassicurarla, il che era anche peggio. Quello era un uomo che lei conosceva e amava da prima che molti di loro fossero nati. «Vuole che parliamo adesso di James Reardon? Ha detto che siete molto impegnati.» «Sì, dovremmo parlarne.» Hunter si diresse verso il divano e si sedette. Eileen rimase in piedi a guardarlo. Lui estrasse un registratore dalla tasca del cappotto e se lo mise accanto, poi appoggiò i gomiti sulle ginocchia e congiunse le mani davanti a sé. I pantaloni, notò lei, adesso gli si erano sollevati di almeno cinque centimetri. «Sergente Geoff Hunter», annunciò lui al registratore. «Deposizione di Eileen Mercer in relazione all'aggressione a Colin Barnes e al rapimento di Karli Reardon. A titolo informativo, Eileen è la moglie del sergente John Mercer. Eileen, può confermare che rilascia questa deposizione di sua volontà?»
Irritata dai suoi modi, lei si limitò ad annuire. «Ad alta voce, per favore.» «Sì.» «Per la registrazione: Eileen ha riferito che il sospetto, James Reardon, si è presentato a casa sua stamattina, in evidente stato di agitazione. Eileen, a che ora sarebbe successo?» «Verso le dieci.» «E lei è la sua... counselor? È esatto?» Hunter riuscì a instillare nella parola una goccia di veleno. Interessante, pensò lei, con quanta rapidità stesse emergendo il suo vero carattere. Forse perché quella registrazione sarebbe finita nel file, e quindi lui stava recitando di fronte a un pubblico. Annuì. «Ad alta voce, per favore», ripeté lui. «Sì, ho fatto varie sedute di counseling con lui.» «Per quanto tempo?» «Poco più di un anno.» «Un periodo piuttosto lungo. E... di che argomenti avete parlato?» «Si tratta d'informazioni confidenziali. E irrilevanti.» «Avete discusso della sua terribile infanzia?» Eileen incrociò le braccia. «O forse si lamentava di quanto fosse difficile la sua vita?» continuò Hunter. «C'è qualche strana ragione per cui tutto questo la diverte, sergente Hunter?» «Mi scusi. Probabilmente sto solo cercando di capire di cosa si tratta.» Si appoggiò allo schienale e il suo tono divenne più serio. «Come le è sembrato James Reardon? Come si comportava?» «Era agitato. E contrito.» «Per cosa?» «Perché doveva andarsene. Non mi ha spiegato per quale motivo.» «Ma adesso lei lo sa.» «Sì, adesso lo so.» Reardon le aveva lasciato addosso un'inquietudine che lei non aveva saputo come valutare. Le sue parole e il suo modo di fare erano stati inquietanti, ed Eileen sapeva bene di cosa fosse capace quell'uomo. Aveva pensato di chiamare la polizia, ma alla fine aveva scartato l'idea, anche se con qualche riserva. Reardon non le aveva detto di aver commesso un reato e neppure che
avesse intenzione di farlo. Inoltre, come paziente, aveva il diritto di parlare con lei in tutta riservatezza, un principio al quale Eileen aveva deciso di attenersi, anche se quell'uomo si era presentato inaspettatamente alla sua porta. Se lo avesse violato, ci sarebbero state delle conseguenze. Considerati i precedenti di lui e il fatto che lei era la moglie di John, era probabile che la polizia sarebbe intervenuta con decisione e ciò avrebbe immediatamente distrutto la fiducia che si era instaurata fra loro. Forse senza motivo. Quindi niente polizia. Per tutto il giorno, comunque, aveva cercato di mettersi in contatto con Reardon, ma inutilmente. Non era sua abitudine guardare la televisione durante la giornata, quindi non aveva saputo nulla fino al telegiornale delle sei. Era solo una notizia di poco conto - nei servizi locali -, ma lei aveva colto il nome di Reardon e si era messa ad ascoltare con attenzione, il cuore che sembrava sul punto di cederle. Oh, James! A quel punto, non aveva più avuto scelta. E nemmeno remore. Hunter disse: «Ora è consapevole che, subito prima di venire da lei, James Reardon ha seguito e aggredito l'uomo che attualmente esce con la sua ex moglie?» «Ne sono consapevole.» «L'uomo in questione, Colin Barnes, ha identificato in Reardon il suo aggressore. In quel momento, Barnes aveva con sé la figlia minore di Reardon, nel passeggino. La bambina risulta scomparsa.» Karli Reardon, già. Era quello che avevano detto al telegiornale. Se Hunter aveva ragione sugli orari - e di sicuro ce l'aveva -, quando James Reardon era passato da lei aveva già rapito la figlia. Eileen era stata la sua ultima tappa prima della fuga. Qualunque cosa ti raccontino di me, ricordati che lo faccio per Karli. Hunter s'infilò di nuovo la mano in tasca, estraendone una fotografia che le porse. Lei ebbe un attimo di esitazione, sapendo qual era il punto che l'altro voleva segnare, però la prese. «Quella è Amanda Reardon», le disse. «Probabilmente la foto risale allo stesso periodo in cui il suo ex marito veniva qui a raccontarle i suoi problemi.» Eileen studiò il viso della donna, i gonfiori e l'unico taglio, lo sguardo di assoluta sconfitta e umiliazione. Hunter doveva essere al corrente del suo lavoro di counseling con criminali condannati. Se si aspettava che il volto di una vittima la sconvolgesse, aveva sbagliato di grosso. Imperturbabile e nient'affatto scossa, gli restituì la foto.
«Le ha raccontato come si sentiva quando lo faceva?» Certo che glielo aveva raccontato. «Non credo sia rilevante per la sua indagine.» «Per quanto mi riguarda, mi sorprende che si sia affidato a una donna. Lei no? Voglio dire, è evidente che nutre sentimenti... energici - se così si può dire - nei confronti del sesso femminile.» Avevano parlato anche di quello. Le persone come Hunter, pensò Eileen, tendevano a vedere le cose in bianco e nero. Quello che James Reardon aveva fatto all'ex moglie era tremendo e imperdonabile, ma Eileen sapeva pure che lui non era un misogino. Aveva soltanto bisogno di trovare un Cattivo cui dare la colpa; voleva i Cattivi col cappello nero e i Buoni col cappello bianco, ma nella vita reale le persone erano troppo complesse per adattarsi con tanta facilità a quei ruoli. «Mi dispiace, ma non credo sia rilevante per la sua indagine», ripeté. «Ah, no?» Hunter si sporse verso di lei, stanco del tentativo di provocarla. «Be', allora vediamo di finirla. Perché non ha chiamato subito la polizia, stamattina? Avrebbe potuto risparmiare un bel po' di guai a un sacco di gente.» «Non sapevo che stesse per commettere un reato.» «Lo aveva già fatto.» «E allora come avrei potuto risparmiare dei guai a qualcuno?» Un attimo di silenzio. Eileen provò una vaga fitta di colpevole piacere. Ma era l'intera conversazione a essere assurda. Sciolse le braccia che aveva tenuto conserte. «Mi permetta di essere chiara, sergente Hunter. Indipendentemente da quello che crede lei, io non sto dalla parte di Reardon, in questa storia. Non lo sto proteggendo e non cerco scuse per le sue azioni. Ma non è compito mio giudicarlo. Il mio lavoro consiste solo nell'ascoltarlo e possibilmente nell'aiutarlo a capire perché ha fatto certe cose.» «Capire», annuì Hunter. «Mi piace.» «Mi rendo conto che le risulti difficile concepire la cosa in questi termini, ma, nonostante ciò che ha fatto, James Reardon resta comunque un essere umano.» Hunter lanciò uno sguardo al registratore. «Nota: la testimone sembra un po' ostile.» Irritata con se stessa, Eileen gli voltò le spalle e andò verso la mensola. Dietro di lei, Hunter si alzò, preparandosi ad andarsene. «È in questo che siamo diversi, Eileen. Per me è semplicemente un obiettivo. Il mio lavoro sempre che le interessi - è rintracciare la figlia di Reardon e arrestare lui
prima che faccia del male alla bambina o a chiunque altro.» «Non le farà mai del male.» Hunter rise. «Lei sa tutto, vero? Sa in quali circostanze ha aggredito l'ex moglie? Lo sa che era in auto in quel momento? Sa che lui ha rotto il finestrino con un martello, ha trascinato Amanda fuori dall'auto e l'ha picchiata sul bordo della strada?» «Lei si diverte a raccontarmi i dettagli.» Nonostante tutto il suo sarcasmo, Hunter sembrava davvero arrabbiato. «Karli era lì, ovviamente, legata con la cintura di sicurezza al sedile del passeggero. La sua bambina, coperta di vetri rotti che urlava, disperata, mentre lui prendeva a calci la sua mamma fuori dall'auto. Ecco quanto vuol bene alla sua bambina, Mrs Mercer. Ecco cosa significa per lui.» Eileen controllò le proprie emozioni e si voltò. «C'è altro?» «Sì. Le ha detto dove stava andando?» «No.» «Nessuna indicazione?» «No.» «Allora credo che abbiamo finito.» Hunter spense il registratore. «La ringrazio per il tempo che mi ha dedicato. Troverò l'uscita da solo.» «Non ne dubito.» Lo guardò andar via, resistendo all'impulso di sbattergli la porta alle spalle. Rimase invece dov'era, sentendo il rumore della porta d'ingresso che si apriva e si richiudeva, poi, attraverso le tende, guardò Hunter che passava davanti alla finestra e si allontanava lungo il vialetto. Infine si voltò di nuovo verso la foto sulla mensola del camino: lei e John immobilizzati in un istante in bianco e nero, tanti anni prima. Erano così giovani. John era invecchiato molto, soprattutto negli ultimi tempi. Dell'uomo nella foto non erano rimasti che gli occhi e qualcosa nel sorriso. Però, in quegli ultimi giorni, non sorrideva quasi mai e i suoi occhi, quando la guardava, sembravano trapassarla. Ti amo anch'io. Eileen uscì in fretta dalla stanza. Erano una coppia, e lei doveva essere forte. Sarebbe andato tutto bene, e lui sarebbe tornato presto a casa. Non c'era niente di cui preoccuparsi. E accidenti a lei se mai si fosse lasciata andare, mettendosi a piangere davanti a lui. Nemmeno davanti alla sua foto. 3 dicembre, ore 19.15
12 ore e 5 minuti all'alba Mark Come per adattarsi allo stile e all'arredamento del resto dell'edificio, anche la mensa appariva vecchiotta e mezza in disarmo. Era uno stanzone tetro, arredato con séparé di formica fissati al pavimento che sembravano essere stati strappati da un bar da camionisti e infilati lì dopo una sommaria ripulita. Sulla parete opposta, le veneziane erano abbassate a tener fuori la sera, e i neon appesi al soffitto emettevano un costante ronzio nasale. Mi avvicinai al bancone. C'erano piatti di arrosto pieni di curry, che somigliavano a zolle di terra, e salsicce fatte più che altro di budello bruciacchiato. Così, nonostante la fame, pescai i primi due panini che mi capitarono a tiro e li portai alla cassa. «Due e trenta.» «E un caffè, per favore.» «Allora due e ottanta.» Frugai distrattamente in tasca alla ricerca degli spiccioli, pensando ancora a Mercer e al file del 50/50 Killer. Sì, l'intervallo di tempo fra i due eventi - la morte di Dyson e il crollo di Mercer - era troppo breve per essere casuale. Non aveva importanza quello che lui aveva detto - o non detto nel libro. Era un libro, appunto: una singola istantanea che lui aveva deciso di mostrare al mondo. Per conto mio, il collegamento reggeva. Faticavo a immaginare cosa avesse provato. Era già abbastanza difficile sopportare il peso di un'indagine del genere, la spinta professionale e umana a fermare quell'uomo prima che facesse del male a qualcun altro. E poi, mentre spronava la squadra, uno di loro moriva proprio per mano di quel killer... Cristo, sarebbe stato troppo per chiunque. Mi convinsi di aver capito un po' meglio ciò che era successo durante la mattina: la determinazione di Mercer e la sua distrazione, il disagio della squadra. Sembrava tutto molto più chiaro. «Due e ottanta», ripeté la cassiera. «Scusi.» Le diedi l'importo esatto, poi individuai Pete, Greg e Simon nell'angolo della sala. Pete sollevò una mano; annuii e mi diressi verso di loro. Contemporaneamente, il loro linguaggio corporeo mi fece capire che una conversazione veniva conclusa in fretta e furia. Ero nervoso da morire. Dopo quello che avevo saputo, mi sembravano più che mai una banda chiusa in
se stessa. Per quanto ne facessi parte, sapevo di non esserci ancora dentro, almeno non del tutto. E comunque non per quella storia. «Ehi, salve.» Simon si stava sistemando l'insalata sul piatto, mentre Greg aveva davanti uova e pancetta con patatine. Pete teneva in mano un panino e l'incarto vuoto sul tavolo rivelava che ne aveva già mangiato uno. Senza dire nulla, spostò di lato un paio di vassoi per farmi posto. «Grazie.» Mi strizzai accanto a loro. «Allora, cosa mi sono perso?» Greg fece un cenno in direzione di Pete. «Mi stavo giusto lamentando. Pete ha passato il pomeriggio a chiacchierare con una serie di belle ragazze.» Pete si strinse nelle spalle, quasi a scusarsi. «E non è neppure il mio giorno libero!» Sorrisi. Pete portava al dito una grossa fede. Poco prima avevo notato la fototessera appuntata al divisorio del suo cubicolo: due ragazzine pigiate in una macchina per le foto automatiche. «Con le ex di Simpson?» chiesi. Pete annuì. «Non è stato così divertente come crede Greg. Ovviamente nessuna di loro è stata felice di ricevere la brutta notizia. E tutte mi hanno dato di lui la stessa immagine.» «Cioè?» «Troppo scapestrato per continuare a uscirci insieme, ma fondamentalmente un tipo a posto. L'ultima ragazza ha detto che stare con lui era un disastro - perché era un bastardo infedele -, però erano rimasti buoni amici. Ha aggiunto che sembrava un bambino sperduto.» Pete soffiò sul caffè. «Valle a capire, le donne!» «Un classico», intervenne Greg. «Dimostra ancora una volta che le donne adorano i bastardi, e io non riesco nemmeno a farmi dare un appuntamento.» «Strano davvero, a pensarci. In conclusione, nessuna di loro è Jodie. Abbiamo controllato i loro movimenti.» «Capisco.» Prevedibile, eppure deludente. «Però abbiamo la bellezza di sei furgoni bianchi», riprese Greg, sarcastico. «Di certo è la traccia che stavamo cercando!» Simon lo guardò, inarcando un sopracciglio, e io mi resi conto che probabilmente si riferiva alla conversazione in corso prima del mio arrivo. «Suppongo tu intenda che non ne è ancora venuto fuori niente di concreto», disse in fretta Pete.
«Be'...» «Il killer guida un furgone bianco, giusto? E le indicazioni fornite dalla telecamera suggeriscono di seguire la traccia dei furgoni bianchi. Tutto qui. Vediamo se ne esce qualcosa.» «Scommetto mille sterline che non troveremo niente.» «Cerchiamo di essere ottimisti su questo caso, eh?» Greg gli concesse il punto con una scrollata di spalle. Se non ci fossi stato io, forse avrebbe continuato, ma era probabile che in quel caso Pete non lo avrebbe neppure zittito così alla svelta. Ci rimuginai sopra: era difficile leggere cosa c'era sotto le tensioni del gruppo. Continuammo a mangiare in silenzio per un po'. Quand'ero a metà del mio panino, fu Greg a parlare, affrontando un argomento a me più familiare. E più tranquillizzante per tutti, fra l'altro. «Allora, com'è andato il trasferimento?» mi chiese. «Tutto bene. Non che sia stato un gran trasloco, a essere sincero. È quasi deprimente rendersi conto che la tua vita intera può entrare tranquillamente in un'auto.» «Bisogna essere spietati.» «Già, è quello che ho pensato anch'io.» In effetti, avevo trascorso il mese di preavviso a setacciare i miei beni per decidere cosa tenere e di cosa liberarmi. Era stata un'operazione dolorosa. C'erano un sacco di cose che mi sarebbe piaciuto conservare per ragioni sentimentali. Continuavo a pensare a cosa avrebbe detto o fatto Lise. Cercavo di convincermi che, se fosse stata ancora lì a prendersi cura di me, sarebbe stata lei la prima a buttare via tutto, se non altro per evitare che continuassi a tormentarmi. «Le cose abbastanza importanti da volerle tenere a tutti i costi non si possono impacchettare», mi avrebbe detto. «Vedrai che spunteranno fuori da sole ovunque tu sia, perciò vedi di liberarti di tutta questa zavorra inutile.» Eppure, anche sapendo come si sarebbe comportata lei, non arrivavo a decidermi. Quando riuscivo a evocare la sua immagine, mi rendevo conto che non mi diceva proprio niente: non ero in grado di comprendere la sua espressione, né d'immaginare cosa pensasse. Alla fine, ero riuscito a separare le cose da portarmi appresso da quelle che non mi servivano. E queste ultime adesso se ne stavano nel garage dei miei genitori. Greg sorrise. «Mi sembra di capire che non sei sposato, eh? E che forse non c'è neppure una ragazza...» Presi il caffè e ci soffiai sopra. Non avevo voglia di parlarne, e di sicuro
c'erano altri spunti che avrei potuto introdurre per cambiare discorso, ma per qualche ragione mi avrebbe fatto male non essere onesto. «Una volta ero fidanzato, ma ora non lo sono più.» «Ahi! Ci sono passato anch'io. Be', noi non eravamo fidanzati, però convivevamo. A volte semplicemente non funziona.» «Lei è morta», dissi. «Oh, cazzo. Mi dispiace.» «Non importa. Ormai è passato un bel po'.» Mi ero accorto che, quando lo raccontavo per la prima volta, poi - stranamente -, mi sentivo in dovere di rassicurare gli altri. «Va tutto bene», dicevo, anche se ovviamente non era vero. Proprio nello stesso modo, sei brevissimi mesi erano diventati: «Ormai è passato un bel po'». E mi ero anche reso conto che rassicurare la gente di solito portava ad altre domande. «Com'è successo?» «Greg...» Pete lo stava invitando a lasciar perdere, sia a voce sia con un'occhiata. «Nessun problema.» Posai il caffè, poi raccontai in fretta. «Eravamo in vacanza, in campeggio. Un campeggio sulla spiaggia. Eravamo andati a fare una nuotata, in realtà a sguazzare un po', ma non ci eravamo resi conto di esserci allontanati oltre la nostra portata e che la corrente era molto forte. Abbiamo provato a chiedere aiuto, ma sulla spiaggia non c'era nessuno. Quindi l'unico modo era farcela a nuoto. In definitiva, io ce l'ho fatta e lei no. Non è colpa di nessuno.» «Cristo, mi dispiace.» «Lascia stare.» Con cautela, ripresi il caffè e ci soffiai di nuovo sopra. «E voi, ragazzi, tutti accoppiati?» «Felicemente sposato», dichiarò Pete, sollevando la mano per mostrarmi la grossa fede. «E Simon ha una donna in ogni porto.» «Ah, sì?» Non potei fare a meno d'inarcare un sopracciglio. Simon lo liquidò con un cenno. «Esagerato.» «Io sono fin troppo single», disse Greg. «Avrebbero dovuto mandare me a intervistare le ex di Simpson. Con Pete è stata una buona occasione sprecata.» «Be', sembravano tutte ragazze di buon gusto, quindi sarebbe stata un'occasione sprecata anche per te.» «Non sei divertente», esclamò Greg, puntandogli contro una patatina. «Almeno non quanto credi di esserlo.»
Sorrisi. L'atmosfera si era alleggerita e, mentre finivamo di mangiare, chiacchierammo un altro po'. Continuai a soppesare e valutare il modo in cui interagivano. Dopo la vaga animosità del pomeriggio, adesso si prendevano amichevolmente in giro, come succede a chi lavora a lungo insieme. Riconobbi e apprezzai il ritmo, ma mi guardai bene dal cercare d'imitarli. Il clima era più rilassato, ma io non ero ancora «dentro». Tuttavia fecero del loro meglio per coinvolgermi. Simon mi chiese dove abitavo, così raccontai del piccolo appartamento che mi ero trovato, in attesa di procurarmi qualcosa di meglio. Parlammo di dove avevo lavorato in precedenza, di qualche mio vecchio caso. «Niente di simile a questo, scommetto», disse Greg. «No. È stato un primo giorno decisamente intenso.» «C'è stato parecchio da fare. E ancora non è finita.» «Non è che senta la mancanza del mio appartamento vuoto.» Greg rise, ma senza umorismo. «Cazzo, io invece sì.» «Com'è andata oggi pomeriggio?» mi chiese Pete. «Bene, mi sono letto tutto il file. O almeno ho fatto del mio meglio.» Feci una pausa, poi decisi che tanto valeva dirlo. «Non serve a nulla, però mi dispiace per quello che è successo.» Greg immerse la sua ultima patatina in una pozza di ketchup, rimescolandola; Simon annuì, per una volta serio. Ebbi paura di aver giudicato male la situazione, parlando a sproposito. Pete si appoggiò allo schienale, guardando verso la finestra come se ci fosse qualcosa d'interessante da vedere, e non una semplice veneziana chiusa. Ho esagerato, mi dissi. Pete sospirò. «È stato un brutto colpo per tutti. Per qualcuno anche peggio, naturalmente. È difficile perdere un collega. E Andy era molto più di quello.» Annuii, cogliendo la sottile allusione a Mercer. Insieme con le coincidenze temporali emerse dal file, il naturalmente e il per qualcuno anche peggio pronunciati da Pete erano la conferma che quel caso aveva contribuito a provocare il crollo di Mercer, sempre ammesso che non ne fosse stato la causa diretta. «Certo», dissi. Greg e Simon rimasero in silenzio, delegando l'ultima parola a Pete. Toccava a lui decidere se includermi in qualunque cosa avessero in mente. Pete guardava ancora nel vuoto, tamburellando con le dita sul tavolo. Dopo qualche istante sembrò aver preso una decisione e si voltò verso di me. Ero dentro. «Cosa te ne sembra di lui, finora?»
«Di Mercer?» «Sì. Che opinione ti sei fatto di lui?» Esitai. La domanda era così insidiosa che la lasciai aleggiare per un momento, riflettendo sulla risposta. Era evidente che tra Mercer e la sua squadra esisteva una qualche divisione, ma era altrettanto evidente che avevano lavorato con lui abbastanza a lungo da aver sviluppato dinamiche complesse. Quel giorno, Mercer aveva fatto e detto cose che avevano esasperato me, e forse anche loro, però, col tempo, si sviluppa uno strano sentimento di affetto anche per simili eccentricità. Sarebbe stato un errore dire qualcosa di negativo su di lui. E abbastanza stranamente, comunque, mi resi conto di non volerlo fare. «Non è come me lo aspettavo», replicai. «Voglio dire, la sua fama lo precede. E per questo mi è sembrato... be', più umano di quanto credessi.» Pete annuì, ma io compresi che non era proprio quello che voleva. «Ti è sembrato fragile? Non preoccuparti, sii sincero.» Mi accigliai. Mi era sembrato fragile? Avevo avuto l'impressione di un uomo circondato dalle pratiche, che si assumeva tutto il peso dell'indagine, che pensava contemporaneamente a tutto. Era intenso e concentrato. A essere sincero, non era poi così diverso da molti altri responsabili di squadra che mi era capitato d'incontrare. Poi mi tornò in mente il nostro primo incontro, a casa di Simpson, quando avevo notato quanto sembrasse vecchio. E, sì, era ben lontano dall'immagine di superuomo suggerita dalla sua reputazione. Aveva l'aspetto di un uomo che aveva perso troppo peso, che poteva essere spinto via più facilmente che in passato. Una certa vulnerabilità gli aleggiava attorno, quello sì. «Forse un po'», risposi infine. «Ricordi com'era durante il tuo colloquio?» «Un po' distratto.» Era un caritatevole eufemismo, lo sapevamo tutti. Mercer mi aveva a malapena rivolto la parola, se non per discutere brevemente dell'incontro che avevo avuto con Jacob Barrett. Per il resto del tempo, si era accontentato di starsene seduto lasciando che gli altri mi rivolgessero tutte le domande che ritenevano opportune. Come se aspettasse solo che il colloquio finisse. «Distratto», concordò Pete. «È stato così per un pezzo. Da quando ha ripreso il lavoro, non ha fatto altro che gingillarsi. Dalle nove alle cinque, senza prendersela troppo a cuore. Senza impegnarsi.» Era un argomento pericoloso, ma di quello si stava parlando, quindi de-
cisi di dirlo chiaro e tondo. «Dopo l'esaurimento?» «Sì.» Pete chinò il capo e annuì. «Da quando ha avuto l'esaurimento. Ha cominciato a prendersela calma. A fare il minimo indispensabile.» «Tanto per tenersi a galla», intervenne Greg. «Già. Però oggi era completamente diverso. Più come ai vecchi tempi. Impegnato, concentrato.» Diede un'occhiata all'orologio. «Voglio dire, sono le sette e mezzo. È da un sacco che non rimane in ufficio così tanto.» «E questo ti preoccupa?» «Non solo questo», rispose Greg. «Tutto il caso. Non dovrebbe occuparsene lui.» «Ne abbiamo già parlato», lo rimbeccò Pete, a voce un po' troppo alta, troppo brusca. La abbassò, girandosi verso di me. «Ne abbiamo parlato prima che John tornasse al lavoro. Se il caso fosse stato riaperto, sapevamo che lui avrebbe voluto occuparsene, e abbiamo deciso che, se fosse successo, avremmo... suonato a orecchio. Ma ascoltavamo musiche diverse, a quanto pare.» Guardai Greg che si strinse nelle spalle, senza neppure cercare di difendersi. «Le mie obiezioni sono sempre state chiare: toccava a Pete decidere.» «Gran brutta giornata per iniziare», mi disse Pete. «Mi dispiace per te. Ora come ora, non ho idea di come andrà a finire.» «Come ti sembra che se la stia cavando?» gli chiesi. «Non lo so. Quand'era appena rientrato, non gli avrei lasciato riprendere in mano questo caso nemmeno da morto. Però... adesso mi sembra a posto. Una parte di me è contenta di vederlo così preso. È tornato a essere se stesso, direi. L'altra parte di me è preoccupata e basta.» Espirai rumorosamente. Prima che potessi parlare, Greg intervenne: «All'inferno, Pete, deve sapere anche il resto». Spostai lo sguardo dall'uno all'altro. «Sapere cosa?» «Hai notato che i casi non sono collegati?» mi chiese Greg. «Ufficialmente, intendo. Nel computer.» Non me n'ero accorto. «No, però ho sentito che non ne ha fatto menzione nei suoi rapporti all'ispettore White.» Greg annuì. «Appunto. La possibilità di negare.» «Non capisco.» Pete si chinò verso di me, subentrando a Greg. «Tutta quella storia su cui stava litigando prima con John... Lo faceva per lasciargli almeno la possibilità di negare.»
«No, la stavo dando a tutti noi.» «Come ti pare.» Scossi il capo. «La possibilità di negare cosa?» «Che i casi sono collegati», disse Pete. «Quest'indagine non sarebbe di pertinenza di John. Sulla carta, appartiene a Geoff Hunter. E, considerati i precedenti, se White ne sapesse qualcosa, vieterebbe a John persino di sfiorarla. Non c'è verso. E quando lo scoprirà... be'.» «Possibilità di negare», ripeté Greg. Mi riappoggiai allo schienale della sedia, incrociai le braccia e mi misi a riflettere su quello che mi avevano appena detto. Probabilmente mi ero aspettato qualcosa del genere fin dal momento in cui avevo letto della morte di Andrew Dyson. La prima volta che Mercer aveva affrontato il caso del 50/50 Killer, esso si era concluso con l'assassinio di un collega e il suo conseguente crollo nervoso. Era naturale che l'intera squadra fosse ansiosa, combattuta fra la lealtà e l'amicizia per il loro capo e le preoccupazioni sugli effetti che poteva avere, nelle sue condizioni mentali, trovarsi per la seconda volta alle prese con quell'omicida. Il fatto che mi avessero incluso nella gestione del problema era un fatto positivo. Però non avevo riflettuto sulle conseguenze a livello professionale di quella scelta, sulla nostra responsabilità nei confronti del dipartimento. Adesso che ero dentro, dovevo considerare con molta cautela la mia posizione. Un conto era la possibilità di negare, un altro era un comportamento professionalmente scorretto. Tuttavia, per ora, non sussistevano dubbi sui destinatari della mia lealtà. «Ovviamente seguirò la tua guida», dichiarai. «Bene», disse Pete. «Di base, il nostro dovere è quello che abbiamo sempre fatto: offrirgli tutto il sostegno che possiamo. In un modo o nell'altro, è ciò che faremo. Speriamo di trovare quelle due persone prima dell'alba.» «Jodie e Scott», aggiunsi. «Già. Perché Dio solo sa cosa ne sarà di lui se non ci riuscissimo.» Restammo seduti in silenzio ancora per qualche istante, quindi Pete spinse via il proprio vassoio e si alzò. Aveva l'aria stanca. «Bene, allora andiamo. Il peggio è passato. Adesso torniamo alle cose semplici.» Ci alzammo tutti e in quel preciso momento sentii un bip. Pete estrasse il cercapersone dalla cintura e lo guardò, aggrottando la fronte. «Uno dei furgoni.» Inclinò leggermente la testa e mi guardò. «La tua squadra ha trovato qualcosa. Quant'era, Greg? Mille sterline? Ti servirà il libretto degli assegni.»
3 dicembre, ore 20.30 10 ore e 50 minuti all'alba Scott La costruzione era vecchia e lo spazio in cui lui si trovava era angusto. Le pareti erano fatte di grandi lastre di pietra, posate in file irregolari, come se fossero state erette mettendo insieme del materiale raccogliticcio. Di certo quel posto era abbandonato da anni, in preda a generazioni di ragni e formiche. Una stagione dopo l'altra, le foglie morte erano volate là dentro portate dal vento, ed erano marcite, fino a diventare polvere negli interstizi tra le pietre. Le ragnatele sul soffitto erano grigie e impalpabili, oppure penzolavano come fili sudici. Scott non aveva idea di cosa fosse stato quel posto. Forse un ripostiglio oppure un deposito. Il che sembrava appropriato, visto che adesso serviva per depositarci lui. Chinandosi prima da un lato e poi dall'altro, riusciva a toccare le pareti con le spalle e nonostante i ragni - grossi e scuri e orrendi - continuò a farlo. Inoltre si stirò il collo, per ridurre la tensione e i crampi che gli pervadevano i muscoli del dorso. Era seduto su qualcosa, ma non riusciva a vedere cosa. Era ammanettato; gli avambracci posavano sulle cosce. L'uomo con la maschera da diavolo gli aveva passato diversi giri di corda attorno a gambe e braccia, immobilizzandolo. Gli colava il naso, e lui continuava a tirare su. In parte era per il freddo, in parte perché continuava a piangere. Non riusciva a farne a meno. Prima di quel giorno, si era sempre ritenuto forte e capace, ma adesso sapeva che non era così. Non era un eroe. Non era calmo e controllato come sembravano quei tizi dei film. Non poteva essere vero. Dapprima c'era stata rabbia, ma ora non più. Deciso a liberarsi - a ritrovare lei - aveva lottato contro le corde, digrignato i denti e tirato più che poteva, ma era legato troppo bene. Rabbia e odio avevano quindi ceduto il posto alla frustrazione. Era completamente immobilizzato e assolutamente impotente. Erano subentrati il panico e il terrore. Si era messo a piangere. Si disprezzava, però aveva tanta paura. Era alla mercé dell'uomo con la ma-
schera da diavolo e in quel momento, col cuore che batteva forte, avrebbe soltanto voluto dire la cosa giusta, fare qualunque cosa servisse a togliersi di lì. Avrebbe fatto di tutto. Davanti a lui, le pareti e il soffitto continuavano per un paio di metri, poi c'era una porta spalancata, attraverso la quale si vedeva il bosco. L'edificio sorgeva in una radura tra gli alberi. L'uomo doveva aver acceso un fuoco, che però Scott non vedeva. Una luce arancione ammiccava e danzava sul terreno, e lui sentiva il crepitio della legna che bruciava e si spezzava. Mandava ben poco calore, ma, quando il vento girò, il fumo entrò attraverso la porta aperta. Aveva anche cominciato a nevicare. La luce delle fiamme trasformava i fiocchi di neve in boccioli gialli. Uno spesso strato bianco copriva già il terreno. Rabbrividì. Tremava. Solo in parte per il freddo. Jodie, pensò. Non sopportava l'idea di quello che forse le stava accadendo. L'uomo apparve sulla soglia. Scott smise di pensare e cercò di rincantucciarsi più indietro che poteva. Ma non c'era nessun posto dove andare. L'uomo si chinò ed entrò nel ripostiglio, inginocchiandosi davanti a lui. Praticamente una silhouette, benché la luce delle fiamme gli illuminasse la maschera, esaltandone le creste rossastre da scarafaggio. L'uomo appoggiò i gomiti sulle ginocchia di Scott e sollevò due oggetti. Da una parte, alcuni fogli di carta, pinzati insieme. Dall'altra, un cacciavite. «Ssst», gli disse. Scott si rese conto che stava ansimando, come se soffocasse. Fece del suo meglio per calmarsi e smetterla. Doveva fare tutto ciò che voleva quell'uomo. «Adesso faremo due chiacchiere», disse lui. «Vedi cos'ho qui? Ricordi cos'ho fatto prima di lasciare casa tua?» Per quanto si sforzasse disperatamente, Scott non lo ricordava. «No.» «Ero al tuo computer.» Agitò i fogli che teneva in mano e sembrò studiarli con attenzione. «Ho stampato questo. Il titolo dice: Cinquecento motivi per cui ti amo. Ma qui ce ne sono solo 274. Perché?» Il fuoco scoppiettò. A parte quello, fuori dal ripostiglio il mondo era immobile e tranquillo. Per qualche ragione sembrava importante non di-
sturbare quel silenzio. «Non ho ancora finito», sussurrò Scott. «Doveva essere un regalo di Natale?» «Sì.» «Buffo. Un regalo di Natale per lei. Questo.» L'uomo scosse i fogli. «Questo è un cerotto per una ferita da arma da fuoco. Capisci?» «Sì.» «No, che non capisci. Ma capirai.» «Perché lo fai?» La voce di Scott si ruppe, la vista gli si appannò. Accidenti. Non voleva mettersi a piangere davanti a quell'uomo. Tirò su col naso, forte. Ma le lacrime scesero ugualmente e, attraverso di esse, lui vide l'uomo che lo scrutava senza pietà, come se fosse un esemplare sotto la lente del microscopio. Quando parlò, fu come se la risposta fosse ovvia. «Perché tu hai qualcosa che voglio, Scott.» Sa come mi chiamo. L'uomo gli mostrò i fogli. «Adesso tutto questo appartiene a me. Per te sarebbe un fardello, e io te ne libero. Dovresti ringraziarmi.» Scott non capiva. Tirò su di nuovo col naso, e non disse nulla. «Immagino che tu li abbia messi giù a caso, ma il primo motivo che hai scritto è piuttosto interessante. Ricordi qual è? Pensaci bene, stavolta.» Lo ricordava. Certo che lo ricordava. «Una cosa sul come ci siamo conosciuti», rispose con voce impastata. «Giusto.» L'uomo annuì. «Numero 1: siamo stati così fortunati da trovarci a vicenda.» Scott trasse alcuni respiri profondi, cercando di smettere di piangere. «Cosa vuol dire?» chiese l'uomo. «Voglio che me lo spieghi.» «Come ci siamo incontrati?» «Sì.» Si fece ancora più vicino e la luce strisciò lungo i contorni della maschera. «Raccontami di quanto siete stati fortunati.» Il messaggio era comparso sul monitor senza preavvisi né squilli di tromba. Se, invece di navigare su Internet, lui fosse stato impegnato a scrivere il suo saggio, sarebbe bastato premere un tasto per chiudere istantaneamente la finestra e sarebbe finita lì. La finestra avrebbe lampeggiato e sarebbe scomparsa, e la loro vita sarebbe stata molto diversa. In seguito ne avevano parlato, ridendo e guardandosi negli occhi. «Ti rendi conto di quanto sarebbe stato terribile se...» In seguito, aveva letto da
qualche parte che lo stadio «avrei potuto non incontrarti» era tipico delle fasi iniziali di una relazione. All'università, Scott riceveva spesso messaggi dai suoi amici. Aveva una lista di username che mostrava anche chi era in linea: bastava cliccare su un nome conosciuto e gli si poteva mandare un messaggio. Ma quella volta non aveva riconosciuto il mittente. Isz5jlm: [Ciao, come va?] «Isz» indicava il Dipartimento d'informatica, anche se lui non aveva idea dell'origine di quell'abbreviazione. «5» stava per l'anno d'immatricolazione: 1995, il suo stesso anno. E «jlm» erano le iniziali del mittente. Scott l'aveva fissato, facendo scorrere mentalmente la lista dei suoi amici e poi quella dei conoscenti. Magari qualcuno incontrato a una festa. JLM, JLM... Se anche lo conosceva, non se ne ricordava. Aveva aggrottato la fronte e chiuso la finestra, tornando a dedicarsi al sito Internet. Venti secondi più tardi, era comparso un altro messaggio: Isz5jlm: [Ooops: scusa!] E nient'altro. Se non altro, il secondo messaggio aveva chiarito le cose: il primo era stato un errore. Scott si era sentito stranamente deluso. Era poi trascorso qualche secondo d'inattività. Momenti in cui - come aveva pensato in seguito - la vita meravigliosa che gli si stava preparando era rimasta in sospeso, senza che lui se ne fosse neppure reso conto. Aveva aperto la lista della sua rete di amici. Erano più o meno duecentocinquanta, ma comparivano in ordine alfabetico e quindi non era stato difficile farla scorrere fino a «Isz». Ce n'erano diversi, e isz5jlm era l'ultimo della lista. Ci aveva pensato sopra ancora un po' e poi, dicendosi: Perché no?, aveva aperto con un doppio clic la finestra di dialogo, digitando: [Io sto bene, grazie. Spero che pure tu stia bene. Ma chi sei?] Il puntatore del mouse era rimasto in sospeso. Forse doveva semplicemente scordarsene, aveva pensato. Era evidente che si trattava di un errore,
e non c'era niente da guadagnare a tornarci sopra. Alla peggio, quella persona l'avrebbe ignorato, facendolo sentire un idiota. Ma che diavolo, se quello era il peggio che poteva capitargli, allora perché no? Aveva premuto INVIO. Fuori nevicava ancora più forte e, quando Scott parlava, il suo fiato si condensava in nuvolette, aleggiando verso l'uomo che aveva davanti. «Abbiamo cominciato a scambiarci e-mail», disse. «Ci siamo incontrati di persona solo un mese e mezzo dopo.» «Quindi è stato un caso?» Scott annuì, ma l'uomo stava osservando i fogli e lo ignorò. «Le probabilità contrarie a una coincidenza del genere devono essere astronomiche... Ma è quello che provano tutti. Si guardano negli occhi e parlano di cosa sarebbe successo se... Di come le cose sarebbero potute andare in un altro modo. Voi l'avete mai fatto?» Scott sentì in sé un vago impulso di ribellione. «No.» «Io credo di sì. Si comincia sempre dicendosi che si è anime gemelle, che non si potrebbe essere più felici di così, che quell'incontro era scritto nel destino.» L'uomo lo guardò, incuriosito. «È quello che credi anche tu?» «Sì.» «Ottimo.» Di colpo la pressione sulle ginocchia di Scott aumentò, per poi sparire quando l'uomo si alzò e tornò fuori. Andato. Per un attimo, Scott avrebbe potuto essere completamente solo in mezzo a quel bosco. Oltre la porta, la neve era tranquilla e silenziosa; il fuoco ardeva allegramente in lontananza. Un'atmosfera quasi serena. Ma sulla neve, là davanti, c'erano le impronte dell'uomo. Era stato lì. E sarebbe tornato presto. Scott controllò di nuovo i legami, ma erano più stretti che mai. Poteva soltanto contorcersi e tendere i muscoli, cercando di alleviare i crampi. Si stava irrigidendo. Passò un minuto, poi un altro. Ormai le impronte fuori dalla porta erano diventate quasi invisibili, perse nel biancore che le circondava. Forse se n'era andato davvero. Poi un rumore di passi. L'uomo rientrò nel ripostiglio e si accovacciò nella stessa posizione di
prima: una presenza ingombrante, che riempiva il mondo. La pressione sulle ginocchia di Scott tornò. L'uomo aveva ancora in mano i fogli e il cacciavite, ma stavolta aveva portato anche un'altra cosa. Non tanto un oggetto quanto un odore. Una sensazione di calore. Scott sentì che l'uomo espirava dal naso, quasi un sospiro. «Come ti ho detto, hai qualcosa che voglio.» Lui annuì in fretta. Aveva identificato la fonte dell'odore e del calore: venivano entrambi dal cacciavite che l'uomo teneva in mano. Sapeva perché. La punta era stata arroventata. L'uomo sollevò il cacciavite, e Scott credette di scorgere il vapore che s'innalzava a spirale dalla punta. No, no, no, no, no, no. «E tu me lo darai. Capisci?» Posò i fogli e allungò la mano verso la testa di Scott, che si voltò di scatto. Ma l'uomo lo agguantò, afferrandogli una manciata di capelli sulla nuca. Gli tenne il capo ben fermo. Dio mio, se era forte. Per la fretta con cui gli uscivano di bocca, le parole si accavallarono. «Ti prego, no, non farlo...» «La ami?» Scott non respirava nel modo giusto. Respiri troppo ravvicinati, troppo corti, solo dal naso. L'elettricità scorreva dentro di lui, si accumulava, mentre il suo corpo gli urlava di scappare di lì. Ma non poteva muoversi ed essa continuava ad accumularsi sempre più... Urlò di terrore, in preda al panico. «La ami?» «Si!» L'uomo annuì. «È quello che volevo», disse. E infilò il cacciavite nell'occhio di Scott. 3 dicembre, ore 21.30 9 ore e 50 minuti all'alba Mark In una strada tranquilla e sonnolenta, la presenza massiccia della polizia ha l'effetto di una sirena d'allarme. Luci che lampeggiano attraverso le finestre; pugni che battono sulle porte; gente che distoglie lo sguardo dal televisore per chiedersi cos'è successo. Tutti hanno paura. Fermo sugli scalini d'ingresso della casa di Carl Farmer, guardai la scena
che mi si apriva davanti. Avevamo chiuso l'entrata al complesso residenziale fin dalla strada principale e i veicoli che si trovavano all'interno del cordone - quattro furgoni e tre auto - illuminavano la scena coi lampeggianti blu. In tutte le case, le luci erano accese e molti erano sulla soglia. Sentivo il rumore gracchiante delle radio della polizia e l'eco di voci soffocate. Aveva cominciato a nevicare da poco, appena prima che lasciassimo il dipartimento. Sul terreno c'era già un leggero strato bianco, in alcuni punti annerito dalle impronte di piedi e dalle strisce degli pneumatici. Nevicava ancora, grossi fiocchi che calavano dal cielo. Fitti, pesanti e lenti, riempivano la notte fin dove l'occhio riusciva ad arrivare, confondendosi nel buio. Catturavano la luce dei lampioni, come interferenze color ambra attraverso la strada. L'interno dei quattro furgoni davanti a me era illuminato dalla luce bianca dei monitor, in parte schermata dall'affollarsi davanti agli sportelli dei corpi in impermeabili lucidi. Riuscii a distinguere la mia squadra e guardai l'orologio. Le nove e mezzo: ero ormai al lavoro da dodici ore. Ebbi la tentazione di andarmi a prendere un altro caffè, ma per quello ci sarebbe stato tempo prima d'iniziare a raccogliere le deposizioni. Le deposizioni... Guardai lungo la strada e sospirai. Eravamo in una delle zone migliori della città. L'avevo attraversata per raggiungere la casa di Farmer: la maggior parte delle abitazioni sembrava grande e costosa, abitata da famiglie di mezz'età o da coppie più anziane. Di solito, dovendole interrogare, quello sarebbe stato un elemento promettente, ma la casa di Carl Farmer si trovava nella parte più nuova, quella che dava le spalle al canale. Sebbene si trovasse nel cuore del quartiere, quel nuovo insediamento era tutt'un altro discorso. Stradine secondarie si diramavano dalla strada principale verso capannelli di sei-sette case. Gli edifici erano tutti uguali: mattoni chiari, scalini, davanzali e porte dei garage di legno scuro. Uguali i piani di lavoro delle cucine, le credenze e i pensili. Un unico progetto usato come uno stampo per dolci, così da creare graziose casette bell'e pronte tra cui scegliere se non si voleva starci a pensare troppo. Ciò significava che erano destinate a giovani professionisti. Mancava ogni senso di comunità, lì, e supponevo che nessuno conoscesse bene i propri vicini. Avevo la sensazione che le deposizioni porta a porta si sarebbero rivelate un incubo. Dopo aver aspirato un'ultima boccata d'aria fredda, voltai le spalle alle
luci lampeggianti e mi avviai in cucina. Dentro c'erano due tecnici della Scientifica, che procedevano coraggiosamente coi loro controlli da una parete all'altra. Da quanto era dato sapere, pareva che la casa, proprio come quella in cui era stato ucciso Andrew Dyson, fosse stata un altro nido del killer. Sembrava impossibile che l'uomo di nome Carl Farmer l'avesse tenuta in affitto per almeno un anno senza lasciare la minima traccia dietro di sé. «Trovato niente?» chiesi a un tecnico. «Solo quello che si vede.» Fece un cenno verso il bancone della cucina, che avevo già osservato entrando. E che avevano ovviamente visto, quand'erano arrivati, poco prima, anche gli agenti incaricati di rintracciare i proprietari dei furgoni bianchi ripresi dalle telecamere. Non c'era nessuno degli utensili o dei piccoli elettrodomestici che ci si sarebbe aspettati di trovare: niente tostapane o bollitore; niente briciole né macchie a suggerire che un pasto fosse mai stato preparato in quella cucina. Ma non era del tutto sgombra. Di fronte alla porta era stato piazzato un unico oggetto, in attesa dei poliziotti che prima o poi sarebbero arrivati, e la porta d'ingresso era stata lasciata socchiusa in modo che chiunque si affacciasse alla soglia lo potesse vedere. Era appoggiata contro la parete di fondo del bancone. Sopracciglia scure e cespugliose. Barbetta nerissima. Fori nella plastica rosa come pelle ustionata. Fissai quelle orbite vuote. Il pensiero della conversazione avuta con gli altri in mensa non mi abbandonava. Da una parte, la mia possibilità di negare era sparita una volta per tutte. Più importante ancora, non riuscivo a immaginare che effetto avrebbe fatto a Mercer entrare in cucina e vedere quella cosa. La maschera da diavolo che Carl Farmer aveva lasciato per noi. Il salotto. O almeno quello che sarebbe stato il salotto in una casa normale. I mobili erano ordinari, dato che la casa si affittava già arredata: un salotto di pelle bianca, tavolo e sedie di legno essenziali, un vecchio tavolino che era stato spinto da una parte, contro il muro. Le altre stanze erano spoglie e inutilizzate. Sembrava che Farmer avesse operato solo in quella e non c'erano indicazioni di dove avesse dormito, posto che lo avesse fatto. A parte la maschera, l'unica sua proprietà rimasta in casa era un computer portatile, lasciato acceso sul tavolo nell'angolo.
Presumibilmente la stanza era più affollata in quel momento di quanto non lo fosse mai stata da quando lui aveva preso in affitto la casa. Due tecnici informatici erano al lavoro sul computer, mentre Simon teneva i collegamenti con altri due agenti della Scientifica. Mercer era al centro della stanza, le braccia conserte, e fissava il muro. Greg e Pete erano di fianco a lui, a poca distanza, e commentavano la scena del crimine. Di tanto in tanto, Pete gettava un'occhiata a Mercer, preoccupato. Attraversai la stanza per raggiungerli. «Quanto costa affittare un posto come questo?» chiesi. «Un bel po'.» La neve aveva inumidito i capelli di Pete, facendolo sembrare più sconvolto del solito. Pareva anche stanco, però continuava a snocciolare fatti e dati senza neppure consultare gli appunti. «Settecentocinquanta al mese. Ho parlato col responsabile dell'agenzia immobiliare, che non era felicissimo di essere disturbato a quest'ora.» Greg fece un cenno col capo in direzione del muro che Mercer stava fissando con tanta attenzione. «Sarà ancora meno felice quando verrà a sapere cos'ha combinato Farmer qui dentro.» Un tecnico della Scientifica comparve alle nostre spalle. «Scusate, posso scattare una foto, per cortesia?» Ci spostammo di lato mentre lui preparava la macchina fotografica. Sulla parete, l'uomo conosciuto come Carl Farmer aveva scritto: Nello spazio tra i giorni, avete smarrito il malinconico pastore delle stelle. La luna è svanita e i lupi dello spazio avanzano audaci; l'una dopo l'altra rubano le sue pecore. La parete bianca attorno alla poesia era coperta da disegni di ragnatele simili a quelle trovate sulle altre scene del delitto del 50/50 Killer. Erano state tracciate con un pennarello nero anziché col sangue, ma le somiglianze erano innegabili. Alcune sembravano scarabocchiate. Altre erano state cancellate e poi tracciate di nuovo. In vari casi s'intravedevano le stesse crocette e i segni che sembravano interrompere i fili. Una l'avevamo già identificata: era uguale a quella lasciata a casa di Kevin Simpson. Lì era stata tracciata con più cura rispetto alle altre, che sembravano più che altro scarabocchi senza senso, come se l'autore avesse fatto numerosi schizzi prima di scegliere quella per il disegno finale. L'effetto
era inquietante. Quelle ragnatele attorno alla poesia sembravano strane galassie a spirale attorno a un sole morto. Mi chiesi cosa potesse significare tutto ciò... non tanto i simboli in sé, quanto la scena nel suo insieme. Lasciando la maschera da diavolo in un punto così visibile, sembrava che l'assassino avesse voluto prenderci in giro. O forse sfidarci. Di certo non gli eravamo indifferenti. E poi c'era la parete. Era lo stesso anche per quella? Se era una messinscena che lui intendeva mostrarci, qual era il messaggio? Era inquietante pensare che, mentre io lo immaginavo in quella stanza intento a disegnare sulla parete, l'uomo che vedevo nella mia mente stava a sua volta pensando a me, a un poliziotto. Il fotografo passò nell'altra stanza. Pete infilò le mani in tasca e tirò su col naso. «Comunque l'agente immobiliare sta venendo qui.» «Cosa sappiamo finora di Farmer?» chiesi. Pete lasciò la risposta a Greg. «Ha trentun anni. Non è sposato e, per quanto ne sappiamo, non ha figli. Nessun precedente. Risulta impiegato in un'azienda idraulica, ma di certo scopriremo che è solo una copertura. Come tutto il resto, probabilmente. I ragazzi in ufficio stanno controllando tutti i dettagli, ma sembrerebbe un'identità fittizia come quella di Frank Walker. Solo un altro personaggio di carta.» Pete si guardò attorno, come se la stanza fosse pericolante e dovesse venir giù il soffitto da un momento all'altro. Poi riprese il filo. «L'agente dice che Farmer ha pagato un anno di affitto anticipato, compresa la cauzione: oltre diecimila sterline. Credo che siamo tutti d'accordo nel considerarli un bel po' di soldi da buttare via.» «Perciò, qualunque cosa faccia, deve guadagnare bene», suggerì Greg. «Probabilmente è ricco di suo», intervenne Mercer. Mi voltai verso di lui. Stava ancora studiando i disegni sulla parete. Era immerso in quelle linee, come se fossero un linguaggio che avrebbe potuto decifrare se solo ne avesse fissato i segni abbastanza a lungo. «Lei crede?» chiese Greg. Mercer indicò la parete. «Guarda qui. A me sembra che abbia buttato giù diversi schizzi, andando per tentativi fino a quando non è stato soddisfatto. A noi possono sembrare disegni casuali, ma c'è un metodo. Per lui sono importanti. E non ce lo vedo a darsi da fare per tenersi un lavoro capace di garantirgli una simile disponibilità di denaro.» Greg sembrò voler obiettare qualcosa, ma non lo fece. «Immaginatevelo qui», mormorò Mercer, quasi rivolgendosi a se stesso. «Deve averlo assorbito completamente. Per arrivare alla perfezione. Ha ri-
chiesto tutto il suo tempo. È questo il suo lavoro.» «C'è anche l'equipaggiamento di sorveglianza», aggiunsi. Mercer mi guardò. «Cosa vuoi dire?» «Be', studia le sue vittime. Forse per mesi. Non avrebbe tanto tempo da dedicare a questa attività se dovesse anche occuparsi di un lavoro.» Mercer mi fissò per un momento, impassibile, poi si girò di nuovo verso la parete, annuendo. Evidentemente avevo solo metà della sua attenzione. Era concentrato sui disegni, cercava di catturare un dettaglio che gli sfuggiva. Gli ero stato d'aiuto o l'avevo intralciato? Lo lasciai riflettere. «E quei versi?» chiesi. Greg tirò su col naso. «Abbiamo fatto una prima ricerca su Internet senza trovare nulla. Il che non vuol dire che non ci sia niente, ma la mia sensazione è che li abbia scritti Farmer o come cavolo si chiama.» Probabilmente aveva ragione. Da una parte - in maniera ancor più evidente della maschera sul bancone - i versi sembravano indirizzati a noi. Nello spazio tra i giorni, / avete smarrito il malinconico pastore delle stelle. E anche il contenuto pareva adattarsi a ciò che aveva fatto, a quello che aveva indossato. Sembrava pure che i versi occultassero un elemento religioso. Ma fino a che punto potevamo prenderlo alla lettera, pur ammesso che fosse vero? E quale significato aveva per lui? Si considerava un lupo dello spazio, che prendeva «noi», l'uno dopo l'altro? Aprii la bocca per esprimere a voce alta qualcuna delle mie riflessioni, ma Pete mi diede una gomitata e mi fermai. Mercer stava ancora fissando la parete, però la sua espressione era cambiata. Se prima era con noi solo a metà, adesso era totalmente assente, assolutamente immerso in quello che stava osservando. Il suo sguardo saettava da un disegno all'altro, da una parte all'altra. Cambiò di nuovo espressione. Mi fece venire in mente il levarsi del sole. In Mercer si era acceso un barlume di comprensione, e il suo viso s'illuminò, come se stesse superando la linea dell'orizzonte. Era sul punto di... «Signore?» Uno della squadra informatica di Greg ruppe l'incantesimo, chiamandolo dall'altra parte della stanza. Pete s'irrigidì leggermente e lanciò un'occhiataccia al tecnico. L'espressione di Mercer si congelò, poi lui scosse il capo con rimpianto, archiviando il pensiero formato solo a metà. Il tecnico sventolò un foglio, inconsapevole di aver interrotto un momento di grazia. «Signore, dovrebbe dare un'occhiata a questo.» Pete andò verso di lui, prese il foglio e tornò indietro, passandolo a Mer-
cer. Era una stampata della Motorizzazione. All'inizio avevamo ottenuto soltanto gli indirizzi dei proprietari dei sei furgoni, ma adesso i ragazzi della squadra avevano scaricato la patente completa di Carl Farmer. Ne aveva chiesto il rinnovo negli ultimi cinque anni, per cui la nuova patente era corredata anche della fotografia del titolare. I tecnici l'avevano ingrandita fino alle dimensioni di un foglio A4. Se non altro, adesso avevamo una faccia. Carl Farmer ci fissava con espressione vuota. Aveva un viso sottile e la pelle che sembrava butterata, secca e incartapecorita, come se lui fosse stato ripetutamente pestato e poi guarito male. I capelli scuri erano una massa arruffata. L'espressione era vuota, priva di vita. E gli occhi sembravano respingerti, come mani puntate sul petto. Mercer fissò intensamente la foto, come aveva fatto coi disegni sulla parete. Come se ci scorgesse più di quello che si vedeva. Per tutto il giorno avevo notato quanta attenzione ponesse a ogni minimo dettaglio del caso ma lì, nel covo del killer, sembrava essere salito di un livello. Come se captasse informazioni parziali su una lunghezza d'onda che noi non potevamo cogliere. Cercava di mantenersi calmo e di ascoltare con attenzione, ma percepivo attorno a lui un'aura di panico, sebbene tenuto a freno. Speriamo di trovare quelle due persone prima dell'alba... Perché Dio solo sa cosa ne sarà di lui se non ci riuscissimo. «Teniamo conto che probabilmente questo non è lui», ci ammonì Greg. «Tu credi?» chiese Mercer, senza distogliere lo sguardo. «Potrebbe essere chiunque. Finora è sempre stato fin troppo attento.» «Sta ancora attento, Greg, continua a essere abile e controllato. Ma ci ha messo due anni per progettarlo: forse sono cambiate le cose alle quali stare attento.» Greg si voltò. «Sarebbe un errore da principiante. Non è lui.» Mercer continuò a fissare la foto, ma dopo un attimo inclinò la testa. «Forse hai ragione. Lo scopriremo, in un modo o nell'altro. Di certo qualcuno è.» Mi passò la foto. «Perciò vediamo se i vicini di Farmer hanno idea di chi sia.» Le suole scricchiolavano e schiacciavano la neve sotto le scarpe mentre andavo a raggiungere la mia squadra. Erano tutti infagottati in cappottoni e guanti neri, i volti arrossati dal freddo. Ross mi allungò una tazza di plastica fumante.
«Caffè, signore?» «Grazie.» Ci soffiai sopra. Avevano già avuto una copia della foto di Farmer, trasmessa al computer che c'era nel furgone. Spiegai loro che dovevamo raccogliere qualsiasi cosa: le impressioni su quell'uomo, i dati sul suo aspetto e sul suo modo di fare, quand'era stato visto per l'ultima volta, gli eventuali conoscenti. «Ha vissuto qui per circa un anno», dissi. «In tutto questo tempo, qualcuno deve averlo conosciuto o aver scambiato qualche parola con lui. Almeno devono averlo visto.» Guardai il cerchio di case attorno alla strada senza uscita. Gli edifici erano seminascosti dalla neve che continuava a cadere, a quanto pareva sempre più fitta. «Qualcuno deve averlo conosciuto», ripetei. C'erano sedici tra case e appartamenti e, nonostante le mie riserve iniziali, avevamo buone probabilità di raccogliere qualche informazione su Carl Farmer. Ma, da una casa all'altra, ottenemmo sempre la solita risposta. Non solo i vicini di Farmer non l'avevano mai visto né avevano mai parlato con lui, ma non sapevano neppure come si chiamasse. Qualche volta il furgone era parcheggiato fuori, altre volte no; le tende erano a volte aperte e a volte chiuse; la luce all'interno si accendeva e si spegneva. Aveva fatto il possibile per non farsi notare. La mia prima impressione si era rivelata tristemente esatta. Le persone che vivevano lì erano giovani professionisti pieni di soldi che cercavano semplicemente un posto carino e piacevole in cui passare le poche ore che non trascorrevano in ufficio. Alla fine della giornata, rientravano «in sede», come dossier archiviati ognuno nel proprio classificatore. Il 50/50 Killer non avrebbe potuto trovare un posto migliore in cui annidarsi. La sesta casa in cui Ross e io ci presentammo era proprio di fronte a quella di Farmer. La porta d'ingresso in cima agli scalini era aperta su una cucina luminosa, e una giovane donna stava sulla soglia. Le andammo incontro, calpestando la coltre di neve sempre più spessa. La donna era avviluppata in un grosso cappotto nero e si appoggiava al divisorio: una massa di riccioli chiari raccolti in alto e la testa china sulla tazza di caffè che teneva tra le mani. Quando ci fermammo di fronte a lei, ci scoccò un breve sorriso. Il mio primo pensiero fu che era di gran lunga troppo giovane per potersi permettere un posto come quello. E che io avevo decisamente scelto il lavoro sbagliato. «Salve.» Le mostrai il distintivo. «Sono il detective Nelson e questo è l'agente Ross. Spiacente di disturbarla, ma spero che non le ruberemo
troppo tempo.» «Non c'è problema.» «Posso sapere il suo nome, per favore?» «Megan Cook.» «Lieto di conoscerla, Megan. Come dicevo, non ci vorrà molto. Stiamo cercando di scoprire qualcosa sull'uomo che abitava di fronte a lei.» Lei sorseggiò la sua bevanda, e me ne arrivò il profumo. Non era caffè, ma cioccolata calda. «A essere sincera, non credo di poterla aiutare.» «Be', abbiamo già chiesto a molti dei vicini, e nessuno di loro sembra saperne molto.» «Non mi stupisce. Credo di aver parlato al massimo con tre dei miei vicini, da quando abito qui. È una strada così.» «Sì, ho avuto anch'io la stessa impressione. Quindi non conosce Mr. Farmer?» «È così che si chiama? No, mi dispiace, non l'ho mai incontrato.» «Mai avuto qualche contatto con lui?» «L'ho visto stamattina.» Arricciò il naso. «Ma immagino non conti.» «No, va bene anche quello.» Sentii un rimescolio nello stomaco, ma feci del mio meglio per mantenere un tono controllato. «Dove l'ha visto e più o meno a che ora?» Con la tazza fece un cenno in direzione della strada. «Laggiù. È arrivato e ha parcheggiato davanti alla casa, ma non sono sicura dell'ora. Verso le undici? Mah, qualcosa del genere.» «Bene.» Non precisissimo, ma comunque non male. Feci qualche calcolo mentale. Farmer aveva telefonato alla CCL attorno alle otto e presumibilmente aveva lasciato la casa di Kevin Simpson subito dopo. Tre ore più tardi parcheggiava davanti a casa sua o comunque a una delle sue case. Cosa aveva fatto nel frattempo? «L'ha visto arrivare?» chiesi. «Sì, ero al telefono, davanti alla finestra.» Megan ci spiegò che era una programmatrice web freelance, e svolgeva la maggior parte del lavoro da casa. Era un dossier che non lasciava mai il suo classificatore. Che fosse stata al telefono risultava particolarmente utile: avremmo potuto controllare i tabulati e scoprire l'ora esatta. «E prima di oggi non l'aveva mai visto?» «Non credo. Qualche volta ho visto il furgone. Immagino sia per quello che stamattina l'ho notato. Allora è lui quello del furgone, capisce cosa intendo? Un cosa tipo: 'Ehi, ecco che faccia ha il mio vicino'.»
Le porsi la foto della patente. «Sì, è lui», confermò. Il rimescolio nello stomaco aumentò. Senza volerlo ammettere, avevo condiviso i dubbi di Greg sull'autenticità della foto. Ma adesso avevamo una conferma. Solo una, certo. Me ne servivano altre. Tuttavia, a meno che Megan non stesse mentendo, era una buona dimostrazione che l'uomo della foto era proprio quello che stavamo cercando. E non credevo che la donna mentisse. Ripresi la foto. «Cosa stava facendo quando l'ha visto?» «Ha parcheggiato ed è rimasto un momento seduto alla guida. Poi è entrato per un po'.» «Per quanto tempo?» «Non per molto. Sono rimasta al telefono giusto un minuto e l'ho anche visto uscire, quindi non ci è rimasto a lungo. È risalito sul furgone e se n'è andato.» Quindi doveva aver già sgomberato la casa. Perché era tornato? Non potevo esserne certo, ma tirai a indovinare. Era tornato per lasciarci la maschera da diavolo. «Cos'ha fatto?» chiese Megan. «Temo di non poter entrare nei dettagli.» «Voglio dire... devo preoccuparmi?» chiese lei. Non risposi. Ero occupato a pensare a cos'aveva fatto davvero il 50/50 Killer, e a cosa era successo lì. Aveva tenuto in ostaggio Kevin Simpson per tutta la notte, l'aveva torturato e poi ucciso all'alba, lasciando la sua solita firma... Tuttavia, al di là di quello, aveva tenuto un comportamento diverso rispetto agli altri casi. La natura del gioco era cambiata. Aveva fatto una telefonata e ci aveva lasciato la registrazione. Aveva lasciato un messaggio per noi in quella casa, dove sapeva che l'avremmo seguito. E c'era anche un'insolita mancanza di cura dei dettagli: avevamo scoperto che faccia aveva. Prima di allora non si era mai lasciato vedere. Sì, continuava a essere abile e controllato, come aveva detto Mercer. Però era tornato lì quando la caccia era già in corso. Era possibile, anche se non probabile, che noi arrivassimo in tempo per catturarlo. Mi suonava strano: su certi dettagli era precisissimo, ma poi commetteva l'errore di farsi vedere. Insomma, più ci riflettevo, più l'analisi di Mercer mi convinceva: il nostro killer continuava a stare attento, però erano cambiate le cose alle quali prestava attenzione. Ha avuto due anni di tempo per progettarlo... Giusto, ma ciò significava che, sebbene la sua cautela non fosse diminuita,
celare la propria identità non era più così importante. Perché? Megan mi fissava, incuriosita, e io mi resi conto che mi ero estraniato, proprio come Mercer. Cercai di darle una risposta rassicurante. «No, non tornerà più.» Non potevo dirle di più. E neppure di quello ero del tutto certo. Di ritorno al furgone, mi fregai le mani e le avvicinai al viso: erano fredde e intirizzite. Non percepivo altro che il gelo della mia stessa pelle: una semplice pressione, priva di altre sensazioni. Avevo deciso di lasciare le ultime due visite a Ross. Avevo bisogno d'inserire al più presto nel file la deposizione di Megan e d'informare Mercer dell'identificazione della foto. Sganciai l'equipaggiamento di registrazione e lo porsi al tecnico. Mentre lui scaricava i dati, lanciai uno sguardo verso l'ingresso della strada e vidi i giornalisti dietro il cordone. C'erano automezzi, gruppi di reporter, grosse telecamere in bilico sulle spalle. Un attimo dopo, Pete si fece largo tra la gente e superò il cordone. La neve cadeva ancora fitta e lui aveva i capelli zuppi, ma sembrava che non fosse il tempo a infastidirlo. In fondo, la neve era solo neve: lui aveva ben altre cose di cui preoccuparsi. Immaginai che avesse trascorso diversi minuti a mentire ai reporter, il che non era mai piacevole. Riuscivano sempre a fiutare le bugie e prima o poi te le ritorcevano contro. Pete tornò verso la casa di Farmer. Mercer era sulla soglia, una sagoma scura appoggiata al corrimano, lo sguardo perso oltre la strada sbarrata sotto di lui. Da quella distanza, con le spalle rivolte verso di me, la sua figura si prestava a diverse interpretazioni. Forse non si curava della neve che continuava a cadergli attorno. Forse era perso nei suoi pensieri e osservava la notte. Oppure era semplicemente esausto e si appoggiava alla ringhiera per sostenersi. Non avevo modo di saperlo. La sua indifferenza alla neve era un gesto di sfida o di resa? Quando il suo vice lo raggiunse, lui non sembrò neppure accorgersene, ma Pete gli si mise accanto, si appoggiò alla ringhiera e fissò la notte insieme con lui. Rimasero in silenzio, due figure nere affiancate sotto la neve. Il nostro dovere è quello che abbiamo sempre fatto: offrirgli tutto il sostegno che possiamo. «Pensateci voi a finire», dissi agli agenti dietro di me.
E poi, con la foto in mano, mi diressi verso la casa. 3 dicembre, ore 22.40 8 ore e 40 minuti all'alba Jodie Non appena era rimasta sola, la prima cosa che Jodie aveva fatto era stata seguire il consiglio della voce interiore e fare l'inventario della situazione: dov'era e di cosa disponeva che potesse aiutarla ad arrivare da qualche altra parte. Il «dove» era abbastanza facile, a patto di non voler essere troppo precisi. L'uomo con la maschera da diavolo li aveva fatti camminare nel bosco, portandoli in un luogo che doveva avere in mente fin dal principio. C'era la radura tra gli alberi in cui aveva già preparato una grande falò. C'erano grossi ciocchi già impilati e lui aveva sistemato una grande lamiera arrugginita sopra quattro colonne di pietra, per mantenere asciutto il combustibile. Attorno alla radura c'era una serie di vecchie strutture di pietra, la maggior parte delle quali distrutta sino alle fondamenta. In effetti, erano tutte in rovina tranne due. L'uomo aveva ordinato a Scott di aspettare accanto al falò ancora spento. Lui aveva obbedito, rimanendo immobile e a capo chino. Con un semplice gesto del coltello, Jodie era stata indirizzata attraverso la radura, verso uno dei due edifici di pietra. Pure lei aveva obbedito, chinandosi per entrare. Era un vecchio sgabuzzino, largo appena a sufficienza per muoversi. In fondo, c'era una pila di lastre di granito accatastate, coperta di muschio e ragnatele. Anche le pareti avevano lo stesso aspetto: erano percorse da venature verdastre e coperte dai filamenti grigi e polverosi. Jodie si era fermata, ma l'uomo l'aveva spinta in avanti. Aveva capito quello che voleva da lei. Siediti. Lei l'aveva fatto. La figura dell'uomo si era stagliata nel vano della porta, poi lui aveva chiuso il battente di legno e lo stanzino era piombato nell'oscurità totale. Jodie aveva sentito che, in quell'oscurità, stava sprofondando anche una parte del suo cuore. Un istante dopo, c'era stato uno scatto metallico. La porta era stata chiusa. Tutto lì: niente parole né minacce. Niente.
Sola nel buio pesto. Senza più nulla da osservare, nemmeno la voce aveva consigli da darle. Per qualche secondo, Jodie si era lasciata sopraffare dal panico, da un panico allo stato puro, mentre l'oscurità attorno a lei pareva riempirsi di riccioli di luce. Poi si era sforzata di ritrovare la calma. Dove sei? Che cosa sai? Le domande erano insistenti e lei aveva cercato qualche risposta. Quattro, forse cinque chilometri all'interno del bosco, ammanettata nel freddo gelido in una vecchia costruzione. Uno di quei posti in cui si tengono da parte le cose in attesa che tornino utili. L'uomo aveva preparato il falò in anticipo, perciò era evidente che li tratteneva lì per qualche ragione. Poi c'era la borsa. Aveva portato qualcosa con sé, in quella borsa. Attieniti a quello che sai per certo, suggerì la voce. Non molto tempo dopo che la porta si era chiusa, attorno al battente era apparso un contorno giallo baluginante. Lui aveva acceso il fuoco. Doveva avere con sé della benzina, o qualche liquido infiammabile, perché aveva cominciato ad ardere in fretta. Lo sentiva scoppiettare, il legno che si gonfiava e crepitava. Quasi subito le era anche arrivato l'odore di carbone del fumo. Ma non il calore, pensò lei. Almeno non abbastanza. Non ci pensare. Cos'hai addosso? La borsa non ce l'aveva più, ovviamente, e con essa il cellulare. Quell'uomo non era così stupido. Che altro, allora? Difficile frugarsi in tasca in quello spazio ristretto, soprattutto con le mani ancora ammanettate davanti, ma lei si era arrangiata come poteva. Piegandosi in due, si era tastata i pantaloni. Chiavi di casa, qualche spicciolo... Potevano servire? All'università aveva frequentato un corso di autodifesa e le tornò in mente uno dei suggerimenti meno improbabili. Si poteva gettare in faccia all'aggressore una manciata di monetine. Stringi tra le dita un mazzo di chiavi e procurati un pugno di ferro. Tutte soluzioni decisamente disperate. Eppure anche un vantaggio di poco conto era comunque un vantaggio. Mai scartare nulla. Poi il cappotto. Nelle tasche esterne c'erano un paio di vecchi scontrini, di cui persino l'istruttore di autodifesa avrebbe ammesso l'inutilità. L'iRiver nella tasca interna. Se non altro, aveva quello. Probabilmente un esperto di elettronica sarebbe riuscito a smontarlo e a modificarlo per trasmettere un segnale di soccorso, ma a lei non veniva in mente nessun modo di u-
tilizzarlo. Cercando di richiamare alla memoria il manuale d'istruzioni, le sembrava di ricordare che poteva anche ricevere i segnali radio, ma non l'aveva mai usato in quel modo e non avrebbe saputo come fare. Forse avrebbero parlato di loro nei notiziari. Fuori era buio, il che significava che ormai era sparita da un po'. Cos'era successo in ufficio quando non l'avevano vista tornare? Probabilmente niente. Sarebbe stato troppo sperare che ci fossero già squadre di ricerca a setacciare il bosco per ritrovarli. Michaela avrebbe rammentato al capo che non si era sentita bene, perciò al massimo l'avrebbero cercata sul cellulare, che non aveva più, o a casa, dove non c'era nessuno a rispondere. Possibile che qualcuno avesse sentito o visto qualcosa a casa di Scott quando l'uomo lo aveva aggredito? Ma, anche se avessero denunciato la loro scomparsa, la polizia non aveva idea di dove cercarli. Erano soli, alla mercé di quell'uomo. Il tempo passava. Jodie non riusciva a fare a meno di pensare a Kevin. Colpa e disperazione minacciavano di sopraffarla, eppure non poteva farne a meno. Come aveva potuto fare una cosa del genere a Scott? A tutti e due? Aveva pensato a tutti i modi in cui lo aveva tradito e si era resa conto che forse non avrebbe mai avuto la possibilità di spiegarsi. La voce l'aveva avvisata di smettere. Poi Scott cominciò a gridare. Jodie sedeva nella semioscurità, la mente altrove, ma, quando sentì l'urlo, tornò bruscamente al presente, col cuore che batteva forte nel petto. Era un suono orribile, la cosa peggiore del mondo, e mai come allora avrebbe voluto correre da lui, aiutarlo, far smettere quell'individuo, qualunque cosa gli stesse facendo. Calmati. Gli urli continuavano. Avrebbe voluto scagliarsi contro le pareti di pietra fino ad abbatterle, prendere a calci la porta fino a distruggerla. Invece rimase seduta, tremante, terrorizzata, e poi cominciò a piangere per la frustrazione e la paura, battendo i pugni sulle cosce, ancora e ancora. Era legata in uno sgabuzzino, in mezzo a un bosco. Un mostro che pareva uscito da un incubo stava torturando Scott, gli faceva del male per puro divertimento. Da esseri umani erano stati ridotti a giocattoli. Lei, loro sarebbero morti in quel posto. Avrebbero sofferto più di quanto avessero mai sofferto prima, e poi sarebbero morti.
Continuò a lungo, mentre Jodie si dondolava piano, cercando di non ascoltare. A volte si quietava e allora lei sentiva la voce dell'uomo che parlava dolcemente a Scott e lui che rispondeva. C'era un tono cospiratorio in quelle conversazioni, qualcosa di orribilmente intimo. A volte lo sentiva singhiozzare. Ma la cosa peggiore erano gli urli. Le spezzavano il cuore. Sembrava un animale. Era troppo. Prese a calci la porta, ma, per quanto fosse vecchia, era solida e non si ruppe. Non si mosse neppure. Infilò le dita nelle fessure da cui trapelava la luce, tra il legno e la pietra, e la scrollò: niente. Lungo la cornice, in alto, c'era un buco in cui Jodie riuscì a infilare un dito. Cercò di tirare. Non ottenne nulla. Allora premette l'occhio contro il foro. Vide il fuoco che ardeva e le fiamme che lambivano la superficie della lamiera. Nevicava. L'aria era fitta di fiocchi silenziosi e il terreno era bianco. Nient'altro. Eppure continuò a guardare. Dopo un po', comparve l'uomo con la maschera da diavolo e si diresse verso il fuoco. Aveva in mano un cacciavite. A Jodie mancò il fiato. L'uomo si accovacciò accanto a uno dei pilastri di pietra e mise la punta del cacciavite tra le fiamme. Lo faceva ruotare, mentre la neve cadeva attorno a lui. Sulla punta qualcosa prese fuoco, bruciando velocemente. Jodie si rimise a sedere. Era insopportabile. Ma non ascoltare era impossibile. A meno che non fosse miracolosamente riuscita a escludere tutto. Non sfuggirgli. La voce non sembrava più sicura di sé, però continuava a insistere su quel punto. Non sfuggirgli. Ricorda. Usalo al momento buono. Quindi Jodie ascoltò gli urli di Scott, il suo pianto. Strinse i denti e cercò di sfruttare quello che sentiva per costruirsi una nuova risolutezza interiore. L'uomo che stava facendo tutto quello avrebbe pagato per ogni secondo di sofferenza. Non importava come, ma non avrebbe permesso che succedesse anche a lei. Te la caverai. E, non appena si presenterà l'occasione, gliela farai pagare. A un certo punto, i rumori cessarono. Si sentiva solo il fuoco. Jodie atte-
se, ma l'urlo successivo non ci fu. Niente più conversazioni a bassa voce. Niente pianti. Solo il crepitio e lo scoppiettio delle fiamme che divoravano il legno. Jodie trattenne il fiato, contando lentamente fino a dieci e poi fino a venti. E poi ancora, e ancora. Niente. Scott era morto? Tutto divenne vagamente confuso. Ricordava di essersi svegliata insieme con lui, quella mattina, una vita fa. Sembrava inconcepibile che se ne fosse andato. Se non fosse già stata seduta, sarebbe caduta a terra. Comunque si afflosciò, improvvisamente debole, e le stelle si affacciarono nella sua testa. Stava per svenire. Lo avrebbe voluto, in effetti. Avrebbe voluto svenire e poi risvegliarsi alla fine di tutto, oppure non svegliarsi affatto. Sta' attenta! No. Non ne poteva più di quella voce. Aveva sempre fatto quello che l'uomo aveva voluto. Aveva le chiavi con cui colpire, le monetine da scagliargli addosso. Sapeva vagamente dove si trovava. Aveva cercato di restare calma, ma adesso Scott era morto. Non avrebbe più ascoltato la voce. Jodie frugò goffamente nella tasca interna del cappotto, tirò fuori gli auricolari. Forse non sarebbe svenuta, ma almeno avrebbe trovato il modo di escludere la voce. Di escludere tutto, per un po'. Le tremavano le mani per il freddo e per la paura. Prima un orecchio, poi l'altro. Pigiò il pulsante per accendere il lettore e aspettò il caricamento della libreria. Trascorsero i secondi. Finalmente un bip. Un altro bip. Una debole musica le filtrò nelle orecchie - quella che stava ascoltando nel terreno abbandonato; aveva ripreso dal momento in cui si era interrotta - e il volume crebbe lentamente. Sempre più forte, a coprire il crepitio delle fiamme, a riempirle la testa, a scacciare i pensieri. Chiuse gli occhi e svuotò la mente. Pochi minuti dopo, sentì una corrente d'aria sul viso. La porta della sua cella si stava aprendo, ma lei continuò a tenere gli occhi chiusi. Non ascoltò quello che l'uomo le stava dicendo. Non pensò a nulla. PARTE TERZA «Può sembrare un paradosso, ma accade spesso che un'indagine venga offuscata dai fatti. Più elementi si scoprono, più diventa difficile comprendere il modo in cui s'incastrano. Come capo di
una squadra, si ricevono continui aggiornamenti sul caso e, tra le capacità più ardue da imparare, c'è il saper distinguere cos'è davvero importante e cosa può, per il momento, passare in secondo piano. Col procedere degli sviluppi, spesso inaspettati, e con l'accumulo delle prove, si rischia insomma di 'perdersi nei dettagli'. «Pertanto, quando si conduce un'indagine, è spesso necessario fare un passo indietro, di tanto in tanto. Per quanto i nudi fatti - e le prove che li dimostrano - rimangano i pilastri del caso, è facile lasciarsi sopraffare dai dettagli e perdere di vista il quadro generale. Se succede, l'unica soluzione è prendere le distanze, almeno in parte. Allontanarsi di qualche passo, in modo da osservare l'immagine complessiva con un unico colpo d'occhio.» da Il danno è fatto di JOHN MERCER 4 dicembre, ore 00.45 6 ore e 35 minuti all'alba Mark Quasi l'una del mattino. Nevicava ancora e le strade erano sotto una coltre bianca. Bisognava guidare con molta attenzione, soprattutto dopo una giornata così lunga. Ma Greg reggeva il volante con una mano sola. Con l'altra enumerava sintomi e traumi, continuando a lanciarmi occhiate per essere certo di avere tutta la mia attenzione. E di sicuro ce l'aveva. «Ipotermia, congelamento, stato di shock, Dio solo sa che altro. Voglio dire, guarda che tempo del cazzo!» Annuii, sbirciando attraverso il parabrezza. La neve si allargava dal cielo: silenziosa, inesorabile e fitta. I tergicristalli del furgone continuavano a gemere da una parte all'altra, ma almeno una dozzina di manciate di grossi fiocchi bianchi e umidi continuava a posarsi sul vetro tra un passaggio e l'altro. Nonostante il riscaldamento al massimo, avevo ancora le mani gelate, dopo essere stato in giro a ispezionare i dintorni della casa di Carl Farmer. Noi due eravamo sul terzo furgone, Mercer e Pete sul secondo, Simon sul primo. Gli altri si trovavano poco più avanti. Stavamo puntando verso l'ospedale. Lo stordimento dovuto a quella lunga giornata aveva annullato gran parte delle mie ricerche preliminari sulla topografia cittadina, ma rite-
nevo che mancasse poco. Sempre che non ci schiantassimo prima, ovviamente. Il rapporto era arrivato non appena avevo finito d'inserire il resoconto delle deposizioni porta a porta. Un paio d'ore prima, un uomo seminudo era corso fuori dal bosco a nord della città, sulla circonvallazione, dov'era stato quasi investito da un'auto di passaggio. Gli occupanti del veicolo, Neil e Helen Berry, avevano inchiodato appena in tempo e poi avevano chiamato la polizia. L'uomo aveva raccontato che lui e la sua ragazza erano stati rapiti e tenuti in ostaggio nel bosco, e che la sua ragazza era ancora là. Secondo il rapporto, l'uomo aveva riportato diverse ferite. I dettagli erano interessanti, ma - anche ammettendo che il killer avesse cambiato il suo modus operandi - trattenere le vittime in un bosco si discostava notevolmente dai precedenti delitti. Però il rapporto forniva anche il nome della vittima, Scott Banks. E la sua ragazza era Jodie McNeice. I nomi erano più che sufficienti. Dieci minuti dopo aver ricevuto il rapporto, eravamo già per strada. Pronti a interrogarlo. «I medici non ci permetteranno di parlare subito con lui», disse Greg. «Può darsi di sì.» Dipendeva dalle sue condizioni e, almeno per ora, non avevamo la più pallida idea di quali fossero. A giudicare dal freddo che avevo - ed ero ben coperto -, Greg aveva probabilmente ragione sull'ipotermia e sul congelamento. Se Scott Banks era rimasto all'aperto anche soltanto per poco, di certo non poteva star bene. E, se le altre ferite erano serie, i medici non ci avrebbero neppure permesso di avvicinarci a lui, non subito. Ma, nel contempo, Mercer non si sarebbe lasciato dissuadere facilmente. Avevo l'impressione che, a casa di Farmer, ci fossimo sentiti tutti impotenti, incerti su come procedere. Avevamo tempo fino all'alba per trovare le prossime vittime del killer, ma nessuna indicazione su dove cominciare a cercarle. Per una volta, lo stesso Mercer era apparso disorientato quanto noi. Quando gli avevo confermato l'identificazione della fotografia, mi aveva dato ascolto, però era evidentemente distratto da altre preoccupazioni. C'era in gioco la vita di due persone, dopotutto. Perciò era impaziente, smanioso che accadesse qualcosa, ma anche frustrato per non avere idea della direzione in cui muoversi. Poi era arrivato il rapporto ed era apparso evidente che lui stava aspettando proprio quello, o qualcosa del genere. Si era subito galvanizzato: di nuovo in pista. Non invidiavo chiunque avesse dovuto dirgli di no in un momento simile.
«Tu hai già interrogato vittime prima d'ora, vero?» chiese Greg. «Certo.» Anche se mai in una situazione del genere, dovevo ammettere. Però, sì, avevo esperienza con vittime traumatizzate. Sapevo come fare. «Nervoso?» «Non proprio», risposi. «Non vedo l'ora.» In un certo senso, era vero. A livello puramente pratico sapevo che si trattava di una grande occasione: sfruttare le mie competenze e nel contempo incidere direttamente sull'indagine. Tuttavia mi sentivo anche molto più nervoso di quanto volessi ammettere. Ripensando al filmato di Daniel Roseneil, non mi si prospettava un'esperienza facile né piacevole... d'altra parte parlare con le vittime non lo è mai. Ma c'era dell'altro. Nonostante la stanchezza, ero teso. Diedi uno sguardo all'orologio, e Greg se ne accorse. «Sono esausto», disse. «Anch'io.» Un minuto più tardi, svoltò a sinistra, seguendo Pete e Simon nel parcheggio davanti al pronto soccorso. Era una vasta distesa d'asfalto in fondo alla quale sorgeva l'edificio dell'accettazione, le luci così brillanti da ferirmi gli occhi. In alcuni punti, il terreno era coperto da una solida coltre di neve, in altri era segnato e ridotto in fanghiglia dai solchi degli pneumatici. Pete e Simon arrivarono coi loro furgoni fino all'ingresso delle ambulanze. Greg li seguì, parcheggiò accanto a loro e scendemmo tutti. Un paio di paramedici in divisa verde fumavano davanti all'ingresso. Entrando, li salutammo con un cenno del capo; ci restituirono il saluto, imperturbabili per l'arrivo di cinque poliziotti a quell'ora della notte. All'accettazione, sulla sinistra delle porte scorrevoli, c'erano file di sedie di plastica arancione avvitate a strutture metalliche, separate da macchinette distributrici e tavolini da quattro soldi. Almeno metà delle sedie era occupata. Due adolescenti si dondolavano sui talloni davanti a un terzo, seduto e vagamente stordito, che si reggeva la fronte sanguinante. Un uomo più anziano, in jeans, sedeva imperiosamente contro la parete opposta, le braccia incrociate alte sul petto, quasi a sottolineare il volto paonazzo a causa delle sbronze continue. Poche sedie più in là c'era una coppia, con una bambina piccola in lacrime che teneva il braccio teso lontano da sé, come se fosse un uccello morto trovato in giardino. Un ubriaco giaceva ammucchiato in un angolo. Una vecchia macilenta aspettava su una sedia a rotelle, la pelle color dell'aceto. Tre coppie più giovani erano sparpagliate in giro, tutti gli uomini avevano l'aria di essere alticci. Quella mattina, il Dipartimento di polizia mi aveva fatto venire in mente
la sala d'aspetto di un medico. Adesso stavo attraversando la sala d'attesa di un ospedale che somigliava a quella di una stazione di polizia. Diretto verso il banco dell'accettazione, mi sentivo addosso gli occhi di tutti i presenti. In alto, scorrevano rossi messaggi digitali: LE VISITE NON AVVENGONO IN BASE ALL'ORDINE DI ARRIVO... CHI È ARRIVATO PRIMA NON ENTRA PER PRIMO... TEMPO MEDIO D'ATTESA PREVISTO: 2 ORE. Oltre il banco, aspetto e rumori erano simili a quelli di qualunque altro ufficio: trilli smorzati di telefoni, dita che battevano sui tasti, ronzii e mormorii dell'equipaggiamento informatico. Il banco era ampio e profondo, e lo presidiava una giovane infermiera che sollevò lo sguardo e sorrise. Mercer si appoggiò al piano e non tentò neppure di ricambiare il sorriso. «Sergente John Mercer», disse. «Dobbiamo vedere un certo dottor Li. A proposito di Scott Banks.» «Un momento.» Lei alzò il telefono e compose un numero. I ragazzi ubriachi alle nostre spalle, del tutto indifferenti alla nostra presenza, inscenarono una finta rissa, rivivendo la scaramuccia che li aveva condotti lì. Uno sferrava uppercut nel vuoto. Qualunque cosa avesse fatto al suo immaginario nemico, ne sembrava molto fiero, mentre a me pareva vagamente alienato. «In fondo al corridoio a sinistra», ci disse l'infermiera, sporgendosi oltre il bancone per indicarci la direzione. «Sala d'attesa undici.» «Grazie.» La sala d'attesa undici era una stanzetta angusta, appena sufficiente a contenerci tutti e cinque. Non c'era nulla su cui sedersi, a parte un lettino alto, ricoperto da un lenzuolo monouso alimentato dal rotolo che stava contro il muro. Di fronte a esso, un carrello conteneva l'attrezzatura di base: bende, aghi, termometri. Nell'angolo, c'era una lampada a stelo flessibile. Nulla che ispirasse fiducia. Sembrava un ambulatorio d'emergenza allestito alla meglio sul luogo di un disastro. A fare da parete di fondo c'era una tenda chiusa solo a metà, che separava il cubicolo da un'area più vasta, dove s'intravedevano persone indaffarate. Sentii voci e passi, clangori metallici, uno scroscio d'acqua. Aspettammo. Mercer guardò l'orologio due volte. «Dov'è finito?» «Forse sta salvando la vita a qualcuno», suggerì Greg. Mercer sbirciò oltre la tenda. «Scusate? C'è il dottor Li? Sì? No?» Sembrava di no. Si ritrasse. Aspettammo un altro minuto. Anch'io non
vedevo l'ora che arrivasse il medico per chiudere quella storia, in un modo o nell'altro. Almeno avrei saputo a che punto eravamo e cosa avrei dovuto fare. Alla fine il dottor Li arrivò, attraversando le tende e richiudendosele bruscamente alle spalle. Aveva i capelli neri tagliati cortissimi ed era basso e robusto, il camice bianco teso sulle ampie spalle. Non sembrava un tizio disposto a subire imposizioni, fuori o dentro l'ospedale; dalla sua espressione, poi, era chiaro che presagiva una conversazione impegnativa e che era pronto ad affrontarla. Ecco come stavano le cose. Era evidente che quella sera non avrei interrogato nessuno se non dopo una dura battaglia; ed era altrettanto evidente che stavamo per combatterla. «Scusate per l'attesa, abbiamo parecchio da fare», esordi il dottor Li. «Okay.» Mercer dissimulò l'impazienza e gli mostrò il distintivo. «Siamo qui per l'uomo investito da un'auto sulla circonvallazione.» «Scott Banks. Non è stato investito, anche se a vederlo lo sembra.» «Ci racconti di lui.» «Non so molto. A quanto risulta, è stato qui un paio di volte in passato, mai niente di serio. Abbiamo in archivio i suoi dati anagrafici, indirizzo di casa, eccetera.» «Ci sarebbero utili.» «Ho lasciato detto all'accettazione di fornirveli.» «Dice di essere stato tenuto prigioniero nel bosco?» «Sì. Anche se è molto confuso su gran parte di quello che gli è successo.» Ci raccontò i dettagli. Banks rammentava che, quel pomeriggio, lui si trovava in casa e che gli era successo qualcosa, un'aggressione, a quanto pareva. Da li in poi, i suoi ricordi diventavano incoerenti. Era stato dentro un furgone, con le mani legate dietro la schiena. C'era un uomo con la maschera da diavolo che gli aveva fatto del male. Jodie, la sua ragazza, che urlava. Poi, da ultimo, aveva corso nel bosco gelido, sperduto e terrorizzato. Quei frammenti non avevano un filo logico, ma suonavano familiari e quello per noi era sufficiente. Scott e Jodie. Un uomo con la maschera da diavolo. Dovevo studiare il modo di condurre l'interrogatorio, sempre ammesso che potessi farlo. Se i ricordi di Banks erano sconnessi come quelli di Daniel Roseneil, lui aveva un sacco di ottime e dolorose ragioni per essere confuso. Avrei dovuto parlargli con molta cautela.
«Bene», disse Mercer. «Simon, ti va di andare a prendere quell'indirizzo all'accettazione e farci un salto?» Simon si staccò dalla parete. «Sono già fuori.» Mercer si rivolse nuovamente a Li. «Dobbiamo parlare con Banks il prima possibile.» Li scosse la testa. «Temo che non sia in condizione di subire un interrogatorio. È appena uscito dalla sala operatoria per un intervento d'urgenza e ha assoluto bisogno di riposo. Vuole essere d'aiuto, però, ogni volta che ci prova, subentra il blocco: ricorda di aver corso, le mani tese per ripararsi la faccia... e poi nient'altro. Ora come ora, parlare di quello che ha passato è semplicemente troppo per lui, mentalmente e fisicamente.» Il dottor Li caricò l'ultimo commento di tutta la sua autorità, gettando la diagnosi come un guanto di sfida. Mi aspettavo che Mercer ribattesse, invece annuì e cambiò argomento. «Un intervento d'urgenza? Di che si tratta? Cosa gli hanno fatto?» Li inclinò la testa. «Siamo dovuti intervenire sull'occhio. Non abbiamo potuto salvarlo, però c'era bisogno di ripulire la ferita per evitare il rischio d'infezioni. In risposta alla sua domanda: sembra che abbiano utilizzato su di lui un ferro arroventato.» Cristo, pensai. Di nuovo, Mercer si limitò ad annuire. «Probabilmente un cacciavite», disse. «È quello che ha usato il nostro uomo in precedenza.» Lasciò che le sue parole si facessero strada nella mente del medico, poi aggiunse: «Che altro?» Li sembrò a disagio. «Hanno infierito su di lui. Ha numerosi tagli e ustioni sul petto, sulle braccia e sul viso.» «Ferite compatibili con la tortura?» «Non ho familiarità con la tortura. Ma suppongo di sì.» «Gravi torture da parte di un soggetto sconosciuto.» Li ci rifletté sopra, scegliendo ogni parola con attenzione. «Le ferite sono evidentemente compatibili con la volontà di sfigurare e infliggere dolore, più che col desiderio di sottomettere o di rendere inabile. Sì.» «Ma, in definitiva, lo ha reso cieco solo da un occhio», riprese Mercer. «Sa perché?» Era una domanda retorica. Ovviamente Li non poteva saperlo. «In modo che Banks potesse guardarlo torturare la sua fidanzata non appena avesse finito con lui.» Li impallidì. Sentivo di essere impallidito anch'io, ma per un'altra ragio-
ne: da quanto rammentavo, quella particolare ipotesi non era inclusa nel file. Lanciai un'occhiata a Pete. La sua espressione non rivelava granché, ma intuii che se n'era accorto anche lui. Suppongo che, a posteriori, risultasse ovvio. Il gioco del killer conteneva tanti rovesciamenti quanto i partecipanti potevano sopportare. E la forza di quei rovesciamenti stava nel dover assistere alle sofferenze della persona amata. Le vittime non erano mai state accecate completamente, non avevano mai subito la perforazione di entrambi i timpani. Erano sempre rimaste in grado di vedere e di sentire. Vittime. Mi maledissi da solo. Era così facile dimenticarsi che stavamo parlando di un essere umano. Di un uomo come me. Quando Li aveva detto che Scott Banks era stato accecato, significava che qualcuno gli aveva tenuto ferma la testa e gli aveva infilato qualcosa di appuntito e rovente in un occhio. Non riuscivo neppure a immaginare il terrore, la disperazione, il dolore causati da una cosa del genere. Sembravano insopportabili. «Che altro?» insistette Mercer. Li si schiarì la gola. «Tre dita rotte.» «Continui.» «Le piante dei piedi. Anch'esse sono gravemente ustionate. Non dimentichi che ha corso a lungo nel bosco, con questo tempo. Perciò soffre d'ipotermia e di un principio di congelamento.» Mercer annuì. «Ha mai visto niente di simile, dottore?» «Non capisco il motivo di questa domanda.» «Non capisce...» Mercer sollevò lo sguardo. «Be', un motivo c'è. Tre persone con ferite simili sono già passate da questo ospedale. Due uomini e una donna. Ha mai avuto contatti con loro?» Li sbatté le palpebre. «No.» «Ne è sicuro?» «Sono sicuro che lo ricorderei.» «Sì, credo di sì. È da diverso tempo che stiamo dando la caccia all'individuo responsabile di questa aggressione, perciò conosciamo l'effetto che i suoi crimini possono avere anche su professionisti navigati.» «Senta...» Mercer alzò una mano. «Quando Scott Banks dice che la sua ragazza è in pericolo ha ragione. Mentre noi stiamo qui a parlare, quell'uomo sta facendo del male a Jodie McNeice proprio come ne ha fatto a lui. Il risultato migliore che possiamo sperare di ottenere stasera è mostrarle altre ferite, simili a quelle di Scott. Se non le vedrà, vorrà dire che Jodie è stata torturata a morte.»
Li fece per dire qualcosa, ma poi si voltò a fissare la tenda, con la fronte aggrottata. Mercer tacque per un momento, poi fece un cenno nella mia direzione. «Questo è il mio collega, il detective Nelson. Mark?» «Lieto di conoscerla», dissi. Li mi guardò con un'espressione tra lo spazientito e il frustrato. Lui di certo non era lieto di conoscermi, ma la cosa non mi turbò. «Il detective Nelson è l'uomo che dovrà interrogare Scott Banks», disse Mercer. «Ha qualche consiglio da offrirgli su come procedere? Cosa possiamo aspettarci?» Nonostante i rumori che giungevano da oltre la tenda - i bip dei macchinari, il tramestio di corpi in movimento -, la stanza sembrava molto silenziosa. Li si appoggiò la cartella in grembo, si strofinò il naso e sospirò. «D'accordo. Diamoci un taglio. A titolo ufficiale, in questo momento non posso autorizzare l'interrogatorio del paziente. Non è nel suo interesse e io ho dei doveri anzitutto verso la sua salute. Ha bisogno di riposo, di tranquillità e di tempo per riprendersi.» «Capisco.» Riconobbi il tono di Mercer. La faccenda era chiusa e la sua attenzione si stava già spostando verso il prossimo ostacolo da superare. Liquidò con un cenno le necessità di Scott Banks. «Può avere tutto questo domani. Così forse potrà averlo anche Jodie.» «È il fattore decisivo che mi ha convinto a lasciarglielo interrogare.» Li fece una pausa, per dare il tempo a Mercer di prendere nota delle sue parole. «Purché la mia obiezione sia debitamente registrata.» «Lo è. Avete un servizio di sicurezza, in ospedale?» «Sì.» «Potrebbe far mettere una guardia fuori dalla stanza di Banks, per favore? Non credo che in questo momento sia in pericolo, però dobbiamo essere prudenti.» «Naturalmente.» «Bene.» Mercer si alzò. «Avremo anche bisogno di una stanza. Credo che almeno qualcuno di noi dovrà trattenersi quasi tutta la notte, per cui sarebbe più comodo avere un posto in cui sistemarci per lavorare.» Era più un ordine che una richiesta, però Li annuì comunque. «Vedrò cosa posso fare.» «Grazie, dottore.» «Torno subito.» Scostò la tenda e lasciò la saletta. Non appena se ne fu andato, Mercer
richiuse la tenda e si voltò verso di noi. «Okay», disse. «Qualche idea?» La prima che mi venne fu che lui sembrava improvvisamente molto stanco. Aveva cercato di mostrarsi al meglio davanti al dottor Li, ma le ultime ore lo avevano davvero svuotato. In parte dipendeva dalla luce proveniente dall'alto, che lo faceva apparire ancora più pallido e disegnava ombre scure sotto i suoi occhi. Ma c'era dell'altro. Pareva afflosciato e la sua espressione era troppo cupa. Inoltre non si muoveva più dello stretto necessario. Ma forse tutti noi avevamo più o meno lo stesso aspetto. Pete era appoggiato contro la parete, a fissarsi le scarpe. Parlò lentamente e senza sollevare lo sguardo. «Ha cambiato totalmente il suo modus operandi.» Mercer annuì. «Ha portato la coppia nel bosco, anziché sequestrarla in casa. È vero. Ha alterato la forma del gioco. E abbiamo appena raggiunto lo stadio successivo. Cosa c'è di nuovo, qui? Coraggio, Pete, non addormentarti. Vediamo di riepilogare quello che è successo finora.» Pete si staccò lentamente dal muro e si sedette sul lettino. Fissò il pavimento e cominciò a fregarsi le grosse mani come se le stesse lavando con l'aria calda e nauseabonda della stanza. «Banks viene rapito in casa propria. Presumibilmente viene condotto da qualche parte nel bosco, insieme con la sua ragazza. Viene sottoposto a tortura per un certo periodo di tempo. Poi fugge in mezzo al bosco e raggiunge la strada.» «Succinto.» Dall'alto, Mercer fissò il cocuzzolo del suo vice. «Va bene. Banks è stato torturato, quindi abbiamo almeno qualche correlazione fra questo delitto e i precedenti. Se ipotizziamo che il killer stia conducendo il solito gioco, Banks è arrivato da noi prima del previsto. Non è ancora l'alba. E credo che ci siano due possibili spiegazioni. Greg?» Greg alzò le spalle. «È scappato?» «Cerca di sembrare sveglio, Greg. Questa è una. Mark?» «Il killer l'ha lasciato andare», dissi. «Esatto. Il gioco è arrivato in fondo e Scott Banks ha deciso di abbandonare la sua ragazza. Il che significa che abbiamo tempo fino all'alba per impedire che lei venga uccisa.» Ci fu un momento di silenzio mentre tutti riflettevano. Non aveva senso. Senza neppure alzare gli occhi, la voce lenta e stanca, Pete disse: «John, lei è già morta». «No, non lo è.» «L'ha uccisa.» Pete allargò le mani. «Qualunque cosa sia successa, lui è
intelligente, e deve aver messo in conto che Scott Banks ce l'avrebbe fatta a uscire dal bosco. Non resterà certo ad aspettarci. La partita è finita. L'ha chiusa prima del previsto. Ha ammazzato la ragazza e se n'è andato da un pezzo.» «No.» Mercer scosse il capo, convinto. «Non l'ha fatto.» «Allora credi che sia ancora là? Ad aspettarci?» «Non proprio. Ma l'ha programmato per due anni, Pete. Non si è più preoccupato di tenerci nascosta la sua identità. Ci ha anche lasciato la registrazione dell'omicidio di Simpson, ha detto esplicitamente 'alba'. È cambiato il gioco, ma non il tempo limite. Perciò abbiamo tempo fino all'alba, giusto?» Finalmente Pete sollevò lo sguardo su Mercer e lo fissò dritto negli occhi. «Con tutto il rispetto, John, credo che tu veda quello che vuoi vedere...» Di colpo, Mercer gli voltò le spalle e andò verso la tenda. Pete rimase per un attimo a fissare il vuoto, poi chiuse gli occhi. Sapevo cosa stava pensando. Il killer aveva cambiato così tanti dettagli del suo modus operandi che non aveva senso presumere che non avrebbe ucciso la ragazza fino all'alba. Quella di Mercer era una semplice speranza. Era proprio l'eventualità di cui si era preoccupata l'intera squadra durante la conversazione in mensa. Che effetto gli avrebbe fatto non riuscire a salvare quelle persone? Quel caso, quel killer. Mercer costruiva ipotesi basate su ciò che desiderava fosse vero. Forse aveva bisogno che fosse vero. All'inizio, Pete aveva deciso di restare al fianco del suo amico e capo. Ora stava seriamente dubitando della saggezza di quella decisione. Greg era silenzioso. Era evidente che Mercer non aveva intenzione di mostrarsi d'accordo. Cominciò invece a camminare avanti e indietro, come se con quel movimento potesse generare energia. «Capo, io...» riprese Pete. «Ho preso nota.» Mercer si fermò di colpo e lo fulminò con lo sguardo. «Ho preso nota di tutto. Di tutto. E per tutto il giorno.» L'atmosfera divenne istantaneamente gelida. Pete sembrò colpito dallo scatto di Mercer. «La decisione finale spetta a me», ci ricordò. «Sono io il responsabile, e so quello che faccio. Non sono ancora finito, sapete. Ma, se è questo che pensi, Pete, mi dici cosa dovremmo fare? Su, dimmelo. Due ore fa il nostro uomo era nel bosco. Da quale altro luogo dovremmo cominciare?» Pete chiuse di nuovo gli occhi. «Va bene, John», mormorò. «Squadra di
ricerca?» «Squadra di ricerca, sì», replicò Mercer. Dio sia lodato. «Controllate se possono usare l'elicottero. Buttate giù dal letto la squadra di soccorso e mandate fuori i cani. Infilatevi nel bosco.» «È un'estensione...» «Un'estensione enorme, certo, perciò partite dal punto in cui è stato trovato Banks. Mark vedrà cosa possiamo ricavare da lui. Se Banks riuscisse a ricordare qualcosa di specifico, questo ci aiuterebbe a restringere il campo.» Si voltò verso di me. «Hai già intervistato delle vittime?» Annuii. «Col primo interrogatorio, cerca di ottenere il massimo: conferme su quello che ci ha detto finora, informazioni su Jodie, tutto quello che rammenta del bosco. Aiutalo a ricordare il più possibile, ma senza rivelargli troppo.» «So come procedere.» Dovevo essergli sembrato un po' brusco, perché Mercer aggrottò la fronte. Si stavano ribellando tutti contro di lui. Si passò le dita tra i capelli. «Bene. Muovetevi, tutti e due. Pete, tieniti in contatto. E sta' attento.» «Sì, John.» Lasciammo la stanza e io seguii Pete verso l'ingresso. Camminava deciso, senza parlare, ma scuotendo la testa di tanto in tanto. Dovevo quasi correre per stargli dietro. Quando arrivammo all'accettazione, si fermò e si voltò a guardarmi. «Cosa pensi di fare?» gli chiesi. «Penso di organizzare una squadra di ricerca e di andare nel bosco... Che altro?» Sospirò e scrollò il capo un'ultima volta. «Tienilo d'occhio.» Annuii, vagamente incerto. Pete mi fissò, poi annuì in risposta. Le porte di vetro si aprirono davanti a lui, che si avviluppò nel cappotto e uscì sotto la neve. 4 dicembre, ore 1.45 5 ore e 35 minuti all'alba Scott Nel sogno, Scott era nella sua vecchia camera da letto. Quella del secondo anno di università. Delle sei stanze della casa, era di gran lunga la più piccola. Ci si era tra-
sferito insieme con altri cinque amici, conosciuti nel corso del primo anno; i due che avevano trovato la casa avevano preso le camere più grandi al pianterreno, e lui aveva accettato di sistemarsi in quella specie di scatola da scarpe, anche per evitare discussioni con gli altri. Era larga appena il doppio di un letto singolo, e lunga poco meno di quattro metri, ma Scott non aveva molta roba e in fondo gli piaceva l'idea di vivere in uno spazio così limitato. Ti ottimizzava come individuo, ti manteneva concentrato. I suoi pochi averi avevano trovato facilmente posto - CD, video e oggetti di vario tipo, tutti sistemati nella libreria vicino alla finestra -, mentre la maggior parte del materiale che gli serviva per la tesi si trovava nello spazio di studio che la facoltà gli aveva assegnato. Era l'anno in cui aveva conosciuto Jodie, e nel sogno c'era anche lei. Erano seduti sul letto, fianco a fianco, coi cuscini appoggiati alla parete a formare uno schienale, a bere vodka e Coca e a guardare un film col suo vecchio videoregistratore. La luce ammiccante dello schermo gettava strane ombre sulle pareti. La camera era vecchia e umida. L'odore del cibo che consumavano là dentro, delle sigarette che fumavano, aleggiava per giorni e giorni, quindi penetrava nella tappezzeria e nelle lenzuola e s'infiltrava sotto la pelle della stanza. Nonostante tutto, era contento di ritrovarsi di nuovo là dentro. Era stato un periodo felice. Anche se era soltanto in sogno, ogni volta che sfiorava la sua nuova ragazza provava un brivido di eccitazione. L'aria sembrava risplendere di possibilità. Scott emerse vagamente dal sonno, ma non abbastanza per uscirne del tutto. Erano strani, quei sogni, così vividi e ricchi di dettagli da sembrare reali, eppure lui era sempre consapevole che non lo erano, persino quando vi era completamente immerso. Erano uno strano miscuglio vorticante di ricordi e di fantasie, d'immagini e d'istinti, e gli risultava difficile distinguere la realtà dall'immaginazione. Li trovava confortanti, ma sapeva che contenevano anche pericoli. Era come trovarsi sull'orlo di un ricordo più terribile, e la sua mente cercava di distrarlo. Mentre sprofondava di nuovo nel sogno, la stanza si rimaterializzò attorno a lui, ma sembrava precaria: le pareti, le tende non erano che difese sottili come carta. Potevano celare la verità, ma non tenerla fuori per sempre. Prima o poi i veri ricordi lo avrebbero trovato, e tutto sarebbe andato in pezzi.
«Fammi vedere.» Di colpo era giorno, una luce brillante filtrava attraverso le tende chiare e Jodie era seduta sul bordo del letto. Dalla parte opposta, c'era una catasta di tele, verso le quali lei si stava allungando. Si era sollevato a sedere in fretta. «Ehi, aspetta un momento.» Voleva essere lui a sceglierle, per assicurarsi che vedesse solo le migliori. Le aveva detto che erano robaccia, ma in realtà ce n'erano un paio che, secondo lui, potevano andare. Tuttavia, prima di esprimersi, desiderava vedere la sua reazione. Ma protestare era inutile. Jodie era una ragazza energica e lo conosceva già fin troppo bene. «Ah-ah!» Gli aveva allontanato la mano con una sberla. «Ho capito il tuo gioco, ragazzo. Fammi vedere e basta.» Lui si era arreso, riluttante, e l'aveva guardata esaminare i dipinti. Aveva dedicato a ognuno, persino a quelli più brutti, più tempo di quanto richiedesse la semplice cortesia, gli aveva fatto delle domande e aveva ascoltato con attenzione le sue risposte. «Sono piuttosto orgoglioso di questo», le aveva detto, quando lei era arrivata al suo preferito. «Fai bene. Dovresti essere orgoglioso di tutti. Hai davvero talento.» «No.» Stavolta la sberla gliel'aveva tirata su una gamba. «Sì, che ce l'hai.» Si era arreso. Jodie si stava laureando in informatica, con economia e commercio come indirizzo secondario e, per sua stessa ammissione, non aveva nemmeno una molecola di creatività. I dipinti erano nel complesso ragionevolmente piacevoli, ma Scott sapeva benissimo che, se lei fosse stata una studentessa di belle arti, sarebbe stata più critica e anche più snob. Non era solo questione di talento: persino una scimmia poteva imparare a dipingere. Ma, d'altra parte, che male c'era ad accettare i suoi complimenti per quello che erano? Gli piaceva sentirle dire cose del genere. Voleva impressionarla e... ... il sole si era coperto. Un'ombra aveva attraversato la stanza. Il diavolo, aveva pensato Scott, senza sapere bene perché. Poi aveva sentito un suono roco alla sua sinistra e si era lentamente voltato da quella parte. C'era qualcun altro nella stanza, seduto sul letto accanto a lui. Il suo viso era talmente vicino che lui ne percepiva il calore, ma non riusciva a distinguerlo. Solo una sensazione di pelle rossa e nera, un muso allungato, come
di capra. Il viso oscillava velocemente da una parte all'altra, come un metronomo, rendendo ancora più confusi i lineamenti. Ti piace il mio lavoro e lo sostieni. Scott si era voltato per avvertire Jodie, ma poi si era fermato di colpo, disorientato. La sua camera da studente era sparita. Era seduto all'estremità sinistra del divano in salotto, nella casa in cui vivevano adesso. E, in maniera del tutto improbabile, stava fissando se stesso. L'altro Scott era in mezzo alla stanza, il viso seminascosto dalla macchina fotografica che teneva in mano. «Di' cheese.» «Cheese!» Aveva dato un'occhiata sulla destra, giusto in tempo per scorgere Jodie illuminata dal flash, all'altra estremità del divano. Era acciambellata come una gatta, le gambe raccolte sotto di sé, e indirizzava un ampio sorriso all'obiettivo. Un altro flash. Lo Scott con la macchina fotografica aveva osservato il display posteriore con aria critica. «Questa è meglio. Guarda anche tu.» Di colpo, Jodie e l'altro Scott erano scomparsi, e lui aveva sentito di nuovo il rumore di prima. Veniva dalla cucina, a sinistra dietro di lui. Si era alzato di scatto, arretrando verso il centro del salotto. Al di là della porta, aveva visto l'asciugatrice, la lavatrice. Facendo un passo a destra, era riuscito ad ampliare la visuale: il frigorifero, il bordo di un pensile... Le dita di una mano si erano strette attorno alla cornice della porta. Poi quelle di un'altra mano, appena più in alto. Il diavolo. Un attimo dopo, una faccia rossa e nera si era lentamente affacciata e poi si era scagliata addosso a lui. «Fammi vedere!» Erano in camera da letto. Lui era alle spalle di Jodie e le copriva gli occhi con le mani. Lei lo teneva per i polsi, tirando con poca convinzione. Da quanto si vedeva dell'esterno, si capiva che doveva fare freddo. L'aria sembrava immobile e gelida. Con un brivido, aveva riportato l'attenzione su Jodie. «Ti amo.»
Lui aveva tolto le mani. «Buon compleanno.» Il quadro era sul letto, sostenuto dai cuscini, in modo che appoggiasse contro la testiera. A partire dalla foto che aveva scattato a Jodie sul divano, aveva applicato lo stesso procedimento che utilizzava negli ultimi tempi per i suoi lavori: dipingeva, acquisiva allo scanner, riduceva la definizione dell'immagine, dipingeva di nuovo. Il risultato finale, che si collocava più meno a metà del percorso completo, era Jodie e nel contempo non era lei. C'erano blocchi quadrati di colore - marroni e rosa e beige - su una tela che misurava circa settanta blocchi in altezza e quaranta in larghezza. Se si evitava di mettere a fuoco, si riusciva a scorgerla. Più o meno. Ci aveva lavorato molto, e ne era orgoglioso. Lei si era coperta la bocca con le mani e poi si era voltata ad abbracciarlo. «Lo adoro. È semplicemente perfetto.» Lui l'aveva tenuta stretta, guardando il quadro al di sopra della sua spalla. Lei gli stava dicendo che il quadro era meraviglioso, che lo amava, che lo ringraziava per tutto il suo impegno... Poteva dire quello che voleva, ma lui l'aveva capito. Aveva visto la delusione nel suo sguardo e come lei si era affrettata a nasconderla. Ho fatto un pasticcio. Avrei dovuto darle il primo quadro che avevo dipinto. Poteva ancora farlo, ma non sarebbe stato lo stesso. Era sempre possibile fare qualcosa di diverso per le persone: te lo dicevano e tu le cambiavi per loro. Ma il trucco stava nel fare le cose giuste al primo colpo. Volevo solo fare qualcosa di diverso per te, aveva pensato. Qualsiasi idiota è in grado di dipingere. Volevo fare qualcosa che nessun altro avrebbe saputo fare per te. Qualcosa di davvero mio. Volevo... Da sopra la sua spalla, Scott aveva visto il diavolo. Stava scivolando fuori da sotto il letto, goffamente, e il vapore si alzava dal suo viso. «Jodie...» Ma lei lo stringeva troppo forte, come uno zaino assicurato contro il petto. Non lo mollava, e lui non poteva muoversi. Il diavolo si era raddrizzato in tutta la sua altezza, le giunture che scricchiolavano e crocchiavano, poi si era diretto verso di loro. Il terrore aveva inondato Scott. Da qualche parte, un bambino strillava. «Ssst.» Bang! La testa si era staccata dalle spalle, rimpiazzata da una scarica statica, bianca e sibilante, una nuvola di nausea.
Inspiegabilmente, era a faccia in giù sulla moquette, di nuovo in salotto. Il dipinto era appoggiato contro la parete di fronte, dietro il tavolo da pranzo, dov'era rimasto per i dieci mesi successivi al compleanno. «Dovremmo appenderlo», diceva di tanto in tanto uno di loro, ma, per una ragione o per l'altra, nessuno dei due l'aveva mai fatto. Scott lo aveva fissato, cercando di sfocare lo sguardo, così era comparsa lei, Jodie. Amo i tuoi capelli castani. Mentre lo osservava, blocchi di colore avevano cominciato a svanire. Lui aveva sbattuto le palpebre, imponendo a quei blocchi di tornare, ma ne sparivano sempre di più. La levigatezza della tua pelle. I capelli di lei erano svaniti. Piccoli riquadri bianchi erano comparsi ovunque; le sfumature beige e rosa della sua pelle si dissolvevano. Amo la sensazione del tuo collo sotto le mie labbra. Era sparito quasi tutto. Ancora tre riquadri. Due. Gli ultimi non li aveva visti dissolversi. D'un tratto, si era reso conto di fissare una tela bianca, abbandonata contro un muro. Il momento in cui si era reso conto di averla perduta. 4 dicembre, ore 2.00 5 ore e 20 minuti all'alba Mark Ogni piano dell'ospedale sembrava occupare una sfumatura all'interno dello spettro. L'accettazione e la sala d'attesa al pianterreno erano azzurro pallido. Lì, un piano più in alto, tutto era verde chiaro o turchese. Chiunque avesse progettato l'edificio, aveva utilizzato uno schema di colori dai quali era stata risucchiata ogni vibrazione di vita. Era tutto molto «ospedaliero», pensai. A chi riprendeva i sensi, ancora disorientato, bastavano quei colori per capire di essere malato.
Per la natura stessa della nostra indagine, a Scott Banks era stata assegnata una stanza singola nell'ala orientale. Era piccola, con appena lo spazio attorno al letto per un carrello con le attrezzature mediche da una parte e una sedia dall'altra. Era anche molto buia. Le tende erano chiuse e le luci erano state abbassate. Sembrava appropriato che la figura bendata sul letto riposasse sotto una coltre d'ombra. Stava dormendo, il respiro lento e regolare interrotto da un ostacolo ricorrente in gola: un sibilo e uno schiocco. L'unico altro rumore che si sentiva nella stanza era quello dei macchinari: il quieto, confortante bip delle sue pulsazioni, registrato da una linea verde tremolante sul monitor accanto al letto. Era sotto flebo: i fluidi dell'endovena gli mantenevano stabile la temperatura e somministravano morfina per attenuare gli accessi di dolore che lo tormentavano quand'era sveglio. Il lato destro del viso era sepolto sotto un'imbottitura di garza che formava un pallone di bende; la guancia sinistra era coperta da cerotti per sutura. La coperta bianca era rimboccata fin sotto il mento. Un altro sibilo e un altro schiocco, e il petto che si sollevava in maniera quasi impercettibile. Mi resi conto che sincronizzavo il mio respiro col suo, lasciandomi tranquillizzare da esso. C'era stata una certa tensione di sotto, dopo che Pete se n'era andato, e il ritorno del dottor Li era stato un sollievo. Mi aveva accompagnato in quella stanza dieci minuti prima. Avevamo preso un minuscolo ascensore rumoroso e poi ci eravamo incamminati lungo corridoi apparentemente interminabili e pieni di attività e di rumore. Ovunque passassi, intralciavo qualcuno. Più pratico di me, il dottor Li si muoveva con disinvoltura in mezzo alla confusione, mentre io arrancavo dietro di lui, cercando di cogliere le istruzioni che lui mi dava. «... sta dormendo, in questo momento. E quello che le chiedo è di lasciarlo dormire finché ne ha bisogno. Deve riposare...» E così via. Avevo annuito, sebbene lui non potesse vedermi, chiedendomi cosa accidenti pensava che volessi fare. Pungolare il suo paziente con la penna, forse? Quand'eravamo arrivati davanti alla stanza, la guardia di sicurezza era già al suo posto. Alta e solida, con un'uniforme marrone chiaro. Li mi aveva presentato, ma io le avevo comunque mostrato il distintivo, assicurandomi che avesse ben chiaro il suo incarico. A parte me e il personale ospedaliero, nessuno poteva entrare nella stanza di Scott Banks.
E adesso me ne stavo tranquillamente seduto col suo dossier in grembo, cercando di formulare una strategia per l'interrogatorio. Ma il silenzio e l'oscurità erano soporiferi, e pensare diventava sempre più difficile. La tensione e il fermento della giornata scemavano, la stanchezza mi calava addosso e io dovevo fare uno sforzo per star sveglio. La sicurezza viene dalla conoscenza. Cosa sapevo, in definitiva? Il paragone più prossimo era con Daniel Roseneil. Anche lui era stato torturato, ma il dolore fisico era soltanto una parte del quadro d'insieme. Roseneil era stato costretto ad abbandonare qualcuno che amava. Anche se quella decisione era stata dettata dalla necessità, la responsabilità di averla presa l'aveva sopraffatto e quindi lui ne aveva cancellato il ricordo, confinandolo in un luogo inaccessibile. Era probabile che, con Scott, succedesse la stessa cosa. Vuole aiutarci, ma ha paura di ricordare. Mi figurai una specie di porta nella sua mente, una porta chiusa, che nascondeva il trauma. Eppure lui la vedeva, quella porta, e aveva una vaga sensazione di cosa ci fosse dietro. C'era la sua ragazza, ed era in pericolo. Una parte di lui avrebbe voluto aprire quella porta per aiutarla. Ma l'altra parte sapeva cos'altro c'era là dietro e non gli avrebbe mai permesso di avvicinarsi. Il mio lavoro stava nel riconciliare le due metà: in qualche modo, dovevo rassicurare e distrarre la parte atterrita, conducendo l'altra verso la porta e aiutandola ad aprirla. Per farlo, dovevo però anche scordare la discussione avvenuta al piano di sotto. Ripensandoci, mi ero convinto che Pete avesse ragione. La ragazza di Scott era probabilmente morta e il killer era sparito. Dentro quella stanza, però, c'erano soltanto due semplici verità alle quali dovevo attenermi, a qualunque costo: Jodie era viva e noi l'avremmo trovata. Erano le regole base. Poi c'era la questione del metodo. Fino a un certo punto, tutti gli interrogatori si somigliano. Una volta avevo interrogato un vecchio. Eravamo quasi certi che avesse rapito una bambina al parco giochi e, quando mi ero seduto davanti a lui, avevo avuto la certezza assoluta che si trattava del nostro uomo. Era divorato dal disprezzo di sé, ed era evidente che non vedeva l'ora di confessare tutto e di liberarsi la coscienza; nel contempo, però, non riusciva ad ammetterlo. E così si difendeva con manovre evasive e con bugie. Lui non era lì, ma da un'altra parte; non l'aveva mai vista; non avrebbe mai fatto del male a una bambina...
Ma la verità era dentro di lui, nella cronologia della sua memoria, e io lo avevo condotto fino alla meta, un passo alla volta. Dove si trovava a mezzogiorno? E poi dov'è andato? L'avevo indotto a ripercorrere la giornata nella sua mente, a visualizzarla. Il vecchio aveva obbedito; di tanto in tanto, andava a cozzare contro una delle sue menzogne e i dettagli diventavano confusi. D'improvviso non ricordava più tanto bene... Allora tornavamo un po' indietro e ricominciavamo a parlare di qualcos'altro. Poi ci spingevamo più avanti. Non sarebbe mai arrivato da nessuna parte e lui lo sapeva. Così la verità era emersa per gradi. Sì, era al parco giochi, ma non aveva fatto niente, non aveva neppure visto quella bambina. Dieci minuti dopo, ammetteva che, sì, forse in effetti l'aveva vista. E poi che era andata a fare una passeggiata con lui, ma stava bene, lui l'aveva lasciata vicino agli alberi, quindi doveva essere stato qualcun altro a farle del male, dopo. E così via. Un passo alla volta aveva confessato. Sapeva di essere in trappola, ma per lui era troppo difficile lasciarsi andare e dire: «Sono stato io». Alla fine dell'interrogatorio, in effetti, era parso sollevato. Lì la situazione era diversa, ma il principio era lo stesso. L'esperienza di Scott costituiva una ferita. Avrei dovuto premere con attenzione lungo i margini per scoprire quali fossero i punti dolenti, e fare in modo che si abituasse lentamente alla pressione. Dovevo lavorare con cautela, avvicinarmi alla verità con estrema pazienza. O almeno con la pazienza consentita dal nostro limite temporale. Sollevai lo sguardo dal movimento del petto al viso, a quel poco che se ne scorgeva. Era l'una e mezzo del mattino: mancavano meno di sei ore all'alba. Nonostante la promessa fatta al dottor Li, se Scott Banks non si fosse svegliato alla svelta, forse mi sarei davvero messo a pungolarlo con la penna. Nell'attesa, sistemai meglio il dossier, mi appoggiai allo schienale della sedia e chiusi gli occhi. «Agente?» Mi svegliai con un sussulto. Il dossier di Scott cadde sul pavimento e i fogli si sparpagliarono. Merda! Mi chinai a raccoglierli, lanciando un'occhiata verso il letto. Scott mi guardava. Pensai che, per salvaguardare la dignità, avrei dovuto fingere di non essermi addormentato, ma decisi che era inutile. E adesso come cazzo credi di poter sembrare professionale? «Mi dispiace.» Parlai a voce bassa, come se lui stesse ancora dormendo. «È stata
una lunga giornata.» «Niente di male.» Anche lui aveva mormorato. Forse era la stanza; l'ospedale ci obbligava a una conversazione fatta di sussurri. «Sembrava che stesse avendo un incubo», disse. «Infatti. Mi dispiace.» Il sogno stava già svanendo, ma sapevo che riguardava Lise, anche se non riuscivo a ricordare i dettagli. Forse era lo stesso di quella mattina? L'unica sensazione rimasta era il rumore del mare, che fluiva e si frangeva. Il medesimo senso di disperazione; simile alla fame, ma localizzato nel cuore. «Anch'io continuo ad avere incubi», riprese Scott. «E non riesco a ricordarli. È tutto confuso.» «Credo che sia normale. Sa dove si trova?» Annuì con cautela. «Lei è qui per proteggermi?» «Come nei film?» Avrei potuto sorridere, ma a Scott non avrebbe fatto male sentirsi al sicuro. «Suppongo di sì, più o meno. Mi chiamo Mark Nelson e sono un poliziotto. Più che altro, sono qui per farle compagnia e parlare con lei. Per vedere se riusciamo a fare un po' di luce su quello che le è successo stanotte.» Ci rifletté, poi fece un tentativo per sollevarsi a sedere. Il carrello accanto al letto si mosse con lui, il sacchetto della flebo dondolò sul sostegno. Un momento di panico. «Attento a non farlo cadere.» «È tutto a posto.» C'era qualcosa di brusco nel suo tono, come se provasse dolore e faticasse a sopportarlo, ma non volesse comunque arrendersi. La coperta scivolò appena, rivelando un corpo snello e atletico. La pelle era segnata da lividi che sembravano macchie viola e nere. Trattenni un sussulto. I lividi non compaiono così in fretta, a meno che non ti colpiscano davvero forte. Vidi anche altre bende, che presumibilmente coprivano numerose ferite. Il tubo che dal braccio andava al sacchetto della flebo era assicurato con pezzi di garza bianca. «Il medico ci ucciderebbe entrambi se vedesse cosa sta facendo», gli dissi. «Sembra un tipo tosto.» «Non voleva che parlassi con lei.» «No.» «Però devo.» Annuii, notando che non aveva detto voglio, ma devo. «Ho bisogno di registrare la nostra conversazione», spiegai, indicando l'equipaggiamento
che avevo con me. «Per lei va bene?» «Sì.» «Se desidera fermarsi, non c'è problema», continuai, allargando le mani. «Facciamo una pausa e riprendiamo più tardi. Di base, andrò avanti e indietro nella storia. Vediamo cosa viene fuori.» «Non so quanto potrò esserle d'aiuto.» Si accigliò. «La mia mente continua a... girare in tondo.» «Be', tanto per cominciare, la prenderemo con calma. Voglio che stia tranquillo e si rilassi il più possibile. Forse sul momento non riuscirà a ricordare tutto, ma so benissimo che è molto preoccupato per la sua ragazza.» Immediatamente: «Jodie...» «So che è in pena per lei. E questo può farle paura. Per quanto possibile, vorrei che cercasse di non agitarsi. La persona che si occupa del caso è il migliore, in questo campo. Penseremo noi a preoccuparci, al suo posto.» «Ma lei è ancora là. Nel bosco.» «Lo sappiamo.» Cercai di apparire rassicurante e deciso. «E la troveremo. C'è una squadra di ricerca al lavoro nella zona. Jodie se la caverà.» La sua espressione si rilassò impercettibilmente. «Me lo promette?» «Lo prometto.» Cambiare argomento. «Anzitutto vorrei ottenere da lei ogni informazione possibile. Questo potrebbe aiutarci a trovare Jodie... ma dovremmo comunque riparlare di tutta la storia, perché lei è stato vittima di un reato. Perciò questa conversazione riguarderà lei. Va bene?» Annuì, poco convinto. Valutai la situazione e decisi di portare il discorso lontano da Jodie, di deviarlo su un terreno più sicuro, almeno per ora. Posai il dossier sul pavimento e dedicai tutta la mia attenzione a lui. «Cominciamo dal suo appartamento. Stava lavorando in casa?» «Non proprio lavorando.» «Cosa faceva?» «Ho preso una settimana di ferie e stavo facendo una cosa al computer. Una rielaborazione artistica d'immagini fotografiche.» «Ah, sì, giusto. Lei è un artista, vero?» «No.» Per un attimo sembrò intristirsi. «Non proprio. Però, in quel momento, mi ero messo a pasticciare. E poi sono andato a fare un po' di pesi nella nostra stanza degli ospiti.» Nostra. Perciò conviveva con Jodie. Non era certo una sorpresa, però si trattava di un dettaglio importante. E ciò faceva emergere di nuovo la do-
manda: quella coppia aveva una casa, ma, invece di sequestrarla lì, come aveva fatto con le altre, il 50/50 Killer l'aveva portata nel bosco. Perché? «Che ora era?» chiesi. «Più o meno le tre, credo.» Scott spiegò quello che ricordava. Il racconto fu piuttosto frammentario, ma io pensai che fosse a causa degli antidolorifici che gli avevano somministrato, nonché della confusione di cui era vittima. L'importante era che i dettagli essenziali coincidessero con quelli che lui aveva fornito al primo agente con cui aveva parlato, e poi al medico in ospedale. Sarebbe stata una conferma dell'affidabilità di quei pochi ricordi. Quando stava per finire l'allenamento, aveva sentito un rumore ed era uscito dalla stanza, aspettandosi di trovare Jodie, forse rientrata prima dal lavoro. Il televisore era acceso, ma in salotto non c'era nessuno. Era entrato. «Ho avuto appena il tempo di pensare: Cosa... che lui mi è saltato addosso.» L'uomo si era nascosto in cucina e gli era piombato addosso di lato, aggredendolo. Poi l'aveva colpito con forza e gli aveva premuto qualcosa sul viso. Di ciò che era successo in casa, lui non ricordava altro. Più parlava, più la sua frustrazione cresceva. Era sempre più infuriato, soprattutto con se stesso. Conoscevo bene quella reazione. Quando finì di parlare, mi sembrò che, se non avesse avuto le mani coperte di bende simili a guantoni da boxe, si sarebbe preso a pugni le cosce per la rabbia. L'avevo fatto spesso anch'io, negli ultimi sei mesi, quando l'emozione diventava troppo intensa. A volte bisognava semplicemente sfogarsi. «Sono stato così stupido», disse. «Così inutile.» «No, non è vero.» Cercai di mettermi nei suoi panni. Evidentemente gli piaceva tenersi in forma, eppure quel suo allenarsi si era dimostrato inutile alla prova dei fatti. Se fosse riuscito a difendersi, le cose sarebbero andate in un altro modo. Col suo fallimento, sentiva di aver condannato entrambi, Un pozzo di recriminazione dal quale, per il momento, volevo tenerlo fuori. «Anch'io faccio un po' di pesi», spiegai. «So come ci si sente dopo un bell'allenamento: è già tanto se si riesce a sollevare le braccia. L'uomo che l'ha aggredita l'ha già fatto altre volte. Inoltre è in gamba. Ha aspettato che lei fosse esausto, e l'ha distratta in modo da coglierla di sorpresa. Sarebbe andata nello stesso modo per chiunque.»
Ma lui continuava a scuotere la testa. È troppo per lui, pensai. Andiamo avanti. «Parliamo dell'uomo con la maschera da diavolo.» Raccolsi il dossier, più che altro per tenere occupate le mani. «So che è difficile, ma voglio che lo isoli nella sua mente. Non m'interessa sapere quello che ha fatto, ma ciò che ricorda di lui. Immagini di vederlo in mezzo a una strada. Cosa indossava?» L'espressione frustrata sul viso di Scott rimase, ma lui sembrò rilassarsi impercettibilmente. Si concentrò sulla domanda. «Non sono sicuro dei suoi abiti... Portava scarpe da ginnastica, mi sembra. Bianche, consumate, con qualcosa di blu attorno ai buchi dei lacci o comunque di scuro. Il resto dell'abbigliamento era nero, mi pare. Come una tuta da lavoro.» Parlava piano. Il viso era un po' più disteso. Mi resi conto che sarebbe stata una notte di alti e bassi. A ogni suo scatto, avrei dovuto fare marcia indietro. Dopo aver parlato degli abiti, passammo a una descrizione del suo aspetto in generale. Quando Scott confermò le precedenti descrizioni del killer capelli castani corti, piuttosto alto, robusto -, sembrava ormai abbastanza calmo da potersi avventurare in qualcosa di più specifico. «Ricorda come avete raggiunto il bosco?» chiesi. «Eravamo in un furgone.» «Lei e Jodie?» Annuì. «Lei era già legata nel retro. Stavo così male. Credo che ci siamo fermati durante il percorso, una volta o due. Non rammento.» «E cos'è successo quando vi siete fermati?» «C'era qualcosa ma... Credo che sia sceso, però non ne sono sicuro.» Aggrottò la fronte, di nuovo irritato con se stesso. Andiamo avanti. «Okay. Poi l'ha portata nel bosco?» «Quando siamo scesi dal furgone, mi ha infilato sulla testa un sacchetto di carta. Non ho potuto far niente.» Annuii. Ovunque portassi la conversazione, il suo senso di colpa continuava ad affiorare. Oscillava tra avrei dovuto fare e non ho potuto fare. Decisi di fare un salto in avanti. «Allora, quando vi siete inoltrati nel bosco lei aveva un sacchetto sulla testa... Ma della fuga cosa mi può dire? La ricorda?» Scosse immediatamente la testa. «Ricorda per quanto tempo ha corso prima di raggiungere la strada?» «No. Per un po'.» «Per qualche minuto oppure per un'ora?»
«Non saprei, ma sembrava più un'ora.» Guardai il segnale del monitor accanto al letto. Il battito cardiaco era in aumento. Era il caso di fare un passo indietro. «Non si preoccupi. Ricorda se in quel momento l'uomo era con lei? Se la inseguiva?» «Inseguirmi...?» Scott aggrottò la fronte. «No.» Mi resi conto che quella domanda indugiava nella sua mente. Ovvio che conducesse ad altre. Se non lo inseguiva, perché non lo aveva fatto? Come aveva fatto a scappare? Dopo qualche istante, il suo subconscio gli impedì di proseguire, di saggiare ulteriormente il terreno. «Mi dispiace.» Scosse il capo con decisione. «Tutto quello che è successo nel bosco è ridotto a... frammenti. Buio e freddo. Neve. Ho corso per la maggior parte del tempo. Era tutto confuso, finché non ho raggiunto la strada.» «Va bene.» «Ricordo di aver parlato da solo. Nel bosco, prima di arrivare alla strada. Continuavo a ripetermi che sarebbe finita bene.» «È comprensibile. In una situazione del genere, è il subconscio che prende il sopravvento. Aiuta ad andare avanti.» Fu allora che accadde. Qualcosa - forse un ricordo o un frammento del solito sogno - mi apparve nella mente. Era una voce che mi risuonava nella testa, più chiara e più distinta dei miei stessi pensieri. Nuota, diceva. Non smettere di nuotare. Scossi il capo. «È tutto quello che ricordo», riprese Scott. «Proprio come lei ha appena detto, è come se qualcun altro avesse assunto il controllo, dicendo di mettermi seduto e buono. Non sapevo dov'ero né cosa facevo.» «Non si preoccupi, adesso.» Mi chinai e scossi di nuovo la testa. La voce se n'era andata, ma pareva che qualcosa stesse strisciando al suo posto. «Se non riesce a ricordarlo... lasciamo perdere, per adesso.» Riprendi il controllo. Ma non era così facile. Il cuore mi batteva troppo in fretta. Nella mia voce c'era stata un'ombra di panico. Non riuscivo a pensare con chiarezza. Scott e io ci stavamo fissando. Lui mi aspettava. «Va bene», proseguii. «Adesso parliamo di Jodie. Come la descriverebbe? Com'è, come persona?» Cominciò a rispondere, ma subito s'interruppe. La sua espressione divenne vuota. Compresi di aver fatto un passo falso. Troppo in fretta. Prima che potessi cambiare argomento, il suo viso sembrò raggrinzirsi e lui si mise a piangere.
Rimasi in silenzio, insultandomi mentalmente. Maledetto imbecille, continuavo a ripetermi. «Va tutto bene», dissi. Ma non era vero. D'accordo, non era una domanda diretta su quello che aveva passato, ma non c'era bisogno che lo fosse. Il semplice fatto di trovarsi lì implicava che lui aveva abbandonato Jodie nel bosco. Forse non rammentava di averlo fatto, tuttavia pensare a lei, in qualunque forma, non poteva che riportare in superficie tutte quelle sensazioni di debolezza, tradimento e colpa. I suoi sentimenti verso di lei erano un filo diretto col cuore di quella notte. Nella sua mente avrebbe preferito camminare sui carboni ardenti piuttosto che pensare a ciò che era successo e, se il mio cervello fosse stato davvero in quella stanza, come avrebbe dovuto essere, me ne sarei reso conto. «Va tutto bene», ripetei. Ma la saracinesca si era chiusa. Lui piangeva silenziosamente. Sospirai, arrabbiato con me stesso. Ma che cazzo avevo? Forse era meglio così. Forse era il momento di concedersi una pausa. Avrebbe fatto bene a tutti e due. Non mi stava ascoltando, però, mentre mi alzavo, glielo dissi di nuovo: la stessa bugia con cui avevo iniziato quel colloquio, anche se la disperazione che provavo rischiava di annullare la convinzione che speravo di far trapelare dalla mia voce. «La troveremo», dissi. 4 dicembre, ore 2.15 5 ore e 5 minuti all'alba Eileen Eileen era di sopra, sulla comoda poltrona di pelle nello studio di John, quella che lui occupava per almeno un'ora tutte le sere. Dato che lui non c'era, sembrava uno spreco lasciarla vuota. Ai tempi in cui John si alzava presto, lei rotolava spesso dalla sua parte del letto, continuando a dormire nel posto che lui aveva lasciato, per sentirlo vicino anche durante l'assenza. Adesso era più o meno la stessa cosa, anche se le emozioni che provava erano diverse. Lo studio era il luogo in cui il marito svolgeva la maggior parte del lavoro, quando si trovava a casa. Lungo la parete c'erano due librerie affiancate. La scrivania con sopra il computer stava di fronte. Alla parete dietro la
scrivania erano appesi attestati in cornice, articoli di giornale e fotografie: ritagli che raccontavano un'intera carriera. La stanza era illuminata da un'unica lampada a stelo, dalla luce morbida e soffusa. Davanti a lei, le tende erano spalancate e il suo riflesso ricambiava lo sguardo dal vetro della finestra: una gentile sagoma confusa, quasi spettrale, che reggeva il telefono contro la testa. Dall'altra parte, il telefono continuava a squillare, e la frustrazione di Eileen cresceva a ogni rabbiosa esplosione sonora. Rispondi, lo incitava. Il numero di casa era memorizzato sul cellulare di John. Lo immaginò guardare il display e, sapendo che era lei, meditare se rispondere o no. Alla frustrazione si aggiunse la rabbia. Rispondi. Guardò il proprio riflesso che prendeva il bicchiere di vino e ne beveva un altro sorso. «Ehi, ciao», disse lui. Grazie al cielo. Adesso che aveva risposto, la paura si allentò, ma la rabbia rimase. Riappoggiò il bicchiere sul tavolo, forse un po' troppo rumorosamente. «Te la sei presa comoda.» «Scusami. Sono dovuto uscire in corridoio. Sto lavorando.» John non aveva mai amato parlare al telefono, e i silenzi altrui lo mettevano a disagio. Così Eileen lo lasciò cuocere nel suo brodo per qualche istante, per vedere come avrebbe reagito. Fu piacevolmente imbarazzante. Poi lui disse: «È tardi per essere ancora in piedi». «Sì, vero?» Sulla parete c'era un orologio: segnava le due e venti. Era passato molto tempo dall'ultima volta che, di notte, aveva visto un'ora del genere su un quadrante. Da giovane, succedeva più spesso. Aveva preso l'abitudine di rimanere alzata fino a tardi e di alzarsi presto la mattina, perché aveva troppe cose da fare. Sul letto di morte, nessuno si sarebbe voltato indietro, augurandosi di aver passato più tempo a dormire. Anche John era sempre stato così. In lui c'era lo stesso slancio e in parte era proprio quello che l'aveva attratta, all'inizio. Per un lungo periodo, la loro relazione si era svolta tranquillamente e con gli stessi ritmi, convincendoli che erano una bella coppia, partner alla pari. Che andava tutto bene. Strano ripensarci, adesso che tanto detestava la sua abnegazione al lavoro. Però era vero.
Invecchiando insieme, ovviamente, le cose erano cambiate. Mentre le giornate di Eileen avevano cominciato ad accorciarsi a entrambe le estremità, quelle di John si erano fatte ancora più lunghe. La raggiungeva a letto dopo diverse ore e, quando lei si svegliava, trovava il posto di lui già vuoto. Al momento, la cosa non le era sembrata importante, ma il crollo di John li aveva costretti a riconsiderare la questione. Quand'era uscito dall'ospedale, il semplice fatto di ritrovarselo accanto nel letto, ogni sera, l'aveva indotta a ripensare alle volte in cui non c'era stato. Aveva avuto l'impressione di avergli doverosamente tenuto il posto in caldo per tutto quel tempo, in paziente attesa, mentre lui l'aveva messa da una parte per inseguire i suoi obiettivi. Obiettivi che avevano messo a rischio entrambi. Quei giorni dovevano lasciarseli alle spalle. «È davvero tardi», ripeté lui. «Credevo che dormissi, ormai.» «È per questo che non hai telefonato? Non credevi che sarei rimasta alzata ad aspettare la tua chiamata? Terrorizzata? Spaventata... a morte?» «Non ci ho pensato. Scusami.» «Sai che mi aspetto che telefoni.» «Non ce n'è stato il tempo.» Riconoscendo quel tono di voce, Eileen contrasse la mascella. Le pareva di vederlo: con lo sguardo rivolto di lato, si stava passando le dita tra i capelli, con la mente già rivolta ad altro. Qualunque altra cosa, a quanto sembrava, era più importante di lei. «Non hai idea del casino che c'è qui», disse lui. «Senza un attimo di respiro. Lo sai anche tu come può essere.» «Sì, ricordo perfettamente come può essere.» Fremeva di rabbia. Un'emozione nuova, ma che non le era sconosciuta. Se n'era fatta una ragione durante la sua convalescenza, quand'era infuriata con John come se lui avesse avuto una relazione clandestina. E in un certo modo l'aveva avuta, anche se col suo lavoro anziché con un'altra donna. Ma Eileen aveva continuato a fremere in silenzio e aveva messo da parte quella rabbia, per la semplice ragione che lui era suo marito e quella era la vita che condividevano. Qualunque fosse stato l'errore di John, insieme avrebbero trovato una soluzione. L'unica cosa che gli aveva chiesto era di non ripetere gli stessi errori, o almeno evitare di mettersi in una situazione in cui potessero ripetersi. Sì, certo che ricordava come poteva essere. Sembrava che fosse lui, piuttosto, a non rendersi conto dei rischi che stava correndo. Un altro sorso di vino. «Stai bene?» le chiese. «Dalla voce sembra che tu abbia bevuto.»
«Sì, ho bevuto. Sto ancora bevendo.» Lui fece una pausa. «Sono le due e mezzo del mattino.» «E dovrei essere a letto?» «No, voglio solo dire che è un po' tardi per bere.» «Suppongo di sì.» La sorella di Eileen le aveva detto le stesse cose quando si erano sentite per telefono, poco prima di mezzanotte. Non avrebbe dovuto affogare la propria tristezza nel vino. «E perché no?» le aveva risposto Eileen. Era stufa di prendersi la responsabilità per tutti gli avrebbe dovuto. John avrebbe dovuto essere lì con lei - per esempio - però non c'era. Perché doveva essere sempre lei quella responsabile? Aveva bisogno di qualcosa che la aiutasse a restare calma. Sono ancora in piedi alle due e mezzo, pensò. Dopo essersi scolata quasi una bottiglia di vino. Era davvero come essere di nuovo giovane. Ora aveva solo bisogno di John al suo fianco per condividere quell'esperienza. «Pensi di andare a letto, adesso?» le chiese. «Non lo so. Tu quando torni a casa?» «Qui è tutto in movimento, perciò non ne sono sicuro. Uno di quei casi in cui, se non si reagisce subito, si rischia di perdere tutto e...» «Tu dove sei?» «Dove? In ospedale. Stiamo interrogando uno. È ferito, e gli stanno prestando le prime cure.» «Sì, lo so cos'è un ospedale. Al Rutlands, immagino. È lì che sei?» «Al Rutlands, sì.» Eileen annuì. Era lo stesso ospedale in cui l'aveva portato dopo il crollo, al funerale di Andrew Dyson. Quel luogo le evocava ricordi sgradevoli; ci aveva passato la prima notte del ricovero, ed era tornata a trovare John per quattro giorni, prima che lo dimettessero. Associava i lunghi corridoi del reparto psichiatrico alla sensazione che il suo mondo fosse distrutto al di là di ogni speranza. Si chiese come si sentiva John, di nuovo in quel posto, e sotto la rabbia improvvisamente si affacciò una fitta di preoccupazione. Ma la soppresse con altrettanta velocità. La scelta di ritrovarsi in quell'ospedale era stata solo sua. Faceva male anche a lei, e John non avrebbe dovuto farglielo. Era l'ultima goccia. Sua sorella le aveva consigliato di essere più dura, perché lo doveva a se stessa, ed era vero. Bisognava che la percentuale del loro reciproco impegno tornasse a un livello di parità. E John avrebbe dovuto saperlo, dopo tutto quello che le aveva fatto passare. «Vuoi che venga a
prenderti?» le aveva chiesto la sorella, preoccupata, e Eileen aveva sorriso, sapendo che Debra sarebbe arrivata in un batter d'occhio, indifferente allo scompiglio che ciò le avrebbe creato. «No, grazie», le aveva risposto. «È una cosa che devo risolvere da sola. Bisogna che me ne occupi io.» Eileen disse con fermezza: «Voglio che torni a casa. Da me». Silenzio all'altro capo della linea. Poi: «In questo momento non posso». «Be', è quello che voglio io.» Troppo brusca e bellicosa, si disse, troppo stizzita. Lottò per recuperare la compostezza. «Ho sentito cos'hai detto, John, ma voglio che tu lo faccia. Ti prego, torna a casa.» «Non posso. Vorrei poterlo fare, ma è il mio lavoro.» Le venne quasi da ridere. «È uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare?» «Come?» «Niente.» Sorseggiò il vino e poi di nuovo lo posò bruscamente, come se le fosse venuto in mente qualcosa. «Dimmi che non ha niente a che fare con Andrew.» Il riflesso nella finestra di fronte si chinò di colpo in avanti. «Oddio, John. Dimmi che non sei di nuovo sulle tracce di quell'uomo!» «No, non ha niente a che fare con quella storia.» Era il vino che la rendeva paranoica? Qualunque fosse il motivo, non era certa di potergli credere. «Giuramelo.» «Lo giuro. Ci stiamo occupando di un'effrazione con aggressione. Brutta storia, ma niente a che vedere con quella.» Il panico si acquietò, ma non del tutto. «Se è così brutta, avresti potuto lasciarla a qualcun altro.» «Be', di certo è stata una lunga giornata, ma sto bene.» Ma io no! avrebbe voluto urlargli. Non si tratta di te! Invece rimase in silenzio. Poteva benissimo urlare e arrabbiarsi e piangere... e, se l'avesse fatto, lui si sarebbe forse arreso, tornando a casa. Ma quello non avrebbe risolto niente, non sul serio. Se doveva costringerlo a tornare a casa, allora non ne valeva la pena. La verità era che, nonostante quello che aveva detto a Debra, le ci erano volute due ore prima di decidersi a chiamare John. Invece di limitarsi a sollevare il telefono, aveva continuato a ripetersi che sarebbe tornato presto. E, se proprio non fosse tornato, sarebbe stato lui a telefonarle. Gli concederò altri dieci minuti, fino alle dodici, si era detta; e poi fino alle dodici e mezzo. In realtà, aveva avuto paura di quella telefonata. Non perché lui avrebbe potuto dare la precedenza al suo lavoro - in fondo l'aveva già fatto
-, ma per il modo in cui l'avrebbe fatto: come se fosse un uomo qualsiasi che faceva un lavoro qualsiasi; trattandola come se fosse soltanto una moglie iperprotettiva che lo tormentava e s'intrometteva in faccende che non la riguardavano. Aveva sempre saputo che sarebbero arrivati a quel punto. Poteva urlargli in faccia la verità e fargliela capire, una volta per tutte? Metterlo di fronte alla sua stessa debolezza, al modo in cui la trattava, e obbligarlo a riconoscere i suoi errori? Rabbia e preoccupazione le fecero salire le parole fino alle labbra, ma l'amore le trattenne. La frustrazione e lo smarrimento che ne scaturirono minacciarono di lacerarla. «Sarò a casa non appena posso.» «Ecco come faremo, John. Tu tornerai a casa il prima possibile. È quello che voglio. E nel frattempo mi telefonerai. Ogni due ore.» «Telefonarti?» Mentre lo diceva, Eileen si rese conto che c'era qualcosa di puerile nella sua richiesta. Ma al diavolo! Era il minimo che lui potesse fare, no? Un compromesso. Un piccolo gesto per lei, anche se rifiutava tutte le altre cose che avrebbe dovuto fare. «Ogni due ore. Così saprò che stai bene.» «Ci proverò, ma...» Prima che potesse aggiungere altro, Eileen riagganciò. Per un momento, il silenzio nella stanza fu assordante. Tremando leggermente, lei rimase a fissare il proprio riflesso nella finestra, svuotando la testa dai pensieri. Forse non era stato saggio comportarsi in quel modo. Un groppo di emozioni le serrava la gola - una combinazione di rabbia e pena, di paura e amore - e l'esperienza le aveva insegnato che stenderci un velo sopra non avrebbe risolto la questione. Quei sentimenti poteva nasconderli, o affogarli nell'alcol, ma prima o poi avrebbe dovuto districarli e riprenderne le fila. Quella notte, la sua mente non era abbastanza lucida per mettersi a giocare coi sentimenti; se lei ci avesse provato, non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. Non c'era ragione di tormentarsi più di quanto avesse già fatto. La mattina dopo, con la mente più sgombra... Quando finì il vino, in un unico sorso, le tremava la mano. Andrà tutto bene. Lui starà bene, e anche tu. Poi si alzò e scese al piano di sotto. Continuare a bere probabilmente non era la più saggia delle decisioni, ma pazienza. Ancora un altro bicchiere - o quanti ne avesse voluti, in effet-
ti - e poi se ne sarebbe andata a letto, portandosi appresso il telefono. Se non chiama, che Dio lo aiuti. Vedremo. Aveva bisogno di calmarsi. Aveva bisogno di una medicina che placasse i suoi pensieri. Avevano parecchie bottiglie di vino, in casa. Nel corso degli anni, avevano accumulato una cantina di tutto rispetto, dalla quale tirare fuori le bottiglie migliori, per le occasioni speciali o per le cene con gli amici, e alla quale aggiungerne di nuove, comprate nei posti visitati nel corso delle loro tranquille vacanze. Quando aprì la porta che, dalla cucina, conduceva in cantina, Eileen sapeva che avrebbe potuto ricordare dove e quando avevano acquistato almeno metà delle cinquanta bottiglie che si trovavano là sotto. Era confortante. In qualche modo, quelle bottiglie registravano la loro storia di coppia. Quindi le sembrò appropriato, quella notte, trovarvi consolazione. 4 dicembre, ore 2.30 4 ore e 50 minuti all'alba Mark Decompressione. Le due e mezzo del mattino. Mi aggiravo per i corridoi dell'ospedale. A essere precisi, cercavo di ricostruire a ritroso la serie di svolte a destra e a sinistra che credevo di aver memorizzato per raggiungere l'ascensore. E stavo fallendo miseramente. Quel posto era un labirinto. In realtà, quello che più mi attirava era stendermi su una lettiga e dormire. Oppure prendere a calci le pareti di quello stramaledetto corridoio finché non fossero crollate. Trovai un ascensore affollato che stava scendendo, mi ci infilai a fatica e respirai a fondo mentre le porte si chiudevano. Ero furibondo con me stesso, ma lentamente stavo riacquistando il controllo: capivo bene cos'era successo con Scott. Avevo avuto l'incarico di costruire un rapporto di empatia con lui, di entrare nella sua testa, almeno in parte. Ci ero riuscito fin troppo bene. E di conseguenza ero rimasto scottato. Lise era da qualche parte nella mia mente, in profondità, ancor più del solito. Certo per via di quella giornata, del mio primo giorno da detective. Ma c'era di più... c'era anche quell'indagine. Prima, quando avevo visto il filmato dell'interrogatorio di Daniel Roseneil, non avevo biasimato
quell'uomo perché non ricordava nulla. Come avrei potuto? E poi, guardando Scott, riflettendo sul fatto che era un sopravvissuto, che ce l'aveva fatta... in realtà mi ero quasi ritrovato a osservare me stesso. Non potevo neppure considerare quella possibilità. Finché mi trovavo nella stanza con lui dovevo convincermi che Jodie era ancora viva, sebbene fossi pressoché certo che non lo era. Se avessi stabilito un legame di empatia troppo forte, se avessi pensato troppo a Lise... Sì, dovevo starci attento. Non solo per Scott, ma anche per me. Perciò: decompressione. Mi sforzai di considerare l'ascensore una specie di camera d'equilibrio, che permetteva di lasciare tutte quelle emozioni al piano superiore. Le avrei recuperate in seguito, nel prossimo interrogatorio. Pianterreno. Uscii insieme con la folla, voltai a destra, poi mi fermai e svoltai invece a sinistra. Seguendo le istruzioni del dottor Li, trovai Greg e Mercer rinchiusi in un vecchio spogliatoio in fondo all'ospedale. Quella parte dell'edificio era stata sgomberata per la ristrutturazione e molti dei corridoi erano chiusi, bloccati da fogli di polietilene opachi e chiazzati di polvere. Le luci al neon tremolavano leggermente e ronzavano più forte. Mi venne quasi subito mal di testa. La stanza che ci avevano assegnato era in disarmo. Vecchi armadietti ad altezza d'uomo erano stati rimossi dalle pareti e accumulati in tetre cataste nell'estremità più lontana. I neon appesi al soffitto erano spietati come i riflettori su una scena del crimine. Mercer era al centro, seduto su una vecchia sedia di plastica, e aveva l'aria di essere stato scaricato là dentro insieme col resto delle masserizie. La luce proveniente dall'alto gli disegnava profonde occhiaie e gli sbiancava la pelle, evidenziando le imperfezioni dell'età e facendolo sembrare ancora più vecchio di quanto non fosse. Il suo sguardo era perso nel nulla, privo di espressione. Impossibile dire se fosse estremamente concentrato su qualcosa o se non stesse pensando a niente. Greg, invece, aveva l'aria assai indaffarata. Un impressionante armamentario informatico era stato scaricato dal furgone e sistemato su tre lunghi tavoli. Su ognuno c'era un monitor, collegato a tre portatili, una stampante che faceva anche da fax, e un bel po' di equipaggiamento per le registrazioni. L'energia elettrica proveniva da un viluppo di prolunghe che si estendevano fuori dalla stanza e lungo il corridoio. Non c'erano prese, ma
solo vecchie tubature bluastre che sembravano abbastanza robuste da poterci salire sopra. Il computer centrale era collegato alla sala istruzioni virtuale. Il monitor più a sinistra mostrava le riprese in diretta di una videocamera in quel momento al buio; quello di destra, davanti al quale era al lavoro Greg, era fitto di script di programmazione. E, a giudicare dalla sua espressione, gli stava creando qualche difficoltà. «Interrogatorio numero uno», annunciai, posando accanto a Greg l'equipaggiamento di registrazione. «Grazie.» «Come va?» Indicò il computer. «Sto cercando di mettere in rete anche Pete. È nel bosco, ma non riesco a stabilire il collegamento. Maledetti computer.» «Be', intanto vi aggiorno su quello che ho ottenuto.» Mentre Greg si concentrava sulla connessione, fornii a entrambi un riassunto del colloquio con Scott: l'aggressione in casa, il tragitto sul furgone, il sacchetto sulla testa e la camminata nel bosco. Greg si sforzava di ascoltarmi, ma era evidentemente preoccupato per il suo lavoro. Invece Mercer continuava a fissarmi senza neppure battere ciglio. Era snervante. Non avevo idea se quello che stavo dicendo riuscisse a penetrare sotto la superficie o si limitasse piuttosto a rimbalzare come la luce riflessa da un vetro. A un certo punto mi fermai, incerto se continuare o no. Mercer allora sembrò scuotersi e mi chiese: «Quanto alla ragazza?» «Secondo lui, quando il killer lo ha rapito, lei era già nel furgone. Se ha ragione sui tempi, è probabile che l'abbia sequestrata mentre era al lavoro.» Mercer annuì. «Da quanto risulta dal contratto d'affitto dell'appartamento, lavora alla SafeSide Insurance. Bisognerà svegliare qualche collega, vedi di scoprire qualcosa.» «D'accordo.» «Può anche darsi che oggi non sia andata a lavorare», aggiunse. «Non scordiamoci che ha passato la giornata di ieri da Simpson.» «Sì, certo.» In effetti me n'ero scordato, o almeno lo avevo allontanato dalla mente. Mercer mi porse qualcosa. Una fototessera. «La teneva nel portafoglio.» La studiai con attenzione. «Corrisponde alla descrizione che ci hanno fatto i vicini di Simpson.» La ragazza nella foto aveva capelli castani e un bel sorriso attraente, ap-
pena un po' asimmetrico. La sua espressione diceva: Detesto farmi fotografare. Non era bella, però aveva un certo non so che. Carattere, forse. La foto era una semplice istantanea, ma sembrava aver catturato qualcosa della sua personalità. Immaginai Scott in attesa, fuori dalla macchinetta, che chiacchierava con lei attraverso la tendina mentre il flash scattava. Magari le sussurrava qualcosa per farla sorridere. E poi ritagliava una foto per tenersela nel portafoglio, mostrarla alla gente. Questa è Jodie. Non è fantastica? Nel mio portafoglio c'era una foto simile, di Lise. «L'abbiamo passata allo scanner e caricata», disse Mercer. «Jodie McNeice. Per salvarle la vita ci sono rimaste meno di cinque ore.» Era un commento insidioso. Greg e io non replicammo. Ero anche distratto, pensavo ancora a Kevin Simpson. Pur sapendo che era andata così, avrei voluto che Jodie non avesse avuto una relazione con lui. Dall'interrogatorio era evidente quanto Scott l'amava. Aveva tenuto quella foto nel portafoglio come emblema della loro vita insieme. Inoltre, nella foto, Jodie sembrava troppo felice per tradirlo. Ma pensai che chiunque cerca di sembrare felice davanti a un obiettivo fotografico. Poi mi venne in mente la foto dei Roseneil, così felici il giorno delle loro nozze. Era sbagliato accettare quella felicità come un dato di fatto. Dietro i sorrisi e gli aneddoti spassosi che la gente è sempre disposta a condividere, ci sono passi falsi e incrinature. Segreti. La gente ti fa vedere solo quello che vuole che tu veda. «Manderò qualcuno a mostrarla anche a Yvonne Gregory», mormorai. «Vediamo se può identificarla come la visitatrice di casa Simpson.» «Ottimo.» Mercer si strofinò il viso, riportando un po' di vita sulle guance - come se si fosse svegliato da un sonnellino -, poi si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro. «Ottimo. Che altro è emerso dall'interrogatorio? Cosa può dirci Banks sul posto dove lo hanno tenuto?» «Per il momento non molto. È confuso. Stanco, sconvolto. Non ricorda granché di quanto è successo. E soffre non appena ci prova.» Mercer si passò le dita tra i capelli. «Per via delle torture?» «In parte. Ma c'è un altro blocco, oltre alle torture. Alla fine, quando stava parlando di Jodie, era angosciato. È stato allora che ho deciso di sospendere per un po'.» «Non ricorda la fuga nel bosco?» «No, veramente no. Si tratta di ricordi particolarmente dolorosi, per lui. Rammentare di essere scappato nel bosco significa avvicinarsi a quello che
è successo subito prima.» «Cioè a quello che vogliamo noi, no?» Mercer sembrava sorpreso. «Capisco che non sia piacevole, ma, se riesce a ricordare qualche punto di riferimento nel bosco, potrebbe aiutarci a rintracciare la sua ragazza.» Scossi la testa. Mercer aveva ragione, però anche Scott era una vittima. Ripensai a quando si era messo a piangere, a quando la saracinesca si era abbassata. Forzarlo sarebbe stato troppo, per lui. E con tutta probabilità non avrebbe nemmeno condotto al risultato sperato. «Bisogna trattarlo con cautela», dissi. «Se lo costringiamo a parlare, rischiamo di perdere anche lui.» «Sì, ma se ci muoviamo troppo lentamente è certo che perderemo lei.» Forse è già successo. «Farò quello che posso.» Mercer annuì, come se gli avessi dato ragione. «Sì, non è affatto piacevole, e probabilmente è l'ultima cosa di cui avrebbe bisogno. Ma è necessario. Dovresti anche chiedergli di Kevin Simpson. Capire se sa chi è, o in che rapporti era con Jodie, a parte quello più ovvio.» Annuii lentamente. Pensando allo stato in cui si trovava Scott, se avesse soltanto sospettato che, oltre a tutto il resto, Jodie lo tradiva... be', non avevo idea di come avrebbe reagito. Probabilmente molto male. Ma d'altra parte non potevo sollevare altre obiezioni se non mettendo in discussione l'assunto di fondo di Mercer, cioè che Jodie era ancora viva. In quel momento, l'unica cosa che gli interessava era riuscire a salvarla. Greg approfittò dell'interruzione e tossicchiò. Guardai dalla sua parte e vidi che pure il terzo portatile funzionava a dovere. «Eccoci nel bosco», disse. Uno dei modi in cui mi ero preparato a quel nuovo incarico era stato leggere tutto il possibile sulla città. Mi ero procurato un blocco, una guida, diversi opuscoli fitti d'informazioni utili, e mi ero studiato le cartine sino a raffigurarmi lo schema della città quando chiudevo gli occhi. Il bosco si estendeva per una quindicina di chilometri lungo il margine superiore dell'abitato, a nord. Partendo dalla circonvallazione, c'erano circa sei chilometri e mezzo di alberi e colline prima di arrivare alle montagne. Un centinaio di chilometri quadrati di terreno vergine: destinati a riserva naturale, sebbene non accoglienti come la denominazione avrebbe lasciato sperare. Erano un bosco fitto, in qualche punto addirittura impenetrabile. Un paio di percorsi naturalistici ne scorrevano lungo il lembo più vicino alla città, ma senza inoltrarsi più di un paio di chilometri verso l'interno.
Ci sono posti in cui si va in cerca di tranquillità, per rilassarsi e fuggire da tutto. Ma ce ne sono altri che sono pericolosi per le medesime ragioni, e la tranquillità del bosco a nord della città sembrava appartenere a questa seconda categoria. Era frequentato da individui che, per varie ragioni, cercavano l'isolamento: barboni senza altri luoghi in cui rifugiarsi o criminali coi loro affari da sbrigare. Girava addirittura voce che, nella zona più vicina alle montagne, vivessero piccoli gruppi di separatisti. Tutta gente che un individuo civile e indifeso non avrebbe voluto incontrare durante una passeggiata nel bosco. Sarebbe stato come inoltrarsi in uno zoo soltanto per scoprire che le gabbie non avevano sbarre. Non era facile cercare qualcuno lì in pieno giorno e col sole. Alle due e mezzo del mattino, e con un tempo come quello, era praticamente impossibile. A giudicare da quello che si vedeva, Pete sembrava in mezzo all'Artico. Teneva il bavero del cappotto alzato, le spalle curve, e guance e fronte sembravano convergere, mentre lui socchiudeva le palpebre per scorgere qualcosa attraverso la neve che continuava a cadere, neanche potesse far cambiare il vento con le sue smorfie. Non avevo mai visto qualcuno tanto infelice e intirizzito. Greg si era spostato a un altro monitor e lavorava su un'immagine che sembrava una mappa. Mercer era seduto alla scrivania davanti alla webcam. Io ero nel mezzo, leggermente arretrato. «Ciao, Pete», disse Mercer. «C'è qui anche Greg. E quello sullo sfondo è Mark.» Pete grugnì. «Lo vedo.» «Come vanno le cose?» Dalla sua espressione, sembrava che non avesse mai sentito una domanda più stupida. «Vanno lente. E gelide.» «Qualche progresso?» Pete si guardò attorno. «Be', mi trovo nel punto in cui il nostro Mr Banks è sbucato sulla strada. Stiamo stendendo il cordone: un uomo ogni cento metri e a ogni curva della strada, in modo da mantenerci in contatto visivo. Se qualcuno dovesse uscire dal bosco, lo vedremmo.» «Ottimo», approvò Mercer. «Non hanno ancora trovato il furgone?» «Sì, ce l'abbiamo. A circa un chilometro e mezzo da qui. Parcheggiato e coperto di neve.» «Eccellente.» Nonostante l'evidente stanchezza, Mercer sembrava più vivace. Se il
furgone era rimasto lì, la sua teoria che ci fosse rimasto anche il killer si rafforzava. «Fallo controllare dagli artificieri prima che ci salga la Scientifica.» «Certo, John.» «Nel frattempo, diamo un'occhiata all'area di ricerca. Come andiamo, Greg?» Con un'aria poco soddisfatta, Greg si abbandonò contro lo schienale della sedia. «È il meglio che posso fare.» Girò il portatile in modo che noi due potessimo vedere. «Non è granché.» Una linea bianca s'incurvava nella parte bassa del monitor: probabilmente rappresentava la circonvallazione alla periferia nord della città. Gli uomini del cordone erano collegati al sistema di monitoraggio satellitare del dipartimento e apparivano come puntini gialli, che si allargavano a partire dal centro. A intervalli di qualche secondo, la mappa si aggiornava e i puntini si distanziavano. Un ammasso al centro dell'immagine indicava la posizione di Pete, che era anche il punto in cui Scott era uscito dal bosco. Un altro ammasso, più a destra, segnalava la posizione del furgone. Più in alto c'era una mappa approssimativa del bosco, macchie di luce e ombra separate da occasionali linee di colori vivaci, che rappresentavano i sentieri. Quello principale partiva dal punto in cui era stato abbandonato il furgone, puntava a nord per circa tre chilometri e poi piegava a destra, disegnando un'ampia curva, e infine si dirigeva a sud, verso la circonvallazione. Pareva formare una grossa N, appoggiata sulla strada carrozzabile. Il furgone era alla base della gamba sinistra della lettera; Scott era sbucato poco più a destra. Ancora più in alto si distingueva la striscia azzurra di un ruscello, simile a un sorriso sbilenco, che non sfiorava la gobba della N. Greg fece muovere il puntatore. «La maggior parte del territorio è coperta da un fitto bosco, e probabilmente i sentieri non sono così evidenti.» Il puntatore sfiorò alcune sagome bianche. «Questi sono i vecchi edifici di pietra. Strutture ormai in rovina.» L'espressione di Pete si era fatta più dubbiosa a ogni parola. «Fantastico, Greg», disse. «Che ne dici se ce lo portiamo appresso e completiamo la mappa mentre procediamo?» Greg sollevò le mani in segno di resa. «Non sparate sul messaggero.» «No, figurati. È che sul monitor sembra anche carino, ma, da dove mi trovo io, quegli alberi laggiù non sono altro che una muraglia nera del cazzo. Perciò mi servirebbe qualche indicazione in più, se non vi dispiace,
prima di cominciare a mandare degli agenti là in mezzo.» Dopo aver osservato con attenzione la mappa, Mercer si fece avanti e prese il mouse a Greg. Il puntatore si mosse in direzione dei puntini gialli vicino al furgone di Carl Farmer. «Mi sembra evidente che sia andata così: Banks e la sua ragazza sono entrati nel bosco da qui, lungo questo sentiero.» Mosse la mano e il puntatore seguì la linea bianca, la gamba sinistra della N. «A giudicare dal punto in cui è sbucato Banks, credo che a un certo punto si siano infilati in questa zona.» E tracciò un cerchio tra le due gambe della N. Annuii. Tirava a indovinare, ma da professionista. Scott era fuggito dal luogo in cui era stato tenuto prigioniero ed era emerso da un bosco fitto e difficile da attraversare proprio in mezzo a due sentieri. Se non si fosse già trovato in quell'area, avrebbe dovuto attraversare uno dei sentieri per arrivare lì. E se, correndo nel sottobosco, si fosse imbattuto in un percorso più facile, di certo lo avrebbe seguito. Erano solo ipotesi, ovviamente. Disorientato com'era, forse Scott aveva attraversato il sentiero senza neanche accorgersene. E, anche se il killer stava ancora trattenendo Jodie da qualche parte, niente gli avrebbe impedito di spostarsi, inoltrandosi in profondità nel bosco. Ma era un inizio; d'altronde sarebbe stato umanamente impossibile controllare cento chilometri quadrati di bosco impenetrabile nel poco tempo che ci restava. Individuando un'area più ristretta, Mercer aveva trasformato una missione impossibile in un'impresa più abbordabile. Era un buon punto di partenza. «Okay», sospirò Pete. «Ammettiamo che tu abbia ragione. Quanto sarà? Una ventina di chilometri quadrati?» «E allora? Non hai tutti quegli scaldasedie a disposizione?» «Ho degli uomini... che siano caldi non ci conterei. Trenta agenti, a parte quelli già impiegati per il cordone. Un numero lontanissimo da quello necessario. Abbiamo anche alcuni volontari delle squadre di soccorso. Dieci civili e tre cani.» «I cani non hanno individuato nessuna traccia?» «Non ancora. I cinofili hanno fatto annusare loro i dintorni del furgone e qui attorno. Ma i cani sono addestrati a trovare chi si è perso nel bosco, non a ripercorrere il tragitto che hanno compiuto. E la neve certo non aiuta. In terra non ci sono segni, e la traccia olfattiva è coperta.» Mercer non sembrò impressionato. «L'elicottero?» «Contro ogni buonsenso è in volo, e sta arrivando.» «È già qualcosa. Deve riferire di ogni traccia di calore che riesce a trova-
re. Dobbiamo verificarle una per una. Nel frattempo, abbiamo tutte quelle vecchie strutture da controllare.» Pete fece una smorfia, forse per la prospettiva di quel che lo aspettava oppure, più probabilmente, per l'uso del noi. Forse Mercer se ne accorse, ma lo ignorò. «C'è la possibilità che la tenga là dentro. Non credo voglia stare all'aperto con un tempo del genere.» «No», concordò Pete. «Ma ciò non vuol dire che non ci stia. Potrebbe essere ovunque.» Anche dalla parte opposta della città, pensai. «Be', in un modo o nell'altro dobbiamo delimitare l'area di ricerca, no?» disse Mercer con tono paziente. «Altrimenti sarebbe impossibile. Perciò ipotizziamo che sia dentro una di quelle costruzioni. E controlla anche le tracce di calore non appena ne trovate. Per nostra sfortuna, al momento è tutto quello che abbiamo.» Pete si limitò a fissarci per qualche istante, mentre la neve continuava a fioccargli attorno. Poi chiese: «Non abbiamo ottenuto niente da Banks?» «Non ancora», rispose Mercer. «Sembra che abbia rimosso quasi tutto.» Mi sentii sprofondare, irritato con me stesso per non aver capito quale direzione stava prendendo quello scambio di battute. Pete era sconcertato, per non dire ostile, all'idea di accollarsi un incarico così impegnativo; io ero riluttante a forzare Scott. Mercer aveva fatto in modo che i due problemi si scontrassero, contando sul fatto che qualunque obiezione io potessi sollevare avrebbe avuto scarso peso agli occhi di un uomo sotto la neve, al freddo, e in procinto d'intraprendere una lunga e difficile ricerca. E ovviamente aveva ragione. «Be', lo capisco», borbottò Pete. «Ma noi partiamo dal presupposto che la vita della sua ragazza sia in pericolo. Tutto quello che riesce a dirci può essere d'aiuto. Anche se fosse soltanto il ricordo di essere stato rinchiuso da qualche parte.» Mercer mi guardò. Io sbirciai la mappa e poi la smorfia di Pete. Di colpo, le mie obiezioni sembrarono prive d'importanza. Non avevo più la forza di ribattere. «Okay», dissi con un sospiro. «Vado a parlare con lui.» 4 dicembre, ore 2.50 4 ore e 30 minuti all'alba Scott
Con l'avanzare della notte, era cambiato anche il tono dei sogni di Scott. La sua mente addormentata sembrava in guerra con se stessa. Gli era successo qualcosa. Una parte del suo subconscio premeva perché lo riportasse alla luce e lo esaminasse, mentre l'altra cercava di seppellirlo e nasconderlo, con sempre minore efficacia. Le memorie e i ricordi più felici erano una casa fatta di carta, le cui fondamenta poggiavano su una pozza d'inchiostro nero. Gradualmente tutto si oscurava. Nel sogno, era stato il telefono a svegliarlo e, per tutta la telefonata, la sua mente era rimasta prigioniera dei filamenti viscosi del sonno. All'altro capo della linea, Jodie stava piangendo. Quando aveva parlato, la sua voce era debole e tremante. Gli aveva detto cos'era successo. Cos'aveva fatto. Lui era seduto sul bordo del letto ad ascoltarla e intanto giocherellava col filo del telefono, avvolgendosi le spire attorno alle dita. Poi l'aveva lasciato, allungando la mano per aprire le tende gialle, socchiudendo le palpebre nel sole mattutino. Le sei e venti. Sembrava che facesse già caldo. In ufficio sarebbe stata una giornata caldissima. «Non so che dire», aveva mormorato Jodie. Toccava a lui rispondere, no? Era assurdo che si sentisse così distaccato. Nel loro rapporto, era sempre stato il più paziente - quello che restava calmo, quello che dimostrava comprensione -, ma un simile atteggiamento era ridicolo. Jodie avrebbe potuto essere lì nel letto, addormentata accanto a lui. E invece si trovava a duecento chilometri di distanza e gli stava raccontando la cosa peggiore che lui poteva immaginare. «Non lo so neanch'io», aveva replicato. Le auto continuavano a passare. Il mondo esterno sembrava indifferente. Aveva lasciato cadere la tenda e la camera da letto era ripiombata in una più rassicurante penombra. «Sono rimasta sveglia tutta la notte, pensando a qualcosa da dire.» «E non ha funzionato, vero?» Se l'era meritata, ma subito lui aveva avuto l'impulso di scusarsi per essere stato così brusco. Non farlo. Una volta tanto doveva tenere a freno quella parte di sé. «Suppongo di no. Facevo le prove, cercando di mettere insieme qualcosa di coerente. Credo di aver fatto un gran casino. Ho rovinato tutto.» Di solito, quando s'inoltrava in quel territorio di autocommiserazione, lui
cercava subito di rincuorarla. Ma adesso sarebbe stato fuori luogo. Stavolta non avrebbe fatto finta di nulla, come se fosse stata lei quella che aveva subito il colpo. «Non hai dormito per niente?» le aveva chiesto. «No, sono rimasta in piedi tutta la notte. A vomitare, più che altro.» Non aveva riso. «Non so che dire», aveva ripetuto lei. «Be', questo l'hai già detto.» «Ma non mi viene altro da dire.» Non c'è altro, aveva pensato lui. Puoi solo continuare a ripeterlo, perché ora come ora riassume perfettamente la situazione. Non so che dire. Per il resto della conversazione, si erano limitati a studiarsi. Jodie aveva chiesto se era finita; Scott aveva replicato che gli serviva tempo per pensarci. In realtà, aveva bisogno di tempo per rendersene conto. Lo sorprendeva averla presa così bene. Di solito era un tipo alquanto insicuro, ma, per qualche ragione, quel fatto non gli sembrava la fine del mondo. Si era scopata il suo socio in affari? Sai che tragedia! Però c'era anche quella sensazione, quel sentirsi svuotato fin nel profondo... Si era convinto che prima o poi sarebbe crollato, cominciando a preoccuparsene davvero. Sono emotivamente squassato. Non c'era niente che si potesse risolvere al telefono. Eppure... «Ti richiamerò dopo il lavoro», le aveva detto. «Me lo prometti?» Era ridicolo. Lei sembrava ferita e sconvolta, come se fosse stato lui a fare qualcosa di male. Una parte di lui avrebbe voluto allungare una mano fino all'altro capo del filo e prenderla a sberle. L'altra parte avrebbe voluto stringerla forte e dirle che andava tutto bene. Trovava assurdamente elettrizzante quella battaglia interiore. «Lo prometto», aveva replicato. «Ho bisogno di rifletterci.» Quella frase aveva provocato un nuovo accesso di disperazione: «Mi ami?» «Devo andare.» Aveva chiuso la comunicazione, interrompendo il rumore del suo pianto. Scott era rimasto seduto per qualche istante, mentre il silenzio gli strisciava addosso. Gli sembrava che l'aria fosse pressurizzata, come se lui fosse sott'acqua. Sentiva le auto, le voci delle persone, ma si sentiva spento. Come una casa vuota. La luce colpiva le finestre, però nessuno guardava fuori; il vento sferzava i muri, però i muri non lo sentivano. L'orologio sul comodino diceva: 6.34, in cifre rosse luminose.
Aveva sentito un rumore alle sue spalle, come un respiro. Scott si era voltato molto lentamente. Sotto di lui, il letto aveva cigolato. Quella cosa era sulla soglia, con le spalle che si sollevavano e riabbassavano pesantemente, come se avesse fatto una lunga corsa per raggiungerlo. Teneva in mano qualcosa. Vedendolo, Scott aveva cercato invano di muoversi. Ma aveva gli avambracci premuti sulle cosce, immobilizzati da legami che non riusciva a scorgere. Panico. «80», aveva detto la cosa. La voce sembrava più normale che nei sogni precedenti. «Hai scelto me. Cosa vuol dire?» Cosa voleva dire? Scott era stato sul punto di affermare che non lo sapeva. Se si trattava di Jodie... era sbagliato. Lei non lo aveva scelto per niente; era vero piuttosto il contrario. Ma poi un'immagine gli attraversò la mente. Jodie seduta sul letto nella sua stanza d'albergo, la testa tra le mani. Piangeva. «Non era obbligata a telefonarmi», aveva detto. «Poteva far finta di niente. Non era neppure obbligata a dirmelo.» Il diavolo aveva inclinato la testa. «E dopo cos'hai fatto?» «Non mi sento bene», aveva detto alla segreteria telefonica dell'ufficio. Il nastro di registrazione girava lentamente nell'ufficio deserto. Il suo capo non arrivava mai prima delle nove e a volte non veniva affatto. «Sono rimasto alzato quasi tutta la notte. Temo di aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male. Sto da cani.» Dopo aver aggiunto qualche altra cosa, nessuna particolarmente convincente, aveva riattaccato. Sul comodino c'era un bicchiere d'acqua, che lui aveva afferrato, scagliandolo contro il muro. Si era pentito subito di quel gesto. Le assi del pavimento avevano frusciato mentre lui spazzava via i vetri rotti, e il secchio della spazzatura al piano di sotto, accogliendo le schegge, aveva esalato un fruscio polveroso. Aveva preso le chiavi, il portafoglio e il cappotto e si era avviato alla porta. «Sei andato da lei, vero?» Il diavolo era accosciato di fronte a lui. La mente addormentata di Scott lo aveva accettato; a un certo livello, comprendeva quello che stava accadendo. La memoria del tradimento di Jodie risaliva a due anni prima, mentre il diavolo apparteneva a ricordi più recenti, ma le due cose erano legate.
Avevano parlato del tradimento. E, quando i ricordi si sovrapponevano per qualche istante, anche i racconti s'incrociavano. Il veleno poteva affiorare. «Sì», aveva risposto. La stanza d'albergo di Jodie era molto più grande di quanto si fosse aspettato. Di solito gli piacevano gli alberghi. C'era qualcosa di rassicurante nei corridoi stretti, nelle luci soffuse, nelle stanze quasi cavernose. Ma in quel momento non ci trovava niente di confortante. Continuava a immaginare Jodie e Kevin insieme. L'aveva incontrata nel corridoio e si erano avviati verso la stanza senza dirsi granché. Accendendo la luce, lei aveva sussultato. Sul mobile appoggiato alla parete c'erano un piccolo televisore e un vassoio col necessario per preparare tè o caffè. Niente tazze sporche o filtri usati, ma di certo lei aveva bevuto qualcosa. Lui si era chiesto se gli addetti al servizio in camera avessero già portato via qualche tazza sporca. Il letto matrimoniale era appoggiato alla parete opposta, una lampada a ogni lato della testiera. Un divanetto a due posti e due sedie circondavano un tavolino dall'altra parte della stanza. «Caffè?» aveva chiesto lei. Lui aveva annuito, ma Jodie lo stava già preparando. «Questo bollitore ci mette secoli a scaldare l'acqua.» Era agitata, non riusciva a star ferma. Dopo alcuni lunghi minuti di silenzio, il vapore aveva cominciato a uscire dal beccuccio del bollitore. Lei gli aveva porto una tazza di caffè, tenendola fra il bordo e il fondo in modo da lasciargli libero il manico. «Grazie», le aveva detto. «Di niente.» «Sei sorpresa che sia venuto?» «Sono contenta.» «Bene.» «Per favore, non...» Mentre lo diceva, le parole erano rimaste prive di fiato, e lei aveva dovuto ricominciare. «Per favore, non lasciarmi.» «Dobbiamo parlarne.» «Per favore, non lasciarmi. Non so come farei, altrimenti.» Aveva bevuto un sorso di caffè. «Farò quello che vuoi. Sul serio. Farei qualunque cosa perché non fosse successo, vorrei poter tornare indietro, ma non si può. Posso soltanto chiederti scusa. Ero così ubriaca. È stato un errore madornale.» Aveva appoggiato la tazza sul pavimento. «Odio me stessa più di quanto potresti mai odiarmi tu.»
«Io non ti odio, Jodie.» «Dovresti.» Autocommiserazione, di nuovo, e solo per essere rassicurata. Lui invece aveva allargato le mani, cercando di parlarne nel modo più semplice. «Dobbiamo capire cosa fare da adesso in poi.» «D'accordo.» «Io vorrei che tutto riprendesse come prima. Ma non so se sarà possibile. È tutto il giorno che mi sento strano. Strano e ferito. Ancora non l'ho metabolizzato.» «Lascerò il lavoro, se serve.» Lo aveva detto troppo in fretta. «Se è quello che vuoi, lo farò. Lo farò subito.» L'aveva guardata. Faceva sembrare tutto così facile, così semplice... Ma lei era stata socia in quell'attività fin dall'inizio, e ci erano voluti tre durissimi anni prima che cominciasse a decollare. Avrebbe dovuto essere più tormentata, almeno in apparenza, invece sembrava del tutto convinta. Jodie stava scegliendo lui. Se lui l'avesse voluta, avrebbe mollato tutto il resto. Per salvare la loro relazione. Scott aveva continuato a fissarla, senza sapere cosa dire o come risponderle. Era impossibile chiederle una cosa del genere. Ma lui sapeva pure che, se Jodie avesse continuato a lavorare con Kevin, a vederlo tutti i giorni, sarebbe stato assurdo tornare insieme. Non c'era una via di mezzo. Così non aveva detto nulla. Dopo un momento, lei aveva annuito. Nei due anni successivi, Scott aveva ripensato a quel gesto, servendosene per giustificare quello che era successo. Annuendo, lei gli aveva offerto la possibilità di mentire a se stesso. Non era stata una decisione di Scott. Non le aveva chiesto lui di rinunciare alla sua vita. Lo aveva deciso lei, di testa sua. «Hai scelto me...» Di colpo si ritrovò in un altro posto: un luogo orribile, in cui i frammenti d'immagini erano brevi e aspri. Era buio, una costruzione di pietra, e il diavolo era chino su di lui. Reggeva un cacciavite, dal quale si levava un filo di fumo. Il diavolo gli premette la lama arroventata su una spalla. Scott cercò di divincolarsi, ma non poteva muoversi. Per un attimo tutto si confuse... poi il dolore gli serpeggiò lungo la clavicola e giù fino alle costole.
Cominciò a gridare, la bocca spalancata, sbattendo la testa da una parte e dall'altra. Non riconosceva neppure lui i suoni che emetteva. Ma il diavolo continuò a premergli la lama sulla carne. Scott sentì la propria pelle che sfrigolava. Sentì l'odore della sua stessa pelle che bruciava. Era possibile perdere i sensi all'interno di un sogno? Quando la cosa staccò il cacciavite e lo spostò contro l'interno della coscia, scoprì che non lo era. 4 dicembre, ore 3.00 4 ore e 20 minuti all'alba Mark Dopo che Pete si era congedato, allontanandosi per coordinare le ricerche, mi collegai alla sala istruzioni virtuale per dare lo stop alla mia squadra porta a porta. Notai con fastidio che sembravano tutti e tre pronti a continuare per giorni e giorni, e mi sentii piuttosto inadeguato. Ero così stanco che i miei pensieri faticavano a seguire un filo logico. Bisognava però dire che loro se ne stavano a inserire i dati degli interrogatori in un bell'ufficio caldo, sorretti da tutto il caffè che erano in grado di bere. Spiegai cosa dovevano fare. Svegliare Yvonne Gregory - con gentilezza - e mostrare in giro la foto di Jodie McNeice per ottenere un'identificazione certa, poi scovare qualche collega di lavoro di Jodie per farsi confermare se, negli ultimi giorni, lei era andata in ufficio. In seguito ci sarebbe stato altro da fare, aggiunsi, tenendomi sul vago. Si trattava di due incarichi rognosi, con la minaccia di altri in arrivo, ma apparentemente vennero accettati di buon grado. Invidiai la loro energia. Per quanto cercassi di girarci attorno, non poteva dipendere solo dalla caffeina. Mentre tornavo verso la camera di Scott, la stanchezza mi piombò addosso con tutto il suo peso. Procedevo lungo i corridoi e il mio sguardo sembrava precedermi di diverse lunghezze, finendo ogni tanto col perdersi. Nel contempo, cercavo di lasciarmi alle spalle la maggior parte dei pensieri. Quando mi fermai, tutto il resto sembrò muoversi per qualche secondo ancora. Ero ubriaco di stanchezza. «Mi scusi, agente.» «Scusi lei.» Lì sotto non era poi così male. C'era meno gente in movimento, ognuno
aveva una cartellina in mano, oppure spingeva un carrello coi medicinali o quello per le pulizie. Ma al piano di sopra non c'era nessuno che bighellonava. C'erano vite da salvare, e tutto era estremamente organizzato e frettoloso. Dovevo creare meno intralcio possibile e levarmi di mezzo, ma l'impresa sembrava superiore alle mie forze. Mi sentivo malfermo nel corpo e nella mente. Prima di parlare con Scott, dovevo recuperare un minimo di calma e di sicurezza. Due minuti più tardi, senza sentirmi meglio, ero di nuovo nella stanza. Mi ero scordato quanto fosse tranquilla e silenziosa. La luce bassa dava una sensazione di pace, sottolineata dalle pulsazioni costanti di Scott, amplificate dal macchinario accanto al suo letto. Era ancora nella stessa posizione in cui l'avevo lasciato, sollevato sui cuscini con la testa girata verso le persiane chiuse. Sembrava tranquillo, tanto che per un momento credetti che fosse addormentato. Ma lui si voltò subito a guardarmi. «Ah, è lei.» E tornò a girarsi verso la finestra. Chiusi lentamente la porta. «Stava aspettando il medico? Gliene chiamo uno, se vuole. Mi creda, ce ne sono a centinaia, qui fuori.» «No. Speravo che fosse lei. Mi scusi per prima.» «Non c'è niente di cui scusarsi.» Mi tremavano un po' le gambe. Ripresi la mia posizione sulla solita sedia accanto al letto e misi in funzione l'attrezzatura per registrare. «Che ore sono?» «Le tre appena passate.» «Non l'avete ancora trovata?» «No, non ancora.» Le sue domande erano interessanti. Che fosse in qualche modo consapevole della scadenza fissata per l'alba? «Ma la troveremo. Ci sono agenti che la stanno cercando proprio adesso, nel bosco. Controllano una serie di luoghi in cui pensiamo possa tenerla.» Durante la mia assenza, avevo scordato l'orrore dell'aspetto di Scott. Persino nascoste sotto garze e bendaggi, le sue ferite erano dolorose anche solo da vedere. «Però si tratta di un'area molto vasta, perciò abbiamo proprio bisogno di tutto il tuo aiuto. Diamoci del tu, va bene? Per quanto difficile, devi cercare di ricordarti quello che ti è successo.» Forse era un gioco della luce o della mia memoria, ma le ombre sul suo viso mi sembravano più profonde di prima e il dolore che vi si leggeva an-
cora più radicato. Pareva tormentato, come se i fantasmi dei ricordi cui cercava di sfuggire cominciassero a rimaterializzarsi nella semioscurità di quella stanza. Era così schiacciato dallo sconforto che il dolore fisico sembrava passare in secondo piano. Infine si voltò di nuovo verso di me, troppo stanco per provare imbarazzo per il suo stato. Ma non cercò scuse per non rispondere. «Mi è tornato in mente qualcosa. È strano.» «Cosa?» «Nel furgone. Mi è sembrato che ci fossimo fermati un paio di volte lungo la strada...» «Sì, me l'hai detto.» «Be', è strano, ma credo che sul furgone ci fosse un bambino.» Non riuscii a nascondere la sorpresa. «Un bambino?» «Un bimbo piccolo, intendo», aggiunse, come se ciò rendesse la cosa più normale. «Il tizio con la maschera da diavolo continuava a sussurrare a qualcuno che stava sul sedile del passeggero. Come per rassicurarlo. Ricordo di aver sentito il pianto di un neonato. E poi, dopo una delle fermate, non l'ho più sentito.» Lo fissai per un momento, riflettendo. Non perché non gli credessi; tuttavia dovevo tener conto del trauma che aveva subito e dei tranquillanti che gli avevano somministrato. Forse la sua mente stava cercando di dare un senso logico a una serie di eventi che le si erano presentati in maniera completamente diversa. Oppure poteva essere vero. In tal caso, aveva ragione lui: era strano. Lo archiviai mentalmente, per approfondire la questione al piano inferiore. «Riesci a ricordare quello che diceva l'uomo?» «No. Non quello che ha detto allora, comunque.» Feci una pausa, poi chiesi: «E in altri momenti?» «Sì.» Annuì lentamente. «In effetti, credo che abbia parlato molto con me. Ma è come svegliarsi da un brutto sogno. Sai di aver parlato con qualcuno, però non resta nessuna traccia di cosa vi siete detti. Ho la sensazione che abbiamo avuto un lungo dialogo, tuttavia non ricordo su cosa.» Si concentrò profondamente, poi scosse la testa. Però non sembrava angosciato, solo confuso. Ebbi l'impressione che volesse sentirsi chiedere altro. «Quell'uomo... sembra che segua le persone per molto tempo», continuai con cautela. «Impara molte cose, e le usa poi contro di loro.» «Non capisco.» «Sai bene che ti ha fatto del male. Ma il dolore che lui infligge non è so-
lo fisico. Ti ha probabilmente detto alcune cose capaci di sconvolgerti. Potrebbe averti raccontato qualcosa di spiacevole su Jodie, per esempio.» Scott mi guardò. «Ti viene in mente qualcosa?» Lui sembrava già lontano. «Scott?» Lui: «Kevin». Cercai di non far capire che conoscevo quel nome. «Ricordi qualcosa?» «Credo di sì. Mi ha parlato di Kevin.» «Chi è Kevin?» Fece per rispondere, ma s'interruppe subito e distolse lo sguardo. Attento, mi dissi. Non forzarlo. Lascia che si prenda il suo tempo. Fissò a lungo la finestra. Attesi pazientemente, ascoltando il bip del macchinario e chiedendomi se lui stesse cercando le parole oppure i ricordi, o più semplicemente il coraggio necessario per parlare. Alla fine disse: «Jodie ha avuto una relazione». «Capisco.» «Non una relazione vera e propria. Una storia di una notte.» «Quand'è successo?» «Un paio d'anni fa. Kevin era un suo vecchio compagno di università. Finiti gli studi, hanno messo in piedi una società, partendo da zero. Cominciava a funzionare abbastanza bene e quella volta erano in viaggio d'affari insieme. Nello stesso albergo.» Respirò a fondo e poi ripercorse velocemente i fatti, come se fossero le ultime ripetizioni di una sessione di allenamento. «Si è ubriacata. Sono finiti a letto insieme. Il giorno dopo, lei mi ha telefonato e me l'ha detto. So che non ha senso, però credo che il tizio con la maschera da diavolo mi abbia parlato di questa storia.» Non era quello che mi aspettavo e ci misi qualche istante per contestualizzare la rivelazione. Scott mi aveva detto che Jodie non soltanto aveva messo in piedi la CCL con Kevin Simpson e aveva avuto una fugace relazione con lui due anni prima, ma pure che il 50/50 Killer lo sapeva. Sebbene non fosse impossibile che avesse seguito la coppia per tutto quel tempo, sembrava comunque inconcepibile. Però erano due anni che non si sentiva più parlare di lui, no? E, come aveva detto Mercer, in quel periodo aveva avuto tutto il tempo di organizzarsi. «Cos'è successo dopo quella notte?» gli chiesi. «Abbiamo parlato. Di tutto. Della possibilità di lasciarci. Ma era stato
semplicemente un errore, dovuto alla sbornia. Non volevo lasciarla per quello.» Mi venne in mente che Jodie adesso lavorava per una compagnia di assicurazioni. «Jodie ha lasciato la società?» «È stata una decisione sua, non le ho chiesto io di farlo.» Sembrava frustrato. «Certo, non gliel'ho neppure impedito, però. Se avesse continuato a lavorare con lui, tra noi non avrebbe più funzionato. Metteva tanta energia in quel lavoro che, alla fine, passava più tempo con Kevin che con me, e io non sarei più riuscito a sopportarlo. Suppongo che se ne sia resa conto. Così ha scelto me.» «Capisco.» E poi? mi chiesi. Scott si riferiva a fatti avvenuti due anni prima. Jodie aveva continuato la sua relazione con Kevin per tutto quel tempo? E il 50/50 Killer lo aveva raccontato a Scott? Di certo doveva averlo fatto. Scott stava cominciando ad agitarsi. «Lei ha scelto me», ripeté. La scelta delle parole era rivelatrice: Lei ha scelto me. Stava annaspando in direzione di ciò che era successo e, se mai l'avesse trovato, non gli sarebbe piaciuto. «Stai tranquillo», mormorai. «Come ti dicevo, l'uomo che ti ha fatto tutto questo parlava soltanto per ferirti. Capisci? Se ne serviva per farti del male.» «Sarebbe questo il gioco?» Lo guardai, pensando a cosa dire. Aveva assoluto bisogno di una risposta, ma la verità poteva essere troppo difficile da sopportare. Infine chiesi: «Cosa ricordi in proposito?» «Solo quelle parole. Ha parlato di un gioco. Ha detto che alla fine l'avrei ringraziato.» La parte del viso lasciata libera dalle bende sembrò assumere un'espressione più determinata. «Continua.» Lo guardai. Non cambiò atteggiamento. Avevo quasi la certezza che fosse arrivato il punto di lasciar perdere, però mi servivano informazioni, e mi ero impegnato ad arrivare sino in fondo. Se lui aveva il coraggio di chiedere, io dovevo avere quello di rispondere. «Il gioco sta nel prendere di mira una coppia», mormorai. «Soltanto uno dei due è destinato a morire all'alba... e lui lascia che sia l'una o l'altro a decidere. Sceglie un membro della coppia e poi si serve di ogni possibile tortura, sia fisica sia emotiva, per costringerlo a tradire il proprio partner. Il gioco consiste in questo.» Suonava spietato e lugubre, ma non c'era altro modo di spiegarlo. «Vai avanti», disse lui.
Eccoci al punto. Mi appoggiai allo schienale. In superficie, la determinazione c'era ancora, ma sotto di essa si stava insinuando qualcos'altro. Ricordi che affioravano, forse, o la consapevolezza di ciò che avevo appena detto. Poi la fermezza scomparve e, per quanto lentamente, il terrore cominciò a prendere il suo posto. «Allora l'ho tradita?» «Questo non possiamo saperlo.» «È l'unica spiegazione...» «Qualunque cosa sia successa, non c'era niente che tu potessi fare», lo interruppi con tatto. Deglutì a vuoto. Gli tremò la voce. «Perché?» Mi chinai verso di lui. «Perché lo fa?» chiese Scott. Bella domanda. Era sempre quella, la domanda, no? Io stesso me l'ero posta fino alla nausea negli ultimi sei mesi e mi ero sempre ritrovato col solito, insoddisfacente pugno di risposte. Perché lei è annegata? Per la serie di eventi che ci ha condotto fino a quella spiaggia. Per la fisica del moto ondoso. Per la fisica di un corpo in acqua. Ma quelle erano soltanto spiegazioni e io volevo qualcosa di più profondo. La verità è che al mondo non importa un accidente di ciò che è importante per me. Perché il 50/50 Killer faceva quelle cose alle coppie? Per distruggere l'amore che c'era tra i due, perché si voltassero le spalle. Era un «lupo dello spazio»... qualunque cosa significasse. Un diavolo. Ma questo non faceva che sollevare altre domande. Quando ci si chiede: Perché? la risposta di solito è la somma di un centinaio di motivi diversi, ognuno insoddisfacente se preso da solo e insoddisfacenti anche nel loro complesso. Proprio come me, Scott non si accontentava di nessuno di quei motivi. Il suo «Perché?» si collocava a un altro livello, dove nessuna risposta era possibile. «Non lo sappiamo», ammisi. «Per ora, possiamo soltanto interpretare i fatti e ipotizzare teorie. Quando lo prenderemo, forse potremo chiedergli una spiegazione. Adesso, però, conta soltanto riuscire a fermarlo prima che faccia del male a Jodie.» Più di quanto non le abbia già fatto. Lo sguardo terrorizzato non era scomparso dal viso di Scott, ma se non altro lui non si era ancora lasciato sopraffare dall'emozione. Scartabellai il dossier, presi la foto di Carl Farmer e gliela porsi. Lui la prese e la osservò, il volto sempre più impietrito. La mano tremò. «È lui?» chiese.
«Speravo che me lo dicessi tu.» Si concentrò, fissando la foto. «L'ho già visto da qualche parte. So di averlo visto. È stato in casa nostra. Qualche mese fa. A leggere il contatore.» «Bene.» Ottimo, pensai. Con quella, erano due le identificazioni raccolte da due fonti indipendenti. Per quanto sembrasse incredibile, il 50/50 Killer ci aveva davvero permesso di scoprire la sua faccia. «Però non so se è lo stesso uomo nel bosco», continuò, restituendomi la foto. «Ricordo solo che sembrava il diavolo. Non soltanto per via della maschera. L'uomo che ho in mente... non era neppure un uomo.» Si girò di nuovo verso la finestra, e io lasciai che le sue parole restassero come sospese nell'aria. Anche Daniel Roseneil aveva detto qualcosa di molto simile: Era il diavolo. Ovvio che non lo era. Il diavolo non esiste. Ci sono solo storpi, persone deformi. Ma, pur sapendolo, non ero così sicuro che Daniel e Scott avessero completamente torto. Nel nostro fallibile mondo di cause ed effetti, in cui le risposte non sono mai soddisfacenti, poteva anche essere vero. «Muri di pietra», mormorò Scott. Era ancora voltato dall'altra parte. Mio malgrado, avvertii un palpito di eccitazione. «Muri di pietra?» «Il posto in cui mi teneva, i muri erano di pietra.» Deglutì. «Lo ricordo. Era stretto, non ci si muoveva. Le pareti mi sfioravano le spalle.» «Sì, Scott, così va benissimo.» Quindi lo aveva tenuto prigioniero in una delle costruzioni che si trovavano nel bosco. La zona delle ricerche si stringeva ancora di più: a giudicare dalla mappa, ce n'erano diverse, ma non era un'impresa impossibile setacciarle. Forse avevamo ancora una possibilità di trovare Jodie viva prima dell'alba, dopotutto. «Riesci a ricordare qualche altro dettaglio?» «Rammento i muri di pietra. Lui era accovacciato davanti a me, e mi parlava.» Scott continuava ad annuire, a tratti e impercettibilmente. Qualcosa lo angosciava, ma lui stava cercando di resistergli il più a lungo possibile. «Sussurrava nel buio. Vicinissimo. Ero terrorizzato.» Ormai avevo ottenuto quello che volevo, e il mio primo istinto fu di tirarmi indietro, di portar via Scott dal luogo in cui la sua memoria lo stava riconducendo. Ma non sarebbe stato giusto. Se lui era pronto a parlare, io dovevo essere pronto ad ascoltarlo. «Era buio pesto?» gli chiesi.
«No, c'era un po' di luce.» «Un fuoco?» «Sì, credo di sì. Lo usava per...» Il ricordo gli piombò addosso senza preavviso. Smise di annuire, smise di parlare, rimase assolutamente immobile. Poi si portò lentamente una mano al viso. Lottai contro l'impulso d'imitarlo. «Non preoccuparti, Scott.» «C'erano muri di pietra.» «Grazie. Te la sei cavata benissimo.» «Muri vecchi.» Stavolta non si mise a piangere, ma si coprì l'occhio ferito con la mano. Ero stato io a ridurlo in quello stato; era colpa mia. Sarei dovuto restare, per fare tutto ciò che potevo per aiutarlo ad affrontare quel ricordo appena riemerso. E invece ero costretto a lasciarlo, almeno per un po', per riferire quelle informazioni al piano di sotto e dare indicazioni a Pete per la sua squadra di ricerca. «Scott, tornerò prima che posso.» Mi sentivo in colpa mentre mi alzavo, raccoglievo l'equipaggiamento e andavo alla porta. Prima di uscire, mi voltai. «Grazie», gli dissi di nuovo. Ma lui non diede segno di avermi sentito. Era girato verso la finestra, con la mano ancora appoggiata sul bendaggio che gli copriva il viso. 4 dicembre, ore 3.20 4 ore all'alba Charlie La guerra era cominciata. Charlie si rincantucciò in fondo al suo rifugio, tremante. Non era per il freddo. Erano anche i nervi; i nervi che lo scuotevano. Dolci filamenti di eccitazione gli incendiavano lo stomaco e gli facevano tremare il cuore. Il momento stava per arrivare. Il cielo si sarebbe incrinato e poi... Aggrottò la fronte nell'oscurità. Be', di certo ci sarebbe stato il calore e immaginava che ci sarebbe stata anche la luce. Per il resto, forse era questione di avere fede. Di stare a vedere cosa sarebbe successo. Per ora aveva il fuoco, che intanto gli forniva luce e calore a sufficienza. «Devi accendere un grande fuoco», gli aveva detto il diavolo. «Sì, accendi un gran fuoco, così loro non potranno vederti.»
Due giorni prima, gli aveva mostrato come. Lui era andato al campo e aveva trovato il diavolo seduto a gambe incrociate nella piccola radura, intento a preparare il combustibile. Lì vicino c'era già una grossa catasta di legna secca, che il diavolo aveva alimentato poco a poco. Riesci a vederlo apparire? All'inizio, Charlie non l'aveva visto e si era scoraggiato: forse non ne era degno, dopotutto. Anche il diavolo sembrava deluso, ma lo aveva rassicurato, incoraggiandolo a fissare la pira e a concentrarsi di più. Alla fine, socchiudendo le palpebre, l'aveva visto crescere. Si era esaltato come non mai. Il diavolo aveva approvato. «Quando avremo finito, t'insegnerò a farlo da solo», gli aveva promesso. «E non solo con la legna.» Il rifugio di Charlie era nel folto degli alberi e il fuoco di quel legno magico ardeva a una decina di metri da lui, al centro della piccola radura. Una corona di fiamme danzanti, grande abbastanza per la fronte di un gigante. Il cielo continuava a scaricare neve, e il fuoco lo ripagava con fumo e sbuffi di cenere, che s'innalzavano, galleggiando su immense ondate di calore. Nonostante quel tempaccio continuava ad ardere, brillante: un cerchio d'inferno impastoiato, che fiammeggiava rabbioso verso il cielo. La legna bruciava e si carbonizzava. Di tanto in tanto, un ciocco precipitava e un pennacchio di scintille roventi si levava nell'aria. Persino a quella distanza se ne percepiva il calore. Si sentiva le guance gonfie ed era coperto di sudore. Spostò il coltello nell'altra mano e si asciugò il palmo lungo la gamba. Poi riprese il coltello e si assicurò una buona presa sull'impugnatura. Doveva tenersi in forma. Essere pronto. Era un buon fuoco, doveva esserlo. «Adesso sei uno dei miei soldati», gli aveva spiegato il diavolo. «Sai cosa vuol dire? Che quando gli angeli passeranno in volo, qui sopra, guarderanno in basso e non vedranno altro che il fuoco.» Gli angeli erano già in volo. Non c'era ritorno. «Perciò ti serve il fuoco per nasconderti.» Era da un'ora che li ascoltava volare nel cielo e, se mai c'era stato qualche dubbio sulle parole e sulle promesse del diavolo, ormai era svanito del tutto. Gli angeli erano terrificanti. Rombavano nel cielo, il muso simile a cento spadoni che mulinavano nell'aria. Sotto di loro, gli alberi fremevano, tremando di paura. Charlie rimase immobile in mezzo a tutta quella confusione. In lontananza, lampi di luce saettavano dal cielo. E lui continuava a restare calmo. Il momento stava arrivando, e lui doveva essere forte.
Era cominciato circa una settimana prima. Fino ad allora, la vita di Charlie era stata piuttosto irreggimentata. L'amministrazione comunale pagava la sua retta alla Casa sulla Collina, vale a dire vitto e alloggio con tre pasti completi al giorno e tutto il resto. Al contrario di altri ospiti, lui era libero di andare e venire come meglio credeva. Le infermiere erano preoccupate per l'uomo che ogni tanto gli parlava dentro la testa, ma era passato molto tempo da quando aveva detto a Charlie di fare qualcosa di brutto. Più che altro, era lui a rimanere sconvolto dalle cose che gli diceva quell'uomo e, se la prendeva proprio male, seguiva il consiglio delle infermiere e se ne stava a letto, ignorando tutto e tutti. Dopo un po', l'uomo si era zittito. A Charlie piaceva socializzare, e alle infermiere non importava se andava a fare un giro in città o una passeggiata o quello che gli pareva. Ma a lui la città non piaceva. L'uomo gli aveva detto che in città la gente era diversa, che non lo voleva. Preferiva l'isolamento delle camminate nel bosco. Era più tranquillo. Non c'era nessuno in giro, e quello lo rendeva felice. Ma la settimana precedente si era inoltrato nel bosco più del solito e si era accorto di non essere solo. Si stava muovendo senza una meta precisa lungo il sentiero, guardandosi attorno, quando di colpo aveva sentito un brivido. C'era qualcosa di diverso. L'uomo nella sua testa gli aveva detto di fermarsi, e lui aveva obbedito. Per un attimo, non aveva sentito altro che il canto degli uccelli. Poi si era sollevata la brezza, facendo stormire le cime degli alberi: un suono che somigliava a quello di una cascata. Quindi, sulla sua destra, lo scricchiolio di un ramo che si spezzava. Va' a vedere, gli aveva detto la voce, e lui aveva obbedito. Il diavolo era a una quarantina di metri, camminava lungo un sentiero parallelo al percorso principale. Charlie non riusciva a scorgere granché del suo corpo, quasi tutto nero, però vedeva chiaramente la testa, perché la pelle rossa si stagliava contro il verde delle foglie e il marrone dei tronchi. Aveva cominciato a tremare. Il diavolo aveva continuato a camminare, apparentemente senza notarlo, però, subito prima di sparire alla vista, si era fermato. Non aveva guardato verso di lui: si era limitato a inclinare appena la testa di lato, come se ascoltasse un radar interno. Ma Charlie aveva subito capito che si era accorto di lui. Era sembrato non badarci. Un paio di secondi dopo, aveva ripreso il cammino ed era svanito nel sottobosco.
Seguilo, lo aveva incitato la voce. No. Charlie aveva scosso la testa. Non voleva. Seguilo! Charlie era rimasto immobile per un po', spaventato, sconvolto, ma anche incuriosito. Una parte di lui non voleva che il diavolo se ne andasse senza poterlo rivedere. L'uomo nella testa sembrava saperlo, così aveva irradiato flussi di parole in quella parte del cervello di Charlie e li aveva fatti crescere, sinché non erano stati troppo grossi per poterli ignorare. Il suo corpo aveva già cominciato a muoversi, senza aspettare il permesso. Aveva tagliato in mezzo al sottobosco, tra i due sentieri. Adesso che non si tratteneva più si sentiva molto meglio, come sempre. Ma il diavolo era sparito. Quel giorno non lo aveva più ritrovato. Quand'era tornato alla Casa, l'uomo nella sua testa lo aveva avvisato di non raccontare niente a nessuno, nemmeno al suo amico Jack, e la cosa preoccupava Charlie. Era da tanto tempo che non sentiva più la voce così seria e soffocata. Stava male e quasi non era riuscito a chiudere occhio. Quando ci riusciva, la voce gli parlava. Il giorno dopo, Charlie si era svegliato pieno di buone intenzioni. Tornato nel bosco, si era messo a gironzolare nella stessa zona. Faceva deliberatamente scricchiolare i rametti sotto gli scarponi. Tossiva forte e borbottava. Alla fine, si era messo le mani a coppa attorno alla bocca e aveva chiamato il diavolo: «Fatti vedere, per piacere. Voglio parlare con te, di tutto!» E il diavolo si era fatto vedere. Era uscito dal sottobosco al lato del sentiero e si era fermato davanti a Charlie, dritto come la luce fredda del sole che filtrava attraverso i rami degli alberi. Aveva il corpo nero e sformato, il viso orrendo. La pelle era rosa e gommosa, come se l'epidermide fosse stata ustionata. Piccole corna gli sporgevano dalla fronte, seminascoste dalla zazzera incolta di flosci capelli neri. Ti stavo cercando, aveva detto a Charlie la voce. Diglielo. Mentre lui si dibatteva, incapace di trovare le parole, il diavolo se ne stava lì, fermo, in piena vista. Gli uccelli cantavano. Gli alberi stormivano. Charlie sentiva che qualcosa si faceva strada dentro di lui: una sensazione di gioia. Continuava a crescere, partiva dallo stomaco, risaliva nel petto e poi fino alla gola. Diglielo! gli aveva ordinato di nuovo la voce. E lui aveva obbedito. Ma il diavolo si era voltato, allontanandosi. In seguito gli aveva detto che lo stava valutando per capire se fosse degno oppure no. Charlie era
dovuto tornare nel bosco un paio di volte prima che il diavolo prendesse la sua decisione. Voci. Non troppo vicine, ma neppure tanto lontane, pensò. Quella notte era difficile giudicare le distanze. I suoni, proprio come le fiamme, sembravano caotici, frammentati e dispersivi. Il diavolo gli aveva spiegato cosa sarebbe successo lì e nel mondo. Luoghi in fiamme. Città che esplodevano di violenza, palazzi ridotti in briciole. Il fumo che riempiva il cielo. La gente che urlava e implorava, colpi di pistola che laceravano l'aria gelida. La guerra era cominciata in ogni casa, in ogni città e in ogni Paese, e quel bosco era soltanto una piccola parte di quel grande processo mondiale. Con una differenza fondamentale. Il diavolo era lì, nel fitto del bosco, e i suoi nemici lo stavano cercando. Anche se l'intero pianeta era in preda alle fiamme della battaglia, la guerra sarebbe stata vinta o persa proprio lì. Adesso sei un soldato, gli ricordò la voce. Ed era vero. Gli angeli lo avevano sorvolato, scorgendo il suo fuoco. Ben presto avrebbero mandato gli uomini a controllare - a verificare se il calore veniva dalle fiamme o dall'inferno dell'esercito del diavolo - e, dato che il cerchio di fuoco era così grande, Charlie sarebbe rimasto nascosto, in un primo tempo. Il rifugio nel sottobosco lo avrebbe tenuto al sicuro sinché non fosse venuto il momento di affrontare il nemico. Non mancava molto, ormai. Passò il coltello da una mano all'altra, asciugandosi di nuovo i palmi. Il nervosismo c'era ancora, ovviamente, ma la voce continuava a dirgli che andava bene così. Dopotutto erano impegnati in una missione importante, e un po' di nervosismo li avrebbe aiutati a rimanere entrambi all'erta e pronti. E poi hai il coltello. Era vero. Come ogni buon soldato, aveva ricevuto armi e rifornimenti. Prima il diavolo aveva innalzato la pira per alimentare l'illusione che fosse un bersaglio. Poi gli aveva mostrato il rifugio che aveva costruito per lui tra gli alberi. E infine gli aveva dato il coltello. Charlie lo guardò, attento a non farlo risplendere alla luce delle fiamme. La lama era lunga e sottile: un centimetro nel punto più largo, all'attacco dell'impugnatura, per poi assottigliarsi in una punta crudele una spanna più in là. Il taglio era estremamente affilato e il coltello aveva l'aria solida, benché fosse così sottile. Senza cedimenti.
«Un buon coltello», aveva detto il diavolo quando gliel'aveva dato. «Farà il suo dovere.» Charlie aveva annuito. Si trattava di una buona arma, lo sapeva. Il diavolo gli aveva detto di averlo già usato anche lui. Aveva ucciso uno dei suoi nemici e il coltello portava ancora tracce del sangue di quell'uomo. Ecco perché aveva proprietà magiche. Le voci si stavano avvicinando. Charlie strinse la presa sul coltello. E, come un segreto nascosto tra gli alberi, attese. 4 dicembre, ore 3.30 3 ore e 50 minuti all'alba Mark Quando tornai nella stanza al pianterreno, era evidente che qualcosa non andava. La tensione tra Greg e Mercer aveva continuato a salire per l'intera giornata e, dall'atmosfera che regnava nella stanza, capii che durante la mia assenza era arrivata al culmine, o stava per arrivarci. La squadra si stava frantumando. Persi nei loro pensieri, nessuno dei due mi considerò più di tanto, mentre riassumevo il contenuto della mia seconda conversazione con Scott. Greg era tutto preso a inserire i dati nel file. Mercer sedeva in disparte a fissare nel vuoto, annuendo di tanto in tanto per invitarmi a continuare. Raccontai dei muri di pietra e del fuoco e della breve relazione tra Jodie e Kevin Simpson. «È arrivato il rapporto della tua squadra», disse a un certo punto. «La vicina di Simpson ha identificato Jodie McNeice dalla foto. C'era lei, in casa, ormai è sicuro.» Mi si strinse il cuore, anche se lo sapevo già. Dunque la relazione tra Jodie e Kevin era andata avanti. Ripensai al killer che parlava con Simpson, nella registrazione. Come credi che si senta adesso? Pensi che si senta in colpa per aver mentito a Scott in modo da passare la giornata con te? «Ha fondato la CCL con Simpson», spiegai. «Per quanto ne sa Scott, sono stati insieme solo una volta, due anni fa. Da allora lei se n'è andata e non ha più rivisto Simpson.» Tu credi di amarla. «Quindi non sa nulla della loro relazione attuale?» chiese Mercer.
«Credo che, in un modo o nell'altro, lo sappia. Potrebbe essere una delle cose che il killer ha usato contro di lui. Ma, se così è stato, non se ne ricorda.» Mercer sollevò lo sguardo su di me. Aveva gli occhi iniettati di sangue per la stanchezza e sembrava che ci fosse qualcosa in lui che stava rallentando. «Però ricorda un bambino», aggiunsi. Mercer sussultò. «Un neonato?» «Già.» Gli raccontai quello che mi aveva detto Scott. «Ma non so se possiamo prenderlo alla lettera.» Mi scrutò per un momento, con espressione vuota. Prima sembrava che prendesse ogni fatto nuovo e lo incasellasse al suo posto; adesso trasmetteva la sensazione di esserne sommerso. Pareva vicino al crollo. Greg era di umore polemico. «Perché avrebbe dovuto portarsi dietro un bambino?» «Per adesso lasciamolo perdere», disse Mercer, fissando il pavimento. «Devo pensarci su. Trasferisci le informazioni a Pete.» «Sì, signore.» A disagio, mi sedetti e cominciai a comporre un messaggio da inviare al furgone delle comunicazioni che si trovava nel bosco. Mentre aspettavo la conferma di ricezione, controllai il rapporto della mia squadra. Breve ma completo. Avevano parlato con la SafeSide Insurance. A quanto pareva, Jodie era scomparsa durante la pausa pranzo: era uscita e non si era più vista. Il suo capo aveva detto che non era andata al lavoro neppure il giorno precedente, ufficialmente per un'emicrania. Ma era una bugia. Si era presa un giorno libero per trascorrerlo con Kevin Simpson. Greg attirò la mia attenzione con una gomitata. Quando alzai lo sguardo, fece un cenno quasi impercettibile in direzione di Mercer. Guardai verso di lui. Rimasi a fissarlo, affascinato. Da quando aveva parlato con me non si era praticamente mosso. Era ancora seduto nella stessa posizione, con gli occhi chiusi, e si massaggiava la radice del naso. Delicatamente, avanti e indietro. Non fosse stato per quel movimento, si poteva pensare che dormisse. E, anche così, sembrava in trance. «Tutto bene, signore?» Sollevò le sopracciglia, ma continuò a massaggiarsi il naso. «Mark, potresti portarmi un caffè, per favore?»
Mentre mi alzavo, Greg mi diede ancora di gomito e io quasi me lo scrollai di dosso. «Ma certo», risposi. La macchinetta più vicina si rivelò quella accanto all'accettazione. Serviva un caffè al punto di ebollizione in sottilissime tazze di plastica. Riportarne indietro tre fu traumatico. Mi versai addosso il liquido bollente ancor prima di allontanarmi dalla macchinetta, ustionandomi le mani, e poi almeno altre due volte lungo il corridoio. Tutto mi si rivoltava contro. Imprecai, resistendo all'impulso di scaraventare le tazze contro il muro. Nell'ufficio-spogliatoio, posai le tazze sul tavolo e mi strofinai le mani arrossate sui calzoni. L'atmosfera sembrava un po' migliorata. Mercer era sveglio e attivo, anche se con lo sguardo velato, ed era seduto accanto a Greg, davanti al computer di sinistra. Sul monitor c'era Simon, in collegamento dal furgone parcheggiato vicino alla casa di Scott e Jodie. «Frugare tutto il bosco con questo tempo?» esclamò, inarcando le sopracciglia. Sembrava fresco come quando mi aveva salutato quella mattina, a casa di Kevin Simpson. «Accidenti!» Mercer non era dell'umore adatto a tollerare quel dissenso, per quanto diplomaticamente espresso. «Hai qualche novità per noi?» «Siamo a buon punto. Vi spiegherò man mano che scorrono le immagini che abbiamo scattato. Hai il file aperto, Greg?» «Fra un attimo.» Simon aveva già preparato un rapporto preliminare su quello che la sua squadra scientifica aveva trovato in casa di Scott. Greg cliccò sino ad aprire le foto e il filmato, in modo da consentirci di seguire la spiegazione. La prima foto mostrava l'esterno di un edificio, che sembrava una H maiuscola, rovesciata di piatto sulla neve. «Sei appartamenti», disse Simon. «Due per piano, Banks e la sua ragazza abitano in quello in basso a sinistra. L'accesso è attraverso il portone al centro. Poi ci sono un corridoio centrale e le scale che portano ai singoli appartamenti.» «Niente mansarde o soffitte in cui lui potesse nascondersi?» chiese Mercer. «No, niente del genere. Ma ci sono prove evidenti che ha fatto tutti gli altri suoi giochetti. Guardate un po'.» Simon fece qualche operazione e, un secondo più tardi, le icone di una serie di foto erano evidenziate sul monitor principale. Greg le aprì una alla volta, affiancandole.
Foto di prese svitate dal muro, con le mascherine buttate sulla moquette. Plafoniere strappate dal soffitto. Cassetti sfilati. Scatole rovesciate. «Prima, aveva sempre lasciato tutto in ordine», commentò Greg. Era l'esatto contrario delle precedenti scene del crimine. L'assassino ci aveva permesso di scoprire che faccia aveva e adesso... quello. «È convinto di non doversene più preoccupare», disse Mercer. «Non ha più paura di essere catturato.» Rieccolo. Anche se esausto, Mercer sembrava sempre un paio di passi troppo avanti perché noi riuscissimo a stargli dietro. Avevamo già ipotizzato che il killer non considerasse più importante nascondere la sua identità. E adesso, a quanto pareva, non si curava più nemmeno di essere catturato. Era un passo più in là di quanto Greg fosse disposto ad accettare. «Be', no, non è detto. A quel punto aveva già la ragazza nel furgone, quindi è più probabile che non abbia avuto tempo di sistemare tutto. Probabilmente pensava di tornare più tardi, a finire il lavoro.» Mercer scosse la testa e agitò una mano. Per lui era semplice e ovvio. «No. Pensa alla telefonata che ha fatto all'ufficio di Simpson. Alla maschera che ha lasciato per noi nella casa di Carl Farmer. Questa conversazione...» «Ha cambiato il suo modus operandi...» «Non m'interrompere!» Ma Greg non si lasciò impressionare e non fece il minimo tentativo per nasconderlo. Chiuse gli occhi e continuò a parlare, coprendo la voce del suo capo. «... ha cambiato il suo modus operandi, e il punto è che non sappiamo cosa stia macchinando.» «Io lo so...» «Ma sono sicuro che farsi prendere non rientra nel suo piano del cazzo.» «Io so cosa sta macchinando!» Mercer diede una manata sul piano della scrivania e poi indicò la mappa. «È là nel bosco che ci aspetta. Tutta questa storia... ci ha coinvolti nel suo gioco. Non capisci? Ci ha dato tempo fino all'alba per salvare la vita di quella ragazza.» Il silenzio parve vibrare. Mercer ci guardò, poi si lasciò andare pesantemente contro lo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Era come se qualcuno gli avesse estorto una confessione. Scosse la testa. Mi resi conto che era irritato con se stesso per aver perso il controllo. Greg e io ci scambiammo un'occhiata. Greg era pallido, ma aveva le guance chiazzate per la rabbia. L'esplosione di Mercer lo aveva evidente-
mente colpito. Aveva colpito anche me. Secondo Mercer, il 50/50 Killer aveva cambiato il suo modus operandi con l'unico scopo di coinvolgerci. Non ci stava solo prendendo in giro: eravamo noi il suo obiettivo. Anzi Mercer era convinto di essere lui il suo obiettivo. Il 50/50 Killer aveva attirato la nostra attenzione con Kevin Simpson, e adesso aspettava pazientemente nel bosco che il famoso sergente John Mercer riuscisse a trovarlo prima dell'alba, salvando così la vita della ragazza. Ecco perché non gli importava più di nascondersi. Era l'ultima partita, con la vita di Jodie McNeice come posta. Ed era una stronzata, di sicuro. Guardando Mercer, ero combattuto tra la preoccupazione e l'imbarazzo. La sua teoria non contrastava coi fatti, però aveva anche ben poco su cui reggersi. Era sin troppo facile ripensare a quello che aveva detto Pete prima di lasciare l'ospedale. Probabilmente Jodie era già morta. Invece Mercer aveva bisogno che fosse viva per poterla salvare, per sconfiggere quell'uomo. Quel bisogno disperato, ormai quasi palese, costituiva una spiegazione assai più credibile della sua teoria. Sospirò e si chinò di nuovo in avanti. «Comunque non ha importanza. Che altro abbiamo?» «Ah!» Simon aveva l'aria allegra come sempre. «Le delizie del salotto.» Sembrava strano riprendere dopo quello sfogo, ma Greg scosse la testa e tornò al suo portatile. Ridusse a icona le foto del materiale abbandonato sul posto dal killer e aprì il file successivo. Era una foto presa dalla porta del salotto. Vicino all'obiettivo c'era un tavolo da pranzo col piano di cristallo, sul quale era appoggiato il computer e, poco più lontano, si scorgeva un divano piazzato di fronte al televisore, che stava nell'angolo, accanto alla finestra. Il televisore era acceso. A metà della parete di destra, una porta conduceva in quella che sembrava una cucina. Al centro della stanza, giaceva una sedia metallica, rovesciata su un fianco e circondata da schegge di vetro. «Okay», disse Mercer. «È evidente che Banks è stato aggredito in salotto, il che coincide coi suoi ricordi.» «Hai mica visto qualche bambino in giro, Simon?» chiese Greg, sarcastico. L'espressione di Simon cambiò leggermente. Per la prima volta nella giornata sembrava perplesso. «Perché me lo chiedi?» «Perché Banks ricorda che il killer aveva con sé un bambino, ovviamente.» Greg aggrottò la fronte. «Perché? Hai visto qualcosa?»
«No, no.» Simon fece una smorfia, pensieroso. «Certo che no. Però è interessante. Poco fa Hunter era al telegiornale. C'è stato per tutto il giorno, in effetti. La sua squadra ha una bambina rapita. Cioè, ci sta lavorando, ovvio.» Per un attimo si sentì solo il ronzio dei computer, interrotto da un rumore metallico nelle vecchie tubature. Lanciai un'occhiata a Mercer. Fissava il pavimento. La stessa reazione di quando gli avevo riferito le parole di Scott a proposito del bambino. Non sembrava sorpreso. Un istante dopo, misi insieme le due cose. Lo sapeva già. Di diritto, il caso del 50/50 Killer era responsabilità di Hunter; invece lui ora stava indagando sul rapimento di una bambina. Mercer lo sapeva e, quando gli avevo riferito la rivelazione di Scott, un campanello di allarme gli era squillato in testa. Non si sarebbe lasciato sottrarre quell'indagine. Guardai Greg. Se n'era accorto anche lui. La sua espressione era incredula. Simon non aveva notato nulla. «Probabilmente non c'è nessun collegamento», disse. «Pare sia connesso a un problema di affidamento, perciò stanno cercando il padre. L'ho ascoltato solo a metà. Più che altro mi stavo godendo l'impareggiabile Mr Hunter che si esibiva davanti alle telecamere.» Mercer si passò lentamente una mano sul viso. «Giusto. Probabilmente non c'è nessun collegamento: controllerò dopo.» «Non dovremmo farlo subito?» «Tra un momento.» Mercer scoccò un'occhiataccia a Greg, poi si girò di nuovo verso il monitor. «C'è qualcos'altro?» Simon fece una pausa, forse accorgendosi della strana atmosfera. «Be', in salotto c'è un computer», rispose infine. «Forse lo avete visto nell'ultima foto. Acceso. Con un interessante salvaschermo.» «Non toccarlo, per favore.» «Non l'ha toccato nessuno, Greg. So che è territorio tuo.» «Ti va di fare un giretto laggiù, Greg? Controlla tutte le e-mail, i file, eventuali tracce di keylogging.» «Volentieri.» «Aspettate, sono ancora qui», ci ricordò Simon. «Prima che scappiate tutti vorrei farvi vedere l'ultimo file, quello in fondo.» Greg ridusse a icona la foto e cliccò sul file indicato da Simon. La foto era stata scattata in camera, dai piedi del letto, di fronte alla te-
stiera. Sulla parete color crema c'era una delle ragnatele del 50/50 Killer. Era grande, spaventosa e - proprio come quella trovata a casa di Simpson sembrava disegnata con un grosso pennarello nero. Ogni linea era larga quanto la punta di un dito. E ognuna era attraversata da un breve tratto trasversale. Mercer si chinò in avanti. «Greg, puoi aprire una delle foto prese a casa di Farmer?» Greg si mise al lavoro. Nel salotto di Farmer, avevamo identificato la ragnatela che il killer aveva disegnato sulla parete di Kevin Simpson, supponendo che gli altri disegni fossero soltanto degli schizzi preparatori. Ma, quando Greg aprì la foto e piazzò le due immagini fianco a fianco, ci occorse soltanto un attimo per capire. «Guarda.» Uno dei disegni era quello lasciato sulla parete della casa di Simpson; un altro da Scott e Jodie. Due su una trentina. Mercer sembrava affascinato. Indicò la foto della parete di Carl Farmer. «È evidente che alcuni disegni sono molto simili tra loro. Sapete cosa stiamo guardando? Quand'eravamo lì, c'ero quasi arrivato, ma poi ho perso il filo. Quelli sono i suoi appunti.» Greg aggrottò la fronte. «Che cosa vuole dire?» «Il portatile era in un angolo della stanza», sussurrò Mercer. «Mi sembra di vederlo all'opera. Lui guardava i video, ascoltava le registrazioni. E, per tutto il tempo che ha trascorso in quel luogo, prendeva delle note sulla parete.» «Le ragnatele dovrebbero rappresentare le vittime?» «Più o meno. Studia le persone per un periodo molto lungo, e queste sono le loro connessioni. Poi taglia ogni filo, uno per uno.» Mercer batté col dito sul monitor, indicando i vari legami interrotti. «Usa quello che ha scoperto per costringerle a sacrificare il proprio compagno, se vogliono salvarsi la vita. Ma è l'intera ragnatela a rappresentare il suo obiettivo. Nella sua mente, la vera vittima è la relazione stessa.» Inclinai leggermente la testa per osservare meglio i disegni. Per un attimo non ci vidi nulla, ma poi misi a fuoco. Benché non capissi ancora tutto, li vidi. Sotto i miei occhi, le ragnatele diventarono qualcosa di stracciato, di rovinato. Le intricate connessioni di una relazione erano interrotte e strappate e distrutte, rimanevano a penzolare dalla parete proprio come i cadaveri delle vittime, abbandonati sotto di esse.
Appunti. Cercai di assumere il punto di vista del killer. Impossibile. Non riuscivo a immaginare quali filtri mentali trasformassero le informazioni raccolte su vari individui in cose tanto orribili. Eppure quei filtri esistevano. In tutto il loro orrore, quelle ragnatele non erano casuali. Era evidente che ognuna di esse era stata accuratamente studiata e progettata. I primi schizzi non erano del tutto esatti, ma poi... A noi sembravano disegnati a caso, e invece il killer aveva individuato in essi le parti che non andavano, modificando certi piccoli dettagli, perfezionandoli gradualmente. Guardai Greg. Anche lui pareva ipnotizzato. Sapeva che Mercer aveva ragione, tuttavia sembrava riluttante ad ammetterlo e faceva del proprio meglio per restare impassibile. «Va bene», disse. «Adesso possiamo verificare il caso di Hunter, per favore?» Mercer non replicò. Si dedicò di nuovo al proprio computer e si mise al lavoro sui log-in. In attesa del caricamento, riportai l'attenzione sulla ragnatela dell'appartamento di Scott, scrutando certi punti, osservando le cancellature e le croci che il killer aveva tracciato. Simbolicamente, aveva spezzato, uno alla volta, i fili che tenevano insieme Scott e Jodie, che li rendevano un tutt'uno. Ce n'erano dieci, dodici, forse quindici, di quei «tagli». Ognuno rappresentava un'incrinatura... magari una bugia o una verità inaccettabile. Quello era l'amore ridotto alla sua meccanica. Una serie di fili, di legami illusori che potevano essere scuciti uno per uno, finché la relazione non fosse andata in pezzi, morta. Un corpo che si piegava lentamente all'indietro, con le vertebre che si spezzavano una alla volta. Una di quelle macchie, accuratamente posizionata secondo una logica che non ero in grado di comprendere, rappresentava la relazione tra Jodie e Kevin Simpson. Mi ritrovai a chiedermi qual era. Sempre che avesse importanza. D'un tratto, Mercer sospirò. «All'inferno», borbottò Greg. Mercer aveva un gomito appoggiato alla scrivania, gli occhi chiusi, si massaggiava la fronte con la punta delle dita. I suoi movimenti rivelavano la più totale disperazione, come se lui continuasse a ripetersi: Tieni duro, tieni duro. Sul monitor era comparsa la pagina principale dell'indagine di Hunter. JAMES REARDON, diceva il titolo. Accanto al nome, nell'angolo destro, c'era la foto di Reardon, il padre in fuga che la squadra di Hunter stava
cercando. Carl Farmer. 4 dicembre, ore 4.00 3 ore e 20 minuti all'alba Pete Nell'oscurità del bosco, le torce disegnavano coni di luce dai contorni netti e definiti, che tagliavano a metà gli alberi butterati e facevano risplendere milioni di cristalli nello spesso strato di neve che ricopriva il terreno irregolare. Faceva un freddo cane. Ogni volta che respirava, Pete avvertiva un dolore sordo alle labbra, per il resto insensibili. Il fiato gli usciva a nuvolette, e se lo immaginava solidificato come un fumetto di ghiaccio, per poi frantumarsi a mezz'aria. Davanti a lui, altri fiocchi di neve continuavano a cadere lampeggiando, un movimento confuso oltre i fasci delle torce che avanzavano a sobbalzi. Se li sentiva addosso persino attraverso il cappotto: una serie di tocchi leggeri e continui. «Occhio a dove metti i piedi», disse all'agente che lo seguiva. «Sì, signore.» Il sarcasmo nella voce dell'uomo era piuttosto evidente, ma Pete lasciò correre, almeno per il momento. In una situazione del genere, un certo grado di fastidio era inevitabile, persino camminando lungo i sentieri. Invece loro si stavano facendo strada in un sottobosco intricato, che scendeva in maniera dolce ma irregolare. Non era facile e neppure piacevole. Ma andava fatto. «È solo che non voglio che mi cadi addosso», aggiunse seccamente. L'agente non replicò. Suo malgrado, Pete era irritato. Li voleva più all'erta, più concentrati di quanto non fossero. Il fuoco si distingueva attraverso gli alberi, a un centinaio di metri, là dove finiva il pendio. La luce che emanava era frammentata e gli alberi sembravano gonfiarsi e ondeggiare secondo i guizzi delle fiamme. Era un grosso falò. E ciò rendeva Pete nervoso. Aveva a disposizione trenta uomini. Ne aveva lasciati sei ai furgoni, per coordinare le squadre e l'elicottero, quindi aveva sei squadre di quattro uomini, ognuna accompagnata da un volontario del soccorso locale, pratico della zona. I cani non avevano trovato nulla, ma i volontari avevano in-
sistito per dare comunque una mano e quello, secondo Pete, metteva nella giusta prospettiva le lagnanze dei suoi uomini. Non appena era arrivato il rapporto che parlava del fuoco, un volontario li aveva condotti il più vicino possibile lungo il sentiero principale, quindi Pete gli aveva detto di aspettarli, lasciando con lui un agente a proteggerlo. Il falò era troppo grande. Significava che poteva esserci più di una persona, e lui non voleva correre il rischio che un civile rimanesse ferito. Ovviamente, però, c'era un lato negativo: con Pete erano rimasti solo due agenti, che oltretutto sembravano incapaci di concentrarsi. Il pendio si livellò poco a poco. Lungo quasi tutto il percorso, Pete aveva tenuto la torcia puntata verso il basso, per vedere dove metteva i piedi. Di tanto in tanto sollevava il raggio, per esplorare gli alberi che aveva davanti e sui lati. Niente. «Qui non c'è nessuno», disse un agente. «E allora il fuoco chi l'avrebbe acceso?» sbottò Pete. «È stato forse un accidente di autocombustione?» «No, ma con tutto questo andirivieni se ne saranno andati da un pezzo.» «Vedremo.» Scosse la testa. Per l'amor di Dio! Non che si facesse troppe illusioni, ovvio: le probabilità di trovare la ragazza, Jodie, ancora viva erano irrisorie, e la ricerca diventava più difficile e complicata a ogni passaggio dell'elicottero. Via radio era giunta notizia che Banks era stato tenuto prigioniero in una delle costruzioni di pietra, perciò l'elicottero doveva sorvolarle tutte alla ricerca di tracce di calore. Ma le informazioni raccolte riguardavano soltanto fonti di calore lontane dalle strutture in pietra, le quali andavano comunque controllate perché, nel frattempo, il killer poteva benissimo essersi spostato. Fino ad allora, la sua squadra ne aveva verificate due, ritrovandosi entrambe le volte a puntare le torce sulla faccia di un derelitto che dormiva all'addiaccio, così intirizzito da non poter fare altro che fissarli, spaventato e sbalordito. Probabilmente Mercer avrebbe voluto che li trascinasse via giusto in caso -, ma d'altra parte lui voleva un sacco di cose. Pete doveva cavarsela con le poche risorse di cui disponeva, e non aveva uomini sufficienti a radunare tutti i derelitti che incontrava. E perché, poi? Solo per star dietro alle idee balzane di Mercer? Era un lavoro deprimente, che non avrebbe portato a nulla. In un'altra occasione, Pete avrebbe accantonato quel pensiero, abbassato la testa, e
fatto ciò che doveva. E ci stava anche provando, ma non erano soltanto i dubbi o le scarse probabilità di successo a turbarlo. Era anche John Mercer. Pete era incapace di serbare rancore e, dopo l'ultimo collegamento, l'irritazione era scomparsa, per lasciar spazio a un'ansia crescente. Nel corso degli anni, da semplici colleghi, loro due erano diventati amici, e per quello l'atteggiamento di John lo impensieriva. Ci credeva davvero, ed era ovvio che si era spinto fin troppo lontano su quella strada. Quando avessero trovato la ragazza - morta -, Pete se ne sarebbe tornato a casa, avrebbe dormito male e poi sarebbe andato al lavoro, ricominciando con un nuovo caso. John, invece... Correva seriamente il pericolo di andare in pezzi una volta per tutte. Ecco perché ogni commento inutile di uno dei suoi uomini gli scatenava la voglia di staccargli la testa a morsi. Il lavoro era quello che era. Dovevano affrontarlo a testa alta, senza continuare a ripetersi quanto fosse difficile. Ogni lamentela non faceva altro che acuire le sue preoccupazioni e, per il bene delle loro ricerche, lui doveva tenere la mente sgombra da quel genere di pensieri. In una situazione normale, forse avrebbe cercato di spiegare la faccenda ai suoi uomini, almeno in parte; tuttavia in una situazione normale non ci sarebbe stato niente da spiegare. Tutti stavano lavorando sodo; tutti erano stanchi e nervosi. Doveva cercare di ricordarlo, se non altro. «State attenti, tutti e due», disse. «Sì, signore. In caso ci fosse qualcuno, gli chiederò se posso sedermi accanto al fuoco per scaldarmi, va bene?» Nell'oscurità, Pete fece un sorrisetto forzato. «Credo che possa andare.» Li condusse in direzione del falò, sollevando la torcia all'altezza della spalla per illuminare gli alberi all'intorno. «Polizia!» gridò. «Se c'è qualcuno, si faccia vedere subito.» Ottenne la risposta che prevedeva: un silenzio di tomba, a parte il crepitio delle fiamme. Evidentemente quel falò era stato acceso già da un pezzo: c'era un quantitativo enorme di legna carbonizzata e di cenere lungo il bordo, mentre, al centro, un mucchio di ciocchi era ancora impilato alla base delle fiamme, che ardevano vigorose. Il calore era intenso. Quando Pete distolse lo sguardo, scintille verdastre gli lampeggiarono negli occhi. Era possibile che il fuoco fosse abbandonato a se stesso. Di certo la neve non sembrava avere il minimo effetto su di esso. Ma ciò significava che la legna doveva essere inzuppata di qualcosa, forse di paraffina. Sembrava uno sforzo eccessivo per una persona sola. Un singolo uomo non avrebbe
dato fuoco a quel combustibile tutto in una volta. Forse c'erano state più persone in quel posto, impegnate in faccende che dovevano restare lontane dagli occhi della polizia. Pete fece lampeggiare la torcia lungo i margini del falò. Tutto attorno, la neve era intatta. Riprovò a fare il giro, ma non c'era niente da vedere. «Nessuna impronta. Chiunque sia stato qui, se n'è andato da abbastanza tempo perché la neve ricoprisse le sue orme.» «Potrebbero essere sparite al primo passaggio dell'elicottero.» Pete annuì. Probabilmente immaginavano che la polizia li stesse cercando. Tuttavia, ovunque fossero andati, l'elicottero li avrebbe individuati. E, se avessero tentato la fuga verso la strada, sarebbero finiti tra le braccia del cordone di agenti messo a sorvegliarla. Ma lì non c'era niente. Diede un calcio alla neve ai suoi piedi. Nemmeno un rifiuto. Non si sarebbe stupito di trovare qualche siringa, una bottiglia, delle tracce di cibo, qualcosa, insomma; gli sembrava strano che avessero ripulito tutto prima di andarsene. E la neve non poteva aver coperto tutto. Puntò la torcia in direzione degli alberi, muovendola lentamente in cerchio e ascoltando con attenzione. C'era un silenzio assoluto, e già quello lo aveva colpito come... C'era qualcosa. Tornò indietro con la torcia e lo vide. «Cos'è quello?» disse uno degli agenti. I tre fecero convergere i raggi delle torce fra gli alberi. All'inizio, Pete non era sicuro di aver visto bene. Sembrava un buco triangolare nel terreno in pendenza - l'imbocco di una caverna -, solo che i lati erano troppo simmetrici. Poi comprese. «Una tenda», esclamò. La torcia la illuminò sino in fondo. Dentro non c'era nessuno. Pete abbassò la torcia davanti all'ingresso, scorgendo neve smossa e impronte fresche. Le seguì col fascio di luce, proprio mentre l'uomo, urlando, schizzava fuori dagli alberi. Avvertì il pericolo una frazione di secondo prima di essere colpito, e roteò la torcia in direzione dell'aggressore. Troppo tardi. Qualcosa gli urtò la parte superiore del braccio. Non sentì dolore, ma si ritrovò la mano vuota e inerte. «Cazzo!» Altri colpi. Si voltò, cercando di allontanare l'uomo, però non riusciva a sollevare il braccio. Il bosco gli roteava attorno. E poi un colpo sulla spalla, troppo forte, troppo sbagliato. Non somigliava all'impatto robusto di un pugno... Di colpo, Pete si ritrovò in ginocchio. «Giù!»
Tutti urlavano. Pete sentì nell'aria l'odore dello spray antiaggressione e sollevò lo sguardo in tempo per vedere il suo avversario che crollava nella neve. I due agenti gli furono subito addosso e gli immobilizzarono le braccia. Quindi calò un manganello e l'uomo urlò di nuovo. La luce lampeggiò su qualcosa che gli era caduto di mano. Un coltello. Pete si toccò il braccio e, quando ritirò la mano, il guanto era bagnato. «Cazzo», mormorò. Si sollevò a sedere. Non era la cosa peggiore del mondo, beccarsi una coltellata nel braccio. Non piacevole, ma neppure tremenda. Però era l'ultimo colpo a impensierirlo. In direzione della spalla, vicino alla clavicola. «Signore?» «Fa' venire quel cazzo di elicottero», riuscì a dire. «Vedi di renderti utile, una volta tanto!» Se non altro, adesso se ne sarebbe tornato a casa. Poi il suo campo visivo si riempì di stelle. Pete chiuse gli occhi e si lasciò andare all'indietro. Non gli faceva troppo male. Ed era ragionevolmente sicuro che non stava per morire. Quindi il suo ultimo pensiero fu per la fine di Andrew Dyson. Immaginò quale effetto avrebbe avuto su John Mercer quello che era appena successo. Una figura s'inginocchiò accanto a lui. Pete sentì la mano dell'agente sul suo petto e il clamore della sua voce terrorizzata alla radio. Poi più nulla. 4 dicembre, ore 4.10 3 ore e 10 minuti all'alba Mark Dopo che Simon aveva chiuso il collegamento, Greg e Mercer avevano avuto una discussione prevedibile, per quanto ragionevolmente tranquilla, su come procedere. Greg era convinto della necessità di contattare Hunter e unire le squadre, e io ero persuaso che avesse ragione. Stavamo cercando lo stesso uomo, dopotutto, e alle indagini per il rapimento del bambino erano stati assegnati un bel po' di uomini, alcuni dei quali avrebbero potuto raggiungere le squadre di ricerca nel bosco, come rinforzo. Mercer naturalmente non era d'accordo. Insisteva che tutto ciò non a-
vrebbe fatto altro che complicare le cose. Ogni vantaggio assicurato dai nuovi arrivati sarebbe stato reso nullo dalla perdita di tempo, perché Hunter non avrebbe mai ceduto una parte dei propri uomini senza aver prima compreso a fondo il quadro globale. Cera un'operazione in corso, e doveva continuare a ogni costo. In realtà, il vero scontro riguardava le cose non dette. Se Mercer avesse contattato Hunter, quest'ultimo gli avrebbe tolto la responsabilità del caso. Senza contare che l'urgenza delle ricerche nel bosco era basata più su un'ipotesi che su fatti concreti. Inoltre io e Greg sapevamo che, quando avevo menzionato il bambino, Mercer era rimasto in silenzio, probabilmente perché aveva intenzione di controllare in seguito, nella speranza che non ci fosse nessun collegamento. Il suo bisogno di catturare il 50/50 Killer lo aveva portato dritto nel regno della negligenza professionale e, di fatto, quella era l'ultima occasione che avevamo per prendere le distanze da lui. Ma Greg non disse nulla di tutto ciò. Lo scambio rimase su un livello pratico e funzionale; la decisione ultima spettava a Mercer. «Stiamo perdendo tempo, qui», disse Mercer. Greg fremeva, ma riuscì a controllarsi. «Posso fare altro per lei, prima di andare?» Mercer scosse la testa. «Bene, allora vado.» Mentre si avviava alla porta, Greg mi lanciò un'occhiata, di cui non compresi subito il significato. Era l'equivalente del Tienilo d'occhio di Pete o si trattava invece di qualcos'altro? Avrei compreso soltanto in seguito: era uno sguardo rassicurante, una specie di Andrà tutto bene. Il fatto che lui si fosse arreso con troppa facilità avrebbe dovuto insospettirmi, ma io ero stanco e stressato, e attribuii quella remissività al precedente scatto di Mercer. Non appena Greg fu uscito, Mercer riprese la sua posizione abituale: occhi chiusi e dita che massaggiavano il naso. Sembrava il suo modo per ricaricarsi. O forse per sottrarsi ai pensieri, almeno per un po'. «Un caffè, signore?» Non rispose, ma sollevò le sopracciglia. Mi sembrò la risposta più vicina a un sì in cui potessi sperare. Cinque minuti più tardi, ero di ritorno coi due caffè. E Mercer era tornato dal regno dei morti: gomiti appoggiati alla scrivania e mani allacciate davanti a sé, stava fissando intensamente il monitor. «Grazie.» Prese il caffè e fece un cenno distratto in direzione del monitor al centro. «Siediti. Te
ne ho stampato una copia.» Presi i fogli. Era il riassunto dell'indagine di Hunter, contrassegnata col nome di James Reardon e con la foto ormai familiare dell'uomo che noi conoscevamo come Carl Farmer. Sorseggiai il caffè e cominciai ad approfondire i dettagli. La prima cosa che mi colpì fu la quantità d'informazioni disponibili su Reardon. Data di nascita, storia familiare, occupazioni... Era improbabile che si trattasse di una falsa identità. Avevamo finalmente l'uomo che aveva usato tutti quei «nidi». Reardon aveva trentun anni e, nella sua pur breve permanenza su questa terra, aveva messo insieme una bella serie di reati, sconvolgendo la vita a diverse persone. Ragazzo brillante, col passare del tempo era diventato sempre più nervoso e distruttivo. Aveva collezionato due imputazioni per rissa, tre per ubriachezza e disturbo della quiete pubblica, una per aggressione e diverse denunce per piccole questioni di droga. E così via. L'impressione che emergeva dal rapporto era quella di un uomo grande e grosso che, quando beveva, diventava pericoloso - se perdeva il controllo, lo perdeva sul serio, insomma -, sebbene, negli ultimi anni, i suoi reati sembrassero incanalarsi in un'altra direzione. Amanda Reardon, la moglie separata, aveva ripreso il proprio cognome da ragazza, Taylor. Nel file c'era una sua foto: pallida, capelli biondi e sottili. Più giovane di Reardon, appariva più vecchia di quello che era, soprattutto per via dello sguardo: sembrava esausta sin nel profondo dell'anima. Come se dovesse stare continuamente in guardia e non dormisse granché. La loro relazione era continuata a fasi alterne per diversi anni. Era una storia monotona e deprimente di rotture e riconciliazioni, inframmezzate da accuse a Reardon che lo qualificavano come aggressivo, instabile e inaffidabile, accuse ritrattate ogni volta che la coppia si rimetteva insieme. Una storia già sentita. Pensai com'era triste che certe persone continuassero a restare attaccate a compagni evidentemente sbagliati per loro. Quasi fossero convinte di non poter trovare di meglio. Investi in qualcuno e poi ci resti aggrappato. La loro seconda figlia, Karli, era nata appena un anno e mezzo prima, e pareva che fosse stato proprio quello il punto di svolta. Il documento conteneva un breve riassunto della prima fase della battaglia per la custodia, iniziata subito dopo la separazione. Amanda Taylor aveva ottenuto l'affidamento, ma Reardon si era opposto per entrambi i figli, accusando la donna di essere una madre indegna. Non era stato un
buon avvocato di se stesso: in un caso, aveva preso di mira con un martello l'auto su cui lei si trovava, mandando in pezzi i finestrini; in un altro, l'aveva aggredita per strada. Era stata emessa un'ordinanza restrittiva nei suoi confronti, alla quale si era duramente opposto e che aveva ripetutamente infranto. C'erano stati altri episodi e, come risultato finale, a Reardon era stato impedito d'incontrare i figli, almeno per il momento. Amanda Taylor aveva condotto il proprio gioco con pazienza, e alla fine aveva vinto lei. L'indagine di Hunter si riferiva al rapimento da parte di James Reardon della figlioletta Karli, avvenuto la mattina del giorno precedente. Il compagno di Amanda Taylor, Colin Barnes, aveva portato Karli al parco col passeggino verso le nove, e un individuo l'aveva seguito, aggredito e infine era scappato, portando con sé la bambina e scomparendo nel nulla. Barnes aveva identificato l'uomo come James Reardon. Gli appelli che lo invitavano a farsi avanti erano caduti nel vuoto. Guardai la foto, e ancora una volta mi colpì la sua espressione, assolutamente vuota. Facile immaginare quegli occhi che ti fissavano attraverso i buchi di una maschera, illuminati dal bagliore delle fiamme. Facile immaginare che fosse quello l'uomo che aveva torturato Scott e che stava ancora torturando Jodie, sempre ammesso che lei fosse ancora viva. Facile... ma come esserne certi? La prima cosa di cui mi resi conto era che i tempi coincidevano, e il collegamento di Reardon al caso era corroborato da più elementi indipendenti. Il killer aveva lasciato la casa di Kevin Simpson alle otto in punto. James Reardon aveva rapito la bambina verso le nove. Megan Cook aveva visto Reardon entrare nella casa di Carl Farmer alle undici. Due testimoni indipendenti... E ce n'era anche un terzo. Scott aveva identificato Reardon come l'uomo che si era presentato a controllare il contatore. Era una triangolazione di colpe. Prese singolarmente, le testimonianze potevano anche essere spiegate in un altro modo; messe insieme, diventavano inoppugnabili. Guardai Mercer, assorto a leggere i documenti e mi resi conto che, fino a quel momento, aveva avuto ragione lui. Avevamo la faccia del killer; avevamo il suo vero nome e la sua identità. Forse ancora non bastava a giustificare la sua teoria che si trattasse di una sfida a noi, però non mi venivano in mente possibili alternative. Cosa aveva in mente Reardon? Cosa aveva progettato e cosa stava portando a compimento? Tornai al rapporto. Reardon si adattava al profilo per età e per temperamento: intelligente
ma asociale; incostante da ragazzo, poi più controllato e calcolatore col procedere degli anni. Avevo la sensazione che avremmo trovato una certa simmetria tra gli alti e bassi della sua relazione con la moglie e i crimini del 50/50 Killer. Ma tant'era... «Hai letto dei suoi genitori?» disse Mercer. «Non ancora.» «Deceduti in un incidente d'auto, sei anni fa. Hanno lasciato a Reardon la casa e una somma consistente di denaro. Lui ha venduto la casa, usando il ricavato per affittarne un'altra. Da allora ha lavorato solo saltuariamente, un po' ovunque.» Annuii. Un'altra casella spuntata. La mia eccitazione cresceva. Più leggevo, più le tessere andavano al loro posto. Il dettaglio più rivelatore, all'interno del rapporto, riguardava la battaglia di Reardon per la custodia dei figli. Quando lo vidi, trattenni il fiato. Verso la fine della cagnara legale e dopo i suoi ultimi eccessi, la figlioletta era stata restituita ad Amanda, con un orsacchiotto nuovo avuto in regalo dal padre. Insospettita, la donna aveva aperto il giocattolo, scoprendo nell'imbottitura un dispositivo d'ascolto. Reardon aveva negato di avercelo messo, pur ammettendo di essere affranto e preoccupato per le compagnie che la sua ex frequentava e per l'effetto che potevano avere sui bambini. Il caso era arrivato fino ai giornali: solo un trafiletto, ma il ritaglio era stato scannerizzato e incluso nel rapporto. Reardon aveva rifiutato di concedere una vera e propria intervista, limitandosi a qualche breve dichiarazione. «Nessuno è in grado di comprendere quanto un padre ami i propri figli», aveva detto. «Quella donna non ha idea di cosa sia l'amore.» Guardai Mercer, che era praticamente raggiante. Colsi una fugace visione di come doveva essere il John Mercer che avevo immaginato io: quello che risolveva i casi di alto livello, quello che, con una sola occhiata ai rapporti, era in grado d'individuare i dettagli chiave e di giungere al risultato. In quel momento, pareva che tutta la fatica e tutti i contrasti l'avessero miracolosamente abbandonato. Era fresco come una rosa. Per la prima volta in quella giornata, ebbi la sensazione che lui potesse risolvere il caso. E che pure lui ne fosse convinto. Emanava un'energia quasi palpabile. Me ne accorsi con un brivido. Mi resi conto che, per tutto il giorno, avevo lottato contro un certo disappunto. A torto o a ragione, quello per me non era solo un buon incarico;
rappresentava molto di più. Ero lì per dimostrare che meritavo la fiducia riposta in me da Lise. Volevo fare qualcosa che potesse renderla orgogliosa. Eppure mi era sembrato che il mio fosse poco più di un lavoro d'ufficio; mi era parso di essere diventato uno scribacchino. Solo in quel momento, in quel preciso istante, stavo finalmente cominciando a vedere l'uomo per cui avevo sempre voluto lavorare e per il quale avevo fatto tanta strada. «Lo prenderemo», mi disse. Annuii. Gli credevo. E immagino fosse inevitabile che proprio allora, con un singolo bip del computer, tutto andasse a rotoli. 4 dicembre, ore 4.30 2 ore e 50 minuti all'alba Eileen Eileen stava di nuovo facendo lo stesso sogno. Quello che aveva già fatto il venerdì precedente e che aveva raccontato a John a colazione. Quello in cui lui la lasciava. Spero che tu non stia pensando di scappare. Nella vita reale, le aveva detto che era troppo vecchio e stanco per farlo, ma nel sogno aveva evidentemente trovato l'energia, chissà dove. Mancavano i suoi vestiti dall'armadio, i libri dagli scaffali, i quadri dalle pareti. Eileen vagava da una stanza all'altra, osservando come i suoi oggetti sguazzassero negli spazi vuoti che lui aveva lasciato. Una casa prima confortevolmente piena delle cose di due persone, adesso era ridotta a una casa mezza vuota, e di conseguenza tutto pareva fuori posto, a disagio. Quando la vita di due persone si fondeva e cresceva, non si poteva semplicemente strapparne via una e pretendere che l'altra si reggesse da sola, come in passato. Non era così che funzionava. Tutto si reggeva in perfetto equilibrio. Dunque ciò che era rimasto sarebbe crollato. Dapprima il rumore la strappò lentamente dal sogno. Con quegli eventi ancora vivi e reali nella mente, riacquistò consapevolezza del letto sotto la schiena e delle coperte addosso. La sveglia si era spenta. Qualcosa non andava. Sollevò la testa dal cuscino, guardandosi attorno con gli occhi ancora velati di sonno.
Le tende erano nere, il tavolo da toeletta immerso nell'ombra. Controllò l'orologio. Erano solo le quattro e mezzo, e le cifre non stavano lampeggiando. Il telefono dello studio. Allora le tornò in mente. John che lavorava fino a tardi; la paura e la rabbia; la promessa di telefonarle ogni due ore che lei gli aveva strappato... Cos'era successo? Aveva deciso di rimanere sveglia, per vedere se lui avesse telefonato, ma poi si era stesa sul letto per riposare un po' e ovviamente si era addormentata. Cretina, pensò. Però almeno lui aveva telefonato. Buttò giù le gambe dal letto e si rimise in piedi, piuttosto malferma. A causa del vino, le ultime tracce del sogno sembravano turbinare nella sua mente. Il mondo beccheggiava. Non fu semplicissimo arrivare fino all'ingresso nell'oscurità, mentre tutto ruotava lentamente attorno a lei; lungo il percorso, andò a sbattere contro un muro e rimbalzò contro il corrimano, per poi mancare la porta dello studio e ritrovarsi a mani avanti contro la parete fredda, appena oltre la porta. Tre o quattro secondi di disperazione prima di trovare l'interruttore della luce. E qualche altro secondo dopo essere rimasta abbagliata da quell'improvviso lampo doloroso ed essersi strofinata gli occhi per scacciarlo. E il telefono continuava a squillare. «Pronto?» «Eileen?» Una voce maschile, ma non quella di John. «Sì», rispose lei. «Chi parla?» «Sono Geoff Hunter. Mi spiace disturbarla a quest'ora, di solito non lo farei.» Hunter. L'immagine dell'odioso collega di John le si affacciò alla mente, e lei si accigliò. Ovvio che normalmente non l'avrebbe disturbata a quell'ora... e allora che diavolo voleva? E perché non era John? S'irrigidì. Gli era successo qualcosa. Fu invasa dal terrore; la preoccupazione e l'amore per il marito rimpiazzarono di colpo la rabbia per essersi sentita trascurata, per il rischio che lui si assumeva a spese di entrambi. Se era ferito, se gli era successo qualcosa... Ma, se così fosse stato, non sarebbe stato Hunter a chiamarla. No, sarebbe stato qualcuno della sua squadra. Allora doveva trattarsi di... «James Reardon», mormorò. «Lo avete trovato?» «Non ancora.»
«E allora cosa vuole?» «Si tratta di suo marito.» C'era una sgradevole nota di trionfo nella sua voce. Eileen chiuse gli occhi e si sentì cadere a terra. Non sapeva esattamente cosa stesse per piombarle addosso, però ne aveva una vaga idea. «C'è qualcosa che credo lei dovrebbe sapere», disse Hunter. 4 dicembre, ore 4.40 2 ore e 40 minuti all'alba Mark L'ispettore Alan White era il superiore diretto di John Mercer, pur essendo un po' più giovane di lui. Succede. In tutte le organizzazioni, arriva il momento in cui si smette di avanzare di grado automaticamente e bisogna spingere per andare avanti. Mercer avrebbe anche potuto farlo, ne ero certo, ma stava bene dov'era, mentre White era più addentro alle manovre politiche, e si era dato da fare per salire la scala gerarchica. Da qualche breve accenno nel libro di Mercer, sembrava che i due fossero in buoni rapporti e si rispettassero a vicenda, ma al momento tutto ciò non impediva a White di essere incazzato nero. Forse lo aiutava a stemperare la rabbia con un tocco di tristezza e di rimpianto, ma di certo non gli impediva di fare il suo dovere. Quel pomeriggio, mentre leggevo il file del 50/50 Killer, avevo sentito Mercer fare rapporto a White, ma era la prima volta che vedevo l'ispettore. Aveva i capelli neri, era stempiato, e con un viso squadrato eppure stranamente carnoso. Gli occhi scuri intimidivano persino attraverso un monitor. Faccia a faccia, probabilmente riuscivano a spellarti vivo. «John, voglio sapere cosa sta succedendo», ripeté. «Stamattina hai cominciato a occuparti di una violazione di domicilio... È tutto il giorno che mi parli di questa intrusione.» «È il caso al quale stiamo lavorando, Alan...» «Piantala di raccontarmi stronzate, John. Ho appena letto il rapporto, scoprendo una violazione di domicilio con un mucchio di altre cose di cui, lo sappiamo bene entrambi, avrei dovuto essere informato. E sai perché mi sono messo a leggere il rapporto? Perché Geoff Hunter mi ha appena telefonato, urlando come un ossesso. Perciò ti chiedo - di nuovo - che cazzo succede?»
Mercer lo fissò. Per un attimo ci fu soltanto uno sguardo duro come l'acciaio, poi comparve una traccia di sorriso. Aveva capito di essere arrivato alla fine. E aveva anche capito esattamente cos'era successo. Si era fidato di qualcuno che l'aveva tradito. Geoff Hunter aveva telefonato a White. Poco prima, quando Greg aveva lasciato la stanza, mi era sembrato che si fosse arreso troppo facilmente: adesso sapevamo entrambi perché. Persa definitivamente la pazienza, aveva deciso di scavalcare Mercer. Per certi versi, non potevo biasimarlo. «Stavo per mettermi in contatto con voi due», disse Mercer. «Davvero?» «Sì.» Scelse le parole lentamente e con attenzione. «All'inizio del caso avevamo qualche dubbio, ma adesso sembra tutto chiaro. L'uomo che stiamo cercando è il responsabile della morte di Andrew. Tra le altre cose.» Qualche dubbio all'inizio del caso. C'era una certa ironia, perché era stato proprio Greg a mettere in dubbio il collegamento, in un primo tempo. Mercer aveva abbassato lo sguardo sulla tastiera, conservando lo stesso vago sorriso privo di divertimento. «John... Ne abbiamo già parlato, no?» replicò White. «Sai come la penso. Era ovvio che da qui in poi il caso diventasse di Geoff, e già così si metteva male. A peggiorare le cose, mi sembra di capire che hai trovato un collegamento col caso su cui Geoff sta lavorando. È esatto?» Mercer annuì, una volta sola. «Sì.» «Hai idea di quanto mi rendi tutto difficile?» «Abbiamo appena letto il rapporto riassuntivo...» «John...» Mercer allargò le braccia. «Il collegamento è un nuovo sviluppo.» «John, per favore.» White scosse la testa e distolse lo sguardo. Sembrava che si fosse ritrovato qualcosa in bocca e non ne trovasse gradevole il sapore. Mercer rimase in attesa. «Bene», riprese White. «Geoff è per strada, diretto alla circonvallazione, visto che la maggior parte degli uomini è laggiù. Assumerà lui il comando. Ha ordinato alle squadre di ricerca di uscire dal bosco, almeno finché non avrà valutato la situazione.» Mercer alzò lo sguardo, sconvolto. «Ma, Alan...» «Niente 'ma', John. Siamo in piena notte, e c'è un cazzo di bufera, là fuori. A cosa stavi pensando?»
Ha ordinato, notai. Al passato. White aveva deciso di rimpiazzare Mercer prima ancora di fare quella telefonata. Se n'era accorto anche Mercer. Si stava lasciando prendere dal panico. «Siamo a un punto cruciale, Alan. Ci siamo, siamo così vicini... Se ci fermiamo adesso, quella ragazza potrebbe morire.» «Sei fin troppo vicino», sibilò White. «Ci sei così vicino da perdere la tua capacità di giudizio. Ho dato una scorsa al rapporto, e ciò che hai fatto è pura follia. Stai rischiando la maggior parte dei tuoi uomini, laggiù. Te ne rendi conto?» «Alan...» «Sappiamo entrambi che Geoff è più che competente. Si occuperà lui del caso e lo condurrà nella maniera più opportuna.» «Cazzo, Alan, dobbiamo salvarla!» Ci fu una pausa. White si limitò a fissarlo, con un'espressione che oscillava tra il disgusto e la pietà. Come per il suo scatto precedente, mi sentii in imbarazzo per Mercer. Cinque minuti prima, era brillante e ottimista. Adesso stava crollando, ed era doloroso assistere a quel tracollo. Eravamo tutti preoccupati delle possibili conseguenze di un fallimento nell'esito di quelle indagini. Ora le avevo sotto gli occhi. «Vorrei che ti vedessi», mormorò White. «Sto bene.» «Questo sta a me giudicarlo. No, non stai bene; stai andando in pezzi. Ti ordino di andare a casa. E, solo per rispetto di quello che abbiamo passato insieme, in questo momento non ti dico altro. Quando ci avrai dormito sopra, ne riparleremo.» Mercer inspirò a fondo, e poi espirò lentamente. «Mi sono spiegato?» chiese White. «Sì, Alan.» «Passami il tuo uomo.» Dato che Mercer non si muoveva, attivai la webcam del mio computer e la passai sul monitor, in modo che White potesse vedermi. «Detective Nelson», mi presentai. «Immagino che abbia sentito tutto.» «Sì, signore.» «Voglio che prepari un rapporto per il sergente Hunter.» «Certo.» Entrò nei dettagli. Hunter desiderava un riassunto degli eventi della giornata: cos'era successo; cosa sapevamo fino a quel momento; qual era la
nostra situazione attuale... I fatti, sottolineò White. Ascoltai, annuendo al momento giusto e, ogni secondo che passava, sentivo di tradire Mercer. Avrei voluto fare qualcosa, compiere un gesto di ribellione a suo sostegno, ma non sarebbe servito a niente. Ero pagato per fare quello che mi ordinavano di fare e mi sforzai di tenerlo a mente. Anche così, però, un senso di colpa e di frustrazione si accumulava lentamente sotto la superficie. Tutti gli uomini dovevano uscire dal bosco. Quando chiusi il collegamento, la stanza era molto silenziosa. Il ronzio smorzato dei computer aggiungeva qualcosa di sinistro a quel silenzio: l'atmosfera era sovraccarica, come se l'aria fosse satura o potesse mettersi a urlare al minimo rumore. Guardai Mercer. Nelle ultime ore, mi ero abituato a vederlo seduto in una certa posizione, coi gomiti sulle ginocchia o sul piano della scrivania, con la testa fra le mani e con lo sguardo concentrato oppure perso nel nulla. Adesso che era tutto finito, era semplicemente abbandonato contro lo schienale, con le mani sulle cosce. La rassegnazione sul suo viso non nascondeva altre emozioni. Rabbia, senza dubbio. Ma anche un senso di sollievo. Almeno così mi parve. Mi ricordò mio padre. Da piccolo, quando la sua attività era fallita, mi aveva fatto sedere di fronte a lui per spiegarmi la situazione. Mi ero sentito a disagio, perché ero ancora piccolo e quella era la prima volta che mio padre mi sembrava vulnerabile. Era sempre stato una roccia ed era tremendo vederlo così, stroncato dal fallimento. Ma peggio ancora era sapere che lui capiva ciò che stavo provando. In Mercer trovavo la medesima combinazione di vecchiaia, fragilità e tristezza. Nel caso di mio padre, il danno era limitato dalla sua incrollabile certezza che nessun colpo assestato dalla vita era troppo duro: bisognava solo incassarlo e tirare avanti. Mercer invece sembrava definitivamente sconfitto. «Mi dispiace, signore», gli dissi. «Avrei voluto che potesse arrivare sino in fondo.» Mi fissò per un momento, come se mi stesse soppesando. Valutando. Quasi come se guardasse dentro di me. Poi si sporse in avanti e sembrò sul punto di dire qualcosa. Ma, prima che potesse farlo, un rumore acuto ruppe il silenzio, facendoci sobbalzare. Il suo cellulare. «Merda.»
Lo prese di tasca, guardò il display ed esitò, incerto se rispondere. Aspettai, ma lui continuava a lasciarlo suonare. Chiunque stesse chiamando non aveva intenzione di arrendersi. Trenta secondi più tardi, Mercer spense il telefono pigiando il tasto con un'unghia e interrompendo così lo squillo. Quindi posò l'apparecchio sulla scrivania, in mezzo alle carte. «Mia moglie», sussurrò. Chiuse gli occhi. «Non vuole parlare con lei?» «Non ora, no. Sarò a casa tra poco.» Guardai l'orologio. «È tardi per essere ancora in piedi. Oppure è molto presto.» «Si preoccupa per me. Ma non si preoccupano tutti per me?» Riflettei su quel commento. E rammentai che non avevo risposto al messaggio dei miei genitori. Anche loro si preoccupavano per me, benché non ce ne fosse bisogno. Sapevo quanto fosse seccante. «La gente...» Mi fermai, perché mi resi conto che stavo per dire una cosa stupida. Mercer non l'avrebbe vista in quel modo, non in quel momento. Ma poi aggiunsi: «La gente ci vuole bene...» «No, la gente si preoccupa. E sai una cosa? A volte sono io il primo a essere preoccupato per me stesso. Sono io che devo conviverci, con la mia preoccupazione. La gente sembra scordarselo. Però sono passati due anni, e devo fare qualcosa. Non posso starmene a casa per sempre. Nessuno pensa a questo. Be', quasi nessuno.» E guardò il display. Feci per rispondere, ma mi bloccai. Quasi nessuno, aveva detto. In quelle parole c'era qualcosa che mi suonava strano. Un istante più tardi, rammentai un'altra cosa che lui aveva detto: Lo ha progettato per due anni. Erano passati due anni da quando si erano perse le tracce del 50/50 Killer. Ed erano passati sempre due anni dal crollo di Mercer. Lui era convinto che non fosse una coincidenza e quella convinzione era stata alla base del suo modo di vedere il caso. Era stato certo fin dall'inizio che l'intervallo di due anni non aveva tanto a che fare con la pianificazione di nuovi delitti, quanto con la volontà del killer di dargli il tempo di guarire e di ributtarsi nella mischia. Che avesse ragione? Per quanto improbabile fosse sembrata in un primo tempo, ora che eravamo rimasti solo noi due quell'ipotesi assumeva una forza singolare. «So benissimo quello che stanno dicendo gli altri», riprese Mercer. «È stato ovvio fin da stamattina. Tutti a muoversi in punta di piedi, convinti che lo faccio per Andrew. Che non sono in grado di resistere alla pressio-
ne. Che sono troppo coinvolto. Tutti si aspettano che stia per... non so, per crollare o qualcosa del genere.» Aprì gli occhi e mi guardò dritto in faccia. «Sai cosa voglio, Mark?» «No, signore.» «Anzi, meglio, sai di cosa ho bisogno, più di ogni altra cosa? Di non sentirmi un maledetto invalido.» Lo fissai. «E di fiducia», aggiunse. «Ecco cosa volevo. Un po' di fiducia. Due anni fa, chiunque poteva non essere d'accordo o non capire, però nessuno avrebbe dubitato di me. Invece oggi è stato come se mi mettessero alla prova. Nessuno si fida più di me. Credono davvero che sarei di nuovo qui, adesso, se non pensassi che ci devo essere?» «Non saprei, signore.» «Solo un po' di fiducia.» Scrollò il capo. «Di una squadra che mi sostenga, come faceva prima. Invece mi sono sentito sempre solo, tutto il giorno, mentre tutti si preoccupavano. E adesso... è finita, vero?» «Ma...» «Sì, è finita.» Appoggiò i gomiti sulla scrivania e si prese la testa tra le mani. «E ne sono felice.» Restammo in silenzio. Lui non si muoveva. Sembrava che neppure respirasse, tanto era immobile. Avrei voluto potermi defilare in silenzio, invece dissi: «Signore?» Nessuna risposta. «Si sente bene, signore?» Niente. Il computer davanti a me emise un segnale e il monitor riprese vita, così mi concentrai su quello. Riaprii il collegamento, immaginando che si trattasse di Pete o forse di Hunter. Ma al loro posto c'era un agente che non avevo mai visto prima. Sembrava nervoso e continuava a lanciare occhiate fuori campo, come se non fosse sicuro di essere collegato. «Detective Nelson», mi presentai. Lui sbirciò ancora di lato e io compresi che nel suo sguardo non c'era soltanto nervosismo. Qualcosa non andava. «Signore, abbiamo un problema.» «Cos'è successo?» «Non lo so di preciso: abbiamo avuto solo un contatto radio con gli agenti nel bosco, e mi è stato detto di chiamarla. C'è stato un incidente.»
Con la coda dell'occhio, colsi il movimento di Mercer. Stava lentamente sollevando la testa verso il monitor. «Agente, stia calmo, per favore», dissi. «Ci racconti quello che sa.» «Si tratta del detective Dwyer, signore. È stato aggredito.» Oh, cazzo! «Si spieghi.» Mercer si alzò troppo in fretta, come un ubriaco assopitosi al bar. La sedia si rovesciò dietro di lui. Annaspò per infilare le braccia nelle maniche del cappotto. Aveva un'espressione cupa e determinata. Riportai l'attenzione sul monitor. «Si spieghi, agente», ripetei. «Accoltellato, signore. Nel bosco.» «Ho bisogno di un'auto», disse Mercer. «Quali sono le sue condizioni?» «Non lo so. Ho ricevuto l'informazione via radio dalla squadra del detective Dwyer. Hanno fatto venire l'elicottero per trasportarlo.» Quando Mercer mi passò accanto, sentii lo spostamento d'aria. «Ho bisogno di un'auto, cazzo!» esclamò. Era già fuori e stava urlando dal corridoio. «La voglio subito, davanti all'ingresso!» PARTE QUARTA «Vorrei ringraziare i miei colleghi del dipartimento per l'aiuto e il sostegno che mi hanno sempre fornito nel periodo in cui vi ho lavorato e anche durante la mia assenza. In particolare, desidero estendere i miei ringraziamenti ai membri della mia squadra che si sono succeduti nel corso degli anni e che mi hanno insegnato tutto ciò che so in termini di umiltà, umanità e impegno per questo difficile lavoro. Quello che abbiamo ottenuto è dovuto in gran parte - se non del tutto - alla vostra esperienza e professionalità. Senza di voi, questo libro non sarebbe mai stato scritto. «Una persona più di ogni altra mi ha sempre sostenuto e mi è sempre rimasta accanto - nonostante le infinite difficoltà - per tutti questi anni. Mi hai sempre perdonato, compreso, e mi hai insegnato tutto ciò che avevo bisogno d'imparare sulle qualità che ho appena elencato in riferimento alla mia vita personale. «Ancora più importante, mi hai dato modo di dimenticare quello che sono sul lavoro per diventare invece la persona vera che c'è sotto. Perciò questo libro è dedicato a te, Eileen, con affetto e amore.»
da Il danno è fatto di JOHN MERCER 4 dicembre, ore 4.55 2 ore e 25 minuti all'alba Jodie La durata media di un brano musicale era di circa quattro minuti, pensò Jodie. Sul suo lettore ne aveva alcuni più lunghi e qualcuno più corto, ma quattro minuti era probabilmente una media accettabile su cui lavorare. In teoria, era dunque possibile contare le canzoni che aveva ascoltato e farsi un'idea del tempo trascorso. Quindici brani corrispondevano a un'ora. Naturalmente non sapeva che ora fosse quando si era infilata gli auricolari, quello era il problema. Ma almeno c'era qualcosa che la teneva occupata. Continuò a contare. Era arrivata a settantaquattro quando l'iRiver segnalò che la batteria si stava scaricando. Si era sentita travolgere dalla paura. Già era brutto starsene a congelare al buio con gli auricolari; aggiungerci anche il silenzio era troppo. Il lettore rese definitivamente l'anima a metà del brano numero novantadue. Un ultimo bip e poi il silenzio. Le ronzavano un po' le orecchie. Ogni volta che respirava, il muco nel naso crepitava e schioccava. Sentiva una massa nauseabonda in fondo alla gola, e le narici erano intorpidite e doloranti per il freddo. Conta. Dovevano essere trascorse circa sei ore da quando l'uomo aveva aperto la porta, da quando lei si era resa conto che lui la stava guardando e si era messo a parlare. Le ci era voluta tutta la sua forza di volontà per non aprire gli occhi o mettersi a urlare, per non fare qualcosa. Si era rifiutata di ammettere la presenza di quell'uomo; non l'aveva neppure ascoltato. Quando la porta si era richiusa, aveva continuato a tenere gli occhi serrati. Qualcosa in lei le diceva che era ancora lì, accoccolato davanti a lei, abbastanza vicino da poterlo toccare. In attesa. Qualche minuto più tardi - i minuti più lunghi che avesse mai vissuto -, Jodie aveva osato sollevare una palpebra, giusto una fessura. Ovviamente era sola. Da allora, sei ore. Le era sembrato di più? Di meno? Non avrebbe saputo dirlo. Più che altro era stata una lunga sospensione: un intervallo durante il
quale lei era uscita dalla propria esistenza in modo da non aver nulla a che fare con quello che le stava capitando. Un periodo di sicurezza. Era una cosa stupida, però, mentre il tempo passava senza che l'uomo facesse ritorno, Jodie era arrivata a considerare la musica una specie di talismano: uno scudo innalzato a proteggerla, come un incantesimo. Tempo preso in prestito. Adesso che il lettore si era spento, lei non era più al sicuro. Jodie si agitò contro la pietra. Sei ore. Allora era quasi mattina? Fuori sembrava leggermente più chiaro, ma forse era soltanto la sua immaginazione. Oppure era il fuoco. Ne scorgeva il bagliore dalla fessura attorno alla porta e nelle lingue di luce che lambivano la stanzetta attraverso le crepe delle pareti di pietra. Le faceva parecchio male la schiena ai lati della spina dorsale, come se qualcuno le premesse i pollici all'altezza delle scapole. Distese le gambe. La sinistra minacciò un crampo mentre lei tentava di allungarla e dovette procedere con cautela, costringendosi a ripiegarla prima sotto di sé e poi portandola di nuovo in avanti, più volte, finché non riuscì a distenderla del tutto senza provare dolore. Si strofinò le cosce, ma sentiva solo la vaga sensazione di una pressione: sembravano insensibili e ghiacciate, carne congelata. Lo stesso valeva per il dorso delle mani, soprattutto tra le dita e il pollice. Strofinò ogni mano con l'altra, per quanto ci riusciva. Bruciavano. Fuori c'era un gran silenzio. Jodie si alzò come meglio poteva. Il mondo beccheggiò leggermente e sembrò confondersi. Lei andò a sbattere con la spalla contro la parete. Sta' dritta, le disse la voce nella testa. Si sforzò di respirare lentamente e riprese ad avanzare: piccoli passi strascicati per raggiungere la porta. Aveva poche speranze che l'uomo con la maschera da diavolo l'avesse lasciata aperta e se ne fosse andato, ma non si poteva mai sapere. Magari avrebbe aperto la porta e si sarebbe trovata davanti a una troupe cinematografica, con gli amici e i familiari che applaudivano. Una lieve spinta sul battente. Nulla. La sua remota speranza si afflosciò di botto. Era stata più grande di quanto Jodie volesse ammettere. Lei era sempre chiusa dentro. Continua a pensare. La fessura alla base della porta. Si accoccolò, nervosa, e premette un occhio contro il buco, quasi aspettandosi che un ago vi penetrasse dall'altra
parte. Ancora buio. E l'uomo non se n'era andato. Era disteso vicino al fuoco, a una decina di metri dal ripostiglio. La grande catasta di legna da ardere si era abbassata, e gran parte del terreno sotto la tettoia di lamiera era coperta di cenere bianca e grigia. Era un panorama di polvere e rovine, con un mucchietto di legna annerita al centro. L'uomo era disteso su una coperta nel punto più vicino a lei, le voltava le spalle e teneva le gambe leggermente piegate. Dormiva? Sembrava proprio di sì. Jodie cercò di raccogliere qualunque altro dettaglio. Aveva smesso di nevicare. Sul terreno si vedevano le impronte dell'uomo: per la maggior parte, andavano nella direzione dalla quale l'aveva visto arrivare in precedenza, quando lui si era avvicinato al fuoco per arroventare il cacciavite. Scott doveva essere là, da qualche parte. O almeno doveva esserci il suo cadavere. Sii forte. Ma come poteva essere forte? Era rinchiusa là dentro, alla mercé di uno psicopatico che aveva torturato il suo compagno e adesso dormiva tranquillo accanto al fuoco. Come faceva a dormire? Era esausto dopo quello che aveva fatto a Scott? Jodie non sopportava neppure l'idea. Si staccò dalla porta e si sedette sul mucchio di pietre che le aveva fatto da sedile per tutta la notte. Sii forte. No, disse alla voce. Ormai era finita. Non c'era modo di buttar giù la porta. E, anche se ci fosse riuscita, lui si sarebbe svegliato e allora avrebbe cominciato ad arroventare pezzi di metallo da usare su di lei. In ogni caso, prima o poi si sarebbe comunque svegliato. Pensa. Non è ancora finita. Jodie guardò la porta, disperata, osservò la luce del fuoco lungo i bordi. E pensò: Come sarebbe a dire che non è finita? Cosa posso fare per impedire la fine? Ma a quello la voce non sapeva rispondere. 4 dicembre, ore 5.00 2 ore e 20 minuti all'alba Mark
L'agente che aveva telefonato dal bosco si chiamava Bates. Era giovanissimo e sembrava stanco, intirizzito e sconvolto. Quindi cercai di essere paziente con lui e di rassicurarlo. Gli dissi che doveva scoprire cos'era successo e tenermi informato. Lui annuì, ma non si mosse. «Intendo subito», precisai. Stavolta non annuì, però corse via per scoprire se c'erano novità. Mi alzai, prendendo a camminare avanti e indietro. Era un casino di dimensioni inimmaginabili. Prima che arrivassero le notizie su Pete, Mercer era nei guai, ma almeno stava per tornarsene a casa giacché quella faccenda non ci riguardava più. Invece adesso stava raggiungendo il bosco. Cosa credeva di ottenere? Solo Dio lo sapeva. Forse non ci aveva neppure pensato. Un altro membro della sua squadra era stato ferito, forse ucciso, perciò le sue uniche emozioni in quel momento erano probabilmente colpa e paura. Ma più che altro ero in ansia per Pete e, bloccato com'ero in quell'ospedale, mi sentivo isolato e impotente. Poi mi venne in mente che, essendo bloccato proprio in un ospedale, potevo fare qualcosa per rendermi utile. Corsi fuori dall'ufficio-spogliatoio e raggiunsi l'accettazione, avvisando che c'era un agente ferito, forse gravemente, in arrivo. Quando tornai nella stanza, sul monitor c'era di nuovo Bates. «Lo hanno portato fuori, signore», mi disse. «Adesso è in volo, sta arrivando in ospedale.» «Sì, qui lo aspettano. Abbiamo qualche altra informazione sull'accaduto? È ferito gravemente?» «È stato accoltellato tre o quattro volte. Al braccio e alla spalla.» Gesù. «Hanno preso l'aggressore?» «Sì, signore. Un tizio che vive nel bosco. Sembra che siano arrivati nel suo accampamento e lui abbia perso la bussola.» «Giovane o vecchio?» «Vecchio, mi è parso di capire.» Perciò non era Farmer o Reardon o come cazzo si chiamava. Se non altro, Pete era sulla via dell'ospedale. Accoltellato al braccio e alla spalla, però: nessuna meraviglia che Bates sembrasse spaventato. Cristo. Starcene lì, seduti tranquilli in ospedale, indipendentemente dalle pressioni cui eravamo sottoposti, rendeva sin troppo facile dimenticarsi delle condizioni di disagio e di pericolo in cui operavano le altre squadre. «È stato anche lei nel bosco?» gli chiesi.
«No, signore. Per fortuna sono addetto alle comunicazioni, qui. Non andrei là dentro neppure per tutto l'oro del mondo.» Stavo per dirgli che adesso non ce ne sarebbe più stato bisogno, a giudicare dalla piega che avevano preso le indagini, quando mi ricordai di Mercer. «Hunter è già arrivato?» «No, signore.» «Attenda.» Caricai la mappa del bosco sull'altro computer. Gli aggiornamenti funzionavano ancora. I puntini gialli che identificavano le squadre di ricerca erano raggruppati in diverse zone del territorio. Il monitor lampeggiò e tutti si mossero leggermente in direzione della strada. Poco prima, Pete si era dimostrato scettico su quel meccanismo di ricerca, e adesso il suo scetticismo sembrava confermato. Nessuna squadra era riuscita a spingersi molto lontano prima di venire richiamata. Sul monitor, le cose apparivano ovviamente molto più facili di quanto non fossero per chi era sul campo, alle prese con la neve e con gli alberi, tuttavia era chiaro che si era trattato di un'impresa impossibile, fin dall'inizio. Allora credi che sia ancora là? Ad aspettarci? Era stato Pete a dire così, e in effetti era sembrata una possibilità ridicola. Perché mai il 50/50 Killer si sarebbe lasciato prendere? Tuttavia ero convinto che lui sapesse quanto sarebbe stato difficile catturarlo. Quindi l'ipotesi che ci stesse aspettando non era poi così assurda. Non era ovvio che la conformazione stessa del terreno ci avrebbe ostacolato? E che avremmo perso tempo - e forse uomini - in incidenti come quello successo a Pete? Mi passai le mani sul viso. Reardon avrebbe potuto tenere Scott e Jodie nel loro appartamento. O in qualunque altro posto. Perché nel bosco? Doveva avere una ragione per modificare il modus operandi, per portare le vittime all'aperto, per farci scoprire che faccia aveva e persino qual era il suo nome... Si era consegnato a noi per condurre quindi il gioco in uno dei posti più inaccessibili che potesse trovare. Con le tracce che ci aveva lasciato, dovevamo per forza arrivare a lui, prima o poi. Ma non prima dell'alba. Il monitor ammiccò di nuovo e tutti si mossero verso la strada. Sta ancora attento... Ma forse sono cambiate le cose alle quali stare attento, aveva detto Mercer.
Fa di tutto per sfuggirci fino all'alba. Per sfidarci a trovarlo prima di allora e salvare Jodie McNeice. Poco prima, quell'idea mi era sembrata bizzarra. Ma, se il motivo non era quello, allora perché il bosco? Perché lasciar andare Scott? Mi sembrava di sprofondare. «Torno fra un momento», dissi a Bates. «Sì, signore.» Non volevo più parlare con lui. Ridussi a icona la finestra, lasciando aperto il collegamento e rimasi seduto a respirare lentamente, cercando di riprendere il controllo. Non potevo fare nulla. Non dipendeva da me. Cercai di convincermi, ma non ci credevo. Avrei dovuto preparare un rapporto per Hunter - gli eventi della giornata - e invece me ne stavo lì a fissare la mappa. L'immagine sul monitor si aggiornò: tutti si erano mossi, allontanandosi sempre di più. Da Jodie e da Reardon. La troveremo. Tutta la stanchezza svanì di colpo. In effetti, mi sembrava di avere il cuore collegato a una presa di corrente. Batteva forte, proprio come mi succedeva quando pensavo a Lise e a ciò che era accaduto quel giorno; lo stesso batticuore e la stessa sensazione di sprofondare provati ogni volta che mi capitava di rivivere quel momento, che inesorabilmente sarebbe finito con la sua perdita, con l'assenza. Jodie se la caverà. Lo prometto. Mi ritrovai ad allungare la mano verso la scrivania, verso la foto di Jodie che avevamo trovato nel portafoglio di Scott. Mi venne in mente una cosa. Scattiamo le foto solo nei momenti felici, quindi in sé ci dicono poco. Scott se la portava dietro senza sapere che Jodie lo tradiva. Mi chiesi quali altri segreti nascondesse la foto di nozze a casa di Daniel Roseneil. E quali segreti Lise mi aveva tenuto nascosti. Continuando a fissare la foto di Jodie, pensai a Lise. In mensa, Greg aveva intuito che nessuna ragazza mi aveva accompagnato nel mio trasferimento, ma non c'era niente più lontano dalla realtà. Lise era stata con me in ogni singolo minuto di quella giornata, proprio come in tutti gli altri giorni di quegli ultimi sei mesi. E, in una forma o nell'altra, per tutto il giorno, aveva continuato ad affiorare. Dopo il primo colloquio con Scott, avevo temuto d'identificarmi troppo con lui. In effetti, era inevitabile. Chiusi gli occhi.
L'immagine che mi si presentò fu quella di Daniel Roseneil. Il suo volto sconfitto e ustionato, mentre lui rendeva quell'incerta testimonianza; i picchi d'orrore che emergevano dalle nebbie della sua memoria. Guardandolo, avevo concluso che non potevo stigmatizzarlo per la sua amnesia. Avevo pensato a tutte le volte che diciamo a qualcuno di non poter vivere senza di lui o senza di lei, che moriremmo, piuttosto... e poi non facciamo nulla. Capita raramente di dover tener fede a quelle promesse. Non biasimavo nessuno dei sopravvissuti al 50/50 Killer per essersi concesso di dimenticare. Certo che no. Riaprii gli occhi e osservai di nuovo la foto di Jodie. Ma c'era qualcosa che rendeva Scott diverso da Daniel, no? E che lo rendeva diverso anche da me, vero? La mia mano ebbe un guizzo, come se fosse sul punto di fare una mossa di propria volontà. Scott non l'aveva perduta. Non ancora. Tutto ciò di cui Mercer aveva bisogno era un po' di fiducia. Mi resi conto, troppo tardi, che l'avevo trovata. Jodie è ancora viva, in quel bosco. Il panico s'intensificò. Il monitor ammiccò, mostrando i puntini ormai quasi sulla strada, e il panico crebbe ulteriormente. Lasciai che la mia mano si muovesse come credeva. Le dita trovarono il bordo della scrivania e io me ne servii per spingere indietro la sedia, alzandomi sin troppo in fretta. Stavo per mettermi nei guai, ma in quel momento non ci volevo pensare. Non potevo più starmene fermo lì, senza fare niente. Non di nuovo. Forse non era troppo tardi. Per la prima volta in quella giornata, sapevo esattamente cosa fare. 4 dicembre, ore 5.05 2 ore e 15 minuti all'alba Scott «Tu non sei qui», aveva detto Scott. «So chi sei e da dove vieni. Tu non sei mai stato qui.» Nel sogno, era di nuovo nel salotto di casa sua, seduto sul divano di cui percepiva la comoda e familiare robustezza. Sulla parete di fronte c'era un grosso orologio, che non avrebbe dovuto esserci. La lancetta dei minuti avanzava, però troppo in fretta. La vedeva muoversi. Le sei.
Le sei e un minuto. Le sei e due minuti. L'uomo con la maschera da diavolo - era soltanto un uomo, un uomo con una maschera - gli stava accosciato davanti, coi gomiti appoggiati sulle ginocchia di Scott. Non era mai stato nell'appartamento insieme con lui. Quell'uomo era un ricordo dell'altro posto, della costruzione di pietra, dove gli aveva fatto tanto male. Col procedere della notte, sembrava capace d'invadere ogni pensiero, ogni ricordo. Le sei e cinque minuti. Il peso sulle ginocchia gli era familiare, come pure lo erano le cose che l'uomo gli stava dicendo. La sua mente, nel sogno, stava rielaborando i ricordi sempre più sbiaditi della costruzione di pietra. «Io non sono qui?» aveva detto l'uomo, guardandosi attorno prima di riportare lo sguardo su di lui. «Allora dimmi dove siamo.» «Nel mio salotto.» «A casa?» «Sì.» «Dove abiti con Jodie?» Scott non aveva risposto, perché gli era venuto in mente di colpo: Jodie... Dov'è? Erano le sei e venti. Avrebbe dovuto essere già di ritorno dal lavoro. Lanciò un'occhiata sulla destra: la finestra del salotto era aperta e le tende ondeggiavano piano. Un secondo più tardi, era stato sfiorato da una ventata gelida e si era messo a tremare in modo incontrollabile. Jodie in quel momento non c'era, e lui si era sforzato di non pensarci. Forse si trovava semplicemente in un'altra stanza. «Va tutto bene.» L'uomo si era accorto della sua confusione. «È nell'altra stanza, vero?» Ci aveva riflettuto, annuendo poi lentamente. Sì, giusto. Jodie era andata a coricarsi. Era tornata dal lavoro con un'aria così triste che lui le aveva subito chiesto cos'era successo. Niente, aveva replicato lei, gettando la borsa su una sedia e lasciandosi poi cadere accanto a lui, sul divano. Aveva cercato di cavarle qualcosa di più. Brutta giornata? Le andava di parlarne? Non le andava, così si erano limitati a starsene seduti in silenzio per un po'. «Dorme», aveva detto. L'uomo con la maschera da diavolo aveva inclinato il capo. «Avete litigato.» «No.»
«Invece sì, ma non te ne rendi conto.» Scott aveva scosso la testa, però in effetti non ne era sicuro. Forse quell'uomo aveva ragione. Ricordava solo che erano rimasti seduti e, come spesso accadeva, non era riuscito a fare la mossa giusta né a dire la cosa giusta. Probabilmente si era sentito così frustrato e impotente che, invece di limitarsi a non dire la cosa giusta, aveva finito per dire quella sbagliata. Succedeva troppo spesso. Ma lei era così infelice! E il fatto che, almeno in apparenza, lui fosse del tutto inutile lo demoralizzava. Gli umori di Jodie erano indipendenti da lui. Tornava a casa scontenta, e lui non poteva farci niente. Il giorno dopo di nuovo, e anche quello successivo. Ogni giorno somigliava al precedente. «Non preoccuparti», lo aveva rassicurato l'uomo. «Succede.» «No.» Le tende avevano ondeggiato di nuovo. Poi l'uomo si era chinato verso di lui, con aria da cospiratore, e la pressione sulle ginocchia era aumentata. «Allora perché lei è di là?» aveva chiesto. «Ha avuto una brutta giornata.» «È infelice. Sai perché?» Scott aveva fatto segno di no. Avrebbe voluto saperlo. Se avesse saputo cosa non andava, sarebbe intervenuto, rendendola di nuovo felice. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, se soltanto avesse capito come aiutarla. «Vuoi che te lo dica?» aveva chiesto l'uomo. «Sì.» «Ricordi quando abbiamo parlato della sua scopata con Kevin Simpson in quel sudicio alberghetto?» «Sì.» «È stato doloroso, all'epoca. Ma ormai l'hai superato, vero?» Scott aveva annuito. Non appena era successo, lui aveva avuto la certezza che non l'avrebbe mai dimenticato, neanche per un minuto; figuriamoci per un giorno intero o per una settimana. Ma quel minuto era arrivato. E poi erano arrivati prima un giorno e poi addirittura una settimana. Adesso era difficile che gli capitasse di ripensarci. «Credi che sia tutto finito anche per lei, vero?» aveva domandato l'uomo. Scott si era limitato a guardarlo. «Tu ci hai sofferto, e ora è passato. È stato lo stesso anche per lei. Subito dopo, si sentiva così in colpa da essere pronta a rinunciare a tutto ciò che
aveva costruito, così da salvare il vostro rapporto. E, adesso che il senso di colpa si è affievolito, si è pentita di quella decisione.» Scott scosse la testa. «No.» «Invece sì. Fa un lavoro che detesta, poi torna a casa da te e dai tuoi stupidi quadri. Il senso di colpa non c'è più, è rimasto solo quello di perdita. E sta cominciando a prendersela con te, per questo.» «È stata lei a scegliere. Io non l'ho forzata.» «Lei non ti ama, Scott. Quindi non merita il tuo amore.» Si era rimesso a piangere. «Mi ama ancora.» «So meglio di te quello che pensa.» Scott aveva abbassato lo sguardo, vedendo che l'uomo aveva qualcosa in mano. Non era il cacciavite arroventato, stavolta, e neppure il coltello. Era un semplice pezzo di carta. Ma, per qualche ragione, gli era sembrato ancora più terrificante. Era arretrato contro lo schienale del divano. Sembrava che il mondo si fosse offuscato, che la stanza fosse diventata più buia e più fredda. Il suo tremito era aumentato. L'uomo sembrava poco più di una sagoma nera nell'ombra, la luce proveniente da una fonte sconosciuta che balenava attraverso la maschera rossa. Aveva avvicinato il foglio alle mani di Scott, scuotendolo piano. Prendilo. Per un attimo, Scott non gli aveva obbedito. Il freddo gli aveva tolto la capacità di muoversi e le dita di una mano sembravano contorte e fuori posto. Ma l'uomo glielo aveva premuto nell'altra mano e lui, quasi involontariamente, lo aveva preso. Poi aveva alzato il viso al soffitto, pregando Dio di farlo smettere. Ma sopra di lui tutto sembrava inghiottito dalle tenebre. «Credi che abbia semplicemente avuto una giornataccia al lavoro», aveva ripreso l'uomo. «Ma non è andata così.» «Sì, invece.» Si era messo a piangere «È andata proprio così.» «Allora leggi questo. Qui.» L'uomo aveva raccolto da terra una torcia elettrica e, dopo averla accesa, l'aveva fatta ruotare, tenendola accostata all'orecchio di Scott. La luce proiettava sulla pagina un semicerchio che somigliava all'impronta di una tazza di caffè, dal quale s'irradiavano aloni beige e marroni. Poi l'uomo aveva mosso la torcia e il cerchio era diventato un'ellisse. «Leggi.» Scott aveva chiuso gli occhi e scosso la testa. Ma, per qualche ragione, le parole gli si presentavano comunque alla mente.
Credo di volerti rivedere. Mi fa star male, perché dovrò mentire a Scott, ma sono convinta che mi farebbe bene. Com'era possibile? Poi però si era reso conto che stava sognando. Non importava cosa facesse, quanto forte chiudesse gli occhi. Le parole stavano sulla pagina, e quella pagina lui l'aveva già letta. Puoi prendere un giorno libero domani? Sono sicura che qualcuno dei tuoi cento schiavetti potrà difendere il forte al tuo posto! Aveva riaperto gli occhi. Sì, Jodie e Kevin. Adesso ricordava. Potrei darmi malata e venire da te. Va bene? L'uomo l'aveva sbirciato da sopra il margine del foglio. «Si stava di nuovo scopando Kevin Simpson.» «Non ti credo.» Lui aveva puntato la luce negli occhi di Scott e poi di nuovo sulla pagina. Mostrandogli dove. Scott aveva notato che c'era qualcosa sul retro del foglio. Un rigo nero, contorto, scritto a mano. Che non avrebbe dovuto vedere. «Ecco quanto ti ama», aveva detto l'uomo. «Tu sopporti tutto, soffri per lei, ti preoccupi, e lei si scopa un altro.» Ma Scott era distratto: stava cercando di capire cosa c'era scritto dietro il foglio. La scritta era rovesciata, però lui la stava rimettendo insieme, una parola dopo l'altra. Forse l'uomo se n'era accorto e aveva allontanato la torcia. «La vostra relazione non significa niente.» «Non è vero.» «Ti ha imbrogliato. E tu sei uno stupido, se credi di amarla.» «Me l'avrebbe detto!» Scott stava singhiozzando. Non voleva crederci. «Me l'avrebbe detto.» Improvvisamente l'uomo con la maschera era scomparso. Scott si era guardato attorno. Il salotto era di nuovo luminoso. L'orologio era sparito. Sembrava tutto normale. Però c'era il silenzio, totale e pesante. Come se qualcosa si fosse dissolto, portando con sé il volume, per tornare dopo poco tempo, più forte e fragoroso che mai.
Esci. Per un attimo, era stato come scoprirsi vittima di un incantesimo. Le braccia non si muovevano e neppure le gambe. Poi si era ritrovato in piedi, a incespicare verso il corridoio, la mente che rimuginava sugli stessi pensieri mentre cercava di recuperare il controllo. Era tutto finito, passato. Non c'era nessun uomo. Non più. Nessun cacciavite arroventato, nessun martello, nessun coltello. Era al sicuro in casa sua con Jodie... La camera da letto. Si era affacciato alla porta. Distesa sul bordo del letto, lei gli voltava le spalle, le gambe rannicchiate, il petto che si sollevava e si abbassava dolcemente nel sonno. Avrebbe dovuto dirmelo. La luce del corridoio illuminava il pavimento e un angolo del letto, ma senza raggiungere lei. La camera era così tranquilla e silenziosa che gli era venuto un groppo alla gola. Per qualche ragione, pur essendo lì nel letto, la sapeva irraggiungibile. Se n'era andata via da lui. «Ti amo.» Nessuna risposta, solo il medesimo respiro costante. Le si era avvicinato. Il letto aveva cigolato sotto il suo peso, poi lui aveva sollevato anche le gambe e si era disteso dietro di lei, il petto contro la sua schiena. L'aveva cinta con un braccio, premendo il viso umido contro i suoi capelli. Lei non si era svegliata. «Non importa quello che hai fatto», le aveva sussurrato. «Io ti amo.» E, nel sonno, lei aveva sollevato un braccio, prendendogli la mano. 4 dicembre, ore 5.10 2 ore e 10 minuti all'alba Mark Era tutto più semplice; il senso finalmente chiaro di una missione da compiere aveva fatto sparire quasi del tutto la tensione della giornata. Persino farmi strada nei corridoi dell'ospedale era diventato più facile. Sembravano meno affollati, più agevoli da percorrere. Non m'importava della gente che mi sfilava accanto: avevamo tutti un incarico da svolgere, in un modo o nell'altro. Arrivato davanti alla camera di Scott, feci un cenno alla guardia ed entrai, chiudendomi la porta alle spalle. Scott dormiva, anche se non pacificamente come prima. Era disteso su un fianco, il viso contorto in un tormento accigliato.
Probabilmente sognava. E niente di piacevole. Attraversai la stanza e gli sfiorai una spalla... «Cosa...?» Si svegliò di soprassalto, spaventato e confuso. Tenni la mano sulla sua spalla per un istante, rivolgendogli uno sguardo che mi auguravo fosse rassicurante. «Va tutto bene, Scott. Sono io.» Mi allontanai e ripresi il mio posto sulla sedia. Lui respirava affannosamente, poi rotolò sulla schiena e si concesse un attimo per ricomporsi. Infine, con un certo sforzo, si sollevò a sedere. «Un brutto sogno?» gli chiesi. M'ignorò. «L'avete trovata?» «No.» Evitai le false rassicurazioni che gli avevo offerto poco prima. Per come stavano le cose, non era il caso di suggerire un: non ancora. Invece dissi: «Stiamo incontrando qualche difficoltà». «Qualche... difficoltà.» «È un terreno difficile per le ricerche. Un territorio molto vasto da coprire. E con questo tempo e col buio si sta rivelando complicato.» Si innervosì subito. Continuai comunque. «Perciò abbiamo bisogno del tuo aiuto. Di più aiuto di quanto tu non ci abbia già dato.» «Ma ti ho detto tutto quello che ricordo.» «Sicuro.» Cerca di avere pazienza con lui. «E te la sei cavata benissimo. Ma adesso dobbiamo andare oltre.» La prospettiva gli fece scuotere il capo. Lo fissai, impassibile. Nella nostra ultima conversazione, avevamo parlato del gioco che faceva il killer e lui mi aveva chiesto se, essendo fuggito, aveva tradito Jodie. Non potevo dargli una risposta definitiva, neppure ora, ma in fondo Scott sapeva la verità. E aveva avuto un paio d'ore per venirci a patti da solo. La mente gli stava dicendo di voltare le spalle a ciò che era successo ed ecco che arrivavo io, minacciando di costringerlo a voltarsi. «Se non troviamo Jodie alla svelta, ci sono buone probabilità che non la troveremo più», dissi. «Ma io non so... Non ricordo.» Cercavo di essere comprensivo, ma lui era quasi stizzito. «Di che altro ti ha parlato quell'uomo?» «Non lo so.» Mi limitai a fissarlo, facendogli capire che non se la sarebbe cavata così facilmente. Gli lessi in faccia che avrebbe potuto ricordarsi qualcosa di
più. Anche se non ci fosse riuscito, doveva almeno provarci. La tensione cresceva col protrarsi del silenzio, ma io fui implacabile. Alla fine lo costrinse a parlare. «Tutto quello che so è che abbiamo parlato di Jodie.» «Non è tutto quello che sai, anche se capisco che è difficile, Scott.» Si mise a piangere. «Non lo so.» Il mio istinto mi diceva di mollare, ma non potevo. Continuai a fissarlo lo stesso sguardo implacabile di prima - e mi sistemai meglio sulla sedia, cercando di diluire la mia espressione con un tocco di pietà e di comprensione. «So quello che stai pensando. So di cos'hai paura.» Lui scosse la testa e guardò da un'altra parte. «Hai paura di averla lasciata morire. Credi che non potrai mai perdonarti per questo, e che la gente ti giudicherà per quello che hai fatto. Capisco più di quanto tu non creda. Però, Scott, guarda la finestra. Non è ancora l'alba.» Mi chinai verso di lui. «Lei è ancora viva. Qualunque cosa tu tema di aver fatto, non è troppo tardi per rimediare. E io t'invidio per questo.» Tirò su col naso e scosse di nuovo la testa. «Tu non capisci.» «Di cosa avete parlato?» Niente. Tremava. Sospirai tra me. Non avevo idea se quello che stavo per dire avrebbe fatto la minima differenza, però non mi restava altro. Comprensione. «Ascoltami.» Diedi un'occhiata all'orologio. «Non ci vorrà molto e credo che ci rimanga un po' di tempo. Voglio raccontarti una cosa.» Eravamo in vacanza, in campeggio. Un campeggio sulla spiaggia. Siamo andati a fare una nuotata. In realtà a sguazzare, ma ci siamo spinti oltre il nostro limite, senza accorgerci che la corrente era forte. Abbiamo gridato aiuto, però sulla spiaggia non c'era nessuno, quindi non ci restava altro che nuotare per salvarci. E, alla fine, io sono riuscito a raggiungere la spiaggia. Lei no. Nessuno avrebbe potuto farci niente. Ecco cosa avevo raccontato al resto della squadra poche ore prima, in mensa. Ma, in un certo modo, quella era la mia versione della foto di Jodie che Scott conservava nel portafoglio. Un'istantanea di un momento della mia vita che tenevo a portata di mano e che ero pronto a condividere col prossimo. Tuttavia, proprio come quella fototessera, era solo una piccola parte della vera storia. La verità sta sempre tra le righe, nascosta in ciò che non si dice.
Eravamo in vacanza, in campeggio. Un campeggio sulla spiaggia. I miei ricordi di quella sera erano frammentari, come se gli avvenimenti successivi fossero tornati indietro per distruggere a martellate tutto ciò che aveva condotto a quell'epilogo, lasciando solo qualche scheggia. La tensione dei pali della tenda... Ricordavo di averli infilati goffamente, attraverso le asole tese, curvandoli in posizione finché la tenda non aveva assunto la forma dovuta. Lise agitava le mani per allontanare le zanzare, mentre piantavamo i picchetti nel terreno compatto e sabbioso. La parte posteriore del suo bikini era leggermente arrotolata. Siamo andati a fare una nuotata. In realtà a sguazzare, ma ci siamo spinti oltre il nostro limite, senza accorgerci che la corrente era forte. Me n'ero accorto io per primo. Non ero un gran nuotatore e il mare era un po' più agitato di quanto mi piacesse, quindi sentivo spesso il bisogno di toccare il fondo con la punta dei piedi. A un certo punto non l'avevo trovato, andando sotto. Ne ero riemerso scioccato, tossendo. Panico. «Va tutto bene», aveva detto Lise. «Basta tornare verso la spiaggia.» Ma io mi dibattevo e, senza volerlo, le avevo tirato un calcio nello stomaco; ricordo ancora l'impatto su qualcosa di morbido. «Calmati», mi aveva detto lei, però io non la ascoltavo. Annaspavo per raggiungere la spiaggia, pensavo solo a mettermi in salvo. Era il mio unico pensiero. Nuota, pensavo. Nuota più che puoi. Mi ero reso conto che, a quella distanza dalla riva, il mare era più agitato: onde fastidiose in superficie e un sacco di turbolenza sotto, contro il petto e le gambe. Avevo nuotato con tutte le mie forze per quello che mi era sembrato un periodo lunghissimo e, quando mi ero fermato, avevo capito che, invece di avvicinarmi alla riva, ero ancora più lontano. Anche Lise nuotava. A quel punto, eravamo ancora abbastanza vicini. L'avevo guardata, scorgendo in lei il riflesso della mia stessa paura. Era stato quello a farmi effetto. Non l'avevo mai vista spaventata prima di allora; di solito era così calma, così controllata... «Grida», mi aveva detto, seria. Abbiamo gridato aiuto, ma sulla spiaggia non c'era nessuno. Non l'avevo mai fatto in vita mia - gridare aiuto - e mi sembrava ridicolo e innaturale, però l'avevo fatto. Avevo gridato. Avevo gridato più forte che potevo, e poi ancora. Sopra il rumore delle onde, sentivo che gridava anche lei. Mentre un po' gridavo e un po' nuotavo, una grossa ondata mi aveva in-
vestito da dietro, spingendomi sotto. L'acqua mi aveva riempito i polmoni. Ero riemerso tossendo, semisoffocato, con le orecchie doloranti. Il mondo che mi circondava era una massa confusa e indistinta. Lise era più lontana, anche lei una macchia di colore. Nella mia mente cortine d'acqua nera le si stavano chiudendo attorno. La separavano da me. Non ci restava altro che nuotare per salvarci. Avevo ripreso a nuotare, battendo le gambe più che potevo, cieco a tutto tranne che a qualche squarcio di cielo. Ma ero troppo terrorizzato per controllare i movimenti e il mare continuava a trascinarmi sotto. Stavo per morire: lo avevo compreso con assoluta chiarezza. Mai avevo provato un terrore altrettanto primitivo e totale. Avevo lottato contro le onde con una forza tale da farmi venire i crampi alle braccia. La mia mente era assente: non ero che un animale di fronte alla morte, e lottavo disperatamente per sfuggirle. Non pensavo a Lise. In quel momento m'importava solo di me stesso. E, alla fine, io sono riuscito a raggiungere la spiaggia. Lei no. Dopo forse un minuto barcollavo sulla spiaggia. Avevo solo il costume addosso, ma la sensazione era di essere completamente vestito. Gambe e braccia inzuppate d'acqua, stanche e pesanti. Ero caduto in ginocchio e poi in avanti, sputando acqua e cercando d'inalare aria. Quando finalmente ero riuscito a respirare, mi ero costretto ad alzarmi, per scrutare il mare. Per chiamarla. Nessuno avrebbe potuto farci niente. Il funerale. Amici, colleghi, i miei genitori e i suoi. Il mare non aveva restituito il cadavere di Lise, perciò tutta quella gente era radunata attorno a un pezzo di terra che non si poteva definire una vera tomba. Il foulard di sua madre ondeggiava lievemente nella brezza. «Non potevi farci niente, Mark», mi aveva detto lei. Io ero scoppiato a piangere, ma l'avevo accettato. E quella frase era il cuore dell'istantanea che avevo conservato per mostrarla alla gente. Proprio come chi guardava la foto di Jodie avrebbe sorriso e detto qualcosa di carino, così chi ascoltava la mia storia avrebbe annuito e si sarebbe dimostrato comprensivo. Nessuno avrebbe potuto farci niente; era molto triste, però era andata così. Nessuno avrebbe cercato la verità che stava sotto la superficie. Ma a Scott non potevo rifilare quell'istantanea. Se volevo conoscere il suo segreto, dovevo essere pronto a rivelargli il mio.
«Ero sulla spiaggia», dissi. «La cercavo, cercavo di vedere dove fosse. Gridavo forte il suo nome. Poi, d'un tratto, eccola.» L'avevo vista al largo, a una cinquantina di metri dalla spiaggia. Per pura fortuna, io ero sfuggito alla corrente, mentre Lise non riusciva ad avvicinarsi. «Stava gridando qualcosa, ma non riuscivo a sentirla. Non so neppure se mi abbia visto. Forse gridava e basta.» Però io la vedevo. Vedevo il terrore e il panico e il dolore sul suo viso. Scott si era girato e mi fissava. Aveva anche smesso di piangere, benché la parte visibile del suo volto, gonfia e arrossata, luccicasse di lacrime. Non ero così ingenuo da pensare che la mia storia avrebbe fatto scattare l'interruttore e risolto tutto, però, se non altro, lui mi stava guardando. Mi ascoltava. Se non altro, l'avevo riportato indietro, almeno sinché fossi riuscito a trattenerlo. «Sono rientrato in acqua, ma solo fino al ginocchio», continuai. «Agitavo le braccia verso di lei, le urlavo che ce l'avrebbe fatta, che doveva solo continuare a nuotare. Ma il mare era così agitato. Un attimo prima, era lì; un attimo dopo non c'era più.» Ricordavo l'ultima cosa che avevo visto di lei: una Y nera che galleggiava sulle onde. Dopo c'erano solo il mare e io che urlavo: «Ce la farai!» al nulla. «Non sei tornato dentro?» chiese Scott. «Avrei voluto», risposi. «Ho anche provato a farlo. Ma non ne ho avuto il coraggio. Avevo troppa paura. E così la mia ragazza è annegata.» Scott mi fissò, sconvolto. Lo sentivo respirare. Sorrisi, meglio che potevo. «In fondo, so che non avrei comunque potuto fare niente per lei. Sì, certo, potevo rientrare in acqua e probabilmente sarei annegato anch'io. Lei sapeva nuotare meglio di me. Eppure continuo a sentirmi in colpa per quello che non ho fatto. Potevo provare a salvarla, ma non l'ho fatto perché avevo troppa paura di morire. Capisci?» Annuì lentamente. «E, in un certo modo, il suo gioco è questo», dissi. «È questo che fa il killer. Imbroglia le cose e manovra i fatti finché non diventano intollerabili, finché l'unica possibilità che resta è scappare. Chiunque farebbe lo stesso. Solo che io non posso neppure immaginare cosa pensava lei mentre moriva. Non lo sopporterei.» Scott sembrava così disperato, così inerme, che avrei voluto rimangiarmi tutto. Ma ormai eravamo a metà: sarebbe stato più difficile tornare indietro
che proseguire fino a riemergere dall'altra parte. «L'ho abbandonata», disse. «Forse sì. Ma, in questo momento, tu sei nella stessa identica situazione in cui mi trovavo io su quella spiaggia. La tua ragazza è ancora viva, Scott.» Era una delle regole base per gli interrogatori. E stavolta ci credevo davvero. «Perciò hai un vantaggio su di me. A modo tuo, puoi ancora rientrare in acqua e salvarla. Se non lo farai, nessuno te ne farà una colpa, e tutti saranno comprensivi. Ma, ti prego, non fare il mio stesso errore. Non riusciresti più a vivere in pace con te stesso. Capisci cosa intendo?» La sua voce era più triste quando ripeté: «L'ho abbandonata». Mi sporsi in avanti, le mani allacciate. Se doveva succedere, era quello il momento. «Cosa ricordi?» La domanda rimase in sospeso. L'unico rumore era il lieve segnale delle pulsazioni di Scott emesso dal macchinario vicino al letto. Era più calmo, adesso. «Mi ha mostrato una cosa. Un foglio di carta», disse infine. «Nel bosco? Eravate in una vecchia costruzione di pietra, e lui ti ha parlato a lungo. È stato allora che ti ha mostrato quel foglio?» «Credo di sì.» «L'hai letto?» «Non volevo farlo. Mi ha costretto.» «Cos'era?» «Un'e-mail.» Respirò a fondo. «Jodie aveva una relazione con Kevin Simpson. Il suo ex socio. Riguardava quello.» «Okay.» Scosse la testa. «Lo sapevate già, vero?» «No. Sapevamo che aveva trascorso del tempo a casa di Simpson. Non volevo dirtelo prima. L'uomo che vi ha rapito ha fatto lo stesso anche con Kevin Simpson. È stato ucciso ieri mattina.» «Bene.» Non replicai. Nemmeno Scott disse altro. Il suo viso era diventato stranamente impassibile, ma sembrava gli risultasse difficile mantenere quell'espressione: minacciava di trasformarsi in qualcos'altro. In rabbia? In dolore? Difficile a dirsi. Non fermarti. «Così ti ha mostrato l'e-mail», dissi. «E poi cos'è successo?»
«Gli ho detto che mi arrendevo», rispose. «Tutto qui. Mi arrendo. Ho continuato a ripeterlo, in modo che capisse e la smettesse di farmi male.» «E poi?» «Lui... mi ha lasciato andare.» Scott tirò su col naso. «Oddio, mi ha lasciato andare. Semplicemente. L'ho abbandonata.» Avrei voluto spingerlo oltre, però m'imposi di mantenere la calma. «Ti ha slegato? Come facevi a sapere in che direzione andare?» «No.» Scott aggrottò la fronte. «Mi ha accompagnato per un tratto. Solo per pochi minuti, credo. Abbiamo attraversato un fiume e poi un sentiero. Per tutto il tempo ha continuato a parlare. Diceva che avrebbe pensato lui a tutto, che avevo preso la decisione giusta. Ha persino aggiunto che, se avessi cambiato idea, potevo tornare indietro. Poi ci siamo fermati e mi ha indicato la direzione in mezzo agli alberi.» Abbiamo attraversato un fiume e poi un sentiero. Avrei voluto correre di sotto il più in fretta possibile. La squadra stava perlustrando la zona sbagliata. Il fiume era a nord della parte superiore della N, a pochi minuti di distanza dal campo. Mi guardò con una specie di disperazione negli occhi. «E allora... mi sono messo a correre.» Gli sorrisi dolcemente, poi mi avvicinai e mi sedetti sul bordo del letto, mettendogli una mano sulla spalla. «Grazie», mormorai. «Hai fatto quello che potevi. La prossima volta che entrerò in questa stanza sarà per dirti che abbiamo trovato Jodie e preso l'uomo che vi ha fatto tutto questo.» Si rimise a piangere, però fece segno di sì. Gli strizzai la spalla con cautela e mi avviai alla porta. La aprii e mi voltai a guardarlo. La luce che penetrava dal corridoio illuminava il pavimento e un angolo del letto, ma non arrivava fino a lui. «Agente...» Nonostante le lacrime, sembrava improvvisamente in pace. «Qualunque cosa succeda, grazie.» «Tornerò presto, Scott.» Uscii nel corridoio, chiudendomi piano la porta alle spalle. Allora, e soltanto allora, mi misi a correre. 4 dicembre, ore 5.30 1 ora e 50 minuti all'alba Eileen
Fece un ultimo tentativo di telefonare a John. Le tremavano le dita mentre premeva il tasto RIPETI, e le tremava la mano mentre si portava la cornetta all'orecchio. L'ultima volta. Da quando lui aveva spento il telefono, aveva cercato ripetutamente di chiamarlo, ogni volta convinta che avrebbe risposto. Ma ogni volta c'era solo quel... Tut, tut, tut... Eileen scagliò il telefono dall'altra parte della stanza. Si schiantò contro la parete opposta e si aprì in due pezzi che caddero sul pavimento, la scheda ancora appesa ai fili. Non le riusciva neppure di frantumare un telefono come Dio comanda. Si lasciò cadere sulla sedia, che indietreggiò sulle rotelle fino a urtare la parete. Sul tavolo c'era la seconda bottiglia di vino. Era riuscita a farne fuori tre quarti prima di mollarla e andarsene a letto. Il bicchiere vuoto era ancora coperto di ditate della sera precedente. Ciononostante, e sebbene fosse tardi, l'idea di scolarsi pure quello la attirava. Ma non era più nemmeno troppo tardi per bere: casomai era troppo presto. E due ore a letto non erano neppure lontanamente sufficienti a cancellare il debito di sonno che le ovattava la testa. La prova era quella cosa in pezzi davanti a lei. Una simile esplosione di rabbia era del tutto inusuale. L'alcol si era mescolato alle emozioni, spingendola a una reazione idiota e sconsiderata. Perché mi hai fatto questo, John? Gli aveva forse chiesto troppo? Loro due formavano una coppia: ecco perché lei gli aveva dedicato la sua vita, tutti quegli anni. Quando John era crollato, il suo mondo era crollato con lui e lei non aveva mai avuto tanta paura. La sola idea che potesse succedere di nuovo, che potesse anche soltanto correre il rischio di rivivere quell'esperienza... Chiedeva troppo? Eppure non si sprecava nemmeno a telefonarle. Una cosa così semplice, rispetto a tutto ciò che lei aveva fatto per lui. No, nemmeno quello. I pensieri di Eileen erano come un'auto che viaggiava nella nebbia. Poteva lasciarsi guidare solo dalle emozioni. Era triste e arrabbiata, ma soprattutto si sentiva ferita. Profondamente ferita. Era suo marito a comportarsi così. Dopo tutto l'amore e il sostegno e il dolore, dopo aver chiesto così poco in cambio, John l'aveva semplicemente... messa da parte per qualcosa che lui riteneva più importante, per qualcosa che poteva distruggerli entrambi. Le aveva mentito, l'aveva svilita, senza offrirle niente in cambio. Sembrava che non gli importasse coma la
faceva sentire. Non gli importa niente di te. Eileen sentì il viso irrigidirsi. Si rese conto di essere seduta sulla sedia di John, a fissare la tenda che aveva di fronte con un'espressione di odio profondo. Dopo la telefonata di Hunter, era rimasta immobile, come senza scopo, prima di decidersi a chiamare il cellulare di John. Aveva squillato e squillato, e poi più nulla. Eileen aveva fissato il ricevitore, incredula, e poi aveva riprovato. Solo quel segnale. Lo aveva spento. Lui sa. Per qualche minuto, si era mossa con decisione da una stanza all'altra, accendendo tutte le luci della casa. «Credo che debba sapere su quale caso sta lavorando suo marito», le aveva detto Hunter. Uno scatto dell'interruttore e l'intera stanza s'illuminava, ma lei era già passata alla successiva. Ogni stanza, una manata: C'è un'emergenza, sveglia! «È alla caccia dell'uomo che ha ucciso Andrew Dyson.» Aveva fatto del proprio meglio perché la sua voce non mostrasse traccia di sorpresa, cercando invece di riempirla con una totale indifferenza. «Ah, sì?» Mentre vagava per la casa, riportandola febbrilmente alla vita, una sensazione di panico la inseguiva, la spronava. «Ha fatto un grosso errore. Non dire niente al riguardo, e non soltanto a lei. È stato sollevato dal caso.» «Suppongo che questo la renda felice, sergente Hunter.» Pur continuando a muoversi, si sentiva la gola serrata, il respiro difficoltoso, come se il cuore fosse diventato un pugno che lentamente spingeva per risalire. Non poteva far niente per impedirgli di schizzare fuori, solo rallentare l'inevitabile. «Comunque tornerà presto a casa. Dove dovrebbe stare.» Quando aveva finito di accendere tutte le luci - e si era ritrovata nella cucina fredda e accecante, senza sapere cos'altro fare - la paura le si era insediata nella trachea. Le aveva mentito. Come aveva potuto? Lì, in cucina, ripensava alle ultime parole che aveva detto a Hunter prima di riattaccare. «E lei mi ha svegliato per dirmi questo? Davvero crede che non lo sapessi già? Lei sottovaluta John, e sottovaluta anche me. Faccia un favore a
entrambi: la smetta di farci perdere tempo.» Era riuscita a instillare la giusta quantità di veleno e di derisione nella propria voce? Probabilmente no. Di certo Hunter aveva capito che lei era sconvolta e arrabbiata, e negarlo aveva soltanto peggiorato le cose. Ma non le importava nulla di lui: era uno di quegli uomini che, incapaci di fare carriera con le loro forze, erano costretti a trascinare nel fango gli altri, e da quello traevano il loro misero piacere. Dentro di sé, uomini di quel tipo sapevano benissimo di essere patetici. Perciò poteva anche concedergli il suo trionfo. In fondo era a spese di John... benché, in passato, le venisse istintivo difendere il marito perché, attraverso di lui, di fatto difendeva se stessa. Ma adesso non le importava più di lui. Ti ha riattaccato il telefono in faccia. Era stato allora che il panico l'aveva investita. Non era riuscito a travolgerla e lei non era crollata, però era troppo. Aveva cercato di fare respiri lenti e profondi, di calmarsi. Ed era rimasta così per un bel pezzo, evitando accuratamente ogni pensiero, finché non si era resa conto che stava affondando le unghie nelle braccia e che doveva fare qualcosa. Perciò era tornata di sopra. Ogni passo era stato come superare una montagna. Aveva continuato a ripetersi: È stato un errore. Non voleva riattaccarti il telefono in faccia. Non voleva spegnere il cellulare. Non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere. Di nuovo nello studio, aveva riprovato a chiamarlo. E poi ci aveva riprovato ancora. Finché non aveva rotto il telefono. Eileen andò al computer e fissò la parete di fronte, il collage che John ci aveva appeso. Aveva messo insieme una cinquantina di pezzi di carta, formando una collezione eterogenea per colori, forme e dimensioni. C'erano stampate di vecchi file - quelli che contenevano proprio il dettaglio che gli aveva finalmente rivelato la soluzione del caso -, articoli e ritagli di giornale, diplomi incorniciati, foto della sua squadra. Era una specie d'istantanea del suo stato mentale: John se ne serviva per focalizzare le idee e trarne ispirazione. Per Eileen, invece, era un mezzo per penetrare nel suo stato mentale. Quel collage rivelava i pensieri di lui. E lei dov'era, in tutto ciò? Dove s'incastrava sua moglie? La risposta era che non c'era spazio per lei, non sulla parete. John aveva tenuto separati quei due aspetti della sua vita; invece di «infilare» Eileen in mezzo al suo lavoro, in cui lei si sarebbe persa, teneva due foto sulla scri-
vania vicino al computer. Una era una copia della stessa foto che c'era al piano di sotto, quella del giorno del matrimonio. Nella seconda foto, c'era soltanto lei, ed era stata scattata più di recente. Era come se dicesse: Ti amavo allora, è passato del tempo e continuo ancora ad amarti. Batté le palpebre per trattenere le lacrime - Non farlo... - e riportò lo sguardo sulla parete. Gli ultimi ritagli erano stati aggiunti sulla destra del collage. Lì vide una minuscola foto di Andrew Dyson, l'uomo che John aveva perso e il cui omicidio aveva costituito per lui il punto di rottura. Vicino alla foto, c'era l'elogio funebre che lui si stava preparando a leggere al funerale di Andrew, quanto tutto era andato in pezzi. Mi addormento con la totale, assoluta speranza che il mio sonno non sarà spezzato; e che, mentre io tutto avrò dimenticato, non sarò del tutto dimenticato, ma continuerò quella vita nei pensieri e negli atti di coloro che ho amato. EPITAFFIO DI SAMUEL BUTLER Eileen lo rilesse, concentrandosi sulle ultime righe. Non sarò del tutto dimenticato, ma continuerò quella vita nei pensieri e negli atti di coloro che ho amato. Erano parole che John aveva preso a cuore. Dopo due anni, era ancora schiacciato dal dolore per ciò che era accaduto, ma anche irrequieto e frustrato per essere stato costretto a interrompere il suo lavoro. Eileen lo aveva capito durante la convalescenza, dal modo in cui lui si aggirava fiaccamente per casa. Persino all'inizio, quando ancora riusciva a ingannare se stessa, a dirsi che John non sarebbe mai più stato in grado di riprendere il suo incarico, Eileen sapeva che lui aveva percepito l'innalzarsi di una barriera fra le proprie inclinazioni e l'interruzione forzata della sua attività. E aveva scorto quell'uomo terribile che c'era dietro, quell'uomo che tanto male aveva fatto ad Andrew, e a lui. Negli ultimi due anni, quella barriera gli aveva gettato addosso un'ombra di tristezza e, dopo un certo periodo, era rimasta soltanto la paura di Eileen a reggerla. Proprio perché lo amava, a un certo punto lei si era arresa, l'aveva abbattuta, lasciandolo uscire. Ma si era fatta promettere che non si sa-
rebbe allontanato troppo. E, adesso che quell'uomo era riapparso, lui lo aveva fatto: si era allontanato. Possibile che fosse stata così cieca da non accorgersi che era inevitabile? Era suo marito: sapeva bene come si comportava. Tanto tempo prima, lo aveva amato proprio per la sua dedizione, per l'impegno che metteva nel lavoro, nell'aiutare le persone. Nel salvarle. Ma ora, dopo l'esaurimento, quelle virtù la colmavano di terrore. E se fosse successo di nuovo? Eileen si sedette e chiuse gli occhi. Doveva saperlo che sarebbe finita così. Desiderando solo una parte di John, gli aveva impedito di essere l'uomo che lei aveva amato così a lungo. Lui aveva provato a diventare una persona nuova - ci aveva provato per lei -, ma gli era stato impossibile. Eccolo, il divario: ciò di cui John aveva bisogno e ciò di cui lei aveva bisogno da lui erano cose lontane. Per il momento, sembravano addirittura inconciliabili. E lei non poteva sopportarlo. Perciò Eileen rimase su quella sedia, con gli occhi chiusi, le dita che strofinavano lentamente il labbro inferiore, avanti e indietro. Non sapeva cosa fare. Come se John non fosse altro che un puntino all'orizzonte. Aveva troppa paura per continuare a osservarlo, ma aveva forse altra scelta? John si era portato appresso anche la sua vita. E senza chiederle il permesso. Va bene, John, se è questo che vuoi... Rimase seduta ancora per un po', a pensare. Poi si alzò, si diresse lentamente verso il telefono e cominciò a rimettere insieme i pezzi. 4 dicembre, ore 5.50 1 ora e 30 minuti all'alba Mark Mezz'ora dopo il mio colloquio con Scott, ero di nuovo nell'ufficiospogliatoio, ad ascoltare il clangore dell'acqua nei tubi e a osservare una delle opere di Scott. Greg aveva lavorato nell'appartamento e tutti gli elementi che aveva raccolto erano stati aggiunti al file, benché nessuno ce l'avesse comunicato. Non aveva fatto il minimo tentativo di mettersi in contatto con noi. Ormai doveva essere al corrente delle conseguenze di ciò che aveva fatto e probabilmente aveva anche visto cosa stava succedendo nel bosco. Mi chiesi cosa pensasse. Il monitor al centro mostrava la mappa. La maggior parte dei puntini era
radunata attorno al furgone delle comunicazioni, ma ce n'erano quattro che si stavano muovendo in gruppo, a un quarto dell'altezza del monitor. Gli aggiornamenti erano quasi dolorosi: per vari secondi, l'immagine era fissa. Poi, dopo un guizzo improvviso, c'era un aggiustamento della posizione dei furgoni. L'avanzata era tormentosamente lenta, però almeno ci stavamo muovendo nella direzione giusta. Nel frattempo, osservavo il quadro: un viso dipinto nei toni del verde e marrone, ridotto a blocchi di colore. Se si evitava di metterlo a fuoco, aveva un senso; tuttavia, non appena si cercava di cogliere i particolari, l'immagine sembrava svanire. Era realizzato splendidamente, ma il contesto lo rendeva spaventoso. Quel viso pareva sul punto di urlare, di frantumarsi, di dissolversi in una specie di nebbia. Ricordai il dialogo che avevo avuto con Scott. Ho preso una settimana di ferie e stavo facendo una cosa al computer. Una rielaborazione artistica d'immagini fotografiche. Ah, sì, giusto. Lei è un artista, vero? No. Però quel quadro era bello, pensai. Non capivo perché fosse così reticente nel riconoscere il proprio evidente talento. Eppure, più lo guardavo, più sembrava emergere il dolore che conteneva. Sarà anche stata la mia immaginazione, tuttavia mi pareva sempre più un grido di dolore. Aiutatemi! La mappa guizzò di nuovo sul monitor. I punti si muovevano con atroce lentezza. Stavamo facendo del nostro meglio. Non appena ero rientrato nel nostro ufficio di fortuna, avevo riaperto la finestra di collegamento con la squadra comunicazioni distaccata nel bosco. Temevo d'incappare in Hunter, e non avevo la più pallida idea di cosa avrei detto se fosse successo. Invece era stato Mercer a rispondere. Aveva ancora un'aria esausta, ma il miscuglio di adrenalina e di aria gelida gli aveva restituito un po' di vita. «Sono arrivato adesso.» Aveva guardato fuori campo, frustrato. «Hunter non c'è ancora, però sono tornati tutti alla base. Ha davvero sospeso le ricerche. Fra l'altro, tutti sanno già che ha preso il comando, però nessuno ne ha parlato con me.» «Capisco.» «Pete sta bene, comunque. È già qualcosa.» «Sì, l'ho sentito. Stavamo cercando nella zona sbagliata, signore.»
Quello aveva catturato la sua attenzione. Si era messo a fissare la telecamera. «Dimmi.» «Ho appena parlato con Scott. Mentre usciva dal bosco, ricorda di aver attraversato un fiume, non lontano dal posto dov'era imprigionato.» L'attenzione di Mercer si era di nuovo appuntata su qualcosa che si trovava fuori campo. Probabilmente stava guardando la mappa. L'avevo fatto anch'io. Ed era stato allora che l'avevamo visto, nel medesimo istante. «Là.» Una piccola area appena a nord del fiume. Difficile distinguere i dettagli sulla scala ridotta del monitor, però sembrava formata da una radura e da una manciata di piccole costruzioni. Ci avevo cliccato sopra per ottenere qualche notizia. Non che ci fosse granché, ma il testo parlava di una minuscola fattoria e di edifici usati come ripari per gli animali. Avevamo trovato Jodie. «Come sta Scott?» aveva chiesto Mercer. «Bene, credo. O comunque starà bene se troveremo Jodie in tempo.» «La troveremo. Inserisci subito i dati nel sistema: devo occuparmene prima che arrivi Hunter.» «Ci sarà qualcuno ad accompagnarla?» «Qualcuno verrà.» Mi aveva fissato. Per la prima volta nell'intera giornata, mi ero assicurato la sua totale attenzione. «Grazie, Mark.» «Non c'è di che. Faccia attenzione.» Ma lui se n'era già andato. Avevo ridotto a icona la finestra, caricando poi il video del mio ultimo colloquio con Scott, o almeno l'ultimo di quella notte. Nei giorni seguenti ce ne sarebbero stati sicuramente altri. Se non altro, mi auguravo di poterlo trattare un po' meglio. Comunque, a quel punto, Jodie sarebbe stata in salvo. Ormai è fuori dal tuo controllo, avevo pensato. In effetti lo era, ma sapevo che il sollievo non dipendeva solo da quello. Parlare con Scott era stato come confessarmi, come cancellare una menzogna che mi aveva macchiato la coscienza per troppo tempo. Adesso me n'ero sbarazzato. Una parte di me era ancora indolenzita, però almeno mi ero liberato dal carico che mi aveva oppresso, aumentando il dolore. La ferita poteva prendere un po' d'aria. Avevo cercato di rievocare Lise, ma non ci ero riuscito, non del tutto. La sua espressione restava nell'ombra. Adesso, tuttavia, potevo finalmente az-
zardare una speranza su quello che avrei visto. Potevo immaginare che lei sorridesse. A intervalli di pochi secondi, l'immagine si aggiornava e i puntini avanzavano di pochi millimetri. Non erano neppure a metà strada. Avevo bisogno di distrarmi, così tornai allo scambio di e-mail che Greg aveva trovato sul computer di Scott e Jodie. A causa del rapporto che avevo stabilito con Scott, era triste e quasi imbarazzante ficcare il naso in dettagli così privati. Pensieri e messaggi intimi erano diventati semplici prove, prove importanti. Le e-mail dimostravano il collegamento tra Jodie e Kevin Simpson, e fornivano anche un quadro della relazione tra Scott e Jodie. I loro problemi personali facevano parte del caso. La vittima era la loro relazione. Feci scorrere le e-mail, aprendole una alla volta per controllare il contenuto. La prima era di Kevin. Esitante, amichevole: Volevo solo sapere come stai . È strano che tu sia scomparsa completamente dalla mia vita. Lo capisco, però mi sembra strano. Se non vuoi o non puoi rispondermi, non importa. Forse era un po' stupido, però quelle parole mi diedero un certo conforto. Il messaggio risaliva a poco più di un mese prima, e faceva pensare a qualcuno che cerca di ristabilire un contatto dopo una lunga assenza. Ovviamente la durata della loro relazione non aveva la minima importanza, ma ero contento per Scott che non fosse andata avanti per gli ultimi due anni. A giudicare dalle date, Jodie aveva lasciato passare più di una settimana prima di rispondergli. La immaginavo che soppesava la situazione, valutando se fosse il caso di rispondere o di lasciare le cose come stavano. Infine aveva scritto: Sto bene. Me la cavo. In effetti, procede tutto come sempre, niente di particolare. Continuo a detestare il lavoro. A proposito come vanno i «nostri» affari? Ah, ah, ah. La CCL, la società che avevano fondato insieme e che Jodie aveva ab-
bandonato per salvare il suo rapporto con Scott. Le e-mail successive riguardavano soprattutto l'azienda. I due si aggiornavano a vicenda su quello che era successo nel frattempo. Gli affari andavano bene, a quanto diceva Simpson. Adesso ho sedici dipendenti. Ci crederesti? Sono un dirigente! Senz'altro ricorderai che non riuscivo a dirigere neppure me stesso. A suo credito, andava detto che Jodie riusciva a mantenere un tono cortese nelle risposte, anche se di certo soffriva nel vedere che lui stava portando al successo senza di lei l'azienda che avevano messo in piedi insieme. Forse stava solo cercando di rassicurarsi. In un'e-mail scriveva: Sono orgogliosa di come sei riuscito a ingrandire il giro d'affari. Però avresti potuto fare ancora meglio se fossi rimasta anch' io... E c'era la risposta di lui. Non ho mai desiderato che te ne andassi. Ti ho anche chiesto di non farlo, ricordi? Anzi direi che il termine esatto è «implorato»... Ma lasciamo perdere. Proseguendo nello scambio di e-mail, l'iniziale cautela di Jodie pareva allentarsi. Dopo aver fatto i vaghi per un po', avevano cominciato a rilassarsi entrambi. Jodie sembrava sollevata di poterne parlare, e i messaggi erano diventati più lunghi e più frequenti. Il suo implicito rimpianto per aver lasciato la CCL era infine emerso con chiarezza non appena lei aveva cominciato a sbottonarsi sulla sua vita privata. Me la cavo, aveva detto all'inizio, ma nei messaggi successivi aveva evitato di ripetere quella bugia. Detesto il mio lavoro. Non faccio altro che inserire dati dalla mattina alla sera e per questo dubbio onore mi pagano una miseria. D'altra parte, non c'è altro che vorrei fare. Sembra tutto così noioso e inutile. Fra poco avrò trent'anni e non ho combinato niente. Quel commento - Non ho combinato niente - spiccava su tutto il resto e
quasi riassumeva il tono dei messaggi più recenti. Jodie si esprimeva come se avesse ormai rinunciato a tutto ciò che era davvero importante per lei. E non era sicura che le poche cose rimaste valessero il sacrificio. Leggendo, c'ero rimasto male per Scott. Inevitabilmente, nel corso di quella nottata, avevo finito col sentirmi molto vicino a lui. Invece dovevo sforzarmi di mantenere un certo distacco, per comprendere i sentimenti di Jodie. Potevo immaginare come si sentiva. La scappatella con Simpson era stata un terribile errore, che lei avrebbe fatto carte false per cancellare. All'inizio, rinunciare all'azienda doveva esserle sembrato un ben misero sacrificio. Ma poi era passato del tempo. E, adesso che quel vecchio errore era ormai dimenticato e perdonato, lei continuava a pagarne le conseguenze. Rinunciare a qualcosa d'importante significa trascorrere poi ogni giorno della vita senza di esso. Insoddisfatta del lavoro e della vita, Jodie probabilmente si sentiva punita in eterno per un crimine ormai cancellato. A un certo punto, Simpson le aveva chiesto: Come va con Scott? L'aveva buttata lì, in chiusura di un'e-mail: una semplice domanda fra tante altre. Ma Jodie l'aveva subito puntata, come se le altre cose non fossero che rumore di fondo, utile soltanto a offuscare il vero argomento della conversazione. Ma forse ero io che ci davo troppo peso. Quando riconsideri una faccenda a posteriori, sapendo com'è andata a finire, tutto sembra già scritto. Così aveva risposto: Scott sta bene. Tira avanti come al solito. Non se ne accorge nemmeno. Ma con lui non ne posso parlare e, anche se potessi, non saprei che dire . Non so cosa c'è che non va. Forse è solo un problema mio, tuttavia non so neppure più chi sono. Non dovresti dire una cosa del genere. Lo ami? A quel punto, c'era stata un'interruzione nello scambio di e-mail. Poi i due avevano ripreso, arrivando fino a un messaggio al giorno. Ma c'era voluta quasi una settimana prima che Jodie rispondesse.
Credo di amarlo ancora. È soltanto che non amo nient'altro. Sono stufa di tutto. La mia vita sembra vuota. A meno che non cambi qualcosa, continuerà così per sempre e, se ci penso, non posso far altro che andarmene a letto, perché non ce la faccio più ad affrontare il mondo. Ma, quando mi alzo, è tutto come prima. Quel messaggio era stato inviato meno di una settimana prima, e la risposta di Simpson era dello stesso giorno. Sembri così infelice, Jodie, e mi dispiace. Vuoi che ci vediamo, uno di questi giorni? Solo come amici, lo prometto: ormai è un capitolo chiuso. Potresti passare da me. Ti offro un caffè e facciamo due chiacchiere. Talvolta aiuta trovare un paio di orecchie amiche per sfogarsi un po' . Da parte mia, cercherò di darti tutti i buoni consigli che posso. Non ho particolari impegni. Leggendo quelle parole avvertii una strana sensazione e mi ritrovai a fissare il monitor con tale intensità che la stanza attorno a me parve sbiadire. Aggrottai la fronte e mi appoggiai allo schienale. C'erano ancora un paio di e-mail. La prima era di Jodie. Okay. Credo di volerti rivedere. Mi fa star male, perché dovrò mentire a Scott, ma sono convinta che mi farebbe bene. Non so. Puoi prendere un giorno libero domani? Sono sicura che qualcuno dei tuoi cento schiavetti potrà difendere il forte al tuo posto! Potrei darmi malata e venire da te. Va bene? E poi un'ultima e-mail di Simpson. Certo che posso. Sarò a tua disposizione fin dal mattino, perciò vieni quando vuoi . Se non sento nient'altro, ti aspetto, ma non stare a preoccuparti se non ce la fai. La macchinetta del caffè è pulita e pronta! Spero di poterti essere d'aiuto. Abbi cura di te . Kevin x. Controllai il file, in caso me ne fosse sfuggita qualche altra. Era tutto. Nel corso dell'indagine, un sacco di cose erano state date per scontate, per esempio che Jodie e Kevin fossero amanti, ma in effetti non c'erano
prove; lo avevamo dedotto soltanto dalle parole del killer nella registrazione e dal fatto che Jodie aveva passato la giornata a casa di Kevin. Le e-mail non davano nessuna conferma. L'ultimo messaggio di Jodie poteva dare adito a sospetti, se preso fuori contesto, e forse per quello il killer aveva deciso di mostrarlo a Scott. Inserito nello scambio di e-mail, invece, era più innocuo di quanto sembrasse. Per quanto ne sapevamo, il loro incontro poteva essere stato del tutto innocente, come le e-mail inducevano a pensare. Forse Jodie era andata a trovare Kevin soltanto per discutere dei propri problemi con un vecchio amico che conosceva tutti i retroscena. Qualcosa m'innervosiva. Avevo la sensazione che fosse qualcosa d'importante, però non riuscivo a individuarlo. Rilessi le e-mail, partendo dalla più recente. Kevin: Vuoi che ci vediamo, uno di questi giorni? Solo come amici, lo prometto: ormai è un capitolo chiuso... Non ho mai desiderato che te ne andassi... Direi che il termine esatto è «implorato»... Ma lasciamo perdere. No, non lasciamo perdere, pensai. Perché l'hai implorata di non andarsene? La risposta mi si presentò un secondo più tardi, attraverso la voce del killer. Tu credi di amarla... Non è vero? D'un tratto, compresi che, per Jodie, quello che era successo due anni prima era stato un semplice passo falso, un errore dovuto all'alcol. Ma per Kevin Simpson era stato molto di più. Loro due erano stati prima compagni di università e poi colleghi. Non gli era bastato. Perciò era successo esattamente quello che lui voleva. Sistemai l'idea con delicatezza e, con un brivido maligno, vidi che s'incastrava perfettamente. Tuttavia non ero ancora sicuro del quadro che stavo costruendo, e me ne restai seduto tranquillo, lasciando vagare i pensieri. Dopo qualche istante, aprii la foto della ragnatela trovata a casa di Simpson. Se Mercer aveva ragione, quello era il modo in cui il killer vedeva la relazione tra Kevin e Jodie. In altre parole, era quella la sua «vittima». Ma, se avevo ragione io, non c'era nessuna relazione o almeno non una relazione riconosciuta da entrambi. E non era l'unica differenza rispetto ai delitti precedenti. C'era la natura stessa del gioco: Jodie non era stata costretta a
soffrire per poter salvare Kevin. In effetti, non aveva mai saputo che ci fosse la possibilità di una scelta. Avevo sempre pensato che il 50/50 Killer torturasse la persona che poteva scegliere sino a farle cambiare idea, attraverso il dolore che provava o attraverso il senso di colpa e la sofferenza del suo compagno. Ma lì, nonostante le torture, non c'era stato nessuno scambio, nessuna opportunità di prendere una decisione o di sostituire la vittima. Perché? Erano state le differenze nella relazione tra gli individui coinvolti a determinare il cambiamento del gioco? Cercai di sviscerare le possibili implicazioni: cosa stava macchinando? Con la coda dell'occhio, colsi il fremito del monitor. I puntini si muovevano ancora, un progresso lento, ma sempre costante. Avevano appena superato la metà del percorso. Ignoralo. Impressioni e idee mi vorticavano nella mente. Avevo bisogno si fermassero quel tanto che bastava per vederle. Soffregandomi il mento, vacillando sull'orlo della comprensione, tornai a fissare la ragnatela. 4 dicembre, ore 6.20 1 ora all'alba Jodie Attenta Si fece girare goffamente l'auricolare tra le dita. Le sue mani erano intirizzite da un gelo intenso, che l'avrebbe ostacolata persino senza le manette. Oltretutto, nella semioscurità, non riusciva quasi a vedere quello che faceva. Le pulsazioni erano irregolari. Una timida eccitazione le si era accesa dentro e lei doveva resistere all'impulso di gridare o di ridere forte. Da quando le era venuto in mente, le sembrava di non agire abbastanza in fretta. L'uomo là fuori poteva svegliarsi da un momento all'altro. In effetti, lei avrebbe voluto tornare indietro e dare un bello scrollone a quella Jodie che era rimasta raggomitolata su se stessa ad ascoltare la musica, in preda al senso di colpa, alla paura e all'impotenza. Forse lui dormiva da ore. Aveva perso un sacco di tempo a sentirsi inerme e terrorizzata. Ma i rimpianti erano inutili. L'auricolare era come un sassolino ovale. Se lo fece scorrere tra le dita.
Di solito se lo infilava nell'orecchio e lì restava. I fili formavano una Y, con un braccio leggermente più corto dell'altro. E in fondo c'era lo spinotto che s'infilava nell'iRiver. Quello l'aveva già sfilato, mettendo da parte l'unità principale. Poi si era inginocchiata vicino alle lastre di pietra in fondo allo stanzino e, stringendo il tratto di filo più corto, lo aveva fatto scorrere avanti e indietro sul bordo più affilato che aveva trovato, tagliando la plastica e il filo elettrico all'interno, fino a staccare l'estremità dell'auricolare. Adesso, accoccolata vicino alla porta, aveva in mano circa un metro di cavetto robusto con una solida voluta di plastica in fondo. Sbirciò attraverso la fessura della porta. L'uomo sembrava immobile. Era ancora disteso nello stesso punto, apparentemente addormentato. Apparentemente. Non poteva esserne certa, perché il viso restava nascosto. Forse stava solo fissando il falò, perso nel guizzare delle fiamme. O forse stava aspettando che lei tentasse qualcosa del genere. 'Fanculo anche lui. In un modo o nell'altro, lo avrebbe scoperto presto. Continua e non pensarci, le disse la voce. Il tono era decisamente più fiducioso, e a ragione. Quando Jodie si era afflosciata sul sedile di fortuna, la voce aveva continuato a rassicurarla che non era finita, che doveva riflettere su quello che sapeva. Che, se pure era convinta che non ci fosse nulla da ricordare, forse aveva torto. Magari c'era qualche dettaglio al quale non aveva pensato. Una falla nel piano dell'uomo, un'opportunità per lei. La sua vita dipendeva da quello. Anni prima, Jodie aveva visto una trasmissione sui serial killer. Ce n'era uno - non ricordava il nome - che rapiva le sue vittime e le tratteneva per molto tempo. Col passare dei giorni, diventavano arrendevoli, sottomesse, disposte a fare qualsiasi cosa pur di compiacere il loro aguzzino, anche se l'esito non cambiava mai. Il poliziotto intervistato nel corso del programma aveva raccontato con molta calma che, in una delle foto ritrovate, si vedeva una delle vittime - non legata, senza niente a trattenerla - che se ne stava seduta e sottomessa, con un pollice del killer infilato nell'orbita. Col cazzo che lei voleva fare quella fine. Perciò aveva ripensato a ciò che era successo, a ogni minimo dettaglio. Il terreno abbandonato. Il tragitto nel furgone. Lo scivolone e la quasi caduta. Rinchiusa lì dentro.
Scott che urlava. A quel punto, si era interrotta, convinta di aver perso qualcosa per strada. Era tornata indietro. ... Rinchiusa lì dentro. Aveva a che fare con quello. Aveva fatto del suo meglio per ripercorrere ogni impressione, ma non aveva raccolto altro che un pugno di vaghe sensazioni. La voce le aveva detto di analizzare tutto, e lei l'aveva fatto. Dov'era andata, adesso che le serviva? Si era concentrata febbrilmente, cercando di ricordare. La risposta le si era presentata davanti di colpo. Si era subito mossa verso la porta, si era inginocchiata sulla pietra gelida e aveva cominciato a cercare lungo i bordi. Adesso non le interessava più il buco nel legno. Jodie tastava vicino a esso, poco più in basso. La risposta stava in quello che non riusciva a ricordare. Nessun lucchetto, nessuna catena, eppure la porta era chiusa, in qualche modo. Eccolo. Non riusciva a infilare il dito nella fessura tra la porta e lo stipite, per toccarlo, ma la luce delle fiamme gliene aveva mostrato la sagoma. Una sottile linea scura. Il gancio. Il cuore le batteva più forte. Rimase accoccolata per qualche istante, a isolare quel ricordo. Si era chinata per infilarsi goffamente nel ripostiglio. Che altro? Poco a poco recuperò il ricordo di ciò che aveva visto mentre entrava. Un anello di metallo arrugginito assicurato alla pietra. Un vecchio gancio sulla porta. L'eccitazione salì. Diede un'ultima occhiata attraverso il buco, per assicurarsi che l'uomo non si fosse mosso. Era ancora nello stesso punto, dormiva ancora. Ora o mai più. Con cautela - con grande cautela -, Jodie infilò l'auricolare nel buco della porta. La porta era spessa, ma il buco era grande abbastanza per farci passare il dito indice, che lei usò per spingere l'auricolare dall'altra parte. Una volta uscito quello, spinse anche il cavo. Era un procedimento lento. L'auricolare s'impigliò nella superficie scabra del battente esterno, il filo si allentò. Ma lei continuò a spingerlo fuori e, alla fine, la tensione e il suo stesso peso liberarono l'auricolare. Sbatté leggermente contro la porta. Lei sussultò. Continua. Altro filo.
Jodie teneva stretta l'estremità del cavo, quella dello spinotto. Quando ebbe fatto passare quasi tutto il filo, premette anche il viso contro la mano, cercando di vedere qualcosa attraverso il buco. L'uomo era sparito. No! Continuò a guardare, incredula. C'erano soltanto il fuoco scoppiettante e la coperta stropicciata su cui lui si era disteso. Era troppo tardi. Calmati. Pensa. D'accordo, si disse. Le impronte: dovevano essere visibili, sulla neve. Nessuna traccia in quella direzione, perciò di sicuro non aveva visto il filo che sbucava dalla porta. In tal caso, non le sarebbe già piombato addosso? Una serie d'impronte fresche andava invece a sinistra, nella direzione opposta all'edificio in cui era stato imprigionato Scott, cioè verso il bosco. Nessun'altra traccia. Ovunque fosse andato, si era allontanato. Rimase in ascolto. Niente. Si è svegliato e si è infilato nel bosco. Lentamente, Jodie cominciò a recuperare il filo. L'auricolare era incurvato e somigliava vagamente a un gancio. Se poteva restare incastrato nell'orecchio, allora forse... Il filo rimase bloccato. Lei respirò a fondo e si augurò di avere buona memoria. La porta non era chiusa da un paletto, vero? Tirò più forte. Per un attimo non accadde niente. Poi ci fu un lieve stridio di metallo vecchio, mentre il gancio si sollevava. Jodie spinse la porta, che si aprì. Sì! Uscì incespicando. Lo spazio aperto fu uno shock, ma anche un regalo. Il cuore le batteva forte. Ora che aveva riconquistato la libertà, doveva fare di tutto per mantenerla. La radura era più piccola di quanto si fosse aspettata: una quindicina di metri la separava dalla linea degli alberi sul lato opposto. Anche il fuoco era più vicino del previsto. Il suo calore la riscaldò subito. Sulla destra, c'era un'altra costruzione di pietra. A sinistra, le impronte si dirigevano verso gli alberi. Oltre il margine degli alberi c'era solo oscurità. Il bosco era tranquillo, a stento si sentiva qualche rumore. Soffiava una lieve brezza, che agitava le fiamme e le ghiacciava la pelle. Il fuoco scoppiettò. Scappa. Ma non poteva scappare. Nell'altro edificio, Scott poteva essere ancora vivo. E, anche se non lo fosse stato, lei non poteva comunque lasciarlo lì.
Lo amava. Doveva prendersi cura di lui, adesso che ne aveva la possibilità. Jodie si diresse verso il fuoco. Un mucchietto di legna ardeva ancora, al centro. Lei frugò tra la cenere lungo il bordo e pescò un pezzo di legno, poi lo lasciò cadere. Quindi ne prese un altro. Quello andava bene. Era largo quanto il suo polso e lungo circa mezzo metro, solido e aguzzo. Un'estremità era annerita, e in alcuni punti ardeva ancora, con un bagliore rossastro. Liquido infiammabile, pensò. Eccola, seminascosta dietro una delle colonne di pietra. Ci girò attorno con cautela e raccolse la latta: ancora mezza piena. Fu allora che lo vide e s'immobilizzò. L'uomo con la maschera da diavolo era fra gli alberi alla sua sinistra, a una decina di metri. Aveva il coltello in mano e la fissava. Anche attraverso la maschera, Jodie intuì che era rimasto turbato nel vederla libera. Lei si alzò lentamente, con la latta in una mano e col tizzone di legno fumante nell'altra, muovendosi goffamente per via delle manette che la obbligavano a tenere le mani accostate. Lui non disse nulla. Mosse un passo esitante in direzione della radura. Lei fece un passo indietro, verso l'altra costruzione di pietra. Scappa. No, ormai era troppo tardi. Non ce l'avrebbe mai fatta. E, comunque fosse andata, dopo tutto quello che aveva fatto, non aveva intenzione di abbandonare Scott. 4 dicembre, ore 6.30 50 minuti all'alba Mark Aprii l'immagine della parete di Carl Farmer, e spostai la finestra in modo da allinearla con l'altra foto scattata a casa di Kevin Simpson. La prima cosa che mi colpì furono i versi. Nello spazio tra i giorni, avete smarrito il malinconico pastore delle stelle. La luna è svanita e i lupi dello spazio avanzano audaci; l'una dopo l'altra rubano le sue pecore.
Poco prima mi ero interrogato sullo stato mentale dell'assassino, cercando d'immaginare quale fosse la sua visione del mondo e quale filtro gli permettesse di trasformare una relazione in quelle cose. Non avevamo trovato traccia di quella poesia, quindi ci basavamo sul presupposto che fosse opera del 50/50 Killer. Era una delle poche illuminazioni sulle sue condizioni psichiche. Fissai quelle parole. Attorno, le ragnatele dipinte sulla parete erano come trofei. Lupi dello spazio. C'era un elemento religioso, benché poco ortodosso. Un elemento che era anche nella maschera da diavolo: non se ne serviva soltanto per spaventare le vittime o nascondere la propria identità; la usava per quello che rappresentava per lui. Si considerava un demonio? Una forza maligna fredda e calcolatrice? Studiava le coppie per lunghi periodi. Ascoltava e osservava, tracciava disegni complessi, faceva piani. Sono i suoi appunti. Le sceglieva, a una a una. Alla fine, quando si rivelava, era altrettanto freddo. Il modo calmo e cortese in cui si rivolgeva alle vittime: rassicurandole persino, mentre le feriva e le bruciava; nessuna emozione, nessun piacere dalla tortura e dal dolore. Nessun elemento sessuale. Non gli importava delle persone. Non ce l'aveva con loro, ma con la relazione che le univa, e i metodi che usava non erano che il mezzo per raggiungere il suo scopo, per ottenere da loro ciò che voleva. Fissai il monitor. Per ottenere da loro ciò che voleva... Molti degli schizzi - e persino i disegni finali delle ragnatele - erano completi, intatti. Le linee non avevano interruzioni, non c'erano croci né sbavature. Ma, quando finiva con le sue vittime, i disegni venivano rovinati. Quindi non portava via con sé la relazione: la lasciava a penzolare sul muro, distrutta. Quello che portava con sé era la differenza tra il prima e il dopo. Portava via l'amore. Rimasi immobile, sperando che l'intuizione giusta arrivasse. Ecco la ragione della scelta. La tortura aveva lo scopo di obbligare uno dei due componenti della coppia ad abbandonare l'altro. Poi il partner ri-
masto veniva torturato psicologicamente e fisicamente, così da morire nella piena consapevolezza che era stato l'altro a condannarlo a subire quel tormento. Reardon isolava quello che avrebbe infine ucciso e strappava l'amore dalla sua coscienza. Distruggeva ogni illusione sull'amore che quello pensava di possedere, quindi gliela strappava via. Ecco il perché. Reardon si considerava davvero una specie di demonio. Ed era convinto di compiere il lavoro del diavolo: cancellare l'amore dal mondo, un pezzo per volta, trasformandolo in male e accogliendolo dentro di sé. Collezionava il male. Non avevo bisogno di riaprire il file audio e di riascoltare quel terrificante suono - quel risucchio aspirato - che lui aveva prodotto mentre Kevin Simpson moriva. Allora avevo ipotizzato che stesse risucchiando tra i denti l'anima di Simpson. Ma soltanto adesso mi rendevo conto che c'ero andato più vicino di quanto credessi. Il killer era convinto di essersi impadronito dell'amore che Simpson credeva di aver provato per Jodie. Fa' conto di vederla, adesso. Immaginala che dorme tranquilla tra le braccia del suo ragazzo. Il brivido oscuro crebbe dentro di me. Perché il gioco con Kevin Simpson era stato così sbilanciato? Perché lo era anche la relazione tra lui e Jodie. L'unica persona a possedere quello che il killer voleva era proprio Simpson. Era lui che amava Jodie, pur sapendo che lei non lo ricambiava. Jodie lo aveva usato e poi se n'era andata. Lo scambio di e-mail era servito al killer per farlo capire a Simpson, per trasformare in odio il suo amore, in modo che lui potesse falciarlo. E, per condurre quel gioco, non aveva avuto bisogno di Jodie. Spero che tu ti renda conto di come sei stato stupido. Di come quella donna non meritasse tutto ciò che hai investito su di lei. Ecco cosa aveva detto il killer a Simpson, prima di raccogliere i cocci del suo amore. Espirai a fatica, mi abbandonai contro lo schienale e mi strofinai gli occhi. Ero sicuro di aver ragione. Sul monitor, il gruppetto di puntini era arrivato al ruscello. Mercer lo avrebbe raggiunto di lì a poco. Se la sua teoria era giusta, avrebbe ben presto incontrato Reardon, e la semplice idea mi dava i brividi. Comunque aveva con sé quattro agenti esperti, e sapeva quello che faceva. M'illusi di poterlo spingere con la forza di volontà, sperando che arrivasse in tempo. Per salvare la vita a Jodie. Per impedire a quell'uomo di fare ancora ciò che aveva già fatto.
Reardon è soltanto un uomo. Non è il demonio. Dovevo continuare a crederci. Non aveva importanza cosa credeva di essere il 50/50 Killer. In realtà era solo James Reardon, un essere dolorosamente umano. Avremmo scoperto ragioni chiare e comprensibili per quello che faceva. Causa ed effetto. Nessuna giustificazione, solo spiegazioni. Tenendolo bene a mente, ridussi a icona la foto delle ragnatele, aprii il file di James Reardon e mi misi a studiarlo, cercando gli schemi tracciati sotto la superficie. 4 dicembre, ore 6.35 45 minuti all'alba Jodie Solo un'opportunità, non le serviva altro, si disse. Le bastava una minuscola falla nel piano di quell'uomo, una falla di cui poter approfittare. La voce l'aveva preparata per tutta la notte, ma, adesso che il momento era arrivato, l'aveva abbandonata, lasciandola nel silenzio. Jodie non aveva idea di cosa fare. Si sentiva il cervello vuoto. Arretrò verso la costruzione chiusa, e l'uomo con la maschera da diavolo fece qualche cauto passo verso di lei. «Sta' indietro», gli disse, agitando la latta di liquido infiammabile e facendone sprizzare sulla neve uno zampillo che tuttavia non arrivò neppure a sfiorare i piedi dell'uomo. Lui si fermò e tese una mano. «Dammela.» Jodie si guardò alle spalle, per non fare passi falsi, quindi arretrò sino a sfiorare la porta del ripostiglio. Adesso era lì e ci sarebbe rimasta. Non gli avrebbe mai più permesso di avvicinarsi a Scott. L'uomo tenne la mano tesa, come se fosse ovvio che lei gli avrebbe obbedito. Riacquistato il controllo, Jodie intuì che l'uomo era arrabbiato. Di brutto. Era la prima emozione che gli vedeva esprimere, e pensò: Bene, incazzati pure, brutto stronzo. Lo odiava. Ne aveva paura, però voleva anche fargli del male per quello che aveva fatto. Ucciderlo, possibilmente. Farlo a pezzi. Fatti avanti e vedrai cosa ti aspetta. La minaccia del liquido e del tizzone acceso poteva bastare a tenerlo lontano, ma non a farlo rimanere immobile, non senza affrontarlo direttamente.
Lui le girò attorno, cercando di portarla lontano dal fuoco. Le fiamme lo coprirono per un attimo. Solo la maschera da diavolo rimase visibile... ma poi rieccolo dall'altra parte, intero. Movimenti lenti, cauti. Si fermò sul bordo della radura, e lei si rese conto che le aveva tagliato la via di fuga. Certo, poteva comunque fuggire verso la città, ma adesso lui le era più vicino. C'erano chilometri e chilometri di bosco, e Jodie avrebbe dovuto correre con lui alle calcagna. Se prima c'era stata una speranza, adesso era svanita. Continuando a fissare l'uomo, Jodie allungò una mano dietro di sé e spinse il battente della porta. Se Scott era ancora vivo e se lei riusciva a tirarlo fuori di lì, forse c'era un'ultima possibilità di scappare. «Perché non la metti giù?» Lei fece segno di no. L'uomo si stava sforzando di mantenere la calma. «Torna in quella stanza.» «Vaffanculo.» «Se te ne torni là dentro, possiamo fingere che non sia successo niente», replicò lui, digrignando i denti. La porta non si apriva. Jodie lanciò un rapido sguardo sotto di sé - lì c'era il paletto -, poi fissò nuovamente l'uomo. Che nel frattempo era avanzato di un passo. La porta era sbarrata. Avrebbe potuto aprirla, ma ci sarebbero voluti tempo e attenzione e di certo lui non glielo avrebbe permesso. Senza contare che avrebbe avuto bisogno di entrambe le mani. «Non ti farò del male», disse lui. Un altro passo. «È solo un gioco.» Qualcosa le si agitò dentro. Sta' attenta, le aveva detto la voce mentre Scott urlava. Ricorda. Usalo al momento buono. Rammentava ogni terribile istante. La colpa e il dolore, la frustrazione e la rabbia. Tutto, tutto insieme, eruppe in superficie. «Vaffanculo!» Si piegò quasi in due per la forza con cui glielo aveva sputato in faccia. Voleva ucciderlo. «Ho sentito quello che gli hai fatto, brutto stronzo bastardo!» Le tremavano le braccia. La punta rovente del tizzone le danzava davanti agli occhi. «Vaffanculo a me?» Adesso l'uomo sembrava più distaccato. La maschera si contorceva, rivelando i movimenti del viso. «Ma tu che ne sai,
maledetta puttana? Tu non capisci perché lo faccio. Tu non sai cosa voglia dire amare un figlio.» Si avvicinò di un altro passo. Lei continuò ad agitare il tizzone, ma servì soltanto a sfocare i contorni delle cose. Lui non la temeva, aveva troppa rabbia addosso. «Tu non sai cos'è l'amore.» Jodie gettò un po' di liquido sulla punta del bastone, che riprese vita con una fiammata. «Sta' indietro.» «Altrimenti?» Fu allora che le si avventò contro, con una mano tesa in fuori e con l'altra che agitava il coltello, avanti e indietro, pronto a colpirla. Lei lo schivò, piegandosi un poco e quasi cadendo. Scivolò di fianco, in direzione del fuoco, e un po' di liquido infiammabile finì addosso all'uomo. Tiraglielo addosso. Ammazzalo. Lui sollevò la mano per proteggersi, ma nel contempo menò un inaspettato fendente nella sua direzione, tagliando l'aria appena davanti a lei. «Vieni qui, brutta stronza!» Lo odiava. Era una cosa grossa e solida che le veniva addosso. Jodie continuò ad agitare la latta, arretrando verso il bosco. Ma lui continuava a seguirla, forte e veloce. Aveva di nuovo abbassato il coltello e le urlava contro rabbiosamente, cercando di spaventarla, di costringerla a girarsi e a scappare. Cosa che Jodie avrebbe fatto se avesse dato retta all'istinto. Invece, ricordando le urla di Scott, si fermò e strinse più che poteva la latta. Il liquido disegnò un'altra parabola verso di lui. Ma l'uomo raggiunse Jodie e la fece cadere all'indietro. La ragazza urtò il terreno prima ancora di rendersi conto di cos'era successo. Le si svuotarono i polmoni. Cercò di gridare, ma non aveva fiato. Dolore. Panico. Il legno rovente, rimasto incastrato fra loro due, le bruciava il viso. Poi, di colpo, l'uomo si gettò di lato, e il legno scomparve insieme con lui. Jodie rimase distesa per qualche istante, troppo scossa dall'urto e dalla bruciatura per riuscire a muoversi. Poi - Tieni duro! - si costrinse a rotolare dalla parte opposta. Centimetri di salvezza. Ma l'uomo stava barcollando verso il bosco. Si stava allontanando da lei. Aveva il petto avvolto dalle fiamme. Si prendeva a manate, cercando febbrilmente di spegnere il fregio di fiamme che splendeva, vivido e giallo, nella luce incerta dell'alba. Invano. Ormai il fuoco aveva attaccato le maniche, la maschera, i capelli. Strillava.
Era stata lei a farglielo, e ne era felice. I capelli gli presero fuoco come lo stoppino di una candela. Jodie si rialzò. Benché fosse in preda alle fiamme, l'uomo aveva ancora in mano il coltello. E lei non aveva niente. Lui si lasciò cadere in ginocchio e cominciò a rotolarsi nella neve. L'aria era piena di sibili e crepitii. Mentre le fiamme si spegnevano, dal corpo dell'uomo si sprigionò del fumo. Scappa. No. Jodie attraversò goffamente i resti del falò e tirò un calcio a uno dei pilastri di pietra che reggevano la copertura. Niente. Allora scalciò di nuovo, più forte. L'uomo, a quattro zampe, ululava di rabbia e di dolore. Un ultimo calcio e tutto crollò. Uno stridore metallico, una nuvola di cenere, polvere e scintille di un arancione brillante che schizzavano in aria, riscaldandola. 'Fanculo, pensò Jodie, e raccolse una delle pietre, grossa e pesante all'incirca quanto un mattone. L'uomo cercò di rimettersi in piedi, ma non ci riuscì, e cadde sui gomiti. Jodie si avvicinò, incespicando, stringendo al petto la pietra. Quell'uomo non avrebbe più fatto male a nessuno. Né a lei né a Scott. Non avrebbe più trascinato nessuno nel bosco per torturarlo, e avrebbe pagato per tutto ciò che aveva fatto quella notte. Avrebbe pagato per tutto. Jodie sollevò la pietra, la tenne sospesa per un attimo... «Aspetta!» ... e gliela sbatté con forza contro la nuca. Avvertì l'impatto nelle ossa, più che sentirlo, perché le riverberò nelle braccia. Quasi immaginò il cervello che sobbalzava nel cranio fracassato. Subito dopo, lui era lungo disteso nella neve. Floscio e vuoto e andato. Non c'era sangue. Fallo di nuovo. Devi essere sicura. «Ferma!» Chi aveva parlato? si chiese. Di colpo, su di lei ci furono delle mani che la trascinavano via. Lottò, si voltò e cercò di colpirli. «Lasciatemi!» Ma erano troppo forti; qualcuno le serrò le braccia attorno al corpo in una specie di abbraccio da orso, e la sollevò di peso. La pietra le cadde di mano, nella neve.
«Va tutto bene», le disse qualcuno. «Va tutto bene, siamo della polizia.» Jodie continuò a scalciare e a scuotere furiosamente la testa mentre la portavano via di peso. Attraverso le lacrime, vide un uomo, con un grosso cappotto nero, che s'inginocchiava accanto all'individuo steso a terra. Poi la fecero girare dall'altra parte. C'erano anche altri uomini nella radura. Poliziotti. Uno di loro si avvicinò, reggendo una grossa coperta. Calmati. L'uomo che la tratteneva, la posò delicatamente a terra e prese la coperta dalle mani del collega. Jodie tremava ancora, ma se la lasciò appoggiare sulle spalle. Poi si voltò e si afflosciò contro il poliziotto. Lui la sostenne e, per tranquillizzarla, le sussurrò parole gentili che lei non riuscì neppure a distinguere. Il tizio accanto al corpo disse: «È lui». Il poliziotto la strinse anche più forte. Se non fosse stato per quell'uomo, sarebbe già crollata a terra, pensò Jodie. Ma continuava a tremare. Poi ricordò di colpo. «Scott!» mormorò, cercando di allontanarsi dal poliziotto. «Va tutto bene.» Lui la lasciò andare e abbassò gli occhi per guardarla in faccia. «Scott è salvo. È in ospedale. È stato lui ad aiutarci.» Jodie era confusa. All'ospedale? Come fa a essere in ospedale? Non aveva senso. Perché mai quell'uomo l'avrebbe lasciato andare? Guardò verso l'altra costruzione, quella all'estremità opposta della radura. Per la prima volta, notò che c'era qualcosa disegnato sulla porta. Una specie di... ragnatela. «Ma...» «Va tutto bene», ripeté il poliziotto. «Più tardi ti spiegheremo tutto. La cosa più importante è che tu sia salva.» Jodie sollevò lo sguardo verso di lui. Era anziano e solido e aveva un'aria esausta. Praticamente distrutto. Per uno strano momento, le sembrò che fosse rimasto lì con lei per ogni minuto di quella notte. Dietro il velo di spossatezza, aveva un'espressione quasi paterna. Ma c'era anche altro. Sembrava sollevato... Sembrava in pace. Jodie si abbandonò contro di lui. Per il momento era la cosa più facile. Lui l'abbracciò con tenerezza e sussurrò: «Ti abbiamo trovato». 4 dicembre, ore 6.48 32 minuti all'alba
Mark Panico. Prima ancora di aver riorganizzato le idee e i pensieri, aprii il collegamento con la squadra di ricerca e inviai un allarme. Ero certo soltanto di una cosa: dovevo parlare con qualcuno e farlo con la massima urgenza. Avevo di nuovo quella sensazione, la sensazione di qualcosa che non andava. Però adesso era cento volte più forte e focalizzata su qualcosa di completamente diverso. Attesi. L'ufficio-spogliatoio era terribilmente caldo e claustrofobico. Forse lo era sempre stato, tuttavia era la prima volta che lo sentivo minaccioso. Le luci al neon ronzavano e il clangore profondo nei tubi continuava a farmi sussultare. Pensai a tutte le persone che lavoravano in quell'ospedale e a quanto fossero lontane, in quel momento. Ero solo in fondo a un lungo corridoio, sbarrato da polverosi fogli di plastica. Continuavo a guardarmi alle spalle, controllavo gli angoli, la porta. L'agente Bates impiegò un minuto a mettersi davanti alla telecamera. Sembrava stanco, ma era anche rosso in viso ed eccitato, e attaccò a parlare prima ancora che potessi dire qualcosa. «Signore, l'hanno trovata!» A un certo livello di coscienza ne presi nota, ma per il resto misi da parte la notizia. «C'è Hunter?» «È tornato in ufficio. Per niente contento.» «Mi ascolti con molta attenzione. Deve far muovere gli uomini nel bosco. Voglio che ristabilisca subito il cordone lungo la strada.» Lui aggrottò la fronte, forse pensando che non avessi capito. «Ma l'hanno preso. Il sergente Mercer ha chiamato alla radio. Hanno la ragazza e hanno preso il rapitore. Perché ci serve il cordone?» «Perché glielo dico io!» Controllai la mappa. «Lo faccia subito. A est e ovest, fin dove possono arrivare. Mi assumo io la responsabilità. Devono assicurarsi che nessun altro esca da quel bosco. Lo faccia immediatamente, poi torni da me.» «Sì, signore.» E piantala di chiamarmi signore. Ma se n'era già andato, spronato dall'asprezza nella mia voce. Strano: dentro di me ero in preda al panico, ma in superficie ero tranquillo ed efficiente. Per ora, la mente razionale aveva preso il sopravvento. Pensaci bene, mi diceva. Respira con calma.
Nuota più che puoi. E non voltare le spalle a quella cazzo di porta. Almeno l'avevano trovata: era già qualcosa. Se non altro, Jodie e Scott sarebbero sopravvissuti, e quella era la cosa più importante. E probabilmente avevano preso il rapitore. Non era detto che ci fosse qualcosa di cui preoccuparsi. Comunque ristabilire il cordone non avrebbe fatto del male a nessuno. Sinché non fosse stato tutto finito, ero assolutamente determinato a non permettere a nessuno di lasciare quel bosco. Nessuno. In realtà, non ero affatto tranquillo. Tremavo. Mi sembrò che un buco enorme mi si aprisse nel petto. Sì, che c'era qualcosa di cui preoccuparsi. Si sarebbe potuto chiamare un salto improvviso da A a D. Mercer avrebbe capito. Guardai la porta. 'Fanculo. Il modo migliore di affrontare la paura è levarsela subito di torno. Bates era occupato a ristabilire il cordone, perciò io ne approfittai per andare verso la porta, girarci attorno, e poi schizzare fuori, nel corridoio. Nessuno in vista. Le luci ammiccavano ancora, ronzando come vespe contro il soffitto. Il corridoio continuava ad ammiccare. Reazione eccessiva. Non avevo motivo di sentirmi in pericolo e, davanti alla porta di Scott, c'era una guardia. Bates era tornato davanti al computer. «Sono per strada.» «Bene.» Che altro? «Qui abbiamo tutto sotto controllo. Si sente bene, signore?» «Sì, sto bene.» Ma non era vero. Il monitor più lontano mostrava il file di Reardon. Lo stavo leggendo alla ricerca d'indizi e di spiegazioni, e la mia attenzione si era concentrata su un minuscolo dettaglio. Di per sé insignificante, forse, però mi aveva colpito. Nel corso della recente disputa per la custodia, la corte aveva stabilito che Reardon aveva piazzato il dispositivo d'ascolto nell'orsacchiotto della figlioletta. Quando l'avevo letto, mi era sembrato una conferma della sua colpevolezza. Però Reardon aveva negato di averlo fatto. Ci riflettei sopra. Se davvero l'aveva fatto, perché preoccuparsi di negarlo? A cosa gli sarebbe servito? Cosa ci avrebbe guadagnato? Certo, era possibile che fosse stato comunque lui. Ma il dubbio restava. E se fosse
stato qualcun altro? E, se non era stato Reardon, allora chi? Sapevamo che il 50/50 Killer si serviva di un equipaggiamento di sorveglianza per studiare i suoi bersagli, spesso per lunghi periodi. Possibile che uno dei suoi congegni fosse stato erroneamente attribuito a Reardon? Sapevamo che distruggeva le relazioni. Fino a quel momento aveva sempre preso di mira delle coppie, ma ciò non significava che non potesse allargare il suo raggio d'azione.. Nessuno è in grado di comprendere quanto un padre ami i propri figli, aveva detto Reardon. Davanti a me adesso c'erano le foto della parete su cui il 50/50 Killer aveva preso i suoi appunti. Diversi disegni erano così simili tra loro da indurci a pensare che fossero schizzi preparatori. Poi, però, mi era venuto in mente quello che aveva detto a Kevin Simpson nella registrazione: Se ti può essere di consolazione, Jodie e Scott sono una delle mie coppie. Una delle mie coppie. In quell'istante, dal monitor giunse un segnale: un nuovo rapporto che si aggiungeva al file principale. L'aria ronzò mentre cliccavo per aprirlo. Era un rapporto della Scientifica, dal bosco. Il furgone era stato controllato e dichiarato sicuro, e Simon e la sua squadra avevano potuto esaminarlo. Quello era il loro rapporto preliminare. Al centro del monitor, campeggiava una foto di quello che avevano trovato. Dipinta all'interno del furgone c'era una terza ragnatela. Tre in tutto. Una per Jodie e Kevin. La seconda per Jodie e Scott. La terza per James Reardon e la sua bambina? Quando la moglie aveva chiamato Mercer, poco prima che uscisse, lui aveva lasciato il cellulare sulla scrivania davanti a me. Lo presi e lo riaccesi. «Devo parlare con Mercer», dissi. «Subito. Datemi il numero di qualcuno della squadra di ricerca.» 4 dicembre, ore 6.50 30 minuti all'alba Jodie Scott era vivo! Ed era al caldo in ospedale, pensò mestamente Jodie. Mentre attraversava il bosco, avvolta nella coperta, il freddo che la attanagliava sembrava
ancora più intenso di prima, di quand'era prigioniera. Ma la certezza di essere sana e salva la scaldava quasi come la coperta. Il poliziotto - John, si chiamava - aveva detto che potevano aspettare lì, vicino al fuoco, che un elicottero sarebbe arrivato a prelevarli, ma lei aveva rifiutato. Doveva andarsene da quel luogo, non ultimo per via di lui, dell'uomo che giaceva laggiù. Dopo quello che aveva fatto a Scott, Jodie era ben contenta di averlo ucciso. Però non riusciva più a sopportarne la vista. Sapeva che quel suo atteggiamento dipendeva dal fatto di essere sotto shock. Ma anche dal fatto che stava cominciando a scaldarsi. Durante la notte, il freddo le era penetrato nelle ossa con tale intensità da renderla insensibile al dolore. Adesso si stava scongelando e ciò permetteva alla sofferenza e al disagio di rifluire. Però sei viva, si disse. E lo è anche Scott. Il resto non importa, siete entrambi vivi. Smettila di preoccuparti. Smettila di sentirti in colpa per quello che hai fatto. Siete vivi. Le sembrava che il suo cuore non potesse sopportare l'esaltazione che le veniva da quel semplice pensiero. Si sentiva fragile come un uccellino. Cercò di escludere i pensieri, di concentrarsi sull'atto del camminare. Il rumore di ogni passo sulla neve ricordava quello di una poltrona di cuoio che cedeva sotto il peso del suo occupante. La rassicurava. Si stava allontanando da quel posto terribile. Un piede davanti all'altro. L'agente che la precedeva agitava una torcia, ma ormai era quasi inutile. Il sole che sorgeva aveva riportato il bosco alla vita, per quanto grigia e immobile. Sugli alberi, gli uccelli cominciavano a cantare. Era l'alba, un nuovo giorno. John stava abbastanza vicino a lei, per poterle parlare. Jodie trovava la sua presenza incredibilmente rassicurante. Continuava a dirle cose che lei coglieva solo a metà, ma che la calmavano. Forse era stupido, però non poteva fare a meno di pensare che la voce sentita per tutta la notte appartenesse a quell'uomo: era piena di dolcezza, conforto e tranquillo incoraggiamento. Ce la farai. Resisti, mantieni il controllo. Ti troverò. E lei l'aveva fatto. Quando lui l'aveva abbracciata, Jodie aveva in qualche modo capito che quell'uomo l'aveva cercata per tutta la notte. Gli si leggeva in viso che era stato messo duramente alla prova e che si era rifiutato di fermarsi o di arrendersi. E adesso sembrava in pace con se stesso. Alle sue spalle, Jodie sentì l'improvvisa scarica di una radio. Sussultò. «Mercer.»
L'uomo si fermò e disse qualcosa nel microfono della ricetrasmittente. Va tutto bene. Continuarono a camminare tutti e tre. «Mark, calmati», sentì dire a John. «Lui è morto e Jodie è al sicuro. È con noi, adesso. Stiamo tornando.» Benché non avesse quasi ascoltato le prime parole, adesso Jodie si mise a seguire lo scambio con maggiore attenzione. Lui fece una pausa, e poi disse: «No, è sicuramente lui. Cosa ti fa...» Altro silenzio. Un piede davanti all'altro, continuavano a procedere. D'un tratto, Jodie avvertì una paura irrazionale. Qualcosa non andava. L'avrebbero fatta tornare in quel posto, mentre lei aveva bisogno di allontanarsi. Doveva andare da Scott, dirgli quanto le dispiaceva che... «Abbiamo tre testimoni indipendenti. Qualunque cosa tu abbia in mente, non c'è...» L'agente che apriva la fila si voltò a guardare John e poi si fermò. L'istinto di Jodie a proseguire era così forte che lei andò quasi a sbattergli contro. Si costrinse a fermarsi, cercando d'ignorare la sensazione di allarme. Scappa! John era poco più indietro, immobile, lo sguardo fisso sul terreno, ad ascoltare. Un altro crepitio. Stavolta veniva dall'agente davanti a lei. L'uomo sollevò la mano all'auricolare, piegando leggermente la testa. «Westmoreland... Dimmi.» Si voltò di nuovo verso John. Le scoccò un breve sorriso, ma la sua espressione lo tradì. Mentre Jodie lo osservava, il viso di lui sembrò svuotarsi di ogni emozione. «Cristo», mormorò, chiudendo gli occhi, e grattandosi la fronte. «E ce n'era un'altra anche al campo. Sulla porta.» Parlano di quell'orribile disegno, pensò Jodie. Il disegno simile a quello dipinto all'interno del furgone che li aveva portati lì. Lottò contro l'impulso di mettersi a correre. Scott. Ho bisogno di vedere Scott. «Signore», disse Westmoreland. «C'è qualcosa d'importante. Viene dagli uomini sulla scena.» John toccò il proprio auricolare. «Mark, ti richiamo subito.» Si avvicinò velocemente. Westmoreland teneva ancora la testa piegata e ascoltava, annuendo. «Hanno trovato un biglietto, signore. Nell'altro edificio.» «Fattelo leggere.» «Ditemi cosa c'è scritto, per favore.»
Westmoreland ascoltò in silenzio. Poi cominciò: «Caro sergente Mercer...» 4 dicembre, ore 6.51 29 minuti all'alba Mark Continuai a cercare nei file. Ci doveva essere qualcosa che mi sfuggiva. C'era, senza dubbio. Ero sicuro di aver ragione. Il killer aveva fatto un terzo gioco con James Reardon. Lo aveva costretto ad aspettare nel bosco fino all'alba, per sorvegliare Jodie. Non era una tortura, ma un sacrificio da compiere, in cambio della vita della sua bambina. Forse, in quel caso, il 50/50 Killer non aveva potuto «prendere» l'amore da nessuno dei due, ma Reardon aveva comunque ricoperto un ruolo essenziale nell'insieme del gioco. Però anche Mercer era nel giusto: ben tre testimoni indipendenti avevano collocato Reardon nello schema dei fatti. Colin Barnes, il ragazzo di Amanda Taylor, aveva identificato in Reardon l'uomo che aveva aggredito lui e rapito la piccola Karli; Megan Cook lo aveva visto entrare nella casa presa in affitto, appunto, da Carl Farmer; Scott pensava di averlo riconosciuto nell'operaio che si era presentato a casa sua per controllare il contatore, più o meno un mese prima. Non potevano mentire tutti. Messi insieme, creavano loro stessi una ragnatela, con Reardon inevitabilmente intrappolato al centro. Perciò doveva essermi sfuggito qualcosa. Aprii la trascrizione del colloquio con Megan. Se il killer aveva seguito a lungo Reardon, forse aveva usato una sua foto quando si era procurato la patente e aveva sistemato il covo di Carl Farmer. E magari aveva costretto Reardon a portare lì la maschera, in modo da farlo risultare ancora più coinvolto. Proseguii a esaminare il file. Ecco. L'ha visto arrivare? avevo chiesto a Megan. Sì, ero al telefono, davanti alla finestra. Non mi aveva detto con chi stava parlando. Però le avevo chiesto per quanto tempo Reardon si era trattenuto all'interno della casa. Sono rimasta al telefono giusto un minuto e l'ho anche visto uscire, quindi non ci è rimasto a lungo.
Solo un minuto. Possibile che, al telefono, ci fosse il vero killer? L'aveva forse chiamata con una scusa qualsiasi, in modo che lei si trovasse alla finestra nel momento esatto in cui James Reardon compariva ed entrava in casa? L'unico avvistamento del 50/50 Killer era stato predisposto per condurci verso un falso indiziato? E tutto ciò dipendeva dal fatto che, in tal modo, luì poteva sfidarci, proprio come pensava Mercer, senza neppure correre il rischio di essere catturato? D'altra parte, c'erano le testimonianze di Scott e di Colin Barnes. Ovvio che Scott fosse a pezzi, perciò forse non ci si poteva fidare del tutto della sua memoria, ma Barnes non aveva avuto dubbi: James Reardon lo aveva aggredito e aveva rapito Karli. E quello non aveva senso, perché tutta la mia teoria si basava sul fatto che il 50/50 Killer avesse rapito la bambina e ricattato Reardon. Di conseguenza, o Colin Barnes si era sbagliato, oppure stava mentendo. Col cuore a mille, aprii il file del rapimento di Karli Reardon. Caricai la trascrizione della testimonianza di Barnes. Mentre si apriva, cercai di trovare una possibile spiegazione. Forse Barnes non aveva proprio visto il suo aggressore, e aveva tratto le sue conclusioni basandosi sui precedenti con Reardon. Conclusioni plausibili, forse, ma non necessariamente... Il file si aprì e io smisi subito di pensare. Eccolo sul monitor. Lo fissai per un attimo, incapace di capire quello che stavo guardando. Qualcosa era... Non poteva esser vero... Quello... Il mio mondo andò in pezzi. E, da qualche parte, in un punto lontano dell'ospedale, un allarme cominciò a suonare. 4 dicembre, ore 6.52 28 minuti all'alba Scott Niente più appartamento. Niente divano comodo su cui sedersi. Niente Jodie addormentata nell'altra stanza. Il sogno aveva rinunciato a ogni pretesa di abbellire i suoi ricordi; ogni artificio era stato strappato via. Adesso, mentre dormiva, Scott era semplicemente là, di nuovo nella costruzione di pietra nel bosco, appollaiato su quello scomodo sedile, rattrappito e tortu-
rato, con l'uomo dalla maschera da diavolo accoccolato davanti a lui. «Non vedi la verità.» L'uomo teneva la torcia sotto il mento della maschera, illuminandola. «Tu non la ami, non la ami più.» È un gioco, aveva ricordato Scott a se stesso. Quell'uomo era il diavolo, e ciò voleva dire che mentiva. Jodie non lo aveva imbrogliato. In realtà, nessuna delle cose che lui aveva detto era vera. Non necessariamente. Ma la prova ce l'aveva davanti - sì o no? - e che Jodie fosse infelice era vero, quindi non ci voleva un grosso sforzo d'immaginazione per pensare che l'aveva tradito di nuovo. Aveva provato a immaginarlo. Jodie e Kevin. Kevin e Jodie. Sì, poteva essere. La voce dell'uomo si era fatta più dolce, carezzevole. «Di sicuro lei non ti ama.» Scott aveva scosso la testa. Poi aveva ripensato a tutto ciò che l'uomo gli aveva detto, quella notte. Il quadro che Jodie non aveva voluto; l'avventura di una notte con Kevin Simpson; la generale infelicità che permeava la vita di entrambi, ma soprattutto quella di lei, ormai da molto tempo. La vedeva mentre camminava su e giù nell'appartamento, come se fosse stato lui a metterla in gabbia. Che andava avanti e indietro da un lavoro che odiava. Ogni mattina, al risveglio, era come se un altro pezzetto di lei fosse morto. Vivendo con lui, la luce di Jodie si stava spegnendo, poco a poco. Quand'era stata l'ultima volta in cui l'aveva vista sorridere? Non lo ricordava. E Scott l'amava al punto che il fatto di non saperglielo dimostrare, di farle capire quanto era importante per lui gli spezzava il cuore. Oppure poteva anche provare a dirglielo, o a dimostrarglielo, ma non era abbastanza. Avrebbe fatto di tutto per rimettere le cose a posto. «Dimmi che la detesti», aveva ripetuto l'uomo. «Così il gioco sarà concluso. E tutto questo dolore finirà.» Non avrebbe detto proprio niente. E forse ora, anche se lei non sarebbe mai venuta a saperlo, poteva farlo. «No.» L'uomo con la maschera da diavolo l'aveva fissato, implacabile. «No?» Scott tremava di freddo. Si sentiva la pelle come morta. E avvertiva tanto dolore. Forse stava delirando. Non era più tempo di pensare. Gli sembrava che il suo spirito fluttuasse. L'aveva detto di nuovo. «No, io la amo.» L'uomo si era accoccolato sui calcagni, piegando appena la testa. Anche attraverso la maschera, si percepiva un vaghissimo senso di sconfitta. «Va bene, allora.»
E poi Scott si era ritrovato fuori dalla costruzione di pietra. L'uomo aveva tagliato la corda che gli teneva le mani bloccate contro le cosce, ma gli aveva lasciato le manette. Si sentiva le gambe deboli, non riusciva a raddrizzare la schiena, bloccata dai crampi. L'uomo gli aveva strappato i vestiti di dosso, gettandoli nel ripostiglio vuoto. «Lasceremo qui anche questi.» Parlava dei fogli che teneva in mano. Li aveva appoggiati con cura sopra gli abiti di Scott, mostrandoglieli a uno a uno. Cinquecento motivi per cui ti amo. Nel vederli, Scott aveva provato un'immensa tristezza. Avrebbe voluto finire quell'elenco più di ogni altra cosa al mondo. Sperava che lei avrebbe capito. Duecentosettantaquattro motivi completati: mi rendo conto che non tutto è perfetto, men che meno io, ma continuo a provarci perché farei qualunque cosa per non perderti . Si era messo a piangere. «Posso vederla?» «No.» «Ti prego. Ti prego, fammela vedere.» Poi era toccato all'e-mail, solo che lui l'aveva appoggiata al contrario, lasciando in vista il retro con la scritta a mano. Scott aveva intravisto la prima riga - Caro sergente Mercer -, poi l'uomo si era chiuso la porta alle spalle. C'era stato uno stridio metallico quando aveva fatto scorrere il chiavistello. «Perché?» aveva singhiozzato Scott. «Perché lo fai?» Senza rispondere, l'uomo si era mosso verso il fuoco e aveva preso un ramo in fiamme. Poi aveva afferrato il cacciavite e indicato il bosco. «Andiamo di là.» Non sapeva dove lo stesse portando; era troppo buio e lui continuava a inciampare. Ma l'uomo usava il legno in fiamme per spingerlo avanti: glielo premeva contro la schiena nuda, provocandogli fitte di dolore insopportabile. Scott era terrorizzato, sconvolto. Sapeva come sarebbe finita; le immagini che gli si presentavano nella mente erano sconnesse, però asso-
lutamente convincenti. L'uomo l'avrebbe fatto distendere prono sul terreno ghiacciato, avrebbe tirato fuori il coltello e poi gli avrebbe tagliato la gola, l'avrebbe sgozzato. Poteva immaginare il suo stesso urlo, che si trasformava di colpo in un gorgoglio di terrore, e il sangue che si apriva a ventaglio sulla neve. Che effetto avrebbe fatto, morire? Svanire dal mondo? Scott lo aveva implorato, ma l'uomo era rimasto in silenzio. Avevano camminato per circa dieci minuti, poi l'uomo gli aveva detto di fermarsi. Con la punta del cacciavite aveva indicato la base di un albero. «Siediti qui.» Scott si era lasciato andare contro il tronco, le gambe nude allungate davanti a sé sulla neve. Bruciavano per il freddo, ma era così terrorizzato che non ci badava. L'uomo l'aveva legato all'albero con due pezzi di corda. Uno attorno al busto, che gli fermava le braccia. L'altro sopra la bocca: gli teneva indietro la lingua e bloccava la testa. Quindi gli si era piazzato di fronte, in modo che Scott non vedesse altro. «Mi hai chiesto perché.» L'uomo si era accoccolato davanti a lui e aveva sollevato la maschera dal viso, lasciandola appoggiata sulla testa. Era solo un uomo, si era reso conto Scott. A parte una terribile inespressività, la sua faccia non aveva nulla d'insolito. Poteva essere chiunque. «Sono uno spirito racchiuso in questo guscio.» Sembrava che avesse già pronunciato quelle parole, come se fossero un copione. «Non provo nulla perché ne sono separato. Quando avrò finito, questo corpo cadrà, e io fluttuerò via.» Si era chinato in avanti, distendendo le braccia, lasciando che le fiamme sprigionate dal legno che teneva in mano lambissero il cacciavite. Lo aveva fatto ruotare. No, ti prego. Ti prego, non farmi ancora del male. «Allorché questo corpo cadrà, rientrerò in un altro guscio e continuerò la mia collezione. E poi ricomincerò.» Quando l'uomo aveva sollevato il cacciavite dalla fiamma, il panico di Scott era esploso. Lui era rimasto a fissarlo, orripilato, mentre l'uomo avvicinava il cacciavite al proprio viso. Si era infilato la punta nell'occhio e l'aveva tenuta lì. Qualcosa aveva sfrigolato, accartocciandosi, mentre l'uomo faceva ruotare lentamente l'impugnatura e il fumo saliva a spirale verso la fronte. Quando aveva parlato di nuovo, la sua voce era suonata neutra, impassibile.
Scott aveva creduto a ogni sua parola. «Finalmente mi sarà concesso di portare a casa, dal mio vero padre, la mia collezione», aveva detto l'uomo. Scott si era svegliato e, a fatica, aveva aperto l'occhio. O la palpebra si era gonfiata a dismisura oppure i muscoli erano così intirizziti che i nervi non riuscivano a metterli in moto. Che freddo. Aveva un freddo terribile. Il suo corpo tremava, ma nessuna sensazione accompagnava il movimento. Aveva solo la coscienza che c'era. Non appena era stato obbligato a sedersi in quel punto, il freddo l'aveva come bruciato, ma adesso gli pareva che il suo corpo appartenesse a un altro. Doveva essere quasi l'alba. Il cielo si stava lentamente rischiarando e in alto gli uccelli cominciavano a cantare. Ma sembrava tutto così lontano; il suo corpo era insensibile, conservava soltanto un minuscolo nucleo di calore, e anche quello andava scemando. Stava morendo un po' alla volta, a partire dall'esterno. Non aveva paura, non più. Persino il dolore tremendo era diminuito, e l'adrenalina se ne stava immobile nelle vene, stagnante e congelata. Il cuore aveva a stento l'energia per pulsare. Almeno poteva chiudere gli occhi, grato per quella tregua, e abbandonarsi di nuovo. Aveva avuto la sensazione di una brezza contro la pelle, ma non avrebbe saputo dire se fosse stata calda o fredda. Non aveva importanza. Scott si era lasciato andare. Il mondo era sembrato riluttante a svanire, ma alla fine lui non era più riuscito a trattenerlo, ripiombando nel sonno. Erano tornati i sogni, si erano materializzati attorno a lui, solo che adesso somigliavano più a sogni veri. Invenzioni, fantasie. In uno di essi, Jodie era in piedi alle sue spalle, le mani allungate a fargli il nodo della cravatta. Lui aveva sorriso. La amava ancora, nonostante tutto. Era assolutamente perfetta per lui. Jodie aveva detto: «Non devi andarci per forza, se non ti va». E poi si era ritrovato su una spiaggia che non aveva mai visto prima. Seduto sulla sabbia, guardava le onde, ascoltandone il rumore, mentre si gonfiavano per poi frangersi sulla spiaggia. Un rumore dolce e frusciante, che si ripeteva all'infinito. Nel sogno c'era anche Jodie, seduta tranquilla accanto a lui, col vento
che le scompigliava i capelli. C'era il sole e tutto sembrava meraviglioso. Non faceva neppure freddo, non più. Jodie l'aveva guardato, sorridendo. Poi gli aveva appoggiato la testa sulla spalla e Scott aveva allungato la mano per stringere quella di lei. Ma anche quello aveva cominciato a svanire. Chiudendo gli occhi, lui aveva ascoltato il rumore del mare che sembrava perdersi in lontananza. E, mentre Scott moriva, gli sussurrava dolcemente: «Ssst...» 4 dicembre, ore 6.58 22 minuti all'alba Mark Possibile che mi fossi sbagliato? Mentre correvo lungo i corridoi, urlando alla gente di scansarsi, non avevo paura. Pur essendo disarmato. Pur sapendo, dalla foto di Colin Barnes, che l'uomo con cui avevo parlato tutta la notte non era Scott Banks. Non avevo paura. In effetti, la mia unica preoccupazione era non arrivare troppo tardi. Ma, dall'allarme, sapevo che probabilmente era così. Avevo sbagliato? Sapendo di tutte le altre persone che il 50/50 Killer aveva ucciso, una parte di me era convinta che avrei dovuto pensare a loro, o almeno al mio lavoro. Mi sarebbe piaciuto credere che stavo compiendo coraggiosamente il mio dovere senza pensare a me stesso, che stavo correndo di sopra per fermare quell'uomo prima che riuscisse a fuggire e potesse far del male ad altri. Nell'ascensore. Battevo il piede: più in fretta, più in fretta. Dlin. Fuori dalla porta, correre ancora. «Toglietevi di mezzo!» La verità era che non mi stavo precipitando lungo i corridoi per il mio lavoro, o perché ero preoccupato delle vittime passate e future. Pensavo invece al mio ultimo colloquio con lui, con Scott, o con Carl Farmer, o con Colin Barnes. Ricordavo la sua espressione quando gli avevo raccontato di Lise; rammentavo come mi aveva ringraziato mentre uscivo. Pensavo che era lui il lupo dello spazio, che faceva a pezzi le relazioni e prosciugava l'amore dal mondo. Più di tutto il resto, continuava a risuonarmi in testa quel rumore. Non quello della registrazione, stavolta, ma quello del suo respiro lento mentre
gli facevo la mia confessione, mentre lui mi ascoltava raccontare la morte di Lise, spiegargli che sentivo di averla tradita. E aggiungeva quella storia al suo raccolto. Era solo un uomo, dentro di me lo sapevo. Proprio come sapevo che la quarta ragnatela che Mercer aveva trovato nel bosco non poteva rappresentare Lise e me. Come avrebbe potuto? Le aveva disegnate tutte prima ancora di conoscermi. Era impossibile. Ma, nonostante tutto, era quello il motivo per cui correvo. Perché ero sicuro che, se non lo avessi preso subito, avrei perso per sempre una parte di me. C'era una piccola folla davanti all'ingresso della stanza: infermiere, medici, inservienti... Tutti avevano un'aria impaurita e nervosa. E vedermi arrivare di corsa certo non aiutò a ristabilire la calma. Niente guardia, notai. «Polizia.» Si scostarono, raggruppandosi ai lati della porta. «Non sappiamo cosa sia successo», disse un inserviente. «Una delle infermiere l'ha trovato così.» Avanzai in mezzo a loro. «Fate largo, per favore.» Non vedevo l'ora d'incontrarlo, ma non per quello sarei stato imprudente. Mi tenni a una certa distanza dalla porta, cercando di vedere l'interno della stanza. Appena oltre la soglia, una donna vestita da infermiera era china sopra un corpo disteso sul pavimento. La guardia. Dov'era Barnes? Il letto era vuoto, le coperte gettate da una parte. La finestra era aperta e l'avvolgibile, rimasto abbassato per tutta la notte, era sollevato a metà altezza. L'aria esterna stava lentamente raffreddando la stanza e le stecche di plastica sbattevano contro il vetro. Entrai, guardandomi velocemente attorno. Nella stanza non c'era nessun altro. Nessun nascondiglio possibile. Se n'era andato. Appoggiai una mano sulla spalla dell'infermiera e mi chinai accanto a lei. «L'ho trovato così», disse. «Capisco.» Dal tono della sua voce, era evidente che aveva già controllato eventuali segni vitali e non ne aveva trovati. Sembrava smarrita. «Le dispiace uscire?» le chiesi con tutta la gentilezza di cui ero capace.
«Vorrei che mi aspettasse nel corridoio, e si assicuri che nessuno entri nella stanza. È molto importante,» Lei annuì lentamente e si alzò. C'era del sangue sulle sue mani. Mentre usciva, se le asciugò distrattamente sull'uniforme. Andai subito alla finestra, tremando. Sul davanzale, sul vetro e anche sulla corda della tapparella, c'erano tracce di sangue. Guardai fuori, attento a non toccare nulla. Eravamo sul retro dell'edificio, al primo piano; era assai probabile che fosse saltato giù. Oltretutto le pietre della facciata erano irregolari, perciò avrebbe anche potuto calarsi, sfruttandone gli appigli. Nessun segno di vita nel parcheggio. Tornai verso la guardia. Aveva la testa gonfia e spaccata, e il braccio piegato a un angolo tanto doloroso quanto innaturale. Mi sembrò che la casuale brutalità di cui era stata vittima fosse ancora più sconvolgente delle calcolate bruciature a Kevin Simpson. Ci vuole una forza non comune per picchiare a morte una persona, e Barnes aveva voluto essere certo del risultato. La guardia era stata ripetutamente presa a calci. Il suo viso era striato di sangue, che si raccoglieva in una pozza sotto la testa e macchiava il collo dell'uniforme marrone. C'erano sbavature sanguinolente ovunque, anche alla base del muro. Impronte insanguinate di piedi nudi. Il letto. In terra c'era un mucchietto di bende macchiate. Le coperte erano gettate da una parte, ma sulle lenzuola non c'era traccia di sangue, solo un'infossatura nel punto in cui Scott era stato disteso tutta la notte. Non Scott, ovviamente, ma Colin Barnes, ammesso che quello fosse il suo vero nome. Mi sembrò di vederlo mentre chiamava la guardia, e quella entrava nella stanza, chinandosi poi su di lui. Barnes la colpiva forte, un pugno sul lato della testa, quindi con tutta calma scostava le coperte e si alzava per completare l'opera. La mia mente costruì un turbine di attività, di violenza: colpi veloci e brutali, sangue che schizzava ovunque. Mi sembrò quasi di sentire il doloroso tonfo del calcagno nudo sull'orbita. Non appena aveva finito con la guardia, Barnes era fuggito dalla finestra. Adesso era scomparso, e io l'avevo perso. Avrei voluto urlare. La sedia su cui mi ero seduto era rovesciata, dalla parte opposta della stanza, ma io ero nel punto in cui era sempre stata. In quel luogo, avevo passato una parte della notte, parlando con quell'uomo, ascoltandolo. Mentre lui si serviva di me.
Alle mie spalle, la tapparella sbatacchiava contro la finestra. Avrei voluto afflosciarmi a terra. Avevo trascorso tanto tempo a parlare con Scott. Gli avevo raccontato di Lise. E per tutto quel tempo era proprio lui. Voleva trovarsi in una posizione da cui poterci osservare e seguire le nostre indagini. I muri erano di pietra. Una posizione da cui mostrarci quello che voleva, farci andare dove voleva. Abbiamo attraversato un fiume e poi un sentiero. Avevamo avuto a disposizione tutti gli elementi per catturarlo, se soltanto li avessimo messi insieme nel modo giusto. La risposta era sempre stata nel file. Mentre lui se ne stava lì, nascosto dietro un finto trauma, centellinando le informazioni che ci avrebbero permesso di trovare Jodie prima dell'alba, in caso non fossimo arrivati prima ad afferrare la verità. Perché? La domanda mi si ripresentò in quel momento. L'aveva posta lui a me poco prima, probabilmente per verificare fino a che punto avessimo compreso le sue motivazioni. Ma perché l'aveva fatto? Aveva utilizzato Reardon come un diversivo, però non c'era niente che rientrasse nella sua patologia. Aveva preso Kevin Simpson, ma all'alba non sarebbe stato laggiù per prendere qualcosa da Jodie. Non aveva senso. Aveva rischiato di farsi prendere e ci aveva aiutato a trovarla in tempo, apparentemente senza una ragione. Perché ci aveva sfidato? E che fine aveva fatto il vero Scott Banks? Muoviti. Uscii nel corridoio. «Vado a cercare aiuto. Finché non arrivano, nessuno può entrare in quella stanza, capito?» L'infermiera annuì di nuovo. Mi allontanai. La quarta ragnatela non poteva rappresentare me: Colin Barnes non leggeva nel futuro. Una quarta ragnatela lasciata sulla scena del crimine, nel bosco, implicava la quarta relazione distrutta, ed era quella la sua ricompensa. Di certo era una relazione che lui aveva avuto il tempo di studiare, che poteva tagliare e distruggere. Qualcuno che sarebbe venuto a sapere di essere stato tradito, in modo che lui potesse ucciderlo e sottrargli quell'amore ormai avvelenato. Una scelta che andava... Lui non aveva mai sfidato noi.
«Oh, cazzo!» Sentii un ronzio in tasca: il cellulare di Mercer. Il display mostrava il numero del collegamento con la squadra di ricerca. Aveva sempre e soltanto sfidato Mercer. Persino mentre rispondevo, stavo già correndo. 4 dicembre, ore 7.10 10 minuti all'alba Il 50/50 Killer Preparazione. Il diavolo conosceva la strada e la via di fuga. Due giorni prima, aveva percorso più volte quelle strade in auto, per impararle a memoria e abituarsi ai tempi. Non appena assimilato il percorso, aveva riportato il veicolo all'ospedale, parcheggiandolo nell'area per le soste prolungate, sul retro dell'edificio. L'auto era una vecchia familiare non rintracciabile, comprata in contanti e tenuta nascosta fino ad allora. Dopo averla chiusa ed essersi assicurato che nessuno lo osservasse, il diavolo aveva lasciato nell'auto i vestiti e gli oggetti che gli sarebbero serviti in seguito, e aveva assicurato le chiavi col nastro adesivo sotto lo chassis, pronte all'occorrenza. La prima fermata era a pochi minuti di distanza. Si trattava di uno dei tanti posti che aveva preso in affitto: un piccolo monolocale seminterrato da quattro soldi nella zona malfamata attorno all'ospedale. Si era dimostrato ideale, non soltanto per la posizione, ma anche per le sue necessità. Gli altri appartamenti del palazzo erano quasi tutti vuoti e, in quelli che non lo erano, si sentivano bambini che strillavano continuamente, dalla mattina alla sera. Il diavolo parcheggiò poi scese i pochi gradini che portavano al seminterrato. Era tutto molto tranquillo. Che fosse morta, la piccola? Sperava di no. Aveva nascosto un mazzo di chiavi nel vaso vicino alla porta d'ingresso; lo recuperò. La porta vibrò sui cardini e la luce dell'alba penetrò nella stanza. La bambina era nel box che aveva comprato per lei, supina. Dormiva. Il diavolo la prese in braccio. Lei si mosse, emise un suono. «Ssst, è tutto a posto. Non piangere.» Karli Reardon piagnucolò appena mentre lui attraversava la stanza, ma cominciò a piangere sul serio quando furono fuori, al freddo, e si mise a
lottare con forza sorprendente. Il diavolo immaginò che il freddo le avesse provocato un brusco risveglio, anche se per lui la temperatura era sempre stata un fattore irrilevante. Per la sua stessa natura, caldo e freddo non avevano su di lui l'effetto che facevano agli umani. «Ssst, andrà tutto bene.» Cullò la bimba tra le braccia, cercando d'imitare i rumori tranquillizzanti che aveva sentito fare ad altri. Ma lei non smetteva. La legò al seggiolino già piazzato nell'auto, poi salì dalla parte del guidatore e le sorrise. Il diavolo era bravo a sorridere. Visto che non funzionava, le fece una smorfia buffa, ma Karli Reardon non sembrò apprezzarla. Il diavolo si scocciò subito, mise in moto e partì. A metà strada, allungò la mano verso lo scomparto del cruscotto e prese la maschera. La sua destinazione finale era a meno di cinque minuti di distanza. Tutto era iniziato a un funerale: quello del detective assassinato. Per pura curiosità e per godersi un brivido oscuro, il diavolo si era improvvisamente mostrato in fondo alla cappella. Prima ancora di arrivare, aveva avuto la sensazione che qualcosa d'importante stesse per succedere. Non sapeva cosa, e neppure se sarebbe stato un evento positivo o negativo, ma, quando John Mercer aveva interrotto di colpo l'elogio funebre, il diavolo si era subito reso conto che il momento era giunto. Aveva osservato, prima rapito e poi sgomento, il disfacimento di Mercer. Gli altri avevano forse assistito a un crollo nervoso, ma il diavolo l'aveva riconosciuto per quello che era; gli era bastato ascoltare le parole di Mercer e vedere come i suoi occhi scorgevano mostri tra la folla per capire che era lui il suo antagonista. L'avversario. Quell'uomo era in grado di percepire il male. Da un momento all'altro, i loro occhi si sarebbero incontrati e Mercer avrebbe semplicemente saputo. Solo l'intervento della moglie e dei colleghi gli avevano evitato la cattura di Mercer. Era stato spaventoso. Fino a quel momento, il cammino del diavolo era sempre stato chiaro e diritto. Non aveva mai avuto il sospetto che qualcuno fosse stato messo su questa terra per ostacolarlo. E invece eccolo: un avversario. Il suo antagonista. Il cammino da seguire gli era stato finalmente rivelato dopo una giornata d'intensa meditazione, dalla quale il diavolo era emerso con un nuovo scopo. Anzitutto doveva scoprire il più possibile sul suo nemico. Nelle prime fasi della convalescenza, Eileen Mercer aveva trascorso
molto tempo al capezzale del marito, all'ospedale, e la loro casa era rimasta vuota. Quand'erano tornati entrambi, lei aveva continuato a curarlo. Mercer aveva trascorso le giornate in vestaglia, a leggere, a guardare la televisione, apparentemente senza neppure l'energia per muoversi da una stanza all'altra. Nessuno dei due aveva mostrato l'intenzione di salire in soffitta; difficilmente la gente lo fa. Nel caso, ci avrebbero trovato il diavolo, immerso nella pallida luce bluastra, che guardava e ascoltava tutto. Era evidente che il fato aveva posto John Mercer sulla sua strada perché lo affrontasse, ma all'inizio il diavolo non sapeva quale fosse il primo passo da compiere. Quando però Mercer era tornato al lavoro - contro la volontà della moglie e lasciandosi alle spalle le promesse che le aveva fatto -, la forma del gioco gli era apparsa evidente. Tutto era diventato ovvio. Era come se lui, il diavolo, avesse rinvenuto un reperto, un fossile, e non dovesse fare altro che soffiar via la sabbia per rivelarne la struttura. Pur di onorare le sue promesse, John Mercer sarebbe stato disposto ad abbandonare la missione per cui si trovava sulla terra? Se l'avesse fatto, il diavolo si sarebbe liberato di un avversario. Se avesse privilegiato il lavoro rispetto alle promesse d'amore, il raccolto del diavolo sarebbe stato abbondante. Il gioco doveva essere un vero confronto fra loro due, un test. E la cosa, in un certo senso, lo confortava. In determinate fasi dell'opera più importante della propria vita, ci si trova di fronte a guardiani che devono essere sopraffatti. Evidentemente una di quelle fasi era giunta. Per contrastare la paura, mentre lasciava che il gioco prendesse forma, il diavolo pregava ogni giorno suo padre. Durante la preparazione, altri bersagli lo avevano interessato e ciò lo aveva indotto a plasmarsi diverse identità, a diventare una persona diversa per le diverse vittime. Non appena aveva saputo di James Reardon, il diavolo era diventato Carl Farmer, e poi Colin Barnes, iniziando una relazione con la madre della bambina di Reardon. Scott Banks e Jodie McNeice, al contrario, erano una delle sue coppie da ben tre anni. Ma, quando Kevin Simpson aveva ripreso i contatti con Jodie, il diavolo aveva compreso che si trattava di un segno. Tutti i pezzi s'incastravano lentamente al loro posto e, mentre lo facevano, la paura era diventata poco più di un lontano ricordo. Era impegnato in un'opera assolutamente grandiosa. In fondo, però, entrambi quei giochi non erano che antipasti, frammenti di un tutto. Il vero gioco era sempre stato quello contro John Mercer. O la sua nemesi abbandonava la partita oppure poteva dire addio alla moglie, e
quella sarebbe stata la sua penitenza. In ogni caso, il diavolo avrebbe superato la prova. E forse, alla fine, sarebbe tornato a casa. A qualunque destino fosse andato incontro il suo corpo materiale, ciò che il diavolo aveva ottenuto era meraviglioso. Si sarebbe lasciato dietro una cattedrale di morte. Una cappella di carne e sangue, dalla quale il suo vero padre sarebbe sorto, danzando e facendo capriole. Quando arrivò, le luci erano accese in tutta la casa. Per un istante, si chiese se non avesse sbagliato i calcoli... i tempi erano sempre stati stretti. Però qualcosa gli disse che doveva esserci un'altra spiegazione. Se Eileen Mercer era ancora alzata, forse in attesa del marito, lui doveva stare più attento, certo, ma il resto non cambiava. Il diavolo parcheggiò e prese la bambina tra le braccia. Piangeva ancora, così le sussurrò altre insulsaggini, scuotendo leggermente il mazzo di chiavi. Risalì il vialetto fino alla porta principale. Fu dentro in cinque secondi. L'ingresso al pianterreno era buio, ma le porte che davano nelle varie stanze, tutte illuminate, erano aperte. Rimase immobile, in ascolto. La casa era silenziosa. Si sentiva solo il pianto della bimba, che spingeva forte per staccarsi dal suo petto. In sottofondo, lui sentiva il battito del suo stesso cuore, lento e regolare. «Ssst.» Di sopra, un telefono si mise a squillare. Doveva essere la polizia. Il diavolo si diresse verso la scala e cominciò a salire. 4 dicembre, ore 7.20 L'alba Mark Sopra di me, il cielo era blu scuro, ma in lontananza si schiariva e, verso est, sfumava in un giallo brumoso. Si distingueva ancora qualche stella, a formare costellazioni spezzate. Davanti a me, mentre guidavo, si stagliava un grosso ammasso di nubi. Illuminato dal sole che sorgeva lentamente, quel cumulo formava un'impronta digitale viola contro il cielo. Le sette e venti. Toglietevi di mezzo. Avevo una vaga idea della direzione, ma più che altro mi fidavo del GPS
del furgone, che sembrava quasi in difficoltà a tenere il passo con me. Lampeggiatore acceso e sirena spiegata, guidavo alla massima velocità possibile. Le auto che mi precedevano si facevano da parte per darmi strada, ma persino a quell'ora del mattino il traffico era intenso e dovevo spostarmi di continuo da una parte all'altra della strada, zigzagando pericolosamente fra gli stretti passaggi delimitati dai fari che mi venivano incontro. Presto, presto. La neve era stata spazzata via dalle strade, che restavano però ghiacciate e piene di ghiaino. Dalla radio della polizia mi arrivavano frammenti di dialoghi gracchianti; a volte premevo il microfono e rispondevo qualcosa, continuando a tenere d'occhio la strada. I rapporti riferivano che altri agenti avevano raggiunto l'ospedale e che la scena del crimine era ormai sotto controllo. A casa di Mercer, nessuno rispondeva al telefono. Agenti armati erano per strada ma... «Sono quasi arrivato», dissi. La chiamata che avevo ricevuto in ospedale era di Mercer, che stava correndo in mezzo al bosco. Impartiva istruzioni febbrili e concitate: chiamare altri uomini, farli muovere... Ormai avevo ricostruito la maggior parte del quadro, però lui mi aveva raccontato della lettera ritrovata nella costruzione in cui era stato imprigionato Scott. Quella indirizzata a lui. Del gioco più grande che si stava giocando. Caro sergente Mercer. Mi pareva ancora di sentire il fruscio del sottobosco in mezzo al quale correva, ansimando. Mi sembrava di percepire il suo terrore. Se ha trovato questo biglietto, significa che ha fatto la sua scelta. E adesso ero sulla strada di casa sua, guidavo come il diavolo in persona per dare la caccia al diavolo. Di lì a poco, Mercer sarebbe stato fuori dal bosco e sulla via di casa, ma, per quanto potesse far presto e indipendentemente da quello che diceva la centrale, sapevo che sarei arrivato per primo. Eileen... Svoltai nella strada e rallentai, guidando con più cautela. Sul GPS la casa era contrassegnata da un cerchio rosso. Una casa grande, indipendente. Finestre quadrate, tutte illuminate di giallo vivo. Un grande giardino declinava a terrazze ed era attraversato da un vialetto che conduceva all'ingresso principale. L'accesso per le auto era di lato. Tutto coperto di neve fitta, vagamente rosata nella luce del mattino. C'era una vecchia auto parcheggiata davanti. Mi fermai in modo da bloccarla.
«Detective Nelson», annunciai alla radio. «Sono sul posto. Sto per entrare.» Quando scesi, il freddo mi colpì con forza, ma stavo già tremando per via della paura e dell'adrenalina. Cercai di calmarmi, come mi era stato insegnato, respirando lentamente dal naso e cercando d'inumidirmi la bocca. Agenti armati di rinforzo erano in arrivo, ma nel frattempo avrei dovuto cavarmela con l'attrezzatura standard disponibile nel furgone. Raccolsi quello che c'era. Spray antiaggressione nella destra, manganello con impugnatura laterale nella sinistra. Sembravano ridicolmente insufficienti. Sirene in lontananza. Ancora troppo lontane. L'auto parcheggiata davanti alla casa ticchettava nell'aria gelida. Toccai il cofano, ancora caldo. Lui era lì. Nonostante la fretta di entrare, rammentai Andrew Dyson e mi costrinsi a studiare la casa e a cogliere ogni dettaglio. Sul vialetto dell'auto la neve era intatta; su quello pedonale no. Una serie d'impronte sbavate arrivava fino alla porta d'ingresso, appena socchiusa, unica pozza di oscurità. Poi la vidi e restai immobile. Una delle finestre del piano superiore era rotta e sul vetro c'era una sbavatura insanguinata. Quella vista mi spronò a muovermi. Avanti. Attraversai velocemente il giardino, tenendo d'occhio gli angoli. Sulla neve attorno al sentiero non c'erano impronte, e un bel po' di spazio mi separava dalle siepi laterali. Continuai a tenere d'occhio l'accesso per le auto, casomai lui sbucasse dall'uscita laterale. A metà del vialetto lo sentii. Il pianto di un bambino. Rabbrividii e mi fermai di botto, a una decina di metri dalla casa. Karli Reardon. Strinsi l'impugnatura del manganello in modo che la parte più lunga appoggiasse lungo l'avambraccio sinistro, che tenni leggermente sollevato davanti a me, incurvato, a proteggermi. Appoggiai il polso destro sopra il sinistro, con lo spray in mano. Respiri profondi. La bambina sembrava vicina, appena oltre la porta. Il pianto veniva dall'ingresso, da una zona buia che non riuscivo a scorgere. «Vieni fuori!» L'oscurità si mosse appena, e lui si fece avanti in modo che io potessi vederlo. Barnes. Teneva Karli Reardon stretta a sé. Nell'altra mano aveva un coltello.
Avevo il cuore in gola. «Polizia!» gridai. «Fermo dove sei!» Invece lui uscì dal porticato e avanzò lungo il vialetto, in piena vista. Indossava un paio di jeans e la maschera da diavolo, nient'altro. Si era strappato le bende. L'estensione della sua follia - le orrende ferite che si era autoinflitto per ingannarci - era ben evidente. Aveva tagli e ustioni su tutto il busto e lividi violacei. Le dita della mano con cui reggeva la bambina erano spezzate. Il dottor Li ci aveva detto che pure le piante dei piedi erano ustionate, ma lui si muoveva come se non provasse il minimo dolore. Nella pallida luce dell'alba, sembrava uno zombie. Era sporco di sangue ovunque. La mano che reggeva il coltello ne era ricoperta. Avrei voluto guardare di nuovo verso la finestra, in alto. Una disperazione totale minacciava di sopraffarmi. Concentrati. Fece un altro passo verso di me. Mantenni la posizione. «Mettila giù, Barnes.» La maschera era repellente - pelle rosata e ciocche di capelli neri -, ma mi sforzai di pensare che era soltanto una maschera. E lui era un uomo. Forse capace di controllare il dolore che stava provando, certo; tuttavia lo spray l'avrebbe comunque messo fuori combattimento. Gli avrebbe contratto i polmoni al minimo necessario per la sopravvivenza, lo avrebbe costretto a chiudere gli occhi. Poi lui sarebbe caduto a terra, dove lo volevo. Cristo, se lo volevo. Ma lui sapeva che non avrei potuto usarlo finché teneva in braccio la bambina. «Mettila giù e resta dove sei.» Sollevò la mano che impugnava il coltello e si tirò indietro la maschera, sfilandosela dalla testa. Non badai a quel pezzo di plastica che cadeva nella neve dietro di lui. Fissai invece lo scempio del suo viso. La sua vera faccia era cento volte peggiore della maschera. La parte sinistra sembrava strappata via e i punti affondavano nella pelle tesa e gonfia. Gli mancava un occhio: restava solo una massa di tessuto dolente, con altri punti che sporgevano come setole ispide e spesse. Si era sfigurato oltre ogni comprensione. Tutte le ferite dell'uomo con cui avevo parlato in ospedale erano esposte, in piena vista. Sotto quelle ferite l'espressione era colma di una rabbia appena repressa. Odio. Quando ghignò verso di me, lottai per sostenere il suo sguardo. «Getta le armi e togliti di mezzo», sibilò. Le sirene erano molto più vicine. Scossi la testa. «Non lo farò mai, Colin, e tu lo sai.»
«Non è così che mi chiamo.» La bambina lottava contro di lui, cercando di respingerlo coi minuscoli pugni. Lui le teneva il coltello puntato contro il viso. Il terrore filtrò nella mia voce. «Non...» «Allora togliti di mezzo.» Esitai. Era una situazione impossibile. Lasciarlo andare era fuori discussione - assolutamente fuori discussione -, tuttavia non potevo neppure saltargli addosso. A giudicare dalla sua espressione, sembrava pronto a mettere in pratica le sue minacce. Di certo anche lui aveva sentito le sirene, e non aveva intenzione di farsi trovare lì quando fosse arrivata la polizia. Se io ero deciso a fermarlo, lui non aveva niente da perdere. Un altro omicidio significava ben poco per lui. Coraggio. Pensa! Ecco cosa devi fare. «Reardon ha fatto ciò che volevi», dissi. «Adesso non puoi fare del male a sua figlia. Significherebbe non rispettare le regole.» «L'alba è passata. Tutti i giochi sono fatti. Hai tre secondi.» «Non farlo, Colin.» «Due secondi.» Appoggiò il coltello sulla guancia di Karli. «Uno.» «D'accordo.» Mi rilassai e gettai via lo spray e il manganello. Ma non mi mossi. Dovevo far durare ogni secondo il più possibile, nella speranza di trovare una soluzione. «Adesso togliti di mezzo.» Riluttante, feci un passo fuori dal vialetto. «Non vuoi più parlare con me?» «Abbiamo finito.» Mi si avvicinò, per girarmi attorno. «Ho ottenuto da te più di quanto volessi.» L'accenno a Lise mi fece stringere i pugni. Ma prima che potessi dire qualcosa... Luci. Lampeggiavano sopra di noi. Rosse e blu, spazzavano il giardino, gettavano ombre pulsanti alle sue spalle, sulla casa, che sembrò quasi muoversi. Rimasi assolutamente immobile. Lui guardò per un momento dietro di me, poi riprese a fissarmi, l'espressione colma di rabbia. Premette il coltello nella piega del collo di Karli. «È troppo tardi, Colin», gli dissi. «Non puoi fuggire.» «Ssst», sussurrò lui alla piccola, senza togliermi gli occhi di dosso. Dietro di me sentii portiere che si aprivano e voci concitate.
«Polizia!» Rumore di gomiti appoggiati sui cofani delle auto. Radio che gracchiavano. Non avevo bisogno di voltarmi e non osavo farlo. Erano i rumori di un reparto armato che si organizzava, allargandosi, prendendo posizione. Non potevo vederli, ma fui immediatamente consapevole delle armi puntate su di noi. Contro Barnes, che aveva assassinato un agente. Sollevai un braccio, la mano che tremava, e urlai: «Detective Mark Nelson. Restate dove siete!» Avrei voluto che gli sparassero, se avessero trovato una linea di tiro, ma sapevo che era troppo rischioso. Lui avrebbe avuto il tempo di usare il coltello. Se anche fossero riusciti a colpirlo, non volevo neppure pensare a quello che sarebbe potuto succedere dopo, con me e Karli sulla linea del fuoco. Barnes stava cullando la bambina, avvicinando la testa a quella di lei. Le parlava dolcemente, col fiato che si condensava nell'aria. «Ssst, dai.» «Colin, non puoi fuggire. Perché non la metti giù?» «Ssst.» Alzai lo sguardo verso la finestra illuminata sopra di noi, vidi il sangue, e provai una fitta al cuore. «Hai ottenuto quello che volevi.» «Quello è il detective Mark Nelson.» Barnes parlava dolcemente all'orecchio della piccola urlante, ma continuava a tenere lo sguardo fisso su di me. Voleva che vedessi quello che stava per fare. «Dovrebbe pensare a te, ma non lo fa.» «Hai avuto quello che volevi, Colin. Cosa pensi di ottenere adesso?» Barnes m'ignorò. Aveva un'espressione risoluta. Aveva deciso cosa fare, e si stava preparando a farlo. La rabbia era scomparsa, sostituita da qualcosa di più orribile: aspettativa. «Ti faranno a pezzi, non lo capisci?» gli dissi. «Non m'importa. Posso portare il mio raccolto a casa con me.» Cristo... Un altro brivido. Karli si dibatteva contro il suo petto, ma lui la teneva stretta con la mano rotta. Le luci della polizia disegnavano strisce sul visetto contorto della bimba. «Mark avrebbe dovuto proteggerti», le sussurrò. «Però ha deciso che preferisce farti morire, pur di prendermi.» «Barnes, sei un...» «D'altra parte, Mark fa sempre così. Non vedi?» Sei un illuso. Certo che lo era. Ma nella sua testa aveva un senso. Scap-
pare gli era impossibile, tuttavia poteva prendere un'ultima cosa da portare con sé. Non aveva importanza che tutto si basasse su una patologia assurda: per lui era reale, perciò l'avrebbe fatto. Non c'era niente che potessi fare per fermarlo. Guardai il viso di Karli, poi il suo. Quando lui chiuse gli occhi, mi sentii mancare. Un sorriso gli aleggiava sulle labbra. «Colin...» ... per una frazione di secondo mi sembrò di essere altrove. Fu solo un lampo, ma la sensazione mi vibrò nella mente e si propagò in tutto il corpo. Il rumore delle onde mi ruggisce nelle orecchie e io artiglio la superficie del mare, che si dissolve sotto le mie braccia. Sto annegando e tutto si confonde... Poi, di colpo, vedo la spiaggia, sfocata, lontanissima e, mentre annego, capisco che lui è là, sulla spiaggia! Grazie al cielo! Oh, Dio mio, lui è salvo! ... e poi mi ritrovai a fissare di nuovo Barnes. Osservavo il suo braccio che s'irrigidiva, pronto a tagliare la gola di Karli. Tutto il resto scomparve. Puoi farcela. «Colin», gli dissi. «Credo che tu abbia commesso un errore.» «Ssst.» La sua voce era così soffocata che la sentii appena. «Arriva.» «Sei in un grosso guaio, più grosso di quanto credi. Non lo senti, dentro di te?» Non mosse il braccio. Rimase teso e immobile, pronto a scattare. Però aprì gli occhi e mi guardò. «Lo sento anch'io», dissi. «Davvero?» «Karli non può, invece.» Mi sforzai di fissare il petto ustionato, che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro. Cercai di sembrare ipnotizzato da quel movimento. E sorrisi, come se quello che stavo dicendo avesse davvero senso. Empatia. «Ti ho dato qualcosa, in ospedale», mormorai. Lui annuì. «E io lo porterò con me.» Scossi la testa, continuando a sorridere. «Però hai commesso un errore. Lo hai preso, credendo che Lise sia morta odiandomi, rendendosi conto che non l'amavo abbastanza da volerla salvare. Non è vero.» Mi fissò. La sua espressione s'indurì, quasi impercettibilmente. Riuscii a impedire alla mia mano di tremare quando la sollevai verso il suo petto. «Sai a cosa stava pensando quand'è morta, Colin?» gli chiesi. «Sai cosa c'è dentro di te? Io lo so. Stava pensando a quanto mi amava.» «No, non è vero.»
Il suo sorriso si spense lentamente. Adesso c'era qualcos'altro nel suo sguardo. Un principio di paura? Stava pensando alle conseguenze di quello che gli avevo appena detto. Lo immaginai anch'io. Era come se una lama di luce si stesse facendo lentamente strada nel suo petto. Fino a quel momento era rimasta celata nell'oscurità che regnava là dentro, ma, ora che gliel'avevo fatta notare, cominciava a crescere. Adesso che lui ne era consapevole, benché non fosse del tutto convinto, non riusciva più a ignorarla, ci avrei scommesso. Annuii. «Lei mi ha visto sulla spiaggia, ed era felice che io fossi in salvo. Non voleva che tornassi in acqua per salvare lei.» «Non è vero», sibilò. Ma non ci credeva. Glielo lessi in faccia. E cominciava a fargli male: si faceva strada dentro di lui come una scheggia infilata in un muscolo. Possibile che il suo braccio si fosse leggermente rilassato? Il coltello si era spostato di un soffio dalla gola di Karli. Gli tremava la mano. Insisti. «Mi dispiace, Colin, ma è proprio così. Ecco cos'hai adesso dentro di te. È una cosa che non avevi preso in considerazione, vero?» Era impallidito. Sempre così scrupoloso... aveva programmato ogni minimo dettaglio. Così meticoloso. Anche la semplice possibilità di aver commesso un errore era troppo, per lui. Rovinava tutto. «L'altra faccia del sacrificio», continuai. «Lise non voleva che io morissi per lei.» La sua mano si abbassò lentamente, finché il coltello non penzolò lungo la gamba. Lottai contro l'impulso di saltargli addosso. Respirava con affanno. Dovevo condurlo dove volevo io. «Mi chiedo quante altre cose simili ci sono lì dentro.» Il petto si bloccò di colpo. Un secondo più tardi, il coltello cadde a terra, con un sussurro nella neve. Lui emise un rumore leggero, come un lamento. Alzai di nuovo il braccio e gridai più forte che potevo: «Non sparate! Che nessuno spari!» Fissai Barnes. Mi stava ancora guardando, ma la sua espressione era completamente vuota, quasi catatonica, come se la sua mente si fosse chiusa per sfuggire all'orrore che aveva scoperto dentro di sé. Aveva bisogno di avvelenare l'amore prima di poterlo sottrarre alle persone. Il pensiero di aver ingerito amore allo stato puro gli risultava semplicemente insopporta-
bile. Karli si dibatteva e lui sembrava non avere più la forza di trattenerla, così io feci un passo in avanti, con cautela, e gliela presi dalle braccia. La sua mano vuota fluttuò incerta nell'aria. Quindi se la portò al petto, cominciando ad artigliarlo quasi con dolcezza. Dalle ferite prese a scorrere sangue fresco. Poi, senza preavviso, gli cedettero le gambe e lui raggiunse il suo coltello sulla neve, rannicchiandosi lentamente in posizione fetale, le braccia strette attorno alle gambe. Feci un passo indietro, stringendo forte Karli, e abbassai su di lei uno sguardo quasi incredulo. Era viva. Barnes era a terra. Sembrava che stessi bene anch'io, benché solo in quel momento mi resi conto di quanto mi batteva forte il cuore. Cristo, tremavo come una foglia. Passi alle mie spalle lungo il sentiero, nel giardino. Sollevai lo sguardo verso la finestra, verso il vetro rotto e le striature di sangue. Eileen. «No!» Mercer mi superò a tutta velocità. «Cosa le hai fatto?» Colsi per un attimo l'espressione del suo viso, piena di disperazione, paura e odio. Prima che potessi intervenire, era già addosso a Barnes. Non si capiva se si fosse inginocchiato o se fosse caduto. Le grosse mani lo afferrarono alla gola, in faccia, lo colpivano, stringevano. «Cosa le hai fatto?» Posai a terra Karli e cercai di trattenere Mercer, ma lui mi scrollò via con violenza, come se non rappresentassi nulla per lui. Nel dolore e nella perdita aveva ritrovato quella forza che gli era mancata durante il giorno. Sembrava gigantesco: la personificazione di tutte le emozioni che aveva dentro, grosso e inarrestabile come un orso. «Fermatelo!» Gli altri agenti si erano avvicinati, formando un semicerchio davanti alla porta della casa. Stringevano le pistole con entrambe le mani e le tenevano puntate verso il terreno. Nessuno di loro fece il minimo movimento verso Mercer. Si limitarono a guardare. Aveva preso Barnes per il collo e lo aveva sollevato di peso, per poi scaraventarlo di nuovo in terra. Gridava ancora, urlava, tutto concentrato verso un unico scopo: fargli del male. Barnes sembrava un pupazzo: andava dove lo sbatteva Mercer, la testa ciondoloni. Agguantai di nuovo Mercer, gli infilai il braccio sotto un'ascella e cercai di bloccarlo, afferrandogli il collo e trattenendolo più che potevo. Sembra-
va un macigno, un peso morto. Di colpo, ci furono altre mani addosso a lui: finalmente altri agenti erano accorsi in mio aiuto. Feci un passo indietro e lo lasciai a loro. Ce ne vollero quattro per tirarlo in piedi e trascinarlo via lungo il vialetto. Ma lui continuò a tirarsi appresso Barnes per qualche istante, sempre gridando di lasciarlo andare, finché le sue parole non si sciolsero in singhiozzi incoerenti. Lo vidi afflosciarsi sotto il loro peso e restare inginocchiato nella neve, il viso sepolto tra le mani. Guardai Barnes. Era immobile. Il viso e la testa erano coperti di sangue. Sotto di lui, la neve era striata di rosso, forse in seguito all'aggressione di Mercer, forse per le precedenti ferite. Ripresi in braccio Karli e il capo del reparto di rinforzo armato si diresse verso di me. Mi si fermò accanto, abbassò lo sguardo su Barnes e sbuffò. «Mercer le ha salvato la vita, detective. Dopo, quel bastardo se la sarebbe presa con lei», disse poi. Mi fissò, perché fosse chiaro. «Come ha fatto con Andy.» Gli restituii lo sguardo. «Coglione.» Scrollò le spalle. Gli passai la bambina. Lui la prese e si allontanò lungo il sentiero. Rimasi a fissare la sua schiena per un istante, poi mi chinai su Barnes e cercai una pulsazione. Niente. Provai ancora. Cazzo. A pochi metri da me, Mercer era ancora in ginocchio. I suoi singhiozzi si erano dissolti nel nulla. Lo guardai. Quella storia avrebbe definitivamente chiuso la sua carriera. Caro sergente Mercer. Se ha trovato questo biglietto, significa che ha fatto la sua scelta. Aveva fatto la sua scelta, come sempre: il lavoro prima della moglie. E adesso, troppo tardi, aveva scelto il contrario. Provai un'immensa tristezza per lui. E comprensione. Il nostro dovere è offrirgli tutto il sostegno che possiamo. Scrutai la casa immobile e silenziosa, il sangue sulla finestra, e cercai di recuperare il coraggio. La prima cosa che potevo fare per sostenerlo era entrare là dentro. «Assicuratevi che non entri in casa», gridai. Gli agenti si limitarono a guardarmi. Ma suppongo ci rendessimo tutti conto che, in quel momento, John Mercer non sarebbe andato da nessuna parte. Mi alzai, respirai profondamente e pensai: Possibilità di negare. Il coltello giaceva accanto a Barnes. Allungai una mano e, per quel che valeva, lo spostai più vicino al cada-
vere. 4 dicembre, ore 7.30 10 minuti dopo l'alba Eileen A vari chilometri di distanza, dalla parte opposta della città, Eileen dormiva. Il sogno era quello che aveva già fatto, prima che la telefonata di Hunter la svegliasse. Nel sogno, lei vagava per casa, accorgendosi delle assenze, degli abiti che mancavano dall'armadio, degli scaffali svuotati dai libri. Giorni prima, quando ne aveva parlato a John, era preoccupata che lui potesse andar via, che potesse prendere le proprie cose e abbandonarla. Ora invece capiva ciò che aveva cercato di dirle quel sogno. Le cose che mancavano non erano quelle di John, ma le sue, e lo erano sempre state. Nei giorni a venire, a seconda delle circostanze, quel sogno avrebbe potuto diventare realtà. Per ora, tanto per cominciare, se n'era tirata fuori. Non appena aveva riparato il telefono, Eileen aveva chiamato Debra e, come previsto, la sorella non aveva esitato un secondo ad andarla a prendere. Il sogno la condusse nello studio di John e lei si accigliò nel sonno. C'era qualcosa di diverso, qualcosa che non andava. La stanza sembrava immobilizzata in un vortice di violenza invisibile. Le carte di John erano state strappate dal muro, rimanendo ferme a mezz'aria. Eileen si guardò attorno, meravigliata, osservando quelle pagine sospese attorno a lei. Crac. Si voltò verso la finestra. Vide il vetro rotto e il sangue. Sembrava che qualcuno, in preda alla rabbia, l'avesse colpito con un pugno e, nel farlo, si fosse ferito. Un secondo più tardi, il sangue si allargò sul vetro. Forse era stato John, inferocito per essersi reso conto di averla perduta. Ma nemmeno quello le tornava. La mente addormentata la fece muovere verso il tavolo del computer. Il biglietto era là dove l'aveva lasciato e lei lo guardò, sussultando allorché un miscuglio di sangue e saliva apparve al centro, come se qualcuno ci avesse sputato sopra, disgustato. John non l'avrebbe mai fatto. La singolare logica dei sogni le disse che doveva essere stato un altro, ma lei non sapeva chi. Eileen lo raccolse con cautela.
Il sangue era orribile, ma non aveva importanza. Era solo un sogno, e lei ricordava esattamente cosa c'era scritto sul biglietto, perché ci aveva pensato a lungo. Si tranquillizzò. Nel sogno, guardò il biglietto e lesse quello che avrebbe letto suo marito non appena tornato a casa. D'accordo, John. Se è questo che vuoi, spero che tu sia felice. Però mi hai mentito e mi hai tradito. Non sei riuscito a telefonarmi quando te l'ho chiesto. Non sei neppure riuscito a dirmi la verità. Non so spiegarti quanto male mi abbia fatto. Ma quel che è peggio è che ti amo ancora e, proprio per questo, ti capisco. Per te è la cosa più importante in assoluto e perciò devi farlo. Tuttavia cerca di capire che non posso più restare qui mentre lo fai. E forse neppure dopo che lo avrai fatto. Sono sana e salva. Mia sorella sta venendo a prendermi. Ti prego, non chiamarmi. Ti chiamerò io quando sarà il momento giusto per me. Ti amo, per sempre, E. x x Addormentata nella camera degli ospiti della sorella, Eileen si girò nel letto, allungando il braccio verso il lato vuoto. Infine non sognò più nulla. EPILOGO La funzione doveva cominciare alle due del pomeriggio e io feci in modo di non arrivare troppo presto. Non volevo sedermi nella cappella principale, per due ragioni. Anzitutto era probabile che sarebbe intervenuta un sacco di gente e non intendevo rubare il posto a qualcuno che aveva più diritto di me a essere lì. E poi non sapevo neppure se fosse il caso di andarci. Considerato quello che era successo, temevo che mi sarei sentito come un pesce fuor d'acqua. Ma ero anche curioso, così, alla fine, mi comprai un abito nero elegante e praticamente mi costrinsi a uscire di casa. Alle due meno cinque stavo parcheggiando in uno spazio inghiaiato, di fronte alla chiesa. Mancavano pochi giorni a Natale, ma dagli eventi di quindici giorni prima il tempo si era mantenuto clemente. Da allora non aveva più nevicato. Quel giorno l'aria era fredda e tagliente, il cielo di un azzurro terso. Mentre attraversavo la strada, l'asfalto risplendeva, ancora screziato dalla brina della notte precedente.
Mi avviai verso il vialetto d'ingresso, con la busta in mano. Ero stato incerto se portarla con me. L'avevo presa mentre uscivo, però ancora non sapevo cosa ne avrei fatto. Forse me la sarei semplicemente riportata via al termine della funzione. Tirava una brezza gelida, che mi ghiacciava il viso e mi faceva sventolare la cravatta sopra la giacca. In fondo al vialetto, vicino alla chiesa, era parcheggiata una fila di auto nere. La processione era già arrivata, la bara già all'interno. Gruppetti di giovani e di vecchi si stavano radunando all'ingresso, dopo aver ceduto il passo alla famiglia e agli amici più intimi. Altri aspettavano sul prato lì attorno, intenti a finire l'ultima sigaretta. Nessuno parlava. Sembravano tutti ingobbiti attorno ai propri pensieri e alle proprie emozioni, come se volessero proteggerli dal freddo. Un arco di pietra a sesto acuto dava accesso al portico della chiesa, ai lati del quale si aprivano le cappelle. La soglia della porta di sinistra, che dava sulla cappella in cui si teneva la funzione, era gremita. A destra c'era meno gente. Mi diressi da quella parte. Sul fondo era stato sistemato uno schermo: chi non trovava posto all'interno, poteva seguire da lì la cerimonia. Mi sedetti in un banco verso il fondo, da solo. «Gesù le disse: 'Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno'.» L'officiante fece una pausa, sistemandosi gli occhiali sul naso. Alle sue spalle, il coro in tunica bianca sembrava un mazzo di candele ancora da accendere. «Siamo qui riuniti oggi per piangere la scomparsa di Scott Andrew Banks.» Persino nelle immagini sgranate del video si capiva che diverse persone piangevano silenziosamente. Scott era stato ritrovato poco dopo l'alba di quello stesso giorno, legato a un albero a un paio di chilometri dalla radura. L'unica volta in cui l'avevo visto, a parte la scomposizione dei quadri del suo computer, era stato nel rapporto del medico legale. Da lì avevo scoperto che le sue ferite erano esattamente uguali a quelle dell'uomo che avevo interrogato in ospedale; Barnes, o comunque si chiamasse, aveva creato sul proprio corpo un'immagine speculare delle sofferenze di Scott. Il giovane era morto lentamente, assiderato. Era probabile che non avremmo mai saputo con certezza cos'era accaduto fra loro quella notte.
Sullo schermo, si scorgevano l'officiante e le prime due file dei convenuti. Mi sembrò d'individuare Jodie, nella prima fila a destra. Strano che non l'avessi ancora incontrata. L'avevo intravista quella notte in ufficio, ma non avevo mai parlato con lei. Il giorno seguente ci avevano tolto il caso. L'uomo di Hunter l'aveva interrogata e io avevo letto la trascrizione. Era stato allora che avevo cominciato a pormi delle domande. Più che altro m'interessava quello che non c'era nella trascrizione. Mi faceva venire in mente la foto che Scott teneva nel portafoglio: delle persone vediamo solo ciò che loro vogliono farci vedere. «La morte è sempre tragica», stava dicendo l'officiante. «La scomparsa di una persona cara è qualcosa che la maggior parte di noi ha sperimentato, e tutti sappiamo quanto la perdita sia devastante. Scott, un giovane pieno di vita e di talento, ci è stato sottratto prima del tempo, e ciò rende la sua mancanza ancora più difficile da sopportare. Qui ci sono Teri, la madre, Michael, il padre, e la sua fidanzata, Jodie. Fra poco intoneremo un inno, tutti insieme, poi Jodie ci parlerà di Scott e condividerà con noi alcuni dei suoi ricordi.» Abbassai lo sguardo sulla busta che tenevo in mano, tuttora indeciso sul da farsi. Il computer di Jodie e Scott era ancora sotto sequestro al dipartimento, ma l'hard disk era già stato analizzato e il documento che avevo nella busta non risultava incluso nella lista di file che la squadra informatica aveva coperto da segreto istruttorio. Era comunque evidente che l'aveva scritto Scott, il che poteva significare che Barnes l'aveva cancellato quando lo aveva rapito. Però se n'era tenuto una copia, per servirsene come promemoria nel bosco con Scott, mentre cercava di metterlo contro Jodie. Cinquecento motivi per cui ti amo. Barnes l'aveva lasciato nella costruzione di pietra, insieme col biglietto per Mercer. Le pagine finali non erano state stampate, oppure erano andate perdute, perché la lista si fermava al numero 274. Ma era già qualcosa. D'impulso, ne avevo fatto una copia. Non avrei dovuto, ma pensavo che a Scott avrebbe fatto piacere se Jodie ne avesse ricevuta una. Dopo aver letto la trascrizione del suo interrogatorio, però, non ne ero più così sicuro. C'erano alcune cose di cui avrei voluto parlarle, prima. «Anche quando i nostri cari ci vengono a mancare, anche nel dolore, dobbiamo sempre tenere a mente una cosa. Sono salpati verso altri orizzonti, ma l'orizzonte dipende solo dal nostro attuale punto di vista. Un
giorno, anche noi compiremo lo stesso viaggio, e li rivedremo. In questo confidiamo e crediamo, attraverso Gesù Cristo Nostro Signore.» Amen. Mi rilassai. Non ero mai riuscito a trovare una giustificazione adeguata per credere al conforto della religione, anche se in certi momenti ne avrei avuto davvero bisogno a livello emotivo. La vita eterna, uno scopo finale, un Dio che ci osservava con benevolenza dall'alto... per me non erano altro che pie speranze. Chi ci aveva lasciato non esisteva più, se non nei nostri cuori e nel ricordo. Non c'erano nessun premio finale, nessuna punizione. Nessun piano divino. In passato, tuttavia, mi ero accorto che i funerali mi concedevano una tregua da quella difficile posizione intellettuale. Per mezz'ora riuscivo a trarne conforto. Riuscivo a pensare che, in effetti, le persone continuavano a esistere e, se ci venivano sottratte, era perché era giunto il loro momento, oppure perché qualcosa o qualcuno ce le aveva portate via: un furto del quale Dio avrebbe tenuto conto. Per mezz'ora riuscivo a illudermi che la domanda: «Perché?» potesse trovare una risposta con almeno un minimo di senso. Ma quel giorno non mi sentivo così. Ripensando a ciò che era successo a casa di Mercer, sapevo bene che non si era trattato di un messaggio dall'oltretomba. Anzi proprio il contrario. Lise era e restava dispersa in mare e, ovunque fosse il suo corpo, di certo non pensava più a nulla. Non mi amava né mi odiava. Se n'era semplicemente andata. Che importanza poteva avere quello che lei aveva pensato in quei brevi istanti in mare? Non avrei mai saputo cosa le era passato per la mente; qualunque cosa avessi deciso di credere, non avrebbe fatto la minima differenza. Solo perché sentivo così tanto la sua mancanza ero portato a immaginare l'espressione del suo viso anche in quel preciso istante, come se fosse ancora con me. Avrei voluto ascoltare ciò che aveva da dire. Ma l'unica realtà era quella che io stesso imponevo, quella che io stesso mi ero inventato. L'unico aldilà su cui si può contare è la mente di coloro che ci lasciamo dietro. Stava a me scegliere se basare il mio ricordo su quei terribili e impenetrabili ultimi istanti, oppure pensare a tutti gli anni che li avevano preceduti. Se avessi scelto la seconda possibilità, non avevo dubbi su ciò che avrei letto sul suo viso o le avrei sentito dire. Da quel momento, avrei scelto di vederla sorridere. E avrei immaginato
che ogni sua parola sussurrata al mio orecchio fosse soltanto la verità. Non potevi farci niente. Al termine della funzione, Jodie uscì dalla chiesa, socchiudendo le palpebre per difendersi dalla luce. Il cielo era uniformemente grigio, ma comunque luminoso, e ovunque lei guardasse il mondo sembrava risplendere. Faceva anche un gran freddo. Il suo respiro si condensava nell'aria e, insieme col gelo improvviso sulle guance, le ricordava fin troppo bene quella notte. Mantieni il controllo. Ma lei continuava a tremare. Un paio di volte, durante il discorso, aveva dovuto interrompersi per bere un sorso d'acqua. Le tremavano visibilmente le mani, e adesso era anche peggio. Aveva la gola contratta, lo stomaco... Tutto dentro di lei era teso e contratto. Riconobbe quella sensazione. Un miscuglio di terrore e di disperazione che stava salendo inesorabilmente in superficie. Ma rifiutò di arrendersi al pianto; non poteva e basta. Non doveva. Se l'avesse fatto, la gente avrebbe cercato di consolarla e lei sarebbe andata in pezzi una volta per tutte, forse irrimediabilmente. Ma il fatto era che non sarebbe successo, ovviamente, e lì stava il problema. Provava dolore, disperazione, senso di colpa a livelli insopportabili, eppure continuava a sopportarli. Ogni secondo conduceva al successivo e, per tutto il tempo, qualcosa dentro di lei continuava a bruciare, senza possibilità di sollievo, come se la sua anima si fosse assopita troppo vicina al fuoco. Se qualcuno l'avesse toccata, se avesse pensato troppo a quello che era successo, si sarebbe svegliata urlando. Perché nessuno qui sa la verità. Ma se le faceva male - se era difficile - allora andava bene. Se lo meritava e non poteva sottrarsi. I funerali dovevano essere un momento catartico, in cui potevi lasciarti andare e in cui tutti avrebbero condiviso la tua pena, cercando di distogliere lo sguardo dalla tragedia per celebrare invece la vita che l'aveva preceduta. Dovevano essere l'occasione per dirsi addio, per dire: Ti abbiamo amato. Non aveva importanza quanto lei volesse nascondersi, sparire: era suo dovere trovarsi al centro di tutto quello. Non lo doveva soltanto a Scott, ma a tutte le persone presenti. Di fatto era lei a rappresentare il cuore della tragedia, aveva un ruolo da svolgere. La gente aveva bisogno di lei. Non era colpa loro se in realtà lei non aveva nessun diritto di rappresentare il punto focale del dolore, se era stata lei la causa di tutto.
Non puoi pensarla così. È stupido. Ma non lo era. L'intensità del senso di colpa era del tutto giustificata. Però lei non poteva condividerlo e non poteva permettersi di lasciarsene schiacciare. Non poteva accettare simpatia né conforto. Jodie respirò a fondo e si mosse verso un gruppetto di persone. Circolare, far vedere a tutti che stava bene e controllare che stessero bene anche loro. Strinse mani e abbracciò amici comuni, la famiglia di Scott, i colleghi. «Grazie per essere venuti.» Ancora e poi ancora, sentiva pronunciare le stesse parole da gente diversa. «Siamo così dispiaciuti per la tua perdita», le dicevano. «Fammi sapere se c'è qualcosa che posso fare.» Era quasi insopportabile, ma lei si sforzò di annuire, d'interpretare il ruolo che ci si aspettava da lei. Sorrisi gentili e brevi ricordi condivisi. Gente che le diceva quanto fosse stato toccante il suo discorso. Lei doveva lottare contro l'impulso di voltare le spalle e fuggire via. E, sì, quanto l'aveva amato. Nessuno di loro sapeva che l'aveva tradito, o quanto le erano sembrate false le sue stesse parole. Tutte, tranne alcune, alla fine, quando aveva cominciato a cedere: «Mi manca tanto. Vorrei che fosse qui per potergli spiegare». Ma nessuno aveva capito cosa nascondevano quelle ultime parole. Cresceva dentro di lei, una persona dopo l'altra: Jodie si sentiva vacillare, doveva sforzarsi. Non poteva piangere. Non poteva mostrare la devastazione che aveva dentro. La certezza che tutti l'avrebbero interpretata come una manifestazione di angoscia non faceva che peggiorare la situazione. Non poteva sopportarlo. Doveva andarsene di lì alla svelta, prima di affogare nella propria tristezza, nella propria vergogna. Mi dispiace, pensò. C'era un uomo che se ne stava appena in disparte, appoggiato a un albero, e la osservava pazientemente. Jodie gli lanciò un'occhiata e poi distolse lo sguardo, innervosita dal modo in cui lui la osservava. Come se l'avesse colta in fallo. Chi era? Aveva qualcosa di familiare... Tornò a guardarlo. Più o meno la sua stessa età, alto, con un abito nero e una busta in mano. Un secondo dopo lo riconobbe: l'aveva visto quella notte alla stazione di polizia. Un poliziotto. Il suo cuore mancò un colpo. Adesso che i loro occhi si erano incontrati lui le sorrise, ma, benché il sorriso fosse amichevole, lei distolse subito lo sguardo. Mark qualchecosa... ora l'aveva riconosciuto. Era quello che aveva interrogato l'uomo all'ospedale, quello con cui John aveva parlato al telefono quando ancora
credeva che Scott fosse vivo. L'euforia di allora era in netto contrasto con la disperazione che aveva provato da quel momento in poi. E adesso stava arrivando anche il panico. Devi parlarci. Okay. Jodie si fece forza, cercò di mantenersi calma, e si diresse verso di lui. Il vento le sollevò una ciocca di capelli sul viso e lei se la infilò dietro l'orecchio. «Salve», gli disse, socchiudendo le palpebre nella luce. «Grazie per essere venuto.» «Volevo esserci», disse Mark. «Non sapevo se era il caso... comunque volevo esserci. Come vanno le cose?» «Oh, be', sa...» Esitò. Era una domanda così diretta e personale, soprattutto da parte di uno che neppure la conosceva. Ma nel contempo aveva una sua particolare onestà. Sorrise, un sorriso privo di divertimento. «Non troppo bene.» «Capisco», mormorò lui. «Ci hanno tolto il caso, ma ho letto la trascrizione dell'interrogatorio. Per quel che vale, mi dispiace per quello che ha passato.» «Grazie.» Jodie notò di nuovo le parole che Mark aveva usato, offrendole comprensione non soltanto per la sua perdita, ma anche per l'intera vicenda: Per quello che ha passato... Il panico stava aumentando. Lui sapeva? «Come sta John?» gli chiese. Mark spostò lo sguardo sul vialetto, riflettendo. Sembrava che non ci fosse una risposta semplice per quella domanda. Jodie era consapevole d'ignorare molte cose. Da quella notte, non aveva più visto John, ma l'agente che aveva raccolto la sua deposizione aveva fatto qualche cenno alle sue difficoltà. Frammenti di un quadro, insufficienti per completarlo. «Sta bene», rispose infine Mark. «Per ora è fuori dal dipartimento, e ci sono indagini ancora in corso, ma poteva andare peggio.» «Se lo vede, lo ringrazi da parte mia.» «Lo farò.» Per qualche istante nessuno dei due parlò, ma Jodie non si decideva ad allontanarsi. In qualche modo, non voleva. Il silenzio la spinse a dire: «Cosa ne è stato di quell'uomo?» Mark stava ancora guardando il vialetto. «È morto.» Glielo avevano già detto durante la deposizione, e si rese conto che
Mark doveva saperlo. Era come se le tirassero dolcemente fuori la verità, senza il suo permesso. Il cuore le batteva troppo forte. Eppure non si mosse. «Ancora non sappiamo chi era davvero», riprese Mark. «Ma, da un certo punto di vista, credo che non abbia importanza. Sappiamo quello che faceva alle persone, le scelte che le costringeva a fare.» Lei aveva ripreso a tremare, ma cercò di mantenere ferma la voce. «Giusto.» Mark la guardò. «Scelte impossibili», aggiunse. Il panico minacciò di travolgerla. Lui sapeva. Jodie lo fissò, e Mark ricambiò lo sguardo. Era paralizzata. Ma sul viso di lui c'era una comprensione profonda, diversissima dal conforto che gli altri avevano cercato di offrirle. Era autentica, vera. Nonostante tutto, Jodie provò un certo sollievo. Avrebbe voluto sprofondare in quello sguardo, lasciarsi andare e restarci. Invece scoppiò a piangere. «Su, su», le disse lui. Non aveva avuto intenzione di mentire durante la deposizione; più che una menzogna era qualcosa che non aveva detto, e quell'omissione le era venuta naturale. Aveva raccontato all'agente che quell'uomo l'aveva chiusa a chiave nel ripostiglio: vero. E, quando lui le aveva chiesto cos'era successo dopo, gli aveva detto che, dopo un po', aveva sentito Scott urlare: vero anche quello. Lui non le aveva chiesto cos'era successo nel frattempo. Un volta rinchiusa nel ripostiglio, la voce le aveva detto di non pensare a certe cose, di escluderle dalla mente; e lei aveva obbedito. In quel momento, l'unica cosa che contava era uscirne viva e certe cose - la colpa e la vergogna - non le sarebbero state d'aiuto. Il consiglio che le aveva dato la voce le era parso sensato e rassicurante. Non pensarci. Doveva uscire da quella situazione, e doveva fare tutto ciò che poteva perché se la cavassero tutti e due. Ma soprattutto perché lei se la cavasse. Così aveva messo da parte tutte le emozioni e i sentimenti che avrebbero potuto ostacolarla. Deliberatamente, aveva cercato di non pensare a cosa fosse successo quando l'uomo con la maschera da diavolo era tornato da lei. Alle scelte da compiere. E alla velocità con cui la voce aveva scelto al posto suo. Scott. La voce le aveva detto di ricordare il dolore che aveva subito, di servirsene quando fosse arrivato il momento, e così lei aveva fatto. Ma adesso quegli urli riempivano tutti i suoi pensieri. La voce le aveva chiesto di dimenticare il fatto che lei aveva scelto di salvarsi la vita e adesso, sotto
la superficie, Jodie non riusciva a pensare ad altro. Mi dispiace tanto. Mentre piangeva, Mark le mise una mano sulla spalla. «Su, su», ripeté dolcemente. «Per come la vedo io, una cosa come questa non riguarda nessun altro. Chi ne è stato coinvolto deve convivere con le conseguenze, ma nessuno ha il diritto di giudicare.» Fissando il terreno, Jodie annuì. Dopo un momento, Mark le strizzò leggermente la spalla, poi tolse la mano. «Ecco.» Le stava porgendo qualcosa. Jodie si aspettava che fosse la busta, invece si trattava di un cartoncino. Lo prese. Un biglietto da visita. Sopra c'erano il suo nome e il numero del Dipartimento di polizia. Le implicazioni erano chiare. «Grazie», gli disse. «Se ha voglia di parlarne, sa dove trovarmi.» «Grazie.» «Va tutto bene.» Fece un passo indietro, pronto ad andarsene. «Si prenda cura di sé, Jodie.» Lei si accorse che teneva la busta stretta contro il petto. Come se la custodisse. «Quella cos'è?» Mark le sorrise con dolcezza e mormorò: «Sarà per un'altra volta». RINGRAZIAMENTI Ringrazio come sempre la mia agente, Carolyn Whitaker, e tutte le splendide persone della Orion che mi hanno aiutato con questo libro e con gli altri, soprattutto Jon Wood e Genevieve Pegg. Altre persone hanno contribuito oltre a loro, e perciò un enorme grazie è dovuto a James Kennedy, che mi ha permesso di utilizzare i suoi versi, e a Gary Li, per i preziosi consigli lungo il percorso. Altri ringraziamenti personali per il sostegno e l'amicizia che mi hanno offerto vanno agli scrittori John Connor e Simon Logan; J e Ang; Neil e Helen, Keleigh e Rich, Ben e Megan, Till e Bex, Cass e Mark, Gillian e Roger, Katrina, Emma Lindley, Marie, Debbie, Sarah, Nic, Jodie, Emma e Zoe, Jess, Carolyn, Julie, Louise, Beccy Ship e Paula, Liz e Ben, Colin, Fiona e tutti gli altri del Dipartimento di sociologia di Leeds. E, come sempre, grazie a mamma, papà e Roy. Ma, soprattutto, un gigantesco grazie a Lynn: senza di te non sarebbe
stato possibile. Perciò questa storia di amore tenebroso è dedicata a te, ma col solito vecchio amore un po' sdolcinato. Ora e sempre. FINE