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STEVE MARTINI CHIAMATA IN GIUDIZIO (The Arraignment, 2003) In ricordo di Ralf 1 L'ufficio di Nick Rush è al settimo piano, il più basso fra quelli occupati dallo studio Rocker, Dusha e DeWine, meglio noto nell'ambiente legale come RDD. È il più grosso studio legale di San Diego, conta oltre trecento avvocati e sedi in quattro città. Nick vi lavora solo da due anni, ma ha già un ufficio d'angolo e due giovani associati alle sue dipendenze. Una sorta di ministudio dentro lo studio. Il suo ufficio è stato chiaramente arredato da Dana, la nuova signora Rush, il cui tocco è visibile ovunque: dai tappeti persiani agli artistici vasi di terracotta che adornano le nicchie dietro la poltrona di pelle, alla borchia d'oro nella narice destra di Nick. Avrà anche una moglie nuova e raffinata, ma lui è rimasto lo stesso Nick che conosco da dieci anni. Una sigaretta gli penzola dal labbro inferiore mentre parla, spargendo cenere sul costoso sottomano di pelle della scrivania. Non avrà il physique du róle, ma, quando parla, la gente lo sta ad ascoltare. Spazza via la cenere col dorso della mano ed esamina le bruciature sul cuoio. «Se mi vede, m'ammazza», dice. Sta parlando di Dana. Si lecca la punta del dito e cerca di riparare il danno con la saliva. «Devo fumare qui. A Dana non piace che fumi a casa. Sostiene che poi puzzano i mobili e i vestiti. Io non lo sento, ma già, ormai ho perso l'odorato.» Tira una lunga boccata e immediatamente viene assalito da un accesso di tosse. «La prima della giornata», spiega, tra un colpo di tosse e l'altro, cercando di riprendere fiato, la sigaretta sempre lì, appesa all'angolo della bocca. «Ha ragione.» Allontana la sigaretta dalle labbra, la guarda, se la rimette in bocca. «Questa robaccia ti uccide. Così imparo a sposare un'arredatrice.» Non dice che ha vent'anni più di sua moglie. Mi guarda per vedere se gli offro la mia solidarietà. Ma, al momento, questa particolare banca è chiusa. Il mio studio, Madriani & Hinds, è piccolo, e di certo non può fare concorrenza alla RDD. Due anni fa, il mio socio, Harry Hinds, e io ci siamo
ritagliati il nostro ufficio in un tranquillo bungalow nascosto tra le piante in un cortile di fronte all'Hotel Del Coronado. Alla ricerca di un clima più fresco e di una nuova vita, avevamo trasferito la nostra attività da Capital City - Sacramento -, approfittando di un generoso risarcimento ottenuto per una causa civile. Da allora, Coronado e dintorni sono diventati la nostra nuova casa, mia e di mia figlia Sarah. Sarah, quindici anni, non ha più la mamma. Nikki è morta di cancro parecchi anni fa. Ciò che mi ha portato oggi alla RDD è la telefonata di un amico. Nick ha da poco passato la cinquantina, gli anni migliori per un avvocato penalista. Abbastanza anziano per avere esperienza e abbastanza giovane per affrontare le cause con irruenza. Lui pensa che essersi associato alla RDD sia stata una buona mossa. Io non ne sono così sicuro. Negli ultimi dodici mesi, sembra invecchiato di dieci anni. Lo studio lo ha attirato con la promessa di trasferirlo presto alle cause civili, e invece lui è rimasto impelagato negli illeciti amministrativi. Insieme a quello dei fallimenti, è il settore legale in maggiore crescita, grazie alla pratica di addomesticare i bilanci, molto in voga nell'ultimo decennio. La me generation degli anni '60 non se la passa tanto bene. L'esperienza di Nick nell'ambito dei reati societari si è affinata in vent'anni di pratica presso l'ufficio del procuratore e poi presso il suo studio, prima del passaggio alla RDD. Corre voce che Nick sia stato chiamato altrove, ma che abbia scelto di restare alla RDD. Ho il sospetto che, se si risalisse all'origine di queste voci, si scoprirebbe che a metterle in giro è stato lui stesso. Lo studio cercava una persona che si prendesse cura del rispettabile uomo d'affari che, di quando in quando, fa uno scivolone; dell'affabile consulente finanziario che decide d'investire i tuoi soldi nel suo nuovo yacht anziché nelle obbligazioni di cui ti aveva parlato e poi stampa qualche certificato di deposito in proprio in modo che tu abbia qualcosa da chiudere in cassaforte. Agli occhi di Nick, questo non si configura neppure come reato. «Dovevano spostarmi alle cause civili, ma, come puoi vedere, non è andata così.» Indica la pila di fascicoli alta un metro appoggiata per terra contro la parete. «Non fanno neppure a tempo a portar dentro nuovi schedari. Negli ultimi due mesi, abbiamo prodotto più entrate di ogni altra divisione. Io gli dico e gli ridico che ho bisogno di aiuto, ma loro mi rispondono che devo mettere più sotto i miei. Se potessi fatturare una giornata di cinquanta ore, lo farei. Stronzate da camera di commercio» le chiama.
«Frodi ai danni dei consumatori. Reati di serie B. Dovrebbero darti un manuale d'istruzioni, prima di accusarti di reati come questi. Ti giuro che prima di venire a lavorare qui, non sapevo neppure che metà delle azioni esposte in quei fascicoli fosse illegale.» «Perché non te ne vai? Potresti metterti in proprio.» «Ho investito troppo. Due anni. Dovrei ricominciare da capo in un altro posto. Sono troppo vecchio. Ho una moglie che mi fa indossare calze di seta a quadri per presentarmi in tribunale e insiste perché faccia causa alle compagnie d'assicurazioni, in modo da poter dire agli amici, senza mentire, che suo marito è un avvocato d'impresa. Lo so che per te sono pazzo a stare qua. Ad aver divorziato per risposarmi.» «Io non ho detto nulla.» «Il tuo silenzio è eloquente.» «Non sono il tuo analista.» «Lo so. Lui me lo dice quando faccio delle cazzate. D'accordo. Forse ho fatto delle scelte stupide. 'Stupido' è la parola che viene in mente, giusto?» Valuta la mia espressione ancora una volta, e poi prosegue: «Va bene, senza il forse. Ma quel che è fatto, è fatto. Come si fa a tornare indietro? La sfera privata della mia vita è fottuta, ma quella professionale, la carriera, quella è ancora tutta da giocare». Era da tempo che non lo vedevo così ottimista. Nick è il genere di avvocato che rifiorisce quando è oberato di lavoro. «Vorrei che tu fossi il mio analista», scherza. «Dovresti vederlo. Ci vado una volta alla settimana. È come andare dal dentista a farsi trapanare il cervello senza anestesia. Io gli dico che mi sento abbastanza bene e che vorrei superare questa fase della mia vita. Lui mi ribatte che prima devo troncare il legame con Margaret, ora che il divorzio è concluso. Io gli spiego che ho più che troncato, da quando il suo avvocato mi ha inchiappettato all'udienza per il mantenimento, sai, gli alimenti. E, come se non bastasse, lei mi ha portato via fino all'ultimo centesimo. Più troncato di così, si muore! E lui a dirmi - senti questa - a dirmi che devo affrontare Margaret per superare i miei sensi di colpa. E io: non ho sensi di colpa. E lui: dovrebbe averne e, se non ne ha, vuol dire che ha qualche problema di immedesimazione. E, per dirmi questo, si becca un centone e mezzo all'ora.» «Non ci andare più.» Mi guarda attraverso il fumo della sigaretta, fa una smorfia alla De Niro. «In quel caso, probabilmente, mi sentirei in colpa. Mio padre diceva sempre che il dolore fa bene all'anima. Ha tanto senso quanto venire a lavorare
in questo dannato studio. Ma, sai com'è, ognuno ha ciò che si merita, e se questo significa una ventiseienne con un culo fantastico, come si fa a lamentarsi?» Scoppia a ridere. Il prezzo della lussuria. Mi scruta da sopra gli occhialini a mezza lente che usa per leggere. Indossa un completo da tremila dollari, ma ha la forfora sulle spalle, oltre che della cenere sulla cravatta, per non parlare delle rughe sulla fronte abbronzata e della pelata che tenta inutilmente di nascondere sotto rade ciocche di capelli neri. «Le persone si allontanano. Chiamala crisi di mezz'età. Chiamala seconda fanciullezza. Chiamala come ti pare. Avevo un prurito. E me lo sono grattato.» È così che definisce le due settimane di follia ai Caraibi con Dana. E per Nick non era la prima volta. Ha portato Dana da Nevis a St Lucia, poi giù in Belize, e nuovamente su alle Bahamas, sempre mezzo passo avanti all'investigatore privato che Margaret aveva ingaggiato per pedinarlo. Cos'abbia detto Dana al suo datore di lavoro, non lo so. Forse si è presa un periodo di ferie, o forse pensava di potersi permettere di mollare il lavoro, avendo piantato a fondo le grinfie su Nick. L'investigatore li ha beccati a Nassau. Ufficialmente Nick avrebbe dovuto trovarsi a un seminario per penalisti a New Orleans, a spese dello studio. «L'hai mai fatto con una di ventisei anni?» mi chiede, di punto in bianco. «Quando avevo ventisei anni.» «No, no. Voglio dire, adesso.» So bene cosa intende, ma, conoscendolo, suppongo che la domanda sia puramente retorica. Gli ho visto assumere quella stessa espressione di fronte ai giurati per i soldi, tanti soldi, perorando la causa di un cliente, con quegli occhietti penetranti e quel sorriso che, si sa, non ha niente a che vedere col senso dell'umorismo. Quando Nick fa una domanda del tipo: «Come può essere certo che il cielo non sia verde?» non è perché voglia una risposta. Quello che vuole è la capitolazione del tuo pensiero razionale. Una volta messa in discussione la tua logica, basta un semplice gioco di prestigio, e ti ritrovi a bere la favoletta che il suo cliente sta per raccontare sul banco dei testimoni. In questo caso, si tratta di una tacita assoluzione da parte di un altro avvocato. Anche se recentemente non l'ho fatto con una ventiseienne, Nick può trarre conforto dal pensiero che mi piacerebbe farlo. «E così Margaret va a ingaggiare questo principe delle tenebre», prose-
gue, «questo fottutissimo divorzista di Los Angeles, solo per impalarmi su un formicaio. E io mi sono forse lamentato?» Il fatto che lo stia facendo proprio in questo momento non lo frena. «No. Ho pagato il conto, pensando che fosse il prezzo per continuare a vivere.» A giudicare dalle occhiaie, però, continuare a vivere rischia di ucciderlo. Il volto di Nick è un grafico in continua flessione da mancanza di sonno. Non so se dipenda dal fatto che lavora troppo per pagare gli alimenti o se si diverte troppo la notte con Dana. L'una o l'altra cosa, o tutt'e due le cose insieme, rischiano di ucciderlo. «Se avessi un prurito così, tu non te lo gratteresti?» insiste. «Ogni uomo con un normale appetito sessuale...» prosegue, come se io non fossi neppure lì. Nick sospetta che anch'io abbia avuto le mie avventure, magari prima di rimanere vedovo, anche se non ne ho mai parlato con lui. È per questo che ogni tanto mi chiama. Costo meno del suo analista, e può ignorare qualunque cosa io gli dica. Non essendo suo collega nello studio, inoltre, sono una spalla sicura su cui piangere. Mi guarda da dietro la scrivania con occhi da cane bastonato, per non parlare delle occhiaie da basset hound. Dana, la nuova signora Rush, è bionda e snella, più alta di Nick. Ha l'aspetto fresco di una modella avviata a diventare una star del cinema. E, se non ho perso la mia capacità nel giudicare le persone, sa perfettamente come arrampicarsi sui gradini della scala sociale. L'ho incontrata in tre occasioni, e ogni volta si è congedata con un'occhiata che faceva pensare a un'avance. Ma, d'altro canto, trattandosi di Dana, ho il sospetto che la maggior parte degli uomini potrebbe coltivare quest'illusione, alimentandola regolarmente nella speranza che un giorno possa diventare realtà. Dana possiede uno stile che urla TROFEO DI CACCIA. Slanciata, abbronzata, un sorriso che risplende come un reattore nucleare, riesce ad attizzare i carboni che tengono viva la maggior parte degli ego maschili con un unico, fugace sguardo lanciato dall'altra parte di una stanza affollata. E magari sta solo guardando l'orologio sulla parete alle tue spalle, preoccupata di far tardi all'appuntamento con la manicure. Nick l'ha incontrata la prima volta a un cocktail elettorale per la raccolta di fondi. Lasciato il cervello sul tavolo, insieme alla mancia, ha cominciato a pensare con l'uccello. L'ha ingaggiata perché gli arredasse l'ufficio e il resto è storia. Ormai sono quasi due anni che fa questa vitaccia e sta co-
minciando a mostrare seri sintomi di stanchezza. «Te lo gratteresti. Giusto?» «Come?» Lo guardo, senza capire. «Il prurito. Non dirmi di no, perché comincerei a nutrire seri dubbi sulla tua libido.» Lo guardo senza pronunciarmi. «Bene. Allora, dimmi se non te lo gratteresti.» «È tua moglie», dico. «Non lo farei mai.» «Ma se non fosse mia moglie?» «Non credo di avere la tua capacità di resistenza.» Ride. «Il segreto sta nel prendere il ritmo.» «Un giorno, devi farmi vedere.» «Be', ammetto che può essere un problema.» Mi guarda, inarcando un sopracciglio. «D'altro canto, se proprio bisogna morire, conosci un modo migliore?» È la tipica formula che ci si può aspettare da Nick un attimo prima che ti comunichi quale sarà il suo onorario... sempre anticipato. Nick sente il sacrosanto dovere di verificare l'origine del denaro dei suoi clienti per accertarsi che non venga confiscato dal governo in quanto proveniente da qualche attività illecita. «Vuole che lasci», dice. Questo attira la mia attenzione e lui se ne accorge. «Non l'attività», puntualizza. «Solo le cause penali più pesanti. E così sono in due a rompermi le palle. Lo studio e Dana.» Afferra un flacone di compresse antiacidità dalla scrivania, svita il tappo, se ne versa un po' nel palmo della mano senza neppure contarle e se le infila in bocca; mastica, ingoia e manda giù tutto con un sorso di caffè. Terminata l'operazione, riprende a lamentarsi. «È arrabbiata perché non hanno mantenuto le promesse. Vuole che parli con Tolt. Che lo costringa ad assegnarmi delle grosse cause civili. Come se lui fosse disposto a farlo... mi odia.» «Perché?» «Non lo so.» «Dovrà pur esserci un motivo.» «Tu mi conosci. Ho un carattere calmo, tranquillo. Vado d'accordo con tutti. Sto imparando a fare carriera. Puoi anche non crederci, ma sto diventando discreto, diplomatico, un vero politico.» «Hai dimenticato il coltello piantato nella schiena di qualcuno, eh?» «Ecco che ricominci. Questo povero cagnetto sta cercando di imparare
nuovi giochini e tu continui a trattarlo male.» «No. Lo conosco bene questo cagnetto. Sta cercando di pisciarmi su una gamba.» «Come puoi dire una cosa simile? Corre voce che alcuni soci vogliano mettermi nel consiglio di amministrazione.» «Non si tratterà per caso di quei soci le cui foto sono appese giù alla reception con sotto i nomi e le date tra parentesi?» «Dico sul serio.» «Lo so. È il loro stato mentale che mi preoccupa. Se fanno sul serio, significa che sono in preda alla demenza.» «Lo pensi davvero?» «Nick, mettere te in un qualunque consiglio sarebbe un atto d'anarchia. L'unica carica amministrativa per la quale saresti qualificato è quella di imperatore, e funzionerebbe solo all'inferno e con sbarre alle finestre.» Ride. «Be', ci stanno pensando seriamente. Tolt è l'unico a opporsi. Da quello che ho sentito, metà dei soci dello studio è in rivolta.» Lo dice con aria soddisfatta, come se ridurre in cenere il suo posto di lavoro fosse lo scopo ultimo della sua esistenza. Nick si eccita alla vista del sangue, specialmente se è di qualcun altro. «Non dire che te l'ho detto io, ma sono veramente incavolati con lui.» Sta parlando di Tolt. «Si mormora che non ci saranno gratifiche di fine anno. Vuole investire tutto in una nuova filiale a Chicago. Stanno facendo il passo più lungo della gamba. È quello che succede quando ci si espande troppo in fretta. Se sto qui ancora un po' e Tolt si dà alla contabilità creativa, potrei doverlo prendere come cliente.» Nick ha le visioni. Adam Tolt è il socio che dirige lo studio, a tutti gli effetti il comandante in capo, Dio, il potere supremo di quello che ora è diventato l'universo di Nick. Presiede un consiglio, ma, a sentire quelli che lo conoscono, è lui che prende tutte le decisioni. Fa parte di una decina di consigli di amministrazione, compresi quelli di due società che contribuiscono a comporre il Dow Jones. «E allora cosa hai detto a Dana?» «Le ho detto che mi sto dando da fare. Di avere un po' di pazienza. Chi sa attendere verrà ricompensato.» «Anche questo lo diceva tuo padre?» «No. L'ho letto sul cartellino attaccato al piede di un tizio all'obitorio. Era seduto sui binari quando un treno lo ha travolto. Hanno trovato solo il piede.» So che è una storia vera. Umorismo da medico legale.
«E poi ho dell'altra carne al fuoco.» «Cosa?» «Non posso parlarne, adesso.» Con Nick è sempre così: il grosso mistero, il colpo gobbo. «Se non altro, Margaret non s'interessava di queste cose. Qualunque cosa facessi, per lei andava bene, purché riuscissimo a pagare le bollette.» «Sembrerebbe quasi che tu sia pentito di averla lasciata.» «Succede solo una volta al mese», ribatte lui pronto. «Quando stacco l'assegno per gli alimenti.» Ci pensa su un attimo. «No. Non è vero. A volte la rivedo in sogno. Viene verso di me con un'accetta.» La risata di Nick a una battuta simile è rimasta la stessa, una risata stridula che non ti aspetteresti da un uomo della sua stazza, con quel torace. Il suo non è stato un divorzio indolore. «C'è un vecchio detto secondo il quale la verità ti rende libero», prosegue Nick. «Io ne sono la prova vivente. Le ho detto la verità e lei ha chiesto il divorzio. Ma, se non altro, l'ho lasciata con una canzone nel cuore.» Sorride. La separazione di Nick non è stata esattamente una lezione di stile. Tutta la città ne ha parlato. È stata fonte inesauribile di pettegolezzi in ogni bar. Un uomo che possedeva l'eloquenza sufficiente a tirar fuori di galera malversatori e artisti della truffa non è riuscito a trovare il modo per dire alla moglie che desiderava un'altra donna. Anche dopo averlo beccato insieme a Dana, Margaret sarebbe stata pronta a perdonarlo, ma Nick ha pensato bene di farla rinsavire: con un pezzo di Paul Simon - Fifty Ways to Leave Your Lover - che suonava su un vecchio giradischi e un biglietto d'addio lasciato su una mensola. Margaret si è presa la rivincita in tribunale. È probabile che Nick sia costretto a lavorare fino a ottant'anni per pagare i conti, nonostante un reddito annuale a sette cifre. Posso capire che ora si trovi in difficoltà finanziarie. «Probabilmente ti starai domandando perché ti ho chiesto di venire», riprende lui, venendo al punto. Un brivido mi corre lungo la schiena. Nick vuole un favore. «Desidero che tu capisca che non te lo sto chiedendo io; in realtà, è Dana.» «Questo rende più facile dire di no», ribatto. «Sii gentile. Le piaci. È stata lei a suggerire di rivolgermi a te.» Ora sono nervoso. «Ha un amico, un tizio che sta con lei nella Commissione per i beni artistici della contea. Pare si sia trovato coinvolto in un'inchiesta del gran giu-
rì.» Sto già scuotendo la testa. «Non essere così negativo», dice. «Prima ascoltami. Questo tizio è solo un teste, forse neanche quello. Non ha neppure ricevuto una citazione.» «E allora come mai ha bisogno di un avvocato?» «Be', pensa che potrebbe presentarsi la necessità. E non ti chiederei di farlo se per me non ci fosse un conflitto d'interessi. Non posso rappresentarlo. È in un giro d'affari...» «Anche il cartello colombiano. Niente di personale.» «Per quanto ne so, è pulito. Nessun precedente. È un imprenditore edile.» Conoscendo Nick, questo tizio probabilmente scava tunnel sotto il confine a San Ysidro. Nick sosterrebbe coi giurati che il suo cliente stava cercando il petrolio e loro gli crederebbero. «E per quale motivo il procuratore dovrebbe interrogare un imprenditore edile?» «Gli è venuta qualche strana idea sul riciclaggio di denaro. È tutto quello che so. Probabilmente uno dei loro informatori si è fatto con della roba scadente. Ai federali capita, ogni tanto. È come le fasi lunari», sintetizza. «Basta che uno dei loro informatori faccia un brutto trip e cominci ad avere le allucinazioni che cinque o sei agenzie federali si mettono a fare gli straordinari. Da quanto ho capito, è sulle persone giù in Messico che stanno indagando.» «Quali persone giù in Messico?» «Avrai tutti i dettagli quando parlerai con questo tizio.» «Supponendo che gli parli.» «Il nome dell'amico di Dana...» prosegue lui, ignorandomi, «be', a dire il vero, non è neppure un suo amico: lo ha conosciuto qualche mese fa. Comunque, a quanto pare, il suo nome è stato fatto da un altro teste di fronte al gran giurì.» «Come è successo? Anzi, mi spiego meglio: come fai a sapere ciò che un teste ha detto di fronte al gran giurì? L'ultima volta che mi è capitato di passare da quelle parti, ho notato che chiudono la porta dell'aula e abbassano le veneziane.» «Non farmi domande cui non posso rispondere», taglia corto lui. «Se fossi convocato davanti a un gran giurì, probabilmente finirei per fare il tuo nome.» «Ti ringrazio.»
«No, dico sul serio. Se dicessi che sono andato a pranzo col mio amico Paul, l'FBI comincerebbe a frugare nella tua spazzatura. Succede spesso. Indagano per due anni: ti scavano in giardino, interrogano tutti i tuoi amici, dicono al tuo capo che non c'è niente di cui preoccuparsi, e che vogliono soltanto perquisire la tua scrivania alla ricerca di eroina, e poi smettono. Nessuno viene incriminato, nessuno capisce il motivo di quell'indagine. Ovviamente, a questo punto, i tuoi vicini chiudono i bambini in casa, tirano le tende e mettono la catena alla porta ogni volta che ti vedono passare. Ma questa è la democrazia, giusto?» Mi sto ancora domandando chi sia quella gente giù in Messico. «Senti. Io ti chiedo solo di parlare con questo tizio. Probabilmente finirà tutto in una bolla di sapone. Dubito che lo convocheranno.» «Due secondi fa, stavano frugando nella mia spazzatura.» «Sì, ma tu non sei immacolato come questo tizio. Senti, ha solo bisogno di qualcuno che gli tenga la mano.» «Sembrerebbe un caso perfetto per te, tanto per voltare pagina. Non hai detto che è un uomo d'affari?» «Lo farei, se potessi. Ma abbiamo un conflitto. Qualche anno fa, lo studio ha intentato una causa civile contro la ditta di questo tizio. Sai com'è. Dana ha fatto tutto questo gran parlare di suo marito, l'avvocato... È entrata da poco nella commissione, voleva fare una buona impressione. Questo tizio le racconta dei suoi problemi legali e lei suggerisce: 'Parlane con mio marito'. E invece non si può. Cosa vuoi che faccia? Vuoi che Dana faccia brutta figura?» Conoscendo Dana, probabilmente il tizio ci stava provando, ma a Nick non lo dico. «Lei vuol fare una buona impressione. E poi quest'uomo è uno che fa grosse donazioni. È molto generoso quando si tratta di una buona causa.» «Ma se è una persona così per bene, perché il gran giurì vuole parlare proprio con lui?» «Probabilmente non è niente.» Comincio a vacillare e Nick non si fa scappare l'occasione. «Mi faresti un enorme favore. Ti sarò debitore per tutta la vita. Be', forse non così tanto.» «Vuoi dire che farei un grosso favore a Dana.» «È la stessa cosa.» Me lo vedo già, stasera, mentre la sospinge verso il letto sussurrandole all'orecchio che si è preso cura del suo amico, che lo ha messo in buone
mani, sperando in una dolce ricompensa. «Com'è che si chiama, questo cliente?» Afferro uno dei suoi biglietti da visita e una penna per prendere nota. «Gerald Metz. Gli dirò di darti un colpo di telefono.» «Niente droga, Nick. Non mi occupo di casi di droga. Questo lo sai, vero?» «Lo so. Non si tratta di droga. Fidati. Per quanto ne so io, il tizio è pulito. È stato trascinato in questa vicenda perché ha avuto dei contatti di lavoro con certe persone. Sai come succede...» «Lo so.» Alzo una mano per fermarlo prima che ricominci da capo. Capitolo due: Rush e i diritti civili. «Tu ascolti la sua storia, gli dici di non preoccuparsi e gli spari un onorario alto», mi consiglia. «E se il gran giurì lo chiama a testimoniare? Lo sa che non posso entrare in aula con lui?» «Ti stai facendo troppi problemi. Se lo convocano, tu lo informi dei suoi diritti. Gli dici di appellarsi al Quinto Emendamento.» «Non avevi detto che è pulito?» Nick mi rivolge uno dei suoi famosi sorrisi. «Perché uno dovrebbe aver bisogno di un avvocato se fosse totalmente pulito?» Poi scoppia a ridere. «Scherzavo», aggiunge. «Nick!» «Senti, ora devo andare. Ho un cliente che aspetta fuori. Sono già in ritardo. Ne riparliamo.» «Pensavo che andassimo a pranzo.» «Lo so, e tu hai detto di sì. Ma l'hai detto con troppa facilità. La prossima volta, fatti pregare di più.» Fa il giro della scrivania, mi mette una mano sul braccio e mi accompagna verso la porta. «La prossima settimana. Offro io, è una promessa. Andremo al club. Non l'hai ancora visto. È compreso nel pacchetto offerto dallo studio», aggiunge. «Come la finestra.» Nick ha ottenuto quello che voleva. Mi ha incastrato. «Dana gli ha detto che lo avresti chiamato per fissargli un appuntamento.» «Non hai detto che mi avrebbe chiamato lui?» «Ho detto così? Sarà meglio che lo chiami tu. Lui potrebbe dimenticarsene. Avevo detto a Dana che avresti capito.» Mi sbagliavo. Nick ha già avuto la sua ricompensa da Dana. «Senti, sono sicuro che questo tizio è pulito. Voglio dire, mia moglie non frequenta delinquenti.» Mi guarda da sopra gli occhialini. «Quella è la
mia specialità.» A questo punto, mi ha già preso per il braccio e mi guida verso la porta laterale, quella che dà direttamente nel corridoio invece che nella zona reception, dove i clienti si ammassano come aerei al La Guardia. «Dana lo conosce bene, questo tizio?» «Senti. Ti racconto una cosa», fa Nick. È bravissimo a cambiare discorso. «Un paio di settimane fa, Dana mi porta a vedere una mostra. L'opera d'arte più ammirata - senti questa - era una parete di cartone dipinta di blu con sopra della roba che luccica. Preservativi di tutti i colori, incollati come proboscidi di elefante sgonfie. S'intitolava Dita viventi. Chiedo a Dana cosa significa. Lei dice che non ne ha la minima idea.» «Non è bello quel che è bello...» accenno. «Infatti. Perché più tardi, quella sera, il capolavoro viene venduto per duemilasettecento dollari a una vecchia carampana con un mantello di seta e un cappello di feltro con sopra una piuma. Avrà pensato che, una volta arrivata a casa, le dita si risvegliassero. Non mi fraintendere», si affretta ad aggiungere. «A me l'arte piace, come a tutti.» Detto da uno che al college frequentava le lezioni di storia dell'arte al mattino presto in modo da poter dormire tranquillamente durante la proiezione di diapositive. «Non hai risposto alla mia domanda.» «Quale domanda?» «Dana conosce bene questo tizio?» «Chi, quello del dipinto?» «Gerald Metz.» «Ah, lui. Non lo conosce per niente. S'incontrano solo una volta al mese. Dagli un colpo di telefono. E la settimana prossima pranziamo assieme.» Mi guarda con quei suoi intensi occhi marrone, l'ultima cosa che vedo ritrovandomi oltre la soglia del suo ufficio, con la porta pannellata in noce che si richiude silenziosa a un centimetro dal mio naso. Un'altra vittoria per Nick Rush. 2 «Tutte stronzate. Non so cosa le abbia detto Rush, ma le do la mia parola che non sono mai stato coinvolto in niente d'illegale. Controlli, se non mi crede. Non sono mai stato arrestato.» Gerald Metz è alto, forte, abbronzato. Ha l'aspetto di uno che lavora all'aria aperta, solo che non lo fa con le mani. Le unghie sono curate, i
palmi privi di calli, e mi viene il sospetto che l'unico attrezzo che hanno impugnato recentemente sia la mazza da golf. Il suo modo di parlare un po' rozzo tradisce una provenienza da quartieri difficili, un'altra vita, la vita di uno che si è fatto da solo. Non è quello che ci si aspetterebbe pensando al mondo dell'arte e alle persone che lo patrocinano. Indossa una polo sotto un blazer blu. «È per questo che sono rimasto sorpreso quando è saltata fuori questa storia. Perché diavolo il gran giurì vuole parlare con me?» Sono passate due settimane dal mio incontro con Nick, e Metz è nel mio ufficio, con una sottile valigetta di pelle in grembo e un sacco di chiacchiere nervose sulle labbra. Se dovessi avanzare un'ipotesi, gli darei quarantacinque anni. Ha il viso spigoloso, con la fronte alta e i capelli radi, pettinati all'indietro. Mi allunga una manciata di fogli presi dalla valigetta, poi si appoggia allo schienale della poltroncina cercando di mascherare il disagio dietro un'espressione sicura di sé, come qualcuno che indossi un abito che non gli va a pennello. Le gambe accavallate, tamburella con le dita di una mano sul bracciolo della poltroncina, mentre gli occhi guizzano nervosi per l'ufficio alla ricerca di qualcosa su cui posarsi che non sia io. Gocce di sudore spuntano come brufoli dalla sua fronte. «Le spiace se fumo?» «Preferirei che non lo facesse.» Espira a fondo. Se verrà chiamato davanti al gran giurì, annegherà in un lago di sudore. Scorro i documenti che mi ha dato. «Non conoscevo neppure quella gente. Li ho incontrati una sola volta», precisa. «A-ah.» Quello che vedo io sono un sacco di «Caro Jerry» sulle lettere che gli hanno spedito. Dalla manica sinistra del blazer di Metz spunta un Rolex d'oro dall'aria costosa. Continua a lanciargli occhiate furtive mentre parla. «Ha un altro appuntamento?» chiedo. «Ehm. No, no.» Tira giù la manica per coprire l'orologio e vi posa sopra la mano. «Mi stavo solo chiedendo se ci vorrà molto.» «Dipende. Questi sono tutti i documenti che ha?» Annuisce. «Tutto qui.» Riconosco un lievissimo accento. Direi Florida, passando per il New Jersey.
«Non abbiamo neppure concluso l'affare», si lagna Metz. «La cosa è saltata.» Ecco che riprende l'inquieto profluvio di parole. «Non riesco a capire perché s'interessino a me. Magari lei potrebbe chiamarli e dirglielo.» «Di cosa sta parlando?» «Sa, dire al procuratore che io non so niente.» «Il procuratore federale?» «Perché no?» Lo guardo e sorrido. «Se lo facessi, le arriverebbe sicuramente una convocazione.» «Perché?» «Si fidi.» «Questo cazzo di governo sempre attaccato al culo. L'ultima volta è stata una revisione contabile.» «Quand'è stato?» «Non ricordo. Qualche anno fa. Mi hanno tartassato per un anno. Quelli delle imposte hanno voluto ogni singolo pezzetto di carta. Quattordici mesi, e non sono riusciti a trovare un accidente di niente. E ora questo. Se vuole saperlo, io credo che sia una rappresaglia.» «Per cosa?» «Perché sono incazzati per non aver trovato nulla. Io so solo che il mio nome continua a saltar fuori in quest'inchiesta del gran giurì. Se si viene a sapere, posso anche chiudere.» «Cosa vuol dire, che il suo nome continua a saltar fuori?» «Persone chiamate a testimoniare. Ex dipendenti della mia ditta. Mi chiamano e mi dicono che gli hanno fatto domande d'ogni tipo su di me e sulla mia attività... sa, con quella gente giù in Messico.» Accenna col capo alle lettere sulla mia scrivania. «Questi testimoni, sono stati loro a chiamare lei o viceversa?» «Ah, non lo so. Che differenza fa? Uno di loro mi ha chiamato; io ho cercato qualcun altro. Dopo un po', dicono tutti le stesse cose. Questo procuratore, questo federale...» «Il viceprocuratore federale.» «Quello. Continua a tirar fuori il mio nome e a fare domande.» Ci pensa per qualche secondo. «Io non ho fatto niente di male a parlare con queste persone, no? I testimoni, intendo dire.» «Probabilmente no.» «Come, probabilmente?» «Sono liberi di parlare con lei della loro testimonianza. Se vogliono. Ha
detto che sono suoi ex dipendenti? Che genere di lavoro svolgevano?» Mi dà i loro nomi. «Uno era il mio commercialista, l'altra la segretaria.» «Come ha scoperto che quest'ultima era comparsa davanti al gran giurì?» La domanda lo lascia sconcertato per un secondo. Non riesce a ricordare. Mi dice di averlo saputo da voci di corridoio. L'industria edilizia è un mondo piccolo. «Allora è stato lei a chiamarla, la teste?» «Probabilmente sì. Ero incazzato. Possono fare una cosa del genere? Un avvocato del governo può fare tutte queste domande sulla mia attività? Possono farlo?» «Un pubblico ministero davanti a un gran giurì federale può chiedere ciò che vuole. Cosa voleva sapere?» «Più che altro informazioni finanziarie, mi hanno detto.» Una cosa così fa pensare a indagini sul riciclaggio di denaro sporco. «Che genere d'informazioni finanziarie?» «L'affare giù in Messico. Sembravano interessati a quello.» «Mi parli di questo affare.» Guardo la lettera posata sulla scrivania davanti a me, la firma in calce. «Mi parli di questo Arturo Ibarra.» «Sono due fratelli. Arturo e Jaime. Arturo è la mente. Credo che Jaime non sappia neppure scrivere.» «Allora li conosce?» «Non esattamente. Li ho incontrati qualche volta. Solo che Jaime ha la testa schiacciata. Capisce cosa intendo? Com'è che li chiamano? Uomini delle caverne? Andertal?» «Vuol dire Neandertal?» «Sì, quello.» «E l'altro? Arturo?» «Lui si occupava degli affari. Colto. La mente. Sa, non mi piace chiederlo, ma avrei una domanda: quanto mi costerà?» Sta nuovamente guardando l'orologio. «Dipende da quanto ci mettiamo.» Sbuffa, alza gli occhi al soffitto. «Esiste un modo per farmi rimborsare le spese legali? Voglio dire, se non sono coinvolto perché dovrei pagare le spese legali?» «Purtroppo è così che funziona.» «Posso detrarlo dalle tasse?» «Lo chieda al suo commercialista.»
Mi guarda come per dire: «Fottuti avvocati». «Allora, cos'è che vuole sapere, così la chiudiamo qui?» «Tutto quello che ricorda.» «Questi due fratelli avevano delle proprietà, insieme al padre.» «Come si chiamava il padre?» «Diamine, non lo so. Signor Ibarra. Non l'ho mai incontrato. Mi hanno solo detto che era un grosso operatore immobiliare giù nel Quintana Roo. Nella parte meridionale del Messico. Yucatán. C'è mai stato?» Scuoto la testa. «No, ma ne ho sentito parlare.» La stampa lo ha definito il primo narco-Stato messicano. Confinando col Guatemala e con il resto dell'America Centrale, è un oleodotto per la droga. «Come ha trovato questo lavoro?» chiedo. «I due fratelli si sono rivolti a me dicendo che volevano costruire un villaggio vacanze su un terreno. Si trovava sulla costa, direttamente sulla spiaggia. In gran parte pantani. A sud di Cancún, sull'autostrada, giù verso Tulúm, la chiamano la Riviera Maya. I due fratelli mi hanno accompagnato alla loro proprietà, qualche centinaio di ettari di cactus, acquitrini e zanzare, e probabilmente anche serpenti e alligatori, se ci si spingeva abbastanza nell'interno. Mi hanno detto che c'era una spiaggia più avanti e io gli ho creduto sulla parola.» «Perché si sono rivolti a lei?» «La mia ditta ha macchinari pesanti. Eravamo i più vicini. Subito al di là del confine. Laggiù la maggior parte del lavoro viene fatta dagli uomini, con pala e piccone. La manodopera costa poco.» «Allora perché volevano i suoi macchinari?» «Volevano muoversi in fretta per sfruttare un'opportunità nell'iter di autorizzazioni. Le ripeto quello che hanno detto a me.» «Vada avanti.» «Ho pensato che avessero unto qualche ingranaggio. È così che funziona, laggiù.» Lo dice come se al di qua del confine la corruzione non esistesse. «Come l'avrebbero pagata?» «Un anticipo in contanti e una porzione di proprietà.» «Grande quanto?» «Il dieci per cento. Avevano intenzione di definire l'area edificabile, sistemarla nei punti dove si potevano gettare le fondamenta e poi girarla a qualche catena alberghiera perché costruisse. A quel punto, avremmo incassato tutti.»
«Ha detto che l'affare non si è concluso?» «No. Mi dissero che il vecchio aveva chiuso i rubinetti. Era lui che controllava i fondi. Ci fu un qualche litigio e l'accordo saltò. Tutto qui.» «Sicuro?» «Più o meno. Non dimentichi che è successo un po' di tempo fa. Non può pretendere che ricordi tutti i particolari. L'intera vicenda è durata qualche mese. Qualche lettera e un paio di telefonate.» «Ma lei è andato laggiù, mi ha detto?» «Be', certo. Perché no? Mi hanno pagato il viaggio.» «Quanto c'è rimasto?» «Non ricordo. Qualche giorno, forse una settimana. È stato due anni fa.» Troppo poco perché il reato di riciclaggio di denaro sia caduto in prescrizione, anche se questo a Metz non lo dico. «Ha incontrato qualche loro agente o collaboratore nel nostro Paese?» «No. Che io ricordi, no. Anzi, aspetti un secondo. C'è stato un tizio. Non ricordo il nome. Ci siamo incontrati una volta e parlati per telefono in un paio di occasioni. Potrei avere ancora il suo biglietto da visita.» Metz tira fuori il portafoglio e inizia a frugarci dentro: ricevute con gli angoli piegati, permessi, una tessera della previdenza sociale che sembra risalire ai tempi della guerra civile, più un vasto assortimento di biglietti da visita. Alla fine, trova ciò che sta cercando. «Eccolo qui.» Lo allontana come se avesse bisogno degli occhiali per leggerlo. «Miguelito Espinoza. Appaltatore di manodopera messicana.» Mi porge il biglietto e io prendo nota dell'indirizzo, nella zona di Santee, e del numero di telefono. Sull'altro lato del biglietto, sotto il nome è stampata una serie di parole in spagnolo, fra cui il titolo di notano público. In questo caso significa che l'uomo ha la facoltà di ratificare documenti e apporvi il proprio sigillo. Spesso la qualifica viene usata a nord del confine per far credere, a chi non parla inglese, che la persona sia un avvocato, come il termine indicherebbe in Messico. «Nient'altro?» «No», risponde lui, scuotendo la testa. «Sicuro?» «Sì.» «Ci sono alcune cose che deve sapere. Il fatto che lei non sia stato chiamato a testimoniare non è necessariamente un buon segno.» «Perché?» «Ha ricevuto qualche comunicazione dal procuratore in merito alla que-
stione?» «Tipo?» «Una lettera?» «No.» «Bene. Perché, se lei fosse oggetto d'indagine, dovrebbero mandarle una lettera per spiegarle il procedimento, avvertirla di non distruggere nessun documento. La informerebbero che ha il diritto di consultarsi con un legale, fuori dell'aula, oltre alla facoltà di non testimoniare.» «Perché mai dovrei essere oggetto d'indagine?» «Non sto dicendo che lo sia. Ma il fatto che non l'abbiano chiamata a deporre e che stiano interrogando i suoi ex dipendenti non è un buon segno.» Questo gli causa una certa inquietudine. Non guarda più l'orologio. «Quante conversazioni telefoniche ha avuto con questa gente?» «Non lo so. Come faccio a ricordare una cosa del genere?» «Può stare sicuro che la DEA o l'FBI conoscono la risposta», gli dico. «Se stanno svolgendo indagini su di lei, è possibile che abbiano già le sue bollette telefoniche. Sanno quante volte ha parlato con i due fratelli in Messico e quant'è durata ciascuna conversazione. Sapranno anche di questo Espinoza. È il minimo, a meno che le autorità messicane non tenessero sotto controllo il telefono dei due fratelli, nel qual caso saprebbero molto di più.» Capisco che la cosa lo impensierisce. «Lei ha mandato qualcosa di scritto, qualche lettera?» Qui ho solo lettere scritte dai messicani a Metz, ma niente scritto da lui. «Io... non credo.» «La sua ditta conserva copia della corrispondenza?» «Sì, ma sa come vanno queste cose. A volte, qualcosa ti sfugge.» «Cosa intende dire?» «Che questo è tutto ciò che sono riuscito a trovare.» «Sta dicendo che potrebbe aver scritto delle lettere a questa gente, ma che non riesce a trovarle?» «È possibile. Non ricordo.» Si mette male. «E se il procuratore emette un mandato di esibizione?» «Gli darò quello che riesco a trovare. Che diavolo dovrei fare? Se non le trovo, non le trovo. Giusto?» «Ha detto che uno dei testi era una ex segretaria della ditta. Quanti im-
piegati ha in ufficio?» «Uno. A volte, neppure quello. La gente si licenzia, va e viene. La roba si perde. Ho detto alla ragazza in ufficio di prendere tutto quello che c'era nei fascicoli, come lei mi ha chiesto. E questo è ciò che ha trovato.» Indica le lettere sulla mia scrivania. «E se la sua segretaria fosse chiamata a deporre, cosa direbbe?» Mi rivolge un'occhiata dura. «Che mi ha consegnato tutto quello che è riuscita a trovare.» «E basta?» «Sì. Certo. Non sto facendo il difficile. È solo che non posso presentare quello che non ho.» «Ovvio.» «È tutto quello che posso dirle.» «Ha firmato un contratto, giù in Messico?» «Non siamo arrivati fino a questo punto.» «Le hanno pagato qualcosa, che so, qualche indennità?» «Come le ho già detto, mi hanno pagato il viaggio. Le spese del volo e cose del genere.» «Quanto?» «Non so, quattromila, quattromilacinquecento dollari. E poi c'era il compenso per le consulenze.» «Quali consulenze?» «Sul sito, sulla possibilità di portare i macchinari dentro e fuori il cantiere.» «Quanto le hanno dato per questo?» «Non ricordo esattamente.» «Grosso modo?» «Non lo so.» «Più di mille dollari?» «Oh, sì.» «Più di cinquemila?» «A-ah.» Alzo gli occhi dal taccuino e guardo Metz. «Quanto?» «Intorno ai due milioni», dice. «Di dollari?» Annuisce. Resto lì a guardarlo, come un animale davanti a una locomotiva lanciata nella notte.
«Per delle consulenze?» «Be', no... veramente era una garanzia.» «Garanzia per cosa?» «Per i miei macchinari. Diamine, non penserà che io sia disposto a portare macchinari pesanti al di là della frontiera senza un deposito. È roba costosa. Una pala frontale, di quelle grosse, snodate, può costare fino a duecentocinquantamila dollari. E se sparisce? Voglio dire, non stiamo parlando del Nevada. Se hanno corrotto qualcuno per farsi dare le licenze e poi va tutto a monte, una palude senza il permesso di bonifica non vale un accidente», commenta. «La prima cosa che il governo messicano farebbe è confiscare i miei macchinari.» «E qual era l'accordo per quanto riguarda questi soldi, questo deposito a garanzia?» «Avrei trattenuto la somma finché il lavoro non fosse stato portato a termine. Poi avrei riportato a casa i macchinari e sarei stato pagato. E loro avrebbero riavuto indietro il loro deposito.» «Ma lei non ha mai firmato un contratto e non ha mai mandato macchinari al di là del confine?» «No.» «E loro le hanno consegnato due milioni di dollari con una stretta di mano?» «Esatto.» «E cosa è successo quando l'accordo è saltato?» «Hanno riavuto indietro i loro soldi.» «Tutti?» Fa una smorfia, arriccia la bocca. «Tutti tranne il dieci per cento.» Lo guardo. «Per il tempo che ho perso.» «Quale tempo?» «Sa... organizzare, discutere, andare laggiù...» «Ma lei ha detto che le hanno pagato il viaggio, no?» «Sì, ma il mio tempo varrà pure qualcosa, no? Come ho detto, spese di consulenza.» «Ma lei non aveva nessun contratto né accordo scritto prima di andare laggiù, vero?» «No.» «Così una settimana del suo tempo, in Messico, senza considerare le spese di viaggio, che le hanno pagato, vale duecentomila dollari?»
«Avrei potuto fare dell'altro», ribatte lui. «Ha perso un grosso lavoro per via di quella settimana in Messico?» «Potrei averlo perso, no? Non lo so.» Prendo appunti freneticamente, cercando di mettere la storia di Metz nero su bianco prima che la sua logica assurda scompaia come vapore. «E cosa ha fatto con i due milioni del deposito? Li ha versati in una banca nel nostro Paese?» «Non subito.» Smetto di scrivere e alzo lo sguardo. «Cosa intende dire?» «Voglio dire che ho portato qui i miei soldi dopo che l'accordo è saltato.» «I suoi soldi?» «I duecentomila. In un certo lasso di tempo.» «Si fermi. Lei ha un conto bancario all'estero?» «Sì.» «Dove?» «In Belize.» «Perché in Belize?» «Non saprei.» «E questo conto compare sulla sua denuncia dei redditi?» «Non ricordo. Devo chiedere al mio commercialista.» «È il commercialista che è già stato chiamato a deporre di fronte al gran giurì?» «Sì, credo di sì.» «E il dieci per cento che ha trattenuto... cosa ne ha fatto?» «L'ho trasferito qua.» «In una banca statunitense?» «Esatto.» «Ma non tutto assieme?» «No. Un po' per volta, a mano a mano che ne avevo bisogno.» «Mi faccia indovinare. Diecimila dollari alla volta?» Annuisce. È il limite legale per il contante che entra nel Paese. Non ho bisogno di chiedergli come ha fatto a portarlo dentro. Metz non è il tipo che aspetta vent'anni per far rientrare duecentomila dollari in patria, a colpi di diecimila all'anno. Senza dubbio si è servito di corrieri, amici, dipendenti, o di viaggi d'affari giù in Belize ogni volta che aveva bisogno di contante. «Sono restio a chiederglielo, ma questa somma è stata pagata a lei per-
sonalmente o alla sua ditta?» «A volte è difficile tenere traccia di cosa viene pagato a me o alla ditta per i servizi.» «Non faccio fatica a crederlo. Specialmente quando si tratta di spese per consulenza, giusto?» «Già.» I suoi occhi s'illuminano, grati per il suggerimento. «Signor Metz, non credo che potrò rappresentarla, tuttavia le darò un consiglio, visto che lei paga il mio tempo, almeno per quest'incontro.» Mi guarda e tradisce il primo barlume di sorpresa. «Se lei fosse mio cliente, cosa che non è, e venisse chiamato a deporre davanti al gran giurì, io le consiglierei di appellarsi al Quinto Emendamento.» 3 È fine aprile e Nick troneggia sul marciapiede, lì impalato con le mani nelle tasche del trench chiuso con la cintura che gli vedo sempre addosso nelle mattinate più fredde, da che lo conosco. Se ne sta vicino al cordolo, a una quindicina di metri dall'insegna che proclama, a grosse lettere dorate, ognuna più grande di una lapide: PALAZZO DI GIUSTIZIA EDWARD J. SCHWARTZ. Rush è l'unico avvocato che conosco che non abbia mai portato una valigetta. Va contro le sue convinzioni, e potrebbe dissipare l'impressione che lui faccia tutto a braccio. Mentre mi avvicino, dalla sua bocca si levano nuvolette di alito caldo nell'aria fredda del mattino. Mi vede quando sono ancora a un isolato di distanza e sorride, facendomi un cenno col capo come per dire: «Cosa c'è di nuovo?», dondolando avanti e indietro per scaldarsi. Fa freddo per gli standard di San Diego, è la stagione delle nebbie mattutine, ma questo pomeriggio la gente uscirà in maniche di camicia. Le otto e mezzo. Ci vediamo per un breve incontro informativo davanti a una tazza di caffè, in modo che io possa passargli le consegne per la faccenda di Metz. Nick ha appuntamento con lui alle nove. Con un po' di fortuna, a quell'ora, io me ne sarò già andato. Non ho nessuna voglia di essere ulteriormente invischiato in questa faccenda. Nick ha mezz'ora prima di dover comparire insieme a Metz davanti al giudice. Il suo istinto gli diceva giusto almeno su un punto: Metz non è mai stato convocato davanti al gran giurì. Sei giorni dopo la nostra conversazione, è stato incriminato per rici-
claggio di denaro sporco e violazione delle norme valutarie internazionali. Deve comparire questa mattina davanti al tribunale federale per la chiamata in giudizio. La mia impressione è che i federali si stiano scaldando i muscoli. È un Nick Rush d'eccezione, questo, che cavalca l'equivalente legale dell'onda di un tifone, in bilico sulla cresta con tutte e dieci le dita oltre il bordo della tavola. Fare tutto all'ultimo minuto è una prova della sua bravura, la misura del suo ego. Per tutta la sua carriera, ha agito in base al concetto che qualsiasi avvocato abbia bisogno di più di venti minuti per prepararsi ad andare in tribunale dovrebbe cambiare mestiere. L'ho visto prendere a calci nel sedere procuratori giovani e ambiziosi che ci avevano messo un anno a preparare una causa solo per vederla finire nel cesso come disinfettante non appena Nick si è scatenato davanti alla giuria. Questo è il motivo per cui la sua agenda è sempre zeppa di impegni, il doppio e il triplo di quanti possa sostenerne. Se ti sei messo in tasca cinque milioni di dollari presi dal conto della tua ditta o hai mezza tonnellata di polvere bianca nascosta sotto le assi del pavimento di casa e ti beccano con le luci della serra clandestina che succhiano energia dalla rete mentre in cantina ti è cresciuta una giungla di Maria Giovanna, l'uomo da chiamare è Nick Rush. Che tu produca anfetamine o falsifichi i bilanci, le sue parole di conforto pronunciate con tono di divina fermezza dissiperanno le tue angosce più in fretta di una manciata di antidolorifici. Nick ha deciso che non era necessario passare troppo tempo con Metz, visto che lo avevo già preparato io. Io l'ho avvertito che quell'uomo è un candelotto di dinamite con una miccia corta su per il sedere, ma Nick vede solo la sfida. Inoltre, mi ha detto, non importa cos'hanno trovato, perché lui gli dirà di dichiararsi non colpevole e il resto si vedrà. A sentire lui, ha fatto presente a Metz per telefono il possibile conflitto, e quello ha firmato una liberatoria e gliel'ha mandata. Quando mi avvicino, mi fa un gran sorriso ma non toglie la mano dalla tasca per stringere la mia. «Ora posso confermare la tesi di Hemingway... il sole sorge ancora», dice, alzando gli occhi verso il cielo avvolto nella nebbia, «benché da qua non si capisca.» «Hemingway era troppo rovinato la mattina per capirlo. L'ha letto sulla Bibbia.» «È questo che mi piace di te: conosci tutte queste cose inutili.» «Mi vengono utili quando ho a che fare con persone come te.»
«E che tipo di persona sarei?» «Uno che si occupa solo dei macrosistemi», ribatto. Ride, però è vero. Nick non spreca energie su dettagli che non siano essenziali per la soluzione del caso di cui si sta occupando in quel particolare momento. Ha un cervello come un aspirapolvere: riesce ad assorbire i più minuscoli dettagli di un processo in tre minuti, organizzarli in ordine d'importanza e schierarli come un esercito per dar battaglia in tribunale mentre il suo avversario sta ancora cercando di aprire la ventiquattrore. «Comunque, io per tutto questo tempo ho sempre pensato che ti presentassi in tribunale per le udienze di mattino presto...» «È per questo che Dio ha inventato i giovani associati», risponde lui. «Se non fosse che Dana lo conosce, questo stronzo si sarebbe beccato un difensore d'ufficio.» Lo avverto che, dopo che avrà sentito ciò che ho da dirgli, potrebbe cambiare idea. Propongo di andare alla caffetteria del tribunale. Nick ribatte che preferisce un piccolo caffè dietro l'angolo, sull'altro lato della strada, e si avvia. Questo è territorio federale, i pochi isolati intorno ai due tribunali, uno riservato alle procedure fallimentari, l'altro a reati più gravi. Come le antiche nazioni indiane, questa parte della città ha regole differenti e una cultura tutta sua. Qui i poliziotti sono l'FBI, l'IRS, la DEA e una decina di altri imperi alfabetici, tutti che si sforzano di mettere in mostra la propria indispensabile supremazia nella catena alimentare della sicurezza pubblica. I tribunali federali sono il regno delle distese di marmo e degli ufficiali giudiziari dai capelli grigi e la giacca blu, impettiti come domestici in livrea. Qui tutto è più raffinato e signorile che nei tribunali locali. Qui tutto parla di budget illimitati e dell'immensa ramificazione dei balzelli del governo federale, le cui mani s'infilano nelle tasche dei contribuenti e vi attingono senza pudore. È un mondo che non frequento spesso: io mi limito alle più umili e un po' sgangherate aule di giustizia statali, dove chi prende le decisioni non può stampare moneta. Nick, invece, è nel suo ambiente. Affronta con piglio deciso i membri più severi del tribunale federale e talvolta non si fa scrupolo di rasentare il sottile confine dell'oltraggio alla corte. Come a rafforzare questa mia impressione, mi porta in uno squallido caffè al livello della strada sotto il vecchio Capri Hotel. «Sono vent'anni che vengo qui a bere il caffè. Tutte le mattine», m'informa. Mi fa strada giù per una rampa di scale, fra l'intonaco scrostato e la
pittura che si stacca. Su un lato manca il corrimano. Deve averlo preso a prestito qualche barbone. «Conoscevo il proprietario», aggiunge. Lo seguo oltre la porta e mi blocco. Il posto è una topaia. «Non sapevo che avessi conoscenze così altolocate.» «Un tempo era meglio», dice. «Negli ultimi anni è andato un po' giù.» «Davvero? Non l'avrei mai detto.» Le pareti del locale sono di un marrone sporco e si capisce che non è pittura. La cappa d'acciaio inossidabile sopra il grill in cucina è talmente unta di grasso che il cuoco potrebbe aprire una fabbrica di sego. «Ma, più che altro, è tranquillo.» «Capisco come mai.» Ho paura di chiedergli dell'albergo sopra di noi. Basterebbe una scossetta e ci cadrebbe direttamente nella tazzina mentre beviamo il caffè. «Il proprietario si chiamava Wan Lu Sun. Era cinese. Un bravo uomo d'affari. Ma è morto un paio d'anni fa. Ora la proprietà è passata ai figli. Non sono come il vecchio. Nuova generazione. Non hanno il senso dei valori. Si sono americanizzati.» «Se lo dici tu.» Mi sto ancora guardando intorno, cercando di non respirare per paura che le particelle di polvere, sospese nell'unico raggio di sole riuscito a penetrare attraverso le finestre luride, si rivelino d'amianto. «Gli impresari edili aspettano in fila come avvoltoi, pronti a buttar giù il locale con le loro berte da demolizione», dice Nick. «Questo non sarà il posto che tu...» «Già.» Nick mi sorride. «Dimmi che non è vero.» «È vero.» È quasi un anno che i giornali ne parlano. Un gruppo di cittadini dediti alla conservazione del patrimonio comune della città ha lanciato una campagna per salvare alcune strutture del centro che, sostengono, vantano un valore storico. Ogni due o tre mesi il nome di Nick, che guida la carica, salta fuori sui giornali. «Ascolta il mio consiglio», gli dico. «Questo posto ha bisogno di una bella berta da demolizione.» «Frequentalo. Vedrai che comincerà a piacerti.» «È questo che temo. Non hai cose migliori di questa da fare?» «Certo, ma mi sento in debito verso il vecchio.» «Quale vecchio?»
«Lu Sun», risponde. «Diamine, se ci fosse ancora lui, gli speculatori non oserebbero neppure avvicinarsi. Perlomeno non senza prima avergli consegnato il loro primogenito come garanzia. Il vecchio avrebbe ricavato una fortuna da questo terreno.» Nel corso della sua vita, Nick si è lanciato in qualche causa persa, ma questo sembra troppo anche per lui. «Sapevo che stavi soffiando sul fuoco del malcontento, ma questo è un lato del tuo carattere che non conoscevo: l'amore per la conservazione.» «È una passione che mi è venuta in tarda età», ribatte lui, poi mi fa l'occhiolino e sorride. «A dire il vero, resti tra noi, mi piace fare casino.» «Non l'avrei mai immaginato.» «Lo studio ci concede un po' di tempo da dedicare alla collettività. Dovevo trovare qualcosa da fare. Inoltre non mi va di farmi altri due isolati fino da Starbucks solo per scervellarmi su che tipo di caffè voglio bere la mattina. Qui, ho il locale tutto per me. Siediti. Il tavolo nell'angolo è il mio. È l'unico con la panchetta senza buchi», aggiunge, ridendo. Nick conosce la cameriera per nome. A guardarla, si direbbe che lavori qui dal giorno dell'inaugurazione dell'albergo. «Due caffè, Marge. Li portiamo al tavolo.» Si allunga al di sopra dei menu per prendere un po' di dolcificante Equal da quella che sembra essere una riserva privata sotto il bancone. «Odio lo Sweet'n Low», dice, accompagnandomi al nostro séparé, «lascia un cattivo gusto in bocca.» Scivoliamo sulle panchette imbottite, una reliquia degli anni '50; probabilmente il locale non è più stato rimodernato da allora. «Devi ammettere che questo posto ha una certa atmosfera», riprende. «Basterebbe che un ubriaco a bordo di una Cadillac con le pinne s'infilasse nel muro e diventerebbe chic.» Marge si avvicina al tavolo con la brocca di vetro e ci versa i due caffè. Nick le chiede come va. Chiacchierano. Senza dubbio i miei sensi sono alterati dall'odore di grasso fumante proveniente dalla cucina, dove non si sta cucinando niente di particolare, a meno che non sia il cuoco a mangiarlo, ma il caffè sembra piuttosto scivolare fuori dalla brocca, anziché colare. In parte è fluido, ma ci sono dei grumi neri simili a catrame. «Sa», dico, «ripensandoci, quasi quasi prendo un tè.» «Abbiamo solo l'Earl Grey.» «Va benissimo.» Purché riesca a vedere il fondo della tazza attraverso
l'acqua calda. Marge si allontana per prepararlo. Nick mi scopre a fissare la sua tazza mentre ci vuota dentro tre bustine di zucchero finto e lo mescola insieme al latte. «Cosa c'è?» «È solo che non mi va di usare le pastiglie anticalcare di mattina presto.» «Ehi, questo è una vera bomba.» «Appunto.» «Veramente, se proprio vuoi saperlo, il caffè vero si trova a Londra. L'altro giorno leggevo un articolo...» Il solito Nick. Ogni cosa gli fa venire in mente una storiella, anche quando, come in questo caso, ha una causa da affrontare entro un'ora. «Hanno inventato questa roba, che chiamano Caccolino e che la gente paga un occhio della testa. È fatto con chicchi di caffè defecati dalle scimmie.» «Nick, non ho ancora fatto colazione.» «Vuoi mangiare qualcosa? Le dico di portare un menu.» «No!» Ride. «Sul serio, non sto scherzando. Cinquecento dollari all'oncia e bisogna usare la carta igienica come filtro. Dicono che abbia un gusto molto naturale.» «Non c'è da meravigliarsi che gli inglesi bevano tè.» «Davvero, il caffè qui è buono», mi assicura, lo sguardo perso in lontananza quasi stesse riflettendo che un giorno gli piacerebbe provarlo, questo Caccolino. «Il tempo stringe», gli dico. «Vuoi che ti racconti di Metz, sì o no?» «Non c'è da preoccuparsi. La formalizzazione dell'accusa è solo il primo atto, lo sai.» Si sta di nuovo guardando intorno, osservando la sua sala da pranzo privata. «Hai idea di quanto possa valere questo posto? Non dico l'edificio. Intendo la posizione.» Scuoto la testa. «No. Ma sono sicuro che me lo sai dire tu.» Estrae dalla tasca quello che sembra un telefono cellulare. Ultimamente non fa che giocare con questo aggeggio. Io li chiamo tutti Palm Pilot. Lui dice che questo si chiama Handspring, un concentrato di ogni possibile congegno elettronico in una scatoletta grande quanto un mazzo di carte. Tira fuori la piccola penna dall'alloggiamento laterale e comincia a picchiettare sullo schermo. «Cosa fai? Ti metti a chiamare qualcuno proprio ora?» «Sto solo usando la calcolatrice.» «Nick, ascolta. Ho del lavoro che mi aspetta, in ufficio.»
«Calma. Rilassati. Perché sei sempre così agitato?» «Io non sono agitato. È solo che ho cose più importanti da fare.» Questo è il Nick che conosco, che mi costringe a mettermi sulla difensiva mentre lui ammazza il mio tempo riflettendo sui prezzi del mercato immobiliare. «Direi che potresti prenderlo con otto milioni, otto milioni e mezzo», dichiara. Probabilmente, in quest'istante, Metz si sta consumando la suola delle scarpe davanti al tribunale, chiedendosi se questa notte dormirà nel proprio letto o su una brandina del centro di detenzione preventiva. «E poi si trova fuori del corridoio di avvicinamento all'aeroporto. Questo è importante», prosegue. «Vuoi sapere perché?» «No, ma sono certo che me lo dirai lo stesso.» «Perché fuori del corridoio puoi salire quanto ti pare, purché tu riesca a ottenere una variante. Sai, basta aggirare le norme vigenti in termini di altezza degli edifici.» «Hai intenzione di metterti a fare l'agente immobiliare?» «No, ma dovrei», risponde. «Prima o poi si presenterà uno speculatore che si comprerà questo posto per quattro soldi, andrà dall'amico che sta in commissione edilizia o da un pezzo grosso della contea, e nel giro di un giorno moltiplicherà il suo investimento per quattro. Deve solo farsi approvare una variante per sopraelevare. Non è neppure necessario che tocchi con un dito la proprietà. A quel punto gli basta rivenderla. E si fa... quanto... venti, venticinque milioni? E questi stronzi dicono che i nostri clienti sono dei delinquenti?» «Qui si tratta di affari», gli faccio notare. «Già. Gli affari di cui dovremmo occuparci, se non fossimo troppo onesti», ribatte lui con un sorriso. È tornato a sparare cazzate. «Inoltre, a me piace preservare il passato. Dana ha le sue cause, io ho le mie.» «Possiamo tornare a Metz?» «Sei proprio sicuro di volerci rinunciare?» «A cosa?» «A Metz.» Mi guarda come se fossi io a essere andato fuori binario. «Voglio dire, potrebbe essere un'occasione.» «Ne sono certo.» «Potremmo farlo assieme», propone. «Dopotutto, sei l'unica persona con cui io abbia condiviso uno dei pochi veri segreti della mia vita.» «Quale?»
«Laura.» Ora è serissimo. Me n'ero quasi dimenticato. Pensavo che Nick fosse troppo ubriaco per ricordare la notte in cui se l'era lasciato sfuggire, davanti a qualche bicchiere dopo una giornataccia in tribunale. Si sentiva un fallito, nonostante la nuova moglie giovane e sexy. Laura è il grosso mistero nella vita di Nick, e probabilmente l'unica femmina che abbia mai amato. «L'hai vista, ultimamente?» «La settimana scorsa», risponde. «Solo per pochi minuti. Ascoltami. A Metz si può chiedere un buon onorario.» Nick è bravissimo a cambiare argomento, soprattutto se si tratta di qualcosa di cui non vuole parlare. «Non sarebbe interessato al mondo dell'arte, se non avesse un sacco di soldi.» Rido. «È vero. Non ho mai conosciuto una di queste persone che non fosse piena di soldi. Buon gusto, magari no, ma soldi tanti. È una condizione indispensabile. In caso contrario, non possono entrare nella confraternita. Non entri nella lista preferenziale per gli inviti alle aste e ai cocktail di beneficenza. Non mettono la tua foto sulle pagine mondane del Tribune e del Times.» «È così che ci sei riuscito, tu?» «Ci sono riuscito grazie a mia moglie. Lei ha classe e buon gusto.» «E grazie al tuo portafoglio.» «Anche quello.» Beve un sorso di caffè e io mi trovo costretto a distogliere lo sguardo. «Cos'altro si può fare per divertirsi quando si diventa vecchi e flatulenti?» «Non ho mai pensato che le aste fossero così divertenti», ribatto. «Non mi riferivo all'arte.» Sta parlando di Dana. «Dai, perché no? Tu tieni la mano a Metz, io mi occupo del processo. Lo prendiamo per i piedi e lo scrolliamo ben bene per vedere cos'ha nelle tasche.» «Potresti non essere preparato a quello che cade.» «È così brutta?» Nick e io non ci siamo più parlati dopo la conversazione di quattro giorni fa. Avevo giocato a rimpiattino telefonico con lui per una settimana prima di trovarlo in ufficio, e allora non aveva voluto discutere dei dettagli per telefono. È la natura del lavoro di Nick: non puoi mai sapere se hai il telefono sotto controllo. «Vuoi la mia sincera opinione?» Annuisce. «Tutte le tessere sono al loro posto, compreso il trasferimento di grosse
somme di denaro in contanti e le spese di lavanderia.» Mi ascolta serio serio. «Se quello che dice è vero, il tuo uomo si è preso duecentomila dollari mentre parcheggiava due milioni del suo socio su un conto in Belize.» La cosa non lo turba minimamente. «Prosegui.» «La sua parte lui la definisce spese di consulenza, ma sui libri della ditta non compare.» «Dunque abbiamo un errore contabile», dice Nick. «Sostiene che il denaro era in realtà una garanzia per dei macchinari pesanti che avrebbe dovuto inviare laggiù per un lavoro. Solo che nessuno di quei macchinari è stato spostato. A sentire Metz, l'accordo non è mai decollato. Ha fatto un viaggio in Messico durato forse una settimana e per questo si è beccato un compenso di duecentomila dollari.» «Forse il suo tempo è prezioso.» «O forse i suoi due soci messicani volevano riciclare i proventi di qualche attività illecita?» Nick si schiarisce la gola. «Questo non significa che lui ne fosse al corrente.» «E, come se non bastasse, a meno che io lo abbia giudicato male, credo che troverai delle violazioni alle norme valutarie e probabilmente anche dell'evasione fiscale.» Nick inarca un sopracciglio, si sfrega il mento e mi guarda con l'espressione di un perito gemmologo che si senta dire che l'anello di diamanti che ti ha appena consigliato di acquistare è in realtà ghiaccio. «Se controlli, credo che scoprirai che si è servito di amici e conoscenti per riportare la sua parte nel Paese, facendola passare sotto i limiti valutari. E se ha fatto questo, temo che sia andato un passetto più in là e si sia dimenticato di dichiararlo sulla denuncia dei redditi.» «Non gliel'hai chiesto?» «Ho pensato di lasciare a te quest'incombenza.» Nick annuisce con aria comprensiva. È un'espressione che gli viene da anni di pratica nell'ascoltare vicende sordide: ormai non c'è più nulla che lo stupisca o lo scoraggi. «Cosa ti ha detto del conto in Belize? Perché lo ha aperto?» «Non gli ho chiesto neppure questo. Non volevo limitare il tuo margine di manovra.» Ride e alza la tazza verso di me. Ho avuto spesso il sospetto che Nick non disdegni qualche piccola operazione chirurgica sui fatti relativi a un caso, una volta che la tenda è tirata
e lui e il suo cliente sono al sicuro. È il motivo per cui mi sono trattenuto dall'entrare nei particolari con Metz, in modo da non ritrovarmi a fare da infermiere a Nick. «Gli hai chiesto perché si è tenuto il denaro? I duecentomila dollari?» Nick spera nell'impossibile. «Purtroppo sì, e la sua risposta non è stata né incoraggiante, né credibile.» «Cosa ha detto?» «Spese di consulenza.» «Mi sembra equo», dichiara lui. «Specialmente se puoi metterci le mani sopra come spese legali.» «Vedi? Stai già imparando. Cominciamo a guardare il lato positivo.» Bisognerebbe essere l'ottimismo in persona per trovare un lato positivo in questo nubifragio. «Il grosso del denaro non è entrato negli Stati Uniti, giusto? Intendo dire i due milioni. Sono andati dal Messico al Belize e ritorno, giusto?» «Tranne che per l'onorario di Metz.» «Dimenticatelo per un momento. Quello che abbiamo è forse un gioco di destrezza finanziario. Ma si è svolto tutto fuori della giurisdizione degli Stati Uniti, giusto?» «È un modo di vedere le cose. L'altro è che abbiamo un cittadino americano che ha favorito violazioni alle norme valutarie di due Paesi stranieri.» «E allora? Lascia che lo incriminino là. Tu e io non siamo abilitati a esercitare la professione legale in Messico. Non è un problema nostro.» «Chiedi a Metz se vuol rischiare di passare il prossimo millennio ospite di un letamaio in Messico.» «Pensi davvero che il governo messicano voglia incriminarlo?» «Penso che se i federali stanno cercando di spremere il tuo uomo per scoprire cosa sa, possono minacciare di estradarlo laggiù. Probabilmente potrebbero convincere il governo messicano a prestare la sua collaborazione. L'ultima volta che ho controllato, i due Paesi avevano un accordo in merito.» Nick pondera il problema, grattandosi il mento con il dorso delle dita, e intanto mi sorride dall'altra parte del tavolo. «Sarà meglio che dica due parole a mia moglie sulla gente che frequenta.» «Rispondi a una semplice domanda», lo incalzo. «Dimmi che non sospettavi che fosse una vicenda di droga.» Mi guarda ed esita solo un secondo. «Certo. E non lo sospetto tuttora.»
Le sue parole non suonano convincenti, e il sorriso con cui le pronuncia mina ulteriormente l'effetto. Se anche non sapeva, il suo comportamento indica che aveva dei forti sospetti. Mi ringrazia per avergli dedicato il mio tempo e finisce il caffè, mentre io studio l'acqua nella piccola brocca di acciaio. Nick guarda l'orologio. «Suppongo sia ora di andare», dice. «A meno che, ovviamente, tu non voglia fare un favore a un amico.» «Non insistere.» «Capisco», dice, poi scivola fuori della panchetta. «Ti telefonerò questo pomeriggio per dirti com'è andata.» «Non farlo, a meno che tu non voglia che ti mandi la parcella», ribatto. Ride e si dirige verso la porta. «Marge, il conto lo paga il mio amico. Caricaci sopra una buona mancia.» Prima che possa voltarmi per dire qualcosa, è già uscito. È questo che mi piace di Nick. Riesce a fotterti alla grande, ma è sempre così ottimista che è difficile non trovarlo simpatico. Gli concedo un buon vantaggio, giocherellando con la bustina di tè, e non perché voglia berlo. Non ho nessuna intenzione d'incontrare Nick e Metz davanti al tribunale mentre torno alla mia auto. Marge arriva con il conto, lo sbatte senza troppe cerimonie sul tavolo e si porta via la tazza di Nick, che ha ancora un dito di melma sul fondo. Due minuti dopo mi alzo dalla panchetta, tiro fuori qualche banconota da un dollaro dalla tasca, ed è a quel punto che lo vedo. Posato sulla logora tappezzeria in similpelle rossa della panchetta di fronte a me, c'è il piccolo palmare di Nick. Pur avendo un cervello come un aspirapolvere, in grado di assorbire i dettagli più astratti in un'aula, Nick manca di quel gene che ti tiene attaccato alle cose. Da quando lo conosco non fa altro che sparpagliare roba. Come mia figlia adolescente, se ha una cosa è destinato a perderla. Prendo il palmare, me lo infilo in tasca e pago il conto. Uscito, mi avvio a passo deciso. Forse riesco a raggiungerlo prima che trovi Metz. Giunto all'angolo, guardo in direzione del tribunale, dove Nick dovrebbe incontrare il suo cliente. C'è una massa di gente fra me e l'edificio, una marea di persone che invade il marciapiede, ma non vedo Nick. Attraverso e mi avvio lungo l'altro lato della strada, sperando che mi veda prima di raggiungere Metz. Sono quasi a un terzo dell'isolato quando lo individuo. Cammina veloce sul marciapiede una trentina di metri davanti a me, le mani infilate nelle tasche del trench. Quattro corsie di traffico ci dividono. Mi porto le mani accanto alla bocca per gridare, ma un autobus si
mette in mezzo, sputando fumo, e il rombo del suo motore soffoca ogni speranza di farmi udire. Quando finalmente si sposta, è troppo tardi. Nick è fermo sul marciapiede davanti al vialetto che porta al tribunale e sta parlando con Metz. Allontano la mano dalla bocca, tasto l'aggeggio elettronico nella mia tasca e proseguo verso la mia auto, parcheggiata un isolato più in là. Dovrò chiamarlo più tardi e prendere accordi per farglielo avere. Camminando, non posso fare a meno di pensare alle carte che aveva in mano. Ho il sospetto che sapesse fin dall'inizio che Metz era dentro fino al collo nel riciclaggio di denaro. In tal caso, però, doveva sapere che non avrei mai accettato il caso. Allora perché ha cercato di affibbiarmelo? Una possibilità è che volesse proteggersi da un esame troppo accurato dei dettagli finché io non li avessi filtrati per lui nel corso del mio colloquio con Metz. In questo modo avrebbe potuto scegliere un approccio più artistico per scolpire i fatti nella discussione iniziale col cliente. Poteva indurlo a raccontare delle storie più utili, evitando un'accusa di spergiuro in piena regola. È il genere di ragionamento machiavellico che ci si potrebbe aspettare da Nick. Ma c'è un'altra possibilità, più probabile. E coinvolge Dana. Da quanto mi ha detto Metz, sempre che sia il caso di credergli, Dana era al corrente del suo problema e sapeva che poteva essere collegato alla droga. Se davvero, come sostiene Nick, lei è così ansiosa di nobilitare la sua attività, è plausibile che Dana non volesse che fosse lui a occuparsene, specialmente trattandosi di un cliente della sua stessa cerchia sociale. Conoscendo Dana, la sua prima preoccupazione sarebbe stata quella di correre il rischio di sporcarsi, che un intraprendente giornalista della rubrica mondana potesse scoprire che Metz aveva fatto parte della commissione con la moglie del suo avvocato. Tutto questo mentre lei cercava disperatamente di guidare Nick verso clienti più altolocati e di fargli salire i gradini dell'ambiente artistico della città. Se avesse detto a Metz di rivolgersi altrove, questo non gli avrebbe impedito di chiamare comunque Nick autonomamente. Poteva anche essere un sostenitore delle arti ma, conoscendo Dana, doveva aver capito che lei stava cercando di evitare possibili imbarazzi. La storia di Nick riguardo a un conflitto d'interessi con Metz e la facilità con cui l'aveva accantonato sembravano un po' troppo comode per risultare convincenti. Nick aveva deciso di passare il caso a qualcun altro. E chi va a chiamare? L'unico avvocato in città che - lui lo sa bene - non
accetterebbe mai un caso di droga. E, badabàm, la cosa gli rimbalza addosso. Ora, non solo può occuparsi del caso, ma può dire a Dana che non aveva altra scelta. Lui tirerà fuori dai guai il suo amico, ma lei dovrà pagare un prezzo. Il cervello di Nick doveva aver fatto gli straordinari all'idea che questo gli avrebbe permesso non solo di avere un ritorno in ambito matrimoniale, ma anche una certa libertà sul lavoro. Come avrebbe potuto lamentarsi, Dana, se era stata proprio lei a inviargli questo cliente? Dopotutto, lui aveva tentato di sbarazzarsene. Arrivato in fondo all'isolato, sto sorridendo, convinto di aver dipanato il sordido intrigo delle macchinazioni coniugali di Nick. Sto assaporando questa piccola vittoria e non avverto i singoli colpi, ma piuttosto una lunga raffica, come una rumorosa cerniera che venga aperta. Gli spari echeggiano tra le pareti di cemento dei palazzi tutt'intorno, rimbalzando dai quattro piani di uffici governativi che occupano l'intera Front Street. Alzo le braccia e mi accuccio contro un muro, spinto dall'istinto di sopravvivenza. Solo allora sento i pneumatici che stridono sull'asfalto dietro di me, e mi volto. Una piccola berlina scura si allontana dal ciglio del marciapiede davanti al tribunale, lasciandosi dietro una nuvola di gas di scarico e gomma bruciata. Sento il martellare dei cilindri, la forza bruta di un motore spinto al limite, mentre l'auto svolta sbandando sulla Broadway. Gli altri automobilisti inchiodano per evitare di andarle a sbattere contro, si sente un coro di clacson. Prima che riesca a metterla a fuoco, l'auto scompare dietro l'angolo. Mi volto nuovamente a guardare l'ingresso principale del tribunale, sull'altro lato di Front Street. Due donne strisciano carponi sul marciapiede. Un tizio aiuta una di loro ad alzarsi, e quella grida, portandosi le mani alla bocca. Riesco a sentire il suo urlo stridulo e penetrante persino da mezzo isolato di distanza. Tiene lo sguardo fisso in basso, verso qualcosa sul marciapiede dietro di lei. La folla che si è radunata m'impedisce di vedere. Uno degli ufficiali giudiziari in giacca blu esce correndo dal tribunale. Scompare dietro la folla di curiosi: dev'essersi inginocchiato. Dopo pochi secondi viene raggiunto da altri due uomini in uniforme, anch'essi usciti di corsa dal tribunale. Hanno le pistole spianate. Uno di loro sta parlando in un piccolo microfono fissato alla spallina dell'uniforme. Il traffico su Front Street ha rallentato: gli automobilisti si fermano a curiosare. Mi butto in mezzo alle auto, tra i colpi di clacson, e attraverso la strada, poi mi apro un varco tra la gente sul marciapiede. Altre persone
stanno correndo nella stessa direzione, ora, tutti con lo stesso pensiero in mente: andare a vedere cosa è successo. Giunto dietro il capannello di persone, cerco di farmi largo, infilandomi di lato finché non riesco a trovare uno spiraglio. A terra, in una pozza di sangue, c'è un corpo. Un uomo, capelli neri, la faccia rivolta contro il cemento, insanguinato ed esanime. Indossa una giacca sportiva che si è sollevata nella caduta. I calzoni grigi sono inzuppati di sangue, le gambe scomposte come se avesse cercato di fuggire quando è stato colpito. Cerco Nick, ma non lo vedo. A questo punto si sono radunati cinque o sei ufficiali giudiziari, che cercano di prendere il controllo della situazione, spingendo indietro la gente, creando un varco per i paramedici che stanno arrivando a sirene spiegate. Due pattuglie della polizia si fermano davanti all'edificio coi lampeggianti accesi. Un agente brandisce una semiautomatica. Poi si rende conto che tutto è finito e la rimette nella fondina, allacciando la chiusura di sicurezza prima di cominciare a spingere da parte la gente. Le persone arretrano, incespicando. Una donna anziana con un cappotto lungo e un foulard sui capelli rischia di cadere in ginocchio. Un tizio allunga una mano per sostenerla. La donna è confusa: non riesce a capire da dove vengano quelle mani salvatrici. Un'ondata tardiva di panico attraversa la folla, mentre il silenzio attonito lascia il posto all'agitazione e i presenti riacquistano coraggio. La curiosità ha la meglio. Spingono per guardare, ma la polizia li tiene indietro, mantenendo le posizioni. «Lei ha visto?» «No. Ho sentito gli spari.» «C'è qualche ferito?» chiede un poliziotto, gridando. «Qui», risponde una voce maschile. Un poliziotto della stradale, con ancora indosso il casco da motociclista, si fa largo tra la folla. Solo allora mi rendo conto che ci sono due capannelli di persone, non uno, che orbitano come costellazioni ognuno intorno al proprio buco nero. Vedo Nick, seduto sul marciapiede, gli occhi semichiusi che fissano senza vederlo il rivoletto di sangue che corre lungo il marciapiede e da lì scende in strada. Nel tessuto del trench ci sono delle piccole macchie scure che si allargano, troppe perché io le possa contare. I fori di proiettile gli attraversano diagonalmente il petto fino alla cintola. L'impatto lo ha scagliato all'indietro contro una fioriera di cemento, e lì è rimasto, il corpo accasciato come un burattino abbandonato da un bimbo.
4 Lì, impalato sul marciapiede, non posso fare nulla. Nel giro di pochi secondi da dietro l'angolo sbuca un'autopompa, seguita un minuto dopo da un'ambulanza. Due paramedici saltano giù dal mezzo dei pompieri e, prima che io possa muovermi, intervengono su Nick. Chini sopra di lui, tirano fuori i loro strumenti dalle grosse sacche d'emergenza, aghi e plasma, una maschera a ossigeno collegata a una piccola bombola. Mi sposto attraverso la folla e mi rendo conto che l'altro uomo è Metz. Vedo la schiena di un altro paramedico che, chino sopra di lui, gli pratica il massaggio cardiaco. In meno di tre minuti, Nick e Metz vengono stesi sulle barelle e caricati sull'ambulanza. Mentre Nick mi passa davanti, vedo la parte del suo volto lasciata scoperta dalla maschera a ossigeno. È terreo, di un blu grigiastro. Ha gli occhi semiaperti, un'espressione assente che, si capisce, non promette niente di buono. Prima che riesca a voltarmi per tornare alla mia auto, l'ambulanza e il suo carico si sono già allontanati. Suppongo siano diretti al centro traumatizzati, ma, vista l'enorme quantità di strutture ospedaliere di questa città, avrei maggiori probabilità di successo giocando alla roulette. Invece di tirare a indovinare, mi dirigo verso la macchina e mi do da fare col cellulare. Mi ci vogliono dieci minuti buoni prima di trovare l'ospedale giusto, e solo per sentirmi dire che l'ambulanza è arrivata, ma che non possono fornirmi nessuna informazione. L'infermiera vuole sapere se sono un parente. Le dico di no. Mi chiede il nome e il numero di telefono. Le dico che richiamerò più tardi e riattacco. Non c'è niente che io possa fare. Mi dirigo verso l'ufficio come in trance. È una di quelle volte in cui arrivi a destinazione senza sapere come hai fatto. Mi ritrovo parcheggiato in strada davanti alla sede dello studio, seduto al volante, senza sapere da quanto tempo sono lì. Scuoto la testa, mi asciugo la fronte. Per un attimo penso di essermi immaginato ogni cosa. Ma mi tremano le mani. Do mezzo giro alla chiavetta dell'auto e accendo la radio, cercando una stazione locale. Ne trovo una e sento le parole: «... davanti al tribunale federale nel centro di San Diego. Non sappiamo ancora quante persone siano rimaste ferite. Ma i colpi sono stati sparati da un'auto in corsa». Allungo una mano verso i comandi e alzo il volume. «Secondo notizie fornite da fonte ufficiale, sono morti due uomini.» La mia mente ha già registrato il fatto, ma sentirlo lo rende più reale.
«L'identità delle due vittime non è ancora stata rivelata in attesa d'informare i parenti più stretti. Secondo la polizia, il movente della sparatoria è sconosciuto. Non ci sono stati arresti e la polizia afferma che le indagini sono in corso. Vi daremo ulteriori particolari nel prossimo notiziario, fra un'ora.» Il resto della giornata e quella seguente trascorrono quasi per intero fra un susseguirsi di immagini confuse, da incubo, sogni foschi ai quali posso sottrarmi svegliandomi, ma solo per scoprire che non sto sognando. Fortunatamente, la polizia arriva a me soltanto tre giorni dopo il fatto. Inizialmente avevo pensato che il mio nome fosse sull'agenda di Nick, ma, vedendo che il primo giorno non si presentava nessuno, ho capito che non era così. Un duplice omicidio davanti al tribunale federale, nel quale è coinvolto anche un famoso avvocato, è una notizia da prima pagina. Le televisioni e i giornali locali ci danno dentro, con la polizia che soffia sul fuoco fornendo informazioni per nulla favorevoli a Nick. Come avvocato difensore penale, Nick era alquanto malvisto, il genere di avvocato che in tribunale non fa prigionieri. È già stata fatta trapelare la notizia che addosso al cadavere di Nick, all'obitorio, è stata trovata una busta con quattromila dollari in contanti. Le autorità hanno detto che sopra c'era scritto un nome e questo basta perché i lettori traggano conclusioni spiacevoli. La polizia non dice nulla riguardo al movente, ma i giornalisti hanno già scoperto che Metz era indagato. Lo hanno definito semplicemente un importante uomo d'affari. Per la stampa l'elemento chiave è Nick. Si sono dilungati sul fatto che fosse specializzato in processi di droga sia quando lavorava presso la procura sia in seguito, nella professione privata, e da questo hanno tratto conclusioni vaghe e approssimative ma sufficienti a spingere i lettori a fare delle congetture. Le autorità cittadine non dicono nulla. Date le circostanze, la dipartita di Nick non spingerà nessuna associazione a dedicargli un nobile monumento di arenaria. Le telecamere e un gruppo nutrito di giornalisti stazionano davanti ai cancelli di Coronado Cays, dove abita Dana. Ho visto le immagini nei notiziari della sera, la vedova nascosta da occhiali scuri che viene accompagnata via in macchina da una falange di amici, uno in particolare, un signore alto, capelli scuri pettinati all'indietro appena spruzzati di grigio alle tempie, giacca e calzoni sportivi che paiono spediti appositamente per l'oc-
casione da Savile Row. Dana è fortunata a vivere in un complesso residenziale protetto da cancelli, dove i giornalisti non possono passare sul prato davanti a casa o scalare le finestre con scale a pioli per spiarla. Gli addetti alla sorveglianza hanno tenuto il branco di cronisti ammassato fuori, vicino al Silver Strand, lontano dalla casa. Questa mattina, Harry è venuto presto in ufficio, pronto a compiere azioni di sbarramento all'arrivo dei poliziotti. Li stavamo aspettando. Ho raccontato a Harry del palmare di Nick. Come per gran parte degli aggeggi elettronici, è un mistero per Harry, ma lui è convinto che dovrei consegnarlo alla polizia e lasciare che ci pensino loro. Prima di farlo, però, voglio scoprire qualcosa di più su questo oggetto e sulle informazioni che contiene. Sento le loro voci nell'ufficio esterno, un tenente e il suo socio, ma non capisco i nomi. Vogliono vedere il signor Madriani. Harry se la prende comoda per darmi il tempo di prepararmi. Con un tono di voce così alto da risvegliare persino Nick, chiede di cosa si tratta. Senza dubbio la polizia sta cercando di ricostruire i movimenti di Nick nelle ore immediatamente precedenti la sua morte, mettendo insieme le persone che ha incontrato e quelle con cui ha parlato. Devono averlo saputo da Marge, la cameriera di quel laido caffè sotto il Capri Hotel, che potrebbe aver fornito loro la mia descrizione, o da Dana. Di certo, lei era al corrente del fatto che Nick e io dovevamo incontrarci quella mattina. Se la mia ipotesi è corretta, e Nick aveva fatto quel rigiro su Metz, probabilmente è stata proprio lei a fare il mio nome alla polizia. Nick deve averla messa giù dura, dicendole quanto avesse insistito per farmi accettare il caso, ma che io avevo rifiutato. Senza dubbio le sarà passato per la mente che, se avessi accettato di patrocinare Metz, ora potrei esserci io sul tavolo dell'obitorio, anziché suo marito. Da quando è successo, non faccio che pensare a questo. Sensi di colpa, alleviati dal pensiero di mia figlia Sarah orfana. Qualche secondo dopo sento bussare alla porta. Fa capolino la testa di Harry, subito seguita dal corpo. S'infila attraverso lo spiraglio e richiude l'uscio alle sue spalle. «Sono in due», annuncia, porgendomi un biglietto da visita della polizia, con tanto di stemma cittadino e la scritta TENENTE RICHARD ORTIZ, SQUADRA OMICIDI. «Tanto vale che tu li faccia entrare.»
«Non sei costretto a parlargli», mi ricorda. «Tanto, prima o dopo, cosa c'è da nascondere? Probabilmente sanno più di quanto sappia io, almeno lo spero.» Harry mi guarda come un avvocato guarda un cliente che si è appena rifiutato di seguire un buon consiglio. Spalanca la porta, di mala voglia. «Avanti», dice. Un attimo dopo, due uomini entrano nel mio ufficio. Uno è alto, magro, capelli scuri tagliati cortissimi, una faccia spigolosa con gli occhi così infossati che ci vorrebbe una campana subacquea con i fari per distinguerne il colore. C'è in lui un che di rapace, il discendente umano dalla famiglia degli avvoltoi. Direi che è sui trentacinque anni. Dalla sua espressione si capisce che il lavoro gli ha da tempo tolto ogni allegria. L'altro ha la corporatura di un difensore degli Ohio State: capelli biondi corti, collo taurino, bicipiti che gonfiano la manica della giacca. È più giovane del suo collega. «Signor Madriani, sono il tenente Ortiz.» È l'avvoltoio alto che comanda. «Questo è il mio collega, il sergente Norm Padgett.» Prima di poter dire una parola, vengo assalito da un'ondata di panico. Adrenalina pura. Mi cade l'occhio sul palmare di Nick posato su un angolo della scrivania, dove l'ho mollato stamattina. Ormai è troppo tardi. «Accomodatevi», li invito. Se allungo una mano e lo prendo, potrebbero domandarsi il perché. Se Dana ha detto loro che Nick ne aveva uno e non l'hanno trovato nel suo ufficio, è possibile che lo stiano cercando. «Gradite un caffè?» Rifiutano entrambi. «In cosa posso esservi utile?» Harry appoggia parte del suo peso sull'armadietto dall'altra parte della stanza e lì resta. Il sergente si volta a guardarlo. «Scusate. Conoscete già il mio socio, Harry Hinds?» «Ci siamo presentati», dice Ortiz. «Questa è un'indagine confidenziale», aggiunge. «Capisco. Resterà fra noi quattro», assicura Harry. «Credo che il mio socio preferisca restare», intervengo io. «Potremmo parlare alla centrale», suggerisce Ortiz. «Allora prendo la giacca», ribatte Harry. I due buchi neri che Ortiz ha al posto degli occhi lo fulminano. «L'ultima volta che ho controllato, il mio patentino di avvocato era ancora valido», continua Harry.
«C'è un motivo per cui lei abbia bisogno di un avvocato?» mi chiede Ortiz. «Me lo dica lei.» «Non è sospettato di nulla, per quanto ci riguarda», replica il tenente. «Buono a sapersi. Prendo nota», dice Harry. «Bene», commenta il poliziotto senza sorridere. Uno a zero per noi. «Abbiamo solo qualche domanda da farle. Immagino che sappia perché siamo qui.» «Perché non ce lo dice lei?» Ogni tanto il mio sguardo si sposta verso il palmare sulla scrivania. Vorrei tanto allungare la mano, con naturalezza, e farlo scivolare in uno dei cassetti, ma non oso. «Sono certo che lei è al corrente della sparatoria avvenuta davanti al tribunale federale all'inizio della settimana. Un duplice omicidio.» Attende di vedere cosa dico. Magari qualcosa di poco convincente, tipo che l'ho letto sul giornale. Non dico nulla. «Da quanto ci risulta, lei conosceva entrambe le vittime, il signor Nicholas Rush e il signor Gerald Metz.» «È una domanda?» «Certo.» «Conoscevo il signor Rush. Il signor Metz l'ho incontrato soltanto una volta.» «Bene. Grazie.» Un punto per Ortiz. «E suppongo che fosse al corrente della sparatoria.» «Lo sono.» «Come l'ha saputo?» Lo guardo. Ingaggiamo un duello con gli occhi. «Gradirei una risposta.» «Ho udito gli spari.» «Lei era là?» chiede. «Ero sull'altro lato della strada, a circa mezzo isolato di distanza, e stavo andando nella direzione opposta quando è successo. Ho fatto appena in tempo a voltarmi ed era già tutto finito.» «Ha visto la macchina, il veicolo da cui hanno sparato?» chiede Ortiz. «Solo per un istante. Andava nell'altra direzione, si allontanava da me. Ricordo solo che era una berlina scura, ma non saprei dirle la marca né il modello. Non l'ho vista bene.» «E ovviamente non ha visto il numero di targa.»
Scuoto la testa. «Probabilmente non lo avrebbe visto comunque», aggiunge. «Riteniamo che fosse senza targa. Dev'essere stata tolta dalla persona che l'ha rubata, prima della sparatoria. Abbiamo ritrovato il veicolo la scorsa notte, abbandonato all'altro capo della città. Lo leggerete sui giornali di domani.» «Avete trovato qualche impronta digitale?» domanda Harry. «Questo non lo leggerete», risponde Padgett. «Conosceva bene il signor Rush?» mi domanda Ortiz. «C'incontravamo di tanto in tanto per lavoro. Ci mandavamo dei clienti. Quel genere di cose.» «Vi frequentavate al di fuori del lavoro?» «Ogni tanto andavamo a pranzo insieme. Ci vedevamo alle riunioni dell'ordine.» «Ci risulta che lei gli ha parlato la mattina in cui è stato ucciso.» «Abbiamo avuto una breve conversazione.» Padgett tira fuori il taccuino. «Può dirci di cosa si trattava?» mi chiede il suo superiore. «Genericamente parlando?» «Tanto per cominciare.» «Si trattava di lavoro. Un cliente inviatomi dal signor Rush.» «E questo cliente sarebbe Metz?» chiede Padgett. «Suggerirei di non rispondere alla domanda», interviene Harry. «Credevo che lei guardasse e ascoltasse soltanto», ribatte Ortiz, lanciandogli un'occhiata di traverso. «Talvolta mi scappa di parlare», replica Harry. «Bene. Perché il signor Madriani non dovrebbe rispondere alla mia domanda?» «L'identità di un cliente, prima che vi sia stata una qualche attività di patrocinio pubblico, è tutelata dal segreto professionale», spiega Harry. «Gli avvocati sono proprio dei gran rompiballe, vero?» dico, sorridendo. «Questo significa che lei rappresentava il signor Metz?» chiede Ortiz. «No. Significa che non ho intenzione di rispondere alla sua domanda.» «Perché no? Cosa c'è da nascondere?» interviene Padgett. «L'identità di un ex cliente», risponde il mio socio. «Che è morto», puntualizza il sergente. «Supponendo che quel cliente fosse il signor Metz, che è poi la vostra vera domanda, alla quale noi ci rifiutiamo di rispondere», conclude Harry. Si trovano in un vicolo cieco. Capisco dal suo atteggiamento che Padgett
non vuole arrendersi. Ortiz decide di sorvolare. «Ci risulta che lei ha avuto un incontro con il signor Metz per decidere se accettare o no di seguire il suo caso, e che ha rinunciato.» Hanno parlato con Dana. «Può dirci perché ha rifiutato il caso?» «Anche se la vostra informazione fosse corretta, cosa che non confermo, non potrei rispondere. Lo so, sembra che non facciamo molti progressi, ma io ci sto provando.» «Quindi lei ha parlato con Metz?» insiste Padgett. «Ho detto questo, Harry?» «No.» «Non ho detto questo.» Sappiamo tutti perché Harry è qui. È qui perché Padgett, nella sua veste di scriba, non si metta a fare il creativo con penna e taccuino. «Ma lui aveva qualche problema legale», riprende Ortiz. «Ci risulta che fosse in stato d'accusa», aggiunge Padgett. «Se lo dite voi.» «Era sui giornali», protesta Padgett. «Ah, sì?» «Torniamo al punto», riprova Padgett. «Sappiamo che lei si è incontrato con Rush quella mattina. Sappiamo che la conversazione non era del tipo che si fa nel gabinetto degli uomini scrollandosi l'uccello finché gocciola. Abbiamo un testimone che vi ha visti confabulare a un tavolo neppure dieci minuti prima che Rush venisse ucciso.» «Allora perché me lo chiedete?» «Perché vogliamo sapere di cosa avete parlato.» «Il vostro testimone non l'ha sentito?» «No», risponde Padgett prima che il suo collega abbia il tempo di bloccarlo, dicendo: «Volevamo sentirlo da lei». «Allora, sì o no? Perché, se il vostro testimone ha sentito qualcosa, fareste meglio a chiederlo a lui. Visto che io non posso parlarne.» «Allora era segreto professionale?» incalza Ortiz. «Credevo lo avessimo già stabilito.» «Se Rush era suo amico, perché non vuole aiutarci a catturare l'assassino?» mi chiede Padgett. «Perché non mi chiedete se picchio sempre mia moglie?» «La picchia?» «È morta di cancro un po' di anni fa», interviene Harry. Padgett mi guarda. «Scusi.»
«Noi vogliamo solo sapere cosa le ha detto Metz durante quel vostro primo colloquio.» «Finché un giudice non mi ordina il contrario, ogni conversazione tra me e qualsiasi cliente è tutelata dal segreto.» «Anche se il cliente è morto?» chiede Ortiz. «Anche se è morto.» «Capisco. Lei non detta le regole, si limita a seguirle. Giusto?» domanda Padgett. «Lei non è scemo come sembra», osserva Harry. «Harry, stanno solo cercando di fare il loro lavoro», lo freno. «E lei non ci sta aiutando molto», commenta il tenente. «Mi dispiace. Ma io devo fare il mio», replica Harry. «Da quanto tempo conosceva Nick Rush?» Ortiz sceglie un'altra strada. «Più o meno dieci anni.» «Come vi siete conosciuti?» «Ci ho pensato un paio di volte, dopo che è stato ucciso. Sa com'è, quando si perde qualcuno. Credo sia stato a una conferenza o a un seminario. Forse a un corso di aggiornamento dell'ordine. Ma, a essere sincero, non ricordo con precisione.» «Lasci che le faccia una domanda. Come poteva Metz essere suo cliente se lei non aveva accettato il caso?» Padgett non ha intenzione di arrendersi. «Lei lo sa bene quanto me: che io abbia rifiutato di rappresentarlo o no, qualunque cosa un cliente mi abbia detto nel corso di un colloquio iniziale...» Comincia a prendere nota sul suo taccuino. «... e badi bene che non sto dicendo di aver mai parlato con il signor Metz di questioni legali, ma se anche lo avessi fatto, sarebbero coperte dal segreto.» Padgett tira una riga su tutto quello che ha scritto e chiude il taccuino. Così facendo, vede il palmare sulla scrivania. Lo fissa per un secondo. Il mio cuore accelera di dieci battiti al minuto. «Mi risulta che lei non si occupa di casi di droga», dice Ortiz. Mi sforzo di guardarlo, ma i miei occhi continuano a tornare sul suo collega, che sta ancora fissando il palmare. «È vero?» «Prego?» «È vero che lei non si occupa di casi di droga?» «Come regola generale, no. Non tratto quel genere di casi.» Se Padgett prende il palmare, lo accende e vede il nome di Nick, questa conversazione la finiamo alla centrale, probabilmente davanti a un giudice,
con l'accusa di aver occultato prove in un caso di omicidio. «Allora, dopotutto, forse lei ha anche qualche buona qualità.» Padgett dimentica per un attimo il palmare, voltandosi verso di me. Gli sorrido. «Perché non se ne occupa?» mi chiede. «Non ho esperienza nel campo.» «Ritiro la domanda.» «È l'unica ragione?» chiede Ortiz. «Qualsiasi altra ragione sarebbe di ordine personale e non avrebbe niente a che vedere con alcun particolare caso o cliente.» «È per questo che lei non ha voluto occuparsi del caso di Metz? Perché si trattava di droga?» «Supponendo che Metz fosse stato mio cliente, anche solo a livello di un colloquio iniziale, i motivi per cui potrei non aver accettato questo caso sono coperti dal segreto.» «Siamo tornati a questo?» chiede Padgett. «Significa che non sono fatti vostri», taglia corto Harry. «Si sbaglia», ribatte Padgett. «Sono morti tutti e due, e questi sono fatti nostri. E poi, chi sta proteggendo, un cliente che non esiste?» «Finché un tribunale non mi ordina diversamente.» «Io credo che se Metz fosse qui, vorrebbe che lei ci aiutasse», dice Ortiz. «Io di certo lo vorrei, se qualcuno mi avesse riempito di buchi mentre mi facevo i fatti miei per la strada.» «E il suo amico?» insiste Padgett. «Pensavo volesse aiutarci, non foss'altro per cortesia professionale. Sa, tra squali...» Mi alzo di scatto dalla sedia. Harry si stacca dall'armadietto per fermarmi. Padgett è in piedi, petto in fuori, braccia protese. Lentamente allungo una mano sulla scrivania, prendo un biglietto da visita dal piccolo contenitore sull'angolo e glielo lancio. Carico d'adrenalina com'è, non riesce a prenderlo al volo. Era pronto a menare le mani e si trova davanti una prova di destrezza. Se volessi inchiodarlo, questo sarebbe il momento giusto. «Perché non mi date un colpo di telefono la prossima volta che volete parlarmi? Così potrò decidere se sono in ufficio o no.» Padgett se ne sta lì con un'aria stolida, pronto a sostenere una rissa che non ci sarà. Il mio biglietto è a terra. Non sa cosa fare. Si china a raccoglierlo.
Sfrutto l'occasione per afferrare il palmare, facendolo scivolare silenziosamente sul piano della scrivania e giù nel cassetto centrale, che poi richiudo. Ortiz sta ancora guardando il suo collega e non pare accorgersene o, se anche se n'accorge, non sembra farci caso. «Allora non vuole proprio aiutarci?» chiede, guardandomi di nuovo. «Se potessi lo farei, ma non posso. Il fatto è che non so niente.» Ortiz mi rivolge un sorriso beffardo. Non ci crede. Osservando il suo sorriso, ho la sensazione che questa sia la sua massima manifestazione di ilarità. «Senza scendere nei particolari, clienti o casi specifici, ci sono buoni motivi per cui un avvocato può decidere di rinunciare a un caso», lo informo. «Tipo?» chiede Ortiz. «Parlando in via del tutto ipotetica?» «Del tutto ipotetica», concede. «Magari la sensazione che il cliente non ti stia dicendo la verità.» «Metz le ha mentito?» «Non stiamo parlando né di casi, né di clienti», gli rammento. «Certo.» Padgett sorride, sempre lì davanti alla scrivania. Finalmente stiamo arrivando da qualche parte. «Su cosa le ha mentito?» domanda. Gli lancio un'occhiata del tipo: «Pensi davvero che ti risponda?» «Lei si occupa solo di trafficanti sinceri? È così?» Non abbocco. «Ma si trattava di droga, giusto?» «Non ho detto questo.» «Ha detto che è per questo che non ha accettato il caso.» «Non ha mai detto niente a proposito del signor Metz.» Ortiz vuole saperne di più. Qualsiasi cosa io abbia da dirgli. «Quindi lei non ha idea di chi sia stato a ucciderli? O anche questo è coperto dal segreto professionale?» chiede Padgett. «No. Non ne ho idea. Ma, se fossi in voi, comincerei andando a parlare con l'ufficio del procuratore.» «Ci siamo già andati. È come parlare a un muro», si lagna Padgett. Ortiz lo incenerisce con gli occhi. Il sergente ha l'aria di uno che vorrebbe poter inalare le parole appena dette e ingoiarle. I federali non hanno intenzione di dividere con loro le informazioni di cui dispongono.
Alzo lo sguardo verso Harry. Improvvisamente, ne sappiamo più dei due poliziotti. Padgett, con il suo collo taurino, i bicipiti e tutto il resto, sa che, una volta fuori, Ortiz lo prenderà a calci in culo. «Ha mai sentito parlare di una donna di nome Laura?» chiede Ortiz. «A che proposito?» «Non lo so. Forse nell'ambito del lavoro. Forse un'amica del signor Rush.» «Laura e basta? Niente cognome?» «No. Laura e basta.» Ci penso per un attimo. La busta trovata in tasca a Nick con sopra scritto un nome, e dentro quattromila dollari in contanti. Questa è una cosa che potrebbe alimentare il fuoco della curiosità, alla Omicidi. Ma il modo in cui Ortiz ha formulato la domanda mi permette di evitare di rispondere senza mentire. «Ha detto una donna di nome Laura? Mi dispiace, ma non sono in grado di aiutarvi.» «Lei è una miniera d'informazioni», commenta sarcastico Padgett. «Se ci fosse dell'altro, possiamo contattarla di nuovo?» chiede Ortiz. «Il mio biglietto lo avete.» Ortiz si alza e va verso la porta. Padgett lo precede. Ho il sospetto che preferirebbe restare qui, magari nascosto sotto la mia scrivania. «Un'ultima cosa», dice Ortiz. È quasi arrivato alla porta. Si volta e mi guarda. «Sapeva che il signor Rush e il signor Metz erano soci in affari?» Dall'espressione vuota sul mio viso capisce che questo pensiero non mi era mai passato per la mente. Scuoto la testa. Guarda un pezzo di carta che tiene in mano. «In qualcosa che si chiama Jamaile Enterprises?» Il tono della sua voce si alza appena mentre pronuncia la parola «Enterprises». Mi guarda, in attesa di una risposta. «Niente di niente?» Sono senza parole. «Mi chiedevo se, essendo il signor Rush suo amico, non gliene avesse per caso parlato.» 5 Non mi risulta che Nick abbia mai messo piede in una chiesa, ma il suo
funerale si svolge alla vecchia missione di San Luis Rey, a pochi chilometri dalla costa, vicino a Oceanside. Una coreografia riccamente orchestrata prevede, dietro il carro funebre che trasporta la bara di Nick avvolta nella bandiera, tre furgoni funebri scintillanti così carichi di corone di fiori da ricordare la Rose Parade. Nessuno è stato in grado di spiegarmi il motivo di quella bandiera, visto che Nick non è un veterano, anche se indubbiamente è stato ucciso in servizio. Sono certo che sia stata Dana a volerla, per farsela piegare e consegnare davanti alla fossa nel momento della sepoltura. È una folla nutrita e silenziosa quella raccolta sotto le travi lavorate a mano dell'antica chiesa barocca spagnola, le cui spesse pareti di mattoni amplificano ogni colpo di tosse e ogni singolo scalpiccio sul pavimento di cotto. Eseguiamo tutta la sequenza di gesti previsti dalla liturgia cattolica, dalla panca all'inginocchiatoio, poi di nuovo in piedi, mentre il prete intona la benedizione finale sopra la bara, la asperge d'acqua santa e fa oscillare un gigantesco turibolo appeso a una catena, dal quale si levano nuvole di fumo grigiastro. La notizia appresa durante il colloquio con i poliziotti ha continuato a ticchettarmi nella testa come un nastro di telescrivente: il nome Jamaile Enterprises e l'affermazione che Metz e Nick fossero soci in affari. Forse volevano soltanto vedere se abboccavo. Pur avendo fallito in questo senso, Ortiz e il suo collega sono però riusciti a piantare un seme che ora sta germogliando sospetti. La domanda è: se Nick conosceva Metz per via di qualche rapporto precedente, perché non me l'ha detto? Le ultime due notti non ho pensato ad altro. Non sono riuscito a trovare nessuna risposta convincente, ed è questo che mi turba. La Jamaile era un'impresa criminosa? È possibile, anche se, conoscendo Nick, non sarebbe mai stato così stupido da mettere il proprio nome sui documenti societari, a meno che non avesse scoperto la vera natura dell'attività solo in un secondo tempo. Questo spiegherebbe perché voleva evitare di assumere il patrocinio di Metz. Il che porta a un'ulteriore domanda: Nick considerava pericolosa questa situazione? Quella mattina, al caffè, non ho avuto nessuna indicazione in tal senso. Trovo difficile credere che mi avrebbe usato in quel modo. Sono convinto che, qualunque cosa sia successa, Nick non l'avesse prevista. La sua bara è appoggiata su un carrello piazzato davanti all'altare dorato, al quale santi di gesso fanno la guardia dalle loro nicchie come sentinelle
pietrificate. Un grosso crocifisso di legno con la figura del Cristo domina dall'alto. L'odore d'incenso e di candele accese impregna l'aria. Harry e io siamo arrivati in ritardo e abbiamo preso posto in una delle panche verso il fondo della chiesa. Ci sono alcuni personaggi politici, conoscenti e gente con cui Nick ha lavorato nel corso degli anni, due giudici del tribunale federale e un consigliere comunale. Qualche panca più avanti c'è un ex senatore che qualche anno fa Nick ha fatto assolvere per un fatto di droga. Nick è stato così abile che persino gli elettori hanno assolto il senatore al momento del voto, riconfermandolo al suo posto fino alla conclusione del mandato. I soci anziani dello studio di Nick occupano due file sul davanti, subito dietro Dana, tutta bardata di nero, veletta compresa, fiancheggiata da due amici che di quando in quando le porgono un fazzoletto. Ho cercato Margaret, la prima moglie di Nick, ma, se anche è presente, non la vedo. È una di quelle cose su cui ti viene da riflettere: nonostante l'astio del divorzio, avrà voluto esserci? Se così è, dev'essersi nascosta tra la folla, per non dare nell'occhio. Mentre il carrello avanza rumoroso sulle antiche formelle di cotto spagnolo, una delle ruote cigola come se volesse protestare, e i portatori spingono lentamente la bara lungo la navata, verso la porta e il carro funebre che attende fuori. La sepoltura avverrà a Eternai Hills, a pochi chilometri da qui, una cerimonia privata per i familiari e pochi amici intimi. La bara avanza, seguita da Dana che ha il volto coperto dal velo. Al suo fianco c'è il signore alto che ho visto in televisione, quello che la accompagnava in macchina, austero, snello, capelli scuri con quel tocco di grigio alle tempie che gli conferisce una certa autorità. La sorregge, una mano sul gomito, l'altra intorno alle spalle. Sull'altro lato c'è una bionda, con qualche anno in più di Dana, probabilmente la sorella, vista la somiglianza. Seguono, in corteo, tutti i partecipanti a partire dalle prime file, cosicché Harry e io siamo quasi gli ultimi a uscire. Quando sbuchiamo nel grande piazzale antistante la chiesa, la bara è già stata caricata sul furgone. Gli uomini dell'impresa di pompe funebri fanno salire i familiari sulle auto del seguito, caricando le corone di fiori sui furgoni per l'estremo viaggio verso il cimitero. La limousine che porta Dana è subito dietro l'ultimo furgone nero scintillante, i finestrini scuri, la portiera posteriore aperta sul lato opposto al nostro. «Signor Madriani.» Sento pronunciare il mio nome prima di capire da
dove viene la voce. Quando mi volto, vedo davanti a me l'uomo che accompagnava Dana lungo la navata. «Non ci conosciamo», dice, porgendomi la mano. «Sono Nathan Fittipaldi, un amico della signora Rush.» Ci stringiamo la mano. Indossa un gessato scuro di taglio italiano e una cravatta di seta, una camicia di lino dall'aria costosa e lucidi mocassini neri in pelle di vitello le cui nappine spuntano da sotto le gambe dei pantaloni dalla piega precisa come la lama di un coltello. Tutto ha il pedigree sartoriale di un capo che verrà indossato una volta e poi scartato. «La signora mi ha chiesto di parlarle. In questo momento, non se la sente di farlo.» «Capisco.» «Gradirebbe che lei facesse un salto a casa sua. Vorrebbe incontrarla. Le ho detto che sicuramente a lei non sarebbe dispiaciuto.» «Certo che no. Quando?» «Quando le viene comodo. Meglio non oggi.» «Certo.» «Sarebbe bene che desse un colpo di telefono prima di passare, per accertarsi che sia in casa. Le do il numero.» Gli dico che lo conosco, ma lui mi informa che è cambiato. A quanto pare, Dana ha ricevuto telefonate dai giornalisti. «Il signor Rush lo ha dato ad alcuni clienti», mi spiega Fittipaldi. «Abbiamo il sospetto che sia stato uno di loro a passarlo alla stampa. Quella gente non ha nessun rispetto per le sofferenze altrui.» Non è chiaro se Fittipaldi stia parlando dei clienti di Nick o del quarto potere, anche se sospetto che ne farebbe volentieri un fascio. Suppongo che Dana non sia la sola ad avere una bassa opinione della clientela di Nick. Annota velocemente il nuovo numero sul retro di un biglietto da visita e me lo porge. «Sono lieto di averla conosciuta», dice. «Dana mi ha detto che lei è un buon amico. Avrà bisogno di noi nelle prossime settimane, nei prossimi mesi.» Sorrido senza replicare. Prima che io possa chiedergli perché Dana vuole vedermi, si avvia verso l'altro lato della limousine. Scompare all'interno, chiude la portiera e il corteo si muove. «Cosa c'è?» chiede Harry.
«Non lo so.» Guardo il biglietto da visita nella mia mano, una carta pergamena costosa, addirittura filigranata. Lo volto per leggere la parte stampata. Recita: FITTIPALDI ARTE E ANTICHITÀ proprietario Nathan Fittipaldi Acquisizioni per collezionisti Massima discrezione Londra, New York, Beverly Hills, San Diego Non c'è numero di telefono, solo un numero di fax e un indirizzo web: «Discretion.com». Le serate a casa con Sarah non sono sempre tranquille. Lei fa i compiti, seduta su una delle poltrone imbottite del nostro soggiorno, una gamba piegata sotto l'altra, con la televisione che trasmette Star Trek a tutto volume. Eppure prende sempre voti altissimi. Non so proprio come faccia. I capelli, folti e bruni con riflessi ramati se colpiti da un raggio di sole, stasera sono raccolti in treccine, una novità. Dice che così è più facile pettinarli la mattina. Sta diventando una giovane donna, non solo nel modo in cui si veste o cura il proprio aspetto, ma anche nel modo di ragionare. Sarah è padrona di se stessa. Mentre altri ragazzi sembrano influenzati dalle pressioni dei coetanei, mia figlia dimostra una maturità che talvolta mi mette in imbarazzo, specie nei miei momenti di maggior esuberanza e impetuosità. Quando giochiamo ai giochi di ruolo, si rivela capace di un ragionamento strategico stupefacente per una persona della sua età, misto a compassione per i giocatori meno abili che protegge sempre dalla mia aggressività maschile, finendo regolarmente per annientarmi. Questo a quindici anni. Rabbrividisco al pensiero di dove possa arrivare crescendo, ma ho più fiducia in questa generazione sapendo che ci sono anche persone come lei. Questa sera, siamo immersi nei nostri pensieri, Sarah assorbita da scienze e storia, io dal piccolo palmare di Nick. Finora sono riuscito a capire qual è lo schermo e a cosa serve il bottoncino verde in basso: ad accenderlo. Ma ho paura a fare qualcos'altro senza istruzioni, temendo, data la mia innata goffaggine per tutto ciò che è elettronico, di perdere i dati immagazzinati. Un conto è appropriarsi di una possibile prova in un caso di omicidio, un altro conto è perderla.
In cima allo schermo, ogni volta che lo accendo, compare l'immagine di una batteria. Pare che si stia lentamente esaurendo. La porzione scura che indica la carica si sposta sempre più a sinistra. Quando scomparirà del tutto, temo che avrò perduto tutte le informazioni memorizzate. Sollevo il coperchietto delle batterie sul retro. All'interno sono alloggiate due pile AAA. Le studio per un momento. «Sarah?» «Sì?» Non alza lo sguardo dai compiti, totalmente concentrata sul libro posato in grembo. «Abbiamo delle pile AAA?» «Quelle piccole?» «Sì.» «Credo di sì.» Va al frigorifero, dove tiene le pile, principalmente quelle per il walkman che ascolta in continuazione quando siamo in macchina. «Queste?» chiede, mostrandomene una. «Esatto.» «Quante te ne servono?» «Due.» Me le porta. «Cos'è quello?» «Credo si chiami palmare.» «Questo lo so. Cos'è quell'affarino in cima?» «Un telefono cellulare.» «Forte. Dove l'hai preso?» «Era di un amico.» «Te l'ha prestato?» «In un certo senso. Sai niente di questi aggeggi?» «Alcuni ragazzi a scuola ce l'hanno. Ma i loro non sono così belli.» Sarah sta guardando da sopra le mie spalle, i grandi occhi nocciola che studiano l'oggettino. «Cosa vuoi sapere?» «Come si cambiano le pile.» «Papà! Su, dammelo, che faccio io.» Allunga una mano per afferrarlo, ma io lo allontano. «Non posso rischiare di perdere le informazioni che ci sono dentro.» «Forse ha una memoria permanente», ipotizza lei. Ho sentito parlare di permanente dal parrucchiere e di danno permanente in tribunale, ma la memoria permanente mi giunge nuova. «Se ce l'ha, tutto è immagazzinato dentro, su un chip o qualcosa del genere. Lo abbiamo imparato a lezione di educazione tecnica. Anche se stac-
chi l'alimentazione, i dati restano.» «Come faccio a scoprire se ha una di queste memorie?» «Potresti cercare su Internet. Un oggetto così figo deve per forza avere un sito. Quanto costa?» «Non lo so.» «Il mio compleanno è vicino.» «Ti regalo delle pile.» Mi rivolge un'occhiata di finta esasperazione, un'espressione che mi ricorda tanto sua madre. «Me lo fai vedere? Ti prometto che non lo rompo.» Glielo porgo, con riluttanza. «Ehi, questo pulsantino qui in cima è il cellulare.» «Lo so. Non toccarlo.» «Rilassati», dice. La stessa cosa che mi ha detto Nick prima che gli sparassero. «Perché non possiamo accenderlo? Vediamo se funziona.» «Perché si potrebbero scaricare del tutto le batterie.» Non le dico che probabilmente a questo punto i poliziotti avranno già messo le mani sul conto telefonico del cellulare di Nick. In questo caso, il gestore del servizio potrebbe aver inserito una trappola sulla linea in modo da localizzare il cellulare non appena emette un qualche segnale, anche se sta solo cercando la rete. «Se ci fosse un sito su Internet, pensi che riusciresti a trovarlo?» le chiedo. «Non lo so. Posso guardare.» Le ci vogliono meno di cinque minuti. Sarah batte con dita agili sulla tastiera e muove il mouse, usando Yahoo! Al quarto tentativo, fa centro e trova un logo che corrisponde a quello sull'aggeggio, due linee curve che s'incrociano con un puntino nel mezzo nella parte inferiore, Handspring.com. Scorriamo la pagina per un po'. «Non vedo niente che assomigli a delle istruzioni. E tu?» mi chiede. «No. Cosa facciamo?» «Dammi un secondo.» Clicca sull'icona del servizio clienti. Sullo schermo compare una maschera di e-mail. Sarah digita un messaggio, sostenendo che abbiamo smarrito le istruzioni e vogliamo sapere come cambiare le batterie senza perdere i dati in memoria. Dieci minuti dopo, arriva la risposta. Nell'allegato c'è una serie di istru-
zioni. Ci consigliano di collegare il palmare a un computer normale prima di cambiare le pile. Ci avvertono che, se non possiamo fare così, dal momento in cui cominciamo a rimuovere le vecchie pile abbiamo solo un minuto per inserire quelle nuove. Dopodiché il sistema andrà in blocco e perderemo tutti i dati. «Pare che senza le batterie non esista una memoria interna», dice Sarah. E senza la base del palmare e il software di comunicazione, non possiamo collegarlo al computer. «Vuoi fare tu o vuoi che faccia io?» Sarah sta parlando del cambio delle pile. «Faccio io.» Armato di due pile nuove e della stampata delle istruzioni ricevute via email, sollevo di nuovo il coperchietto sul retro facendo leva con l'unghia. Le mani mi tremano come se stessi disinnescando una bomba. Tiro fuori una pila e prontamente ne inserisco una nuova. Tiro fuori la seconda. Infilo l'altra, poi mi accorgo che l'ho infilata alla rovescia. Per poco non mollo tutto per terra. Sarah afferra il palmare prima che cada. Lo tiene mentre io giro la pila e la infilo nel verso giusto. Poi la guardo. «Pensi che ce l'abbiamo fatta?» «Non lo so. Accendilo.» Rimetto a posto il coperchietto, volto il gingillo e premo il bottoncino verde in basso. Quando lo schermo si accende, l'indicatore di carica non si è mosso. È esattamente come prima. Quasi vuoto. Merda. Un attimo dopo attacca a tremolare. La porzione scura copre all'improvviso tutta l'icona della batteria, sino in fondo. Ora è completamente carico. Mi lascio sfuggire un sospiro. «Papà, dovresti calmarti. Questa roba ti mette troppo in agitazione. È solo un computerino.» «Hai ragione.» «Fammi dare un'occhiata.» Glielo porgo e cerco di prendere fiato. Sarah comincia a battere sullo schermo con la penna. «Puoi farci anche dei graffiti», dice. «Ti faccio vedere?» «No. Niente graffiti.» «Papà, non sono il genere di graffiti che pensi tu. Guarda, puoi scrivere delle lettere in questa sezione dello schermo per richiamare delle informazioni. Vedi?» Richiama la rubrica degli indirizzi e scrive la lettera C in una finestrella in fondo allo schermo. All'improvviso la schermata salta alla se-
zione contenente i nomi che iniziano con la C. «Ho capito», le dico. Mi mostra come richiamare l'agenda e l'elenco delle «Cose da fare». «Questo ha persino l'e-mail, ma bisogna accendere il telefono», continua. «Perché non lo facciamo? Ora le pile sono nuove.» «No. Adesso no.» «Oh, insomma!» esclama, come se fossi un guastafeste. «È davvero forte. I ragazzi a scuola impazzirebbero se lo vedessero.» Ci scommetto. Si metterebbero a chiamare dei numeri a Londra lasciando messaggi per Joe, poi li richiamerebbero dicendo di essere Joe e chiedendo se ci sono messaggi. «Posso portarlo a scuola domani?» «No. E fammi un piacere. Non ne parlare con nessuno.» «Perché no?» «Per il momento deve restare il nostro segreto.» Mi guarda come per dire: «E perché dovrei farlo?» Una cosa così forte e lei non può parlarne con nessuno. Poi si stringe nelle spalle. «D'accordo», assente, restituendomelo. Torna ai suoi compiti. Si risiede sulla poltrona col libro in grembo e la replica di Star Trek, generazioni senza fine... «Sarah?» «Che c'è?» «Grazie. Non ce l'avrei fatta senza di te.» Per quanto cerchi di trattenersi, sulle labbra compare un sorriso radioso. «Figurati.» Mi siedo sul divano e osservo il piccolo marchingegno. Mi chiedo se Nick avesse il software e la base e se scaricasse i dati sul desktop. In questo caso, la polizia ce li ha già. Hanno sequestrato i suoi computer, sia quello di casa sia quello dell'ufficio. Sono sicuro che allo studio avranno fatto resistenza a fornire i dati archiviati sul computer. Se non aveva l'abitudine di scaricarli, l'unica copia dei dati immagazzinati nel palmare è nelle mie mani. Poggio i piedi sul tavolino e comincio a navigare con la penna. Mi ci vogliono parecchi minuti a scorrere la rubrica degli indirizzi. Ci sono quarantatré nomi e numeri di telefono, meno di quanto pensassi, conoscendo Nick e i contatti che aveva. Molti sono semplici nomi, senza indirizzo o altre indicazioni. Alcuni dei prefissi sono di San Diego. Riconosco il 415 di San Francisco. L'elenco del telefono mi rivela che gli unici due altri prefissi che com-
paiono nella rubrica sono di Manhattan e di Washington, DC. Riconosco alcuni nomi di avvocati della RDD di San Diego. Nick ha fatto delle annotazioni sotto «Varie» per alcune delle persone di altre città. Per la maggior parte si tratta di singole parole chiave: cause, autorizzazioni, fusioni e acquisizioni, affari governativi. Non conosco nessuno dei nomi contenuti in questi elenchi. Tranne l'annotazione relativa alla garanzia fatta dal dettagliante che gli aveva venduto il palmare, nella lista «Cose da fare» non c'è nulla. Ma il Blocco Note contiene quelli che sembrano degli indirizzi, tre, seguiti dalle lettere SF, NY, DC. Tre delle quattro città che compaiono nella rubrica. C'è anche un'altra annotazione separata, «Antiquities Bibliotecha», seguita da una serie di cifre, forse un numero di telefono estero. Me lo segno. A mezzanotte, con Sarah a letto da un bel pezzo, ho risolto buona parte del mistero. Chiamo alcuni dei numeri e i miei sospetti vengono confermati: corrispondono tutti alle diverse sedi della RDD nelle città indicate. Quello che mi lascia perplesso è che il palmare non contenga altri numeri. Nick conosceva almeno mille persone solo a San Diego. E nessuna compare nella rubrica. Non c'è niente riguardo ai tribunali di nessuna delle quattro città: nessun indirizzo o numero di telefono, nessuna udienza nell'agenda, solo qualche appuntamento con alcuni degli avvocati delle varie filiali dello studio. Il più vecchio di questi risale ai primi di aprile dell'anno scorso a San Francisco. Poi ci sono parecchi incontri, a New York e Washington, all'inizio dell'estate, e via proseguendo, per tutta la stagione. L'ultimo incontro è stato a San Francisco nove giorni prima che Nick venisse ucciso. All'inizio, sospetto che Nick si stesse solo esercitando con il palmare, riluttante a gettar via la vecchia agenda cartacea finché non si fosse impratichito con tutte le funzioni. Ma il suo vero scopo affiora con la scoperta di un altro nome. Una sola criptica annotazione, lo stesso giorno di ogni mese, il venticinque, alle undici del mattino. Accanto all'ora e all'appunto «Soldi per Laura» - c'è l'icona di un allarme sonoro. Nick non voleva dimenticarsene. Accanto, un'altra icona, come un foglio con un angolo ripiegato. Lo batto con la penna e si apre una nota: il nome di Laura, seguito dal cognome e nome della madre. Ci sono anche l'indirizzo e il numero di telefono. Questa non è una cosa che Nick avrebbe mai affidato a un'agenda o a una rubrica cartacea nel suo ufficio, dove occhi indiscreti avrebbero potuto
vederla. Laura dovrebbe avere ormai quasi quattro anni. È il frutto della breve relazione avuta da Nick con una giovane segretaria conosciuta fuori dello studio, nei mesi precedenti al suo incontro con Dana, quando il matrimonio con Margaret stava già andando a rotoli. Una storia finita male. La sera in cui Nick mi aveva parlato della bambina, era ubriaco. I suoi occhi si erano riempiti di lacrime di rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere. Aveva chiesto alla madre di sposarlo, ma lei aveva rifiutato, dicendogli che non aveva nessun obbligo nei suoi confronti. Avevano tenuto la cosa segreta. Lei non aveva mai cercato aiuto economico, ma Nick faceva visita alla bambina parecchie volte alla settimana, la sera, dopo il lavoro. E ogni mese c'era una busta con del contante. Mi aveva detto che sua figlia lo conosceva solo come lo zio Nick. Non ne aveva mai fatto parola con Margaret né con Dana. Non capisco perché lo avesse detto proprio a me. Forse perché era ubriaco, o forse per via della spietata lucidità che l'alcol concede ai falliti. Qualunque cosa fosse, quella sera ero diventato il suo confidente. Ma questo era Nick, in fondo: un giocatore d'azzardo pieno di talento e amore per il rischio, ostinato a percorrere a ogni costo una strada travagliata, irta di scelte infelici e costellata di dolore. 6 In battaglia viene chiamata «sindrome del superstite» e colpisce coloro che sono stati testimoni di un avvenimento traumatico e sono sopravvissuti per raccontarlo. Spesso queste persone si abbandonano ai sensi di colpa, anziché accettare la propria impotenza e ammettere la più dolorosa realtà, e cioè che le cose erano al di là del loro controllo. Dal giorno della morte di Nick, gli istanti che hanno preceduto l'omicidio continuano a scorrere nella mia mente come un videotape senza fine. Ma quello su cui mi concentro, il più insondabile, è stato il frutto di un istintivo opportunismo. Non è il fatto di aver rispedito a Nick il cliente e il suo caso. Metz mi aveva mentito a proposito del riciclaggio di denaro sporco e probabilmente anche su altre cose. Sospetto che Nick sapesse che affari trattava, quando lo aveva mandato da me. Quello che mi turba è una cosa molto più banale. È il fatto che quella mattina, sul marciapiede, io non mi sia sforzato di richiamare Nick. Ci
penso spesso, la sera prima di addormentarmi e in quelle interminabili ore che precedono l'alba, e rivedo i miei movimenti, li analizzo come un coreografo che rivede la sequenza di un balletto. A chiunque non porti questo peso, non avendo udito gli spari o visto le immagini di quella carneficina, potrebbe sembrare una cosa insensata, ma per me non lo è. Avevo urlato per chiamare Nick, ma l'autobus si era messo di mezzo. Potrei dare la colpa all'autista o al motore diesel, suppongo, o all'ente dei trasporti pubblici, addirittura al traffico in generale. Quando l'autobus era ripartito, e avevo visto Nick sul marciapiede accanto a Metz, mi ero bloccato. Avrei potuto chiamarlo di nuovo. Se lo avessi fatto, magari alzando il suo palmare per farglielo vedere, Nick avrebbe di sicuro attraversato la strada. Si sarebbe trovato insieme a me, sul lato opposto, quando quegli uomini hanno sparato. Se non fosse stato per la mia inerzia, Nick sarebbe ancora vivo. Perché non l'ho chiamato? Mi sono posto questa domanda centinaia di volte e, ogni volta, la risposta è sempre la stessa: per lo stesso motivo per cui tutti noi ci teniamo alla larga dalle persone che non ci piacciono, per il desiderio meschino di evitare situazioni scomode. Avendo rifiutato il caso di Metz, era più comodo evitare d'incontrarlo. Così, mi ero infilato il palmare in tasca andandomene per la mia strada. Non potevo sapere, in quel momento, che un'omissione apparentemente insignificante - la decisione di non seguirlo per non incontrare Metz - sarebbe costata la vita a Nick Rush. Sono sicuro che qualunque psichiatra mi direbbe che non ho colpe. Ma un avvocato, un uomo avvezzo ad acuire i sensi di colpa, potrebbe vedere la cosa diversamente, così come faccio io, e considerarla una causa immediata di morte. Sì, sindrome del superstite, forse. Eppure sovrasta ogni altro motivo che abbia condotto alla morte di Nick, perché era l'unico elemento su cui io avrei potuto influire con il mio comportamento. Perciò, finché non saprò chi lo ha ucciso e perché, sono certo che non mi darà pace. Prima di contattare Dana, aspetto qualche giorno, un lasso di tempo rispettoso, e poi la chiamo in un tardo pomeriggio. È maggio, e il numero sarà anche nuovo, ma non il sistema telefonico. È una di quelle centraline a controllo vocale che offrono delle opzioni a chi chiama. «Se volete parlare con Nick, premete uno. Se volete parlare con Dana, premete due.» L'aspetto lugubre della vicenda è che la voce usata come guida è quella di Nick.
Una voce dall'aldilà. Premo il numero corrispondente a Dana e attendo che sollevi la cornetta. Risponde la voce di un'altra donna, probabilmente una cameriera. Nick mi aveva detto che Dana ne aveva assunta una. Sento un accento messicano. «Vedo se la signora è in casa. Chi parla?» «Paul Madriani.» «Un momento, prego.» Il telefono passa alla musica da camera, mentre lei mi mette in attesa. Dopo pochi secondi, gli archi di Mozart vengono interrotti. «Salve, Paul. Mi fa piacere sentirla.» La voce di Dana mi giunge appena affannata. La immagino mentre si scosta dagli occhi i biondi capelli da fata con una scrollata di capo. «Volevo parlarle, ma preferirei non al telefono. Avrebbe tempo di fare un salto a casa mia?» «Certo. Quando?» «Ce la farebbe stasera, diciamo alle sei e mezzo, sette?» Controllo l'agenda. «Perché no?» «Bene. Allora la aspetto.» E riattacca. Dal mio ufficio le Cays sono a un tiro di schioppo, una manciata di chilometri da Coronado, lungo il Silver Strand. È uno dei luoghi più ambiti dove vivere: l'unico vicino di casa, a nord, è una base di addestramento della marina, parecchi chilometri più su, lungo la spiaggia. È comodo per chi deve andare avanti e indietro dalla città. Alcune delle case più recenti, in gran parte ristrutturate, arrivano a costare anche fino a cinque milioni di dollari a botta. Quello che rende la zona così costosa non è solo la vista che si gode sulla baia, ma il fatto che sia uno degli ultimi posti rimasti in California in cui si può avere un molo privato dietro casa. Le Cays offrono un accesso diretto al porto e quindi al Pacifico, e alcuni degli yacht privati lì ormeggiati sembrano piccole navi da crociera. Dana ha lasciato il mio nome alla guardiola della sorveglianza sullo Strand e, quando arrivo, mi fanno subito passare. La casa di Dana si trova sull'isola di Green Turtle Cay. Sono già stato qui alcune volte, per motivi mondani, l'ultima in occasione di una raccolta di fondi dell'ordine degli avvocati per una causa che non ricordo. Attraverso il ponte e giro a sinistra. La casa è protetta dalla baia da un'altra isola artificiale che si chiama Gran Caribe Cay. Quando mi fermo da-
vanti alla casa, sta calando il crepuscolo. La vista è una distesa di luci sull'acqua, mentre il tramonto si riflette sui grattacieli come un'immagine della mitica città di Oz, e le case occhieggiano tremule sulle colline. Immagino sia uno dei motivi per cui Nick ha acquistato questa casa, oltre al fatto che Dana poteva prendere il sole in bikini sul ponte della loro barca nella stagione estiva. Una volta, mi disse che gli piaceva gettare l'ancora sotto le gigantesche portaerei ormeggiate nella base navale sul lato nord dell'isola e rimanere a guardare Dana che si slacciava il reggiseno per prendere il sole a pancia in giù sul ponte della barca. Nick si eccitava nel vedere i marinai che sbavavano oltre i parapetti. Che gusto c'è ad avere una moglie da trofeo se non puoi esibirla? Scendo dall'auto e chiudo a chiave la portiera. Quando mi volto, vedo Dana che mi aspetta, sull'uscio. È minuta, un metro e sessanta d'altezza. Senza scarpe, indossa calze di nylon nere e un abitino nero che le sale ben sopra le ginocchia per via delle braccia alzate oltre la testa, le mani puntellate contro gli stipiti, la figura snella incorniciata dalla luce della porta. Non deve pesare più di cinquanta chili. Dana mi ricorda qualcuna delle stelle del cinema che mi è capitato d'incontrare: grandi sullo schermo finché non le vedi in carne e ossa. Molte di loro, in realtà, sono piccoline. Il segreto del loro magnetismo sta nelle proporzioni, compresi i minuscoli dettagli di un volto perfettamente cesellato. Dana ricorda un po' Meg Ryan: lineamenti minuti, un sorriso in grado di far sciogliere le pietre. Lo punta su di me mentre imbocco il vialetto che porta alla casa. Le mani restano puntate contro gli stipiti mentre getta la testa di lato per scostarsi i capelli dagli occhi. «Sono così contenta di incontrarla», dice. «L'ho vista al funerale, ma non me la sentivo di affrontare tutta quella gente.» «La capisco.» Mi prende per una mano e mi dà un bacio leggero sulla guancia. «Non so come farei senza gli amici», dice. «Lei e Nathan.» «Sarebbe il signor Fittipaldi?» «Mmm.» Annuisce. «Non può immaginare quanto sia stato buono con me.» «Da quanto lo conosce?» «Non lo so. Un anno, forse. È nella Commissione per i beni artistici insieme a me.» «È un membro della commissione?» «Sì. Molto influente.» Fa strada dentro casa e chiude la porta alle nostre
spalle. «Nathan ha gallerie da tutte le parti, a Beverly Hills, a New York, in Europa.» Mi guida verso il soggiorno. «Ho visto il suo biglietto da visita», le dico. «Cosa fa, esattamente? Oltre a essere un amico, intendo dire.» Mi guarda al di sopra della spalla, e mi rivolge un sorriso sensuale come per dirmi che anch'io potrei entrare a far parte di quel gruppo. Diventare suo amico. «Si occupa di acquisizioni di opere d'arte per clienti importanti. Collezionisti privati, grossi musei, quel genere di cose.» «Sembra davvero notevole.» «Lo è», conferma lei. «Ma non parliamo di questo, adesso.» Allora passo a un altro argomento. «Come sta?» «Non se lo può immaginare. Uno non può capire, se non ci si trova.» Poi mi guarda e si porta una mano alla bocca. «Oh, scusi!» «Per cosa?» «Dimenticavo che lei ha perso sua moglie.» Non capisco se sia un modo maldestro per ricordarmi che sono disponibile. Con Dana non si sa mai. «Nikki è morta da parecchi anni.» «Nikki. Si chiamava così?» Annuisco. «Comunque sono stata indelicata», riprende. «È sempre così, non faccio che pensare a me stessa. Non ci sono del tutto con la testa. Nick me l'aveva detto. Di cosa è morta? L'ho dimenticato.» «Di cancro.» «Giusto. E ha una figlia?» «Sarah.» «Quanti anni ha?» «Quindici.» «Quindici. Ora ricordo», dice. «Che età. E scommetto che ruba il cuore a tutti i ragazzi. Deve farmela conoscere, un giorno.» «Un giorno.» «Immagino sia un po' diverso. Voglio dire, Nick è stato ucciso, sua moglie invece è morta per cause naturali. Ha avuto il tempo per prepararsi.» Dana ha di nuovo cambiato marcia: forse è un'indicazione del suo stato mentale. «Non che questo possa attenuare il dolore, ma così... è stato traumatizzante, oltre a tutto il resto. Un minuto è qui, un minuto dopo non c'è più. E i giornalisti. Non si può capire cosa significhi finché non ci si trova ad affrontarli. Non hanno rispetto per nulla. Uno di loro è arrivato
addirittura a noleggiare una barca per scattare delle foto dal nostro pontile. La polizia lo ha trainato via.» «Ne ho visti un paio al cancello, parcheggiati con le macchine», la informo. «Sono delle bestie. Be', se non altro, le troupe televisive se ne sono andate. Non potevo neppure uscire con la macchina. Avevano bloccato l'ingresso. L'associazione dei residenti ha dovuto chiamare la polizia due volte perché li facesse sgombrare. È un incubo. Continuo ad aspettare che Nick compaia da quella porta. Ma non mi sveglio. L'incubo continua.» «Ha ragione. Non riesco a immaginarlo.» «Non so cosa fare.» Alza lo sguardo su di me. Io non ho risposte, ma quando Dana si avvicina, mi mette le braccia intorno al collo e posa la testa sulla mia spalla premendo il corpo contro il mio, è evidente che lei ce l'ha, una risposta. Sta provando un nuovo paio di spalle. Effluvi del suo profumo, legno di sandalo e gelsomino, si levano seducenti. «Qualcuno lo ha ucciso, Paul. E io non so perché.» Scuoto la testa. «Qualcuno lo ha ucciso, ma è stato un incidente.» «Un incidente.» Inclina la testa all'indietro per guardarmi negli occhi. «Sono sicuro che, chiunque sia stato, non voleva sparare a Nick.» Non replica. Di certo questo pensiero dev'esserle già passato per la mente. I giornali hanno puntato sulla teoria che l'obiettivo fosse Metz. «Non ho mai pensato a questo come a un incidente», mormora poi. «Nick si è soltanto trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.» Non sono sicuro che questo la consoli, ma ci stacchiamo e lei si sposta, evidentemente presa da nuovi pensieri. Mi accompagna verso un tavolo su cui è stato preparato un vassoio d'argento con una caffettiera e due tazze di porcellana. Mi versa il caffè. «Zucchero?» «No, grazie.» «Panna?» Scuoto la testa. «Si accomodi», m'invita. Mi siedo sul grande divano imbottito. Dana mi porge una tazza, poi posa la sua su un tavolino vicino alla poltrona e si siede. Piega una gamba sotto il sedere, così che l'abito sale sopra il ginocchio, rivelando una smagliatura nella calza. Lei la vede e si affretta a coprirla con una mano, sorridendo...
quel sorriso grazioso, da scolaretta, che ha brevettato. «Devo essere un disastro», pigola, mordendosi il labbro inferiore. «Sta benissimo.» «Lei è troppo gentile», dice, passandosi una mano tra i capelli nel tentativo di aggiustarli. Questo gesto riesce solo a scompigliarli un po' di più. Abbassa lo sguardo sul corpino del vestito per accertarsi che ogni cosa sia al suo posto. «Sono un disastro e lo so benissimo. Da quando è successo, non riesco più a dormire.» Gli occhi arrossati confermano. Il vestito è stropicciato come se fosse rimasta sdraiata in attesa del mio arrivo. «Immagino che farei meglio a spiegarle perché le ho chiesto di venire. Lei era uno dei migliori amici di Nick.» «Ero un suo amico.» «No», ribatte lei. «Non era solo un amico. Era un buon amico. E Nick non ne aveva molti. Lo so. I colleghi dello studio non socializzavano con noi. Oh, sono venuti tutti al funerale, ma fuori dell'ufficio non volevano avere nulla a che fare con Nick.» «Non è quello che mi ha detto lui. Sosteneva che alcuni dei soci volevano farlo entrare nel consiglio d'amministrazione.» «Nick sognava.» Dana prosegue, ignorando la mia protesta. «Sa, erano tutti grandi esperti in diritto societario, illustri civilisti.» Farfuglia appena pronunciando l'ultima parola, e io mi chiedo se per caso non abbia bevuto un po' mentre mi aspettava. «Sa, gli avevano fatto grandi promesse perché andasse con loro e poi non le hanno mantenute. Adam Tolt ha srotolato il tappeto rosso per convincerlo. Gli ha detto che lo avrebbero spostato alle cause civili, gli avrebbero fatto fare carriera. E quando Nick è arrivato là, ha scoperto che erano tutte bugie. I soldi che lui gli faceva guadagnare se li prendevano, ma con lui e i suoi clienti non volevano aver nulla a che fare. Con lei, invece, è diverso. Lei era suo amico.» «Forse dipende dal fatto che avevamo lo stesso tipo di clientela.» «Solo che lei non si occupa di casi di droga», precisa Dana. Quando alza lo sguardo dalla tazza di caffè alla mia faccia, capisce di avermi colpito. «Oh, scusi», si rammarica. «Non intendevo in quel senso. Anzi, la rispetto perché si è dato dei principi. Nick non c'è mai riuscito. Io glielo dicevo sempre che poteva fare molto meglio, ma lui non mi ha mai creduto. Lo so cosa sta pensando. Sta pensando che se avesse accettato il caso, il caso del signor Metz, Nick sarebbe vivo e lei sarebbe morto. Non dovrebbe pensarlo.» Evidentemente, però, lei lo ha fatto.
«Non deve colpevolizzarsi», prosegue. «Semmai sono io che dovrei sentirmi in colpa.» «Lei?» Annuisce. «Sono stata io a portare Metz da lui. Sono stata io la causa della morte di Nick.» «No. Questo non è vero.» «Oh, sì. Se non lo avessi conosciuto alla commissione, non sarebbe successo niente.» Come faccio a dirle che la polizia è convinta che Nick fosse in affari con quell'uomo? «Si sarebbe rivolto a un altro avvocato e ora un'altra povera stupida sarebbe vedova.» Si mette a piangere. Solo un po'. «Accidenti. Mi ero ripromessa di non farlo.» Con un tovagliolo intercetta una lacrima prima che arrivi al mento. «Nick faceva una vita tremenda», si lamenta. «Solo lavoro. Non aveva altro.» «Aveva lei.» «Già. Me.» Dana si alza dalla poltrona e mi volta le spalle. Non capisco se sta cercando di ricomporsi o se sta pensando a cosa dire. «Sapevo che si sarebbe sentito in colpa per quanto è successo», riprende. «E io... io volevo dirle che non c'è motivo... non c'è nessuna ragione perché lei si senta così.» Continua a rivolgermi la schiena mentre parla. «Pensavo che fosse un uomo per bene.» Si stringe nelle spalle e si volta verso di me, la ragazzina che mi guarda come una fatina affranta. «Il signor Metz, voglio dire. Era sempre così gentile. Parlava della sua famiglia. Aveva dei nipotini, lo sapeva?» Molti di noi ce li hanno, se vivono abbastanza a lungo. Scuoto la testa. «Com'è possibile che qualcuno gli abbia fatto una cosa simile? A lui e a Nick?» «Non lo so.» «Continuo a ripetermi che non potevo saperlo, ma non serve. Mi sento comunque responsabile.» Si lascia cadere accanto a me sul divano con un sospiro. Le chiedo se si è fatta aiutare da qualcuno, magari uno psicologo, qualcuno che per mestiere sappia come si elabora il lutto. «Al momento, dubito che servirebbe a qualcosa.» «Non lo può sapere, se non prova. Ha amici qui nel quartiere? Qualche amica?» «Non ho intenzione di cadere nel cliché della vedova malinconica.»
Desidero ardentemente una di quelle poltrone, lontano da lei. Penso che probabilmente in questo momento i giroscopi emotivi di Dana siano fuori uso. Eppure me ne resto seduto lì sul divano, accanto a lei. Che tiene la mia mano fra le sue. «Io cerco di farmi coraggio», dice, «e guardi un po' che succede.» Sorride, ed entrambi scoppiamo a ridere. «Volevo vederla perché la polizia sostiene che lei è stato l'ultima persona a parlare con Nick.» «Suppongo che sia così.» «Le ha parlato di me?» chiede. Mi guarda con occhi ammaliatori, alla ricerca di un sollievo che mi sfugge. E poi capisco. Che stupido. Vuole sapere se lui la amava, e se ne ha parlato con me. Comincio a chiedermi se lo conoscesse davvero bene. Nick era il tipo capace di parlare di un sacco di cose con gli altri uomini, compreso il fatto di fare sesso con la moglie appeso a un lampadario, ma non avrebbe mai confidato a nessuno i dettagli sentimentali di una relazione amorosa. Ci metto qualche secondo a capire la domanda. E, in quel lasso di tempo, mi accorgo che lei lo prende per un «no». «Parlava sempre di lei», corro ai ripari. «Era la cosa più importante della sua vita.» «Davvero?» «Assolutamente sì.» «Le ha parlato di me quella mattina?» «In che senso?» «Ha fatto il mio nome?» «Certo. Più volte.» «Cosa ha detto?» «Che lei era la cosa migliore che gli fosse capitata nella vita.» Potrà anche averlo detto considerando la cosa dal didietro, descrivendo il rotondo panorama scolpito del suo culetto sodo, ma, in un modo o nell'altro, il concetto è essenzialmente questo. «Davvero?» Annuisco e levo tre dita come uno scout, augurandomi che non marciscano improvvisamente cadendo davanti ai suoi occhi. Prima che possa abbassare la mano, lei la stringe fra le sue. Restiamo così per un paio di minuti. Io che fisso il tavolino, la tazza di caffè, tutto fuorché gli occhi azzurri di Dana. Lei vuole qualcosa. Non sono certo se si tratti d'informazioni o consolazione. «Sto cercando di capire perché è successo», mi dice. «Lei ha conosciuto
il signor Metz. Me l'ha detto Nick. Perché qualcuno avrebbe dovuto ucciderlo?» Dana sta entrando in un territorio proibito, un argomento del quale non posso discutere. Se lo facessi, e lei ripetesse le mie parole alla polizia, mi metterebbero con le spalle al muro e mi torchierebbero ben bene, sostenendo che avevo rinunciato al segreto professionale. Col cliente morto e nessun altro interesse da difendere, le mie rivelazioni equivarrebbero a una rinuncia. «Non lo so.» «Deve averle detto qualcosa. So che aveva a che fare con certi suoi affari giù in Messico.» «Gliel'ha detto lui?» Annuisce. «Prima di andare a parlare con Nick. Un giorno, dopo la commissione, abbiamo parlato dei suoi problemi.» «E cosa le ha detto?» «Non molto. Mi ha detto che non aveva fatto niente di male, ma che aveva bisogno di un avvocato, e così gli ho detto di Nick. Di cosa si trattava? Devo saperlo.» «Non posso dirglielo.» «Perché no?» «Senta, lo saprà presto. La polizia troverà le persone che hanno ucciso Nick e allora uscirà fuori tutto. Sia paziente.» «Mi dice di essere paziente. Io ho perso mio marito e voglio sapere il perché. Era coinvolto in qualcosa?» «Cosa glielo fa pensare?» In quel momento capisco che si è pentita di averlo detto. «Niente. Così, è che in questo momento non sono più io.» Non è vero. Questa è la Dana che conosco. «È solo che è difficile essere paziente. Aspettare, senza sapere cosa è successo.» «Sì. Lo so.» «Quindi non le ha detto nulla che potesse farle capire. Metz, intendo dire.» Scuoto la testa. È una menzogna, ma al momento è quanto di meglio io possa fare. Che mi creda o no, lo accetta. «C'è un altro motivo per cui l'ho chiamata», aggiunge. «Devo parlarle anche di un'altra cosa.» «Cosa?»
«Io... io temo che possa sembrarle terribilmente volgare», sussurra. «Provi.» «Si tratta dell'assicurazione sulla vita di Nick.» La guardo, perplesso. «Voglio dire, se Nick aveva una polizza sulla vita, con lo studio, il fatto che gli abbiano sparato, che sia stato assassinato... io... io non sono sicura di cosa devo fare.» «Vuole sapere se questo può in qualche modo influire sulla sua possibilità di riscuotere l'indennizzo?» Annuisce. Ecco Dana l'indifesa, occhi azzurri e pelle di seta, l'incarnato diafano. Seduta accanto a me che mi stringe la mano. «Aveva un'assicurazione?» «Credo di sì. Una volta me ne ha parlato. Credo che si chiami polizza key... qualcosa.» «Key-man?» «Esatto. Sa di cosa si tratta?» È una cosa che uno studio come la RDD potrebbe avere. Una forte assicurazione sulla vita di ognuno dei soci in modo che, in caso di morte, lo studio non sia costretto a rilevare la quota del defunto. «Non è esattamente il mio campo», le dico. «Lo so, ma di lei mi fido. Lei era amico di Nick.» Ora Dana brandisce questo fatto come una spada. «Ha una copia della polizza?» Scuote la testa. «Nick aveva una cassaforte, una cassetta di sicurezza?» «La cassaforte se l'è presa la polizia», risponde. «Avevamo una cassetta di sicurezza in banca, ma rimarrà sigillata finché la polizia non l'avrà esaminata. Non posso neppure prendere i documenti della casa. L'ipoteca. Per vedere quanto dobbiamo. Quanto mi manca al riscatto.» Sarà anche indifesa, ma non è stupida. «Quindi, niente polizza?» Scuote di nuovo la testa, guardandomi, quasi senza fiato, in attesa di risposte. «Devo sembrare senza cuore, vero? La vedova avida.» «Se c'è una polizza e lei è la beneficiaria, è un suo diritto.» «Non l'ho detto a nessun altro, ma Nick mi ha lasciata... be', mi ha lasciata non proprio in una buona situazione», confessa. «Finanziariamente, intendo dire.» «Non lo sapevo.»
«Nessuno lo sapeva, me compresa», ribatte pronta. «Credo sia colpa di qualche investimento che aveva fatto. Sul giornale ho letto che aveva addosso quattromila dollari in contanti, quando è stato ucciso. Non ci credo. Nick mi ha detto che il mercato era crollato e che avevamo perso un sacco di soldi. La casa non è ancora pagata, questo lo so. E dovrò vendere la barca. Era l'orgoglio di Nick. La sua gioia. Dovrò cercare qualcosa di più modesto. Dove vivere, cioè. Sempre che mi resti qualcosa di cui vivere. Lei sa com'è fatto Nick. Vivere sul filo del rasoio.» Ne parla come se fosse ancora vivo. «E finché era lui che si occupava di tutto, io non ho mai fatto domande. Ma ora...» «Capisco.» «È per questo che l'ho chiamata. Sapevo che avrebbe capito. E Nick si fidava di lei.» Dana sa come rigirare il coltello nella piaga. «Posso fare qualche telefonata», le propongo. «Oh, grazie! Non sa quale sollievo sia poter affidare tutto questo a qualcun altro.» La mia espressione suggerisce che non è proprio quello che ho detto. Dana sceglie di ignorarla. «Avere qualcuno che sa cosa fare...» All'improvviso mi getta le braccia al collo e si avvicina, il volto caldo premuto contro il mio petto, cosicché sono costretto a ricorrere alle mani per non cadere all'indietro sul divano. «Non so proprio cosa farei senza di lei», sussurra. Il mio pensiero in questo momento non è quello che mi sarei aspettato, data la situazione. Riguarda la considerazione di Dana a proposito di Sarah e dei ragazzi, e la certezza che Dana abbia affinato queste sue arti fin da quando aveva quindici anni. Prendo mentalmente nota di parlarne con mia figlia. 7 La mattina seguente, entrando in ufficio, trovo Harry intento a scorrere i foglietti rosa dei messaggi telefonici, un occhio rivolto al televisore sintonizzato su uno dei talk-show del mattino. Indossa ancora la giacca, e la valigetta è posata a terra accanto ai suoi piedi, quindi dev'essere appena arrivato. Ci sono alcuni messaggi per me sul banco della reception. Li prendo. Sullo schermo, stanno intervistando uno degli opinionisti della rete, un
piccoletto in maniche di camicia e bretelle, che si sforza di apparire come una persona comune nonostante la camicia inamidata da tremila dollari. «Ce la sta proprio mettendo tutta per distorcere la notizia», commenta Harry. Al mio socio non piace quello che oggi passa per giornalismo, specialmente quello televisivo. Secondo lui, non fanno che adulare i politici più abili nel mentire. Ormai in politica l'etica non esiste più e l'inganno si chiama capacità comunicativa. Non è più la menzogna che conta bensì il modo in cui viene raccontata. Ora abbiamo una segretaria che funge anche da archivista, ma questa mattina non è ancora arrivata. Marta lavora da noi sei ore al giorno conciliandole con gli studi: filtra i messaggi telefonici, si occupa della corrispondenza e tiene in ordine i fascicoli in modo da evitare che anneghiamo sotto una valanga di fogli sparsi. «Allora, com'è andato l'incontro con la vedova?» Harry era nel mio ufficio quando ho chiamato Dana per dirle che andavo da lei. «Bene.» «Cosa voleva?» «Qualche consiglio», rispondo, scorrendo i messaggi. Ce n'è uno di Nathan Fittipaldi. Forse vuole chiedermi qualcosa per Dana. «Non una spalla su cui piangere?» chiede Harry. «Anche.» Mi affretto a cambiare argomento. Lo metto al corrente delle poche informazioni ricavate dal palmare di Nick. «Andiamo a parlare in ufficio», propone Harry. Preme sul telecomando il tasto di spegnimento e lo schermo si oscura, poi ci dirigiamo nel mio ufficio, chiudendo la porta. Gli racconto ciò che ho scoperto. «Ho fatto quello che mi hai chiesto», m'informa lui. «Sai che queste informazioni si possono trovare quasi tutte in rete.» Sta parlando delle registrazioni societarie presso l'ufficio della segreteria di Stato, nella capitale. «Fortunatamente Effie si è fermata fino a tardi e quindi ha potuto controllare.» Harry si ostina a non voler usare il computer, neppure come macchina per scrivere. Nel suo arcano mondo, le tastiere sono solo per segretarie e dattilografe. Nessun avvocato che si rispetti ne toccherebbe una. Io gli ripeto sempre che è un dinosauro. «Si chiama Marta, non Effie.» «A me piace pensare a lei come Effie.» Ultimamente a Harry è presa la
mania dei noir, dei vecchi gialli di Dashiell Hammett e Raymond Chandler, un'epoca in cui tutto era in bianco e nero. Ha preso a chiamare la nostra segretaria come quella di Sam Spade nel Falco maltese. Uno di questi giorni, arriverò in ufficio e troverò i nomi SPADE E ARCHER scritti a lettere nere sulla nostra finestra. «Per me va bene, purché lei non si offenda. Ricordati che c'è una legge riguardo alle molestie sul lavoro», lo metto in guardia. «Lei lo trova spiritoso», ribatte. Marta è una giovane di origine ispanica, di bassa statura, con un buon senso dello humour, un carattere affabile e un attaccamento al lavoro che la spinge a sgobbare sedici ore al giorno tra scuola, ufficio e due bambini. È desiderosa di imparare e ha preso in mano la gestione dell'ufficio, trovando persino lo spazio per l'archivio in un bungalow qui vicino. «Si è collegata alla rete», prosegue Harry. «Sta diventando brava.» «Potrebbe insegnarti qualcosa.» Lui mi lancia un'occhiata come a dire: «Sì, nei tuoi sogni». «Siamo riusciti a trovare i documenti societari della Jamaile Enterprises. Come ha detto la polizia, si tratta di una società in accomandita. I documenti sono stati presentati più o meno un anno fa. Indicano il tuo signor Metz come socio accomandatario, mentre Nick risulta essere uno dei funzionari. Pare che Metz avesse la responsabilità operativa; forse Nick era un investitore. Ma non è del tutto chiaro.» Mi chiedo se non sia questo l'investimento sbagliato di cui mi ha parlato Dana, il motivo per cui adesso è senza un soldo. «Ci sono altri nomi sui documenti?» «Uno. Una certa Grace Gimble», risponde Harry. Guarda il taccuino che tiene in mano e si stringe nelle spalle, come se il nome non gli dicesse nulla. «Risulta sull'elenco dei dipendenti come segretaria.» «Dove aveva sede la società?» «Il recapito indicato è una casella postale.» Mi passa un foglietto su cui è annotato l'indirizzo. «Puoi star sicuro che la polizia è già stata là con un mandato di perquisizione», commento. Lui annuisce. «Forse uno dei soci potrebbe saperlo.» Continuo a scorrere distrattamente i miei messaggi. «Altro?» «Le solite cose. Articoli di statuto in cui si dichiara lo scopo della società.» Alzo lo sguardo.
«Come ha detto la polizia: import-export. Quello e ogni altra attività legale che avessero intenzione di condurre. Le solite formule prese pari pari dai codici.» «Cioè?» «Sono andato alla biblioteca legale e ho chiesto loro di fare una ricerca con Lexis-Nexis su Grace Gimble.» È un programma che ancora non abbiamo disponibile sul computer dell'ufficio. «Abbiamo trovato un paio di G. Gimble, nessuna Grace, e senza altre informazioni non possiamo sapere se sia la persona giusta.» «Che ne pensi?» gli chiedo. «A proposito della donna?» Annuisco. «Potrebbe essere una segretaria, qualcuno dello studio. Una firma di convenienza utilizzata come prestanome quando hanno costituito la società.» «L'ho pensato anch'io.» «Vuoi che controlli? Che chiami lo studio?» «No. Aspettiamo. Non vorrei ritrovarmi a fare le stesse domande che ha fatto la polizia.» Harry riflette su questo. «Perché Nick non te ne ha parlato? Visto che eravate tanto amici...» Mi guarda, con quel cinico scintillio negli occhi. «Voglio dire, se era in affari con Metz, cosa c'era da nascondere? A meno che non stessero importando merce di contrabbando.» «Non ci pensare nemmeno», ribatto. «Un avvocato come Nick vede un sacco di persone nel giro di un anno. Potrebbe aver parlato con Metz per telefono, firmato e spedito i documenti costitutivi senza neppure vederlo di persona.» «Già», concorda Harry. «Nick aveva a che fare con così tante società da non ricordarsele tutte.» Non ha tutti i torti. «Ne hai parlato con lei?» Harry si riferisce a Dana. Scuoto il capo. «Perché no?» «Non è capitata l'occasione.» Ride. «Era troppo occupata a disfarti il nodo della cravatta e a giocare con la tua cintura?» Lo guardo. «Non me lo dire. Lo so. Non ho rispetto per chi è in lutto.»
Taccio, facendo in modo che la frase suoni come un'enunciazione di fatto. «Cosa voleva?» «Alcune informazioni su una polizza assicurativa.» «C'era un'assicurazione?» Le sopracciglia di Harry salgono di un gradino. «Non lo sappiamo.» «Forse tu non lo sai», puntualizza Harry. «Ma io ho il presentimento che la ex signora Rush lo sappia, anche se questo apre un'altra questione.» «Quale?» «Perché lo ha chiesto a te? Tu ti occupi di cause assicurative quanto Nick si occupava di farfalle.» «Pensa di potersi fidare di me.» «E può fidarsi?» Harry vuole sapere se sono interessato a qualcosa di più degli aspetti legali. «Mi ha chiesto di cosa avevamo parlato Nick e io quella mattina.» «Ah. E tu gliel'hai detto?» «Quello che ricordavo. Non tutto.» «E tra un ricordo e l'altro è venuta fuori la questione dell'assicurazione?» «Già.» «Che tipo di polizza è?» «Te l'ho già detto. Non sappiamo neppure se ci sia una polizza.» «Lei non ne ha una copia?» insiste Harry. Scuoto la testa. «Non me lo dire. Lo studio aveva stipulato una polizza key-man su di lui?» Harry è un tipo sveglio. «Se c'è una polizza.» Scoppia a ridere, il tipo di risata che riserva alle cose sciocche fatte dagli sciocchi. «E tu le hai detto che saresti andato allo studio a informarti?» «Qualcuno deve pur farlo. Nick l'ha lasciata in difficoltà economiche. E poi, ho anche altri motivi», aggiungo. «Spero che riguardino un onorario.» «Non è detto.» Harry mi guarda. «Non le avrai promesso di lavorare gratis?» «Non le ho parlato di onorari. Il problema è che Nick mi ha raccontato alcune cose che non posso rivelare. Riguardano altre persone. Persone innocenti che potrebbero essere trascinate in questa vicenda in maniera sgradevole.» Il pensiero di Laura e sua madre con i giornalisti accampati da-
vanti alla porta di casa non è un'immagine di cui mi piacerebbe essere responsabile. È il motivo per cui non ne ho parlato con la polizia. Oltre al fatto che Nick mi aveva rivelato il suo segreto perché si fidava di me. «Anche tu dovrai fidarti di me. C'è un motivo. Un valido motivo.» Guardo Harry. Lui ricambia lo sguardo, poi annuisce. «Nick ha fatto qualche investimento sbagliato», gli dico. «Già. In ex mogli.» «Ha commesso anche altri errori.» Harry mi guarda e capisce che è questo l'argomento di cui non posso parlare. «È una cosa che ti sta molto a cuore?» «Sì.» «Va bene. D'accordo. Di cosa hai bisogno?» «Grazie, Harry.» 8 La Rocker, Dusha e DeWine è uno dei più antichi e prestigiosi studi legali della città. Nessuno ricorda quando sia morto Jeremiah Rocker, e la fotografia di James Dusha appesa nell'atrio ritrae un distinto signore in panciotto e colletto inamidato che guarda l'obiettivo da dietro un pincenez. Il nome dello studio potrà anche essere vecchio, ma il loro piano aziendale è decisamente dinamico. Negli ultimi anni hanno fagocitato due altri grossi studi legali e aperto filiali a San Francisco, New York e Washington. Si sono avvicinati ai centri del potere politico ed economico, e circola voce che siano in cerca di altre prede, sempre con un occhio rivolto verso persone che hanno contatti con grosse aziende. Lo studio è in primo piano sulla scena politica. Qualche anno fa, la RDD ha guidato l'assalto al Congresso per una legge che in seguito ha preso il nome di Legge di riforma delle azioni legali societarie, un'iniziativa furbesca che strizzava l'occhio all'odio diffuso verso le grosse multinazionali, agitando la bandiera delle riforme. Questa mascalzonata ha alimentato una considerevole recessione, anche se dai profitti intascati dalla RDD non si direbbe. La legge conteneva una clausola nota come «porto sicuro» grazie alla quale fiscalisti e avvocati potevano fingere di non vedere le frodi palese-
mente commesse dai loro clienti, intascando nel frattempo generosi onorari. In questo modo, gli avvocati e i fiscalisti potevano evitare responsabilità civili e penali, mentre le aziende rubavano miliardi di dollari agli ignari investitori. Nel giro di quattro anni, grosse società per azioni hanno cominciato a cadere come castelli di carta, buttando decine di migliaia di persone sul lastrico e trasformando i piani di pensionamento in montagne di carta straccia. Ovviamente la RDD non poteva essere ritenuta responsabile di nulla. Godevano dell'immunità legale del Congresso. La RDD è maestra in questo gioco. Si sa che hanno fatto pressioni per far approvare le leggi che creavano un reato per poi rappresentare le parti lese in un'azione legale di gruppo. Che le vittime abbiano recuperato tre centesimi per dollaro, appena sufficienti per pagare le stratosferiche parcelle degli avvocati, non li turba minimamente. Lo studio conta più di trecento avvocati e un numero incalcolabile di assistenti, segretarie e passacarte incatenati ai remi per mantenere la grande nave del commercio sempre sulla rotta giusta, quella del profitto. Pochi membri dell'ordine degli avvocati e certamente nessuno alla RDD impallidiscono all'idea che la giustizia, sempre che esista, sia un semplice sottoprodotto del guadagno. Tutto questo traspare dall'indirizzo dello studio e dai raffinati arredi delle aree destinate al pubblico. La RDD occupa gli ultimi piani di un grattacielo sul lungomare con vista sulla baia. Non è un segreto che lo studio, proprietario del resto dell'edificio, lo affitta in attesa di assorbire tutti i concorrenti e riempire anche i piani bassi. La suite dirigenziale è al quattordicesimo piano. Un tappeto persiano lungo quanto la pista di decollo dell'aeroporto di Los Angeles copre la zona della reception. Un'intera generazione di bambini deve aver perso la vista deformandosi le dita in qualche buio laboratorio del Medio Oriente per annodare tutta quella lana. Una grande scultura di bronzo raffigurante due balene, madre e cucciolo, poggia su un piedistallo al centro della stanza, a indicare la sensibilità dello studio verso la maternità e l'ambiente. Per non irritare lo spirito mercantile, dipinti a olio di bastimenti, alcuni con le vele spiegate, punteggiano le pareti illuminate da faretti alogeni degni di un museo. Niente di tutto questo sciupa la vista indisturbata verso ovest, su tutta la baia, un panorama ineguagliabile dell'estremità nord dell'isola di Coronado con la tentacolare base navale. Mi avvicino al bancone e vi poso il mio biglietto da visita. «Paul Ma-
driani. Devo vedere il signor Tolt.» L'addetta alla reception, una rossa snella in tailleur e cuffia da centralinista, sfoggia unghie lunghe due centimetri e mezzo. Prende il biglietto e lo guarda. Le dico che ho un appuntamento. «Un momento solo.» Preme un pulsante e riferisce il mio nome e l'appuntamento, ascolta, sorride, preme il tasto per chiudere la comunicazione. «L'assistente del signor Tolt sarà da lei fra un momento. Si accomodi, prego.» Collaudo il comodo divano sotto il gigantesco dipinto a olio di una nave a vele quadre in un mare in tempesta, sperando di non bagnarmi. La reception è molto trafficata. È un continuo squillare di telefoni, con tre segretarie che premono pulsanti e ripetono: «Rocker, Dusha» come un mantra. Il DeWine, a quanto pare, è andato perso nella frenesia del business: ogni secondo fatturabile è prezioso. Dita dalle unghie lunghissime danzano sui tasti dei telefoni con la velocità di ballerine di flamenco, trasferendo chiamate agli uffici sul retro e ai piani inferiori, alimentando la macchina da soldi. Contaminuti computerizzati collegati ai telefoni scattano ogni sei minuti, addebitando ai clienti ogni decimo di ora. Le slot-machine della maggior parte dei casinò non garantiscono un guadagno così costante. In meno di un minuto una donna elegantissima in tailleur blu scuro compare da dietro l'angolo del bancone. Sorride sotto i capelli biondi che le arrivano alle spalle. Si ferma solo un istante per prendere il mio biglietto e poi, sempre guardandolo, viene verso di me. «Signor Madriani.» Mi alzo dal divano. «Glenda Rawlings. Sono l'assistente amministrativa del signor Tolt. Se vuole seguirmi da questa parte...» La seguo oltre la reception, lungo un corridoio. C'è solo una grande porta a due battenti, in fondo. Sul mogano scuro spicca a lettere dorate il nome ADAM TOLT. La donna bussa. «Avanti.» La voce giunge attutita dal legno massiccio. Apre la porta e fa strada. Non ho mai incontrato Tolt prima d'ora. Mi appare come un'eminenza grigia dietro una scrivania di legno massiccio scuro, a circa sette metri di distanza. Se fosse ricco, Dio avrebbe un ufficio come questo. Vasi greci ornano una mensola che corre tutt'intorno a tre delle quattro pareti della stanza. L'altra è tutta di vetro. Si tratta evidentemente di reperti in terracotta che devono avere un enorme valore. Sulla parete alle spalle di Tolt è appeso un Matisse - non una copia, un originale -
in colori shock, azzurri e verdi. Un fine intarsio a volute in legno d'acero corre lungo i bordi della scrivania, costituita da un enorme blocco di legno scuro e lucido sopravvissuto per ere geologiche in fondo a qualche foresta tropicale inesplorata. È completamente sgombra tranne che per un set da scrittura in argento lavorato, un telefono con almeno cento tasti e un grosso sottomano di pelle, su cui è posato un fascio di fogli cui Tolt sta dedicando tutta la propria attenzione. Quando entro, non alza neppure lo sguardo. «Glenda, avrò bisogno del fascicolo del caso Masery. Di' a Halston che voglio vederlo prima di andar via. E chiama Schafer: venerdì, quando torno, voglio un rapporto sulla vicenda Electric Stylus.» Traccia con la punta della stilografica una riga in diagonale sulla pagina che sta leggendo. «Questo memo per Wentworth va modificato.» Glielo lancia e lei è costretta ad afferrarlo al volo oltre la superficie della scrivania. «Non so chi abbia fatto i calcoli, ma non tornano», bercia. Sta già esaminando il foglio seguente. «Sì, signore. Me ne occupo immediatamente.» Tolt scarabocchia in fretta la sua firma, il pennino che gratta come un ago sulla carta di lino intestata, solleva la pagina e ripete l'operazione altre quattro volte, in rapida successione, il suo nome rappresentato da quelle che sembrano due lettere, una A intersecata da una T, seguite da uno svolazzo. Lo appone sul foglio con la composta maestosità di chi sta applicando un sigillo di cera ad avallare una nomina regia. Tolt è un'istituzione non solo sulla scena politica di questo Stato, ma anche su quella nazionale. Si dice che da giovane abbia guidato una delegazione commerciale in Oriente dove, dopo un anno, cominciarono a circolare voci di tangenti a funzionari stranieri. Ne seguì uno scandalo che portò al crollo di un governo per l'acquisto di certi armamenti. Il fatto che uno dei clienti di Tolt fosse proprio il fornitore di questo materiale non sembra aver danneggiato la sua reputazione. L'abilità dimostrata nel condurre l'operazione senza che il suo nome sia mai comparso sulla stampa o in qualcuna delle inchieste che seguirono gli è valsa, ovviamente a sua insaputa, il titolo di «faccendiere invisibile». Le tracce politiche di Tolt hanno l'illusorietà di ombre: basta puntargli addosso un po' di luce e scompaiono. Alcune persone sostengono che le sue impronte digitali non aderiscano neppure alla superficie liscia della sua valigetta di pelle. Attualmente fa parte di almeno una decina di consigli d'amministrazione, oltre che del comitato nazionale di uno dei due grandi
partiti politici. Considerata la portata morale del Paese nell'ultimo quarto di secolo, senza dubbio un giorno lo troveremo alla corte suprema o in qualche gabinetto presidenziale. Mi rivolge uno sguardo solo quando riavvita il cappuccio della penna stilografica. «Ah, Glenda, non passarmi telefonate. Chiama l'aeroporto e accertati che il Gulfstream sia pronto a decollare. Non voglio dover aspettare l'equipaggio un'altra volta.» «Sì, signore. La sua auto è qua sotto. L'autista sta aspettando.» «Grazie, Glenda.» La donna si affretta a uscire, l'immagine stessa dell'efficienza, e si richiude la porta alle spalle. Tolt prende il mio biglietto da visita, che l'assistente ha posato accanto alla sua mano destra, e lo esamina. Porta gli occhiali. Ha il volto abbronzato, la fronte solcata da rughe e sembra in forma per la sua età, che giudico poco oltre la sessantina. «Signor Mad-re-ani?» «Ma-dria-ni», lo correggo. «Si sieda. Non ho molto tempo. Devo andare a Washington per lavoro.» Altre fregature in vista per i consumatori. Mi verrebbe voglia di diramare un'allerta. Guarda l'orologio. «Mi hanno detto che voleva vedermi. A proposito di Nick Rush.» «Se preferisce, possiamo parlarne in un momento in cui lei ha più tempo. Magari quando ritorna...» «No, no.» Preferisce sbarazzarsi di me subito. Mi siedo. «Sono qui su richiesta della signora Dana Rush, la vedova di Nick. Mi ha chiesto se potevo occuparmi di alcune questioni a suo nome.» «Capisco.» Scuote la testa con aria solenne. «Tragico», mormora, «una persona così promettente uccisa nel fiore degli anni.» Dal modo in cui lo dice, ti viene da pensare che per lui la perdita maggiore sia il fatto che le dita di Nick non stiano più facendo girare il contaminuti nel suo ufficio. «In particolare, la questione riguarda l'assicurazione sulla vita di suo marito, la polizza key-man stipulata dallo studio.» «A-ah.» Improvvisamente, ruotando sulla poltroncina, si mette a cercare qualcosa. E poi la vede: la borsa dei documenti posata per terra dietro di lui, sotto la libreria. Si volta per prenderla e per un attimo mi volge la schiena. «Di solito non mi occupo di questi dettagli», precisa. «Ha parlato con Humphreys?» Tolt è nuovamente girato verso di me, la borsa aperta
sulla scrivania davanti a sé. Per un momento penso che possa avere la polizza nella valigetta, poi mi rendo conto che non è così. Sta solo facendo i bagagli, si sta preparando ad andare. «Humphreys è il suo uomo», prosegue. «È il direttore amministrativo dello studio. È lui che si occupa di queste cose. Se ha una richiesta di risarcimento, la presenti a lui.» «Ho parlato ieri con il signor Humphreys. È lui che mi ha fissato questo appuntamento. Ha detto che c'erano dei problemi, ma che non poteva discuterne. Ha detto che dovevo parlarne con lei.» «Problemi? Non mi risulta alcun problema. Chi ha detto che rappresenta?» «La signora Rush. Dana Rush.» Mi guarda come se il nome non gli dicesse nulla. «Aspetti un secondo.» Solleva il ricevitore, preme uno dei tasti di composizione rapida in basso e attende che suoni. «Ciao, George. Sono Adam.» Ruota sulla poltroncina, rivolgendomi di nuovo la schiena. «Ho qui un uomo, un certo Paul Madria-ni. Dice che ti ha parlato di una polizza key-man su Nick Rush... Aah. A-ah... Perché non mi è stato detto?... A-ah... Be', sì, avreste dovuto dirmelo... A-ah. A-ah. Se ne sta occupando qualcuno?... A-ah. A-ah. Va bene, ma cosa... A-ah. Com'è la cosa? Jim pensa che siamo nel mezzo?... A-ah. A-ah. Be', tienimi informato, d'accordo?» Riattacca, prende di nuovo il mio biglietto, e gli dà un'altra occhiata. «Aveva ragione. Pare proprio che ci sia un problema.» «Di che genere?» Posa il mio biglietto e torna a infilare documenti presi da un cassetto nella borsa aperta davanti a sé. «La buona notizia è che c'era in effetti una polizza key-man su Nick. È stata accesa quando Nick è venuto a lavorare presso di noi. Lo studio paga i premi e tutto il resto», m'informa. «Fa parte del pacchetto d'indennità per i soci. In cambio dell'indennizzo assicurativo, gli eredi rinunciano a qualunque pretesa sulla quota di studio. La polizza key-man è un buon modo per assicurarsi che nessuno resti danneggiato.» «E?» «La cattiva notizia è che il nome del beneficiario non sembra essere quello della sua cliente», prosegue Tolt. «Cosa intende dire?» «Lei conosceva bene Nick?» «Piuttosto bene.» «Allora sa che era già stato sposato.»
Annuisco. «È questo il problema», precisa. «Sulla polizza c'è il nome della prima moglie. Credo di averla incontrata una volta a un evento mondano dello studio. Si chiama Margaret. La conosce?» Faccio un respiro profondo e annuisco. «Probabilmente lei ignora che sulla polizza c'è il suo nome. Non lo sa ancora.» Sta frugando nella borsa, accertandosi che ci sia tutto. «Questo ci mette in una posizione difficile», prosegue. «In caso di una richiesta d'indennizzo avanzata da una persona diversa, la compagnia d'assicurazioni dovrà notificargliela. Sono certo che lei capirà, visto che si occupa di vertenze assicurative.» «Io non mi occupo di vertenze assicurative.» «Mi pareva che avesse detto...» «Io non ho detto nulla.» «Sul suo biglietto c'è scritto che lei è avvocato.» «Sono un penalista. È così che ho conosciuto Nick.» «Oh», fa lui, e smette di fare i bagagli. Le sopracciglia a cespuglio, folte e grigie, s'inarcano spostandosi verso il centro della fronte come due topi migratori. Riprende in mano il mio biglietto e questa volta lo guarda con maggior attenzione, leggendolo a voce alta. «Madriani. Madriani. Mi ricordo di lei. Lei era l'avvocato difensore di quel processo, circa un anno fa, quell'omicidio in un ufficio, giù, vicino alla spiaggia. Come si chiamava?» «Il caso Hale.» «Già. Il vecchio che aveva vinto alla lotteria. La vittima era una donna.» «Zolanda Suade», dico. «Proprio quello.» Chiude la borsa e mi guarda. «Quello è stato un bel colpo», commenta. «Un sacco di pubblicità gratuita.» «E io che credevo non se ne fosse accorto nessuno.» «Si è mai occupato di reati amministrativi?» «Qualche volta.» «Davvero?» Le sopracciglia salgono di un gradino. Sono certo che si sta chiedendo quanto potrebbero essere veloci le mie dita a far funzionare il mangiasoldi sul computer inattivo dell'ufficio di Nick. Lascia la borsa chiusa sulla scrivania e si appoggia allo schienale. «Da quanto ha detto che conosce Nick?» «Da qualche anno.» Resta in silenzio, guardandomi al di là della scrivania, in attesa di ulteriori dettagli, che io non fornisco.
«Sfortunatamente, io non lo conoscevo molto bene. Mi dispiace non avergli dedicato più tempo. Temo che lui fosse risentito per questo, ma purtroppo Nick non comprendeva quanto sia duro dirigere uno studio come questo. Soci che si lamentano, tutti che vogliono un bonus più alto alla fine dell'anno, star sempre lì a discutere ogni volta che c'è da aprire una nuova sede... Mandare avanti uno studio come questo è come tenere insieme dei gatti che si azzuffano tra loro. E di certo non aiuta il fatto che negli ultimi due anni i nostri profitti siano calati.» Mi sanguina il cuore per lui, vedendo l'inestimabile Matisse incorniciato in oro alle sue spalle. «Troppi avvocati», sentenzia. «Da quanto ho sentito dire, ne state cercando altri.» Sorride. «Nick e io c'incrociavamo negli uffici. Parlavamo alle feste di Natale. Mi pare che abbiamo anche lavorato assieme a uno o due casi. Affari andati a monte.» Intende dire che Nick era stato chiamato quando lo studio aveva avuto bisogno di aiuto per ripulire i pasticci lasciati da uno dei loro clienti le cui imprese commerciali si erano ribaltate a furia di tagliare le curve. «E poi si è occupato di qualche caso di droga. Non molti, credo. Abbiamo cercato d'impegnarlo il più possibile nel campo dei reati amministrativi.» «Capisco. È il gradino più basso della catena alimentare del crimine cui lo studio voleva scendere, vero?» «In un certo senso. Non mi fraintenda. Non deve pensare che io disprezzi il lavoro degli altri avvocati. I loro clienti hanno certamente diritto a una difesa appassionata.» «Ma non qui?» «Be'...» La risposta sta nella sua espressione. «Sfortunatamente, al momento siamo un po' sguarniti su quel fronte. Abbiamo un paio di giovani associati, ma Nick era il nostro uomo di punta. Per questo non potevamo permetterci che facesse altre cose. E ora abbiamo un problema. Ora che Nick non c'è più, dobbiamo cominciare a cercare qualcuno che colmi il vuoto lasciato da lui. Nick aveva dei casi in corso che bisogna mandare avanti», dice. «Questo è il suo campo. Magari potrebbe segnalarci qualcuno.» Se non avessi buon senso, potrei pensare che mi stia offrendo un lavoro. La crisi del momento: come tutti gli uomini potenti, Adam Tolt pensa che gli unici problemi che contano in questo momento siano quelli che lo ri-
guardano. «Forse sarebbe meglio aspettare che il cadavere diventi freddo.» «Certo», riconosce. «È stato irriguardoso da parte mia.» Le parole gli escono dalle labbra, ma lo sguardo dell'affarista non abbandona i suoi occhi. Tolt è una via di mezzo tra Franklin Delano Roosevelt e il diavolo. Ha lo stesso sorriso tutto denti, l'aria da amicone, la presenza da dominatore, tutto a parte il bocchino e la paralisi. Anzi, sembra molto in forma e si muove come se avesse la metà dei suoi anni. «Vorrei poter fare di più per lei», dice. «Ma capisce il problema, vero?» «Sì.» «Cosa pensa di fare?» «Tornerò dalla signora Rush e le riferirò come stanno le cose. Posso avere una copia della polizza?» «Perché no? Prendo un appunto e gliene faccio mandare una per posta in ufficio. Ovviamente, questo problema potrebbero risolverlo le due mogli», aggiunge. «Come?» «Accordandosi per spartirsi la polizza.» «Quant'è l'indennizzo?» chiedo. «Due milioni. Dovrebbero accettare di dividerlo a metà.» «E perché la beneficiaria dovrebbe acconsentire a una cosa del genere?» «Be', anche lei potrebbe avere dei problemi. In fase di divorzio potrebbe essere stato firmato un accordo di spartizione dei beni tale da pregiudicare la sua richiesta d'indennizzo.» «C'è un accordo di spartizione dei beni?» «Suppongo di sì», risponde lui. «Immagino che il suo nome sia rimasto sulla polizza a causa di una svista.» Mi guarda al di sopra della punta delle dita unite, i gomiti sui braccioli della poltroncina, poi si raddrizza e chiude con un colpo secco le serrature della borsa. A mille dollari l'ora, centosessantacinque ogni dieci minuti, le chiacchiere fuori orario costano. «E se non si risolvesse con un accordo amichevole?» chiedo. Fa una smorfia. Mi guarda. «In quel caso, suppongo che l'assicurazione dovrà presentare un procedimento di estromissione.» Intende dire un «liberi tutti» legale con cui la compagnia d'assicurazioni si arrende, riconosce di dovere dei soldi, ma non sa chi pagare. A quel punto, la decisione passa a un tribunale. Dopo due anni di schermaglie legali, con gli avvocati dell'assicurazione e le due donne che si sbranano in aula, verrà firmato un assegno, ma il nome della persona cui sarà intestato
è tutto da vedersi. L'unica cosa certa è che la parte del leone andrà agli avvocati. Harry aveva ragione. Ci sono cascato. Ora dovrò andare da Dana a comunicarle la brutta notizia. L'antico detto è sempre valido: gli ultimi sulla terra ad avere il testamento aggiornato e gli affari in ordine, quando muoiono, sono proprio gli avvocati. 9 Questa mattina Harry ha una notizia per me. Arriva da un viceprocuratore distrettuale con cui si trova ogni giovedì sera per una partita tra amici. Ieri sera, mentre mescolava e distribuiva le carte, il tizio si è lasciato sfuggire che i federali avevano effettuato un arresto, non connesso all'omicidio di Nick, ma che, a sentir lui, potrebbe comunque esservi legato. Harry è fermo sulla soglia del mio ufficio. Ha appena acquistato un giornale dalla rivendita di tabacchi giù in strada. Sta scorrendo le pagine interne. Sulla prima, rivolta verso di me, campeggia la foto di una gru con appesa la berta da demolizione che sfonda l'insegna del vecchio Capri Hotel, il posto prediletto da Nick per il caffè della mattina. Chissà cosa direbbe, mi chiedo, se in questo momento stesse guardando giù, o su, come è molto più probabile. «Eccolo qui», esclama Harry. «È solo un trafiletto.» Il titolo recita: ARRESTO PER FURTO DI VISTI Ieri notte, una task force composta da agenti di polizia e federali guidati da funzionari dell'ufficio immigrazione e da agenti doganali ha fatto irruzione in un'abitazione di Santee. È stato effettuato un arresto in relazione al furto di migliaia di visti d'ingresso avvenuto lo scorso maggio a Tijuana. I visti, emessi dall'ufficio immigrazione, vengono utilizzati per soggiorni di breve durata negli Stati Uniti. Erano stati rubati da un furgone delle consegne nel corso di una rapina a mano armata nei pressi dell'ufficio del console americano a Tijuana, il 23 maggio. L'arrestato è Miguelito Espinoza, un procacciatore di manodopera da impiegare come bracciantato agricolo. Secondo le autorità, Espinoza, che si trovava in casa al momento dell'irruzione, non
ha opposto alcuna resistenza. Le autorità si sono rifiutate di rivelare se nell'abitazione di Espinoza siano stati rinvenuti altri elementi a suo carico. Si pensa che i visti valgano almeno un milione di dollari sul mercato nero, dove possono essere venduti e utilizzati da stranieri privi di documenti per entrare nel nostro Paese, o da chi cerchi d'introdurvi clandestinamente merci o persone. La polizia cercava da mesi i visti trafugati. Secondo fonti che desiderano restare anonime, essi rappresentano l'ultima frontiera dell'applicazione della tecnologia laser ai documenti di riconoscimento, e utilizzano persino ologrammi. Si teme che i rapinatori possano essere in grado di duplicare questa tecnologia laser per produrre nuovi falsi. Harry abbassa il giornale e mi guarda da sopra i fogli. «Tutto qui.» «Perché il tuo amico procuratore è convinto che ci sia un collegamento con Nick e la sparatoria?» «Ha detto che il tizio arrestato era in qualche modo legato a Metz.» «Ti ha detto come?» «Non me l'ha detto e io non volevo mettermi a strisciare sul tavolo per chiederglielo. Ho avuto l'impressione che non lo sapesse neppure lui.» «Credi che te lo direbbe, se lo chiamassi?» Harry scuote la testa. «Siamo amici, ma non così amici. Lui ha detto solo che il tizio arrestato, questo...» Guarda di nuovo l'articolo. «... questo Espinoza, prima dell'arresto, era stato tenuto per qualche tempo sotto sorveglianza dai federali. Parliamo di mesi», spiega il mio socio. «E intendo dire sorveglianza stretta. Da quanto ho sentito dire, quelli dell'ufficio immigrazione erano decisi a ritrovare quei visti a ogni costo. Il procuratore ha intenzione di torchiare ben bene questo tizio per scoprire se sa qualcosa della sparatoria. Danno per scontato che non possa essere coinvolto direttamente, visto che era sotto sorveglianza da parte dei federali. Tuttavia sono convinti che sappia qualcosa. Non volevo neppure parlartene, ma sapevo che avresti preferito saperlo.» «Grazie.» Harry comincia a prepararsi un tè, mettendo una tazza piena d'acqua nel microonde che abbiamo nell'ingresso. Quando torna, sta inzuppando la bustina. «Tolt aveva una copia della polizza?» «Come?»
«La polizza key-man per la moglie di Rush?» «Ah, sì. Ce la manderà per posta.» «È stato collaborativo?» «Direi di sì, nel limite del possibile. C'è un problema, però. Una complicazione.» «Che genere di complicazione?» «Pare che il nome del beneficiario sulla polizza non sia quello di Dana.» «Chiamala complicazione. E di chi sarebbe il nome?» «Della prima moglie.» Harry alza gli occhi al cielo. «E tu cosa hai intenzione di fare?» «Non lo so.» «Lascia che ti dia un consiglio. Quando arriva la polizza, tu gliela mandi con una bella lettera di accompagnamento in cui le consigli di cercarsi un avvocato esperto in questioni assicurative.» «Non posso.» «Perché no?» «Perché ci sono di mezzo altre persone.» «Chi?» Se verremo coinvolti, ho intenzione di chiedere a Harry di rinunciare alla sua parcella, per cui ha diritto a una risposta. «C'è una bambina. Nick ha avuto una figlia al di fuori del matrimonio, qualche anno fa, prima di conoscere Dana. Si chiama Laura.» Harry mi guarda. Mi sembra di sentire gli ingranaggi del suo cervello che girano. «La busta con dentro i contanti che la polizia ha trovato in tasca a Nick», mormora. Annuisco. «Nick pagava per il suo mantenimento fin dalla nascita. Non per ordine del tribunale. Volontariamente. Nessuno, a parte la madre e lui, è al corrente. Hanno voluto così.» «E tu vuoi mettere le mani sull'assicurazione, a favore della figlia.» «Purtroppo non posso. Non si può andare contro i termini del contratto. L'unica cosa che posso fare è ritagliarne una fetta per lei.» «I nostri onorari?» Annuisco. «Perché non me l'hai detto prima?» chiede Harry. «Non potevo. Se la polizia ti avesse fatto delle domande, tu potevi rispondere sinceramente che non sapevi nulla. Volevo tutelare la loro privacy. In questo modo non dovranno gettarsi nella mischia per il rimborso.»
«Perché Nick non ha messo il nome della figlia sulla polizza?» «Probabilmente, non aveva intenzione di morire così presto. Inoltre, nominare lei come beneficiaria l'avrebbe messa contro Dana. Ho il sospetto che questo sia il motivo per cui ha lasciato il nome di Margaret sulla polizza: così poteva essere a disposizione di tutte. Anche la bambina potrebbe ottenere qualcosa, se la madre decidesse di far causa, e se risultasse che la richiesta di rimborso di Margaret non è ammissibile per via del sopravvenuto divorzio. Questo a Nick glielo devo. Lui avrebbe fatto lo stesso per me, se mi fossi trovato nella sua situazione.» «C'è mancato poco.» «Non me lo ricordare.» «Ti capisco. Vorrei solo che me lo avessi detto prima. Che avessi un po' più di fiducia in me.» «Non si tratta di fiducia.» «Capisco.» Harry è offeso. «Ovvio che rinunceremo alle nostre parcelle. Non c'è nemmeno bisogno di dirlo.» Sta fissando il fondo della tazza di tè nero, chiedendosi se lasciar perdere. Ma non può. «La morte di Rush non è stata colpa tua.» «E chi ha detto il contrario?» «Nessuno. È solo che, a volte, ho l'impressione che tu abbia ancora qualche dubbio. Specialmente ora che so cosa c'è dietro. Lei lo conosceva? La bambina, intendo dire.» Annuisco. «A sentire Nick, andava da lei ogni volta che era possibile. La bimba pensava che fosse uno zio. Si capiva dal suo sguardo che le voleva bene. Mi diceva che era molto intelligente. Allegra.» «Comunque, non è colpa tua. Hai capito che tipo era Metz e hai deciso di non difenderlo. Hai messo in guardia Nick. Preferiresti che fosse Sarah a essere rimasta orfana di padre?» «Credimi, ci ho pensato. Ho pensato a cosa avrebbe fatto Nick nella mia situazione. I quattromila dollari che passava alla madre della bambina ora non ci sono più.» «E così hai pensato ai soldi dell'assicurazione.» Harry ci è già arrivato da solo. «Esatto. E da grande, immagino che Laura vorrà sapere un sacco di cose su suo padre: chi era, come è morto. Sarebbe preferibile se avesse delle risposte, qualcosa di meglio di odiose speculazioni su giornali ingialliti, sul fatto che suo padre sia morto insieme a un faccendiere di cui era socio e difensore.»
«Per quanto riguarda il denaro, posso capire. Ma cercare di scoprire chi l'ha ucciso e perché spetta alla polizia.» «Forse. Ma non mi sembra che si stiano dando un gran daffare.» «Non penseranno che Nick ha avuto quello che si meritava?» osserva Harry. «Un avvocato penalista in più o in meno non è cosa che li turbi», replico. «Pensi che finirà tra i tanti casi irrisolti?» «È quello che penso.» «Forse è meglio così», riflette il mio socio. «E se tu fossi sua figlia?» «Ma non lo sono, e neanche tu. E poi se, indagando, scoprissi qualcosa che non ti piace?» «Ci penserò se e quando si presenterà il problema.» Harry scuote la testa. «Se è una cosa che stai facendo per Nick, lascia perdere. Lui, ormai, non può più apprezzarlo.» Beve un sorso di tè. «Sai, Harry, se qualcuno mi spara per strada e mi ammazza, vorrei che tu dimostrassi almeno un fugace interesse.» «È questo che stai facendo? Be', Dio non voglia!» esclama lui. «Ma se qualcuno ti sparasse, probabilmente verserei anche qualche lacrima. Ti seppellirei con stile, pronuncerei un discorso commovente sulla tua tomba. Farei il possibile per prendermi cura di Sarah o, almeno, mi accerterei che qualcuno si prendesse cura di lei. Penserei molto a te e andrei avanti con la mia vita.» «Insensibile», commento. «Per le cose che sono al di là del mio controllo, hai dannatamente ragione. Abbiamo preso una decisione molto tempo fa», mi ricorda. «Noi non ci occupiamo di casi di droga. Abbiamo deciso. Per un buon motivo. Troppo tempo speso a tenere il passo con le sentenze, perché il flusso delle motivazioni pubblicate è dell'ordine di una tubatura di fogna rotta sopra il Niagara. E poi ci sono delle cose che è decisamente meglio evitare, per esempio acrobazie legali a favore del crimine organizzato. Ti può capitare di scoprire cose che preferiresti non sapere. Roba che ti tiene sveglio la notte a pensare se hai tirato tutti i catenacci alle porte, o se hai abbastanza sbarre alle finestre.» «È appunto per questo che non ho preso Metz come cliente», gli faccio osservare. «Esatto», dice Harry. «Perché abbiamo fatto un accordo. Allora perché
non dai la colpa a me se hanno sparato a Nick? Io posso conviverci.» Con queste parole si volta ed esce, diretto verso il suo ufficio. Per parecchi minuti me ne resto lì seduto a fissare l'articolo di giornale con sopra il nome di Miguelito Espinoza, chiedendomi cosa c'entrasse Metz con quei visti. Poi esco nella zona reception. Trovo Marta intenta ad archiviare dei documenti. Apro uno degli schedari, il cassetto con l'etichetta M-O. «Vuole che le cerchi qualcosa?» chiede Marta, alzando lo sguardo dalla scrivania. «Credo di averlo trovato.» Estraggo il fascicolo di Gerald Metz. «Come va la giornata?» le chiedo. «Bene.» Mi rivolge un sorriso raggiante. Nel giro di novanta giorni, non essendo state emesse fatture, Marta, efficiente come sempre, avrebbe chiuso il fascicolo e lo avrebbe spostato in archivio, dentro uno degli scatoloni di cartone sistemati nel bungalow qui vicino. E tra qualche anno, ammesso che lei fosse ancora con noi, lo avrebbe gettato via, facendolo portare in qualche discarica, l'archivio finale della cultura americana. Me ne torno in silenzio nel mio ufficio, con il fascicolo. Dentro non c'è molto, le poche lettere che Metz mi aveva portato quella mattina, i miei appunti, scarabocchiati su fogli gialli di bloc-notes. E lì, sulla terza pagina, scritto per esteso e sottolineato due volte, ecco il nome di Miguelito Espinoza, seguito da un indirizzo e un numero di telefono di Santee. Era il nome che compariva sul biglietto da visita spiegazzato mostratomi da Metz. Espinoza aveva fatto da tramite fra i due fratelli messicani e Metz per il loro presunto progetto di speculazione edilizia. Sono passati più di tre anni dall'ultima volta che ho visto Margaret Rush, e quando viene ad aprire la porta mi guarda come se riconoscesse il mio volto ma non ricordasse il nome. «Margaret, sono Paul Madriani.» Un attimo di esitazione e poi: «Ah, sì». Sorride, cerca di aggiustarsi i capelli col dorso della mano. Ha della terra sotto le unghie. Indossa un paio di jeans sporchi di fango alle ginocchia. «Stavo facendo giardinaggio», si giustifica. «Posso entrare un momento?» Esita, combattuta fra la prudenza e le convenzioni sociali, poi armeggia con la catenella di sicurezza della porta. «Certo.»
«È passato un sacco di tempo», dico. «Già.» Capisco che non ricorda esattamente chi io sia. Si ricorda il nome e la faccia, ma non riesce a rammentare in che contesto ci siamo conosciuti. «Se non sbaglio, l'ultima volta ci siamo incontrati a quella crociera nella baia. Il ricevimento dell'ordine degli avvocati, qualche anno fa», le rammento. «Ah, sì.» La rivelazione le illumina lo sguardo. «Lei era amico di Nick.» «Sì.» La sua espressione mi dice che è pentita di avermi fatto entrare. «Non ho molto tempo. Mi stavo preparando per uscire.» «Solo un minuto.» «Cosa vuole? Dovrà fare in fretta.» «Come sta?» «Io? Io sto benissimo», risponde, ferma sulla soglia. «Vuol dirmi di cosa si tratta?» «Possiamo entrare e sederci un attimo?» chiedo. «Suppongo di sì. Ma solo un minuto.» Si volta verso il soggiorno e io la seguo. La stanza è piccola, come il resto della casa, una semplice costruzione a un piano in stile ranch, su una strada di prati curati, fiancheggiata da olmi giapponesi. C'è un divano contro la parete opposta alla finestra che dà sulla strada. Ninnoli di cristallo e porcellana e un piccolo servizio da tè antico sono posati sulle alte scaffalature tutt'intorno alla stanza. A una parete è appoggiata una teca di vetro molato e nell'angolo accanto al camino c'è una poltrona dallo schienale alto e curvo. È lì che Margaret si accomoda, lasciando a me il divano. «Non l'ho vista al funerale, ma c'era così tanta gente...» «Il funerale di Nick?» chiede lei. «Sì.» «Non c'ero. Quella parte della mia vita si è chiusa da tempo. Di cosa vuole parlarmi?» Niente chiacchiere inutili. Dall'ultima volta che l'ho vista, i capelli sono diventati grigi. La pelle intorno agli occhi è segnata dalle rughe. L'espressione tesa sul suo volto mi dice che potrà anche aver eliminato Nick dalla sua vita anni fa, ma il pensiero di lui alberga ancora negli oscuri recessi della sua mente. «Come sta suo figlio? Jimmy, vero?» «James», mi corregge. «Sta bene.»
«Volevo parlarle di Nick.» «A che proposito?» «Del suo patrimonio.» «Ah, sì. Ora capisco. Un paio di giorni fa, hanno chiamato dallo studio per dirmelo. Si tratta della polizza assicurativa, giusto?» «Sì, la polizza key-man.» «È lei che l'ha mandata?» «Chi?» «Chi», ripete lei in tono canzonatorio. Le grinze intorno agli occhi sottolineano la rabbia della sua voce. «Sa bene chi intendo. Dana.» «No.» «Allora perché è qua?» «Per evitare un problema», rispondo. «Per risolvere una possibile controversia. Forse per fare ciò che ritengo giusto.» «E sarebbe?» «Nick è morto. A questo punto, è fuori dalla vostra vita, la sua, quella di Dana. Possono esserci degli aspetti di questa polizza che favoriscono entrambe.» «Lei parla proprio come Nick. Il paciere, quello che cerca di sistemare sempre ogni cosa. 'Sai, cara, mi sto scopando la mia arredatrice e vorrei avere il divorzio, ma non c'è niente di personale.'» «Lei ha tutte le ragioni per essere in collera.» «Ci può scommettere.» «Ma non vorrà certo danneggiare se stessa, per quanto in collera.» «Cosa intende dire?» «Ha ricevuto una copia della polizza?» «Sì.» «E sa che il suo nome compare in qualità di beneficiario?» «Sì.» «Sa anche che, in sede di divorzio, c'è stato un accordo di divisione dei beni?» Mi guarda senza rispondere. Sa che è questo il punto. «Suppongo che lei abbia un legale che la rappresenta in questa faccenda.» «E perché dovrei dirlo a lei?» «Lei non deve dirmi proprio nulla. Se lo è, intendo dire rappresentata da un legale, buon per lei. In tal caso, è con lui che dovrei parlare.» «È una donna.» Il tono con cui lo precisa mi fa pensare che non si fidi
affatto degli avvocati uomini. «Se vuole darmi il suo nome, mi metterò in contatto con lei.» «Si chiama Susan Glendenin.» «Lavora per lo studio Petersen, in centro?» «Esatto.» «La conosco.» Un colpo di fortuna. Susan Glendenin è un buon avvocato; ancor più importante, è la voce del buon senso in una professione sempre più popolata da gente che si vanta di non prendere prigionieri e che opera in base al principio «al diavolo la ragione, andiamo alla guerra». «È importante capire che dal punto di vista legale la questione di chi debba ricevere l'indennizzo previsto dalla polizza assicurativa è un problema che sta al limite.» «Cosa intende dire?» «Che, da come è strutturata, la compagnia d'assicurazioni deve pagare qualcuno. A loro non interessa chi. L'importante è che assolvano i propri obblighi.» «E...?» «Potreste guadagnarci tutte e due.» «Come ha detto che si chiama?» «Paul Madriani.» Infilo la mano nella tasca interna della giacca, trovo i biglietti da visita, ne tiro fuori uno e glielo porgo. «Lasci che le dica una cosa, signor Madriani, così ci capiamo subito: io prenderò due milioni di dollari e non un centesimo di meno», ringhia Margaret. «Può tornare dalla sua cliente, quella puttana sfasciafamiglie, e dirle che, per quanto mi riguarda, può andare al diavolo. 'Affanculo la sua cliente, 'affanculo lei e il momento in cui l'ho fatta entrare. Ora, se vuole scusarmi, ho da fare.» Si alza dalla poltrona. «Ancora una domanda.» «Dica.» «È davvero convinta quando dice che si accontenterà soltanto di un indennizzo di due milioni di dollari?» Mi guarda attraverso due fessure di cattiveria pura, la rabbia di una vita intera, l'amarezza, il tradimento, tutto concentrato in quegli occhi. «Ci può scommettere», sibila. 10 Questa mattina, Dana indossa un provocante pigiama di seta nera ed è a
piedi nudi; seduta in soggiorno sul bordo di una grande poltrona dallo schienale alto, una gamba ripiegata sotto l'altra, sta cercando di spiegarmi come ha trovato una copia della polizza ma si è dimenticata di chiamarmi per dirmelo. «Glielo giuro, signor Madriani. Ho avuto così tanto da fare che mi è sfuggito di mente.» «Mi chiami Paul», le dico. «Va bene. Paul. L'ho trovata dopo che ci eravamo parlati. Era nella cassaforte di Nick, nello studio.» Dana mi guarda e mi rivolge un sorriso tirato: vuole disperatamente che io le creda. Seduta accanto al caminetto, ha un'aria così innocente, quasi supplice. «Lei mi crede, vero?» Sbatte le lunghe ciglia nella mia direzione. L'atteggiamento è davvero convincente, il tremolio della voce autentico e, se non fosse per l'esperienza, potrei anche cascarci. Mi ha mandato inutilmente allo studio legale per farmi dare una copia della polizza quando sapeva già cosa c'era scritto. «La prego di credermi», insiste. Smetto di guardarla. Seduto sul divano, rivolgo l'attenzione a uno di quei giochini cinetici che Nick aveva sparpagliato per tutto l'ufficio. Questo, sul tavolino, consta di cinque scintillanti sfere d'acciaio appese a dei fili, che oscillando battono l'una contro l'altra senza soluzione di continuità. Lascio che il loro ticchettio cada nel silenzio per un po', prima di chiedere: «Come ha fatto ad aprire la cassaforte?» «Ho trovato la combinazione.» «Dov'era?» «In uno dei cassetti della scrivania di Nick, al piano di sopra.» «Forse faremmo meglio a vedere cos'altro custodisce, quella cassaforte. Potrebbero esserci dei documenti importanti.» Faccio per alzarmi dal divano. «No. Non è necessario», mi frena lei. «Ho già controllato io. Non c'era altro.» La guardo. Evita di sostenere il mio sguardo. «È abbastanza brava, lo sa? Non è la migliore, ma, d'altro canto, non ha molta esperienza. Almeno, spero.» «Esperienza in cosa?» «Nel mentire.» «Che cosa sta insinuando?» «Lei vuol farmi credere che Nick si sarebbe preso la briga di chiudere documenti riservati nella cassaforte, per poi lasciare la combinazione nel
cassetto della scrivania dove qualunque ladruncolo che si fosse introdotto in casa poteva trovarla? Forse lei era sposata con un Nick Rush diverso da quello che conoscevo io.» Questa volta mi alzo davvero, come se stessi per andarmene. «D'accordo.» Il tono supplice è scomparso, sostituito da una certa acredine. Sembra sprofondare nella poltrona, mentre abbassa lo sguardo, lisciando le pieghe sottili della seta su una coscia. «Bene. Avevo la polizza fin dall'inizio.» Poi, a voce più bassa, più debole, la voce della persuasione femminile, aggiunge, guardandomi negli occhi: «Ma non sapevo cosa fare. Ho visto il nome di quella là e mi sono fatta prendere dal panico. Ero disperata, sul lastrico. Non avevo nessuno cui rivolgermi. Capisce? Lei non sa cosa significhi non avere nessuno... be', insomma... qualcuno su cui poter contare». «Qualcuno come Nick?» suggerisco. «Be', sì. Lui si occupava di tutto: delle nostre finanze, delle tasse, degli investimenti. Io non avevo idea. Pensavo fossimo in una botte di ferro. Io non capisco niente di queste cose.» «Allora come può sapere di essere sul lastrico?» Inspira a fondo, sospira, lascia vagare lo sguardo da me a una parete vuota. «Io... ho chiesto a Nathan di dare un'occhiata alle nostre finanze. Dopo che Nick è morto.» «Fittipaldi?» Annuisce. «È bello sapere che lei non era del tutto sola», commento. Non apprezza il sarcasmo. «Dovevo pur rivolgermi a qualcuno. Cosa si aspettava che facessi?» «Perché non ha consegnato la polizza al signor Fittipaldi?» «Ne abbiamo parlato. Neanche lui sapeva cosa fare.» «Ah.» «Ho pensato che lei, essendo amico di Nick... ho pensato... visto che lei conosceva Nick da prima che ci sposassimo, forse...» «Ha pensato che sarei andato allo studio, avrei scoperto che sulla polizza non compariva il suo nome, e che mi sarei impietosito e magari sarei andato a parlare con Margaret Rush. È così?» «Be'...» Prima guarda il soffitto, poi me, sbattendo appena le ciglia. «Sì. Ho pensato che lei potesse conoscerla. Che fosse suo amico.» «Ha pensato che sarei stato in grado d'intercedere?» «Mi sbagliavo?» chiede lei.
«No. Forse è stata un po' ingenua, ma in compenso ha dato prova di una grande abilità nel manipolare le persone», rispondo. «Voglio dire, valeva la pena di tentare, vista l'amicizia e tutto il resto.» «Già. Ho pensato che forse a lei avrebbe dato ascolto.» Rido e faccio scattare ancora una volta le piccole sfere d'acciaio sul tavolino. «In realtà, l'ho incontrata una sola volta. Ma, anche se fossimo stati amici intimi, ci vuole un'altissima opinione dell'amicizia per credere che Maggie Rush o chiunque altro sia disposto a rinunciare a due milioni di dollari solo per questo.» «Dunque ha rifiutato?» «Con parole che non gradirei ripetere davanti a persone ben educate.» Dana si alza dalla poltrona, mi volge la schiena, le unghie di una mano alla bocca come se volesse morderle fino alla lunetta. Osservo la sua immagine riflessa nello specchio sopra il caminetto. Se ne sta lì, a mordicchiarsi le unghie, le pupille che scrutano un orizzonte invisibile mentre studia la prossima mossa. All'improvviso si volta, mi guarda e domanda: «E ora cosa facciamo?» Prima che io possa dire alcunché, lei si siede sul divano accanto a me e spinge lontano il giochino in modo da avere tutta la mia incondizionata attenzione. La seta sfrega contro la lana pettinata dei miei pantaloni. «Suppongo che lei dovrà chiamare Nathan e comunicargli la notizia», le dico. «Io non so ancora cosa farò. Probabilmente tornerò in ufficio a lavorare.» «Sa bene cosa intendo», replica lei. Afferra la mia mano sinistra e la stringe fra le sue. «Lei mi aiuterà, non è vero? Ha parlato con quella donna. Sa cosa prova nei miei confronti. Mi odia. Sa che Nick non aveva intenzione di lasciare a lei tutti quei soldi. Erano divorziati.» «È vero.» Faccio per alzarmi. «Non se ne andrà, vero?» chiede. «Non se ne vada, la prego. Lei è l'unico che può aiutarmi. Lei ha parlato con lo studio. Sa che si sono comportati in modo sleale con Nick. Ora dovrebbero rimediare.» «Ho parlato con Adam Tolt.» «E?» «Mi pare che preferisca non essere coinvolto. Per lui la questione è tutta fra voi e la compagnia d'assicurazioni.» Questo non fa che accrescere la sua angoscia. Dana mi stringe la mano sino a fermarmi la circolazione. «Lei era amico di Nick. Non può permettere che facciano questo alla
moglie del suo amico. Mi dica che non lo farà.» «Lei ha bisogno di un buon avvocato», ribatto. Harry sarebbe orgoglioso di me. «Ne ho già uno», replica Dana. «Lei.» «No. Intendo un avvocato che sappia com'è fatta una polizza d'assicurazione. Che sappia interpretare tutte quelle scritte piccole piccole, definire i vincoli, aggirare le clausole in modo che la compagnia d'assicurazioni non possa ritorcerle contro di lei. E quell'accordo che Nick ha siglato con Margaret... spero lo abbia fatto stilare da un buon avvocato.» «Vale a dire?» «Sta tutto lì. Se non è stato redatto in maniera appropriata, be'... diciamo che nessun avvocato, specialmente se è ferrato in materia assicurativa, sarà disposto a perderci molto tempo», le spiego. «Non crede che io abbia qualche possibilità?» Ho conosciuto persone accusate di reati che prevedono la pena capitale meno preoccupate di lei. «Lei l'ha visto?» chiede. «L'accordo?» «No. Ma la giurisprudenza assicurativa non è il mio forte.» Dana lascia cadere la mia mano come se fosse un pesce morto. «Chi dovrei interpellare?» «Non lo so.» «Conoscerà pure qualcuno. Se il problema sono i soldi, posso pagare.» «Credevo fosse sul lastrico.» «Posso procurarmeli.» «Non si tratta solo dei soldi.» «Allora di cosa?» «Mi lasci riflettere per qualche giorno», le propongo. «Oh, certo. Certo. Si prenda tutto il tempo che le serve. Deve pensare che sono una persona orribile. Voglio dire, per averla coinvolta in questa faccenda.» «A cosa servono gli amici?» «Sapevo che mi avrebbe aiutato.» Al momento gli amici cui sta pensando hanno tutti l'effigie di Grant stampata sopra. «Nick deve averle raccontato molte cose», dico. «Come?» Ha già la testa da un'altra parte. «A proposito del suo lavoro, di quello che faceva...» «Non molto.» «Da quanto mi diceva, voi due eravate molto uniti.» «Be', sì... ci amavamo, se è questo che intende.»
«E scommetto che alla sera lui le raccontava tante cose.» La guardo. Lei guarda me. Sorrido. Lei arrossisce. «Be', qualcosa.» «Bene. Allora le avrà parlato della Jamaile Enterprises...» Mi guarda con aria interrogativa. «No. Non mi pare. Cos'è?» «È una società... o, perlomeno, lo era finché non ha mancato di pagare l'imposta sulle società.» «Che c'entra con Nick?» «Lui era uno dei dirigenti.» «Non ne so nulla. Non ne ho mai sentito parlare. A me, lui non ha mai detto niente.» «Pensavo l'avesse fatto, visto che l'unico altro dirigente era un suo conoscente.» «Chi?» «Gerald Metz.» A questa notizia i suoi occhi s'incupiscono, le pupille si muovono inquiete mentre assimila l'informazione. «Cosa? Non me l'ha mai detto.» Mi pare quasi di sentire gli interrogativi che scoppiettano nella sua mente come popcorn. «Quando l'hanno creata? Nick gliel'ha detto?» «Più di un anno fa e, no, Nick non me ne ha parlato.» Se sa qualcosa, non si direbbe, dall'espressione confusa sul suo volto. «Non capisco.» «Siamo in due. Nick mi ha detto che lei ha conosciuto il signor Metz alla Commissione per i beni artistici.» «Esatto.» «Quand'è stato?» «Non saprei. Probabilmente alla prima riunione cui ho partecipato», risponde. «Ora che mi ci fa pensare, pareva che lui mi conoscesse.» «Come mai?» «Non lo so. Mi si è avvicinato e si è presentato dicendomi: 'Lei è la moglie di Nick Rush, vero?'» «Allora ha ammesso di conoscere Nick?» «No. Io gliel'ho chiesto e lui m'ha detto di conoscerlo solo di fama. Lo aveva visto sui giornali, quel genere di cose. Con i clienti che si ritrovava, Nick non avrebbe potuto evitare di finire sui giornali, nemmeno se avesse voluto. E non voleva.» Resto in silenzio a rimuginare. Dana non mi guarda. Tiene gli occhi bas-
si, fissi sul tappeto. «Come ha saputo di questa società, di questi rapporti d'affari tra loro?» «Dalla polizia», rispondo. «E abbiamo avuto conferma...» «La polizia?» «Sì.» «A me non hanno detto nulla.» «Forse non volevano disturbarla.» Capisco che questo la rende inquieta. «Come l'hanno scoperto?» «Non lo so.» Dana rimane per un po' in silenzio, meditabonda. «Ho detto alla polizia che ero stata io a mandare Metz da Nick.» «Be', considerato quello che lei sapeva al momento, era la verità. Giusto?» «Assolutamente sì.» Dalla sua espressione capisco che non è stata una giornata facile: prima l'assicurazione, ora la polizia che ha scoperto che suo marito era in affari con Metz, il che contraddice quanto da lei dichiarato. Si starà chiedendo cosa pensino di lei. «In che termini Metz le ha parlato dei suoi problemi legali?» chiedo. «Cosa le ha detto, esattamente?» Capisco che la sua mente stava già andando in quella direzione, nel tentativo di ricostruire gli eventi. «È stato... a una riunione.» Ora è turbata. Troppe novità, tutte inquietanti, o forse è solo quello che vuol farmi credere. «Credo fosse marzo. In ogni caso, la scorsa primavera. Mi si è avvicinato e mi ha detto che sapeva che ero sposata con un buon avvocato e che aveva bisogno d'aiuto per un problema di lavoro. Gli ho risposto che mio marito era un penalista e lui ha detto che... che era proprio ciò di cui aveva bisogno.» «Le ha fornito qualche particolare su questo problema?» «Nessuno. Ha detto solo che aveva bisogno di un avvocato.» «Aveva mai parlato con Metz prima di questa conversazione?» «Certo. Voglio dire, la commissione è composta da ventotto persone. C'incontriamo. Parliamo. Siamo noi a smistare i finanziamenti dell'NEA alla contea. Il National Endowment for the Arts.» «Ballano molti soldi?» «Dipende. Alcune sovvenzioni sono consistenti. Ne stiamo valutando una per un nuovo teatro dell'opera che potrebbe comportare una spesa di qualche milione di dollari, ma perlopiù si tratta di piccoli finanziamenti in-
dividuali.» «E Metz? Di solito partecipava alle riunioni?» «Quasi sempre. Ci eravamo parlati qualche volta. Però non posso affermare di averlo conosciuto bene.» «Sa com'è entrato a far parte della commissione?» «Nello stesso modo in cui ci sono entrata io, suppongo: in seguito alla nomina da parte di uno dei membri del Consiglio dei supervisori della contea.» Rifletto sulla cosa, mentre lei mi guarda. «Per pura curiosità, lei da chi è stata nominata?» «Sapevo che me lo avrebbe chiesto. Me l'ha chiesto anche la polizia, ma non lo ricordavo», risponde. «Imbarazzante, lo so. Dopo sono andata a guardare i documenti. È stato il supervisore Tresler.» «Lo conosce?» Scuote la testa. «Non personalmente. Voglio dire, è possibile che io l'abbia incontrato in qualche occasione, ma non ricordo. Io non mi occupo di politica.» E invece sì, solo che non si tratta della politica in cui la gente va a votare, penso. «Allora, com'è stata nominata?» «Nick pensava che fosse una buona cosa per me. Credo che stesse cercando qualcosa che mi piacesse. Non è poi questa gran cosa... cioè, non è una delle commissioni migliori», puntualizza. «Ci sono alcuni comitati consultivi in cui si percepisce uno stipendio. Per la commissione non c'è nessun compenso. Ti rimborsano solo le spese. Una volta all'anno, un piccolo gruppo va in Europa per degli incontri con gli espositori. Funziona a rotazione, io non ho ancora avuto l'occasione di andare.» Abbassa lo sguardo. «E suppongo che non l'avrò più. Voglio dire, è possibile che io debba dare le dimissioni e trovarmi un lavoro. Non so cos'altro dirle. Mi aiuterà, vero?» Dana ha ripreso la mia mano, e la sta sottoponendo al trattamento di spremitura. Quando mi alzo, sono costretto a piegarmi per liberarmi dalla sua stretta. «Vedrò quello che posso fare. Ne riparleremo.» Con Nick e Metz morti e la polizia che non sa più che pesci pigliare alla ricerca dell'assassino, l'unica pista valida al momento è quella di Espinoza. Per ora sta marcendo in un centro di detenzione preventiva dei federali in attesa che il difensore pubblico faccia fissare una cauzione. Quello che mi preoccupa, considerati i capricci dei giudici federali, è che
qualche magistrato impazzito possa fissare una cifra che Espinoza o uno dei suoi soci è in grado di tirar fuori. In quel caso, Espinoza verrebbe liberato e scomparirebbe in un batter d'occhio, e con lui la mia ultima possibilità di scoprire qualcosa. Così, questo pomeriggio, sono deciso a infilare la testa nella bocca del leone legale, facendo il possibile e l'impossibile per accalappiarlo come cliente e tenerlo dentro. Mentre mi avvicino alla porta d'ingresso, sento un televisore acceso, la musichetta e le voci dei cartoni animati. Soprattutto, si sente il pianto di un bambino. Busso alla porta. Chiunque sia all'interno non sente. Controllo ancora una volta il numero civico scritto a mano sulla porta. Se la famiglia di Miguelito Espinoza o chiunque vivesse con lui non ha tagliato la corda, è l'indirizzo giusto. Busso più forte. Un paio di secondi dopo, un'ombra si muove dietro il vetro smerigliato. «Chi è?» «Mi chiamo Paul Madriani.» «Cosa vuole?» «Sto cercando i familiari di Miguelito Espinoza.» Dall'altro lato della porta mi giunge solo il suono del televisore e il pianto del bimbo. «Cosa vuole da loro?» La porta si apre di qualche centimetro, la catena di sicurezza all'altezza degli occhi. Un occhio azzurro seminascosto da capelli biondi, dritti e disordinati, mi scruta attraverso la fessura. «Salve.» Le rivolgo il mio sorriso più disarmante e rassicurante, e infilo un biglietto da visita attraverso l'apertura. Lei lo prende con una mano e cerca di leggerlo tenendo il bambino tra le braccia. «Sono un avvocato. Credo di poter aiutare il signor Espinoza.» «Ha visto Michael? Gli ha parlato?» «Lei è la moglie?» Mi guarda senza rispondere, poi guarda di nuovo il biglietto da visita. «Lui non c'entra con quella roba», dice. «Conosco Michael. Lui non farebbe niente del genere. E poi, quando lo hanno portato via, mi ha detto che non hanno niente in mano, nessuna prova.» Parla come se fossi io a doverlo giudicare, lì, sui gradini di casa, attraverso una porta socchiusa. «È quello che pensavo», dico. «Posso entrare?» «Quando gli ha parlato?»
«Non vorrei restare qua fuori a parlare di una cosa così sotto il porticato. Ho dei documenti da farle firmare.» «Perché?» «In modo da poterlo rappresentare.» La porta si chiude all'improvviso. Sento la catena che scorre nella guida di ottone. Poi si riapre, questa volta completamente. Sulla soglia c'è una specie di donna bambina: un metro e cinquantacinque d'altezza, cinquanta chili di peso a dir tanto. Ha lunghi capelli biondo scuro, indossa un paio di jeans logori e una camicia da uomo di flanella di quattro taglie più grande. È a piedi nudi sulla moquette lurida, davanti alla porta. Tiene fra le braccia un neonato avvolto in una copertina azzurra. Non riesco a vederne il volto. Quello della ragazza è ovale, dai lineamenti fini, quasi da uccello, una bocca all'ingiù che pare aver perduto la capacità di sorridere. «Il bambino ha fame», m'informa. Dalle urla che si levano da dentro la coperta, direi che, se non altro, il bimbo ha i polmoni buoni. «Cosa ha detto Michael? Ha chiesto di me?» Ignoro le sue domande. «Posso entrare?» «Sì.» Mentre varco la soglia, lei guarda oltre le mie spalle, verso la strada, quasi aspettasse qualcun altro. Poi chiude la porta, sposta il bimbo su un solo braccio, gira il chiavistello e rimette la catena di sicurezza. Si volta e attraversa il soggiorno, scavalcando indumenti, giornali vecchi, lattine di bibite vuote, e quello che sembra un pannolino usato. La moquette è disseminata di chiazze scolorite che mi fanno sospettare la presenza, in qualche epoca precedente, di animali domestici nella vita di Miguelito. Un cartone da pizza vuoto è gettato per terra in mezzo al pavimento, il formaggio fuso e indurito come plastica bianca. La donna bambina schiaccia un pulsante del televisore. Il bimbo smette di urlare per un secondo, poi riattacca. «Gli piace il rumore della televisione, a volte lo calma», mi spiega. Tira giù la copertina e accarezza la testa del piccolo, cullandolo con l'altro braccio nel tentativo di confortarlo. «Cos'ha detto? Riesce a farlo uscire di prigione? Non ho più da mangiare. Miguelito può farmi avere un po' di soldi?» «Lei è sua moglie?» Annuisce. «Come si chiama?» «Robin. Robin Watkins. Espinoza», aggiunge. «Ci siamo sposati l'estate
scorsa.» «Ha qualche documento che lo provi? Una licenza di matrimonio?» «Perché?» «È necessario, se devo rappresentare suo marito.» «Dev'essere da qualche parte.» «Può cercarla?» «Un minuto.» Si allontana lungo il corridoio, quasi saltellando, ma senza far rumore sulla moquette logora. In piedi, davanti al soggiorno, osservo la spazzatura disseminata per terra. Contro la parete c'è un divano che ha visto tempi migliori, con il rivestimento di un bracciolo a brandelli. Tracce del passaggio di un gatto. Sento la madre col figlio frugare nell'altra stanza, rumore di cassetti che sbattono, oggetti che cadono a terra. Dopo un minuto o giù di lì, la sento tornare lungo il corridoio, sempre a passo veloce, ma questa volta composto. Con una mano si aggiusta i capelli, consapevole per la prima volta che il suo aspetto potrebbe essere importante per il bene del marito. Si destreggia a fatica col bambino e una busta stretta fra le dita. Mi porge la busta. «Può farlo uscire su cauzione?» mi chiede. Dentro la busta c'è un unico foglio. Lo tiro fuori e lo dispiego. È un certificato di matrimonio emesso in questa contea lo scorso luglio, a nome di Miguelito Espinoza Garza e Robin Lynn Watkins. Robin dichiara di avere diciotto anni. Non vorrei doverlo confermare sotto giuramento. «Può farlo?» insiste. «Può farlo uscire?» «Non lo so. Dovrà firmarmi dei documenti.» «Non mi hanno neppure permesso di parlargli», si lamenta. «Lo hanno portato laggiù, in quell'edificio grande. Quello alto, bianco, in centro. Ci sono andata, ma non volevano neppure dirmi che era là.» Sulla guancia destra ha uno sbaffo di sporco. La piccola fiammiferaia. «Mi hanno detto che, se non me ne andavo, mi arrestavano.» È più probabile che avrebbero chiamato un agente addetto al recupero degli studenti che marinano la scuola. «Sa se ha già un avvocato?» le chiedo. «Il difensore pubblico nominato dal tribunale federale?» Fa spallucce, scuote la testa. «Gliel'ho già detto, non hanno voluto dirmi niente.» Mi guarda con quei suoi occhioni azzurri e ingenui. «Da quanto tempo conosce Michael?» domando. «Perché me lo chiede?»
«Potrebbe essere utile conoscere la sua storia.» «Ci siamo conosciuti su alla fiera di Pomona. La scorsa estate. Io lavoravo in una giostra e Michael si è avvicinato. Mi ha visto.» Sorride al pensiero del loro amore a prima vista, fissando un punto lontano, con espressione sognante. «Per un po' abbiamo convissuto», riprende, «ma poi Michael ha detto che avremmo potuto avere un po' di soldi dalla contea se ci sposavamo. Lui non stava qui molto e così... forse non dovrei dirle queste cose.» «Non si preoccupi.» «Io prendo il sussidio. È per il bambino», spiega. «Probabilmente non dovrei, ma Michael è sempre via. Viaggia molto. Io sono preoccupata perché non ho più soldi per il latte in polvere. Ho speso tutto e il bambino ha fame.» Gli sta nuovamente accarezzando la testa, baciando il visetto perso dentro la copertina. Sotto il braccio ho una cartellina portadocumenti. La apro e tiro fuori un modulo preparato prima di uscire dall'ufficio. Scrivo il suo nome in stampatello sotto la riga destinata alla firma, in fondo alla pagina. «Questa è un'autorizzazione, un mandato per fornire servizi legali», spiego. «Mi permette di rappresentare Michael. Ecco.» Le porgo la penna. Mi passa il bambino e prende foglio, penna e cartellina. «Dove devo firmare?» «In fondo. La riga sopra il suo nome.» Le indico il punto con un dito. Il bimbo continua a piangere, affamato. Non mi chiede a cosa serve quel foglio né se ho già incontrato suo marito. Invece mi chiede, alzando lo sguardo: «Come faccio a pagarla?» Ci scambiamo bambino e cartellina. Ripongo il documento firmato, poi prendo il portafoglio dalla tasca interna della giacca e lo apro. Nello scomparto delle banconote ho quattrocento dollari e qualcosa. Prendo i biglietti da cento e glieli porgo. «Ecco, questi sono per lei. Ci aggiusteremo con Michael. Non si preoccupi.» Le s'illuminano gli occhi. «Compri da mangiare per suo figlio e anche per lei.» 11 Metà giugno. Ci troviamo nella sala riunioni di Tolt pannellata in noce. «Glenda. Sono Adam. Puoi farli entrare tutti.» Tolt abbassa il ricevitore, si appoggia all'alto schienale della poltrona imbottita e mi guarda. Siamo
seduti intorno al lucido tavolo della sala riunioni attigua al suo ufficio. Questo è il sancta sanctorum, il luogo in cui il consiglio d'amministrazione dello studio si riunisce ogni tre mesi per tirare le somme, distribuire bonus e accogliere nuovi soci, senza dubbio dopo accordi segreti. «Lascerò che sia lei a gestire la cosa», dice Tolt. Si riferisce alla trattativa che sta per cominciare. «Io mi limiterò alle presentazioni, e poi se c'è qualcosa che posso fare...» Compie un gesto aristocratico, un movimento ampio col dorso della mano neanche fosse un doge veneziano. Così facendo sorvola il sottomano in pelle con gli angoli dorati su cui poggia come uno slanciato siluro la Mont Blanc nera. Gli occhi di Tolt fissano la porta alle mie spalle, mentre le dita di una mano, adorna di un grosso anello d'oro, picchiettano sul tavolo con un rumore che ricorda il rullo di tamburi che prelude a un'esecuzione. Istintivamente, Adam ha occupato il posto d'onore all'estremità del tavolo. Questo è il suo territorio. Non pensa che io abbia molte possibilità oggi, specialmente alla luce delle posizioni rigide assunte dalle due donne, Dana e Margaret Rush. Nessuna delle due è disposta ad accontentarsi di meno di due milioni di dollari, il massimale pieno della polizza sulla vita di Nick Rush, anche se ho idea che, con un po' d'insistenza, potrei convincere Dana a cedere. Non ho messo Tolt a parte delle mie argomentazioni: non sono certo di potermi fidare di lui. Quindi anche lui le sentirà per la prima volta nel momento in cui le esporrò. La porta di fronte a me si apre e io sollevo lo sguardo. L'assistente di Tolt funge da cerimoniere, facendo entrare i convenuti. Il primo volto che compare sulla porta è rubizzo. Appartiene a un uomo alto, ben piantato, vicino alla cinquantina, con capelli biondi tagliati cortissimi, pettinati con la riga a sinistra, che gli danno un'aria un po' feroce. Indossa un abito scuro di buon taglio, un gessato da manager con tutto il vantaggio psicologico che può offrire, qualunque sia. Mi osserva per un istante con occhi azzurri penetranti che non comunicano altro se non un sorriso compiaciuto, il tipo di sorriso che si vede sulle labbra di politici in gran forma o uomini d'affari arrivati al top scavalcando cadaveri. In base al copione e alle descrizioni avute da Tolt, questo dev'essere Luther Conover, liquidatore capo e vicedirettore della divisione indennizzi della Devon Insurance, assicuratore principale nella polizza key-man sulla vita di Nick. «Luther. Che piacere.» Tolt si alza dalla poltrona. «È già un po' che non ci vediamo.»
«Già. Troppo. Quand'è stata l'ultima volta? Mi pare alle regionali, a quella riunione del consiglio. Quand'è stato? Due anni fa?» «Mi pare. Come stanno Julie e i ragazzi?» «Oh, loro stanno bene. I gemelli vanno al college il prossimo anno.» «Nooo!» Adam carica la voce d'incredulità. «Ne compiono diciotto», dice Conover. «Non posso crederci. Ma se erano alti così.» Tolt fa un gesto con la mano all'altezza del piano del tavolo. «Ah, ne è passato di tempo.» «Ringraziamo il cielo per i piccoli doni», commenta Conover. «Non è che non sia contento di vederti», prosegue, «ma non sono certo che il mio portafoglio sia in grado di reggere il colpo.» «Sciocchezze», ribatte Adam. «Ci siamo sempre divertiti un mondo. E poi, non si tratta di soldi tuoi.» «Sì, ma le tue mani continuano a infilarsi nelle mie tasche.» Conover mi guarda e ride, indicando che posso unirmi a loro. È tutto molto cordiale, risatine da una parte e dall'altra. Non ho idea di cosa stiano parlando. Posso solo supporre che in passato Tolt abbia già lasciato il segno sulla Devon Insurance. «Ti presento Paul Madriani.» E così, Tolt fa conoscere a Conover la mano che insidierà l'altra sua tasca. Ci stringiamo la mano. Mi rivolge lo stesso sorriso sicuro che mi aveva riservato entrando, lo sguardo sbrigativo con cui si valuta l'ultimo legale venuto a spremerti. Subito torna a rivolgere la sua attenzione a Adam e i due prendono a parlare di golf, facendo domande e battute sui rispettivi handicap. «Dovremo chiamarti a Temecula», propone Conover. «Pare che ultimamente riesca a giocare solo quando sono in vacanza», ribatte Adam. «Dove?» «Al de Anza Country Club.» «Sei socio?» Tolt annuisce. «Abbiamo acquistato un appartamento nei pressi della quattordicesima buca. Ci andiamo, ogni tanto.» «Come sta Margo?» «Sta bene. E tiene in forma anche me.» «De Anza. È un po' troppo costoso per le mie tasche.» Conover lancia un'altra occhiata nella mia direzione. «Lei gioca a golf, signor Madriani?» «Mi spiace, ma non rientra fra i miei vizi.»
«Bene. Dovremo portarla sul campo. Ho bisogno di qualcuno da battere. Adam mi fa a pezzi ogni volta che ci avviciniamo al green. Quello che gli manca nei colpi lunghi, lo compensa ampiamente nei colpi lenti e precisi.» Sorridiamo di nuovo, mentre fuori della porta la fila si allunga. Dietro Conover, c'è un tizio magro sulla trentina che porta la valigetta con entrambe le mani. Cerca di sollevarla oltre la spalla di Conover, passandogli accanto per andare a sedersi davanti a me, dall'altra parte del tavolo. «Scusate», dice Conover. «Vorrei presentarvi Larry Melcher, consulente legale della Devon. Paul Madriani. È giusto Madriani? L'ho pronunciato correttamente?» «Esatto.» Stringo la mano di Melcher mentre rispondo a Conover. Quando mi volto verso l'avvocato, lui mi rivolge lo sguardo tipico dell'assicuratore: il gioco del predominio. Ci annusiamo a vicenda. È una pratica molto usata da tutti i legali assicurativi. Se avesse la minima speranza di farla franca, mi perquisirebbe. Invece si limita a mettere alla prova la mia mano con quella stretta, quasi che la controversia potesse essere risolta a braccio di ferro sul tavolo da riunioni. «Lei chi rappresenta esattamente, in questa sede?» Melcher non si è ancora seduto e già cerca informazioni utili a inchiodare la mia cliente. Meglio non cercare di tenere il piede in troppe scarpe. «Il mio studio rappresenta Dana Rush. Forse ha incontrato il mio socio fuori, alla reception?» «Non credo di averne avuto l'occasione.» Il sorriso con cui lo dice mi fa capire che fuori l'atmosfera deve essere tutt'altro che cordiale. Con Dana e Margaret nella stessa stanza, è possibile che abbiano dovuto raschiare il ghiaccio dalle pareti. Dana è la prossima a entrare, seguita da Harry. Ho dovuto insistere per farlo venire. Avevo bisogno di qualcuno che facesse da arbitro se Margaret e Dana avessero deciso di fare a botte nella sala d'attesa. Fanno il giro lungo per venire dalla mia parte del tavolo. Dana prende posto tra Harry e me. Mentre faccio le presentazioni, Conover è impegnato a rifarsi gli occhi con la mia cliente, facendo sfoggio di un sorriso abbagliante. Senza dubbio gli piacerebbe farle qualche domanda, e magari spogliarla, ma non è né il momento né il luogo. Nel frattempo, Margaret entra dalla porta alle sue spalle, ammirando la sala, il lampadario di cristallo francese sopra il tavolo, i quadri a olio alle pareti, prendendo nota di come Dio arrederebbe il Paradiso se avesse i sol-
di. È seguita dal suo avvocato, Susan Glendenin, una bionda vivace e allegra, disinvolta e simpatica. La sua corporatura minuta e la voce a tratti timorosa hanno ingannato più di un avvocato, inducendolo a prenderla sottogamba in aula, solo per risvegliarsi con le braghe calate e le tasche vuote. Sue sorride, come sempre. Margaret no. Glendenin passa accanto ai presenti e si presenta a Tolt consegnandogli il suo biglietto da visita. Fa lo stesso con Conover e il suo legale; arrivata a me, mi saluta con un cenno del capo. «Come stai, Paul?» «Te lo dico tra un po'», rispondo, strizzando l'occhio. «A te questo non serve.» Infila la scatoletta con i biglietti da visita nella tasca della giacca. Il gesto non passa inosservato a Conover: il fatto straordinario che due legali di parte avversa si conoscano e per di più riescano ancora a sorridersi. Muovendosi lentamente, come un animale ferito attraverso il territorio di un predatore, Margaret non sa più dove guardare. Osserva i dipinti alle nostre spalle, l'orologio, scrutando ogni angolo pur di non dover guardare Dana. La donna invisibile. Fra tutte queste presentazioni e strette di mano, nessuno è così stupido o coraggioso da cadere nella trappola di presentare queste due donne. Per parte loro, le due fanno del loro meglio per ignorarsi a vicenda. «Credo che sarebbe meglio cominciare», dice Adam. «Qualcuno gradisce un caffè? Qualcosa da bere?» «Uno scotch e soda, ma solo quando abbiamo finito», dice Conover. Lui e Adam ridono. «Perché aspettare?» intervengo. «Harry e io saremmo ben lieti di servirglielo.» Altre risate, da parte di tutti tranne che di Margaret, che sembra già pronta a esplodere. «Accomodatevi, prego.» Adam si assume il compito di fare da cerimoniere, mentre la sua assistente prende le ordinazioni dei caffè e le comunica attraverso l'interfono a qualche segretaria. Tutt'intorno al tavolo le persone si sistemano sulle poltroncine a rotelle; noto che Margaret si allontana visibilmente da noi. Il suo avvocato resta attaccato a Melcher, incastrandolo contro il tavolo in modo che, se vorrà prendere appunti senza essere visto, dovrà tenere il blocco premuto contro il torace. Glenda, l'assistente di Adam, si è sistemata all'altro capo del tavolo, pronta a prendere appunti, nel caso dovessero sorgere discussioni su quan-
to è stato affermato durante l'incontro. «Credo che siate tutti a conoscenza del motivo per cui siamo qui riuniti.» Tolt siede eretto sulla sua poltrona a capotavola. «La Devon Insurance ha emesso una polizza d'assicurazione sulla vita a favore di uno dei soci del nostro studio, Nicholas Rush. Il signor Rush, come tutti noi sappiamo, è ora defunto, e pare che siano state avanzate due diverse richieste d'indennizzo a fronte della polizza, ognuna per l'intero ammontare della cifra assicurata, due milioni di dollari. Una è stata presentata dalla signora Margaret Rush, l'altra dalla signora Dana Rush. Vi prego d'interrompermi se dico qualcosa d'inesatto o se ci sono domande.» Tolt si guarda intorno. Nessuno fiata. «Vi sono alcuni dettagli, alcune complicazioni di cui possiamo discutere se necessario», prosegue. «Dettagli e complicazioni»: è così che lui liquida la questione dell'accordo coniugale tra Margaret e Nick, e il fatto che il nome della vedova non compaia sulla polizza come beneficiario. Per una cosa del genere qualche nazione del Terzo Mondo potrebbe arrivare a dichiarare guerra, vista la somma in gioco. Tolt si schiarisce la gola e beve un sorso d'acqua dal bicchiere che Glenda ha riempito in precedenza e posato vicino alla sua mano. «Questo incontro ha lo scopo di chiarire se oggi sia possibile arrivare a un accomodamento, per risolvere la controversia senza adire le vie legali.» Guarda le due donne quasi volesse dare più forza alle sue parole. «Cioè, senza dover finire in tribunale e affidare a un giudice una decisione della quale, forse, nessuno di noi sarebbe interamente soddisfatto.» «Io sarei più che soddisfatta se il tribunale facesse rispettare i termini della polizza», spara Margaret, incapace di contenere oltre la propria rabbia. «Sì, ma se dovesse perdere?» ribatte Tolt. «Ci sono altri problemi, come certamente le avrà detto il suo avvocato. E nessuno di noi vorrebbe vederla rimanere senza una forma d'indennizzo.» Margaret lancia uno sguardo maligno a Dana, convinta, ne sono certo, che Tolt non stia parlando a nome di tutti i presenti. «Lo stesso vale per lei», prosegue Adam, rivolgendosi a Dana. «Sinceramente, non credo che Nick avrebbe voluto che una di voi due soffrisse.» Queste parole suscitano un grugnito perfettamente udibile da parte di Margaret. «Oh, ce lo risparmi!» Tolt la ignora. «Il fatto è che nessuno di noi vuole vedere danneggiata né l'una né l'altra. Io credo che, se considerate i rischi e ci riflettete a fondo, vi
troverete d'accordo con noi.» A Margaret non basterebbero due vite per arrivare a questa conclusione. Glendenin si avvicina alla sua cliente e le posa una mano sul braccio, un gesto inteso a calmarla, ma che le procura solo un'occhiata sprezzante. In un attimo, Susan torna a invadere lo spazio vitale di Melcher, lasciando Margaret alla deriva nel suo mare di sdegno. «Mi auguro che questo valga anche per noi», osserva Conover. «Mi riferisco all'auspicio che nessuno venga danneggiato.» «Certo.» Gli occhi di Adam luccicano, pieni di affettata benevolenza. Se non altro, la cosa serve a sdrammatizzare un po'. «È rassicurante», commenta Conover, sorridendo. «Ovviamente, siamo consapevoli di dover pagare. L'unico problema è: chi?» Margaret continua a fissare Dana con un'espressione di disprezzo, e ho l'impressione che la mia cliente vorrebbe tanto nascondersi sotto il tavolo. Non è il denaro in sé, bensì la consapevolezza che una parte di esso andrebbe a Dana che impedisce a Margaret di trattare. Spinge la poltroncina verso il suo avvocato a cui mormora qualcosa all'orecchio, coprendosi la bocca con la mano. Una volta messa in chiaro la sua posizione con me, è improbabile che ceda. Avendo perso il marito per colpa di Dana, non rinuncerà anche alla polizza con sopra il suo nome. Ce l'ha scritto negli occhi mentre parla con il suo avvocato e non ci vuole un indovino per capirlo: «Non un centesimo meno di due milioni di dollari». Mentre la osservo, lancia un'occhiata in direzione della porta. Basterebbe poco per indurla ad andarsene. Sa che non avremo una seconda possibilità d'incontro con la compagnia d'assicurazioni, a meno che non si vada in tribunale. «Magari, se potessimo fare un qualche passo avanti», azzarda Conover. Guarda Margaret che sta ancora sussurrando all'orecchio di Susan. «Se potessimo convincere una delle signore a rompere il ghiaccio. A presentare un'offerta tramite il proprio avvocato...» Conover pronuncia queste parole fissando Margaret, che smette di parlare e s'interrompe a metà frase. La tattica è chiara: mettere le due donne l'una contro l'altra e tenersi i due milioni di dollari all'interesse del sette per cento, mentre le due si scannano in un'aula di tribunale. Sta per lanciare a Margaret la proposta del compromesso, come se fosse una bomba a mano. Conover non vede l'ora di tirare la linguetta per andarsene al più presto. Sospetto che abbia accettato di partecipare a quest'incontro solo per assecondare Adam Tolt. Senza dubbio, in una delle sue vite parallele, Adam Tolt è membro d'innumerevoli consigli di amministrazione, in cui siede
fianco a fianco con i superiori di Conover. Ha le mani in pasta dappertutto. «È esattamente quello in cui speravo.» Sono le prime parole che pronuncio con sincerità. «Qualche passo avanti.» «La sua cliente è pronta a trovare un compromesso?» chiede Melcher, l'avvocato, lanciandosi come una pantera per afferrare l'occasione. «Sì. È disposta a rinunciare alla metà.» «Ah, bene», commenta Conover. «La signora Rush», dice, facendo un gesto in direzione di Dana e usando un appellativo che, lui lo sa, farà infuriare Margaret Rush, «è disposta a rinunciare a un milione di dollari pur di comporre la vertenza.» Lo dice come se stesse sollecitando un applauso a un'asta di beneficenza. «Non ho detto questo. Io ho detto che è disposta a rinunciare alla metà.» Adam osserva questa zuffa tra gatti dalla sua poltrona, i gomiti poggiati sui braccioli, le punte delle dita congiunte. «In realtà, è disposta a rinunciare a due milioni di dollari», aggiungo. «Intende dire che è pronta a rinunciare a tutto?» Conover mi rivolge un'occhiata incredula come per dire: «Allora cosa ci facciamo qui?» «No. Solo alla metà», ripeto. Scuote la testa, guarda il suo avvocato, il quale si stringe nelle spalle. Tutti e due cercano di capire cosa gli è sfuggito. «Si spieghi», mi sollecita. «L'indennizzo totale non è di due milioni di dollari. Sono quattro milioni», preciso. «Di cosa sta parlando?» chiede Melcher. «Sto parlando della clausola del doppio indennizzo.» «Cosa?» Melcher guarda il suo capo, scuotendo la testa e stringendosi nelle spalle, alzando i palmi delle mani come per dire: «Chi ha fatto entrare questo pazzo?» Poi mi chiede: «Lei di cosa si occupa? Non di diritto assicurativo, vero?» «Principalmente di diritto penale.» «Aah.» Un'occhiata del genere: «Questo spiega tutto». «Il doppio indennizzo interviene solo per morte a seguito d'incidente.» Lo dice con un tono gentile, come se bastasse un minimo di educazione a risolvere il problema. «Questo è stato un omicidio», prosegue. «Doppio omicidio sì, ma doppio indennizzo di certo no.» Sorride per il gioco di parole. «Il signor Rush è stato assassinato, a meno che ci sia qualcosa di cui non siamo stati informati.» «È possibile», gli dico. «Lei ha letto il rapporto della polizia?»
«C'è l'ho qui, da qualche parte», risponde Melcher. Apre la valigetta e si mette a frugare. «Le risparmierò la fatica. Cerco di spiegarmi meglio. Nick Rush potrebbe essere rimasto vittima di un atto intenzionale. Non abbiamo problemi ad ammetterlo. Ma resta la questione se fosse realmente la vittima designata di quella sparatoria o un semplice, innocente spettatore. Nel qual caso, sarebbe morto per cause accidentali.» Enfatizzo le ultime due parole. «Ma per favore!» esclama Melcher. «Non starà dicendo sul serio?» Conover guarda il suo legale, chiedendosi cosa diavolo stia succedendo. Non sta andando come aveva previsto: un incontro veloce e via anni di cause, con loro che continuano a fare pressioni sulle due donne. «Non potrei essere più serio di così. Anzi, ci sono delle sentenze in merito.» Fascicoletti accuratamente pinzati scivolano sul tavolo, provenienti da un'altra direzione. Harry li sta tirando fuori da una cartellina gialla che tiene davanti a sé, come se stesse distribuendo le carte per una mano di faraone. Gli avvocati e Conover ricevono ognuno un fascicolo. «C'è anche una copia del rapporto investigativo sull'omicidio. Stabilisce che il defunto Nicholas Rush non era la vittima designata e che, con ogni probabilità, l'obiettivo del killer era il suo cliente, Gerald Metz. Questa conclusione si basa sulle prove rinvenute sulla scena del delitto, sulle testimonianze dei presenti e su altre prove in possesso delle autorità, sia statali sia federali. Vi consiglio di leggerlo con attenzione», dico. Harry si affretta a distribuire copie del rapporto della polizia, che arriva al volo sopra il primo fascicolo come un giocatore alla base, senza dare il tempo a Conover e al suo legale di finire la prima pagina della nostra trattazione legale. Ora gli avvocati sono tutti impegnati nella lettura. Glendenin e Tolt sono rilassati e divertiti, come se non avessero interessi in gioco, mentre Conover fissa Melcher in attesa che tiri fuori un coniglio dalla patta dei pantaloni. «Questo non dice niente. Non significa nulla», dichiara Melcher. Non ha avuto il tempo di andare oltre la prima pagina, ma si sente costretto dalla presenza del suo capo a sguainare la spada. «Il vostro uomo stava accanto al suo cliente. Ovvio che è stato colpito.» «E la sua tesi sarebbe?» chiedo. «Il cliente era la vittima designata. Lo dice anche qui.» «Sono d'accordo. È esattamente quello che sto dicendo io.»
«No. No. No. No.» Melcher pronuncia tutti questi no come se ognuno di essi contribuisse a dar peso alla sua tesi. «Lei non capisce», prosegue. «Il fatto che Nick Rush si trovasse accanto alla vittima designata non significa che sia stato colpito accidentalmente. Voglio dire, lui lo rappresentava. Era il suo avvocato.» «Cosa significa?» interviene Harry. «Sta dicendo che si era assunto il rischio?» «Non esattamente, ma in un certo senso...» risponde Melcher. «Intendo dire che quest'uomo, senza offesa per le signore», e qui guarda Dana, lanciando solo un'occhiata veloce in direzione di Margaret, «senza offesa, ma quest'uomo aveva clienti alquanto discutibili.» «A me lo dice?» ribatte Margaret. «E questo cosa c'entra?» «Non ci arriva da solo?» Melcher sta perdendo la calma. «Abbiamo questo avvocato abituato a difendere malavitosi, che se ne sta davanti a un tribunale federale in compagnia del suo cliente, quando i due vengono uccisi. Ora, se vuole comprensione, io ne ho da vendere, ma non fino a questo punto», puntualizza. «Secondo lei, cosa penserà la giuria quando scoprirà che quest'uomo rappresentava un trafficante di droga, nel momento in cui è stato ucciso?» Mi guarda inarcando le sopracciglia come se avesse appena causato un grosso danno alla nostra tesi. Non attende neppure la mia risposta. «Glielo dico io cosa dirà. Dirà che ha avuto quello che si meritava. Specialmente quando lei afferma che si tratta di... di...» Qui la collera prende il sopravvento e comincia a farfugliare. «Di morte accidentale», conclude, agitando i fogli che ha davanti. «Tanto per cominciare, quell'informazione non arriverà mai davanti a una giuria», gli faccio notare. «Come?» «Anzi, posso affermare con certezza quasi assoluta che un giudice non le permetterà mai d'informare la giuria che il signor Rush era un avvocato, e meno che mai che era in qualche modo collegato al signor Metz. È irrilevante, e io sosterrò che è altamente pregiudizievole.» «Legga le sentenze», s'intromette Harry. «Sono molto illuminanti.» «L'unico vero punto in discussione qui», riprendo, mentre Melcher mi guarda, consapevole di essere tra due fuochi, «l'unico vero punto è se il signor Rush fosse la vittima designata o se sia stato ucciso accidentalmente. Lasci che le faccia una domanda.» Conover sta guardando in basso, i gomiti appoggiati sul tavolo, la testa
fra le mani come se non volesse ascoltare oltre. «Supponendo che il signor Rush si trovasse davanti a quel tribunale da solo, senza il signor Metz, quella sparatoria sarebbe mai avvenuta?» Melcher mi guarda, poi guarda il rapporto della polizia, e le sentenze. Preferirebbe non rispondere. Sa che è una questione che posso sollevare davanti a una giuria. La questione fondamentale e inevitabile: se non fosse stato per Metz... «È una domanda semplice. Sulla base delle prove che ha davanti, lei pensa che la sparatoria avrebbe avuto luogo?» «Non lo sappiamo.» Conover dimostra il motivo per cui è il superiore di Melcher. Tira su la testa di scatto e risponde prima che possa farlo il suo legale. «Non lo sappiamo. Non abbiamo avuto il tempo di leggere attentamente la documentazione.» Sempre meglio di una piena ammissione di fronte a testimoni, anche se si potrebbe obiettare che si tratta solo di trattative private. Per oggi, Conover ha avuto abbastanza sorprese. «Se i nostri clienti dovessero finire in tribunale, potrà discuterne coi poliziotti», dico loro. «Quali poliziotti?» Melcher non riesce a trattenersi. «Quelli che verranno a testimoniare sulla vittima della sparatoria e sulla natura accidentale della morte del signor Rush.» Sono testimoni perfetti in una causa civile, e loro lo sanno: poliziotti chiamati a testimoniare che un avvocato della difesa è stato ucciso per errore. Che motivo avrebbero di mentire? E come possono cambiare la propria testimonianza dato il contenuto del rapporto? «Sono certo che riuscirete a convincerli a raccontare tutto del signor Metz e dei suoi sordidi commerci», li provoco. «E se non lo faremo noi, lo farà lei», dice Melcher. Riconosco il punto con un sorriso. «L'unica cosa di cui non potranno parlare è il fatto che il signor Metz era cliente del signor Rush o che il signor Rush era un avvocato.» «Al minimo sentore di questo», aggiunge Harry, battendo con un dito sui fogli, «il processo verrebbe annullato per vizio di procedura.» «Quindi, quello che abbiamo qui è un uomo che cammina per strada, badando agli affari suoi, e si trova coinvolto in una sparatoria cui è estraneo», concludo. Segue qualche secondo di silenzio mentre la consistenza delle nostre argomentazioni prende corpo. Il silenzio è rotto da Adam Tolt che si appoggia allo schienale della poltrona, facendo cigolare le molle. Si sforza di
mantenere un'espressione seria, ma è una battaglia persa e alla fine scoppia in una sonora risata. «Su, Luther, devi ammettere che non ti ho mai messo in un impiccio come questo, prima d'ora.» Poi prosegue, sempre ridendo: «Devo dire che a me sembra proprio un incidente». «Non sei esattamente uno spettatore obiettivo.» Il senso dell'umorismo di Conover è messo a dura prova. «Su», dice Tolt, «ti concedo la rivincita sul campo di Temecula.» Per quanto si sforzi di non mettere in ridicolo il suo amico Luther, non riesce a trattenersi dal ridere. «Senti, ci metterò una parola buona. Capiranno.» Sta parlando dell'ufficio centrale. «L'indagine è ancora aperta», cerca di correre ai ripari Melcher. «Chi può dire cosa potrà scoprire la polizia?» «Se pensa di riuscire a convincerli a cambiare direzione una volta fiutato il terreno, si sbaglia», dico. «Noi ci abbiamo già provato», rincara la dose Harry., «Lo sappiamo bene. Ovviamente, in passato, di solito era il nostro cliente cui stavano dietro.» Il mio socio non può fare a meno di sorridere, ma l'ironia della cosa sfugge a Conover e Melcher. Cominciano a intravedere un quattro seguito da una riga di zero su un assegno emesso dalla loro società. Vi sono parecchi motivi per cui la polizia preferisce non aprire troppi filoni d'indagine. Prima di tutto, dovrebbero informare gli avvocati della difesa ogni volta che puntano un sospetto o effettuano un arresto. L'esistenza di piste diverse non fa che accrescere il ragionevole dubbio, ma, se omettono di segnalarle, questo potrebbe costituire motivo di appello per far annullare una condanna. È improbabile che la polizia cambi direzione come una banderuola a ogni nuova informazione. Perlomeno finché i tribunali continueranno ad affermare che la linea retta è la via più breve verso una condanna. «Ovviamente, siete liberi di pisciare in qualche cespuglio, se pensate che questo possa indurli a interessarsi a qualche altra pista», dice Harry. «Nel frattempo, ci aspettiamo che voi paghiate l'intero ammontare della polizza. Non due milioni di dollari, bensì quattro, la clausola del doppio indennizzo. E perché non ve ne dimentichiate...» Il mio socio porge l'ultimo documento contenuto nella cartellina, una richiesta formale di risarcimento indirizzata all'assicurazione. Come la vede, Conover capisce subito di che si tratta. Anche se non voleva venire, Harry si sta godendo questo momento. Ca-
pita raramente di mettere una compagnia d'assicurazioni in questa posizione: piegata in due, le caviglie doloranti fra le mani. «Visto che avete già ammesso l'obbligo a pagare, se doveste mancare di soddisfare la richiesta...» sta proseguendo Harry. «Voi sosterrete la malafede.» Conover arriva al punto velocemente. Ha visto la lettera che gli ha allungato Harry. Serve a spianare la strada all'accusa di malafede. In questo caso, il massimo della pena pecuniaria potrebbe corrispondere a una buona fetta del debito pubblico. Potremmo avere la facoltà di esaminare i loro registri per determinare i risarcimenti punitivi adeguati a una compagnia assicuratrice rea di aver negato un pronto risarcimento alle due donne, una appena rimasta vedova, l'altra alla deriva dopo un brutto divorzio. Non sono circostanze favorevoli per una compagnia, niente che ti faccia venire la voglia di resistere a oltranza. Conover guarda Margaret, che continua ad avere un'espressione tetra, perfino adesso che è sull'orlo della vittoria. Sempre tenendo in mano la lettera di Harry, osserva Dana, che gli offre solo un timido sorriso. Se guardasse un po' più a sinistra, vedrebbe Susan, nascosta dietro Melcher. Sta fissando il tavolo con l'aria del topo che si è appena sbafato l'ultima briciola. È stata lei a convincere la sua vulcanica cliente a venire a quest'incontro e a impedirle di eruttare, cosicché ora possiamo discutere in privata sede la divisione delle spoglie tra le due signore Rush. Conover alza lo sguardo verso di me. La sua espressione parla chiaro. Sta pensando a un modo per salvare la faccia con dignità. Dubito che m'inviterà a giocare a golf con lui. 12 Miguelito Espinoza, padre di un neonato e marito della donna bambina, ha trentacinque anni, una catena nera tatuata intorno al collo, scritte nello stile delle gang ispaniche su entrambi gli avambracci, e un'aria da duro. Porta i capelli pettinati all'indietro e raccolti sotto una retina tesa intorno alla testa che gli copre anche la parte superiore delle orecchie. Ha lo sguardo spento, l'animo ancor più scuro della carnagione. Se ne sta seduto stravaccato sulla sedia, le gambe accavallate, indifferente, discosto dal tavolo quasi stesse cavalcando dritto verso l'inferno. Rischia svariati capi d'accusa, fra cui rapina a mano armata, nonché furto e possesso di proprietà del governo. Venticinque anni per ogni capo
d'imputazione se riescono a dimostrare il suo coinvolgimento nella rapina. Dieci anni ogni capo d'imputazione per i tre visti trovati in casa sua. Siamo seduti ai lati opposti di un tavolino d'acciaio in uno dei piccoli cubicoli destinati ai colloqui con i difensori nel Metro Detention Center, il bianco sepolcro che troneggia al centro della città. Una guardia ci osserva da dietro il vetro, gli occhi fissi sul tavolo in mezzo a noi per evitare che ci passiamo qualcosa. Quando è stato costruito, qualche anno fa, il centro di detenzione preventiva è parso subito una barzelletta. La ditta che si è aggiudicata l'appalto ha fregato il governo, rubando sul cemento. I detenuti bucavano il muro prendendolo a pugni e si calavano all'esterno annodando le lenzuola. Le guardie non potevano fare altro che restare ad ascoltare i colpi per capire da che parte provenissero e andare ad attendere i detenuti fuori, in strada, prima che questi riuscissero a scendere a corda doppia con le lenzuola e darsela a gambe. Da allora, il governo ha fatto rinforzare le celle, e ora ci vuole almeno un cucchiaio per aprirsi un varco. Espinoza non è particolarmente colpito dalla mia presenza. Ha un sacco di domande da farmi. Indurito dalla vita di strada, considera questo caval donato come se potesse morderlo. «Perché non mi dici chi ti ha assunto, amico?» «Te l'ho detto. Tua moglie Robin.» «Senti, amico, risparmiati queste stronzate per i tuoi amici. Robin non sa un cazzo di queste cose. Mi prendi per scemo? Robin è una povera stupida. Come fa ad aver trovato un avvocato? Non riesce neppure a trovare l'elenco del telefono. E se anche ci riuscisse, non sa leggere. E poi non ha i soldi per pagarti. Basta guardare i tuoi bei vestiti, la valigetta di pelle.» Lo dice con tono canzonatorio, le dita di una mano puntate con gesto indolente verso la mia valigetta posata per terra accanto al tavolo. «Ascoltami, amico.» Si mette a sedere diritto, i gomiti sul tavolo, e si sporge verso di me come se stesse per spiegarmi i misteri della vita. «Guardami. Io non parlo con te finché non so chi sei. Capito?» Mi stringo nelle spalle. «Bene. Spero che la sistemazione ti piaccia.» Mi alzo dalla sedia, prendo la valigetta e vado verso la porta. «Ehi, amico, dove vai?» «Hai detto che non vuoi parlare.» Si volta e lancia una rapida occhiata alla guardia, che si avvia verso di noi per riaccompagnarlo in cella. «Siediti, amico.»
«Se non vuoi parlare, no.» «D'accordo. Parleremo. Rilassati.» È tornato a stravaccarsi sulla sedia, cercando d'ignorare la guardia nella speranza che se ne vada. «Siediti.» Batte con due dita sulla superficie d'acciaio inossidabile del tavolo, un invito a unirmi nuovamente a lui. Qualsiasi cosa è meglio della cella. «Magari possiamo parlare del tempo.» Mi siedo. La guardia arretra e torna a osservarci, appoggiata alla parete. «Calma. Dammi un minuto.» Sta pensando, cerca di capire chi possa avermi assunto e perché. «Voglio solo sapere chi sei», ripete. «Tutto qui.» «Te l'ho detto.» «Tu non mi hai detto niente. Chi ti ha assunto?» «Che differenza fa, purché ti tiriamo fuori di qui?» Il suo sguardo guizza di qua e di là, mentre pensa. «Perché dovresti farlo?» «Chiamalo senso civico.» I suoi occhi dicono: «stronzate», ma non osa pronunciare la parola per paura che questa volta me ne vada davvero. «Puoi farlo?» chiede, invece. «Puoi farmi uscire?» «Non lo so. Prima, però, tu devi fidarti di me e dirmi cosa succede.» «Puoi farmi uscire su cauzione?» «Non sarà facile.» «Allora non sei così bravo.» «Siamo vicini al confine e tu sei accusato di aver rubato una cannonata di visti. Capirai bene che un giudice potrebbe avere qualche problema a farti uscire su cauzione.» «Che cazzo? Pensi che io sia a rischio di fuga?» Col gergo legale ha più dimestichezza lui della metà degli avvocati che conosco. «Quello che penso io non conta.» «Io non ne so nulla, amico. Di quei fottuti visti. Non so come ci sono arrivati, lì.» Ora siede eretto e ha abbandonato i modi distaccati. Mi guarda in faccia, cercando di trasmettere un barlume di onestà con quei suoi occhi scuri e tondi. «Erano nel tuo appartamento. Dentro il tuo armadio.» «Solo tre, amico. E il resto dov'è?» «Forse pensano che possa dirglielo tu.» «Come faccio a saperlo? Voglio dire, io non so un cazzo.» Si guarda intorno, scuotendo la testa, i palmi delle mani rivolti verso l'alto, tesi nel gesto di diniego tipico del detenuto, un onest'uomo pieno d'incredulità. «Son
lì che dormo tranquillo nel mio letto quando arrivano 'sti stronzi, mi puntano le torce negli occhi, un fucile contro la faccia. Un attimo dopo tirano fuori questa roba dal mio armadio. Te l'ho detto, amico. Ne so quanto te. Non so come sono finiti là. Ce li avrà messi qualcuno.» «Ovviamente. La domanda è: chi?» «Come faccio a saperlo?» «L'appartamento è tuo.» «C'è un gran via vai di gente», ribatte. «Ce li avranno messi loro.» «Loro chi?» Ci pensa per un istante. Glielo si legge negli occhi. Ha socchiuso appena la porta e adesso vuole richiuderla. «Loro», ripete. «Loro chi?» «Quei bastardi dell'immigrazione», risponde. «Mi stanno attaccati al culo.» «Stai dicendo che quelli dell'ufficio immigrazione ti hanno incastrato? Che hanno piazzato loro le prove nel tuo armadio?» «Perché no? Tutto è possibile.» «Dovrai inventarti qualcosa di meglio.» Si guarda intorno imbronciato - i neuroni che viaggiano alla velocità della luce -, pensando a nuovi modi per mentire all'ennesimo avvocato. Gli faccio notare che se fosse un'azione legale dello Stato, avrebbe di che preoccuparsi seriamente. «Sarebbe la terza volta. Ho visto i tuoi precedenti. Cosa ne diresti di una condanna all'ergastolo?» «Ma non è un processo dello Stato.» Magra consolazione. «Forse sì, forse no.» Espinoza mi lancia un'occhiata di traverso. «Cosa vorrebbe dire?» «La merce sottratta era di proprietà del governo federale, ma di fatto è riapparsa in questo Stato e, più precisamente, nel tuo armadio. Si potrebbe farne un caso di possesso di merce rubata.» «Ma non possono farlo. Non è vero?» La mia smorfia significa: «Tutto è possibile». Ora è vicino al tavolo. Ho tutta la sua attenzione. «Dimmelo, amico, perché dovrebbero farmi una cosa del genere?» «Perché no? Pensi che ti faranno lo sconto? Nel caso non l'avessi capito, hanno intenzione di spremerti, Miguel. Posso chiamarti Miguel, vero?» Annuisce. «Perché?» «Perché sono convinti che tu sappia qualcosa. Vogliono che tu gli parli
di certi tuoi amici.» «Chi ti ha mandato?» chiede. «Ci risiamo?» «Io non so nulla.» È tornato ad allungarsi sulla sedia, solo che questa volta ha una mano sulla bocca e si mangia le unghie. Sputa i resti mordicchiati insieme al luridume che c'era sotto. Resto a osservarlo per qualche secondo, seduto lì a rosicchiarsi le unghie lanciando sguardi diffidenti con quei suoi occhietti quasi che le pareti avessero orecchie. In questo caso, è anche possibile. Non posso essere certo che la nostra conversazione non venga monitorata. Sono in vigore le cosiddette «misure amministrative speciali», che permettono alle autorità delle carceri federali di ascoltare le conversazioni, anche quelle fra cliente e avvocato, qualora si tema per la sicurezza nazionale. Se Espinoza è accusato del furto di un migliaio di visti d'ingresso, sicuramente vorranno sapere per quale scopo sono stati rubati. Espinoza ha un tatuaggio sul dorso della mano, SANGRE, scritto a caratteri gotici simili a quelli usati nei murales nella zona orientale di Los Angeles. «Anche se non ti consegnano alle autorità statali, i federali ci andranno giù pesanti con te. Nel caso tu non l'abbia notato, i controlli al confine sono aumentati un tantino.» Metto l'accento sulle ultime parole. Impiega un paio di secondi a capire le implicazioni, poi mi guarda. «No, amico», dice. Quindi distoglie lo sguardo come se questo bastasse a mettere una qualche distanza fra lui e le sue conclusioni. «Io non sono un terrorista», aggiunge. «Magari, una volta ogni tanto, posso aver fatto entrare della gente. Certo. Ma non quella merda. Quella proprio no, amico.» «Forse loro non lo sanno. Quella che è sparita è roba rischiosa. Non un permesso di lavoro falsificato al computer da qualche dilettante, Miguel. Quei visti sono fatti col laser, con ologrammi. Sai bene anche tu che è impossibile accorgersi che sono falsi. La piccola macchina fotografica che usano giù al confine, a San Ysidro, per scattare foto e mandarle in Virginia...» Espinoza segue ogni mia parola. Sa esattamente di cosa sto parlando. «Sai, quella con cui controllano se i documenti sono falsi. Quella macchina e la gente su in Virginia non sarebbero in grado di fermarti, se ti presentassi al confine con uno di quei visti. Penserebbero che sei uno dei tanti onesti cittadini che vengono qua per affari. I malintenzionati potrebbero portare un sacco di roba pericolosa in questo Paese con visti come quelli.»
«Non è...» Si morde la lingua. «Non è cosa? Non è per questo che sono stati rubati?» D'un tratto intravede pericoli cui non aveva pensato prima. Abbassa lo sguardo sul piano del tavolo, poi mi guarda. «Perché? Voglio dire, perché devono per forza pensare che io sia un terrorista? Non ci sono prove. Io non ho mai fatto cose del genere.» Batte con due dita sul tavolo per dare più forza alle proprie parole. «Forse pensano che tu stia facendo carriera.» «Ehi, amico, tu mi stai facendo girare la testa. Sono tutte stronzate.» Mi volta le spalle, il diavolo che non vuole vedere né sentire. Ma l'idea si è insinuata nel suo cervello, dove ora sfrigola come un acido corrosivo. «Non possono farmi questo, amico. È illegale, cazzo. Non hanno prove. Esistono delle leggi», protesta. «Io ho diritto...» «Ovviamente puoi far valere tutte le tue ragioni», dico, «ma le persone che compongono le giurie, ultimamente, sono un po' rigorose. Se si convincono che tu possa essere una minaccia di quel tipo, be', potrebbero sbatterti in galera fino al giorno in cui i tuoi nipoti non diventano nonni.» Capisco che questo lo fa riflettere e dimenticare per il momento chi possa avermi mandato. Sta pensando al cielo, a quanto tempo potrebbe passare senza vederlo. Mi guarda con occhi lucidi. «Cosa vuoi sapere, amico? Ti dirò quello che posso.» «Come sarebbe a dire, lo rappresenti?» Harry mi guarda come se fossi impazzito, seduto su una delle poltroncine destinate ai clienti davanti alla mia scrivania. «L'ho incontrato ieri pomeriggio nel carcere federale, e gli ho detto che mi sarei occupato del suo caso.» «E perché? Ti ha versato un anticipo?» «A questo penseremo poi. Hai mai sentito parlare di una droga o di qualcosa che in gergo di strada si chiama Mejicano Rosen?» Harry scuote la testa. «Ho sentito parlare di Maui Wowee. Di Sensimilla hawaiana. È la stessa roba», dice. «Roba potente. E ho sentito parlare di black tar e white china, polvere d'angelo, neve, B.C., baby-T...» «Baby-T? Cos'è?» «Un altro termine per crack», risponde. «Dove hai sentito tutte queste parole?» «Alcuni di noi conducono esistenze meno protette», dice Harry.
«Ma non hai mai sentito parlare di Mejicano Rosen?» «Il tuo spagnolo fa schifo», commenta Harry. «Parli come un ebreo che ha una lavanderia a Tijuana.» «Puoi farmi un favore? Vedi se riesci a scoprire cos'è.» «E dove?» «Non lo so. Comincia col chiedere nei posti dove conduci questa tua esistenza meno protetta. Magari durante una delle tue partite a carte del giovedì sera con quel poliziotto della Buoncostume e il viceprocuratore.» «Ma certo. Mi presento là e dico: 'Ehi, gente, ho un cliente che importa della roba dal Messico e ci piacerebbe sapere quanto vale'.» «Prova alla biblioteca. Porta Marta con te. Forse c'è qualcosa su LexisNexis. Un articolo o una sentenza che ne parli.» «Stai sprecando il mio tempo. Perché non lo chiedi al tuo cliente?» «Espinoza non mi dirà nient'altro, a meno che non cominci a soffrire di solitudine in cella. Ho idea che non si fidi molto di me.» «Non riesco a capire come mai. Solo perché stai cercando di estorcergli informazioni per un duplice omicidio che coinvolge anche un tuo amico, senza averlo informato?» «Ehi. Non sono neppure sicuro che mi permetterà di rappresentarlo.» «Gli hai per caso parlato di Nick? Gli hai detto del sangue sul marciapiede davanti al tribunale, del fatto che Metz, che è stato ucciso insieme a Nick, aveva fatto il suo nome?» «Non abbiamo avuto molto tempo.» «Capisco. Eri troppo impegnato ad ascoltare.» «È compito dell'avvocato ascoltare le angosce dei clienti.» «Viene da chiedersi perché mai abbiano inventato l'espressione 'avvocato difensore'», osserva il mio socio. «Quando pensi d'informare il tuo cliente di questa cosetta, del fatto che tu speri che bazzichi negli stessi giri che frequentano le persone che hanno ucciso Nick, così magari può darti qualche indicazione che tu puoi passare alla polizia?» «Vedila in questo modo: potrei fornirgli un ottimo appiglio per ricorrere in appello. È molto più di quanto possa offrirgli un difensore d'ufficio. Glielo dirò quando sarà necessario.» «Oh, bene. Allora forse si limiteranno a sospenderti dall'attività invece di espellerti dall'albo. Come puoi essere sicuro che non sia direttamente coinvolto nell'omicidio di Nick?» «Il tuo amico procuratore ha detto che era sotto stretta sorveglianza da parte dei federali.»
«Ha detto che pensava che lo fosse. È diverso.» «Ha ammesso di conoscere le persone che hanno fatto il colpo giù a Tijuana, quelli che hanno rapinato il furgone coi visti. Ovviamente lui non c'entra.» «Ovviamente.» «E mi ha dato un nome. Un nome di battesimo. Senza cognome.» «Cos'altro ti ha detto?» «Mi ha dato qualche informazione su dove trovare questa persona.» La cosa non lo eccita. «Potrebbe trattarsi solo di una coincidenza. Espinoza dice che era un pezzo grosso giù in Messico, uno che si vestiva tutto elegante. A sentire lui, aveva sempre dei rotoli di banconote in tasca, e pare che fosse il capo. Si chiamava Jaime.» Harry mi guarda con la coda dell'occhio. «E allora?» «Quella mattina, nel mio ufficio, Metz mi ha detto che uno dei fratelli Ibarra si chiamava Jaime.» «Anche Jimmy Stewart si chiamava Jaime», ribatte il mio socio. «Forse dovrebbero riesumarlo e vedere se li ha lui, i visti.» Lo ignoro. «Questo porta alla domanda: perché dormire in una topaia come l'appartamento di Espinoza? Io l'ho visto, quel posto. Espinoza sostiene che questo Jaime e alcuni suoi amici sono stati da lui per qualche giorno. Ho cercato di stabilire quando è successo, e lui m'ha risposto di non ricordare esattamente, ma che era l'estate scorsa. Sicuramente dopo la rapina al furgone a Tijuana. Secondo lui, i visti devono esserseli dimenticati lì questi tizi. Ovviamente, in questo modo, è caduto nella propria trappola.» Dalla sua espressione capisco che Harry è incuriosito ma non vuole incoraggiarmi. «Ha fatto casino con le diverse versioni e si è lasciato sfuggire che i visti avrebbero dovuto essere usati per far passare della roba attraverso il confine. Quella che lui ha chiamato Mejicano Rosen.» Il mio socio ci riflette per un istante. «Hai preso in considerazione il fatto che questo tizio commerci in uomini? È un appaltatore di manodopera la cui attività si svolge al confine col Messico. E se questo Rosen fosse una persona? Si tratterebbe di un tipo diverso di contrabbando. E poi, cosa ti fa pensare che sia vero? Scommetto quello che vuoi che è stato lui a sparare a Nick.» «No, non è stato lui.»
«Come fai a saperlo?» «Non era qui. Si trovava in Messico.» Harry mi guarda. «Sarah va a scuola con un ragazzo il cui padre lavora al confine in uno dei posti di controllo dell'ufficio immigrazione. Ci siamo conosciuti alle partite di basket dell'ultima stagione. La settimana scorsa, l'ho chiamato e gli ho detto che avevo bisogno di sapere se un mio cliente si trovava nel Paese in un certo periodo. Lui mi ha risposto che non c'era modo di controllare, perché di solito non annotano i numeri di passaporto. Allora io gli ho replicato che con questo tizio era possibile che l'avessero fatto, e gli ho chiesto di verificare. E lui l'ha fatto. Espinoza ha usato il suo passaporto, non un visto, per passare il confine a Tijuana, quattro giorni prima che Nick venisse ucciso. Ed è tornato solo cinque giorni più tardi.» «Come fanno a saperlo?» chiede Harry. «Ho pensato che se l'informazione dell'amico con cui giochi a carte era accurata, e i federali lo tenevano sotto controllo, dovevano averlo inserito in un elenco di persone da sorvegliare, al confine. Infatti era così.» Non avevo intenzione d'impegnarmi con Espinoza finché non avessi appurato con certezza che non era coinvolto nell'uccisione di Nick. Sarebbe stato un po' troppo complicato. Già così, sto camminando sul filo del rasoio. 13 «Purtroppo ho una notizia buona e una cattiva.» Adam Tolt guarda Harry e me da dietro la distesa infinita del piano della scrivania. Ha chiamato ieri pomeriggio sul tardi per dire che voleva vedermi questa mattina. Ha specificato che era una cosa importante di cui non poteva parlare al telefono. Se ha a che fare con Dana o con la morte di Nick, Harry non ha intenzione di perdermi di vista. Continua a starmi alle calcagna per la questione di Espinoza. «Perché non comincia da quella buona?» gli propone. «I nostri amici della Devon Insurance si stanno preparando a fare un'offerta d'indennizzo. A giudicare dai segnali che mandano, dovrebbe essere piuttosto generosa.» «Quanto generosa?» chiede Harry. «Tre milioni e ottocento.»
«Non sono quattro», obietta il mio socio. «Non vi aspetterete che accolgano per intero la vostra richiesta?» dice Tolt. «Credetemi, non sono stati i loro legali a suggerire di fare questa offerta. Se non la accettate, s'irrigidiranno respingendo a oltranza la richiesta di doppio indennizzo.» «E chi dovrebbe scendere a compromessi?» domanda Harry. «Sappiamo tutti com'è fatta Margaret. Se le va a dire di rinunciare a parte della richiesta, farà meglio a togliersi di mezzo perché quella darà in escandescenze. Potrebbe saltare tutto.» «Sono d'accordo con lei», conviene Adam. «Credo proprio che sarà la vostra cliente a dover fare retromarcia. Ho convinto la compagnia d'assicurazioni a rinunciare alla riservatezza circa i termini della transazione.» Tolt intende dire che saremo liberi di rendere pubblico l'accordo raggiunto. «Perché dovrebbero?» «In effetti, non volevano, ma io ho fatto loro presente che questo avrebbe reso più appetibile la loro offerta. Ovviamente, non dovete per forza rendere pubblica la cosa, ma, se volete, siete liberi di farlo. Un successo in più.» La divulgazione dei dettagli di un accordo è una cosa cui la maggior parte delle compagnie d'assicurazioni non acconsente volentieri: tende a stimolare l'aggressività dei legali in altri casi, specialmente quando si va oltre le sei cifre. «Dovete chiedervi se per una cifra del genere valga la pena di trascinare una causa per i prossimi dieci anni», osserva Tolt. «In fondo, sono solo duecentomila dollari.» «Forse dovrebbe dirlo a Margaret quando avrà smesso di schiumare di rabbia», replica Harry. «Non avete ancora sentito la brutta notizia», lo interrompe Tolt. Apre una cartellina di carta di Manila posata sulla scrivania: contiene alcuni fogli e un documento contabile ripiegato. «C'è un problema. Non per l'accomodamento con la compagnia assicuratrice, un'altra questione. Dopo la morte di Nick, lo studio ha condotto una verifica contabile. È un controllo di routine quando un socio abbandona lo studio.» A sentirlo, pare che Nick abbia dato le dimissioni. «Si passano in rassegna i casi di cui l'ex socio si è occupato, per verificare gli impegni che lo studio deve ancora assolvere, si esaminano i fondi clienti, quel genere di cose.»
Harry e io ascoltiamo in silenzio. Adam si copre la bocca con una mano chiusa a pugno e si schiarisce appena la gola. «Il problema è che sono saltati fuori degli ammanchi nel fondo clienti di Nick.» È il genere di notizia che, se sei un avvocato, ti fa sbiancare in volto. «Stiamo parlando di un piccolo errore di calcolo?» chiedo. «Temo di no. Il bilancio è in rosso di poco più di cinquantasettemila dollari», risponde. «Sta dicendo che Nick si è impadronito del fondo clienti?» «Non esattamente. Tutti gli assegni sono stati emessi negli ultimi due mesi.» «Non capisco.» «Gli assegni sono stati emessi dopo la morte di Nick», spiega Tolt. «Pare che qualcuno sia riuscito a mettere le mani su assegni in bianco e vi abbia apposto la firma di Nick. Sono stati emessi per cifre specifiche a nomi diversi e depositati in svariate banche della città. Abbiamo controllato i conti. I fondi sono stati ritirati e i conti chiusi pochi giorni dopo il deposito. A quanto pare, chiunque sia stato, ci ha pensato bene. Non possiamo farci dare i numeri di previdenza sociale delle persone che hanno ricevuto i soldi per via delle norme sul segreto bancario, ma sarebbe possibile arrivarci col mandato di un giudice. Temo che il responsabile possa aver usato documenti d'identità contraffatti o numeri di previdenza sociale falsi. Ovviamente non posso esserne certo finché non faremo ulteriori indagini. Ma abbiamo alcuni di questi assegni. Nessuno di essi è stato girato, poiché erano destinati solo al deposito, ma la firma non è di Nick. Questo è certo. Tuttavia non abbiamo ancora denunciato il fatto alla polizia.» «E ne sta parlando con noi?» «Date le circostanze, ho pensato che fosse la cosa migliore.» «Perché?» «Lo studio non ha interesse a sollevare un polverone a meno che non sia proprio indispensabile. Pare che la vostra cliente abbia ritirato gli effetti personali di Nick dal suo ufficio poco più di una settimana dopo la sua uccisione.» «Dana?» Annuisce. «Secondo una delle nostre segretarie più fidate, il blocchetto degli assegni si trovava in un cassetto della scrivania prima della visita della signora Rush. E dopo non c'era più.» «Che segretaria diligente», osserva Harry. «Come ha fatto a scoprirlo?»
«In condizioni normali non se ne sarebbe accorta, ma la polizia aveva tolto i sigilli allo studio di Nick proprio quella mattina», risponde Tolt. «È solo una supposizione, ma penso che la signora Rush abbia telefonato per chiedere se poteva prendere gli effetti personali del marito. La segretaria in questione, su richiesta dello studio, ha condotto una verifica di quanto si trovava nell'ufficio, prima di passare ad altri le pratiche dei clienti.» «Capisco.» Tolt ha inchiodato Dana con le spalle al muro. «È una situazione imbarazzante», continua. «Prima o poi, dovremo informare l'ordine di questa discrepanza contabile. Sarebbe un bene se prima di allora il denaro fosse stato recuperato.» Harry e io ci scambiamo un'occhiata, ma nessuno dei due dice una parola. «L'ordine degli avvocati non ha nessun potere sui non iscritti, e lo studio non ha motivo di presentare una denuncia, se il denaro viene restituito. Se si può evitare, preferiremmo non coinvolgere le forze dell'ordine. Vorrei che capiste che non ho nessun desiderio di causare più dolore del necessario.» Il modo in cui lo dice, il tono convinto della sua voce, mi fa pensare che sia sincero. Se l'informazione è accurata, si è già spinto oltre il dovuto per proteggere Dana, correndo anche qualche rischio. «Cosa vuole che faccia?» «Che le parli», risponde semplicemente. «Era già al corrente di questo quando ci siamo incontrati con i funzionari dell'assicurazione?» «Se lo fossi stato, non avrei partecipato alla riunione.» «Ma lei si rende conto che l'indennizzo potrebbe essere l'unica fonte dalla quale attingere per il rimborso di quella somma?» gli chiedo. «Ci ho pensato. Non vorrei farle delle pressioni perché accetti un accordo che lei reputa sfavorevole, tuttavia deve capire anche la nostra posizione. Se la compagnia d'assicurazioni dovesse avere sentore di questo fatto, senza dubbio ritirerebbe l'offerta.» Tolt ha ragione. Costringerebbero Dana a presentarsi in tribunale e giocherebbero lì tutte le loro carte. Nel frattempo sanno che entrerebbe in gioco anche la polizia e che contro di lei verrebbero presentate delle accuse. «Capisce il problema?» mi chiede. Gli offro solo una dolente espressione d'assenso. È una di quelle situazioni in cui le parole potrebbero solo peggiorare le cose. «E poi c'è un ultimo aspetto», aggiunge Tolt.
«Quale?» chiede Harry, come se le cose non potessero essere peggiori di così. «Preferisco non affrontarlo. Io non ci credo neanche per un secondo, ma se la polizia dovesse essere informata di questo, vista la loro naturale indole sospettosa, un doppio omicidio irrisolto... be'...» Piega la testa di lato e si stringe nelle spalle. Finisco io per lui: «Potrebbero chiedersi se una donna che ha un disperato bisogno di soldi non possa assoldare qualcuno per far uccidere il marito e riscuotere l'assicurazione sulla vita. È così?» «Come ho detto, io non ci credo.» Questo però aggiunge una dimensione del tutto nuova. Che le piaccia o no, pare che Dana dovrà accettare il compromesso per una cifra inferiore. Se quello che sta dicendo Tolt è vero, non ho interesse a espormi per forzare la mano alla compagnia assicuratrice. «Vorrei che parlasse con la sua cliente per vedere di trovare una soluzione. E le chiederei di farlo al più presto. Ovviamente, le manderò copie dei movimenti effettuati sul fondo clienti perché li esamini.» Accetto di parlare a Dana, ma a parte questo non prometto nulla. Non ho scelta. «Bene. Anche questa è fatta.» Adam si lascia sfuggire un sospiro. Sembra quasi di vedere la tensione levarsi dal suo corpo come ondate di calore. «Non era un compito piacevole, ma ho dovuto giocare la mano che mi è stata servita», si giustifica. «Spero che lei lo capisca.» «Certamente.» «Bene. Avete saputo qualcosa di più sulla morte di Nick? La polizia non fa che andare e venire. Domande ne hanno a iosa, ma risposte ben poche.» «Sono famosi per questo», commento. «Leggiamo i giornali. Tutto quello che sappiamo viene da lì.» Non gli dico di Espinoza. Per il momento, questi particolari è meglio che restino fra Harry e me. «Per noi è lo stesso.» Tolt scuote la testa, si toglie gli occhiali e si appoggia allo schienale della poltrona. «Sapete, quello che proprio non riesco a capire è perché un uomo come Nick si sia immischiato con un tipo come Metz.» Non si riferisce al rapporto avvocato-cliente, ma alla società commerciale, la Jamaile Enterprises. Dopo il nostro incontro con l'assicurazione, Adam mi aveva detto che la polizia continuava a fare domande, a interrogare soci e dipendenti. Avevano tirato fuori la questione della società. Secondo Tolt, che a questo punto
ha fatto indagini approfondite allo studio, è un mistero per tutti. «Me lo sono chiesto anch'io. Lasci che le faccia una domanda. La polizia le ha mai fatto il nome di una certa Grace Gimble?» Guarda me, poi Harry, ci riflette un secondo, poi scuote il capo lentamente. «No. Che io sappia no. Perché? Chi è?» «Non lo so con certezza. Il suo nome è saltato fuori dagli atti costitutivi della società.» «Una segretaria, probabilmente. Qualcuno che avevano sotto mano allora. Quand'è stata fondata la società?» «Poco più di un anno fa.» Ci riflette. «Nick era con noi da più di tre anni», ricorda. «Per questo pensavo che lei potesse conoscere quel nome.» «Non credo che nessuno con quel nome lavori qui, ma potrei far controllare gli archivi del personale. Sempre che vadano così indietro nel tempo.» Prende un appunto sul notes posato sulla scrivania, poi vi mette sopra la penna. «Dunque, abbiamo due punti di contatto: l'attività in cui Nick era coinvolto e sua moglie Dana, che sedeva nella Commissione per i beni artistici insieme a Metz.» «C'è un altro aspetto», intervengo. «Nick ha cercato di scaricare Metz a me, prima che l'uomo venisse incriminato. Mi ha detto che lo studio aveva un conflitto con Metz, e che lui non poteva occuparsi del caso. Qualcosa a proposito di alcuni contratti fra Metz e la Rocker, Dusha.» «Posso controllare. Ma se avessimo avuto un problema, come ha fatto Nick ad aggirarlo per la chiamata in giudizio?» chiede. «Mi ha detto di averne parlato con Metz, e suppongo anche con l'altro cliente, ed entrambi gli hanno dato una liberatoria.» «Quest'uomo continua a saltar fuori nella vita di Nick come una moneta falsa», commenta Tolt. «Non sappiamo perché o come si siano messi in affari assieme. Qualcuno sa come Metz sia entrato a far parte della Commissione per i beni artistici?» «È stato designato da Zane Tresler», risponde Harry. Guardo il mio socio, sorpreso da quest'informazione e dalla facilità con cui l'ha buttata lì. «Be', tu stavi girando a vuoto, così ho pensato di controllare», mi spiega. «Ha fatto entrare anche il tuo amico, Fittipaldi.» «Chi sarebbe?» chiede Tolt. «Un amico di Dana», gli dico io. «Il mandato di Dana scade fra tre anni, a meno che non venga riconfer-
mata. A Fittipaldi resta un anno», precisa Harry. «Metz ne aveva ancora due quando l'hanno fatto fuori. Vuoi sapere altro? È lo stesso Tresler del museo che stanno progettando di costruire in centro. Ne hai sentito parlare, vero?» Nell'ultimo anno, i giornali hanno parlato almeno due o tre volte di questo museo, uno scherzetto da trenta milioni di dollari che dovrebbe sorgere vicino al mare e l'inizio della cui costruzione è previsto per il prossimo anno. «In realtà, il museo prende il nome da suo padre, Zane senior», precisa Tolt, che, sporto in avanti, i gomiti sulla scrivania, sorride di fronte alla scaramuccia verbale fra Harry e me. «Una combinazione di denaro pubblico - principalmente sovvenzioni federali - e contributi provenienti dalla fondazione della famiglia Tresler. Il vecchio è morto alla fine degli anni '60. C'è un figlio, un nipote e, mi dicono, anche un bisnipote.» «E quale di questi è nel Consiglio dei supervisori della contea?» gli chiedo. «Zane junior, il figlio. Sono vent'anni che è nel consiglio, credo. In pratica, da sempre. Presiede la commissione del consiglio che si occupa dei tribunali, questo lo so. I giudici devono strisciare ai suoi piedi per farsi accendere il riscaldamento d'inverno e l'aria condizionata d'estate. Controlla le spese per il personale, le scrivanie, le penne, le graffette di metallo. Ha più influenza lui sui tribunali locali della corte d'appello. Io lo nominerei socio a pieno titolo dello studio. Non dovrebbe neppure venire in ufficio. Peccato che non è avvocato.» Adam lo dice come se fosse un dettaglio irrilevante. «E cosa fa, oltre a supervisionare?» domando. «Non molto. Ora è il nipote a gestire l'azienda di famiglia. Mitchell Tresler. È sulla trentina. Non è sveglio come il padre. Suppongo che i geni si siano annacquati. Mi dicono che ce n'è un quarto in circolazione, probabilmente alla scuola secondaria. Se avessi una nipote carina, la manderei a scuola in quell'istituto e le direi di fare amicizia con lui. Un giorno, il ragazzo diventerà ricco.» «Da dove viene il denaro di famiglia?» «Principalmente da speculazioni immobiliari», risponde Adam. «Si occupano di grossi progetti: centri commerciali, grandi lottizzazioni. E danno un sacco di denaro in beneficenza. La famiglia è entrata nel campo immobiliare all'inizio del Novecento. Zane senior ha fatto gran parte della fortu-
na. Io non l'ho mai conosciuto personalmente, ma, da quanto ho sentito dire, era meglio non trovarsi sulla sua strada se c'era una corsa per accaparrarsi della terra. Era capace di schiacciarti con un bulldozer. E aveva ottime conoscenze. Era amico di William Mulholland, l'ingegnere che costruì l'acquedotto Owens. E, comunque, la famiglia ha finito con l'impadronirsi di buona parte dell'estremità orientale della contea. Parliamo di quando non era altro che una distesa di artemisia abitata solo dalle lepri. I Tresler la acquistarono per un tozzo di pane. Poi arrivò il progetto dell'acquedotto e la deviazione del Colorado. E di colpo il vecchio Tresler si ritrovò seduto su una fortuna.» «Strano come vanno certe cose», osserva Harry. «Vero, eh?» dice Adam. «Il resto è storia. Zane junior è cresciuto con la contea, e ora la dirige. Quest'anno, tocca a lui presiedere il consiglio. È anche a capo della commissione congiunta regionale.» «Cos'è?» chiedo. «Qualche anno fa, la città, la contea e l'autorità portuale hanno siglato un accordo di gestione congiunta, una authority preposta alla gestione del territorio antistante al mare e di gran parte delle proprietà commerciali del centro. Hanno l'ultima parola su tutti i progetti immobiliari di quell'area. La presiede Tresler. Questo gli dà un grande potere. Quello che vuole, lo ottiene.» «È un po' azzardato, non crede?» chiede il mio socio. «Presiedere un ente che gestisce il regolamento urbanistico quando la società di famiglia si occupa di speculazioni edilizie.» «Tresler è un uomo cauto», dice Adam. «E se sei furbo, non fai troppe domande in giro, giusto?» suggerisce Harry. «Non se hai bisogno del voto di qualcuno o di qualche favore importante», risponde Tolt. «E, a essere onesto, credo che lei lo troverebbe irreprensibile. Non c'è niente che qualcuno possa dargli che lui già non abbia: denaro, potere, qualunque cosa, Zane Tresler la possiede già. La chiamano politica e, come ho detto, lui è un uomo cauto.» Benché sia difficile crederlo, in questo Stato il vero potere decisionale è in mano agli amministratori locali. Qui cose come i contratti per lo smaltimento rifiuti, per la riqualificazione di zone urbane e i permessi per attuare varianti edilizie sul proprio terreno possono renderti milionario o mandarti sul lastrico, nel giro di una notte. Alcuni supervisori della contea si comportano come signori feudali. Non
vengono sfiorati dalle restrizioni temporali dei mandati, né dalle luci dei media, interessati solo ai pezzi grossi di Washington o della capitale dello Stato. I supervisori delle grandi contee hanno collegi elettorali più ampi di certi membri del Congresso. Governano distretti più vasti delle concessioni spagnole. E, come i signorotti dei tempi in cui la California era una colonia, hanno a volte l'abitudine di esercitare un'autorità assoluta. In uno Stato in cui molti cittadini non sanno leggere, scrivere né parlare inglese, in cui gli elettori conducono un'esistenza di stenti, come vassalli, pagando le tasse senza fare domande, una macchina ben oliata può mantenere il potere per decenni solo grazie al suo moto perpetuo. Se vuoi che ti spazzino la strada, che ti disintasino la fognatura, che le porte della tua clinica restino aperte, è meglio che giuri fedeltà al supervisore del tuo distretto. In alcune fulgide comunità la cosa ha raggiunto livelli degni del comunismo stalinista. Lì non importa più chi vota. Importa solo chi conta i voti. È il vecchio sistema del feudalesimo, vivo e vegeto nella soleggiata California meridionale. «Dunque il nostro Tresler è il filo che lega Dana, Metz e Fittipaldi. Il loro biglietto d'ingresso nella Commissione per i beni artistici. Cosa significa?» chiede Harry. «Probabilmente nulla», risponde Tolt. «Non pensa che Tresler avesse le mani nelle tasche di qualcuno?» «Se si trattasse di chiunque altro, direi fino al gomito. Ma Tresler non ha bisogno di soldi.» «Il diavolo non ne ha mai abbastanza», commenta Harry. Il mio socio è un convinto assertore dell'innata malvagità umana. «Sì, ama il potere, ma prendere bustarelle... potete anche verificare, ma, a parer mio, state perdendo il vostro tempo. Il fatto è che doveva nominare qualcuno. Perché non le persone che gli davano soldi per la sua campagna? Mi spiace dirlo, ma ho contribuito anch'io alla sua causa. Come molti altri.» Questo non sorprende né Harry né me. «È duro far funzionare la macchina senza ungere gl'ingranaggi», ammette Adam. «Fingiamo tutti che non si tratti di estorsione, ma solo dell'esercizio dei diritti sanciti dal Primo Emendamento. Eppure ci sono volte in cui la maggior parte di noi preferirebbe non essere coinvolta in cose del genere.» «Forse dovremmo vedere chi sono gli altri finanziatori», suggerisco. Tolt mi guarda come per dire: «Cosa intende?»
«Controllare Nick, Dana, Metz, il nostro amico Nathan Fittipaldi. Dovrebbero esserci dei rendiconti, registrati da qualche parte.» «Ho idea che questo non vi farà scoprire nulla che già non sappiate. Sulla lista di Tresler ci saranno tutti quelli che contano», ribatte Adam. «Daremo comunque un'occhiata.» Una cosa almeno la scoprirò: se Dana ha contribuito a proprio nome. Ha affermato di non conoscere Tresler. Ora voglio sapere se mi ha detto la verità. Harry prende un appunto sul retro di uno dei biglietti da visita di Adam, rubato dal piccolo contenitore sulla scrivania. «Quello che non riesco a capire è perché Nick si sia messo in società con Metz.» Scuoto la testa. «Non lo so. Tuttavia pare che Metz fosse ossessionato dall'idea di farsi rappresentare da Nick.» Altre rughe sulla fronte di Adam. «Questa è la parte che mi lascia più perplesso. Riguarda lo studio, e non mi piace. Avrebbe senso solo se questa società, questa Jamaile, avesse avuto lo scopo di fungere da canale di import-export per la droga, nel qual caso i servigi di Nick sarebbero stati fondamentali.» Mi guarda per vedere se ho altre teorie. Non ne ho. «Mi piace pensare che Nick si sia spaventato», continua Tolt. «Che ci abbia riflettuto e abbia deciso di tirarsi indietro, che la parte migliore di lui abbia avuto il sopravvento.» «Che sia per questo motivo che l'hanno ucciso?» azzarda Harry. «È stato un incidente, ricorda?» dice Tolt. «Ah. Giusto.» Mentre riflettiamo sui diversi scenari, su ciò che può essere accaduto nella vita di Nick, cala il silenzio, interrotto solo dal ticchettio dell'orologio antico alla parete. «C'è una possibilità», mormora Adam. È immerso nelle sue considerazioni, le dita delle mani congiunte, gli indici che sfiorano il labbro inferiore mentre il suo cervello tenta di sbrogliare il mistero dell'uomo. «Ovviamente si tratta solo di una teoria. Non è il caso di parlarne, specialmente adesso, con la questione dell'assicurazione e della morte accidentale ancora da definire.» Guarda Harry e me, in attesa di un consenso. «Cos'è la teoria di un avvocato se non una congettura?» chiedo. «Giusto. Ma riflettete un momento: e se Metz avesse cercato di tirare dentro Dana, di coinvolgerla, supponiamo a sua insaputa, in qualche attività non del tutto legale?»
«A che scopo?» domanda Harry. «Per avere una presa su Nick.» «Lei afferma che non conosceva bene Metz, che si erano parlati solo qualche volta», faccio presente. «Sì. Ma questo spiegherebbe i tentativi di Nick di passarle Metz, giusto?» ribatte Tolt. «Per mettere una certa distanza tra sé e quell'uomo, e proteggere la moglie.» Adam dimostra una profonda conoscenza dell'animo umano. «Vada avanti.» «Se i due uomini non fossero andati d'accordo, Nick avrebbe potuto minacciare di smascherarlo. Se questo è ciò che è successo, Nick poteva essere diventato una vera minaccia per loro, per le persone che li hanno uccisi.» «Intende dire le persone all'altro capo del commercio di droga?» chiede Harry. Tolt annuisce. «Io non credo che Nick si sarebbe mai fatto coinvolgere nel commercio di droga», affermo. «Neanche a me piace pensare che uno dei miei soci possa averlo fatto, ma sono accadute cose anche più strane, data la natura umana», replica Adam. «E dovete ammettere che tutto indica che i Rush avessero qualche difficoltà finanziaria.» Abbassa lo sguardo sull'estratto conto del fondo clienti di Nick posato sulla scrivania davanti a sé. È una delle domande senza risposta. Dov'è finito il denaro che Nick ha guadagnato in questi anni? Senza una verifica, senza gli assegni emessi sul suo conto, senza le ricevute delle carte di credito, non lo sapremo mai. Adam si riscuote dal breve momento di riflessione. «In ogni caso, per il momento è meglio non lasciarsi andare a oziose congetture sul conto delle vittime. Specialmente adesso che una certa compagnia d'assicurazioni è pronta a intingere il pennino nell'inchiostro per firmare un bell'assegno.» «Ben detto», conviene Harry. «Cosa intendiamo fare a proposito di quell'altra cosa?» chiede Tolt. Allude agli assegni contraffatti emessi sul conto del fondo clienti. «Lasci che ne parli con Dana.» «D'accordo. Ma non ci metta troppo tempo.» 14
Prendo la Interstate 5 dal Coronado Bridge e proseguo a velocità sostenuta per la corsia di mezzo, oltrepassando Logan Heights. Arrivato all'uscita di National City, imbocco lo svincolo e mi dirigo verso est. Nello specchietto retrovisore vedo i giganteschi fari del cantiere navale: il loro irreale chiarore arancione si diffonde nel banco di nubi che incombe minaccioso sopra la baia. Sono quasi le nove. È metà settimana e di sera c'è poco traffico. Una nebbiolina sottile ricopre il parabrezza. Le strade sono deserte, tranne che per qualche anima che vaga senza meta. Gli unici negozi aperti a quest'ora sono le rivendite di liquori e qualche bettola. Ci metto venti minuti a trovare la strada che Espinoza ha menzionato nel corso della nostra più recente conversazione al carcere federale. Ho la conferma che almeno questo, tra le cose che mi ha detto, è vero. Il mio istinto non tarda ad avvertire l'atmosfera che regna nel quartiere, un'atmosfera che mi fa correre un brivido lungo la schiena. Non è un luogo in cui porterei il mio cane a passeggio di notte, a meno che il cucciolo non avesse denti aguzzi, amasse la carne rossa e corresse più veloce di un proiettile. Scorgo alcune luci all'angolo successivo e rallento. Avvicinandomi, vedo dei ragazzi: uno di loro, con una felpa scura dotata di cappuccio, è appoggiato al finestrino del passeggero di un'auto ferma in mezzo alla strada, al centro dell'incrocio. La macchina ondeggia al ritmo di una salsa diffusa da uno stereo così potente che le note di basso mi fanno vibrare i denti. Il ragazzo con la felpa scura e i suoi due amici mi fissano, mentre li sorpasso. Potrei essere un cliente, o magari un poliziotto in borghese. Non appena vedono che proseguo, smettono di interessarsi a me. Avanzo lentamente, controllando i numeri civici. Il piovischio e la mancanza di lampioni rendono l'impresa quasi impossibile. Guardo il pezzo di carta posato sul cruscotto vicino a me, gli appunti che ho buttato giù subito dopo il colloquio con Espinoza, all'inizio della settimana. Il posto è questo. Per quanto criptico, Espinoza mi ha fornito qualche informazione. A sentire lui, questo Jaime aveva un'altra base d'appoggio quando veniva in città. Vi si era recato parecchie volte per vari incontri e in due occasioni non era tornato da lui a dormire. Espinoza mi ha raccontato di aver accompagnato Jaime in quel posto, una volta, subito prima che l'uomo ripartisse per il Messico. Lo aveva mollato davanti al civico 406 o 408, non ricordava bene, però aveva visto l'uomo con cui Jaime si doveva incontrare, un ti-
zio alto, più di un metro e ottanta, e secco. Come un palo, a sentire Espinoza. L'uomo era di origine ispanica e aveva la barba scura, rada, e capelli neri coperti da un sudicio cappello di feltro grigio. Espinoza lo aveva visto parlare per qualche secondo con Jaime davanti alla casa. Poi i due erano entrati e lui era ripartito. L'unica altra cosa che rammentava era un Chevy Blazer vecchio modello, parcheggiato accanto alla casa. Se lo ricordava perché il lunotto posteriore era rotto ed era stato coperto con un grosso pezzo di plastica nera assicurata al telaio di metallo con del nastro adesivo. Oltrepasso alcuni giocattoli abbandonati sul marciapiede. Sopra la porta d'ingresso di una casa verso la fine dell'isolato vedo quelli che sembrano tre numeri di metallo arrugginiti fissati al telaio, nascosti nell'ombra. Strizzo gli occhi, nel tentativo di penetrare l'oscurità. Sembrerebbe il 486. Vado avanti e, arrivato all'angolo, giro, proseguo per qualche metro lungo la traversa e parcheggio accanto al marciapiede, spegnendo i fari. A casa, mi sono tolto il completo e la cravatta. Adesso indosso un vecchio paio di jeans, una polo blu scura e una giacca di jeans sbiadita che uso per lavorare in giardino. Ai piedi calzo scarpe da ginnastica. Scendo dall'auto, chiudo a chiave la portiera e guardo l'orologio. Sono quasi le nove e mezzo. In pochi secondi, torno all'angolo e imbocco la strada principale. Mi fermo due porte più in giù rispetto alla casa dove avevo visto i numeri sulla porta. Il piovischio si è trasformato in una nebbiolina leggera e, anche se non si vedono più cadere le gocce nel buio, sento le punture di spillo dell'umidità sulla fronte e sulla nuca. Alzo il colletto della giacca e mi avvio lungo la strada. Muovendomi più lentamente e tenendomi più vicino alla casa, ora non ho difficoltà a decifrare il numero sulla porta. Come mi avvicino ai piedi della scala esterna, i numeri di lamierino 486 risultano chiaramente visibili sopra la porta. A meno che Espinoza non mi abbia mandato in giro inutilmente, la casa che sto cercando si trova su questo lato della strada. Sento il ritmo di salsa e vedo le luci rosse dei fanalini posteriori del veicolo un isolato e mezzo più giù, ancora fermo in mezzo all'incrocio. Proseguo veloce sul marciapiede e sono ormai giunto a due case dalla fine dell'isolato, quando improvvisamente un fascio di luce rimbalza sull'asfalto bagnato al centro della strada. I fari vengono da dietro di me e si avvicinano veloci. Salto oltre l'erba umida del cortile davanti a una delle case e m'infilo sotto la scala. Non ho nessuna intenzione di farmi vedere dal gruppetto intorno alla macchina, adesso a un isolato di distanza da me. Inspiro a fondo e mi fermo per qualche momento sotto le scale, per o-
rientarmi. Uscendo fuori, mi volto. Sulla porta dell'appartamento al pianoterra c'è il numero 406A. È scritto a caratteri scuri un po' sbiaditi. Dall'interno mi giunge il suono attutito di un televisore, forse al piano superiore o dietro di me. Torno sul marciapiede e controllo la macchina ballerina: è sempre ferma all'incrocio. Ora un altro veicolo si è aggiunto al primo. I tizi a piedi si sono divisi e stanno contrattando attraverso i finestrini aperti di tutt'e due le auto. Mi volto verso la casa. La facciata è parzialmente nascosta da un grosso cespuglio dietro il quale si apre una finestra. Vedo la luce azzurrina e tremolante di un televisore riflettersi contro le tende. Guardo la casa subito a sinistra. Anche lì c'è un appartamento al pianoterra sotto la scala. Dal marciapiede partono due strisce di cemento poco più larghe di un pneumatico d'auto, che terminano contro l'altra casa. Tra le due strisce c'è un po' di ghiaia e della terra, bagnata e compatta, con un arcobaleno d'olio lubrificante che galleggia nelle pozzanghere. Il vialetto va a morire all'ingresso di quello che un tempo era un garage, ormai trasformato in un appartamento seminterrato. Oltrepasso le due strisce di cemento, attraverso l'erba e guardo la porta della seconda casa. È il 408A. Torno sul marciapiede e controllo il 406. Sull'altro lato non c'è nessun vialetto carrabile. Lunghi ciuffi d'erba si levano come lance ai due lati della scala. Non sono un giardiniere, ma non ci vuole un esperto per capire che queste erbacce e la sanguinella non sono state schiacciate di recente dai pneumatici di un veicolo pesante. E sul bordo del marciapiede non c'è neppure una rampa d'accesso. Se Espinoza ha detto la verità, e la memoria non l'ha tradito riguardo al Blazer con il lunotto posteriore rotto e al punto in cui era parcheggiato, direi che l'uomo con la barba e il cappello di feltro stava al 408. Mi volto di nuovo a guardare. L'appartamento al pianterreno è buio, almeno la parte che riesco a vedere attraverso una finestrella laterale. Ritorno sui miei passi, fino al marciapiede, e controllo ancora una volta l'attività che si svolge all'incrocio. A questo punto si è formato un vero e proprio ingorgo. Ci sono così tante auto che non riesco a contarle tutte. Affari d'oro, gente che va e che viene, musica, voci: il commercio notturno di questo quartiere. Guardo l'orologio. Sono le dieci passate. Espinoza non ha detto se Jaime e l'altro uomo, quello col cappello di feltro, sono saliti o si sono infilati sotto la scala per entrare. Non conoscendo il posto, non potevo immaginare di doverglielo chiedere.
Dal marciapiede guardo verso l'appartamento di sopra, al numero 408. Da una finestra al primo piano s'intravede la luce di un televisore. Un'altra finestra, più piccola, forse quella di un bagno, ha la luce accesa. All'ultimo piano è tutto spento. Proseguo lungo il marciapiede per sei, sette metri e controllo il lato sinistro della casa. Ci sono delle finestre, ma sono tutte buie. Torno sull'altro lato. C'è una luce verso il retro, al primo piano. Non riesco a capire quanti appartamenti possano esserci. Mi accerto che nessuno mi stia guardando da qualche finestra o dalle verande buie sull'altro lato della strada. Harry non la smetterebbe più di rinfacciarmelo, se qualcuno chiamasse la polizia e lui fosse costretto a pagarmi la cauzione a fronte di un'accusa di vagabondaggio. Da quello che vedo, è tutto a posto, così salgo le scale e trovo le cassette della posta sotto il porticato. Sotto ciascuna fessura c'è il nome su una striscetta di carta infilata nella scanalatura. Alcuni sono scritti a macchina, altri a matita o a penna. Tiro fuori le mie chiavi di casa. Ho una piccola torcia elettrica appesa al portachiavi. Premo il bottone sul lato e il fioco raggio di luce illumina i nomi. APPARTAMENTO A: JOHNSON APPARTAMENTO B: HERNANDEZ Senza iniziali. APPARTAMENTO C: JAMES ROSAS APPARTAMENTO D: LEROY WASHINGTON APPARTAMENTO E: R. RUIZ APPARTAMENTO F: MORENO Di nuovo nessuna iniziale. APPARTAMENTO G: H. SALDADO Con l'aiuto della lucina, mi appunto i nomi a matita sul piccolo taccuino che tengo sempre in tasca. Terminata quest'operazione, scendo velocemente le scale, torno alla macchina e, in meno di un minuto, guido fino all'altro lato della strada, a un isolato di distanza dalla casa col vialetto carrabile. Parcheggio tra altri due veicoli, col muso rivolto verso la casa, in modo da vedere il porticato e l'appartamento al pianterreno.
Guardo l'orologio. Sono quasi le dieci e mezzo. Sarah dovrebbe tornare a casa da un momento all'altro. Ha la chiave. Le ho detto di non aspettarmi alzata. Ha quindici anni ed è una brava ragazza, studiosa e tranquilla. È l'unica persona cui penso prima di accettare un caso che sospetto possa comportare qualche rischio, o prima di fare delle cose stupide come quella che sto facendo stasera. Mi metto comodo, un occhio rivolto sul traffico all'incrocio un isolato più in là. Per qualche motivo, tutti i clienti sembrano avvicinarsi perpendicolarmente, dalla strada laterale. Il perché non lo so, ma tengono tutti i fari bassi e, acquattato come sono dietro il volante, è improbabile che qualcuno mi veda. Mi appisolo con un occhio aperto. Ogni tanto, quando giù all'incrocio i clienti sono troppi, si formano degli ingorghi e qualche auto viene da questa parte, costringendomi a scivolare ancor più in basso dietro il volante. Non so da quanto tempo sto sonnecchiando, ma ho entrambi gli occhi chiusi quando vengo svegliato bruscamente da un rumore di pneumatici sull'asfalto. Spalanco gli occhi e cerco di orientarmi. I venditori di strada all'incrocio sono spariti tutti. Faccio giusto in tempo a vedere i fanalini di coda dell'ultima auto che scompaiono svoltando l'angolo. Nel giro di due secondi non c'è più nessuno. Ora l'incrocio è totalmente deserto. Resto lì, acquattato dietro il volante, chiedendomi cosa sia successo. La risposta non tarda ad arrivare, sotto forma di un'auto della polizia che attraversa adagio l'incrocio con i lampeggianti che mandano inquietanti lame di luce. I poliziotti all'interno puntano i riflettori orientabili contro i cespugli e le zone d'ombra della casa all'angolo. Poi attraversano lentamente l'incrocio e controllano la casa sull'angolo opposto. Continuano ad avanzare a passo d'uomo e all'improvviso, velocemente come è arrivato, il riflesso della luce colorata scompare. Continuo a tener d'occhio l'incrocio per parecchi minuti. Niente. Nessun movimento. Pare proprio che la polizia li abbia spaventati. Poi, d'un tratto, i fari di una macchina svoltano l'angolo dietro di me. Scivolo ancora più in basso nel veicolo fino a trovarmi praticamente sotto il volante, le ginocchia piegate sotto il montante dello sterzo. Sto rannicchiato sul tappetino, le spalle contro il sedile del passeggero. L'auto si avvicina lentamente. Sento la ghiaia scricchiolare sotto i pneumatici. Riconosco i segnali di chiamata sulla banda della polizia, persino coi finestrini chiusi. Colpiscono con il faro le tre auto parcheggiate. Fasci di luce abbagliante
inondano i finestrini, poi la barra del lampeggiante si accende di nuovo. Se mi beccano sdraiato sul pavimento a un isolato di distanza dal Super Narco, è probabile che mi smontino l'auto a pezzo a pezzo alla ricerca di droga. Poi, che trovino qualcosa o no, mi toglierebbero la licenza. Nel giro di ventiquattr'ore mi troverei oggetto di occhiate curiose da parte di pubblici ministeri e impiegati del tribunale. I giudici mi guarderebbero negli occhi alla ricerca della tipica fissità dello sguardo. Figuriamoci poi se una mattina dovessi presentarmi assonnato in aula. L'autopattuglia si ferma accanto al veicolo parcheggiato dietro di me. Una portiera si apre. La radio ora è così forte che riesco a sentire le scariche elettrostatiche fra una chiamata e l'altra. Rumore di passi. Il poliziotto tira la maniglia dell'auto dietro la mia. Gli scivola dalle mani. È chiusa. Non avrebbe questo problema se provasse con la mia. Ma è troppo tardi per mettere la sicura. Inoltre so che lui guarderebbe comunque dentro il finestrino con la torcia. Mi sembra di vederlo. Apre la portiera e mi trova privo di conoscenza sotto il volante. Devono tirarmi fuori con la fiamma ossidrica. Capisco che sta controllando con cura, guardando attraverso i finestrini. Un fascio di luce perlustra il lunotto posteriore. «Jimmie.» «Sì. Lo vedo.» Il cuore mi batte all'impazzata. Il tonfo di una portiera che si chiude. Un motore imballato. Stridio di pneumatici accanto al mio orecchio. In un secondo tornano il buio e il silenzio. Trattengo il fiato. Sembra un'eternità. Probabilmente passano quindici secondi. Rialzo piano la testa, come una tartaruga che esce dal guscio. Striscio ancheggiando oltre il volante, chiedendomi come ho fatto a infilarmici sotto. Misteri dell'adrenalina. La schiena mi fa un male cane. Vicino all'incrocio, vedo l'autopattuglia ferma, la barra che lampeggia con l'accecante ritmo rosso e blu. Allungato sul cofano dell'auto della polizia c'è il ragazzo con la felpa scura. Il cappuccio abbassato lascia scoperti i capelli scuri tagliati cortissimi. Uno dei poliziotti lo costringe ad allargare i piedi, poi gli ammanetta velocemente le mani dietro la schiena. Il suo collega sta frugando cauto nelle tasche del ragazzo. Continua a depositare le piccole scoperte sul cofano dell'auto, premendo col dito sull'una e sull'altra, esaminandole sotto il fascio di una torcia, come un minatore alla ricerca di pepite. Accucciato, l'altro poliziotto sta toccando le caviglie del ragazzo. Forse
cerca una pistola. E poi, all'improvviso: eureka! Mi pare quasi di sentirlo. Quando si alza, stringe nella mano un rotolo di banconote provenienti dalla calza del giovane, insieme a quella che sembra roba, piccoli involucri di plastica. Li vedo brillare alla luce della torcia che ora è puntata sul cofano dell'auto. Un'altra auto della polizia, un'unità di rinforzo, si avvicina dalla direzione opposta. Nel giro di pochi secondi c'è un convegno di uniformi blu in mezzo all'incrocio, tra un carosello di luci lampeggianti. Continuano a perquisire il ragazzo. Uno dei poliziotti si rialza stringendo una scarpa in una mano e una calza nell'altra. Guarda dentro la scarpa e la getta a terra. Scuote la calza. Piccoli pacchetti bianchi cadono sul cofano della macchina. Il suo collega continua a scuotere la calza. Continuano a cadere delle cose. Una vera cornucopia. Sorrisi dai tizi in uniforme. Si ferma un'altra autopattuglia. Sto cominciando a diventare nervoso. Potrebbero restare accampati qui tutta la notte, e decidere di lanciarsi in un safari alla ricerca degli amici di questo tipo. Abbastanza emozioni per una notte. Guardo l'orologio. È quasi l'una del mattino. La casa sull'altro lato della strada è avvolta nell'oscurità. La luce del televisore nella finestra al primo piano è sparita. Sto sprecando il mio tempo. Forse Espinoza mi ha preso in giro. Probabilmente mi ha dato l'indirizzo di uno dei suoi covi, un posto dove deposita gli immigrati illegali, una tappa del percorso clandestino verso la terra promessa. Osservo i poliziotti che fanno salire il ragazzo sul sedile posteriore di una delle volanti. Dieci minuti dopo, ricomincia a piovigginare e il gruppo si scioglie. Spente le barre luminose, ripartono in direzioni diverse. Senza dubbio sono convinti di aver interrotto il traffico all'incrocio, almeno per questa notte. Allungo la mano verso la chiavetta e sto per accendere il motore quando vedo una figura sull'altro lato della strada. È uscito dall'ombra vicino alla porta d'ingresso dove non potevo vederlo. Si sporge, guarda se i poliziotti se ne sono andati. Lo vedo dalle cosce in su, appoggiato alla solida balaustra in muratura del porticato, le mani affondate nelle tasche dei jeans. È alto, magro, la sagoma scura e tondeggiante della testa che culmina in una punta. Indossa un cappello per difendersi dalla pioggia, un cappello di feltro con la tesa abbassata. 15
Il giorno seguente, di prima mattina, avevo un'udienza in tribunale. Fortunatamente non richiedeva una grande lucidità mentale, essendo solo la prima comparizione. Sono rimasto in piedi accanto al mio cliente, dietro il banco degli imputati, mentre gli leggevano le accuse, sfogliando l'agenda per fissare la data della chiamata in giudizio. Per tutto il tempo non ho fatto che sfregarmi gli occhi per il sonno, visto che ero stato alzato per metà della notte alla ricerca dell'uomo col cappello di feltro. Ho ridotto i nomi trovati sulle cassette a cinque possibilità; non ci voleva un genio, visto che Espinoza ha detto che il tizio era di origine ispanica. Hernandez, James Rosas, R. Ruiz, Moreno e H. Saldado. Restringere ulteriormente la rosa, ammesso che il nome del tizio sia sulla cassetta della posta e non ne stia usando uno falso, sarà più difficoltoso. Dopodiché, sempre ammesso che riesca a identificarlo, e che riesca a trovare qualche collegamento tra quest'uomo e gli Ibarra giù in Messico, i fratelli di cui mi aveva parlato Metz, potrei avere in mano qualcosa. Ridicolo. Quello che ho è soltanto una montagna di supposizioni. Comincio a pensare che Harry avesse ragione. Farei meglio a lasciar perdere. Penso questo sfogliando l'elenco del telefono di San Diego. Trovo due pagine piene di Hernandez. In mancanza di un'iniziale, sono costretto a far riferimento all'indirizzo. Con l'aiuto di un righello passo in rassegna tutta la prima pagina e poi la seconda. Quando lo trovo, resto sorpreso: Susan. Elimino il nome dalla lista. Potrebbe essere più facile di quanto pensassi. Mezz'ora dopo ho trovato anche James Rosas e R. Ruiz, nome di battesimo Richard, entrambi all'indirizzo giusto. Annoto i loro numeri di telefono. Ci sono un sacco di Moreno, ma nessuno a quell'indirizzo. Di parecchi compare solo il numero di telefono, non l'indirizzo. Senza un'iniziale, è tutto inutile. Lo stesso problema mi si pone con Saldado, anche se ho l'iniziale, H. Ammesso che si tratti di un uomo, non ha il telefono, oppure non compare sull'elenco. Richiudo il librone mollandolo in mezzo alla scrivania e mi metto a riflettere, appoggiato allo schienale. Dopo un paio di secondi, apro la rubrica digitale, faccio una ricerca secondo il nome e quando lo trovo, premo il tasto di composizione automatica. Al terzo squillo, rispondono. Alzo il ricevitore prima che finiscano di dire: «Carlton Riscossioni». È una voce di donna, rauca, catarrosa. «Joyce?» «Sì? Chi parla?» Biascica le parole come se avesse una sigaretta stretta fra le labbra.
«Paul Madriani.» «Ah, il mio avvocato preferito.» Avverto il sibilo di una boccata, subito seguito da un accesso di tosse, parecchi colpi squassanti, come una raspa da legno su un'asse di pino. Allontano il ricevitore dall'orecchio per salvarmi l'udito. «Ehi, Bennie, è Paul Madriani.» «Chi?» chiede il marito in sottofondo. «Paul Madriani. L'avvocato.» «Non dirmi che quello stronzo del procuratore vuole di nuovo parlarci.» «No, ha chiamato solo per salutarci», replica lei. «Salutamelo», ribatte il marito. «Bennie dice di salutarti. Hai chiamato solo per salutarci?» Le dico di ricambiare il saluto al marito. Lei esegue. «Allora, cos'è che vuoi? Un avvocato impegnato come te non chiama solo per far due chiacchiere. Lasciami indovinare. Hai un cliente che non paga e vuoi che te lo rintracci? È così?» «Non esattamente.» «Come ti ho detto quel giorno in tribunale: ho una sola parola. Questo incarico è gratis. Giusto, Bennie?» Joyce urla così forte che sono di nuovo costretto ad allontanare il ricevitore, ma riesco comunque a sentire Bennie. «Certo. Certo.» «Dammi il nome e te lo ritrovo subito, quel bastardo.» Joyce e Ben Swartz sono i proprietari della Carlton Riscossioni. Dove abbiano trovato il nome della ditta, proprio non lo so. Probabilmente su un pacchetto di sigarette. Suonava molto più elegante che Swartz. E potrebbe anche sembrare una ditta rispettabile se non fosse Joyce a rispondere al telefono. L'unica cosa che so, catarro a parte, è che se hai un debito, l'ultima cosa che vuoi è Joyce alle calcagna. Ho visto gente soffrire di meno pur avendo avuto le gambe spezzate dalla mafia. Joyce riesce a scovarti a casa tua, dai vicini, a casa di tua madre, lungo il Merced River, a Yosemite, in vacanza. I bambini tornano da scuola con dei bigliettini nel cestino del pranzo in cui ti si intima di pagare. Se vai a un matrimonio, ti ritrovi la cifra di cui sei debitore scritta col rossetto sul lunotto posteriore dell'auto dello sposo. Per Joyce le leggi statali e federali sulla riscossione dei crediti sono una sfida. Se non può chiamarti al lavoro, è capace di noleggiare un aereo di quelli che fanno le scritte in cie-
lo, e fargli scrivere il tuo nome a caratteri cubitali a mille metri d'altezza nel cielo sopra il tuo ufficio, seguito dalla parola «pezzente» scritta col fumo rosa. La maggior parte degli esattori utilizza una serie di lettere di sollecito, che partono con una richiesta garbata per finire con l'ipotesi che i tuoi figli potrebbero essere venduti come schiavi. Con Joyce, ricevi una lettera garbata. Dopodiché il tuo culo diventa suo. Circa un anno fa, ha un po' esagerato nel calare la scure su una chiesa locale che aspettava un secondo avvento per pagare la fattura di una tipografia. Una domenica si è presentata alla funzione tutta in ghingheri, con tanto di cappello, e ostentando una targhetta col nome. Si è piazzata a uno degli ingressi principali sul davanti, sorridendo all'usciere coi capelli grigi di fronte a lei. Mentre accoglieva i fedeli per la funzione domenicale, l'uomo aveva continuato a chiedersi chi fosse quella gentile volontaria che porgeva bollettini parrocchiali a tutti quelli che entravano. Salito sul pulpito per pronunciare il suo sermone, il pastore non riusciva a capacitarsi del perché i membri del suo gregge continuassero a ridere ogni volta che menzionava l'inferno. Joyce aveva infilato nel bollettino una lettera di sollecito per il pagamento della fattura, nella quale si rammentava ai lettori che il diavolo è un miserabile. I presenti avevano smesso di ridere quando era arrivato un vicesceriffo armato di documenti che lo autorizzavano a effettuare un prelievo di cassa dalle offerte di quella mattina. Sfortunatamente per Joyce, uno degli anziani della chiesa era il procuratore distrettuale capo. «Allora, com'è che si chiama questo tizio?» chiede lei. «Il cliente che ti dobbiamo trovare?» «Non c'è nessun cliente», la informo. «L'ordine degli avvocati arriccia il naso quando mi servo di voi per cose del genere.» «Perché? Non gli siamo simpatici?» «Niente di personale», rispondo. «Vogliono che sottoponiamo ad arbitrato tutte le parcelle non pagate.» «L'avvocato sei tu. Mi stai dicendo che non vuoi recuperare quei soldi?» «Anche se si tratta di cause vinte, solitamente ci suggeriscono di lasciar perdere. È tutta pubblicità negativa. Ci sono già abbastanza persone che odiano gli avvocati.» «Con un ordine come il vostro, c'è da stupirsi che riusciate a tirare avanti.» «A me lo dici.»
«Allora cos'è che vuoi?» «Vorrei che controllassi alcuni nomi, per vedere se riesci ad avere delle informazioni su alcune persone.» «Che genere d'informazioni? La loro solvibilità?» «Anche. Potrebbe venire utile.» «Vuoi che scopra dove stanno di casa?» «Non esattamente. So dove vivono queste persone. Quello che mi manca, in alcuni casi, è il nome di battesimo, un numero di telefono, informazioni sul loro lavoro, sempre che tu riesca a trovarne. Di che banca si servono. Chi sono i loro amici.» Le fornisco i nomi della lista e l'indirizzo. «Vedi di non metterti nei guai», aggiungo, «ti avverto che non è un bel quartiere. Verifica solo le informazioni che puoi ottenere a distanza, capito?» «Ehi, lo sai che non vado da nessuna parte senza Bennie.» È proprio quello che temo. «Cos'altro hai?» mi chiede. «Numero di previdenza sociale? Un numero di targa, magari?» «No. Mi spiace.» «Tutto qui? Un cognome, qualche iniziale del nome di battesimo? E neppure per tutti?» «E l'indirizzo», le rammento. «Ti accontenti di poco», dice lei. «Un'ultima cosa. L'uomo che sto cercando... è possibile che sia un trafficante di droga.» «Mmm. Questo potrebbe aiutarci.» «In che modo?» «Se commercia droga, dovrà pur avere un cercapersone, giusto? Un cellulare. Hai mai visto un trafficante di droga senza cercapersone o cellulare?» «Non ne conosco molti.» «Fidati. Ce l'hanno tutti. La gente come loro non può farne a meno. Ovviamente, a volte appartengono a qualcun altro», aggiunge. «Quello è un business in cui dovremmo entrare.» «Quale, quello dei cellulari?» «Il furto di cellulari», precisa. Conoscendola, so che sta scherzando solo in parte. «Quindi cominceremo coi cinque», prosegue. «E sarebbe? Dobbiamo saltare e batterci le mani?» «Noo. No.» Joyce non ha il minimo senso dell'umorismo. «Quello è dar-
si il cinque», dice. «Io mi riferivo ai gestori. I cinque maggiori gestori di telefonia mobile nel nostro Paese. Noi riscuotiamo crediti per tutti. Dunque, questo tizio che stiamo cercando... se ha un cellulare, troveremo il suo numero. Vuoi che mi procuri anche una copia della bolletta telefonica dell'ultimo mese? Non ti costa di più, visto che è gratis.» «Potresti farlo?» Esita solo per una frazione di secondo. «Per te, qualsiasi cosa. Per quando ti serve?» «Per ieri», rispondo. «Dammi uno o due giorni», dice, e riattacca. 16 Ho temporeggiato finché ho potuto. Adam Tolt aspetta una mia telefonata entro stasera. E così, questo pomeriggio, chiamo Dana dicendole che devo vederla, qui, nel mio ufficio. Mi chiede se si tratta dell'assicurazione. Le rispondo che sì, in un certo senso si tratta di quello, per farla venire qui. Poi aggiungo che dobbiamo parlare anche di una faccenda più seria. Sono le quattro e un quarto, e lei è in ritardo. Quando finalmente fa il suo ingresso trionfale alla reception, non è sola. Con lei c'è Nathan Fittipaldi. Sono al telefono con un cliente, ma la porta è socchiusa, e così riesco a vederli attraverso lo spiraglio. Sono tutti e due in tiro, come studenti del college diretti a una festa. Fittipaldi indossa un paio di calzoni sportivi beige e una polo con lo stemmino di Ralph Lauren ricamato sul petto. Dalle spalle pendono le maniche di un maglione bianco, legate con un nodo morbido intorno al collo. Si sta passando il pettine fra i capelli scuri, facendosi la riga nel mezzo; ha l'aria di un rubacuori attempato uscito dalla copertina di Gentlemen's Quarterly. Dana indossa un paio di calzoncini da tennis bianchi, così aderenti che non lasciano nulla all'immaginazione, e una maglietta blu senza maniche che scopre generosamente le spalle abbronzate e piene di lentiggini. Porta un cappellino da tennis bianco, uno di quelli composti solo da una visiera e una cinghietta regolabile, sui capelli biondi. Gli occhi sono protetti da un paio di occhiali da sole firmati che, suppongo, devono esserle costati almeno quattrocento dollari. Se li toglie e afferra una stanghetta fra i denti, mentre si leva il cappellino e lo molla sul bancone della reception, siste-
mandosi i capelli davanti a uno specchietto preso dalla borsetta. «Devo essere un disastro», esordisce, ridendo. «Stai benissimo», ribatte lui, stringendola da dietro. Voltandosi, Dana mi scorge attraverso lo spiraglio della porta mentre continuo a parlare al telefono, seduto alla scrivania. Per lei è un aperto invito. Prima che io abbia il tempo di alzarmi per chiudere la porta, è già lì. Si sporge oltre la soglia, sorridendo, come se giocasse a fare cucù, spalanca la porta, mi saluta con la mano e mi offre la vista dei suoi denti bianchi come perle. Fittipaldi è subito dietro, trenta centimetri buoni più alto di lei, ed esamina il mio ufficio. È in piena forma; le spalle e i pettorali gonfiano il tessuto della polo. «Paul, lei conosce Nathan, vero?» Alzo una mano, tenendo il telefono con l'altra, per far capire loro che devo finire una conversazione prima di poterne cominciare un'altra. «Oops», fa Dana, ridendo. Si copre la bocca con una mano, come a dire: «Che sciocca». Si volta verso Fittipaldi e bisbiglia: «Voi due vi conoscete, vero?» in modo che io possa leggerle le labbra. Poi annuisce, stabilendo in modo definitivo la mia appartenenza al gruppo. «Certo.» Fittipaldi sorride, fa un cenno col capo verso di me, le mani infilate nelle tasche. Priva com'è del gene della discrezione, Dana entra senza esitazioni. Gironzola tranquillamente per l'ufficio con le mani giunte dietro la schiena, come Leslie Caron nella parte di Gigi. Osserva tutte le foto appese alle pareti, la licenza della corte suprema dello Stato, i certificati incorniciati del distretto meridionale della corte federale, e quello accanto, del tribunale del nono distretto giudiziario. Mentre lei è impegnata in questo, Nathan resta sulla soglia, e ispeziona il posto. Dalla sua espressione intuisco che il mio ufficio non è all'altezza dei suoi standard da gallerista. «No, capisco. So cosa vuole. Non so se è possibile, ma ci posso provare.» Cerco di mantenere criptica la conversazione col mio cliente, un commerciante con quattro capi d'accusa per frode e peculato. Dana si volta verso Fittipaldi e sussurra: «Spero che non ci voglia molto». Visto che si trova a poco più di un metro dalla mia scrivania, non posso fare a meno di sentire. La signora, che aspetta un assegno di due milioni di dollari dall'assicurazione e nel frattempo fa la spesa prendendo i soldi dal fondo clienti del marito defunto, ha una certa fretta. Poi aggiunge, a
voce alta: «È una splendida macchina, Nathan. La adoro. E non vedo l'ora di andare». Vuole solo i soldi. Le cattive notizie posso tenerle per me. Sono costretto a proteggere il microfono del ricevitore con una mano nel vano tentativo d'impedire che la sua voce giunga dall'altra parte, al mio cliente. «C'è qualcuno, lì?» chiede questi. «È appena entrata una persona», rispondo. Lei si volta e mi guarda. Fa cenno con un dito verso l'altra stanza, come per chiedermi ciò che è ovvio, se preferisco che lei esca. Scuoto la testa. Dovrò continuare la telefonata un altro giorno. Dana è eccitata, le guance accaldate, i capelli da fatina trasformati in seta color grano dal sole estivo. «Senta, la richiamerò. Va bene domani? La trovo in ufficio?» Mi dice di sì. «Allora ci sentiamo nel pomeriggio.» Con questa voce femminile che farnetica di un'auto, il cliente teme che io possa avere cose migliori da fare, che possa dimenticarmi, e insiste perché m'impegni. «Sì. No. La chiamo prima delle tre.» Il ricevitore non fa a tempo a toccare l'apparecchio che già Dana trabocca sulla mia scrivania. «Ho pensato che non le sarebbe dispiaciuto se portavo Nathan con me», dice. «Eravamo fuori a fare un giro. Mi stava mostrando la sua nuova Jaguar KX.» «XK», precisa lui. Lei ride. «Cosa vuoi che ne sappia io, di macchine? So solo che è bellissima.» Si volta verso Fittipaldi come per rassicurarlo che non se ne sta andando in giro per la città su un rottame. «Dovrebbe vederla», prosegue, rivolta verso di me. «È color blu notte, nuova di zecca.» Il suo accompagnatore continua a restare sulla soglia, e sorride beato come se avesse appena partorito. «Ci siamo fatti tutto lo Strand con il tetto abbassato. E le assicuro che questa auto va come un bolide. Non come la Mercedes di Nick.» Il modo in cui lo dice mi fa pensare che non sia questo l'unico termine di confronto in cui Nick risultava carente rispetto a Fittipaldi. «Stavamo andando a cena su a nord, lungo la costa. Nathan conosce un posticino fantastico a Del Mar.» «Davvero?» È la prima parola che riesco a dire.
«Dovrebbe vederla, questa macchina. E sentire i sedili. Voglio dire, mi sono seduta sul sedile e vi ho appoggiato la faccia. Sembrava una nuvola.» Lo dice con aria sognante, a occhi chiusi. A questo punto un piano sta prendendo forma nella mia mente. Uscire, vomitare e sfregare la faccia sulla tappezzeria dell'auto di Nathan. «Lo so che non ci crederà, ma sono di giaguaro autentico», prosegue lei. «Così morbidi.» Questa volta accompagna le parole con un leggero movimento, passandosi il palmo delle mani sulle cosce nude proprio sotto l'orlo dei pantaloncini. Ovviamente questo la costringe a spingere in fuori il suo bel culetto. È una mossa alla Marilyn Monroe, ma Dana l'ha così perfezionata che ora è diventata totalmente sua. «Non è che lo possano avere tutti», precisa, «ma Nathan l'ha ordinata da un concessionario di Manhattan, con gli interni personalizzati.» Si volta a guardarlo, facendo cadere gli occhiali scuri nella borsa. «Dov'è che sono, tesoro? A un isolato dalla tua galleria?» «Due isolati.» «Davvero? Non riesco a immaginare una concessionaria a caccia di un autosalone nel cuore di Manhattan, per non parlare dei giaguari per foderare i sedili.» «Be', invece sono a un tiro di schioppo dalla galleria di Nathan.» Lui si schiarisce la gola. «E i giaguari sono stati uccisi e scuoiati vicino al confine col Guatemala.» «Già. Immagino che a New York non se ne trovino facilmente», commento. «Sono stati catturati da cacciatori di frodo messicani», m'informa lui. «Ma il governo li ha beccati.» «Buon per lei.» «Di solito non li vendono.» Suppongo stia parlando delle pelli, non dei messicani. «Ma questi sono stati messi all'asta per una buona causa.» «Certamente. Per coprire i suoi sedili.» Ride, ma capisco che non è divertito. «Per espandere l'habitat delle specie selvagge.» «E dovrebbe vedere il cruscotto», riattacca Dana. «Non credo che il signor Madriani sia interessato», le fa notare Fittipaldi. Ho incontrato Dana un numero sufficiente di volte da sapere che è in grado di esibire una decina di personalità diverse. Riesce a cambiarle con la stessa frequenza con cui si cambia d'abito e, in genere, lo fa. L'ho vista
muovere appena una spalla nuda in un ristorante affollato e far accorrere centinaia di uomini per offrirle un maglione. Oggi, sa che ho qualcosa di più serio dell'assicurazione da discutere. Così ha optato per la svampita indifesa, probabilmente nella speranza che questo addolcisca l'annuncio di cattive notizie e magari mi spinga a lanciarmi in suo aiuto sul mio destriero. Prosegue ancora per qualche secondo nel suo elogio entusiastico della macchina, finché non resta senza fiato ed è costretta a confrontarsi con il fatto che non è questo il motivo per cui l'ho chiamata chiedendole di venire da me. «Oh, che sciocca», esclama. «Suppongo che lei voglia parlarmi dell'assicurazione. Si tratta dell'assicurazione, vero?» La vita di Dana è un'unica, lunga ricerca di gratificazioni. Dammi subito la buona notizia, e tieni per te quella cattiva. Si lascia cadere su una poltroncina destinata ai clienti, posa il berrettino da tennis sopra la borsa ai suoi piedi, poi guarda l'orologio. È l'ora dell'aperitivo a Del Mar. Lancio un'occhiata verso Fittipaldi. «Oh, non deve preoccuparsi per Nathan», si affretta a dirmi lei. «Lui è al corrente di tutto. Voglio dire, è l'unico con cui ho potuto parlare. A parte lei», aggiunge poi, come per un ripensamento. «Magnifico», ribatto con un sorriso. «Non so cosa avrei fatto senza di lui», insiste Dana. «Cioè, senza voi due. Sarei stata persa. Voi due vi conoscete?» Sopracciglia inarcate sopra gli occhioni azzurri. «Sì», rispondo. «Certo.» Fittipaldi mi offre la mano e un sorriso. Benvenuto al Club Dana. Ci stringiamo la mano. «Bene. Che offerta hanno fatto?» chiede lei. Fruga nella borsa, pesca un lucidalabbra e, prima che io possa risponderle, si volta nuovamente verso Nathan. «Siediti.» Dà qualche colpetto sul bracciolo della poltroncina accanto alla sua. Mentre lui si siede, Dana torna a voltarsi verso di me. «Hanno fatto un'offerta, vero? Lei ha detto che si trattava dell'assicurazione.» «Solo in parte.» «Cos'altro?» «Credo che sarebbe meglio se ne discutessimo in privato.»
«Io posso aspettare fuori», dice lui. «No», obietta Dana con enfasi. Il suo diniego lo coglie in procinto di alzarsi da una sedia che non è neppure riuscito a scaldare. Lei si sta applicando il lucidalabbra, tenendo lo specchietto sollevato davanti al viso. «Tutto quello che può dire a me può dirlo anche a Nathan», aggiunge, come se fosse una questione di principio. Interrompe l'operazione lucidalabbra. «Dopotutto, lui è l'unico a essermi stato accanto durante tutto questo tempo. Non so dirle quanti amici, o, meglio, forse dovrei dire persone che consideravo amiche, mi hanno abbandonato, dopo che Nick è morto. La gente non la si conosce veramente finché non accade una cosa come questa. Sa, se mi vedono entrare in un negozio, m'ignorano. No. Desidero che Nathan stia qui, e senta quello che lei ha da dirmi.» Torna a concentrarsi sul lucidalabbra. Lui mi guarda, piega la testa di lato e sorride come per dire: «Sta a lei decidere». «Non credo sia una buona idea», insisto. «Perché no?» «Per risponderle, dovrei dirle di cosa si tratta, davanti a Nathan.» Questo la fa riflettere. Mi guarda, cercando di leggermi nel pensiero, e poi trae le conclusioni sbagliate. «Hanno rifiutato, vero?» All'improvviso tutta l'effervescenza e la frivolezza sono sparite. Smette di usare il lucidalabbra e lo appoggia insieme allo specchietto sulla mia scrivania. «Lo sapevo», sibila. «Te l'avevo detto, no?» Queste parole sono dirette a Fittipaldi. Si è alzata dalla poltroncina. Lui resta seduto, e mi guarda con un'espressione dolente, del tipo: «Come sono finito in mezzo a tutto questo?» «Non te l'avevo detto, Nathan?» Prima che lui possa rispondere, lei torna a rivolgersi a me: «Ieri, gli ho detto che la compagnia d'assicurazioni mi avrebbe fottuta. L'ho capito subito non appena ho visto quell'uomo, quel... Luther. Com'è che si chiama?» «Conover?» suggerisco. «Ecco, sì, Conover. L'ho capito subito, quando mi ha guardata, che non gli ero simpatica.» La fatina frivola e un po' svampita è sparita. Per Dana è una questione personale. Comincia a camminare su e giù, dietro le due poltroncine. «Il modo in cui continuava a guardarmi, a squadrarmi, ho capito subito a cosa stava pensando», prosegue. «E sarebbe?» chiedo. Dana mi guarda. «Lo sa bene quanto me.»
La mia espressione dice che non lo so. «Si stava...» Ora ha qualche problema a esprimere il concetto. «Si stava chiedendo come mai una persona come me avesse sposato uno come Nick.» Le rivolgo un'altra occhiata ottusa, scuoto appena la testa, come per dire che non capisco. Sono curioso. Voglio sentire cosa esce dalla sua bocca. «Quello che Dana intende dire, io credo, è che la compagnia d'assicurazioni era critica per via della differenza d'età tra loro.» Nathan corre in suo aiuto. «Esatto», conferma lei. «So cosa stava pensando. Che sono una volgare arpia.» Stavo pensando che non userei mai il termine «volgare» per definire Dana. «Riesce a immaginare quanto possa far male?» Mi aspetto che da un momento all'altro debba ricorrere ai Kleenex. Invece, dichiara: «Bene. Se vogliono il gioco duro, li accontenteremo. Quei risarcimenti punitivi... quelli per il mancato indennizzo. Quanto pensa che potremmo ottenere?» Dana può anche non sapere nulla di auto sportive, ma rappresaglia e vendetta sono per lei sentimenti naturali. «Li roviniamo», sibila. «Gli facciamo causa fino al giorno del giudizio. Se pensano di potermi fregare...» Ora sta parlando da sola, continuando a camminare su e giù, l'indice della mano destra posato sul labbro inferiore, l'unghia affusolata che sfiora un incisivo. Pasticciando un poco il lucidalabbra rosso, sta valutando fino a che punto farmi girare la ruota della tortura dopo che sarò riuscito a legarvi sopra la compagnia d'assicurazioni. Ma poi si blocca e si volta verso di me. Sentendo che sta per arrivare qualcosa di più serio, Fittipaldi si volta a guardarla, dandomi le spalle. Dal guizzo degli occhi azzurri di Dana, capisco che qualche pensiero oscuro si è insinuato nella sua mente. «Vogliono pagare lei?» insinua. La lei di cui sta parlando è Margaret. «Dana, dobbiamo parlare in privato.» «È così, non è vero? È così? Accidenti, lo sapevo! Hanno deciso di pagare quella sgualdrina invece che me.» Guarda Nathan. «Dovranno passare sul mio cadavere! Io ero quella sposata con Nick quando è stato ucciso. Io ero quella che lo sopportava, che sopportava le sue stronzate, non lei. Ha intenzione di fargli causa?» mi chiede, guardandomi come se improvvisamente fossi io il nemico. «Oppure hanno comprato anche lei?» «Dana!» Fittipaldi riesce ad attirare la sua attenzione con un tono di vo-
ce perentorio. Scuote la testa lentamente, a indicare che forse ha esagerato, che si è spinta troppo oltre e dovrebbe calmarsi, stare attenta a quello che dice. Dalla morbida pelle di un giaguaro alla freddezza dell'acciaio in meno di un minuto. Non dico nulla. Aspetto di vedere se lei s'infiamma di nuovo. Ma non è così. Resta lì a fissare il pavimento, la schiena rivolta a Nathan e a me, cercando - sospetto - di ricordare tutte le piccole parole velenose che sono sfuggite dalle sue labbra lucide quando il diavolo si è impossessato di lei. Quando è chiaro che si è calmata, intervengo. «Nathan ha ragione», le dico. «Si sieda. Si calmi.» Lei guarda la poltroncina, ma non fa un passo. «L'assicurazione ha fatto un'offerta», continuo. È come se una pallida luce tremolasse dietro i suoi occhi. Le labbra d'acciaio si piegano in un sorriso. «Tuttavia il motivo per cui l'ho convocata qui, oggi, quello di cui devo parlarle, non ha niente a che vedere con l'assicurazione. Perlomeno, non direttamente. È... be'... è una cosa molto più seria.» Cosa può esserci di più serio di due milioni di dollari in contanti? Questo pensiero sembra congelarle le cellule cerebrali. La scintilla di speranza nei suoi occhi svanisce di colpo. Si appannano e, due secondi dopo che le parole sono uscite dalle mie labbra, diventano due biglie acquose. Lei resta lì, in piedi, vacillando. Quando, alla fine, il suo sguardo si rimette a fuoco, è puntato non su di me, ma su Fittipaldi, sempre voltato verso di lei sulla sua poltroncina. È uno sguardo fugace. Dura solo un istante, ma l'espressione di cupa preoccupazione che le passa sul volto è come l'ombra proiettata da una nube scura. Non riesco a vedere il volto di Nathan. Ho l'impressione che le gambe possano cederle, ma Fittipaldi si alza e l'afferra prima che accada. Dana barcolla, si riprende, mentre lui l'aiuta a sedersi sulla poltroncina. L'uomo si china sull'amica. «Non è in sé», la scusa. «Ha subito uno stress tremendo.» «Sì, capisco.» «Ha qualcosa da bere? Del brandy?» «Niente brandy», rispondo. «Delle bibite e del vino in frigorifero, nell'altra stanza.» «Solo un po' d'acqua», mormora lei. «Sto bene.» Si passa il dorso della
mano sulla fronte, gli occhi ancora leggermente appannati. A meno che non sia abilissima, non sta fingendo. È bianca come un cencio. «Potrebbe portargliela?» mi chiede Fittipaldi. Mi allontano per andare a prendere l'acqua. Impiego un paio di minuti per trovare un bicchiere pulito nell'armadietto della stanza dove pranziamo, far cadere qualche cubetto di ghiaccio dal vassoietto preso dal freezer e riempire il bicchiere d'acqua. Sono vicino alla porta dell'ufficio quando sento la voce di Fittipaldi che sussurra: «Non dire nulla. Ne siamo quasi fuori. Resta calma». Quando alza lo sguardo, mi vede sulla soglia, col bicchiere in mano, sorridente come il maggiordomo che ha origliato dal buco della serratura. «Non dire nulla di cosa?» chiedo. «Oh, stavamo solo parlando.» Chino con un ginocchio a terra, accanto alla sua poltroncina, Nathan tiene la mano di Dana e mi guarda, chiedendosi quanto io possa aver sentito al di là della porta. Dana si riprende, si mette a sedere eretta. Fa un respiro profondo, e l'ombra che era diventata recupera la florida consistenza della sua carne. Il volto ha ripreso colore. Le porgo il bicchiere e lei beve qualche sorso. Con due dita raccoglie un poco di condensa intorno al bicchiere e se la passa delicatamente sulla fronte. Ne prende ancora un po' e se la passa sul collo e sulla scollatura. Qualunque cosa sia stata a mandarla in tilt, Nathan l'ha confortata. «Non so cosa mi sia successo», dice lei. «Mi girava la testa.» Beve di nuovo. «Di che cosa doveva parlarle?» Improvvisamente Nathan sembra aver assunto il comando. «Non può aspettare fino a domani? Forse sarebbe meglio che l'accompagnassi a casa.» «È una cosa seria», sottolineo. «Tuttavia, se è necessario aspettare un giorno, penso si possa fare.» «Bene», commenta lui. «Dovrò solo chiamare per informarli.» Nathan si sporge verso di me e solo per un pelo non si lascia sfuggire la domanda: «Informare chi?» Dana alza lo sguardo verso di me, mentre le passo davanti e vado a mettermi a lato della scrivania. Anche nel suo attuale languore, lei è un ribollire d'ansia, di domande che non osa porre ma cui è incapace di resistere. «No», decide lei, facendo un respiro profondo. «Mi sento meglio. Voglio sapere di cosa si tratta.» Ora tiene il bicchiere ghiacciato accostato alla
fronte. «Riguarda lo studio legale», la informo. «La Rocker, Dusha.» Mi fissa per un secondo buono, poi chiude gli occhi e sospira. Quando li riapre per guardarmi di nuovo, ho la sensazione che sappia di cosa sto parlando. Ma l'occhiata obliqua che lancia a Nathan mi porta a chiedermi se lo sappia anche lui. Per togliermi il dubbio, aggiungo: «C'è qualche problema circa i fondi che Nick gestiva prima della sua morte». «Oh.» Socchiude appena le labbra riarse, annuendo lentamente. «Capisco. Ora mi sento meglio», ripete. «Forse ha ragione. Forse dovremmo discuterne in privato. Dopotutto, è una questione che riguarda lo studio di Nick.» Si sporge verso Nathan, ancora inginocchiato accanto a lei. «Ti dispiace?» All'improvviso è Fittipaldi quello messo in disparte. «Certo che no.» Cos'altro può dire? «Sei un tesoro», tuba lei. «Se hai bisogno di me, sono qua fuori.» Probabilmente in ginocchio, con l'orecchio incollato alla porta. Dana lascia che la mano di lui scivoli via dalle sue. Nathan esce dall'ufficio chiudendosi la porta alle spalle. «Sicura di sentirsi bene?» le chiedo. «Sto molto meglio.» Invece di sedermi sulla poltrona dietro la scrivania, mi sposto sul davanti, appoggiando una natica al bordo in modo da guardarla in faccia. «Cosa pensava che avessi da dirle?» «Cosa intende?» «Cosa intendo?» ripeto, sorridendo. «Quando le è venuto quel giramento di testa che per poco non mi schianta il ficus.» Sorride per la battuta. «Non lo so. È che all'improvviso mi sono sentita svenire.» «Sembrava stesse benissimo, qualche minuto prima, pronta a dar battaglia alla compagnia d'assicurazioni, finché non le ho detto che non era quello il motivo per cui l'avevo convocata qui. Cosa pensava che volessi dirle?» «Non lo so. Non sono sicura.» Guarda la parete, prima in una direzione, poi nell'altra. I suoi occhi vanno ovunque tranne che su di me. «Ma lei sa perché l'ho fatta venire qui, vero?»
«Non ne sono sicura.» Mi offre un'espressione confusa, ma sta sudando. È la prima volta che la vedo traspirare. Si porta nuovamente il bicchiere alla fronte, sperando di raffreddarla con la condensa, e nel frattempo si passa la lingua sulle labbra. «Ci pensi», la sollecito. «O dobbiamo richiamare Nathan?» «No.» «Quello che pensavo anch'io. Lui non sa nulla degli assegni emessi sul conto del fondo clienti, vero?» Abbassa il bicchiere dalla fronte al grembo, così ora ha qualcosa su cui puntare gli occhi, lontano dal mio sguardo inquisitore. Scuote la testa velocemente come se questo potesse rendere l'ammissione meno dolorosa. «Mi dica, ha emesso gli assegni prima o dopo aver cominciato a tenersi per mano con Nathan?» Scuote la testa, fa spallucce. Non vuole dirmelo. «Pensava che le dicessi che la polizia voleva parlarle a proposito della morte di Nick, vero? Sì, immagino siano cose che fanno raggelare il sangue. Intendo dire, se la notizia le venisse data così, all'improvviso, senza il tempo di prepararsi all'idea.» Dana alza lo sguardo. «Perché dovrebbero parlare con me? Lo hanno già fatto, subito dopo l'incidente. Non capisco dove voglia arrivare.» «Sì, che lo capisce. Pensava che potessero avere dei sospetti, sa, la giovane vedova di un uomo sposato col suo lavoro, un avvocato che, a sentire lei, anche con l'etica professionale di un puritano, non se la cavava troppo bene finanziariamente. Lei ha capito che la polizia poteva pensare ai soldi dell'assicurazione, al fatto che due milioni di dollari potevano ben consolarla per la perdita del suo caro. Oh, lo so cosa ha in mente», proseguo. «I poliziotti, con quella loro mentalità ottusa, sempre pieni di sospetti. Ma temo sia una deficienza genetica con cui entrambi dovremo confrontarci. È una delle condizioni per essere ammessi nella polizia, una vera seccatura, per uno che fa il mio lavoro.» Mi guarda e sorride, il primo segnale che, dopotutto, potrei essere dalla sua parte. «Tant'è, chiunque abbia un minimo di buon senso potrebbe porsi delle domande sulle cose che una giovane donna come lei potrebbe fare con tutti quei soldi. Giusto? Era questo che pensava?» «Non lo so. Non ne sono sicura», risponde. «Ma ha ragione a proposito della polizia. Sono sospettosi su tutto. Chi può sapere cosa gli passa per la testa?»
«Ma perché dovrebbero pensare proprio queste cose?» «Non so se le pensino. È stato lei a parlarne.» «Già, è vero. Parliamo d'altro.» Un'espressione di sollievo passa nei suoi occhi. Si cambia argomento. «Parliamo di quello che Nathan non voleva che mi dicesse.» «A cosa allude?» «Mentre io ero fuori della porta, col bicchiere d'acqua.» Non è l'argomento che aveva sperato. «Paul, mi ascolti.» Il suo tono affettato diventa miele, miele dolcissimo e fluido, che scorre veloce. «Non me la sento, in questo momento. Non sto benissimo.» «Le gira di nuovo la testa?» «Be', un poco.» «Vuole che proviamo con un altro argomento?» Dana annuisce. «Allora parliamo dello studio legale. Si trovano a dover prendere una decisione difficile. Non sanno cosa fare per tutti quegli assegni emessi da qualcuno sul conto del fondo clienti per riscuotere gli onorari di Nick. Onorari non ancora maturati», preciso. «Potrebbero trovarsi a dover fornire dei servizi ad alcuni clienti senza ricevere nessun compenso, visto che qualcun altro ha già riscosso il denaro.» «Cos'altro possono fare?» chiede. «Dunque, vediamo...» Mi sfrego il mento come se la risposta richiedesse una certa riflessione. «Suppongo che dovrebbero chiedere a un perito calligrafo di esaminare le firme apposte sugli assegni. Da quanto mi hanno detto, pare che portino tutti la stessa firma, quindi non dovrebbe essere difficile. Poi darebbero la caccia ai sospetti, si procurerebbero dei campioni, le firme di queste persone. Be', capisce anche lei dove può portare tutto ciò.» «Come fanno a trovare i sospetti?» domanda. «Be', conoscono i conti sui quali sono stati depositati gli assegni. È facile che gli impiegati di banca ricordino una faccia, anche se la persona ha usato il numero di previdenza sociale di qualcun altro.» Incassa senza battere ciglio, e questo mi fa sospettare che possa aver usato dei travestimenti. «Ma non credo che abbiano problemi a rintracciare la persona che ha fatto questo. Anzi, credo che sappiano già chi è stato.» «Come hanno fatto?» «Il responsabile non è stato abbastanza cauto nel trafugare gli assegni
dal cassetto di Nick», le rispondo. Sgrana gli occhi. Questo le toglie la parola. «Poi viene la parte più difficile. Prendere una decisione.» Aspetta, ansiosa. «Primo: potrebbero prendere i soldi da qualunque fonte di reddito di questa persona. Diciamo, per esempio, un lucroso indennizzo assicurativo. Sa, per tener nascosta la cosa ed evitare imbarazzi allo studio. Questo, sempre che riescano a muoversi sufficientemente in fretta da impedire che l'ordine degli avvocati apra un'inchiesta sulla vicenda.» Mi sembra quasi di vedere i suoi occhi annuire, gli angoli della bocca sollevarsi appena come in segno d'approvazione. «Oppure potrebbero consegnare gli assegni al procuratore distrettuale, presentare una denuncia per furto e falsificazione, e lasciare che se la sbrighi lui. Questa sarebbe, in effetti, la procedura più sicura. Quella che qualunque buon avvocato probabilmente raccomanderebbe. Non li metterebbe nei guai con l'ordine degli avvocati. Perderebbero solo un po' di credibilità nei confronti dei clienti.» Gli angoli della bocca si flettono. «Ovviamente, con tutte quelle menti ottuse e sospettose, e nient'altro da fare al dipartimento di polizia, non mi sorprenderebbe di assistere a un'epidemia di paranoia se il procuratore dovesse mettere le mani su quegli assegni. Naturalmente tutto dipende da chi li ha emessi. Nel qual caso, suppongo che dovremmo dimostrare un minimo di comprensione per quelle menti deviate, se fossero indotte a pensare che lei aveva un motivo per desiderare che Nick morisse di morte improvvisa. Voglio dire, con tutti quegli assegni con sopra la firma falsificata di Nick, le pressioni a tutto campo sulla compagnia d'assicurazioni per un paio di milioni, e lei che se ne va in giro per la città sulla Jaguar in compagnia di Dudley Moore, col tetto abbassato e i sedili di pelle di giaguaro... ammetterà che, be', alla faccia del lutto!» «Lo fa sembrare così...» Cerca il termine adatto. «Volgare?» suggerisco. «Egoista.» «È una buona parola. Cioè, non è buona, ma credo che lei abbia capito cosa intendo. Allora...» Appoggio anche l'altra natica sulla scrivania, così da trovarmi completamente seduto, i piedi penzoloni a pochi centimetri dal pavimento di fronte a lei. «Prima che io richiami Adam Tolt e discuta con lui di quale decisione lo studio dovrebbe prendere al riguardo, perché non
mi dice quella cosa che Nathan non voleva che lei mi dicesse?» Dana resta lì con gli occhi spalancati, a riflettere sulle opzioni: busta numero uno, tener nascosta la cosa; busta numero due, accuse gravi per furto e falsificazioni, con una probabile condanna e un ottimo movente per un duplice omicidio. Il nanosecondo che impiega a rispondermi indica che non è una scelta difficile. «Ci vedevamo da un po'», confessa. «Nathan e io.» «Sono sbalordito.» «Intendo prima che Nick morisse.» «Intende dire prima che venisse ucciso, prima che gli sparassero?» puntualizzo. «Sa, c'è una certa differenza.» «Sì. È quello che intendevo dire», si corregge. «Se Nick fosse morto di polmonite in un letto d'ospedale accanto a Metz, la polizia non si darebbe tanto da fare per trovare chi li ha uccisi. Penserebbero che è stato Dio, e lei sarebbe libera di tenersi per mano con Nathan come se niente fosse successo. Capisce la differenza?» Mi guarda con un'espressione amara. «Non l'abbiamo detto alla polizia. Non pensavamo che dovessero saperlo. È una cosa privata.» «E ora siete preoccupati che lo scoprano», concludo per lei. Annuisce. «Come? Siete stati così discreti», la provoco. «Oh, la smetta», sbotta lei. «No, davvero. Nathan è un esperto in discrezione. Lo ha fatto persino stampare sul biglietto da visita.» Questo non le piace. Mi guarda socchiudendo gli occhi. «Lei deve capire. Il mio matrimonio con Nick era già finito sei mesi prima che venisse ucciso.» Ora che è arrabbiata, non sembra avere nessuna difficoltà a pronunciare la parola. «Gli era rimasto solo il diritto di vantarsi, tutto qui. E lo usava in continuazione con i suoi amici. Lei dovrebbe saperlo. Era uno di loro.» «Ehi, con me non si vantava mai delle sue conquiste.» «In ogni caso, il nostro matrimonio ormai era solo una formalità. Lo sapevamo tutti e due.» «E allora perché non ha chiesto il divorzio? O forse ha trovato un modo più facile per risolvere il problema?» «Non crederà sul serio che io lo abbia ucciso, o sia coinvolta nella vicenda?» Ora che vuole qualcosa - la mia incondizionata approvazione -, gli occhi di Dana si fanno di nuovo dolci e lacrimevoli. Ci mette meno di
quanto c'impieghi un ragazzino a premere il grilletto della pistola ad acqua. «No. Non è nel suo stile», le concedo. Sorride. Il sollievo è palpabile, evidente come la tensione del mento che si allevia. «Lei avrebbe usato del veleno o un coltello», aggiungo. «Ma per Nathan non sono sicuro. In fondo, a lui piacciono le auto veloci e chi ha ucciso Nick ha lasciato un bel po' di gomma di pneumatici sull'asfalto.» «Noi non c'entriamo», protesta. «Deve credermi.» «Adesso è diventato 'noi'? Si sente di garantire anche per Nathan?» «Non è stato lui. Non potrebbe mai fare una cosa del genere.» «Non dovrebbe sminuirsi in questo modo. Sottovalutare l'attrazione che esercita sugli uomini. Non è da lei.» Dovrebbe arrabbiarsi, ma un altro istinto ha il sopravvento. Alza lo sguardo verso di me e si passa la lingua sulle labbra. «Lei non mi crede. Cosa posso fare per convincerla?» Ora è tutta tenera e femminile, diventa pericolosa, una vipera pronta a colpire. «Probabilmente non è stata lei», opino. «Sono solo un cinico. Talvolta ho delle difficoltà anche ad accettare che la terra è rotonda. Ma poi mi rassegno. Torniamo alla mia domanda iniziale. Se non amava Nick, perché non ha divorziato da lui?» «Non lo so. Probabilmente l'avrei fatto, se avessi trovato l'uomo giusto.» «Dunque Nathan non era l'uomo giusto?» «Oh, Nathan mi piace», risponde. Che nella sua lingua significa: finché non capita qualcosa di meglio. «Voglio dire... lui ha intenzioni serie. E io non voglio ferirlo. Non voglio che venga a sapere degli assegni.» «Sì. Capisco che questo potrebbe fargli venire qualche dubbio sul vostro rapporto. Se non altro, si sentirebbe in dovere di chiudere in cassaforte assegni e carte di credito, la notte.» «Nessuno di noi due ha avuto niente a che fare con la morte di Nick. Lei deve capire che ero disperata. Nick non aveva pagato le ultime tre rate dell'ipoteca sulla casa. Non so dove andassero tutti i soldi. Io so solo che non ne vedevo. La banca minacciava di prendersi la macchina. Il più delle volte, lui non tornava a casa la sera. Non ci parlavamo quasi più. Credo che sapesse di Nathan, ma sembrava che non gl'importasse. C'era qualcosa... Forse aveva un'altra. Non so.» «Lui non le diceva nulla?» Scuote la testa. Scivolo giù dalla scrivania e raggiungo la mia poltroncina. Mi siedo e ri-
fletto, grattandomi il mento. Resto così a lungo, forse un minuto, senza dire nulla, fissando la parete sotto la fila di licenze. A Dana deve sembrare un anno, mentre se ne sta lì zitta a sudare. Alla fine è lei a rompere il silenzio. «Cosa intende fare a proposito degli assegni?» «Be'.» Traggo un profondo respiro. «Credo proprio che lei dovrà rinunciare a una piccola parte dell'indennizzo.» «Sì. Lo so. Cinquantasettemila dollari.» «No. Saranno un po' di più.» Le spiego i termini dell'accordo, il fatto che Margaret chiede due milioni o niente. In caso contrario, l'accordo salterebbe e lei dovrebbe affrontare una spiacevole conversazione con il procuratore distrettuale a proposito di certi assegni falsi, se non addirittura qualcosa di più serio. La informo che Harry e io non rinunceremo al nostro onorario per rappresentarla, il che significa un terzo pieno di quanto lei prenderà, compresi i cinquantasettemila che deve restituire allo studio di Tolt. Durante tutto questo tempo, Dana ascolta senza sollevare obiezioni. Il classico blocco di ghiaccio, mentre calcola quanto le resterà in tasca dopo essere stata rapinata dagli avvocati. Non le piace, ma non ha altra scelta. «È tutto?» chiede. «Supponendo che Tolt non abbia cambiato idea e l'ordine degli avvocati non sia già calato sul suo ufficio, sì.» Afferra la borsa e il berretto da tennis, si alza dalla poltroncina, e si volta per andarsene facendo ondeggiare il alletto bianco. «C'è un'ultima cosa», la richiamo. «Cosa?» Si volta, a metà strada tra la scrivania e la porta. A questo punto, Dana è convinta di potersi almeno prendere la soddisfazione di guardarmi con scherno, e i suoi occhi mi fissano sprezzanti, mentre lei tiene una mano su una coscia dorata. «Lei conosce Grace Gimble?» le chiedo. «Chi?» «Grace Gimble.» «Una delle amanti di Nick, suppongo?» «Me lo dica lei.» «Non ho mai sentito quel nome.» «E la Jamaile Enterprises?» Scuote la testa, seccata. «Me l'ha già chiesto una volta. E io le ho già detto che non ne ho mai sentito parlare. Posso andare, adesso?»
«Un'ultima domanda, nel caso me lo chieda la polizia. Cosa ha detto loro, a proposito di Nathan? Le hanno fatto domande su di lui?» «No. Non in modo esplicito», risponde. «Mi hanno fatto solo delle domande generiche. Come andava il mio matrimonio con Nick, se eravamo felici. Cosa avrei dovuto rispondere?» «Avrebbe potuto dire la verità.» «Ma certo. Mio marito e io quasi non ci parlavamo più. Non mi manteneva. Io mi vedevo con un altro. Non so con chi si vedesse lui, perché certe sere non tornava neppure a casa. Ah, a proposito, per me valeva più da morto che da vivo. Ottimo consiglio legale», conclude. Non ha tutti i torti. 17 È fine giugno e, a detta di tutti, la polizia non ha fatto nessun progresso nello scoprire chi ha sparato a Nick due mesi fa. Il duplice omicidio ha tutte le caratteristiche di un'indagine destinata a sfociare in un nulla di fatto. M'infilo nel parcheggio di Harbor Boulevard e trovo un posto libero nella zona riservata ai visitatori. L'ufficio di Zane Tresler si trova all'ultimo piano della Hall of Administration, una torre in stile art déco spagnolo prospiciente la baia. Passo il controllo sicurezza al pianterreno e prendo l'ascensore fino agli uffici dirigenziali. In fondo al corridoio di marmo c'è una porta a due battenti di vetro acidato, incorniciato di mogano, con sopra scritto a lettere dorate il nome ZANE TRESLER. Tresler rappresenta il distretto 1, e Adam aveva ragione: ora presiede il consiglio. Spingo la pesante porta di vetro ed entro. La reception è una specie di museo. Una bacheca che va dal pavimento al soffitto è sistemata al centro della stanza come una colonna di ghiaccio. All'interno sono esposti manufatti di un'antica civiltà. Se dovessi indovinare, direi America Centrale o del Sud. Contiene antichi oggetti in terracotta sistemati su scaffali intorno a una grande tavola di pietra, bianca di gesso, sulla quale sono incise delle figure. Il cartoncino stampato accanto a essa recita: STELE MAYA DEL VI SECOLO Questa tavola, splendidamente conservata, coperta di gesso e ornata di geroglifici, è un antico documento. Gli scribi maya se ne servivano per registrare eventi importanti o cerimonie religiose.
La stele qui esposta fu scoperta nel 1932 vicino alle rovine di Tulúm, sulla costa caraibica della penisola dello Yucatán. Si pensa che sia stata trasportata lì da un sito ancora precedente del Messico centro-meridionale. Il mio appuntamento con Tresler è per le dieci. Sono un paio di minuti in anticipo. Giro intorno alla bacheca e porgo il mio biglietto da visita alla giovane donna seduta dietro il bancone. Lei solleva il ricevitore e pronuncia il mio nome, attende un istante e riattacca. «Qualcuno verrà a riceverla tra un secondo», mi comunica. Mi volto a guardare la bacheca da questa parte. Vi sono contenuti oggetti in ceramica, piatti e una brocca, alcuni percorsi da venature sottilissime risalenti con ogni probabilità all'epoca di Mosè. Il cartoncino sottostante dice: TOLTECO - X SECOLO. Mi sbagliavo. Prima di poter leggere oltre mi sento chiamare. «Signor Madriani?» Mi volto e vedo davanti a me un giovane. «Salve. Sono Arnie Mack, uno degli assistenti amministrativi del supervisore Tresler.» Mi stringe la mano con un sorriso schietto. «Il supervisore possiede una bella collezione», gli dico. «Già. È una delle sue passioni. Adora l'archeologia e la storia. Sta cercando fondi per finanziare un museo.» «Già. L'ho sentito dire.» «Se vuole seguirmi.» Mi fa strada oltre la reception, al di là della porta che conduce al sancta sanctorum. Arriviamo davanti a un'altra porta a doppio battente di vetro, ciascuno dei quali reca inciso a lettere dorate: ZANE TRESLER PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI SUPERVISORI Quando il giovanotto la apre, avverto un odore di stantio, il tipico odore degli edifici amministrativi risalenti all'epoca della depressione, come la WPA, la commissione edilizia degli anni '30. Mi è capitato spesso di identificare questo sentore di muffa con l'odore del potere. Il giovane muove qualche passo all'interno dell'ufficio cavernoso. «Mi scusi, signore.»
«Cosa c'è?» «La persona che aspettava per le dieci è arrivata.» «Bene, falla entrare.» «È già qui.» Seduto dietro una scrivania, a sei o sette metri da me, c'è un uomo calvo, con le rughe che si arrampicano sulla fronte pallida e terminano solo alle pendici della calotta cranica. Questa sembra puntata contro di me, come un proiettile luccicante, mentre l'attenzione di Tresler è rivolta in basso, verso un'enorme pila di documenti posati al centro del sottomano, l'unico oggetto sulla scrivania altrimenti vuota. Sembra possedere la capacità di concentrazione di un mistico: non si muove né alza lo sguardo mentre le nostre suole ticchettano e scivolano sul pavimento di marmo, verso la scrivania. Di corporatura minuta, Tresler non è quello che ci si aspetterebbe da una persona che possiede un patrimonio stimato in miliardi di dollari e che regge le redini di una dinastia politica. Indossa una camicia di rayon bianca con le maniche corte, abbottonata fino alla gola, con una di quelle cravatte strette che andavano di moda negli anni '50. Sulla cravatta è appuntato, all'altezza del pomo d'Adamo, un grosso turchese montato in argento. Se non sapessi chi ho di fronte, mi aspetterei che da un momento all'altro tirasse fuori banjo e chitarra. Mentre legge, il suo naso sfiora i documenti. Il giovanotto mi guarda, titubante. «Signore», dice. «Fuori», fa Tresler. «Vattene immediatamente. Non vedi che sto leggendo?» «L'appuntamento delle dieci, signore.» «Lo so. Ti ho sentito. Pensi che sia sordo?» «No, signore.» Il giovanotto decide che devo cavarmela da solo. Si dirige verso la porta, pattinando sul marmo con le suole di cuoio. «Si sieda. Finisco in un attimo.» Tresler non mi ha ancora degnato di uno sguardo. Mi accomodo in una delle poltrone di pelle davanti alla scrivania, accavallo una gamba sull'altra e lo osservo. La cosa va avanti per un bel po'. Se non fosse per il naso ancora sospeso sulla pila di documenti, verrebbe da pensare che sia svenuto. Ogni minuto o giù di lì, una mano sale da dietro la scrivania per girare una pagina, e torna subito in grembo. Dopo un paio di minuti, mi schiarisco la gola. «Perché è qui? L'ha mandata Ramiriz a baciarmi il culo?» Suppongo che il Ramiriz di cui sta parlando sia Bernardo, il presidente
della corte superiore della contea. «Veramente no. Sono venuto qui di mia iniziativa.» Finalmente alza lo sguardo verso di me, uno sguardo interrogativo, poi allunga una mano e prende un foglio. Vedo in trasparenza le righe battute a macchina sull'altro lato. «Qui dice che lei è dell'ordine degli avvocati della contea», m'informa Tresler. «Budget per i tribunali.» Spinge gli occhiali sul dorso del naso, scrutandomi a lungo. Direi che è vicino alla settantina. Di solito, a uno come lui si concede il beneficio dell'età, dando per scontato che l'irritabilità abbia avuto il sopravvento su di lui insieme alla flatulenza, e probabilmente per le stesse ragioni. Nel caso di Tresler, tuttavia, sospetto che fosse già così quando è uscito dal ventre materno. «Cosa vuole?» mi chiede. «Adam Tolt mi ha fatto la cortesia di fissarmi questo appuntamento», rispondo. «Forse è questo il motivo della confusione sulla sua agenda.» «Ah. Lei è un amico di Adam?» «Ci conosciamo.» «Come sta Adam?» Posa l'elenco degli appuntamenti sulla scrivania. «Ieri, quando l'ho visto, stava bene.» «Ottimo. Mi fa piacere.» Tolt sembra avere sul vecchio lo stesso effetto calmante di un blando lassativo. «Ha un biglietto da visita?» Il giovanotto era troppo spaventato per porgergli quello che gli avevo dato, così ne prendo un altro dalla tasca. Lo esamina. «Ma-dre-ani.» «Ma-dri-ani», lo correggo. «Ha detto che la manda Tolt?» «No. Lui ha fissato l'appuntamento. Non mi ha mandato. Adam e io siamo conoscenti. È stato così gentile da chiedere un appuntamento, visto che io non la conoscevo.» «Capisco. Ha lavorato a qualche caso con lui? Adam è un buon avvocato.» Si toglie gli occhiali e mi guarda strizzando gli occhi. Capisco che non mi vede più. Tastando tutt'intorno, apre il cassetto centrale della scrivania, tira fuori un piccolo panno e si mette al lavoro su ogni lente, alitando un poco su ciascuna mentre le pulisce. «Mi ha rappresentato in un paio d'occasioni», ricorda. «Non lo sapevo.» «Oh, sì. È passato qualche anno. È stato negli anni '60. Una questione di
proprietà.» «Come ha detto lei, è un buon avvocato.» Inforca gli occhiali, e torna a mettermi a fuoco. Il panno scompare nel cassetto, ogni cosa al suo posto. «Allora, se non si tratta del budget per i tribunali, per quale motivo desiderava vedermi?» «Vorrei delle informazioni su alcune nomine che lei ha fatto per la Commissione per i beni artistici, un po' di tempo fa.» «Persone nominate da me? Perché? Uno di loro ha fatto qualcosa che non va?» «Uno di loro è stato ucciso», rispondo. «Quand'è successo?» «Due mesi fa. Penso che lo avrà letto sui giornali. Si chiamava Gerald Metz. Gli hanno sparato davanti al tribunale federale, a lui e al suo avvocato.» Mi guarda e fa una smorfia. «Ricordo di aver letto il titolo, ma il nome non mi dice niente. Non credo di conoscerlo.» «Lo ha nominato lei.» «Io nomino un sacco di gente per un sacco d'incarichi. Questo non significa che li conosca. Se vuole informazioni al riguardo, può chiederle al mio staff», dice. «Esce da quella porta, parla con la mia segretaria e si fa dare tutte le informazioni di cui ha bisogno.» «Ha detto che non ricorda il nome Gerald Metz?» «Esatto.» «Ho altri due nomi. Posso chiederle se li conosce?» «Senta, ho da fare.» «Quello che vorrei sapere è: se non li conosceva personalmente, le sono stati raccomandati da qualcun altro? E in questo caso, da chi?» «Perché vuole saperlo? Per chi ha detto che lavora? È per caso un giornalista?» Comincia a mostrare i denti. «No, signore. Sono un avvocato. Un mio amico è stato ucciso. Era il legale rimasto coinvolto nella sparatoria.» Annuisce con espressione seria. «Mi ricordo il fatto della sparatoria. L'ho letto sui giornali. Una cosa terribile.» «Il cliente si chiamava Gerald Metz.» «Ehm.» «Lei non sapeva che uno dei due uomini rimasti uccisi era una persona da lei nominata alla Commissione per i beni artistici?»
«No.» Scuote la testa. «Nessuno me l'ha detto. Sapevo che la signora Rush faceva parte della commissione. Mi sembra di capire che suo marito fosse suo amico.» «Lei conosce Dana?» «No. Non posso dire di averla mai conosciuta. Ma conoscevo suo marito.» «Come faceva a conoscere Nick?» «Oh, non lo so. L'ho incontrato da qualche parte. Forse a una raccolta di fondi. Ci siamo visti un paio di volte. Sembrava un tipo per bene. Com'è che si chiamava il suo cliente?» «Gerald Metz.» Ci pensa su, poi scuote la testa lentamente. «No, non credo di conoscere quel nome. Non sto dicendo che non l'ho nominato io. È solo che non ricordo il suo nome.» «Quindi, così su due piedi, non mi saprebbe dire perché lo ha nominato alla commissione.» «Sono certo che ne avesse le qualifiche. Ma, così su due piedi, non saprei.» «Esistono documenti che possano indicare se le nomine sono avvenute su segnalazione di altri?» «È possibile», ammette. Ho la sensazione che la risposta dipenda da come ho intenzione di usare questi documenti. «Può dirmi come si è arrivati alla nomina di Dana Rush, la moglie di Nick?» «Oh, questo è facile. Me l'ha chiesto suo marito.» «Nick?» «Suppongo che fosse l'unico marito che aveva.» «Allora lei doveva conoscere Nick piuttosto bene.» «Come le ho detto, ci siamo incontrati qualche volta nel corso degli anni. Ora, se vuole scusarmi, ho molto lavoro da fare.» «Dove posso trovare i documenti relativi alle nomine?» «Parli col mio staff», risponde. Si ributta sulla sua pila di documenti, nel tentativo di liberarsi di me. «Posso chiederle di un'ultima persona?» «Chi?» Sta diventando brusco. «Si chiama Nathan Fittipaldi.» Ci pensa per un secondo, frugando nella memoria, poi scuote la testa. «Mai sentito.»
«L'ha nominato lei, anche questo.» «Come le ho detto, io nomino un sacco di persone. Se ha altre domande, si rivolga al mio staff», ripete. «E ora se ne vada.» 18 Harry ha impiegato meno di due giorni per reperire l'elenco dei finanziatori della campagna di Tresler. Come previsto, il nome di Adam Tolt salta fuori da tutte le parti. «Quell'uomo compare su ogni elenco», commenta il mio socio. Stravaccato su una delle poltroncine riservate ai clienti nel mio ufficio, scorre con gli occhi le stampate di computer, facendomi un riassunto di quanto ha scoperto. «Congresso, metà dei senatori dello Stato, consiglio comunale. L'ultima volta, Tolt ha finanziato entrambi i candidati alla carica di senatore. Sarebbe logico supporre che questo possa aver infastidito qualcuno», prosegue. «E invece no. Credo che vendano le rubriche col suo nome e indirizzo prestampati sopra. Ricordami di non entrare mai in un giro del genere.» Chissà come mai, non riesco a immaginare che si possa presentare il problema. «Tolt ha fatto elargizioni a tutti e cinque i supervisori», continua Harry. «Senza favoritismi. Duecentocinquanta dollari a ciascuno. Il massimo concesso alle persone fisiche. La stessa cifra che ha dato a Tresler.» Lui pensa che possiamo usare il modo di operare di Tolt come cartina di tornasole per giudicare gli altri. «Ha un sacco di soldi, ma dona piccole cifre per volta.» È una leggenda metropolitana che i ricchi e potenti facciano sempre grosse donazioni. Anche loro di solito si limitano a dare qualche centinaio di dollari per candidato, solo che finanziano più persone. «Ci sono anche Metz e Fittipaldi», dice Harry. «Anche loro per piccole cifre. Metz un centone. Fittipaldi uno e mezzo. La cosa interessante è che hanno dato il loro contributo solo a Tresler. Ho idea che avessero uno scopo preciso.» «La nomina alla Commissione per i beni artistici», suggerisco. Il mio socio annuisce. «E, mi spiace deluderti, ma il nome di Dana non risulta da nessuna parte.» A quanto pare, non aveva mentito. Dana è apolitica, nel senso che non fa differenze tra le amicizie politiche.
«Ma c'è qualcuno in bella evidenza», prosegue. «Indovina chi compare come grosso sostenitore?» «Nick.» «Come facevi a saperlo?» «Diciamo che è stato un presentimento.» Tresler lo conosceva. Un politico con trecentomila elettori nel suo collegio non si ricorda il tuo nome di battesimo a meno che tu non rientri in una delle due seguenti categorie: o gli hai fatto uno sgarbo, o hai fatto qualcosa per lui in tempi recenti. «Quanto?» chiedo. «Non vuoi provare a indovinare anche quello? Spara una cifra.» «Mille?» «Facciamo diecimila.» Questo risveglia la mia attenzione. Non c'è da stupirsi che Tresler conoscesse il suo nome. «E, per aggirare i limiti imposti dalla legge, Nick ha fondato un comitato, Cittadini per la contea», m'informa Harry. Un comitato politico raccoglie persone che hanno interessi comuni e mettono insieme i loro finanziamenti per avere più peso. «Hanno versato due contributi di cinquemila dollari nel giro di due anni. Tutti a Tresler. Nick figura come tesoriere. Lui ha versato il contributo massimo concesso, duecentocinquanta ogni anno.» «Fammi vedere.» Lui mi porge la stampata di computer. Scorro l'elenco. Non devo faticare molto per trovare il comitato. I donatori sono ordinati secondo l'importo, a partire dai maggiori. Dalla mia espressione, Harry capisce che per me questa è una sorpresa. Nel comitato di Nick compaiono venti persone, divise per anno, ma i nomi sono più o meno gli stessi. Alcuni non sono neppure di questa contea. Due sono di un altro Stato. «Sapevi che era impegnato in politica?» mi chiede Harry. «Nick non era un patito dell'impegno civico.» «Come pensavo. Ma ho controllato comunque. Non ha fatto donazioni a nessun altro. Ho verificato tutti i nomi dei finanziatori a livello locale, statale e federale, e per Nick non ho trovato niente, tranne i soldi dati a Tresler. Secondo te, cosa voleva?» Scuoto la testa. Non ne ho idea. «Potremmo ipotizzare che si trattasse di un requisito per far entrare la moglie nella commissione», opina il mio socio. «Tuttavia, devi ammettere che diecimila dollari sono una cifra sproporzionata, soprattutto per uno che
salta i pagamenti delle rate per la casa.» Mi appoggio allo schienale, studiando la lista di nomi elencati sotto quello di Nick. «Quando hai parlato con Tresler, lui non ha fatto nessun accenno a questo, vero?» «No.» «Forse sarebbe il caso che tornassi da lui per chiederglielo.» «Mi direbbe soltanto quello che ogni politico dice: 'Io sono al di sopra di tutto questo. Non mi occupo di queste cose'. Si fingerebbe sorpreso e sosterrebbe che Nick doveva essere un seguace della sua filosofia: bellicismo senile. Questo, se riuscissi a entrare nell'edificio», preciso. «Ma, probabilmente, il mio nome compare già tra gli 'individui pericolosi e svitati' nella lista degli uomini della sicurezza, giù nell'atrio. Tuttavia, va detto che Tresler non ha negato di conoscere Nick.» «È bello sapere che i soldi di Nick gli hanno meritato un minimo di riconoscimento, seppure postumo», osserva Harry. «Comunque, non abbiamo fatto nessun progresso.» Il telefono sulla scrivania si mette a squillare. «E abbiamo più domande di prima», conclude il mio socio, mentre io rispondo al telefono. «Pronto?» «Non conosco nessun altro avvocato che risponda personalmente al telefono, a parte te.» Riconosco la voce roca dall'altra parte. «Sono Joyce. Scommetto che pensavi fossi morta e finita all'inferno.» Mi riferisce che, ieri sera, lei e Bennie sono andati a dare un'occhiata al quartiere dove si trova la casa di quel trafficante di droga. «Non ti preoccupare», aggiunge. «Bennie aveva con sé il fucile. Una doppietta carica. Dovevamo accertarci che l'indirizzo fosse giusto.» «Non ti fidavi di me?» «Siamo dei professionisti», replica lei. «A noi piace fare le cose per bene.» Mi sembra di vederla, sotto il porticato con una di quelle torce con la batteria grossa come una madia e il taccuino su cui scrivere i nomi delle cassette delle lettere, mentre Bennie se ne sta seduto in macchina con il suo archibugio, pronto a sparare addosso a chiunque esca dall'ingresso principale. Hanno commesso almeno tre reati gravi. È questo il problema con Joyce. Conosco dei mafiosi più discreti di lei. «Cos'hai scoperto?»
«Il tuo uomo si chiama Hector Saldado.» «Sei sicura?» «Seee. L'abbiamo beccato. Fidati.» «Aspetta un secondo.» Prendo una penna e qualche Post-it dalla vaschetta sulla mia scrivania. «Ti spiace ripetermi il nome lettera per lettera?» Poi Joyce prosegue nel suo resoconto. «Non solo lui è l'unico a usare un cellulare, tra quelli che vivono lì. Sai l'elenco di nomi che mi hai dato?» «Sì.» «Ma fa regolarmente telefonate in Messico.» Dal mio silenzio, Joyce capisce che questo è un elemento degno di nota. «M'immaginavo che potesse interessarti», commenta lei. «Ce n'erano un sacco, di queste telefonate. Almeno tre o quattro al giorno. Tutte brevi, però. Sai, un minuto, massimo due. Ma, d'altra parte, quanto ci vuole a ordinare un po' di droga? Voglio dire, ci vuol meno che a ordinare una pizza. Non devi neanche dire cosa ci vuoi sopra.» «Hai la sua bolletta del telefono?» «Ti avevo detto che me la sarei procurata, no? La vuoi? Guarda che è piuttosto lunga. Sai, un minuto qui, due minuti là... Molti numeri ricorrono spesso, però», aggiunge. «Ho controllato. Stesso prefisso e stesso indicativo del Paese. Messico.» «Dove? Sai in che zona del Messico?» «Momento. Vediamo... ce l'ho qui da qualche parte.» Sento che copre il ricevitore con una mano, e sposta delle carte. «Eccolo qui», esclama, tornando in linea. «Cancún. Quin-tan-aroo? Si dice così?» «Ne ho sentito parlare», le rispondo. È la zona in cui è andato Metz quando era in trattative con i fratelli Ibarra. «Ascolta: ho un altro incarico per te.» Questo pomeriggio, ho il tempo contato. Devo prendere il volo delle quattro per Capital City e ho una commissione da svolgere strada facendo. Dovrei essere all'aeroporto alle tre, ma rimango bloccato a pranzo con Adam Tolt nella sala privata accanto al suo ufficio. Sediamo ai capi opposti di una tavola lunga quanto una pista di decollo, coperta da una tovaglia di lino con al centro due candelieri d'argento, perfettamente abbinati ai sottopiatti davanti a noi, sui quali è posato un servizio in porcellana finissima. Lo studio ha alle proprie dipendenze un cuoco per le occasioni speciali, e una ditta che manda camerieri in livrea ogni qualvolta è necessario. Ser-
vono le portate dalla cucina adiacente alla sala da pranzo, fornita di tutto l'occorrente per gestire un ristorante a cinque stelle. «Ha orchestrato benissimo la cosa», esordisce Adam. «Date le circostanze, non credo che qualcuno avrebbe potuto fare di meglio. Ha giocato la mano che le era stata servita ottenendo un buon risultato.» «Buono per chi?» «Per la sua cliente.» Tolt allunga una mano e col coltello da burro infilza uno dei quadratini, spalmandolo su un panino caldo preso dal cestino foderato con un tovagliolo di lino. «So cosa pensa, che io l'ho messa in difficoltà usando l'indennizzo per recuperare il denaro che Dana aveva sottratto. Il fatto è...» «Il fatto è che lei ha recuperato il suo denaro», gli dico. «Giusto», ammette Adam con un sorriso. «Che posso dire? A volte le cose si sistemano.» Ho la sensazione che per lui si sistemino un po' più spesso che per il resto di noi mortali. L'occasione per festeggiare è la consegna dell'indennizzo dalla compagnia d'assicurazioni. Dana è scesa a un compromesso e mi ha autorizzato a effettuare il pagamento, un assegno intestato alla RDD per coprire gli ammanchi dal fondo clienti dello studio. E con gli interessi. L'assegno ora si trova in una busta sulla scrivania di Adam, mentre noi spezziamo il pane. «Tanto perché lei lo sappia, Dana non ha motivo di lamentarsi. Spero che glielo abbia spiegato.» Intende dire che le sono arrivati dei soldi in banca anziché una possibile condanna. Il cameriere ci serve la portata principale, una qualche selvaggina brasata nel vino rosso accompagnata da riso integrale a grani lunghi e un misto di verdure al forno, e poi l'assortimento del sommelier, cinque vini diversi, tra cui scegliere. «È il pezzo forte», mi spiega Adam. Un altro cameriere segue con vari contorni, funghi ripieni e asparagi caldi con burro fuso, piatti così ricchi da far venire la gotta. «Il fagiano è brasato nel madera», m'informa Tolt. «La prima volta che ho assaggiato questo piatto è stato durante un viaggio in Portogallo. Mi pare quattro anni fa. Ho cercato di farmi dare la ricetta, ma non c'è stato verso. Così ho detto ad Armand di chiamare il ristorante di Lisbona. È il nostro chef, e anche primo chef al Marmande.» «Non mi sarei aspettato niente di meno.» «A lui l'hanno data. Cortesia professionale. È così in tutti i campi.»
Il cameriere solleva la campana dal piatto che ha posato di fronte a Tolt, e viene imitato dal mio cameriere. Adam infila la forchetta nella carne, affondandola fino all'attaccatura dei rebbi. Taglia un piccolo pezzo e lo assaggia, mentre il cameriere versa il vino. «Dica ad Armand che questa volta ha superato se stesso», esclama Tolt, rivolgendosi al cameriere, che, sorridendo, si produce in un impeccabile inchino. «Desidera altro, signore?» Adam mi guarda. «Suppongo che potremmo consumare il pasto sdraiati, come gli antichi romani; altro non mi viene in mente», scherzo. «Allora è tutto», li congeda il mio ospite. I camerieri si allontanano. «Avrei invitato volentieri Harry», mi dice Tolt. «Lei ha un magnifico socio. Un brav'uomo. Della vecchia scuola. Si capisce.» Per qualche motivo, i due sono andati subito d'accordo. Non me lo sarei mai aspettato: Adam, l'uomo di mondo, amico dei potenti, e Harry, che si stira le camicie da solo. «Sono rimasto molto colpito dall'accuratezza delle sue ricerche, sa?, le sentenze che lei ha consegnato all'assicurazione. È stata opera di Harry, vero?» chiede Tolt, alzando lo sguardo verso di me. «Assolutamente sì. Harry mi ha salvato in più di un'occasione.» «Ogni cavaliere necessita di un valente scudiero», sentenzia il mio commensale. «L'avrei invitato, ma volevo discutere con lei anche di un'altra cosa.» Chissà perché, ma avevo capito che Adam Tolt non avrebbe festeggiato l'avvenimento se non ci fosse stato qualche altro scopo. «Altro vino?» mi chiede lui. «No, grazie.» Guardo l'orologio. «Non si preoccupi. Il mio autista l'accompagnerà all'aeroporto.» «I bagagli sono già caricati sulla mia auto», obietto. «La può lasciare nel nostro garage. L'autista l'accompagnerà all'aeroporto e la lascerà alle partenze. In questo modo, lei non dovrà preoccuparsi di trovare parcheggio. Gli lasci detto il numero del suo volo, così verrà a riprenderla quando torna.» «Non posso accettare.» «Sciocchezze.» «Lei mi vizia, Adam.»
«L'idea era proprio quella», ribatte lui sorridendo, e prende un altro boccone di fagiano. «Allora, di cosa voleva parlarmi?» Gradirei conoscere il costo di tanta cortesia. «Non le ho chiesto il motivo per cui ha preso il denaro. Dana, voglio dire. La signora Rush. Suppongo che fosse in difficoltà finanziarie. Comunque, tutto è bene ciò che finisce bene. Tuttavia, mi farebbe piacere sapere un'altra cosa.» Sorseggio il vino, appoggiato allo schienale della sedia. «L'assicurazione, il fatto che lei si sia impossessata degli assegni del fondo clienti... hanno qualcosa a che fare con la morte di Nick? Non voglio sapere i particolari», si affretta ad aggiungere Tolt. «Qualunque cosa vi siate detti, da cliente ad avvocato, deve restare tra voi. E io accetterò qualsiasi spiegazione da parte sua. Se non può dirmi nulla, io capirò. La mia preoccupazione riguarda lo studio. Voglio solo sapere se dobbiamo aspettarci ulteriori strascichi da questa vicenda.» «Vuole sapere se penso che sia stata Dana a uccidere Nick?» Adam fa una smorfia. «In una parola... sì», ammette. «L'ho tirata per le lunghe allo scopo di coprire alcune cose. E mi sono leggermente esposto. L'ho fatto per proteggere lo studio. Ma se c'è qualcosa sotto, e la polizia comincia a indagare, be', troverà gli assegni falsificati. E allora dovrò spiegare all'ordine degli avvocati, e magari anche alla polizia, perché non ho denunciato il fatto.» «Capisco.» «Lo immaginavo.» «Sfortunatamente, non posso esserle d'aiuto. Non perché non voglia», preciso. «Il fatto è che non lo so. Lei sostiene che non c'entra; che Nick l'ha lasciata sul lastrico. E che questo è l'unico motivo per cui ha sottratto gli assegni dalla sua scrivania.» «Lei le crede?» Mi lascio sfuggire una risata sommessa. «Ho rinunciato da un bel po' a cercare di fare dei pronostici. Dana sapeva dell'assicurazione. Aveva una copia della polizza. Mi ha detto di averla trovata soltanto dopo il nostro primo colloquio, ma, a essere sincero, non le credo. Doveva sapere che sulla polizza c'era il nome di Margaret.» «Dunque le ha mentito.» «Più volte.» «E la questione del doppio indennizzo?»
«Ignorava che cosa significasse l'espressione o, perlomeno, questo è ciò che mi ha fatto credere. Ma ha capito subito quando le ho spiegato che la morte di Nick era stata un incidente. Non credo che la cosa le giungesse nuova. Doveva aver letto i giornali, seguito le indagini. La polizia stava già avanzando delle ipotesi. Ma se abbia parlato con qualcuno che le ha spiegato a fondo il meccanismo, questo non saprei dirlo.» «Ma il suo istinto - e sono certo che deve averlo ben sviluppato, se ha avuto clienti imputati in processi penali -, il suo istinto cosa le dice?» Lo guardo come per far capire che preferirei non rispondere, ma poi cedo. «Il mio istinto mi dice che Dana porta guai. Non sto dicendo che sia stata lei a uccidere il marito. Sto solo dicendo che è difficile capire cosa passi dietro quegli occhioni azzurri. Che ne sia capace? Suppongo di sì. Non dico premere il grilletto...» «Intende dire assoldare qualcun altro?» «È notorio che capita, tuttavia...» «Tuttavia cosa?» «Tuttavia, quei tipi erano dei professionisti.» «Come fa a dirlo?» «Io c'ero. Ho udito gli spari. Se Dana avesse ingaggiato qualcuno per uccidere Nick, avrebbe dovuto trattarsi di qualcuno incontrato per caso, che so, in un bar, o magari un ex amante. Persone così di solito non hanno accesso ad armi automatiche, o semiautomatiche. Nick e Metz sono stati uccisi con un fucile mitragliatore. Un nove millimetri. Ho visto alcuni bossoli a terra. Sono caduti sull'asfalto dall'auto in corsa.» «Mmm.» Tolt si appoggia allo schienale e riflette, masticando lentamente. «Quindi lei non crede che sia stata Dana?» «Non sto dicendo questo. Di sicuro, il movente ce l'aveva. Ed è possibile che abbia più risorse di quanto io non pensi. Potrebbe aver passato il confine e aver mostrato un po' di soldi nei posti giusti, giù a Tijuana. Là è facile trovare poliziotti in grado di metterti in contatto con gente provvista di uzi e kalashnikov, e che sappia pure usarli. Potrebbero anche essere disposti a farlo loro stessi, se li paghi abbastanza. Qui a San Diego è così: la vicinanza col confine crea dinamiche del tutto inedite.» «Allora potrebbe essere stata lei?» «È possibile.» «Quello che lei sta dicendo è che tutto è possibile.» «Esatto.» «Sfortunatamente, questo non mi farà dormire meglio la notte», osserva
Tolt. «Già, eppure è così.» Terminiamo la portata principale e ci servono il dessert, una crème brûlée, insieme al caffè e un goccio di cognac. Adam mi offre un sigaro, ma io rifiuto. «A Nick piacevano molto. All'ultimo party di Natale, ha fumato come una ciminiera», ricorda Tolt. «Siamo diversi.» «E non solo in questo», osserva lui. «Mi dispiace per Nick. Non solo perché è morto. Non è stato trattato bene come avrebbe dovuto, mentre era qui da noi. E io mi sento responsabile per questo. Sono io a influenzare direttamente lo spirito dell'ufficio, e nell'ultimo anno o poco più è stato di disinteresse. Ma mia moglie era malata.» «Non lo sapevo.» «Già. Cancro», rivela Tolt. «Mi dispiace.» «Ora sta bene. L'ha sconfitto», continua Adam. «Tuttavia, non sai mai quanto ti rimane per stare insieme alle persone che ami. E così, negli ultimi due anni, ho passato tutto il tempo libero che mi restava con lei, anziché qui. E temo che Nick, che era una delle nostre più recenti acquisizioni, sia rimasto schiacciato tra gli ingranaggi. Non posso fare a meno di pensare che qualunque fosse il suo coinvolgimento con... con questo Metz, be', forse sia stato il risultato del fatto che egli considerava le sue potenzialità in un certo senso limitate, qui. Lei lo conosceva meglio di me. Le ha mai accennato qualcosa?» «Lui... be'... non si può negare che fosse deluso», rispondo. «Dunque gliel'ha detto. Lo sapevo. E la colpa è mia. Ero troppo occupato per accorgermene.» «Non si può fare diversamente», lo giustifico. «Io lo so. Ci sono passato.» Mi guarda con espressione interrogativa. «Mia moglie è morta di cancro sei anni fa.» «Non lo sapevo.» «Non c'è problema. Io so com'è. Il tempo che ci vuole. La tua vita si ferma, ma il mondo no. Per un po' smetti di vivere. Dopo che è morta, mi ci è voluto quasi un anno per rimettermi in carreggiata.» «Allora lei mi capisce. Grazie al cielo, questo a me è stato risparmiato. Ma si vive col pensiero costante che potrebbe accadere. E, nel frattempo,
lo studio ha continuato a crescere, a espandersi. È quello che succede quando si diventa troppo grossi. Si comincia a guardare alla quantità anziché alla qualità.» «Sta dicendo che la Rocker, Dusha sta diventando troppo grande?» «Spero di no», risponde Tolt con un sorriso. «Ciononostante, Nick è rimasto preso nell'ingranaggio. Indubbiamente lui era convinto di non essersi integrato a dovere, pensava che ci fosse un problema di feeling tra lui e lo studio. In fondo, era abituato a lavorare da solo, come penalista. E magari si era ambientato meglio di quanto pensasse. Solo che io non ero qui a dirglielo.» In questo momento, Adam sta fissando un punto sulla parete alle mie spalle, facendo un esame di coscienza, e ciò che vede non gli piace affatto. «Ventinove anni con questo studio. Ne ho sessantasette. Presto mi metteranno fuori, al pascolo. E suppongo che me ne dovrei andare con buona grazia. Ma continuerò a pensare a Nick, e al fatto che forse potrebbe essere ancora vivo, se io fossi stato più presente.» «Forse dovrebbe essere un po' più fatalista.» «Vale a dire?» «Lincoln si alzava ogni mattina sapendo che, prima della fine della giornata, avrebbe dovuto fare il conto delle vittime. Si considerava fortunato se il numero restava contenuto nell'ordine delle migliaia anziché delle decine di migliaia. Dopo un anno, arrivò a considerare la guerra come risultato della mano di Dio all'opera, che voleva punire la nazione per il peccato della schiavitù, e cominciò a considerare se stesso come uno strumento di Dio. Lincoln giunse alla conclusione che, quali che fossero le sue decisioni, qualunque ordine potesse impartire ai suoi generali, la guerra sarebbe terminata soltanto quando Dio lo avesse voluto.» «Dunque lei crede che dovrei essere più come Lincoln?» «Penso che dovremmo esserlo tutti.» «Lei non è un fatalista, lei è un idealista», obietta Tolt. «No. Sono un cinico, perché so che non accadrà. Ma comprendo i suoi sentimenti.» «Sapevo che avrebbe capito. Lei è diverso da Nick.» «In che senso?» «Lei vede ciò che è pratico, ciò che è fattibile. Troppe persone qui allo studio non hanno questa qualità. Non posso giudicare Nick, perché non lo conoscevo a sufficienza. Forse avremmo potuto essere amici, ma non lo saprò mai, perché non ho avuto il tempo di scoprirlo o non me lo sono saputo prendere. Non voglio ripetere quest'errore. La vita è troppo corta per
non approfondire la conoscenza delle persone con cui si lavora. Ci ho pensato a lungo: mi farebbe piacere poterla conoscere meglio. Vorrei che lei venisse a lavorare per il nostro studio.» Lo guardo, stupito, gli occhi sgranati. «Le daremo il doppio di quanto guadagna adesso. E troveremo un posto anche per Harry. Ho gente laureata a Harvard che fa le ricerche per me e che potrebbe imparare molto da lui.» Il mio socio in un posto come la RDD sarebbe come una sigaretta accesa vicino a un barile di polvere da sparo. «Non credo che funzionerebbe.» «Non voglio che lei mi dia una risposta subito. Ci pensi. Ne parli con Harry. Tirate fuori le calcolatrici e vedete che cifra volete per salire a bordo. Pensateci», dice. «Potreste continuare a lavorare insieme. Troveremo degli uffici comunicanti, vi metteremo sotto contratto e, dopo un anno, diventerete entrambi soci con diritto a una partecipazione agli utili. Lei sarebbe alle mie dirette dipendenze», aggiunge. «Sono lusingato», gli dico, «ma non credo che...» «Non ci pensi adesso. Si prenda un po' di tempo. Possiamo parlarne al suo ritorno.» Che posso dire? Sto guardando l'orologio: è ora di andare. Adam afferra il ricevitore posato sulla mensola dietro di lui, convoca auto e autista, poi mi accompagna all'ascensore. «Prema G-1. È il garage, primo livello. Il mio autista la aspetta lì. Prenda i suoi bagagli e gli consegni le chiavi della sua auto; ci penserà lui a spostarla dentro il garage finché lei non ritorna. Gli dica che volo pensa di prendere e lui si troverà davanti al terminal ad aspettarla. Ah, un'ultima cosa. Ecco, prenda uno di questi.» Mi porge una copia del bollettino dello studio, otto pagine a colori piegate come un tabloid. «Una cosetta da leggere in aereo», conclude. 19 Con il rombo dei reattori, l'accelerazione mi spinge all'indietro contro i sedili. Qualche secondo dopo, ci stacchiamo dalla pista salendo velocemente. Il pilota rallenta per ridurre il rumore e planiamo verso Ocean Beach, tra l'occhieggiare azzurro e scintillante delle piscine, passando sopra Sunset Cliffs e la linea dei frangenti. L'equipaggio dà nuovamente gas alle potenti
turbine e il Boeing 737 sale rapidamente, diretto a nord lungo la costa. Quando ci stabilizziamo all'altitudine di crociera, estraggo la valigetta da sotto il sedile davanti, prendo quello che mi serve e la rimetto a posto. Sul tavolinetto davanti a me ci sono il bollettino dello studio di Tolt, un fascicolo con l'elenco delle donazioni fatte a Tresler raccolto da Harry, e il piccolo palmare di Nick. Mi appoggio allo schienale e apro il bollettino. Subito sotto la piega, vedo il mio nome a grossi caratteri. MADRIANI & HINDS DEFINISCONO L'INDENNIZZO PER GLI EREDI RUSH Ecco perché Adam me ne ha dato una copia. L'articolo è breve, pochi paragrafi. Parla della polizza key-man dello studio. Adam ha approfittato dell'occasione per farlo risultare come uno dei vantaggi dell'essere soci. In due righe si archivia la morte di Nick, spiegando che è rimasto vittima di una sparatoria mentre parlava con un cliente davanti al tribunale. Gli ultimi due paragrafi hanno tutta l'aria di un dépliant promozionale per me e Harry. Chi conosceva Nick Rush sarà felice di apprendere che, nonostante la sua tragica e prematura scomparsa, gli avvocati Paul Madriani e Harry Hinds dello studio Madriani & Hinds di Coronado sono riusciti a ottenere dalla compagnia d'assicurazioni un ragguardevole indennizzo (3,8 milioni di dollari) per la famiglia di Nick. L'indennizzo si basa sul fatto che Nicholas Rush sia stato vittima innocente e non predestinata dei colpi sparati da un'auto in corsa, fornendo così agli eredi un cospicuo risarcimento in base alla clausola del doppio indennizzo per morte accidentale. Gli avvocati, più degli altri, amano coltivare l'illusione della propria bravura. Ma io so che indennizzi del genere non vengono pagati a meno che i liquidatori e le persone cui questi devono rendere conto non agiscano sotto l'effetto di qualcosa, in questo caso di Adam Tolt. Ho idea che Adam si renda conto, quanto me, che si è trattato di un rapporto simbiotico: ci siamo serviti l'uno dell'altro. Io volevo ottenere il più
in fretta possibile il massimo del risarcimento e chiudere la questione. Lui voleva lavare i panni sporchi dello studio. Se non fosse stato lui a suggerire d'incontrarci per trovare un accordo, l'avrei fatto io. Avevo dato per scontato che ci sarebbero voluti parecchi incontri e qualche mese di tempo per giungere a un accordo, ma l'influenza e il potere di Tolt devono essere maggiori di quanto immaginassi. Il fatto che sia riuscito a convincere la compagnia d'assicurazioni ad aprire i cordoni della borsa così allegramente, e che questa abbia concesso a Adam di rendere pubblico l'ammontare dell'indennizzo, mi ha sorpreso ancora di più. Mentre il mio socio stava facendo le sue ricerche legali per giustificare quello che avremmo ottenuto, io avevo fatto le mie. Sapevo che Tolt faceva parte di numerosi consigli d'amministrazione. Nel setacciare alcune pubblicazioni, ho scoperto che sono sette, sempre che non me ne sia sfuggito qualcuno, cosa del tutto probabile. Si tratta di consigli d'amministrazione di grosse multinazionali con sede negli Stati Uniti, che comprendono l'elenco dei soliti amministratori, nomi riconoscibili per le cariche governative ricoperte in passato o per le cause sostenute. Sono persone che si guadagnano da vivere, come nababbi, sfruttando le proprie conoscenze. Hanno maturato un ruolo di prestigio nel mondo degli affari e quindi le aziende fanno la fila per averli nel loro consiglio d'amministrazione. E poiché essi fanno parte di uno, entrano a far parte anche di un altro. Poi, dato che il loro nome compare nei primi due, entrano nel terzo. Arrivati a quel punto, la loro competenza non è più messa in discussione. Alla fine della giornata, si ritrovano seduti intorno al tavolo delle riunioni a parlare di golf, guadagnando un milione di dollari o più all'anno e sgraffignando le penne della ditta pagate dagli investitori. Hollywood non è l'unico posto in cui l'illusione diventa realtà. Ciò che ho appreso nel corso delle mie ricerche è che tre membri del consiglio d'amministrazione della Devon Insurance sono legati a doppio filo con Adam, perché siedono con lui in altri consigli. Non mi serviva sapere altro. L'accordo, e la pubblicità che ne deriva, serve alla RDD perché mette fine a qualsiasi sgradevole ipotesi sulla causa della morte di Nick. Se a un cocktail party Adam o un suo socio si sentono fare domande da qualche cliente, ora possono rispondere: «Non l'ha saputo? Eh, sì, la morte di Nick è stata un incidente». In un mondo in cui si respirano dollari anziché ossigeno, il pagamento in contanti è una prova più che attendibile. L'esborso di
quasi quattro milioni di dollari da parte di una solida compagnia d'assicurazioni verrà considerata prova inconfutabile che Nick Rush è stato soltanto una delle tante vittime di un mondo violento. Nel giro di un anno, la maggior parte dei clienti di Tolt non ricorderà neppure più com'è morto Nick, e alcuni si chiederanno se per caso non sia stato colpito da un fulmine. Avrei preferito che Adam mi tenesse in maggior stima non credendo che sarei stato lusingato da questo articolo, tuttavia sospetto che volesse solo aggiungere una ciliegina sulla torta della sua offerta per me e Harry. Scorro il resto del bollettino. Un altro ufficio in via d'apertura, questa volta a Houston, con un occhio alle iniziative imprenditoriali legate alla produzione di greggio, gas naturale e petrolio. Può anche essere che non tutti i soci siano felici, ma Tolt è sempre in movimento, allo scopo di aumentare la propria fetta alla RDD. Infilo il bollettino nella tasca del sedile davanti al mio e mi dedico alla stampata dei finanziatori della campagna di Tresler. Nell'elenco dei membri del comitato fondato da Nick, Harry ha sottolineato due nomi. Uno è un socio dell'ufficio di Washington, l'altro è un certo Jeffrey Dolson, socio della sede di San Francisco. Entrambi compaiono non solo sulla rubrica del palmare di Nick, ma anche sull'agenda degli appuntamenti, con l'ora e la data degli incontri fissati nelle rispettive città. Se l'agenda è accurata, Dolson, a San Francisco, si è incontrato due volte con Nick, nei due mesi precedenti la sua morte. L'ultima volta è stata solo nove giorni prima. È il motivo per cui sto andando a San Francisco questo pomeriggio, anziché direttamente a Capital City. Gli uffici della RDD a San Francisco si trovano al numero 1 di Market Plaza, proprio davanti al Bay Bridge e alla baia. È una zona costosa, ma a un tiro di schioppo dal quartiere finanziario. La RDD occupa due piani alti, tra un altro studio legale e una società di intermediazione mobiliare al piano superiore. Sono quasi le cinque, orario di chiusura, quando esco dall'ascensore e mi avvicino al bancone della reception. Una giovane donna asiatica con una cuffia telefonica è seduta a una delle postazioni dietro il bancone. Altre due impiegate stanno raccogliendo le loro cose per andarsene. «Posso esserle utile?» chiede la giovane con un sorriso. Le porgo il mio biglietto da visita. «Sono qui per vedere Jeffrey Dol-
son.» «Ha un appuntamento?» «Sfortunatamente, no. Sono appena arrivato in città e ho pensato di fare un tentativo, caso mai fosse ancora in ufficio.» «Un momento solo.» Dolson dirige il settore fusioni e acquisizioni. È il settore in cui gli avvocati mettono a frutto le leggi che le aziende ottengono dal Congresso, quelle tese a far sì che la ricchezza rimanga concentrata nel minor numero possibile di mani, solitamente spazzando via i piccoli investitori. Se parlate con gli avvocati che lavorano in questo settore, essi vi diranno che il fatto che i dirigenti aziendali si arricchiscano quando le loro società falliscono è semplicemente un aspetto del normale ciclo del business. Chi si lamenta che il mondo sta cambiando troppo in fretta dovrebbe trarre conforto dal fatto che in America gran parte dei soldi si fa sempre al solito, vecchio modo, e cioè rubandoli. L'addetta alla reception sta parlando attraverso il microfono della cuffia con qualcuno nel retro o al piano di sopra. «Non lo so. Un secondo. Glielo chiedo.» Mi guarda. «Posso chiederle di che cosa si tratta?» «Oggi ho pranzato con Adam Tolt, a San Diego, e volevo parlare un attimo col signor Dolson.» Tutto vero, ma niente che risponda alla sua domanda. Tuttavia, il nome di Tolt compie il miracolo. La donna mi volge la schiena e protegge il microfono con una mano, eppure la sento mormorare: «Pare che sia stato mandato dal signor Tolt». Apriti sesamo. Tre minuti più tardi, vengo accompagnato all'ascensore da una segretaria che in una mano tiene il mio biglietto da visita e nell'altra una chiave per uscire dall'ascensore al piano dirigenziale. La seguo attraverso un labirinto di divisori fino all'estremità dell'edificio, dove il corridoio è ampio e la pannellatura di palissandro autentica. La segretaria bussa a una porta in fondo al corridoio. Sulla parete accanto c'è una targhetta col nome di Dolson. «Sì. Avanti.» La porta si apre su uno spazioso ufficio d'angolo con finestre su due pareti. Una dà sulle campate del Bay Bridge; attraverso l'altra, intravedo la guglia del Ferry Building. L'uomo dietro la scrivania è giovane, direi sui trentacinque anni. Si sta raddrizzando la cravatta e, dall'aspetto della sua scrivania, dal cui cassetto
parzialmente chiuso spuntano ancora dei fogli, ho idea che abbia fatto un po' di pulizia in vista del mio arrivo. Quanta ansia si può causare semplicemente menzionando un nome importante. Dolson gira intorno al cassetto parzialmente aperto, che a questo punto ha rinunciato a sistemare, e viene dalla mia parte della scrivania. Ci stringiamo la mano e lui guarda il mio biglietto da visita. «Mi hanno detto che lei è appena arrivato in città, giusto?» «Sì. Con un volo da San Diego. Oggi ho pranzato con Adam Tolt e il suo nome è saltato fuori un paio di volte. Visto che dovevo venire su al nord per altri affari, ho pensato fosse una buona idea incontrarci.» «Il mio nome?» chiede lui. «Come sta? Il signor Tolt, voglio dire. Lo vedo una volta ogni sei mesi, circa. Quando i vari dirigenti del settore si riuniscono per confrontare l'attività delle diverse sedi.» «Sta bene. Benissimo», gli dico. «Dunque è stato Adam... il signor Tolt a mandarla da me?» «No. A dire il vero, il suo nome è stato menzionato in un altro contesto. Lei conosceva Nick Rush, se non sbaglio.» Le sue pupille si allontanano dal mio volto dirigendosi verso le vetrate alle mie spalle e poi tornano, come se avessero attraversato il ponte avanti e indietro, il tutto in meno di un secondo. «Nick Rush?» mi fa eco. «Sì. Nick era un mio amico. E una volta, parlando con lui, è saltato fuori il suo nome.» «Davvero?» Il tono di voce è salito di un'ottava. Capisco che vorrebbe chiedermi in che contesto Nick mi ha fatto il suo nome, ma non osa. «È terribile quello che gli è capitato», aggiunge. «So che Nick è venuto qui nel suo ufficio per un incontro una settimana prima di essere ucciso.» È come se venisse travolto da un treno. «Eh? Come?» «Mi risulta che voi due vi siete incontrati qui, nel suo ufficio.» Le sue labbra sono come mosse da un tremito, ma non ne esce una parola. «Oh. Oh, que-quello», balbetta, poi. «Con tutto quel che è successo, me l'ero dimenticato.» Come si fa a dimenticare l'ultimo incontro avuto con un uomo che è stato assassinato nove giorni dopo? «Allora la polizia non le ha parlato?» «Perché dovrebbero parlare con me?» «Solitamente parlano con tutte le persone che hanno avuto contatti con
la vittima appena prima dell'omicidio.» «Non potrei dir loro nulla. In che occasione Nick le ha detto... voglio dire, perché Nick le ha parlato del nostro incontro?» «Fra me e Nick non c'erano segreti.» «Ah, capisco.» Sembra quasi che i suoi occhi vogliano inghiottire il divano su cui sto seduto. È impallidito. «Mi dica, come mai conosce Adam Tolt?» Dolson sta cercando di mettere insieme tutti i pezzi. Apro la valigetta e tiro fuori il bollettino dell'ufficio legale. Fresco di stampa a San Diego, non è ancora arrivato nei territori delle colonie. Glielo porgo, indicandogli l'articolo sotto la piegatura che porta il titolo col mio nome. «Sono stato io a concludere l'accordo per l'indennizzo assicurativo alla moglie di Nick.» Confronta il nome sul mio biglietto da visita con il titolo. Poi legge l'articolo come se con gli occhi potesse risucchiare la stampa dalla pagina. Finito di leggere, alza lo sguardo verso di me. «Un buon risultato», commenta. Nell'ambiente degli avvocati equivale a un sonoro cinque dopo una fuga solitaria a canestro. «Mi risulta che Nick abbia avuto un paio d'incontri quassù con lei.» Dalla sua espressione capisco che non è sicuro di quanto io sappia. Sta cercando di riorganizzarsi, ma ha ancora l'aria di uno in preda al panico. «Puramente mondani», mormora. «Prego?» «Il mio incontro, cioè i miei incontri qui con Nick. Erano puramente mondani, privati.» Lo dice con la stessa sicurezza di chi azzarda una risposta a un quiz a scelte multiple. Non dico nulla, mi limito a guardarlo come faccio di solito con un testimone nervoso. Lo lascio parlare. «Faceva un salto da me, di quando in quando. Parlavamo. Tutto qui.» «Dunque Nick veniva da San Diego fin quassù solo per socializzare con lei?» «Non ho detto questo.» «Ma veniva qui apposta per vedere lei.» «Oh, no. Non credo.» «Questo è ciò che c'è scritto sulla sua agenda.» Mi guarda con il genere d'espressione che ci si potrebbe aspettare da qualcuno che si sta ingoiando la lingua. «La sua agenda?» «Già.» Non gli dico che si tratta di un'agenda elettronica di cui proba-
bilmente io sono l'unico a conoscere l'esistenza. «Nick ha scritto il mio nome sulla sua agenda?» «È quello che ho detto.» «Lei l'ha vista?» «A-ah.» «L'agenda dell'ufficio?» «Una delle tante.» «Allora suppongo che anche l'ufficio di San Diego l'abbia vista.» «Mi sarei aspettato che lei fosse più interessato a sapere se l'avesse vista la polizia.» «Oh, be'... certo. È per questo che lei pensava potessero voler parlare con me?» «Esatto. Perché, c'è qualche altro motivo?» «Gliel'ho detto: io non so nulla. Loro hanno visto l'agenda? La polizia, intendo.» «A dire il vero, non ne sono sicuro.» «Cosa vuol dire che non ne è sicuro?» «Be', potrebbero avere degli elementi di cui io non sono a conoscenza. Ma non credo che ne siano in possesso. Perlomeno, non ancora.» «Perché sta facendo questo? Cosa vuole? Del denaro?» «Cosa le fa pensare che potrei volere del denaro?» «Non lo so. Niente. È solo che non ha senso... il mio nome sull'agenda di Nick. Gliel'ho detto: io non so niente. Suppongo che non abbia parlato con Tolt di questo...» «Con Tolt? No. Pensa che dovrei?» Non dice né sì né no, quindi do un giro di vite. «Ma, perché lei lo sappia, non è solo.» «Cosa vorrebbe dire?» «Ci sono altri nomi sull'agenda. Incontri con altri membri dello studio. Con data e ora.» Non dice nulla. Si limita a guardarmi. «Perché non mi dice il motivo di questi incontri?» «Dunque Nick non gliel'ha detto?» «L'avrebbe fatto, se qualcuno non gli avesse sparato prima.» «Gli incontri non avevano niente a che vedere con questo. E poi l'articolo dice che si è trattato di un incidente.» «Be', certo. Ma è un articolo scritto dal suo ufficio. Ovviamente volevano restare puliti. Quando un socio viene ucciso, meglio un incidente che qualcosa di più sinistro, non crede?»
«Io credo che lei dovrebbe andarsene.» Dolson ha riorganizzato i pensieri, ha raccolto il coraggio sufficiente per convincersi che io non so nulla. «Credo che lei dovrebbe scordarsi di quell'agenda e di qualunque cosa vi ha visto sopra o ha creduto di vederci.» «Lei può farsi delle illusioni, se vuole, ma l'agenda esiste.» «Vuole sapere cosa penso?» «Certo.» «Non credo che esista un'agenda con sopra il mio nome. Credo che lei se lo sia inventato. Dov'è? L'ha portata con sé?» «Se non esiste, come farei a conoscere le date dei suoi incontri con Nick?» «Magari è l'unica cosa che le ha detto Nick. O, magari, lei ne ha sentito parlare per caso. Come le ho detto, erano incontri privati.» Si volta e si dirige alla scrivania. «Ho del lavoro da sbrigare. Gradirei che lei se ne andasse.» Di qualunque cosa si tratti, la paura di Dolson gli sta erigendo un muro di pietra tutt'intorno. Arriva alla poltrona e mi guarda. «Se ne va o preferisce che chiami la sorveglianza?» Afferra la cornetta come un'arma, le dita pronte a premere i pulsanti. «Se è questo che vuole.» «Immagino che riesca a trovare la strada da solo.» Mentre mi allontano, mi osserva attraverso la porta aperta dell'ufficio, senza mai perdermi di vista finché le porte dell'ascensore non si chiudono alle mie spalle. L'unica cosa di cui sono certo è che, di qualunque cosa Nick e Dolson abbiano parlato, non si trattava di chiacchiere mondane. Solo pochi isolati, forse un chilometro e mezzo, separano l'ufficio di Dolson da uno dei tre indirizzi annotati sul Blocco Note del palmare di Nick. Gli altri due sono indirizzi di Washington e di New York. Quando finalmente trovo il posto, è ormai tardi. Il centro di San Francisco, come quello della maggior parte delle metropoli, è un disastro quando si tratta di parcheggiare, anche fuori dell'orario di punta. Mi ci vogliono dieci minuti per trovare un posto. Sono le sei passate, quindi posso ignorare il parchimetro. Chiudo a chiave l'auto presa a noleggio e percorro a piedi due isolati verso l'indirizzo annotato sul palmare. Si trova vicino ad alcuni ristoranti alla moda e a un negozio di antiquariato che espone in vetrina costosi pezzi asiatici, un posto in cui un arredatore d'interni di classe potrebbe fare acquisti per clienti danarosi. Il quartie-
re non è lontano dall'Embarcadero, ma più a ovest rispetto agli uffici della RDD. L'edificio che cerco occupa quasi un quarto dell'isolato, quattro piani di vetro fumé. Ma c'è qualcosa di strano: su questo lato dell'edificio non si vede una sola luce accesa. Solitamente, in qualsiasi ufficio, c'è sempre qualcuno che lavora fino a tardi o, perlomeno, un custode. Confronto il nome della strada con quello segnato sul palmare. Avrei potuto mostrarlo a Dolson, ma non sarebbe servito a nulla. Mi avrebbe accusato di aver fatto io stesso le annotazioni. È la difficoltà che la polizia si troverebbe ad affrontare a questo punto, a meno che, ovviamente, Nick non avesse scaricato questi dati sul suo computer, cosa che, ormai ne sono certo, non ha fatto. I dati sul palmare sono stati in giro troppo a lungo per risultare credibili. Chiunque, servendosi della penna, avrebbe potuto aggiungere o cancellare qualsiasi cosa. La conferma dell'autenticità di questi dati sta solo nella mia parola. Un penalista, amico della vittima, che nasconde delle prove in un caso di omicidio. Qualsiasi testimonianza offrissi, si sfalderebbe come carta velina sotto l'acqua. La strada corrisponde. Giro l'angolo e risalgo l'isolato lungo quella che sembra essere la facciata principale dell'edificio. Questo lato si affaccia sulla baia. Da due isolati di distanza, mi giunge il rumore del traffico che attraversa l'Embarcadero davanti ai moli con i cavernosi ingressi ad arco e i giganteschi numeri scritti sulle facciate. Avverto il vento gelido proveniente dalla baia e sento nell'aria l'odore della salsedine. Neanche su questo lato si vedono luci accese, ma una cinquantina di metri più avanti intravedo quello che sembra essere l'ingresso. Mi alzo il bavero della giacca, infilo le mani in tasca e avanzo, mentre il vento mi fa sbattere i risvolti dei pantaloni. Avvicinandomi, vedo il numero sull'ingresso, lo stesso che Nick aveva annotato sul Blocco Note. Non c'è dubbio, è l'indirizzo giusto. Ma la persona cui Nick ha fatto visita se n'è andata. Il posto è deserto. Un grosso cartello attaccato con lo scotch all'interno del portone di vetro dice: AFFITTASI. 20 Giovedì, metà mattina. Imbocco l'ingresso del parcheggio sotterraneo dell'ufficio di Susan Glendenin in centro, e riconosco subito la grossa Lincoln blu scuro degli anni '60 parcheggiata poco lontano.
Quest'auto, delle dimensioni di una barca, un tempo apparteneva a Nick. Veramente sarebbe più accurato dire che era l'auto a possedere lui. La Lincoln decappottabile con il tettuccio rigido che scivolava dentro il cofano era un esperimento della Ford. Ne furono costruiti soltanto quattro esemplari, tutti consegnati in prova ad alti dirigenti. Per qualche motivo, non si passò mai alla produzione di serie, col risultato che la macchina e le sue innovazioni morirono sui tavoli dei progettisti. Nick l'aveva ricevuta come acconto sulla parcella da un cliente che era stato beccato a trasportare droga sotto il tettuccio ripiegato dentro il cofano. Ovviamente, prima che il governo potesse confiscarla. L'auto riceveva più attenzioni di una reginetta di bellezza. Con il tettuccio abbassato è incredibilmente simile alla limousine presidenziale a bordo della quale venne assassinato Kennedy e, in effetti, una volta era stata utilizzata in un film famoso per ricreare la scena. Nick era certo di possedere l'unico veicolo della serie ancora in circolazione. La adorava, la copriva e la proteggeva come facevano gli israeliti con l'Arca dell'Alleanza. Per questo motivo, Margaret aveva istigato i suoi avvocati e aveva provato un piacere particolare nel portargliela via in sede di divorzio. Lo so perché, ogni volta che c'incontravamo a pranzo o per bere qualcosa, lui riviveva quella vicenda come una ripetizione al ralenti di un'azione decisiva, messa a segno dalla squadra avversaria nel Super Bowl. Fra tutti i dolorosi rovesci della sua tragedia familiare, la perdita di quella preziosa automobile pareva il più pesante e amaro. L'aspetto peggiore della vicenda era che Margaret guidava la sua creatura per tutta la città, rifiutandosi di venderla. La parcheggiava davanti ai negozi in spazi troppo piccoli, ammaccandone così le portiere, in modo tale che Nick potesse verificare di volta in volta il progredire dell'affronto. Evidentemente, Margaret è già arrivata e mi aspetta di sopra. Mi ci sono voluti tre giorni per portare a termine tutti gli impegni su a Capital City, mentre Sarah era ospite di amici. Pare proprio che Harry e io non riusciamo a staccarci dal vecchio studio, quindi abbiamo solo subaffittato gran parte dello spazio a due giovani avvocati, tenendo un ufficio per noi. Questa mattina, quando sono rientrato, il mio socio aveva un'aria soddisfatta: ha fatto la sua parte di buone azioni, per oggi. Abbiamo spedito alla figlia di Nick, Laura, un generoso assegno - il nostro onorario per i servigi svolti per Dana - insieme a una lettera nella quale si spiega che il denaro proviene dal patrimonio di Nick.
Harry stava gongolando anche per un articolo comparso due giorni fa sul Tribune. È una versione condensata di quanto apparso sul bollettino di Adam, nella quale si attribuisce a noi il merito di aver trovato un accordo con la compagnia assicuratrice. È in testa a un articolo in seconda pagina nel quale si dice che la polizia non ha ancora nessun sospetto per i due omicidi. I giornali e due televisioni locali hanno chiamato qui in ufficio per fare domande e chiedere di poter registrare interviste televisive. Adam sta sfruttando al massimo l'accordo raggiunto. A questo punto, la stampa pubblicherebbe qualsiasi cosa pur di riempire il vuoto delle indagini per un duplice omicidio che non sembra condurre da nessuna parte. Finora, per qualche motivo, la polizia non ha fatto tentativi di sorta per interrogare Espinoza. Perché lo ignorino, alla luce di ciò che Harry ha appreso dal suo amico che lavora nell'ufficio del procuratore, proprio non lo so, ma per arrivare a lui devono passare attraverso di me, e nessuno si è fatto vivo. Ho chiesto a Susan Glendenin un incontro con Margaret Rush per un motivo. È possibile che l'ex moglie di Nick possa avere qualche risposta a uno degli interrogativi più sconcertanti riguardo l'ultimo anno di vita del mio amico, vale a dire i suoi rapporti d'affari con Metz. Prendo l'ascensore e salgo al quinto piano. Quando arrivo, l'aria condizionata dell'ufficio sta facendo gli straordinari. Da cinque giorni la città è nella morsa di un'ondata di caldo eccezionale, spazzata da venti torridi che paiono arrivare dal Sahara. Entro nella reception tenendo la giacca per il colletto, buttata sulla spalla come un sacco. Noto che la porta dell'ufficio di Susan è chiusa. Dev'essere appartata con Margaret e, quando la segretaria la avverte che sono arrivato, passa almeno un paio di minuti prima che lei apra la porta. È allegra, come sempre. Ha cercato di facilitare quest'incontro per la sua innata gentilezza e anche perché è la cosa più ragionevole da fare. Glendenin è il genere d'avvocato che renderebbe inutile l'esistenza di giudici e tribunali, se solo i suoi avversari dimostrassero il suo stesso buon senso. «Come stai, Paul?» «Bene.» «Fa sempre caldo, fuori?» «Un forno.» «Qualcosa di fresco da bere?» «Un bicchiere d'acqua andrebbe benissimo.» «Entra.»
Chiede dell'acqua minerale ghiacciata alla segretaria, quindi mi fa strada nel suo ufficio. Entrando, vedo Margaret seduta su una delle poltroncine destinate ai clienti, la schiena rivolta verso la porta. Non si gira a guardarmi, né a salutarmi, finché Susan non le fa capire che sarebbe ineducato continuare a ignorarmi. «Margaret, lei conosce Paul Madriani, vero?» Lei gira la testa, lo sguardo rivolto verso il basso, degnandomi solo di un sorriso forzato e di un brusco cenno del capo. Poi torna immediatamente a rivolgere lo sguardo verso l'altro lato della scrivania, dove Susan sta prendendo posto sulla sua poltrona BodyBilt di pelle, con il poggiatesta alto e i braccioli mobili. Oggi gli avvocati tengono alle loro poltrone dirigenziali come un tempo tenevano alle loro Porsche, provando le levette del sistema pneumatico che controlla l'altezza e la tensione del sostegno lombare, quasi stessero viaggiando alla velocità della luce verso le nuove mete della geriatria. Mi accomodo sull'altra poltroncina di fronte alla scrivania nella speranza che il gelo di Margaret si sciolga prima dell'arrivo della mia acqua ghiacciata. «Ho parlato con Margaret e ho discusso la tua richiesta con lei», dice Susan. «Ha accettato di rispondere a tutte le domande cui le sarà possibile, ma a determinate condizioni.» «Capisco.» «Non desidera parlare del divorzio né dell'accordo raggiunto con l'ex marito per la divisione dei beni. Preferirebbe anche che non si discutesse del secondo matrimonio, se possibile.» «Capisco benissimo.» Susan è riuscita a convincere Margaret ad accettare quest'incontro rivelandole che Dana era stata costretta a scendere a compromessi sull'accordo con l'assicurazione. Questo deve aver solleticato un sentimento profondo e gratificante: la vendetta. Se mai venisse a sapere che Dana ha emesso degli assegni falsi sul fondo clienti, Margaret partirebbe a razzo con il suo gioiello blu, lasciando mezzo dito di pneumatici sull'asfalto da qui a Broadway, per far arrivare la notizia alla polizia finché è ancora fresca. Nessuno è a conoscenza della cosa tranne Adam e me, oltre a pochi tirapiedi del suo studio che si sono impegnati a non farne parola, pena la loro carriera. «Forse faremmo meglio a cominciare», propongo.
La porta alle nostre spalle si apre ed entra la segretaria con un vassoio su cui sono posati tre bicchieri e altrettante bottiglie di plastica appena uscite dal frigo e coperte di condensa. Aspetto che la segretaria esca per riprendere il discorso. «Le mie domande riguardano alcuni rapporti d'affari che Nick ha instaurato negli ultimi diciotto mesi della sua vita.» «Allora si è rivolto alla persona sbagliata», taglia corto Margaret, sempre senza guardarmi. Ho commesso l'imperdonabile peccato di essere uno degli amici di Nick. «Forse sì, tuttavia ho pensato che potesse aver sentito dire qualcosa al proposito, magari da altri.» La mia speranza è che gli avvocati che l'hanno rappresentata in fase di divorzio non abbiano tralasciato nulla della vita di Nick. «Va bene. Cosa vuole sapere?» «Ha mai sentito parlare di una ditta commerciale, una società in accomandita o per azioni, nota come Jamaile Enterprises?» Lei ci pensa su, e l'espressione severa del volto si ammorbidisce, mentre le sue energie mentali vengono dirottate ad alimentare le cellule della memoria. «No. Non mi pare. Però... aspetti un minuto», aggiunge. «Forse sì, una volta. È stato durante il divorzio.» Infrange la regola dettata da lei stessa. «L'hanno scoperta i miei avvocati. Erano convinti che Nick se ne servisse per nascondere dei beni.» «Ed era così?» «No. Non voglio parlare di questo.» Guardo Susan, che mi fa una smorfia come per dire che vorrebbe aiutarmi ma non può. «O, perlomeno, quando hanno controllato non sono riusciti a trovare nulla», precisa Margaret. «Ricorda quand'è stato?» «No.» «Ricorda se, durante le udienze per il divorzio, a Nick sono state rivolte domande specifiche sull'argomento?» «Pensavo che non avremmo parlato del divorzio.» «È una domanda semplice», interviene Susan. «O se lo ricorda o no.» «Va bene. Non me lo ricordo.» «Ha mai sentito pronunciare il nome di Gerald Metz in riferimento alla Jamaile Enterprises?» «Non è l'uomo che è stato ucciso insieme a Nick?»
Annuisco. Margaret è costretta a guardarmi, e finalmente stabiliamo un contatto visivo. «Mi sta dicendo che erano in affari assieme?» «A quanto pare.» «La polizia lo sa?» chiede lei. «Sì. I suoi avvocati hanno mai indagato sul signor Metz per capire chi fosse e di che genere di affari si occupasse?» «Non lo so. Dovrebbe chiederlo a loro.» «L'ho già fatto. Ma non vogliono discutere della cosa senza un suo consenso scritto.» «Allora li contatterò io», si propone lei. Sia Margaret sia i suoi legali sono diffidenti verso domande che riguardino il divorzio e in particolare la divisione dei beni. Temono che Dana possa nuovamente contestare il diritto di Margaret a richiedere l'indennizzo. Susan solleva una mano dal bracciolo della poltrona quasi volesse suggerirmi che non devo insistere sull'argomento e che farei meglio a passare oltre. «Ha mai sentito il nome di Grace Gimble?» chiedo. A questa domanda, Margaret si volta di scatto verso di me. «Cosa c'entra Grace con tutto questo?» «La conosce?» «Si. È una mia amica», mi risponde. «Un'amica comune mia e di Nick, la quale ha mantenuto i rapporti con me dopo il divorzio.» «Sa dove posso trovarla?» «Forse. Ma prima mi dica cosa vuole sapere da lei.» «Il suo nome compare sui documenti costitutivi di questa società, quella di cui le ho parlato. La Jamaile Enterprises. Può dirmi chi è? E come mai il suo nome figura su questi documenti?» Margaret ci riflette per un secondo, in silenzio, lo sguardo fisso sul piano di quercia della scrivania di Susan, forse domandandosi se, dopotutto, si tratti davvero di un'amica. «È facile», risponde, poi. «Dopo essere andata in pensione dal suo impiego statale, Grace ha svolto privatamente alcuni lavori, come segretaria. Attività paralegale, la chiamano. Per arrotondare. So che, di quando in quando, Nick le affidava delle pratiche, prima di passare allo studio legale. Prima che noi...» «Capisco. Lei sa dove vive?» «Credo di sì.» Margaret fruga nella borsa e tira fuori un'agendina nera, la sfoglia finché non trova l'indirizzo di Grace Gimble. Me lo legge e io ne
prendo nota su un Post-it preso dalla scrivania di Susan. «Ha un numero di telefono?» Mi dà anche quello. «Ha parlato con lei recentemente?» Ci pensa su. «È almeno un anno che non la sento. Immagino sarà stata al funerale di Nick. Io non lo so, visto che non c'ero.» «Come mai la Gimble conosceva Nick?» domando. «Era stata la sua segretaria quando lui lavorava nell'ufficio del procuratore.» Smetto di scrivere e la guardo. Capisce che non mi aspettavo una cosa del genere. «È andata in pensione più o meno quando Nick è passato alla libera professione. Nick mi disse che Grace aveva fatto dei corsi paralegali e che lavorava a casa.» Questo spiegherebbe il suo nome sui documenti costitutivi della Jamaile, soprattutto se Nick, per qualche motivo, non voleva farli redigere dal personale dello studio legale. Prima che Margaret possa dire altro, squilla il telefono di Susan. Lei mi guarda, alzando gli occhi al cielo. «Avevo detto di non passarmi telefonate.» Solleva il ricevitore. «Sì.» Guarda me, poi la scrivania, quindi copre il ricevitore con una mano. «È per te», mi comunica. L'unico a sapere che sono qui è Harry. «Vuoi prendere la telefonata nell'altra stanza?» mi chiede. «No.» Susan sposta l'apparecchio verso di me, allungando il cavo. «Pronto?» «Un momento, prego.» È la segretaria di Susan. Un attimo dopo, si sente la voce di Harry. «Paul?» «Sì.» «Ascolta, pensavo volessi saperlo. È appena arrivata la posta e...» «Non può aspettare? Sono nel pieno di una riunione.» «Sono certo che vorrai sapere che cosa è arrivato.» «D'accordo.» «Una notifica di sostituzione di avvocato patrocinante per Espinoza», mi comunica il mio socio. «Cosa?» «Ero sicuro che ti avrebbe interessato. Un certo avvocato Gary Winston, di Capital City.»
«Quand'è successo?» «Quasi una settimana fa. La notifica è appena arrivata. Ho pensato di controllare per non farti perdere tempo. Ho verificato se Espinoza è ancora in detenzione preventiva. E non c'è più.» Dal silenzio all'altro capo del filo, Harry capisce di avere tutta la mia attenzione. «Ieri, c'è stata l'udienza per la cauzione. L'hanno fissata a un milione di dollari.» «Allora è tutto a posto», gli dico. «A meno che non mi sbagli, e lui non sia più ricco di quello che penso, non dovrebbe riuscire a mettere insieme il dieci per cento, i centomila dollari per uscire su cauzione.» «Sbagliato», ribatte Harry. «È fuori già da ieri pomeriggio. Sei ancora lì?» Non sentendo più nulla, il mio socio sospetta che sia caduta la comunicazione. «Sì. Sto pensando. Chi ha pagato la cauzione?» «Non lo so. Vuoi che veda se riesco a scoprirlo?» «Sì.» «Potrebbero anche sapere dove si trova. Perlomeno, l'indirizzo che Espinoza ha lasciato.» «Speriamo almeno che ci sia un garante che lo sorvegli.» Se sapessero il rischio di fuga che quell'uomo rappresenta, non avrebbero preso i soldi della cauzione, se non a fronte di una qualche garanzia. «Ah, Harry...» «Sì?» «Vedi cosa riesci a scoprire a proposito di quest'avvocato, questo Winston. Chiamami sul cellulare non appena sai qualcosa. Sarò in macchina.» Mi metto in tasca il Post-it con l'indirizzo e il numero di telefono di Grace Gimble, e mi scuso con Susan e Margaret per il frettoloso commiato. «Non c'è altro che vuole chiedermi?» domanda Margaret. «Per il momento, no. Se avrò qualche altra domanda, chiamerò Susan. La prossima volta, però, potremmo vederci a pranzo. Offro io.» Margaret non sa cosa rispondere. Non sa se rifiutare subito o in seguito. E così non dice nulla. Avviso Susan che la chiamerò, ed esco. In mancanza d'informazioni certe, sono costretto a decidere in base a semplici supposizioni. Chiunque abbia assunto questo legale per far uscire Espinoza, ha anche tirato fuori i soldi della cauzione. E sono un bel po' di soldi. Sua moglie non può essere stata, a meno che non abbia vinto alla lotteria. Chiunque sia, lo vuole fuori per un buon motivo. E, siccome hanno trattato direttamente con lui, dev'essere qualcuno che Espinoza aveva già visto o conosciuto in precedenza. È possibile che Espinoza conosca alme-
no un centinaio di persone che rispondono a questi requisiti, ma l'unico che conosco io è l'uomo col cappello di feltro, quello che, stando a Joyce, si chiama Hector Saldado. Avverto una leggera vibrazione contro la gamba. Proviene dalla tasca della giacca posata sul sedile accanto a me. È il mio cellulare. Lo tiro fuori. «Pronto?» «Mi senti?» È Harry. «Sì. Dimmi.» «Ho rintracciato questo avvocato, questo Winston.» «Sì?» «Dice che non aveva mai incontrato Espinoza prima di vederlo in aula, all'udienza. Senti questa. Il tizio ha passato l'esame di procuratore legale solo quattro mesi fa. Dice che lo hanno assunto per telefono, una voce maschile. Questa persona gli ha detto di essere il fratello di Espinoza. Poche ore dopo, gli è arrivato per corriere espresso un assegno per l'anticipo, insieme a una sostituzione di avvocato patrocinante già firmata da Espinoza. Il giovanotto mi ha detto di aver chiesto l'udienza, che si è rivelata un gioco da ragazzi. Ho avuto l'impressione che fosse la sua prima volta in tribunale.» «Perché?» «Pensava di fare un piacere al suo cliente con una cauzione da un milione di dollari. A quanto pare, è riuscito a prendere in contropiede il viceprocuratore assegnato all'udienza per la cauzione. Il pubblico ministero ha chiesto alla corte duecentocinquantamila dollari di cauzione, poi, vedendo il fascicolo, si è reso conto di chi aveva davanti. Allora è saltato subito a un milione, pensando, come te, che Espinoza non sarebbe mai riuscito a mettere insieme una cifra del genere. Il giovanotto ha cercato di tirare al ribasso, ma non c'è riuscito. Mentre tornavano in cella, Espinoza gli ha detto di non preoccuparsi, che non sarebbe stato un problema. L'avvocato dice che lui sa della cauzione. Dice che deve aver provveduto qualcun altro.» Era quello che temevo. «Hai parlato con il garante?» «Non è in ufficio.» Spero che abbia a cuore il suo investimento, e che stia tenendo d'occhio Espinoza. «Dove stai andando?» chiede Harry. «A sud, sulla Interstate 5», gli dico. «Rientri in ufficio?»
«No. Senti, che ora fai?» «Le undici e venti, circa.» «Se non ti chiamo entro un'ora, fammi un favore.» «Quale?» «Chiama la polizia e dagli questo indirizzo.» Gli detto l'indirizzo, in modo che se lo scriva, e per maggiore sicurezza lui me lo rilegge. «Cosa sta succedendo?» chiede. «Tu fa' come ti ho detto.» «Vuoi che chieda di mandare una volante?» «Più di una», rispondo. «Ma dammi un'ora.» «D'accordo.» 21 Accosto l'auto al marciapiede all'ombra di un olmo centenario. La vecchia casa dal porticato cadente è sull'altro lato della strada, a mezzo isolato di distanza. Alla luce del giorno, l'edificio di legno a due piani del numero 408 appare ancora più grande e decrepito. Noto anche qualcosa che in occasione della mia precedente visita non c'era: un fuoristrada vecchio modello, fermo davanti alla casa. La carrozzeria tozza e ammaccata è dipinta solo da una mano di fondo. È parcheggiato sul corto vialetto di ghiaia accanto alla scala, il paraurti anteriore infilato nei cespugli contro la casa, i massicci e aggressivi pneumatici posteriori che occupano per metà il marciapiede. Quello che attira maggiormente la mia attenzione è, però, il lunotto posteriore del fuoristrada. È coperto da un pezzo di grinzosa plastica nera, assicurato alla cornice del vetro con del nastro adesivo. Il veicolo corrisponde esattamente al Chevy Blazer descrittomi da Espinoza quando sono andato a fargli visita in carcere. Resto seduto nella mia auto a tenere d'occhio la casa per qualche minuto. Segni di vita al numero 408. La porta d'ingresso si apre, spingendo in fuori la zanzariera. Alto e segaligno, una valigia per ciascuna mano, corporatura riconoscibile: è il messicano che ho visto l'altra notte, quello descrittomi da Espinoza, questa volta senza cappello. Se il nome sulla cassetta della posta è vero e le informazioni fornite da Joyce accurate, si tratta di Hector Saldado, l'uomo che col suo cellulare fa quotidiane telefonate dirette alla zona di Cancún.
Saldado porta le valigie giù per le scale fin sul retro del Blazer ammaccato. Fa ruotare di lato il supporto della ruota di scorta e solleva il portellone posteriore col lunotto coperto dalla plastica nera. Mentre getta dentro le valigie, un'altra figura esce di corsa dalla porta. Scalza, mezzo nuda, con un bimbo tra le braccia, fa appena in tempo ad arrivare sul primo gradino che Saldado si volta e la vede. Lei prova a superarlo sulle scale, ma lui allunga una mano e la afferra per un braccio, quasi strappandole il bimbo. La ragazza tenta di liberarsi e allora lui la costringe a voltarsi bruscamente al punto che il piccolo viene quasi spinto via dalla forza centrifuga. Il messicano è forte, tenace. Tenendola da dietro, solleva da terra la ragazza che continua ad abbracciare il bimbo. La spinge velocemente su per le scale, oltre la zanzariera e la porta, e lì si ferma, voltandosi a guardare per accertarsi che nessuno l'abbia visto. Mi abbasso di lato dietro il volante. Poi l'uomo scompare. Tutta la scena è durata meno di venti secondi. Chiunque ne sia stato testimone, potrebbe considerarla un modo eccessivamente energico di trattare la propria moglie. Alcuni potrebbero anche chiamare la polizia, ma non vorrei che la mia vita fosse appesa a un filo così esile. Non so cosa ci faccia qui, ma Robin Watkins, la moglie bambina di Espinoza, si trova in guai seri. Prendo il cellulare e compongo il 911. Risponde l'operatrice. «Voglio denunciare un caso di violenza domestica.» «È un'emergenza?» «Sì.» «L'aggressione sta avvenendo in questo momento?» «Sì.» Le fornisco l'indirizzo, il mio nome e il numero di cellulare. «Manderemo una volante.» «Fra quanto arriverà?» «Potrebbe impiegarci qualche minuto.» «Quanti?» «Non glielo so dire. Al momento non abbiamo agenti in zona. Non appena è disponibile un'unità, la mandiamo.» Riattacco, faccio un respiro profondo e scendo dalla macchina. Dal sedile posteriore prendo la mia vecchia valigetta Samsonite, rigida e pesante. Chiudo la portiera e vado al portabagagli. Dentro, sotto la ruota di scorta,
trovo la leva del cric: una barra d'acciaio spessa un centimetro e mezzo e lunga una cinquantina di centimetri. Ha una punta scanalata con l'alloggiamento per il martinetto, ed è piegata a quarantacinque gradi, con la chiave a bussola per i bulloni delle ruote saldata sull'altra estremità. In questo Stato abbiamo ben due petulanti senatori intenzionati a togliere dalle mani dei cittadini ogni strumento di difesa. È solo questione di tempo: prima o poi, metteranno al bando anche chiavi a tubo e martelli. Tolgo documenti e fascicoli dalla valigetta e v'infilo diagonalmente la barra, l'unico modo per farcela entrare, quindi chiudo la valigetta, e poi il cofano. Mentre attraverso la strada, premo il pulsante di chiusura centralizzata sul telecomando attaccato alle chiavi della macchina e sto attento a sentire lo scatto. Il calore è opprimente; il sole, a picco, si riflette sull'asfalto crepato della strada. Arrivato in cima alle scale, controllo la cassetta della posta. Saldado risulta ancora residente nell'appartamento G. Scosto la zanzariera. La porta d'ingresso è rimasta aperta, e perciò entro. È più fresco, lì nella penombra, e nel corridoio si sente la corrente d'aria proveniente dal retro della casa. L'appartamento ai piedi delle scale, subito alla mia destra, è contraddistinto da una lettera A d'ottone ammaccato avvitata sulla traversa superiore della vecchia porta a tre pannelli. Alla mia sinistra c'è un'altra porta: l'appartamento B. Più avanti, si vedono altre due porte sullo stesso lato, gli appartamenti D ed E. L'appartamento G, quello di Saldado, dev'essere al piano superiore. Salgo i gradini due per volta, guardando bene dove metto i piedi e cercando di fare meno rumore possibile. Ora i miei occhi si trovano al livello del corridoio del primo piano, che attraversa l'edificio esattamente come al piano inferiore. Continuo a salire finché non vedo la porta sulla destra, in cima alle scale. La G. Data la disposizione dell'edificio, l'appartamento di Saldado dev'essere più grande degli altri. Per via della tromba delle scale, c'è solo una porta sulla destra, quindi il suo appartamento deve occupare l'edificio per tutta la sua lunghezza. Accosto l'orecchio all'intonaco sudicio della parete poco sopra il livello del pavimento. Mi trovo ancora a sei o sette gradini dal pianerottolo. Mi pare di sentire un televisore all'interno, voci seguite da risate registrate. Guardo l'orologio, nella speranza di sentir stridere i pneumatici di una
volante che si ferma davanti alla casa. Invece sento l'urlo di una donna, un unico urlo seguito da un tonfo sordo, come se qualcosa o qualcuno avesse sbattuto contro la parete dall'altra parte. La vibrazione trasmessa dalla parete mi costringe a scostare la testa. Segue un urlo soffocato e quelli che mi sembrano singhiozzi. Apro velocemente la valigetta e tiro fuori la leva del cric. Soppesandola in una mano, mi sforzo di trovare un piano, un diversivo tattico, qualcosa che anche solo per un momento distragga Saldado dalla donna, per dare alla polizia il tempo di arrivare. Davanti a me, lungo il corridoio, oltre la porta dell'appartamento G, c'è una sporgenza nel muro, larga una quarantina di centimetri. In un edificio più grande potrebbe coprire una delle travi d'acciaio, parte della struttura portante. Ma, in questo caso, ritengo che si tratti di una nuova tubatura idraulica o elettrica installata quando hanno diviso la vecchia casa in appartamenti. Guardo nuovamente la porta di Saldado. Io non posso scivolare all'interno dell'appartamento inosservato, ma il mio biglietto da visita sì. Scrivo velocemente una nota sul retro di uno dei miei biglietti, salgo in cima alle scale e poso con cura la valigetta al centro dell'ultimo gradino, in modo che chiunque arrivi non possa fare a meno di notarla. Mi porto velocemente di fronte alla porta di Saldado. C'è uno spioncino di sicurezza, uno di quelli piccoli e rotondi. Non posso esserne certo, ma dall'angolatura direi che lo spioncino non permetta di vedere il corridoio fino alla valigetta abbandonata. Faccio un respiro profondo e infilo il biglietto da visita sotto la porta, poi busso due volte, con forza. Dall'interno mi giunge il rumore di un singhiozzo immediatamente soffocato. Prima che cessi del tutto, io sono già tre metri più in là, spostandomi in punta di piedi nella direzione opposta a quella della valigetta. Mi nascondo dietro la colonna di cemento, appena sufficiente a celare il mio corpo, la schiena incollata al muro. Passano parecchi secondi. Resto in ascolto. Le voci provenienti dal televisore si fanno improvvisamente più deboli finché non le sento più. Poi, il nulla. Rimango lì, ad ascoltare, per quella che sembra un'eternità. Gocce di sudore mi si formano sulla fronte e sul labbro superiore, mentre il palmo sudato della mano stringe la leva del cric. Tendo l'orecchio. Niente. I secondi diventano un minuto. Guardo l'orologio. La polizia dovrebbe essere qui a momenti.
E poi lo sento. Il segnale di vita emesso da ogni vecchio edificio, il gemito universale di una logora asse del pavimento quando ci si cammina sopra. Qualcuno si sta avvicinando lentamente alla porta d'ingresso, proprio dall'altra parte della parete, e probabilmente sta guardando dallo spioncino. Visualizzo ciò che sta accadendo all'interno: un uomo, alto e forte, con la barba scura e trascurata, sta guardando dallo spioncino, senza vedere nulla. Poi si china a raccogliere il mio bigliettino da visita e legge il messaggio. Signor Espinoza, devo restituirle cinquemila dollari in contanti per onorari non maturati, dal momento che lei ha ingaggiato un altro avvocato. Un amico mi ha dato quest'indirizzo. Sto cercando di rintracciarla. Paul Madriani È possibile che Saldado non gradisca visite, ma cinquemila dollari in contanti sì? Passano altri secondi, poi si sente un rumore di passi. Un pianto. Questa volta è il bambino. Altri passi, zoppicanti. Una voce d'uomo dice qualcosa in spagnolo. Il rumore si avvicina alla porta. Stringo la leva del cric con più forza nella mano destra. La serratura scatta e la porta si apre. M'incollo ancora di più al muro. «Chi è?» È una voce di donna, spaventata, incerta. «Chi c'è là fuori?» Restano in ascolto per un secondo. Probabilmente Saldado sta guardando dallo spioncino, mentre tiene una pistola puntata alla testa della ragazza. «Guarda chi è.» Un sussurro roco, con un forte accento. «E ricordati che ho il bambino.» La porta si richiude per un secondo. Poi sento il rumore della catenella di sicurezza che corre, e la porta si riapre. Lui spinge la donna in corridoio e richiude velocemente la porta alle sue spalle. Sento scattare il chiavistello e la catena tornare al suo posto. Sbircio con un occhio solo oltre l'angolo del mio nascondiglio. Lei non mi vede. Robin Watkins mi volge la schiena, concentrata sull'unico oggetto visibile estraneo al corridoio, la mia valigetta abbandonata sulle scale. Speravo che fosse Saldado ad andare in quella direzione, dandomi l'irripetibile occasione di colpirlo da dietro con la leva del cric. Invece, ferma in cima alle scale, c'è la ragazza, che guarda giù. «Ehi, c'è
qualcuno?» Nessuna risposta. Resto nascosto. Se mi vede, con Saldado che tiene in ostaggio il bambino dentro l'appartamento, temo che si faccia prendere dal panico e mi tradisca. Lei scende qualche gradino, lentamente, continuando a chiamare. Quando arriva quasi in fondo, non sento più i suoi passi, ma mi giunge la sua voce che chiama, di quando in quando. Poi sento il cigolio della porta d'ingresso, seguito dal rumore della zanzariera che si apre e si richiude sbattendo. Se la polizia dovesse arrivare in questo momento, non so cosa farebbe la ragazza: correrebbe verso di loro o tornerebbe di sopra per salvare il suo bambino? Ma non arriva nessuno. Guardo l'orologio. La polizia se la sta prendendo comoda. Qualche secondo dopo, sento nuovamente sbattere le porte al piano di sotto, prima la zanzariera, poi la porta d'ingresso. I suoi passi, non su per le scale, ma lungo il corridoio sotto di me, verso il retro dell'edificio. Sta controllando accuratamente ogni posto in cui posso essere andato, e continua a chiamarmi. Sento la porta sul retro che si apre e si richiude, poi silenzio. Aspetto, in ascolto, chiedendomi cosa stia facendo Saldado, dentro. Probabilmente sta guardando fuori dalle finestre. Dovesse fermarsi una volante, scoppierebbe l'inferno. Per qualche istante mi chiedo se per caso la paura non abbia sopraffatto l'istinto materno, spingendo la ragazza a fuggire attraverso il cortile sul retro. Sento il bimbo che piange disperato. Certamente lo sente anche lei. Proprio quando comincio a pensare che sia fuggita, sento muoversi la maniglia di una porta, non al piano di sotto, ma sul retro del ballatoio del piano superiore, a un metro e mezzo da me, sulla destra. Mi appiattisco contro il muro più che posso mentre la porta si apre. La ragazza sta arrivando. Sta tornando all'appartamento. Dovrà passarmi davanti. La porta si richiude. La sento respirare, tirare su col naso, i suoi piedi che strisciano sul vecchio pavimento di assi. Ha la faccia pesta, un occhio chiuso da tanto è gonfio, e perde sangue dal naso. Non riesco a capire se il setto nasale sia rotto. Lei tiene lo sguardo abbassato sul pavimento e non mi vede finché non alza gli occhi. Mi porto un dito davanti alle labbra, il gesto del silenzio. Robin guarda la porta, poi me. Vede la leva del cric nella mia mano e scuote rapidamente la testa. Robin Watkins sa cosa c'è dietro quella porta. E, sapendolo, ha poca fiducia in me o nell'arma che stringo nella destra.
Prima che lei possa dire qualcosa, allungo l'altra mano e la afferro, tirandola verso la parete. «C'è il mio bambino, là dentro», sussurra Robin. «Lo so. A parte Saldado, quante persone ci sono?» Mi guarda come se non conoscesse quel nome o non capisse la domanda. «L'uomo là dentro con il suo bambino è solo?» Annuisce lentamente, come in trance. Mi chiedo se sia drogata o solo scioccata. «Dov'è suo marito?» Indica la porta. Il bambino sta di nuovo piangendo. «Il bambino. Devo andare dal bambino», mormora lei. Sono costretto a trattenerla per il braccio per impedirle di muoversi. «Ha una pistola? L'uomo là dentro?» Scuote la testa, stringendosi nelle spalle. Non lo sa. «Un coltello», risponde poi. «Io non ho visto altro.» «Dobbiamo pensare a un modo per farlo uscire», le bisbiglio. Questo sembra catturare la sua attenzione. Non abbiamo molto tempo. Saldado deve averla sentita aprire e chiudere la porta sul retro. Ora starà guardando attraverso lo spioncino, chiedendosi dove sia finita. «Passi davanti alla porta più veloce che può», le dico, sussurrandole all'orecchio. «Prenda la valigetta e la porti davanti all'appartamento. La sollevi per fargliela vedere. Lui la starà guardando dallo spioncino. Gli dica che sono sceso a prendere dei documenti da far firmare a suo marito, ma che i soldi sono nella valigetta. Ha capito? I soldi sono nella valigetta. Poi la posi per terra, davanti alla porta. Ma dopo che lui ha aperto la porta, qualunque cosa faccia, lei non entri.» «Ma c'è il mio bambino.» «Lo so. Lo prenderò io. Ha capito?» Volta la testa e mi guarda. Non sono certo che abbia capito. «Il mio bambino si salverà?» Lo chiede quasi a voce alta. Le metto una mano sulla bocca. «Mi prenderò cura io del suo bambino. Dopo che lui ha aperto la porta, lei si sposti di lato e stia lontana.» Annuisce. La mando via prima che possa farmi un'altra domanda. Si volta a guardarmi. Ora da dentro lui può vederla. Le faccio segno di guardare dall'altra
parte. Obbedisce, ma si muove come una marionetta. È in stato di shock. La mia paura è che, una volta presa la valigetta e tornata alla porta, Robin si sia dimenticata tutto il resto. Ma, prima di arrivare alla valigetta, la ragazza si ferma davanti alla porta. Trattengo il fiato. Se lui apre e la tira dentro, non c'è nulla che io possa fare. La mia mente vorrebbe mandarle un ordine telepatico: togliti di lì. Sento scorrere la catenella dall'altra parte. Comincio a muovermi cercando di coprire la distanza che mi separa dalla porta. Il rumore della catenella sembra riportarla alla realtà. I suoi piedi si rimettono in moto, strisciando lentamente lungo il corridoio verso le scale e la mia valigetta. Faccio un respiro profondo e torno a nascondermi. Posso pregare che Saldado sia solo e senza una pistola. Altrimenti, scoprendo che ho solo sessanta dollari nel portafoglio e qualche spicciolo in tasca, s'incazzerà non poco. Robin prende la valigetta e si volta verso di me, come un robot. Annuisco, facendole segno di venire avanti. Cammina come uno zombie. Forse ha una commozione cerebrale dovuta ai colpi ricevuti. Regge la valigetta vuota con la mano sinistra. Arrivata alla porta, si volta e resta lì a fissare il pannello di legno. Saldado starà sicuramente guardando attraverso lo spioncino. Sollevo la mano che regge il cric, a significare: «Alza la valigetta». Faccio tutto il possibile per farmi capire, tranne pronunciare le parole. Alla fine, Robin esegue, esita un momento e poi dice: «I soldi sono qua dentro». Sento la catenella di sicurezza. Poi la voce di lui. «Dov'è lui?» Lei scuote appena la testa, come per schiarirsi le idee. «È andato alla macchina», risponde. «Dei documenti da firmare.» Lui ci pensa un secondo, poi il chiavistello gira. Apriti sesamo. Giro intorno al pilastro e, tenendomi rasente al muro, arrivo alla porta con tre lunghe falcate. Robin è ancora lì davanti con la valigetta in mano. Sembra stordita. Tenendo il cric con entrambe le mani, le faccio segno con la testa di spostarsi. Lei non mi vede, oppure non capisce. La maniglia della porta gira. Non c'è tempo. Con la schiena contro il muro, alzo la gamba sinistra e le appoggio il piede contro il braccio con cui tiene la valigetta, spingendo più forte che posso. La valigetta le scivola di mano e cade. Robin finisce a terra nel corridoio a due metri di distanza. Un attimo dopo, la porta si socchiude.
Mi ci scaglio contro con tutto il peso, spalle in avanti, e spingo col piede. Inciampo sulla valigetta e scivolo, le suole di cuoio non fanno presa sul pavimento di legno. La porta si apre per metà prima che Saldado riesca a capire cosa lo ha colpito. Spalanca gli occhi, due olive nere che galleggiano in un mare di bianco. Ho una fugace visione del suo volto prima che lui reagisca. Con uno scatto felino, Saldado si lancia contro la porta. Il contraccolpo mi fa balzare in piedi. Improvvisamente la pressione aumenta: lui si sta appoggiando alla porta con tutto il suo peso. Allunga una mano oltre la porta, stringendo un oggetto luccicante, un rasoio a mano libera. Mena colpi alla cieca e mi colpisce al braccio, tagliando il tessuto sottile della camicia di cotone come fosse carta. Nell'attimo che impiego a riprendermi, la porta si sta richiudendo come se dall'altra parte vi fosse rovinata sopra una montagna di carne. Spingo con tutte le forze, ma perdo terreno. La porta si chiude centimetro dopo centimetro, finché non urta contro qualcosa di duro e si blocca. Guardo in basso. Robin Watkins, pesta e sanguinante, è raggomitolata ai miei piedi. Ha infilato la valigetta nello spiraglio della porta. Spingo con la spalla e la porta ricomincia a muoversi. Saldado sa di non poter vincere. Può spingere, ma non può chiudere la porta. Cerca di allontanare la valigetta con un calcio, ma la ragazza la tiene ferma con entrambe le mani. Lui molla un altro fendente col rasoio. Questa volta riesco a deviarlo col cric, colpendo l'uomo sulle nocche con la chiave a bussola. Ritira la mano. Per qualche secondo, mi tiene testa. Mi lancio nuovamente contro la porta: una, due, tre volte. Ogni spinta si ripercuote sul corpo, dall'altra parte. Ne assorbe parecchi, poi, all'improvviso, fa un passo indietro e la porta si spalanca. Saldado retrocede fino al centro del piccolo soggiorno. Arretra e per poco non cade sopra un tavolinetto basso e poco solido. Ne manda in frantumi una gamba e con un calcio allontana il resto. Schegge di legno volano per la stanza. Il piano crolla su un grosso involucro avvolto nella plastica, posato per terra accanto al divano. Il messicano si accuccia, le ginocchia flesse, tenendo il rasoio davanti a sé, gli occhi fissi sul cric. Alla mia sinistra c'è il bambino, un maschietto avvolto in un Pampers sudicio, che mi fissa dal divano con gli occhi sgranati. Il suo pianto è stato interrotto dalla sorpresa causata dal mio ingresso. Si succhia un pugnetto
bagnato di saliva. Guardo Saldado e nello stesso istante un unico pensiero attraversa la nostra mente. Lui fa una mossa verso il bambino. Io meno un colpo con la leva del cric, mancandolo di pochi centimetri, ma è sufficiente a farlo arretrare verso sinistra. Subito m'infilo nel varco, frapponendomi tra lui e il bambino. Saldado prosegue in questa danza circolare di combattimento, costringendomi a seguirlo. Sta guardando la porta aperta e Robin Watkins inginocchiata a terra. Io sono dove lui vorrebbe essere e non cedo. Lui ha la lama, ma io col mio arnese arrivo più lontano. Se sferra un fendente e mi manca, gli spezzo il braccio. Con un po' di fortuna, potrei persino colpirlo alla testa. Saldado studia la situazione, le pupille scure che guizzano tra la ragazza inginocchiata sulla soglia e il bambino sul divano. Una o l'altro, per lui non fa differenza. Fa una finta in direzione della madre e mi coglie in contropiede. Mollo un colpo. Niente. Solo il fruscio dell'aria. Lui va dalla parte opposta, verso il bimbo. La leva del cric disegna un otto nel vuoto. Lui arretra, sorridendomi. «Non è così facile, eh?» Si asciuga il sudore dal labbro con un braccio. Osservo i suoi occhi. Sta valutando il mio raggio d'azione, la mia disponibilità ad affrontare la lama. Guarda il bambino, poi di nuovo la madre. Mosse ovvie, ora, ma non so quale sceglierà e i suoi occhi sono sempre incollati al cric. Lancia un'occhiata rapida al bambino e fa mezzo passo verso di lui. Stavolta non ci casco. Sposto la testa in quella direzione, i piedi ben piantati. Quando lui inverte il movimento verso la porta, mi trova pronto. Saldado ha fatto la sua scelta. Lo slancio lo trascina. Giusto il tempo perché io prenda la rincorsa e lo colpisca col ferro di rovescio. Lo percuoto violentemente come un battitore mancino con una mazza da baseball. La chiave a bussola della leva lo prende in pieno nella parte inferiore sinistra del torace con un tonfo sordo seguito dallo scricchiolio di ossa spezzate. «Aaaggh.» Saldado resta senza fiato. Barcolla all'indietro. Dolore e sorpresa, seguiti un attimo dopo dalla rabbia. Le emozioni acuite dall'adrenalina gli passano sul volto in meno di un secondo. Prima che io possa sferrare un altro colpo, lui sferza l'aria col rasoio, un tentativo poco convinto ma sufficiente a tenermi lontano. Combattere o fuggire. Si lancia di nuovo contro di me. La lama danza sotto la leva del cric. Mi piego all'indietro e il rasoio manca il mio addome di pochi centimetri. Facendo roteare la leva, lo colpisco al dorso della mano inseguendo il
suo movimento, ma senza la forza necessaria a far danno. Ora Saldado si tiene un fianco con la mano, lanciando occhiate sotto il braccio per valutare l'entità della ferita. Ha del sangue sulla camicia. Lo guarda ed entrambi capiamo nello stesso istante che non è dove l'ho colpito io. In alto, sulla sua spalla, c'è un arco di macchioline rosse, come se qualcuno gli avesse lanciato contro un pennello intinto nella vernice. Dolorante, e col respiro affannoso, collega i puntini prima di me. Sorride. «Lei sanguina, señor.» Lancio un'occhiata verso il basso. Il sangue sgocciola dall'estremità della leva sul pavimento. Approfittando di quest'attimo di distrazione, Saldado cerca un varco. Lo blocco con lo sguardo, cogliendolo in contropiede, e lo gelo. Avendo già assaggiato la barra che stringo in mano, non ha nessuna voglia di ripetere l'esperienza. La manica destra della mia camicia è rossa di sangue dal gomito fino al polsino, dove lui l'ha lacerata col rasoio da dietro la porta. L'adrenalina mi ha impedito di avvertire il dolore. L'adrenalina, o un nervo reciso. Ora i suoi movimenti sono più lenti. E anche i miei. Allontana da me il fianco ferito, sempre tenendosi la cassa toracica con una mano, mentre con l'altra brandisce lentamente la lama avanti e indietro, smuovendo l'aria dinanzi al mio viso. Cerca di spingermi a colpire la lama, ad avvicinarmi. Ma io non abbocco. Lui seguirebbe il mio movimento colpendomi al braccio e il rasoio sarebbe libero di fare il suo lavoro. «Amico, se continui così, farai la sua stessa fine, là sul pavimento», mi provoca. «Eh già, sei davvero bravo a picchiare le donne», ribatto. «No. Non quella. L'altro. Quello là.» Accenna con la testa nella direzione opposta. «Ti lascio tenere i soldi. Prendili e vattene. Ti regalo anche la vita.» Lancio una rapida occhiata e mi rendo conto che sta parlando del pacco avvolto nella plastica posato a terra. «Espinoza?» Annuisce lentamente, sorridendo. «E il bambino e la donna?» Si stringe nelle spalle, rivolgendomi un sorriso disarmante. «Che mi frega di loro?»
La ragazza deve averlo visto uccidere il marito. Non credo che la lascerebbe andare. «Ho già chiamato la polizia», lo informo. «Menti.» «Aspetta e vedrai.» Agita la lama davanti a me. «Per quanto tempo credi che potrai sanguinare in quel modo e restare ancora in piedi? Eh? Perché non te ne vai?» I suoi occhi mi dicono che, nell'istante in cui farò un passo verso la porta, lui mi sarà addosso con il rasoio. «Lascia che lei prenda il bambino e se ne vada.» «Certo.» «Robin?» Lei mi guarda ma non dice nulla. «Prendi il bambino», le dico. Lei guarda il bimbo, poi me. «Alzati e prendi il bambino.» Il messicano sta sorridendo. Sa che, se riesce a beccarmi, può raggiungere la donna e il bambino prima che arrivino alla porta d'ingresso. La ragazza si alza. Muove qualche passo incerto nella stanza. «Resta dietro di me», le ordino. Il messicano continua a sorridere. Potrebbe agguantarla in un istante e costringermi a mollare la leva del cric, poi tagliarle la gola e uccidere anche me. Robin viene dietro di me, prende il bambino e lo stringe tra le braccia. «Vai», le ordino. Fa un passo verso la porta, poi si volta a guardarmi. «Vai!» Giro la testa e distolgo gli occhi da lui per una frazione di secondo. In quell'istante, Saldado si getta contro di me. La lama arriva dal basso. Nonostante la ferita, riesce a bloccare col braccio l'estremità della barra prima che io possa farla roteare. Blocco il braccio che stringe il rasoio premendo il gomito contro il fianco. «Vai!» urlo a denti stretti. Per poco non mi mordo la lingua, mentre il corpo di Saldado mi viene a sbattere contro, la sua spalla che spinge sotto il mento, costringendomi a voltare il capo. Col terrore negli occhi, Robin scompare nel corridoio, stringendo a sé il bambino.
Con la mano che stringe il rasoio intrappolata sotto il mio braccio, Saldado cerca di ruotare il polso per ferirmi alla schiena. Sento la lama che sfrega contro il cotone della camicia e tiro verso di me, girando, per fargli perdere l'equilibrio. Sfrutto il peso del mio corpo e lascio che la fisica faccia il resto. La forza centrifuga ci scaglia attraverso la stanza finché i nostri piedi non colpiscono un oggetto immobile, il corpo di Espinoza, e subentra la forza di gravità. Gli afferro la nuca con la mano e gli do una spinta, facendolo cadere a pancia in giù. Io sbatto sul pavimento con una spalla. Il colpo mi toglie il fiato. Saldado picchia di petto, atterrando proprio davanti ai miei occhi. Dal naso e dalla bocca soffia fuori una nuvola di sangue vaporizzato: è il respiro di un polmone lesionato. La mano che stringe la lama batte sul pavimento e il rasoio tintinna sulle vecchie assi di legno. Per parecchi secondi, nessuno dei due si muove. Rannicchiato su un fianco contro il divano, incapace di respirare, ascolto i suoi rantoli, interrotti di quando in quando da un gemito. Il mio cervello si svuota, la vista mi si annebbia come se qualcuno avesse versato dell'acqua su una lastra di vetro davanti ai miei occhi. Lo vedo sollevare la testa, fra le bolle di schiuma rossastra che gli colano dalla bocca e dal naso. Il mio respiro è lento e corto, la testa leggera come elio. Saldado si sforza di alzarsi, carponi, gli occhi vitrei per il dolore ma pieni di rabbia. Mi concentro sulla lama scintillante. Lui volta la testa e la vede sul pavimento. Cerco di muovermi, ma il mio corpo si rifiuta di obbedire. Ho i piedi freddi, la vista annebbiata. Illusioni uditive cominciano a riempirmi le orecchie, insieme a un ronzio. Quando i miei occhi ritornano su di lui, l'attenzione di Saldado non è più sul rasoio. Sta cercando di mettersi in piedi, tenendosi un fianco, gli occhi scuri puntati verso la finestra che dà sulla strada. Mentre la mia vista si affievolisce, riconosco il suono, da qualche parte, oltre le pareti della stanza, dell'armonia elettronica di una sirena. 22
Ritorno nel mondo dei vivi in stato confusionale, una visione offuscata del soffitto dell'appartamento del messicano. Chissà come, mi ritrovo lungo disteso sulla schiena e non sento dolore. Il duro pavimento non c'è più, sostituito da qualcosa di morbido. Cerco di tirarmi su a sedere, ma non ci riesco. Sono legato con delle cinghie a una barella. Faccio per portarmi una mano alla testa, ma qualcuno mi blocca il braccio. «Stia fermo. Si strappa l'endovena.» Un tizio in uniforme blu sta assicurando col cerotto un ago al dorso della mia mano. Inginocchiato sul pavimento, si dà da fare sopra di me, regolando una rotellina di plastica posta sul tubicino di una sacca il cui liquido trasparente scende verso l'ago e da lì nella mia vena. «Come si sente?» Mi sforzo di parlare. «Come se avessi una scheggia di legno piantata in gola.» «Non parli. Tenente, sta cominciando a svegliarsi.» Un altro paramedico, in piedi accanto al primo, regge la sacca dell'endovena. L'ago è nella mano buona, la sinistra. La destra è completamente bendata, dal polso al gomito. Mi sistemano le mani incrociate sul petto, come se si preparassero a compormi in una bara. «Ha perso molto sangue.» «Non sento niente», dico, attraverso il rospo che ho in gola. «Sono gli antidolorifici.» È un'altra voce che parla. «Non si preoccupi. Domani mattina si sentirà di merda.» Finalmente compare il viso, un volto familiare, ma non so dove collocarlo. L'uomo è in maniche di camicia e cravatta, indossa occhiali scuri e tiene un taccuino in una mano e una lattina di Diet Coke nell'altra. «Fatemi alzare.» Le cinghie mi bloccano. «No. No. Stia lì.» Il paramedico non ha intenzione di lasciarmi muovere. «Bravo. Così, se poi cade, può far causa all'amministrazione comunale.» La lattina è ancora coperta di condensa. «Gliene offrirei una, ma poi mi vomiterebbe sulla scena del delitto. E qualche fottuto avvocato troverebbe il modo di usare la cosa contro di noi, in tribunale. Una difesa da vomito. E così noi non saremmo più in grado di risolvere il caso.» Indica qualcosa con la mano. Giro la testa in quella direzione e vedo Espinoza. La metà superiore del suo corpo, per meglio dire. È ancora avvolto nella plastica tranne che per
la testa e la parte superiore del torace, dove l'involucro è stato tagliato e abbassato come le brattee di una pannocchia di granoturco. Il colorito è terreo. Un'esile linea di sangue rappreso, sottile come un filo interdentale, gli attraversa la gola. Giro di nuovo la testa per guardare il tizio con gli occhiali scuri. «Ci conosciamo?» «Oh, sì.» Si toglie gli occhiali. «Tenente Ortiz.» Mi rivolge un sorriso radioso, la pelle del viso così tesa sulla struttura ossea sottostante che la dentatura potrebbe essere quella di un teschio. «Ricorda? Abbiamo avuto una piacevole conversazione nel suo studio. Io ho recitato il mio monologo. Lei si è appellato al segreto professionale. Abbiamo parlato del suo amico Nick Rush, di Gerald Metz. Ricorda?» Annuisco. «Io non ne sarei tanto sicuro, con tutta la roba che le stanno sparando in vena. Probabilmente è buona quanto quella che vendeva Metz. Che ne dice?» Non rispondo. «Allora, non sa cosa dire? D'accordo. Lasciamo perdere. E di questo, cosa ne dice?» Fa segno con la testa in direzione del cadavere di Espinoza. «Pensa che sia stato un incidente? Ho sentito dire che la morte di Rush è stata un incidente. L'ho letto sui giornali», prosegue. «Certo. Si è trovato sulla traiettoria di un proiettile vagante. È proprio vero, quel che si dice: la velocità uccide.» Mi guarda, sporgendosi in avanti. Non reagisco. «Allora, non ha niente da dichiarare? Accidenti, per essere un avvocato, lei non parla molto. E pensare che credevo fosse lei la mente dietro il colpaccio con l'assicurazione. Be', come vuole. Risparmi pure la voce. Possiamo parlare domani. E poi, un morto alla volta. Il che ci riporta a questo. Non è che per caso era presente, quand'è successo, vero?» Scuoto la testa. «Avrei dovuto immaginarlo. Cosa può dirmi? Vediamo. Sappiamo che è morto. Cos'ha usato, un bisturi?» Volto la testa dall'altra parte e guardo il pavimento. Non c'è più. Torno a girarmi verso Ortiz. «Un rasoio a mano libera.» «Ah. Quello con cui ha fatto a fette anche lei?» Annuisco. «Un nome?» Prima di poter far uscire la parola, devo spingere via il rospo che vive
nella mia gola. «Saldado.» «Ah. Evidentemente, questa volta non si tratta di un suo cliente. Buon per lei. È la persona che vive qui, giusto?» Confermo con un cenno del capo. «Quell'uomo ha un modo davvero strano di trattare gli ospiti», commenta il tenente. Uno dei paramedici controlla la fasciatura al braccio facendomi trasalire per il dolore. «Potete portarlo fuori tra un minuto», dice Ortiz. «Voglio parlargli ancora un momento.» Il tizio controlla velocemente l'endovena, poi si allontana per raccogliere l'attrezzatura. «Per essere un avvocato, pare proprio che lei non capisca niente», continua il tenente. «Dovrebbe distribuire i suoi biglietti da visita ai feriti, non ai morti.» Tiene in mano il mio biglietto, quello che avevo infilato sotto la porta. «Vuol dirmi di cosa si tratta?» «Me ne sono servito per entrare. Lui li teneva dentro.» «Chi?» «La madre e il bambino.» «La telefonata al 911. Violenza domestica.» Annuisco. «Capisco. E lei ha indossato il costume da Superman. Perché non ci ha aspettato?» «Non c'era tempo. Dove sono?» «Stanno bene. Domattina la ragazza avrà un bell'occhio nero, ma è viva. Più di quanto si possa dire della sua sordida metà.» Fa un cenno in direzione del cadavere steso a terra vicino a me. «Devo dire che, tutto considerato, la sta prendendo bene. Ma forse non si trattava proprio di un idillio. Chi l'ha picchiata? Saldado?» Faccio cenno di sì. «L'avete preso?» «No. Quando siamo arrivati qui, era già scappato. Ma abbiamo degli uomini che gli stanno dando la caccia, frugando in ogni casa, in ogni fogna. Salterà fuori.» «Non credo.» «Perché? Lei sa qualcosa?» Scuoto la testa. «Si fidi. Lo prenderemo.»
Se non l'hanno beccato mentre usciva dall'appartamento, non lo troveranno certo adesso. I tipi che vivono come Saldado si spostano senza valigie e mandano segnali senza bisogno d'incontri segreti. Prima che la polizia arrivi alla loro porta, hanno già previsto decine di eventualità e hanno pronti nascondigli nei quali rifugiarsi per poi scappare, o dai quali venire prelevati. Entro poche ore, col buio, se non fossi arrivato io, Espinoza, la moglie e il bambino sarebbero stati tutti impacchettati per bene e caricati nel bagagliaio del Blazer, pronti per essere sepolti da qualche parte nel deserto a est della città. A meno che non mi sbagli, Saldado, o quale che sia il suo vero nome, è già sparito, probabilmente diretto a Cancún. Ortiz smette di prendere appunti per ispezionare il mio braccio e la testa, poi aggiunge qualche nota per il suo rapporto. «L'ha conciata proprio bene.» «Come si dice di solito, 'dovrebbe vedere l'altro'.» «Cosa gli ha fatto, gli ha consegnato una citazione?» «Gli ho rotto le costole.» Mi guarda sorridendo, incredulo. «Con cosa? Con un dito?» «Con la leva del cric.» Indico il davanti del divano. Ortiz lo spinge indietro di qualche centimetro, finché non vede spuntare un'estremità della barra. «Jack. C'è una cosa che ti è sfuggita.» Uno dei tecnici della Scientifica si avvicina, le mani coperte dai guanti. «Saldado l'ha toccata?» mi chiede il tenente. Annuisco. «Rileva le impronte e poi catalogala», ordina Ortiz al tecnico. «Dovrai prendere le impronte anche a lui, e andare per esclusione. E anche un campione di sangue», aggiunge. «Vedi se trovi qualcosa. Potremmo avere un colpo di fortuna e risalire al DNA per identificarlo. Il nostro amico, qui, dice che con quell'affare gli ha rotto qualche costola.» Tossisco, mi schiarisco la gola per attirare nuovamente la sua attenzione. «Cosa c'è?» Mi batto il dito sul davanti della camicia, sul petto, dalla parte opposta rispetto al braccio ferito. «Cosa vuole dire?» «Questo è sangue suo.» Ortiz si avvicina per vedere meglio. Quando il messicano è caduto a terra, mi ha spruzzato addosso una finissima pioggia di sangue, depositatosi sotto forma di minuscoli puntini color ruggine sul petto della mia camicia e anche sulla mia guancia.
«Jack. Prendi un paio di forbici.» Un attimo dopo, il tecnico della Scientifica è di ritorno. Qualche sforbiciata, e taglia un quadrato di dieci centimetri di lato dalla mia camicia. «Lei si mette a collaborare e subito qualcuno arriva a tagliuzzarla. Bisognerà che me lo ricordi la prossima volta che vengo nel suo ufficio a interrogarla. Ha altro da dirmi?» Scuoto la testa. «Per adesso va bene così. Ha l'aria un po' provata», valuta Ortiz. «Ragazzi, cosa ne dite di portarlo fuori di qui?» aggiunge, rivolto ai paramedici. «Quel braccio ha bisogno di punti. Se chiamo il pronto soccorso e gli dico che sta arrivando un avvocato, sono sicuro che non avranno problemi a trovare l'ago più spesso.» Mi sorride. «Ottima idea», commenta il tecnico della Scientifica. «Digli di tirar fuori quell'arpione che usano per ricucire i cadaveri dopo le autopsie. Avrà qualcosa da raccontare quando si arrotola le maniche alle riunioni dell'ordine.» «Grazie.» «Si figuri.» Ortiz si è rimesso gli occhiali scuri, sorride. «Vuole che chiami il suo socio?» Annuisco. Cerco di formulare le parole, ma non escono. Ci riprovo. «Mia figlia.» «Vuole che gli dica di avvertirla?» Assento rapidamente. «La terranno sotto osservazione almeno per questa notte», m'avverte il tenente Ortiz. «E domani parleremo ancora un po', d'accordo? Tanto perché lo sappia: non provi neppure a dirmi che non c'è nessun collegamento tra il suo amico qui e l'altro cliente, Metz. Perché io non ci credo.» Scuoto la testa. «Si risparmi la fatica», insiste. «Suppongo che mi racconterà tutto quando si sentirà meglio, diciamo... domani?» Prima che possa rispondere, Ortiz si è già voltato per parlare con uno dei tizi in uniforme. «Voglio che gli mettiate un uomo di sorveglianza. Teste chiave», spiega. «Non va rilasciato dall'ospedale senza la mia autorizzazione. Mia, in persona. Mi sono spiegato?» Poi abbassa lo sguardo verso di me e mi fa l'occhiolino. «Ci vediamo domani mattina.» L'omicidio di Espinoza è in prima pagina su tutti i giornali di questa mattina, insieme alle foto della casa di Saldado circondata dal nastro giallo della polizia. Harry me ne ha portati alcuni all'ospedale insieme a un cam-
bio di vestiti. L'agente di guardia è seduto fuori, accanto alla porta, per essere sicuro che io non me ne vada. «Ne hanno parlato persino al notiziario della sera», dice il mio socio. «Quando esco?» «Rilassati. Potrebbe andare peggio.» «E come?» «Potresti essere in camera con qualcun altro.» «Ci sono già. Ci sei tu.» «Potresti essere a carico del sistema sanitario pubblico.» «Su questo ti do ragione.» «Prova a guardarti una telenovela.» Harry indica il televisore appeso in alto, alla parete. «Ti distrae la testa.» «Me la fa perdere, semmai.» «Rilassati. Se non altro, Saldado non ti ha reciso un nervo.» Il mio socio ha ragione. Questo pomeriggio il braccio mi fa un male d'inferno, un dolore pulsante che sale fino all'ascella, e da lì mi arriva al cervello, proprio dietro le orbite, in piccole saette. «Questa è una delle rare volte in cui mi trovo d'accordo con la polizia», continua Harry. «Raccontagli tutto quello che sai, e torniamocene a lavorare per il popolo americano.» «Cosa vuoi che sappia? Espinoza è morto.» Harry mi ha portato un paio di pantaloni e una camicia pulita. Mentre parliamo, mi vesto. Con movimenti cauti tiro giù la manica sopra il braccio fasciato e abbottono il polsino. «Pare proprio che per un po' dovrai scrivere con la sinistra.» «Mi sembra di capire che non hanno trovato Saldado.» Harry scuote la testa. «Stanno ancora setacciando il quartiere, parlando con la gente. Secondo me, stanno solo perdendo tempo. Se tu avessi un cadavere in casa, resteresti nelle vicinanze?» Non gli rispondo. «Io neppure», prosegue lui. «Riusciresti a correre con una costola rotta?» chiedo. «Dipenderebbe dal motivo per cui corro.» Appoggio un piede sulla traversa del letto cercando di allacciarmi una stringa con un braccio fuori uso. «Vuoi che faccia io?» «Quando comincerò a perdere la bava, potrai mettermi nella casa di ricovero per anziani di St Florence. Fino allora, le scarpe me le allaccio da
solo.» «Come vuoi. Stavo solo cercando di rendermi utile.» «Per quanto può tenermi qui, Ortiz?» «Sai cosa ti dico? Non vorrei essere la tua infermiera», risponde lui. «Harry?» «Che c'è?» «Per quanto tempo può tenermi qui, Ortiz?» Lui mi guarda e fa spallucce. Se dovessi dipendere dal mio socio per uscire dall'ospedale, potrei anche trasferirci la residenza. Alzo l'altro piede, lo appoggio alla traversa e mi rimetto all'opera. È allora che si sentono le voci fuori della porta, che un attimo dopo si apre. Mi blocco col piede alzato e mi volto a guardare. Ortiz fa il suo ingresso, seguito dal suo socio, il difensore biondo. «Parli del diavolo...» dico. «Cosa ti ho detto, Norm? Fa' passare a un avvocato una giornata col culo su una padella e, quando ti vede, ti sorriderà.» «Nel caso non se ne fosse accorto, qui nessuno sta sorridendo», gli faccio notare. «Sentilo. Gli hanno tolto il siero della felicità da poche ore e la prima cosa di lui che riprende a funzionare è la bocca. Lei ricorda il sergente Padgett, vero?» «Come potrei averlo dimenticato?» Il sergente ha già tirato fuori matita e taccuino, pronto a prendere appunti. «Come va?» «A giudicare dalle apparenze, meglio di lei.» Padgett si lascia cadere su una delle sedie per i visitatori accanto al mio socio. «Non mi dica che sa scrivere?» lo provoca Harry. Gli lancio un'occhiata. «Sii gentile.» «Dia ascolto al suo socio», dice Ortiz. «Lui vuole andare a casa.» «Le darei la mano, ma mi fanno male tutte e due le braccia», replico. «Coltellata in uno, endovena nell'altro.» Il tenente descrive le mie pene a Padgett con un ghigno. «Ora sono pronto ad andare.» «Non ha finito di allacciarsi la scarpa», mi fa notare. «E poi deve raccontarci cosa è successo.» «Cosa è successo! Sono stato pugnalato. Sono vittima di un crimine.» «Sì, ma che ci faceva là? E non mi dica che stava cercando un cliente.» «Proprio così.» «Non me lo dica, perché non voglio sentirlo. Espinoza non era suo clien-
te. Non più.» Ortiz guarda il collega. «Il nostro Clarence Darrow, qui, il grande avvocato, ha fatto scivolare un biglietto da visita sotto la porta del tizio, dicendogli che aveva cinquemila dollari in contanti da consegnare al suo ospite cadavere.» «Sembra proprio un invito a farsi infilzare», osserva Padgett. «Queste cose ve le insegnano alla facoltà di legge?» «Mi è servito per entrare.» «Perché ha voluto a tutti i costi farsi assumere? Da Espinoza, intendo», chiede Ortiz. «Da quanto ci risulta, non è che i clienti le manchino. La moglie afferma che lei si è presentato a casa sua dicendole che voleva rappresentare il marito.» Hanno già gran parte delle risposte. Non dico nulla, e Padgett si fa sotto. «Lei lo ha lasciato dentro. Al carcere di detenzione preventiva. Ci risulta che il suo socio, qui, per poco non ha avuto un attacco di cuore quando ha chiamato e ha scoperto che Espinoza era uscito. Le hanno mai detto che quando si assume la difesa di un cliente bisognerebbe fornirgli servizi legali?» «Per chi lavora, per l'ordine degli avvocati?» chiede Harry. «Abbiamo parlato con lo studente del primo anno che l'ha fatto uscire. E, visto che lei non ha chiesto alcun anticipo, non lo faceva per i soldi.» «Allora, ci spieghi perché tutti erano così interessati a Espinoza», interviene Ortiz. «Vuoi dirglielo tu o devo farlo io?» mi domanda Harry. «Oh, finalmente! Un avvocato dotato di cervello.» Il tenente guarda il mio socio. Parlo prima che possa farlo Harry: «Abbiamo sentito che Espinoza poteva sapere qualcosa della sparatoria avvenuta davanti al tribunale». «E dove l'avete sentito?» «Da alcuni dei vostri», risponde Harry. Ortiz gli lancia un'occhiata. «Dei nostri?» «Cosa dobbiamo fare? La gente parla. Alcuni lavorano per il governo. D'accordo, non dovrebbero parlare. Ma, se parlano, noi li stiamo ad ascoltare.» «Ha i nomi di queste persone?» chiede il tenente. Padgett allunga la punta della matita a scatto, pronto ad annotare ogni nuovo indizio. «Non mi pare che ci abbiano detto i loro nomi», dice Harry. «Ente d'appartenenza?» Il mio socio scuote la testa. «Neppure quello.»
«Capisco. Una telefonata anonima al vostro ufficio.» «Qualcosa del genere», accenna Harry. «È un'indagine ancora in corso. Preferirebbe rispondere sotto giuramento a un viceprocuratore distrettuale davanti a un giudice?» chiede Padgett. «E magari passare qualche giorno in galera per oltraggio alla corte?» «Se hanno delle stanze come queste, io non mi lamento. TV, vista panoramica. Potrei persino procurarmi qualche cliente nella sala comune. Sembra quasi una vacanza», risponde Harry. «Per non parlare della pubblicità. 'Avvocato finisce in carcere per proteggere le sue fonti.'» «Quello capita ai giornalisti», osserva Padgett. «Sì, ma è talmente una buona causa, che penso che si potrebbe fare uno strappo alla regola.» «Già, dimenticavo. I re degli accordi assicurativi», esclama Ortiz. «Morte accidentale. Parliamo un po' di questo. Chi è che rappresentava? La moglie, quella nuova, com'è che si chiama?» «Dana», interviene il sergente. «Te la ricordi, quella bellezza? Bionda, piccolina, tutta pepe? Quella coi brillanti persino sui denti?» «E come potrei dimenticarla? Quant'è che si è beccata? Un milione? Un milione e mezzo?» chiede il suo superiore. «Qualcosa del genere», rispondo io. «E lei?» prosegue Padgett. «Come ha riscosso l'onorario? Con un assegno? Oppure c'erano accordi precedenti?» Fa un ghigno. «Sa, noi possiamo scoprirlo.» «Liberissimi di farlo.» «Ci risulta che si vede con un altro», riprende Ortiz. «Oltre a chi?» chiedo. «Lascialo in pace», dice il sergente. «Magari s'è trattato solo di lussuria passeggera.» «Magari si è trattato di affari», ribatto. «Cosa ne pensate della sua auto?» L'espressione di Padgett li tradisce, la faccia che fa equivale a una confessione: hanno pedinato Fittipaldi. «Già. Neanch'io amo tanto le Jaguar», commento. «Forse era un maneggio a tre», opina il sergente. «Intende dire ménage?» «Maneggio, ménage... Insomma, una cosa a tre.» Mi volto verso Ortiz. «Una conversazione davvero interessante. Ma ora possiamo andare?»
«No. Finché non mi parla di Espinoza.» «Cosa vuole sapere?» «Tanto per cominciare, perché è andato a cercarlo a casa di questo Saldado?» «Avevo il nome di Saldado. Me lo aveva dato Espinoza quando gli avevo parlato in carcere.» Una piccola bugia innocente per tener fuori da questa vicenda i nomi di Joyce e Bennie. «Come mai si conoscevano, Espinoza e Saldado?» «Non lo so di preciso.» «Cosa sa?» La matita di Padgett vola sul taccuino. «Ricordate i visti rubati circa un anno fa? La rapina a quel furgone, giù a Tijuana?» «Il motivo per cui i federali avevano arrestato Espinoza.» «Esatto. Ho saputo dell'arresto leggendo i giornali. Il nome di Espinoza era saltato fuori nel corso del mio colloquio con Metz, prima che io lo ripassassi a Nick.» Questo coglie i due poliziotti nel loro punto debole: la curiosità. «Cosa le ha detto?» «Mi aveva fatto il suo nome, dicendo che Espinoza aveva agito da tramite fra lui e alcune persone con cui era in rapporto d'affari giù in Messico.» «Quali persone?» «Due fratelli.» «Nomi?» domanda Ortiz. «Ibarra. Arturo e Jaime.» «E questi fratelli erano dei trafficanti?» chiede il tenente. «Chi lo può dire?» «Lei. È per questo che ha rifiutato di difendere Metz, vero?» «Mi ha detto che loro lo avevano ingaggiato per dei lavori di edilizia. È tutto quello che so.» «Ma lei non gli ha creduto», insiste Ortiz. «Quello che credo io non ha importanza.» «E invece sì. È per questo che ha passato Metz al suo amico. Ed è per questo che lui è morto. Ed è per questo che lei continua a ficcare il naso in giro. O c'è qualcosa che non capisco?» Ortiz è un tipo sveglio. Dalla sua sedia nell'angolo, Harry accenna un applauso. «Ora possiamo andarcene tutti a casa, così il mio socio potrà prendere le medicine di cui ha bisogno, e noialtri proseguire con la nostra vita?» «Così, quando hanno sparato a Metz e questo tizio è stato arrestato, lei si
è ricordato il suo nome?» Padgett vuole essere sicuro di aver scritto giusto. «Gliel'ho detto.» «Me lo ridica.» «Questa volta più lentamente, così può fare i disegnini più grossi», commenta Harry. «'Fanculo.» «Se pensa di riuscire a scriverlo correttamente, lo annoti sul suo taccuino.» Visto che il sergente non scrive nulla, il mio socio aggiunge: «Proprio come pensavo». «L'ha letto sul giornale?» Padgett sta tentando d'ignorarlo. «Oppure ha sentito dire che c'era qualcuno nel carcere federale che poteva sapere qualcosa? Quale delle due?» «Tutt'e due.» «Tutt'e due? Come può essere?» «Qualcuno gli ha detto dell'arresto di Espinoza e lui è andato a controllare sul giornale», dice Ortiz. «Forse farebbe meglio a prenderli lei, gli appunti», suggerisco. «Ha controllato il nome e si è ricordato che Metz gliene aveva parlato nel corso del vostro incontro, è così?» «Sì.» «Questo non spiega perché lei volesse a tutti i costi rappresentare Espinoza», fa notare Padgett. «Perché non ci ha chiamati?» «L'ho fatto.» «Quando?» «Ieri. Il 911. Ma siete arrivati tardi.» «Spiritoso.» «Allora cosa c'è che non torna?» chiede Ortiz. «Cosa intende dire?» «Cos'è che la turba a proposito di Metz e del suo amico Rush? Non pensa che Rush fosse capace di fare affari con la droga?» «Non è una questione di capacità. È una questione di giudizio.» «Capisco. Aveva troppo senso etico.» Sorrido. «Era troppo intelligente. Nick era un ex procuratore. Si era occupato di grossi casi di droga. Perché, dopo tutti quegli anni, sarebbe dovuto passare dall'altra parte?» «Forse aveva bisogno di soldi. Abbiamo controllato il suo conto», interviene Padgett. «Il salvadanaio era vuoto. E poi, crede davvero che poliziotti e procuratori non possano deviare sulla cattiva strada?»
«Nel vostro caso, farei un'eccezione», rispondo. Ad assillarmi non è il pensiero che Nick fosse libero dal peccato, ma che non fosse uno stupido. «E poi, Nick non si sarebbe mai fatto coinvolgere nel giro di un suo cliente. Sarebbe stato come servirvi caramelle su un piatto d'argento. Mi dica che non le viene l'acquolina in bocca al pensiero. Inchiodare un penalista beccandolo con uno come Metz, eh?» Ortiz mi guarda con aria divertita. «Ditemi, avete trovato qualche legame con la droga, in questo caso? Con Metz o con Rush?» «Ce ne ha appena fornito uno lei. I due fratelli messicani», risponde Padgett. «Io non ho detto che si trattava di quello.» «Ma lo ha pensato.» «Forse è qui che vi sbagliate.» «E allora di cosa si trattava, secondo lei?» chiede Ortiz. Inspiro a fondo, espiro, guardo Harry. Sto per passare il Rubicone. «Avete mai sentito parlare di qualcosa che si chiama Mejicano Rosen?» Ortiz guarda il socio, il quale scuote la testa. «Cos'è?» «Non lo sappiamo. A sentire Espinoza, è questo che stavano trattando i messicani.» «Sarà qualche sostanza nuova. Di sintesi», ipotizza Padgett. «Posso chiedere a quelli della Narcotici, alla DEA. Loro potrebbero saperne qualcosa.» «Ho fatto qualche telefonata», lo informo. «Nessuno tra quelli che si occupano di stupefacenti in California ne ha mai sentito parlare. Non credo che si tratti di droga.» «E allora cos'è?» Scuoto la testa. «Speravo di parlare con Espinoza per scoprirlo.» «Sappiamo chi ha tirato fuori i soldi per farlo uscire. Chi ha assunto l'avvocato e pagato la cauzione», mi comunica Ortiz. «Ha tre possibilità. Le prime due non contano.» «Saldado.» «Immagino che l'abbia beccato non appena è uscito dal carcere. Non voleva dargli la possibilità di andare lontano.» «È il suo vero nome?» chiede Harry. «Non lo sappiamo. Stiamo rilevando le impronte digitali nel suo appartamento. Se è già stato arrestato negli Stati Uniti, dovrebbe esserci qualcosa. Potremmo trovare un altro nome.» «È più facile che ne troviate una ventina», ribatte il mio socio.
«Non risultano patenti di guida a nome di Hector Saldado. Quindi ci sono buone probabilità che sia un nome falso», conclude Padgett. «E la macchina?» chiedo. «Quale macchina?» «Quella fuori. Il Blazer tutto arrugginito.» Ortiz mi guarda come se parlassi arabo. «Quella col lunotto posteriore rotto. Riparato con la plastica nera.» Il tenente guarda Padgett, il quale scuote la testa. «Non c'era nessuna macchina.» Osservandomi, capisce che non è così. «Dove diavolo è finita? Non è che per caso ha preso il numero di targa?» Scuoto la testa. «Era lì quando sono entrato. Mi sta dicendo che è sparita prima che arrivaste?» «Sappiamo che lui non l'ha presa.» A questo punto, Padgett si è alzato dalla sedia, preoccupato per essersela lasciata sfuggire dalle mani. Era lui il responsabile del perimetro esterno. «Controlla con quelli della stradale», ordina Ortiz. «Hanno isolato loro l'area intorno alla casa.» «Forse non era sua», azzarda il sergente. «È stato Espinoza a parlarmi di quella macchina. È così che ho trovato il posto. Da come parlava, era convinto che appartenesse a Saldado.» «E allora chi l'ha presa?» chiede Ortiz. Non ho risposte. Il tenente si rivolge al suo collega. «Controlla gli altri inquilini dell'edificio, vedi se manca qualcun altro, oltre a Saldado. Adesso. Usa il telefono qui fuori. E fatti dare una descrizione dell'auto.» Descrivo accuratamente il pezzo di plastica nera che copriva il lunotto. «Questo dovrebbe rendere più facile trovarla», commenta Ortiz. «Chiama qualcuno al telefono. Vedi chi c'è laggiù. Abbiamo ancora qualcuno sulla scena?» Padgett non ne è certo. «Vedi se qualcuno dei vicini ci sa dire qualcosa della targa. Uno di loro potrebbe ricordarsela. E, Norm...» Padgett è già sulla porta, rimette dentro la testa. «Chiama il confine. Di' loro di far bloccare il veicolo, se dovesse cercare di passare.» 23 Questa mattina, mi chiama Adam Tolt. Vuole che c'incontriamo a pran-
zo. Sospetto che desideri una risposta alla sua offerta di entrare a far parte dello studio legale. Poco dopo mezzogiorno, lo trovo seduto a un tavolo sulla terrazza dell'Hotel Del Coronado. All'ombra di uno dei grandi ombrelloni, osserva l'azzurro del Pacifico al di sopra del menu. È uno di quei giorni che fanno venire a chiunque la voglia di vivere a San Diego. «Scusi il ritardo.» «Nessun problema.» Ha già un drink posato davanti. «Cosa le faccio portare?» Ordino una delle esclusive birre alla spina, e il cameriere si allontana. Appendo la giacca alla spalliera della sedia e mi accomodo. «Siamo sportivi oggi, eh?» gli dico. Tolt ha rinunciato a giacca e cravatta, e indossa pantaloni sportivi e una polo. «Una volta ogni tanto, faccio delle visite a sorpresa negli uffici delle altre sedi. Arrivo, do un'occhiata in giro, vedo come vanno le cose, parlo coi soci. Prenderò il Gulfstream, perché è veloce, e tanto vale che stia comodo.» «Non dev'essere male.» «Parto stasera. È per questo che volevo parlarle.» Segue una pausa. «Ho appreso dai giornali quello che è successo. Questo Espinoza.» Beve un sorso dal bicchiere alto, scotch on the rocks. Adam vuole sapere cosa sta succedendo, perché non gli ho detto di Espinoza, prima. «Lei ha un'attività molto più eccitante della maggior parte di noi avvocati», aggiunge. «Come, significa che lo studio non è più interessato?» «Ho detto questo? Non mi sembra. Perché, ha preso una decisione?» «Non ne ho ancora parlato con Harry, ma non credo che potrebbe funzionare.» «Allora non ci ha riflettuto abbastanza. Si prenda ancora un po' di tempo. Possiamo portare Harry a fare un giro sul Gulfstream, farlo divertire coi giocattoli dello studio.» Potrebbe essere pericoloso. Il mio socio subisce il fascino della bella vita e sarebbe ben felice di prendere il jet per un viaggio di prova fino a Montecarlo. Decido di tacere a proposito di questo punto debole di Harry. «Non c'è nessun bisogno di decidere adesso. Scelga lei il momento.» Adam non è disposto ad accettare un mio no. «Il braccio?» chiede, indicando il rigonfiamento delle bende sotto la manica della camicia. «È lì che l'ha colpita quel tizio, vero? Com'è che si chiama?» «Saldado.»
«Avrebbe potuto dirmi di Espinoza.» Adam ha un'aria offesa. «Allora non potevo.» «Segreto professionale?» Annuisco. «I giornali dicono che era coinvolto nella sparatoria in cui è rimasto ucciso Nick.» «Ipotesi campate in aria», commento. «In realtà, in quel periodo, Espinoza era all'estero.» «Immagino che lei stia cercando delle risposte.» «Devo ammettere che non è stato un buon metodo per trovarle. Harry mi aveva messo in guardia.» «Harry dev'essere la parte migliore del vostro sodalizio. Quella con più buon senso», osserva Adam. «Ha scoperto qualcosa?» «Purtroppo Espinoza è stato ucciso prima che ci riuscissi.» «Non la spaventava la possibilità di un conflitto di interessi? Rappresentando lui?» «Mi sembra di sentir parlare il mio socio», mi lagno. «Non ha torto», ribatte Tolt. «Perché è così interessato a questa storia?» gli chiedo. «Il mio unico interesse è quello di tutelare lo studio», precisa lui. «Lei, invece, suppongo sia mosso da un obbligo che prova nei confronti di Nick.» Lo guardo senza rispondere. «Non c'è bisogno che mi spieghi. Capisco benissimo. È per questo che l'ho chiamata. Immagino che si trovi a un punto morto.» «Pare proprio di sì.» «Cosa sa di quell'altro uomo, quello che l'ha aggredita?» «Non molto. Però l'ho visto bene in faccia.» «Metz le aveva parlato di lui?» «No.» Adam si appoggia allo schienale, osservandomi e chiedendosi, immagino, se gli ho detto tutto. «C'è dell'altro», aggiunge. «Ma, prima di rivelarglielo, devo sapere se c'è qualcosa che non mi ha detto.» «A proposito di che?» «A proposito della morte di Nick.» «No. Non mi pare.» Tolt mi guarda da dietro gli occhiali scuri, un costoso modello da pilota con la montatura dorata, cercando di leggermi nel pensiero. Gli avvocati
sanno che c'è sempre qualcosa che gli altri avvocati non dicono, non foss'altro per accaparrarsi il mercato dei segreti. «Allora, qual è questa rivelazione?» chiedo. «Non dovrei dirglielo.» «È venuto fin qui per non dirmelo?» «D'accordo. Ma voglio la sua parola che resterà tra noi», esige Tolt. «Ce l'ha.» «Si tratta di una lettera. L'hanno spedita a Nick, allo studio. È arrivata due giorni dopo che è stato ucciso.» Solleva il tovagliolo di lino che, dal mio arrivo, è rimasto ordinatamente piegato in due sul tavolo davanti a lui. Sotto c'è una busta. Me la porge. Sulla busta c'è il timbro apposto dal personale dello studio con la data in cui è stata ricevuta. «L'ha trovata una delle segretarie. Era finita in una casella al piano di sotto. Non è mai arrivata allo studio di Nick. Dopo che gli hanno sparato, c'è stato un gran caos. La polizia ha prelevato delle cose dal suo ufficio, ma pare che non abbiano controllato all'ufficio posta.» «Lei quando l'ha avuta?» «Stamattina», risponde Tolt. «L'ha trovata una delle segretarie, svuotando la casella. Come ha visto il nome di Nick e la data di annullo sul francobollo, me l'ha portata. E io naturalmente l'ho aperta.» «Naturalmente.» «È stata inviata allo studio.» Adam è sulla difensiva. Nell'angolo della busta c'è il francobollo di un Paese straniero con una scritta in spagnolo. Tolt ha detto la verità a proposito della data. «Ho controllato. Questa persona esiste. È un uomo importante. Secondo le mie fonti, è proprietario di una catena di banche e di alberghi in Messico.» Estraggo la lettera dalla busta e la apro. È un foglio di carta pergamenata pesante, battuto a macchina, in inglese, e porta la data di quattro giorni prima dell'uccisione di Nick. L'intestazione è in rilievo, un sigillo che ricorda l'elmo di un antico guerriero, e sotto un numero di telefono: un prefisso di una sola cifra - 9 -, seguito da tre numeri e una lineetta, altri due numeri, un'altra lineetta e due numeri. Ho già visto questa particolare sequenza. Era sull'estratto conto telefonico di Saldado, quello inviatomi da Joyce - la titolare della Carlton Riscossioni -, anche se in quel caso comprendeva l'indicativo del Messico. C'è anche quello che sembra un indirizzo: Blvd Kukulcan, km 13 ZH, e
la città, Cancún, Q. Roo, Messico, CP 77500. Il testo della lettera è breve, due paragrafi. Gentile signor Rush, ho avuto il suo nome da alcuni conoscenti. Mi dicono che lei è un prudente uomo d'affari, un avvocato. Le scrivo per informarla che sono al corrente delle recenti attività dei miei figli. In quanto padre, non sono fiero delle loro imprese. Desidero cogliere l'occasione per assicurarle che non sarà loro permesso di continuare. Sappia che ho dato la mia parola al riguardo. Le garantisco che mi occuperò dei miei figli in maniera adeguata. Poiché lei è un uomo assennato, la prego di tenere in considerazione le mie parole in relazione a qualsiasi azione lei desideri intraprendere in futuro. Distinti saluti, Pablo Ibarra Finisco di leggere, studio la lettera per un momento, la rileggo, cercando di cogliere il significato del messaggio. «Cosa ci capisce?» mi domanda Tolt. «Non lo so.» «A me pare che stia cercando di togliersi Nick di dosso per impedirgli di dar la caccia ai suoi figli. Nella parte in cui gli assicura che si occuperà di loro in maniera adeguata, a me pare che stia cercando di dire: 'Non c'è bisogno che lo faccia tu, lo farò io'. Non le sembra?» La rileggo. «È possibile.» «Se lui... voglio dire, se Nick stava dando la caccia ai figli di Ibarra, in qualche modo, è possibile che siano stati loro a ucciderlo.» Annuisco con un'occhiata. «Perciò è importante che mi dica tutto quello che sa a proposito di questo Ibarra.» «Cosa le fa pensare che io sappia qualcosa?» «Lei conosceva Nick. Ha parlato con Metz. Lei è l'unico in grado di mettere insieme i vari pezzi.» «Quali pezzi?» «C'entra la droga? Non bisogna essere dei veggenti per comprendere i segnali. La lettera viene dal Messico; i figli sono in qualche guaio. L'esperienza di Nick nei casi di stupefacenti. Unisca tutti i puntini.»
«Ha informato la polizia di questa lettera?» Tolt scuote la testa, quasi ignorandomi, preso da altri pensieri. «Volevo prima parlarne con lei, per evitare di essere preso alla sprovvista.» «Magnifico.» Mollo la lettera che cade sul tavolo volteggiando come una foglia. «Qual è il problema?» «Il problema è che ora ci sono sopra le mie impronte.» «E...?» «Può stare sicuro che la polizia rileverà le impronte quando gliela consegna», gli dico. «Visto il ritardo, vorranno sapere dov'è stata per tutto questo tempo, e chi l'ha toccata.» «Non ci avevo pensato. E ora che facciamo?» Due avvocati seduti a pranzo in un ristorante esclusivo, in cerca di un modo per coprire le tracce lasciate sulla prova di un caso di omicidio. Non è esattamente una vicenda che si vorrebbe vedere all'esame dell'ordine. «Da questo si capisce che non mi occupo molto di penale», si giustifica Adam. «Ma ormai ci siamo dentro insieme. L'ho toccata anch'io.» «Solo che le sue impronte sarebbero facili da spiegare. La lettera è arrivata al suo studio. Doveva pur aprirla per vedere di cosa si trattava. Per verificare che non fosse materiale riservato. Quello che la polizia vorrà sapere è perché l'ha mostrata a me.» Tolt si toglie gli occhiali e li posa sul tavolo. Mi guarda massaggiandosi il mento con aria pensosa. «Potremmo pulirla con un tovagliolo.» «Non è una buona idea, Adam.» «No. Suppongo di no.» Avrebbe preferito che fossi stato io a suggerirlo. È il genere di domanda che si legge sulle trascrizioni delle udienze davanti al consiglio dell'ordine, prima che ti sospendano dall'attività: «Chi è stato a suggerire di fare così?» «È questo il problema con le prove materiali», gli spiego. «Talvolta non è tanto quello che c'è, ma quello che non c'è, a metterti nei guai. Finiremmo col togliere dalla lettera le impronte di Ibarra. La polizia si chiederebbe come mai non ci sono.» Mi guarda con espressione afflitta. «Fa niente. Diremo la verità. Lei sapeva che io sarei stato curioso. Ero amico di Nick. Lei voleva scoprire se ne sapevo qualcosa e così mi ha fatto leggere la lettera. Questo significa che la polizia avrà molte più domande da farmi.» «Sì. Suppongo che la verità sia sempre il miglior approccio», conviene
Tolt. «Allora, ne sa qualcosa o no?» «A cosa si riferisce?» «A questa.» Prende la lettera dal tavolo, stavolta afferrandola cautamente per i bordi, e la piega, rimettendola nella busta, sempre fissandomi in attesa di una risposta. «La lettera, no. Non l'ho mai vista.» «Questo lo immaginavo. Altrimenti me ne avrebbe parlato, giusto?» Come gli ho parlato di Espinoza... Eludo la domanda bevendo una lunga sorsata di birra. Adam è scaltro. Che avesse pensato o no alle mie impronte sulla lettera, è deciso a vagliare tutte le informazioni che gli arrivano, per evitare che il fango schizzi sullo studio. Di certo immagina che io gli nasconda qualcosa. Il medesimo sospetto che io nutro nei suoi confronti. «Ha mai sentito parlare di questo tizio? Questo Pablo Ibarra?» Ora ci vorrebbe una bugia bella e buona. «Ho sentito il suo nome. Mi dica, da quanto tempo ha quella lettera, realmente?» Adam sorride. «Che differenza fa?» «La polizia lo vorrà sapere.» «L'ho avuta questa mattina», risponde lui. «Mi giuri che non è andato al piano di sotto a passare in rassegna l'ufficio posta la sera del giorno in cui Nick è stato ucciso.» «Chi lo vuole sapere, lei o la polizia?» «Io forse non dovrei sapere nulla.» «Mi creda, è meglio», mi assicura Adam. «Dove ha sentito il nome di questo Ibarra?» «Me lo ha fatto Gerald Metz.» «Metz?» Era convinto che avrei risposto Nick. Resta sorpreso. «Nel corso del nostro primo colloquio. Aveva lavorato coi figli. Ha detto che si trattava di lavori edili.» «Già. Ha mai parlato del padre?» «Di sfuggita.» «Metz lo conosceva?» m'incalza Tolt. «Dipende se lei crede a Metz o no. A sentire lui, lo conosceva solo di nome. Non lo aveva mai incontrato di persona.» «Non me lo aveva detto», mi fa notare Adam. «Non l'ho detto neppure alla polizia. Come lei per la lettera.» Touché. «Le do un consiglio.» «E sarebbe?»
«Se intende davvero portare la lettera alla polizia, suppongo che la sua segretaria confermerà la sua versione, giusto?» «Certamente.» «Allora sarà meglio che gliela faccia toccare almeno una volta.» Adam sorride. Ha già preso nota mentalmente. «Cos'altro ha detto Metz sugli Ibarra?» «Ha detto che il padre era arrabbiato per qualcosa. Per questo l'accordo è saltato. Sempre che Metz sia attendibile.» «Vada avanti», mi sprona. «Tutto qui.» «Se i giornali mettono le mani su questa lettera, ci crocifiggeranno. Si getteranno a pesce sullo studio, pretendendo di scoprire in cosa fosse coinvolto Nick. Vorranno sapere se siamo sotto indagine, se abbiamo distrutto dei documenti. Sarà un Legalgate», prevede cupo Tolt. «Questo non lo so, ma penso che la risposta stia in Messico. Ho prenotato un volo per domani, prima non potevo. Voglio delle informazioni e non intendo aspettare che vengano loro da me.» «Se vuole parlare con Ibarra, potrebbe chiamarlo al telefono», mi suggerisce Adam. «Ci ho pensato. Il fatto è che, per quello che ne sappiamo noi, potrebbe anche essere stato lui a uccidere Nick. Non dico a premere il grilletto, ma potrebbe aver assoldato qualcuno. Se non è stato lui, potrebbe essere arrivato alle stesse nostre conclusioni, e cioè che i suoi figli sono coinvolti. Crede che sarebbe disposto a parlare di una cosa simile per telefono?» «Probabilmente no.» «Lo credo anch'io. Inoltre, ammesso che sia disposto a parlare con me, vorrà che io vada laggiù, per dettare le sue condizioni. Vorrà giocare in casa», gli faccio notare. «Desidero arrivare in fondo a questa vicenda quanto lei. Il Gulfstream è pronto, all'aeroporto», m'informa lui. «Ci metteremmo solo quattro ore, quattro ore e mezzo di volo. Possiamo partire questa sera stessa. In realtà, c'è un'agenzia con cui siamo in contatto, giù a Città del Messico. Si occupano di sorveglianza e investigazioni. Ci siamo già serviti di loro. Potrei chiedere il loro aiuto. Uno dei più grossi cartelli della droga opera proprio nella penisola dello Yucatán. Ho letto che metà dei complessi alberghieri di Cancún sono stati costruiti coi proventi del traffico di droga. Visto il genere di persone con cui abbiamo a che fare, penso che sarebbe saggio avere una 'assicurazione' in più.»
Mi sembra una buona idea, ma terribilmente costosa. «Non voglio costare un sacco di soldi allo studio.» «Sciocchezze. Forse non sarò avventuroso quanto lei, ma mi piace avere le spalle coperte prima di ficcare il naso da qualche parte.» Guarda l'orologio. «Credo che Cancún rientri nella fascia oraria centrale. Non potremmo comunque fare nulla sino a domani. Ci vediamo all'aeroporto di Carlsbad questa sera alle nove, il McClellan-Palomar. È lì che teniamo l'aereo. Sa dov'è?» «Lo troverò.» Il cameriere ci serve il pranzo. Adam ritira la busta con la lettera di Ibarra dal tavolo in modo che non si sporchi di minestra. «Nel frattempo, farò in modo che la segretaria la tocchi qualche volta e la farò recapitare alla polizia per corriere domani in mattinata, dopo che saremo partiti.» 24 Viaggiamo da tre ore e l'elegante Gulfstream fende la notte diretto a sud. Guardo fuori dal minuscolo oblò e ascolto il monotono ronzio dei due motori a reazione, mentre rasentiamo fronti temporaleschi. Chissà dove siamo, chissà cosa c'è sotto di noi. Adam dorme sul divano di fronte a me, la cintura di sicurezza morbida sull'addome e allacciata sopra la coperta. S'è tolto le scarpe e i piedi spuntano dall'estremità della coperta. È un uomo abituato al lusso. Cosa non può fare una vita di privilegi. Lui non sa cosa significhino le interminabili code ai controlli di sicurezza degli aeroporti che sembrano una scena presa da Gandhi. Se gli dicessi che ormai non servono più i pasti su vassoi con posate vere, sono convinto che non mi crederebbe. Se gli spiegassi che oggi le norme di sicurezza proibiscono persino l'uso di utensili di plastica a bordo degli aerei, la sua prima domanda sarebbe: «E come si fa a tagliare la bistecca?» Ha perso il contatto col mondo. Dorme come un bambino, con la bocca aperta. Sospetto che stia russando, ma col rumore dei motori non riesco a sentirlo. Guardo le stelle, buchi nel cielo buio, e alla fine mi appisolo. Mi sveglio quando Adam mi scuote per il braccio sano. Completamente vestito, scarpe comprese, Tolt si sta raddrizzando la cravatta. «Abbiamo iniziato la discesa verso Cancún. Vuole darsi una rinfresca-
ta?» Venti minuti dopo, atterriamo. Rulliamo su una delle piste alla volta di un hangar con il portellone spalancato e l'interno illuminato a giorno. Il pilota vi s'infila e spegne i motori. Nello stesso momento si avvicinano tre grossi fuoristrada scuri, luccicanti sotto le potenti luci dell'hangar. Si fermano a semicerchio intorno all'ala dalla parte di Tolt. Faccio per andare a prendere la sacca. «Lasci stare», mi ferma Adam. «La prenderanno loro.» Lo seguo verso l'uscita. Tolt assesta una pacca sulla spalla al pilota. «Ottimo volo. Molto confortevole. Ho capito che rientrate a San Diego stanotte, giusto?» «Giusto. Torniamo qui domani notte. E allora ci fermeremo fino a domenica sera.» «Benissimo», commenta Adam, dirigendosi verso la scaletta, con me alle calcagna. Prima che io tocchi terra, sta già stringendo la mano e sorridendo ai due uomini che sono scesi da una delle auto. Mi fa cenno di avvicinarmi. «Julio, ti presento Paul Madriani. Paul, questo è Julio Paloma. Ci farà da guida finché stiamo qui. Il nostro studio si è già servito della ditta di Julio per la sorveglianza nel corso di altri viaggi. Mi sono preso la libertà di chiamarlo. Spero non le dispiaccia.» «Niente affatto.» Ci stringiamo la mano. Julio è un tipo grande e grosso, almeno un metro e novantacinque, un largo sorriso che mette in mostra denti regolari, una mano così gigantesca che la mia scompare nella stretta. Collo taurino, spalle come quelle di un difensore della National Football League, è l'uomo più imponente che io abbia mai visto, a parte quello che gli sta accanto. Adam mi presenta Herman Diggs, un colosso afroamericano che, mi dice, viene da Detroit. Alzo gli occhi verso di lui. Ha un incisivo scheggiato come un pezzo di ghiaccio appuntito. Non gli chiedo come mai. Vorrei riavere indietro la mia mano. I due uomini sono tutti in ghingheri: pantaloni sportivi e blazer scuri, una distesa di tessuto sufficiente a ricavare la velatura per una nave di media grandezza. Sul taschino della giacca, entrambi esibiscono uno stemma col logo della ditta. Adam mi spiega che sono specialisti in sorveglianza aziendale. Scambiano qualche chiacchiera con Tolt, mentre i loro tirapiedi recuperano i nostri bagagli. Ci dirigiamo verso il secondo dei tre veicoli, seguiti dal «Julio and Herman Show», mentre i tizi con le valigie chiudono la fila, come in un safari.
I bagagli vengono caricati sull'ultima auto, mentre gli uomini si accordano sulla strada migliore da seguire per arrivare al posto dove passeremo la notte. «È sicuro che le macchine siano sufficienti?» chiedo in tono ironico a Adam. «Quaggiù la prudenza non è mai troppa», ribatte lui. «Julio glielo può confermare. Mi ha fatto da autista per Città del Messico, l'ultima volta che sono venuto. È stato due anni fa, giusto?» La sua voce si alza di un poco per farsi sentire oltre il rumore assordante di un jet che sta decollando in lontananza. Si volta a guardare Julio che, però, in questo momento, è troppo impegnato per sentirlo. Sta prendendo accordi per il tragitto. Perciò Adam torna a voltarsi verso di me. «Possiamo anche salire», dice. Pneumatici di dimensioni gigantesche con un battistrada esagerato. Non ci starebbe male una scaletta per salire sul sedile posteriore dell'enorme Suburban. Ci accomodiamo e allacciamo le cinture di sicurezza. Adam chiude la portiera per non far uscire l'aria condizionata. Il motore è acceso. «E, comunque, si trattava di un incontro per la concessione a un nostro cliente di diritti di sfruttamento di petrolio e gas naturali.» Adam prosegue con la sua storia anche se nessuno lo sta a sentire. «E due ragazzi a bordo di una moto hanno cercato di portarsi via una delle nostre valigie.» «Davvero?» «Già. Come dicevo, bisogna stare attenti.» «E ci sono riusciti?» «No», risponde. «Herman ha visto tutto nello specchietto retrovisore e ha spalancato la portiera del guidatore proprio mentre ci stavano sorpassando. Un macello. Sangue dappertutto, anche all'interno della portiera, ossa rotte... Ma nessuno è rimasto ucciso, quindi presumo che sarebbe anche potuta finire peggio.» «Già. Potevano andare a sbattere contro Herman», osservo. Tolt scoppia a ridere, si toglie gli occhiali e li pulisce con un fazzoletto. L'impianto di aria condizionata deve fare gli straordinari, con una delle portiere anteriori aperta. «Si stavano appannando. Odio l'umidità che c'è quaggiù.» Adam guarda l'orologio, gli dà un colpetto con un dito. S'è fermato. Se lo toglie e lo batte delicatamente contro la modanatura di metallo che corre intorno al finestrino, poi lo accosta all'orecchio per accertarsi che abbia ripreso a funzionare. «Questo vecchio Hamilton è un pezzo d'antiquariato», dice. «Come me: molto preciso, ma non ama l'umidità. Siamo in due.» Si asciuga il su-
dore dalla fronte con il fazzoletto. «Che ora fa?» mi chiede. «L'una e mezzo, passata da poco.» «Ci aggiunga due ore», replica Tolt. «Siamo nella fascia oraria centrale. Dormiremo di più domattina. Altrimenti saremo a pezzi.» Finalmente Herman e Julio riescono a organizzare tutto, e partiamo alla volta della città: Herman alla guida, Julio all'artiglieria. Usciti dall'aeroporto, dopo due minuti ci ritroviamo su un'autostrada buia a quattro corsie e proseguiamo a velocità elevata finché non giungiamo a un cavalcavia. Svoltiamo e ci dirigiamo verso quella che sembra una distesa d'acqua dietro un terreno pianeggiante, coperto da una vegetazione fitta e bassa. Ancora qualche chilometro, e cominciamo a vedere delle luci, qualche pedone che cammina lungo il ciglio sabbioso della strada, piccoli esercizi commerciali. Un altro chilometro, e comincia il marciapiede, i lampioni ora sono più forti. «È mai stato qui?» Julio è seduto di traverso, e mi guarda dal sedile anteriore. «No.» «Era tutta giungla, un pantano fino a...» È costretto a pensarci. «... fino a una ventina d'anni fa. Poi il governo decide che vuole un posto di vacanza. Qui.» Sorride, fa un gesto verso il pavimento davanti al sedile, come se il governo volesse impiantare una località turistica proprio lì. «E, puff come per magia spuntano alberghi dappertutto. Melià Cancún, Las Piramides, Royal Solaris Caribe. Come Las Vegas. Ci è mai stato?» «Parecchi anni fa.» «Disneyland, eh?» «Così dicono.» Comincia a indicarmi le varie attrazioni. Ormai gli alberghi sono uno a ridosso dell'altro, giardini principeschi con prati così curati da far invidia all'aristocrazia francese. Sono illuminati da file di riflettori, tra i giochi d'acqua delle fontane che sparano verso il cielo. Julio dice che il trafficato viale su cui ci troviamo, due corsie per direzione di marcia e semafori, si chiama Kukulcan. Adam si slaccia la cintura di sicurezza e scivola in avanti, sporgendosi oltre lo schienale del sedile anteriore per sentire meglio. «È la strada dove questo Ibarra ha l'ufficio?» «Sì, signore. Adesso ci passiamo proprio davanti. Oltre il Kukulcan Plaza. Glielo indico.» «Sapete niente dei due figli?» chiede Tolt. «I due fratelli Ibarra?»
«Ah, sì. Brutta gente. Molto brutta», risponde Julio. «A sud. Loro stanno a sud, vicino a Tulúm.» «Intende dire che hanno delle proprietà laggiù.» Herman cerca di tradurre mentre guida, lanciando ogni tanto un'occhiata verso il retro per accertarsi che abbiamo sentito. «Girano voci che stiano cercando di costruire. Se vuole sapere cosa penso io, be', credo che stiano facendo dell'altro.» «Droga?» chiede Adam. «Potrebbe essere.» «E il padre?» «Uomo misterioso», risponde Herman. «Ho saputo che non va d'accordo con i figli.» Adam si appoggia allo schienale del sedile e si sporge verso di me. «Sembrerebbe una conferma di quanto ci risulta. Il padre e i due figli non vanno d'accordo. E poi c'è la droga.» «Metz mi aveva detto che i due fratelli volevano dei macchinari per edificare un complesso sulla costa, un lotto di terreno da destinare a uso turistico. Potrebbe essere vero», dico io. «E Metz ha inviato qualche macchinario?» «No.» «Ecco la risposta che cercava», dice Adam. «Ma forse almeno una parte della storia è vera.» «Quale?» «Il fatto che il padre e i due figli sono ai ferri corti.» «Eccolo.» Julio si volta, sporgendosi verso di noi. «Quello è il Plaza. Il vostro albergo è in questa zona, ma andiamo da Ibarra, giusto?» «Sì, sì.» Adam fa segno di proseguire. Vuole vedere dove si trova l'ufficio del nostro uomo. «Quello è un centro commerciale, se vi serve qualcosa», ci indica Herman. «Un sacco di negozi, ristoranti, aria condizionata. Ci vanno quegli americani che vogliono dire di essere stati in Messico, ma che non vogliono sudare. Questa parte si chiama Zona Hotelira.» «Zona Hotelera», lo corregge Julio. «E io cos'ho detto? Senti, io parlo la lingua dei bianchi, tu quella dei portoricani, e siamo tutti contenti. Tranquillo.» «Ora basta, ragazzi. State innervosendo il signor Madriani», interviene Adam. «Stiamo scherzando», lo rassicura Herman. «Hoteleria.» «Eeera», ribatte Julio. Quando si sporge in avanti, voltandosi, la giacca
si apre, rivelando il gancio metallico infilato nell'impugnatura di una semiautomatica, il tutto assicurato a una logora fondina di cuoio in alto, sotto l'ascella. Herman torna a voltare la testa verso di noi. «L'ufficio di Ibarra. È poco più avanti.» Procediamo ancora per sette, ottocento metri; sulla nostra destra c'è una distesa lussureggiante grande quanto un campo da golf, una distesa erbosa interminabile, e in lontananza, dietro di essa, un albergo immenso a forma di piramide, alto dieci o dodici piani, una costruzione che potrebbero aver fatto i faraoni se avessero avuto a disposizione vetri fumé ed energia elettrica. Davanti all'edificio, una bandiera messicana grande quanto una pista d'atterraggio sventola pigra in cima al pennone, cullata dalla dolce brezza caraibica. «Il vecchio è proprietario di questo?» chiede Adam. Il modo in cui lo dice fa pensare che gli piacerebbe avere papà Ibarra come cliente. «Forse», dice Julio. «Ma scommetto che ha dei soci.» «Vorrei essere uno di loro», commenta Tolt. «Il suo ufficio è all'ultimo piano. L'attico», precisa Herman. «E nessuno sale lassù senza appuntamento, e senza scorta.» L'uomo di Detroit sembra stanco. «Ibarra è un vero Howard Hughes messicano», aggiunge. «Chi è questo Joward Jewes?» chiede Julio. «Perché continui sempre a parlare di Joward Jewes?» «Hughes. Hughes, il miliardario.» Passando attraverso l'incisivo spezzato, il suono si fa sibilante. «Guarda le labbra, stupido. Perché non impari a parlare inglese?» «Perché qui parliamo spagnolo», ribatte l'altro. «Non il gergo dei negri.» «Il gergo dei negri?» La voce di Herman sale di un'ottava. «Da me non lo hai mai sentito perché io parlo l'inglese della regina.» «Quale regina?» domanda Julio. «La regina dei travestiti che balla nel locale dei finocchi giù in centro?» «Senti, amico, ora stai offendendo.» Julio si sporge oltre il sedile e mi sorride, dandomi un colpetto sul ginocchio. «Non faccia caso a noi. Facciamo sempre così», mi spiega. «E poi, non si deve preoccupare finché non tiro fuori questa e gliela punto alla testa.» Accenna alla pistola che tiene sotto il braccio. «Cosa? Quell'affare? L'ultima volta che hai cercato di tirar fuori quel cosino ti è rimasto impigliato nella cerniera», lo prende in giro Herman. «Gli ho dovuto riempire la bocca di Kleenex per non fargli urlare: 'Liberami il
pisellino'.» «Non credetegli», replica Julio. «È geloso perché io mi becco le ragazze più belle.» «Già.» Herman cambia argomento. «In città dicono che Ibarra è un tipo strano. Ha un sacco di soldi, ma nessuno lo vede mai. Sa cosa penso? Che lascia parlare il suo denaro.» Tramite una piccola ricetrasmittente, Julio si mette a comunicare con gli altri veicoli. Dice qualcosa in spagnolo, poi resta in ascolto, un dito sull'orecchio per tenere a posto l'auricolare. L'auto che è in testa compie un'improvvisa inversione di marcia, subito imitata dalle altre due, tre veicoli scuri incolonnati, come i vagoni di un treno al centro del viale. Mezzo isolato più avanti c'è un poliziotto seduto sulla sua moto, le braccia incrociate sul petto, un piede a terra per bilanciare il peso. Ci vede, ci osserva con attenzione, allunga le mani verso il manubrio. Poi ci ripensa. Non si muove. Le braccia tornano a incrociarsi sul petto. Tre veicoli come questi, neri, potenti, coi finestrini fumé, che viaggiano uno attaccato all'altro, danno l'impressione di trasportare qualche pezzo grosso del governo o, peggio, qualche proprietario terriero padrone di mezzo Stato. Un'occhiata, e il poliziotto decide di procurarsi la sua tangente altrove, questa notte. Torniamo indietro per circa un chilometro e mezzo, e svoltiamo in una strada privata che sale serpeggiando. Alla fine ci fermiamo davanti a un piccolo hotel; l'ingresso è protetto da una tenda a baldacchino. Herman salta giù ad aprire la portiera. È molto agile, nonostante la mole. Adam scende. Io scivolo sul sedile e lo seguo. È come essere investiti dall'ondata di calore di una sauna e subito dopo entrare in un frigorifero, quando la porta automatizzata dell'hotel si apre e si richiude alle nostre spalle. Adam e io ci ritroviamo nel piccolo atrio, mentre Julio si occupa della registrazione all'antico bancone di quercia intagliata, accanto alla porta d'ingresso. È un piccolo albergo in stile europeo. Tolt mi spiega che un tempo era una grande villa, ora convertita in trentanove stanze di raffinata eleganza. In questa distesa di sfarzosi complessi turistici, tutti luci scintillanti ed ettari di giardini, nessuno noterebbe Casa Turquesa, con i suoi pavimenti lucidi e la scala a chiocciola, nascosta com'è tra la spiaggia e il centro commerciale. Pochi secondi dopo, Julio è di ritorno con le chiavi delle stanze.
«Siete entrambi all'ultimo piano. Stanze adiacenti. Herman sarà nella stanza su un lato, io in quella sull'altro. Due dei miei uomini rimarranno quaggiù, gli altri sulle auto.» Il direttore, accompagnato da quattro fattorini, uno per ogni borsa, fa strada verso l'ascensore, e saliamo. Tre minuti dopo, sono solo nella mia stanza, la porta chiusa a chiave e l'aria condizionata che ronza. Tiro le tende. Sono troppo stanco per godere della vista, e al momento l'enorme letto a due piazze è più invitante della piscina sottostante. Faccio una doccia e, mezz'ora più tardi, mi addormento. 25 Pochi minuti prima delle nove, l'atrio di Casa Turquesa è deserto tranne che per una ragazza al piccolo bancone vicino alla porta. «Buenos días.» Sorride e mi chiede se voglio fare colazione al ristorante o fuori in piscina. Invece, chiedo un taxi. Venti minuti più tardi, l'autista mi lascia in una zona della vecchia Cancún, in una strada che si chiama calle Tankah. Qui i negozi non sono eleganti come quelli della zona dei grandi alberghi vicino alla spiaggia. Gli edifici sono squallidi, due o tre piani al massimo. Cancún ha un milione di abitanti e l'atmosfera di una città semplice e tranquilla cresciuta troppo in fretta. Ci sono negozi moderni infilati tra edifici decorati a stucco risalenti forse agli anni '40. Le strade sono invase di macchine, e gli automobilisti fanno largo uso dei clacson, l'equivalente messicano dei freni. Cerco un indirizzo lungo il marciapiede e poi mi rendo conto che il numero che sto cercando è sull'altro lato della strada. M'infilo tra le auto e, mentre attraverso, mi becco qualche strombazzata, quindi proseguo ancora per mezzo isolato. Vedo il nome sull'insegna appesa fuori sul marciapiede prima ancora d'individuare il numero. ANTIQUITIES BIBLIOTECA. Sul palmare, Nick l'aveva scritto sbagliato. Questa mattina mi sono alzato presto e ho cercato il posto sull'elenco telefonico. Il numero di telefono corrispondeva a quello segnato sull'agenda di Nick, a parte l'indicativo internazionale. Dal marciapiede vedo appeso al vetro della porta il cartello APERTO, e
mi avvio. Dentro c'è una donna, dietro il banco, e sta parlando con un signore. L'uomo mi volge le spalle. Sto per mettere la mano sulla maniglia quando l'uomo si volta, offrendomi il profilo. Ritiro la mano e proseguo velocemente lungo il marciapiede fino a un distributore di giornali, tre porte più in giù. Lascio cadere qualche moneta nella fessura e prendo una copia del quotidiano di Cancún che non sarei mai in grado di leggere. Mi siedo su una panchina e lo apro. Passano sei minuti prima che Fittipaldi esca dal negozio dell'antiquario. Viene verso di me. Alzo il giornale davanti al viso finché lui non mi supera e attraversa la strada. Lo seguo. Due isolati più avanti, Fittipaldi entra in un parcheggio sotterraneo, scende per la rampa e scompare nell'ombra. Resto sull'altro lato della strada a osservare l'uscita, nascosto dietro il giornale. Un minuto dopo, una grossa limousine guidata da un autista sale la rampa. I finestrini posteriori sono scuri, ma l'autista deve fermarsi per pagare all'uscita. Attraverso il parabrezza, vedo Fittipaldi seduto sul sedile posteriore, dietro l'autista. Abbracciata a lui c'è una donna, capelli biondi e occhiali da sole. A quanto pare, Dana ha trovato il tempo per una vacanza in Messico. Alle dieci e mezzo, sono di ritorno in albergo. Trovo Adam che sta facendo colazione al ristorante. «Dov'era? Ho chiamato la sua stanza, ma non ho avuto risposta.» «Ho deciso di andare a fare una passeggiata, un po' di movimento.» «Com'è andata?» «Bene.» «Senta, ho pensato al programma», mi comunica Adam. «Non abbiamo molto tempo, a meno che lei non decida di trattenersi e rientrare con un volo di linea.» Gli dico che per lunedì devo essere di ritorno in ufficio. «Allora credo che sarebbe meglio se sfruttassimo la giornata di oggi per andare a cercare i fratelli giù sulla costa. Che ne dice?» «Credevo che avremmo incontrato il padre.» Herman e Julio sono seduti a un tavolo abbastanza lontano, cosicché possiamo parlare liberamente senza essere uditi. La cabaña, il ristorante e il bar vicino alla piscina sono deserti. Adam indossa stivaletti e un paio di pantaloni beige pesanti con sopra una leggera maglietta di nylon.
«Ho pensato fosse saggio aspettare fino a venerdì, prima di parlare con Pablo Ibarra. Ho dato ordine all'ufficio di chiamarlo e dirgli che sarei venuto qui per affari. Ho detto loro di tenersi sul vago. Lui sa che lavoro nello stesso studio per cui lavorava Nick. Abbiamo un appuntamento di massima per domani sera. Ma, se vuole che lo sposti, posso farlo.» «No. Va bene.» «Suppongo che, alla fine, le risposte ce le potrà dare soltanto il vecchio», prosegue Tolt. «Tuttavia temo che, se andiamo da lui subito, senza sapere qualcosa di più, Pablo Ibarra farà ostruzionismo. Non ha niente da guadagnare parlando con noi, a meno che non si convinca che sappiamo qualcosa di più di quanto non sappiamo in realtà.» «E come facciamo a farglielo credere?» «Ha letto la lettera che ha mandato a Nick. Secondo lei, cosa stava cercando di dire?» «Stava dicendo a Nick di fare marcia indietro.» «Esatto. Di lasciare in pace i suoi figli. Nick sapeva qualcosa su di loro, oppure loro stavano facendo qualcosa che al padre non piaceva. Dobbiamo fare in modo che Pablo Ibarra sospetti che noi sappiamo di cosa si trattava.» «La ascolto.» «Dobbiamo dare un'occhiata alle loro attività. Se non altro, ci faremo un'idea di quello che stanno combinando.» Il piano di Adam sembra sensato. «Ho chiesto agli uomini di Julio di andare in ricognizione giù, sulla costa.» «Quando?» «Quando li ho chiamati per dir loro che ci venissero a prendere. Stavo cercando di trovare il modo migliore per usare il poco tempo a nostra disposizione. Ieri, due dei suoi uomini hanno preso la macchina e sono andati giù, in cerca del posto. L'hanno trovato.» «Allora perché non ci andiamo anche noi?» «Proprio quello che pensavo.» Un'ora più tardi, siamo diretti lungo la costa, oltre l'aeroporto. Alla luce del giorno, la zona appare differente. Gli alberghi sono come palazzi di alabastro contro il turchese del mar dei Caraibi. L'acqua è così trasparente che, a quanto si dice, i subacquei hanno l'impressione di essere sospesi in aria. Attraverso varchi nella vegetazione e nei punti in cui la strada sale, vedo le onde, le spiagge di sabbia bianca, la costa disseminata d'insenature di corallo e scogliere di basalto.
Il traffico scorre veloce; in alcuni punti la strada si restringe fino a diventare a due corsie, in altri c'è lo spazio per sorpassare. Ci sono pochi veicoli, un autobus per turisti di quando in quando, e un furgone di subacquei diretti a una qualche spiaggia isolata. Il cielo è sereno e luminoso, ma, a un centinaio di chilometri da noi, sopra la giungla verso sud, è plumbeo. Scorgo i filamenti sottili dei lampi che colpiscono gli alberi. Grossi granchi di terra corrono veloci attraverso la strada, muovendosi come ragni giganti lungo la striscia di asfalto che li separa dal mare. Tolt mi aggiorna sui due fratelli Ibarra, Arturo e Jaime. Ha in mano un sottile fascicolo su di loro, compilato dall'agenzia di Julio e faxato questa mattina dalla sede di Città del Messico. «Gli ho dato un'occhiata veloce appena alzato», mi dice Adam. «Tra loro ci sono tre anni di differenza. Arturo è il promotore, l'uomo d'affari, se vogliamo chiamarlo così. Jaime è tutto muscoli, compreso quello che sta fra le orecchie. Si dice che abbia un pessimo carattere. Quattro anni fa, ha ucciso un uomo nel corso di una rissa in un club privato e se l'è cavata appellandosi alla legittima difesa. Ha qualche condanna per reati minori, ma una lunga storia di arresti.» Quello che sta dicendo è: «Cosa vuoi aspettarti dal figlio attaccabrighe di un uomo ricco?» «Si comincia con un arresto per furto d'auto quando era minorenne per arrivare a un tentato omicidio due anni fa», continua Adam. «Pare che finora i soldi del vecchio siano riusciti a tenerlo lontano dal carcere. Anche se potrebbe non funzionare più, se ciò che dicono in giro è vero, e cioè che ci sono dissidi tra il padre e i due figli.» «Droga?» chiedo. «Otto anni fa», risponde Adam. «Vediamo.» Si lecca il pollice e volta una pagina. «Eccolo qui. Furono arrestati entrambi i figli, poi rilasciati per mancanza di prove. La polizia federale era convinta che i due fossero coinvolti nel traffico di cocaina, che coltivassero la coca nella giungla, nella zona dove adesso siamo diretti.» «Qualcosa negli Stati Uniti?» Guarda il fascicolo, studiandolo per parecchi secondi, mentre volta le pagine. «Non mi pare. Ci sono informazioni sulla loro situazione patrimoniale: hanno conti bancari in vari Paesi stranieri, Belize e isole Cayman, un'attività non enorme, ma costante.» «Dunque pare che guadagnino dei soldi facendo qualcosa», deduco. «Sembrerebbe di sì», ammette Adam. «Quattro mesi fa, hanno fatto do-
manda per un prestito e, come garanzia, nell'elenco dei beni hanno accluso l'ultimo deposito di qualche rilevanza. È stato effettuato circa otto mesi fa, poco meno di trecentomila dollari. Quindi qualcosa fanno.» Tolt fa un respiro profondo e chiude il fascicolo. Ci mettiamo comodi. Dopo un'ora di viaggio, avvistiamo grandi cartelli lungo la strada, qualcosa che si chiama Xcaret. Julio ci spiega che si tratta di un parco ecoarcheologico a tema acquatico, costruito intorno alle rovine maya. Le famiglie vengono qui per passare la giornata. Pagato il biglietto d'ingresso, possono nuotare nella laguna naturale o giocare nei corsi d'acqua artificiali scavati dagli speculatori con la benedizione del governo. La Riviera Maya ha le sue attrattive, una bellezza naturale incredibile e una vegetazione indisturbata, con sacche d'insediamenti turistici. Ne oltrepassiamo una. La maggior parte dei complessi è protetta da cancellate di ferro, con uomini armati nelle guardiole all'ingresso. Da quello che posso vedere, i turisti che stanno negli alberghi percorrono la strada a bordo di comodi veicoli dotati di aria condizionata, solo per arrivare o per partire. La vita reale è qua fuori. Viaggiando a centodieci chilometri all'ora, incontriamo periodiche migrazioni sul ciglio della strada. Gruppi di uomini camminano lungo lo stradone vestiti con camicie e jeans di quattro taglie più grandi. «Dev'esserci una città», dico a Julio. «Villaggi. Da tutte le parti, sparsi nella giungla», mi risponde lui. «Dove vanno quegli uomini?» «Cercano lavoro.» Ogni qualche chilometro s'incontra un altro gruppo, che cammina faticosamente lungo la banchina sabbiosa in scarpe da ginnastica sfondate, alcuni trascinandosi dietro moglie e figli, i bambini piccoli portati in braccio dalle madri, con i fratelli e sorelle più grandi che li seguono nella polvere. Al pari dei genitori, cercano un modo per sfamarsi anche oggi. Non posso fare a meno di pensare a Sarah, a casa, e a cosa penserebbe vedendo ragazzi della sua età che non possono permettersi di andare a scuola, e sono costretti a frugare tra i rifiuti per sopravvivere. Adam si sporge verso di me. «Le forze naturali dell'economia hanno una risposta anche per questo.» Comincio a credere che riesca a leggermi nella mente. «E sarebbe?» «È il motivo per cui non ha senso che gli Ibarra chiedessero a Metz di portare quaggiù i macchinari pesanti. Ecco la risposta.» Indica un punto in
lontananza, forse un chilometro e mezzo davanti a noi, una zona brulla, dove la giungla sembra essere stata cancellata. Quando ci avviciniamo, capisco che è un cantiere. «Ecco dove stanno andando», dice Adam. Il posto ricorda la scena della costruzione della tomba egizia nel film I dieci comandamenti. Un formicaio di uomini, troppi per poterli contare, che maneggiano badili e spingono carriole; non si vede un solo macchinario di movimentazione terra. Persino il cemento è preparato sul posto in una serie d'impastatrici, invece che essere portato da moderne betoniere. «È questo che non tornava quando lei mi ha riferito la storia raccontatale da Metz. Perché portare qui bulldozer ed escavatori quando la manodopera è abbondante e poco costosa?» chiede retoricamente Adam. «Inoltre, il governo quaggiù non lo vede di buon occhio. In Messico non ammortizzi i macchinari. Si suppone che tu assuma i tuoi connazionali, che tu gli dia da lavorare. Ha notato il personale dell'albergo, ieri notte?» «Cosa?» «Un vero esercito», continua Adam. «Erano in tre ad accompagnare ognuno di noi nella nostra stanza, uno per far strada, uno per portare i bagagli, uno per seguirci, probabilmente per accertarsi che qualcuno non ci tendesse un'imboscata. Il Messico sta imparando a evitare le rivoluzioni. Sono da ammirare per i loro sforzi.» «Da come parla, si direbbe che lei venga qui regolarmente.» «Abbastanza. Mi piace la gente. Gente schietta.» «Allora perché le misure di sicurezza?» chiedo. «Sono un filantropo ma non uno stupido», risponde Adam. Qualcosa attira la sua attenzione. Si sporge in avanti verso Julio e gli mormora qualcosa all'orecchio. Quando torna ad appoggiarsi al sedile, mi guarda e indica un punto a sinistra. «Quello lassù è Puerto Aventuras. Un complesso turistico. C'è una flotta di buone barche da pesca. Ha mai praticato la pesca d'altura?» «No. Ma ho dei clienti che sono degli appassionati.» «Dovrebbe provarla, una volta. Sulla via del ritorno, ci fermeremo qui a cena. Potremmo anche passarci la notte, secondo l'ora che si è fatta.» «Non ho portato abiti di ricambio, né spazzolino da denti o altro.» «Non si preoccupi. Faremo come la gente del posto. E poi, tutto quello che ci serve lo possiamo trovare là.» Oltrepassiamo parecchi cartelli con la parola CENOTE, ognuno con l'indicazione dei chilometri. Chiedo spiegazioni a Julio, il quale mi racconta
che i Maya li consideravano stagni sacri. Praticavano riti in queste caverne sotto la giungla in cui si raccoglievano grandi quantità d'acqua, a volte veri e propri fiumi sotterranei. «Ce ne sono molti nella giungla qua sotto. Alcuni indios prendono l'acqua da lì ancora oggi. Bisogna stare attenti, però», aggiunge. «Bisogna guardarsi dai... come li chiamate? Caimán.» «Alligatori. E grossi», interviene Herman. «Se ci si allontana dalla strada, bisogna stare attenti a dove si va a bere.» Prendo mentalmente nota. Non ho intenzione di bere niente che non sia contenuto in una bottiglia sigillata. Ancora qualche minuto di strada, e Julio consulta la cartina che tiene aperta in grembo. Sta nuovamente parlando nella ricetrasmittente. «Aquí. No, no, no, aquí.» La prima auto inchioda e svolta a sinistra senza mettere la freccia. Sta facendo almeno i sessanta. La seguiamo tutti, in una tipica manovra alla messicana. Procediamo sobbalzando per qualche chilometro lungo una strada sabbiosa che si estende tra la fitta vegetazione dalla strada principale alla costa. Il mio corpo oppone resistenza alla cintura di sicurezza. Nei pressi di un dosso, Julio ordina alle auto di rallentare. Finalmente ci fermiamo. Segna il punto sulla cartina col dito e parlotta con Herman, che sembra d'accordo con lui. Allora Julio scende e va di corsa verso la prima auto. L'uomo seduto accanto al guidatore scende e i due si avviano lungo la strada, a piedi. Passano circa cinque minuti e vedo Julio tornare verso di noi a passo veloce. Infine arriva alla nostra macchina. Adam preme il pulsante per abbassare il finestrino. «Il posto è questo.» Julio è senza fiato, la fronte e le guance coperte di sudore, che gli gocciola dal mento. «Sarà meglio che venga a dare un'occhiata.» Adam chiude il finestrino e scende. Dice all'autista di tenere il motore e l'aria condizionata accesi. Scendo dall'altra parte, mentre Julio apre il bagagliaio e fruga dentro alla ricerca di qualcosa. Tira fuori una bottiglia d'acqua e beve un lungo sorso. «Señor?» chiede, offrendomela. Passo. Poi prende due grossi binocoli, Bausch & Lomb, dodici per cinquanta. Ne porge uno a me e uno a Adam, quindi fa strada.
Dopo tre o quattro minuti di salita e una curva, giungiamo sulla cresta dove l'aiutante di Julio è ancora fermo, in piedi, a scrutare il mare in lontananza. Quando ci avviciniamo, si accuccia tra il fogliame basso della giungla a lato della strada. Dice qualcosa in spagnolo a Julio e alza due dita, poi indica un punto lontano. «Dos hombres fuera de la casa.» Adam e io ci accovacciamo accanto a loro. Da questo punto vedo che la giungla declina dolcemente verso un'insenatura e alcune scogliere un chilometro e mezzo più a nord, lungo la costa. A circa ottocento metri da dove ci troviamo, c'è una vasta radura, argilla rossa e arenaria, come una chiazza di calvizie in un mare di verde. Devono essere diversi ettari. Sparso ovunque c'è ogni genere di rifiuti, veicoli incidentati, pneumatici abbandonati, camion, vecchi Ford e Chevrolet, uno con una gru arrugginita sul retro che sembra un pezzo d'antiquariato. Il terreno è cosparso di barili vuoti da duecento litri, corrosi dal sole, alcuni ammaccati e rovesciati sul fianco. Chiazze scure dilagano dall'apertura spalancata, riversandosi e spandendosi sulla terra. All'estremità, vicino alle scogliere e al mare, c'è una grossa roulotte da cantiere, coi fianchi bianchi e il tetto piatto di lamiera. Ondate di calore si levano dal condizionatore montato sul tetto. Fuori, davanti alla porta, alcuni grossi copertoni di camion stesi a terra fanno da supporto a un patio rialzato costituito da grandi fogli di compensato. Julio finisce di parlare con il suo aiutante, quindi si volta, sempre accucciato, a tradurre per Adam e me. «Questa è una strada che non usano», dice. «Otra. Laggiù», prosegue, indicando. «L'altra strada. Quella che usano.» Mi porto il binocolo agli occhi e lo regolo. Sull'altro lato, ancora più a nord, una striscia di terra rossastra si dirige serpeggiando all'interno della giungla, per poi scomparire dietro una curva. «Il mio uomo dice che due sono fuori della casa. La roulotte. Sono armati.» Controllo con il binocolo. Non vedo niente muoversi intorno alla roulotte. Le auto parcheggiate lì accanto sembrano vuote. Abbiamo il sole alle spalle, ed è probabile che le persone si trovino dall'altra parte della roulotte, all'ombra, dove noi non possiamo vederle. «Resteremo solo qualche minuto», dice Adam. «Comincia a fare caldo.» Si toglie il cappello, uno di quei copricapo da safari, flosci, con una larga tesa di tela, lo appallottola e lo usa per asciugarsi la fronte.
Julio gli porge la bottiglia d'acqua. Tolt svita il tappo, ne beve un sorso e lo sputa immediatamente. «È calda», esclama. La nostra guida si stringe nelle spalle come per dire: «È tutto quello che ho». Adam si versa il resto sulla nuca e lo lascia colare sulla vegetazione ai suoi piedi, poi apre il cappello e se lo rimette in testa. «Là.» Mi volto a guardare Julio che incombe alle mie spalle. Mi porto il binocolo agli occhi e lo punto sulla roulotte. Un uomo avanza nella nostra direzione; porta a tracolla un corto fucile d'assalto, la canna rivolta verso il suolo. Come gira l'angolo davanti alla roulotte, la porta si apre e un secondo uomo esce sul gradino di compensato. Strizzo gli occhi per vedere meglio. Mentre metto a fuoco, l'uomo si gira a chiudere la porta, con una mano. I suoi movimenti sono goffi. Noto che l'altra manica della camicia è vuota. Non appena si volta di nuovo, capisco il perché. Ha il braccio immobilizzato contro il corpo, a puntellare le costole che gli ho rotto quando l'ho colpito con la leva del cric: è Hector Saldado. 26 «Ne è sicuro?» mi chiede Adam. «Sicurissimo», gli rispondo. «Ho quasi sempre tenuto d'occhio la lama del rasoio, ma non mi scorderò quella faccia per un bel po'.» Tolt guarda verso la roulotte, mentre io porgo il binocolo a Julio che lo punta sull'uomo e poi me lo restituisce. «Ha perso un braccio?» mi chiede. «In un certo senso.» Osservo Saldado che scende dalla piattaforma di compensato, estrae con una certa difficoltà una sigaretta dal pacchetto che tiene nel taschino della camicia e se l'accende. Quindi si avvia lentamente verso uno dei veicoli parcheggiati davanti alla roulotte, un grosso furgone con i portelloni posteriori aperti, e chiama due delle guardie. Impartisce qualche ordine, indicando l'interno del furgone. Uno sale, mentre l'altro, col fucile a tracolla, cerca di estrarre qualcosa dal pianale posteriore, ma incontra qualche difficoltà.
Saldado chiama altri uomini che stavano dietro la roulotte. Alla fine, in sei, riescono a tirar fuori l'oggetto dal furgone. «Ha visto?» mi chiede Adam. «Sì.» L'oggetto è lungo tra il metro e ottanta e i due metri, avvolto in un lenzuolo di cotone e legato con uno spago. I sei uomini barcollano sotto il peso. Lo issano sulla piattaforma davanti alla roulotte e poi lo portano dentro. «Cos'è, secondo lei?» Tolt abbassa il binocolo e mi guarda. «Non saprei.» Dopo qualche secondo, Saldado esce dalla roulotte, sale sul furgone e si allontana, diretto verso la strada sterrata sull'altro lato della proprietà. «Be', di una cosa almeno abbiamo la conferma. I fratelli erano legati al suo uomo, a Espinoza», osserva Adam. «Mi piacerebbe sapere cos'è quella cosa che stavano trasportando», mormoro. «Potremmo andare a dare un'occhiata più da vicino.» «E come?» Tolt parla con Julio il quale, a sua volta, comunica in spagnolo con l'altro uomo. Indica la strada di fronte. Poi Julio torna da noi e ci aggiorna: «Si può arrivare più vicino alla roulotte solo dall'altra strada. Lui dice che ci sono delle finestre più grandi sul retro, una porta scorrevole. Ieri si sono avvicinati e con il binocolo sono riusciti a vedere le persone all'interno». Adam ci pensa su. «Cosa dice, proviamo?» «Perché no?» Quindici minuti dopo, ci siamo ripresi. Rinfrescati dall'aria condizionata in macchina, ci rimettiamo in marcia. Ritorniamo sulla strada, la ripercorriamo in senso opposto per circa un chilometro e imbocchiamo un altro sentiero che punta verso il mare. Julio dice qualcosa nella ricetrasmittente. Dopo un minuto o due, mi volto a guardare attraverso il lunotto posteriore e mi accorgo che gli altri due veicoli della carovana sono scomparsi. «Non si preoccupi», mi rassicura Adam. «Gli uomini di Julio sanno il fatto loro.» «Già», conferma Herman. «Stanno tirando fuori l'artiglieria. Nel caso ci beccassero.» L'uomo di Detroit non è d'accordo con quello che stiamo facendo. «Se volete, vi prendo il giubbotto antiproiettile dal bagagliaio», aggiunge. «Quello col bersaglio disegnato sopra e tutti i buchi dentro.» «Herman, piantala», ordina Adam. «Sissignore.»
Quando guardo nello specchietto retrovisore, Herman mi strizza l'occhio e sorride, l'incisivo spezzato come un paletto rotto di una palizzata. «Andrà tutto bene», dice Julio. «Se ci fermano, gli dico che volete parlare d'affari. Che siete venuti qui a cercare un terreno per costruire un albergo. Gli faccio anche capire che abbiamo degli uomini fuori, sulla strada», aggiunge, alzando la ricetrasmittente, «delle altre macchine. Non ci faranno niente. Non possono sapere in quanti siamo.» Adam mi guarda e sorride. «Questo è il motivo per cui si assume gente così.» Il Suburban avanza rombando lungo la strada, sobbalzando sui detriti lasciati dall'ultimo uragano. Improvvisamente Herman inchioda e i pneumatici slittano, sollevando una nuvola di polvere. Il guidatore sta girando il volante, nel disperato tentativo di evitare il pick-up parcheggiato di traverso sulla strada. Finiamo fuori strada, col muso infilato negli arbusti. «Uomo sulla strada», avverte Herman. Una mano lascia il volante e, quando riemerge, stringe una grossa semiautomatica calibro quarantacinque color acciaio. «Herman, metti via la pistola», ordina Adam. «Julio.» Senza dire una parola, Julio scende, sbattendo la portiera. Tiene le mani alzate davanti a sé all'altezza delle spalle, per mostrare a chiunque lo stia guardando che sono disarmate, e spara spagnolo a raffica. La polvere comincia a depositarsi e vedo un uomo, in scarpe da ginnastica dai colori sbiaditi, pantaloni scuri e camicia gialla. Tiene un fucile puntato contro Julio all'altezza del petto. Un altro sbuca dalla vegetazione sul lato opposto della strada. Mi volto e noto altri due che si avvicinano alla nostra macchina di lato, uno con un kalashnikov che punta ora contro il mio finestrino, ora contro la nuca di Herman. Fortunatamente, l'uomo di Detroit ha rimesso la quarantacinque nella fondina, e adesso tiene entrambe le mani sul volante. «Tutti fermi», impone Adam. La conversazione sembra andare per le lunghe. Julio, con le mani alzate, l'altro tizio col fucile puntato. Dopo quella che pare un'eternità, la nostra guida avvicina cautamente una mano alla cintura e, con la massima lentezza, prende la ricetrasmittente dalla custodia. La solleva, in modo che l'altro tizio possa vedere che non si tratta di un'arma, poi dice qualcosa, con l'altro che ascolta e lo osserva. Alla fine, l'altro uomo fa un cenno d'assenso con la testa, agitando la canna del fucile in direzione del proseguimento della strada.
Adam respira a fondo. «Be', se non altro, pare che non ci spareranno qui.» Julio torna alla macchina e sale a bordo, il volto luccicante di sudore. «Tutto a posto.» Ha il respiro affannoso e con un fazzoletto si asciuga il sudore dalla fronte. «Mi hanno detto di seguirli.» Il pick-up fa retromarcia, sgombrando la strada. Herman cerca di uscire dagli arbusti con i pneumatici che slittano sulle foglie, poi si rimette in strada e oltrepassa il camioncino. Rallentiamo per un attimo, per permettere a un altro pick-up, un Toyota tutto ammaccato e arrugginito, di mettersi davanti a noi. Sul cassone ci sono due uomini armati di fucili, che tengono puntati bassi, nella nostra direzione. Siedono sulle sponde laterali, una mano sul calcio del fucile, il dito nel guardamano. Con l'altra mano si tengono alla carrozzeria, mentre il camioncino avanza sobbalzando. «Cos'ha detto?» chiede Adam. «Proprietà privata», risponde Julio. «Tutto quel parlare per due parole?» chiede Herman. «D'accordo. La prossima volta ci parli tu.» «Te la sei cavata benissimo», si complimenta Adam. «Sei riuscito a non farci ammazzare. Meglio del tuo amico, qui, con la sua maledetta pistola.» Tolt dà un colpetto sulla spalla a Julio. In effetti, la nostra guida ci ha salvato la pelle, e Adam lo sa. Qualche secondo più tardi, ci fermiamo in un grande spiazzo battuto dal sole. Da qui la zona disboscata appare molto più vasta di quanto non sembrasse da lontano. Herman e l'uomo alla guida del primo veicolo svoltano a sinistra disegnando un ampio arco che termina di fronte alla roulotte. «Un momento.» Julio scende dalla macchina prima ancora che questa si sia fermata, le mani di nuovo alzate, e parla con l'uomo con la camicia gialla che, a sua volta, è sceso dal Toyota. I due col fucile scendono dal cassone, tenendo le armi puntate contro la nostra auto. Ben presto vengono raggiunti da altri tre che sono sbucati dal nulla. Uno di questi, il più vicino al finestrino dalla mia parte, ha il volto coperto di brufoli. È solo un ragazzo, di quindici o sedici anni. L'uomo con la camicia gialla alza una mano col palmo in fuori, il gesto universale per dire «fermati», e parla con Julio. Urla qualcosa in direzione della roulotte e, un paio di secondi dopo, la porta si apre. Non riesco a vedere all'interno, ma da dentro giunge la voce di qualcuno.
«Por favor, señor.» Julio sta intercedendo, le mani sempre alzate. Riesco a capire qualche parola. «Norteamericanos, hombres de negocios.» Domande dall'interno. «Sí.» La nostra guida annuisce. «Sí.» Silenzio. Julio resta lì sotto il sole a sudare. Il ragazzo continua a brandire la canna del fucile davanti alla mia faccia. Altre trattative fra Julio e la persona all'interno, uno spagnolo troppo rapido perché io possa capirci qualcosa, anche se riconosco le parole: pueden entrar. La nostra guida torna alla macchina. Apre la portiera dalla parte di Adam e mette dentro la testa. «Voi due potete entrare», c'informa. «Noi dobbiamo rimanere qui. Vi perquisiranno. Siete armati?» Adam scuote la testa. «No», dico io. Julio tiene aperta la portiera per farci scendere. Scivolo sul sedile e scendo dalla parte di Adam per evitare Brufolo e il suo cannone. Ci perquisiscono attentamente, senza tralasciare nulla, caviglie, schiena, inguine. Prendono la cartella dalla mano di Adam e la controllano per vedere se dentro ci sia qualcos'altro oltre a carta e penna. Gliela restituiscono e poi uno di loro ci sospinge verso l'ingresso, premendomi il fucile contro la schiena. Saliamo sulla piattaforma di compensato e andiamo verso la porta. Quando Adam entra, sento una folata di aria fredda proveniente dal condizionatore che, piazzato sul tetto, va al massimo. Non appena ho varcato la soglia, la porta si richiude con violenza alle mie spalle. Sento altre mani che mi tastano sotto le ascelle e giù, intorno alla cintura, un altro controllo veloce alla ricerca di armi. Istintivamente, alzo le braccia. Chiunque sia dietro di me, estrae il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni. Dentro la roulotte è buio come in una caverna; le piccole finestre sono coperte da veneziane chiuse. In un angolo è accesa una piccola lampada. Venendo dall'esterno, per parecchi secondi non riesco a vedere nulla. Il tizio alle mie spalle si sposta davanti a me. È più vecchio, più duro, ha un'espressione spietata che i ragazzi là fuori non hanno ancora maturato. Anche nell'oscurità, noto che il suo volto è butterato dall'acne. C'è un uomo seduto in un angolo, dietro una scrivania: maniche di camicia e cravatta, capelli neri e lisci. Dev'essere sui trentacinque. Se ne sta ap-
poggiato allo schienale di una vecchia poltrona girevole di legno, che scricchiola a ogni movimento. Tiene le mani allacciate dietro il collo, i piedi piantati in mezzo alla scrivania, sul sottomano cosparso di fogli e strisce di carta provenienti da una calcolatrice, imprigionati sotto i suoi mocassini di coccodrillo. Posato sul bordo della scrivania c'è un bicchiere alto con dentro quello che sembra essere whisky con ghiaccio. L'uomo seduto osserva con freddo disinteresse il tirapiedi che sta finendo di perquisire Tolt; i suoi movimenti sono così bruschi che Adam, le braccia alzate, vacilla di qua e di là. Alla fine il tizio trova quello che cercava: il portafoglio. Allora si allontana. «Ora può abbassare le mani», dice l'uomo dietro la scrivania in perfetto inglese. «E così siete uomini d'affari americani. Avete dei biglietti da visita?» Acne gli lancia entrambi i nostri portafogli e lui li afferra di rimbalzo dalla scrivania. Uno addirittura gli atterra in grembo. Il tizio seduto ne apre uno e guarda dentro. «Paul Madriani.» Mi fissa. Annuisco. Poi apre l'altro. «E Adam Tolt.» Lo sguardo mi cade su una grande coperta stesa sopra l'oggetto posato contro la parete, a un metro da me. L'uomo seduto comincia a frugare dentro i portafogli e trova i biglietti da visita. «Tutti e due avvocati. Cosa posso fare per voi, signori?» «Posso chiedere chi è lei?» domanda Adam. «Può chiederlo», ribatte l'altro, ma non dice il suo nome. «Noi... noi siamo venuti quaggiù in cerca di terreni edificabili», spiega Adam. «Proprietà lungo la costa, sulla riviera tra Cancún e Tulúm. Siamo alla ricerca di occasioni immobiliari.» «Capisco. Quello che vogliono tutti. Una buona occasione. Sedetevi. Dove sono finite le tue buone maniere, Jorge? Porta qualcosa da bere ai signori.» Mentre rimprovera il suo tirapiedi per la mancanza d'ospitalità, sta ancora frugando nei nostri portafogli. Adam si siede su una sedia di legno di fronte alla scrivania. Io provo il divano poco più in là, vicino a una finestrella. Attraverso una fessura delle veneziane, vedo Julio, fuori, che chiacchiera con una delle guardie. Herman ha aperto il portellone posteriore del Suburban ed è seduto lì, le gambe penzoloni sopra il paraurti, le braccia incrociate sul petto, a sudare con la giacca indosso, una mano vicina alla pistola automatica sotto la giacca,
sempre che non gliel'abbiano requisita. Da qui riesco a vedere anche un angolino dell'oggetto posato a terra, in un punto in cui la coperta è ripiegata. È bianco e sembra di gesso, ma i bordi sono irregolari come se fosse di pietra. «Cosa desiderate? Abbiamo del bourbon.» L'uomo continua a tirar fuori carte dai nostri portafogli, patenti di guida che confronta con i biglietti da visita. «Allora direi bourbon», accetta Adam. «E lei?» chiede, guardandomi. «Lo stesso.» Jorge si allontana per andare a prendere da bere. L'uomo seduto alla scrivania fissa Adam. «Ha intenzione di continuare con queste cazzate?» «Che intende dire?» «Queste cazzate delle proprietà immobiliari?» «Le assicuro che...» «Se le può tenere per lei le sue fottute assicurazioni. Io voglio sapere cosa ci fate qua.» «Le sto dicendo che siamo alla ricerca di terreni.» Adam solleva la cartellina di pelle per risultare più convincente. «Bene. Volete parlare di terreni. Noi ne abbiamo in quantità. Abbiamo una bella scogliera, laggiù, che si affaccia proprio sull'oceano. Volete vederla? Ci sono un sacco di scogli, sotto.» «Veramente stavamo pensando a una bella spiaggia», replica Adam. «Ci credo.» «Le sto dicendo che noi rappresentiamo un pool d'investitori, un consorzio su al Nord.» «Esatto. Una società che si chiama Jamaile Enterprises», intervengo. Mentre pronuncio queste parole, avverto chiaramente il sussulto di Adam. Se le occhiate potessero uccidere, non dovrei preoccuparmi dell'uomo dietro la scrivania. Ho pensato che non abbiamo niente da perdere. Voglio vedere se reagisce, ma non sembra riconoscere quel nome. Suppongo che il tizio che sta minacciando di gettarci giù da una scogliera sia Arturo, l'uomo d'affari, e allora mi chiedo come possa presentarsi Jaime, quello che Metz ha definito Neandertal. «Per acquistare dei terreni quaggiù avete bisogno di un socio messicano.» «Questo lo sappiamo», dice Adam.
«Ne ho abbastanza dei soci americani», ribatte lui. «Non funziona. L'ultimo si è spaventato e ci ha piantati in asso.» «E come ve la siete cavata?» chiedo. Mi guarda, fa una smorfia, lancia un'occhiata a Jorge che è tornato con due bicchieri di bourbon e ghiaccio. «Siamo stati costretti a troncare i rapporti, se così si può dire.» Mi rivolge un sorriso sinistro. «Be', posso assicurarle che con noi non succederebbe», afferma Tolt. Jorge deposita uno dei bicchieri sulla scrivania davanti a Adam e porge l'altro a me. Poi viene a sedersi sul bordo del divano e resta a fissare la nuca di Tolt con uno sguardo cupo. Di quando in quando mi lancia un'occhiata con la stessa affabilità di chi ti sta prendendo le misure per la bara. «Dovresti accompagnare i signori a vedere la scogliera.» Ibarra sta parlando con Jorge. «Ovviamente, prima li lasceremo finire di bere.» «Le sto dicendo che stiamo esplorando la zona in cerca di terreni.» Avverto la tensione nella voce di Adam, mentre cerca di convincere l'interlocutore. Lui, uomo così autorevole, all'improvviso è del tutto impotente. «Esplorando», mormora Ibarra. «È una bella parola. Pare proprio che stiate esplorando: venite qui con uomini armati.» Fa un cenno in direzione della macchina, verso Julio e Herman, lasciandoci nel dubbio se i suoi uomini, là fuori, li abbiano disarmati o no. Qualcuno bussa alla porta. «Chi è?» Entra una delle guardie. È l'uomo con la camicia gialla. Ha sempre il fucile a tracolla. Va dritto alla scrivania, si china e sussurra qualcosa all'orecchio del capo. I mocassini si staccano dalla scrivania e Ibarra si mette a sedere diritto. Segue una veloce conversazione in spagnolo, sottovoce. Poi Ibarra fa cenno all'uomo di allontanarsi. La guardia esce. «Mi dicono che avete altre auto con altri uomini, là fuori, da qualche parte. Dite che state cercando delle proprietà da comprare, ma mi pare che non vi fidiate di me. Non è un buon modo per fare affari.» «La prudenza non è mai troppa», ribatte Adam. «No, infatti. Volete chiamare i vostri uomini, farli venire qui, così possiamo sederci tutti a parlare?» «Preferisco di no», risponde Adam con un sorriso. «Già, lo immaginavo.» Ibarra deve pensare alla prossima mossa. «Salud.» Adam leva il bicchiere e beve un sorso. Il messicano lo imita, e io pure. Il bourbon, dal gusto morbido, è sicura-
mente costoso, sufficientemente forte da procurarmi una confortante sensazione di calore mentre scivola giù. Almeno impedisce alle mie ginocchia di sbattere l'una contro l'altra. Ibarra continua a frugare nei nostri portafogli, tirando fuori sino all'ultimo pezzetto di carta. Se la prende comoda. Il mio sguardo vaga verso la lastra di pietra con il bordo di gesso scoperto, appoggiata contro la parete. Poi qualcosa colpisce la finestrella vicino alla quale sono seduto. Jorge sente il rumore e abbassa una listarella delle veneziane per guardare fuori. «Qué es?» chiede Ibarra. «Nada.» Il tirapiedi lascia andare la veneziana, poi mi guarda. Mi stringo nelle spalle. Mentre lui si volta a guardare il suo capo, lancio una sbirciatina fuori, verso le auto. Julio scorge i miei occhi attraverso la fessura e mi fa un gesto furtivo col capo. Indica le auto agitando freneticamente il pollice. Una vecchia Buick si sta fermando con un gran polverone accanto al Suburban nero. Scendono due uomini. Uno è Hector Saldado. «Se ha finito, noi andiamo», dico. «Voi ve ne andrete quando lo dirò io», ribatte Ibarra. Guardo l'orologio. «Le resta meno di un minuto, poi i nostri arriveranno qui. Decida.» Adam mi guarda, chiedendosi di cosa diavolo stia parlando. Mi avvicino alla scrivania e raccolgo i due portafogli insieme alle patenti e alle altre carte che Ibarra ha sparpagliato. Lui non tenta d'impedirmelo. «Su, venga, ce ne andiamo», dico a Adam, e mi avvio verso la porta. Tolt si alza e mi segue. Sento dei passi sulla piattaforma di compensato, e le voci di due uomini che parlano in spagnolo fuori della porta. Ancora un secondo, e Saldado sarà dei nostri. Jorge si è alzato dal divano. Quando sollevo lo sguardo, vedo che si è piazzato tra noi e la porta come un macigno. Guarda Ibarra, in attesa d'istruzioni. Questi esita solo un secondo, ci guarda e poi annuisce. Il suo tirapiedi si toglie di mezzo e apre la porta. Nel tempo che gli ci vuole a far questo, io allungo un braccio dietro le spalle, come un atleta che afferri il testimone, e prendo la cartellina dalle mani di Adam. La sollevo all'altezza del viso proprio mentre Jorge apre la porta, proteggendomi gli occhi dal sole e la faccia dalla vista di Saldado. «Jaime, cómo estás?» Arturo Ibarra sta salutando il fratello.
Uscendo sulla piattaforma, abbasso lo sguardo su due piedi infilati in stivali da cowboy diretti proprio verso di me. Li aggiro. «Mi scusi.» Adam mi segue a ruota. Mentre scendiamo dalla piattaforma, Julio ha già aperto la portiera della macchina. Herman è al volante, col motore acceso. Senza voltarmi a guardare, chino la testa e m'infilo dentro. Adam è subito dietro di me. Julio chiude la portiera e salta dentro al posto del passeggero. Nessuno dice una parola finché non abbiamo percorso almeno due chilometri di sterrato. Poi Tolt esplode. «Cosa diavolo è successo? Potevano ammazzarci. Perché i vostri uomini non hanno bloccato Saldado sulla strada?» 27 L'unica spiegazione plausibile è che Saldado sia tornato alla roulotte per una strada diversa. E poi, gli uomini di Julio si aspettavano un furgone, non la Buick con cui è arrivato. «Porca puttana!» sbotta Adam. «Secondo voi, perché vi ho ingaggiato? Per farmi sparare addosso?» «Pensavamo fosse tutto sotto controllo», si giustifica Julio. Guarda dritto davanti a sé, evitando il contatto visivo con Adam, che è furibondo. Tolt sobbalza sul sedile, sporto in avanti, la faccia a una ventina di centimetri dalla nuca di Herman. «Pensavate! Qualcuno ha pensato a controllare la strada? Per vedere chi c'era a bordo dei veicoli che passavano? No. Eppure il vostro uomo, quello che stava sulla strada con noi, lui l'aveva visto bene Saldado. Sapeva com'era fatto.» «E come facevano a guardare dentro tutte le macchine che passavano?» chiede Herman. «È il loro mestiere», risponde Adam. «È questo che significa essere dei professionisti. Se non siete capaci di fare il vostro mestiere, fate dell'altro.» «Io lo so fare», ribatte Herman. «Non metterti a discutere con me.» Julio allunga una mano e dà un colpetto al collega per farlo stare zitto. «Se avessi voluto farmi sparare addosso, mi sarei legato a un albero e ti avrei lasciato usare quell'archibugio che porti sotto l'ascella. Non che tu sia
in grado di colpire qualcosa. Per poco non ci hai fatto sparare addosso, prima, quando l'hai tirato fuori.» «Si calmi, Adam. Non è successo nulla», gli dico, cercando di tranquillizzarlo. «Non è successo nulla», ripete lui. «Ma dove cazzo era, lei? E cos'è quella stronzata a proposito della Jamaile Enterprises?» «Non c'è stata nessuna reazione», gli faccio notare. «Da parte mia c'è stata, eccome. Porca puttana! Poteva farci ammazzare tutti!» «Ci avrebbero ucciso comunque, se non fosse stato per l'altra auto sulla strada.» «Ha ragione», dice Julio. «Non ci hanno creduto finché non ho permesso a uno di loro di parlare alla radio con il mio autista.» «Avete fatto una cappellata», insiste Tolt. «Ammettetelo e basta.» «Se questo la fa sentire meglio, va bene», mormora Julio. «Non è colpa sua», intervengo. «Stronzate.» «Adam.» «Cosa c'è?» «Se Julio non avesse riconosciuto Saldado, lei e io saremmo rimasti ancora lì a sorseggiare il nostro bourbon quando il messicano fosse entrato e avesse cominciato a pisciarmi nel bicchiere.» «Questo è vero», dice Herman. «Quando vorrò la tua opinione, te la chiederò», sibila Adam. «E, per quanto riguarda Julio, ho una mezza idea di chiamare l'ufficio centrale di Città del Messico e farmi mandare qualcuno che conosca il suo mestiere. In quanto a lei», prosegue, guardando verso di me, «come diavolo faceva a sapere che ci avrebbe lasciati andare? Cosa le è saltato in mente di forzargli la mano in quel modo? Ibarra poteva ordinare a quel troglodita di spararci addosso. Potremmo essere là, stesi nella polvere, in questo momento.» «Se Saldado fosse entrato e mi avesse visto, saremmo morti davvero», gli dico. Nello specchietto retrovisore vedo il dente spezzato di Herman fare capolino tra le labbra tirate. Stringe forte il volante con entrambe le mani e mi guarda, grato che ci sia qualcun altro a condividere con lui la sfuriata di Adam. «Portatemi a Cancún. Pago una fortuna per due idioti come voi.»
Tolt si appoggia allo schienale e per qualche secondo resta in silenzio, le braccia conserte, il viso rivolto verso il finestrino. Poi, la seconda bordata. Adam comincia a fare ciò che ogni avvocato incollerito sa fare meglio, il controinterrogatorio di tutti quelli che gli stanno attorno, e pretende risposte che non esistono. «Dov'è andato quando si è allontanato da lì? Avanti, ditemelo.» «Chi?» chiede Julio, voltandosi verso di lui. Non avrebbe dovuto. «Chi? Di chi diavolo pensi che stia parlando? Di Saldado!» «Come facciamo a saperlo?» La nostra guida torna a guardare la strada. «Certo. Sarebbe stato troppo facile. Potevate farlo seguire da uno dei vostri uomini.» «Adam, la smetta. Non sapevamo neppure che l'avremmo trovato lì», gli ricordo. «Perché non lo avete tenuto d'occhio?» prosegue lui, imperterrito, ignorandomi. «Cos'ha fatto? È riapparso per magia?» Queste parole sono rivolte alla nuca di Julio. Il messicano se ne sta lì, in silenzio, arrossendo sempre più finché il suo volto non diventa paonazzo. Le vene sul lato del collo sembrano tubicini di plastica. «Se lavorassi per me, ti licenzierei in tronco.» Lo stile manageriale di Tolt si spande come melma all'interno dell'auto, mentre procediamo tra insulti e recriminazioni. Io resto in silenzio, chiedendomi se a Nick sia mai capitato di essere trattato in questo modo. È uno di quei momenti che segnano una linea di demarcazione e ti rivelano di una persona più di quanto vorresti sapere. Julio se ne sta lì a subire, Herman stringe il volante e guarda dritto davanti a sé, digrignando i denti e cercando di proiettarsi in un'altra dimensione. Forse sarà troppo indulgente come spiegazione, ma la rabbia di Tolt potrebbe essere in parte giustificata dalla paura, dalla consapevolezza improvvisa che, se non fosse stato per il fato, il mondo avrebbe potuto perdere uno dei suoi figli prediletti: lui. «Riportateci a Cancún. Subito.» Adam torna ad appoggiarsi al sedile e incrocia le braccia, lo sguardo d'acciaio rivolto fuori del finestrino. Il tragitto di ritorno è come un viaggio tra i ghiacci. Herman e Julio, seduti davanti come due idoli di pietra, si sforzano persino di non respirare per evitare che Tolt si ricordi della loro esistenza. Quando ci fermiamo davanti a Casa Turquesa, è ormai buio. Pare che Adam abbia superato il momento di collera. «Voglio darmi una rinfrescata. Cosa ne dice di mangiare qualcosa? Diciamo, tra mezz'ora giù al ristoran-
te?» «Va bene.» «Julio. Tu e Herman potete cenare con noi.» Adam scende dall'auto ed entra in albergo. «Cos'è? Un ordine imperiale?» chiede Herman. «Sta' zitto che ti sente», sibila Julio. «Sai che cazzo me ne frega. Anzi, spero proprio che abbia sentito.» Il gigante nero si appoggia al volante. «Chi si crede di essere per parlare a quel modo?» «Era spaventato. Come me», rispondo. «Sì, ma lei non si è comportato in quel modo», ribatte Herman. «Questo non gli dà il diritto di mancarci di rispetto. Avrei potuto strappare la lingua a qualcuno per molto meno. Io sono un professionista. Mi sono beccato dei proiettili per gente ben più importante di questo stronzo.» «Calmati», lo frena Julio. «Tu non hai bisogno di questo lavoro, io sì. Non posso farmi licenziare perché tu non sai tenere la bocca chiusa. Fatti una nuotata in piscina, guardati un film alla televisione via cavo. Ma calmati.» «Non posso. Devo essere pronto per la cena tra mezz'ora. L'hai sentito, no?» «Allora fatti una doccia fredda.» Julio scende dall'auto sbattendo la portiera e si avvia verso l'albergo, lasciando Herman e me seduti lì. «Non ne vale la pena», bofonchia l'uomo al volante. È stato un brutto incidente, ma non ho intenzione di buttare benzina sul fuoco. Scendo dall'auto, mi sgranchisco le gambe, stirandomi la schiena, e all'improvviso lo vedo scendere le scale diretto verso di me. Lo stress della giornata dev'essere peggiore di quanto pensassi. Ho le allucinazioni. Poi Harry mi guarda e domanda: «Perché ci avete messo così tanto?» Una volta dentro, Harry e io ci dirigiamo al bar. Sono esausto. Seduto su uno sgabello, osservo il barista che prepara un margarita e lo versa in un bicchiere grande come un acquario per pesci tropicali. Solitamente non vado oltre birra o vino, ma oggi faccio un'eccezione. Il mio socio è sullo sgabello accanto. «Non ti ha avvisato che sarei venuto?» mi chiede. «Nemmeno una parola.» «Probabilmente ha avuto così tanto da fare che se n'è dimenticato. Mi ha detto che gli è venuto in mente solo all'ultimo minuto.»
«Cosa ci fai qui?» gli domando. «Sono venuto a vedere se avevi bisogno d'aiuto. Ero preoccupato.» «Per cosa?» «La conversazione che abbiamo avuto», risponde Harry. «Sai, quella in cui tu venivi ucciso e io andavo avanti con la mia vita.» Lo guardo senza rispondere. «Ci ho riflettuto. E, be'... potrebbe non essere così facile come pensavo. E poi, se ti succedesse qualcosa, dovrei spartire la società con Sarah. Mi spellerebbe vivo.» Sorrido, e col gomito gli assesto un colpetto nelle costole. «E quando sei arrivato?» «Questo pomeriggio. Mi ha chiamato Adam.» «Quando?» «Ieri sera.» «Erano le tre del mattino passate quando siamo arrivati.» «Non era così tardi quando lui ha telefonato. Sarà la differenza di fuso orario. In ogni caso, mi ha buttato giù dal letto. Ha detto che l'aereo doveva tornare a San Diego stamattina per accompagnare da qualche parte uno dei soci. Un viaggio breve. E che sarebbe tornato qui nel pomeriggio. Mi ha chiesto se volevo venire giù. Io non avevo nessun impegno per venerdì, perciò eccomi qui. Adam ha mandato una macchina a prendermi all'aeroporto.» Sorseggio un po' di margarita con la cannuccia e sento la tequila che mi brucia lo stomaco come acido nitrico. Ora ricordo perché ho smesso di bere roba forte. «Credo che Adam viva in un mondo diverso da quello di noialtri», considera Harry. «Che te ne pare dell'aereo?» «Scordatelo. Non rientra nel nostro budget.» «Potremmo lasciarlo parcheggiato e viverci dentro», propone lui. «Usarlo come ufficio volante. Credo che potrei abituarmici.» Harry si vede già parte del jet set. «Dopo un po' ci si fa la bocca. Sai, volare un po' di qua e di là. Andare a Bimini. Las Vegas...» «Ma se non sai neppure dov'è, Bimini», lo interrompo. «Sì, ma il pilota saprebbe trovarlo», ribatte lui. «Non penserai che questi pezzi grossi diano le coordinate quando salgono a bordo, no? Loro si limitano a dire che gli va di portare le chiappe da qualche parte, e un'ora dopo sono a Reno al casinò, al Mapes...» «Harry.»
«Dimmi.» «Il Mapes non c'è più da vent'anni.» «Davvero?» «Sì.» «Bene. Allora sono a Las Vegas, all'MGM. Usa la fantasia. Eccolo, parli del diavolo...» Prima che io abbia il tempo di voltarmi, Harry è già in piedi. «Adam, devo dirle che il suo aereo è proprio una bellezza.» «Le è piaciuto il volo?» «Come poteva non piacermi?» Tolt gli stringe la mano. Si è cambiato: indossa un paio di pantaloni morbidi, una camicia pulita e sandali. Sembra rilassato e a proprio agio. «Sono felice che lei ce l'abbia fatta a venire.» La voce di Adam è tornata normale. «Sì, ce l'ha fatta.» Ruoto sullo sgabello e guardo Tolt. «Cosa c'è?» chiede lui. «Pensavo che sarebbe stata una bella sorpresa. L'aereo tornava vuoto. Siamo vicini al weekend. Perché dobbiamo divertirci solo noi?» «Ha ragione», dice Harry. «A pensarci bene, credo che prenderò uno di questi drink.» Indica l'acquario posato davanti a me sul bancone del bar. «Perché no? Porti un margarita al mio amico, qui», ordina Adam. «Com'è andato il viaggio?» Lui e Harry si dirigono verso uno dei tavoli. Tolt è uno di quegli astri che attraversano il cielo della vita sorretti dall'etere della propria celebrità. Sospetto che l'aver perso il controllo di fronte a me abbia leso il suo senso della divinità. Prende Harry a braccetto e insieme vanno verso il tavolo parlando di aeroplani e delle ultime raffinatezze del volo privato. «Prenda il suo drink e venga a sedersi con noi», m'invita Adam. «Tra un minuto.» Vedo Herman che entra e viene verso di me. «Che succede?» «Sto facendo la figura dello stronzo», gli rispondo. «È bello sapere che almeno uno di noi sa quello che fa. Il Vesuvio ha smesso di eruttare lava?» Herman allude a Adam. «Credo che per il momento si sia assopito.» «Allora perché non andiamo a mangiare e la facciamo finita, così sento tutto quello che mi deve dire e me ne torno nella mia stanza?» «Per il programma deve rivolgersi all'accompagnatore turistico», dico,
accennando col capo al tavolo. «Chi è quello con cui sta parlando?» «Il mio socio.» «Cosa ci fa qui?» «Non lo so. Adam è pieno di sorprese. Venga, si sieda. Beva qualcosa», gli propongo. «Ehi, amico, io non posso. Sono in servizio. Ci manca solo questo. Che vada a dire ai miei capi che bevo in servizio. Visto l'umore, mi farebbe licenziare in tronco e lunedì mi ritroverei di nuovo a Lubbock, a cuocere hamburger.» «Dieci minuti fa, era pronto a dare le dimissioni... e poi non ha detto che veniva da Detroit?» «Passando per Lubbock, in Texas», risponde Herman. «È dove ho perso la borsa di studio. Mi sono fottuto il ginocchio e sono finito qui.» «Football?» «Già.» Herman lancia un'occhiata furtiva verso il tavolo, per accertarsi di poter parlare. «Quello stronzo mi ha strinato i peli del collo a furia di urlare. È stato un miracolo che non abbiamo fatto un frontale con uno di quei pulmini che portano in giro i sub con tutta l'attrezzatura sul tetto. A quest'ora sembrerebbe lo squalo del film, con le bombole che gli escono dalla bocca.» «Dov'è Julio?» «Si è nascosto fuori. Arriva tra un minuto. Ha notato che non ci sono minibar in camera, né macchinette per le bibite nei corridoi? Questo posto sembra una tomba. Siamo in bassa stagione.» Allunga una mano e afferra una manciata di tovagliolini di carta dalla postazione della cameriera, visto che non c'è nessuna cameriera, e si asciuga la fronte e il collo, poi li molla, bagnati e appallottolati, sul bancone del bar. «Non abbiamo più mangiato niente dalla colazione. Niente pranzo, niente cena. Il contratto dice che abbiamo diritto a una pausa ogni due ore. Lei ha visto una sola pausa?» «Se la prenda ora. Beva qualcosa.» Un drink potrebbe calmarlo. Considerato l'umore di Herman, temo che, se Adam apre ancora una volta la bocca, potrebbe finire male. «Vuole che mi cacci nei guai, amico? E poi, ho fame. Berrò dopo, quando fa più fresco. Quella merda non ti fa bene con questo caldo.» Al momento la sua prima preoccupazione è lo stomaco vuoto. Persino io lo sento brontolare. Il barista si avvicina e toglie i tovagliolini lasciati sul banco da Herman,
il quale prende a lamentarsi con lui del suo diritto costituzionale di avere accesso a un distributore automatico. «No hablo inglés.» «Già. Scommetto che lo parleresti, se ti sbattessi una banconota da cinquanta sul banco e ti ordinassi di servirci da bere.» «Qué?» «Baciami il culo.» Il barista getta i tovagliolini in un cestino della spazzatura sistemato di lato, sorride e si allontana dalla montagna nera infuriata accanto a me. «Questa merda non serve a niente. Io voglio qualcosa da mangiare.» Herman si volta verso il tavolo al quale è seduto Adam. «Ehi, capo. Mi dica una cosa. Si mangia o no?» Tolt si gira, sbatte le palpebre un paio di volte, poi sorride. «Certo. Hai fame, Herman? Ottima idea. Va' a chiamare Julio. Mangiamo qualcosa.» La conversazione tra Adam e il mio socio non si è concentrata interamente sulla storia del volo. «Mi ha raccontato quanto è successo oggi pomeriggio.» Harry spalma un po' di burro su una tortilla calda. La cisterna vuota di margarita è posata sul tavolo dove l'ha lasciata. Harry è nel suo elemento. «Com'è la questione con questo Saldado? Volevi dargli la rivincita?» mi chiede. «Quante occasioni intendi concedergli?» «Questa volta non era mia intenzione andare a fargli visita», replico. «Sa, Adam, quando mi ha detto che sareste venuti quaggiù, e mi ha parlato della sicurezza, credevo fosse tutto sotto controllo.» Lo guardo. Ma Harry prosegue, imperterrito. «Tuttavia, suppongo che anche in questo campo, a volte, le cose vadano storte.» «Fammi capire. Hai parlato con Adam prima che partissimo?» Il mio socio mi guarda. «Ho detto questo?» «Sì. Hai detto questo.» Mi rivolge uno sguardo imbarazzato, poi si volta verso Tolt. «Lo sapevo che non dovevo bere», commenta. «Paul, non è poi così grave. Harry era preoccupato per lei», lo soccorre Adam. «E a ragione, dopo quanto è successo nell'appartamento di Saldado.» «E così lei mi ha invitato a pranzo e, parlando del più e del meno, è uscita fuori questa vacanza.»
«D'accordo. Lo ammetto. È stata una piccola cospirazione.» «Piccola...» «Non volevamo lasciarti venire quaggiù da solo», si giustifica il mio socio. Ora capisco com'è arrivato qui Harry. Aereo vuoto un cazzo. Tolt l'ha mandato indietro appositamente per lui, perché uno di noi due doveva rimanere in ufficio giovedì. «Non ha tutti i torti», gli dà manforte Adam. «E guarda cos'è successo», prosegue Harry. «Nonostante tutte le precauzioni, gli uomini di scorta e tutto il resto. Sai cosa penso? Penso che domani mattina dovremmo farci una bella nuotata, prendere un po' di sole, pranzare e poi saltare sull'aereo di Adam e adiós, tornarcene a casa.» «Io ci sto», dice Tolt. «Ma se l'è già dimenticato? Abbiamo un incontro con Pablo Ibarra domani sera», gli ricordo. «Lascia perdere Ibarra», taglia corto il mio socio. «Hai già incontrato il figlio oggi, quello che parla, non il troglodita, e cos'hai scoperto? Un bel niente.» «Non è esatto.» «Cosa? Dimmi cos'hai scoperto che già non sapevi», insiste Harry. «Abbiamo scoperto che i figli sono collegati a Saldado.» «Scusami. Mi sbagliavo», ammette lui. «E, a parte questa rivelazione che per poco non incidevano sulla tua lapide, cos'altro hai scoperto?» «Sappiamo che Saldado ha ucciso Espinoza e che Espinoza era il collegamento con Gerald Metz. Sappiamo anche che i fratelli avevano un socio americano per un affare precedente, che poi non è andato in porto. Che parole ha usato, esattamente? Che ha dovuto troncare i rapporti?» Adam annuisce. «Qualcosa del genere.» «Tutto questo lo sapevi già prima di venire qui», mi fa notare Harry. «Quando la gente fa fuori i soci, di solito è perché non ci va d'accordo.» «No. Prima avevamo solo ipotesi, congetture. Ora abbiamo Arturo Ibarra che ce lo dice esplicitamente, con parole sue. Se volete tornare a casa, fate pure. Io intendo prima parlare con Pablo Ibarra.» «Sentilo», esclama il mio socio. «Ma non ne hai avuto abbastanza di questa gente? Glielo dica lei.» Si volta verso Tolt e posa il tovagliolo di lino sul tavolo accanto al piatto. Adam fa un sospiro profondo, prende il bicchiere e beve un sorso di vino. «Innanzitutto, devo scusarmi. Riconosco di aver perso la calma, oggi
pomeriggio. Una dose eccessiva di emozioni. Julio, Herman, voglio che sappiate che ciò che ho detto oggi non lo pensavo veramente. E, Paul... credo che lei l'abbia capito: non mi ero mai trovato così vicino alla morte prima d'ora, e la cosa mi ha sconvolto. Non l'ho affrontata con molto garbo.» «Si è alzato e mi ha seguito alla porta», gli dico. «È tutto il garbo che era necessario, date le circostanze.» «Non le nascondo che, quando mi sono voltato e ho visto quell'uomo con i nostri portafogli in mano, per poco non gli spifferavo tutto. Credevo avesse capito che stavamo mentendo.» «Ho il sospetto che l'abbia capito. Ma non sapeva dov'erano le altre auto, quanti uomini c'erano e se erano armati. Non si va alla guerra senza sapere dov'è il nemico.» «Quella è stata un'idea di Julio», puntualizza Tolt levando il bicchiere in un brindisi al messicano. Julio sorride e abbassa lo sguardo, imbarazzato. Sta cominciando a calmarsi. Gli chiedo che cosa ha lanciato contro la finestrella della roulotte per attirare la nostra attenzione. «Una moneta», mi risponde. «Credo fosse una moneta da dieci pesos. Non lo so.» Dieci pesos valgono meno di un dollaro americano. «Costi quel che costi, mettilo in conto», dice Adam. Scoppiamo tutti a ridere. «Accidenti.» Tolt sta di nuovo guardando il suo orologio. Se lo toglie e lo batte piano sul bordo del piatto. «Continua a fermarsi.» «Sono i sudori freddi», osserva Harry. «Si sarà gelato.» «Che ore sono?» Guardo l'orologio. «Le sette e venti.» Adam lo regola e lo carica, avvicinandolo all'orecchio. «Voglio andare a vedere se ci sono messaggi per me.» «Ah, quasi dimenticavo», dice Harry. «C'erano dei messaggi per te, sulla casella vocale e su quella di posta elettronica. Ho chiesto a Marta di prepararne un elenco e di stampare le e-mail. Ho tutto su in camera, nella valigetta.» «Qualcosa d'importante?» «Ah, a momenti me ne dimenticavo. Grace Gimble.» «Cosa?» «Le ho parlato. È come pensavamo. Ha preparato lei i documenti costi-
tutivi della Jamaile per Nick, ma non conosce lo scopo della società. Mi ha detto che Nick le aveva chiesto di prepararli. Lei ha messo la sua firma solo per la registrazione.» Un altro vicolo cieco. «E ha chiamato Joyce della Carlton. Ha lasciato il suo numero di casa, dicendo di chiamarla. E il tuo amico Blakley di New York. Ti ha mandato un'e-mail mercoledì. Ha controllato l'indirizzo trovato sul palmare di Nick. Era un edificio sfitto, proprio come...» Lo fulmino con un'occhiata. «... l'altro», termina lui. «Perché? Cos'ho detto?» «Cos'è questa storia di Nick?» Tolt alza lo sguardo su di lui, rimettendosi l'orologio. «Niente», risponde Harry. «Nick aveva un'agenda palmare?» Il mio socio ha fatto un passo falso. «Sì. Com'è che si chiama?» Guardo Harry. «Credo sia un Handspring», accenna lui. «Già.» «Come fate a saperlo?» incalza Tolt. «Veramente, Nick lo ha dimenticato al caffè la mattina in cui ci siamo visti, prima dell'appuntamento con Metz», gli dico. «Cosa? E lei lo ha trovato?» «Paul lo ha notato sulla panchetta e ha cercato di raggiungere Nick, ma non è arrivato in tempo», spiega Harry. «Gli avevano già sparato?» chiede Adam. «No.» Tolt mi fissa con il suo sguardo gelido, una sonda mentale. «Per tutto questo tempo, ho continuato a chiedermi il perché», dice poi. «La morte di un amico, improvvisa e violenta... sì, capisco. Si tratta di questo, non è vero?» «Cosa?» Harry lo guarda senza capire. «Lasci perdere il palmare», gli dice Adam. «Quello che il suo socio pensa è che, se fosse riuscito a raggiungere Nick, a fermarlo per strada, lui non si sarebbe trovato davanti al tribunale quando hanno sparato a Metz. È così?» «Non so di cosa stia parlando», replico. «Non ci sono dubbi. Lo capisco dal suo sguardo. Cosa le ha impedito di farlo?»
«A cosa si riferisce?» «Al motivo per cui lei è venuto quaggiù. In cerca di risposte», risponde Tolt. «Comincia a parlare come Harry», gli faccio notare. «Vale a dire?» «Cambiamo discorso», gli suggerisco. «Bene. Parliamo dell'agenda elettronica di Nick. L'ha consegnata alla polizia?» «No.» Harry lancia a Tolt una delle occhiate che gli avvocati si scambiano discutendo delle stupidaggini che riescono a fare i loro clienti. «Prima voleva vedere cosa c'era dentro.» Adam alza gli occhi al soffitto. «E ne ha avuto di tempo per farlo, giusto?» «Non credo che Nick ce l'avesse da molto. Aveva appena cominciato a giocarci. Stava ancora cercando di capire come funziona.» «Dunque dentro non c'era nulla?» «Pochissime cose. Qualche nome, qualche indirizzo, alcune date. Niente d'importante.» «E questo indirizzo di New York?» «Un vicolo cieco.» «Capisco.» Tolt è seccato per questo segreto che non ho condiviso con lui. Ma c'è un altro aspetto che non ho preso in considerazione fino a questo momento. «E, mi dica, ha portato con sé quest'agenda?» mi chiede. Scuoto la testa. «L'ho lasciata in ufficio.» «Peccato. Sa, se me l'avesse mostrata, avrei potuto dirle se conteneva qualche dato che ero in grado di riconoscere. Dopotutto, Nick lavorava per il mio studio.» Touché. Adam è stanco. Vuole andare a dormire. «Domani, durante il giorno possiamo rilassarci in piscina, e vederci con Ibarra la sera, per scoprire che cosa sa. Farò preparare l'aereo in modo da partire domani sera, non appena abbiamo finito. Dormiamo sul Gulfstream e sabato siamo a casa, freschi e riposati per ricominciare a lavorare lunedì. Che ve ne pare?» Tolt ci guarda. «D'accordo.» Julio sorride. È quasi fatta. 28
A questa latitudine il sole comincia a cuocere il cemento fin dall'alba, cosicché, quando arriviamo sul patio dietro Casa Turquesa, Harry, che è a piedi nudi, è costretto a saltellare e a buttarsi in acqua. «Com'è?» chiede Adam. «Sarà perfetto, dopo che mi sarà ricresciuta la pelle sotto i piedi.» «Intendo dire l'acqua.» «Bella.» Il mio socio si tuffa e riemerge, scuotendo la testa. Poi comincia a nuotare sott'acqua. Per essere un ex fumatore, Harry sfida ogni statistica. I suoi polmoni hanno la capacità di un mantice di fabbro. Tolt ha già preso accordi perché venga sistemato un tavolo sotto una delle grandi cabañas di tela vicino alla piscina. Ha concesso a Julio e Herman la mattinata libera, dando loro la possibilità di recuperare un po' di sonno dopo il lungo viaggio di ieri. Adesso uno degli uomini di Julio fa la guardia alle auto, un altro è seduto nell'atrio e legge il giornale mentre tiene d'occhio l'andirivieni. «Non vale neppure la pena di restare aperti», commenta Adam. «Questo posto è deserto.» Ha ragione. Harry è solo, nella piscina grande come un lago. A detta dell'impiegato alla reception, l'unico altro ospite oltre a noi se n'è andato stamattina. Gruppi più numerosi si concentrano nei grandi alberghi lungo la strada, più adatti a ospitare tour organizzati e congressi. Ma, comunque la si voglia mettere, decisamente non siamo in alta stagione. Minuscoli aerei ultraleggeri, coi motori che ronzano come tosaerba, passano sulle nostre teste, diretti a nord lungo la spiaggia, trascinandosi dietro striscioni che pubblicizzano tutto quanto possa interessare i turisti. Questo in particolare dice: PAT O'BRIEN - CODE D'ARAGOSTA DEI CARAIBI. Harry esce dalla piscina, ma solo dopo aver raffreddato il cemento tutt'intorno schizzandoci sopra dell'acqua. Prende un asciugamano da una pila posata su una sdraio e poi attraversa in punta di piedi il pavimento rovente fino all'isola d'ombra sotto la cabaña. Appoggia un piede sulla sedia, mentre si asciuga e osserva l'oceano. «Sapete, ci ho riflettuto.» Harry sta cercando di togliersi l'acqua da un orecchio con un dito, aiutandosi anche con l'angolo dell'asciugamano. «Se noi tre siamo riusciti a collegare il tutto - Espinoza, Saldado, i fratelli Ibarra -, come mai non c'è riuscita la polizia?» «Potrebbe dipendere dal fatto che noi abbiamo in mano alcune carte che
loro non hanno», gli dico. «Tipo il palmare di Nick», suggerisce malizioso Adam. «E la lettera di Pablo Ibarra», ribatto io. Tolt sorride. «Colpito e affondato.» «Questo lo so», prosegue Harry imperterrito. «Ma dovete capire che noi siamo solo in tre. La polizia ha a disposizione un esercito: risorse a tonnellate, tutte le fedine penali computerizzate, tecnici della Scientifica, informatori a libro paga. A questo punto, dovrebbero essere in possesso delle impronte digitali di Saldado rilevate dal suo appartamento.» «Il che significa?» domanda Adam. «Il che significa che probabilmente sanno più di quanto sappiamo noi... la sua vera identità, tanto per cominciare. Non ci vuole molto a chiedere alle autorità messicane.» «E allora?» insiste Tolt. «Allora, se Saldado ha dei precedenti in Messico, si dovrebbe sapere chi sono i suoi complici, la gente con cui ha fatto affari. La polizia potrebbe fare due più due.» «Forse sono un po' lenti in matematica», osserva Adam. «Forse non sono abbastanza motivati», ribatte Harry. «Che cosa intende dire?» «Paul e io ne abbiamo discusso. Nick non è il tipo di vittima che provoca ondate di compassione nel cuore delle forze dell'ordine.» «Non penserà davvero che stiano insabbiando il caso?» chiede Tolt. «Una cosa è certa: loro non hanno un Gulfstream a disposizione per volarsene quaggiù», intervengo. Adam mi guarda inarcando le sopracciglia. «Non che non lo apprezzi. È solo una constatazione di fatto. A meno che i poliziotti non debbano venire a prelevare un sospetto o a interrogare una persona già agli arresti, questo tipo di viaggi ha dei tempi burocratici molto lunghi.» «Non ci avevo pensato», ammette Tolt. «Dunque, potrebbero essere su questa pista anche loro?» «Mi pare logico», prosegue Harry. «La pista che porta ai fratelli Ibarra non potrebbe essere più chiara di così, neppure se ci mettessero dei cartelli stradali. E Paul ha dato i loro nomi alla polizia, all'ospedale.» Adam annuisce, lo sguardo abbassato sul tavolo: questo ristabilisce la sua fiducia nel sistema. «E ormai devono aver ricevuto la lettera di Ibarra. Lo so perché è un giorno che mi fischiano le orecchie», scherza. «Quel te-
nente, com'è che si chiama?» «Ortiz», dico. «Quando torno, Ortiz sarà sul sentiero di guerra. Vorrà sapere da quanto tempo avevo quella lettera. È per questo che non ho chiamato l'ufficio: non voglio che qualcuno dica di avermi parlato, né che sappia dove mi trovo. È molto meglio se non sono raggiungibile.» «E allora cosa farà?» chiede Harry. «Chinerò il capo e subirò qualche maltrattamento ufficiale, suppongo. Cos'altro possono farmi?» «Molto, se riescono a dimostrare che lei si è tenuto quella lettera», risponde Harry. «Se per voi fosse lo stesso, io me ne tornerei a San Diego questa sera stessa, a guardare in TV i Dodgers che fanno a pezzi i Padres. Invece, abbiamo intenzione di andare a parlare con un tizio che, se tutto va bene, ci farà prendere a calci dai suoi uomini.» «Domani saremo a casa», lo rassicuro. «Potrai leggere la fine sui giornali.» «Di chi? La fine dei Padres o la nostra?» chiede Harry. «Mi è venuta in mente una cosa.» Adam guarda l'orologio e se lo avvicina di nuovo all'orecchio. «Che ora fate?» «Le nove e due minuti.» «Oh, merda. Il mio fa le otto e quaranta.» «Dovrebbe farlo aggiustare», osserva Harry. «Devo andare a chiamare il pilota per accertarmi che oggi non beva. Deve fare rifornimento, altrimenti resteremo qui tutta la notte.» Adam si è alzato e sta già andando verso l'ingresso. Lo osservo salire i gradini, due alla volta, scattante come un ventenne, finché, arrivato in cima, non scompare come un fulmine dentro l'atrio. «Se il pilota beve, stasera non si parte», ripete Harry. «A quanto pare...» «Secondo te, quanto gli ci vuole per fare il pieno?» «Oh, direi che una bottiglia di vodka basterebbe a stendere tutti i piloti che conosco», rispondo. «Non fare lo spiritoso», ribatte Harry, ridendo. «Hai capito benissimo cosa volevo dire. Io parlavo dell'aereo.» «Come faccio a saperlo?» «Pensi che si debbano mettere in coda e tirar fuori la carta di credito?» «Vallo a chiedere a Adam.» Ci riflette un secondo. «No. I gradini sono roventi. E poi, se entro con
l'aria condizionata, ci resto secco.» Guarda la piscina. «Penso che tornerò in acqua. Perché non ti siedi sul bordo, e non metti almeno i piedi a bagno?» «Perché no?» Prendo gli occhiali da sole dal tavolino e mi tolgo le scarpe da ginnastica. «Inoltre, il sole potrebbe asciugare quella tua linguaccia tagliente», osserva il mio socio. «Una bottiglia di vodka...» Harry ha ragione. L'acqua è bellissima. La piscina è bassa, poco più di un metro, con piccoli segni tutt'intorno, a indicare in piedi e pollici la profondità agli ospiti che vengono dal Nord, per evitare che si rompano il collo tuffandosi di testa. Se vuoi acque più profonde, non hai che da scendere i gradini e attraversare la spiaggia. Un altro ultraleggero ci passa sopra ronzando, con dietro il suo striscione. Il mio socio riemerge al centro della piscina giusto in tempo per vederlo. Qualche secondo dopo ne arriva un altro, dalla direzione opposta, una decina di metri sopra i tetti, così basso che riesco a vedere i tiranti d'acciaio e sento sbattere il nylon delle ali quando ci passa vicino. La sua ombra passa veloce su patio e piscina, e, in un attimo, scompare. «Non è un po' basso?» chiede Harry. «Giusto un po'.» Lui guarda in direzione della spiaggia, schermandosi gli occhi con la mano, e osserva il velivolo dirigersi verso l'acqua. «Dev'essere uno di quelli che portano in giro i turisti», osserva. «Aveva un passeggero.» Alzo lo sguardo, ma l'edificio accanto m'impedisce la visuale. Quando mi volto verso Harry, lui è tornato a immergersi. Dal mare soffia una brezza leggera che mitiga un po' il calore del patio. Mi bagno le mani nella piscina e le appoggio dietro di me, puntellandomi sul cemento. Mi sta venendo fame e mi chiedo quanto starà via Adam. In mare compare un'imbarcazione di traino per parasail, col motore che va su di giri e poi rallenta di colpo come un frullatore, sobbalzando sulle onde. Dietro, quasi invisibile a questa distanza, c'è il sottile cavo d'acciaio che s'incurva verso il paracadute, con sotto il passeggero appeso come un puntino nero nel cielo. Osservo il paracadute sfilare lento in lontananza. Schizzi d'acqua davanti a me. Harry sta lanciando della ghiaia. Delle vespe mi ronzano accanto all'orecchio. Le allontano col dorso della mano. Una scintilla danza sulla
parete curva della piscina, e qualcosa mi colpisce al viso. Mi passo una mano sulla guancia. Ci vuole un attimo prima che il mio cervello entri in funzione dopo aver visto il sangue sulla mano. Una figura si staglia contro il sole e si tuffa verso lo spiazzo da sopra il tetto di Casa Turquesa alle mie spalle. La sua ombra attraversa venti metri di fogliame terrazzato e il patio intorno alla piscina, prima che io abbia il tempo di voltare la testa. Una silhouette caleidoscopica, come l'ombra di un uccello rapace che corre sul terreno, seguita un attimo dopo dal sibilo acuto del motore dell'ultraleggero, riempie di colori la mia visuale: un'immagine fugace che si allontana ancor prima che io riesca a sentire il rumore. Un crepitio di spari segue il suo passaggio. Mi getto a terra e rotolo sul cemento bollente. Spruzzi in piscina, piastrelle in frantumi lungo il bordo. Un attimo dopo, una pioggia di bossoli d'ottone cade in acqua e sul cemento dello spiazzo. Mentre il velivolo vira sopra la spiaggia e sale di quota perdendo velocità, vedo il pilota che guarda dritto davanti a sé, stringendo la barra con entrambe le mani. L'ultraleggero è solo un telaio aperto, i piedi del pilota poggiano su due supporti. Lo vedo spingere con un piede, mentre il velivolo vira leggermente. Il passeggero siede alle sue spalle su una specie di sedile di fortuna. Ancora più dietro, il motore con l'elica. L'uomo si gira per valutare il danno, il volto coperto da un paio di occhialoni che lo proteggono dal vento. Tra le mani stringe quella che mi appare come una mitraglietta a canna corta. Lo vedo armeggiare e mi rendo conto che sta inserendo un nuovo caricatore. Cerco Harry con lo sguardo, ma non lo vedo. Noto solo una chiazza rossastra che si allarga nell'acqua al centro della piscina. La seguo fino a una sagoma scura sul fondo e, senza riflettere, mi butto in acqua. Prima di raggiungerlo mi riempio i polmoni d'aria e alla bracciata successiva m'immergo verso il fondo. Silenzio, solo il rumore sordo dei miei battiti nella testa e nel petto. Afferro Harry da dietro, sotto le braccia, e mi do una spinta coi piedi. Risaliamo in superficie. Non capisco se è vivo. Il corpo è abbandonato, il mento poggiato sul petto. Lo afferro per i capelli e gli tiro indietro la testa per guardarlo in viso. Ha gli occhi chiusi. Arretro nell'acqua puntellandomi con i piedi sul fondo, trascinandolo in direzione delle scale e dell'hotel. In lontananza l'ultraleggero compie un'ampia virata, inclinandosi sopra i frangenti.
Sono concentrato sul velivolo quando i miei piedi vanno a urtare contro il gradino più basso della piscina e cado all'indietro, finendo seduto sul gradino seguente, con Harry in grembo. Lo tengo stretto e cerco di alzarmi. Vedo un cameriere in giacca bianca sdraiato per terra dietro la porta scorrevole che dal ristorante conduce in piscina. Ma non sta guardando me. Il suo sguardo è fisso sul velivolo che si avvicina. Urlo e gesticolo, chiedendo aiuto. Quello si alza e corre verso la cucina. Abbasso lo sguardo e vedo il sangue di Harry sulla mia camicia. Sulla nuca, i capelli sono tutti impastati. Una ferita alla testa. Non promette niente di buono. Quando sollevo lo sguardo, l'ultraleggero sta puntando verso il basso, guadagnando velocità grazie al vento che soffia dal mare. Sorretto solo dall'adrenalina, tiro Harry fuori dell'acqua e lo trascino sul cemento del patio facendolo strisciare sui talloni, fino all'ombra della cabaña di tela. Lo depongo a terra, poi mi volto verso i gradini che portano all'albergo, ma non c'è nessuno. Il velivolo si sta avvicinando alla spiaggia. Afferro il tavolo e lo rovescio di lato per proteggere il corpo abbandonato di Harry. Poi prendo un asciugamano per avvolgergli la testa e fermare l'emorragia, ma non c'è tempo. Il rumore del motore cambia mentre il velivolo si lancia in picchiata guadagnando velocità. Esco da sotto la cabaña e vedo l'ultraleggero che punta dritto contro di me, a duecento metri di distanza. Corro lungo la piscina verso l'altra estremità, abbreviando la distanza tra noi e diminuendo così il tempo a sua disposizione per prendere la mira. Come un radar, l'attenzione del cecchino è attratta da tutto ciò che si muove. Proiettili mandano in frantumi i vetri delle portefinestre del bar a forma di capanna che dà sulla spiaggia. Poi sento il rumore degli spari. L'uomo spara raffiche controllate. Mezzo secondo, venti colpi. Vedo nuvolette di luce uscire dalla canna e la fila di proiettili d'ottone scintillanti alla luce del sole, mentre dal velivolo cade una pioggia di bossoli. Mi getto a terra, sbucciandomi gomiti e ginocchia sul cemento, mentre i proiettili falciano la parete di stucco subito sopra di me e scolpiscono un ricamo nella siepe bassa ai miei piedi. Il rumore arriva un istante più tardi, quasi perso nell'urlo del motore, mentre il velivolo passa veloce sopra la piscina seguito dalla sua ombra alata. Il cecchino si volta a sparare un'altra raffica, ma il pilota è costretto a sa-
lire per evitare il tetto dell'albergo. I colpi finiscono alti, e falciano la copertura di fronde del bar, mentre l'ultraleggero scompare dietro Casa Turquesa. Dove diavolo sono finiti Julio e i suoi uomini? Getto un'occhiata all'orologio. La lancetta dei minuti si muove ancora. Ci metteranno un minuto e mezzo, forse due, a tornare, a seconda dell'ampiezza della virata. Corro alla cabaña sotto cui è sdraiato Harry e, strada facendo, afferro un asciugamano. M'inginocchio e avvicino un orecchio al suo naso, alla bocca, per vedere se respira. Il respiro è corto, ma c'è. Gli infilo una mano sotto la testa, cercando la ferita con le dita, un avvallamento nell'osso attraverso i capelli. Niente, solo sangue. Piego l'asciugamano a formare una lunga striscia e gliel'avvolgo più stretto che posso intorno al capo, legandolo come un turbante sulla fronte. Prendo i cuscini di due chaise-longue lì vicino, insieme a una pila di asciugamani, che gli metto sotto i piedi per sollevarli. Forse non è una buona idea, visto che è ferito alla testa, ma temo che sia in stato di shock. Poi lo copro coi cuscini. Per il momento non posso fare altro. Mi stacco dalla cabaña, questa volta lungo l'altro lato della piscina, allontanandomi da Harry in modo che al cecchino non venga la tentazione di scaricare una gragnola di proiettili attraverso la tela blu. Da questa parte, proprio vicino alla piscina, c'è un piccolo chiosco a forma di fungo che ospita un bar. Perlustro la zona con lo sguardo alla ricerca di un riparo. Nell'angolo del patio, a una decina di metri da me, vicino al basso muretto che divide la zona piscina dalla spiaggia, c'è una panchina di metallo bianco con una statua di bronzo che ne occupa un terzo. Di dimensioni superiori a quelle di un uomo e fatta di un unico, solido pezzo di metallo, la figura ha i piedi saldamente ancorati al terreno e la testa rivolta verso nord, e fissa pensosa la candida striscia di sabbia. Una mano, sollevata all'altezza della spalla, stringe un sigaro fra due dita. In acqua, la barca del parasail sta sempre trainando il suo carico, la prua che batte sulle onde. Il pilota, ignaro di quanto sta accadendo poche centinaia di metri più in là, compie un largo cerchio disegnando un ferro di cavallo di schiuma con la poppa. Mentre guardo, l'urlo di un motore squarcia il silenzio in lontananza, solo per un istante. Poi sparisce, attutito dagli alti edifici intorno a me. Scruto il tetto dell'albergo, e le cime degli edifici sull'altro lato. I miei occhi tornano continuamente all'angolo sudoccidentale dello spiazzo, il varco tra
l'albergo e l'edificio in costruzione accanto a esso, da cui l'ultraleggero è spuntato l'ultima volta. Poi, all'improvviso, è dietro di me: viene verso nord, lungo la spiaggia. Mi getto a terra, rannicchiandomi in attesa dei proiettili e facendo perno su un ginocchio. Mi basta un istante per collegare il suono e l'immagine quando lo vedo. È circa un chilometro più a sud e viene verso di me: un ultraleggero che si muove rumorosamente su per la spiaggia, tirandosi dietro uno striscione. La testa prende a pulsarmi quando sento le sirene in lontananza. Un paio di secondi ancora ed eccole di nuovo, fuori, sulla strada. Vengono verso l'albergo. Non c'è traccia del velivolo. Faccio un respiro profondo. Poi la mia attenzione torna a rivolgersi a Harry. Alcuni dei dipendenti dell'albergo si sono radunati sul retro dell'atrio, in cima alle scale che portano in piscina. Vedo le loro teste far capolino da dietro la grande porta a vetri. Agito un braccio, facendo loro segno di venire a darci una mano. Non appena la porta si apre, lasciando uscire il direttore seguito da un altro uomo, metà delle bottiglie di liquore nel chiosco alle mie spalle esplode. Schegge di legno provenienti dagli scaffali schizzano come stuzzicadenti prima ancora che io senta gli spari e alzi gli occhi. L'ultraleggero è sospeso, quasi immobile, nel cielo sopra il tetto dell'albergo, sfruttando la crescente brezza proveniente dall'oceano. Le ali vibrano. Mentre il pilota si sforza di tenere immobile il velivolo, un'altra serie di sbuffi esce dalla canna del mitra che il passeggero impugna sopra le sue spalle. Spinto dalla forza di gravità, il mio corpo si appiattisce verso il cemento, mentre qualcosa sibila e crepita vicino al mio orecchio. Quando guardo in su, il pilota sta ricorrendo a tutta la propria abilità, cominciando ad avanzare lentamente, mentre la brezza diminuisce. Arretro carponi e mi nascondo accucciato dietro il chiosco. Alla raffica seguente, alcuni proiettili colpiscono qualcosa di metallico dentro il chiosco con un tonfo sordo. Altri oltrepassano la piccola struttura, con dei lampi simili a scariche elettriche; uno colpisce il cemento a pochi centimetri dalla mia mano, esplodendo. Decido che è il momento di uscire allo scoperto. Lancio un'occhiata veloce verso il cielo. Il cecchino tiene il mitra puntato verso l'alto mentre inserisce un altro ca-
ricatore. Tira la leva d'armamento e lascia che l'otturatore si richiuda. Poi mi vede. Dà un colpo sulla spalla al pilota. Corro disperatamente verso un riparo. Il velivolo scende in picchiata per riprendere velocità. Sento alle mie spalle il motore che si avvicina, scivolando verso di me come un ottovolante, sfruttando le correnti d'aria sopra le palme. L'ombra alata mi supera in meno di un secondo, mentre i proiettili si conficcano nel cemento, una processione che m'insegue. Mi tuffo a pesce e vado a sbattere con la spalla contro il muretto basso. Rimbalzo come una palla da biliardo e rotolo sotto la panchina, raggomitolandomi in posizione fetale sotto la statua di bronzo. I proiettili centrano la panchina con colpi secchi e scintille. Alcuni, trovando un varco fra le stecche, si conficcano per terra. Schegge di cemento mi colpiscono al volto. Il velivolo passa sopra di me, e il cecchino mi scarica addosso tutta la sua potenza di fuoco. I proiettili urtano il bronzo, assumendo l'aspetto di piccoli funghi di metallo; gli ultimi si piantano nel muretto basso. Striscio fuori a quattro zampe e resto li inginocchiato sbirciando oltre il muretto verso il mare. L'ultraleggero si allontana sopra i frangenti prendendo quota. Il cecchino si volta a guardare oltre l'elica e i piani di coda, cercando di capire se mi ha beccato. Quando vede la mia testa fare capolino da dietro il muretto, batte sulla spalla del pilota, gesticolando come un matto per farlo tornare indietro. Sento qualcosa di caldo gocciolarmi sulla spalla. Alzo la mano e capisco che sto sanguinando dal lobo di un orecchio, dove sono stato colpito di striscio. Osservo il piccolo velivolo. Il cecchino fa segno al pilota di tornare indietro. Il pilota non vuole e gesticola verso l'altro ultraleggero sulla sua rotta che sta risalendo la costa tirandosi dietro uno striscione con su scritto: SEÑOR FROG: T-SHIRT IN OMAGGIO CON LA CENA. Il cecchino si agita sbracciandosi sul seggiolino. Il pilota toglie gas e concede all'altro velivolo tutto lo spazio necessario per passare. L'urlo del motore diventa un ronzio. Quando anche la coda dello striscione si è allontanata, il pilota torna a dare potenza, scende in picchiata e inclina un'ala per virare più veloce. Ora lo vedo chiaramente: sta guardando da questa parte, cercando la strada più breve per raggiungermi.
Mi alzo in piedi in modo che possa vedermi. Il cecchino mi indica con la mano, sventolando il braccio a mostrare la rotta di avvicinamento. Come lo vedo, mi sposto di lato sullo spiazzo, correndo verso nord lungo il muretto che ci separa dalla spiaggia. Continuo a tener d'occhio il velivolo finché non arrivo nel punto giusto. Lì mi fermo e mi volto verso di lui. Come in una partita di palla prigioniera, il pilota deve indovinare da che parte andrò. È concentrato, gli occhi fissi su di me. Aggiusta di poco la rotta verso sinistra e aumenta la picchiata. Ora si avvicina veloce, chino sulla barra, mani e piedi sui comandi. È così concentrato che non vede il cavo teso che assicura il paracadutista all'imbarcazione di traino. L'impatto è talmente violento da piegare in due il telaio tubolare che sostiene le ali sopra la sua testa. L'ala di sinistra si accartoccia come fosse di carta, e il tessuto si lacera non appena la struttura in fibra di vetro si piega intorno al cavo. Cento metri buoni sopra di loro, il paracadutista gode di un brivido inaspettato e viene strattonato e trascinato nell'aria per una ventina di metri. Il pilota dell'imbarcazione di traino si accorge dell'accaduto e toglie gas. La barca punta la prua dentro le onde. Osservo l'ultraleggero scendere a vite, privo di controllo, col motore imballato. L'elica colpisce qualcosa e io, con un sussulto, vedo il velivolo spezzarsi in aria. Ciò che resta dell'ala di sinistra si separa dal corpo centrale. Telaio, motore e passeggeri cadono come pietre, piombando in acqua a poca distanza da riva. Pezzi d'ala e frammenti di coda scendono volteggiando come foglie, cadendo in acqua uno dopo l'altro. Il paracadutista scende, ammarando dolcemente. L'imbarcazione di traino vira per andare a recuperarlo. Quando mi volto a guardare, del velivolo resta soltanto un sottile velo oleoso che luccica sulla superficie del mare. Con il corpo e le mani scossi da un tremito incontrollabile, mi volto verso l'albergo, dove Harry giace ancora immobile sotto la cabaña. 29 Pochi minuti dopo il loro arrivo, i paramedici hanno già stabilizzato le
condizioni di Harry: endovena nel braccio, bende intorno alla testa e maschera dell'ossigeno sul viso. Con l'albergo che pullula di poliziotti, alcuni con le armi spianate, i paramedici portano Harry su per le scale e su una lettiga attraverso l'atrio. Anche l'atrio è invaso di gente: altri poliziotti e curiosi entrati a vedere cos'è successo. Cerco l'uomo di Julio. Non lo vedo. E neppure Julio, né Herman. Mi viene in mente di chiamare Adam nella sua stanza col telefono interno, ma la lettiga si muove troppo veloce. Voglio andare con Harry in ospedale, caso mai succedesse qualcosa. Una volta fuori, piegano la lettiga e la caricano sull'ambulanza. Salgo subito dopo l'accompagnatore e, come il portellone si chiude, scendiamo verso il viale. Qui si è radunata un'altra folla, ma due agenti addetti al traffico la tengono a bada. Hanno formato un cordone all'uscita del vialetto e spostano dei coni stradali per farci passare. Il paramedico m'informa che l'ospedale non è lontano, solo qualche chilometro. È un susseguirsi di avvenimenti confusi, poi vedo le dita della mano sinistra di Harry che si schiudono; anche il braccio destro si muove. Lui apre gli occhi, sbatte le palpebre, fissa il soffitto dell'ambulanza e poi mi vede. «Andrà tutto bene. Non muoverti. Siamo quasi arrivati all'ospedale», gli dico. Sorride, cerca di dire qualcosa, ma la maschera glielo impedisce. Annuisce, ma non so se mi crede. Quattro minuti dopo, lo scaricano dall'ambulanza. Un'infermiera del pronto soccorso in camice e mascherina abbassata sul mento mi blocca, allontanandomi dalla lettiga, mentre entriamo. Si fa dare qualche informazione, poi mi dice di andare al banco dell'accettazione nell'atrio principale. Quindi mi sbatte la porta in faccia. L'atrio è affollato. Persone stravaccate sulle sedie, alcune sembrerebbe da tutta la notte, bambini che giocano o gattonano per terra. Faccio la fila per venti minuti, compilo i moduli e torno a mettermi in coda. Un'altra mezz'ora appoggiato al bancone a rispondere a domande sull'assicurazione e sulla copertura assicurativa sanitaria dello studio. A garanzia del pagamento, presento una carta di credito che estraggo dal portafoglio fradicio nella tasca dei calzoncini. Ho il davanti della camicia tutto sporco del sangue di Harry sbiadito dall'acqua. Sbrigate le pratiche burocratiche, passo altri quaranta minuti ad andare
su e giù, guardando di quando in quando l'orologio. Ho chiamato l'albergo già due volte, ma non risponde nessuno alla reception. Caos totale. Tutte le sedie in sala d'attesa sono occupate. La gente mi guarda. Ho una spalla della camicia tutta sporca di sangue per la ferita all'orecchio. Guardo di nuovo l'ora, chiedendomi perché ci mettano così tanto, consapevole che a ogni minuto che passa aumenta la possibilità di cattive notizie. Poi una voce. «C'è qualcuno qui per il signor Hinds?» Mi volto e davanti al bancone vedo un giovane ispanico in camice da sala operatoria. «Io.» Ha una faccia indecifrabile. L'unica emozione evidente è la stanchezza. «Sono il dottor Ruiz.» Guarda la mia camicia insanguinata. «Tutto a posto?» «Sto bene. Lui come sta?» «Il signor Hinds riposa. Gli abbiamo fatto delle radiografie per vedere se c'erano fratture, frammenti di proiettile o schegge d'osso nel cervello. Non abbiamo trovato nulla. Pare che il proiettile gli abbia solo scalfito il cranio.» «Allora si riprenderà?» «Ha perso molto sangue. Gli abbiamo dato parecchi punti per chiudere il cuoio capelluto. Non posso dire con certezza quando si riprenderà. Dovremo tenerlo sotto osservazione per le prossime ventiquattr'ore, per essere certi che non ci sia edema cerebrale. Lo terremo qui almeno per questa notte. E domani mattina vedremo come sta.» «Posso salutarlo?» «Solo per un minuto. Ha bisogno di riposare. Al momento è sotto sedativi, per il dolore. Avrà un bel mal di testa quando l'effetto svanisce.» China la testa verso il mio orecchio. «Lei lo sa che è ferito?» Alzo una mano, con gesto distratto, e mi tocco l'orecchio. «Sì. Non è niente.» «Se vuole posso dire a un'infermiera di medicarla.» «Non ce n'è bisogno. Posso farlo io quando torno in albergo.» Mi accompagna lungo un corridoio, oltre una doppia porta, ed entriamo in una stanzetta del pronto soccorso. La porta è aperta. Harry è sdraiato su una barella, il corpo coperto da un lenzuolo, la testa avvolta dalle bende. Il dottore mi dice che di lì a qualche minuto lo sposteranno in una stanza al piano di sopra. Lo ringrazio e lui va a occuparsi del paziente successivo. Mi avvicino a Harry e lo guardo. Ha gli occhi chiusi. Gli sfioro il brac-
cio. Lui apre gli occhi e mi guarda. «Come ti senti?» «Benissimo», risponde lui con voce roca. «Vedi un po' di farti dare la ricetta della roba che mi hanno pompato in vena. In questo momento mi sento da dio. Cos'è successo?» «Non ricordi nulla?» «Chi sei?» mi chiede. Coglie l'inquietudine nei miei occhi. «Scherzavo. L'ultima cosa che ricordo è un'ombra sull'acqua, subito prima che mi cadesse addosso una montagna. Cos'era?» «Ne parleremo più tardi. Ora riposati. Tra un paio di minuti verranno a prenderti per portarti in una stanza al piano di sopra.» «No. No. Io voglio venire con te.» Fa per alzarsi dalla barella. «Harry!» «Oh, merda.» Si porta una mano alla tempia e torna a sdraiarsi. «Mi sembra che mi si stacchi la testa.» «Se non stai fermo, probabilmente succederà. Il dottore dice che sentirai un po' di dolore quando passerà l'effetto dei farmaci. Per il momento, riposati. Farò un salto a trovarti stasera.» Gli stringo appena il braccio e mi dirigo verso la porta. «Paul?» «Sì?» «Dove sono Adam e Julio?» «Bella domanda.» Fermo un taxi davanti all'ospedale e mi faccio portare in albergo. Quando arriviamo all'incrocio con la stradina che sale a Casa Turquesa, la folla si è ormai dispersa. Un motociclista della stradale è fermo all'imbocco del vialetto e controlla il traffico in entrata e in uscita. Il sole brucia. Guardo l'orologio. Sono quasi le due. Ho nausea e mal di testa. Non mangio da ieri sera. Il sangue sgocciolato dall'orecchio è secco e rappreso, ma il sudore che mi corre lungo il viso a bordo del taxi privo di aria condizionata mi fa bruciare la ferita. Quando ci fermeremo al cancello, il poliziotto vedrà il sangue sulla mia camicia e comincerà a farmi delle domande prima ancora che io sia sceso dall'auto. Dico all'autista di oltrepassare l'ingresso e svoltare a sinistra dietro il Kukulcan Plaza. Sulla scogliera dietro il centro commerciale, si ergono alcuni condomini
che guardano sulla spiaggia. La società di Julio ha affittato un appartamento in uno dei complessi meno costosi in modo da poter parcheggiare i grossi Suburban nel garage sotterraneo. Il resto della squadra di Julio, quando non è in servizio, dorme in quest'appartamento. Herman me l'ha indicato durante uno dei nostri spostamenti. Dico all'autista del taxi di lasciarmi lì davanti. L'edificio a due piani ospita sei appartamenti con scale sul davanti che portano al primo piano. Le abitazioni sono tutte uguali. Mentre ci avvicinavamo, ho visto la strada che porta al garage, una rampa di cemento che s'infila sottoterra di fianco all'edificio. La imbocco e scendo. Cerco l'uomo di Julio, quello che dovrebbe sorvegliare le auto, nella speranza che sia in contatto radio col suo capo. In caso contrario, forse troverò un telefono su di sopra, nell'appartamento. Potrò chiamare Adam e scoprire cosa sta succedendo in albergo, chiedere che mi portino dei vestiti puliti. Se sarò fortunato, a questo punto, Adam e Julio avranno risposto alla maggior parte delle domande. Io potrò colmare qualche lacuna, farmi portare qualcosa da mangiare in camera e fare un pisolino prima di andare a parlare con Pablo Ibarra, sempre ammesso che l'incontro non sia stato annullato. Dopo gli avvenimenti di questa mattina, mi sono convertito alla linea di pensiero di Harry. Quando riesco a beccare Adam, ho intenzione di andarci giù pesante. Non appena il mio socio sarà in grado di viaggiare, faremmo meglio a saltare sull'aereo e tornarcene a casa di corsa. Un conto è cercare delle risposte in merito a chi ha ucciso Nick, un altro è incontrare i killer di persona. Sebbene sia ricavato sottoterra come un bunker, il garage sotterraneo è caldo e umido. Svolto l'angolo e vedo le auto posteggiate. Due dei Suburban sono qui, il terzo manca. Quello sulla destra ha il motore acceso e riempie il garage di fumi. L'uomo di guardia è seduto dentro e ascolta la musica con l'aria condizionata accesa. Sento le vibrazioni attutite dei bassi che rimbombano sorde dentro il veicolo. Mi aspetto che alla macchina spuntino dei martinetti idraulici e si metta a saltare. Mentre scivolo accanto alla vettura, noto nello specchietto laterale il volto familiare con l'ombra della barba lunga. L'ho visto per due giorni in auto. L'uomo al volante è Julio. Batto sul finestrino posteriore, ma lui non mi
sente. Apro la portiera del guidatore. «Dove diavolo...» Non ho ancora finito di pronunciare queste parole che vedo lo schizzo sul parabrezza, simile a uno spruzzo color ruggine. Crepe simili a zampe di ragno si dipartono da un cratere nel vetro pochi centimetri sopra il volante. Il volto di Julio è cinereo, cianotico. Gli occhi semichiusi nello stupore della morte. In mezzo alla fronte c'è il foro di uscita, grande come un quarto di dollaro, i lembi gonfi, sporchi di sangue rappreso che gli è colato anche lungo il viso intorno al naso, in rivoletti che gli hanno coperto gran parte della camicia e dei pantaloni. Resto lì a bocca aperta, il gusto dolciastro e metallico del monossido in gola. La musica assordante e il fatto di trovarmi a pochi centimetri da un cadavere in un Paese straniero mi spingono a ritrovare la concentrazione. Perlustro velocemente il garage con lo sguardo per accertarmi di essere solo. Mi frugo nella tasca dei calzoncini alla ricerca di un pezzo di carta, di stoffa, qualunque cosa. Trovo uno scontrino spiegazzato ancora umido. Lo apro e, tenendolo fra pollice e indice, allungo con cautela la mano sotto il montante dello sterzo, afferro la chiavetta e spengo il motore. Il silenzio improvviso mi fa trasalire. Mi guardo attorno un'altra volta, per assicurarmi di essere sempre solo. Poi chiudo la portiera e pulisco la maniglia con un lembo della camicia. Mi ci vogliono cinque minuti per risalire la collina. Attraverso la strada deserta dietro lo spiazzo, mi tolgo la camicia e la getto in un cestino dei rifiuti sull'altro lato. Entro nel centro commerciale da una porta sul retro. L'aria fresca e asciutta mi accoglie piacevolmente. Prendo fiato. Se non fosse per l'orecchio insanguinato, sembrerei uno dei tanti turisti che ha dimenticato la camicia in piscina, in scarpe da ginnastica senza calze e con il volto imperlato di sudore. Sulla parete vicino all'ingresso c'è un telefono pubblico. Armeggio con le monete messicane cercando di capire quale usare per una chiamata locale. Finisco con l'infilare una moneta da dieci pesos, e compongo il numero dell'albergo. Pochi secondi dopo, mi risponde l'impiegato alla reception. «Vorrei parlare con il signor Adam Tolt. Alloggia lì da voi.» «Un momento.» Sento delle voci. L'impiegato parla in spagnolo con qualcuno. Lo sento dire: «Señor Tolt», poi la sua mano che copre il microfono, la parola «in-
glés». Un'altra voce prende la linea. «Pronto, chi parla?» «Cerco il signor Tolt. Adam Tolt. È ospite dell'albergo.» «Chi parla?» chiede la voce con tono autoritario. Mezz'ora fa, prima di trovare il corpo di Julio, non avrei avuto problemi a dare il mio nome, attraversare la strada e andare a parlare con la polizia. Ma ora riattacco senza dire una parola. L'albergo ha una piccola reception con un solo telefono. Se richiamo, l'impiegato riconoscerà la mia voce. A un bancone qualche metro più in là, c'è una ragazza che fa provare i profumi da piccoli vaporizzatori. Mi avvicino e le dico che ho avuto un piccolo incidente, indicando l'orecchio. Le chiedo se per cortesia può fare una telefonata in spagnolo per me in albergo. Ci vorrà solo un momento. La ragazza sorride e gira attorno al bancone. «Voglio parlare con uno degli ospiti», le spiego. «Un uomo afroamericano. Un nero. Si chiama Herman. Non ricordo il cognome, ma in albergo c'è poca gente.» Metto un'altra moneta nella fessura e ricompongo il numero. Quando l'impiegato risponde, la ragazza si mette a parlare in spagnolo come una macchinetta. Scambiano qualche battuta. Alla fine mi porge il telefono con un sorriso. «Si chiama Diggs. Herman Diggs. Stanno passando la telefonata alla sua camera.» «Grazie.» Prendo il ricevitore e resto in attesa. Tre squilli, nessuna risposta. Al quarto squillo un «Pronto?» Riconosco la voce di Herman. «Herman, sono Paul Madriani.» «Cazzo, era ora che qualcuno chiamasse. Dove diavolo siete? Vi ho cercato da tutte le parti. Vado a dormire, mi sveglio e sono spariti tutti. Ho cominciato a pensare che fosse suonato l'allarme e io me lo fossi perso. Non riesco a trovare Julio, e neppure gli altri. Poi un impiegato, giù, mi dice che hanno sparato al suo socio. Qualche cazzata su degli aerei.» «Herman!» Sono costretto ad alzare la voce per farlo smettere di blaterare. «Cosa c'è?» «Vai a cercare Adam Tolt. Ho tentato di chiamarlo un paio di minuti fa, ma la polizia mi ha intercettato.» «Ma davvero, Sherlock? Tolt è sparito.» «Come sarebbe a dire, sparito?»
«Svanito, scomparso, eclissato. Sono andato nella sua stanza. È tutto sottosopra. La polizia è giù che impacchetta l'albergo come se fosse un regalo di Natale. Hanno riempito la porta di nastro giallo. Sono stati i fratelli Ibarra. Ci hanno portato via Tolt da sotto il naso. Questa mattina, mentre la loro aeronautica era impegnata a sparare in piscina.» «Come fai a saperlo?» «Perché i fratelli hanno messo sottosopra la stanza alla ricerca di qualcosa e, visto che non l'hanno trovata, si sono presi Tolt e mi hanno lasciato un biglietto. Vogliono incontrarci domattina presto. All'alba. Alle rovine. Un posto che si chiama Cobá. Un tempio. Un attimo che lo prendo.» Molla il telefono per andare a prendere il biglietto e ritorna. «Ecco qui. Un posto che si chiama Porta del tempio delle iscrizioni. Ho guardato sulla cartina. Cobá si trova in mezzo alla fottuta giungla. Si sono presi Tolt come garanzia per questo cazzo di Rosen, qualsiasi cosa sia. Quindi spero che tu ne abbia un po'. In caso contrario, ti rispediranno il tuo amico un pezzo alla volta.» «La polizia ha visto il biglietto?» «No. Me l'hanno infilato sotto la porta nel primo pomeriggio. La polizia sa solo che Tolt è sparito e che la sua stanza è un casino.» Resto in silenzio. «Ehi, sei ancora lì?» «Sono qui, Herman.» «Dov'è esattamente 'qui'?» «Sono al centro commerciale sull'altro lato della strada.» «E che cazzo ci fai, lì?» «Non ho tempo per spiegartelo. Puoi uscire dall'albergo senza che la polizia ti veda?» «Ma certo. Un metro e novantacinque per centocinquanta chili di peso, nero come la pece, e me la svigno attraverso l'atrio senza farmi vedere. Come Campanellino.» «Deve pur esserci un modo.» «Sì, un modo lo trovo. Anche se non sarà facile. Ma prima dimmi perché.» «Ho bisogno del tuo aiuto.» «Dammi un minuto per vestirmi», dice. «Sono in mutande.» «Ci sono brutte notizie», aggiungo. «Sarebbe?» «Julio è morto.»
Dall'altra parte silenzio. Poi: «Cosa stai dicendo? Non ti credo. Sono stronzate». «L'ho appena visto. È seduto al volante di uno dei Suburban giù nel garage. Gli manca metà testa. Sai dove sono gli altri uomini?» Dall'altra parte mi giunge solo il rumore del suo respiro. «Herman?» «Cosa c'è?» «Dove sono gli altri uomini?» Esita per un secondo. «Non lo so. Ho chiamato l'appartamento quattro o cinque volte. Non mi ha risposto nessuno.» «Allora dobbiamo supporre che o se li sono comprati o li hanno uccisi. E una delle auto è sparita. Sai dov'è?» «No.» «Hai le chiavi delle altre due?» «Ho le chiavi di tutte.» Gli dico di aspettarmi tra mezz'ora sul marciapiede dietro il centro commerciale, poi riattacco. In uno dei negozi di abbigliamento per uomo del centro commerciale compro un paio di pantaloni, due camicie, calze e biancheria, quindi mi dirigo alla toilette. Mi lavo via il sangue dal collo e dall'orecchio, facendo attenzione a non riaprire la ferita, poi indosso una delle camicie pulite. Esco e aspetto all'interno del centro commerciale, guardando la strada attraverso la porta a vetri da cui sono entrato quaranta minuti prima. Qualche secondo dopo, vedo Herman arrancare su per il marciapiede diretto verso di me. Indossa scarpe da basket nere, un paio di chinos neri che fasciano le cosce possenti e una T-shirt gonfiata dai muscoli. Intorno alla vita porta un grosso marsupio appeso alla cintura, tirato verso il basso dal peso della quarantacinque e del caricatore. Esco portando i sacchetti con dentro i miei acquisti e gli vado incontro sulla strada. «Non ci posso credere, amico, fare shopping in un momento come questo», commenta lui. «Avevo i vestiti tutti coperti di sangue.» «Ah, allora la cosa è diversa.» «Tutto quello che ho portato con me è chiuso nella mia stanza, compreso il passaporto», lo informo. «Sembra proprio che dovrai fare due chiacchiere con la polizia, prima di tornare a casa», osserva Herman.
Ci dirigiamo giù per la collina. Cinque minuti dopo, siamo nel garage sotto il condominio, lui con il marsupio aperto e spostato sul fianco sinistro. La mano destra è dentro la cerniera. I Suburban sono parcheggiati nello stesso punto in cui erano quando sono uscito. Nell'aria persiste l'odore di gas di scarico. «In quale si trova Julio?» «In quello di destra», gli dico. «Tu resti qui.» «Herman», lo chiamo. «Cosa?» «Lascia stare. Non toccare nulla», gli consiglio. «Non posso lasciarlo qui», obietta lui. «E poi, le mie impronte sono dappertutto in quella macchina.» «Ci sono altre cose, oltre alle impronte», gli faccio presente. «Non c'è nulla che possiamo fare. Non appena ce ne saremo andati da qui, potremo fermarci a chiamare la polizia da un telefono pubblico. Gli diciamo che dei ragazzi hanno visto il cadavere di un uomo dentro un'auto in un garage. Gli diamo l'indirizzo e riattacchiamo. Se ne occuperanno loro.» «Voglio almeno vederlo», dice lui. «Lo capisco. Ma non toccarlo.» Herman si avvicina e osserva Julio dal finestrino. «Lo stronzo che ha fatto questo è un uomo morto. Ora dovrò dirlo alla moglie e ai bambini.» «Era sposato?» «Già. Con una ragazza che si chiama Maria. Una a posto. Tre bambini. Due maschi e una femmina.» «Mi dispiace.» «Già. Anche a me.» «Dobbiamo andare», gli dico. «Hai portato le chiavi dell'altra auto?» «Sì.» «Allora muoviamoci.» «Non ancora.» Si volta e, passandomi davanti, si avvia nella direzione opposta. «Dove vai?» Non risponde. «Herman!» «Se vuoi andare, fai pure.» «È pazzesco.» Lo seguo.
Varca una porta e sale per due rampe di scale, un uomo che ha una missione da compiere. Prende una chiave dalla tasca e apre la porta. Una volta entrati, mi fa strada lungo un corridoio. Oltrepassiamo alcune porte, poi alza una mano per dirmi di rallentare; sgancia la fibbia che tiene l'impugnatura della pistola nel marsupio ed estrae l'automatica d'acciaio, tenendo la canna puntata verso il soffitto e la pistola vicino all'orecchio destro. Si ferma davanti a una delle porte e accosta l'orecchio al pannello di legno, resta in ascolto per qualche secondo, poi infila la chiave nella serratura. Mi fa cenno di restare dove sono. Un attimo dopo, è dentro. Io aspetto fuori, in ascolto. Niente. Qualche secondo più tardi, Herman spalanca la porta. «Spariti. Anche la loro roba. Come se se ne fossero andati. Sacche e tutto il resto.» «Perché?» «Venduti, immagino. Se gli uomini di Ibarra li avessero uccisi, la loro roba sarebbe ancora qui. È così che vanno le cose quaggiù», mi spiega. «O ti fai comprare o ti fai sparare. Non c'è altro modo.» Torniamo alla macchina. Herman prende le chiavi dalla tasca, poi gira attorno all'auto sino al finestrino del passeggero e, senza aprire la portiera, guarda dentro verso il sedile del guidatore. «Cosa stai facendo?» «Ci sono altre cose, oltre alle impronte», risponde. «E ci sono altre cose oltre ai proiettili.» Apre la portiera, preme il pulsante che apre tutte le altre, torna dalla parte del guidatore e tira la levetta di apertura del cofano. Per un minuto buono, Herman esamina il motore, sopra e sotto, finché non è soddisfatto. «Dove pensavi di andare?» mi chiede. «Alla piramide di vetro.» «A trovare papà Ibarra?» Annuisco. «Immagino sia l'unico che possa dirci cos'è questo Mejicano Rosen e aiutarci a trovare Adam.» «E chi ha ucciso Julio», aggiunge lui. Va verso il retro della macchina e apre il portellone posteriore. Sceglie una chiavetta dal portachiavi e, infilatala in una piccola serratura nel pavimento, la gira. Tutta la sezione coperta di moquette si solleva. Sotto c'è una rastrelliera con tre lunghi fucili e qualcosa che assomiglia a un mitra, solo più corto. «Sai sparare?» «Una volta, ho sparato con una pistola.» «Non è quello che ti ho chiesto. Sai sparare?» «Non lo so.»
«Ecco, tu prendi il fucile», dice lui, porgendomelo. «Fai scivolare la pompa sotto, ogni volta che spari. Così. Poi spari di nuovo. Quest'affanno qua è la sicura. Tienila disinserita quando spari. Pensi di poterci riuscire?» «Sì.» «Non puntarlo verso di me.» Prende una scatola di munizioni e me la porge. «Ti farò vedere come caricarlo quando siamo dentro.» Poi dalla rastrelliera prende il piccolo mitra e parecchi caricatori, ognuno con uno scintillante proiettile rotondo di rame che spunta dall'apertura frontale. «Non penserai di entrare con queste?» «Tu fai come faccio io.» 30 In macchina, mentre Herman guida, m'infilo un paio di calze e i pantaloni lunghi, trasferendovi tutto il contenuto della tasca dei calzoncini. A un isolato dalla piramide di vetro, ci fermiamo vicino a un ristorante. Da un telefono pubblico chiamo la polizia e riferisco dove si trova il corpo di Julio. Poi riattacco. Herman non vuole parlarne. È concentrato sulla missione. Svolta nel viale privato che porta alla piramide di vetro, caratterizzato da un susseguirsi di palme, piantate nella striscia erbosa che forma lo spartitraffico centrale. Procediamo verso l'hotel. Herman parcheggia davanti all'ingresso. «Vai dentro e prendi una stanza, in alto. Il più vicino possibile all'ultimo piano.» «Perché?» «Fa' come ti dico. Poi porta qui la chiave.» Pochi minuti dopo, sono di ritorno alla macchina. «Ottavo piano. È abbastanza in alto?» «Lo faremo bastare.» «E ora?» «Aspetta.» Esce in retromarcia dal parcheggio e gira intorno all'edificio, dieci piani di vetro affumicato che riflettono i raggi del sole come un generatore fotovoltaico. Herman attraversa lo spiazzo, girando tutt'intorno alla costruzione finché non trova quello che sta cercando: cassonetti della spazzatura, veicoli di servizio e un piccolo carrello elettrico con sacche di tela sul retro piene di biancheria sporca.
«Ecco il posto che cercavo», mi annuncia, fermando la macchina. «E ora?» «Aspettami qui un secondo.» Scende e si avvicina al carrello. Gli gironzola attorno, le mani infilate in tasca, guardandosi in giro e cercando di passare inosservato, una montagna nera alta due metri. Poi afferra una sacca di tela piegata dal retro del carrello e torna alla macchina. Questa volta si siede sul sedile posteriore. «Cosa stai facendo?» «Te l'ho detto. Stai seduto lì da bravo e aspetta.» Si sporge dal sedile posteriore verso il vano portabagagli, prende le armi, il fucile a pompa e la mitraglietta, si accerta che siano carichi, le munizioni al loro posto e la sicura inserita. «Dunque, tra un minuto io andrò laggiù», m'informa, mentre controlla le armi. «Vedi quella porta?» Accenna col capo in direzione dell'entrata di servizio. «Sì, la vedo.» «Tra un secondo, io entrerò là. Voglio che tu te ne stia qua buono buono finché non ti farò segno dalla porta.» Prende le munizioni di scorta e le infila nella sacca della lavanderia, slaccia la cintura e si toglie il marsupio con dentro la quarantacinque, mettendo anche quello nella sacca. «A quel punto, voglio che tu scenda dalla macchina e venga alla porta. Senza correre. Camminando normalmente. E porti questa roba con te.» Mi porge la sacca, pesante almeno quindici chili, con spigoli aguzzi che sporgono da tutte le parti. «Hai capito bene?» «Capito.» Vede la mia espressione dubbiosa. «Senti, quello stronzo di Tolt è amico tuo. A me non interessa se gli tagliano orecchie, naso e palle, e li appendono a un braccialetto portafortuna. Ma quest'uomo quassù, questo Pablo Ibarra, lo sai bene anche tu: è il mago di Oz. Ha tutte le risposte. Ora, possiamo andare a parlare con lui oppure possiamo tornare a casa. Non so tu, ma io non ho intenzione di andarmene senza prima aver avuto la risposta ad almeno una domanda: chi cazzo ha ucciso Julio? Allora, ci stai o no?» «Ci sto», gli rispondo. «Bene. Lo immaginavo. Allora andiamo.» Sorride mostrando il dente scheggiato, apre la portiera e qualche attimo dopo scompare attraverso l'entrata di servizio, sul retro dell'hotel. Dopo aver permesso a Saldado di esercitarsi nell'arte del taglio della
carne sul mio braccio e aver fatto da bersaglio alla Ibarra Air Force, non sono nella posizione più adatta per criticare le scelte di Herman. Quel che gli manca in buon senso è ampiamente compensato dalla sua lealtà. La differenza tra lui e me è che lui è più diretto. In un secondo, Herman è nuovamente sulla porta e mi fa cenno di andare. Scendo dalla macchina con la sacca a tracolla, Babbo Natale e il suo arsenale. Mi dirigo veloce verso la porta. Lui prende la sacca e mi tira dentro come una bambola di pezza. Lo seguo per uno stretto corridoio. Non ho altra scelta: mi ha afferrato per la cintola e mi trascina dietro di sé. Vedo un tizio in uniforme bianca e cappello da cuoco passare dalla cucina a un altro locale in fondo al corridoio. Non si accorge di noi. Herman apre una porta e mi spinge dentro un ripostiglio buio, poi richiude l'uscio alle nostre spalle. «Dove cazzo è la luce?» chiede. Restiamo al buio per un paio di secondi finché non sento tintinnare gli anellini metallici della catenella. La luce sulla nostra testa si accende. Herman ha trovato l'interruttore. «To'. Mettiti questo.» Mi porge una giacca di cotone bianca, di quelle che indossano i camerieri nei ristoranti eleganti. «Ti spiacerebbe dirmi cosa stiamo facendo? Oppure è una sorpresa?» chiedo. «È meglio che tu non conosca i dettagli. Così sei più libero. Capisci cosa intendo? Ti adatti meglio alle circostanze. È quello che mi dice sempre il mio maestro di tai-chi. Ciò che non conosci non può fotterti il cervello.» «Imperscrutabile.» «Cos'hai detto?» «Niente.» Infilo la giacca e l'abbottono fino al colletto. Nel frattempo, Herman sta frugando in un sacco di uniformi sporche, alla ricerca di qualcosa abbastanza grande per lui. Alla fine, ne sceglie una. È costretto a lasciare gli ultimi tre bottoni aperti. L'indumento lo fascia come una muta, e l'orlo gli arriva a malapena alla cintola. «Non preoccuparti. Ibarra avrà altro cui pensare. Sarà troppo occupato a guardare la canna del mio fucile.» «Non avrai intenzione di sparargli?» domando. Non mi guarda. «Herman.» «Dipende da quello che ha da dire. Se mi dice che è stato lui a far ucci-
dere Julio, puoi stare sicuro di trovarlo a pezzettini nei buchi che farò nel muro con la mitraglietta che è lì dentro.» «No. Non penso proprio.» «Pensa pure quello che vuoi. Fra dieci secondi, resterai da solo a pensare al buio.» Afferra la sacca con le armi, tira il cordino della luce, poi socchiude la porta e guarda fuori dello spiraglio. «Comincia lo spettacolo», annuncia, uscendo nel vestibolo, la sacca della biancheria gettata sulla schiena. Lo osservo mentre s'impadronisce di un carrello d'acciaio appoggiato contro il muro. Sul ripiano c'è una tovaglia di lino e, sotto, uno scaldavivande. Si accerta che non vi siano candele accese all'interno, poi v'infila la sacca con le armi e richiude lo sportello di acciaio inossidabile. Guardo l'ora. Dieci alle quattro. Adam e io dovevamo incontrare Ibarra alle sei e mezzo. «Allora, vieni?» Herman mi sta guardando. «Potrebbe non esserci.» «Allora ci metteremo comodi e lo aspetteremo.» Spingo il carrello in corridoio. «Speriamo che abbia da dirci solo cose buone.» «Bravo. Così mi piaci. Pensiero positivo», commenta lui. Prendiamo l'ascensore di servizio. Si ferma tre volte lungo il tragitto: per far salire una cameriera al quinto piano e farla scendere al settimo, poi un'altra volta all'ottavo. Qui, ci aspetta davanti alla porta un uomo della manutenzione con un secchio in mano. «Abajo?» chiede. Herman muove il pugno col pollice alzato per indicare che stiamo salendo. L'operaio si stringe nelle spalle, deciso comunque a entrare. La montagna nera si mette sulla porta, impedendogli con la sua mole l'accesso. «L'ascensore torna subito, amico.» L'uomo lo guarda. Non credo abbia capito una parola di ciò che gli è appena stato detto, ma il linguaggio del corpo, quello sì. Resta dov'è, e le porte si chiudono. Saliamo gli ultimi due piani indisturbati. Quando le porte si aprono di nuovo, ci ritroviamo in una piccola zona adibita a ripostiglio con piatti, bicchieri, tovaglie e tovaglioli ordinatamente riposti sugli scaffali. A sini-
stra c'è una porta che dà su un corridoio. A destra, un'altra parete. Un grosso frigorifero a due ante arriva fino al soffitto, affiancato da altri scaffali e ganci pieni di utensili. Herman tiene premuto il pulsante di apertura porte, sporgendosi per guardare fuori nel corridoio, quindi mi fa un cenno con la testa a indicare che la via è libera. Spingo fuori il carrello, e poi esce anche lui. Le porte dell'ascensore si richiudono alle nostre spalle. Abbiamo raggiunto il punto di non ritorno. Questo è il covo di Pablo Ibarra. Casa, ufficio e, se il piano di Herman è nato sotto una cattiva stella, anche quartier generale del suo esercito personale. Passo davanti al carrello e sbircio oltre la porta che da sul corridoio. Ritiro rapidamente la testa nell'attimo in cui un tizio, seduto su una sedia sette o otto metri più in là, si volta a guardare nella nostra direzione. I grandi occhi scuri di Herman mi fissano come i puntini di due punti interrogativi. Alzo un dito indicando il corridoio. Poi faccio un altro gesto, un cerchio con pollice e indice. Ci guardo attraverso e con l'altra mano fingo di girare una manovella. Quindi indico il soffitto. Herman annuisce. Si volta a guardare la parete dietro di sé. Senza far rumore prende un grosso mestolo da un gancio alla parete e lo avvolge ben stretto in una salvietta. Poi va al frigorifero e apre lo sportello. Si guarda attorno senza toccare nulla finché non vede ciò che sta cercando. Quando si volta, stringe in una mano una bomboletta di panna spray. Lo guardo con aria interrogativa e divertita. M'ignora e fa un cenno col capo in direzione della porta come per dire che è il momento di andare. Prima che io possa avere il tempo di riflettere, spinge nel corridoio il carrello con me davanti. Mi volto e afferro il bordo del carrello come se lo stessi tirando, la schiena rivolta verso l'uomo seduto in corridoio. Mi giro un attimo a guardarlo. Indossa un abito di serge blu e siede su una sedia dallo schienale rigido, una gamba accavallata sull'altra, leggendo un giornale. Poco oltre c'è una porta a doppio battente di pesante tek lucido. Sentendo il brontolio delle rotelle mentre il carrello avanza lentamente sulla folta moquette, l'uomo solleva lo sguardo verso di noi. Volto scavato, occhi scuri, espressione severa, ci lancia un'occhiata quindi torna al suo
giornale. «Come ti stavo dicendo, lo chef mi ha detto che le salse non vanno più.» Lo guardo come per dire che forse si aspettano che parliamo spagnolo. Ma Herman m'ignora. «La salsa è passata di moda. I francesi continuano a usarle, ma sono gli italiani quelli che sanno cucinare. E loro le salse non le mettono da nessuna parte. Se sei capace di cucinare, non ne hai bisogno.» Herman spinge il carrello con una mano, gesticolando con l'altra. Quando ci avviciniamo, l'uomo posa il giornale per terra e si alza in piedi. Si sporge appena a guardare il carrello da lontano, prima da una parte, poi dall'altra. Herman continua a spingere finché non mi trovo quasi con la schiena contro il tizio. La guardia sta cercando di vedere il fianco del carrello. «Come ti dicevo, se vuoi davvero cucinare... perché non ti togli dai piedi così quest'uomo può fare il suo lavoro?» Mi sposto a lato del carrello. «Come ti dicevo, se vuoi del profumo buono, rivolgiti ai francesi...» La guardia si china in avanti. «Ma se vuoi cucinare...» L'uomo allunga una mano verso lo sportello dello scaldavivande. «... allora devi rivolgerti...» Herman lo colpisce alla tempia con il mestolo, senza neppure guardare. «... ai fottuti italiani.» L'uomo cade a terra come un sacco di patate. Herman prende la bomboletta di panna dal carrello, toglie il coperchio e corre all'altra estremità del corridoio. Alza il braccio e spruzza la panna sulla lente della telecamera di sicurezza, coprendola di spuma bianca finché un po' non cola sul pavimento. Io apro lo sportello dello scaldavivande e tiro fuori la sacca. Herman trotterella indietro, gira l'uomo di schiena e lo perquisisce lì, a terra. Trova due pistole, una semiautomatica nella fondina ascellare e un piccolo revolver fissato alla caviglia. «Mettile nella sacca», mi ordina, lanciandomele. «Bisogna muoversi prima che quella merda si sciolga.» Sta parlando della panna. «Dopodiché vedranno questi due tizi vestiti di bianco. Inoltre, da un momento all'altro, manderanno su qualcuno della manutenzione a controllare.» «Sempre che non stessero guardando lo schermo quando hai colpito il tizio.» «In quel caso, porteranno qualcos'altro, oltre ai secchi», ribatte Herman. Prendo il fucile dalla sacca e controllo la sicura, tenendo il dito sull'e-
sterno del guardamano. Herman toglie la cintura dai pantaloni dell'uomo e gli lega mani e piedi dietro la schiena. Quindi dalla sacca prende il marsupio con la pistola, e se lo lega in vita. Controlla velocemente la mitraglietta, tira la leva d'armamento e mette il colpo in canna, poi controlla ancora una volta la sicura. Mi porge la sacca con le munizioni di scorta. «Se vuoi pensare positivo, pensa intensamente che non abbiamo bisogno di questa roba», mi dice. «In caso contrario, avremo una fiesta messicana in piena regola.» Prova ad aprire la maniglia della porta. «Merda. È chiusa.» Ci troviamo in un corridoio senza sbocco, armati come due terroristi, senza sapere se Ibarra sta facendo salire un intero esercito a occuparsi di noi, e, come unico riparo, abbiamo un carrello portavivande neppure sufficiente a nascondere il culo di Herman. Frugo nelle tasche dell'uomo sdraiato a terra. Niente, a parte qualche spicciolo e un coltellino. Sento un rigonfiamento nella tasca della camicia, ci frugo dentro e scopro un grosso portachiavi con un'unica chiave. Herman la prende. La infila nella toppa e gira. Mi guarda e fa un profondo respiro. Quindi socchiude appena la porta e sbircia all'interno. «Ci siamo.» Apre piano la porta, poi solleva il carrello in modo che le ruote non facciano rumore, e se ne serve per tenere aperta la porta. In due afferriamo la guardia sotto le braccia e la trasciniamo dentro, chiudendoci la porta alle spalle. Ci troviamo in una specie d'ingresso: di fronte a noi c'è una parete divisoria, con al centro un grande specchio ovale e un mobile basso con sopra dei libri e una pianta. Il divisorio è alto tre metri e mezzo circa. Il soffitto è di vetro e sale diagonalmente verso il vertice della piramide. Il divisorio è aperto su entrambi i lati. Herman va a destra, io a sinistra. Facendo capolino, mi trovo davanti una grande stanza con una parete di vetro obliquo che, oltre un certo livello, diventa soffitto. Al centro della stanza sul pavimento di ceramica messicana campeggia una grande scrivania. Seduto con la schiena rivolta verso di me, c'è un uomo intento a battere con due dita sulla tastiera di un computer. Guardando lungo il divisorio, vedo sporgere la fronte di Herman che si trova davanti la stessa scena.
Dalla sua parte c'è un'altra stanza, dalla mia nient'altro che vetro. Al momento, l'altra porta è chiusa. Ritiriamo la testa, tornando dietro il divisorio. Herman mi guarda con una strana espressione, scuotendo la testa e stringendosi nelle spalle. Te lo vedi un signore della droga al computer? È come se nessuno di noi due volesse essere il primo a infrangere la serenità di quest'uomo perso nei suoi pensieri. Ma il tempo passa. Giriamo intorno alle due estremità opposte del divisorio nello stesso istante. Herman si schiarisce la gola. L'uomo al computer si ferma, alza la testa, si volta. Quando vede le armi, spalanca gli occhi. Allunga una mano verso la scrivania. Herman gli punta contro la mitraglietta. «Non lo fare, se non vuoi essere costretto a cambiare tutte quelle belle finestre dietro di te.» L'uomo si appoggia allo schienale e alza le mani. Non è chiaro se abbia capito le parole di Herman o la mitraglietta. «Se habla inglés?» chiede Herman. L'uomo non risponde. «Merda», impreca Herman. «Com'è il tuo spagnolo?» «Peggio del tuo.» L'uomo dietro la scrivania è piccolo, minuto, poco meno di un metro e settanta. I capelli scuri si stanno ingrigendo sulle tempie. Direi che è sui sessantacinque anni. Gli occhi scuri, spalancati, fissano Herman e la sua mitraglietta. «Senti, stronzo, sarà meglio che cominci a dire qualcosa che capisco, altrimenti ti sparo», dice Herman. «Parlo inglese», replica l'uomo. «Buon per te. Non avevo voglia di chiamare un interprete. Dove dà quella porta?» Herman indica la porta chiusa con la bocca del cannone. «Nel mio appartamento.» «Chi c'è?» «Nessuno.» «Non è che mi stai prendendo per il culo?» «Forse c'è una cameriera. Non lo so.» «È probabile che entri qualcuno da lì?» L'uomo scuote la testa. «Ho dato ordine di non essere disturbato.» «Bene. Perché, se qualcuno dovesse entrare da quella porta, avrebbe una brutta sorpresa. E non farebbe bene neppure alle tue finestre. Tu sei Pablo Ibarra?»
L'uomo non risponde. Si limita a guardare Herman e me, il mio fucile puntato verso il basso. «Chi vi manda?» «Perché, aspettavi qualcuno?» chiede Herman. L'uomo non fiata. «Non sono sicuro su chi abbia spedito il mio amico al creatore, ma diciamo che mi manda il dio della vendetta.» «Herman.» Mi guarda. «Che c'è?» «Lascialo parlare.» «Ci sto provando. Ma questo stronzo continua a farmi delle domande», ribatte lui. «Dalle mie parti, sono quelli che hanno in mano il fucile a fare le domande. È questo figlio di puttana che deve rispondere.» Il messicano continua a guardare ora me ora Herman, probabilmente chiedendosi se siamo drogati. Alla fine dice: «Cosa volete sapere?» «Il tuo nome, tanto per cominciare. Così lo scriviamo corretto, sulla lapide», risponde Herman. L'uomo esita. La montagna nera toglie la sicura alla mitraglietta. «Herman. Ora basta.» «Forse faremmo meglio a portarlo fuori, per vedere se vuol lavare qualche finestra», prosegue lui. «Sono Pablo Ibarra», confessa l'uomo e poi chiude gli occhi, quasi si aspettasse l'impatto dei proiettili. «Il padre di quei due stronzi che stanno nella roulotte giù a Tulúm?» L'uomo riapre gli occhi. «Sono i miei figli. Sono stati loro a mandarvi?» Herman mi lancia un'occhiata. «Dev'essere una famiglia molto unita. Non vedo l'ora di conoscere mammina.» «Mia moglie è morta», dice l'uomo. «Oh. Mi dispiace. È morta per cause naturali, o è stato uno dei figli a spararle?» «Cancro», ribatte l'uomo. «Peccato. Ma non è per la sua morte che sono qui. Perché hai ucciso Julio?» «Chi?» «Sai benissimo a chi mi riferisco. Julio Paloma. Quello che prima aveva una fronte senza il buco.» «Non conosco quest'uomo.»
«Forse non l'avrai mai visto, ma di sicuro sei stato tu a farlo ammazzare.» «Perché avrei dovuto?» Herman mi guarda e alza gli occhi al cielo. «Vedi? Continua a fare domande.» Ha già il dito pronto sul grilletto. «Non ho mai sentito parlare di quest'uomo.» Ibarra si rivolge a me. «La prego. Non so chi pensiate che sia, ma io non ho mai fatto uccidere nessuno. Io sono un uomo d'affari.» «Vuoi chiedergli di questo cazzo di Rosen prima che gli spari?» «Calmati, Herman.» «Calmati tu. Al momento io sono un po' preoccupato perché non so quanti hanno la chiave di quella porta dietro di noi.» «Signor Ibarra, mi chiamo Paul Madriani.» «Sì.» I suoi occhi si aggrappano a me quasi fossi un salvagente. «Avrei dovuto incontrarmi con lei questa sera alle sei e mezzo, insieme a una persona che si chiama Adam Tolt.» «Piantiamola con le stronzate e veniamo al dunque», m'interrompe Herman. «Ieri abbiamo parlato con uno dei suoi figli. Arturo.» «Sì?» «Questa mattina il signor Tolt è stato rapito dalla sua stanza d'albergo. I rapitori hanno lasciato un biglietto in cui si dice che, se domani mattina non mi presento in un posto che si chiama Cobá con questo Mejicano Rosen, Tolt sarà ucciso.» «Perché lo state dicendo a me? Perché non siete andati alla polizia?» «Perché io credo che lei sappia cos'è questo Mejicano Rosen.» Ibarra guarda Herman e poi me. «Basta con queste stronzate.» Herman si avvicina alla scrivania, afferra il messicano per il colletto sollevandolo quasi dalla sedia. «Cosa stai facendo?» gli chiedo. «No», supplica Ibarra. «Ve lo dirò.» «Ci puoi scommettere il culo che ce lo dirai. E tu», prosegue Herman, guardando verso di me, «ora capisco perché costa così tanto prendersi un avvocato. Per fare due domande ci mettete una vita. A quest'ora potevamo avergli già sparato ed essere fuori di qui. Ma no, tu vuoi parlare. Allora, vogliamo parlare? La sala riunioni è da questa parte.» 31
Con la quarantacinque premuta contro la schiena di Ibarra e i fucili nella sacca, Herman costringe il messicano a salire in ascensore e preme il tasto 8. Scendiamo di due piani. Herman dà un'occhiata veloce all'esterno. Uscendo dalla zona di servizio, passiamo accanto a una cameriera. A ogni livello c'è una specie di terrazza aperta, come i giardini pensili di Babilonia, che si affaccia sul vasto atrio interno della piramide. A metà corridoio una giovane coppia esce disinvolta da una delle camere. Ibarra vede la porta aperta. Il suo pensiero è quasi palpabile e per un istante m'immobilizzo, temendo che lui possa tentare di rifugiarsi nella stanza facendosi sparare da Herman. Quest'ultimo lo punzecchia con la pistola. «Non ci pensare neppure.» Ha una salvietta sulla pistola, drappeggiata sul braccio come la tengono i camerieri. Non appena oltrepassiamo la coppia e siamo fuori della loro portata, Herman mi dice, parlando dall'angolo della bocca: «Sarebbe più facile gettarlo giù dalla balconata. Fargli fare un bel tuffo ad angelo nel laghetto, laggiù». «Herman, non sappiamo se è stato lui a uccidere Julio. E se anche fosse stato lui, è una questione che riguarda la polizia.» «Non sono stato io.» Ibarra cammina barcollando davanti a noi, con la pistola puntata alla schiena. «Se non chiudi la bocca, ti sparo nel culo», sibila Herman. Qualche porta più avanti, troviamo il numero corrispondente a quello scritto sulla piccola busta con la tessera magnetica che mi hanno dato alla reception. La faccio scivolare nella fessura e sento lo scatto della serratura che si apre. Una volta dentro e con la porta chiusa, Herman controlla il bagno e l'armadio, poi tira le tende alla finestra e spinge Ibarra sul letto. «Ora voglio sentirti parlare.» «Avete incontrato i miei figli?» chiede l'uomo. «Solo uno. Arturo. L'altro è Jaime, giusto? Lui non c'era.» «Probabilmente siete stati fortunati. Jaime ha un brutto carattere. Sono coinvolti in attività delle quali mi vergogno.» «E suppongo abbiano fatto tutto da soli?» dice Herman.
«Ammetto di aver fatto cose delle quali non posso dirmi orgoglioso. Ma non volevo che i miei figli crescessero così. Ho cercato di fermarli in ogni modo. Mi sono persino rivolto alle autorità. Ma voi sapete com'è Cancún.» «Eccoci», commenta Herman. «Tutti facciamo degli errori... scommetto che quando vedrà la luce uscire dal buco in fondo alla mia pistola, ci dirà che si è convertito.» «Credetemi. Ho cercato di fermare i miei figli, ma non vogliono ascoltarmi. Loro vogliono solo i miei soldi per finanziare i loro progetti. Quando io mi sono rifiutato, loro si sono trovati altre fonti.» «Stupefacenti?» chiedo. «Per un certo tempo, sì. Ma poi la cosa è finita lì. Sono riuscito a esercitare la mia influenza su alcune persone.» «I tuoi figli ti stavano facendo concorrenza, vero?» chiede Herman. «Io non commercio in droga. Non permetto neppure che entri nel mio albergo.» «Lei ha scritto una lettera a un avvocato di San Diego, un certo Nicholas Rush. Di cosa si trattava?» domando io. Ibarra mi guarda perplesso. «Come fa a...?» «Lasci perdere. Cosa c'entrava il signor Rush con i suoi figli? E chi o cosa è questo Mejicano Rosen?» «Allora voi sapete?» «Sappiamo cosa?» ringhia Herman. «Si chiama Rosetón. Non Rosen.» «Cos'è?» chiedo. «Rosetón significa 'rosetta' in spagnolo. Quando i francesi di Napoleone trovarono la famosa stele, la chiamarono Rosetta dal nome del villaggio egiziano in cui era stata scoperta.» «Cosa sono queste stronzate?» sbraita Herman. «La stele di Rosetta è una lastra di pietra scoperta dall'esercito di Napoleone durante la campagna d'Egitto», gli spiego. «Aveva incisi sopra geroglifici egizi insieme alla traduzione greca. Ha permesso agli archeologi di decifrare per la prima volta la scrittura dei faraoni.» Herman ha l'aria perplessa. «Un momento. Mi sono perso. Mi state dicendo che questa faccenda riguarda una pietra egizia?» «No», dice Ibarra. «Rosetón mejicano significa 'Rosetta messicana'. È l'ultima chiave che ci resta per decifrare gli antichi geroglifici maya.» «Ce l'ha lei?» chiedo. «Sfortunatamente, no.»
«Dov'è?» «Non lo so, ma so che esiste e che non ha prezzo. I miei figli hanno tentato di trovarla.» «È questo che cercava Nick Rush?» Ibarra annuisce. «Stava trattando attraverso un altro uomo.» «Gerald Metz?» «Come fa a conoscerlo?» «Non ha importanza. Vada avanti.» «Questo Metz aveva già fatto affari con i miei figli, in precedenza.» «Che genere di affari?» chiede Herman. «I miei figli depredavano siti archeologici. All'inizio si limitavano ad acquistare cose di poco valore trovate dagli indios nella giungla, figurine intagliate nella giada, a volte ciondoli d'oro o d'argento. Poi li rivendevano a mercanti nel vostro Paese o in Europa. A seconda di dove riuscivano a ricavare di più. Di quando in quando, trovavano qualcosa di più prezioso. Poi Arturo e Jaime cominciarono a identificare siti ancora nascosti nella giungla. Sono facili da trovare se sai cosa cercare. Nello Yucatán, la giungla è pianeggiante. Qualsiasi rialzo, montagnola o collinetta spesso nasconde i resti di una costruzione maya ricoperta da alberi e rampicanti. Impararono a localizzarli. Assunsero operai e distrussero siti archeologici, alla ricerca di tesori.» «Il governo non cercò di fermarli?» «Sì. Ma è impossibile. Ci sono troppi siti da difendere e troppo poche guardie. Il vostro governo esige che teniamo sotto controllo il flusso di droga nel vostro Paese. Quella è la priorità. La vendita di manufatti è un business enorme. Migliaia di oggetti vengono trafugati ogni anno dal Messico e dal Guatemala, e venduti al mercato nero. Alcuni dei responsabili sono trafficanti di droga. Guadagnano di più vendendo oggetti antichi che commerciando droga, e corrono meno rischi. Non si finisce in prigione per aver rubato reperti maya.» «E chi li compra?» chiedo. «Ci sono persone che commerciano in questi oggetti. Li vendono a ricchi americani, perché le mogli possano farsi degli orecchini con le statuette e raccontare alle amiche da dove provengono. Gli articoli più grandi e costosi sono un'altra questione.» «Come quello che abbiamo visto nella roulotte», dico a Herman. «Quale?» chiede Ibarra.
«Sembrava una grossa lastra di pietra, come una lapide, ma più alta. Non l'abbiamo potuta vedere bene. Ci avevano messo sopra una coperta.» «Mi dica, ha visto se aveva sopra della pittura bianca?» «Sì, in un angolo. Sembrava calce.» «Una stele», mormora il messicano. «È una pietra usata dai Maya per scopi commemorativi e religiosi. Coprivano la pietra con una specie di malta. Poi incidevano i geroglifici sulla superficie. Ne esistono trenta o quaranta, che io sappia, e la maggior parte è indecifrabile. L'umidità della giungla le ha rese illeggibili. Avevo sentito dire che i miei figli ne avevano trovata una.» «E la vogliono vendere, giusto?» chiede Herman. «Sì.» «Quanto ci possono ricavare?» «Se è leggibile, decine di migliaia di dollari, forse centomila. Se quello che c'è scritto sopra è importante, se rivela aspetti sconosciuti sui sovrani maya, allora potrebbe valere molto di più.» «Non è la Rosetta di cui parlavate prima?» Ibarra scuote la testa. «Quella varrebbe di più, giusto?» «È impossibile dare un valore al Rosetón mejicano.» «Ci dica qualcosa di più.» «Avete mai visto una foto dei codici maya?» «Be'...» Herman lo guarda. «Sono libri fatti di corteccia d'albero appiattita e coperta con un impasto di calce, come le stele. Le pagine sono piegate a fisarmonica e dipinte con geroglifici dai colori vivaci. Che si sappia, ne esistono solo quattro. Si trovano in vari musei sparsi per il mondo: Dresda, Madrid, Parigi. Un esemplare è nelle mani di un collezionista privato. Sono le uniche testimonianze esistenti della storia maya scritte dagli scribi di quel popolo. Tutti gli altri codici vennero distrutti dai missionari spagnoli. Erano convinti che fossero strumenti del demonio. Un missionario francescano, che si chiamava Diego de Landa, bruciò centinaia di libri maya nel grande autodafé del 1562.» «Che cazzo è un autodafé?» chiede Herman. «I roghi dell'Inquisizione. Gli spagnoli bruciavano gli scribi insieme ai libri, in modo che questi ultimi non potessero essere più riprodotti.» «Cosa c'entra questo con la cosa di Rosetta?» «Ci sto arrivando. Una quarantina d'anni prima che de Landa bruciasse tutti i libri maya, un gruppo di spagnoli fece naufragio nel mar dei Caraibi
davanti alle coste di quello che è oggi il Messico. Finirono su una spiaggia dello Yucatán, non lontano da qui, e furono catturati dai Maya. Vennero messi tutti a morte tranne due, un uomo che si chiamava Gonzalo Guerrero e un suo compagno, Jerónimo de Aguilar. Questi due sopravvissero. Rimasero prigionieri dei Maya per otto anni, finché il conquistador Hernán Cortés, l'uomo che sterminò gli Aztechi, non venne a saperlo e pagò il loro riscatto. De Aguilar fece ritorno e divenne il traduttore di Cortés, una figura molto importante nella conquista dei Maya. L'altro uomo, Guerrero, rimase. Aveva sposato la figlia di un governante locale e divenne un condottiero maya.» «Si era adattato ai costumi indigeni», commenta Herman. «Sì. E insegnò ai Maya le tattiche di combattimento degli spagnoli. Alla guida di un esercito maya, Guerrero sconfisse gli spagnoli in una località chiamata Capo Catoche. Quando il governo spagnolo ne fu informato, lo volle morto.» «Ma questo cosa c'entra con la Rosetta?» «Questo Guerrero visse per vent'anni combattendo gli spagnoli, finché questi non lo uccisero, nel 1536. Gli spararono con un archibugio, una specie di rudimentale moschetto. Guerrero sapeva che prima o poi gli spagnoli lo avrebbero ucciso. Sapeva anche che avrebbero distrutto la civiltà maya. Perciò fece preparare dagli scribi un codice segreto. Un grande libro maya dei geroglifici. Questo non solo raccontava la loro storia ed elencava le loro leggi, ma descriveva anche le varie città-stato esistenti prima dell'arrivo degli spagnoli e il modo in cui queste interagivano tra loro. Ma la cosa importante, quella che nessuno aveva mai fatto prima perché non poteva, fu che Guerrero tradusse i geroglifici in spagnolo. E incluse la traduzione nel codice.» «La stele di Rosetta messicana», deduco. «Sì. Gli studiosi sono riusciti a decifrare la maggior parte dei geroglifici, ma non sono del tutto certi della loro esattezza. E un venti, trenta per cento dei geroglifici resta ancora un mistero. Proprio i più complessi e importanti. Potrebbero rivelare notizie andate perse e dimenticate da secoli.» «Sai un sacco di cose sull'argomento», considera Herman. «Come mai?» «Sono tre anni che cerco di acquistare il Rosetón mejicano. Inutilmente. Ho fatto un sacco di soldi come imprenditore edile e uomo d'affari. Volevo che il Rosetón mejicano restasse in questo Paese. È parte del suo retaggio.» «Allora chi ce l'ha?» chiedo.
Scuote la testa. «Per anni si è pensato che fosse nelle mani degli indios del Chiapas. Da parecchio tempo il governo messicano è costretto a fronteggiare il loro movimento indipendentista. Dieci mesi fa, ho saputo che l'avevano venduto per procurarsi il denaro necessario a comprare armi e cibo. L'esercito messicano stava stringendo il cerchio attorno agli indios e loro non volevano che il Rosetón mejicano cadesse nelle mani del governo, che l'avrebbe di certo esposto a Città del Messico, e così l'hanno venduto.» «E lei non sa chi l'ha comprato?» chiedo. «No. Ma credo che possano averlo i miei figli.» «Non ha senso», obietta Herman. «Allora perché quel biglietto in cui ci dicono di portarlo?» «Herman, lascialo finire.» «Quale biglietto?» chiede Ibarra. «Lasci perdere. Vada avanti.» «È stato allora che ho scoperto che i miei figli stavano trattando con questo Metz per consegnare il Rosetón mejicano a un acquirente americano. Secondo le informazioni in mio possesso, l'acquirente era rappresentato dal signor Rush.» «È per questo che gli ha scritto quella lettera?» «Sì. Volevo che sapesse che io ero al corrente di quanto stava succedendo. E che intendevo fermarli.» Gli unici contatti di Nick col mondo dell'arte e dei collezionisti passavano attraverso Dana. E l'unica persona che lei conoscesse con i contatti giusti per vendere qualcosa del calibro della stele di Rosetta era Nathan Fittipaldi. «Ma sarebbe stato impossibile esporre in un museo un oggetto della portata della Rosetta messicana. Anche un collezionista privato dovrebbe tenerlo nascosto», gli faccio notare. «I collezionisti, la gente che ha cosi tanti soldi, spesso hanno collezioni molto private; le mostrano soltanto a pochi amici fidati. C'è chi è disposto a pazientare e aspettare. Potrebbe anche prenderla un museo», mi dice Ibarra. «Ma non potrebbe mai esporre un pezzo simile. Il governo messicano gli salterebbe addosso», insisto. «Probabilmente, sì. Ma tutto si limiterebbe a un ricorso legale», obietta Ibarra. «Il museo affermerebbe che la stele era rimasta chiusa in un magazzino per decenni. So che cose simili sono già accadute. Su una vecchia
polizza di carico risulta come oggetto non classificato. Il documento può portare la data del 1920.» «Come se l'oggetto fosse stato trovato in una spedizione precedente?» «Esattamente. I magazzini dei musei sono pieni di articoli come questi. A volte non riescono a catalogarli per decenni. Chi può dire che non c'era? Possono affermare che non si erano resi conto della sua importanza finché non hanno aperto la cassa per esaminarne il contenuto. Ovviamente il mio governo ne pretenderebbe la restituzione, ma è improbabile che ci riuscirebbe. Gli indios del Chiapas potrebbero protestare e rivelare al mondo intero di averlo venduto solo qualche mese prima, ma chi li ascolterebbe?» «Dunque sei convinto che ce l'abbiano i tuoi figli?» chiede Herman. Ibarra si stringe nelle spalle. «Credo che sia una delle possibilità.» «Forse dovremmo andare laggiù a chiederglielo.» Herman mi guarda. «L'ultima volta che ci siamo andati, avevamo tre macchine e sei uomini. Ora siamo solo tu e io.» «Sì, ma l'ultima volta non ero motivato», ribatte lui. «E poi, la gente che ho visto intorno alla roulotte sembrava uscita dalle capanne di fango. I fratelli non possono farci molto affidamento. Probabilmente i loro fucili sono tutti arrugginiti.» «Non lo so. Quello che ti tenevano puntato alla nuca mi sembrava in ottime condizioni.» Torno a rivolgere la mia attenzione verso Ibarra. «Cosa sa di un posto chiamato Coba?» «È un sito archeologico. Molto vasto, oltre settanta chilometri quadrati, credo. Più o meno a due ore da qui, nella giungla. Perché?» «Attira molti turisti?» chiedo. «No. A dire il vero, molto pochi. Gran parte di ciò che contiene deve ancora essere scoperto. È tuttora invaso dalla giungla. Si dice che ci vorrà una cinquantina d'anni per portarlo alla luce.» «È per questo che l'hanno scelto», osserva Herman. «Chi?» «I tuoi figli, se c'è da credergli», risponde lui. «È mai stato a Cobá?» gli chiedo. «Sì. Due o tre volte.» «Conosce un posto che si chiama Porta del tempio delle iscrizioni?» Ci pensa un attimo. «Le guide turistiche danno ogni genere di nomi a queste rovine per interessare i turisti. Sa, li attirano con l'idea di Indiana Jones.» «Cos'altro diceva il biglietto?» chiedo a Herman.
«Che il posto aveva delle pareti pitturate o qualcosa del genere.» «Ah, vi riferite a Las Pinturas. Sì, so dov'è. Una struttura di pietra con un piccolo edificio in cima. Dentro vi sono colonne ornate di geroglifici e iscrizioni incise sulle pareti. Conservano alcune delle tinture e dei colori originali maya.» «Potrebbe accompagnarci là?» domando al messicano. «Suppongo di sì.» Guarda Herman, senza dubbio pensando che una gita a Cobá è sempre meglio che farsi sparare. «Hai delle persone che possono darci una mano?» chiede Herman. «A far cosa? A uccidere i miei figli?» «No, no. Se si fanno vedere, me ne occupo io. A meno che tu non mi voglia dare una mano. Io dicevo per fare da autisti, da sentinelle. Non rimarranno tutto il giorno a guardare la panna montata sul monitor, no?» «Ho delle persone», ammette Ibarra. «Già. Le ho viste.» Herman s'infila la pistola nel marsupio e lo lascia cadere nella sacca. «Sarà meglio che andiamo su di sopra a svegliare testa di mestolo. Vediamo un po' se ha trovato il modo per slegarsi.» 32 Usciamo dal parcheggio della piramide di vetro poco dopo le quattro di mattina, due ore prima dell'alba. Herman è rannicchiato sul divanetto che corre per tutta la lunghezza del vano passeggeri su un lato della limousine di Ibarra. Abbiamo lasciato il Suburban nero nella zona privata del garage sotterraneo dell'hotel. La polizia di Cancún, e probabilmente anche gli agenti della polizia federale messicana, staranno cercando i due Suburban che risultano scomparsi dalla scena del delitto di Julio. I residenti del condominio devono aver visto i tre veicoli parcheggiati l'uno accanto all'altro. Sul sedile anteriore ci sono l'autista di Ibarra e un altro uomo, meno grosso di Herman, ma comunque dotato di spalle larghe e sguardo d'acciaio. Dietro di noi viaggia un altro veicolo con a bordo quattro uomini. Altre tre auto, sempre con uomini della sicurezza, hanno lasciato l'hotel mezz'ora prima di noi. Dobbiamo incontrarci in un punto prestabilito lungo la superstrada, dove io salirò su una delle altre auto e proseguirò da solo fino al parcheggio di Cobá. Herman, Ibarra e i suoi uomini si avvicineranno al sito archeologico da
un'altra direzione, percorrendo strade secondarie. Se tutto va secondo i piani, arriveranno a destinazione, intorno alla struttura che Ibarra chiama Las Pinturas, prima del mio arrivo. Alcuni dei suoi uomini sono armati di fucili da caccia grossa con mirini a infrarossi in grado di rilevare il calore delle persone nascoste tra la vegetazione. Ibarra mi ha assicurato che sono tiratori scelti. Non possiamo rivolgerci alla polizia, perché Ibarra non è del tutto sicuro che i suoi figli non abbiano corrotto alcune autorità locali. Anche se non l'avessero fatto, comunque, è probabile che la polizia mi avrebbe trattenuto per interrogarmi ben oltre l'ora stabilita nel biglietto e, in quel caso, i figli di Ibarra avrebbero ucciso Adam. Seduto accanto a me, Pablo Ibarra cerca di darmi ragguagli sulla configurazione del terreno e su cosa troverò una volta giunto sul posto. Capisco che è preoccupato - un padre che sta per scontrarsi coi propri figli - e non gli piace ciò che deve fare. «Spero e prego che non siano là», ripete Ibarra, ma mi rendo conto che il biglietto fatto scivolare sotto la porta della camera di Herman in albergo, in cui mi si ordina di portare la stele a Cobá, lascia poco spazio al dubbio. «Quello che non capisco è perché loro pensino che possa averla lei», mi dice il messicano. «Non lo so proprio.» «A meno che non dipenda dalla sua amicizia con questo Rush. I miei figli ne erano al corrente?» «Io non gliel'ho detto», rispondo. «Questa storia non ha senso», mormora lui. Dopo che gli ho raccontato dell'attacco aereo a Casa Turquesa, Ibarra ha passato in rassegna tutte le edizioni del mattino dei quotidiani locali, per vedere se conosceva i nomi dei due uomini a bordo dell'ultraleggero. I suoi figli si servivano di questi aerei per sorvolare la giungla alla ricerca di rovine. Ieri sera tardi, una squadra di subacquei ha recuperato i due cadaveri in mare. Ma all'anziano miliardario i loro nomi risultano sconosciuti. Ibarra ha preparato un involucro avvolto nella stoffa e legato con lo spago. Coperto, potrebbe anche passare per un antico libro maya, a meno che non si conoscano perfettamente le sue dimensioni, e noi non le conosciamo. Una volta scoperto, però, neppure l'occhio di un profano si farebbe ingannare da due tavolette di compensato con della carta in mezzo. Cerco di dormire un po', mentre procediamo lungo la superstrada che collega Mérida, l'antica capitale coloniale spagnola, a Cancún.
Mi appisolo. Sembrano passati solo pochi minuti quando sento un sobbalzo e mi sveglio. Stiamo attraversando un villaggio a velocità ridotta, poco più di trenta chilometri all'ora. «Cosa c'è?» «Niente», mi dice Ibarra. «Topetón. Dossi artificiali. Li mettono nei punti in cui la superstrada attraversa i villaggi, così i guidatori sono obbligati a rallentare.» Eccone un altro, più una collina che un dosso. La lunga limousine è costretta quasi a fermarsi per evitare di strisciare con la parte posteriore o lasciarci le sospensioni. Herman continua a ronfare. Guardo l'orologio: ho dormito per venti minuti. La strada per Mérida è a due corsie, una per ogni direzione di marcia. Persino a quest'ora, prima delle cinque del mattino, c'è gente che si sposta intorno ai radi insediamenti. In alcune delle casupole di blocchi di calcestruzzo con il tetto di lamiera ondulata la luce è accesa. Ho già visto edifici come questi, nelle isole caraibiche. Sono costruiti in modo da resistere agli uragani e alla marea. Le pareti reggono bene e il tetto lo puoi sempre ritrovare, in seguito, o prendere quello di qualcun altro. Tranne che per la zona disboscata dove sono radunati gli insediamenti umani, la vegetazione bassa inghiotte ogni cosa. La verdeggiante e uniforme volta è interrotta unicamente da qualche isolato baniano o dagli indomiti ripetitori telefonici con le loro lucine rosse che lampeggiano in lontananza. A oriente il debole chiarore del mattino sta già cominciando a colorare le nuvole. «Lei ha figli?» mi chiede Ibarra. «Una femmina. Ha quindici anni.» «È difficile.» «Sì.» Penso a Sarah chiedendomi cosa stia facendo. Più che altro, mi domando se la rivedrò ancora. Sono stato arrogante a pretendere di chiarire il mistero della morte di Nick. Mettere a repentaglio l'incolumità dell'unico pezzo di famiglia che resta a Sarah è stato incredibilmente stupido. Se fossi divorziato, forse... ma non lo sono. Sono vedovo. Harry aveva ragione: un genitore rimasto solo non ha il diritto di fare ciò che sto facendo io. E ora è troppo tardi. Con le mie azioni ho messo in pericolo la vita di altri: Harry è all'ospedale e Adam si trova nelle mani dei fratelli Ibarra. Non si può più tornare indietro. Lasciamo la superstrada in una località chiamata Nuevo Xcán e c'inol-
triamo nella lussureggiante foresta tropicale. Qui la strada si fa più stretta, mentre la vegetazione la rosicchia su entrambi i lati. La carreggiata corre come un nastro attraverso la giungla che diventa sempre più fitta a ogni chilometro. Il verde fogliame è impenetrabile. Si erge come un'onda in un mare buio tutt'intorno alla macchina. Proseguiamo come razzi a più di cento chilometri orari, scivolando sulle lievi ondulazioni di una strada che pare non avere mai fine. Le morbide sospensioni della limousine ci sollevano oltre una montagnola. Sulla strada davanti a noi vedo i fanalini posteriori di due auto che bloccano la carreggiata. «È tutto a posto», mi rassicura Ibarra, sporgendosi in avanti. «Sono i miei uomini.» La limousine frena bruscamente, imitata dalla macchina della sicurezza subito dietro di noi. Herman scivola in avanti sul divanetto e finalmente si sveglia. «Che succede?» «Ora di cambiare macchina», gli dico. «Merda. Siamo già arrivati?» «Non ancora. Quanto manca?» chiedo a Ibarra. «Pochi chilometri. Lei deve prendere la strada che va a destra. Non può mancarla. Dovrebbe esserci un cartello che indica la zona archeologica.» La limousine rallenta sino a fermarsi dietro le due macchine in mezzo alla strada, e scendiamo. Subito due uomini in tuta mimetica saltano giù dall'auto che ci ha seguito, piazzandosi accanto alle portiere aperte, sorvegliando la strada alle nostre spalle e la giungla. Uno ha un fucile da assalto. Davanti a noi, gli uomini di Ibarra sono sparpagliati sulla carreggiata, mentre due di loro studiano una cartina aperta sul cofano di una delle macchine. Le portiere sono aperte e qualcuno approfitta dell'ultima occasione per fumarsi una sigaretta prima di ripartire. Indossano giubbotti antiproiettile e due di loro imbracciano fucili con mirini telescopici. Herman cammina accanto a me. «I fucili non servono granché nella giungla, a meno che non trovino un varco tra le piante», commenta. «Lo sapevo che non dovevo dare ascolto a questa gente. Dovevo portarmi la pistola mitragliatrice, la MP-5.» «Andrà tutto bene. Mi sembra gente che conosce il mestiere.» «Già.» Ibarra mi fa cenno di andare verso una delle auto con la portiera aperta.
Mi avvio. «Ehi.» Mi volto. Herman mi sta guardando. «Non mi saluti?» «Vorrei che tu potessi venire con me», gli dico. «Potrei sdraiarmi sul sedile posteriore», propone lui. «Bravo, così non ti vedono di sicuro... E poi devo fare un pezzo di strada a piedi. Ti vedrebbero ancora prima che riuscissimo a fare dieci metri.» «Probabilmente sì. Tieni. Mettiti questa.» Mi porge una giacchetta verde leggera. «Non ho freddo.» «Lo so. Fidati di me. Prendila. La tua camicia bianca spiccherebbe come un faro in mezzo alla giungla.» Prendo la giacchetta e la indosso. Herman tira su la cerniera, quasi sollevandomi da terra, mi mette a posto il colletto con delle manone che sembrano le zampe di un orso. «Non vorrai offrirgli un bersaglio facile, vero?» «Giusto.» «C'è una cosetta per te, nella tasca.» Infilo la mano. «Dall'altra parte.» Tiro fuori l'oggetto. È una piccola pistola semiautomatica d'acciaio brunito. «È la mia arma di riserva. Ho idea che possa servire più a te che a me. È una Walther PPK .380. Sei colpi, quindi non farti prendere la mano. E non ti venga in mente di sparare a qualcosa oltre i tre, quattro metri. È una perdita di tempo, oltre al fatto che attireresti l'attenzione sulla tua posizione. Quella levetta lì, di lato, se la tocchi, espone il lato rosso, e la pistola è pronta a sparare.» La prende, controlla il caricatore, batte il fondo contro la mano, per accertarsi che i proiettili siano al loro posto. «E se mi perquisiscono?» «Non lo faranno.» «Come fai a esserne certo?» «Non ti lasceranno avvicinare così tanto. Loro vogliono quello che hai con te. La mia idea è che ti spareranno e se lo prenderanno.» «Perché?» «Fidati. Probabilmente il tuo amico è già morto.» «Non lo sappiamo.»
«No. Ma ho la sensazione che ci sia qualcosa che non va. Prendila», dice, restituendomi la pistola. «E usala, se è necessario.» Me la faccio scivolare nella tasca. Sento Ibarra che mi chiama. «Mi aspettano. Devo andare.» Gli porgo la mano. «Merda, non voglio una stretta di mano.» Herman allunga le braccia, mi afferra per le spalle e mi stringe in un abbraccio da grizzly. «Sta' attento», mi raccomanda. «Sarai ancora tutto intero quando la faccenda sarà finita. Capito?» «Farò del mio meglio.» «Ti conviene fare qualcosa di più del tuo meglio», ribatte lui. Scoppiamo entrambi a ridere. «Ci vediamo.» «Stammi bene», rispondo. Mi volto, avviandomi verso l'auto. Quando arrivo, Ibarra ha il finto Rosetón sotto il braccio. Lo posa sul sedile anteriore, dalla parte del passeggero. Le chiavi sono nel quadro. «Un'ultima cosa», mi dice il messicano. «Ha un pezzetto di carta, anche piccolo, qualcosa su cui scrivere?» Tiene in mano una penna. Mi frugo nelle tasche dei pantaloni e trovo due pezzettini di carta rosa tutti stropicciati. Ne porgo uno a Ibarra. Lo spiana sul cofano della macchina, lo gira dalla parte non scritta e comincia ad abbozzare un disegno a tratti sottili. «Quando entra, oltrepassi il ristorante, un edificio bianco con il tetto piatto. Svolti a sinistra nell'area adibita a parcheggio. L'ingresso dei visitatori è lì.» Traccia una X sulla mappa. «Ci sono dei grandi alberi. Probabilmente ci sarà una corda tirata fra i tronchi. Lei ci passi sotto. Una volta dentro, deve stare molto attento, se non vuole correre il rischio di perdersi. È come un labirinto. Ci sono molti sentieri, alcuni dei quali s'inoltrano nella giungla.» Attira la mia attenzione sul disegno. «A un centinaio di metri dall'ingresso, il sentiero svolta a destra. Lo segua. Un po' più avanti vedrà delle rovine chiamate La Iglesia. Significa 'la chiesa'.» Lo segna sulla cartina. «Lì davanti troverà delle piattaforme di pietra su più livelli, con dei gradini che salgono. Lei attraversi lo spiazzo. Vedrà tutt'intorno delle rovine ancora sepolte. Lì deve prendere a sinistra. Fatti quindici, venti metri, alla sua destra vedrà l'entrata dello sferisterio. È un'area pianeggiante, lunga e stretta, fiancheggiata da pareti di pietra digradanti, da cui sporge un cerchio di pietra. Lei attraversi il campo fino a un'area dove sono parcheggiate le biciclette.» La segna con
un cerchio sulla cartina. «I turisti le noleggiano per spostarsi tra le rovine. Lei non lo faccia. Vada a piedi, altrimenti arriverà là troppo presto e noi non ci saremo ancora. Quando arriva al parcheggio delle biciclette troverà tre o quattro sentieri che vanno in direzioni diverse.» Li disegna con la penna. «Deve prendere quello a destra.» Me lo indica con la punta della penna. «Questo la porterà a Las Pinturas. Sono trecento, quattrocento metri. Vedrà le rovine, una piccola piramide con sopra una struttura quadrata di pietra, col tetto coperto di foglie di palma. Non può sfuggirle. Ha capito bene?» «Credo di sì.» «Tenga. Prenda questo.» Mi porge il foglietto di carta rosa. Salgo in macchina e abbasso il finestrino. «Che ora fa?» mi chiede. Controlliamo gli orologi. «Ha tutto il tempo. E, si ricordi, ci dia almeno dieci minuti di vantaggio prima di partire.» «D'accordo.» Chiude la portiera. «Noi saremo là», mi assicura. «Buona fortuna.» Quindi si volta e torna a passo svelto alle altre auto. Sento le portiere chiudersi una dopo l'altra. Poi i pneumatici delle due berline e della limousine che fanno scricchiolare la ghiaia sorpassandomi, dirette verso ovest. Nel giro di pochi secondi i fanalini posteriori scompaiono dietro una curva. Resto lì col finestrino abbassato, ad ascoltare i suoni dell'alba nella giungla, il cinguettio degli uccelli, l'urlo stridulo di un qualche animale lontano e il ronzio degli insetti. Do un'ultima occhiata alla piccola mappa disegnata sul foglietto rosa, lo piego a metà e me lo infilo nella tasca della giacchetta. Per maggiore sicurezza, aspetto dodici minuti e poi parto. Dopo circa cinque chilometri, vedo il cartello con una freccia che indica la deviazione, e la scritta a lettere bianche su fondo azzurro: VILLAS ARQUEOLÓGICAS COBÁ. Giro a destra. Dopo qualche chilometro la strada diventa sterrata e un attimo più tardi vedo il ristorante, un edificio a due piani con il tetto piatto e una terrazza al primo piano. Ha una tettoia spiovente di fronde di palma per riparare i tavolini e le sedie sistemati fuori. Davanti c'è un grande bacino, un lago, con gli argini nascosti dall'erba
alta. Ibarra mi ha avvisato: se voglio attraversare la giungla senza problemi, devo stare lontano dall'acqua. I coccodrilli messicani possono anche essere una specie in via d'estinzione, ma è successo che si siano mangiati cani e bambini piccoli, e, in qualche rara occasione, anche turisti. Davanti al ristorante la strada curva verso sinistra e qualche centinaio di metri più avanti sbocco nell'area di parcheggio. È fiancheggiata da basse costruzioni, negozietti di souvenir e, lì accanto, c'è una casetta quadrata col tetto di palma, la biglietteria. Più oltre, un sentiero conduce alla zona archeologica, passando tra due grossi alberi che hanno la corteccia contorta e il tronco nodoso. Danno l'idea di essere lì fin dai tempi in cui l'ultimo sovrano maya se n'è andato chiudendo baracca e burattini. Tra i due alberi è tesa una corda. Mi fermo lì davanti, spengo il motore e guardo l'orologio. Ho venti minuti per arrivare alla zona di Las Pinturas. A quest'ora, Ibarra e i suoi uomini dovrebbero essere già impegnati a individuare gli uomini di Arturo nascosti tra la vegetazione per poi prendere posizione alle loro spalle. Raccolgo l'involucro dal sedile, scendo dall'auto e vado verso l'ingresso, passo veloce sotto la corda e mi avvio per il sentiero. Il terreno è irregolare. Le radici degli alberi hanno scavato dei solchi nel suolo sabbioso, e mi costringono a guardare dove metto i piedi. La poca luce dell'alba è ulteriormente filtrata dal fogliame sopra di me. Oltrepasso un cartellone protetto da un piccolo tetto di foglie e salgo una collinetta. Poi il sentiero scende, gradualmente, e piega verso destra. Sui due lati ci sono delle montagnole simmetriche con alberelli stentati dai quali spuntano rametti radi e irti, come i peli di una strana bestia. Stanno mettendo altre radici: alcune s'infilano nelle fessure tra le rocce come serpi. Sotto gli alberi e sui fianchi delle montagnole il terreno è disseminato di pietre rese tondeggianti dall'erosione: la loro forma però è troppo regolare per essere un prodotto della natura. Ovunque mi volti, vedo collinette, piccoli rilievi nella giungla: rovine maya ancora sepolte. Una decina di metri più avanti arrivo in una radura: lo spiazzo, e quella che Ibarra ha chiamato La Iglesia. È una grande piramide con diversi piani terrazzati sul davanti e ripidi gradini diroccati che portano alla cima. Negli Stati Uniti, un'attrazione turistica come questa sarebbe il sogno di ogni avvocato. Attraverso lo spiazzo e vado a sinistra. Improvvisamente mi accorgo di essermi perso.
Mi fermo, prendo la mappa disegnata da Ibarra e la consulto al debole chiarore dell'alba. Vedo la parola SFERISTERIO scritta a piccole lettere. Mi giro lentamente di centottanta gradi. E, davanti a me, vedo in controluce una sagoma curva. È l'anello di pietra che sporge dal muro del campo per il gioco della palla. Guardo l'orologio e riprendo la marcia, trotterellando attraverso il campo, delimitato da lisce pareti di pietra sui due lati. Cinque metri più avanti, il sentiero diventa pianeggiante finendo in un grande spiazzo sotto un gruppo di alti alberi. Vedo una ventina di biciclette o forse più, alcune addossate contro i tronchi, altre abbandonate a terra, altre ancora appoggiate al cavalletto. Fino a questo momento, la cartina disegnata da Ibarra si è rivelata precisa. Continuo a camminare, passandomi l'involucro sotto l'altro braccio. Così facendo, sfrego contro il tessuto della giacchetta e sento gli spigoli della pistola. Spero proprio di non averne bisogno, ma quel peso che mi sforma la tasca è confortante. Se sarà necessario, avrò la possibilità di difendermi. «Señor.» 33 Sentendo la voce alle mie spalle, mi blocco. Il cuore mi batte all'impazzata. Se anche non mi spara, avrò perso almeno un anno di vita. Mi volto senza avere il tempo di metter mano alla pistola. Nella debole luce, vedo, seminascosta dietro un albero, la sagoma di un ometto seduto su quello che sembra un grosso triciclo. Ha due ruote sul davanti, sormontate da un piccolo sellino, e una sola ruota dietro. Esce pedalando dall'ombra. I suoi occhi sembrano fissi non tanto su di me quanto sull'involto che porto sotto il braccio. Fa un gesto con la mano, indicando il sedile davanti a sé, un invito a salire. Scuoto la testa. «No, grazie», e comincio a voltarmi. «Señor.» Questa volta con maggior insistenza. Il messaggio è chiaro. C'è un motivo per cui si trova qui a quest'ora antelucana. È stato mandato a prendere me. Indossa una camicia di cotone sottile, jeans e un paio di logore scarpe da ginnastica senza calze. Intravedo una caviglia scura sopra il piede posato sul pedale. Se è armato, non lo dà a vedere, e non ci sono rigonfiamenti sotto i suoi
abiti. Ibarra mi ha avvisato di non usare la bicicletta per dare ai suoi uomini il tempo di prendere posizione. Potrei semplicemente voltarmi e proseguire per la mia strada, rischiare. Ma, dallo sguardo dell'uomo, sospetto che mi seguirebbe con il suo triciclo sferragliando come un campanaccio e rivelando a chiunque la mia posizione. Senza dubbio lo hanno pagato per questo servizio, probabilmente più di quanto guadagni in una settimana portando turisti in giro per la giungla. E ora si sente obbligato ad assolvere il suo compito. «Perché no?» dico, avvicinandomi al trabiccolo. Lui annuisce con un sorriso, indicando il sedile, mentre io salgo. Tengo l'involucro in grembo, mentre lui parte pedalando attraverso lo spiazzo. Prendendo velocità nella leggera discesa, imbocca uno dei sentieri di destra, poi si alza in piedi e le sue gambe cominciano a pompare. Procediamo sobbalzando lungo il sentiero, piano come un tavolo da biliardo ma non altrettanto liscio, accompagnati dal rumore dei grossi pneumatici che fanno scricchiolare la sabbia calcarea. Il triciclo entra in una pozzanghera d'acqua stagnante e una delle gomme spruzza fango sul sedile. Cerco di proteggermi col braccio, ma è troppo tardi. L'uomo ride e dice qualcosa in spagnolo, ma non lo capisco. «Un secondo. Si fermi un secondo.» Lui continua a pedalare. «Ferma.» Com'è che si dice? «Pare.» «Qué?» «Pare.» «Sí.» Lentamente, l'uomo ferma il triciclo, mentre io cerco nella tasca il foglietto con sopra la cartina disegnata da Ibarra. Lo spiego e cerco di decifrare gli scarabocchi e le linee nella debole luce del mattino. Poi vedo le parole ULTIMO A DESTRA. «Abbiamo preso la strada sbagliata.» «Qué?» «Abbiamo svoltato nel punto sbagliato. Là.» Indico col braccio oltre la sua spalla. «Dovevamo girare a destra. L'ultima a destra.» La mia voce compensa col volume la mancanza di conoscenze linguistiche. Mi volto completamente sul sedile e indico oltre la sua spalla. «Dobbiamo andare dall'altra parte», gli dico. «Donde?» «Laggiù.»
«No. Por aquí», obietta lui e indica un sentiero davanti a noi. «La Porta del tempio delle iscrizioni è da quella parte», affermo. «No.» Scuote la testa, si alza in piedi e riprende a pedalare. «Por aquí.» «Ferma.» M'ignora. Cerco di scendere, ma lui acquista velocità e il mio piede struscia per terra. «Señor.» Ora il suo tono è brusco, arrabbiato. Mi volto a guardare e lui scuote la testa. «Por aquí.» E accenna col capo alla direzione in cui stiamo andando. Recepisco il messaggio. Sta dicendo che la strada è questa. Chiunque lo abbia mandato gli ha dato istruzioni precise. Potrei piantare i piedi a terra, fermare la bicicletta e scendere. Usare la pistola per sbarazzarmi di lui, se proprio necessario. Ma in questo modo non troverei mai più Adam. Lo ucciderebbero, sempre che non l'abbiano già fatto. Ovviamente ci uccideranno tutti e due, un attimo dopo aver aperto l'involucro e aver visto cosa c'è dentro. Il piano di Ibarra era di non lasciarli avvicinare così tanto. Costringerli a portare Adam allo scoperto. Poi uno dei loro tiratori scelti avrebbe fatto fuori chiunque lo tenesse e in quello stesso istante io avrei dovuto lanciare l'involucro nella boscaglia e seguirlo. Nella confusione generale, gli uomini di Ibarra, protetti dai giubbotti antiproiettile, avrebbero dovuto afferrare Adam e portarlo al riparo. Ora, mentre procediamo, stringo i denti. L'unica cosa certa è la piccola Walther che ho nella tasca. Ogni giro delle ruote aumenta la distanza tra gli uomini di Ibarra e me. Herman aveva ragione. Chiunque abbia progettato questo, lo ha progettato bene. Guardo il foglietto rosa piegato nella mia mano. È uno dei bigliettini dei messaggi telefonici che Harry ha portato dall'ufficio. Sul lato stampato c'è il messaggio. Riconosco la calligrafia di Marta. Strano come nei momenti di crisi le cose familiari ti offrano l'illusione di un conforto. Sto sobbalzando attraverso la giungla su un triciclo, alla mercé di un messicano pazzo che mi sta probabilmente portando alla morte, e riesco a pensare solo a Joyce Swartz, il nome scritto sul biglietto. Sento la voce roca di Joyce al telefono, le sue parole biascicate con la sigaretta che le penzola dalle labbra. Fisso il biglietto come in trance, leggo le parole, incapace di decifrare il messaggio, mentre le vibrazioni mi fanno tremolare la vista e i denti.
Improvvisamente il ritmo delle ruote comincia a rallentare: l'uomo smette di pedalare e procede sull'abbrivo. Alzo lo sguardo, mentre ci fermiamo in mezzo al nulla. Il sentiero bianco si restringe in lontananza davanti a noi, poi scompare dietro una curva. Abbiamo coperto almeno un chilometro e mezzo, forse anche di più, dal parcheggio delle biciclette. L'uomo mi fa cenno di scendere. «Dove? Donde?» «Aquí.» «Dove devo andare?» «Aquí.» «Qui? Vuole che stia qui?» «Aquí.» E fa un cenno col braccio in direzione del sentiero, come se volesse mandarmi via. Prendo il pacchetto e scendo dal veicolo. Lui inverte la marcia con un ampio arco, gira e torna indietro. Resto lì, impalato in mezzo al sentiero, a osservarlo finché non sento più lo sferragliare metallico. Piano piano il triciclo scompare in lontananza, inghiottito dalla giungla nel punto in cui il sentiero sparisce. Mi volto e guardo dall'altra parte. Non c'è niente a parte una stretta striscia bianca che va nelle due direzioni, come un filo che corre attraverso una stoffa verde. L'uomo ha indicato quella direzione e così comincio a camminare, tenendomi su un lato del sentiero, vicino alla boscaglia, per non fare di me un bersaglio ancor più visibile del necessario. Stretto sotto il braccio tengo l'involucro. All'improvviso mi fermo e mi guardo attorno. Ogni albero e ogni cespuglio sembrano uguali ai precedenti. Comunque è sempre meglio che consegnare un fagotto di vane speranze a dei tizi armati. Spezzo un ramo da uno dei cespugli per marcare il punto e nascondo l'involucro dietro un ammasso di rocce poco distanti dalla strada. Il fatto di presentarmi senza e di sapere dov'è mi darà un qualcosa per contrattare, non fosse altro per guadagnare tempo nella speranza di trovare una soluzione. Vedendo che non ce l'ho, loro non mi spareranno, se sono furbi, almeno finché non parliamo. Torno sul sentiero, sempre stringendo il foglietto rosa in una mano. Non c'è modo di capire la distanza dal punto in cui si trovano gli uomini di Ibarra, perché il disegno non è in scala. Inoltre, dopo tutte quelle curve e controcurve sulla bicicletta, ho perso il senso dell'orientamento. Sto per appallottolare il biglietto e gettarlo tra i cespugli, quando mi ca-
de l'occhio su una parola scritta sull'altro lato, la parola «Capri». Senza gli scossoni della bicicletta, mi concentro sul criptico messaggio scritto da Marta e consegnato insieme ad altri, in una busta, a Harry. «Joyce dice che la Jamaile possedeva un bene immobile. Il terreno su cui è costruito il vecchio Capri Hotel.» Resto lì per un istante, gli occhi fissi sul foglietto, stanco, confuso. Riprendo a camminare lentamente lungo il sentiero, pensando che Nick possedeva la Jamaile e la Jamaile possedeva il Capri, lo squallido locale in centro dove lui andava a bere il caffè ogni mattina. Alzo gli occhi e mi avvicino un po' di più ai cespugli, continuando a camminare. Cosa significa? Non ha senso. Se Nick possedeva un pezzo di terreno in centro, perché Dana non ne era al corrente, e neppure Margaret? Nick era senza un quattrino. Perché s'interessava a uffici sfitti a San Francisco e a New York, e perché stava trattando con Metz e i fratelli Ibarra per l'acquisto di un pezzo di storia che vale milioni di dollari? Certamente lui avrebbe preso una commissione, ma... Mi blocco di colpo. Il mio cuore salta un battito. Mi volto e riprendo a camminare in fretta nella direzione opposta. Pochi passi, e comincio a correre a gambe levate, voltandomi a guardare ogni tanto. Il ramo spezzato che indica dove ho nascosto l'involucro è lì davanti, quando lui sbuca dal fogliame sull'altro lato del sentiero, a circa tre metri da me. Adam mi sta puntando contro una pistola. «Dove sta andando così di fretta?» Mi fermo, lo guardo respirando affannosamente, poi mi chino e appoggio le mani alle ginocchia per prendere fiato. «E io che credevo venisse a salvarmi», prosegue lui. «Li ha uccisi lei. Nick, Metz, Espinoza, Julio.» «No. No. Ecco, sta di nuovo saltando alle conclusioni. Io non ho avuto niente a che fare con Espinoza. Non sapevo neppure della sua esistenza, finché non me ne ha parlato lei. In effetti, la quantità di cose che non sapevo mi lascia allibito. In quanto a Nick e a Metz, se la cosa può farla sentire meglio, non sono stato io a premere il grilletto. Anche se si potrebbe dire che sono stato io a mettere in movimento le cose. È stata della gente di Tijuana. Il mondo è diventato un luogo orrendo. Se li paghi a sufficienza, non vogliono neppure sapere chi sei. Devo dire che hanno fatto un lavoro migliore di quei due idioti con l'ultraleggero. A me l'idea non convinceva, ma loro hanno insistito tanto... a proposito, se posso chiederglielo, come sta Harry?»
«Se la caverà.» «Capisco. Questo potrebbe essere un problema. Vede, io non ero certo di cosa sapesse lui, così ho pensato fosse meglio invitarlo a venire con noi. E così lei è venuto davvero qui convinto d'incontrare i due fratelli. Devo dire che ho fatto un ottimo lavoro in pochissimo tempo. Le piace il mio abbigliamento?» I suoi abiti sono sporchi di terra, una gamba dei pantaloni è strappata al ginocchio, e lui ha un'escoriazione su una guancia. «Fa tutto parte della messinscena», mi spiega. «Può immaginare il mio panico quando Harry ha accennato al palmare di Nick durante la cena. Se lui non avesse parlato, a quest'ora staremmo salendo tutti sull'aereo per tornarcene a San Diego.» «Perché?» «Perché non si volta e non s'inginocchia? Adesso.» Obbedisco. «Bravo. Ora metta le mani per terra davanti a sé e si sdrai. Allarghi gambe e braccia, e non si muova. Così.» Adam fa un passo avanti, mi preme la canna della pistola in fondo alla schiena e comincia a perquisirmi. «Diamine, come facevo a sapere cosa c'era nell'agenda palmare di Nick? Con lei che continuava a nascondermi le cose?» Mi tasta un fianco, poi le reni, quindi l'altro fianco. «Dio solo sa quanti altri piccoli dettagli lei conosce e non mi vuol dire. Non sarebbe bello che ce ne tornassimo tutti a casa e che poi, all'improvviso, la polizia scoprisse qualcosa che Nick si è lasciato dietro e che punta nella mia direzione.» Mi tasta le gambe, poi si allontana. «Ora può alzarsi.» Mi alzo in piedi. «Mi dica, cos'è quello? Il Mejicano Rosen? L'ho vista nascondere il pacco dietro le rocce e spezzare il ramo. Stavo per seguirla, ma poi l'ho sentita tornare indietro.» «Perché non ci guarda?» «Non credo proprio. Lei è un po' troppo impaziente. Cosa c'è, del gas lacrimogeno? Qualcosa che stordisce chi lo apre? Non mi dica che ce l'aveva davvero Pablo Ibarra...» «Veramente no.» «Muoio dalla voglia di saperlo. Cos'è? Non dico il pacco. Intendo questo Rosen?» «Non lo sa?» gli chiedo.
«Non ne ho la più pallida idea.» «Allora perché ha scritto quel biglietto dicendo di portarlo?» «Dovevo pur inventarmi un modo per farla venire quaggiù», risponde Adam. «Voglio dire, sarebbe parso un po' strano se i fratelli Ibarra le avessero mandato un biglietto dicendole semplicemente di venire qui a recuperare il signor Tolt. Ma devo ammettere che muoio dalla curiosità. Perché non parliamo intanto che camminiamo?» propone. «Non è lontano. Inoltre così mettiamo un po' di distanza tra noi e le persone che potrebbe essersi portato dietro. Si è portato dietro qualcuno, vero?» Non rispondo. Ci avviamo lungo il sentiero, Adam con la sua pistola, due metri, due metri e mezzo dietro di me, a giudicare dalla voce. «Allora, questo Rosen... è questo che voleva Nick?» «Così pare.» «Cos'è?» «Un testo antico scritto in lingua maya.» Tolt scoppia a ridere. «Sta scherzando? Nick? E cosa voleva farne, venderlo?» «Veramente aveva intenzione di barattarlo.» «Con cosa?» «Con una variante all'altezza di una sua proprietà immobiliare.» «Di cosa sta parlando?» «È una lunga storia», rispondo. «Già. E temo che non abbiamo molto tempo.» Continuiamo a camminare per parecchi minuti finché non arriviamo in una radura dominata da un enorme cumulo di pietra, una piramide coi fianchi erosi dal tempo e dagli agenti atmosferici. Davanti a noi una gradinata ripidissima arriva fino alla sommità, sormontata da quella che sembra una piccola struttura di pietra. «Spero che si sia portato le scarpe da free climbing. Su, vada.» Attraversiamo la radura e comincio a salire. I gradini sono ripidi e alti. La maggior parte ha un'alzata di mezzo metro o più, una pedata strettissima, e niente cui attaccarsi a parte il gradino superiore. Ci arrampichiamo aiutandoci con le mani, piegati in avanti. Sono costretto ad aggrapparmi due scalini più in su di dove si trovano i miei piedi. Adam riesce a tener libera la mano con cui stringe la pistola, sempre puntata contro di me. Dimostra un'agilità straordinaria per la sua età. Il sole nascente sta cominciando a riscaldare l'umidità che si leva dalla giungla. Ormai è giorno e, salendo, vedo la volta verde che si estende co-
me un tappeto di foglie tutt'intorno a noi, con picchi color malva che spuntano qua e là in parecchi punti, i resti degli edifici maya già strappati all'abbraccio della vegetazione. «Allora, cosa sarà questa volta? Un colpo alla nuca come a Julio o un incidente?» «Pensavo che avremmo potuto deciderlo una volta arrivati in cima.» «È un azzardo, vero? Quando troveranno il mio corpo con un proiettile in testa o ai piedi della piramide, e lei in cima, le autorità messicane le faranno delle domande precise.» «Ovviamente. E io avrò tutte le risposte. I fratelli Ibarra mi hanno tenuto in ostaggio, senza cibo e senza acqua. Le piace il mio travestimento? Mi hanno picchiato, nel tentativo di scoprire dov'era questo Rosen. Ma io non ne sapevo nulla. Dopo che le hanno sparato, o che l'hanno gettata giù, a seconda di quello che lei sceglierà visto che io sono una persona flessibile, i due fratelli o, meglio, i loro sicari, si sono fatti prendere dal panico e mi hanno lasciato lassù. È una storia straziante», aggiunge Tolt. «Ovviamente, bendato com'ero, non sono riuscito a vedere nulla. Mi sono preso questa libertà. La benda è nella mia tasca, insieme a un po' di nastro adesivo per mani e piedi. Non devo neppure fare nodi, mi basterà sfregare il nastro nella terra e ruotare un po' i polsi come se mi fossi divincolato per liberarmi. Credo che a loro basterà.» Adam ha pensato proprio a tutto. «Sapeva che questa è la piramide più alta della penisola dello Yucatán?» «Ne sono onorato.» «Veramente, se guarda da quella parte», e indica con la pistola, «subito oltre la gradinata alla sua destra, sembra più un dirupo.» «Lo vedo.» «Ho pensato che fosse un buon posto per noi. Lo chiamano il Nohoch Mul, il grosso tumulo. Secondo la guida, è alto quarantun metri e mezzo. Dodici piani. Centoventi gradini.» «Potremmo ricominciare da capo, così posso contarli.» «Non mi pare il caso. Continui a salire.» Tolt sta attento a mantenere sempre la stessa distanza, due o tre gradini dietro di me, fuori della portata di un possibile calcio. «Ha portato con sé un aiuto, suppongo. Mi faccia indovinare. Herman?» Annuisco. Lui scoppia a ridere. «Quell'uomo è un gran rompiballe. Sempre lì a sorridere con quel suo dente rotto. Anche se devo ammettere che è stato lui a
darmi l'idea per disarmare Julio.» «Herman è piuttosto arrabbiato a questo proposito», lo informo. «Già. Immagino fossero molto amici.» «Era proprio necessario ucciderlo?» «Avevo bisogno di qualcosa che dimostrasse la ferocia di questa gente, la loro determinazione a mettere le mani su di lei.» «Sparare nella piscina dell'albergo non era abbastanza?» «Be', non potevano rapire me e lasciare le mie guardie del corpo, no?» «Cosa ne ha fatto degli altri uomini di Julio?» «Ho esercitato il mio potere. Ieri mattina, ho chiamato Julio, prima che lei e Harry vi alzaste, e gli ho ordinato di andare all'appartamento e restarvi fino al mio arrivo. Più tardi, quando mi sono allontanato dalla piscina per fare quella telefonata urgente, ho preso l'uomo che Julio aveva lasciato di guardia nell'atrio e insieme siamo andati in taxi al condominio. Prima di scendere, avevo messo sottosopra la mia camera. Ho detto a Julio di rimandare i suoi uomini a Città del Messico, perché non avevamo più bisogno di loro. Ovviamente, è stato più che felice di accontentarmi, pensando che il lavoro fosse finito.» Si ferma per un secondo, asciugandosi la fronte con un lembo della camicia. «Si sta facendo caldo. E, comunque, dieci minuti dopo gli uomini di Julio avevano già fatto i bagagli e se n'erano andati. Ho detto a Julio di riportarmi all'albergo. Si è messo al volante. Io sono salito dietro, e gli ho chiesto di darmi la sua pistola.» «Semplicemente così?» «No. Gli ho detto che non volevo altre esibizioni tipo quella di Herman del giorno prima, quando per poco non ci ammazzavano. È stata una cosa stupida estrarre la pistola in quel modo. Julio mi ha dato ragione. Il fatto è che gli bruciava ancora la strigliata del giorno prima. Mi ha passato la pistola. È il segreto dell'autorità: la maggior parte delle persone non la mette in discussione.» «Tranne le persone come Nick, giusto?» «Be', non ho passato trent'anni a mettere su uno studio perché arrivasse Nick Rush a farmelo a pezzi. Era andato a parlare con i miei soci, facendo loro delle offerte, dicendo che avrebbe avuto i contanti per finanziare un nuovo studio legale, con sedi in ogni città. Lei cosa avrebbe fatto?» «Non lo avrei ucciso.» «Be', lei è più giovane di me. Avrebbe avuto più tempo. Io non avevo intenzione di tornare a esercitare da solo o di starmene seduto sotto un portico su una sedia a dondolo. Mi ero fatto un nome, una reputazione. Avevo
costruito qualcosa. Politici, uomini di spettacolo, persone che contano: tutti conoscono il nome di Adam Tolt.» «È così? La sua identità era in pericolo?» «Esatto. A conti fatti, cos'altro ci resta?» Lo studio è tutta la vita di Tolt. Sa che senza lo studio la gente non risponderebbe più alle sue telefonate, nessun prestigioso comitato lo vorrebbe più tra i suoi membri, i politici non attraverserebbero più una sala gremita di persone solo per andare a stringergli la mano. E per Adam, queste sono le cose che rendono la vita degna di essere vissuta, queste e il jet privato, oltre all'ufficio d'angolo con vista sulla baia. Ci sono persone che hanno ucciso per molto meno. «Chi altro è venuto oltre a Herman? Non mi dica che siete solo voi due.» «Qualcun altro.» «Sapevo che avreste portato dei rinforzi.» Ci stiamo avvicinando alla cima. Si ferma per prendere fiato, e così mi fermo anch'io. «No, no, lei continui. Io le vengo dietro.» Si toglie il cappello e si asciuga la fronte con la tesa. «Ovviamente, ora stanno girando per la giungla a mezzo chilometro da qui. Laggiù, direi.» Lancia un'occhiata alla propria sinistra, sempre tenendomi sotto tiro. «Sì, se guarda, li vede. Salga ancora un po', la lascio guardare. Ecco, là.» Si sposta a destra, in modo che io rimanga nella sua linea di tiro, mentre si volta a guardare. «Vede quel piccolo edificio che spunta dalla giungla? Com'è che si chiama, qualcosa con una porta?» «La Porta del tempio delle iscrizioni.» «Quella. Credo che sia quella. A piedi, ci metteranno almeno dieci, quindici minuti per arrivare qui. A quel punto, io me ne sarò andato già da un pezzo. Scommetto che l'hanno informata così bene su quella zona che ne conosce ogni singola pietra.» Non replico. «Dopo aver sparato a Julio, mi ci è voluto un po' per trovare in una libreria una cartina con i nomi delle rovine, in modo da sapere dove mandarli, mentre mi occupavo di lei.» «Un tocco da maestro, Adam», commento. «Lo penso anch'io.» Continuiamo a salire. «Ho bisogno di sapere una cosa. Dov'è il palmare di Nick?» «Si aspetta davvero che glielo dica?» «Potrei cercarmelo da solo, suppongo. L'ultima volta che ne abbiamo
parlato, lei ha detto che si trovava nel suo ufficio. Il che mi fa venire in mente un'altra cosa: Harry quanto sa di tutto questo?» «Niente. Harry non sa niente.» «Su, lo sappiamo tutti e due che non è vero. Lui sapeva del palmare. Vorrei poterle credere, ma lei è una delusione continua. Questa cosa sta diventando veramente troppo violenta. D'altro canto, c'è tanta gente che muore in ospedale per un'infezione o per un incidente.» Arrivo in cima alla piramide. Tolt si ferma qualche gradino sotto di me. Sono in un bagno di sudore. A furia di respirare con la bocca, mi si è seccata la gola. Il sole ci colpisce obliquamente da est, cominciando a riscaldare le pietre che riflettono la luce tutt'intorno a noi. Dalla giungla si levano nuvole di vapore simili a coni di fumo capovolti. Davanti a me, al centro della piattaforma, c'è una struttura rettangolare di pietra con un'unica apertura. L'interno è nascosto dall'ombra. All'esterno, intagliate nella parte alta delle pietre angolari a livello della sommità, ci sono due figure umane appese a testa in giù. «Vada a mettersi là.» Guardo Adam. Gesticola con la pistola verso la mia sinistra. Ha il respiro affannato, il sudore gli cola dal mento, inzuppandogli la camicia. Tre o quattro metri più in là, la scalinata scompare; al suo posto si apre uno strapiombo con una piccola sporgenza a metà altezza. Vado verso di essa. Tolt si avvicina. Tenendomi la pistola puntata addosso, azzarda un'occhiata oltre il bordo per accertarsi che la caduta sia sufficiente. Quindi torna a guardare verso di me e mi sorride, evidentemente soddisfatto. «Ora, se vuole avvicinarsi...» «Non si aspetterà che salti.» «Non si preoccupi. La aiuterò io.» Come pronuncia queste parole, da sotto giunge un rumore metallico. Adam muove un passo veloce per mettersi tra me e il rumore. Vedo una bicicletta avvicinarsi sferragliando sul terreno irregolare del sentiero ed entrare nella radura. La persona che la guida sembra picchiare le ginocchia sul mento a ogni pedalata. Si ferma in mezzo alla radura, mette i piedi a terra, ancora seduto sulla bicicletta che, sotto di lui, pare un oggetto in miniatura, e alza lo sguardo verso la sommità della piramide. «Sei tu, Adam Tolt?» Herman si scherma gli occhi con la mano. «Sai, l'avevo capito che eri un figlio di puttana. Ma hai superato te stesso. E, tan-
to che tu lo sappia, neanche Julio aveva una grande opinione di te. E sono certo che la sua opinione non è migliorata dopo che gli hai sparato alla nuca.» «Se cerchi di salire quassù, lo uccido.» Tolt mi avvicina la pistola alla testa. «Sai una cosa», riprende Herman. Ora tiene le mani sui fianchi, sempre seduto sulla bicicletta. «Quell'affare non ti servirà a molto contro di me, quaggiù. Vedi, la Glock di Julio non spara per niente bene. Se fossi stato a più di trenta centimetri da lui, lo avresti mancato. Glielo dicevo sempre di farsi mettere a posto il mirino.» «Be', il signor Madriani, qui, è difficile che lo manchi.» «Sì, ma ho una domanda per te. Dopo che gli hai sparato, come pensi di scendere da lì senza passarmi davanti? La mia quarantacinque spara un po' meglio di quella schifezza, e i proiettili sono più grossi.» «Non mi sembra che quell'uomo dia molta importanza alla sua vita», mi dice Adam. «Be', l'avevo avvisata che era incavolato per Julio.» «Allora, come intende risolvere questo problema?» mi domanda Tolt. «Non è un problema mio», rispondo. «Non lo sarà se lei muore. Gli dica di andarsene, altrimenti la uccido.» «Dice di andare, altrimenti mi uccide», grido a Herman. «Questo non cambia la situazione. Fra qualche minuto gli uomini di Ibarra saranno qui coi fucili. Cominceranno a far rimbalzare proiettili su quelle pietre. E farà molto caldo. Non è che per caso avete portato dell'acqua con voi, vero?» chiede il gigante nero. «No, non ci abbiamo pensato.» Adam mi preme la pistola contro la testa. «Chiuda la bocca.» «Sembra proprio che la prossima mossa tocchi a lei», considero. «Mi faccia pensare.» «Potrebbe lasciarmi andare», gli suggerisco. «Quel figlio di puttana è così pazzo da cercare di uccidermi comunque. L'ha detto anche lei. È arrabbiato per la faccenda di Julio. Avrei dovuto sparare a lui.» «Tutti commettiamo degli errori. E la avverto: la fiducia di Herman nel sistema giudiziario messicano è un po' più alta del rispetto che ha per la versione moderna americana.» «Sarebbe a dire?» «Che probabilmente le sparerà», traduco.
«Mi sto stancando di aspettare quaggiù. Vuoi che spari un paio di colpi verso di te? Chissà, magari ho fortuna», urla Herman. «E il rumore farà arrivare prima Ibarra. Oppure potrei salire e farti volare giù a calci in culo.» Il nero scende dalla bicicletta, la lascia cadere a terra e viene verso di noi. «Cosa sta facendo?» mi chiede Adam. «Non lo so.» «Gli dica di fermarsi o le sparo in questo stesso istante», si affretta a ordinarmi Tolt. «Herman, resta dove sei. Non salire.» Lui non mi ascolta. Continua a camminare, parlando da solo, borbottando. Lo sento persino da qui. Comincia a salire, affrontando i gradini di mezzo metro come se fossero stati costruiti appositamente per lui. «Herman, resta lì!» Lui continua a salire. «Figlio di puttana», sbraita Adam, puntandogli contro la pistola e prendendo la mira. Lo colpisco al braccio con una spallata proprio nel momento in cui lui preme il grilletto. Il colpo secco, l'esplosione vicino al mio orecchio mi rintronano la testa. Mille uccelli si levano in volo affollando il cielo, puntini neri svolazzanti come moscerini su un parabrezza. Herman si ferma e guarda in su. «Cazzo, ora hai proprio esagerato.» Estrae la semiautomatica. I raggi del sole si riflettono sull'acciaio scintillante. Tolt tenta di spingermi oltre il bordo. Oppongo resistenza, cercando un appiglio sulla roccia con le suole di gomma, i piedi ormai sul ciglio. Lui tenta di girarsi per fare leva, mettendomi un braccio intorno al collo. Lottiamo sul bordo del precipizio di pietra. Sfuggo alla sua stretta e finisco col sedere sulla dura piattaforma di pietra dietro di lui. Adam mi punta contro la pistola, ma poi, con la coda dell'occhio, vede Herman salire veloce su per la gradinata. Tolt si volta e prende la mira; questa volta tiene la Glock a due mani, puntandola con cura contro la mole di Herman, a soli dieci o dodici gradini dalla sommità. Spara e sento il rumore del proiettile che colpisce la carne. Herman si ferma, abbassa lo sguardo, si porta una mano al petto, barcolla. Poi guarda Adam e riprende a salire. Faccio per prendere la pistola dalla tasca ma resta impigliata nel tessuto.
Tolt punta e spara di nuovo. Sento lo stesso tonfo quando il proiettile va a segno. Questa volta, Herman cade su un ginocchio. Lascia andare la pistola che rimbalza per parecchi gradini. Vedo la faccia di Herman gonfia di sangue, le vene dilatate sul collo. Si tiene un fianco con la mano. Estraggo la piccola Walther dalla tasca. Scarrello per mettere il colpo in canna, giro attorno all'edificio di pietra, punto l'arma contro Adam e premo il grilletto. Niente. La sicura è inserita. La tolgo armeggiando con la levetta, che scatta e si gira sul rosso. Tolt ha sollevato la Glock e mira con cura alla schiena di Herman che sta cercando di recuperare la pistola caduta sui gradini. Faccio partire un colpo. La piccola Walther ha uno scarto nella mia mano e il proiettile colpisce Adam al braccio, facendolo sobbalzare proprio mentre preme il grilletto. Il colpo manca il bersaglio. Tolt si volta e mi guarda, gli occhi come due uova al tegamino, chiedendosi dove diavolo abbia preso la pistola. Gli è sfuggita quando mi ha perquisito. Era dentro la tasca interna della giacchetta. Lui non ha controllato sul davanti quando mi sono alzato. Adesso Tolt tiene la Glock abbassata lungo il fianco, la canna puntata verso la pietra, e fissa incredulo la pistola nella mia mano. Sa che, se solleva la Glock, gli sparerò di nuovo. Mi guarda, sorride e poi scuote la testa come se volesse sfidarmi a farlo. Si volta verso la scalinata. Herman sta allungando una mano verso la semiautomatica. Adam punta la pistola. Questa volta la Walther si muove appena nella mia mano, sparando il colpo. La testa di Tolt scatta di lato mentre sulla sua tempia compare un puntino rosso, seguito da un fiotto di sangue, come se qualcuno avesse fatto un buco in un barile. Gli cedono le ginocchia. Cade a sedere sulla pietra. Per un istante il suo torace resta eretto, poi la forza di gravità lo fa scivolare di lato. Il tempo di sbattere le palpebre, ed è già sparito oltre il bordo. EPILOGO Harry è uscito dall'ospedale, con memoria e facoltà intatte, mentre Herman entrava. I chirurghi hanno rimosso un proiettile che gli si era conficcato nella muscolatura del torace, vicino alla clavicola. L'altro gli ha trapassato il fianco, perforandogli quella che lui ha definito «maniglia dell'amore». Sta
pensando di farcisi un piercing col brillante, qualcosa che attiri l'attenzione delle donne quando lui passeggia in costume sulla spiaggia. Quanto a Tolt, un medico legale messicano ha recuperato frammenti del suo corpo da uno spuntone di roccia cinque livelli sotto la sommità del Nohoch Mul. Si può affermare che Adam sia rimasto vittima del suo stesso verticismo. Tolt non si era reso conto di aver ferito in modo irreparabile l'amor proprio di Nick. Altri avvocati, insoddisfatti della propria posizione in uno studio legale, si sarebbero limitati a portarsi via uno o due clienti, due dolcetti da un vassoio, prima di andarsene sbattendo la porta. Non Nick. Lui voleva tutto, compresi i posacenere d'oro e i tappeti persiani. Nick si era organizzato la fuga, cercando di portare via soci come una scimmia spoglia un albero dei suoi frutti. Il suo piano era quello di prendersi non solo i migliori talenti della RDD, ma anche i clienti più importanti che riusciva a raccogliere, il tutto con una sola passata, saltando da un ramo all'altro. Un nuovo studio legale con il suo nome sull'intestazione della carta da lettere. Come ogni golpe in fieri, anche questo avrebbe potuto rovinare la carriera di coloro che fossero stati scoperti. Gli altri partecipanti, alcuni soci dei piani alti e persone chiave di altre sedi, erano rimasti nell'ombra, mentre Nick preparava le munizioni con cui sferrare l'assalto alla RDD. L'ossessione di Adam di costruire un impero, la sua politica di costante espansione, stava intaccando i profitti dei suoi soci. Era un terreno fertile, e Nick vi aveva piantato l'antico seme di ogni rivoluzione: aveva offerto loro un accordo più proficuo. Quando era stato ucciso in quella che sembrava una sparatoria intesa a colpire un suo cliente, nelle eleganti suite dello studio doveva essersi bagnato più di un tappeto, e non di lacrime. Le persone coinvolte in questo tentativo di colpo di Stato non potevano non chiedersi quali appunti compromettenti Nick si fosse lasciato alle spalle. Lui era quello che aveva rischiato il tutto per tutto. Ovviamente, non aveva nulla da perdere e tutto da guadagnare, il genere di chance che piaceva a Nick: socio gerente di uno dei maggiori studi legali dello Stato nel giro di una notte. Era il tipo di azione rischiosa che avrebbe fatto venire l'ulcera a qualunque persona normale. Per Nick, era l'acido con cui s'incide l'indipendenza, la sostanza di cui sono fatti i nuovi esordi. La rivoluzione in una repubblica delle banane. Per la riuscita di questo piano, gli serviva una fonte di denaro contante. I
soci di un affermato studio legale non abbandonano la nave in massa, a meno che qualcuno con una sostanziosa linea di credito non sia lì, pronto a finanziare la nuova avventura. Un conto era passare a un altro ufficio, un altro rinunciare alla Lexus nuova. Dove pensava di prendere tutti quei soldi, Nick? In realtà, me l'aveva detto, quella mattina mentre bevevamo il caffè, ma io non lo avevo ascoltato. Era uno dei difetti di Nick, e purtroppo non il peggiore: l'irresistibile tentazione, se non proprio di vantarsi, quanto meno di alludere alla vittoria prima di aver vinto. Il denaro sarebbe venuto dal vecchio Capri Hotel, il locale preferito di Nick, con il caffè nello squallido seminterrato dove lui e io avevamo avuto la nostra ultima conversazione. La società in accomandita costituita in tutta fretta, l'apparentemente defunta Jamaile Enterprises, aveva solo un'attività a bilancio: la proprietà del terreno su cui era costruito l'albergo. Tutte le tessere erano andate al loro posto come in un puzzle. Nick aveva fatto una speculazione acquistando l'albergo con un prestito milionario che avrebbe restituito in breve tempo. Non aveva intenzione di mantenere a lungo la proprietà. Era lì che andavano tutti i suoi soldi, le sostanziose parcelle che prima portava a casa, il denaro che Dana non vedeva più arrivare per pagare la casa e la macchina, e per mantenere lo stile di vita cui si era abituata. Nick stava usando tutto quello che aveva per saldare il debito ipotecario contratto per l'acquisto dell'albergo, facendo i salti mortali per pagare la rata ogni mese, e intanto progettava la rivoluzione. Come si riesce a far rendere al massimo un investimento del genere? Nick mi aveva rivelato anche questo, ma, ancora una volta, io non lo stavo ascoltando. Era facile. Prima si acquista il terreno, poi si ottiene una variante per aggirare le restrizioni vigenti in materia di altezza degli edifici. E, d'un tratto, il terreno vale tre o quattro volte quello che l'hai pagato. Nick aveva pensato a tutto. Non c'era nulla che gl'impedisse di salire più in alto, a parte i capricci delle autorità locali. E chi aveva il potere di concedere questa variante? La stessa autorità che controllava gran parte delle proprietà immobiliari del centro: l'impero della zonizzazione con a capo Zane Tresler. Questo era il motivo per cui il nome di Nick compariva in bella evidenza nell'elenco dei finanziatori della campagna di Tresler. Non perché Nick pensasse di poterlo comprare. Tresler non era in vendita, perlomeno non
per soldi. Su questo Adam aveva ragione. Nick gli aveva fatto generose donazioni per un unico motivo: attirare la sua attenzione, per arrivare a lui. La chiusura dell'accordo sarebbe avvenuta dopo, una volta che i messicani, i due fratelli Ibarra, avessero fatto la loro parte. Era qui che entrava in gioco Metz. Il suo nome sui documenti costitutivi della società, e sul mutuo ipotecario per l'acquisto del terreno dell'albergo, era il punto debole del piano di Nick, un aspetto che di certo lo impensieriva, ma sul quale non aveva controllo. Non riuscivo a capire come un avvocato con l'esperienza di Nick potesse essere stato così sprovveduto da mettersi in società con un cliente rivelatosi poi oggetto di un'indagine penale. Ma non mi rendevo conto di una cosa: il coinvolgimento di Metz era la garanzia richiesta dai messicani per portare a termine la loro parte dell'accordo. I fratelli Ibarra avevano già fatto affari con Metz in precedenza. Si fidavano di lui. Per almeno un decennio, avevano saccheggiato i siti archeologici di Yucatán, Messico meridionale e Guatemala, vendendo i reperti ai ricchi gringos e a lussuose gallerie d'arte in Europa e negli Stati Uniti. Per questo, avevano bisogno dei visti trovati dai federali nell'armadio di Espinoza quando avevano perquisito il suo appartamento. Sarebbero stati utilissimi per passare il confine a bordo di auto cariche di manufatti. Metz forniva un'ottima copertura con la sua ditta di costruzioni. Offriva anche uno sbocco per riciclare il denaro sporco. Questo avevano scoperto i federali, convinti di aver a che fare con un traffico di droga. Ma il saccheggiare siti archeologici era più redditizio che commerciare in stupefacenti, e comportava un minor rischio. Se anche ti avessero beccato, non avresti passato la vita in un penitenziario per aver trafugato l'eredità culturale di un popolo. Secondo il piano di Nick, Metz avrebbe avuto una parte dei profitti provenienti dalla vendita del Capri, una volta che, approvata la variante, il terreno fosse stato ceduto a qualche grossa società immobiliare. A quel punto, Metz avrebbe pagato anche i fratelli Ibarra. Per questo Nick aveva cercato di scaricarmi Metz, facendo in modo che mi occupassi io della sua chiamata in giudizio. Visto che era in società con lui, comparire in tribunale al suo fianco sarebbe servito solo ad aumentare la sua visibilità. Intuendo che i federali lo credevano coinvolto in un traffico di droga, Nick sapeva che, non appena si fossero resi conto di aver sprecato il loro tempo, avrebbero cercato un modo per coprire comunque i costi, esigendo una bella multa per il trasferimento illegale di fondi nel no-
stro Paese a opera di Metz. Si sarebbero accontentati di dargli una pacca sulla mano. Una passeggiata persino per il suo amico Paul Madriani, che non accettava mai casi di droga. A quel punto sarebbero stati tutti contenti. Metz si sarebbe trovato con più soldi di quanti ne avesse mai visti in vita sua. Nick avrebbe avuto i fondi necessari a finanziare il nuovo studio legale, Rush & Company, senza dubbio con un elegante ufficio d'angolo tutto per sé, con vista sulla baia e sul Pacifico. E come avrebbe fatto a ottenere la variante? Cosa puoi offrire a chi ha già tutto? Quale dono, quale omaggio si può offrire a un uomo come Zane Tresler? Cosa può tentarlo? Nick aveva pensato anche a questo. Gli dai qualcosa degno di occupare un posto d'onore accanto al bianco reperto che troneggia in uno scrigno di vetro nel suo ufficio. Gli dai la chiave per decifrare una lingua perduta: il Rosetón mejicano. Ma Nick non era mai arrivato a questo punto del piano. Non si era accorto dell'ombra che incombeva minacciosa su di lui: l'austera figura di Adam Tolt. Adam non era il tipo di persona che passa una vita intera a costruire uno studio legale per poi permettere a uno come Nick di portarglielo via. Il loro rapporto era stato costruito sulla convenienza e, temo, su una buona dose di karma negativo. Alla fine, Tolt doveva essere arrivato a considerare Nick come il peggiore dei suoi incubi. Inizialmente, Adam aveva apprezzato i servigi di Nick che rendevano la RDD uno studio legale in grado di agire a tutto campo. L'aggiunta di un patrocinio discreto per i casi penali rafforzava la società. I soldi gli facevano comodo, come pure i consigli che Nick gli dava, di quando in quando, su qualche caso. Ma, più che altro, gli faceva comodo la muraglia cinese eretta da Nick intorno alla rispettabilità dello studio. Serviva a tenere tutto pulito e immacolato. Ogni volta che un cliente si avventurava su terreni criminosi o vi si trovava impantanato suo malgrado per sfortunate circostanze, Adam poteva infilarlo nell'ascensore con un'amichevole pacca sulla spalla e spedirlo ai piani bassi, senza per questo rinunciare all'onorario. In questo modo, i clienti più stimati, quelli che non si trovavano i segugi del gran giurì alle calcagna ad annusare le loro transazioni commerciali, non erano costretti a slogarsi la schiena per appiattirsi contro la costosa pannellatura dei corridoi dello studio nel tentativo di evitare qualsiasi contatto con gli intoccabili di Nick. Quanto a Nick, lui era riuscito ad attaccare il suo carro a una stella più
luminosa, una grossa società destinata a diventare una supernova, con tutte le prospettive che questo sembrava offrire. Dico «sembrava» perché la mia supposizione è che, nel giro di un anno, Nick si fosse reso conto che era tutta un'illusione. La sua posizione in seno alla Rocker, Dusha era senza sbocchi. Lo avevano messo ai piani bassi per una ragione: per evitare che i suoi clienti rovinassero la signorile atmosfera dello studio. Senza dubbio, Tolt aveva intenzione di spostare Nick ancora più in basso, una volta che la RDD si fosse allargata a tutto l'edificio. Nick Rush avrebbe avuto il suo inferno privato vicino alla caldaia, giù nello scantinato, dove i suoi clienti avrebbero potuto procurarsi le credenziali per il tempo da passare in purgatorio. Adam era stato chiaro su questo punto: non voleva che Nick si occupasse d'altro che di casi penali. La sua carriera era a un punto morto. Anche trattandosi di uno come Nick, dotato di una straordinaria conoscenza dell'animo umano, non doveva essere trascorso molto tempo prima che Tolt cominciasse a sentir girare voci. In uno studio pieno di soci nervosi, doveva pur esserci qualcuno pronto a puntare su ambo i tavoli, nel tentativo di coprirsi i fianchi caso mai Nick avesse fallito nell'impresa. Posso solo immaginare lo stato d'animo di Adam quando aveva cominciato a subodorare qualcosa. Un uomo più vicino alla fine della carriera che all'inizio, senza nessuna prospettiva altrettanto prestigiosa, costretto ad affrontare un attacco sferrato da una direzione del tutto inaspettata: lo scantinato. Il suo primo pensiero dev'essere stato che Nick fosse impazzito. Da qualche parte, nei recessi della sua mente, dev'essere passata l'idea che quello era il verdetto della storia toccato anche a Hitler e a Stalin, un pensiero niente affatto rassicurante, considerati i successi iniziali e la carneficina che ne seguì. La situazione dovette sembrargli ancora peggiore una volta prese in considerazione le varie opzioni. Un uomo come Tolt, che aveva sulla rubrica i numeri di telefono dei potenti, magari con in testa quello dello Studio Ovale, e aveva raggiunto l'apice di una carriera invidiata da molti, doveva aver visto solo le vertiginose altezze dalle quali sarebbe potuto cadere. Certo, aveva un nome, una solida reputazione fatta di successi conseguiti nei primi decenni della sua vita, ma le persone importanti avrebbero continuato a rispondere alle sue chiamate solo se fosse rimasto alla guida della Rocker, Dusha. Come potrebbe confermare ogni dittatore di lungo corso, quando ci si trova a dover affrontare le avvisaglie di un'insurrezione, la prima regola della sopravvivenza è impiccare il leader. Adam non deve aver dormito la
notte per pensare a un modo per costringere Nick a lasciare lo studio. Ma aveva un problema. Gli mancavano alcune informazioni importantissime. Non poteva sapere da quanto tempo andava avanti la rivolta di Rush, né quanti dei suoi soci vi avessero già aderito. Non era il caso di fare un cicchetto a Nick e licenziarlo solo per scoprire la mattina dopo di essere stato esautorato dallo studio. Neanche il piano B avrebbe funzionato. Adam non poteva prendere il telefono e mettersi a chiamare i soci, cercando d'indovinare se avessero tramato alle sue spalle con Nick, prendendogli le misure per la cassa. Fare una cosa del genere avrebbe significato ammettere di aver già perso il controllo. Che Nick vincesse o perdesse, i soci avrebbero sentito l'odore del sangue. Adam sarebbe stato nominato socio emerito, e gli avrebbero dato per ufficio un ripostiglio e una rivista di parole crociate per passare il tempo. Avrebbe potuto aspettare che la rivolta scoppiasse e poi portare Nick e i ribelli suoi seguaci in tribunale. Ma, come ogni studio legale sa bene, l'ultima cosa che i clienti gradiscono è vedere i propri avvocati che litigano tra loro. I clienti se ne sarebbero andati, e Tolt lo sapeva. Che gusto c'è, per un toro, a essere padrone di un campo, se non ci sono né erba né mucche? Adam poteva essere il socio anziano, ma non era affatto senile. Non ci avrà messo molto a rendersi conto della realtà. Lui era un avvocato, Nick un kamikaze. Se necessario, era pronto a lanciarsi in fiamme sulle lucide scrivanie di Adam. Quando ti appresti a far guerra a qualcuno nella situazione di Nick, non puoi fare a meno di prevedere un gran spargimento di sangue, specialmente il tuo. Stando così le cose, è facile immaginare che una persona come Adam sia portata dalla disperazione a compiere degli eccessi. Si sarà detto che doveva esserci un modo, più diretto, veloce e dai risultati certi, un'azione da poter intraprendere e portare a termine prima che iniziasse il fuggi fuggi dei suoi soci. Anche persone con facoltà mentali meno raffinate di quelle di Adam sanno che nella vita non c'è nulla di più definitivo della morte. L'occasione era lì, a portata di mano, nella natura rischiosa dell'attività di Nick. Avrebbe potuto essere uno qualunque dei sordidi clienti di Nick a trovarsi accanto a lui sulla strada, quella mattina. Sono solo congetture, ma sospetto che Adam abbia scelto Metz per un motivo. Il mio intuito di avvocato mi dice che Margaret, la ex moglie di Nick, mi ha mentito quando le ho parlato in presenza di Susan. Lei sapeva della Jamaile Enterprises. In sede di divorzio i suoi legali dovevano averla
messa a soqquadro alla ricerca di proprietà nascoste. Ma nella vita il tempismo è tutto. Nick era stato fortunato. Stava ancora preparando le pratiche per il mutuo ipotecario. Tolt doveva essersi coltivato Margaret nella speranza di scoprire qualcosa sui vizi di Nick, anche passati, e lei si era dimostrata una preziosa fonte d'informazioni. Gli aveva rivelato della Jamaile e di Metz. Adam doveva essersi convinto di aver trovato il Santo Graal. Cosa c'era di meglio per far venire l'acquolina in bocca ai poliziotti che un penalista corrotto, finito sulla cattiva strada, che si metta in società con uno dei suoi clienti implicati in fatti di droga? Era il sogno proibito di ogni pubblico ministero. Adam doveva solo accertarsi che non indagassero a fondo o a lungo su altre teorie, né che perdessero troppo tempo a cercare gli assassini. Tolt non aveva idea di cosa fosse in realtà la Jamaile, né di cosa stessero facendo Nick e Metz giù in Messico. È solo una supposizione, ma penso che Adam fosse convinto che Nick trafficasse in droga. Se non altro, questo era servito a consolidare i suoi propositi, a convincerlo che stava combattendo una battaglia giusta, a fornirgli la consolazione che, per quanto sinistro fosse il suo gesto, lo stava compiendo per lo studio, per salvarlo dal male. Se avesse indagato più a fondo sulla Jamaile, avrebbe potuto scegliere come capro espiatorio qualcun altro, invece che Metz. In quel caso, è probabile che nessuno sarebbe stato in grado di unire tutti i puntini e scoprire alla fine Adam, dietro il disegno. Sarebbe stato impossibile decifrare il mistero, senza tutti quei punti di riferimento, come nel caso dei geroglifici maya. E così Nick Rush era uscito dallo studio coi piedi in avanti. L'azzardo di Adam era quasi andato a segno. Senza un generale che le guidasse, le truppe si erano disperse, e il golpe era morto insieme a Nick; quando io avevo cominciato a ficcare il naso, era ormai storia. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto mettere la sua carriera nelle mie mani, confidandomi di aver avuto un ruolo in una rivoluzione mai avvenuta? Questo era il motivo per cui Dolson non aveva voluto parlare con me quando ero andato da lui a San Francisco. Per questo l'edificio all'indirizzo trovato sul palmare di Nick era vuoto. Nick stava cercando nuove sedi per lo studio. È la prima cosa che ti serve, se vuoi aprire un'attività. Anche se qualcuno dei soci di Tolt fosse stato sfiorato dall'idea che la mossa di Nick poteva essere un valido movente per un omicidio, niente poteva indurli a pensare che Adam fosse collegato alla sparatoria. Dopotut-
to, la polizia cercava in tutt'altra direzione, dando per scontato, come me del resto, che il vero obiettivo fosse Metz. Come se non bastasse, c'era la prova inoppugnabile che la morte di Nick era stata un incidente: un assegno di quattro milioni di dollari emesso da una compagnia d'assicurazioni. Non saprò mai quante pressioni siano state esercitate sui vertici della compagnia da parte di Adam. Ma so che non si è lasciato sfuggire nessuna occasione per vantarsi della mia vittoria, specialmente allo studio, arrivando a far pubblicare quell'articolo sul bollettino mensile della RDD, in modo che finisse sulla scrivania di ogni socio. Era stato quello a farmi riflettere. Perché? Non era da Tolt darsi così tanto da fare per mettere in imbarazzo una compagnia d'assicurazioni dopo quello che tutti consideravano un indennizzo generoso. Era stato sempre lui a opporsi alla loro richiesta perché l'ammontare dell'indennizzo restasse segreto, prassi consolidata in ogni accordo di questo genere. Non riuscivo a capire cosa lo avesse spinto a farlo. Quale modo migliore per coprire le proprie tracce? Una compagnia d'assicurazioni non paga una cifra del genere a meno che non sia certa che si sia trattato di un incidente. I soci di Adam dovevano saperlo. Questo avrebbe messo a tacere ogni sospetto che ancora potesse albergare nella loro mente. Questa mattina, mentre leggo il giornale, comodamente seduto sulla mia poltroncina, coi piedi appoggiati sulla scrivania, non posso fare a meno di sorridere per l'articolo che Harry ha evidenziato con un cerchio in terza pagina. Non perché la notizia mi giunga nuova: l'ho sentita ieri sera da una delle stazioni radio locali, mentre tornavo a casa in macchina. È il tocco finale, l'ironia estrema che neppure Nick, nella sua più sfrenata immaginazione, avrebbe potuto prevedere. Il governo federale ha mostrato i muscoli, esercitando il diritto d'esproprio per motivi di pubblica utilità. L'ingiunzione riguarda un appezzamento di terreno con una grossa voragine al centro, il luogo dove un tempo sorgeva il vecchio Capri Hotel. L'autorità per i lavori pubblici ha annunciato ieri di volervi costruire un nuovo tribunale federale. Abbasso il quotidiano e chiudo gli occhi, trattenendo il respiro. Seduto lì, immobile, ascolto e mi pare di sentirla. Debole come un sussurro lontano, resta sospesa nell'aria, al limite della capacità uditiva umana, la voce familiare che era diventato il tocco distintivo di mille battaglie verbali in tribunale. Da qualche parte, oltre il mio orizzonte mortale, sento Nick. Sta ridendo.
FINE