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“ad Agio” Una ricerca-azione per rispondere al disagio nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria a cura di Maria Luisa Pollam coordinamento scientifico Marco Rossi Doria
© Editore Provincia Autonoma di Trento - IPRASE del Trentino Tutti i diritti riservati Prima pubblicazione febbraio 2007 Stampa: Tipografia Alcione, Trento “ad Agio” Una ricerca-azione per rispondere al disagio nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria a cura di Maria Luisa Pollam coordinamento scientifico di Marco Rossi Doria Autori Cristina Bertazzoni, pedagogista e formatrice psico-sociale Marco Rossi Doria, docente scuola primaria, esperto di integrazione educativa Giuseppe Nicolodi, psicologo psicomotricista Ernesto Passante, già direttore dell’IPRASE Maria Luisa Pollam, ricercatrice IPRASE Massimiliano Tarozzi, pedagogista, docente universitario I documenti che nel testo non hanno il nome dell’autore sono da attribuire al curatore. I nomi degli insegnanti che hanno collaborato alla narrazione delle esperienze (Parte II: Le esperienze “La parola ai docenti sperimentatori”) sono all’interno del volume.
p. 336; cm 24 ISBN 978-88-7702-180-9
In copertina Immagine tratta dal DVD di presentazione dell’esperienza fatta da uno dei gruppi nel seminario del 4 marzo 2006.
Agli insegnanti che quotidianamente incontrano il disagio
“... nella forma che il caso e il vento dànno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere le figure.” Italo Calvino, Le città invisibili
“... stare nelle incertezze, nei misteri, nei dubbi, senza essere impaziente di pervenire a fatti e a ragioni.” John Keats, sulla “capacità negativa”, lettera, 1817
“In effetti, il regno del paradigma d’ordine con esclusione del disordine si è crepato in più punti. In differenti domini la nozione d’ordine e la nozione di disordine chiedono sempre più insistentemente, malgrado le difficoltà logiche, di essere concepite in modo complementare... La missione della scienza non è più di scacciare il disordine dalle sue teorie, ma di prenderlo in considerazione.” Edgar Morin, La testa ben fatta, appendice I, Il problema del paradigma
TITOLO DEL LIBRO IPRASE del Trentino
INDICE
Ringraziamenti
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Guida alla lettura del testo
9
PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO “ad Agio” il senso di una ricerca
E. Passante
15
Introduzione alla progettazione iniziale di “ad Agio”
M. Rossi Doria
21
La storia
M. L. Pollam
33
PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale Il percorso del gruppo N. 1
G. Nicolodi
65
Il disagio alla scuola dell’infanzia
65
I numeri del disagio
84
Esperienza di “buona prassi”: la psicomotricità
100
La parola ai docenti sperimentatori
121
Il gruppo come laboratorio di costruzione dell’agio Il percorso del gruppo N. 2
C. Bertazzoni
133
Il disagio a scuola
133
Il gruppo-docenti come dispositivo di cambiamento
143
Il progetto del gruppo
153
La sperimentazione e gli esiti
167
Il ruolo del tutor
182
La parola ai docenti sperimentatori
187
Agire consapevoli: la pratica riflessiva come strumento di crescita professionale Il percorso del gruppo N. 3
M. Tarozzi
215
Nota metodologica
217
Il progetto
225
Risultati del progetto. Gli esiti trasformativi
236
Fallimenti e punti critici
245
Elementi qualificanti del progetto
247
La parola ai docenti sperimentatori
257
5
6
PARTE 1 Titolo della parte o della sezione
PARTE III: RIFLESSIONI CONCLUSIVE La mappa
M. L. Pollam
285
Attestare successo e esplorare dubbi
M. Rossi Doria
303
APPENDICE Il progetto “ad Agio”
313
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Ringraziamenti
Il volume che presentiamo, oltre che essere un libro scritto a più mani, raccoglie e restituisce anche il lavoro e il prodotto di persone che non hanno collaborato fisicamente alla stesura del testo ma ne hanno fornito per così dire gli ingredienti. La sua pubblicazione è stata possibile solo e perché tutte le persone coinvolte, direttamente o indirettamente, ci hanno creduto e, a livelli diversi, hanno messo a disposizione parte del loro tempo e delle loro energie, perché questo accadaesse. E a queste persone va il mio sentito ringraziamento. Innanzitutto ai docenti (non elencherò qui i nomi che troverete all’interno del volume), perché hanno accettato di mettersi in gioco, rompendo anche alcune resistenze che sempre un’azione di cambiamento, il nuovo, l’imprevisto, fanno scattare; perché non si sono lasciati scoraggiare dalle tante difficoltà di cui il percorso è stato punteggiato; ma, soprattutto, per averne tenuto traccia, assumendosi anche la fatica dello scrivere per dire ad altri, non solo dei loro successi, ma anche delle paure e delle ansie che un percorso così lungo e impegnativo ha comportato. A Sandra Ciappi e Flavia Ioris, coordinatrici pedagogiche delle scuole dell’infanzia di Clarina e di Meano, a Miriam Pintarelli, direttore dell’Ufficio di Coordinamento della scuola dell’Infanzia della Provincia Autonoma di Trento e a Lucia Stoppini, direttore scientifico della Federazione Provinciale Scuole Materne, ai dirigenti scolastici tutti - Cecilia Niccolini della scuola Clarina, Paolo Goffo prima, Maria Luisa Brioli poi della scuola Pigarelli, Agostino Toffoli di Lavis, Fiorenzo Morandini prima e Candida Pizzardo poi della scuola di Predazzo - i quali seppure in misura diversa, hanno sostenuto i gruppi nel percorso di ricerca e innovazione aderendo al progetto come istituzioni, anche se poi il differente livello di coinvolgimento ha determinato anche una diversa percezione della loro funzione di supporto e accompagnamento. È importante che la partecipazione ad esperienze di questo tipo sia favorita a livello istituzionale, così come che essa non comporti una fatica enorme per l’insegnante, ma rientri invece a pieno titolo nel progetto educativo di quella scuola, di quella classe o sezione. Sarebbe inoltre sempre auspicabile in un percorso di ricerca creare continuità tra le diverse istituzioni, cosa che il tema del disagio di per se stesso dovrebbe favorire. Alle persone come Mauro Fontanari e Virginio Amistadi che hanno lavorato nell’ombra, il primo per l’inserimento dei dati dei questionari e la pubblicazione puntuale sul sito delle informazioni relative ai diversi appuntamenti, il secondo per elaborare i dati in grafici comprensibili e chiari; a Lorenzo Biondani che ha sempre collaborato
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RINGRAZIAMENTI
per risolvere problemi con la posta elettronica, mezzo stra-utilizzato per la comunicazione e l’invio di materiali; a Luisa Mariech che ha curato la pubblicizzazione di incontri e seminari, oltre all’editing e la grafica di questo volume; infine al Centro duplicazioni stampa della P.A.T., in particolare nella persona di Luigi Fortarel che ha contribuito significativamente alla realizzazione del video di presentazione dell’esperienza del gruppo N. 2 all’interno del seminario del marzo scorso. A tutti quelli che, in momenti diversi, sono stati con noi: Carlo Buzzi che ha favorito la costruzione di quella cornice più ampia - il disagio nel Trentino - su cui si andava a collocare il progetto; Claudio Stedile, presente nelle primissime fasi della progettazione; Renata Attolini che ha contribuito ad annodare il filo con quell’esperienza da cui si è partiti e Elisabetta Erspamer, che ci hanno aiutati entrambe a tenere nella testa altre situazioni, al di fuori del progetto, in cui si andavano a costruire risposte. A Elena Brighenti per aver offerto, durante il pezzo di percorso che ha seguito insieme a noi, quello sguardo esterno che ha aiutato a leggere i processi con gli occhi degli insegnanti calati dentro le loro concrete relazioni educative, ma anche per i suggerimenti e le indicazioni offerti in questa fase conclusiva di lavoro per la pubblicazione del volume. A Maurizio Gentile per il preciso lavoro di referaggio del testo. A Elena Stanchina che per alcuni mesi ha lavorato con me e che mi ha sostituito quando sono stata assente dal lavoro per malattia, rendendo possibile, anche in quella fase, la raccolta della documentazione. Infine a tutte le persone che a livello organizzativo e amministrativo hanno contribuito a far sì che si arrivasse in fondo all’avventura che è narrata in questo libro: Marisa Clauser, Laura Lutteri, Tiziana Purin. E un grazie anche ai tanti bambini e bambine, perché indirettamente hanno collaborato. Infatti, tutto quanto è stato progettato e fatto era perché educatori, insegnanti, tutor, formatori, avevano loro come riferimento nella testa, ed è solo avendo chiaro per chi si lavora che i pensieri e le parole diventano agiti e si traducono in esperienze da offrire ad altri come contributo.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Guida alla lettura del testo
Questo rapporto di ricerca è rivolto principalmente a docenti che operano nella scuola e che si trovano quotidianamente ad affrontare problemi che fanno parte ormai della realtà di tutti i giorni: il disagio dei bambini e le sue varie manifestazioni che si ripercuotono immediatamente sullo star bene a scuola anche dei docenti. Il testo, essendo stato scritto a più mani, risente ovviamente dei diversi stili di ciascuno, così come delle diverse modalità di approccio ai problemi che esso affronta. Potrà capitare pertanto al lettore attento di trovare cose dette in maniera diversa ma che rimandano alla stessa matrice, o di scoprire che, con parole diverse, si pone l’accento su uno stesso concetto. Ciò nasce in parte dal desiderio, ma anche dalla necessità, di restituire, oltre che il senso del percorso, anche i modi e le forme attraverso i quali si è sviluppato, modi e forme che danno conto delle tante diversità che hanno caratterizzato i diversi soggetti coinvolti nella ricerca: diversi i tutor, con un diverso background e diverse modalità di lavoro, diversi i docenti e non solo nei diversi gruppi ma anche nello stesso gruppo perché diversi i contesti di appartenenza, diverso l’approccio alla tematica, diverse le età dei bambini con cui poi i docenti si relazionavano nelle sezioni/classi, diversi i materiali e gli strumenti che si sono dati, a seconda anche del taglio dato alla progettazione. Ed è una diversità voluta, per evitare il pericolo di omologazione che, in nome di una linearità che in questo caso però non appartiene a questo progetto, si è spesso tentati di ricercare. Il testo è sostanzialmente organizzato in quattro parti. Nella prima parte è raccolto tutto quanto riguarda il progetto: da dove nasce, perché in quel modo, con quelle caratteristiche e come si è sviluppato nel corso dei tre anni. Tre i contributi: il primo di Ernesto Passante, direttore dell’IPRASE, che fornisce la cornice istituzionale dentro la quale è nata e ha preso forma l’idea di attivare un percorso di ricerca su questa tematica; il secondo di Marco Rossi Doria, al quale è stato affidato invece il compito di illustrare la filosofia di approccio che legittima le scelte fatte e il taglio che si è voluto dare alla progettazione; infine il contributo della coordinatrice del progetto, in cui, passo dopo passo, in una sintesi cronologica, tenta di fornire gli elementi di sfondo su cui le azioni dei docenti si sono sviluppate. La II parte, l’anima del progetto, è dedicata invece alle azioni, a che cosa i docenti realmente hanno fatto,1 non solo e non tanto nelle classi, con i bambini, ma anche e soprattutto nel gruppo, come persone in ricerca che riflettono su che cosa vuol dire capire 1
Dettagli più specifici relativi al lavoro dei docenti sono stati illustrati alla fine di ciascun percorso.
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GUIDA ALLA LETTURA DEL TESTO
prima, “accogliere”, e affrontare il disagio poi. “Accogliere” una parola virgolettata perché è una parola chiave, una parola che nella progettazione iniziale non compare mai, non era contemplata come soluzione e che invece, strada facendo, in maniera più o meno esplicita, più o meno accentuata, è emersa via via nei tre gruppi in tutta la sua pregnanza. Accogliere il disagio, non risolverlo, è parsa per tutti alla fine del percorso la parola giusta che ti libera da quel senso di onnipotenza che ti opprime e che ti mette invece nella giusta direzione per progettare azioni, non per contrastare il disagio, ma per accoglierlo appunto. E il disagio, il disagio educativo, nella interpretazione di tutti e tre i gruppi, da elemento personale è diventato elemento relazionale. I docenti coinvolti nel progetto sono stati organizzati in tre sotto-gruppi, ciascuno affidato ad un tutor. Giuseppe Nicolodi, tutor del gruppo N. 1 composto da docenti di due scuole dell’infanzia, Cristina Bertazzoni e Massimiliano Tarozzi, tutor rispettivamente del gruppo N. 2 e N. 3 composti da docenti di scuola primaria, vi porteranno dentro il progetto, attraverso il percorso di crescita della professionalità e di consapevolezza delle capacità e competenze che i docenti, con il loro appoggio e supporto, hanno saputo sviluppare. Il loro racconto non è un racconto lineare, perché - come già detto - non è stato lineare il loro percorso, ma si sviluppa su piani diversi che si intrecciano e si arricchiscono vicendevolmente. Si vuole in questo modo, da una parte, rendere conto del processo, dei cambiamenti che “ad Agio” ha indotto, grazie anche a quello sguardo più sottile che il lavoro di analisi e riflessione che i docenti hanno fatto anche sul gruppo ha contribuito a determinare; dall’altra dare voce ai docenti, al loro vissuto, ma anche ai bambini che sono stati i fruitori diretti delle azioni che il percorso di ricerca ha messo in moto. Tre racconti diversi dunque, che risentono inevitabilmente di tutte le differenze che hanno caratterizzato una proposta così aperta e, solo apparentemente, destrutturata. Ma non poteva che essere così! Il fatto di avere vincoli minimi di cornice, e la stessa filosofia del progetto che proponeva non schemi rigidi ma situazioni capaci di cogliere l’esistente e da lì partire, hanno portato a percorsi differenziati che si sono giocati anche su una personalizzazione degli interventi, perché effettuati appunto da personalità con un diverso background, un diverso approccio. Ma, come in una classe un insegnante cerca di cogliere nelle diversità una ricchezza, così di fronte al testo al lettore attento è chiesto di porsi in questo atteggiamento di ascolto innanzitutto, e di ricerca poi di quel filo conduttore che attraversa le tre diverse esperienze e che va recuperato come messaggio da riportare alla propria esperienza, alla propria storia di educatori, ai propri modi di stare nella scuola. Nella terza parte si è voluto per questo motivo dedicare un intero capitolo ad una scrittura in cui condividere alcune chiavi interpretative necessarie per aiutare il let-
“ad Agio” IPRASE del Trentino
tore a recuperare elementi di senso e aspetti di trasferibilità dell’esperienza; un’esperienza di per sé irripetibile ed unica - come del resto qualsiasi percorso di innovazione didattica - ma, ci auguriamo, capace di offrire spunti, suggerimenti, idee, per affrontare, seppure in contesti nuovi, e probabilmente anche con nuovi strumenti, percorsi analoghi. Una sorta di mappa capace di orientare lo sguardo su quegli aspetti trasversali alle tre esperienze che in un percorso a prima vista così disarticolato e differenziato, pure sono emersi. Al contempo non potevano mancare alcune note conclusive del referente scientifico del progetto, Marco Rossi Doria che, in un capitolo di valutazione e verifica dell’efficacia di quanto messo in campo, restituisce puntualmente gli esiti, i punti di forza, i punti di debolezza della proposta, tutti aspetti di cui è utile tener conto quando ci si muove nel campo dell’innovazione e della sperimentazione. In questa parte conclusiva - ma la si rintraccia anche nella narrazione delle tre esperienze - un’attenzione particolare è posta inoltre nell’indicare le condizioni di fattibilità, gli elementi di comunanza e di trasferibilità, perché quello proposto non sia un qualcosa di chiuso, definitivo, ma piuttosto un’ipotesi aperta su come capire e “accogliere” il disagio. Una cosa che non troverete nel volume è un capitolo sulla valutazione. In più occasioni - gli incontri in plenaria, quelli di coordinamento dell’équipe tutoriale, le uscite “pubbliche” del progetto - e finanche in questo volume, si è parlato di esiti. Da Marco Rossi Doria, dai tutor dei tre gruppi, da chi scrive, nel riportare l’esperienza, sono stati evidenziati i punti di forza e i punti di debolezza del percorso e sono stati anche enfatizzati i risultati sia di prodotto - relativi alla ricca documentazione raccolta ma ancor più alla efficace presentazione fatta in occasione del seminario di marzo da parte dei gruppi docenti - sia soprattutto di processo. Quindi c’è stata una valutazione complessiva del progetto, e nei gruppi sono stati messi in campo strumenti per analizzare le singole azioni e sostenerne la lettura degli esiti. Quello che invece è mancato è un confronto serrato sulle procedure adottate, sugli strumenti di verifica e valutazione che i singoli gruppi si stavano dando; non sono stati elaborati strumenti specicifici per monitorare l’andamento dell’esperienza; non si è entrati, a livello di équipe tutoriale, all’interno delle scelte e di che cosa accadeva nei singoli gruppi e meno ancora nei gruppi tra loro. Ma in un certo senso è stata anche questa una scelta di campo, la scelta cioè di porre l’accento più sul processo che sul prodotto. Scelta che ha poi prodotto quei risultati significativi che in questo volume si è tentato di organizzare, con la consapevolezza che raccontare un’esperienza a chi non l’abbia fatta non è facile e che, soprattutto, non è facile rendere conto, in poche pagine, del lavoro, della fatica e dell’impegno dei veri protagonisti di questo percorso: i docenti.
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Parte I Il quadro di riferimento
“ad Agio” IPRASE del Trentino
“ad Agio” il senso di una ricerca Ernesto Passante
Che il disagio sia una delle questioni più attuali nella scuola non è una novità. Da alcuni anni questa problematica preoccupa le istituzioni scolastiche e gli insegnanti che ci lavorano, ed è una preoccupazione che sta diventando pervasiva, sia rispetto ai diversi gradi di scuola, sia rispetto ai contesti scolastici. Se qualche anno fa, infatti, si trattava principalmente di un problema circoscritto (anche se talvolta grave), ora esso appare quasi come una sorta di variabile indipendente, che impegna un po’ tutti i contesti educativi, finanche quelle scuole che hanno un’utenza socio-culturalmente “avvantaggiata” e, diffusamente, quasi tutti i gruppi classe. A conferma di questa tendenza, è interessante notare che gli insegnanti trentini, interpellati per definire i bisogni di aggiornamento professionale,1 individuano “le strategie e gli interventi sulle forme del disagio” ai primi posti in tutti i gradi di scuola: al secondo posto i docenti di scuola primaria, al terzo posto quelli della formazione professionale, al quarto posto quelli dell’infanzia e delle superiori. Ci sono altri segnali che indicano la rilevanza che questo tema assume nell’analisi della domanda educativa. In molte scuole si costituiscono gruppi di lavoro specifici e nascono nuovi progetti, di formazione, di consulenza, a volte di sperimentazione e di ricerca, finalizzati a delineare strategie di contenimento e riduzione del disagio. La provincia trentina si conferma, tra l’altro, un luogo dinamico di studi e di proposte, avendo avviato alcune interessanti esperienze collegate in rete tra diversi istituti scolastici, soprattutto nelle città di Trento e Rovereto. Ma abbiamo la certezza che molte altre istituzioni scolastiche, nel Paese, abbiano intrapreso percorsi analoghi, spesso in collaborazione con i servizi sociosanitari e anche fruendo di alcuni canali di finanziamento che il Ministero della Pubblica Istruzione e l’Unione europea hanno riservato opportunamente. Questo fermento ha prodotto iniziative e individuato strategie diverse nell’affrontare questa problematica, anche se la consueta fatica che la scuola palesa nel documentare le esperienze attuate non restituisce appieno tutta la dimensione di questo movimento e la ricchezza delle scelte operate, né lo spessore della cultura che si è probabilmente radicata in quei contesti nei quali le esperienze sono state avviate da più tempo. E giusto questa carenza nella circolazione della riflessione e del pensiero maturati in seguito all’esperienza delle scuole ha sollecitato l’IPRASE ad occuparsi del disagio in modo più 1
Insegnanti e formazione in servizio, G. Cretti, B. de Gerloni, IPRASE del Trentino, 2005.
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO “ad Agio” il senso di una ricerca
attento e sistematico, dapprima cercando di leggere e analizzare alcune iniziative e poi avviandone una propria, caratterizzata da un forte impegno sperimentale. Le motivazioni principali che giustificano una ricerca sperimentale sul disagio agiscono su due assi fondamentali. La prima è intesa proprio a dare visibilità e risonanza alle pratiche innovative che le scuole sono capaci di darsi in presenza di una domanda nuova, così rilevante e nevralgica per la funzione e il senso stesso del mandato che la scuola assume nel sistema sociale, per comprendere e far comprendere come si è potuta produrre un’azione trasformativa. La seconda motivazione è legata alla necessità di rappresentare fedelmente cosa accade nella dimensione esistenziale e professionale degli insegnanti quando essi stessi sono messi in discussione da un fattore destabilizzante come la presenza di bambini e ragazzi che li mettono alla prova, con i quali essi hanno la sensazione di non avere risorse, di aver smarrito quell’identità riconoscibile che è la fonte delle loro sicurezze. Perché il disagio, e le sue manifestazioni leggibili attraverso i comportamenti inattesi o imprevedibili degli allievi, accendono interrogativi e generano spesso una percezione di inadeguatezza nei docenti, che minaccia e logora la professionalità degli educatori, quando ogni giorno e ogni volta sono messi in gioco nella relazione educativa e nei suoi aspetti più profondi. Ed è la scuola, quella che accoglie tutti, che palesa più di ogni altro contesto la fatica dei bambini a stare con gli altri, soprattutto laddove alcuni di essi - per ragioni diverse - si avvicinano a questo ambiente manifestando una sostanziale intolleranza alle regole che questo luogo per ovvi motivi richiede. Sono minori “difficili” che soffrono autenticamente l’inserimento a scuola perché altrove, nella famiglia e nel nucleo sociale di provenienza, non hanno avuto l’opportunità di conoscere le regole, attraverso quella guida adulta che accompagna la crescita anche fissando i limiti alla naturale esuberanza. A scuola arrivano bambini di qualsiasi ceto sociale, etnia o gruppo di appartenenza, che non vengono dal sistema educativo della colpa ma da quello della vergogna, bambini ai quali non è possibile fare paura, che non è possibile mettere in colpa, bambini che temono solo di perdere la faccia, di perdere l’onore, di vergognarsi, bambini esposti al rischio che la più piccola delle mortificazioni li costringa a scegliere la strada della anestesia rispetto a ciò che succede a scuola. (G. Pietropolli Charmet, 2003) Il disagio dunque c’è e la scuola necessariamente lo svela. Ma quando le manifestazioni di questa condizione difficile pervadono un contesto educativo con frequenza e intensità, il contesto stesso induce dinamiche generative che coinvolgono tutti i soggetti e, in particolare, gli insegnanti che portano la responsabilità di accompagnare e guidare il processo di apprendimento. Emergono, tra l’altro, i limiti nel comprendere e decifrare i comportamenti degli allievi, le problematiche di relazione con le fami-
“ad Agio” IPRASE del Trentino
glie, difficoltà di spostare il punto di vista, una carenza di strategie e di strumenti che possano restituire le sicurezze smarrite nella complessità della situazione. E accanto a queste, possono nascere la percezione di isolamento anche rispetto ai colleghi, il senso di frustrazione e le angosce tipiche indotte dalla sensazione di incapacità nel governare quel processo educativo di cui gli insegnanti sentono la responsabilità. È possibile che il disagio degli allievi diventi il disagio degli insegnanti, come dimostrano ormai diversi indicatori osservati in numerose ricerche sulla professione docente. Ma la lettura di questa condizione scomoda degli insegnanti nega troppo spesso la visibilità dei modi che alcuni di essi hanno saputo individuare e adottare per contenere e indirizzare le manifestazioni di insofferenza di questi allievi “difficili” verso l’interazione con gli altri e verso la propensione ad apprendere. Perché, come accade sovente, la denuncia sulla inadeguatezza della scuola fa più notizia dell’innovazione e della buona pratica intrapresa in molti casi. E dunque si è ritenuto necessario, a suo tempo, dare avvio ad una iniziativa forte su questo tema, capace di sollecitare prioritariamente la riflessione e il lavoro dei docenti, individuare una strategia e rappresentare accuratamente gli effetti che ogni nuovo strumento avrebbe prodotto sui comportamenti e sulle dinamiche di apprendimento di alcuni gruppi classe. Con questi intenti, con l’assunto imprescindibile che le scuole avrebbero dovuto essere i luoghi della ricerca e con il convincimento che gli insegnanti avrebbero accolto volontariamente un intenso programma di studio, riflessione e confronto sulle pratiche educative, l’IPRASE ha elaborato un’idea di progetto caratterizzata da preciso taglio metodologico e da una connotazione invece aperta nei contenuti, nella quale l’istituto avrebbe esercitato sostanzialmente una funzione di facilitazione e di garanzia nell’osservazione rigorosa degli effetti che ogni innovazione avrebbe prodotto. È nato così “ad Agio”. Lo studio del progetto stesso ha potuto avvalersi, in una fase esplorativa, delle indicazioni di un gruppo multidisciplinare di “portatori d’interesse”, insegnanti, operatori sociali di diversi enti e istituzioni, esperti e conoscitori del sistema educativo trentino, che ha consentito di focalizzare la problematica, selezionare alcuni aspetti cruciali di essa e decidere un approccio metodologico definito e coerente. In questa fase è apparsa chiara l’istanza di partire dai docenti, dalle loro esperienze e anche dai loro vissuti. Così come è emerso che le risorse e i presìdi disponibili nella provincia di Trento, servizi sociosanitari, cooperative sociali ed educative, costituiscono un sistema di aiuti particolarmente prezioso per la scuola, ma nel contempo tendono a “specializzare” gli interventi e rischiano di innescare processi di delega che, in qualche caso, evitano agli insegnanti una reale presa in carico della dimensione educativa, quasi che la scuola si aspetti dai servizi una sorta di intervento riabilitativo sul minore “disadattato” per ricevere poi in consegna un allievo più idoneo ad essere scolarizzato.
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO “ad Agio” il senso di una ricerca
E questa considerazione, forse esposta qui troppo sommariamente, ha rappresentato la motivazione ad investire nel progetto sulla funzione docente, che possiede in sé gli strumenti educativi per fronteggiare la stragrande maggioranza dei disagi di cui gli allievi sono portatori, a condizione che i docenti siano disposti a rivedere i fattori che costituiscono il contesto e il processo in cui gli allievi sono chiamati ad apprendere. E “ad Agio” ha voluto proporre, in questo senso, un approccio che dava agli insegnanti l’opportunità di “prendersi” il tempo necessario per riflettere sulle cose che accadono in aula e di analizzarle, con l’aiuto di una équipe tutoriale che nei momenti di tutoraggio, nei quali confluivano i docenti di diversi contesti scolastici, e in periodici raccordi plenari in forma seminariale, ha assicurato confronto, continuità orizzontale e tenuta complessiva del progetto. L’équipe tutoriale ha avuto una funzione fondamentale nello svolgimento delle attività. Essa è stata di fatto il soggetto promotore della ricerca e la sede nella quale ogni passo è stato preordinato, discusso e analizzato con un elevato livello di collaborazione. Una delle qualità che si è rivelata più proficua è stata la composizione multidisciplinare dell’équipe che includeva una molteplicità di riferimenti culturali, professionali e di formazione, che ha arricchito in misura determinante il confronto sull’andamento della ricerca e sulle modalità di accompagnamento che l’équipe stessa ha voluto darsi nei momenti di analisi, di produzione, di sperimentazione e documentazione che hanno caratterizzato le fasi del progetto. La scelta di affidare il ruolo di tutor a tre esperti di formazione diversa – che per tre anni hanno lavorato con gli insegnanti, i veri protagonisti della sperimentazione, coloro che hanno contribuito a collocare il lavoro d’aula e la relazione educativa con i bambini al centro della ricerca. - ha alimentato la riflessione, miscelando insieme il taglio delle diverse letture, quella psicologica, quella pedagogica e quella metodologica. Accanto a loro hanno esercitato funzioni preziose e complementari i dirigenti scolastici, i coordinatori pedagogici e alcune insegnanti, funzioni strumentali che hanno cercato di contribuire a saldare e mettere in relazione la sperimentazione con il più ampio contesto degli istituti. Com’è facile immaginare, un percorso di lavoro così lungo ha vissuto fasi e momenti diversi, alternando entusiasmo e fatica, sintonie e contrasti, come accade in ogni contesto che voglia intraprendere un cammino impegnativo che, per la stessa natura della ricerca e per la modalità di partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, espone ogni persona e ogni gruppo a forti investimenti sul piano professionale e relazionale. Sull’itinerario compiuto è pertanto doveroso, da parte di chi ha assunto la responsabilità istituzionale della ricerca, riportare alcune considerazioni utili a comprendere come, anche nel contesto della provincia trentina, sia complesso condurre un’azio-
“ad Agio” IPRASE del Trentino
ne sperimentale e assicurane un esito fruibile anche oltre l’ambito circoscritto della sperimentazione stessa. Tre gli aspetti sostanzialmente critici che riguardano: a. la propensione delle scuole, intese come istituzioni educative, a sostenere un processo migliorativo attraverso la ricerca; b. la difficoltà degli insegnanti a trovare un tempo dedicato alla riflessione sul loro lavoro, sottraendosi alla “logica dell’emergenza”, che li induce troppo spesso a collocare il loro impegno sul terreno del risultato a breve temine; c. la problematica della trasferibilità diffusa delle pratiche efficaci, anche nei contesti prossimi a quelli della sperimentazione, nella stessa istituzione scolastica che ha assunto la sperimentazione. L’esperienza di “ad Agio” ci induce a pensare che le scuole siano sollecitate da una domanda di formazione nuova che muta e accelera le istanze in essa comprese. Le caratteristiche dell’utenza, sempre più diversificata, esprimono bisogni ai quali non appare possibile dare risposte con il criterio della standardizzazione (lo stesso curricolo, le stesse strategie per tutti i soggetti di un gruppo classe) e, spesso, si ha la sensazione piuttosto netta che i limiti e gli strumenti propri della funzione della scuola, siano messi in dubbio anche da “pressioni” che il territorio e la stessa società civile esercitano anche attraverso le istituzioni. È una condizione di tensione che logora la scuola, soprattutto quando non sia sostenuta da un cambiamento organizzativo che rompa le rigidità tipiche del servizio educativo. Gli insegnanti sono spesso impegnati molto tempo a scuola, con pochissimi spazi dedicati alla riflessione sul loro agito e ciò compromette alla radice la possibilità di affrontare un vero rinnovamento delle pratiche didattiche. Inoltre, investendo le loro motivazioni in una prospettiva di lungo periodo, hanno l’esigenza di essere legittimati, di essere riconosciuti e di avere quella stabilità di contesto che consente di dedicare energie mentali e relazionali in una sfida che mette in gioco loro stessi, la loro stessa identità. E le istanze nuove vengono troppo spesso soddisfatte con un criterio di ampliamento dell’offerta formativa, piuttosto che con logiche trasformative o sostitutive. Generalizzando questa condizione, che questo istituto di ricerca in altre occasioni ha riscontrato, si trae la conseguenza di quanto sia improbabile lo strumento della sperimentazione a sostegno dell’innovazione. E di come l’autonomia delle scuole anche su questo fronte, normata dal regolamento che assegna agli istituti questa facoltà, costituisca uno strumento poco praticato e poco percorribile. Ma anche quando la sperimentazione, pur faticosamente avviata, produce esiti soddisfacenti, pratiche efficaci, la stessa istituzione scolastica in cui l’innovazione ha riscosso esiti trova notevoli difficoltà e ostacoli alla disseminazione. Solo una strategia mirata di compartecipazione al processo e alla lettura dei risultati della ricerca o
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO “ad Agio” il senso di una ricerca
uno specifico piano formativo che impegna gruppi di insegnanti hanno la possibilità di influenzare altri contesti educativi, in una prospettiva di allargamento della sperimentazione. A fronte di tali criticità, annotate anche in altre parti del volume, si ha anche la presunzione di affermare che l’impegno profuso in “ad Agio” ha raccolto indicazioni di grande interesse e utilità, sia rispetto ai contesti di sperimentazione, che stanno ora consolidando il risultato della sperimentazione in una logica trasformativa delle pratiche educative, sia rispetto al contributo che la ricerca può fornire agli studi che sul tema disagio si stanno compiendo nel nostro Paese. Fra tutti emerge un dato, che appare forse quello più rilevante nell’ipotesi prospettata nel progetto originario. Il disagio, i disagi che la scuola contribuisce a svelare costituiscono un fattore di destabilizzazione e una fonte di frustrazione per gli insegnanti. Ma è negli stessi insegnanti, nella loro professionalità, nel loro tipico bagaglio di strumenti educativi e nelle loro motivazioni, che è possibile trovare le risorse capaci di spostare il loro punto di vista, di restituire loro una progettualità, di sostenere una loro iniziativa, di offrire loro strumenti che siano capaci di osservare e di osservarsi, di sostenere la fiducia nel loro agire. Questa prospettiva è percorribile e restituisce alla Scuola il suo mandato, le sue prerogative insostituibili. Essa peraltro richiede alcune fondamentali condizioni di esercizio della professione docente e un’organizzazione del lavoro che forse le scuole autonome non hanno ancora saputo darsi, prese come sono da un impegno troppo spesso centrato sull’emergenza, che a volte priva le stesse istituzioni dello spazio e del tempo necessario alla riflessione e alla costruzione di un pensiero pedagogico che trae dalle pratiche quotidiane il suo sapere. La difficoltà di crescere dei bambini e dei giovani si riverbera inevitabilmente sulla difficoltà di essere educatori, in uno scenario nel quale sono profondamente mutati i riti di passaggio e i riferimenti educativi che le stesse comunità educative esercitavano anche in modo implicito. Oggi, quando la questione educativa esige un esercizio più raffinato e flessibile delle pratiche educative, la funzione docente e il suo sviluppo professionale costituiscono l’investimento più promettente per il miglioramento del servizio educativo. Forse “ad Agio” tende a dimostrare che il cammino per una riqualificazione della funzione docente possiede una o più direzioni percorribili, che in alcune condizioni tali direzioni si possono intraprendere con l’aiuto di un soggetto “terzo” che aiuti la scuola a leggersi, ma anche che spesso il miglioramento delle condizioni di esercizio necessita di approcci coraggiosi e risoluti per produrre effetti più stabili, capaci di determinare risultati utilizzabili nei processi d’innovazione.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Introduzione alla progettazione iniziale di “ad Agio” Ideare e progettare una ricerca-azione per contrastare il disagio a scuola Marco Rossi Doria
Quando alla fine del 2002 abbiamo iniziato questo lavoro, non c’erano scuole “scese in campo” su di un programma generalizzato contro il disagio; non c’erano docenti pronti per una ricerca-azione da condurre nelle proprie scuole; non c’era una indicazione di priorità al riguardo da parte del decisore provinciale in materia di politiche scolastiche. Vi era, tuttavia, un’attenzione nuova - anche da parte del decisore politico - al problema, tanto che una batteria di proposte di azioni di contrasto al bullismo, all’esclusione precoce, al fallimento formativo e dunque a diversi aspetti significativi del disagio nelle scuole trentine si stava avviando in diverse forme e attraverso differenti iniziative.1 Ne era prova ulteriore la crescente collaborazione tra scuole, IPRASE e Università su questi temi e il coinvolgimento di esperti esterni chiamati a riflettere su di essi e a suggerire approcci innovativi o a fare da sponda alle iniziative pensate o iniziate. E certamente vi era al riguardo una concomitante azione diffusa, fuori dalle scuole, da parte di segmenti importanti del privato sociale, in accordo con le scuole stesse e, spesso, con gli enti locali, una sorta di esternalizzazione, rispetto alle scuole, delle risposte possibili alle manifestazioni di disagio infantile e adolescenziale che, per loro natura, vivono sempre in uno spazio a cavallo tra scuola e fuori. Insomma non vi era una committenza centralmente stabilita ma una stagione si stava aprendo, in Trentino, nel segno del riconoscimento del disagio.
1
“Capire il disagio”, seminario svoltosi presso l’IPRASE del Trentino il 30 novembre 2002; Il Convegno dal titolo “Pari ed impari, prevaricatori e vittime. Riflessioni sul tema del bullismo e sulle prospettive di intervento” tenutosi al Boscolo Grand Hotel Trento, il 18 febbraio 2002; Teaching and learning in challenging classes - Effective strategies for inclusion, un corso Comenius 2 tenutosi all’IPRASE dal 17 al 22 marzo 2003, all’interno di un progetto dal titolo Children as Learning Citizens: A European project, documentato nel volume Children as Learning Citizens: A European project, a Report on pedagogical good practice for learners’ success at school, Sandra Lucietto, IPRASE, 2003.
Il disagio: una parola che genera fermento e aspettative
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO Introduzione alla progettazione iniziale di “ad Agio”
Che fare?
È entro questo clima di avvio che si è formato un gruppo di ideazione presso l’IPRASE del Trentino per raccogliere quello che appariva essere non tanto un’attenzione accademica al tema del disagio quanto una sorta di sommessa espressione di dolore, forse non ancora gridata, che si concretizzava con la crescente richiesta, proveniente dalle scuole e da molti docenti trentini, di “fare qualcosa” e di provare nuove strade per contrastare le sofferenze ormai sempre più manifeste - il disagio, appunto - che scuole e docenti toccavano ogni giorno con mano, in classe, entro la loro relazione educativa con bambini e ragazzi. Questo gruppo di ideazione, riunito presso l’IPRASE, aveva anche accolto l’evidenza che non si trattava di partire da zero poiché i docenti e le scuole - dove più dove meno - già si interrogavano su cosa fare quando vedevano il disagio manifestarsi, sempre più frequente, nei gruppi e nei singoli alunni e cercavano e provavano già delle risposte.
Da dove partire?
Dunque la duplice prospettiva di lavoro di questo gruppo ideativo nascente - raccogliere la domanda diffusa e dare voce alle risposte già, in qualche modo, spontanee o pensate che le scuole provavano per contrastare il disagio - poneva, tuttavia, sul tappeto un primo quesito riguardante il metodo: partire ex novo o valorizzare l’esistente? A questa domanda si è risposto - come racconta più avanti Maria Luisa Pollam che ricostruisce nel dettaglio la storia di questa impresa ripartendo dalla esperienza che appariva la più “pensata” teoricamente e metodologicamente, tanto che aveva saputo narrare di sé, con una pubblicazione importante: 2 l’esperienza della scuola elementare De Gaspari dove un gruppo di docenti aveva costruito una proficua stagione di lavoro sperimentale sui comportamenti indicativi di disagio che ha avuto un approccio marcatamente innovativo. La presentazione finale di questo lavoro ha visto una grande presenza di insegnanti che manifestavano, in modo esplicito, l’urgenza di occuparsi di questi temi con maggiore costanza, ed è stato un passaggio decisivo per la nascita del progetto “ad Agio”.3
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Capire il disagio, un progetto alla Scuola Elementare “De Gaspari”, didascalie Libri, Trento, Maggio 2002. 3 Con il nome “ad Agio” dato al progetto si voleva indicare che anziché mettere l’accento sul contrasto al disagio, concetto che implica, in qualche misura, un’azione da fuori verso un nemico, si trattava piuttosto di favorire l’agio e, insieme, darsi il tempo
“ad Agio” IPRASE del Trentino
I materiali sui comportamenti di disagio e le risposte a questi dell’esperienza della scuola De Gaspari fornivano, infatti, una casistica trentina di manifestazioni del disagio nella quale molti altri docenti riconoscevano i segni di comuni e diffuse osservazioni entro la propria esperienza professionale e che, dunque, consentiva di partire dai fatti riscontrati e osservabili ovunque come punto di partenza nell’elaborazione di un progetto che portasse i docenti a “sperimentare sul campo le strategie atte a capire e ridurre il disagio e a potenziare le buone pratiche”, cosi come recitava il sottotitolo del progetto. È per queste ragioni che, nella stesura della progettazione di “ad Agio”, anziché porre a premessa una definizione del disagio che implicasse già una accettazione a priori e tale da escludere o ridurre un lavoro di ricerca di definizioni con i docenti che doveva e poteva, invece, essere parte del percorso di ricerca-azione, si è deciso, semplicemente, di nominare una serie di comportamenti, dei quali molti citati nella pubblicazione della De Gaspari ma anche altri, altrove notati. Si trattava e si tratta di comportamenti, spesso non facilmente contenibili da parte degli adulti educatori ma anche di una serie più larga di manifestazioni di difficoltà e di sofferenze tali da condizionare e ritardare i processi di apprendimento o da costituire veri e propri fattori di rischio psico-sociale, osservati, anche in Trentino, come esplosivi in pre-adolescenza e adolescenza nelle scuole medie e nelle superiori ma che sono presenti, in nuce e, a volte, già espliciti nel corso dell’infanzia, nelle scuole primarie e in quelle dell’infanzia. L’elenco, dunque, veniva riportato, così come qui di seguito, come punto di partenza per ogni ulteriore esplorazione sul disagio da parte di gruppi docenti disposti a misurarsi, su base volontaria e d’accordo con l’IPRASE, in una sperimentazione con la finalità di favorire agio: a. esplosione emotiva e perdita ripetuta del controllo attraverso piccoli e grandi acting-out nel contesto scolastico e fuori. b. L’intera gamma di comportamenti, agiti e/o subiti, che ricadono sotto le categorie tipiche delle manifestazioni del bullismo. c. Il moltiplicarsi di sintomi somatici di genere e intensità diversa. d. La manifesta instabilità/precarietà nella costruzione dei legami con gli adulti e tra pari. indispensabile e dunque un po’ rallentato, per riuscire a farlo poiché, davanti a dolore e difficoltà, la inevitabile necessità della riflessione complessa deve poter significare anche un tempo più disteso.
Parole per descrivere il disagio
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Una nuova progettualità delle scuole
Il ripetersi di esplicite e/o leggibili manifestazioni di mancata auto-stima. Le diffuse e crescenti difficoltà nelle capacità di attenzione/ concentrazione. L’evidenziarsi, a più livelli e in una grande varietà di manifestazioni, agiti e segni, di un mancato accoglimento del limite e delle regole e di una crescente incapacità a riconoscere il ruolo dell’adulto e di una chiara e diffusa difficoltà di accoglimento del normale setting scolastico. La diffusa difficoltà - in forme e gradi molto differenziati - nella comunicazione verbale e nel comunicare bisogni e sofferenze. La segnalazione di crescenti e diffusi ritardi e difficoltà nella lettura/scrittura e, più in generale, nello sviluppo del linguaggio verbale. La segnalazione di diffuse difficoltà nel reperimento e nel consolidamento di algoritmi formalizzati e di procedure atte a codificare la risoluzione di quesiti logici e matematici, situazioni e esperienze afferibili al campo delle scienze. La crescente e diffusa difficoltà nell’organizzazione spaziotemporale, sia a livello corporeo che grafico. La crescente difficoltà nel consolidamento del simbolico e nella progressiva costruzione dell’astrazione e di grammatiche e procedure. La manifesta povertà nelle strutture lessicali e narrative e nel descrivere secondo logica e/o per analogie. La crescente difficoltà ad accettare, pur entro un sistema di rinforzi e sostegni, le naturali frustrazioni, gli allenamenti e la fatica regolare insiti in ogni processo di apprendimento.
Così, con questo elenco, la stesura ideativa del progetto voleva da un lato ancorarsi ai fenomeni reali osservati e, dall’altro suggerire che le risposte dovevano muoversi, in qualche modo, sullo stesso piano, cioè entro scelte intorno a come provare a sciogliere i disagi. E questa convinzione, da parte del gruppo centrale che si faceva primo estensore progettuale di “ad Agio”, implicava un passaggio immediatamente successivo, nella stesura scritta del progetto e che riportiamo: “favorire una cultura capace di produrre una nuova progettualità delle scuole, una cultura non più divisa per segmenti né più ope-
“ad Agio” IPRASE del Trentino
rante in modo occasionale ma portatrice insieme di sapere psicologico e pedagogico, antropologico e sociologico e capace, ogni volta, di trovare un centro comune nella presa in carico delle persone in crescita e nella elaborazione di attività concrete in classe, fondate sul rafforzamento della relazione educativa e della osservazione/riflessione dei docenti, capace di sperimentare risposte nuove e più articolate alle diverse manifestazioni del disagio”. È da queste premesse che sono nati gli indirizzi guida del progetto. Non era facile indicare delle linee guida, poiché - e lo sapeva bene chi stava scrivendo il progetto - così come è per tutta la pedagogia viva e capace di operare nel concreto, anche nel complesso lavoro di contrasto del disagio, non tutta la metodologia necessaria all’innovazione dell’approccio e delle azioni concrete con bambini/e e ragazzi/e è a priori conoscibile e descrivibile compiutamente. Il procedurale prevale sul certo, la sorpresa si affianca ad alcune indispensabili certezze. Dunque, nell’esplicitazione del campo della metodologia di contrasto al disagio entro la stesura scritta della progettazione di “ad Agio”, si individuavano subito due aree in forte rapporto reciproco eppure diverse: • un’area ben delineata che corrisponde ad alcune forti cornici progettuali necessarie, attestate dalle buone pratiche e dalla letteratura internazionale; • e, al contempo, aree meno definibili e non già disegnate e colorate che vanno lasciate aperte a contenuti, invenzioni, scoperte e prove d’opera che potranno derivare dalle azioni, osservazioni e riflessioni messe concretamente in essere dai docenti in azione, che conducono il lavoro, dai docenti che stanno con le alunne e gli alunni.
Alcune linee guida
Questa impostazione, a sua volta, implicava necessariamente un esplicito, volontario cedimento dei poteri dal gruppo centrale, primo estensore dell’idea e delle cornici progettuali - che definiva le linee di indirizzo - ai docenti che, sul campo, erano chiamati alla vera e propria progettazione delle azioni a favore dell’agio. E significava puntare sui docenti e essere disposti a credere davvero che i docenti, con il lavoro e la riflessione in fieri, potessero dire qualcosa di vitale importanza ai progettisti stessi. Si trattava di riaffermare la condizione irrinunciabile
Il docente attore libero e responsabile della progettazione
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perché gruppi docenti possano assumere davvero funzione di ricerca, non siano meri esecutori o, al più, declinatori a valle di un progetto già steso e deciso. Il progetto “ad Agio” ha compiuto, dall’inizio, questa scelta di fondo perché ha rifiutato l’idea che la progettualità - dinanzi al problema del disagio - si potesse giocare in ambiti non posti centralmente rispetto al lavoro vivo, lontano dalla situazione dove ha luogo l’azione di contrasto al disagio e dalla relazione educativa nel suo concreto essere e farsi. Ci si è, dunque, fatti forte di un pensiero pedagogico che riconosce che, date alcune premesse indispensabili, non esiste la possibilità di una azione piena di contrasto del disagio le cui linee progettuali siano dislocate fuori o prima o davanti al campo entro cui si sta agendo per l’agio. In coerenza con questo principio, si è scelto che fossero i docenti a farsi promotori di riflessione pedagogica e, pertanto, di assunzione non solo del carico del fare ma anche dell’indispensabile carico della parola su quel che si fa e quel che si pensa intorno a ciò che si è fatto, così come del compito della rilevazione e registrazione costanti e della scrittura condivisa sia per gli aspetti che, di volta in volta, emergono a conferma delle ipotesi fatte e dei risultati attesi, sia per gli aspetti che conservano incertezze e ambiguità su cui è bene non arrivare a conclusioni prima del tempo. Dispositivi di facilitazione
Tutto questo ha avuto delle conseguenze nei passaggi successivi del documento progettuale iniziale. Infatti ha significato l’indicazione sul fatto che, da subito, la stessa progettualità delle azioni e la loro scelta venisse esplicitamente affidata ai gruppi docenti, che essi fossero assistiti da dispositivi di facilitazione della riflessione condivisa ma che conservassero, tuttavia, la piena sovranità - in termini di libertà e responsabilità - sull’azione pedagogico-didattico-educativa intrapresa. E ha significato, evidentemente, di fare tale cammino in gruppo e come gruppo di docenti in ricerca-azione e dunque di condividere ciascuno con gli altri docenti ogni curva del lavoro e l’insieme del progetto. Su questa linea discriminante si è fondata quasi tutta la ricchezza del progetto “ad Agio”. Ed essa ha implicato grande convinzione comune tra ideatori del progetto e progettisti docenti, una convinzione comune che è andata crescendo anche grazie al dibattito, anche soste-
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nuto sul piano teorico,4 e alle occasioni costanti di riflessione comune che il progetto iniziale ha voluto, infatti, indicare come condizione preliminare. 4
Da questo punto di vista si riportano qui solo due citazioni emerse durante i dibattiti avvenuti intorno a cosa è giusto fare e come, nell’affrontare i compiti propri del progetto. Rispondono a domande decisive quali il come capire quello che è bene fare e quello che non è bene fare, quello che è utile quando si fa un lavoro e quale è la possibile disposizione mentale che ci aiuta a cambiare il nostro punto di vista, che ci facilita e sostiene nel cambiare la nostra prospettiva. Le due citazioni sono, straordinariamente, entrambe del 1922. La prima citazione appartiene a Sigmund Freud, il quale si fa una domanda: “Quale regola - lui la chiama “grundregel” - ci guida in questa faccenda?” La parola tedesca Grundregel - la regola tecnica fondamentale - viene usata da Sigmund Freud per dare nome al procedimento delle libere associazioni per cui “si avvia il trattamento psico-analitico invitando il paziente ad assumere un atteggiamento di auto-osservazione attenta e spassionata, a leggere soltanto la superficie della propria coscienza e a impegnarsi, da un lato, a essere completamente sincero e, dall’altro, a non escludere dalla comunicazione nessuna idea improvvisa, neppure quando: 1) la dovesse avvertire come troppo sgradevole, 2) dovesse reputarla insensata, 3) troppo irrilevante, 4) non pertinente a ciò che si ricerca. Accade regolarmente che proprio le idee improvvise che provocano le obiezioni testé menzionate si rivelino di particolare valore per la scoperta del materiale dimenticato” (S. Freud - Due Voci di Enciclopedia: “Psicoanalisi” e “Teoria della Libido”, 1922 - in vol. IX delle opere, ed. italiana - Bollati Boringhieri) Nello stesso anno - 1922 - John Dewey conclude, con il capitolo “The Good of Activity - Il bene dell’attività” - il suo saggio sulla natura umana e il comportamento, che continuamente si interroga sul senso generale delle leggi, della morale e delle regole: “La prima conclusione è che gli obblighi morali (morals) hanno a che fare con ogni tipo di attività (quindi anche la nostra) entro la quale si pongano diverse possibilità alternative (noi ormai stiamo continuamente in una situazione di alternativa tra diverse possibilità, siamo continuamente sollecitati da opzioni diverse in ogni singolo momento della nostra azione). Comunque poste, avrà luogo una differenza tra meglio e peggio (ogni volta ci poniamo il problema: ma è giusto, è meglio fare cosi?). La riflessione intorno all’azione assume così il significato di incertezza e pone la conseguente esigenza di decidere su quale corso di azione da adottare sia quello migliore” (e qui si pone un problema decisivo dal punto di vista del nostro comportamento pratico e anche etico, che è di modello ai ragazzini che non sanno scegliere e che non arriveranno a scegliere. Quindi noi dobbiamo scegliere, dobbiamo continuare a scegliere e ne dobbiamo essere consapevoli dal punto di vista del metodo). Il migliore corso da adottare rappresenta il bene; l’ottimo non è il migliore di ogni bene ma più semplicemente il bene
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Cornice di riferimento
A questa libertà e responsabilità dirette si è voluto dare, sia un supporto in termini di regolare “sostegno” al cantiere operativo e riflessivo curato dai docenti, sia una cornice di riferimento concettuale, ben sostanziata da un orizzonte di indirizzo che fungesse da guida per la progettazione dei docenti impegnati in “ad Agio”. Gli ingredienti molteplici di tale cornice alla quale i docenti potevano riferirsi nel lavoro progettuale vero e proprio erano, nel testo progettuale iniziale, i seguenti: • è fondata sui diritti dei bambini che sono al centro dell’attenzione progettuale in ogni fase del lavoro. • Mette al centro il fare, la concretezza dell’azione e dunque l’elaborazione di azioni pratiche atte a contrastare i bisogni sopra individuati e legati alla nozione di disagio e promuove, pertanto, una serie di quelle che possiamo quasi letteralmente chiamare cure: scoperto. I gradi comparativo e superlativo del bene sono solo sentieri da percorrere per trovare il grado positivo di azione. Il male peggiore o pessimo (evil) è un bene respinto. Prima della deliberazione e della scelta nessun male si presenta come male (Non diciamo questo non si fa e basta, ma vediamo qual è la cosa migliore da fare). Fino a quando non viene scartato/respinto come opzione è una buona opzione (però poi se non funziona, non funziona). Dopo essere stato respinto non risulta un bene minore ma il male di una determinata situazione. Dunque solo l’azione consapevole/intenzionale (deliberate) - una condotta entro la quale ha luogo una scelta in cui è incorporata una capacità di riflessione (Questo è il punto, noi ogni volta scegliamo, per ogni cosa. Ma dobbiamo dare uno spazio di pensiero rilevante per poterci riflettere su, poiché il quadro generale è mutato) - ha una qualità etica, in quanto solo allora vi entra a far parte la questione del meglio e del peggio... (traduzione resa dallo scrivente a partire dall’originale in lingua inglese - J. Dewey - Human Nature and Conduct, The Modern Library, New York, copyright 1922 by Henry Holt and company, 1930 edition). Riportare le due citazioni è utile per capire meglio la “scommessa progettuale” che vi è stata nel processo di ideazione di “ad Agio”. Freud infatti dà un’indicazione potente su come consentire un cambiamento di mentalità pur facendo scuola come la si è sempre fatta, non stravolgendo tutto e aggiungendo però qualcosa di decisivo. E entrambe le citazioni aiutano a mettere da parte una buona volta, nel fare scuola e, ancor più nell’affrontare il disagio, la questione, la ricorrente ossessione su come dovrebbe essere questo o quello, sul mondo perfetto, di come dovrebbe essere l’educazione nel mondo, di quanto sarebbe bella la scuola se…, ecc… tutte cose che impediscono di lavorare nel concreto della situazione o, quanto meno, condizionano prepotentemente rispetto ad un campo che è molto più largo e più confuso e che va indagato con strumenti non condizionati da idee stabilite a monte.
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cura di ogni dimensione e dettaglio della relazione educativa; b. cura dell’ascolto e dell’osservazione; c. cura minuziosa delle proposte e di ogni passaggio e soluzione pratica atta a legare processi a prodotti, prima parziali eppure riconoscibili e poi finiti; d. cura dei ruoli distinti e delle competenze differenziate; e. cura di setting spaziali e temporali/orari e dei problemi organizzativi in modo da agire per e nel benessere e anche adagio; f. cura di dispositivi atti a dare agio e voce alla creatività dei bambini e dei docenti ma anche a mantenere paletti e regole minime e funzionali alla propositività dell’azione; g. cura di sequenze/ordine nelle azioni pensate e predisposte ma anche disposte perché sia possibile raccogliere sorprese e esiti inaspettati; h. cura di ogni altra modalità che favorisca le funzionalità in termini di efficacia/efficienza, di comunicabilità e sopportabilità emozionale e relazionale. Stabilisce l’azione progettata in un canovaccio scritto, uno strumento puntuale ma snello, capace sì di stabilire obiettivi attesi ma anche di lasciare la porta aperta a quel che avviene comunque. Dà costante importanza alla narrazione di quel che davvero avviene, un racconto svolto a più voci, fondato su due principi: partire dall’accaduto più che dall’auspicato, rendere esplicito quel che è implicito e visibile alla comune riflessione quello che è nascosto. Arriva a una forma scritta della narrazione stessa. Accetta sia i vincoli minimi necessari che il carattere evolutivo di questo modo di progettare e l’incertezza come cornice inevitabile, naturale del procedere innovativo. Al contempo costruisce una cornice procedurale con una grande costanza comunicativa e una stabilità di persone con competenze definite in modo da accogliere i diversi vertici professionali, le diverse caratteristiche di ciascun docente in azione e da poter, così, meglio contenere le inevitabili spinte centrifughe, le polarizzazioni nell’approccio e nello sviluppo delle riflessioni, gli eccessi competitivi e da consentire la pera.
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manenza della riflessione comune e, al contempo, la promozione delle decisioni in tempi utili. Accoglie la reciproca e profonda relazione che si vive tra disagio dei/nei bambini e adolescenti e difficoltà degli/negli adulti educatori entro i ruoli e le competenze diversi i quali possono entrare in sinergia operativa solo grazie al reciproco e interno rinnovato approccio ai problemi della crescita e dell’apprendimento. Riconosce sia le diversità che il terreno comune e creolo tra contesti e tra identità diversi (v. scuola/famiglia/extrascuola, curricolare e non, docenti/esperti/amministrativi/genitori/ educatori/supervisori/progettisti, ecc.). Accoglie il compito di stabilire e di progettare l’azione all’incrocio tra quel che si considera curricolare e cosiddetto extracurricolare, curando i nessi tra gioco e esercizio, piacere e frustrazione e fatica, tra sapere essere e saper fare nonché le possibilità nuove e le originali modalità di riconoscimento e registrazione del lavoro che ciò comporta. Si fonda sulla pubblicità di tutte le azioni, le risorse economiche disponibili e delle decisioni, regolarmente verbalizzate. Adotta la metodologia dell’empowerment che, codificata nella letteratura internazionale, propone, per tutti gli attori adulti già in campo, non un’impossibile e magica trasformazione istantanea dei propri assetti, delle convinzioni, dei metodi e delle azioni, bensì una progressiva attivazione di competenze che prevede alcuni successivi e ineludibili passaggi che sono: attivazione del desiderio delle persone di professionalità diverse di individuare nuove possibilità nel lavoro educativo; esplorazione e acquisizione di risorse professionali, economiche, metodologiche; elezione di un setting e di procedure comunemente accolte che attivino la progettualità condivisa; sperimentazione diretta di nuove vie e modificati approcci a scuola e fuori e promozione di una pratica della narrazione di quel che avviene tale da favorire una identità delle comunità di pratiche che sia fondata su quel che si fa e su quel che agisce nel campo osservato piuttosto che sui proponimenti dichiarati;
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valutazione realistica dei vantaggi delle innovazioni dopo la registrazione condivisa degli esiti attesi e inattesi; ulteriore sperimentazione e nuova progettazione step by step.
La progettazione iniziale, che possiamo considerare un protocollo di avvio di “ad Agio” - un invito a pensare progettazioni - si soffermava poi su una serie di raccomandazioni legate alla cura dei contesti e di obiettivi esplicitati ma sempre tali da lasciare ogni spazio di responsabilità e libertà ai gruppi docenti; tanto è vero che la verifica, in questi anni, ci ha regalato molto, soprattutto in termini di ridefinizione progettuale. La storia, che a partire da queste indicazioni sulla progettualità ma ben al di là di tali confini - si è sviluppata, è raccolta nei ricchi materiali di questo libro.
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La storia Maria Luisa Pollam
IL CONTESTO
Il 30 novembre 2002, oltre 130 persone - docenti, operatori, dirigenti - riunite nell’Aula Magna del Palazzo dell’Istruzione, partecipano al seminario “Capire il disagio”.1 Un incontro organizzato dall’IPRASE, in collaborazione con l’Istituto comprensivo Trento 3 e con Didascalie,2 per presentare il lavoro di ricerca svolto negli anni 1998-2002 dalla scuola elementare “De Gaspari”3 facente parte di quell’Istituto comprensivo, ma, soprattutto, per sollecitare un confronto ed attivare una riflessione con altri docenti, in particolare con docenti che operano nelle scuole in cui, per diverse ragioni, i problemi legati al disagio si presentano con maggiore frequenza e con maggiore intensità. Il seminario, con al mattino una serie di relazioni e al pomeriggio gruppi di discussione, costituisce anche l’occasione per avviare, d’intesa con le scuole, un dialogo che l’IPRASE ha poi sostenuto attraverso l’attivazione di un gruppo di ricerca finalizzato a sperimentare strategie efficaci per prevenire e ridurre il disagio.
VERSO LA COSTRUZIONE DI UN PROGETTO
Gli esiti della ricerca della scuola “De Gaspari” e di altre iniziative sul territorio (cfr. nota a p. 21), ma anche la convinta partecipazione dei docenti e le problematiche messe sul tappeto all’interno dei gruppi di discussione, convincono Ernesto Passante, direttore dell’IPRASE, e Marco Rossi Doria, consulente scientifico del progetto, che il disagio in Trentino, anche se con toni e sfumature diverse rispetto ad altre realtà, soprattutto metropolitane, c’è e va affrontato.
1
“Capire il disagio”, seminario svoltosi presso l’IPRASE del Trentino il 30 novembre 2002. Didascalie, Rivista della scuola in Trentino, è un periodico mensile promosso dalla Provincia Autonoma di Trento. 3 Cfr. testo già citato nella nota a p 22. 2
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
Qualche idea sul “come” comincia a prendere forma. Viene costituito un tavolo al quale inizialmente sono presenti anche rappresentanti del Comune e della Provincia di Trento. Insieme si ragiona sul che cosa e sul “come” fare, sulle condizioni, sulle modalità e sui tempi di coinvolgimento delle scuole, secondo un calendario che prevede:
L’èquipe multiprofessionale
6 giugno 2003
Un incontro del gruppo allargato di progetto per l’individuazione delle linee generali di progettazione e una prima proposta di progettazione.
Entro giugno/luglio
Una comunicazione alle scuole snella con le motivazioni, alcuni elementi progettuali (che cosa si fa, con chi), le condizioni e le ipotesi di modalità di adesione.
Entro agosto
Contatti con dirigenti delle scuole interessate e consolidamento della équipe tutoriale.
5 e 6 settembre 2003
Un incontro dell’équipe tutoriale e un seminario semi-residenziale di informazione e di condivisione definitiva del progetto.
Entro il 15 settembre
Il progetto definitivo centrale condiviso e la formalizzazione delle adesioni.
Il gruppo di lavoro, al quale viene affidato il compito, sotto la sapiente regia e guida di Marco Rossi Doria, di elaborare il progetto su cui andare a coinvolgere le scuole, si struttura qualche mese dopo come équipe multiprofessionale, (Tabella 1) con ruoli e compiti ben definiti. Tabella 1: Composizione dell’équipe tutoriale Ernesto Passante, direttore dell’IPRASE, è responsabile del progetto. Marco Rossi Doria, coordinatore pedagogico del progetto Chance - maestri di strada di Napoli, è consulente scientifico e ispiratore del progetto. Claudio Stedile, che ha dato il suo apporto nella fase progettuale, è di supporto al gruppo per il suo incarico speciale presso il Dipartimento Istruzione della P.A.T. di Trento, a coordinare gli interventi in materia di diritto allo studio, disagio giovanile nelle scuole, inserimento ed accoglienza di soggetti svantaggiati. Carlo Buzzi, docente ordinario dell’Università di Sociologia a Trento e collaboratore dell’Istituto IARD di Milano, oltre a fornire contributi rispetto alla visione della condizione giovanile che sta dietro al progetto e al disagio esplicitato dalla scuola, anche sulla scorta dell’esperienza fatta con la scuola “De Gaspari”, monitorerà le esperienze.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Giuseppe Nicolodi, psicologo e psicomotricista, dipendente dell’A.S.L. di Trento, noto in Trentino per i suoi interventi nel campo del disagio e per la pubblicazione di testi (Maestra aiutami, Maestra guardami, e altri) è tutor supervisore per il gruppo dei docenti di scuola dell’infanzia. Cristina Bertazzoni, pedagogista, libera professionsta, con un’esperienza diretta soprattutto a supportare scuole - di tutti i gradi - con problematiche di tipo didattico, è tutor supervisore di uno dei gruppi di docenti di scuola primaria. Massimiliano Tarozzi, pedagogista, ricercatore presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento della Cognizione e della Formazione di Rovereto, è tutor supervisore di uno dei gruppi di docenti di scuola primaria. Renata Attolini, fornisce il raccordo con l’esperienza della scuola “De Gaspari”, in cui ancora insegna. Elisabetta Erspamer, dell’associazione Ubalda Girella di Rovereto, rappresenta le associazioni del territorio e cura la specificità della comunicazione scuolafamiglia intorno all’approccio del progetto. Elena Brighenti, che si occupa da anni nella scuola di promozione dell’agio scolastico e di metodologie per la prevenzione della dispersione scolastica, fa da osservatore sul sistema scuola. Maria Luisa Pollam, insegnante in utilizzo presso l’IPRASE, è coordinatrice del progetto e punto di riferimento organizzativo per le scuole. Mauro Fontanari, docente in utilizzo presso l’IPRASE nel settore informatico, è di supporto al progetto in particolare per quanto riguarda la comunicazione e l’informazione verso l’esterno. A lui spetterà inoltre l’inserimento dei dati di tutte le rilevazioni effettuate. Virginio Amistadi, ricercatore presso l’IPRASE, coinvolto in una fase successiva (fine giugno del 1° anno), cura l’analisi dei dati. N.B. Quelli sottolineati sono i nomi di persone che non hanno collaborato al progetto per tutta la sua durata; quelli in grassetto invece di persone che sono state coinvolte in una seconda fase.
L’équipe tutoriale - definita “sponda alleata e competente” nel documento che verrà elaborato - oltre a completare la progettazione e avviare l’attività di sperimentazione, accompagnerà nei tre anni del progetto il lavoro dei docenti, favorirà la comunicazione con le scuole, faciliterà il monitoraggio dei progetti, facendosi carico dei problemi emersi e curando l’informazione e la documentazione dell’esperienza.
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AUTUNNO 2003: IL PROGETTO È PRONTO
Nell’autunno 2003 il progetto è pronto. Si tratta di un documento (cfr. All. in Appendice aggiornato al marzo 2004) molto articolato che, a partire dai problemi emersi e dai bisogni individuati, declinate le finalità e gli obiettivi, definisce nel dettaglio tutte le scelte e le motivazioni di tali scelte rispetto ai destinatari, ai tempi, ai vincoli e ai modi dell’azione, nonché le condizioni perché tali azioni si esplichino. Il tutto all’interno di una cornice metodologica ben caratterizzata e di alcune linee guida principali capaci di orientare l’azione senza rinunciare a una delle scelte di campo fondamentali del progetto, che è quella di affidare ai gruppi docenti grande libertà e responsabilità rispetto alle azioni da mettere in campo. La bussola c’è ma la navigazione è anche a vista
“La bussola c’è ma la navigazione è anche a vista”, si dice in un passaggio del documento, e questo per sottolineare che operare nel concreto vuol dire, definite alcune linee guida e individuati alcuni paletti, che non tutto può essere conoscibile e descrivibile a priori e che l’incerto, l’imprevisto va accolto. E non poteva che essere così in un progetto fortemente connotato nell’aspetto metodologico e di carattere sperimentale. Nella filosofia del progetto, infatti, c’è la scelta di dare piena autonomia ai docenti, secondo un approccio aperto a scelte e soluzioni che ciascun gruppo avrebbe individuato in base ai problemi e alle priorità individuate, avendo in testa non delle scuole immaginarie, ma delle scuole vere, con tutti i limiti e le condizioni e i compromessi, dei contesti precisi, disponibili ed essendo disponibili a lavorare con quei contesti. Ed è con quegli alunni, quegli insegnanti, che i docenti avrebbero fatto i conti e solo in un secondo momento ci si sarebbe posti il problema di una trasferibilità all’interno dei singoli istituti, sia in orizzontale, che in verticale, e il problema di uno scambio di buone pratiche sul territorio, con altre scuole. Trattandosi di un progetto sperimentale, che non vuole insegnare a fare delle cose, non dice “che cosa fare”, ma che è aperto a recepire e valorizzare le competenze dei docenti e a recuperare il “già in atto”, neanche i contenuti sono ben definiti, in quanto si intende lasciare agli insegnanti la libertà di orientare l’azione verso attività nuove, oppure di riqualificare attività preesistenti, garantendo però un accompagna-
“ad Agio” IPRASE del Trentino
mento, la presenza di un tutor supervisore che li avrebbe assistiti sia nel lavoro di progettazione sia in quello di riflessione, con un ruolo strategico determinante. Il progetto ha come obiettivo di produrre agio, migliorando quindi la capacità della scuola di fronteggiare le situazioni di disagio, non solo all’interno della scuola, ma anche nel gruppo degli insegnanti. Per questo motivo al tutor non si chiede solo di affiancare i docenti nel loro percorso di ricerca e individuazione di strategie e azioni efficaci, offrendo anche da fuori un occhio di osservatore esperto, ma di far crescere il gruppo, di aiutarlo in quel processo di riflessione sull’azione, che è un’altra delle caratteristiche forti del progetto. Raramente l’insegnante, spesso troppo preso dall’emergenza, ha degli spazi in cui riflettere, fare, disfare, pensare, riprogettare, sbagliare anche. Ed è questa un’opportunità che il progetto “ad Agio” invece ha offerto e che tutti i docenti hanno poi riconosciuto. Essi hanno sottolineato il peso che ha avuto la presenza di una figura competente e capace non solo di orientare e guidare l’azione ma, soprattutto, di sostenere quel processo di verifica e messa in discussione della propria professionalità che la pratica riflessiva ha attivato, permettendo - come è stato sottolineato ad esempio dal gruppo delle scuole dell’infanzia “non solo di far fare loro un’esperienza diversa, ma anche di dare il linguaggio, le parole, per descriverla, di far passare cioè l’esperienza vissuta su un piano diverso, di elaborarla così che da vissuto è diventata pensiero sul vissuto”.
La riflessione al centro dell’azione
Rendere esplicito il lavoro di riflessione, dare parola all’esperienza vissuta, riflettere, ma in relazione con altri, è ciò che il tutor ha inteso fare nei tre gruppi ed è anche ciò che ha favorito la costruzione e la crescita dell’identità di ciascuno, come gruppo e come persona. È sulla persona, sul docente, visto non come colui che “applica qualcosa che gli viene detto”, ma come un ricercatore, un professionista disposto e esplorare strade nuove, a trovare soluzioni, valutando realisticamente vantaggi e svantaggi delle scelte che fa, che si intende investire. Coerentemente con questo spirito, si pensa anche ad un titolo, “ad Agio”, un termine che può essere interpretato in un modo se scritto con uno spazio tra le due parole, in un altro modo se scritto tutto at-
Il docente ricercatore
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
taccato - ed è interessante anche da un punto di vista evocativo il fatto che possa essere interpretato come uno preferisce - e che riassume in sé la filosofia stessa del progetto, che è di fornire un supporto al disagio nella scuola e alla professionalità docente attraverso un’azione di empowerment. “ad agio” e “con agio” diventa la parola d’ordine per tutti: per i docenti sperimentatori, per i tutor, per l’équipe tutoriale.
OTTOBRE 2003: SI PARTE, MA CON UN PIEDE SOLO! I primi a partire
Nella sua formulazione iniziale - alle misure A, B, C (cfr. documento in Appendice) - il progetto aveva come destinatari bambini e docenti di due scuole dell’infanzia, una di città e una di collina; bambini e docenti di classi quarte di 4, massimo 6 Istituti comprensivi. Le scuole dell’infanzia avrebbero dovuto lavorare per un paio d’anni e poi le scuole elementari competenti per territorio avrebbero dovuto proseguire l’esperienza attraverso gli stessi bambini nelle scuole primarie di riferimento. Lo stesso nell’intendimento originario era per le scuole primarie, e cioè che aderissero delle classi quarte per poi arrivare al trasferimento dell’esperienza da una scuola primaria ad una scuola media, contribuendo così a creare una cultura che si trasmette sia in orizzontale, dentro i contesti, sia in verticale. Ma quello predisposto era un progetto pensato in astratto. Al primo appuntamento, il seminario del 17 e 18 ottobre 2003, si presentano solo i docenti della scuola dell’infanzia, un po’ spaesati, un po’ preoccupati per il fatto di dover iniziare “da soli” a sperimentare delle cose, avendo sì dei paletti, ma non un chiaro e dettagliato programma di viaggio. “Il percorso, che inizialmente prevedeva anche la partecipazione di alcuni insegnanti delle scuole elementari e medie subentrati per problemi organizzativi a marzo, ha visto le scuole dell’Infanzia di Meano e Clarina impegnate a fare da “apripista” in questa nuova esperienza” racconterà nel seminario di giugno un’insegnante della scuola dell’infanzia di Meano. Tante e diverse le motivazioni, alcune esplicite, altre implicite, per cui non si era riusciti a coinvolgere fin da subito la scuola primaria: una sovraesposizione delle scuole a una progettualità già molto vasta,
“ad Agio” IPRASE del Trentino
il momento particolare di confusione che gli insegnanti stavano vivendo rispetto a riforme dette e contraddette, i tempi, la collocazione degli incontri, la consistenza degli impegni che il progetto prospettava, la mancanza di incentivi e altre ancora. L’équipe tutoriale legge con attenzione la situazione. Di fronte allo scarto tra l’interesse manifestato dai docenti rispetto a tale tematica nel seminario “Capire il disagio” e l’adesione effettiva, si chiede se, accanto a una certa discrasia tra il punto di vista dei dirigenti e quello degli insegnanti, non vi sia forse anche un errore di valutazione per aver privilegiato un approccio mirato con i dirigenti di alcune scuole a scapito dell’intero target potenziale. Preoccupata però di recuperare la disponibilità delle scuole, l’équipe decide comunque di garantire l’avvio ai presenti, vale a dire gli insegnanti delle due scuole dell’infanzia coinvolte, e di prendersi altro tempo per il coinvolgimento delle scuole primarie. Vengono individuati nel frattempo dei correttivi e degli aggiustamenti da apportare a una così delicata e sofferta fase di avvio del progetto e si riflette inoltre sull’opportunità di utilizzare una maggiore flessibilità nell’accettazione delle richieste di adesione. E vengono fissati però dei punti fermi irrinunciabili: • l’adesione da parte delle scuole al progetto per un triennio; • la partecipazione di tutti gli insegnanti di un team; • l’impegno ad essere presenti agli incontri seminariali previsti in calendario (4 per ogni anno di sperimentazione); • l’opportunità di considerare gli incontri dei singoli gruppi con il proprio tutor non aggiuntivi rispetto al tempo già fissato per la programmazione delle attività didattiche.
Criteri per l’adesione delle scuole
MARZO 2004: TUTTI IN PISTA
Il seminario successivo già calendarizzato, quello del 12 gennaio 2004, viene dedicato ad una presentazione pubblica dell’iniziativa. L’invito è esteso a dirigenti e a docenti motivati a “mettersi in gioco” per sperimentare azioni condivise insieme con altre scuole. Uno degli obiettivi forti della giornata, oltre ovviamente quello di illustrare il progetto e di fornire elementi informativi utili per una contestualizzazione
I soggetti coinvolti nell’azione
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dell’esperienza, è anche quello di raccogliere e focalizzare le motivazioni e i bisogni degli insegnanti, e recepire ciò che nelle scuole già si sta facendo per dare risposte alle problematiche del disagio e condividere le condizioni nelle quali attivare i gruppi di sperimentazione della scuola primaria. Il progetto viene così ad assumere un’altra caratteristica, quella della non simmetria, delle diverse velocità, dei diversi tempi e modalità di avvio dei gruppi. Il gruppo N. 1, supervisionato da Giuseppe Nicolodi, costituito dai docenti di due sezioni della scuola provinciale di Meano e dai docenti di tutte le sezioni della scuola equiparata di Clarina, aderisce al progetto fin dall’inizio e avvia quindi il lavoro nell’ottobre 2003. Il fatto che, per quanto riguarda la scuola dell’infanzia di Clarina, tutto il plesso abbia aderito, mentre per quel che riguarda Meano vi sia stata soltanto una sezione, offre fin da subito la possibilità di sperimentare un’azione di trasferibilità interna. […] “… mentre la scuola di Clarina partecipa compatta, per Meano partecipano due sezioni su tre. Quindi noi di Meano ci siamo trovati anche nella condizione di dover individuare e adottare le strategie migliori per poter condividere con le colleghe non partecipanti ciò che man mano usciva da questa esperienza” - riferiscono nel seminario di giugno gli insegnanti della scuola dell’infanzia di Meano. Con il seminario del 12 e 13 marzo partono anche i due gruppi di insegnanti della scuola primaria: • il gruppo N. 2, supervisionato da Cristina Bertazzoni, composto da tutto il team di docenti delle classi terze della scuola elementare “Pigarelli”, facente parte della Direzione didattica di Trento II e dai docenti delle classi II della scuola elementare di Clarina, facente parte dell’Istituto comprensivo di Trento 4, tutte a tempo pieno; • il gruppo N. 3, supervisionato da Massimiliano Tarozzi, costituito dal team di docenti della classe II C di Lavis a tempo pieno, dell’Istituto comprensivo di Lavis, e dalle insegnanti di una classe IV di Predazzo a modulo, dell’Istituto comprensivo di Predazzo. In tabella si riporta la composizione dei gruppi:
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Tabella 2: Composizione dei gruppi di ricerca Gruppo N. 1: tutor supervisore Giuseppe Nicolodi Insegnanti della scuola dell’infanzia provinciale di Meano: Silvia Bagolini, Giovanna Gadotti, Giovanna Novello, Anita Permer, Cristiana Rensi, Anita Serafini, Rita Sighele, Dora Tomasi, Laura Tomazzoni, Adriano Vianini; Patrizia Pace (Sc. Infanzia Rovere della Luna). Insegnanti della scuola dell’infanzia equiparata di Clarina: Elisabetta Chiappara, Stefania Gennaro, Annamaria Giovannini, Sandra Lunelli, Maria Teresa Pace, Mariarosa Pradi, Emanuela Santuliana, Rita Spagnoli, Agnese Turri. Agli incontri partecipano fino a giugno anche le due coordinatrici pedagogiche Flavia Ioris e Sandra Ciappi. Gruppo N. 2: tutor supervisore Cristina Bertazzoni Insegnanti della scuola elementare “Pigarelli” di Gardolo, Direzione didattica di Trento II (Istituto comprensivo Trento 7 dall’autunno 2004): Mariateresa Bernardi, Leo Brugnara, Marilena Comai, Daniela Iachemet, Roberta Ianes, Mannarini Carla, Adele Pollam, Mariuccia Zocca. Insegnanti della scuola elementare di Clarina, Istituto comprensivo di Trento 4: Antonia Acquaviva, Edoardo Benuzzi, Sonia Dalpiaz, Angela Orsini, Antonella Regina, Lorenza Sighel. Gruppo N. 3: tutor supervisore Massimiliano Tarozzi Insegnanti della scuola elementare di Lavis: Katuscia Foglietti, Tiziana Licciardi, Chiara Paolazzi, Sara Lorenzoni, Tonazzolli Sara. Insegnanti della scuola elementare di Predazzo: Sandra Bosin, Monica Bozzetta, Maria Rosa Largher. N.B. Sottolineati sono i nomi degli insegnanti che sono usciti dal progetto, in grassetto quelli coinvolti durante il secondo o il terzo anno, in corsivo quelli che hanno partecipato per tutto il triennio.
Durante il primo anno - analogamente a quanto accadrà negli anni successivi - vengono effettuati quattro seminari di riflessione e confronto tra i gruppi, intervallati da periodi di sperimentazione in cui i singoli gruppi si incontrano, più o meno a cadenza mensile, con i rispettivi tutor per la progettazione e messa a punto di azioni da svolgere con i bambini, e di verifica e riflessione sull’attività svolta (cfr. tabella sottostante).
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
Tabella 3: Calendario delle attività da svolgere entro il primo anno di attuazione di “ad Agio”, a.s. 2003 - 2004 17 e 18 ottobre
Primo seminario per i docenti sperimentatori delle scuole dell’infanzia coinvolte.
dal 19 ottobre 2003 al 9 gennaio 2004
Incontri del gruppo con il proprio tutor supervisore per l’elaborazione di una proposta progettuale. Gruppo N. 1 - Giuseppe Nicolodi: 14 novembre e 9 dicembre 2003.
12 gennaio 2004
Secondo seminario di riflessione per i docenti delle scuole dell’infanzia. Giornata di presentazione cittadina.
dal 13 gennaio 2004 al 12 marzo 2004
Semestre di sperimentazione, con incontri regolari di riflessione/formazione dei gruppi docenti delle scuole dell’infanzia con il proprio tutor e di messa a punto del percorso. Gruppo N. 1 - Giuseppe Nicolodi: 28 gennaio, 23 febbraio. Individuazione delle scuole primarie di cui si formalizza l’adesione.
12 e 13 marzo 2004 Terzo seminario per i docenti sperimentatori delle scuole dell’infanzia coinvolte e avvio dei gruppi di scuola primaria. dal 13 marzo 2004 alla fine dell’anno scolastico
Trimestre di sperimentazione, con incontri regolari di elaborazione della proposta progettuale da parte dei gruppi docenti delle scuole primarie coinvolte con il proprio tutor. Gruppo N. 1 - Giuseppe Nicolodi: 28 aprile e 24 maggio 2004. Gruppo N. 2 - Cristina Bertazzoni: 2 e 15 aprile, 20 maggio, 11 giugno 2004. Gruppo N. 3 - Massimiliano Tarozzi: 31 marzo, 28 aprile, 11 maggio e 15 giugno 2004.
28 e 29 giugno 2004 Quarto seminario per i docenti sperimentatori delle scuole dell’infanzia con carattere di verifica-valutazione del semestre di sperimentazione. Secondo seminario di riflessione e confronto sulla prima fase di progettazione per i docenti delle scuole primarie. Primo seminario di riflessione, confronto e restituzione da parte del gruppo dei facilitatori. (Supervisione équipe tutoriale, sera del 28).
“ad Agio” IPRASE del Trentino
I seminari si caratterizzano subito come momenti in cui incontrarsi come gruppo allargato non solo per fare il punto della situazione rispetto alle diverse fasi di avanzamento del progetto, ma anche per scambiarsi l’esperienza, sia in orizzontale, sia in verticale, e, soprattutto, trovare insieme soluzioni alle eventuali difficoltà emerse. All’interno dei seminari, che prevedono sempre anche il lavoro dei singoli gruppi, viene data grande importanza agli incontri in plenaria, ritenuti necessari sia perché il progetto diventi una risorsa per tutti, sia perché ciascun gruppo possa avere un confronto, un momento di verifica con quello che sta accadendo negli altri gruppi, che possono apprendere l’uno dall’altro, e che quindi vanno visti in un’ottica di guadagno reciproco. Forse non è stata sfruttata a pieno la potenzialità di questi momenti e ci si è accorti forse tardi del possibile valore aggiunto che lavorare ad esempio per gruppi misti all’interno dei seminari poteva avere. Rimane però il senso e la validità della proposta. Anche l’équipe tutoriale, guidata dal Direttore dell’IPRASE, si incontrerà regolarmente all’interno dei seminari per fare il punto della situazione, riflettere su eventuali problemi emersi e su possibili cambiamenti, per informare puntualmente su tutto il progetto in corso d’opera, caratterizzandosi quindi come gruppo stabile nel tempo, con grande attenzione - grazie anche alla presenza di diverse professionalità - oltre che alla registrazione e al monitoraggio costante dei percorsi, alla manutenzione e alla tenuta dei gruppi. Per facilitare invece il raccordo tra i gruppi di docenti sperimentatori e il resto della scuola, già nel seminario di marzo c’è un aggiustamento importante: nasce il quarto gruppo.
I seminari
Uno degli obiettivi del progetto era anche che ci fosse un trasferimento degli strumenti e delle competenze che si andavano costruendo all’interno degli istituti scolastici; questo per ovviare ad uno dei limiti dell’esperienza fatta dalla scuola “De Gaspari” che era quello di aver costruito una forte identità dentro il plesso e di non essere però riusciti a trasferirla neppure nell’istituto comprensivo di appartenenza. Elemento questo che fa riflettere. E del resto, se nel primo anno l’idea era anche di viaggiare un po’ a vista, già dal secondo anno l’obiettivo è che non ci siano da una parte gli sperimentatori e dall’altra parte gli altri che non sanno neppure che cosa succede.
Nasce il gruppo dei facilitatori
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
Il progetto, nella formulazione iniziale, alla misura H, individuava una figura interna ad ogni gruppo di lavoro, che fosse, da un lato punto di riferimento per il gruppo di ricerca, e che curasse nello stesso tempo i rapporti con il resto della scuola. Ben presto ci si accorge che la cosa non è così facile, per diverse ragioni. Stare dentro un progetto innovativo mette in gioco pensiero, emozioni e non è facile attribuire a una persona già così coinvolta anche una funzione di raccordo tecnico con il resto della scuola. I docenti sperimentatori operano dentro un contesto in cui ci sono altre classi con il medesimo problema, magari solo percepito in modo più lieve. Uno dei problemi è dunque quello di capire come l’esperienza che si va costruendo possa diventare patrimonio di tutta la scuola. “Nella storia dei progetti d’innovazione” - sottolinea Marco Rossi Doria nella presentazione del gruppo N. 4 avvenuta in quell’occasione - “uno dei punti di maggiore difficoltà, se non di crisi, è il fatto che poi l’esperienza possa andare oltre i confini dell’esperienza stessa, possa dialogare, essere condivisa, scoprire un campo d’interazione tra chi la sperimentazione l’ha pensata, ideata e fatta, e si è abituato a riflettere in modo nuovo, ma in continuità con la propria esperienza, e chi, invece ancora è più legato alla propria esperienza e tale innovazione non l’ha provata; si tratta di un aspetto di grande interesse, anche dal punto di vista della sperimentazione e della ricerca pedagogica”. Contestualmente si presentano al seminario di marzo delle persone che già avevano istituzionalmente all’interno delle scuole, per un certo monte ore, un ruolo di coordinamento. Nasce l’idea che a queste persone, così come alle coordinatrici delle scuole dell’infanzia, sia opportuno dare un luogo di riflessione che il progetto non prevedeva nella sua stesura, ma che, essendo appunto un progetto di sperimentazione aperto al nuovo, all’imprevisto, dovesse essere preso in esame. Nel seminario di giugno 2004, accanto al gruppo della scuola dell’infanzia che è già più avanti nell’azione, e ai due gruppi della scuola primaria che cominciano a muovere i primi passi nella progettazione di un’azione innovativa, si formalizza la costituzione di un quarto gruppo di persone con il compito di riflettere sulle complesse interazioni tra il gruppo degli sperimentatori e il resto della scuola. Così nel documento di progetto, accanto alla misura H, che contempla il bisogno di un coordinamento interno, viene dunque inserita una misura I che prevede che si attribuisca al neonato gruppo di rac-
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cordo quella funzione di ponte e di ascolto rispetto alle interazioni tra l’interno del gruppo di sperimentazione e l’esterno. Nella tabella 4 si riporta la composizione del gruppo, costituito da figure intermedie (la psicopedagogista piuttosto che la referente per l’handicap o la Coordinatrice pedagogica), che si incontra per la prima volta nei momenti seminariali del 12 e 13 marzo, ma che comincia ad essere attivo a partire dal seminario di giugno. Tabella 4: Composizione del gruppo N. 4 Gruppo N. 4: Marco Rossi Doria, tutor supervisore. Flavia Ioris, coordinatrice pedagogica della Scuola dell’infanzia provinciale di Meano. Sandra Ciappi, coordinatrice pedagogica della Scuola dell’infanzia equiparata di Clarina. Adele Pollam, psicopedagogista della Direzione didattica di Trento II (solo fino a giugno); subentrerà poi Silvia Tabarelli. Milena Bernard, psicopedagogista dell’Istituto comprensivo di Lavis. Elisabetta Erspamer,* dell’Associazione Girella. Attolini Renata,* della scuola elementare “De Gaspari”. Clara De Boni, psicopedagogista dell’Istituto comprensivo di Cembra. Elena Brighenti,* dell’IPRASE. Maria Luisa Pollam,* dell’IPRASE. * fanno parte anche dell’équipe tutoriale
Poiché l’idea è che anche tale gruppo, al pari degli altri, debba avere una figura tutoriale di riferimento, Marco Rossi Doria assume il compito di supervisore e individua per questo gruppo che potrà incontrarsi fisicamente soltanto all’interno dei seminari, un’altra modalità comunicativa - la posta elettronica - per confrontarsi su alcuni temi dati. Uno di questi è l’osservazione sulla comunicazione che avviene, implicitamente, ma anche esplicitamente, tra i docenti sperimentatori e il resto della scuola. Viene elaborata per questo scopo da Marco Rossi Doria una scheda di rilevamento sul tipo di percezione reciproca e su quella scheda si decide di lavorare in progress, con delle scadenze, codificate, calendarizzate (cfr. scheda p. 61).
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
GIUGNO 2004: UN PRIMO BILANCIO DELL’ESPERIENZA Chi si misura con una prima valutazione dell’esperienza
… chi si avvia alla progettazione delle attività da fare con i bambini
Le iniziative avviate procedono, a livello di discussione e riflessione sia su un piano pedagogico e sia metodologico. Alla fine di un anno, la scuola dell’infanzia, che è partita prima, può già restituire alcuni dati sull’utilizzo della griglia di rilevazione del disagio elaborata nel gruppo e somministrata già due volte, in gennaio e in giugno; può inoltre, dopo l’attivazione di una prima serie di sedute di psicomotricità nelle diverse sezioni, abbozzare una prima valutazione dell’efficacia della stessa come ambito privilegiato di osservazione e comprensione del bambino. Il gruppo N. 2, costituito da insegnanti della scuola Clarina e della scuola “Pigarelli”, dopo essersi confrontati sulle reciproche convinzioni, aspettative, paure, hanno pronto un progetto, ben articolato per quanto riguarda gli obiettivi, la metodologia, i contenuti, i tempi e le modalità di valutazione dell’attività, da rivolgere nell’anno successivo alle classi di loro competenza: una classe terza di Clarina e tre classi quarte della scuola “Pigarelli”. Si tratta di attività, giochi, proposti con modalità di lavoro nuove, e organizzate in modo tale da poter vedere il bambino all’interno di ambiti meno strutturati, più motivanti e più ricchi a livello affettivo ed emozionale e come tali più ricchi anche per l’osservazione dello stesso. Il gruppo N. 3, avviatosi con qualche difficoltà per quanto riguarda la sua composizione, è partito anch’esso da un confronto e da una condivisione rispetto a quello che è il disagio, soprattutto il disagio così com’è percepito dagli insegnanti. Esaminate le due diverse realtà (una classe seconda di Lavis, e una classe quarta di Predazzo), opta per due proposte da specificare e precisare nel dettaglio in settembre: • un intervento che lavori sulle emozioni a partire da stimoli narrativi e audiovisivi a Predazzo; • un lavoro sulle emozioni a partire da un testo - Ho un vulcano nella pancia - come materiale da analizzare durante l’estate e su cui elaborare un percorso. Pur partendo da indicazioni piuttosto aperte e ampie, tutti e tre i gruppi, in modo autonomo, scelgono di attivare esperienze di tipo corporeo ed emotivo, forse per il fatto che è a livello emotivo che si
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manifesta il disagio, e che è di fronte a questo tipo di disagio che gli insegnanti si sentono in genere meno attrezzati. C’è ancora molta paura, ansia, incertezza, perché è più difficile costruire qualcosa di nuovo che applicare formule già note. Ci sono poi le differenze, legate alle diverse velocità di avvio, oltre che ovviamente le differenze individuali, dei tutor e dei gruppi stessi. Eppure, anche se con tutte le difficoltà dell’inizio, l’impressione è che tutti si stia entrando in gioco e che si cominci ad assaporare il bello di mettersi in discussione, di provare, di sbagliare anche, avendo chi ti aiuta a leggere l’esperienza e ad aggiustare il tiro. Come già anticipato, trattandosi di una sperimentazione sul campo, si registrano al suo interno degli aggiustamenti rispetto alla proposta iniziale: è nato il quarto gruppo, quello detto dei facilitatori, ma si comincia anche a riflettere sull’opportunità di curare di più il raccordo istituzionale con i Dirigenti e i responsabili dei servizi, sia per evitare problemi di mancata comunicazione, sia, soprattutto, per assicurare ai docenti sperimentatori un contenimento istituzionale più forte e fare in modo che la non conoscenza o non comprensione di quello che stanno facendo non ricada negativamente sul loro operare.
SETTEMBRE 2004: SI RIPARTE
Il calendario delle attività da svolgere entro il secondo anno di progettazione ricalca più o meno l’articolazione di quello dell’anno precedente. Tabella 5: Calendario delle attività da svolgere entro il secondo anno 3 e 4 settembre 2004 Primo seminario per i docenti sperimentatori delle scuole dell’infanzia e delle scuole primarie coinvolte per l’avvio della sperimentazione del II anno del progetto. Per quanto riguarda il gruppo N. 4 prima individuazione di modalità e strumenti per una trasferibilità, all’interno dell’Istituto di appartenenza, dell’esperienza dei gruppi. Presentazione dell’articolazione 2004-2005 del progetto e relativo calendario.
Un progetto in movimento
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
Settembre Novembre Incontri regolari di riflessione/formazione e messa a 2004 punto delle attività di “ad Agio” da svolgere nelle sezioni delle scuole dell’infanzia e nelle classi delle scuole primarie coinvolte. Gruppo N. 1 - Giuseppe Nicolodi: 7 ottobre 2004 Gruppo. N. 2 - Cristina Bertazzoni: 11(matt. e pom.) e 24 settembre, 27 ottobre 2004 Gruppo N. 3 - Massimiliano Tarozzi: 6 e 18 ottobre 2004. 11/12 novembre 2004
Secondo seminario di confronto e verifica della II fase di sperimentazione del progetto, per la messa a punto e revisione del lavoro avviato, un confronto sullo stato di avanzamento del lavoro in generale e su eventuali questioni emerse nella prima fase di attivazione dei percorsi.
Novembre 2004 - Febbraio 2005
Trimestre di sperimentazione, con incontri regolari di riflessione/formazione e di messa a punto del percorso da parte dei gruppi docenti delle sezioni delle scuole d’infanzia e delle classi di scuola primaria coinvolte. Gruppo N. 1 - Giuseppe Nicolodi: 7 ottobre e 9 dicembre 2004; 10 gennaio 2005. Gruppo N. 2 - Cristina Bertazzoni: 20 gennaio 2005. Gruppo N. 3 - Massimiliano Tarozzi: 10 dicembre 2004 e 12 gennaio 2005.
18/19 febbraio 2005 Terzo seminario di aggiornamento e verifica rispetto all’andamento del progetto. Dal febbraio a giugno Ultimo trimestre di sperimentazione, con incontri re2005 golari di riflessione/formazione e di messa a punto, dei gruppi docenti delle sezioni delle scuole d’infanzia e delle scuole primarie coinvolte. Gruppo N. 1- Giuseppe Nicolodi: 14 marzo, 13 aprile, 18 maggio 2005. Gruppo N. 2 - Cristina Bertazzoni: 14 marzo, 18 aprile, 5 maggio, 11giugno (10-17). Gruppo N. 3 - Massimiliano Tarozzi: 16 marzo, 4 maggio, 15 giugno 2005. 16/17 giugno 2005
Quarto seminario di riflessione, confronto e verifica del secondo anno di attuazione del progetto “ad Agio”.
Con il seminario di settembre, prende avvio il secondo anno del progetto.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
I gruppi si ricostituiscono. C’è qualche cambiamento, sia nel gruppo N. 1, cui partecipano ora i docenti di tutte le sezioni anche della scuola di Meano, sia nel gruppo N. 2, dove accanto a qualche defezione, c’è qualche nuova entrata (cfr. Tabella 2 a p. 41), sia nel gruppo dei facilitatori, essendo cambiata una delle psicopedagogiste. Si registrano ancora delle difficoltà che denotano come il fenomeno del disagio si riverberi all’interno di gruppi che faticano a farsi carico del problema sul quale intendono lavorare e che pure è sentito come urgente. Sia per tenere un po’ sotto controllo questi fenomeni, ma anche sollecitati dalle responsabili dei due servizi - il Servizio scuola dell’infanzia della P.A.T. e la Federazione provinciale scuole materne - che reclamano una più regolare e costante informazione sull’andamento del progetto, si concretizza l’ipotesi già abbozzata a giugno della costituzione di un quinto gruppo “interistituzionale”,4 costituito dal direttore dell’IPRASE Ernesto Passante, dai due responsabili dei servizi (cfr. Tabella 6) e dai Dirigenti delle scuole coinvolte (tra l’altro c’è anche un cambiamento di uno dei dirigenti), come spazio per l’informazione ed il coinvolgimento più diretto anche a questo livello, fermo restando che il centro decisionale rimane comunque l’équipe tutoriale. Tabella 6: Composizione del gruppo N. 5 Referenti gruppo N. 5 Ernesto Passante, direttore dell’IPRASE. Marco Rossi Doria, tutor del gruppo. Miriam Pintarelli, direttore del Coordinamento pedagogico del Servizio Scuola dell’infanzia della P.A.T.. Lucia Stoppini, direttore Scientifico della Federazione Provinciale Scuole Materne. Agostino Toffoli, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Lavis. Fiorenzo Morandini, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Predazzo, cui subentrerà nel settembre 2005 Candida Pizzardo. Cecilia Niccolini, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Trento 4 (Scuola elementare “Clarina”).
4
Questo gruppo - che farà registrare una costante difficoltà a vedere sempre presenti tutti i componenti - si incontrerà nei seminari di giugno 2005, settembre 2005, novembre 2005 e nell’incontro del 30 gennaio 2006, in preparazione del I seminario del 4 marzo 2006.
Nasce il quinto gruppo interistituzionale
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
Maria Luisa Brioli, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Trento 7 (Scuola “Pigarelli” di Gardolo) e subentrata all’inizio del II anno a Paolo Goffo, allora dirigente del Circolo didattico Trento II, comprendente la scuola elementare “Pigarelli”. Flavia Ioris, coordinatrice della scuola dell’infanzia provinciale di Meano; Sandra Ciappi, coordinatrice della scuola dell’infanzia equiparata di Clarina; Maria Luisa Pollam, coordinatrice del progetto.
… DALLA PROGETTAZIONE ALLA SPERIMENTAZIONE La documentazione a sostegno dell’azione
Il 2004-2005 è l’anno in cui i docenti sono chiamati a mettere in pratica le idee elaborate nella prima fase di progettazione dell’attività. Questo per quanto riguarda i gruppi di docenti della scuola primaria, mentre i docenti della scuola dell’infanzia procedono a pieno ritmo, più maturi, più sicuri, nell’attività avviata l’anno precedente, ma per tutti con una novità. Alla ripresa, sia nell’incontro di coordinamento dell’équipe tutoriale, sia nell’incontro del gruppo dei facilitatori, sia nell’incontro in plenaria, si ragiona sullo stretto collegamento che c’è tra ricerca e documentazione. “I docenti, per sentirsi dentro un percorso di ricerca-azione” - sottolinea Marco Rossi Doria in uno dei suoi interventi iniziali “devono diventare soggetti attivi della documentazione, devono imparare a scrivere, a scrivere per sé e a scrivere per le altre scuole, devono sentirsi autori di questa scrittura del processo ed essere scrittori del prodotto, devono farsi un po’ più protagonisti”. La documentazione diventa dunque una condizione necessaria per rendere ancora più arricchente, sia a livello personale che professionale, il percorso di ricerca. Nel seminario di settembre viene consegnato ai docenti sperimentatori il fascicolo relativo al primo anno di esperienza - 189 pagine che documentano passo dopo passo il percorso dei gruppi e il primo anno di vita del progetto - utile sia a testimoniare il fatto che anche l’équipe tutoriale sta affrontando il problema della documentazione, sia come pretesto per impostare nei gruppi il lavoro di raccolta di materiale e di
“ad Agio” IPRASE del Trentino
registrazione del percorso, individuando liberamente degli strumenti che rispettino le modalità di lavoro di ciascun gruppo. E ciascun gruppo infatti individuerà da quel momento delle forme di documentazione che verranno puntualmente trasmesse all’IPRASE: • i verbali degli incontri, sia dei gruppi sia dell’équipe tutoriale; • i diari di bordo, come strumenti di riflessione sul proprio lavoro; • le schede di progettazione delle attività e la costruzione di strumenti per l’osservazione; • i questionari di verifica sull’andamento delle attività; • le relazioni e gli interventi ai momenti seminariali. Tutto materiale che è stato raccolto in fascicoli,5 ad uso interno, così da tenere traccia sia dei prodotti, sia soprattutto dei processi. La ricchezza e la consistenza del materiale prodotto, più ancora dell’impegno con cui hanno lavorato i gruppi, testimoniano dell’importante risultato in termini formativi che la richiesta di documentare produce. A fronte della fatica di scrivere, i docenti ben presto riconoscono l’importanza di tale operazione per la possibilità che la nota, l’appunto, il testo scritto offrono di ritornare sull’azione, di ritornarci insieme, come gruppo di professionisti, per riflettere. “I diari compilati alla fine di ogni seduta (di psicomotricità) - scrive un’insegnante della scuola dell’infanzia nella relazione conclusiva presentata a giugno - si
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Questa la documentazione raccolta a cura della scrivente, nei tre anni del progetto: Il I anno di sperimentazione, Documentazione del percorso svolto, IPRASE, Settembre 2004, pp. 184; Tra un seminario e l’altro: documentare l’attività, IPRASE, Novembre 2004, pp. 98; Dal seminario di novembre al seminario di febbraio, IPRASE, Febbraio 2005, pp. 180; a cura di Elena Stanchina (e Maria Luisa Pollam); Dal seminario di febbraio al seminario di giugno, IPRASE, Giugno 2005, pp. 272; Seminario di giugno: Sintesi dell’incontro in plenaria, IPRASE, Giugno 2005, pp. 8; Il disagio nella scuola: Esperienze a confronto, P.A.T. e IPRASE, Ottobre 2005, pp. 72; a cura di Elisabetta Erspamer, Oliviero Facchinetti, Chiara Ghetta, Stefano Kirchner, Fabiano Lorandi, Maria Luisa Pollam e Franco Santamaria; Dal seminario di settembre al seminario di novembre, Novembre 2005, pp. 72; Dal seminario di novembre al seminario di maggio, IPRASE, Maggio 2006, pp. 70; “ad Agio”, Esiti di un percorso di ricerca e sperimentazione di buone prassi per la prevenzione e il contenimento del disagio, Atti del seminario del 4 marzo 2006, IPRASE, Trento 2006, pp. 56; Sintesi del verbale dell’ultimo incontro in plenaria, IPRASE, Giugno 2006, pp. 8.; tutti fascicoli regolarmente distribuiti negli incontri seminariali e conservati presso l’IPRASE come documentazione interna.
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
sono rivelati degli strumenti di approfondimento e confronto tra insegnanti, che hanno condiviso lo stile proprio di ognuna, realizzando così un profilo di ogni bambino, visto sia individualmente che in relazione con gli altri”. Grazie anche alla documentazione “ad Agio”, un progetto che si è avviato piuttosto faticosamente, a distanza di un anno, fa registrare frutti di estremo interesse. Questioni aperte
È un percorso però ancora accidentato e che lascia trasparire difficoltà e nodi sospesi, tra cui il dialogo e la contaminazione tra i gruppi. Il fatto che ci siano state partenze diverse e con marce diverse, e il fatto che, in nome di un’aderenza ai contesti e di una vicinanza ai bisogni individuali rilevati - così com’era nella filosofia del progetto - nonché perché guidati da tre tutor che, anche se all’interno di una stessa cornice, si presentano con modalità e background professionali diversi - i tre gruppi, pur avendo raggiunto una buona coesione al loro interno ed essendosi finalmente stabilizzati, fanno ancora fatica a dialogare e, soprattutto, a crescere insieme facendo tesoro dell’esperienza degli altri, tanto che il momento della restituzione, all’interno dei seminari, viene vissuto da alcuni quasi come una perdita di tempo rispetto al lavoro interessante e coinvolgente che normalmente fanno nei gruppi con il proprio tutor. Si tenta, nel seminario di febbraio 2005, una nuova modalità: un lavoro per gruppi misti che raccolgano docenti di ciascuno dei quattro gruppi, come spazio di incontro e confronto sui diversi percorsi e sulle problematiche che li accomunano. Si tratta di una soluzione che sembra ridare un po’ di fiato ai gruppi e che rinforza quel senso di appartenenza ad un unico progetto che fa fatica ancora a farsi strada, anche se per altri versi cresce l’entusiasmo e la produzione e cresce il materiale di documentazione, un materiale molto ricco che testimonia del lavoro eccezionale fatto dai docenti.
GIUGNO 2005: VERSO UNA PRIMA VERIFICA DEGLI ESITI E DELLA POSSIBILITÀ DI RICADUTA DEGLI STESSI
Nel seminario di giugno il confronto non è tanto su che cosa è stato fatto - cosa di cui parla già la ricca documentazione prodotta, una
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documentazione che si è arricchita strada facendo di nuovi strumenti e materiali utili a leggere l’esperienza6 - ma sui punti di forza, sui successi registrati, su quello che sta funzionando, sulle cose positive. È un elenco lungo, molti sono gli aspetti condivisi. 1. Gli incontri con il tutor, vissuti come momenti di crescita e di arricchimento personale e professionale. 2. L’avere strumenti per leggere il bambino nella sua interezza e la possibilità di vederlo sotto altri punti di vista, di conoscerlo meglio. 3. Il confronto con colleghi di altre realtà, la possibilità di mettersi in gioco, di condividere problemi e “disagi”. 4. L’opportunità di sperimentare situazioni e modalità di lavoro nuove, innovative, di provare e anche di sbagliare, in una situazione “protetta” e affiancati da persone competenti. 5. I cambiamenti registrati nei bambini, più spigliati e sicuri e più capaci di gestire le relazioni e le emozioni, e non solo durante le attività di “ad Agio”, ma anche nella normale attività didattica. È evidente infatti, soprattutto in alcune situazioni, la tendenza ad uscire da una situazione di tipo sperimentale per collocare nella normale prassi didattica, nel curricolo, le attività di “ad Agio”. Aspetto questo di forte valenza. Ma ci sono altri segnali - e Marco Rossi Doria li sottolinea molto opportunamente nell’intervento di restituzione del percorso - che dicono di una crescita del gruppo. Un gruppo più capace di “andare verso le famiglie, il territorio e di comunicare su temi come il disagio; di mettersi in gioco e di proporsi con una funzione di sostegno anche fuori del setting scolastico; un gruppo che sente il bisogno di un ulteriore approfondimento di formazione che fa non come io, ma come “noi”, come comunità di pratiche; un gruppo che si sente disponibile a proporsi come tutor o come potenziali formatori di colleghi, di altre persone alle quali far scoprire la possibilità di fare a piramide la stessa cosa che loro stanno facendo”. Tanti segni di un cambiamento che testimonia di una capacità diversa di porsi di fronte al problema del disagio, di accoglierlo innanzitutto, 6
I questionari di verifica dell’attività svolta sia per i bambini sia per gli insegnanti, le griglie di osservazione, i debriefing, i questionari di valutazione dell’andamento del gruppo di ricerca: tutti materiali preziosi per una verifica degli esiti ma anche e soprattutto per una lettura dei processi.
Punti di forza
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
avendo uno sguardo più sottile nell’osservare i bambini e una diversa consapevolezza nel pensare e progettare il proprio intervento. Probabilmente anche altri percorsi avrebbero indotto cambiamenti analoghi. Di certo la tematica del disagio, mettendo così in discussione il mestiere dell’insegnante, la sua identità, ha fatto aumentare il livello di partecipazione e valorizzazione della professionalità docente. Ha indotto anche nuovi bisogni e nuove domande, tra cui la domanda di formazione e approfondimento di cui però - lo si esplicita subito e in maniera molto chiara - dovrà farsi carico la singola istituzione. Il progetto “ad Agio” infatti ha indotto un bisogno di cambiamento, ha messo in luce esigenze cui dovrà essere l’istituzione a dare risposta. Problemi ancora aperti
Accanto agli esiti positivi, nel seminario conclusivo del II anno vengono posti sul tappeto anche alcuni nodi, problemi irrisolti: 1. il problema della continuità, sia in verticale, cioè come possibilità di trasferire e continuare un percorso avviato nel grado di scuola successivo, sia orizzontale, cioè come difficoltà, in particolare per la scuola primaria (dove non tutta la scuola è coinvolta), a far conoscere, anche all’interno di uno stesso plesso, l’attività di “ad Agio”. 2. Il problema della documentazione che, prima ancora di essere portata all’esterno, va portata all’interno. Rimane questo un punto sul quale lavorare in profondità con tutti e tre i soggetti coinvolti - i docenti sperimentatori, la scuola di appartenenza, l’IPRASE - per evitare che un’esperienza così valida, ma anche così faticosa, rimanga patrimonio di poche classi, di pochi docenti. 3. Il problema del fallimento del gruppo N. 4. Il gruppo dei facilitatori, per motivi diversi - la difficoltà ad essere presenti agli incontri, a compilare la griglia con le osservazioni, forse a capire la propria funzione e il proprio ruolo, l’assenza di un mandato chiaro, la mancanza forse di un oggetto preciso, stimolante, su cui lavorare, e altri ancora - ha stentato a svolgere la sua funzione, per cui è fallita l’ipotesi di una figura intermedia tra il gruppo e il dirigente, come persona capace di ricevere informazioni, discutere, osservare i fenomeni in corso d’opera, nei vari luoghi e momenti dell’azione. Per tale ragione il gruppo N. 4 è stato sciolto.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
4.
Il problema infine del rapporto con l’Istituzione. Avendo dovuto sciogliere il gruppo 4, e avendo allo stesso tempo recepito l’esigenza di mantenere uno spazio di riflessione pedagogica sull’esperienza di “ad Agio” e in generale sul disagio in senso più ampio, l’équipe tutoriale decide di istituire un gruppo interistituzionale in cui coinvolgere i dirigenti e le due coordinatrici della scuola dell’infanzia, investendoli di un ruolo più prettamente pedagogico e non solo di controllo a livello organizzativo. La proposta di Marco Rossi Doria è allora di incontrarli in occasione di ciascun seminario, in cui lui stesso assicurerà la sua presenza come consulente. Obiettivo degli incontri - che dovrebbero configurarsi come luoghi di riflessione pedagogica e non solo di tenuta organizzativa - è anche quello di riprendere il dialogo rispetto ad alcuni punti, tra cui quello della disseminazione, un tema serio, che riguarda il senso stesso della sperimentazione nella scuola. È importante capire che tipo di ricaduta può avere; chi, oltre alle famiglie, rispetto alla grande fatica fatta per raggiungere dei risultati, ascolta; come comunicare un patrimonio che sta crescendo, ai colleghi, al territorio, alla società. Si vuole insomma capire quanto, nell’autonomia di ogni scuola, l’esperienza di “ad Agio” sia un’autentica risorsa e come questa possa essere utilizzata.
SETTEMBRE 2005: SI VA VERSO LA CONCLUSIONE
Il calendario delle attività da svolgere entro il terzo anno ricalca ancora una volta quello dell’anno precedente. Tabella 7: Calendario delle attività da svolgere entro il terzo anno 22/23 settembre 2005
Incontro del gruppo N. 5 per una ridefinizione degli impegni e delle condizioni per garantire un’ottimale prosecuzione del lavoro. Primo seminario per l’avvio della sperimentazione del III anno del progetto, e quindi per una ricontestualizzazione della proposta, anche tenuto conto degli aspetti di criticità emersi nel seminario dello scorso giugno. Presentazione dell’articolazione 2005 - 2006 del progetto e relativo calendario.
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
Settembre Novembre Incontri regolari di riflessione/formazione e messa a 2005 punto delle attività di “ad Agio” da svolgere nelle sezioni delle scuole dell’infanzia e nelle classi delle scuole primarie coinvolte. Gruppo N. 1 - Giuseppe Nicolodi: 27 settembre 2005. Gruppo. N. 2 - Cristina Bertazzoni: 28 settembre e 8 novembre 2005. Gruppo N. 3 - Massimiliano Tarozzi: 17 ottobre 2005. 20 ottobre Parlar diSagio: seminario di presentazione di esperienze sul tema del disagio nella scuola. 26 novembre 2005 Incontro équipe tutoriale. Secondo seminario di confronto e verifica della II fase di sperimentazione del progetto, per la messa a punto e revisione del lavoro avviato, un confronto sullo stato di avanzamento del lavoro in generale e su eventuali questioni emerse nella prima fase di attivazione dei percorsi. 30 gennaio 2006 Incontro dell’équipe tutoriale e incontro del gruppo N. 5 per la preparazione del seminario di marzo Novembre 2005 Trimestre di sperimentazione, con incontri regolari di - Marzo 2006 riflessione/formazione e di messa a punto del percorso e di progettazione del seminario di marzo. Gruppo N. 1 - Giuseppe Nicolodi: 14 dicembre 2005; 30 gennaio; 21 febbraio e 3 marzo 2006. Gruppo N. 2 - Cristina Bertazzoni: 29 novembre, 26 gennaio, 15 e 24 febbraio 2006. Gruppo N. 3 - Massimiliano Tarozzi: 25 gennaio, 20 febbraio e 3 marzo 2006. 3/4 marzo 2006 Terzo seminario come primo momento pubblico. Dal marzo a maggio 2006
25/26 maggio 2006
Ultimo trimestre di sperimentazione, con incontri regolari di centrati sulla documentazione dell’esperienza. Gruppo N. 1 - Giuseppe Nicolodi: 19 aprile 2005. Gruppo N. 2 - Cristina Bertazzoni: 27 marzo e 25 maggio 2006. Gruppo N. 3 - Massimiliano Tarozzi: 3 marzo e 5 aprile 2006. Incontro della équipe tutoriale. Incontro del Gruppo N. 5 per ragionare sulle ipotesi di disseminazione. Ultimo seminario di chiusura del percorso e di valutazione dell’esperienza.
Come si evince dalla Tabella n. 7, vi è un’importante novità: due momenti pubblici, aperti non solo ai docenti sperimentatori, ma an-
“ad Agio” IPRASE del Trentino
che a docenti, dirigenti, operatori di tutte le scuole della provincia, con l’obiettivo di avviare concretamente quel processo di disseminazione di buone pratiche che è uno degli obiettivi forti del progetto.
“
“PARLAR DISAGIO”, UN SEMINARIO PER GETTARE UN PRIMO SASSOLINO VERSO LA DISSEMINAZIONE DELL’ESPERIENZA
Il gruppo di “ad Agio” dopo due anni di sperimentazione e di riflessione sul lavoro svolto, è in grado di offrire, in termini di risultati, non delle ricette, non dei prodotti trasferibili tout court, ma dei risultati di processo, dei modelli che emergono dai diversi approcci e che testimoniano tutti che il disagio va affrontato in una dimensione educativa. La questione del disagio, sempre più connessa con la possibilità stessa di fare scuola, di sviluppare apprendimenti, di costruire relazioni e identità all’interno dei gruppi dei bambini, di costruire alleanza pedagogica con le famiglie, non è un tema tra gli altri che si può trattare come una materia o un’attività che si aggiunge perché si vuole essere innovativi. Gli elementi di disagio stanno aumentando e sono invasivi sia rispetto alle emozioni come persone e come professionisti, sia rispetto all’organizzazione del lavoro, sia rispetto all’organizzazione della scuola stessa. Si comincia ad avvertire il bisogno di confrontarsi con altre esperienze,7 presenti sul territorio e nate per rispondere allo stesso bisogno, quello del disagio nella scuola, ma anche di individuare modalità di disseminazione delle stesse. Proprio dal confronto di tali esperienze nasce l’idea di organizzare per l’autunno del 2005 un momento pubblico, aperto non solo a chi ha partecipato alle sperimentazioni ma anche ad altri soggetti con i quali interagire, sia per rappresentare quello che è stato fatto, sia per mettere in luce la difficoltà nell’avviare percorsi che abbiano delle ricadute effettive sul piano del fare scuola quotidiano. Nel seminario, 8 al quale intervengono Franco Pajno Ferrara (neuropsichiatria infantile, docente presso Università degli Studi di Vero-
7
Le cinque esperienze sono “raccontate” nell’opuscolo “Il disagio nella scuola: esperienze a confronto” pubblicato dall’IPRASE e dalla P.A.T. e distribuito in occasione del seminario del 20 ottobre 2005. 8 “Parlar diSagio” - Villa S. Ignazio, Trento, 20 ottobre 2005.
“Parlar diSagio”
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
na), Franco Floris (direttore della rivista Animazione sociale) e Franco Santamaria (docente dell’Università degli Studi di Trieste), chiamati per dare del disagio una lettura dai diversi punti di vista - psicologico, sociologico, pedagogico - viene affidato a Marco Rossi Doria il compito leggere le cinque esperienze, per capire che cosa esse abbiano determinato nelle scuole coinvolte nel progetto. La dimensione pedagogica del disagio
Aumentare e rinforzare la professionalità del docente
L’iniziativa - grazie anche alla tavola rotonda e ai lavori di gruppo del pomeriggio - diventa uno spazio in cui focalizzare alcuni aspetti sui quali confrontarsi e che dal progetto “ad Agio” stanno emergendo con forza. E cioè che il disagio c’è, è qualcosa di complesso, diffuso, ma per molti aspetti fisiologico, legato alle caratteristiche stesse e ai problemi del nostro tempo e che va quindi affrontato non come emergenza, ma con una visione lungimirante e strategica. Si insiste sull’importanza di recuperare la dimensione pedagogica, restituendo alla funzione docente - che nel confronto tra i partecipanti, risulta ancora un po’ debole e in difficoltà - la prerogativa di individuare e praticare strategie propriamente educative. Su questo “ad Agio” ha scommesso ed è questo che, più che nel seminario - dove l’accento è posto principalmente sul confronto tra esperienze diverse e sull’individuazione di elementi di forza e di debolezza di ciascuna - emerge nei verbali dei gruppi e nei racconti che i docenti sperimentatori hanno comunicato nei momenti seminariali. La logica dell’empowerment, in base alla quale ai docenti non si erano proposte ricette, ma si era chiesto di attivare risorse mettendo in campo le loro stesse competenze, sembra funzionare, creando un senso di appartenenza forte al gruppo e di adesione convinta alla proposta.
LE ULTIME TAPPE DEL PERCORSO Il processo di contaminazione
I gruppi, non coinvolti attivamente nel seminario di ottobre, lavoreranno fino a gennaio 2006 per concludere il percorso di ricerca e sperimentazione di attività capaci di prevenire e contenere il disagio, per concentrarsi da gennaio in poi sulla preparazione della comunicazione al seminario di marzo, la prima vera uscita pubblica di “ad Agio”. Uno degli obiettivi forti del momento, soprattutto per quanto riguarda la scuola primaria, è di implementare il lavoro fatto, perfezio-
“ad Agio” IPRASE del Trentino
narlo, farlo diventare parte integrante dell’attività curricolare e non come azioni da collocare in uno spazio ad hoc. L’impegno dei gruppi è dunque a capire come far diventare la sperimentazione di “ad Agio” un approccio formativo quotidiano, a riflettere su come farlo penetrare, a verificare quali aspetti possono contaminare l’attività di tutti i giorni. Cosa che in parte è già avvenuta alla fine del secondo anno ma che va ulteriormente esplorata e verificata.
IL SEMINARIO DI MARZO 2006: PROTAGONISTI I DOCENTI SPERIMENTATORI
Se il 20 ottobre tutti i progetti sul disagio avevano avuto - e “ad Agio” era stato presente, anche se non era stata data voce ai docenti - una giornata di visibilità, i tempi sono maturi per un momento pubblico più completo. Un momento in cui mostrare i risultati dei percorsi di “ad Agio” dopo le aspettative create nel seminario di Villa S. Ignazio. Si vuole con questo evento sollecitare l’attenzione su alcuni elementi forti del progetto, tra cui il ruolo dell’insegnante e la possibilità, a partire da una diversa consapevolezza rispetto al proprio agire, di innescare dei cambiamenti, di spostare lo sguardo, di fare innovazione, ma si vuole anche far capire che quello che si è fatto in “ad Agio” non è altro dal fare scuola quotidiano. Per questo lo si fa attraverso il racconto stesso dei docenti, di coloro cioè che del progetto non sono i destinatari, ma i protagonisti, dando la massima libertà e libero spazio alla creatività e specificità di ciascun gruppo. Il seminario, che richiama oltre 150 persone, emoziona la platea e permette a ciascun gruppo, grazie alla comunicazione essenziale, precisa ed efficace, di sapere un po’ di più del lavoro degli altri e sollecita attenzione e curiosità nei confronti delle soluzioni adottate.
I docenti, veri testimoni dell’innovazione
ULTIMA TAPPA
Chiuso il seminario, raccolti i meritati applausi, sia per il lavoro svolto ma anche per il modo, l’efficacia in cui è stata organizzata la comunicazione ai colleghi presenti in sala, c’è, da parte dei docenti,
Il problema della disseminazione
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PARTE I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO La storia
la consapevolezza che quello della disseminazione - terreno sul quale fino a questo momento, nonostante l’ottimo lavoro svolto, con una produzione di qualità e una sintesi ad un livello molto elevato, non c’è stato un supporto vero - è un compito difficile. Anche se una forma di disseminazione è già cominciata e sta nel fatto - ed era questa una scommessa - che le attività di “ad Agio” stanno uscendo dalla sperimentalità per entrare dentro il curricolo, diventando un modo, “il modo” di “ad Agio”, di fare scuola, di impostare l’attività, di interagire con i bambini, in un contesto nuovo, dove i ruoli sono giocati in maniera un po’ meno rigida e stereotipata, meno asimmetrica e rigidamente strutturata. Al di là di questi importanti risultati, rimane l’impressione che, rispetto a un’esperienza che funziona, sia la scuola stessa, date le sue difficoltà e le sue rigidità, a impedire l’azione, a produrre disagio, quasi che la crescita della professionalità docente costituisca un rischio per l’istituzione. Rimane insomma l’impressione che il percorso abbia funzionato nella relazione docente bambino, che abbia dato dei buoni risultati rispetto alla crescita professionale, ma che non sia così facile contaminare il resto della scuola. A fronte di questa preoccupazione, va detto però che dei segnali positivi che vanno oltre questo timore ci sono. Il gruppo delle scuole dell’infanzia di Clarina e Meano, e il gruppo dei docenti della scuola primaria “Pigarelli” andranno avanti, sostenuti dalla loro istituzione di appartenenza, in un percorso che vedrà coinvolti altri docenti, e che non è più “ad Agio”, ma che recupera un’esperienza per allargarla, in un’ottica di disseminazione delle buone pratiche che il progetto ha innescato. All’équipe tutoriale il compito finale di recuperare, sistemare ed organizzare tutta la documentazione per rendere esplicito il percorso anche a chi non ha fatto l’esperienza; e nello specifico ai tutor dei tre gruppi, che hanno lavorato da marzo a maggio alla documentazione, ancora una volta quello di prestare ai docenti la parola per “narrare” un’esperienza così ricca e densa di significati: l’esperienza che viene proposta nelle pagine che seguono.
Descrizione delle
interazioni tacite ma
presenti
Descrizione delle
interazioni esplicite,
ufficiali e non
relazioni e dei contatti con le famiglie
classi/sezioni
Procedure e stato delle
“ad Agio” e altre
Procedure di contatto tra
scuola
“ad Agio” insieme della
deboli nelle interazione
Descrizione dei punti
resi
facilitazioni e dei servizi
Descrizione delle
Gruppo N. 4 dei facilitatori: scheda guida per l’osservazione e l’attento ascolto delle interazioni di “ad Agio” nelle scuole interessate
“ad Agio” IPRASE del Trentino 61
Parte II Le esperienze
“ad Agio” IPRASE del Trentino
L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale Il percorso del gruppo N. 1 Giuseppe Nicolodi
IL DISAGIO ALLA SCUOLA DELL’INFANZIA Premessa
Uno dei primi problemi che il gruppo delle scuole dell’infanzia si è trovato ad affrontare è stato da una parte quello di capire e definire il significato e le varie forme attraverso le quali si manifesta il disagio nella prima infanzia, dall’altra di trovare un linguaggio ed un senso condivisibili sul modo di affrontarlo. In effetti siamo di fronte ad un fenomeno certo presente e diffuso - e il fatto che gli insegnanti abbiano accettato con convinzione di partecipare all’esperienza che il progetto “ad Agio” si prefiggeva lo testimonia in modo molto netto ed evidente - ma si tratta pur sempre di un fenomeno alquanto sfumato e poco definito nella sua specifica composizione interna, perché si tratta di un fenomeno “che non fa rumore” a livello sociale, politico ed istituzionale. Per queste ragioni esso risulta poco indagato sia a livello sociologico che pedagogico. Non esiste quasi nulla in letteratura a proposito del disagio nella scuola dell’infanzia, e le stesse esperienze concrete come quella che il progetto “ad Agio” andava a iniziare non aveva precedenti sufficientemente conosciuti cui ispirarsi o su cui tarare i propri obiettivi e le proprie metodologie. Per tutte queste ragioni fin dai primi incontri il tutor ha proposto al gruppo un modello teorico che servisse sia a esplicitare una chiara scelta di campo sia a delineare una linea comune che contemplasse in modo unitario e coerente le varie forme attraverso le quali si manifesta il disagio alla scuola dell’infanzia. Il gruppo ha accettato di buon grado tale invito e questo tema è diventato allora l’oggetto di discussione dei primi incontri nell’autunno del 2003 (fasi iniziali del progetto). Un punto comunemente condiviso da tutti gli insegnanti, ma che trovava conferma anche da altre istituzioni e da altre esperienze, è stata stata la constatazione che a creare i maggiori problemi al mondo della
Il disagio che “non fa rumore”
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
scuola non sono tanto l’inserimento e l’integrazione di bambini con patologie di tipo clinico, quanto piuttosto difficoltà di origine emotiva che si evidenziano con sintomi di natura prevalentemente comportamentale. I problemi causati investono sia gli obiettivi educativi e formativi specifici delle istituzioni educative, sia il comune “star bene” a scuola. E per star bene si intende non solo lo stato emotivo dei bambini, ma anche quello degli stessi adulti professionalmente impegnati nel processo educativo e formativo. “Parole” per descrivere il fenomeno Verso una definizione del problema
I motori energetici dello star bene
Per questi motivi, ma anche in considerazione dell’età specifica dei bambini coinvolti, il modello teorico di spiegazione e classificazione del disagio proposto prende come principale elemento di riferimento le modalità con le quali il bambino instaura, mantiene e sostiene il processo di relazione e attaccamento con l’adulto di riferimento. Questo, per evidenti ragioni, è il punto fondamentale che caratterizza lo “star bene” o lo “star male” del bambino nelle istituzioni educative della prima infanzia. Alla scuola dell’infanzia, il comune “star bene” del bambino avviene attraverso il flusso positivo di una particolare energia di origine emotiva prodotta da vari “motori energetici” da cui la scuola è letteralmente attraversata in ogni momento delle sue attività. C’è innanzi tutto l’energia prodotta dall’attaccamento del bambino con la figura dell’adulto, la quale è ovviamente fondamentale e condiziona in gran parte lo “star bene o male” di ogni bambino a scuola. In modo molto semplice e banale, il bambino che “sta bene” è un bambino che si trova bene con l’insegnante (“è bella” dicono i bambini con la loro espressione caratteristica), che fa volentieri e con piacere i giochi e i lavoretti tipici della scuola, e che sta volentieri con i suoi compagni perché sono simpatici e divertenti. Tuttavia tutto questo flusso di energia emotiva che costituisce l’humus caratterizzante il clima di una scuola dell’infanzia è totalmente dipendente, data la tenera età dei bambini cui essa si rivolge, dalla qualità del contenimento e sostegno che ogni bambino vive nei confronti dell’adulto importante per lui. Da un punto di vista dello “star bene o male” il ruolo fondamentale torna ad essere ancora una volta in mano all’adulto.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Ora da parte degli insegnanti questa opera di contenimento e sostegno totale si concretizza in vari modi. Di conseguenza il grado di “presenza” che la maestra deve fornire, e che il bambino deve ricevere e sentire, si esplica in varie modalità secondo il tipo di attività o secondo i momenti in cui si struttura la vita istituzionale scolastica. In pratica, a questo livello, si vuole rimarcare il significato e la modalità relazionale (quindi il grado e la qualità della “presenza” degli insegnanti vissute dal bambino) implicata dalle varie attività di una giornata tipo della scuola per l’infanzia. Tale distinzione sarà molto utile, perché ci potrà fornire feconde indicazioni non solo a proposito del modello relazionale che l’insegnante fornisce attraverso le varie attività che propone, ma soprattutto perché ogni bambino, attraverso il suo comportamento in esse, ci dirà quanto si sente contenuto e sostenuto da tale modello relazionale.
Il ruolo dell’insegnante
I contenitori educativi
Secondo questa ipotesi teorica allora prenderanno un senso particolare le varie differenze di comportamento dei bambini nei vari momenti della giornata: sono le varie risposte con cui essi reagiscono alle variazioni di presenza istituzionale che l’adulto offre nei vari contesti educativi. Chiamiamo tali contesti col nome generico di “contenitori educativi” che, a seconda della particolare presenza dell’adulto nei vari momenti della giornata, distingueremo in: • Contenitore Istituzionale • Contenitore Didattico • Contenitore Libero Ma analizziamo in modo più puntuale sia le attività che implicano, sia il modello relazionale che offrono, in modo da leggere più facilmente poi il senso delle varie particolarità dei bambini che in essi si esprimeranno. Per contenitori istituzionali si intendono i momenti in cui le attività da svolgere non sono scelte né dalla maestra né dal bambino, ma sono dettate dalla stessa vita istituzionale. Sono i momenti dell’entrata e dell’uscita, e quelli legati ai bisogni fisiologici: i momenti del pasto, del bagno e dell’igiene personale, i momenti del dormire quando ciò fosse reso necessario dall’età o dalle esigenze del singolo bambino.
I contenitori istituzionali
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
Come risulterà evidente tali attività, presenti in ogni istituzione scolastica, rivestono un’importanza diversa secondo l’età del bambino: sono tanto più importanti quanto più il bambino è piccolo. Presenza mediata dell’insegnante
Manifestazioni del disagio
Per queste ragioni tali attività richiedono un grado di relazione molto forte, perché s’innestano direttamente sul grado di attaccamento e contenimento vissuto dal bambino prima del suo ingresso alla scuola dell’infanzia. Le maestre sanno bene come questi momenti siano difficili o addirittura “negati” quando il processo di inserimento non fosse ancora perfezionato e bene integrato. Detto con altre parole, la felicità o meno dei bambini durante questi momenti e queste attività, essendo essi la riproposizione del modello di attaccamento primario, riveleranno il grado di “agio” o “disagio” del bambino nel passaggio da un attaccamento materno a quello dell’insegnante. Per queste ragioni definiamo la presenza che l’insegnante offre durante questi momenti come una presenza mediata, perché, se da una parte riveste le caratteristiche specifiche della relazione materna che lei sostituisce in qualche modo, dall’altra evidenzia in modo netto che si tratta di una relazione pur sempre mediata dalla valenza istituzionale, in quanto la maestra riveste quel ruolo per mandato istituzionale, non personale. Vediamo allora quali possono essere e che valore possono prendere le più comuni difficoltà che i bambini possono esprimere in questi momenti. • Difficoltà di separazione dai familiari e di entrata alla scuola dell’infanzia Con questa dizione non si intende la normale manifestazione di sofferenza al momento del primo inserimento del bambino, ma si vogliono indicare le manifestazioni di sofferenza decisamente più serie sia per intensità sia per durata. La modalità di espressione della sofferenza segue però la via normale di tutti i bambini (pianto). In altri casi invece la manifestazione di disagio prende delle strade espressive del tutto diverse, pur provenendo dalla stessa origine: sono le manifestazioni più particolari e in un certo senso più criptiche delle difficoltà di separazione. • Vissuto di lutto permanente Il bambino può non esprimere particolare sofferenza al momento dell’ingresso, ma poi vive tutta la giornata scolastica con aria
“ad Agio” IPRASE del Trentino
triste e depressa, come se non potesse permettersi di vivere positivamente i giochi offerti dalla situazione scolastica e comunitaria. Dimostra una sofferenza e un rimpianto di nostalgia per i familiari assenti a volte anche espresso in modo esplicito. • Sintomi psicosomatici Anche qui possono non esserci grosse manifestazioni di disagio all’ingresso, ma ad un certo punto, magari in occasione della merenda di mezza mattina, o all’avvicinarsi del pasto, il bambino ha conati di vomito o vomito vero e proprio (chiaramente non attribuibili a cause organiche certe), oppure manifesta altri sintomi psicosomatici (mal di testa, mal di pancia). • Attraversamento iperattivo Al momento dell’entrata il bambino corre in giro in modo scoordinato utilizzando male lo spazio e il materiale, e scavalcando o negando i tipici rituali dell’entrata (salutare la maestra incontrata e il famigliare lasciato, posare i vestiti e mettere il grembiule o le pantofole ecc.). Non è da confondere con il bambino che corre dentro la scuola velocemente perché deve far vedere qualcosa di importante o salutare la maestra o gli amici. Con la difficoltà descritta da tale comportamento si intende il bambino che schizza letteralmente in giro in preda ad ansia e tensione interna. L’iperinvestimento del movimento è allora chiaramente una “fuga” di fronte alla sofferenza della separazione che viene negata e quindi non affrontata. Altre forme particolari di disagio riconducibili sempre a difficoltà di separazione sono quelle riferite ai momenti di vita fisiologica. • Rifiuto del cibo Si tratta non di inappetenza in generale (bambino che mangia generalmente poco e con sollecito costante dell’adulto), o di selezione dei cibi (mangia alcune cose e non altre). Qui si intende il rifiuto attivo del cibo con pianti o espressione di disagio chiaro al loro apparire. • Difficoltà di addormentamento Quando è proposto, c’è difficoltà e disagio notevole all’atto dell’addormentamento (pianto, crisi di angoscia, addormentamento in braccio all’adulto o in altri modi strani). • Difficoltà nell’utilizzo del gabinetto C’è un rifiuto o espressione di paura o vera e propria angoscia nell’uso del gabinetto, soprattutto al momento della defecazione. Può
Altre manifestazioni del disagio
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
consistere allora o nel rifiuto vero e proprio del suo utilizzo (in particolare la defecazione viene “negata” nella scuola) o effettuata in presenza di riti particolari o strani. • Ricongiungimento molto difficoltoso Al momento del ricongiungimento con i familiari possono esserci episodi di ansia particolari per lo più espressi con ipermovimento (molto di più dei normali momenti di vivacità o dei momentanei rifiuti o ritardi dovuti a interesse verso il gioco da finire o i compagni da lasciare). Ancora una volta l’iperinvestimento del movimento ha lo scopo di negare un disagio psichico che in tal modo non può essere affrontato. I contenitori didattici
Presenza simbolica dell’insegnante
I contenitori didattici sono i momenti in cui l’attività è direttamente proposta, organizzata e diretta dall’insegnante attraverso delle consegne didattiche precise. Possono essere proposte in vari modi e possono riguardare attività molto diverse: percorsi motori, esperienze sensoriali o attività a carattere maggiormente cognitivo, percettivo od espressivo. In questo momento però non ci occupiamo dello specifico loro contenuto didattico, ma rileviamo l’importanza ed il significato “relazionale” che tali consegne rivestono per il bambino per il semplice fatto che sono attività proposte dall’adulto per lui importante dentro la scuola. In effetti si tratta di attività che sono prima pensate, organizzate, preparate dall’insegnante e attraverso le quali offre al bambino un suo pensiero, un vero e proprio “pezzo di sé” di ordine psichico. Un salto, un disegno o un puzzle fatto da solo su iniziativa ed interesse personale o eseguito su indicazioni della maestra, in uno spazio ed in un tempo organizzato da lei espressamente per tale attività, non ha lo stesso significato per il bambino. E in effetti i comportamenti dei bambini non sono sempre uguali nelle due situazioni. Nel contenitore didattico l’insegnante offre quindi una presenza simbolica oltre che la semplice presenza fisica: lei offre un prodotto dei suoi pensieri. Di conseguenza l’esecuzione, la non esecuzione o la modalità di esecuzione della consegna, le difficoltà o le varie particolarità riscontrate durante questi momenti potranno essere lette secondo tale ipotesi interpretativa: le risposte del bambino rivelano il livello di sostegno e contenimento da lui vissuto attraverso la presenza simbolica
“ad Agio” IPRASE del Trentino
della maestra. Vale a dire quando lei prende la posizione relazionale di “base sicura” (Bowlby)1 verso la presentazione e conquista del mondo. Ovviamente nel contenitore didattico dobbiamo considerare sia le difficoltà comportamentali derivate dal vissuto non felice del modello relazionale che l’insegnante offre durante questi momenti, sia le eventuali difficoltà obiettive di sviluppo di ordine strumentale che il bambino può incontrare nell’eseguire le consegne indicate. Queste in effetti possono creare un malessere e un disagio di tipo emotivo legato alla paura di “deludere” la persona importante per lui per il fatto di non essere bravo come gli è richiesto. La ripercussione negativa a livello emotivo in questo contenitore può allora essere causa della cattiva esecuzione delle consegne, oppure effetto di difficoltà obiettive nell’esecuzione delle stesse. Da un punto di vista emotivo potremmo avere le seguenti difficoltà: Rifiuto della consegna Può essere espressa in vari modi. Il principale è il tipico: “Non voglio” (cui però non corrisponde un volere qualcos’altro come legittima espressione di un desiderio o preferenza), ma che esprime un “no” generale alla situazione o alla relazione, ed è spesso accompagnato da fuga, pianto o altro sintomo di disagio. Il “no” allora non si riferisce al contenuto specifico della consegna indicata, ma è un “no” da riferire al modello relazionale proposto attraverso la presentazione della consegna. • “Non sono capace” Quando tale espressione non è dovuta a evidente difficoltà strumentale obiettiva, ma è chiaramente sintomo di difficoltà emotiva ed esprime una richiesta di attenzioni più ravvicinate da parte del bambino nei confronti dell’adulto. • Esigenza di rapporto privilegiato Qui il bambino può anche non dire nulla, o non chiedere aiuto in modo esplicito, ma è in grado di essere produttivo solo in un rapporto privilegiato (o di piccolo gruppo). In caso contrario si distrae, si chiude in sé o dimentica cosa gli è chiesto, oppure vaga intorno e si perde, oppure ancora stuzzica e disturba i compagni, scappa dalla consegna, la esegue male o in fretta. •
1
J. Bowlby, Una base sicura, ed. Cortina, Milano, 1989.
Manifestazioni del disagio emotivo
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•
Manifestazioni del disagio strumentale
Difficoltà esagerata di fronte all’insuccesso o al rimprovero Può avvenire in occasione del non rispetto delle regole o di esecuzione errata di qualche consegna. Il bambino non sopporta l’errore o il non averla eseguita in modo perfetto, nega la propria colpa o errore, si giustifica con argomenti assurdi o inconsistenti, incolpa gli altri, è ipercritico nei confronti degli altri compagni, racconta cose inverosimili per attirare l’attenzione ecc.
Come difficoltà obiettive strumentali imputabili a problemi di sviluppo possiamo avere: • Difficoltà obiettive di tipo disprassico Con questa dizione si vuole indicare una difficoltà nell’uso dei movimenti fini, nell’uso della coordinazione oculo-manuale, nelle difficoltà a vestirsi, nella percezione e nell’organizzazione spaziale (sia nel grande spazio della scuola sia nel piccolo spazio grafico del foglio) e in generale nei compiti dove si richiedono competenze pratiche motorie. • Difficoltà di tipo linguistico Si intendono in modo generico tutte le forme di ritardo di linguaggio o tutte le varie difficoltà espressive e comunicative di tipo linguistico.
I contenitori liberi
I contenitori liberi sono i momenti in cui i bambini sono liberi di organizzarsi il gioco che prediligono, come vogliono e con chi vogliono. Ovviamente si tratta di una libertà molto vigilata che dipende dal tempo, dallo spazio in cui avviene e dal materiale offerto, la cui gestione deve ovviamente sempre essere in mano dell’adulto. Si parla di libertà del bambino, non dell’insegnante. Durante questi momenti, comunque, il bambino rivelerà la capacità di organizzare il suo gioco da solo, la modalità di gioco che predilige, gli amici che preferisce.
Presenza diluita
Durante questi momenti l’insegnante offre una presenza diluita, in quanto il suo grado di distanza aumenta vistosamente, e, di conseguenza, il bambino deve esprimere, in modo parallelo, il suo grado di autonomia e la capacità di saper funzionare bene anche ad una distanza maggiore dalla presenza contenitiva della maestra. Autonomia per il bambino, infatti, vuol dire saper integrare dentro di sé la presenza dell’adulto importante per lui, non può voler dire
dell’insegnante
“ad Agio” IPRASE del Trentino
“vuoto” di presenza. I comportamenti dei bambini durante questi momenti riveleranno allora la loro capacità di autonomia, oppure il vuoto in cui essi cadono nel confronto con la maggior distanza che la presenza diluita della maestra, tipica di questo contenitore, comporta.
•
•
•
•
Tra le varie difficoltà specifiche di questo momento avremo: Gioco disorganizzato Il bambino vaga incapace di dare o di mantenere nel tempo un senso valido al suo gioco e senza combinare nulla di particolare, oppure si aggrega ad altri in modo passivo. Il suo vagare non sempre è neutro, ma a volte può prendere la forma dei dispetti nei confronti dei giochi degli altri o del materiale. Gioco esplosivo Nel gioco libero il bambino entra spesso in collisione con i coetanei, rompe le cose, rischia di farsi male, non rispetta le regole dei giochi o le regole di convivenza sociale. Tutto questo avviene non per mancanza di senso del gioco come nel caso precedente, ma per eccesso di emozione causata del gioco stesso e che non sa essere adeguatamente gestita e autoregolata. Gioco frammentato È la sindrome classica del bambino ipercinetico con difficoltà di attenzione e concentrazione: egli tocca tutto, non sa portare a termine nulla, è vittima di stimoli successivi senza saperli adeguatamente interiorizzare. Dà all’adulto l’impressione di non essere ascoltato quando gli si parla. È veloce, sbrigativo e superficiale in tutto ciò che fa. L’attenzione fugace e l’impegno frammentato è spesso presente anche nel contenitore didattico. Inibizioni Di fronte ad alcuni giochi o situazioni il bambino si dimostra pauroso, inibito o dimostra rifiuto, compreso il rifiuto della parola in alcune situazioni o con persone particolari (non parla con le maestre, con i compagni, o solo con alcuni, o non quando è interrogato…). Tali difficoltà possono essere presenti anche nei contenitori didattici.
Altri sintomi di disagio sia del bambino che delle insegnanti possono invece essere indipendenti dalla relazione educativa specifica e derivare da un cattivo rapporto tra l’istituzione scolastica e la famiglia.
Manifestazioni del disagio
Altri sintomi
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•
Contrasti scuola famiglia Può essere negazione o non riconoscimento, da parte della famiglia, del problema del bambino rilevato a scuola. Si riscontrano contrasti educativi o mancanza di stima reciproca.
Analisi delle situazioni di disagio L’insegnante, da vittima del disagio a protagonista attivo e competente Un modello teorico alla prova
Naturalmente ognuna delle voci appena presentate e attraverso le quali possono manifestarsi le varie forme di disagio del bambino erano accompagnate dalla descrizione delle eventuali strategie educative che il mondo della scuola avrebbe potuto mettere in atto secondo le sue risorse di tipo istituzionale, professionale o personale. Partendo da queste considerazioni teoriche e da questo canovaccio pratico, soprattutto durante il primo anno di sperimentazione (anno 2003-2004), ma anche negli anni successivi a seconda delle esigenze delle scuole, si sono analizzati diversi casi di bambini che presentavano varie forme di disagio. Il lavoro consisteva nel raccogliere le osservazioni secondo il canovaccio rappresentato da queste voci, nell’individuare il senso che le manifestazioni di disagio potevano prendere alla luce delle considerazioni teoriche fatte in precedenza e nel cercare di individuare le strategie educative che gli insegnanti potevano mettere in atto per rispondere nel migliore dei modi alle richieste del bambino. La descrizione delle varie forme di espressione del disagio infantile secondo queste voci e questo modello teorico si è rivelata utile non solo come orientamento e guida per l’osservazione concreta dei vari sintomi, ma, soprattutto, perché permetteva di dare loro un contenuto, un senso e un significato preciso. Secondo questo modello teorico infatti il sintomo di disagio del bambino poteva essere visto e interpretato non più come qualcosa che gli apparteneva in modo esclusivo lasciando l’adulto impotente in sua balia, ma era letto e ricevuto come una risposta relazionale al particolare momento che il bambino viveva nei confronti dell’adulto. Certo le cause dei vari sintomi sono spesso da individuare altrove (cause di ordine biologico, psicologico, relazionale, sociale, parentale ecc.), ma in ogni caso l’adulto, ponendosi come ricettore del sintomo
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nel qui e ora della situazione scolastica, può rientrare in scena con la pienezza delle sue competenze educative perché si trova in mano le redini della situazione. I sintomi del disagio infantile, in altre parole, letti ed interpretati come delle difficoltose e sofferte richieste di aiuto lanciate dal bambino all’adulto importante per lui nell’istituzione educativa, sollevano l’adulto stesso dalla paralizzante e altrettanto sofferta posizione di vittima della situazione e lo rendono in un certo senso protagonista e padrone delle proprie competenze educative. Inoltre tale modello di lettura aiuta a individuare non solo i momenti difficili e difficoltosi che il bambino esprime (i comportamenti), ma anche altri momenti dove magari tutto funziona abbastanza bene. Tutto ciò costituisce la guida principale per individuare le strategie educative dal momento che esse non si basano solo sull’analisi dei momenti negativi, ma si costruiscono soprattutto nell’individuare dove e in che cosa il bambino funziona, e dove e in che cosa si rende più utile aiutarlo. Un’esemplificazione pratica
Un esempio può aiutare a comprendere meglio tale processo. È ripreso dal verbale della riunione del 4 settembre 2004, quindi all’inizio del secondo anno di sperimentazione. Viene riportata la situazione di un bambino che ora frequenta la scuola dell’infanzia per il secondo anno. Durante il primo anno i principali problemi presentati potevano essere così riassunti: • inserimento molto difficoltoso durante tutto il primo anno con notevole difficoltà di separazione dai familiari al momento dell’entrata con rituali particolari. • Vissuto di lutto permanente con oggetto transizionale lasciato solo dopo la seconda metà del primo anno di frequenza. • Nessun tipo di contatto né con l’adulto né con gli altri bambini né con il materiale. • Rifiuto del cibo per i primi sette mesi. • Molto disagio e notevole difficoltà degli insegnanti nel gestire il rapporto con la famiglia (in particolare con la madre) almeno nella prima parte del primo anno dal momento che anche
I sintomi
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lei viveva con disagio il distacco del figlio. Le cose sono migliorate in seguito. • Il livello di importanza di tali sintomi era considerato dagli insegnanti alquanto elevato mentre il livello di fattibilità del loro intervento educativo era ritenuto molto scarso perché loro si sono sentiti piuttosto impotenti davanti alle difficoltà del bambino durante tutto il primo anno. • L’inizio del secondo anno però prometteva bene, perché ora il bambino poteva farsi coinvolgere di più nel contenitore didattico. Nel contenitore istituzionale le cose sono migliorate da quando le insegnanti sono riuscite a togliere progressivamente al bambino l’oggetto transizionale al quale egli era legato in modo morboso. L’analisi della situazione ha permesso di chiarire che il punto fondamentale del problema era focalizzato nel contenitore istituzionale, dove gli insegnanti si trovavano massicciamente investiti dell’energia negativa causata dalla difficoltà del bambino nel trasferire anche verso di loro un attaccamento normale, a causa dell’attaccamento materno “particolare”. L’energia negativa di cui erano investiti, sterilizzava di conseguenza tutta la loro competenza educativa anche negli altri contenitori, in particolare in quello didattico, facendo loro vivere un disagio di impotenza disarmante, con possibili risentimenti di ostilità nei confronti della madre vissuta come “causa” delle difficoltà del bambino e quindi anche del loro disagio. Le strategie educative
La strategia educativa adottata dagli insegnanti si è dimostrata valida e ha comportato le seguenti decisioni: • vivere il “rifiuto” o la difficoltà di attaccamento del bambino con gli insegnanti come un suo problema da saper ricevere con comprensione empatica e quindi non come un qualcosa da subire come possibile smacco professionale o, peggio ancora, personale. • Nel contenitore istituzionale si riceve il nucleo principale del problema (“si gioca in difesa” è stato detto in gergo calcistico) perché il motore energetico dell’attaccamento è inquinato da energia negativa e quindi non concede per ora agli insegnanti il loro tipico potere educativo.
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Il vero “gioco di attacco” al problema può essere esplicato nel contenitore didattico, dove gli insegnanti possono prendere una posizione meno concorrenziale con la figura materna e dove le buone competenze cognitive e strumentali del bambino sono solo annebbiate dal dolore del distacco, ma conservano intatte le loro potenzialità. Qui il motore energetico dell’apprendimento, della scoperta, del piacere del gioco può ritrovare facilmente tutta la sua validità. Questo può costituire il punto di partenza su cui costruire l’intera strategia educativa. • Per rendere più efficace l’energia del contenitore didattico gli insegnanti non la useranno in termini seduttivi “per far dimenticare la mancanza della mamma”. Ma al contrario possono fondarla proprio sull’energia del dolore, la quale può essere resa positiva dalla condivisione empatica. “Visto che sei triste perché ti manca la mamma, facciamo un disegno o un lavoretto per lei e poi glielo porti a casa…”. • In questo modo il fare qualcosa di soddisfacente con l’insegnante “per la mamma” fonda l’energia positiva del contenitore didattico. Essa, col tempo, permetterà di fondare anche l’energia positiva dell’attaccamento con l’insegnante ora non più vista come concorrenziale alla figura materna. Il bambino potrà così progressivamente “offrire” alla maestra il suo oggetto transizionale come segno e prova che le energie relazionali ed emotive stanno entrando nei loro alvei normali e salutari. • L’accoglimento empatico anche delle difficoltà della madre, quindi il rapporto da conservare e coltivare in termini positivi anche con lei, confermerà al bambino che il voler bene a uno non è tradire l’altro, e contribuirà a far uscire il suo rapporto tra la mamma e la maestra da una triangolazione innaturale e pericolosa. •
Capacità di osservare, capire, operare
L’abitudine progressivamente acquisita nei tre anni di sperimentazione di raccogliere le osservazioni secondo questa impostazione teorica ha aiutato le insegnanti a sentirsi più sicure sia nel descrivere i vari bambini che nel capire il senso stesso delle va-
L’empowerment professionale
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rie forme di manifestazione di disagio. Consultando nei verbali delle riunioni gli argomenti discussi durante i vari incontri nel corso del triennio della sperimentazione si constata che l’analisi di casi di disagio sono stati assai frequenti e particolareggiati durante il primo anno mentre sono stati più rapidi nel secondo anno in cui hanno preso maggiormente la veste di conferma più che di ricerca delle strategie da adottare. Oppure sono stati analizzati casi particolarmente seri come i bambini con diagnosi clinica seguiti da insegnanti supplementari di sostegno. Anche essi in effetti facevano parte delle forme di disagio affrontate. Nel corso del terzo anno infine i casi di disagio analizzati oltre che essere stati più rari richiedevano tempi molto più rapidi, perché l’abitudine da parte degli insegnanti all’osservazione e alla comprensione dei problemi era molto facilitata. È stato più volte verbalizzato dagli stessi insegnanti come nel corso del tempo le loro osservazioni siano risultate sempre più facili e sicure, sia quando dovevano parlare dei bambini con i genitori che tra loro stessi. In qualche caso sono state anche di notevole aiuto nella presentazione dei bambini agli insegnanti della prima elementare in occasione di incontri per la continuità educativa. Un altro importante segno obiettivo dell’utilità del canovaccio offerto da questa modalità di osservazione e comprensione del disagio infantile da parte degli insegnanti è costituito dal cambiamento avvenuto in loro nella rilevazione delle varie forme di disagio tra la prima e la seconda verifica sperimentale di cui parleremo diffusamente nella seconda parte di questa relazione (differenza tra la prima rilevazione di gennaio 2004 e la seconda di giugno 2004). Questo infatti è il periodo nel quale si è discusso maggiormente delle situazioni di disagio che si presentavano a scuola e di come queste potevano essere accolte dalla competenza educativa degli insegnanti. La rilevazione del disagio Una griglia di rilevazione
Dal momento che, come è stato detto in precedenza, il disagio alla scuola dell’infanzia è un fenomeno alquanto sconosciuto non essendoci su di esso dati attendibili in letteratura, si è pensato di utilizzare la modalità di osservazione e comprensione del disagio istituita per l’occasione per portare anche una prima sommaria indagine statistica.
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Ci si è ispirati pertanto alla analoga iniziativa - che si è svolta presso le scuole elementari De Gaspari a Trento negli anni 1999-2002 (vedi Capire il disagio, testo già citato nella nota a p. 22). La griglia (cfr. Tabella 1) costruita è stata prima condivisa dagli insegnanti per quanto riguarda il contenuto e il modello teorico di riferimento; è stata poi utilizzata per la raccolta delle osservazioni nelle discussioni pratiche; infine è stata utilizzata per una terza funzione di carattere prevalentemente conoscitivo. Per questa ragione è stata codificata in modo che fosse adatta ad una ricerca di raccolta dati (a ogni bambino è stato dato un codice per preservarne la privacy) è stata applicata a inizio e fine anno scolastico per tre anni, a tutti i bambini delle due scuole dell’infanzia coinvolte nel progetto, circa 100 bambini inizialmente, arrivati poi a circa 150 alla fine del triennio. Tabella 1: Griglia di rilevazione del disagio nella scuola dell’infanzia Nome bambino _______________sezione____________codice_____________ Tipo di problema
Importanza
Fattibilità
Contenitori istituzionali 1. Difficoltà di separazione dai familiari e di entrata alla scuola dell’infanzia
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
2. Vissuto di “lutto” permanente
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
3. Sintomi psicosomatici
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
4. Attraversamento iperattivo
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
5. Rifiuto del cibo
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
6. Difficoltà di addormentamento
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
7. Difficoltà nell’utilizzo del gabinetto
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
8. Ricongiungimento molto difficoltoso
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
Contenitori didattici 9. Rifiuto della consegna
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
10. “Non sono capace”
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
11. Esigenza di rapporto privilegiato 0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5 12. Reazione esagerata davanti all’insuccesso o al richiamo dell’insegnante 0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5 13. Difficoltà obiettive di tipo disprassico
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
14. Difficoltà di tipo linguistico
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
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Tipo di problema
Importanza
Fattibilità
Contenitori liberi 15. Gioco disorganizzato
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
16. Gioco esplosivo
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
17. Gioco frammentato
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
18. Inibizioni
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
Rapporti scuola famiglia 19. Contrasti scuola famiglia
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
20. Altro (specificare)
0 1 2 3 4 5 0 1 2 3 4 5
La rilevazione
Nel primo anno, dati i tempi tecnici per la presentazione, la discussione e la messa a punto della griglia stessa, essa è stata applicata più tardi, e precisamente nel gennaio 2004. Poi la rilevazione è avvenuta regolarmente a fine anno scolastico nel giugno del 2004. Negli anni successivi la rilevazione ha avuto un andamento più regolare ed è avvenuta a ottobre e maggio di ogni anno scolastico, quindi a ottobre 2004, a maggio 2005, a ottobre 2005, a maggio 2006. Le insegnanti dovevano discutere e condividere quale punteggio dare a ogni bambino della loro sezione nella parte contraddistinta dalla parola “importanza”. Se il bambino non presentava nessun problema secondo quella voce veniva barrata la casella 0, se invece la gravità del sintomo era massima si barrava la casella 5. In modo parallelo veniva compilata la parte relativa alla voce “fattibilità”. Se le insegnanti si sentivano impotenti a livello educativo di fronte al sintomo presentato dal bambino dovevano barrare la casella 0, o la 5 se invece si sentivano in grado di rispondere in modo adeguato. Naturalmente i docenti potevano scegliere valori intermedi.
Il vissuto
Secondo il vissuto degli insegnanti la compilazione della griglia ha richiesto un certo lavoro, fatica e tempo, soprattutto nella fase iniziale delle prime rilevazioni. Il tutto era dovuto sia ad un certo senso di iniziale diffidenza e fastidio che comportava il dover schematizzare a volte in modo rigido delle sensazioni o dei pareri personali, sia al fatto di dover condividere il significato delle singole voci con i colleghi per abituarsi ad una compilazione uniforme. Le rilevazioni successive si sono rivelate molto più semplici, e alla fine il tutto è avvenuto con una
degli insegnanti
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certa facilità e una condivisione assai agevole. Ecco quanto dichiarato da una docente del Gruppo 1. “Inizialmente ci sembrava un metodo troppo “freddo”, quasi “clinico” per un’osservazione di bambini e bambine che spesso noi “condiamo” con i nostri sentimenti; ma utilizzandolo (dopo averlo discusso e adeguato alla realtà della scuola dell’infanzia) ci siamo resi conto che quella che all’inizio sembrava una modalità asettica di studio/relazione con bambine e bambini si è rivelato un prezioso ausilio per “guardarli” attraverso “occhiali diversi” con maggior chiarezza e, se possibile, con obiettività” (Dal verbale di un incontro in plenaria). “Fin dai primi incontri teorici, quando si è affrontato il tema generale del disagio, ci è stata proposta una griglia di rilevamento dello stesso. Abbiamo avuto inizialmente delle perplessità, perché ci sembrava troppo riduttiva, rigida, schematica, omologante e di dubbia utilità. Comunque dopo averla rielaborata per adattarla alla nostra realtà e per arrivare ad una comune interpretazione della sua terminologia, è risultata essere un utile strumento di osservazione non solo per raccogliere dati, ma soprattutto per individuare l’intensità del disagio del bambino e il nostro e per gestire meglio l’intervento educativo” (Dalla relazione degli insegnanti alla presentazione del seminario di marzo 2006). Il disagio educativo
È da dichiarare subito in modo esplicito però che con questa rilevazione non si vuole indagare il fenomeno del disagio infantile nella sua obiettività fenomenologica, statistica o sociologica. Il numero dei bambini coinvolti è molto esiguo, e non è certo un campione rappresentativo dell’infanzia trentina. Inoltre queste rilevazioni sono compilate dagli insegnanti, quindi si rileva l’entità del fenomeno visto attraverso i loro occhi. Più che “il disagio del bambino” in questa ricerca si rivela “il disagio degli insegnanti di fronte al disagio del bambino”. Oppure, detto in termini più espliciti, attraverso questa ricerca, più che il vero disagio infantile si rileva il disagio educativo. Ma l’obiettivo primario del progetto “ad Agio” riguarda forse in modo più puntuale proprio questo preciso aspetto del problema.
Il “vero” oggetto della rilevazione
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
Classificazione secondo raggruppamenti sintomatici I sintomi
Una ulteriore visione della griglia può invece essere ottenuta se si seguono non più i criteri dei contenitori educativi come sono stati illustrati in precedenza (i quali si sono dimostrati efficaci soprattutto per un utilizzo pedagogico della griglia), ma dei criteri a carattere più sintomatico che si sono dimostrati utili in fase di ricerca. Abbiamo allora le seguenti voci: Autonomia
Il tema dell’autonomia è sicuramente uno dei principali obiettivi educativi della scuola dell’infanzia, e contemporaneamente il terreno dove sono più frequenti i sintomi di disagio dei bambini. Tali sintomi attraversano i vari contenitori educativi e si esprimono con modalità molto diverse secondo i vari momenti. Avremo da una parte le manifestazioni più evidenti e classiche, come la “Difficoltà di separazione dai familiari e di entrata alla scuola dell’infanzia” nei contenitori istituzionali, ma poi anche il “Non sono capace”, e l’“Esigenza di rapporto privilegiato” nei contenitori didattici dove la richiesta di aiuto nei confronti dell’adulto è evidente e diretta. Particolarità dell’autonomia
Le difficoltà di autonomia però hanno anche delle forme espressive più subdole, sfuggenti e che passano per vie traverse. Sono sintomi certamente meno frequenti appunto perché sono espressioni particolari del problema generale, ma sono pur sempre delle forme da riconoscere e di cui tener conto. Sono presenti soprattutto nei contenitori istituzionali, dove avremo il “Vissuto di lutto permanente”, i “Sintomi psicosomatici” e l’“Attraversamento iperattivo”. Riguardano poi i problemi legati alle funzioni biologiche come il “Rifiuto del cibo”, “Difficoltà di addormentamento” e la “Difficoltà nell’utilizzo del gabinetto” e si riferiscono infine al “Ricongiungimento molto difficoltoso”. Una particolarità di difficoltà del tema dell’autonomia può essere considerato anche il “Rifiuto della consegna” nel contenitore didattico. Regolazione emotiva
Esiste poi un altro importante tema che raggruppa varie difficoltà infantili: è quello della regolazione emotiva. Riguarda, nello specifico,
“ad Agio” IPRASE del Trentino
la capacità di controllo e regolazione del vissuto emotivo ed è il punto di incontro di varie tappe dello sviluppo infantile, da quello neuropsicologico e biologico, a quello psicologico e caratteriale, a quello relazionale. Possiamo considerare in questo raggruppamento la “Difficoltà esagerata di fronte all’insuccesso o al rimprovero da parte dell’insegnante” e quasi tutte le difficoltà che si esprimono attraverso il gioco libero, dal momento che lo scopo principale del gioco nell’infanzia è proprio quello di divertire e di suscitare emozioni. Avremo allora le difficoltà di “Gioco disorganizzato”, “Gioco esplosivo” e le “Inibizioni”. Difficoltà di sviluppo
Abbiamo poi il capitolo che riunisce i sintomi del disagio che dipendono da obiettive difficoltà di sviluppo, quindi che hanno un’origine e una causa maggiormente imputabili alla componente biologica (in particolare neuropsicologica) tipiche dello sviluppo di ogni bambino. Sono le difficoltà connesse al ritardo o alla non perfetta evoluzione della capacità di coordinazione del movimento (“Difficoltà obiettive di tipo disprassico”), i problemi connessi allo sviluppo del linguaggio (“Difficoltà di tipo linguistico”), e i problemi legati al disturbo della difficoltà di attenzione e iperattività (“Gioco frammentato”). Problemi istituzionali - Altro
Infine avremo il capitolo che contempla i problemi di ordine istituzionale: “Contrasti scuola famiglia” e l’immancabile “Altro”. Tabella 2: Classificazione secondo gruppi sintomatici Autonomia • Difficoltà di separazione dai familiari e di entrata alla scuola dell’infanzia • “Non sono capace” • Esigenza di rapporto privilegiato Particolarità dell’autonomia • Vissuto di “lutto” permanente • Sintomi psicosomatici • Attraversamento iperattivo • Rifiuto del cibo • Difficoltà di addormentamento • Difficoltà nell’utilizzo del gabinetto
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
• Ricongiungimento molto difficoltoso • Rifiuto della consegna Regolazione • Difficoltà esagerata di fronte all’insuccesso o al rimprovero dell’insegnante • Gioco disorganizzato • Gioco esplosivo • Inibizioni Problemi di sviluppo • Difficoltà obiettive di tipo disprassico • Difficoltà di tipo linguistico • Gioco frammentato Problemi istituzionali/Altro • Contrasti scuola-famiglia • Altro
I NUMERI DEL DISAGIO2 Analisi quantitativa
Entrando in modo più preciso dentro i numeri che la griglia ci ha fornito attraverso la rilevazione triennale fatta nelle due scuole dell’infanzia coinvolte nel progetto, il primo dato rilevante da analizzare è la quantità di sintomi di disagio individuati. Analizziamo in questo senso la Tabella 3 che riporta in percentuale il numero di bambini che presentano un determinato numero di sintomi di disagio come sono previsti dalla griglia nei vari periodi di somministrazione della stessa.
2
L’inserimento dei dati è stato fatto da Mauro Fontanari, mentre l’elaborazione dei dati stessi è stata fatta dal dott. Virginio Amistadi.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Tabella 3: Valori percentuali relativi alle rilevazioni svolte nel triennio di sperimentazione Categorie di sintomi osservati Nessun sintomo Normalità (da 1 a 2 sintomi) 1 2 Totali Normalità allargata Disagio (da 3 a 7 sintomi) 3 4 5 6 7 Totali
Gennaio 2004 Giugno 2004 Ottobre 2004 Maggio 2005 Ottobre 2005 Maggio 2006 bambini 102 bambini 102 bambini 139 bambini 139 bambini 156 bambini 156 21,6 34,3 26,6 25,2 26,3 39,1 16,7 -----------15,7 20,1 ----------25,9 22,4 -----------16,7 6,9 10,8 -----------19,4 18,7 -----------17,3 13,5 23,6 26,5 39,5 44,6 39,7 30,2 45,2 60,8 66,1 69,8 66 69,3 ------------ 7,8 5,9 7,8 8,8 4,9 35,2
15,7 8,8 4,9 1 30,4
11,5 8,6 1,4 2,9 2,9 27,3
2 2,9
2,9 0,7 1,4
2
0,7
11,5 5 6,5 1,4 1,4 25,8
4,5 10,3 7,7 2,6 1,3 26,4
12,2 6,4 2,6 1,3 2,6 25,1
Disagio profondo (da 8 a 17 sintomi)
8 9 10 11 12 13 14 15 17 Totali Numero totale di sintomi rilevati % di sintomi
5,9 2,9 1 2,9 2 1 2 1 1 19,7
1 1 8,9
6,4
423 4,15
259 2,54
327 2,35
2,6 0,7 0,7 1,4
1,9
2,6 0,6
1,3 0,6 0,6 0,6
0,6 1,3
4,2
7,6
5,7
302 2,24
404 2,59
325 2,08
1,4 0,7
0,6
Variazione tra la prima e le altre rilevazioni
Il primo dato che emerge con molta evidenza è la differenza nel numero complessivo di sintomi di disagio rilevata dagli insegnanti nella prima rilevazione di gennaio 2004 rispetto a quella della seconda rilevazione di giugno 2004 e poi in quelle degli anni successivi. Nella prima rilevazione di gennaio 2004 si ha una media di 4,15 sintomi per ogni bambino, mentre nella seconda rilevazione di giugno dello stesso anno, quindi dopo 6 mesi circa, la media è passata a 2,54 con una diminuzione del 40% circa. Negli anni successivi la media si assesta
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
tra il 2,5 e 2% con delle variazioni tra inizio e fine anno più contenute che potrebbero essere contemplate nel fenomeno della normalizzazione istituzionale. È comprensibile infatti che a inizio anno scolastico, soprattutto in considerazione dell’ingresso dei nuovi bambini per i quali l’entrata alla scuola dell’infanzia costituisce spesso la prima esperienza istituzionale fuori dalla famiglia, ci siano dei sintomi dovuti al nuovo adattamento richiesto loro, ma che poi l’abitudine e l’effetto istituzionalizzante della scuola normalizzino il sintomo nel corso dell’anno. La rilevante differenza nel numero di sintomi segnalati tra la prima rilevazione e la seconda (con un intervallo di soli sei mesi) piuttosto che nei bambini è allora da ricercarsi nel cambiamento avvenuto negli insegnanti nel corso del primo anno di avvio del progetto. Come si è più volte detto nella prima parte, questa rilevazione è fatta dagli insegnanti, di conseguenza ciò che viene colto più che il fenomeno disagio in sé è il fenomeno visto e vissuto da loro, quindi viene colta la difficoltà educativa del disagio. Il fatto che durante tutto il primo anno della sperimentazione si sia lavorato in modo particolare sulla definizione e sulla comprensione del disagio infantile, ma soprattutto sulle capacità del suo accoglimento attraverso le possibilità e le competenze educative della scuola e degli insegnanti, ha indubbiamente cambiato la stessa percezione del fenomeno ai loro occhi, e l’analisi dei numeri lo dimostra in modo assai netto. Tutto questo ritorna a conferma dell’ipotesi teorica che è stata posta alla base del progetto: e cioè che il disagio del bambino alla scuola dell’infanzia prende senso attraverso l’analisi delle modalità relazionali, di attaccamento e contenimento rispetto all’adulto importante per lui all’interno delle istituzioni scolastiche e attraverso le risposte educative che questi sa mettere in atto nel mondo della scuola. Variazione dei sintomi di disagio
Un altro dato significativo che emerge dalla tabella è il raggruppamento della percentuale di bambini che presenta un certo numero di sintomi di disagio secondo le varie rilevazioni. Per rendere più chiaro ed esplicito questo dato abbiamo suddiviso il numero di sintomi in alcune categorie generali. Si tratta di una suddivisione certo arbitraria per alcuni versi, ma che in ogni caso ci pare utile per dare un senso più compiuto ai singoli numeri. Abbiamo identificato le seguenti categorie:
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il bambino “ideale” con 0 sintomi. Il bambino “normale” con 1-2 sintomi. Pensiamo infatti che qualche forma di disagio all’età che prendiamo in considerazione sia del tutto normale, dando quindi un significato piuttosto esteso al concetto stesso di normalità. Anche in considerazione del fatto che per molti bambini si tratta della prima esperienza scolastica, che molti sintomi possono anche essere passeggeri o reattivi (pensiamo al momento del primo inserimento), e che altri sintomi possono anche non riguardare il bambino in sé, ma possono dipendere da altre cause (ad esempio contrasti scuola-famiglia). 3. Il bambino “con disagio”. Sono considerati bambini con disagio vero e proprio quelli che presentano da 3 a 7 sintomi. 4. Il bambino “con disagio profondo”. Sono considerati infine bambini con disagio profondo quelli che presentano otto sintomi o più. Possono riguardare situazioni che rasentano o fanno parte in modo franco di sindromi con chiara valenza clinica. 1. 2.
Secondo questa ipotesi di classificazione possiamo allora leggere i dati nel seguente modo: 1. Bambino “ideale”
Alla prima rilevazione solo il 21,6% di bambini appartiene alla categoria del bambino “ideale” (nessun sintomo). Praticamente un bambino su 5. Nella seconda rilevazione però questo dato aumenta fino al 34,3% fino a salire al 39,1% dell’ultima rilevazione. Praticamente possiamo dire che appartiene alla categoria del bambino ideale in media un bambino su tre. 2. Bambino “normale”
Sommando però il numero dei bambini “ideali” con quello dei bambini considerati “normali” (fino a due sintomi) e quindi considerando nel complesso la categoria della “normalità allargata” vediamo che alla prima rilevazione essa non arrivava neanche ad un bambino su due (45,1%), mentre nelle successive rilevazioni i dati sono molto uniformi e quindi possono avere un senso più preciso: si parte da un 66% a inizio anno per arrivare a oltre il 69% a fine anno. Quindi possono essere considerati normali due bambini su tre.
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
3. La linea mediana
Se poi consideriamo la linea mediana, cioè dove si trova il 50° percentile (cfr. la riga tratteggiata nella Tabella 3 a p. 85), vediamo che nella prima rilevazione esso si situa nella caselle dei tre sintomi, mentre in quelle successive si attesta intorno alla casella di bambini con un sintomo. Più precisamente ad inizio anno, al momento dell’ingresso dei nuovi bambini, si sfiora quella con due sintomi, mentre a fine anno si è francamente all’interno di quella con un solo sintomo. 4. Bambini con disagio
La categoria di bambini con disagio vero e proprio (dai tre ai sette sintomi) varia dal 35,2% della prima rilevazione al 30% della seconda mentre si assesta intorno al 25% delle altre. Possiamo allora concludere che secondo questi dati presenta sintomi di disagio vero e proprio un bambino su quattro. 5. Bambini con disagio profondo
Il numero di bambini che presentano invece un disagio profondo (8 o più sintomi) dopo il 19,7% della prima rilevazione si assesta sul 5-7% delle rilevazioni successive. In effetti nelle due scuole erano presenti anche dei bambini già certificati con insegnante supplementare e altri sono stati certificati nel corso dell’anno, e tutti sono stati normalmente contemplati nelle rilevazioni effettuate. In conclusione: considerato il significato particolare della rilevazione del primo anno di cui si è già parlato, e considerati i numeri abbastanza stabili nelle rilevazione dei due anni successivi, possiamo concordare un primo dato di un certo significato sulla consistenza del disagio educativo alla scuola dell’infanzia. E precisamente: • Circa due bambini su tre possono essere considerati “normali” (65-70%). • Un bambino su quattro presenta segni di disagio (il 25% circa). • Il 5/6% dei bambini presenta sintomi di disagio grave clinicamente rilevante. Naturalmente, come è stato più volte evidenziato, è difficile dare un senso certo da un punto di vista sociologico, statistico o epidemiolo-
“ad Agio” IPRASE del Trentino
gico a questi dati. Innanzi tutto perché si tratta di numeri molto esigui perché si possa parlare di un campione significativo della popolazione infantile (sono stati coinvolti dai 100 ai 150 bambini circa nei tre anni). In secondo luogo perché la griglia utilizzata non era stata pensata e tarata per misurare il fenomeno in sé, ma piuttosto per guidare gli insegnanti nella comprensione e accoglimento del disagio infantile in termini strettamente pedagogici. Infine perché la divisione del disagio nelle categorie che abbiamo appena esaminato deriva da una interpretazione arbitraria. Quindi, se si vuole dare un significato più preciso a questi dati, esso deve prendere un taglio di tipo esclusivamente pedagogico ed educativo. Come si diceva, questi dati possono essere letti e interpretati come il disagio percepito dal mondo della scuola dell’infanzia nell’espletamento del suo mandato istituzionale. Quindi sono dati che misurano in modo più realistico il grado di “fatica” e impegno richiesti agli insegnanti per far fronte al loro compito educativo. Che un bambino su quattro venga percepito come portatore di chiari segni di disagio non vuol automaticamente dire che un bambino su quattro “è” a disagio nel senso di essere a rischio evolutivo serio. Mancano altri dati più chiari a livello obiettivo per surrogare un’affermazione del genere. E poi sappiamo che i sintomi di disagio in età infantile sono molto mobili e la loro gravità o meno in termini di prognosi futura dipende in modo troppo stretto dal grado del loro più o meno competente accoglimento da parte degli adulti. Però possiamo sicuramente affermare che almeno un bambino su quattro richiede al mondo della scuola un impegno serio, competente e oneroso per far sì che i suoi sintomi di disagio, intesi nel senso di messaggi di aiuto inviati agli adulti importanti, non diventino effettivi rischi evolutivi. L’analisi dei numeri del disagio infantile ci riporta allora sul terreno specifico del progetto “ad Agio”: e cioè come individuare e sperimentare delle buone prassi per saper accogliere a livello professionale ed istituzionale i segni del disagio educativo, e come contemporaneamente aiutare, sostenere e supportare l’impegno, lo sforzo e l’applicazione degli insegnanti perché possano rispondere in modo competente secondo tale obiettivo. Si tratta di uno scopo che assume un particolare ed evidente obiettivo a carattere preventivo, data la tenera età dei bambini cui la scuola dell’infanzia istituzionalmente si rivolge. Il vero
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
obiettivo preventivo a livello pedagogico infatti non può concentrarsi nell’intervento sulle cause del disagio, dal momento che la scuola non ha efficaci strumenti di intervento in questo senso. Il vero obiettivo preventivo della scuola è piuttosto quello di fare in modo che essa sia sufficientemente attenta, equipaggiata e adeguatamente supportata per “non essere a disagio” di fronte al disagio del bambino, e quindi di saper rispondere con competenza istituzionale e professionale alle richieste di aiuto che il bambino le invia. Questa è l’interpretazione che i numeri analizzati in questo paragrafo sembrano dirci. Essi confermano nella pratica la scelta, gli obiettivi e la metodologia alla base del progetto “ad Agio”. Analisi qualitativa
Passiamo ora ad analizzare i dati secondo delle ipotesi a carattere maggiormente qualitativo. Classificazione secondo i Contenitori Educativi
Osserviamo in primo luogo i dati secondo l’ipotesi teorica dei contenitori educativi in base alla quale era stata ideata la griglia di rilevazione. Leggiamo a questo proposito la Tabella 4.
Maggio 2006
Ottobre 2005
Maggio 2005
Ottobre 2004
% Segnalazioni
Giugno 2004
Tabella 4: Percentuale di segnalazioni per contenitore e rilevazione Gennaio 2004
90
Contenitori istituzionalI
12,9
6,9
8,2
6,0
7,0
4,8
Contenitori didattici
30,2
19,9
18,1
17,1
22,5
17,7
Contenitori liberi
27,2
16,7
14,0
14,6
14,6
14,1
Rapporti scuola famiglia
10,8
6,4
2,5
4,0
4,8
3,5
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Grafico 1: Segnalazioni per contenitore
35 30,2 27,2
30 25
22,5 19,9
20 15
18,1
17,1
12,9
14,6
14,0 6,9
10
6,0
7,0
2,5
4,0 Maggio 2005
Ottobre 2005
6,4
0 Gennaio 2004
Giugno 2004
14,6
8,2
10,8 5
17,7
16,7
Ottobre 2004
14,1 4,8
4,8
Contenitori istituzionali
Contenitori didattici
Contenitori liberi
Rapporti scuola famiglia
3,5 Maggio 2006
I dati riportati in tabella esprimono la media dei vari sintomi in relazione ai diversi contenitori e rivelano la percentuale di bambini che presentano problemi. La somma tuttavia non dà 100, perché ci sono dei bambini che non presentano nessun problema in qualche contenitore educativo mentre altri possono presentare più problemi in diversi contenitori. Si rileva innanzi tutto come i problemi maggiori si evidenzino nei contenitori didattici, cioè nei momenti nei quali si svolgono le attività direttamente guidate dagli insegnanti. Sono seguiti a breve distanza dai contenitori liberi, cioè quando i bambini sono liberi di organizzare le loro attività e i loro giochi da soli, e, a una certa distanza, dai problemi nei contenitori istituzionali quali i momenti di entrata-uscita e delle routines quotidiane (mangiare, dormire e igiene personale). Ma forse il dato più rilevante in questa tabella sono la variazione del numero di problemi rilevati dagli insegnanti tra inizio e fine anno, il che rimanda al grado di modificabilità degli stessi da parte dell’azione educativa istituzionale e professionale della scuola. Lasciando per ora da parte i dati relativi al primo anno di rilevazione per i motivi già ampiamente analizzati in precedenza e prendendo in
91
92
PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
considerazione unicamente i dati dei due anni successivi (2004-05 e 2005-06) possiamo vedere che essi subiscono variazioni diverse. I problemi rilevati come più numerosi nei contenitori didattici subiscono delle buone variazioni (dal 18,1 al 17,1 nel secondo anno e dal 22,5 al 17,7 nel terzo), così come i problemi rilevati nei contenitori istituzionali, i quali variano dall’ 8,2 al 6 nel secondo anno e dal 7 al 4,8 nel terzo. Per contro i problemi rilevati nel contenitore libero subiscono poche variazioni. Sono pressoché costanti a inizio a fine anno scolastico, anzi nel secondo anno aumentano addirittura anche se in misura contenuta (dal 14 al 14,6), mentre nel terzo anno passano dal 14,6 al 14,1. Il significato pedagogico che si può trarre da questi numeri - pur nella prudenza dettata dall’esiguità della loro consistenza - è che forse i contenitori liberi sono meno soggetti all’efficacia dell’azione educativa degli insegnanti proprio perché “liberi” e quindi più “lontani” dalla loro azione educativa. O forse perché a questa età i bambini non sono del tutto capaci di essere veramente “liberi” o almeno non tutti, e quindi il presumere che siano sempre in grado di fare bene da soli è una deduzione che deriva probabilmente più dal concetto di bambino “ideale” che da quello di bambino “reale”. In ogni caso la riflessione pedagogica che si impone dalla lettura di questi dati è che più l’insegnante è “vicina” al bambino più la sua azione educativa diventa efficace: in effetti la vicinanza dell’insegnante al bambino è ovvia per ragioni diverse nei contenitori didattici e istituzionali, mentre nei contenitori liberi lo è di meno. Forse anche in questi momenti di gioco libero i bambini avrebbero bisogno in modo costante e continuo di una presenza solida, vigile e fattiva da parte della figura educativa dell’adulto che dia contenimento e sostegno alle loro attività e ai loro giochi. In sintesi, forse la conquista della “libertà” da parte del bambino deve essere un obiettivo educativo da perseguire e non da dare per scontato, e probabilmente deve essere ben seguita ed aiutata dal compito educativo degli insegnanti. Verrebbe allora da ribadire che il contenitore libero vuole evidenziare la libertà del bambino, non quella dell’insegnante rispetto alla propria competenza educativa. Classificazione secondo gruppi sintomatici
Vediamo ora i problemi dei bambini secondo l’ipotesi sintomatica che fornisce i dati forse più interessanti. (Tabella 5)
“ad Agio” IPRASE del Trentino
% Segnalazioni Difficoltà di separazione dai familiari e di entrata alla scuola dell’infanzia
Maggio 2006
Ottobre 2005
Maggio 2005
Ottobre 2004
Giugno 2004
Gennaio 2004
Tabella 5: Percentuale di segnalazioni per area e rilevazione - dettaglio
N=102 N=102 N=139 N=139 N=156 N=156 36,3
20,6
33,1
23,7
22,4
Non sono capace
41,2
18,6
20,9
11,5
27,6
14,7 16,0
Esigenza di rapporto privilegiato
39,2
31,4
30,2
29,5
34,6
31,4
TOTALE AUTONOMIA Reazione esagerata davanti all’insuccesso o al richiamo dell’insegnante
38,9
23,5
28,1
21,6
28,2
20,7
31,4
27,5
21,6
23,7
26,9
21,8
Gioco disorganizzato
29,4
16,7
10,1
10,1
10,3
9,6
Gioco esplosivo
30,4
21,6
13,7
20,1
14,7
14,1
Inibizioni
32,4
18,6
25,9
17,3
25,0
20,5
TOTALE REGOLAZIONE
30,9
21,1
17,8
17,8
19,2
16,5
Vissuto di “lutto” permanente
12,7
6,9
7,2
3,6
5,8
3,8
9,8
1,0
4,3
2,2
2,6
0,6
Attraversamento iperattivo
13,7
9,8
4,3
7,9
4,5
3,2
Rifiuto del cibo
7,1
Sintomi psicosomatici
16,7
7,8
6,5
5,0
9,6
Difficoltà di addormentamento
1,0
0,0
6,5
0,7
1,3
2,6
Difficoltà nell’utilizzo del gabinetto
4,9
2,0
2,2
0,7
5,8
2,6
Ricongiungimento molto difficoltoso
7,8
6,9
1,4
4,3
3,8
3,8
Rifiuto della consegna
25,5
12,7
10,1
10,1
16,7
13,5
TOTALE PARTICOLARITÀ NELL’ AUTONOMIA
11,5
5,9
5,3
4,3
6,3
4,6
Difficoltà obiettive di tipo disprassico
17,6
8,8
5,8
7,2
7,1
5,8
Difficoltà di tipo linguistico
26,5
20,6
20,1
20,9
22,4
17,9
Gioco frammentato
16,7
9,8
6,5
10,8
8,3
12,2
TOTALE PROBLEMI DI SVILUPPO
20,3
13,1
10,8
12,9
12,6
12,0
Contrasti scuola famiglia
15,7
11,8
5,0
7,2
9,6
7,1
Altro TOTALE PROBL. ISTITUZ. - ALTRO
5,9
1,0
0,0
0,7
0,0
0,0
10,8
6,4
2,5
4,0
4,8
3,5
93
94
PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
Grafico 2: Segnalazioni per area
45
38,9
40 35
28,2
28,1
30,9
30
23,5
21,6
25 20,3
20 15
11,5 5,9
10 5 0
Autonomia
13,1
10,8 6,4 Gennaio 2004
20,7
21,1
Giugno 2004
17,8
17,8
19,2
10,8 5,3
12,9
12,6 6,3
2,5 Ottobre 2004
4,3 4,0 Maggio 2005
Autonomia
Regolazione
Istituz. - altro
Problemi di sviluppo
4,8 Ottobre 2005
16,5 12,0 4,6 3,5 Maggio 2006 Particolarità
La prima constatazione che emerge con maggior rilevanza da questi dati è che le difficoltà più frequenti alla scuola dell’infanzia si situano sul capitolo dell’autonomia. Ciò si evidenzia sia nelle difficoltà specifiche della separazione dai familiari, sia nella esigenza di rapporto molto ravvicinato ed evidenziato con l’adulto nei momenti didattici. Il problema quasi sempre al primo posto come frequenza o comunque sempre tra i primi è quello di “esigenza di rapporto privilegiato”. Contemporaneamente però bisogna registrare che i problemi di autonomia sono anche quelli che registrano il maggior numero di modificazioni tra le rilevazioni di inizio e fine anno. Prescindendo dalle modificazioni del primo anno per le note ragioni, quelle degli anni successivi sono abbastanza evidenti e costanti, e la variazione tra inizio e fine anno riguardano un quarto dei casi (dal 28,1 al 21,6 nel secondo anno e dal 28,2 al 20,7 nel terzo). Il significato pedagogico di tali dati è abbastanza evidente considerata l’età degli utenti della scuola dell’infanzia e considerata l’importanza della relazione con l’adulto nel determinare lo “star bene o male” a scuola. In ogni caso questo
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è il campo dove l’effetto istituzionale e professionale degli insegnanti registra il maggior successo educativo. Si tratta anche in questo caso di problemi molto presenti (ne è colpito un bambino su 5-6), ma con variazioni più altalenanti rispetto ai problemi di autonomia. Nel contesto della regolazione il sintomo sicuramente più modificabile dall’azione educativa degli insegnanti risulta essere l’inibizione (dal 25,9 al 17,3 nel secondo anno e dal 25,0 al 16,5 nel terzo), mentre il più costante e quindi il meno modificabile è quello del gioco disorganizzato (che rimane costante intorno al 10). Per contro il gioco esplosivo e la reazione esagerata di fonte all’insuccesso e al rimprovero dell’insegnante aumentano nel corso del secondo anno mentre diminuiscono nel corso del terzo. Difficile dare una spiegazione esauriente di un tale andamento, anche perché, oltre al fatto obiettivo dei bambini che presentano tali sintomi, bisognerebbe indagare anche a proposito dell’impatto che tali sintomi hanno sugli adulti. È comunemente risaputo infatti che le difficoltà esplosive o in ogni caso quelle con effetti molto vistosi come appunto le reazione esagerate all’insuccesso o al rimprovero hanno un impatto molto più forte sugli insegnanti (soprattutto sul femminile che rappresenta la quasi totalità degli adulti nel mondo della scuola dell’infanzia), e presentano quindi una difficoltà maggiore nel loro accoglimento. Risulta difficile allora stabilire se all’interno delle difficoltà di regolazione quelle con effetti forti ed esplosivi risultano meno modificabili di quelle con effetti implosivi per cause obiettive dei sintomi stessi o per cause soggettive da parte di chi li riceve. In pratica sono meno modificabili in sé o sono meno ricevibili? Comunque nel loro complesso i problemi di regolazione emotiva presentano una sostanziale immobilità nel corso del secondo anno e una leggera modificazione nel corso del terzo anno. In ogni caso bisogna sottolineare che le capacità di autocontenimento emotivo sono molto difficili da ottenere nei bambini di questa età (3-6 anni), dal momento che la metacognizione mentale delle difficoltà emotive alla base dell’autocontenimento può avvenire solo in età superiore. Di conseguenza il contenimento emotivo alla scuola dell’infanzia deve avvenire quasi esclusivamente in seguito ad un intervento educativo degli adulti. In pratica deve esserci eterocontenimento. Ciò può spiegare parzialmente la minore modificazione di questi sintomi, e
Regolazione
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
la necessità di un intervento più costante, solido e competente da parte degli insegnanti a proposito delle difficoltà di regolazione emotiva. Problemi di sviluppo
Abbiamo poi, come numero di casi, i problemi di sviluppo. Sono problemi per lo più dipendenti da ritardi o difficoltà di alcune funzioni dello sviluppo infantile, come il movimento, il linguaggio e la capacità di attenzione e concentrazione. Ecco perché risultano difficilmente modificabili nel corso dell’anno dall’azione educativa della scuola. È da rilevare comunque che con la dizione “ritardo di linguaggio” (dove si concentrano la maggior parte dei sintomi rilevati nella categoria dei problemi di sviluppo) sono stati compresi anche sintomi che riguardano certo l’uso del linguaggio, ma con un significato chiaramente emotivo, come i casi di mutacismo o inibizione del linguaggio con gli adulti, e che sarebbero più propriamente da catalogare sotto il capitolo delle inibizioni nei problemi di regolazione. Con questa precisazione i problemi di sviluppo si situerebbero intorno al 10% della popolazione infantile, e sarebbe un dato compatibile con altri dati epidemiologici disponibili.
Particolarità
Infine i dati relativi alle particolarità nell’autonomia, compresi quasi tutti nei contenitori istituzionali, si situano intorno al 5% anche qui con una discreta variazione da inizio a fine anno, a testimonianza di una loro apprezzabile permeabilità alle sollecitazioni educative della scuola.
dell’autonomia
Contrasti scuola famiglia
I problemi relativi ai contrasti scuola-famiglia hanno un andamento altalenante a cui è difficile dare un’interpretazione univoca, forse perché dipendente anche da situazioni contingenti. Per contro la diminuzione negli anni successivi al primo dei valori nella voce “altro” potrebbe testimoniare a favore del carattere esaustivo della griglia stessa, che dimostra in tal modo di contemplare al suo interno tutte le varie forme con le quali si manifestano i disagi infantili alla scuola dell’infanzia. Raggruppamento per aree
Se proviamo a sommare i vari problemi relativi all’autonomia (sia in generale che nelle varie particolarità) con i problemi di regolazione, osserviamo come essi raccolgano quasi per intero i segni del disagio
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infantile all’interno della scuola dell’infanzia. Si veda a tale proposito il Grafico 3. Grafico 3: Raggruppamento delle aree 90
81,3
80 70 60
50,5
53,6
51,2 43,7
50
41,9
40 30
20,3
20 10 0
13,1 10,8 Gennaio 2004
6,4 Giugno 2004
Auton. + regol. + particol.
12,9
12,6
2,5
4,0
4,8
Ottobre 2004
Maggio 2005
Ottobre 2005
10,8
Problemi sviluppo
11,8 3,5 Maggio 2006
Istituz. - altro
A parte la prima rilevazione, nelle altre si può individuare una certa costanza nei numeri intorno al 50% con diminuzione verso il 40% a fine anno. Ciò vuol dire che un bambino su due presenta a inizio anno qualche problema sul piano dell’autonomia e/o della regolazione, e che il problema è abbastanza abbordabile sul piano educativo. Da un punto di vista pedagogico questo dato potrebbe rappresentare il punto chiave per individuare il vero obiettivo per un intervento preventivo alla scuola dell’infanzia, in quanto un aiuto nei confronti delle capacità educative istituzionali della scuola e un sostegno alla professionalità degli insegnanti sul tema dell’autonomia e della regolazione raggiungerebbe circa il 75% delle varie forme del disagio infantile (quindi 3 su 4), almeno nelle forme rilevate da questa ricerca.
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
Trova conferma, allora, anche in questi numeri l’ipotesi d’intervento su cui è stata costruita la strategia di contrasto del disagio infantile: la psicomotricità come intervento curricolare per tutti i bambini per ogni anno di sperimentazione, come sarà illustrato nella parte terza del presente rapporto. Intensità delle problematiche rilevate
Si ricorderà che nella scheda di rilevazione del disagio le insegnanti dovevano annotare il grado di intensità con cui si manifestavano i sintomi su una scala da 0 a 5. Analizziamo allora l’intensità di manifestazione delle varie voci per singola rilevazione. Per comodità di lettura e per semplificare il senso globale riassumiamo l’insieme dei dati per singola rilevazione nel totale delle categorie sintomatiche già illustrate. Si veda la Tabella 6. Tabella 6: Intensità problematiche per rilevazione - Media (Deviazione Standard)
Importanza
Gen. 04 N=102
Giu. 04 N=102
Rilevazione Ott. 04 Mag. 05 N=139 N=139
Ott. 05 N=156
Mag. 06 N=156
Totale Autonomia
2,2 (0,98) 1,7 (0,82) 1,7 (0,97) 1,7 (0,86) 1,6 (0,77) 1,5 (0,79)
Totale Regolazione
2,1 (1,03) 1,8 (0,88) 1,7 (0,85) 1,9 (0,87) 1,9 (0,89) 1,6 (0,80)
Totale Particolarità nell’autonomia
2,3 (0,94) 1,8 (0,65) 2,0 (0,88) 2,2 (0,82) 1,8 (0,84) 1,4 (0,54)
Totale Problemi di sviluppo
2,3 (0,99) 2,2 (0,90) 2,7 (0,94) 2,5 (0,99) 2,2 (1,10) 1,9 (1,03)
Totale Prob. Istituz. - Altro
2,2 (0,95) 3,0 (0,99) 1,9 (0,38) 2,0 (0,83) 1,6 (0,91) 2,3 (1,01)
Come si può rilevare, sia per quanto riguarda l’autonomia, sia per la regolazione, sia per le particolarità dei problemi di autonomia si ha un andamento pressoché analogo: si parte da una media di intensità del 2,2/2,3 alla prima rilevazione e ci si abbassa fino al 1,6/1,4 dell’ultima rilevazione. Per contro i problemi di sviluppo hanno un’intensità con tendenza all’abbassamento molto più contenuto, con aumento a inizio di ogni anno e lieve abbassamento alla fine. A riprova del carattere poco agibile di tali sintomi, trattandosi per lo più di problemi non di origine emotiva o relazionale. L’abbassamento del livello di intensità percepito dagli insegnanti a proposito delle problematiche di autonomia e regolazione invece te-
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stimonia della crescita professionale degli stessi, dal momento che una maggior conoscenza del problema rende questo sicuramente meno acuto e il disagio che esso crea negli adulti risulta certamente meno forte. Fattibilità delle strategie educative
Nella scheda di rilevazione del disagio gli insegnanti dovevano registrare anche il grado di fattibilità del singolo problema rilevato, anche qui in una scala da 0 (fattibilità nulla) a 5 (fattibilità ottima). In pratica dovevano rilevare il livello delle proprie competenze educative di fronte al problema dato e il livello di efficacia dei loro strumenti educativi. Vediamo il risultato di tale indagine, anche qui riassunto per totale di raggruppamenti sintomatici, nella Tabella 7. Tabella 7: Fattibilità problematiche per rilevazione - Media (Deviazione Standard) Giu. 04 N=102
Rilevazione Ott. 04 Mag. 05 N=139 N=139
Fattibilità
Gen. 04 N=102
Ott. 05 N=156
Mag. 06 N=156
Totale Autonomia
3,9 (0,98) 4,3 (0,829 4,5 (0,97) 4,5 (0,86) 4,3 (0,77) 4,4 (0,79)
Totale Regolazione
3,7 (1,03) 4,1 (0,88) 4,3 (0,85) 4,3 (0,87) 4,2 (0,89) 4,3 (0,80)
Totale Particolarità nell’autonomia
3,3 (0,94) 3,9 (0,65) 4,3 (0,88) 3,8 (0,82) 3,9 (0,84) 4,5 (0,54)
Totale Problemi di sviluppo
3,5 (0,99) 3,7 (0,90) 3,8 (0,94) 3,7 (0,99) 3,7 (1,10) 3,9 (1,03)
Totale Prob. Istituz. - Altro
3,2 (0,95) 3,0 (0,99) 4,0 (0,38) 4,0 (0,83) 3,9 (0,91) 3,2 (1,01)
Anche per quanto riguarda la fattibilità si ha un andamento molto simmetrico a quanto visto per l’intensità, naturalmente in senso opposto. Per i problemi di autonomia (comprese le particolarità) e di regolazione si parte da un livello di fattibilità tra il 3,3 e il 3,9 della prima rilevazione e si arriva al 4,3/4,5 dell’ultima rilevazione. E anche in questo caso i problemi di sviluppo hanno un andamento più lineare, come è logico aspettarsi data la natura dei problemi. In totale quindi gli insegnanti registrano un incremento del loro livello di fattibilità di circa un punto nel corso del triennio, con un livello finale molto vicino al massimo di 5. Anche questo dato allora parla in modo molto chiaro della crescita del livello professionale degli insegnanti nel triennio considerato. Gli stessi problemi nel corso del tempo non solo sono da loro visti come meno intensi, ma gli insegnanti vedono accre-
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sciute anche le loro competenze e capacità istituzionali e professionali di saperli ricevere in modo più adeguato. La maggior parte dei dati della ricerca sembrano allora confermare il buon risultato del progetto “ad Agio” nel suo complesso, in quanto trovano conferma sia le scelte teoriche effettuate, sia gli obiettivi che esso si era proposto, sia le metodologie che sono state adottate. Ma soprattutto i numeri confermano ed evidenziano la validità dell’impegno degli insegnanti che hanno aderito al progetto.
ESPERIENZA DI “BUONA PRASSI”: LA PSICOMOTRICITÀ Come prevenire e contrastare il disagio
L’analisi dei numeri del disagio alla scuola dell’infanzia ha dimostrato che la maggior parte dei sintomi si raggruppano intorno alle categorie sintomatiche dell’autonomia e della regolazione emotiva (circa il 75% dei problemi rilevati). Ma questa constatazione - che è stata solo confermata e precisata dai numeri - era già presente nella mente del gruppo perché derivava dall’esperienza degli insegnanti e di chi conosce il mondo infantile. Di conseguenza quando alla partenza del progetto ci si è trovati a pensare ad una prassi da impostare “a cavallo tra classicamente curricolare e non, tra ambiti di intervento carichi di potenzialità innovative, ma non troppo sul normale fare scuola” (da misura D, linee guida del progetto in Appendice), e quindi quando ci si è trovati a progettare e programmare una “buona prassi educativa” direttamente mirata a prevenire e contrastare le principali forme di disagio educativo, è stata proposto un laboratorio di psicomotricità da impostare come intervento curriculare per tutti i bambini delle due scuole coinvolte nel progetto. È necessario però, in primo luogo, precisare brevemente alcuni principi teorici e metodologici specifici della psicomotricità come forma preventiva del disagio educativo infantile.3
3
Per un maggior approfondimento di questo tema si veda: G. Nicolodi, Maestra guardami, ed. CSIFRA, Bologna, 1992; L. Formenti (a cura di), Psicomotricità: educazione e prevenzione, ed. Erickson, Trento, 2006; B. Aucouturier, Il metodo Aucouturier, ed. F. Angeli, Milano, 2005.
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Alcune precisazioni teoriche
È comunemente risaputo che quelle con l’uso del movimento e del gioco in genere sono le attività più ricercate dai bambini proprio perché attraverso l’uso del corpo essi hanno la possibilità di esprimere ed entrare in contatto con la parte più profonda del loro essere, sia a livello fisico che cognitivo o emotivo. Il gioco infantile infatti, specialmente nell’applicazione motoria che implica un diretto coinvolgimento corporeo, mette in gioco la parte motivazionale più forte ed intensa, e attraverso essa il bambino entra in contatto con le fibre più profonde del proprio essere in senso globale. In particolare il gioco senso-motorio (saltare, cadere, rotolare, girare, scivolare) e il gioco simbolico (far finta di…) sono proverbialmente i modi più intensi che i bambini hanno per divertirsi, quindi di entrare in contatto con la parte più profonda del proprio vissuto emotivo attraverso il piacere provocato dal gioco. Contemporaneamente però questi giochi rappresentano anche i modi più efficaci attraverso i quali i bambini entrano in una relazione importante con il mondo delle cose e degli altri. Di conseguenza durante tali giochi l’adulto implicato nel processo educativo ha la possibilità di assumere una “vicinanza” del tutto particolare rispetto al mondo interno del bambino attraverso la competente condivisione empatica dei suoi vissuti. Ora sono proprio questi aspetti del gioco che la psicomotricità utilizza per i propri scopi educativi e preventivi. Essa si prefigge di organizzare e programmare in un percorso educativo ben strutturato proprio il gioco spontaneo che tutti i bambini del mondo hanno sempre fatto e sempre faranno, ma attraverso tale organizzazione e programmazione essa si prefigge di far incontrare le profonde motivazioni dei bambini con il senso e gli obiettivi educativi degli adulti sia a livello istituzionale che professionale.
Il gioco
Certo i bambini usano il corpo ed il movimento come principale mezzo espressivo, ma non è il corpo o il movimento in senso fisico il vero obiettivo della psicomotricità. La vera palestra è di tipo emotivo. Il vero “oggetto” della psicomotricità sono la motivazione e l’investimento emotivo che l’uso del gioco e del movimento procura. È lì che essa concentra tutta la sua attenzione osservativa ed è lì che essa dispiega tutte le sue competenze tecniche per poter offrire al bambino la condivisione empatica in cui risiede una vera ed efficace educazione all’emozione.
Motivazione
e il movimento per entrare in relazione col bambino
e investimento emotivo
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
Questi sono i presupposti ideologici e le motivazioni teoriche alla base della psicomotricità nei suoi contenuti educativi e preventivi. Ora se le forme dove più frequentemente si esprime il disagio infantile sono i problemi di autonomia e di regolazione, come l’esperienza degli insegnanti ed i numeri del disagio ci confermano, è su tali obiettivi che si dovrà concentrare un’efficace prassi educativa che miri a contrastare le più comuni forme di disagio alla scuola dell’infanzia. Ma un’efficace educazione all’autonomia non si ottiene semplicemente “dicendo” al bambino di essere autonomo, ma si ottiene in modo più diretto rinforzando l’Io del bambino così che sia lui a “prendersi” l’autonomia. L’autonomia infatti non si può “dare” (resterebbe la dipendenza), si può solo aiutare l’altro a “prendersela” come forma di crescita personale. Parimenti un’efficace educazione alla regolazione emotiva non si ottiene “predicando” al bambino l’autocontrollo emotivo, ma “offrendogli” contenimento attraverso una condivisione empatica del suo vissuto emotivo. E sono proprio queste le finalità e le modalità tecniche che specificano la psicomotricità nel suo versante educativo e preventivo. Alcune precisazioni metodologiche Il setting psicomotorio
Ci pare utile specificare, anche se brevemente, almeno alcune delle modalità tecniche fondamentali che caratterizzano la psicomotricità e attraverso le quali essa attualizza e concretizza gli obiettivi specifici alla base del suo intervento. Perché il particolare vissuto del bambino attraverso l’impegno corporeo nel gioco possa essere ricevuto in modo adeguato dal mondo della scuola, e perché l’intervento professionale degli insegnanti nell’opera di condivisione e contenimento empatico dispieghi tutta la sua valenza educativa e preventiva è necessaria un’organizzazione particolare di spazi, tempi e materiale perché la prima forma di accoglimento e di condivisione deve essere essenzialmente di tipo istituzionale. È fuori dubbio che ai bambini piace saltare. Ma perché la maestra possa condividere e restituire al bambino il suo piacere e la sua emozione espressa attraverso il salto esso deve avvenire nello spazio, nel tempo e attraverso un materiale che lei gli ha espressamente preparato per questo motivo. La condivisione non può essere espressa nel sal-
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to fatto in ogni luogo o in ogni tempo e in situazioni non previste o programmate in modo specifico per tale scopo. La prima condizione strutturale perché la psicomotricità possa essere concretizzata è allora l’allestimento di uno spazio-tempo adeguato, con del materiale pensato espressamente per tale motivo. Per quanto riguarda il materiale deve essere previsto l’essenziale per il gioco senso-motorio: un ripiano da cui saltare, un materasso di grandi dimensioni che possa ricevere il salto, delle strutture fisse o sufficientemente solide e sicure che possano permettere il rotolare, strisciare, scivolare, arrampicarsi ecc. Per quanto riguarda il gioco simbolico devono essere previsti dei materiali destrutturati che permettano la costruzione e la realizzazione immediata di idee facilmente modificabili e adattabili: dei grossi cubi o parallelepipedi di gommapiuma con i quali è possibile costruire e distruggere case, fortini, torri, recinti o macchine da scontrare o su cui dondolarsi o attraverso le quali incontrare gli amici. E poi dei materassi o grandi tessuti che possano immediatamente delimitare nuovi spazi da allestire, condividere o difendere. Per quanto riguarda il tempo è sufficiente lo spazio di un’ora circa per ogni gruppo di bambini, una volta a settimana, per cicli di una decina di sedute circa. I cicli possono ovviamente essere ripetuti.
Il materiale
Perché il tempo e lo spazio della seduta possano dispiegare tutta la loro efficacia educativa devono essere ben chiare anche le cornici istituzionali in cui il tutto avviene, in modo che i bambini le sappiano cogliere attraverso dei riti che formano per loro dei sistemi organizzati e organizzanti. I gruppi saranno stabili per tutto il tempo del ciclo, la seduta per ogni gruppo sarà lo stesso giorno alla stessa ora, con le stesse maestre (o al massimo con la possibile turnazione di una) che formano il punto di riferimento fisso. Ogni gruppo può allora dispiegare una propria dinamica interna che costituirà appunto la storia di quel gruppo e di ogni bambino all’interno del proprio gruppo. L’inizio della seduta è preceduto da un momento di cerchio dove vengono ricordate le regole generali del gioco. Regole che non limitano la libertà, ma che sono appunto il postulato di ogni libertà. Alla fine della seduta si ritorna in cerchio per condividere le emozioni vissute col corpo ora su un piano più mentale: si può parlare dei giochi
Le cornici
e il tempo
istituzionali e professionali
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fatti, si possono fare dei disegni, la maestra può raccontare una storia o altre situazioni simili. I gruppi
I gruppi possono essere costituiti teoricamente secondo vari criteri. Nel nostro caso gli insegnanti delle due scuole hanno privilegiato il criterio dell’omogeneità di età: quindi gruppi di grandi, medi e piccoli. La composizione dei gruppi varia naturalmente secondo il numero di bambini, lo spazio e il materiale a disposizione. In genere ogni gruppo era composto da 10-15 bambini.
Gli insegnanti
Ogni gruppo era tenuto da due insegnanti. Il motivo per cui si è insistito che gli insegnanti fossero due era appunto quello di dare al progetto una maggiore incisività preventiva. Un insegnante solo infatti può assicurare al gruppo una regia educativa generale, ma difficilmente può essere efficacemente vicino a chi dimostrasse di averne particolarmente bisogno. E sono esattamente i bambini che dimostrano tale bisogno i primi destinatari e il primo obiettivo di questo progetto. Per tale ragione si è insistito che ogni gruppo fosse seguito da due adulti, in modo che con un’azione combinata tra di loro potessero sia assicurare la regia generale necessaria al gruppo nel suo complesso, sia una competente vicinanza al gioco di qualche bambino particolare o di un gruppetto di bambini che dimostrassero qualche difficoltà o in ogni caso richiedessero uno sguardo più ravvicinato o individualizzato. Naturalmente questa scelta ha comportato un coinvolgimento dell’intero collettivo della scuola, a volte compreso anche il personale ausiliario. Se due insegnanti si occupano di un gruppo evidentemente gli altri devono organizzarsi in modo tale da assicurare la presenza per gli altri bambini. Inoltre la turnazione di uno o due gruppi ogni giorno nel setting psicomotorio comporta un’organizzazione particolare dell’intero sistema scolastico. Va quindi sottolineata la disponibilità e la professionalità di tutti gli adulti coinvolti nel processo educativo della scuola, dalle Coordinatrici pedagogiche a tutti gli insegnanti coinvolti fino al personale ausiliario, perché l’attuazione del progetto programmato è stato reso possibile dalla disponibilità e dalla professionalità di tutti gli adulti che lavorano all’interno della scuola.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Un cenno particolare merita la conduzione tecnica delle sedute. La seduta di psicomotricità infatti sfugge in un certo qual modo alla distinzione che era stata posta a fondamento della griglia di rilevazione del disagio descritta nella prima parte. Il setting è certo preparato e organizzato dalla maestra, ma non si tratta di un contenitore didattico nel senso classico del termine, perché la maestra non dice al bambino cosa egli deve fare. Sarà lui a scegliere il gioco che preferisce, svolto con le modalità e gli amici che preferisce all’interno del setting offerto. Infatti non si è all’interno di un sistema pedagogico direttivo dove l’adulto dice al bambino cosa fare come sono alcuni percorsi motori di uso corrente. Qui, come si diceva, il vero obiettivo non è il movimento, ma l’emozione implicata dal movimento. Il corpo allora è visto e considerato come un “linguaggio” che esprime ciò che il bambino vive dentro di sé. Coerentemente allora se l’uso del corpo è un linguaggio, non si può dire a uno di dire cosa spontaneamente dovrebbe dire. Di conseguenza il sistema adottato è quello della pedagogia indiretta: si struttura un setting dove poter accogliere ciò che il bambino vuole dire liberamente.
La pedagogia
Allo stesso modo però non si tratta neppure di un contenitore libero dove il bambino fa ciò che desidera e l’adulto ha il compito semplicemente di sorvegliare che tutto proceda regolarmente. Qui l’adulto è implicato in modo particolare perché è chiamato ad essere vicino al bambino, ma si tratta di una vicinanza molto diversa, fatta più di condivisione empatica che di vicinanza direttiva o di sorveglianza autoritaria. La seduta di psicomotricità di conseguenza offre un “luogo” per certi versi completamente diverso ed originale dai normali luoghi educativi che il bambino vive nel resto della giornata scolastica (i contenitori educativi di cui si è parlato in precedenza), e la maestra può assumere una “posizione relazionale” altrettanto diversa e unica nei confronti del bambino. Sono proprio queste modalità diverse di essere col bambino che costituiscono l’originalità e la specificità della pedagogia indiretta alla base del percorso psicomotorio. Proprio grazie a tale modalità pedagogica è possibile un’azione più incisiva sul processo di autonomia e di regolazione che costituiscono gli obiettivi specifici dell’intervento psicomotorio. E, come vedremo, questa modalità diversa di vedere e di essere col bambino ha costituito forse l’originalità più importante dell’arricchi-
Un fatto di empatia
indiretta
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mento e dell’empowerment professionale che l’esperienza ha lasciato negli insegnanti. Una scelta di campo
L’adozione della psicomotricità intesa in questi termini preventivi e condotta con queste caratteristiche, se era una novità per molti insegnanti coinvolti nel progetto (non per tutte come vedremo), non era tuttavia una novità in Italia, dal momento che varie esperienze sono state fatte e sono tuttora in corso in questo ambito.4 Ma tutte le esperienze conosciute finora avevano sempre la caratteristica di essere condotte da psicomotricisti, quindi da professionisti esperti del settore. Si andava quindi sul sicuro per quanto riguarda gli aspetti tecnici della conduzione della seduta, mentre la vera scommesse pedagogica era proprio l’empowerment e l’ibridazione professionale che gli insegnanti potevano ricavare dal contatto con tale esperienza condotta da esperti esterni. Le innovazioni più significative di fronte ai problemi con i quali il mondo della scuola si trova quotidianamente a confronto, soprattutto di fronte al tema del disagio, devono venire da “fuori”? In questo caso la scuola dichiarerebbe la propria impotenza e si riterrebbe disarmata di fronte al problema delegandone la soluzione ad “altri”. Oppure devono nascere e crescere al proprio interno, con aiuti e stimoli specifici per questo scopo? È una disputa culturale e ideologica ancora aperta e dentro la quale non si vuole entrare. Anche perché nel nostro caso il problema non si poneva nemmeno, perché la risposta era già stata data in premessa e nei postulati metodologici del progetto, quando si era affermato che doveva essere trovato e programmato qualcosa di certamente innovativo, ma non completamente “fuori” dal normale fare scuola. L’esperimento “ad Agio” infatti si era posto come condizione essenziale quello di costituire un laboratorio che risultasse essere una testimonianza per il mondo della scuola; ma una testimonianza validata soprattutto dal poter essere esportabile e disseminabile perché non era costruita in modo artificiale con elementi estranei al mondo scolastico stesso.
4
Si può ricordare, a tale proposito, tra le altre in Italia, l’esperienza “Agio” del Comune di Bologna svolta negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia della città.
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La proposta di conseguenza è stata quella di progettare il laboratorio di psicomotricità avendo come attori protagonisti gli stessi insegnanti e nessun altro. Nel triennio si sarebbe sperimentato un percorso formativo sulla psicomotricità attraverso una diretta “scesa in campo” di loro stessi con la supervisione del tutor. Certo la purezza tecnica dell’intervento non era garantita, ma l’ibridazione professionale sicuramente sì. Ma l’obiettivo specifico del progetto “ad Agio” non era di far diventare gli insegnanti degli psicomotricisti, ma di fare in modo che loro implementassero la loro esperienza professionale sul tema del disagio infantile attraverso un’ibridazione culturale, teorica e tecnica con gli obiettivi e le metodologie specifiche della psicomotricità. Gli insegnanti da parte loro hanno accettato di buon grado questa prospettiva e va dato atto della loro disponibilità e del loro coraggio nell’aver accettato di “mettersi in gioco” a livello professionale e personale nel gioco dei bambini. Queste le premesse teoriche e tecniche. Il laboratorio di psicomotricità
Quando nell’autunno 2003, si è entrati concretamente nella fase di progettazione e di realizzazione del progetto, si sono subito posti dei problemi ambientali concreti. Una delle due scuole,5 infatti, negli anni precedenti aveva già sperimentato con alcuni gruppi di bambini tale modalità educativa, quindi alcune condizioni pratiche erano già state sperimentate, almeno da alcune insegnanti, ma soprattutto erano presenti alcuni materiali essenziali e uno spazio attrezzato per tale attività. L’altra scuola6 invece non aveva mai sperimentato questa prassi educativa, e per di più essa si trovava in una specie di emergenza logistica perché la scuola era in fase di ristrutturazione, e si trovava in locali provvisori che sarebbero stati tali almeno per due anni. Inoltre la scuola di Meano era rappresentata solo dagli insegnanti di due sezioni, mentre la scuola di Clarina presentava al progetto tutte le insegnanti insieme fin dall’inizio. Per queste ragioni nell’anno 2003-04 le prime riunioni del gruppo sono state utilizzate per discutere questi temi, sono stati presentati i
5 6
La scuola dell’infanzia della Clarina. La scuola dell’infanzia provinciale di Meano.
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principi teorici e metodologici della psicomotricità, si sono analizzate praticamente delle sedute videoregistrate e si sono programmati il materiale e gli spazi necessari per preparare l’attività. Mettersi in gioco
Le insegnanti della scuola della Clarina si sono dichiarate pronte a partire con l’esperienza fin dal primo anno della sperimentazione perché avevano già l’attrezzatura necessaria, e si sono organizzate per iniziare con i sei gruppi di bambini (due gruppi per età) fin dal mese di febbraio, in modo da poter sperimentare un ciclo intero entro la fine della scuola.
...e provare
La loro esperienza allora è diventata molto importante perché negli incontri del gruppo nella primavera del 2004 la visione e la discussione di alcune loro sedute ha costituito il materiale concreto su cui si è potuto praticamente articolare la formazione a proposito di questo tipo di esperienza. In particolare la discussione si è concentrata sul tipo di materiale più idoneo e sulla sua dislocazione. Inoltre ci si è soffermati per più sedute anche sull’insieme delle attitudini e degli atteggiamenti professionali degli insegnanti adatti proprio per occupare in modo più adeguato lo spazio e il ruolo che era riservato loro durante le sedute. Man mano che si susseguivano le sedute le insegnanti della scuola della Clarina potevano condividere con tutto il gruppo la loro soddisfazione per come procedevano le cose, il piacere che i bambini manifestavano nel vivere l’esperienza, e la felice sorpresa per essere loro stesse al centro di qualcosa di importante. In base a questo momento di formazione nel corso del primo anno si è ordinato e programmato il materiale e lo spazio anche per la scuola dell’infanzia di Meano, la quale, malgrado fosse ancora in stato di emergenza logistica, è riuscita a organizzarsi per essere pronta a partire all’inizio del secondo anno di sperimentazione.
imparando dagli altri
Si procede a pieno regime Tutti al lavoro
Durante l’anno scolastico 2004-05 il laboratorio di psicomotricità è partito a pieno regime con tutti i bambini delle due scuole dell’infanzia coinvolte nel progetto, anche perché ora partecipavano alla sperimentazione anche tutti gli insegnanti della scuola di Meano. Alla
“ad Agio” IPRASE del Trentino
scuola della Clarina, dove tutto era già stato sperimentato l’anno precedente, sono partiti due gruppi di medi e due di grandi nel novembre 2004, mentre i piccoli sono partiti divisi in tre gruppi nel gennaio 2005. Parallelamente alla scuola di Meano sono partiti subito in ottobre due gruppi di piccoli e due grandi, mentre i tre gruppi dei medi sono partiti a gennaio anche perché lo spazio a disposizione della scuola di Meano era alquanto ridotto e i gruppi dovevano forzatamente essere meno numerosi. Tutti i gruppi erano tenuti da due insegnanti e il decorso dell’esperienza era costantemente monitorato durante le riunioni congiunte che si susseguivano a cadenza mensile. Qui gli insegnanti potevano raccontare come procedevano i gruppi e come loro si sentivano; potevano socializzare i loro dubbi e condividere le loro soddisfazioni; qui si esaminavano insieme alcuni filmati delle sedute per poter garantire una formazione diretta sul campo mentre l’esperienza si svolgeva concretamente. Per facilitare il processo di apprendimento rapido e, per certi versi autodidattico, sulla conduzione delle sedute di psicomotricità, è stato proposto lo strumento del “diario di bordo”. Dopo ogni seduta gli insegnanti coinvolti con quel determinato gruppo dovevano scrivere cosa era successo durante quella seduta, sia per quanto riguardava la dinamica del gruppo nel suo complesso, sia per quanto riguardava il percorso dei singoli bambini. Inoltre dovevano registrare le impressioni personali e tutto ciò che riguardava l’esperienza. In questo modo ogni gruppo era accompagnato dal proprio diario di bordo che ne documentava l’intera storia. Il contenuto dei singoli diari di bordo era un materiale che poteva certo essere a disposizione dei colleghi anche di altri gruppi che avessero desiderato condividere l’esperienza, ma restava sempre un materiale interno ad uso esclusivo degli insegnanti che partecipavano al progetto. In effetti, soprattutto nel corso del secondo anno di sperimentazione (il primo di partenza della psicomotricità in modo completo nelle due scuole) ci sono stati vari scambi dei singoli diari di bordo tra le due scuole dell’infanzia, in modo che l’esperienza dei singoli diventasse più rapidamente esperienza di tutti. Alla fine di ogni ciclo veniva invece redatto un riassunto del diario di bordo per ogni gruppo e questo materiale era a disposizione di tutti perché è entrato tra la documentazione ufficiale del progetto “ad Agio”.
Il diario di bordo: uno strumento per fissare l’esperienza
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
...e offrirla ad altri
Lo scopo dei diari di bordo era di “scrivere per offrire l’esperienza ad altri”, e aveva la funzione di aiutare a focalizzare meglio i punti principali dell’esperienza, dal momento che gli insegnanti sono presi da tante cose sempre importanti e a volte anche le esperienze importanti possono rischiare di passare senza lasciare traccia e quindi senza incidere a livello professionale. Nel nostro caso invece l’esperienza di autoformazione non poteva passare senza incidere, e quindi si è chiesto agli insegnanti lo sforzo in più di far passare l’esperienza dal piano del vissuto personale a quello razionale della rielaborazione, in modo da renderla più incisiva proprio sul piano della formazione. Il processo di formazione “in azione” infatti richiede un rimando continuo dal piano dell’esperienza a quello della riflessione su essa.
La scrittura
I diari di bordo hanno richiesto un supplemento di tempo, energia e disponibilità non indifferente agli insegnanti, soprattutto all’inizio, quando era più evidente la “fatica” di doversi fermare a pensare e a “raccontare” tramite la scrittura qualcosa di vissuto su un piano esperienziale diretto. Col tempo però l’abitudine ha reso la fatica meno impegnativa e gli insegnanti stessi hanno riconosciuto che i diari di bordo sono stati uno strumento molto importante per favorire un processo formativo professionale, e hanno potuto rendersi conto che nell’esperienza di psicomotricità c’erano pienamente coinvolti anche loro, non solo i bambini per cui avevano organizzato l’esperienza. Vale la pena di sentire qualche diretta testimonianza presa dalle considerazioni personali degli insegnanti scritte nel riassunto finale di alcuni diari di bordo:
come strumento di crescita professionale
La fatica dello scrivere: testimonianze
“La mia sensazione iniziale è stata di non essere preparata e di non avere abbastanza strumenti per condurre in modo proficuo, anche se ho sempre avuto tanto entusiasmo e sentivo che questa cosa avrebbe maturato una maggior consapevolezza su alcuni aspetti del mio lavoro… Col procedere dell’esperienza e soprattutto col confronto con i colleghi e il tutor, dove ho espresso tutti i miei dubbi e interrogativi, sono riuscita a vivere questa esperienza con più disinvoltura, sicurezza ed entusiasmo… “Ho affrontato con molto entusiasmo questa esperienza, entusiasmo che mi ha accompagnato per gran parte delle sedute. Il
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confronto continuo con la mia collega è risultato molto utile e determinante anche per affrontare alcuni momenti difficili. Una delle situazioni che mi ha messo in crisi è stato quando ci è stato chiesto di stilare un verbale per ogni seduta. Questo mi ha messo a disagio perché non ero in grado di osservare, prendere appunti e intervenire contemporaneamente. Quando, con l’andare del tempo, io e la mia collega ci siamo suddivisi i compiti tutto è diventato più semplice. Penso di avere ancora molto da imparare ma l’entusiasmo c’è, come pure la voglia di mettersi in discussione. Ho provato grande piacere nel vedere la gioia che i bambini/e esprimono durante le sedute…” “Questo percorso ha permesso a noi insegnanti di osservare con occhio diverso e con attenzione particolare il modo di essere di ogni singolo bambino, che si trova libero di accedere allo spazio che preferisce utilizzando il materiale a disposizione e di scegliere il compagno con cui giocare. In questo modo abbiamo la possibilità di ricevere il suo vissuto per conoscerlo, capirlo ed entrare in una relazione più profonda che non implica solo il linguaggio verbale ma soprattutto quello emozionale… Abbiamo scoperto il valore di uno sguardo, di una parola, di un incoraggiamento…” L’introduzione definitiva del progetto psicomotricità con tutti i bambini è entrato facilmente anche nel normale circuito delle relazioni scuola-famiglia, dal momento che l’interesse dimostrato dai bambini per l’esperienza ha facilmente coinvolto anche le famiglie all’interno della sperimentazione. Soprattutto nella scuola dell’infanzia di Meano dove l’esperienza iniziava per la prima volta. Ciò ha reso possibile un coinvolgimento oltre che delle famiglie anche di altre strutture del quartiere (circoscrizione, scuola elementare) all’interno dell’esperienza. Il progetto “ad Agio” è stato così reso pubblico e ha coinvolto la scuola e la professionalità degli insegnanti nelle loro relazioni sociali e istituzionali. Il coinvolgimento della famiglie nel progetto è sfociato in assemblee aperte ai genitori e alle altre istituzioni sociali del quartiere organizzate dalle rispettive circoscrizioni e che si sono tenute una a Meano nella primavera del 2005 dal titolo “L’uso del corpo e del movimento nell’infanzia”, e una alla Clarina nella primavera del 2006 dal titolo “I genitori tra il sì e il no”. Entrambe sono state tenute dal tutor del progetto.
Il coinvolgimento delle famiglie
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
L’esperienza si consolida
Nel terzo anno di sperimentazione (2005-2006) il laboratorio di psicomotricità già collaudato nell’anno precedente è subito partito nella sua forma completa. La scuola dell’infanzia di Meano era nella nuova sede con spazi più adeguati e i gruppi hanno potuto prendere una consistenza diversa (circa 15 bambini). Sono stati quindi formati sei gruppi, due per età, come nella scuola di Clarina dove invece erano meno numerosi (circa 10 bambini per gruppo). Il ciclo di psicomotricità è partito nelle due scuole nell’autunno 2005, a ottobre-novembre, e si è concluso a gennaio-febbraio 2006, in modo da riservare i mesi di primavera ai primi bilanci che avrebbero dovuto concludere l’esperienza di “ad Agio”. Alla scuola della Clarina i gruppi dei piccoli hanno però manifestato qualche problema di ambientamento nei primi mesi. Le insegnanti hanno deciso allora di permettere loro un inserimento più graduale e il ciclo di psicomotricità vero e proprio è partito con loro dopo gennaio alla fine dei cicli degli altri gruppi. Elementi per una validazione dell’esperienza Punti emersi
Durante il periodo in cui si svolgeva la psicomotricità è continuata l’opera di supervisione e di discussione del suo svolgimento negli abituali incontri di verifica ed è continuata la compilazione dei “diari di bordo” già sperimentati l’anno precedente. Dal verbale degli incontri di verifica e dalle sintesi dei diari di bordo si possono ricostruire i punti principali emersi dall’esperienza nel terzo anno di sperimentazione del progetto (il secondo anno di sperimentazione del laboratorio di psicomotricità in modo completo per le due scuole dell’infanzia) che si possono così riassumere.
Attenzione
L’attenzione generale del gruppo degli insegnanti si è spostata progressivamente dalla composizione del setting psicomotorio e dalla programmazione dei gruppi all’interno della scuola verso motivazioni più inerenti la gestione del gruppo stesso e verso la posizione dell’adulto al suo interno. La competenza degli insegnanti sulle modalità organizzative generali e specifiche nel terzo anno di sperimentazione è apparsa ben
maggiore al ruolo dell’adulto
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collaudata dall’esperienza dell’anno precedente; anzi su questo aspetto loro stessi ora potrebbero essere una risorsa molto importante all’interno del mondo della scuola nei rispettivi circoli di coordinamento. L’attenzione pertanto si è potuta progressivamente spostare verso le modalità tecniche di gestione del gruppo. Dai filmati visionati è apparso evidente come l’adulto tendesse in questo terzo anno a occupare la scena che gli compete con più perizia, professionalità e coerenza rispetto ai filmati dell’anno precedente, dove apparivano certo i bambini, ma meno e con maggior titubanza gli adulti. Ora è risultato evidente come essi stessi si sentissero parte essenziale del processo che governavano e come lo prendessero in mano con sempre maggior sicurezza ed autorevolezza. Ecco qualche testimonianza presa dalle sintesi dei diari di bordo: “Questo percorso psicomotorio è stato molto coinvolgente per noi insegnanti, sia da un punto di vista fisico che emotivo. Il tempo trascorso insieme veniva scandito dalla spontaneità dei bambini, dalla loro richiesta di collaborazione nel realizzare situazioni di gioco rassicuranti o paurose (torri, castelli, case, piscine, lupi, fantasmi…). Ci sono spazi e occasioni per poter essere vicine ad ognuno di loro incoraggiando, aiutando, e giocando insieme senza essere troppo invasive…” “L’entusiasmo è stato alto durante tutte le sedute; in particolare siamo state colpite dalla gratificazione di un bambino nell’essere seguito con lo sguardo, sentimento che in altri momenti della giornata manifesta in maniera più contenuta…. Determinante è stato il processo che ha portato ad un maggior affiatamento di questo numeroso gruppo grazie alla pratica psicomotoria e alle esperienze e riflessioni riguardanti il contenuto affrontato sull’amicizia”. Tale maggior sintonia è stata evidente sia nei confronti delle caratteristiche specifiche di ogni gruppo e dei singoli bambini che lo componevano sia nei confronti della peculiarità determinata dall’età specifica del gruppo stesso. È stato notato come i piccoli avessero in genere un gioco più frenetico, spezzettato, soggetto a cambiamenti continui e a una modalità più egocentrica. Anche perché era la prima volta che sperimentavano la psicomotricità. L’adulto di conseguenza doveva essere molto più at-
Maggior sintonia degli insegnanti con le dinamiche dei singoli gruppi
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
tento a tenere i fili del gioco ben saldi in mano, pronto a rilanciare il senso, a contenere la frenesia e la possibile frammentazione. La capacità di condivisione e socialità del gruppo infatti dipendeva molto da questa competenza dell’adulto. I medi invece dimostravano in genere un’evoluzione rispetto all’anno precedente. Il senso del gioco cominciava a essere più evidente e il gruppo tendeva a suddividersi in piccoli gruppi aggregati dall’interesse del gioco. L’impegno dell’adulto doveva allora essere concentrato nel dosare l’intervento tra il “tenere” il senso generale del gruppo nei singoli pezzi di senso che si formano nei gruppetti e il “lasciar andare” delle singole iniziative. I grandi invece tendevano a proporre un senso del gioco che coinvolgeva l’intero gruppo, con dinamiche relazionali molto interessanti, a volte distinte tra maschietti e femminucce, ma che richiedevano un’opera di contenimento, sostegno e presenza molto solida e delicata. A volte i bambini chiedevano all’adulto di entrare e di essere nel loro gioco (aggredire, imprigionare il “lupo cattivo”.) Tutto ciò però presupponeva nell’adulto delle competenze tecniche molte delicate per esserci nel modo giusto, e tali temi hanno occupato molto spazio nelle discussioni generali. “Questo gruppo ha spesso chiesto all’insegnante di “giocarsi un ruolo”, e se nella prima parte dell’anno la maestra veniva “legata e poi salvata” nella seconda parte (da febbraio in poi) il ruolo era quello della strega cattiva cattura-bambini…” Focalizzazione sui temi dell’autonomia e della regolazione emotiva
Un altro tema che ha avuto molto spazio nelle discussioni generali è stato quello relativo ai temi dell’autonomia e della regolazione, i quali, come abbiamo visto, costituiscono i problemi più importanti del disagio infantile alla scuola dell’infanzia. Come si concilia infatti autonomia e pedagogia indiretta specifiche della psicomotricità? Quando intervenire e quando lasciar fare? Come rispondere ai bambini che “chiedono tanto” all’adulto? I termini autonomia e dipendenza infatti in questo ambito prendono dei significati del tutto diversi. Qui non si può confondere autonomia con solitudine o con abbandono. Il bambino che fa da solo, ma male è autonomo, o “solo”? Così come il bambino che “chiede tanto” (sia in modo esplicito che implicito) non è necessariamente un bambino dipendente, ma può anche essere un bambino che sa dove prendere il riforni-
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mento giusto per non sentirsi solo o abbandonato. L’adulto allora deve saper leggere tutto ciò perché il gioco nel setting psicomotorio lo rivela ora in modo molto evidente. Deve sapere quando è il momento di “dare a credito” o addirittura “a fondo perduto” perché una strategia lungimirante sa che è solo tramite un rinforzo dell’io che il bambino saprà poi “prendersi” l’autonomia (e sarà quella vera). A volte un’efficace e lungimirante strategia per l’autonomia può essere quella di tenere il bambino molto vicino a sé anche se lui non lo chiede, altre di accettare di restargli molto vicino anche se lo chiede in modo sbagliato, proprio per assicurare quel rinforzo emotivo all’Io su cui il bambino poi potrà “spiccare il volo” quando riterrà arrivato il momento opportuno per lui. “In questo gruppo si sono evidenziati dei bambini che non riuscivano a “staccarsi” dall’insegnante che doveva prestar loro molta attenzione a stimolarli e a partecipare ai giochi di gruppo”... “Durante le sedute spesso è stato necessario organizzare i loro giochi e dare degli stimoli per poter farli divertire al meglio. Verso la fine del ciclo di sedute abbiamo notato però nei bambini più iniziativa nell’organizzarsi e nello scegliere il gioco da fare”.
Considerazioni finali
A conclusione dell’esperienza di psicomotricità alla fine del triennio di sperimentazione gli insegnanti hanno espresso la soddisfazione per il percorso fatto e l’intenzione di continuare il laboratorio di psicomotricità all’interno delle rispettive scuole. Questa volta però al di fuori dell’esperienza “ad Agio” che ha concluso la sua parte operativa nel giugno del 2006. Per questo scopo gli insegnanti delle due scuole hanno chiesto la prosecuzione della consulenza e della supervisione sul percorso psicomotorio, ma ciò sarà eventualmente assicurato dai rispettivi servizi. Una ulteriore richiesta di alcuni insegnanti è stato un percorso di aggiornamento di vissuto pratico sulle loro tecniche corporee di comunicazione, proprio per essere più attenti e pronti a rispondere con modalità più efficaci alle richieste dei bambini durante le sedute di psicomotricità, dal momento che gran parte dei messaggi essenziali di contenimento e aiuto, come loro stessi hanno sperimentato, passa per i codici della comunicazione corporea. Anche tale richiesta è sta-
Come continuare
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ta formulata ai rispettivi servizi e, eventualmente, rientrerà nei canali normali dell’aggiornamento annuale di cui usufruiscono abitualmente gli insegnanti della scuola dell’infanzia. La disseminazione dell’esperienza
Condizioni per la disseminazione
Oltre al problema della continuità l’argomento principale che il gruppo degli insegnanti si è posto alla fine del percorso triennale è stato quello della disseminazione dell’esperienza. E ciò sia a livello verticale (continuità con la scuola elementare di riferimento) sia a livello orizzontale con le altre scuole dell’infanzia del proprio circolo di coordinamento e oltre. A proposito della continuità verticale un’esperienza interessante è stata provata dalla scuola di Meano. I bambini di prima elementare che lo scorso anno erano alla scuola dell’infanzia e che avevano usufruito dell’esperienza di psicomotricità sono stati invitati a partecipare a delle sedute di psicomotricità con i grandi della scuola di questo anno scolastico. Sono stati formati dei gruppi misti di bambini di prima elementare e di grandi della scuola dell’infanzia. L’esperienza è stata molto gradita dai bambini e molto interessante. I bambini di prima si ricordavano perfettamente dei giochi fatti l’anno precedente, delle regole del setting, del divertimento provato e si sono dimostrati molto entusiasti dell’opportunità che è stato loro offerta. In modo parallelo poi i bambini grandi della scuola dell’infanzia hanno partecipato a una seduta di educazione motoria presso la scuola elementare con i bambini di prima. Questa iniziativa potrebbe essere un ottimo spunto da sviluppare come continuità tra le due istituzioni scolastiche, soprattutto per permettere ai futuri insegnanti di scuola elementare di conoscere bene i bambini che riceveranno a settembre in prima elementare. Gli insegnanti infatti hanno riconosciuto che l’osservare i bambini durante le sedute di psicomotricità ha permesso loro di conoscerli meglio, più in profondità e molto prima. Anche docenti di scuole elementari dove in prima è stato sperimentato il laboratorio di psicomotricità hanno dichiarato l’importanza di tale esperienza proprio ai fini osservativi e preventivi, come già evidenziato dai colleghi della scuola dell’infanzia. Per quanto riguarda la disseminazione in altre scuole dell’infanzia a giudizio unanime, gli insegnanti ritengono necessarie alcune condizioni essenziali: • sostegno di un tutor;
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coinvolgimento istituzionale completo di tutte le insegnanti del collettivo della scuola. In effetti si tratta di un progetto che coinvolge aspetti istituzioni, professionali e personali dove è richiesto il concorso partecipe e fattivo di tutte le persone coinvolte nel processo educativo della scuola, soprattutto se si vuole dare un valore preventivo efficace all’esperienza, e quindi se i gruppi devono essere condotti da due insegnanti; • una formazione “in itinere” con rimando continuo tra pratica e riflessione su essa di durata almeno biennale o triennale; • affermare la validità ed l’efficacia dei “diari di bordo”. •
Elementi di empowerment professionale
Se si volessero puntualizzare gli elementi essenziali dell’ibridazione e dell’empowerment del laboratorio di psicomotricità sulla professionalità degli insegnanti si potrebbe dire, utilizzando le parole da essi espresse nella presentazione pubblica della loro esperienza (Marzo 2006):
Un modo diverso di vedere i bambini
“L’essere coinvolti in giochi particolarmente importanti per loro, in un setting per certi verso nuovo, ha permesso ai bambini di mostrare una parte di sé a volte inedita, e ha permesso alle insegnanti di porsi in un ruolo altrettanto diverso. Questo cambiamento, se colto nei suoi aspetti più profondi e fecondi, può offrire spunti molto interessanti sul tema della conoscenza e prevenzione del disagio, come era nei postulati di fondo a giustificazione dell’esperienza”. “La specificità del momento psicomotorio ci ha aiutato ad osservare il bambino con sguardo più attento, in modo da percepire quello che fa parte dei suoi aspetti più intimi. Questo perché spesse volte il bambino inserito nel contesto di sezione o di gruppo per età riesce a mascherare le sue insicurezze, le sue paure o le sue potenzialità”. Si tratta forse dell’elemento di ibridazione professionale più importante e decisivo. Durante le sedute di psicomotricità il particolare setting che le caratterizza mette l’insegnante in un contesto di “pedagogia indiretta” che cambia totalmente il ruolo dell’adulto rispetto ai normali momenti scolastici.
Un ruolo educativo diverso
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PARTE II: LE ESPERIENZE L’accoglimento del disagio infantile come forma di crescita professionale
Qui non si è nel classico “io dico e tu bambino fai”, come non si è neppure nel “fai da solo” come comportano i normali contenitori educativi. Qui è lo stesso bambino che “chiede” all’adulto una presenza diversa: il “maestra guardami” che urla con insistenza all’adulto importante per lui quando egli vive momenti emotivamente importanti è una richiesta molto esplicita, forte, che implica una presenza dell’adulto particolare, a volte discreta di semplice accoglienza, altre volte attiva fino a diventare addirittura protagonista. “Maestra scrivi”
Molto interessante a questo proposito l’aneddoto raccontato a fine esperienza da alcune insegnanti a proposito dell’evoluzione del famoso “maestra guardami”. Con l’introduzione dei diari di bordo esse avevano l’abitudine di fermarsi a parlare e scrivere dopo ogni seduta. La cosa non è sfuggita certo ai bambini, date le loro proverbiali capacità di osservare gli adulti importanti per loro. E la preoccupazione dell’essere guardati si è spostata anche sulla scrittura e la richiesta è diventata esplicita: “Maestra scrivi…. Scrivi che ho fatto il fantasma… Scrivi quanto mi sono divertito… Scrivi che ho giocato col Mattia…”. Qualcuno si è spinto oltre e ha dichiarato in modo preciso: “Maestra scrivi che mi piace venire a scuola, che mi piace venire in palestra…”
Entrare o no nei
Non a caso nel terzo anno di sperimentazione le discussioni più frequenti nei momenti di supervisione erano appunto concentrate su quanto l’adulto deve entrare o no nei giochi dei bambini, quale è il suo ruolo, quanto deve essere attivo o passivo. Qui, evidentemente, i termini attivi e passivi cambiano di significato, e la scelta dipende da elementi di lettura della situazione del gioco dei bambini molto contingenti e particolari. Infatti la particolare “distanza” o “vicinanza” dell’adulto al gioco dei bambini è elemento essenziale nella conduzione di una seduta. L’esserci, il non esserci e il come esserci, per il gruppo nel suo complesso o per il singolo bambino nella situazione contingente, sono allora elementi legati a modalità di lettura della situazione derivate da scelte professionali: aspetti che la psicomotricità considera fondamentali per gli obiettivi preventivi che la caratterizzano.
giochi dei bambini
… oppure a volte “prestargli le parole”
“I risultati di questa esperienza di pedagogia indiretta ci hanno sicuramente arricchite. Tale metodologia può essere applicata an-
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che in altri momenti della giornata scolastica, dove viene data così più importanza al processo che porta il bambino a fare e vivere determinate esperienze piuttosto che centrare l’attenzione solo sul prodotto finale. È importante aiutare il bambino a esprimere le proprie emozioni, e poiché non sempre egli ne è capace, è necessario eventualmente prestargli le parole”. Il fatto di trovarsi personalmente implicati nell’esperienza, con risvolti che vanno al di là, per certi versi, della stretta esperienza professionale, ha fatto maturare in alcuni insegnanti il desiderio di un approfondimento di tale processo formativo. Anche questo rientra nella normale ibridazione professionale della psicomotricità dal momento che essa fa della formazione corporea personale e della capacità di accoglienza empatica il motore principale di una trasformazione su cui si basa l’accoglienza, la comprensione e la prevenzione del disagio. “Sono molto interessata all’aspetto dell’analisi del gruppo per avere più elementi possibili e così intervenire e poter maturare una pedagogia dell’accoglienza quale punto di partenza per migliorare sempre più l’uso della comunicazione attraverso il mio corpo e non solo verbalmente….” “ad Agio” per noi è spesso coinciso con i termini di impegno, fatica, ma soprattutto soddisfazione. La cosa più importante nella storia del nostro gruppo insegnante è stata la consapevolezza dell’importanza di prestare attenzione soprattutto agli aspetti legati alla crescita affettivo-emotiva del bambino piuttosto che alle sue capacità prettamente cognitive. Questo perché abbiamo capito di quanto, in ogni aspetto della vita relazionale, affettiva ed emotiva sia importante cogliere più il processo che il risultato. Il “come ha fatto per arrivare a…” piuttosto che il prodotto finale”.
Implicazione personale
È più importante il processo del risultato
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La parola ai docenti sperimentatori
Hanno collaborato: Elisabetta Chiappara, Stefania Gennaro, Annamaria Giovannini, Sandra Lunelli, Maria Teresa Pace, Mariarosa Pradi, Emanuela Santuliana, Anita Serafini, Rita Spagnoli, della scuola dell’infanzia equiparata di Clarina; Silvia Bagolini, Giovanna Gadotti, Anita Permer, Rita Sighele, Dora Tomasi, Laura Tomazzoni, Adriano Pianini, della scuola dell’infanzia di Meano. Relazione elaborata per il seminario di presentazione degli esiti del progetto “ad Agio” tenutosi a Trento il 4 Marzo 2006.
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Insegnanti della scuola dell’infanzia di Clarina
“La nostra scuola accoglie 77 bambini delle tre diverse età, suddivisi in tre sezioni. Siamo 6 insegnanti di sezione e 3 insegnanti supplementari inserite ognuna all’interno di ogni sezione. Ecco le nostre riflessioni sul progetto “ad Agio”. A partire dall’anno scolastico 2003/2004 la coordinatrice pedagogica ci ha offerto l’opportunità di partecipare al progetto IPRASE dal titolo “ad Agio” della durata triennale, atto a sperimentare sul campo le strategie per comprendere e limitare il disagio e a potenziare le buone pratiche. Alla proposta abbiamo aderito tutte noi insegnanti del tempo normale, ad esclusione delle colleghe del posticipo, certe di poter trovare un valido aiuto e supporto dall’esperto dott. Nicolodi e soprattutto eravamo desiderose di apprendere nuove conoscenze e capacità riguardo l’attività psicomotoria mediante l’implicazione professionale personale e non attraverso la delega ad esperti. Questa decisione è stata presa in coerenza con i principi ideologici iniziali del progetto che prevedeva delle sedute di psicomotricità non condotte da professionisti competenti in materia, ma da noi insegnanti delle due scuole dell’infanzia coinvolte nella sperimentazione. Questo fatto, se da una parte non garantisce la qualità tecnica dell’intervento, soprattutto nelle fasi iniziali, perché molte insegnanti non si erano mai cimentate in questa modalità didattica, dall’altra garantisce un processo di maturazione professionale diretto ed efficace. Questa pratica tuttavia non era nuova nella nostra scuola, ma necessitava di diventare una risorsa all’interno del “normale fare scuola”. La natura del progetto prevedeva un lavoro di collegamento con la scuola elementare, continuità che almeno all’inizio non si è verificata determinando l’avvio concreto solo da parte del gruppo delle scuole materne (La Clarina e la Scuola provinciale di Meano). In accordo con l’organizzazione generale e la scuola di Meano stabiliamo di programmare, oltre agli incontri seminariali, altri incontri mensili per il nostro gruppo, atti a capire meglio le varie manifestazioni di disagio presenti nella scuola dell’infanzia, intese come richiesta d’aiuto da parte del bambino identificandone il livello di “sofferenza”. Per aiutare il bambino a tale riguardo è importante un momento di programmazione più specifica che lo coinvolga nel suo aspetto psicologico- emozionale. Viene individuata la necessità di organizzare un laboratorio comprendente delle sedute di psicomotricità. Psicomotricità significa porre attenzione a come il bambino esprime il proprio mondo interno attraverso l’uso del corpo e del movimento. L’uso del corpo diventa linguaggio di emozioni e sentimenti che l’insegnante deve cogliere con lo scopo di rassicurare e valorizzare ciascun bambino: anche il semplice sguardo deve
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riuscire a comunicargli quanto è bravo…quanto vale. Durante la seduta psicomotoria non c’è competizione fra bambini, ogni “prodotto” è valido e originale. Rispettando poche regole è possibile esprimere ciò che si vuole senza timore di sbagliare: premessa indispensabile per superare i primi stati di disagio. È necessario che tutto il gruppo delle insegnanti che lavorano all’interno di una scuola creda nei significati che la pratica psicomotoria porta con sé affinché la si possa attuare nella maniera più efficace. Di conseguenza il primo passo è stato quello di doverci impegnare collegialmente e riorganizzare tempi e modi per attuare le sedute di psicomotricità e successivi momenti di riflessione e per ripensare alle dinamiche relazionali tra bambino/ bambino e tra bambini/insegnanti. La psicomotricità deve trovare una collocazione mirata nel progetto educativo della scuola; per noi è stato importante capire e riflettere collegialmente sull’esperienza prima di passare all’azione analizzando il tempo scuola, la modalità di raggruppamento dei bambini e le attribuzioni dei compiti fra noi insegnanti. L’esperienza di psicomotricità è organizzata in cicli di circa 10 sedute (numero sufficiente affinché il gruppo possa stabilire dinamiche significative) della durata di 45/60 minuti. Ogni singola seduta ha luogo in uno spazio attrezzato e si compone in tre fasi: 1. la prima fase è il rituale d’inizio: ci si siede sui tappeti e si ripetono alcune regole che bisogna rispettare (non fare male a sé stesso, agli altri, non distruggere i giochi degli altri) e che danno sicurezza emotiva al bambino. 2. La seconda fase è il gioco (senso motorio e simbolico): avviene nello spazio dei salti, dei cubi e dei cuscini dove è possibile giocare e riposarsi. Inoltre fanno parte del materiale teli, corde, cerchi…e qualora l’insegnante lo ritenga opportuno, è possibile aggiungere altri materiali. Quando sta per finire il tempo riservato a questa fase può essere utile avvisare i bambini che il gioco a breve dovrà terminare. 3. La terza fase è il rituale finale: ci si ritrova di nuovo seduti in gruppo per dare stacco al gioco e per far sì che avvenga una caduta del tono-intensità corporea e invece un aumento dell’intensità emotivo-linguistica di pensiero (passaggio dal fare al pensare). È possibile organizzare sia gruppi per livelli d’età che gruppi disomogenei. È importante non superare il numero di 10-15 bambini in base allo spazio a disposizione e anche per essere più attenti ad ogni singolo bambino. Inoltre la dimensione del piccolo gruppo consente di osservare meglio le caratteristiche di ogni singolo bambino e di progettare interventi personalizzati in presenza di particolari difficoltà. La presenza di due insegnanti durante la seduta ci ha dato l’opportunità di essere presenti nel gioco in modo più attivo volto ad un’azione preventiva del disagio. Da parte nostra è piacevole vedere la gioia che i bambini manifestano durante l’attività in palestra; ma nello stesso tempo è necessario contenere e guidare la loro libertà di vivere il piacere attraverso il corpo.
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Già nel corso del primo anno noi insegnanti della Clarina abbiamo attivato nella nostra scuola sei cicli di sedute di psicomotricità (due per ogni livello di età). Abbiamo comunicato chiaramente ai bambini quando sarebbe iniziata l’attività, in che luogo si sarebbe svolta, quante volte sarebbe durata, in quale giorno della settimana e con quali compagni ed insegnanti si sarebbero trovati. Devo dire che i bambini aspettano con gioia il tempo da trascorrere in palestra. Per suscitare ulteriormente in loro il desiderio e l’attesa di questo momento e per creare consapevolezza riguardo ai giorni e alle turnazioni dei vari gruppi, è stato esposto nell’entrata un cartellone illustrativo della nostra organizzazione settimanale (questo anche per coinvolgere e informare le famiglie riguardo la pratica dell’attività psicomotoria). Via via che le sedute procedevano, la dinamica di gruppo si evolveva in modo tale che essi riuscissero sempre con maggior spontaneità a collaborare e ad accordarsi tra loro sui ruoli. I bambini più esuberanti, che tendono in altre occasioni ad assumere ruoli da leader, qui trovano una maggior moderazione ed equilibrio. Viceversa, bambini più timidi e restii ad aggregarsi agli altri riescono in questo contesto a trovare diverse forme di comunicazione. Naturalmente è fondamentale il ruolo delle insegnanti nell’incanalare le emozioni intervenendo sul vissuto emotivo (intervenendo cioè sul setting per regolarizzare il flusso emotivo). È essenziale non penalizzare il bambino né sottolineare gli errori che compie, ma utilizzare “strategie indirette” che abbiano il sapore della convinzione e non della forzatura, al fine di creare rapporti costruttivi e non di scontro. Il ruolo dell’insegnante è quello di accompagnare e sostenere il bambino che da solo riesce a trovare strategie a lui più idonee nella risoluzione delle varie situazioni. Oltre all’esperienza di psicomotricità, all’interno del nostro gruppo abbiamo discusso anche di una griglia di osservazione-valutazione delle varie forme di espressione del disagio che servirà tra l’altro come valutazione statistica dell’esperienza insita nel progetto triennale. Tale strumento, dopo un accurato esame e confronto, è stato elaborato per l’avvio dell’esperienza nel gennaio 2004 nelle scuole di Clarina e Meano, coinvolte nel progetto. Dal punto di vista del contenuto questa griglia ci permette di osservare il bambino in tre diversi contenitori - istituzionale, didattico, libero - riflettendo sia sull’importanza (intesa come gravità del problema) che sulla fattibilità, cioè in che misura noi insegnanti riusciamo a far fronte al problema. Inoltre questo strumento è stato un’occasione di confronto fra noi insegnanti sulle varie problematiche del bambino. Si è trattato di capire il senso della propria professionalità i limiti e le capacità, secondo la logica della condivisione. Grazie alla griglia (una per ogni bambino compilata per due volte nel corso dell’anno scolastico per i tre anni di frequenza) abbiamo avuto la possibilità di tenere costantemente sotto controllo il processo educativo in atto.
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L’approfondimento teorico dei vari tipi di disagio fatto con tutto il gruppo (Clarina e Meano) e il lavoro della compilazione delle griglie ci ha dato una maggior sicurezza e competenza nell’affrontare le varie problematiche del bambino. Negli incontri mensili programmati con i colleghi della scuola di Meano, abbiamo visionato anche alcuni filmati delle sedute di psicomotricità con l’intento di riflettere su noi stesse e sul nostro operato attraverso la discussione di gruppo con la supervisione del tutor che ci dava indicazioni sia sull’aspetto tecnico del nostro modo di porci, sia riguardo a ciò che avviene in noi insegnanti a livello di emozioni e sentimenti (processo). In tale contesto abbiamo inoltre analizzato alcuni “casi particolari di disagio”. Si è pensato di introdurre l’uso dei diari di bordo compilati dopo ogni incontro di attività psicomotoria che ci ha permesso di riflettere sulle singole sedute, sul singolo bambino, sul gruppo, sulle dinamiche ed anche sul coinvolgimento di noi insegnanti a livello personale. Attraverso l’esperienza della psicomotricità, la compilazione delle griglie e dei diari di bordo abbiamo ampliato il nostro modo di vedere i bambini e ci sentiamo più serene nel descriverli a colloquio con i genitori. Tutto questo lavoro sottende alla pedagogia indiretta in cui il bambino sviluppa competenze sociali, affettive e cognitive in un ambiente organizzato. I risultati di questa esperienza di pedagogia indiretta ci hanno sicuramente arricchite. Tale metodologia può essere applicata anche in altri momenti della giornata scolastica, dove viene data così più importanza al processo che porta il bambino a fare e vivere determinate esperienze piuttosto che il centrare l’attenzione solo sul prodotto finale. La pedagogia indiretta è particolarmente indicata soprattutto per i bambini che hanno difficoltà a modulare le loro emozioni. È importante aiutare il bambino a esprimere le proprie emozioni e poiché egli non sempre ne è capace è necessario eventualmente “prestargli” le parole. La nostra esperienza di psicomotricità è stata presentata alle famiglie durante l’assemblea di inizio anno spiegando le finalità del progetto “ad Agio” nelle sue linee generali. Quest’ultimo anno abbiamo proiettato per i genitori un video dell’attività per dar loro modo di comprendere meglio come il bambino viva con entusiasmo questo momento, sviluppando capacità più creative e non solamente cognitive secondo una metodologia più direttiva. Siamo convinte che la qualità delle relazioni che si instaurano in questi momenti privilegiati, divenga premessa sia per lo sviluppo di scambi sociali sempre più significativi, sia per creare un clima di “AGIO” a scuola.
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Relazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia di Meano
Tutti gli otto insegnanti di ruolo della scuola più un insegnante del prolungamento aderiscono al progetto “ad Agio” e partecipano a questa ricerca.
CRONISTORIA DEL PROGETTO
Siamo il gruppo di insegnanti della scuola dell’infanzia di Meano. Da quest’anno scolastico ci siamo trasferiti nella nuova sede con un conseguente aumento di sezioni da 3 a 4 per un totale di 100 bambini. A settembre dell’anno 2003, abbiamo ricevuto una telefonata dalla coordinatrice dott. ssa Flavia Ioris in cui si esplicitavano le linee generali del progetto “ad Agio”: della nostra scuola avrebbe partecipato una sola sezione con i due insegnanti più una terza insegnante. Detti insegnanti dovevano essere preferibilmente quelli che seguivano i piccoli, dal momento che il progetto si articolava su tre anni. Era richiesto dal progetto iniziale una scuola di città (già individuata nella scuola equiparata di Clarina) ed una scuola di collina. Il fatto di sapere che il tutor sarebbe stato il dott. Nicolodi e che attraverso la psicomotricità si sarebbe lavorato sul tema del disagio, ci ha spinto ad aderire con entusiasmo.
IMPATTO ISTITUZIONALE
Il progetto prevedeva tre incontri annuali di plenaria a cui partecipavano tutte le scuole aderenti al progetto (elementari e la scuola infanzia equiparata di Clarina). La prima sorpresa è stata quella di non trovare un progetto già pronto ma di essere noi in prima persona coinvolti nell’ideazione del progetto stesso. Questo inizialmente ci ha un po’ “spiazzato”, ma in itinere ci siamo resi conto che ciò poteva essere una grande opportunità di crescita professionale dove mettere in gioco due elementi fondamentali: libertà e responsabilità. Marco Rossi Doria (supervisore degli incontri di plenaria) ci ha aiutato a prendere maggiore consapevolezza che questo non era un progetto da affiancare a tutti gli altri, ma un’occasione per riflettere su quello che già si stava facendo e per capire meglio come cambiare il nostro modo di fare scuola. Oltre agli incontri seminariali con tutti i gruppi, il progetto prevedeva un incontro mensile del sottogruppo delle scuole dell’infanzia. Al primo incontro del gruppo N. 1 delle scuole dell’infanzia, ci siamo sorpresi del fatto che la nostra scuola partecipasse solo in parte, mentre Clarina era al completo. Ci è stato spiegato che uno degli obiettivi del progetto sarebbe
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stato anche quello di trasmettere l’esperienza ai colleghi non partecipanti. Nonostante ciò, ci siamo battuti affinché tutti gli insegnanti di Meano partecipassero per due validi motivi: la difficoltà per il tutor nel proporre lo stesso tipo di percorso a due scuole con diversa partecipazione numerica di bambini e insegnanti; inoltre il desiderio che la psicomotricità diventasse parte fondante del progetto di scuola, patrimonio professionalizzante comune, sperimentata da tutti con il supporto del tutor. Il nostro entusiasmo è stato vissuto come contagioso dalle colleghe che il primo anno non hanno potuto partecipare e che si sarebbero fortunatamente potute aggiungere nei due anni successivi. Durante il primo anno eravamo inizialmente solo in tre insegnanti a partecipare al progetto, ma nel corso dello stesso anno la partecipazione è stata integrata con altre due insegnanti. Sia per la mancanza del materiale, sia per la necessità di pensare a come organizzare tempi e spazi, vista la sede poco funzionale, il primo anno non abbiamo potuto realizzare le sedute di psicomotricità a scuola. Con il secondo anno invece tutto il personale insegnante a tempo pieno è stato coinvolto. Nel frattempo ci è pervenuto il materiale necessario e quindi abbiamo iniziato la nuova esperienza di psicomotricità nella scuola con un ciclo di 10 sedute per tutti e tre i gruppi di età. In questo terzo anno ci siamo trasferiti nella scuola nuova ed è stato necessario rivedere nuovamente tutta la organizzazione, come spazio, come tempi e come abbinamento bambini/insegnanti, visto l’aumento di una sezione e quindi con due nuove insegnanti da integrare nell’esperienza. Fin dai primi incontri teorici, quando si è affrontato il tema generale del disagio ci è stata proposta una GRIGLIA di rilevamento dello stesso. Abbiamo avuto inizialmente delle perplessità, perché ci sembrava troppo riduttiva, rigida, schematica, omologante e di dubbia utilità. Comunque dopo averla rielaborata per adattarla alla nostra realtà e per arrivare ad una comune interpretazione della sua terminologia, è risultata essere un utile strumento di osservazione non solo per raccogliere dati, ma soprattutto per individuare l’intensità del disagio del bambino e il nostro e per gestire meglio l’intervento educativo. La griglia è stata compilata per ogni bambino dagli insegnanti di sezione ad inizio e fine anno scolastico per tutti e tre gli anni. Abbiamo imparato a non farci intimidire da questo strumento ma ad avere il coraggio di sperimentarlo. I risultati sperimentali di questa griglia non sono ancora disponibili perché manca l’ultima rilevazione. Questa particolare attenzione all’aspetto emotivo nelle relazioni ci ha ricondotti alle precedenti formazioni sull’educazione ambientale, che già ci avevano permesso di cambiare ottica, attraverso nuove pratiche.
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I coordinatori pedagogici avrebbero inizialmente dovuto partecipare al progetto insieme agli insegnanti, mentre successivamente è stato istituito un quarto gruppo con funzione prevalentemente divulgativa dell’esperienza. La nostra coordinatrice ci ha espressamente invitati a dare la priorità alla sperimentazione di “ad Agio” nell’ambito della nostra progettazione di scuola e si è prontamente attivata per far sì che venisse fornito in tempi brevi il materiale per la psicomotricità. Inoltre ha appoggiato la nostra richiesta di partecipazione di tutti gli insegnanti della scuola al progetto. Per quanto riguarda infine le differenze istituzionali fra ordini di scuola (elementare e scuola dell’infanzia) ci siamo resi conto di quanto queste incidano sulla possibilità di realizzare percorsi comuni. Resta comunque il bisogno di trovare insieme delle risposte per far fronte al problema del disagio. In questo momento si sta maturando l’idea di utilizzare l’esperienza psicomotoria e la griglia come progetto ponte con le scuole elementari di Meano.
IMPATTO SOCIALE
Il progetto è stato presentato alle famiglie nei consueti incontri di scuola di inizio anno ed è stato ampiamente documentato con materiale fotografico, video, estratti di conversazioni ed elaborati dei bambini. L’accoglienza da parte delle famiglie è stata molto positiva, perché siamo riusciti a far comprendere quanta importanza investe per noi la partecipazione al progetto “ad Agio”, professionalizzante sia dal punto di vista educativo e del rapporto con i bambini, che dal punto di vista personale. Inoltre a metà del 2° anno quando era già in atto l’esperienza di psicomotricità è stato fatto un incontro pubblico con l’intervento del dott. Nicolodi sul tema “Uso del corpo e movimento nell’infanzia”, rivolto alle famiglie dei bambini delle elementari di Meano, ai loro insegnanti, oltre che alle famiglie dei bambini della nostra scuola dell’infanzia. La serata è stata organizzata in collaborazione con la circoscrizione. Nella prima parte dell’incontro l’esperto ha spiegato alcuni punti chiave riguardo al tema con il supporto di un video di una seduta psicomotoria registrata nella nostra scuola. Nella seconda parte c’è stato un interessante dibattito con una grande partecipazione da parte delle famiglie. L’aver infine socializzato l’esperienza all’interno del Collegio docenti di fine anno, ha fatto sì che alcune colleghe di altre scuole dell’infanzia, chiedessero di poter visionare la griglia di valutazione del disagio, ma in accordo con il nostro tutor abbiamo considerato prematuro esportare questo strumento ancora in fase sperimentale.
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IMPATTO PROFESSIONALE
Dal punto di vista professionale questo progetto ha arricchito la nostra “esperienza” favorendo una riflessione sul rapporto bambino/insegnante e bambino/bambini. Psicomotricità è dare al bambino uno spazio nel quale sentirsi così bene da poter esprimere liberamente le proprie emozioni, mettendo in gioco le proprie capacità psicologiche-emotive. Proprio per queste sue caratteristiche la psicomotricità è stata scelta come strumento privilegiato atto ad individuare, riconoscere ed accogliere eventuali manifestazioni di disagio. La metodologia adottata si fonda sulla competenza pedagogica della ricezione. L’insegnante, nel momento psicomotorio non è conduttore e propositore continuo, ma osservatore, organizzatore di spazi e materiali, interagisce con i bambini in modo indiretto. Invita in momenti di insicurezza, di incertezza, ferma nei momenti di iperattività, equilibra le energie quando troppo frenetiche e disorganizzate. Gli insegnanti si sono visti a riorganizzare i momenti didattici e la composizione dei gruppi dei bambini per permettere a tutti i bambini della scuola (a gruppi limitati) di vivere appieno questa esperienza, nuova, gratificante e coinvolgente. Riguardo alla strutturazione dello spazio psicomotorio abbiamo individuato nel dormitorio il luogo più idoneo per predisporre il settino così organizzato: • angolo dell’accoglienza, allestito con un tappeto, luogo dei rituali iniziali e finali delle sedute; • angolo del salto allestito con tavoli ad altezze diverse, un materassone poggiato su due materassini antiscivolo; • angolo delle costruzioni per il gioco senso-motorio e simbolico allestito con blocchi di gommapiuma di diverse forme e dimensioni; • materasso delle capriole con specchio a parete; • corde, teli e palle. I rituali di inizio e fine seduta fungono da cornice di contenimento della libertà di gioco e della rielaborazione mentale del suo vissuto emotivo (verbalizzazioni, rilassamento, rielaborazione grafica). La nostra organizzazione prevede due sedute a mattinata di 45 minuti l’una per tre giorni a settimana. • LUNEDÌ con bambini/e grandi (5/6 anni) - 2 gruppi da 15 • MARTEDÌ con bambini/e medi (4/5 anni) - 2 gruppi da 15 • MERCOLEDÌ con bambini/e piccoli (3/4 anni) - 2 gruppi da 15 Un numero ridotto di bambini (comunque non meno di 10) permette di avere un occhio più attento ad ogni singolo bambino.
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Un ciclo è composto da 10-12 sedute. Ogni gruppo è seguito da due insegnanti che si alternano uno nella conduzione e uno nell’osservazione, ampliando così la possibilità di porre particolare attenzione a come ogni bambino esprime, vive e metabolizza il proprio vissuto emotivo attraverso le situazioni di gioco incontrate. La specificità del momento psicomotorio ci ha aiutato ad osservare il bambino con sguardo più attento, in modo da percepire quello che fa parte dei suoi aspetti più intimi. Questo perché spesse volte il bambino inserito nel contesto di sezione o di gruppo per età riesce a mascherare le sue insicurezze, paure o le sue potenzialità. Per “fare memoria” di ciò che il bambino e il gruppo esprimono nelle sedute psicomotorie abbiamo utilizzato lo strumento del “diario di bordo”, che altro non è se non una rielaborazione scritta da parte dell’insegnante delle dinamiche del bambino espresse nelle sedute e dei nostri vissuti. I diari sono diventati poi patrimonio di documentazione condivisa per tutti gli insegnanti della scuola e racchiusi in una relazione finale che fa parte della documentazione del progetto “ad Agio”.
RIORGANIZZAZIONE SPAZIALE E TEMPORALE DELL’ATTIVITÀ DIDATTICA
Per la nostra scuola, inizialmente digiuna di qualsiasi esperienza psicomotoria, l’organizzazione degli spazi e dei tempi dedicati a questa attività ha comportato un importante dispendio di energie psichiche. In questo progetto sono state investite parecchie ore di programmazione, vuoi per la strutturazione degli spazi, vuoi per la composizione dei gruppi. Questo ha significato per noi dare priorità assoluta a questa esperienza al punto tale che ha modificato i tempi ed i ritmi quotidiani del nostro modo abituale di lavorare. Gli insegnanti che seguono i gruppi per età sono 3 per gruppo. Di conseguenza due insegnanti possono seguire la seduta psicomotoria, mentre un terzo rimane con gli altri bambini. Al mattino in sezione abbiamo ridotto i tempi del gioco libero per preparare i bambini che effettuano la seduta, facendo indossare calzini antiscivolo e abbigliamento adeguato. Si è richiesto inoltre una fattiva collaborazione del personale ausiliario sia per il momento del pranzo, talvolta posticipato di pochi minuti, sia per il riordino delle brandine nel dormitorio. “ad Agio” per noi è spesso coinciso con i termini impegno, fatica, ma soprattutto soddisfazione. La cosa più importante nella storia della scuola dell’infanzia di Meano in questo triennio e del nostro gruppo insegnante è stata la consapevolezza dell’importanza di prestare attenzione soprattutto agli aspetti legati alla crescita affettivo-emotiva del bambino piuttosto che alle sue capacità prettamente cognitive. Questo perché abbiamo capito quanto, in ogni
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aspetto della vita relazionale, affettiva ed emotiva sia importante cogliere più il processo che il risultato, il “come ha fatto per arrivare a…” piuttosto che il prodotto finale. “ad Agio” è arrivato per noi in un momento particolare; già da tempo ci stavamo interrogando se ci fossero altre “pratiche” da mettere in atto per poter far venire a galla ciò che i bambini non sanno o non possono dire. Ma sicuramente l’accogliere appieno questo progetto ha significato anche per noi stabilire un ordine di “importanza” su ciò che si “deve fare” perché le ore alla scuola dell’infanzia siano fonte di BEN-ESSERE. In base all’esperienza maturata nel corso di questi anni pensiamo, per gli anni futuri, di non effettuare più di una seduta al giorno per poter concedere tempi più distesi di rielaborazione della stessa, sia ai bambini, sia agli insegnanti. Considerato ciò, e visto che a gennaio entra un numero consistente di bambini nuovi, riteniamo opportuno iniziare le sedute di psicomotricità con i bambini più piccoli nella seconda metà dell’anno.
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Il gruppo come laboratorio di costruzione dell’agio Il percorso del gruppo N. 2 Cristina Bertazzoni
IL DISAGIO A SCUOLA
Il percorso del “gruppo Pigarelli-Clarina” prende avvio il 12 marzo 2004. Ricordo ancora quel primo incontro, caratterizzato dal desiderio di intraprendere una iniziativa innovativa e attraversato, allo stesso tempo, da dubbi, incertezze e ambivalenze. I docenti partecipanti sapevano di aver aderito ad un percorso di ricerca focalizzato sul disagio scolastico e nutrivano l’aspettativa di trovare soluzioni ad un problema che affligge la prassi quotidiana dell’insegnare. Nel verbale di quel primo incontro si delineano con evidenza i loro bisogni, le ripercussioni emotive, le difficoltà professionali derivanti dal sentimento di impotenza sperimentato di fronte al “non star bene a scuola” dei bambini. Tratto dal verbale del 12-13 marzo Il gruppo ha iniziato l’incontro attraverso un giro di presentazioni individuali ed ha provato ad esprimere quali fossero le motivazioni, le aspettative e le paure di ciascuno rispetto al progetto. Per quanto riguarda le motivazioni, c’è chi partecipa per risolvere le proprie ansie relative al disagio, chi perché sente l’esigenza di intervenire su un problema che è sempre più urgente, e con il quale quotidianamente è necessario confrontarsi, chi per un confronto con i colleghi su problematiche comuni, e anche chi perché spinto e convinto da colleghi più motivati. Per quanto riguarda le aspettative c’è la voglia di riuscire a mettersi in discussione, di acquisire consapevolezza su situazioni che comunque ci si trova a vivere tutti i giorni e sulle quali si deve quotidianamente intervenire, di acquisire competenze nuove e di trovare delle strategie nuove, che siano attuabili, fattibili, e infine c’è il desiderio di riuscire ad aprirsi nel confronto con colleghi senza pregiudizi reciproci e cercando di controllare la propria ansia e le proprie preoccupazioni.
Aspettative e ambivalenze
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Le paure comunque ci sono, e sono quelle di aprire un confronto, dal quale potrebbero nascere competizione o giudizi; paura di trovarsi a discutere su cose già fatte fermandosi a livello della discussione, senza riuscire ad andare oltre; paura di arrivare a credere che ci sia una soluzione per tutte le problematiche che si incontrano a scuola, paura di agire con la fretta. Una cornice destrutturata e opaca
Una ricerca attraverso il confronto
I docenti riversavano nel progetto “ad Agio” le speranze di trovare finalmente una risposta possibile al “malessere scolastico”, al disagio che i bambini manifestano in classe con una straordinaria varietà di comportamenti: disattenzione, atteggiamenti aggressivi, incapacità di rispettare le regole, insofferenza nei confronti delle proposte scolastiche, ecc… Queste attese erano però accompagnate dalla sensazione di aver aderito ad un’iniziativa destrutturata ed opaca che metteva al centro l’insegnante e la sua competenza. Destrutturata perché il percorso non era tracciato linearmente, perché non veniva precisato “cosa fare” e “come farlo”. “ad Agio” si presentava come un progetto stimolatore di processi, fortemente centrato sulla metodologia di lavoro, piuttosto che su contenuti da trattare o prodotti da realizzare. Il tema centrale era sì il disagio scolastico ma, cosa fare per fronteggiarlo, quali iniziative realizzare ed in che modo, era lasciato alla libera scelta di ciascun gruppo. “ad Agio” era anche un progetto che potremmo definire “opaco”, dai contorni sfumati: non desiderava far luce sul tema del disagio, dare risposte definitorie, fornire indicazioni o prescrivere azioni, ma intendeva “scommettere” sulla professionalità insegnante, sulla capacità dei docenti di interrogare il problema e fronteggiarlo attraverso iniziative sperimentali, azioni “in progress” che diventavano, di volta in volta, oggetto di riflessione, di studio e di perfezionamento. Questa estrema apertura e flessibilità del progetto, che si connotava come “ricerca attraverso il confronto”, suscitava nel gruppo dichiarati e agiti oscillanti tra il desiderio e la paura: desiderio di avventurarsi in un percorso creativo senza “mappe”, dove le strade e le vie sono da tracciare quotidianamente insieme; paura di vivere e sperimentare l’insicurezza, l’ignoto, la co-costruzione continua e costante del tragitto, dei punti di sosta, del traguardo del viaggio.
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Questi sentimenti ambivalenti erano anche accompagnati dalla paura di essere “fagocitati” dal progetto: “quanto tempo ci impegnerà?” “quante cose dovremmo fare al di fuori degli incontri?” “riusciremo a conciliare il progetto con gli altri impegni scolastici?” erano le domande che ritmicamente si presentavano, soprattutto nei primi tempi. Il clima di gruppo era perciò fortemente caratterizzato da movimenti altalenanti di “avvicinamento” e di “presa di distanza”, dichiarazioni di interesse, di adesione all’iniziativa e richieste di rassicurazione rispetto ai tempi di svolgimento, rispetto al tipo di lavoro da svolgere, rispetto alla centralità del ruolo di guida del tutor. Il gruppo era inoltre composto da due sottogruppi-family:1 i docenti della scuola primaria “Pigarelli” - colleghi di lunga data - e il sottogruppo, più esiguo numericamente, dei docenti della scuola primaria “Clarina”, fin dall’inizio martoriato dal continuo turn over dei docenti supplenti. Si trattava quindi di “scongelare” questa strutturazione bipolare perché poteva costituire una barriera difensiva rispetto al confronto e all’interscambio tra i componenti del gruppo. Fin dall’inizio, infatti, emergevano nel gruppo frasi del tipo: “noi delle Pigarelli, voi della Clarina”, oppure “voi (della Clarina o alternativamente delle Pigarelli) non potete capire, perché la nostra situazione è diversa”, a segnalare appunto questa barriera interna che ostacolava la riflessione condivisa, la percezione di essere un gruppo unitario impegnato in un’impresa comune e collettiva. Questo problema si presentava anche negli altri gruppi per cui, come équipe tutoriale, abbiamo ritenuto importante proporre - ai gruppi in “parallelo” - una prima riflessione condivisa sul senso e significato del “disagio scolastico”, stimolando la messa in comune di rappresentazioni, percezioni e vissuti, tra i membri del gruppo. Questo stimolo al confronto sul tema-cardine del progetto “ad Agio” aveva inoltre un triplice scopo: di fluidificare le relazioni interne, stimolare il coinvolgimento nel progetto e porre le basi da cui partire per ideare e progettare interventi innovativi. Il disagio scolastico rap-
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Per gruppi family si intende gruppi composti da persone che hanno una storia pregressa e lunga di relazione in quanto appartenenti alle due organizzazioni scolastiche. Questo - solitamente - precostituisce gli schemi di comportamento, le relazioni e le aspettative reciproche. Inoltre la relazione non si esaurisce nel “qui ed ora” degli incontri di gruppo, ma è costantemente influenzata dalle appartenenze organizzative.
La composizione del gruppo
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presentava il tema unificante che aveva spinto tutti i docenti a partecipare al progetto. Da lì era importante partire anche per trovare un elemento comune di scambio, uno stimolo per rompere le divisioni interne. Tutti potevano riconoscersi nell’esperienza del collega, nella situazione professionale narrata in gruppo e questo rispecchiamento poteva favorire la fuoriuscita dalle trincee dell’appartenenza ad istituti scolastici diversi, poteva stimolare la socializzazione interna al gruppo ed offrire un primo elemento per costruire un sentimento di appartenenza. Non solo. Immergendosi - attraverso il confronto - all’interno del tema centrale del progetto, si poteva immediatamente stimolare la partecipazione ed il coinvolgimento attivo nell’iniziativa, lasciando sullo sfondo ansie, preoccupazioni, timori, presenti nell’atteggiamento ambivalente di desiderio/paura che sopra ho tentato di descrivere. Si è perciò partiti proprio da qui, da questa esplorazione in profondità del “disagio”, così come ciascuno di loro lo percepiva, nel tentativo di circoscrivere e definire questo problema, dai contorni sfumati e complessi. Verso la definizione del problema Il disagio che cos’è?
Il disagio in classe: che cos’è? Come si manifesta? Quali sono i comportamenti-spia delle situazioni di “malessere”? Quali riverberi emotivi provocano sull’insegnante? Quali azioni vengono praticate dal docente, a seguito di questi vissuti? Queste sono solo alcune delle domande che hanno da subito coinvolto appassionatamente il gruppo in un dibattito effervescente, ricco di racconti ed esperienze personali. Filtrava da queste esperienze l’ansia, la preoccupazione, il sentimento di impotenza, i sensi di colpa di chi ogni giorno si trova di fronte a comportamenti inspiegabili, ad agiti che segnalano sofferenza per la scuola, nonostante le attenzioni e l’impegno professionale del docente. In questi incontri emergeva progressivamente la dimensione multiforme del disagio, non riconducibile linearmente a cause la cui rimozione poteva essere pensata, se praticabile, come risolutiva degli effetti. Abbiamo utilizzato anche dei “casi”, portati da alcuni del gruppo come emblematici di comportamenti “disagiati”, per tentare un’analisi in profondità di questi stati di malessere, nel tentativo di identificare e circoscrivere il disagio, individuarne le possibili cause ed analizzare i modi utilizzati dal docente per fronteggiarli. Di fatto, in questa esplorazione, in profondità, le variabili utilizzate per leggere il disagio si
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moltiplicavano ed erano tutte plausibili. Qualcuno rintracciava i presupposti di questi comportamenti nelle caratteristiche di personalità o nella storia personale dell’allievo, altri intravedevano le cause nel funzionamento dell’istituzione scolastica, altri ancora indicavano variabili di tipo socioculturale. Proprio questo suo carattere composito, rendeva difficile arrivare ad una definizione circoscritta del disagio in generale e del disagio scolastico in particolare. Forse sarebbe stato più opportuno parlare infatti di “disagi”, data la vasta gamma di espressioni attraverso le quali il malessere scolastico si può manifestare e la molteplicità di significati che può assumere. I ragionamenti e il confronto libero e destrutturato, scivolavano sempre più anche sul tema dei “nostri disagi”, sulle situazioni di malessere riscontrate nel mondo adulto e nella professione docente, sulle relazioni disturbate e disfunzionali tra colleghi, sui meccanismi a volte perversi o schizofrenici dell’organizzazione scolastica. L’intreccio delle narrazioni, dei vissuti e delle considerazioni esplicitate dal gruppo disegnava sempre più un’idea multifattoriale del disagio, un intreccio di variabili strutturali e dinamico-evolutive che, nella sua complessità sistemica, attraversa e coinvolge tutte le componenti del sistema-scuola. Tratto dal verbale del 2 aprile 2004 Si è proseguito il lavoro tentando di avviare una prima comprensione dei motivi del crescente disagio presente non solo nelle classi, ma anche nella vita professionale degli insegnanti e, più in generale, nel contesto sociale. Sono stati evidenziati alcuni comportamenti e modalità relazionali dei docenti che, presumibilmente, possono ritenersi causa e fonte di disagio: • scarsa capacità di confronto diretto e franco sia a livello professionale che individuale: aumento dell’isolamento e difficoltà a tessere relazioni interpersonali di scambio e confronto significativo. • Maggiore attenzione e quantità di tempo riservata a problemi di tipo materiale e organizzativo, piuttosto che a costruire e approfondire rapporti relazionali. • Scarsa presenza di reti di supporto e sostegno sociale al di fuori della famiglia: indifferenza e scarsa attenzione agli altri, impoverimento della cultura della solidarietà.
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• Atteggiamenti frequenti di evitamento del conflitto e incapacità/non volontà di gestire direttamente situazioni critiche e/o spiacevoli. Non solo quindi un disagio riferibile a qualche singolo alunno o alla classe, ma trasversale al contesto scolastico. Molti dei “disagi” riscontrabili nel gruppo-classe si rintracciavano anche nel gruppo insegnanti e nell’organizzazione scolastica, quasi come in un gioco di specchi in cui, nell’“altro da me”, si riconosce il “sé”. Leggendo la sintesi riportata in uno dei verbali di quel periodo, si scorgono i rimandi, le connessioni speculari. Tratto dal verbale del 20 maggio 2004 L’incontro si è svolto poi in una prima fase con l’individuare i tipi di disagio: a) a livello di organizzazione scolastica, di Istituto; b) nei rapporti con i colleghi; c) il disagio dei bambini. a) A livello di organizzazione scolastica, di Istituto: • mancanza di chiarezza e coerenza nelle disposizioni della Dirigenza; • scarsa definizione di ruoli/responsabilità; • mancanza di coesione tra le varie interclassi; • perdita di una identità d’istituto; • aumento d’impegni burocratici e organizzativi degli insegnanti; • scarsa definizione del ruolo/competenze degli insegnanti. b) Nei rapporti con i colleghi: • mancanza di condivisione e volontà a controllarsi, a confrontarsi e cercare insieme; • mancanza di una comunicazione diretta e costruttiva; • relazioni stereotipate; • relazioni aggressive; • difficoltà di ascolto. c) Il disagio dei bambini: • bisogno di essere ascoltati; • difficoltà di verbalizzazione e presa di coscienza degli stati emotivi (fragilità emotiva); • mancanza di coesione di gruppo, di alleanze; • difficoltà di attenzione/concentrazione;
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• scarsa tolleranza della fatica/impegno; • incapacità di ascoltare; • scarsa riflessività; • incapacità di considerare il punto di vista altrui; • egocentrismo marcato; • scarso rispetto per gli operatori della scuola e per le cose degli altri. I tentativi di risposta alla domanda “che cos’è” il disagio allargavano sempre più i confini semantici di questo fenomeno, fino addirittura ad arrivare ad affermare che il termine era forse un’etichetta appiccicata a quei bambini che mettevano in estrema difficoltà l’insegnante o rompevano l’armonia delle relazioni nel gruppo-classe. In sintesi, il gruppo sembrava pervenire alla conclusione tautologica che “il disagio è ciò che l’insegnante percepisce come tale”. Nel corso di questo processo riflessivo, i “disagi” acquistavano sempre più una connotazione relazionale e di contesto. I disagi dei bambini, ma anche degli insegnanti, apparivano fortemente situati, cioè influenzati dalle dinamiche relazionali che si sviluppano all’interno del contesto-classe. Con ciò non si voleva disconoscere l’importanza di fattori individuali (ad esempio livello di autostima, sentimento di autoefficacia, componenti cognitive dei bambini), o aspetti socioculturali (rapporti familiari, storia familiare ecc.) anch’essi fattori catalizzatori delle situazioni di malessere. Ma, su queste dimensioni, l’incidenza del lavoro dell’insegnante era considerata minima o pressoché nulla. Per quanto riguarda la capacità e reale possibilità di incidere sulle famiglie, il docente non può infatti trasformarsi in un terapeuta familiare: al massimo può dare qualche consiglio. La famiglia è inoltre una pura rappresentazione nella mente dell’insegnante. Egli non ha occasioni di osservare e comprendere le dinamiche familiari nell’ambiente di vita naturale e quotidiano del bambino ma deduce, ricava ipotesi, dai racconti e dagli incontri sporadici con i singoli componenti del nucleo familiare. D’altro canto, può anche marginalmente incidere sui fattori individuali attraverso interventi didattici progettati “ad hoc” per ciascun alunno: non dimentichiamo, infatti, che ogni insegnante lavora con gruppi-classe, composti anche da 25-28 bambini. La didattica individualizzata richiede la possibilità di seguire da vicino, passo dopo passo, ogni singolo allievo; richiede la costruzione di strumenti didattici specifici, richiede stili relazionali diversificati in base
l disagio di chi è?
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ai bisogni di ciascuno. Un compito impossibile, considerando non solo la numerosità della classe ma anche la “dimensione pubblica” in cui avviene ogni azione, in cui si esplicita ogni messaggio verbale e non verbale del docente. Qualsiasi agito dell’insegnante ha infatti riflessi non solo sull’eventuale soggetto, destinatario intenzionale di quel comportamento, ma riverbera e influisce su tutti gli altri bambini che sono presenti e partecipano, anche se passivamente, a quella situazione. La possibilità di praticare lo “sguardo per ognuno” è perciò estremamente limitata e soprattutto deve risultare compatibile con lo “sguardo per tutti”. L’insegnante, insieme ai bambini, vive quotidianamente immerso in una trama di relazioni dinamiche che si struttura all’interno del gruppo-classe e che ha risvolti psicosociali: sia sui singoli (bambini e docente) e sia sul gruppo inteso come unità sistemica. Ed è proprio lì, nel “qui ed ora” del suo agire professionale, che il gruppo-docenti “Pigarelli-Clarina” progressivamente individuava l’ambito specifico e privilegiato di intervento dell’insegnante: agire sulle variabili contestuali e relazionali, 2 poteva essere un compito ritenuto possibile e necessario. Il disagio è sistemico
Il gruppo, al temine di questa esplorazione del “problema disagio”, giunge ad una ipotesi condivisa e considerata prioritaria: il malessere manifestato da alcuni bambini è il segnale di una “situazione relazionale perturbata” che complessivamente investe tutto il sistema-classe, inteso come campo sociale. L’ipotesi di fondo è che esista una relazione profonda tra contesto scolastico e comportamento individuale, una rapporto di interdipendenza tra clima della classe e benessere del singolo. Il gruppo-classe viene rappresentato come sistema sociale dinamico attraversato da relazioni “orizzontali” (bambini-bambini) e “verticali” (insegnante-bambini) che possono avere una incidenza significativa sul comportamento dei singoli. Questo paradigma interpretativo può apparire apparentemente banale, ma a tutt’oggi in realtà è di rado ispiratore degli interventi in campo scolastico e sociale. Prevale, molto frequentemente, l’idea che il comportamento individuale sia una scelta solitaria: quando un bambino mette in atto comportamenti “devianti” (auto/etero distruttivi), spesso tali agiti vengono interpretati come
2
Ad esempio l’ambiente scolastico, il clima della classe, il rapporto tra l’alunno e l’insegnante, il rapporto tra i bambini.
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prodotto esclusivo del soggetto,3 come episodi da circoscrivere all’interno del singolo e il mondo adulto (genitori, insegnanti, educatori) interviene con risposte sanzionatorie (punizione, emarginazione) o di supporto-protezione (cura). In realtà il bambino “disagiato” è un bambino situato: vive costantemente nel flusso dinamico delle relazioni che si disegnano nel campo psicosociale della classe. Un tessuto connettivo di rapporti interpersonali che il singolo bambino influenza e da cui è influenzato. I “disagi”, in quest’ottica possono essere letti come segnali-spia di disfunzioni di questo sistema, una sorta di “allarme” che ci segnala “un guasto” del gruppo-classe. Queste riflessioni ed ipotesi conducono lentamente il gruppo verso una “rivoluzione paradigmatica”, un significativo spostamento di prospettiva e di approccio: il focus dell’azione dell’insegnante dovrà essere la promozione del benessere relazionale di tutta la classe, ipotizzando che ciò avrebbe portato benefici anche a quei bambini che manifestavano segnali di malessere o si trovavano in difficoltà a rispondere alle richieste scolastiche. Il cambiamento di prospettiva è evidente: dal fronteggiamento del disagio alla promozione dell’agio, dall’attenzione al singolo all’attenzione al gruppo, da un approccio che privilegia la “cura”, la “riparazione”, ad un approccio che privilegia la prevenzione, l’empowerment. In questo cambiamento dello “sguardo” si innestano altre considerazioni connesse, in specifico, con la figura dell’insegnante. Il docente diventa soggetto-oggetto privilegiato del percorso di ricerca e si fa docente responsabile, docente riflessivo, docente sperimentatore.
Un cambio
È docente responsabile in quanto non scarica all’“esterno”, trovando giustificazioni eterodirette ai problemi che riscontra all’interno della classe. Ciò che avviene durante l’attività scolastica è riconducibile prioritariamente alle modalità di gestione del ruolo, allo stile relazionale, alla competenza didattica di chi è responsabile dell’azione educativa. Da ciò discende la necessità di indagine e di autoanalisi del modo specifico di operare di ciascun insegnante: ogni docente dovrà interrogarsi sul proprio modo di declinare il ruolo docente nella prassi didattica, dovrà esplorare i propri vissuti emotivi, le strategie didattiche utilizzate, ricono-
Il docente
3
In subordine vengono pensati come effetto disturbato di una relazione situata “altrove”: nei rapporti con i genitori, nella situazione sociale della famiglia, ecc.
di prospettiva: dal disagio all’agio
responsabile, riflessivo, sperimentatore
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scersi potenzialità e difficoltà relazionali, attivando un processo di crescita della consapevolezza del proprio modo di “essere e fare” l’insegnante. Dovrà quindi trasformarsi in docente riflessivo, soggetto e oggetto di un laboratorio di ricerca sulla professione insegnante. Non per assaporare il gusto dell’introspezione e dell’autoanalisi fine a se stessa, ma come percorso strettamente connesso con la sperimentazione, con l’invenzione creativa e consapevole di nuovi modi di vivere e lavorare “con e nella” classe. Il docente riflessivo lascia necessariamente il passo al docente sperimentatore, al desiderio di intraprendere il nuovo, di sperimentare innovazioni, di rischiare e rimettere in gioco la propria professionalità. Il docente sperimentatore non ha risposte certe ma pro-getta, getta in avanti ipotesi da cui fa discendere azioni, interventi didattici sperimentali che, a loro volta, diventano fonte di riflessione, di ricerca, di innovazione; attiva un circuito virtuoso, in cui riflessività, ricerca e sperimentazione si intrecciano e si autoalimentano. Il gruppo arriva a queste considerazioni e decisioni, attraverso un percorso riflessivo non lineare, ma tortuoso. Momenti di slancio e di decisa convinzione rispetto a questa nuova prospettiva - frutto e risultato di un intenso confronto collettivo - erano sempre accompagnati da ritiri difensivi, da deviazioni e fughe, da bruschi arresti. Mettersi in gioco direttamente come professionisti dell’educazione, confrontarsi con altri svelando le proprie potenzialità ma anche le proprie lacune, assumere su di sé la responsabilità di affrontare i disagi della classe senza il ricorso ad esperti esterni o a “ricettari” definiti da altri, non era certo facile. La tentazione di “fuggire all’esterno”, demandando a “chi è competente”, la gestione delle criticità della classe, è sempre molto forte nel mondo della scuola. Ma pur con qualche resistenza, che riaffiorava ricorsivamente durante il percorso, il gruppo ha deciso con coraggio e determinazione di intraprendere questa avventura. Lavorare sulle due dimensioni: autocentrata e eterocentrata
C’era consapevolezza che il lavoro da fare insieme si sarebbe focalizzato su due livelli: • il “qui ed ora”: avremmo lavorato sulla dimensione autocentrata di gruppo, sulle modalità e dinamiche relazionali che man mano si sviluppavano ed emergevano all’interno delle riunioni di lavoro. L’obiettivo era riservare spazi alla riflessività interna al gruppo, comprendere cosa fare per “star bene insieme tra di noi”.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
•
Il “là, allora”: ci saremmo parallelamente occupati della dimensione eterocentrata, cioè della promozione del benessere relazionale all’interno della classe. La nuova prospettiva di lettura dei disagi della classe e del ruolo del docente, doveva essere declinata in un progetto di intervento, a cui sarebbe seguita la sperimentazione, la riflessione sugli esiti, la riprogettazione, dando vita ad un percorso circolare e ricorsivo.
Tutto era da inventare con consapevolezza, intenzionalità e creatività. Ricordo ancora vividamente l’effervescenza del confronto, le parole che si intrecciavano e si sovrapponevano, ma anche le facce atterrite, gli smarrimenti, la paura di non avere tempo a sufficienza e di non farcela. Come chi assapora la soddisfazione di aver fatto un piccolo pezzo del viaggio ma ha la sensazione che la strada da percorrere sia ancora molto lunga e accidentata.
IL GRUPPODOCENTI COME DISPOSITIVO DI CAMBIAMENTO
Gli incontri di gruppo, cadenzati mensilmente, costituivano un’importante risorsa non solo per riflettere, discutere e progettare insieme, ma anche per vivere direttamente un laboratorio permanente di costruzione dell’agio tra colleghi. Le dinamiche relazionali, sottese ad ogni processo messo in atto dal gruppo, potevano diventare un interessante oggetto di riflessione e di approfondimento: • della conoscenza di sé, degli agiti messi in atto da ciascuno di fronte a situazioni di criticità (dissonanze interne, conflitti tra colleghi ecc..); • dei comportamenti utilizzati per stare e lavorare in gruppo (competizione, cooperazione ecc..); • dei vissuti emotivi (paure, soddisfazione ecc..) sperimentati nelle relazioni interpersonali che si sviluppavano nel “qui ed ora” di ciascun incontro. La proposta di occuparci anche del “noi”, è stata accolta da subito nel gruppo. Tutti concordavano con l’affermazione “non chiedere ai bambini di fare cose che non sai fare anche tu”. Per il gruppo, la promozione del benessere dei bambini passava attraverso lo sviluppo
Il gruppo: un laboratorio di costruzione dell’agio tra i colleghi
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dell’affettività, della cooperazione, attraverso la capacità di vivere e gestire situazioni conflittuali, la capacità di accettare e tessere rapporti significativi con chi è diverso da sé. Ma quanto queste competenze erano presenti e sviluppate all’interno del gruppo-docenti PigarelliClarina? Possiamo chiedere ai bambini di essere tra loro solidali se non siamo in grado di sviluppare sentimenti e comportamenti solidali tra di noi? Ricordo una situazione di gruppo emblematica, che è stata oggetto di riflessione: si presentano all’incontro due colleghe “nuove”, sostitute di altre due insegnanti che per motivi familiari hanno dovuto abbandonare il progetto. Il dibattito inizia sui temi all’ordine del giorno e subito i “vecchi” si confrontano animatamente, si scambiano pareri. Il tempo scorre e nessuno si preoccupa di aggiornare le colleghe appena arrivate, di facilitare la loro partecipazione, di chiedere il loro punto di vista. Come fossero presenze fantasmatiche. Contemporaneamente le “nuove” seguono il dibattito con espressione disarmata, con atteggiamento disorientato e con la paura di far sentire la loro presenza ad un gruppo così impermeabile e già strutturato. L’episodio era perfettamente speculare ad uno dei casi trattati in gruppo durante il dibattito intorno al tema del disagio: un bambino extracomunitario, inserito in classe a scuola già avviata, solitario, schivo e non coinvolto dai compagni. La sospensione del dibattito e la riflessione autocentrata sui comportamenti agiti dal gruppo, hanno stimolato la presa di coscienza delle dinamiche in atto, l’autoanalisi dei comportamenti di ciascuno, l’esplicitazione di vissuti, sensazioni e percezioni, fluidificando la comunicazione interpersonale. Questo episodio chiarisce, esemplificandolo, il concetto di autocentratura. Il gruppo “sospende” il dibattito sui contenuti, sul “che cosa” e si interroga sul “come”, cioè sui comportamenti adottati e sulle tonalità affettive (sentimenti, percezioni, emozioni) sottese a ciò che viene detto o fatto. “Ciò che si dice e si agisce” è intrinsecamente connesso con “ciò che si sente”. Questo tessuto emozionale che si sviluppa in una situazione gruppale, determina le modalità di comunicazione, i processi decisionali, la strutturazione dei ruoli, il clima di benessere/malessere. Dinamiche di gruppo e apprendimento
Gli spazi dedicati alla riflessione autocentrata, offrivano perciò un’occasione di apprendimento a più livelli: • individuale, perché rappresentavano un’opportunità per scoprire i propri comportamenti tipici e la loro funzionalità ri-
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spetto ai diversi momenti di vita del gruppo ed ai propri obiettivi personali; permettevano di comprendere maggiormente cosa determina il nostro stile relazionale, o ancora, l’andamento dei rapporti che stabiliamo con le altre persone. • Gruppale, perché consentiva ai docenti di interrogarsi sulle dinamiche ed i processi relazionali che stanno alla base della nascita e della vita di un gruppo e di apprenderne i meccanismi di funzionamento. Non attraverso lezioni teoriche, ma mediante un’esperienza vissuta e “sentita” direttamente. • Professionale, perché questo laboratorio relazionale consentiva di sviluppare la capacità di riconoscere empaticamente, nel gruppo-classe, le dinamiche relazionali sperimentate, di muoversi all’interno di queste situazioni con maggiore competenza e con consapevolezza rispetto ai propri vissuti ed agiti. In questa fase di avvio, lavorare sulle dinamiche interne risultava inoltre funzionale al processo di costruzione del gruppo. Ciascuno di noi riesce ad esprimersi liberamente e a “svelarsi” solo in un contesto che sente affettivamente significativo. Il lavoro sul gruppo si proponeva di aumentare il livello di profondità delle relazioni, di far crescere la vicinanza e ridurre l’estraneità. Potremmo dire, utilizzando la terminologia heideggeriana, che l’obiettivo era stimolare l’incontro “autentico” con l’altro, la capacità di disvelarsi reciprocamente smascherando l’ambiguità e l’equivoco. Significa non rifugiarsi nelle relazioni falsamente armoniche, ma saper vivere la complessità e dinamicità della vita di gruppo. Caratterizzata da sentimenti di potenza, fusionalità e spinte all’aggregazione ma attraversata anche da vissuti di impotenza, conflittualità intense, spinte disgreganti. Spesso all’idea di benessere si associano immagini idilliache: un gruppo “bene-stante” rimanda all’idea di armonia, a relazioni geometriche non variabili, ad un contesto dove non si manifesta l’aggressività, il giudizio reciproco, l’incontroscontro tra le soggettività. In realtà l’agio non è il risultato di un processo di rimozione del disagio, percepito come elemento catastrofico, di rottura dell’armonia. È il risultato di atteggiamenti relazionali che sanno confrontarsi costruttivamente con entrambe le dimensioni: benessere e malessere. Che sanno vivere le situazioni critiche come risorsa e non come sconfitta. Che percepiscono come significativo il cambiamento e l’insicurezza e non l’immobilismo e la certezza. Che conseguentemente
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sanno vivere e gestire gli stati d’animo di ansia e frustrazione che si sviluppano nelle relazioni, senza farsi annientare da questi vissuti. Queste consapevolezze sono diventate progressivamente patrimonio del gruppo. Non attraverso un percorso semplice e indolore. Il confronto aperto e l’analisi di ciò che accadeva tra i membri del gruppo, creava spesso situazioni ansiogene e di forte tensione emotiva e il desiderio di alcuni, se non di tutti, di fuggire e di occuparsi d’altro (dei bambini e di cosa progettare per loro, ad esempio). Tratto dal verbale del 14 marzo 2005 …la discussione tra noi è proficua quando si programmano i giochi, ma forse nel gruppo c’è un po’ di difficoltà a dialogare. A. ribadisce la necessità e l’importanza di progettare i giochi, come la programmazione scolastica, collegialmente. M. riprende il discorso precedente e precisa che a volte si dà più importanza al lavoro di classe, a scuola, o alla progettazione di giochi, in questo contesto, piuttosto che al rapporto relazionale tra colleghi. Inoltre talvolta in apparenza un gruppo (di bambini o di adulti) sembra lavorare bene, almeno dall’esterno, anche se in realtà ci sono dei disagi sottostanti. Nonostante le difficoltà, il gruppo ha percepito la significatività di questi “spazi autocentrati” e li ha saputi vivere pienamente, allentando le difese e utilizzando questa esperienza come un’occasione importante di ricerca e apprendimento. I vissuti emotivi sono progressivamente emersi anche all’interno dei verbali, stesi dopo ogni incontro. Dal verbale al diario di bordo
Il verbale, strumento di registrazione delle decisioni del gruppo si è trasformato successivamente in “diario di bordo” una sorta di racconto che raccoglieva, insieme alle decisioni operative, le emozioni e le scoperte di senso e significato di questa esperienza gruppale. Diario incontro di gruppo 3 settembre 2004 Documenteremo l’attività con i bambini attraverso strumenti ancora da definire e la nostra progettazione mediante il diario degli incontri di gruppo e i verbali delle programmazioni di interclasse/classe. Il diario sarà uno strumento che potrà subire variazioni in itinere; ad oggi riteniamo che debba contenere: una parte descrittiva con
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l’ordine del giorno, le decisioni prese, le scadenze e gli impegni ed una parte rivolta a cogliere i vissuti emotivi, uno spazio aperto per osservazioni individuali e/o suggerimenti. Il diario verrà steso a coppie, a rotazione. Questi spazi di riflessione sulle dinamiche relazionali interne si intrecciavano con l’operatività. A seguito di un’attività di gruppo centrata sulla ideazione del progetto da realizzare in classe, ci si fermava, ad esempio, per interrogarsi su come il gruppo aveva lavorato insieme, quali erano i vissuti di ciascuno, quali gli agi e i disagi incontrati. L’incontro di gruppo si svolgeva come una sorta di danza dove affettivo e cognitivo, interno ed esterno, “noi docenti” e “loro bambini”, si alternavano ritmicamente. Nella consapevolezza della circolarità inscindibile tra cognizione e affettività. Tratto dal verbale del 18 aprile 2005 Prima della lettura del verbale parliamo delle emozioni rispetto all’ultimo incontro che tutti abbiamo vissuto molto intensamente. Il confronto diretto della scorsa volta ha creato un movimento emotivo pesante, ma salutare per la vita del gruppo; dimostra che il gruppo sta lavorando e crescendo sia sul piano operativo che su quello relazionale. Mentre lavorare sul piano operativo ci risulta semplice, tutti sono molto centrati sull’obiettivo e pronti a mediare per il buon funzionamento della sperimentazione con i ragazzi, confrontarci sul piano affettivo- relazionale ci risulta più difficile. È una cosa nuova che mette a confronto la nostra soddisfazione per questo percorso, la volontà di cambiamento, il desiderio di essere ascoltati, la volontà di mettersi in gioco in uno scambio aperto e dichiarato… L’andamento del gruppo dal punto di vista relazionale è stato inoltre monitorato attraverso un questionario di sviluppo del gruppo. Lo strumento, elaborato e proposto dal tutor, aveva la funzione di: • innescare la discussione ed il confronto intorno ad alcuni aspetti centrali della vita di gruppo: comunicazione, fiducia reciproca, impegno profuso individualmente e come gruppo, capacità decisionale del gruppo, benessere e clima; • valutare periodicamente l’esperienza di gruppo, se stessi, i colleghi ed il tutor.
Un questionario per monitorare l’andamento del gruppo
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Il questionario è stato introdotto a metà del primo anno di vita del gruppo, come ulteriore sostegno alla riflessività interna. È stato vissuto come una specie di “termometro” che registra in momenti diversi la “temperatura” del gruppo, lo stato di salute delle relazioni interne e del processo di costruzione del “noi”. Tabella 1: Questionario di valutazione dell’esperienza e del gruppo Ti invito ad esprimere una valutazione su ogni aspetto elencato di seguito. Compila il questionario, che rimarrà anonimo in tutte le sue parti, senza consultarti con nessuno. Grazie. Data __________________ 1. Gli incontri di gruppo finora realizzati sono stati: (fai una scelta per ogni riga considerando che 1=per niente e 5= soddisfacente) utili 1 2 3 4 5 interessanti coinvolgenti soddisfacenti
1 1 1
2 2 2
3 3 3
4 4 4
5 5 5
2. In che misura ti sei impegnato/a per la riuscita degli incontri? 1 2 3 4 5 per niente totalmente 3. Quanto è possibile comunicare all’interno del gruppo? 1 2 3 4 per niente
5 totale
4. Che livello di fiducia si è venuto a creare nel gruppo? 1 2 3 4 nessuno
5 totale
5. Come si decide all’interno di questo gruppo? 1 2 3 non si decide
4
5 si decide insieme
6. Quanto si impegnano i partecipanti per la riuscita del gruppo? 1 2 3 4 5 per niente totalmente 7. Come sono i rapporti tra i membri del gruppo? 1 2 3 totalmente insoddisfacenti 8. In questo gruppo si sta: (1=malissimo 5=benissimo) 1 2 3 malissimo
4
5 totalmente soddisfacenti
4
5 benissimo
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9. Dai un voto a: te stesso: 1 2 al gruppo: 1 2 al tutor: 1 2
3 3 3
4 4 4
5 5 5
6 6 6
8 8 8
9 9 9
10 10 10
I risultati ottenuti, dopo ogni compilazione, venivano “restituiti” al gruppo, stimolando ciascuno a trovare un senso, una lettura significativa. Lo strumento consentiva di: • far esprimere “tutti” i partecipanti rispetto alle variabili contenute nello strumento; • scattare una sorta di “foto istantanea” della situazione di gruppo, così come veniva percepita da ciascun componente; • garantire l’anonimato, la possibilità di svelare liberamente impressioni sconvenienti o dissonanti in modo “protetto”; • documentare la storia del gruppo raccogliendo “tracce”, cioè impressioni e percezioni espresse numericamente attraverso questo strumento e interpretate collettivamente negli incontri di gruppo. Complessivamente sono state effettuate 5 somministrazioni ed i risultati ottenuti, qui riportati graficamente,4 rispecchiano l’andamento delle percezioni, i momenti di crisi e di ripresa.
4
I risultati riportati si riferiscono esclusivamente alle domande da 2 a 8 del questionario: quelle specificamente rivolte a monitorare l’andamento del gruppo. I punteggi sono espressi su una scala 0-100. Per facilitare la lettura, si riporta solo il segmento di scala che va da 50 a 100 perché non sono presenti valori inferiori al 50.
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Grafico 1: Andamento del gruppo SVILUPPO DEL GRUPPO 100
90
80
70
60
50 Incontro 1
Incontro 2
Incontro 3
Incontro 4
Incontro 5
Impegno individuale
Comunicazione
Fiducia
Condivisione decisioni
Impegno di gruppo
Rapporti tra i membri
Benessere gruppo
Come è possibile notare, il clima di gruppo (domanda n. 7 del questionario; nel grafico vedi “rapporti tra i membri”) ed il benessere relazionale (domanda n. 8) migliorano con il passare del tempo e, soprattutto, con la crescita del “sentimento del noi”, della coesione interna, del senso di appartenenza. Aumenta anche l’impegno, il coinvolgimento pro-attivo sia dei singoli che del gruppo. La fiducia si attesta invece su dei valori stabili e rimane un problema costantemente affrontato: • decisioni prese insieme e poi non rispettate da qualcuno; • introduzioni di varianti alle attività progettate congiuntamente, senza passare attraverso il confronto di gruppo; • giudizi su colleghi manifestati in via confidenziale ad altri e non comunicati direttamente agli interessati durante gli incontri di gruppo;
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•
scarsa valorizzazione e riconoscimento di chi, all’interno del gruppo, si stava prodigando attivamente e con impegno, erano alcuni dei segnali-spia di questa difficoltà a costruire un clima di fiducia.
Il gruppo è diventato consapevole di queste criticità che sono state espresse e affrontate durante gli incontri. La comunicazione, come si può ricavare anche dai dati, è oscillante, caratterizzata da movimenti di apertura e di brusco arresto. Ricordo alcuni dibattiti sul problema della comunicazione interna al gruppo in cui emergeva prepotentemente la difficoltà di esporsi, di esprimere chiaramente e in modo diretto pensieri ed emozioni per paura di “rovinare” le relazioni con i colleghi. Tratto dal diario del 14 marzo 2005 (…) Si commentano i risultati del questionario per gli insegnanti compilato a novembre: si rileva che, riguardo all’aspetto relazionale, le valutazioni non erano tutte totalmente positive. Ne segue quindi un dibattito dal quale emerge che la discussione tra noi è proficua quando si programmano i giochi, ma forse nel gruppo c’è un po’ di difficoltà a dialogare (…) Dopo questi discorsi M. afferma che, secondo lei, sarebbe opportuno incontrarsi, almeno una volta per riflettere solo sulle dinamiche relazionali del nostro gruppo anziché progettare giochi. Lei stessa sostiene che da un po’ di tempo non si trova bene nel gruppo e da questa affermazione segue un confronto tra di noi. Queste riflessioni intorno alle dinamiche relazionali interne al gruppo erano stimolate dai risultati del questionario che, di volta in volta, venivano “restituiti” e discussi insieme in modo da trovare ipotesi interpretative ai dati emersi. Ciò che emergeva da queste riflessioni creava movimenti destabilizzanti, rotture di equilibri cognitivi ed affettivi.
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Tratto dal diario del 20 gennaio 2005 …che strano incontro: ascoltando lo sbobinamento trovo grande difficoltà a costruire un diario d’incontro. Diciamo tante cose ma alla fine dell’incontro dove ci entusiasmiamo di più è sempre nella progettazione di nuovi lavori da fare con i bambini. Ho trovato un paio di momenti di silenzio che non definisco assolutamente imbarazzante ma semplicemente: non ho niente da dire al riguardo. Adele e Carla alla fine del verbale dell’11 novembre si chiedono: “Paura di fermarsi a riflettere? (Mancanza di bisogno? Fretta di proseguire l’attività? Bisogno di mantenere gli impegni assunti con bambini e famiglie?) Si è mai risposto a questa domanda? Riguardo al questionario, una gran delusione. Dove, ma soprattutto, con chi sono?” Lo spazio per la riflessione autocentrata ha accompagnato trasversalmente tutta la durata del percorso. In alcune fasi (in avvio e in alcuni momenti di criticità attraversati dal gruppo) è stata più intensa e approfondita, mentre è stata temporaneamente sospesa o ristretta in spazi limitati durante le fasi più operative (progettazione dell’attività da realizzare con i bambini, preparazione del seminario conclusivo di marzo). Rispecchiamento del gruppo docenti nel gruppo classe
I docenti hanno attraversato direttamente il processo che dall’io porta al noi, la complessità psicosociale della dimensione gruppale, il disagio e l’agio che accompagnano le relazioni e le diverse fasi di vita di un gruppo. Ciò ha favorito uno spostamento dello “sguardo” anche rispetto al disagio in classe: ha generato un modo nuovo di osservare i bambini, di interrogare e di vivere situazioni che prima suscitavano nei docenti risonanze emotive di impotenza, percezioni di incapacità, vissuti di ansia e di sofferenza. La progressiva crescita del sentimento del “noi” e della capacità di stare e lavorare in gruppo ha trovato la sua massima espressione nel video conclusivo sull’esperienza “ad Agio” che il gruppo ha progettato e realizzato in occasione del seminario pubblico di presentazione degli esiti del progetto (4 marzo 2006). Questo video è una sorta di tessitura di immagini e commenti, il risultato concreto di un gruppo che ha voluto testimoniare, prioritariamente, la centralità del PROCESSO, del percorso, del cammino
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aldilà dei prodotti e degli esiti ottenuti. Il video va perciò guardato con questa chiave di lettura: l’attenzione non va posta sull’accuratezza delle immagini, sulla buona riuscita del prodotto filmico, anche se la preziosa collaborazione del Centro Audiovisivi della P.A.T. ha contribuito significativamente alla qualità del risultato. Lo sguardo è invitato a cogliere, dietro le immagini, l’impegno, l’entusiasmo ed il lavoro corale che ha portato a questo prodotto; la capacità raggiunta e sperimentata di questo gruppo di ideare, scegliere, decidere, lavorare, produrre e sperimentare insieme.
IL PROGETTO DEL GRUPPO
La riflessione autocentrata ha accompagnato il percorso operativo e progettuale. Dall’esplorazione del “problema disagio” e dall’autoriflessione sulle dinamiche interne al gruppo docenti, era emersa la consapevolezza condivisa di dover lavorare sulla promozione dell’agio e sulla classe intesa come sistema dinamico di relazioni. Come declinare queste considerazioni in un progetto innovativo e sperimentale? Il dibattito su “cosa fare” ha impegnato diversi incontri generativi di idee, proposte ma anche di dubbi e incertezze. Avventurarsi come insegnanti nel delicato campo dell’affettività e delle relazioni tra i bambini era percepito come una vera e propria sfida, come un compito delicato, forse non perfettamente congruente con la professione docente. L’insegnante si considera fondamentalmente un esperto di contenuti disciplinari, colui che ha la responsabilità di far acquisire competenze e conoscenze culturali agli allievi. Certo la dimensione relazionale tra chi insegna e chi apprende non veniva considerata irrilevante dal gruppo-docenti: era opinione condivisa che il docente dovesse “fare attenzione” alle relazioni che instaura con ogni bambino, dovesse considerare i suoi bisogni, i suoi vissuti emotivi. La dimensione affettivo-relazionale sembrava però restare un po’ sullo “sfondo” rispetto allo svolgimento del programma curricolare, rispetto alla necessità di insistere sugli apprendimenti disciplinari. Come se vi fosse una sorta di dualismo tra affettivo e cognitivo e non una interconnessione vitale tra queste due dimensioni. La relazionalità era prevalentemente percepita e gestita in un rapporto verticale di coppia (insegnante/bambino) o orizzontale di coppia (bambino/bambino). Su queste dimensioni i docenti del gruppo sentivano di poter incidere e le percepivano come significative e vitali dei processi di insegnamento/apprendimento.
La classe come sistema dinamico di relazioni
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Altra cosa era muoversi in un “sistema di relazioni”, lavorare pensando e vivendo la classe non come un aggregato di singoli, o al massimo di rapporti tra coppie, ma una totalità che è “qualcosa di più e di diverso della somma dei singoli”,5 un campo psicosociale in cui si strutturano relazioni di gruppo. Un campo in cui è immerso pienamente anche il docente. L’insegnante è in grado di lavorare sulle relazioni e l’affettività?
Promuovere le relazioni di gruppo
Un altro dubbio che ha attraversato il gruppo, riguardava le capacità/competenze necessarie per lavorare sulla dimensione affettivorelazionale: “saremo in grado o forse non servono esperti in materia?” Un dubbio legittimo e comprensibile se si pensa alla quantità di “esperti” che ormai gravitano intorno al sistema scuola. Ogni problema che si presenta nei contesti scolastici, viene spesso “vivisezionato”, scomposto e affidato ad uno specialista di quello specifico frammento. L’insegnante ricorre e si affida all’esperto, in molti casi utilizzandolo come “strumento difensivo”: l’esperto gli permette di non lasciarsi interrogare dal problema, di delegare ad altri e altrove, di non ricercare nelle proprie competenze professionali le risorse per fronteggiare la situazione. Spesso è indispensabile far ricorso a competenze specialistiche per fronteggiare situazioni complesse o disturbi patologici degli allievi. Il docente non è un “tuttologo” ed il suo bagaglio di competenze è circoscritto alla sfera dell’insegnare/apprendere. Ma i “disagi”, cioè i comportamenti che segnalano una scarsa attrattività di ciò che si fa a scuola, una insofferenza per le proposte scolastiche con conseguenti riflessi sui processi di apprendimento, dovrebbero interrogare la professionalità docente. L’apprendimento è sostenuto da processi affettivo-relazionali, da sentimenti e vissuti emotivi, da spinte motivazionali che accompagnano “ciò che si fa a scuola”. Il processo di apprendimento disegna un circuito circolare in cui cognitivo ed affettivo si intersecano e si richiamano vicendevolmente. Il progetto del “gruppo Pigarelli-Clarina” nasce quindi dalla necessità di riservare degli spazi all’interno della attività curricolare quotidiana per lavorare sull’affettività del gruppo classe, per promuovere la conoscenza reciproca tra i bambini e stimolarli a percepirsi e a considerarsi come gruppo, capace di “stare e lavorare insieme”. In questa fase, il gruppo do5
K. Lewin, Field Theory in Social Science, Harper & Row, New York, 1951; trad. It. Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 1972.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
centi decise di ritagliare uno spazio dedicato all’affettività e alle relazioni di gruppo e di trattare separatamente queste dimensioni rispetto alle attività prettamente scolastiche focalizzate sull’apprendimento disciplinare. Ciò potrebbe sembrare contraddittorio rispetto alle considerazioni sopra accennate, in merito alla circolarità ricorsiva tra affettivo e cognitivo. In effetti lo è. Ma in questa prima fase, il gruppo dei docenti avvertiva il bisogno di “fare i conti” con questo ambito, di sperimentare direttamente la capacità di lavorare su questi processi, di riconoscersi come “esperti” capaci di stimolare e condurre attività esclusivamente centrate sulle emozioni e sulle relazioni. Questa separazione tra attività didattica e progetto “ad Agio” si è rivelata funzionale a questo processo di crescita dell’autostima professionale e ha condotto successivamente il gruppo a “contaminare” e rivisitare l’attività didattica alla luce dei risultati raggiunti e delle consapevolezze e competenze maturate. Di questo parleremo in seguito, nel paragrafo dedicato agli esiti della sperimentazione. Il progetto viene scritto dal gruppo e presentato ai colleghi dell’istituto durante un collegio docenti ed alle famiglie in modo da coinvolgere anche i genitori, fin dall’inizio in questo percorso sperimentale. Progetto Anno scolastico 2004-05 Titolo: NON SOLO “IO” Premessa e finalità generali Nelle attività di gruppo abbiamo svolto una ricognizione e una riflessione sui disagi, che noi individuiamo nei nostri luoghi di lavoro: • nell’organizzazione scolastica; • nei rapporti tra colleghi; • nei bambini all’interno delle classi. In tutti i livelli sono stati rilevati elementi di malessere sui quali sarebbe necessario intervenire per migliorare la realtà scolastica, in quanto strettamente legati tra loro. Per le nostre specifiche competenze, per questioni di tempo e per le finalità di “ad Agio”, si decide di progettare un intervento con i bambini, partendo dalla promozione dello star bene in classe. Disagi evidenziati all’interno delle classi: • bisogno di essere ascoltati; • difficoltà di attenzione, concentrazione, ascolto; • difficoltà di presa di coscienza degli stati emotiv;i • mancanza di coesione di gruppo e di alleanze; • scarsa tolleranza alla fatica e all’impegno; • incapacità di considerare il punto di vista altrui; • scarsa riflessività; • egocentrismo marcato; • non sempre adeguato rispetto per gli operatori della scuola e per le cose degli altri.
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Dalla riflessione comune è emersa la necessità di lavorare sull’individualità (sul sé e sull’identità) e sulle relazioni interpersonali per favorire la capacità di esprimersi e consentire la creazione di un gruppo che sia in grado di accogliere, contenere e gestire i problemi al suo interno. Durante questo primo anno ci si propone la promozione della coesione e dell’identità dei gruppi classe. Il percorso si articolerà attraverso tre fasi concatenate tra loro: • IO espressione di sé, farsi conoscere e conoscere gli altri. • IO-TU relazioni interpersonali di coppia o di piccolo gruppo. • NOI lavorare in gruppo, cooperare. Negli anni successivi si lavorerà per una manutenzione emotiva del gruppo, per inserire eventuali persone nuove, gestire cambiamenti, mantenere l’affiatamento in un percorso di continua ricerca. Le attività verranno proposte in modo ludico e coinvolgente, puntando più sull’attivazione ed espressione di processi emotivi, che sull’impiego di categorie cognitive. Gli elementi innovativi di questo percorso, rispetto alle precedenti esperienze attuate nelle singole scuole, sono i seguenti: • non avere carattere di occasionalità legato all’urgenza, ma avere una funzione preventiva; • proporre una sistematicità e una gradualità negli interventi; • garantire un’offerta formativa rivolta ad un numero maggiore di bambini, di classi e di scuole diverse, con possibilità di maggiore confronto tra gli insegnanti. Inoltre la progettazione di questo percorso ci ha permesso di prendere consapevolezza di esperienze precedentemente attuate e quindi di valorizzarle. Obiettivi a) Sviluppare e potenziare la capacità di esprimere e gestire le proprie emozioni e/o stati d’animo. b) Sviluppare e potenziare la capacità di rendersi protagonisti attivi all’interno del gruppo. c) Sviluppare e potenziare la capacità di stare e cooperare in gruppo. Metodologia La metodologia avrà al centro il protagonismo ed il coinvolgimento dei bambini, attraverso attività di drammatizzazione, giochi di ruolo, giochi di gruppo e simulazioni, inseriti in un percorso strutturato in fasi consequenziali e tra loro collegate. La metodologia sarà attiva ed ispirata all’imparare facendo. Il fine è quello di stimolare lo sviluppo delle relazioni orizzontali, aumentando le relazioni tra pari, più che tra insegnanti e bambini. Attività Da definire, seguendo questo schema: a) Unità didattica. b) Attività in dettaglio. c) Tempi. d) Setting. e) Materiali e strumentI. f) Ruoli e compiti. Tempi del progetto Tre giornate intensive: 13, 14 e 15 settembre. Tredici/quindici interventi settimanali di un’ora e trenta ciascuno nel primo quadrimestre. Otto incontri quindicinali di un’ora e trenta ciascuno nel secondo quadrimestre. Valutazione Valutazione del percorso nelle classi. L’attività in classe verrà svolta in presenza di un collega in veste di osservatore che attraverso griglie rileverà dati relativi al singolo, al gruppo e allo stile di conduzione dell’insegnante. Inoltre verranno predisposti dei questionari, da sottoporre periodicamente ai bambini, per monitorare la loro autopercezione rispetto agli obiettivi prefissati. Valutazione del progetto in itinere: periodicamente il gruppo sperimentatore si riunirà con la presenza della conduttrice dott.ssa Bertazzoni Cristina per rilevare problemi e difficoltà sorti, sia nella conduzione che nella risposta delle singole classi, per verificare l’andamento delle attività e apportare le eventuali modifiche.
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Come si evince da questo primo documento, la nascita del sentimento di “noità” era il traguardo ultimo di un processo, da raggiungere attraverso il passaggio preliminare di livelli diversi: la dimensione individuata dell’IO, la dimensione di coppia dell’IO-TU. Il noi è frutto di un percorso costruttivo e intenzionale. È il risultato di una “ingegneria relazionale” che parte dall’uno per arrivare al gruppo attraverso la scoperta della relazionalità con l’altro. Questo percorso proposto ai bambini era speculare ai processi che anche il gruppo docenti stava sperimentando negli incontri di gruppo: ciascun componente del “gruppo Pigarelli-Clarina” aveva aderito al progetto come singolo, come docente che portava con sé un bagaglio unico e personale di esperienze, competenze e vissuti. Come primo passo aveva dovuto farsi conoscere dagli altri colleghi, manifestare le proprie convinzioni, i propri modelli educativi di riferimento, il proprio modo di essere e fare l’insegnante. Gli incontri di gruppo lo hanno stimolato a scoprire “l’altro”, il collega della stessa scuola o dell’altro Istituto, a confrontarsi e a condividere in coppia, o nel piccolo sottogruppo, i propri saperi, convinzioni, paure. Dalla conoscenza interpersonale si è poi passati alla fase decisionale, cioè alla progettazione condivisa, alla nascita della gruppalità: le relazioni si sono complessificate, sono emerse prepotentemente le differenze, le tensioni, i giochi di potere, i conflitti e parallelamente - l’individuazione di soluzioni, la capacità di muoversi in un contesto dinamico e ricco di implicazioni affettivo-cognitive. “Stare” e “lavorare in gruppo” richiede competenze psicologiche e sociali raffinate. Il passaggio “dall’io all’io-tu” è una tappa obbligata e propedeutica di questo processo di costruzione della relazionalità gruppale. Il gruppo-docenti ha deciso di intraprendere anche con i bambini questo percorso, puntando prioritariamente sulla promozione delle relazioni orizzontali, sui rapporti dei bambini tra di loro, togliendo dalla scena la centralità della figura dell’insegnante. In un gruppo-classe la comunicazione è di solito stellare: l’insegnante è il centro e lo snodo di tutte le comunicazioni. Un bambino chiede e l’insegnante risponde; un altro bambino interviene e l’insegnante chiosa, commenta, premia o punisce. L’orizzontalità è sacrificata ad una presenza pervasiva del docente che, con questo eccesso di protagonismo, limita lo sviluppo delle relazioni orizzontali, la capacità di ciascun bambino di percepire anche gli altri compagni come
Dall’IO al NOI
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risorsa. Con questo non significa chiedere all’insegnante di abdicare al proprio ruolo, di sparire dalla scena e utilizzare un atteggiamento “laissez faire”. Il docente come conduttore di processo
Il ruolo del docente nel progetto del “gruppo Pigarelli-Clarina” assume le caratteristiche di conduttore di processo. Conduttore non va inteso nel solo significato di “colui che dirige” l’attività ma, piuttosto, come colui che incarna diversi modi di essere ed agire che possono di volta in volta essere funzionali e utili per il gruppo. L’insegnante-conduttore, in questa nuova accezione, assume diversi ruoli. • Attrattore: fa sentire la sua presenza, entusiasmo, energia al fine di catturare l’attenzione dei bambini. È colui che alletta, rende accattivante e stimolante la possibilità di apprendere giocando e, per far questo, deve da subito presentare un certo carisma e conquistarsi un ruolo di riferimento per il gruppo. • Facilitatore: fa circolare l’energia, promuove gli scambi, movimenta il gruppo, induce e spinge a sperimentarsi attraverso le esperienze proposte. La sua attenzione si concentra non solo sulle relazioni verticali (docente ‡ bambini) ma opera affinché si instaurino relazioni orizzontali significative tra bambini. Facilita le relazioni tra i membri del gruppo, spinge a confrontarsi, a riflettere, ad esprimersi. • Maieuta: stimola la scoperta dei saperi e dei significati, fa domande, pone dubbi, accende il dibattito per far scoprire direttamente ai bambini il senso delle esperienze intraprese, per stimolarli ad apprendere attraverso un percorso di ricerca che parte dal bambino, dalle sue curiosità, dalle sue competenze, dai suoi vissuti emotivi. • Guida: è rassicurante e protettivo. I bambini devono sentire che stanno vivendo in situazione “protetta”, cioè in presenza di qualcuno che sta proponendo loro di intraprendere nuove esperienze ma senza metterli in una situazione completamente destrutturata, possibile fonte di rischio e di pericolo. Il progetto del “gruppo Pigarelli-Clarina” ha in sé una duplice valenza: promuovere l’agio all’interno della classe attraverso un lavoro centrato sulle relazioni, sull’affettività e sulle emozioni e, al contempo,
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ripensare e sperimentare un nuovo modo di gestire il ruolo e lo stile di conduzione dell’attività da parte degli insegnanti. Ma quale tipo di attività proporre alla classe? Quale azioni intraprendere per promuovere la socializzazione, il confronto relazionale, la capacità di cooperare insieme? Tutti concordavano sulla opportunità di far ricorso al gioco, considerato lo strumento principe di crescita e di apprendimento per i bambini. Il termine “gioco” fa pensare ad un’attività futile, gratuita. In realtà quando ci riferiamo ad un bambino il gioco si connota come un’azione seria ed importante. Nell’età infantile, al contrario di quanto accade per le età successive, il gioco quasi mai si presenta come un’occupazione solo ricreativa: il gioco per il bambino è sempre un’attività seria che risponde a vitali esigenze psico-motorie, affettive, cognitive. Attraverso il gioco, i bambini di tutte le culture incominciano a comprendere il mondo ed il funzionamento delle cose e delle situazioni: come sono fatti e come possono essere utilizzati determinati oggetti, come ci si comporta in determinate situazioni, quali effetti accompagnano certi comportamenti. L’esperienza del gioco impegna il bambino in un processo di crescita psicologica e sociale attraverso il quale diventa consapevole del proprio mondo interiore, di quello esteriore e impara a gestire il rapporto tra queste due realtà. L’idea era quindi di utilizzare dei giochi che potessero stimolare il bambino ad esplorare la dimensione dell’io, dell’io/tu e del noi. Giochi centrati sul processo che quell’attività ludica riusciva ad innescare: l’espressione del sé, la relazione di coppia, le relazioni di gruppo.
Il gioco come
Ricordo l’incontro finalizzato a decidere quali attività proporre ai bambini. Buona parte del gruppo aveva portato libri di giochi e tutti affannosamente cercavano qualcosa di “già confezionato” da poter utilizzare. Sui libri non riuscivano però a trovare giochi finalizzati agli obiettivi prescelti: alcuni sostenevano che era necessaria una ricerca più accurata, che forse era un compito impossibile, al di sopra delle loro capacità. Proposi di metter da parte tutti i testi, chiedendo loro di sperimentarsi nella costruzione creativa di giochi, di inventare le attività attraverso il confronto con i colleghi. Da quel momento realizzammo delle vere e proprie sessioni di “pedagogia creativa”. Il gruppo, suddiviso in tre sottogruppi (corrispondenti a io-io/tu-noi), si divertì
Inventare giochi
strumento di crescita del gruppo classe
insieme
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moltissimo in questa attività poietica. Lo spiazzamento iniziale e la sensazione di impotenza è stata progressivamente sostituita da una passione vera e propria per l’invenzione collettiva. Costruito un gioco, per associazione, ne scaturiva un altro. Questa crescita di fiducia nelle capacità individuali e del gruppo è stata probabilmente anche frutto di alcune indicazioni metodologiche sulla costruzione dei giochi che ho fornito, dopo aver registrato le loro difficoltà. Ma il guizzo creativo si è espresso compiutamente dopo l’ideazione dei primi tre giochi. Era come se il gruppo soffrisse della “sindrome della pagina bianca”, quella che colpisce lo scrittore che si trova a dover iniziare un lavoro di scrittura e rimane paralizzato dal vuoto, dalla paura di decidere “come iniziare”. Sicuramente questa capacità matura di lavorare e ideare insieme è stata possibile anche grazie al lavoro di costruzione del gruppo su cui ci si era impegnati in precedenza. Il lavoro di progettazione dei giochi non si esauriva nei nostri incontri, ma proseguiva nelle riunioni di programmazione a scuola. Nel giro di qualche incontro il gruppo aveva messo a punto un vero e proprio “kit di giochi” centrati sull’io, sull’io-tu, sul noi. Si respirava un sentimento diffuso di soddisfazione, la consapevolezza di aver realizzato un prodotto originale, frutto delle competenze espresse collettivamente. Per farsi un’idea delle attività progettate, si riporta di seguito la scheda di un gioco centrato sul NOI.
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Titolo Obiettivo Modalità di attuazione
“Crea l’animale” Saper collaborare all’interno di un gruppo per il raggiungimento di un fine comune (realizzare la scultura, abbastanza grande, di un animale). Prima fase (tempo 20’) 1) Ogni gruppo deve scegliere l’animale di cui poi realizzerà la scultura. Deve quindi stendere una lista del materiale occorrente da consegnare all’insegnante. Seconda fase (tempo 30’) 2) All’interno del gruppo si decide la divisione di ruoli (5’). Quindi si passa alla realizzazione pratica della scultura. Terza fase (tempo 10’) 3) Ogni gruppo presenta la sua scultura. Tempo totale 1h
N. partecipanti
Tutti i bambini della classe divisi in gruppi di 4/5.
Materiale
Materiale di recupero, scatole di diverse dimensioni, giornali, corda, fili, cannucce, stoffe, astine di legno, tempere, colla, scotch…
Osservazioni
La scultura deve essere grande e stare in piedi.
Setting
Creare isole di quattro banchi ciascuna. Predisporre un cartellone con disegnato un semaforo, con tre grandi dischi: verde, arancio, rosso. Ad ogni bambino vengono dati due dischetti bianchi. Sul primo ognuno deve scrivere “Cosa ha funzionato nel gruppo” e deve incollarlo sul disco verde del cartellone; sull’altro scrive “Cosa ti ha dato fastidio nel gruppo” e lo incolla sul disco rosso. Chi non sa cosa dire, può scrivere sul dischetto “Non so” ed incollarlo sul disco arancio (non dare questa consegna subito; aspettare e vedere se prima i bambini riescono a rispondere alle due domande).
Debriefing
Tempo totale 1h e 15’
Tutti i giochi prevedevano una fase finale di “debriefing”, cioè un momento di riflessione conclusiva sui vissuti emotivi e sulle dinamiche relazionali sperimentate dai bambini durante l’attività proposta. Questa fase, condotta dall’insegnante, aveva l’obiettivo di offrire ai bambini un momento condiviso di rielaborazione cognitivo-affettiva dell’esperienza, una occasione per dare senso e significato a ciò che era successo. Anche in questa fase compito del docente era astenersi dall’esprimere alla classe giudizi personali ed interpretazioni: il suo obiettivo primario era svolgere invece una funzione interrogante, capace di stimolare l’espressione dei vissuti, delle opinioni e considerazioni dei bambini. Nel corso dell’anno il gruppo ha ideato più di trenta giochi focalizzati sulle diverse dimensioni dell’io/dell’io-tu/del noi.
Il debriefing come momento di rielaborazione dell’esperienza
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Sulla funzione di tali dispositivi didattici è opportuno introdurre qualche considerazione che ha attraversato il dibattito anche all’interno del gruppo docenti. Lo strumento didattico spesso esercita una “attrazione fatale” nel mondo della scuola e non solo. Avere un buono strumento, progettato con cura ed intenzionalità pedagogica è in molti casi considerato un’attrezzatura sufficiente per svolgere in aula un serio lavoro educativo. Gli strumenti didattici svolgono un ruolo rassicurante: attenuano l’ansia nei confronti dell’imprevisto, la preoccupazione di non riuscire a controllare ciò che accadrà. Sono sicuramente “attrezzi” importanti che consentono di pro-gettare, cioè di gettare in avanti, di impostare il lavoro educativo in modo intenzionale e non spontaneistico. Ma se si cade nella “mistica” dello strumento, il rischio è affidarsi al tecnicismo e considerare meccanicisticamente i processi di apprendimento. Il gioco non basta
Il gruppo ha compreso, attraverso il percorso di riflessione su loro stessi come docenti e sul loro modo di insegnare, che avere buoni strumenti non è sufficiente. Ha scoperto, nel corso di questa “sperimentazione partecipata”, che i giochi, seppur prodotto creativo del gruppo e frutto di un lungo lavoro di confronto e di programmazione puntuale, non possono essere considerati la “chiave di volta”, la “ricetta magica” che consente di promuovere il benessere a scuola. Sono solo semplici strumenti che disattivano la loro efficacia se non sono accompagnati da un percorso di riflessione sul “come” proporli, come gestire il ruolo docente, come relazionarsi con il gruppo classe, come gestire le criticità relazionali che questi giochi, a forte valenza emotiva, spesso fanno emergere con intensità ed evidenza, come gestire il carico di ansia e il disagio che dalla classe rimbalza sul docente. L’attenzione va quindi posta prioritariamente su “come” questi strumenti vengono utilizzati dal docente: quale stile relazionale adotta? Quali reazioni si registrano nella classe? Quali vissuti emotivi attraversano il docente nel momento in cui propone e conduce l’attività? Quali processi relazionali si instaurano tra i bambini e tra i bambini e l’insegnante? Come adattare l’attività programmata ai bisogni del gruppo-classe? Lavorare sulla classe come gruppo e come sistema ha significato per questi insegnanti - ripensare necessariamente anche al ruolo professionale: al loro modo di porsi e proporsi, agli stili di conduzione adot-
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tati in aula, ai loro vissuti emotivi, ai loro disagi. Questa rielaborazione cognitiva ed emotiva sul senso della professione insegnante è avvenuta non in modo solipsistico ma attraverso l’esperienza di gruppo e l’utilizzo di strumenti di osservazione e monitoraggio dell’attività. Il gruppo docenti ha infatti deciso di utilizzare questi strumenti: • co-conduzione dell’attività: un insegnante avrebbe gestito il gioco proposto, mentre l’altro collega avrebbe svolto il ruolo di osservatore. La compresenza dei docenti consentiva di scambiarsi feed-back, impressioni e percezioni su ciò che accadeva in aula, favoriva il confronto tra “sguardi differenti”; salvaguardava la possibilità di co-condurre e contemporaneamente osservare il gruppo-classe, registrando immediatamente i fenomeni di gruppo, le criticità, i comportamenti dei bambini e delle insegnanti. • Diario delle osservazioni: l’insegnante-osservatore avrebbe steso, al termine di ogni attività, un “diario” delle osservazioni ed impressioni sui processi di gruppo osservati in classe, anche sulla base del confronto con il collega che aveva condotto l’attività. Questo strumento si è rivelato importante perché stimolava gli insegnanti a cimentarsi in una attività di racconto sistematico e scritto dei processi osservati, differenziandosi dal racconto occasionale, svolto in forma orale ai colleghi, che spesso caratterizza la pratica scolastica. • Questionario rivolto ai bambini: ad ogni bambino, al termine dell’attività, veniva somministrato un questionario anonimo, finalizzato a rilevare percezioni e impressioni rispetto all’andamento dei rapporti all’interno del gruppo classe. L’elaborazione dei dati aggregati avrebbe così restituito una “fotografia” delle relazioni e dei vissuti emotivi del gruppo-classe dal punto di vista dei bambini. Solitamente, in classe, l’insegnante osserva i bambini, registra e interpreta i loro comportamenti. Ma raramente incrocia le sue percezioni con quelle dei bambini; raramente viene richiesto il loro punto di vista, raramente vengono rilevate in modo sistematico le loro emozioni, le loro sensazioni. • Questionario rivolto alle insegnanti: lo stesso questionario compilato dai bambini veniva compilato in contemporanea
Modalità e strumenti di lavoro
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anche dai docenti responsabili dell’attività proposta in modo da poter rilevare la corrispondenza o meno tra i loro vissuti e percezioni e quelle dei bambini. In effetti, più volte abbiamo potuto constatare come divergessero le percezioni degli insegnanti da quelle della classe nella valutazione delle attività. Il problema di costruire ed affinare gli strumenti di documentazione e di osservazione ha impegnato il gruppo in discussioni e decisioni continue durante tutta la durata del progetto “ad Agio”. La documentazione ed il monitoraggio dell’esperienza erano all’inizio percepiti come un carico di lavoro pesante ed aggiuntivo all’onerosità di impegni che già gravano quotidianamente a scuola. Dal dibattito emergeva la difficoltà dei docenti di ritagliarsi, nella quotidianità scolastica, degli spazi per verificare e confrontarsi sulle esperienze realizzate in classe. A scuola, la fase di progettazione e programmazione delle attività può usufruire di spazi dedicati “ad hoc”, in cui i docenti si incontrano, discutono e si confrontano sul da farsi, su quali attività proporre. Raramente, invece, ci si trova a riflettere e a confrontarsi durante la fase di realizzazione delle attività programmate. Quasi mai si documentano con sistematicità il percorso intrapreso, le riflessioni e gli esiti. La programmazione sembra quindi essere condizione necessaria e sufficiente per intraprendere l’attività in classe. Accompagnare la sperimentazione strutturando le osservazioni su ciò che si sta facendo, raccogliendo dati da discutere insieme, rilevando percezioni, osservazioni, vissuti, era un lusso che non ci si poteva permettere. Per mancanza di tempo e di familiarità con questo genere di azioni. Usciva da queste descrizioni un’immagine di docente fagocitato dal “qui ed ora” del fare scuola, concentrato principalmente sulla quantità di progetti programmati piuttosto che sulla verifica e valutazione delle azioni intraprese. Immagine che trova riscontro nell’attività di molte scuole che sembrano connotarsi sempre più come dei veri e propri “progettifici”: luoghi in cui non sembra essere importante valutare cosa si fa, ma quanti progetti si propongono. Un lavoro in progress
Spesso si tratta di progetti scollegati tra loro, rispondenti agli interessi dei singoli docenti piuttosto che derivati da una “vision” pedagogica condivisa dal team o, meglio ancora, dall’intero Istituto. Inoltre pare che il progetto “valga e funzioni” per il solo fatto di essere appro-
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vato e intrapreso. Trova in sé, in quanto azione pedagogica intenzionalmente programmata, la conferma del proprio valore e della propria legittimità. Diversamente il progetto “ad Agio” stimolava gli insegnanti ad intraprendere una “sperimentazione riflessiva”: ad accompagnare le azioni con la documentazione puntuale di ogni passaggio, a monitorare il processo attraverso il confronto, la socializzazione di tutte le fasi del percorso, la rilevazione dei segnali di efficacia/inefficacia di ciò che si stava facendo, l’introduzione “in progress” di correttivi e/o modifiche. Il progetto del “gruppo Pigarelli-Clarina” non va letto come una organizzazione rigida e blindata dell’azione pedagogica ma si configura, piuttosto, come una proiezione di massima delle azioni da intraprendere. L’architettura progettuale era un’idea condivisa che attraverso la sperimentazione poteva essere modificata, corretta, integrata. Era un’organizzazione flessibile dell’azione pedagogica, potenzialmente arricchibile e trasformabile attraverso il contatto diretto con la realtà. Il progetto ha di fatto subìto, nel corso dei due anni, correzioni, aggiustamenti, cambiamenti di rotta sollecitati dalla sperimentazione e dalla volontà dei docenti di accogliere l’imprevisto, di mettere in atto un circuito virtuoso tra idea progettuale e riscontri ottenuti con la sperimentazione. Anche gli strumenti di monitoraggio e di osservazione sono il frutto di un processo partecipato di gruppo ed hanno subito modifiche e aggiustamenti. Vanno considerati come prodotti del gruppo, strumenti per la sua crescita, risultato di un percorso intersoggettivo di scelte e decisioni condivise. Anche in questo caso l’importanza va attribuita non allo strumento in sé ma al processo intrapreso per giungere alla sua costruzione.6
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Del questionario predisposto per i bambini esistono, ad esempio, almeno tre versioni: la prima, dopo averla sperimentata, venne considerata scarsamente capace di evidenziare le differenze di valutazione delle attività da parte dei bambini. Si decise quindi di mettere a punto la versione 2 utilizzando una scala numerica e non nominale. Successivamente si mise a punto una versione 3 finalizzata non solo a monitorare la percezione della qualità dei rapporti nella classe ma anche a far valutare dai bambini le attività didattiche proposte.
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I tempi dell’azione
Il progetto “ad Agio” è stato proposto ai bambini con questa scansione temporale: • tre giorni intensivi all’inizio della scuola, rispettivamente centrati sull’io/io-tu/noi. Questa full immersion iniziale, aveva lo scopo di “riscaldare” il gruppo classe, di stimolare la socialità prima di intraprendere l’attività didattica disciplinare. Consentiva inoltre di “saggiare” le reazioni dei bambini ai diversi tipi di giochi e di verificare il loro gradimento per l’attività proposta. • Una volta alla settimana nelle compresenze del primo quadrimestre: i giochi sarebbero stati proposti successivamente a cadenza settimanale, riservando a questa attività uno spazio di circa 2-3 ore. Si è ritenuto di concentrare maggiormente le attività in questa prima fase dell’anno in modo da stimolare l’accelerazione dei processi relazionali all’interno del gruppoclasse e favorire la familiarizzazione dei bambini con questo tipo di attività. • Una volta ogni quindici giorni nelle compresenze del secondo quadrimestre: nell’ultima parte dell’anno scolastico il progetto sarebbe proseguito con una scansione temporale più diluita. Questa ultima parte di attività aveva lo scopo di garantire una “manutenzione affettiva del gruppo”, alla cui costruzione si era lavorato intensamente la prima parte dell’anno. Il progetto all’inizio di settembre del 2004 era pronto: si trattava di intraprendere la sperimentazione, monitorarla, accogliere indicazioni e sollecitazioni dall’esperienza diretta. Si era consapevoli del risultato raggiunto: la progettazione condivisa, la costruzione di strumenti didattici inventati collettivamente, la messa a punto di strumenti di osservazione, monitoraggio, valutazione. Non solo: l’attuazione del progetto avrebbe coinvolto in contemporanea tre classi quarte della scuola elementare Pigarelli ed una classe terza della scuola elementare Clarina e ciò offriva un’occasione davvero straordinaria ed inusuale di confronto tra colleghi impegnati congiuntamente nella stessa avventura educativa.
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LA SPERIMENTAZIONE E GLI ESITI
I tre giorni di full immersion, realizzati in classe all’inizio dell’anno scolastico, hanno messo subito a dura prova insegnanti e bambini. Gli insegnanti avevano deciso di sperimentarsi in un ruolo per loro insolito: si erano proposti di limitare la loro direttività, di tenere sotto controllo il desiderio di gestire ed intervenire in ogni situazione relazionale critica che poteva presentarsi all’interno della classe. Il loro obiettivo prioritario era, al contrario, responsabilizzare la classe rispetto alle criticità che di volta in volta si sarebbero presentate e stimolare l’autonomia e la partecipazione attiva di ciascun bambino nella risoluzione dei problemi. Una regola fondamentale doveva guidare l’intervento dell’insegnante: il rispetto della libertà dei bambini di partecipare o meno alle attività proposte. Il docente poteva sì incoraggiare i più reticenti a “buttarsi” nella esperienza proposta ma non doveva forzare, imporre coattivamente i comportamenti ritenuti desiderabili. Il principio di libertà poggiava sulla convinzione maturata nel gruppo docenti che “non esiste apprendimento senza consenso”. Difficilmente si apprendono comportamenti sociali senza aver fatto esperienza diretta delle relazioni con gli altri e senza aver individuato, attraverso situazioni vissute personalmente, i modi per gestire l’incontro con l’altro, per regolare il flussi emotivi, per gestire la complessità delle relazioni cooperative. Utilizzare i principi di “libertà” e di “responsabilizzazione” del bambino come linee guida del comportamento del docente, significava per l’insegnante saper tollerare - almeno nella fase iniziale del lavoro - la disorganizzazione, sopportare il caos e le situazioni di impasse manifestate dai singoli e dal gruppo. Era probabile che il gruppo dei bambini rimanesse spiazzato di fronte a questa situazione destrutturata, in cui erano ampi i margini per ciascuno di dire, fare e agire e dove la maestra o il maestro non si proponevano più come deus ex machina, risolutori di ogni situazione problematica. In effetti è andata proprio così. Le prime tre giornate sono state vissute con ansia e fatica dagli insegnanti, come si può evincere da questi brani tratti dai loro diari.
L’incertezza dei primi passi
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Dal diario dell’insegnante M. Per quello che mi riguarda, ho affrontato queste giornate con un po’ di timore e ansia. Avevo paura di non riuscire a gestire le attività. La fatica fatta in questa giornata mi fa capire come ci sia bisogno di fare queste attività, soprattutto per il noi. Certo che oggi, ma soprattutto questa ultima attività è stata sfinente, allucinante. Alla fine della mattinata eravamo tutte stravolte. Dal diario dell’insegnante T. Durante queste attività sono emerse molte cose interessanti sugli atteggiamenti dei singoli bambini e si è mostrato molto evidente il bisogno di lavorare tanto sul gruppo. Alla fine della mattinata io ero sfinita e sono tornata a casa con un forte mal di testa. È stato molto faticoso. Dal diario delle insegnante M. e M. Al momento di inventare la scenetta, solo un gruppetto di tre bambine si organizza; gli altri si buttano letteralmente sui vestiti e materiale per i costumi. prendendo a caso e girando poi a vuoto ma rumorosamente per la classe. Confusione, disorganizzazione, nessun confronto di idee. Le scenette sono per lo più di violenza, alcuni personaggi non c’entrano per niente con quelli precedentemente scelti. Questa attività è stata veramente pesante per noi due insegnanti. I gruppi, sempre a sorte, sono più grossi. Da subito E. si immusonisce, si isola e fa la “statua” in quanto i compagni capitati non sono di suo gradimento. Tre gruppi su quattro partono allo sbaraglio: non si parlano, non si confrontano, non si organizzano. Si buttano, ogni bambino per se stesso. Urlano, vengono continuamente da noi per lamentarsi. Finalmente un secondo gruppo si ritrova e si suddivide i ruoli. Per il resto è caos. Dal diario dell’insegnante A. Mi accorgo che è difficile predisporre l’attività e contemporaneamente riuscire a tener conto degli imprevisti! Ci siamo confrontati a lungo su queste prime esperienze. Molti avrebbero voluto da subito vedere risultati minimamente gratificanti:
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un minimo di capacità dei bambini di stare e lavorare con gli altri, meno conflittualità, più capacità di autoorganizzazione. In particolare, emergeva dalle osservazioni fatte in questi primi tre giorni, la difficoltà dei bambini di affrontare e gestire situazioni di collaborazione con gli altri. Queste criticità spiccavano anche dalle considerazioni espresse dai bambini durante la fase di valutazione partecipata dell’esperienza. Al termine delle tre giornate iniziali i docenti hanno elaborato i dati dei questionari compilati dai bambini e hanno “restituito” loro i risultati ottenuti, stimolando una riflessione e un dibattito collettivo. Dal diario delle Insegnanti M. e A. Presentazione agli alunni e discussione dei risultati dei questionari relativi alle prime tre giornate di attività Inizialmente vengono consegnati agli alunni dei foglietti, dove si chiede loro di scrivere cosa ricordano in maniera significativa delle tre giornate. Quindi si raccolgono le osservazioni in una scatola e si leggono insieme, senza specificare chi ne è l’autore. Dopo aver completato questo lavoro, vengono consegnati agli alunni gli istogrammi con i risultati dei questionari relativi alle prime giornate di attività. Poiché sono in bianco e nero, si colorano con i bambini in modo che le percentuali siano immediatamente percepibili. Quindi, attraverso domande-guida, osserviamo e commentiamo insieme i dati. L’insegnante guida con la domanda: • Quando c’è stato il maggior malessere durante il lavoro? I bambini osservano. • Il primo e il secondo giorno sono quasi uguali. • Il maggior malessere c’è stato il terzo giorno. • Sì, c’è stato un calo dello “star bene” nel terzo giorno. L’insegnante sollecita: Proviamo a fare delle ipotesi sul perché… I bambini osservano: • Basta riprendere quello che è già stato scritti sui biglietti con i nostri ricordi. • Forse qualcuno era infelice perché le tre giornate di gioco stavano per finire. • Secondo me, c’era più confusione. • Erano tutti più stanchi.
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Non si riuscivano a capire tra bambini. Non piacevano le attività. Non c’era lavoro di squadra. Non piaceva il lavoro prodotto dal gruppo. È stato difficile stabilire cosa potesse essere il Ciribin. Non c’era collaborazione. Non ci si ascoltava. Ognuno aveva in mente la sua idea e voleva “comandare”. • A qualcuno non piacevano i compagni del gruppo, voleva stare con i suoi amici. • Qualcuno si sentiva isolato nel gruppo… L’insegnante chiede: • Quando c’è stato il maggior malessere nello stare con gli altri? I bambini osservano: • Il terzo giorno non è andato molto bene con i compagni: c’è il 27,2 verde e il 4,5 azzurro. • Qualcuno è rimasto deluso dal comportamento degli altri. • Benissimo il primo e secondo giorno; il terzo benissimo per metà classe, l’altra metà ha dato risposte diverse. • Dal primo al secondo giorno c’è stato un aumento del benissimo, forse perché hanno capito meglio il lavoro; il terzo giorno erano stanchi. • Le valutazioni più positive sono quelle del secondo giorno perché si lavorava a coppie, il terzo giorno era più difficile perché si lavorava in gruppo. • Sono stati male perché c’era il lavoro della bandiera. Dopo nessuno era soddisfatto. • Il terzo giorno non si riusciva a concordare. La disposizione a gruppi crea confusione.
Dal caos all’ autoorganizzazione
I giochi centrati sull’“io” e sull’“io/tu” avevano discretamente funzionato, mentre l’attività centrata sul “noi” ha generato caos, tensioni, litigi, incomprensioni. Anche dai dati del questionario somministrato ai bambini emergeva con evidenza questa estrema difficoltà di rapportarsi tra loro ed una situazione complessiva di disagio avvertito nei momenti di lavoro in gruppo. Si è deciso quindi di insistere nei successivi incontri sulle attività dedicate all’espressione di sé e alla re-
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lazione di coppia e di introdurre il lavoro di gruppo solo dopo aver stimolato l’approfondimento delle relazioni interpersonali. Il passaggio dalla coppia al gruppo, dal punto di vista relazionale, si verifica attraverso un vero e proprio “salto” di livello, un passaggio da una situazione diadica, maggiormente gestibile e controllabile ad un rapporto complesso e dinamico con la pluralità del gruppo. Era necessario far vivere ed esplorare con gradualità queste diverse fasi del processo relazionale. Progressivamente la sperimentazione ha iniziato a dare i risultati attesi: i bambini si sono appropriati e sono diventati protagonisti di questi spazi destrutturati, hanno sviluppato autonomia e capacità di autogestione delle attività, hanno migliorato la loro capacità di dirimere i conflitti interpersonali, di scoprire e accettare le diversità di ciascuno. È aumentata la loro consapevolezza rispetto agli agi e disagi presenti nel gruppo-classe, la loro capacità di apprendere, attraverso questa esperienza, nuovi modi di esprimere se stessi e di tessere relazioni con gli altri. Di conseguenza i docenti hanno rinforzato la fiducia in se stessi e nelle loro capacità di lavorare sul clima della classe, registrando con soddisfazione lo svilupparsi progressivo della coesione di gruppo e dei sentimenti diffusi di agio e di benessere relazionale. Dai diari dell’insegnante L. La discussione seguita è stata molto importante. Per la prima volta credo che i bambini abbiano veramente capito che cosa stiamo facendo e soprattutto quand’è che si trovano in difficoltà. Oggi lavoravano da soli e si sono accorti che c’è stata grande armonia. ...Durante il percorso della mattinata, tutti lavorano bene e si divertono e sembra che tutti siano a loro agio. Il gioco segue il suo iter e dopo tre interviste, quando ormai il tempo era quasi scaduto hanno implorato di lasciarli andare avanti ancora ad intervistarsi. La ricreazione che è seguita è stata in sintonia con il trovarsi bene durante il lavoro: hanno giocato insieme come poche volte era successo... …Lascio che i bambini si muovano come credono senza tante regole riguardanti il silenzio e lo stare al posto. Si sentono molto liberi e nel rispetto di tutti portano a termine il loro compito…
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…È stato un momento di partecipazione e attenzione di tutti. Tutti si sentivano importanti, applaudivano e cercavano di trovare le regole che i compagni non avevano scritto o davano dei consigli per migliorarne il successo. Nella ricreazione successiva e in quella del giorno dopo si sono visti bambini fare quei giochi che avevano inventato. Anche a me questa attività è piaciuta molto. I bambini hanno organizzato una presentazione tipo fiaba. Inizia F. la bambina straniera da poco arrivata. È bello vedere come è stata coinvolta; inizia lei con questa frase: “I bambini sono impazienti perché sta per arrivare Babbo Natale”. ...Dal cartellone con domande sull’attività di oggi, risulta che è stato FACILE per la quasi totalità della classe: decidere nel gruppo, collaborare, assegnare i ruoli, esporre. Ci sembra significativo ed importante questo risultato. Siamo contente... Dalla conversazione risulta che: è stato facile e divertente preparare il collage; è stato bello perché si poteva lavorare con le mani, creare, avere idee insieme. Dai diari delle insegnanti M. e M. I bambini nei gruppi si confrontano pacatamente, accettano le idee dei compagni. Appaiono sereni. Quarta fase: il materiale (cartoncino colorato, fogli da collage, vellutati, carta crespa, velina, cotone, bottoni, cannucce, colla, mastice...) è disposto su una fila di banchi. Prendono ciò che serve, senza avventarsi sopra. Osserviamo che si sono divisi gli incarichi, senza che noi dicessimo niente. Lavorano bene. ...Bellissimo! Eccezionale! Io e la collega ci guardiamo soddisfatte, prendendoci (ovviamente per scherzo) ognuna il merito dei bei lavori. Dal diario dell’insegnante M. Osservo i bambini, li vedo sereni, tranquilli, nessuno disturba, nessuno litiga, nessuno viene a lamentarsi. Che succede? Dai diari dell’insegnante R. L’arrivo di colleghi ospiti inglesi ha creato molta irrequietezza, soprattutto tra gli elementi più fragili che in queste occasioni ten-
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dono a mettersi in mostra. Al momento di lavorare però si sono dimostrati tutti molto sereni e sono riusciti a collaborare anche interagendo con gli ospiti in modo serio e produttivo. Terminata l’attività mi sono fermata per un breve scambio di idee con gli ospiti. Alcune loro osservazioni mi sono sembrate interessanti: • nel gioco i più timidi riescono a prendere posizione mentre i più disinvolti riescono a frenarsi per far spazio agli altri; • anche una bambina straniera che ancora non parla italiano è stata positivamente coinvolta; • visto che il progetto è ponte con le medie, come mai i docenti di quella scuola non sono mai venuti ad assistere visto che leggere un resoconto o vedere non sono la stessa cosa? Il gruppo pur essendo fortemente conflittuale riesce tuttavia a proseguire il lavoro e a portare a termine la consegna (non si arriva mai alla “rottura“ perché comunque da soli i bambini riescono via via a ricucire le “crisi”). I bambini mi confermano di essersi divertiti molto, anche se l’attività più bella finora è stata quella di costruire una macchina. Si mostrano stupefatti ma insieme molto soddisfatti di aver lavorato senza mai litigare e senza che nessuno si sia immusonito. Sono molto soddisfatti di se stessi, e, mi sembra di percepire “il gruppo”. Queste attività hanno consentito alle insegnanti di spostare lo sguardo, di osservare con attenzione la classe ed i singoli bambini percependo comportamenti inusuali, potenzialità e risorse mai registrate durante l’attività scolastica. In particolare, queste attività si sono dimostrate significative proprio per quei bambini che manifestavano “disagio”: il lavoro sulle relazioni all’interno della classe ha favorito la loro integrazione, il riconoscimento da parte del gruppo delle loro potenzialità e capacità. I docenti si sono perciò trovati, in più occasioni, a mettere in discussione le rappresentazioni che di quei bambini si erano fatti, a segnalare nei loro diari delle vere e proprie scoperte di comportamenti e atteggiamenti individuali inattesi e insperati. Dai diari dell’insegnante R. Nella coppia A. per la prima volta ha preso in mano la situazione e ha condotto la presentazione relegando M. in un ruolo secondario.
Un nuovo sguardo sulla classe
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...Nella fase di presentazione del lavoro D. è molto emozionata, interviene con un commento molto divertente, realistico e personale; ha mostrato per tutta la durata del lavoro un grande interesse, impegno ed un’enorme soddisfazione. Le sue interazioni verbali con il gruppo stanno diventando sempre più frequenti, pertinenti ed estese (una volta spesso interagiva con espressioni, gesti, silenzi), adesso nel gruppo si rivolge ai compagni, chiede informazioni ed aiuto, fa commenti, esprime le proprie idee. Dal diario dell’insegnante R. S. ha superato se stesso nell’autocontrollo e nella gestione delle frustrazioni: capitato per tre volte in sorte in un gruppo di sole femmine (cosa per lui terribile come la morte) ha manifestato in modo sempre più forte e plateale la sua protesta, ma ogni volta è rientrato nel gruppo senza il nostro intervento e in qualche modo ha anche collaborato un po’. Una soluzione positiva di questo genere sarebbe stata impensabile fino a qualche tempo fa! I due bambini che nella coppia si sono trovati così male, inconcludenti e litigiosi, hanno dato tutti voti negativi al massimo con un “per niente” secco e deciso, ma hanno dato un moltissimo alla prima e ultima domanda dove viene chiesto quanto hanno partecipato i compagni e quanto hanno collaborato tra loro i compagni. Hanno riconosciuto il loro fallimento ma nello stesso tempo hanno riconosciuto il lavoro degli altri: le prime volte che si facevano questi giochi in queste situazioni tendevano a distruggere anche il lavoro degli altri. Dai diari di M. e M. Tutti i bambini si sono dichiarati concordi nell’essersi divertiti nel mimare e indovinare. Una bambina afferma che mentre lei mimava e i compagni ridevano e indovinavano lei aveva lacrime di felicità. Molti ammettono di essere stati emozionati al momento del mimo, però è stato bello lo stesso... ...Noi insegnanti ci siamo divertite assieme agli alunni. Durante queste attività, sempre più possiamo conoscere i nostro bambini e soprattutto loro, dato che giocano, possono esprimere se stessi. Anche i commenti dei bambini testimoniano il miglioramento del clima della classe, la consapevolezza di aver scoperto nuovi aspetti di
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se stessi o dei compagni, lo sviluppo delle capacità di stare e di lavorare con gli altri. Ecco alcuni di questi commenti, trascritti dagli insegnanti: Non pensavo che lavoravamo così tranquilli, nessuno che litigava! Mi è piaciuto tanto, perché siamo stati bene assieme. È stato bello, tutti hanno lavorato bene, litigato nemmeno un po’, ci siamo divertiti. L’attività riesce bene quando si discute assieme e si suddividono i compiti. L’attività non riesce quando si urla, non si condividono le scelte e non ci si mette d’accordo. Ho scoperto che a S. piace dormire come a me. Ho scoperto che riesco a lavorare con S.. Ho scoperto che P. ha moltissime idee. Ho scoperto che anche alle femmine piace giocare a lotta... Ho scoperto che a F. piace chiacchierare, spero impari in fretta l’italiano. Ho scoperto che è bello lavorare con A.. IV C Mi è piaciuto tanto lavorare con D. perché aveva tante idee.” Mi sono emozionata tanto, quando dovevo presentare il gioco. Mi è piaciuto tanto inventare il gioco. Avrei avuto bisogno di altro tempo per finire bene il nostro gioco: abbiamo dovuto fare in fretta le ultime cose. Mi sono sentita molto molto soddisfatta quando abbiamo finito di creare il nostro gioco. Mi sono sentita molto importante quando spiegavo il gioco ai compagni. Il primo anno di sperimentazione si è concluso con soddisfazione rispetto ai risultati raggiunti. I feed-back provenienti dai bambini erano confortanti e i docenti avevano sviluppato una maggiore sicurezza emotiva nel gestire il proprio ruolo di “conduttori di processo”. L’osservazione dei bambini aveva consentito ai docenti di comprendere con più profondità ciò che succedeva all’interno della classe, di cogliere i movimenti interpersonali, di decodificare le modalità di relazione messe in atto dagli alunni, di rilevare sfu-
Un primo bilancio dell’esperienza
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mature e segnali deboli prima non percepiti. Era come se ciascun docente avesse moltiplicato i “sensori”, si fosse dotato di antenne per registrare e accogliere ciò che emergeva dalla classe. La capacità di “lasciar andare”, di “girare al gruppo” le domande e le richieste rivolte all’insegnante, ha favorito l’attivazione delle risorse individuali e di gruppo dei bambini, la capacità del sistema-classe di accogliere ed affrontare i disagi e le criticità che si presentavano di volta in volta. Ha anche consentito ai docenti di limitare il “sentimento di onnipotenza”, la convinzione che tutto dipenda solo da loro, dai loro interventi, dai loro agiti. Al termine del primo anno ci siamo presi una giornata intensiva di lavoro per riflettere sul percorso intrapreso, per scambiarci considerazioni su ciò che aveva funzionato e su ciò che restava ancora da fare per migliorare la sperimentazione. È stata una giornata intensa e piacevole in montagna, in cui il discutere insieme si è intervallato ai momenti conviviali del pranzo e dello spuntino a metà pomeriggio. Ecco, in sintesi, le considerazioni emerse da quell’incontro, che chiudeva un ciclo di questa esperienza e tracciava la strada per il proseguimento dell’attività. I punti di forza
Il progetto è stato apprezzato da tutti per gli effetti riscontrati a più livelli: • nel gruppo-classe: miglioramento complessivo del clima, aumento della consapevolezza dei bambini rispetto a ciò che accadeva tra loro, maggiore capacità di gestirsi in gruppo autonomamente, sviluppo della fantasia e della creatività, aumento delle relazioni orizzontali a fronte di una situazione precedente strutturata su relazioni a due, capacità della classe di muoversi in situazioni non strutturate dall’insegnante, capacità di autoregolare la comunicazione in gruppo, maggiore consapevolezza delle proprie emozioni e sentimenti e del benessere creato progressivamente dalle attività di “ad Agio”. Anche i genitori hanno riportato feed-back agli insegnanti rispetto al lavoro fatto: i bambini dichiaravano di andare a scuola più volentieri. • Nei singoli bambini: miglioramento della capacità di esprimersi e di relazionarsi da parte di alcuni bambini solitamente silenziosi e scarsamente partecipi; migliore conoscenza di sé, delle proprie potenzialità, dei propri limiti; coinvolgimento ed integrazione nel gruppo-classe dei bambini certificati ed
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extracomunitari da poco inseriti; migliore controllo e gestione delle reazioni emotive. • Nell’attività didattica: anche l’attività didattica curricolare ha beneficiato indirettamente del clima “agiato” costruito dal gruppo-classe. I bambini partecipavano con maggiore motivazione, apertura e riflessività anche ai compiti scolastici. Alcuni accorgimenti, utilizzati nella conduzione dei giochi, sono stati trasferiti dai docenti nella prassi didattica quotidiana: composizione casuale dei gruppi e/o delle coppie prima determinati dalla scelta dell’insegnante, introduzione e/o rafforzamento del lavoro di gruppo, maggiori spazi dedicati al confronto tra i bambini. • Nella professionalità insegnante: maggiore capacità di gestione e controllo dell’ansia, migliore utilizzo della capacità di osservazione, sviluppo della riflessività sui propri vissuti ed agiti, capacità di lavorare sul clima della classe, capacità di progettare e costruire giochi socio-affettivi, sviluppo delle capacità di progettazione e programmazione dell’attività, maggiore flessibilità e capacità di adattare il lavoro proposto ai bisogni del gruppo-classe e al clima di gruppo, consapevolezza dell’importanza del confronto e dello scambio tra colleghi, capacità di costruire ed utilizzare strumenti per il monitoraggio e la documentazione dell’esperienza. Non sono mancate in questo lungo e approfondito confronto su questa prima fase del progetto, anche la sottolineatura delle criticità e dei disagi riscontrati: • gli insegnanti della scuola elementare Clarina sono state penalizzati dall’alto turn over delle colleghe (di fatto solo una di loro ha partecipato a tutto il progetto, mentre le altre colleghe del team sono cambiate periodicamente). Ciò ha rallentato e reso faticosa l’attività soprattutto per la docente che ogni volta doveva coinvolgere le “nuove” nel progetto. • Sempre alla scuola elementare Clarina è mancato uno spazio all’interno dell’orario scolastico, specificatamente dedicato alle attività del progetto “ad Agio”. Gli insegnanti dovevano, di conseguenza, chiedere “ore in prestito” ai colleghi non sempre ben disposti a sacrificare le loro ore di lezione. • Poco tempo a disposizione, in ambito scolastico, per la programmazione delle attività: con il progetto “ad Agio” il gruppo
I punti di debolezza
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aveva imparato a confrontarsi collegialmente su ogni aspetto dell’attività da realizzare. Il tempo dedicato a scuola per la programmazione risultava perciò insufficiente, troppo ridotto rispetto a queste nuove esigenze di confronto e condivisione. • Scarso coinvolgimento degli altri colleghi dell’Istituto: in entrambe le scuole risultava difficile trovare spazi per socializzare con gli altri colleghi le tappe e gli esiti di questa esperienza. D’altro canto, nonostante tutta la scuola fosse a conoscenza di questa esperienza, quasi la totalità dei colleghi non ha mai espresso curiosità o richieste di informazioni sul progetto e sulle fasi di realizzazione. • Disagio provocato dal cambiamento di setting dell’aula: spostare banchi e cattedra (con l’obiettivo di creare un setting facilitante rispetto alle relazioni interpersonali) e risistemare tutto al termine dell’attività, comportava ogni volta una perdita di tempo non indifferente. Ciò riduceva conseguentemente i tempi a disposizione per l’attività con i bambini. • Scarso coinvolgimento degli Istituti nel progetto: il gruppo accusava spesso vissuti di solitudine e di abbandono. Il progetto non veniva valorizzato all’interno delle rispettive scuole, non si registravano segnali di attenzione ed interesse per ciò che si stava facendo. Il percorso del gruppo Pigarelli-Clarina non termina con queste considerazioni ma riprende con nuovo slancio all’inizio dell’anno scolastico successivo. Come proseguire la sperimentazione? Come capitalizzare l’esperienza “ad Agio” in vista della conclusione del progetto? A queste domande è stata data facilmente una risposta perché già era stata intravista e parzialmente praticata nell’ultima parte del primo anno di sperimentazione. “ad Agio” si fa scuola
“Il gioco diventa scuola”: questo è il titolo scelto dai docenti per descrivere, nel video di documentazione dell’attività svolta, quest’ultima parte del percorso di ricerca ed innovazione. La sperimentazione in classe aveva evidenziato che i processi di apprendimento sono sostenuti ed alimentati dal clima socio-affettivo, dallo sviluppo di un clima collaborativo e partecipato. Come fare allora per contaminare la didattica con l’esperienza di “ad Agio”? Come rendere piacevole e motivante la lezione scolastica? Attraverso la costruzione di giochi didattici che si propongono di far imparare giocando, che ripropongono anche nelle attività scolasti-
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che l’ingegneria relazionale della coppia e del gruppo, l’attenzione alle dimensioni affettive e non solo cognitive dell’apprendere. “ad Agio” ha innescato un processo di innovazione e ripensamento della didattica, un cambiamento significativo che sarebbe stato impensabile raggiungere attraverso una tradizionale attività di formazione o mediante prescrizioni e indicazioni. È il risultato di un processo partecipato, un laboratorio pedagogico che - partendo dal problema del “disagio a scuola”- ha investito la figura del docente e lo ha coinvolto in un percorso di ripensamento e di riscoperta del proprio ruolo, delle proprie competenze e risorse professionali. Il gruppo docenti ha iniziato a costruire giochi per insegnare storia, matematica, italiano, riscoprendo il gusto e il divertimento del far apprendere. Queste schede-gioco, al di là della loro utilità come strumenti didattici, rappresentano emblematicamente la sintesi e il risultato conclusivo di questo percorso intenso e sorprendente. Ecco, a titolo esemplificativo, una di queste attività. Titolo
“Caccia ai sinonimi” (del verbo dire)
Obiettivo
- Lavorare in gruppo, assegnando precisi incarichi ad ogni componente. - Lavorare seguendo precise consegne. - Imparare ad utilizzare il dizionario. - Arricchire il proprio vocabolario. Si divide la classe in gruppi di 4 alunni. Ogni gruppo, al suo interno, decide l’assegnazione dei seguenti incarichi, in modo che ognuno abbia un ruolo ben definito: - il postino: ritira e riconsegna le buste all’insegnante; - il custode delle regole: legge le regole dell’attività e si preoccupa di farle rispettare; - il cercatore: è colui che ricerca le parole sul vocabolario (in caso di gruppi più numerosi possono essere in due); - il notaio: è colui che scrive i sinonimi individuati. L’insegnante consegna al custode delle regole, le regole per il lavoro e le regole per la consultazione del vocabolario (vedi di seguito). Consegna inoltre al postino la busta con il primo verbo di cui ricercare i sinonimi (vedi i sinonimi). Ogni gruppo leggerà bene tutte le regole e, cercando di rispettarle, eseguirà il lavoro di ricerca dei sinonimi sul vocabolario e quindi li annoterà su un foglio. Finita questa prima fase, i postini di ogni gruppo consegneranno all’insegnante la lista di sinonimi, ritireranno la busta con il secondo verbo e via di seguito. Alla fine tutti i sinonimi trovati verranno raccolti su un cartellone (e sul quaderno) a disposizione della classe.
Modalità di attuazione
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Partecipanti
L’intera classe, quarta o quinta, divisa in gruppi di quattro - cinque alunni.
Materiali
Buste, fogli di carta, penne, dizionari, possibilmente dei sinonimi e dei contrari.
Osservazioni e note
Si prevede di utilizzare la stessa modalità di lavoro per la ricerca di sinonimi di altri verbi. È possibile l’assegnazione di punteggi ai vari gruppi in base al numero di sinonimi trovati. Debriefing Si predispone un cartellone con il disegno di un barattolino di bolle di sapone. Si preparano tanti cerchietti colorati. Ogni bambino dovrà scrivere su un cerchietto una sola parola per definire il lavoro svolto (proibito l’aggettivo “bello”), ed attaccarlo sul cartellone. Segue questionario. Schede di lavoro Regole di lavoro: da leggere attentamente prima di iniziare (scheda 1) - Ogni componente del gruppo deve svolgere l’incarico che gli è stato assegnato e collaborare con gli altri. - Il postino ritira la prima busta dall’insegnante, la apre e la legge nel gruppo con i compagni. - Prima di iniziare la ricerca dei sinonimi sul vocabolario, il gruppo prova a pensare e a scrivere i sinonimi, del verbo indicato nella busta, che già conosce. - Quindi, si leggono attentamente le regole per la consultazione del vocabolario. - Dopo di che il cercatore inizia la ricerca e il notaio scrive. - Quando il gruppo ritiene di aver finito la caccia, tramite il postino consegna la lista all’insegnante e ritira la seconda busta, con un altro verbo. - Si continua nello stesso modo. Regole per consultare il vocabolario: (scheda 2) - Le parole nel vocabolario sono disposte in ordine alfabetico. - Nelle parole che hanno la stessa lettera iniziale, si deve guardare la seconda lettera; se anche la seconda lettera è uguale, si considera la terza e così via. Verbi di cui ricercare i sinonimi: (scheda 3) - Dire, raccontare, domandare.
Dalla lezione al gioco didattico
La lezione sui contenuti disciplinari si trasforma quindi in gioco didattico; il docente da erogatore di conoscenze e informazioni si propone come stimolatore dei processi di apprendimento; il gruppo-classe si configura come risorsa per sostenere la motivazione e la partecipazione attiva dei bambini all’attività scolastica. L’attività didattica si arricchisce di quegli ingredienti che già erano stati utilizzati nelle attività socio-affettive per promuovere il benessere relazionale della classe: • utilizzo frequente e alternato di attività da realizzare individualmente, in coppia e in sottogruppo; • formazione dei sottogruppi attraverso criteri casuali (solitamente i docenti formavano i sottogruppi secondo criteri da
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loro intenzionalmente definiti: ad esempio, alcuni bambini “competenti” rispetto al tema affrontato venivano messi insieme ad altri “meno competenti, ecc..); utilizzo di sottogruppi “variabili”, cioè ogni gioco didattico prevede una nuova ricomposizione delle aggregazioni, dei sottogruppi; introduzione di elementi ludici ed espressivi: utilizzo di simulazioni, di attività strutturate a mo’ di “gara”, di situazioni che stimolano la creatività e l’espressività individuale e di gruppo; utilizzo del debriefing come parte essenziale ed integrante del gioco didattico: al termine dell’attività viene riservato uno spazio per far riflettere i bambini sul senso dell’attività intrapresa, per stimolare l’espressione dei vissuti emotivi sperimentati, le difficoltà incontrate, il grado di soddisfazione per il lavoro svolto; utilizzo di strumenti di valutazione e di documentazione dell’attività didattica: stesura del diario e somministrazione periodica ai bambini di un questionario di valutazione. Si tratta di una versione leggermente rivisitata del questionario già utilizzato nelle attività socio-affettive di “ad Agio”. Va però segnalato che questa ultima stesura si arricchisce di un nuovo item, in cui si chiede ai bambini di valutare l’insegnante. È una innovazione sicuramente rilevante che testimonia l’importanza progressivamente attribuita dal gruppo docenti al processo valutativo e alla necessità di raccogliere feed-back dai bambini rispetto anche al proprio operato; utilizzo del gruppo-classe come risorsa per l’apprendimento: valorizzazione e promozione del cooperative learning, dell’autonomia e del protagonismo dei bambini; attenzione alle dimensione socio-affettiva: far riflettere costantemente il gruppo classe non solo sul lavoro svolto, sui risultati raggiunti, su “ciò che è stato fatto”, ma anche su “come ci si è sentiti”, quali emozioni sono state provate, come si è lavorato con i compagni.
Da questo sintetico elenco di innovazioni introdotte nella didattica ma, in generale, da tutto il percorso che ho tentato di ripercorre in questo saggio, si evince che il processo di cambiamento innescato dall’esperienza di “ad Agio” è stato davvero profondo e significativo.
Un video per documentare l’esperienza
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Lo testimoniano anche alcune considerazioni conclusive degli insegnanti. Considerazioni condivise da tutti e che il gruppo ha deciso di riportare anche nel video di documentazione dell’esperienza. Il progetto “ad Agio” ci ha consentito di ripensare al nostro ruolo, al nostro modo di porci. Abbiamo imparato ad essere meno intrusivi e a favorire lo scambio ed il confronto all’interno della classe. Abbiamo capito che un bambino che manifesta disagio ci segnala che qualcosa non sta funzionando nel gruppo classe ed è proprio nella classe come sistema di relazioni che possiamo intervenire per migliorare il benessere. Abbiamo lavorato in gruppo e imparato ad affrontare i disagi e le difficoltà nelle relazioni tra colleghi. Abbiamo imparato ad inventare e a costruire giochi di gruppo per sviluppare le relazioni all’interno della classe e poi giochi didattici per rendere più accattivanti gli apprendimenti disciplinari. A conclusione del video, un docente che non ha partecipato al progetto “ad Agio” si rivolge al gruppo dei docenti sperimentatori e dice: “Gioco di relazioni che diventa scuola… Interessante…quasi quasi se mi passate il materiale…”. E il gruppo docenti risponde: “...ma il materiale non basta, non così in fretta…. adagio, adagio”. Nella consapevolezza che la trasferibilità di questa esperienza non sta negli strumenti prodotti, ma nel farsi coinvolgere in un percorso di riflessione partecipata sul proprio modo di fare l’insegnante e di empowerment finalizzato a sviluppare sensibilità e abilità relazionali.
IL RUOLO DEL TUTOR
È opportuno soffermarsi e precisare il ruolo che in qualità di tutor ho svolto all’interno del gruppo. Approfondire, seppur in breve, questo aspetto, consente di comprendere a “tutto tondo” l’esperienza intrapresa con il gruppo “Pigarelli-Clarina”. La modalità di declinazione di questo ruolo all’interno dei diversi incontri sono un’altra variabile significativa e
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determinante, insieme alle altre (il ruolo del gruppo, la progettazione, la sperimentazione ecc..) di questo percorso partecipato. Sulla figura dei tutor ha scommesso il progetto “ad Agio” fin dall’inizio. Il tutor, attraverso il suo lavoro a stretto contatto con il gruppo da una lato e con l’équipe tutoriale dall’altro, si ritagliava un ruolo di cerniera tra il progetto “pensato” ed il progetto “realizzato”, funzionava da collante tra il gruppo di direzione dell’esperienza e i protagonisti dell’esperienza stessa, cioè i gruppi di docenti. Il movimento del tutor non era pensato in modo unidirezionale, cioè non doveva semplicemente trasportare in sede di gruppo-docenti le indicazioni e le volontà provenienti dall’équipe di direzione del progetto. Anzi, il suo compito era costruire un tessuto connettivo tra questi due ambiti in modo da far circolare in entrambe le direzioni le istanze provenienti dalla prassi e dalla riflessione degli insegnanti e quelle maturate all’interno degli incontri dell’équipe tutoriale. Quest’ultima non pensava di avere risposte pre-confezionate, piani di azione stabiliti una volta per tutte e non discutibili. L’équipe tutoriale durante tutta la durata del progetto si è messa in una posizione di ascolto e di attenzione rispetto a tutto ciò che emergeva dall’esperienza concreta, dal cammino intrapreso dagli insegnanti. Ha modificato ed arricchito la proposta progettuale originaria proprio alla luce delle evidenze e necessità che emergevano dalla traduzione in pratica del progetto “ad Agio”, che il tutor riportava puntualmente all’attenzione dell’équipe. Oltre a questo compito di collegamento, il tutor ha rivestito un ruolo centrale all’interno degli incontri di gruppo, perché ha svolto una poliedricità di funzioni in relazioni alle varie fasi di vita del gruppodocenti ed ai compiti che di volta in volta questo si trovava a svolgere. Ripercorrendo l’esperienza dal punto di vista professionale, potrei identificare almeno due ruoli formativi che ho simultaneamente “incarnato” all’interno del gruppo e che rispondevano a obiettivi e/o a bisogni diversi espressi dai docenti.
Il tutor come
Innanzitutto, ho svolto propriamente il ruolo di tutor, declinando questo ruolo in almeno tre funzioni essenziali: costruttiva, manutentiva e integrativa. In una prima fase ho infatti lavorato come teambuilder (funzione costruttiva) indirizzando le mie azioni ed interventi a stimolare processi di costruzione dell’identità di gruppo,
Le tre funzioni
“tessuto connettivo”
del tutor: costruttiva, manutentiva, integrativa
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della coesione interna. In particolare ho lavorato sulla comunicazione, sulla strutturazione interna dei ruoli, sulla presa di decisione e gestione dei conflitti. La nascita del sentimento del “noi”, di un sentimento di gruppo non è però traguardo raggiunto una volta per tutte. Il gruppo ha solitamente un andamento dinamico, caratterizzato da “alti” e “bassi”, da momenti di forte coesione e appartenenza alternati a momenti di caduta della “libido”, in cui si percepisce una sorta di frantumazione e di rottura di un equilibrio raggiunto. Specie in progetti come “ad Agio”, di lunga durata, il gruppo attraversa periodicamente fasi critiche che possono mettere a rischio il suo funzionamento come organismo plurale. Per questi motivi ho affiancato alla funzione costruttiva, quella manutentiva. Il mio compito in molte occasioni è stato quello di svolgere una sorta di manutenzione affettiva del gruppo, curando soprattutto gli aspetti relazionali ed emotivi, da cui dipende per larga parte il buon funzionamento del gruppo, anche dal punto di vista operativo. Ho quindi stimolato i partecipanti a riflettere sulle dinamiche interne, a scambiarsi feed-back, a ricomporre affettivamente un clima di benessere che in molti casi sembrava essersi definitivamente rotto; ho facilitato lo scambio ed il confronto, supportato il gruppo nelle situazioni di criticità, valorizzato i risultati raggiunti. Mi sono mossa come una sorta di “sorella maggiore” che accompagna e sostiene affettivamente il gruppo in tutte le situazioni. Ho infine svolto anche una funzione integrativa, cioè ho stimolato il gruppo a leggere in modo unitario e con una logica di continuità tutte le fasi del processo che stavamo percorrendo. Spesso i gruppi vivono il “presente” in modo totalizzante, dimenticando ciò che è avvenuto prima e cosa potrebbe cambiare in futuro. Per stimolare la percezione di unitarietà e di continuità tra “ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà”, ho spesso spinto il gruppo a ripercorrere le tappe del cammino, ad interrogarsi sul perché si percepivano lacune, contraddizioni, scollamenti, ho aiutato a formulare domande per chiarire situazioni apparentemente confuse e per stimolare una ricollocazione di tutto ciò che accadeva all’interno della storia del gruppo e della sua percezione del futuro. Il ruolo di supervisore
In una fase più avanzata di vita del gruppo ho integrato il ruolo di tutor con quello di supervisore. Il gruppo, una volta acquisita una certa
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autonomia, proseguiva senza bisogno di azioni ed interventi propulsivi da parte mia. Gli incontri venivano auto-coordinati, c’era attenzione ai tempi e anche ai processi. Il mio ruolo, con l’avanzare della maturità del gruppo, diventava paradossalmente significativo solo se veniva a mancare, solo se progressivamente “sparivo” per lasciare tutto il processo e la responsabilità in mano al gruppo. E così è stato: mi sono lentamente decentrata sullo sfondo, in una posizione più di “servizio”, piuttosto che di stimolo e di guida. Intervenivo solo per supervisionare il gruppo, per fornirgli un punto di vista da osservatore partecipante sui problemi relazionali o sulle difficoltà operative incontrate, per svolgere, quando era necessario o richiesto, un supporto emotivo o tecnico. I molteplici ruoli assunti funzionalmente in relazione ai diversi bisogni del gruppo, erano complessivamente mirati a produrre empowerment, cioè a stimolare il “potenziamento”, l’aumento di potere e di autonomia del gruppo concepito come organismo plurale. Un obiettivo raggiungibile attraverso l’attenzione ai processi di gruppo piuttosto che ai contenuti trattati e ai risultati raggiunti. Quando si parla di “processo” spesso lo si confonde con “metodologia” che a sua volta si confonde con “procedura”, cioè con un insieme di azioni consequenziali che portano ad un risultato. In realtà il processo non è sequenziale e progressivo ma si snoda attraverso la circolarità. Non è il frutto di una sommatoria di azioni e di passi che si possono scomporre e analizzare, ma piuttosto è un insieme sintetico di elementi interrelati e interconnessi. Come tutor ho tentato di svolgere proprio questo ruolo di conduttore di processo che ben racchiude tutti gli altri ruoli qui descritti. Un ruolo multiforme e sfaccettato: il conduttore di processo è capace di gestire relazioni che implicano autorità, asimmetria (perché, in caso contrario, rischia di “fondersi” con i partecipanti) e, allo stesso tempo, di essere supporto affettivo e figura di accompagnamento. Svolge un ruolo neutrale ma non neutro. Neutrale perché deve accogliere tutte le istanze del gruppo senza allearsi con alcune sue parti. Non neutro perché utilizza approcci teorico-tecnici di riferimento espliciti. D’altra parte il tutor non va pensato come una sorta di “corpo estraneo” inserito in un gruppo: chi conduce un gruppo è esposto alle
Il tutor come conduttore di processo
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sollecitazioni, alle emozioni, alle esperienze che scaturiscono dagli incontri con tanti gruppi diversi. È stimolato ad apprendere e a rivisitare il proprio ruolo, il proprio stile di conduzione, attraverso e grazie la relazione. Così è accaduto in “ad Agio”: un’esperienza di apprendimento per un gruppo-docenti si è rivelata anche per me un’occasione di crescita professionale ed umana.
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La parola ai docenti sperimentatori
Hanno collaborato: Edoardo Benuzzi, Angela Orsini e Lorenza Sighel della scuola primaria “Clarina” di Trento - Istituto comprensivo Trento 4; Mariateresa Bernardi, Leo Brugnara, Marilena Comai, Roberta Ianes, Carla Mannarini, Adele Pollam e Mariuccia Zocca della scuola primaria “Pigarelli” di Gardolo - Istituto comprensivo Trento 7.
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Giocare per conoscersi
Di seguito vengono riportate tre schede-gioco costruite dal gruppo insegnanti per promuovere la conoscenza di sé, dei compagni e la capacità di cooperare in gruppo. La prima scheda-gioco è centrata sull’IO, la seconda sull’IO/TU, la terza sul NOI. Titolo
“La mia carta d’identità ideale” (IO)
Obiettivo
- Riflettere su di sé e sui propri desideri. - Farsi conoscere e conoscere i compagni.
Modalità di attuazione
Prima fase Ognuno deve realizzare materialmente, con un cartoncino, la propria carta d’identità ideale. In base ai propri gusti ed ai propri desideri dovrà indicare: - il proprio cognome reale; - il nome desiderato; - l’età desiderata; - il luogo di nascita desiderato; - il luogo di residenza ideale; - la professione desiderata; - la lingua parlata; - l’aspetto fisico desiderato: colore occhi, colore e tipo di capelli, statura; - gli aspetti del carattere più evidenti; - gli eventuali segni particolari. Quindi dovrà disegnare un proprio ritratto che funga da fotografia, e apporre i timbri necessari. Seconda fase Tutte le carte d’identità vengono esposte e tutti possono vederle e leggerle.
N. partecipanti
Tutti i bambini della classe
Materiale
Cartoncini bianchi formato A4, piegati verticalmente a metà, penne, colori, righelli.
Setting
Creare un’isola di banchi, ben accessibile, su cui esporre le carte d’identità che, in un secondo momento, potranno essere appese su cartelloni.
Debriefing
Preparare un cartellone con il seguente titolo: il desiderio più urgente. Consegnare poi ad ogni bambino una nuvoletta colorata, su cui ognuno deve scrivere qual è l’aspetto reale che più urgentemente trasformerebbe in quello ideale, indicato nella carta d’identità. Segue una riflessione collettiva sui sentimenti provati durante l’attività.
Durata
Tempo totale 1h
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Titolo
Intervistiamoci (IO-TU)
Obiettivi
Conoscersi all’interno della classe e collaborare nel lavoro in coppia.
Modalità d’attuazione
I banchi vengono disposti in cerchio in mezzo all’aula in modo che i bambini di ogni coppia possano lavorare nello stesso banco, uno di fronte all’altro. Il conduttore illustra alle coppie il compito che è quello di preparare le domande per un’intervista da fare a un compagno con lo scopo di conoscerlo meglio. Prima fase: tempo 20 minuti La coppia deve redigere le domande, almeno otto, in modo da ottenere molte informazioni su uno qualsiasi dei compagni (cibi preferiti, sport, musica, passatempi…). Entrambi i bambini si scrivono su un foglio le domande. Seconda fase: tempo 20 minuti (10 + 10) I bambini si mettono con le spalle rivolte verso i banchi e si muovono attorno al cerchio al ritmo di una musica predisposta dal conduttore. Quando la musica si interrompe si siedono al banco vicino al quale si trovano e i bambini del cerchio interno somministrano l’intervista al compagno che si trova di fronte (tempo 10 minuti). Terminato il tempo a disposizione viene riaccesa la musica, i bambini nuovamente si muovono e al termine della musica, sedendosi nel banco, avranno formato una nuova coppia. Questa volta gli intervistatori saranno i bambini del cerchio esterno. In questo modo ogni alunno avrà rivestito tutti i ruoli: giornalista, intervistatore ed intervistato. Tempo totale: 40 minuti
Partecipanti
Tutti i bambini della classe suddivisi in coppie.
Materiale
Carta, penna, una cassetta o un CD, un riproduttore.
Osservazioni e note
Un nuovo modo di formare le coppie casuali all’inizio dell’attività potrebbe essere affidato a dei pezzi di corda: il conduttore tiene in pugno il mazzo di corde in modo che siano in vista solo i due estremi di ciascuna; ogni bambino ne sceglie un capo; al via si allontanano in modo da mettere in tensione le corde; i bambini che hanno in mano i capi della stessa corda lavorano assieme.
Debriefing
Il conduttore predispone un cartellone dal titolo “Mi è piaciuto di più…”; il cartellone viene suddiviso in tre sezioni: 1. preparare le domande; 2. fare l’intervista; 3. essere intervistato. Ogni bambino riceve un’etichetta su cui scrive il numero corrispondente all’attività preferita. Al via le etichette vengono incollate al cartellone. Segue una discussione sui risultati. Al termine dell’attività viene somministrato il questionario.
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Titolo
Lo stato classe (NOI)
Obiettivo
Favorire lo spirito di appartenenza al gruppo classe.
Modalità di attuazione
Prima fase: 10’ Con un sorteggio si formano tre o quattro gruppi. Ognuno deve pensare a come identificare la classe e proporre un nome. Seconda fase: 10’ Si passa quindi alla votazione delle proposte. Ogni gruppo elegge un suo portavoce, che presenta la proposta del gruppo e deve cercare le giuste motivazioni per convincere gli altri a votarla. Terza fase: 20’ Si formano nuovi gruppi e si assegna una nuova consegna. Inventare per la classe un inno, sulla musica di una canzone conosciuta (es: nella vecchia fattoria). Quarta fase: 10’ Si votano gli inni con le stesse modalità usate per il nome. Quinta fase: 20’ Si compongono altri gruppi che devono proporre e realizzare su un foglio uno stemma della classe. Sesta fase: 10’ Si vota per lo stemma con le modalità già proposte. Settima fase: 10’ Si definiscono altri quattro gruppi, che devono proporre alla classe: - una parola da usare come complimento (es: tritaci); - una parola da usare come insulto (es: klisuri). Ottava fase: 10’ Si passa alle votazioni delle varie proposte, come già detto.
Partecipanti
Il gruppo classe diviso in tre o quattro sottogruppi.
Materiale
Carta - cartoncino colorato - carta collage - pennarelli - colla - forbici.
Osservazioni e note
Si propone di cambiare i gruppi ad ogni proposta per promuovere un maggior senso di appartenenza alla classe.
Durata
Tempo totale: 1h 40’.
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DIARIO ATTIVITÀ - 1 MARZO 2005 GIOCO: QUALE STAGIONE? (NOI) CLASSE IV B
Numero bambini della classe 22
Presenti 17
1. Risultati questionario bambini 1. Quanto i compagni hanno partecipato all’attività? Moltissimo 10 58,8% Molto 3 17,6% Abbastanza 3 17,6% Per niente 1 6,0% 2. Quanto hai partecipato tu all’attività? Moltissimo 9 52,9% Molto 3 17,6% Abbastanza 4 23,5% Per niente 1 6,0% 3. Quanto ti sei divertito? Moltissimo 10 58,82% Molto 2 11,76% Abbastanza 3 17,64% Poco 1 5,89% Per niente 1 5,89% 4. Come ti sei sentito mentre facevi questa attività? Benissimo 6 35,5% Bene 5 29,5% Così così 4 23,5% Malissimo 2 11,5% 5. Con i compagni come sei stato? Benissimo 8 47,5% Bene 2 11,5% Così così 4 23,5% Male 2 11,5% Malissimo 1 6,0%
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6. In questa classe quanto i bambini hanno collaborato tra loro? Moltissimo 8 47% Molto 3 17,6% Abbastanza 5 29,4% Per niente 1 6,0% 2. Risultati questionario insegnanti Insegnanti presenti 3 1. Quanto i bambini hanno partecipato alle attività? Molto 2 Abbastanza 1 2. Quanto, secondo te, i bambini si sono divertiti? Molto 1 Abbastanza 2 3. Come ti sei sentito mentre facevi questa attività? Benissimo 2 Così così 1 4. Secondo te i bambini come sono stati tra loro? Bene 1 Così così 2 5. Secondo te quanto i bambini hanno collaborato tra loro? Molto 1 Abbastanza 2
Osservazioni insegnante B. M. Abbiamo formato i gruppi usando una delle solite modalità (in questo caso estrazione di palline colorate da un sacchetto). L’unico che ha protestato è stato S.A., che comunque, seppur con il broncio, ha preso posto nel suo gruppo tutto al femminile. Ironia della sorte, i quattro maschi presenti oggi, sono finiti uno per gruppo! I gruppi sono risultati così composti: 1° GRUPPO: D.C. A.D. V.B. C.M. 2° GRUPPO: L.R. S.A. P.A. M.C.
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3° GRUPPO: V.CC. F.M. D.C. M.G. 4° GRUPPO: F.B. S.S. S.L. M.A. S.B. Da subito ci siamo accordate che io e l’insegnante A. ci saremmo occupate di seguire il lavoro pratico, fornendo materiali e rispondendo alle richieste dei bambini. M. si sarebbe assunta il ruolo di osservare i gruppi e registrare quanto succedeva. Riporto quindi alcune osservazioni ed impressioni generali. 1°GRUPPO: il gruppo lavora molto bene sin dalla prima fase, la scelta della stagione (inverno). Sa collaborare e dividere bene i ruoli. Ho l’impressione che si divertano. Riescono ad organizzare un’ottima presentazione ai compagni. Ottimo anche il prodotto finale. 2° GRUPPO: (estate) è un gruppo molto difficile!!! Nascono subito delle accese discussioni, soprattutto tra L.R. e S.A.. Già durante la prima fase, la scelta della stagione, S.A. va dall’insegnante A. ad esplicitare il suo disagio: “Io non vado in quel gruppo perché poi devo rappresentare delle cose che non ho scelto” e chiede aiuto per essere ascoltato. Le discussioni proseguono anche durante le altre fasi del lavoro, con L. che, in più di un’occasione, si allontana dal gruppo e piange, rientra, urla, cerca di imporsi e contesta quanto si va facendo. P. e M. alternativamente appoggiano uno o l’altro dei due contendenti. Anche durante la presentazione L. e S. cercano di imporsi uno sull’altro; L. fa affermazioni che gli altri le contestano e comunque, pur trovandosi di fronte ad un prodotto finale piuttosto misero, parla per molto tempo, “gongolandosi” davanti ai compagni. Nella fase del debriefing L. ammetterà: “È stato difficile il lavoro perché è stato un po’ difficilino decidere; poi abbiamo collaborato ma non eravamo tanto felici!” 3°GRUPPO: (autunno) il gruppo fa un po’ fatica ad avviarsi. Nella fase iniziale lavora solo M.G., mentre V.e F. giocano tra loro e D. si guarda in giro. Nelle fasi successive spesso V. alza la voce per imporre la propria volontà e nascono delle discussioni. D. è molto coinvolta nella fase di realizzazione. La presentazione appare un po’ disorganizzata e gestita soprattutto da M. che risponde anche a delle domande dei compagni. Simpatico intervento di D. che sottolinea un errore presente nel collage e ne dà spiegazione. M. nel debriefing segnalerà la sua difficoltà a lavorare per l’enorme indecisione presente nel gruppo.
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4° GRUPPO: (estate) il gruppo, con dibattiti accesi, lavora molto bene, in un buon clima di collaborazione sin dalla prima fase. Ogni tanto il tono di voce, durante il confronto è un po’ alto. La presentazione è ottima e con battute spiritose. Molto buono il prodotto finale. Il gruppo spiega che la scelta della stagione inizialmente è stata fatta tenendo conto del colore della pallina sorteggiata. Poi, quando il gruppo ha scoperto che si doveva decidere insieme, allora ha discusso e è arrivato ad una scelta condivisa. Il debriefing Ai bambini è stato chiesto di valutare il grado di difficoltà di cinque fasi del lavoro (difficile, così così, facile). Per facilitare la lettura delle risposte, le impressioni sono state raccolte per gruppo. 1° GRUPPO: - Decidere nel gruppo: 1 difficile 3 facile - Collaborare nel gruppo: 4 facile - Preparare il collage: 2 così così 2 facile - Assegnare i ruoli per la presentazione: 1 difficile 3 facile - Esporlo ai compagni: 4 facile N.B. Cosa strana!! Nel momento della compilazione dei questionari finali, mi accorgo che C.M. risponde con la valutazione più bassa a tutte le domande. In un secondo momento le chiedo come mai, dato che mi sembrava che il gruppo avesse lavorato bene. Lei mi spiega che ha sentito poco partecipi due compagne e che ha dovuto fare tutto lei con D.C. Mi dice anche di sentirsi “più leggera” ora che ne ha parlato con me!! Domanda: “Quanti aspetti delle relazioni ci sfuggono o ci appaiono diversi??!” 2° GRUPPO: - Decidere nel gruppo: 4 difficile - Collaborare nel gruppo: 1 difficile - Preparare il collage: - Assegnare i ruoli per la presentazione: - Esporlo ai compagni: 3° GRUPPO: - Decidere nel gruppo: - Collaborare nel gruppo: - Preparare il collage:
1 difficile 2 difficile 1 difficile
2 così così 2 così così
1 facile (L.R.!!!!!) 2 facile 4 facile 4 facile
2 così così 1 così così 1 così così
1 facile 1 facile 2 facile
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- Assegnare i ruoli per la presentazione: - Esporlo ai compagni: 4° GRUPPO: - Decidere nel gruppo: - Collaborare nel gruppo: - Preparare il collage: - Assegnare i ruoli per la presentazione: - Esporlo ai compagni:
2 difficile 1 difficile
2 così così
2 facile 4 facile
3 così così 2 così così 1 così così
2 facile 3 facile 4 facile
1 così così 2 così così
2 facile 2 facile
Le osservazioni più significative, da parte dei bambini, sul debriefing sono state riportate precedentemente.
Osservazioni insegnante D. M. M. 1°GRUPPO: Lavorano bene, collaborano serenamente e democraticamente. Nella fase di presentazione del lavoro A.D. mostra segni di imbarazzo e timidezza ma contribuisce con la sua parte al resoconto del gruppo. 2° GRUPPO: S. sbuffa quando scopre che deve andare in gruppo con tutte femmine e dove non ci sono i suoi amici. Molto conflittuale la fase della consegna sulla scelta della stagione. S. e L. si scontrano spessissimo; S. tende a decidere lui e questo fa molto arrabbiare L. che a sua volta vorrebbe imporre le proprie idee. L. litiga, si arrabbia, alza la voce, a tratti si allontana dal gruppo, si mette in un angolino, piange, borbotta la sua insoddisfazione e poi rientra sempre spontaneamente nel gruppo dopo pochi minuti. S. alterna momenti di abbattimento (smette di lavorare e silenziosamente se ne sta in disparte) a momenti in cui lavora. P. e M. fanno un po’ da “cuscinetto” neutro nella situazione; P. a tratti cerca di tranquillizzare L.; entrambe mantengono un atteggiamento neutro. Il gruppo pur essendo fortemente conflittuale riesce tuttavia a proseguire il lavoro ed a portare a termine la consegna (non si arriva mai alla “rottura “perché comunque da soli i bambini riescono via via a ricucire le “crisi”). Nel momento della presentazione L. ha un atteggiamento esibizionista. L. nella fase della valutazione del lavoro scrive che “La collaborazione con il gruppo è stata per lei facile”.
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3°GRUPPO: M. litiga con V. perché ritiene che lei voglia continuamente imporsi con le sue idee... M. si mette a piangere ma poi riesce da solo a recuperare e rimettersi al lavoro. In molti momenti M. è scoraggiato per l’atteggiamento di V. (a tratti scende qualche lacrimuccia), lo esprime a parole... poi continua il lavoro. D. viene eletta all’unanimità dal gruppo per andare a scegliere il materiale occorrente per la realizzazione del lavoro... lei è visibilmente felice di questo incarico anche se mostra indecisione, insicurezza, agitazione (non sa decidere che cosa scegliere) e spesso ricerca l’aiuto del gruppo per realizzare il suo compito… i compagni, soprattutto M. e V. la aiutano. Nel gruppo M. e V. sono dominanti, mentre D. e F. sono più esecutori... D. tuttavia è molto impegnata nel lavoro e soddisfatta...V. a tratti assume un atteggiamento poco impegnato (canticchia, ride senza motivo, butta il materiale sul foglio invece di attaccarlo con cura, emette gridolini senza motivo...). F. mantiene un atteggiamento “apatico”, non mostra interesse particolare, né entusiasmo, propone idee prive di creatività (il cagnolino che disegna solitamente nelle sue produzioni spontanee). Nella fase di presentazione del lavoro D. è molto emozionata, interviene con un commento molto divertente, realistico e personale; ha mostrato per tutta la durata del lavoro un grande interesse, impegno ed un’enorme soddisfazione. Le sue interazioni verbali con il gruppo stanno diventando sempre più frequenti, pertinenti ed estese (una volta spesso interagiva con espressioni, gesti, silenzi), adesso nel gruppo si rivolge ai compagni, chiede informazioni ed aiuto, fa commenti, esprime le proprie idee. 4° GRUPPO: Decidono democraticamente il tema. Il gruppo procede nelle diverse fasi del lavoro collaborando con tranquillità. F. è un leader latente mai manifesto con l’unanime accettazione dei compagni. Ricca la presentazione finale.
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DIARIO ATTIVITÀ - 18 GENNAIO 2005 ATTIVITÀ-GIOCO: LA MACCHINA SFERA NOI CLASSE IV C MARTEDÌ ORE 10.30 -12.10 PRESENTI ALUNNI 22 SU 22
Osservazioni di M. Inizio l’attività un po’ a disagio in quanto mi ero preparata per proporne un’altra, cioè: Il giornale che va primo in edicola. In effetti non tutto mi era chiaro, ma pensavo di essere io lenta di comprendonio. Un punto di domanda erano anche i tempi di esecuzione (2ore), eccessivi per quelli che abbiamo a disposizione oggi. Ad ogni modo va bene lo stesso. Mi rileggo la progettazione dell’attività LA MACCHINA (che già conoscevo) e preparo il materiale utile. I bambini sono molto stimolati all’idea di realizzare una macchina intesa proprio come automobile. Usando striscioline di carta di tre misure vengono formati i tre gruppi che risultano abbastanza omogenei. Spiego la prima e poi la seconda fase: TUTTO BENE. Ascoltano con attenzione, osservano il materiale disponibile pensandone l’eventuale uso. TUTTI D’ACCORDO, nei tre gruppi fanno un progetto e stilano l’elenco del materiale che intendono usare. Mi avvisano che la macchina potrà però avere delle modifiche in itinere, così pure potrà succedere che utilizzino anche altro materiale. Va bene, iniziamo la terza fase, cioè la realizzazione della macchina. Osservo che tutti, come specificato nella consegna, hanno un loro compito e ne sono orgogliosi. P.R. va fiero di essere il responsabile del materiale (si era proposto lui) e partecipa attivamente, M.D. ha l’incarico di tenere sempre pronti pezzi di vari tipi di nastro adesivo, altri devono pensare ai fari, alle ruote, tergicristalli, spalmare la colla, rivestire… Procede tutto bene, anche se con un po’ di inevitabile confusione. Nel vederli così positivamente infervorati, collaborare, NON LITIGARE mi sento pure io a mio agio. Osservo un miglioramento nel lavorare in gruppo, riescono a confrontarsi, discutere civilmente, insomma collaborano. Mi dico: - Come sono cambiati da quando era stata proposta l’attività: lo stato classe! - Si vede proprio una crescita. Ribadisco però che si sono formati dei bei gruppi. La nuova bambina albanese partecipa, si diverte. S.R. partecipa bene, ma a dieci minuti dalla fine inizia a criticare i lavori degli altri; A.N. lavora, ma anche lui verso la fine dell’attività comincia a disturbare; D.N. finito il suo incarico di intagliatore, non accetta di collaborare con gli altri e si immusonisce. M.P. vuole ora dare ordini e i compagni non accettano il suo modo di fare. Per fortuna sta ormai scadendo il tempo a disposizione.
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Insomma! direi proprio che è andata bene. Il gruppo delle striscioline lunghe ha costruito un camper del quale è da rilevare la meticolosità con cui è stato rappresentato l’interno: letto con lenzuola e cuscino, box doccia, divano, volante. Il gruppo dei medi ha realizzato pure un camper con tanto di bagagliaio in cui si vedono i vestiti, tergilunotti, antenne varie. Appare la scritta: “Cane in viaggio”. Il gruppo delle striscioline corte ha fatto una 500 Baracca con due enormi marmittoni euro 10, antenne radio e telefonino, tergilunotto… Ogni gruppo mostra e spiega con orgoglio il proprio capolavoro. Riflessione di gruppo sull’attività e valutazione Il debriefing sembra confermare questa mia impressione. 19 bambini affermano di: essersi trovati bene con tutti i compagni; 2 bambini: essersi trovati bene con pochi compagni; 1 D.N.: essersi trovato bene con un solo compagno. Segue una discussione. I partecipanti al gruppo di D.N. si rammaricano di questo suo disagio, ma dicono che lui non si adattava e non accettava le loro proposte (Vero). Sono per lo più soddisfatti perché, secondo loro, hanno lavorato bene e senza litigare. Il gruppo dei lunghi (vi erano S.R. e A.N.) affermano di non essere stati molto organizzati: uno metteva e l’altro toglieva, però non hanno litigato. Sono concordi nell’affermare che costruire la macchina è stato più bello addirittura di quando è stato realizzato il Ciribin con le braghe di tela. Risultato questionario 1. Quanto i compagni hanno partecipato all’attività? moltissimo 14 63,6% molto 3 13,6% abbastanza 4 18,2% poco 1 4,6% per niente 2. Quanto hai partecipato tu all’attività? moltissimo 13 59,1% molto 6 27,3% abbastanza 1 4,6% poco 2 9,0% per niente
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3. Quanto ti sei divertito? moltissimo 18 molto 2 abbastanza 1 poco 1 per niente
8,8% 9,0% 4,6% 4,6%
4. Come ti sei sentito mentre facevi questa attività? benissimo 14 63,6% bene 5 22,8% così così 3 13,6% male malissimo 5. Con i compagni sei stato? benissimo 15 68,2% bene 4 18,2% così così 3 13,6% male malissimo 6. In questa classe quanto i bambini hanno collaborato tra loro? moltissimo 18 81,8% molto 3 13,6% abbastanza poco 1 4,6% per niente
Risposte delle due insegnanti di classe 1. Quanto i bambini hanno partecipato alle attività? moltissimo 1 50% molto 1 50% abbastanza poco per niente
“ad Agio” IPRASE del Trentino
2. Quanto, secondo te, i bambini si sono divertiti? moltissimo 1 50% molto 1 50% abbastanza poco per niente 3. Come ti sei sentito mentre facevi questa attività? benissimo bene 2 100% così così male malissimo 4. Secondo te i bambini come sono stati tra loro? benissimo 1 50% bene 1 50% così così male malissimo 5. Secondo te quanto i bambini hanno collaborato tra loro? moltissimo 2 100% molto abbastanza poco per niente
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PARTE II: LE ESPERIENZE Il gruppo come laboratorio di costruzione dell’agio
IL GIOCO SI FA SCUOLA Si riporta di seguito, a titolo esemplificativo, una scheda-gioco didattica inventata da un’insegnante del gruppo, Carla Mannarini. Titolo Obiettivi
Modalità di attuazione
Partecipanti Materiali Osservazioni e variazioni
Debriefing
Safari nei libri (gioco didattico) - suddividersi i ruoli all’interno di un gruppo mediando secondo attitudini; - lavorare in gruppo rispettando i singoli ruoli; - saper selezionare all’interno di testi dati le informazioni principali; - saper selezionare immagini adatte di arricchimento; - saper presentare il proprio lavoro ai compagni; - (nel caso della variante) saper cercare testi pertinenti in biblioteca. Si suddivide la classe in quattro gruppi. L’insegnante spiega ai bambini come dovrà suddividersi il gruppo e illustra le funzioni dei vari ruoli. Ogni gruppo decide al suo interno l’assegnazione dei ruoli valutando le attitudini di ciascun componente. I ruoli sono: BATTITORI: ricercano nei libri a disposizione le pagine riguardanti l’argomento assegnato. GUIDA: legge al gruppo e decide quali sono le informazioni fondamentali. MAPPATORE: registra le informazioni sul foglio mappa che servirà poi per la presentazione alla classe. FOTOGRAFO: disegna e o sceglie le illustrazioni che saranno fotocopiate o scandite per arricchire il lavoro. CAPOSPEDIZIONE: illustra i risultati del Safari al resto della classe. NB: adattare la quantità di battitori al numero dei componenti del gruppo. La totalità della classe suddivisa in quattro gruppi (cinque o sei bambini per gruppo). Libri riguardanti l’argomento assegnato, fogli, penne, matite, gomme, segnalibri, colori, riviste, forbici, colla. La modalità di lavoro è adattabile a qualsiasi argomento di ricerca, ma prevede che l’insegnante abbia già effettuato un preselezione del materiale. È possibile integrarla con un’uscita preventiva in biblioteca nella quale, il gruppo già formato, ricerca da sé i libri adatti sui quali lavorerà successivamente. In questo caso è opportuno cambiare i ruoli all’interno del gruppo e suddividere il “safari” in fasi. Nella fase di uscita tutti i componenti saranno battitori ed eleggeranno una guida. Nella fase successiva, in classe, i battitori diventeranno cercatori di tracce e fungeranno da lettori. La guida sceglierà le informazioni importanti. Gli altri ruoli rimarranno invariati. Non valutabile il tempo occorrente alla realizzazione. Si prepara un cartellone sul tema della giungla e tanti foglietti sagomati a forma di animale. Ogni bambino scriverà sul foglietto a sua disposizione una frase di commento sull’attività (Cosa mi è piaciuto di più?).
“ad Agio” IPRASE del Trentino
SCUOLA ELEMENTARE PIGARELLI CLASSI QUARTE PROGETTO “AD AGIO”
1. Quanto i compagni hanno partecipato all’attività? (Attenzione: fai un segno su una sola faccina!)
Moltissimo
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
2. Quanto hai partecipato tu all’attività? (Attenzione: fai un segno su una sola faccina!)
Moltissimo
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
3. Quanto ti sei divertito? (Attenzione: fai un segno su una sola faccina!)
Moltissimo
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
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PARTE II: LE ESPERIENZE Il gruppo come laboratorio di costruzione dell’agio
4. Come ti sei sentito mentre facevi questa attività? (Attenzione: fai un segno su una sola faccina!)
Benissimo
Bene
Così così
Male
Malissimo
5. Con i compagni sei stato (Attenzione: fai un segno su una sola faccina!)
Benissimo
Bene
Così così
Male
Malissimo
6. In questa classe quanto i bambini hanno collaborato tra loro? (Attenzione: fai un segno su una sola faccina!)
Moltissimo
Data
:
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
“ad Agio” IPRASE del Trentino
SCUOLA ELEMENTARE PIGARELLI CLASSI QUARTE PROGETTO ADAGIO
1. Quanto i bambini hanno partecipato alle attività? Moltissimo
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
Poco
Per niente
Male
Malissimo
Male
Malissimo
2. Quanto, secondo te, i bambini si sono divertiti? Moltissimo
Molto
Abbastanza
3. Come ti sei sentito mentre facevi questa attività? Benissimo
Bene
Così così
4. Secondo te i bambini come sono stati tra loro? Benissimo
Bene
Così così
5. Secondo te quanto i bambini hanno collaborato tra loro? Moltissimo
Data:
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
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PARTE II: LE ESPERIENZE Il gruppo come laboratorio di costruzione dell’agio
“Io-Io/Tu-Noi” L’esperienza di “ad Agio” delle scuole di Clarina e Gardolo …dalla presentazione fatta al seminario di marzo 2006 “Quando si va verso un obiettivo è molto importante prestare attenzione al cammino. È il cammino che ci insegna sempre la maniera migliore di arrivare e ci arricchisce mentre lo percorriamo”. Paulo Cohelo, Il Cammino di Santiago Eravamo motivati a partecipare al progetto “ad Agio” dal bisogno di cambiare e innovare la pratica didattica. Sentivamo la necessità di confrontarci e condividere con altri le difficoltà. Volevamo acquisire maggior consapevolezza rispetto al ruolo insegnante e maggior professionalità nell’affrontare le situazioni di disagio. Siamo partiti da qui, analizzando il disagio in tutte le sue forme: il disagio che tutti i giorni registriamo tra i bambini, il disagio di noi insegnanti, il malessere che si rileva spesso anche nell’organizzazione scolastica.
… in genere hanno poca disponibilità ad impegnarsi nelle attività scolastiche”. “…sono emotivamente fragili e a fatica riescono a riconoscere e a verbalizzare quello che provano”. “…. inoltre manca la coesione interna alla classe”. “… l’attenzione e la concentrazione sono sempre più scarse”. “… c’è poca capacità di riflettere su ciò che succede all’interno della classe”. “… c’è un egocentrismo marcato e scarso rispetto tra loro, per gli operatori e le cose della scuola”. “… fare l’insegnante è sempre più difficile, complicato. Siamo spesso ansiosi e in difficoltà”.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
“ad Agio” ci ha permesso proprio questo: di ripensare al nostro modo di essere e di fare gli insegnanti. Prima di iniziare il lavoro sui bambini abbiamo fatto un’esperienza su di noi, sul nostro gruppo. Come affrontare i dissidi tra di noi? Come integrare chi tra noi era più in disparte ed emarginato? Quanto benessere e malessere si produce all’interno del nostro gruppo? Vi illustriamo, solo per esemplificare, un esercizio che ci ha proposto la nostra conduttrice: realizzare insieme un aereo che potesse volare!! Con impegno, ma soprattutto con entusiasmo (sembravamo veramente un gruppo di bambini) ci siamo messi al lavoro: chi impartiva comandi, chi preparava materiale, chi tagliava, incollava, piegava, …. Dopo mezz’ora, come previsto dalla consegna, il prodotto era finito. L’aereo era pronto.
Effettuiamo anche la prova di volo dalle scale esterne dell’edificio: diciamo la verità, “prova di schianto”. Quindi ci soffermiamo a scambiarci le impressioni personali, le emozioni, le riflessioni sul lavoro fatto insieme. Il nostro gruppo rifletteva alcune dinamiche che ritroviamo anche in classe. Un collega ha scritto rispetto a questa esperienza: “Abbiamo parlato delle emozioni che tutti abbiamo vissuto molto intensamente nell’ultimo incontro. Il confronto diretto ha creato un movimento emotivo pesante ma salutare per la vita del gruppo. Dimostra che il nostro gruppo sta lavorando e crescendo sul piano operativo e anche su quello relazionale.
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PARTE II: LE ESPERIENZE Il gruppo come laboratorio di costruzione dell’agio
Mentre lavorare sul piano operativo ci risulta semplice, confrontarci sul piano affettivo-relazionale, sulle dinamiche e relazioni che si sviluppano tra di noi ci risulta più difficile. È una cosa nuova che però ci dà soddisfazione, perché testimonia la nostra volontà di cambiamento, il desiderio di essere ascoltati, la volontà di mettersi in gioco in uno scambio aperto e dichiarato.” Il progetto “ad Agio” ha messo in luce il desiderio di stare meglio a scuola noi e i bambini. Ma il problema da cui siamo partiti era: come intervenire, in particolare nel gruppo-classe? Allora ci siamo detti: potremmo lavorare sulle relazioni. L’obiettivo potrebbe essere quello di creare un gruppo-classe che sia in grado di accogliere, contenere e gestire i problemi al suo interno. Potremmo proporre giochi che facciano crescere nei bambini la capacità di vivere le relazioni, la capacità di stare e lavorare insieme. La relazione va però considerata a più a più livelli: prima devo esprimere me stesso per farmi conoscere, poi c’è la dimensione di coppia e infine la relazione interpersonale nel gruppo.
IL NOSTRO PROGETTO
Da queste riflessioni nasce il PROGETTO “Non solo io”, con questi obiettivi: a) sviluppare e potenziare la capacità di esprimere e gestire le proprie emozioni e/o stati d’animo; b) sviluppare e potenziare la capacità di rendersi protagonisti attivi all’interno del gruppo; c) sviluppare e potenziare la capacità di stare e cooperare in gruppo. Come strumento abbiamo deciso di utilizzare il gioco in quanto strumento ludico, ma ci siamo resi conto che i giochi dovevano essere strutturati secondo dei criteri precisi. Per prima cosa si è deciso di lavorare sulla sfera dell’IO proprio per permettere a ciascun bambino di concentrarsi sulla propria identità personale, di farsi conoscere agli altri e - a sua volta - di conoscere i compagni. Successivamente era indispensabile lavorare su giochi centrati sulla relazione di coppia IO - TU, per stimolare i bambini a sperimentarsi nelle relazioni in piccolo gruppo e, di seguito, avremmo proposto dei giochi centrati sul NOI dove si trattava di imparare a lavorare, a collaborare all’interno di un gruppo con la finalità di creare coesione e unione all’interno dell’intero gruppo classe.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Questi giochi dovevano rispettare dei criteri ben precisi: a) essere il più divertenti possibili (e quindi abbiamo inventato una serie di giochi vari e diversi); b) nella formazione delle coppie e dei gruppi si doveva usare il criterio della casualità per cui si estraevano i componenti (e questo ha determinato il fatto che tutti accettassero di lavorare con tutti, perché era una regola dettata dal gioco stesso); c) i bambini dovevano essere stimolati a diventare protagonisti dei giochi proposti nel senso che potevano decidere quanto fare, come fare e se non ne avevano voglia, potevano anche astenersi dall’attività. Da parte nostra non dovevamo quindi costringerli a partecipare e non doveva esserci nessun tipo di giudizio, nessuna valutazione su quello che i bambini andavano a fare. Un momento importantissimo è stata la nostra conduzione del gioco. Cercavamo di fare sempre le attività in compresenza, in modo che un insegnante potesse essere a disposizione dei bambini per offrire un supporto, mentre l’altra insegnante poteva prendere appunti e raccogliere osservazioni che poi sono diventate per noi motivo di riflessione e di analisi, proprio sulle dinamiche all’interno della classe. L’insegnante che doveva fare da facilitatore doveva essere il meno intrusivo possibile; se all’interno dell’attività nascevano delle problematiche queste venivano ributtate e riproposte ai bambini che dovevano cercare di risolverle all’interno della coppia o del piccolo gruppo. Un altro elemento importantissimo è stato inoltre il debriefing: alla fine di ogni gioco veniva proposto, sempre nella maniera più divertente e più varia possibile, un momento di riflessione su quello che s’era fatto. All’inizio questa attività era abbastanza facile, perché magari si chiedeva ai bambini soltanto di dire che cosa avevano scoperto del compagno, che cosa non conoscevano di lui, oppure quale momento del gioco era piaciuto loro di più o di meno. In seguito è diventato un momento di riflessione più profondo, perché si chiedeva loro di esprimere le difficoltà che avevano incontrato nelle relazioni con i compagni. Si stimolava ad esempio la riflessione con domande di questo tipo: “Qual è stato il momento più difficile? Qual è stato il momento più facile? Cosa ha funzionato all’interno del gruppo e quali sono stati gli elementi che invece non hanno funzionato? In quale fase del lavoro - tu personalmente - hai trovato più difficoltà e perché?” Le domande si susseguivano con l’obiettivo di stimolare riflessioni sempre più approfondite. Questo momento del debriefing veniva proposto in maniera divertente, con tecniche varie: ad esempio si chiedeva a ciascun bambino di scrivere le riflessioni individuali su bigliettini; poi si andavano a leggere tutti i loro commenti e si chiedeva loro di riflettere su quanto l’intero gruppo classe aveva espresso.
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PARTE II: LE ESPERIENZE Il gruppo come laboratorio di costruzione dell’agio
L’ATTIVITÀ CON I BAMBINI
Un esempio di attività con i bambini narrata da un’insegnante Spiego il gioco: “Il gioco di oggi è un gioco, sempre di “ad Agio”, che riguarda - lo potete capire anche da come siete disposti nei banchi - l’IO. Il nome di questo gioco è “Il meglio di me”. Ognuno di voi deve pensare a delle caratteristiche personali da far conoscere ai vostri compagni; una parte del vostro aspetto fisico, il vostro carattere, le vostre abitudini, le vostre emozioni e sentimenti; tutto ciò che considerate aspetti positivi e che devono rappresentare il meglio di voi stessi.” Come sempre vengono formate le coppie a caso e, al termine dell’attività, inizia la fase di debriefing. Stimolo con domande la riflessione su quanto fatto; i bambini prima scrivono poi leggono le loro osservazioni ad alta voce (ovviamente chi vuole). Per concludere viene somministrato il questionario strutturato con queste domande: 1. Quanto i bambini hanno partecipato alle attività? 2. Quanto, secondo te, i bambini si sono divertiti? 3. Come ti sei sentito mentre facevi questa attività? 4. Secondo te i bambini come sono stati tra loro? 5. Secondo te quanto i bambini hanno collaborato tra loro? La discussione seguita è stata molto importante. Riflessioni tratte dai diari degli insegnanti “Per la prima volta credo che i bambini abbiano veramente capito che cosa stiamo facendo e soprattutto quand’è che si trovano in difficoltà. Oggi lavoravano da soli e si sono accorti che c’è stata grande armonia. Nei questionari ho notato una cosa straordinaria. Di grande positività. I due bambini che nella coppia si sono trovati così male, inconcludenti e litigiosi, hanno riconosciuto il loro fallimento ma nello stesso tempo hanno apprezzato il lavoro degli altri: le prime volte che si facevano questi giochi tendevano a distruggere anche il lavoro dei compagni. Complimenti a quei due bambini da parte mia.” “La ricreazione che è seguita all’attività in classe è stata in sintonia con il clima vissuto durante il lavoro: i bambini hanno infatti giocato insieme come poche volte era successo.” “Nella fase di presentazione del lavoro D. è molto emozionata, interviene con un commento molto divertente, realistico e personale; ha mostrato per tutta la durata del lavoro un grande interesse, impegno ed un’enorme soddisfazione. Le sue interazioni verbali con il gruppo stanno diventando sempre più
“ad Agio” IPRASE del Trentino
frequenti, pertinenti ed estese (una volta spesso interagiva con espressioni, gesti, silenzi), adesso nel gruppo si rivolge ai compagni, chiede informazioni ed aiuto, fa commenti, esprime le proprie idee.” “In un gruppo di bambini c’è stato un lungo periodo conflittuale nella fase di progettazione. Questo aspetto è stato rilevato da tutti i componenti come parte negativa dell’attività al momento della valutazione. In realtà è stata, a mio parere, la parte più costruttiva perché ha stimolato alcuni a prendere posizione, a fare proposte per mediare e ad assumersi il compito di coordinatori. Questo alla fine è stato il gruppo che ha lavorato meglio, ha realizzato il prodotto più grande e ammirato, ed è stato molto soddisfatto del lavoro svolto.” “Durante queste attività di “ad Agio” sono emerse molte cose interessanti sugli atteggiamenti dei singoli bambini e si è mostrato molto evidente il bisogno di lavorare con persistenza sul gruppo-classe.” “Alla fine della mattinata io ero sfinita e sono tornata a casa con un forte mal di testa.” “È stato molto interessante e utile ciò che abbiamo fatto ma anche molto faticoso.” Ormai come tutti i martedì, i bambini attendono con entusiasmo questa attività. “Noi insegnanti ci siamo divertite assieme agli alunni. Durante queste attività, sempre più possiamo conoscere i nostri bambini e, soprattutto, loro, dato che giocano, possono esprimere se stessi.” “Chiaro che se tra i bambini sorgono problemi e chiedono il nostro aiuto, noi dobbiamo ributtare loro la palla in modo che provino a trovare da soli una soluzione..” “Sarà difficile non cedere alla tentazione di intervenire, di sostituirli, di guidarli.” “Anche la riflessione sul gioco non deve essere un compito noioso!! Deve creare piacere e aspettativa, ogni volta deve svolgersi con modalità diverse” Il gioco diventa scuola Quest’anno abbiamo deciso di proseguire con il lavoro di “ad Agio” sia su un piano di manutenzione socio-affettiva, quindi continuando con questi giochi IO - TU - NOI (soprattutto, puntando sul NOI perché abbiamo visto che è uno dei punti più difficili), sia cercando di “contagiare” l’ attività didattica con queste nuove capacità che, come docenti, abbiamo acquisito. Stiamo costruendo quindi dei giochi didattici strutturati con la stessa modalità utilizzata per i giochi relazionali. Abbiamo deciso inoltre di introdurre il questionario come elemento di valutazione anche delle attività didattiche cosiddette ordinarie, proponendo ai bambini un questionario leggermente variato perché parla in parte di didattica e
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non soltanto di emotività. Il questionario viene somministrato sia dopo attività di gioco specifico, sia dopo attività di prassi come esercitazioni, proposte da parte nostra di nuovi argomenti o come valutazione rispetto ad un’uscita sul territorio. In questo nuovo tipo di questionario viene valutato il gradimento dei bambini verso l’attività, il livello di impegno che loro ritengono di aver profuso nel momento in cui facevano il lavoro proposto, la percezione del livello di collaborazione presente all’interno del gruppo classe. Inoltre abbiamo introdotto una valutazione sull’insegnante. Abbiamo chiesto ai bambini di valutare anche il nostro modo di condurre l’attività con loro. Questo è uno degli esiti di un processo molto lungo portato avanti in questi anni con il progetto “ad Agio”; un processo che ci ha permesso di sviluppare una maggior consapevolezza professionale. Ci siamo resi conto che, nel momento in cui noi riusciamo ad avere un nuovo atteggiamento nei confronti dei bambini contribuiamo a modificare il clima della classe. Dopo questo percorso ci sentiamo in qualche modo più sereni perché abbiamo scoperto che riusciamo a ideare e costruire degli strumenti didattici che ci permettono di affrontare con più tranquillità le situazioni di disagio. Questo nuovo modo di “essere insegnanti” e questa capacità di riflettere anche sullo stile che noi abbiamo di conduzione dell’attività in classe, ci ha quindi permesso di creare una situazione di maggior agio e di maggior benessere nei bambini anche durante l’attività scolastica quotidiana.
VERSO LA CONCLUSIONE
Il progetto “ad Agio”: - ci ha consentito di ripensare al nostro ruolo, al nostro modo di porci e relazionarci con il disagio e con la classe; - abbiamo visto noi stessi e i bambini con occhi diversi e nuovi; - abbiamo imparato a essere meno intrusivi, a sviluppare l’orizzontalità, cioè lo scambio ed il confronto all’interno della classe;
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- abbiamo imparato a inventare e a costruire giochi di gruppo per sviluppare le relazioni all’interno della classe e poi giochi didattici per rendere più accattivanti gli apprendimenti disciplinari; - abbiamo imparato a lavorare sul gruppo-classe come sistema e non solo sui singoli bambini; - abbiamo capito che un bambino che manifesta disagio ci segnala che qualcosa non sta funzionando nel gruppo-classe ed è proprio sulla classe - come sistema di relazioni - che possiamo intervenire per migliorare il benessere di tutti; - abbiamo lavorato in gruppo e imparato anche ad affrontare i disagi e le difficoltà nelle relazioni tra colleghi.
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In un progetto ci sono anche punti di debolezza: uno dei disagi che come insegnanti abbiamo riscontrato è stato determinato dal tempo di svolgimento delle attività: i tempi previsti per ciascun gioco - che avevamo stabilito in programmazione - non sempre corrispondevano a quelli del reale svolgimento dell’attività; gli spazi di condivisione collegiale della scuola, essendo ridotti, non hanno alcune volte permesso una programmazione accurata; abbiamo spesso preparato le schede dei giochi individualmente e poi non abbiamo avuto tempo sufficiente per confrontarci; l’Istituto non era sufficientemente coinvolto nel progetto; abbiamo trovato difficile coinvolgere più colleghi di quanto avremmo voluto; forse il progetto non è stato adeguatamente considerato all’interno della scuola.
Comprendere il disagio e creare agio attraverso un percorso come quello che abbiamo fatto noi è faticoso ma affascinante e ha fatto crescre tutti, bambini e insegnanti.
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Agire consapevoli: la pratica riflessiva come strumento di crescita professionale Il percorso del gruppo N. 3 Massimiliano Tarozzi
Ha scritto una maestra nel suo diario compilato al termine di una delle attività di “ad Agio”: Pazzesco! Oggi è successa una cosa bellissima, di quelle che ti “caricano” alla grande. Franco,1 scendendo le scale, ha detto a Sara, la sua compagna “di fila”: “Ah! Scusa se ti ho stretto la mano. Mi son dimenticato che nel gioco mi avevi detto che di me è proprio quello che non ti piace”. Sono andata a rileggere il pensiero che aveva espresso nel gioco, ed era proprio vero! Sara, ha scritto a Franco: “Di te mi piace tutto perché sei un simpaticone, ma mi dà fastidio quando mi stringi troppo la mano quando siamo in fila. So che scherzi, ma mi fai male!!!” Beh…è una piccola, ma bella soddisfazione! In realtà ciò che questo episodio rivela è ben più di una piccola soddisfazione, ma si configura come un passaggio emblematico del modo in cui il progetto “ad Agio” funziona nella gestione del disagio. Dissezionando attentamente ciò che racchiude questo momento di vita scolastica, accuratamente osservato e puntualmente annotato dall’insegnante, possiamo esplicitare una serie di elementi caratteristici dell’approccio metodologico del progetto, cosi come è stato declinato nelle attività di questo gruppo di insegnanti. Ne evidenzieremo solo alcuni, riferiti prima ai bambini, poi ai docenti, non senza aver prima sottolineato il successo del fatto in sé, che rivela il raggiungimento di una serie di obiettivi intenzionalmente posti. Sui bambini: 1. Sara, nell’ambito del setting didattico predisposto dalle insegnanti, ha comunicato un sentimento scomodo da esprime1
Nome di fantasia come tutti quelli di bambini riportati nel testo.
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re, ha trovato la consapevolezza per riconoscerlo e la forza di metterlo in parola. Franco ha ascoltato e ne ha fatto tesoro. 2. Franco, il giorno successivo, mostra non soltanto di ricordare quanto emerso dal gioco, ma soprattutto dimostra di saperlo applicare in un altro contesto. E saper applicare ad altri contesti informazioni, competenze e comportamenti è un altro modo per dire apprendimento. Sulle insegnanti: 3. L’insegnante prima di tutto ha colto immediatamente un episodio che poteva sembrare irrilevante e che molto probabilmente, in altri momenti sarebbe sfuggito. Poi ne ha avvertito la significatività, lo ha annotato e riportato, esibendo in tal modo capacità di ascolto, di analisi, di accoglienza. 4. L’insegnante mostra di possedere strumenti e competenze che le consentono di rilevare, annotare e valutare episodi estremamente importanti per la costruzione di un clima di classe caratterizzato dal benessere. 5. L’insegnante considera quanto successo come una soddisfazione personale. Al di là del raggiungimento dell’obiettivo, vi è la consapevolezza dell’efficacia del proprio intervento, priva di visioni onnipotenti (è “una piccola” soddisfazione), che si esprime attraverso un sentimento (la soddisfazione) che l’insegnante a sua volta sa esprimere. Lavorare sui microcambiamenti
“ad Agio” è un progetto che opera su miniature più che su grandi affreschi, sull’accumulo invisibile di micro-cambiamenti più che su clamorose svolte strutturali, ma l’impatto trasformativo di un paziente lavoro di un gruppo di insegnanti elementari all’interno della cornice del progetto è tangibile, anche se esplicitarne i contorni non è sempre facile. Nelle pagine che seguono si cercherà di dar conto proprio di questo impatto trasformativo, degli esiti, degli elementi qualificanti di un progetto durato tre anni, che si configura come un viaggio esperienziale e che richiede, in sede di bilancio finale, di disarticolarne gli elementi per renderli fruibili a chi quel viaggio non ha compiuto negli stessi luoghi e nello stesso tempo. Tale lavoro di sintesi, benché arduo, è tuttavia possibile perché questo viaggio si è caratterizzato come un itinerario di ricerca e quindi,
“ad Agio” IPRASE del Trentino
sin dal suo principio, è stato accompagnato da puntuali, meticolose e rigorose note, da un mappa metodologica attenta, oltre che da periodiche riflessioni di rielaborazione dei vissuti.
NOTA METODOLOGICA 1. Cronologia degli eventi
Il gruppo 3 del progetto “ad Agio” è composto dalle insegnanti di due classi delle scuole elementari di Predazzo (inizialmente una IV, poi divenuta una V e infine una nuova prima) e di Lavis (inizialmente una II, accompagnata fino alla IV) e condotto lungo tre anni scolastici a partire dall’anno scolastico 2003-04. Dopo un primo semestre di assestamento dedicato alla formazione e al consolidamento del gruppo di lavoro ci si è inizialmente dedicati a una riflessione sulla nozione di “disagio”. Se ne è immediatamente vista l’estrema ampiezza e ambiguità semantica e da qui sono stati estratti i significati di disagio che maggiormente corrispondevano alle situazioni reali delle due classi coinvolte. Ne è emersa una centratura particolare sulla dimensione emozionale.
I partecipanti
L’analisi esplorativa sulla nozione di disagio è stata poi incrociata con un’analisi di situazioni difficili complesse (inizialmente centrate su casi) al fine di individuare le priorità del progetto e ritrovare le declinazioni del disagio che risultavano significative nei contesti (inizialmente vissuti come molto problematici) e in funzione di un intervento. All’interno del gruppo 3 si è deciso di procedere parallelamente per due sottogruppi riferiti alle due classi, Predazzo e Lavis, con due piani d’azione paralleli, legati ai contesti specifici, ma all’interno di un medesimo impianto concettuale, teorico e metodologico condiviso negli obiettivi, nei metodi, negli strumenti e nelle modalità di verifica e valutazione nell’ambito del gruppo esteso.
Verso
I due progetti avevano i seguenti oggetti: Predazzo: per i primi due anni è stato attivato il progetto dal titolo “star bene è…” che ha coinvolto i 40 alunni delle due classi quinte e due insegnanti in particolare. Un progetto finalizzato a “Creare una
la progettazione
Nella scuola di Predazzo
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buona qualità della vita scolastica, mediante attività che mirino ad individuare il disagio e le sue manifestazioni, per riconoscerlo e superarlo” attraverso attività a cavallo tra il curricolare e l’extracurricolare “in cui ognuno possa esprimere idee, stati d’animo, emozioni in modo accettabile e si senta ascoltato, accolto e rispettato”. Il progetto intendeva rispondere al bisogno sorto sulla base di un particolare caso difficile che aveva un impatto fortemente negativo sul clima complessivo di classe. Attraverso la costruzione di un contesto specifico e l’adozione da parte degli insegnanti di un particolare stile educativo, di modalità di valutazione interattiva e emozionale, sono state proposte ai bambini attività che hanno accompagnato con periodicità settimanale tutto l’anno scolastico. Tali attività erano incentrate sull’educazione emozionale e relazionale (ad esempio: “Una persona mi piace quando… Una persona non mi piace quando…”, il Diario delle “carezze”, Giochi sulla valorizzazione di sé), ma il tratto qualificante del progetto specifico non era tanto il tipo di attività proposte, quanto la costruzione di un contesto accogliente su cui intervenire per innalzare la soglia di benessere. L’ultimo anno, i 23 alunni di una prima sono stati coinvolti in un progetto dalle caratteristiche decisamente simili a quello degli anni precedenti, con ovvi adeguamenti in ragione dell’età dei bambini. Fermo restando quindi l’impianto metodologico (l’attenzione al contesto, agli stili, alla valutazione emozionale), sono mutati i contenuti, questa volta incentrati su argomenti di educazione ambientale e alimentare che hanno trovato nella montagna uno sfondo integratore (ad esempio gli animali di montagna, le api, i dolci, la cioccolata). Nella scuola di Lavis
Lavis, che partiva da una seconda particolarmente difficile in ragione di alcuni casi complessi (e uno in particolare), ha proposto un progetto dal titolo “Oggi giochiamo con”, rivolto a 25 alunni di una seconda e che ha coinvolto tutte le insegnanti del team, nonché gli assistenti educatori. Anche qui la finalità generale era riferita alla costruzione di un buon clima di classe, ma erano presenti anche obiettivi più specifici riferiti all’individuazione e alla sperimentazione di “buone pratiche volte a ridurre il disagio”. Il tema scelto per le attività, nell’ambito dell’educazione alimentare, è stato “la cioccolata”, vista nelle sue tradizioni, nei suoi usi e in alcune ricette. L’attenzione è stata
“ad Agio” IPRASE del Trentino
gradualmente spostata sul piano delle emozioni. Anche qui il tema non era l’elemento qualificante del progetto, quanto piuttosto il pretesto per la creazione di un setting particolare, l’adozione di uno stile educativo differente, di una modalità di gestione del gruppo classe e di valutazione delle attività. L’ultimo anno, Lavis ha adottato il progetto sviluppato nell’anno precedente a Predazzo (“Star bene è…”), ovviamente adeguato al nuovo contesto (una quarta di 25 bambini), ma mantenendo obiettivi, metodi e molte delle attività realizzate con successo nella scuola di Predazzo. Con cadenza circa mensile il gruppo 3 si è trovato per riunioni di supervisione sull’andamento del progetto, di discussione sui casi, di riprogettazione, da marzo 2004 fino a maggio 2006. La finalità generale del progetto elaborato dal gruppo intendeva promuovere un benessere diffuso nella classe mediante attività che mirassero ad individuare il disagio e le sue manifestazioni, per riconoscerlo e superarlo. Dunque non si mirava alla produzione di qualcosa ma ad alzare la soglia del benessere in classe. In questo senso, la finalità è sempre stata strettamente collegata al metodo e da esso non distinguibile. Alla fine del primo anno di ricerca, il progetto congiunto delle due scuole è stato poi presentato e finanziato dalla Fondazione Caritro. Con il secondo anno, le due scuole (che nel frattempo vedevano coinvolte una classe IV e una prima) si sono scambiate i rispettivi piani d’azione. Tutto il lavoro è stato attentamente documentato e periodicamente monitorato attraverso l’impiego di strumenti di osservazione e di autoriflessione costruiti e testati dal gruppo, che rappresentano il cuore più autentico del progetto. 2. La costruzione e il consolidamento del gruppo
Sin dalle prime battute il lavoro per la costruzione e il consolidamento del gruppo ha rappresentato una priorità e un tratto distintivo del progetto, poiché la possibilità di successo stessa del progetto così come era stato concepito richiedeva un gruppo coeso e motivato. In questo senso le riunioni di supervisione sono state anche finalizzate alla costruzione e al consolidamento del gruppo.
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PARTE II: LE ESPERIENZE Agire consapevoli: la pratica riflessiva come strumento di crescita professionale
Il gruppo come elemento di cambiamento
Il gruppo a leadership democratica
Tuttavia, da questo punto di vista, la situazione di partenza del gruppo 3 era particolarmente difficile per ragioni esterne al gruppo e anche interne. Innanzitutto si è registrata da principio una notevole difficoltà, che ha pesato particolarmente su questo gruppo, a individuare i partecipanti e a stabilire con precisione le scuole e le sezioni coinvolte. Di fatto il gruppo è stato formato solo con il settembre 2004. Inoltre la mobilità del personale, soprattutto in una delle due scuole, ha visto mutare più volte i team di riferimento con evidenti difficoltà nel consolidamento del gruppo. Più in generale, non si possono ignorare le oggettive difficoltà dovute alle notevoli distanze geografiche (una scuola a Lavis, a nord di Trento; una a Predazzo, in Val di Fiemme) che richiedevano a chi veniva da Predazzo per partecipare alle riunioni di supervisione e ai seminari di grande gruppo, oltre un’ora e mezza di viaggio ogni volta per strade di montagna, disagevoli e in condizioni atmosferiche spesso avverse, coniugate all’incompatibilità di orari (una classe a tempo pieno, l’altra a modulo). Dopo un primo tentativo di individuare una sede per gli incontri che fosse a metà strada (Mezzolombardo), si è preferito tenere tutte le riunioni presso la scuola di Lavis. Queste difficoltà esterne si aggiungevano a ovvie difficoltà interne sia al gruppo, sia per un periodo, all’interno dei due sotto-gruppi delle due scuole. Tutte queste considerazioni hanno spinto a considerare prioritario e periodicamente necessario il lavoro per promuovere la tenuta del gruppo, la sua motivazione, la sua capacità di cooperazione, di impegno collettivo e di responsabilità reciproche, la definizione dei ruoli (soprattutto nei confronti del coordinatore). Rispetto a quest’ultimo punto, va osservato che la scelta di costituire un gruppo paritario in cui il tutor supervisore non si configura come un esperto dotato di sapere, ma come un titolare di un ruolo differente, è strettamente connessa al tipo di approccio metodologico scelto. La ricerca-azione rifiuta la distinzione fra ricercatore (detentore di un sapere) e soggetti della ricerca (passivi e privi di competenza), ma si fonda proprio, specie nelle sue declinazioni partecipative, sull’attribuzione di competenza specifica ai partecipanti. Il riconoscimento di questa competenza ha richiesto la costituzione di un particolare tipo di gruppo, a leadership democratica, che consentisse di attenuare
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le conflittualità interne, rinforzare l’autonomia dei partecipanti (poca dipendenza dal tutor), lasciar spazio all’emergere del maggior numero di proposte possibile, restituire un profondo senso di soddisfazione e di benessere per le attività svolte (sentirsi a proprio agio alla fine di ogni incontro). L’effetto di questo tipo di gruppo è una produzione quantitativamente più scarsa di quella proveniente da gruppi a leadership autoritaria, ma con maggiori possibilità di approfondimento qualitativo. Premesse indispensabili, queste, per costituire un gruppo non solo coerente con la cornice metodologica scelta (la ricercaazione), ma anche un gruppo capace di condurre una progettazione educativa e di gestire gli esiti trasformativi sul piano didattico. 3. La nozione di disagio
La sensibilità, la consapevolezza e l’attenzione per il fenomeno del disagio scolastico sono cresciuti esponenzialmente nel corso degli ultimi anni tanto fra gli operatori quanto fra gli esperti e la produzione scientifica e didattica su questo tema è ogni anno più massiccia: ricerche, classificazioni delle varie tipologie di disagio sul piano psicologico, sociologico, pedagogico, la gestione delle dinamiche di classe e l’intervento su casi specifici. Tuttavia, benché uno sguardo specialistico sia un’esigenza irrinunciabile, specie di fronte a casi particolarmente difficili o a fronte di situazioni di emergenza, la premessa condivisa dal gruppo da cui si è partiti o ciò cui si è pervenuti con un lavoro di esplorazione della nozione di disagio di cui si dirà fra breve, è che il disagio scolastico si configura anche come una questione complessiva, multiprospettica, dai contorni indefiniti e non sempre riducibile, pena drammatiche semplificazioni, ai suoi elementi essenziali che le singole prospettive e approcci disciplinari richiedono e generano. Per questo il gruppo ha dedicato il primo semestre a una riflessione sulla nozione di “disagio”. Se ne è immediatamente vista l’estrema ampiezza e ambiguità semantica e da qui sono stati estratti i significati di disagio che maggiormente corrispondevano alle situazioni reali delle due classi partecipanti (cfr. Tabella alla pagina seguente).
Custodire la complessità e vedere i significati reali
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CHI 1) stranieri (anche in quanto vittime del razzismo) 2) disagio di origine familiare • ipercura • trascuratezza • maltrattamenti • malattia dei genitori • perdita dei genitori • separazione dei genitori • nascita di un fratellino 3) di origine socio-culturale 4) vittime di abusi • sessuale • psicologico • fisico (maltrattamenti) • bullismo 5) insegnanti 6) disabili • fisico • cognitivo • malattia mentale grave 7) disagio psicologico • malattia mentale lieve 8) difficoltà di apprendimento • cognitivo • fisico (bambini impacciati) 9) vittime di traumi (terremoti, visioni terrificanti, traumi fisici) 10) vittime di malattie • croniche (asma, diabete, epilessia, emofilia…) • gravi
COSA Richiede attenzioni Iperattività Si sente inadeguato Ricerca di autonomia Gregari Violenza Ansia da prestazione Paura Stress/stanchezza Demotivazione Non supportati (genitori, famiglie, dirigenti) Aggressione/depressione Depressione Insicurezza Infantilismo Paura di crescere Timidezza Scarsa capacità di socializzazione Disturbi alimentari (bulimia, anoressia)
COME Gioca col materiale scolastico Interviene sempre/interrompe Fischia/canta Gironzola per la classe Stuzzica i compagni Lavora solo se stimolato Sta sempre zitto Atteggiamenti aggressivi (verso sé; verso i compagni) Atteggiamenti di sfida (verso i compagni; verso l’insegnante) Si dondola sulla sedia Rosicchiare Ostentazione di sicurezza Violenza verbale e fisica Crisi “isteriche” Rifiuto di venire a scuola Somatizzazione - malattia inventata Pipì Rubare Affetto esagerato Apatia Scoppi di pianto Disorganizzazione Incapacità di concentrarsi - distrazione Dice bugie
DOVE Lezione frontale (per alcuni disagi) Palestra (per la fisicità) Mensa Aule piccole (spazi inadeguati, come la corriera)
Tabella 1: Ricognizione partecipata sul concetto di disagio: esito dell’esplorazione fatta il 29 aprile 2004 QUANDO Momenti altamente destrutturati Ricreazione lunga NON in gita o con attività manuali
222 PARTE II: LE ESPERIENZE Agire consapevoli: la pratica riflessiva come strumento di crescita professionale
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Dopo aver evidenziato i soggetti del disagio, le forme della sua manifestazione e i sintomi, si è tentato di assumere tutta la complessità di questa nozione in una sorta di definizione situata, adeguata ai contesti presi in esame, e rispondente alle problematiche che rappresentavano una priorità irrisolta per le insegnanti coinvolte. Per pervenire a tale definizione procedurale e operativa, il lavoro del gruppo non era teso a rinchiudere una costellazione di fenomeni diversificati in una rigida definizione, ma intendeva invece rendere esplicite le ambiguità semantiche, le limitazioni degli sguardi monodisciplinari, la difficoltà di distinguere sintomo e problema, effetto e causa, comportamenti normali e a rischio. Ciò perché nel corso di tutto il progetto è emerso chiaramente, e tale consapevolezza è stata ben assimilata da tutto il gruppo divenendo competenza, che mentre gli approcci specialistici richiedono di definire, distinguere, puntualizzare, e di conseguenza si progettano interventi individuali, gestiti da esperti, centrati su bisogni speciali, il gruppo ha scelto di assumere il disagio così come esso appare, legato ai contesti specifici e ai vissuti, al suo impatto. In altri termini, il disagio non è, per gli insegnanti e per la scuola, un incidente, uno scarto, un’eccezione, ma un indizio da interrogare, un fatto strutturale della scuola, che la scuola forse non solo tenta di accogliere ma in gran parte genera. È l’esito di processi di significazione tanto degli alunni, quanto degli insegnanti. Si assume quindi una prospettiva che interpreta il disagio (scolastico) nell’ambito di un “disagio diffuso”, non occasionale, legato a singoli casi eclatanti, ma segno di una generale difficoltà di crescere che la società richiede e che la scuola non sempre riesce ad ascoltare. Dire che gli approcci specialistici riducono il problema a misura dei propri strumenti di intervento, o rifiutare un paradigma causalistico finalizzato alla spiegazione, alla definizione delle cause, alla produzione di diagnosi, rilevare in sostanza che il termine “disagio” è un termine vago e indefinibile, sfuggente e confusivo, non significa però dire che il disagio a scuola non esista. Anzi significa assumerlo nella sua globalità, intenderlo soprattutto per il suo significato sia per chi lo esprime, sia per chi ne condivide le forme di espressione (la classe), sia per chi si trova a doverlo gestire, contenere, ridurre (insegnanti). In altre parole, il lavoro di scavo sulla nozione di disagio ha portato a rifiutare ogni definizione riduttiva e semplicistica, ha rivelato la
Il disagio diffuso elemento strutturale della scuola
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PARTE II: LE ESPERIENZE Agire consapevoli: la pratica riflessiva come strumento di crescita professionale
complessità della nozione, ma al tempo stesso ha ridato centralità ai soggetti e ai loro vissuti. Dire che il disagio è una nozione confusiva, in sostanza, non riduce l’effettivo vissuto di sofferenza di quel bambino, né le difficoltà che questa riverbera sulla classe e sugli insegnanti. Certo, lo ribadiamo ancora una volta, esistono, e vanno trattati di conseguenza, casi di disagio grave, per i quali è opportuno un intervento specialistico che ne specifichi e puntualizzi le caratteristiche. Ma non è questo che si chiede alla scuola e agli insegnanti. Centratura sulla dimensione emozionale
Il disagio del bambino e il disagio dell’insegnante
Spostata quindi l’attenzione dalle caratteristiche oggettive del disagio, le sue cause, i suoi sintomi alle ricadute sui vissuti dei bambini singolarmente e, soprattutto, sui contesti-classe in cui sono inseriti, ne è emersa una centratura particolare sulla dimensione emozionale. La classe si è imposta come unità minima di intervento sul disagio e il piano emotivo, terreno visibile dell’attribuzione intenzionale di senso, è apparso come il luogo in cui il disagio si esprime, ma anche il luogo in cui il disagio può essere accolto e gestito. Dal confronto su casi è emerso come il piano delle emozioni sia alla base di comportamenti devianti e della percezione del disagio (tanto degli insegnanti, quanto dei bambini). Il gruppo ha maturato l’idea che il disagio si esprima attraverso emozioni e sia collegato alla difficoltà di gestirle. In particolare, il disagio si manifesta quando le emozioni si traducono in comportamenti e la ricaduta di quei comportamenti sui vissuti di tutti gli attori è anch’essa espressa attraverso emozioni. Cioè il disagio non è legato alle singole tipologie, che pure abbiamo elencato e sistematizzato, o a specifici soggetti, oggettivamente più a rischio di altri, ma a modalità di attribuzione di senso a sé e agli altri che trova nelle emozioni la propria forma di espressione e al tempo stesso la capacità di contenimento. La definizione del disagio interessa relativamente il gruppo. È utile e importante in quanto chiarificazione terminologica e riduzione dell’ambiguità connessa a un termine dall’alone semantico sempre più vasto e sfuggente. Ma gli aspetti classificatori, di per sé, non interessano. Interessa invece chiarire il punto di vista degli insegnanti coinvolti, raccogliere quello dei bambini e, possibilmente anche quello dei genitori. L’analisi esplorativa sulla nozione di disagio è stata poi incrociata con un’analisi di casi reali al fine di individuare le priorità del progetto
“ad Agio” IPRASE del Trentino
e ritrovare le declinazioni del disagio che risultavano significative nei contesti in cui ci si proponeva di intervenire. In questa fase hanno pesato non poco alcuni casi che si configuravano come particolarmente gravi se non come vera e propria emergenza. La percezione iniziale del disagio delle insegnanti traeva origine da alcuni casi specifici, indubbiamente problematici, ma che impedivano di vedere la situazione nel suo complesso. D’altra parte, poiché quella era la percezione del problema, di lì bisognava partire. Un caso iniziale a Predazzo, nel tempo poi fortemente ridimensionato e un’emergenza a Lavis legata all’inserimento in seconda di Gianni, bambino multiproblematico, che proveniva da un’esperienza scolastica particolarmente traumatica e che ha immediatamente riversato sulla nuova classe tutto il suo malessere. Queste discussioni intorno alla nozione di disagio, avevano una finalità precisa di tipo procedurale: elaborare un piano d’azione da eseguire a scuola. La finalità pragmatica, e i tempi dettati dai calendari scolastici sono stati molto importanti per finalizzare la discussione e ricondurla entro binari di proposta concreta, ancor prima che gli obiettivi divenissero perfettamente chiari. Come si vedrà, è stato il piano della prassi nel tempo lungo di “ad Agio”, interrogato attentamente e intelligentemente, a far emergere una visione chiara e a produrre sapere consolidato. Per arrivare poi alla definizione di un progetto e renderlo effettivo si sono analizzati sistematicamente i punti deboli e i punti di forza dei due contesti. Dal rilievo delle differenze strutturali dei due ambiti, si è deciso di procedere parallelamente nei due contesti, Predazzo e Lavis, definendo al tempo stesso alcuni precisi tratti comuni di tipo processuale che, nel tempo, si sono rivelati i fattori distintivi e peculiari del progetto al di là degli elementi di contenuto, ovviamente più specifici e legati ai singoli ambiti applicativi.
IL PROGETTO 1. Dalla nozione di disagio al progetto
L’occasione di concorrere ai finanziamenti promossi dalla Fondazione Caritro, nella primavera del 2005, per i progetti di innovazione scola-
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PARTE II: LE ESPERIENZE Agire consapevoli: la pratica riflessiva come strumento di crescita professionale
stica è stata importante nella misura in cui è servita a riflettere sugli elementi comuni dei due progetti per individuare un impianto condiviso a sostegno di attività differenti. Ancora una volta, l’attività progettuale, in quanto occasione di riflessione finalizzata alla produzione di azione educativa, ha consentito di coagulare le discussioni, stabilire punti fermi da fissare entro i paletti di un intervento che non solo doveva “funzionare” a scuola ma, in questo caso, doveva anche convincere una commissione della sua fondatezza, originalità, pertinenza e fattibilità. Come si vedrà l’occasione è stata ben più importante del finanziamento effettivamente ottenuto, ma ha rappresentato un primo riconoscimento esterno del lavoro del gruppo, rinforzando visibilmente l’autostima e la motivazione di tutti i componenti, ma più profondamente, lavorando per la costruzione di quell’empowerment che rappresenta uno dei tratti distintivi dell’intero “ad Agio”. Il progetto, comune ai due contesti nella sua cornice metodologica e nell’impianto teorico, mirava a creare una buona qualità della vita scolastica, mediante attività che puntassero “ad individuare il disagio e le sue manifestazioni, per riconoscerlo e superarlo; rispondere alle esigenze dei bambini, creando un ambiente che faciliti relazioni positive sia con gli adulti che fra coetanei, in cui ognuno possa esprimere idee, stati d’animo, emozioni in modo accettabile e si senta ascoltato, accolto e rispettato”. Alzare la soglia del benessere in classe
In fase di progettazione è emerso con maggiore chiarezza, e con più convinta consapevolezza che la finalità principale non era la produzione di qualcosa ma alzare la soglia del benessere in classe. O per meglio dire si è osservato che l’atto stesso del progettare ha consentito di rafforzare la consapevolezza intorno a questo obiettivo. Appariva chiaro, a questo punto, che se questo era lo scopo, la finalità si configurava strettamente collegata al metodo e non era da esso in alcun modo distinguibile. Si è riconosciuto che i due gruppi, Lavis e Predazzo, ora condividevano a pieno metodi e strumenti e che quindi la progettazione, a parte gli aspetti di contenuto differenti e alcuni, piccoli particolari organizzativi, poteva essere sostanzialmente identica, e riportare molti passaggi comuni. Pur nell’ambito di un medesimo impianto concettuale, teorico e metodologico i due progetti di lavoro, descritti in maniera precisa e
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puntuale (oltre che estremamente dettagliata) differivano solo in alcuni punti i quali, peraltro, sono stati trasformati in ottime occasioni di confronto e di sviluppo partecipato del progetto generale. Tali punti di divergenza, nella pratica si possono riassumere nei seguenti: • il progetto di Predazzo prevedeva un’uscita dalla classe, a Lavis no, anche per limiti strutturali di spazio della scuola; 2 • a Lavis non si divideva la classe in sottogruppi (il che favoriva però la presenza simultanea di più insegnanti, alcuni con il ruolo di osservatore); • per il punto precedente a Lavis gli insegnanti erano sempre in compresenza durante le ore di “ad Agio”, a Predazzo invece si dividevano nei due sottogruppi; • a Lavis potevano contare su due ore consecutive una volta a settimana, a Predazzo due ore separate, due volte a settimana. Per il resto titolo (“Star bene è…”), tema generale, finalità, metodi, strumenti di verifica e documentazione erano comuni. Difficilmente, senza l’occasione di questo bando, ci sarebbe stato lo stimolo per fondere i due percorsi così strettamente, viste le oggettive difficoltà di comunicazione e l’estrema diversità dei due contesti. 2. Discussione sui casi
Terminata la fase di costruzione progettuale, predisposti gli strumenti di documentazione, avviati i progetti nelle due scuole, gli incontri di supervisione sono stata l’occasione per discutere casi problematici via via emersi, a partire dalla lettura dei diari e delle documentazioni raccolte. In particolare si è scelto di gestire questa fase a partire da incidenti critici. A turno, ciascuno dei due sottogruppi presentava una pagina del proprio diario compilato al temine delle attività di “ad Agio” svolte a scuola, che raccontava un episodio particolarmente negativo, nel quale l’insegnante si era sentito sconfitto e privo di strumenti. E poi un altro episodio ciascuno in cui, invece, si descriveva e commentava
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A Lavis, nel secondo anno, era stato allestito uno “spazio morbido” nella classe e si utilizzava anche l’aula predisposta per un alunno con handicap grave.
Incidenti critici
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un caso positivo, un successo pieno e rotondo di grande soddisfazione per tutti. In questo modo le esperienze vissute, le consapevolezze, le illuminazioni, ma anche i dubbi, le frustrazioni, il senso di scacco non rimangono prive di significato, le “cose” non prendono il sopravvento sul loro significato, ma la dimensione metariflessiva e, soprattutto, la condivisione intersoggettiva di essa, consente di rielaborare l’esperienza e di accumulare sapere, di uscire così dal circolo vizioso del riprodurre incessantemente le stesse risposte e, invece, entrare nella spirale dell’apprendimento in cui si impara dagli errori (e dai successi). In una delle ultime riunioni nel pensare ai tratti caratteristici del progetto da comunicare pubblicamente e nel confronto sul senso più autentico di queste attività, emergeva chiaramente come questa consapevolezza fosse ormai consolidata. Mentre in principio non era chiaro il senso e la direzione di queste discussioni che, anzi, sembravano sterili poiché incapaci di offrire le risposte definitive ai problemi sollevati che in quella fase ci si attendeva. “Siamo ripartiti dalla domanda che ci ha mosso ‘che cosa posso regalare a un collega del progetto “ad Agio”? Si ribadisce che si vuole soprattutto comunicare i vissuti, evocare il senso dell’esperienza, trasmettere il calore dell’attività, il come e non riferirne il contenuto, il cosa. In questo senso Sandra afferma che il progetto “ad Agio” sono queste riunioni, le riflessioni che circondano l’attività e non l’attività stessa” (Dal diario di bordo del 25 gennaio 2006). 3. Verso la conclusione del progetto
Perché una conclusione c’è. “ad Agio” non è un progetto di appoggio ordinario e strutturale alla didattica che ha durata indefinita. Si è chiarito, all’inizio del terzo anno di attività che quello sarebbe stato l’ultimo. Vedere la fine di un’esperienza così lunga e intensa che ha accompagnato e sorretto per lungo tempo un gruppo, quando la nebbia comincia a diradarsi e finalmente le cose cominciano a ingranare, le relazioni a farsi chiare, i gruppi a consolidarsi, le competenze a depositarsi, è doloroso, ma necessario.
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Predisporsi alla conclusione, al ritorno, significa anche fare le valigie e sistemare in maniera organizzata quello che si intende portare via. Anche per questo una conclusione è importante. Tutto l’ultimo anno di “ad Agio” è stato una preparazione alla sua fine. A settembre 2005 e per l’anno scolastico 2005-06 si può dire che il progetto applicativo nelle scuole andasse avanti da solo. Ormai le procedure erano consolidate, gli strumenti calibrati e ben noti, si trattava di riprogrammare le azioni ma, poiché la cornice era nota, la programmazione era relativamente semplice (anche in ragione del fatto che nell’ultimo anno le due scuole si sono “scambiate” i progetti realizzati nell’anno precedente). L’obiettivo principale era dunque quello di documentare e soprattutto di analizzare e di rendere significativo il materiale prodotto sino a quel momento, aggiungendo ovviamente quello nuovo, in vista della produzione di un report sistematico e sensato: si poneva particolare attenzione a estrarre, elaborare criticamente dalla documentazione elementi di processo. Si ridefinivano invece nuove priorità e si tentava di rilanciare su nuovi obiettivi. In particolare su due fronti: 1. trovare i modi di trasferire anche nelle attività curricolari le modalità, gli atteggiamenti, gli stili, parte degli strumenti, obiettivi e attenzioni sinora riservate esclusivamente alle attività di “ad Agio”; 2. trasferire e disseminare le attività di “ad Agio” in altre sezioni della scuola e in altri gradi scolastici. Questi ulteriori rilanci e soprattutto il secondo, in realtà non riusciranno ad attuarsi e il primo si attuerà in forme diverse dal previsto (non tanto in un’esportazione di modelli didattici, quanto nell’acquisizione di nuovi atteggiamenti da parte degli insegnanti, effettivamente applicati in tutte le attività scolastiche). Quanto al fallimento della disseminazione, ne vedremo più avanti le ragioni, affrontando più sistematicamente i punti critici del progetto. 4. Documentazione per l’autoconsapevolezza
Ciò che distingue questo progetto da una semplice sperimentazione di attività volte all’innovazione è la sua natura di ricerca-azione che si caratterizza per un capillare e meticoloso lavoro di documentazione, e
Che cosa ci portiamo via
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per una costante e ricorsiva attenzione autoriflessiva sugli esiti emersi dalla pratica educativa. La documentazione come strumento della professionalità docente
Il progetto così come è stato articolato nel gruppo 3 si è sviluppato secondo i criteri della ricerca-azione, assumendo consapevolmente quindi alcune delle sue tipiche caratteristiche, e in particolare: 1. è partito dai bisogni degli insegnanti (o meglio vi si è accordato ben presto), dalla percezione di un problema rispetto al quale ci si sentiva inadeguati o non sufficientemente attrezzati; 2. aveva finalità trasformative. E in effetti il progetto è intervenuto per trasformare significativamente il contesto stesso in cui la ricerca è stata svolta; 3. la trasformazione e la ricerca hanno previsto la partecipazione degli insegnanti, protagonisti sia nel costruire il progetto, sia nella raccolta e elaborazione dei dati; 4. ha adottato la tipica circolarità fra azione e ricerca, fra piano della riflessione e piano della prassi. La ricerca-azione, in questo caso, si è rivelata l’approccio più adeguato all’esplorazione e all’intervento sul tema del disagio proprio per rispondere al bisogno degli insegnanti, coinvolti nei contesti, di avere una ricerca che, al di là delle finalità conoscitive, potesse aiutare a affrontare, riflettere e rappresentare problemi concreti per trasformarli. Da questa prospettiva si comprende quindi il senso dell’attenzione alla documentazione. Intesa non solo come buona prassi per ogni attività didattica, ma come indispensabile base di dati empirica per consentire l’analisi, la progettazione delle azioni, la ridefinizione degli obiettivi. La documentazione raccolta ha costituito non solo la base per la riflessione e la progettazione, ma anche la base per la rielaborazione finale e in itinere dei risultati analitici e conoscitivi. Anche la presente relazione finale, va ricordato, procede da un lavoro analitico condotto sui dati raccolti. Questo report intende essere la trasposizione concettuale del lavoro di documentazione e di analisi condotto dal gruppo nel corso dei tre anni e in particolare durante le attività degli ultimi mesi in cui l’attenzione a una rielaborazione sommativa e una valutazione di tutto il percorso si è fatta particolarmente intensa. Per queste ragioni
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chi scrive non è che l’estensore, ma non l’unico autore delle considerazioni che seguiranno che invece appartengono al gruppo nel suo complesso. Per scrivere queste note infatti ho proceduto a un riesame attento e completo di tutto il materiale raccolto durante il triennio di attività, sia i dati grezzi, sia soprattutto le rielaborazioni parziali di essi. Un lavoro di codifica, induttivo, di questo materiale ha portato a evidenziare alcune categorie concettuali che si presentano ripetutamente attraverso i dati o che si impongono per la loro intensità. In particolare i risultati del progetto e soprattutto la riflessione sui tratti qualificanti di “ad Agio” (che prefigurano anche le condizioni di trasferibilità) sono stati individuati attraverso questo tipo di lavoro analitico sulla base dei dati che ora descriverò. La riflessione sul tipo di dati essenziali al progetto ha impegnato il gruppo sin dalle prime riunioni. In particolare sono state messe in luce tre dimensioni, tre elementi fondanti legati allo scrivere per documentare. all’interno del nostro progetto: Chi documenta. Sono principalmente gli insegnanti coinvolti direttamente nell’attività in classe che osservano e programmano (scarso successo ha avuto il tentativo di coinvolgere nella documentazione anche altri insegnanti non direttamente coinvolti nel progetto). Su un altro piano è l’équipe tutoriale che raccoglie e sistematizza i documenti relativi alle fasi di rielaborazione in grande gruppo. Come documentare. Scrivere, soprattutto. Ciò ha comportato non poca fatica poiché la scrittura significa rielaborazione dell’esperienza e quindi richiede sempre una fatica analitica cui non sempre si è abituati (malgrado le migliaia di pagine che ciascun insegnante è sempre chiamato a scrivere). Malgrado la netta prevalenza di testi verbali scritti, nell’ultima parte del progetto la documentazione è stata anche fotografica e video. Cosa documentare. In più riunioni il gruppo ha individuato i cinque livelli della documentazione funzionale e necessaria alle attività del gruppo di lavoro: 1. il materiale dei seminari del gruppo allargato (se ne fa carico in parte l’équipe tutoriale). 2. Il diario di bordo degli incontri del gruppo con il tutor (questi redige il primo resoconto, ciascuno aggiunge riflessioni,
Le parole chiave della documentazione
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considerazioni, stati d’animo ecc.). Da principio si è trattato di un classico verbale delle riunioni redatto a turno da ciascun membro del gruppo. Poi la sua natura è cambiata, anche in funzione dell’emergere di nuovi e più raffinati strumenti e quindi è divenuta la rielaborazione del tutor delle considerazioni emerse negli incontri di supervisione. Un memo, quindi, arricchito però da aggiunte e pensieri di tutti i partecipanti e oggetto di rilettura e di riflessione a ogni riunione successiva. La verbalizzazione delle riunioni di team di programmazione e di valutazione delle attività di “ad Agio” che si tengono nelle scuole. Le attività direttamente svolte in classe in cui si conservano le osservazioni, i materiali prodotti, le descrizioni dell’attività, le valutazioni dei bambini ecc. Le osservazioni degli insegnati raccolte sistematicamente mediante una scheda di osservazione condivisa e costruita insieme e testata sul campo. Il materiale individualmente reperito ma ritenuto utile al progetto e da condividere con il gruppo (es. letture personali, partecipazione a convegni ecc.). Uno spazio diaristico libero per integrare la scheda di osservazione, dove scrivere appunti sul come legato alle attività svolte in classe. Un testo non descrittivo, ma interiore e autoriflessivo in cui dare ampio spazio alla sfera delle emozioni. Uno spazio aperto per i partecipanti dove annotare anche altri spunti di autoriflessione. Specialmente dopo i momenti di progettazione in classe o dopo le riunioni di supervisione. In quei momenti, cioè, in cui si ha l’occasione di riflettere in maniera critica e aperta sul progetto. Si tratta di momenti importanti per fissare i pensieri, chiarire a se stessi il senso del proprio operare, ampliare gli orizzonti del progetto, rendere esplicito ciò che viene semplicemente agito. Diario del supervisore in cui si annota il procedere delle attività del gruppo e si documenta l’attività autoriflessiva del supervisore sul proprio fare, sulle proprie intuizioni, dubbi, incertezze, pregiudizi. Uno strumento a metà fra un diario autoriflessivo di ricerca e delle note di campo.
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È importante notare che anche gli strumenti di osservazione (schede, diari, osservazioni, griglie di autovalutazione) sono stati tutti elaborati dal gruppo, dopo aver preso in esame alcune tipologie standardizzate. Si è ritenuto, anche a costo di uno sforzo ulteriore, di dover personalizzare gli strumenti di ricerca e di documentazione per adattarli ai singoli contesti.3 Si veda ad esempio la seguente scheda per l’osservazione e la registrazione degli atteggiamenti-comportamenti dei vari alunni e del clima di classe nel corso dell’attività, che è stata elaborata, testata e applicata dal gruppo (si veda la Tabella 2). Tabella 2: Griglia di osservazione DATA: ..................................................................... ORA: .......................... LUOGO: ......................................................................... CLASSE: ................................ INSEGNANTI: ...................................................................................................................................... ALUNNI ASSENTI: ................................................................................................................................................................................ DESCRIZIONE DELL’ATTIVITÀ PROPOSTA: ..................................................................................................................................................................................................................... ..................................................................................................................................................................................................................... SITUAZIONE INIZIALE DELLA CLASSE: ..................................................................................................................................................................................................................... ..................................................................................................................................................................................................................... SITUAZIONE INIZIALE DELL’INSEGNANTE: ..................................................................................................................................................................................................................... ..................................................................................................................................................................................................................... ATTEGGIAMENTI DEGLI ALUNNI (attenzione, partecipazione, manifestazioni di disagio…): Nei confronti dell’attività: ............................................................................................................................................................... Nei confronti dell’insegnante/i: ................................................................................................................................................... Nei confronti dei compagni: ......................................................................................................................................................... STRUMENTI UTILIZZATI: ................................................................................................................................................................... MATERIALI PRODOTTI: ..................................................................................................................................................................... VALUTAZIONE DEGLI ALUNNI: ...................................................................................................................................................... VALUTAZIONE DELL’INSEGNANTE: .............................................................................................................................................. OSSERVAZIONI VARIE: .................................................................................................................................................................................................................... .....................................................................................................................................................................................................................
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Nell’appendice, in fondo al presente capitolo, si riportano alcuni esempi di schede di osservazione e di diario.
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Oltre a dati di primo livello, il presente report è basato su dati secondari che “ad Agio” ha prodotto. A questa tipologia di dati appartengono: 1. progetti operativi scritti dai due sottogruppi all’inizio di ciascun anno; 2. relazioni intermedie e finali di rielaborazione e valutazione delle attività svolte nel corso di ciascun anno; 3. corrispondenza e documenti occasionali scritti (ad esempio una riflessione sullo scostamento fra gli obiettivi del progetto iniziale e il progetto al secondo anno, considerazioni critiche); 4. materiali d’occasione prodotti per presentare “ad Agio” (per il sito della scuola, per una presentazione in collegio docenti, ecc.); 5. relazioni finali e intermedie sulle attività richieste dalla Fondazione Caritro; 6. rielaborazione della documentazione per la presentazione pubblica di “ad Agio”. Tutte queste tipologie di materiali, accuratamente raccolte e sistematizzate, costituiscono diverse centinaia di pagine perlopiù dattiloscritte che testimoniano un’attenzione non spontanea a raccogliere sistematicamente i materiali riferiti al proprio fare e la disponibilità a un costante sforzo di rielaborazione dell’esperienza e di analisi della rielaborazione. In definitiva la rielaborazione complessiva per renderla sensata a chi vi ha partecipato, il cui esito finale è in queste note, ha richiesto una continua alternanza fra un’immersione analitica nei dati (descrizione, lettura, codifica, etichettamento) e un distacco per lasciare spazio all’emergere dell’intuizione interpretativa, capace di dar conto di quanto accaduto e trasformare l’esperienza in direzioni per l’azione. Infine la scrittura sistematica e organizzata del report finale che rielabora le categorie interpretative emerse che attraversano i dati e le pone in relazione di senso. 5. Valutazione degli esiti
Alla fine del primo anno di applicazione di “ad Agio”, abbiamo discusso dei criteri di valutazione dell’attività dell’anno appena trascorso.
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Si è concordato, dopo ampia discussione, che un criterio quantitativo per valutare l’attività non fosse adeguato a valutare le cose fatte (per cui non abbiamo utilizzato il questionario di valutazione che altri gruppi hanno usato), si è proceduto a elaborare una griglia qualitativa che potesse rispondere meglio alle esigenze espresse dal gruppo. Per definire criteri di valutazione condivisa nel sottogruppo tre si è lavorato all’elaborazione della seguente griglia qualitativa che ha rappresentato una mappa capace di guidare l’attenzione nel riportare giudizi riferiti all’impatto delle attività di “ad Agio” sulla classe in riferimento agli obiettivi che si erano dichiarati nel progetto. Due tipologie di obiettivi: 1. Obiettivi comuni trasversali
Integrazione gruppo. • Miglioramento relazioni. • Consapevolezza e gestione delle emozioni. 2. Obiettivi disciplinari, secondari rispetto al progetto •
Quattro dimensioni principali
Valutazione dei singoli bambini Come si sono sentiti all’interno del gruppo? Si sono sentiti a proprio agio? Qual è la consapevolezza delle emozioni provate? 2. Valutazione del gruppo classe a. Clima di classe. b. Alzare la soglia di benessere a scuola e nel nostro gruppo. c. Coinvolgere la scuola e la famiglia. 3. Valutazione delle attività a. Spazi. b. Tempi. c. Risorse. d. Efficacia. 4. Autovalutazione 1.
Le linee guida di questa griglia sono state incorporate nei rapporti finali di attività redatti ogni anno e soprattutto hanno costituito un materiale utile per la disseminazione delle attività di “ad Agio” all’interno della classe per la valutazione degli apprendimenti extracurricolari. Ma, a ben guardare, non è qui che si troveranno gli elementi salienti
Griglia qualitativa per la valutazione dell’esperienza
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che è opportuno mettere in luce alla fine del progetto, nel redigere il rapporto finale. Gli elementi di valutazione, gli esiti principali riconosciuti dell’attività di “ad Agio” risiedono in svariati ambiti e si configurano soprattutto come elementi legati al processo più che al prodotto. Nel paragrafo seguente cercheremo di mettere in luce tali esiti, che emergono da uno sguardo complessivo e sistematico sugli elementi processuali del progetto ma anche sui vissuti dei partecipanti, sulla loro dimensione esperienziale.
RISULTATI DEL PROGETTO. GLI ESITI TRASFORMATIVI
I “risultati” del progetto, così come emergono dalle riflessioni consapevoli delle insegnanti nelle loro relazioni intermedie e conclusive e, soprattutto, dal lavoro di analisi sistematica di tutta la documentazione prodotta nel triennio, sono da distribuire su due piani differenti. In primo luogo l’impatto del progetto sui bambini, non tanto intesi singolarmente, quanto sul gruppo-classe. In secondo luogo, che è l’aspetto sicuramente più rilevante, gli effetti del progetto sul mutamento di sguardo degli insegnanti e sulla loro capacità di comprendere, accogliere e quindi gestire il disagio. Vediamo più in dettaglio quali siano questi risultati, non prima però di aver chiarito la specifica natura di tali “risultati”. Come esplicitamente dichiarato nel suo progetto, “ad Agio” non si proponeva di raggiungere risultati misurabili in termini di riduzione del disagio, risoluzione di casi problematici, individuazione di buone prassi (né tanto meno di offrire ricette) per affrontare e risolvere le problematiche connesse al disagio. Anzi, in virtù della nozione di disagio assunta all’inizio, come “speciale normalità”, come “disagio diffuso”, come indizio di problematiche strutturali, sembra più prudente conservare le virgolette entro cui abbiamo collocato il termine “risultati”. Inoltre, si è scelto, di comune accordo con il gruppo, di non utilizzare griglie tassonomiche, rigidi strumenti per misurare e poi valutare l’efficacia del progetto in termini di risultati. Ma, fatte le dovute distinzioni e prese le opportune cautele, da un altro punto di vista va osservato che quello degli effetti del progetto ha indubbiamente rappresentato una priorità. Una ricerca-azione trova
“ad Agio” IPRASE del Trentino
la sua ragion d’essere nella trasformatività degli esiti. Se non si è in grado di mutare il contesto di partenza, e di certificarne lo scarto migliorativo, o la ricerca non è ancora conclusa, o si deve ammettere il fallimento. Anche gli strumenti di valutazione sono necessari, magari di natura qualitativa, più fragili e non oggettivi, ma comunque necessari. Quindi le considerazioni che seguono non possono sottrarsi alla responsabilità di mettere in luce gli esiti trasformativi che discendono dal progetto. Veniamo dunque all’esplicitazione di tali esiti trasformativi del progetto per i quali, in relazione agli effetti sul gruppo classe, ci riferiremo molto puntualmente alle considerazioni fatte dalle insegnanti sulla base degli strumenti di verifica utilizzati a scuola. Per le considerazioni relative agli esiti sulle insegnanti ci riferiremo invece soprattutto ai materiali tratti dalla documentazione del lavoro di supervisione oltre che alle elaborazioni autoriflessive tratte dai diari individuali. 1. Sul gruppo classe
In generale tutte le insegnanti riconoscono come sia stata in generale innalzata la soglia del benessere: i bambini riescono ad esprimere le proprie opinioni e a tollerare meglio che l’altro possa anche non accettarle. La classe è consapevole dell’importanza che riveste il modo in cui ci si esprime: le critiche sono meglio tollerate se espresse in modo adeguato, mentre molti sanno sottolineare eventuali aggressioni verbali subite da loro o da altri. Si rileva come sia migliorata la competenza relazionale dei bambini quando sono posti in un contesto di attività progettata per consentire momenti da vivere con il solo scopo di star bene con se stessi e con gli altri, senza pressione sulla prestazione. Stando meglio con se stessi, i bambini hanno appreso a rapportarsi con gli altri in modo sempre più sereno. Di conseguenza, le dinamiche di gruppo sono migliorate sensibilmente così come la capacità di lavorare in gruppo. Le insegnanti osservano che il mutamento del clima complessivo è da ricondurre in gran parte (per lo meno per la parte che riguarda i bambini stessi) anche al fatto che si è lavorato per consentire loro di riconoscere e poi di saper esprimere le proprie emozioni. In effetti si registra che è anche aumentato il desiderio di esprimerle non sollecitato da specifiche attività. In particolare quasi tutti riescono a manife-
…innalzamento della soglia del benessere
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stare il proprio disagio e a motivarlo, sottolineando gli atteggiamenti e i comportamenti che danno fastidio. Dunque “ad Agio” ha operato sul gruppo-classe soprattutto ma anche sui singoli bambini e bambine. Sul gruppo ha contribuito a migliorare le relazioni fra i bambini, individualmente ha accrescciuto la capacità di ogni singolo alunno a far fronte a quei “compiti evolutivi” di cui hanno tutti bisogno, o perlomeno predisponendo all’interno dell’attività curricolare alcuni spazi in cui questo fosse possibile. Infine il progetto ha consentito un primo travaso di competenze dagli spazi protetti delle attività di “ad Agio”, al normale fare scuola curricolare e extracurricolare. Vi è poi la questione del contenimento dei casi eclatanti che, come si ricorderà, ha rappresentato la ragione per cui le insegnanti (sospinte inizialmente dai propri Dirigenti) hanno accettato di partecipare al progetto. Rispetto a questi, come si osserverà più dettagliatamente, si deve riconoscere che “ad Agio” non offre risposte puntuali né soluzioni efficaci. Però si deve notare che in qualche modo si registra un sensibile miglioramento, non sostanziale e indirettamente, anche rispetto a queste situazioni particolarmente difficili. Innanzitutto per il fatto che progressivamente tali casi perdono nella visione degli insegnanti il primato che avevano nel determinare la situazione di disagio della classe. La causa del disagio che alunni e insegnanti vivono quotidianamente non è più attribuita a singoli casi, bambini in difficoltà responsabili di generare un clima di classe insostenibile. Emergono invece altre situazioni inizialmente sottostimate e queste si ridimensionano, a tal punto da generare singolari casi di rimozione. Ma soprattutto il miglioramento rilevato è da attribuire non tanto a una regressione del livello di disagio manifestato da singoli soggetti, quanto dall’innalzamento della capacità inclusiva delle insegnanti prima di tutto, ma anche dei compagni, dalla riduzione della percezione di problematicità fino ad allora attribuita ai casi eclatanti, dall’aumento delle intenzionalità accoglienti all’interno della classe. Particolarmente importante è, da questo punto di vista, il mutamento di sguardo delle insegnanti riferito ai casi eclatanti. Di fatto si registra una riduzione della portata ansiogena di quei casi e questo ha avuto sicuramente un impatto evidente sulla qualità della relazione con quei soggetti, nonché sugli altri bambini che, vedendo l’insegnante (più) tranquilla durante momenti di forte tensione provocati dai
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casi difficili, si sentono sicuramente più rassicurati e rinforzati nelle proprie competenze di resilienza. Ma queste considerazioni ci rimandano al secondo, più importante, risultato di “ad Agio”: 2. Sugli insegnanti
Alla crescita della resilienza e della capacità di far fronte ai propri compiti evolutivi nei bambini fa riscontro, nelle insegnanti, l’incremento della capacità di abitare il disagio, di ascoltarlo, e soprattutto di accoglierlo. “Si è osservato che nella compilazione di schede e di relazioni, l’impatto degli stati d’animo delle insegnanti incide in maniera significativa. Nella percezione del disagio e nella consapevolezza di avere le capacità per farvi fronte, gli alti e bassi dell’insegnante influiscono notevolmente. Si tratta perciò di intervenire molto sulla capacità di vedere, in maniera chiara e obiettiva, delle insegnanti più che agire sugli effetti” (Dal diario di bordo del 22 settembre 2005). Ciò che è più importante è che questo mutamento diviene, nel tempo, una conquista consapevole. Alla fine, solo al terzo anno, le insegnanti mostrano di avere piena coscienza della trasformazione avvenuta non solo nel contesto e nei bambini, ma soprattutto in loro. Hanno principalmente imparato a vivere nell’incertezza, nella complessità, nella difficoltà. Una maturazione lenta, ma progressiva e apparentemente invisibile, ha condotto verso la consapevolezza dei mutamenti avvenuti. Una consapevolezza che è emersa su tre livelli successivi: 1. in virtù della costante attività autoriflessiva, che ha portato ciascuna di loro a riflettere metacognitivamente sul proprio operare; 2. poi riversando nel gruppo gli esiti delle proprie solitarie riflessioni; 3. infine, fondamentale, nel riconoscimento esterno ottenuto al momento della presentazione pubblica di “ad Agio”, nel marzo del 2006, a pochi mesi dalla fine del progetto.
Potenziamento della capacità di accogliere il disagio
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Due anni di lavoro lento e apparentemente inconcludente (nel senso che le risposte che emergevano non corrispondevano all’iniziale orizzonte d’attesa di risposta puntuale ai casi di disagio) hanno portato a maturare una consapevolezza per cui le scelte didattiche che oggi si fanno sono il distillato di una riflessione ampia e approfondita. All’inizio del secondo anno di attivazione delle scuole e ultimo anno di “ad Agio”, ogni gruppo infatti aveva il mandato di rileggere il progetto originale e, alla luce del procedere degli eventi, riflettere sullo scostamento attuale del progetto rispetto alla sua formulazione originale. Da questo confronto critico (ancora una volta scritto con tanta fatica da ogni sottogruppo) sono derivate considerazioni decisive circa il senso del progetto, che hanno caratterizzato la riflessione conclusiva dell’ultimo anno. Riduzione del senso di onnipotenza
Il primo elemento emerso è la riduzione del senso di onnipotenza, e del conseguente senso di colpa per i fallimenti, che ne rappresenta la faccia oscura. La consapevolezza di non essere infallibili ha ridimensionato l’aspettativa salvatrice. Ha preso piede la consapevolezza che il disagio non va necessariamente “risolto”, ma accolto serenamente e che questa accoglienza ha anche un effetto visibile sulla riduzione del suo impatto negativo sul gruppo classe. “Non dimentichiamo certamente che per alcuni bambini ‘Giochiamo con…’ non ha portato i frutti sperati, ma siamo consapevoli anche del fatto che un lavoro di un anno, seppur progettato e realizzato con tutto l’impegno possibile, non può ‘fare miracoli’” (Lavis, relazione finale I anno). Una consapevolezza - quella di “non essere infallibili” coniugata però con “la capacità di comprendere che quando non si riesce a ‘salvare’ una situazione ‘in toto’ la si può comunque migliorare” (Lavis, relazione finale I anno) - avvenuta in maniera non certo indolore, ma germinata da un senso di scacco, di inadeguatezza, di impotenza di fronte a problemi che appaiono invalicabili, e che mettono in seria difficoltà anche chi scrive (certo, nella ricerca-azione il coordinatore non guarda alle cose dal punto di vista di Dio, ma è perfettamente calato, come gli altri, nella situazione in cui si cerca di mettere ordine e di trasformare). Annotavo nel mio diario:
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“Ho notato che, prendendo in mano i vissuti personali attraverso la lettura dei diari, emerge soprattutto il sentimento dello sconforto e dello scacco. Non a caso, forse, l’atmosfera della riunione si è fatta sempre più cupa a mano a mano che procedevamo nella lettura dei diari. Ha preso corpo un senso di impotenza, di sfiducia nel progetto, di inadeguatezza di fronte a problemi che sembrano non avere soluzione. È stato difficile per me cercare di tenere alto lo sguardo, di far sentire “contenti e sicuri” tutti. Non ci sono riuscito. E anzi il mio tentativo di farlo, il mio ottimismo, la mia fiducia (forse troppo ostentata), hanno finito per essere letti come lontananza dai problemi reali, astrazione, nell’ottica secondo cui ‘fai presto tu a dire così, che non hai a che fare con loro tutti i giorni…’ Forse hanno ragione loro. E io devo pensare a come fare per far sì che la riflessione sui propri vissuti non scada nel pessimismo e nella sfiducia. Lo scopo non è essere tutti anche lucidi, consapevoli e obiettivi, ma inevitabilmente spenti e rassegnati. Ottimismo della volontà, pessimismo della ragione” (osservazioni dell’autore a margine del diario di bordo del 16 marzo 2005). Poi, pochi mesi dopo, comincia a emergere in qualcuno una consapevolezza nuova, comincia a prendere corpo il senso del nostro lavoro e si traduce in nuove, a tratti esaltanti, competenze. “Dopo un anno e qualche mese di attività c’è stato un salutare bagno di realtà: i risultati miracolosi che all’inizio ci si aspettava non sono arrivati: non c’è stato un effettivo, visibilissimo impatto delle attività legate al progetto rispetto all’aumento del benessere in classe. Tuttavia se i risultati non sono arrivati dalla porta (dove li attendevamo) sono entrati dalla finestra. È arrivato altro, che si impone con improvvisa, diffusa consapevolezza, perlomeno in chi ha vissuto il progetto sin dalle sue prime, incerte battute. Se il progetto non ha ridotto significativamente il disagio scolastico nei casi eclatanti che hanno originato la decisione di prendere parte a “ad Agio”, ha però aumentato la capacità degli insegnanti del gruppo a accoglierlo, accettarlo, accettando anche gli alti e bassi, gli insuccessi e la volatilità dei successi” (Dal diario di bordo del 4 maggio 2006).
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In particolare tutti riconoscono che questo atteggiamento fa sì che, riportato nella classe, si garantisca una continuità di atteggiamento e quindi si trasmetta sicurezza ai bambini. Ma sono le insegnanti a mutare la percezione del problema, a collocarlo entro una cornice diversa, a leggerlo secondo una prospettiva nuova sulla quale si sentono più attrezzate, al punto da rimuovere anche alcuni ricordi un tempo molto dolorosi. Durante la lettura delle relazioni di valutazione del secondo anno si è notato come la drammaticità delle situazioni vissute l’anno precedente (specie a Lavis) non si ricordava più. È stata in qualche modo rimossa e la relazione scritta non dà conto adeguatamente della difficoltà delle situazioni affrontate e, in parte radicalmente trasformate o risolte. “Rispetto al caso più difficile di Lavis ci si è resi conto che non si chiedeva a Gianni di cambiare i suoi atteggiamenti aggressivi verso i compagni o le sue esplosioni emotive, ma il lavoro è avvenuto sul gruppo per aumentare le capacità di non spaventarsi (prima), di non dare corda poi. Questo ha progressivamente inciso anche sugli stessi comportamenti di Gianni. In tutto ciò è stato fondamentale il ruolo dell’insegnante che faceva da specchio e tranquillizzava il gruppo (o, se non era tranquilla lei, agitava ulteriormente il gruppo, come è avvenuto a inizio anno)” (Dal diario di bordo del 22 settembre 2005). Anche a Predazzo, contestualmente si osserva come la domanda iniziale, la richiesta di aiuto che aveva motivato la partecipazione, sia via via mutata nel corso dell’anno. Il primo documento sul gruppo che si andava formando riportava una richiesta specifica di Predazzo: “trovare gli strumenti per affrontare uno specifico caso molto difficile”. Era l’unica scuola che chiedeva di aderire a “ad Agio” con una richiesta così precisa e esplicita. Valutando gli esiti del progetto ci si rende conto che il caso difficile non è più considerato una priorità. Quel caso è in qualche modo rientrato, non rappresenta più un picco isolato e ingestibile (benché il bambino sia sempre nella classe), e sono emerse altre, più diffuse e non isolate difficoltà. Il cambiamento di prospettiva e la trasformazione della richiesta iniziale (oltre all’effettiva riduzione della problematicità iniziale del caso) rappresentano un indubbio successo del progetto.
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Commentavo nel diario di bordo al termine della riunione in cui i primi segnali di nuova consapevolezza cominciavano a prendere corpo: “Ho avuto la netta percezione che siamo arrivati a una svolta decisiva. Questa volta però in positivo. Se la volta scorsa c’era stata una rottura, una piccola crisi, dolorosa e sofferta, questa volta la crisi è stata trasformata in solida conquista. Credo che il lavoro vero, quello di empowerment, di crescita di consapevolezza e di competenza, stia ora emergendo per la prima volta” (Osservazioni dell’autore a margine del diario di bordo del 4 maggio 2005). Se il risultato principale del progetto consiste nell’acquisizione di un nuovo tipo di sguardo sulle cose e, ancora di più, nella piena consapevolezza di aver acquisito una nuova prospettiva e insieme ad essa nuove competenze che le insegnanti sono state in grado di mettere in campo, allora ci siamo chiesti: “Quali sono le fonti da cui sono sorte queste nuove consapevolezze?” “Come si sono appresi questi comportamenti che hanno avuto successo?” La prima risposta del gruppo è stata che si è imparato attraverso l’esperienza, molto per prove ed errori. Non è stata quindi la partecipazione alle attività del gruppo che, come inizialmente ci si aspettava, ha consentito di essere aggiornate su nuove strategie, grazie all’intervento formativo di esperti che trasmettono nuove, più efficaci competenze. Allora, se le attività di “ad Agio” (le riunioni mensili, i seminari trimestrali, i progetti, le relazioni ecc.) non hanno avuto quel valore formativo che ci si aspettava, a che sono servite? Di più. Sono servite a qualcosa? In realtà si apprende dall’esperienza e si impara dagli errori solo se c’è un lavoro sulla consapevolezza, sull’autoriflessività. Se aumenta la consapevolezza (con discussioni, riflessioni, strumenti specifici), la capacità di dare senso, si può imparare dagli errori, altrimenti si è destinati a ripetere incessantemente gli stessi errori senza imparare nulla da essi.
Uno sguardo nuovo
Anche questo - riflettere sulla propria esperienza per imparare da essa e sviluppare tutto il sapere in esso nascosto, senza dover ricevere un travaso di conoscenza da parte di altri esperti - è un merito del progetto, inizialmente teorizzato, che è però divenuto sapere consolidato dall’esperienza.
Capacità di riflettere
sulle cose
e imparare anche dagli errori
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Peraltro questi mutamenti nello sguardo possono essere riconosciuti anche come un vero e proprio empowerment delle insegnanti che, messe da parte le illusioni di infallibilità, si sono mostrate capaci di assumere la loro porzione di responsabilità, anche di allargarla significativamente, e di operare all’interno di essa con vecchie e nuove competenze. Potenziamento della abilità relazionali
Capacità di gestire anche le proprie emozioni
Sì perché “ad Agio” ha prodotto anche nuove competenze, oltre a rinforzare e a rendere pertinenti e efficaci quelle già acquisite. Ne sono un esempio alcune delle idee didattiche proposte, ma soprattutto il potenziamento delle abilità relazionali e addirittura alcune competenze tecniche che si configurano come un felice esito imprevisto del progetto. Mi riferisco in particolare all’uso del computer per scrivere e soprattutto per comunicare: all’inizio del progetto guardato come uno strumento lontano e poi via via che emergevano nuovi bisogni comunicativi, divenuto sempre più uno strumento d’uso, che ha richiesto l’apprendimento o il consolidamento di nuove competenze. In definitiva, anche e forse soprattutto sul gruppo insegnanti, il progetto ha operato per innalzare la soglia di benessere, consapevole che gran parte del disagio scolastico ha nel disagio degli insegnanti una significativa contropartita. Se gli insegnanti sono in difficoltà, se sono parte anch’essi di quel disagio diffuso e manifestano anch’essi difficoltà a far fronte alle crescenti richieste di una società complessa (personificata anche solo nei colleghi, nel dirigente e nei genitori), non solo non saranno in grado di rispondere adeguatamente alle richieste d’aiuto degli alunni, ma di fatto contribuiranno a costruire quel disagio con la loro presenza e con il particolare modo di leggere e interpretare il contesto in cui sono inseriti, sul quale agiscono coerentemente. Ecco perché “ad Agio” ha lavorato anche intenzionalmente sulla qualità del benessere delle insegnanti e su questo torneremo. Lo ha fatto innanzitutto a partire dalla possibilità di creare un ambito in cui poter esprimere le proprie emozioni e utilizzarle come “materiale di lavoro”. Queste, le emozioni, sono l’espressione più visibile della capacità di dare senso alla propria realtà e in particolare sono l’espressione più diretta della percezione del disagio scolastico, come per i bambini, così per gli insegnanti. Un ulteriore risultato del progetto è stata la comprensione intima della discontinuità fra emozioni provate ed efficacia dell’intervento. È
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stato importante imparare a separare il ritorno emozionale dal successo delle proprie proposte didattiche. Normalmente si tendono ad abbinare la soddisfazione provata (anche a livello emotivo) per il buon esito di una attività, con l’impatto che tale attività può avere sugli alunni. “ad Agio” ha insegnato che la soddisfazione emotiva non sempre coincide con l’efficacia del progetto. Ci sono state volte in cui le insegnanti annotavano nel diario tutto il loro malessere e lo scontento emotivo per un’attività (magari formalmente andata a buon fine). Ma perseverando malgrado le incertezze, i dubbi e lo scoramento, quegli stessi momenti si sono rivelati utili per amplificare l’impatto positivo del progetto sia sugli allievi sia, soprattutto, sull’aumento della capacità di accoglienza del disagio da parte degli insegnanti. Si è verificato come gli alti e bassi provati emotivamente, in definitiva, non corrispondano necessariamente (a differenza della didattica ordinaria) agli alti e bassi relativi al successo del progetto. Questa capacità di dislocazione emotiva ha consentito anche di imparare a utilizzare il linguaggio delle emozioni come forma espressiva e comunicativa, che non a caso si è rivelata una chiave essenziale anche per comunicare il senso del progetto nell’ambito del seminario pubblico di presentazione di “ad Agio”.
FALLIMENTI E PUNTI CRITICI
Non sono mancati, come è ovvio, alcuni fallimenti che ci hanno consentito di evidenziare alcuni limiti intrinseci e alcuni punti critici del progetto. Altrove si è detto dei limiti complessivi del progetto “ad Agio”, qui riportiamo soltanto alcuni elementi critici emersi in particolare in riferimento al gruppo 3. 1. Non funziona sui casi eclatanti. Non risolve le emergenze
La consapevolezza, rassegnata e matura, su questo punto emergeva alla fine del secondo anno. Forse non va quindi considerato un punto debole, ma una caratteristica del progetto. Osservava Sandra in un documento scritto per rilevare lo scarto fra il progetto iniziale e i mutamenti occorsi nel primo anno di attuazione del progetto.
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“Non sono mancati però alcuni punti critici. Per esempio abbiamo notato che se il livello generale del benessere nel gruppo è aumentato, proprio quei bambini che in classe evidenziavano maggior disagio, e per i quali il progetto almeno inizialmente era stato pensato, anche nell’attività di “Star bene è…” si dimostravano più irrequieti o difficili da stimolare, se non addirittura destabilizzanti. Anche la verifica conclusiva di ogni intervento era per questi generalmente non positiva, a riprova che non erano stati bene (senza escludere che a volte davano giudizi non positivi per il gusto di essere “bastian contrari” e di differenziarsi dal resto del gruppo). È certo che per alcuni di essi l’attività proposta non ha diminuito il loro disagio, o almeno non in modo evidente ed immediato; la nostra speranza è che i risultati si possano vedere a lungo termine (come per quasi tutti gli interventi educativi). L’alunno per il quale era partita la nostra richiesta di partecipare al progetto “ad Agio”, in classe quinta si è dimostrato più tranquillo, ma va sottolineato che anche altre variabili all’interno della scuola erano cambiate rispetto all’anno precedente. Ci rimane la delusione di non aver potuto, almeno finora, mettere in atto un’effettiva continuità con la scuola media, che era uno degli obiettivi iniziali del progetto, da noi condivisi appieno” (Dal documento Pausa di riflessione, riflessione personale di Sandra, novembre 2005). 2. Disseminazione interna e nel territorio
Quello della disseminazione del progetto è un punto debole complessivo di “ad Agio” che ha trovato nell’ambito del gruppo 3 una declinazione particolare e, forse, emblematica. La disseminazione è mancata su più fronti. Con le famiglie. Per costruire un ampio consenso sulle finalità del progetto e per ridistribuire gli esiti. Malgrado a Lavis si siano fatti svariati tentativi di comunicare con le famiglie in ogni occasione possibile e soprattutto nelle riunioni di interclasse. Con i colleghi. Malgrado molti tentativi fatti (interventi nel collegio docenti, spazi sul sito web della scuola, open space) essi si sono rivelati limitati nella misura in cui non hanno potuto contare su un sostegno convinto e continuo da parte dei dirigenti scolastici o di altre figure intermedie che pure il progetto aveva previsto di costituire (il gruppo 4).
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Con il territorio. Non sono stati istituiti contatti specifici intorno agli obiettivi di “ad Agio” né si sono rinforzate grazie ad esso relazioni precedenti. “Per noi anche quella riunione (dei dirigenti) doveva servire a verificare i criteri di fattibilità per la conclusione del progetto. Ferma restando una sostanziale soddisfazione per “ad Agio”, da parte di uno dei dirigenti non è emerso un chiaro sostegno a proseguire le attività verso la disseminazione trasversale del progetto ad altre classi o nel territorio. Nell’altra, la dirigente appena insediata ha chiesto tempo per informarsi adeguatamente e valutare i nuovi termini di prosecuzione di “ad Agio” (Dal diario di bordo del 23 settembre 2005). 3. Verticalità con la scuola media
Malgrado la verticalità fra elementare e media fosse una delle finalità originarie dell’intero progetto “ad Agio”, puntualmente recepita da principio da una delle due scuole coinvolte, malgrado interventi specifici in quella direzione siano stati fatti a vari livelli, non si è riusciti mai a realizzare un serio progetto di continuità verticale di “ad Agio” fra elementare e media (all’interno dello stesso istituto comprensivo). Ciò che è mancato ancora una volta era un appoggio complessivo della scuola che consentisse di far uscire l’esperienza da una specifica classe ed estenderla a tutto l’istituto. Non credo oggi che si possa dire che tutto dipenda dal disinteresse del dirigente, forse ci sono cause strutturali più profonde che però vanno decisamente esplorate per impedire che l’investimento di “ad Agio” sia confinato entro una sola classe e un singolo team docenti.
ELEMENTI QUALIFICANTI DEL PROGETTO
Come si è detto una delle principali priorità cui il gruppo si è dedicato nel corso del terzo anno, soprattutto sollecitata dall’équipe tutoriale, è stata la riflessione sugli elementi qualificanti del progetto, finalizzata a individuare le condizioni di fattibilità e gli elementi di trasferibilità del progetto.
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L’occasione della presentazione pubblica è stata una circostanza basilare e estremamente funzionale al progetto stesso, per dare una prospettiva concreta a questa riflessione e incanalarla entro i confini di un concreto problema di comunicazione. Che cosa posso regalare a un collega?
La domanda cui non solo questo gruppo ha cercato di rispondere è stata: “Che cosa posso regalare del progetto “ad Agio” a un collega?” Le lunghe riflessioni svolte dalle insegnanti, solo facilitate dal tutor, sono poi confluite nella “performance” comunicativa di marzo 2006 (la sintesi proposta in fondo al capitolo va considerata a pieno titolo parte integrante del presente rapporto). Al termine di una lunga riunione che concludeva un paziente lavoro di rilettura sistematica di tutta la documentazione raccolta, tali riflessioni sono state riassunte nella seguente tabella che riporta, nella prima colonna, i temi qualificanti del progetto, nella seconda, i modi attraverso cui presentarli. Tabella 3: Temi qualificanti e modalità di presentazione del percorso Cosa Presentare prima la situazione iniziale
Come PowerPoint
Caratteristiche di “ad Agio”:
Immagini
• non risolve le emergenze;
Diario
• non sostituisce i servizi territoriali;
Letture a voce alta
• opera sul gruppo classe; • interviene sul clima di classe; • opera sugli insegnanti (accrescendo la capacità di accogliere il disagio); • discontinuità fra emozioni provate e efficacia; • mettere in evidenza le luci e ombre sull’efficacia (non alimentare falsi miti né deliri di onnipotenza). Richiede: • coesione forza del team docenti; • voglia di mettersi in gioco. Incontro del 25 gennaio 2006 Elementi di processo
Tralasciando qui le riflessioni sui modi più adeguati per dar conto dell’esperienza fatta elencati sinteticamente nella colonna di destra (ma non va sottaciuta la scelta, poi rivelatasi vincente, di utilizzare linguaggi emozionali - immagini, testi suggestivi, uno sfondo narrativo
“ad Agio” IPRASE del Trentino
- per comunicare il proprium del progetto), è importante soffermarci qui sugli elementi tipici del progetto e sulle condizioni di trasferibilità dei risultati in altri contesti. Innanzitutto va rilevato, come ormai dovrebbe apparire chiaro da quanto detto sin qui, come ciò che è effettivamente trasferibile (mai generalizzabile) ad altri contesti è riferibile quasi esclusivamente a elementi di processo, e non di contenuto, né in senso tecnico a quelli metodologici. Ma anche questi, gli elementi processuali, per poter essere trasferiti richiedono alcune condizioni che cercheremo di evidenziare. In sintesi gli elementi emersi da quella discussione e da tutte le considerazioni precedenti possono essere riassunti nei punti successivi di cui si metteranno in luce, dopo averli sinteticamente elencati, il significato e le precondizioni che li rendono percorribili (sulla base delle esperienze positive e negative fatte). 1) Il gruppo. Agire con e sul gruppo. Precondizione: partire da un gruppo coeso e disposto a mettersi in gioco. 2) La classe. Agire sulla classe. Precondizione: ottenere il coinvolgimento (o perlomeno la piena adesione) da parte di tutto il team docenti. 3) I bisogni. Agire sui bisogni. Precondizione: partire dai bisogni dei partecipanti (per mettersi in gioco e per essere motivati da un problema che appare irrisolvibile). 4) Tempi lunghi. Agire adagio. Precondizione: avere tempo e disponibilità a lavorare per almeno 3 anni. 5) La supervisione. Agire assistiti. Precondizione: facilitatori come leader democratici e competenti nella gestione del gruppo, non (solo) necessariamente esperti. 6) La documentazione. Agire consapevoli. Precondizione: un contratto formativo e di ricerca iniziale molto esplicito. 7) Stare aperti al possibile. Agire nell’incertezza. Precondizione auspicabile (ma si ottiene comunque come esito): esplicitare questa finalità ed essere disponibili a imparare a convivere con l’incertezza. 8) Riconoscimento. Agire visibili. Precondizione: predisporre massima visibilità per il progetto sia dentro la scuola, sia sul territorio.
Per completezza sarebbe corretto indicare anche fattori esterni di fattibilità, fra i quali soprattutto: poter avere in partenza il sostegno
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PARTE II: LE ESPERIENZE Agire consapevoli: la pratica riflessiva come strumento di crescita professionale
dell’organizzazione scolastica, o poter avere un’équipe di coordinamento scientifico generale. Ma di questi fattori esterni per la fattibilità si dirà nelle conclusioni generali. 1. Agire con e sul gruppo Il gruppo
La composizione, la forza, la tenuta e la continuità del gruppo sono un elemento importantissimo per la riuscita del progetto che, nel nostro caso, ha avuto esiti altalenanti e solo tra il secondo e il terzo anno ha assunto una conformazione stabile e definitiva. Un criterio di fattibilità del progetto è la tenuta, la compattezza e l’unità del gruppo di docenti coinvolti. Se si manifestano conflitti irrisolti, strascichi emotivi, divergenze non appianate, le attività di “ad Agio” non possono decollare (perlomeno non prima di averle prese in carico e gestite). Si rimane necessariamente ancorati al minimo possibile e non si riesce a dare pieno respiro alle attività e soprattutto alla riflessione critica su di esse. Per questo possiamo affermare che la definizione del gruppo, la sua stabilità e il lavoro per costruire armonia e cooperazione sia una premessa ineludibile per il successo del progetto. Certo conflitti, dissapori, incidenti ne capiteranno sicuramente, ma è importante evitare per quanto possibile, pena un clamoroso rallentamento del progetto, che siano importati problemi originati all’esterno, soprattutto se non esplicitati, a condizionare le vita interna del gruppo. Se il gruppo di partenza (nei singoli team docenti) è diviso, per ragioni che non dipendono dal gruppo di ricerca-azione, e anzi si portano nel gruppo dinamiche e conflitti da fuori irrisolti, è molto difficile poter adeguatamente intervenire. Si legge in un diario di bordo, all’inizio dell’ultimo anno di attività: “Il gruppo: uno dei criteri principali per il successo di “ad Agio” è il modo in cui il gruppo riesce a lavorare. Se il team della scuola è coeso e disponibile al lavoro cooperativo le attività di “ad Agio” possono avere un impatto molto più evidente sui bambini e sull’ambiente in generale. Da questo punto di vista si registra come quest’anno le premesse per il lavoro siano molto migliori dell’anno passato e che il clima di gruppo sia decisamente più sereno” (Dal diario di bordo del 17 ottobre 2005).
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Ma più che la coesione richiesta a priori è importante la disponibilità a mettersi in gioco. Questo progetto, lo si è visto, lavora molto sugli sguardi e sulle emozioni che più facilmente li interpretano e li trasformano in processi simbolici. Ma lavorare sulle proprie emozioni, considerare il proprio benessere un obiettivo da raggiungere nel progetto, significa essere disponibili a condividere affetti, sentimenti e non limitarsi a una relazionalità fredda. Ovviamente, specie da parte del facilitatore, ci deve essere la consapevolezza incessante di dover avere sempre in mano il timone della relazione e assumersene la responsabilità. Ma il successo del progetto dipende in gran parte dalla possibilità di costruire condizioni non esteriori per lavorare nella massima serenità, soprattutto data da un clima relazionale disteso, in virtù non di un razionale distacco, ma per densità emotiva. Per questo un’attenzione particolare, che rappresenta un tratto essenziale dello stile di conduzione del gruppo, è stata posta sulle condizioni di benessere nell’ambito delle riunioni e sullo stile relazionale. L’abitudine a portare pasticcini, bevande, generi di conforto ad ogni riunione è divenuta ben presto una tradizione consolidata, così come, una volta all’anno, fare la riunione di chiusura sui prati della Val di Fiemme, organizzando un pic-nic che coniugasse lavoro e dimensione ludica. 2. Agire sulla classe
Agire sulla classe. Precondizione: ottenere il coinvolgimento (o perlomeno la piena adesione) da parte di tutto il team docenti. Si è detto che “ad Agio” funziona sulla classe e non sui singoli casi. Certo, occorre intercettare la richiesta di aiuto, da qualsiasi causa sia originata (e quindi molto spesso derivata da specifici casi difficili), ma poi è necessario ridirezionarla, sin dalla stesura del contratto di ricerca sull’intera classe. Legato a questo vi è un altro elemento che era presente nel progetto originario di Marco Rossi Doria, la cui importanza va rimarcata. E cioè la necessità duplice di far sì che siano gli insegnanti stessi i pieni artefici della progettazione e, in secondo luogo, che essa si collochi a “cavallo fra il curricolare e l’extracurricolare”, ovvero che la proposta d’intervento che agisce sulla classe non sia percepita dai soggetti coin-
La classe
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volti come una pausa rispetto all’ordinaria attività scolastica, ma che al tempo stesso sia in grado di uscire dalle griglie rigide che l’attività didattica impone. 3. Agire sui bisogni I bisogni
Agire sui bisogni. Precondizione: partire dai bisogni dei partecipanti (per mettersi in gioco e per essere motivati da un problema che appare irrisolvibile). Nel caso di “ad Agio” il progetto non è partito dalla consapevolezza di un bisogno, ma dalla rilevazione di un problema. Intendendo con quest’ultimo la percezione esterna di una situazione problematica, colta da chi non è coinvolto nel contesto. In particolare il progetto è partito dai dirigenti scolastici che, coinvolti dall’IPRASE, hanno aderito all’iniziativa (tutta finanziata esternamente alla scuola), creando le condizioni ai loro insegnanti per poter partecipare, e invitandoli “dall’alto”, in alcuni casi molto insistentemente, a farsi coinvolgere nel progetto. Questo ha significato, per questo gruppo, dover attendere molto tempo per arrivare alla composizione definitiva, ma soprattutto il lavoro di trasformazione di un problema (una mancanza oggettiva, un rilievo sociale) in bisogno (esigenza soggettivamente percepita), che pure è sempre parte di un progetto di questo tipo, è stato eccessivamente lungo e laborioso. Partire da un bisogno espresso direttamente dai partecipanti consente di lavorare con un gruppo motivato e responsabile, probabilmente più disponibile a mettersi in gioco (come evidenziato al punto precedente) perché direttamente chiamato in causa e responsabilizzato da un progetto, i cui esiti hanno una ricaduta diretta nel contesto in cui i docenti operano quotidianamente. 4. Avere tempi lunghi
I tempi
Agire “ad Agio”. Precondizione: avere tempo e disponibilità a lavorare almeno per 3 anni. Come si è visto la costruzione e il rafforzamento del gruppo, elemento qualificante indispensabile, richiede tempi che non possono più di tanto essere forzati. Ma soprattutto la maturazione delle consapevolezze
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dei partecipanti ha dei tempi propri, lunghi. Ogni progetto che intende essere trasformativo richiede delle pause, dei ripensamenti e delle retromarce. In particolare rifugge ogni fretta. Richiede di non essere ossessionato dalla percezione del tempo che scade che, più dei tempi stessi, rende ansiosa la partecipazione, inasprisce le attese, crea sfiducia e timori. Per questo è importante poter dire “non preoccupatevi del tempo”. Noi procediamo “ad Agio”. 5. Agire assistiti
Agire assistiti. Precondizione: facilitatori come leader democratici e competenti nella gestione del gruppo, non (solo) necessariamente esperti. La supervisione è il momento della condivisione fra i partecipanti dei processi introspettivi condotti individualmente (raramente a coppie). Quindi è il momento più caratterizzante delle attività di “ad Agio”, il luogo principale della produzione di significati; la supervisione diviene il luogo della riflessione, necessario perché le cose non prendano il sopravvento sul loro senso, il fare sul riflettere.
La supervisione
6. Agire consapevoli
Agire consapevoli. Precondizione: un contratto formativo e di ricerca iniziale molto esplicito. Di questo aspetto e della sua centralità ne abbiamo già ampiamente parlato e quindi non ci ritorneremo sopra ancora. Salvo sottolineare che una precondizione per il funzionamento del progetto è la disponibilità dei partecipanti ad accollarsi il faticoso e complesso lavoro di documentazione, di scrittura e di rielaborazione dei testi. Una disponibilità che rientra nel contratto formativo e di ricerca iniziale e che rappresenta, in definitiva, una declinazione particolare della disponibilità a mettersi in gioco.
La documentazione
7. Stare aperti al possibile
Agire nell’incertezza. Precondizione auspicabile (ma si ottiene comunque come esito): esplicitare questa finalità ed essere disponibili a imparare a convivere con l’incertezza.
Il convivere con l’incertezza
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Certo ci si rende conto a proprie spese che occorre lavorare nell’incertezza quando si ha a che fare con il disagio scolastico. Ed è anche vero che non basta una convinzione razionale a vivere quotidianamente nei labirinti del dubbio con serenità e distacco, ma è necessario mettere in campo un forte investimento emotivo e attraverso esso fare i conti con l’incertezza del percorso. Ma certo esplicitare sin dall’inizio cosa ci si può aspettare e con quale atteggiamento disporsi a entrare nel progetto non è solo un segno di onestà e correttezza intellettuale, ma una caratteristica fondamentale del progetto che non è opportuno sottacere (anche se non si tratta di un prerequisito perché, come detto, piaccia o non piaccia, la coscienza dell’impossibilità di uscire dalla complessità e dall’incertezza diviene un esito esperienziale immancabile del progetto). Ma il carico di sofferenza che tale consapevolezza porta con sé può essere significativamente ridimensionato. 8. Agire visibili L’essere riconoscuti
Agire visibili. Il percorso di maturazione delle consapevolezze e la trasformazione di esse in competenze, in una parola il processo di empowerment, richiede, per essere concluso, diversi livelli di riconoscimento esterno. Per depositare nella propria identità di insegnante, più ancora che nel proprio profilo professionale, le competenze acquisite nel progetto, si ha bisogno che queste siano riconosciute e in qualche modo implicitamente validate dall’esterno. Dapprima è sufficiente il livello del gruppo e delle riunioni di supervisione generale (fondamentale in questo senso il ruolo di Rossi Doria) come spazio di riconoscimento reciproco. Poi si richiede un riconoscimento più ampio soprattutto nella scuola: fra i colleghi e, soprattutto, dal dirigente scolastico. Ma ancora di più nel nostro caso è stato fondamentale prima il finanziamento e l’apprezzamento del progetto da parte della Fondazione Caritro, e poi la piena riuscita della presentazione pubblica come stimolo di autoriflessione e accrescimento di consapevolezza. Comunicare ad altri è un modo per dare parola ai cambiamenti. È solo quando si riesce a dare parola ai cambiamenti che questi divengono autenticamente nostri. Quando poi queste parole sono “regalate” ad altri, quando le vediamo negli altri, le riconosciamo e diventano
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nostre. Quando colleghi che non si conoscono restituiscono un messaggio di comprensione e di apprezzamento, o anche di critica motivata del lavoro svolto, si ha quella funzione di rispecchiamento in cui si riconoscono all’esterno quelle conquiste che, internamente, si faticano a vedere. Allora il cerchio si chiude, le competenze si depositano.
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La parola ai docenti sperimentatori
Hanno collaborato: Chiara Paolazzi e Sara Lorenzoni della scuola primaria di Lavis; Sandra Bosin e Monica Bozzetta della scuola primaria di Predazzo.
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Dalla relazione finale dell’attività di Predazzo a.s. 2004-05
Rileggendo il progetto, ci soffermiamo in particolare sulle finalità generali e sugli obiettivi.Tutte le attività sono state proposte al fine di creare un clima positivo in classe, finalità principale di tutto il progetto. Nel corso dell’anno scolastico, però, sono stati tralasciati alcuni obiettivi, non perché ritenuti poco importanti, ma perché in entrambe le classi è emersa l’esigenza di svolgere attività volte a sviluppare una miglior capacità relazionale. Abbiamo perciò solo accennato al fatto che ogni emozione genera un pensiero e che questo a sua volta provoca un comportamento; i bambini, infatti, sono già consapevoli del fatto che un comportamento è legato a un pensiero, positivo o negativo suscitato da un’emozione, che di per sé non è mai “cattiva”. Viste le difficoltà relazionali tra gli alunni, abbiamo preferito invece soffermarci di più su attività che aiutino a stabilire rapporti positivi sia tra coetanei che con gli adulti. Per questo, dopo aver cercato di aumentare l’autostima di ciascuno (Gioco delle carezze, Diario delle carezze, Il gioco del piacersi, Il mio sole, Racconto: La volpe Giulia), siamo passati alla capacità di accettare le critiche (Di te mi piace tutto, ma mi dà fastidio…). A questo punto abbiamo riflettuto su come ci si sente ricevendo una critica, distinguendo tra critiche fatte in modo positivo e in modo negativo. È stato quindi introdotto il concetto di “linguaggio giraffa e linguaggio sciacallo”, sperimentati entrambi in situazioni inventate, ma vicine alle realtà dei bambini. Ci siamo accorte, proponendo attività di vario tipo, che gli alunni partecipavano con meno entusiasmo ai lavori di riflessione e commento, mentre erano più attivi in situazioni di gioco o di simulazione (d’altra parte, FARE attira di più che PENSARE…). Quindi abbiamo programmato, per l’ultimo periodo, diversi giochi che portino i bambini a vivere in gruppo e doversi confrontare, gestire i conflitti e tollerare le frustrazioni che ne derivano (Il gioco del naufragio, Fare pace, Disegna un conflitto in corso e poi risolto, Offerte di pace). Riguardare il progetto e le attività svolte ci ha soddisfatto per i contenuti proposti, che hanno reso più consapevoli i bambini del proprio io e delle proprie emozioni, cosa generalmente non realizzabile nelle normali attività scolastiche, in quanto non rientrano in nessuna programmazione didattica. A quasi tutti i bambini piace “Star bene è”, ma non abbiamo avuto evidenti e positivi riscontri nelle normali attività sull’aumento del benessere in classe. Al contrario, alcuni bambini sembrano provare più disagio proprio nei lavori centrati sulle emozioni e sui rapporti interpersonali. Ciò nonostante siamo convinte che iniziare a parlare apertamente di emozioni e a viverne la complessità nelle relazioni, prendendosi poi i tempi per riflettere sulle dinamiche dei conflitti e delle frustrazioni, possa aiutare a creare personalità emotivamente più forti, aumentando così la soglia del benessere.
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ATTIVITÀ E CONTENUTI
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Per stare bene assieme è necessario rispettare delle regole essenziali: Rispetto delle regole di classe (per esempio negli spostamenti sui corridoi e nelle conversazioni). Rispetto degli altri (nessuno deve essere preso in giro per ciò che dice o fa, né criticato, le confidenze di ciascuno devono essere mantenute segrete,…). Rispetto dell’attività proposta. Lettura del racconto “I tre amici”: Ricostruzione orale della storia, conversazione da cui emerga il concetto che ognuno ha delle doti importanti e riesce meglio in alcune cose piuttosto che in altre. Suddivisione in due sottogruppi che devono autonomamente ricostruire la storia su un cartellone, scegliendo modalità e tecniche. Illustrazione dei loro lavori a tutti i compagni di classe, che sono chiamati a commentare, apprezzare e criticare (in modo costruttivo) le attività degli altri gruppi.
Valutazione del percorso fatto: i bambini sono chiamati a valutare le varie attività fatte (ascoltare, conversare, organizzare il lavoro nel sottogruppo, disegnare, preparare il cartellone, illustrarlo alla classe), assegnando a ciascuna un punteggio da 1 (per niente) a 5 (moltissimo) e motivando la loro scelta. • Diamo un titolo alla nostra attività: Suddivisione in piccoli gruppi, con la consegna di proporre alcuni titoli adatti alla nostra attività. Condivisione delle proposte emerse, registrate alla lavagna. Scelta a maggioranza del titolo definitivo. “Star bene è…” • Una persona mi piace quando… Una persona non mi piace quando… Conversazione in gruppo: quali qualità, atteggiamenti, comportamenti mi piacciono in una persona? Lavoro individuale: ogni bambino cerca un posticino nell’aula e scrive su un bigliettino quando una persona gli piace. Raccolta delle idee su un cartellone: commenti, esemplificazioni, opinioni. Le stesse attività vengono riproposte per l’interrogativo: Quando invece una persona non mi piace? • Io mi piaccio quando…
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Conversazione in gruppo: quali qualità, atteggiamenti, comportamenti mi piacciono di me stesso? Diario delle “carezze” (da fare a casa): scrivo ogni giorno, per una settimana, quando mi sono piaciuto e perché. Il gioco delle carezze: Ogni bambino prepara un foglietto con il proprio nome, scritto in basso; i foglietti vengono passati e ciascuno scrive una o più qualità del compagno cui appartiene il foglio, senza leggere le carezze fatte dagli altri precedentemente; quando il foglietto arriva al proprietario, questi legge le carezze ricevute ed esprime il suo stato d’animo. Il gioco del piacersi: a coppie, prima spontanee, poi casuali, i bambini a turno si dicono: “Mi piaccio quando, perché… Mi piaci quando, perché…”; assieme poi discutiamo sull’efficacia del gioco, sugli stati d’animo,… Lavoro individuale: ogni bambino compila una scheda, “Il mio sole” (io sono, io so, mi piace...). • Verifica “Star bene è…” • Saper accettare le critiche: Gioco: Di te mi piace tutto, però mi dà fastidio… Tutto il gruppo è disposto in cerchio; ognuno si rivolge a un compagno/a con la frase indicata e sottolinea un comportamento o un atteggiamento che lo/la infastidisce. Il bambino che riceve la “critica” non si giustifica, non reagisce, ma risponde: “Ti ringrazio di avermelo fatto notare. Cercherò di migliorare”. Si conversa poi sulle reazioni e gli stati d’animo provocati dal gioco. “Come ti senti quando ricevi una critica? Cosa fai dopo aver ricevuto una critica? Cosa ti fa più male di una critica?” Ogni bambino risponde su un bigliettino a queste domande, poi, a livello di gruppo, si raccolgono le idee di tutti e si sintetizzano su un cartellone. Riguardando il cartellone, in seguito, emergono le caratteristiche delle “critiche positive” e delle “critiche negative”.
UNA CRITICA È NEGATIVA QUANDO:
Offende (uso di parolacce). È esagerata, si usano termini come sempre, mai, niente, sei il solito,…, generalizzando un difetto o una carenza. È ironica e prende in giro, specie se per cose di cui non si ha colpa (aspetto fisico, malattie, errori involontari,…). Esclude, manda via (Non ti voglio più, vattene, non sei più mio amico…).
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Si fa un confronto, un paragone con compagni più piccoli (sei come un bambino dell’asilo), o con compagni più “bravi” (guarda il tuo compagno e impara,…) È detta con rabbia, in modo sgarbato. Umilia, mette in imbarazzo davanti a tutti. Accusa ingiustamente. Sminuisce un lavoro fatto. Minaccia o ricatta.
UNA CRITICA È POSITIVA QUANDO:
Incoraggia. Riconosce l’impegno, al di là dell’errore. Consiglia, dà delle indicazioni. Sdrammatizza (fa lo stesso,…). Usa un tono gentile e il condizionale (per favore, vorrei,…). Giudica il comportamento e non la persona, evitando di generalizzare. Lavoro a piccoli gruppi: Scriviamo 5 critiche fatte in modo positivo e 5 fatte in modo negativo ad un compagno immaginario. Vengono poi lette e commentate a livello di grande gruppo. Linguaggio GIRAFFA e linguaggio SCIACALLO. Viene proposto ai bambini un “modello” di comunicazione verbale: la giraffa vede lontano, osserva il comportamento senza giudicare, esprime i suoi sentimenti, bisogni e desideri (VEDO, MI SENTO, HO BISOGNO, VORREI); lo sciacallo, invece, osserva e giudica, pretende e aggredisce. Attività: I bambini, divisi in gruppetti spontanei, partendo da una situazione che illustra un comportamento sbagliato, inventano una reazione-critica da giraffa e una da sciacallo. Poi rappresentano sotto forma di scenetta ciò che hanno prodotto. (Esempio: Verifica andata male, reazione dei genitori. Un bambino sbaglia un goal facile, reazione di un compagno di squadra. Un bambino è distratto durante una spiegazione in classe, reazione dell’insegnante…). • Gestire i conflitti e tollerare le frustrazioni: Gioco: Il naufragio. I bambini sono coinvolti in un incidente navale; sulla scialuppa di salvataggio si possono portare solo dieci oggetti. Ogni bambino compila una lista, poi si formano due gruppi da cinque e da ciascuno uscirà una lista unica. I due gruppi dovranno poi accordarsi sui dieci oggetti da
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portare con sé. È stato facile trovare un accordo? Ci sono stati dei conflitti? Come si sono svolte le trattative? I bambini si sono sentiti ascoltati? Gioco: Fare pace. Si propone una situazione: due amici del cuore litigano e non intendono più parlarsi. Perché sono così arrabbiati? Cosa potrebbero fare per andare di nuovo d’accordo? Ogni bambino cerca di rispondere prima per conto proprio, poi presenta le proprie ipotesi al gruppo. Insieme si riflette su quale sia la migliore e quale soluzione abbiano già sperimentato con successo. Disegno: illustriamo su un cartellone in gruppo (da tre) un conflitto e la sua soluzione, usando tecniche e colori a piacere. Riusciamo ad accordarci e trovare un’idea comune? Gioco: Offerte di pace. Conversiamo sul fatto che i conflitti nascono perché i propri desideri non vengono soddisfatti. Questi potenziali conflitti possono essere evitati attraverso “offerte di pace”. Nel gruppo si raccolgono i desideri dei bambini da cui nascono sempre dei conflitti (vedere un certo film, a scuola sedersi accanto ad un certo compagno, comprare qualcosa, giocare prima dei compiti,…). Successivamente si discutono le offerte di pace (registrare il film, fare un patto di “buona condotta”, …). Ogni gioco/ attività è seguito da una conversazione riguardante l’efficacia del lavoro e gli stati d’animo relativi.
Dalla relazione finale dell’attività di Predazzo (a.s 2005-06) Mercoledì 12 ottobre 2005
Dopo aver descritto brevemente le attività che faremo ogni mercoledì (disegni, cartelloni, uscite, conversazioni ecc.), tutti insieme, con la maestra Sandra e la maestra Monica, vengono presentati i simboli che useremo, di volta in volta, per esprimere i nostri stati d’animo, al termine di ogni intervento. Ricordiamo insieme, disegnando sulla lavagna, come ci si sente quando c’è il sole, caldo e luminoso, quando ci sono un po’ di nuvole e infine quando c’è il cielo molto nuvoloso; proponiamo, quindi, di disegnare su un cartoncino bianco un bel sole quando si è stati bene e a proprio agio, il sole coperto da alcune nuvole quando c’è stato qualcosa che ci ha disturbato o turbato (mi sono sentito così così), delle nuvole grigie e minacciose quando non siamo stati bene. Ogni bambino poi incollerà il suo cartoncino sul cartellone che sarà appeso in classe.
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Viene chiesto al gruppo classe: “Quando stai veramente bene, quando si senti a tuo agio?” Dopo aver sentito ogni bambino che ricordava una sua esperienza di proprio benessere e tranquillità, abbiamo invitato ciascuno a fare un disegno di quando sono stati bene, con chi e facendo che cosa.Tutti i disegni sono stati incollati su un cartellone dal titolo: Sto bene quando…
Dalla relazione finale dell’attività di Lavis (a.s 2004-05) Oggi giochiamo con
CHE COS’È “AD AGIO” (Dopo due anni di lavoro)
“ad Agio” è un progetto che, in un’ottica di condivisione fra vari saperi (psicologico, pedagogico, antropologico, sociologico) vuole cercare di dare una risposta alle difficoltà legate al disagio, promuovendo all’interno della scuola una nuova progettualità che abbia come punti cardine la presa in carico delle persone in crescita e l’elaborazione di attività in classe volte a sperimentare risposte nuove alle diverse manifestazioni del disagio. “ad Agio” non offre risposte dietro l’angolo ai problemi, ma si propone invece come spazio sperimentale di riflessione e di ricerca della soluzione attraverso il dialogo, ponendo i docenti al centro della progettazione. La finalità generale del progetto non è stata la produzione di qualcosa, ma la creazione di un buon clima di classe e la sperimentazione di buone pratiche volte a ridurre il disagio. […]
OBIETTIVI PREVISTI
Sono stati scelti pochi obiettivi, semplici e chiari su cui puntare l’ attenzione: 1) Fare in modo che i bambini si sentano a proprio agio all’interno della classe e si percepiscano parte integrante del gruppo. 2) Favorire la presa di coscienza da parte dei bambini delle proprie emozioni (sia positive che negative) e aiutarli a gestirle. Cercare quindi che i bambini comunichino i propri stati emotivi in un ambiente sereno e accettante.
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3) Incentivare lo spirito di collaborazione fra i bambini in modo che possano condividere una stessa esperienza in cui tutti sono parte attiva.
RIFLESSIONE SUGLI OBIETTIVI RAGGIUNTI
Tutti gli obiettivi sono stati raggiunti da tutti gli alunni, almeno in modo parziale: diciamo “parziale” in quanto per gli alunni più difficili, con problemi caratteriali, il percorso è stato più difficile, anche se alla fine, anche in loro, si è riscontrato un miglioramento sotto il punto di vista relazionale: è maturato in loro il senso del gruppo, la capacità di aiutare e fasi aiutare ed il collaborare per contribuire ad uno scopo comune. Per gli altri alunni questo progetto ha significato un arricchimento personale sotto tutti i punti di vista. Hanno imparato ad accettare i propri limiti e a mettere a disposizione degli altri le proprie capacità e le proprie attitudini.
METODO
In questo progetto è stato importante sottolineare come il metodo e il fine coincidono, quindi la creazione di un buon clima di classe è sia metodo che fine dell’attività. Più in particolare l’attività del progetto si è caratterizzato per: - la compresenza di 2 insegnanti durante l’attività; - l’utilizzo di due ore consecutive (ogni martedì dalle 10.15 alle 12.15); - la scelta di contenuti diversi rispetto alle lezioni curricolari; - le modalità di gestione della classe diverse.
ATTIVITÀ
Per tentare di raggiungere la finalità ultima del progetto è stata scelta un’attività incentrata sulla cioccolata considerando che questo è un alimento che piace a tutti e con il quale è possibile realizzare facili ricette. Si sono presentati la storia e gli usi della cioccolata ai nostri giorni, si sono lette e “provate” molte ricette di dolci alla cioccolata. Abbiamo visitato una pasticceria dove gli alunni sono diventati veri e propri pasticceri! Alla fine dell’anno poi c’è stato un momento di condivisione con i genitori che hanno creduto in questo progetto e hanno preparato insieme ai bambini dolci di ogni tipo con la cioccolata; gli alunni hanno mostrato loro il “ricettario” costruito ed i cartelloni realizzati lungo tutto l’anno.
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Tutte le attività sono state progettate con la finalità di creare le condizioni perché ogni bambino possa sperimentare una situazione positiva di agio. Alcune lezioni di educazione alimentare sono diventate vere e proprie attività di riflessione sulle proprie emozioni. Non abbiamo lavorato “direttamente” sul piano emozionale: a parere nostro gli alunni sono ancora piccoli e faticherebbero a manifestare con serenità davanti ad altri compagni i propri sentimenti. Dopo ogni momento dell’attività abbiamo invitato i bambini a porre domande, manifestare dubbi o perplessità ed anche a proporre attività da realizzare per migliorare il lavoro. L’importante è stato far “sentire” il progetto parte di loro: loro hanno pensato, loro hanno lavorato insieme, loro hanno realizzato e migliorato…loro, di comune accordo e NON le insegnanti per loro!! Per quest’anno ci siamo “limitate” a pensare ad attività piacevoli, divertenti e allo stesso tempo utili per mettere a contatto i bambini, per farli collaborare gli uni con gli altri, per aiutare ed essere aiutati. Il prossimo anno lavoreremo direttamente sulle EMOZIONI, guideremo gli alunni alla scoperta di loro stessi attraverso attività specifiche che verranno poi riprese nelle discipline per raggiungere anche risultati disciplinari veri e propri.
VERIFICA DELL’ATTIVITÀ (Attività settimanale)
All’inizio dell’anno e fino a dicembre, al termine di ogni incontro i bambini erano chiamati a riflettere e prendere coscienza dei propri stati d’animo e delle proprie emozioni durante l’attività. Su di un cartellone, quindi, ogni bambino incolla, accanto al proprio nome, un simbolo a indicare il proprio stato d’animo (la faccia sorridente, la faccia leggermente triste e la faccia triste). Abbiamo capito quasi subito che tutti i bambini incollavano la faccina felice sul cartellone per timore di fare un torto a noi insegnanti a cui sono molto legati. Il nostro errore è stato non rendere anonima tale valutazione (il bambino incollava la faccina davanti a tutti); questo errore non si ripeterà il prossimo anno, nel quale sarà davvero fondamentale, almeno all’inizio, un metodo che possa rassicurare l’alunno, che gli dia il senso di privacy e sicurezza interiore per poter davvero prendere coscienza dei suoi sentimenti senza paura del giudizio altrui. Anche le insegnanti sono state chiamate a riflettere sull’attività svolta e per facilitare l’osservazione ci si è serviti di una traccia. Tale traccia, che non voleva essere una griglia rigida, è nata per contenere i seguenti punti: data, ora, luogo, partecipanti, docenti presenti, descrizione dell’attività, strumenti utilizzati, situazione iniziale della classe e degli insegnanti. In particolare si darà priorità all’osservazione e conseguente documen-
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tazione dell’atteggiamento del bambino nei confronti dei compagni, dell’insegnante, dell’attività. Abbiamo poi tenuto un diario di bordo, dove si è documentata sia l’attività sopra descritta, sia le emozioni di noi insegnanti: un “diario” dove poter scrivere ciò che si pensava (scritto il pomeriggio, dopo l’attività della mattina) e su cui riflettere poi…a mente fredda!! […]
RIFLESSIONE FINALE
L’attività si è svolta nel migliore dei modi. Abbiamo avuto la possibilità di lavorare anche sugli aspetti “emozionali” dei bambini. Il prossimo anno una delle insegnanti di classe non sarà più presente nella scuola. In più, anche un’altra insegnante (di sostegno) e l’assistente educatore cambieranno, in quanto non di ruolo. L’unica insegnante che resterà si trova ad un bivio e si propone di riflettere se proseguire questa sperimentazione oppure no. Molto dipenderà anche dalla nuova collega e dagli altri insegnanti che si conosceranno solo a settembre. Sarebbe interessante attuare il progetto svolto quest’anno dalle colleghe di Predazzo che hanno lavorato quasi esclusivamente sulle emozioni facendo maturare negli alunni la consapevolezza di ciò che accade in noi e la maturità di saper manifestare apertamente questi stati d’animo davanti ai compagni, senza paura del giudizio. È un percorso interessante del quale avremo già molto a disposizione, soprattutto il percorso fase per fase già sperimentato dalle colleghe. Queste ultime attuerebbero invece il nostro nella futura classe I di Predazzo. Sono state ore ben spese che sono servite sia agli alunni sia agli insegnanti. Abbiamo visto crescere ogni giorno di più: Negli alunni: - la capacità di appartenere ad un gruppo classe eterogeneo dove tutti sono diversi; - la capacità di rendersi protagonisti attivi all’interno del gruppo; - la capacità di esprimere e gestire le proprie emozioni/stati d’animo: - la capacità di stare e cooperare nel gruppo per uno scopo comune. Negli insegnanti: - la consapevolezza della necessità di lavorare insieme, di collaborare per il buon andamento del progetto; - la capacità di ammettere le potenzialità delle colleghe e soprattutto i propri limiti;
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- la capacità di mettersi sotto esame senza la paura del giudizio non tanto dei bambini, ma degli adulti (colleghi, genitori…); - la capacità di manifestare le proprie emozioni, i propri disagi, le paure e le ansie per essere aiutate a superarle; - la consapevolezza di non essere infallibili; - la capacità di comprendere che quando non si riesce a “salvare” una situazione “in toto” la si può comunque migliorare. A ciò è servito il progetto che ha avuto riflessi positivi anche nella vita scolastica “fuori” del progetto, sia negli alunni che nei bambini; anche i genitori hanno confermato l’entusiasmo degli alunni nel raccontare quanto fatto a scuola, ma soprattutto nella loro “apertura” (soprattutto in alcuni bimbi molto schivi e timidi anche in casa) sotto molti punti di vista anche a casa, nelle piccole e grandi cose (sono agitato…ho paura di…sono stata contenta quando il papà ha fatto…la mamma mi ha detto…non me la sento di…sono confuso…aiutami…). Griglia di osservazione (dal report “Dal seminario di febbraio al seminario di giugno”, giugno 2005, pagg. 203-205) DATA
ORA
LUOGO
martedì 9 novembre 2004
dalle 10.20 alle 12.15 INSEGNANTI:
in classe
CLASSE
Foglietti, Lorenzoni, Tonazzolli, Previti
ALUNNI ASSENTI:
III C - Clementi
e Cocuzzi
nessuno
DESCRIZIONE DELL’ATTIVITÀ: 1) L’insegnante legge un racconto inventato dalle insegnanti (Elena è una bimba golosa, alla quale piace mangiare di tutto in qualsiasi momento della giornata. A farle capire l’errore non sono le “prediche” di mamma e papà, ma una grande indigestione che la tiene a letto 2 giorni!!!) 2) Discussione in classe con gli alunni su ciò che è corretto o errato nell’alimentarsi (soprattutto sui dolci). 3) I dolci: questionario. 4) Lavoro di gruppo: da alcune riviste ritagliamo i dolci!
Situazione iniziale della classe: La classe è entusiasta di intraprendere questa attività “misteriosa” del martedì mattina.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Dopo alcuni richiami tutti gli alunni ascoltano l’insegnante. Nessuno mostra segni di indisponenza o irrequietezza. Situazione iniziale delle insegnanti: L’insegnante Tonazzolli è seduta con D. al banco. L’insegnante Previti è seduta accanto a M. L’insegnante Cocuzzi è in fondo all’aula per non creare distrazione durante la lettura della storia: M., l’alunno seguito da questo insegnante, è tranquillo e felice. L’insegnante Lorenzoni è seduta accanto ad un alunno per osservare i comportamenti degli alunni e l’insegnante Foglietti legge la storia.
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PARTE II: LE ESPERIENZE Agire consapevoli: la pratica riflessiva come strumento di crescita professionale
Alunni A.A
M.A.
A.B. M.B.
Atteggiamento nei confronti dell’attività +++ L’alunno appare poco entusiasta durante la lettura della storia; si apre di più invece durante il lavoro di gruppo, collaborando positivamente con i compagni. +++ Fatica a prestare attenzione alla lettura della storia.
Atteggiamento nei confronti dell’insegnante +++
Atteggiamento nei confronti dei compagni +++
++
+++
+++
+++ Con alcuni compagni riesce ad instauIl suo atteggiamento cambia molto a rare un rapporto di aiuto reciproco, seconda di chi gli parla o gli ordina di con altri fatica a mantenere invece un fare qualcosa. comportamento corretto. ++ ++
M.Br.
++
D.D.
++
++
P.F.
++
++
T.F.
++
++
Fatica ad inserirsi nel gruppo.
G.F.
++
++
L.F.
++
++
L.G.
++
++
M.K.
++
++
A.L.
++
++
++ Tende a concentrarsi e a giocare con altri compagni anch’essi poco attenti. Necessita quindi di richiami. +++ Tende a voler far prevalere le proprie idee. +++
C.M.
++
++
++
M.M.
++
++
++
F.M.
++
++
++
F.R.
++
++
++
E.S.
++
++
++
R.S.
++
++
++
E.S.
++
++
A.S.
+++
+++
M.T.
++
N.V.
++
D.V.
++
++ Quando è necessario richiamarlo all’attenzione o per ordinargli qualcosa tende ad assumere un atteggiamento di sfida talvolta anche alzando le spalle e disobbedendo. ++
++ Lavora, ma non per tempi prolungati: tende a concentrarsi e a chiacchierare o giocare con altri compagni anch’essi poco attenti. Necessita quindi di richiami. ++
V.Z.
++
++
++ ++
Con alcuni compagni riesce ad instaurare un rapporto di aiuto reciproco, con altri fatica a mantenere invece un comportamento corretto. ++ ++
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Legenda: ++ = estremamente positivo + = positivo • Strumenti utilizzati: libro di fiabe, questionario sull’alimentazione, un cartellone, alcune riviste, forbici, colla e pennarelli. • Materiali prodotti: un cartellone con ritagli di dolci vari. • Valutazione degli alunni: gli alunni, alla fine del lavoro riflettono sull’attività ed esprimono un parere: l’esperienza è piaciuta a molti anche se alcuni hanno espresso il loro disagio quando gli altri compagni non lavoravano o disturbavano il lavoro del gruppo. • Valutazione degli insegnanti: l’atteggiamento durante la lettura della storia è stato generalmente positivo; diversi sono gli interventi costruttivi e propositivi; durante il lavoro di gruppo non sono mancati problemi di organizzazione e discussioni tra gli alunni che hanno comportato da parte delle insegnanti richiami all’ordine e alla correttezza.
Osservazioni Osser vazioni varie: visti gli atteggiamenti, talvolta poco corretti ed impulsivi tra gli alunni durante il lavoro di gruppo, gruppo o, è necessario pensare a come affrontare i prossimi incontri (quali strategie adottare?) • saranno gli alunni stessi a costruire un cart cartellone ellone che “raccolga “r accolga”” le loro sensazioni • idea del contratto fformativ ormativo
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PARTE II: LE ESPERIENZE Agire consapevoli: la pratica riflessiva come strumento di crescita professionale
Griglia di osservazione
DATA: 15/12
ORA: 8,45 - 10,30
LUOGO: sala video
CLASSE: V A INSEGNANTI: Sandra ALUNNI ASSENTI: /// DESCRIZIONE DELL’ATTIVITÀ PROPOSTA: Gioco delle carezze. SITUAZIONE INIZIALE DELLA CLASSE: Super agitati. Xxx ha mangiato del peperoncino
offertogli da Xxy. XYz è esuberante. SITUAZIONE INIZIALE DELL’INSEGNANTE: Preoccupata. ATTEGGIAMENTI DEGLI ALUNNI (attenzione, partecipazione, manifestazioni di disagio…): Nei confronti dell’attività: Non ascoltano. Nei confronti dell’insegnante/i: Non ascoltano, riprendo più volte a spiegare. Nei confronti dei compagni: Ridono, si prendono in giro. STRUMENTI UTILIZZATI: /// MATERIALI PRODOTTI: /// VALUTAZIONE DEGLI ALUNNI: Tutti a disagio ad eccezione di Xxs che dichiara di essersi
sentito bene, perché ha potuto chiacchierare e cantare. VALUTAZIONE DELL’INSEGNANTE: Un disastro. OSSERVAZIONI VARIE: Xxx sotto effetto peperoncino, viene preso da delle “vampate” di
rossore, chiede in continuazione di uscire. Xxs ride, parla a sproposito con battute sciocche, canta. Ci fermiamo più volte, poi risaliamo. Ci sentiamo tutti avviliti. Che delusione! Non sono riuscita a creare u clima positivo per svolgere il gioco delle carezze… peccato. A parte il peperoncino che dava fastidio a Xxx, Xxs era particolarmente disfattista e destabilizzante. Ho preferito interrompere l’attività e tornare in classe e parlarne con loro. Il mio dubbio permanente: l’attività è stata programmata pensando proprio ai bambini che sono più a disagio e provocano più disagio. Cosa fare quando proprio loro si dimostrano disturbanti e bloccano le attività proposte? Credo che sarebbe opportuno mantenersi sereni e sottolineare degli atteggiamenti ipotizzando le emozioni sottostanti (mi pare che … mi sembra d aver capito… e vero?)
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Griglia di osservazione
DATA: 23/2
ORA: 9,50 - 10,30
LUOGO: sala video
CLASSE: INSEGNANTI: Sandra ALUNNI ASSENTI: /// DESCRIZIONE DELL’ATTIVITÀ PROPOSTA: Conversazione sulle critiche fatte dalle insegnanti.
Riflessione sulle nostre reazioni alle critiche: come mi sento, cosa faccio di fronte a una critica? Cosa mi fa male di una critica? SITUAZIONE INIZIALE DELLA CLASSE: Positiva, a parte XXs, insofferente. SITUAZIONE INIZIALE DELL’INSEGNANTE: /// ATTEGGIAMENTI DEGLI ALUNNI (attenzione, partecipazione, manifestazioni di disagio…): Nei confronti dell’attività: /// Nei confronti dell’insegnante/i: /// Nei confronti dei compagni: Positiva, a parte XXs che cerca di stuzzicare tutti. STRUMENTI UTILIZZATI: /// MATERIALI PRODOTTI: /// VALUTAZIONE DEGLI ALUNNI: Molto
positive perché sentono la riflessione come un’occasione di crescita. XXs giallo: “mi hanno criticato” (non è successo!!). VALUTAZIONE DELL’INSEGNANTE: /// OSSERVAZIONI VARIE: Oggi è andata veramente bene. Ma non tanto perché ci sia stata
particolare partecipazione (XXs ha faticato molto e ha dimostrato disagio), piuttosto per una constatazione: “Star bene è” è utile e bello. A volte devo ricordarmelo, quando mi scoraggio o non riesco a vederne l’utilità. Quasi tutti sono stati a proprio agio ma mi sono piaciute soprattutto alcune motivazioni: “È stato superbellissimo parlare tranquillamente delle critiche e riflettere su come reagiamo”. “È bello sapere che posso dire le cose che penso, senza ferire nessuno se lo faccio in un modo positivo”. Ho visto i miei alunni (anche se purtroppo solo metà…) come persone, mature in molti casi, più a disagio in altri, ma con tanta voglia di parlare e dire ciò che provano. È difficile, a scuola, trovare spazi per fare ciò, sono contenta di aver offerto ai miei alunni quest’occasione.
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PARTE II: LE ESPERIENZE Agire consapevoli: la pratica riflessiva come strumento di crescita professionale
Star bene è ... L’esperienza di “ad Agio” delle scuole di Predazzo e Lavis
Il seguente testo è tratto dalla presentazione multimediale fatta al seminario di marzo 2006 quando la lettura narrativa del percorso progettuale di “ad Agio” era accompagnata da immagini evocative e da testi tratti principalmente dai diari di ricerca delle insegnanti. Ci è impossibile rendere qui, sulla pagina scritta, la densità emotiva di quella performance. La scelta allora, nel presentare un primo resoconto di un lavoro biennale a colleghi insegnanti, era stata quella di utilizzare un registro narrativo-poetico con il fine di suscitare emozioni sui vissuti legati alle attività più che descrivere analiticamente la struttura del progetto. “La scuola deve essere per i giovani un luogo protetto in cui provare ad allargare le ali, in cui cominciare a vivere in gruppo imparando a sviluppare le capacità relazionali ma anche a gestire l’emozione ed i sentimenti”. Noi ci abbiamo provato, e, come registi alle prime armi, ci siamo messe in gioco. Noi, i registi, gli alunni i veri attori protagonisti della scuola! Abbiamo in mente la trama di questo film, quella è ben chiara: sperimentare sul campo strategie atte a capire e ridurre il disagio e a potenziare le buone pratiche. Per una volta lasciamo da parte gli obiettivi più strettamente didattici e ci mettiamo in gioco per provare ad accogliere il disagio e ridurlo: obiettivi quindi, più legati al piano emozionale: creare un buon clima di classe, alzare la soglia del benessere nel nostro gruppo. Da marzo 2004 a marzo 2006: Facciamo fatica, ci costa molte ore di lavoro! Cominciamo a raccontare … Il nostro film s’intitola “Star bene è …”! Un film un po’ speciale però: non c’è un copione da studiare per poi essere recitato! Alla base di questo film c’è la spontaneità di tutti gli attori, che sono i nostri alunni. C’è solo un filo che li conduce, costruito da noi registe. Sapevamo solo DOVE questo filo doveva condurci: gli obiettivi cioé erano chiari e condivisi, tutto il resto era frutto dei nostri piccoli attori. Durante le riprese, ad ogni “ciak, si gira” sapevamo che dovevamo prestare la massima attenzione, monitorare ogni momento perché il filo
“ad Agio” IPRASE del Trentino
conduttore lo tessevamo passo passo, a seconda degli stimoli che giorno dopo giorno i nostri alunni ci mandavano.
È stato grazie all’osservazione accurata, alla progettazione e ri–progettazione continue e allo scambio di idee che siamo arrivate oggi fin qui convinte di non aver fatto un miracolo ma di aver sicuramente contribuito a creare ciò che volevamo: un buon clima di classe. Come in ogni sceneggiatura che si rispetti, ci sono: una fase della progettazione, una fase della “messa in scena” … ed una fase di “aggiustamento” affinché il nostro film possa riuscire davvero bene. Nella fase della progettazione si pianificano attività volte a creare le condizioni perché ogni bambino possa sperimentare una situazione positiva di agio. Nella fase della “messa in scena” gli alunni diventano i protagonisti: parlano, si muovono, si ascoltano e creano qualcosa…qualcosa non significa esclusivamente produzione di materiale, come spesso siamo abituate per indole professionale a pensare. Qui s’intende qualcosa di più profondo, visibile nei gesti, nelle parole, nella vita quotidiana del gruppo.
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La fase di “aggiustamento” esige in un primo momento l’obbligo da parte degli insegnanti di monitorare i piccoli attori che in modo spontaneo “scrivono” il copione, che nasce lì, in quei momenti… Il monitoraggio serve per capire se il filo conduttore ci porta agli obiettivi stabiliti; non si giudicano gli attori, ma si osservano da lontano: si analizza e si documenta il loro modo di essere, il loro modo di esprimere se stessi, con parole, gesti ed immagini…
Diario Il “gioco del naufragio” mi ha dato modo di osservare azioni-reazioni degli alunni, evitando di giudicarli. Agostino ha mantenuto sia oggi che la volta scorsa atteggiamenti aggressivi ed arroganti, imponendosi con prepotenza e impedendo agli altri di esprimere le loro idee o di contraddire le sue. È mal sopportato dai compagni. Fatica ad essere se stesso. Ho condiviso con la sua mamma alcune di queste riflessioni: speriamo serva. Mi piacerebbe fare qualcosa di più per aiutarlo a superare questi problemi. …..
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Diario …sono sorpresa di come gli alunni si siano entusiasmati così tanto per questo lavoro. Credo di poter affermare con certezza di aver trovato l’idea, il tema giusto per “far presa” su di loro. Il lavoro di martedì ha cominciato già a dare i suoi frutti ! Probabilmente prima non avevamo il “compito” di osservare e documentare l’attività e gli atteggiamenti degli alunni nei minimi particolari, e tutto passava… Adesso siamo impegnate a farlo e ciò è molto utile anche a noi, per migliorarci e per far migliorare… Ciò è stato fondamentale per la buona riuscita del film: monitorare i nostri attori è servito per riflettere sul nostro modo di lavorare ed è stato utile per migliorare. Può succedere spesso che qualcosa non funzioni, parecchie volte. E non sempre si riesce ad ottenere ciò che si sperava… In alcune occasioni ci scoraggiamo perché non tutto fila liscio. Allora si sperimenta, si modifica qualcosa.
Diario Che disastro, sono proprio incapace di “governare” il mio gruppo; non riesco a trasmettere l’importanza delle regole e dell’attività. Ho proprio l’impressione di non valere nulla come insegnante e il mio disagio è grande. sembra inutile ciò che si fa, sembro inefficace io, che faccio fatica a coinvolgere tutti. Aiuto! Propositi per la prossima volta: più ordine, più rispetto, altrimenti non ha senso lavorare perché non si sta bene, anzi… C’è però da tener presente una cosa che noi registi abbiamo imparato sulla nostra pelle, piano piano: se tutto deve essere perfetto basta far recitare gli attori secondo un copione stabilito con tutti i punti e le virgole studiate a memoria... Allora tutto è perfetto!!! Non è questo che vogliamo però!!! La nostra sfida professionale è stata doppia.
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Da un lato abbiamo provato a creare un film originale per l’assenza di copione e dall’altro ci siamo messe in gioco in prima persona sapendo perfettamente che questo lavoro ci avrebbe portato a riflettere su noi stesse come insegnanti e forse anche come persone. A parole è facile, ma in pratica è difficile fermarsi e guardarsi dentro anche se l’obiettivo finale è cambiare per migliorare. A volte abbiamo avuto paura perché non sempre funzionava ed è stato proprio in questi momenti che abbiamo dovuto metterci in discussione e cambiare. Nella produzione di un film originale dobbiamo prendere quello che arriva dalla spontaneità degli attori e, grazie al monitoraggio costante, fatto con apposti strumenti che sono a vostra disposizione, provare a cambiare qualcosa nella struttura del film: le luci, i costumi, la scenografia, gli strumenti utilizzati dagli attori, ma NON scrivere il copione… E tante volte ci siamo ritrovate, dopo le riprese, insoddisfatte per come era andata. Invece ai nostri attori il copione prodotto in quel giorno suscitava entusiasmo e felicità. Abbiamo imparato quindi che non sempre le emozioni provate da noi registe coincidono con quelle dei protagonisti del film.
Diario Oggi non mi è piaciuto molto, ma a loro sì: tutti hanno scelto il cartellino verde. Eppure secondo me faticano ad ascoltarsi e quindi non sono stati sottolineati del tutto gli aspetti positivi di una critica. Probabilmente io mi sono fatta influenzare dalle provocazioni di Silvio, mentre evidentemente i compagni hanno dato più importanza all’attività: meglio così! …Ogni tanto penso che non ce la faremo mai! Abbiamo fatto molto per questo progetto: lo programmiamo nei minimi dettagli, impieghiamo tanto tempo e ci mettiamo un sacco di energia e poi, trac! Crolla tutto per due bambini che proprio non vogliono sentir storie! Forse sono io ad essere sbagliata, forse avevo troppe aspettative e mi lascio andare a forti entusiasmi. Dalla prossima volta…lavorare, progettare ed organizzare
“ad Agio” IPRASE del Trentino
ma mai più fare i conti senza l’oste! Non devo davvero aspettarmi i miracoli. Devo apprezzare i piccoli passi! Non sono mica un vatusso che ogni passo può fare due metri, no? Oggi è andata veramente bene. Ma non tanto perché ci sia stata particolare partecipazione (Mario ha faticato molto ed ha dimostrato disagio), piuttosto per una constatazione: “star bene è…” è utile e bello. A volte devo ricordarmelo, quando mi scoraggio o non riesco a vederne l’utilità. Quasi tutti sono stati a proprio agio, ma mi sono piaciute alcune motivazioni:” È stato super bellissimo parlare tranquillamente delle critiche e riflettere su come reagiamo.” “È bello sapere che posso dire le cose che penso, senza ferire nessuno, se lo faccio in modo positivo.” Ho visto i miei alunni come persone mature in certi casi, più a disagio in altri, ma con tanta voglia di parlare e dire ciò che provano. È difficile a scuola trovare spazi per fare ciò, sono contenta di aver offerto ai miei bambini questa occasione. Il successo sta anche negli insuccessi. Lo abbiamo capito andando avanti… È successo che un regista era sconfortato perché alcuni attori non avevano contribuito come sapevano fare o perché le luci non avevano funzionato come avrebbero dovuto o perché quel giorno, causa un suo malessere personale, non era riuscito a guidare gli attori con pazienza e tranquillità. E siamo arrivate fin qui. Non è un film riuscito perfettamente…ma va bene così. I colpi di scena questo film non li sa reggere. Attori difficili ne abbiamo incontrati parecchi: quelli tosti, capricciosi o addirittura violenti… Non siamo purtroppo riuscite a cambiare il loro atteggiamento: per questo ci sono appositi servizi esterni in grado di farlo perché hanno più competenze e strumenti di noi.
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Siamo però convinte che il clima che si respira ora sul palcoscenico della nostra classe è differente: i nostri piccoli attori si conoscono e sanno guardarsi l’un l’altro in maniera diversa: conoscono pregi che valorizzano e difetti che accettano, anche di quei protagonisti a volte un po’ più capricciosi. … ci siamo fatte forza l’un l’altra… In questo film non si guarda solo al singolo, è sbagliato. Il copione appartiene a tutto il gruppo: tutti danno qualcosa, tutti sono i protagonisti. Chi più chi meno è riuscito a dare e fare…
Diario È aumentata in generale la soglia del benessere: riescono ad esprimere le proprie opinioni e a tollerare meglio che l’altro possa anche non accettarle. Cercano di usare un “linguaggio rispettoso” sia nel far le critiche che nel rispondere ad eventuali obiezioni che possono venir loro mosse. La classe è consapevole dell’importanza che riveste il modo in cui ci si esprime: le critiche sono meglio tollerate se espresse in modo adeguati, mentre molti sanno sottolineare eventuali aggressioni verbali subite da loro o da altri. Pazzesco! Oggi è successa una cosa bellissima, di quelle che ti “caricano” alla grande. Quando Franco, scendendo le scale, ha detto a Sara, la sua compagna “di fila”:-“AH! Scusa se ti ho stretto la mano. Mi son dimenticato che nel gioco mi avevi detto che di me è proprio quello che non ti piace”. Sono andata a rileggere il pensiero che aveva espresso nel gioco, ed era proprio vero! Sara, ha scritto a Franco: “di te mi piace tutto perché sei un simpaticone, ma mi dà fastidio quando mi stringi troppo la mano quando siamo in fila. So che scherzi, ma mi fai male !!!” Beh’…è una piccola, ma bella soddisfazione!
“ad Agio” IPRASE del Trentino
A giugno il nostro film termina le riprese: ne faremo altri, risulteranno diversi, completamente diversi perché cambieranno gli attori, è logico.
Nessuno ci darà l’Oscar per questo film; lo diamo noi a tutti quelli che come noi ci hanno provato perché questi sono gli unici film che davvero…. raccontano la verità. In tutto e per tutto!!! Un ringraziamento particolare al nostro supervisore prof. Massimiliano Tarozzi per l’aiuto e il sostegno datoci in ogni momento.
Le insegnanti di Predazzo e Lavis
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Parte III Riflessioni conclusive
“ad Agio” IPRASE del Trentino
La mappa Maria Luisa Pollam
Nei tre capitoli precedenti, in cui i tutor ripercorrono l’esperienza fatta con i docenti e ricostruiscono, anche attraverso la voce degli stessi protagonisti - i docenti appunto e in alcuni passaggi anche i bambini - il cammino di tre anni, l’immagine che al lettore potrebbe rimanere è di gruppi che partono da un input iniziale comune e che si muovono poi autonomamente in direzioni diverse. E un po’ è così. Si è partiti infatti da una cornice di sfondo che, seppure un “un po’ opaca e destrutturata”, come l’ha definita Cristina Bertazzoni nel suo racconto, in realtà aveva dei paletti, delle puntualizzazioni anche marcate. Come il fatto, ad esempio, che i bambini dovessero essere al centro dell’attenzione progettuale in ogni fase del lavoro; che si ponesse il focus sul fare, curando i percorsi in ogni passaggio e curando i setting spaziali e temporali, dandosi degli obiettivi precisi ma anche tenendo traccia di quello che sarebbe accaduto; che si progettasse un’azione a cavallo tra il curricolare e l’extra curricolare; ma anche che si accettasse l’incertezza come cornice inevitabile, naturale del procedere innovativo e la diversità tra contesti e tra identità come elemento ineliminabile; che si adottasse infine una metodologia basata su una progressiva attivazione di competenze nei docenti, visti come ricercatori e attori protagonisti del cambiamento. L’esigenza però di dare risposte ai bisogni emergenti nelle situazioni reali, utilizzando gli strumenti e i modi che i tutor avrebbero messo in campo in termini di professionalità e di stili di lavoro e, soprattutto, la volontà di recuperare cose che già gli insegnanti sapevano fare, ha finito per dare una caratterizzazione diversa ai percorsi che si sono sviluppati su quella cornice, anche se orientata. La stessa sensazione di non comparabilità dei percorsi che ciascun gruppo stava attivando è stata vissuta nella prima fase anche dall’équipe tutoriale, che pure aveva condiviso quelle linee guida da tenere come faretti sullo sfondo per orientare i gruppi e portarli, anche attraverso piste e mezzi diversi, al traguardo, all’individuazione cioè di “strategie atte a capire e ridurre il disagio e a potenziare le buone pratiche”, come recita il sottotitolo del progetto.
Dalle differenze tante comunanze
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PARTE III: RIFLESSIONI CONCLUSIVE La mappa
Ma è stata un’esperienza breve. Dopo la prima fase di rodaggio che è stata per la verità abbastanza lunga tenuto conto che i gruppi hanno avuto avvii diversi - nel momento in cui all’interno degli incontri in plenaria, si è avviato il confronto tra le diverse progettualità, hanno incominciato a farsi strada, con sempre maggiore evidenza, elementi comuni, agganciati sì a situazioni, agiti diversi, ma riconosciuti ben presto - non solo dall’équipe tutoriale, ma dai docenti stessi - non come esiti casuali, ma come risultati di un processo che nasceva da una stessa filosofia di approccio e da una metodologia comune condivisa. Così da un’immagine iniziale di tre strade che in alcuni momenti sembravano convergere su alcuni punti per proseguire poi in direzioni diverse, ha preso forma pian piano un’altra immagine, quella di tre cerchi, le tre esperienze, racchiuse dentro un’unica cornice, il progetto. Il punto di intersezione delle tre esperienze, via via che si procedeva nel lavoro con i gruppi, grazie anche ai momenti di incontro e di confronto - i seminari - si è gradualmente allargato fino a comprendere un’area piuttosto ampia, quella che nella Figura 1 viene indicato, come zona α. In quest’area, nella fase di riorganizzazione e sistematizzazione dei materiali, si sono voluti collocare gli elementi comuni che sono emersi dal confronto tra i gruppi e dalla riflessione sulle esperienze. Si tratta ovviamente di aspetti che, essendo appunto comuni e trasversali ai percorsi dei gruppi, ovviamente sono segnalati anche nel racconto dei tutor. Per facilitare il lettore, si è voluto riprenderli ed organizzarli in uno schema che anche visivamente restituisse il senso e la portata degli esiti che quel progetto, con quella cornice, con quell’approccio, con quei tutor, anche se per strade diverse e con strumenti diversi, ha prodotto.
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Figura 1: Rappresentazione grafica del progetto
Legenda: Il Progetto
Esperienze Gruppo 1
Esperienze Gruppo 2
Esperienze Gruppo 3
Zona α: elementi comuni
Metodo Strumenti Significati
Metodo • Progettualità • Supervisione • Gruppo • Tempi
Strumenti • La scrittura come memoria
Significati • I colori del disagio • La scrittura come riflessione
Quelli riportati nello schema sono gli elementi di successo e di modellizzazione, e quindi anche di trasferibilità dell’esperienza, che si andranno a sviluppare nelle pagine seguenti. Alcuni attengono a questioni di metodo, altri agli strumenti utilizzati, altri infine al significato che le diverse azioni e interpretazioni veicolano.
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PARTE III: RIFLESSIONI CONCLUSIVE La mappa
QUESTIONI DI METODO Una progettualità aperta ...con uno spazio di riflessione
Tra le questioni di metodo, un elemento emerso dai tre gruppi è il fatto che tutti abbiano adottato una progettualità aperta. Il progetto nasceva infatti dalla convinzione che, per affrontare e risolvere le situazioni di disagio che l’insegnante si trova ad incrociare e gestire quotidianamente nella scuola, più che un ricettario di proposte risolutive fosse importante offrire uno spazio sperimentale di riflessione e di ricerca di soluzioni, recuperando le risposte che ogni insegnante, avendo davanti agli occhi da tempo situazioni problematiche, aveva elaborato a livelli diversi. Partire da quello che gli insegnanti già fanno o da quello che ritenevano opportuno fare significava dunque dare spazio a progettazioni che facessero riferimento a vissuti e agiti di diverso segno e colore, accettare anche di fare scelte su cui ritornare perché ritenute magari inadeguate, o accettare di sbagliare e di correggere il tiro della propria azione, a partire dai risultati e dalle cose osservate. Significava, soprattutto, accettare che ciascun gruppo scegliesse liberamente le modalità con cui muoversi dentro il problema di come affrontare il disagio. E la sorpresa che caratterizza l’insieme dell’esperienza “ad Agio” è stato che tutti i gruppi, partiti in modo autonomo verso direzioni diverse, abbiano infine focalizzato l’attenzione sull’obiettivo comune dello star bene a scuola, piuttosto che su obiettivi inerenti i processi di apprendimento.1 E ciò è dovuto probabilmente anche al fatto che i tre gruppi hanno lavorato durante i primi incontri sulla nozione del disagio vissuto da parte degli stessi insegnanti, esperienza che ha comportato una convergenza comune verso problematiche di ordine relazionale ed emotivo. Tutto ciò non è da leggere come se le problematiche di ordine emozionale e relazionale fossero le prevalenti come entità numerica nel contesto scolastico, ma semplicemente come segno che evidenzia come tali problemi siano quelli nei confronti dei quali gli insegnanti
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Tre - come ha evidenziato Giuseppe Nicolodi in un suo intervento, all’interno di un incontro di lavoro dell’équipe sulla documentazione - i livelli di energia emotiva: star bene in sé, star bene con l’altro, star bene nell’apprendere.
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si sentono maggiormente in difficoltà e nei confronti dei quali probabilmente sentono di avere meno competenze e meno strumenti professionali. Quindi la autonoma e non preordinata convergenza dei tre gruppi verso problematiche di ordine relazionale ed emozionale (con modalità diverse dovute anche alla specificità dei vari gruppi, data anche l’età considerata, soprattutto per quanto riguarda il gruppo della scuola dell’infanzia), può essere preso come utile indicatore di quale sia il reale obiettivo di una efficace opera di sostegno al mondo della scuola nell’affrontare i vari problemi educativi che il disagio pone. Se, infatti, a livello numerico una percentuale statisticamente più rilevante di problemi potrebbe anche essere legata agli apprendimenti più che a disturbi di tipo emotivo (sia di tipo implosivo sia esplosivo), poi in pratica il disagio all’interno della scuola in termini di vissuto e d’impatto sul corpo insegnante è legato a problemi di tipo emotivorelazionale, problemi sui quali gli insegnanti sentono di dovere essere maggiormente aiutati per poterli gestire con maggiore professionalità. La centratura dunque a lavorare sul benessere emotivo come condizione per l’apprendimento stesso più che sul disagio ad apprendere deriva dalle priorità segnalate dai docenti coinvolti nel progetto. Sono state queste priorità ad orientare le direzioni che il progetto ha assunto fin dall’inizio della sua operatività. Tale conclusione è applicabile anche nel caso del primo gruppo, quello delle scuole dell’infanzia, anche se la scelta della psicomotricità come risposta al disagio è stato un bisogno apparentemente indotto, dal momento che non è stato proposto dalle insegnanti, ma dal tutor. In realtà però, come le insegnanti hanno più tardi verbalizzato in termini espliciti, essi hanno accettato volentieri di far parte del progetto “ad Agio” proprio perché c’era come tutor Giuseppe Nicolodi, identificato nella realtà scolastica trentina delle scuole dell’infanzia con la “psicomotricità”. E d’altra parte anche in questa situazione - secondo quanto emerso fin dalle prime rilevazioni - la maggior parte dei problemi di disagio erano, nel vissuto degli insegnanti, legati al tema dell’autonomia e della regolazione, quindi ancora una volta legate a problematiche di ordine relazionale ed emozionale. Pertanto se sono state fatte scelte di un certo tipo, se i docenti cioè hanno deciso di lavorare su aspetti emotivo-relazionali, ciò è dovuto in gran parte al fatto di aver puntato molto sul docente e di aver condiviso l’opportunità di partire dai suoi bisogni e dalle sue esplicite
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domande piuttosto che offrirgli delle risposte. Ma è stata una scelta vincente nella misura in cui ha sollecitato e favorito la costruzione di una sapienza didattica maggiore, di un affinamento delle capacità di lavorare sull’emotivo e sul cognitivo, senza scissioni. Gli insegnanti, grazie al progetto “ad Agio”- ed è un esito da tutti riconosciuto - hanno infatti sviluppato una maggiore capacità di accompagnare emotivamente i loro alunni per far crescere alcune capacità cognitive che determinano poi la qualità stessa degli apprendimenti. La scelta, fatta in modo autonomo, di attivare esperienze di tipo corporeo ed emotivo, nasceva anche dalla consapevolezza che si tratta in molti casi di un passaggio formale utile per implementare in modo significativo anche gli stessi processi di apprendimento. Nel seminario del 26 maggio 2006, nell’incontro di restituzione del lavoro svolto nei gruppi misti di docenti delle tre realtà coinvolte, tra i punti di forza condivisi si sottolinea: “la maggiore sicurezza nello svolgimento del ruolo insegnante e capacità di far fronte al disagio dei bambini e degli insegnanti; l’acquisizione di un metodo, di un modo di fare scuola che trasversalmente contamina tutta l’attività didattica; un potenziamento della professionalità docente soprattutto dal punto di vista relazionale proprio perché si è giocato prevalentemente nella relazione, in breve - cosa evidenziata anche nel seminario di presentazione del 4 marzo - la possibilità di ripensare al proprio modo di essere e di fare scuola”. Tutti i docenti sperimentatori in generale sono diventati infatti più competenti nel gestire sapientemente i due aspetti - affettività e cognizione - che è difficile separare e sono diventati più capaci di dare risposte a problematiche di tipo emotivo-affettivo-relazionale. Non va però sottovalutato il fatto che, pur non ponendo al centro del loro intervento le discipline nel senso tradizionale del termine, nelle attività proposte questi docenti hanno messo realmente e intenzionalmente i bambini in condizione di acquisire abilità e competenze anche alte: discutere, selezionare, risolvere problemi, scegliere, confrontarsi, relazionare, prendere decisioni sono competenze che i bambini hanno messo in atto e che gli insegnanti sono stati capaci di sollecitare, in un clima di benessere e di agio. Tanto che alla fine, e non
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a caso, gli stili educativi di “ad Agio” sono diventati un modo di fare scuola e di approcciare anche i saperi e le stesse discipline. Riteniamo che la costruzione di una professionalità esperta consista proprio in questo: nell’affinare la capacità di leggere alcuni processi e di riflettere con competenza sulle modalità con le quali vengono proposti degli apprendimenti; cosa che “ad Agio” indirettamente e forse anche inaspettatamente ha indotto. Se dunque, per ritornare alle caratteristiche del progetto, l’aver fornito una cornice generale con dei paletti certo, ma non troppo strutturata per lasciare una libertà di manovra autonoma agli insegnanti, è stata una scelta di campo forte e decisiva, la vera sfida che i docenti hanno elaborato è stata la proposta di accogliere il disagio scolastico dei bambini lavorando innanzi tutto dentro di sé, a favore dell’agio dell’insegnante, consapevoli che senza questo prima passo ogni altra modalità avrebbe rischiato di essere tendenzialmente espulsiva di ciò che disturba e mette a disagio. Tale scelta si è rivelata decisiva per l’implemento dell’empowerment professionale degli insegnanti non solo sul piano relazionale ed emozionale, ma anche sulle stesse capacità didattiche nelle comuni materie curricolari. La supervisione
Non risposte preconfezionate dunque, ma uno spazio di pensiero, di sospensione, di riflessione organizzata per i docenti che sono posti al centro della progettazione ma che - ed ecco il secondo degli elementi di metodo che accomuna tutte e tre le esperienze - non sono lasciati da soli, ma sono affiancati e accompagnati da un’équipe tutoriale, che progetta e sostiene il lavoro dei docenti, controlla la comunicazione con la scuola e con l’esterno, guida e facilita il monitoraggio, si fa carico dei problemi emersi e si fa parte attiva nella loro gestione e restituzione. Un gruppo capace dunque di confrontarsi tra professionalità diverse, e di mantenere le varie cose insieme, senza nessuna pretesa di prospettare soluzioni definitive, ma con la volontà di tenere aperto un dibattito e di porsi come punto di riferimento capace di assorbire elementi di criticità e garantire una tenuta sui vari fronti istituzionali e professionali.
Offrire un’équipe multidisciplinare
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Probabilmente senza un sostegno istituzionale, senza un gruppo guida, senza delle parole dette insieme, senza la possibilità di avere un istituto di ricerca che governa e supporta il gruppo sarebbe stato un po’ più difficile mettersi alla prova con professionalità e avviare un cambiamento. …e dei tutor
A sostenere e fare da supporto al gruppo, insieme all’équipe tutoriale, sono stati i tutor supervisori, le tre persone cioè - Giuseppe Nicolodi, Cristina Bertazzoni e Massimiliano Tarozzi - che hanno avuto nel progetto un ruolo determinante. Un ruolo che si è declinato nella prassi in maniera diversa a seconda della professionalità e del background di ciascuno: come facilitatore di processi in alcune situazioni, come consulente in altre, come supervisore o coordinatore di gruppo e comunque a servizio del gruppo in altre ancora. In definitiva un ruolo con degli elementi di specificità, giocato però all’interno di un compito comune con declinazioni molto eterogenee, e che poteva comprendere o evidenziare alcune o tutte queste funzioni in modi diversi. Così ad esempio per quanto riguarda il gruppo di insegnanti della scuola dell’infanzia, rispetto ad altri corsi sulla psicomotricità tenuti in varie zone d’Italia, nell’esperienza di “ad Agio” il fatto di aver dato ai docenti la possibilità, non solo di fare l’esperienza, ma di elaborarla, è stato un valore aggiunto; ma in tutti e tre i percorsi il compito principale del tutor è stato di rendere esplicito il lavoro di riflessione, di dare e far dare parola all’esperienza vissuta, e di farlo come offerta agli altri per beneficiare ed implementare l’energia che proviene da una ricerca comune e dall’appartenenza ad un gruppo di cui si condividono i principi e i metodi di lavoro. Ed è stato proprio questo lavoro di riflessione sul vissuto e di offerta delle riflessioni che ha favorito la costruzione dell’identità del gruppo, e la possibilità di mettere insieme anche diverse anime: la scuola dell’infanzia provinciale e quella equiparata nel caso del gruppo numero 1, le diverse realtà scolastiche nel caso degli altri due gruppi. Responsabilità, libertà e importanza ai docenti quindi, ma con un accompagnamento e un aiuto, cioè dei facilitatori professionisti che hanno dato supporto di alto profilo culturale e scientifico al lavoro dei docenti di cui hanno sostenuto l’invenzione e la creatività, la costru-
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zione partecipata, la progettualità, la crescita professionale in maniera costante ma non intrusiva. Fare scuola avendo un spazio istituzionalmente definito, un tempo dedicato a osservare e riflettere, a porsi domande su quello che è successo la mattina e su quello che succederà il giorno dopo, utilizzando una serie di strumenti e avendo un facilitatore che fornisce il contenimento istituzionale e professionale opportuno, ha costituito un’occasione un po’ unica, e comunque non così diffusa, di far crescere le competenze professionali. Un’altra cosa importante e significativa è stato il fatto che le modalità utilizzate all’interno nel gruppo, siano state poi trasferite nella classe, con i bambini, riproponendo quanto fatto nel gruppo con i tutor. La modalità di lavoro utilizzata nei gruppi era molto centrata sulla riflessione di quello che si andava facendo e sull’importanza di rendere i docenti protagonisti, così come in una visione costruttivista dell’apprendimento i bambini dovrebbero essere protagonisti nella costruzione del loro sapere. E Cristina Bertazzoni ha evidenziato molto bene in un passaggio della sua relazione questa attenzione che i tutor hanno avuto nel far riflettere i docenti su come certe dinamiche che essi si trovano a dover gestire nella classe siano le stesse che possono scatenarsi a volte in un gruppo, e come queste dipendano dalla gestione del gruppo stesso, dallo spazio e dall’attenzione che come conduttore, facilitatore, guida riservo a ciascuno. Attraverso il lavoro di gruppo, guidato da queste convinzioni e con queste modalità di approccio, si è realizzato un modello di aggiornamento insolito, legato al fatto che i tutor, ma anche l’équipe tutoriale nel suo complesso, sono rimasti assolutamente sullo sfondo del lavoro che i docenti hanno fatto nelle classi. Ma rimanere sullo sfondo, contribuire, restando nell’ombra, a fare in modo che l’insegnante sappia occupare bene, con competenza e professionalità, il suo posto là, in prima linea, dove lo aspettano i “suoi” bambini, comporta una capacità professionale molto alta e raffinata, e su cui è necessario porre l’attenzione opportuna, perché implica una scelta esplicita sia teorica e sia metodologica. Tale modalità di formazione e il modo con il quale è stato trasformato l’approccio educativo al disagio è qualcosa che può essere trasferita, sia come modalità di lavoro per rinforzare il gruppo e il singolo,
Sollecitare elementi di trasferibilità
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sia come condizioni per stare meglio in classe. Uno stare meglio come professionisti, con maggior capacità di guardare, con capacità di cogliere dei segnali, con un’articolazione interna molto più elastica. Il gruppo Il gruppo come risorsa
La diversità come ricchezza
Da questa modalità di lavoro emerge un terzo elemento comune tra le tre esperienze: il gruppo, inteso sia come setting formativo, sia come luogo di formazione partecipata, sia come momento di confronto e dibattito, sia, soprattutto, come luogo di progettazione e riflessione. La scelta di offrire agli insegnanti uno spazio di riflessione, senza un’immediata spendibilità sul domani, è uno dei segreti del progetto “ad Agio”. Spesso il mondo della scuola è preso più dal fare quotidiano e raramente si dà il tempo di riflettere su quello che fa. I tre gruppi si sono caratterizzati fin da subito per questa modalità di lavoro che li teneva continuamente centrati sui due aspetti: il processo e il compito, la progettazione di attività concrete da fare in sezione/classe con i bambini, e la riflessione su quello che avveniva dentro il gruppo prima, nelle sezioni/classi poi. Un confronto quindi aperto e capace di mantenere due lunghezze d’onda: una sulla riflessione che ha bisogno di lentezza, l’altro sull’operatività, che è più immediato perché nasce dal bisogno di dare concretezza alle cose pensate. Se questa modalità di lavoro può essere trasferita, se cioè si può trasmettere ad altri che cosa in fondo è stata la chiave del funzionamento del progetto, va tenuto conto che il destinatario deve avere la stessa possibilità che ha avuto il gruppo di vedere di che cosa appropriarsi, restando protagonista principale, mantenendo cioè quella responsabilità professionale piena; altrimenti si produce un’altra cosa, non si fa disseminazione di quanto riteniamo uno dei punti di forza del progetto “ad Agio”. I gruppi inoltre erano gruppi misti, composti di persone con esperienze diverse, e quindi con un’identità ed un senso di appartenenza tutti da costruire. Una diversità che è stata vissuta come ricchezza, come possibilità non solo di confrontarsi, ma di imparare dagli altri. Un gruppo come esperienza di non sentirsi soli, come “luogo” dove poter valutare, anche riconoscere i propri errori o di rivedere insieme gli esiti delle proprie azioni e ritornarci magari sopra, in un’ottica di
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recupero e di valorizzazione delle misure e delle strategie più efficaci, ma anche di maggiore comprensione delle altrui e quindi anche delle proprie difficoltà. Rispetto al lavoro del gruppo, va aggiunto anche che un merito di “ad Agio” è stato quello di porre molta attenzione al rispetto di spazi, tempi e organizzazioni istituzionali, quindi di essere attento a non stravolgere tutto, ma a collocare la propria azione mantenendo gli assetti che già la scuola aveva, eventualmente variando unicamente le modalità di approccio al problema. La qual cosa ci fa dire ancora una volta che si può, senza stravolgere tutto, a piccoli passi, “adagio”. I tempi
Il progetto “ad Agio” ha messo in luce che, per sciogliere il disagio, per farlo con agio, per scoprire nuovi modi di essere e stare e nella scuola, servono tempi lunghi, cadenzati, istituzionalizzati. Tempi lunghi: avere libertà e responsabilità di sperimentare è faticoso e ha bisogno di un tempo mentale, oltre che reale, sufficientemente ampio. “ad Agio” si è dato tre anni per lasciare il tempo e l’agio agli insegnanti di rivisitare le proprie pratiche, confrontarle, rivederle con altri occhiali, da punti di vista anche diversi, e su queste inserire nuove ipotesi, comprenderle, intraprendere anche strade nuove, ma col passo giusto. L’informazione può richiedere tempi più veloci, il processo di formazione no. Ci vuole il tempo per far sedimentare, maturare, digerire, assimilare. Tempi cadenzati, regolari: ci vuole un tempo giusto, ritmato, puntuale, per progettare, sperimentare e ritornare eventualmente sui propri passi per rivedere quello che succede, e ripartire. Ci vuole un tempo istituzionale: è necessario che il lavoro che il docente fa in quanto ricercatore e sperimentatore venga riconosciuto, che non sia considerato come qualcosa in più, ma come una ricchezza, un investimento culturale e professionale per l’istituzione stessa, chiamata pertanto a facilitare al massimo la partecipazione del docente e a riconoscerne l’impegno.
Servono tempi lunghi, cadenzati, istituzionali
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STRUMENTI UTILIZZATI La scrittura come memoria L’importanza del tenere traccia
La documentazione ha avuto nel nostro progetto un ruolo importante non legato - come spesso accade nella scuola o nei progetti finanziati da soggetti esterni - ad una richiesta di tipo istituzionale di “rendere conto”, quanto piuttosto al bisogno sia di raccogliere un prodotto ma, soprattutto, di registrare un processo e di restituire, ai docenti innanzitutto, ma anche alla scuola trentina, gli esiti di un percorso attraverso il quale si è cercato di dare risposte a problematiche che ogni insegnante sempre di più si trova quotidianamente ad affrontare. Non certo con l’obiettivo di dare ricette o facili soluzioni, ma di sollecitare una riflessione e un confronto su un tema che ormai fa parte del fare scuola quotidiano. Nel progetto - come è giusto che sia - era già prevista la documentazione ed è per questo che fin da subito si è chiesto - cosa non facile a docenti già così oberati di lavoro - di scrivere, di tenere traccia, di registrare. E ce n’è stata tanta di scrittura nei tre anni di “ad Agio”, sia come strumenti capaci di accompagnare, documentare, tenere traccia di quello che succedeva, sia come strumenti di lavoro, strumenti professionali di osservazione, raccolta dati, verifica e valutazione dei percorsi fatti. Il riferimento nello specifico è: • ai verbali che si sono prodotti di tutti gli incontri a tutti i livelli (di équipe tutoriale, gruppi di ricerca, team di docenti) e grazie ai quali ciascuno ha potuto sentire di far parte di un processo reso esplicito e di cui è rimasta traccia, avendo anche la possibilità di riconoscersi in una storia; • ai diari di bordo, come strumenti di riflessione sul proprio lavoro, ma anche di memoria di quello che è accaduto; • ai questionari e agli strumenti di osservazione: dalla griglia per la rilevazione del disagio elaborata ed utilizzata nel gruppo di docenti delle scuole dell’infanzia, ai questionari per rilevare il livello di gradimento dell’attività, sia da parte degli alunni sia da parte degli insegnanti, alle varie tabelle di osservazione dell’andamento delle attività, alla elaborazione e all’utilizzo infine
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sia di schemi guida per la progettazione delle attività e per la verifica delle stesse, sia dei tanti altri strumenti che gli insegnanti hanno costruito - i cartelloni in classe, i vari semafori, e altro ancora - per accompagnare e sostenere anche il lavoro degli alunni. L’aver richiesto fin da subito di espletare anche questo compito difficile del documentare, ci ha permesso, in fase di restituzione, di poter accedere a una grande quantità di materiale tra cui scegliere, selezionare, quello più significativo e capace di rendere conto del senso e del portato del lavoro svolto.
QUESTIONI DI SIGNIFICATO Il colore del disagio
Nel documento iniziale non si parte da una definizione di disagio, ma da un’elencazione di comportamenti e gesti attraverso i quali il disagio si manifesta; e il fatto di non aver circoscritto il fenomeno ma di aver fornito un elenco (cfr. I bisogni individuati, p. 2 del progetto in appendice) di tematiche che un insegnante può avere presenti come immagini nella propria testa e che percepisce come elemento di disturbo, come fattori che interagiscono con lui quotidianamente e per i quali non esistono risposte certe, soluzioni preconfezionate, evidenziava una scelta di campo fondamentale: “ad Agio” voleva essere un percorso di potenziamento della professionalità dei docenti che puntava a recuperare nelle singole realtà una competenza diffusa che in alcuni casi si trattava solo di riconoscere e valorizzare. Ed è una scelta di campo forte e non neutrale che ha portato i gruppi - ed è questo un altro elemento qualificante ed unificante del progetto - a confrontarsi su che cosa sia il disagio. E analoghe sono anche le conclusioni alle quali i gruppi sono giunti: il disagio, se trattato in un certo modo, da elemento personale diventa elemento relazionale, e, soprattutto, non è qualcosa che è fuori, esterno o estraneo, ma fa parte del campo. “Aderire a “ad Agio” - hanno sottolineato i docenti del gruppo N. 3 nella relazione al seminario del 4 marzo - “non ci ha fornito
Il disagio è parte del campo
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… un ricettario per risolvere le emergenze, quindi i nostri alunni problematici sono rimasti, però ci ha arricchite come persone e come insegnanti, abbiamo cambiato il nostro sguardo sul disagio per riuscire a riconoscerlo come parte integrante del nostro campo professionale imparando a potenziare la nostra capacità di accoglierlo più che quella di ridurlo o contrastarlo con interventi straordinari”. C’era dunque un elemento comune da cui partire, c’erano dei saperi, delle tecniche, un’esperienza accumulata e modi diversi per entrarci; ma c’era una scelta a monte che era quella di non dare un nome alle cose, ma di entrarci prima; e se il gruppo ha tenuto, ha tenuto perché c’era del cemento solido, perché c’era una scelta di campo che i gruppi hanno declinato in modo diverso, arrivando però tutti ad alcune conclusioni. Al disagio va data una risposta pedagogica
l disagio lo si affronta insieme
Per prima cosa che al disagio nella scuola - a quel disagio che si esprime nelle diverse forme in cui i tre gruppi le hanno declinate - va data una risposta pedagogica. Il disagio - e a questo fatto si è già accennato nella presentazione del volume - più che essere risolto, va accolto. L’insegnante deve rendersi conto e accettare che il disagio del bambino si ripercuote inevitabilmente su di lui, per cui come insegnante, di fronte al bambino con problemi deve riconoscere prima di tutto il “proprio” disagio e misurarsi con esso, accoglierlo; pena l’instaurarsi di un processo di espulsione naturale. Ma l’espulsione del “proprio disagio” rischia di espellere anche il bambino che lo produce. Si entrerebbe allora in un circolo vizioso all’interno del quale, via via che cresce il disagio dell’insegnante, cresce e si amplifica anche quello del bambino. Ma per accogliere il disagio è innanzitutto necessario riconoscerlo, affinare lo sguardo, diventare più attenti e capaci di leggere i segnali che il bambino ti invia con comportamenti che creano problemi se non sono letti ed interpretati nel modo giusto. Il disagio lo si affronta insieme, insieme ai bambini e alle bambine, insieme agli insegnanti. Come sottolineava Anna Maria Ajello nell’intervento di restituzione del racconto dell’esperienza dei docenti che ha fatto nel seminario del marzo 2006, una sperimentazione è efficace se gli insegnanti lavo-
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rano insieme con cinque caratteristiche - che “ad Agio” ha dimostrato di avere - e che sono: 1. avere dei valori, dei presupposti culturali condivisi; 2. condurre dialoghi sull’apprendimento dei ragazzi, dialoghi di riflessione; 3. essere centrati sull’apprendimento dei ragazzi; 4. avere modalità collaborative di lavoro; 5. deprivatizzare le pratiche didattiche, cioè mettere in discussione quello che si fa all’interno della classe. In “ad Agio” non è stato affrontato il “caso” del bambino singolo, individuale, come non c’è stato il caso dell’insegnante “bravo” che risolve o “meno bravo” che fallisce. Ma c’è stato un gruppo di insegnanti che, in modo professionale, ha affrontato una situazione di disagio, ha riconosciuto la dimensione professionale piena, in cui non c’è solo l’aspetto dell’insegnare, del disciplinare da controllare, del dare delle regole, ma un coinvolgimento pieno dei docenti e dei bambini con tutto il carico di emozioni che questo comporta. Questo per dire che nella scuola, se si vogliono rendere praticabili le cose, è necessario puntare ai gruppi, non all’individuo singolo. La scrittura come riflessione
Nel progetto - lo si è esplicitato fin dall’inizio - ci doveva essere un posto per la scrittura, ci doveva essere la possibilità di andare a ritroso, per esaminare il cammino fatto. È quello che nella letteratura in lingua inglese viene indicato problem byography e che nella storia della scuola più recente viene utilizzato molto, soprattutto quando ci si trova ad affrontare situazioni problematiche o punti critici. Il trovare insieme, come gruppo di lavoro, degli indicatori, degli strumenti, riflettere su come e perché utilizzarli, integrarli, spiegare perché si sono cambiate delle cose, il registrare che cosa conviene mantenere e che cosa no, è importante non solo per ritornare con un’altra chiarezza ed una maggiore consapevolezza sulle cose fatte, ma anche per capire perché qualche cosa ha funzionato e perché qualche cosa non ha funzionato, e farne tesoro. L’obiettivo fondamentale dello scrivere è quello di far passare un’esperienza dal piano personale a quello professionale, perché possa entrare
Scrivere per capire e per agire
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definitivamente in un processo di formazione e di empowerment professionale. E in questo senso il documentare, per le operazioni che sollecita, è strumento di arricchimento della professionalità docente. La riflessione da parte dei gruppi docenti su quello che veramente avviene, intorno a quello che accade per cercare di capire in maniera riflessiva cosa sta succedendo e come modificare le cose è proprio l’arte di fare di scuola, è una dimensione che è importante aver recuperato e movimentato, una tappa necessaria ed ineludibile in un percorso come “ad Agio” che ha fatto della pratica riflessiva il suo baluardo. “Compilare dopo ogni singolo intervento, la tabella di osservazioni e registrare nel diario personale il nostro vissuto” - commentava un’insegnante della scuola primaria nel seminario di marzo - “rileggere poi queste narrazioni, ci ha aiutato ad adeguare la nostra pratica educativa alle esigenze dei singoli alunni e della classe, ma anche a riflettere su come certi comportamenti ed atteggiamenti degli altri incidano su di noi e anche sulle nostre reazioni”. “Importante, anche se molto impegnativa, è stata la pratica di compilare dopo ogni singolo intervento, la tabella di osservazioni e di registrare nel diario personale il nostro vissuto” sottolineava invece un’insegnante della scuola primaria di Predazzo, e proseguiva: “Rileggere poi queste narrazioni ci ha aiutato ad adeguare la nostra pratica educativa alle esigenze dei singoli alunni e della classe, ma anche a riflettere su come certi comportamenti ed atteggiamenti degli altri incidano sudi noi e anche sulle nostre reazioni”. I diari di bordo, come strumenti capaci di ritagliare uno spazio di pensiero dedicato a riflettere sul proprio fare, si caratterizzano dunque come strumenti forti della professionalità docente, e non solo per la possibilità che offrono di mettere un pensiero sulle cose fatte, ma anche per la capacità di documentare e mantenere traccia di emozioni, espressioni, vissuti che permettono di restituire non solo il segno, la forma di un’esperienza vissuta, ma anche il colore, il tono, le sfumature. Un lavoro di riflessione che poi, operando in un certo modo nel gruppo, viene trasferito spontaneamente dando i suoi frutti anche nel lavoro in classe con i bambini. “Un elemento importantissimo” - riferisce a nome di tutto il gruppo un’insegnante della scuola Pigarelli in un passaggio delle relazione al seminario di marzo - “diventava il debriefing:
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alla fine di ogni gioco veniva proposto, sempre nella maniera più divertente e più varia possibile, un momento di riflessione su quello che s’era fatto, un momento di riflessione che all’inizio era abbastanza facile, [...] mentre in seguito è diventato un momento di riflessione più profondo, perché hanno dovuto cominciare ad esprimersi sulla difficoltà che potevano trovare nelle relazioni.
PER CONCLUDERE
Il lavorare partendo dall’esistente, senza idee preconcette o pre-confezionate, aperti ad accogliere anche l’imprevisto; in gruppi misti, in cui la diversità è vissuta come ricchezza; affiancati da un gruppo che ti sostiene e da un facilitatore che ti accompagna e ti aiuta; in tempi e luoghi pensati e riconosciuti; avendo la possibilità di riflettere e ritornare sui propri agiti; prendendosi anche un tempo per documentare i percorsi fatti: questi gli elementi che fanno di “ad Agio” un’esperienza capace sia di aumentare la professionalità dei docenti nell’affrontare ed accogliere il disagio, sia, soprattutto - ed è quello che si è voluto fare con questo volume - di essere regalata ad altri come stimolo a continuare in percorsi di ricerca capaci di sollecitare cambiamenti significativi. Ma degli esiti del percorso, così come dei problemi rimasti aperti, parlerà in maniera più puntuale Marco Rossi Doria nelle pagine che seguono.
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Attestare successo e esplorare dubbi Marco Rossi Doria
UN SUCCESSO
In apertura del testo del progetto “ad Agio” era evidenziata una finalità: • favorire una cultura capace di produrre una nuova progettualità delle scuole per contrastare il disagio. Ed erano, di seguito, indicate delle linee di indirizzo su cui misurare, in generale, tutto il lavoro: • recepire il bisogno espresso degli insegnanti ma anche delle famiglie di comprendere e collocare le manifestazioni del disagio entro un quadro di riferimento, definito mediante una visione multiprospettica; • favorire la costruzione di un dispositivo innovativo, di una spora di contrasto al disagio, ben pensato e ben seguito; • formarsi "in situazione”. Alla fine del triennio di “ad Agio” è possibile un’attestazione di successo proprio a partire da queste formulazioni. Tutti i materiali raccolti in questi anni - quelli sistematici finali ma anche quelli che hanno dall’inizio accompagnato, in modo non sistematico ma prezioso, ciascuno dei passaggi - e, soprattutto, i prodotti dei bambini e dei docenti coinvolti lo attestano. Il fatto che vi sia stato un gradimento esplicito e unanime degli insegnanti per la opportunità ricevuta da parte dell’IPRASE, in termini di arricchimento reale, personale e professionale, lo conferma.
UN PERCORSO SIGNIFICATIVO
Tre gruppi di docenti trentini, uno che coinvolge diverse scuole dell’infanzia e due che coinvolgono scuole primarie - in modo all’inizio più indipendente e separato e poi via via più unitario - hanno saputo con continuità e perseveranza, affrontare il centro della criticità
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incontrata nel proprio lavoro quotidiano a scuola - il disagio - appunto. E, nel farlo, hanno testimoniato di una crescita professionale importante che tiene insieme molti e diversi ingredienti. I materiali ci raccontano, infatti, che, fatti salvi i casi più estremi e già incistiti di disagio, connotati da forti elementi di sofferenza individuali (sui quali si dovrà tornare a riflettere perché sono restati tali), il tasso di benessere gruppale a scuola dei bambini è nettamente migliorato secondo tutti gli strumenti di osservazione via via adottati nel corso del triennio. Un processo di potenziamento
E contestualmente, i docenti stessi - che rappresentano i soggetti destinatari sui quali è stata costruita la progettazione di “ad Agio”hanno conosciuto un processo evidente di potenziamento: • sono cresciuti nella consapevolezza della complessità del campo prescelto - il disagio, appunto - e nelle abilità di individuarne e descriverne i diversi aspetti e di trattarli in modi sinergici ma anche differenziati e scomposti; • hanno auto-generato curiosità, studio, volontà di rimescolare i propri saperi professionali; • hanno dato parola e reso espliciti i passaggi del lavoro intrapreso, fase per fase; • hanno saputo dare risposte operative innovative, procedendo con cura e per micro-passaggi interdipendenti; • hanno modificato i rapporti interni al gruppo in relazione all’impegno di affrontare gli elementi di crisi entro la relazione docenti-bambini; • hanno assunto l’onere di una sorta di rivoluzione copernicana nel loro approccio alle crisi e alle difficoltà espresse nel disagio: evitare di esternalizzare i compiti in relazione ai problemi, evitare di lavorare sui sintomi, concentrarsi, anzi, sulla ricezione e accogliere la relazione reciproca che esiste tra disagio infantile e disagio degli educatori adulti, lavorando nel disagio ma con occhio esterno e non sul disagio e con occhio avverso; • si sono affacciati con successo alla metodologia della ricerca e alla fatica della documentazione regolare passando dalla oralità a forme diverse di scrittura riflessiva; • hanno cambiato ripetutamente il punto di vista in modo da vedere meglio e di più il proprio lavoro, migliorando l’ascolto reciproco entro il gruppo docente;
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hanno retto tutti i passaggi dall’ideazione alla produzione in un campo appena esplorato e certamente non consueto e hanno corretto la progettazione in itinere in modo flessibile e adeguato al mantenimento del compito; • hanno costruito progettazioni innovative e, almeno in alcuni casi, innovative modalità di verifica; • hanno sostenuto la pubblicità del loro operare e dei prodotti davanti a colleghi e alla città. •
A me pare, dunque, che “ad Agio”, dal punto di vista dello sviluppo reale delle competenze professionali docenti, abbia colto i suoi maggiori successi. Infatti una lettura attenta di ciascuno dei fattori costitutivi del processo di potenziamento sopra indicati ci descrivono una crescita che è tipica di chi costruisce conoscenza riflettendo sui problemi che incontra nella pratica professionale, di chi si va formando, entro una situazione o un percorso dato, come innovatore consapevole, come “professionista riflessivo”. Si coglie l’occasione offerta, insomma, per determinare uno scatto in avanti dentro di sé e insieme al gruppo professionale che condivide la ricerca, con una crescita che è, al contempo, del singolo docente che si “rimette pienamente in gioco” e del gruppo che impara non solo ad agire ma a riflettere su quello che fa, con nuova consapevolezza. Si crea, così, uno “spazio di pensiero gruppale”, con sue dinamiche, entro il quale la innovazione e il suo consolidamento sono possibili. Si tratta di un processo - che in “ad Agio” abbiamo potuto ben osservare - né semplice né indolore, che ha bisogno di accompagnamento capace di dirimere le parti distruttive delle dinamiche e favorire ogni volta gli elementi di potenziamento. Va anche notato come tale processo non può nascere dal nulla ma è, invece, una crescita per sviluppo prossimale, come direbbe Vygotskij. È un processo capace, perciò, di usare categorie e lessico conosciuti, ma di concentrare ed espandere tutte le diverse competenze e capacità di riflettere che sono già presenti nei docenti grazie alla forza delle loro tante esperienze accumulate sul campo e anche delle pregresse occasioni di formazione. Il nuovo progetto fa da catalizzatore e da espansore. Questa funzione si rivela, però, in corso d’opera e non è un risultato certo; e infatti ha luogo non senza difficoltà e passaggi critici. Nella percezione dei docenti che scelgono
Una crescita per sviluppo prossimale
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via via di mettersi davvero in gioco avviene così una partecipazione autentica a un viaggio che vede resistenze iniziali, coinvolgimento e delirio di onnipotenza, adeguamento realistico in più tappe, realizzazione e riconoscimento. Nel corso del viaggio, a più riprese, avviene nel gruppo e in ognuno - una sensazione, alla quale si dà anche parola, di “positiva scoperta”, di “sorpresa”, qualcosa che rassicura, restituisce delle esitazioni e delle fatiche e che appare promettente. Cresce un eco interno che dice: “allora è possibile, sono, siamo capaci”. Condizioni di fattibilità
Se si vuole mettere in relazione un’esperienza pilota quale è stata “ad Agio” con la riflessione più ampia sulle innovazioni possibili a scuola, allora vanno guardate le condizioni entro le quali le trasformazioni positive nel lavoro docente hanno luogo e acquistano dimensione significativa. Le condizioni perché, presso i docenti, questa “rivelazione promettente” possa avvenire - a partire da quanto abbiamo osservato entro l’evolversi del progetto “ad Agio”- sono diverse: a. la progressiva accettazione della piena libertà progettuale e della corrispondente responsabilità diretta del processo avviato, della sua attenta manutenzione in itinere, del prodotto immaginato e da raggiungere; b. il progressivo consolidamento dei legami costruttivi interni al gruppo docente in riflessione corale; c. l’affidarsi a una guida esperta esterna che si fa facilitatore di processi di empowerment, che è nella posizione di aiuto consapevole ma non intrusivo, che mostra le dinamiche effettive e sa suggerire pericoli o cose da evitare e altre da esplorare lungo il tragitto; d. il dispiegarsi delle azioni concrete, innovatrici ma funzionali al compito e che àncorano e contengono ansie e dispersioni; e. la tenuta dei tempi ben cadenzati e dei contenitori organizzativi. Le riflessioni dei tutor dei tre diversi gruppi docenti impegnati in “ad Agio” descrivono, con grande acume, ogni passaggio di questo speciale percorso. Si è innanzitutto trattato certamente di una dimensione specifica della relazione educativa che ha visto gruppi di adulti, in funzione docente, che si mettono in posizione di osservazione e cura del disagio presente in gruppi di bambini e che lo fanno guardando anche dentro al proprio disagio adulto, come mostrano tante pagine di questo libro.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Affinché questa dimensione, costitutiva del progetto, potesse agire con esiti positivi, fuori da pericoli di eccesso di aspettative e di speculare tendenza alla rinuncia, “ad Agio” ha sempre salvaguardato due irrinunciabili pre-condizioni al suo procedere: 1. la specifica competenza delle funzioni di facilitazione, di guida e di accompagnamento da parte di figure esterne molto preparate, allenate e anche ben disposte verso la dimensione della ricerca-azione da parte di gruppi docenti liberi e responsabili. Sono persone che giocano la loro autorevolezza in questa dimensione di ricerca e non secondo una propensione a capeggiare o a “dire come fare”; lavorano, dunque, insieme ai docenti, perché conoscono e sanno anche governare, sul terreno, le dinamiche di gruppo, ma fuori dal delirio del controllo, perché hanno prolungata esperienza di protocolli di formazione partecipata, perché credono nell’innovazione a scuola e con i docenti e dunque possono aiutare a mantenere il timone direzionato verso il successo del lavoro con i bambini; 2. la specifica convinzione - presente a monte di tutto il lavoro e in tutti gli attori presenti - che il disagio, come lo abbiamo voluto chiamare, non è estraneo mai al campo di chi se ne vuole occupare, altrimenti non è trattabile.
Pre-condizioni
È in questo modo che “ad Agio”, a partire dalla progettazione e fino alla conclusione, ha, da un lato, permesso e, dall’altro lato, costantemente sorvegliato le condizioni di fattibilità che qui abbiamo voluto riassumere.
LE RAGIONI DELLA “SCOPERTA SORPRENDENTE” DELLA CRESCITA PROFESSIONALE NEI DOCENTI
La “scoperta sorprendente” da parte dei docenti impegnati in “ad Agio” e il pieno riconoscimento della propria crescita professionale va, in qualche modo, indagata perché costituisce senz’altro il fulcro dell’esito positivo di questi tre anni. Con una frase forse ci aiuta, in questo, Shön, il massimo teorico del professionista riflessivo: “l’azione esperta spesso rivela un’attività cognitiva ben più ampia di quella che riesce ad esprimere”.1 1
D. A. Shön, Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari, 1993, p. 77.
Verso un sapere professionale riconosciuto
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In altre parole, chi lavora sul campo, è, in realtà, già potenziale portatore di una quantità notevolissima di conoscenza teorica e dunque di potenziale crescita ma che, mentre “tiene il campo” è costretto entro una sorta di “forma povera” perché resta troppo spesso implicita o tacita. Si tratta di qualcosa che - all’esterno ma anche da parte dei docenti stessi - non è considerata una forma legittima e promettente di conoscere professionale. È mascherata, infatti, presso gli stessi docenti, da altre parole quali “intuito”, “esperienza”, “pratica”. Ma se, come nel caso di “ad Agio”, a questo sapere tacito o disconosciuto viene fornita un’occasione, delle procedure, dei rituali di ricerca che sappiano partire da quello che i docenti già sono, già fanno e già sanno, per spingere oltre e potenziare, allora cresce il “conoscere professionale”. Questa crescita avviene quasi per maieutica o, appunto, per sviluppo prossimale. E viene restituita ai docenti da loro stessi, nella forma della scoperta sorprendente. Tale scoperta, però, intanto avviene perché ci sono condizioni precise e tragitto partecipativo che la consentono e favoriscono.
ALCUNI INGREDIENTI IRRINUNCIABILI PER UNA MODELLIZZAZIONE
Il percorso svolto dal progetto “ad Agio”, sostenuto da una équipe istituzionale forte, non può - credo - ambire a essere trasferito e generalizzato in modo semplice. E al di là del dibattito teorico sui processi di disseminazione delle esperienze pilota, va, invece, esplicitato quel che di irrinunciabile vi è in un futuro modello di azione più vasta, nelle scuole, sui problemi, fortemente presenti, legati al disagio. Perciò vanno qui elencati, molto sinteticamente, almeno tre ingredienti costitutivi di ogni possibile modellizzazione riguardo a come la scuola, in generale, può affrontare il disagio e, insieme, far crescere le professionalità docenti: 1. contare sull’empowerment delle professionalità a scuola e dunque su un approccio che dia ai gruppi docenti - intesi come comunità di pratiche - la libertà e la responsabilità dirette di creare nuovi percorsi in risposta a nuovi problemi; 2. sottolineare la necessità di facilitatori molto esperti di tale processo e, in particolare, competenti sia della complessità dei
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fenomeni di disagio sia della conduzione di gruppi docenti in situazione di formazione situata; 3. avere sostegno costante da un’istituzione in grado di fornire una catena di opportunità ma anche assetti contenutivi.
UN SORTA DI HACCP PER “AD AGIO”
Come sappiamo HACCP - che troviamo come avvertimento sui luoghi, nei prodotti, entro le catene decisionali a controllo informatico e non e in ogni dove - è la sigla per “Hazard Analysis Control Critical Point” che significa testualmente “l’analisi del rischio e il controllo dei punti critici” e, più generalmente, è inteso come procedura di controllo e allerta che parte dalle criticità, una specie di occhio capace di individuare i passaggi o gli elementi a rischio di rottura, debolezza o fallimento entro un processo che conduce a un prodotto atteso. La ricerca “ad Agio” si è conclusa. E credo che sia tempo per noi di individuare una sorta di HACCP. Per due ragioni. La prima è che le cose buone ce le siamo già dette e soprattutto le abbiamo viste “agite”, palpabili. La seconda è che - in campo pedagogico come altrove nella vita - si impara di più dalle difficoltà e dalle situazioni critiche che dalle cose che vanno bene o come previsto. Bisognerebbe, infatti, prendere l’abitudine di usare lo slogan: “apprendere dalle cattive pratiche e non solo dalle buone pratiche….” Ecco, brevemente, solo alcuni elementi che - a partire da questi tre anni di “ad Agio”- consigliano di tenere vigile e aperta una procedura di HACCP non formale sui progetti pensati contro il disagio nelle scuole: a. è mancata la contrattualità a sostegno della buona pratica e, dunque, capace di favorire disseminazione e la intesa partecipativa tra progetto attivo nella scuola e istituzionescuola. Ci si è arresi di fronte alla seguente schizofrenia: lavorare contro il disagio con buoni risultati dentro una scuola che, però, nel suo insieme, non è stata davvero investita da questo virus positivo che operava nel suo organismo e spesso non è stata neanche bene informata. Le figure intermedie prima e i dirigenti scolastici poi non non sono riusciti a superare resistenze, parti conservative che hanno, al di là delle intenzio-
Elementi di criticità
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ni, comunque isolato il fenomeno “ad Agio” tanto è vero che le scuole hanno largamente conservato l’idea di disagio come corpo estraneo e da espellere o isolare aggressivamente che, invece, i docenti in azione andavano superando culturalmente e nei fatti. I ripetuti, testardi e flessibili tentativi di superare questa situazione da parte di “ad Agio” sono tutti caduti e la stessa autorevolezza dell’IPRASE non è bastata. Le domande pertinenti sono: cosa serve per allentare i vincoli conservativi (lacci sindacal-rivendicativi, burocratici, lessicali, organizzativi, abitudinari, legati alla cultura della rimozione, ecc.) e favorire un allargamento delle esperienze innovative che affrontano una criticità (il disagio) pur riconosciuta come importante, emergente, ecc.? È il sistema-scuola capace, e a quali condizioni, di farlo? Il “gruppo delle scuole dell’infanzia” che non ha vissuto questa schizofrenia e ha, al contrario, cooptato il progetto ha, forse, un modello migliore, sostanziato, per esempio, dal fatto che le funzioni pedagogiche-operative sono conservate nella figura della coordinatrice come era nel vecchio Direttore didattico? b. Un gruppo della scuola e nella scuola ha agito per contrastare il disagio ma, al di là delle iniziali dichiarazioni progettuali, le agenzie del privato sociale che, in genere, gestiscono la esternalizzazione del disagio rispetto alla scuola, non sono state attivate. Le domande pertinenti sono: quali forme più efficaci/efficienti di sinergia progettuale potrebbero evitare questa scissione? È comunque pensabile una tenuta di lungo periodo di progetti contro il disagio solo intra moenia, sempre e soltanto entro le mura scolastiche? c. Il progetto “ad Agio”, nato in continuità ideale con altre sperimentazioni (vedi scuola “De Gaspari”) ha perso tale continuità, non ha saputo usarla come sarebbe stato forse possibile. Questo fatto comunque evidenzia una difficoltà a garantire una “accumulazione primitiva” di esperienze significative in questo campo, capaci di sommarsi e di creare una massa critica di cultura innovativa e diffusa sulla questione del disagio. Le domande pertinenti sono: quali dispositivi e manutenzioni sono indispensabili a favorire continuità tra esperienze simili che si ripetono nel tempo e che investono le scuole in modo
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attivo? È possibile un’alleanza nello spazio e nel tempo tra chi, entro la scuola normale, ne sa di più, sa fare meglio perché lo ha provato di persona e può farsi spora di nuove azioni contro il disagio crescente?
LO SPAZIO LASCIATO AL DUBBIO
Secondo un modello progettuale lineare, a conclusione di un lavoro di “attuazione” di quanto progettato, si evidenziano, come abbiamo fatto, gli obiettivi raggiunti e quelli non raggiunti. E si ordinano, così a posteriori i “ritrovati” raccolti. Ma a leggere queste pagine è evidente come spesso ci imbattiamo in frammenti promettenti, piccole promesse, dubbi non sciolti, interrogativi aperti. Ne siamo consapevoli: abbiamo incontrato ritrovati ben chiari nella loro natura e contorni e altri, invece, molto meno chiari. Abbiamo raccolto esiti attesi o riconoscibili e altri inattesi, incerti e non facilmente individuabili. Dopo questa esperienza - così come dopo molte altre che ciascuno di noi fa entro la propria pratica educativa e di comune riflessione sul lavoro educativo - sappiamo che il modello ordinato è insufficiente e va integrato con lo sforzo ulteriore di provare a leggere il disordinato, come ci insegna Morin. Curare solo l’ordinato, infatti, può equivalere a una “riduzione del senso”, può corrispondere a un modello “povero”, incapace di guardare a tutti i fatti nel loro intreccio complesso, compresi quelli non facilmente ordinabili, che sono nell’ombra, che nascondono cose irrisolte, semi-lavorati, sospensioni. È noto, inoltre, che un progetto che esplora il disagio a maggior ragione non può che avere una sua capacità di accogliere gli elementi di incertezza. Vi è, anzi, una forte corrispondenza tra il procedere senza certezze del nostro progetto nel suo insieme - che va registrato in questo momento di verifica finale - e il come hanno proceduto nell’incertezza i docenti nel loro lavoro di ricerca-azione nel corso dell’attuazione di “ad Agio”. Ed è, infatti, presente questo specifico elemento nelle relazioni narranti del percorso di ognuno dei tutor supervisori dei tre gruppi, Massimiliano Tarozzi, Giuseppe Nicolodi, Cristina Bertazzoni, così come nel lavoro sul contesto evolutivo del progetto di Maria Luisa Pollam.
Dubbi irrisolti
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La parte che spetta al dubbio forse va conservata, magari nella forma di quesiti. Ma su quali dubbi è bene tenere le finestre aperte quando si tratta di scuola e di disagio? Ne individuo, sulla scorta dei materiali qui riuniti, intanto tre: • è sempre e con tutti i docenti sostenibile un lavoro che comporta vera fatica psichica, scavo interiore, tenuta davanti alla esplicitazione della sofferenza e alla manifesta incertezza negli esiti del lavoro? • Ci si può sempre consentire, anche economicamente, le professionalità di alto profilo che qui hanno permesso lo scaffolding, una struttura di tenuta, supporto e accompagnamento professionale dei gruppi docenti che appare essere, tuttavia, indispensabile per fa sì che funzioni sul serio la dimensione faticosa dell’innovamento professionale dinanzi al disagio? • Non vi è forse anche una grande rimozione collettiva che spiega, almeno in parte, perché la scuola consente il protrarsi e perdurare, nella vita quotidiana a scuola, di tanto disagio manifesto e non che oggi le stesse cronache ci consegnano con terribile forza frequenza? Dunque le domande che emergono dall’esperienza di “ad Agio” sono le domande che vengono poste, ben più in generale, alle nostre scuole che oggi vengono sollecitate, quasi sfidate ad affrontare un compito molto più largo e più complesso di quello relativo alla trasmissione del sapere. Si tratta di un compito che interroga - senza avere già tutte le risposte, appunto - non solo sul come si apprende o, meglio, sul come apprendono i bambini e i ragazzi oggi. È qualcosa che chiama a riflettere e a provarsi sulle sofferenze, i disagi, le diffuse e crescenti difficoltà di relazione e di concreto comportamento che coinvolgono, sotto gli occhi della scuola pubblica tutta intera, quasi ogni classe e gruppo di ragazzi nelle loro possibilità di apprendere. È per questo che le prime risposte esplorate da “ad Agio” e gli stessi quesiti lasciati aperti assumono ancora maggior significato.
Appendice Il progetto “ad Agio”
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Progetto
ad Agio Sperimentare sul campo le strategie atte a capire e ridurre il disagio e a potenziare le buone pratiche Condiviso dall’équipe tutoriale
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Titolo
“ad Agio” Sperimentare sul campo le strategie atte a capire e ridurre il disagio e a potenziare le buone
pratiche. Problemi emersi Si conferma il quadro emergente di molte realtà metropolitane e, secondo modalità divere considerati
sificate, di tante zone periferiche e/o nei piccoli centri nel resto del nostro Paese e in tutte le nazioni ricche. Si individuano e riconoscono, infatti, con sempre maggiore frequenza, a scuola e fuori, nelle giovani persone in crescita - bambini/e e adolescenti - una serie di comportamenti non facilmente contenibili da parte degli adulti educatori e di difficoltà/sofferenze tali da condizionare e ritardare i processi di apprendimento o da costituire veri e propri fattori di rischio psico-sociale, esplosivi in pre-adolescenza e adolescenza nelle scuole medie e nelle superiori, che sono presenti, in nuce e, a volte, già espliciti nel corso dell’infanzia, alle elementari e già nella scuola d’infanzia.
Bisogni individuati
a. Esplosione emotiva e perdita ripetuta del controllo attraverso piccoli e grandi acting-out nel contesto scolastico e fuori. b. L’intera gamma di comportamenti, agiti e/o subiti, che ricadono sotto le categorie tipiche delle manifestazioni del bullismo. c. Il moltiplicarsi di sintomi somatici di genere e intensità diversa. d. La manifesta instabilità/precarietà nella costruzione dei legami con gli adulti e tra pari. e. Il ripetersi di esplicite e/o leggibili manifestazioni di mancata auto-stima. f. Le diffuse e crescenti difficoltà nelle capacità di attenzione/concentrazione. g. L’evidenziarsi, a più livelli e in una grande varietà di manifestazioni, agiti e segni, di un mancato accoglimento del limite e delle regole e di una crescente incapacità a riconoscere il ruolo dell’adulto e di una chiara e diffusa difficoltà di accoglimento del normale setting scolastico. h. La diffusa difficoltà - in forme e gradi molto differenziati - nella comunicazione verbale e nel comunicare bisogni e sofferenze. i. La segnalazione di crescenti e diffusi ritardi e difficoltà nella lettura/scrittura e, più in generale, nello sviluppo del linguaggio verbale. j. La segnalazione di diffuse difficoltà nel reperimento e nel consolidamento di algoritmi formalizzati e di procedure atte a codificare la risoluzione di quesiti logici e matematici, situazioni e esperienze afferibili al campo delle scienze. k. La crescente e diffusa difficoltà nell’organizzazione spazio-temporale, sia a livello corporeo che grafico. l. La crescente difficoltà nel consolidamento del simbolico e nella progressiva costruzione dell’astrazione e di grammatiche e procedure. m.La manifesta povertà nelle strutture lessicali e narrative e nel descrivere secondo logica e/o per analogie. n. La crescente difficoltà ad accettare, pur entro un sistema di rinforzi e sostegni, le naturali frustrazioni, gli allenamenti e la fatica regolare insiti in ogni processo di apprendimento.
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APPENDICE Il progetto “ad Agio”
Finalità
Favorire una cultura capace di produrre una nuova progettualità delle scuole, una cultura non più divisa per segmenti né più operante in modo occasionale ma portatrice insieme di sapere psicologico, pedagogico, antropologico e sociologico e capace, ogni volta, di trovare un centro comune nella presa in carico delle persone in crescita e nella elaborazione di attività in classe, fondate sul rafforzamento della relazione educativa e della osservazione/riflessione dei docenti,
Cornice
capace di sperimentare risposte nuove e più articolate alle diverse manifestazioni del disagio. Non è cosa semplice indicare, in breve, delle linee-guida per un metodo che orienti il progetto
metodologica
“ad Agio”, e capaci di affrontare un campo progettuale innovativo e complesso. Come è per tutta la pedagogia capace di operare nel concreto, anche nel complesso lavoro di contrasto del disagio, infatti, non tutta la metodologia necessaria all’innovazione del nostro approccio e delle nostre concrete azioni con bambini/e e ragazzi/e è a priori conoscibile e descrivibile compiutamente. Il procedurale prevale sul certo, la sorpresa si affianca ad alcune indispensabili certezze: “La bussola c’è ma la navigazione è anche a vista”. Così, se si volesse rappresentare il campo della metodologia di contrasto al disagio si potrebbe individuare un’area ben delineata che corrisponde ad alcune forti cornici progettuali necessarie, attestate dalle buone pratiche e dalla letteratura internazionale. Ma insieme a questa area-guida vi sono aree meno definibili e non già disegnate e colorate che vanno lasciate aperte a contenuti, invenzioni, scoperte e prove d’opera che potranno derivare dalle azioni, osservazioni e riflessioni messe concretamente in essere da chi conduce il lavoro, dai docenti che stanno coi ragazzi/e. Questo significa che i docenti, con il lavoro e la riflessione in fieri, dicono qualcosa di vitale importanza ai progettisti, assumono funzione di ricerca, non sono esecutori di un pensiero pedagogico dislocato fuori o prima o davanti al campo entro cui stanno agendo. Invece si fanno promotori di riflessione pedagogica e, pertanto, si assumono non solo il carico del fare ma anche l’indispensabile carico della parola su quel che si fa e quel che si pensa intorno a ciò che si è fatto, il compito della rilevazione e registrazione costanti e della scrittura condivisa sia per gli aspetti che, di volta in volta, emergono a conferma delle ipotesi fatte e dei risultati attesi, sia per gli aspetti che conservano incertezze e ambiguità su cui è bene non arrivare a conclusioni prima del tempo. Tutto questo ha delle conseguenze. Significa che, da subito, la stessa progettualità delle azioni e la loro scelta viene esplicitamente affidata ai gruppi docenti, che verranno assistiti da dispositivi di facilitazione della riflessione condivisa ma che avranno sovranità - libertà e responsabilità - sull’azione pedagogico-didattico-educativa intrapresa, come si vedrà più avanti. E significa che, da un lato, è bene sottolineare - come si fa qui di seguito - l’area relativamente certa cui ci si deve riferire ma, dall’altro lato, va cullata e poi gradualmente costruita una cultura capace di ascoltare quel che emerge, di accogliere l’inatteso e anche l’atteso nella forma concreta con cui, in modi sempre nuovi, emerge dal nostro lavoro coi bambini, di scrutare, insomma, quel che accade nel concreto e di dare ad esso, di volta in volta, peso, parola e importanza.
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Non solo: di condividerlo ciascuna volta con gli altri docenti e operatori e con l’insieme del progetto. Va detto che tutto ciò comporta una fatica non facile, perché grava sul campo che qui stiamo descrivendo il rischio di dividersi tra docenti tutori dell’ortodossia metodologica rappresentata dall’area-guida e docenti tutori del campo incerto e sorprendente che non è subito sotto controllo ma che è oggetto di enorme interesse per tutti. Un gioco di paladini dell’uno e dell’altro polo è stato osservato in tutto il mondo nel corso dei progetti di innovazione, soprattutto quando si vuole esplicitamente entrare in contatto con le problematiche del disagio che di per sé hanno una grande potenza di sollecitazione e messa in crisi per gli adulti educatori che inevitabilmente entrano in contatto con sofferenze, dolore, incertezze e continue ambiguità e indeterminazioni. Nell’esperienza nazionale e internazionale tale dicotomia tende, dunque, a presentarsi e anche a polarizzarsi entro i singoli gruppi docenti impegnati (ma anche in ciascun singolo docente e/o operatore) nel corso della azione innovativa e a costituire un problema specifico, che ha bisogno di consapevolezza condivisa da subito e di sapiente e paziente governo in corso d’opera. Pertanto il conflitto è nel novero delle cose che ci si deve aspettare. E tuttavia costerà fatica. Certo, entrano in gioco anche le propensioni, le esperienze e le caratteristiche professionali e umane individuali in misura maggiore di quanto accade nel consueto fare scuola perché Linee guida
l’azione innovativa rompe alcune protezioni che il lavoro consolidato e codificato si incarica di conservare: un docente in sperimentazione è meno protetto e vive la sfida ma anche le nuove, inevitabili sollecitazioni e i rischi che questa comporta. Bisogna saperlo. Ma è proprio su questo crinale che, d’altra parte, avviene l’apprendimento dei docenti e l’apprendimento del progetto. È qui che si trovano soluzioni nuove e che si impara ad accogliere la frustrazione della parzialità e l’incertezza delle soluzioni. Detto questo vi sono, le linee appartenenti all’area-guida che qui di seguito indichiamo puntualmente. Queste fanno da bussola alla nuova progettualità che: • è fondata sui diritti dei bambini che sono al centro dell’attenzione progettuale in ogni fase del lavoro; • mette al centro il fare, la concretezza dell’azione e dunque l’elaborazione di azioni pratiche atte a contrastare i bisogni sopra individuati e legati alla nozione di disagio e promuove, pertanto, una serie di quelle che possiamo quasi letteralmente chiamare cure: a. cura di ogni componente e dettaglio della relazione educativa; b. cura dell’ascolto e dell’osservazione; c. cura minuziosa delle proposte e di ogni passaggio e soluzione pratica atta a legare processi a prodotti, prima parziali eppure riconoscibili e poi finiti; d. cura dei ruoli distinti e delle competenze differenziate; e. cura di setting spaziali e temporali/orari e dei problemi organizzativi in modo da agire per e nel benessere e anche “adagio”;
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APPENDICE Il progetto “ad Agio”
f. cura di dispositivi atti a dare agio e voce alla creatività dei bambini e dei docenti ma anche a mantenere paletti e regole minime e funzionali alla propositività dell’azione; g. cura di sequenze/ordine nelle azioni pensate e predisposte ma anche disposte perché sia possibile raccogliere sorprese e esiti inaspettati; h. cura di ogni altra modalità che favorisca le funzionalità in termini di efficacia/efficienza, di comunicabilità e sopportabilità emozionale e relazionale; • stabilisce l’azione progettata in un canovaccio scritto, uno strumento puntuale ma snello, capace sì di stabilire obiettivi attesi ma anche di lasciare la porta aperta a quel che avviene comunque; • dà costante importanza alla narrazione di quel che davvero avviene, un racconto, svolto a più voci, fondato su due principi: partire dall’accaduto più che dall’auspicato, rendere esplicito quel che è implicito e visibile alla comune riflessione quello che è nascosto; • arriva a una forma scritta della narrazione stessa; • accetta sia i vincoli minimi necessari che il carattere evolutivo d questo tipo di progettare e l’incertezza come cornice inevitabile, naturale del procedere innovativo; • al contempo costruisce una cornice procedurale con una grande costanza comunicativa e una stabilità di persone con competenze definite in modo da accogliere i diversi vertici professionali, le diverse caratteristiche di ciascun docente in azione e da poter, così, meglio contenere le inevitabili spinte centrifughe, le polarizzazioni nell’approccio e nello sviluppo delle riflessioni, gli eccessi competitivi e da consentire la permanenza della riflessione comune e, al contempo, la promozione delle decisioni in tempi utili; • accoglie la reciproca e profonda relazione che si vive tra disagio dei/nei bambini e adolescenti e difficoltà degli/negli adulti educatori entro i ruoli e le competenze diversi i quali possono entrare in sinergia operativa solo grazie al reciproco e interno rinnovato approccio ai problemi della crescita e dell’apprendimento; • riconosce sia le diversità che il terreno comune e creolo tra contesti e tra identità diversi (v. scuola/famiglia/extrascuola, curricolare e non, docenti/esperti/amministrativi/genitori/ educatori/supervisori/progettisti, ecc.), • accoglie il compito di stabilire e di progettare l’azione all’incrocio tra quel che si considera curricolare e cosiddetto extracurricolare, curando i nessi tra gioco e esercizio, piacere e frustrazione e fatica, tra sapere essere e saper fare nonché le possibilità nuove e le originali modalità di riconoscimento e registrazione del lavoro che ciò comporta; • si fonda sulla pubblicità di tutte le azioni, delle risorse disponibili e delle decisioni, regolarmente verbalizzate; • adotta la metodologia dell’empowerment che, codificata a livello internazionale, propone, per tutti gli attori adulti già in campo, non un’impossibile e magica trasformazione istantanea dei propri assetti, delle convinzioni, dei metodi e delle azioni, bensì una progressiva attivazione di competenze che prevede alcuni successivi e ineludibili passaggi che sono:
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- attivazione del desiderio delle persone di professionalità diverse di individuare nuove possibilità nel lavoro educativo; - esplorazione e acquisizione di risorse professionali, economiche, metodologiche; - elezione di un setting e di procedure comunemente accolte che attivino la progettualità condivisa; - sperimentazione diretta di nuove vie e modificati approcci a scuola e fuori e promozione di una pratica della narrazione di quel che avviene, tale da favorire una identità delle comunità di pratiche che sia fondata su quel che si fa e su quel che agisce nel campo osservato piuttosto che sui proponimenti dichiarati; - valutazione realistica dei vantaggi delle innovazioni dopo la registrazione condivisa degli esiti attesi e inattesi; Obiettivi Determinati
- ulteriore sperimentazione e nuova progettazione step by step. a. Recepire il bisogno espresso degli insegnanti ma anche delle famiglie di comprendere e collocare le manifestazioni del disagio entro un quadro di riferimento, definito mediante una visione multiprospettica (con il contributo di professionalità diverse). b. Considerare che le pratiche educative ed i comportamenti di relazione tipici del fare del docente, già oggi operanti nel fare scuola, costituiscono, ad un tempo, il punto di partenza di ogni ulteriore progettualità intorno al nodo del disagio e, insieme, la prima risorsa per uscire dalla percezione di impotenza e per contrastare la tentazione di delega agli interventi specialistici e favorire la costruzione di un dispositivo innovativo, di una spora di contrasto al disagio, ben pensato e ben seguito, in alcune scuole scelte con l’aiuto di una équipe ad hoc e di cui l’IPRASE si assume la responsabilità, i cui risultati, provati sul campo, possono, poi, essere disseminati secondo procedure ulteriormente partecipate e condivise. c. Favorire il radicamento di una cultura capace di produrre, entro le azioni già attuate e/o con nuove azioni proposte, una nuova progettualità, non più divisa per segmenti né più operante in modo occasionale, ma portatrice insieme di costante auto-riflessione da parte dei docenti, sapere psicologico, pedagogico, antropologico e sociologico e capace, ogni volta, di trovare un centro comune nella presa in carico delle persone in crescita e in una concreta azione in classe. d. Promuovere riflessioni, corresponsabilità e strategie agite, dentro e fuori della scuola, coerenti con la metodologia dell’empowerment. e. Condurre un’azione capillare e diffusa che, mediante un processo formativo di contaminazione fra contesti, di disseminazione delle buone pratiche, aiuti gli insegnanti a formarsi “in situazione”.
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APPENDICE Il progetto “ad Agio”
Destinatari
Misura A I destinatari sono classi di bambini di istituti comprensivi che, insieme ai loro insegnanti, sperimentano un’azione fortemente innovativa, pensata per contrastare il disagio nelle sue diverse espressioni. Gli istituti comprensivi coinvolti attueranno “ad Agio” per un triennio curando una classe di bambini, preferibilmente della quarta elementare (anno 2004 - 2005), poi seguendo in verticale lo stesso gruppo-classe per i successivi due anni scolastici (anno 2005 - 2006 e anno 2006 - 2007). Il gruppo docente della classe attivata sarà coinvolto, durante il presente anno scolastico (2003 - 2004), in un processo di negoziazione condivisa centrata sulla progettazione assistita ai fini dell’attuazione di “ad Agio”. Motivazioni della scelta: sostenere la potenzialità dei comprensivi e la continuità verticale in generale a cavallo tra infanzia e pre-adolescenza, affrontare il punto di crisi politicamente significativo perché più evidente al largo pubblico dei docenti, delle famiglie e all’opinione generale, ecc., inoltre osservare/manutenere la sperimentazione lungo l’età evolutiva entro la quale i fattori di crisi/disagio/rischio tendono a passare dal silente/latente all’agito e più manifesto. Dare anche ai docenti interessati “l’agio di lavorare ad agio” entro una cornice di piena e negoziata condivisione progettuale che possa nutrirsi di costante facilitazione e supporto da parte della équipe tutoriale. Misura B Vengono possibilmente scelti per il progetto alcuni comprensivi metropolitani di fondo-valle e altri di valle/montagna. Motivazioni della scelta: curare la evidenza duale della provincia fin dall’inizio e accogliere nell’impianto la diversità ricca e le diversificate facce/espressioni del disagio. Misura C Destinatari sono anche i bambini/e e le docenti di sezioni di scuola dell’infanzia di età omogenea (trienni il primo anno 2003 - 2004) che verranno seguiti in continuità verticale fino al termine quando saranno cinquenni. Pertanto vengono scelte 2 scuole d’infanzia per un intervento connotato in senso fortemente e precocemente preventivo, 1 metropolitana e 1 di montagna. Motivazioni della scelta: accogliere subito le istanze di prevenzione e intervento precoce già esplicitamente presenti, prolungare ulteriormente in verticale il senso della sopraindicata scelta di sperimentare/creare ponti di confronto intorno al disagio tra scuole d’infanzia e comprensivi.
Due opzioni
Misura D
che definiscono Si opta per azioni didattico-educative tematicamente ben definite a cavallo tra classicamente subito “ad Agio” curricolare e non, ambiti di intervento carichi di potenzialità innovative ma non troppo divere i relativi tempi genti rispetto al normale fare scuola né troppo larghe/dispersive. Sono suggeriti - ma non obattuativi per il bligati - l’intreccio degli ambiti/aree di apprendimento artistico-pittorico + la scrittura creativa 2003 - 2004
+ la produzione video + musica/danza per i comprensivi e laboratori regolari di psico-motricità per la scuola dell’infanzia.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Motivazioni della scelta: i docenti che entrano in una importante innovazione, per evolvere ed evolvere positivamente e in gruppo/come comunità devono poterlo fare in modo graduale e senza troppo iato con le loro pregresse esperienze e professionalità, grazie ad una sollecitazione significativa ma non totalizzante e, dunque, non su tutta la linea, pena gravi rischi, già provati nel corso di altre innovazioni centrate sulla lotta al disagio quali: • eccessivo allontanamento dal profilo professionale rassicurante; • contestuale rischio di vivere e/o percepire l’azione stessa in una sorta di altalena onnipotenza/svalutazione; • apertura del contenzioso tra accoglienza e apprendimento a discapito della nozione olistica di competenza; • evidenti rischi di conflitti nei gruppi sulla dicotomia accoglienza/competenza, di complessissimo governo; • trend e dinamiche auto-espulsive ed espulsive dei docenti sperimentatori rispetto al resto della scuola a scapito del collegamento e nella disseminazione positiva, auspicate entro le scuole. Misura E Si opta: • per affidare la progettazione e poi l’attuazione di azioni didattico-educative pensate per contrastare il disagio, per l’anno scolastico 2004 - 2005, a gruppi docenti di una classe elementare degli istituti comprensivi individuati che lavoreranno alla progettazione assistita nel corso della seconda metà del presente a.s. 2003 - 2004 e avvieranno l’attuazione vera e propria di “ad Agio” a partire dal settembre 2004; • per affidare la progettazione assistita e anche l’avvio della prima fase di attuazione di “ad Agio”, già durante il presente a.s. 2003 - 2004, a gruppi docenti di una o più sezioni di trienni di due scuole dell’infanzia individuate. Una volta stabiliti i calendari di progettazione assistita (ottobre 2003 - gennaio 2004 per le scuole dell’infanzia e marzo 2004 - giugno 2004 per gli istituti comprensivi) e di avvio dell’attuazione delle attività di “ad Agio” (gennaio 2004 per le scuole dell’infanzia e settembre 2004 per gli istituti comprensivi), i gruppi docenti lavorano in sovranità nel merito della progettazione stessa: sono liberi e responsabili della propria proposta: - possono articolare od espandere pregresse azioni già in campo nella loro classe/sezione; - oppure possono partire ex novo con una azione pensata ad hoc; - scelgono oggetto e contenuti della propria proposta didattico-educativa; - stabiliscono e progettano liberamente le sequenze dell’azione, i prodotti intermedi e finali; - stabiliscono spazi e tempi utilizzati e moduli organizzativi e orari; - scelgono/elaborano gli strumenti di rilevazione e gestione del lavoro; - stabiliscono criteri e modalità di valutazione.
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APPENDICE Il progetto “ad Agio”
Al contempo, al fine di salvaguardare l’unità scientifica dell’impianto di “ad Agio”, i gruppi docenti sono chiamati a condividere/rispettare/salvaguardare alcuni vincoli entro i quali progettare la propria azione: • va pensato un prodotto finale che, a sua volta, preveda anche tappe intermedie e prodotti semi-lavorati, in relazione alle azioni attivate e ai processi educativi e da rendere visibili; • l’attenzione va messa su un’area che, per le ragioni già indicate qui sopra, stia a cavallo tra curricolare e non; • vanno elaborati dei semplici patti educativi (poche regole chiaramente esplicitate con funzione di paletti/limiti) esplicativi e costitutivi del progetto, entro il gruppo docente, coi bambini, nel rapporto con la scuola nel suo insieme, con le famiglie; • va prevista una prevalenza di metodologie attive; • nella progettazione vanno enunciati gli obiettivi in modo da esplicitare gli esiti attesi ma lasciando libera la possibilità di accogliere, in itinere, esiti inattesi; • vanno scelte le forme della regolare documentazione della propria ricerca-azione, in coerenza con contenuti e progettualità elaborati; • si partecipa con regolarità al lavoro con il referente tutoriale e ai seminari centrali di riflessione/formazione (v. misure specifiche). Motivazioni della scelta: si è scelto di puntare a un progetto ben delimitato e di qualità affidato a ogni gruppo docente scelto, legato alle concrete competenze dei docenti e centrato su un focus - un’azione, con relativi contenuti, liberamente scelto dai docenti, che conduce a un prodotto. In tal modo si investe subito chi opera di un task progettuale e lo si rende sovrano ma sostenuto: libero e responsabile nel proporre, progettare con cura e attuare azioni pensate ex novo oppure azioni collegate ad azioni già in corso ma ulteriormente arricchite ed elaborate per contrastare il disagio, ma, al contempo, sostenuto da alcuni vincoli, esplicitati subito e da condividere fin dalla progettazione come cornice entro la quale esercitare la libertà di sperimentare. Fin dall’inizio si tengono in grande conto i calendari e gli impegni già presi dalle scuole e dai docenti negoziando, infatti, una partenza differenziata tra scuole dell’infanzia e scuole elementari per rispettare i tempi differenziati di adesione al progetto “ad Agio” e di progressiva attivizzazione dei due tipi di scuole. I docenti, così coinvolti in modo apertamente negoziale e fondato fin dall’inizio sul principio di concorde adesione, si ancorano a compiti definiti entro lo slancio innovativo, contengono e, al contempo, esaltano le capacità di innovazione creativa di gruppo e individuale e mettono in gioco in modo ben incanalabile le competenze seconde, terze; inoltre si fanno direttamente fattore di traino per coinvolgere anche le classi non sperimentali in forme parziali, attraverso la creazione di prodotti che hanno visibilità forte che serve a rafforzare/restituire a docenti, ma soprattutto a bambini/e e ragazzi/e, alle loro famiglie e alla comunità il senso del lavoro, l’auto stima e la stima ecc.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
Condizioni
Misura F
necessarie,
Viene consolidato/stabilizzato, presso l’IPRASE, il gruppo tutoriale del progetto “ad Agio” (v. sche-
vincoli
da con nomi e ruoli/funzioni, in allegato 2) che, una volta elaborata la presente progettazione
progettuali
generale e favorito l’inizio della progettazione decentrata assistita e l’avvio del lavoro sul campo,
e relativi
accompagna, nel corso del triennio 2004 -2007, il lavoro dei docenti e la comunicazione con le
dispositivi
scuole e in ciascuna scuola, anche a sostegno dell’articolazione dell’offerta formativa relativa al disagio, guida e facilita il monitoraggio dei progetti sul campo, si fa carico delle problematiche emerse e si fa assistente attivo del loro governo e della restituzione/formazione partecipata presso i gruppi docenti in azione. Il gruppo tutoriale centrale, guidato dal Direttore dell’IPRASE, assume anche tutti i compiti relativi al come informare puntualmente su tutto il progetto, all’inizio e in corso d’opera. Motivazioni della scelta: ci vuole una squadra progettuale multidisciplinare che costituisce un patto tra persone che si impegnano per un progetto che elegga un setting stabile nel tempo, fatto di riunioni, presenza di più professionalità, registrazione costante dei percorsi e delle riflessioni, grande attenzione alla manutenzione e tenuta dei gruppi. “ad Agio” vuole da subito prevedere uno stretto legame tra sapere del progetto e crescita del sapere sul disagio in tutte le scuole e la gestione del rapporto, nelle scuole, tra ordinario e straordinario, accoglienza e curricolo, relazione educativa rafforzata e attenzione alla costruzione di competenze. A tal fine è indispensabile un centro con compiti di supporto, di seconda linea e dunque competente ma esterno all’azione, una sponda alleata competente capace di garantire facilitazione e restituzione in merito ai vari aspetti della lotta al disagio che si sperimentano e alla formazione partecipata dei docenti che, di fatto, si sta attuando, capace anche di sostenere una sperimentazione prolungata indirizzandola scientificamente, di assumere funzioni tutoriali senza tuttavia compromettere libertà e responsabilità che sono dei gruppi docenti in azione e delle scuole scelte. La pubblicità costante dell’azione intrapresa la valuta di per sé ed è condizione per ogni efficace possibile disseminazione futura; inoltre la protegge da attacchi largamente inevitabili. Misura G Le équipe delle classi/sezioni sono sostenute da un regolare lavoro di supervisione, affidato a esperti nominati ad hoc dall’IPRASE e che, a loro volta, fanno parte della riflessione comune del gruppo tutoriale centrale (v. allegato 2). Tale lavoro viene attuato sia nel corso dei seminari che si terranno durante l’anno scolastico secondo riunioni già calendarizzate, sia attraverso riunioni mensili di riflessione sul lavoro che vedranno uniti regolarmente i docenti delle sezioni scelte di scuola dell’infanzia, i docenti delle scuole elementari degli istituti comprensivi individuati. Ciascun gruppo docente avvierà il lavoro di progettazione assistita e riflessione con il proprio tutor supervisore a partire dal seminario del 17 e 18 ottobre 2003 per le scuole dell’infanzia e dal seminario del 12 e 13 marzo 2004 per gli
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APPENDICE Il progetto “ad Agio”
istituti comprensivi. (v. allegato 1). Questa supervisione riguarderà, dunque, sia il periodo di progettazione sia il periodo di attuazione di “ad Agio”. Motivazioni della scelta: I supervisori incontreranno, insieme, più gruppi docenti a scadenza regolare e secondo modalità stabilite dai supervisori stessi e dal gruppo tutoriale centrale, per favorire la riflessione guidata e facilitata a più voci e la unitarietà del progetto. Si fornisce ai docenti in azione un referente esperto, un gruppo centrale tutoriale e un calendario di incontri in itinere con funzioni di facilitazione, supporto e accompagnamento pedagogico. I docenti sono liberi, come si è visto, pur con i vincoli condivisi, ma non sono soli poiché ottengono una sponda alleata competente che li sostiene nell’azione e nella ricerca. Misura H Nel seminario iniziale sopraindicato si avvierà il lavoro di progettazione prendendo accuratamente in esame le pratiche già avviate dai docenti integrandole secondo le indicazioni di “ad Agio” e/o proponendo percorsi nuovi, pensati per “ad Agio”. Si inizierà anche un lavoro su come il gruppo docente impegnato in “ad Agio” possa funzionare con una buona e fattiva comunicazione interna, capace di promuovere e facilitare l’azione innovativa con i bambini. Entro tale dimensione auto-riflessiva, facilitata dalla supervisione, si avvierà una riflessione capace anche di esprimere un coordinatore/coordinatrice interno di ciascun gruppo, capace di aiutare il gruppo a prevedere e sincronizzare i tempi tra l’insieme del lavoro e il lavoro “ad Agio”, di raccogliere i materiali e documentare in itinere il percorso, di facilitare le comunicazioni entro la scuola sul piano operativo, ecc. Si tratta di una figura che qui viene proposta con una funzione “di servizio”, di primo tra pari, una scelta che non è imposta ma che avviene per processo condiviso da tutto gruppo di docenti impegnato in “ad Agio”. Motivazioni della scelta: l’esperienza suggerisce che vi sia una persona che possa/sappia assumere funzione di facilitazione interna al gruppo stesso, di traino e riordino, in particolare, del lavoro del gruppo di azione e di ricerca, una persona opportunamente indicata/accolta dal gruppo stesso. Si tratta di un primo tra pari. Misura I La équipe dei docenti delle classi/sezioni delle scuole scelte hanno anche bisogno di una più generale facilitazione dell’accoglienza del progetto da parte dell’insieme di ogni scuola. È bene che tale funzione venga assolta da un docente che già abbia esperienza e competenze, nella scuola, di raccordo, coordinamento, ecc. Nel tempo questa figura potrà curare il rapporto tra il docente coordinatore interno e il gruppo docente in sperimentazione più in generale e il dirigente scolastico, coinvolto dall’IPRASE nel progetto a pieno titolo in modo da favorire, nelle scuole, azioni, procedure e relazioni di lavoro chiare e riconosciute, che possano tenere nel tempo. Da questo punto di vista è bene pensare al docente coordinatore come a una persona capace di relazionarsi con il dirigente scolastico e di favorire il rapporto tra progetto pilota e insieme dei colleghi/ghe della scuola. Questa figura, che è esterna all’azione “ad Agio” vera e propria e che ne facilita da fuori lo sviluppo non ha compiti di indirizzo dell’azione che vengono
“ad Agio” IPRASE del Trentino
affidati e monitorati entro il gruppo stesso e con il supervisore ma riveste una delicata e importante funzione di raccordo e di sviluppo, nelle scuole, del progetto. A tal fine questi coordinatori - docenti con funzioni nelle scuole elementari e Coordinatori pedagogici per le scuole dell’infanzia - avranno, entro i seminari, un loro momento di riflessione regolare e si terranno in contatto con un supervisore che li aiuterà a curare la osservazione attenta delle dinamiche tra innovazione “ad Agio” e resto della scuola, osservazione che è essa stessa una importante parte della ricerca azione soprattutto nella prospettiva della disseminazione futura delle buone pratiche provate da “ad Agio”. Il dirigente scolastico dovrà favorire tali relazioni e procedure entro il Collegio dei docenti. Il ruolo di garanzia del Dirigente scolastico rappresenta, infatti, il suggello simbolico oltre che pedagogico-amministrativo indispensabile a tale operazione. L’IPRASE svolgerà la sua funzione a sostegno di tale ruolo. Motivazioni della scelta: l’esperienza nel campo di gruppi docenti che affrontano sperimentazioni innovative suggerisce che vi sia una persona che possa/sappia assumere funzione di raccordo tra gruppo di sperimentazione e il resto della scuola, così da sostenere la condivisione dell’innovazione in modo da evitare o ridurre il conflitto sperimentatori/non sperimentatori e permettere la futura disseminazione, d’accordo con il dirigente scolastico.
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APPENDICE Il progetto “ad Agio”
Allegato n. 1: Calendario delle attività da svolgere entro il primo anno di progettazione e di attuazione di “ad Agio”, a.s. 2003 - 2004 Data/periodo 17 e 18 ottobre 2003
Evento/oggetto/prodotto • Incontro équipe tutoriale.
Con chi/a chi Équipe tutoriale.
• Primo seminario per i docenti speri- Coordinatori scuole dell’infanzia. mentatori delle scuole d’infanzia coin- Tutti gli insegnanti sperimentatori delle volte “Prepararsi al compito” (v. pro- scuole d’infanzia. dal 19 ottobre 2003 al 9 gennaio 2004
gramma in allegato). • Gli insegnanti sperimentatori di scuo- Il pedagogista organizza incontri di facilile dell’infanzia elaborano, sulla scorta tazione e coordinamento delle progettadel presente progetto generale, con il zioni delle scuole d’infanzia coinvolte. supporto del pedagogista, la propria
12 e 13 gennaio 2004
proposta progettuale. • Incontro équipe tutoriale.
Équipe tutoriale.
• GIORNATA CITTADINA di presentazione Dirigenti scolastici e coordinatori scuole del progetto “ad Agio”.
dell’infanzia.
• Secondo seminario di riflessione e con- Tutti gli insegnanti sperimentatori delle fronto sulle progettazioni minute delle scuole d’infanzia. scuole d’infanzia “Il nostro progetto”. +
Gli insegnanti degli istituti comprensivi in via di coinvolgimento.
• Ultima raccolta e perfezionamento del- I docenti di altre scuole eventualmente inle adesioni delle scuole e dei docenti teressati alla presentazione di “ad Agio”. sperimentatori delle classi elementari Cittadini/e. dal 13 gennaio 2004
degli istituti comprensivi coinvolti. Istituzioni. • Semestre di sperimentazione, con in- Tutti gli insegnanti sperimentatori del-
alla fine dell’anno
contri regolari di riflessione/formazione le scuole d’infanzia, pur vedendosi per
scolastico
e di messa a punto, dei gruppi docenti mettere a punto, in itinere l’azione prodelle sezioni delle scuole d’infanzia gettata e in via di attuazione tra docenti coinvolte.
e guidati dal referente interno, svolgono anche un incontro ad hoc con il referente pedagogista in date calendarizzate in modo condiviso nei mesi di: febbraio, aprile e maggio.
“ad Agio” IPRASE del Trentino
12 e 13 marzo 2004
• Incontro della équipe tutoriale.
Équipe tutoriale.
• Terzo seminario per i docenti sperimen- Dirigenti scolastici e coordinatori scuole tatori delle scuole d’infanzia coinvolte dell’infanzia. “A metà del cammino”. +
Tutti gli insegnanti sperimentatori delle scuole d’infanzia.
• Primo seminario per i docenti speri- Tutti gli insegnanti sperimentatori degli mentatori delle classi elementari degli istituti comprensivi. istituti comprensivi coinvolti “Prepararsi Eventuali docenti non sperimentatori indal 13 marzo alla fine dell’anno scolastico
al compito”. teressati al progetto “ad Agio”. • Gli insegnanti sperimentatori delle Il pedagogista organizza incontri di faciliscuole elementari avvieranno la elabo- tazione e coordinamento delle progettarazione, sulla scorta del progetto gene- zioni delle scuole elementari in date carale, con il supporto del pedagogista, la lendarizzate in modo condiviso nei mesi propria proposta progettuale.
di: marzo, aprile, maggio e giugno.
• Il gruppo neo-costituito di raccordo, Il consulente scientifico organizza incontri lavorando in parallelo con gli altri grup- virtuali con il gruppo utilizzando dei propi, riflette sulle complesse interazioni tocolli d’osservazione. tra docenti sperimentatori e istituzioni coinvolte e raccoglie osservazioni in 28 e 29 giugno 2004
merito. • Quarto seminario per i docenti speri- Équipe tutoriale. mentatori delle scuole d’infanzia coin- Dirigenti scolastici e coordinatori scuole volte “Pensiamo al lavoro fatto” con dell’infanzia. carattere di verifica-valutazione del Tutti gli insegnanti sperimentatori delle semestre di sperimentazione. +
scuole dell’infanzia ed elementari Eventuali docenti non sperimentatori in-
• Secondo seminario di riflessione e con- teressati al progetto “ad Agio”. fronto sulla prima fase di progettazione per i docenti delle scuole elementari. • Primo seminario di riflessione, confronto e restituzione da parte del gruppo dei facilitatori. • Riunione di riflessione-supervisione équipe tutoriale. • Ri-progettazione e completa calendarizzazione degli impegni per l’anno scolastico 2004 - 2005, svolte a partire dalla valutazione delle esperienze.
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APPENDICE Il progetto “ad Agio”
Settembre 2004
• Riunione di riflessione-supervisione Equipe tutoriale. équipe tutoriale
Tutte le scuole del progetto.
• Presentazione dell’articolazione 2004 - Altre scuole. 2005 del progetto e relativo calendario. Rappresentanti politici e istituzionali. • Avvio II Semestre di sperimentazione, Cittadini/e. con incontri regolari di riflessione/for- Con testimonial. mazione e di messa a punto, dei gruppi docenti delle sezioni delle scuole d’infanzia coinvolte. + • Avvio I Semestre di sperimentazione, con incontri regolari di riflessione/formazione e di messa a punto, dei gruppi docenti delle classi elementari degli istituti comprensivi coinvolti. • Convegno-seminario a carattere provinciale “confronto pratiche agite con altre scuole del Trentino”.
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Allegato n. 2: Ruoli e funzioni Cognome, nome
Ruolo
Funzione, competenza utilizzata
Marco Rossi-Doria Ernesto Passante
Consulente Direttore, responsabile progetto
Titolarità scientifica Ha la titolarità amministrativa Assicura la comunicazione e gli aspetti logistico-organizzativi con la segreteria
Cristina Bertazzoni
Massimiliano Tarozzi
Psicopedagogista, tutor supervisore dei
amministrativa (Lutteri Laura) Secondo calendario da concordare con il
gruppi degli insegnanti sperimentatori
gruppo in occasione del I incontro
delle classi elementari coinvolte Pedagogista, tutor supervisore dei gruppi
Secondo calendario da concordare con il
degli insegnanti sperimentatori delle classi gruppo in occasione del I incontro Giusppe Nicolodi
elementari coinvolte Psicologo psicomotricista, gestione/
Secondo calendario da concordare con il
supervisione dei gruppi degli insegnanti
gruppo in occasione del I incontro
sperimentatori delle scuole dell’infanzia Claudio Stedile
coinvolte Consulente
Progetta il setting e organizza e coordina la comunicazione delle giornate seminariali;
Carlo Buzzi
Sociologo, ricercatore
partecipa al lavoro dell’équipe tutoriale Studia e cura la realizzazione del modello
Elisabetta Erspamer
Associazione Girella
di monitoraggio e validazione Cura la specificità della comunicazione scuola-famiglia intorno all’approccio del
Renata Attolini
Collaboratore esterno
progetto sulle tematiche del disagio Cura la continuità con il progetto “Capire il disagio”, esperienza da cui è nata la
Mauro Fontanari
Supporto all’organizzazione
presente proposta Inserisce i dati e cura le informazioni sul
Maria Luisa Pollam
Coordinamento
sito Punto di riferimento organizzativo per le
Laura Lutteri
Amministrazione e organizzazione
scuole Cura la parte amministrativa e organizzativa
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