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BRAD MELTZER A RISCHIO ZERO (The Zero Game, 2004) Per Jonas, mio figlio, che mi prende per mano e mi porta con sé nelle avventure più care. «Se il popolo americano sapesse cosa accade lassù, lo abbatterebbe mattone dopo mattone.» Howard R. Ryland, ufficiale della polizia capitolina, a proposito del Congresso «...il problema vero è che governare è noioso.» P.J. O'Rourke 1. Non mi sento al mio posto. Sono anni che non mi sento più al mio posto. Quando arrivai in Campidoglio per lavorare con il deputato Nelson Cordell era diverso. Ma a un certo punto anche Mario Andretti ne ha abbastanza di guidare una macchina a trecento chilometri l'ora ogni giorno della sua vita. Soprattutto se è costretto a girare in tondo. Io sono otto anni che giro in tondo. È ormai tempo di uscire da questa spirale. «Noi due non dovremmo essere qui», dico, in piedi di fronte all'orinatoio. «Di cosa stai parlando?» mi fa Harris aprendosi la cerniera davanti all'orinatoio accanto. Per vedere tutta intera la mia allampanata figura deve piegare un po' la testa. Alto un metro e novantacinque, sono costruito come una palma e se guardo in giù vedo il suo cocuzzolo di capelli neri arruffati. Harris sente la mia irrequietezza, mentre lui, come al solito, è la calma perfetta nell'occhio del ciclone. «Avanti, Matthew: a chi vuoi che importi la scritta sulla porta?» Pensa che mi stia preoccupando per la toilette. Ma stavolta si sbaglia. Certo, questa toilette è nel corridoio dell'aula della Camera, e sulla porta c'è un cartello che dice RISERVATO AI MEMBRI - cioè ai membri del Congresso... il che significa che è per loro, non per noi. Ma lavoro qui da abbastanza tempo per sapere che nemmeno il più formalista dei deputati troverebbe qualcosa da obiettare al fatto che due assistenti come noi ci fac-
ciano un bisognino. «No, non è per il bagno», gli faccio. «È il Campidoglio. Non siamo più al nostro posto, qui. Voglio dire, la settimana scorsa ho compiuto otto anni quassù, e cosa ne ho ricavato? Un ufficio in condivisione e un deputato che non fa altro che stringersi contro il vicepresidente per entrare nella foto sui giornali di domani. Ho trentadue anni, e non lo trovo più divertente.» «Divertente? Perché pensi che dovrebbe essere divertente, Matthew? Cosa direbbe il Lorax, se ti sentisse?» fa lui, accennando col mento alla spilletta col Lorax del dottor Seuss che porto sul risvolto della giacca blu. Niente di nuovo: Harris sa sempre esattamente dove colpire. Quando cominciai a seguire la questione ambientale per conto dell'onorevole Cordell, il mio nipotino, che allora aveva cinque anni, mi regalò quella spilla per farmi sapere che era orgoglioso di me. Io sono il Lorax, parlo a nome degli alberi, mi disse tutto impettito, recitando a memoria un passo del libro che gli stavo leggendo. Adesso di anni ne ha tredici, e considera i libri del dottor Seuss banale letteratura per bambini: ma io, anche se è solo un giocattolo... ogni volta che guardo il piccolo Lorax arancione, con i suoi baffoni biondi... sento che è una cosa importante. «Proprio così», fa Harris. «Il Lorax si batte sempre per le cause giuste. Lui parla a nome degli alberi. Anche quando non è divertente.» «Tu sei proprio l'ultimo che possa farmi la predica.» «Non è una reazione da buon Lorax!» replica lui in tono cantilenante. «Tu che ne dici, LaRue?» E si volta a guardare il vecchio lustrascarpe nero che staziona in permanenza col suo sgabello vicino alla porta del bagno. «Mai sentito parlare di questo Lorax», risponde LaRue senza togliere gli occhi dal piccolo teleschermo appeso sopra la porta, sintonizzato sulla Cspan, il canale tv che fornisce informazioni sulle istituzioni americane. Prima che Harris possa spingere oltre il suo giochino dei sensi di colpa, le porte basculanti della toilette si spalancano di colpo ed entra un uomo in completo grigio e farfallino rosso. Impossibile non riconoscerlo: è l'onorevole William E. Enemark del Colorado, decano del Parlamento, il deputato con lo stato di servizio più lungo. Quell'uomo ne ha viste di tutti i colori: dalla fine della segregazione al pericolo rosso, dal Vietnam al Watergate, dalla Lewinsky all'Iraq. Appende frettolosamente la giacca all'attaccapanni di legno intagliato a mano e si tuffa in una delle cabine in fondo alla toilette. Noi, non ci ha nemmeno visti. Io e Harris ci richiudiamo la patta: nemmeno noi l'abbiamo visto un granché. «È proprio questo che stavo cercando di dirti», sussurro.
«Cosa? Il vecchio Enemark?» sussurra a sua volta, indicando col mento la cabina in cui è scomparso il deputato. «Quell'uomo è una leggenda vivente, Harris. Ti rendi conto di quanto dobbiamo essere diventati cinici se non ci viene nemmeno in mente di dirgli buongiorno quando ci passa accanto?» «Ma stava andando al cesso...» «Questo non ci impediva di salutarlo, no?» Harris fa una smorfia, poi fa cenno a LaRue che alza il volume del televisore. Qualunque cosa stia per dire, vuole che rimanga tra noi. «Ascolta, Matthew, non mi piace dovertelo dire, ma la ragione per cui non gli hai buttato dietro un 'ngiorno, onorevole! è che pensi che il suo curriculum ambientalista sia una merda.» Non posso negarlo. L'anno scorso Enemark è stato il principale beneficiario di una campagna di raccolta fondi organizzata tra le industrie del legname da costruzione, del petrolio e dell'energia nucleare. Quell'uomo sradicherebbe tutte le foreste dell'Oregon, appenderebbe megacartelloni pubblicitari alle pareti del Grand Canyon e tappezzerebbe il suo giardino di pelli di cucciolo di foca se pensasse di ricavarne qualcosa. «Eppure, se fossi ancora uno sbarbatello appena uscito dal college penso che approfitterei dell'occasione di salutarlo e di stringergli la mano. Credimi, Harris, otto anni sono più che sufficienti, è un pezzo ormai che non mi diverto più.» Ancora in piedi davanti all'orinatoio Harris si blocca, stringe un po' i suoi occhioni verdi e mi studia con lo stesso sguardo malizioso che già una volta, quando eravamo studenti alla Duke University, ci ha fatto finire sul sedile posteriore di un'auto della polizia. «Andiamo Matthew, questa è Washington D.C., ci sono giochi e divertimenti dappertutto», mi stuzzica. «Basta sapere dove cercarli.» E senza lasciarmi il tempo di replicare, allunga la mano e mi strappa la spilla del Lorax. Scocca un'occhiata a LaRue, poi guarda la giacca di Enemark appesa all'attaccapanni. «Cosa vuoi fare?» «Tirarti un po' su il morale», fa lui. «Dammi retta, ti piacerà. Dico sul serio.» Ci siamo. Dico sul serio. È il suo intercalare preferito, e un indizio sicuro di guai imminenti. Faccio scorrere l'acqua nel lavandino premendo il pulsante con il gomito. Harris preme il suo con la mano aperta. Non ha mai paura di sporcarsi, lui. «Quanto mi dai se gliela appunto sulla giacca?» bisbiglia, avvicinan-
dosi alla giacca di Enemark con il Lorax in mano. «Harris, no...» sibilo. «Ti ucciderà.» «Vuoi scommettere?» Dalla cabina proviene un rumore ovattato di carta igienica srotolata. Enemark ha finito. Harris sorride. Cerco di afferrarlo per un braccio, ma lui mi schiva con la solita grazia impeccabile, la stessa con cui si muove nell'arena politica. Quando ha deciso una cosa, è impossibile fermarlo. «Io sono il Lorax, Matthew: parlo a nome degli alberi!» Ride pronunciando la formula magica. Vedendolo avvicinarsi in punta di piedi alla giacca di Enemark, non posso fare a meno di ridere con lui. È solo una stupida ragazzata, ma se ci riesce... Ritiro quello che ho detto. Harris non fallisce mai. È per questo che, a ventinove anni, è stato uno dei più giovani capi dello staff di tutto il Senato, e ora che ne ha trentacinque nessuno può toccarlo, nemmeno quelli che sono qui da prima di lui. A volte penso che potrebbe farsi pagare per le cose che gli escono di bocca. Per fortuna i vecchi amici del college possono averle gratis. «Com'è il tempo, LaRue?» domanda Harris al vecchio lustrascarpe che, seduto a pochi centimetri dal pavimento di piastrelle, può vedere ciò che accade all'interno della cabina. Se si trattasse di qualcun altro, LaRue farebbe la spia e se la darebbe a gambe. Ma non si tratta di qualcun altro. È Harris. «Limpido e soleggiato, per il momento», risponde, piegando la testa per sbirciare meglio. «Ma presto ci sarà burrasca...» Harris lo ringrazia con un cenno della testa e si raddrizza la cravatta rossa, comprata dal ragazzo che le vende all'uscita della metropolitana. In quanto capo dello staff del senatore Paul Stevens dovrebbe vestirsi un po' meglio, ma visto come lavora non ha bisogno di fare buona impressione su nessuno. «A proposito, LaRue, che fine hanno fatto i tuoi baffi?» «A mia moglie non piacciono. Dice che fanno troppo Burt Reynolds.» «Te l'ho detto che non potevi avere i baffi e la Pontiac Trans Am. O gli uni o l'altra», fa Harris. LaRue ride, io scrollo la testa. Quando idearono il nostro sistema di governo, i padri fondatori divisero l'organo legislativo in due, la Camera e il Senato. Io lavoro alla Camera, nella zona sud del Campidoglio. Harris al Senato, dalla parte opposta, nella zona nord. Sono quasi due mondi distinti, ma chissà come Harris è sempre molto informato sulla peluria facciale
del nostro lustrascarpe. In realtà non me ne dovrei stupire. Diversamente dai mostri che popolano questi corridoi Harris non parla con le persone solo per manipolarle. Lo fa perché è nella sua natura: figlio di un barbiere, pare abbia ereditato il dono della chiacchiera. E la gente lo adora. Quando entra in una stanza, i senatori gli si affollano sempre attorno, e le ragazze del self-service gli servono il burrito con una porzione di pollo in più. Harris si avvicina alla giacca di Enemark, la toglie dall'attaccapanni e la palpa per trovare il risvolto. Dietro di noi si sente scrosciare lo sciacquone. Voltiamo tutti e tre la testa verso la cabina. Harris è lì, con la giacca in mano, e prima che possiamo reagire sentiamo scattare la serratura del gabinetto. Se fossimo giovani impiegati neoassunti a questo punto saremmo travolti dal panico. Invece mi mordo l'interno delle guance e deglutisco forte senza togliere gli occhi da Harris, che sembra il ritratto del sangue freddo. Scattano in me istinti ancestrali. Non appena la porta del gabinetto comincia ad aprirsi, con un balzo mi metto davanti a Enemark. Devo solo conquistare una manciata di secondi per Harris. Ma il deputato si muove troppo in fretta. Mi scansa senza nemmeno alzare gli occhi: per lui, evitare la gente è ormai diventato uno stile di vita. Punta diritto verso l'attaccapanni. Se dovesse beccare Harris con la sua giacca in mano... «Onorevole!» gli grido. Non rallenta nemmeno. Mi volto per corrergli dietro, e con mio grande stupore vedo la sua giacca pendere floscia e senza vita dall'attaccapanni. Alla mia destra si sente uno scroscio d'acqua corrente: Harris è al lavandino che si lava le mani. In fondo alla stanza, LaRue fissa il televisore con il mento appoggiato alla mano, nascondendosi la bocca con le dita. Non vedo, non sento, non parlo. «Sì?» fa Enemark, prendendo la giacca dall'attaccapanni e appoggiandosela sull'avambraccio, con i risvolti piegati all'interno. La spilla con il Lorax non si vede. Lancio un'occhiata a Harris: la sua calma ha un effetto quasi ipnotico. Gli occhi verdi scompaiono in un morbido sguardo obliquo, le sopracciglia scure sembrano mangiargli la faccia. Le sue espressioni sono per me indecifrabili come la scrittura giapponese. «Hai detto qualcosa, figliolo?» fa Enemark. «Volevamo solo augurarle una buona giornata», accorre in mio aiuto Harris. «È un vero onore per noi poterla incontrare. Non è vero, Matthew?»
«C-certo», faccio io. Il petto di Enemark si gonfia d'orgoglio. «Lo apprezzo molto.» «Io sono Harris: Harris Sandler», fa Harris presentandosi, anche se Enemark non gli ha chiesto niente. Intanto si allontana dal lavandino e studia il deputato come fosse una scacchiera. È così che riesce sempre a essere dieci mosse avanti a tutti. Il deputato allunga il braccio per stringergli la mano, ma Harris si tira indietro: «Scusi... ho le mani bagnate», fa. «Questo è Matthew Mercer, addetto agli stanziamenti interni del deputato Cordell.» «Mi spiace per lui.» Enemark mi trafigge col suo sorriso falso, scrollandomi la mano. Maledetto bastardo. E senza aggiungere parola si toglie la giacca dall'avambraccio e s'infila la prima manica. Guardo il risvolto. Niente. «Buona giornata, signore», gli fa Harris. Enemark infila anche l'altro braccio e muove un po' le spalle per sistemare la giacca. Una scheggia di colore attira la mia attenzione. Sul risvolto c'è una piccola spilla con i colori della bandiera americana, un triangolino con sopra un pozzo petrolifero... e il Lorax, che mi guarda con gli occhioni rotondi del dottor Seuss. Faccio un cenno a Harris. Lui alza gli occhi e finalmente sorride. L'anno in cui ero matricola alla Duke lui era già fra gli studenti anziani e mi fece entrare nel club: anni dopo fu ancora lui a farmi avere un posto sul Colle. Se in passato è stato il mio mentore, oggi è il mio eroe. «Ma guarda», fa Harris al deputato. «Vedo che ha la spilla con la mascotte dei taglialegna.» Mi giro verso LaRue: sta guardando fisso il pavimento per non scoppiare a ridere. «Be'... immagino di sì», farfuglia Enemark, scoprendo solo in quel momento il Lorax. E conclude così la conversazione, uscendo dal bagno e avviandosi lungo il corridoio per tornare in aula. Nessuno muove un muscolo finché la porta non si è richiusa alle sue spalle. «La mascotte dei taglialegna?» sbotto io. «Te l'ho detto che ci si può ancora divertire», fa Harris, alzando gli occhi verso lo schermo. «Questa devo proprio raccontarla a Rosie...» fa LaRue scappando fuori dal bagno. «Harris, un giorno o l'altro ti farai beccare!» «Solo quando riusciranno a pensare più in fretta di me!» replica Harris. E la porta si chiude di nuovo. Non riesco a smettere di ridere. Harris guarda la tv. «Hai visto? Non si è
lavato le mani. Ma questo non gli ha impedito di stringere la tua.» Mi guardo il palmo delle mani e torno al lavandino. «Ci siamo... Ecco il videoclip del nostro colpo...» fa Harris, indicandomi il televisore. Sullo schermo si vede l'onorevole Enemark avvicinarsi al podio con la sua solita andatura da cowboy. E guardando con attenzione - quando la luce lo investe proprio di fronte - si vede anche il Lorax brillare sul suo petto come una piccola stella. «Sono il deputato William Enemark, e parlo per il popolo del Colorado», annuncia dal televisore. «Strano», faccio io, «credevo parlasse a nome degli alberi...» Stavolta Harris non sorride, e si gratta la fossetta del mento con espressione pensierosa. «Ti senti meglio, ora?» mi fa. «Certo... Perché?» Si appoggia alla parete di mogano intarsiato, senza staccare gli occhi dallo schermo. «Sai... quello che ti ho detto prima, lo penso davvero. Si possono trovare dei giochi bellissimi, qui dentro.» «Vuoi dire come quello che abbiamo appena fatto?» «Qualcosa del genere.» La sua voce ha assunto una sfumatura nuova, che non gli ho mai sentito prima. Serissima. «Non capisco.» «Accidenti, Matthew, ma se ce l'hai proprio sotto il naso!» fa lui con un leggero accento della Pennsylvania che di solito non ha. Lo guardo perplesso, grattandomi la testa fra i capelli biondo sabbia. Sono più alto di lui di tutta la testa, ma Harris è l'unica persona che mi sembra sempre di guardare da sotto in su. «Di che diavolo stai parlando?» «Hai detto che volevi divertirti ancora un po', giusto?» «Dipende dal tipo di divertimento...» Harris si stacca dalla parete, sorride e si avvia verso la porta del bagno. «Fidati di me: sarà la cosa più divertente di tutta la tua vita. Dico sul serio.» 2. Sei mesi dopo Di solito odio il mese di settembre. Le vacanze sono finite, aule e corridoi tornano ad affollarsi e i membri del Congresso sono in pieno malumore
pre-elettorale; ma la cosa peggiore è che entro il primo di ottobre bisogna completare i bilanci preventivi, e i nostri ritmi di lavoro sono più pesanti che mai. Quest'anno, però, non me ne sono quasi accorto. «Chi ha voglia di mangiare qualcosa di ancor meno salutare del bacon fritto?» domando, lasciandomi alle spalle i lucidi corridoi istituzionali del Rayburn Building, sede degli uffici della Camera, e spalancando la porta dell'interno B-308. Gli orologi alla parete mi rispondono con un sonoro ronzio elettronico: alla Camera sono iniziate le votazioni. Fervono le attività legislative. E anche le mie. Svolto a sinistra, passo davanti alla coperta Sioux tessuta a mano appesa alla parete e punto dritto sulla nostra segretaria, una donna di colore che ha sempre almeno una biro infilata nella crocchia di capelli prematuramente grigi. «Ecco a te, Roxanne. Il pranzo è servito», annuncio, posando due hot dog incartati sul mucchio di scartoffie che ricopre la sua scrivania. In quanto membro titolare del Comitato per gli stanziamenti, sono una delle quattro persone assegnate al sottocomitato stanziamenti interni. E anche l'unico, oltre a Roxanne, a mangiare carne. «Dove li hai presi?» mi fa lei. «Allo stand dell'Associazione allevatori. Hai detto che avevi fame, no?» Roxanne guarda gli hot dog, poi me. «Ultimamente sei strano. Cosa c'è, prendi delle pillole per la simpatia?» Mi stringo nelle spalle e lancio un'occhiata al piccolo schermo dietro di lei. Come quasi tutti gli apparecchi qui dentro, è sintonizzato sul canale informativo C-span per la votazione. Controllo il tabellone dei risultati, ma è decisamente troppo presto: il numero dei sì e dei no non è ancora comparso. Seguendo la direzione del mio sguardo, anche Roxanne si volta. Mi blocco. No, non è possibile. Non può saperlo. «Stai bene?» mi fa lei, accorgendosi che sono impallidito. «Con tutta quella carne di mucca morta nello stomaco? Benissimo», le rispondo, dandomi delle pacche sulla pancia. «Di' un po', Trish è già arrivata?» «È in sala riunioni. Ma prima di andare di là, alla tua scrivania c'è qualcuno che ti aspetta.» Mentre attraverso il grande ufficio con le quattro scrivanie indipendenti mi sento confuso. Roxanne conosce le regole: con tutte le carte importanti che ci sono in giro non dovrebbe lasciar passare nessuno, soprattutto quando siamo in pre-riunione. Ne deduco che, chiunque sia la persona che mi
sta aspettando, o è un pezzo grosso... «Matthew?» fa una voce con un colorito accento del Nord Carolina. ...o è qualcuno che conosco. «Non dai un bell'abbraccio al tuo lobbysta preferito?» mi accoglie Barry Holcomb alzandosi dalla poltrona davanti al mio tavolo. Come al solito, i suoi capelli biondi hanno lo stesso taglio impeccabile dell'abito gessato, entrambi gentilmente offerti da qualcuno dei suoi clienti altolocati: boss dell'industria musicale, pezzi grossi delle telecomunicazioni e, se non ricordo male, dirigenti dell'Associazione allevatori. «Sento un odorino di hot dog», mi fa, già di un passo avanti a me. «Te l'ho sempre detto: una buona distribuzione di cibo gratis funziona sempre.» Nel mondo del Campidoglio ci sono due tipi di lobbysti: quelli che ti piombano addosso dall'alto e quelli che scavano gallerie sotterranee per sbucarti fra i piedi. Quelli che calano dall'alto possono farlo perché conoscono personalmente qualche membro del Congresso. Quelli che scavano gallerie, invece, conoscono qualche membro dello staff, con cui, nel caso di Barry, hanno frequentato il college, hanno festeggiato insieme gli ultimi due compleanni e almeno una volta al mese escono a farsi una birretta fra amici. Barry però, avendo qualche anno più di me, è sempre stato più amico di Harris, quindi la sua dev'essere una visita d'affari. «Allora, che c'è di nuovo?» mi fa. Ci siamo. In quanto lobbysta dello studio Pasternak e associati, Barry può offrire ai suoi clienti due cose importanti: accesso e informazioni. L'accesso è ciò che gli permette di sedersi sulla mia poltrona anche quando non ci sono. Ma in questo momento penso sia a caccia di informazioni. «Tutto a posto», faccio io. «Hai idea di quando riuscirete a chiudere il bilancio?» Giro gli occhi sulle altre tre scrivanie dell'ufficio. Non c'è nessuno. I miei tre colleghi hanno già parecchie ragioni per avercela con me, da quando Cordell ha rilevato gli stanziamenti interni e mi ha affidato questo incarico, cacciando qualcun altro, mi sento fuori posto tra loro. Devo quindi evitare di peggiorare la mia posizione facendomi beccare in ufficio con un lobbysta. Anche se, ovviamente, Barry costituisce un'eccezione. Seduto sotto la bella litografia del Grand Canyon che decora la mia parete, Barry appoggia il gomito sulla montagna di scartoffie che ricopre la mia scrivania: nel mucchio ci sono anche le mie note per la riunione, con tutti i progetti che abbiamo già deciso di finanziare. I clienti di Barry pagherebbero migliaia, forse milioni di dollari per vederle. E sono lì, a dieci
centimetri dal suo gomito. Ma Barry non le vede. Non vede proprio niente. Dicono che la giustizia sia cieca: grazie a un glaucoma congenito, Barry è uno dei giovani lobbysti più noti di tutto il Campidoglio. Mentre giro attorno alla scrivania i suoi vuoti occhi azzurri fissano un punto qualsiasi, ma la sua testa si volta seguendo il rumore dei miei passi. Abituato a farlo fin dalla più tenera infanzia, Barry sembra assorbire i suoni. Sente il fruscio delle mie braccia contro i fianchi. Il va e vieni della mia respirazione. Perfino il tenue sfregamento dei miei piedi sul tappeto. Al college si faceva guidare da un golden retriever che aveva chiamato Reagan, e che era fantastico per rimorchiare le ragazze. Ma quando cominciò a lavorare sul Colle si rese conto che tutti gli sconosciuti che lo fermavano per fare una carezza al cane gli facevano perdere tempo, e decise di rinunciarvi. Ormai, se non fosse per il bastone bianco, si confonderebbe perfettamente nella folla di elegantoni in abiti di sartoria che popola i corridoi del Colle. Per dirla con le sue stesse parole: la lungimiranza politica non ha niente a che vedere con quella degli occhi. «Entro il primo di ottobre, spero», faccio io. «Stiamo lavorando sulla questione della manutenzione del parco.» «E i tuoi colleghi? Anche loro sono contenti di come si procede?» Quello che vuole sapere è se le negoziazioni stanno andando avanti senza intoppi. Barry non è uno stupido. Noi quattro ci dividiamo le aree - o sezioni - degli stanziamenti interni a seconda della specialità di ciascuno. A conti fatti il budget ammonta a ventuno miliardi di dollari: diviso per quattro, significa che ognuno è incaricato di spendere più di cinque miliardi. Perché dunque Barry si interessa tanto a noi? Perché siamo quelli che tengono i cordoni della borsa. Di fatto il Comitato per gli stanziamenti esiste proprio per staccare gli assegni dei fondi discrezionali del Governo. È uno dei piccoli segreti sporchi del Campidoglio: i membri del Congresso possono anche varare una legge finanziaria, ma se c'è bisogno di soldi quella legge non andrà da nessuna parte senza uno stanziatore. Facciamo un esempio: l'anno scorso il Presidente firmò un progetto di legge sulla vaccinazione gratuita per i bambini delle famiglie a basso reddito. Se però uno stanziatore non metterà da parte i soldi per comprare i vaccini, il Presidente può aver avuto il suo momento di gloria davanti alle telecamere, ma nessun bambino riceverà nemmeno una dose di antipolio. È per questo che, come dicono quassù, il Congresso è formato in realtà da tre partiti: democratici, repubblicani e stanziatori. Dicevo che è un segreto
sporco - ma ovviamente Barry lo conosce benissimo. «Allora sono tutti felici e contenti?» «Non possiamo lamentarci.» Consapevole del tempo che passa mi avvicino alla tv sullo schedario e l'accendo. Non appena compare la C-span, Barry si volta verso la fonte del rumore. Controllo ancora una volta il tabellone dei voti. «A quanto stanno?» fa lui. Cerco di aggirare la domanda: «Come dici?» Barry fa una pausa. Il suo occhio sinistro è di vetro, il destro è azzurro e nuvoloso: una combinazione che rende pressoché impossibile leggere la sua espressione. Ma il tono della voce è abbastanza innocente. «Il conto», ripete. «Il conteggio dei voti: a quanto sta?» Sorrido fra me, e intanto studio la sua faccia. In tutta onestà, se anche lui fosse nel gioco non ne sarei troppo stupito. No, mi rimangio le parole. Invece lo sarei. Harris ha detto che ciascuno può far entrare soltanto un'altra persona. Lui ha invitato me. Se Barry fosse nel gioco, dovrebbe averlo invitato qualcun altro. Cerco di convincermi che è tutto frutto della mia immaginazione e controllo i risultati della votazione. Mi importano solo i sì e i no. In sovrimpressione sull'inquadratura fissa dell'aula, ancora semivuota, compaiono delle lettere bianche: 31 sì, 8 no. «Mancano ancora tredici minuti. 31 a 8», comunico a Barry. «Sarà un macello.» «Non mi stupisce», fa lui, ascoltando la tv. «L'avrebbe visto anche un cieco.» Rido, la battuta è una delle sue preferite. Ma non posso fare a meno di pensare a ciò che mi ha detto Harris: la cosa più divertente del gioco è non sapere chi sono gli altri giocatori. «Ascolta, Barry, possiamo vederci più tardi?» gli dico, prendendo le mie note dalla scrivania. «Trish mi sta aspettando...» «Non c'è problema», fa lui, cercando di non essere insistente. Un buon lobbysta non lo è mai. «Ti richiamo fra un'oretta.» «Va bene, ma potrei essere ancora in riunione.» «Allora facciamo tra due ore, alle tre: che ne pensi?» Ancora una volta mi rimangio quello che ho detto. Anche quando non vuole, Barry non può fare a meno di essere un po' insistente. Era così anche al college. Ogni volta che stavamo per andare a una festa ci telefonava due volte. La prima per sapere a che ora pensavamo di uscire. La seconda
per controllare se pensavamo di uscire proprio a quell'ora. Secondo Harris lo faceva per compensare la sua cecità: per me era un'insicurezza più che comprensibile. Barry doveva infatti sempre darsi da fare un po' più degli altri per non essere tagliato fuori. «Allora riprenderemo la nostra chiacchierata verso le tre», conclude saltando su dalla poltrona e avviandosi verso l'uscita. M'infilo il notes sotto il braccio come fosse un pallone da calcio e passo in sala riunioni. Sorvolo con gli occhi l'immenso tavolo ovale e i due divani neri addossati alla parete, su cui ci buttiamo a dormire quando proprio non ne possiamo più: voglio individuare subito la piccola tv in fondo alla sala e... «Sei in ritardo», mi fa Trish, seduta da una parte del tavolo. Faccio un mezzo giro su me stesso: mi ero quasi dimenticato del perché sono qui. «Mi farei perdonare se ti procurassi un paio di hot dog?» «Sono vegetariana.» Harris le risponderebbe con una delle sue folgoranti battute. Io non so fare di meglio che un sorrisetto imbarazzato. Trish si appoggia allo schienale della sedia e incrocia le braccia sul petto: non sembra intenzionata a deporre le armi. Trish Brennan, trentasei anni, è arrivata sul Colle almeno sei anni prima di me ed è il tipo che ti dice che sei in ritardo anche quando è lei a essere in anticipo. Capelli rossi, occhi verde scuro e lentiggini chiare, ha un'espressione ingenua che ho sempre trovato straordinariamente attraente. Ma in questo momento la mia attenzione è calamitata dal piccolo schermo in fondo alla stanza. Per vederlo devo piegare un po' la testa. 42 sì, 10 no. Per ora tutto bene. Prendo posto su una sedia di fronte a Trish; subito la porta principale della sala riunioni si apre ed entrano gli altri due colleghi, Georgia Rudd e Ezra Ben-Shmuel. Pronto a dare battaglia, Ezra ha una barbetta rada da mendicante-ambientalista («modello prima barba», dice Trish) e la camicia azzurra arrotolata fin sopra i gomiti. Georgia è tutto il contrario: troppo conformista per prendersi delle libertà di stile, è piuttosto silenziosa, porta dei convenzionalissimi tailleur blu marine e si accontenta di seguire le orme di Trish. I nuovi arrivati, ognuno col suo raccoglitore ad anelli formato extralarge, prendono posto uno di fronte all'altra: Ezra dalla mia parte, Georgia accanto a Trish. I quattro cavalieri dell'Apocalisse. Alla riunione io rappresento la maggioranza ed Ezra la minoranza della Camera; al di là del tavolo, Trish e Georgia fanno lo stesso con il Senato. E, indipendentemente dal fatto che rappresentiamo partiti politici diversi, io e Ezra, cioè i repubbli-
cani e i democratici della Camera, possiamo mettere da parte le nostre divergenze contro il nemico comune, il Senato. Sento il cercapersone che vibra nella tasca della giacca. Lo prendo e leggo il messaggio sul piccolo schermo. È di Harris: STAI GUARDANDO? domandano le lettere nere sul display. Alzo gli occhi sullo schermo dietro la spalla di Trish. 84 sì, 42 no. Merda. I no devono rimanere sotto quota 110. Se sono già 42 in una fase così iniziale del voto, le cose si mettono male. COSA FACCIAMO? digito sulla piccola tastiera del cercapersone, tenendo le mani sotto il tavolo perché i rappresentanti del Senato non possano vedermi. Ma non ho ancora inviato il messaggio che il cercapersone vibra di nuovo. PER ORA NIENTE PANICO: è di nuovo Harris. Mi conosce bene. «Possiamo cominciare, per favore?» fa Trish. È il sesto giorno consecutivo che cerchiamo di metterci reciprocamente al tappeto, e c'è ancora parecchio lavoro da fare. «Allora, dove eravamo rimasti?» «A Cape Cod», le risponde Ezra. Come lettori veloci a una gara di lettura trasversale, tutti e quattro sfogliamo rapidamente le centinaia di pagine che abbiamo davanti, nelle quali sono segnate tutte le differenze fra i bilanci preventivi di Camera e Senato. Il mese scorso, votando il suo, la Camera ha destinato 700.000 dollari al recupero del litorale di Cape Cod; una settimana dopo, con la sua proposta di bilancio, il Senato non gli ha destinato nemmeno un centesimo. La riunione serve proprio a questo: a individuare tutte le differenze e a raggiungere un compromesso su ogni singola voce. Quando finalmente coincidono, i due bilanci tornano alle Camere per l'approvazione definitiva. E quando entrambe le Camere hanno approvato lo stesso bilancio, tocca alla Casa Bianca, che lo fa diventare legge dello stato. «Te ne posso dare al massimo 350», fa Trish, sperando che mi accontenti di metà della cifra iniziale. «Affare fatto», rispondo, sorridendo tra me e me. Se volesse, potrebbe costringermi a prenderne 200.000. «Chesapeake, Maryland», fa Trish, passando alla voce seguente. Guardo il tabulato: il Senato ha stanziato sei milioni per la sistemazione della baia di Chesapeake; noi, niente. Adesso è Trish a sorridere. Ecco perché mi è andata tanto liscia con Cape Cod. I sei milioni per questo progetto li vuole fortemente il suo capo, il senatore Ted Apelbaum, che è anche presidente del sottocomitato, cioè
l'omologo al Senato del mio capo, il deputato Cordell. Nello slang del Colle, i presidenti si chiamano «cardinali». Discussione finita. Quel che i cardinali vogliono, lo ottengono. In questo momento, in altre quiete stanze del Campidoglio, si stanno svolgendo scene analoghe. Dimenticate l'immagine di stanze fumose affollate di membri del Congresso impegnati a discutere e a contrattare. È così che si cucina la zuppa. È così che si spendono i soldi dell'America: quattro membri dello staff seduti attorno a un tavolo bene illuminato, e nemmeno un deputato o un senatore in vista. È così che si lavorano i soldi delle vostre tasse. Come dice sempre Harris: il vero governo ombra è lo staff. Il mio cercapersone vibra di nuovo. Il messaggio di Harris è semplice: PANICO. Getto un'altra occhiata alla tv. 172 sì, 64 no. 64? Roba da non crederci. Sono già più della metà. COME? digito in risposta. FORSE CE LA FANNO, risponde Harris quasi istantaneamente. IMPOSSIBILE, digito io. Nei successivi due minuti Trish ci spiega perché sette milioni di dollari sono assolutamente troppi per il Parco di Yellowstone. Non sento nemmeno un parola. Sulla C-span i no salgono da 64 a 81. Non credo ai miei occhi. «Non ti pare, Matthew?» fa Trish. Io guardo la C-span. «Ma insomma, Matthew!» strilla Trish. «Ci sei?» «Cosa?» faccio io, voltandomi verso di lei. Trish segue la direzione del mio sguardo fino alla tv. «È quella che ti ipnotizza tanto? Una stupida votazione sul baseball?» Non può capire. Certo, la votazione riguarda il baseball, ma per me non è una votazione qualsiasi. La questione risale al 1922, quando la Corte Suprema sentenziò che il baseball è uno sport e non un mestiere, e quindi non è soggetto alla normativa antitrust. Il calcio, il basket e tutte le altre discipline sportive devono attenervisi, ma non il baseball, secondo l'augusto parere della Corte Suprema. Oggi il Congresso cerca di rinforzare la posizione privilegiata del baseball dando ai proprietari delle squadre maggiore controllo sul funzionamento della massima divisione. Per il Congresso è una votazione relativamente semplice: se sei stato eletto in uno stato che ha una squadra di baseball, voti a favore (nemmeno i repubblicani eletti nel rurale stato di New York oserebbero mai votare contro gli Yankees). Se
invece vieni da uno stato che la squadra non ce l'ha - o da un distretto che la vorrebbe, come Charlotte o Jacksonville - voti contro. Fatti due conti - senza dimenticare i favori politici già concessi da alcuni potenti proprietari di squadra - dovrebbero esserci una decisa maggioranza a favore e circa 100 contrari, 105 al massimo. Ma in Campidoglio pare ci sia qualcuno convinto che possano arrivare a 110. Impossibile, secondo me e Harris. Che abbiamo scommesso contro. «Pronti ad affrontare qualche altra questioncina?» fa Trish, scorrendo con gli occhi la lista degli argomenti ancora da discutere. Nei successivi dieci minuti stanziamo tre milioni per la riparazione dell'argine di Ellis Island, due milioni e mezzo per rinnovare gli scalini del Jefferson Memorial e tredici milioni per un miglioramento strutturale della pista ciclabile e dell'area ricreativa attorno al Golden Gate. Nessuno dà battaglia. Come per il baseball, non si vota contro la roba giusta. Il cercapersone ricomincia a ballarmi nel taschino. 97, dice il sintetico messaggio di Harris. Incredibile. Ma è proprio questo il bello. Quando mi ha fatto entrare, Harris mi ha spiegato che il gioco è cominciato qualche anno fa come una sorta di scherzo virtuale. La leggenda narra che un giorno un giovane membro dello staff del Senato si lamentò di dover sempre andare alla lavanderia a secco a ritirare i vestiti del suo senatore, e il suo migliore amico all'interno dello staff, per divertirlo, riuscì a infilare le parole «lavanderia a secco» nella brutta copia di un discorso che il senatore doveva pronunciare il giorno dopo: «...anche se a volte può sembrare come il conto della lavanderia, a secco di fondi non può certo restare, la protezione dell'ambiente...» Doveva essere solo uno stupido scherzo, un'interpolazione destinata a scomparire prima che il discorso venisse effettivamente pronunciato. Ma poi un terzo membro dello staff sfidò il primo a lasciare la frase dove stava. «Guarda che lo faccio», lo minacciò l'altro. «No che non lo farai», ribatté il suo amico. «Scommettiamo?» Così nacque il gioco. Quel pomeriggio il distinto senatore apparve sullo schermo della C-span e parlò alla nazione dell'importanza della lavanderia a secco. All'inizio tutto rimase su scala ridotta: una frase nascosta nel testo di un articolo di giornale, un acronimo in un discorso di laurea. Ma poi cominciò a crescere. Qualche anno fa, nell'aula del Senato, un senatore si infilò la mano in tasca per cercare un fazzoletto e si asciugò la fronte con un paio di mutandine da donna. Si affrettò a riderne, come di un errore involontario
della lavanderia. Ma non era stato un incidente. Quella fu la prima volta in cui il gioco venne allo scoperto, e la ragione per cui gli organizzatori decisero di darsi le regole è tuttora in vigore. La cosa è semplice: si scommette solo su progetti di legge il cui risultato sia scontato in partenza. Qualche mese fa il decreto «Clean Diamond» passò con 408 voti favorevoli e 6 contrari; la settimana scorsa quello sugli alloggi d'emergenza per le vittime di un uragano è passato per 401 a 10; oggi, «Baseball per l'America» sarà approvato con circa 300 voti a favore e 100 contrari. Schiacciante. E assolutamente perfetto per scommetterci. Quando ero al liceo scommettevamo sempre se Jennifer Luftig sarebbe venuta a scuola con il reggiseno o senza. All'università avevamo preparato delle cartelle della tombola con i nomi degli studenti che parlavano di più, e ci mettevamo sopra un fagiolo ogni volta che uno di loro apriva la bocca. Tutti abbiamo giocato a qualcosa. Riusciranno a trovare altri dodici voti? I deputati del Vermont voteranno contro? I no saranno più di 110, anche se tutte le previsioni sostengono che non arriveranno a 100? Qualcuno ha detto che la politica è il gioco degli adulti: e allora perché stupirsi del fatto che qualcuno voglia scommetterci sopra? In un primo momento, naturalmente, ho avuto qualche dubbio, ma poi ho capito che è una cosa del tutto innocente. Giocando noi non cambiamo le leggi, non facciamo passare leggi cattive né mandiamo spensieratamente all'aria la democrazia americana così come la conosciamo. Si gioca sui margini: dov'è sicuro, e dov'è più divertente. È come sorbirsi una conferenza e scommettere su quante volte il noiosissimo relatore dirà «io». Si può cercare di pungolarlo, si possono fare i salti mortali per modificare il corso naturale degli eventi, ma il risultato finale non sarà comunque molto diverso. In Campidoglio, nonostante il Congresso sia diviso fra repubblicani e democratici, le leggi vengono quasi sempre approvate da maggioranze schiaccianti. Solo i pochi provvedimenti davvero controversi fanno notizia. È proprio per questo che il più delle volte il nostro lavoro si riduce a un monotono, ripetitivo tran tran, a meno che non si trovi la maniera di renderlo di nuovo appassionante. Il mio cercapersone ricomincia a vibrare. 103, scrive Harris. «Okay, e riguardo alla Casa Bianca?» fa Trish, passando al punto successivo della lista. Allora è per questo che si stava risparmiando. La Camera ha stanziato sette milioni di dollari per restauri strutturali al complesso della Casa Bianca, ma il Senato - grazie a un intervento del capo di Trish ha azzerato il progetto.
«Andiamo, Trish», fa Ezra in tono supplichevole. «Non potete intestardirvi sullo zero tondo.» Trish corruga la fronte: «Vedremo...» È tipico del Senato. Se il capo di Trish ha bocciato il provvedimento è solo perché il Presidente sta facendo pressione perché si arrivi a un accomodamento nel processo per discriminazione razziale intentato contro la biblioteca del Congresso. Il senatore Apelbaum, capo di Trish, è una delle poche persone che hanno avuto voce in capitolo nel negoziato, ed essendo ormai in campagna elettorale, preferirebbe mettere in stallo il processo, soprattutto per tenerne lontani i giornalisti. L'attacco al progetto di ristrutturazione della Casa Bianca è un modo come un altro per imporre un rallentamento all'altra questione. E dallo sguardo compiaciuto di Trish pare ne sia molto soddisfatta. «Perché non facciamo pari e patta?» propone Ezra. «Diamo alla Casa Bianca tre milioni e mezzo e diciamo al Presidente di portarsi dietro la tessera della biblioteca, la prossima volta che ci va.» «Ascoltatemi bene», fa Trish, sporgendosi verso di noi attraverso il tavolo. «Noi non gli daremo nemmeno un singolo, pidocchioso centesimo.» 107, dice il mio cercapersone. Non posso fare a meno di sorridere a quel lento stillicidio. Chiunque siano, gli organizzatori del gioco, o i dungeon-master, come li chiamiamo noi, non si può dire che non siano abili. A volte si scommette due volte la settimana, altre volte dobbiamo aspettare anche tre o quattro mesi: ma quando gli organizzatori hanno scelto un tema, si può star certi che il livello di difficoltà del gioco sarà assolutamente perfetto. Due mesi fa, quando il nuovo procuratore generale si presentò a testimoniare davanti al Comitato forze armate del Senato, la scommessa era se qualche senatore gli avrebbe chiesto: «Ritiene che il suo successo professionale sia dovuto in parte anche al sostegno della sua famiglia?» Una domanda semplicissima: ma se si aggiunge il fatto che qualche giorno prima lo stesso procuratore generale aveva dichiarato che chi ricopre cariche pubbliche dovrebbe tenerne fuori la famiglia... be', fu come essere alle corse dei cavalli. In attesa delle fatidiche parole, io e Harris siamo rimasti incollati a quella noiosissima udienza del Senato quasi fosse l'ultimo round di Rocky. E oggi trattengo il fiato per una votazione già risolta dalla maggioranza dei votanti almeno dieci minuti fa. Perfino i lobbysti del baseball hanno ormai spento la tv e se ne sono andati al bar. Io invece non riesco a staccare gli occhi dallo schermo. E non è tanto per i settantacinque dollari che ho scommes-
so: è per la sfida. Quando abbiamo tirato fuori i soldi, io e Harris eravamo sicuri che i no non sarebbero arrivati nemmeno a 100. Quelli che scommettevano contro di noi, ovviamente, non la pensavano così. E in questo momento i no sono a 107. Impressionante, certo... ma gli ultimi tre voti saranno come spostare una montagna. 108, lampeggia il mio cercapersone. Si sente un forte ronzio. Un minuto alla chiusura della votazione. «Allora, a quanto sono arrivati i no?» fa Trish, ruotando sulla sedia per guardare la tv. «Per favore, possiamo tornare a noi?» chiede Ezra. Ma Trish non gli dà retta. Fissa lo schermo. «108», le dico mentre il numeretto scatta sulla C-span. «Accidenti», fa lei. «Non pensavo ce ne sarebbero stati tanti.» Le sorrido: che sia anche lei nel gioco? Sei mesi fa Harris ha fatto entrare me, e un giorno io farò entrare qualcun altro. Ognuno conosce solo le due persone cui è direttamente collegato. È una questione di sicurezza, se la cosa venisse fuori, nessuno potrebbe accusare gli altri, visto che non li conosce. Ma ovviamente anche l'espressione chiunque potrebbe essere della partita assume una coloritura speciale. Mi guardo attorno. Tutti e tre i miei colleghi stanno osservando di sottecchi la C-span. Georgia mi sembra un po' troppo mite per essere una giocatrice. Ma Ezra e Trish non lo sono affatto. Il deputato Virgil Witt attraversa lo schermo con andatura solenne. È il capo di Ezra. «Guarda, c'è il tuo boss», gli fa Trish. «Dicevi sul serio a proposito della biblioteca?» le chiede Ezra di rimando. Di vedere il suo capo in televisione non gliene importa un fico secco. Da queste parti è ordinaria amministrazione. 109, dice il mio cercapersone. Alla tv il capo di Ezra attraversa di nuovo lo schermo. Digito sotto il tavolo un'ultima domanda: COME HA VOTATO WITT? Guardo Ezra, il cercapersone vibra di nuovo. È la risposta di Harris. NO. Poi, senza darmi il tempo di rispondere: 110. Fine del gioco. Scoppio a ridere. Settantacinque bigliettoni gettati nel cesso. «Che c'è?» fa Georgia. «Niente», rispondo io buttando il cercapersone sul tavolo. «Solo uno stupido messaggio.»
«Adesso che mi ci fai pensare...» fa Trish tirando fuori il suo cercapersone e leggendone lo schermo. «C'è qualcuno che non abbia la testa completamente altrove?» chiede Ezra. «Adesso basta con quei maledetti aggeggi sfrigolanti, abbiamo un problema serio: se la Casa Bianca rimane a bocca asciutta, rischiamo il veto.» «Non credo proprio», dice Trish senza alzare gli occhi, digitando in fretta qualcosa sul cercapersone. «Non così vicino alle elezioni. Porre il veto in questo momento li esporrebbe alla critica di lesinare i fondi al governo per farsi riasfaltare il vialetto di casa.» Improvvisamente Ezra si rende conto che ha ragione, e cade in un silenzio piuttosto insolito per lui. Lo scruto in cerca di indizi. Lui, niente. Se è nel gioco, è un ottimo dissimulatore. «Che c'è?» mi domanda lui, cogliendo il mio sguardo. «Niente», rispondo. «Va tutto bene.» È così da mesi. Sangue che pulsa nelle vene, adrenalina alle stelle: sono a conoscenza di uno dei segreti più interessanti della città. Dopo otto anni di noiosa routine, non mi ricordo quasi più com'era. E anche di perdere non m'importa più che tanto. La cosa eccitante è giocare. Come ho già detto, i dungeon-master sanno quello che fanno. E per fortuna presto accadrà di nuovo. Da un momento all'altro. Do un'occhiata all'orologio a muro. Sono le due. Alle due in punto: così rispose Harris quando gli domandai come si veniva informati di una scommessa. «Non devi preoccupartene», mi spiegò, calmo. «Mandano loro un segnale.» «Un segnale? Che genere di segnale?» «Lo vedrai. Quando vengono diramate le istruzioni, noi ci facciamo trovare in ufficio.» «E se non lo vedo? E se sono in aula... o in qualsiasi altro punto del Campidoglio? E se loro fanno il segnale e io non posso essere in ufficio quando mandano le istruzioni?» «Fidati, è impossibile non vederlo. Dovunque ti troverai...» Piego la testa per guardare la tv oltre la spalla di Trish. Ora che la votazione è terminata la telecamera inquadra di nuovo la tribuna degli interventi, la stessa piattaforma rialzata da cui il Presidente pronuncia il discorso sullo stato dell'Unione. Ma io non guardo la tribuna, fisso il tavolino ovale di mogano che le sta davanti, quello a cui ogni giorno siedono le stenografe della Camera per ticchettare sulle loro macchinette tutto ciò che viene
detto in aula. E come un meccanismo a orologeria, ogni giorno dopo la votazione vengono lasciati su quel tavolino due bicchieri vuoti con due sottobicchieri bianchi. Per duecento anni - a quanto dicono - il Congresso ha fatto mettere lì quei due bicchieri. Ogni giorno che Dio manda in terra. Ma in questo momento il meccanismo sembra essersi inceppato. Sul tavolino ovale, oggi, c'è un bicchiere solo. Impossibile non notarlo. Un solo bicchiere col suo sottobicchiere. È il codice segreto del gioco. Quello è il segnale. Un solo bicchiere, vuoto, che rimane lì per tutta la giornata, di modo che tutti possano vederlo. Qualcuno bussa leggermente alla porta e tutti e quattro voltiamo automaticamente la testa. È un ragazzo in pantaloni grigi, giacca blu da poco prezzo e cravatta blu a righe rosse. Deve avere meno di sedici anni, e quel che non dice l'uniforme lo rivela il tesserino rettangolare appuntato sul bavero della giacca. Rigide lettere bianche su fondo nero: FATTORINO DELLA CAMERA DEI RAPPRESENTANTI NATHAN LAGAHIT I fattorini del Campidoglio sono qualche dozzina, ragazzi ancora in età scolare che consegnano la posta interna e procurano bottiglie d'acqua. Nel palo totemico del Congresso sono gli unici a stare più in basso dei praticanti. «Chiedo scusa», fa il ragazzo, rendendosi conto di averci interrotti. «Cerco Matthew Mercer...» «Sono qui», gli faccio cenno. Si affretta verso di me, e senza guardarmi in faccia mi allunga una busta sigillata. «Grazie», gli dico, ma è già andato. La corrispondenza normale, anche quella interna, viene aperta dalle segretarie. I corrieri richiedono l'indirizzo del mittente, e i pony-express a lungo andare costano una fortuna. I fattorini della Camera e del Senato, invece, non lasciano tracce. Sono a disposizione ogni giorno, a ogni ora, e siccome non fanno altro che andare avanti e indietro per il Campidoglio, nessuno li nota. Una sorta di fantasmi in giacca blu. Nessuno li vede arrivare, nessuno li vede ripartire. E soprattutto, siccome ricevono solo istruzioni verbali, sul destinatario di una certa busta non resta niente di scritto. Il bicchiere solitario sul tavolino ovale mi comunica che devo farmi trovare in ufficio. Una busta sigillata consegnata a mano da un fattorino mi dirà cos'altro devo fare. Benvenuti nel gioco.
«Avanti, Trish, non puoi venirci incontro a metà strada?» insiste Ezra. Ma Trish scuote la testa. Mi disinteresso a loro. Allontano un po' la sedia dal tavolo e osservo la busta. Come sempre, è in bianco. Non c'è nemmeno il mio nome, o il numero dell'ufficio. E anche se avessi chiesto al fattorino chi gliel'ha affidata, mi avrebbe risposto che è stato qualcuno giù in guardaroba. Sono già tre mesi che partecipo al gioco, e ormai ho smesso di indagare sulla sua dinamica interna. Infilo il pollice sotto la linguetta della busta e la strappo con un colpo secco. Dentro, il contenuto è sempre lo stesso: un foglio singolo con l'intestazione blu della CCGA, la Coalizione contro il gioco d'azzardo. Una battuta implicita, ovviamente; ma serve anche a ricordarci che si gioca solo per divertimento. Sotto l'intestazione, il testo della lettera comincia con: Eccovi alcune questioni cui vi invitiamo a prestare attenzione... Segue una lista numerata di quindici voci che vanno da: 3) Convincere entrambi i senatori del Kentucky a votare contro la proposta di legge sulla convenzione per i caseifici avanzata da Hesselbach, a: 12) Entro i prossimi sette giorni sostituire la giacca del deputato Frank Azzarello con una giacca da smoking. Come al solito, vado dritto all'ultima voce della lista. Tutte le altre sono stronzate - un depistaggio nel caso la busta cadesse in mani sbagliate mentre l'ultima... è l'unica che conta. La leggo, e rimango a bocca aperta per lo stupore. Non riesco a crederci. «Tutto bene?» mi fa Trish. Siccome non rispondo subito, tutti e tre si voltano dalla mia parte. «Matthew, ti sei dimenticato di respirare?» dice ancora Trish. «S-sì... cioè, no, ovviamente», le rispondo ridendo. «È solo un biglietto di Cordell.» I colleghi riprendono subito il loro pugilato verbale. Guardo il foglio che ho tra le mani e rileggo per la terza volta la parte che m'interessa, sforzandomi di non scoppiare a ridere. 15) Inserire il progetto di vendita fondiaria del deputato Richard Grayson nel bilancio degli stanziamenti interni della Camera. Un progettino sponsorizzato. Un solo, piccolo progetto degli Interni. Sento il sangue pulsarmi nelle orecchie. Non è una questione qualsiasi. È una questione di mia competenza. Per una volta nella vita non posso perdere.
3. «Allora, cosa ne pensi?» faccio appena entrato da Harris, al quarto piano del Russell Building, sede degli uffici del Senato. Con le finestre ad arco e il soffitto alto, il suo studio è addirittura meglio del più bell'ufficio della Camera. Almeno in teoria, i due rami del Parlamento dovrebbero essere sullo stesso piano. Benvenuti al Senato. «Devi dirmelo tu», risponde lui alzando gli occhi da un fascio di carte. «Credi di farcela a inserire quella vendita fondiaria nel bilancio preventivo?» «Ma se non faccio altro ogni santissimo giorno! Non è che una piccola richiesta per un piccolissimo progetto che nessuno degnerà di uno sguardo. Scommetto che non gliene frega niente nemmeno al deputato Grayson che l'ha proposto!» «A meno che non sia anche lui nel gioco.» Alzo gli occhi al cielo: «Potresti farla finita, una buona volta?» Fin dal giorno in cui mi ha fatto entrare nel gioco, Harris ha le polluzioni notturne su questa fantasia: che nel gioco non ci siano solo impiegati stanchi della solita routine, ma anche qualche membro del Congresso. «Guarda che non è mica impossibile», insiste. «Sì che lo è. Se fossi al Congresso, nemmeno tu ti giocheresti reputazione e carriera per una manciata di verdoni e una bella partita a scacchi.» «Stai scherzando? Quella è gente che si fa spompinare nel bagno del Capitol Grille. La sera, quando vanno da qualche parte a bersi un goccetto, si portano dietro un lobbysta per frugare il locale, scegliergli le ragazze e fare in modo che nessuno li segua quando se ne vanno. Pensi che non gli prudano le mani per entrare in azione? Cerca di riflettere, Matthew: in fondo anche Pete Rose scommette sul baseball.» «Fa lo stesso. Il progetto Grayson non è certo una priorità tale da attirare l'attenzione dei membri del Congresso - è lavoro di base. E comunque, trattandosi della mia giurisdizione, nessuno può interferire senza che io me ne accorga. Te lo assicuro, Harris, ci ho già dato un'occhiata. Si tratta di un microscopico pezzetto di terra da qualche parte nel Sud Dakota. I diritti sulla terra appartengono allo Zio Sam; quelli sul sottosuolo un tempo erano di una qualche compagnia mineraria ormai morta e sepolta.» «È una miniera di carbone?» «No, fratello, quella non è la Pennsylvania. Laggiù si scava solo per tro-
vare l'oro, o almeno così era in passato. La compagnia mineraria ormai defunta ha sfruttato quei pozzi grazie all'Homestead Act - la legge del 1862 che distribuiva terreni per promuovere la colonizzazione del West - fin dal lontano 1876, ai tempi della vera, autentica febbre dell'oro. Poi, qualche tempo dopo, avrebbe voluto acquistare la terra, ma nel frattempo i filoni auriferi si sono esauriti, la ditta è andata in fallimento e la terra è rimasta sul groppone al governo, che almeno in teoria dovrebbe risolvere i problemi ambientali connessi alla dismissione dei pozzi. Qualche anno fa, infine, una ditta chiamata Wendell Mining ha pensato che forse con le moderne tecnologie si poteva tirare fuori ancora un po' d'oro: così ha rilevato la vecchia concessione, ha pagato i debiti, ha contattato l'ufficio per la gestione delle proprietà terriere e si è messa d'accordo per comprare l'appezzamento.» «Da quando vendiamo terre del demanio a compagnie private?» «Come pensi che abbiamo fatto a sistemare il West, Kimosabe? La maggior parte delle terre le abbiamo addirittura date via gratis. Ma il problema è che, nonostante l'ufficio per la gestione delle proprietà terriere abbia dato luce verde, il Dipartimento degli interni è talmente sommerso dalla burocrazia che potrebbero passare anni prima che l'affare si sblocchi: a meno che il Congresso non gli dia una spintarella.» «E così la Wendell Mining ha fatto un bel regalino all'onorevole Grayson per saltare la fila», conclude Harris. «Così va il mondo.» «E riguardo alla terra, siamo proprio sicuri? Voglio dire, non stiamo vendendo una qualche riserva naturale a una grossa compagnia che ci costruirà sopra un centro commerciale o uno zoo safari, vero?» «Improvvisamente torni a fare l'idealista?» «Non ho mai smesso, Matthew.» Ci crede davvero. Ci ha sempre creduto. Cresciuto dalle parti di Gibsonia, in Pennsylvania, Harris non è stato semplicemente il primo della sua famiglia ad andare al college, è stato il primo di tutta la città. E anche se può sembrare sciocco, è venuto a Washington per cambiare il mondo. Purtroppo, a distanza di un decennio pare che sia stato il mondo a cambiare lui. Harris è un cinico disincantato del tipo peggiore: quello che non sa di esserlo. «Se la cosa può farti sentire meglio, ho controllato personalmente l'anno scorso e ho ricontrollato ancora qualche mese fa», gli dico. «La miniera d'oro è abbandonata e la città non vede l'ora che la Wendell Mining la rile-
vi: la popolazione locale ne ricaverà qualche posto di lavoro, la compagnia si metterà in tasca l'oro, ma quel che più conta è che, non appena concluso l'affare, la Wendell si assumerà anche il compito più rognoso, quello della bonifica ambientale. E tutti vissero felici e contenti.» Harris non dice niente, ma prende in mano la racchetta da tennis che tiene appoggiata contro la scrivania. Una volta l'ho vista, la cittadina in cui è nato e cresciuto. Anche se lui non si è mai detto povero, è proprio così che definirei la sua famiglia e il suo ambiente d'origine. Inutile dire che a Gibsonia nessuno gioca a tennis, è un gioco da ricchi. Ma Harris ne ha fatto il suo gioco fin dal primo giorno in cui si è trasferito a Washington, e nessuno si è stupito di scoprirgli un vero talento naturale. Per la stessa ragione per cui ha potuto correre la maratona del corpo dei Marines praticamente senza allenarsi: spirito contro materia, uno a zero. E da allora nulla è cambiato, per Harris. «Allora, tutto a posto?» mi fa. «Tutto fino al dettaglio più insignificante», gli rispondo, accelerando per l'eccitazione. «Dico sul serio!» Per la prima volta da quando sono entrato nel suo ufficio riconosco il placido, carismatico sorriso negli occhi di Harris. Sa che abbiamo la vittoria in pugno. E che può essere una grossa vittoria, se giochiamo bene. «Okay...» dice, facendo rimbalzare la racchetta sul palmo della mano. «Quanto c'è sul tuo conto in banca?» 4. Il mattino dopo alle 9.35 in punto me ne sto seduto tutto solo alla mia scrivania a chiedermi come mai la posta non sia ancora arrivata. Alla Cspan un rabbino di Aventura, in Florida, mormora una breve preghiera davanti a un drappello di fedeli che lo ascoltano a capo chino davanti alla tribuna degli interventi. Quando la preghiera è finita si sente un colpo di martelletto e la telecamera allarga l'inquadratura: sul tavolino delle stenografe i bicchieri per l'acqua sono di nuovo due. A sistemarli può essere stata una qualunque delle persone che frequentano l'aula. C'è gente che sta lì dalla mattina alla sera. Nella segreteria telefonica trovo sette messaggi di lobbysti, quattordici di altri membri dello staff e due di deputati: tutta gente che non sta più nella pelle di sapere se il suo progetto ha ottenuto i fondi necessari. Tutto normale, dunque, se di normalità si può parlare in una giornata come questa.
Alzo la cornetta e premo il 5 per mettermi in contatto con la nostra segretaria: «Roxanne, se dovesse arrivare una busta per me...» «Guarda che ti ho sentito, le ultime trentaquattro volte che me l'hai detto», geme lei. «Te la faccio consegnare immediatamente. Che diavolo stai aspettando, i risultati di un test di gravidanza?» Non mi scomodo a risponderle per le rime. «Volevo solo assicurarmi che...» «E trentacinque! È ufficiale, con questa sono trentacinque volte!» mi interrompe. «Non preoccuparti, tesoro. Vedrai che non ti deluderò.» Dieci minuti dopo Roxanne mantiene la parola. La porta dell'ufficio si apre e una giovane fattorina mette dentro la testa. «Stavo cercando...» «Sono io», esplodo. La ragazza, giacca blu e pantaloni grigi, entra e mi porge una busta color manila sigillata, e intanto dà un'occhiata all'ufficio. «Non sarà mica vero?...» domanda, indicando il furetto impagliato sulla libreria. «Certo che lo è. Con gli omaggi dell'Associazione nazionale della caccia», le rispondo. «È molto più indovinato del solito mazzo di fiori, non credi?» Lei ride e si avvia verso la porta. Do un'occhiata alla busta. Ieri hanno distribuito i biglietti. Adesso è il momento di rilanciare. Strappo la busta, la capovolgo e la scuoto. Ne piove sulla scrivania una ventina di foglietti rettangolari con la scritta RICEVUTA TAXI in grosse lettere nere. Riorganizzo il mucchietto in un parallelepipedo ordinato e cerco quella in bianco. Tutto regolare. Prendo una penna e nella casella NUMERO DEL TAXI scarabocchio in fretta 727. Taxi 727: il mio codice d'identificazione. Poi faccio un segno di spunta nell'angolo superiore destro. La scommessa iniziale è di venticinque dollari. Ma io non voglio semplicemente giocare: voglio vincere, e quindi intendo rilanciare. Nella casella PREZZO DELLA CORSA scrivo 10.00$. Una cifra modesta, per i non iniziati. Ma quelli che partecipano al gioco sanno che bisogna aggiungere uno zero. Un dollaro significa 10 dollari; 5 dollari sono in realtà 50. È per questo che l'hanno chiamato Rischio Zero. In questo caso, 10 dollari equivalgono a un bigliettone con il ritratto di Benjamin Franklin: è questa l'offerta iniziale della nostra asta. Infilo la mano nel primo cassetto, prendo una nuova busta color manila e ci infilo la ricevuta del taxi compilata. E via con la corrispondenza interna. Sulla busta scrivo HARRIS
SANDLER - RUSSELL BUILDING, UFFICIO N. 427. Accanto all'indirizzo scrivo PERSONALE, per maggior sicurezza. Ma ovviamente anche se la sua segretaria l'aprisse - anche se ci ficcasse il naso il portavoce della Camera in persona - non per questo mi suderebbero le mani. Quella che per me è una scommessa da cento dollari, per chiunque altro non è che la ricevuta per una corsa in taxi da dieci dollari, niente che meriti attenzione. Vado nell'ingresso e deposito la busta nel cestino di metallo della posta in uscita. È Roxanne a occuparsi della corrispondenza interna. «Per favore, puoi fare in modo che parta con la prossima infornata?» Lei annuisce e io torno al mio tavolo. Una giornata lavorativa come tante. «È ancora lì?» domando venti minuti dopo al telefono. «No, andata», risponde Harris. Dal leggero crepitio che avvolge la sua voce indovino che mi ha passato sul vivavoce. Quell'uomo non ha paura di nulla. «L'hai lasciata in bianco, vero?» domando ancora. «No, ho cambiato idea rispetto a quello che avevamo discusso insieme. Ciao, Matthew. Chiamami se ci sono novità.» Mentre riattacca sento in sottofondo il rumore della sua porta che si apre. «Corriere!» grida la voce del suo assistente. Un attimo dopo non c'è più. Come le ricevute del taxi. Da me al mio mentore, da Harris al suo. Mentre mi appoggio allo schienale di vinile nero della poltrona girevole, non posso fare a meno di domandarmi chi sia. Harris lavora sul Colle dal giorno stesso in cui si è laureato. Se c'è qualcosa in cui è maestro è proprio nel farsi nuovi amici e stringere relazioni. Il che riduce la lista dei sospetti a duemila persone circa. Ma se ha chiamato un corriere vuol dire che la busta va fuori dal campus. Osservo dalla finestra la bella inquadratura con la cupola del Campidoglio. Il campo da gioco si estende davanti ai miei occhi. La città è piena di ex membri dello staff: studi legali, agenzie di pubbliche relazioni, ma soprattutto... Il telefono squilla: controllo chi mi sta chiamando sullo schermo digitale. ...studi di lobbysti. «Ciao, Barry», lo saluto appena sollevata la cornetta. «Sei ancora vivo?» fa lui. «Mi hanno detto che siete andati avanti a negoziare fino alle dieci, ieri sera.» «È sempre così, in questo periodo dell'anno», gli dico, domandandomi
come diavolo faccia a saperlo. Nessuno ci ha visti andare via, ieri notte. Barry è così: pur non vedendoci, è come se vedesse sempre tutto. «Cosa posso fare per te?» «Biglietti, biglietti e ancora biglietti! Domenica prossima... la prima partita in casa dei Redskin. Ti va di vederli perdere da un costosissimo posto di tribuna? Ho a disposizione il box privato delle case discografiche. Solo tu, Harris e io, una piccola rimpatriata tra amici.» Barry odia il football, e ovviamente non può seguire le azioni: ma ciò non significa che non gli piacciano il servizio di catering privato e il maggiordomo cui quei posti danno diritto. E poi questa mossa gli permette di vincere la mano nell'eterna partita a poker che gioca con Harris. Anche se nessuno dei due lo ammetterebbe mai, fra loro c'è sempre stata una competizione latente. E anche se Barry si è procurato la tribuna dei vip, si può star certi che, il giorno della partita, sarà Harris a occupare il posto migliore. È un classico del Campidoglio: troppi presidenti di comitati studenteschi riuniti in un unico posto. «Fantastico, davvero. L'hai già detto a Harris?» «Sì.» La risposta non mi stupisce. Barry è più amico di Harris che mio, e lo chiama sempre per primo. Ma questo non significa che anche per Harris sia lo stesso. Anzi, quando ha bisogno di un lobbysta, Harris lo scavalca sempre per rivolgersi al titolare dello studio. «Allora, come va con Pasternak?» gli faccio. È il suo capo. «Come pensi che abbia avuto i biglietti?» fa lui. Il tono è scherzoso, ma non credo sia una battuta. Non per Barry. Essendo l'ultimo arrivato nello studio, da anni cerca disperatamente di emergere dal branco. È per questo che chiede continuamente a Harris di buttargli qualche biscottino. L'anno scorso, quando il capo di Harris cambiò posizione riguardo alla deregulation nelle telecomunicazioni, gli chiese di poter essere lui a comunicarlo alle compagnie telefoniche. «Niente di personale, amico», gli rispose Harris, «ma il primo a saperlo è stato Pasternak.» In politica, come nella mafia, i bocconcini migliori sono sempre per i capi. «Che Dio lo benedica, quell'uomo è davvero grande», aggiunge Barry a proposito del suo superiore. Non sarò certo io a contraddirlo. Bud Pasternak, fondatore della Pasternak e associati, gode del rispetto generale, ha relazioni importanti ed è uno dei tipi più simpatici di tutto il Campidoglio. È stato anche il primo datore di lavoro di Harris - che allora era responsabile della macchinetta per duplicare l'autografo del senatore - e quello che gli ha offerto la sua prima grande occasione: una bozza di discorso per la
campagna di rielezione di Stevens. Da allora Harris non ha più avuto bisogno di toccare una macchinetta per gli autografi. Fisso le finestre ad arco sulla fiancata del Campidoglio. Pasternak ha fatto entrare Harris: Harris ha fatto entrare me. Potrebbe essere, no? Chiacchiero ancora un quarto d'ora con Barry, cercando di cogliere in sottofondo i passi di un corriere che recapita qualcosa. Il suo ufficio non è molto lontano dal mio. Ma il corriere non arriva. Un'ora e mezza più tardi bussano di nuovo alla mia porta. Non appena intravedo la giacca blu e i pantaloni grigi salto su dalla sedia. «Immagino che lei sia Matthew», dice il fattorino, capelli bruni e denti di sotto sporgenti. «Esatto», faccio io, e il ragazzo mi tende la busta. La strappo controllando con la coda dell'occhio i tre colleghi seduti alle rispettive scrivanie: Roy e Connor alla mia sinistra, Dinah sulla destra. Tutti e tre hanno quarant'anni circa, i due uomini portano barbe da professori universitari, mentre Dinah va sempre in giro con un imperdonabile marsupio col logo dell'istituto Smithsonian. Professionisti di staff assunti per la loro competenza in fatto di bilanci. I deputati vanno e vengono, democratici e repubblicani vincono e perdono, ma questi tre rimarranno qui per sempre. La stessa cosa vale per tutti i sottocomitati per gli stanziamenti. Attraverso gli avvicendamenti del potere, qualsiasi sia il partito al governo, ci dev'essere qualcuno che sa come far funzionare la baracca. È uno dei pochi incarichi di fiducia non-partisan di tutto il Campidoglio. E naturalmente il mio capo lo trova insopportabile. È per questo che, non appena assunto il controllo del sottocomitato, ha voluto infilarci dentro me, per tutelare i suoi interessi e tenere d'occhio gli altri. Ma in questo momento, mentre apro la busta senza indirizzo, sono loro che, volendo, potrebbero tenere d'occhio me. Rovescio il contenuto della busta sulla scrivania e frugo fra le solite ricevute del taxi. Stavolta però la maggior parte dei tagliandi è in bianco e uno solo è compilato. La grafia è chiaramente maschile: piccoli scarabocchi da gallina, che non si inclinano né a destra né a sinistra. Nella casella della tariffa c'è scritto 50$. Pazzesco. Un solo giro e siamo già a cinquecento bigliettoni. Buon per me. Harris lo chiama «Gara di pisciata congressuale». Io invece lo chiamo «Dare un titolo alla melodia». In ogni angolo del Campidoglio i fattorini di Camera e Senato consegnano ricevute in bianco del taxi. Ognuno dei gio-
catori ne usa una per scriverci la sua scommessa e la consegna a chi l'ha fatto entrare nel gioco, che a sua volta trasmette le scommesse a chi l'ha fatto entrare e così via. Nessuno sa quanto sia lunga la catena, ma evidentemente non è una linea sola, ci vorrebbe troppo tempo. Probabilmente il gioco ha varie diramazioni. All'estremità di un ramo ci sono io, che passo la mia scommessa a Harris. In qualche altro luogo un giocatore sconosciuto dà inizio a un altro ramo, e i rami potrebbero essere quattro come quattrocento. Ma a un certo punto tutte le scommesse arrivano ai dungeonmaster, che le raccolgono, le collazionano e fanno ripartire il processo. All'ultimo giro ho scommesso cento dollari. Adesso qualcuno rilancia a cinquecento, e io sto per alzare ancora la posta. Alla fine quello che ha scommesso di più «compra» il diritto di far accadere ciò su cui verte la scommessa, che si tratti di mettere insieme 110 voti contrari alla proposta di legge sul baseball o di inserire un piccolo progetto di vendita fondiaria nel bilancio degli Interni. Tutti quelli che hanno pagato il piatto di base lavorano perché la cosa non accada. Se il primo giocatore ce la fa si porta via tutto il piatto, fino all'ultimo dollaro scommesso (tranne una piccola percentuale trattenuta dai dungeon-master, ovviamente). Se fallisce, i soldi vengono suddivisi tra tutti quelli che hanno scommesso contro. Studio il numero del taxi sulla ricevuta da cinquecento dollari: 326. Non mi dice niente, ma chiunque sia questo 326 dev'essere convinto di avere un decisivo appoggio interno. E qui si sbaglia. Con la penna sospesa a mezz'aria fisso la mia ricevuta in bianco. Scrivo il mio numero, 727, nella casella NUMERO DEL TAXI. Accanto a TARIFFA scrivo 60.00$: seicento dollari, più i 125.00 che ho già scommesso. Se la puntata fosse troppo alta per me potrei sempre chiamarmi fuori lasciando in bianco lo spazio della tariffa. Ma non è questo il momento di tirarsi indietro. È la mia grande occasione. Infilo tutte le ricevute in una busta nuova, la sigillo, ci scrivo sopra il nome di Harris e la metto nella posta in uscita. La corrispondenza interna partirà a momenti. È solo all'una e mezza che la nuova busta approda sul mio tavolo. Sulla ricevuta del taxi, gli stessi scarabocchi da gallina che ho visto su quella precedente. NUMERO DEL TAXI: 326. Nella casella della tariffa c'è scritto 100.00$. Mille dollari tondi. Va sempre così quando le scommesse ruotano attorno a un fatto che può essere deciso con una semplice telefonata all'uomo giusto. A quanto pare ci sono parecchie persone che credono di avere gli appigli necessari. E può essere che abbiano ragione. Ma noi ab-
biamo qualcosa in più. Chiudo gli occhi e faccio un rapido calcolo mentale. Se rilancio troppo, 326 si può spaventare. Meglio andarci piano e tirarmelo dietro ancora un po'. Con un elegante svolazzo riempio la casella della tariffa: 150.00 dollari. Millecinquecento. E non è ancora finita. Alle tre e un quarto ho lo stomaco che brontola e comincio a sentirmi irritabile, ma ancora non mi decido ad andare a pranzo. Sgranocchio gli ultimi corn flakes di una scatola che Roy tiene nascosta nel cassetto della scrivania. Ma non durano a lungo. Ancora non mi muovo. Il colpo grosso si avvicina. Harris dice che nessuna scommessa è mai andata oltre i millenovecento dollari, e anche quella volta solo perché c'era di mezzo Ted Kennedy. «Matthew Mercer?» domanda un fattorino con i capelli biondi tagliati corti affacciandosi dalla porta. Gli faccio cenno di entrare. «Sei molto richiesto, oggi», commenta Dinah sollevando la cornetta del telefono. «Da' pure la colpa al Senato», replico. «Stiamo litigando su alcune questioni e Trish non solo non si fida dei fax, ma nemmeno delle e-mail perché dice che è troppo facile copiare un messaggio e trasmetterlo ai lobbysti.» «Ha perfettamente ragione», fa Dinah. «Ragazza in gamba, quella Trish.» Ruoto la sedia in modo che Dinah non possa vedere cosa faccio, apro la busta e do un'occhiata all'interno. Mi sembra di sentire i testicoli che mi si raggrinziscono. Non credo ai miei occhi. Non tanto per la cifra, che è già arrivata a tremila dollari, quanto per il numero del taxi, che non ho mai visto prima: 189. Una grafia tozza e schiacciata. C'è un altro giocatore che evidentemente non ha paura di rimetterci i suoi soldini. Il telefono sulla scrivania squilla improvvisamente e io faccio un salto sulla sedia. Sul display appare il numero di Harris. «Come va?» mi chiede non appena sollevo la cornetta. «Non male, ma ci sono ancora alcune questioni da risolvere.» «C'è qualcun altro in ufficio con te?» «Esatto», gli rispondo, voltando le spalle a Dinah. «E c'è anche una nuova sezione di cui non sapevo niente.» «Un giocatore nuovo? Che numero ha?» «Uno-otto-nove.»
«È il tipo che ha vinto ieri sulla questione del baseball.» «Ne sei sicuro?» Domanda idiota. Harris vive per il gioco. Non può sbagliarsi. «Pensi che dovremmo preoccuparci?» faccio io. «No, se sei ancora sicuro di farcela.» «Oh, ce la farò», insisto. «Allora non c'è niente di cui preoccuparsi. Quanto a me, ne sono contentissimo. Con due scommettitori la posta in gioco sale di più. E avendo già vinto ieri, il nostro amico deve sentirsi arrogante e sicuro di sé. È l'occasione giusta per lasciarlo in mutande.» Annuisco, riattacco e ricomincio a fissare la ricevuta del taxi compilata con la grafia tozza. «Tutto bene?» mi fa Dinah dalla sua scrivania. Scribacchiando più in fretta che posso, alzo la scommessa a quattromila dollari e infilo la ricevuta in una busta nuova. «Sì», rispondo, e vado a depositarla nella posta in uscita. «Perfettamente.» La busta torna indietro in meno di un'ora, e chiedo al fattorino di aspettare per dargli immediatamente quella nuova con l'indirizzo di Harris. Roxanne si è già occupata anche troppo di tutta questa corrispondenza interna: meglio confondere un po' le carte, per non destare sospetti. Prendo la busta, la apro e cerco con gli occhi il segnale che le scommesse sono chiuse. Invece c'è un'altra ricevuta. Taxi numero 189. Tariffa, cinquemila dollari. Cinque testoni, più tutto il resto che abbiamo già scommesso. Esito un nanosecondo, domandandomi se non sarebbe meglio lasciar perdere. Poi mi ricordo che abbiamo in mano tutti gli assi. E i jolly. E i re e le regine. Questo 189 dev'essere pieno di soldi fino alle orecchie, ma noi non possiamo perdere. Non ci fa paura. Estraggo dalla busta una ricevuta in bianco e ci scrivo il mio numero. Poi, nella casella della tariffa, scrivo 600.00$. Piuttosto caro per una corsa in taxi. Esattamente dodici minuti dopo che il fattorino ha lasciato il mio ufficio squilla il telefono. Harris ha appena aperto la busta. «Sei sicuro che sia una cosa intelligente?» mi fa. Dall'eco che sento deve avermi messo sul vivavoce. «Non preoccuparti, andrà tutto bene.» «Dico sul serio, Matthew. Non stiamo giocando con i soldi del Monopo-
li. A conti fatti, abbiamo già scommesso più di seimila dollari. E adesso vuoi tirar fuori altri sei testoni?» Ieri sera, mentre discutevamo dei nostri limiti, gli ho detto che ho in banca circa ottomila dollari, compreso il versamento iniziale per aprire il conto. Lui dice di averne al massimo quattromila, forse qualcosa meno. Diversamente da me, che non ho nessuno a carico, Harris manda ogni mese una parte dello stipendio a uno zio, laggiù in Pennsylvania. I suoi genitori sono morti qualche anno fa, ma... la famiglia è sempre la famiglia. «Possiamo ancora coprire la scommessa», gli dico. «Questo non significa che sia una buona idea puntare tutto ciò che abbiamo fino all'ultimo centesimo.» «Cosa vuoi dirmi?» «Un bel niente. Solo che... Forse è venuto il momento di tirare il fiato e chiamarci fuori. Non dobbiamo necessariamente rischiare il tutto per tutto. Potremmo limitarci a scommettere contro, e tu faresti in modo che il progetto non venga approvato.» Infatti è così che funziona, se non puoi aggiudicarti la scommessa più forte passi dall'altra parte della barricata insieme a tutti gli altri, e devi fare il possibile perché la cosa non si realizzi. È un buon metodo per pareggiare le probabilità: quello che ha le maggiori possibilità di far accadere una certa cosa si trova contro un gruppo di persone che, unendo gli sforzi, può tirar fuori una buona quantità di muscoli. C'è solo un problema: «Sei sicuro di voler dividere la nostra vincita?» Harris sa che ho ragione. Perché regalare ad altri un giro di giostra gratis? «Se ti preoccupa la questione dei soldi potremmo far giocare qualcun altro insieme a noi», provo a suggerire. Harris mi blocca subito: «Che diavolo stai dicendo?» Probabilmente pensa che sia un trucco per fargli confessare il nome della persona che l'ha fatto entrare nel gioco. «Credi che sia stato Barry, vero?» «No, in realtà pensavo a Pasternak.» Non risponde, e io sorrido fra me e me. Per Harris, Pasternak è la cosa più simile a un mentore che abbia mai avuto, ma la nostra amicizia risale agli anni dell'università. E non si può mentire a un vecchio amico. «Non sto dicendo che tu abbia ragione», prosegue Harris. «E comunque non credo che sarebbe d'accordo. Ormai le cose sono andate troppo avanti. Voglio dire, anche nell'ipotesi che il 189 sia in società con il suo mentore,
è pur sempre una vagonata di soldi.» «E saranno due vagonate quando li avremo vinti. Il piatto ormai dovrebbe essere di almeno venticinque testoni. Pensa all'assegno che ti metterai in tasca...» Harris non trova niente da obiettare. Sulla linea si sente uno sfrigolio. Deve aver spento il vivavoce. «Lascia che ti domandi una cosa, Matthew, sei proprio sicuro di farcela?» Non rispondo, cercando di vagliare a fondo tutte le possibilità. Anche lui sta zitto, calcolando le possibili conseguenze. È l'esatto contrario del ballo che balliamo di solito: per una volta sono io quello sicuro di sé e Harris è quello che si preoccupa. «Allora, ce la farai?» ripete. «Credo di sì», rispondo io. «No, no, no... Niente "credo". "Credo" non è sufficiente. Te lo chiedo da amico. In tutta onestà, senza stronzate, ce la farai?» È la prima volta in assoluto che avverto una sfumatura di panico nella voce di Harris. Lui non ha mai paura di saltare giù da una scogliera, ma essendo un politico intelligente prima vuole sapere cosa c'è nel fiume sotto di lui. La cosa positiva è che, almeno in questo caso, io ho il salvagente. «La questione dipende solo da me», rispondo. «L'unico che potrebbe interferire è Cordell in persona.» Il silenzio all'altro capo della linea mi dice che non è ancora convinto. «Va bene, hai ragione tu», gli dico, sarcastico. «È troppo rischioso. Lasciamo perdere.» Ancora silenzio. «Te lo giuro, Harris. A Cordell non interessano le briciole. Se mi ha assunto è proprio per non doversene occupare lui. Stavolta non possiamo perdere.» «Me lo giuri?» Mentre me lo chiede guardo fuori dalla finestra la maestosa cupola del Campidoglio. «Sulla mia stessa vita», rispondo. «Adesso non fare il melodrammatico.» «Bene, allora sarò pragmatico. Lo sai qual è la regola d'oro degli stanziamenti, no? Chi ha la grana detta le regole.» «E la grana l'abbiamo noi?» «Sì.» «Ne sei proprio sicuro?» «Lo sapremo presto», gli dico ridendo. «Allora, ci stai?»
«Il tagliando l'hai già compilato, giusto?» «Sì, ma sei tu quello che lo deve spedire.» La linea sfrigola ancora: sono di nuovo sul vivavoce. «Cheese, ho bisogno di spedire una busta», grida Harris al suo assistente. Allora si va. Siamo di nuovo in ballo. L'orologio segna le 19.30 quando qualcuno bussa leggermente alla mia porta. «Tutto a posto?» mi fa Harris infilando dentro la testa. «Vieni, entra», gli dico, facendogli cenno senza alzarmi dalla scrivania. Ora che tutti se ne sono andati possiamo parlare liberamente. Entrando in ufficio, Harris abbassa il mento e mi sorride. Ha un'espressione che non gli conosco: una nuova fiducia nei miei confronti? Rispetto, forse? «Ti sei scritto sulla faccia», mi dice. «Cosa diavolo?...» Harris sorride e si picchietta la guancia con un dito: «Guancia Blu. Modello "studioso della Duke".» Mi lecco un dito, mi sfrego via l'inchiostro dalla guancia e ignoro la battuta. «Ah, dimenticavo: in ascensore ho incontrato Cordell», mi fa lui. Cordell è il mio capo. «Ti ha detto niente?» «Non molto. Solo che gli dispiace che anni fa tu abbia messo la firma per la sua campagna elettorale e lo abbia portato in giro da un comizio all'altro senza immaginare che era un tale rotto in culo. Dice anche che si è pentito di aver cancellato ogni riferimento alla questione ambientale dalle sue apparizioni pubbliche.» «Fantastico. Sono contento che sia diventato abbastanza adulto da ammetterlo.» In superficie sorrido, ma Harris non ha problemi a leggermi dentro. Quando siamo arrivati quassù, lui credeva in certe cause; io credevo in una persona. E la seconda cosa è molto più pericolosa. Si siede sull'angolo della scrivania. Seguo il suo sguardo verso la tv che, come sempre, è sintonizzata sulla C-span. Fintanto che la Camera è in seduta, i fattorini rimangono a disposizione. E da come si stanno mettendo le cose - Thelma Lewis, deputata del Wyoming, continua a blaterare afferrandosi saldamente al bordo della tribuna - dovremmo avere un po' di tempo per noi. Fuso orario della montagna: a Casper, nel Wyoming, sono le 17.30, l'ora del telegiornale. È per questo che la Lewis ha aspettato fino a
ora per tenere il suo comizio e i deputati del New Mexico, del Nord Dakota e dello Utah si sono iscritti a parlare dopo di lei. Perché darsi tanto da fare se nessuno ti ascolta? «È la demografia della democrazia», borbotto. «Sarebbe stato più intelligente aspettare ancora mezz'ora», puntualizza Harris. «I pezzi grossi dell'informazione locale non entrano in scena fino alle...» Qualcuno ha bussato alla porta. «Matthew Mercer?» domanda una fattorina con la frangetta castana e una busta sotto il braccio. Harris e io ci guardiamo. È scattata l'ora X. La ragazza mi allunga la busta e io la prendo, fingendomi indifferente. «Un momento... Ma lei non è Harris?» fa improvvisamente la ragazza. Lui non si scompone: «Mi dispiace... ci conosciamo?» «All'orientamento... Lei ha tenuto un discorso.» Alzo gli occhi al cielo, ma non sono sorpreso. Ogni anno Harris è uno dei quattro membri dello staff incaricati di parlare al corso d'orientamento dei fattorini. Tutti gli altri lo considerano una gran rottura di palle. Ma non Harris. Gli altri tre oratori recitano con voce monotona qualcosa che hanno imparato a memoria sull'importanza del buon governo: Harris invece gli fa il discorsetto dello spogliatoio di Colpo vincente, e li persuade che saranno loro a scrivere la storia futura. Il club dei suoi fan cresce ogni anno di più. «È stato meraviglioso.» «Esattamente come la penso io», conferma Harris. Il guaio è che ci crede davvero. Non riesco a togliere gli occhi dalla busta. «Harris, adesso credo che dovremmo...» «Chiedo scusa», dice la fattorina. Che però non riesce a staccarsi da Harris. E non solo per via del discorso. Quelle ampie spalle... la fossetta sul mento... le folte sopracciglia scure: Harris ha sempre avuto un aspetto classico, come il soggetto di una foto in bianco e nero degli anni Trenta che in qualche modo riuscisse attraente anche ai giorni nostri. Basta aggiungerci quegli occhi verdi e profondi... Harris non ha mai avuto bisogno di darsi da fare. «Lei, ecco... lei è grande, davvero», dice ancora la fattorina, avviandosi ma senza togliergli gli occhi di dosso. «Anche tu», le risponde Harris. «Puoi chiudere la porta, uscendo?» le grido dietro.
La porta sbatte violentemente, e subito Harris mi strappa la busta di mano. Se fossimo ancora al college gli salterei addosso per riprenderla. Ma non siamo più al college. Oggi si gioca in grande. Fa scorrere un dito sotto la linguetta della busta e la apre con disinvoltura. Non riesco a capire come faccia a mantenere questo sangue freddo. I miei capelli, biondi, sono zuppi di sudore: i suoi, bruni, sono asciutti come fieno al sole. Alzo gli occhi sulla foto del Grand Canyon appesa al muro, in cerca di serenità. La prima volta che i miei genitori mi ci hanno portato avevo quindici anni, ed ero già alto quasi due metri. Fu guardando giù dal bordo del canyon che, per la prima volta in vita mia, riuscii a sentirmi piccolo. Come ogni volta che sono con Harris. «Cosa dice?» gli faccio. Lui sbircia nella busta senza dire niente. Se qualcuno ha scommesso ancora, dev'esserci una nuova ricevuta. Se invece siamo noi i pesci grossi ci troveremo solo il nostro primo scontrino. Cerco di leggere l'espressione della sua faccia, ma è inutile. È da troppo tempo che lavora in politica. La curva del suo sopracciglio non muta. Non sbatte nemmeno le palpebre. «Incredibile», dice poi, estraendo dalla busta una ricevuta e mostrandomela nel palmo della mano. «Cosa?» faccio io. «Ha puntato ancora? Ha puntato ancora, vero? Siamo morti...» «In realtà», fa lui alzando gli occhi per guardarmi in faccia e sollevando, adesso sì, un sopracciglio: «In realtà direi che siamo più vivi che mai.» È mi sventola la ricevuta davanti agli occhi come se fosse un distintivo della polizia. Quella è la mia grafia. È la nostra prima scommessa. Che ora vale seimila dollari. Scoppio a ridere forte. «È giorno di paga, Matthew. Allora, sei pronto a dare un titolo alla melodia?...» 5. «Buongiorno, Roxanne.» È il giorno dopo, e sono appena arrivato in ufficio. «Tutto a posto?» «Tutto secondo i suoi ordini», mi fa lei senza alzare gli occhi. Passo nell'altra stanza: Dinah, Connor e Roy occupano la solita posizione dietro le rispettive scrivanie, già immersi in un oceano di scartoffie e
appunti delle riunioni. Ogni anno, in questo periodo, tutti noi ci occupiamo di un'unica cosa: mettiamo insieme un Rosemary's baby da ventuno miliardi di dollari. «Ti aspettano in sala riunioni», mi fa Dinah. «Grazie», le rispondo. Acchiappo le mie note dalla scrivania e varco la grande porta beige in fondo all'ufficio. Una cosa è scommettere che farò passare una certa questione sotto il naso di quelli del Senato per infilarla nel bilancio. Un'altra è farlo davvero. «È bello quando la gente arriva in orario», mi sgrida subito Trish non appena entrato. In effetti sono l'ultimo dei Quattro Cavalieri. L'ho fatto apposta. Voglio che pensino che non sono affatto in ansia per quello che faremo oggi. Come al solito Ezra siede dalla mia parte, Trish e Georgia, le nostre controparti del Senato, sono una accanto all'altra al di là del tavolo ovale. Sulla parete di destra c'è uno scatto di Ansel Adams del Yosemite National Park in bianco e nero: il picco innevato dell'Half Dome si rispecchia nelle acque cristalline del Merced River. Alcuni hanno bisogno del caffè: io ho bisogno di vedute esterne. Anche questa, come il poster del Grand Canyon appeso nel mio ufficio, ha il potere di calmarmi immediatamente ogni volta che la guardo. «Allora, che c'è di nuovo?» attacca Trish, domandandosi cosa posso avere nella manica. «Niente», faccio io, domandandomi la stessa cosa riguardo a lei. Siamo entrambi esperti nel tango della preriunione. Ogni giorno salta fuori un nuovo progetto che uno dei nostri capi si era «dimenticato» nel cassetto. La settimana scorsa le ho concesso trecentomila dollari per la protezione del lamantino della Florida; in cambio lei ne ha dati quattrocentomila a me per uno studio dell'Università del Michigan sulle muffe tossiche. E così il senatore della Florida e i deputati del Michigan avranno qualcosa di cui vantarsi in campagna elettorale. Progetti come questi si chiamano in gergo «immacolate concezioni»: sono favori politici che - puf! - si materializzano all'improvviso dal nulla. In testa ho la lista di tutti i progetti che devo riuscire a cacciar dentro prima della fine della pre-riunione, compreso quello sulla miniera d'oro. Lo stesso vale per Trish. Ma nessuno dei due vuole scoprire le sue carte per primo. Di conseguenza ci atterremo strettamente al copione per almeno due ore. «Biblioteca presidenziale Franklin Delano Roosevelt», comincia Trish.
«Il Senato le ha destinato sei milioni, voi solo quattro.» «Facciamo cinque?» propongo. «Okay.» «Passiamo a Filadelfia», faccio io. «Nuovi vialetti per la Independence Hall: noi abbiamo previsto novecentomila, il Senato, per qualche ragione che ignoro, nemmeno un centesimo.» «Così il senatore Didio impara a tenere la bocca chiusa. Ha attaccato il mio capo sul "Newsweek", e non gliela faremo passare liscia.» «Non ti pare un tantino infantile e vendicativo?» «Ai Trasporti lo sono infinitamente di più. Quando un senatore del Nord Carolina ha pestato i piedi al presidente del sottocomitato, l'Amtrak è rimasta senza fondi e i treni hanno cancellato la fermata di Greensboro.» Scrollo la testa. È dura voler bene agli stanziatori. «Vuoi dire che approverete l'intero finanziamento per la Campana della Libertà?» «E sia», fa Trish. «Lasciamo che la libertà suoni le sue campane.» A mezzogiorno Trish è pronta per la pausa pranzo, e guarda l'orologio. Se è vero che ha un progetto nascosto la sua disinvoltura è veramente impeccabile, al punto che, per la prima volta da quando abbiamo cominciato, prendo in considerazione l'idea di parlare per primo. «Ci si rivede all'una?» chiede. Annuisco, chiudendo con uno scatto il raccoglitore ad anelli. «A proposito», mi ferma all'ultimissimo momento, mentre sto per tornare in ufficio: «Ci sarebbe un'altra cosetta che mi ero quasi dimenticata...» Mi blocco a metà di un passo e giro su me stesso. Devo controllare ogni singolo muscolo della faccia per non sorridere. «È un progetto di ristrutturazione fognaria per Marblehead, Massachusetts», fa lei. «La città natale del senatore Schreck.» «Oh, merda!» Adesso tocca a me. «Ora che ci penso, anch'io dovevo sottoporvi una vendita fondiaria caldeggiata da Grayson.» Trish alza la testa e fa una faccia come se credesse ciecamente alla mia buona fede. Lo stesso io con lei. Cortesia professionale reciproca. «Quanto costa la tua fogna?» le domando, cercando di parlare in tono neutro. «Centoventimila. E la tua vendita fondiaria?» «Non ci sono costi, siamo noi che la vendiamo. Ma la richiesta è sponsorizzata da Grayson.» Ogni volta che nomino Grayson, Trish si irrigidisce. Se la memoria non m'inganna qualche anno fa hanno litigato. Non dev'essere stato piacevole
per lei. Girava voce che lui le avesse fatto delle avance. Ma se ha voglia di vendicarsi non lo lascia trapelare. «Che cosa c'è su quel terreno?» «Polvere... cacche di coniglio... roba del genere. L'importante è la miniera d'oro che ci sta sotto.» «Si occuperebbero loro della bonifica?» «Certo. E siccome qualcosa dovranno pur sganciare, da questa voce possiamo aspettarci un'entrata. Lascia che te lo dica a me sembra un affare.» Sa che ho ragione. Con la legislazione vigente sugli scavi minerari, se una compagnia vuole perforare un terreno pubblico in cerca d'oro o d'argento deve solo inoltrare domanda e compilare un po' di scartoffie. Dopo di che può prendersi tutto ciò che vuole senza sborsare un centesimo. Grazie alla lobby mineraria - che è riuscita a mantenere inalterata una legge del 1872 - una compagnia che ricavi milioni di dollari estraendo l'oro da un terreno statale non deve pagare nemmeno un dollaro di diritti allo zio Sam. Se invece si mette in testa di comprare il terreno forse ci riuscirà solo quando tutti gli interessati saranno morti e sepolti. Come dice Trish, lasciamo che la libertà suoni le sue campane. «Cosa ne dice il BLM?» mi domanda. Il BLM è l'ufficio per la gestione delle proprietà terriere. «Ha già dato il nullaosta, la vendita si è arenata per questioni burocratiche, è per questo che vorrebbero una spintarella da noi.» In piedi dietro il tavolo ovale, Trish sposta di lato la mandibola cercando di tradurre la mia richiesta in termini monetari. Ezra e Georgia fanno lo stesso, ma da semplici spettatori. «Aspetta, chiamo il mio ufficio», conclude Trish. «C'è un telefono nella sala riunioni», le dico, indicando a lei e a Georgia la stanza accanto. La porta si richiude alle loro spalle ed Ezra comincia a raccogliere le sue note: «Pensi che saranno d'accordo?» «Dipende da quanto ci tengono alla loro fogna, non credi?» Ezra annuisce. Io guardo ancora la foto del Yosemite Park. Lui segue il mio sguardo, ed entrambi fissiamo l'immagine per una trentina di secondi. «Proprio non capisco», fa lui, riscuotendosi per primo. «Che cosa?» «Ansel Adams... questa storia dell'iper-fotografia. Voglio dire, sono semplici foto in bianco e nero di ambienti esterni: cosa c'è di tanto straordinario?»
«Non è la foto in sé», gli spiego. «È l'idea.» E traccio un cerchio davanti al picco innevato col palmo della mano aperta: «Questa è l'immagine esemplare di uno spazio completamente aperto e vuoto... E in tutto il mondo c'è un solo posto dove si può fare una foto come questa: l'America. Quello di proteggere dallo sviluppo urbanistico grandi spazi aperti solo perché la gente possa guardarli e goderne è un ideale tutto americano. L'abbiamo inventato noi. La Francia, l'Inghilterra, l'Europa intera hanno usato i loro spazi per costruirci città e castelli. Noi invece, che pure edifichiamo parecchio, mettiamo da parte ampie fette di terreno sgombro e le chiamiamo parchi nazionali. Quel che voglio dire è che per gli europei l'unica forma d'arte originariamente americana è il jazz. Ma si sbagliano. La maestà di quella montagna color porpora è il John Coltrane del paesaggio.» Ezra solleva leggermente la testa per guardare meglio. «Continuo a non vederci niente di speciale.» Mi volto per controllare la porta da cui sono uscite Georgia e Trish. Gocce di sudore mi rotolano giù dalle ascelle lungo i fianchi. Sono state via troppo tempo. «Stai bene?» fa Ezra vedendomi pallido. «Sì... ho solo caldo», gli rispondo, sbottonandomi il colletto della camicia. Se anche Trish è nel gioco, siamo fritti... Prima ancora che abbia il tempo di concludere il pensiero la maniglia della porta scatta, il battente si apre e Trish avanza fino al centro della stanza. Cerco di leggere la sua espressione: tanto varrebbe interpretare quelle di Harris. Cullando fra le braccia il suo raccoglitore ad anelli come una ragazzina ai primi anni del liceo, Trish sposta il peso da una gamba all'altra. Mi mordo la parte interna della guancia, cercando di ignorare i numeri che mi galleggiano nel cervello. Dodicimila dollari: fino all'ultimo nichelino che ho messo via negli ultimi anni. E i venticinque testoni dell'eventuale vincita. La questione è tutta qui. «Va bene, ti propongo uno scambio: la mia fogna contro la tua miniera d'oro», fa Trish. «Affare fatto», rispondo subito. Sigliamo l'accordo raggiunto con un cenno della testa, poi gli altri se ne vanno a pranzo e io torno in ufficio. Se le cose vanno avanti così, siamo già sul podio del vincitore. «Tutto fatto?» La voce di Harris suona un po' stridula nella cornetta del telefono.
«Tutto fatto», gli rispondo dal mio ufficio semivuoto. Sono andati tutti a mangiare tranne Dinah che, vero animale da telefono, sta facendo due chiacchiere al suo apparecchio. Ciononostante faccio attenzione a quel che dico. «Quando i membri del Congresso approveranno il bilancio - e lo faranno senz'altro, perché è pieno zeppo di chicche per ognuno di loro - saremo a cavallo.» «Sei proprio sicuro che all'ultimo momento non salterà fuori un deputato di cattivo umore che lo vorrà leggere da cima a fondo e magari deciderà di cancellare proprio la questione della miniera?» «Stai scherzando? Nessuno lo legge mai. L'anno scorso il testo del bilancio preventivo era più di millecento pagine. Nemmeno io posso dire di averlo letto tutto, eppure è il mio lavoro. E poi, quando esce dalla riunione è un enorme scartafaccio tutto farcito di post-it gialli. Alcune copie, poche, vanno alla Camera, e qualcuna in più al Senato. I membri del Congresso possono esaminarlo solo un'ora o due prima del voto. Credimi, perfino l'Associazione dei cittadini contro gli sprechi governativi - quel gruppo che ha tirato fuori la questione dello studio sul sudore degli indigeni cui il governo aveva destinato cinquemila dollari - riesce a individuare solo un quarto del grasso che cola.» «Davvero avete stanziato cinquemila dollari per studiare il sudore degli indigeni?» mi fa lui. «Non c'è niente da ridere. Il mese scorso gli scienziati hanno annunciato una scoperta sensazionale nella cura della meningite, e indovina un po' che cosa aveva dato origine alla svolta nelle ricerche?» «Il sudore indigeno.» «Esatto, proprio così. Pensaci, la prossima volta che i giornali ti raccontano di fondi stanziati per far piacere a qualcuno.» «Starò in guardia», fa Harris. «Hai preparato tutto?» Infilo la mano nella tasca della giacca, tiro fuori una busta bianca formato lettera e ne controllo il contenuto per la settima volta. Nella busta ci sono due assegni circolari, uno di 4000 dollari, l'altro di 8225. Il primo è di Harris, l'altro è mio. Pronti per l'incasso. Assolutamente anonimi. Nessuna tracciabilità. «È tutto qui davanti ai miei occhi», dico, sigillando la busta bianca e infilandola dentro un'altra busta più grande color manila. «Non sono ancora passati a ritirare?» chiede Harris. «Di solito lo fanno entro mezzogiorno.» «Non ti innervosire. Saranno qui a...»
Dalla porta dell'ufficio semiaperta giunge un piccolo colpo di tosse beneducato. «Sto cercando Matt», dice un fattorino di colore schiarendosi la voce e facendo un passo avanti. «...momenti», concludo la frase con Harris. «Ora devo andare, gli affari mi chiamano.» Riaggancio e faccio cenno al fattorino di entrare. «Sono io. Vieni, entra.» Mentre si avvicina alla mia scrivania noto che indossa un abito blu intero invece della solita giacca blu con i pantaloni grigi. Chiaramente non è un fattorino della Camera: al Senato perfino i fattorini sono più eleganti. «Come va?» gli faccio. «Abbastanza bene. Solo un po' stanco di tutto questo camminare.» «È una bella tirata dal Senato fino a qui, vero?» «Io vado dove mi dicono di andare, non ho molta scelta», ride lui. «Allora, è vero che ha una busta per me?» «Eccola.» Sigillo la busta esterna, ci scarabocchio sopra PERSONALE e gliela tendo al di sopra del tavolo. Diversamente dai fattorini che si sono avvicendati in questi giorni, questo non deve consegnare ma prelevare. Il giorno dopo le scommesse bisogna coprire le puntate. «Allora, sai già dove la devi portare?» faccio io, sempre a caccia di informazioni. «In guardaroba», risponde il ragazzo. «Qualcuno verrà a prenderla lì.» Mentre allunga la mano per prendere la busta noto che all'indice porta un anello d'argento. Strano: pensavo che ai fattorini non fosse permesso portare gioielli. «Che cos'è quella? Una volpe impagliata?» mi fa il ragazzo indicando con il mento la libreria. «È un furetto. Omaggio della NRA.» «Di chi?» «Della NRA, l'Associazione della caccia...» «Sì, sì... avevo capito un'altra cosa», m'interrompe lui passandosi la mano sui capelli crespi. L'anello all'indice cattura un raggio di luce. Il ragazzo sorride mostrandomi una fila di denti bianchi e sani. Rispondo al suo sorriso. Ed è proprio allora che mi colpisce un pensiero: sto per affidare a un perfetto sconosciuto la bellezza di dodicimila dollari. «Arrivederci!» canticchia lui, afferrando la busta e attraversando di gran carriera l'anticamera dell'ufficio. È già scomparso oltre la soglia. La scommessa è ufficialmente valida.
Rimango lì come un cretino a guardare la schiena di un ragazzo che si allontana. Non è una bella sensazione. E non soltanto perché il fattorino si è portato via tutti i soldi che ho e tutti quelli del mio migliore amico. È una sensazione primordiale, la sento nell'ultima vertebra della spina dorsale. Come quando guardi in un visore stereoscopico tridimensionale con un occhio chiuso: non c'è niente di sbagliato, ma non è neanche del tutto giusto. Scocco un'occhiata a Dinah, che è ancora attaccata al telefono. Manca mezz'ora alla ripresa del match di pugilato con Trish. Più che sufficiente per fare una corsa fino al guardaroba del Senato e assicurarmi che tutto vada per il verso giusto. Salto su dalla sedia e giro attorno alla scrivania. La curiosità non ha mai fatto male ai gatti: perché dovrebbe farne a me? «Dove vai?» mi domanda Dinah vedendomi schizzare fuori dall'ufficio. «A mangiare qualcosa. Se Trish ricomincia a rompere, dille che non starò via molto...» Dinah mi fa un cenno affermativo e io attraverso di corsa l'anticamera. Il fattorino non può avere più di trenta secondi di vantaggio. Esco dall'atrio, svolto l'angolo del corridoio e vado verso l'ascensore. Poi lo vedo: è una trentina di metri davanti a me, e cammina dondolando le braccia lungo i fianchi. Con la più bella spensieratezza del mondo. Sento scricchiolare sotto i suoi piedi il pavimento di graniglia e penso che voglia tornare nell'ala del Senato con il tapis roulant sotterraneo. Invece, con mia grande sorpresa, lo vedo svoltare a destra e tuffarsi giù per le scale. Lo seguo mantenendo la distanza di sicurezza e passo davanti a due agenti della polizia capitolina impegnati a radunare il gregge dei visitatori e dei dipendenti e a farlo passare attraverso i raggi X e il metal detector. Davanti a me, la porta di vetro che dà su Independence Avenue si richiude dietro al fattorino. Il sotterraneo sarebbe più veloce: perché diavolo è uscito? Mi apro faticosamente un varco fino alla porta e scendo rapidamente la scalinata esterna: il comportamento del fattorino non mi sembra più tanto irragionevole. Il marciapiede è affollato di impiegati e funzionari che tornano al lavoro dopo la pausa pranzo. La giornata settembrina è coperta, ma non fredda. Se non ha fatto altro che aggirarsi per corridoi fin dal mattino presto, probabilmente ha bisogno di una boccata d'aria fresca. E poi ci sono parecchi viali che tagliano attraverso il Campidoglio. Mentre mi ripeto queste parole lo vedo arrivare alla fine dell'isolato. Cinque passi dopo si infila la mano nella tasca dei pantaloni e ne tira fuori un cellulare. Forse è per questo che è uscito, all'aperto i cellulari prendono meglio. Ma poi, mentre si porta il telefono all'orecchio, il ragazzo fa qual-
cosa che mi lascia del tutto sbalordito. All'angolo fra Independence e South Capitol dovrebbe semplicemente svoltare a sinistra e attraversare la strada. Lui invece si ferma un attimo e svolta a destra. Allontanandosi dal Campidoglio. Il pomo d'Adamo mi si gonfia in gola. Dove sta andando? 6. All'angolo fra Independence e South Capitol il fattorino si volta per controllare di non essere seguito. Mi nascondo tra un drappello di impiegati del Campidoglio, maledicendo per l'ennesima volta la mia statura. Non mi ha visto. Sono abbastanza lontano da passare inosservato. Quando oso fare capolino oltre la testa della gente, il fattorino è scomparso dietro un angolo. Mi metto a correre verso l'incrocio, con le scarpe che martellano sul marciapiede. In quel punto Independence Avenue assume una certa pendenza. Che però non basta a rallentarmi. Sporgo cautamente la testa da dietro l'angolo. Il fattorino è già a metà di South Capitol. Cammina svelto. Sta ancora parlando al cellulare, ma evidentemente sa benissimo dove andare. Nel dubbio decido di dar retta al mio istinto. Tiro fuori il cellulare e faccio il numero di Harris. Mi risponde la segreteria telefonica: forse è impegnato in un'altra conversazione, oppure è andato a mangiare. Richiamo, sperando che mi risponda il suo assistente. Non lo fa. Provo a convincermi che tutto sta andando per il verso giusto. Forse è proprio così che i dungeon-master fanno funzionare il gioco, forse l'ultima busta viene sempre recapitata fuori dal campus. Magari c'è qualcosa di simile a una casa-base. Anzi, più ci penso più mi sembra probabile. Ma questa riflessione non mi aiuta a inghiottire l'amara pillola della realtà. Quel ragazzo ha in tasca tutti i nostri soldi. Voglio sapere dove sta andando. Alla fine dell'isolato il fattorino prende a sinistra e imbocca la C Street, sparendo quasi subito dietro un altro angolo. Continuo a seguirlo, abbassandomi dietro ogni impiegato che incrocio. Qualsiasi cosa, purché mi tolga dal suo campo visivo. Quando svolta in New Jersey Avenue sono ancora dietro di lui, a una quarantina di metri. Il ragazzo continua a camminare chiacchierando al telefonino. Di impiegati del Congresso dietro cui nascondermi ormai non ne incrocio più. Quello che stiamo attraversando è il settore residenziale del
colle del Campidoglio, case di mattoni schiacciate accanto ad altre case di mattoni. Cammino sull'altro marciapiede e fingo di cercare la mia auto. Come scusa non è un granché, ma almeno se si volta non dovrebbe notarmi. L'unico problema è che più ci addentriamo nel quartiere, più tutto cambia attorno a noi. Dopo nemmeno due minuti le casette di mattoni e i viali orlati di tigli sono sostituiti da recinzioni di filo di ferro e vaste aree coperte di cocci di bottiglia. Un'auto parcheggiata in divieto ha le ruote anteriori bloccate da una morsa di metallo giallo. In mezzo alla strada c'è una jeep abbandonata: sul parabrezza posteriore una sassata ha creato un mosaico ovale di schegge. È una delle grandi ironie del Campidoglio, in teoria da lì si dovrebbe governare il paese, ma in realtà non arriviamo a controllare nemmeno tutto il quartiere. Davanti a me, in diagonale rispetto alla strada, il fattorino ha ancora il cellulare incollato all'orecchio. È troppo lontano per sentire cosa dice, ma la sua andatura è cambiata: adesso cammina trascinando leggermente i piedi, con il corpo che a ogni passo rimbalza un po' sulla destra. Cerco di ricordare il ragazzo beneducato che, a meno di cinque isolati da qui, tossicchiava per attirare la mia attenzione. Questo qui non gli somiglia nemmeno. Il fattorino continua a ballonzolare battendo ritmicamente sulla coscia la busta color manila con dentro tutti i nostri soldi. Cammina senza esitazioni. Per me questo è un quartiere malfamato, ma lui sembra a casa sua. Più avanti la strada sale ancora un po', poi ridiventa piana proprio sotto il cavalcavia della I-395, che l'incrocia perpendicolarmente. Il fattorino punta dritto verso il sottopassaggio, e prima di imboccarlo si gira ancora una volta per controllare di non essere seguito. Mi acquatto dietro una Acura nera, ma nel farlo colpisco con la spalla lo specchietto esterno che cigola forte. Accidenti! Chiudo gli occhi. Improvvisamente il silenzio della strada è trafitto dall'antifurto dell'Acura, una sirena bitonale che sembra quella della polizia. Mi butto sul marciapiede pancia a terra, mi trascino sui gomiti nello spazio davanti all'auto e prego che il ragazzo non ci faccia caso. In un quartiere come questo gli allarmi delle auto suonano in continuazione. Rimango lì con tutto il peso del corpo appoggiato sui gomiti, che si infradiciano subito. Dall'odore capisco di essere sdraiato in una pozzanghera d'olio di motore. Il vestito sarà da buttare: ma per il momento questo è l'ultimo dei miei problemi. Conto fino a dieci e scivolo lentamente all'indietro per tornare sul marciapiede. L'allarme non la finisce più di ululare. Adesso
sono dalla parte del passeggero, e mi nascondo dietro l'auto tenendo bassa la testa. L'ultima volta che l'ho visto era davanti a me, sull'altro marciapiede. Alzo cautamente la testa e do una sbirciatina veloce. Nessuno. Allungo il collo in ogni direzione. Se n'è andato. Con i nostri soldi. Travolto da un'onda di panico vorrei buttarmi verso il sottopassaggio, ma ho visto troppi film gialli per non sapere che quando si corre alla cieca si finisce sempre nelle braccia di qualcuno acquattato nell'ombra. Percorro il resto dell'isolato a piccoli passi prudenti, piegato in due. Le auto parcheggiate lungo il marciapiede possono nascondermi fino al sottopassaggio, ma ciononostante non sono tranquillo. Sento il cuore battermi all'impazzata contro le costole. Ho la gola così secca che non riesco quasi a deglutire. Auto dopo auto conquisto ogni singolo centimetro che mi separa dal cavalcavia. Più mi avvicino più sento crescere il sordo brontolio del traffico sulla 395, che copre ogni altro suono. Da sinistra proviene un piccolo rumore metallico: una lattina di birra vuota che rotola dal piano inclinato del cavalcavia e s'infila nel sottopassaggio. Sto per mettermi a correre quando un piccione si alza in volo da chissà dove con un rapido frullar d'ali. L'uccello esce dal sottopassaggio e scompare nel cielo grigio. Nonostante le nubi che si affollano sopra la mia testa qui fuori c'è molta luce, è passato da poco mezzogiorno, mentre sotto il cavalcavia l'ombra è fitta e scura come in una foresta. Esco allo scoperto davanti a una Cutlass marrone e il segnale di divieto di sosta mi comunica che d'ora in poi non ci sarà più niente dietro cui nascondersi. Entro nel sottopassaggio, frugo con gli occhi l'ombra fresca sotto l'arcata e cerco di convincermi che là dentro non c'è nessuno. Il ronzio del traffico mi passa veloce sulla testa: ogni auto che imbocca il cavalcavia produce un rumore come di vespe che sciamano. Ma lì sotto ci sono soltanto io. Mi guardo indietro, rifacendo con gli occhi la strada che ho appena percorso. Nessuno. Sono completamente solo. In un quartiere sconosciuto. E nessuno sa dove mi trovo. Ma che diavolo sto facendo, sono impazzito? Giro sui tacchi per tornare indietro. Per quel che mi riguarda può tenerseli, i soldi. Non valgono la mia vi... In lontananza si sente uno piccolo schiocco ovattato, come di dadi lanciati su un tavolo da gioco. Faccio dietrofront e decido di seguire quel suono, sempre più avanti. All'altro estremo del sottopassaggio per il momento non si vede ancora niente. Di nuovo quello schiocco. Con un balzo mi nascondo dietro uno dei grandi pilastri di cemento che reggono il cavalcavia.
Lassù lo sciame di vespe continua a ronzare, ma io cerco di sintonizzare l'udito su quel rumore di dadi, più avanti e più in basso rispetto al punto in cui mi trovo. Ancora non riesco a vedere niente. Schizzo dietro al pilastro successivo, addentrandomi sempre di più nel sottopassaggio. Un altro dado che rotola sul tavolo. A un certo punto, sporgendo un po' la testa da dietro la rotondità del pilastro, riesco a vedere qualcosa: oltre l'imboccatura del cavalcavia, una nuova fila di auto avanza lentamente accanto al marciapiede. Ma la fonte del rumore non sembra essere proprio in linea retta davanti a me. Un po' sulla sinistra, piuttosto. A un certo punto dell'isolato un avvallamento nel marciapiede conduce a un vicolo di ghiaia. In fondo al vicolo, un vecchio cassone dei rifiuti arrugginito. È proprio da lì che viene il rumore. Dadi che rotolano sul tavolo da gioco, oppure sassolini calciati da qualcuno col piede. Vedo il fattorino camminare sulla ghiaia del vicolo, poi, all'improvviso, si sfila la giacca, si strappa via la cravatta e le fa volare nel cassone dei rifiuti. E senza fermarsi, si volta e torna indietro. Sembra felice di essersi liberato dell'uniforme. Mi sento il pomo d'Adamo come una palla di gommapiuma piantata in mezzo alla gola. Il ragazzo torna rapidamente sulla strada, sempre calciando sassolini da tutte le parti, e riprende a camminare lungo l'isolato battendosi la busta sulla coscia. Comincio a domandarmi se sia davvero un fattorino del Campidoglio. Ma come ho potuto essere tanto stupido? Non ho nemmeno letto il suo nome sul... ...tesserino di riconoscimento. Quello con il nome. Che portano sul risvolto della giacca. Getto un'occhiata al camion della spazzatura, poi di nuovo al fattorino che arriva alla fine dell'isolato, svolta a sinistra e sparisce. Gli concedo una manciata di secondi per riaffacciarsi da dietro l'angolo e guardarsi alle spalle. Non lo fa. È il mio momento. Nonostante il vantaggio che ha su di me posso ancora riacchiapparlo, ma prima... Balzo fuori da dietro l'ultimo pilastro e raggiungo il marciapiede, lasciandomi definitivamente alle spalle il buio del sottopassaggio. Entro nel vicolo e vado dritto al cassone dei rifiuti. È molto alto, nonostante la mia statura non riesco a guardarci dentro. Per fortuna su una delle pareti c'è un'ammaccatura, appena sufficiente a darmi un punto d'appoggio. Tanto ormai il vestito è rovinato. Con un brusco strappo delle braccia mi sollevo fino al bordo del casso-
ne, poi faccio dondolare una gamba e l'infilo dentro, col piede penzoloni. È come stare seduti sul bordo di una piscina, solo più sporco. Dall'interno proviene un tanfo aspro, nauseabondo. Mi guardo attorno ancora una volta. Poco lontano c'è un edificio rosa con un'insegna al neon: PLATINUM GENTLEMAN'S CLUB. Nessuno in vista. Evidentemente in questo quartiere c'è vita solo di notte. Abbasso gli occhi sulla montagna di sacchi della spazzatura e salto giù con un rumore ovattato. I piedi mi sprofondano nella plastica. Invece degli scricchiolii secchi che mi sarei aspettato sento uno schifoso cic-ciac, e le scarpe mi si riempiono subito di liquame che i calzini assorbono come spugne. Dentro il cassone fino al petto, cerco di convincermi che si tratta semplicemente di birra. Tenendo le braccia in alto e facendo bene attenzione a non toccare nulla, avanzo faticosamente verso l'altro angolo del cassone. Identifico la giacca blu marine del fattorino, la recupero dall'immondizia e cerco sul risvolto il tesserino con il nome. FATTORINO DEL SENATO VIV PARKER È un nome femminile: che ci fa sulla giacca di un ragazzo? Stacco il tesserino dalla giacca e l'osservo in cerca di qualche altro indizio. Niente di niente. Solo normalissima plastica. Una portiera d'auto sbatte in lontananza. Mi volto automaticamente da quella parte, ma com'è ovvio non vedo niente oltre all'interno sagomato del cassone dei rifiuti. È ora di uscire di qui. Il tesserino con il nome ce l'ho in mano: la giacca me la butto sulla spalla e mi afferro al bordo del cassone. Con un piccolo salto riesco a darmi abbastanza slancio da issarmi con le braccia. I piedi grattano la fiancata interna, scivolano, lottano per trovare un appiglio. Un'ultima spinta ed ecco che posso appoggiarmi con lo stomaco al bordo del cassone. Oscillo un po' avanti e indietro. Da qualche parte si sentono stridere le gomme di un'auto, ma nella posizione in cui mi trovo non posso nemmeno alzare gli occhi per guardare. Come una recluta alle prese con il muro di un percorso a ostacoli al campo d'addestramento, volteggio sul bordo del cassone e atterro sui due piedi, la faccia rivolta verso il camion. E proprio mentre tocco terra, dietro di me si sente un motore che sale di giri. Una mitragliata di sassolini colpisce il cemento del marciapiede. È vicinissimo, all'imbocco del vicolo. Ancora gomme che
stridono. Mi volto rapidamente verso la fonte di quei rumori, e con la coda dell'occhio vedo un radiatore muoversi verso di me. Mi sta venendo addosso. La Toyota nera mi colpisce alle gambe schiacciandomi contro il cassone dei rifiuti. La mia testa viene proiettata in avanti, contro il cofano. Sento un lugubre scricchiolio, come quando si butta sul fuoco un ciocco ben stagionato. Sono le mie gambe che si rompono. Urlo di dolore. L'osso va in mille pezzi, e mentre l'auto spinge contro il cassone si sente uno stridere di metallo contro metallo, con me in mezzo. Le mie gambe... ho il bacino in fiamme, penso si sia spaccato in due. Poi, improvvisamente, il dolore scompare. Divento insensibile. Il tempo si congela in una moviola deforme. Tutto il mio corpo è sotto shock. «Che diavolo ti ha preso?» grida una voce maschile da dentro l'auto. Un rivolo di sangue mi esce dalla bocca e scorre attraverso il cofano della Toyota. Ti prego, Signore, fa ch'io non svenga... Con l'occhio sinistro vedo solo una luce rossa, brillante. Faccio appello alle ultime forze per sollevare la testa e guardare attraverso il parabrezza. C'è solo una persona, là dentro... un ragazzo, saldamente ancorato al volante. È il fattorino che si è preso i nostri soldi. «Non dovevi far altro che rimanere dov'eri!» grida ancora, picchiando il pugno sul volante. Poi grida qualcos'altro, ma le parole mi arrivano smorzate... tutto è ingarbugliato, confuso... come quando cerchi di gridare sott'acqua. Vorrei pulirmi la bocca dal sangue, ma il braccio penzola inerte lungo il fianco. Continuo a fissare il fattorino attraverso il parabrezza, non so da quanto tempo sta gridando. Tutt'attorno c'è un grande silenzio. Sento solo il mio respiro rotto, ansimante, come un sibilo umido che si trascina carponi su per la gola. Mi dico che finché respiro va tutto bene, giusto? Ma come mi disse papà la prima volta che andammo in campeggio insieme, gli animali lo sanno quando stanno per morire. Dietro al parabrezza, il fattorino ingrana la retromarcia. La Toyota mi scivola via da sotto il petto. Artiglio selvaggiamente il cofano cercando di afferrarmi ai tergicristalli... alla grata del radiatore... a una cosa qualsiasi. Non ho alcuna possibilità. Il ragazzo dà gas e l'auto balza indietro, facendomi scivolare giù dal cofano. Cado contro il cassone dei rifiuti, mentre le ruote della Toyota girano all'impazzata gettandomi un piccolo uragano di polvere e sassi negli occhi e nella bocca. Faccio un tentativo di restare in piedi, ma non sento niente. Le gambe mi cedono, e il resto del corpo le se-
gue nella polvere. Arrivata in fondo al vicolo l'auto inchioda. Ma non se ne va. Non capisco. Alzo l'occhio buono verso il parabrezza e vedo il fattorino scrollare rabbiosamente la testa. Si sente un piccolo rumore meccanico. Ha innestato la prima. Dio mio. Il ragazzo dà gas, il motore urla, le gomme mordono il pietrisco del vicolo. Il radiatore arrugginito della Toyota nera mi piomba addosso. Prego perché si fermi, ma non lo fa. Un tremito mi percorre tutto il corpo mentre mi stringo convulsamente alla base del cassone dei rifiuti. L'auto avanza come un tuono. M-mi dispiace di averti coinvolto in questa storia, Harris... Recito una preghiera silenziosa, chiudo gli occhi e cerco di visualizzare il Merced River dello Yosemite Park. 7. «Morto? Cosa significa, morto? Come può essere morto?» «È quel che succede quando si smette di respirare.» «Lo so cosa vuol dire, stronzo!» «E allora non fare domande idiote.» L'uomo elegante si lasciò cadere sulla poltrona. Avvertiva come una dolorosa contrazione ai polmoni. «Avevi detto che nessuno si sarebbe fatto male», farfugliò, raddrizzando nervosamente il filo di ferro di una graffetta e reggendo la cornetta del telefono fra il mento e la spalla. «Sono parole tue...» «Non è stata colpa mia», disse Martin Janos all'altro capo della linea. «Ha seguito il nostro fattorino fuori dal Campidoglio, e il ragazzo s'è fatto prendere dal panico.» «Non era una buona ragione per ammazzarlo!» «Ah, no?» fece Janos. «Avresti preferito che lo lasciasse arrivare fino al tuo ufficio?» L'uomo elegante non rispose, giocherellando con la graffetta srotolata. «Per l'appunto», concluse Janos. «Harris lo sa?» domandò ancora l'uomo elegante. «L'ho appena saputo io stesso, sto andando là.» «E la scommessa?» «Matthew ha fatto in tempo a inserire la questione nel bilancio. L'ultima cosa intelligente che ha fatto.» «Non mi pare il caso di prenderlo in giro, Janos.» «Oh, hai dei rimorsi, adesso?»
Ancora una volta l'uomo elegante non rispose. Ma pensò che sì, ne avrebbe avuto rimorso per il resto dei suoi giorni. 8. Fermo sulla ghiaia del vicolo Janos guardò in giù verso il corpo spezzato di Matthew Mercer, accartocciato ai piedi del cassone dei rifiuti. Era soprattutto l'innaturale curvatura delle gambe all'altezza delle cosce a ipnotizzarlo. E il modo in cui la mano destra si protendeva ancora per afferrare qualcosa che non avrebbe mai raggiunto. Janos scrollò la testa: bel casino. Una cosa stupida e violenta. La situazione si sarebbe potuta sistemare in altro modo. S'infilò le mani in tasca. Il sole pomeridiano gli scaldava la piccola zona calva tra i capelli brizzolati. Addosso aveva un giubbotto giallo e blu con il logo dell'FBI. Qualche anno prima il Dipartimento di giustizia aveva dichiarato che dagli arsenali dello stato risultavano mancanti quasi 450 armi immatricolate all'FBI, soprattutto pistole, revolver e fucili. Chiunque le avesse prese evidentemente le considerava preziose, pensava Janos, ma a suo parere non c'erano armi che valessero un giubbotto come quello, arraffato durante una partita degli Orioles tra la folla che festeggiava un home run. La polizia capitolina non ci avrebbe trovato niente da ridire se un simpatico agente dell'FBI gironzolava per il quartiere. «Ma dove cazzo eri finito?» gridò una voce dietro di lui. Janos si guardò sopra una spalla e riconobbe la Toyota nera, con il radiatore ammaccato. Quando l'auto si fermò sul cordolo del marciapiede, Janos passò dalla parte del conducente e si affacciò dentro dal finestrino. Lo specchietto esterno non c'era. Schioccò la lingua contro il palato, senza dire nemmeno una parola. «Non guardarmi così!» gli disse il ragazzo agitandosi sul sedile, evidentemente a disagio. La spavalderia di cui aveva fatto sfoggio quando era vestito da fattorino del Congresso sembrava svanita. «Lascia che ti faccia una domanda, Toolie. Tu ti consideri un ragazzo intelligente?» Travon «Toolie» Williams annuì, esitante. «S-sì... credo di sì.» «È per questo che ti abbiamo assunto, vero? Perché ti comportassi in maniera intelligente e restassi nella parte.» «Ehm... sì.» «Voglio dire, sennò perché avremmo preso un diciannovenne?»
Non sapendo bene cosa rispondere, Toolie si strinse nelle spalle. Janos non gli piaceva affatto. E men che meno quando aveva quell'espressione. Janos guardò attraverso l'abitacolo della Toyota e attraverso il finestrino del passeggero il cadavere di Matthew. Poi spostò gli occhi su Toolie. «Non mi avevi detto che avrebbe potuto seguirmi...» attaccò Toolie. «Non sapevo che cazzo fare!» «Ce li hai, i soldi?» lo interruppe Janos. Toolie allungò la mano sul sedile del passeggero e prese la busta con i due assegni circolari, porgendola a Janos con mano tremante. «È tutto qui, ho fatto proprio come mi avevi detto. E non sono tornato all'ufficio, nel caso qualcuno mi avesse seguito.» «Fantastico. Hai fatto benissimo», fece Janos. «E la giacca, dov'è?» Toolie si sporse verso il sedile posteriore e gli passò la giacca blu da fattorino. Janos vide che era zuppa di sangue, ma preferì non fare commenti. Ormai il guaio era fatto. «C'è qualcos'altro che dovrei sapere?» Toolie fece cenno di no con la testa. Janos annuì vagamente, poi gli diede una pacca sulla spalla. Forse, nonostante tutto, le cose si sarebbero aggiustate. Interpretando quel gesto come indizio di una svolta positiva, Toolie raddrizzò la schiena e prese fiato. Poi Janos infilò la mano in tasca e tirò fuori una scatoletta nera simile a una grossa calcolatrice. «Hai mai visto uno di questi?» domandò. «No. Cos'è?» Janos premette un interruttore sul fianco della scatoletta che emise un leggero ronzio, come quando si accende una radio. Poi azionò una rotella e alla base dello strumento scattarono in fuori due aghi lunghi circa cinque centimetri, come due piccole antenne. Più che sufficienti a passare attraverso i vestiti, pensò Janos. A questo punto, tenendo la scatoletta nera come un walkie talkie, Janos tirò indietro il braccio e con un movimento brusco la premette in mezzo al petto di Toolie. «Ahia!» strillò il ragazzo, sentendo la punta dei due aghi graffiargli la pelle. E con uno spintone cercò di togliersi quella cosa dal petto. «Che cazzo fai, stronzo?» Janos abbassò gli occhi sulla scatoletta e spense l'interruttore. «Adesso lo vedrai...» Con sua stessa sorpresa, Toolie si sentì emettere un grugnito involontario.
Poi vide Janos sorridere e sì guardò il petto. Senza servirsi dei bottoni strappò violentemente la camicia e abbassò lo scollo della maglietta per mettere a nudo la pelle. Non si vedeva alcun segno. Nemmeno un forellino. Era proprio per questo che piaceva a Janos. Nessuna traccia. In piedi accanto alla Toyota, Janos guardò l'orologio. Tredici secondi era il tempo minimo. Quindici la media. «Cosa mi sta succedendo?» gridò Toolie. «Il tuo cuore cerca di battere il record delle 3600 pulsazioni al minuto», rispose Janos. A questo punto Toolie si afferrò il lato sinistro del petto, e Janos lo guardò piegando di lato la testa. Si afferrano sempre a quel modo, anche se il cuore non è affatto lì. Fanno tutti lo stesso errore, pensò. Perché è lì che lo sentiamo battere. Lui invece sapeva che il cuore si trova proprio al centro del petto. «Io ti ammazzo!» esplose Toolie. «Ti ammazzo, figlio di...» Ma la bocca gli si afflosciò, e il corpo cadde sul volante come un pupazzo di stoffa quando si toglie la mano. Quindici secondi esatti, pensò Janos, ammirando la precisione del suo manufatto casereccio. Divertente. Sapendo che ci vuole la corrente alternata per mandare in fibrillazione il cuore, bastavano otto pile AA, un convertitore da quattro soldi di quelli che si usano per le radio e un interruttore per trasformare i 12 volt delle pile a corrente continua in 120 volt di corrente alternata. Se a ciò si aggiungono due aghi collocati alla distanza giusta per risultare uno di qua e uno di là dal cuore... ffzzz... una sedia elettrica portatile. L'ultima cosa che il medico legale si prenderà la briga di controllare. E anche se un dottore particolarmente scrupoloso volesse dare un'occhiatina al cuore, prendendo la precauzione di agire velocemente e senza lasciare bruciature elettriche non ci sarà niente da trovare. Janos prese dalla tasca dei pantaloni un paio di guanti di lattice, li infilò e si guardò attorno. Fili spinati... macchine... cassone dei rifiuti... locale di strip-tease. Tutto a posto. Perlomeno questo cretino ha scelto un quartiere adatto. Ciononostante, meglio sparire alla svelta. Janos aprì la portiera del conducente, afferrò saldamente la testa di Toolie e gli sbatté la faccia contro il volante. Poi lo fece ancora, e ancora una volta, finché il naso del ragazzo non si spezzò e il sangue cominciò a scorrere. Riappoggiata la testa di Toolie contro lo schienale, Janos esercitò una decisa pressione contro il lato destro del volante, piegandolo un po'. Poi si
sporse all'interno dell'abitacolo, appoggiò un gomito alla spalla del ragazzo e guardò attraverso il parabrezza, tutto doveva essere perfettamente allineato. A questo punto si avvicinò al cassone dei rifiuti, trovò un blocco di calcestruzzo, lo prese e lo portò verso l'auto. Peso e dimensioni erano proprio quelli giusti. Mise la Toyota in folle, si piegò sotto il cruscotto e mise il pezzo di mattone sul pedale dell'acceleratore. Accese il motore, che andò subito su di giri, e lo lasciò girare per qualche secondo. L'auto fremette, scrollando il corpo riverso di Toolie. Perfetto, pensò Janos. Inserì con un colpo della mano la retromarcia e saltò subito indietro, rimanendo a osservare la dinamica del suo piano. Le gomme slittarono sul cemento del marciapiede e l'auto schizzò via come una schioppettata. Giù dal marciapiede... in mezzo alla strada... dritta contro un palo del telefono. Senza perdere tempo a contemplare la sua opera Janos tornò al cassone dei rifiuti e s'inginocchiò accanto al corpo di Matthew, già pallido. Tolse dal proprio portafoglio cinquecento dollari, li arrotolò stretti e glieli infilò in tasca. Così si sarebbe spiegato cos'era andato a fare da quelle parti. C'è una sola ragione per cui un giovanotto bianco in completo scuro può inoltrarsi in un quartiere del genere: droga. Trovandogli addosso i soldi, i poliziotti avrebbero scartato l'aggressione a scopo di rapina. La Toyota accartocciata attorno al palo del telefono avrebbe spiegato il resto. Un tipo viene investito sul marciapiede; l'investitore si lascia prendere dal panico e, nel tentativo di fuggire, fa la stessa fine della sua vittima. Nessuno a cui dare la caccia. Niente su cui investigare. Il solito pirata della strada. Janos prese il cellulare, compose un numero e aspettò di sentire la voce del suo capo. Fare rapporto era sempre la parte più rognosa. Così vanno le cose, quando si lavora sotto un padrone. «Tutto a posto», disse, piegandosi per togliere il mattone dalla Toyota. «E adesso dove vai?» Janos si pulì le mani sui pantaloni e guardò la busta. Accanto al nome di Harris c'era scritto il numero del suo ufficio. «Russell Building, stanza numero 427.» 9. Harris «Allora, si sente pronto?»
«Harris, sei sicuro che sia la cosa giusta da fare?» domanda il senatore Stevens. «Affermativo», rispondo, controllando ancora una volta l'elenco delle telefonate. «Edward, si ricordi di non chiamarlo Ed. Edward Gursten. La moglie si chiama Catherine. Sono di River Hills, e hanno un figlio che si chiama Dondi.» «Dondi?» «Dondi», ripeto. «Lei ha incontrato Edward l'anno scorso in aereo, in prima classe.» «Ed è un americano orgoglioso?» Americano orgoglioso: nel nostro codice significa che ha scucito almeno dieci testoni per la campagna elettorale. «Estremamente orgoglioso», rispondo. «È pronto?» Stevens annuisce. Completo il numero di telefono con l'ultima cifra e sollevo la cornetta. Se fossi un novizio direi: Buongiorno, signor Gursten, sono Harris Sandler, capo dello staff del senatore Stevens. Le passo subito il senatore. Invece, non appena Gursten risponde passo il ricevitore direttamente a lui. Un tempismo perfetto e un bel gesto di riguardo. Così il finanziatore penserà che il senatore l'abbia chiamato personalmente, e potrà crogiolarsi nella calda sensazione di essere un suo vecchio amico. Stevens attacca con i soliti convenevoli, mentre io mi ficco in bocca un pezzo di hamachi. Sushi e sollecitazioni, il tipico pranzo di lavoro del senatore. «Ehilà, Ed!...» lo sento cinguettare, e scrollo la testa con riprovazione. «Dove diavolo sei stato durante i miei ultimi dodici voli? Ti hanno relegato in classe economica?» Il lancio è out, ma funziona lo stesso a meraviglia. Una telefonata personale del senatore conquista sempre la prima base. E quando dico base intendo portafoglio. «Eri qui? A Washington?» fa Stevens. «La prossima volta che capiti dalle nostre parti dammi un colpo di telefono, che mangiamo un boccone insieme...» Traduzione: Non c'è la minima possibilità che noi due si mangi qualcosa insieme. Tutt'al più potrò concederti cinque minuti. Ma se quest'anno la tua sottoscrizione non diventa un po' più corposa, la prossima volta parli con il capo dello staff e ti accontenti del loggione. «...Così ti facciamo vedere il Campidoglio, non vorrai infilarti in una di quelle code che non finiscono mai...»
Il mio staff ti affiderà a un impiegato con cui farai esattamente lo stesso giro delle visite guidate, ma ti sentirai molto più importante. «Voglio dire, non bisogna trascurare gli amici, giusto?» Voglio dire, che ne pensi di sganciare qualche spicciolo, grassone? Incassato l'impegno verbale per una sottoscrizione di almeno quindicimila dollari, Stevens riattacca. Gli allungo un paio di sushi allo spada e passo alla telefonata successiva. Fino a qualche anno fa i contributi per la campagna elettorale venivano soprattutto da certi potenti wasp che il senatore incontrava durante ricevimenti eleganti organizzati in belle ville suburbane. Oggi invece si raccolgono grazie a una lista di telefonate preparata con cura e a una saletta privata al primo piano di un ristorante giapponese in Massachusetts Avenue. Un vero e proprio ufficio, con tre scrivanie, due computer e dieci linee telefoniche. Antiche ricchezze contro nuove strategie di marketing. Non è certo un segreto. Sul Colle non c'è un solo deputato o senatore che rifugga dalla pratica. Alcuni le dedicano tre ore al giorno, altri tre ore alla settimana. Stevens rientra nella prima categoria. Il lavoro gli piace, anche perché ne ricava benefici accessori cui tiene parecchio. È la prima regola del politico di professione: puoi fare quello che vuoi, ma se non hai i soldi non lo farai a lungo. «Chi è il prossimo?» mi fa Stevens. «Virginia Rae Morrison. L'ha conosciuta a Green Bay.» «Eravamo a scuola insieme?» «No, era una vicina di casa. Lei aveva nove anni», gli spiego, leggendo le note della mia lista. La legge federale proibisce di fare telefonate per la raccolta fondi dagli uffici o da qualsiasi altro telefono governativo, quindi ogni giorno, in vista delle elezioni, una buona metà dei membri del Congresso lascia il Campidoglio per fare le sue telefonate in santa pace da qualche altro posto. La maggior parte percorre tre o quattro isolati per appendersi ai telefoni del quartier generale democratico o repubblicano. I più furbi assumono un consulente per la raccolta fondi, un professionista che gli preparerà un database affidabile di sostenitori sicuri e potenziali alleati. Una dozzina di uomini politici particolarmente geniali, poi, si aggiudicano il top, Len Logan, talmente bravo che la sezione «commenti» della sua lista delle telefonate contiene informazioni come: «Reduce dalla chemioterapia per un cancro al seno». «Sì, certo, mi ricordo di lei», fa Stevens mentre il telefono mi squilla all'orecchio.
«Pronto...» risponde una voce femminile. Il senatore mi ripassa i sushi di spada; io gli ripasso la cornetta. Ormai lo facciamo con la perfetta sincronia di due ballerine classiche. «Ehilà, Virginia, come sta la mia lottatrice preferita?» Annuisco, sinceramente impressionato. Niente presentazioni quando si è amici di vecchia data. Mentre Stevens si concede due minuti di galoppata nelle verdi praterie dei ricordi, uno dei miei cellulari comincia a vibrare. Quello nel taschino destro lo paga l'ufficio del senatore. Quello nel taschino sinistro lo pago io. Pubblico e privato. Matthew dice sempre che nella mia vita questa distinzione non esiste. Quel che capisce è che, quando si ama il proprio lavoro come lo amo io, non può esistere. Controllo che Stevens ne abbia ancora per un po', poi infilo la mano nel taschino di sinistra e guardo il piccolo schermo del cellulare. Identità riservata. Come quasi tutte le persone che conosco. «Harris», rispondo. «Harris, qui è Cheese», fa il mio assistente con la voce rotta e un tono che non mi piace affatto. «Ecco, i-io... non so proprio come dirtelo... si tratta di Matthew. È...» «Matthew cosa?» «È stato investito da un'auto. È morto. Matthew è morto.» È come se ogni singolo muscolo del corpo mi si afflosciasse. Mi sembra che la testa mi si stacchi dal collo e cominci a fluttuare a mezz'aria. «Cosa?» «Posso dirti solo quello che hanno detto a me.» «Chi? Chi te l'ha detto?» faccio io, per risalire subito alla fonte. «Joel Westman, che l'ha saputo da un suo cugino che lavora alla polizia capitolina. Pare che qualcuno dell'ufficio di Carlin avesse dimenticato il pass d'accesso al parcheggio interno, e così ha dovuto lasciare la macchina là fuori, nella zona dei locali di strip-tease. E mentre tornava a prenderla ha visto i corpi...» «Perché, ce n'era più d'uno?» «Pare che lo stronzo che l'ha messo sotto, preso dal panico, abbia cercato di scappare, sia andato a sbattere contro un palo e sia morto sul colpo.» Mi fisso i piedi, ravviandomi i capelli con la mano. «Perché non hanno... Non posso crederci... Quando è successo?» «Non ne ho idea», balbetta Cheese. «Ho appena... ho appena ricevuto la telefonata. Harris, pare che Matthew fosse uscito per comprare della droga.»
«Droga? Impossibile...» Il senatore mi fissa, domandandosi cosa diavolo può essere successo. Fingo di non accorgermi di lui. Probabilmente non ci è abituato. Gli volto addirittura le spalle. Non me ne importa nulla. Si tratta di Matthew... Il mio amico... «Tutto bene?» mi fa Stevens vedendomi andare verso la porta con passo barcollante. Non gli rispondo. Apro bruscamente la porta e mi scaravento giù per le scale. «La cosa strana è che un tipo dell'FBI è venuto qui per parlare con te», aggiunge Cheese. Ho l'impressione che le pareti della scala mi si stringano addosso. Mi strappo via la cravatta, respiro a fatica. «Cosa?» «Ha detto che deve farti qualche domanda», spiega Cheese. «Vuole parlarti al più presto.» Il palmo della mano, sudato, mi scivola lungo il corrimano delle scale. Perdo l'equilibrio e passo volando sui primi tre scalini. Rinsaldo la presa e riesco a non cadere. «Harris, ci sei?» fa Cheese. Salto gli ultimi gradini e sono all'aperto. Ho bisogno di una boccata d'aria fresca. Ma non mi aiuta. Niente può più aiutarmi, ormai: il mio amico è morto. Gli occhi mi si riempiono di lacrime, le parole mi rimbalzano nel cranio. Il mio amico è morto. Non posso crederci... «Ti prego, Harris, di' qualcosa...» mi supplica Cheese nel cellulare. Stringo i denti, cercando di ricacciare le lacrime in gola. C'è qualcosa che non quadra. Setaccio la strada in cerca di un taxi. Non ne vedo nemmeno uno. Senza pensarci due volte mi metto a correre lungo l'isolato. Devo assolutamente saperne di più. I taxi di Union Station ci metterebbero un secolo, e io non ho tempo da perdere. «Harris...» mi chiama Cheese per la terza volta. «Dimmi solo dov'è successo.» «Harris, non fare pazzie...» «Dove diavolo è successo, dannazione?» «Dalle parti di New Jersey Avenue. Vicino a un locale di spogliarello.» «Ascoltami bene, Cheese: non devi dirlo a nessuno. Qui non si tratta di pettegolezzi d'ufficio... Matthew è un amico. Hai capito?» E riattacco senza lasciargli il tempo di rispondere. Giro l'angolo e passo
dal jogging alla corsa, poi accelero ancora. La cravatta mi sventola sopra la spalla come un cappio al collo. Quasi quasi preferirei che lo fosse. Mentre corro verso il sottopassaggio di New Jersey Avenue vedo in lontananza un vorticare di luci lampeggianti. Nel momento in cui realizzo che sono gialle invece che rosse, so di essere arrivato tardi. All'altezza di un vicolo ghiaioso c'è un carro attrezzi: la portiera del conducente sbatte rumorosamente e il motore comincia a girare, tossendo e sputacchiando. Sul pianale c'è una Toyota nera con la parte davanti tutta ammaccata. L'autista preme sull'acceleratore e il carro attrezzi si allontana verso la zona sudorientale di Washington. «Aspetti!» grido, inseguendolo lungo l'isolato. «Per favore, aspetti!» Non ho la minima possibilità di raggiungerlo. Nemmeno io sono così veloce. Sul pianale del carro attrezzi, il muso della Toyota è rivolto dalla mia parte. Corro, e mentre corro non riesco a distogliere gli occhi dal radiatore che mi ipnotizza con il suo ghigno fantasmatico. È un ghigno storto, con una profonda ammaccatura dalla parte del conducente. Come se avesse sbattuto contro qualcosa. Improvvisamente noto la sbavatura scura nella parte inferiore. Non contro qualcosa. Contro qualcuno. Matthew... «Aspetti! Aspetti!» Grido fino a che non mi brucia la gola. Ma non basta a cancellare l'altro dolore. Non c'è niente che possa farlo. È come se avessi un cavatappi piantato nel petto, e la ferita diventa più profonda ogni secondo che passa. Corro con tutte le mie forze, e intanto mi guardo attorno in cerca di qualcosa... qualcosa che dia un senso a tutto ciò. Ma non lo trovo. Ho le dita dei piedi contratte, che mi fanno male, e il cavatappi scava sempre più a fondo. Il carro attrezzi sbuffa un nuvolone di diesel bruciato e scompare in fondo alla strada. Mi fermo, ormai senza fiato. Accanto a me si apre un vicolo ricoperto di ghiaia: è qui che il carro attrezzi ha caricato la Toyota. Due settimane fa un pony express diciassettenne d'origine asiatica è stato travolto da un pirata della strada a pochi metri dalla porta di casa sua. I poliziotti hanno recintato la zona con il nastro bicolore e non hanno lasciato passare nessuno per almeno sei ore, mentre gli esperti prelevavano frammenti di vernice dagli altri veicoli coinvolti. Ansimante, piegato in due e in un bagno di sudore, controllo avanti e indietro tutto l'isolato. Del nastro bicolore nemmeno l'ombra. Chiunque abbia lavorato su questa scena del crimine... chiunque abbia dato l'ordine di ripulirla... ha già trovato tutte le
risposte. Nessun sospetto. Nessun indizio. Niente di cui preoccuparsi. Stupito e confuso do un calcio a un sassolino trovato sulla strada, che rimbalza sul selciato e va a sbattere con un piccolo clink! contro il muro di fronte. Accanto a un palo del telefono. Attorno alla base del palo ci sono ancora i frammenti dei fanali posteriori della Toyota, e alcune zolle di terra rivoltate nel punto in cui l'auto è stata trainata. Per il resto il palo non ha riportato danni. Guardo in su, verso i cavi: forse è un po' storto, di una decina di gradi circa. Non è difficile ricostruire la dinamica dei fatti. Sulla ghiaia, due solchi profondi indicano il punto in cui le ruote della Toyota hanno cominciato a slittare. Le tracce entrano dritte nel vicolo e finiscono davanti a un cassone dei rifiuti. Do un calcio a un altro sassolino, mandandolo a finire contro il cassone dei rifiuti. Con un suono del tutto diverso. Un suono vuoto. C'è un'ammaccatura sul fianco del cassone, e una pozza scura appena sotto. Cerco di impedirmi di guardare, ma... non ce la faccio. Mi chino e le do un'occhiata, esitando. Mi aspetto che sia rossa, come in uno squallido serial televisivo. Invece è nera. Una piccola pozzanghera nera, poco profonda. Tutto qui. È tutto ciò che resta. Lo stomaco mi fa una capriola, riempiendomi la gola di succhi gastrici. Stringo i denti per non vomitare. E provo ancora quella sensazione, come se la testa mi si staccasse dal collo e cominciasse a fluttuare a mezz'aria. Barcollo all'indietro, cerco di afferrarmi a qualcosa per restare in piedi ma non ci riesco. Cado all'indietro sulla ghiaia del vicolo, graffiandomi le mani sui sassi. Mi sembra di non riuscire più a muovermi. Rotolo su un fianco e finisco proprio davanti all'ammaccatura sul fianco del cassone. Fisso la pozzanghera nera. Tutt'attorno, solo sassolini e frammenti di cemento. Che cosa ci faccio qui? Pensavo che mi avrebbe fatto sentire meglio, e invece non è vero. Sdraiato per terra, con la guancia sulla ghiaia del vicolo, guardo sotto il cassone da una prospettiva rasoterra, quasi da formica. Se fossi più piccolo potrei nascondermi là sotto, infilarmi tra le carte di chewingum e le bottiglie rotte e... c'è un solo oggetto chiaramente fuori posto, sotto il cassone... una cosa che si nasconde là dietro, ed è visibile solo quando la luce la colpisce in un certo modo... Piego la testa da un lato, infilo il braccio sotto il cassone e tiro fuori un tesserino di plastica blu con una scritta bianca: FATTORINO DEL SENATO
VIV PARKER La bocca mi si spalanca senza volere. Sento un formicolio alla punta delle dita. C'è della polvere sulla scritta, ma va via con un soffio. Il cartellino è lucido, brillante, non può essere rimasto là sotto a lungo. Guardo l'ammaccatura, poi la pozzanghera nera. Forse ci è finito solo qualche ora fa. Forse... Dannazione! Se oggi Matthew è entrato in contatto con un fattorino del Senato, può essere stato per una ragione sola. Oggi era il gran giorno. La nostra stupida scommessa del cazzo... E se Matthew e il fattorino erano qui, forse qualcuno... Il telefono mi squilla in tasca. Sussulto con violenza sentendolo vibrare contro la gamba. «Harris», rispondo. «Harris! Sono io, Barry. Dove sei?» Guardo lo spazio vuoto attorno a me e mi faccio la stessa domanda. Barry sarà anche cieco, ma non è affatto stupido. Se mi chiama in un momento del genere dev'essere perché... «Ho appena saputo di Matthew», mi fa. «Non riesco ancora a crederci. Io... mi dispiace tanto.» «Chi te l'ha detto?» «Cheese. Perché?» Chiudo gli occhi, maledicendo mentalmente il mio assistente. «Harris, dove sei?» insiste Barry. È la seconda volta che me lo chiede. Quindi penso proprio che non gli risponderò. Mi alzo in piedi, spazzolandomi i pantaloni con le mani. La testa mi gira ancora. In questo momento non mi sentirei di farlo, ma... devo. Ho bisogno di sapere chi altro sia al corrente dell'accaduto. «Barry, ne hai parlato con qualcun altro?» «Non ancora. Perché?» Barry mi conosce troppo bene. «Niente», gli faccio. «E i colleghi di Matthew? Lo sanno già?» «Ecco, in realtà ho appena parlato con una di loro. Avevo chiamato per darle la brutta notizia, ma Dinah... e quella Trish del Senato... lo sapevano già. Erano state le prime a saperlo.» Abbasso gli occhi sul nome del fattorino che ho trovato sotto il cassone.
Per tutto il tempo in cui abbiamo giocato a Rischio Zero, non ci è mai importato di sapere contro chi scommettevamo. Era parte del divertimento. Ma in questo momento qualcosa mi dice che sarebbe importantissimo saperlo: e non è una bella sensazione. «Scusami, Barry. Adesso devo proprio andare.» Chiudo la comunicazione e faccio un altro numero. Sento un lieve scricchiolio di ghiaia provenire da dietro il cassone dei rifiuti. Mi butto da quella parte, ma non c'è nessuno. Adesso non perdere la testa, mi dico. Faccio un respiro profondo, cercando di mandare l'aria fino in fondo ai polmoni. Come fa mio padre quando arrivano le bollette. Saltello ancora un po' con il pollice sulla tastiera del cellulare: se voglio saperne di più, devo risalire alla fonte. E per tutto ciò che riguarda il gioco la fonte è l'uomo che mi ci ha fatto entrare. «Ufficio di Bud Pasternak: cosa posso fare per lei?» risponde una voce femminile. Pasternak è il capo di Barry. E il mio mentore. «Melinda, sono io. Bud è lì?» «Mi dispiace, Harris, non posso passartelo: è in riunione.» «Non puoi dirgli che ho bisogno di parlargli un momento?» «No, Harris, stavolta no.» «Avanti, Melinda...» «Non provare nemmeno a sedurmi, zucca vuota. È con un pezzo grosso.» «Quanto grosso?» «Uno che fa rima con Bicrosoft.» Dietro di me c'è un altro scricchiolio di ghiaia. Mi volto a guardare. Sembra venire dal fondo del vicolo, da dietro un cespuglio striminzito. Ormai ho deciso. Ci vado. «Vuoi lasciargli un messaggio?» mi fa Melinda. No, non su questo argomento. Matthew... l'FBI... È come un'onda di piena che si inarca sopra la mia testa, pronta a rompersi. «Digli che sto venendo lì.» «Harris, non puoi interrompere la riunione...» «Non ci penso nemmeno», le dico, e metto giù. Sto già correndo verso il sottopassaggio. La First Street, dove ha sede la Pasternak e associati, è a pochi isolati. 10.
«Salve», disse Janos attraversando di buon passo l'atrio della Pasternak e associati e salutando con un cenno della mano l'addetta alla sorveglianza. «Scusi, ma devo chiederle di firmare il registro degli ingressi», lo bloccò lei tamburellando con l'indice su un quadernone aperto sul tavolo. Janos si fermò a metà di un passo e tornò lentamente verso la guardia giurata. Non era il caso di fare una scenata. Meglio lasciar correre. «Ma certo», disse, avvicinandosi al tavolo. E con uno svolazzo della penna scrisse Matthew Mercer sul registro degli ingressi. L'addetta alla sorveglianza osservò la scritta FBI sul suo giubbotto giallo e blu e lui, per dissipare ogni dubbio, le fece balenare davanti agli occhi un lucido distintivo da sceriffo comprato in un negozio di articoli militari. Poi la guardò dritto negli occhi, e la donna abbassò i suoi. «Bella giornata, là fuori, vero?» gli domandò poi lanciando un'occhiata in strada attraverso la grande vetrata di cristallo. «Già», le rispose Janos avviandosi verso l'ascensore. «Proprio una bella giornata.» 11. «Buongiorno, Barb!» Nell'attraversare l'atrio della Pasternak e associati non dimentico di salutare l'addetta alla sorveglianza lanciandole un bacio con la punta delle dita. Lei afferra al volo il mio bacio e lo butta nel cestino della carta straccia. La solita scenetta. «Come sta il senatore Stevens?» mi fa. «Sempre più vecchio e più ricco. E come sta... il tuo maritino?» «Ti sei dimenticato come si chiama, vero?» «Mi dispiace», mormoro. «È una pessima giornata.» «Capitano a tutti, dolcezza.» Le sue parole non mi fanno sentire affatto meglio. «Sei qui per vedere Barry?» Annuisco, e l'ascensore si apre davanti a me con un trillo di campanello. Barry sta al terzo piano; Pasternak al quarto. Entro nell'ascensore e schiaccio il pulsante numero quattro. Non appena le porte si chiudono mi lascio andare contro la parete. Il sorriso si cancella di colpo dalla mia faccia, le spalle si afflosciano. Armeggio con il tesserino che ho in tasca, e l'ascensore sale traballando all'ultimo piano. Le porte si aprono con un nuovo trillo e mi ritrovo in un corridoio mo-
derno illuminato da lampade schermate. Sulla destra c'è un tavolo con una segretaria, ma io prendo senza esitazioni verso sinistra. L'assistente di Pasternak non mi ferma mai. Avanzo senza ulteriori intoppi. Il corridoio finisce davanti a una porta di vetro smerigliato con una tastiera numerica. Ho visto Barry entrarci almeno un centinaio di volte. Digito il suo codice, la serratura scatta, entro. Come un lobbysta qualsiasi. Arredati come uno studio legale, ma con più classe, i locali della Pasternak e associati hanno alle pareti belle fotografie in bianco e nero della bandiera americana che sventola sul Campidoglio, sulla Casa Bianca e su ogni altro monumento della città, patriottismo allo stato puro. È un chiaro messaggio per i potenziali clienti: i lobbysti della Pasternak non hanno niente contro il sistema, anzi, ci lavorano dentro. Da veri insider. Passo senza fermarmi davanti a una fila di uffici e svolto a destra per raggiungere quelli sul retro, dopo la cucinetta. Con un po' di fortuna dovrei trovare Pasternak ancora in sala riunioni, e non nel suo... «Harris?» mi chiama una voce da dietro. Mi volto preparando un sorriso forzato. Ma la faccia che ho davanti non mi dice niente. «Lei è Harris Sandler, giusto?» ripete l'uomo, evidentemente sorpreso di vedermi lì. La sua voce cigola come una tavola sconnessa in un pavimento di legno, e dietro gli occhi verdi, da cane triste, c'è un'oscurità profonda e silenziosa; che si richiude sopra di me come una trappola per orsi. Sul momento, però, mi preoccupa soprattutto la scritta FBI sul giubbotto giallo e blu. «Potrei parlarle un momento?» mi fa l'uomo, riaccompagnandomi indietro verso la sala riunioni. «Le porterò via solo pochi minuti, glielo prometto.» 12. «Ci conosciamo?» gli domando, in cerca di maggiori informazioni. L'uomo col giubbotto dell'FBI fa un sorrisino e si passa la mano sui capelli brizzolati. Conosco quel gesto: Stevens lo fa sempre quando incontra gli elettori. È un misero tentativo di rendere più umano il rapporto. «Perché non troviamo un posticino tranquillo dove parlare?» «I-io dovrei vedere Pasternak.» «Lo so. Mi ha detto che siete vecchi amici.» Avverto un impercettibile mutamento nel suo linguaggio corporale. Sorride ancora, ma il suo mento
punta dritto contro di me. Io mi guadagno da vivere con la politica. La maggior parte della gente non si accorgerebbe di questi minuscoli dettagli, ma io sì. «Allora, andiamo in sala riunioni o preferisce che parliamo qui, davanti a tutti?» E per sottolineare il concetto fa un cenno di saluto a un tizio di mezz'età, coi capelli rossi, che sta entrando nel cucinino per farsi un caffè. Sa come farsi capire senza sprecare parole. Chiunque sia, sarebbe un buon membro del Congresso. «Se si tratta di Matthew...» «C'è anche dell'altro», mi interrompe subito. «Voglio sapere perché Pasternak si affanna tanto per tenerla fuori da questa storia.» «Non so di cosa stia parlando.» «Per favore, Harris, io sono contrario al gioco d'azzardo, ma sarei pronto a scommettere che invece lo sa benissimo.» L'allusione è sottile, ma basta ad accendere un interruttore nella mia testa. Non soltanto sa di Matthew, ma anche del gioco. E ha voluto farmelo sapere. Lo guardo con freddezza. «C'è anche Pasternak in sala riunioni?» «Da questa parte», risponde lui, facendomi strada lungo il corridoio come un elegante maitre d'hotel. «Dopo di lei...» Mi avvio. Lui mi segue a un passo di distanza. «Pare che voi due vi conosciate da parecchio tempo», mi fa. «Io e Pasternak o io e Matthew?» «Lei e Pasternak e lei e Matthew», fa lui, raddrizzando la foto in bianco e nero della Corte Suprema appesa in corridoio. Fa delle domande, ma sembra non gliene importi nulla delle mie risposte. Gli lancio un'occhiata da sopra la spalla, ripassando mentalmente il suo aspetto. Giubbotto giallo e blu... pantaloni grigi... scarpe di pelle marrone scuro. Il logo di peltro dice che sono di Ferragamo. Mentre torniamo indietro lungo il corridoio che ho appena percorso penso che quelle scarpe sono un po' troppo belle per lo stipendio di un poliziotto. «È qui», fa lui indicandomi una porta sulla destra. Anche questa, come quella accanto all'ascensore, è di vetro smerigliato, e mi permette di vedere solo la sagoma indistinta di Pasternak seduto nella sua poltrona preferita, quella di pelle nera al centro della lunga tavola per le riunioni. È una delle prime lezioni che ho imparato da lui: meglio sedere al centro piuttosto che a un estremo del tavolo, se vuoi ottenere qualcosa, devi essere fisicamente vicino al tuo interlocutore.
Afferro la maniglia e la giro. Niente di strano nel fatto che Pasternak abbia scelto questa sala, la più grande di tutto l'ufficio. Ma non appena la porta si apre noto che le luci sono spente. Da fuori non ci avevo fatto caso. A parte il pallido chiarore che entra dai grandi bovindi, Pasternak se ne sta lì seduto al buio. La porta si chiude rumorosamente alle mie spalle. Subito dopo sento un lieve ronzio elettrico, come quando si accende una radio a transistor. Mi volto di scatto, appena in tempo per vedere l'uomo con gli occhi da cane triste scagliarsi contro di me brandendo una scatoletta simile a un piccolo mattone nero. Lo scanso all'ultimissimo secondo, facendomi scudo con la mano. La scatoletta mi colpisce all'avambraccio e avverto un forte bruciore, come un morso nella carne. Che quel figlio di puttana mi abbia tirato una coltellata? Probabilmente si aspetta che lo spinga via. Invece trattengo la scatoletta contro il braccio e lo tiro verso di me. Barcolla in avanti, perdendo l'equilibrio: allora io sposto il peso sulla gamba più arretrata e gli do un pugno in un occhio. La testa gli rimbalza all'indietro, incespica e va a sbattere contro la porta di vetro smerigliato. La scatoletta nera gli vola via dalle mani e cade sul pavimento, aprendosi: ne rotolano fuori alcune pile, che si spargono in ogni direzione. Ma l'uomo non è tipo da andare al tappeto così facilmente. Si tasta l'occhio con la punta delle dita e alza gli occhi verso di me con un sorrisetto ammirato, come se si stesse proprio divertendo. Per avere quell'espressione bisogna averne beccati parecchi, di pugni, e assai migliori dei miei. La punta della lingua gli si affaccia all'angolo della bocca. Il messaggio è chiaro: se voglio provocare un danno serio, devo impegnarmi di più. «Chi ti ha insegnato a tirare di boxe?» mi domanda con voce gracchiante mentre raccoglie da terra i pezzi della scatoletta nera e se li infila in tasca. «Il papà o lo zio?» Vuole farmi sapere che conosce molte cose sul mio conto... spera di farmi innervosire. Ma non ci riuscirà. Sono in Campidoglio da più di dieci anni: per quanto riguarda il pugilato mentale ho dovuto vedermela con un Congresso pieno di Mohammed Alì. Ma non ho certo intenzione di giocarmi il tutto per tutto in una scazzottata. Mentre l'uomo si rialza mi guardo attorno in cerca d'aiuto: «Buddy!» grido a Pasternak. Ma lui non si muove. Se ne sta lì seduto al tavolo delle riunioni, senza fare niente... con la testa appoggiata allo schienale... un braccio penzoloni... e gli occhi spalancati. Un velo di lacrime mi appanna
la visione del mondo. Istintivamente mi getto verso di lui, ma subito mi blocco e rimango con le mani sollevate a mezz'aria. Mai toccare il cadavere. «Tu non la smetti mai di pensare, vero?» mi fa Occhi di cane triste. Dietro di me sento il leggero fruscio prodotto dal tessuto sintetico del suo giubbotto. Mi si sta avvicinando lentamente, alle spalle. Col cazzo che è un agente dell'FBI. Mi volto e lui mi fa un altro dei suoi sorrisetti arroganti. Pensa di avermi chiuso ogni via di fuga. Guardo il bovindo, e al di là del bovindo il patio. So che c'è una porta che dà su quel patio. Schizzo velocissimo verso la porta di vetro all'altro estremo della sala riunioni. È chiusa con la serratura a codice numerico. Occhi di cane triste viene verso di me. La mano mi trema mentre digito il codice di Barry. «Avanti!...» prego mentalmente in attesa del click magnetico. L'uomo sta circumnavigando il tavolo delle riunioni, ancora dieci passi e mi avrà raggiunto. Finalmente la serratura scatta. Spalanco la porta con una manata, esco e ruoto rapidamente su me stesso per chiuderla subito. Se riuscissi a bloccarlo là dentro... Ma proprio all'ultimo momento l'uomo riesce a infilare la mano tra la porta e lo stipite. Le ossa scricchiolano. Lui digrigna i denti per il dolore, ma non grida. Spingo contro la porta con tutto il mio peso. Lui mi fissa attraverso il vetro: in fondo a quegli occhi verdi l'oscurità è più profonda che mai. Ma non molla. Le nocche gli diventano bluastre per la forza con cui stringe lo stipite. Poi riesce a infilare nella fessura anche la punta di una scarpa e comincia a spingere per aprire. Non credo di poter uscire vincitore da questo stallo. Guardando al di sopra della spalla osservo il resto del patio, su cui sono sparse sedie a sdraio in teak con i poggiapiedi abbinati. In primavera è frequentato soprattutto dalla crème dei raccoglitori di fondi elettorali: perché affittare una sala esterna quando l'ufficio te ne mette a disposizione una così bella? A destra e a sinistra, tralicci di legno coperti d'edera creano finti muri che sostengono la copertura. In mezzo, una magnifica vista sulla cupola del Campidoglio e sulla palazzina adiacente, anch'essa a quattro piani. Fra i due edifici ci sono solo due metri di vuoto, corrispondenti alla larghezza del vialetto sottostante. Pronto a sferrare l'attacco finale, l'uomo si appoggia alla porta con la spalla. Mi tiro indietro di colpo lasciando che si spalanchi, e mentre lui rotola a terra scatto verso il bordo della terrazza. «Non ce la farai mai!» mi grida dietro.
Ancora quel maledetto giochino mentale. Non lo ascolto. Non penso. Corro e basta, dritto verso il confine della terrazza. Mi ripeto che non devo guardare giù, ma mentre mi preparo al salto non riesco a vedere nient'altro che quello spazio vuoto. Quattro piani di altezza per due metri di larghezza... uno e mezzo, se sono fortunato. Speriamo che sia solo uno e mezzo. Divoro il pavimento di cotto con uno scatto da centometrista, gli occhi fissi in avanti, i denti stretti: poi scavalco con un salto il parapetto di cemento e mi lancio nel vuoto. Quando lo conobbi, al college, Matthew mi raccontò di essere così alto da poter saltare il cofano di un maggiolone Volkswagen. Speriamo che lo stesso valga per me. Volo attraverso il piccolo canyon che si spalanca sotto di me, atterro sulla terrazza dell'edificio accanto e mi butto in avanti, rotolando sull'osso sacro. Un dolore caldo ed elettrico mi saetta lungo la spina dorsale. Diversamente dal patio dove mi trovavo prima, questa terrazza è semplicemente incatramata, e caderci sopra fa male. L'impatto solleva un mini tornado di polvere che mi s'infila dritto nei polmoni, ma non posso fermarmi. Sull'altro edificio, Occhi di cane triste sta già prendendo la rincorsa per emulare il mio salto. Balzo in piedi e mi guardo attorno in cerca di una porta o di una scala. Senza trovarle. All'altro estremo della terrazza, però, i viticchi metallici di una scala antincendio si affacciano oltre il parapetto come zampe di un ragno gigantesco. Corro in quella direzione: scavalco il parapetto, mi lascio scivolare lungo i pioli rugginosi e atterro con un tonfo metallico sul pianerottolo della scala antincendio. Alla fine di ogni rampa mi afferro al corrimano e con un elegante volteggio salto metà degli scalini. All'altezza del secondo piano un tonfo risuona sopra di me e un fremito percorre la scala: in cima alla struttura metallica Occhi di cane triste è atterrato sul pianerottolo e guarda giù attraverso i gradini di rete metallica. Ho un vantaggio di tre piani. Con un calcio libero l'ultimo segmento della scala, che si allunga fino al marciapiede del vialetto, e un attimo dopo atterro a piedi uniti sul cemento. A sinistra il vicolo è chiuso da un muro. A destra, sul marciapiede di fronte, c'è il Bullfeathers, uno dei bar storici del Colle. È il momento dell'happy hour: niente di più adatto per confondersi tra la folla. Attraverso la strada e un suono di clacson mi scoppia nelle orecchie: una Lexus argentata ha dovuto inchiodare sull'asfalto per non investirmi. Davanti al Bullfeathers Dan Dutko, forse il lobbysta più popolare della città, tiene aperta la porta per far entrare quasi tutti i membri della sua squadra. «Ehilà, Harris! Poco fa ho visto il tuo capo in televisione. Lo stai ripu-
lendo per benino, ottimo lavoro!» mi apostrofa ridendo. Mi sforzo di sorridergli e m'infilo sgomitando nel gruppo. Nella fretta ho quasi gettato a terra una donna bruna. «Posso aiutarla?» mi si rivolge subito la barista vedendomi entrare come un tornado. «Dov'è il bagno?» le rispondo. «Mi scusi ma è un'emergenza.» «I-in fondo a destra», fa lei, sconcertata. Costeggio il bancone del bar senza rallentare, ma una volta in fondo al locale non giro a destra, dove c'è il bagno. Tiro dritto, spingo le porte basculanti della cucina, mi schiaccio per passare dietro al cuoco che sta friggendo qualcosa, schivo un cameriere con un vassoio carico di hamburger e salto i tre scalini del ripostiglio posteriore. Poi apro con uno spintone la porta sul retro e sono fuori, nel vicolo dietro il locale. Sono almeno dieci anni che mangio qui una volta la settimana. So benissimo dov'è il bagno. Ma se la fortuna mi assiste, quando Occhi di cane triste entrerà nel bar e chiederà di me alla cameriera, lei lo indirizzerà in fondo a destra. E lui perderà tempo nella toilette. Senza distogliere gli occhi dalla porta posteriore del Bullfeathers torno di corsa sulla via principale. Tutto tranquillo. Forse non è abbastanza intelligente da... Dietro di me la porta si spalanca di colpo. Lui è già qui. Per un secondo rimaniamo entrambi immobili. Poi lui scrolla la testa come se tutte le mie mosse gli sembrassero prevedibili e fiacche, e si sistema il giubbotto. Io ho tutti i sensi all'erta e all'improvviso, sulla sinistra, sento un tintinnio di chiavi. Un po' più avanti, sull'altro marciapiede, un tipo sui vent'anni con le cuffiette stereo nelle orecchie sta aprendo la porta posteriore del suo condominio. Occhi di cane triste balza verso di me. Io balzo verso Cuffiette stereo. «Chiedo scusa, mi spiace», gli dico infilandomi tra lui e la porta. Poi gli strappo le chiavi di mano ed entro nell'edificio. «Idiota!» mi grida dietro il ragazzo. Borbottando qualche altra parola di scusa chiudo la pesante porta metallica a doppia mandata. Il ragazzo è rimasto fuori con Occhi di cane triste. E io sono solo in un condominio dove non conosco nessuno. Già lo sento prendere a spallate la porta. Anche stavolta non ci metterà molto. Alle mie spalle c'è una grigia scala di cemento. Da quel che riesco a vedere attraverso la ringhiera, salendo si arriva nell'atrio principale dell'edificio. Nel seminterrato, invece, c'è una specie di ripostiglio pieno di rastrel-
liere per biciclette. La logica suggerirebbe di salire, dato che è l'unico modo per uscire dal caseggiato. E anche tutti gli istinti animali annidati nelle mie budella mi dicono di salire. Ed è proprio per questo che non lo faccio. Affanculo la logica. Chiunque sia questo psicopatico ha già controllato i miei processi mentali per troppo tempo. Scendo nel ripostiglio. Ci sono due secchi per lavare i pavimenti, vuoti, e sette biciclette, fra cui una con le ruote da corsa e le manopole con i colori dell'arcobaleno. Ma io non sono MacGyver, e non vedo niente che sia possibile usare come arma. Scavalco la rastrelliera delle biciclette e mi raggomitolo in un angolo. Poi guardo in su, verso la ringhiera delle scale. Qui dove sono non dovrebbe vedermi. Almeno spero. Sopra la mia testa la porta metallica sul retro si apre di colpo, andando a sbattere contro la parete. Occhi di cane triste è già nel vano delle scale. Si ferma un attimo sul pianerottolo per decidere il da farsi. Sa di non avere il tempo di controllare entrambe le direzioni, anche per lui ogni secondo è prezioso. Trattengo il fiato e chiudo gli occhi. La suola di cuoio delle sue scarpe cigola leggermente: ha fatto un passo avanti. Il tessuto sintetico del suo giubbotto produce un lieve fruscio. Urta piano la ringhiera con l'unghia di un dito: probabilmente si sta sporgendo per guardare meglio. Meno di due secondi ed eccolo partire a razzo lungo le scale... e a ogni scalino il rumore dei suoi passi si affievolisce. Sento sbattere un'altra porta in lontananza, poi più nulla. Se n'è andato. Quando finalmente mi decido a sollevare la testa e a respirare normalmente, capisco subito che non per questo i miei problemi sono finiti. Cerco di alzarmi, ma la testa mi gira e fatico a mantenere l'equilibrio, dev'essere un improvviso calo d'adrenalina. Ricado nel mio angolo. Le braccia mi penzolano lungo i fianchi come sacchi vuoti. Come quelle di Pasternak. Come quelle di Matthew. Dio mio... Richiudo gli occhi. Li vedo ancora, mi fissano con sguardo vuoto. Non riesco a pensare ad altro. Il dolce sorriso di Matthew, la sua goffa andatura di ragazzo troppo cresciuto... Il vezzo di Pasternak di far scrocchiare la nocca del medio... Mi raggomitolo in posizione fetale. Smetto di guardarmi attorno. È quello che mi merito. Matthew mi ha sempre messo su una sorta di piedistallo, e anche Pasternak. Ma io non sono mai stato niente di speciale. Anch'io avevo paura, come loro, ero solo più bravo a fingere.
Mi volto verso la rastrelliera delle biciclette, ma anche questo oggetto banale mi fa venire in mente il figlio di Pasternak, di due anni... sua moglie Carol... e poi i genitori di Matthew... i suoi fratelli... la vita di tutte queste persone, definitivamente spezzata. Mi passo la lingua sulle labbra: sono salate. Finalmente le lacrime mi inondano la faccia. Era solo un gioco. Uno stupido gioco. Ma come spesso avviene con i giochi, basta una mossa falsa per ricordare a tutti che è facile farsi male. Qualunque cosa Matthew abbia visto... qualunque cosa abbia fatto... l'uomo che mi sta dando la caccia non vuole che si sappia. È disposto a tutto per evitarlo. Ed evidentemente non è un dilettante. Ripenso a ciò che ha fatto a Matthew. E a Pasternak... È per questo che ha voluto raccogliere da terra i pezzi della sua scatoletta nera: quando troveranno il secondo cadavere, nessuno si farà troppe domande... Tutti i giorni ci sono persone che muoiono al loro tavolo di lavoro per cause del tutto naturali. Scrollo la testa contemplando la mia nuova realtà. Quello psicopatico... il suo modo di agire... e quella dannata scatoletta nera, qualunque cosa sia. Non credo proprio che sia un agente dell'FBI, ma è sicuramente un professionista. E pur non avendo capito se questa storia riguarda tutto il gioco o solo il nostro ramo, non ci vuole un genio per cogliere la tendenza. Pasternak aveva fatto entrare me, io avevo fatto entrare Matthew. Due sono andati, ne resta uno solo. Mi sento come se avessi un bersaglio disegnato in mezzo alla fronte. Mi stringo le ginocchia al petto e prego che sia solo un sogno. Purtroppo però non è così. I miei amici sono morti, e il prossimo sarò io. Ma come diavolo è potuto succedere? Mi guardo attorno e vedo la mia immagine riflessa nelle cromature di una bici da bambino. È come specchiarsi in un cucchiaio. Tutto il mondo è deformato. Non posso, non potrò più uscire da questo universo sconvolto, soprattutto se qualcuno non mi aiuta. Mi alzo, salgo di corsa le scale, torno alla porta posteriore, esco e corro per cinque isolati senza fermarmi mai. Ma ancora non sono del tutto sicuro di averlo seminato. Poi prendo il cellulare e faccio il numero del servizio informazioni. «Buongiorno, quale città?» mi domanda una voce femminile registrata. «Washington, D.C.» «Quale abbonato?» «Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti.»
Mi premo il cellulare all'orecchio e attendo di essere messo in comunicazione con il numero che ho richiesto. Ma poi devo scavalcare ben tre segretarie per raggiungere la persona con cui voglio parlare. Loro hanno tirato fuori l'artiglieria pesante. Adesso tocca a me. Risponde al primo squillo, come sempre. «Pronto», dice. «Ciao, sono Harris», faccio io. «Ho bisogno d'aiuto.» «Dimmi soltanto dove e quando. Arrivo subito...» 13. «Vuoi dire che l'hai perso?» «Per ora», disse Janos al cellulare dopo aver completato il giro della palazzina antistante il Bullfeathers. «Ma non mi...» «Non è questo che ti ho domandato. Quello che voglio sapere è: Hai. Perso. Harris?» Janos si bloccò dov'era, in mezzo alla strada. Un uomo su una Oldsmobile marrone suonò il clacson e gli gridò di togliersi dai piedi. Janos non si mosse. Strinse forte il cellulare e fece un respiro profondo, volgendo le spalle alla Oldsmobile. «Sì», disse poi. «Sissignore. L'ho perso.» Sauls fece calare un lungo silenzio. Rottinculo, pensò Janos. Lo sapeva, l'aveva imparato già la prima volta che aveva avuto a che fare con questo Sauls. I pezzi grossi hanno sempre bisogno di fare gli sbruffoni. «È tutto?» fece Janos. «Sì. Per ora è tutto», rispose Sauls. «Bene, non c'è di che preoccuparsi. Ho chiacchierato a lungo col nostro contatto interno. So dove vive.» «E credi che sarà tanto scemo da tornare a casa?» «Non mi riferivo alla casa», disse Janos. «Sono mesi che lo sto studiando. So dove vive.» Quando Janos si decise a risalire sul marciapiede, il conducente della Oldsmobile smise di suonare il clacson e premette sull'acceleratore. L'auto balzò in avanti, ma subito dopo si fermò accanto a Janos. L'uomo al volante abbassò il finestrino: «Perché non impari a comportarti come si deve, testa di cazzo?» gli gridò. Imperturbabile, Janos si chinò sull'auto e appoggiò il braccio al finestrino abbassato a metà, che cedette un po' sotto il suo peso. Nel fare questo movimento il giubbotto gli si aprì un poco e l'uomo poté vedere la fondina
sotto l'ascella e nella fondina la Sig nove millimetri. Janos sogghignò, alzando l'angolo destro della bocca. L'uomo dell'auto si affrettò a premere sull'acceleratore. Ma quando le ruote cominciarono a girare e l'auto si mosse, Janos tenne la mano saldamente premuta contro la portiera e con l'anello ci lasciò sopra un lungo graffio. 14. «Desidera mangiare qualcosa?» mi fa la cameriera, gentile. «Sì... sì», le rispondo dando un'occhiata al menu. Lei probabilmente crede che ormai l'abbia imparato a memoria. Ha ragione solo in parte. È vero che sono qui da almeno un quarto d'ora, e che il menu è rimasto sempre in posizione verticale davanti alla mia faccia, ma solo per nascondermi. «Prenderò uno Stan's Famous», le dico. «Come lo vuole?» «Poco cotto. Senza formaggio... e con le cipolle grigliate.» Sul menu c'è il logo dello Stan's Restaurant: Il miglior drink in città. Ma io l'ho scelto solo per la clientela. A due passi dalla sede del «Washington Post», è sempre pieno di giornalisti. E siccome a quest'ora gli articoli sono già stati consegnati, c'è moltissima gente. Ormai ho imparato la lezione: se qualcosa dovesse andare storto, voglio che sia in mezzo a una folla di testimoni con moltissimo accesso alla carta stampata. «Posso?...» mi fa ancora la cameriera, allungando la mano per riprendersi il menu. «Ecco, veramente preferirei tenerlo... se per lei fa lo stesso.» La donna sorride e si china su di me: «Dio mio, ma che begli occhi verdi!» «G-grazie...» «Scusi, non volevo...» fa lei, cercando di riprendersi. «Va tutto bene, davvero», le dico. «Me lo dice sempre anche mia moglie.» La cameriera abbassa gli occhi sulle mie mani e constata che non ho la fede. Quindi si allontana, seccata. Non sono venuto per fare nuove conoscenze, ma per vedere un vecchio amico. Do un'occhiata all'orologio, poi guardo la porta del locale. L'appuntamento era per le nove. Sapendo quanto è impegnato, ho pensato che non sarebbe arrivato prima delle nove e un quarto. Ma ormai sono le nove e mezza. Prendo il cellulare, non vorrei che...
Ed ecco che la porta si apre e lui viene verso di me, con la leggera zoppia che gli è rimasta dopo una vecchia caduta sugli sci. Per non farsi notare troppo tiene la testa bassa, ma almeno quattro persone si voltano a guardarlo. È così che individuo i giornalisti. Quando ho conosciuto Lowell Nash lavoravo già da due anni alla macchinetta per copiare l'autografo di Stevens: lui era il capo dello staff, e mi raccomandò per le lezioni serali alla facoltà di legge della George Mason University. Tre anni dopo, quando passò all'attività privata, gli ricambiai il favore indirizzando al suo studio alcuni facoltosi sottoscrittori. Due anni fa lui ha ricambiato nuovamente convincendo il resto del suo studio a sottoscrivere cinquantamila dollari per la rielezione di Stevens. L'anno scorso, quando il Presidente l'ha nominato procuratore generale aggiunto, ho ricambiato a mia volta convincendo il senatore - da sempre membro del Comitato giustizia - a darsi da fare perché la sua nomina passasse in fretta e senza problemi. È così che funziona Washington. Favore chiama favore. Oggi Lowell è il numero due del Ministero della giustizia - una delle posizioni giudiziarie più influenti del paese. Io e lui ci conosciamo da più di dieci anni. L'ultima volta sono stato io a fargli un favore, quindi adesso tocca a lui. «Onorevole...» mi fa, salutandomi con un cenno del capo. «Signor presidente...» faccio io di rimando. La cosa non è del tutto impossibile. A quarantadue anni Lowell è il più giovane uomo di colore che abbia mai occupato una posizione così prestigiosa. E a livello nazionale la cosa è stata notata. Una volta il «Legal Times» ha titolato: Il prossimo Colin Powell? Giocando sulla descrizione apparsa in quell'articolo, Lowell porta i capelli cortissimi e ha un'espressione sempre molto concentrata. Pur non avendo fatto carriera nell'esercito, sa quanto sia importante sembrare nella parte. Come dicevo, Lowell è sulla buona strada, a meno che qualche tracollo personale non arresti bruscamente la sua carriera. «Hai un aspetto orribile», mi fa, appoggiando il soprabito scuro sullo schienale di una sedia e le chiavi dell'auto sul tavolo, accanto ai miei due cellulari gemelli. Non rispondo. «Allora, cosa ti succede?» Ancora non rispondo. «Avanti, Harris, dimmi tutto.» Non posso tirarmi indietro. In fondo è per questo che sono venuto. Alzo gli occhi. «Lowell, ho bisogno d'aiuto.»
«Aiuto personale o professionale?» «Aiuto giudiziario.» Intreccia le mani sul tavolo con gli indici tesi in alto, a formare una sorta di guglia gotica. «Quanto è grave?» mi fa. «Pasternak è morto.» Annuisce. Le notizie si diffondono in fretta, in questa città. Soprattutto quando il morto è un tuo ex superiore. «Infarto, a quanto ho sentito dire», aggiunge. «È questo che stanno dicendo?» Stavolta è lui a restare in silenzio. Si gira per dare un'occhiata ai reporter sparsi per la sala, setaccia velocemente il ristorante e si volta di nuovo verso di me. «Dimmi di Matthew», mi fa. Comincio a spiegargli come sono andate le cose, ma a un certo punto mi blocco. Qualcosa non quadra. Lui non lo conosceva nemmeno, Matthew. Ci fissiamo negli occhi. Lui abbassa quasi subito i suoi. «Lowell, cosa sta succedendo?» «Un hamburger poco cotto», ci interrompe la cameriera sbattendomi davanti il piatto con un rumore secco. Poi domanda a Lowell: «Le porto qualcosa?» «No grazie... sto bene così.» La donna mi concede una seconda opportunità di comportarmi bene e regalarle un sorriso. Ma siccome non ne approfitto, mi trafigge con uno sguardo sarcastico e se ne va a servire un altro tavolo. «Lowell, qui non si tratta...» Mi fermo, e cerco con tutte le mie forze di ridurre la voce a un sussurro. «Lowell, non è il momento di recitare la parte dell'amico taciturno ma premuroso. C'è in gioco la mia vita...» Pare non si sia ancora risolto a mettere le carte in tavola. Fissa la superficie del tavolo, giocherellando con il portachiavi. «Lowell, se sai qualcosa...» «Sei segnato.» «Cosa?» «Sei segnato, Harris. Se quelli ti trovano sei morto.» «Ma di che diavolo stai parlando? Quelli chi? E tu come fai a saperlo?» Lowell si guarda ancora sopra la spalla. Pensavo volesse tenere d'occhio i giornalisti, ma mi sbagliavo: guarda la porta. «Devi andar via da qui», mi fa. «Io... non capisco. Vuol dire che non mi aiuterai?»
«Ma non hai ancora capito, Harris? Il gioco è...» «Tu come sai del gioco?» «Ascoltami, Harris: quelli sono delle bestie.» «Ma tu sei mio amico», insisto. Abbassa gli occhi sul portachiavi, cui è attaccato un piccolo portafoto. Lo accarezza con il pollice. Lo guardo anch'io con più attenzione: nella foto ci sono sua moglie e la sua figlioletta di quattro anni. Sulla spiaggia, con le onde che s'infrangono sullo sfondo. «Nessuno è perfetto, Harris», mi dice dopo un po'. «E a volte, purtroppo, i nostri errori non li paghiamo solo noi.» Non riesco a staccare gli occhi dalla foto. Non so di cosa l'abbiano minacciato... e non voglio saperlo. «Devi andar via da qui», mi dice ancora. L'hamburger non l'ho nemmeno toccato: anche ammesso che prima avessi appetito, ormai mi è passato. «Chi è stato a uccidere Matthew e Pasternak?» «Si chiama Janos», risponde lui con un'incrinatura nella voce. «È uno che andrebbe tenuto in gabbia.» «Per chi lavora? Per qualcuno della magistratura esecutiva?» Le mani gli tremano leggermente. Forse adesso si lascerà un po' andare. «Mi dispiace davvero tanto per i tuoi amici...» «Per favore, Lowell...» «Non chiedermi altro», mi supplica. Dietro di lui vedo i quattro giornalisti di prima aggirarsi per il locale. Appoggio il palmo delle mani sul tavolo e chiudo un attimo gli occhi. Quando li riapro, Lowell sta guardando l'orologio. «Adesso va'», insiste. «Subito.» Volevo solo dargli un'altra possibilità. Non l'ha colta. «Mi dispiace infinitamente, Harris.» Mi alzo cercando di ignorare il tremito alle gambe e muovo un passo verso la porta. Lowell mi afferra per il polso: «Non da quella parte», sussurra, e indica con un cenno della testa l'uscita sul retro. Esito, non sono sicuro di potermi fidare di lui. Ma non ho alternative. È la seconda volta, oggi, che esco da un locale passando per le porte basculanti della cucina. «Si fermi, non può andare in cucina!» mi grida dietro la cameriera. La ignoro. Oltre i lavandini, come mi aspettavo, c'è la porta che dà sul retro. È aperta. Corro fuori, scendo la breve scaletta di cemento e continuo
a correre. Volto a destra due volte consecutive e sono nel viale poco illuminato. Un ratto nero mi attraversa la strada, ma è l'ultimo dei miei pensieri. Chiunque siano quelle persone, come diavolo fanno a muoversi così in fretta? Avverto un dolore pulsante alla nuca e per un attimo il mondo mi gira vorticosamente attorno. Devo sedermi un momento... mettere un po' d'ordine nei miei pensieri... e soprattutto farmi venire in mente un posto in cui nascondermi. Sfoglio mentalmente la breve lista delle persone su cui so di poter contare, ma dopo aver visto la reazione di Lowell è chiaro che chiunque abbia assunto questo Janos sa tutto di me e della mia vita. E se sono capaci di mettere paura a uno come lui... Un'ambulanza scende veloce da Vermont Avenue. Il rumore della sirena, assordante, riverbera nel canyon creato dai due edifici fra cui mi trovo. Istintivamente m'infilo la mano in tasca per prendere il cellulare. Mi tasto dappertutto, le tasche della giacca, quelle dei pantaloni. Accidenti! Li ho lasciati nel... Giro sui tacchi. Ho lasciato i cellulari sul tavolo del ristorante. Ma è troppo tardi. Non posso più rientrare. Controllo ancora una volta, per maggior sicurezza. Metto la mano anche nel taschino interno della giacca, quello sul petto. Lì in effetti c'è qualcosa, ma non è un telefono. Apro la mano e rileggo il nome stampato sul tesserino di plastica: FATTORINO DEL SENATO VIV PARKER Le lettere, bianche su fondo blu, brillano nel buio. La sirena dell'ambulanza svanisce in lontananza. Quella che ho davanti sarà una lunga notte: ma quando svolto l'angolo di Vermont Avenue e comincio a correre, so esattamente dove andare. 15. Uscito dallo Stan's Restaurant, Lowell Nash controllò accuratamente i marciapiedi di Vermont Avenue in entrambe le direzioni. Scrutò le ombre nei portoni delle case. Fissò a lungo anche il barbone addormentato sotto la pensilina della fermata dell'autobus all'angolo con L Street. Niente, nemmeno il più piccolo movimento. Perfino l'aria della notte sembrava pendere immobile dal cielo. A questo punto scattò verso l'auto che aveva
parcheggiato a metà isolato. Arrivato vicino alla macchina ricontrollò tutto daccapo: marciapiedi, portoni, pensilina dell'autobus. Se la recente notorietà gli aveva insegnato qualcosa, era che non bisogna correre rischi inutili. Tirò fuori le chiavi della sua Audi argentata, premette il pulsante e udì lo scatto della chiusura centralizzata. Guardò ancora in tutte le direzioni e s'infilò nell'auto, mettendo la sicura alle portiere. «Lui dov'è?» gli domandò Janos, seduto al posto del passeggero. Lowell si lasciò sfuggire un grido involontario e fece un salto, urtando violentemente con il gomito la maniglia della portiera. «Dov'è Harris?» ripeté Janos. «Mi stavo...» fece Lowell massaggiandosi il gomito dolorante. «Accidenti! Mi stavo giusto domandando la stessa cosa a proposito di te.» «Che cazzo stai dicendo?» «Ti ho aspettato per quasi un'ora. Alla fine si è alzato e se n'è andato.» «Era già nel ristorante?» «Sì. E adesso è andato via», rispose Lowell. «E tu dov'eri?» La fronte di Janos si contrasse per la rabbia. «Avevi detto alle dieci.» «No, avevo detto alle nove.» «Non prendermi in giro.» «Giuro, avevo detto alle nove.» «Io invece ti ho sentito dire...» Janos si bloccò a metà della frase e guardò fisso Lowell. Il dolore al gomito doveva essergli ormai passato, eppure il magistrato era ancora piegato in due e se lo massaggiava senza guardarlo in faccia. Se avesse potuto vederli, Janos avrebbe riconosciuto l'espressione di panico dei suoi occhi. Lowell era un debole, ma senz'altro non era un idiota. E Harris era un suo amico. «Non fare lo stronzo con me», lo minacciò Janos. Lowell lo guardò un attimo, con gli occhi dilatati dalla paura: «Mai... non lo farei mai.» Janos strinse un po' gli occhi e si prese il tempo necessario per studiare l'espressione del suo interlocutore. «Lo giuro», aggiunse Lowell. Janos continuava a fissarlo. Passò un secondo. Poi un altro. Improvvisamente il braccio di Janos scattò in avanti come un gatto selvatico. Lo schiaffo colpì Lowell in piena faccia, facendogli sbattere la testa contro il finestrino. Senza lasciargli il tempo di reagire, Janos tese la mano e gli premette la faccia contro il vetro. Lowell lo afferrò per il polso cer-
cando di liberarsi, ma Janos era molto più forte di lui e gli schiacciò la testa con tutto il peso del corpo. Il finestrino cedette con un piccolo schianto. Il vetro rimase al suo posto, ma attraversato da una fitta ragnatela di crepe. Lowell si accasciò sul sedile, portandosi le mani alla testa. Il dolore era lancinante. Un rivolo di sangue gli scendeva lungo il collo. «M-ma sei impazzito?» disse. Janos aprì la portiera e uscì nell'aria tiepida della notte senza dire una sola parola. Lowell impiegò venti minuti buoni a riprendersi. Tornato a casa, disse alla moglie che, laggiù dalle parti della Sedicesima, un ragazzo gli aveva tirato un sasso nel finestrino. 16. «Là, guarda. Ecco, adesso lo fa di nuovo.» Era lunedì pomeriggio, e Viv Parker mormorava all'orecchio di un altro fattorino indicandogli col dito l'anziano senatore dell'Illinois. «Dove?» «Là... là in fondo.» All'altro estremo dell'aula del Senato, nella terza fila di antichi scranni, il senatore dell'Illinois abbassò finalmente gli occhi e si mise a fissare un punto che non aveva niente a che fare con lei. «Io non vedo proprio niente», sussurrò Devin, mentre dietro di loro qualcuno intimava il silenzio battendo con un martelletto. Viv e Devin, fattorini del Senato degli Stati Uniti, come al solito erano seduti sugli scalini foderati di moquette della tribuna degli interventi in attesa di essere chiamati al telefono interno. Non bisognava mai aspettare molto. Effettivamente, meno di un minuto dopo l'apparecchio emise un leggero ronzio e si accese una lucetta arancione. Nessuno dei due si mosse per rispondere. «Aula del Senato, sono Thomas», rispose un fattorino biondo con un forte accento della Virginia, scattando subito in piedi. Viv non capiva proprio perché si alzasse in piedi ogni volta che lo chiamavano. Gliel'aveva anche chiesto, e Thomas le aveva risposto che in parte era per una questione di dignità, in parte per essere pronto se gli avessero chiesto di individuare al volo un senatore. Viv invece pensava che tutti i suoi comportamenti avessero sempre e soltanto un obiettivo: dimostrare in ogni circostanza che il capo-fattorino era lui. Anche sui gradini più bassi della società, la gerarchia è sempre la gerarchia.
«Sì, lo faccio subito», disse il capo-fattorino nel ricevitore. Poi riattaccò e si rivolse a Viv e Devin: «Hanno bisogno di uno di noi.» Devin annuì, si alzò e si avviò di buon passo verso il guardaroba. Viv invece rimase seduta accanto alla tribuna, alzando ancora una volta gli occhi verso il senatore dell'Illinois. Che raddrizzò le spalle e riprese a guardarla storto. Viv cercò di non fissarlo, ma non le andava nemmeno di far finta di niente. Le sembrava che stesse guardando qualcosa che si trovava al di là del suo petto. Viv si mise a giocherellare con il tesserino di riconoscimento del Senato che portava appeso al collo e si domandò se non fosse proprio quello che il senatore stava fissando. Non se ne sarebbe stupita più di tanto: quel tesserino era il suo biglietto d'ingresso, e fin dal primo giorno di lavoro Viv si era angosciata all'idea che qualcuno potesse strapparglielo e portarglielo via. O forse stava guardando la sua giacca, non certo un articolo particolarmente lussuoso... o la fissava perché era nera... o perché era troppo alta, addirittura più dei suoi colleghi maschi: quasi un metro e ottanta, senza contare le scarpe, non proprio nuovissime, e l'alta pettinatura afro uguale a quella di sua madre. Il telefono ronzò lievemente dietro di lei. «Aula del Senato, sono Thomas», disse il capo-fattorino scattando in piedi. «Sì, lo faccio subito.» Poi riagganciò e disse: «Hanno bisogno...» Viv annuì e si alzò in piedi, tenendo gli occhi fissi sulla moquette azzurra del pavimento per non dover incrociare lo sguardo del senatore dell'Illinois. La questione «colore della pelle» non le creava particolari problemi. E anche con l'altezza sapeva di potersela cavare, sua madre le aveva insegnato che non bisogna mai chiedere scusa per ciò che il Signore ci ha dato. Ma riguardo ai vestiti, anche se poteva sembrare stupido... be', ci sono cose che ti toccano anche se non vorresti. Fin dal primo giorno di lavoro in Campidoglio i suoi ventinove colleghi avevano protestato contro l'obbligo di portare l'uniforme. Al Senato tutti i fattorini se ne lamentavano. Tutti tranne lei, che fin dati tempi della scuola, nel Michigan, aveva imparato che a lamentarsi dell'uniforme obbligatoria sono soprattutto quelli che potrebbero permettersi di sfoggiare qualcosa di più alla moda. «Muoviti, Viv. Hanno detto subito», le disse il capo-fattorino senza abbandonare la sua postazione accanto alla tribuna. Viv non si voltò a guardarlo. Anzi, affrettando il passo verso il guardaroba, che si trovava sul retro dell'aula, guardò soltanto la zona di moquette davanti ai suoi piedi. Le sembrava di avvertire lo sguardo del senatore che le bruciava i panni addosso: e per sottrarsi al più presto a quegli occhi au-
mentò l'andatura. Ma mentre percorreva la passerella tra le file di antichi scranni non poté sottrarsi a una vocetta seria e autorevole che le parlava dentro la testa. La stessa che aveva sentito a undici anni, quando Darlene Bresloff le aveva rubato i rollerblade... e a tredici anni, quando Neil Grubin le aveva rovesciato apposta dello sciroppo d'acero sui vestiti della domenica. Una voce decisa e autorevole: la voce di sua madre. Che allora l'aveva costretta ad affrontare Darlene per riavere indietro i suoi rollerblade, subito... e che, per quanto Viv la pregasse di non farlo, era andata a casa di Neil con il suo vestito tutto appiccicoso di sciroppo d'acero, aveva salito i tre piani di scale ed era piombata nel salotto della madre di Neil - che nessuna di loro due aveva mai visto prima d'allora - per farle constatare cosa aveva combinato suo figlio. Anche in quel momento la voce di sua madre le risuonava nella testa mentre camminava sulla passerella dell'aula del Senato... in direzione del senatore dell'Illinois. Forse dovrei dirgli qualcosa, pensò Viv. Niente di scortese, del tipo: Ma che diavolo ha da guardare? No, era pur sempre un senatore degli Stati Uniti, non doveva fare la scema. Meglio un semplice: Buongiorno, senatore... Oppure: Piacere di vederla, senatore... o forse... Posso fare qualcosa per lei? Ecco, ci siamo: Posso fare qualcosa per lei? Semplice ma diretto. Proprio come la mamma. Quando ormai mancavano meno di sei metri per raggiungere il senatore, Viv alzò il mento, ma solo quanto bastava per controllare che fosse ancora là. Non si era mosso di un millimetro dal suo scranno di legno vecchio di centocinquant'anni. E la guardava fisso. Due passi ancora e Viv rallentò impercettibilmente, afferrandosi al tesserino di riconoscimento e grattando con l'unghia del pollice il pezzetto di nastro adesivo con cui ci aveva fissato dietro la foto di sua madre. Sul davanti la faccia di Viv, sul retro quella della mamma. È giusto, aveva pensato il giorno in cui ce l'aveva messa. Non ci era arrivata con le sue sole forze, al Senato. Anzi, da sola non ci sarebbe arrivata affatto. E con la faccia della mamma appoggiata sul petto... be', ognuno attinge forza dove meglio crede. Tre metri più avanti, in fondo alla passerella, il senatore l'aspettava al varco. Non hai ragioni per tirarti indietro, Vivian, l'ammoniva la voce di sua madre dentro la testa. Cerca di essere positiva. Quando le scarpe del senatore entrarono nel suo campo visivo, Viv strinse i denti. Non doveva far altro che alzare gli occhi e pronunciare le parole che si era preparata: Posso fare qualcosa per lei?... Posso fare qualcosa per lei? Continuava a ripeterselo mentalmente, mentre con il pollice grattava il nastro adesivo sul
retro del tesserino. Cerca di essere positiva. Ormai era abbastanza vicina da vedere il risvolto dei suoi pantaloni. Alza gli occhi, adesso, subito, si disse. E cerca di essere positiva. Viv respirò profondamente e fece proprio come aveva deciso: si armò di tutto il suo coraggio, alzò la testa, ficcò gli occhi in quelli grigi del senatore... e li riabbassò subito sulla moquette. «Permesso...», mormorò, inchinandosi leggermente e facendo un passo di lato per schivarlo. Mentre gli passava accanto, il senatore sembrò non vederla affatto. Alla fine della passerella, ormai fuori dall'aula del Senato, finalmente Viv poté lasciar andare il tesserino di riconoscimento... che le rimbalzò dolcemente in mezzo al petto. «C'è qui qualcosa per te, Viv», le disse Blutter non appena ebbe spinto la porta a pannelli e respirato la prima boccata della familiare aria viziata del guardaroba. Originariamente concepito per tenerci i cappotti dei senatori impegnati nelle discussioni in aula, il guardaroba era uno spazio piccolo e sacrificato. In pochi passi Viv raggiunse Blutter. «Deve andare lontano?» fece Viv, che si sentiva esausta. «S-414-D», le rispose Blutter, seduto come al solito al tavolo principale del guardaroba. Ron Blutter, ventidue anni, era il più giovane dei quattro dipendenti a tempo pieno che rispondevano al telefono del guardaroba: proprio per questo era stato nominato capo-guardarobiere, cioè addetto allo smistamento dei fattorini. Blutter sapeva che era un lavoro di merda, quello di seguire passo per passo una squadra di ragazzini brufolosi in piena pubertà, ma era pur sempre meglio di quello del fattorino semplice. «Hanno chiesto di te personalmente», aggiunse Blutter. «Pare ci sia qualcosa da fare nell'ufficio del tuo sponsor.» Viv annuì. Tutti i fattorini, per essere assunti, devono trovare un senatore disposto a fargli da sponsor. Ma in quanto unica fattorina di colore di tutto il Campidoglio, Viv non doveva solamente consegnare messaggi, buste e pacchetti. «Ancora fotografie?» domandò. «Immagino di sì», rispose Blutter stringendosi nelle spalle, mentre Viv firmava il foglio delle uscite. «Anche se, dal numero della stanza... potrebbe anche essere una consegna.» «Sì, probabilmente è così.» Dietro di lei la porta dell'aula del Senato si aprì, il senatore dell'Illinois entrò nel guardaroba e andò subito col suo passo pesante alle vecchie cabine telefoniche di legno poste lungo il lato più corto della stanza. Come al solito, la maggior parte delle cabine era occupata da senatori che rispondevano a qualche chiamata o si facevano quattro chiacchiere in santa pace. Il senatore dell'Illinois entrò nella prima
cabina sulla destra e si chiuse dentro. «A proposito», aggiunse Blutter mentre il telefono ricominciava a suonare. «Non fare caso al senatore Spooky. Non c'è niente che non vada in te, è lui che è fatto così. Ogni volta che sta per fare un intervento in aula comincia a guardare attraverso la gente come se fossimo tutti fantasmi.» «Sì, lo so... ma io...» «Ti dico che non c'è niente che non vada in te. È lui che è fatto così», ripeté Blutter. «Hai capito?» Viv raddrizzò le spalle, sollevò il mento e si abbottonò la giacca. Il tesserino di riconoscimento le riposava in mezzo al petto. Si avviò rapidamente verso la porta, mentre Blutter tornava a occuparsi del telefono. Per nulla al mondo gli avrebbe lasciato vedere il suo sorriso di liberazione. S414-B... S-414-C... S414-D... contava Viv leggendo tra sé e sé i numeri delle stanze del quarto piano. Non sapeva che il senatore Kalo avesse un ufficio lassù in cima, ma sono cose che capitano, in Campidoglio, la gente è sparpagliata un po' dappertutto nei vari edifici che lo compongono. A Viv tornò in mente la storia di quell'impiegata che aveva dato un nuovo significato all'espressione far rapporto al senatore; poi si fermò davanti a una massiccia porta di quercia e bussò forte. In realtà sapeva benissimo che quella storia era una frottola, Blutter doveva aver raccontato la prima cosa che gli era venuta in mente per convincerli a non dimenticare le buone maniere. Be', magari era anche vero che qualche dipendente del Campidoglio se la spassava... ma in generale, a giudicare dal loro aspetto... dalla rigidità con cui si muovevano lungo i corridoi di marmo... no, era difficile immaginare che quelle persone apprezzassero il sesso. Viv aspettò che qualcuno le dicesse di entrare, ma non rispose nessuno. Bussò di nuovo. Giusto per averne conferma. Niente. Girò la maniglia e socchiuse la porta: «Fattorino del Senato...», disse. «C'è nessuno?» Ancora silenzio. Viv non intendeva porsi troppe domande: se un membro dello staff veniva convocato da un senatore per delle fotografie, non doveva fare altro che entrare e sedersi. Quindi entrò nell'ufficio in penombra. Ma subito vide che non c'era nemmeno una sedia libera. Anzi, di sedie non ce n'erano affatto, e nemmeno scrivanie con poltrone di pelle girevoli. In compenso, al centro della stanza c'erano due grandi tavoli di mogano accostati con sopra una dozzina di monitor fuori uso. A sinistra, tre poltro-
ne di pelle rossa erano accatastate l'una sull'altra, mentre a destra c'era un mucchio di schedari vuoti, scatoloni di cartone e tastiere scompagnate. In un angolo si vedeva perfino un frigorifero messo sottosopra. Alle pareti, niente: né un quadro, né un diploma... niente di personale. A dire la verità quello non sembrava affatto un ufficio, aveva piuttosto l'aspetto di un magazzino. E dallo strato di polvere che copriva le veneziane abbassate a metà si capiva che nessuno lo utilizzava più da parecchio tempo. L'unico indizio del fatto che un essere umano doveva essere passato di lì era un bigliettino scritto a mano sull'angolo di uno dei tavoli: PER FAVORE RISPONDI AL TELEFONO Sotto il breve messaggio, il disegno di una freccia indicava un telefono in cima al mucchio di schedari vuoti. Sconcertata, Viv sollevò un sopracciglio domandandosi perché mai qualcuno avrebbe dovuto... Il telefonò squillò. Viv fece un salto indietro e andò a sbattere contro la porta. Si guardò attorno: era sola. Il telefono suonò di nuovo. Viv rilesse il bigliettino e fece un cauto passo avanti, con precauzione. «P-pronto», disse non appena ebbe sollevato il ricevitore. «Pronto, chi parla?» fece una voce calda e amichevole all'altro capo della linea. «Lei chi è?» fece Viv. «Andy», rispose l'uomo. «Andy Defresne. E lei chi è?» «Viv.» «Viv chi?» «Viv Parker», rispose lei. «È... è uno scherzo? Thomas, sei tu?» Si udì un click. L'uomo aveva riagganciato. Viv mise giù la cornetta e alzò gli occhi per scrutare gli angoli del soffitto. Una volta aveva visto qualcosa del genere a Sorridi, sei su una candid camera. Ma non vide nemmeno una telecamera. E più rimaneva in quella stanza più aveva l'impressione di esserci stata anche troppo. Si voltò, raggiunse di corsa la porta e afferrò la maniglia con le dita coperte di sudore freddo. Cercò disperatamente di ruotarla, ma non ci riuscì, era come se qualcuno la stesse tenendo dall'esterno. Diede un altro strattone e finalmente la maniglia cedette. Ma quando la porta si spalancò Viv rimase come impietrita. Un uomo alto e bruno, tutto spettinato, le bloccava l'uscita.
«Sei Viv, vero?» le disse l'uomo. «Giuro che se mi tocchi griderò talmente forte che le palle ti andranno in pezzi come... come palle di vetro.» «Sta' tranquilla», disse Harris entrando. «Voglio solo parlarti un momento.» 17. Le cerco con gli occhi sul risvolto della giacca il tesserino con il nome. Non c'è. Accorgendosi di dove la sto guardando, lei ovviamente ne è terrorizzata. Non la biasimo. Dopo quello che è capitato a Matthew, fa bene a stare in guardia. «Sta' indietro!» mi dice in tono minaccioso. Fa qualche passo verso l'interno della stanza, poi prende fiato e apre la bocca per gridare. Alzo una mano per cercare di bloccarla, ma all'improvviso lei piega la testa da un lato, solleva un sopracciglio e dice: «Aspetta un po'... ma io ti conosco!» Alzo anch'io un sopracciglio dalla sorpresa: «Scusa?» «Quel... quel discorso ai fattorini...» A forza di arretrare è arrivata con la schiena contro l'angolo del tavolo, si ferma e continua a fissarmi. «Sei stato bravo, davvero. Quello che hai detto sull'importanza di farsi i nemici giusti... sai, ci ho pensato una settimana intera.» Forse vuole solo adularmi. Nel dubbio cerco di non abbassare la guardia. «E anche quella volta che...» Si blocca improvvisamente e si fissa la punta delle scarpe. «Cosa?» faccio io. «Quella storia del Lorax...» «Non so di cosa stai parlando.» «Avanti... quando hai appuntato la spilla del Lorax sulla giacca dell'onorevole Enemark. È stato davvero forte!» Come stavo dicendo, non vorrei abbassare la guardia. Ma vedendola sorridere con quel sorriso aperto che le si sparge su tutta la faccia, mi sembra di cominciare a capire qualcosa di lei. A un primo sguardo sembra un po' troppo seria e imponente, e non solo per la giacca blu che la invecchia di un paio d'anni. Basterebbe l'altezza: quasi un metro e ottanta, più alta di me. Man mano che la osservo, però, noto altri elementi che vanno a comporre un quadro abbastanza diverso. Mentre si appoggia al tavolo col fon-
doschiena, per esempio, abbassa le spalle e piega un po' il collo: lo stesso trucco che usava Matthew per non sembrare tanto alto. «E lui non se ne accorse, vero?» mi fa, con un'ombra di esitazione nella voce. «Del Lorax, voglio dire.» Non vuole sembrare curiosa o petulante, ma l'eccitazione è più forte di lei. All'inizio ho pensato che fosse solo una manovra diversiva, ma adesso non ne sono più tanto sicuro. Stringo un po' gli occhi per studiarla meglio. Le cuciture della giacca sono un po' consunte... le pieghe della camicia tutt'altro che perfette... decisamente non viene da una famiglia ricca. E dal modo in cui giocherella con le dita per nascondere la mancanza di un bottone direi che la cosa le pesa. A diciassette anni è comunque difficile sentirsi a proprio agio, e il fatto di lavorare in un posto dove tutti hanno almeno dieci o vent'anni più di te non aiuta affatto. Eppure questi occhi castano scuro non dimostrano diciassette anni. Forse è per la precoce indipendenza dei figli di genitori poveri, oppure questa ragazza sta per vincere l'Oscar come migliore attrice protagonista. L'unico modo di scoprirlo è farla parlare. «Chi ti ha raccontato del Lorax?» Volta timidamente la testa, come per sottrarsi alla domanda. «Non gli dirai che te l'ho detto, vero? Devi promettere...» Sembra davvero in difficoltà. «Hai la mia parola», faccio io, fingendo di reggerle il gioco. «È stato LaRue... quello del bagno.» «Il lustrascarpe?» «Hai promesso di non dirglielo... L'abbiamo incontrato in ascensore che ridacchiava tra sé, e allora Nikki e io gli abbiamo chiesto che cosa c'era da ridere e lui ce l'ha raccontato, ma ci ha fatto giurare di non dirlo a nessuno.» Le parole le rotolano fuori dalla bocca come se stesse confessando una cotta delle medie. Eppure dietro ogni sillaba si sente una sfumatura di panico. Pare che prenda molto sul serio la parola data. «Non sei pazzo, vero?» mi fa. «E perché dovrei esserlo?» replico io, per farla parlare ancora. «No... Dicevo così, per dire...» Si blocca, ma quasi subito il sorriso torna a illuminarle il viso. «Ma se posso dire la mia... senza esagerazioni, credo che quello del Lorax sia stato lo scherzo più riuscito di tutti i tempi! E poi Enemark era proprio il deputato perfetto, non tanto per lo scherzo in sé, quanto per il principio», continua, e la sua voce diventa calda e piena. Un fiotto di puro idealismo. Impossibile da arginare. «Sai, mio nonno è stato uno degli ultimi ferrovieri addetti ai vagoni Pullmann e ci diceva sempre
che se non sapevamo scegliere le battaglie giuste...» «Ma hai una vaga idea del guaio in cui ti sei cacciata?» la interrompo bruscamente. Tira finalmente il freno. «Cosa?» Evidentemente non mi ricordo più com'è avere diciassette anni. Da zero a cento e da cento a zero in meno di un respiro. «Lo sai di cosa sto parlando.» Rimane a bocca aperta dallo stupore. «Aspetta un po'», mi fa, cominciando a ciancicare il tesserino di riconoscimento che porta al collo. «Stai parlando delle penne del Senato che Chloe ha voluto a tutti i costi rubare? Io gliel'avevo detto di non farlo, ma lei continuava a ripetere che se le avevano messe lì era per...» «Non ti risulta di aver perso qualcosa, ultimamente?» le faccio, tirando fuori di tasca il suo tesserino blu e sventolandoglielo sotto il naso. Sembra sinceramente sbalordita. «Dove l'hai trovato?» «E tu dove l'hai perso?» «Io... non ne ho la più pallida idea. È scomparso la settimana scorsa, all'improvviso, e me ne stanno facendo uno nuovo.» Che menta oppure no, questa ragazza non è una stupida. Se si è cacciata in qualche guaio, probabilmente vuole scoprire quanto ci è invischiata. «Perché? Dove l'hai trovato?» Decido di tentare un bluff. «Me l'ha dato Toolie Williams», rispondo, ricordandomi il nome del ragazzo di colore che ha investito Matthew. «Chi?» Devo irrigidire la mascella per mantenere la calma. Infilo ancora la mano in tasca e ne tiro fuori la foto che ho ritagliato dal giornale del mattino. Toolie ha le orecchie a sventola e un sorriso strano, troppo dolce. Nel dispiegarle la foto sotto gli occhi per poco non la strappo dal nervoso. «Mai visto prima?» domando, tendendole la foto. Scrolla la testa. «No, non mi pare...» «Ne sei proprio sicura? Non è un tuo fidanzatino? O magari uno che hai conosciuto alla...» «Perché? Chi è?» I movimenti che la muscolatura della faccia umana è in grado di compiere sono quarantatré. Ogni giorno vedo mentire spudoratamente amici, senatori e deputati: si tira indietro il labbro inferiore, si alzano le sopracciglia, si abbassa il mento. Ormai conosco tutti i trucchi. Ma che possa morire se, osservando questa ragazza alta, di colore e con la pettinatura afro rie-
sco a individuare una sola contrazione muscolare che denoti qualcosa di diverso dalla più candida innocenza. «Aspetta un momento», fa lei, mettendosi improvvisamente a ridere. «È uno dei tuoi famosi scherzi? Te l'ha suggerito Nikki?» Volta e rivolta il tesserino blu col suo nome, quasi per controllare se dietro c'è un altro Lorax. «Cos'hai fatto, l'hai riempito d'inchiostro così la prossima volta che parlo con un senatore gliene arriva uno spruzzo in faccia?» Si sporge un po' in avanti per osservarlo meglio, con cautela. L'altro, quello che porta appeso al collo, rimane sospeso nel vuoto e comincia a girare su sé stesso. Sul retro, attaccata col nastro adesivo, c'è la foto di una donna di colore. Probabilmente sua madre, o forse una zia. La persona che le dà forza, o che almeno ci prova. La osservo ancora un po'. Niente trucco... niente bigiotteria alla moda... nemmeno un taglio di capelli un po' studiato: Viv non esibisce nessuno dei simboli della popolarità. E poi quelle spalle curve... In ogni scuola c'è una ragazza come lei, l'eterna esclusa, condannata a starsene in disparte e a guardare gli altri da lontano. Poi, nel giro di cinque anni, la reietta esce dal bozzolo e tutti si domandano come mai non l'hanno notata prima. Ma lei se ne rimane in fondo alla classe e continua a osservare gli altri senza parlare. Anche Matthew era così. E lo ero anch'io. Scrollo la testa, ragionando tra me e me: no, questa ragazza non è un killer e non lo sarà mai. «Ascoltami, Viv...» «Non capisco chi possa essere questo Toolie», fa lei, ridacchiando. «Anche il nome te l'ha suggerito Nikki?» «Lascia perdere Toolie: non ha nessuna importanza. È solo... è solo uno che conosceva un mio amico.» Adesso sembra confusa. «Allora cosa c'entra col mio tesserino?» «È proprio quello che sto cercando di scoprire.» «Bene: e come si chiama il tuo amico?» Decido di gettare un ultimo amo: «Matthew Mercer.» «Matthew Mercer... Matthew Mercer...», fa lei. «Dove l'ho già sentito?» «Non l'hai sentito. Tu non...» «Aspetta, aspetta!» m'interrompe lei. «Non è quello che è stato investito da un pirata della strada?» Le strappo quasi di mano la foto ritagliata dal giornale. Adesso è lei a studiare me. «Era lui ad avere il mio tesserino?» Non rispondo. «E perché mai?...» Nota la mia espressione e si blocca di colpo. «Se ser-
ve a farti sentire meglio, non ho la più pallida idea del perché ce l'avesse lui. Voglio dire, capisco che tu sia sconvolto per l'incidente capitato al tuo amico...» Quando pronuncia la parola incidente alzo involontariamente gli occhi. Viv mi sta guardando fisso. A bocca aperta - dettaglio che tradisce la sua giovane età - ma negli occhi mi sembra di cogliere qualcosa di più. C'è della profondità in quello sguardo. «Cosa c'è?» mi fa. Volto la testa, come se avessi sentito dietro di me un rumore immaginario. «È stato un incidente, vero?» «Okay, adesso diamoci una calmata», le dico, costringendomi a ridere. «È ora che tu vada, Viv. Ti chiami Viv, vero? Piacere, Viv, io sono Harris.» Le stringo la mano e l'altra gliela metto amichevolmente su una spalla. È un trucco che ho imparato dal senatore: di solito la gente non parla mentre la si tocca. Viv non si sottrae, ma continua a fissarmi con i suoi occhi color caffè. «È stato un incidente: sì o no?» «Ma certo che è stato un incidente. Ne sono sicurissimo. È solo che... quando Matthew è stato investito il tesserino col tuo nome era poco lontano di lì, in un cassone dei rifiuti. Tutto qui. Niente di cui preoccuparsi... Ho promesso alla sua famiglia che avrei fatto qualche domanda in giro. Adesso sappiamo che era una semplice coincidenza: un oggetto senza alcun significato preciso che qualcuno, chissà perché, aveva gettato nei rifiuti.» Niente male come discorsetto. Scommetto che il novantanove per cento della popolazione mondiale ci crederebbe. Purtroppo però non sono sicuro che questa ragazza non appartenga al restante uno per cento. Ma alla fine pare che tutto si risolva per il meglio: Viv annuisce, sembra sollevata. «Tutto bene, allora? Hai scoperto quello che volevi sapere?» È la domanda più difficile che mi abbia fatto nei dieci minuti da che la conosco. Stamattina, al mio risveglio, pensavo che questa Viv mi avrebbe dato tutte le risposte che stavo cercando. E invece sono arrivato a un punto morto, e potrò ricominciare a muovermi solo quando avrò scoperto chi altri giocava a Rischio Zero. Nell'ufficio di Matthew devono esserci degli schedari... Nel cassetto della mia scrivania ho lasciato delle note... Ma ci vuole tempo per frugare in quel casino. E poi Janos non è uno stupido, e se mi azzardo a rimettere piede nella mia vecchia vita scommetto che lo tro-
verò là, pronto a cacciarmi nel petto quel suo piccolo elettroshock portatile. Il tentativo di farmi aiutare da un amico l'ho già fatto, e dovrei essere pazzo per correre di nuovo un rischio simile. Giro lo sguardo tutt'attorno alla stanza, ma non posso farci niente, non ho scampo. Dovrei riuscire a rendermi invisibile... oppure trovare qualcuno che lavori qui e che sia disposto ad aiutarmi. «Grazie ancora per aver ritrovato il mio tesserino.» Viv interrompe le mie elucubrazioni. «Se posso fare qualcosa per ricambiare...» Mi chino bruscamente verso di lei e pronuncio le parole che mi stanno ronzando in testa. Non è certo la scommessa più ragionevole della mia vita, ma mi sto giocando la pelle e non ho molte alternative. «Ascolta, Viv, odio essere pesante, ma... dicevi sul serio che vorresti ricambiarmi il favore?» «C-certo... ma se ha a che fare con Matthew... ecco, non so...» «No, no, nient'affatto», la rassicuro. «Solo una piccola commissione per un'udienza cui sto lavorando. Non ti ruberà più di due minuti: ti va di farlo?» Senza dire parola Viv passa in rassegna tutta la stanza, dalle tastiere dei computer alla catasta di vecchie poltrone girevoli. In effetti è l'unico punto debole della mia storia: se tutto sta andando per il verso giusto, perché diavolo siamo qui a parlare in un magazzino abbandonato? «Ecco, Harris, non saprei...» «Ti mando solo a prendere una cosa, non se ne accorgerà nessuno. Devi solo cercare una cartelletta...» «In teoria non dovremmo accettare incarichi che non ci vengano affidati nel guardaroba del Senato...» «Ti prego, Viv... è solo una normalissima cartelletta.» «Mi dispiace per il tuo amico.» «Te l'ho già detto, Matthew non c'entra.» Viv abbassa gli occhi e nota subito il rammendo sul ginocchio dei miei pantaloni. Dopo il volo di ieri ho dovuto andare in tintoria per farmeli aggiustare. Avverto la sua paura. Ricomincia meccanicamente a giocherellare col tesserino di riconoscimento. «Mi spiace», dice poi, con la voce leggermente incrinata. «Non posso.» Meglio non insistere. Lascio perdere e mi costringo a sorridere: «Va bene, capisco. Non fa niente.» Quando avevo diciassette anni, nel momento stesso in cui un pensiero mi si formulava nella testa mi usciva anche dalla bocca. Viv invece, sia
detto a suo onore, sa stare zitta. Apre la porta, è già quasi fuori dalla stanza. «Ascolta, dovrei...» «Dovresti andare, ora», cerco di aiutarla. «Ma se tu...» «Non ti preoccupare. Chiamerò giù in guardaroba, manderò qualcun altro.» Annuisce, senza togliermi gli occhi di dosso. «Mi spiace davvero per il tuo amico.» La ringrazio con un cenno. «Allora ci rivediamo qua in giro per il Campidoglio?» fa lei. Mi costringo ancora una volta a sorridere. «Ma certo. E se ti capita di avere bisogno di qualcosa vieni pure a cercarmi in ufficio.» Questa parte le piace. Poi, abbassando la voce per fare più impressione, aggiunge: «E non dimenticarti: la cosa più importante è farsi i nemici giusti...» «Su questo non c'è dubbio», replico alla porta già chiusa. È andata. La mia voce si riduce a un sospiro: «Non c'è dubbio...» 18. Al momento di infilare il corridoio del quarto piano, quando si fu chiusa la porta alle spalle, Viv s'ingiunse di non voltarsi indietro. Non le importava nulla di scoprire come aveva fatto il suo tesserino di riconoscimento ad arrivare dove l'avevano ritrovato: le bastava l'espressione disperata che aveva visto sulla faccia di Harris per capire che quella storia era destinata a finire male. La prima volta che l'aveva visto, all'orientamento dei fattorini, quell'uomo camminava con un passo così leggero e armonioso che lei aveva avuto la tentazione di guardargli i piedi per vedere se toccavano terra. E nemmeno ora, a distanza di tempo, era sicura della risposta. Non era semplice carisma: alla chiesa che frequentava nel Michigan ne aveva visto fin troppo, di carisma. In Harris c'era qualcosa di più. Dei quattro oratori che avevano pronunciato un discorso di benvenuto alla riunione d'orientamento, due avevano espresso degli ammonimenti. Uno aveva dato dei consigli. Ma Harris... lui gli aveva consegnato una sfida. Non solo in quanto fattorini: una sfida in quanto esseri umani. Aveva detto che proprio questa era la prima regola della politica: non escludere mai nemmeno il più insignificante degli esseri umani. Mentre le parole fluivano dalla sua bocca, l'uditorio era stato ad ascoltarlo attentamente. Ma
oggi, in quella stanza piena di mobili vecchi, Viv l'aveva visto con chiarezza: l'uomo che aveva avuto il fegato di pronunciare quel discorso oggi non esisteva più. Harris era molto scosso... lo si sarebbe detto sull'orlo del... Be', diciamo che la sua fiducia in sé stesso era stata demolita. Qualsiasi cosa l'avesse colpito, doveva avergli spezzato la schiena. Viv accelerò il passo per raggiungere l'ascensore. Non ci vuole una grande esperienza politica per riconoscere un uragano quando lo si vede arrivare, e lei non se la sentiva proprio di gettarsi a capofitto nel vortice. «Non è un problema tuo», continuava a ripetersi. «Va' avanti, continua a camminare.» Ma dopo aver premuto il pulsante dell'ascensore non riuscì più a trattenersi, e si voltò un attimo a guardare la porta dietro cui aveva lasciato Harris. Era ancora chiusa. Niente di strano. A giudicare dal suo colorito terreo, chissà quando sarebbe riuscito a uscirne. Un sommesso brontolio ruppe il silenzio e la porta dell'ascensore si aprì sulla manovratrice: una donna di colore molto scura, con una ragnatela di capelli grigi sulle tempie. Dalla sua postazione di lavoro, sulla panca interna dell'ascensore, alzò gli occhi su Viv e subito dopo li spalancò constatando quanto era alta. «Tua mamma ti ha sempre dato da mangiare la roba giusta, vero?» disse. «Sì... immagino di sì.» La manovratrice immerse nuovamente la faccia nel giornale che stava leggendo. Ormai Viv ci aveva fatto il callo. Era dagli anni del liceo che non le riusciva più di passare inosservata. «Che fai, torni alla base?» le chiese la manovratrice da dietro il giornale. «Già», rispose Viv stringendosi nelle spalle. Udendo il suo tono di voce, la manovratrice abbassò il giornale. «Giornata di merda, eh?» «Non so. Strana, direi.» «Cerca di vedere il lato buono delle cose: per pranzo abbiamo avuto i tacos con l'insalata», disse la donna rimettendosi a leggere, mentre l'ascensore scivolava verso il basso. Viv annuì, ma l'altra già non la guardava più. E sempre senza guardarla aggiunse: «Non tenere il broncio, dolcezza, o ti si appiccicherà per sempre alla faccia.» «Non sto... Io...» Viv si bloccò a metà della frase. Se le ultime settimane le avevano insegnato qualcosa, era che a stare zitti non si sbaglia mai. La sua famiglia aveva cercato di inculcarglielo fin da bambina: sia il papà, ufficiale nell'esercito, sia la mamma, assistente di un dentista, le avevano in-
segnato l'importanza di saper tenere la bocca chiusa e le orecchie bene aperte. Anzi, era proprio così che Viv aveva avuto il posto in Campidoglio: circa un anno prima sua madre se ne stava come al solito china sulla sedia del dentista mentre a un paziente in abito gessato veniva estratto d'urgenza un dente del giudizio; e se non avesse prestato orecchio alle parole smozzicate che uscivano da quella bocca non avrebbe mai saputo che il paziente era proprio il senatore Kalo del Michigan, da sempre uno degli sponsor del servizio fattorini. Quattro otturazioni dopo il senatore usciva dallo studio del dentista con il nome di Viv Parker nel taschino della giacca. Era stato proprio questo incontro casuale a cambiarle la vita: un favore gentilmente offerto da uno sconosciuto. Viv si appoggiò alla parete dell'ascensore e si mise a leggere il giornale da sopra la spalla della manovratrice. Un altro giudice della Corte Suprema aveva rassegnato le dimissioni. La figlia del Presidente era di nuovo nei guai. Il resto del giornale era in terra, ficcato sotto la panca della manovratrice, con la pagina della cronaca cittadina rivolta verso l'alto. Gli occhi di Viv scorsero rapidamente il titolo: Pirata della strada: resa nota l'identità del conducente. Appena sotto c'era la foto che Harris le aveva mostrato poco prima, quella del ragazzo di colore dallo strano sorriso. Toolie Williams. Viv non riuscì più a staccarne gli occhi. Per una qualche oscura ragione il tesserino col suo nome era stato ritrovato accanto a un cadavere. Nemmeno la migliore delle spiegazioni poteva essere buona abbastanza. «Posso dare un'occhiata al giornale?» chiese Viv chinandosi per estrarre le pagine di cronaca da sotto la panca. Quando la foto le si avvicinò bruscamente agli occhi dovette stringerli un po', perché l'immagine si era sfuocata in una nube di puntolini grigi. Allontanò subito il giornale, ed eccolo di nuovo lì, Toolie Williams. I suoi pensieri tornarono al senatore Kalo. «Ecco, sei arrivata», disse la manovratrice quando l'ascensore si fermò e la porta si aprì con un gemito. «Secondo piano...» Dal momento in cui aveva chinato la testa davanti al senatore dell'Illinois per poi tirare dritto e sottrarsi al suo sguardo obliquo, Viv non aveva smesso di sentire la voce di sua madre: Impara a difenderti. Devi saperti difendere da sola. Era anche per questo che le aveva fatto avere quel posto in Campidoglio. Ma in quel preciso momento, mentre fissava come ipnotizzata la foto granulosa del giornale, Viv comprese che la mamma non le aveva detto tutto. Non basta sapersi difendere da soli, bisogna anche saper intervenire in difesa di quelli che hanno bisogno di noi.
«Allora, scendi o no?» le chiese la manovratrice. «Ecco, in realtà credo di aver dimenticato una cosa di sopra», rispose Viv. «Sei tu che comandi, signorina. Quarto piano, allora... e su e giù, e poi daccapo.» Non appena la porta cominciò ad aprirsi, Viv schizzò fuori dall'ascensore e corse fino in fondo al corridoio, pregando in cuor suo che non fosse già troppo tardi. La giacca misura extra-large le sventolava dietro al ritmo della corsa. Se non l'avesse trovato... No, non voleva nemmeno pensarci. «Cerca di essere positiva. Cerca di essere positiva», continuava a ripetersi. «Attenzione... Pista!» gridò, passando fra due impiegati con le braccia cariche di raccoglitori che occupavano tutto il corridoio. «Ehi, va' piano!» le disse il più alto dei due. Tipico, pensò Viv. Chiunque crede di poter dare ordini a un fattorino. Istintivamente rallentò, passando dalla corsa a un passo molto sostenuto, ma qualche secondo dopo si voltò a guardarli. Non erano altro che semplici impiegati. Certo, lei era solo un fattorino, ma... anche loro non erano molto di più. Si rimise a correre. Fare di testa sua le fece bene, più di quanto non si sarebbe aspettata. Giunta alla fine del corridoio si fermò di botto, si assicurò che non ci fosse nessuno in vista e bussò. «Sono io!» disse. Silenzio. «Harris, sono io, Viv. Sei ancora lì?» Nessuna risposta. Viv cercò di girare la maniglia. Invano: la porta era chiusa dall'interno. «Harris, è urgente!...» Si udì un piccolo click. La maniglia ruotò, la massiccia porta di legno si socchiuse appena e Harris infilò la testa nella fessura per gettare uno sguardo ansioso in corridoio. «Stai bene?» le chiese. Viv si ripeté mentalmente la domanda, asciugandosi le mani sui pantaloni. Se voleva andarsene, questo era il momento. Sentiva il piccolo peso del tesserino di riconoscimento al collo, ma non lo toccò. No, stavolta no. Invece fissò Harris dritto negli occhi. «Ecco, io... volevo solo... hai ancora bisogno che vada a prenderti quella cartellina?»
Harris cercò di nascondere un sorriso, ma ci riuscì solo a mezzo. «Guarda che potrebbe non essere tanto semplice. Sei sicura di volerlo fare?» «Harris, io e un'altra ragazza eravamo le uniche due studentesse di colore in una scuola frequentata solo da bianchi: e io ero quella con la pelle più scura. Una volta qualcuno scassinò il mio armadietto e mi scrisse sporca negra sul retro della maglietta da ginnastica. Credi che possa essere più dura di così? Adesso dimmi dove devo andare prima che mi innervosisca e cambi idea.» 19. In piedi davanti al foglio di carta attaccato col nastro adesivo sul frigorifero del guardaroba, Viv seguiva con l'indice l'elenco alfabetico dei senatori. Ross... Reissman... Reed. Dietro di lei, nell'aula del Senato, il senatore Reed della Florida stava parlando per l'ennesima volta dell'importanza dell'affitto a riscatto nella vita della nazione. Era il suo modo per far salire l'indice d'ascolto. E un'ottima scusa per portargli un buon bicchiere d'acqua fresca, poveretto, poiché dopo tanto parlare doveva avere la gola secca. Che ne fosse consapevole o meno. Cercò la casella corrispondente al senatore Reed sulla carta dell'acqua, divisa in tre colonne: con ghiaccio, senza ghiaccio, frizzante. Le pareva che quello fosse uno dei principali indicatori del potere che ancora il Senato deteneva: non si prendeva nota semplicemente di come ciascun senatore gradiva il caffè, ma addirittura di come gli piaceva l'acqua. Secondo la lista questo Reed era un tipo da acqua senza ghiaccio. Dati significativi pensò Viv. Estrasse in fretta una bottiglia d'acqua dal frigorifero, la mise in un cestello di vetro refrigerato e si avviò verso l'aula. In realtà il senatore Reed non aveva chiesto niente: anzi, non aveva nemmeno fatto cenno per attirare l'attenzione di un fattorino. Ma Viv conosceva i meccanismi di sicurezza che regolano la vita dei fattorini: tutti quei diciassettenni lavoravano affiancati a impiegati un po' più anziani proprio perché si sapesse dov'erano in ogni momento. Se aveva bisogno di sparire per un'oretta, doveva fare in modo che sembrasse una questione di lavoro. Entrò in aula e posò la bottiglia accanto al leggio del senatore Reed, il quale, come al solito, non le fece minimamente caso. Lei sorrise e si chinò verso di lui - giusto il tempo necessario perché la cosa risultasse credibile e per qualche secondo rimase lì, come ascoltando le sue istruzioni. Poi girò
su sé stessa come una persona che ha un nuovo scopo nella vita, tornò nel guardaroba e andò a parlare con il fattorino-capo. «Reed mi ha chiesto di fare una commissione», annunciò a Blutter, impegnato come al solito a rispondere al telefono. Poi scorse con gli occhi il foglio delle presenze e si segnò in uscita: nella casella DESTINAZIONE scrisse RAYBURN BUILDING - il posto più lontano in cui si potesse mandare un fattorino interno. Più che sufficiente per garantirle un'ora di libertà. Non le serviva altro. Cinque minuti dopo apriva la porta di noce del guardaroba della Camera. «Sono qui per un ritiro», aveva annunciato all'addetto alla sorveglianza, che l'aveva lasciata passare. Nel guardaroba fu investita da un forte aroma di hot dog caldi. In fondo a sinistra, l'odore avvolgeva una piccola folla di deputati e funzionari che si accalcavano attorno a un registratore di cassa. Nessuno che fumasse il sigaro o si dedicasse alle consuete attività da corridoio cui era abituata, dunque era questa l'aria che tirava nel guardaroba della Camera. Non appena quell'odore le giunse alle narici, Viv colse subito la sottile ma ineludibile differenza: ai senatori, ovunque si trovassero, veniva portata l'acqua che preferivano, con o senza ghiaccio, mentre i deputati dovevano sgomitare per un hot dog. Il Club dei Milionari contro la Casa del Popolo. Una nazione unita sotto il volere di Dio. «Cerchi qualcuno?» le domandò una voce femminile mentre si avviava verso l'aula della Camera. Viv si voltò: a un tavolo di legno scuro sedeva una donna giovane e minuta con i capelli biondi e ricci. «Sì, il responsabile del servizio fattorini», le rispose. «Personalmente preferisco chiamarlo madre superiora», cavillò la donna con un'espressione abbastanza seria da indurre Viv a domandarsi se stesse scherzando. Ma subito dopo squillò un telefono e lei si buttò sulla cornetta. «Guardaroba», disse. «Sì... il numero della stanza? Benissimo, gliene mando subito uno.» E fece cenno con un dito ai fattorini seduti sulle panche di mogano. Un diciassettenne latinoamericano in pantaloni grigi e giacca sportiva blu saltò subito in piedi. «Pronto per una bella corsa, A.J.?» disse la donna, mentre il ragazzo squadrava Viv e la sua uniforme con un ghigno leggermente beffardo. Giacca elegante invece che sportiva: la contrapposizione Camera-Senato coinvolgeva anche i fattorini. «Prelievo al Rayburn Building, ufficio B351-C», disse la donna.
«Ancora?» gemette il fattorino. «Ma non hanno mai sentito parlare di posta elettronica?» Ignorando le lamentele del ragazzo, la donna si rivolse nuovamente a Viv. «Allora, cosa posso fare per te?» «Vengo dal Senato...» «Questo lo vedo.» «Ecco... be'... Noi... ci stavamo chiedendo se avete un registro delle consegne effettuate dai fattorini. Un senatore afferma di aver ricevuto un pacchetto, la settimana scorsa, e di aver dato al fattorino che glielo aveva recapitato un'altra busta da consegnare, ma ovviamente, trattandosi di un senatore, non ha fatto assolutamente caso se il fattorino era della Camera o del Senato. Ai loro occhi siamo tutti uguali, no?» La donna sorrise della sua battuta e Viv fece un sospiro di sollievo. Ci siamo, pensò. «Solo prelievi e consegne di oggi», disse la donna indicandole con un cenno della testa il foglio che aveva davanti. «Tutto il resto viene cestinato.» «Quindi non c'è nessuna documentazione sul passato...» «Solo su oggi. Nient'altro. Ogni sera, alla chiusura, butto via tutto. A essere sincera, è già abbastanza difficile sapere in ogni momento dove siete. Se uno di voi dovesse scomparire... be', lo sai cosa può succedere se si lascia scorrazzare una banda di diciassettenni in un palazzo pieno di membri del Congresso...» E sbuffò forte dal naso inclinando la testa all'indietro. Viv non replicò. «Rilassati, dolcezza, è solo un po' di umorismo da fattorini.» «Sì, certo», fece Viv sforzandosi di sorridere. «Ascolti... non so, potrei avere una fotocopia di questi fogli? Almeno torno con qualcosa da fargli vedere.» «Fa' pure», rispose la donna coi riccioli biondi. «Se può servire a facilitarti la vita...» 20. Chiuso nell'ufficio-magazzino, mentre aspetto il ritorno di Viv, mi appoggio il ricevitore del telefono fra la spalla e il mento e digito un numero. «Ufficio del deputato Grayson», risponde la voce di un uomo giovane con un forte accento del Sud Dakota. Un punto a favore di Grayson. Quando un elettore chiama al telefono, la prima cosa che sente è la voce
del centralinista: per questo i deputati più in gamba fanno in modo che i dipendenti a contatto con il pubblico abbiano sempre l'accento giusto. Guardo oltre la catasta di poltrone girevoli, stringo la cornetta e concedo al mio interlocutore una pausa sufficientemente lunga da fargli intendere che sono molto occupato. «Salve, ho bisogno di parlare con il vostro addetto agli stanziamenti. Non so come sia potuto accadere, ma credo di aver perso la sua nota informativa.» «Chi devo dire?» Sarei tentato di usare il nome di Matthew, ma probabilmente la notizia della sua morte ha già fatto il giro degli uffici. Scelgo di puntare sul fattore paura: «Chiamo dagli stanziamenti interni. Ho bisogno di...» Il tipo mi ha già messo in attesa. Torna dopo qualche secondo. «Mi spiace, il suo assistente dice che è appena uscito.» È una frottola grossolana. A quel livello i membri dello staff non hanno l'assistente personale. Dovevo aspettarmelo. Se chiami su una linea normale vuol dire che non sei nessuno e che non vale la pena di parlare con te. «Gli dica che chiamo dall'ufficio del Direttore e che devo parlargli di una richiesta del deputato Grayson...» Mi ha rimesso in attesa. Passano pochissimi secondi. «Resti in linea, per favore. Le passo Perry...» Prima regola della politica: tutti hanno paura di qualcosa. «Sono Perry», fa una voce rauca e graffiante. «Ehilà, Perry, chiamo dagli stanziamenti interni, devo compilare certe scartoffie riguardanti Matthew dopo quanto gli è...» «Sì, ho sentito. Mi dispiace moltissimo. Matthew era un caro ragazzo.» Sentendogli dire era chiudo un secondo gli occhi. «Cosa posso fare per te?» domanda Perry. Ripenso alla nostra ultima scommessa. Qualsiasi cosa Matthew abbia visto... la ragione per cui lui e Pasternak sono stati uccisi... tutto ha avuto origine da lì: dalla vendita di una miniera d'oro nel Sud Dakota che bisognava mettere a bilancio. Per il momento so solo che la richiesta era partita dall'ufficio di Grayson, ed è per questo che spero di avere qualche delucidazione da Perry. «Ecco, in questo momento stiamo riprendendo in esame alcune richieste», gli spiego. «E dato che Matthew... se n'è andato, vogliamo assicurarci di conoscere le priorità di ciascuno.» «Certo, certo... se posso darti una mano lo faccio volentieri.» Perry lavora per un deputato non molto influente, e probabilmente pensa che potrei essergli utile per far approvare qualche loro progetto. È per questo che
buona parte della ruvidezza sembra essere evaporata dalla sua voce. «Okay», attacco, fissando il foglio bianco che ho in mano. «Ho sotto gli occhi la lista delle vostre richieste, e immagino non rimarrete sconvolti nell'apprendere che non potremo accontentarvi in tutto...» «Certo, certo...», dice ancora lui, ridendo piano. Mi pare di vederlo mentre si dà una manata sul ginocchio. Chissà come faceva Matthew a sopportarlo. «Allora, quali di questi progetti sono per voi di primaria importanza?» gli faccio. «Il sistema fognario», risponde lui pronto, quasi senza riprendere fiato. «Se almeno questo poteste infilarcelo... vedi, se riusciamo a realizzare questa importante miglioria idraulica, come dire, credo che in quel distretto saremmo a cavallo.» Il tipo è meno scemo di quanto pensassi. Sa che nella scala del potere il suo deputato occupa uno degli scalini più bassi, e pur desiderando avere tutti i bei giocattoli della sua lista si riterrà fortunato di portarne a casa almeno uno. Quindi meglio concentrarsi sulla casa di Barbie. «Sì, credo proprio che quelle fogne... potrebbero farci vincere le elezioni», aggiunge, già pronto alla supplica. «Vuoi dire che tutte le altre voci della lista...» «Sono roba secondaria.» «Anche la miniera d'oro?» faccio io, tentando il bluff. «Mi era parso che Grayson ci tenesse.» «Ma se non ne ha mai sentito parlare! L'abbiamo messa nella lista perché un elettore ce l'ha chiesto: un semplice "faremo il possibile".» Anche Matthew, quando abbiamo commentato insieme l'oggetto della scommessa, ha detto così: probabilmente a Grayson non gliene importa un fico secco. Allora, o questo Perry la pensa allo stesso modo o sta cercando di battere il record mondiale di stupidità. «Strano...» faccio io, cercando di andare più a fondo. «Matthew diceva di aver ricevuto più d'una telefonata in merito.» «Se è stato Grayson, è solo perché quelli della Wendell Mining gli stavano addosso.» Scrivo le parole Wendell Mining sul foglio intonso. Quando giocavo a Rischio Zero, pensavo che le votazioni e le richieste su cui ci veniva proposto di scommettere non avessero in sé la minima importanza, ma oggi forse potrei ricavarne qualche indizio su chi partecipava al gioco. «E il resto della vostra delegazione?» domando ancora, alludendo agli
altri senatori del Sud Dakota. «C'è qualcuno che si metterà a strillare come un'aquila se la cassiamo?» Lui penserà che io voglia pararmi il culo prima di tagliar fuori dal bilancio la miniera d'oro, ma in questo modo spero di capire chi altri ha espresso interesse per quel progetto. «No, nessuno», fa lui. «Qualcuno decisamente contrario?» «È una cupa miniera d'oro accanto a una cittadina talmente piccola da non avere nemmeno un semaforo. A essere sincero credo che a parte noi due nessuno ne abbia mai sentito parlare.» E fa nella cornetta un'altra di quelle sue risatine con tanto di pacca sul ginocchio che mi fanno aggricciare le orecchie. Tre giorni fa qualcuno ha scommesso 1000 dollari sul fatto che quella miniera d'oro abbandonata sarebbe entrata nel bilancio, e qualcun altro ha buttato sul piatto 5000 verdoni. Ciò significa che da qualche parte devono esserci almeno due persone interessate alla cosa. E io non riesco a individuarne nemmeno una. «Allora, pensi che ci sia qualche possibilità per il sistema fognario?» riprende Perry all'altro capo della linea. «Vedremo cosa si può fare», gli dico, guardando tristemente il foglio ancora quasi interamente bianco. Solo le parole Wendell Mining galleggiano su una delle prime righe, quasi senza peso. Ma mentre rileggo per l'ennesima volta quelle due parole, a un tratto mi sembra di vedere la scacchiera espandersi sotto i miei occhi. Ma è ovvio! Come ho fatto a non pensarci prima... «Sei ancora lì?» mi fa Perry. «Sì, ma... ecco, in realtà devo proprio scappare», gli rispondo, e scatto in piedi spinto da uno schizzo d'adrenalina pura. «Mi è appena venuto in mente che devo fare una telefonata urgentissima.» 21. «Salve, sono qui per ritirare un pacchetto», annunciò Viv entrando nella stanza numero 2406 del Rayburn Building, ufficio di Nelson Cordell, ex capo di Matthew e deputato dell'Arizona. «Scusa?» le disse il giovane uomo seduto alla scrivania dell'ingresso, che parlava con un lieve accento dei nativi americani e indossava una giacca di cotone e una cravatta vistosa con un fermacravatta d'argento su cui c'era lo stemma dell'Arizona, che Viv non aveva mai visto prima,
nemmeno nell'ufficio degli altri deputati dell'Arizona. Meglio per Cordell, pensò: è bello vedere che qualcuno si ricorda ancora del posto dove è nato. «Abbiamo ricevuto una chiamata per ritirare un pacchetto», ripeté Viv. «Questo è il 2406, giusto?» «Sì», rispose il giovane telefonista guardando se sulla scrivania c'era della posta in uscita. «Ma io non ho chiamato nessun fattorino.» «Be', qualcuno l'ha fatto», disse Viv. «Hanno detto che c'era un pacchetto per l'aula del Senato.» L'uomo si alzò di scatto, e la cravatta gli rimbalzò leggermente sul petto. Tutti hanno paura dei massimi livelli, come aveva detto Harris. «Intanto posso usare il telefono?» fece Viv. L'uomo le indicò un apparecchio su un tavolo di ferro battuto: artigianato tipico degli stati del sud-ovest. «Vado a chiedere se qualcuno degli altri vi ha mandati a chiamare.» «Bene... grazie», disse Viv, e l'uomo sparì dietro una porta. Non appena se ne fu andato alzò la cornetta e digitò l'interno a cinque cifre che le aveva dato Harris. «Sono Dinah», rispose una voce femminile. In quanto collega di Matthew e capo del sottocomitato stanziamenti interni, Dinah poteva arrivare a chiunque in Campidoglio, e gestiva una fetta di potere non irrilevante: ma soprattutto aveva un telefono con l'identificativo del chiamante. Era per questo che Harris le aveva detto che doveva telefonarle proprio da lì. In quel preciso momento, infatti, Dinah poteva leggere sul piccolo schermo del telefono le parole ON. CORDELL. «Ehilà, Dinah», attaccò Viv, badando a non alzare la voce: «Sono Sandy, dall'ufficio privato dell'onorevole. Scusa se ti disturbo, ma l'onorevole vorrebbe dare un'occhiata ai fascicoli sui progetti a cui stava lavorando Matthew. Sai, per prepararsi alla riunione...» «Non credo sia una buona idea...», fece Dinah. «Scusa?» «Voglio dire che non mi sembra il caso di mandare in giro le informazioni contenute in quei fascicoli...» Harris aveva previsto qualcosa del genere. E le aveva suggerito la più perfetta delle repliche. «L'onorevole ha detto che vuole vederli.» All'altro capo della linea ci fu una breve pausa di silenzio. «Va bene, glieli preparo», cedette Dinah. Dietro le spalle di Viv la porta si aprì e l'addetto alla reception tornò al
suo tavolo. «Molto bene», balbettò Viv nel telefono. «A-allora mando qualcuno a prenderli.» Poi mise giù la cornetta e si voltò verso l'impiegato. «Mi scusi tanto... credo di aver sbagliato stanza», disse, avviandosi verso la porta. «Non c'è problema», replicò lui. «Poco male.» Senza aspettare l'ascensore, Viv si buttò giù per le quattro rampe di scale, saltando a piè pari gli ultimi due gradini e atterrando con un colpo secco sul lucido pavimento del seminterrato del Rayburn Building. In media ogni fattorino del Senato percorre undici chilometri di corridoi al giorno, sempre per consegnare o ritirare buste e pacchetti. In una qualsiasi giornata lavorativa quegli undici chilometri li portano dalla sala riunioni in cui fu deciso l'impeachment di Nixon alla sala della Corte Suprema, dalla facciata occidentale del Campidoglio, da cui ogni nuovo Presidente degli Stati Uniti pronuncia il giuramento, al centro della gigantesca rotonda della cupola dove fu allestita la camera ardente di Abraham Lincoln e di John Fitzgerald Kennedy. Ma Viv ormai ci aveva fatto il callo. Ed era da parecchio tempo che non provava più un'eccitazione simile. Pur non avendo ancora chiaro se si trattava proprio di eccitazione o non piuttosto di terrore, la ragazza non permise al dubbio di rallentarle il passo. Col cuore che le batteva all'impazzata svoltò rapidissima gli angoli del bianco corridoio spettrale, acutamente consapevole del fatto che ormai aveva chiuso con la routinaria consegna della posta interna. Finalmente la sorte le dava l'occasione di fare proprio ciò che qualcuno aveva promesso a lei e agli altri fattorini, una sensibile differenza nella vita di qualcuno. Ma quando si fermò in scivolata davanti alla porta della stanza B-308, Viv sentì qualcosa di più della forza trainante dell'inerzia. Quello era pur sempre l'ufficio di Matthew, e se voleva portare a termine il suo incarico doveva concentrarsi. Allungò la mano verso la maniglia della porta osservando attentamente il corridoio nelle due direzioni, come Harris le aveva suggerito. A sinistra la porta di uno sgabuzzino era leggermente aperta, ma non sembrava che dentro potesse esserci qualcuno. A destra il corridoio era deserto. Trattenne il fiato e fece pressione sulla maniglia d'ottone, stupita di trovarla tanto fredda. Poi spinse la porta con la spalla e subito sentì squillare un telefono, a sinistra, accanto alla coperta sioux. Anche su questi particolari Harris era stato molto preciso. Seguì lo squillo del telefono, oltrepassò il tavolo con le cassette della
posta in entrata e in uscita, girò l'angolo e provò un certo sollievo nel vedere che la persona che rispondeva al telefono era una donna di colore. Roxanne alzò gli occhi su di lei, controllò in silenzio il suo tesserino di riconoscimento e le fece un cenno con la testa, piccolo ma chiarissimo. Viv ci era già passata un'infinità di volte: le cameriere della caffetteria... la manovratrice dell'ascensore... perfino la deputata Peters. «Cosa vuoi, tesoro?» le chiese Roxanne con un sorriso affettuoso. «Devo ritirare dei fascicoli di note informative.» Quando Harris le aveva impartito le istruzioni, Viv aveva replicato che forse a qualcuno sarebbe sembrato strano vedere un fattorino del Senato andarsene in giro per commissioni nell'ala della Camera. Invece Roxanne non fece assolutamente caso a ciò che aveva letto sul tesserino. Perfino per una semplice telefonista i fattorini si somigliano tutti. «C'è Dinah?...» «Là, dietro quella porta», disse Roxanne indicandole una porta sul fondo. Viv s'incamminò, e Roxanne si rimise a guardare la votazione in corso sulla C-span. La ragazza non poté fare a meno di sorridere. Al Campidoglio anche l'ultimo degli impiegati è un tossicodipendente della politica. In preda a una viva eccitazione, Viv fece irruzione nella stanza accanto. «...e quindi volevo sapere a che punto siamo», stava dicendo una voce maschile. «Te l'ho già detto, ci stiamo lavorando», rispose Dinah. «È successo solo due giorni fa...» La porta andò a sbattere contro la parete e Dinah smise di parlare, voltandosi per vedere chi era. «Scusi...» disse la ragazza. «Che c'è?» fece Dinah. Anche l'uomo in piedi davanti alla scrivania si era voltato dalla parte di Viv. Lei lo guardò dritto negli occhi, ma c'era qualcosa che non andava. L'uomo guardava davanti a sé, ma troppo in alto, come se... Poi Viv vide il bastone bianco che l'uomo teneva in mano, accarezzandone con il pollice l'impugnatura. Ecco perché le era sembrato una figura familiare! L'aveva visto spesso percorrere i corridoi del Senato tastandone i bordi col bastone bianco, soprattutto quando era in corso qualche votazione importante. «Allora, che c'è?» ripeté Dinah. «Ah sì, certo...» balbettò Viv, fingendo di essersi incantata a guardare il
furetto impagliato sulla libreria. «Mi stavo domandando se quel furetto...» «Sei venuta per le note informative?» la interruppe Dinah. «Sì, esatto.» «Sono lì, sulla sedia», fece Dinah indicandole la scrivania di fronte alla sua. Viv attraversò rapidamente il tappeto e si chinò dietro la scrivania: sulla sedia c'erano due enormi quaderni ad anelli con scritto A-L e M-Z. Mentre la spingeva indietro, Viv notò al centro della scrivania tre foto incorniciate messe una sull'altra a faccia in su. Come se qualcuno stesse facendo i bagagli... o fosse stato costretto ad andarsene. Nonostante la giornata lavorativa fosse in pieno svolgimento, il computer era spento. Sul pavimento, appoggiati contro il muro, c'erano alcuni diplomi che fino a poco prima dovevano essere stati appesi alla parete. Il tempo sembrò congelarsi attorno a lei. Mentre si piegava lentamente sulla sedia, il suo tesserino di riconoscimento andò a sbattere contro il bordo del tavolo con un lieve rumore. Guardò ancora la foto posata sul tavolo: raffigurava un uomo dai capelli biondo sabbia in piedi davanti a un lago di zaffiro. L'uomo era molto alto, e aveva un collo lungo e sottile che lo faceva sembrare goffo e sgraziato. E se ne stava lì, schiacciato sulla sinistra dell'immagine, quasi fuori dall'inquadratura, indicando il lago con la mano aperta: evidentemente Matthew Mercer non aveva dubbi su chi fosse la star della fotografia. Il suo sorriso era raggiante d'orgoglio. Viv non l'aveva conosciuto, ma ora che l'aveva visto in fotografia non riusciva più a distoglierne gli occhi. Improvvisamente una mano pesante le calò sulla spalla. «Tutto bene?» le domandò Barry. «Serve una mano?» Viv si sottrasse bruscamente al contatto, prese i quadernoni e aggirò la scrivania, inciampando come se il peso che portava fra le braccia l'avesse sbilanciata. Un trucco per riuscire a dare un'ultima occhiata al tavolo di Matthew Mercer. «Mi dispiace tanto per il vostro amico», disse poi. «Grazie», dissero all'unisono Barry e Dinah. Con un sorrisetto imbarazzato, Viv si avviò verso l'uscita. Barry non si mosse, ma seguì i suoi movimenti con i suoi opachi occhi azzurri. «Assicurati che tornino indietro!» le gridò Dinah sistemandosi il marsupio in vita. Lei era stata compagna d'ufficio di Matthew, e per almeno due anni si era seduta accanto a lui: ma era pur sempre la responsabile del sottocomitato, e quei raccoglitori contenevano affari di vitale importanza. «Certo», disse Viv. «Non appena l'onorevole li avrà esaminati glieli ri-
porterò.» 22. «E che mi dici di casa sua?» abbaiò Sauls nel cellulare. «Ha un loft in fondo ad Adams Morgan», disse Janos senza alzare la voce, aggirandosi per i lunghi corridoi di marmo del Russell Building. Non correva, ma camminava di buon passo, con fare determinato, come tutti gli altri attorno a lui. È sempre il modo migliore per non dare nell'occhio. «Ma non è di sua proprietà, il ragazzo non possiede granché: niente macchina, niente titoli di borsa, e neanche un centesimo sul conto in banca. Immagino stia ancora pagando qualche debito. Quell'uomo non ha niente di stabile.» «Sei già stato nel suo appartamento?» «Tu che ne pensi?» ribatté Janos. «Quindi devo dedurne che lui non c'era?» Janos non rispose. Le domande idiote gli davano ai nervi. «C'è qualcos'altro che vuoi sapere?» fece. «Famiglia, amici?» «Il ragazzo è in gamba.» «Questo lo so.» «No, non credo. Lavora al Congresso da dieci anni: hai idea di come si diventa cinici? Quel tipo è come un rasoio, e deve averci riflettuto a fondo. Anche se ha delle relazioni importanti, basterebbe il gioco a dissuaderlo dal rivolgersi a qualche collega... E poi ha visto che non ci abbiamo messo molto a raggiungere il sostituto procuratore generale... Non credo che si lascerà prendere in contropiede una seconda volta.» «Stronzate. Tutti si lasciano prendere in contropiede una seconda volta. Sennò la maggior parte dei presidenti non verrebbe rieletta.» Janos non disse nulla. Camminava leggendo i numeri sulle porte dei vari uffici. «Non mi credi?» gli chiese Sauls. «No, non è questo», rispose Janos. «Ma nessuno può cavarsela da solo. Deve pur esserci qualcuno di cui si fida.» «Allora credi che riuscirai a trovarlo?» Janos si fermò davanti al numero 427, afferrò la maniglia della grande porta di mogano e la girò con forza. «Lascia fare a me», disse. Poi premette il tasto di fine chiamata e s'infilò il cellulare in tasca. Indossava ancora il
giubbotto dell'FBI. L'ufficio era esattamente come l'ultima volta che ci era stato. Nessuno aveva toccato la scrivania di Harris, là dietro il separé di vetro, e il suo assistente sedeva come al solito in anticamera. «Agente Graves!» lo apostrofò Cheese vedendolo entrare. «In cosa posso aiutarla oggi?» 23. Durante il mio primo colloquio di lavoro sul Colle un direttore del personale in pieno esaurimento nervoso si chinò verso di me attraverso la scrivania e mi disse che in fondo il Congresso funziona come una piccola città: in certi giorni è scontroso, in altri irritabile e pronto a fare a pugni con il mondo intero. Essendo nato e cresciuto in una città di provincia, fui colpito dall'analogia. È per questo che al momento mi trovo a camminare nervosamente avanti e indietro nel poco spazio libero di questo magazzino in disuso, in attesa che qualcuno risponda all'altro capo della linea: come ben sanno tutti coloro che vivono in una piccola città, per conoscere i segreti più riposti di una comunità bisogna frugare negli archivi. «Centro risorse legislative», risponde una donna dalla voce matronale. «Salve. Spero proprio che lei possa darmi una mano: ho bisogno di qualche informazione su un lobbysta.» «Aspetti, le passo Gary.» Tradotto nei termini di una piccola città, il Centro risorse legislative corrisponde al portico di casa dell'anziana signora un po' lunatica che abita proprio di fronte all'unico motel della zona: il posto in sé non è particolarmente erotico, ma permette di scoprire chi va a letto con chi. «Gary Naftalis», annuncia una voce maschile. Secca, del tutto priva di calore. «Desidera?» «Ehilà Gary, qui è l'ufficio del senatore Stevens. C'è un'azienda che ci tempesta di telefonate per un progetto da inserire nel bilancio di quest'anno e vorremmo sapere chi è il lobbysta che fa pressione per loro. Vi occupate ancora di questo genere di cose?» «Solo nella misura in cui la comunità desidera che i lobbysti rimangano persone oneste», fa lui, ridacchiando fra sé. La battuta non è un granché, ma il punto di vista è valido. Ogni anno sul Campidoglio calano più di diciassettemila lobbysti carichi di sollecitazioni e favori da richiedere. Se si aggiunge la vagonata di progetti di legge votati
ogni giorno, la cosa è davvero impressionante. Ed è impossibile che un semplice membro dello staff diventi esperto di tutto ciò che dovrebbe sapere. Che fare, allora, quando si ha bisogno di fare qualche ricerca? Si chiama un lobbysta. E se serve qualche argomentazione per avviare un dibattito? Si chiama un lobbysta. E se un emendamento troppo specifico ci ha confuso le idee? Si chiama un lobbysta. È come quando si compra la droga: se la merce è di buona qualità si torna sempre dallo stesso fornitore. Il quale diventa così sempre più influente. In silenzio, rapidamente e senza lasciare impronte digitali. Il punto è proprio questo: io, invece, avrei proprio bisogno di trovare qualche impronta. Se Pasternak stava giocando a Rischio Zero, probabilmente c'era dentro anche qualcuno dei suoi lobbysti. Ma per fortuna tutti i lobbysti devono registrarsi al Centro risorse legislative, dichiarando esplicitamente il loro nome e quello dei loro clienti: il che mi dà una possibilità di scoprire chi stava facendo pressione per la Wendell Mining. «È possibile effettuare la ricerca in base al nome di una ditta?» domando. «Certo, signore... faccia un salto qui da noi e vedrà che...» «A questo proposito devo chiederti un grosso favore», lo interrompo. «Il mio senatore sta per strapparmi la testa e vomitarmi nella trachea... Non potresti controllare tu stesso, se ti do il nome dell'impresa? È un solo nominativo, Gary...» Appongo il suo nome di battesimo come un sigillo in fondo alla conversazione. Lui fa una pausa, lasciandomi immerso nel silenzio. «Mi salveresti il culo, davvero.» Tace ancora. È per questo genere di cose che odio parlare al telefono. «Come si chiama la compagnia?» «Grande... grazie mille! È la Wendell Mining», faccio io. «Wendell Mining.» Sento il ticchettio della tastiera attraverso il telefono. Smetto di camminare avanti e indietro. Guardando fuori attraverso le veneziane polverose vedo il camminatoio e la balaustra di marmo che costeggiano il lato occidentale del Campidoglio. Il sole del mattino picchia sodo sul tetto di tegole, ma non è niente in confronto al caldo che sento io. Mi asciugo una pozzanghera di sudore dalla nuca e mi slaccio il primo bottone della camicia. Giacca e cravatta erano assolutamente necessarie per entrare senza essere notato, ma adesso, se non riesco a trovare al più presto qualche risposta...
«Spiacente», fa Gary. «Non risulta.» «Come sarebbe a dire che non risulta? Credevo che tutti i lobbysti fossero tenuti a registrare i propri clienti...» «Infatti. Ma a questo punto dell'anno abbiamo archiviato meno della metà del mucchio.» «Che mucchio?» «I moduli delle dichiarazioni... quelli che i lobbysti devono compilare. Ogni anno ne arrivano più di diciassettemila: ha idea di quanto tempo ci voglia per scannerizzarli tutti e aggiornare la banca dati?» «Settimane?» «Mesi. I termini sono scaduti solo qualche settimana fa, alla fine di agosto: quindi ce n'è ancora una mezza tonnellata che non sono nel computer.» «Allora è possibile che ci sia un lobbysta che sta lavorando sulla questione ma...» «Amico, questo è il Congresso degli Stati Uniti: tutto è possibile.» Non è divertente. Odio l'umorismo governativo. «Stiamo inserendo nella banca dati circa settecento nomi al giorno», prosegue Gary. «Le suggerisco di richiamare verso la fine della settimana: controlleremo di nuovo.» A questo punto mi viene in mente che la Wendell Mining aveva già avanzato la sua richiesta l'anno passato. «E che mi dici dell'anno scorso?» «Come le ho già detto non risulta niente, il che significa che o non avevano presentato alcuna richiesta, o la persona che se ne occupava non l'ha registrata.» Effettivamente ha senso. Quando si tratta di inserire nel bilancio un progetto particolare, le compagnie più piccole inizialmente preferiscono provarci da sole. Poi, quando falliscono, si fanno furbe e racimolano la grana per pagare un professionista. Se la Wendell si è affidata a qualcuno per fare pressione sul governo, prima o poi il nome di questo qualcuno comparirà nella banca dati delle risorse legislative. «Grazie, lo apprezzo molto...» Qualcuno bussa alla porta. Mi zittisco di colpo. «Signore, è ancora lì?» fa Gary. Bussano ancora. Stavolta sul ritmo di una musichetta. «Sono io, signor recluso!» È Viv. «Aprimi!» Balzo verso la porta e sblocco la serratura, ma nel farlo tiro troppo il cavo del telefono e faccio cadere l'apparecchio sulla pila di tastiere, che frana sul pavimento.
«Missione compiuta, Mr. Bond. Qual è la prossima mossa?» annuncia Viv allegrissima, stringendo al petto i quadernoni di Matthew come una ragazzina in età scolare. Il che mi fa venire in mente una cosa: Viv è una ragazzina in età scolare. Scivola dentro, si chiude la porta alle spalle e mi passa vicino camminando con un'elasticità nuova, quasi frenetica. È una cosa che ho visto spesso, per esempio ogni volta che un dipendente entra per la prima volta nell'aula del Senato: è lo sprint del potere. La voce di Gary sta ancora gracchiando nella cornetta del telefono: «Signore, signore! È ancora lì?» «Sì, ci sono... scusami tanto», gli dico tornando all'apparecchio. «Grazie mille per il tuo aiuto, richiamerò la settimana prossima.» Riappendo, mentre Viv deposita sul tavolo i due quadernoni. Evidentemente sbagliavo, poco fa, quando ho pensato che fosse il genere di ragazza che se ne sta seduta in silenzio nell'ultimo banco, ammesso che in quella intuizione ci fosse del vero, è anche una che quando si trova tra amici non tace un secondo. «Spero che non ci siano state difficoltà», le dico. «Avresti dovuto vedermi! Nessuno poteva fermarmi! Accidenti, mi sembrava di essere dentro Matrix: erano tutti imbambolati a guardarmi mentre io gli giravo attorno al ralenti... schivando le pallottole e roba del genere... Credo che siano ancora là a domandarsi cosa li ha colpiti!» Ne spara una via l'altra, come una mitragliatrice. So riconoscere un meccanismo difensivo quando lo vedo. Ha avuto paura, anche se probabilmente non lo sa. «Viv...» «Avresti dovuto vedermi: saresti stato orgoglioso di me!» «Dinah ti ha detto qualcosa?» «Stai scherzando? Era più cieca del cieco vero che aveva davanti!» «Un cieco?» «Mi manca solo un nome in codice...» «Barry era là?» «...che ne dici di Senate Girl...» «Viv...» «...o magari Black Cat...» «Viv!» «...oppure... Sweet Mocha! Che te ne pare? Sweet Mocha. Anzi, forse Vivness è ancora meglio...» «Dannazione, Viv, chiudi la bocca!»
Si blocca a metà della frase. «Sei proprio sicura che fosse Barry?» «Non so come si chiama. È un cieco con il bastone bianco e gli occhi pieni di nuvole.» «E cosa ti ha detto?» «Niente, ma mi ha seguito con gli occhi mentre camminavo. Non so... eravamo un po' lontani, ma era come se stesse cercando di dimostrare... non che la cosa abbia la minima importanza, naturalmente... come se stesse cercando di dimostrare che non era poi tanto cieco, capisci?» Afferro il telefono e digito il numero del cellulare di Barry. No, così non va. Riaggancio e ricomincio daccapo: meglio passare dal centralino. Ora più che mai. Digito cinque numeri e la centralinista mi mette in comunicazione con quello che era l'ufficio di Matthew. «Interni», risponde Roxanne. «Ciao, Roxanne, sono Harris.» «Harris... come va?» «Bene. Per favore, potresti...» «Ti ricordo sempre nelle mie preghiere, tesoro. Dopo quella storia di Matthew...» «No... certo. Ascolta, mi spiace disturbarti, ma è una cosa urgente. Per caso Barry è lì?» Viv gesticola per attirare la mia attenzione, avvicinandosi lentamente alla porta. «Torno subitissimo», mi sussurra. «Devo fare una cosa...» «Aspetta!» le grido. Non mi dà retta. Si sta divertendo troppo per starsene seduta buona a sorbirsi una lavata di capo. «Viv!» La porta si richiude. È andata. «Harris?» mi fa una voce all'orecchio. La riconoscerei tra mille. È la voce di Barry. 24. «Come va? Stai bene?» mi fa Barry. «Perché, non dovrei?» replico, pronto. «Per via di Matthew... Pensavo che... Non importa. Da dove chiami?» È la sua terza domanda. Pensavo sarebbe stata la prima.
«Da casa. Ho avuto bisogno di prendermi un po' di tempo per... Niente, volevo solo prendermi un po' di tempo.» «Ti ho lasciato quattro messaggi.» «Lo so... lo apprezzo molto. Ma avevo bisogno di stare un po' solo.» «Tranquillo, ti capisco perfettamente.» Non se la beve nemmeno per un secondo. Ma non per qualcosa che ho detto. Qualche anno fa alcuni colleghi organizzarono una festa di compleanno a sorpresa per liana Berger, l'addetta stampa del senatore Conroy. Matthew, Barry e io, che la conoscevamo fin dai tempi del college, eravamo tra gli invitati, insieme a tutti gli impiegati del suo ufficio e a chiunque altro si trovasse a passare di lì. Gli amici di liana volevano che fosse un evento. Purtroppo, non si sa come, l'invito per Barry fu recapitato all'indirizzo sbagliato. Lui, che viveva nel terrore di essere tagliato fuori da qualcosa, era a pezzi. Gli dicemmo che doveva esserci stato un errore, ma non volle crederci. Gli suggerimmo di chiederlo direttamente agli organizzatori della festa, bastava una telefonata, ma lui si rifiutò. E quando li chiamammo noi, e loro dissero che erano terribilmente spiacenti e gli mandarono immediatamente un nuovo biglietto d'invito, Barry pensò che fosse solo un pietoso tentativo di rimediare in extremis. È sempre stato il suo peggior difetto: Barry non ha problemi ad attraversare senza aiuto una strada piena di traffico, ma quando si tratta di rapporti umani vede sempre e soltanto un povero Barry seduto tutto solo nel buio. In compenso, però, il suo radar è il meglio sintonizzato in assoluto per captare radio-serva. «Immagino tu abbia saputo di Pasternak», mi fa. Non rispondo. Barry non è l'unico ad avere un buon radar. Il tono della sua voce è leggermente più acuto del normale. C'è qualcosa che vuole dirmi. «Il medico forense dice che è stato un attacco di cuore. Tu ci credi? Quel ragazzo correva ogni mattina per otto chilometri e improvvisamente... zac! Il cuore smette di battergli, così, come se niente fosse. Carol è a pezzi... e anche il resto della famiglia... è come se gli fosse caduta una bomba in testa. Se tu potessi darle un colpo di telefono... penso che le farebbe piacere, Harris.» Aspetto che finisca di dire tutto quello che si era preparato. «Posso farti una domanda, Barry?» dico poi. «C'è qualche cavallo tuo in questa corsa?» «Cosa?»
«La Wendell Mining... la richiesta su cui Matthew stava lavorando... Sei tu che la segui?» «Certo che no. Sono cose che non ho mai fatto, Harris, e tu lo sai benissimo...» «Io non so più niente, Barry.» Mi offre la sua risata scherzosa. Non mi unisco a lui. «Te lo dico ancora una volta, Harris: non ho mai lavorato sulle questioni che seguiva Matthew.» «E allora cosa ci fai nel suo ufficio?» «Harris...» «Non dirmi Harris con quel tono!» «So che hai subito due gravi perdite, questa settimana...» «Che diavolo ti prende, Barry? Piantala con il massaggio cerebrale e rispondi alla mia domanda del cazzo!» Segue un lungo silenzio. O è nel panico o è sotto shock: Dio solo sa cosa darei per saperlo. «Harris», riprende, con una piccola esitazione sulla prima sillaba. «Llavoro qui da più di dieci anni e... quei due erano miei amici... erano come la mia famiglia, Harris...» Devo chiudere forte gli occhi per trattenere le lacrime. «Abbiamo perso Matthew. Il nostro Matthew...» Se dovessi scoprire che fa apposta a buttarla sul sentimentale potrei anche ucciderlo. «Devi darmi retta, Harris. Non è il momento di chiudersi ognuno nel proprio guscio.» «Barry...» «Voglio vederti. Dimmi dove sei.» Gli occhi mi si spalancano da soli. All'inizio della mia carriera, un mare di anni fa, Pasternak mi disse che un buon lobbysta si riconosce dal fatto che, se ti è seduto vicino in aereo e il suo ginocchio sfiora inavvertitamente il tuo, non si sente a disagio. Ebbene: un attimo fa, mentre mi chiedeva dove sono, Barry era a disagio. «Devo scappare», gli dico. «Ci sentiamo più tardi.» «Harris, non...» «Ciao, Barry.» Sbatto giù la cornetta, mi volto verso la finestra e osservo per qualche secondo la luce del sole rimbalzare giù dal bordo del tetto. Matthew mi metteva sempre in guardia contro le amicizie competitive. E adesso non posso più discuterne con lui.
25. Accortosi di torreggiare un po' troppo sulla scrivania di Cheese, Janos fece un passo indietro e cercò di dipingersi sulla faccia un sorriso vagamente amichevole. A giudicare dall'espressione ansiosa dell'assistente di Harris, il giubbotto dell'FBI era più che sufficiente a innervosirlo. E Janos sapeva bene che, a stringerlo troppo, l'uovo si spacca. «E come le è sembrato che stesse?» domandò Janos cercando di infondere nel suo tono di voce un senso di paterna preoccupazione. «Ha lasciato solo un breve messaggio, ma mi è parso che stesse bene», rispose Cheese. «Stanco, più che altro. Ha avuto una settimana terribile, come lei sa, e probabilmente ha voluto prendersi qualche giorno di vacanza.» «È di questa mattina, la telefonata?» «No, di ieri notte. Le spiacerebbe dirmi ancora una volta perché gli vuole parlare?» «Stiamo indagando sulla morte di Matthew Mercer: l'incidente è avvenuto in territorio federale. E vorremmo fare quattro chiacchiere con i suoi amici.» Poi, leggendo l'espressione sgomenta sul viso di Cheese, Janos aggiunse: «Non c'è da preoccuparsi... sono indagini di routine.» In quel momento la porta dell'ufficio si aprì e sulla soglia apparve una ragazza di colore in giacca blu marine. «Fattorino del Senato», disse, tenendo in equilibrio su una mano tre scatolette rosse, bianche e blu. «Consegna bandiere.» «Cosa?» fece Cheese. «Bandiere», ripeté lei, osservando attentamente sia Cheese che Janos. «Bandiere americane... sa, quelle che sventolano sopra il Campidoglio e che molta gente compra solo perché si dà il caso che in giardino ci sia un pennone... Ne ho qui tre da consegnare a... vediamo un po'...» Viv lesse le parole scritte sulla prima delle scatolette: «...qualcuno di nome Harris Sandler.» «Lasciale pure qui», disse Cheese indicando la propria scrivania. «Perché le stiano fra i piedi tutto il santo giorno?» fece Viv, avanzando di qualche passo verso il separé di vetro che delimitava il disordinatissimo spazio di lavoro di Harris. «È quello il porcile del suo capo?» E senza lasciargli il tempo di rispondere passò dall'altra parte. «È lui che ha voluto le bandiere... quindi lasciamo che se ne occupi lui.»
«Cosa mi tocca sentire!» fece Cheese battendosi il pugno sul petto. «E poi vengono a parlarmi di rispetto per l'adolescente!» Mentre Viv si avvicinava alla scrivania di Harris, Janos non le tolse gli occhi di dosso nemmeno un secondo. Ma la ragazza gli volgeva le spalle, impedendogli di vedere cosa stesse facendo. Per quanto gli riuscì di scorgere, sembrava una normalissima consegna di routine. Senza dire altro Viv liberò un pezzetto di tavolo per le bandiere, le posò sulla scrivania di Harris e con un fluido movimento del corpo si girò di nuovo. Ma Janos la stava ancora fissando, e lei ebbe un breve sussulto. Ci siamo. Contatto stabilito. «E-ehilà», fece Viv, sorridendo, quando i loro sguardi si incrociarono. «Tutto bene?» «Ma certo», le rispose seccamente Janos. «Tutto a posto.» «Di' un po', sei davvero convinta che potremmo mettere qualsiasi cosa a sventolare sopra il Campidoglio?» domandò Cheese. «Calzini? Mutande? Io ho una vecchia maglietta di Barney Miller cui piacerebbe moltissimo farsi un giretto lassù.» «Chi è Barney Miller?» fece Viv. Cheese si portò la mano al petto, fingendo un dolore insopportabile. «Tu non immagini nemmeno quanto mi hai fatto male con questa domanda. Un male fisico. Mi hai ucciso, davvero. Sto sanguinando dentro.» «Mi spiace», rise Viv, e si avviò verso la porta. Janos guardò di nuovo la scrivania di Harris. Le scatolette con le bandiere si stagliavano nettamente nell'unico spazio libero, ma per il resto non era cambiato niente. Si voltò nuovamente verso Viv. Udì la sua risata e la guardò avviarsi alla porta con passo deciso, e in quel momento colse il suo ultimo sguardo: non era rivolto a lui, bensì al suo giubbotto. Più precisamente alla scritta FBI. La porta si richiuse. Se n'era andata. «Dunque, cosa stavamo dicendo?» riprese Cheese. Con gli occhi ancora fissi sulla porta, Janos non rispose. Non c'era niente di particolarmente strano nel fatto che un'adolescente guardasse con tanto d'occhi un giubbotto dell'FBI... Ma se si aggiunge il modo in cui quella ragazza era entrata nell'ufficio... puntando dritta sulla scrivania di Harris... «Conosco quello sguardo», cercò di scherzare Cheese. «Sta ripensando a quello che ho appena detto sulle mutande che sventolano sul Campidoglio...» «L'aveva mai vista prima d'ora?» sbottò Janos.
«La fattorina? No, non mi pare...» «Devo andare», disse Janos e si girò verso la porta, assolutamente calmo. «Se ha ancora bisogno di qualcosa me lo faccia sapere», disse Cheese. Ma Janos se n'era andato, fuori dalla porta, in corridoio. Che quella ragazza avesse preso... Eccola là, pensò Janos, sorridendo tra sé. Poi infilò la mano nella tasca del giubbotto e fece scattare l'interruttore della scatoletta nera. Il ronzio elettrico gli fece solletico nel palmo della mano. 26. Apro a caso il primo raccoglitore di Matthew, lo sfoglio fino alla lettera G e continuo a voltare le pagine fino a trovare il nome di Grayson. Le varie sezioni del quadernone, organizzate in ordine alfabetico rispetto al nome dei membri del Congresso, contengono un'analisi dettagliata di tutti i progetti proposti da ciascuno, compreso il trasferimento della proprietà di una vecchia miniera d'oro a una compagnia di nome Wendell Mining. Leggo rapidamente l'originale della richiesta sottoposta dall'ufficio di Grayson agli stanziamenti, poi mi lecco il pollice e passo all'analisi. Mentre scorro con gli occhi le tre pagine seguenti mi sembra di sentire una voce familiare leggerle al posto mio. Merda, è inconfondibile: il modo di divagare un po' introducendo un pensiero nuovo... l'uso eccessivo della parola specificatamente... perfino il tono un po' troppo declamatorio della conclusione. Non ci sono dubbi, queste pagine sono uscite dalla penna di Matthew. È come se fosse qui, seduto accanto a me. A suo credito va detto che l'analisi corrisponde esattamente a quanto mi aveva detto a voce. La miniera d'oro dell'Homestead Act è una delle più antiche del Sud Dakota, e sia la città sia lo stato ricaverebbero un indubbio beneficio dalla sua cessione alla Wendell Mining. A ulteriore chiarimento della questione ci sono tre lettere fotocopiate allegate con una graffetta: la prima è dell'ufficio per la gestione delle proprietà terriere, la seconda della Wendell Mining, e infine c'è una fervida raccomandazione firmata dal sindaco di Leed, Sud Dakota, la cittadina nel cui distretto è ubicata la miniera. Tre lettere, tre fogli di carta intestata: tre nuovi numeri di telefono da chiamare. Alla prima chiamata risponde la segreteria telefonica dell'ufficio per la
gestione delle proprietà terriere. Idem per la compagnia mineraria. Non mi resta che provare con il sindaco. Meglio così: i politici sono la mia specialità. Faccio il numero, lascio squillare il telefono e intanto do un'occhiata all'orologio. Viv dovrebbe essere qui a momenti. «Ristorante L&L», risponde una voce d'uomo arrochita dal fumo, con un accento da cowboy hollywoodiano. «Desidera?» «Mi scusi», faccio io controllando la carta intestata. «Pensavo fosse l'ufficio del sindaco Regan.» «Chi devo dire?» fa l'uomo. «Andy Defresne», rispondo. «Dalla Camera dei deputati, Washington D.C.» «Ma perché non l'hai detto subito, benedetto figliolo!» fa lui ridendo a gola spiegata. «Parla il sindaco Regan in persona.» Faccio una pausa: chissà perché, all'improvviso mi è tornata in mente la bottega di barbiere di papà. «Non sei molto pratico della vita in una piccola città, dico bene?» «Anzi, in realtà dovrei esserlo parecchio.» «Vieni anche tu dalla provincia?» «Ci sono nato e cresciuto.» «Be', noi siamo più piccoli ancora», scherza lui. «Garantito, soddisfatti o rimborsati.» Dio, come mi ricorda casa mia. «Allora, cosa posso fare per te?» «Ecco, a essere onesto...» «Proprio quello che mi aspetto da te!» m'interrompe ridendo forte. Adesso ricordo anche perché me ne sono andato. «Avrei da farle qualche domanda su quella miniera d'oro che...» «Certo, la miniera dell'Homestead Act.» «Esatto», faccio io, tamburellando nervosamente su una vecchia tastiera di computer. «Facciamo un passo indietro: sto lavorando sulla richiesta inoltrata dall'onorevole Grayson per la vendita di quel terreno...» «Oh, non a tutti piace litigare.» «Ma ad alcuni sì», faccio io, reggendogli il gioco. «Per quanto mi riguarda però voglio solo assicurarmi che si faccia la cosa giusta e che al primo posto ci siano gli interessi della popolazione locale.» Il sindaco non parla: si sta godendo quell'improvvisa considerazione. «A ogni modo, mentre lavoriamo per mandare avanti la richiesta avremmo bisogno di tro-
vare qualcun altro che possa sostenerla: se non le dispiace, quindi, le chiederei di entrare un po' più nel merito dei benefici che la sua città ricaverebbe dalla transazione. Meglio ancora: sa dirmi a chi soprattutto farebbe piacere apprendere che l'affare è andato in porto?» Per la terza volta da che siamo al telefono il sindaco scoppia in una grassa risata. «Figliolo, anch'io voglio essere onesto con te: è più facile succhiare dei mattoni da una cannuccia che trovare qualcuno che si metterà in tasca anche un solo dollaro per questa storia.» «Non sono sicuro di aver capito.» «E forse non lo sono nemmeno io», ammette il sindaco. «Ma lascia che ti dica una cosa: se mai mi dovesse venire in mente di investire quattrini nell'acquisto di una miniera d'oro, penso che ne cercherei una con dentro dell'oro, non ti pare?» Il dito mi si blocca a metà del tamburellamento. «Come ha detto?» «La miniera dell'Homestead Act è completamente asciutta.» «Ne è sicuro?» «Figliolo, è vero che quella miniera risale al 1876, ma ti assicuro che sono passati almeno vent'anni dall'ultima volta che qualcuno ne ha tirato fuori un grammo d'oro. Dopo di allora sette compagnie diverse si sono alternate nell'ingrato compito di dimostrare che tutti gli altri si erano sbagliati, e quando l'ultima andò in rovina trascinò con sé buona parte della città. È per questo che il terreno è rimasto al demanio. Un tempo questa città aveva novemila abitanti: oggi siamo centocinquantasette. Non credo ti servirà il pallottoliere per fare il conto.» Mentre il sindaco mi parla all'orecchio il resto dell'ufficio-magazzino è avvolto dal più assoluto silenzio, ma a me sembra di non riuscire a sentire nemmeno i miei pensieri. «Mi sta dicendo che in quella miniera non c'è più oro?» «Da almeno vent'anni», ribadisce lui. Annuisco, anche se il sindaco non mi può vedere. È assurdo. «Mi scusi, signor sindaco, forse sono un po' lento di comprendonio, ma se è assolutamente impossibile ricavarne altro oro, perché ha scritto una lettera di sollecitazione per la vendita della miniera?» «Io, una lettera? Quale lettera?» Abbasso lo sguardo sul tavolo e sul quadernone di Matthew: lì dentro c'è una lettera che caldeggia la cessione di una proprietà terriera alla Wendell Mining con firma autografa del sindaco di Leed, Sud Dakota. «Lei è il sindaco Tom Regan, vero?»
«Sì. L'unico e il solo.» Studio la firma apposta in calce alla lettera. Ne rileggo il testo daccapo. Sulla R di Regan c'è una piccola sbavatura, che fa sembrare la firma abbastanza trasandata da non meritare un secondo sguardo. Ed è proprio in quel punto che, per la prima volta, mi pare di intravedere una minuscola incrinatura nello specchio. «Sei ancora lì, figliolo?» mi fa il sindaco. «Sì... no... voglio dire, certo che sono qui. È solo che... la Wendell Mining...» «Lascia che ti dica una cosa a proposito di questa Wendell Mining. Quando hanno cominciato a gironzolare da queste parti, ho chiamato personalmente l'MSHA per...» «L'M... che cosa?» «Il Dipartimento per la sicurezza e la salubrità delle miniere, quelli della sicurezza, insomma. Se ti hanno eletto sindaco, sei tenuto a sapere chi arriva nella tua città, giusto? E così ho parlato col mio uomo là dentro e sono venuto a sapere che i dirigenti della Wendell avevano effettivamente comprato i diritti di estrazione mineraria per questa zona, e compilato tutti i moduli, e inoltrato tutte le richieste, e rifilato bustarelle a chi doveva stilare un rapporto favorevole, ma che Dio mi aiuti se quando abbiamo dato un'occhiata alla loro storia commerciale è saltato fuori che si sono mai occupati di miniere.» Avverto una contrazione allo stomaco, e un bruciore improvviso. «Ne è proprio sicuro?» «Figliolo, tu sei sicuro che a Elvis piacesse il bacon? Son cose che ho visto succedere almeno centodiciannove volte. Compagnie come la Wendell hanno un piccolo capitale, e un'avidità di denaro infinitamente superiore. Se qualcuno volesse la mia opinione gli direi che noialtri, quaggiù, non abbiamo bisogno di nutrire per l'ennesima volta sogni di gloria destinati a infrangersi miseramente al suolo. Lo sai anche tu come vanno queste cose, in una piccola città... Così, quando hanno cominciato ad arrivare i camion...» «Quali camion?» lo interrompo. «Quelli che sono spuntati come funghi il mese scorso. Non è per questo che hai chiamato?» «S-sì. Naturalmente.» Matthew ha inserito nel bilancio la vendita della miniera meno di tre giorni fa. Com'è possibile che laggiù già il mese scorso ci fossero dei camion in azione? «Quindi hanno ripreso gli scavi?» do-
mando, nella confusione più completa. «Sa Iddio cosa stanno facendo... Io sono andato a dare un'occhiata, giusto per assicurarmi che fossero in regola con le leggi federali, e voglio dirti che non hanno un singolo macchinario che serva per l'estrazione mineraria. Non c'è nemmeno un escavatore. E quando ho voluto fare qualche domanda... lascia che ti dica una cosa: nemmeno i grilli sono altrettanto nervosi. Mi hanno scacciato come una mosca che pizzica il cavallo dalla parte sbagliata.» Stringo la cornetta con tutte le mie forze. «Così ha avuto l'impressione che stessero facendo qualcosa che non aveva niente a che vedere con l'estrazione dell'oro?» «Cosa stiano facendo, francamente non lo so. Ma se stesse a me...» S'interrompe bruscamente. «Figliolo, puoi restare in linea un secondo?» mi dice, e subito dopo lo sento gridare tutto eccitato: «Zia Mollie! Cosa ti posso portare, carissima?» «Il solito», risponde una donna con un dolce accento provinciale. Qualcuno bussa alla porta sul ritmo di una musichetta Viv sussurra: «Sono io.» Tiro al massimo il filo del telefono per avvicinarmi alla porta e sbloccare la serratura. Viv entra, ma il brio ballerino è scomparso dalla sua andatura. «Qualcosa che non va?» le domando. «Hai preso il...» Lei tira fuori dalla cintura dei pantaloni il mio organizer elettronico e me lo porge. «Eccolo. Sei contento, adesso?» «Cos'è successo? Non era dove ti avevo detto?» «Nel tuo ufficio c'era un agente dell'FBI», dice, decidendosi finalmente a sputare il rospo. «Cosa?» «Sì, era là... e parlava col tuo assistente.» Sbatto giù il telefono in faccia al sindaco. «Com'era?» «Non saprei...» «No... niente non saprei. Descrivilo: che aspetto aveva?» insisto. Viv mi legge in faccia il panico, ma diversamente dall'altra volta non si ritrae. «Non l'ho guardato tanto bene... capelli brizzolati... Un sorriso che mi è sembrato agghiacciante... e gli occhi... be', erano come quelli di un cane da caccia, se ti sembra che abbia un senso...» Fisso la porta con la gola serrata. La maniglia è rimasta sbloccata. Faccio un salto per afferrarla e mettere la sicura, ma proprio quando sto per posarci sopra la mano la porta si apre, colpendomi alla spalla. Viv urla,
e una mano grossa e pesante s'infila nella fessura. 27. La porta si è aperta meno di due centimetri, ma Janos è riuscito a infilarci dentro la mano. Viv sta ancora urlando, e io, che ho già preso lo slancio verso la porta, approfitto della forza d'inerzia per buttarmici contro con tutto il mio peso. Le dita di Janos restano schiacciate tra il battente e lo stipite. Quando ritrae la mano mi aspetto di sentirlo gridare, ma lui fa solo un grugnito. Viv ha smesso di urlare. La guardo da sopra la spalla per controllare che stia bene. È in mezzo alla stanza, con gli occhi chiusi, avvinghiata al tesserino di riconoscimento. Sta pregando. Non appena riesco a chiudere la porta faccio scattare la sicura. Dall'altra parte Janos si abbatte contro la superficie di legno, che rimbomba come un tamburo. I cardini scricchiolano. Non terrà per molto. «Alla finestra!» dico a Viv, che solo in quel momento riapre gli occhi. È rigida dal terrore, con gli occhi fuori dalla testa. La prendo per mano e la trascino fin sotto una finestrella nella parte alta della parete, con le ante di vetro che si aprono verso l'esterno. La porta vibra sotto un secondo urto. Viv si volta a guardare, terrorizzata: «È... è...» «Andiamo!» le grido, spingendo sotto la finestra una delle vecchie poltrone girevoli. Viv salta su e cerca di aprire il gancio della finestra, ma le mani le tremano violentemente. «Sbrigati!» le dico, mentre dalla porta viene un nuovo boato. Lei spinge le ante della finestra più forte che può, ma senza ottenere alcun risultato. «Di più, spingi più forte!» Picchia forte sulla finestra con entrambe le mani. Non è una ragazza gracile, e l'impatto è tremendo. «L'hanno verniciata chiusa, non si apre!» «Lascia, faccio io...» Viv spinge ancora con le mani aperte le ante della finestra, e finalmente quella di sinistra si spalanca sul tetto di tegole. Poi si afferra al bordo del muro e io l'aiuto a issarsi. La porta viene investita da un nuovo uragano: mi volto e vedo che la serratura si è deformata. Due viti sembrano sul punto di saltar via.
Anche Viv si è voltata. «Non guardare!» le dico. È già per metà fuori dalla finestra. La afferro per le caviglie e le do un'ultima spinta. La prima vite cade dalla serratura e tintinna sul pavimento. Tempo scaduto. Salgo in piedi sulla poltrona, mentre Viv atterra sul camminatoio appena sotto la finestra. In quel momento mi accorgo che i raccoglitori di Matthew sono rimasti dietro di me, sul tavolo. Ma Janos sta per entrare: non posso farcela. Me ne frego: quelle informazioni sono troppo importanti per lasciarle lì. Salto giù dalla poltrona, corro al tavolo e strappo le pagine su Grayson e i suoi progetti dagli anelli del quadernone. Con uno schianto terribile la porta cede, rovinando sul pavimento. Non perdo tempo a guardare cosa succede. Con uno scatto disperato raggiungo la poltrona, salto su e mi tuffo attraverso la finestra aperta. Passando oltre il bordo del muro prendo una tremenda botta sui fianchi, ma lo slancio è sufficiente a trascinarmi dall'altra parte. Per un attimo resto in equilibrio, mezzo dentro e mezzo fuori, poi atterro sul camminatoio, abbagliato dalla viva luce del sole. «Da che parte andiamo?» mi domanda Viv richiudendo con violenza la finestra mentre io mi alzo in piedi. M'infilo in tasca i fogli compilati da Matthew e l'afferro per un polso, trascinandola verso sinistra. Il camminatoio, largo sessanta centimetri, costeggia tutta questa parte dell'edificio. Proprio sotto di noi c'è il monumento a George Washington: ci troviamo sopra l'ala del Campidoglio che ospita il Senato. Contrariamente all'immensa cupola che si erge davanti a noi, in questo punto il camminatoio è in piano. Guardo alle mie spalle e vedo una mano spalancare con violenza la finestra, mandandola a sbattere contro il muro esterno. I vetri vanno in mille pezzi. Janos sporge fuori la testa: lo spettacolo è più che sufficiente per metterci le ali ai piedi. Corriamo così veloci che gli elementi della balaustrata di marmo sulla nostra destra ci si confondono sotto gli occhi. Ed è Viv a dare il passo. Alto nel cielo, il sole si riflette luminosissimo sugli elementi architettonici bianchi, costringendomi a socchiudere gli occhi. Per fortuna so esattamente dove andare. Un po' più avanti, alla base della grande cupola, il camminatoio si biforca. Possiamo procedere dritti fin là oppure svoltare a
sinistra e prendere una deviazione. L'ultima volta che l'ho incontrato, Janos mi ha preso in contropiede. Ma stavolta gioco in casa. «A sinistra!» dico a Viv, e dandole uno strattone alla giacca la trascino dietro l'angolo. Davanti a noi c'è una scaletta metallica un po' arrugginita: so che porta a una passerella sul tetto, esattamente sopra la stanza da cui siamo partiti. «Va', continua a correre!» le dico indicando la scala. Viv scappa via. Io invece mi fermo. Sul pavimento del camminatoio ci sono tre fili metallici che corrono lungo tutto l'edificio a pochi centimetri dalle finestre. D'inverno gli operai della manutenzione ci fanno passare una leggera corrente elettrica, per sciogliere la neve e impedire che si formino pericolosi blocchi di ghiaccio. Nelle altre stagioni non servono a niente. Ma a me saranno utilissimi. Mi chino e li afferro saldamente, passandoci sotto le dita. Janos sta per raggiungermi, sento il rumore dei suoi passi che si avvicinano. «È arrivato all'angolo!» grida Viv dalla passerella. È proprio quello che stavo aspettando. Con un brusco strattone strappo i fili da terra. Le graffette con cui erano fissati saltano una dopo l'altra. I fili si tendono, sollevandosi di qualche centimetro. Giusto ad altezza caviglia. Janos svolta a tutta birra l'angolo e inciampa nei cavi: il sottile filo metallico dev'essere penetrato profondamente nella pelle degli stinchi. Finalmente lo sento gridare di dolore. Poco più di un ruggito sommesso, ma ne prendo ugualmente nota. Cade in avanti, battendo la testa sul pavimento del camminatoio. Ne valeva la pena, anche solo per sentire il rumore. Senza lasciargli il tempo di rialzarsi mi tuffo su di lui, gli afferro la testa con entrambe le mani e gliela schiaccio contro il rame arroventato che riveste il camminatoio. Quando la guancia gli entra in contatto con quella superficie bollente, Janos grida ancora, una sorta di rombo gutturale che mi vibra contro il petto. Ma è come cercare di bloccare un toro. Nonostante io lo tenga saldamente per la nuca riesce a mettersi sulle ginocchia, e fra un attimo balzerà in piedi. Si dimena come una fiera in trappola e cerca di colpirmi in faccia con la grossa mano. Schivo il colpo, e il suo pugno mi colpisce leggermente in un punto sotto la spalla, vicino all'ascella. Non sento dolore - ma improvvisamente un formicolio mi corre per tutto il braccio, e mi accorgo di non riuscire più a muoverlo - evidentemente era proprio a questo che mirava. «Harris, corri!» grida Viv dalla passerella. Non posso darle torto. Solo contro di lui non ho nessuna possibilità di cavarmela. Mi giro verso il punto da cui proviene la voce di Viv e scatto. Il
braccio mi penzola senza vita lungo il fianco. Dietro di me Janos, ancora a terra, cerca di liberarsi le caviglie dai cavi elettrici, e mentre corro verso la scaletta metallica sento saltar via una mezza dozzina di graffette metalliche. Fra un momento sarà libero. «Forza!» strilla Viv in piedi sull'ultimo piolo di ferro, gesticolando freneticamente verso di me. Mi afferro al corrimano con il braccio sano, mi arrampico sulla scaletta e raggiungo la passerella, che attraversa a zigzag tutto il tetto. A questo punto abbiamo la cupola del Campidoglio alle spalle, mentre davanti a noi si estende l'immenso tetto piatto dell'ala del Senato. Dappertutto ci sono condutture d'aria, sfiati, fasci di cavi elettrici che corrono in tutte le direzioni e piccole cupole tondeggianti, simili a bolle di sapone, alte fino alla vita di un uomo. La passerella gira quasi subito attorno a una di quelle piccole cupole. «Sei sicuro di sapere dove diavolo stiamo...» «Qui!» la interrompo. Sulla sinistra si stacca un'altra scaletta metallica: la usiamo per scendere dalla passerella su un'altra sezione del camminatoio. Grazie a Dio l'architettura neoclassica amava la simmetria: e infatti alla nostra sinistra c'è la finestrella corrispondente a quella da cui siamo usciti. È così che rientreremo nell'edificio. Raccolgo le forze e sferro un calcio alla finestra. Il vetro si rompe, ma l'intelaiatura tiene. La libero dalle schegge, appoggio le mani sulla struttura e spingo con tutto il mio peso. I passi di Janos si stanno avvicinando rapidamente lungo la passerella. «Più forte!» grida Viv. Il legno della finestra si rompe e finalmente riesco ad aprirla. Il rumore di passi è sempre più vicino. «Forza...», le dico aiutandola a infilarsi dentro. Poi mi lascio cadere anch'io dalla finestra, atterrando pesantemente su un pavimento coperto di moquette grigia. Siamo nell'ufficio di qualcuno. Un impiegato basso e tozzo entra di corsa e grida: «Ma cosa state facendo, non potete...» Viv lo allontana con uno spintone, e io la seguo da presso. In quanto fattorina, anche lei è esperta della geografia interna del Campidoglio. E da come corre - cambiando spesso direzione con brusche svolte - si vede che non ha più bisogno di seguirmi. Ora è lei a condurre la fuga. Attraversiamo la sala d'attesa del sovrintendente del Senato e ci buttiamo a capofitto giù per una scala stretta e piena di curve, che riecheggia il suo-
no dei nostri passi. Per il momento la cosa più urgente è uscire dal campo visivo di Janos. Saltiamo a piè pari gli ultimi scalini e siamo al terzo piano. Davanti a noi c'è una porta chiusa con una targa: Cappellano del Senato. Ottima idea. Viv prova a girare la maniglia. «È chiusa!» «Tanto peggio per le tue preghiere», è il mio commento. «Non parlare così!» mi rimprovera. Sopra di noi si sente un rumore sordo. Alziamo contemporaneamente gli occhi: in cima alla tromba delle scale spunta la testa di Janos, con la guancia di un bel rosso brillante. Ci ha visti, ma non dice nemmeno una parola. Viv schizza verso sinistra, arriva in fondo al corridoio e si tuffa giù da un'altra rampa di scale. Io invece vado verso l'ascensore, che è a pochi metri dalle scale, dietro un angolo. «Prendiamo l'ascensore, è più veloce...» «Solo se è già al...» Premo il pulsante della chiamata e l'ascensore emette un trillo. Viv mi raggiunge immediatamente. Le porte si aprono, e intanto i passi pesanti di Janos scendono le scale. La spingo nell'ascensore ed entro dietro di lei, sperando che le porte si richiudano in fretta. Viv preme selvaggiamente il pulsante «chiusura porte». «Avanti, avanti, avanti...» Facendo forza con le dita sulle modanature metalliche spingo e tiro la porta con tutte le mie forze. Dietro di me, Viv cerca di fare altrettanto. Janos è ormai a pochi metri da noi, e già allunga le mani per afferrarci. «Sta' pronta a suonare l'allarme!» grido a Viv. Janos si protende in avanti e per un attimo i nostri sguardi si incrociano. Tende ancora di più la mano, ma la porta, emettendo il solito trillo, si chiude con un piccolo tonfo. L'ascensore si mette in moto brontolando e comincia a scendere. Cerco di riprendere fiato. «La... la mia mano...», mormora Viv togliendosi qualcosa dal palmo della mano insanguinato. È una scheggia di vetro dell'ultima finestra che abbiamo dovuto rompere. «Stai bene?» le domando, e mi avvicino a lei. Viv non risponde, tutta concentrata sulla sua mano. Non so nemmeno se mi abbia sentito. La mano è in preda a un tremito incontrollabile, e lei fissa il sangue come ipnotizzata. È sotto shock, ma siccome è anche una ragazza intelligente, non dimentica che ci sono cose più serie di cui preoccuparsi.
Si afferra il polso con l'altra mano per controllarne il tremito. «Ma perché quell'agente ti dà la caccia?» domanda poi con voce rotta. «Non è un agente.» «E allora chi diavolo è?» Non c'è tempo per le spiegazioni esaurienti. «Tu sta' pronta a correre», le dico. «Perché? Cos'altro deve succedere?» «Anche lui starà scendendo!» Viv scrolla la testa, sforzandosi di avere un'aria fiduciosa. Ma nella sua voce avverto una sfumatura di panico: «Quella non è una scala continua, a ogni piano perderà tempo per percorrere il corridoio.» «Solo per un piano», la correggo. «È vero, ma dovrà controllare anche l'ascensore per vedere se ne siamo usciti o no.» Fa del suo meglio per convincersi, ma non ci crede molto nemmeno lei. «A ogni modo non può farcela ad arrivare giù prima di noi... vero?» Con un leggero sussulto l'ascensore si ferma al seminterrato e la porta comincia ad aprirsi. Schizziamo fuori, ma non ho fatto nemmeno due passi che sento un forte rumore metallico sul corrimano della scala proprio davanti a noi. Alzo gli occhi e vedo Janos volteggiare attorno alla ringhiera. Non dice niente, ma un piccolissimo sorriso gli increspa le labbra. Figlio di puttana. Viv si butta verso sinistra e io la seguo. Janos si tuffa giù per le scale. Abbiamo un vantaggio di trenta gradini. Viv sterza bruscamente sulla sinistra in modo da uscire dal suo campo visivo, quindi svolta di nuovo a destra. Nel seminterrato i soffitti sono bassi e i corridoi stretti: siamo come topi di laboratorio in un labirinto, non facciamo che girare e svoltare mentre il gatto ci insegue leccandosi i baffi. Davanti a noi il corridoio si allarga. In fondo, un luminoso raggio di sole entra da una doppia porta a vetri. È la nostra salvezza: l'ingresso del lato ovest del Campidoglio, quello da cui il Presidente esce per pronunciare il discorso d'insediamento dalla grande scalinata bianca. Ormai è vicinissimo. Viv si gira un attimo per guardarsi alle spalle. «Sai cosa sta...» Annuisco, e lei capisce. Accelera, stringe i pugni e si butta verso la luce. Qualche goccia del suo sangue cade sul pavimento. Dietro di noi Janos galoppa come un cavallo da corsa, e il nostro vantaggio si riduce lentamente. Ormai lo sento respirare: più si avvicina, più
lo sento forte. Tutti e tre ci stiamo impegnando al massimo, e il rumore dei nostri passi riecheggia in tutto il corridoio. Io corro testa a testa con Viv, che sta ormai esaurendo le forze. Adesso sono mezzo passo davanti a lei. Forza, Viv... mancano solo pochi metri. Studio la sua faccia: occhi sbarrati, bocca aperta. Ho visto quell'espressione in alcuni maratoneti al settimo chilometro. Non ce la fa più. Quasi avesse avvertito il suo sfinimento, Janos si sposta leggermente sulla sinistra per correre dietro di lei. Ormai è così vicino che mi sembra di sentire il suo odore. «Viv!» grido. Janos si sporge in avanti e allunga il braccio per acchiapparla. Si tende al massimo. Siamo quasi alla porta. Ma proprio mentre Janos abbassa la mano su di lei, afferro Viv per una spalla e sterziamo a destra, infilando un altro, breve corridoio. E allontanandoci dalla porta. Janos scivola sul liscio pavimento di marmo, e perde secondi preziosi per curvare e riprendere l'inseguimento. Troppo tardi. Quando sbuca da dietro l'angolo io e Viv abbiamo già attraversato una serie di doppie porte di vinile nero, simili a quelle che isolano le cucine dei ristoranti. Appena sbuchiamo dall'altra parte siamo circondati da un gruppo di quattordici poliziotti armati. La prima porta sulla destra è quella del quartier generale della polizia capitolina. Viv ha già aperto la bocca per parlare: «C'è un tipo che ci insegue, vuole...» La guardo e le faccio segno di no con la testa. Se adesso lei lo denuncia, Janos denuncerà me... e in questo momento non posso nemmeno immaginare di finire in cella. Fa una faccia confusa: non capisce, ma perlomeno mi cede la parola. «Là dietro c'è uno che parla da solo», dico ai tre agenti più vicini. «Si è messo a seguirci senza nessuna ragione apparente, borbottando qualcosa sul fatto che noi due saremmo il nemico.» «Probabilmente è uscito da un gruppo in visita guidata», aggiunge Viv, sapendo che è una cosa che manda in bestia gli agenti. Poi indica il suo tesserino di riconoscimento e dice: «Certamente non è uno che lavora qui.» In quel momento Janos irrompe al di qua delle porte di vinile, e subito i tre poliziotti gli vanno incontro. «Serve aiuto?» gli fa un agente, senza lasciarsi impressionare dal giubbotto dell'FBI: sa benissimo che lo vendono in qualsiasi negozio di souvenir. Senza dargli il tempo di inventarsi una storia credibile, io e Viv ce ne andiamo tranquillamente lungo il corridoio.
«Fermateli!» grida Janos, e fa per lanciarsi all'inseguimento. Ma il primo poliziotto lo afferra per il giubbotto e lo trattiene. «Che cazzo fai?» tuona Janos. «Il mio lavoro», gli risponde l'agente. «Mi mostri il distintivo.» Io e Viv continuiamo a zigzagare nel seminterrato tornando verso la zona da cui siamo partiti, il lato est del Campidoglio. Il sole è ormai passato dall'altra parte dell'edificio, ma abbiamo ancora un'ora prima che faccia buio. Oltrepassiamo gruppi di turisti intenti a scattare fotografie alla cupola e ci avviamo verso la First Street, contando sul fatto che la polizia interna tratterrà Janos abbastanza da darci un certo vantaggio. Davanti a noi, dall'altra parte della strada, si ergono i pilastri di marmo bianco della Corte Suprema. Cerco disperatamente di intercettare un taxi. «Taxi!» gridiamo all'unisono. Ci infiliamo rapidissimi nell'auto e chiudiamo le portiere con la sicura. Poi ci giriamo per guardare verso il Campidoglio: di Janos nessuna traccia. Per ora. «Ce l'abbiamo fatta», dico abbandonandomi contro lo schienale, ma senza smettere di setacciare la folla con gli occhi. Viv invece, seduta accanto a me, non guarda fuori: è troppo impegnata a guardare me. I suoi occhi scuri sembrano bruciare, in parte per la paura, ma in parte... credo sia rabbia. «Mi hai mentito...», dice. «Viv, prima che tu...» «Non sono mica scema, sai», aggiunge, cercando di riprendere fiato. «Adesso voglio sapere che diavolo sta succedendo.» 28. Mentre scendiamo con la scala mobile verso i piani inferiori dello Smithsonian Museum di storia americana tengo gli occhi fissi sulla gente e le mani posate sulle spalle di Viv nella speranza di aiutarla a ritrovare la calma. Lei è più giù di me di un solo gradino, ma parecchio più nervosa. Dopo quello che ci è capitato in Campidoglio non si fida più di nessuno, e men che meno di me, infatti a un certo punto si libera delle mie mani con una scrollata di spalle. Il museo non è certo il posto ideale per farle cambiare idea, ma perlomeno è uno spazio sufficientemente pubblico da impedire a Janos di darci ulteriormente la caccia. A ogni piano gli occhi di Viv schizzano qua e là per guardare in faccia tutte le persone che entrano nel suo campo visivo. Im-
magino ci sia abituata se è vero, come mi ha detto, che nella sua scuola oltre a lei c'era solo un'altra ragazza di colore. Anche adesso Viv è l'unico fattorino nero di tutto il Senato. Per lei l'emarginazione dev'essere un'esperienza quotidiana. Ma stavolta è diverso. Isolo me e lei dal resto dei visitatori dispiegando la pianta del museo che ho preso all'ingresso: se vogliamo mescolarci ai turisti dobbiamo recitare fino in fondo la parte. «Ti andrebbe un gelato?» le domando quando arriviamo in fondo alla scala mobile. Nella sala infatti c'è una vecchia gelateria interna. Mi scocca un'occhiataccia come ne ho viste solo nei reporter più incalliti. «Mi hai preso per una tredicenne?» Ha tutti i diritti di essere arrabbiata. Si era offerta di farmi un piccolo favore senza conseguenze e si è ritrovata a correre disperatamente per portare in salvo la pelle. Un'ottima ragione per voler sapere cosa sta succedendo. «Io non potevo immaginare che le cose sarebbero andate così», comincio. «Ah, davvero?» fa lei. Poi stringe le labbra e mi fulmina di nuovo con lo sguardo. «Viv, quando hai detto che volevi aiutarmi...» «Non dovevi lasciarmelo fare! Io non avevo idea del guaio in cui mi avresti cacciata!» Niente da eccepire. «Mi dispiace tantissimo», faccio io. «Ma non pensavo che avrebbero...» «Non so cosa farmene delle tue scuse! Adesso dimmi perché hanno ucciso Matthew.» Fino a un momento fa non ero sicuro che avesse capito attorno a cosa ruotava tutta la faccenda. Non è la prima volta che la sottovaluto. Stiamo attraversando la sala denominata Un mondo materiale, cosparsa di vetrine che illustrano la storia delle manifatture americane. La prima è piena di travi di legno, mattoni, tegole e pelli conciate; nell'ultima ci sono oggetti di plastica dai colori vivaci, come il cubo di Rubik e il videogioco di PacMan. «Ed ecco a voi il progresso!» annuncia una guida a pochi passi da noi. Guardo Viv: credo sia venuto il momento di far fare qualche progresso anche a lei. Decido di raccontarle tutto dall'inizio. Ci metto quasi un quarto d'ora. Le dico di Matthew... e di Pasternak... e del mio tentativo fallito di ricorrere al procuratore generale aggiunto. Mi accorgo con stupore che nessuna di queste cose la fa scattare, finché non arrivo alla tessera che ha messo in moto
l'effetto domino: il Rischio Zero e la nostra ultima scommessa. A quel punto rimane a bocca aperta e si porta le mani alla testa, pronta a esplodere. «Scommettevate?» «Viv, lo so che può sembrare pazzesco...» «È questo che facevate? Giocavate d'azzardo col Congresso?» «Era solo uno stupido gioco senza conseguenze, te lo giuro.» «Il fornaio matto è uno stupido gioco! L'inventalibri è uno stupido gioco! Questo era una cosa vera!» «Scommettevamo solo su questioni del tutto irrilevanti, niente di importante...» «Tutto è importante, là dentro!» «Viv, per favore...», la supplico, vedendo che alcuni turisti si sono fermati a osservarci. Abbassa la voce, ma è ancora arrabbiatissima. «Ma come vi è saltata in mente una cosa del genere? Proprio tu che all'orientamento dicevi che avremmo dovuto...» Si interrompe perché la voce le si è incrinata. «Tutto quel tuo bel discorsetto... erano solo stronzate!» Improvvisamente capisco di aver letto in modo sbagliato tutte le sue reazioni. Non è la collera a incrinarle la voce: è la delusione. E da come incurva le spalle ancor più del solito pare che la delusione stia rapidamente degenerando in depressione. Io frequento il Campidoglio da più di dieci anni, ma Viv ci lavora da meno di un mese. E mi ci sono voluti tre anni di pugnalate alle spalle per arrivare ad avere l'espressione che lei ha adesso. Gli occhi le si abbassano sotto un peso del tutto nuovo. La fine dell'idealismo è sempre dolorosa, indipendentemente dall'età in cui avviene. «Allora, questo è tutto... Bene, adesso devo andare», mi comunica, spingendomi da parte e avviandosi senza di me. «Dove?» le faccio io. «A consegnare qualche busta per conto di un senatore... a spettegolare con gli amici... a segnare un punto in meno ai senatori che si presentano in aula con una brutta pettinatura, o a quelli che non hanno il sedere - ce n'è più di quanti immagini...» «No, Viv, aspetta!» le grido, e la seguo mettendole una mano sulla spalla. Cerca di liberarsi con uno strattone: io non demordo, ma diversamente da prima il mio gesto non sembra avere nessun effetto calmante. «Tieni giù le mani!» mi dice stizzita, e si divincola. Non è affatto una fragile ragazzina. Tendo a dimenticarmi quanto è forte.
«Avanti, Viv, adesso non fare la stupida», le dico mentre attraversiamo appaiati la sala del museo. «L'ho già fatto... credo di aver speso con te tutta la mia quota di stupidità mensile!» «Aspetta...» Non rallenta nemmeno. Adesso siamo nella sezione più importante della sala: indifferente, Viv passa davanti a una coppia che sta cercando di farsi una foto ricordo. «Viv, ti prego!» supplico ancora, cercando di tenerle dietro. «Non puoi farlo!» Si blocca, come se le avessi dato un ultimatum: «Che cos'hai detto?» «Viv, tu non mi stai ascoltando!» «Non ti azzardare a dirmi cosa posso o non posso fare!» «Ma... io...» «Mi hai sentito?» «Ti uccideranno.» Rimane con il dito sollevato a mezz'aria nel rimprovero. «Cosa?» «Ti uccideranno. Ti spezzeranno il collo e faranno in modo che sembri un incidente, come se fossi caduta dalle scale. Proprio come hanno fatto con Matthew.» Mi ascolta in silenzio. «Lo sai anche tu che ho ragione. Ormai Janos ti conosce - e tu l'hai visto in faccia: per lui è uguale se hai diciassette o settant'anni. Credi che ti lascerà tornare a riempire d'acqua i bicchieri dei senatori come se nulla fosse?» Cerca qualcosa da rispondermi, ma non lo trova. Distende la fronte, ma le mani ricominciano a tremarle e ricomincia a grattare il tesserino di riconoscimento come le ho già visto fare altre volte. «D-devo fare una telefonata», dice, e schizza verso il telefono a pagamento appeso alla parete accanto alla gelateria. La seguo a un passo di distanza. Anche se non lo ammetterebbe mai, ho visto come si aggrappa a quel tesserino: vuole la mamma. «No, Viv, non devi telefonarle...» «Non sono fatti tuoi, Harris.» Crede ancora che io pensi solo a me stesso. Si sbaglia. Ho le budella attorcigliate dal senso di colpa fin dal momento in cui ho deciso di chiederle quel piccolo favore. Già allora ero terrorizzato all'idea che le cose potessero prendere la piega che poi hanno effettivamente preso. «Se solo potessi tornare indietro... ti giuro che lo vorrei più di ogni altra cosa al mondo», le dico. «Ma ora, se non stai più che attenta...»
«Io sono sempre stata attenta! Non dimenticarti che non sono stata io a provocare questo casino!» «Ti prego, Viv, fermati un momento!» la supplico di nuovo, vedendola ripartire verso il telefono. «In questo momento Janos starà passando ai raggi x tutta la tua vita.» «Ma forse invece no: ci hai pensato?» È veramente troppo arrabbiata per ragionare. Mi spezza il cuore doverglielo dire, ma è l'unico modo di evitare rischi inutili. La sorpasso e la blocco prima che abbia il tempo di entrare nell'area della gelateria: «Viv, facendo questa telefonata metterai in pericolo la tua famiglia.» «E tu come diavolo fai a saperlo?» «Come faccio a saperlo? Ci sono trenta fattorini in Campidoglio, e tu sei l'unica ragazza di colore alta un metro e ottanta. Ci metterà meno di un minuto a scoprire come ti chiami. È il suo mestiere. Adesso rifletti: lo so che in questo momento mi odi con tutte le tue forze - e fai bene. Ma per favore, ascoltami... Se adesso prendi il telefono e chiami i tuoi genitori, ci saranno altre due persone di cui Janos dovrà liberarsi per mettere tutto a tacere.» Pare che abbia toccato il tasto giusto. In un attimo raddrizza le spalle ritrovando tutta la sua altezza, e solo le lacrime che le inondano gli occhi tradiscono la sua vera età. È facile dimenticarsi quanto è giovane. Passando davanti a una vetrina del museo intravedo fuggevolmente la nostra immagine riflessa: io con l'abito scuro, Viv con la giacca blu marine. Molto professionali. Al di là del vetro ci sono il golf rosso di Mr. Rogers e il pupazzo Oscar nel suo bidone delle immondizie, che sembra congelato mentre parla con la bocca spalancata. Seguendo il mio sguardo, anche Viv si volta da quella parte: gli occhi bianchi e neri del pupazzo fissano ossessivamente il nulla. «Mi dispiace immensamente, Viv.» È la seconda volta che glielo dico, ma stavolta pare ne avesse bisogno. «I-io volevo solo farti un piccolo favore», balbetta lei con voce spezzata. «Non avrei mai dovuto chiedertelo, Viv... ma non pensavo...» «Mia madre... se le...» Non finisce la frase, per non dover visualizzare le possibili conseguenze. «E se chiamassi mia zia a Filadelfia? Forse lei potrebbe...» «No, non devi mettere in pericolo la tua famiglia.» «Io non devo metterli in pericolo? Ma come... come hai potuto farmi questo?» Barcolla all'indietro e ricomincia a scrutare tutti i turisti che pas-
sano. Pensavo lo facesse perché è nervosa, spaventata, l'eterna emarginata che cerca il suo posto nel mondo, ma più la guardo più mi rendo conto che c'è anche qualcos'altro. Quando uno ha l'istinto di chiedere aiuto, è perché è abituato a ottenerlo. La mano continua a tormentare il tesserino: sua madre, suo padre, perfino la zia le sono sempre stati accanto, per tutta la vita, pronti ad aiutarla, a sostenerla, a coccolarla. E adesso, improvvisamente, non può più ricorrere a loro. E lei lo sente. Non solo lei. Mentre la guardo setacciare nervosamente la folla un dolore tagliente mi trafigge lo stomaco, un dolore che mi dà la nausea. Indipendentemente da come finirà questa storia, non mi perdonerò mai di averle fatto del male. «E adesso cosa faccio?» domanda. «Andrà tutto bene», le prometto, sperando di risultare convincente. «Abbiamo tutti i soldi che ci servono. Forse potremmo... potrei nasconderti in un albergo.» «Da sola?» Dal modo in cui formula la domanda capisco che non è affatto una buona idea. Potrebbe lasciarsi prendere dal panico e fare qualche stupidaggine. L'ho già messa in pericolo una volta: non lo farò di nuovo, lasciandola sola. «Okay, lasciamo perdere l'albergo. Che ne diresti se...» «Tu mi hai rovinato la vita», mi butta in faccia. «Viv...» «Niente Viv: mi hai rovinato la vita, Harris. E adesso hai il dovere di... Oddio, ma ti rendi conto di cos'hai fatto?» «Doveva essere solo un piccolo favore... te lo giuro, se avessi saputo che andava a finire così...» «Lascia perdere: non serve a niente dire che non lo sapevi...» Ha assolutamente ragione. Avrei dovuto saperlo... ho passato tutta la vita a calcolare le possibilità di determinati cambiamenti politici, ma da quando sono dentro fino al collo in questa storia non ho pensato che a me stesso. «Te lo giuro, Viv, se solo potessi tornare indietro...» «Peccato che tu non possa!» Negli ultimi tre minuti ha attraversato tutte le possibili reazioni emotive: prima la rabbia, poi il rifiuto, la disperazione, la rassegnazione, e adesso ricomincia dalla rabbia. E tutto per un unico, incontrovertibile fatto: ora che l'ho coinvolta, Janos non si darà pace finché non ci avrà ammazzati entrambi. «Ascoltami, Viv, adesso ti devi concentrare... io e te dobbiamo trovare il
modo di venirne fuori.» «...Ma in fondo me la sono cercata», borbotta. «Sono stata proprio io a cacciarmi in questo guaio.» «Non è vero», insisto. «Questa storia non ha niente a che vedere con te. È tutta colpa mia. Sono stato io a metterci nei guai entrambi.» È ancora sotto shock, ma sta cercando disperatamente di assimilare quello che le è successo. Alza gli occhi su di me, poi li riabbassa subito. Sa di non poter più dire io. Adesso siamo noi. È come se fossimo ammanettati insieme. «Forse dovremmo chiamare la polizia...» balbetta. «Dopo quello che è successo con Lowell?» È una ragazza intelligente, e capisce subito dove voglio arrivare. Se Janos è riuscito a intimorire il numero due del Ministero della giustizia significa che tutte le vie legali ci riporterebbero dritti fra le sue braccia. «E se chiedessimo aiuto a qualcun altro? Non ne hai, di amici?» La sua domanda mi colpisce come un manrovescio in faccia. I miei due migliori amici sono morti, Lowell mi ha voltato le spalle e non c'è modo di sapere se Janos ne ha individuati altri. Quanto agli uomini politici e ai funzionari con cui ho lavorato nel corso degli anni... certo, mi sono amici, ma in una città come questa... be', non significa che mi posso fidare di loro. «E poi», cerco di spiegarle, «se cercassimo di metterci in contatto con qualcuno... sarebbe come dipingergli un bersaglio sul petto, capisci? Siamo disposti a fare a qualcun altro ciò che io ho già fatto a te?» Mi guarda fisso: sa che ho ragione, ma questo non le impedisce di cercare altre vie per uscire da questa situazione. «E se interrogassimo gli altri fattorini? Forse potrebbero dirci a chi hanno consegnato certe buste... aiutarci a risalire a chi stava giocando a Rischio Zero.» «È proprio per questo che avrei voluto consultare il registro delle consegne del capo-fattorino. Ma i fogli dei giorni in cui sono state raccolte le scommesse non ci sono più.» «Vuoi dire che tutti noi fattorini siamo stati usati senza saperlo?» «Per le altre scommesse, forse sì: ma non per quella della miniera d'oro.» «Cosa vuol dire?» «Il ragazzo che ha investito Matthew, Toolie Williams, aveva il tuo tesserino. Ed era vestito come uno di voi.» «E perché mai qualcuno dovrebbe farsi passare per un fattorino?»
«Immagino che Janos l'avesse pagato... e anche Janos potrebbe lavorare per qualcuno che ha un interesse personale nella questione su cui si scommetteva.» «Quella della miniera?» «Difficile a dirsi. Ma forse qualcuno si aspetta di ricavarne dei benefici.» «Ancora non capisco: che benefici può aspettarsi la Wendell Mining da una miniera in cui non c'è più nemmeno un grammo d'oro?» «O meglio ancora: perché una compagnia che non si è mai occupata di estrazioni minerarie dovrebbe impiegare due anni a cercare di acquisire una miniera in cui l'oro non c'è?» Per un attimo ci guardiamo negli occhi, ma Viv distoglie subito i suoi. Si è arresa a considerarsi legata a me, ma non mi perdonerà tanto facilmente. E soprattutto non credo che le interessi la risposta a questi interrogativi. È già troppo duro per lei ammettere che tutto ciò fa di noi una persona sola. Tiro fuori dalla tasca le pagine che ho strappato dal quadernone di Matthew. Ho ancora nelle orecchie la voce del sindaco: a quanto pare la Wendell Mining ha cominciato a darsi da fare almeno un mese fa, ma non ha trasportato sul posto macchinari per estrarre l'oro. «E allora che diavolo stanno facendo laggiù?» «Tu pensi che non stiano affatto cercando l'oro?» Scuoto la testa: «No, dal modo in cui il sindaco ne parlava... non credo proprio che stiano cercando l'oro.» «Ma a cos'altro può servire una miniera?» «È proprio questo che dobbiamo scoprire, non ti pare?» Comincia a comprendere cosa ho in mente. «Perché non richiami il sindaco e...» «E cosa? Lo mando a ficcare il naso laggiù, esponendolo a chissà quali pericoli? E poi, anche ammesso che lo faccia, fino a che punto potremmo fidarci della sua versione?» Viv non risponde. Poi domanda ancora: «E allora cosa facciamo?» In tutto questo tempo non ho fatto altro che cercare un indizio da cui cominciare. Rileggo il nome della città sul foglio di carta intestata che ho in mano: Leed. Ma certo. Le risposte ai miei interrogativi devono essere laggiù. Do un'ultima occhiata alla gente in visita al museo e mi avvio verso la scala mobile. «Andiamo», le dico. Mi segue docilmente. Anche se è arrabbiata con me capisce benissimo che da sola sarebbe perduta. La paura è sufficiente a trasformare tutta la
sua rabbia in rassegnazione, anche se non vorrebbe. Mentre ci avviciniamo all'uscita dà un'ultima occhiata a Oscar. «Credi che sia una cosa intelligente andare nel Sud Dakota?» «A te sembra che qui saremmo più al sicuro?» Non risponde. Certo, è una scommessa al buio, ma non più azzardata di quella di un'impresa che punta tutto su una miniera esaurita e poi tiene alla larga gli abitanti del posto perché non vedano cosa ci fa. Perfino una diciassettenne capisce che c'è sotto qualcosa e l'unico modo di vederci chiaro è andare sul posto. 29. Due ore dopo siamo sul sedile posteriore di un taxi a Dulles, in Virginia. L'insegna è poco visibile, ma la riconosco subito perché ci sono già stato: è la Corporate Aviation di Piedmont-Hawthorne. «Mi dia solo cinque di resto», dico al taxista, che per i miei gusti ci ha osservati un po' troppo a lungo nello specchietto retrovisore. Forse perché nessuno dei due ha detto una parola per tutto il viaggio... o perché Viv non guarda mai dalla mia parte. O perché gli ho appena dato una mancia da schifo. «Anzi, tenga pure il resto», mi correggo, cercando di dipingermi in faccia un sorriso amichevole. Il taxista risponde al mio sorriso e conta i soldi: la gente è assai meno incline a ricordarsi di te se non gli hai fatto venire il nervoso. «Buona giornata», lo saluto, e scendiamo dal taxi. L'uomo ci fa un cenno con la mano, senza voltarsi. «Sei sicuro che sia legale?» mi domanda Viv con un tono da brava bambina mentre ci avviamo verso un edificio moderno, basso e sgraziato. «Non ho mai detto che sia legale, l'importante è che sia una cosa intelligente.» «E lo è?» «Avresti preferito prendere un aereo di linea?» Viv si richiude nel suo silenzio. Abbiamo già discusso tutti i particolari, e sa che questo è l'unico modo per non farci chiedere i documenti. Trovare un aereo privato in meno di due ore non è facile. Grazie a Dio, il Congresso è uno dei pochi posti attraverso il quale si può farlo. E mi ci è voluta una sola telefonata. Due anni fa, mentre era in corso un'importantissima votazione su un controverso stanziamento a favore dell'aviazione na-
zionale, il direttore dell'ufficio relazioni con il governo della FedEx telefonò per parlare con il senatore Stevens. Personalmente. Ben sapendo che quella non è gente che grida al Lupo! senza una buona ragione, mi assunsi la responsabilità di passargli la chiamata. Per loro si rivelò una mossa magnifica: venuti a sapere che il senatore Stevens era d'accordo, tutti gli altri rappresentanti degli stati centro-occidentali si allinearono e appoggiarono lo stanziamento. Così due ore fa ho chiamato a mia volta l'ufficio relazioni con il governo della FedEx per farmi ricambiare il favore. Ho detto che il senatore aveva urgenza di presenziare a un'iniziativa di raccolta fondi organizzata all'ultimo minuto nel Sud Dakota, e mi aveva incaricato di parlare con loro. Personalmente. E grazie a quella telefonata ora siamo qui. Secondo l'etica deontologica un senatore può usare un jet privato a patto che rimborsi alla compagnia proprietaria del velivolo la somma equivalente a un biglietto aereo di prima classe: cosa che non mancherò di fare. È una scappatoia geniale: io e Viv ne abbiamo semplicemente approfittato. La porta scorrevole del terminal si apre automaticamente davanti a noi, rivelando quella che sembra la hall di un albergo di dubbio gusto. Sedie imbottite con alti schienali. Lampadari vittoriani in bronzo. Moquette grigio e vinaccia. «Posso aiutarvi a trovare il vostro aereo?» ci domanda una donna in tailleur da lavoro seduta dietro il banco della reception. Viv le sorride, poi, rendendosi conto che l'offerta d'aiuto riguardava solo me, fa una smorfia. «Senatore Stevens», le dico. «Siete qui, dunque!» esclama una voce profonda da dietro la reception. Un pilota biondo, con i capelli accuratamente spazzolati all'indietro, ci sta facendo un cenno di saluto. «Tom Heidenberger», si presenta, con la sicumera tipica dei piloti. La sua stretta di mano mi dice che è stato nell'esercito. Subito dopo essersi presentato stringe la mano anche a Viv che raddrizza le spalle, lusingata dall'attenzione. «Il senatore deve ancora arrivare?» domanda poi il pilota. «No, non può venire. Parlerò io al suo posto.» «Fortunato mortale», mi fa lui sorridendo. «Lei è Catherine, la nostra nuova praticante legale», aggiungo presentando Viv. Grazie alla giacca blu e alla sua altezza potrebbe anche essere
vero. Lo staff degli uomini politici è sempre pieno di giovani. «Allora siamo pronti al decollo, senatore?» «Senz'altro», rispondo. «Ma prima avrei bisogno di un telefono.» «Nessun problema», fa lui. «Una linea normale o riservata?» «Riservata», rispondiamo io e Viv all'unisono. Il pilota scoppia a ridere: «Chiamiamo il senatore in persona, vero?» Ci uniamo alla sua risata e ci avviamo verso l'angolo in fondo al corridoio che ci ha indicato: «È la prima porta a destra.» Entriamo in una mini-sala riunioni non più grande di un tinello: un tavolo, una sola poltrona di pelle e alla parete un poster con un uomo che scala una vetta. Al centro del tavolo c'è un telefono nero, pulito e lucido. Viv solleva la cornetta: io premo il tasto del vivavoce. «Che diavolo ti salta in mente?» mi domanda, mentre il ticchettio dei numeri che sta digitando riempie la stanza. «Nel caso tu abbia bisogno d'aiuto...» «Non ne avrò», ribatte lei irritata, pensando che voglia controllarla. Poi preme una seconda volta il tasto del vivavoce e il bip della digitazione scompare. Non posso darle torto. Anche se avesse dimenticato che sono stato io a metterla nei guai (e non l'ha dimenticato affatto), questo è il suo show, le uniche due telefonate che le permetterò di fare. Tamburella con le dita sul tasto delle tonalità. Sento lo squillo del telefono nel ricevitore. All'altro capo della linea risponde una voce femminile. «Ehilà, Adrienne: sono io, Viv», dice lei, con una nota d'eccitazione nella voce. Lo show è cominciato. «No... Sì... Ah, davvero? Ha detto proprio così?» Breve pausa: Viv sta prendendo tempo. «Ecco, ti chiamo proprio per questo», comincia a spiegare. «No... no, ascoltami...» La voce femminile all'altro capo della linea è quella di Adrienne Kaye, una delle ragazze con cui Viv condivide la stanza nel dormitorio dei fattorini. Durante il viaggio mi ha raccontato che ogni sera, alla fine del lavoro, tutti i fattorini devono firmare il registro ufficiale dei rientri in modo che i responsabili del servizio non se li perdano in giro per la città. È un sistema semplicissimo e che ha sempre funzionato bene per tutti, almeno fino alla settimana scorsa, quando questa Adrienne ha deciso di violare il coprifuoco per restare fuori fino a tardi con un gruppo di apprendisti legali dell'Indiana. E se l'ha fatta franca è solo perché Viv ha accettato di firmare al suo posto il foglio dei rientri dicendo ai controllori che era dovuta correre in bagno. Adesso Viv deve cercare di farsi ricambiare il favore.
Ci impiega meno di trenta secondi. «Benissimo - sì, cioè no - digli soltanto che ho le mie regole, questo li terrà tranquilli per un po'», dice Viv mostrandomi il pollice girato in su. Adrienne è d'accordo a coprirla con i superiori. «Mmhhh... no... nessuno che tu conosca», aggiunge Viv, guardando verso di me, ma senza sorridere. «Jason? Ma cosa ti salta in mente?» ride. «Sei impazzita? Non me ne frega niente se è carino... ma se riuscisse a toccarsi il naso con la lingua...» Viv scambia ancora qualche battuta con la sua amica, tanto per risultare più credibile. «Bene, grazie ancora, Adrienne», conclude poi. E riaggancia. «Ben fatto!» le dico, mentre lei, in piedi accanto al tavolo, compone il secondo numero. Annuisce, con una minuscola sfumatura di compiacimento. L'inseguimento di Janos l'ha scombussolata parecchio, e sta facendo del suo meglio per risalire la china. Povera Viv. E la seconda telefonata sarà sicuramente più difficile. Mentre il telefono squilla in una casa lontana, la osservo per leggere i suoi repentini cambiamenti posturali. Abbassa il mento, incurva un po' le spalle. Gira la punta dei piedi verso l'interno, con una scarpa si pesta quasi l'altra. Stringe forte il ricevitore, mi guarda ancora una volta e poi si gira dall'altra parte. So riconoscere una richiesta d'aiuto quando la vedo. Premo il tasto del vivavoce e subito all'altro capo della linea risuona un'altra voce femminile. Viv abbassa gli occhi sulla lucetta che si è accesa sull'apparecchio, ma stavolta non interferisce. «Studio del dottor...», fa la voce femminile. «Ehi, mamma, sono io», interrompe subito Viv cercando di sembrare spumeggiante come al solito. Il suo tono è perfetto, meglio ancora che nell'altra telefonata. «Cosa c'è che non va?» domanda subito sua madre. «Niente... sto bene», fa lei, appoggiandosi con la mano sinistra al tavolo. La conversazione è appena iniziata e ha già delle difficoltà a reggersi in piedi. Due minuti fa aveva diciassette anni e ne dimostrava ventisei: adesso ne ha a malapena tredici. «Perché hai messo il vivavoce?» fa sua madre. «Non è il vivavoce, mamma, è un cellulare che fa questo...» «Toglilo immediatamente... lo sai che non lo sopporto.» Viv guarda verso di me, che istintivamente faccio un passo indietro. Lei preme il tasto del vivavoce e la voce di sua madre scompare dalla stanza. Fortunatamente il tono di quella voce è tale che riesco a sentire cosa dice
anche dal ricevitore che Viv tiene contro l'orecchio. Prima, al museo, ho insistito perché non la chiamasse, ma adesso non possiamo farne a meno. Se mamma dà l'allarme non andremo da nessuna parte. «Okay, adesso va meglio», dice sua madre. «Allora, che ti succede?» C'è una nota di sincera preoccupazione nella sua voce. Certo, parla molto forte, ma non perché sia arrabbiata... o prepotente. Anche il senatore Stevens parla così. Sono voci che comunicano un senso d'immediatezza. Il suono della forza. «Dimmi cosa ti succede», insiste sua madre. «Qualcuno ha fatto ancora dei commenti sgradevoli?» «No, mamma, nessuno.» «È per quel ragazzo dello Utah?» Non riesco a collocare geograficamente il suo accento, un po' dell'Ohio meridionale, ma con le vocali aperte di Chicago. Ma al di là di tutto, se chiudo gli occhi... per l'intonazione... per la velocità con cui pronuncia ogni sillaba... è come sentir parlare Viv tra vent'anni. Riapro gli occhi e la vedo praticamente piegata in due per la tensione. Ed è solo all'inizio. «È per quel ragazzo dello Utah?» ripete sua madre. «No, mamma, quello è un rotto in...» «Vivian!» «Mamma, ti prego, non è nemmeno una parolaccia. Ormai lo dicono anche in ogni maledetta commedia che danno alla tv.» «Mi stai dicendo che adesso vivi in una commedia della tv? Allora immagino che sarà la tua mamma della commedia a pagarti le bollette e a farsi carico dei tuoi problemi.» «Non ne ho, di problemi. È stato solo uno stupido commento di un ragazzo insignificante... Se n'è occupato il supervisore dei fattorini... È tutto a posto.» «Non lasciare che ti facciano del male, Viv. Il Signore ha detto...» «Ti dico che è tutto a posto.» «Ma io non voglio che tu...» «Mamma!» Finalmente mamma fa una pausa, una pausa tripla, come solo le mamme sanno fare. Carica di tutto l'amore che prova per sua figlia, si sente che vorrebbe gridarglielo nella cornetta... Ma sa che la forza non si può trasferire automaticamente da una persona all'altra. Ognuno deve trovarla da solo. Trovarla dentro di sé.
«Parlami dei senatori», riprende sua madre. «Ti hanno già chiesto di scrivere qualche progetto di legge?» «No, mamma, non ancora.» «Vedrai che prima o poi ti capita.» È difficile da spiegare, ma dal modo in cui lo dice quasi quasi ci credo anch'io. «Ascoltami, mamma... Ti ho chiamato solo perché stiamo partendo... ci portano a Monticello, a visitare la casa natale di Thomas Jefferson...» «Lo so cosa c'è a Monticello.» «Sì, certo... a ogni modo ho pensato che se telefonavi e non mi trovavi ti saresti messa in agitazione.» Viv si ferma per capire se sua madre le ha creduto. Tratteniamo il fiato. «Te l'avevo detto che ti ci avrebbero portata, Viv, ho visto le foto sui pieghevoli!» dice la signora Parker, chiaramente eccitata. «Sì... è una gita che si fa ogni anno», aggiunge Viv. Improvvisamente colgo una sfumatura di tristezza nella sua voce: come se le dispiacesse un po' di poter ingannare sua madre con tanta facilità. Alza gli occhi sul poster appeso alla parete: ognuno ha le sue montagne da scalare. «E quando tornate?» «Domani sera, credo», dice Viv, controllando la mia espressione. Annuisco, stringendomi nelle spalle. «Sì... domani sera.» «Tu stai bene, Boo?» le chiede sua madre. «Benissimo», insiste Viv. «Sono solo eccitata per il viaggio.» «Com'è giusto che sia. Fa' tesoro di ogni nuova esperienza, Vivian. Sono tutte importanti.» «Lo so, mamma...» Nuova pausa materna. «Sei sicura che vada tutto bene?» Viv sposta il peso da una gamba all'altra e si afferra al tavolo. Dal modo in cui ci sta piegata sopra sembra ne abbia bisogno per reggersi in piedi. «Te l'ho già detto, mamma. Va tutto benissimo.» «Sì, certo, va tutto benissimo. Alla grande.» La voce sembra emettere radiazioni. «Rendici orgogliosi di te, Vivian. Se Dio ti ha mandato a noi dev'esserci una ragione. Ti voglio tantissimo bene.» «Anch'io, mamma.» Viv riattacca, ma rimane accartocciata contro il tavolo. Le telefonate l'hanno buttata giù parecchio, sembra addirittura tramortita... Ma è pur sempre meglio che morta. «Viv, voglio che tu sappia che...»
«Harris, ti prego...» «Ma, io...» «Per favore, Harris, per una volta... sta' zitto!» «Pronti a spiccare il volo?» ci domanda il pilota quando torniamo nella hall. «Tutto a posto», rispondo, e ci avviamo verso il retro dell'edificio. Viv cammina qualche passo dietro di me, in silenzio. Non so se lo fa perché non vuole vedermi o perché non vuole che io veda lei. A ogni modo penso che non sia il momento di tormentarla. Proprio davanti a noi, in fondo al corridoio, c'è una porta di sicurezza a due battenti, chiusa. Nel gettare un'ultima occhiata alla reception noto un uomo magro, in abito gessato, seduto su una delle poltroncine imbottite. Quando siamo arrivati non c'era. È come se si fosse materializzato dal nulla. Io e Viv siamo stati via solo qualche minuto. L'osservo con attenzione, ma lui distoglie subito gli occhi e tira fuori un cellulare. «Tutto bene?» mi fa il pilota. «Sì... certo», lo rassicuro. Ormai siamo davanti alla porta di sicurezza. La donna al banco della reception preme un pulsante e la serratura si sblocca con uno scatto magnetico; il pilota spinge la porta e ci fa cenno di uscire. Niente metal detector... niente schermaggio... niente controllo dei bagagli: assolutamente nessun problema. Una quindicina di metri più avanti, sulla pista d'atterraggio, c'è un Gulfstream G400 fermo al di là di un nastro di plastica blu e arancione che brilla al sole del tardo pomeriggio. Ai piedi della scaletta qualcuno ha steso un pezzo di tappeto rosso. «Andremo più veloci del diavolo con questo pullman volante, eh?» scherza il pilota. Viv annuisce. Io cerco di fingere di esserci abituato. Il nostro cocchio magico ci aspetta. Salendo la scaletta mi giro ancora una volta verso la vetrata di plexiglas del terminal per controllare se l'ometto col gessato è ancora là, ma non lo vedo. Chinando la testa per varcare il portello dell'aereo, io e Viv ci troviamo davanti nove poltroncine di pelle, un divano di pelle color burro e un'assistente di volo tutta per noi. «Se c'è qualcosa che posso fare per voi, non esitate a chiedere», ci accoglie sorridente. «Champagne... succo di frutta... qualsiasi cosa.» Il secondo pilota è già in cabina. Quando tutti hanno preso posto l'assistente di volo chiude il portello e i motori cominciano a rombare. Io occu-
po una poltrona di prima fila. Viv sceglie l'ultima in fondo. L'assistente di volo non ci dice di allacciare le cinture e non ci consegna il pieghevole con le regole di sicurezza. «Le poltrone sono completamente reclinabili», dice invece. «Volendo potete dormire per tutto il viaggio.» La sua voce è dolce come quella di una fata madrina, ma non basta a farmi sentire meglio. Negli ultimi sei mesi Matthew e io abbiamo passato ore a chiederci chi fra i nostri amici e colleghi poteva essere coinvolto nel Rischio Zero. Ma l'unica conclusione a cui siamo arrivati è che poteva essere chiunque; di conseguenza, oggi, l'unica persona di cui mi posso fidare è una diciassettenne terrorizzata e che mi odia. La consapevolezza di essere seduto in un aereo privato da trentotto milioni di dollari non cancella il fatto che i miei due migliori amici se ne sono andati per sempre, e che un dannato killer ci sta dando la caccia e farà di tutto per mandarci a raggiungerli. C'è poco da stare allegri. L'aeroplano si muove con un rombo di tuono, e io mi abbandono nella poltrona. Fuori dall'oblò, un uomo con pantaloni da lavoro blu e una camicia a righe bianche e blu arrotola il tappetino rosso, poi rimane in piedi sul bordo della pista e ci saluta con la mano mentre decolliamo. Resta lì anche quando non ha più nulla da fare, come congelato; tutto è immobile, ed è per questo che non mi sfugge un piccolo movimento improvviso alle sue spalle, nel terminal: l'ometto con l'abito gessato ci sta guardando partire con le mani appoggiate alla vetrata di plexiglas. «Ha idea di chi sia quell'uomo?» domando all'assistente di volo, che sta guardando anche lei fuori dall'oblò. «No, mai visto», risponde. «Credevo fosse con voi.» 30. «Hanno preso un aereo», disse Janos al cellulare uscendo dall'Hotel George e facendo cenno al portiere di fermargli un taxi. «Come fai a saperlo?» domandò Sauls all'altro capo della linea. «Lo so e basta.» «Chi te l'ha detto?» «Ha importanza?» «Per me sì.» Janos fece una pausa, rifiutandosi di rispondere. «Dovrai accontentarti del fatto che lo so.» «Non trattarmi da imbecille», lo ammonì Sauls. «Cosa sei, una specie di
mago, che non vuoi rivelare i tuoi trucchi?» «No: solo che certi rottinculo che se ne stanno nascosti dietro le quinte non hanno mai imparato a tenere la bocca chiusa.» «Di cosa stai parlando?» «Non ti risulta per caso di aver venduto qualche bel Renoir, ultimamente?» fece Janos. Sauls si bloccò. «È stato un anno e mezzo fa. E non era un Renoir, era un Morisot.» «Lo so benissimo cos'era, anche perché per poco non ci lasciavo la pelle», precisò Janos. Non era la prima volta che lui e Sauls lavoravano insieme, ma sapeva che se non riprendeva al più presto il controllo della situazione sarebbe stata anche l'ultima. «E adesso dimmi come hai fatto a...» «La funzione repeat del telefono usato da Harris indica che si è messo in contatto con il sindaco di Leed.» «Merda», mormorò Sauls. «Quindi pensi che stiano andando nel Sud Dakota?» Proprio in quel momento un taxi si fermò e il portiere gli aprì lo sportello. Così Janos non rispose. «È pazzesco», riprese Sauls. «Stasera ho una cena all'ambasciata e questa storia può mandare tutto affanculo... dove sei adesso?» «In viaggio», rispose Janos posando il borsone di cuoio sul sedile del taxi. «Bene, farai meglio a portare al più presto il culo nel Sud Dakota se non vuoi che quelli...» Janos premette il tasto di fine chiamata e richiuse il cellulare. L'incontro con la polizia del Campidoglio gli aveva lasciato un gran mal di testa, e non desiderava farsene venire un altro. Si infilò nell'abitacolo del taxi, sbatté la portiera, tirò fuori dal borsone una copia di «MG World» e ne sfogliò le pagine fino al servizio sul restauro di una roadster MGB del 1964. Era l'unica cosa in grado di ridare un po' di calma alla sua giornata. Diversamente dagli esseri umani, le macchine sono sempre pienamente sotto controllo. «Dove la porto?» fece il taxista. Janos sollevò gli occhi dalla rivista, ma solo per una frazione di secondo. «Al National Airport», disse. «E mi faccia un favore, niente scorciatoie.» 31.
Il cielo del Sud Dakota è già scuro quando la nostra Chevrolet Suburban gira verso ovest per imboccare l'Interstatale 90. Il parabrezza si copre velocemente di una sventagliata di insetti morti che si gettano come kamikaze verso la luce dei fari. Grazie alla FedEx abbiamo trovato l'auto ad attenderci all'aeroporto, e siccome l'avevano noleggiata a nome loro non abbiamo dovuto depositare la fotocopia della patente o di una carta di credito. Anzi, quando gli ho detto che Stevens voleva coltivare la sua immagine di uomo qualunque sono stati ben contenti di mandare a casa l'autista e di consegnarci la macchina. Qualsiasi cosa pur di accontentare il senatore. «Come no...», dico a Viv, seduta accanto a me. «Te lo immagini il senatore Stevens che guida personalmente un'auto?» Viv non dice niente e guarda dritto davanti a sé con le braccia incrociate sul petto. Dopo le quattro ore di silenzio che mi sono toccate in aereo, ormai ci ho fatto il callo. Più ci allontaniamo dalle luci di Rapid City, però, più le cose diventano strane. E non sto parlando solo del malumore di Viv. Dopo l'uscita per Mount Rushmore i lampioni della superstrada cominciano a diradarsi. Prima erano ogni trecento metri... poi ogni chilometro e mezzo... e ora sono già parecchi chilometri che non ne vedo uno. Lo stesso vale per il traffico automobilistico: non sono ancora le nove di sera, ora locale, ma solo i nostri fanali bucano l'oscurità. Siamo completamente soli. «Sei sicuro di non aver sbagliato strada?» domanda Viv quando oltrepassiamo un'indicazione per la Interstatale 85. «Sto facendo del mio meglio», le rispondo. Poco dopo la strada si restringe a due sole corsie. Con un'occhiata a Viv mi accorgo che non tiene più le braccia incrociate sul petto: adesso si è afferrata con entrambe le mani alla cintura di sicurezza. Tenetevi forte, se avete cara la vita. «Sarà la strada giusta?» domanda ancora ansiosamente, voltandosi dalla mia parte per la prima volta nelle ultime cinque ore. Quando, come ora, siamo entrambi seduti, la sua testa risulta più in alto della mia. I suoi occhi, grandi come piattini da tè, risplendono nel buio mentre pronuncia quelle parole. In questo momento l'adolescente furibonda contro l'adulto che l'ha messa nei guai è scomparsa per lasciar posto a una ragazzina semplicemente terrorizzata. Io non ho più diciassette anni da un pezzo, ma se c'è una cosa che ricordo bene è il bisogno di essere continuamente rassicurati. «Stiamo andando benone», le rispondo, cercando di infondere nella voce un tono di calma sicurezza. «Non mento.»
Lei fa un sorrisetto e ricomincia a guardare in avanti. Non sono sicuro che mi creda, ma a questo punto, avendo accettato di venire con me fin quaggiù, deve prenderla come viene. Davanti a noi le due corsie della superstrada curvano a destra, poi a sinistra. Ed è solo quando vedo la luce dei fari rimbalzare sulle pareti di roccia verticale che costeggiano la strada da entrambe le parti che mi rendo conto che ci stiamo infilando in un canyon. Viv si sporge in avanti, piega il collo e guarda in su attraverso il parabrezza. Le sembra di aver visto qualcosa. Si sporge ancora di più. «C'è qualcosa che non va?» le faccio. Non risponde. Siccome ha la testa leggermente voltata dall'altra parte non posso vedere la sua espressione, ma mi pare che non si tenga più aggrappata alla cintura di sicurezza. Anzi, ha posato entrambe le mani sul cruscotto e tiene gli occhi fissi al cielo. «Oh...», sussurra infine. Mi sporgo anch'io sul volante e piego la testa per vedere il cielo. Ma non vedo niente. «Che c'è?» domando ancora. «Cos'hai visto?» Sempre con gli occhi rivolti verso l'alto Viv dice: «Sono quelle le Black Hills?» Guardo ancora. Più avanti le pareti di roccia in mezzo a cui stiamo viaggiando si elevano in modo spettacolare: almeno centoventi metri di strapiombo verticale, dritto verso il cielo. Se non fosse per la luce della luna che ritaglia il bordo della parete rocciosa contro il cielo grigio ardesia, non si saprebbe dove finiscono. Osservo Viv, che continua a fissare in alto come ipnotizzata. Ha la bocca aperta e le sopracciglia sollevate... prima pensavo che avesse paura, e invece no: è pura delizia. «Immagino non ci siano montagne come queste nel posto da cui vieni...» le dico. Scrolla la testa, ancora inebetita dalla meraviglia. Il mento le tocca quasi le ginocchia. Osservo l'incanto che trapela dalla sua espressione, ho visto solo un'altra persona guardare le montagne a quel modo. Matthew diceva sempre che erano una delle poche cose capaci di farlo sentire piccolo. «Tutto bene, lì?» dice Viv. Ripiombando nella realtà, mi accorgo che mi sta fissando dritto in faccia e ne sono stupito. «M-ma certo», rispondo, tornando dietro la linea gialla che delimita la mia corsia.
Viv solleva un sopracciglio, la manovra mi è venuta un po' troppo brusca per non destare sospetti. «Guarda che non sei poi così bravo a mentire.» «Sto bene», insisto. «È solo che... ritrovarmi qui... Questo posto sarebbe piaciuto moltissimo a Matthew... Credo proprio che lui... l'avrebbe amato.» Viv mi studia soppesando ogni mia parola. Io tengo gli occhi fissi sul vago contorno delle linee gialle che serpeggiano lungo la strada. Lo conosco, questo silenzio imbarazzato: è come nei trenta secondi che precedono il momento in cui dovrai fare rapporto al senatore su una questione spinosa. Un silenzio assoluto. Il silenzio delle decisioni importanti. «Lo so. Io... ehm... ho visto un sua foto quando sono stata nel suo ufficio», dice infine. «Di cosa stai parlando?» «Di Matthew. Ti sto dicendo che ho visto una sua foto.» Continuo a fissare la strada, ma con la mente cerco di rivedere quella foto. «Quella in cui lui è davanti a un lago blu?» «Sì, quella», fa lei, annuendo. «Sembrava... sembrava simpatico.» «Lo era.» Viv alza ancora gli occhi alla silhouette scura della parete rocciosa. Io guardo la linea gialla. Somiglia alla conversazione che ha avuto con sua madre, solo che stavolta la pausa è più lunga. «Michigan», sussurra poi. «Scusa?» «Hai detto non ci sono montagne nel posto da cui vieni. Be', io vengo da lì.» «Dal Michigan?» «Sì.» «Detroit?» «Birmingham.» Tamburello col pollice contro il volante. Un altro insetto si spiaccica contro il parabrezza. «Guarda che questo non significa che ti abbia perdonato», precisa Viv. «Non mi aspetto che tu lo faccia.» Davanti a noi le pareti di pietra si abbassano, poi scompaiono. Siamo fuori dal canyon. Premo sull'acceleratore e il motore romba a pieno regime sul rettilineo. E di nuovo non c'è assolutamente niente né a destra né a sinistra della strada, nemmeno il guardrail. Quaggiù bisogna sapere esattamente dove si sta andando. Anche se tutto comincia con il solito, fatale primo passo.
«E ti piaceva, Birmingham?» le domando. «È roba da liceali», risponde, facendomi sentire il peso di tutti i miei anni. «Noi andavamo spesso ad Ann Arbor per vedere il basket», le dico. «Davvero? Allora conosci Birmingham... ci sei stato?» C'è una piccola esitazione nella sua voce, come se stesse cercando una risposta dentro di sé. «Una volta sola. Un tipo del nostro club studentesco ci fece dormire in casa dei suoi genitori.» Viv dà un'occhiata allo specchietto retrovisore dalla sua parte. Il canyon è ormai dietro di noi, confuso nell'orizzonte nero. «Sai, ti ho mentito...» fa lei, con un tono piatto e senza vita. «Come dici?» «Ti ho mentito...» ripete, tenendo gli occhi fissi sullo specchietto retrovisore. «Quello che ti ho detto in quella specie di magazzino del Campidoglio... riguardo al fatto che io e un'altra eravamo le uniche studentesse di colore di tutta la scuola...» «Cosa vuoi dire?» «Lo so che non avrei dovuto... è una cosa stupida...» «Ma cosa...» «Ti ho detto che eravamo in due, e invece eravamo quattordici. Quattordici ragazzi di colore. Lo giuro su Dio. Immagino che... be', sì... quattordici.» «Quattordici?» «Mi dispiace, Harris... Volevo solo convincerti che so badare a me stessa... Adesso non arrabbiarti...» «Viv...» «Volevo che pensassi che ero una tipa tosta e resistente e...» «Non importa», la interrompo. Si volta verso di me. «Come?» «Non importa», ripeto. «Voglio dire, quattordici... su quanti? Quattrocento? Cinquecento?» «Seicentocinquanta. Forse seicentosessanta.» «Esatto», faccio io. «Due... dodici... quattordici... è pur sempre una minoranza schiacciante.» Un piccolissimo sorriso le si arrampica su per le guance. Stavolta le sono piaciuto. Ma dal modo in cui le mani le si richiudono sulla cintura di sicurezza capisco che per lei è un problema.
«Guarda che puoi sorridere, non è vietato», le dico. Scrolla la testa. «Lo dice sempre anche la mamma: subito dopo sciacqui e sputi.» «Tua madre è dentista?» «No, è...» e qui fa una pausa per stringersi nelle spalle: «...igienista dentale.» Improvvisamente capisco. È da lì che viene la sua esitazione. Non che si vergogni di sua madre... ma sa cosa vuol dire sentirsi diversa da tutti gli altri. Ancora una volta penso che forse non ricordo molto dei miei diciassette anni: ma quando a scuola arriva la Giornata dei Mestieri e tu speri segretamente che papà non possa venire, quello sì me lo ricordo. E anche nell'universo della Ivy League Washington non è molto divertente sentirsi un personaggio di serie B. «Sai, mio padre faceva il barbiere», le dico. Mi guarda timidamente, ricontrollando il mio aspetto dalla testa ai piedi. «Dici sul serio? Davvero?» «Davvero», faccio io. «Tagliava i capelli ai miei amici per sette dollari a cranio. Anche tagli a scodella.» Si volta dalla mia parte e mi regala un sorriso un po' più ampio. «Tanto perché tu lo sappia, non mi vergogno dei miei genitori.» «Non l'ho mai pensato.» «Ecco, il fatto è che volevano assolutamente mandarmi alla scuola distrettuale, e per farlo dovettero comprare una casetta che era proprio l'ultima del distretto. Proprio sul confine. Hai idea di cosa significhi? Voglio dire, quando devi cominciare la vita da un simile punto di partenza...» «...non puoi fare a meno di sentirti l'ultimo degli ultimi», faccio io, annuendo. «Credimi, Viv, non ho dimenticato perché ci tenevo tanto a lavorare in Campidoglio. Ho passato i primi anni a cercare di rimediare a ogni singolo torto che qualcuno poteva aver fatto ai miei genitori. Ma a volte bisogna arrendersi all'idea che ci sono battaglie che non si possono vincere.» «Il che non significa che non le si debba combattere», ribatte lei. «Hai ragione. E ora una bella citazione per tutti i fan di Winston Churchill: quando il sole tramonta alla fine della giornata, sai di non poterle vincere...» «...di non poterle vincere tutte? Oddio, lo pensi davvero?» mi fa, assolutamente sincera. «Pensavo che frasi del genere si dicessero solo nei cattivi
film d'azione... Non so, la gente dice che la pubblica amministrazione è disumana e, come dire, guasta, ma anche se tu ci sei stato dentro per molto tempo... voglio dire, quando ti ho conosciuto, e tu hai fatto quel discorso... Lo pensi davvero?» Stringo il volante come per farmene scudo, ma la sua domanda mi colpisce proprio in mezzo al petto. Viv è lì, accanto a me, che aspetta una risposta, facendomi testardamente ripensare a cose cui non pensavo da anni. A volte ci vuole uno schiaffo in faccia per farci prendere coscienza delle cose che ci escono di bocca. «No...» balbetto dopo un po'. «Non è questo che volevo dire...» Viv annuisce, contenta che almeno in questo settore del suo mondo tutto sia a posto. «Ma lascia che ti dica una cosa», aggiungo subito. «C'è qualcos'altro che si accompagna alla sensazione di essere l'ultimo degli ultimi, e non è necessariamente una cosa negativa. Se sei stato l'ultimo in assoluto significa che hai provato nelle budella una fame che gli altri non capiranno mai. Chi ha i soldi non potrà averla nemmeno per tutto l'oro del mondo. E lo sai, quella fame, cosa ti dà?» «Oltre a un grosso sedere?» «Il successo, Viv. Non importa dove andrai o cosa farai. Dalla fame nasce il successo.» Per qualche minuto rimaniamo ad ascoltare le parole che si dissolvono nel brontolio del motore. Viv lascia espandersi il silenzio e stavolta penso proprio che lo faccia apposta. Tiene gli occhi fissi sulla strada lunga e diritta che si perde nel buio davanti a noi, e a suo credito va detto che non mi dà nemmeno il più piccolo indizio per intuire la direzione dei suoi pensieri. Un giorno questa ragazza sarà un negoziatore imbattibile. «Manca ancora molto?» dice poi. «Ventiquattro chilometri fino a Deadwood... poi c'è una città che si chiama Piuma... e poi ancora un'oretta buona. Perché?» «Così, per saperlo», fa lei, e tira su le gambe per incrociarle all'indiana. Poi fa un gesto con l'indice e il medio che dovrebbe rappresentare un paio di forbici: «Mi stavo solo domandando quanto tempo hai ancora a disposizione per tirar fuori il coraggio di parlarmi di tuo papà, il barbiere.» «Scommetto che a Deadwood potremmo trovare qualcosa da mangiare. Anche in questo deserto dovrebbero saper fare il formaggio alla griglia.» «Sì, può andare», fa lei. «Formaggio grigliato a Deadwood: suona be-
ne.» 32. Il viaggio di Janos richiese due diverse tratte aeree, una sosta in aeroporto e tre ore in compagnia di una piccola signora asiatica che sognava di aprire un ristorante afroamericano in cui servire gamberetti fritti. E ancora non era giunto a destinazione. «Minneapolis?» gli chiese Sauls nel cellulare. «Che diavolo ci fai a Minneapolis?» «Ho sentito dire che al centro commerciale c'è un Foot Locker fantastico», grugnì Janos sarcastico, prelevando il suo borsone dal nastro trasportatore. «Forse restarsene bloccati tutta la notte in aeroporto non è abbastanza divertente, per te.» «Non hai preso il jet?» «Non era possibile trovarne uno in tempo utile. Ho chiamato tutti i numeri che avevo. Qualche altro utilissimo suggerimento?» «E adesso ti hanno cancellato il volo?» «No, quel volo non c'è mai stato. Pensavo di trovare una coincidenza per Rapid City, ma pare che il Sud Dakota non sia propriamente in cima alle priorità delle compagnie aeree.» «E allora qual è il prossimo?» «Ci penserò domani», disse Janos, uscendo dal terminal giusto in tempo per veder passare una stupenda Mustang azzurro cielo del 1965. A dire il vero il marchio sul radiatore era quello del modello del '67, ma la capote sembrava originale. Bel lavoro. «Janos...» «Non preoccuparti», disse Janos senza staccare gli occhi dai fanalini posteriori della convertibile finché non li vide svanire nella notte. «Domattina, quando apriranno gli occhi, sarò accanto al loro letto.» 33. Poche cose al mondo possono deprimerti così istantaneamente come l'odore di muffa e di stantio che regna nelle stanze dei vecchi motel. Al mio risveglio quel tanfo acido e muschioso è ancora lì. FELICE SOGGIORNO AL GOLD HOUSE, recita una targhetta di plastica attaccata al comodino. In un angolo c'è il disegnino di una pentola colma d'oro realizzato con uno
dei primi computer: probabilmente risale all'anno in cui hanno cambiato le lenzuola. Siamo andati a dormire parecchio dopo la mezzanotte. La lucina digitale della sveglia m'informa che sono le cinque del mattino, ora della costa orientale. Qui sono già le sette. Mi libero con un calcio della coperta, sottile e consunta (tanto valeva coprirmi con una garza da disinfezione), do un'occhiata al cuscino striminzito e ci trovo ben diciassette capelli. Sarà una pessima giornata. Il secondo letto della stanza è intatto. Quando siamo arrivati ho lasciato Viv ad aspettarmi in macchina e ho detto alla donna della reception che volevo due stanze, una per me e una per i bambini. È vero che Viv sembra grande e matura per la sua età, ma un trentenne bianco che scende in un motel con una ragazza nera molto più giovane - e senza bagaglio - attirerebbe l'attenzione perfino in una grande città. Alla mia sinistra le tendine, stampate in una fantasia anni Settanta, sono ancora chiuse, ma lasciano intravedere una striscia di cielo blu scuro. Alla mia destra, quasi a ridosso del letto, c'è il lavamano. Tiro fuori lo spazzolino da denti e gli altri accessori da toilette che abbiamo comprato alla stazione di servizio e infilo nella presa la spina del ferro da stiro che mi sono fatto prestare alla reception. Dopo tutte le corse di ieri sembra che con i nostri vestiti ci abbiamo giocato una partita di baseball. Se vogliamo avere una qualche possibilità di cavarcela dobbiamo sembrare nella parte, e non inciampare subito al primo ostacolo. Mentre aspetto che il ferro si scaldi allungo una mano verso il telefono sul comodino e digito il numero della stanza di Viv. Lo lascio suonare a lungo. Non risponde, ma non ne sono sorpreso. Dopo tutto quello che le è capitato ieri dev'essere esausta. Riattacco e provo daccapo. Ancora niente. Ero così anch'io, da giovane. La radiosveglia poteva sgolarsi per ore, mi svegliavo solo quando la mamma veniva a bussare alla mia porta. Mi infilo i pantaloni e guardo di nuovo l'orologio. Anche ammesso che sia riuscito a prendere il primo volo, Janos non atterrerà che fra dieci minuti, e poi dovrà guidare per almeno due ore. Va tutto bene. Adesso vado da Viv e le dico di alzarsi. Tolgo la catenella alla porta e la apro. Un soffio d'aria fresca ricaccia indietro quella stantia e muschiosa della stanza, ma al primo passo che faccio verso destra qualcosa mi blocca le caviglie e cado a faccia in giù sul marciapiede di cemento. Non è possibile. Non può essere già qui... Anche se ho messo le mani avanti mi graffio una guancia. Alzo subito
gli occhi, sicuro di ritrovarmi davanti la faccia di Janos... Poi sento una voce dietro di me. «Scusa... scusa!» dice Viv sedendosi sul marciapiede e allungando le gambe nell'erba. «Ti sei fatto male?» «Credevo stessi ancora dormendo.» «No, io non dormo... cioè, non così tanto», mi dice alzando gli occhi da un pieghevole che ha in mano. «Ma va bene così... Mamma dice che alcune cose sono come sono. Io sono una che non dorme tanto. Sono fatta così.» «E cosa ci fai qui fuori?» «La mia camera puzza. Davvero. Puzza di stalla geriatrica. Te l'immagini? Vecchi e animali mischiati insieme... credo sia una descrizione adeguata di quell'odore.» Salto in piedi sforzandomi di sembrare di buon umore: «Allora ti alzi sempre così presto?» «Sì. La scuola dei fattorini comincia alle sei e un quarto. La donna della reception... è una gran chiacchierona, ma simpatica. Abbiamo parlato una mezz'oretta. Ci crederesti che in quinta liceo ci sono solo due alunni? Questa città deve avere qualche problemino.» «Tu... cosa? Ma se ti avevo detto di non parlare con nessuno!» Viv si irrigidisce, ma solo un po'. «Non preoccuparti... le ho detto che sono la baby sitter... quella che si occupa dei bambini.» «Una baby sitter in giacca scura?» le domando, indicando la sua divisa. «No, la giacca non l'avevo ancora messa. Rilassati, va tutto bene. Ci ha creduto. E poi avevo fame. Guarda, mi ha dato un'arancia», mi spiega, tirando fuori il frutto da una tasca. «Ne ho una anche per te.» E mi tende un sacchetto di plastica con dentro un'arancia già sbucciata. «Le ha sbucciate lei?» «Lascia perdere: ha insistito moltissimo, non volevo che ci rimanesse male. Credo che siamo gli unici ospiti che abbia visto dai tempi... dai tempi della corsa all'oro.» «Ed è stata lei a darti quegli opuscoli?» Viv abbassa lo sguardo su un dépliant sbiadito: La miniera dell'Homestead - Un'opportunità per il nostro futuro, leggo sulla prima pagina. «L'ho preso così, per dargli un'occhiata. Non ho fatto male, vero?» Dalla porta delle scale in fondo al marciapiede proviene un rumorino. Uno scricchiolio strano. «Cos'è stato?...»
«Sshhh...» Ci voltiamo verso il punto da cui sembra provenire il rumore. La scala è là, ma non si vede nessuno. Il rumore si ripete. Soltanto allora capiamo cos'è stato: c'è una macchina per il ghiaccio che di tanto in tanto sputa fuori i cubetti. Nient'altro che semplici cubetti di ghiaccio, mi ripeto. Ma non mi fa sentire meglio. «Viv, credo che dovremmo...» «...andarcene di qui», concorda lei. Torniamo alle nostre stanze. Quattro minuti di ferro da stiro e sono pronto. Viv mi aspetta fuori, leggendo un altro di quegli sbiaditi opuscoli per turisti. «Pronta?» le faccio. «Harris, bisognerebbe dare almeno un'occhiata a questo posto, non ho mai visto niente di simile.» Non ho bisogno di leggere il dépliant per capire che ha ragione. Non so assolutamente cosa ci aspetti quaggiù, ma mentre percorro in fretta il marciapiede - tallonato da Viv - so che niente potrà trattenermi. Qualsiasi cosa la Wendell stia cercando sottoterra, dobbiamo scoprirlo. Saliamo la breve scala per raggiungere la hall del Gold House. Anche considerando l'ora mattutina, è più deserto di quanto mi sarei aspettato. Al banco della reception non c'è nessuno, il distributore di bibite gasate ha un tappo nero nella fessura per le monete e sulla macchinetta per la vendita automatica di «USA Today» c'è un cartello scritto a mano che dice COMPRATE I VOSTRI GIORNALI DA TOMMY (QUI DAVANTI). Gettando un'occhiata fuori, su Main Street, ci accorgiamo che quasi ogni finestra ha un cartello. CHIUSO, dice quello del distributore di benzina. AFFITTASI, quello del negozio di computer. I miei occhi cercano automaticamente la bottega del barbiere: TRASFERITO NEL MONTANA - CHE DIO LO BENEDICA. Su una parete della hall c'è lo scaffale metallico da cui Viv ha preso l'opuscolo. Ce ne sono altri, ordinatamente allineati sulle mensole: Venite a vedere come si fa un vero lingotto d'oro! Visitate il teatro di Leed! Esplorate il museo della mineralogia! Ma il colore giallastro della carta e i caratteri sbiaditi suggeriscono che probabilmente il museo è chiuso, il teatro non dà più spettacoli e da anni a nessuno gliene frega niente di veder fare un lingotto d'oro. Mi ricorda quando ho dovuto sgomberare la casa di mio padre: a volte non sai risolverti a buttare via le cose. Mentre venivamo qui ho pensato che mi sarei ritrovato nel mio elemen-
to. Mi sbagliavo di grosso. Questa non è una piccola città: è una città morta. «Piuttosto triste, eh?» dice una voce femminile. Mi volto e vedo una giovane donna con i capelli corti uscire da una porta sul retro della hall e prendere posto dietro il banco della reception. Non può avere più di venticinque anni. Dal colore della pelle direi che è nativa americana, ma anche senza questo indizio basterebbero gli zigomi alti e pronunciati. «Ciao, Viv», dice, strofinandosi gli occhi per scacciarne le ultime tracce di sonno. Le scocco un'occhiataccia: perché le hai dato il tuo vero nome? Lei si stringe nelle spalle e avanza di un passo. Le faccio segno di no, e torna indietro. «Vado a dare un'occhiata ai bambini», dice, avviandosi verso la porta principale. «Non ce n'è bisogno, i bambini stanno benissimo», la blocco. Preferisco rimanga nel mio campo visivo. Ha già chiacchierato anche troppo. Dovremmo parlare con gli estranei solo quando abbiamo bisogno d'informazioni, o d'aiuto, oppure, come in questo caso, di qualche indicazione pratica. «Può dirci come si arriva alla miniera dell'Homestead Act?» domando avvicinandomi al bancone. «Allora è vero che sarà riaperta?» mi fa la ragazza. «Non ne ho idea», le dico, appoggiandomi col gomito al bancone. Qualsiasi informazione può essere preziosa. «Ne ho parlato con varie persone e ognuno mi ha dato una risposta diversa.» «Be', io ho sentito dire così. Ma papà dice che nessuno ha ancora interpellato il sindacato.» «Perlomeno vi avrà portato qualche cliente in più», ipotizzo, domandandomi se e quando altri visitatori hanno pernottato qui. «Noi lo speravamo... invece vivono rintanati nelle roulotte che si sono portati lassù in cima. Con tanto di cucine, dormitori e tutto il resto. Lasci che glielo dica, se ci fosse una valutazione per la capacità di fare amicizia quella gente prenderebbe un bel due.» «Forse erano seccati di non aver trovato l'Holiday Inn.» Sorride della mia battuta. Questo almeno me lo ricordo: gli abitanti delle piccole città odiano le catene di grandi alberghi. La ragazza studia con attenzione il mio viso chinando la testa di lato. «È possibile che io l'abbia già vista da qualche parte?»
«Non credo proprio...» «Sicuro? A Kiwanis, forse?» «Sicurissimo. Non sono di queste parti.» «Davvero? E io che credevo che quaggiù tutti portassero i pantaloni con la piega e la camicia con la cravatta...» Mi allontano leggermente. Lo so che sta solo cercando di essere amichevole, ma io non posso permettermi di ricambiare. «Allora, per quelle indicazioni...» «Già, certo. Le indicazioni. Non deve fare altro che seguire la strada.» «Quale?» «L'unica che c'è», fa lei, sorridendomi ancora. «Appena esce dal vialetto prenda a sinistra, e poi a destra fin sulla collina.» Istintivamente le sorrido anch'io. All'improvviso lei scavalca con un agile volteggio il banco della reception, mi prende sottobraccio e mi accompagna verso la porta. «Vede quella costruzione... quella che sembra un gigantesco tepee metallico?» E mi indica l'unica struttura visibile in cima alla montagna. «È il castelletto.» Poi si accorge che non ho capito. «La struttura che ricopre il pozzo», aggiunge. Ma io non cambio espressione. «Per i non addetti ai lavori, quel grosso buco che porta sottoterra», spiega ancora, scoppiando a ridere. «Il castelletto lo protegge dal maltempo. E dentro c'è la gabbia.» «Che gabbia?» «L'ascensore», fa lei. «Voglio dire, nel caso si debba scendere di sotto...» Viv e io ci scambiamo un'occhiata in silenzio. Fino a un attimo prima non ci avevo nemmeno pensato. «Seguite le indicazioni per The Homestead», aggiunge la donna. «Da qui ci metterete meno di cinque minuti. Dovete vedere qualcuno per affari?» «Sì, ma più tardi. Prima pensavamo di farci un giretto a Mount Rushmore», le dico. «Come ci si arriva?» È un patetico bluff, ma se Janos è vicino come temo bisogna confondere un po' le acque. La ragazza ci spiega la strada e io fingo di prendere appunti. Alla fine ringrazio, le faccio un cenno di saluto e mi avvio verso la nostra Suburban. Accanto a me, Viv scuote la testa: «Lo fai apposta o ti viene naturale?» mi dice una volta saliti in macchina, mentre usciamo dal parcheggio.
«Non ti capisco.» «Tutto quello sfoggio di fascino: il gomito appoggiato al bancone... lei che va in estasi per la sua piccola città...» Fa una pausa: «Sai, ciò che siamo in questo momento è quel che siamo sempre stati e sempre saremo. Tu sei sempre stato così?» La Suburban slitta un po' quando affronto bruscamente la curva a destra, schiacciando me contro la portiera e Viv contro il bracciolo del sedile. Poi filiamo su per la collina, attenti a non perdere di vista l'edificio triangolare sulla cima. Dopo un ultimo tornante gli alberi scompaiono di colpo, il nastro d'asfalto s'interrompe e il terreno diventa irregolare e roccioso. Davanti a noi si apre uno spiazzo grande come un campo da calcio: una superficie sporca, circondata da frastagliati affioramenti rocciosi alti qualche metro. È come se avessero sbarbato la cima della montagna per installarci un accampamento di roulotte. «Allora, cosa dovremmo cercare?» mi domanda Viv studiando il terreno. È una buona domanda, da quando siamo scesi dall'aereo non ho mai smesso di pormela. «Penso che lo scopriremo quando ci saremo davanti», le dico. «Ma Matthew... credi siano stati quelli della Wendell Mining a farlo ammazzare?» Non mi muovo, gli occhi fissi sullo spiazzo. «Tutto quel che so è che la Wendell ha lavorato due anni per cercare di comprare questa vecchia miniera nel bel mezzo del nulla. E siccome l'anno scorso non ci è riuscita, quest'anno ha cercato di abbreviare il normale iter burocratico infilando il progetto nel bilancio degli stanziamenti interni. Cosa che, a detta di Matthew, non gli sarebbe mai riuscita, a meno che la questione non diventasse oggetto di scommessa nella nostra Vetrinetta delle Carte in Tavola.» «Non basta per affermare che sia stata la Wendell Mining a farlo fuori.» «No, hai ragione. Ma quando ho cominciato a indagare ho scoperto che si erano inventati di sana pianta almeno una delle lettere che caldeggiavano il progetto, e che in quella miniera non c'era più oro nemmeno per fare una cavigliera alla Barbie. Pensaci: quei tipi hanno impiegato due anni del loro tempo per impadronirsi di un grosso buco nella roccia assolutamente vuoto, e sono talmente ansiosi di metterci le mani sopra che hanno già avviato i lavori. Aggiungi il fatto che due dei miei migliori amici sono stati ammazzati per questo e... anche se sembra del tutto illogico, voglio andare a vedere di persona.» Avanziamo fino in fondo al parcheggio lastricato di ghiaia. Viv si gira
verso di me per sentenziare: «Se vuoi sapere cosa bolle in pentola, alza il coperchio e guarda.» «È tua madre che dice così?» «No, è una massima che ho trovato nei cioccolatini», sussurra lei. Al centro dello spiazzo c'è l'edificio a forma di tepee che ci ha indicato la ragazza del motel: su un fianco qualcuno ci ha scritto con la vernice la parola HOMESTEAD. Nel parcheggio, oltre alla nostra, c'è una dozzina di auto; più a sinistra, numerosi operai in tuta da lavoro entrano ed escono da due enormi roulotte da cantiere. Due camion ribaltabili si avvicinano al castelletto in retromarcia. Dal rapporto di Matthew il posto risultava vuoto e abbandonato: e invece sembra un alveare in piena attività. Viv mi fa cenno di guardare verso il fianco del castelletto, dove un operaio su un sudicio carrello elevatore sta scaricando dal retro di un tir a diciotto ruote una grossa cassa contenente un processore elettronico. Paragonato al sudicio elevatore, il computer nuovissimo stona come un trattore su un campo da golf. «Hanno bisogno di un processore per scavare sottoterra?» Annuisco, e intanto studio l'ingresso dell'edificio triangolare: «Domanda da un milione di dollari...» Poi sento un colpetto contro il finestrino, come se qualcuno ci stesse bussando educatamente con la nocca di un dito. Mi volto: c'è un uomo con il berretto da manovale più sporco che abbia mai visto. Sorride: dopo una breve esitazione abbasso il vetro. «Salve», dice l'uomo sventolando un blocco per appunti fissato a una tavoletta. «Siete della Wendell?» 34. «Allora, abbiamo finito?» domandò Trish appoggiandosi allo schienale della sedia. La pre-riunione era ancora in corso nella sala udienze del Comitato interni della Camera. «Se non hai altro da aggiungere...» le rispose Dinah riordinando i fogli sparsi in una pila dai contorni precisi. Al momento di prendere il posto di Matthew non aveva avuto esitazioni, ma come aveva detto ai suoi compagni d'ufficio c'era ancora molto lavoro da fare. «No, grazie, per me è tutto...» Trish si bloccò a metà della frase, riaprì velocemente il raccoglitore ad anelli e sfogliò alcune pagine. «Accidenti», aggiunse poi. «Quasi me ne scordavo... avrei un ultimo progetto...»
«Bene, perché in realtà ne avrei un altro anch'io», replicò Dinah seccamente, sfogliando col pollice il suo notes ma senza staccare gli occhi da Trish. La rappresentante del Senato raddrizzò la schiena e ricambiò il suo sguardo, e per una ventina di secondi le due donne rimasero così, una di fronte all'altra, senza parlare. Ezra e Georgia le osservarono, nel consueto ruolo di spettatori. Matthew lo chiamava lo stallo del samurai, e si verificava ogni volta che si stava per chiudere il bilancio. L'ultimo tentativo di infilare in extremis le dita nel barattolo della marmellata. Dinah tamburellò con la penna sul tavolo, preparandosi allo scontro. Anche se Matthew non era più tra loro, la battaglia doveva continuare. Perlomeno finché una delle due non si arrendeva. «Chiedo scusa, avevo letto male.» Fu Trish a fare il primo passo. «Questo progetto può benissimo aspettare fino all'anno prossimo.» Ezra sorrise. Dinah no: non era tipo da gongolare, e men che meno sotto gli occhi del Senato. Sapeva fin troppo bene che se ti beccano a gongolare quelli ti si rivoltano contro, e il morso può essere mortale. «Meglio così», replicò Dinah, chiudendo la cerniera del marsupio e alzandosi in piedi. Soddisfatto della vittoria riportata dalla sua parte, Ezra canticchiò in punta di labbra la melodia di Johnny va in cucina con Tina. Lo faceva anche Matthew, quando vedeva la sua compagna d'ufficio gettare sul piatto della bilancia tutta la sua innegabile forza. Johnny va in cucina con Dinah / e suona il suo vecchio banjo... «Allora basta così?» domandò Georgia. «Abbiamo finalmente concluso?» «In realtà secondo Matthew avremmo dovuto finire una settimana fa», puntualizzò Dinah. «Adesso dovremo fare i salti mortali: mancano pochi giorni alla votazione.» «Cosa? Vuoi dire che si andrà in aula già questa settimana?» fece Trish. «E tu da quando lo sai?» «Da stamattina, quando la direzione ne ha dato l'annuncio senza consultare nessuno.» Gli altri tre scrollarono la testa, ma in realtà non erano molto stupiti. Negli anni di elezioni è cruciale aggiudicarsi la gara più importante del Congresso. È così che si vincono le campagne elettorali. Nel bilancio confluiscono tutti i progettini locali che deputati e senatori si portano appresso dall'ultima visita nel loro distretto elettorale: la risistemazione delle acque per la Florida, un nuovo sistema fognario per il Massachu-
setts... perfino una piccola miniera d'oro per il Sud Dakota, pensava Dinah. «Credi che ce la faremo?» disse ancora Trish. «Non vedo perché no», replicò Dinah, avviandosi verso la porta del suo ufficio con le braccia cariche di scartoffie. «Per ora devi solo farlo firmare dal tuo capo.» Trish annuì guardandola andar via. «Ah, dimenticavo», le gridò dietro: «Grazie per aver sostituito Matthew. So che non è stato facile per te, con tutto quel...» «Qualcuno doveva farlo», la interruppe Dinah. «Tutto qui.» La porta sbatté e Dinah entrò nel suo ufficio. Non era certo il tipo da perdersi in convenevoli: ma soprattutto se si fosse trattenuta con Trish forse la persona che la stava aspettando avrebbe perso la pazienza e se ne sarebbe andata. Invece era ancora lì, all'altro estremo della stanza. «Tutto a posto?» le domandò Barry sollecito, appoggiandosi al piccolo schedario fra la sua scrivania e quella di Matthew. «Tutto a posto», rispose Dinah. «Dove andiamo a festeggiare?» 35. «S-sì, esatto... siamo della Wendell», confermo, annuendo vistosamente in direzione del gigante in tuta da lavoro parcheggiato davanti al mio finestrino. «Come ha fatto a indovinare?» Accenna col mento alla mia camicia. Sotto la tuta da lavoro, lui sfoggia una maglietta con la scritta SPRING BREAK '94 in lettere arancioni fosforescenti. Non ci vuole Einstein per capire chi è fuori posto fra noi due. «Lei è Shelley, giusto?» gli faccio, leggendo il nome scritto col pennarello indelebile sul davanti del suo casco da cantiere tutto ammaccato. «Janos mi ha detto di salutarla.» «Janos chi?» fa lui, perplesso. Con ciò almeno una cosa l'abbiamo stabilita: qualsiasi cosa stia succedendo quaggiù, gli uomini che ci lavorano sono semplici operai. «Scusi...», rettifico subito. «È un altro dirigente della Wendell. Pensavo che lo conoscesse...» «Un attimo solo», m'interrompe lui portandosi il walkie talkie all'orecchio. «Mileaway?» domanda. «Ma dove diavolo sei?» gracchia una voce. «Mi hanno assegnato alla superficie per tutta la giornata», fa Shelley. «Topo di superficie!»
«Talpa!» «Sempre meglio di certa spazzatura degli abissi», ribatte la voce nel walkie talkie. «Amen», fa Shelley, invitandomi con un sorriso a partecipare allo scambio di battute. Io annuisco, quasi avessi appena ascoltato la più divertente gag sui minatori della settimana. Poi gli indico uno dei pochi posti-auto ancora liberi: «Senta, crede che potremmo...» «Come? Ah, sì... certo, lì andrà benissimo», mi fa Shelley, mentre il suo collega continua a gracchiare nel walkie talkie. «Laggiù troverete tutta l'attrezzatura», aggiunge poi indicando un grosso edificio di mattoni che sorge dietro la struttura a tepee. «Ed ecco a voi...», conclude, tirando fuori dalla tasca un portachiavi carico di piastrine metalliche. Ne sgancia quattro e me le consegna: due portano inciso il numero 27, le altre due il 15. «Non dimenticate: una in tasca e l'altra sul muro.» Ringrazio e m'infilo rapidamente nel parcheggio, mentre l'uomo ricomincia a parlare al walkie talkie. «Sei sicuro di sapere cosa stiamo facendo?» domanda Viv. Ha la schiena un po' più dritta di ieri, ma è impossibile fraintendere quel suo continuo guardare nello specchietto retrovisore. Mentre l'ascoltavo parlare con sua madre ho pensato che la forza dobbiamo trovarla dentro di noi. E a giudicare dall'uso che fa dello specchietto, Viv la sta ancora cercando. «Cerca di ragionare: in questo posto non c'è nemmeno un grammo d'oro, ma sembra di essere sul set di E. T. mentre girano la scena in cui il governo non vuole fare brutta figura.» «Ma se noi...» «Ascoltami, nemmeno io muoio dalla voglia di andare laggiù: tu cosa suggerisci di fare?» Abbassa gli occhi sulle ginocchia cosparse di opuscoli. Su uno c'è scritto: Dalla Bibbia alla Repubblica di Platone, il sottosuolo è sempre stato associato alla conoscenza. Proprio quello che vorremmo noi. «Molti dei miei amici avevano il padre minatore», aggiungo. «Credimi, quando saremo là sotto vedrai con i tuoi occhi che è una semplice grotta, profonda 50, 100 metri al massimo...» «Di' pure 2500», fa lei. «Cosa?» Si blocca, stupita dalla mia improvvisa attenzione. «L'ho letto qui...», aggiunge, allungandomi un pieghevole. «Prima che la chiudessero era una
delle miniere attive più antiche di tutto il continente. Per dimensioni batte ogni altra miniera d'oro, d'argento, di carbone o di qualsiasi altra cosa che ci sia in America.» Le prendo bruscamente il pieghevole di mano. Dal 1876, leggo sul frontespizio. «Là dentro non hanno fatto altro che lavorare di piccone per più di cent'anni. Di conseguenza sono arrivati piuttosto in basso», continua Viv. «Ti ricordi quei minatori della Pennsylvania che qualche anno fa rimasero intrappolati sottoterra? Di quanto erano sotto, 60 metri?» «Credo fossero 65», la correggo. «Bene: qui il buco è profondo 2500 metri. Te l'immagini? Due chilometri e mezzo. Come sei Empire State Building scavati uno dopo l'altro nella roccia...» Giro il pieghevole per leggere anche il retro e ci trovo conferma delle parole di Viv: come sei Empire State Building. 57 livelli... più di tre chilometri di estensione... 560 chilometri di gallerie sotterranee. In fondo ai pozzi la temperatura sale a più di 50 gradi. Guardo fuori dal finestrino. Ma quale alveare! Quello che si estende sotto di noi somiglia più a un gigantesco formicaio. «Forse è meglio se io resto qui fuori», dice Viv. «Sai... per dare un'occhiata...» Prima che abbia il tempo di risponderle ha già dato un'altra occhiata nello specchietto retrovisore. Dietro di noi, un furgoncino Ford color argento attraversa lo spiazzo di ghiaia per parcheggiare. Viv scruta ansiosamente la faccia dell'autista. Lo so a cosa sta pensando. Probabilmente l'aereo di Janos è appena atterrato, ma comunque presto sarà qui. Sta a lei scegliere: il demone del sottosuolo contro quello della superficie. «Davvero pensi di essere più al sicuro quassù da sola?» le domando. Non risponde. Sta ancora osservando il furgoncino argentato. «Giurami che non staremo giù molto», mi supplica. «Non preoccuparti», le dico, aprendo la portiera e scendendo dall'auto. «Saremo fuori in men che non si dica.» 36. Janos tamburellò leggermente col pollice sul bancone della Hertz, all'aeroporto di Rapid City. Non faceva proprio nulla per nascondere quanto lo irritasse lo stile di vita del Sud Dakota. «Ma perché ci mette tanto?» sbottò
a un certo punto contro il giovane impiegato, che sfoggiava una cravatta di pelle con la sagoma di Mount Rushmore. «Le chiedo scusa... è che stamattina c'è parecchio traffico», rispose l'uomo sfogliando rapidamente una pila di scartoffie. Janos girò lo sguardo sulla sala d'attesa dell'aeroporto: sei persone in tutto compreso il portiere, un nativo d'America. «Okay. E quando pensa di riconsegnare l'auto?» domandò l'impiegato. «Stasera. Almeno spero», rispose subito Janos. «Una visitina veloce, eh?» Senza rispondere, Janos guardò insistentemente la chiave che l'uomo teneva in mano e faceva dondolare appesa a una catenella. «Potrei avere la chiave, adesso?» «Pensa che le farebbe comodo un'assicurazione per...» La mano di Janos scattò in fuori come una molla, afferrò il polso dell'impiegato e gli strappò la chiave. «C'è altro?» grugnì. «È... è una Ford Explorer blu... parcheggio numero quindici», disse l'impiegato. Janos prese una cartina stradale dall'espositore e si diresse all'uscita. «Le auguro buona giornata, signor...», disse ancora l'uomo, abbassando gli occhi sulla fotocopia della patente di Janos: «...signor Franklin. Benvenuto nel Sud Dakota!» 37. Io e Viv camminiamo svelti. Sotto il braccio ostento un fascio di documenti, e automaticamente assumo l'andatura tipica del senatore. Andiamo verso l'edificio di mattoni rossi. I presunti documenti in realtà non sono altro che il manuale d'istruzioni che ho trovato nel cruscotto della Suburban. Ma fintanto che camminiamo svelti nessuno avrà modo di accorgersene. Viv completa il quadro trotterellando un passo dietro di me, quasi fosse davvero la fedele assistente del dirigente della Wendell che sto fingendo di essere. Fra la sua altezza e la giacca blu appena stirata sembra abbastanza adulta per quel ruolo. Le ho detto di non sorridere e di sforzarsi di avere un'espressione sicura: l'unico modo di sembrare al proprio posto è comportarsi come se lo si fosse. Ma più ci avviciniamo all'edificio di mattoni più ci rendiamo conto che ben difficilmente qualcuno ci fermerà o ci dirà qualcosa. Diversamente dalla zona roulotte, il sentiero che stiamo percorrendo è deserto.
«Pensi che siano tutti là sotto?» mi fa Viv notando l'improvviso, drastico crollo di densità della popolazione. «Difficile a dirsi: nel parcheggio ho contato sedici auto più i camion. Forse invece la maggior parte del lavoro viene fatto vicino alle roulotte.» «O forse qualsiasi cosa stiano facendo preferiscono non avere gente tra i piedi.» Accelero, e Viv adegua il suo passo al mio. Subito dopo l'angolo dell'edificio di mattoni c'è una porta con una scaletta di grata metallica: portano a un ingresso laterale situato qualche metro sotto il piano stradale. Viv mi guarda, e io le faccio un cenno affermativo. Diamo un'ultima occhiata all'area del parcheggio e cominciamo a scendere: quando posiamo i piedi sui primi scalini, una pioggia di sassolini si stacca dalle suole delle nostre scarpe e cade attraverso le grate su un camminatoio di cemento sei metri più in basso. Niente in confronto al dislivello che stiamo per affrontare. Mi giro verso di lei, ma Viv sta guardando attraverso gli scalini di rete metallica. Rallenta impercettibilmente il passo. «Viv...» «Sì, sto bene», fa lei, anche se non le ho domandato niente. Varchiamo una porta, attraversiamo uno scuro andito foderato di piastrelle ed entriamo in un cucinotto: i locali sembrano aver subito una perquisizione ed essere stati poi frettolosamente abbandonati. Il linoleum del pavimento è rotto in vari punti, il frigorifero, spalancato, è vuoto, e in un angolo, per terra, c'è una bacheca di sughero piena di volantini sindacali ingialliti e secchi, con la data di almeno due anni fa. Di qualsiasi cosa si stiano occupando, gli operai non devono essere qui da molto. Lascio il cucinotto e torno nell'andito: c'è un'altra porta, che pende tutta storta dai cardini. Infilo dentro la testa, poi entro: ma mi fermo dopo il primo passo sul pavimento di piastrelle. Dal soffitto pendono lunghe file di docce di fattura grossolana: sembra una camera a gas: niente diffusori per l'acqua, semplici manichette da innaffiare che spuntano dal cemento del soffitto. Lo so, sono soltanto docce: ma il pensiero di tutti i minatori che si sono lavati via di dosso infinite, faticose giornate di lavoro in un ambiente così squallido è uno dei più tristi che mi siano mai venuti in mente. «Harris, è qui!» mi richiama Viv, tamburellando con il dito su un cartello che dice RAMPA. Sotto, una freccia indica di scendere per una scala. «Sei sicura che sia...» Con un cenno della testa mi fa notare la vecchia macchinetta per timbrare i cartellini, quindi sposta gli occhi sulla bacheca degli annunci sindacali
e sul frigorifero. È evidente: quando i minatori riempivano questi locali, era proprio qui che aveva inizio la loro giornata lavorativa. Scendiamo. Alla fine della scala il corridoio si restringe e il soffitto si abbassa. Dall'odore d'umidità si capisce che siamo in un seminterrato. Non ci sono altre stanze e nemmeno una finestra. Seguiamo un secondo cartello con la scritta RAMPA, e a un certo punto il corridoio è sbarrato da una porta di ferro blu, tutta arrugginita e incrostata di fango, simile allo sportello di un congelatore industriale. Provo a spingerla, ma sembra opporre una resistenza pari alla forza con cui la spingo. «C'è qualcosa che non va?» chiede Viv. Scrollo la testa e ci riprovo. Stavolta la porta cede un poco, lasciando passare un soffio d'aria calda e secca che mi colpisce in piena faccia. È una vera galleria del vento, là sotto. Spingo ancora e finalmente riesco ad aprire: i cardini arrugginiti cigolano forte, siamo avvolti da un vento caldo e secco. «Sa di terra», dice Viv coprendosi la bocca con la mano. Ma è proprio qui che l'uomo del parcheggio ha detto che avremmo trovato l'attrezzatura. Avanzo di un passo nell'angusto corridoio di cemento. Non appena la porta si richiude alle nostre spalle il vento cessa di colpo, ma l'aria è ancora molto secca. Mi passo la lingua sulle labbra, ma non serve a farmi sentire meglio. È come mangiare un castello di sabbia. Davanti a noi il corridoio curva a destra. Sul pavimento ci sono dei secchi pieni d'acqua, e sul soffitto corrono dei tubi al neon. Deboli segnali di presenza umana. Avanziamo verso la curva del corridoio, ma la cosa che stiamo respirando non è molto rassicurante. Assaggio quell'aria secca con la punta della lingua: è calda, polverosa e ha un cattivo sapore. A sinistra, su una parete, c'è un cartello che dice RIFUGIO ANTIRADIOATTIVITÀ: probabilmente risale agli anni Sessanta, ed è corredato di una freccia che indica di proseguire diritti. Tra le chiazze di fango e muschio si vede ancora il logo giallo e nero del nucleare. «Un rifugio anti-radioattività?» domanda Viv, confusa. «2500 metri sottoterra? Non ti sembra un po' esagerato?» Ignoro il commento e continuo a camminare. Ora il corridoio procede diritto, offrendoci nuovi indizi di presenza umana. «Che cos'è?» fa Viv. Davanti a noi, a destra e a sinistra, le pareti del corridoio sono coperte di scaffali metallici industriali simili a mensole per i libri, solo più sottili. Al posto dei libri ci sono varie attrezzature: stivali di gomma alti fino al gi-
nocchio, cinturoni porta-strumenti di nylon, lampade da miniera e caschi da cantiere. «Come mi sta?» domanda Viv infilandosi un casco sulla pettinatura afro e sforzandosi di trovarci qualcosa di buffo. Vorrebbe farmi credere che è pronta ad affrontare l'impresa in cui stiamo per tuffarci, ma prima deve convincere sé stessa. «E questo cos'è?» dice poi, indicando il morsetto metallico sul davanti del casco. «Serve per agganciare la lampada», le dico, e ne prendo una dallo scaffale. Ma quando faccio per fissarla nella sua sede sulla testa di Viv mi accorgo che un cavo nero la collega a una cassetta di plastica rossa, una specie di batteria d'automobile in sedicesimo, che a sua volta è connessa allo scaffale tramite due pinzette. Quello non è uno scaffale come tutti gli altri: è una vera e propria stazione di ricarica. Apro le mollette, sgancio la batteria, la tolgo dallo scaffale e la fisso a un cinturone porta-attrezzi. Viv se lo lega in vita, io le faccio passare il cavo al di sopra della spalla e le aggancio la lampada sul davanti del casco. Ecco, è pronta: una minatrice provetta. Viv preme un interruttore e la luce si accende. Meno di ventiquattr'ore fa avrebbe fatto ballare la luce spostando avanti e indietro la testa, e avrebbe cercato di farmi arrabbiare puntandomela in faccia. Adesso invece il fascio di luce le illumina i piedi, perché tiene gli occhi bassi. Eccitazione e voglia di giocare sembrano scomparse. Una cosa è ammettere che bisogna andare sottoterra, un'altra è farlo per davvero. «Non dirlo...», mi ferma, vedendomi aprire la bocca. «Guarda che è più sicuro qui che...» «Ti ho detto di non dirlo. Va tutto bene», mi fa. Poi stringe i denti e respira a fondo quell'aria calda e gessosa. «Come facciamo a sapere quali di queste batterie sono cariche?» mi domanda. E leggendo l'espressione interrogativa della mia faccia indica i due scaffali, a destra e a sinistra, carichi di batterie. «E se uno di questi scaffali fosse per le batterie in entrata e l'altro per quelle pronte da usare?» aggiunge, bussando con le nocche sulla custodia rossa della sua batteria. «Questa, per esempio, a quanto ne sappiamo noi potrebbe essere stata messa in carica dieci minuti fa.» «Pensi che sia così che...» «Al Laser Game fanno così.» La guardo, odiandomi per averla portata fin qui. «Tu hai preso la tua dallo scaffale di sinistra, io ne prenderò una da quel-
lo di destra», le dico. «Male che vada, almeno una delle due dovrebbe funzionare.» Annuisce, convinta dalla mia logica. Da un bidone lì accanto prendo due giubbetti arancioni e gliene lancio uno: «Tieni, mettitelo.» «Perché?» «Per la stessa ragione per cui in ogni film di spionaggio c'è qualcuno che s'intrufola da qualche parte con un berretto da baseball. Un giubbetto arancione e puoi arrivare dove vuoi...» Viv si allaccia il velcro sul fianco del giubbetto osservandosi con espressione scettica: «Sembro un'addetta alle riparazioni stradali.» «Davvero? A me sembra che faccia più custode di passaggio a livello.» Ride della mia battuta, a quanto pare ne aveva bisogno. «Va un po' meglio?» le domando. «No», risponde, senza nascondere un sorrisetto ammiccante. «Ma ormai sono qui e andrò fino in fondo.» «Certo. Vedrai che ce la faremo.» Il suono di queste parole le piace. «Davvero pensi che troveremo il modo di venirne fuori?» «Non me lo chiedere. Come ti ho detto, ci sono battaglie che non si possono vincere.» «La pensi ancora così?» Alzo una spalla e mi avvio lungo il corridoio polveroso. Viv mi segue da presso. A un certo punto le scaffalature metalliche finiscono, sostituite da lunghe panche di legno allineate contro la parete per almeno dieci metri. È ancora tutto come nelle foto dell'opuscolo: quando la miniera era ancora attiva, ogni mattina i minatori si sedevano su queste panche in attesa di cominciare il loro turno. Anche nella metropolitana di Washington facciamo qualcosa del genere: ci mettiamo in fila in un tunnel sotterraneo e aspettiamo tutti insieme un treno per il centro. L'unica differenza è che qui, nella miniera, il treno non viaggia in senso orizzontale: è un treno verticale. «Che cos'è questo rumore?» fa Viv da dietro le mie spalle. Dritto davanti a noi il corridoio sbuca in un locale alto dieci metri, invaso da un frastuono assordante. Le panche di legno vibrano leggermente, le luci al neon sfarfallano, ma i nostri occhi sono calamitati dal pozzo di un ascensore che attraversa il locale dall'alto in basso, forando sia il pavimen-
to sia il soffitto. La gabbia dell'ascensore sfreccia velocissima davanti ai nostri occhi come un treno merci ad andamento verticale, e sparisce sopra le nostre teste. Il pozzo dell'ascensore, diversamente da tutti quelli che ho visto finora, è chiuso solo su tre lati. Certo, sul davanti c'è un cancello metallico dipinto di giallo che impedisce ai curiosi di sporgere la testa nel vano e farsela mozzare dalla gabbia; ma sopra questo cancello, nei sei metri che mancano per arrivare al soffitto, si può vedere l'ascensore che sparisce rapidamente verso l'alto. «Hai visto se c'era dentro qualcuno?» domando a Viv. «L'ho visto solo per mezzo secondo...» Annuisco. «A ogni modo sembrava vuoto.» «Sì, vuoto», fa lei. Avanziamo di qualche passo verso il centro della stanza e alziamo simultaneamente la testa per guardare nel pozzo dell'ascensore. Per qualche ragione che non mi spiego c'è dell'acqua che cola lungo le pareti. E di conseguenza il legno di cui sono foderate è scuro, viscido e molto deteriorato. Dal baratro esce una folata d'aria fredda. Ci troviamo ancora nel seminterrato, ma dalla curva del corridoio che abbiamo appena percorso deduco che siamo sotto un altro edificio. «Pensi che sopra di noi ci sia il grande tepee di ferro?» domanda Viv, indicando col mento un angolino di luce diurna proprio in cima al vano dell'ascensore. «Sì, o almeno credo. La donna del motel ha detto che...» Un piccolo tonfo ovattato riecheggia sopra di noi, rotolando giù per il vano dell'ascensore. Poi un altro... un altro ancora... un rumore regolare, che però non diventa più forte col passare del tempo. Un rumore sommesso, uniforme, come di passi. Ci irrigidiamo. «Frannie, sono Garth: gabbia in stazione», annuncia una voce con un forte accento del Sud Dakota che piove fino a noi lungo il pozzo dell'ascensore. Il proprietario di quella voce dev'essere proprio sopra di noi. «Gabbia ferma», replica una voce femminile un po' gracchiarne, evidentemente attraverso un interfono. Segue un lungo gemito metallico, come quando si fa scorrere la saracinesca di un negozio, dev'essere il cancello di sicurezza del piano di sopra. Poi altri passi: qualcuno è entrato nell'ascensore. «Gabbia ferma», ripete l'uomo, mentre il cancello si richiude gemendo. «Destinazione livello tredici-due», aggiunge. «Gabbia in discesa.» «Tredici-due», ripete la donna all'interfono. «Gabbia in discesa.»
Un attimo dopo parte un rombo ovattato, e le panchine ricominciano a vibrare. «Accidenti...», mormora Viv. Se noi possiamo vedere dentro l'ascensore, l'uomo può vedere noi. Non appena la gabbia comincia a scendere scattiamo verso i due angoli opposti del locale; io vado a destra, Viv a sinistra. La gabbia ci passa davanti velocissima, come quei vagoncini in caduta libera del lunapark, e pochi secondi dopo il frastuono comincia a scemare. La gabbia è già chissà dove, in fondo alla tana del Bianconiglio. Rimango immobile, in ascolto: voglio calcolare in quanto tempo il rumore svanisce. Ma la gabbia sembra precipitare in un pozzo senza fine. Sei Empire State Building scavati nella roccia. A un certo punto, sotto di noi, il rumore metallico della gabbia, già ridotto a un fruscio, emette un ultimo sospiro e - pufff - scompare, ingoiato dalla silenziosa oscurità del pozzo. Il quieto sgocciolio dell'acqua lungo le pareti del vano ascensore rimane l'unico rumore del seminterrato. Accanto al rugginoso cancello giallo c'è una breve parete con un estintore sotto vetro e un telefono interno con la tastiera altrettanto arrugginita. Allora è così che si entra. Mi volto a guardare Viv, che ancora si tappa le orecchie con le mani fissando come inebetita il pozzo dell'ascensore. «No-no-no», mi dice scrollando la testa. «Non riuscirai a convincermi a scendere in quel...» «Viv, lo sapevi che ci avremmo provato...» «Non con quel ferrovecchio tutto arrugginito. No, non lo sapevo. Te lo puoi scordare, Harris, io ne ho abbastanza. Sono fusa. No, no e poi no. Figurati che mamma non mi lascia nemmeno prendere l'autobus per attraversare quel quartiere così pericoloso...» «Non è divertente.» «Sono d'accordo con te... Ed è proprio per questo che non porterò il mio culo nero oltre questo punto.» «Qui non puoi nasconderti da nessuna parte.» «E invece sì che posso... E soprattutto voglio... Ed è quello che farò. Tu buttati pure nel pozzo, se ti fa piacere, io resterò qui a girare la manovella, così che alla fine della giornata si possa recuperare almeno il secchio.» «Ma dove diavolo pensi di nasconderti?» «C'è un mucchio di posti. Un mucchio...» Gira gli occhi su tutto il locale: panche di legno... un corridoio angusto... il pozzo dell'ascensore con le sue cascatelle gelide. Per il resto il locale è perfettamente vuoto, tranne per un mucchietto di stracci buttati in un angolo e un grosso rocchetto di legno con dei cavi elettrici ormai inutilizzabili.
Incrocio le braccia sul petto e la guardo. «Piantala, Harris...» «Sarebbe meglio non separarci, Viv. Su questo devi credermi, me lo sento nelle budella: noi due dobbiamo restare insieme.» Adesso è lei a fissarmi. Studia i miei occhi, poi guarda con apprensione il telefono interno. Appoggiato contro la parete c'è un cartello blu elettrico che dice: LIVELLO CODICE STAZIONE pianoterra 1-1 rampa 1-3 60 2-2 90 2-3 240 3-3 E così via per cinquantasette livelli. Noi siamo alla rampa. In fondo alla lista c'è scritto: LIVELLO CODICE STAZIONE 2350 12-5 2400 13-1 2450 13-2 È il famoso livello 2450. Codice Stazione: tredici-due. Non più di due minuti fa queste cifre sono state pronunciate dal tipo con l'accento del Sud Dakota, che le ha dette nell'interfono prima di scendere con l'ascensore. Devo dedurne che è proprio laggiù che si svolge l'azione: al livello tredicidue. La nostra prossima destinazione. Mi volto verso Viv. I suoi occhi sono ancora inchiodati al cartello blu, e per la precisione al numero 2450. «Sbrigati a farlo risalire», balbetta. «Ma guarda che se rimaniamo bloccati laggiù dovrai pregare Dio che ti prenda prima che ti raggiunga io», mi minaccia, con una voce che suona identica a quella di sua madre. Sollevo il ricevitore del telefono interno senza perdere altro tempo, e intanto controllo velocemente il soffitto per vedere se ci sono telecamere a circuito chiuso. Pare di no, quindi abbiamo ancora qualche spazio di manovra. Digito il numero a quattro cifre stampato sulla base della tastiera: 4881. I tasti sono viscidi d'umidità.
«Montacarichi...» fa una voce femminile. «Ehilà, sono Mike», faccio io. Un nome a caso. «Ho bisogno di un passaggio al tredici-due.» «Mike chi?» ribatte lei, per nulla impressionata. Dall'accento si direbbe una di qui. Dal mio, lei sa che non lo sono. «Mike», insisto io, fingendomi seccato. «Della Wendell.» Se i dirigenti dell'impresa hanno cominciato a venire un po' più spesso, devono esserle capitate altre conversazioni di questo tipo. Segue una breve pausa, poi l'interfono mi trasmette il piccolo sbuffo delle sue labbra. «Dove sei?» domanda poi. «Alla rampa», dico io, controllando sul cartello blu. «Aspetta lì.» Mi volto di nuovo verso Viv. Lei s'infila una mano in tasca e ne estrae un congegno meccanico simile a una calcolatrice, ma più sottile e con meno tasti. Cogliendo il mio sguardo interrogativo mi mostra l'oggetto misterioso. Sotto lo schermo digitale c'è un tasto con scritto 02%. «Un rilevatore d'ossigeno?» le domando, e lei annuisce. «Dove l'hai preso?» Indica col mento un punto imprecisato nel corridoio, all'altezza degli scaffali. Sullo schermo ci sono dei numeretti digitali: 20.9. «È giusto o sbagliato?» «È quello che sto cercando di capire», fa lei, leggendo le istruzioni sul retro. «Ascolta. Attenzione: la mancanza di ossigeno può passare inosservata e porta rapidamente alla perdita dei sensi e/o alla morte. Controllare spesso il rilevatore. Devi essere maledettamente...» La sua frase è interrotta bruscamente dall'emergere, in lontananza, di un mostruoso fragore. È come quando il treno della metropolitana entra in stazione: il pavimento si mette a vibrare, e le vibrazioni si sentono nella cassa toracica. Anche la luce al neon sfarfalla un po'. Ci voltiamo verso il pozzo dell'ascensore. I freni entrano in azione con un acuto stridio, e la gabbia rallenta avvicinandosi al nostro livello. Diversamente dall'altra volta, quando ci è passato davanti come un razzo, l'ascensore si ferma proprio davanti a noi, senza proseguire verso il soffitto. Guardo dentro attraverso la finestrella ritagliata nel cancello giallo, ma nella gabbia non c'è luce. Sarà una lunga corsa al buio. «Tutto a posto?» domanda l'operatrice addetta al montacarichi. «Ehm, no... cioè sì, è arrivato», faccio io, cercando di ricordarmi le frasi del protocollo. «Gabbia in stazione.» «Okay, entra e accendi l'interfono. E
prima di scendere non dimenticare di lasciare la piastrina.» Quindi, senza aspettare la mia domanda: «La bacheca è accanto al telefono.» Riappendo e torno vicino alla parete dove ho visto l'estintore e il telefono. «Tutto okay?» mi fa Viv. Non rispondo. Un po' più in là del telefono c'è un rettangolo di legno con dei gancetti numerati da 1 a 52. I ganci numero 4, 31 e 32 reggono già le corrispondenti piastrine metalliche: giù nella miniera ci sono tre uomini, più altri che potrebbero essere scesi dal livello di superficie. Prendo dalla tasca una delle mie piastrine, io sono il numero 27. Una in tasca, l'altra sul muro, ha detto il tipo là fuori. «Sei sicuro che sia una cosa intelligente?» domanda Viv vedendomi appendere la piastrina al gancio numero 27. «Se qualcosa andasse storto, è l'unica prova del fatto che siamo andati laggiù», le spiego. Lei esita, poi tira fuori le sue piastrine e ne appende una al gancio numero 15. «Harris...» Senza darle il tempo di aggiungere altro attraverso di nuovo il locale e torno alla gabbia. «È solo una prassi legata alla sicurezza delle miniere, non aver paura, saremo fuori di qui in meno di mezz'ora», le dico, sperando che questa affermazione basti a rassicurarla. «Adesso andiamo: la nostra Cadillac ci aspetta...» Tiro con decisione la leva che aziona il cancello di sicurezza. La serratura si sblocca con un rumore secco, ma la porta peserà almeno una tonnellata. Riesco a farla scorrere puntandomi su entrambi i piedi, e subito mi arriva in faccia una spruzzata d'acqua fredda. Un ritmico tam-tam di goccioloni mi tamburella sul casco. È come quando piove e tu sei proprio sotto il bordo di una tenda. Ormai fra noi e il montacarichi c'è solo un secondo cancello metallico, quello della gabbia stessa. «Va bene, andiamo...» dico, e mi chino per togliere il paletto. Poi do uno strattone al cancello, che si muove cigolando sulle rotelle come la porta di un garage. L'interno della gabbia sembra quello del cassone dei rifiuti sotto il quale ho trovato il tesserino di Viv. Il pavimento... le pareti... perfino il basso soffitto è di ferro arrugginito, umido e sporco e unto di grasso. Faccio un cenno a Viv, ma lei non si muove. Ripeto il mio cenno e lei mi segue, esitante. Con gli occhi cerca subito qualcosa a cui aggrapparsi, ma nella gabbia non c'è niente: né una ringhiera, né un corrimano, nemme-
no un sedile a ribaltina. «Ma questa è una vera cassa da morto...», mormora, e la sua voce riecheggia nel vano metallico. Un'analogia delle più calzanti: costruito per portare sottoterra una trentina d'uomini in piedi uno accanto all'altro, spalla contro spalla, e per resistere a un'eventuale esplosione a qualsiasi livello della miniera, lo spazio della gabbia è freddo e spoglio come un box auto abbandonato. Goccioloni d'acqua continuano a cadermi ritmicamente sul casco, e così mi viene in mente che c'è solo una cosa che sia peggio del rimanere bloccati in una cassa da morto: rimanere bloccati in una cassa da morto che fa acqua. «È solo normalissima acqua, vero?» fa Viv, stringendo un po' gli occhi per la bruma umida sollevata da ogni goccia. «Se fosse qualcosa di dannoso gli altri non sarebbero scesi», puntualizzo. Viv accende la lampada da miniera del suo casco e abbassa gli occhi sul rilevatore d'ossigeno. Accendo anch'io la luce e mi avvicino all'interfono, che somiglia vagamente al citofono di casa mia: l'unica differenza è che dopo tanti anni di esposizione all'umidità l'intero pannello metallico è coperto da una spessa pellicola muschiosa che puzza di tappeto bagnato. «Non avrai intenzione di toccarlo, vero?» mi fa Viv. Purtroppo non ho scelta. Premo il grosso pulsante rosso, cercando di toccarlo solo con il polpastrello. È incrostato di una sostanza scivolosa che mi fa sdrucciolare via il dito. «Gabbia ferma», dico nel ricevitore. «Hai chiuso il cancello di sicurezza?» gracchia la voce dell'operatrice. «Lo sto facendo...» Afferro con entrambe le mani la maniglia del cancello interno e lo faccio scorrere sulle rotaie. Si chiude con uno schiocco metallico che fa sussultare Viv. Siamo a un punto di non ritorno. «Un'ultima domanda», dico nell'interfono. «Tutta quest'acqua...» «È per il vano ascensore», risponde subito la donna. «Tiene lubrificate le pareti. Tu non berla e vedrai che non ti farà alcun male», aggiunge ridendo. Né io né Viv ci uniamo a lei. «Allora, siete pronti?» «Sì, certo...», rispondo, osservando attraverso la grata di metallo giallo il seminterrato vuoto. Dalla direzione della luce di Viv, che è dietro di me, mi pare che anche lei stia facendo altrettanto. Il fascio di luce punta sull'estintore e sul telefono: lì accanto c'è la bacheca con le nostre piastrine, unica prova della nostra presenza. Mi volto per dirle qualcosa, poi decido di lasciar perdere. Non servono altre parole. Adesso serve trovare qualche risposta. E qualsiasi cosa ci sia
là sotto, andarci è l'unico modo per riuscire ad averne. «Destinazione tredici-due», dico nell'interfono, servendomi del codice che ho sentito usare dall'uomo sceso prima di noi. «Gabbia in discesa.» «Tredici-due», ripete la donna. «Gabbia in discesa.» Si sente un cigolio metallico, seguito da una di quelle pause che sulle montagne russe sembrano non finire mai. La pausa prima del grande tuffo. «Non guardare giù», ci prende in giro la donna dall'interfono. «Il buco è piuttosto profondo...» 38. «Sei già lì?» domandò Sauls. La sua voce arrivò spezzettata al cellulare di Janos. «Quasi», rispose Janos. Con la sua Ford Explorer blu a noleggio stava attraversando l'ennesimo boschetto di pini, abeti canadesi e betulle sulla strada per Leed. «In che senso, quasi?» domandò Sauls. «Ci arriverai tra un'ora? Mezz'ora? Dieci minuti?» Janos strinse più forte il volante e non rispose, gli occhi fissi sulla strada. Era già abbastanza noioso dover guidare lungo quella statale schifosa, non sentiva il bisogno di altre rotture di palle. Accese la radio e la sintonizzò su un fruscio di elettricità statica. «Dev'esserci un disturbo sulla linea», disse. «Non ti sento più...» «Janos...» Janos spense il cellulare e lo buttò sul sedile del passeggero, tornando a concentrarsi sulla strada. Il cielo mattutino era azzurro e limpido come il cristallo, ma la pendenza costante della strada e la claustrofobia provocata dalle montagne incombenti rendevano quell'itinerario difficile da seguire anche in pieno giorno: figuriamoci di notte, e soprattutto per qualcuno che non era mai stato da quelle parti. Harris e Viv, inoltre, dovevano essere arrivati piuttosto tardi, quindi probabilmente si erano fermati per mangiare qualcosa o addirittura per dormire. Janos seguì l'ennesima curva e scrollò la testa. Sarebbe stato bello: ma come aveva pensato lui stesso un'ora prima, passando davanti alla trattoria di Deadwood senza rallentare, una cosa è fermarsi per mandar giù un boccone e fare pipì, un'altra rilassarsi e mettersi comodi prima di essere giunti a destinazione. E Harris, che si era dimostrato così in gamba da arrivare fin laggiù insieme a Viv, difficilmente poteva aver fatto quell'errore.
BENVENUTI A LEED - VISITATE LA MINIERA DELL'HOMESTEAD, diceva un cartellone sul bordo della strada. Janos gli passò accanto a velocità sostenuta, collocando mentalmente sulla linea del tempo gli spostamenti di Harris. Anche ammesso che avessero trovato un jet pronto al decollo, non potevano essere arrivati prima di mezzanotte. E se a mezzanotte erano ancora per strada, da qualche parte dovevano aver dormito... Janos svoltò bruscamente a sinistra e s'infilò nel parcheggio di un basso edificio anni Sessanta, leggendo i cartelli esposti nelle vetrine di quasi tutti i negozi: CHIUSO... AFFITTO SCADUTO... PARTITO PER IL MONTANA. Almeno su questo Sauls aveva ragione - Leed era davvero al capolinea. Parcheggiò l'auto e diede un'occhiata a un'insegna al neon che diceva CAMERE LIBERE. In quella desolazione, evidentemente, c'era un solo posto aperto. Il Gold House Motel. Spinse la porta ed entrò. Sulla sinistra, uno scaffale di metallo offriva ai turisti degli opuscoli sbiaditi dalla prolungata esposizione al sole... tutti tranne uno, intitolato La miniera dell'Homestead. Janos osservò i brillanti colori dell'opuscolo: rosso, bianco, blu. Il sole non li aveva scoloriti affatto, quasi come se... come se il sole l'avessero visto solo da un paio d'ore. «Buongiorno», gli disse la donna della reception con un caldo sorriso. «Cosa posso fare per lei?» 39. La gabbia comincia a precipitare, e subito lo stomaco mi rimbalza nella cassa toracica. Inizialmente la corsa non è diversa da quella di un ascensore normale, ma quando la gabbia acquista velocità, immergendosi sempre più nel pozzo, si sente lo stomaco fluttuare verso l'esofago. Per giunta il vano metallico sobbalza selvaggiamente avanti e indietro andando a sbattere contro le pareti del pozzo, e ogni volta noi due rischiamo di cadere. È come stare in equilibrio su una barchetta che precipita in una cascata. «Harris, dille di far rallentare questo coso prima che...» Un violento scossone impedisce a Viv di finire la frase. «Appoggiati alla parete... vedrai che è più facile!» le grido. «Cosa?!» grida lei di rimando. La sua voce mi arriva appena: fra il rombo della gabbia, la velocità della discesa e il continuo sgocciolio d'acqua, ogni suono si confonde in un frastuono stridulo che sembra non finire mai. «Appoggiati alla parete!» urlo. E mettendo in atto il mio stesso consiglio appoggio le spalle al fondo
della gabbia cercando disperatamente di non perdere l'equilibrio, mentre il fondo della barchetta rolla e beccheggia sotto di me. Risolto in qualche modo il problema di stare in piedi riesco a gettare un'occhiata fuori dalla gabbia. Il cancello di sicurezza è chiuso, ma essendo fatto di grata metallica non impedisce di veder scorrere il mondo sotterraneo: una macchia di terra marrone scuro... il flash di luce di una galleria... un'altra macchia marrone scuro... un'altra galleria. Ogni otto secondi circa passiamo davanti all'imbocco di un nuovo livello della miniera. L'apertura dei tunnel scivola via talmente in fretta che non riesco a vedere quasi niente, anzi, più mi sforzo di guardarci dentro più tutto si confonde. Ho le vertigini. Imboccatura dopo imboccatura, calcolo che la nostra velocità di discesa dev'essere di quasi settanta chilometri orari. «Lo senti?» grida Viv indicandosi le orecchie. Proprio in quel momento sento un fastidio, e annuisco al suo gesto. Apro la bocca per compensare, e il fastidio aumenta, ancora di più. Devono essere passati almeno tre minuti da quando la gabbia si è mossa e ancora stiamo precipitando in quella che sicuramente resterà la corsa in ascensore più lunga della mia vita. Sulla destra le aperture delle gallerie continuano a scivolare via a un ritmo regolare e indistinto... poi, all'improvviso, l'alternanza di luce e buio comincia a rallentare. «Siamo arrivati?» fa Viv alzando gli occhi su di me e accecandomi con la lampada. «Credo di sì», le rispondo, voltandomi dalla sua parte e accecandola a mia volta. Così capiamo che, finché le luci sugli elmetti sono accese, possiamo parlarci solo senza guardarci in faccia. In Campidoglio c'è gente che lo troverebbe del tutto naturale, ma per me è come fare a pugni con gli occhi bendati. Tutte le emozioni passano attraverso gli occhi. E a partire da questo momento Viv non mi guarderà più. «Come va l'aria?» le domando, e lei abbassa gli occhi sul rilevatore d'ossigeno. «La norma è il 21% e adesso siamo a 20,4», risponde, controllando le istruzioni sul retro dell'apparecchio. La voce è leggermente incrinata, ma fa del suo meglio per nascondere la paura. Le guardo le mani per vedere se tremano, ma è girata e non riesco a vederle. «Qui dice che per respirare normalmente ci vuole almeno il 16% d'ossigeno... e che al 9% si perdono i sensi... mentre con il 6% si va all'altro mondo.» «Ma per ora è al 20,4%, giusto?» cerco di rassicurarla. «Lassù però ce n'era il 20,9», ribatte lei.
La gabbia si ferma con un ultimo scossone. «Gabbia ferma?» domanda la voce femminile dall'interfono. «Gabbia ferma», rispondo io, premendo il tasto rosso e pulendomi immediatamente il dito sul cinturone porta attrezzi. Guardando attraverso la grata del cancello di sicurezza alzo subito gli occhi al soffitto, e la mia lampada da miniera illumina un cartello scritto in arancione appeso a due cavi elettrici: LIVELLO 1480. «Dev'essere uno scherzo», mormora Viv. «Com'è possibile che siamo solo a metà strada?» Premo ancora il pulsante dell'interfono e mi avvicino al ricevitore. «Ehi...» «Qualcosa non va?» risponde subito l'operatrice. «Veramente volevo andare al livello 2450...» «Percorri la galleria fino in fondo e troverai il pozzetto n. 6. La gabbia è là che ti aspetta.» «Perché non posso proseguire con questa?» «Questa arriva solo al livello 1480. Per andare oltre bisogna prendere l'altra.» «L'ultima volta che sono stato qui mi sembrava diverso», azzardo, per controllare se qualcosa è cambiato negli ultimi tempi. «Figliolo, a meno che tu non sia stato qui nel 1900 non puoi aver notato nessun cambiamento. È vero che al giorno d'oggi esistono dei cavi che possono portare un montacarichi fino a 3000 metri sottoterra, ma a quei tempi si potevano fare solo 1500 metri alla volta. Adesso esci dalla gabbia, vai in fondo alla galleria e chiamami quando sei al pozzetto.» Faccio scorrere il cancello di sicurezza. L'acqua che gocciola dalle pareti del pozzo forma una specie di tenda liquida che ci impedisce di guardare fuori. Attraverso deciso la cascatella, sento l'acqua gelida scorrermi sulla schiena e sono nella miniera. Pavimento, pareti e soffitto sono fatti di blocchi di terra marrone scuro. Non è che una grotta, mi dico, affondando fino alle caviglie in una pozzanghera fangosa. Su entrambi i lati della galleria sono allineate le solite panche da sei metri, in tutto e per tutto uguali a quelle che abbiamo visto al livello della rampa. Solo che qui qualcuno ha disegnato con lo spray sugli schienali una lunga bandiera a stelle e strisce. L'unica macchia di colore nel monotono marrone-fango di questo mondo sotterraneo. Mentre camminiamo lungo l'interminabile fila di panche chiudo un attimo gli occhi e mi sembra di vedere i fantasmi di centinaia di minatori - le teste chine, i gomiti sulle ginocchia - che attendono nel buio,
oppressi dall'ennesima giornata di lavoro nel sottosuolo. Nei loro occhi c'è la stessa espressione che vedevo in quelli di mio padre verso il quindici del mese, quando contava quanti tagli di capelli gli mancavano per pagare l'ipoteca sulla casa. Mamma lo rimproverava spesso perché non accettava mance, ma a lui sembrava una cosa di cattivo gusto, soprattutto in una piccola città come la nostra. Quando avevo dodici anni decise di vendere la bottega e di lavorare nel seminterrato di casa. Da allora in poi ebbe sempre quell'espressione. Io pensavo che fosse per il dispiacere di passare tutta la giornata là sotto, ma sbagliavo. Era angoscia, il doloroso terrore che ti prende quando pensi che domani sarà in tutto e per tutto uguale a oggi. Una vita passata sottoterra. Per non pensarci, papà attaccava alle pareti poster di Ralph Kiner, di Roberto Clemente e dell'erba verde smeraldo di Forbes Field: qua sotto invece usavano il rosso, bianco e blu della bandiera, e il giallo di un cancello metallico che in questo momento si trova 1500 metri sopra le nostre teste. Percorriamo la galleria sguazzando nel fango e puntiamo dritto su una porta con scritto POZZETTO N. 6. Abbasso il cancello di sicurezza ed entro nella nuova gabbia. Viv guarda con occhi dilatati dal terrore quella scatola da scarpe, che sembra ancora più fragile dell'altra. Anche il soffitto è più basso: una bara di dimensioni ridotte. Viv china la testa: la claustrofobia che ci stringe il cuore sembra emanare un odore tutto suo. «Operatrice a n. 6», annuncia la voce femminile dall'interfono. «Sei pronto?» Guardo Viv. Non alza nemmeno la testa. «Pronti», rispondo all'interfono. «Gabbia in discesa.» «Gabbia in discesa», ripete la donna, e la scatola metallica comincia a vibrare. Ci appoggiamo con la schiena alla parete e cerchiamo di prepararci a una nuova caduta libera. Un filo di perle d'acqua cade dal soffitto della gabbia e sgocciola sul pavimento formando una piccola pozzanghera. Trattengo il fiato. Viv alza gli occhi per guardare l'acqua... e il pavimento ricomincia a precipitare sotto di noi. Prossima fermata, 2450 metri sotto la superficie terrestre. 40. La gabbia precipita, le orecchie mi si tappano e in mezzo alla fronte sento un dolore acuto, come se un trapano mi stesse perforando il cranio. Lot-
to per mantenere l'equilibrio e per tenere i piedi ben saldi sul pavimento che vibra e si scuote selvaggiamente, e intanto penso che forse quel mal di testa improvviso non è dovuto solo alla pressione sulle orecchie. «Come va l'ossigeno?» grido a Viv, che stringe il rilevatore con entrambe le mani cercando di leggerlo nonostante gli scossoni. Ma il frastuono dell'ascensore è come sempre assordante. «Cosa?» grida lei. «Come va l'ossigeno?» Alza bruscamente la testa, quasi avesse sentito nella mia voce qualcosa che non le piace affatto. «Perché te ne preoccupi proprio adesso?» grida. «Tu dimmi la percentuale!» insisto io. Viv mi osserva, impregnandosi di tutto ciò che succede. Dietro di me le aperture delle gallerie lampeggiano ogni pochi secondi con brevi flash di luce. I lineamenti di Viv sembrano afflosciarsi alla stessa velocità. Il labbro inferiore comincia a tremarle. Durante gli ultimi 2000 metri di dislivello si è aggrappata ai miei stati emotivi: la fermezza con cui ho deciso di scendere, la disperazione con cui mi sono costretto a entrare nella prima gabbia, perfino la testardaggine che mi ha impedito di rinunciare. Ma ora che le sembra di avvertire l'odore della mia paura - ora che mi sente vacillare - anche lei si confonde ed è sul punto di cadere. «Come va l'ossigeno?» le domando ancora. «Harris... voglio tornare su...» «Me lo dici, Viv, per favore?» «Ma...» «Dimmelo!» Abbassa gli occhi sul rilevatore con espressione persa. Ha la fronte coperta di sudore, e non solo per la paura: la fresca brezza che finora ci ha sferzato attraverso il soffitto della gabbia sembra scomparsa. A questi livelli, più si scende sottoterra, più fa caldo... e più Viv si smarrisce. «Diciannove... è sceso al 19%», balbetta, tossendo e portandosi teatralmente una mano alla gola. È un valore ancora accettabile, ma questo non basta a tranquillizzarla. Vedo il suo petto sollevarsi e abbassarsi rapidamente, la vedo barcollare verso la parete. Io respiro ancora con facilità. Poi comincia a tremare in tutto il corpo, e non solo per gli scrolloni della gabbia. È un tremito suo, che viene da dentro. Il colore scompare dalla sua faccia. Tiene la bocca aperta. Il tremito si fa sempre più violento, sembra che non riesca più a stare in piedi. Dal fondo dei polmoni le sale un ranto-
lo, forte e cavo. Il rilevatore d'ossigeno cade sul pavimento. Speriamo non cominci a iperventilare... La gabbia continua a precipitare a settanta chilometri l'ora. Viv guarda verso di me: i suoi occhi, spalancati, mi supplicano di aiutarla. Poi si afferra il petto, emette un lungo rantolo e piomba sul pavimento. «Viv!...» Balzo verso di lei, ma proprio in quel momento la gabbia si scuote sulla destra. Perdo l'equilibrio, barcollo verso sinistra e urto la parete con la spalla. Un dolore pulsante lungo tutto il braccio. Viv rantola, inerte, e lo scossone successivo la fa rotolare in avanti. Mi lascio cadere sulle ginocchia, mi butto verso di lei e l'afferro, appena in tempo per impedirle di sbattere la faccia sul pavimento. La giro e cullo il suo corpo fra le braccia. Il casco le cade dalla testa, i suoi occhi danzano selvaggiamente avanti e indietro. È una crisi di panico. «Ti tengo, Viv... Ti tengo io», le sussurro all'orecchio, e ripeto più volte le stesse parole. Con la testa abbandonata sulle mie ginocchia lei cerca di respirare in modo normale, ma più scendiamo più l'aria si fa arroventata. Mi lecco via una goccia di sudore dal labbro superiore. Credo ci siano almeno 40 gradi. «C-cosa sta succedendo?» domanda Viv alzando gli occhi su di me. Due lacrime le corrono giù lungo le tempie e si perdono fra i capelli. «Fa molto caldo, ma è normale... È la pressione della roccia sopra di noi... e poi, più ci si avvicina al centro della Terra...» «Cosa sta succedendo all'ossigeno?» ansima lei. Guardo il rilevatore, che è rimasto dove Viv l'ha lasciato cadere. Mentre la mia lampada da miniera lo illumina, il piccolo schermo digitale passa da 19,6% a 19,4%. «È stabile», le dico. «Stai mentendo? Non mentirmi, per favore...» Non è il caso di alimentare il panico. «Va tutto bene, Viv, non ci accadrà niente... Cerca di respirare lento e profondo...» E per dare il buon esempio anch'io mi riempio i polmoni di quell'aria calda e umida, che brucia le vie respiratorie come quella di una sauna. Il sudore mi scorre lungo la faccia e gocciola giù dalla punta del naso. In ginocchio dietro a Viv, ancora distesa per terra, le sfilo il giubbetto arancione e la giacca blu e la spingo in avanti fino a farle mettere la testa fra le ginocchia. Ha la nuca fradicia di sudore, e un lungo rivolo le scorre giù per la spina dorsale inzuppando la camicia. «Respiri profondi... Respiri
profondi», ripeto. Lei sussurra qualcosa, ma finché la gabbia è in movimento non posso sentirla. Uno... Due... Tre ingressi di gallerie sotterranee ci sfrecciano davanti in meno di trenta secondi. Dovremmo essere a duemila metri. «Ci siamo quasi...» le dico, mettendole le mani sulle spalle e tenendola stretta. Credo abbia bisogno di sentire che ci sono. Un'altra galleria schizza via nel buio. Le orecchie mi si chiudono per l'ennesima volta, ho la testa che mi scoppia. Stringo i denti, chiudo gli occhi e riesco a ricacciare lo stomaco al suo posto. Improvvisamente si sente un forte stridio, e veniamo strappati in avanti come quando un aereo rallenta un po' troppo bruscamente sulla pista. Finalmente la gabbia sta per fermarsi. E quando il frastuono diventa meno assordante, anche il respiro di Viv si fa più regolare. Prima frenetico... poi affrettato... fino al ritmo regolare della calma. Più rallentiamo, più la sento rilassarsi. «Bene, bene così... vai avanti così...» le dico, reggendole la testa da dietro. Quando, con un ultimo scossone, la gabbia si ferma, le sue inspirazioni ed espirazioni sono ormai lievi e regolari. Per un minuto intero rimaniamo lì, senza muoverci: Viv accasciata sul fondo della gabbia, la gabbia ferma in fondo al pozzo. Il suo respiro è come uno stagno dopo che qualcuno ci ha gettato un sasso. La sciolgo dall'abbraccio e mi alzo in piedi. Un momento dopo lei si gira e mi regala un sorrisetto di gratitudine. Sta cercando di mostrarsi forte, ma dal nervosismo con cui si guarda attorno capisco che ha ancora paura. «Gabbia ferma?» domanda l'operatrice dall'interfono. Ignoro la domanda e mi rivolgo a Viv. «Come va?» «Sì», fa lei, e si siede un po' più dritta per convincermi che sta bene. «Non era una domanda cui si possa rispondere con un sì o con un no», le dico. «Ci riprovo: come va?» «A-a posto», ammette lei mordendosi il labbro di sotto. Non ho bisogno d'altro. Mi avvicino all'interfono: «Operatrice, è ancora lì?» «Che novità?» risponde subito la donna. «Tutto bene, laggiù?» «Ecco, in realtà devo chiederle di riportarmi su al...» «No!» grida Viv. Lascio andare il pulsante dell'interfono e mi volto verso di lei. «Ormai ci siamo», mi supplica Viv. «Adesso devi solo far scorrere quel dannato cancello...»
«Dopo che ti avrò riportata in superficie.» «No, Harris, ti prego! Abbiamo fatto tanta strada per arrivare fin qui! E poi, credi davvero che in superficie sarei al sicuro? Là sarò sola. L'hai detto tu stesso: non dobbiamo separarci. Sono le tue parole, giusto? Restiamo insieme.» Non rispondo. «Allora, avanti», insiste. «Abbiamo fatto tanta strada... Siamo venuti qui, nel Sud Dakota... siamo scesi 2500 metri sottoterra e adesso vuoi mollare tutto e tornare indietro?» Rimango lì, senza dire niente. Lei sa benissimo cosa significa. «Stai bene, laggiù?» ripete l'operatrice all'interfono. Io guardo fisso Viv. «Starò bene», promette. «Adesso dille che è tutto okay prima che cominci a preoccuparsi.» «Scusi, operatrice», dico nell'interfono. «Stavo risistemando l'attrezzatura. Va tutto bene. Gabbia ferma.» «Gabbia ferma», ripete lei. Alzo il cancello di sicurezza e faccio scorrere quello esterno. Subito ci investe una folata d'aria calda, la temperatura è quasi insopportabile. Chiudo gli occhi, li stringo, ma mi bruciano lo stesso. «C-cos'è?» domanda Viv dietro le mie spalle. Dalla direzione della sua voce deduco che è ancora per terra, e che in qualche modo si sta trascinando fuori dalla gabbia senza alzarsi in piedi. Passo attraverso la cascatella d'acqua che gocciola da sopra la gabbia ed esco sul pavimento infangato. Il soffio d'aria finisce subito, disperdendosi nel pozzo verticale dell'ascensore. Mi asciugo gli occhi e mi volto a guardare Viv, che ancora non si è alzata. È accovacciata appena fuori dalla gabbia, su una tavola di legno, e guarda il soffitto. Piego anch'io la testa per guardare verso la parte più alta della grotta, che in quel punto raggiunge i quindici metri di altezza. C'è una lampada industriale appesa proprio nel mezzo. «Che cosa stai guardando...» «È quello che penso io?» mi domanda, senza staccare gli occhi dal soffitto. Proprio sopra di noi c'è una lunga crepa nera che attraversa tutto il soffitto della grotta, come una profonda cicatrice sul punto di riaprirsi. Sembra che a tenerla chiusa - e a impedire che il soffitto si spacchi in due - siano alcune graffe di metallo arrugginito lunghe tre' metri, imbullonate alla roc-
cia come una lunga cucitura. Viste da lontano sembrano le travi di un vecchio Meccano, fiancheggiate dai fori rotondi in cui sono ribattute le graffe. «È senz'altro una semplice precauzione», dico. «A questo livello... con la pressione di tutta la roccia soprastante... vogliono evitare che ci sia un cedimento. Per quanto ne sappiamo potrebbe anche essere una crepa superficiale.» Viv annuisce alla mia spiegazione, ma non si muove dal suo sedile di legno. Più avanti il soffitto si abbassa e le pareti si avvicinano. Sembra la tana di un verme, alta meno di tre metri e larga quanto un'utilitaria. Sul pavimento fangoso si intravedono le rotaie su cui venivano fatti rotolare i carrelli della miniera. Quando avevo dodici anni il padre di Nick Chiarmonte portò la nostra classe in gita a Clarion, Pennsylvania, per visitare una miniera di carbone ancora in attività. Scendemmo di trenta metri, e a ripensarci adesso ricordo che tutti pensammo di essere arrivati quasi al centro della terra. Una volta là il padre di Nick ci disse che la miniera è un organismo vivente, proprio come il corpo umano: con un'arteria principale nel mezzo e dozzine di ramificazioni intersecantesi fra loro per portare il sangue avanti e indietro dal cuore. Proprio come qui. Per un po' le rotaie corrono dritte davanti a noi, poi si allontanano in tutte le direzioni come i raggi di una ruota, infilandosi in una dozzina di gallerie che vanno in una dozzina di direzioni. Guardo dentro ciascuna imboccatura per dedurre da qualche indizio quale sia la direzione da prendere. Ovunque le rotaie sono incrostate di un fango secco e duro, ma nell'ultima galleria a sinistra i binari sono immersi in una melma intrisa d'acqua. Una bella impronta di stivale, modello Sherlock Holmes, sembra lasciata apposta per noi da qualcuno che è sceso poco tempo fa. Come indizio non è un granché, ma per il momento è tutto quel che ho. «Sei pronta?» dico a Viv. Lei non si muove. «Forza...» insisto. Niente. Immobile. «Allora, Viv, che fai: vieni o no?» Scrolla la testa, non vuole nemmeno alzare gli occhi. «Mi spiace, Harris, non posso...» «Cosa significa che non puoi?» «Non posso», ripete, stringendosi le ginocchia contro le guance. «Solo
che... non posso...» «Hai detto che stavi bene.» «No, ho detto che non volevo tornare in superficie e restare là fuori da sola.» Finalmente alza il viso verso di me. Perle di sudore le scorrono sulla pelle, più di quando eravamo nell'ascensore. E non credo siano dovute esclusivamente al caldo. Alza gli occhi alla crepa del soffitto, poi guarda una barella per le emergenze appesa alla parete. Sopra la barella è imbullonata un cassetta metallica con scritto IN CASO DI FERITA GRAVE, APRIRE LA SCATOLA E PRELEVARE LA COPERTA. In questo momento, con una temperatura di quasi 50 gradi, una coperta è proprio l'ultima cosa di cui sentiamo il bisogno, ma Viv non riesce a staccarne gli occhi. «Vai tu», dice poi. «No... se ci dividiamo...» «Per favore, Harris, va'...» «Viv, non sono l'unico a credere che ce la farai: sono sicuro che tua madre...» «Lascia perdere mia madre. Non è il momento...» «Ma se tu...» «Va'», insiste, ricacciandosi le lacrime in gola. «Scopri cosa stanno facendo.» Dopo tutto quello che ci è capitato nelle ultime quarantott'ore, è la prima volta che la vedo completamente paralizzata, non so se per colpa della claustrofobia, perché in ascensore ha iperventilato o per la semplice, ferrea morsa dei suoi limiti naturali. Affonda la testa fra le ginocchia, ricordandomi che le peggiori batoste sono quelle che ci infliggiamo da soli. «Viv, non so se possa farti sentire meglio, ma ti assicuro che nessun altro sarebbe arrivato così lontano. Nessuno al mondo.» La sua faccia rimane sepolta tra le ginocchia. È stato solo all'ultimo anno di college, dopo la morte di papà, che ho capito di non essere invulnerabile. Viv lo sta imparando a diciassette anni. Di tutto il male che le ho fatto in questi due giorni, credo sarà proprio questo che non riuscirò mai a perdonarmi. Mi volto per addentrarmi nella galleria, sciaguattando nel fango. «Prendi questo», mi trattiene Viv, tendendomi il rilevatore d'ossigeno. «Be', forse è meglio se lo tieni tu... nel caso che...» Lo scaglia verso di me. Mentre lo afferro al volo, alle spalle di Viv si sente un forte cigolio. La gabbia si risveglia con il consueto fragore, co-
mincia a risalire nel pozzo e scompare attraverso il soffitto. Ultima corsa per la superficie. «Se vuoi andare via», le dico, «non devi far altro che sollevare il ricevitore e digitare il...» «Non andrò da nessuna parte», fa lei, decisa a non mollare del tutto. «Tu va' e scopri cosa stanno facendo», ripete. Annuisco, e la lampada sul mio casco disegna una linea di luce attraverso la sua faccia. Poi mi volto, e quella di Viv raggomitolata sull'asse di legno è l'ultima immagine piacevole che vedo. 41. «Allora, posso darle una stanza?» domandò la donna dietro il banco della reception. «Ecco, in realtà sto cercando degli amici», rispose Janos. «Non ha visto per caso...» «Non c'è più nessuno in questo paese che abbia semplicemente bisogno di una stanza per dormire?» Janos inclinò leggermente la testa sulla spalla sinistra. «Li ha visti, i miei amici... un uomo bianco e una ragazza di colore?» La donna drizzò la testa: «Quelli erano suoi amici?» «Sì.» Lei non disse niente. «Sono colleghi di lavoro. Ieri sera avremmo dovuto prendere lo stesso aereo, ma io sono arrivato tardi e...» Janos si bloccò. «Ascolti, stamattina ho dovuto alzarmi alle quattro per prendere il primo volo: quindi mi dica solo se sono ancora in camera oppure no. Ci aspetta una lunga giornata di lavoro.» «Mi spiace», disse la donna. «Hanno pagato e se ne sono andati.» Janos annuì. L'aveva previsto, ma voleva esserne proprio certo. «Allora dovrebbero essere già lassù», disse ancora, accennando con la testa all'edificio triangolare in cima alla collina. «Ecco, mi pare abbiano detto che prima sarebbero andati a Mount Rushmore.» Janos non poté fare a meno di sorridere. Buon tentativo, Harris. «Sono partiti circa un'ora fa», aggiunse la donna. «Se si affretta li raggiunge di sicuro.» Janos annuì, e si avviò verso la porta guardando verso il castelletto della
miniera. «Già... li raggiungerò di sicuro.» 42. Per dieci minuti buoni cammino affondando con i piedi in una fanghiglia molle che, quando l'osservo alla luce della lampada da miniera, brilla con un colore di ruggine metallica. Immagino sia la benzina combusta gocciolata dal motore che percorre quelle rotaie, ma per maggior sicurezza cammino rasente le pareti del tunnel, dove c'è meno fango. I fianchi della galleria sono un patchwork di colori diversi: marrone, grigio, ruggine, verde muschio, con qualche venatura bianca a zigzag. La luce della lampada che ho sulla fronte si riflette sulle curve frastagliate della galleria, tagliando l'oscurità come il faro di un'auto in una foresta. È tutto quel che ho: una piccola candela in un mare di buio e di silenzio. La mia situazione, già di per sé poco simpatica, è resa ancor più sgradevole da ciò che riesco a intravedere. In alto, lungo il soffitto della galleria, corrono i tubi più arrugginiti che abbia mai visto, lucidi d'acqua. Lo stesso vale per il soffitto stesso e per le pareti. A questa profondità l'aria è talmente calda e umida che anche la roccia sembra sudare. A intervalli regolari di un minuto circa un'onda di calore percorre la galleria, svanisce chissà dove e ricomincia daccapo. Dentro... fuori. Dentro... fuori. Il respiro della miniera. La pressione esercitata dalla roccia spinge l'aria fino allo sfiato più vicino, e ogni volta che un nuovo rutto caldo viene vomitato in superficie attraverso il pozzo dell'ascensore non posso impedirmi di pensare che, se questa è la bocca della miniera, io mi trovo proprio sulla sua lingua. Continuo a camminare nella galleria e un nuovo sbadiglio bollente, forse più arroventato dei precedenti, mi investe in pieno. Lo sento sulla pelle delle gambe... sulle braccia... mi sembra che mi sudino perfino i denti. Mi arrotolo le maniche della camicia, ma senza ricavarne un gran vantaggio. Mi accorgo di respirare più rapidamente e spero sia solo per la temperatura. Comunque do un'occhiata al rilevatore: 18,8%. Le istruzioni sul retro dicono che per respirare normalmente ce ne vuole almeno il 16%. Lungo la galleria, le impronte nel fango rivelano che più avanti ci sono almeno altre due persone. Per il momento devo accontentarmi. Mi asciugo il velo di sudore che ho sulla faccia e cammino altri dieci minuti seguendo la curva disegnata dalle rotaie in quel tratto di galleria. Diversamente che nel resto della miniera quaggiù le pareti, invece di esse-
re uniformemente grigio-marroni, sono piene di scritte fatte con lo spray rosso e bianco direttamente sulla roccia: RAMPA, PER DI QUA... ASCENSORE, PROSEGUIRE DIRITTO... RAMPA 2450 METRI... PERICOLO DI ESPLOSIONI. E sotto ogni scritta c'è una freccia che indica la direzione da prendere, ma solo quando arrivo all'altezza dei cartelli mi rendo conto del perché. Improvvisamente la luce del mio casco non sparisce più nell'oscurità di un tunnel senza fine. Dal nulla si è materializzato un muro. Il senso unico è finito. Mi trovo a una specie di crocicchio con cinque diramazioni diverse. Illumino con la lampada l'imboccatura di ciascuna galleria, rileggo le indicazioni e osservo tutto con cura. Ancora una volta quattro dei pavimenti di roccia sono coperti di fango secco e incrostato, e uno soltanto di melma umida e fresca. PERICOLO DI ESPLOSIONI. Dannazione. Per poter tornare sui miei passi senza confondermi prendo il portafoglio, ne tiro fuori la tessera del Burrito Club, di un bel rosa shocking, e la incastro sotto un sasso all'ingresso della galleria da cui sono appena sbucato: l'equivalente di lasciare una scia di briciole di pane. Se non puoi ritrovare la via d'uscita, non importa quanto sei arrivato lontano. Prendo la direzione indicata dal cartello PERICOLO DI ESPLOSIONI e seguo la nuova galleria in una brusca virata verso destra. Questo tunnel è leggermente più spazioso degli altri. Cambiando tattica decido di camminare vicino alle rotaie, per meglio seguire la pista di fango molle e bagnato che a un bivio mi porta verso sinistra, poi, a un secondo bivio, verso destra. Nuove scritte bianche sulla parete: ASCENSORE, e RAMPA 2450 METRI, con frecce che indicano direzioni opposte. Per maggior sicurezza semino altre briciole di pane: la tessera del Tripla-A quando svolto a sinistra, il tabulato dei film presi a noleggio quando curvo a destra. Le distanze non sono grandi, ma bastano due minuti di queste pareti frastagliate... di queste rotaie fangose e tutto sembra uguale a sé stesso in ogni direzione. Senza le briciole di pane prese dal mio portafoglio mi perderei sicuramente e anche così mi aspetto ogni momento di girare un angolo e ritrovarmi davanti a Viv seduta sull'asse di legno. A un certo punto invece, proprio mentre sto mettendo la tessera della palestra sotto un sasso a una nuova biforcazione in cui prendo a sinistra, mi sembra di scorgere con la coda dell'occhio qualcosa di nuovo. Là in fondo... a meno di dieci metri da me... la galleria si allarga leggermente sulla destra per far spazio a una breve diramazione laterale dov'è parcheggiato un vagoncino da miniera rosso brillante, non molto diverso
da un carretto dei gelati, con una specie di vela sopra. Mi avvicino e vedo che quella che sembrava una vela è solo una banalissima tenda da doccia di plastica. Il vagoncino è chiuso da un portello circolare, simile al boccaporto di una nave, chiuso con una di quelle serrature a rotazione azionate da una specie di volante. È ovvio che là dentro dev'esserci qualcosa, e qualsiasi cosa sia, se è abbastanza importante da proteggerla con una serratura del genere lo è anche perché io voglia vederla. Sposto la tenda, afferro con entrambe le mani la ruota della serratura e la giro con forza. Frammenti di vernice rossa mi restano attaccati alle mani, ma il portello cede con un piccolo tunc! metallico. Girando ancora un po' la ruota, faccio scattare la serratura e apro. Un odore terribile mi investe in piena faccia. Più forte del tanfo acido del vomito... più aspro del formaggio andato a male... Accidenti, sembra merda. Letteralmente. L'interno del portello è cosparso di viscidi grumi marroni. Il vagoncino è pieno di merda. Una tonnellata di merda. Ricacciato indietro dalla puzza mi chiudo il naso con le dita e cerco di reprimere un conato. Ma è troppo tardi. Lo stomaco fa una capriola, la gola si apre e un'eruzione del formaggio alla griglia che ho mangiato ieri sera si riversa per terra. Piegato in due, con le mani strette sullo stomaco, innaffio più volte il pavimento. Il sangue mi va alla testa. Sputo gli ultimi frammenti di cibo digerito. Il corpo mi si scuote in un conato a vuoto... poi un altro. Quando riapro gli occhi, la luce della lampada da miniera illumina il lungo filamento di bava che mi penzola dalle labbra. Guardo ancora il vagoncino e finalmente colgo il senso dell'insieme: la tenda di plastica è per la privacy, e la botola può fungere da sedile: anche sottoterra, gli esseri umani hanno bisogno di un gabinetto. Cerco di rimettermi in piedi, ma il mio equilibrio è ancora precario. Vado a sbattere con le spalle contro la parete della grotta, la faccia ancora contratta per lo schifo. Non perdo tempo a richiudere la botola, anche perché non mi sento abbastanza bene da avvicinarmi di nuovo. Con un colpo di reni mi stacco dalla parete e avanzo barcollando nella galleria. Sulla sinistra c'è un buco poco profondo scavato nel fianco del tunnel. Ci punto sopra la lampada: le fauci frastagliate del buco gettano al suo interno ombre profonde. La luce che ho sul casco è sempre stata gialla, ma quando volto la testa per illuminare il resto della galleria è come se il colore giallo fosse rimasto in fondo al buco. Oh, no! Non sarà che... Qualcosa comincia a ronzarmi forte sulla testa. Alzo gli occhi, ma capisco subito che il ronzio viene proprio dal mio casco. Sul pavimento della
galleria, la luce gialla ha acquisito una sfumatura dorata. Se fino a un momento fa riuscivo a vedere a una distanza di circa quindici metri, adesso la visibilità è ridotta a dieci. Mi tolgo il casco e guardo la lampada. Sfarfalla leggermente, e il colore sembra sbiadire a vista d'occhio. È pazzesco. Le mani mi tremano. La luce palpita, va e viene. Abbasso gli occhi sulla batteria portatile fissata al cinturone porta attrezzi: Viv aveva indovinato il funzionamento della stazione di ricarica... E a giudicare dal fatto che, con un ultimo ronzio, la luce è diventata marroncina, risulta evidente che il mio era il lato sbagliato. Giro rapidamente sui tacchi, ripetendomi che non devo lasciarmi prendere dal panico, ma mi sembra di avvertire già un senso di oppressione al petto. Quasi a compensare quel peso, l'andirivieni del mio respiro raggiunge subito l'acme. Guardo in su... in giù... a destra... a sinistra... Il mondo attorno a me si sta contraendo. Sulle pareti e sul pavimento le ombre mi stringono sempre più da vicino. Anche il vagoncino rosso sta per sparire dal mio campo visivo. Se non me ne vado da qui al più presto... Scatto in avanti e rifaccio di corsa la strada da cui sono venuto, ma il pavimento è cosparso di sassi e di irregolarità e correre non è facile. Ogni pochi passi le caviglie mi si torcono dolorosamente, e faccio fatica a mantenere l'equilibrio. Le pareti della galleria scorrono veloci accanto a me, e la luce del casco sobbalza davanti ai miei piedi, sforzandosi di fendere l'oscurità come una pila con le batterie scariche annegata da una nuvola di fumo nero. Purtroppo però sono già senza fiato: non so se sia per la profondità o per la paura, ma nel giro di qualche minuto non ce la faccio più. E dire che una volta correvo la maratona. Non può essere... Dalle labbra mi sfugge un aspro sbuffo d'aria, che fa turbinare il pulviscolo nel cono di luce morente della mia lampada. Inspiro... ed espiro subito. Non riesco a respirare normalmente, e già mi gira la testa. Abbasso gli occhi sul rilevatore d'ossigeno, ma prima di riuscire a leggerlo inciampo in un sasso e la caviglia mi si torce all'infuori. Cado in avanti, e devo lasciar andare il rilevatore per mettere le mani avanti. Piombo rumorosamente a terra, riempiendomi la bocca di fango fresco e ferendomi un polso. Però riesco ancora a muoverlo, dev'essere solo una distorsione. La luce del casco sbiadisce ancora: adesso è color ambra, e la visibilità si è ridotta di altri due metri. Mi alzo subito in piedi, e per non perdere altro tempo decido di non cercare il rilevatore. Se non riesco a tornare al punto di partenza... non voglio nemmeno pensarci. Accelero, concentrandomi per cercare la tessera della palestra che so es-
sere là avanti, da qualche parte. Solo le briciole di pane che ho lasciato possono aiutarmi a trovare rapidamente la strada. La luce della lampada è come quella di una candela sul punto di spegnersi. La visibilità è ridotta a sei metri. Di questo passo non avrò più di una trentina di secondi. Fisso il buio nella direzione in cui dovrebbe esserci la tessera della palestra e stringo un po' gli occhi per individuarla subito. Non posso certo prendermela con calma: mancano ancora almeno tre metri all'imboccatura della galleria che quel frammento di bianco dovrebbe indicarmi. Se riesco a infilarmici dentro posso sperare di scorgere, in lontananza, la successiva briciola di pane, e capire da che parte devo andare. La mia misera candela vacilla. Devo fare appello a tutte le mie forze per ignorare il panico che sento divamparmi nel petto. Ci sono quasi... Trattengo il respiro per guardare meglio, gli occhi fissi sull'imboccatura della galleria. Non espirare. Non lasciar uscire il fiato. La luce vacilla, mi protendo in avanti: no, non ci sono ancora, e mentre allungo la mano per toccare i margini dell'apertura che si schiude davanti a me, la grotta e tutto ciò che mi circonda diventano completamente... definitivamente... neri. 43. «Benvenuti al Two Quail», disse il maitre congiungendo la punta delle dita. «Il signore ha...» «Sì, a nome Holcomb», lo interruppe Barry con la sua perfetta eleganza. «Siamo in due...» «Holcomb... Holcomb...» ripeté il maitre, fermando gli occhi un secondo di troppo su quello di vetro di Barry. «Ma certo, signore. Un tavolo vicino alla finestra. Da questa parte.» E indicò col braccio un tavolo meticolosamente apparecchiato in un angolino discreto. Barry voltò la testa in quella direzione, ma non mosse un passo. «Se posso permettermi...» «Grazie, ce la caveremo da soli», fece Dinah, toccando il gomito di Barry e accompagnandolo al tavolo. Mentre il suo compagno avanzava sfiorando col bastone le gambe delle sedie, Dinah girò gli occhi sull'arredamento, che voleva evocare la sala da pranzo di una famiglia benestante e un po' eclettica. Parte del fascino del locale era dovuto ai molti pezzi di argenteria spaiata e ai mobili antichi, mentre l'ubicazione, raggiungibile a piedi dal Campidoglio, gli garantiva una vasta clientela di lobbysti.
Barry palpeggiò svelto i bordi del tavolo e delle due sedie all'ultimissimo grido - una con lo schienale ad ali, l'altra art déco - quindi invitò Dinah a sedersi e prese posto davanti a lei. «Il cameriere sarà subito da voi», disse il maitre. «Forse i signori desiderano un po' più di privacy...» Con un breve gesto della mano tirò un cordoncino appeso alla parete e una tenda di velluto cremisi scivolò silenziosamente in avanti, separando quell'angolino dagli altri tavoli. «Buon appetito.» «Allora, che te ne pare?» domandò subito Barry. Dinah piegò la testa di lato per sbirciare attraverso la fessura tra il muro e la tenda. Non pranzava mai in locali di quel livello: col suo stipendio non poteva permetterselo. «Come hai scovato questo posto?» chiese di rimando. «Ne ho letto da qualche parte», rispose Barry. Dinah non replicò. «Perché, non ti piace?» fece ancora Barry. «No, è bello... anzi, bellissimo... Solo che... dopo quel che è successo a Matthew...» «Dinah...» «Dovrebbe esserci lui al mio posto.» «Dinah...» «Non posso farci niente... le nostre scrivanie sono così vicine, praticamente addossate una all'altra, e ogni volta che alzo gli occhi sulla sua roba mi accorgo di cercare... cerco ancora lui. Chiudo gli occhi e...» «...e lui è lì, con le sue spalle curve e le dita ficcate in quel ciuffo di capelli biondi che faceva pensare al nido di qualche uccello. Ma non capisci che è così anche per me? Sono stato io a parlare con sua madre il giorno dell'incidente. E subito dopo è successo a Pasternak. Come se non fosse abbastanza... Sai, Dinah, non ho dormito per tre notti di fila. Quei due sono stati miei amici per moltissimi anni... fin da quando...» La voce gli si incrinò, e la frase rimase a metà. «Barry...» «Forse faremmo meglio a lasciar perdere», disse lui, facendo il gesto di alzarsi. «No, non farlo...» disse Dinah, allungando la mano e afferrandolo per la manica della giacca. «Ma se l'hai detto tu stessa...» «Siediti», lo pregò lei. «Per favore... siediti.»
Lentamente, quasi con riluttanza, Barry si rimise seduto. «È dura», disse lei. «Lo sappiamo tutti e due, che è dura. Dobbiamo solo prenderci un po' di tempo e... Per il momento, cerchiamo di goderci il pranzo.» «Sicura?» «Sicura», rispose lei, prendendo il bicchiere per l'acqua. «Non dobbiamo dimenticare che, nonostante tutto, è una giornata importante.» 44. Immerso nell'oscurità più totale, cammino con le braccia tese per non sbattere contro la parete. Ma non la trovo. Affondo con il piede in una pozzanghera fangosa, perdo l'equilibrio e cado ancora. Il fondo roccioso è cosparso di sassolini aguzzi, che mi si conficcano nelle ginocchia. Dal rumore di tessuto strappato e dall'improvviso dolore alle rotule capisco di aver rotto nuovamente i pantaloni. Anche stavolta ho fatto in tempo a mettere avanti le mani, ma lo slancio era eccessivo. Sento il ghiaietto di cui è ricoperto il pavimento roccioso rotolarmi sotto il petto. Riapro gli occhi e per la seconda volta devo pulirmi la bocca dal fango, ma stavolta senza vederlo. Non vedo niente. Assolutamente niente. Tossisco violentemente, anche perché non ho fatto in tempo a riprendere fiato, e sento l'ultimo boccone di formaggio alla griglia risalirmi lungo l'esofago e fermarsi contro la barriera dei denti chiusi. Lo sputo fuori; si spiaccica mollemente sul pavimento, con un rumorino acquoso. Rimango sdraiato a terra, con gli occhi chiusi, finché il respiro non si è regolarizzato, sforzandomi di considerare come una piccola vittoria il fatto di essere stato abbastanza furbo da seminare delle briciole di pane per ritrovare la strada. Ma il pensiero non mi tranquillizza. L'oscurità è terribilmente opprimente. Mi metto la mano davanti agli occhi, ma non riesco a vederla. L'avvicino fino a sfiorarmi le sopracciglia. Ancora niente. Non è come quando spegni la luce in camera tua e aspetti che gli occhi si abituino all'oscurità. Agito la mano avanti a indietro: è come se non esistesse nemmeno. Non voglio arrendermi all'evidenza: chiudo gli occhi bene stretti, poi li riapro. Nessuna differenza. La luce è finita. Ma il suono dovrebbe esistere ancora. «Viv!» grido nel fitto labirinto di gallerie. «Viv, mi senti?» La mia voce riecheggia a lungo nella miniera, poi svanisce in lontananza. Nessuna risposta.
«Viv! Ho bisogno d'aiuto! Mi senti?» Anche stavolta la mia domanda si dilegua e muore inascoltata. Per quanto ne so, Viv potrebbe aver preso l'ascensore per tornare in superficie. «C'è nessuno?!» grido ancora, con tutto il fiato che ho in gola. L'unico suono che sento è quello della mia respirazione affannosa e dei sassolini che si muovono sotto di me quando sposto il peso da una parte all'altra. Sono cresciuto in una cittadina di provincia, con meno di cinquemila abitanti, eppure il mondo non mi è mai sembrato tanto silenzioso come in questo momento, a 2500 metri dalla superficie terrestre. Se voglio uscirne vivo dovrò arrangiarmi da solo. D'istinto faccio per alzarmi in piedi, ma cambio subito idea e mi rimetto seduto per terra. Mi pare che l'imboccatura della galleria che dovrebbe riportarmi indietro sia davanti a me, ma finché non ne sono sicuro è inutile vagare alla cieca nel buio. L'unica cosa che mi aiuta a non perdere del tutto l'orientamento è l'aspro odore di feci proveniente dal vagoncino-gabinetto. Identifico con maggior precisione quella pista olfattiva: viene da sinistra. Quindi comincio ad avanzare a quattro zampe, palpeggiando il pavimento della galleria come chi cerca una lente a contatto caduta. L'odore è così forte da farmi lacrimare gli occhi, ma date le circostanze quel contenitore di merda puzzolente è per me come un faro nella notte. Continuo ad avanzare strisciando per terra, e ogni tanto allungo un braccio in avanti e in fuori e accarezzo l'aria in tutte le direzioni alla ricerca del vagoncino. Se riesco ad arrivarci saprò almeno quale direzione scartare. Il mio piano è tutto qui. Con la punta delle dita sfioro per un attimo i bordi frastagliati di una roccia coperta d'umidità. Apro la mano per toccarne meglio i contorni, ne seguo la superficie verso l'alto, e mi accorgo che non finisce mai. Non è una roccia. È la parete della galleria. Continuo a cercare il vagoncino palpeggiando leggermente ogni metro quadrato di pavimento, ma non lo trovo. Ricordo che quando sono arrivato era sulla mia destra, quindi ora che mi sono voltato per tornare indietro mi sposto sempre più verso sinistra, cercandolo a tastoni. A un certo punto mi arriva da dietro un rumore metallico: ho urtato qualcosa con il piede. Sempre a quattro zampe, giro su me stesso e palpo il pavimento fino a che non incontro i raggi delle ruote del vagoncino rosso. Non può essere. Mi immobilizzo, appoggiando il palmo di entrambe le mani sul pavimento sporco. Mi aspettavo di trovarlo alla mia sinistra. Allungo la mano e lo tocco di nuovo, come per sincerarmi della sua esistenza. E invece è a destra. Ciò significa che devo aver girato su me stesso di centottanta gradi.
Ma la cosa davvero grave è che così facendo mi sono mosso nella direzione diametralmente opposta a quella che avrei dovuto prendere, addentrandomi sempre più nella miniera invece di andare verso l'uscita. Chiudo gli occhi. Tutto questo buio mi dà le vertigini. Adesso l'odore sembra provenire da tutte le parti. Non ho fatto che dieci passi e già mi sono perso. In cerca di conferme giro ancora su me stesso e ricomincio a tastare il terreno come per leggere un testo in braille. Allungo più che posso le mani e riconosco al tatto i contorni del vagoncino rosso. I margini rugosi di metallo scheggiato. La rotondità delle ruote. Anche se non posso vedere gli oggetti che tocco, il cervello ricompone automaticamente i pezzi di quel puzzle tattile in un'immagine perfetta. Con mia stessa sorpresa mi sento scoppiare in una risata di nervosismo. Inseguendo una dopo l'altra le sensazioni tattili, la punta delle mie dita si impregna di ogni angolo netto e di ogni curva ammaccata. Accarezzo la base del vagoncino, faccio scorrere fra il pollice e l'indice i margini sfrangiati della tenda di plastica. Dà una sensazione particolarissima, riconoscere gli oggetti al tatto e non posso fare a meno di domandarmi se è così che Barry è abituato a vivere. Ansioso di ritrovare la strada mi sposto lungo il vagoncino palpando il terreno fino a ritrovare la parete della galleria. La seguo con la mano sinistra, mentre con la destra spazzolo il suolo davanti a me quasi fosse un metal detector di carne e ossa, alla ricerca di buche e sporgenze. Sempre a quattro zampe svolto poi bruscamente a destra, passando sotto l'arco che immette nel tunnel successivo. Volendo potrei seguire le rotaie che corrono al centro della galleria, ma la parete mi dà un'impressione più stabile e sicura. Dopo aver percorso a questo modo circa sette metri le ginocchia mi fanno terribilmente male, il puzzo di merda sta svanendo dietro di me e sulla mia destra c'è l'apertura di un'altra galleria. Posso prendere a destra o a sinistra. Ci sono altre aperture simili un po' dappertutto, ma sono abbastanza sicuro di essere ancora nel tunnel che ho percorso per arrivare fino a qui. Palpeggio i margini arrotondati dell'apertura squadrata e fangosa, li seguo da una parte e dall'altra fino a terra, cercando il pezzo di carta che ci ho lasciato all'andata. Da qualche parte, al livello del pavimento, dovrebbe esserci il tabulato dei film a noleggio. Se lo trovo vorrà dire che posso ancora farcela a seguire la mia traccia di briciole di pane. Con la punta dei polpastrelli perlustro a tocchi leggeri il suolo roccioso, setacciando meticolosamente la ghiaia alla base dell'apertura. Procedo da destra a sinistra, con metodo. Sono talmente raggomitolato su me stesso
che mi va il sangue alla testa. Al centro della fronte avverto una pressione crescente. La lista dei film non c'è. Massaggio la superficie rocciosa per cinque minuti buoni, sempre tendendo l'orecchio a un fruscio cartaceo che non arriva. Ma in realtà non ne ho bisogno per sapere che per imboccare questo ramo della miniera ho girato a destra. Palpo la parete, trovo il bordo dell'apertura e mi infilo dentro, tenendomi sulla sinistra. Mi inoltro nella galleria e mi trascino in diagonale attraverso le rotaie, spingendomi nel buio in cerca dell'altra parete, quella di destra. Dovrebbe essere proprio davanti a me... allungo un braccio più che posso... allungo... allungo... Ma per una ragione che non so spiegarmi la parete non è dove dovrebbe essere. Smetto di avanzare carponi per afferrarmi alle rotaie. Se avessi preso la direzione sbagliata... «Viv!» grido. Nessuna risposta. Nel tentativo di orientarmi chiudo un attimo gli occhi, sperando di limitare l'effetto vertigini. Continuo a ripetermi che è soltanto un corridoio buio, ma l'oscurità è così assoluta che ho l'impressione di essere sepolto vivo e di trascinarmi sottoterra in un prolungamento della mia stessa bara. Per convincermi che non sono in una bara, e che non sono nemmeno in trappola, affondo le unghie nel fango. E invece lo sono, in trappola. «Viv!» grido ancora. Niente. Non devo lasciarmi prendere dal panico. Trascinandomi sul sedere mi sposto ancora un po' e allungo lentamente una gamba fin dove riesco ad arrivare. La parete deve pur esserci, da qualche parte. Allungo al massimo le dita dei piedi, allontanandomi di qualche centimetro dalle rotaie. I sassolini rotolano a migliaia sotto di me. Per quanto ne so, davanti a me potrebbe esserci un buco infinito. Ma se la parete è davvero là - e sono quasi sicuro che ci sia - allora... Tunk. Ci sono. Tenendo il piede premuto contro la parete, ancora semisdraiato a terra, lascio andare le rotaie, mi piego in avanti e abbranco l'umida parete con entrambe le mani. Continuo a palpeggiarla qua e là solo per assicurarmi che esiste davvero. È là, esattamente dove doveva essere, solo che evidentemente tutti i miei riferimenti spaziali sono andati a farsi benedire. Ancora ansimante per lo sforzo lascio andare un profondo sospiro, ma ho la faccia talmente vicina alla parete che un piccolo tornado di polvere umida mi rimbalza addosso. In preda a un nuovo accesso di tosse volto la testa da
una parte, sbatto gli occhi per liberarli dalla polvere e sputacchio quel che mi è entrato in bocca. Mi rimetto carponi, e per due minuti mi trascino sul fondo di pietrisco con la mano destra che accarezza la parete e la sinistra che esplora il terreno, a scanso di ulteriori sorprese. Ma anche quando riesco a tastare ciò cui vado incontro - e anche se so che è soltanto l'ennesima montagnetta di sassi - a ogni metro mi sento come quando si scende una scala al buio, e si cerca col piede l'ultimo gradino, e ogni volta si allunga la gamba pensando di essere arrivati in fondo, ma non si sa mai quando si è davvero arrivati. E anche quando la scala è ormai finita si tasta ancora il pavimento con la punta del piede, non tanto per assicurarsene, quanto perché, per uno sconvolgente momento, si stenta a credere ai propri sensi. Finalmente la mia mano trova la curva arrotondata dell'apertura di un tunnel sulla destra, e ricomincio a palpeggiare con cura il terreno in cerca della tessera del Tripla-A. Anche stavolta le probabilità di trovarla sono minime, ma finalmente credo di essermi orientato fra destra e sinistra, questa dovrebbe essere la caverna con le cinque imboccature a raggiera. Se ora scelgo quella sbagliata, questo posto diventerà davvero la mia bara. «Viv!» grido, trascinandomi attraverso la grotta. Il mondo è nero come la pece. «Viv, per favore, ci sei?» Trattengo il fiato e resto in ascolto, mentre la mia supplica riecheggia in ciascuna delle cinque gallerie rotolando contemporaneamente in ogni direzione, come in un vero surround system. In attesa del responso trattengo il fiato e ficco le unghie nel fango. Se anche fosse vago e lontano, non me lo voglio perdere. Ma quando la mia voce riverbera e scompare nel labirinto, mi ritrovo ancora una volta sepolto dal silenzio sotterraneo. Mi guardo attorno, ma ovunque volti la testa la visuale è la stessa. Aumentando solo il senso di vertigine. La giostra ricomincia a vorticare, e io non posso fare niente per fermarla. «Viv!» grido ancora nella direzione opposta. «C'è qualcuno? Vi prego!» L'eco delle mie parole si allontana come la coda attorcigliata dei fantasmi che infestavano i miei incubi infantili. Inghiottita dal buio. Proprio come me. Non c'è più né destra né sinistra, né su né giù. Il mondo vacilla, e il mio giramento di testa si trasforma in vere e proprie vertigini. Pur essendo a quattro zampe, fatico a tenermi in equilibrio. La testa mi scoppia. Cado sul fianco. La guancia mi sfiora le pietruzze del pavimento: meglio così, almeno so da che parte è il basso. In ogni direzione, nient'altro che
inchiostro, poi, con la coda dell'occhio, mi sembra di intravedere un piccolo bagliore argentato. Minuscoli lampi della durata di mezzo secondo - uno scoppio di scintille, come quando si stringono forte gli occhi. Muovo la testa per seguire quella vaga luminescenza, ma già so che è solo frutto della mia immaginazione. Ne ho sentito parlare... accade quando gli occhi rimangono troppo a lungo privi di luce. Sono le allucinazioni dei minatori. «Harris?...» chiama una voce in lontananza. Probabilmente è un altro scherzo della fantasia. Cerco di convincermene, almeno finché il miraggio non ricomincia a parlare. «Harris, non ti sento!» grida la voce. «Di' qualcosa!» «Viv?» «Di' qualcosa!» La voce riecheggia per tutta la sala. È difficile capire da che direzione provenga. «Viv, sei tu?» «Continua a parlare! Dove sei?» «Qui, al buio... la mia lampada si è spenta!» A ogni frase segue una piccola pausa, come se la sua voce mi arrivasse in ritardo. «Stai bene?» «Devi venire a prendermi!» «Cosa?» «Vieni a prendermi!» grido. Nuova pausa. «Non posso!» grida lei. «Segui la luce!» «Non c'è nessuna luce, qui! Ci sono troppi angoli! Viv, non vedo niente!» «Non puoi seguire la mia voce?» «Viv!» «Segui la mia voce!» insiste lei in tono supplichevole. «Ma non senti? Rimbalza in tutti i rami della miniera!» Mi fermo alla fine di ogni frase, e le faccio brevi, in modo che l'eco non interferisca con il messaggio. Ho bisogno che capisca bene quello che voglio dirle. «C'è troppo buio! Se giro dalla parte sbagliata, non mi troverai più!» «Vuoi che mi perda anch'io?» grida. «Ma tu hai la lampada!» «Harris!...» «Hai la lampada, Viv! E il tempo è quasi scaduto!» Segue una pausa ancora più lunga. Lo sa cosa voglio dire. Più tempo passa, meno è probabile che noi due restiamo soli quaggiù. Finora abbiamo avuto fortuna, ma trattandosi di Janos anche la buona sorte più sfaccia-
ta non può durare all'infinito. «Non avere paura, Viv! È solo una galleria!» La nuova pausa è la più lunga che abbia fatto finora. «Se è uno dei tuoi scherzi...» «Non è uno scherzo... ho davvero bisogno d'aiuto!» Sa che non sto scherzando. E poi, come dice sempre il senatore a proposito dei nostri sottoscrittori più importanti: «Anche quando ti dicono che il pozzo è asciutto tu scava un po' più a fondo, e vedrai che c'è sempre qualcosina che hanno messo da parte per i momenti difficili.» «Davvero hai bisogno che venga lì?» fa Viv con voce tremante. «Io non posso muovermi!» le grido di rimando. «Viv... ti prego!...» Rimango dove sono, lungo disteso per terra, mentre la miniera cade di nuovo nel silenzio. Solo il pensiero di addentrarsi in questa oscurità... e da sola poi... L'ho visto, il panico nei suoi occhi. Dev'essere paralizzata dalla paura. «Viv, ci sei ancora?» Non risponde. Non è un buon segno. Mentre il silenzio si allunga non posso fare a meno di pensare che, forse, anche l'ultimo qualcosina per i momenti difficili si è esaurito. Forse anche lei se ne sta raggomitolata da qualche parte e... «Quale di queste gallerie devo prendere?» grida, e la sua voce rimbomba nelle infinite caverne della miniera. Mi metto a sedere, con le mani ancora affondate nel fango. «Sei grande, Viv Parker!» «Non c'è niente da ridere, Harris! Che galleria devo prendere?» La sua voce sembra arrivare da molto lontano, ma è impossibile non coglierne il tono disperato. Non dev'essere facile, per lei. «Quella con il fango più fresco! Segui le impronte dei miei piedi!» La mia voce riecheggia sotto la volta e svanisce lentamente. «Le hai trovate?» grido. Anche stavolta la mia voce annega nel silenzio. Ormai tutto dipende da una diciassettenne con una lampada avvitata sul casco. «Che piedi piccoli hai!» grida Viv. Cerco di sorridere, ma deve fare ancora molta strada, e lei lo sa. Alle sue spalle c'è la grande lampada industriale nel locale dell'ascensore, ma la sua luce non durerà a lungo. Sparirà nel giro di pochi... «Harris!...» «So che puoi farcela, Viv! Immagina di essere al luna park, nella casa
dei fantasmi!» «Le odio, le case dei fantasmi! Mi fanno morire di paura!» «E il trenino dell'amore? Che ne dici? Il trenino dell'amore piace a tutti!» «Harris, qui c'è troppo buio!» Il discorsetto d'incoraggiamento non è servito. «Non vedo quasi niente...» «Aspetta un attimo, vedrai, poi gli occhi si abituano!» «Il soffitto!...» grida Viv. E la voce le viene bruscamente a mancare. Lascio passare un secondo. Più niente. «Tutto bene?» Niente. «Viv?... Ci sei?» Silenzio assoluto. «Viv!» grido con tutto il fiato che ho in gola, per essere sicuro che mi senta. Ancora niente. Stringo i denti. Il silenzio s'infittisce attorno a me, e per la prima volta da quando siamo usciti dall'ascensore mi domando se siamo davvero soli. Se Janos fosse riuscito a prendere un altro volo... «Continua a parlare, Harris!» Finalmente! La voce di Viv è limpida: dev'essere nel ramo principale della miniera, perché la sento più chiaramente... non più come un'eco. «Sei già?...» «C-continua a parlare!» grida lei, balbettando leggermente. Decisamente c'è qualcosa che non va. Cerco di convincermi che è solo la paura di restare intrappolata qua sotto, ma quando il silenzio si chiude sopra di me non posso fare a meno di temere che ci sia anche qualcosa di più serio. «Parlami del lavoro... dei tuoi genitori... di qualunque cosa...» dice con tono lamentevole. Qualsiasi cosa abbia, vuole distrarsi la mente per non pensarci. «I-il mio primo giorno al Senato», comincio, «ho preso la metropolitana per andare al lavoro, e nel vagone c'era una pubblicità - non ricordo più di che cosa - ma lo slogan diceva Va' oltre te stesso. Non ne ho più distolto gli occhi fino a...» «Niente discorsetti da spogliatoio... l'ho visto anch'io!» grida lei. «Raccontami qualcosa di vero!» Una richiesta piuttosto semplice. Ma ci metto un po' di tempo a farmi venire in mente qualcosa. «Harris!...»
«Ogni mattina sono io a preparare la colazione per Stevens... Quando c'è la seduta vado da lui alle sette in punto, entro in casa e gli preparo i fiocchi di cereali con mirtilli freschi...» Faccio una breve pausa. «Dici su serio?» fa Viv. La sua voce è ancora esitante, ma mi sembra che abbia una voglia di riso in fondo alla gola. Sorrido fra me. «Quell'uomo è così insicuro che ogni volta che c'è una votazione devo accompagnarlo personalmente in aula, per soccorrerlo nel caso un altro senatore cerchi di bloccarlo in corridoio. Ed è così taccagno che non va mai al ristorante senza un lobbysta, per non pagare il conto...» Dopo la solita pausa Viv pronuncia una sola parola: «Ancora...» «Il mese scorso compiva sessantatré anni... Gli abbiamo organizzato ben quattro feste di compleanno - ognuna per mille dollari di sottoscrizione a cranio - e ogni volta abbiamo detto agli invitati che quella era l'unica festa che c'era. Ci sono costate 59.000 dollari solo in salmone e torte di compleanno, ma ne abbiamo raccolti più di 200.000...» Mi metto in ginocchio, e continuo a gridare nel buio. «Nel suo ufficio c'è una palla da baseball di qualche anno fa, della stagione in cui gli Atalanta Braves hanno vinto le World Series. Firmata da Jimmy Carter in persona, ma Stevens se l'è tenuta senza averne il diritto. Avrebbe dovuto semplicemente firmarla, e invece se l'è tenuta.» «Adesso stai esagerando...» «Due anni fa, a una festa per raccogliere fondi, un lobbysta mi diede un assegno per la sua campagna elettorale, e io dovetti restituirglielo immediatamente dicendo: "Non è abbastanza". Così, dritto in faccia.» La sento ridere. Questa le è proprio piaciuta. «Alla fine del college ero così idealista che mi iscrissi a un corso post laurea di teologia, dal quale fui immediatamente espulso. Questo non lo sapeva nemmeno Matthew. Desideravo davvero aiutare la gente, ma il partito di Dio continuava a mettermi i bastoni tra le ruote...» Dal silenzio che segue so di aver catturato la sua attenzione. Adesso devo tenerla agganciata. «Ho contribuito a ridisegnare la legge sulla bancarotta, ma siccome sto ancora pagando le rate del prestito che mi ha permesso di frequentare la Duke, ho in tasca cinque Master Card diverse.» Pausa. «Il ricordo più vivido che ho della mia infanzia è di una volta che ho beccato mio padre a piangere nel reparto ragazzi dei grandi magazzini Kmart: non aveva abbastanza soldi per comprarmi la confezione di tre magliette bianche della Fruit of the Loom, e aveva dovuto prenderne delle al-
tre, non di marca...» Non ho quasi più voce. «Passo troppo tempo a preoccuparmi di quello che la gente penserà di me...» «È così per tutti», risponde Viv. «Mentre frequentavo il college lavoravo in una gelateria, e ai clienti che mi chiamavano schioccando le dita rompevo il fondo del cono con un colpetto del mignolo: così, dopo un paio di isolati, il gelato cominciava a sgocciolargli sui vestiti...» «Harris...» «In realtà il mio nome è Harold. È stato al liceo che hanno cominciato a chiamarmi Harry, e una volta al college l'ho cambiato in Harris perché mi sembrava più adatto a un leader... Il mese prossimo - ammesso che abbia ancora un lavoro - farò trapelare al «Washington Post» il nome del nuovo giudice della Corte Suprema, così, solo per dimostrare che so tante cose... Quanto alla settimana scorsa... anche se ho fatto di tutto per non ammetterlo nemmeno con me stesso, mi pesa terribilmente il fatto che, senza Matthew e Pasternak, pur avendo lavorato in Campidoglio per dieci anni non c'è più nessuno che... non ho più nemmeno un amico...» Pronuncio queste parole in ginocchio, stringendomi lo stomaco e curvandomi sempre di più verso il pavimento. Ormai la mia fronte sfiora i sassi sparsi sul fondo della galleria. Anzi, uno spigolo particolarmente acuto mi si sta conficcando proprio all'attaccatura dei capelli, ma non provo dolore. In realtà non sento niente. Le cose che ho appena detto mi hanno come folgorato, mi sento stordito, svuotato, come il giorno in cui fu scoperta la lapide sulla tomba di mia madre, accanto a quella di papà. «Harris!» grida Viv. «Mi dispiace, Viv... è tutto qui», le rispondo. «Cerca di seguire il suono.» «Ci sto provando», insiste lei. Ma stavolta la sua voce non rimbomba nella grotta come ha fatto finora. Viene da un punto preciso, sulla destra. Alzo la testa per individuarne la direzione, e proprio in quel momento nell'oscurità si apre una piccola incrinatura. Là in fondo, il bordo della galleria resuscita vagamente dalle tenebre grazie a un pallido alone di luce, come un faro che venga improvvisamente acceso nella fitta nebbia dell'oceano. Strizzo gli occhi per abituarli a quella nuova realtà. Ora, dal fondo della galleria, il fascio di luce si volge dalla mia parte, splende proprio su di me. Distolgo gli occhi e mi prendo un secondo per raccogliere i pensieri. Quando mi volto di nuovo da quella parte ho un sorriso stampato sulla fac-
cia, ma da come Viv mi punta la luce direttamente addosso immagino di non essere un bello spettacolo. «Harris, mi dispiace...» «Sto bene», cerco di bloccarla. «Non te l'ho chiesto.» Il suo tono di voce è pacato e rassicurante. Senza un grammo di intenzione di giudicare. Alzo gli occhi su di lei. La luce le splende proprio in mezzo alla fronte. «Che c'è, non avevi mai visto un angelo custode con la pettinatura afro? Ce ne sono almeno quattordici, in Paradiso!» Viv volta la testa per non accecarmi più, e finalmente possiamo guardarci negli occhi. Non posso fare a meno di sorriderle: «Sweet Mocha...» «...in azione!» fa lei, completando la mia frase. In piedi accanto a me, alza le braccia e le flette come per gonfiare i muscoli. Ma non è solo quella ridicola posizione. Viv ha le spalle larghe. I piedi ben piantati a terra. Non riuscirei a farla cadere nemmeno con la palla di ferro con cui si abbattono le case. Non c'è alcun bisogno di grattare il fondo: il pozzo è pieno fino all'orlo. «Allora, pensi di rimanere per sempre in ginocchio davanti alla Viv-ità?» mi fa. E mi tende la mano. Non ho mai avuto particolari difficoltà ad accettare l'aiuto di qualcuno, quando ne ho avuto bisogno. Ma mentre Viv agita le dita verso di me aspettandosi che faccia obiezione, per la prima volta dall'inizio di questa storia smetto di preoccuparmi delle conseguenze. Resterò in debito? Cosa posso fare per lei? Quanto mi verrà a costare? Dopo dieci anni a Washington ho imparato a guardare con sospetto perfino la cassiera del supermarket quando mi domanda se voglio la busta di plastica o quella di carta. Sul Colle, un'offerta d'aiuto maschera sempre qualcos'altro. Ma mentre guardo in su verso la mano tesa di Viv, so che quell'affermazione non è più vera. L'afferro senza esitazioni. Viv mi stringe la mano tra le sue e tira forte per rimettermi in piedi. Ne avevo proprio bisogno. «Non racconterò mai a nessuno le cose che mi hai detto, Harris.» «Non mi è nemmeno passato per la testa che potessi farlo.» Ci pensa su un momento. «Veramente facevi quello che hai detto con i coni gelato?» «Solo con i clienti davvero stronzi.» «Quindi... ehm... ragionando in astratto... se io lavorassi in un fast food qualsiasi, senza fare nomi, e una donna con un'orribile abbronzatura sintetica e un taglio di capelli copiato da "Cosmo" cominciasse a gridarmi che
scema come sono non potrò fare altro che lavorare in quel cesso di posto per il resto della mia vita, e solo perché secondo lei la sua ordinazione ci ha messo troppo tempo ad arrivare... Ecco, se io andassi in cucina e, sempre in astratto, sputassi uno scaracchio di quelli che si tirano su dal fondo della gola nella sua Diet Coke e poi la mescolassi bene con la cannuccia, credi che sarei una cattiva ragazza?» «Ragionando in astratto, dici? Be', mi pare che con la cannuccia avresti guadagnato qualche punto. Ma sarebbe comunque una dannata volgarità.» «Sì», fa lei tutta orgogliosa. «Lo è stato.» Poi, guardando verso di me, aggiunge: «Nessuno è perfetto, Harris. Nemmeno se tutti gli altri sembrano crederlo.» Annuisco, senza lasciarle la mano. Abbiamo solo una lampada in due, ma se stiamo insieme ci basterà. «Allora, sei pronta a scoprire che diavolo stanno tramando quaggiù?» le domando. «Ho forse scelta?» «Hai sempre scelta.» Raddrizza le spalle, e noto che nel suo atteggiamento fisico c'è una nuova sicurezza. Non è tanto per ciò che ha appena fatto per me, è quel che ha fatto per sé stessa. Si volta verso la galleria alla nostra sinistra, e la luce della sua lampada perfora il buio. «Allora sbrighiamoci, prima che cambi idea.» Mi incammino lungo la parete di roccia, addentrandomi nuovamente nella miniera. «Grazie, Viv... voglio dire, grazie davvero...» «Sì, sì, va bene.» «Dico sul serio», insisto. «Vedrai che non te ne pentirai.» 45. Mentre attraversava il parcheggio della miniera scalciando sassolini da tutte le parti, Janos contò due motociclette e diciassette auto, soprattutto pickup. Chevrolet... Ford... Chevrolet... GMC... tutte auto americane. Scrollò la testa: la fedeltà a un'auto poteva capirla, ma quella al paese produttore decisamente no. Se i tedeschi comprassero i diritti di produzione della Shelby Series One e trasferissero la fabbrica a Monaco, l'auto rimarrebbe esattamente quello che è: un'opera d'arte. Infilò le mani in tasca e guardò ancora le auto e i furgoncini del parcheggio, cercando di concentrarsi sui dettagli: copricerchioni infangati... fanalini posteriori ammaccati... radiatori corrosi. Anche nei veicoli meglio
tenuti i dadi delle ruote, smontati e rimontati più volte, tradiscono l'usura del tempo. Di tutti quei mezzi di trasporto ce n'erano solo due così nuovi da non aver ancora provato l'autolavaggio: l'Explorer che lui stesso aveva guidato fin lì... e una Suburban nera parcheggiata nell'angolo in fondo. Si avvicinò lentamente alla macchina. Targa del Sud Dakota, ovviamente, come tutte le altre. Ma era evidente che i locali preferivano non comprare auto nere: al sud c'è troppo sole e la vernice scura si sciupa subito. Il che però non vale per le auto di rappresentanza. Il Presidente viaggia sempre su un'automobile nera, come il vicepresidente e i capi dei servizi segreti. A volte, se sono abbastanza importanti, anche i senatori. O i membri del loro staff. Janos posò la mano sulla portiera del conducente, accarezzandone la liscia vernice. Il vetro del finestrino, pulitissimo, gli rimandò la sua immagine riflessa, ma dentro non c'era nessuno. Dietro di lui si udì uno scricchiolio di ghiaia calpestata, e Janos si voltò di scatto. «Ehilà! Scusi, non volevo spaventarla», disse un uomo che indossava una maglietta con la scritta SPRING BREAK '94. «Venivo a vedere se aveva bisogno d'aiuto.» «Sto cercando due colleghi», disse Janos. «Un uomo alto grossomodo come me e...» «...e una ragazza di colore... ma certo, ovviamente: sono già scesi», disse l'uomo. «Anche lei è della Wendell?» «Scesi dove?» domandò Janos, con il solito tono di calma assoluta. «Laggiù», disse l'uomo, indicandogli col mento l'edificio di mattoni rossi. «Segua il sentiero, non può sbagliare.» L'uomo in tuta da lavoro salutò portandosi la mano al bordo del casco, poi girò sui tacchi e tornò verso le roulotte. E Janos si avviò verso l'edificio di mattoni rossi. 46. Mentre ripercorriamo la strada che ho già fatto senza di lei, aggiorno Viv sulle mie scoperte. «Vuoi dire che hanno portato fin quaggiù una linea telefonica, ma non hanno trovato il modo di farci arrivare un gabinetto?» mi dice quando passiamo davanti al vagoncino rosso. Un passo dopo l'altro cerca di assumere un'aria coraggiosa, ma dal modo in cui la sua mano sudata si tiene aggrappata alla mia... da come cammina tenendosi mezzo passo indietro... è chia-
ro che l'adrenalina sta calando rapidamente. A un certo punto si china per recuperare da terra il rilevatore d'ossigeno e dare un'occhiata ai valori. Mi aspetto di vederla bloccarsi sul posto, ma non lo fa. Però rallenta ulteriormente. «18,8%?» mi domanda. «Che ne è stato del 19,6 che c'era all'ascensore?» «Non dimenticare che la gabbia è collegata direttamente alla superficie, è normale che la concentrazione d'ossigeno sia maggiore. Fidati, Viv, non andremo dove non è sicuro.» «Ma davvero?» mi fa, con espressione di sfida. È un bel pezzo che non mi crede più sulla parola. «Vuoi dire che è come fare una passeggiata fino al Jefferson Memorial per scattare qualche bella fotografia dei ciliegi in fiore?» «Se la cosa può farti sentire meglio, i ciliegi non fioriranno che alla metà di aprile.» Viv gira gli occhi sulle pareti sporche e muschiose, tutte chiazzate di fango. Poi mi punta la luce in faccia, e io decido di non sottrarmi. Procediamo per altri cinque minuti nel buio. Il pavimento della galleria è in lieve pendenza. E man mano che quel budello infinito ci porta più in fondo alla miniera, la temperatura diventa sempre più insopportabile. Viv cerca di risparmiare il fiato, ma tra il calore e quest'aria umida e appiccicosa sento che ha di nuovo il respiro pesante. «Sei sicura di stare...» «Tu continua a camminare», mi fa. Per i successivi sessanta metri circa non dico nemmeno una parola. Fa ancora più caldo che nel punto in cui ci siamo incontrati, ma Viv non protesta, non si lamenta. «Tutto bene, lì dietro?» le domando a un certo punto. Annuisce, e la luce della lampada saltella su e giù nella galleria. Sul muro compare un'altra scritta fatta con la vernice rossa: dice ASCENSORE, e la freccia indica una galleria sulla nostra sinistra. «Sei sicuro che non stiamo camminando in tondo?» chiede Viv. «Il terreno è sempre in discesa», le rispondo. «Forse queste vecchie miniere avevano un secondo ascensore, per maggior sicurezza, così se il primo si rompe la gente non resta in trappola.» È una bella teoria, ma non basta a normalizzarle il respiro. Prima che possa aggiungere qualcos'altro in lontananza si sente un tintinnio familiare. «Un rubinetto che sgocciola?» sussurra Viv. «Indubbiamente sembra acqua...» Il suono è troppo lieve per capire da
dove provenga. «Là in fondo, forse», dico, e Viv dirige la luce verso un punto lontano. «Sicuro?» domanda gettandosi un'occhiata alle spalle. «Certo, viene da là», insisto, affrettandomi nella direzione da cui sembra provenire il rumore. «Harris, aspetta!...» Mi metto a correre. Poi, all'improvviso, l'aria è lacerata da uno stridio che mi perfora i timpani. Il suono è assordante come quello di un allarme nucleare. Mi blocco e giro gli occhi tutt'attorno. Se abbiamo fatto scattare un allarme... In fondo alla galleria si accende una scritta luminosa e un motore comincia a girare. È sempre stato quaggiù, acquattato nel buio. E senza darci il tempo di reagire qualcosa parte a tutta birra verso di noi, potente e veloce come un treno merci. Viv fa per scappare, ma io la tiro per il polso. La cosa si muove troppo in fretta, non riusciremmo mai a sfuggirle correndole davanti. E poi è meglio non fare nulla che possa farci sembrare colpevoli. Con un frastuono di freni a disco il veicolo si ferma a pochi metri da noi. La lampada di Viv illumina la fiancata di un carrello dipinto di giallo, tutto ammaccato, e l'uomo che siede sopra. Sembra il motore di un treno in miniatura, ma senza la copertura superiore. Appeso al mantice c'è un grosso riflettore, e alla guida siede un uomo di mezz'età con una tuta da lavoro usata e lacera. L'uomo spegne il motore e di colpo, così com'è cominciato, lo stridio finisce. «Mi dispiace per questo caldo terribile, vedrete che nel giro di qualche ora le riparazioni saranno finite», dice. «Le riparazioni?» «Non penserete che sia sempre così!» fa lui, indirizzando la lampada del suo casco sulle pareti e sul soffitto. «Questo venticello è a più di 50 gradi...» Ridacchia fra sé. «Anche per essere a 2500 metri sottoterra, è davvero un'esagerazione.» Riconosco il piatto accento del Sud Dakota: è l'uomo sceso appena prima di noi. Garth, mi pare si chiamasse. Certo, Garth. Ma più che il suo nome, a colpirmi è il suo tono di voce. Non ci sta sgridando. Si sta scusando con noi. «Non preoccupatevi, è in cima alla scala delle priorità», aggiunge poi. «G-grande», balbetto io. «E quando l'impianto di condizionamento e i condotti di scarico ricominceranno a funzionare, vi garantisco che vedrete la condensa del vostro
fiato. E non dovrete più sudare così», aggiunge, indicando col mento le nostre camicie fradice. «Grazie», dico io unendomi alla sua risata, ansioso di cambiare al più presto argomento. «No, grazie a voi. Se non fosse per la Wendell questo posto avrebbe ancora le assi inchiodate alle finestre. Esaurito l'oro, abbiamo pensato che fosse finita anche per noi.» «Be', ecco... sempre lieti di dare una mano, Garth.» Il nome ce l'ho messo per attirare la sua attenzione, e per distrarla da Viv. Come sempre, il trucco funziona. «Allora, come procedono le cose?» gli domando non appena si volta verso di me. «Tutto secondo la tabella di marcia. Lo vedrete con i vostri occhi quando sarete laggiù. È tutto a posto», spiega. «Adesso però devo andare: sta arrivando un altro carico. Sono sceso solo per assicurarmi che avessero predisposto lo spazio.» Ci fa un cenno di saluto, torna sul suo vagoncino e riavvia il motore. Lo stridio torna a riempire la galleria. Dev'essere un segnale sonoro per i veicoli destinati a muoversi nell'oscurità, come il bip-bip con cui i grandi camion segnalano di aver innestato la retromarcia. Il veicolo ci passa accanto, si allontana, e lo stridio svanisce lentamente. «Che ne pensi?» mi domanda Viv mentre lo guardiamo sparire nel buio. «Non so proprio. Ma pare sia vero che di oro non ce n'è più nemmeno un grammo.» Viv annuisce e riprende a camminare verso il fondo della miniera. Io guardo ancora un momento in direzione del vagoncino per controllare che se ne sia andato davvero. «Fra parentesi, come hai fatto a ricordarti il suo nome?» aggiunge. «Non so, sono sempre stato bravo con i nomi.» «Guarda che alla gente non piacciono quelli che fanno così.» La sento trascinare i piedi sulla ghiaia mentre tendo l'orecchio al rumore del vagoncino. È quasi sparito. «Ehi, Harris!» grida Viv. «Aspetta, voglio essere sicuro che...» «Harris, credo proprio che dovresti dare un'occhiata qui...» La sua voce è asciutta e piana. «Devi guardare adesso...» Volto la testa nella direzione che mi sta indicando. Se è ancora preoccupata per il... Accidenti.
Là in fondo... proprio alla fine della galleria... Stringo gli occhi per vedere meglio. Prima quella parte della miniera era nascosta dal vagoncino, ma ora che se n'è andato posso vederla chiaramente. Laggiù, nella parte più bassa della galleria, c'è una porta a due battenti di metallo, nuovissima, che brilla in lontananza. Ciascuno dei due battenti ha un oblò di vetro, e anche se siamo troppo lontani per guardarci dentro vediamo uscirne una luce bianca. Due punti luminosi nel buio, come gli occhi maligni dello Stregatto. «Andiamo...» dice Viv, mettendosi a correre in quella direzione. «Viv, aspetta!» grido io, ma è troppo tardi. La luce della sua lampada sobbalza al ritmo della corsa, e io mi getto all'inseguimento di quel verme di luce che si addentra sempre più nella miniera. In verità non avevo nessuna intenzione di fermarla. È per questo che siamo scesi qua sotto: per noi, quella può essere davvero la luce alla fine del tunnel. 47. Viv spinge la porta appoggiando le mani ai lucidi battenti d'acciaio, ma non riesce a spostarla di un millimetro. Io mi alzo in punta di piedi dietro di lei per guardare attraverso gli oblò, ma il vetro è smerigliato e non vedo niente. Sulla porta è appeso un cartello che dice: INGRESSO RISERVATO AL PERSONALE AUTORIZZATO. «Lascia, provo io», le dico, e lei si fa da parte. Mi butto con la spalla contro la fessura fra i due battenti, e ho l'impressione che quello di destra ceda un po', ma non succede niente. Facendo un passo indietro per prendere la rincorsa e dare una seconda spallata vedo la mia immagine riflessa nella testa di ogni chiodo. Quaggiù tutto è rigorosamente nuovo. «Aspetta», mi ferma Viv. «Magari bisogna soltanto suonare il campanello...» Effettivamente a destra della porta, fissata alla roccia, c'è una piastra di metallo con un grosso bottone nero. Ero talmente ipnotizzato dalla porta da non vederlo. Viv allunga la mano per premerlo. «Non farlo...» cerco di bloccarla. Ma ancora una volta in ritardo, lei l'ha già schiacciato. Parte un fischio fortissimo, e tutti e due facciamo un salto indietro. La doppia porta vibra e il fischio si abbassa in una sorta di lungo sbadiglio mentre due bracci pneumatici di forma cilindrica si allungano come tenta-
coli. Il battente di sinistra si apre verso di me, l'altro nella direzione opposta. Allungo il collo per vedere meglio. «Viv...» «Ho capito», fa lei, e punta in avanti la luce della lampada. Ma al di là della porta - a una trentina di metri di distanza - c'è solo una seconda porta a doppio battente con gli oblò di vetro smerigliato, uguale identica alla prima. E la luce che si vede dalla galleria proviene da là dentro. Faccio un cenno a Viv, che preme il bottone della seconda porta. Stavolta però non succede niente. «Prova ancora», le dico. «Lo sto facendo... Forse è bloccato.» Con un nuovo fischio assordante la prima porta comincia a richiudersi dietro di noi. Resteremo bloccati. Viv gira su sé stessa, pronta a scattare. Io invece rimango dove sono. «Va tutto bene», le dico. «Cosa? Perché?» fa lei, agitatissima. I due battenti della prima porta stanno per toccarsi: è la nostra ultima possibilità di uscire. Controllo con lo sguardo le pareti del vano racchiuso tra le due porte e il soffitto roccioso sopra di noi. Niente telecamere a circuito chiuso né altre installazioni di sicurezza. Ma nell'angolo in alto a sinistra della seconda porta c'è scritto PORTA AD ARIA. Ho capito. «Allora?» domanda ancora Viv. «È una serratura ad aria.» Fra i due battenti della prima porta rimangono solo un paio di centimetri. «Che cosa?» Con un pesante tonfo la porta esterna si chiude e i due bracci meccanici tornano al loro posto. Un nuovo fischio attraversa l'aria, come quello di un treno a vapore al momento di entrare in stazione. Adesso siamo chiusi fra le due porte metalliche. Con una mezza piroetta Viv si gira verso il secondo bottone e lo preme. La porta davanti a noi comincia a muoversi e parte un nuovo fischio, ancora più assordante del precedente. Viv si volta verso di me. Mi aspetto di vederla sollevata, ma dal modo in cui i suoi occhi saltellano qua e là, capisco che è terrorizzata. Non posso darle torto. Non appena fra i due battenti della seconda porta si apre una fessura veniamo investiti da un fiotto di luce accecante e da un soffio d'aria fredda. Sento i capelli svolazzarmi all'indietro, e tutti e due chiudiamo un momento gli occhi. Non appena la pressione dell'aria fra i due locali è di nuovo in
equilibrio, il vento smette di soffiare. Qui dentro l'aria ha un gusto diverso: è più dolce... e con pochissima umidità, lo si sente con la lingua. Al posto dei milioni di particelle di polvere che ho dovuto inalare finora, sento una folata d'aria fredda rinfrescarmi bruscamente i polmoni. È come bere un sorso d'acqua minerale dopo aver ingurgitato quella fangosa di una pozzanghera. Quando riapro gli occhi ci metto qualche secondo ad abituarmi alla luce, che è molto forte. Abbasso lo sguardo e sbatto più volte le palpebre, finché non riesco a vedere bene. Il pavimento è ricoperto da un luminoso linoleum bianco. Al posto delle strette gallerie che abbiamo percorso fin qui davanti a noi si apre un ampio locale tutto bianco, grande come una pista per il pattinaggio su ghiaccio. Il soffitto è alto circa sessanta metri, e sulla parete di destra ci sono degli interruttori elettrici nuovissimi, e di prima qualità. Lungo il bordo del pavimento corrono centinaia di cavi elettrici rossi, neri e verdi, affastellati insieme in fasci grossi come il collo di un uomo. Sulla sinistra c'è un vano con una targa che dice POSTAZIONE DI CAMBIO: dentro ci sono nicchie in cui riporre gli stivali sporchi e i caschi da miniera. Ma per il momento il locale non è ancora adibito a quello scopo: provvisoriamente vi sono stati immagazzinati tavoli da laboratorio, una mezza dozzina di hub e router ancora imballati in fogli di plastica con le bolle e due server piatti, neri, di ultima generazione. Qualsiasi cosa la Wendell Mining abbia intenzione di fare quaggiù, è ancora in fase di allestimento. Mi volto verso Viv, che guarda affascinata la montagna di scatoloni sovrapposti allineati lungo le immacolate pareti del salone bianco. Sono tutti contrassegnati da una parola scritta con il pennarello indelebile: LABORATORIO. Poi abbassa lo sguardo sul rilevatore d'ossigeno: 21,1%. Meglio ancora dei livelli registrati alla rampa. «Che diavolo sta succedendo qui?» mi fa. Non so cosa rispondere. Scrollo la testa. È del tutto assurdo. Mi guardo attorno, osservo le cromature luccicanti, i ripiani di marmo dei tavoli, e in testa mi vortica una domanda: che cosa ci fa un laboratorio da svariati milioni di dollari in fondo a un buco 2500 metri sotto la superficie terrestre? 48. Nel seminterrato dell'edificio di mattoni rossi, Janos si fermò accanto alla stazione di ricarica per le batterie portatili e le lampade da miniera. Era
già stato laggiù, subito dopo che Sauls l'aveva ingaggiato, e da allora non era cambiato niente: lo stesso corridoio cupo, deprimente, lo stesso soffitto basso, le stesse attrezzature sporche e trascurate. Osservò tutto con la massima attenzione. Nella stazione di ricarica c'erano due posti vuoti: uno sullo scaffale di sinistra e uno su quello di destra. Hanno giocato a pari e dispari, indovinò. La gente lo fa spesso, soprattutto quando ha paura. La vita è un gioco d'azzardo. Procedendo lungo il corridoio passò accanto alle panche di legno, entrò nell'ampio locale dell'ascensore, girò attorno al pozzo e andò dritto alla parete su cui erano appesi il telefono e l'estintore. Sapeva che per scendere bisognava chiamare l'addetta al montacarichi. «Operatrice...» rispose la solita voce femminile. «Ehilà, forse può darmi una mano», disse Janos portandosi il ricevitore all'orecchio. «Sto cercando degli amici... due, per l'esattezza, ma non so se siano ancora in superficie o se lei li abbia già mandati da basso con la gabbia.» «Dal livello rampa ho mandato giù un tipo, ma mi è parso che fosse solo.» «Ne è sicura? Perché io invece credo che fossero in due...» «Tesoro, io non faccio altro che mandare su e giù la gabbia. Forse la seconda persona è salita a un altro livello.» Janos guardò in su nella tromba dell'ascensore, cercando di vedere qualcosa del piano che si apriva direttamente sopra la sua testa. In effetti era da lì che la maggior parte degli estranei prendeva l'ascensore... ma con ogni probabilità Harris e Viv avevano cercato di passare inosservati, e in questo caso dovevano essere passati dal tunnel. «È sicuro che il suo amico non sia andato giù da solo?» disse ancora l'operatrice. Proprio mentre stava per risponderle, Janos si bloccò. La sua prima moglie lo chiamava intuito: per la sua seconda moglie invece era l'istinto del leone. Avevano torto entrambe. Lui era sempre stato un tipo cerebrale: non basta seguire la preda, bisogna pensare come lei. Harris e Viv si sentivano in trappola, quindi avevano bisogno di una rete di sicurezza... e l'avevano cercata dappertutto... Janos girò attorno al pozzo dell'ascensore afferrandosi con la mano al bordo della breve parete e raggiunse il lato opposto del locale dove, su un pannello di legno, erano fissati cinquantadue ganci. C'erano solo due piastrine: la 15 e la 27. Due. Harris e Viv erano ancora insieme.
Janos sfilò le due piastrine dai ganci e le tenne sul palmo aperto della mano. Tutti giocano d'azzardo, pensò ancora, ma si può anche perdere, prima o poi. 49. «Pensi che si siano accorti che siamo qui?» mi fa Viv spegnendo la lampada del casco. Mi guardo attorno, scrutando ogni angolo del laboratorio. Gli interruttori sono al loro posto, fissati con cura alla parete, ma ci sono cavi scoperti un po' dappertutto: pare che le telecamere di sorveglianza non siano ancora arrivate. «No, non credo.» Come ho già detto, però, Viv non è più disposta a credermi sulla parola. «Ehi! C'è nessuno?» grida. Silenzio. Avanziamo di qualche passo. Sul pavimento bianco, altrimenti immacolato, c'è una scia di impronte fangose che piega verso l'angolo in fondo a sinistra e si inoltra in un corridoio. La seguiamo. «Mi sembrava di aver capito che Matthew avesse autorizzato la vendita della miniera solo qualche giorno fa», dice Viv mentre ci avviamo in quella direzione. «Come hanno fatto ad allestire questo posto in così poco tempo?» «La richiesta era già stata inoltrata l'anno scorso, immagino considerassero la cessione della proprietà un fatto puramente formale. In questo posto dimenticato da Dio, avranno pensato, nessuno se la prenderà a male se i lavori cominciano prima della vendita effettiva.» «Tu credi? Quando hai detto che avevi parlato con il sindaco mi è parso... Credevo mi avessi detto che mugugnava.» «Mugugnava?» «Sì, insomma che era arrabbiato», mi spiega. «Hai detto che era arrabbiato per qualcosa.» «No, non proprio arrabbiato. Gli aveva dato fastidio di non essere stato nemmeno consultato; ma probabilmente gli altri l'hanno convinto che la Wendell farà resuscitare la città. E anche se quella gente non è certo in grado di cogliere la portata di ciò che sta avvenendo quaggiù, in senso tecnico la Wendell non sta facendo niente di illegale.» «Forse...» fa lei. «Ma tutto dipende da cosa stanno costruendo.»
Nel frattempo abbiamo raggiunto il corridoio. Lo imbocchiamo, e subito vediamo che sulla destra si apre una stanza con dentro una grande lavagna cancellabile, uno schedario a cassetti, un mobiletto di formica e una scrivania di metallo, nuovissima. Il tutto ha un'aria stranamente familiare. «Che c'è?» domanda Viv. «Non ti sembra di averla già vista da qualche parte, questa scrivania?» Lei l'osserva con più attenzione. «Non saprei... mi sembra una normalissima scrivania.» «Certo, una scrivania assolutamente comune.» «Si può sapere cosa intendi dire?» «Che sembra la fotocopia di un ufficio governativo. Da noi, tutti gli assistenti legali hanno una scrivania come questa. Ti dico che questo è materiale del governo.» «Non essere paranoico, Harris: almeno metà degli uffici d'America hanno scrivanie di questo tipo.» «È materiale del governo, ne sono sicuro», insisto. Viv osserva di nuovo il tavolo. Il suo silenzio mi dà ragione. «Time out... aspetta un po'... sei forse arrivato alla conclusione che è stato il governo ad allestire questo laboratorio?» «Ma Viv, apri gli occhi! La Wendell dichiara di volere la miniera per via dell'oro, e noi sappiamo che di oro non ce n'è. Poi dicono di volersi occupare di estrazioni minerarie, e qui non c'è nemmeno l'ombra di un macchinario adatto alle estrazioni minerarie. Infine dicono di essere una piccola impresa del Sud Dakota, e quaggiù stanno allestendo una specie di Batcaverna. È tutto qui, ce l'abbiamo sotto gli occhi.» «Con ciò non possiamo ancora dire che dietro la facciata della Wendell si nasconda il governo.» «Non ho detto questo», ribatto, tornando in corridoio. «Ma non possiamo far finta di non vedere tutto questo equipaggiamento: i tavoli da laboratorio, i server da quarantamila dollari, per non parlare dei soldi che ci sono voluti per allestire uno spazio sano e pulito a 2500 metri sottoterra... Questi non sono tipi da inginocchiarsi nel fango per vagliare la sabbia con un setaccio. Chiunque ci sia dietro la Wendell Mining, evidentemente punta a qualcosa di più grosso di qualche nocciolina d'oro, le quali, nel caso te lo fossi dimenticato...» «...sono finite già da un pezzo. Fin qui ci sono.» Viv cammina dietro di me lungo il corridoio. «Allora cosa pensi che stiano cercando?» «Non devono per forza cercare qualcosa. Guardati attorno! Hanno già
tutto quello che gli serve.» Così dicendo indico le pile di casse e scatoloni allineate lungo entrambe le pareti del corridoio. Ci sono anche dei grossi contenitori che sembrano serbatoi di elio per uso industriale, alti fino al mento di un uomo e con delle grosse scritte rosse che dicono MERCURIO, oppure TETRACLOROETILENE. «Pensi che stiano costruendo qualcosa?» fa Viv. «Forse: o magari vogliono solo fare un figurone alla prossima fiera della scienza.» «Qualche ipotesi?» Mi avvicino agli scatoloni. Ce ne saranno almeno duecento, e tutti contrassegnati da una piccola etichetta con un codice a barre. Ne strappo una per guardarla meglio: sotto il codice a barre c'è una scritta in maiuscoletto: FOTOMOLTIPLICATORE. Ma quando apro uno scatolone per vedere cosa diavolo siano questi fotomoltiplicatori, lo trovo vuoto. Do un calcio al successivo, giusto per verificare. Sono tutti vuoti. «Harris, credo che faremmo meglio ad andarcene...» «Non ancora», faccio io, rimettendomi in cammino. Qualche passo più avanti le impronte fangose si interrompono, ma il corridoio prosegue svoltando a sinistra con una curva tondeggiante. Cammino rapidamente fra le due pareti di scatoloni vuoti che hanno contenuto i misteriosi fotomoltiplicatori. Una trentina di metri oltre la curva il corridoio è sbarrato da una porta di metallo a un solo battente, massiccia e pesante come quella del caveau di una banca e chiusa con un chiavistello. Lì accanto c'è uno scanner biometrico per rilevare l'impronta della mano, ma dai cavi scoperti che penzolano fuori deduco che non è ancora in funzione. Mi avvicino alla porta e tiro con forza il chiavistello. Si apre con un pop: lo stipite è ricoperto di gomma nera, per garantirne la tenuta stagna. Al di là della porta, perpendicolare rispetto al corridoio, c'è un locale lungo e stretto come una pista da bowling, che sembra proseguire all'infinito. Al centro, su un tavolo da laboratorio, tre scatole rosse piene di fili elettrici. Qualunque cosa sia, pare non abbiano ancora finito di montarla. Più oltre, sulla destra, c'è una specie di scultura metallica alta tre metri: sembra una gigantesca O. Un cartello dice: ATTENZIONE, PERICOLO - NON AVVICINARSI QUANDO IL MAGNETE È IN FUNZIONE. «A cosa può servire un magnete così grande?» fa Viv. «E a cosa può servire questo tunnel?» domando a mia volta, indicandole un tubo metallico che corre per tutta la lunghezza del locale fin oltre il magnete.
In cerca di risposte, provo a leggere cosa c'è scritto sugli scatoloni ammucchiati tutt'attorno. Altre etichette con la scritta LABORATORIO. In un angolo c'è un cassone con su scritto TUNGSTENO. Niente di particolarmente chiarificatore, ma a questo punto scopro che sull'altro lato dello stretto corridoio c'è una porta. Ma non una porta qualsiasi, è alta e ovale, e fa pensare al portello di un sottomarino. E lì accanto c'è un secondo scanner biometrico, in apparenza ancora più complesso dell'altro: al posto del riquadro di vetro sul quale si dovrebbe appoggiare la mano, questo ha una specie di scatola rettangolare piena di gelatina. Ne ho sentito parlare: si mette la mano nella gelatina e la macchina misura il contorno del palmo. Miracoli dei nuovi impianti di sicurezza. E ancora cavi elettrici dappertutto. Mi avvicino, tallonato da Viv, che mi afferra la manica per trattenermi. La sua presa è forte. «Che c'è?» le domando. «Pensavo fossi in grado di comportarti da adulto. Perché non rifletti, prima di agire? E se dietro quella porta ci fosse qualcosa di pericoloso?» «Viv, siamo due chilometri e mezzo sottoterra, come potrebbe essere più pericoloso di così?» Mi osserva, come uno studente dell'ultimo anno che misura un supplente al primo incarico. Quando arrivai a Washington avevo anch'io quell'espressione, e ce l'avevo tutti i santi giorni. Ma vederla negli occhi di Viv... erano anni che non mi capitava. «Diamo almeno un'occhiata in giro», mi fa. «Potrebbe esserci del materiale radioattivo o roba del genere.» «Senza nemmeno un cartello che dica ATTENZIONE? Anche se tutta la baracca è ancora in allestimento, non credo proprio che siano tanto stupidi.» «Ma tu hai capito cosa stanno costruendo?» È la seconda volta che me lo chiede. E per la seconda volta ignoro la domanda. Non sono sicuro che voglia sentire la risposta. «Pensi che sia qualcosa di male, vero?» mi fa. Mi libero con uno strattone dalla sua presa e raggiungo la porta. «Ma potrebbe essere qualsiasi cosa, no? Voglio dire, non ha l'aspetto di un reattore nucleare, giusto?» domanda. Non mi fermo. «Tu pensi che stiano costruendo un'arma, non è così?» mi grida. Adesso sì che mi blocco. «Viv, per quanto ne so potrebbe essere qualsiasi cosa, dalla nanotecnologia alla resurrezione dei dinosauri. Ma Matthew
e Pasternak sono morti per questo, e adesso vogliono anche la nostra testa. Decidi tu: puoi aspettarmi qui o entrare insieme a me, qualsiasi cosa sceglierai, la mia stima per te non ne sarà diminuita. Ma a meno che tu non voglia vivere il resto dei tuoi giorni su un'auto in fuga, devo assolutamente portare il culo oltre quella porta e scoprire cosa diavolo c'è dietro.» Quindi mi volto verso il portello da sottomarino, afferro la maniglia e la giro. Ruota facilmente, quasi l'avessero appena oliata. Il meccanismo finisce di girare con uno schiocco: la porta ruota sui cardini e si apre verso di me. Viv è sempre qui, sento che mi sta seguendo. Mi volto un attimo a guardarla: non scherza, non mi fa una delle sue battute pungenti, non dice niente. È lì e basta. Per aprire devo tirare la porta con entrambe le mani. Ecco, ci siamo. Un nuovo odore ci investe, acido e pungente, che brucia le narici. «Oddio», fa Viv, «ma cos'è? Ha lo stesso odore di una...» «...lavanderia a secco», concludo la sua frase, e lei annuisce. «È questo che c'era in quei contenitori? Detersivo per il lavaggio a secco?» Oltre la porta ovale cominciamo a guardarci attorno, in cerca di risposte come sempre. Il locale è ancora più immacolato di quello che ci siamo lasciati alle spalle. Impossibile trovare anche una sola molecola di sporco. Ma non è la perfetta pulizia ad attirare la mia attenzione. Dritto davanti a noi c'è un enorme cratere, del diametro di circa quarantacinque metri, scavato nella viva roccia. Nel cratere è stata inserita una semisfera di metallo che sembra la parte inferiore di una mongolfiera tagliata in due. L'effetto è quello di una piscina tonda e senz'acqua: con le pareti foderate da migliaia di lenti ottiche allineate una vicino all'altra, come occhi puntati verso il centro. È come se cinquemila telescopi fossero stati perfettamente allineati a comporre un'unica superficie di vetro all'interno del cratere. Al centro del soffitto, una dozzina di cavi d'acciaio regge l'altra metà della sfera, anch'essa foderata internamente di lenti. Quando le due metà si congiungeranno, si formerà una camera perfettamente sferica: ma per ora la parte superiore è sospesa a mezz'aria, in attesa di essere calata al suo posto. «Ma che diavolo?...» dice Viv. «Non ne ho la più pallida idea. Ma immagino che quelli siano i fotomoltiplicatori...» «Che accidenti state facendo voi due?» grida improvvisamente una voce proveniente dal lato sinistro della stanza. Ha un suono gracchiante, quasi fosse amplificata da un megafono.
Mi volto, ma ciò che vedo mi fa quasi cadere a terra dallo spavento. «Dio mio...» mormora Viv. L'uomo che si sta avvicinando di corsa indossa una tuta arancione di materiale ignoto, completa di casco in plexiglass e maschera antigas incorporata. E se lui ha ritenuto di doversela mettere... «Oh oh... Credo proprio che siamo nei guai», mormora Viv. 50. «Ma vi rendete conto di quello che avete fatto?» grida ancora l'uomo con la tuta di protezione, avanzando verso di noi. Vorrei mettermi a correre, ma ho le gambe rigide come pezzi di legno. Non riesco a credere di aver trascinato Viv e me stesso in una situazione del genere, anche una quantità minima di radiazioni potrebbe... L'uomo si passa una mano dietro la nuca, strappa rabbiosamente il casco e lo scaglia in terra. «In questo locale dovrebbe esserci una sterilità assoluta, riuscite a immaginare quanto tempo e quanti soldi ci avete appena fatto buttare via?» grida. Dall'accento direi che viene dall'Europa orientale. Non capisco. L'uomo ha gli occhi scuri, un po' incavati, i baffi neri e occhiali con la montatura di metallo argentato. Ed è molto più magro di quanto sembrasse con il casco in testa. «Allora non ci sono radiazioni?» domanda Viv. «Come avete fatto ad arrivare fin qui?» ribatte subito l'uomo. E intanto scruta i nostri vestiti, ignorando il giubbetto arancione: pantaloni con la piega e camicia. «E non siete nemmeno minatori, vero?» Alla parete c'è un interfono con accanto un bottone rosso: l'uomo fa qualche passo in quella direzione. Penso di saper riconoscere un allarme quando lo vedo. «Harris...» Capisco al volo cosa vuole dirmi. L'uomo coi baffi si tuffa per dare l'allarme, ma io lo afferro per un polso e lo tiro indietro. È più forte di quanto pensassi. Sfruttando il mio stesso peso, mi fa girare e cadere sul pavimento di cemento. Sbatto la testa: ho il casco, è vero, ma il colpo è così forte da farmi vedere le stelle. Subito, sperando di togliermi definitivamente la voglia di fare a pugni, l'uomo ci aggiunge un bel cazzotto allo stomaco. È evidente che non mi conosce. Lui ha la testa scoperta: io invece porto un casco infrangibile da minatore. Lo blocco per le spalle e gli do una testata, cercando di metterci tutto il peso del corpo. Il bordo del casco gli taglia la faccia sopra l'attaccatura del
naso. Barcolla all'indietro, e io ne approfitto per voltarmi a controllare che Viv stia bene. Mi sta fissando con sguardo vuoto. Non sa più cosa fare. «Va' via di qui!» le grido. «Questa me la paghi!» ruggisce intanto l'uomo coi baffi. Gli afferro una spalla e mi preparo a colpirlo di nuovo. Lui si divincola, e mi costringe ad aprire la mano conficcandomi le dita nel polso. Quindi scatta in direzione di Viv, ma prima che possa raggiungerla l'acchiappo di nuovo per la parte posteriore della tuta e me lo tiro addosso. Non è stato lui a uccidere Matthew e Pasternak, ma per il momento è l'unico punching ball che ho sottomano. L'uomo barcolla, perde l'equilibrio, e io ne approfitto per dargli uno spintone, proprio verso il cratere. «No!...» grida lui. «Si romperanno...» Cade oltre il bordo della vasca, atterra su una mezza dozzina di fotomoltiplicatori e scivola nella semisfera con la faccia in avanti, rompendo tutte le lenti su cui passa e pattinando come una slitta umana. Quando raggiunge il fondo del cratere, si è lasciato alle spalle una scia di vetri infranti. Le lenti si rompono subito, senza rallentare la sua caduta... e in fondo alla semisfera c'è un pilastro centrale di metallo. L'uomo alza gli occhi proprio all'ultimo momento, e capisce che ci sbatterà contro. Fa un disperato tentativo di schivarlo e lo colpisce con la clavicola. Si sente un piccolo rumore ovattato: osso contro metallo. Dopo la collusione il corpo dell'uomo si accartoccia goffamente attorno al pilastro e non si muove più. Resta là, a faccia in giù, svenuto in fondo alla sfera. «È ora di tagliare la corda!» esclama Viv tirandomi per la manica della giacca verso l'uscita. Do un'occhiata al resto del locale. Al di là della sfera ci sono altri due portelli da sottomarino, chiusi. «Avanti, Harris!» mi supplica, indicando col mento l'uomo in fondo alla sfera. «Quando quello tornerà in sé strillerà così forte che lo sentiranno fin sulla luna! Dobbiamo andare, e subito!» So che ha ragione. Giro sui tacchi e in pochi passi raggiungiamo la porta da cui siamo venuti. Cominciamo a correre attraverso il laboratorio, ripassando davanti ai bidoni di mercurio e di tetracloroetilene, ai tavoli da laboratorio, ai server. Ed è solo allora che, proprio dietro ai computer, noto un piccolo scaffale con dei raccoglitori ad anelli e delle tavolette porta-notes. Quando siamo entrati erano nascosti dal resto del materiale, e non li abbiamo visti.
«Harris...» «Solo un secondo...» Spingo via uno scatolone e controllo rapidamente i raccoglitori. Sono tutti vuoti: cioè, tutti tranne uno. Sul primo ripiano ce n'è uno, nero, con un'etichetta a caratteri di stampa che dice: PROGETTO MIDA. Lo prendo e do un'occhiata alla prima pagina. È pieno di numeri e di date che per me non hanno alcun significato, ma nell'angolo in alto a destra c'è scritto ARRIVI/NEUTRINO. Sfoglio le altre pagine, e su tutte ritrovo le stesse parole: Neutrino. Neutrino. Neutrino. Non ho la più pallida idea di cosa sia un neutrino, ma non ci vuole una laurea in fisica per capire almeno l'ambito delle attività. «Harris, andiamo!...» Chiudo il raccoglitore, me lo ficco sotto il braccio e seguo Viv. Quando arriviamo alla prima delle due porte ad aria le passo il raccoglitore e afferro l'estintore appoggiato in un angolo: se là fuori, nella miniera, dovesse esserci qualcuno appostato in attesa, è meglio avere un'arma. Viv preme il bottone nero e aspettiamo di sentire il fischio idraulico. Non appena la porta comincia ad aprirsi scivoliamo dentro e Viv preme di nuovo il bottone. «Accendi la lampada del casco», le dico. Lei preme l'interruttore e la luce si accende. Dietro di noi le porte del laboratorio si chiudono con un rumore secco, ma le altre due porte, quelle che immettono nella miniera, non si muovono. Siamo in trappola. Aspettiamo ancora un secondo. «Perché non si...» Ed ecco che, con un nuovo fischio assordante, le seconde porte cominciano ad aprirsi. «Pensi che ci sia qualcuno, là fuori?» fa lei. Strappo la linguetta di sicurezza dall'estintore. «Tra un secondo lo scopriremo.» Quando finalmente le porte hanno finito di aprirsi, possiamo guardare nella profonda oscurità della galleria: è assolutamente deserta. Ma presto non sarà più così: qualcuno troverà l'uomo coi baffi in fondo alla semisfera, e allora tutti gli allarmi del mondo si metteranno a suonare. Bisogna sbrigarsi. «Andiamo...» grido a Viv, buttandomi a capofitto nella galleria. «Dove?» «Alla gabbia. Se riusciamo a tornare in superficie siamo salvi.»
51. In piedi davanti al vano dell'ascensore, Janos strinse un po' gli occhi. Stava fissando il cavo d'acciaio, in attesa di vederlo vibrare. «Hai parlato con il tuo uomo?» disse al cellulare. «È da stamattina presto che ci sto provando, ma non risponde», rispose Sauls. «Bene, ma allora non prendertela con me se poi le cose non vanno come avevi previsto», disse Janos. «Avresti dovuto coinvolgere la sicurezza quando ti ho detto che stavano venendo qui.» «Te l'ho già detto almeno sedici volte: la gente di lì sarà anche contenta di tornare al lavoro, ma non sa niente della reale portata di quest'affare. E se i poliziotti vanno a ficcare il naso laggiù, noi possiamo anche ficcarci un microscopio nel culo. Credimi, più a lungo crederanno che sia solo un normale laboratorio di ricerca, meglio sarà per tutti.» «Mi spiace deluderti, ma è proprio un normale laboratorio di ricerca.» «Sai cosa intendevo dire», ribatté Sauls. «Questo non significa che tu debba mettere tutto a repentaglio per...» «Chi sei tu per insegnarmi come devo condurre le mie operazioni? Tu sei stato assunto soltanto per...» «Tu mi hai assunto perché due anni fa un piccolo, gretto mercante di seta di Taiwan con una crosta di Andy Warhol ha dimostrato di intendersene d'arte molto più di quanto ti saresti aspettato. Ma la cosa incredibile è che, subito dopo aver chiamato l'ispettore per chiederti conto di quella pessima copia di Pissarro - che fra l'altro non aveva proprio nulla della sensualità dell'originale, quel miserevole insetto è riuscito a dileguarsi senza lasciare tracce. Bella coincidenza, eh?» fece Janos. «Esatto», rispose Sauls, calmo. «E tanto per mettere le cose in chiaro, quel Pissarro era l'originale, la copia è quella che sta al museo. Ma né tu né il signor Lin siete abbastanza intelligenti da prendere in considerazione questa eventualità, dico bene?» Janos non rispose. «Adesso fa' il tuo lavoro», ordinò Sauls. «Capito? Sbrigati a ripulire la miniera. Una volta che tutti i sistemi saranno installati e che ci saremo liberati di quei due idioti, il posto dovrà essere sigillato come il buco del culo di una mosca. E quanto a chiamare la sicurezza, sai cosa ti dico? L'ho già fatto: la sicurezza sei tu. Ora vedi di risolvere il problema e piantala di
farmi la paternale. Hai trovato la loro auto, poi le loro piastrine, adesso non devi far altro che aspettarli all'uscita dalla miniera.» Janos udì lo scatto che metteva fine alla conversazione e ricominciò a fissare il vano dell'ascensore. Era fortemente tentato di chiamare l'operatrice e scendere nella galleria, ma sapeva che se l'avesse fatto, e Harris e Viv fossero scesi a un qualunque livello intermedio, li avrebbe persi. Per il momento, Sauls aveva ragione. Ciò che è sceso prima o poi deve risalire. Non rimaneva che aspettare. 52. Il cancello di sicurezza arrugginito emette un gemito acuto quando lo tiro giù dal soffitto fino al pavimento della gabbia. Le rotelle metalliche scivolano rumorosamente nella guida. Finalmente siamo nell'ascensore che dal livello 2450 ci riporterà in superficie. Ancora una volta cerco di non far caso al ruscelletto d'acqua che gocciola dal soffitto fin dentro all'interfono. «Gabbia ferma», annuncio, premendo il solito bottone coperto di viscidume. «Ho finito, mi riporti all'uno-tre.» «Uno-tre», ripete l'operatrice: è il codice del livello da cui siamo partiti. «Gabbia in salita», dico io. «Gabbia in salita», ripete lei. Sotto di noi si produce un forte rumore: il cavo d'acciaio si tende, la gabbia comincia a muoversi verso l'alto, accelera, e mentre veniamo proiettati verso la superficie sento i testicoli scendermi fino alle ginocchia. Nell'angolo opposto della gabbia, Viv tiene gli occhi e la bocca ermeticamente chiusi. Ha già perso il controllo una volta e non vuole che accada di nuovo. La gabbia urta selvaggiamente le pareti di legno del pozzo, e ogni volta una cascatella d'acqua un po' più consistente tamburella sui nostri caschi. Lottando per tenersi in equilibrio, Viv si appoggia con espressione schifata alla parete sporca e unta della gabbia: è come fare il surf su una scala mobile. Non ho avuto nemmeno il tempo di riprendere fiato, ma ci sono cose che non possono aspettare. Apro il raccoglitore intitolato Progetto Mida. «Puoi illuminare qui, per favore?» grido a Viv, sperando anche di distrarla dalla corsa dell'ascensore. La nostra unica fonte di luce è ancora quella avvitata sul suo casco, ma punta su un settore imprecisato del pavimento. Finché non saremo fuori di qui, per lei questa scatola metallica non è soltanto una bara semovente e
sgocciolante: è una vera e propria montagna. Una vetta da conquistare. L'unica cosa positiva è che, mentre veniamo sparati a velocità pazzesca verso la superficie, la strada che abbiamo ancora da percorrere si accorcia sempre di più. I valori dell'ossigeno crescono regolarmente: 20,5... 20,7... Fra un minuto ci sarà l'aria aperta, la libertà. 53. Nell'istante preciso in cui il cavo d'acciaio cominciò a vibrare, Janos raggiunse con un balzo il telefono appeso alla parete. «Operatrice...» rispose la voce femminile. «Le spiace assicurarsi che la gabbia che sta salendo si fermi solo qui, alla rampa?» le disse Janos leggendo sulla tabella il nome del suo livello. «Certo, ma perché...» «Ascolti, è un'emergenza, lei si limiti a far risalire la gabbia il più in fretta possibile.» «Va tutto bene?» «Non ha sentito quel che le ho...» «Okay... alla rampa.» Janos si abbottonò il giubbotto e rimase a fissare l'acqua che gocciolava nel pozzo, mentre un soffio di vento freddo proveniente dalle profondità della terra lo investiva in piena faccia. Poi infilò le mani in tasca, tastò la scatoletta nera e ne fece scattare l'interruttore. Il rombo della gabbia, ormai vicina, coprì il ronzio elettrico dell'apparecchio. Dietro di lui le panche di legno cominciarono a vibrare. Un po' più in là, nel tunnel, i tubi al neon sfarfallarono. Il treno stava per arrivare, veloce come una schioppettata, e dal rumore assordante doveva essere ormai vicino. Con un ultimo sibilo, il tetto dell'ascensore emerse dall'abisso. Janos si tuffò sul catenaccio del cancello giallo. Non gli avrebbe dato nemmeno il tempo di riprendere fiato, voleva bloccarli entrambi nell'ascensore. Aprì il cancello con un violento strattone. Uno spruzzo d'acqua gelata gli innaffiò la faccia. Non appena il cancello arrivò a fine corsa, la mascella gli si contrasse e lui strinse forte i denti. «Maledetti figli di puttana...» Nell'ascensore, fili di perle d'acqua sotterranea gocciolavano dal soffitto scorrendo lungo le pareti sporche di grasso. Ma a parte questo, la gabbia
era completamente vuota. 54. «Adesso corri... corri!» grido a Viv spingendo con forza il cancello dell'ascensore e scattando attraverso l'ampio locale. La targa appesa al muro dice LIVELLO 1-3, lo stesso da cui siamo partiti per la nostra gita nel sottosuolo. L'unica differenza è che per risalire abbiamo usato un altro pozzo. Trovarlo non è stato difficile: è bastato seguire le indicazioni scritte con lo spray sulla roccia che dicevano ASCENSORE, e 2500 metri dopo ci ritroviamo in superficie. «Ancora non capisco perché abbiamo preso l'altro ascensore», fa Viv, cercando di tenermi dietro. «L'hai già incontrato una volta, Janos, ti interessa un secondo appuntamento?» «Ma come fai a essere sicuro che ci stava aspettando...» «Guarda l'orologio: è quasi mezzogiorno, ha avuto tutto il tempo di raggiungerci. E se davvero è qui da qualche parte, meglio non facilitargli troppo il compito.» Anche qui, come nella miniera, ci sono rotaie metalliche che corrono lungo tutto il pavimento. Nell'ampio locale vedo una dozzina di vagoncini vuoti, due infangatissime scavatrici, un piccolo sciame di fuoristrada monoposto a tre ruote e alcuni vagoncini rossi. L'aria è carica di vapori di benzina: dev'essere la rimessa dei veicoli della miniera. Ma in questo momento a noi interessa solo la porta d'uscita. Zigzagando fra i vagoncini andiamo verso la grande saracinesca che si intravede sulla parete di fondo, ma a metà strada mi accorgo che è chiusa con catenaccio e lucchetto. «Chiusa!» grido a Viv, che mi segue a qualche passo di distanza. Mi guardo attorno: pare non ci siano altre vie d'uscita, nemmeno una finestra. «Là!» grida Viv indicando un punto alla sua destra, dietro i vagoncini rossi. La seguo. Si sta dirigendo verso una piccola porta di legno che sembra quella di un gabinetto. «Sei sicura?» Non si prende nemmeno la briga di rispondere. A un certo punto riesco a vedere anch'io che cosa l'ha eccitata tanto: non la porticina di legno in sé, quanto la lama di luce che si affaccia da sotto il
battente. Dopo essere stati tanto tempo sottoterra, è emozionante rivedere la luce del sole. Viv spalanca la porticina. Io la seguo da presso. È come uscire dall'oscurità di un cinema in una giornata d'estate. Il fulgore del sole mi brucia gli occhi, ma è la cosa più piacevole che si possa immaginare. Il mondo intero risplende davanti a me nei morbidi colori dell'autunno - le foglie gialle e rosse... il cielo azzurro - ogni cosa sembra illuminata da dentro, dopo tanto fango marrone. Perfino l'aria non ha niente a che vedere con la roba riciclata che abbiamo respirato nelle gallerie della miniera: mentre mi avvio lungo il sentierino di terra battuta mi riempio i polmoni del profumo dei pruni selvatici. «E il decimo giorno Dio creò lo zucchero filato», canticchia Viv annusando l'aria, e si guarda attorno come per impadronirsi di tutto lo splendore del mondo. Ma subito la prendo per la mano. «Non c'è tempo per guardare il panorama», le dico, tirandomela dietro lungo il sentiero. «Dobbiamo andarcene subito da qui.» Alla nostra sinistra, tra gli alberi, la sagoma triangolare dell'edificio principale della miniera si ritaglia contro lo sfondo azzurro del cielo. È a circa duecento metri da dove ci troviamo noi. Mi oriento rapidamente: a quanto pare ci troviamo dalla parte opposta rispetto al parcheggio dove abbiamo lasciato l'auto. Improvvisamente una sirena acutissima trafigge l'aria. Seguo il suono con gli occhi: viene da un megafono appeso all'edificio metallico a forma di teepee. Qualcuno ha finalmente dato l'allarme. «No, senza correre», mi fa Viv, rallentando ancora di più il passo. Ha ragione. Sui gradini di una roulotte un uomo massiccio, con la tuta da lavoro e i capelli tagliati a spazzola, sta guardando verso di noi. Facciamo finta di passeggiare godendoci la bella giornata, e gli rivolgiamo un cordiale cenno di saluto portandoci la mano al casco. Lui risponde con un cenno analogo. Certo, noi non portiamo la tuta da lavoro, ma i nostri giubbetti arancioni sono almeno una parte del travestimento. Una mezza dozzina d'uomini sta già correndo verso l'entrata principale della miniera. Noi invece, seguendo il sentiero che gira attorno alle roulotte, andiamo nella direzione opposta, verso il parcheggio. Con una rapida occhiata mi assicuro che tutto sia come l'abbiamo lasciato: una fila di vecchi pickup infangati, due Harley classiche, e... un momento! Effettivamente c'è un elemento nuovo. Una Ford Explorer nuova, pulita e lucidata.
«Aspetta un secondo», faccio a Viv, che si è già infilata nella nostra Suburban. «Cosa vuoi fare?» Non rispondo. Mi avvicino all'auto nuova e guardo dentro al finestrino. Sul sedile del passeggero c'è una cartina stradale con il logo della Hertz. «Forza, Harris: andiamo! L'allarme!...» «Solo un minuto», le dico. «Voglio fare una cosa...» 55. «Operatrice...» rispose la voce femminile. «Non le avevo detto di far fermare la gabbia soltanto qui?!» gridò Janos nel ricevitore. «I-io... è quello che ho fatto.» «Ne è sicura? Non si è fermata a nessun altro livello?» «No... no», ripeté la donna. «La gabbia era vuota: perché avrebbe dovuto fermarsi?» «E se era vuota, perché diamine stava salendo?» ruggì Janos, girando gli occhi sul locale dell'ascensore. «P-perché... perché mi è stato chiesto di farlo. Quell'uomo ha detto che era importante.» «Che diavolo sta dicendo?» «Quell'uomo... mi ha detto di far risalire entrambe le gabbie...» A quelle parole Janos strinse forte gli occhi. Come aveva fatto a non pensarci? «Ci sono due gabbie?» «Certo, una per ogni pozzo. Ce ne sono sempre almeno due, è una norma di sicurezza. E quell'uomo mi ha detto che aveva del materiale da spostare da una gabbia all'altra...» Janos strinse la mano attorno al ricevitore: «Quell'uomo chi?» «Mike... ha detto di chiamarsi Mike», spiegò la donna. «È uno della Wendell.» Con la mascella contratta, Janos si voltò per guardare nel tunnel che portava fuori dalla miniera. I suoi occhi sospettosi non battevano nemmeno le palpebre. «Mi dispiace», disse l'operatrice. «Pensavo che, trattandosi di uno della Wendell, io fossi tenuta a...» Janos sbatté violentemente il ricevitore sulla forcella e scattò verso la scala. In quel momento una sirena d'allarme cominciò a urlare, riecheg-
giando nel pozzo dell'ascensore. Un attimo dopo Janos era già fuori. Fece gli scalini tre alla volta e si allontanò rapidamente dall'edificio di mattoni rossi, tornando verso il parcheggio. Davanti a lui, sul viale di cemento, c'era l'uomo con la maglietta di Spring Break. E poiché l'allarme continuava a suonare, l'uomo cominciò a fissarlo. «Posso fare qualcosa per lei?» gli chiese, facendogli un cenno con la tavoletta porta-notes. Janos lo ignorò. Allora l'uomo gli andò incontro, cercando di tagliargli la strada. «Scusi signore, le ho fatto una domanda. Non ha sentito quello che...» Furibondo, Janos gli strappò di mano la tavoletta porta-notes e gliela premette forte contro la trachea. L'uomo si piegò in due, portandosi le mani alla gola: ma anche in quel momento Janos continuò a guardare dalla parte del parcheggio, dove la Suburban nera stava facendo retromarcia per andarsene. «Ehi, Shelley!...» gridò un altro minatore correndo in aiuto del compagno aggredito. Janos, con gli occhi fissi sulla Suburban, scattò velocissimo verso il parcheggio, ma quando lo raggiunse l'auto stava ormai uscendo, accompagnata da una sventagliata di ghiaia. Senza farsi prendere dallo sconforto Janos si mise a correre verso la sua Explorer. Harris e Viv avevano solo qualche secondo di vantaggio. Su una strada a due sole corsie li avrebbe raggiunti in un batter d'occhi. Ma quando arrivò alla sua auto e fece per sedersi al volante, dovette abbassarsi più del solito per entrare nell'abitacolo. C'era qualcosa che non andava. Fece un passo indietro e guardò con più attenzione la macchina. Le quattro gomme erano completamente sgonfie. «Dannazione!» gridò Janos, e sferrò un pugno nello specchietto retrovisore mandandolo in frantumi. Improvvisamente alle sue spalle si udì il rumore di molti piedi in corsa sulla ghiaia. «Eccolo, è lui!» gridò una voce. Janos si voltò e vide quattro minatori furibondi che lo incastravano nel ristretto spazio fra due auto. Dietro di loro, sullo sfondo, l'uomo con la maglietta di Spring Break stava ancora cercando di riprendere fiato. I minatori avanzarono con un ghigno. Janos rispose ghignando a sua volta. 56.
Continuando a guardare nello specchietto retrovisore, svolto a destra, imbocco la superstrada e seguo le indicazioni per l'aeroporto di Rapid City. Davanti a noi c'è una Toyota marrone che va un po' troppo lenta. Non ci faccio nemmeno caso: sono ancora preoccupato per ciò che potrebbe accadere alle nostre spalle. Sono passate due ore da quando siamo schizzati via dal parcheggio della miniera, ma finché non saremo sull'aereo e il carrello non si sarà staccato da terra Janos ha ancora una possibilità, e quella possibilità è puntata dritta contro la nostra testa. Suono il clacson con il pugno per comunicare alla Toyota che deve accelerare o farsi da parte. «Avanti, muoviti!» grido. Ma quella non reagisce. Così mi sposto sull'altra carreggiata, premo sull'acceleratore e me la lascio alle spalle. Seduta accanto a me, Viv non ha nemmeno alzato gli occhi: da quando siamo partiti non ha fatto che leggere i documenti sul Progetto Mida. «Allora?...» «Niente», risponde, chiudendo il raccoglitore e controllando la strada nello specchietto esterno. «Duecento pagine di date e numeri a dieci cifre. Di tanto in tanto qualche sigla incomprensibile - JM... VS... qualche SC sembra un normalissimo registro delle consegne.» Viv solleva il raccoglitore per mostrarmelo: distolgo un attimo gli occhi dalla strada per guardarlo. «Con che data comincia?» le domando. Viv rimette giù il raccoglitore e lo apre alla prima pagina. «Circa sei mesi fa: 4 aprile, 7.36 del mattino; collo numero 1015321410», legge dalla bolla di consegna. «Su questo almeno avevi ragione, pare ci stiano lavorando già da un pezzo. Probabilmente per loro l'inserimento a bilancio era una mera formalità.» «Be', ecco... effettivamente, grazie a me e a Matthew, lo è stato.» «Non proprio.» «Ma quasi.» «Harris...» Non sono dell'umore adatto per discutere. Punto il dito sul raccoglitore e domando: «Non c'è una legenda o una matrice per decifrare i codici numerici?» «No. È proprio per questo che li chiamano codici: 1015321410... 1116225727... 1525161210...» «Sono i fotomoltiplicatori», la interrompo.
Viv alza gli occhi dal librone: «Cosa?» «I codici a barre. Nel laboratorio. L'ultimo che hai letto era il codice a barre stampato sugli scatoloni dei fotomoltiplicatori.» «Come fai a ricordartelo?» Tiro fuori dalla tasca l'etichetta che ho strappato da uno degli scatoloni e la sbatto in mezzo al cruscotto. Rimane lì, appiccicata. «Allora, avevo ragione o no?» domando a Viv, che sta già controllando il numero. Annuisce, poi abbassa gli occhi e non dice altro. La mano le scivola nella tasca dei pantaloni, dove si intravede la sagoma rettangolare del suo tesserino di riconoscimento. Lo tira fuori per una frazione di secondo, giusto il tempo di dare un'occhiatina alla foto di sua madre. Io tengo gli occhi incollati alla strada e fingo di non essermi accorto di nulla. Guido oltre l'ingresso principale dell'aeroporto e mi dirigo al terminal dei voli privati, quindi entro nel parcheggio e mi fermo accanto a un enorme hangar blu. La nostra è l'unica auto di tutto il piazzale. Decido di considerarlo un segno positivo. «Allora, hai capito cos'erano quei fotomoltiplicatori e quei bidoni di mercurio e quell'odore di lavanderia a secco?» mi domanda Viv mentre scendiamo dall'auto. Non rispondo. Percorriamo la stuoia distesa sotto un baldacchino rosso e seguiamo le indicazioni. Arriviamo a una sala d'attesa per vip con mobili di quercia, un grande televisore a schermo piatto e un tappeto indiano identico a quello nell'ufficio di Matthew. «Staff del senatore Stevens?» mi interpella una bionda coi capelli corti dal banco della reception. «Sì, siamo noi», le rispondo. E indicando un punto alle mie spalle aggiungo: «Non so dove restituire l'auto...» «A posto così. Ci pensiamo noi, signore.» Bene, una cosa in meno di cui preoccuparsi: ma non ho l'impressione che il peso sulle mie spalle ne sia alleggerito in maniera rilevante. «L'aereo è pronto?» «Avverto subito il pilota che siete qui», dice la donna sollevando un ricevitore. «Sarà una questione di minuti.» Guardo Viv, poi il raccoglitore che ha ancora in mano. Dobbiamo assolutamente scoprire cosa sta succedendo, e da come ho lasciato le cose a Washington c'è almeno un paio di posticini dove vorrei andare per cercare le risposte che mi servono. «Posso usare il telefono?» domando alla donna della reception. «Una linea riservata, possibilmente.»
«Ma certo, signore. Al piano di sopra, sulla destra, c'è la sala riunioni. Faccia pure.» Guardo di nuovo Viv. «Dopo di lei», mi fa, e ci incamminiamo su per le scale. Nella sala riunioni ci sono un tavolo ottagonale e una libreria con incastonato un acquario marino che attira subito l'attenzione di Viv. Io invece mi avvicino alla finestra per tenere d'occhio lo spiazzo davanti all'hangar. È deserto. Per ora. «Non hai risposto alla mia domanda», dice Viv. «Cosa pensi che sia la sfera che abbiamo visto nel laboratorio?» «Non ne ho la più pallida idea. Ma penso che abbia a che fare con i neutrini.» Annuisce, riconoscendo la parola scritta nell'angolo di molte pagine del raccoglitore. «E un neutrino sarebbe...» «Credo sia un qualche tipo di particella subatomica.» «Come i protoni e gli elettroni?» «Penso di sì», rispondo, sempre guardando fuori della finestra. «Ma a parte questo non ne so proprio niente.» «Allora è tutto qui quello che abbiamo scoperto?» «A Washington faremo qualche altra ricerca.» «Ma per quanto ne sappiamo finora potrebbe non essere niente di illegale, giusto? Potrebbe anche essere qualcosa di buono?» Mi giro verso di lei: «No, non credo sia qualcosa di buono.» La mia risposta non le piace. «Come fai a esserne così sicuro?» «Perché, tu invece credi davvero che possa essere qualcosa di buono?» «Non so... magari è una ricerca come tutte le altre, che so, un laboratorio governativo o roba del genere. Forse stanno cercando di trasformare in oro qualche altro materiale. Una cosa che non può fare del male a nessuno, no?» «Trasformare qualcosa in oro?» «Be', il progetto si chiama Mida.» «Credi che sia possibile?» «A me, lo chiedi? Come faccio a saperlo? Tutto è possibile, giusto?» Non rispondo. Negli ultimi due giorni Viv ha imparato mille risposte nuove a questa semplice domanda. Ma vedendola saltellare qua e là, irrequieta, capisco che non si arrenderà tanto facilmente. «Forse il nome allude a qualche altro episodio della storia di re Mida», aggiunge. «Voglio dire, lui aveva trasformato anche sua figlia in una statua d'oro, no? E che al-
tro ha fatto, oltre a darle una splendida dentatura d'oro?» «Lascia perdere la mitologia, credo faremmo meglio a parlarne con qualcuno che mastichi un po' di scienza», la riprendo. «O che perlomeno ci possa spiegare perché qualcuno può voler seppellire un laboratorio per lo studio dei neutrini in un gigantesco buco sotterraneo.» «Sì, forse ci siamo, sento che ci stiamo avvicinando...» «Pensavo di chiamare la National Science Foundation: l'anno scorso, quando si discuteva dei finanziamenti per la clonazione, ci hanno dato una mano con alcune questioncine di alta tecnologia.» «Sì, perfetto. Chiamali subito.» «Lo farò», le dico, sollevando la cornetta del telefono. «Ma prima devo fare un'altra telefonata.» Mentre il telefono squilla, guardo ancora fuori dalla finestra per vedere se l'auto di Janos è arrivata. Siamo ancora soli. «Centro risorse legislative», risponde una voce femminile. «Salve, vorrei parlare con Gary.» «Quale dei due? Qui abbiamo due Gary.» «Non ricordo...» Cerco di ricordarmi il cognome, ma nemmeno io ho una memoria così portentosa. «Quello che registra i moduli dei lobbysti.» Viv annuisce. Se l'aspettava. Se vogliamo scoprire che diavolo sta facendo la Wendell, potrebbe essere interessante sapere chi faceva pressione per conto suo. La settimana scorsa questo Gary mi ha detto di richiamare dopo qualche giorno: ma a questo punto potremmo non avere che qualche ora. «Gary Naftalis», risponde una voce maschile. «Salve Gary, sono Harris, dall'ufficio del senatore Stevens. Mi hai detto di richiamare per quella questione del lobbysta della...» «Wendell Mining», mi interrompe lui. «Sì, ricordo: lei aveva molta fretta. Aspetti che guardo.» Mi mette in attesa, e io lascio galleggiare gli occhi nell'acqua dell'acquario: ci sono alcuni pesciolini neri e uno più grosso, arancione e viola. «Vediamo se indovini quali pesci siamo noi...» mi fa Viv. Prima che abbia il tempo di replicare la porta della sala riunioni si spalanca. Ci voltiamo di scatto. Io inghiotto quasi la lingua. «Scusate... vi ho spaventato», dice un uomo in camicia bianca e berretto da pilota. «Volevo solo dirvi che siamo pronti al decollo.» «Un secondo», gli dice Viv. «Prendetevi pure tutto il tempo che vi serve», fa lui.
Molto gentile da parte sua. Purtroppo però il tempo è proprio la nostra risorsa più scarsa. Do un'altra occhiata fuori della finestra: siamo già stati qui anche troppo. Sto per riagganciare quando sento l'ormai familiare voce di Gary. «Oggi dev'essere il suo giorno fortunato», dice. «L'ha trovato?» Viv si blocca, voltandosi dalla mia parte. «Sì, ce l'ho qui sotto gli occhi», fa Gary. «Dev'essere stato appena registrato.» «E cosa dice?» «Wendell Mining Corporation...» «Solo il nome del lobbysta, per favore», lo interrompo. «Sto controllando...» fa lui. «Okay... secondo la documentazione che abbiamo, a partire da febbraio dell'anno scorso la Wendell Mining ha lavorato con una ditta di nome Pasternak e associati.» «Scusi?» «E il lobbysta che si è registrato per loro... diavolo, questo nome sembra saltare fuori continuamente, negli ultimi tempi...» Sento un bruciore allo stomaco quando le sue parole mi arrivano all'orecchio: «Mai sentito parlare di un certo Barry Holcomb?» 57. «E adesso, tutti quanti un bel sorriso!» disse il deputato Cordell sfoderando lui stesso il suo sperimentato sorriso e allungando le braccia sulle spalle dei ragazzini delle medie che gli facevano ala ai due lati della scrivania. Un sorriso che aveva messo a punto nei primi sei mesi della sua carriera politica: e chiunque osi negare che anche questa è una forma d'arte non sa nulla dell'importanza di presentarsi bene davanti al flash di una macchina fotografica. Un sorriso troppo ampio, e sei un idiota; troppo stretto, e sei un arrogante. Certo, un sorriso che non mostra i denti è perfetto per i dibattiti politici e le serate eleganti: ma se è l'unico che hai non potrai toccare il cuore delle mamme americane che accompagnano i bambini in piscina. Quel genere di target richiede l'esibizione dello smalto dentale. In fin dei conti è una questione di misura: ci vuole qualcosa di più entusiastico di un sorrisetto, ma se si vede il chewingum significa che hai esagerato. Glielo aveva insegnato il suo primo capo dello staff: nessun presidente degli Stati Uniti ha mai avuto un sorriso a trentadue denti. «Al mio tre dite: Cordell for President!» scherzò il deputato.
«Cordell for President!» gridarono i trentacinque ragazzini. Quando i flash ebbero finito di scattare tutti gli alunni gonfiarono leggermente il petto, ma nessuno quanto il deputato Cordell: un altro sorriso perfetto. «Grazie davvero per ciò che ha fatto per noi, non sa quanto sia importante per i ragazzi!» disse la signora Spicer, l'insegnante, stringendo fra le sue la mano del deputato. Come tutte le professoresse di educazione civica delle scuole medie americane, considerava quella visita il culmine dell'intero anno scolastico. Un incontro privato fra la classe e un membro del Congresso: cosa può esserci di più indicato per rendere in maniera vivida il concetto di governo? «Dove si comprano le magliette?» domandò un ragazzino mentre la classe si avviava alla porta. «Ve ne andate di già?» fece Cordell. «Non potete fermarvi ancora un po'?» «Le abbiamo già dato tanto disturbo...» rispose, gentile, la signora Spicer. «Disturbo? Per chi crede che stiamo lavorando, qui dentro?» le sorrise Cordell. E si rivolse a Dinah, che si accingeva a tornare nel suo ufficio: «Crede che potremmo rimandare la riunione delle 10.30?» Dinah scrollò la testa. Sapeva perfettamente che Cordell non diceva sul serio. O perlomeno così credeva. «Mi dispiace, onorevole...» cominciò a rispondere. «Dobbiamo proprio...» «Lei è troppo gentile», l'interruppe la signora Spicer. «Grazie ancora. Grazie infinite, grazie di tutto. I ragazzi... è stato così interessante...» aggiunse, con gli occhi fissi in quelli di Cordell. «Se vi servono i biglietti per la Galleria della Camera chiedeteli pure alla mia assistente, in anticamera. Ve li darà gratis», disse ancora Cordell facendo una serie di calcoli mentali: secondo uno studio che aveva letto sul peso del passaparola nelle comunicazioni sociali, quando si fa buona impressione su una persona questo riverbera in media su altri quarantacinque individui, di conseguenza lui aveva appena prodotto un'impressione favorevole su 1620 elettori. Con una singola seduta fotografica di tre minuti. Sempre esibendo il suo sorriso denti-di-sopra-ma-senza-chewingum, Cordell salutò con la mano la scolaresca che usciva. Ma anche quando la porta si fu richiusa alle loro spalle il sorriso non se ne andò. Ormai era una sorta di riflesso condizionato. «Allora, come ci siamo presentati?» domandò a Dinah, lasciandosi cadere nella poltrona.
«Non male, direi», rispose Dinah, in piedi davanti a lui. Cordell aveva usato la prima persona plurale: tirava in ballo il noi solo quando la cosa che doveva fare o che aveva appena fatto era potenzialmente sgradevole. Se si trattava di una cosa positiva, come le foto con le scolaresche, diceva sempre e soltanto io. «Allora mi dica: su cosa dovremo romperci la testa, quest'oggi?» «Niente di eccessivamente complicato, in realtà», attaccò Dinah, passandogli il promemoria finale per la riunione sul bilancio degli stanziamenti interni. Ora che la preconferenza era finita, e che Trish aveva finito di arzigogolarci sopra, il bilancio preventivo veniva sottoposto agli Ultimi Quattro - un senatore e un deputato per ciascun partito e ciascuna Camera che dovevano limarlo e rifinirlo prima di passarlo al Congresso. Solo dopo l'approvazione definitiva, infatti, si sarebbe potuto attingere ai fondi stanziati dalla legge finanziaria per pagare tutti i progetti che i membri del Congresso ci avevano ficcato dentro per ragioni puramente elettorali. «Ci sono state una dozzina di richieste da parte di membri del Congresso, ma per il resto è andato tutto liscio», spiegò Dinah. «Vuol dire che tutte le nostre richieste sono state inserite?» fece Cordell. Dinah annuì. Cordell cominciava sempre dai progetti che gli stavano personalmente a cuore. Come ogni «cardinale» che si rispetti. «E anche quelle di Watkins e Lorenson?» Dinah annuì ancora. I membri del Congresso Watkins e Lorenson, beneficiari ultimi della costruzione di alcune nuovissime strutture pubbliche nei rispettivi distretti elettorali, erano anche e soprattutto «cardinali»: del sottocomitato per i trasporti il primo, di quello per l'acqua e l'energia elettrica il secondo. Preoccupandosi del fatto che le loro richieste fossero state esaudite dagli stanziamenti interni, Cordell in realtà voleva sapere se avrebbe a sua volta ottenuto otto milioni di dollari per finanziare un viadotto Hoover Dam e due milioni per una ricerca sull'etanolo dell'Arizona State University, ubicata, vedi caso, nel suo distretto. «L'unico problema serio è quello dei restauri strutturali alla Casa Bianca», disse Dinah. «Apelbaum ha azzerato i fondi. Il che in realtà non avrebbe molta importanza, ma se quelli della Casa Bianca dovessero impuntarsi...» «Potrebbero fare le pulci a tutti i nostri progetti. Me ne occuperò io.» Cordell abbassò gli occhi sul promemoria e chiese: «Quanto gli abbiamo offerto?» «Tre milioni e mezzo. E almeno secondo il suo staff, Apelbaum dovreb-
be accettarli, gli interessa solo una cifra che faccia abbastanza rumore da portare il suo nome sulle pagine di "USA Today".» «C'è altro?» «Niente di significativo. Probabilmente dovrà concedere qualcosina al progetto per l'Oklahoma di O'Donnell, abbiamo cassato tutte le sue richieste, e bisognerà dargli un contentino. Fra parentesi, abbiamo inserito anche quel trasferimento di terra del Sud Dakota, sa, quella vecchia miniera d'oro. Credo sia l'ultima cosa che Matthew fosse riuscito ad aggiudicarsi prima di...» Cordell annuì in silenzio, e così Dinah ebbe conferma del fatto che non ne sapeva assolutamente niente. Ma avendo nominato la questione - e per giunta legandola al nome di Matthew - Dinah era sicura che l'onorevole non l'avrebbe dimenticata, e che se fosse stato necessario l'avrebbe difesa strenuamente. «A proposito di Matthew...» disse Cordell. «Sì?» «I suoi genitori mi hanno chiesto di dire due parole alla commemorazione funebre.» Dinah lasciò spazio a una piccola pausa, ma il suo capo non aveva altro da aggiungere. E lei, come al solito, capì. Un buon membro dello staff non ha bisogno di molte parole. «Gliela scriverò al più presto, signore.» «Benissimo. Grande. Dato che eravate compagni d'ufficio, ho pensato che ti avrebbe fatto piacere stendere la bozza.» Poi tornò subito al promemoria per la riunione: «Ora, a proposito di quella cosetta che Kutz vorrebbe inserire a favore della Iditarod Trail...» «Le ho evidenziato tutte le voci come mi ha detto di fare», disse Dinah, aggiustandosi il marsupio in vita e avviandosi verso la porta. «Se la questione è contrassegnata da una T significa che è da tenere; se invece c'è una C, possiamo cederla. Ma in realtà penso che quest'anno non ci saranno grane.» «Vuol dire che abbiamo ottenuto tutto ciò che volevamo?» Ormai sulla soglia dell'ufficio, la donna si volse e gli sorrise. Un sorriso a trentadue denti. «Tutto e di più, signore!» Dinah attraversò l'anticamera dell'ufficio personale del suo capo, salutò il giovane telefonista in camicia di cotone e cravatta a stringa e acchiappò al volo l'ultima caramella alla ciliegia rimasta nella ciotola della sua scrivania.
«Quei maledetti ragazzini hanno fatto piazza pulita», le disse il centralinista. «Dovresti vedere cosa succede quando vengono quelli dell'Associazione anziani...» Senza rallentare, Dinah raggiunse la porta e uscì in corridoio. Guardò a destra e a sinistra lungo la striscia di marmo lucido, ma non vide la persona che stava cercando, finché non venne fuori da dietro la grande bandiera dell'Arizona posta accanto alla porta. «Dinah?» fece Barry, mettendole una mano sulla spalla. «Ehi!» disse lei voltandosi bruscamente. «Vuoi farmi venire un colpo?» «Scusa», disse lui, tenendola delicatamente per il gomito e seguendola lungo il corridoio. «Allora, hai finito?» «Sì, tutto a posto.» «Davvero è tutto a posto?» «Credimi, se fosse una partita a Scarabeo direi che abbiamo vinto senza pagare nemmeno una vocale in più.» Nessuno dei due aggiunse altro finché non ebbero girato l'angolo e si furono infilati in un ascensore vuoto. «Grazie ancora per avermi dato una mano in questa faccenda», disse Barry. «Se per te è una cosa importante...» «Non per me: lo era per Matthew. È solo per questo che me ne sono occupato.» «Comunque sia, se è importante per te, lo è anche per me», ripeté Dinah mentre le porte dell'ascensore si richiudevano. Barry controllò il vano dell'ascensore con un solo movimento del bastone bianco e mettendosi in ascolto. «Siamo soli, vero?» «Sì», disse lei, e gli andò più vicino. Barry le posò di nuovo la mano sulla spalla, facendo scorrere leggermente le dita sulla spallina del reggiseno. «Allora posso ringraziarti come si deve», disse, mentre l'ascensore cominciava a scendere con un leggero sobbalzo. Fece scivolare la mano sulla nuca di Dinah e la infilò fra i corti capelli biondi. Poi si chinò leggermente in avanti e le diede un lungo bacio. 58. «Imbarco per il volo numero 1168 della Northwest Airlines diretto a Minneapolis-St. Paul, ultima chiamata», annunciò una voce femminile
all'altoparlante dell'aeroporto di Rapid City. «Tutti i passeggeri muniti di biglietto sono pregati di presentarsi all'imbarco.» L'addetto all'imbarco passeggeri spense l'interruttore del microfono collegato all'altoparlante e si rivolse a Janos per controllare il suo foglio d'imbarco e leggere il nome sulla patente di guida: Robert Franklin. «Le auguro buona giornata, signor Franklin.» Janos alzò gli occhi, ma solo perché il cellulare aveva cominciato a vibrargli nel taschino della giacca. Mentre lo tirava fuori lo steward gli disse sorridendo: «Spero che sia una conversazione veloce, stiamo per decollare.» Janos gli diede un'occhiataccia e s'incamminò nel tunnel che portava al suo aereo. Non aveva bisogno di controllare lo schermo per sapere chi lo stava chiamando. «Hai una vaga idea di quanto mi stia costando la tua dannata incapacità?» disse Sauls. La sua voce era calma, come al solito, il che significava che le cose si stavano mettendo anche peggio di quanto avesse immaginato. «Non è il momento», lo avvertì Janos. «Ha buttato nella sfera uno dei nostri tecnici. Sessantaquattro fotomoltiplicatori sono andati in pezzi. Lo sai quanto costa ciascuno di quegli apparecchi? I componenti dobbiamo farli venire dall'Inghilterra, dalla Francia e dal Giappone, e poi vanno assemblati, testati, trasportati via mare e riassemblati di nuovo in condizioni sterili. E adesso dovremo rifare tutto daccapo sessantaquattro volte.» «Hai finito?» «Tu non mi ascolti! Manderai tutto all'aria, Janos.» «Sistemerò ogni cosa.» Sauls fece una pausa. «È la terza volta che me lo dici», brontolò poi. «Adesso voglio farti una promessa, Janos: se non sistemi davvero tutto, e al più presto, assumeremo qualcuno per sistemare te.» E il telefono si spense con un piccolo click. «Buonasera. Piacere di averla con noi», disse l'assistente di volo non appena Janos mise piede sull'aereo. Lui non la degnò di un'occhiata, andò dritto al suo posto di prima classe e guardò fuori dall'oblò. Su una cosa Sauls aveva ragione: ultimamente si era dimostrato un incapace. Prima aveva perso l'aereo, e poi non aveva saputo immaginare, come avrebbe dovuto, che nella miniera c'era un secondo ascensore. È la regola fondamentale di ogni inseguimento: tenere d'oc-
chio tutte le vie d'uscita. Indubbiamente aveva sottovalutato il suo avversario, il quale, pur rallentato dalla presenza di Viv e a dispetto del panico che doveva fargli mulinello in testa, era stato capace di pianificare in anticipo parecchie mosse della loro piccola partita a scacchi. Doveva averne imparati, di trucchetti, in quei dieci anni passati in Campidoglio. Ma come lui stesso sapeva fin troppo bene, quella storia era infinitamente più seria delle banali scaramucce di facciata dei politicanti. Appoggiò la testa allo schienale del sedile e prestò ascolto ai motori dell'aereo, poi chiuse gli occhi e ripassò mentalmente la posizione dei pezzi sulla scacchiera. Era venuto il momento di tornare all'abc del mestiere. Harris giocava bene, niente da dire, ma anche i campioni sanno che la partita perfetta non esiste. 59. «Adesso papà deve andare al lavoro», disse Lowell la mattina dopo rivolgendosi alla figlioletta di quattro anni. Con gli occhi fissi sulla tv, la bimba non rispose. In quanto procuratore generale aggiunto, Lowell non era abituato a essere ignorato: ma quando si trattava della sua famiglia... la famiglia è tutta un'altra cosa. E lui non poté fare a meno di ridere. «Di' ciao a papà», disse sua moglie dal salotto della loro casa di Bethesda, nel Maryland. Senza distogliere gli occhi dalla videocassetta dei Muppets che stava guardando, Cassie Nash si mise in bocca la punta di una treccina, la succhiò e sventolò una mano in direzione del padre. «Ciao, Elmo...» Lowell sorrise e fece un cenno di saluto alla moglie. Agli eventi ufficiali i colleghi del Dipartimento di giustizia lo chiamavano Delegato generale Nash, titolo che si era conquistato con venticinque anni di duro lavoro. Ma da quando sua figlia aveva scoperto che a dare la voce a Elmo era un uomo di colore alto che somigliava vagamente al suo papà (il miglior amico di Elmo, secondo Cassie), aveva accettato di cambiare nome: quasi ogni giorno Elmo batteva Delegato generale. Lowell uscì di casa qualche minuto prima delle sette, chiuse a chiave la porta e controllò tre volte che fosse chiusa bene. Sopra di lui il cielo era grigio e il sole si nascondeva dietro un sipario di nuvole. Tra non molto sarebbe piovuto. Percorse il vialetto d'accesso costeggiando i vecchi stucchi in stile coloniale. Il sorriso si cancello rapidamente dalla sua faccia mentre eseguiva il solito rituale. Come ogni giorno da una settimana a quella parte
controllò accuratamente ogni arbusto, albero e cespuglio dei dintorni. Guardò nelle macchine parcheggiate lungo la via. E poi, cosa più importante di tutte, sbloccò con il telecomando le portiere della sua Audi argentata e ne controllò l'abitacolo. Il finestrino laterale aveva ancora la sua raggiera di schegge, ma Janos non c'era. Almeno per il momento. Lowell avviò il motore, imboccò Underwood Street e controllò il resto dell'isolato, compreso il tetto delle case adiacenti alla sua. A partire dal giorno in cui si era laureato in giurisprudenza presso la Columbia Law School aveva sempre curato con la massima attenzione ogni aspetto della sua vita professionale. La donna che gli faceva le pulizie era regolarmente a libretto; il suo commercialista aveva ordine di non barare sulle tasse, e nella patria dei regalini personali registrava ufficialmente ogni singolo oggetto regalatogli dai lobbysti. Niente droghe... niente eccessi alcolici... mai nemmeno una stupidaggine agli infiniti cocktail, feste e banchetti ai quali aveva dovuto prendere parte nel corso degli anni. Non lo stesso si poteva dire di sua moglie. Una sola, stupida serata, quando lei era ancora al college. Qualche bicchierino di troppo... e col taxi ci avrebbe messo un secolo ad arrivare a casa, mentre con la sua auto non ci volevano che pochi minuti... Quando era rinvenuta, un ragazzo era rimasto paralizzato. L'auto l'aveva colpito violentemente, spaccandogli il bacino. I suoi avvocati si erano mossi in fretta, e con qualche costosa manovra legale le avevano ripulito la fedina penale. Ma in qualche modo Janos era riuscito a scoprirlo. Il prossimo Colin Powell? aveva titolato il «Legal Times». «Non se quella storia dovesse venir fuori», gli aveva detto Janos la notte in cui si erano conosciuti. Ma di tutto questo a Lowell non importava affatto. E non aveva avuto paura di dirglielo in faccia. Se era diventato il numero due del Ministero di giustizia, non ci era riuscito correndo a nascondersi davanti a ogni minaccia o diffamazione politica. Sapeva che prima o poi quella vecchia storia sarebbe venuta fuori comunque, quindi, se il momento era arrivato, lui era pronto. Non avrebbe mai accettato di fare del male a Harris per quella squallida ragione. Ma poi Janos aveva cominciato a farsi vedere nei dintorni della scuola materna frequentata da Cassie. E al campo giochi in cui la portavano nei week end. Lowell l'aveva riconosciuto subito. Non faceva niente di illegale: se ne stava semplicemente là, con quegli occhi neri da incubo. Per Lowell era stato più che sufficiente. Lui lo sapeva da sempre, la famiglia è
un'altra cosa. In fondo Janos non gli aveva chiesto molto: solo di informarlo se Harris si faceva vivo. Lui aveva pensato che sarebbe stato facile. E invece no. Era stata molto dura, per lui. Di notte non faceva che girarsi e rigirarsi nel letto. La notte prima era stato in piedi così a lungo da sentire il giornale del mattino sbattere contro il legno della porta. Imboccò Connecticut Avenue in direzione del centro, ma faceva fatica a tenere l'auto in carreggiata. Un primo gocciolone cadde sul parabrezza. Poi un altro. L'acquazzone era cominciato, ma Lowell non se ne accorse. Certo, era sempre stato attento. Attento ai soldi... alla carriera... al futuro. Ma in quel momento, mentre una raffica di gocce si spargeva su tutto il parabrezza, pensò che c'era una sottile linea di demarcazione fra attento e vigliacco. Una Acura blu lo sorpassò a sinistra: Lowell voltò appena la testa per seguirne la manovra, ma l'unica cosa che vide fu la spaccatura a forma di stella nel vetro del finestrino. Riportò gli occhi sulla strada, ma quel pensiero non se ne voleva andare. Elmo batte Delegato generale, si ripeté ancora una volta, ma più ci pensava più sentiva che era impossibile continuare a starsene buono e zitto come gli era stato ordinato. Prese il cellulare dalla tasca e digitò il numero del suo ufficio. «Ufficio del procuratore generale aggiunto: parla William Joseph Williams», rispose una voce maschile. Durante il colloquio di lavoro che gli era valso l'assunzione, il ragazzo gli aveva detto che sua madre lo aveva chiamato così perché era un nome da presidente. Ma per il momento era solo il suo assistente personale. «William, sono io. Ho bisogno di un favore.» «Certo. Dica pure.» «Nel cassetto in alto a sinistra della mia scrivania c'è la serie di impronte digitali che ho fatto rilevare la settimana scorsa sulla mia auto.» «Quelle dei ragazzi che le hanno rotto il finestrino? Pensavo le avesse già inoltrate.» «No, avevo deciso di lasciar perdere.» «E adesso?» «Adesso ho cambiato idea. Immettile nel sistema e fai un controllo completo, cerca in tutti i database che abbiamo, anche quelli sugli stranieri», disse Lowell, azionando finalmente i tergicristalli. «E di' a Pilchick che voglio una squadra di protezione per la mia famiglia.»
«Cosa sta succedendo, Lowell?» «Non lo so ancora», disse lui, fissando la strada umida. «Dipende da cosa troveremo.» 60. «Harris, rallenta!» grida Viv cercando di tenermi dietro. Non le do retta e attraverso la First Street, asciugandomi la pioggia dalla faccia con il palmo della mano. «Harris, sto parlando con te!» Non la sento quasi. Guado una pozzanghera e mi avvicino alla palazzina di quattro piani che sorge a metà isolato. «Ti ricordi cosa mi hai detto stanotte, quando siamo scesi dall'aereo? Di stare calma, giusto? Non era quello il piano, restare calmi?» grida ancora Viv. «Io sono calmo.» «No, questo non è essere calmi!» strilla lei. Probabilmente spera di trattenermi dal fare qualche stupidaggine. Anche se non le do ascolto, sono contento che non abbia smesso di far funzionare il cervello. Spalanco bruscamente la doppia porta a vetri ed entro. Sono appena suonate le sette: gli addetti alla sicurezza del turno del mattino non hanno ancora preso servizio. E infatti Barb non è al suo solito posto. «Cosa posso fare per lei?» mi interpella una guardia giurata con la faccia piena di cicatrici dell'acne. «Lavoro qui», gli rispondo, con un tono di voce abbastanza deciso da scongiurare ulteriori domande. E così l'addetto alla sicurezza si rivolge a Viv. «Piacere di rivederla», fa lei, senza nemmeno rallentare. Sono sicuro che non abbia mai visto quell'agente in vita sua, ma lui le risponde con un cenno di saluto. Sono sinceramente impressionato. Diventa sempre più in gamba. Quando arriviamo all'ascensore Viv è furibonda. Per fortuna è abbastanza intelligente da aspettare che le porte dell'ascensore si siano richiuse prima di aggredirmi. «Non dovremmo essere qui!» mi dice non appena l'ascensore riparte verso l'alto. «Viv, lascia perdere, non vale la pena di parlarne.» Qualche ora fa sono passato in palestra a prendere l'abito di ricambio che tengo sempre nell'ar-
madietto. Stanotte, in aereo, dopo aver ficcato le nostre camicie nella lavanderia a gettoni di bordo ed esserci chiusi nella doccia una mezz'ora ciascuno, abbiamo cercato di rintracciare qualcuno della National Science Foundation al telefono satellitare. Per un problema di fusi orari non siamo riusciti a parlare con nessuno degli scienziati, ma grazie a un assistente particolarmente nervoso e alla promessa di un incontro personale con un onorevole siamo riusciti a strappare un appuntamento. «Hanno detto che dovevamo andarci subito, all'apertura degli uffici», mi ricorda Viv per la centesima volta. Ma per il momento la National Science Foundation dovrà aspettare. C'è qualcosa di più urgente che voglio appurare. Le porte dell'ascensore si aprono al terzo piano. Passo davanti ai quadri moderni appesi in corridoio e raggiungo la porta di vetro smerigliato con la serratura a tastiera. Digito in fretta il codice a quattro cifre, spalanco la porta ed entro nel labirinto di cubicoli e uffici che si dirama dal corridoio. Lo staff tecnico non è ancora arrivato, e il luogo è molto silenzioso. Da qualche parte, in lontananza, squilla un telefono. Un impiegato solitario sorseggia la prima tazza di caffè. A parte questo si sente solo il rumore dei nostri piedi sul tappeto. Un suono ovattato, come di percussioni, che si fa più frenetico man mano che acceleriamo il passo. «Sei proprio sicuro di sapere dove siamo?» Due passi dopo la foto in bianco e nero della Casa Bianca svolto bruscamente a destra ed entro in un ufficio. Sulla scrivania nera laccata c'è una tastiera in braille, senza mouse: un cieco non sa cosa farsene, del mouse. C'è anche uno scanner ad alta definizione per convertire la posta in file che il computer può leggere ad alta voce. E nel caso non fossimo ancora convinti, il diploma della Duke appeso al muro dice che siamo nel posto giusto: Barrett W. Holcomb. Dove diavolo sei, Barry? Stanotte, quando siamo andati a cercarlo, non era in casa, e di giorno è sempre in giro per i corridoi del Campidoglio. Le ultime ore le abbiamo passate a nasconderci in un motel a pochi isolati da qui, ma pensavo che se fossimo arrivati abbastanza presto... «Perché non gli fai uno squillo e non gli dici semplicemente che vuoi vederlo?» mi fa Viv. «Per fargli sapere dove sono?» «Ma venire qui... Harris, è stata un'idiozia! Se davvero sta dalla parte di Janos, potrebbero...» «Janos non è qui.»
«Come fai a esserne così sicuro?» «Proprio per quello che hai appena detto: perché è una vera idiozia.» Dall'espressione dei suoi occhi vedo che è confusa. «Ma che diavolo stai dicendo?» Dietro di noi si sentono dei colpetti leggeri. Mi volto, e lui è già sulla soglia. «Harris?» domanda Barry. «Sei tu?» 61. «Tu, intrigante pezzo di merda!» grido scagliandomi contro di lui. Istintivamente, sentendomi arrivare, Barry cerca di schivarmi. Ma si muove in ritardo. In un attimo gli sono addosso, e con uno spintone alla spalla lo costringo a fare un passo indietro. «S-sei impazzito?» mi fa lui. «Quei due erano nostri amici, Barry! Tu e Matthew eravate al college insieme!» grido. «E Pasternak... Pasternak ti ha dato lavoro quando nessun altro voleva assumerti!» «Si può sapere di che diavolo stai parlando?» «È per questo che sono stati ammazzati? Per qualcosa che non ha funzionato tra te e Pasternak? Forse lui ti aveva scavalcato per lavorare con qualcun altro, e tu hai colto la prima occasione per vendicarti?!» Gli do un altro spintone. Barcolla. Cerca affannosamente di raggiungere la sua scrivania, ma inciampa nel cestino della carta straccia mandandolo a rotolare per tutta la stanza. «Harris!» grida Viv. Si preoccupa perché è cieco. A me invece non importa affatto. «Quanto ti hanno pagato?» urlo, marcandolo stretto. «Harris, ti prego...» fa lui, ancora in equilibrio precario. «Ne valeva la pena, almeno? Hai ottenuto quello che volevi?» «Harris, io non avrei mai fatto del male a quei due. Erano miei amici.» «E allora perché è venuto fuori il tuo nome?» «Cosa?» «Il tuo nome, Barry! Perché diavolo è venuto fuori il tuo nome?» «Dove?» «Nel fottuto modulo di lobbying per la Wendell Mining!» esplodo io, dandogli un'ultima spinta. Barry barcolla e si abbatte contro la parete. Il suo diploma di laurea cade
a terra e il vetro va in mille pezzi. Barry si appoggia al muro con tutta la schiena, ne palpeggia la superficie cercando di ritrovare l'equilibrio. Poi, lentamente, solleva il mento verso di me. «E così pensi che sia stato io?» mi fa. «C'era il tuo nome, Barry!» «C'è il mio nome su tutti quei maledetti moduli, su quello di ogni singolo cliente di tutti i lobbysti dello studio. Fa parte del mansionario del pesce più piccolo nella catena alimentare.» «Che cazzo stai dicendo?» «I moduli: riempire scartoffie è bassa manovalanza, Harris, dovresti saperlo. In genere il lavoro burocratico è svolto dallo staff di sostegno, ma da qualche anno, da quando abbiamo preso una multa di dieci bigliettoni perché uno dei nostri soci non aveva compilato il modulo, i capi hanno deciso di metterci un responsabile. Abbiamo un responsabile per il comitato reclutamento, uno per i benefici aggiunti, uno per la politica di staff. Io raccolgo tutti i moduli delle dichiarazioni di lobbying e li firmo per presa visione. Uomo fortunato.» Mi blocco, cercando lo sguardo dei suoi occhi. Uno è di vetro, l'altro è coperto da una nube lattiginosa, ma entrambi sono fissi su di me. «Mi stai dicendo che la Wendell Mining non è tua cliente?» «Mai stata.» «Ma se tutte le volte che ho chiamato tu eri là a parlare con Dinah...» «E perché non avrei dovuto? È la mia ragazza.» «La tua... cosa?» «La mia ragazza. Ti ricordi ancora cosa vuol dire avere una ragazza?» A questo punto Barry si volta verso Viv: «Chi c'è con te?» «Un'amica... soltanto un'amica. Davvero esci con Dinah?» «Da poco tempo, meno di due settimane. Ma non si può mai sapere...» «E perché non l'hai detto a nessuno?» «Scherzi? Un lobbysta che esce con la capufficio degli stanziamenti? Da lei ci si aspetta che giudichi ogni singolo progetto in base ai suoi meriti intrinsechi... Se la cosa venisse fuori ci impiccherebbero entrambi senza pensarci due volte. La sua reputazione sarebbe rovinata.» «Be', almeno a me potevi dirlo. O a Matthew.» «No, ho preferito non parlarne con nessuno, e men che meno con Matthew. Dio solo sa quanto mi avrebbe preso in giro. Dinah gli rompe... Dinah gli rompeva le palle tutti i santi giorni.» «Io... ancora non riesco a crederci.»
«E perché mai? Non ho diritto anch'io di essere felice?» Anche in un momento come questo Barry non riesce a pensare ad altro: sempre le solite presunte mancanze di riguardo nei suoi confronti. «Allora l'appoggio che hai dato alla questione della Wendell Mining...» «Dinah mi ha detto che era una delle ultime cose per cui Matthew si era battuto e io... ho pensato che sarebbe stato carino realizzare il suo ultimo desiderio.» Lo fisso attentamente. L'occhio annebbiato non si è mosso, ma posso leggere chiaramente la piega dolorosa che gli si è formata tra le sopracciglia. La tristezza gli si è sparsa su tutta la sua faccia. «Te lo posso giurare, Harris, la Wendell non è mia cliente.» «Allora chi è che fa pressione per loro?» gli fa Viv. «Perché diavolo ti stai rompendo la testa su...» «Limitati a rispondere alla domanda», gli ordino. «La Wendell Mining?» fa Barry. «Si è rivolta a noi quasi un anno fa, e a quanto mi risulta ha lavorato con una sola persona: Pasternak.» 62. «...La Wendell Mining lavorava direttamente con Pasternak?» ripeto. Le sue parole mi colpiscono come un cazzotto allo stomaco. Se Pasternak era coinvolto fin dall'inizio... «Allora lui sapeva tutto», mormoro. «Sapeva cosa?» mi fa Barry. «Aspetta un po'», interviene Viv. «Adesso pensi che a incastrarti sia stato Pasternak?» «I-io... non lo so più.» «Ma di che diavolo state parlando?» insiste Barry. Mi volto verso Viv. Barry non può vederci. Le faccio segno di no con la testa: non dire altro. «Harris, si può sapere che diavolo sta succedendo?» fa Barry. «In che senso, incastrarti?» Ancora barcollante per la sorpresa guardo fuori dall'ufficio per vedere cosa succede nel resto dello studio. Per il momento è ancora vuoto, ma non lo resterà a lungo. Viv mi getta un'altra delle sue occhiatacce: è pronta a schizzare via da qui. Non posso darle torto. Eppure sono stato in Campidoglio abbastanza a lungo per sapere che è inutile scagliare accuse a destra e a manca finché non si è in grado di provare le proprie affermazioni. «Dobbiamo andare», mi fa Viv. «Subito.»
Scrollo la testa. Prima dobbiamo procurarci almeno una prova. «Dove tenete la documentazione relativa al finanziamento dei progetti?» domando a Barry. Viv sta per dire qualcosa, ma si blocca subito. Ha già capito dove voglio arrivare. «Cosa?» fa Barry. «La documentazione sul finanziamento... i cartellini di presenza... qualsiasi cosa possa dimostrare che Pasternak lavorava per la Wendell Mining.» «E perché mai...» «Ascolta Barry, non credo che la morte di Matthew sia stata un incidente. Adesso, per favore, il tempo stringe... dove tenete quella documentazione?» Barry è rimasto come pietrificato. Volta lentamente la testa verso di me, consapevole della paura che risuona nella mia voce. «N-nel computer», mormora. «Puoi trovarla?» «Harris, penso che dovremmo chiamare la...» «Dammela e basta, Barry. Ti prego.» Barry si avvicina alla sedia della sua scrivania dando manate all'aria, poi si siede e posa le mani sulla tastiera. È una normalissima tastiera per computer, se non fosse per una striscia di plastica alta cinque centimetri applicata sotto la barra dello spazio: grazie a un centinaio di puntini grandi come capocchie di spillo che saltano fuori da quella striscia, e sui quali Barry fa scorrere velocemente i polpastrelli, anche lui può leggere quello che c'è scritto sullo schermo. Altrimenti può farselo leggere ad alta voce dal computer stesso. «JAWS per Window pronto.» Dalle casse del computer esce una voce femminile computerizzata. Mi ricordo di questo software per la lettura dello schermo dagli anni del college: verbalizza tutto ciò che compare sul monitor, e si può addirittura scegliere la voce. Quella maschile si chiama Paul; quella femminile, Shelley. Quando Barry cominciò a usarlo, ci divertimmo a variare il timbro e la velocità della voce per renderla più sensuale. Ma adesso siamo cresciuti, e la voce è uguale a quella di tutte le segreterie telefoniche del mondo. «Nome dell'utente? Comporre», dice la voce del computer. Barry digita la sua password e preme Enter. «Desktop», annuncia il computer. Se il monitor di Barry fosse acceso
potremmo vederlo anche noi, il desktop. Ma è spento. Lui non ne ha bisogno. Digitando rapidamente sulla tastiera, Barry attiva alcuni comandi preimpostati che lo portano direttamente dove vuole andare. «Barra menu dei file. Menu attivo.» A questo punto Barry inserisce la lettera D. «Documentazione sui finanziamenti», dice il computer. «Premere F4 per massimizzare tutte le finestre.» In piedi dietro Barry, osservo tutto quel che fa da sopra la sua spalla. Viv si è invece appostata vicino alla porta, e controlla il corridoio. «Usciti dalla barra menu. Cerca...» Barry preme il tasto Tab. «Nome della ditta? Comporre», dice il computer. Barry digita le parole Wendell Mining. Ogni volta che preme la barra dello spazio il computer pronuncia la parola appena digitata, ma Barry è così veloce che la voce femminile non riesce a stargli dietro e si mangia le parole: Wen- Mining. Il computer fa bip, come se Barry avesse sbagliato qualcosa. «Cliente non trovato», dice. «Nuova ricerca? Comporre.» «Cosa succede?» fa Viv. «Prova semplicemente Wendell», suggerisco. «Wendell», ripete il computer mentre Barry digita la parola e preme Enter. Si sente un altro bip. «Cliente non trovato. Nuova ricerca? Comporre.» «Non può essere», fa Barry. Le sue mani si muovono così veloci da essere solo una confusa macchia rosa in movimento. Di nuovo la voce femminile non riesce a stargli dietro: «Nuo - Sis - Wen - Min - Cerca in database...» Sta allargando la ricerca. Non riesco a staccare gli occhi dal monitor, anche se è spento. È pur sempre meglio che guardare Viv che si fa prendere dal panico accanto alla porta. «Sei ancora qui?» mi fa Barry. «Sì», gli rispondo, mentre il computer lavora ronzando leggermente. «Cliente non trovato nel sistema», dice la voce meccanica. Barry ripete l'ultima digitazione. «Cliente non trovato nel sistema.» «Qual è il problema?» gli domando. «Aspetta ancora un secondo.» Barry preme la W, poi la freccia rivolta verso il basso. «Waryn Enterprises», dice il computer. «Washington Mutual... Washington Post... Wei-
ner&Robinson...» È una ricerca alfabetica. «Wong Pharmaceuticals... Wilmington Trust... Xerox... Zuckerman International... Fine delle voci.» «Mi stai prendendo in giro?» dice Barry, continuando a cercare. «Dove diavolo è finita?» faccio io. «Fine delle voci», ripete il computer. Barry digita furiosamente ancora una volta. «Fine delle voci.» «Non capisco», fa Barry, con le mani che si muovono più in fretta che mai. «Intero... Sis... Ricerca...» «Barry, che diavolo vuol dire?» «Errore nella ricerca», mi interrompe la voce meccanica. «Cliente non trovato nel sistema.» Fisso come ipnotizzato lo schermo nero. Barry fissa la tastiera. «Non c'è», dice poi. «La Wendell Mining non c'è.» «Cosa stai dicendo? Cosa vuol dire che non c'è?» «Non c'è. Non è nel computer.» «Forse qualcuno ha dimenticato di registrarla.» «No, era stata registrata. Ho controllato personalmente quando ho riempito i moduli di lobbying.» «Ma se adesso non c'è più...» «Significa che qualcuno l'ha tolta... ha cancellato il file», risponde Barry. «Ho controllato tutti i modi in cui si può scrivere Wendell, nel caso ci fosse stato un errore... Ho setacciato tutto il database. È come se non fosse mai stata nostra cliente.» «'Ngiorno...» Un uomo basso con un costoso abito gessato passa davanti alla porta dell'ufficio di Barry e fa un cenno di saluto a Viv. Lei si volta verso di me. Comincia ad arrivare gente. «Harris, non c'è più tempo...» «Ho capito», le rispondo. Ma con gli occhi non mollo Barry. «Pensi che ci possa essere una copia in backup? Oppure qualcos'altro che serva a dimostrare che la Wendell lavorava con Pasternak?» Barry è sempre stato cieco, o perlomeno lo è da quando io lo conosco. E non ha difficoltà a riconoscere il panico quando lo sente. «P-potremmo cercare nei file clienti di Pasternak...» Improvvisamente un fischio acutissimo attraversa l'aria. Tutti e tre sobbalziamo. «Ma che diavolo...» «È l'allarme antincendio!» grida Viv.
Aspettiamo qualche secondo per vedere se si spegne da solo. Evidentemente non è il nostro giorno fortunato. Viv e io ci scambiamo l'ennesima occhiata. L'allarme continua a strillare: se Janos è qui, ha scelto un ottimo modo per svuotare rapidamente l'edificio. «Harris, ti prego...» mi supplica Viv. Scrollo di nuovo la testa. Non ancora. «Pensi che i file clienti di Pasternak siano ancora nel suo ufficio?» grido a Barry, sgolandomi per sovrastare la sirena d'allarme. «Sì... perché?» Non mi serve altro. «Andiamo!» dico a Viv facendole cenno di uscire in corridoio. «Aspetta!...» grida Barry balzando su dalla sedia per seguirci. «Continua a camminare», dico a Viv, che mi precede di qualche passo. Se davvero Barry non c'entra, non sarò certo io a tirarlo dentro questa storia. Non appena lo sento affacciarsi sul corridoio mi volto per controllare che stia bene. L'uomo piccolo con il gessato costoso gli si sta avvicinando per aiutarlo a uscire dall'edificio. Ma Barry lo respinge e corre verso di noi. «Harris, aspetta!» È più veloce di quanto immaginavo. «Oh, merda!» grida Viv non appena svoltato l'angolo del corridoio. Volevamo raggiungere gli ascensori, ma ormai è chiaro che non si tratta della solita esercitazione. Le porte di tutti e tre gli ascensori sono chiuse, e improvvisamente i tre allarmi interni vanno ad aggiungersi alla sirena antincendio principale. Un uomo di mezz'età apre con una spinta la porta d'emergenza che dà sulle scale, e una voluta di fumo grigio si allunga nel nostro corridoio. Basta l'odore a comunicare tutto ciò che serve sapere. Da qualche parte c'è qualcosa che brucia. Viv mi getta un'occhiata da sopra la spalla: «Non penserai che Janos...» «Andiamo», insisto. La supero e corro verso la porta delle scale, ma invece di scendere comincio a salire, andando incontro al fumo. «Che diavolo vuoi fare?» mi grida Viv. Ma credo sappia già la risposta. Non me ne andrò di qui senza la documentazione di Pasternak. «Harris, io non ci sto!...» Una donna anziana con i capelli tinti di nero e gli occhiali da lettura ap-
pesi al collo scende a piedi dal quarto piano. Senza correre. Qualsiasi cosa stia bruciando lassù, fa molto fumo ma non costituisce un pericolo serio. Mi sento tirare per la manica della camicia. «Come fai a essere sicuro che non sia una trappola?» domanda Viv. Mi libero della sua presa senza rispondere e continuo a salire. Il pensiero che Pasternak stesse tramando contro di noi... Possibile sia stato ucciso per questo? Qualsiasi sia la risposta, devo scoprirla. Raggiungo rapidamente il pianerottolo successivo salendo gli scalini due a due e mi schiaccio per passare tra due lobbysti che stanno scendendo le scale. «Ehilà, Harris!» mi apostrofa uno dei due con un amichevole sorriso. «Vieni a fare colazione con noi?» Surreale. Anche durante un incendio, un lobbysta non dimentica mai le sue macchinazioni politiche. Svoltando e risvoltando angoli di corridoio mi dirigo verso l'ufficio di Pasternak, avanzando sempre in direzione del fumo. Ormai il corridoio è occupato da un fitto nuvolone nero. Sbatto spesso le palpebre, ma gli occhi mi bruciano lo stesso. Per fortuna ho percorso questo itinerario per anni, e sarei in grado di trovare l'ufficio anche al buio. Dopo l'ultimo angolo di corridoio comincio a sentire un crepitio inquietante e sono investito da un'ondata di calore, ma quel che è peggio, dalla nuvola di fumo emerge una mano che mi afferra per il braccio. Quanto al proprietario della mano, non riesco nemmeno a vederlo. «Strada sbagliata», dice una voce profonda. Mi libero con uno strattone e stringo i pugni, pronto a colpire. «Quest'area è chiusa, signore. Deve raggiungere subito le scale», dice la voce, soverchiando la sirena d'allarme. All'altezza del petto si intravede una fascia blu e oro con la scritta SICUREZZA. È soltanto un addetto alla sorveglianza. «Signore, mi ha sentito?» Annuisco, ma in realtà non gli presto molta attenzione. Sono troppo impegnato a guardare, oltre la sua spalla, il punto da cui sembrano sprigionarsi le fiamme. In fondo al corridoio... al di là di una porta di quercia massiccia... Lo sapevo. Mi è parso di averlo intuito fin dal momento in cui l'allarme ha cominciato a suonare. Nell'ufficio di Pasternak, una fiamma sottile si alza da terra fino a lambire il soffitto. La sua scrivania... la poltrona di pelle... le foto appese alla parete... tutto sta bruciando. Ma non per questo intendo arrendermi: se lo schedario fosse resistente alle fiamme,
forse potrei ancora... «Signore, deve lasciare immediatamente l'edificio!» insiste l'agente. «Non posso! Io devo andare là dentro!» grido, cercando di scavalcarlo. «Signore!» grida l'uomo, allungando il braccio per trattenermi e spingermi via. Mi supera in altezza di circa dieci centimetri, e peserà almeno quaranta chili più di me. Non cedo. Lui nemmeno. Ma quando cerco di spingerlo via l'agente mi afferra la pelle del collo e la torce senza pietà. Il dolore è così lancinante da farmi quasi cadere in ginocchio. «Signore, mi sta ascoltando?» «I... i file...» «Le ho detto che non si può. Non vede cosa sta succedendo?» Qualcosa crolla a terra con fragore: in fondo al corridoio la porta dell'ufficio di Pasternak si è staccata dai cardini ed è caduta, mostrandomi la fila di schedari allineati lungo la parete. Sono tre mobiletti alti, uno in fila all'altro. Effettivamente sembrano resistenti al fuoco. Peccato che tutti i cassetti siano aperti. I documenti contenuti negli schedari crepitano e s'incendiano uno dopo l'altro. A intervalli di pochi secondi un piccolo scoppio sputa in aria una manciata di frammenti di carta carbonizzata. C'è molto fumo, non riesco quasi a respirare. Il mondo attorno a me diventa vago e indistinto. E quel che ne resta è solo un mucchietto di cenere. «Ormai è tutto bruciato, signore», mi fa l'agente. «Adesso, la prego, scenda da basso e lasci l'edificio.» Ma io sono ancora incapace di muovermi. In lontananza si sente un'orchestra di sirene in avvicinamento. Ambulanze e vigili del fuoco saranno qui a momenti, e anche la polizia non può tardare. La guardia allunga ancora il braccio per convincermi a tornare indietro. E in quel momento sento una mano morbida posarmisi sulle reni. «Anche lei, signorina...» riattacca l'agente. Dietro di me, Viv sta osservando gli schedari che bruciano nell'ufficio di Pasternak. Le sirene diventano sempre più forti. «Forza, andiamo...» mi dice. Ma il mio corpo è sotto shock. Mi volto verso di lei, che subito si accorge del mio stato. Pasternak era il mio mentore, la prima persona che ho conosciuto quando sono arrivato in Campidoglio. «Magari non è come pensi tu», mi dice, cercando di spingermi in fondo al corridoio e giù dalle scale. Grosse lacrime mi rigano le guance, ma mi dico che è solo colpa del fu-
mo. Da qualche parte, là fuori, le sirene continuano a ululare. Dal suono pare che siano ormai davanti al portone. Viv mi spinge sempre più addentro nella nebbia grigiastra. Vorrei correre, ma è già diventato più difficile. Non si vede niente. Mi sento le gambe come se fossero di gelatina. Non ce la faccio più. Rallento, mi trascino in avanti con passi lenti e pesanti. «Che c'è?» domanda Viv. Non riesco a guardarla negli occhi. «Mi dispiace, Viv...» «Cosa? Hai deciso di mollare proprio adesso?» «Te l'ho detto, mi dispiace.» «Non è abbastanza! Pensi sia così facile liberarsi del senso di colpa? Sei stato tu a coinvolgermi in questa storia Harris, tu e il tuo stupido egocentrismo da club maschile stile "il mondo è mio, quindi possiamo giocarci finché vogliamo"! È colpa tua se non faccio che correre qua e là perché qualcuno vuole ammazzarmi, e sono tre giorni che non mi cambio la biancheria, e ogni notte piango fino ad addormentarmi dallo sfinimento al pensiero che il mattino dopo, aprendo gli occhi, potrei trovare quello psicopatico accanto al mio letto! Mi spiace che il tuo mentore ti abbia tradito, e che la vita schifosa che fai al Campidoglio sia tutto ciò che hai, ma io ho ancora tutta un'esistenza davanti a me, e la rivoglio! Adesso, subito! Quindi muovi il culo e andiamo via di qui. Dobbiamo ancora scoprire a cosa diavolo serve quel marchingegno che abbiamo visto nel laboratorio sotterraneo, e in questo preciso momento abbiamo un appuntamento con uno scienziato, e se continui così arriveremo in ritardo!» Rimango così sbalordito dal suo scoppio d'ira che mi fermo su due piedi. «Davvero piangi fino ad addormentarti?» le domando. L'occhiataccia cupa che mi lancia vale una risposta. I suoi occhi castani fiammeggiano in mezzo al fumo. «No!» «Viv, te l'ho già detto, non avrei mai voluto...» «Non ho voglia di ascoltare delle scuse, adesso.» «Ma, io...» «Sei stato tu, Harris. Sei stato tu, non c'è altro da dire. E adesso cosa pensi di fare: vuoi cercare di rimediare oppure no?» Fuori dall'edificio qualcuno abbaia in un megafono le istruzioni per l'evacuazione. La polizia è già sul posto. Se ho davvero deciso di mollare, questi sono il momento e il luogo più adatti. Viv si avvia lungo il corridoio. Io resto dove sono. «Addio, Harris!» mi grida. Quelle due parole mi feriscono come una frustata. Quando le ho chiesto aiuto, ho promesso che non le sarebbe suc-
cesso niente di male. Proprio come ho promesso a Matthew che il Rischio Zero sarebbe stato solo un innocuo divertimento. E come, tanti anni fa, ho promesso a Pasternak che sarei stato la persona più onesta che avesse mai assunto. Tutte quelle parole... mentre le pronunciavo... giuro che ci credevo fino in fondo, ma ora so che le dicevo sempre e soltanto per me. Per me solo. Io. io e ancora io. Ma mentre guardo Viv sparire nel fumo penso che è ora di smetterla di guardarsi allo specchio: è venuto il momento di rimettere a fuoco il mondo. «Aspettami!» grido, tuffandomi dietro di lei nel nuvolone grigio. «Non da quella parte!» Viv si blocca a metà di un passo. Non sorride, non fa niente per facilitarmi le cose. Non vedo perché dovrebbe. Ci è voluta una ragazzina di diciassette anni per costringermi a comportarmi da adulto. 63. «Allora, come va?» domandò Lowell al suo assistente quando lo vide entrare nel suo ufficio al quarto piano del palazzo di giustizia, in Pennsylvania Avenue. «Ecco, mettiamola così», cominciò William, scostandosi dal viso infantile e pienotto i capelli castani spettinati. «Babbo Natale non esiste, e nemmeno i coniglietti pasquali; al college nessuna ragazza pon-pon si è mai innamorata di lei; i suoi fondi pensionistici 401K sono carta igienica, la reginetta del ballo di fine anno non ha voluto sposarla, sua figlia si è fatta mettere incinta da uno stronzo e ha presente la bella vista che si gode dalla sua finestra sul monumento a George Washington?» concluse, indicando un punto dietro le spalle di Lowell. «Bene, hanno deciso di darci una mano di nero e di sostituirla con un pezzo d'arte contemporanea.» «Contemporanea, hai detto?» «Non sto scherzando», disse William. «E questa è ancora la parte migliore.» «È così grave?» domandò Lowell, accennando con espressione interrogativa alla cartellina rossa che il suo assistente teneva sotto il braccio. Nell'anticamera e in sala riunioni, due segretarie rispondevano al telefono e organizzavano gli appuntamenti della giornata. William invece aveva una scrivania appena fuori della sua stanza. Era stato assunto come «assistente confidenziale»: incarico che comportava un'autorizzazione speciale
a trattare questioni professionali della massima delicatezza, e dopo tre anni di simbiosi, anche quelle di carattere personale. «In una scala da uno a dieci sarebbe come il Watergate», rispose William. Lowell cercò di ridere. Non voleva dare troppo peso alla cosa, ma quella cartellina rossa gli comunicava che la situazione era davvero seria. Il rosso infatti significava FBI. «Dunque, le impronte digitali appartengono a un certo Robert Franklin di Hoboken, New Jersey», disse William, cominciando a leggere dalla cartellina. Lowell fece una smorfia: allora Janos era un nome falso? «Vuol dire che è schedato?» «Nossignore.» «E allora come fanno ad avere le sue impronte digitali?» «Erano nello schedario interno.» «Non capisco.» «Divisione reclutamento, signore», spiegò William. «Pare che qualche anno fa il nostro uomo abbia fatto richiesta di assunzione presso l'FBI.» «Stai scherzando, vero?» «Nossignore. Ha fatto davvero domanda.» «All'FBI?» «Esatto», confermò William. «E perché non l'hanno assunto?» «Questo non me l'hanno voluto dire. Pare sia una questione troppo riservata per noi semplici mortali. Ma quando l'ho supplicato di darmi almeno un indizio, il mio amico dell'FBI mi ha detto che la sua domanda puzzava.» «Pensavano che volesse infiltrarsi? Per conto proprio o pagato da qualcuno?» «Ha importanza?» «Dobbiamo seguire le sue tracce fuori dal sistema. Prova a vedere se ha...» «Come crede che abbia impiegato l'ultima ora?» Lowell provò ancora a sorridere, ma era così teso che dovette afferrarsi ai braccioli della poltrona con entrambe le mani, e lottare con sé stesso per costringersi a rimanere seduto. William lavorava per lui da abbastanza tempo per sapere cosa significavano quei gesti involontari. «Avanti, dimmi cos'hai scoperto», insistette Lowell.
«Ho seguito una pista che portava ad alcune connessioni estere... Secondo i sistemi di sicurezza di vari paesi quelle impronte appartengono a un tale di nome Martin Janos, alias Janos Szasz, alias...» «Robert Franklin», concluse Lowell. «Bingo! Sempre lui.» «E com'è che all'estero avevano le sue impronte?» «Questa è proprio la ciliegina sulla torta: il nostro amico ha lavorato per la Five.» «Di che diavolo stai parlando?» «Martin Janos, o come diavolo si chiama, è stato un MI-5: servizi segreti dell'Intelligence britannica.» Lowell chiuse gli occhi e cercò di ricordare la voce di Janos. Se era inglese ormai aveva perso l'accento. Oppure sapeva nasconderlo bene. «Quando è entrato nella Five era poco più che un ragazzino, subito dopo il college», aggiunse William. «Pare avesse una sorella che rimase uccisa nello scoppio di un'autobomba. Evidentemente la cosa non gli andò giù. Così fu assunto come recluta semplice.» «Mai stato nell'esercito, dunque?» «Se ha fatto il servizio militare, dagli atti non risulta.» «Dal profilo direi che non ha fatto molta carriera.» «Era un semplice analista del Dipartimento pianificazione preventiva. Sembra un posto in cui ti mettono a fissare tutto il giorno lo schermo di un computer graffettando quintali di scartoffie. A ogni modo il nostro uomo non ci rimase a lungo: in due soli anni riuscì a farsi licenziare.» «Per quale ragione?» «Sorpresa, sorpresa: insubordinazione. Loro gli dissero di fare un certo lavoro, e lui si rifiutò. Un superiore gli fece rapporto, ne nacque una discussione un po' vivace, e a questo punto il giovane Janos afferrò la graffettatrice e l'usò per picchiare l'ufficiale.» «Ragazzo nervoso, eh?» «I giovani intelligenti lo sono spesso», rispose William. «Ma pare che il nostro uomo fosse una vera e propria polveriera. Appena licenziato, infatti, si mise in proprio e cominciò a lavorare per il miglior offerente...» «E adesso è di nuovo sul mercato», concluse Lowell. «È possibile», disse William. E le parole gli morirono sulle labbra. «Cioè?» domandò Lowell. «No, niente, è solo che... dopo aver servito sua maestà la regina questo Janos scompare per più di cinque anni, poi un bel giorno si presenta all'uf-
ficio reclutamento dell'FBI e chiede di essere assunto con una nuova carta d'identità. Quelli dell'FBI sospettano che voglia infiltrarsi e lo respingono: il giorno dopo lui scompare nuovamente nel nulla e nessuno ne sa più niente fino a qualche giorno fa, quando questo pericolosissimo soggetto sembra impiegare tutte le raffinate abilità acquisite in lunghi anni di tirocinio per... ehm... spaccare finestrini d'auto.» William lasciò calare una lunga pausa di silenzio, durante la quale non smise di guardare fissamente il suo capo. Lowell non abbassò gli occhi. Il telefono sulla scrivania squillò, ma lui non rispose. Più studiava il viso del suo assistente più si rendeva conto che quello non era un rapporto, né tantomeno una discussione. Era un'offerta d'aiuto. «Signore, se c'è qualcosa che posso fare per lei...» «Te ne sono molto grato, William, davvero. Ma prima che tu ti tuffi a capofitto in una storia poco chiara voglio saperne di più.» «Almeno potrei...» «Dammi retta, William. Il tuo contributo è già stato preziosissimo, non lo dimenticherò, te l'assicuro. Per ora limitiamoci a portare avanti le indagini.» «Certamente, signore», disse William sorridendo. «Ci sto lavorando.» «Qualche indizio di cui valga la pena parlare?» «Soltanto uno», disse William, indicando la cartellina rossa da cui spuntava l'angolo di un fax proveniente dal Dipartimento d'indagine contro i crimini finanziari. «Se ho potuto scoprire tutte le false identità di questo Janos è stato grazie ai ragazzi della FinCEN, che hanno trovato anche un conto corrente bancario off shore collegato a una banca di Antigua.» «Non sapevo che avessimo accesso a questo genere di informazioni...» «Be', ecco, dopo l'11 settembre alcuni paesi si sono dimostrati un po' più collaborativi, soprattutto quando si chiama dall'ufficio del procuratore generale.» A questo punto Lowell dovette proprio sorridere. «Pare che negli ultimi tempi un sedicente gruppo Wendell abbia accreditato su questo conto corrente almeno quattro milioni di dollari. Per il momento sappiamo solo che è una ditta di facciata, con un comitato direttivo di fantasia.» «Pensi di poter risalire alla proprietà?» «Ci sto provando», rispose William. «Ficcando un po' il naso nei posti giusti... Dia retta a me, ho visto come lavorano i ragazzi: se gli dessi il cognome di sua madre sarebbero capaci di risalire ai dodici dollari che depo-
sitò sul suo libretto di risparmio quando lei compì sei anni.» «Allora siamo in buone mani?» «Mettiamola così, signore, lei vada pure da McDonald's a farsi un caffè con i dolcetti, e quando torna in ufficio le garantisco che avrà i dirigenti della Wendell - o come diavolo si chiama - seduti sulle ginocchia.» «Apprezzo molto quello che stai facendo», disse Lowell continuando a osservarlo. «Sono in debito con te.» «Non mi deve nemmeno un penny canadese, signore», replicò pronto William. «Me l'ha insegnato lei stesso: guai a prendersi gioco del Dipartimento di giustizia.» 64. «È qui?» fa Viv scendendo dal taxi che ci ha portato nel centro di Arlington, in Virginia, e piegando la testa per guardare in su. «Mi aspettavo un gigantesco conglomerato di edifici scientifici.» Davanti a noi, invece, sorge una moderna palazzina a dodici piani. Dalla vicina stazione della metropolitana esce un flusso continuo di pendolari che scorre davanti alle vetrine dei caffè e delle spuntinerie alla moda, angolose come il quartiere che le circonda. La palazzina non ha niente di diverso da tutte le altre dei dintorni, se non fosse per tre parole scolpite sulla facciata di pietra rosa: National Science Foundation. Entriamo dall'ingresso principale. Mentre spingo una delle pesanti porte di vetro controllo ancora una volta la strada. Se fosse qui, Janos non ci lascerebbe certo entrare, ma questo non significa che non sia vicino. «Buongiorno, dolcezza, cosa posso fare per te?» mi interpella la donna col maglione verde palude seduta dietro il banco arrotondato della reception. Sulla destra, invece, c'è un agente della sicurezza basso e tozzo, i cui occhi indugiano a lungo su di noi. «Ecco... dobbiamo vedere il dottor Minsky», rispondo, cercando di concentrarmi sulla donna. «Abbiamo un appuntamento a nome del deputato Cordell...» aggiungo. Per farci ricevere ho speso il nome del capo di Matthew. «Benissimo», dice la donna, come se fosse davvero molto contenta per noi. «Mi date un documento d'identità, per favore?» Viv mi guarda di sbieco: finora abbiamo cercato di non dare mai il nostro vero nome. «Tutto a posto, Teri: li porto su io», interviene in mio soccorso una e-
nergica voce femminile. In quel momento dal fondo dell'atrio, accanto agli ascensori, una donna alta infilata in un tailleur di sartoria ci saluta con la mano come se fossimo vecchi amici. «Marilyn Freitas, ufficio del direttore», si presenta, stringendomi la mano e sfoggiando un sorriso da valletta televisiva. Il tesserino di riconoscimento sul risvolto della giacca mi dice il resto: direttore affari pubblici e legislativi. Non è una segretaria. Per riceverci hanno tirato fuori l'artiglieria pesante, e anche se quella donna non l'ho mai vista in vita mia, so già a memoria i passi della danza che balleremo insieme. La National Science Foundation riceve dal Comitato per gli stanziamenti almeno cinque miliardi di dollari l'anno: avendo dato il nome di uno dei principali stanziatori del Congresso, è ovvio che tireranno fuori il tappeto rosso delle grandi occasioni. Ecco perché ho usato il nome del capo di Matthew anziché quello di Stevens. «Il deputato non è con voi?» mi fa la donna, sempre sorridendo. Mi volto per guardare la porta di vetro. Lei penserà che lo faccia per controllare se l'onorevole è arrivato: io invece cerco con gli occhi Janos. «Sarà qui da un momento all'altro, ma ha detto di cominciare senza di lui», le spiego. «Non si sa mai.» Il sorriso della donna si appanna impercettibilmente. Avrebbe preferito incontrare personalmente il deputato, ma è abbastanza intelligente da sapere che anche lo staff ha la sua importanza. «In qualunque momento deciderà di arrivare, saremo felici di riceverlo», dice, e ci fa cenno di seguirla verso gli ascensori. «Ah, quasi dimenticavo: benvenuti alla NSF.» Mentre l'ascensore sale verso il decimo piano mi viene in mente un'altra corsa in ascensore, quella che abbiamo fatto ieri, con la gabbia che rimbalzava contro le pareti del pozzo e l'acqua che ci gocciolava in testa tamburellando sui nostri elmetti viscidi. Mi appoggio al lucido corrimano d'ottone e sorrido a Viv. Ma lei fa finta di non vedermi, e non distoglie gli occhi dai numeretti digitali che accompagnano la nostra salita: essere amici non le interessa più. Adesso vuole soltanto che questa storia finisca al più presto. «Mi pare di aver capito che volete parlare con il dottor Minsky a proposito dei neutrini», dice Marilyn, cercando di avviare una conversazione. Annuisco. Viv cerca di mostrare un qualche interesse: «Pare sia il massimo esperto in materia», dice, cercando di non farla sembrare una doman-
da. «Oh, certo!» replica Marilyn. «È proprio da lì che ha preso avvio la sua carriera: dalle particelle subatomiche. E anche il suo primo libro sui leptoni... be', certo, oggi magari è un po' superato, ma vi assicuro che quando uscì era decisamente all'avanguardia.» Annuiamo entrambi, come se stesse parlando del cruciverba uscito sul giornale di oggi. «Ed è proprio qui che il professore compie le sue ricerche?» domanda ancora Viv. La donna fa quel risolino con cui in genere si accarezza la testa di un bambino piccolo che ha detto qualcosa di buffo: «Immagino che al dottor Minsky piacerebbe molto tornare alle attività di laboratorio, ma purtroppo la ricerca non è più nel suo mansionario. Quassù ci occupiamo principalmente di finanziamenti.» La descrizione è pertinente, ma notevolmente sottostimata. Questa gente non si limita a occuparsi di finanziamenti: li controlla. L'anno scorso la National Science Foundation ha finanziato più di duemila strutture di studio e di ricerca sparse un po' ovunque: in questo modo può avere le mani in pasta in quasi tutti gli esperimenti scientifici di rilievo che si svolgono nel mondo: dal radiotelescopio con cui osserviamo l'evoluzione dell'universo alle teorie climatiche che un giorno potrebbero permetterci di controllare il bello e il cattivo tempo. Se avete un sogno, la NSF può prendere in considerazione l'idea di finanziarlo. «Ecco, siamo arrivati», fa Marilyn quando le porte dell'ascensore si aprono silenziosamente davanti a noi. Sulla sinistra c'è una porta con una targa in caratteri d'argento: DIPARTIMENTO PER LE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE. La scritta è così grande da non lasciare quasi spazio al logo della NSF: cose che capitano quando si tratta della principale delle undici divisioni interne alla fondazione. Marilyn ci fa strada oltre una seconda reception e lungo un corridoio fino a un salottino arredato come una sala d'attesa d'ospedale. Sembra abbia rinunciato a fare conversazione. A destra e a sinistra le pareti sono decorate da poster d'argomento scientifico: in uno si vede una fila di satelliti artificiali allineati sotto un arcobaleno, in un altro c'è una foto della galassia Pinwheel presa dall'osservatorio astronomico di Kitt Peak. Immagino ce li abbiano messi per distrarre e calmare i visitatori ansiosi, ma non è propriamente questo il loro effetto.
In fondo al corridoio sento aprirsi le porte dell'ascensore e mi volto per vedere chi sta arrivando: se noi siamo stati capaci di contattare il primo esperto nazionale in materia di neutrini, può farlo anche Janos. Dall'ascensore esce un uomo con spesse lenti da vista e un maglione sgualcito. Abbigliamento che lo identifica come esponente della fauna locale. Viv legge il sollievo sulla mia faccia e torna a osservare la sala d'attesa, sulla quale si affaccia una mezza dozzina di porte chiuse. Tutte con il numero 1005. Quella dritto davanti a noi ha anche un suffisso, .09: solo alla NSF le stanze hanno una numerazione decimale. «Dottor Minsky?» fa Marilyn, bussando leggermente e ruotando la maniglia. Quando la porta si apre un signore anziano, dall'aspetto distinto e dalle guance tondeggianti, si è già alzato e si dirige verso di me per stringermi la mano. Ma nel farlo i suoi occhi guardano oltre la mia spalla. Cerca il deputato Cordell. «L'onorevole sarà qui a momenti», gli spiega Marilyn. «Ha detto di cominciare pure senza di lui», aggiungo io. «Perfetto... una vera perfezione...» commenta lo scienziato guardandomi finalmente in faccia. Mentre i suoi occhi grigiofumo mi osservano, Minsky si gratta leggermente un angolo della barba che, come i capelli sottili e divisi in ciocche, è ormai molto più sale che pepe. Odio avere a che fare con gli accademici: tutte le abilità sociali messe a punto in altri ambiti sociali risultano sempre leggermente sfasate. «Credo di non aver mai avuto il piacere...» decide infine lo scienziato. «Andy Defresne», mi presento. «E questa è...» «Catherine», dice Viv, rifiutando il mio aiuto. «Una delle nostre praticanti», aggiungo io, cercando di dire qualcosa che gli impedisca di guardarla troppo attentamente. «Piacere, dottor Arnold Minsky», si presenta lui stringendole la mano. «Una volta avevo un gatto che si chiamava Catherine.» Viv annuisce cercando di mostrarsi gentile, e subito distoglie gli occhi per scoraggiare ulteriori divagazioni. Nella stanza c'è un divano imbottito con due poltrone uguali. Lungo la parete di destra, una grande vetrata di cristallo offre una pregevole vista del centro di Arlington. Da bravo accademico, però, Minsky punta dritto alla sua scrivania, sepolta sotto pile di documenti, libri e articoli di riviste meticolosamente ordinati per formato. Per abitudine professionale, l'esimio studioso non trascura nemmeno la più insignificante molecola di materia.
Mi impadronisco della poltrona davanti alla scrivania mentre Viv prende posto vicino alla finestra, da dove si può tenere d'occhio la strada affollata. Sempre in attesa di Janos. Osservo le pareti per trovare qualcosa che mi parli del mio interlocutore, ma diversamente da quelle vetrine dell'ego che sono gli interni lavorativi di Washington, qui non ci sono né diplomi, né foto con personaggi famosi, né ritagli di giornale incorniciati. Evidentemente Minsky non ne sente il bisogno. Non deve più dimostrare di essere qualcuno. Ma a conferma del fatto che ogni universo batte moneta propria, le pareti, a destra e a sinistra della scrivania, sono ricoperte da una libreria su misura carica di centinaia di libri e testi accademici. Tutti con le coste debitamente consunte: è questo il dettaglio che conta. Al Congresso si esibiscono fama e status. In ambito scientifico, conoscenza. «Chi è quello insieme a lei nella foto?» domanda Viv indicando una bella cornice d'argento: accanto a Minsky c'è un uomo anziano con i capelli ricci e l'espressione bizzarra. «Murray Geli-Mann», risponde Minsky. «Vincitore del premio Nobel...» Mi rimangio quel che ho appena pensato. Lo status è sempre importante. «Allora, in cosa posso esservi utile?» comincia Minsky. «Ecco, vorremmo chiederle di spiegarci qualcosa a proposito dei neutrini...» 65. «Allora, li hai visti?» domandò Janos reggendo con una mano il cellulare e con l'altra il volante della berlina nera. Il traffico mattutino non era dei peggiori, per essere a Washington, ma ormai bastava un contrattempo a fargli saltare i nervi. «Come ti sono sembrati?» «Non sanno più dove sbattere la testa», rispose l'altro. «Harris non riusciva quasi a spiccicar parola, e la ragazza...» «Viv.» «Una cosetta tutta rabbia, lo si sente nell'aria. Sembrava sul punto di staccargli la testa dal collo.» «Cosa ti ha detto, Harris?» «Niente che tu già non sappia.» «Ma davvero sono venuti a cercarti lì?» «Certo. E stavano per salire nell'ufficio del capo, ma non gli è andata bene.»
«Ti sei occupato tu di tutto quanto?» «Sì, ho fatto come mi avevi detto.» «E ti hanno creduto?» «Su tutto, anche su Dinah. Diversamente da Pasternak, io so vedere attraverso la gente.» «Sì, sei un vero eroe», disse Janos, acido. «Be', ecco... non dimenticarti di dirlo al tuo capo. Fra il mutuo, le operazioni chirurgiche e tutti i debiti che ho...» «Li conosco, i tuoi problemi finanziari. È per questo che...» «No, non dire che l'ho fatto per i soldi, per me possono andare a farsi fottere, i soldi. C'è ben di più. In fondo se la sono cercata. La colpa è loro. Tutte quelle mortificazioni... e le alzatine di spalle... La gente pensa che io non mi accorga mai di nulla.» «Te l'ho già detto, ti capisco perfettamente. È proprio per questo che mi sono rivolto a te.» «Bene, perché non vorrei arrivassi alla conclusione che noi lobbysti pensiamo solo ai soldi. È uno stereotipo insultante.» Janos non replicò. In un certo senso, quell'uomo era proprio come la berlina che stava guidando: troppo decantata, e dalle prestazioni appena sufficienti. Ma come si era detto al momento di noleggiarla, ci sono cose che aiutano a passare inosservati, a Washington. «E per caso ti hanno detto anche dove sarebbero andati?» domandò. «No, ma mi sono fatto un'idea...» «Anch'io», lo interruppe Janos, svoltando bruscamente a destra e infilandosi in un parcheggio sotterraneo. «Buongiorno!» gridò poi dal finestrino salutando con un cenno della mano il sorvegliante, che gli rispose con un sorriso amichevole. «Sei dove ti ho detto io?» gli domandò l'altro. «Non preoccuparti di dove sono», lo bloccò subito Janos. «Tu pensa a Harris. E se si fa ancora vivo, vedi di tenere occhi e orecchie bene aperti.» «Per quanto riguarda le orecchie puoi stare tranquillo», gli rispose Barry, e la sua voce gracchiò un po' nel cellulare. «Ma con gli occhi ho sempre avuto qualche problemino.» 66. «Per che cosa vi servono queste informazioni?» mi fa il dottor Minsky raddrizzando il filo di ferro di una graffetta e usandolo per tamburellare
leggermente contro il bordo del tavolo. «Vorremmo semplicemente saperne di più», gli rispondo, tanto per avviare la conversazione. «Ci è stato sottoposto un progetto...» «Un nuovo esperimento sui neutrini?» mi interrompe il professore tutto eccitato. A quanto pare la questione neutrini è ancora il suo giocattolo preferito, e se là fuori qualcuno sta ideando qualcosa di nuovo, vuole essere il primo a giocarci. «Purtroppo non glielo so dire», ribatto. «La cosa è ancora a uno stadio iniziale.» «Ma se si tratta di...» «Ecco, forse non dovrei dirlo, ma la proposta viene da un amico dell'onorevole», lo interrompo. «È strettamente confidenziale.» Con le sue due lauree in materie scientifiche, Minsky non ha certo difficoltà a capire quello che voglio dire. Distribuire favori agli amici è una pratica quotidiana, per deputati e senatori. È per questo che le notizie più importanti su ciò che avviene al Campidoglio i giornali non le riportano mai. E se in futuro vuole ottenere ancora qualcosa da noi, sa di doverci aiutare quando glielo chiediamo. «Mi stava dicendo dei neutrini...» riprende lui. Sorrido. E anche Viv, ma poi volta subito la testa per guardare di nuovo fuori della finestra: Janos è sempre in testa ai suoi pensieri. Sa che possiamo continuare a seminarlo solo assicurandoci un ampio margine di vantaggio. «Mettiamola così», comincia Minsky adottando un tono professorale. In mano ha ancora la graffetta srotolata, e la usa come un piccolo puntatore per tracciare una serie di linee rette dal soffitto al pavimento. «In questo preciso momento, mentre noi tre ce ne stiamo qui a chiacchierare, cinquanta miliardi - non milioni, miliardi - di neutrini cadono giù dal sole, ci penetrano nel cranio, attraversano tutto il nostro corpo, escono dalla pianta dei piedi e proseguono allo stesso modo lungo i nove piani di questo edificio. Ma non si fermano al piano terra, continuano a viaggiare oltre le fondamenta di cemento, attraversano il centro della Terra, spuntano fuori in Cina e proseguono in linea retta verso la Via Lattea. Lei se ne sta qui tranquillo a chiacchierare, e intanto loro la bombardano. Cinquanta miliardi di neutrini ogni secondo che passa. Viviamo immersi in un mare di neutrini.» «E come sono? Somigliano ai protoni? Agli elettroni? Che cosa sono?» Il professore abbassa gli occhi, cercando di non fare smorfie. Per l'uomo di scienza niente è peggio del profano volgo. «Nel mondo subatomico ci
sono tre tipi di particelle dotate di massa. In primo luogo i quark, le particelle più pesanti, che compongono protoni e neutroni. Poi gli elettroni e affini, che sono molto più leggeri. E infine i neutrini: così incredibilmente leggeri che alcuni miscredenti hanno potuto sostenere che non hanno alcuna massa.» Annuisco, ma lui sa bene che navigo ancora in alto mare. «E proprio qui sta la loro importanza», aggiunge. «Infatti noi siamo in grado di calcolare la massa di tutto ciò che si vede al telescopio, ma anche sommando le cifre così ottenute il totale costituisce solo il dieci per cento del peso dell'universo. Il restante novanta per cento non siamo in grado di calcolarlo. Dov'è questo novanta per cento mancante? O per dirla con le parole con cui i fisici si sono posti la stessa domanda negli ultimi decenni: dov'è la massa mancante dell'universo?» «Nei neutrini?» sussurra Viv, ancora abituata a reagire da studentessa. «Nei neutrini», conferma Minsky indicandola con la graffetta. «Certo, forse nemmeno i neutrini rappresentano l'intero novanta per cento di massa mancante, ma potrebbero costituirne una buona fetta... diciamo che sono i candidati più promettenti.» «Allora, se qualcuno si mette a studiare i neutrini, significa che sta cercando di...» «...spezzare il lucchetto che ancora ci impedisce di ficcare le mani nel tesoro più prezioso di tutto l'universo», conclude Minsky. «I neutrini in cui sguazziamo si sono formati al momento del big bang, ma ancora si producono all'interno di ogni supernova, e anche nei processi di fusione che avvengono al centro del sole. Secondo voi, cos'hanno in comune questi tre eventi?» «Grosse esplosioni?...» «La creazione», rettifica lui. «Ecco perché i fisici si intestardiscono tanto a studiare come sono fatti i neutrini. Ed ecco perché, qualche anno fa, questo genere di ricerche ha fruttato a Davis e Koshiba il premio Nobel. Scoprite il segreto dei neutrini e potreste aver svelato la natura ultima della materia: la chiave dell'evoluzione dell'universo.» È una gran bella frase, ma non mi avvicina di un millimetro alla soluzione dei miei problemi. È venuto il momento di parlare fuori dai denti. «Lei ritiene che i neutrini potrebbero essere sfruttati per costruire un'arma?» Per un attimo Viv distoglie gli occhi dalla finestra. Minsky solleva impercettibilmente la testa, vivisezionandomi con i suoi penetranti occhi di scienziato. Forse è un genio, ma non ce ne vuole un altro per capire che la
conversazione è arrivata a una svolta. «E perché mai qualcuno dovrebbe volerne ricavare un'arma?» domanda a sua volta. «Non ho detto che qualcuno lo voglia fare, vorremo solo sapere se è possibile.» Minsky posa la graffetta e appoggia il palmo delle mani sulla superficie del tavolo. «Posso sapere con un po' più di precisione di quale progetto stiamo parlando, signor Defresne?» «Forse questa parte dovrei lasciarla all'onorevole», faccio io, cercando di disinnescare la tensione. Ma ottengo solo l'effetto di bruciare quasi il fusibile. «Forse invece farebbe meglio a spiegarmi esattamente quale sarebbe lo scopo di questo fantomatico progetto», insiste Minsky. «Mi piacerebbe molto, ma per il momento la cosa è confidenziale.» «Confidenziale?» «Sissignore.» Il fusibile sta per saltare. Minsky non muove un muscolo. «Ascolti, posso essere del tutto sincero con lei?» gli dico. «Sarebbe ora.» Usa il sarcasmo come una sorta di scrollone mentale. Mi agito a bella posta nella poltrona per dargli la sensazione di aver preso lui il controllo. Quello di fingermi ormai alle corde è solo uno stratagemma per fargli mettere le carte in tavola. Anche se ha vent'anni più di me, io ho imparato il gioco dai migliori manipolatori del mondo, mentre lui è soltanto il primo della classe in matematica e scienze. «Okay», comincio. «Quattro giorni fa il nostro ufficio ha ricevuto una richiesta preliminare per la costruzione di un laboratorio di ricerca sui neutrini. Il documento è stato consegnato a mano all'indirizzo privato dell'onorevole.» Convinto di essere ormai riuscito a scoprire il mio gioco, Minsky si riprende la graffetta. «Da chi veniva la richiesta? Dal governo o dall'esercito?» domanda. «Perché mi fa questa domanda?» «Perché nessun altro potrebbe permetterselo. Ha una vaga idea di quanto costi una cosa del genere? Nessuna impresa privata può sborsare tanti soldi.» Viv e io ci scambiamo un'occhiata: stiamo pensando alla Wendell, e ai misteriosi soggetti che potrebbero nascondersi dietro la sua facciata. «Mi parli del progetto», fa Minsky.
«Dovrebbe essere esclusivamente a scopo di ricerca, ma quando si installa un laboratorio nuovissimo a 2500 metri sotto la superficie terrestre, la cosa non può non destare curiosità. A nome di tutte le parti in causa il nostro ufficio vuole assicurarsi che fra dieci anni la cosa non ci esploderà tra le mani. Quindi vorremmo sapere, nel peggiore dei casi, quali potrebbero essere i rischi.» «Una miniera abbandonata, eh?» fa lui. Non sembra sorpreso. «Come fa a saperlo?» replico. «Non c'è altro modo. Il laboratorio Kamioka, in Giappone, è in una vecchia miniera di zinco. Quello di Sudbury, nell'Ontario, è in una miniera di rame... Sa quanto verrebbe a costare scavare un buco così profondo e verificarne tutti i sostegni strutturali? Se non si può utilizzare una miniera abbandonata bisogna calcolare da due a dieci anni di lavori in più e una spesa di miliardi di dollari.» «Ma perché bisogna andare fin là sotto?» domanda Viv. Minsky sembra irritato dalla banalità della sua domanda: «Per schermare gli esperimenti dalle radiazioni cosmiche», risponde. «Radiazioni cosmiche?» ripeto io in tono interrogativo. «Che bombardano continuamente la Terra.» «E sarebbero?...» «Mi rendo conto che potrà sembrarvi mera fantascienza, ma provate a rifletterci: ogni volta che prendete l'aereo per andare da una costa all'altra subite l'equivalente di un paio di schermografie al torace. Infatti le compagnie aeree controllano sempre con la massima cura che le assistenti di volo non siano incinte. Viviamo immersi in particelle di ogni genere: anche qui, in questo momento. E allora, perché portare la scienza sottoterra? Niente rumori di fondo. Quassù, perfino lo schermo digitale del suo orologio da polso emette particelle di radio, il che significa che anche con la più efficace delle schermature in piombo ci sono interferenze dappertutto. Sarebbe come pretendere di realizzare un intervento a cuore aperto durante un terremoto. Sotto la superficie terrestre, invece, il rumore radioattivo non si sente più: quindi solo là è possibile individuare i neutrini.» «Allora il fatto che quel laboratorio venga allestito sottoterra...» «...È una necessità imprescindibile», conferma Minsky. «Quel tipo di ricerca si può effettuare solo così. Niente miniera, niente progetto.» «Ubicazione, ubicazione...» mormora Viv, gettandomi una delle sue occhiate. È la prima volta nelle ultime settantadue ore che qualcosa comincia ad avere un senso. Finora pensavamo che la miniera servisse solo a na-
scondere le macchinazioni della Wendell, e invece pare che faccia parte dello scopo intrinseco del progetto. È per questo che avevano così bisogno che Matthew inserisse il trasferimento di proprietà nella legge finanziaria: senza la miniera non potevano nemmeno cominciare. «Ovviamente, però, la cosa più importante è capire che cosa si sta realizzando laggiù», precisa Minsky. «Avete portato un diagramma?» «Ecco... io... ce l'ha l'onorevole», mento per non sprecare l'opportunità. «Ma l'ho visto e me lo ricordo bene: c'è una grande sfera metallica piena di fotomoltiplicatori...» «Un rilevatore di neutrini», m'interrompe Minsky. «È un serbatoio speciale che, riempito d'acqua pesante, serve a bloccare - e quindi a individuare - i neutrini. Il problema è che le altre particelle che compongono i raggi cosmici interferiscono con gli eventuali sistemi impedendo la rilevazione dei neutrini. Inoltre, i neutrini passano continuamente da un'identità all'altra: noi diciamo che danno origine a neutrini di diversi "sapori". Un po' come la storia del dottor Jekyll e di mister Hyde. E questo li rende ancora più difficili da individuare.» «Allora i fotomoltiplicatori servono solo per l'osservazione?» «Potete immaginarlo come un grosso microscopio chiuso su sé stesso. Un macchinario alquanto costoso: ne esistono pochissimi esemplari al mondo.» «E che mi dice del magnete?» «Quale magnete?» «Nello schema c'è un corridoio molto stretto con una gigantesca calamita e dei lunghi tubi metallici.» «Un acceleratore?» fa Minsky, confuso. «Non ne ho idea... e poi c'è una cassa con scritto TUNGSTENO.» «Un blocco di tungsteno: allora è proprio un acceleratore. Ma...» Lo scienziato si blocca e cade in un silenzio alquanto insolito per lui. «Cosa? C'è qualcosa che non va?» «No, niente... è solo che, di solito, dove c'è un rilevatore non si può usare l'acceleratore. Il rumore interferirebbe con l'esperimento.» «Ne è sicuro?» «Be', quando si tratta di neutrini... voglio dire, è un campo di studi in continuo movimento... nessuno può essere sicuro di niente. Ma fino a oggi, o si studiava l'esistenza dei neutrini, o se ne studiava il movimento.» «E cosa succederebbe se si mettessero insieme un rilevatore e un acceleratore?»
«Non saprei proprio», risponde Minsky. «A quanto mi risulta non ci ha mai provato nessuno.» «Ma se qualcuno lo facesse... quali potrebbero essere le potenziali applicazioni?» «Vuol dire da un punto di vista meramente teorico oppure...» «Perché il governo o l'esercito dovrebbero voler fare una cosa del genere?» taglia corto Viv, andando dritta al punto: a volte ci vuole un ragazzino per dare un taglio a tanti giri di parole. D'altra parte Minsky non è uno sprovveduto, e sa benissimo cosa succede quando il governo mette le mani sulla scienza. «Indubbiamente potrebbero esserci alcune potenziali applicazioni difensive», comincia. «In realtà l'acceleratore non sarebbe strettamente necessario: ma mettiamo il caso che gli Stati Uniti volessero scoprire se un certo paese possiede armi nucleari. In teoria si potrebbe mandare sulla zona un aeroplanino telecomandato, prelevare un campione d'aria e usare il "silenzio" della miniera per misurarne la radioattività.» È una teoria interessante: ma se così fosse quelli della Wendell - o chi diavolo sono - avrebbero chiesto di poter utilizzare la miniera al sottocomitato stanziamenti della Difesa. Invece, cercando di contrabbandare la vendita attraverso quello degli Interni, hanno fatto il gioco sporco, dal che si deduce che preferiscono non dare pubblicità a ciò che hanno per le mani. «E riguardo agli armamenti... o a qualche altra maniera di far soldi?» domando. Perso nelle sue riflessioni, Minsky si pettina la barba con la punta della graffetta raddrizzata. «Certo, ricavarne un'arma sarebbe senz'altro possibile... ma per quanto riguarda i soldi... intendeva dire letteralmente o in senso figurato?» «Come, scusi?» «Torniamo per un momento alla natura dei neutrini. Noi non possiamo osservare un neutrino come si osserva, per esempio, un elettrone. Non è visibile al microscopio, è come un fantasma. L'unico modo di studiarli è osservare le loro interazioni con altre particelle atomiche. Per esempio, ogni volta che un neutrino colpisce il nucleo di un atomo questo emette un certo tipo di radiazioni, una sorta di rimbombo ottico. Questo rimbombo noi lo possiamo rilevare, e ci dice che un neutrino è appena passato di lì.» «Si misura cioè la reazione fra due oggetti in collisione», commenta Viv. «Esattamente. La difficoltà consiste nel fatto che, quando colpisce un
oggetto, il neutrino lo cambia. Alcuni affermano che ciò avviene perché il neutrino stesso cambia continuamente. Altri ipotizzano che sia l'atomo a cambiare spontaneamente quando avviene la collisione. Nessuno può dirlo con sicurezza, non ancora.» «E tutto ciò cos'ha a che vedere con i soldi?» domando. A questo punto, con nostra grande sorpresa, Minsky si mette a ridacchiare. La sua barba sale e pepe sussulta tutta per il movimento. «Mai sentito parlare di trasmutazione?» Viv e io non osiamo quasi respirare. «Vuole dire, come quella che operava il re Mida?» azzardo io. «Mida... A questo punto tutti tirano in ballo il vecchio Mida», ride lui. «Non è divertente quando è la fiction a dare il la alla scienza?» «Lei crede che si possano usare i neutrini per fare dell'alchimia?» domando di nuovo. «Alchimia?» ripete lui. «L'alchimia è una filosofia medievale. La trasmutazione invece è scienza: come trasformare un elemento in un altro per mezzo di una reazione subatomica.» «Non capisco. Come possono i neutrini?...» «Facciamo un passo indietro. Torniamo a Jekyll e Hyde. Abbiamo detto che i neutrini cominciano con un certo "sapore", poi cambiano e diventano qualcos'altro. È proprio per questo che possono dirci molto sulla natura della materia. Qui...» aggiunge lo scienziato, aprendo il cassetto in alto a sinistra della scrivania e frugandoci dentro per qualche secondo. Ma poi lo richiude rumorosamente e ne apre un altro più in basso. «Okay, volevo dire, qui...» Dal cassetto esce un foglio plasticato che Minsky ci sbatte davanti sul ripiano della scrivania. È un familiare diagramma composto da caselline rettangolari: la tavola periodica degli elementi. «Questa almeno dovreste conoscerla», dice, e comincia a indicarci uno per uno gli elementi numerati. «Uno: idrogeno; due: elio; tre: litio...» «La tavola periodica. So come funziona», lo blocco. «Oh, davvero?» Abbassa di nuovo gli occhi per nascondere un sorriso. «Allora mi trovi il cloro», aggiunge poi. Viv e io ci sporgiamo in avanti e cominciamo a cercarlo. Più fresca di studi scientifici, Viv scatta quasi subito indicando col dito le lettere CL: cloro. 17
CL «Numero atomico 17», dice Minsky. «Peso atomico 35,453... classificazione, non-metallo... colore, verde-giallastro... gruppo alogeni. Ne avrete sentito parlare, giusto?» «Giusto.» «Bene, qualche anno fa, durante uno dei primi esperimenti di rilevazione dei neutrini, i ricercatori hanno riempito di cloro un serbatoio da quattrocentomila litri. Una puzza terribile.» «Come quella di una lavanderia a secco», commenta Viv. «Esatto», risponde Minsky, piacevolmente sorpreso. «Ora, non dimenticate che i neutrini si possono osservare solo quando collidono con un qualche atomo: è quello il momento magico. Quindi, quando i neutrini cominciarono a piombare dritti sugli atomi di cloro, i fisici che li stavano studiando poterono osservare che...» E ci indica di nuovo la tavola periodica, facendo scorrere il filo di ferro sulla casella immediatamente successiva a quella del cloro. Numero atomico 18. 17 18 CL AR «Argo», dice Viv. «Argo», conferma lui. «Simbolo atomico AR. Da 17 a 18: un protone in più, uno spostamento di una casella sulla tavola periodica.» «Aspetti: mi sta dicendo che quando il neutrino entrò in collisione con gli atomi di cloro, questi si trasformarono tutti quanti improvvisamente in atomi di argo?» domando io. «Tutti quanti? No, non siamo stati così fortunati... No, no, ci fu un solo, piccolo atomo di argo. Uno soltanto. Uno ogni quattro giorni circa. Un momento straordinario, e assolutamente casuale, che Iddio benedica il caos. Un colpo di neutrino e, come per magia, il 17 diventa 18... Jekyll si trasforma in Hyde.» «E lo stesso avviene all'aria che respiriamo?» domanda Viv. «Voglio dire, lei prima ha detto che i neutrini sono dappertutto...» «Naturalmente non sarà mai possibile osservare il fenomeno, con tutte le interferenze che ci sono. Ma se potessimo isolare una certa particella, per esempio servendoci di un acceleratore... e l'acceleratore fosse ben schermato, a una sufficiente profondità sottoterra... e si potesse indirizzare un
fascio di neutrini proprio lì... Be', per il momento non ci siamo nemmeno vicini. Ma provate a immaginare cosa accadrebbe se questo processo si potesse controllare. Potremmo prendere un certo elemento e spostarlo di peso nella casella successiva della tavola periodica. Se ciò fosse possibile...» Lo stomaco mi fa una capriola. «...Si potrebbe trasformare il piombo in oro.» Minsky scrolla la testa, e ridacchia di nuovo. «Oro? E perché mai lei vorrebbe produrre più oro?» «Ma... la storia di re Mida...» «Quella è solo una favoletta per bambini. Cerchi di tornare alla realtà. L'oro costa... vediamo un po', quanto costa? Trecento... quattrocento dollari l'oncia? Quando esce di qui vada in una gioielleria e compri una collana e un bracciale per la sua fidanzata: vedrà che è un'esperienza molto piacevole... piacevole e miope.» «Non sono sicuro di aver capito...» «Lasci perdere la mitologia. Se lei fosse davvero in grado di effettuare la trasmutazione, sarebbe veramente stupido usarla per produrre oro. Nel mondo contemporaneo ci sono elementi dal valore ben più elevato. Per esempio...» E Minsky trafigge di nuovo la tavola periodica con la graffetta. Simbolo atomico, NP. 93 NP «Quello è l'azoto, giusto?» faccio io. «Nettunio.» «Nettunio?» «Dal nome del pianeta Nettuno», spiega Minsky da bravo professore. «E cos'è?» lo interrompo bruscamente. «Domanda sbagliata», mi corregge Minsky. «Il problema non è tanto: cos'è?, quanto: cosa potrebbe diventare?» E con una stilettata finale pianta la graffetta sulla casella successiva. 93 NP
94 PU
«PU?» «Plutonio», fa Minsky, e all'improvviso non ride più. «Oggi, probabil-
mente, l'elemento più prezioso di tutta la tavola periodica.» Alza gli occhi per assicurarsi che abbiamo capito. «Ecco il nuovo tocco di re Mida.» 67. Mentre si lavava le mani nel gabinetto degli uomini del quarto piano, Lowell gettò un'occhiatina obliqua alla pagina di cronaca rosa del «Washington Post» che spuntava da sotto la porta di un box. Non era certo una novità, ogni mattina un ignoto collega cominciava la sua giornata leggendo al gabinetto proprio quella pagina del giornale che poi lasciava lì, nel caso a qualcuno fosse venuta voglia di leggere il resto. Lowell, che da anni ormai leggeva solo la rassegna stampa che gli preparava il suo staff, riteneva che quel rituale andasse oltre la linea di demarcazione fra la convenienza e la mancanza d'igiene. E quindi mai, nemmeno una volta, si era chinato a raccogliere il giornale. Non era difficile immaginare cosa stavano facendo le altre persone che l'avevano toccato, e dove erano state le loro mani. Eppure ci sono cose più forti del disgusto. Per esempio il desiderio di dare un'occhiata alla nefasta rubrica di pettegolezzi intitolata Da fonti attendibili per controllare se vi compare il nostro nome. Quella mattina, per esempio, Lowell si era ripromesso di farlo: ma aveva poco tempo. Erano ormai passati tre giorni dal suo incontro con Harris, quando al ristorante aveva contato almeno quattro giornalisti. Per il momento la cosa non aveva avuto conseguenze, ma uno di quei reporter poteva sempre decidersi a vuotare il sacco. Una ragione più che sufficiente per dare una controllatina. Lowell estrasse il giornale da sotto la porta trascinandolo con la punta della scarpa. La pagina di sotto, bagnata, si appiccicava leggermente al pavimento. Cercò di non farci caso, concentrandosi sulla complicata manovra di sfogliare le pagine con il piede fino a quella che gli interessava. Ma ci aveva appena infilato dentro la punta della scarpa quando la porta del gabinetto si aprì di colpo. Lowell si voltò, fingendosi indaffarato con l'asciugamani. Era il suo assistente che si precipitava dentro come una furia, senza fiato. «William, ma che diavolo...» «Deve assolutamente leggere questo», disse l'altro tendendogli la solita cartellina rossa. Lowell guardò attentamente il suo assistente, finì di asciugarsi le mani, prese la cartellina e l'aprì. Riconobbe subito l'intestazione ufficiale. Spa-
lancò gli occhi, e subito la colonna dei pettegolezzi del «Washington Post» scese all'ultimo posto nella scala delle sue preoccupazioni. 68. «Aspetti un momento», lo fermo. «Mi sta dicendo che qualcuno potrebbe scagliare dei neutrini contro del...» «Nettunio...» mi aiuta Minsky. «...nettunio, per creare una certa quantità di plutonio?» «Non ho detto che qualcuno l'abbia fatto, perlomeno non ancora. Ma non escludo che qualcuno ci stia lavorando... anche solo sulla carta.» Sembra fermamente convinto che le cose siano ancora a livello teorico, ma Viv e io sappiamo qualcosa che lui non sa. L'abbiamo visto con i nostri occhi. La sfera... l'acceleratore... perfino il tetracloroetilene... Allora è questo che sta facendo la Wendell, ed è per questo che ha bisogno della massima riservatezza. Se venisse fuori che stanno cercando di creare del plutonio... qualcuno potrebbe impedirgli di portare a termine l'esperimento. «Ma per ora nessuno è in grado di farlo, vero?» domanda Viv, più che altro per convincere sé stessa. «Non è possibile...» «Non pronunci quelle parole qui dentro!» scherza Minsky. «In via teorica tutto è possibile.» «Lasciamo perdere il fatto se sia possibile o meno», mi intrometto. «Ipotizziamo che lei sia in grado di farlo: quante probabilità ci sono che la cosa funzioni? Questo nettunio è disponibile in quantità sufficiente o è difficile da reperire?» «Il problema effettivamente è cruciale», risponde Minsky, puntandomi addosso la graffetta srotolata. «Il nettunio in natura è piuttosto raro: ma il nettunio-237, che può fare perfettamente al caso nostro, è un normale prodotto di scarto dei reattori nucleari. Qui negli Stati Uniti, dato che noi non riprocessiamo le scorie esauste, è difficile procurarselo: ma in Europa e in Asia ce n'è parecchio.» «E questo non è bene?» domanda Viv. «Quello che non è bene è che il monitoraggio globale del nettunio sia cominciato solo nel 1999. Ciò significa che ci sono alcuni decenni di nettunio dei quali non sappiamo assolutamente nulla. Chi può dire cos'è successo in quegli anni? Ormai potrebbe avercelo chiunque.» Man mano che il mio cervello rielabora le possibili conseguenze di tutto ciò comincio a contorcermi sulla poltrona. Mi asciugo le mani sudate sui
cuscini imbottiti. Qualche minuto fa ho finto di essere a disagio, ma a questo punto non ho più bisogno di simulare. Qualsiasi branca del governo abbia messo in piedi la Wendell Mining, non ne verrà fuori niente di buono. «Posso farle ancora una domanda?» fa Viv. «L'ho ascoltata attentamente, e credo di aver capito che la cosa si può fare e che è anche possibile procurarsi il nettunio. Ma quanto è probabile? Voglio dire, già il fatto di studiare i neutrini... è un campo di ricerca piuttosto limitato, giusto? Ci sarà solo un pugno di scienziati in grado di lavorarci... E allora, tutto considerato, dato che lei ha sott'occhio la comunità degli studiosi di neutrini, non crede... non crede che lo verrebbe a sapere, se qualcuno stesse preparando un esperimento del genere?» Minsky si gratta di nuovo la barba. Forse le sue competenze relazionali non sono tali da permettergli di cogliere il panico nella voce di Viv, ma almeno la sua domanda è chiara. «Mai sentito parlare di un certo dottor James A. Yorke?» dice infine. Scuotiamo simultaneamente la testa. Cerco di controllarmi, costringendomi a restare seduto. «È il padre della teoria del caos, ha addirittura inventato il termine. Almeno la metafora l'avrete sicuramente sentita citare... quella secondo cui una farfalla che sbatta le ali a Hong Kong può provocare un uragano in Florida. Bene, dalla teoria di Yorke deriva che fintanto che esiste anche una sola farfalla di cui ignoriamo l'esistenza, sarà impossibile prevedere a lungo termine le condizioni climatiche di una qualsiasi regione del pianeta. Basta una piccola farfalla. E come dice lui, ci saranno sempre farfalle sconosciute.» Le parole di Minsky mi colpiscono come un pugno allo stomaco. Sono stato proprio io a dire a Matthew di sbattere le ali... e adesso io e Viv siamo travolti dall'uragano. «Il mondo è grande e complesso», aggiunge Minsky, rivolgendosi principalmente a Viv. «Nemmeno io sono in grado di rispondere per tutti gli scienziati che lavorano nel mio campo. Capisce, signorina... scusi, ho dimenticato il suo nome.» «Adesso dobbiamo proprio andare», dico io, balzando in piedi. «Credevo dovessimo aspettare l'onorevole...» fa Minsky. Ma ormai ci stiamo avviando alla porta. «La ringrazio moltissimo, ci ha già detto tutto quello che volevamo sapere.» «Ma l'incontro...» Incredibile: gli abbiamo appena messo nell'orecchio una mal dissimulata
pulce su un progetto governativo che potrebbe portare alla creazione di plutonio, e lui si preoccupa del suo incontro personale con un deputato. Dio mio, ma cosa c'è di sbagliato in questa città? «Non si preoccupi, riferirò all'onorevole Cordell che il suo aiuto ci è stato preziosissimo», aggiungo, aprendo la porta e facendo cenno a Viv di uscire. «Gli porga i miei ossequi», fa lui, deluso. E aggiunge ancora qualcos'altro. Ma noi siamo già in fondo al corridoio e puntiamo dritti all'ascensore. «E adesso dove si va?» mi domanda Viv. Nell'unico posto dove Janos non penserebbe mai di cercarci: «Al Campidoglio». 69. «Non capisco», disse William rincorrendo il suo capo giù per le scale. «Dove stiamo andando?» «A te cosa sembra?» replicò Lowell, passando davanti alla targa del primo piano e proseguendo verso il seminterrato. «Dico dopo il garage: dove andiamo? Non dovremmo parlarne con qualcuno?» «Di che cosa? Del fatto che abbiamo scoperto chi c'è dietro la Wendell? E del fatto che non sono quello che fingono di essere? Certo, sappiamo che hanno assunto un certo Janos, ma finché non avremo scoperto anche il resto non possiamo muoverci. Per ora non abbiamo niente da dire a nessuno.» «E allora come procediamo?» «Niente plurale», disse Lowell. «Procedo io.» Quindi saltò a piè pari gli ultimi scalini, spalancò bruscamente la porta del seminterrato e fece irruzione nel garage. Non aveva da fare molta strada: il procuratore generale aggiunto ha un posto auto riservato proprio accanto alla porta. Volendo poteva essere al volante della sua auto in meno di quattro secondi. E invece si fermò e guardò attentamente a destra e a sinistra. Cercava Janos. Nella sua Audi non c'era nessuno. Lowell sbloccò le serrature centralizzate ed entrò in macchina. «Cosa pensa di fare?» domandò William vedendo che stava per chiudere la portiera. «Devo vedere un amico», rispose Lowell avviando il motore. Non era una bugia. Conosceva Harris da più di dieci anni, da quando en-
trambi lavoravano nell'ufficio del senatore Stevens. Ed era proprio per questa loro amicizia che Janos si era rivolto a lui. Aveva cercato di mettersi in contatto con lui in tutti i modi: l'aveva cercato al lavoro, a casa e sui suoi due cellulari. Se si stava nascondendo, c'era un solo posto in cui poteva farlo, quello che conosceva meglio di tutti. E solo rintracciando Harris avrebbe potuto conoscere il resto della storia. «Non dovrebbe richiedere una scorta armata?» «Perché mettano sotto torchio il mio amico? Credimi, conosco Harris e so come ragiona. Voglio farlo parlare, non mettergli paura.» «Ma, signore...» «Arrivederci, William.» Lowell tirò con forza la portiera, premette sull'acceleratore e uscì dal parcheggio. Non voleva ragionare troppo sulle conseguenze di ciò che stava per fare, ma ripassò mentalmente tutto quello che sapeva del suo amico: indubbiamente se si fosse presentato in Campidoglio con una squadra di agenti armati - anche a prescindere dal clamore che ciò avrebbe suscitato - Harris si sarebbe rifiutato di collaborare. Accese la radio e cercò di rilassarsi ascoltando il microfono aperto di una stazione radio. Sua nonna li adorava, i microfoni aperti, e a volte anche lui se ne serviva per ritrovare la calma interiore. L'abitacolo dell'Audi si riempì di storie analizzate e commentate dagli ascoltatori, e poco a poco Lowell riuscì a distendersi. Per un minuto intero si dimenticò di Harris, della Wendell e di tutto il caos che aveva in testa. Ma in quel minuto gli sfuggì anche la berlina nera che lo seguiva a una decina di metri di distanza fin da quando era uscito dal garage. 70. «Credimi, conosco Harris e so come ragiona. Voglio farlo parlare, non mettergli paura.» «Ma, signore...» «Arrivederci, William.» Nascosto tra le auto parcheggiate, a un solo posto-macchina di distanza dai due uomini, Janos aveva assistito allo scambio di battute fra Lowell e il suo assistente. Aveva visto tutto: la ruga che increspava la fronte del procuratore... la sua espressione preoccupata... perfino le spalle curve del suo assistente. Anche se Lowell gli aveva detto di stare tranquillo, William non voleva arrendersi. Janos strinse un po' gli occhi, concentrandosi su quelle spalle. A quella distanza era difficile cogliere tutti i segnali, ma era eviden-
te che indossava la stessa camicia del giorno prima, già sgualcita il mattino presto: il ragazzo risparmiava sulla lavanderia. La cintura, invece, nuovissima, firmata Gucci... doveva essere un regalo di mamma e papà. William era di buona famiglia, e quindi avrebbe obbedito al suo capo. «Te l'avevo detto che Lowell non se ne sarebbe stato a guardare buono e zitto... Lui pensa solo a sé stesso», gli disse Barry al cellulare. «Sta' calmo», lo ammonì Janos. Parlare con Barry non gli piaceva, quell'uomo era un concentrato di paranoia. Ma al tempo stesso era facile da azionare come il bottone di un meccanismo. A ogni modo, riguardo a Lowell aveva ragione lui. Janos vide Lowell sbattere la portiera e sentì i pneumatici stridere avviandosi a tutta birra su per la rampa del parcheggio. William esitò ancora qualche secondo, allungando il collo per veder scomparire l'auto del suo capo... poi si volse e tornò indietro verso le scale. Con una rapida rotazione del polso girò la chiave dell'accensione. La berlina si svegliò tossicchiando: Janos abbassò gli occhi sul cruscotto e ci posò sopra la mano aperta. Tipico, pensò. Il minimo è troppo basso. Bisogna regolare la valvola. «Avresti dovuto coinvolgermi prima», gli disse Barry all'orecchio. «Se fossi venuto da me prima di parlare con Pasternak...» «Senza Pasternak, Harris non sarebbe mai entrato nel gioco.» «Non è vero, Harris è più smaliziato di quanto credi. La sua è solo una posa...» «Resta pure della tua opinione», lo bloccò Janos, calcolando il vantaggio da lasciare a Lowell. Non appena l'Audi argentata girò l'angolo, premette sull'acceleratore e la seguì a velocità ridotta. «Dove pensi che andrà?» domandò Barry. «Ancora non lo so», rispose Janos uscendo dal parcheggio e infilandosi nel traffico. Davanti a lui c'era un vecchio maggiolone rosso. Quattro macchine più in là, l'Audi di Lowell serpeggiava nel traffico. E in fondo a Pennsylvania Avenue, a meno di un chilometro, si inarcava contro il cielo la cupola del Campidoglio. «Ma non preoccuparti», aggiunse poi. «Non credo che vada molto lontano.» 71. «Il prossimo gruppo, prego!» grida il poliziotto del Campidoglio alla piccola folla di visitatori davanti all'ingresso turistico, sulla facciata occi-
dentale. Io e Viv ci mescoliamo a un gruppetto di scolari con il cappellino con la scritta Futuro Presidente e avanziamo a testa bassa, nascondendo sotto la camicia i nostri tesserini di riconoscimento. Dall'ingresso occidentale passano in media quattro milioni di visitatori l'anno: un caos pressoché continuo di turisti armati di cartine e macchine fotografiche. In genere i membri dello staff lo evitano come la peste. Noi invece l'abbiamo scelto proprio per questo. Il gruppo avanza sgomitando. Mentre osservo il portone d'ingresso mi viene in mente che il Campidoglio è l'unico edificio al mondo a non avere un retro, infatti, sia il lato occidentale (quello che dà sul Mall) sia quello orientale (dirimpetto alla Corte Suprema) pretendono di essere la facciata principale. Questo avviene perché, quando in un posto si concentrano così tante persone assolutamente convinte della propria importanza, ognuno vuol credere che la meravigliosa vista che si gode dal suo ufficio sia quella principale. Per non essere da meno, infatti, anche il lato sud e quello nord si sono conquistati un nome altisonante: Ingresso Senato e Ingresso Camera. Un edificio con quattro lati, e nessuno che voglia essere il retro. Roba da Congresso. Confusi fra i visitatori, ci troviamo nell'unico posto in cui a nessuno verrà in mente di controllare i nostri tesserini di riconoscimento o di guardarci in faccia per più di mezzo secondo. Con tanta gente in movimento, non dobbiamo far altro che seguire la corrente. «Per favore, fate passare tutte le macchine fotografiche e i telefonini sotto i raggi X», dice uno degli addetti alla sicurezza. Sembrerebbe una richiesta abbastanza semplice: ma improvvisamente i ragazzini inscenano le ultime sequenze dell'affondamento del Titanic: parlano tutti insieme, gridano, si lamentano, si agitano, un caos indescrivibile. Mentre i ragazzi si esibiscono nel loro consueto show, io e Viv passiamo attraverso il metal detector e ci allontaniamo senza perdere tempo. Ci uniamo a un altro gruppo che passa col naso in aria sotto il grande soffitto a cupola della rotonda per scendere nella cripta, la sala circolare dov'è allestita una mostra di schizzi, progetti e altri documenti storici relativi al Campidoglio. La guida sta spiegando che le pareti circolari della cripta sostengono strutturalmente non solo la rotonda, ma anche l'immensa cupola sovrastante. A un suo gesto tutti alzano gli occhi al soffitto, e noi ne approfittiamo per scivolare sulla destra, infilarci in una porticina accanto alla statua di Samuel Adams e buttarci a capofitto giù per una ripida rampa di scale. Mentre corro m'infilo una mano nella camicia e ne estraggo la ca-
tenella con il mio tesserino di riconoscimento. Dietro di me Viv fa lo stesso. Da turisti a membri dello staff in dieci secondi netti. «Quelli della narcotici...» sussurra Viv non appena posiamo il piede sull'ultimo scalino, indicandomi con un cenno del mento un punto sulla destra. In fondo al corridoio ci sono due agenti della polizia capitolina, e stanno venendo proprio dalla nostra parte. Non ci hanno ancora visti, ma sarà meglio non dargliene l'opportunità. Afferro la mano di Viv, disegniamo una stretta curva attorno alla fine della balaustra di marmo e prendiamo a destra, evitando il corridoio principale. Un paletto regge un cartello con la scritta: SI PREGA I VISITATORI DI NON SUPERARE QUESTO PUNTO. Gli passiamo così vicini da farlo quasi cadere. Non è la prima volta che vengo quaggiù, i membri dello staff possono passare. Ma il corridoio è a fondo cieco, chiuso da un cancello di ferro battuto coronato da un piccolo arco. «Non è fantastico?» domando a Viv in un falso tono brillante. «Incredibile», risponde lei. Dietro il cancello, protetto da una grande vetrina rettangolare, c'è un drappo di tessuto nero che nasconde un oggetto voluminoso a forma di bara. Una targhetta nell'angolo in alto a destra ci informa che si tratta del catafalco ligneo su cui sono state esposte le salme di Lincoln, di Kennedy, di Johnson e di tutti quelli per cui è stata allestita una camera ardente in Campidoglio. Alle nostre spalle, un rumore regolare di stivali in marcia sul marmo ci avverte che i due poliziotti sono ormai vicini. Cerchiamo di atteggiarci a tranquilli membri dello staff in pausa di lavoro, ma non possiamo evitare di sentirci in trappola. Stringiamo forte le sbarre del cancello, con gli occhi fissi sulla piccola cella di cemento. Ubicata nel centro geometrico del Campidoglio, quell'umida stanzetta avrebbe dovuto essere la tomba di George e Martha Washington; ma poi le salme sono state trasferite a Mount Vernon e il locale è stato declassato a magazzino per catafalchi. Chiudo gli occhi. I poliziotti si avvicinano sempre più. Cerco di non pensarci, ma anche senza i resti dei coniugi Washington mi sembra che il piccolo spazio abbia odore di morte. «Harris, che facciamo... stanno arrivando!» sussurra Viv. Ormai il rumore di passi è proprio dietro di noi. Improvvisamente uno dei due poliziotti si ferma: il suo walkie talkie sta gracchiando qualcosa. Accanto a me, Viv prega. «Okay, arriviamo subito», dice il poliziotto con il walkie talkie. Di nuovo rumore di passi: non c'è dubbio, si stanno avvicinando ancora,
ma poi, all'improvviso, spariscono. Come al solito Viv è la prima a reagire. Si volta e scruta il corridoio. «È andata», dice. «Sì... non ci sono più.» Io invece non mi volto, e rimango aggrappato al cancello. «Dài, Harris, sbrighiamoci...» So che ha ragione - ormai ci siamo quasi - ma più guardo quel sudario nero... più osservo il drappo che ricade senza vita su quel catafalco vecchio di centocinquant'anni... più mi viene in mente che, se non stiamo più che attenti, i prossimi cadaveri del Campidoglio saremo noi. «Sicuro che sia la strada giusta?» domanda Viv senza fermarsi. Sta correndo davanti a me, anche se dovrei essere io a farle da guida. «Va' avanti», rispondo, e proseguiamo lungo una svolta a destra del corridoio, addentrandoci sempre più nei tunnel color sabbia del seminterrato. Qua sotto, diversamente che nel resto del Campidoglio, i corridoi sono bassi e stretti: un vero labirinto di curve caotiche. Oltrepassiamo il locale spazzatura... il deposito vernici... il ripostiglio per l'attrezzatura relativa al riscaldamento e ogni bottega immaginabile per la riparazione di qualsiasi cosa, dall'impianto elettrico, al sistema idraulico, agli ascensori. E più procediamo più il soffitto sembra abbassarsi, perché lo spazio abitabile è invaso da condutture d'aria, tubature idrauliche e fili elettrici di varia natura. Quando venivo quaggiù con Matthew lui si lamentava sempre perché, essendo tanto alto, doveva camminare praticamente piegato in due. Almeno di questo io e Viv non dobbiamo preoccuparci. «Sei sicuro di avere familiarità con questi paraggi?» domanda Viv quando il soffitto si abbassa ancora di più. «Lo giuro», rispondo io, laconico. È nervosa. Non posso darle torto. Qua e là, nei punti più frequentati, ci sono delle indicazioni che sembrano fatte apposta per evitare che i membri del Congresso e i loro assistenti si perdano definitivamente. Alzo gli occhi alla ragnatela di crepe che corre lungo la parete: da quando abbiamo visto l'ultimo segnale sono passati almeno tre minuti. E più ci inoltriamo nel labirinto più il corridoio si riempie di oggetti fuori uso: schedari metallici rotti, vecchie poltrone con l'imbottitura strappata, grossi rocchetti di cavo elettrico, cestini per le cartacce, pezzi di tubo arrugginiti. Dopo l'ultima indicazione per l'ascensore non abbiamo più incontrato anima viva. Anzi, a dire il vero il solo indizio del fatto che questo posto è abitato da esseri umani è il brontolio emesso dalle più svariate attrezzature
meccaniche. Finora Viv ha camminato sempre davanti a me, ma all'improvviso si ferma grattando il pavimento polveroso con le suole delle scarpe. La seguo dietro l'angolo che ha appena svoltato: pezzi di mobilia, cavi e tubature compongono una montagna apparentemente insormontabile. Non è difficile capire le sue sensazioni: come in tutti i quartieri malfamati del mondo, più andiamo avanti e meno è consigliabile attardarsi quaggiù da soli. «Davvero non so se è la strada giusta», insiste lei. «Né io mi aspetto che tu lo sappia.» Penserà che ho sempre la risposta pronta. Ma non è così. La supero e oltrepasso una mezza dozzina di porte chiuse, a destra e a sinistra. La maggior parte, come il novanta per cento delle porte del Campidoglio, ha una targa che spiega pedissequamente agli eventuali passanti cosa c'è dietro. SOTTOSTAZIONE ELETTRICA. SOMMARI QUOTIDIANI DELLE ATTIVITÀ DEL SENATO. C'è perfino un'AREA RISERVATA AI FUMATORI. Solo una non ha la targa, ed è proprio là che stiamo andando: la stanza ST-56, a metà del corridoio sulla sinistra, quella che non dà alcuna informazione sul suo contenuto. «È qui?» domanda Viv. «Sembra un ripostiglio per le scope.» «Davvero?» ribatto infilando la mano in tasca per tirare fuori un mazzo di chiavi. «Quanti ripostigli delle scope hai visto con la doppia serratura?» Infilo le due chiavi nelle rispettive serrature, le giro e ruoto la maniglia. La porta è più pesante di quanto sembri, per aprire devo spingerla con la spalla. Quando finalmente si spalanca do una manata all'interruttore della luce e finalmente posso offrire a Viv una panoramica completa del suo contenuto. Entrando, la prima cosa che si nota è il soffitto: diversamente dal corridoio, dove si è costretti a chinare la testa per non urtare la fitta rete di tubature, qui ci sono almeno sei metri di altezza. Il locale è ampio e di proporzioni armoniose. Contro una delle pareti, dipinte di un caldo rosso mattone, c'è un divano di pelle color cuoio accompagnato da due credenze di mogano stile Impero. Sopra il divano è appesa una collezione di antiche barche a vela giocattolo. A completare l'atmosfera da club maschile c'è addirittura un pesce di quasi quattro metri - credo sia un marlin - che fa bella mostra di sé sulla parete di sinistra. Accanto alla porta c'è l'immancabile sacca da golf. A destra, una gigantesca carta nautica del 1989. Viv fissa sbalordita l'insieme della stanza per almeno trenta secondi. «Un rifugio segreto?» mi fa.
Annuisco, sorridendo. Qualcuno ha detto che a Washington non ci sono più segreti. È una bella frase, comoda da citare. Ma a pensarla dev'essere stato qualcuno che non aveva un rifugio segreto. Lungo la scala del potere, alcuni membri del Congresso hanno importanti incarichi di commissione. Altri hanno un grande ufficio a disposizione del loro staff. Qualcuno ha un parcheggio preferenziale proprio accanto al portone del Campidoglio. Pochissimi hanno un autista privato per far capire a tutti quanto sono importanti. E poi c'è chi ha un rifugio come questo. È uno dei segreti meglio custoditi di tutto il Campidoglio: santuari privati che permettono a certi senatori di sottrarsi per una pausa ristoratrice al loro staff, ai lobbysti e soprattutto a quei temutissimi gruppi di turisti modello «solo-una-foto-per-favore-abbiamo-fatto-tanta-strada». Ma quanto sono effettivamente segreti? Nemmeno l'architetto del Campidoglio, che controlla e gestisce l'intera struttura del palazzo, ne ha una lista completa con il nome di tutti i proprietari. Alcuni non sono nemmeno segnati sulla pianta, perché così ha voluto il loro proprietario. «Ma per che cosa lo usa, Stevens?» domanda Viv. «Mettiamola così...», comincio a rispondere indicandole l'interruttore della luce. «Una sorta di interruttore?» fa Viv, sinceramente disgustata. «Sì. Se lo è fatto arredare già durante la prima settimana che ha passato in Campidoglio. Pare sia di moda, come gli alzacristalli elettrici e il servofreno.» Capisce benissimo che facendo dello spirito sto solo cercando di placare la sua collera. E la cosa la innervosisce ancora di più. «E come si fa a sapere che non se ne scapperà quaggiù ogni volta che si profila una situazione difficile?» «Veramente, da quando ha quello nuovo, col caminetto, non lo usa quasi più.» «Aspetta un po'... vuoi dire che ne ha più d'uno, di questi rifugi segreti?» «Dài, Viv, non puoi pensare che in faccende del genere regni la giustizia distributiva. Johnson, quando era capo della maggioranza, ne aveva addirittura sette. Questo ormai è soltanto un rifugio di riserva. Ed è alquanto improbabile che Stevens...» Improvvisamente mi blocco. L'occhio mi è caduto sul tavolino da tè scolpito a mano, sul quale è posato un mazzo di chiavi con un piccolo portafoto anche troppo familiare.
Si sente scaricare uno sciacquone. Viv e io ci buttiamo a sinistra per nasconderci sul retro del bagno. Da sotto la porta filtra una striscia di luce, che poi si spegne. E prima che abbiamo il tempo di darcela a gambe la porta del bagno si apre. «Non fate quella faccia stupita», dice Lowell facendo un passo avanti. «Allora, lo volete sapere o no cosa c'è dietro questa faccenda?» 72. «Che diavolo ci fai qui?» domando, e la mia voce rimbomba contro le pareti del locale. «Ehi, rilassati», mi fa Viv. «Faresti meglio a dar retta alla tua amica», mi dice Lowell, cercando di mostrarsi preoccupato per me. «Non voglio farvi alcun male.» E subito fa a Viv un piccolo cenno d'assenso, per tirarla dalla sua parte e farmi sentire isolato. Ma è da troppo tempo che fa il procuratore generale, e il suo repertorio è invecchiato: questo trucco me l'ha insegnato proprio lui quando ho cominciato a lavorare nell'ufficio di Stevens. «Come hai fatto a entrare?» gli chiedo. «Come sei entrato tu: ho le chiavi da quando ero capo dello staff.» «Bisognerebbe restituirle, quando si va via.» «Solo se te le chiedono», ribatte Lowell, cercando di coinvolgermi in uno scambio di battute. Secondo strike: in passato forse siamo stati amici, ma tutto è finito nel momento in cui mi ha mandato via da quel ristorante. «Lo so a cosa stai pensando, Harris, ma devi capire la mia posizione. Quell'uomo ha minacciato la mia famiglia... si è fatto vedere nel campo giochi della mia bambina... e quella notte, quando ti ho fatto scappare, mi ha quasi rotto la testa», dice, e si gira per mostrarmi il cerotto tra i capelli. Adesso prova il tasto della compassione. Ancora uno strike ed è out. «Vaffanculo, Lowell! Mi hai capito? Vaffanculo! L'unica ragione per cui, quella sera, Janos mi aspettava fuori dal ristorante è perché tu gli avevi detto che sarei stato lì! È stata colpa tua!» «Harris, ti prego...» «Avanti, immagino sia venuto il momento dell'ultima pugnalata alle spalle! Gli hai già detto dove poteva trovarmi, o intendi servirgli l'informazione per dessert?» «Te lo giuro, Harris... io non ho niente a che fare con Janos.» «Oh, e immagino che dovrei crederti sulla parola...»
«Basta, Harris, andiamo via», dice Viv afferrandomi per un braccio. «Non capisci quanto sei stato stupido a venire qui? Janos ti avrà pedinato», gli faccio. «Se le cose stessero come dici, sarebbe già qui», mi fa notare. Su questo ha ragione. «Adesso puoi ascoltarmi un secondo?» «Vuoi dire che dovrei fidarmi di te? Mi spiace, Lowell, per questa settimana l'articolo è esaurito!» Rendendosi conto che in questo modo non arriveremo a niente, Lowell osserva per qualche secondo Viv e si dà un nuovo obiettivo. «Signorina, non potrebbe...» «Non parlare con lei, Lowell!» «Harris, va tutto bene», mi rassicura Viv. «Lasciala stare! Lei non c'entra con...» Mi blocco proprio all'ultimo, cercando di riprendere il controllo dei miei nervi. Adesso non spifferargli tutto, mi dico, e mi mordo l'interno della guancia per smorzare la rabbia. Il nostro tempo sta per scadere. Apro la porta e lo spingo fuori. «Addio.» «Ma perché non vuoi?...» «Addio.» «Ma, io...» «Vattene, Lowell. Adesso!» «Harris, ho scoperto chi c'è dietro», spara fuori all'ultimo minuto. L'osservo con attenzione. Noto la curva delle sopracciglia, la piega ansiosa del collo. Conosco Lowell Nash da quando ho cominciato a fare questo mestiere: nessuno può mentire così bene. «Come dici?» «So tutto del gruppo Wendell... o come diavolo si fanno chiamare. I ragazzi hanno fatto qualche indagine. A un primo sguardo sembra solido come la Sears Roebuck, registrata nel Delaware, ramo importazione mobili e oggetti d'arredamento. Ma scavando un po' più a fondo viene fuori che è la filiale di un'impresa dell'Idaho che è socia di una ditta del Montana che fa parte di una holding registrata ad Antigua... E così via, strato dopo strato. È anche questa lista non è che una facciata.» «E dietro c'è il governo, giusto?» «Come fai a saperlo?» «L'ho capito osservando il laboratorio: solo il governo può disporre di così ingenti risorse finanziarie.» «Quale laboratorio?» fa Lowell. «Il laboratorio nella miniera.» Dall'espressione della sua faccia capisco che non ne ha mai sentito parlare. «Nel Sud Dakota... hanno allestito un
laboratorio d'avanguardia in una vecchia miniera abbandonata», gli spiego. «E dal tipo di attrezzatura pare che gli esperimenti...» «Stanno fabbricando qualcosa?» «Sì, ed è proprio per questo che noi...» «Dimmi cosa vogliono fabbricare.» «So che ti sembrerà una follia...» «Tu dimmelo, Harris. Cosa vogliono fabbricare?» Lancio un'occhiata a Viv: anche lei è consapevole del fatto che non abbiamo alternative. In fondo, se fosse dalla loro parte Lowell non mi farebbe questa domanda. «Plutonio», rispondo. «Siamo arrivati alla conclusione che stanno cercando di produrre del plutonio... a livello atomico.» Lowell rimane come paralizzato. Impallidisce, e intanto con la mano si fruga in tasca per prendere il cellulare. «Non c'è campo, qua sotto.» Controlla, vede che ho ragione e si guarda attorno. «E non c'è un...» «Lì, sulla credenza», rispondo, indicando il telefono. Lowell digita freneticamente il numero del suo assistente. «William, sono io... Sì», dice, dopo un momento di pausa. «Adesso ascoltami: devi chiamare il procuratore generale. Digli che sarò lì tra dieci minuti.» Un'altra pausa. «Non me ne frega niente. Tiralo fuori di là.» Lowell sbatte giù il telefono e corre verso la porta. «Ma non ha senso», lo ferma Viv. «Perché mai il governo degli Stati Uniti dovrebbe cercare di produrre plutonio quando ne abbiamo già più che a sufficienza? Rischierebbe soltanto di farlo cadere nelle mani sbagliate...» Lowell si ferma e si gira verso di lei. «Che cos'ha detto?» «C-che non ha senso...» «No, cos'ha detto dopo.» «Perché mai il governo degli Stati Uniti?...» «Cosa le fa pensare che si tratti del nostro governo?» «Come dici?» contrattacco io. Anche Viv è confusa: «Ma mi pareva che avesse detto...» «Ancora non avete capito chi c'è dietro la Wendell, vero?» fa Lowell. Il silenzio è tale che mi sembra di sentire il sangue scorrermi nelle orecchie. «Lowell, che diavolo sta succedendo?» «Siamo riusciti a risalire alla proprietà, Harris. La cosa era ben nascosta: Idaho, Montana, stati che non facilitano certo la ricerca dei dati nel settore
industriale. Chiunque abbia organizzato la rete conosceva molti trucchi. Dopo Antigua siamo risaliti a un falso comitato direttivo con sede in Turchia e sull'isola di Caicos, il che ovviamente non ci è stato di alcun aiuto. Ma nell'elenco del personale c'era il nome di un agente con sede in Belize. L'indirizzo naturalmente era falso, ma il nome... ci ha portato al gestore di una ditta produttrice di cemento di proprietà governativa, la quale, guarda caso, ha sede a San'a.» «San'a?» «Sì, la capitale dello Yemen.» «Lo Yemen? Mi stai dicendo che la Wendell Mining è una ditta di facciata dietro cui si nasconde il governo dello Yemen?» domando con un'incrinatura nella voce. «La pista conduce a loro. T'immagini cosa accadrebbe se quella gente riuscisse a produrre plutonio e cominciasse a venderlo al miglior offerente? Hai idea di quanti pazzi furiosi farebbero la fila per comprarlo?» «Tutti.» «Esatto, tutti i pazzi furiosi del pianeta», conferma Lowell. «E se anche uno solo di quei pazzi dovesse avvicinarsi a noi... abbiamo scatenato delle guerre per molto meno.» «M-ma non è possibile... devono aver dato dei soldi a... voglio dire, erano nella lista dei progetti sponsorizzati dai membri del Congresso... E poi tutti i nomi erano...» «Ho controllato, non c'è un solo nome arabo in tutto l'organico. Quella è gente che di solito assume solo compatrioti, perché sono gli unici di cui si fida. Ma stavolta si sono camuffati bene... Devono aver coinvolto un americano per costituire un'impresa di facciata e ungere gli ingranaggi giusti, qualche tipo manageriale, che risultasse credibile. Stiamo indagando su un certo Andre Saulson, a cui è intestato uno dei conti correnti della Wendell. Il nome potrebbe essere falso, ma uno dei ragazzi ha notato che l'indirizzo compare già in una vecchia lista, secondo la quale ci abitava un certo Sauls. Ci vorrà del tempo per averne conferma, ma il tipo corrisponde allo schema: la School of Economics di Londra... la Sophia University di Tokyo. Lo teniamo d'occhio da qualche anno per una truffa nel campo delle opere d'arte, è anche sospettato di aver cercato di esportare il vaso di Warka, rubato dal Museo nazionale iracheno. Potrebbe essere stato allora che gli yemeniti l'hanno contattato. Lui e gli altri agiscono ai massimi livelli. Il governo dello Yemen potrebbe averlo scelto per la sua serietà e i suoi contatti: poi questo Sauls ha ingaggiato Janos per sgombrargli la strada, e for-
se un altro uomo per aiutarlo a muoversi nel sistema...» «Pasternak... È così che si sono infiltrati.» «Esatto. Ha tirato dentro Pasternak - il quale probabilmente non ha mai saputo chi c'era dietro - assicurandosi uno dei più abili giocolieri di Washington. A questo punto gli mancava solo una vecchia miniera abbandonata. Un piano di tutto rispetto, bisogna ammetterlo: perché sfidare la collera degli ispettori ONU in Medio Oriente quando è possibile costruire bombe nel nostro cortile di casa senza che nessuno se ne accorga? Muovendo le pedine giuste si può addirittura convincere il Congresso a cedere la terra gratis.» Lo stomaco mi è precipitato all'altezza delle ginocchia. Barcollo, non riesco quasi a reggermi in piedi. «E... e adesso che facciamo?» domanda Viv con la faccia lucida di sudore freddo. Lowell esce in corridoio, pronto ad agire. «Chiudetevi dentro con entrambe le chiavi. È ora di svegliare il re.» L'ho già sentita, questa espressione. Se Lowell riesce a parlare con il procuratore generale, il passo successivo sarà la Casa Bianca. Non appena se n'è andato, Viv si accorge che ha lasciato le chiavi sul tavolino da tè. «Lowell, aspetti!...» gli grida dietro, afferrando il portachiavi e facendo qualche passo in corridoio. «Viv, no!» grido io. Troppo tardi, si è già buttata all'inseguimento. Faccio per correrle dietro, ma quasi subito la sento urlare. Raggiungo la porta e lei mi viene addosso camminando all'indietro: in fondo al corridoio, appena dietro l'angolo, Janos stringe Lowell contro la parete schiacciandogli la gola con l'avambraccio, e prima che io riesca a intervenire in suo aiuto gli preme sul petto la scatoletta nera. Dopo una breve convulsione il corpo di Lowell cade a terra senza vita. Due tonfi sordi segnalano la sua caduta - prima le ginocchia, poi la fronte - e riecheggiano nel corridoio vuoto. Un rumore che non dimenticherò mai più, dovessi vivere cent'anni. Guardo in giù, verso il mio amico. Ha gli occhi aperti, e fissa il vuoto nella nostra direzione. Senza dire una parola Janos si tuffa verso di noi. 73. «Corri!» grido a Viv, afferrandola per una spalla e spingendola nella direzione contraria a quella in cui si trova Janos.
Lui punta dritto su di me, con un ghigno che sembra inventato apposta per infondere il panico. Probabilmente si aspetta che anch'io mi metta a correre. Quindi non lo faccio. Questo psicopatico ha già ucciso tre dei miei migliori amici: non intendo lasciarglielo fare anche con la quarta. «Corri, non fermarti!» ripeto, cercando di assicurare a Viv un adeguato margine di vantaggio. A causa dell'angolatura con cui si avvicina, Janos non può vedere dove sto guardando: accanto alla porta del rifugio segreto, appoggiata contro la parete, c'è la sacca da golf del senatore. Allungo una mano in quella direzione, ma Janos si sta avvicinando troppo in fretta. Ho appena stretto le dita sulla lucida numero nove che lui mi piomba addosso, spingendomi indietro oltre la soglia. La schiena mi scricchiola forte, ma non lascio cadere la mazza. Janos mi blocca contro la parete come ha appena fatto con Lowell, puntandomi contro il petto la scatoletta nera. Utilizzando il manico della numero nove come leva riesco a liberarmi del suo braccio, e senza dargli il tempo di reagire butto in avanti la testa e lo colpisco sul naso con tutta la mia forza. È lo stesso punto che ho utilizzato nella miniera per mandare al tappeto lo scienziato. Il punto tenero, lo chiamava mio zio. Un filo di sangue gli scende subito dalla narice sinistra. I suoi occhi da cane triste si allargano ancora di più. Sembra sinceramente stupito. Bisogna approfittarne. «Toglimi le mani di dosso!» grido, e gli do un violento spintone. Poi, prima che riesca a ritrovare l'equilibrio, alzo la numero nove oltre la spalla, quasi fosse una mazza da baseball, e mi appresto a colpire. Anche a scacchi, a volte, la partita migliore è quella giocata in fretta. Janos, vedendomi alzare la mazza, fa istintivamente il gesto di proteggere la scatoletta nera stringendola al petto. Evidentemente si aspetta un colpo nella metà superiore del corpo. Quindi io miro basso, e ruotando con eleganza la numero nove lo colpisco al ginocchio. È come picchiare una roccia. L'osso scricchiola forte, la mazza mi vibra tra le mani, ma non vacillo. All'ultimo momento Janos ruota su sé stesso per ridurre l'impatto, ma il colpo è ugualmente forte e la gamba gli si piega sotto. Come le altre volte, non si lascia scappare nemmeno un gemito. Ma io non mi lascio impressionare e mi avvicino a lui per colpire di nuovo. È un errore. Mentre cade, Janos non distoglie gli occhi dalla numero nove: e all'improvviso, senza darmi il tempo di levarla di nuovo, me la strappa di mano. Il tutto avviene così in fretta che non me ne accorgo quasi. In un corpo a corpo non ho la minima possibilità di batterlo, ma un risultato l'ho
già ottenuto: Viv dev'essere ormai oltre l'angolo. Abbiamo guadagnato il vantaggio che ci serviva. Janos cade. Io giro su me stesso e scatto velocissimo in corridoio. Ma appena dietro l'angolo inciampo in Viv. «Che ci fai qui?» le chiedo, continuando a correre. Lei mi affianca subito. «Ti avevo detto di andartene!» «Volevo assicurarmi che stessi bene.» Sta cercando di mostrarsi forte. Ma non funziona. Dietro di noi si sente la mazza da golf di Stevens raschiare il pavimento: Janos si sta rialzando. Comincia a correre, ma l'eco dei suoi passi è sincopato. Zoppica, eppure il rumore diventa sempre più veloce. Evidentemente riesce ad aver ragione del dolore. Corriamo fra le cataste di mobili vecchi, setacciando con gli occhi il corridoio in cerca d'aiuto. Purtroppo quasi tutte le stanze sono chiuse, e senza una targa che ci fornisca indicazioni sul loro contenuto. «Che ne dici di quella?» domanda Viv indicando una porta con la scritta FUNZIONARIO ADDETTO ALLE CERIMONIE. Mi butto sulla maniglia. Non gira. Accidenti, è chiusa a chiave. «Anche questa!» dice Viv, provando ad aprirne un'altra. La sento ansimare dietro di me. Il corridoio è quasi finito, e diversamente dall'ultima volta che Janos ci inseguiva non credo che la polizia capitolina sia nelle vicinanze. Abbiamo ancora qualche secondo di vantaggio, ma non basta, a meno che non ci venga in mente qualcos'altro. In fondo a sinistra c'è una porta aperta. Ne esce un sonoro ronzio, e la targa recita PERICOLO! LOCALE MACCHINE ACCESSO RISERVATO AL PERSONALE AUTORIZZATO Mi guardo alle spalle per controllare come siamo messi: in fondo al corridoio Janos sta già spuntando da dietro l'angolo, pazzo di rabbia come una tigre ferita. In una mano stringe la mazza da golf del senatore, nell'altra la scatoletta nera. Anche se zoppica, le distanze si accorciano rapidamente. «Sbrigati...» dico a Viv tirandola verso la porta aperta. Qualsiasi cosa pur di toglierci dalla sua visuale. Il locale, con il pavimento e le pareti di cemento, è lungo e stretto, pieno di condizionatori d'aria, ventole e compressori allineati in fila e intercon-
nessi da un'inestricabile selva di giunti che si allungano come proboscidi in tutte le direzioni, un po' come le braccia meccaniche dei robot degli anni Cinquanta. Sopra la nostra testa, tubi del gas, tubature di rame e cavi elettrici si affiancano a canali e condutture che serpeggiano per tutto il soffitto. Accanto alla porta c'è una parete piena di manometri di vetro, evidentemente non più usati da anni; qualche passo più in là, due bidoni per l'immondizia, una scatola di filtri per l'aria, vuota, e un secchio per lavare i pavimenti, sporco ma senz'acqua, con qualche attrezzo buttato dentro. Più in là dei bidoni per l'immondizia, sotto una coperta grigioverde dell'esercito stropicciata e piena di macchie, c'è una fila di sei taniche di metallo contenenti propano liquido. «Qui sotto... svelta!» sussurro a Viv afferrandola per un braccio e tirandola verso le taniche. «Che diavolo...» «Zitta. Nasconditi qui sotto.» La spingo ad accucciarsi, afferro la coperta e gliela stendo sopra. «Harris, non credo che sia...» «Fa' come ti dico.» «Ma io...» «Dannazione, Viv, per una volta, fa' come ti dico!» la sgrido, sempre sottovoce. È evidente che questo tono non le piace affatto, ma credo che in questo momento ne avesse bisogno. «Aspetta qui finché Janos non sarà passato oltre», le dico. «Poi corri a cercare aiuto.» «Ma tu sarai...» Si blocca. «Harris, non puoi farcela da solo contro di lui.» «Tu va' a cercare aiuto. Io me la caverò.» «Ti ammazzerà.» «Ti prego, tu pensa a cercare aiuto.» Per un attimo i nostri occhi s'incrociano, e sembra che Viv mi legga dentro. La prima volta che mi ha sentito parlare, al corso d'orientamento dei fattorini, e anche più tardi, quando le hanno raccontato la storia del Lorax, probabilmente ha pensato che fossi invincibile. Ne ero convinto anch'io. Ma ora ne so qualcosa di più, e così lei. Comprendendo al volo le mie intenzioni, Viv si sente strappare l'anima. Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme non vorrebbe mai lasciarmi. Mi inginocchio vicino a lei e le do un bacetto sulla fronte. «Viv...» «Ssshh!» fa lei. Non vuole sentire altro. «Diciamo una preghiera insieme.»
«Cosa? Adesso? Viv, lo sai che io non credo in...» «Solo per questa volta», mi supplica. «Una piccola preghiera. È l'ultimo favore che ti chiedo.» Non ho scelta. Chino la testa. Quella di Viv è già chinata. Mi prende le mani e io chiudo gli occhi. Non mi fa sentire affatto meglio. I pensieri mi schizzano via da tutte le parti. Ma poi, quando cala il silenzio... Ho il cervello vuoto, gli occhi ancora chiusi. «Allora, era così difficile?» fa Viv, rompendo il silenzio. Scrollo la testa. «Sei una persona meravigliosa, Vivian. E un giorno sarai una grande senatrice.» «Sì, certo... Ma avrò bisogno di un grande capo dello staff.» È una battuta molto dolce: ma non mi rende le cose più facili. Non mi sentivo così giù dal giorno in cui morì mio padre. Un nodo di lacrime mi stringe la gola. «Andrà tutto bene», le prometto, costringendomi a sorridere. E senza darle il tempo di ribattere le tiro la coperta sulla testa. Viv scompare subito dalla vista. Sembra una tanica di propano come tutte le altre, l'ultima della fila. Cerco di convincermi di averla messa al sicuro e comincio a frugare tra gli attrezzi per procurarmi un'arma. Pinze ad ago... nastro adesivo elettrico... metro avvolgibile... una confezione industriale di lamette da rasoio. La apro con dita frenetiche, ma di lamette non ne è rimasta nemmeno una. Dovrò accontentarmi delle pinze ad ago. Ricomincio a correre lungo il locale macchine, urtando con le pinze tutte le superfici di metallo che incontro per fare più rumore possibile. Voglio che Janos oltrepassi Viv senza notarla. Continuo a ripetermi che solo così potrà salvarsi. È venuto il momento di fermare la giostra e di lasciarla scendere. Giro dietro un gigantesco condizionatore d'aria, e subito sento un suono raschiante provenire dalla porta: scarpe italiane che frenano bruscamente sulla polvere. Janos è qui. Ma Viv è nascosta bene, e io sono accucciato dietro una griglia metallica che mi arriva fino al mento. La urto leggermente, fingendo di non averlo fatto apposta. Janos ricomincia a correre. Adesso, Viv, mormoro fra me e me in un'ultima preghiera silenziosa. È il tuo momento... 74. La coperta militare, ruvida e sporca, puzzava di un misto di segatura e kerosene, ma quando Viv infilò la testa fra le ginocchia e chiuse gli occhi,
la puzza era l'ultimo dei suoi pensieri. Nascosta sotto il telo grigioverde sentì benissimo le scarpe che raschiavano la polvere quando Janos si affacciò sulla porta. Poi Harris fece rumore - sembrava che picchiasse con qualcosa su un oggetto metallico - e Viv pensò che il killer avrebbe ricominciato subito a inseguirlo. Effettivamente Janos mosse qualche rapido passo in avanti. Ma poi si fermò. Proprio davanti al suo nascondiglio. Viv trattenne il fiato, facendo del suo meglio per rimanere immobile come una statua. Istintivamente aprì gli occhi, ma l'unica cosa che riuscì a vedere fu la punta del suo piede destro che sporgeva da sotto la coperta. Era nascosto, oppure Janos si era fermato proprio perché l'aveva visto? Si udì un lieve brontolio meccanico. Janos girò lentamente sui tacchi, grattando il pavimento cosparso di frammenti di cemento. Decisa a non fare il più piccolo movimento, Viv si abbracciò più forte le ginocchia e affondò le unghie nella pelle delle gambe. «Corri!...» sussurrò Harris in lontananza, e la sua voce riecheggiò sotto il soffitto di cemento. Janos s'irrigidì, poi si voltò di nuovo, cercando di capire da dove veniva la voce. Cominciò a contare mentalmente: non doveva farsi tradire dalla fretta. Trattenne di nuovo il fiato, non solo per non svelare la sua presenza, ma anche per porgere orecchio a ogni rumore, anche al più lieve. Il borbottio smorzato dei condizionatori d'aria... il ronzio delle lampade al neon... e soprattutto il piccolo suono ritmico dei passi di Harris che svanivano in lontananza e il grattare delle scarpe di Janos sul cemento. Quando il killer si fu allontanato Viv aspettò ancora qualche secondo, per maggior sicurezza. Poi mise fuori la testa da sotto la coperta e si guardò attorno. Nessuno in vista: solo qualche bidone per l'immondizia e le taniche di propano. Con un rapido gesto si liberò le spalle dalla coperta e la gettò tra le immondizie. Raggiunse rapidamente la porta, imboccò di nuovo il corridoio e si mise a correre. «Aiuto!» gridò. «Qualcuno ci aiuti! Abbiamo bisogno di aiuto!» Ma come per la prima volta che lei e Harris avevano percorso quel tratto di sotterraneo, c'erano solo montagne di mobili vecchi e abbandonati. Cercando una strada che la riportasse velocemente alla polizia capitolina, Viv corse verso una scala che s'intravedeva sulla sinistra, ma appena girato l'angolo andò a sbattere contro il petto di un uomo alto che indossava un abito gessato nuovissimo. L'impatto fu notevole, il suo naso si schiacciò contro una cravatta di Zegna color magenta. Viv notò che all'ultimo mo-
mento lo sconosciuto aveva fatto un mezzo passo indietro, girando leggermente su sé stesso per attutire il colpo: quasi come se l'avesse sentita avvicinarsi, anche se non stava più gridando. «Aiuto... Ho bisogno d'aiuto!» disse Viv in tutta fretta. «Calma, non agitarti», le rispose Barry con l'occhio di vetro che fissava un punto imprecisato alla sua sinistra. Poi le mise una mano sulla spalla. «Avanti, parla: cosa ti è successo?...» 75. Corro sulla traballante passerella che collega due compressori sforzandomi di sentire i movimenti di Janos, ma il frastuono delle macchine lo rende del tutto impossibile. All'ingresso del locale c'era semplicemente rumore; qui è diventato assordante. È come correre tra due file di camion a diciotto ruote con il motore acceso. I macchinari sono tutti vecchi dinosauri sovradimensionati. L'unica cosa positiva è che se io non posso sentire lui, Janos non può sentire me. Alla fine della passerella infilo sulla destra un passaggio curvilineo e mi accorgo con stupore che la stanza non finisce lì, ma prosegue in un labirinto di condutture e macchinari per la ventilazione che sembra non avere fine, quasi una catena di locali collegati l'uno all'altro. Alla mia sinistra c'è una miriade di contenitori ovali che credo servano a riscaldare l'acqua. Alla mia destra, un enorme compressore rettangolare sormontato da un gigantesco motore. Più avanti, tre porte si aprono su tre direzioni diverse: a destra, a sinistra e diritto. Con tante macchine allineate e tante condutture aeree a impedire la visuale, una persona non pratica del luogo può facilmente perdersi e mettersi a girare in tondo. Proprio per questo, credo, qualcuno ha dipinto sul pavimento una sbiadita linea gialla: per aiutare gli addetti alla manutenzione a orientarsi e a ritrovare l'uscita. Decido di servirmene anch'io per uno scopo analogo: ma invece di seguirla, regalando a Janos una facile traccia, me ne tengo volutamente alla larga, prendendo ogni volta che posso una direzione diversa da quella indicata. A metà passerella mi chino per passare sotto una conduttura e prendo una seconda passerella, andando sempre più avanti. Il locale è in penombra, e più avanzo più diventa simile a una cantina. Pareti di mattoni chiazzate di muffa... pavimenti umidi e sporchi... e assolutamente niente finestre. Il soffitto, intonacato a calce e tutto pieno di crepe, è quasi ovunque basso come quello di una grotta: poi, improvvisamente raggiunge i sei me-
tri di altezza e si perde in anditi scuri e privi di qualsiasi illuminazione. In questa zona i macchinari sono più radi e meno rumorosi. Un soffio d'aria fredda mi sfiora la faccia, ricordandomi i tunnel del vento di cui ho fatto esperienza nella miniera d'oro. È come se da qualche parte, in lontananza, qualcuno avesse aperto una porta. A destra e a sinistra prosegue il solito, caotico intreccio di condutture d'aria che occludono la vista. Ma adesso li sento, i passi di Janos: è dietro di me, e si sta avvicinando. Il rumore riecheggia alla mia destra, poi a sinistra. È assurdo: non può essere contemporaneamente in due posti diversi. Girandomi per identificare meglio la direzione da cui proviene il rumore, urto con il gomito una conduttura: il metallo cavo emette un gorgoglio sordo che sembra riverberare in tutto il locale. Chiudo gli occhi e mi accuccio, così in fretta da sbucciarmi le nocche delle mani contro il pavimento ruvido. Ed ecco l'eco del rumore che ho appena provocato: è dietro di me, e piuttosto lontano. Inarco un sopracciglio e alzo gli occhi per scrutare le buie arcate del soffitto. Un fischio acuto fende l'aria. Vuoi vedere che... Rimango accucciato, e con la punta dell'unghia do un colpetto a una conduttura d'aria. Si sente un piccolo ping!, e qualche secondo dopo l'eco del ping! è dietro di me, a una distanza di circa dieci metri. Questo posto è l'equivalente sonoro di una sala degli specchi. Quando il Campidoglio fu costruito, ovviamente, i condizionatori d'aria non erano ancora stati inventati: e così, siccome i membri del Congresso si lamentavano che nelle aule del Senato e della Camera la temperatura era soffocante, fu necessario scavare un elaborato sistema di gallerie sotterranee per la refrigerazione. L'aria esterna s'infilava in queste gallerie, circolava, s'intrufolava verso l'alto negli spazi vuoti dell'edificio e infine, percorrendo altri tunnel simili a condotti dell'aria condizionata in muratura, portava un po' di refrigerio nei locali del Campidoglio. Oggi, ovviamente, quel vecchio sistema di refrigerazione non è più usato: ma la rete di gallerie esiste ancora, e raccoglie l'aria fresca per convogliarla direttamente nelle unità di raffreddamento e pomparla verso l'alto, attraverso le vecchie condutture e altri percorsi realizzati in tempi più recenti. Quella in cui mi trovo, dunque, non è affatto una semplice cantina. Questi sbuffi d'aria fresca... questi suoni riecheggianti... finora ho pensato che le condutture d'aria fossero quelle che vedo correre sopra e sotto di me, ma osservando meglio la particolare curvatura delle pareti... Il locale nel suo insieme è un unico, gigantesco tunnel di ventilazione. Io e Janos ci stiamo inseguendo in una conduttura d'aria. Altri tunnel sotterranei, carichi d'aria
fresca, corrono sotto i nostri piedi per poi sboccare in questo locale e rifornire tutte le macchine. Alzando gli occhi verso i bui anfratti del soffitto capisco finalmente che non si tratta di semplici coperture chiuse: oltre quell'oscurità misteriosa si devono aprire i passaggi per l'aria che portano alle stanze interne del Campidoglio. Questo locale è il cardine da cui si dipartono gli infiniti raggi che raggiungono ogni angolo dell'edificio. E per favorire la circolazione dell'aria tutti i tunnel sono interconnessi fra loro: ecco perché i passi di Janos risuonavano sia a destra che a sinistra. Se ora do un colpetto alla griglia di metallo che ho sulla destra, sentirò il rumore anche da dietro e da sinistra. Buono a sapersi... ogni cosa può risultare utile in un momento come questo. Ricomincio a correre tenendomi basso tra due file di condizionatori. I passi di Janos risuonano dietro di me da tre direzioni diverse. Tutti e tre i rumori diventano progressivamente più forti, ma il fischiare del vento e il rombo ovattato dei macchinari mi impediscono di distinguere quale sia il più vicino. L'unica cosa positiva è che anche Janos deve avere lo stesso problema. «Ecco, arrivano i soccorsi!» grido, e ascolto l'eco della mia voce. «È la polizia capitolina, stanno arrivando!» grido ancora, rivolto verso la parete sinistra del locale. Con un po' di fortuna, Janos dovrebbe sentirmi da destra. Non è certo il trucco più astuto del mondo, ma in questo momento qualsiasi diversivo può essere utile. Devo solo guadagnare tempo: presto Viv arriverà con i soccorsi. «Mi senti, Janos? Stanno arrivando!» grido ancora, nella speranza di confonderlo facendo rimbalzare la voce avanti e indietro per tutto il locale. Lui invece non dice niente. È troppo intelligente per rispondere. Allora decido di scendere sul piano personale. «Da quello che ho potuto vedere non mi sembra che tu sia un fanatico, Janos. Perché hanno scelto proprio te? Hai qualcosa di particolare contro gli Stati Uniti o è una questione puramente monetaria?» Dietro di me, da qualche parte, sento grattare le suole delle sue scarpe: ha girato bruscamente su sé stesso. Forse gli è parso che la mia voce venisse da dietro. È disorientato. «Avanti, Janos, dimmelo, ho sempre pensato che anche per quelli come te ci fossero dei limiti. È vero che bisogna guadagnarsi da vivere, ma non per questo ci si può abbassare a raccogliere con la lingua tutti i chewingum masticati del marciapiede.» Il rumore di passi si avvicina, poi si allontana, come se Janos avesse
cambiato idea. Ormai dev'essere piuttosto scocciato. «Non fraintendermi, Janos», continuo, passando sotto una sezione di ventole e nascondendomi dietro uno scalda acqua ovale. «Lo so che nella vita bisogna scegliere da che parte stare, ma quella gente... Non voglio cadere nello stereotipo, ma tu non sei come loro. Al momento forse vogliono ammazzare soltanto noi, ma dopo toccherà a te.» Il rumore di passi rallenta. «Non mi credi? Non solo ti pianteranno un coltello nella schiena, ma lo infileranno con precisione fra due vertebre in modo che tu possa sentirlo penetrare centimetro dopo centimetro. Pensaci, Janos: lo sai di chi sto parlando... È così che fanno, nello Yemen...» Il rumore di passi si blocca. Alzo la testa per guardarmi alle spalle. Una situazione irreale. «Non te l'hanno detto, vero?» domando. «Tu non lo sai, chi c'è dietro.» Ancora silenzio. «Cosa? Pensi che me lo sia inventato? No Janos, è vero: stai lavorando per lo Yemen!» Scivolo fuori dal mio nascondiglio e torno indietro, verso di lui. Cammino tenendomi più basso che posso. Colpisco ancora con le pinze una macchina per produrre un piccolo rumore. Più mi muovo, più lui avrà difficoltà a individuarmi. «Ma come hanno fatto a imbrogliarti così bene? Lasciami indovinare: hanno assunto un tipo con l'aria da manager per farla sembrare un'impresa americana: poi hanno mandato avanti questo tipo per assumere te. Come sto andando: acqua... fuocherello... fuoco?» Non risponde. Per una volta credo sia davvero disorientato. «Ma via, non hai visto Il Padrino? I killer prezzolati non incontrano mai i capi veri.» Questo l'ho detto solo per farlo arrabbiare. Il rumore di passi è scomparso, non lo sento più da nessuna parte. O ci sta pensando sopra, o si concentra per capire da dove viene la mia voce. In entrambi i casi non credo possa ragionare in modo corretto. Piegato in due, senza fare il minimo rumore, scivolo dietro un ventilatore alto tre metri racchiuso dalla griglia metallica più arrugginita che abbia mai visto. Collegata alla griglia c'è una conduttura in alluminio lunga circa sei metri, che corre in direzione della porta da cui siamo entrati. Le pale del ventilatore girano lente, e tra un passaggio e l'altro posso guardare fino in fondo alla conduttura. Ma quando lo faccio per poco non ingoio la lingua. Appena fuori si vede una zazzera brizzolata che conosco fin troppo bene.
Mi abbasso ancora di più, cercando di nascondermi dietro la griglia del ventilatore. Dal nuovo punto d'osservazione vedo chiaramente la parete inferiore della conduttura: impossibile sbagliarsi, quelle là in fondo sono le scarpe di Ferragamo di Janos. Lui è lì, davanti a me. E dal modo in cui se ne sta immobile, irrigidito dalla frustrazione, sembra non sospetti affatto che mi trovo appena dietro di lui. Stringo la pinza ad ago nel pugno sudato e rimango accucciato, pronto a schizzare in avanti. Ma tre secondi dopo ho cambiato idea. Ho visto abbastanza episodi di Venerdì 13 per sapere come vanno a finire queste cose. Che diamine, quell'uomo è un killer di professione. Devo limitarmi a restare nascosto, qualsiasi altro tentativo andrà a finire come in uno splatter di serie B. Purtroppo, però, più resto fermo qui più aumentano le probabilità che Janos si volti e mi veda. E dopo quello che ha fatto a Matthew, e a Pasternak, e a Lowell... Forse, tutto sommato, vale la pena di rischiare. Faccio un respiro profondo per darmi coraggio poi, sempre tenendomi basso, comincio a spostarmi lentamente in avanti. Una delle mie mani scivola leggera sulla superficie metallica della conduttura; l'altra stringe convulsamente le pinze ad ago. Abbasso la testa per guardare in fondo al tubo: Janos è sempre lì, che cerca di capire dove posso essere, ma in questa zona del locale macchine il frastuono dei motori non gli facilita il compito. Mi muovo il più lentamente possibile, facendo attenzione a ogni passo. Sono avanzato di circa tre metri. Non posso ancora vedere la parte superiore del suo corpo perché la parete della conduttura me la nasconde, vedo solo la sua spalla destra. Qualche passo dopo compaiono il retro della testa e un braccio. Ormai fra me e lui c'è meno di un metro e mezzo. Janos continua a guardarsi attorno, più che mai confuso. Nella mano destra ha quella maledetta scatola nera, che sembra un walkman vecchio modello. Nella sinistra stringe la numero nove del senatore. Credo non abbia altre armi: se avesse portato con sé un coltello o una pistola il metal detector del Campidoglio non l'avrebbe lasciato passare. Ormai è a meno di un metro da me. Stringo i denti e alzo la mano con la pinza, preparandomi a colpire. L'aria corre più veloce nella conduttura. Dai miei piedi sale un breve scricchiolio: un frammento di intonaco s'è rotto sotto la scarpa. Mi blocco. Janos non muove un muscolo. Forse non mi ha sentito. Va tutto bene. Conto mentalmente fino dieci e bilancio il peso, pronto a scattare. Sono così vicino da vedere le cuciture sul passante posteriore dei suoi pantaloni, e la zazzera un po' cresciuta sulla nuca. Non me lo ricordavo così grosso: da qua sotto, sembra un vero gi-
gante. Stringo la mascella e alzo ancora un po' la mano con la pinza. Al mio tre: uno... due... Salto su come un pupazzo meccanico in una scatola a sorpresa, puntandogli la pinza alla nuca. In un turbinio indistinto di forme Janos si volta roteando la mazza da golf e mi fa volare via di mano la pinza. La vedo cadere sul pavimento, lontano. Poi, senza lasciarmi il tempo di reagire, alza l'altra mano e la sposta velocissimo verso di me. Con la scatoletta nera puntata al centro del mio petto. 76. «Presto... dobbiamo andare a cercare aiuto!» disse Viv tirando Barry per la manica della giacca. «Calmati, l'ho già fatto», disse Barry. «Gli agenti arriveranno subito. Dov'è Harris?» «Là...» disse lei, indicando il locale macchine. «Cosa stai indicando? Una porta?» «Ma lei... ci vede?» «Solo ombre e contorni. Aiutami ad arrivare fin là.» E così dicendo Barry afferrò Viv per il gomito e la spinse avanti, forzandola a tornare sui suoi passi. «Ma è impazzito?» si ribellò lei. «Non hai detto che Harris è là dentro con Janos?» «Sì, ma...» «Allora, cosa vuoi fare... startene qui al sicuro ad aspettare i poliziotti o tornare là dentro e cercare di salvarlo? Harris è solo contro Janos: se non lo aiutiamo adesso, sarà troppo tardi.» «M-ma lei è cieco...» «E allora? Per il momento i nostri due corpi saranno sufficienti: Janos è intelligente, sentendo entrare due persone non rischierà lo scontro e se la darà a gambe. Allora, cosa vuoi fare?» Confusa dalla fretta, Viv cedette e condusse Barry verso il locale macchine. L'uomo avanzò picchiettando le pareti con il bastone bianco. Viv si voltò un attimo per controllare se i poliziotti stavano già arrivando. Ma Barry aveva ragione: non c'era tempo da perdere. Accelerò il passo e lo condusse fino alla porta. No, non avrebbe abbandonato Harris nel momento del pericolo. A metà del corridoio passarono davanti al corpo senza vita di Lowell,
ancora buttato di traverso sul pavimento. Viv guardò il suo compagno. Gli occhi azzurri, vuoti, erano fissi in avanti. Non l'aveva visto. «Lowell è morto», gli disse. «Ne sei sicura?» Lei guardò ancora una volta il corpo esanime. La bocca era spalancata, come in un ultimo grido afono. «Sì.» Poi, sempre fissando il cadavere di Lowell, domandò: «È stato lui a chiamarla?» «Come?» «Lowell: è stato lui a chiamarla? È così che ha saputo dove eravamo?» «Sì», rispose Barry. «Mi ha telefonato Lowell.» Il bastone di Barry urtò la base della porta. Viv girò la maniglia. La porta si aprì, lasciando uscire uno sbuffo d'aria fresca. «Cosa vedi?» sussurrò Barry. Viv mise dentro la testa e diede un'occhiata. Tutto era come l'aveva lasciato. I bidoni dell'immondizia. Le taniche di propano. Perfino la coperta militare, là dove lei l'aveva gettata. In fondo alla stanza, però, le parve di sentire un gemito gutturale. Come di dolore. «Harris!...» gridò, trascinando Barry oltre la soglia. Lei si muoveva in fretta, ma il cieco rimaneva saldamente aggrappato al suo gomito. Per un attimo Viv pensò di liberarsi di lui e di correre via, ma almeno su una cosa Barry aveva ragione: la loro forza stava nel numero. «È sicuro di farcela?» gli domandò mentre correvano insieme. Era stupita: nonostante la mole di Barry, correre insieme a lui era più facile di quanto avesse pensato. «Certo», rispose Barry. «Ci sono, sono qui con te.» Viv annuì fra sé. Probabilmente non era la prima volta che lo faceva. Ma non appena distolse gli occhi da Barry per guardare in fondo al locale macchine, sentì che lui le stringeva il gomito molto più forte di prima. Dapprima fu solo un leggero fastidio, ma poi... «Barry, mi sta facendo male!» Lui strinse ancora più forte. Lei cercò di liberarsi, ma invano. «Barry, mi sente? Ho detto che mi fa...» Quando si voltò per affrontarlo, Barry aveva già fatto un mezzo giro su sé stesso, e non appena lei gli offrì la faccia le diede un terribile manrovescio che la prese proprio sulla bocca, spaccandole il labbro. Viv perse l'equilibro e cadde, assaggiando la densa acidità del suo stesso sangue. Per fortuna all'ultimo momento era riuscita a mettere le mani avanti, e non appena raggiunse il pavimento cominciò a scappare a quattro zampe.
«Che ti prende? Hai finito di chiacchierare?» disse Barry in piedi dietro di lei. «Harris... Harris!» avrebbe voluto gridare. Ma prima ancora che il suono le uscisse dalla gola Barry le passò un braccio attorno al collo e strinse con tutte le sue forze. Viv cominciò a tossire. «Scusa... dicevi?» la prese in giro Barry. «A volte non ci sento tanto bene.» 77. La scatola nera di Janos scatta velocissima verso il mio petto. Guardo come ipnotizzato i due denti che ne sporgono, puntati dritti contro il mio cuore, lo stesso punto in cui è stato colpito Lowell. Cerco di ruotare su me stesso per sottrarmi alla loro traiettoria, ma Janos è rapido e spietato. Sarebbe bello pensare di essere più veloce di lui, ma non è così. I due aghi falliscono il bersaglio del cuore ma attraversano la manica della giacca e affondano nel bicipite. Dapprima sento come delle punture di spillo corrermi per tutto il braccio, dalla spalla fino alla punta delle dita. Qualche secondo dopo avverto il bruciore e l'aria si riempie di un odore acre, come di gomma bruciata: sono la mia pelle e il muscolo del braccio a bruciare. Lancio un grido, e nel tentativo di strapparmi via da Janos gli do uno spintone con il braccio libero. Lui, concentrato a proteggere la scatoletta nera, si distrae un attimo: ne approfitto per strappargli di mano la mazza da golf del senatore. Furibondo per aver fallito il primo colpo alza di nuovo la scatoletta per una seconda stoccata. Io roteo selvaggiamente la mazza cercando di tenerlo lontano. Quasi involontariamente urto con la testa della mazza un angolo della scatoletta: pur non essendo diretto, il colpo è sufficiente per fargliela volare via di mano. Il marchingegno cade qualche metro più in là e l'involucro si apre. Fili elettrici, pile e i due aghi si spargono sul pavimento, e rotolano via finendo sotto un condizionatore. Guardo Janos. Quegli occhi che non perdonano sembrano volermi staccare la testa dal collo. Avanza verso di me senza dire una parola. Adesso ne ha proprio abbastanza. Alzo la mazza da golf come per una battuta al baseball: è lo stesso movimento con cui l'ho già sorpreso una volta. Ma stavolta non funziona. Sferro il colpo mirando alla testa, lui lo schiva, e mi afferra il polso conficcando profondamente la punta del medio nella parte interna. Sento una fit-
ta di dolore alla mano, il pugno si apre involontariamente e la numero nove cade a terra. Non riesco più a muovere le dita. Janos invece non ha problemi a stringere il pugno. Mi colpisce con la precisione di un pugile professionista, centrando con la nocca più sporgente la fossetta del mio labbro superiore. Un dolore diverso da qualsiasi altra cosa abbia provato in vita mia. Gli occhi mi si riempiono di lacrime. La vista mi si annebbia. Ma non sono venuto fin qui per fargli da punching ball. Anche se non riesco quasi a chiudere la mano cerco di prenderlo di sorpresa con un pugno veloce. Janos si piega verso sinistra, mi afferra la mano quando gli sfiora il mento e approfittando del mio sbilanciamento mi tira contro di sé: poi, con un movimento fulmineo, mi alza il braccio e mi conficca due dita nell'ascella. Sento una fitta di dolore, e prima ancora che il cervello abbia il tempo di registrarla mi ritrovo con il braccio penzoloni lungo il fianco. Janos mi tiene ancora per il polso: poi spinge la mia mano verso sinistra e usa l'altro braccio per far leva contro il gomito nella direzione opposta. La giuntura schiocca. Il gomito si tende al massimo. Mentre i muscoli del braccio mi si allungano all'estremo capisco che, indipendentemente dal dolore che proverò, quell'arto non funzionerà mai più come prima. Janos sembra deciso a farmi letteralmente a pezzi, un osso dopo l'altro, provocando un sistematico corto circuito in ogni zona del mio corpo. Piegando leggermente le ginocchia ed emettendo un sordo grugnito Janos mi colpisce ancora, stavolta fra l'inguine e l'ombelico. La metà inferiore del corpo mi si contorce all'indietro, e io cado verso il mio nemico. Nel farlo urto con le gambe una fila di ventilatori bassi, e ancora una volta la forza d'inerzia agisce contro di me: rimbalzo all'indietro e cado seduto sul pavimento, accanto a un condizionatore d'aria grosso come il cassone di un camion della spazzatura. Sul fianco della macchina una cinghia di trasmissione di gomma nera si mette in movimento: accelera, gira per qualche secondo alla massima velocità, poi rallenta di nuovo portando a termine il suo breve ciclo vitale. Janos salta atleticamente la fila di ventilatori per raggiungermi e atterra accanto a me con un rumore di tuono: ma i suoi occhi non guardano la cinghia di trasmissione... e nemmeno me. Qualsiasi cosa stia guardando, dev'essere dietro le mie spalle. Rotolo sul pavimento e mi volto per scoprire cos'ha visto. A meno di sei metri da noi c'è un muretto curvilineo, fatto di mattoni corrosi dall'umidità, che segna la fine della galleria d'aerazione, ma Janos
sta fissando un punto ancora più in là: un buco nero, grande come il pozzo di un ascensore e probabilmente altrettanto profondo. Ne avevo sentito parlare, ma non l'avevo mai visto prima d'ora: è uno dei pozzi che, partendo dal livello delle fondamenta, vanno a pescare l'aria fresca sottoterra... alimentato da una delle condutture che la risucchiano dall'esterno. Pare siano profondi centinaia di metri. E dall'eco che sento passarmi sopra la testa con uno sbuffo d'aria fredda la stima mi sembra corretta. Poco lontano dal buco c'è una grata metallica rettangolare appoggiata alla parete. La grata serve a evitare che la gente cada di sotto, ma in questo momento a proteggere il pozzo c'è solo un sottile nastro di plastica a righe gialle e nere con la scritta ATTENZIONE: PERICOLO. Non so cosa stiano facendo quaggiù, ma sembrano lavori in corso. Gli operai del Campidoglio hanno preso le solite misure di sicurezza: proprio sul bordo del pozzo, in equilibrio precario, ci sono due cartelli gialli che dicono ATTENZIONE e FONDO SCIVOLOSO. Janos mi solleva di peso, mi rimette in piedi, quindi mi dà uno spintone verso il pozzo. Io mi sento le gambe come se fossero piene di budino d'avena. Non riesco a reggermi in piedi. «N-non farlo...» supplico, cercando disperatamente di ritrovare l'equilibrio. Janos, come al solito, non dice nemmeno una parola. Sto facendo del mio meglio per reggermi in piedi, ma lui mi colpisce ancora, stavolta al petto. L'impatto è quello di una bomba sonora. Annaspo con le mani per aggrapparmi alla sua camicia, ma non riesco ad afferrarla... E cado all'indietro, dritto verso il buco. 78. Con il braccio attorno al collo di Viv, Barry strinse i denti e si piegò all'indietro, gonfiando il bicipite. La ragazza si divincolava in cerca d'aria, e lui faticava a trattenerla. Aveva le spalle larghe, era più robusta di quanto pensasse. E parecchio più forte. Il corpo di Viv si contorceva e si dimenava in tutte le direzioni. Le sue unghie gli graffiavano profondamente l'avambraccio. Spalancando la bocca in cerca d'aria, la ragazza gli tossì uno spruzzo di saliva sul polso nudo. Che schifo, pensò lui e strinse più forte, premendosela contro il petto. Allora lei allungò un braccio dietro la testa per ficcargli le unghie negli occhi. Barry spostò la testa per proteggersi il viso. Era quello che Viv si augurava: con il braccio che già aveva allungato verso di lui gli afferrò una
ciocca di capelli e tirò più forte che poteva. Lui urlò di dolore. «Figlia di...» la insultò, ma poi dovette chinarsi un po' in avanti per alleviare il dolore, e nel farlo si alzò in punta di piedi. Viv si inarcò sotto di lui, utilizzando ogni centimetro della sua altezza, e finalmente Barry perse l'equilibrio. Spostando bruscamente il peso all'indietro Viv si lasciò cadere contro la parete. Barry ci andò a sbattere con le spalle, ma senza mollare la presa. Ancora avvinghiati, i due finirono tra le taniche di propano, che volarono via come birilli al bowling. Barry cercò di stringerla ancora contro di sé, ma mentre volteggiavano insieme Viv continuava a spingerlo via sempre più forte. I due corpi allacciati piombarono infine contro un boiler. La ragazza cadde a peso morto sul suo aggressore: dall'apparecchio sporgeva un sottile cannello metallico, che lacerò la pelle della schiena di Barry e si spezzò contro la sua spina dorsale. Barry urlò di nuovo e cadde in ginocchio, lasciandola andare. Subito dopo udì le sue scarpe grattare il pavimento di cemento: Viv scappava verso l'interno del locale. Barry si rialzò massaggiandosi la schiena e cercò di guardarsi attorno. Ma non c'era molta luce, e le ombre che riusciva a vedere gli danzavano davanti agli occhi come vaghi aloni nebulosi. In lontananza si udivano aspri grugniti e gemiti nasali: Harris e Janos stavano ancora lottando. Janos non ci avrebbe messo molto ad aver ragione del suo rivale: nel frattempo lui doveva neutralizzare Viv. «Ma dài, credi davvero che non ti veda?» gridò in direzione del piccolo scricchiolio delle sue scarpe, nella speranza che quel bluff la spingesse a scoprirsi. A una certa altezza dal suolo riusciva a identificare i contorni di un condizionatore d'aria; ma più in basso, verso il pavimento, tutto si confondeva. Verso sinistra si udì uno scricchiolio di frammenti di cemento: Viv si stava spostando. Barry volse la testa ma non riuscì a cogliere alcun movimento, solo i consueti aloni nebbiosi. Ecco... forse qualcosa si era mosso? Se solo fosse riuscito a riacchiapparla... Quando quella storia fosse finita, lui, che era sempre stato in fondo alla piramide, avrebbe finalmente colto l'occasione di occuparne il vertice. Un attimo dopo alle sue spalle risuonò un tintinnio acuto. Veniva da una delle taniche di propano. Si volse per seguire il suono, ma subito pensò che era stato un po' troppo acuto: come se qualcuno avesse scagliato un sassolino contro un contenitore di metallo. Era lei, Viv, che aveva tirato qualcosa per confonderlo.
«Bene: adesso vuoi mettermi alla prova, vero?» le gridò, girandosi di nuovo verso i macchinari. Voleva mostrarsi forte e deciso, ma mentre cercava di setacciare con gli occhi il locale - destra, sinistra... in alto, in basso - quelle ombre gli sembrarono... no, non si è mosso niente. «Non si è mosso niente», si ripeté. Tutt'attorno a lui le macchine borbottavano la loro monotona sinfonia. A destra la fiammella di una caldaia si accese con un sibilo e una vampata. A sinistra un compressore scoppiettante, concluso il suo ciclo, si spense con un click. Un soffio di vento gli rinfrescò il viso. Ma di Viv nessuna traccia. Per individuare il saliscendi ansimante della sua respirazione, Barry isolò ogni singolo suono - ogni tintinnio, sibilo, schiocco e crepitio del locale macchine. Poi fece qualche passo in avanti. In quella semioscurità non riusciva a vedere proprio niente, ma sapeva che la ragazza doveva essere spaventata a morte. E confusa. In fondo, era stato proprio questo a farle fare il primo errore. Purtroppo, però, più s'inoltrava nel locale macchine più i suoni sembravano divertirsi a danzare attorno a lui. Ecco un clang! sulla sinistra... o proveniva da destra? Barry si bloccò a metà di un passo, come congelato. Un fruscio di tessuto sussurrò dietro di lui. Si voltò di scatto verso la porta, ma il suono scomparve subito. «Avanti, Viv, non fare la stupida...» la minacciò. Ma la voce gli s'incrinò a metà della frase. Il locale macchine era immerso nel silenzio. Poi si udì un piccolo schiocco secco, come quello di un bastoncino gettato in un fuoco da campo. «Viv?...» Nessuna risposta. Barry si girò ancora verso l'interno del locale, interrogando la sagoma di ogni macchinario. Dappertutto la stessa confusa nebulosità. Niente che si muovesse... niente. «Viv, ci sei?...» Per un momento Barry avvertì una stretta al cuore, una sensazione che gli era anche troppo familiare. Ma subito si disse che non c'era ragione di aver paura. Viv non sarebbe andata da nessuna parte. Non finché era tanto spaventata da... Improvvisamente dal pavimento salì un sonoro grattare di scarpe lanciate al galoppo. Erano dietro di lui... Viv correva verso la porta. Barry girò su sé stesso e subito udì il secchio per i pavimenti sbattere
contro la parete. Poi sentì un grattare di metallo contro il cemento: Viv aveva spostato una delle taniche di propano, forse perché le impediva di raggiungere la porta. Fu allora che, finalmente, riuscì a intravedere la sagoma della ragazza. Ma c'era qualcosa che non andava. La massa scura non rimpiccioliva affatto: anzi, si ingrandiva. Viv non stava scappando, puntava dritta su di lui. «Beccati questa, maledetto stronzo!» gridò, roteando con tutte le sue forze la tanica di propano. E non vacillò nemmeno quando il recipiente colpì la testa di Barry. Il rumore fu pari alla forza dell'impatto: uno schiocco innaturale, come di una mazza di alluminio che colpisca un melone maturo. La testa di Barry fu scagliata violentemente da parte, e il corpo la seguì. «E questa, l'hai vista arrivare? Era abbastanza luminosa per te?» gridò ancora Viv, furibonda, mentre Barry cadeva. Era dal giorno in cui la sua famiglia si era trasferita nella nuova casetta al margine del quartiere che tutti se la prendevano con lei e la tormentavano. Ma ora finalmente poteva raccogliere il frutto di tante risse di strada. Barry cercò di afferrarla per una gamba, ma il mondo sembrava girargli vorticosamente attorno. Viv gli premette la tanica vuota sul petto. Il cieco non riusciva a respirare, e men che meno a muoversi. «Credevi di potercela fare contro di me?» gridò ancora lei, mentre schizzi di saliva le uscivano dalla bocca. «Tu non ci vedi! Pensavi che avresti potuto battermi facilmente soltanto perché sono una ragazza?» Barry alzò gli occhi e vide la lunga ombra di Viv torreggiare sopra di lui. Poi la vide sollevare un piede e spostarlo verso la sua testa, come per calpestarla. E fu l'ultima cosa che vide prima che il mondo diventasse completamente nero. 79. Mentre perdo l'equilibrio e cado all'indietro verso il pozzo della galleria d'aerazione, non perdo tempo a cercare di rallentare la caduta. Usando le poche parti sane che mi rimangono mi butto tutto da una parte, cercando di voltarmi. Quando riesco a guardare nella profondità del buco sono ormai a ridosso del muretto. Ma perlomeno sto cadendo velocemente, e così, non appena col piede sfioro l'orlo del buco, posso utilizzare il mio stesso slancio per saltare in diagonale sulla destra. La maggior parte del lavoro lo fa la forza
d'inerzia. Salto oltre l'angolo della voragine - il che è un bene - ma purtroppo dritto davanti a me c'è un basso muro di mattoni - e questo non è affatto un bene. Faccio appena in tempo a mettere le mani avanti. È il braccio ad assorbire la maggior parte dell'impatto, ma dovendo sostenere tutto il peso del corpo il gomito mi cede di schianto. Un dolore insopportabile. È proprio il gomito che Janos mi ha quasi slogato. Cado sul pavimento e subito rotolo sulla schiena, mi sollevo sul braccio buono e guardo in giù. Sassolini e polvere di cemento stanno ancora franando dentro al buco. Resto in ascolto per sentire quanto tempo ci mettono a toccare il fondo, ma prima ancora di essermi riavuto mi sento tirare per il davanti della camicia. Alzo gli occhi: Janos è già su di me, e sta facendo leva per sollevarmi da terra. Un'onda di panico mi travolge. Non sono più in grado di battermi, arretro sul sedere per cercare di sottrarmi alla sua presa. Ma lui mi tiene stretto. Reggendomi per la camicia con la sinistra, mi colpisce con la destra sopra l'occhio. Anche stavolta mira a un effetto preciso: dal sopracciglio spaccato il sangue mi cola subito sulla faccia e negli occhi, accecandomi sempre di più. Ormai mi crede fuori combattimento. Ma proprio quando il suo pugno mi fa ricadere sul fondoschiena reagisco utilizzando l'unica cosa sana che mi rimane e gli sferro un calcio dritto fra le gambe, piantandogli la punta della scarpa nei testicoli. Janos stringe i denti per trattenere un gemito, ma stavolta accusa il colpo. Si piega in due e si afferra con entrambe le mani il cavallo dei pantaloni. Ma quel che più conta è che ha lasciato andare la mia camicia. Striscio all'indietro. Mi basterebbero pochi secondi per... Ma non li ho. Prima che sia riuscito a rimettermi in piedi Janos si raddrizza e si scaglia su di me. Dal suo sguardo capisco che l'unico effetto del mio calcio è stato di mandarlo in bestia. Mi sbatte contro un condizionatore d'aria appoggiato direttamente sul pavimento. Non ho più spazio di manovra. «No, non farlo!» grido. Lui, come al solito, non risponde. Stringe gli occhi, e un ghigno gli arriccia le labbra. Quel che farà da questo momento in poi sarà solo per il suo piacere personale. Mi afferra un orecchio e lo torce selvaggiamente, tirandolo all'indietro. Non posso fare a meno di alzare il mento. Stringe ancora e io mi ritrovo a fissare il soffitto, con la gola completamente esposta. Janos sposta il braccio all'indietro per sferrare un ultimo colpo e...
...e la sua testa scarta bruscamente a sinistra, facendogli perdere l'equilibrio. Qualcosa l'ha colpito da dietro, producendo un suono forte e vuoto. Ma la cosa più stupefacente è che, all'ultimissimo secondo, Janos ha fatto un piccolo movimento rotatorio per ammortizzare il colpo, quasi ne avesse avuto la premonizione. Ciononostante l'urto è stato violentissimo, e mentre lui si porta le mani alla testa e barcolla verso il muro, riesco finalmente a vedere chi è stato. Con le mani strette sulla numero nove del senatore Stevens, Viv si rimette nella posizione della battuta, pronta a colpire di nuovo. «Tieni giù quelle fottute manacce dal mio amico!» dice. Janos alza gli occhi, stupefatto. Ma è solo un attimo. Riconoscendo Viv corruga la fronte e stringe i pugni. Se sente ancora male non lo dà a vedere. Sembra l'incarnazione stessa del furore. I suoi occhi sono due piccoli pezzi di carbone incastonati nelle orbite. Poi scatta in avanti come un cane rabbioso cercando di afferrare Viv. Lei stringe i denti e rotea la mazza per assestargli un altro colpo in testa. L'ho già provata, quella mossa. Non le riuscirà mai. Janos afferra la mazza a metà del suo giro e la torce bruscamente, poi la spinge in avanti come fosse una stecca da biliardo mirando alla faccia di Viv. Il manico della numero nove la colpisce alla gola. Viv barcolla e fa qualche passo indietro, portandosi la mano al collo. Non riesce più a respirare. Con la forza del suo stesso peso strappa a Janos la mazza da golf, ma poi deve lasciarla cadere. Lui però non ne ha più bisogno. Mentre Viv tossisce violentemente e cerca di riprendere fiato Janos le blocca ogni via d'uscita, e si avvicina per ucciderla. «S-sta' indietro», annaspa lei. Janos l'afferra per il davanti della camicia, la tira verso di sé e con un fluido movimento la colpisce col gomito in piena faccia, spaccandole il sopracciglio. Proprio come ha fatto con me, solo che stavolta, anche se il sangue comincia subito a scorrere, non si accontenta e le dà un'altra gomitata in faccia. Poi un'altra. Sempre sullo stesso punto. Non sta semplicemente cercando di metterla fuori combattimento... «Non toccarla!» grido, scagliandomi contro di lui. Ho il braccio talmente gonfio che non lo sento più. Le gambe mi tremano, non riesco quasi a reggermi in piedi. Ma non importa. Janos non l'avrà. Cercando di ignorare il dolore gli piombo addosso e gli passo un braccio attorno al collo. Lui allunga una mano sopra la testa, cercando la mia faccia. Possiamo sperare di farcela solo se siamo due contro uno. E anche così potrebbe non essere sufficiente.
Viv cerca di graffiarlo in faccia, ma Janos è pronto a reagire: si appoggia a me, solleva da terra entrambi i piedi e le sferra un calcio in pieno viso. Viv cade all'indietro, batte la testa contro la fiancata metallica di un condizionatore e rimane a terra priva di sensi. Senza perdere tempo, Janos butta indietro la testa e mi colpisce sul naso. Dal rumore si capisce subito che me l'ha rotto. Lo lascio andare e cado all'indietro, con la faccia inondata di sangue. Ma lui, inarrestabile, punta dritto su di me come un carrarmato umano. Alzo il pugno sinistro per colpirlo, ma lui mi blocca subito. Cerco di sollevare l'altra mano, ma il braccio penzola ancora dalla spalla come un calzino pieno di sabbia. «T-ti prego...» mormoro. Janos mi colpisce di nuovo sul naso, che fa un minorino disgustoso. Barcollo, e lo vedo alzare gli occhi su qualcosa che sta dietro le mie spalle. Questa scena è già successa: sta fissando l'apertura del pozzo. «No... ti prego, no...» Con uno spintone mi fa cadere all'indietro, e io mi lascio andare giù senza opporre resistenza: qualsiasi cosa pur di non avvicinarmi al buco. Ma Janos mi afferra per la camicia e mi rimette in piedi. Ormai la voragine si spalanca proprio dietro di me. E stavolta non credo che Janos mi lascerà spazi di manovra. Mi tira verso di sé per darmi l'ultimo spintone. Contro il fianco sento penzolare il braccio senza vita. Ho la testa in fiamme, la faccia gonfia in più punti. L'unica cosa che il mio cervello riesce ancora a processare è l'odore di liquirizia del suo alito. «Non... puoi... vincere», balbetto. «Qualsiasi cosa tu faccia... la partita è persa.» Janos si ferma un istante: stringe un po' gli occhi, sogghigna. «Su questo sono d'accordo con te», dice. Poi le sue mani scattano bruscamente in avanti e mi colpiscono al petto. Annaspo all'indietro, verso il buco. Se prima ho fatto l'errore di cercare di afferrarmi alla sua camicia, stavolta cerco di afferrare direttamente lui. Rubandogli un trucco che ha appena usato contro di me allungo la mano, gli prendo un orecchio e lo torco. «Che cosa?!...» Non ha nemmeno il tempo di finire la domanda che ci ritroviamo a volare entrambi verso il buco. I piedi mi scivolano oltre il bordo, ma non lascio andare l'orecchio. La testa di Janos viene catapultata in avanti. Mentre precipito nel pozzo mi afferra per il braccio in modo da allentare la tensione all'orecchio e sentire
meno male. Io continuo a tenerlo stretto. Janos cade a terra e il suo peso rallenta anche la mia caduta, ma non abbastanza. Sono già dentro al buco con metà del corpo... e scivolo rapidamente verso il basso. Sassolini e schegge di cemento franano tra il mio stomaco e la parete di roccia, e rotolano anche sotto il petto di Janos, che a sua volta slitta verso il buco a testa avanti. A un certo punto, vedendo che continuiamo a scivolare verso il baratro, decide di lasciar andare il mio braccio per frenare conficcando le unghie nel cemento. Intanto io scalcio disperatamente contro la parete del buco nella speranza di trovare un appiglio contro cui puntare i piedi. Lo vedo chiudere gli occhi un istante: si sta concentrando sulla necessità impellente di bloccare la sua e la mia caduta puntellandosi con le mani e con i piedi. Lo sforzo gli fa gonfiare una vena in mezzo alla fronte, e ha la faccia rossa come un pomodoro. Non si lascerà certo strappare l'orecchio. E a questo punto, inspiegabilmente... ci fermiamo. Un'ultima nuvola di sassolini e polvere rotola oltre il bordo del buco e sulla mia faccia. Rimango appeso per il braccio sinistro, l'unica parte di me ancora fuori dal baratro. L'ascella, contratta attorno al bordo del pozzo, regge una parte del peso, e con la mano stringo l'orecchio di Janos spendendo le ultime forze che mi sono rimaste. Fintanto che sono appeso al suo orecchio, lui mi tiene per il polso. Sdraiato sul petto, anche Janos dev'essersi accorto che non stiamo più scivolando in avanti, ma non molla la presa. Se mi lasciasse andare precipiterei irrimediabilmente nel buco, ma porterei con me una parte di lui, e forse non solo una parte. Per colpa della tensione cui è sottoposto il suo orecchio Janos non può muovere la testa. Ha una guancia premuta contro il cemento. Ma non rimane incastrato a lungo. Ruotando leggermente la testa riesce a guardare verso di me, per assicurarsi che mi sia impossibile uscire dal pozzo. Sul pavimento, fuori dalla voragine, ci sono soltanto il mio braccio e il mento. E lui è pronto a farli precipitare insieme al resto. «Janos, no!...» A questo punto, per farmi mollare la presa, comincia a premere sull'interno del mio polso, ma per farlo deve cambiare leggermente posizione. Lo spostamento è sufficiente a farci scivolare subito in avanti. Janos riesce a bloccarsi di nuovo. Adesso al posto dell'ascella ho il gomito attorno al bordo del pozzo, ed è con quello che reggo parte del mio peso. Janos è sempre nella stessa posizione, sdraiato sullo stomaco e con la guancia nella polvere; ma il suo corpo è leggermente ruotato, e ormai anche lui ha una spalla oltre l'orlo del precipizio. Riesco a vederlo perché ho ancora gli oc-
chi al livello del pavimento. E non lo lascio andare. L'orecchio cui sono appeso è diventato color porpora. Se io cado tenendolo stretto, Janos cadrà con me. Sotto i piedi sento i sassolini cadere nel buco. Pare ci sia un volo piuttosto lungo prima di toccare il fondo. A questo punto Janos decide di correre il rischio e ricomincia a premermi con la punta delle dita la parte interna del polso. È un dolore indescrivibile. Non credo che potrò sopportarlo a lungo. Il dito mignolo si stacca dall'orecchio. Janos fa un movimento all'indietro con la testa per liberarsi, e anche l'anulare cede. Ci siamo quasi. Le dita che mi premono il polso sembrano sul punto di strappare la pelle. Con la mano libera tasto disperatamente la parete di cemento accanto a me, ma sono sceso già troppo. Attorno a me non c'è nessun appiglio. Ormai il dolore è diventato insopportabile. Sento che la mano mi si apre... «Lascialo andare, o finirai nel pozzo insieme a lui!» dice improvvisamente una familiare voce femminile. Con un piede sull'anca di Janos, Viv minaccia di spingerlo giù nell'abisso. Janos s'irrigidisce... e mi afferra più saldamente il braccio. Pur non essendo più appeso direttamente al suo orecchio, non lo lascio andare. Lui non cerca nemmeno di voltare la testa dalla parte di Viv: vicino com'è al bordo del pozzo, basterebbe una mossa falsa per farci precipitare entrambi. Guardo oltre la spalla di Janos. In piedi dietro di lui, Viv brandisce la mazza da golf. «Guarda che dico sul serio», gli fa. «Se lo lasci cadere ti spacco la testa e ti faccio volare fino a Nashville.» 80. «Ecco, così... reggilo forte», ripete Viv. Ed effettivamente Janos mi tiene saldamente per il braccio. Ma non per obbedire a lei: disteso sul petto, sta solo cercando di difendere il suo orecchio e di guadagnare tempo. «Non perderlo d'occhio, Viv!» grido. Anche con i piedi sospesi in quell'infame buco nero, non ho difficoltà a leggere il senso della ruga scura che si è disegnata fra le sopracciglia di Janos: nonostante il dolore si sta concentrando per mettere a punto la sua mossa finale. «Bravo... così», gli fa Viv, tenendo alta la mazza da golf sopra la spalla. «E adesso tiralo su.» Janos non si muove. Se mi sta ancora tenendo per il braccio, impedendomi di cadere, è solo per via dell'orecchio.
«Mi hai sentito?» gli fa Viv. Ancora nessuna risposta. Anche se in questo momento è lui a reggere la maggior parte del mio peso, il suo equilibrio precario non gli consente di fare tutto il lavoro da solo, e io gli stringo ancora l'orecchio. Ha la guancia schiacciata contro il pavimento e la testa protesa nel buco. La sua faccia è sempre più rossa. Pur avendo distribuito il mio peso fra l'orecchio e il braccio, anche lui deve provare un dolore insopportabile. Chiude un momento gli occhi: poi stringe le labbra e respira profondamente dal naso. La piega fra le sopracciglia si distende, ma solo per un attimo. «Janos...» «Metti giù quella mazza!» abbaia lui. «Come dici?» ribatte lei, convinta che Janos non sia nella posizione di darle ordini. «Mettila giù!» ripete lui. «Non fare stronzate, Vivian: metti giù quella mazza o lo lascio andare.» «Non dargli retta!» grido. Viv guarda verso di me, cercando di mettere a fuoco la situazione. «Lo sentirai urlare finché non toccherà il fondo», dice Janos. «Ce la farai a sopportarlo?» Le si spalanca la bocca. Sarebbe difficile per chiunque, e Viv ha solo diciassette anni... «Credi che stia scherzando?» insiste Janos. E ricomincia a ficcarmi le dita nel polso. Grido. «Harris!...» strilla Viv. Janos smette di premere, e la sua presa torna normale. «Tutto bene, Harris?» fa Viv. «S-spaccagli la testa», le dico. «Colpiscilo forte.» «Fallo e io lo lascerò andare!» minaccia Janos. «Mi farà precipitare comunque!» grido. «Non è vero!» Viv non vuole nemmeno pensarci. «Tiralo su!» grida a Janos. «Devi tirarlo su adesso!» Nonostante il dolore, Janos muove lentamente la testa a destra e a sinistra. È un negoziatore esperto. Non posso dargli torto: sa benissimo che, se mi tirasse fuori dal buco, Viv lo manderebbe giù con un calcio. E poi siamo di nuovo due contro uno. Anche sospeso nel vuoto non posso fare a meno di riconoscere la realtà. Janos non mi tirerà su comunque, il che rende la mia decisione molto più
facile da prendere. «Viv, ascoltami!» grido. «Colpiscilo adesso, mentre puoi ancora farlo!» «Non è una mossa intelligente, Vivian», la mette in guardia lui con la solita calma immutabile. «Se lo fai, Harris precipiterà con me.» «Viv, non lasciarlo entrare nella tua mente!» Troppo tardi. Sta già ascoltando lui, non me. «Viv, resta qui! Non ti distrarre!» Si volta dalla mia parte, ma il suo sguardo è vuoto. Non riesce a decidere. «Viv, concentrati! Ragiona!» Mi fa segno di sì con la testa. «Bene... Cerca di capire: qualsiasi cosa tu faccia, io finirò nel buco. O Janos a un certo punto decide di lasciarmi andare, o tu lo colpisci e andiamo giù insieme. Hai capito? In ogni caso, io non posso salvarmi!» La voce mi s'incrina mentre pronuncio queste parole. Viv sa che ho ragione, ed è abbastanza intelligente da arrivare da sola all'unica conclusione possibile: ha già avuto modo di apprezzare la velocità di Janos. Se non lo elimina adesso, fra un attimo lui le salterà addosso. Janos ricomincia a stringermi il polso: si prepara a lasciarmi cadere, e subito dopo si volterà di scatto e l'aggredirà. «Devi farlo adesso!» grido con tutta la voce che ho. «Andiamo, Vivian, non vorrai ammazzare il tuo amico...» le dice Janos. Viv, con la numero nove sollevata in aria, guarda in giù. I suoi occhi rimbalzano da Janos a me, da me a Janos. Non ha che una manciata di secondi per decidere. Alza ancora di più la mazza. Le mani le tremano, grossi lacrimoni le rigano le guance. È l'ultima cosa che vorrebbe fare, ma più ci pensa più capisce di non avere alternative. 81. «Colpiscilo, Viv! Colpiscilo ora!» grido. Con la mazza levata sopra la spalla, Viv è ancora indecisa. «Cerca di ragionare, Vivian», insiste Janos. «Il rimorso è un fardello pesante da portare...» «Sei sicuro, Harris?» mi chiede lei ancora una volta. Senza darmi il tempo di risponderle, Janos mi conficca profondamente le dita nel polso per farmi mollare la presa. Ormai non ce la faccio più a tenermi al suo orecchio. «A-adesso!» la supplico. Con le spalle rivolte a Viv, Janos si concentra sul mio polso stringendolo
sempre più forte. Non cerca nemmeno di voltarsi per controllare le mosse della ragazza: da buon giocatore d'azzardo ha scelto su quale carta puntare. Se Viv non l'ha ancora colpito, probabilmente non lo farà più. «Harris...» grida lei. «Harris, non voglio...» «So che puoi farcela, Viv! È la cosa giusta!» «N-ne sei?...» «Te lo giuro, Viv... è la cosa giusta... E io ti prometto che...» Con un'ultima stretta Janos mi spezza quasi il polso. La mano mi si apre da sola... Ma scivolo solo di qualche centimetro verso il fondo del buco, perché ancora lui non mi ha lasciato andare. Anzi, mi tiene saldamente per le dita della mano, schiacciandole tutte insieme. Un ampio sorriso malefico gli illumina la faccia: gli piace sentire che sono in suo potere... e che la situazione sta per volgersi a suo favore. Appeso per il braccio, io non stacco gli occhi da Viv. «Viv, ti prego... fallo!» Lei deglutisce forte, non riesce quasi più a parlare. «S-solo... che Dio mi perdoni!» Janos s'irrigidisce: ha sentito qualcosa di nuovo nella sua voce, e si volta rapidamente a guardarla. Quando si fissano negli occhi, Janos può finalmente controllare di persona. Il petto di Viv si alza e si abbassa rapidamente... le sue mani aggiustano la presa sulla mazza... i denti affondano nel labbro inferiore. Janos emette un risolino quasi inudibile. È sicuro di averla in pugno. Ma si sbaglia. Le faccio un piccolo cenno di assenso. Viv tira su col naso e le sue labbra mormorano la parola Addio. Poi guarda Janos con i piedi saldamente piantati a terra. Forza, Viv... È la tua vita contro la sua... Ruota la mazza all'indietro. Janos sta ancora sogghignando tra sé. Attorno a noi i condizionatori continuano a ronzare. L'attimo è come congelato. Poi, proprio mentre una goccia di sudore le si stacca dal naso, Viv fa roteare la mazza accompagnando il colpo con tutto il suo peso. Immediatamente Janos lascia andare la mia mano e si volta per fronteggiarla. Si aspetta di sentirmi precipitare all'indietro, incontro alla morte. Non si è accorto che negli ultimi minuti sono riuscito a trovare col piede una piccola irregolarità nella parete del pozzo, una scanalatura artificiale su cui posso fare pressione bilanciando il peso. In quella fessura ho incastrato la punta della scarpa. Piego un po' la gamba, e prima ancora che lui si accor-
ga di quello che sta succedendo balzo verso l'alto afferrandogli il retro della camicia. Concentrato sulle mosse di Viv, Janos è completamente sbilanciato. È questo il suo errore, l'ultimo nella nostra piccola partita a scacchi. Nello sport, e a maggior ragione in politica, niente è più utile di un buon diversivo. Reggendomi faticosamente al bordo del pozzo con la mano destra lo tiro indietro con la sinistra. Lui non ha ancora capito. Con un violento strattone lo indirizzo verso il buco, e la forza di gravità fa il resto. «Ma che diavolo?...» Lasciando la frase a metà Janos ruzzola incontrollabilmente e precipita all'indietro nell'apertura. Passandomi accanto mi sfiora le spalle... la schiena... le gambe... le scarpe. Ma sta cadendo troppo in fretta per riuscire ad afferrare qualcosa. «Noooo...» lo sentiamo gridare. La sua ultima parola riecheggia a lungo nel buco, mentre lui si allontana verso il basso e sparisce nell'oscurità. Sento il suo corpo urtare una delle pareti interne... poi ancora, con un suono duro e graffiante. Continua a rimbalzare contro le pareti del pozzo per tutto il tempo della caduta. Con un urlo che sembra non finire mai. Fino all'ultimo tonfo sordo. Un attimo dopo in fondo al pozzo si accende una sirena acutissima. La cosa non mi stupisce: trattandosi della presa d'aria che rifornisce l'intero Campidoglio, è ovvio che ci abbiano messo un allarme. La polizia sarà qui a momenti. Mentre la sirena continua a urlare mi appoggio alla sponda di cemento del pozzo, cercando di riprendere fiato. Poi guardo in giù per sondarne l'oscura profondità. Nessun movimento. Non fosse per l'allarme sembrerebbe soltanto un vecchio pozzo abbandonato, immobile e quieto. Quel buio silenzioso mi ipnotizza. «Stai bene?» mi fa Viv, inginocchiandosi accanto al buco. «Si allontani subito dal pozzo!» grida dietro di lei una profonda voce maschile, mentre tre agenti irrompono nel locale con i fucili spianati. «Stewie, fa' spegnere tutti i condizionatori!» ruggisce un poliziotto alto nel walkie talkie. «Ma non è quello che...» In un batter d'occhi gli altri due agenti mi afferrano per le braccia, mi tirano fuori dal buco e mi gettano a terra, torcendomi le braccia dietro la schiena. «No, il braccio!...» grido quando mi piegano all'indietro il gomito lussato. «Non così! Gli fate male!» grida Viv mentre il poliziotto alto l'immobilizza a terra e l'ammanetta. «Ha un braccio rotto!»
Entrambi abbiamo la faccia ridotta a una maschera di sangue, ma gli agenti non ci fanno caso. «Le ventole si stanno spegnendo», gracchia una voce maschile al walkie talkie. «Che altro ti serve?» «C'è un cadavere in corridoio e un uomo svenuto nel locale macchine», annuncia l'agente. «È Barry: ha cercato di uccidermi!» strilla Viv. «Barry?» «Siamo stati aggrediti! Controllate i nostri tesserini, noi due lavoriamo qui!» «La ragazza dice la verità», balbetto. Mi sembra di non riuscire nemmeno a tenere dritta la testa. Quanto al braccio, è come se me lo avessero staccato di netto. «E l'aggressore dov'è?» domanda l'agente più basso. «Laggiù!» risponde Viv ancora sdraiata a terra, indicando con il mento l'apertura del pozzo. «Dovete cercarlo in fondo al buco!» «I-il corpo... T-troverete il corpo...» aggiungo. L'agente basso fa cenno a quello alto, che si porta alle labbra il walkie talkie. «Reggie, ci sei?» «Direi di sì...» risponde una voce profonda che viene simultaneamente dalla radio e dal fondo del pozzo. «Oh, santo Dio...» aggiunge. «Cosa c'è? Cos'hai trovato?» gli fa l'agente con la radio. «Ci sono macchie di sangue dappertutto...» «Ve l'avevo detto!» grida Viv. «I rilevatori d'esplosivo sono rotti... E le tracce di sangue continuano fino a... Pare che qualcuno abbia divelto l'inferriata del cancello di sicurezza...» Oh no! «Ma è un salto di dodici metri!» commenta l'agente con la radio. «Be', male se n'è fatto di sicuro», commenta Reggie. «Ma qui... qui non c'è nessun corpo.» Sollevo il mento da terra. Improvvisamente il dolore al braccio è l'ultimo dei miei problemi. «Jeff, di' a quelli della manutenzione di mettere i sigilli alla sala macchine e manda dei rinforzi a Reggie», dice l'agente basso a quello con la radio. «Reggie!...» grida poi, chinandosi sul bordo del pozzo. «Esci immediatamente da lì e segui le tracce di sangue! È ferito, e avrà almeno un paio
di zampe rotte: non può andare lontano!» 82. Non l'hanno trovato. E non lo troveranno mai. In fondo non ne sono stupito: se l'avevano assunto, una ragione doveva pur esserci. Come ogni mago che si rispetti Janos sapeva mantenere un segreto, e sapeva quanto fosse importante sparire al momento giusto. Ormai sono passate sette ore da quando ci hanno portati via dai sotterranei del Campidoglio. Per controllare che gallerie e macchinari non fossero stati compromessi la polizia ha fatto sgomberare l'intero edificio, cosa che non era più accaduta dopo il grande panico dell'antrace. E anche noi siamo stati evacuati insieme agli altri. Come tutti sanno, se il Campidoglio subisce un attentato in piena regola tutte le persone importanti che ci lavorano vengono immediatamente trasferite in un posto top-secret, molto lontano da Washington. Se invece l'attacco è meno grave deputati e senatori si ritirano a Fort McNair, nella zona sud-occidentale della città. Ma se il pericolo è facilmente contenibile - per esempio se qualcuno ha gettato nell'atrio una bomboletta di gas infiammabile - tutti escono dai loro uffici, attraversano la strada e se ne vengono qui, alla biblioteca del Congresso. E infatti è proprio qui che mi trovo: nel corridoio del secondo piano, appena fuori dalle porte chiuse della sala di lettura europea. Sfinito, mi lascio scivolare contro la parete e mi siedo sul pavimento di marmo, appoggiando le spalle a una delle grandi vetrine che espongono manufatti di valore storico. «Scusi, signore, lì non può sedersi», mi riprende subito l'agente dell'FBI di guardia a pochi passi da me, con i capelli d'argento e un naso a punta. «Avanti, agente, che differenza può fare?» replica il mio avvocato, Dan Cohen, lisciandosi la pelata. «Non sia cattivo, lo lasci riposare un po'.» Dan è un vecchio amico di quando studiavo legge alla Georgetown University, mezzo ebreo e mezzo italiano, mezzo gnocchi di pane azzimo e mezzo polpette di carne al sugo. L'abito che indossa non è certo d'alta sartoria, e il suo stile ne risente. Dopo la laurea, mentre la maggior parte di noi si faceva assumere da studi privati o si trovava un posto in Campidoglio, lui se n'è tornato buono buono a Baltimora, nel suo vecchio quartiere, dove ha aperto uno studio legale di specchiata onestà dedicandosi a quei casi che facevano ridere tutti gli altri avvocati. Orgoglioso di avere nel suo
albero genealogico un pro-prozio famoso come il gangster Meyer Lansky, Dan non disdegna certo una bella scazzottata ogni tanto: ma in compenso non si vergogna di ammettere che a Washington non conosce proprio nessuno. È per questo che mi sono rivolto a lui: ne ho avuto abbastanza della capitale. «Adesso dobbiamo proprio andare, Harris», mi fa. «Sei a pezzi, fratello.» «Sto bene», gli rispondo. «No, sei a terra.» «Ti ho detto che sto bene», insisto. «Andiamo... non fare l'idiota. Hai subito cinque ore e mezzo d'interrogatorio, perfino gli agenti hanno avuto pietà di te e ti hanno concesso una pausa. Ma guardati, non ti reggi in piedi.» «Sai meglio di me cosa sta succedendo là dentro», gli dico, indicando le porte chiuse. «Non importa...» «Sì che importa! Perlomeno a me. Voglio aspettare ancora un po'.» «Harris, sono passate già più di due ore, è quasi mezzanotte. Devi andare a farti rimettere a posto il naso, e quel braccio ha bisogno di una buona ingessatura.» «Il braccio sta benissimo», dico, sistemando meglio la tracolla che mi hanno dato i medici. «Ma se tu...» «Ascoltami Dan, so che lo fai per il mio bene - e te ne sono grato, davvero - ma per una volta almeno cerca di essere modesto: non tutto si può sistemare a modo tuo.» «Modesto?» mi fa lui con una smorfia. «Io odio la modestia. Soprattutto in te.» Abbasso gli occhi fra le ginocchia e vedo la mia immagine riflessa nel lucido pavimento di marmo. «Be', ecco... a volte non è male.» Dan aggiunge ancora qualcos'altro, ma ormai non lo ascolto più. Semisdraiato a terra, guardo per l'ennesima volta le due porte chiuse. Nonostante tutto quello che ho passato, per il momento non m'interessa altro. Quaranta minuti dopo sto ascoltando il battito del cuore pulsarmi in tutta la lunghezza del braccio quando le porte della sala di lettura si aprono, e del dolore non resta più traccia... sostituito da un altro dolore di natura diversa. Viv esce dalla sala di lettura. Ha due cerotti sul sopracciglio, il labbro in-
feriore spaccato e gonfio e si tiene sull'altro occhio un sacchetto di ghiaccio. Salto in piedi e faccio per avvicinarmi, ma un imponente doppiopetto mi sbarra il passo. «Non ti sembra sia ora di lasciarla un po' in pace?» mi fa il suo avvocato posandomi il palmo della mano sul petto. È afroamericano, e ha un paio di baffi cespugliosi che lo fanno somigliare a un bruco. Quando gli agenti ci hanno portato qui ho detto a Viv che Dan poteva rappresentare anche lei, ma i suoi genitori hanno preferito chiamare un legale di fiducia. Li capisco perfettamente. A partire da quel momento lui e gli agenti dell'FBI hanno fatto di tutto perché io e Viv non potessimo più né vederci né parlarci. Capisco anche questo. È una buona mossa: separa la posizione del tuo cliente. Questo avvocato non l'ho mai visto prima d'ora, ma a giudicare dall'abito che porta dovrebbe essere in gamba. E anche se probabilmente i genitori di Viv non se lo possono permettere, il caso avrà una clamorosa copertura stampa, quindi non credo lo faccia per i soldi. «Mi hai sentito, figliolo? Per Viv è stata una serata lunga e faticosa.» «Voglio solo parlarle un secondo», insisto. «E perché? Per incasinarle ancor più la vita?» «Noi due siamo amici...» ribatto. «Lasci stare, signor Thornell, va bene così», dice Viv spingendolo da parte. «Posso... va bene così.» Thornell la scruta a fondo per assicurarsi che sia sincera, poi la lascia fare di testa sua, allontanandosi di qualche passo. Ma Viv, con un'occhiataccia, lo costringe ad arretrare ancora di più, fino alle vetrine espositive, dove si trovano Dan e l'agente dell'FBI. Per il momento ci lasceranno questo dorato angolo di corridoio tutto per noi. Alzo gli occhi, ma lei evita il mio sguardo abbassando i suoi sul pavimento. Sono passate otto ore dall'ultima volta che ci siamo parlati. Le ultime tre le ho impiegate a cercare di capire cosa volevo dirle. Ma non ne ricordo più neanche una parola. «Come va l'occhio?» «Come va il braccio?» ci chiediamo simultaneamente. «Sopravviverò», rispondiamo entrambi. Tanto basta a strapparle un piccolissimo sorriso, che lei cancella subito. Sono pur sempre quello che l'ha coinvolta in questo casino. E al di là dei sentimenti che prova per me, devo chiaramente pagare una penale. «Voglio solo dirti che non eri tenuto a dire quello che hai detto», mi fa.
«Non so di cosa parli.» «Andiamo, Harris, mi hai preso per un'idiota? Me le hanno riferite, le tue dichiarazioni...» «Viv, io non ho mai...» «Vuoi una citazione letterale? Che mi hai costretto con la forza... che dopo la morte di Matthew mi hai obbligato ad aiutarti con le minacce... che hai detto che mi avresti "spaccato la faccia" se non venivo con te su quell'aereo e non dicevo a tutti di essere la tua praticante. Perché l'hai fatto?» «Sono solo delle frasi isolate, citate fuori contesto...» «Harris, mi hanno fatto leggere la tua deposizione!» Incapace di tenerle testa, mi volto verso i murales classici che decorano la parete. Sono quattro, e in ognuno c'è una donna vestita di un'antica armatura che rappresenta le varie fasi nello sviluppo di una nazione: Avventura, Scoperta, Conquista, Civiltà. Ce ne dovrebbe essere una quinta intitolata Rincrescimento. Rispondo in un sussurro: «Non voglio vederti affondare insieme alla nave.» «Cosa?» «Lo sai come vanno queste cose, a chi importerà del fatto che siamo riusciti a sopravvivere in una situazione disperata? Io scommettevo su questioni legislative... mi sono servito di un jet privato dichiarando il falso... e probabilmente sono complice dell'assassinio del mio migliore amico... Anche se avessi deciso di aiutarmi per le più nobili ragioni - e credimi, per me tu sei l'unica persona innocente in tutta questa vicenda - ti faranno a pezzi semplicemente perché ti trovavi accanto a me. È associazione a delinquere.» «E pensi che possa servire a qualcosa deformare la verità e prenderti tutta la colpa?» «Devi credermi, Viv, merito questo e altro per averti coinvolta.» «Adesso non fare il martire.» «E tu non fare l'ingenua», le ribatto. «Nel momento in cui si convincessero che hai agito di tua spontanea volontà, ti troveresti catapultata fuori dal Campidoglio.» «E allora?» «Cosa vuol dire, e allora?» «Vuol dire, e allora? Non mi metterò certo a piangere per aver perso il lavoro. Non è come quando ti cucivano sul petto la lettera scarlatta. Sarò solo una fattorina diciassettenne che ha perso l'impiego: e alla fine della
mia carriera professionale probabilmente non me ne ricorderò nemmeno. E poi ci sono cose più importanti di uno stupido posto di lavoro, la famiglia, per esempio. E gli amici.» Viv mi guarda dall'alto in basso con l'occhio sano, tenendosi la borsa del ghiaccio sull'altro. «Su questo siamo d'accordo. Io... non voglio che ti licenzino.» «Lo apprezzo molto.» «Allora, com'è andata là dentro?» le domando. «Mi hanno licenziato», risponde lei con nonchalance. «Cosa? Ma come hanno potuto...» «Non guardarmi in quel modo. In fondo ho violato tutte le regole fondamentali del corpo dei fattorini: sono uscita dal Campidoglio senza autorizzazione e sono rimasta fuori la notte senza permesso. E ho mentito a genitori e superiori per andarmene in gita nel Sud Dakota.» «Ma se gli ho spiegato che...» «Quelli sono agenti dell'FBI, Harris: magari un po' stronzi, ma idioti no di sicuro. Certo, avresti potuto costringermi a salire su un aereo o a farti un paio di commissioni: ma come potevi forzarmi a dormire al motel, e ad accompagnarti fino alla miniera, e a scendere giù con l'ascensore, e a gironzolare là sotto fino a trovare il laboratorio, e a prendere un altro aereo per tornare indietro? Sarai anche un cattivo soggetto, ma come rapitore di minori non ti ci vedo. Davvero hai pensato che se la sarebbero bevuta?» «Come gliel'ho raccontata io non faceva una grinza.» «Non faceva una grinza, eh? Che mi avresti spaccato la faccia?» Non posso fare a meno di ridere. «Esatto», fa lei. Poi tace un attimo, e finalmente si toglie l'impacco freddo dall'occhio. «Davvero, apprezzo che tu ci abbia provato. Non eri tenuto a farlo.» «Certo che lo ero.» Non ribatte. Non le interessa discutere. «Posso farti un'ultima domanda?» dice poi, facendomi un cenno col mento. «Quando eravamo là sotto con Janos... e tu eri dentro al buco... sei stato in equilibro su quella piccola rientranza per tutto il tempo?» «No, è stato solo verso la fine... l'ho trovata col piede, per caso.» Tace ancora. So dove vuole arrivare. «Allora quando mi hai detto di colpirlo con la mazza da golf...» Ecco, ci siamo. Vuole sapere se davvero ero disposto a sacrificarmi per lei o se l'ho fatto solo per distrarre Janos.
«È importante?» le dico. «Non so. Forse.» «Bene: se può farti sentire meglio, ti avrei detto di colpirlo comunque.» «È facile a dirsi, adesso.» «Certo, ma ti giuro che non ho trovato quel punto d'appoggio fino all'ultimissimo minuto, quando Janos è riuscito a liberarsi della mia stretta.» Si blocca, man mano che le conseguenze di ciò che dico le si presentano alla mente. Sappiamo entrambi che non sto mentendo. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di salvarla. Con o senza l'appiglio nella parete del pozzo. «Prendilo come un complimento», aggiungo. «Per te ne valeva la pena, Viv Parker.» Le guance le si sollevano in un sorriso che non riesce a reprimere. Non sa più cosa dire. In fondo al corridoio squilla un cellulare. L'avvocato di Viv lo tira fuori dalla tasca e se lo porta all'orecchio, annuisce un paio di volte, poi lo chiude e guarda verso di noi: «Viv, i tuoi genitori sono arrivati all'albergo. È ora di andare.» «Ancora un attimo», fa lei. Poi mi si avvicina ancora di più e domanda: «Notizie di Janos?» Scrollo la testa. «Non lo troveranno, vero?» «Non credo.» «Pensi che ci darà ancora la caccia?» «No. L'FBI dice che era pagato per difendere il segreto della miniera: ora che tutto è saltato, il suo lavoro è finito.» «E tu ci credi?» «Viv, ormai abbiamo detto tutto quello che sapevamo. Le telecamere della sicurezza l'hanno ripreso mentre s'intrufolava in Campidoglio: non hanno bisogno della nostra testimonianza, o che noi due lo identifichiamo. Sanno chi è e hanno tutti gli elementi per incriminarlo. Non ci guadagnerebbe niente a infilarci una pallottola in testa.» «Cercherò di ricordarmelo, quando guarderò dietro la tenda della doccia per il resto della mia vita.» «Se può farti sentire meglio hanno detto che ci assegneranno una scorta. E poi siamo stati chiusi qua dentro per più di otto ore: se voleva eliminarci ne avrebbe avuto tutto il tempo.» Non è un granché come garanzia, ma per quanto contorta ci dovrà bastare. «Allora, avete finito? Possiamo andare?»
Alzo gli occhi sul mio avvocato, che ha fatto la domanda. Dopo dieci anni di lavoro sul Colle l'unico che si schieri dalla mia parte è pagato per farlo. «Sì... possiamo andare.» Nel mio tono di voce Viv ha sentito qualcosa che non le piace. «Cerca di vederla così, Harris: perlomeno abbiamo vinto.» È quello che hanno detto anche gli agenti dell'FBI: che dobbiamo considerarci fortunati di essere ancora vivi. È consolante, ma non mi restituirà Matthew, o Pasternak, o Lowell. «Vincere non è tutto.» Mi guarda a lungo. Non c'è bisogno che aggiunga altro. «Signorina Parker, i suoi genitori!» le grida l'avvocato. Non gli dà retta. «E adesso dove andrai?» mi domanda. «Dipende dal tipo di accordo che Dan riuscirà a strappare al governo. In questo momento m'importa solo di esserci al funerale di Matthew. Sua madre mi ha chiesto di pronunciare una delle commemorazioni, l'altra la farà Cordell.» «Non ti ci rompere troppo la testa, ho sentito come parli, e sono sicura che gli renderai giustizia.» È la prima volta nelle ultime otto ore che qualcuno mi dice una cosa carina. «Ascolta, Viv, voglio dirtelo ancora una volta: mi dispiace infinitamente di averti coinvolto...» «Lascia perdere.» «Ma il tuo lavoro di fattorina...» «Dopo ciò che abbiamo fatto negli ultimi giorni non ha più nessuna importanza. Tutte quelle corse... il ritrovamento del laboratorio... anche le cose più stupide, ho addirittura fatto la doccia su un jet privato! Pensi che scambierei tutto questo con il diritto di riempire d'acqua il bicchiere di un senatore? Ricordi cosa ci hai detto al corso d'orientamento? La vita è una scuola. Tutto è una scuola. E se qualcuno mi dirà qualche stronzata a proposito del licenziamento, sai cosa gli risponderò? Quando è stata l'ultima volta che sei saltato in un precipizio per salvare un amico? Dio non mi ha mandata quaggiù perché mi tirassi sempre indietro.» «Bel comizio... dovresti metterlo per iscritto.» «Ci penserò.» «Sai, quando ti ho detto che un giorno sarai una grande senatrice... be', lo pensavo sul serio.» «Senatrice? E perché non una grande presidentessa degli Stati Uniti, di colore e alta un metro e ottanta?» Rido forte.
«Guarda che anch'io dicevo sul serio: quando ciò avverrà avrò bisogno di un buon capo dello staff», aggiunge. «Affare fatto. Solo tu potresti convincermi a tornare a Washington.» «Oh, vuol dire che ci lasci? E cosa pensi di fare, scrivere un libro? Tornare a fare l'avvocato con il tuo amico Dan? O startene sdraiato su una spiaggia per il resto dei tuoi giorni, come alla fine di ogni romanzo giallo?» «Ancora non lo so... ma penso che per un po' tirerò i remi in barca.» «Fantastico, il bravo ragazzo di provincia se ne torna a casa... Ti faranno un'accoglienza trionfale, una di quelle feste in cui tutti s'ingozzano di torta di mele fino a scoppiare.» «No, non in Pennsylvania», le rispondo. Negli ultimi dieci anni ho creduto fermamente che il mio successo nel grande mondo avrebbe in qualche modo seppellito il passato. E invece sono stato proprio io a rimanere sepolto. «In realtà avrei in mente qualcosa da queste parti. Dan dice che a Baltimora c'è un liceo che sta cercando un bravo insegnante di educazione civica.» «Aspetta un po'... vorresti fare il professore?» «Cosa c'è di male?» Ci riflette un momento. Una settimana fa, come qualunque altro fattorino, avrebbe risposto che si può fare di meglio con la propria vita. Adesso, entrambi abbiamo imparato qualcosa. Sorride. «Niente. Anzi, mi sembra perfetto.» «Grazie, Viv.» «Ma ricordati quel che ti dico: i ragazzi ti faranno a pezzi.» Sorrido anch'io. «Ci conto.» «Signorina Parker!» ulula il suo avvocato. «Arrivo! Adesso devo andare», dice abbracciandomi in fretta. Quando mi butta le braccia al collo sento il freddo della borsa per il ghiaccio in mezzo alla schiena. Mi stringe tanto forte che il braccio ricomincia a farmi male. Ma non importa. Ne vale la pena. «Mettili KO, Viv.» «Chi, i miei genitori?» «No... il mondo.» Si scioglie dall'abbraccio, con lo stesso sorriso aperto della prima volta che l'ho vista. «Sai, Harris... quando mi hai chiesto di aiutarti, la prima volta... avevo una tale cotta per te...»
«E adesso?» «Adesso... non so», scherza lei. «Ma continuo a pensare che vorrei avere addosso qualcosa che mi stia bene.» E avviandosi lungo il corridoio aggiunge: «A proposito, sai qual è la cosa migliore del mestiere di insegnante?» «Quale?» «La gita annuale a Washington!» Questa volta sono io a sfoggiare un sorriso a trentadue denti. «Ne andrai pazzo, vero, re Mida?» aggiunge. Poi si volta e si affianca al suo avvocato. «Dicevo sul serio a proposito di quell'impiego come capo dello staff, Harold», grida ancora mentre se ne va, e la sua voce riecheggia per tutto il corridoio. «Fra diciotto anni avrò l'età legale: vedi di esserci, pronto e puntuale.» «Come desidera, signora presidentessa. Non me lo perderei per nulla al mondo.» 83. Londra «Le auguro una piacevole serata, signor Sauls», disse l'autista aprendo la portiera posteriore della Jaguar nera e riparando con l'ombrello la testa del suo capo. «Anche a te, Ethan», rispose Sauls uscendo dall'auto e infilandosi nel portone dell'esclusiva palazzina a sei piani di Park Lane. Nell'ingresso, un portiere seduto dietro un bancone di noce gli fece un cenno di saluto e gli tese la posta. Mentre saliva in ascensore Sauls diede una prima occhiata al consueto assortimento di fatture e sollecitazioni. Al momento di aprire la porta del suo elegante appartamento aveva già messo da parte la pubblicità, che gettò in una pattumiera di ceramica. Quindi posò le chiavi su uno scrittoio antico col ripiano in pelle, si avvicinò all'armadio e appese il soprabito di cachemire grigio a una gruccia in legno di ciliegio. Infine andò in salotto, premette l'interruttore e una serie di luci schermate illuminò la libreria a incasso che rivestiva la parete di sinistra. A questo punto Sauls andò in cucina, dove l'angolo per la prima colazione si affacciava direttamente sullo Speaker's Corner di Hyde Park, e si avvicinò al frigorifero nero, così lucido da riflettere per intero la sua immagi-
ne. Prese un bicchiere dall'armadietto, aprì il frigorifero e si versò del succo di mirtillo. Poi richiuse lo sportello e vide di nuovo la sua immagine riflessa sulla lucida superficie, ma stavolta, in piedi dietro di lui, c'era un'altra figura. «Bella casa», disse Janos. Sauls sobbalzò, voltandosi così bruscamente da rovesciare quasi il succo di mirtillo. «Accidenti a te, mi hai fatto venire un colpo!» gridò, portandosi una mano al petto e posando il bicchiere su un ripiano. «Mio Dio... credevo fossi morto!» «Che cosa te l'ha fatto pensare?» chiese Janos, e fece un passo avanti. Teneva una mano nella tasca del giubbotto e l'altra stretta attorno a un bastone di alluminio. Poi sollevò un po' il mento, esponendo alla luce della cucina la faccia cosparsa di tagli e lividi, soprattutto attorno agli zigomi, le cui ossa erano evidentemente fratturate. Attorno all'occhio sinistro aveva un gonfiore color ciliegia, una cicatrice recente gli attraversava il mento e il femore sinistro era rotto così malamente che i medici avevano dovuto mettergli un sostegno esterno al titanio al fine di stabilizzare l'osso e reggere muscoli e legamenti. Sei centimetri più sotto, l'unica cosa che gli teneva insieme il ginocchio erano i perni metallici infilati sotto la pelle. Anche se lui non l'avrebbe mai ammesso, la caduta aveva avuto conseguenze disastrose. «Ti ho cercato dappertutto, è più di una settimana che non rispondi al cellulare», disse Sauls facendo un passo indietro. «Lo sai almeno cos'è successo? L'FBI ha scoperto tutto... Hanno portato via dalla miniera tutti i macchinari.» «Lo so. Li leggo anch'io, i giornali», disse Janos zoppicando verso di lui. «Fra parentesi: da quando in qua ti fai scarrozzare da un autista privato?» «Ma che diavolo?... Mi hai pedinato?» domandò Sauls ritraendosi ancora di più. «Non fare il paranoico, Sauls. Ci sono cose che potresti facilmente controllare dalla finestra della tua camera da letto, per esempio il fatto che la mia auto è parcheggiata proprio qui sotto. Non l'hai notata? È una MGB blu...» «Che cosa vuoi da me, Janos?» «...modello 1965, l'anno in cui hanno messo le maniglie a bottone di serie. La frizione risulta un po' dura, con la gamba in queste condizioni, ma è comunque una splendida macchina...»
«Se è per i soldi, ti abbiamo già versato quanto pattuito...» «...ma diversamente dalla vecchia Spitfire che avevo prima questa bambina è affidabile... su di lei si può sempre contare...» «Li hai avuti, no, i soldi?» «...degna della massima fiducia.» Essendo ormai arrivato con la schiena contro la credenza, Sauls non poteva più arretrare e dovette fermarsi. Janos lo fissò negli occhi senza togliere la mano di tasca. «Tu mi hai mentito, Marcus.» «N-no, non è vero! Lo giuro!» «E questa è un'altra bugia...» «Tu non puoi capire...» «Rispondi a una semplice domanda: è vero che dietro tutta quella storia c'era lo Yemen?» «Non è come pensi tu... All'inizio...» «All'inizio tu stesso mi hai detto che la Wendell era una compagnia privata senza legami governativi.» «Janos, ti prego, tu sapevi tutto quello che stava avvenendo laggiù... Non ti abbiamo mai nascosto...» «Una compagnia privata senza legami governativi, Marcus!» «Il risultato non cambia!» «No, ti sbagli. In un caso sarebbe stata una semplice speculazione, nell'altro era un vero e proprio suicidio! Hai idea per quanto tempo ci daranno la caccia per via di questa storia? Adesso voglio sapere chi firmava gli assegni: era o non era lo Yemen?» «Janos...» «Era o non era lo Yemen?» «Per favore, adesso calmati e...» Janos tirò fuori di tasca una pistola e gliela appoggiò in mezzo alla fronte. Poi la premette con forza. «Era o non era lo Yemen?» «Ti prego, Janos, n-no...» lo supplicò Sauls con gli occhi già pieni di lacrime. Janos sollevò il cane della pistola e mise il dito sul grilletto. Ne aveva abbastanza di ripetere sempre la stessa domanda. «Sì!» strillò Sauls, con la faccia contorta in una smorfia di terrore e gli occhi chiusi. «Era lo Yemen... Ti prego, non uccidermi!» Senza dire una parola Janos abbassò la pistola e se la rimise in tasca. Quando non ebbe più la canna della rivoltella sulla fronte, Sauls riaprì
gli occhi. «Mi dispiace, Janos... Mi dispiace...» aggiunse in tono supplichevole. «Tieni: riprenditi un po'», disse Janos tendendogli il bicchiere di succo di mirtillo. Sauls ingoiò disperatamente il liquido dolce, che però non gli diede alcun sollievo. Le mani gli tremavano ancora quando, con un piccolo suono secco, posò il bicchiere vuoto sul ripiano della credenza. Janos scrollò la testa, girò su sé stesso facendo perno sulla gamba sana e si avviò alla porta. «Addio, Sauls», disse. E uscì dalla cucina. «Allora... allora non mi ucciderai?» domandò Sauls con una specie di sorrisetto pietrificato. Janos si volse e lo fissò con uno sguardo nero come la mezzanotte. «Chi l'ha detto?» Una lunga pausa carica di significato si aprì fra i due uomini. Sauls cominciò a tossire: dapprima leggermente, poi sempre più forte. Nel giro di pochi secondi in gola gli esplose un sibilo umido e tagliente, come il ritorno di fiamma in un vecchio motore. Si portò le mani al collo. Gli sembrava di avere una strozzatura nella trachea. Senza dire una parola Janos guardò il bicchiere vuoto del succo di mirtillo. Fra un colpo di tosse e l'altro, Sauls riuscì a pronunciare ancora qualche parola: «Maledetto figlio di...» Janos non mosse un muscolo. Ormai la scatoletta nera con cui aveva provocato l'infarto a tante delle sue vittime era troppo riconoscibile, quasi un biglietto da visita. Un improvviso gonfiore alla trachea, invece, poteva passare per l'ennesimo shock anafilattico: nient'altro che un banale incidente domestico. Con le unghie conficcate nella pelle della gola Sauls si afferrò al bordo della credenza e cadde in ginocchio, urtando il bicchiere vuoto e facendolo cadere sul pavimento di piastrelle bianche e nere della cucina, dove andò in mille pezzi. Senza aspettare che avessero inizio le convulsioni, Janos se ne andò. A ogni modo era venuto il momento di prendersi una lunga vacanza. EPILOGO Mentre fisso il vetro di separazione della sala colloqui del penitenziario centrale di Washington, non posso fare a meno di ascoltare le conversazio-
ni a senso unico che si intrecciano attorno a me. Rosemary si sta comportando bene... Non preoccuparti, nessuno userà la tua auto... Presto, hanno detto che sarà presto, amore... Qui non è come nei film: non ci sono pareti laterali a isolare i detenuti uno dall'altro, consentendo loro un minimo di privacy. La prigione di Washington è stata costruita con fondi distrettuali, il che significa niente benefici aggiunti. Il risultato è un coro di voci che cercano di non gridare, ma che devono comunque alzare il volume per farsi udire. Aggiungeteci il borbottio innaturale delle voci dei detenuti che passano attraverso il vetro e capirete perché questo posto sembri una gigantesca cabina del telefono. L'unica cosa positiva è che le persone con la tuta arancione sono tutte dall'altra parte del vetro. «Eccolo qui», dice il secondino di guardia rivolgendosi a me. A quelle parole tutti i presenti, dalla donna di colore con i capelli ossigenati all'uomo elegante con la Bibbia sulle ginocchia, voltano impercettibilmente la testa. Siamo pur sempre a Washington D.C.: se è qualcuno di importante, tutti lo vogliono sapere. E almeno per me, lo è. Barry si trascina in avanti con polsi e caviglie ammanettati. Al posto del bastone bianco ha un secondino che lo tiene per le braccia guidandolo verso la sedia di plastica arancione davanti a me. «Chi è?» domanda Barry. Glielo leggo sulle labbra. Il secondino gli dice il mio nome. Barry ha un attimo di esitazione, subito nascosto dal suo sorriso perfetto. È un trucco molto comune fra i lobbysti, fingere sempre e comunque di essere contenti di vederti. Anche quando non è vero. Il secondino lo fa sedere e gli mette tra le mani la cornetta collegata alla parete di vetro. Al polso ha un braccialetto simile a quello che in ospedale si mette ai degenti. Le scarpe da tennis sono senza stringhe. Ma Barry sembra del tutto indifferente a questi dettagli. Quando accavalla le gambe si tira leggermente su i pantaloni della tuta arancione, come usava fare con i suoi abiti da duemila dollari. «Sollevi il ricevitore», mi grida il secondino attraverso il vetro. Un'onda di acidità mi si riversa nello stomaco quando porto all'orecchio la cornetta tutta ammaccata. Ho dovuto aspettare due settimane per avere questo colloquio, ma ciò non significa che ne sia contento. «Ehilà», bisbiglio nella cornetta. «Ciao. Non ti sento molto in forma», cinguetta Barry fingendo come al solito di leggermi nel pensiero. E solleva un po' la testa, come se potesse vedere l'espressione della mia faccia. «Dico davvero, qualcuno ti ha preso
a calci in faccia?» «Effettivamente sì», dico io fissandolo negli occhi. «È per questo che sei venuto? Per darmi il colpo di grazia?» Non replico. «Davvero non capisco di cosa ti lamenti», riprende lui. «Li hai letti, i giornali. Dal modo in cui la stampa ha trattato la cosa pare che tu ne sia uscito piuttosto bene.» «Non preoccuparti: quando verrà fuori la questione del gioco d'azzardo cambieranno idea.» «Forse sì, forse no. Certo, magari non potrai più lavorare per il governo, e per qualche annetto tutti ti tratteranno come se fossi un paria. Ma poi gli passerà.» «Forse sì, forse no», gli rispondo a tono, cercando di tenerlo agganciato. Qualsiasi cosa purché continui a parlare. «E cosa mi dici del senatore Stevens? Si è già pentito di averti mandato via?» «Non aveva altra scelta.» «Ben detto. Leale come sempre, il nostro Harris.» «Pensi che non sia vero?» «Certo che non lo è. Stevens sapeva perfettamente che avresti trovato un accordo con il governo, e ciò avrebbe dovuto bastargli. E invece, dopo averti sfruttato come uno schiavo per dieci anni, ti dà un calcio nelle gengive proprio quando avresti più bisogno di lui. Non credi che tutto ciò farà brutta impressione sugli elettori? Con questa storia si è giocato la rielezione.» «Il senatore non avrà il minimo problema.» «Te l'ho già detto: sei sempre un leale capo dello staff.» «Ex capo dello staff», lo correggo. «Non prendermi per il culo, Harris. Mettiamola così: tu almeno hai ancora le stringhe.» E gira verso di me la caviglia appoggiata sull'altra gamba. Cerca di darsi un tono, ma intanto non fa che tormentare il braccialetto col suo numero di matricola. «A proposito, hai visto il "Post" di oggi?» Sorride come al solito, ma non smette di giocherellare con il braccialetto. Non credo che riuscirà a mantenere questa espressione da duro per tutto il colloquio. «Mi danno del terrorista.» Non ho niente da dire. Per ora il biasimo dell'opinione pubblica sta ricadendo tutto su di lui. Anche se l'ufficio di Lowell è riuscito a risalire fino a
Sauls e a collegare il suo nome alla Wendell, ci vorranno settimane per raccogliere le prove. Intanto la gente, anche se Sauls è morto e Janos sembra scomparso nel nulla, vuole veder cadere qualche testa, e il primo a pagare è stato Barry. «Ho sentito che il tuo legale sarà Richie Rubin. È un buon avvocato.» Barry comincia a sentire odore di aria fritta, dopotutto è un maestro in questo genere di cose. Si innervosisce e smette di sorridere. «Cosa vuoi da me?» Ci siamo... il viaggio di ritorno alla realtà è durato al massimo due minuti. Barry non è un idiota, sa perfettamente come mi sento: se i polmoni gli stessero andando a fuoco, non mi prenderei la briga di pisciargli in gola. Evidentemente se sono qui è perché voglio qualcosa da lui. «Fammi indovinare. Muori dalla voglia di sapere perché l'ho fatto...» «No, Barry, lo so già. Quelli come te, del tutto privi di lealtà e avvelenati dalla paranoia, pensano sempre che tutto il mondo ce l'abbia con loro...» «Ma il mondo ce l'ha con me!» grida lui sporgendosi verso il vetro. «Non lo vedi dove sono finito? E ancora sostieni che non è vero?» Scrollo la testa: questa discussione non m'interessa. Qualsiasi siano le presunte vessazioni di cui si crede vittima, è evidente che gli hanno minato il senso della realtà. «Tu non hai alcun diritto di giudicarmi, Harris. Non tutti sono così fortunati da poter condurre una vita affascinante come la tua.» «Ah, adesso sarebbe colpa mia...» «Per anni ti ho chiesto di darmi una mano, ma tu niente. Non hai mai voluto aiutarmi.» «Stai dicendo che sono stato io a spingerti a fare quello che hai fatto?» «Avanti, Harris, dimmi perché sei venuto. Se non è per me, e nemmeno per infierire...» «Pasternak», butto fuori. Un ampio sorriso gli si arrampica su per le guance. Si appoggia con la schiena alla sedia, incrocia le braccia e s'incastra la cornetta fra il mento e la spalla. Si è rimesso la maschera del solito Barry. E ha smesso di tormentare il braccialetto del carcere. «La cosa non ti lascia dormire, vero? Tu e io siamo sempre stati competitivi nell'amicizia: ma tu e Pasternak? Voglio dire, in teoria lui era il tuo mentore, la persona a cui ti rivolgevi quando avevi un problema serio e qualcuno doveva rompere il vetro dell'estintore. È questo che ti tiene sveglio la notte, il pensiero che il tuo radar interno ti abbia portato così fuori
rotta?» «Voglio soltanto sapere perché l'ha fatto.» «Ma certo. Passi per Sauls... e passi anche per me: ma Pasternak... Il fatto che Pasternak fosse coinvolto in questa brutta faccenda ti tormenterà per il resto della tua vita. E non puoi nemmeno prenderlo a pugni, gridargli in faccia quello che pensi di lui in un'ultima scena madre, per chiudere con un bel finale dolceamaro. È la maledizione di voi primi della classe, non sopportate l'idea che ci siano dei problemi che non potete risolvere.» «Non voglio risolvere niente: voglio una semplice risposta.» «È lo stesso, Harris. Ma sai come vanno queste cose: se io do una grattatina a te...» Da vero lobbysta, Barry riesce a farsi capire senza nemmeno nominare il problema. Non mi darà nessuna informazione se io non gli do qualcosa in cambio. Come odio questa città. «Che cosa vuoi?» gli faccio. «Niente, per ora. Mi basta sapere che mi devi un favore.» Anche infilato in una tuta arancione e dietro quindici centimetri di vetro antiproiettile, Barry preferisce pensare di avere un asso nella manica. «Okay, ti devo un favore. Adesso dimmi di Pasternak.» «Ecco, se può farti sentire meglio non credo che avesse capito chi c'era dietro. Certo, ti ha ingannato con la questione del Rischio Zero: ma solo per infilare nel bilancio la questione della miniera.» «Non capisco.» «Cosa c'è da capire? Era una piccola cosa senza importanza, la cessione di una miniera d'oro esaurita da qualche parte nel Sud Dakota. Ma Pasternak sapeva che Matthew non avrebbe collaborato, a meno di non dargli una buona ragione per farlo. E così si è limitato a infilare la questione nel gioco.» «Allora Pasternak era uno dei dungeon-master?» «Cosa?» «I dungeon-master, quelli che decidevano su cosa si doveva scommettere e raccoglievano le puntate. È così che la questione della miniera è entrata nel gioco? Pasternak era fra quelli che lo dirigevano?» «E chi altri avrebbe potuto essere?» «Non lo so, eppure... quando giocavamo c'era sempre tanta gente che scommetteva contro, anche Pasternak non faceva che arrovellarsi per capire chi altri ci fosse nel gioco. Ogni volta che arrivavano le ricevute del taxi lui le studiava una per una, cercando di riconoscere la grafia con cui erano
compilate. Aveva addirittura una lista delle persone che lavoravano su certe questioni... Ma se lui era uno dei dungeon-master...» Pian piano le conseguenze del ragionamento mi si coagulano nella mente, fino a tagliarmi la frase in bocca. Barry piega un po' la testa sulla spalla. L'occhio nuvoloso mi fissa; quello di vetro se ne va per conto suo. Poi, in apparenza senza alcuna ragione, comincia a ridere: «Mi stai prendendo in giro, vero?» «Perché? Se Pasternak era uno dei dungeon-master doveva conoscere tutti gli altri giocatori, no?» Realizzando di colpo che non sto scherzando affatto, Barry smette di ridere. «Non hai ancora capito, vero?» «Cosa?» «Sii sincero con me, Harris, non hai ancora capito?» Mi sforzo di sembrare bene informato. «Ma certo, credo di aver capito quasi tutto. A quale parte ti stai riferendo?» L'occhio nebbioso è sempre fisso su di me. «Che non c'era nessun Rischio Zero. Non c'è mai stato.» L'occhio non si muove di un millimetro. «Lo sai, no, che era tutta una montatura? Fumo negli occhi e specchietti per le allodole?» Man mano che le sue parole passano attraverso la cornetta e mi entrano nell'orecchio, sento che il corpo mi diventa come di stoppa. È come se nel punto dove mi trovo la gravità terrestre fosse più che raddoppiata. Affondo nella mia sedia arancione - mi sembra quasi di colare sul pavimento attraverso le fessure del sedile di plastica - come se pesassi ottocento chili. «Bella mise en scène, non ti pare?» prosegue Barry. «Ricordo che quando me l'hanno detto sono quasi svenuto. Ma te l'immagini, voi due che perdete tempo a studiare i colleghi cercando di immaginare chi altri sta giocando, mentre le uniche persone che scommettono siete proprio voi, tu e Matthew?» «Avete ancora due minuti», annuncia il secondino alle spalle di Barry. «Decisamente brillante, se ci pensi», prosegue lui. «Pasternak ti parla del gioco; tu ti fidi di lui, quindi gli credi... A questo punto loro cominciano a mandare in giro un po' di fattorini, compilano qualche ricevuta del taxi e voi ragazzi vi convincete di essere dentro al più succulento segreto del Campidoglio. È un po' come quei simulatori di volo che ci sono a Disney World: qualcuno proietta un film sul parabrezza e scuote un po' l'abitacolo, e tu hai l'impressione di essere entrato in orbita mentre in realtà non ti sei mosso di un centimetro.»
Mi sforzo di ridere, ma il corpo è ancora rigido dallo shock. «Santo Dio, ma se bastava ragionarci un po' sopra!» La voce di Barry si è fatta più baldanzosa. «Dozzine di dipendenti che piazzano scommesse su irrilevanti questioni legislative, e nessuno che se ne accorga? Ma per favore, è del tutto impossibile, come se in questa maledetta città ci fosse qualcuno capace di tenere la bocca chiusa per più di dieci secondi! Però bisogna riconoscere che è stata una bella trovata, quella di Pasternak. Voi due eravate convinti di giocare un gran bel tiro al sistema, e invece chi veniva raggirato eravate proprio voi.» «Sì... no... Molto divertente.» «E tutto ha funzionato come un orologio svizzero, perlomeno fino all'incidente di Matthew. A quel punto Pasternak avrebbe voluto chiamarsi fuori. È vero che era stato lui a darsi da fare per convincervi - in fondo è il lavoro di noi lobbysti - ma non poteva immaginare che le cose sarebbero finite così.» «Non... non è la versione che ho sentito io», cerco di bluffare. «Allora ti hanno raccontato delle balle. Se Pasternak aveva montato tutta questa faccenda, è per la stessa ragione per cui tutti noi facciamo quel che facciamo: mai avuto per cliente un piccolo stato? I piccoli stati apportano piccole fortune, che sono proprio quelle di cui i piccoli affari hanno bisogno, specialmente quando i conti pubblici sono in rosso del 36%. Pasternak aveva lavorato un anno intero per ottenere la cessione della miniera, ma siccome non ci era riuscito, a un certo punto decise di aprire una porta sul retro, e già che c'era ne volle una decisamente creativa. Ed ecco a voi il Rischio Zero: un modo divertente e del tutto inoffensivo di infilare nel bilancio federale un piccolo interesse costituito. Ma poi Matthew non ha resistito alla curiosità, e allora è entrato in gioco Janos, e poi... be', diciamo che a un certo punto il treno ha deragliato.» Il secondino sta guardando verso di noi. Il nostro tempo è quasi scaduto, ma Barry va avanti come se niente fosse. Dopo tanti giorni di galera è la prima volta che si concede un po' di divertimento. «Anche il nome, Rischio Zero, sembrava creato apposta per intrigarvi: era così melodrammatico. Ma in fondo è vero: qualsiasi numero moltiplicato per zero dà sempre zero, no?» Annuisco, del tutto sbalordito. «A ogni modo, da chi l'hai saputo? Da quelli dell'FBI? O ci sei arrivato da solo?» «D-da solo. Ci sono arrivato da solo.»
«Buon per te, Harris. Sei un ragazzo in gamba.» Resto lì, inchiodato alla sedia, a guardare Barry. Ho appena scoperto che un anno intero della mia vita non è stato altro che una farsa teleguidata, e che sono l'unico pulcinella ancora in costume di scena. «Tempo scaduto», dice il secondino. Ma Barry continua a parlare. «In fondo sono proprio contento che...» «Ho detto tempo scaduto!» lo blocca il secondino togliendogli di mano il ricevitore. Ma riesco ugualmente a sentire le sue ultime parole. «Sapevo che l'avresti apprezzato, Harris! Lo sapevo! E anche Pasternak ne sarebbe contento!» Sento un rumore secco: il secondino ha sbattuto la cornetta sul suo sostegno, chiudendo la comunicazione. Poi prende Barry per la collottola e lo costringe ad alzarsi dalla sedia. Lo vedo avviarsi verso la porta di ferro, un po' barcollante. Io rimango lì a fissare il vetro. Impossibile negarlo: Barry ha ragione. In fondo è stato proprio Pasternak a dirmelo, il giorno in cui mi assunse. La prima regola della politica è che ci si fa male sul serio solo quando si dimentica che è tutto un gioco. RINGRAZIAMENTI Vorrei ringraziare le seguenti persone, che mi hanno aiutato a trasformare l'idea puramente immaginaria che è alla base di questo libro in qualcosa di reale. Innanzitutto la mia amata Cori: per parafrasare uno molto più bravo di me, le parole non sono reali finché lei non le ha lette. Lei è da sempre la mia prima editor e la mia prima consulente, ma per questo libro, in quanto avvocato e membro del Congresso, è stata anche i miei occhi e le mie orecchie in quel complicato universo. Ciò che forse non sa è quanto mi sono sempre sentito inferiore a lei osservandola fare il suo mestiere. Da sempre paladina di tutte le cause giuste, forse Cori ha pensato di avermi semplicemente illustrato la meccanica della politica: invece mi ha ricordato a cosa servono gli ideali. Per questo e anche per tutto il resto, ti amo. Per mille ragioni non avrei mai potuto farcela senza C. Jill Kneerim, agente e amica, le cui intuizioni e illuminazioni mi hanno spinto a dare sempre all'onestà un ruolo di primo piano nella mia scrittura: la sua guida è una delle prime cui mi rivolgo, ma è la sua amicizia il mio più grande tesoro (più di quanto lei non immagini). Elaine Rogers, per il meraviglioso lavoro che ha fatto fin dall'inizio. Ike Williams, Hope Denekamp, Elizabeth Dane
e tutte le altre simpaticissime persone dell'agenzia Kneerim & Williams. Oggi più che mai vorrei ringraziare i miei genitori, il cui saldo amore mi ha portato a essere quello che sono. È la loro presenza a tenermi ancorato a terra, a sostenermi e a ricordarmi sempre dov'è casa mia. Tutto ciò che sono, tutto ciò che ho ha avuto inizio con loro. Mia sorella Bari, una delle persone più forti che conosco, che ha condiviso con me la sua forza ogni volta che ne ho avuto bisogno. Dale e Adam Flam, che mi hanno aiutato a raccogliere le idee per il gioco, mentre Bobby Flam e Ami e Matt Kuttler hanno letto i primi abbozzi del romanzo: il loro amore e il loro sostegno mi hanno aiutato moltissimo. Steve «Scoop» Cohen, compagno di sogni, fratello in creatività e genio pazzoide, per i momenti eureka! che hanno reso possibile il libro. Le sue idee sono divertenti; la nostra amicizia è molto di più. Grazie, Cheese! Noah Kuttler, senza il cui aiuto sarei dannatamente perso, è la prima cassa di risonanza cui mi rivolgo dopo mia moglie: lui ha quel talento, e sa di essere per me come uno della famiglia, spero solo che sappia quanto mi ritengo fortunato ad averlo nella mia vita. Ethan e Sarah Kline mi hanno aiutato a sviluppare il gioco, e Ethan in particolare ha avuto il coraggio di sostenermi come scrittore fin dai primissimi manoscritti. Paul Brennan, Matt Oshinsky, Paulo Pacheco, Joel Rose, Chris Weiss e Judd Winick, i miei alter ego, le cui reazioni e la cui incrollabile amicizia sono una fonte d'ispirazione costante. In ogni romanzo, il trucco è far sì che una pura invenzione suoni come un fatto assolutamente reale. L'unico modo di riuscirci è armarsi di particolari. Sono immensamente grato alle seguenti persone per avermi dato accesso a questi particolari. Senza alcun dubbio, quando si trattava di spiegare come funzioni effettivamente il governo, era Dave Watkins il mio sensei sul Congresso, un ottimo insegnante, paziente nel rispondere a tutte le mie sciocche domande. Dalla prima raccolta di elementi all'ultima revisione dell'ultimo capitolo, per ogni dettaglio mi sono affidato a lui. E non mi ha mai abbandonato. Scott Strong è stato per me l'Indiana Jones del Campidoglio americano, e ha saputo guidarmi attraverso passaggi inesplorati e gallerie abbandonate. La sua amicizia e la sua fiducia sono state indispensabili nel ricreare quella realtà. Tom Regan mi ha portato a 2500 metri sotto la superficie terrestre per farmi vedere com'è fatto questo paese. Spero sappia quanto mi ha colpito la sua gentilezza. Sean Dalton, per aver impiegato le sue giornate a spiegarmi ogni più piccolo dettaglio di come avviene lo stanziamento dei fondi governativi, che non è impresa da poco. La sua profonda padronanza dell'argomento fin nei minimi dettagli è stata vitale
per il libro. Andrea Cohen, Chris Guttman-McCabe, Elliot Kaye, Ben Lawsky e Carmel Martin, per essersi resi disponibili ogni volta che ho avuto bisogno di loro. Ma la cosa più importante è che, essendo tutti amici intimi, non ho avuto timore a formulare con loro anche le domande più stupide. Dick Baker è un'istituzione a sé stante: la sua generosità e il suo intuito storico hanno reso credibile l'istituzione del Campidoglio così come appare nel libro. Julian Epstein, Perry Apelbaum, Ted Kalo, Scott Deutchman, Sampak Garg e tutti gli altri della Commissione giustizia della Camera sono stati semplicemente grandi: mi hanno presentato gente e spiegato cose, e sono sempre accorsi in mio aiuto. Michone Johnson e Stephanie Peters, per la loro meravigliosa amicizia e per avermi aiutato a creare Viv. Luke Albee, Marsha Berry, Martha Canicci, Jim Dyer, Dan Freeman, Charles Grizzle, Scott Lilly, Amy McKennis, Martin Paone, Pat Schroeder, Mark Schuermann, Will Smith, Debbie Weatherly e Kathryn Weeden mi hanno fatto entrare nei loro rispettivi mondi e hanno risposto a moltissime domande. Il loro aiuto mi è stato preziosissimo. I membri del Congresso John Conyers, Harold Ford jr. e Hal Rogers sono stati così gentili da invitarmi in Campidoglio: sono stati forse i giorni migliori di tutto il processo di costruzione del libro. Loretta Beaumont, Bruce Evans, Leif Fonnesbeck, Katy Johnson, Joel Kaplan, Peter Kiefhaber, Brooke Livingston e Chris Topik mi hanno fornito un punto di vista di prima mano sull'incredibile lavoro che viene fatto agli stanziamenti interni. Mazen Basrawi, per avermi fatto vedere con gli occhi di un cieco. Lee Alman, David Carle, Bruce Cohen, George Crawford, Jerry Gallegos, Jerry Hartz, Ken Kato, Keith Kennedy, David Safavian, Alex Sternhill, Will Stone e Reid Stuntz, per avermi dipinto quadri estremamente realistici della vita sul Colle. Chris Gallagher, Rob Gustafson, Mark Laisch, William Minor e Steve Perry sono stati i miei esperti sulla nobile arte del lobbying. Michael Brown, Karl Burke, Steve Mitchell e Ron Waterland della Barrick Gold, per avermi aiutato a scendere nella miniera. Michael Bowers, Stacie Hunhoff, Paul Ordal, Jason Recher, Elizabeth Roach e Brooke Russ mi hanno riportato indietro alla mia giovinezza e hanno condiviso con me l'eccitazione di essere fattorini del Congresso. Bill Allen, David Angier, Jamie Arbolino, Rich Doerner e James Horning mi hanno fornito molti dettagli concreti sul Campidoglio. David Beaver, Terry Catlain, Deborah Lanzone,John Leshy, Alan Septoff e Lexi Shultz, per avermi insegnato tutto sulle miniere e le vendite fondiarie. Keith Nelson e Jerry Shaw mi hanno insegnato tutto quello che so sulle tecniche di combattimento. Il dottor Ron
Flam e Bernie Levin hanno condiviso con me la loro città natale. Edna Farley, Kim di Los Angeles, Jon Faust, Jo Ayn «Joey» Glanzer, Harvey Goldschmid, Bill Harlan, Paul Khoury, Daren Newfield, Susan Oshinsky, Adam Rosman, Mike Rotker, Greg Rucka e Matthew Weiss, per avermi fornito tutti gli altri particolari. Brian Lipson, Phil Raskind e Lou Pitt, il cui duro lavoro e la cui amicizia apprezzo moltissimo. Kathleen Kennedy, Donna Langley, Mary Parent e Gary Ross, per la loro grandissima fede in me, a scatola chiusa. Rob Weisbach, per essere stato il primo a dire di sì, e il resto della mia famiglia e dei miei amici, i cui nomi abitano per sempre queste pagine. Infine lasciatemi dire grazie a tutti quelli che lavorano alla Warner Books: Larry Kirshbaum, Maureen Egen, Tina Andreadis, Emi Battaglia, Karen Torres, Martha Otis, Chris Barba, il reparto vendite più simpatico e lavoratore del mondo dello spettacolo e tutta quell'altra gente straordinaria, che mi ha fatto sentire parte della famiglia. Sono loro che portano il carico più pesante, e la ragione ultima per cui avete fra le mani questo libro. Voglio poi mandare un grandissimo ringraziamento alla mia editor, Jamie Raab: dal primo momento che l'ho conosciuta mi sono affidato alle sue cure, ma questo è il primo libro curato solo e soltanto da lei. E io sono il fortunato scrittore. Le sue intuizioni sui miei personaggi mi hanno pungolato a scavare più a fondo, e i suoi suggerimenti hanno reso queste pagine infinitamente migliori. Auguro a tutti gli scrittori di avere altrettanta fortuna. Grazie ancora, Jamie, per la tua amicizia, per il tuo entusiasmo senza fine e soprattutto per aver avuto fede in me. FINE