ROBIN COOK COMA (Coma, 1977) Alla memoria di mio padre, a mia madre, con affetto, a Sharon, con riconoscenza. Prologo 14...
335 downloads
1513 Views
982KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ROBIN COOK COMA (Coma, 1977) Alla memoria di mio padre, a mia madre, con affetto, a Sharon, con riconoscenza. Prologo 14 febbraio 1976 Nancy Greenly giaceva supina sul tavolo operatorio. Fissava le grosse lampade della sala numero 8, cercando di mantenersi calma. Le avevano fatto le solite iniezioni preoperatorie, e le avevano assicurato che così si sarebbe perfettamente rilassata. Niente di tutto ciò. Era più tesa e angosciata di prima e, peggio ancora, totalmente, completamente, assolutamente indifesa, vulnerabile. Nei suoi ventitré anni non aveva mai provato niente di simile. Era coperta da un lenzuolo di lino bianco, con gli orli sfilacciati e un piccolo strappo in un angolo. Non sapeva perché, ma la cosa le dava fastidio. Sotto il lenzuolo indossava uno di quei camicioni da ospedale aperti sulla schiena, che si allacciano sul collo e coprono solo fino a mezza coscia; tra le sue gambe l'assorbente era già tutto inzuppato di sangue. In quel momento odiava e temeva l'ospedale; aveva voglia di urlare, di fuggire da quella stanza. Ma non lo fece: aveva più paura dell'emorragia che le era venuta che di quell'ambiente freddo e crudele. L'uno e l'altra la rendevano drammaticamente conscia della propria mortalità, e questo era un argomento che non le piaceva dover affrontare. Alle 7.11 del 14 febbraio 1976 il cielo su Boston era grigio pallido; le macchine che entravano in città in file serrate avevano i fari accesi; la temperatura era di diciassette gradi e la gente per le strade camminava in fretta. Nessuna voce, solo il rumore delle automobili e del vento. Dentro al Memorial Hospital le luci al neon illuminavano ogni centimetro quadrato del reparto chirurgia. L'attività frenetica e le voci eccitate confermavano la regola che faceva iniziare gli interventi alle 7.30 in punto. Ciò significava alla lettera che i bisturi cominciavano a tagliare alle 7.30; e per quell'ora bisognava andare a prendere i pazienti, prepararli, lavarli, metterli sotto anestesia. Alle 7.11 l'attività del reparto, sala 8 compresa, procedeva perciò a pieno
ritmo. La sala operatoria numero 8 non aveva niente di particolare. Come in tutte le altre, i muri erano ricoperti di piastrelle di colore neutro e il pavimento era di linoleum. Alle 7.30 del 14 febbraio 1976, nella numero 8 era previsto un DR: dilatazione e raschiamento, un normale intervento ginecologico. La paziente era Nancy Greenly; l'anestesista il dottor Robert Billing, interno dell'ospedale da due anni; le infermiere Ruth Jenkins e Gloria Di Mateo; il chirurgo, George Major, il nuovo giovane socio di uno dei più anziani e affermati ginecologi, era nello spogliatoio e stava indossando il camice. Nancy Greenly aveva perdite di sangue da undici giorni. All'inizio aveva pensato che fossero semplicemente le mestruazioni, soltanto in anticipo di qualche settimana. Non aveva avuto dolori premestruali, a parte un leggero crampo la mattina che il sangue aveva cominciato a uscire. Poi più niente. Ogni notte sperava che fosse finita, ma alla mattina si svegliava con l'assorbente fradicio di sangue. Le conversazioni telefoniche, prima con l'infermiera del dottor Major, poi col dottore stesso, avevano calmato i suoi timori per periodi via via più brevi. Era una seccatura enorme, e come succede sempre con queste cose era capitata nel momento meno opportuno. Kim Devereau era venuto a Boston dalla Duke Law School per passare insieme a lei le vacanze di primavera. E la sua compagna di camera aveva deciso di andare a sciare a Killington proprio quella settimana. Tutto si stava mettendo nel più romantico dei modi. Tutto, tranne le perdite di sangue. Non era una cosa a cui Nancy potesse passare sopra. Era una ragazza snella e attraente, dall'aria delicata e aristocratica, molto esigente riguardo alla propria persona: se aveva i capelli appena appena sporchi si sentiva a disagio. Quel sangue che continuava a colare la faceva sentire sporca, fuori posto, brutta. Alla fine aveva cominciato ad aver paura. Si ricordava che era sdraiata sul divano coi piedi sul bracciolo, e leggeva la pagina editoriale del Globe; intanto Kim stava preparando da bere in cucina. Di colpo aveva provato una strana sensazione nella vagina, una sensazione mai provata prima. Era come se una massa morbida e calda si stesse gonfiando dentro di lei. Ma non le dava né fastidio né dolore. Sulle prime era rimasta perplessa, chiedendosi cosa potesse essere; ma poi aveva sentito un calore all'interno delle cosce e un rivoletto di sangue le era sceso tra le natiche. Senza preoccuparsi troppo, si era resa conto che stava sanguinando, e abbondantemente anche. Restando immobile aveva girato la testa verso la cucina e aveva detto: «Kim, per favore, mi puoi chiamare un'ambulanza?». «Che ti succede?» aveva chiesto Kim accorrendo.
«Sto perdendo molto sangue,» aveva risposto lei tranquilla. «Ma non c'è ragione di allarmarsi. Sarà solo una mestruazione più forte del solito. Però è meglio che vada subito in ospedale.» Il tragitto in ambulanza era andato liscio, senza sirene né drammi. Al pronto soccorso l'avevano fatta aspettare più di quanto le sembrasse ragionevole: poi era arrivato il dottor Major, e la sua comparsa aveva risvegliato in lei, per la prima volta, un senso di gioia. Aveva sempre detestato le visite ginecologiche, associandole alla faccia, all'andatura, all'odore di quell'uomo. Ma adesso, a vederselo lì davanti, era stata così felice che aveva dovuto lottare per ricacciare indietro le lacrime. Ma quella era stata la visita ginecologica più brutta della sua vita. Una tenda leggera, che veniva continuamente tirata, era l'unica barriera tra lei e la folla che gremiva lo stanzone del pronto soccorso. A intervalli di pochi minuti le misuravano la pressione; le avevano fatto un prelievo di sangue; aveva dovuto cambiarsi e indossare il camice da ospedale. Intanto la tenda continuava a venire aperta, e Nancy si trovava di fronte una marea di facce, di camici bianchi, di bambini che si erano tagliati, di vecchi malconci. E poi c'era la padella, messa lì in un angolo, in modo che chiunque poteva vederla. Dentro c'era una grossa macchia di sangue scuro semirappreso. Il dottor Major era curvo tra le sue gambe, e mentre la toccava parlava di un altro caso con l'infermiera. Nancy aveva chiuso gli occhi stringendo le palpebre con tutte le sue forze, e si era messa a piangere silenziosamente. Ma sarebbe finito in fretta, almeno così aveva assicurato il dottor Major. Aveva spiegato a Nancy con ricchezza di particolari com'è fatto il rivestimento dell'utero, e come cambia durante il ciclo normale, e che cosa succede quando non cambia. Qualcosa sui vasi sanguigni e sulla necessità che un uovo si stacchi dall'ovaia. La cura radicale consisteva in una dilatazione con raschiamento. Nancy aveva acconsentito senza obiezioni; aveva solo chiesto che i suoi genitori non venissero avvertiti. L'avrebbe fatto lei stessa dopo l'operazione. Era sicura che sua madre avrebbe pensato a un aborto. Adesso Nancy fissava la grande lampada della sala operatoria, e l'unica cosa che la consolava era il pensiero che quel maledetto incubo sarebbe finito entro un'ora, e poi tutto sarebbe tornato normale. «Sta comoda?» Nancy girò la testa verso destra. Due occhi scuri la guardavano al di sopra della mascherina. Gloria Di Mateo le stava rimboccando il lenzuolo attorno al braccio, in modo che non potesse muoversi. «Sì,» rispose Nancy sforzandosi di apparire disinvolta. In realtà stava
tremendamente scomoda. Il tavolo operatorio era duro come quello di formica della sua cucina. Ma il Phenergan e il Demerol che le avevano dato stavano iniziando a fare effetto. Era molto più sveglia di quanto non avrebbe desiderato, e nello stesso tempo cominciava a provare una specie di distacco, di dissociazione da ciò che la circondava. Anche l'atropina si stava facendo sentire: aveva la gola e la bocca secche e la lingua impastata. Il dottor Robert Billing era tutto occupato con la sua macchina, un agglomerato di acciaio inossidabile, manometri, e alcune bombole colorate di gas compresso. Sulla macchina c'era una bottiglia marrone di halothane. Sull'etichetta c'era scritto: 2-bromo-2-cloro-1,1,1-trifluoretano (C2HBrClF3). Un anestetico quasi perfetto. Quasi perché sembrava che talvolta distruggesse il fegato dei pazienti. Ma ciò accadeva di rado, e le altre caratteristiche dell'halothane erano così eccellenti da far passare in secondo piano il pericolo di danni al fegato. Il dottor Billing era entusiasta di questa sostanza. A volte faceva uno strano sogno: vedeva se stesso che sviluppava la formula dell'halothane, lo faceva conoscere al mondo medico con un articolo sul New England Journal of Medicine e alla fine andava a ritirare il premio Nobel con addosso lo stesso smoking del suo matrimonio. Billing era un anestesista formidabile, e lo sapeva. E pensava che anche gli altri lo sapessero. Era convinto di conoscere l'anestesiologia quanto e meglio della maggior parte dei colleghi. Era meticoloso, molto meticoloso. Da quando lavorava in ospedale non aveva mai avuto complicazioni gravi. Davvero una mosca bianca. Come il pilota di un jet, aveva una lista sempre pronta delle operazioni da fare; il suo metodo era quello di controllare ogni fase del trattamento. Ciò significava che aveva fatto un migliaio di fotocopie della lista, e a ogni operazione se ne portava sempre dietro una insieme alla propria attrezzatura. Alle 7.15 era arrivato in perfetto orario alla fase numero 12: innestare un tubo di gomma simile a quelli dei respiratori subacquei. Un'estremità finiva nella sacca di ventilazione, la cui capacità da quattro a cinque litri gli dava la possibilità di gonfiare i polmoni del paziente in qualsiasi momento; l'altra terminava in un contenitore pieno di calce viva, in cui veniva assorbito il diossido di carbonio espirato dal paziente. La fase numero 13 consisteva nell'assicurarsi che le valvole unidirezionali fossero allineate nella posizione giusta; la 14 nel collegare il respiratore alle fonti d'aria compressa, protossido d'azoto e ossigeno, situate su una parete della sala operatoria. Appese a un lato dell'apparecchio c'erano due bombole d'ossigeno d'emergenza. Billing controllò i manometri: la pressione era al mas-
simo. Ottimamente. «Adesso le metto qualche elettrodo sul petto per controllare il cuore,» disse Gloria Di Mateo, tirando giù il lenzuolo ed esponendo il torace di Nancy all'aria sterile. Il camice le arrivava a coprire appena i capezzoli. «Sentirà freddo per un secondo,» esclamò l'infermiera spalmandole un po' di gelatina grigia su tre punti del petto. Nancy voleva dir qualcosa, ma era combattuta tra due stati d'animo opposti: da una parte era riconoscente, perché sapeva che tutto questo era per il suo bene, o almeno così le avevano detto; ma dall'altra era furiosa per essere così esposta, in senso letterale e figurato. «Adesso sentirà una piccola puntura,» disse il dottor Billing premendo sulla mano sinistra della ragazza per trovare le vene. Stava accadendo tutto troppo in fretta perché lei riuscisse a rendersi conto. «Buongiorno, Miss Greenly,» salutò un esuberante dottor Major, entrando con passo energico in sala operatoria. «Spero che abbia passato una buona notte. Solo pochi minuti, e poi la farò tornare nel suo letto per una bella dormita.» Prima che Nancy potesse rispondere, i nervi del dorso della sua mano presero vita e lanciarono urgenti messaggi al centro del dolore. Dopo la prima fitta, il male continuò ad aumentare, e poi si spense. Il laccio di gomma scomparve, e il sangue riaffluì alla mano di Nancy. Sentì le lacrime sgorgare da dentro la testa. «Endovena,» disse il dottor Billing impersonalmente, e fece un segno nero accanto al numero 16 della lista. «Tra poco si addormenterà, Nancy,» continuò il dottor Major. «Non è vero, dottor Billing? Nancy, è una ragazza fortunata oggi. Il dottor Billing è il numero uno.» Major chiamava tutte le sue pazienti «ragazza», qualunque età avessero. Era uno di quei vezzi di accondiscendenza che aveva adottato dal suo collega più anziano. «È esatto,» esclamò Billing, montando una maschera di gomma sul tubo dell'anestesia. «Tubo numero 8, Gloria. Può prepararsi, dottor Major, alle sette e mezzo in puntò siamo pronti.» «Okay.» Il dottor Major si avviò alla porta; si fermò e si voltò verso Ruth Jenkins, intenta a preparare gli strumenti chirurgici. «Voglio i miei dilatatori e raschiatoi, Ruth. L'ultima volta mi hai dato quella ferraglia da Medioevo dell'ospedale.» Era già fuori prima che l'infermiera avesse potuto rispondere. Da un punto indefinito alle sue spalle, Nancy sentiva il ritmo pulsante,
simile a un sonar, del monitor cardiaco: era il battito del suo cuore che risuonava nella stanza. «Bene, Nancy,» sorrise Gloria. «Dovrebbe mettersi un po' più giù e infilare i piedi qui nelle staffe.» Le prese prima l'una e poi l'altra gamba e le tirò sulle staffe d'acciaio. Il lenzuolo scivolò tra le gambe di Nancy, scoprendole da metà coscia in giù. La parte inferiore del tavolo si abbassò di colpo, e il lenzuolo cadde per terra. Nancy chiuse gli occhi cercando di non immaginare se stessa lì sul tavolo a gambe aperte. Gloria raccolse il lenzuolo e l'appoggiò sull'addome della ragazza, in modo che un lembo le scendesse tra le gambe, e le coprisse il perineo insanguinato e appena rasato. Nancy sentiva l'angoscia crescerle dentro. Voleva essere riconoscente, ma era come se una grande marea la spingesse sempre più verso la rabbia e la disperazione. «Non sono sicura di voler andare avanti,» disse guardando il dottor Billing. «Va tutto benissimo,» ribatté il medico con un tono artificiosamente premuroso, mentre spuntava il numero 18 della lista. «Si addormenterà in un attimo,» aggiunse sollevando una siringa e dandole dei colpetti per far uscire le bollicine d'aria. «Adesso le do il Pentothal. Non ha sonno?» «No.» «Be', avrebbe dovuto dirmelo.» «Ma io non lo so come dovrei sentirmi.» «Va tutto bene,» ripeté il dottor Billing, avvicinandole il suo apparecchio alla testa. Con abilità consumata attaccò la siringa di Pentothal alla valvola a tre vie del tubo delle endovenose. «Adesso deve contare fino a cinquanta, Nancy.» Pensava che non sarebbe riuscita a oltrepassare il quindici. Guardare i pazienti che si addormentavano dava sempre una punta di soddisfazione al dottor Billing; era la conferma della validità del metodo scientifico. E poi lo faceva sentire potente: era come se avesse il comando del cervello del paziente. Ma Nancy era un tipo dalla personalità forte, e anche se voleva mettersi a dormire il suo inconscio lottava contro il sonno. Continuava ancora a contare mentre il medico le iniettava 2 cc supplementari di Pentothal. Arrivò fino a ventisette prima di cedere. Nancy Greenly si addormentò alle 7.24 del 14 febbraio 1976. Per l'ultima volta. Il dottor Billing non immaginava che quella ragazza sarebbe diventata la sua prima grave complicazione. Era sicuro che tutto fosse sotto controllo.
Aveva ormai quasi completato la lista. Attraverso la maschera fece respirare a Nancy una miscela di halothane, protossido d'azoto e ossigeno; quindi le iniettò 2 cc di soluzione allo 0,2% di cloruro di succinilcolina per ottenere la paralisi di tutti i muscoli scheletrici. Ciò avrebbe facilitato l'inserimento del tubo endotracheale, e avrebbe anche permesso al dottor Major di fare un esame bimanuale per escludere una patologia ovarica. L'azione della succinilcolina fu quasi immediata. Dapprima si formarono dei fascicoli nei muscoli facciali, poi in quelli dell'addome. Mentre il sangue metteva la sostanza in circolo per tutto il corpo, le estremità dei muscoli si depolarizzarono, e si ebbe la totale paralisi dei muscoli scheletrici. I muscoli involontari, come il cuore, non erano interessati: il monitor continuò a pulsare senza la minima oscillazione. La lingua di Nancy era paralizzata, e le si arrovesciò indietro, bloccandole la trachea. Anche i muscoli dell'addome e del torace erano paralizzati: ogni tentativo di respirazione cessò. Anche se chimicamente diversa dal curaro dei selvaggi dell'Amazzonia, la sostanza aveva il medesimo effetto: Nancy sarebbe morta in cinque minuti. Ma a questo punto la situazione non presentava ancora nessun pericolo. Il dottor Billing teneva tutto sotto controllo. Il risultato era previsto e auspicabile. Esteriormente calmo, ma tesissimo dentro, Billing tolse a Nancy la maschera e prese il laringoscopio, la fase 22 della lista. Con la punta dello strumento tirò in avanti la lingua e oltrepassò l'epiglottide bianca, scoprendo l'ingresso della trachea. Le corde vocali erano semiaperte, paralizzate come il resto dei muscoli scheletrici. Il dottor Billing spruzzò rapidamente un po' di anestetico locale nella trachea, quindi inserì il tubo endotracheale. Il laringoscopio fece il suo caratteristico rumore metallico allorché il medico piegò la lama sul manico. Con l'aiuto di una piccola siringa gonfiò il colletto del tubo, sigillandolo; poi collegò il tubo di gomma, senza la maschera, all'endotracheale. Quando compresse la sacca di ventilazione, il petto di Nancy si sollevò. Billing auscultò e si rialzò soddisfatto. L'inserimento del tubo era avvenuto in maniera perfetta. Regolò i manometri sulla combinazione di halothane, protossido d'azoto e ossigeno desiderata. Anche se non lo faceva vedere, Billing era sempre molto teso durante l'inserimento del tubo endotracheale. Col paziente paralizzato, bisognava lavorare con la massima rapidità e non commettere il minimo errore. Con un cenno del capo fece capire a Gloria Di Mateo che poteva iniziare a preparare il perineo rasato di Nancy. Ormai il compito del dottor Billing
era limitato all'osservazione continua delle funzioni vitali della paziente: il ritmo cardiaco, la pressione del sangue, la temperatura. Finché la ragazza era paralizzata, doveva continuare a comprimere la sacca di ventilazione per farla respirare. La succinilcolina avrebbe esaurito il proprio effetto nel giro di otto o dieci minuti; poi Nancy sarebbe stata in grado di respirare da sola, e l'anestesista avrebbe potuto rilassarsi. La pressione si manteneva sui 105/70. Il polso, molto rapido nello stato d'ansia precedente l'anestesia, era sceso a settantadue. Il dottor Billing era decisamente soddisfatto, e pregustava già il caffè che avrebbe preso quaranta minuti dopo. L'operazione filò via liscia. Il dottor Major fece il suo esame bimanuale e chiese a Billing un maggiore rilassamento. Ciò significava che il sangue di Nancy aveva detossificato la succinilcolina. Billing iniettò prontamente altri 2 cc, prendendone nota sul verbale dell'anestesia. Il risultato fu immediato; il dottor Major ringraziò il collega e informò i presenti che al tatto le ovaie sembravano lisce e normali prugne. Diceva sempre così quando trovava ovaie a posto. La dilatazione della cervice fu completata senza intoppi. Nancy aveva un normale utero anteroflesso, e la curva dei dilatatori aderiva perfettamente. C'era qualche grumo di sangue che venne succhiato via con l'aspiratore. Il dottor Major raschiò accuratamente l'interno dell'utero, saggiando la consistenza del tessuto endometriale. Mentre Major prendeva il secondo raschiatore, Billing rilevò un leggero cambiamento nel ritmo del monitor cardiaco. Osservò la traccia sullo schermo dell'oscilloscopio. Il polso era sceso a sessanta. Istintivamente gonfiò il colletto dello sfigmomanometro e ascoltò con la massima attenzione il suono lontano e familiare del sangue che scorreva nell'arteria; quindi allentò, e sentì il suono riecheggiante che indicava la pressione diastolica. La pressione era di 90/60. Non era un valore eccezionalmente basso, ma la sua mente analitica restò perplessa. Si chiese se Nancy non stesse subendo una stimolazione vagale dall'utero. Era improbabile, ma si tolse ugualmente lo stetoscopio dalle orecchie. «Dottor Major, un attimo. La pressione sanguigna è scesa un po'. Quanto valuta che sia stata la perdita di sangue?» «Non più di 500 cc,» rispose Major alzando gli occhi. «Strano.» Billing si rimise lo stetoscopio. Gonfiò di nuovo il colletto: 90/58. Guardò il monitor: il polso era a sessanta. «Pressione?» chiese Major. «Novanta e sessanta, col polso a sessanta,» rispose Billing togliendosi lo stetoscopio e ricontrollando le valvole di flusso dell'apparecchio per l'ane-
stesia. «Cosa diavolo c'è che non va, Cristo?» scattò il dottor Major, con la tipica irritazione precoce dei chirurghi. «Niente,» ribatté Billing. «Ma è cambiato qualcosa. Prima era perfettamente regolare.» «Be', ha un bellissimo colorito. Qui giù è rossa come una ciliegia!» Major fu il solo a ridere della propria battuta. Billing guardò l'orologio: le 7.48. «Okay, avanti. Le segnalerò eventuali altri cambiamenti.» Schiacciò al massimo la sacca di respirazione. I polmoni di Nancy si gonfiarono. C'era qualcosa che lo preoccupava, che metteva in allarme il suo sesto senso, che gli faceva battere il cuore più in fretta. Restò a osservare la sacca di ventilazione mentre si sgonfiava, poi la compresse di nuovo, registrando mentalmente il grado di resistenza offerto dai bronchi e dai polmoni. Era molto facile farla respirare. Osservò di nuovo la sacca: nessun movimento, nessuna reazione. Eppure la seconda dose di succinilcolina doveva essere stata ormai metabolizzata. La pressione si alzò leggermente, poi si abbassò di nuovo a 80/58. La frequenza del monotono bip-bip del monitor aumentò d'improvviso. Gli occhi del dottor Billing corsero allo schermo dell'oscilloscopio. Il ritmo salì ancora. «Tra cinque minuti ho finito,» annunciò Major. Con una sensazione di sollievo Billing allungò una mano e chiuse il flusso di protossido d'azoto e halothane, aumentando quello di ossigeno. Voleva abbassare il livello di anestesia di Nancy. La pressione salì a 90/60; Billing si sentiva meglio. Si permise persino di asciugarsi col dorso della mano le goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte. Guardò il contenitore di soda caustica. Sembrava normale. Erano le 7.56. Con la destra sollevò le palpebre di Nancy. Si aprirono senza resistenza: le pupille erano dilatate al massimo. A Billing tornò di colpo la paura. C'era qualcosa che non andava. Qualcosa che non andava per niente bene. lunedì 23 febbraio ore 7.15 Una miriade di piccoli flocchi di neve scendeva danzando su Longwood Avenue, nella semioscurità. La temperatura era di cinque gradi sotto zero, e i fragili cristalli toccavano il suolo, e restavano intatti. Il sole era nascosto sotto un pesante strato di nubi scure. Dal mare continuavano ad afflui-
re, portate dal vento, sempre nuove nuvole, che avvolgevano le cime degli edifici più alti e rendevano sempre più buia quell'alba di Boston. Dentro alla stanza, Susan Wheeler era tutta occupata a tirarsi fuori da un sogno assurdo e inquietante, dopo una notte agitata e quasi insonne. Il 23 febbraio sarebbe stato come minimo un giorno difficile, forse disastroso. Medicina è fatta di mille piccole crisi, di tanto in tanto interrotte da un cataclisma senza precedenti. Il 23 febbraio, per Susan Wheeler, apparteneva a quest'ultima categoria. Da appena cinque giorni aveva completato il primo biennio, quello in cui viene impartita la preparazione di base, in aula e in laboratorio. Se l'era cavata benissimo in tutte le materie, pratiche e teoriche. I suoi appunti avevano ottima fama, tanto che tutti glieli chiedevano di continuo in prestito. All'inizio li dava a chiunque. Poi, appena si accorse che il clima competitivo che pensava di essersi lasciato alle spalle a Radcliffe era ancora una realtà, cambiò tattica. Li prestò solo a un piccolo gruppo di amici, o a quelli che potevano prestarle i loro quando lei saltava una lezione. Ma era raro che ne saltasse una. Molti la prendevano in giro perché frequentava troppo. Lei ribatteva che aveva bisogno di tutti gli aiuti possibili. Naturalmente non era questo il motivo. Avendo iniziato una professione dominata dai maschi — anche tutti i professori erano uomini — Susan Wheeler non poteva saltare una lezione senza che la cosa venisse notata. Per quanto considerasse gli insegnanti in modo neutro e asessuato, come semplici superiori, questo atteggiamento non era ricambiato. Il nocciolo della faccenda era che Susan Wheeler era una femmina di ventitré anni molto attraente. Aveva i capelli biondo grano, fluenti, lunghi e fini; quando c'era vento la facevano impazzire, e spesso era costretta a tirarseli indietro, fissandoseli con una forcina sulla nuca. Aveva la faccia larga, con gli zigomi alti; gli occhi erano un misto di azzurro e verde, con striature marrone, sicché l'effetto cromatico mutava col mutare della luce. I denti erano ultrabianchi, merito per il cinquanta per cento della natura e per l'altro cinquanta dei dentisti della città. Susan Wheeler era in tutto e per tutto simile al sogno dei pubblicitari della Pepsi-Cola. A ventitré anni era giovane, piena di salute, sexy, con quello stile tutto americano e californiano che fa girare lo sguardo e risveglia l'ipotalamo. E oltre a tutto questo — o forse nonostante tutto questo — Susan Wheeler era molto sveglia. Il suo quoziente di intelligenza si aggirava attorno a 140, per la delizia dei genitori. A scuola aveva sempre avuto il massimo dei voti. Le piaceva imparare, le piaceva la scuola, e si divertiva a usare il proprio cervello. Era una lettrice insaziabile.
Radcliffe era stata una scuola ideale per lei. Si era specializzata ottimamente in chimica su un programma vastissimo. Non aveva avuto certo difficoltà a essere ammessa alla facoltà di medicina. Ma essere carina come Susan aveva anche i suoi svantaggi. Uno era la già ricordata difficoltà di mancare a una lezione senza che gli altri se ne accorgessero. Quando poi c'era qualche interrogazione, Susan era tra quei pochi sfortunati che vengono usati per dimostrare la stupidità degli studenti o l'acume dei professori. Un secondo svantaggio era che la gente si faceva delle opinioni assolutamente arbitrarie sul suo conto. Assomigliava talmente a quelle vistose fotomodelle degli annunci pubblicitari, che senza star tanto a pensarci la confondevano con la ragazzona del tipo oca giuliva. C'erano comunque dei vantaggi nell'essere bella e intelligente, e Susan stava a poco a poco rendendosi conto che non c'era niente di male nell'approflttarne. Se aveva bisogno di qualche spiegazione supplementare su un argomento difficile, bastava che chiedesse. Tutti gli insegnanti si premuravano di aiutarla a capire i punti più complicati dell'endocrinologia o dell'anatomia. Susan usciva con molti meno uomini di quanti la gente non pensasse. Questo per vari motivi: primo, preferiva restare a leggere nella sua stanza anziché andare in giro con un tipo noioso (e con la sua intelligenza trovava noiosi non pochi uomini). Secondo, erano in pochi a chiederle di uscire, perché la sua combinazione di bellezza e cervello intimidiva parecchio. Così passava molto spesso il sabato sera immersa nella lettura di qualche romanzo. Susan temeva che da quel 23 febbraio in poi, il suo tranquillo ritmo di vita sarebbe andato in pezzi. La routine delle lezioni in aula, a cui si era ormai così ben abituata, era finita: insieme ad altri centodue compagni di corso sarebbe stata rudemente staccata dalla serenità dell'apprendimento teorico e gettata nell'arena degli anni di tirocinio clinico. Tutta la sicurezza nelle proprie capacità che si era formata durante il primo biennio sarebbe stata messa a dura prova davanti ai malati in carne e ossa. Susan Wheeler non si faceva illusioni: ignorava che cosa significasse essere un medico che cura malati reali. Anzi, temeva che non ci sarebbe mai riuscita. Non era una cosa che si potesse imparare solo leggendo e studiando. L'idea di una prova del fuoco era diametralmente opposta alla sua struttura mentale. Ma quel 23 febbraio, volente o nolente, avrebbe avuto a che fare con dei malati. Era questa crisi di fiducia in se stessa che non l'aveva fatta dormire e aveva riempito la sua notte di incubi, in cui vagava
per labirinti sconosciuti e spaventosi. Susan non si immaginava nemmeno quanto fedelmente quelle fantasie rispecchiassero l'esperienza che avrebbe fatto nei giorni successivi. Alle 7.15 il clic meccanico della radiosveglia interruppe i suoi sogni. Il cervello di Susan riacquistò la piena lucidità. Spense prima che il transistor potesse riempire la stanza di rauca musica folk. Di solito lasciava che la musica la svegliasse completamente, ma quella mattina non ne aveva bisogno. Era troppo tesa. Si sedette sulla sponda del letto e appoggiò i piedi per terra. Il pavimento era freddo e per niente invitante. I capelli le scendevano davanti alla faccia, lasciando solo uno spiraglio di quattro o cinque centimetri attraverso cui poteva guardarsi intorno. Non era un granché come stanza: quattro metri per quattro e mezzo, con due finestre a pannelli multipli che davano su un altro edificio di mattoni e un parcheggio. Le pareti, dipinte da Susan un paio d'anni prima, erano in un bel colore giallo pastello, che metteva in risalto il tessuto Marimekko Printex delle tende — un verde elettrico variegato a strisce blu scuro — e i vecchi poster colorati di manifestazioni culturali del passato. I mobili erano quelli forniti dall'università: un letto vecchio stile, troppo morbido, e una poltrona logora ed esageratamente imbottita. Susan la usava solo per appoggiarvi sopra la biancheria sporca. Le piaceva leggere a letto e studiare alla scrivania, così la poltrona non era «cruciale», come diceva lei. La scrivania era di quercia, molto comune, a parte la distesa di iniziali e graffi che la ricoprivano; nell'angolo a destra, Susan aveva persino trovato incisa una frase oscena associata con la parola biochimica. C'era un libro di diagnostica aperto. Negli ultimi tre giorni l'aveva letto e riletto da cima a fondo, ma la cosa non era servita a farle ritrovare la fiducia in se stessa. «Merda!» esclamò ad alta voce, senza rivolgersi a nessuno o a niente in particolare. Era solo la sua reazione al fatto ormai accertato che il 23 febbraio era arrivato davvero. A Susan piaceva imprecare, e lo faceva spessissimo, quasi sempre tra sé. Dato che un linguaggio simile strideva col suo aspetto così perbene, il risultato colpiva notevolmente. Susan aveva scoperto che era uno strumento utile e divertente. Dopo essersi staccata con quel commento dal calore delle coperte, si accorse di avere ancora una quindicina di minuti a disposizione. Di solito questa era la durata del suo rituale mattutino: accendere e spegnere ripetutamente la radiosveglia prima di riuscire ad alzarsi ed entrare in bagno. Il
suo atteggiamento ambivalente nei confronti dell'inizio di quella giornata le fece perdere tempo: se ne stette seduta per tutto il quarto d'ora a fissare il vuoto. Ah, come avrebbe voluto essersi iscritta a legge o a lettere! Qualsiasi cosa tranne la medicina. Il freddo del pavimento di linoleum si trasmise ai piedi di Susan. Mentre restava lì seduta, il suo sistema circolatorio disperse nella stanza il calore del corpo. I capezzoli le si indurirono e le venne di colpo la pelle d'oca sull'interno delle cosce nude. Aveva addosso solo una vecchia camicia da notte di flanella leggera, che le avevano regalato a Natale allorché faceva la quinta. La portava ancora quasi ogni notte, almeno quando dormiva da sola. Ci era affezionata. Nel ritmo furioso dei cambiamenti della sua vita, sembrava offrirle una specie di punto di riferimento. Inoltre era la camicia da notte preferita da suo padre. Fin da piccola Susan faceva di tutto per piacere al padre. Il suo primo ricordo di lui era l'odore: un misto di profumo e sapone deodorante che copriva un altro odore strano, che più tardi capì essere l'odore dei maschi. Era sempre stato buono con lei, e lei sapeva di essere la sua preferita. Un segreto che non aveva mai diviso con nessuno, e men che meno coi due fratelli più piccoli. Era sempre stata una cosa che le aveva dato sicurezza di fronte alle consuete difficoltà dell'infanzia e dell'adolescenza. Il padre di Susan era un uomo di forte personalità, un dominatore, ma nello stesso tempo una persona generosa e gentile che amministrava la famiglia e il lavoro di assicuratore come un sovrano illuminato. Era un uomo affascinante, e i figli gli lasciavano l'ultima parola su qualsiasi argomento. Non che la madre di Susan fosse una donna debole, aveva solo sposato un uomo molto più forte di lei. Per la maggior parte della propria vita Susan aveva accettato questa situazione come una norma immutabile. Alla fine, però, aveva cominciato a metterla un po' a disagio. Susan somigliava molto al padre, e lui ne incoraggiava lo sviluppo in questa direzione. Ma poi Susan aveva cominciato a capire che non poteva diventare uguale a lui, che non poteva aspettarsi di avere un giorno una casa tutta sua, come quella in cui era cresciuta. Allora, per un certo periodo, aveva desiderato essere come sua madre, e aveva fatto tutto il possibile per diventarlo. Ma era stato inutile. La sua personalità ricalcava sempre di più le caratteristiche paterne, e al liceo fu letteralmente forzata ad assumere un ruolo guida. Venne eletta capoclasse nell'anno del diploma, anche se quello era un periodo in cui avrebbe preferito restarsene tranquillamente in disparte. Il padre di Susan non era stato mai particolarmente esigente, e non le a-
veva mai imposto di far qualcosa. Era sempre rimasto una fonte di sicurezza e di incoraggiamento, aiutandola a fare quello che voleva lei. Dopo aver conosciuto le prime compagne a medicina, si era accorta che molte di loro provenivano da un ambiente paternalistico come il suo. Quando le capitava di vedere i loro genitori, le sembrava che i padri le fossero familiari, come se li avesse già incontrati in passato. Dal termosifone sotto la finestra venne un piccolo rimbombo, il preannuncio dell'arrivo del calore; un piccolo getto di vapore sibilò fuori dalla valvola. I sussulti del calorifero ricordarono a Susan che lì dentro faceva un gran freddo. Si alzò di scatto, si stirò, e andò a chiudere la finestra. Sollevò la camicia da notte sopra la testa e si guardò il corpo nudo nello specchio sulla porta del bagno. Gli specchi esercitavano una strana attrazione su di lei. Le era quasi impossibile oltrepassarne uno senza lanciare almeno una rapida occhiata di conferma. «Forse potresti fare la ballerina, Susan Wheeler,» disse alzandosi sulle punte dei piedi e muovendo in alto le braccia, «e rinunciare a questa idea di diventare un fottuto medico.» Come un pallone che si sgonfia si abbassò lentamente fino a toccare terra. Continuava a osservare la propria immagine nello specchio. «Vorrei poterlo fare,» sospirò piano. Susan era orgogliosa del proprio corpo. Era morbido e flessuoso, e nello stesso tempo forte e formoso. Avrebbe potuto davvero essere una ballerina. Aveva un buon senso dell'equilibrio e del ritmo. Invidiava Carla Curtis, un'amica di Radcliffe che dopo il liceo si era data al ballo e adesso era entrata nell'ambiente di New York. Ma Susan si rendeva anche conto che non avrebbe mai potuto fare la ballerina, nonostante le sue fantasticherie. Aveva bisogno di una professione in cui poter usare il cervello, sempre. Susan fece una boccaccia, mostrando la lingua alla ragazza dello specchio, che ricambiò il gesto. Poi entrò in bagno. Aprì i rubinetti della doccia. Ci vollero quattro o cinque minuti prima che l'acqua diventasse calda. Si guardò la faccia nello specchio del bagno, dopo essersi scostata i capelli dagli occhi. Se solo il naso fosse stato un pochino più stretto, pensò, sarei irresistibile. Poi cominciò le abluzioni, dopo aver preso una pastiglia di Ortho-Novum. Tra l'altro, Susan Wheeler era una donna pratica, piena di forza di volontà. Pratica, appunto. lunedì 23 febbraio ore 7.30
Il Boston Memorial Hospital non è certo una costruzione modello nonostante il numero spropositato di architetti esistenti nella zona di Boston. Il corpo centrale è stato costruito più di un secolo fa con blocchi di pietra incastrati con abilità. Non è brutto, anzi, ma ha l'inconveniente di essere troppo piccolo, e a un solo piano. Inoltre è stato progettato con grandi corsie, oggi ormai superate. Sicché la sua funzionalità attuale è minima. Solo i molti sedimenti di storia della medicina che ne permeano i corridoi fanno desistere gli innovatori. I numerosi edifici più grandi sono in stile gotico americano, con milioni e milioni di mattoni disposti ad angolo ottuso per sostenere finestre sporche e tetti piatti e monotoni. Le costruzioni si sono moltiplicate senza un piano logico, esclusivamente in base alla necessità di nuovi posti letto o alla disponibilità di fondi. L'insieme è decisamente sgradevole; forse le uniche eccezioni sono pochi edifici più piccoli adibiti alla ricerca e costruiti senza badare a spese. Ma pochissimi notano questo aspetto esteriore. La percezione è oscurata da una cascata di reazioni emotive: gli edifici non sono edifici e basta. Sono il famoso Boston Memorial Hospital, tempio di tutto il mistero e l'alchimia della medicina moderna. La paura e l'eccitazione si mescolano confusamente, allorché la gente comune si avvicina a quel luogo. E per gli addetti ai lavori, è la Mecca: il culmine della scienza medica. La posizione dell'ospedale non aggiunge molto all'impressione generale. Da una parte c'è un labirinto di binari ferroviari che portano alla North Station, con un incredibile intrico di strade sopraelevate che formano un'enorme scultura di ferro arrugginito; dall'altra c'è un gruppo di moderni caseggiati popolari. Ma lo scopo non è stato raggiunto a causa della nota corruzione dell'amministrazione di Boston. Le case sembrano popolari per l'assenza di rifiniture, ma gli affitti sono alle stelle e solo i ricchi e i privilegiati possono permettersi di abitarci. Di fronte all'ospedale c'è un angolo stagnante del porto, con l'acqua color caffè nero, addolcita dalle esalazioni delle fognature. Tra l'ospedale e il porto c'è un campo di giochi di cemento pieno di carta straccia. Alle sette e mezzo di quel lunedì mattina l'attività ferveva in tutte le sale operatorie dell'ospedale. Nello spazio di cinque minuti, ventun bisturi tagliarono pelle umana che non opponeva resistenza, e le operazioni in programma ebbero inizio. Il destino di un considerevole numero di persone dipendeva da quello che si sarebbe o non si sarebbe fatto, da quello che si sarebbe o non si sarebbe trovato nelle ventun sale chirurgiche. Il ritmo fre-
netico dell'attività non sarebbe rallentato che alle due o alle tre del pomeriggio. Alle nove di sera solo due sale sarebbero state ancora in funzione. E c'erano anche casi in cui si arrivava alle sette del mattino dopo. In netto contrasto col trambusto del reparto, nella sala dei chirurghi c'era un meraviglioso silenzio. Nella stanza c'erano solo due persone; i medici non avrebbero cominciato a venire a prendere il caffè prima delle nove. Uno era un uomo dall'aria malaticcia, che sembrava molto più vecchio dei suoi sessantadue anni. Stava tentando di pulire il lavandino senza spostare la ventina di tazze lasciate lì dentro mezze piene d'acqua. Si chiamava Walters, ma pochi sapevano se fosse il nome o il cognome. Il nome completo era Chester P. Walters. Nessuno sapeva per cosa stesse la «P», nemmeno lui. Lavorava in quel reparto dall'età di sedici anni, e sebbene non facesse più quasi niente, nessuno aveva il coraggio di licenziarlo. Non stava bene, diceva lui, e in effetti non aveva un bell'aspetto: aveva la faccia pallidissima, e tossiva di continuo. Si sentiva che aveva i bronchi pieni di catarro, e sembrava che non riuscisse mai a espellerlo; era come se gli bastasse liberarsi un po', ma senza disturbare la sigaretta che gli pendeva costantemente dall'angolo destro della bocca. Per metà del suo tempo doveva tenere la testa piegata a sinistra per evitare che il fumo gli andasse negli occhi. L'altra persona era un chirurgo interno dell'ospedale, Mark H. Bellows. La «H» stava per Halpern, il nome da ragazza di sua madre. Bellows era intento a scrivere su un blocco di moduli gialli. La tosse di Walters e la sua sigaretta gli davano un enorme fastidio, e ogni volta che il vecchio iniziava una nuova scarica di colpi di tosse, Bellows alzava gli occhi su di lui. Non riusciva a capire come una persona potesse rovinare così il proprio organismo, e non mostrare nessuna intenzione di smettere. Bellows non fumava, e non aveva mai fumato. Per Bellows era ugualmente incomprensibile come Walters potesse continuare a restare nel reparto chirurgia nonostante il suo aspetto, il suo comportamento e il fatto che non faceva un accidenti di niente. La chirurgia al Memorial era l'apogeo, lo zenit dell'arte della chirurgia moderna, e far parte di quel personale era come essere entrati nell'Eden. Almeno per come la vedeva Bellows. Aveva lottato a lungo e duramente per diventare interno. E schiaffata in mezzo a tutta quella perfezione si era ritrovato quella specie di mummia vivente. Era troppo assurdo e ridicolo. In una giornata normale Mark Bellows si sarebbe trovato dentro a una delle ventun sale operatorie, a dirigere una delle macellazioni, o a darvi il
suo contributo. Ma il 23 febbraio all'elenco delle sue responsabilità si aggiungevano cinque studenti di medicina. Di solito Bellows era assegnato al Beard 5, il quinto piano del Beard Building. Era una buona rotazione di chirurgia generale, forse la migliore. Bellows era anche responsabile della sala rianimazione adiacente alle sale operatorie. Senza alzare gli occhi dai suoi fogli, Bellows allungò una mano verso il tavolo accanto e prese una tazza di caffè. Lo sorseggiò rumorosamente e rimise giù la tazza di colpo. Gli era venuto in mente il nome di un altro medico che avrebbe potuto dar lezioni agli studenti. Bellows prese un modulo del reparto chirurgia da un tavolino e studiò i nomi dei cinque allievi: George Niles, Harvey Goldberg, Susan Wheeler, Geoffrey Fairweather III, e Paul Carpin. Solo due gli fecero una qualche impressione. Il nome Fairweather lo fece sorridere: si immaginò un tipo magro e male in arnese con gli occhiali, una camicia Brooks Brothers e una lunga genealogia del New England. L'altro, Susan Wheeler, catturò la sua attenzione semplicemente perché a Bellows piacevano le donne in generale. Pensava anche di piacere a sua volta alle donne; dopotutto, era un tipo atletico, ed era un medico. Leggendo il nome Susan Wheeler, gli venne da pensare che avere una studentessa avrebbe potuto rendere il mese seguente un po' meno una rottura di scatole. Non si sforzò di crearsi un'immagine di Susan Wheeler. La zona del suo cervello che si occupava degli stereotipi gli disse che non ne valeva la pena. Mark Bellows era al Memorial da due anni e mezzo. Le cose erano andate sempre bene, ed era ragionevolmente sicuro di realizzare il programma prestabilito. Se tutto continuava ad andare liscio, aveva qualche possibilità di diventare capo degli interni. Essere stato scelto per guidare un gruppo di studenti mentre era interno residente era senz'altro positivo, anche se rappresentava una seccatura. Il fatto, del tutto inatteso, era una conseguenza dell'epatite di Hugh Casey, uno degli interni anziani, che aveva tra i suoi incarichi l'insegnamento a due gruppi di studenti all'anno. Si era ammalato appena tre settimane prima. Subito dopo Bellows era stato chiamato nell'ufficio del professor Howard Stark. Bellows non aveva mai collegato questa convocazione con la malattia di Casey. Con l'usuale paranoia di chi è stato convocato nell'ufficio del primario di chirurgia, aveva cercato di passare in rassegna tutti gli eventuali errori commessi ultimamente, in modo da essere preparato alla ramanzina che si aspettava. Ma Stark, contrariamente al solito, era stato gentilissimo, e aveva persino lodato Bellows per come aveva trattato re-
centemente una terapia Whipple. Dopo questo inatteso esordio tutto latte e miele, Stark aveva chiesto a Bellows se fosse interessato a prendere gli studenti di medicina già assegnati a Casey. In verità Bellows avrebbe preferito rifiutare finché era in rotazione al Beard 5; ma nessuno avrebbe osato respingere una richiesta di Stark, sia pure mascherata da offerta. Sarebbe stato un suicidio professionale. Si rendeva conto che inimicandosi quel barone della chirurgia sarebbe incorso nella sua vendetta, e quindi aveva accettato con l'opportuna dose di zelo. Con un righello Bellows disegnò dei quadrati di due centimetri di lato sul foglio che aveva davanti; poi ci scrisse dentro le date dei trenta giorni durante i quali gli studenti sarebbero stati sotto di lui. Divise ogni quadratino in due, mattina e pomeriggio. Intendeva fare una lezione tutte le mattine, e affidare quella pomeridiana a un assistente. Voleva fissarsi in anticipo tutti gli argomenti, in modo da evitare ripetizioni. Bellows aveva compiuto ventinove anni da una settimana, ma la sua età era indefinibile: aveva la pelle liscia ed era in eccellente forma fisica. Quasi ogni giorno faceva quattro o cinque chilometri di footing. L'unico segno esteriore del fatto che avesse quasi trent'anni erano i capelli un po' radi in cima alla testa e sulle tempie, con qualche spruzzata di grigio. Aveva gli occhi azzurri e la faccia cordiale, e possedeva l'invidiabile qualità di far sentire a proprio agio la gente. Mark Bellows era simpatico a tutti. Ai turni del Beard 5 erano assegnati altri due interni, arrivati da un anno soltanto: Daniel Cartwright, della John Hopkins, e Robert Reid, di Yale. Erano lì da luglio, e avevano già fatto una bella strada. Ma adesso, in febbraio, stavano facendo l'esperienza della tipica «depressione da internato». I primi mesi erano serviti ad abituarli alle esigenze del loro incarico e ad attenuare il terrore della responsabilità; ma c'era ancora un bel po' di tempo prima che i due venissero sollevati dal peso della guardia una notte su due. Insomma, Bellows era ancora costretto a seguirli. Cartwright al momento era assegnato alla sala rianimazione, mentre Reid era al Beard 5. Bellows decise di farsi aiutare da loro per gli studenti. Dei due Cartwright era il più estroverso, e probabilmente sarebbe stato il più utile; Reid era un negro, e negli ultimi tempi aveva cominciato a pensare che tutti lo facessero lavorare duro più per il colore della pelle che per la sua qualifica di interno. Questo era solo un sintomo della depressione di febbraio, ma Bellows decise che Cartwright sarebbe stato di maggior aiuto. «Tempo da cani,» biascicò Walters, rivolgendosi presumibilmente a Bellows, ma con un tono distaccato e indiretto. Era una frase che il vecchio ri-
peteva in continuazione: per lui il tempo era sempre da cani. I suoi polmoni malandati trovavano un po' di sollievo solo con venti gradi di temperatura e il sessanta per cento di umidità. Ma il clima di Boston era di rado su questi valori così precisi, sicché per Walters la stagione era sempre terribile. «Già,» annuì Bellows distrattamente, senza staccarsi dal proprio lavoro. Quel giorno la maggior parte della gente sarebbe stata d'accordo con Walters: il cielo era oscurato da pesanti nuvole grigie. Ma Bellows aveva ben altro a cui pensare. Tutt'a un tratto si era sentito contento dell'arrivo dei cinque studenti. La cosa poteva anche migliorare la sua posizione nella professione; e in questo caso, il tempo speso con loro non sarebbe stato affatto sprecato. Bellows era piuttosto machiavellico nell'analizzare le situazioni: se non lo fosse stato, non sarebbe riuscito a raggiungere quel posto nel Memorial. La competizione era feroce. «Pensa, Walters, questo è proprio il mio tempo preferito,» disse Bellows alzandosi in piedi e facendo il verso alla tosse dell'altro. La sigaretta incollata all'angolo della bocca di Walters ebbe un sussulto, ma prima che il vecchio potesse rispondere qualcosa il dottore era già sparito e andava incontro ai suoi cinque allievi. Era sicuro di riuscire a volgere a proprio vantaggio quella faticaccia. lunedì 23 febbraio ore 9.00 Susan Wheeler fece il tragitto dal pensionato all'ospedale sulla Jaguar di Geoffrey Fairweather. Era un vecchio modello, una X/150, e ci si stava dentro a malapena in tre. Paul Carpin era molto amico di Fairweather, così era lui il terzo fortunato. George Niles e Harvey Goldberg dovettero affrontare la calca dei mezzi pubblici cittadini per arrivare all'appuntamento con Mark Bellows alle 9. Dopo essersi messa in moto con la difficoltà tipica delle macchine inglesi, la Jaguar coprì i sei chilometri a una buona media. La Wheeler, Fairweather e Carpin si presentarono all'ingresso principale del Memorial alle 8.45. Gli altri due, confidando in un miracolo dei trasporti pubblici, avevano previsto di percorrere la stessa distanza in mezz'ora: erano arrivati alle 8.55, dopo quasi un'ora di viaggio. L'appuntamento con Bellows era davanti alla corsia del Beard 5. Nessuno di loro sapeva come diavolo arrivarci. Speravano che, una volta entrati nel Memorial, il destino li avrebbe por-
tati nel posto giusto. I due gruppi si incontrarono un po' per caso e un po' di proposito davanti agli ascensori principali. La Wheeler, Fairweather e Carpin avevano cercato di raggiungere il Beard 5 salendo con l'ascensore del Thompson Building, antistante l'ingresso principale. Ma il Memorial era un autentico labirinto. «Non so se questo posto mi piacerà,» sussurrò George Niles a Susan Wheeler mentre i cinque si infilavano nell'ascensore affollato. Susan comprendeva benissimo il significato sottinteso nella banale affermazione del collega. Quando non vuoi andare in un posto, e fai pure fatica a trovarlo, è come se al danno si aggiungesse la beffa. Per giunta, la sicurezza di sé dei cinque era in piena crisi. Sapevano che quello era uno degli ospedali più famosi, e perciò erano contenti di andare a far pratica lì; ma nello stesso tempo si sentivano infinitamente lontani dalla condizione del vero medico, in grado di stabilire diagnosi e terapie in base a un'esperienza già acquisita. I camici bianchi che indossavano li rendevano perfettamente simili ai futuri colleghi, ma la loro capacità di trattare anche il più semplice caso clinico era praticamente nulla. Gli stetoscopi pendevano in modo appariscente dalle loro tasche sinistre ma finora li avevano usati solo per auscultarsi tra di loro. La loro conoscenza dei complicati processi biochimici della degradazione del glucosio nella cellula era in quel momento di ben poco aiuto pratico. Ma dopotutto provenivano da una delle migliori facoltà di medicina degli Stati Uniti, e ciò doveva pur contare qualcosa. Tutti e cinque si nutrivano di questa illusione, mentre l'ascensore saliva un piano dopo l'altro verso il Beard 5. Al Beard 2 la porta si aprì per far uscire un chirurgo; i cinque giovani videro per un attimo il corridoio del reparto chirurgia in piena attività. Giunti al quinto piano, si guardarono intorno impacciati, senza sapere da che parte andare. Poi Susan prese il comando del gruppo e lo guidò lungo il corridoio verso la sala infermiere. Anche qui, come nel reparto chirurgia l'attività era frenetica. L'uomo al banco aveva l'orecchio incollato al telefono e stava trascrivendo i risultati delle analisi del sangue del mattino. La capoinfermiera, Terry Linquivist, era intenta a controllare l'ordine del giorno per assicurarsi che ai pazienti da operare nelle ore successive fossero state somministrate tutte le medicine prescritte. Le altre nove infermiere erano affaccendate a trasportare i pazienti da operare, o a portar fuori quelli già operati. Susan Wheeler si avvicinò a tutto quel trambusto, sforzandosi di appari-
re disinvolta e di nascondere la propria insicurezza interna. L'uomo al banco sembrava il più accessibile. «Mi scusi, potrebbe dirmi...» L'impiegato sollevò una mano verso di lei. «Ripetimi quell'ematocrita. Qui è un casino!» gridò nel ricevitore che teneva tra la testa e la spalla. Scrisse qualcosa su un foglio. «E si doveva fare anche un BUN!» Guardò Susan, e scosse la testa al suo interlocutore. Prima che la ragazza potesse dire qualcosa, i suoi occhi si spostarono di nuovo sul foglio che aveva davanti. «Ma certo che sono sicuro che è stato prescritto un BUN!» Cercò affannosamente tra le carte per trovare la richiesta. «Ma ho compilato io stesso il modulo!» Controllò ancora. «Guarda, il dottor Needem andrà in bestia se non è stato fatto il BUN! Eh? Be', se non hai abbastanza siero alza il culo e vieni qui a prenderlo. L'operazione è alle undici. E le analisi di Berman, sono pronte? Certo che le voglio subito!» L'uomo alzò gli occhi su Susan, continuando a tenere il ricevitore tra l'orecchio e la spalla. «Desidera?» le chiese in fretta. «Siamo studenti di medicina, e vorremmo sapere se...» «È meglio che si rivolga a Miss Linquivist,» la interruppe lui, mettendosi a scrivere velocemente sui suoi moduli. Poi si fermò un attimo, e con la punta della penna indicò Miss Linquivist. Susan guardò. La donna avrà avuto quattro o cinque anni più di lei. Era florida e piuttosto attraente, ma decisamente troppo grassa. Pensò anche che non sembrava meno occupata dell'uomo con cui aveva parlato, ma non volle mettersi a discutere. Dopo una rapida occhiata agli altri quattro, ben lieti di lasciare a lei l'iniziativa, si avvicinò all'infermiera. «Mi scusi,» azzardò educatamente. «Siamo studenti di medicina assegnati a...» «Oh, no!» Miss Linquivist alzò gli occhi al cielo e si premette il palmo della mano sulla fronte, come se le fosse venuto un improvviso attacco di emicrania. «Mi ci voleva anche questa!» esclamò rivolgendosi al muro e calcando le parole. «È uno dei giorni più infernali dell'anno, e mi arriva un nuovo gruppo di studenti!» Si girò verso Susan e la fissò con aria esasperata. «Non cominci subito a scocciarmi, eh!» «Non intendevo affatto seccarla,» rispose Susan, sulle difensive. «Speravo solo che mi potesse dire dov'è il salone del Beard 5.» «Oltre quella porta bianca.» La donna si era un po' raddolcita. Mentre Susan si voltava e tornava dai suoi, la Linquivist gridò a una delle altre infermiere: «Non ci crederai, Nance, ma oggi sarà proprio una di
quelle belle giornatine. Indovina... È appena arrivato un nuovo gruppo di studenti freschi freschi, tutti per noi!» Le orecchie di Susan, che erano molto sensibili, colsero un buon numero di sospiri e mugugni. Susan passò davanti all'uomo al banco, che era ancora al telefono, e si diresse verso la porta bianca. Gli altri la seguirono. «Un bel comitato di accoglienza,» commentò Carpin. «Sì, ci mancava solo il tappeto rosso,» gli fece eco Fairweather. Nonostante tutto, gli studenti si sentivano ancora gente molto importante. «Ah... tra un paio di giorni vedrai che le infermiere cadranno tutte ai nostri piedi,» sorrise Goldberg con aria soddisfatta. Susan si voltò e gli lanciò un'occhiataccia; ma lui sembrò non accorgersene. Goldberg non si accorgeva quasi mai dei messaggi interpersonali più sottili. E spesso nemmeno di quelli che non erano affatto sottili. Susan, con gli altri sempre dietro, varcò la soglia. Nella sala c'era un gran disordine: cataste di vecchi libri e riviste mediche, pile di fogli d'ogni genere, e poi un assortimento di siringhe di plastica e altri strumenti medici. Lungo la parete di sinistra correva un bancone, con un distributore automatico di caffè; sulla parete opposta, una finestra senza tendine e coi vetri sporchi. Solo una piccola parte della luce di febbraio riusciva a filtrare attraverso il vetro, e rischiarava appena una porzione del linoleum consunto. Sul muro di destra era appesa la bacheca, piena di comunicazioni, promemoria, messaggi vari. Di fianco c'era una lavagna ricoperta da uno strato di polvere di gesso. Nel centro della stanza c'era un gruppo di sedie da aula scolastica, con la tavoletta per scrivere fissata al bracciolo destro. Una di esse era stata messa davanti alla lavagna, e sopra c'era Bellows, col suo blocco di fogli gialli davanti. Appena gli studenti, in fila indiana, entrarono, alzò un po' il braccio sinistro e osservò l'orologio. I ragazzi capirono subito il significato di quel gesto, evidentemente diretto a loro. Specialmente Goldberg, estremamente sensibile riguardo a tutti i fatti, anche minimi, che potevano compromettere la sua media. Per qualche minuto nessuno disse niente: Bellows voleva impressionare gli allievi. Non aveva nessuna esperienza di insegnamento, ma ripensando al proprio passato di studente pensò che la cosa migliore fosse un comportamento autoritario. I cinque ragazzi, da parte loro, restarono zitti perché si sentivano già a disagio, e un pochino paranoici. «Sono le 9.20,» disse finalmente Bellows fissandoli uno a uno. «Dovevate presentarvi alle 9, non alle 9.20.» Nessuno mosse un muscolo, per ti-
more di attrarre l'attenzione di Bellows. «Sarà meglio metter le cose in chiaro fin dall'inizio,» continuò Bellows severo. Si alzò lentamente e prese un pezzo di gesso. «C'è una cosa fondamentale nella chirurgia, specialmente qui al Memorial: tutto si svolge in perfetto orario. È meglio che ve lo fissiate bene in testa, altrimenti la vostra esperienza qui dentro sarà come...» Cercò la frase adatta, tamburellando col gesso sulla lavagna. Osservò bene Susan Wheeler, e il suo aspetto. La sua momentanea confusione aumentò. Guardò fuori dalla finestra, «... come un lungo e duro inverno.» Bellows spostò di nuovo lo sguardo sugli studenti e cominciò il discorso introduttivo che si era preparato. Mentre parlava studiò le facce dei ragazzi. Fu sicuro di aver individuato Fairweather: quegli occhiali di tartaruga combaciavano perfettamente col concetto che si era già fatto di lui. Pensò di essere riuscito a individuare anche Goldberg. Gli altri due maschi restavano per il momento due entità indefinite. Arrischiò un'altra occhiata verso Susan, e provò immediatamente la stessa confusione di prima. Non era preparato al fascino della ragazza. Indossava dei calzoni blu che le aderivano alle cosce in modo decisamente eccitante e una camicetta blu di Oxford, messa in risalto da un foulard blu e rosso annodato al collo; il suo camice bianco da studentessa di medicina era aperto negligentemente. I seni prepotenti sembravano sbandierare provocatoriamente il suo sesso, e Bellows non era per niente preparato a tutto questo. Non rientrava affatto nei piani che si era fatto per trattare con gli studenti. Per il momento si sforzò di non guardare Susan. «Sarete assegnati al Beard 5 solo per uno dei tre mesi del vostro internato qui al Memorial,» spiegò Bellows, assumendo quel tono monotono che gli sembrava il più adatto per la pedagogia medica. «Sotto certi aspetti questo è un vantaggio, sotto altri uno svantaggio. Come tante altre cose della vita.» Carpin ridacchiò di questo misero tentativo di filosofia, ma accorgendosi di essere il solo si ricompose immediatamente. Fissando lo sguardo su Carpin, Bellows continuò: «La rotazione nel Beard 5 include la sala rianimazione. Quindi sarete sottoposti a un programma intensivo d'insegnamento. Questo è il lato buono. Lo svantaggio è che ciò avvenga così presto, mentre avete ancora così poca esperienza. Se non sbaglio, questa è la vostra prima rotazione clinica. È esatto?» Carpin si guardò intorno, per essere ben sicuro che l'ultima domanda fosse diretta proprio a lui. «Noi...» Gli si spense la voce. Si schiarì la gola. «Sì,» riuscì faticosamente a rispondere.
«Nella sala rianimazione,» continuò Bellows, «voi avete tutto da imparare. È la fase più delicata nella cura dei malati. Tutte le vostre prescrizioni, per qualsiasi paziente, dovranno essere controfirmate da me o da uno dei due interni di guardia. Li conoscerete tra poco. Le prescrizioni per la sala rianimazione dovranno essere controfirmate immediatamente. Quelle per i pazienti in corsia, invece, possono venire controfirmate in blocco durante la giornata. È chiaro?» Bellows guardò i cinque uno dopo l'altro, compresa Susan, che ricambiò l'occhiata, restando impassibile. La prima impressione che Bellows le aveva fatto non era favorevole. Il comportamento era troppo artefatto, e la sua miniconferenza iniziale sulla puntualità le era sembrata un po' inutile, a quello stadio dei loro rapporti. Il tono monotono delle sue osservazioni, poi, combinato con quel pietoso tentativo di filosofia spicciola, non faceva che confermare in lei l'immagine che si era fatta della personalità dei chirurghi in base a certe conversazioni con loro e alle proprie letture: instabilità, egoismo, suscettibilità alle critiche e, soprattutto, ottusità. Susan non notò affatto che Bellows era un individuo di sesso maschile. Questo pensiero non la sfiorò nemmeno. «Adesso,» riprese Bellows nel suo tono artificioso, «vi darò delle fotocopie. Vi forniranno un'idea della tabella di marcia che seguiremo finché resterete qui al Beard 5. I pazienti in corsia e nella SR verranno suddivisi tra voi, e lavorerete direttamente con l'interno che si occupa dei singoli casi. Quanto al servizio notturno, voglio che almeno uno di voi sia qui tutte le notti. Ciò significa che farete solo una notte su cinque, il che non è poi una gran fatica. Anzi, è meno del normale. Se qualcun altro vuol fare la notte, mi va benissimo, ma almeno uno deve esserci. Quando avrete un minuto libero, buttate giù una tabella con i turni che deciderete di fare, e fatemela avere. Il giro dei pazienti inizia ogni mattina alle sei e trenta. Prima di quell'ora, voglio che abbiate visto tutti i vostri malati e raccolto tutte le informazioni che si possano rivelare utili. È chiaro?» Fairweather diede un'occhiata costernata a Carpin. Si protese verso di lui e gli sussurrò all'orecchio: «Cristo, mi dovrò alzare prima ancora di essere andato a letto!» «Ha qualche domanda, signor Fairweather?» chiese Bellows. «No,» si affrettò a rispondere Fairweather, intimidito dal fatto che Bellows conoscesse il suo nome. «Per quanto riguarda il resto della mattinata,» continuò Bellows guardando di nuovo l'orologio, «voglio per prima cosa portarvi in corsia e pre-
sentarvi le infermiere.» Poi: «Saranno entusiaste di conoscervi, ne sono certo,» aggiunse con un sorriso asciutto. «Abbiamo già sperimentato la loro felicità,» intervenne Susan, parlando per la prima volta. Al suono della sua voce, Bellows girò gli occhi e glieli piantò addosso. «Non ci aspettavamo la banda, ma nemmeno una doccia gelata.» L'aspetto di Susan aveva già un po' innervosito Bellows. Appena ne sentì la voce, il suo polso aumentò leggermente i battiti. Qualcosa gli si rimescolò dentro, come quando faceva il liceo e spogliava le ragazze con gli occhi. Cercò le parole adatte. «Miss Wheeler, deve rendersi conto che le infermiere qui si interessano di una sola cosa.» Niles strizzò l'occhio a Goldberg, che non capì cosa volesse dirgli il compagno. «E cioè provvedere ai malati, e farlo nel miglior modo possibile. E quando arrivano dei nuovi studenti, o dei nuovi interni, il loro compito diventa molto, molto difficile. Hanno imparato per esperienza diretta che i nuovi arrivati sono forse più micidiali di tutti i batteri e i virus messi insieme. Perciò, non aspettatevi di essere accolti qui dentro come salvatori, e meno che mai dalle infermiere.» Bellows fece una pausa, ma Susan non replicò. Stava riflettendo su di lui. Di certo era un realista, e ciò tingeva di un lieve barlume di speranza la cattiva impressione che le aveva fatto finora. «In ogni modo, dopo avervi mostrato la corsia, vi porterò in chirurgia. C'è un intervento alla cistifellea alle dieci e mezzo, e avrete la possibilità di mettervi il camice chirurgico e vedere l'interno di una sala operatoria.» «E il manico di un divaricatore,» aggiunse Fairweather. Per la prima volta l'atmosfera si alleggerì, e tutti risero. Giù nel reparto chirurgia il dottor David Cowley era completamente fuori di sé e la sua collera non risparmiava nessuno. L'infermiera di corsia era scoppiata in lacrime prima della fine dell'operazione, e avevano dovuto sostituirla. L'anestesista interno aveva dovuto sopportare il peggior bombardamento di insulti e oscenità mai lanciato in una sala operatoria. E il bisturi del dottor Cowley aveva persino fatto un taglietto all'indice del chirurgo interno che l'assisteva. Cowley era uno dei chirurghi più rinomati del Memorial, e aveva un grande ufficio privato nel Beard 10. Era stato generato, allevato e nutrito dal Memorial. Quando le cose andavano bene, era un simpaticone, una fonte inesauribile di battute e barzellette sporche, sempre pronto a dare un
consiglio, a fare una scommessa, a ridere. Ma appena qualcosa non andava come voleva lui, diventava una peste, una valanga di insulti. Quel giorno la sua unica operazione era andata malamente. Per cominciare, l'infermiera aveva preparato gli strumenti sbagliati; aveva preso quelli usati normalmente dagli interni. La reazione del dottor Cowley era stata di strapparle di mano il vassoio dei ferri e scagliarlo a terra. Poi il paziente si era mosso leggermente mentre lui faceva l'incisione iniziale. Solo col massimo sforzo di autocontrollo Cowley aveva represso l'impulso di lanciare il bisturi contro l'anestesista. Infine le radiografie non erano arrivate nel preciso momento in cui lui le aveva chieste: Cowley era così furibondo che il povero tecnico si era innervosito, e le prime due lastre gli erano uscite tutte nere. Così Cowley era riuscito a dimenticare il vero motivo per cui l'operazione era iniziata male. Era stato proprio lui a staccare accidentalmente la legatura prossimale all'arteria della cistifellea, con la conseguenza che in pochi secondi l'incisione si era riempita di sangue. C'era voluta una gran fatica per isolare di nuovo il vaso sanguigno senza danneggiare l'integrità dell'arteria epatica. Anche dopo che l'emorragia era stata messa sotto controllo, Cowley non si era sentito molto sicuro di non aver compromesso il rifornimento di sangue necessario al fegato. Quando entrò nella sala dei medici deserta, Cowley aveva un diavolo per capello. Si diresse brontolando al suo armadietto. Gettò teatralmente per terra il berretto e la mascherina, poi diede un calcione allo sportello. «Stronzi incompetenti!» Il suo calcio rabbioso, e la successiva gragnuola di pugni contro lo sportello, provocarono varie conseguenze. Primo, sollevarono una nube di polvere che giaceva indisturbata sopra l'armadietto da almeno cinque anni. Secondo, fecero cadere giù una scarpa, che per pochissimo non finì sulla testa di Cowley. Terzo, fecero aprire lo sportello dell'armadietto accanto, e un po' del suo contenuto cadde sul pavimento. Cowley si occupò prima di tutto della scarpa. La scagliò con tutte le sue forze contro il muro. Poi, prima di rimettere a posto gli altri oggetti, pensò bene di dare un calcio anche allo sportello dell'armadietto vicino spalancandolo completamente. Ma dopo aver dato un'occhiata all'interno si fermò. Guardò più da vicino, e con grande sorpresa vide che l'armadietto conteneva un enorme assortimento di medicine. Numerose confezioni erano aperte, ma molte altre erano ancora sigillate. C'era una quantità incredibile
di ampolle, bottigliette, flaconi e tubetti di pillole. Tra le medicine che erano cadute per terra, Cowley notò Demerol, succinilcolina, Innovar, Barocca-C e curaro. Dentro l'armadietto c'erano molti altri farmaci, compreso un intero scatolone di boccette di morfina ancora piene, siringhe, tubi di plastica e cerotto. Cowley rimise a posto in fretta le medicine cadute e richiuse lo sportello. Scrisse sull'agenda il numero 338. Voleva controllare a chi era stato assegnato quell'armadietto. Nonostante la collera, aveva avuto la lucidità di capire che la scoperta di quel nascondiglio era importante, e poteva addirittura avere gravi conseguenze per l'intero ospedale. E Cowley non era il tipo da trascurare le cose che potevano danneggiarlo. lunedì 23 febbraio ore 10.15 Susan Wheeler non poteva andare nella sala dei medici per cambiarsi, perché la sala dei medici era sinonimo di sala degli uomini. Così dovette servirsi dello spogliatoio delle infermiere, che era sinonimo di ;ala delle donne. È così che va la società, pensò Susan con rabbia. Per lei era solo un altro chiaro esempio di sciovinismo maschile, ma provò un temporaneo sollievo al pensiero che sarebbe riuscita a cambiare radicalmente questo andazzo. In quel momento lo spogliatoio era deserto, e Susan cominciò a cambiarsi. Si tolse il camice e prese uno dei completi asettici che si trovavano vicino alla doccia. Erano di semplice cotone color azzurro pallido. Era chiaro che erano fatti per le infermiere. Ne prese su uno e se lo mise davanti, guardandosi nello specchio. Ebbe un improvviso moto di ribellione, nonostante fosse intimorita dall'ambiente in cui si trovava. «Camice di merda!» esclamò. Se lo tolse, lo lanciò nel cesto nella biancheria sporca e uscì di nuovo in corridoio. Si fermò un attimo davanti alla porta della sala dei medici. Era ormai sul punto di perdere il controllo dei nervi. Impulsivamente spalancò la porta. Bellows in quel momento era proprio accanto alla porta, e si stava cambiando davanti a un armadietto. Indossava degli slip «alla James Bond» (lui li chiamava così) e dei calzini neri. Sembrava il protagonista di un film pornografico di terza categoria. Alla vista di Susan inorridì. Come un fulmine si precipitò a nascondersi dentro lo spogliatoio. Senza nemmeno guardarlo, Susan entrò anche lei nello spogliatoio, scelse un completo di
taglia piccola e uscì con la stessa fretta con cui era entrata. Sentì delle voci eccitate all'interno della sala dei medici. Tornata nello spogliatoio delle infermiere, finì rapidamente di cambiarsi. La camicia e i pantaloni verde pallido erano troppo larghi, e dovette stringerli al massimo. Cominciò a prepararsi mentalmente all'inevitabile scontro con Bellows, il potente chirurgo, e cercò di stabilire il proprio piano d'azione. Durante le brevi presentazioni in corsia, Susan aveva notato come Bellows trattasse le infermiere con modi condiscendenti; questo atteggiamento era una cosa piuttosto ironica, visto che le aveva appena difese giustificandone la mancanza di entusiasmo per l'arrivo degli studenti. Susan non aveva dubbi: oltre a tutto il resto, Bellows era anche il tipico sciovinista e lei avrebbe combattuto contro questo aspetto della sua personalità; forse così sarebbe riuscita a rendere la rotazione chirurgica al Memorial un po' più sopportabile. Naturalmente non aveva previsto di incontrare Bellows in mutande nello spogliatoio, ma ripensando all'accaduto, e alle sue implicazioni simboliche, scoppiò a ridere mentre oltrepassava la porta e usciva nel corridoio. «Miss Wheeler, suppongo,» disse Bellows vedendola comparire. Era appoggiato al muro accanto alla porta, ed evidentemente stava aspettando che Susan uscisse. Teneva il gomito destro contro la parete, e la testa appoggiata alla mano. Susan sobbalzò al suono della sua voce: perché non si aspettava affatto di incontrarlo lì. «Devo ammettere che mi ha colto proprio con le brache in mano!» esclamò con un largo sorriso, che per un attimo lo rese più umano. «È una delle cose più divertenti che mi siano mai capitate.» Susan ricambiò il sorriso, ma senza molta convinzione. Si aspettava l'inizio della predica da un momento all'altro. «Appena mi sono ripreso e ho capito cosa stava cercando,» continuò Bellows, «ho pensato che la mia reazione di correre a nascondermi era stata piuttosto ridicola. Se avessi ragionato un attimo, sarei rimasto lì e l'avrei affrontata nonostante il mio abbigliamento. O meglio, nonostante la mancanza del medesimo. In ogni modo, mi ha fatto venire in mente che forse stamattina ho dato troppo peso alle apparenze. Sono interno dell'ospedale da due anni, niente di più. Lei e i suoi amici siete il mio primo gruppo di studenti. Quello che voglio è semplicemente che la vostra permanenza qui sia la più proficua possibile, magari anche per me. Potremmo anche divertirci, dopo tutto.» Con un ultimo sorriso e un cenno del capo Bellows si allontanò e andò a
controllare in quale sala operatoria c'era l'intervento alla cistifellea. Adesso fu Susan a sentirsi confusa. Tutta la sua rabbia e la sua voglia di ribellarsi si erano spente dopo queste parole così sincere. Lo guardò allontanarsi nel corridoio, e per la prima volta pensò che in fondo non era poi tanto male fisicamente. Gli altri erano già pronti a entrare in sala operatoria. George Niles mostrò a Susan come mettersi le soprascarpe; poi Susan indossò il berretto e la mascherina, ed entrò con gli altri nella zona asettica del reparto chirurgia. Susan non era mai stata in una sala operatoria. Aveva visto un paio di operazioni da dietro il vetro della galleria, ma era stato come guardarle alla televisione: il vetro separava gli spettatori dal dramma. Nel percorrere il lungo corridoio, provò una certa eccitazione, mista alla paura della mortalità umana. Mentre passavano davanti alle porte delle sale operatorie, vedeva gruppi di persone chine sui tavoli, su cui sapeva che giacevano i pazienti sotto anestesia, con le loro fragili interiora esposte all'aria. Si avvicinò un lettino a rotelle, spinto da un'infermiera e da un anestesista. Susan notò che il malato vomitava violentemente, e che intanto l'anestesista gli reggeva con noncuranza il mento. «Ho sentito che ci sono quaranta centimetri di neve in Waterville Valley,» stava dicendo l'uomo all'infermiera. «Venerdì ci vado,» esclamò lei proprio mentre passavano davanti a Susan. L'immagine della faccia stravolta del paziente appena operato si stampò nella mente di Susan. Fu scossa da un lungo brivido. Il gruppo arrivò davanti alla porta numero 18. «Cercate di parlare il meno possibile,» avvertì Bellows guardando attraverso la finestrella di vetro della porta. «È già addormentato. Peccato, avrei voluto che vedeste l'anestesia. Be', non importa. Ci sarà un sacco di movimento mentre si finiscono i preparativi, quindi è meglio che restiate vicino alla parete. Quando tutto sarà pronto, avvicinatevi in modo da poter vedere qualcosa. Se avete delle domande, aspettate la fine dell'operazione. Okay?» Osservò gli studenti uno a uno. Quando incontrò lo sguardo di Susan sorrise, poi aprì la porta. «Ah, professor Bellows, salve!» tuonò un omone vicino all'apparecchiatura per i raggi X. «Il professor Bellows ha portato i suoi allievi a guardare le mani più veloci dell'Est,» rise. Sollevò le mani in un gesto teatrale. «Spero che tu abbia detto ai tuoi impressionabili giovincelli che lo spettacolo sarà indimenticabile.» «Quell'ammasso di carne,» disse Bellows ad alta voce, guidando gli stu-
denti verso il grasso personaggio, «è la conseguenza dell'essere restato troppo a lungo nel programma. Si chiama Stuart Johnston, ed è uno dei tre interni più anziani. Dovremo sopportarlo solo per quattro mesi ancora. Mi ha promesso che sarebbe stato gentile, ma non metterei le mani sul fuoco.» «Sei poco sportivo, Bellows. Solo perché ti ho rubato questo caso,» ribatté Johnston continuando a ridere. Poi, tornato serio, ci rivolse ai suoi due assistenti: «Preparate il paziente, ragazzi. Cosa ci vuole, tutta la giornata?» Il ritmo dei preparativi si intensificò. Sopra la testa del malato venne messo un tubo arcuato di metallo, che separò l'anestesista dalla zona del tavolo operatorio. Allorché tutto fu pronto, solo una piccola porzione dell'addome del paziente era scoperta. Johnston andò a mettersi a destra del tavolo operatorio, e uno degli assistenti a sinistra; l'infermiera prese posto vicino al vassoio dei ferri. Sul retro del vassoio era allineata un'autentica batteria di emostatici. Il bisturi aveva una lama nuova di zecca. «Bisturi,» disse Johnston, e il bisturi gli venne messo immediatamente nella mano guantata: con la sinistra scostò la pelle addominale per prevenire la controreazione. Gli studenti si accalcarono curiosi. Era come assistere a un'esecuzione capitale. Cercarono di prepararsi mentalmente all'immagine che sarebbe stata trasmessa ai loro cervelli tra qualche istante. Johnston tenne il bisturi a cinque centimetri dalla pelle del malato, e guardò verso l'anestesista, che stava facendo uscire lentamente l'aria dallo sfigmomanometro e controllava il quadrante dello strumento. La pressione era 120/80; alzò gli occhi su Johnston e fece un cenno impercettibile con la testa. Il bisturi affondò nei tessuti, poi avanzò silenziosamente, tagliando la pelle con un angolo di circa 45 gradi. La carne si spalancò, e dei piccoli getti di pulsante sangue arterioso si sparsero tutt'intorno. Nel frattempo, dentro al cervello di Niles si verificava un curioso fenomeno. L'immagine del bisturi che affondava nella carne arrivò immediatamente alla sua corteccia occipitale. Le fibre associative trasportarono l'informazione al lobo parietale. L'associazione si propagò così velocemente che attivò un'area del suo ipotalamo, causando una generale dilatazione dei vasi sanguigni nei muscoli. Il sangue gli defluì letteralmente dal cervello e andò a riempire i vasi dilatati: George Niles perse conoscenza. Cadde a terra svenuto, e la sua testa andò a sbattere con un tonfo contro il pavimento di linoleum. Johnston si girò di scatto. La sua sorpresa si tramutò rapidamente in una tipica rabbia da chirurgo. «Cristo, Bellows! Fa' uscire di qui questi ragaz-
zini, se non riescono a sopportare la vista di qualche globulo rosso.» Scuotendo la testa, continuò a tamponare il sangue con gli emostatici. L'infermiera ruppe una fialetta sotto il naso di George, e l'odore acre dell'ammoniaca gli fece riprendere conoscenza. Bellows si chinò e lo tastò sulla nuca. Appena si fu riavuto, il ragazzo si sedette, tutto confuso. Si rese conto dell'accaduto, e provò un immediato imbarazzo. Ma Johnston non aveva nessuna intenzione di lasciar finire lì la faccenda. «Porca merda, Bellows! Perché non mi hai detto che questi studenti erano dei pivelli assoluti? Lo sai cosa sarebbe successo se quel ragazzo mi andava a cadere qui sopra l'incisione?» Bellows non rispose. Aiutò George ad alzarsi in piedi lentamente e si assicurò che stesse bene. Poi fece cenno al gruppo di uscire. Prima che la porta si chiudesse, si sentì Johnston che urlava a un assistente: «Sei qui per aiutarmi o per rompermi i coglioni?» lunedì 23 febbraio ore 11.15 La ferita più grave ricevuta da George Niles era quella dell'orgoglio. Gli era spuntato un bernoccolo considerevole sulla nuca, ma non c'erano lacerazioni; le pupille non erano dilatate, e la memoria non aveva lacune. Tutti furono d'accordo che ce l'avrebbe fatta. Però l'episodio abbassò il morale del gruppo: Bellows era nervoso, perché temeva che la colpa di quello svenimento venisse attribuita alla sua decisione di portarli in sala operatoria subito il primo giorno; George Niles era preoccupato perché temeva che gli succedesse così tutte le volte che cercava di seguire un'operazione; gli altri, chi più chi meno, erano piuttosto seccati, semplicemente perché in un gruppo le azioni di ogni singolo membro si riflettono subito su tutti i componenti. Da parte sua, Susan era soprattutto angosciata per l'improvviso e inaspettato cambiamento di Johnston e anche, in misura minore, di Bellows: erano entrambi gioviali e affabili, e un attimo dopo eccoli arrabbiati e vendicativi, e solo per un piccolo imprevisto. Si riaccesero in lei tutti i preconcetti sulla personalità dei chirurghi. Forse non erano poi così arbitrari. Dopo essersi rimessi in borghese, presero tutti un caffè nella loro sala. Era sorprendentemente buono, pensò Susan, cercando di non far caso alla nuvola di fumo che ristagnava lì dentro. Non notò nessuno dei presenti
finché i suoi occhi non incontrarono lo sguardo di un uomo bianco come un cencio, in piedi accanto al lavandino. Era Walters. Susan si girò da un'altra parte, poi lo guardò di nuovo, e pensò che forse lui non la stava veramente fissando. Invece era così. I suoi occhietti luccicavano da dietro il fumo della sigaretta, incollata come sempre all'angolo della bocca. Per qualche strana ragione le fece venire in mente il gobbo di Notre-Dame, solo senza la gobba: una figura demoniaca, che sembrava fuori posto lì dentro, eppure si muoveva come fosse di casa. Susan cercò di distogliere gli occhi ma il suo sguardo era involontariamente attratto verso Walters. Fu contenta allorché Bellows disse a tutto il gruppo di uscire. La porta era accanto al lavandino, e mentre Susan passò davanti a Walters, questi tossì e disse: «Giornata terribile, eh, Miss?» La ragazza non rispose. Voleva solo allontanarsi da quello sguardo fisso. Non aveva fatto che aumentare la sua antipatia per l'ambiente chirurgico del Memorial. Il gruppo entrò in sala rianimazione. Come la grossa porta si richiuse alle loro spalle, sembrò che il mondo esterno fosse scomparso. In breve gli studenti si abituarono alla penombra e ai loro occhi apparve un ambiente strano e surreale. I rumori più normali — i passi, le voci — erano ovattati dalla copertura di pannelli per l'isolamento acustico applicata al soffitto. I suoni dominanti erano il ritmico cicalio dei monitor cardiaci e il sibilo dei respiratori. I pazienti erano allineati in una serie di nicchie, sdraiati su alti letti; sopra di loro c'era la solita profusione di fleboclisi, collegate alle vene in un dedalo di tubicini e aghi. Alcuni erano avvolti in bende come mummie; altri erano svegli, e il loro sguardo febbrile tradiva la paura e la sottile linea che li divideva dalla follia. Susan esaminò la sala. Notò le curve fluorescenti che passavano sugli schermi degli oscilloscopi e si rese conto che, nel suo attuale stato di ignoranza, quegli strumenti potevano darle solo pochissime informazioni. Per non parlare dei flaconi delle fleboclisi, con le loro etichette colorate indicanti il contenuto delle varie soluzioni. In un attimo, Susan e i suoi compagni sentirono tutto il peso della propria impreparazione. Era come se il primo biennio di università non fosse contato niente. Un po' rincuorati dal numero, i cinque si strinsero ancora più vicini e avanzarono insieme verso uno dei tavoli al centro della sala. Bellows li scortava, come un branco di cagnolini. «Mark!» esclamò una delle infermiere. Si chiamava June Shergood. Aveva dei folti capelli biondi e uno sguardo intelligente dietro un paio di
grosse lenti. Era molto carina, e l'occhio acuto di Susan vide per un attimo Bellows cambiare espressione. «Wilson ha avuto una serie di attacchi. Ho detto a Daniel che avremmo dovuto fargli una flebo di lidocaina.» Si avvicinò al tavolo. «Ma sembrava che il buon vecchio Daniel non riuscisse a decidersi. Mah...» Porse a Bellows un elettrocardiogramma. «Guarda qui... No, non lì, qui sotto.» Indicò il punto col dito, poi alzò gli occhi su Bellows. «Sembra proprio che abbia bisogno di una flebo di lidocaina,» sorrise Bellows. «Ci puoi giocare le balle,» esclamò Miss Shergood. «Ho preparato tutto, in modo da potergli dare 2 mg al minuto. È tutto pronto. E quando fai la prescrizione mettici anche che gli ho dato una pillola da 50 mg appena ho visto la serie di attacchi. Magari potresti avvertire pure Cartwright. Capisci, è la quarta volta che non riesce a prendere una decisione su una semplice prescrizione...» Miss Shergood era già andata a occuparsi di uno dei pazienti prima che Bellows potesse replicare alle sue osservazioni. Esaminò i tubi delle fleboclisi controllando i rispettivi flaconi. Poi aprì quello della lidocaina, e controllò il ritmo delle gocce che cadevano nel sottostante cilindro di plastica. Il breve dialogo tra l'infermiera e Bellows aumentò ancora di più l'insicurezza degli studenti; l'evidente competenza dell'infermiera li fece sentire ancor più ignoranti, e li lasciò anche sorpresi. I modi sbrigativi, aggressivi della donna, contrastavano col concetto dei rapporti tra medico e infermiera che tutti loro si erano fatti. Bellows estrasse un grosso foglio dallo schedario e lo aprì sul tavolo. Poi si sedette. Susan lesse il nome in alto: N. GREENLY. I cinque fecero cerchio attorno a Bellows. «Uno degli aspetti più importanti nell'osservazione dei pazienti,» spiegò Bellows, «è il bilanciamento dei fluidi, e questo caso lo dimostra molto bene.» La porta della sala si aprì lasciando entrare un po' di luce e di rumore insieme a David Cartwright, uno degli interni del Beard 5. Era un omino piccolo, alto non più di un metro e sessanta; il suo camice era stropicciato e macchiato di sangue. Ostentava un bel paio di baffi, ma la sua barba era molto rada, e si poteva quasi distinguere ogni pelo, dalla radice alla punta. Aveva una calvizie incipiente. Era un tipo molto cordiale, e si diresse subito verso il gruppo attorno al tavolo. «Ciao, Mark,» salutò con la mano. «Abbiamo finito presto la gastroec-
tomia, e ho pensato di venire a darti una mano.» Bellows presentò Cartwright al gruppo, quindi gli chiese di riassumere brevemente il caso di Nancy Greenly. «Nancy Greenly,» attaccò Cartwright a macchinetta, «femmina, ventitré anni, entrata al Memorial circa una settimana fa per una dilatazione e raschiamento. Anamnesi interamente benigna e non rilevante. Analisi preoperatorie, compreso test di gravidanza, normali. Durante l'intervento si sono manifestate complicazioni anestetiche, e da allora è in coma. L'elettroencefalogramma di due giorni fa era completamente piatto. Lo stato attuale è stabile: il peso non varia; la diuresi è buona; la pressione, il polso, l'elettrolisi eccetera tutto okay. Ieri pomeriggio si è verificato un lieve rialzo della temperatura, ma il respiro è normale. Insomma, sembra che tiri avanti.» «Tira avanti con un bell'aiuto da parte nostra,» lo corresse Bellows. «Ventitré?» chiese Susan di colpo, lanciando un'occhiata alle nicchie. Aveva l'angoscia dipinta in faccia, ma nella penombra gli altri non se ne accorsero. Susan Wheeler aveva ventitré anni. «Ventitré o ventiquattro, è la stessa cosa,» rispose Bellows, e intanto pensava al modo migliore di esporre il problema del bilanciamento dei fluidi. Invece per Susan non era la stessa cosa. «Dov'è?» chiese. Ma non era ben sicura di volerlo sapere davvero. «Nell'angolo a sinistra,» fece Bellows, senza alzare gli occhi dal foglio che stava studiando. «Quello che noi dobbiamo verificare è l'esatta quantità di fluidi che la paziente ha emesso, per poi confrontarla con l'esatta quantità di fluidi somministratale. Naturalmente questo è un dato statico, mentre noi siamo più interessati ai processi dinamici. Ma possiamo farci un'idea abbastanza esatta. Adesso guardiamo qui. Ha emesso 1650 cc di urina...» Susan non ascoltava più. Tentava di distinguere la figura immobile sul letto nell'angolo. Dalla sua posizione, poteva scorgere solo una massa di capelli scuri, una faccia pallida, e un tubo che usciva da una bocca. Il tubo era collegato a una grossa macchina quadrata posta accanto al letto, che sibilava ritmicamente, respirando al posto della paziente. La giovane donna aveva addosso un lenzuolo bianco; le braccia erano scoperte e poste a quarantacinque gradi rispetto al corpo; al braccio sinistro era applicata una flebo, un'altra era inserita nel collo. Quasi per rendere ancor più sinistra la
scena, dall'alto un riflettore concentrava il suo raggio sulla faccia e le spalle della paziente. Il resto era in ombra. Nessun movimento, nessun segno di vita, a parte il sibilo ritmico del respiratore. Da sotto il corpo di Nancy usciva un tubo collegato a un contenitore graduato per l'urina. «E inoltre la pesiamo accuratamente ogni giorno,» aggiunse Bellows. Ma Susan continuava a non ascoltare. «Ventitré anni...» Il pensiero le riecheggiava nella testa. Priva di esperienza clinica, si era lasciata sopraffare dall'aspetto umano. L'uguaglianza di sesso e d'età l'avevano profondamente colpita, e inevitabilmente si era identificata con quella ragazza. «Da quanto tempo è in coma?» chiese Susan con aria assente, senza staccare un attimo gli occhi dall'angolo. Bellows, interrotto da questa domanda imprevista, si girò verso Susan. Non si rendeva assolutamente conto del suo stato d'animo. «Otto giorni,» replicò seccato. «Ma questo non ha niente a che fare col livello odierno di sodio, Miss Wheeler. La pregherei di seguire la mia esposizione.» Quindi Bellows si rivolse agli altri. «Vorrei che verso la fine di questa settimana cominciaste le prescrizioni di fluidi. Adesso, dove diavolo ero rimasto?» Bellows ritornò ai suoi calcoli sulla immissione ed emissione di fluidi, e tutti tranne Susan si chinarono sul tavolo per seguire la spiegazione. Susan continuava a fissare la figura immobile nell'angolo, e intanto cercava di ricordarsi i nomi di tutte le sue amiche che avevano subito un raschiamento, chiedendosi che cosa dividesse loro o lei stessa dalla condizione in cui si trovava Nancy Greenly. Cominciò a mordicchiarsi il labbro inferiore, come faceva sempre quando era assorta nei propri pensieri. «Com'è successo?» chiese di nuovo. La testa di Bellows si sollevò per la seconda volta, ma più rapidamente, come sovrastata da una catastrofe improvvisa. «Com'è successo cosa?» e guardò in giro per la stanza, in cerca di qualcosa che gli facesse capire il motivo di quella domanda. «Com'è che la paziente è entrata in coma?» Bellows raddrizzò la schiena, chiuse gli occhi e mise giù la matita. Fece una pausa, contando mentalmente fino a dieci. «Miss Wheeler, cerchi di darmi una mano,» scandì lentamente e con aria di accondiscendenza. «Non si distragga, la prego. Quanto alla paziente, è stato uno di quegli inesplicabili scherzi del destino. Okay? Salute perfetta, l'operazione che va normalmente, nessun problema di anestesia. Solo che non si è più svegliata. Una specie di ipossia cerebrale. Non le è arrivato os-
sigeno a sufficienza nella zucca. Okay? E adesso torniamo al lavoro. Non possiamo metterci tutta la giornata. A mezzogiorno abbiamo il giro in corsia.» «Capita spesso questo tipo di complicazione?» insistette Susan. «No,» ribatté Bellows, «è rarissimo. Forse una volta su centomila.» «Per lei è stato il cento per cento, però,» aggiunse Susan con una punta di acredine. Bellows guardò Susan. Non riusciva a capire dove volesse arrivare. L'aspetto umano, nel caso di Nancy Greenly, non lo riguardava più. Bellows si preoccupava di conservare gli ioni al giusto livello, mantenere stabile l'emissione di urina, e tenere a bada i batteri. Non voleva che Nancy Greenly morisse mentre era sotto la sua responsabilità. Avrebbe influito negativamente sulla sua immagine professionale, e una bella lavata di testa da parte di Stark non gliel'avrebbe tolta nessuno. Si ricordava ancora benissimo cosa aveva detto dopo che un caso analogo si era risolto con la morte del paziente mentre era di guardia Johnston. Non che a Bellows non importasse niente dell'elemento umano; solo, non aveva il tempo per pensarci. E poi il gran numero di casi simili con cui aveva avuto a che fare aveva creato in lui il muro di insensibilità dell'abitudine. Bellows non aveva notato che Susan e Nancy Greenly avevano la stessa età, e si era anche scordato dell'emotività tipica delle prime esperienze degli studenti in ospedale. «E adesso, per la centesima volta, torniamo al lavoro,» ripeté avvicinando la sedia al tavolo e passandosi nervosamente una mano tra i capelli. Guardò l'orologio e riprese nervosamente i propri calcoli. «Okay, usiamo un quarto di soluzione fisiologica e vediamo quanti milliequivalenti troviamo in 2500 cc.» Ma la testa di Susan era da un'altra parte. Spinta dalla curiosità, girò attorno al tavolo e andò verso Nancy Greenly. Si mosse adagio, con cautela, come se si stesse avvicinando a qualcosa di pericoloso. Gli occhi di Nancy erano semichiusi, e si intravedeva il bordo inferiore delle iridi azzurre. La faccia era bianca come il marmo, in stridente contrasto coi capelli castani. Aveva le labbra secche e crepate, tenute aperte da un boccaglio di plastica per evitare che mordesse il tubo endotracheale. Sugli incisivi una patina nerastra: sangue rappreso. Con la testa che le girava, Susan girò gli occhi per un attimo; poi guardò di nuovo, e la crudeltà dell'immagine di quella ragazza che un tempo era stata normale la fece rabbrividire. Non era solo tristezza, era un altro genere di angoscia: mortalità, impotenza, disperazione.
Come se stesse toccando un delicato pezzo di porcellana, sollevò una mano di Nancy. Era incredibilmente fredda e molle. Era viva o morta? Per un attimo questo pensiero attraversò la mente di Susan. Ma proprio lì davanti a lei c'era il monitor cardiaco col suo rassicurante cicalio. «Devo dedurre che lei sa tutto sul bilanciamento dei fluidi, Miss Wheeler.» Bellows si affiancò a Susan. La ragazza si riscosse. Il dottore lasciò la mano di Nancy, e si accorse con sorpresa che tutto il gruppo si era avvicinato al letto. «Questa, ragazzi, è la linea della PVC, la pressione venosa centrale,» spiegò Bellows prendendo un tubo di plastica che andava a infilarsi nel collo di Nancy. «Per adesso la teniamo aperta. La flebo è attaccata dall'altra parte, e lì abbiamo collocato la soluzione fisiologica con 25 milliequivalenti di potassio al ritmo di 125 cc l'ora.» «Ah, Cartwright!» esclamò dopo una breve pausa durante la quale aveva fissato Nancy Greenly con aria assente, «fai fare un'elettrolisi dell'urina per oggi, ma lascia stare quella del siero. Compresi anche i livelli di magnesio, okay?» Cartwright compilò subito le prescrizioni sulla scheda di Nancy Greenly. Bellows prese il martelletto per i riflessi e colpì distrattamente il tendine di un ginocchio della ragazza. La gamba restò immobile. «Perché non avete fatto una tracheotomia?» chiese Fairweather. Bellows alzò gli occhi sul ragazzo e tacque un momento. «Ottima domanda, signor Fairweather.» Si voltò verso Cartwright. «Perché non abbiamo fatto una tracheotomia, Daniel?» Cartwright guardò la paziente, poi Bellows, poi di nuovo la paziente. Visibilmente nervoso consultò la scheda, anche se sapeva benissimo che lì non avrebbe trovato la risposta. Bellows si rivolse di nuovo a Fairweather. «Sì, proprio un'ottima domanda, signor Fairweather. Se non ricordo male avevo appunto detto al dottor Cartwright di far venire giù un otorinolaringoiatra per la tracheotomia. Non è così, dottor Cartwright?» «Sì, è vero,» rispose Cartwright sollevato. «Ho inoltrato la richiesta, ma non s'è visto nessuno.» «E tu non hai più insistito,» aggiunse Bellows visibilmente irritato. «No, non ho avuto il tempo di...» azzardò Cartwright. «Poche balle, dottor Cartwright,» lo interruppe Bellows. «Fa' venir giù subito l'otorinolaringoiatra. Vede, Fairweather, il tubo endotracheale finirebbe per causare la necrosi delle pareti della trachea. Comunque ha fatto una buona obiezione.»
Harvey Goldberg desiderò ardentemente aver fatto lui quella domanda. Il battibecco tra Bellows e Cartwright scosse Susan dai suoi pensieri. «Ma nessuno ha idea di come una cosa tanto orribile sia potuta capitare a questa...» «Quale cosa orribile?» chiese nervosamente Bellows mentre controllava la fleboclisi, il respiratore e il monitor. «Ah, vuoi dire il fatto che non si è più svegliata. Be'...» Fece una pausa. «Questo mi fa venire in mente, Cartwright, che dovresti far fare un altro EEG alla paziente. Se è ancora piatto, possiamo prendere i reni.» «I reni?» chiese Susan inorridita, cercando di non pensare a cosa significasse per Nancy Greenly l'affermazione di Bellows. «Senta,» replicò Bellows, «se la sua testa è partita, voglio dire se il cervello è distrutto, allora possiamo benissimo utilizzare i reni per qualcun altro. Naturalmente a patto di riuscire a convincere la sua famiglia.» «Ma potrebbe svegliarsi,» protestò Susan, tutta rossa in faccia. «Qualche volta si svegliano,» Bellows scrollò le spalle, «ma alla maggior parte di quelli che hanno un EEG piatto non succede. Bisogna accettarlo: significa che si è verificato un gravissimo insulto cerebrale e che non c'è più niente da fare. Non è possibile un trapianto di cervello, anche se in molti casi sarebbe utilissimo.» Bellows lanciò un'occhiata ironica a Cartwright, che rise della sua allusione. «Ma nessuno sa perché il cervello di questa donna non ha ricevuto l'ossigeno di cui aveva bisogno durante l'anestesia?» chiese Susan, tornando alla domanda precedente. «No,» fece secco Bellows, fissandola negli occhi. «Tutto ha funzionato alla perfezione. Hanno ricontrollato ogni fase dell'anestesia. L'anestesista era uno dei più scrupolosi che abbiamo qui, e se l'è presa molto a cuore, studiando e ristudiando il caso da cima a fondo. Insomma, è stato addirittura spietato con se stesso. Ma non si è trovata nessuna spiegazione. Potrebbe essere stata una specie di ictus. Forse era già predisposta, non so. In ogni caso, il cervello è rimasto senza ossigeno per un tempo troppo lungo, e la maggior parte delle cellule cerebrali sono morte. Le cellule cerebrali sono molto sensibili a bassi livelli di ossigeno. Perciò muoiono prima che l'ossigeno scenda sotto un livello critico, e il risultato è quello che abbiamo qui davanti,» continuò Bellows facendo un gesto con la mano, «un vegetale. Il cuore batte perché non dipende dal cervello. Ma tutto il resto dobbiamo farlo da noi: dobbiamo farla respirare con quella,» indicò l'apparecchio a destra della testa di Nancy, «dobbiamo mantenere il bilanciamento
dei fluidi e degli elettroliti, come stavamo facendo qualche minuto fa. Dobbiamo nutrirla, regolare la temperatura...» Bellows si fermò dopo la parola temperatura. Gli aveva ricordato qualcosa. «Cartwright, fa' fare una radiografia del torace oggi stesso. Mi stavo quasi dimenticando del rialzo di temperatura di cui mi hai parlato poco fa.» Bellows guardò Susan. «È così che la maggior parte dei pazienti decerebrati se ne vanno: una polmonite... L'unica loro amica. Qualche volta mi chiedo cosa diavolo sto facendo quando curo la polmonite. Ma in medicina non ci poniamo domande del genere. Curiamo la polmonite perché abbiamo gli antibiotici e basta.» In quel momento si sentì l'altoparlante interno. «Dottoressa Susan Wheeler, dottoressa Susan Wheeler, al 938, prego.» Paul Carpin diede una gomitata alla ragazza per richiamarne l'attenzione. Susan guardò Bellows con aria stupita. «Era per me?» chiese incredula. «Hanno detto 'dottoressa Wheeler'?» «Ho dato alle infermiere del piano una lista coi vostri nomi da mettere in tabella. Così vi dividerete i degenti. Lei verrà chiamata per tutti i prelievi di sangue e altri affascinanti lavoretti.» «Ce ne metterò ad abituarmi a sentirmi chiamare dottoressa,» Susan cercò con gli occhi il telefono più vicino. «È meglio che vi abituiate in fretta, perché sarete chiamati sempre così. Non è per lusingarvi. È solo per far sentire a proprio agio i pazienti. Non nascondete il fatto che siete studenti, ma non sbandieratelo nemmeno. Certi malati non vorrebbero neanche che li toccaste se sapessero che siete ancora studenti di medicina. Si metterebbero a strillare che li usiamo come cavie. Comunque, vada a rispondere alla chiamata, dottoressa Wheeler, e dopo ci raggiunga. Quando avremo finito qui passeremo nella sala conferenze.» Susan andò al telefono e fece il 938. Bellows la guardò mentre attraversava la stanza. Non poté fare a meno di notare che sotto quel camice bianco c'era un corpo sensuale. Il dottor Bellows cominciava a essere decisamente attratto da Susan Wheeler. lunedì 23 febbraio ore 11.40 Rispondere a una chiamata per la «dottoressa Wheeler» faceva provare a Susan una sensazione di irrealtà. Si sentiva come una che stesse recitando.
Indossava un camice bianco, e la scena era melodrammatica e appropriata. Ma dentro non sentiva proprio la parte, e temeva di essere scoperta e sbeffeggiata da un momento all'altro. «Abbiamo bisogno di una fleboclisi preoperatoria,» le disse con voce anonima l'infermiera dall'altro capo del filo. «L'intervento è stato rimandato, e gli anestesisti vogliono che somministriamo dell'altro fluido.» «Quando devo farla?» chiese Susan tormentando il filo del telefono. «SUBITO!» sbraitò l'infermiera, e riattaccò. Gli altri membri del gruppo si erano spostati davanti a un altro paziente, e poi erano tornati al tavolo. Adesso stavano osservando le schede che Bellows aveva estratto dal classificatore. Nessuno guardò Susan che attraversava la sala semibuia. Posò la mano sulla maniglia della porta, poi girò lentamente la testa e lanciò un'altra occhiata alla figura esanime di Nancy Greenly. Provò di nuovo un lacerante sentimento di identificazione. Uscì dalla sala con una sensazione di sollievo. Il sollievo durò pochissimo. Affrettandosi lungo il corridoio affollato, cominciò a prepararsi mentalmente al compito che l'aspettava: non aveva mai fatto una fleboclisi. Molti prelievi di sangue sì, anche ai compagni di laboratorio, ma una flebo mai. In teoria sapeva che cosa si doveva fare, e sapeva anche di essere in grado di farlo. Bastava infilare un ago dentro a una vena, senza attraversarla. La difficoltà nasceva dal fatto che spesso la vena non era più grossa di uno spaghetto. Inoltre, qualche volta non si riusciva a vederla in superficie, e bisognava andare alla cieca, col solo aiuto del tatto. Susan si rese conto che anche una banalità come una fleboclisi sarebbe stata per lei una specie di sfida. La sua preoccupazione maggiore era che si capisse che era nuova del mestiere, e magari il paziente si ribellasse e pretendesse un dottore vero. Quando Susan arrivò al Beard 5, la scena non era cambiata. C'era la solita attività frenetica. Terry Linquivist diede una rapida occhiata alla ragazza prima di sparire al di là di una porta. Un'altra infermiera, che portava una cuffia con una striscia arancione e un targhetta con scritto SARAH STERNS, appena vide Susan le porse un vassoio con l'attrezzatura per la fleboclisi, e una boccetta di liquido. «Si chiama Berman. È nella 503,» disse Sarah Sterns. «Non si preoccupi del flusso di liquido, verrò io tra qualche minuto a regolarlo.» Susan annuì e si diresse verso la stanza 503. Mentre camminava esaminò il vassoio. C'erano aghi e cateteri di ogni tipo, spugnette imbevute d'alcol,
pezzi di tubicoli di gomma da usare come lacci emostatici, e una torcia elettrica. Alla vista di quest'ultima Susan si chiese quante volte in futuro avrebbe dovuto procedere a tentoni nel cuore della notte per una fleboclisi. Susan oltrepassò le stanze 507 e 505. Arrivata davanti alla 503 frugò tra gli aghi e scelse il numero 21, in una confezione giallo vivo. Era il tipo di ago con cui aveva visto fare le flebo. Fu tentata di usare uno degli aghicannula, quelli più impressionanti, ma poi decise di evitare gli esperimenti, almeno la prima volta. La porta della stanza 503 era socchiusa. Susan non sapeva se bisognasse bussare o no. Dopo essersi assicurata che nessuno la vedesse, bussò. «Avanti,» rispose una voce. Susan spalancò la porta con un piede, reggendo il vassoio con la destra e il flacone con la sinistra. Si aspettava di trovarsi davanti una persona anziana, sofferente. Era una tipica stanza del Memorial: piccola, vecchia, col pavimento di linoleum. La finestra era sporca e senza tendine; in un angolo c'era un vecchio termosifone coperto da almeno una dozzina di strati di vernice. Ma l'uomo non era né vecchio né infermo. Seduto sul letto c'era un giovane atletico, che sembrava in perfetta salute. Dimostrava una trentina d'anni. Portava il pigiama dell'ospedale e il lenzuolo tirato su solo fino alla cintola. Aveva i capelli neri e folti, pettinati all'indietro sulle tempie in modo da coprire la parte superiore delle orecchie. Il viso era intelligente, e nonostante si fosse in inverno, abbronzato; il naso era sottile, e le narici, un po' larghe, davano l'impressione che stesse continuamente inspirando. Teneva le braccia muscolose sulle ginocchia, e si sfregava le mani come se avesse freddo. Susan notò immediatamente la sua ansia, sotto la patina di calma forzata. «Su, entri, timidina! Qui è come al Grand Hotel,» sorrise Berman. Evidentemente quella pausa nell'attesa snervante della sala operatoria non gli dispiaceva. Susan gli diede solo una rapida occhiata, ricambiando il sorriso. Poi chiuse la porta. Appoggiò il vassoio ai piedi del letto e appese il flacone all'apposito supporto. Evitò di proposito gli occhi di Berman, chiedendosi perché mai le fosse capitato uno così giovane, sano, e apparentemente nel pieno delle forze. Avrebbe preferito un centenario già mezzo morto. «No, un'altra iniezione no!» protestò Berman con uno sgomento in parte simulato. «Temo di sì,» disse Susan aprendo una confezione di tubi per fleboclisi,
e inserendone uno nel flacone di D5W. Fece scorrere un po' di fluido nel tubo, che poi chiuse con un tappo. Finita l'operazione, guardò Berman e si accorse che lui la stava fissando intensamente. «Lei è un medico?» chiese Berman in tono perplesso. Susan tacque. Continuò a fissare gli occhi scuri del giovane e intanto soppesava le possibili risposte. Non era un medico, era chiaro. Che cosa desiderava rispondergli? Desiderava rispondergli che lo era. Ma Susan era una realista: sarebbe riuscita a dire di essere un medico e a crederci anche lei? «No,» rispose decisa, spostando gli occhi sull'ago numero 21. Fu delusa da tanta sincerità; aumenterà l'ansia di Berman, pensò. «Sono solo una studentessa di medicina,» aggiunse. Le mani di Berman cessarono di muoversi nervosamente. «Non occorre che si metta sulle difensive,» disse con franchezza. «Lei proprio non ha l'aria di un medico, né di un futuro medico.» Questo innocente commento toccò un tasto delicato nella mente di Susan. La sua professionalità in embrione la stava rendendo un po' paranoica, e aveva interpretato male l'osservazione, che invece voleva solo essere indirettamente un complimento. «Come si chiama?» chiese Berman. Si riparò gli occhi dalle lampade al neon del soffitto e fece cenno alla ragazza di girarsi leggermente a sinistra, in modo da poter leggere il nome sulla targhetta d'identificazione. «Susan Wheeler... Dottoressa Susan Wheeler. Suona naturale.» Susan capì che Berman non aveva intenzioni provocatorie. Però non gli rispose. C'era qualcosa in lui che la faceva sentire a proprio agio, ma non riusciva a capire cosa. Dovevano essere quei modi gentilmente autoritari. Un po' per concentrarsi in questi pensieri, un po' per non farsi troppo coinvolgere, Susan rivolse tutta la propria attenzione alla preparazione della flebo. Con gesti metodici applicò il laccio emostatico al polso sinistro di Berman e lo strinse; aprì i contenitori dell'ago e della spugnetta. Gli occhi di Berman seguirono questi preparativi con grande interesse. «Devo ammettere subito che non vado matto per gli aghi,» disse Berman, cercando di restare impassibile. I suoi occhi continuavano a spostarsi dalla propria mano a Susan. La ragazza si accorse della crescente preoccupazione di Berman. Chissà come avrebbe reagito se gli avesse detto che quella era la sua prima esperienza di fleboclisi! La cosa l'avrebbe sconvolto. Ne era certissima perché sapeva che se le parti si fossero invertite lei avrebbe fatto lo stesso.
La stretta del laccio emostatico unita al corpo ectomorfico di Berman gonfiò le vene del dorso della mano come pompe da giardino. Susan respirò profondo e trattenne il fiato; Berman fece lo stesso. Dopo aver passato la spugnetta, Susan tentò di infilare l'ago. Ma la pelle resistette. «Ahi!» gridò Berman afferrando il lenzuolo con la mano libera, in un gesto deliberatamente melodrammatico. Susan si innervosì e rinunciò. «Se può consolarla, fa male proprio come un dottore,» disse Berman guardandosi il dorso della mano. Il laccio emostatico era sempre al suo posto, e la mano stava assumendo un colorito bluastro. «Signor Berman, deve collaborare un po' di più,» disse Susan facendo appello a tutte le sue forze per un nuovo tentativo. Aveva anche bisogno di scaricarsi di una parte della responsabilità in caso di un nuovo fallimento. «Collaborare, dice lei,» ripeté Berman alzando gli occhi al cielo. «Sono stato tranquillo come un agnellino.» Susan appoggiò di nuovo sul letto la mano di Berman. Con la sinistra effettuò una controazione sulla pelle del giovane. Questa volta l'ago entrò. «Mi arrendo,» implorò Berman, sforzandosi di apparire divertito. Susan si concentrò sulla punta dell'ago sotto la pelle. Sulle prime sembrava che spingesse la vena davanti a sé. Premette con forza. Sentì l'ago entrare nella vena. Il sangue rifluì attraverso l'ago, e riempì il tubo di plastica che vi era attaccato. Susan aprì velocemente la valvola della fleboclisi, e tolse il laccio emostatico. Il liquido cominciò a defluire dal flacone. Si sentirono entrambi sollevati. La sensazione di esser riuscita a fare qualcosa di utile rese Susan euforica. Niente di importante, certo, una semplice flebo, ma si era pur sempre trattato di una prestazione ben definita. Forse c'era un futuro per lei, dopotutto. L'euforia e il sollievo la resero più espansiva nei confronti di Berman. «Prima ha detto che io non sembro un medico,» disse mentre prendeva il cerotto per assicurare il tubo della fleboclisi alla mano del giovane. «Che cosa significa, sembrare un medico?» C'era una punta canzonatoria nella sua voce, come se le interessasse di più sentir parlare Berman che ascoltare veramente quello che diceva. «Forse è stata un'osservazione sciocca!» esclamò osservando ogni mossa di Susan che gli stava avvolgendo il cerotto attorno alla mano. «Molte mie compagne di scuola dopo il diploma si sono iscritte a medicina. Erano quasi tutte in gamba, indubbiamente intelligenti, ma erano ben poco femminili.»
«Forse per lei non erano femminili perché si sono iscritte a medicina, e non viceversa,» replicò Susan. «Può darsi... è possibile...» Berman era pensieroso. Si rese conto che l'interpretazione di Susan metteva la cosa sotto un'altra luce. «Però non credo. Due le conoscevo molto bene. Sono state in classe con me per molti anni. Hanno deciso di fare medicina solo all'ultimo anno, e anche prima erano poco femminili. Lei, invece, futura dottoressa Wheeler, trasuda femminilità da tutti i pori.» Susan, che si era preparata a ribattere quello che aveva detto Berman sulle compagne, fu colta di sorpresa dal riferimento alla sua femminilità. Da un lato era tentata di rispondergli: ma lo dici veramente, amico?; dall'altro pensava che forse parlava proprio sul serio e voleva farle un complimento. Fu lo stesso Berman a risolvere il dilemma: «Se dovessi indovinare qual era la sua vocazione,» continuò, «direi che voleva fare la ballerina.» Aveva involontariamente toccato il tasto giusto per ingraziarsi Susan: per lei, venire paragonata a una ballerina era decisamente un complimento, e quindi accettò per tale anche il commento sulla sua femminilità. «Grazie, signor Berman,» disse riconoscente. «Mi chiami pure Sean.» «Grazie, Sean,» ripeté Susan. Smise di riordinare e guardò fuori dalla finestra sporca. Era come se la polvere, i mattoni, le nuvole scure, gli alberi senza vita non ci fossero più. Si voltò verso Berman. «Lei non immagina nemmeno quanto io apprezzi il suo complimento. Le sembrerà strano, ma a essere sincera negli ultimi due anni non mi sono mai sentita molto femminile. E sentirmelo dire da uno come lei è estremamente rassicurante. Non che me ne sia fatta proprio un problema, ma sa, avevo cominciato a pensare a me stessa come a una specie di...» Fece una pausa, cercando la parola giusta. «Persona neutrale. Neutra. Ecco, sì, neutra. È successo a poco a poco, per gradi, e credo di essermene accorta solo facendo il paragone con le ex compagne che incontro ancora qualche volta. Soprattutto con la mia compagna di camera.» Si fermò di colpo, imbarazzata e stupita della propria improvvisa sincerità. «Ma che cosa sto dicendo? A volte non riesco a credere a me stessa.» Sorrise, poi le venne da ridere di sé. «Non so nemmeno comportarmi come un medico, figuriamoci se posso assomigliarci. Scommetto che l'ultima cosa che vuol sentire è il racconto delle mie difficoltà.» Berman alzò gli occhi su Susan con un largo sorriso. Aveva un'aria di-
vertita. «È il paziente che dovrebbe parlare,» continuò la ragazza, «non il medico. Perché non mi parla di lei, così io posso star zitta...» «Sono un architetto. Uno del milione di architetti che affollano Cambridge. Ma questo non c'entra. Continuiamo a parlare di lei. Non sa che piacere sia sentirla parlare come un essere umano in questo posto.» Girò gli occhi per la stanza. «Non è che mi preoccupi una piccola operazione, ma questa attesa mi sta facendo impazzire. E poi tutti sono così freddi, distanti. Allora, che cosa stava raccontandomi della sua compagna di camera?» «Mi sta prendendo in giro?» Susan strinse gli occhi. «Giuro di no.» «Be', era un tipo molto in gamba. Si è iscritta a legge ed è riuscita a restare una donna anche senza rinunciare alla carriera e all'impegno intellettuale.» «Io non ho idea di quanto valga intellettualmente, ma non c'è dubbio che lei è una donna. È tutto l'opposto di una persona neutra.» Susan fu tentata di mettersi a discutere con Berman sul fatto che lui misurava la femminilità dall'aspetto esteriore. Per lei questa era solo una parte, una piccola parte. Ma poi si trattenne. Dopotutto quell'uomo stava per subire un'operazione, e non era il caso di mettersi a polemizzare con lui. «Non posso evitare di sentirmi così,» replicò, «e 'neutra' è la definizione più esatta di quello che provo. Sulle prime ho pensato che medicina fosse una buona scelta per molte ragioni, compreso il fatto che mi avrebbe assicurato l'indipendenza che cercavo. Non volevo che nessuno mi facesse pressioni per il matrimonio. Ebbene,» sospirò, «devo dire che l'indipendenza me l'ha data fin troppo. Comincio a sentirmi esclusa, fuori dal mondo.» «Io potrei aiutarla. Naturalmente a patto che lei consideri gente normale gli architetti. Ce ne sono di quelli che non lo sono affatto, glielo posso assicurare. Tuttavia...» Berman si grattò la testa, cercando le parole, «non mi sento proprio in grado di sostenere una conversazione con addosso questa umiliante camicia da notte, in questo ambiente spersonalizzante, anche se mi piacerebbe moltissimo continuare a parlare con lei. Sono sicuro che tutti tentino di imbarcarla, e mi dispiace romperle anch'io le scatole. Ma potremmo prendere un caffè insieme dopo che mi avranno messo a posto questo maledetto ginocchio.» Berman sollevò la gamba destra. «Me lo sono scassato anni fa giocando a football. Da allora è diventato il mio tallone d'Achille, diciamo così.»
«È per questo che la operano?» chiese Susan pensando a come rispondere all'invito. Capiva che dire di sì sarebbe stato molto poco professionale, ma nello stesso tempo si sentiva decisamente attratta da quel giovanotto. «Già, una minuscolectomia, o qualcosa del genere.» Un colpo alla porta, seguito dall'ingresso immediato di Sarah Sterns, fece saltare su Susan, che cominciò ad affaccendarsi attorno alla valvola della fleboclisi. Si rese conto di quanto quella reazione fosse puerile, e si arrabbiò al pensiero che il sistema la condizionasse tanto. «No, un'altra iniezione no!» piagnucolò Berman. «Un'altra iniezione, sì. È quella preoperatoria. Si giri, bellezza,» ribatté Miss Sterns. Fece segno a Susan di spostarsi e appoggiò il suo vassoio sul comodino. Berman lanciò un'occhiata preoccupata a Susan prima di mettersi a pancia in giù. Miss Sterns gli scoprì una natica, strinse con le dita un po' di carne e cacciò dentro l'ago. Un fulmine. «Non si preoccupi della flebo,» aggiunse avviandosi alla porta. «Verrò io a regolarla.» E sparì. «Be', adesso devo andare,» disse Susan. «Allora, ci rivediamo?» chiese Berman cercando di mettersi seduto senza appoggiare la natica sinistra. «Sean, non lo so. Non so bene come considerare la cosa, voglio dire, da un punto di vista professionale e tutto il resto.» «Professionale?» Berman era sinceramente sorpreso. «Devono averle fatto un bel lavaggio del cervello.» «Forse sì,» sospirò Susan. Guardò l'orologio, la porta, poi di nuovo Berman. «D'accordo, ci rivediamo. Prima però deve tornare normale. Posso anche lasciar perdere l'etica professionale, ma non voglio che mi si accusi di approfittare di uno zoppo. Ripasserò di qui prima che la dimettano. Ha idea di quanto la terranno qui dentro?» «Il mio medico ha detto tre giorni.» Susan uscì. Sulla soglia dovette cedere il passo all'inserviente col lettino a rotelle che era venuto a prendere Berman: sala operatoria numero 8, la meniscectomia. Susan diede un'occhiata a Berman prima di svoltare nel corridoio. Gli fece un segno col pollice all'insù, che lui ricambiò con un sorriso. Mentre tornava verso la sala infermiere, cercò di mettere ordine nelle sue emozioni contrastanti. Da una parte era felice di aver incontrato quella persona, per la quale aveva provato un'attrazione fisica immediata;
ma dall'altra capiva che tutta la cosa era molto poco professionale. Non poté fare a meno di pensare che per lei diventare medico sarebbe stata una faccenda molto, molto complicata, sotto ogni punto di vista. lunedì 23 febbraio ore 12.10 Susan avanzava nel corridoio intasato di carrelli pieni di cibo, come una sciatrice che fa lo slalom. L'odore piuttosto gradevole che emanava dai vassoi le ricordò che non aveva ancora mangiato; due toast trangugiati di corsa non si potevano considerare un pasto. L'arrivo dei carrelli accrebbe ancora di più la confusione del Beard 5. Susan pensò che era davvero un miracolo che ciascun paziente ricevesse la terapia giusta, la medicina giusta, il pasto giusto. Quando arrivò da Sarah Sterns costei, con sua grande sorpresa, le fece un sorriso e le mostrò dove doveva mettere il vassoio della fleboclisi. Susan eseguì e uscì di nuovo. Le ci vollero tre secondi per decidere di usare le scale invece dell'ascensore sempre affollato. In fondo doveva fare solo tre piani per arrivare alla sala rianimazione. Le scale erano di metallo, con la superficie lavorata a sbalzo. In origine il colore era stato arancione, ma ormai era diventato un marrone sporco, tranne che al centro dei gradini, lucidi per il continuo sfregamento. I muri della tromba delle scale erano di un grigio scuro, vecchi e scrostati, e sulla parete di destra, all'inizio di ogni rampa, c'erano lunghe striature verticali, causate forse da qualche perdita d'acqua, o da un antico allagamento. L'unica luce era fornita da semplici lampadine, una per pianerottolo. Al quarto piano, la lampadina era rotta, e Susan dovette procedere con cautela, avanzando a tentoni per trovare il primo gradino della rampa successiva. La distanza tra un piano e l'altro le sembrò notevole. Sporgendosi oltre la ringhiera riuscì a guardare giù fino al sotterraneo, e in alto fin dove la spirale delle scale si perdeva in una prospettiva vertiginosa. Si sentiva a disagio. Le sembrava che l'oscurità e la sporcizia dei muri le si chiudessero attorno, risvegliando paure ataviche. Forse le stava tornando in mente un sogno ricorrente che faceva da bambina. Anche se non le capitava più da un pezzo, se lo ricordava ancora bene. Sebbene il sogno non si svolgesse in una tromba di scale, l'impressione generale era la stessa: era in un tunnel pieno di ombre minacciose, che la bloccavano da ogni parte; nel sogno non riusciva mai ad arrivare in fondo al tunnel, dove l'a-
spettava qualcosa di importantissimo. Susan scendeva lentamente, un piede dopo l'altro. I suoi passi riecheggiavano con un suono metallico. Era sola. Non c'era anima viva, e ciò le permise di immergersi nei propri pensieri. Per qualche minuto la realtà dell'ospedale le parve infinitamente lontana. A ripensarci, l'incontro con Berman le sembrava sempre più complicato. La mancanza di professionalità la angustiava di meno, perché in realtà lui non era un suo malato. L'avevano chiamata solo per un servizio di importanza secondaria. Il fatto che Berman fosse un paziente contava solo perché li aveva fatti incontrare. Ma Susan non era convinta di stare solo razionalizzando. Sul pianerottolo del terzo piano, si fermò davanti alla nuova rampa di scale. Con Berman si era comportata semplicemente come una donna. Per un insieme di motivi inspiegabili, l'aveva attratta in modo naturale, spontaneo. In un certo senso questo era un pensiero incoraggiante e rassicurante. Non c'era dubbio che Susan avesse già cominciato a considerarsi come una specie di essere asessuato durante il primo biennio di università. Parlando con Berman aveva usato la parola «neutra», ma solo perché era la definizione che le era venuta in mente lì per lì. In realtà era chiaro che lei era una femmina, e si sentiva una femmina; il suo flusso mestruale glielo ricordava ogni mese. Ma era una donna? Cominciò a scendere la rampa di scale. Per la prima volta gli eventi la avevano spinta a razionalizzare una tendenza che si stava sviluppando in lei da qualche anno. Si domandò che cosa sarebbe successo se Carpin fosse stato chiamato al posto suo, e se Berman fosse stato una bella donna: Carpin avrebbe reagito da maschio? Susan si fermò di nuovo, a riflettere su questa ipotesi. Basandosi sulla propria esperienza, Susan decise che c'erano buone probabilità che Carpin si comportasse in modo analogo. Ricominciò a scendere le scale, più adagio di prima. Ma se era vero che anche un maschio avrebbe reagito così, perché per lei la cosa era tanto diversa? Perché non faceva che pensarci? Era qualcosa di più della storia dell'etica professionale. Berman l'aveva fatta sentire una donna. Tutt'a un tratto Susan capì. La differenza vera tra lei e Carpin era che lei aveva un ostacolo supplementare. Entrambi volevano diventare medici, agire come medici, pensare come medici, esser considerati medici. Ma per Susan c'era un gradino in più. Lei voleva anche diventare una donna, sentirsi una donna, essere considerata una donna, es-
sere rispettata come una donna. Quando aveva iniziato medicina, era ben consapevole di aver scelto una carriera dominata dai maschi. Una sfida in più, aveva pensato. Ma non aveva mai immaginato che le avrebbe reso così difficile realizzare se stessa. Dal punto di vista accademico era alla pari, certo. Ma il problema era lo scalino successivo, perché non era scritto sui libri. E Carpin? Be', per lui era tutto chiaro: era un maschio, e accettava il proprio ruolo di maschio. Fare medicina confermava semplicemente la sua immagine di sé come uomo. Carpin doveva solo preoccuparsi di convincere se stesso di essere un dottore; Susan doveva convincersi di essere un dottore e una donna. Al secondo piano, fu accolta da una scritta: ZONA CHIRURGIA — VIETATO L'INGRESSO AI NON AUTORIZZATI. Avvertimento superfluo. Susan si accorse che la porta era chiusa. La sua immaginazione troppo attiva creò immediatamente una tromba di scale con le porte dei pianerottoli sprangate: vide se stessa in questa prigione verticale. Fu un pensiero passeggero, totalmente irrazionale. «Wheeler, stai esagerando!» disse ad alta voce, per farsi coraggio. Scese in fretta al pianterreno. La porta si aprì subito, e si mischiò alla folla del piano principale. Prese l'ascensore e tornò all'entrata della sala rianimazione. Dovette spingere con forza: la porta era massiccia. Così rientrò nello strano mondo della SR. Un'infermiera alzò gli occhi dal tavolo, ma poi ritornò all'ECG che aveva davanti. Susan si guardò intorno, e fu di nuovo colpita dall'aspetto assolutamente meccanico della sala, dall'assenza di voci umane e di qualsiasi movimento tranne quello degli schermi fluorescenti coi loro tracciati. E c'era Nancy Greenly, immobile come una statua, una vittma della medicina e della tecnologia. Come saranno stati la sua vita, i suoi amori? pensò Susan. Tutto se n'era andato, tutto, e solo per una semplice irregolarità mestruale, un normale raschiamento. Susan si sforzò di non guardare più Nancy e notò che il suo gruppo era uscito dal reparto. Nello stesso istante si sentì profondamente a disagio. La complessità, tecnica e psicologica, di quella sala, fece scomparire ogni euforia residua per l'episodio della fleboclisi. La sua immaginazione continuava a lavorare. Mettiamo che d'improvviso ci sia bisogno, e che qualcuno, vedendomi col camice bianco e l'inutile stetoscopio nella tasca, mi chieda una decisione immediata, da cui può dipendere la vita o la morte ... Cercando di dominare il panico. Susan spinse la pesante porta e fuggì in corridoio. Mentre tornava all'ascensore, meditò sulla differenza tra realtà e immaginazione, tra realtà e mito, tra ciò che significava effettivamente es-
sere uno studente di medicina e ciò che si immaginava la gente. Premette il pulsante del decimo piano, e si lasciò spingere verso il fondo dell'ascensore. Fu un viaggio penoso. La cabina era un ammasso di esseri umani con tutte le malattie possibili, e si fermava a ogni piano. L'aria era calda e pesante, soprattutto perché un tizio maleducato stava fumando nonostante il vistoso cartello di divieto. I passeggeri evitavano di guardarsi. Fissavano tutti i numeri luminosi dei piani che si accendevano via via. Anche Susan, desiderosa solo che le porte si aprissero e si chiudessero il più in fretta possibile. Al nono piano, si fece avanti spingendo. Al decimo, uscì con un sospiro di sollievo. L'atmosfera cambiò immediatamente. Al decimo piano c'era la moquette, e i muri brillavano, verniciati di fresco. C'erano grandi cornici d'oro, coi ritratti dei grandi medici del Memorial. A intervalli regolari erano disposti comode sedie e tavolini chippendale, con sopra lampade di fogge diverse e pile ben ordinate di copie del New Yorker. Un grande cartello, proprio di fronte all'ascensore, guidò Susan alla sala conferenze. Mentre percorreva il corridoio poté vedere dentro alle varie stanze. Erano gli studi privati di alcuni dei medici più famosi dell'ospedale. C'erano pochi malati in attesa. Alzarono tutti gli occhi al passaggio della ragazza. Le loro facce erano uniformemente inespressive. Susan oltrepassò l'ufficio del primario chirurgo Stark. La porta era socchiusa, e vide di sfuggita due segretarie che battevano freneticamente a macchina. Più avanti, dall'altra parte, c'era una scala. In fondo al corridoio, sopra due porte di mogano, una scritta luminosa annunciava: CONFERENZA IN CORSO. Susan entrò nella sala, chiudendo piano la porta. Era tutto buio. L'unica fonte di illuminazione era la diapositiva di un polmone umano. Susan individuò a fatica il profilo di un uomo che, con una bacchetta, indicava i singoli dettagli della figura. Poi cominciò a distinguere i contorni delle file di sedie e dei vari occupanti. La sala era molto ampia, col pavimento leggermente inclinato verso il podio, che stava su una piattaforma. Il raggio del proiettore era attraversato, per tutta la sua lunghezza, dal fumo delle sigarette e delle pipe. Anche nell'oscurità, Susan riusciva a indovinare che la sala era nuova, ben progettata, e arredata lussuosamente. La diapositiva seguente era una sezione microscopica; nella sala venne più luce. Susan riuscì a distinguere la testa di Niles, col suo bel bernoccolo. Era seduto in una delle file laterali. Gli si avvicinò e gli batté sulla spalla. Vide che le avevano tenuto un posto. Dovette passare davanti a Niles e Fairweather per sedersi. Si trovò di fianco a Bellows.
«Ha iniziato una flebo o ha fatto una laparatomia?» le sussurrò questi in tono sarcastico. «Ci ha messo più di mezz'ora.» «Era un paziente interessante,» replicò Susan, aspettandosi una nuova predica sulla puntualità. «Potrebbe trovare una scusa migliore.» «Ecco, a dire la verità stavo cambiando la fasciatura alla circoncisione di Robert Redford.» Susan finse per qualche attimo di essere assorta nell'osservazione della diapositiva, quindi si voltò verso Bellows, che ridacchiò scuotendo la testa. «Lei è proprio un fenomeno. Io...» Bellows si interruppe. L'uomo sul podio gli stava rivolgendo una domanda. Tutto quello che riuscì a sentire fu: «... può illuminarci su questo punto, vero, dottor Bellows?» «Mi scusi, professor Stark, non ho sentito la domanda,» rispose Bellows imbarazzato. «Ha mostrato segni di polmonite?» ripete Stark. Si vedevano i contorni del suo corpo davanti a una grande schermografia, ma non si distinguevano i lineamenti. Un collega di Bellows, che gli stava seduto dietro, si sporse in avanti e mormorò: «Sta parlando della Greenly, cretino.» «Ecco...» tossì Bellows alzandosi in piedi, «ha avuto un lieve rialzo di temperatura ieri. Il suo torace è ancora auscultabile. La radiografia di due giorni fa era normale, ma dobbiamo rifargliene una oggi. Risulta la presenza di batteri nelle urine, e noi pensiamo che la causa dell'aumento di temperatura sia la cistite, non la polmonite.» «È proprio questo il pronome che voleva usare, dottor Bellows?» chiese, portandosi davanti al leggio e posandoci sopra le mani. La sua faccia continuava a essere in ombra. «Pronome, signore?» chiese Bellows, confuso e intimidito. «Pronome. Sì, pronome. Lo sa che cos'è un pronome, no, dottor Bellows?» Risate. «Sì, io credo di sì.» «Così va meglio.» «Che cosa va meglio?» insistette Bellows, pentendosi subito di averlo fatto. Altre risate. «Adesso la scelta del pronome va meglio, dottor Bellows. Comincio davvero a scocciarmi di sentire noi, o la terza persona singolare indetermi-
nata. Il vostro addestramento di chirurghi implica anche la capacità di assorbire le informazioni, assimilarle, e poi prendere una decisione. Se faccio una domanda a voi interni, voglio sentire la vostra opinione, non quella del vostro gruppo. Non significa che altra gente non abbia contribuito alla formazione della vostra opinione, ma una volta arrivati alla decisione voglio sentire io, non noi o lui.» Stark si allontanò di qualche passo dal leggio e riprese la bacchetta. «Bene, adesso torniamo a questa paziente in coma. Voglio sottolineare ancora che dovete essere sempre estremamente vigili con questi pazienti, signori. Anche se può essere frustrante, per le cure intense che richiedono e, magari, per la prognosi infausta, la ricompensa può essere enorme. L'insegnamento che possiamo trarne è inestimabile. L'omeostasi è davvero molto difficile da mantenere per periodi prolungati quando il cervello...» Su una delle pareti laterali si accese d'improvviso una luce rossa intermittente. Tutti si girarono. Un messaggio luminoso apparve silenziosamente sullo schermo televisivo sotto la luce rossa: ARRESTO CARDIACO SR BEARD 2. «Merda,» balbettò Bellows balzando in piedi. Cartwright e Reid lo seguirono, affrettandosi verso l'uscita. Susan e gli altri quattro studenti esitarono incerti, guardandosi l'un l'altro per farsi coraggio. Poi si alzarono tutti insieme. «Come stavo dicendo, è difficile mantenere l'omeostasi allorché il cervello è danneggiato irreparabilmente. La prossima immagine, prego,» riprese Stark consultando le proprie note sul leggio, senza nemmeno badare al gruppetto che usciva di corsa dalla sala. lunedì 23 febbraio ore 12.16 Trovarsi in ospedale in attesa di un'operazione rendeva molto nervoso Sean Berman. Capiva pochissimo di medicina, e anche se avrebbe desiderato essere meglio informato, non si era preoccupato di fare troppe domande sul suo caso e sulle cure. I medici e le malattie gli facevano paura, e tendeva inconsciamente a identificarli. Perciò il pensiero di sottoporsi a un'operazione chirurgica lo infastidiva parecchio; non riusciva ad accettare razionalmente il fatto che qualcuno gli tagliasse la carne con un bisturi. Al solo pensiero gli si rivoltava lo stomaco e gli venivano i sudori freddi. In linguaggio psichiatrico questo si chiama rifiuto. Un atteggiamento che a-
veva avuto un discreto successo finché era entrato in ospedale il pomeriggio prima dell'operazione. «Mi chiamo Berman. Sean Berman.» Berman si ricordava benissimo di quando si era presentato all'accettazione. Quella che doveva essere una semplice formalità era diventata una faccenda complicatissima. La solita burocrazia. «Berman? È sicuro che doveva venire oggi?» gli aveva chiesto l'impiegata, una donna truccatissima, con le unghie tinte di scuro. «Sì, sono sicuro,» aveva risposto lui guardando meravigliato lo smalto nero. Si rese conto che gli ospedali erano una specie di monopolio. In un regime di libera concorrenza, qualcuno avrebbe avuto il buon senso di proibire alle impiegate dell'accettazione di mettersi lo smalto nero sulle unghie. «Be', mi spiace ma sull'elenco il suo nome non c'è. Si sieda un momento mentre sbrigo questi altri pazienti. Poi chiamerò l'ufficio accettazione e le saprò dire qualcosa.» Questo era stato il primo dei numerosi intoppi dell'ingresso di Berman in ospedale. Si era seduto, aspettando. Più di un'ora. «Mi dà la sua richiesta di radiografia, per favore?» gli aveva chiesto un giovane tecnico inagrissimo. Berman aveva già aspettato altri venti minuti in radiologia, prima di venir chiamato. «Ma io non ho nessuna richiesta di radiografia.» «Deve avercela. Tutti la devono avere.» «Le dico che non ce l'ho.» A parte l'evidente frustrazione, questa ridicola sequela di difficoltà burocratiche aveva avuto un effetto positivo: tenere completamente occupata la mente di Berman, e impedirgli di pensare all'operazione. Ma appena entrato nella sua stanza, appena sentiti i gemiti che arrivavano di tanto in tanto da dietro le porte socchiuse, era stato di nuovo costretto a pensare alla operazione imminente. Continuavano a tornargli davanti agli occhi i malati che aveva visto, pieni di bende e di tubi che uscivano misteriosamente da parti del corpo prive di orifizi naturali. Lì, nell'ambiente dell'ospedale, il rifiuto non era più una difesa psicologica efficace. Allora Berman aveva provato un'altra tattica, quella che gli psichiatri chiamano formazione di una reazione. Non aveva rinunciato a pensare all'operazione, ma senza darle apparentemente peso. «Sono una dietologa, e dovrei stabilire i suoi pasti.» Una donna grassa era entrata nella stanza dopo aver bussato energicamente. «Lei è qui per
un'operazione, immagino.» «Un'operazione? Sì, ne faccio una all'anno. È il mio hobby.» La dietologa, i tecnici di laboratorio, chiunque capitasse, erano diventati il bersaglio delle battute di Berman. Questo metodo aveva avuto un discreto successo, almeno fino alla mattina dell'intervento. Berman fu svegliato verso le sei e mezzo dallo sferragliare di un carrello in corridoio. Nonostante i suoi sforzi, non riuscì a riaddormentarsi. Leggere era impossibile. Il tempo avanzava, lentissimo, inesorabile, verso l'ora dell'intervento. Lo stomaco vuoto brontolava. Alle 11.05 la porta si spalancò. Il cuore di Berman sussultò. Era un'infermiera. «Signor Berman, ci sarà un ritardo.» «Un ritardo? Di quanto?» Si sforzò di essere educato. L'angoscia dell'attesa l'aveva reso tesissimo. «Non saprei. Mezz'ora, un'ora...» L'infermiera si strinse nelle spalle. «Ma perché? Io sto morendo di fame.» In realtà non aveva affatto fame; era troppo nervoso. «La sala operatoria è occupata. Tornerò dopo per le medicine preoperatorie. Si rilassi.» L'infermiera uscì. Berman restò con la bocca aperta, pronta a fare un'altra domanda, altre cento domande. Rilassarsi? Proprio facile. Fino alla comparsa di Susan, aveva trascorso l'intera mattinata sudando freddo; scrutava terrorizzato il passare dei minuti, e nello stesso tempo avrebbe voluto che andassero più in fretta. Si chiese se quello che provava fosse proporzionato alla gravita della cosa. Se era così, si rendeva conto che non sarebbe mai riuscito a sottoporsi a un'operazione veramente seria. Berman aveva paura di sentir male, aveva paura che la sua gamba non migliorasse al novantotto per cento — come gli aveva promesso il suo medico — aveva paura di dover portare il gesso per un sacco di tempo. Dell'anestesia non aveva paura, anzi, quello che temeva era che non lo addormentassero. Non voleva l'anestesia locale, voleva essere profondamente, totalmente addormentato. Per Berman, Susan Wheeler era stata una stella in una notte buia, un'apparizione del cielo, venuta ad aiutarlo a passare il tempo e a trovare la tranquillità. Ma era stata ancora di più. Per la prima volta in quella mattina Berman era riuscito a pensare a qualcosa che non fosse il suo ginocchio o il bisturi. Aveva ascoltato con la massima attenzione ogni parola della ragazza. Non sapeva se fosse stato per la sua bellezza, per la sua intelligenza,
o solo per la propria vulnerabilità emotiva, ma di certo era rimasto affascinato da quella ragazza, e si era sentito molto più sollevato mentre lo portavano in ascensore giù in sala operatoria. Forse anche l'iniezione di Miss Sterns aveva contribuito: aveva la testa sempre più leggera, e le immagini cominciavano a diventare vaghe, discontinue. «Immagino che vedrà andare in sala operatoria un sacco di gente,» disse all'inserviente, mentre l'ascensore si avvicinava al secondo piano. «Sì,» rispose l'uomo, continuando a pulirsi le unghie. «Ha mai fatto un'operazione qui dentro?» chiese Berman mentre una piacevole sensazione di calma e distacco l'invadeva. «No, mai fatta un'operazione qui.» L'ascensore si fermò al secondo piano. «Perché no?» «Forse perché ne ho viste fin troppe.» Quando il suo letto a rotelle venne parcheggiato davanti alla sala operatoria, Berman era ormai piacevolmente inebriato. L'iniezione che gli era stata fatta su prescrizione dell'anestesista, il dottor Norman Goodman — 1 cc di Innovar — era un composto relativamente nuovo e fortissimo. Il giovane tentò di parlare alla donna del lettino accanto, ma la lingua non gli rispondeva più. Gli venne da ridere. Cercò di afferrare un'infermiera che passava, ma non ci riuscì, e anche questo lo fece ridere. Aveva perso completamente il senso del tempo e della realtà. All'interno della sala operatoria tutto procedeva perfettamente. Penny O'Rilley aveva già portato dentro il vassoio fumante con gli strumenti sterilizzati; Mary Abruzzi, l'infermiera, aveva già pronto il laccio emostatico pneumatico. «Ne resta solo uno, dottor Goodman,» avvertì azionando il pedale per sollevare il tavolo operatorio fino all'altezza del lettino a rotelle. «Magnifico,» annuì allegramente il medico. Fece scorrere un po' di fluido dentro il tubo della fleboclisi per togliere le bolle d'aria. «Dovrebbe essere una cosa rapida. Il dottor Spallek è uno dei chirurghi più veloci che io conosca, e il malato è un giovane sanissimo. Scommetto che finiremo per l'una.» Il dottor Goodman era al Memorial da otto anni, e aveva anche una cattedra all'università. Aveva un laboratorio al quarto piano dell'Hillman Building, popolato da una numerosa tribù di scimmie. Tra i suoi interessi c'era lo sviluppo di nuove forme di anestesia attraverso il controllo selettivo di varie zone cerebrali. Era convinto che i farmaci dovessero diventare così specifici da alterare soltanto la formazione reticolare, riducendo in tal
modo la quantità di farmaci necessaria. Solo poche settimane prima lui e il suo assistente, il dottor Clark Nelson, avevano trovato un derivato del butirofenone che rallentava l'attività elettrica in una scimmia. Con grande autocontrollo non aveva ceduto a nessuna euforia, anche perché il risultato era stato riscontrato su un solo animale. Ma poi era riuscito a ripeterlo su otto esemplari diversi, sempre con identici effetti. Goodman avrebbe voluto lasciare tutte le altre attività e dedicarsi ventiquattr'ore su ventiquattro alla nuova scoperta. Desiderava iniziare esperimenti più sofisticati col suo farmaco, e soprattutto provarlo su un essere umano. Nelson era ancora più zelante e ottimista. Fosse dipeso da lui, ne avrebbe sperimentato una dose su se stesso. Ma Goodman sapeva che nella scienza era fondamentale seguire una metodologia scrupolosa: si doveva procedere lentamente, in modo obiettivo. Gli entusiasmi prematuri potevano essere rovinosi. Perciò aveva tenuto a freno l'eccitazione del collega, e aveva deciso di continuare regolarmente il proprio lavoro, aspettando il momento di divulgare la propria scoperta. Così quel lunedì mattina era impegnato a «passare il gas», come si diceva in gergo, cioè a fare una normale anestesia. «Dannazione!» esclamò. «Mary, mi sono scordato di portar giù il tubo endotracheale. Mi andresti a prendere un numero otto?» «Subito.» Mary Abruzzi uscì. Goodman collegò alla macchina i tubi dell'ossigeno e del protossido d'azoto. Sean Berman era il quarto ed ultimo paziente del dottor Goodman per il 23 febbraio 1976. Con gli altri tre tutto era filato liscio. L'unico problema potenziale era stato un donnone flatulento di centoventi chili coi calcoli biliari. Quell'enorme massa di carne e grasso aveva assorbito una tale quantità di anestetico da far dormire un bue per mesi. Eppure non era successo niente. Nonostante l'operazione fosse andata per le lunghe, la donna si era svegliata senza difficoltà subito dopo l'ultima sutura. Gli altri due interventi erano stati di normale routine: la legatura di una vena e un caso di emorroidi. L'ultimo paziente del dottor Goodman, Berman, doveva fare il menisco destro, e Goodman prevedeva di rientrare in laboratorio al massimo all'1.15. Tutti i lunedì mattina ringraziava la sua buona stella per aver avuto la previdenza di continuare nelle ricerche. Trovava l'anestesia una noia: troppo facile, troppo meccanica, troppo monotona. L'unico mezzo per non impazzire in quel lunedì mattina, ripeteva ai colleghi, era di variare le tecniche, così da essere costretti a far funzionare il
cervello. Se non c'erano controindicazioni, adottava l'anestesia bilanciata, vale a dire l'uso di una combinazione di farmaci diversi, anziché di uno solo in forti dosi. Mary Abruzzi rientrò col tubo endotracheale. «Sei un tesoro, Mary,» sorrise Goodman controllando tutta l'attrezzatura. «Mi sembra che siamo pronti. Che ne dici di portar dentro il nostro ometto?» «Con piacere. Finito questo, si va a mangiare!» Dato che Berman non aveva controindicazioni, Goodman scelse tranquillamente la neurolettica. Sapeva che anche per Spallek, come per la maggior parte degli ortopedici, non faceva differenza. «Basta che mi lasciate mettere questo maledetto laccio emostatico,» era la loro risposta quando gli si chiedeva che anestesia volessero. L'anestesia neurolettica era una tecnica bilanciata. Si somministravano un potente neurolettico, o un tranquillante, e un potente analgesico. Entrambe le sostanze inducevano il sonno come effetto secondario. Tra i farmaci in commercio, Goodman prediligeva il droperidol e il fentanyl. In un secondo tempo il paziente veniva addormentato col Pentothal. Per mantenere il sonno si impiegava il protossido d'azoto. Infine, per mezzo del curaro, si paralizzavano i muscoli scheletrici e si consentivano l'intubazione e il rilassamento. Durante l'intervento si faceva uso di dosi di neurolettico e di analgesico allo scopo di conservare il giusto livello di anestesia. Per tutto questo tempo il paziente doveva essere tenuto sotto attento controllo, e il dottor Goodman lo faceva volentieri. Quando era occupato, il tempo passava più in fretta. La porta della sala operatoria fu aperta da un inserviente, e Mary Abruzzi spinse dentro Bennan. «Ecco il suo bambino, dottor Goodman! Dorme come un ghiro.» Accostarono il lettino al tavolo operatorio. «Okay, caro Berman, è ora di prendere posto sul tavolo.» Mary Abruzzi scosse dolcemente la spalla del giovane, che aprì gli occhi a metà. «Deve fare il bravo, deve coliaborare.» Con qualche difficoltà lo sistemarono sul tavolo. Berman schioccò le labbra, si girò su un fianco e si tirò su il lenzuolo fino alla gola, come se fosse convinto di essere a casa propria, nel proprio letto. Si addormentò, senza apparentemente rendersi conto dell'attività che ferveva tutt'intorno a lui. Gli misero il laccio emostatico pneumatico attorno alla coscia destra. Il piede destro fu imbracato e appeso a un'asta d'acciaio. Tutta la gamba de-
stra restò così sollevata. Ted Colbert, l'assistente, cominciò a prepararla. Il dottor Goodman si mise subito al lavoro. Erano le 12.20. La pressione sanguigna era 110/75; il polso era regolare a 72. Infilò con destrezza il grosso catetere endovenoso, e iniziò la fleboclisi. Tutta l'operazione, dall'inserimento dell'ago all'avvolgimento del nastro adesivo, durò meno di un minuto. Mary Abruzzi collegò i terminali del monitor cardiaco: il loro cicalio echeggiò immediatamente nella stanza. Messo a punto il respiratore, il dottor Goodman attaccò una siringa alla fleboclisi. «Okay, signor Berman, adesso voglio che si rilassi,» scherzò Goodman sorridendo a Mary Abruzzi. «Se si rilassa ancora, cadrà giù dal tavolo,» rise la donna. Goodman praticò un'endovenosa di 6 cc di Innovar, la stessa miscela di droperidol e fentanyl già iniettata a Berman prima dell'operazione. Poi saggiò i riflessi delle palpebre, e notò che il giovane era già immerso in un sonno profondo. Di conseguenza Goodman decise che il Pentothal non era necessario. Cominciò invece a somministrare la miscela di ossigeno e protossido d'azoto posando la maschera di gomma nera sulla faccia di Berman, La pressione sanguigna era 105/75, il polso a 62. Goodman iniettò 0,40 mg di d-tubocurarina, una sostanza che la società moderna deve alle popolazioni amazzoniche. Il corpo di Berman sussultò appena, poi si rilassò: la respirazione cessò. Appena ultimata l'intubazione, Goodman gonfiò i polmoni di Berman per mezzo della sacca di ventilazione e ne auscultò il petto con lo stetoscopio. Entrambi i polmoni erano perfettamente aerati. Quando il laccio emostatico pneumatico fu messo in funzione, il dottor Spallek entrò nella sala, e l'operazione iniziò immediatamente. Un po' platealmente Spallek affondò il bisturi, e arrivò alla giuntura con un solo taglio. «Voilà!» esclamò, tenendo il bisturi sollevato in aria e piegando la testa per ammirare il proprio lavoro. «E adesso il tocco di Michelangelo.» Penny O'Rilley alzò gli occhi al cielo, sottolineando l'istrionismo del chirurgo. Con una punta di sorriso sulle labbra gli porse il bisturi per il menisco. «Ungete la mia lama,» disse Spallek allungando il ferro all'assistente, che ci spruzzò sopra del liquido. Quindi inserì il bisturi nella giuntura e per alcuni istanti scavò alla cieca, con gli occhi al soffitto. Stava incidendo con l'aiuto del solo senso del tatto. Si sentì un rumore stridulo, poi uno schioc-
co. «Okay,» disse Spallek stringendo i denti, «ecco il colpevole.» Estrasse la cartilagine lesa. «Ora voglio che guardiate tutti. Vedete questa minuscola lacerazione sull'orlo interno? È la causa dei problemi di questo signore.» Il dottor Colbert guardò prima il pezzo di cartilagine e poi Penny O'Rilley. Annuirono entrambi, ma segretamente si chiesero se la lacerazione non fosse stata provocata dall'incisione alla cieca del bisturi. Spallek si allontanò di qualche passo dal tavolo, con aria soddisfatta. Si tolse i guanti. «Dottor Colbert, vuole chiudere? 4-0 ortopedica, 5-0 normale, 6-0 per la pelle. Ci vediamo.» E uscì. Colbert cominciò ad armeggiare sopra la ferita. «Quanto pensa che ci vorrà ancora?» chiese Goodman dall'altra parte dello schermo. Colbert alzò gli occhi. «Quindici o venti minuti, penso.» Impugnò un forcipe dentato e prese la prima sutura dalle mani di Penny O'Rilley. Iniziò a suturare, e Berman si mosse. Nello stesso momento Goodman avvertì una tensione nella sacca di ventilazione. Capì che Berman stava cercando di respirare da solo. La pressione sanguigna salì a 110/80. «Dev'essere un po' leggero,» osservò Colbert mentre tentava di separare gli strati di tessuto incisi. «Gli darò un altro po' di questo filtro d'amore,» esclamò Goodman. Iniettò un altro cc di Innovar. In seguito ammise che questo poteva essere stato un errore. Avrebbe dovuto usare solo l'analgesico, il fentanyl. La pressione sanguigna si abbassò rapidamente e Berman tornò in perfetta anestesia. La pressione si fermò a 90/60. Il polso aumentò fino a 80, poi ridiscese a 72. «Adesso è okay,» disse Goodman. «Bene. Penny, dammi quelle suture ortopediche.» Colbert chiuse la capsula dell'articolazione, quindi i tessuti sottocutanei. Nessuno parlava. Mary Abruzzi andò a sedersi in un angolo e accese una radiolina a transistor. La stanza fu invasa da una sommessa musica rock. Goodman scrisse gli ultimi dati sul rapporto dell'anestesia. «Suture per la pelle,» disse Colbert. Si sentì uno scatto familiare, e il porta-aghi gli venne lanciato in mano. Mary Abruzzi sollevò la parte inferiore della mascherina e si mise in bocca un altro chewing gum. All'inizio fu solo una contrazione ventricolare prematura, seguita da una
pausa compensatrice. Goodman alzò gli occhi sul monitor e aumentò il flusso d'ossigeno, per eliminare il protossido d'azoto. L'interno chiese altra sutura. Poi ci furono due battiti ectopici del cuore ancor più anormali; il ritmo salì a 90 al minuto. Lo sbalzo si sentì immediatamente sul monitor. Penny O'Rilley si girò verso Goodman; vedendo che anche lui aveva sentito, riprese a passare le suture. Goodman fermò il flusso di ossigeno. Era possibile che il muscolo cardiaco fosse particolarmente sensibile agli alti tassi d'ossigeno chiaramente presenti nel sangue del paziente. In seguito ammise che anche questo poteva essere stato un errore. Cominciò a far ricorso all'aria compressa per aerare i polmoni di Berman. Il giovane non respirava ancora da solo. In rapida successione si ripeté una serie di quegli strani e prematuri battiti cardiaci; anche il cuore del dottor Goodman sussultò di paura. Sapeva fin troppo bene che quella serie di contrazioni ventricolari premature era spesso l'annuncio dell'arresto cardiaco totale. Le sue mani tremavano visibilmente mentre gonfiava il colletto dello sfigmomanometro. La pressione era caduta a 80/55, senza nessun motivo apparente. Goodman osservò il monitor: la frequenza dei battiti prematuri aumentava. Il cicalio diventò sempre più rapido, urlando la sua informazione urgente dentro il cervello di Goodman. Gli occhi del medico corsero all'apparecchio per l'anestesia, al contenitore del biossido di carbonio; la sua mente turbinava, in cerca di una risposta. Si sentì rimescolare l'intestino, e dovette stringere con forza i muscoli anali. Fu preso dal terrore. Qualcosa non andava assolutamente. I battiti prematuri stavano aumentando, al punto che si accavallavano su quelli normali, e la traccia luminosa del monitor descriveva una linea impazzita. «Cosa diavolo succede?» urlò Colbert, alzando gli occhi dalle sue suture. Goodman non rispose. Le sue mani tremanti cercarono una siringa. «Lidocaina!» gridò a Mary Abruzzi. Tentò di togliere il cappuccio di plastica che copriva l'ago ma non ci riuscì. «Cristo!» Lanciò la siringa contro il muro. Strappò l'involucro di cellophane di un'altra siringa, e questa volta riuscì a togliere il cappuccio dell'ago. La donna cercò di tener fermo il flacone della lidocaina, ma le mani di Goodman tremavano troppo per riuscire a infilarci l'ago. Le strappò di mano il flacone e ce lo ficcò dentro. «Porca merda! Si sta arrestando!» gridò Colbert incredulo, fissando il monitor. Aveva ancora in una mano il porta-aghi e nell'altra un forcipe a denti fini.
Goodman riempì la siringa di lidocaina; il flacone gli sfuggì di mano e cadde per terra. Lottando contro il tremito, cercò di infilare l'ago nel tubo della fleboclisi, ma riuscì solo a pungersi un dito. Glen Campbell, ancora accanto alla radiolina, lanciò un gemito. Prima che Goodman riuscisse a infilare la siringa nel tubo, il monitor ritornò di colpo al ritmo regolare di prima della crisi. Goodman osservò sbalordito l'andamento normale della traccia luminosa; afferrò la cassa di ventilazione e gonfiò i polmoni di Berman. La pressione sanguigna salì a 100/60 e il polso rallentò fino a 70. La fronte del medico si imperlò di sudore; le gocce cadevano sul rapporto dell'anestesista. Il cuore gli batteva freneticamente. L'anestesia non è sempre monotona, constatò. «Ma che cos'è successo? Si può sapere, perdio?» chiese Colbert. «Non ne ho la minima idea,» rispose Goodman. «Finisca, comunque. Voglio svegliare subito questo tizio.» «Forse c'è qualcosa di rotto nel monitor,» azzardò Mary Abruzzi, sforzandosi di apparire ottimista. L'interno finì di suturare. Goodman sgonfiò il laccio emostatico sulla gamba. Il ritmo cardiaco accelerò leggermente, poi tornò normale. Il medico cominciò a ingessare. Goodman continuò ad aerare il paziente senza staccare gli occhi dal monitor. Il ritmo si manteneva normale. Goodman cercò di registrare gli eventi sul rapporto tra una compressione e l'altra. Quando l'ingessatura fu completata, Goodman si fermò per controllare se il paziente riuscisse a respirare da solo: niente. Goodman ricominciò a comprimere la sacca. Guardò l'orologio. Erano le 12.45. Forse era il caso di somministrare un antidoto del fentanyl per ridurre l'effetto depressivo sulla respirazione. Ma nello stesso tempo occorreva non aumentare troppo le dosi di farmaci. Goodman decise di provare i riflessi delle palpebre. Nessuna reazione. Sollevò una palpebra e notò una cosa molto strana. Di solito il fentanyl, come altri narcotici, causava una forte contrazione delle pupille. Invece quelle di Berman erano enormi. Prese un oftalmoscopio e puntò il raggio di luce nell'occhio del giovane. L'occhio mandò un bagliore rossastro, ma la pupilla non si mosse. Incredulo, Goodman provò una volta, poi un'altra, poi un'altra ancora. Dopo un ultimo tentativo il suo sguardo fissò il vuoto. Disse a voce alta solo due parole: «Mio Dio!» lunedì 23 febbraio ore 12.34
Per Susan Wheeler e i suoi quattro compagni la corsa verso l'ascensore rientrava perfettamente nelle loro idee sull'aspetto eccitante dell'attività ospedaliera. In quel precipitarsi a capofitto c'era qualcosa di intensamente drammatico. I malati che stavano seduti lungo il corridoio e sfogliavano le loro copie del New Yorker in attesa della visita reagirono all'apparizione del gruppo ritirando le gambe verso le rispettive sedie, e fissarono sorpresi quei tizi che correvano tenendosi stretti addosso stetoscopi e altri ferri del mestiere. Tutte le teste si girarono per seguire il passaggio del gruppo. Pensarono tutti che quei medici fossero stati chiamati per un caso d'emergenza, e furono rassicurati da tanto zelo: il Memorial era davvero un magnifico ospedale. Davanti all'ascensore ci fu un momento di confusione. Bellows premette ripetutamente il pulsante di chiamata; ma l'indicatore luminoso faceva capire che l'ascensore se la prendeva comoda, fermandosi a ogni piano per far salire e scendere i pazienti con la solita lentezza. Per i casi urgenti come quello era stato collocato un telefono accanto all'ascensore. Bellows afferrò il ricevitore e chiamò il centralino. Nessuno rispose. Di solito i centralinisti del Memorial ci mettevano almeno cinque minuti. «Che ascensore del cazzo!» Bellows premette il pulsante per la decima volta. Il suo sguardo si spostò nervosamente dall'indicatore del piano alla porta che dava sulle scale. «Le scale,» disse alla fine con decisione. In rapida successione il gruppo infilò la porta e cominciò la lunga discesa dal decimo al secondo. Il tragitto sembrava interminabile. Scendevano a tre gradini alla volta, girando sempre a sinistra; passarono il sesto piano, poi il quinto. Al quarto tutti rallentarono a causa della lampadina rotta, poi si lanciarono di nuovo. Solo Fairweather cominciò a rallentare e Susan lo sorpassò dall'interno. «Non so proprio cosa diavolo corriamo a fare,» ansimò Fairweather. Susan si scostò i capelli dalla faccia. «Io vado dietro agli altri. Voglio vedere che cosa sta succedendo, ma non ci tengo a essere la prima ad arrivare sulla scena.» Fairweather scendeva tranquillo tranquillo, e venne nettamente distaccato dagli altri. Sul pianerottolo del terzo piano Susan sentì che Bellows stava picchiando sulla porta del secondo. Urlò con quanto fiato aveva in gola che gli aprissero. Aprirono. Niles tenne aperta la porta a Susan, e lei entrò nel corridoio. Dopo tutto quello svoltare a sinistra, le girava un po' la testa, ma non si fermò, e corse dietro agli altri.
Adesso la sala rianimazione era illuminata da potenti lampade al neon. Nell'angolo tre infermiere erano intente a praticare un massaggio cardiaco a Nancy Greenly. Bellows, Cartwright, Reid e gli studenti si strinsero attorno al letto. «Fermatevi,» disse Bellows osservando il monitor. Una delle tre infermiere si tirò su. Era inginocchiata sul letto, a destra di Nancy. Il tracciato luminoso sullo schermo del monitor era gravemente irregolare. «Ha delle fibrillazioni da quattro minuti,» spiegò Miss Shergood. «Abbiamo cominciato il massaggio immediatamente.» Bellows si spostò a destra di Nancy, e senza staccare gli occhi dal monitor batté ripetutamente col pugno sullo sterno della ragazza. Susan sussultò al rumore sordo di quei colpi. Il tracciato del monitor era invariato. Bellows cominciò il massaggio cardiaco. «Cartwright, senti la pulsazione all'inguine. Fibrillatore su 400 joule.» Quest'ultimo ordine non era diretto a nessuno in particolare. Provvide una delle infermiere. Susan e gli altri studenti indietreggiarono verso il muro, consci di essere semplici osservatori e di non poter essere di nessun aiuto. «Pulsazioni buone,» annunciò Cartwright tenendo una mano premuta sull'inguine della ragazza. «C'è stato qualche preavviso, o è successo tutto di colpo?» chiese Bellows con qualche difficoltà tra una compressione e l'altra del torace. «Quasi niente,» rispose June Shergood. «Ha cominciato a manifestare un'aumentata eccitabilità cardiaca con qualche battito ventricolare prematuro, con lieve deficienza di conduzione atrioventricolare.» Mostrò a Bellows la striscia di un elettrocardiogramma. «Poi ha avuto una serie improvvisa di extrasistole, e... paf! fibrillazione.» «Cosa le avete dato finora?» «Niente,» rispose Shergood. «Okay. Un flacone di bicarbonato e 10 cc di epinefrina a 1:1000 dentro a una siringa con ago cardiaco.» Un'infermiera iniettò il bicarbonato, un'altra preparò l'epinefrina. «Qualcuno faccia un prelievo di sangue per la determinazione degli elettroliti e del calcio,» disse Bellows, facendosi sostituire da Reid nel massaggio. Mise una mano sotto quella di Cartwright per sentire la pulsazione femorale, e la ritirò soddisfatto. «Da quello che ha scritto Billings nella relazione su questo caso, mi pare che si sia ripetuta la stessa cosa che è successa in sala operatoria e che è stata la causa di tutti i guai della paziente,» osservò Bellows pensieroso.
Prese dalle mani dell'infermiera la siringa con l'epinefrina, e la tenne verticalmente per fare uscire le ultime bolle d'aria. «Non proprio,» ribatté Reid tra una compressione e l'altra. «In sala operatoria non ha avuto fibrillazioni. È chiaro che ha un cuore eccitabile, adesso come allora.» «Bene, basta!» Bellows si spostò sul fianco sinistro di Nancy Greenly, reggendo la siringa con l'ago cardiaco. Reid interruppe i suoi tentativi di rianimazione, e Bellows toccò lo sterno di Nancy. Localizzò il quarto interstizio tra le costole. L'ago della siringa di Bellows era lungo dieci centimetri, e brillava nella luce delle lampade al neon. Bellows lo spinse con decisione dentro al torace della ragazza. Quando tirò indietro lo stantuffo, il sangue arrossò la soluzione di epinefrina. «Ecco fatto.» Con mano rapida iniettò l'epinefrina direttamente nel cuore. A Susan si accapponò la pelle al pensiero dell'ago che attraversava il petto di Nancy Greenly e le penetrava nel cuore. Le sembrò di sentire nel proprio cuore il freddo dell'acciaio. «Continua,» disse Bellows allontanandosi dal letto. Reid riprese il massaggio cardiaco. Cartwright annuì, per comunicare che la pulsazione femorale era forte. «Stark andrà in bestia quando lo verrà a sapere,» esclamò Bellows guardando il monitor, «specialmente dopo la sua tirata sulla vigilanza nei casi del genere. Merda, proprio non me la merito una grana del genere! Se questa qui crepa, sono fottuto!» Susan non credeva ai propri orecchi. Era l'ennesima dimostrazione del fatto che per Bellbws, e probabilmente anche per tutti gli altri, Nancy Greenly non era un essere umano. Sembrava piuttosto la pedina di un gioco complicato, un po' come il rapporto che c'è tra il football e le squadre in campo: il football è importante in quanto serve a far aumentare il vantaggio di una delle due. Nancy Greenly era diventata una sfida tecnologica, una partita da giocare, dove però il risultato finale contava meno delle tattiche impiegate di volta in volta. Susan provò una sensazione ambivalente nei riguardi della medicina clinica. La sua femminilità era un handicap in quell'atmosfera così rigidamente meccanica. Rimpianse la vecchia aula dell'università, le lezioni. La realtà era troppo dura, troppo fredda, troppo distaccata. Ma nello stesso tempo, vedere applicata la conoscenza di base che aveva acquisito era quasi affascinante dal punto di vista scientifico. Ricordando gli esperimenti che aveva fatto con cuori d'animali, capì che cosa significava lo scompen-
so rappresentato dalle fibrillazioni del cuore di Nancy Greenly. Se solo si fosse potuta depolarizzare l'intera massa del cuore, facendo cessare l'attività elettrica, forse il ritmo interno avrebbe potuto riprendere. Susan osservò Bellows piazzare sul petto scoperto di Nancy Greenly gli elettrodi di defibrillazione. Uno era stato posto al centro dello sterno, l'altro a sinistra. Susan notò che Nancy aveva i capezzoli molto pallidi. «Via tutti dal letto!» ordinò Bellows. Il suo pollice destro schiacciò il contatto, e una potente scarica elettrica percorse il petto della ragazza: il corpo si inarcò, le braccia si agitarono. Il tracciato elettronico scomparve dallo schermo del monitor, poi ritornò a descrivere una curva relativamente normale. «Il polso è buono,» disse Cartwright. Reid sospese il massaggio esterno. Il ritmo si mantenne regolare per qualche minuto, poi apparve una contrazione ventricolare prematura; ancora ritmo normale per un po', quindi tre contrazioni ventricolari premature una dietro l'altra. «Tachicardia ventricolare,» sentenziò June Shergood. «Il cuore è ancora facilmente eccitabile. Qui c'è qualcosa di fondamentalmente sbagliato.» «Se sai cos'è, non tenertelo per te,» la rimbeccò Bellows. «Intanto diamole della lidocaina, 50 cc.» Un'infermiera preparò la siringa di lidocaina. Bellows la iniettò nel tubo della fleboclisi. Susan si spostò per veder meglio lo schermo del monitor. Nonostante la lidocaina, il ritmo si deteriorò rapidamente, e ricominciarono le fibrillazioni. Bellows bestemmiò, Reid ricominciò il massaggio, e un'infermiera ricaricò il defibrillatore. «Ma che diavolo sta succedendo?» si chiese Bellows, facendo segno all'infermiera di somministrare altro bicarbonato. Non si aspettava una risposta. La sua domanda era puramente retorica. Un'altra dose di epinefrina, seguita da un ulteriore tentativo di defibrillazione, sembrò riportare il ritmo a un livello abbastanza normale. Ma in breve le contrazioni premature si ripresentarono. «Dev'essere lo stesso problema che hanno avuto in sala operatoria,» ripeté Bellows, osservando le contrazioni premature aumentare di frequenza, fino alla fibrillazione. «Ricomincia, vecchio mio,» disse a Reid. All'1.15 Nancy Greenly era stata defibrillata ventun volte. Dopo ogni scossa il ritmo tornava alla normalità, ma passato un breve intervallo il fenomeno si ripeteva. All'1.16 squillò il telefono. Rispose un'infermiera. Era
il laboratorio che comunicava il risultato dell'analisi degli elettroliti: tutto normale, tranne la percentuale di potassio, che era bassissima, solo 2,8 milliequivalenti per litro. L'infermiera trascrisse i dati e porse il foglio a Bellows. «Perdio, 2,8! Come Cristo è potuto succedere? Ma almeno abbiamo una risposta. Okay. Diamole del potassio. Mettiamo 80 milliequivalenti in quella flebo, a 200 cc ogni ora.» Nancy Greenly ripiombò nella ventiduesima fibrillazione. Reid ricominciò la compressione, mentre Bellows preparava di nuovo il defibrillatore. Fu aggiunto il potassio alla flebo. Susan era totalmente assorbita dal processo di rianimazione. Era così concentrata che non sentì nemmeno l'altoparlante che la chiamava. Da quando erano entrati in sala rianimazione, l'altoparlante aveva continuato a chiamare vari medici, ma le sue parole si erano perse tra gli altri rumori di sottofondo, e lei non ci aveva più badato. Poi il suo nome, seguito dal numero 381, venne ripetuto più volte, e la ragazza lo sentì. Si allontanò di malavoglia dal letto e andò al telefono. Si presentò semplicemente come Susan Wheeler, non come dottoressa Susan Wheeler. «C'è un'emogasanalisi da fare,» comunicò la voce all'apparecchio. «Emogasanalisi?» «Già. Ossigeno, biossido di carbonio, e anche i livelli di acido. Serve subito.» «Come ha avuto il mio nome?» Susan sperava che si trattasse di un errore. «Eseguo gli ordini. Il suo nome è in tabella. Le ripeto che è urgente.» Prima che la ragazza potesse ribattere qualcosa la comunicazione venne interrotta. Del resto, aveva ben poco da dire. Riattaccò e tornò verso gli altri. Bellows aveva di nuovo azionato il defibrillatore. La scossa elettrica fece inarcare il corpo di Nancy, e le mani le vibrarono sul petto. Era una scena drammatica e pietosa. Il monitor segnalò ritmo normale. «Il polso è buono,» annunciò Cartwright. «Probabilmente riuscirà a mantenere meglio il ritmo adesso che le abbiamo dato il potassio,» osservò Bellows, con gli occhi incollati allo schermo. «Dottor Bellows,» disse Susan approfittando della pausa, «mi hanno detto di fare un'emogasanalisi arteriosa a un paziente.» «Buon divertimento,» e Bellows si rivolse a June Shergood. «Dove cazzo sono questi interni? Cristo, quando ne hai bisogno spariscono. Ma pro-
va a portare un tuo paziente in sala operatoria: ti piombano addosso come avvoltoi.» Cartwright e Reid fecero un sorriso di circostanza. «Forse non ha capito, dottor Bellows,» insistette Susan. «Non ho mai fatto un'emogasanalisi, e non so nemmeno come si fa.» Bellows staccò gli occhi dal monitor. «Gesù Cristo, come se non avessi già abbastanza casini! È come fare un prelievo di sangue venoso, solo che lo si fa dall'arteria. Ma cosa diavolo ha imparato a scuola?» Susan arrossì. «Cartwright, vai tu con la signorina e...» «Ho una tiroidectomia col dottor Jacobs tra cinque minuti,» rispose Cartwright guardando l'orologio. «Merda. E va bene, dottoressa Wheeler, la accompagnerò e le mostrerò come si fa un'emogasanalisi. Ma solo dopo che qui la situazione sarà un po' più tranquilla. Sembra che le cose stiano migliorando. Reid, manda su un altro campione di sangue per una analisi del potassio. Forse ce l'abbiamo fatta.» Mentre aspettava, Susan rifletté sull'ultima osservazione di Bellows. Aveva usato la prima persona plurale, invece di dire che Nancy Greenly se la stava cavando. Non c'era da meravigliarsi, pensò; era un altro esempio di spersonalizzazione. Le venne in mente il professor Stark. In fondo, neanche lui sembrava curarsi molto dei pronomi di Bellows. lunedì 23 febbraio ore 13.35 «Giornate come questa sono frequenti,» disse Bellows tenendo aperta la porta a Susan. «Mangiare è un lusso, e persino andare a farsi una sana...» Bellows si fermò. Stavano camminando lungo il corridoio, a testa bassa. Bellows cercò una parola, poi cambiò la frase incompleta. «Diventa difficile persino andare al gabinetto.» «Voleva dire 'andare a farsi una sana cagata', vero?» Bellows guardò Susan, che gli fece un mezzo sorriso. «Non si faccia degli scrupoli.» Bellows continuò a studiare la sua faccia, che lei mantenne accuratamente impassibile. Si diressero in silenzio al reparto chirurgia. «Come le dicevo, il prelievo arterioso è quasi uguale a quello venoso.» Bellows cambiò argomento. Si accorgeva che quella ragazza lo innervosiva, e cercava di riprendere il controllo della situazione. «Si isola l'arteria, brachiale, radiale o femorale che sia, con l'indice e il medio, così...» Solle-
vò la mano sinistra e fece il gesto di palpare l'arteria. «Quando si ha l'arteria tra le dita, allora si può sentire il polso. Poi basta guidare dentro l'ago. Il metodo migliore è lasciare che la siringa si riempia per la semplice pressione arteriosa. In questo modo si evitano le bolle d'aria, che potrebbero viziare i risultati dell'analisi.» Bellows aprì la porta della sala postoperatoria, continuando a mostrare a gesti la tecnica del prelievo. «Due cose importanti: usare una siringa eparinizzata per evitare che il sangue si coaguli, e mantenere la pressione per cinque minuti a prelievo finito. Altrimenti il paziente potrebbe avere un brutto ematoma.» La sala postoperatoria sembrò a Susan quasi uguale a quella di rianimazione, solo più luminosa, più rumorosa, più affollata. C'erano quindici o venti spazi per i letti, ciascuno con un apparato completo inserito nel muro, comprendente monitor e prese per il gas e l'aspirazione. La maggior parte degli spazi erano occupati da alti letti con le sponde laterali tirate su. In ogni letto c'era un paziente con una fasciatura in qualche parte del corpo. C'erano grappoli di flaconi per fleboclisi appesi ad aste metalliche, come frutti ripugnanti su alberi senza foglie. Era un continuo, caotico entrare e uscire di lettini a rotelle. La gente che lavorava lì sembrava tranquilla. Si sentiva persino qualche risatina. Ma c'erano anche gemiti penosi; un bambino in una culla strillava disperatamente. Davanti ad alcuni letti gruppi di medici e infermiere erano occupati a regolare la miriade di valvole e tubi. Parecchi medici avevano il camice stropicciato e macchiato di sangue e di ogni sorta di secrezioni, altri invece bianchissimo e inamidato. Era un posto pieno di attività, di voci, di movimento. Bellows era ansioso di finire in fretta quel lavoro, e si avvicinò al grande tavolo in mezzo alla sala, dove gli venne consegnato un vassoio con una siringa eparinizzata e gli fu indicato un letto a sinistra, dalla parte opposta all'entrata. «Magari questa volta lo faccio io il prelievo, per mostrarle come si fa,» disse. Susan annuì e si avvicinarono al letto. Non riuscirono a vedere il paziente a causa di tutta la gente stretta attorno al letto. C'erano una folla di infermiere a sinistra, due medici ai piedi del letto, e un negro alto, con un lungo camice bianco, sulla destra. Quando si avvicinarono al letto, Bellows e Susan capirono che quest'ultimo aveva appena finito di parlare, anche se ora stava regolando la pressione del respiratore. Susan avvertì istantaneamente una atmosfera di tensione. I due medici ai piedi del letto erano preoccupatissimi. Il più basso, il dottor Goodman, stava
tremando visibilmente; l'altro, il dottor Spallek, stringeva i denti per la rabbia e respirava rumorosamente dalle narici, come se fosse sul punto di saltare addosso al primo che gli capitava a tiro. «Ma ci dev'essere una qualche spiegazione!» ringhiò Spallek furibondo. Afferrò la mascherina che gli stava ancora appesa al collo e se la strappò via, gettandola per terra. «Non mi sembra di chiedere troppo!» sibilò prima di voltarsi e andarsene. Urtò contro Bellows, che riuscì per miracolo a tenere in equilibrio il vassoio. Spallek non disse una parola di scusa. Attraversò la sala e spalancò violentemente la porta. Bellows si portò alla sinistra del letto e posò il vassoio. Susan avanzò con cautela, osservando l'espressione dei presenti. Il medico negro si era raddrizzato e seguiva con gli occhi l'uscita di Spallek. Susan restò impressionata dall'imponenza della sua figura. La sua pelle liscia e scura luccicava, e la faccia esprimeva una curiosa combinazione di cultura e violenza repressa; i suoi movimenti erano calmi, quasi volutamente rallentati. Il negro staccò gli occhi dal dottor Spallek, li fermò di sfuggita su Susan, quindi ritornò al respiratore accanto al letto. Se l'aveva notata, non l'aveva certo dato a vedere. «Che cos'hai usato come anestetico preoperatorio, Norman?» chiese Harris, con perfetta pronuncia. Aveva un accento del Texas, ma colto. «Innovar,» rispose Goodman, con la voce alterata dalla tensione. Susan si mise ai piedi del letto, dove prima c'era Spallek. Studiò l'uomo dall'aria distrutta che le stava di fianco. Era pallido, con la fronte e i capelli bagnati di sudore. Fissava il malato con gli occhi sbarrati. Susan osservò Bellows che si stava accingendo al prelievo; poi guardò il malato in faccia, e lo riconobbe immediatamente. Era Berman! Il suo volto, che quando si erano incontrati nella stanza 503 solo novanta minuti prima era bello abbronzato, adesso era di un colore grigiastro. La pelle era tesa sopra gli zigomi. Un tubo endotracheale gli usciva dalla parte sinistra della bocca, e il labbro inferiore era incrostato di bava e muco. Aveva gli occhi chiusi, ma non completamente. La gamba destra era imprigionata in un'enorme ingessatura. «Sta bene?» balbettò Susan guardando prima Harris e poi Goodman. «Che cos'è successo?» Parlò spinta dall'emozione, senza pensare; aveva capito che c'era qualcosa di storto, e aveva reagito impulsivamente. Bellows restò sorpreso da quell'improvvisa domanda e la guardò. Harris si voltò lentamente verso Susan; Goodman non girò la testa.
«È tutto assolutamente regolare,» disse Harris con un accento che faceva supporre un suo passato soggiorno a Oxford. «La pressione sanguigna, il polso, la temperatura sono perfettamente normali. Però sembra che gli sia piaciuto talmente il pisolino dell'anestesia che ha deciso di non svegliarsi.» «Oh no, un altro!» Bellows era visibilmente preoccupato di doversi sobbarcare un altro problema come quello della Greenly. «Com'è l'elettroencefalogramma?» «Sarà lei il primo a saperlo,» replicò Harris con una punta di sarcasmo. «L'abbiamo richiesto.» Sul momento Susan, sopraffatta dall'emozione, non capì. Ma alla fine si rese conto del significato delle parole di Harris. «Elettroencefalogramma?» chiese angosciata. «Vuol dire che è come la paziente giù...» «Di che paziente si tratta?» chiese Harris prendendo il rapporto dell'anestesia. «Quel raschiamento fottuto,» rispose Bellows. «Otto giorni fa, quella ragazza di ventitré anni.» «Be', spero proprio di no, ma comincia a sembrare una cosa del genere.» «Che anestetico è stato usato?» Bellows sollevò una palpebra di Berman e osservò la pupilla enormemente dilatata. «Anestesia con protossido,» spiegò Harris. «Alla ragazza è stato dato l'halothane. Se il problema è clinicamente identico, la causa non è l'anestetico.» Harris alzò gli occhi dal rapporto e guardò Goodman. «Perché hai dato questo cc extra di Innovar verso la fine, Norman?» Goodman non rispose subito. Harris ripeté il suo nome. «Sembrava che il paziente si stesse svegliando,» rispose Goodman uscendo di colpo dalla sua trance. «Ma perché proprio l'Innovar? Non sarebbe stato più prudente usare il fentanyl?» «Forse sì. Avrei dovuto usare solo il fentanyl. Ma l'Innovar era lì a portata di mano, e poi gliene ho dato appena un cc.» «Non si può fare qualcosa?» chiese Susan con la disperazione nella voce. Nella sua mente le immagini di Nancy Greenly si mescolavano al ricordo della conversazione con Berman. Rivedeva distintamente la sua vitalità, in terribile contrasto con la figura bianca, cerea, inanimata, che adesso le stava di fronte. «Tutto quello che c'era da fare è stato fatto,» affermò Harris con decisione, riconsegnando a Goodman il verbale. «Tutto quello che possiamo
fare adesso è aspettare di vedere se si riattiva qualche tipo di funzione cerebrale. Le pupille sono molto dilatate e non reagiscono alla luce. Non è un buon segno, è il meno che si possa dire. Probabilmente significa che c'è stata un'estesa necrosi cerebrale.» Susan si sentì invadere da un profondo senso di nausea. Rabbrividì. Ma la cosa peggiore era essere così disperatamente impotente. «Questo è troppo!» sbottò di colpo, con la voce rotta. «Un uomo sano e normale con un piccolo problema periferico che diventa un... un vegetale. Dio, non si può andare avanti così! Due giovani in sole due settimane. Perché il primario anestesista non chiude il reparto? Ci dev'essere qualcosa che non funziona. È assurdo permettere...» Quando Susan iniziò la sua tirata, Robert Harris cominciò a stringere gli occhi; poi la interruppe inviperito. Bellows era rimasto a bocca spalancata per lo stupore. «Si dà il caso che sia io il primario anestesista. Si può sapere chi sarebbe lei?» Susan fece per rispondere, ma Bellows si intromise nervosamente. «La signorina è Susan Wheeler, professor Harris, una studentessa del terzo anno di medicina che sta facendo pratica e... ehm... siamo qui solo per fare questo prelievo di sangue. Lo facciamo in un attimo.» Bellows ricominciò a preparare il polso di Berman, strofinandolo energicamente con un batuffolo imbevuto di Betadine. «Miss Wheeler,» riprese Harris in tono condiscendente, «la sua emotività è fuori posto, e sinceramente non è di nessuna utilità pratica. Quello che ci serve in questi casi è stabilire un fattore causale. Ho appena spiegato al dottor Bellows che l'anestetico è stato diverso nei due casi. L'anestesia è stata eseguita alla perfezione, a parte qualche particolare del tutto secondario. Insomma, è ovvio che in entrambi i casi si è trattato di imprevedibili idiosincrasie alla combinazione dell'anestesia con l'intervento chirurgico. Occorre stabilire, studiando questi pazienti, se c'è un mezzo per prevenire incidenti del genere. Condannare l'anestesia in blocco, e privare l'umanità degli interventi chirurgici di cui essa ha bisogno, sarebbe assai peggio che accettare un certo rischio minimo. Quello che...» «Due casi in otto giorni non si possono definire un rischio minimo,» ribatté polemicamente Susan. Bellows cercò di attirare l'attenzione della ragazza per farla smettere, ma lei teneva gli occhi fissi su Harris in atteggiamento di sfida. «Quanti casi del genere ci sono stati nell'ultimo anno?» chiese Susan.
Harris scrutò per qualche secondo la sua faccia prima di rispondere. «Mi sembra che questa conversazione stia diventando un interrogatorio, o sbaglio? Una cosa intollerabile e inutile.» Senza aspettare la risposta, le passò davanti e si diresse all'uscita. Susan si voltò a guardarlo. Bellows la afferrò per un braccio per cercare di farla star zitta. La ragazza si liberò e disse ad alta voce: «Non vorrei sembrare impertinente, ma mi sembra proprio che qualcuno debba fare delle domande.» Harris si fermò di colpo a tre metri da lei e si voltò lentamente. Bellows chiuse gli occhi, come se si aspettasse di ricevere un colpo sulla testa. «E naturalmente questo qualcuno sarebbe una studentessa di medicina! Per sua informazione, qualora lei avesse l'intenzione di fare la piantagrane, ci sono stati sei casi simili a questo negli ultimi anni. Adesso, col suo permesso, vorrei tornare al lavoro.» Harris si girò di nuovo verso la porta. «Immagino che la sua emotività serva a scopi pratici!» gridò Susan. Bellows si aggrappò alla sponda del letto per non cadere. Harris si fermò per la seconda volta, senza voltarsi; poi anche lui spalancò con violenza la porta. Bellows si portò una mano alla fronte. «Cristo, Susan, vuoi il suicidio professionale?» La afferrò per una spalla e la costrinse a girarsi. «Quello era Robert Harris, il primario anestesista. Cristo!» Poi ricominciò per la terza volta a preparare il prelievo, con movimenti rapidi e nervosi. «Sai, il solo fatto che io fossi qui con te mentre facevi la tua scena mi mette in cattiva luce. Merda, Susan, perché hai voluto farlo arrabbiare a tutti i costi?» Palpò l'arteria radiale e piantò l'ago nel polso di Berman. «Devo parlarne a Stark prima che venga a sapere la faccenda per vie traverse. Insomma, Susan, che ragione c'era di farlo andare in bestia? Non hai proprio idea di come vadano le cose negli ospedali.» Susan osservò Bellows fare il prelievo, evitando di guardare la faccia di Berman. La siringa spontaneamente cominciò a riempirsi di sangue, sangue rosso vivo. «È andato in bestia perché voleva andare in bestia. Non credo di essere stata impertinente, almeno fino alla mia ultima domanda. E quella se la meritava.» Bellows non rispose. «In ogni caso non avevo nessuna intenzione di farlo arrabbiare... Mah, forse in un certo senso sì.» Tacque per qualche istante. «Vede, ho parlato con quest'uomo appena un'ora fa. È stato per lui che sono uscita dalla sala di rianimazione. È terribile: era un es-
sere umano normalissimo, e... io... abbiamo conversato, e mi era piaciuto molto, era un tipo molto simpatico. È per questo che sono così arrabbiata, o così triste, tutte e due le cose insieme. E l'atteggiamento di Harris non ha fatto che peggiorare tutto.» Bellows non le rispose subito. Cercò nel vassoio un cappuccio per l'ago. «Adesso basta, comunque,» concluse. «Non voglio più sentir niente. Tieni, reggimi la siringa.» Le porse la siringa e preparò il contenitore del ghiaccio. «Susan, temo che per colpa tua avrò un sacco di grane. Non hai idea di quanto un tipo come Harris possa renderti la vita difficile. Ecco, premi qui.» «Mark?» esclamò la ragazza, premendo il polso di Berman ma guardando Bellows dritto negli occhi. «Non ti dispiace se ti dò del tu, vero?» Il medico prese la siringa e la pose nel bagno di ghiaccio. «A dire la verità, non ne sono sicuro.» «Be', comunque, Mark, devi ammettere che sei casi e forse sette se Berman fa la fine di Nancy Greenly, sono un bel numero di decerebrati, o di vegetali, come li chiamate voi.» «Ma qui si fanno un sacco di operazioni, Susan. Più di cento al giorno, circa venticinquemila all'anno. Questo significa che i sei casi equivalgono alla percentuale dello 0,02%. È il rischio normale dell'anestesia.» «Sarà così ma questi sei casi rappresentano solo uno dei tipi di possibile complicazione, non il rischio dell'anestesia in generale. È una percentuale troppo alta, Mark. Tu stesso stamattina hai detto che un caso come Nancy Greenly poteva accadere solo una volta su centomila. Adesso stai cercando di convincermi che sei casi su venticinquemila sono una cifra normale. Sono balle. Sono troppi, anche se tu o Harris o gli altri non volete ammetterlo. Voglio dire, tu per esempio saresti disposto a subire anche solo una piccola operazione sapendo che c'è questo rischio? Sai, più ci penso, più questa faccenda mi preoccupa.» «E allora non pensarci. Su, dobbiamo muoverci.» «Aspetta un minuto. Voglio fare una cosa.» «Non mi interessa.» «Voglio studiare il problema. Sei casi. Dovrebbero bastare per giungere a conclusioni ragionevolmente generali. Devo fare la tesi del terzo anno, e voglio farla su questo problema. Se non altro per sdebitarmi col povero Sean.» «Oh, per l'amor del cielo, Susan, non facciamo i melodrammatici.» «Non sono melodrammatica. Sto solo rispondendo a una sfida. Oggi Se-
an ha lanciato una sfida alla mia immagine di medico, e io ci sono cascata. Non sono stata né distaccata, né professionale. Ho reagito come una bambina. Adesso mi è stata lanciata un'altra sfida, ma stavolta intellettualmente, con una questione molto seria. Forse posso rispondere in modo migliore, forse questi casi rappresentano una nuova sintomatologia, o una nuova malattia. Forse rappresentano una nuova complicazione dell'anestesia, dovuta a una predisposizione di queste persone causata da qualche vecchia malattia.» «Fa' come vuoi. Però, a essere sincero, mi sembra un modo maledettamente complicato di risolvere un tuo problema emotivo o psicologico. Tanto più che credo che perderai il tuo tempo. Ti ho già detto che il dottor Billing, l'anestesista di Nancy Greenly, ha studiato il caso dall'a alla zeta. Ed è un tipo in gamba, te l'assicuro. Ha detto che è assolutamente inspiegabile.» «Comincerò con la tua paziente in rianimazione.» «Ehi, un momento, carina! Chiariamo bene un punto: dopo quello che è appena successo con Harris, non voglio essere coinvolto, in nessun modo. Capito? Se sei così matta da fare quello che hai in mente, sono affari tuoi.» «Mark, sei un mollusco.» «Considero semplicemente la realtà dell'ospedale per quella che è, e intendo continuare a fare il chirurgo.» Susan lo fissò. «Questo è il tuo difetto più tragico.» lunedì 23 febbraio ore 13.53 Il self-service del Memorial era identico a quello di tutti gli altri ospedali. Le pareti erano di un color giallo grigiastro tendente al senape; sul soffitto pannelli antiacustici di seconda mano. Il banco di servizio era a forma di elle, con una pila di vassoi scuri e macchiati a un'estremità. L'eccellenza dei servizi clinici del Memorial non si estendeva al cibo. La prima cosa che vedevano gli sventurati clienti entrando nel locale era una catasta di piatti di lattuga, fresca come un tovagliolo di carta bagnato. Sul bancone erano allineati i piatti caldi, un mistero autentico, profondo: avevano tutti un sapore talmente simile uno all'altro che era impossibile distinguerli. Solo le carote e il granoturco si differenziavano dagli altri; le carote avevano sempre un sapore, sgradevole, e il granoturco non ne aveva affatto.
Alle due meno un quarto del pomeriggio il self-service era quasi vuoto. Le poche persone sedute ai tavoli erano inservienti della cucina, che tiravano il fiato dopo aver lavorato come matti a preparare i pasti per i degenti. Anche se il cibo era pessimo, il self era molto frequentato dai dipendenti dell'ospedale. La maggior parte di essi avevano infatti solo mezz'ora di intervallo, e non ce la facevano ad andare da un'altra parte. Susan prese un piatto d'insalata, ma dopo aver dato un'occhiata alla lattuga molliccia lo rimise giù. Bellows si avviò direttamente alla zona dei sandwich e ne prese uno. «Un sandwich col tonno è il male minore,» spiegò a Susan. Dopo aver dato un'occhiata ai piatti caldi, si avvicinò a Bellows e seguendone il consiglio prese un sandwich col tonno anche lei. Alla cassa non si vedeva anima viva. «Vieni,» disse Mark. «Non abbiamo molto tempo.» Sentendosi un po' in colpa per non aver pagato, Susan lo seguì e si sedette a un tavolo. Il sandwich era repellente: il tonno era pieno d'acqua, e anche il pane era insipido e bagnato. Ma era pur sempre cibo, e Susan aveva fame. «Abbiamo una lezione alle due,» continuò Bellows ingoiando un enorme boccone di tonno. «Quindi mangia in fretta.» «Mark?» «Sì?» fece lui buttando giù in un sorso solo metà del suo bicchiere di latte. Era un mangiatore superveloce. «Mark, non ci resterai male se salterò la prima lezione di chirurgia, vero?» chiese Susan sbattendo le ciglia. Bellows, che si stava portando alla bocca la seconda metà del suo sandwich, fermò la mano a mezz'aria, e guardò la ragazza. Gli venne il dubbio che stesse facendogli il filo, ma scartò subito questo pensiero. «Restarci male? No, perché me lo chiedi?» Aveva il forte sospetto che lo stesse manipolando. «Be', è che non credo di essere in grado di starmene seduta a sentire una conferenza, in questo momento,» rispose lei aprendo il suo contenitore di latte. «Sono un po' sottosopra per questa faccenda di Berman... faccenda non è la parola giusta. Sono sconvolta, non me la sento di mettermi ad ascoltare una lezione. Se faccio qualcosa forse starò un po' meglio. Pensavo di andare in biblioteca a dare un'occhiata a qualche pubblicazione sulle complicazioni dell'anestesia. Così potrò iniziare la mia piccola indagine, e riordinare in testa tutto quello che è successo stamattina.» «Vuoi che ne parliamo?» chiese Mark.
«No, grazie, non ce n'è bisogno.» Susan restò sorpresa e toccata da quell'improvvisa cordialità. «La lezione non è fondamentale. È una di quelle barbe lette da un professore emerito. Dopo pensavo di portarvi a far la conoscenza dei pazienti in corsia.» «Mark?» «Che c'è?» «Grazie.» Susan si alzò, gli sorrise e uscì. Bellows si mise in bocca la seconda metà del sandwich; la masticò un po' a destra, poi la passò dalla parte sinistra. Non capiva bene di che cosa Susan l'avesse ringraziato. La osservò attraversare il self-service e depositare il vassoio nella rastrelliera. Prima di andarsene aveva preso il resto del proprio latte e del sandwich. Giunta alla porta si voltò e lo salutò con la mano. Bellows ricambiò il saluto, ma non fece in tempo ad alzare la mano che lei era già sparita. Si guardò in giro lievemente imbarazzato, chiedendosi se qualcuno l'avesse notato con la mano a mezz'aria. La riabbassò subito sulla tavola, e pensò a Susan. Doveva ammettere che l'attraeva davvero; gli faceva ricordare quello che aveva provato agli inizi della carriera: un entusiasmo, un'impazienza continua. Per un attimo gli passò per la testa l'idea di mettersi a corteggiarla, ma si rimproverò subito. Cose da ragazzino! Buttò giù in un sorso enorme quello che restava del latte e mise il vassoio sul carrello delle stoviglie sporche. Intanto pensava se avrebbe avuto il coraggio di chiederle di uscire con lui. C'erano due problemi. Uno era rappresentato dalla sua posizione di interno e da Stark. Non aveva idea di come il capo avrebbe reagito al fatto che uno dei suoi medici uscisse con una studentessa. Non sapeva bene se fosse una preoccupazione razionale, sapeva però benissimo che Stark favoriva gli interni sposati. E poi c'erano poche speranze che una sua relazione con una studentessa restasse segreta. Stark la avrebbe scoperta, e ciò poteva danneggiarlo. Il secondo problema era Susan stessa. Indubbiamente era un tipo sveglio. Ma sarebbe stata anche calda? Forse era troppo impegnata, troppo intellettuale, o troppo ambiziosa. E l'ultima cosa che Bellows desiderava era buttar via il proprio tempo libero, già scarso, con una troietta frigida e castrante. Un'altra cosa, poi. Sarebbe riuscito a cavarsela con una ragazza magari calda e desiderabile, ma che lavorava nel suo stesso reparto? Era uscito con qualche infermiera, mai con una dottoressa, o una futura tale. Era un'idea che in un certo senso
lo turbava. Uscendo dal self-service, Susan senti per la prima volta in quella giornata di avere le idee chiare. Anche se non sapeva ancora bene come avrebbe indagato sul mistero del coma capiva che questa era una sfida intellettuale a cui poteva rispondere applicando il metodo e il ragionamento scientifici. Pensò per la prima volta che forse il biennio le era servito a qualcosa. Le sue fonti d'informazione sarebbero state le pubblicazioni della biblioteca e le cartelle dei pazienti, in particolare quelle di Berman e della Greenly. Vicino al self-service c'era il negozio di articoli da regalo dell'ospedale. Era un posto carino, popolato e gestito da un assortimento di distinte signore di mezz'età, con graziosi grembiuli rosa. Le vetrine del negozio, che davano sul corridoio principale dell'ospedale, erano rifinite e incorniciate in legno, e facevano pensare a un cottage piovuto lì dal cielo. Susan entrò e trovò rapidamente quello che cercava: un quadernetto nero. Pagò, se l'infilò in una tasca del camice e si incamminò verso la sala rianimazione. Il suo punto di partenza sarebbe stato il caso di Nancy Greenly. La sala era tornata silenziosa, come durante la visita di Susan prima dell'arresto cardiaco. L'illuminazione era stata riabbassata. Nell'attimo in cui la pesante porta si chiuse alle sue spalle, Susan sentì ancora la stessa ansia di prima, la stessa impressione di inadeguatezza, di impotenza. Le venne di nuovo voglia di uscire immediatamente, prima che succedesse qualcosa o che qualcuno le facesse la più semplice delle domande. Ma si fece forza. Adesso aveva almeno uno scopo, qualcosa di preciso da fare, e ciò le dava un po' più di sicurezza. Voleva la scheda di Nancy Greenly. Guardando a sinistra, notò che non c'era nessuno vicino al letto della ragazza. Sembrava che il livello di potassio fosse stato rettificato, e il cuore batteva di nuovo normalmente. Finita la crisi, Nancy Greenly era stata dimenticata e abbandonata al suo nulla infinito. Macchine volenterose avevano ripreso a vegliare sulle sue funzioni vegetali. Trascinata da una curiosità irresistibile, Susan si avvicinò al letto. Dovette lottare per controllare le proprie emozioni e la propria identificazione irrazionale con quella ragazza. Osservava Nancy Greenly e faticava ad accettare il fatto di aver davanti un guscio senza cervello anziché un essere umano addormentato. Avrebbe voluto scuoterle una spalla e svegliarla per poterle parlare. Invece allungò una mano e le sollevò il polso. Fu colpita dal pallore della mano flaccida, inanimata. Nancy sembrava completamente paralizzata.
Susan strinse la mano di Nancy e la piegò lentamente all'insù. Nessuna resistenza. Allora la piegò al massimo con le dita che quasi toccavano l'avambraccio. Susan avvertì nettamente una resistenza: un secondo, ma fu chiarissimo. Provò con l'altro polso, e ottenne lo stesso risultato. Dunque Nancy Greenly non era del tutto passiva. Susan provò un senso di soddisfazione, la gioia istintiva di una scoperta concreta. Trovò un martelletto per i riflessi dei tendini. Era di gomma rossa e dura, col manico d'acciaio inossidabile. Ne aveva usato uno su se stessa e sui suoi compagni del corso di diagnostica, mai però su un paziente. Cercò di suscitare un riflesso nel polso sinistro. Niente. Ma Susan non sapeva bene su quali punti battere. Sollevò il lenzuolo e batté sotto il ginocchio. Ancora niente. Ma a neuroanatomia aveva imparato che il riflesso che stava cercando era provocato da un improvviso stiramento del tendine. Così diede uno strattone al ginocchio di Nancy, e batté di nuovo. Il muscolo della coscia si contrasse impercettibilmente. Susan tentò di nuovo, provocando solo una lievissima contrazione del muscolo flaccido. Adesso la gamba sinistra. Stesso risultato. Nancy Greenly aveva riflessi deboli ma definiti e simmetrici. Susan cercò di ricordarsi altre parti dell'esame di neurologia. Le venne in mente il test per la determinazione del livello di coscienza. Con Nancy Greenly, l'unico test possibile era quello della reazione al dolore. Provò a pizzicarle il tendine, ma per quanto forte stringesse non ci fu reazione. Pensò che forse la sensazione di dolore sarebbe stata più potente se fosse stata più vicina al cervello; diede un pizzicotto alla coscia di Nancy Greenly, e fece un salto indietro terrorizzata. Forse la ragazza stava per alzarsi, perché il suo corpo si irrigidì, e le braccia si piegarono in una contrazione di dolore; mosse la mascella da una parte e dall'altra come se si stesse svegliando. Ma in pochi secondi fu tutto finito: Nancy ritornò completamente immobile. Con gli occhi sbarrati Susan era indietreggiata fino al muro. Non aveva idea di cosa avesse fatto, o di come ci fosse riuscita. Ma capì subito che stava giocando con qualcosa che era molto più grande delle proprie capacità e cognizioni. Nancy Greenly aveva avuto un attacco, quale non lo sapeva, e lei fu felice che fosse passato subito. Si guardò attorno per vedere se qualcuno la stesse osservando. Si accorse con sollievo che nessuno le badava, e che il monitor cardiaco continuava col suo ritmo regolare. Non ci furono contrazioni premature. Susan aveva la sgradevole sensazione di fare qualcosa di sbagliato, di vietato, e di essere sul punto di ricevere una meritata punizione, magari sotto forma di un nuovo arresto cardiaco di Nancy. Decise che non avrebbe
fatto ulteriori tentativi di esaminare la paziente prima di aver studiato seriamente il problema. Sforzandosi di assumere un'aria disinvolta, si avvicinò al tavolo centrale. Le cartelle erano in un contenitore circolare di acciaio cromato. Susan cominciò a far ruotare lo schedario, che cigolò orrendamente; allora lo girò più adagio, ma il cigolio continuò. «Posso aiutarla?» le chiese June Shergood da dietro le spalle. Susan ritirò di colpo la mano come se gliel'avessero sorpresa dentro il barattolo della marmellata. «Volevo solo la cartella» rispose aspettandosi una lavata di capo dall'infermiera. «Quale cartella?» chiese June Shergood, in tono amichevole. «Quella di Nancy Greenly. Volevo cominciare a farmi un'idea del suo caso, per poter dare una mano.» June Shergood fece scorrere le cartelle, ed estrasse quella di Nancy Greenly. «Credo che lì dentro riuscirà a concentrarsi meglio,» sorrise mostrandole una porta. Susan la ringraziò felice di avere un'occasione di appartarsi. La porta indicatale dall'infermiera dava su una stanzetta con le pareti coperte da armadi a vetri pieni di medicine. Tutt'intorno correva un ripiano che fungeva da tavolo. Sul muro di destra c'era un lavandino, nell'angolo a sinistra l'onnipresente macchina del caffè. Susan si sedette con la cartella davanti. Anche se Nancy Greenly era ricoverata da meno di due settimane, il suo dossier era voluminoso. Era normale per un paziente della sala rianimazione. L'osservazione costante e complessiva generava mucchi di carte. Tirò fuori quello che restava del latte e del sandwich, e si versò una tazza di caffè. Aprì il suo quaderno e si mise al lavoro. Non era abituata alle cartelle dei pazienti, e ci mise qualche minuto per capire com'erano impostate. Prima venivano i fogli con le prescrizioni, seguiti dai grafici delle funzioni vitali della paziente; poi l'anamnesi e i risultati della visita d'accettazione. Gli altri fogli erano i rapporti dell'operazione e dell'anestesia, quelli delle infermiere, e un numero sterminato di analisi di laboratorio, radiografie, test. Poiché non sapeva bene che cosa cercare, Susan decise di prendere molti appunti. Era difficile stabilire fin dall'inizio quali informazioni si sarebbero rivelate importanti. Cominciò col nome, l'età, il sesso, la razza; quindi ricopiò la scarna storia medica, da cui risultava che Nancy era sempre stata bene. C'erano riferimenti alle vicende della famiglia, compreso un accenno alla nonna che aveva avuto un colpo. La sola malattia registrata nel passato
di Nancy Greenly era una mononucleosi benigna all'età di 18 anni. Le analisi dei sistemi cardiovascolare e respiratorio erano normali. Susan ricopiò i risultati delle analisi di laboratorio effettuate prima dell'operazione: anche il sangue e l'urina erano normali. Ricopiò i risultati del test di gravidanza — negativo — di schermografie, di elettrocardiogrammi e di numerose analisi citologiche, sul gruppo sanguigno e sulla coagulazione. C'erano anche le analisi chimiche. Tutti i dati fornivano un quadro di assoluta normalità. Susan mangiò il suo pezzo di sandwich e buttò giù un sorso di latte. Sfogliò i rapporti dell'intervento chirurgico, in particolare quello dell'anestesia. Ricopiò il trattamento preoperatorio: Demerol e Phenergan somministrati alle 6.45 da un'infermiera del Beard 5; il tubo endotracheale era un 8: 2 grammi di Pentothal per endovena alle 7.24; alle 7.25 iniziata la somministrazione di halothane, protossido d'azoto e ossigeno; la concentrazione di halothane nel vaporizzatore Fluotec a compensazione di temperatura era stata del 2%; dopo qualche minuto era stata ridotta all'I%. Il flusso di protossido d'azoto e di ossigeno era stato rispettivamente di 3 e 2 litri al minuto; per il rilassamento dei muscoli erano state iniettate due dosi — alle 7.26 e alle 7.40 — di 2 cc di succinilcolina allo 0,2%. Susan notò che la pressione del sangue, stabilizzatasi attorno a 105/75, alle 7.48 era caduta. A quel punto la percentuale di halothane era stata ridotta allo 0,5%, e il flusso di protossido d'azoto e di ossigeno mantenuto sui valori precedenti. La pressione era risalita a 100/60. Ma di lì in poi il rapporto diventava difficile da decifrare. Per quanto ne capiva Susan, la pressione e il polso erano rimasti a 100/60 e 70. C'erano state però delle variazioni nel ritmo cardiaco, ma il dottor Billing non le aveva descritte. Susan constatò che Nancy Greenly era uscita dalla sala operatoria alle 8.51, ed era stata portata in sala postoperatoria. Lì le era stato applicato uno stimolatore nervoso Block Ade a onda quadra ed era stato effettuato un test sul funzionamento dei nervi periferici della paziente. All'inizio avevano avuto il sospetto che non fosse riuscita a metabolizzare la dose supplementare di succinilcolina; ma era stata riscontrata funzionalità in entrambi i nervi ulnari, il che significava indiscutibilmente che il problema era nel cervello. Susan fece uno schizzo del diagramma dell'anestesia.
Nell'ora seguente erano stati somministrati a Nancy Greenly 4 mg di Narcan 4, per neutralizzare un'eventuale ipersensibilità da idiosincrasia al narcotico preoperatorio. Reazione negativa. Alle 9.15 le erano stati dati 2,5 mg di neostigmina per accertare se la paralisi fosse dovuta a un blocco competitivo, nonostante il risultato del test dello stimolatore nervoso. Le erano state somministrate anche due unità di plasma fresco con azione di colinesterasi, con l'intento di eliminare ogni residuo di succinilcolina. I due interventi avevano provocato una lieve contrazione di alcuni muscoli, ma non una vera reazione. Il rapporto dell'anestesia terminava con questa concisa affermazione del dottor Billing: «Ritardo nella ripresa di conoscenza postanestesia. Causa ignota». Il foglio successivo era il rapporto chirurgico dettato dal dottor Major. DATA: 14 febbraio 1976. DIAGNOSI PREOPERAT.: emorragia da disfunzione uterina. DIAGNOSI POSTOPERAT.: idem. CHIRURGO: dott. Major. ANESTESIA: generale endotracheale a base di halothane. PERDITA DI SANGUE STIMATA: 500 CC. COMPLICAZIONI: ritardo nella ripresa di conoscenza al termine dell'anestesia. TERAPIA: dopo l'adeguata medicazione preoperatoria (Demerol e Phenergan) la paziente è stata portata in saia operatoria e collegata al monitor cardiaco. È stata posta sotto anestesia generale tramite un tubo endotracheale. Il perineo è stato preparato come di norma. Un esame bimanuale ha rivelato ovaie normali e un utero anteroflesso. Uno specolo Pederson n. 4 è
stato inserito nella vagina. Dalla volta vaginale sono stati aspirati grumi di sangue. È stata ispezionata la cervice, che è apparsa normale. L'utero è stato sondato per 5 cm con una sonda Simpson. La dilatazione cervicale è stata portata a termine facilmente e con trauma minimo. I dilatatori cervicali dal n. 1 al n. 4 sono stati inseriti senza difficoltà. È stato inserito un raschiatoio Sime n. 3, e l'endometrio è stato raschiato. Un campione è stato inviato al laboratorio. Al termine dell'operazione la perdita di sangue era stata minima. Lo specolo è stato rimosso. A quel punto si è rilevato che la paziente stava uscendo lentamente dall'anestesia. Susan abbassò il braccio per riposarsi la mano. Aveva l'abitudine di stringere tanto la penna mentre scriveva che la circolazione nelle dita si bloccava. Prima di rimettersi al lavoro sorseggiò un po' di caffè. Il rapporto di patologia riferiva che il tessuto endometriale raschiato era di natura proliferativa. La diagnosi era stata emorragia uterina anovulatoria con endometrio proliferativo. Nessun indizio utile, quindi. Susan passò poi al foglio più interessante: la visita neurologica iniziale, firmata da una certa dottoressa Carol Harvey. Senza capire il significato della maggior parte di quello che scriveva, copiò la relazione col massimo impegno. Era compilata in una calligrafia atroce. ANAMNESI: la paziente è una femmina di razza bianca di ventitré anni, ricoverata in ospedale per un problema di [frase illeggibile]. Anamnesi — sia sua sia della famiglia — negativa in ordine a turbe neurologiche rilevanti. Preparazione preoperatoria della paziente [frase illeggibile]. Operazione priva di aspetti significativi, con immediati risultati diagnostici e molto probabilmente terapeutici. Durante l'intervento si sono riscontrati effetti secondari sulla pressione sanguigna e, successivamente, prolungato stato d'incoscienza e apparente paralisi. Escluse dosi eccessive di succinilcolina e/o halothane: [intero periodo completamente illeggibile]. ESAME: Paziente in stato di coma profondo. Non reagisce alla voce umana, al tocco leggero o al dolore. La paziente sembra paralizzata, anche se si è riusciti a indurre una traccia di riflessi nei tendini dei bicipiti e dei quadricipiti simmetrici. Il tono muscolare è diminuito, ma non completamente spento. Nessun tremito. Nervi del cranio: [frase illeggibile]. Pupille dilatate e insensibili. Riflesso corneale assente. Stimolatore nervoso a onde quadre: attività persistente anche se diminuita dei nervi periferici. Fluido cerebro-spinale (FCS): prelievo atraumatico, fluido chiaro, pressione ini-
ziale 125 mm d'acqua. EEG: onda permanentemente piatta. OSSERVAZIONI: [periodo illeggibile]... senza segni di localizzazione... [frase illeggibile]... la diagnosi primaria è coma provocato da un diffuso edema cerebrale. La possibilità di un fatto cerebro-vascolare o di un colpo non può essere esclusa senza un'angiografia cerebrale. Una reazione idiosincrasiaca a qualcuno degli agenti impiegati per l'anestesia è un'altra possibilità, anche se io credo... [frase illeggibile] Una pneumoencefalografia potrebbe essere d'aiuto, ma io credo che in pratica avrebbe solo interesse accademico e non fornirebbe informazioni utili per la diagnosi di questo difficile caso. L'EEG, con la sua soppressione di ogni attività organizzata o no, suggerisce senz'ombra di dubbio una vasta distruzione o danneggiamento del cervello. Effetti analoghi si sono riscontrati per certe combinazioni di alcol e tranquillanti, ma in casi rarissimi. Ce ne sono solo tre nella letteratura. Qualunque sia la causa, la paziente ha subito una grave lesione al cervello. Escludo che questa paziente presenti qualche sindrome neurologica degenerativa. Vi ringrazio per avermi fatto vedere questa paziente cosi interessante. Dott. Carol Harvey, interna, neurologia Susan maledisse quella calligrafia e osservò i numerosi spazi vuoti sul quaderno. Prese un altro sorso di caffè e passò al foglio successivo. Era un'altra nota della dottoressa Harvey. 15 febbraio 1976. Segue esame neurologico. Stato della paziente: invariato. Nuovo EEG: nessuna attività elettrica. I valori di laboratorio per il fluido cerebrospinale, sono tutti entro limiti normali. OSSERVAZIONI: discusso il caso col mio assistente e con gli altri interni di neurologia. Tutti concordano con la diagnosi di grave lesione al cervello e conseguente morte cerebrale. È anche opinione comune che la causa immediata vada ricercata in un edema cerebrale da ipossia acuta. Tale ipossia è stata probabilmente dovuta a qualche fatto cerebrovascolare, provocato forse a sua volta dal passaggio di un grumo di sangue, di fibrina, o da un embolo connesso al raschiamento endometriale. Possono avere avuto un ruolo considerevole una polineurite o una vascolite. Due studi interessanti sono: «Polineurite idiofatica acuta. Relazione su tre casi», Australian Journal of Neurology, vol. 13, settembre 1973, pagg. 98-101.
«Coma prolungato e morte cerebrale a seguito di ingestione di sonniferi da parte di una donna diciottenne», New England Journal of Neurology, vol. 73, giugno 1974, pagg. 301-302. Si potrebbe effettuare un'angiografia cerebrale e/o una pneumoencefalografia, ma è opinione generale che i risultati non sarebbero significativi. Cordialmente. Dott. Carol Harvey Susan fece riposare ancora per qualche minuto la mano indolenzita prima di copiare i lunghi rapporti neurologici. Andò avanti a sfogliare il fascicolo, oltrepassò i rapporti delle infermiere e arrivò ai risultati di laboratorio. C'erano numerose lastre, compresa una serie di radiografie del cranio. Seguivano poi i reperti chimici ed ematologici. Susan li copiò laboriosamente. Dato che tutti i risultati erano essenzialmente normali, osservò se ci fossero variazioni tra i valori di prima e di dopo l'operazione. C'era un solo caso di questo genere: dopo l'intervento Nancy aveva la glicemia più alta, come se avesse sviluppato una tendenza diabetica. La serie di ECG non illuminava molto, anche se rivelava mutamenti nelle onde S e ST dopo la DR. Del resto non c'erano ECG preoperatori che consentissero un confronto. Finito di copiare, Susan richiuse la cartella e si appoggiò allo schienale, alzando le braccia verso il soffitto e stirandole al massimo. Grugnì e buttò fuori il fiato sulle otto pagine fitte fitte che aveva trascritto. Non pensava di aver fatto progressi nella sua ricerca, ma del resto non se l'era neanche aspettato. Molto di quello che aveva copiato non l'aveva addirittura capito. Susan credeva nel metodo scientifico e nel potere dei libri e della conoscenza. Erano le uniche fonti certe di informazione. Anche se non conosceva molto la medicina clinica, era sicura che combinando quel metodo con le informazioni avrebbe scoperto perché Nancy Greenly era entrata in coma. Ma prima doveva raccogliere il maggior numero possibile di dati sul caso; per questo aveva ricopiato la scheda. In un secondo tempo avrebbe dovuto interpretare i dati, e a quel punto le sarebbe servita la letteratura scientifica. Dall'analisi alla sintesi: pura magia cartesiana. Per ora era ottimista, e il fatto di non riuscire a capire gran parte del materiale che aveva trascritto non la turbava minimamente. Era sicura che in quel labirinto di informazioni ci fossero dei punti critici che potevano portare alla soluzione. Ma per vederla, questa soluzione, Susan aveva bisogno di più dati, molti di più.
La biblioteca dell'ospedale era al secondo piano dell'Harding Building. Dopo una serie di false partenze, Susan venne indirizzata verso una rampa di scale che portava agli uffici del personale. Li oltrepassò e trovò la biblioteca. Si chiamava Nancy Darling Memorial Library; accanto all'entrata c'era un piccolo dagherrotipo di una donna dall'aspetto matronale, vestita di nero; sulla cornice una placca di rame con l'incisione: ALLA CARA MEMORIA DI NANCY DARLING. Susan pensò che il nome Nancy Darling con tutte le sue implicazioni romantiche si addiceva ben poco a quella figura seria e accigliata. Circondata dal calore rassicurante dei libri, Susan si sentì subito a proprio agio: una sensazione in assoluto contrasto con quelle provate in sala rianimazione e nel resto dell'ospedale. Nel centro della stanza, alta due piani dell'edificio, erano disposti grossi tavoli di quercia con alte sedie nere in stile coloniale. Una parete era dominata da un'enorme finestra, alta fino al soffitto, che dava sul piccolo cortile interno dell'ospedale; Susan si avvicinò e vide una piccola aiuola di erba anemica, un unico albero rinsecchito e un campo da tennis. La rete del campo, in disuso per l'inverno, pendeva tristemente. A entrambi i lati dei tavoli c'erano scaffali di libri, orientati ad angolo retto rispetto alla lunghezza della stanza. Una scala a chiocciola in ferro battuto portava alla balconata. Gli scaffali di destra contenevano libri, e quelli di sinistra raccolte di periodici. Addossato al muro opposto alla finestra c'era lo schedario, di mogano scuro. Susan lo consultò, cercando sotto la voce anestesiologia. Non sapeva quasi niente sull'argomento, e le serviva un buon testo introduttivo. Era interessata in particolare alle complicazioni dell'anestesia. Scelse cinque libri, il più promettente dei quali si intitolava Complicazioni anestetiche: riconoscimento e trattamento. Mentre portava i volumi al tavolo dove aveva lasciato il quaderno, gli altoparlanti chiamarono il suo nome seguito dal numero 482. Susan posò lentamente i libri sul tavolo. Si girò verso il telefono. Poi guardò i libri e il quaderno. Si aggrappò allo schienale di una sedia, vacillando. Era combattuta tra la vecchia abitudine di fare quello che le veniva detto e la sfida che aveva di fronte, il coma prolungato dopo l'anestesia. Non era una scelta facile. Seguire i soliti sentieri le era stato molto utile in passato. Anzi, era a questo che doveva la sua attuale posizione. E questa posizione era particolarmente importante per lei perché era una donna. Tutte le donne medico
seguono un comportamento tradizionale per la semplice ragione che sono una minoranza e quindi hanno la sensazione di essere costantemente sotto il tiro dei colleghi maschi. Ma poi Susan pensò a Nancy Greenly e a Sean Berman. Non come malati, come persone. Pensò alle loro tragedie personali. Allora capì che cosa doveva fare. La medicina l'aveva già costretta a molti compromessi. Questa volta avrebbe fatto quello che riteneva giusto, almeno per due giorni interi. «Va' a farti fottere, 482,» brontolò a mezza voce. Si sedette al tavolo e aprì il libro sulle complicazioni dell'anestesia. Più pensava alla Greenly e a Berman, più si convinceva che stava facendo la cosa giusta. lunedì 23 febbraio ore 14.45 Bellows tamburellava con impazienza sul telefono interno numero 482, aspettandosi che suonasse da un momento all'altro. Voleva rispondere prima della fine del primo squillo. In sottofondo si sentiva la voce monotona del dottor Allen Druery, un anziano professore che stava esaltando le virtù di Halstead. I quattro studenti sembravano spersi nell'enorme sala vuota. Bellows aveva pensato che l'atmosfera della sala conferenze avrebbe aggiunto una nota di serietà alle lezioni predisposte per gli studenti; ma adesso non ne era più tanto sicuro. La sala era troppo grande, troppo fredda per soli quattro studenti, e il professore aveva un'aria un po' ridicola, in piedi sul podio davanti a file e file di sedie vuote. Dal punto in cui si trovava, Bellows poteva vedere solo le schiene dei giovani. Goldberg era indaffaratissimo a prendere appunti, senza perdersi una sola parola. La lezione del dottor Druery era relativamente interessante, ma non valeva certo la pena di prendere appunti. Bellows conosceva quella sindrome. La aveva vista migliaia di volte, e ne aveva sofferto anche lui in una certa misura. Appena le luci si abbassavano, e qualcuno cominciava a parlare, molti studenti reagivano in modo pavloviano, mettendosi a prendere appunti, cercando freneticamente di buttar giù sulla carta ogni parola, senza badare al significato. Lo studente di medicina reagiva così poco intelligentemente perché, il più delle volte, gli veniva chiesto soltanto di rivomitare tutte le banalità con cui era stato ingozzato. Adesso a Bellows dispiaceva non aver detto a Susan che ci sarebbe davvero rimasto male se lei non fosse venuta alla lezione. In un gruppo così
piccolo la sua mancanza si faceva notare, e non solo per il fatto che era un tipo così vistoso, Bellows era innervosito dal pensiero che Stark potesse decidere di fare un salto giù per dare il benvenuto agli studenti. Avrebbe chiesto di sicuro dov'era il quinto, e lui che cosa avrebbe risposto? Proprio la preoccupazione di Stark aveva spinto Bellows a far chiamare Susan: voleva decisamente ritirarle il tacito permesso che le aveva concesso di non partecipare alla lezione. Ciò avrebbe potuto costituire un cattivo precedente. Così pensò di informarla che si avvertiva sinceramente la sua mancanza, e che venisse su di corsa nella sala conferenze al decimo piano. Scelse proprio la parola «sinceramente», perché in quel contesto era carica di sottintesi. Bellows aveva deciso di chiedere a Susan di uscire con lui. Valeva la pena correre il rischio. Susan era una ragazza intelligente, e Bellows era sicuro che avesse anche un corpo splendido. Che poi fosse calda e femminile, nel senso che lui dava a questi due aggettivi, era ancora da dimostrare. Il guaio era che Bellows aveva idee un po' antiquate sulla femminilità. Per lui venivano prima la chirurgia e gli orari di lavoro, e quindi la disponibilità era un aspetto importante. Voleva che le sue ragazze rispettassero i suoi orari di lavoro, e regolassero i propri di conseguenza. Un elemento interessante della posizione di Susan, secondo Bellows, era che per il prossimo mese avrebbero avuto gli stessi orari. Incoraggiante. E se anche tutto il resto fosse andato storto, aveva deciso alla fine, scopare con Susan sarebbe stato addirittura interessantissimo. Ma il telefono continuava a tacere. Bellows richiamò il centralino e fece ripetere la chiamata per la dottoressa Susan Wheeler. Rimise giù il ricevitore, e riprese ad aspettare lo squillo, mentre i minuti passavano. Cominciò a pensare che forse le cose non sarebbero state così semplici con quella ragazza. Forse non avrebbe nemmeno voluto uscire con lui, forse aveva già qualcun altro. Maledisse tutte le donne, e si disse che avrebbe dovuto essere più sensato e lasciar perdere. Ma nello stesso tempo si accorgeva che Susan stava mettendo in moto la sua acuta competitività. Pensò anche alla curva provocante del culo di Susan. Decise di farla chiamare un'altra volta. Gerald Kelley era un tipico irlandese, almeno quanto può esserlo uno che vive a Boston e non a Dublino. Aveva i capelli biondo rossi, folti e arricciati nonostante gli ormai cinquantaquattro anni. La sua faccia era così rossa che sembrava truccata col cerone. La caratteristica più vistosa di Kelley, il punto dominante del suo profilo, era l'enorme pancia. Ogni sera tre bottiglie di birra scura contribuivano
al mantenimento di quelle impressionanti dimensioni. Da qualche anno girava la battuta che quando Kelley era verticale, la fibbia della sua cintura era completamente orizzontale. Kelley lavorava al Memorial dall'età di quindici anni. Aveva iniziato nel reparto manutenzione — nella sala delle caldaie per l'esattezza — e adesso ne era il responsabile. Grazie alla sua lunga esperienza, e all'inclinazione per la meccanica, conosceva ormai alla perfezione la centrale elettrica dell'ospedale. Sapeva a memoria ogni particolare meccanico dell'edificio. Per questo l'avevano fatto dirigente del settore e lo pagavano 13.700 dollari all'anno. L'amministrazione dell'ospedale lo giudicava indispensabile, e l'avrebbero pagato anche di più se l'avesse chiesto. Gerald Kelley era seduto alla sua scrivania, in una delle sale piene di macchine del sotterraneo, e stava dando una scorsa alle richieste di lavoro. Aveva sotto di sé otto operai, e cercava di distribuire l'attività secondo il bisogno e le capacità. Ma tutti i lavori alla centrale elettrica Kelley li faceva da solo. Le richieste erano le solite; c'era anche lo scarico del gabinetto delle infermiere, al quattordicesimo piano, che si ingorgava a intervalli regolari, una volta alla settimana. Kelley stabilì la successione dei lavori, e cominciò a suddividere i compiti tra i suoi operai. Anche se nel sotterraneo il rumore delle macchine era a un livello piuttosto alto — specialmente per chi non c'era abituato — le orecchie di Kelley sapevano distinguere benissimo i diversi tipi di rumore. Così, quando gli giunse un clangore metallico dalla direzione del pannello elettrico principale, girò la testa. Nessuno se ne sarebbe accorto, in mezzo al frastuono dei macchinari. Il rumore non si ripeté, e l'uomo tornò al proprio lavoro. Non gli piaceva avere a che fare con tutte quelle scartoffie; avrebbe preferito pulire lui stesso lo scarico del quattordicesimo piano. Ma si rendeva anche conto che l'organizzazione era indispensabile per mandare avanti la baracca. Era impossibile riuscire a fare tutte le riparazioni da soli. Si udì un altro rumore metallico, questa volta più forte. Kelley si voltò di nuovo e diede un'occhiata alla zona del pannello elettrico, dietro le caldaie principali. Ritornò alle sue carte, ma si ritrovò di nuovo a guardare il pannello, nel tentativo di capire che cosa avesse potuto provocare quel rumore. Aveva una risonanza metallica breve e acuta, diversa dai rumori abituali. Alla fine, la curiosità ebbe il sopravvento: Kelley si diresse verso la caldaia principale. Per raggiungere il pannello elettrico, situato vicino al punto in cui passavano tutte le tubature dell'edificio, doveva girare attorno alla caldaia. Decise di passare a destra, in modo da poter controllare i manome-
tri. Era inutile, dato che il sistema era completamente automatico; ma per Kelley — ai suoi tempi i manometri dovevano essere controllati costantemente — era un fatto istintivo. Mentre girava attorno alla caldaia i suoi occhi erano rivolti ai meccanismi, e ne apprezzavano la meravigliosa compattezza rispetto a quelli di quando lui aveva cominciato a lavorare al Memorial. Giunto al pannello elettrico, Kelley si fermò di colpo, alzando una mano in un gesto involontario di difesa. «Cristo, mi ha fatto morire di spavento!» esclamò, riabbassando la mano. «Potrei dire altrettanto,» ribatté un uomo magro con un'uniforme kaki. Xa camicia era aperta sul collo, e sotto portava una maglietta bianca che fece venire in mente a Kelley i comandanti di marina del tempo di guerra. Il taschino della giacca era rigonfio di penne, piccoli cacciaviti e un regolo. Sopra il taschino c'era la scritta LIQUID OXYGEN, INC. «Non avevo idea che qui dentro ci fosse qualcun altro,» osservò Kelley. «Neanch'io,» disse l'uomo in kaki. Per un momento i due uomini si guardarono. L'uomo in kaki aveva con sé una piccola bombola verde collegata a un manometro. Sulla bombola c'era scritto OSSIGENO. «Mi chiamo Darell,» disse l'uomo in kaki. «John Darell. Non volevo spaventarla. Stavo controllando i condotti d'ossigeno che escono dal serbatoio centrale. Sembra tutto a posto. Mi può indicare la via più breve per uscire?» «Certo. Prenda quella porta. Troverà una scala che sale al pianterreno. A destra c'è Nashua Street, a sinistra Causeway Street.» «Grazie mille.» Darell si incamminò verso la porta. Kelley lo guardò uscire, poi diede un'occhiata in giro, incredulo. Non riusciva a capire come avesse fatto quell'uomo ad arrivare lì senza essere notato. Non avrebbe mai pensato che quelle maledette scartoffie potessero assorbire a tal punto la sua attenzione. Tornò alla scrivania e si rimise al lavoro. Dopo qualche minuto gli passò per la testa un altro pensiero fastidioso: nella sala delle caldaie non c'era nessun condotto di ossigeno. Kelley prese nota mentalmente di chiedere a Peter Barker, il viceamministratore, come si svolgevano i controlli dei condotti d'ossigeno. Il guaio era che Kelley aveva pochissima memoria per tutti quelli che non erano dettagli tecnici. lunedì 23 febbraio
ore 15.36 Con quella cappa di nuvole sopra, Boston aveva goduto di ben poca luce quel giorno. Alle 15.30 cominciò a far buio. Ci voleva una certa immaginazione per comprendere che sopra quelle nuvole splendeva lo stesso astro infuocato a seimila gradi che in estate scioglieva l'asfalto di Boylston Street. La temperatura era caduta precipitosamente a sette gradi sotto zero. Un nuovo turbine di minuscoli corpi cristallini si stava diffondendo sulla città. Le luci dei viali interni dell'ospedale erano già accese da mezz'ora. Dall'interno della biblioteca illuminata, fuori sembrava già buio pesto. Come con moltissimi altri argomenti scientifici, Susan cominciava ad avere l'impressione che più roba leggeva sul coma, meno ci capiva. Aveva scoperto con sorpresa che la materia era enorme e coinvolgeva una quantità di discipline specifiche. E la cosa più frustrante era stata accorgersi che si ignorava che cosa determinasse la coscienza, a parte la verifica che un individuo non fosse incosciente. La definizione di uno stato avveniva attraverso la negazione dell'altro. Questo circolo chiuso sembrò a Susan una sinistra parodia, ma poi accettò il fatto che la scienza medica non era abbastanza progredita da saper definire con precisione lo stato di coscienza. Infatti, lo stato di piena coscienza e quello di totale incoscienza (coma) rappresentavano i poli opposti di uno spettro continuo comprendente stadi intermedi quali la confusione e il torpore. Quindi i termini inesatti e non scientifici erano più ammissioni di ignoranza che definizioni mal formulate. In ogni caso, questioni di linguaggio a parte, Susan aveva ben chiara la differenza abissale tra il normale stato cosciente e il coma. Li aveva osservati entrambi in un unico paziente, Berman; e nonostante l'inesattezza della definizione, c'erano informazioni sufficienti sul coma. Sotto il titolo «coma profondo», Susan cominciò a riempire pagine e pagine del quaderno con la sua calligrafia minuta. Il suo interesse principale riguardava le cause. Dato che la scienza non aveva stabilito quale particolare aspetto del funzionamento del cervello venisse distrutto, doveva limitarsi ai fattori che provocavano il coma. Il fatto di essere interessata soprattutto al coma profondo, o a quello improvviso, la aiutò a restringere il campo dell'indagine, ma la lista era ugualmente di una lunghezza enorme, e continuava ad ampliarsi. Susan rilesse quello che aveva ricopiato:
Trauma = commozione cerebrale, contusione o colpi vari. Ipossia z= scarsità di ossigeno: ( 1 ) meccanica — strangolamento — soffocamento — insufficienza respiratoria (2) disfunzione polmonare — blocco alveolare (3) blocco vascolare — mancato afflusso di sangue al cervello (4) blocco cellulare dell'uso di ossigeno Alto livello di diossido di carbonio Iper (ipo) glicemia = molto (poco) zucchero nel sangue Acidosi = molto acido nel sangue Uremia = insufficienza renale con eccesso di acido urico nel sangue Iper (ipo) calemia = molto (poco) potassio Iper (ipo) natremia = molto (poco) sodio Insufficienza epatica = aumento delle tossine normalmente metabolizzate dal sangue Morbo di Addison = grave disfunzione endocrina o ghiandolare Elementi chimici o farmaci... Susan trascrisse su due pagine la lista di questi ultimi, lasciando uno spazio vuoto accanto a ciascun nome per ulteriori informazioni : Alcool Anestetici Anfetamine Anticonvulsivi Antistaminici Arsenico Barbiturici Bromuri Cannabis Cianuro Diuretici mercuriali Erbicidi Glutetimide
Idrocarburi Insulina Iodio Ipnotici Metaldeide Naftalina Oppiacei Pentacloro fenolo Salicilati Sulfanilamide Tetracloruro di carbonio Tetraidrolazina Vitamina D Susan sapeva che l'elenco non era completo, ma le forniva comunque un punto di partenza, qualcosa da utilizzare successivamente; l'avrebbe sempre potuto allungare. Passò ai testi di internistica generale; aprì il ponderoso Princìpi della medicina interna e lesse i capitoli sul coma. Nel testo di Cecil e Loeb trovò più o meno le stesse cose. Entrambi i libri le fornirono un'inquadratura generale, ma non le dissero niente di nuovo. C'era una vasta bibliografia, che Susan ricopiò nell'elenco, sempre più lungo, dei libri da consultare. Quindi si alzò e si stirò: poi sbadigliò e mosse le dita dei piedi per riattivare la circolazione. Già che si era alzata, andò a consultare l'Index medicus, l'elenco completo degli articoli pubblicati su tutte le riviste mediche. Cominciando dai volumi più recenti, cercò ed estrasse tutti gli scritti riguardanti il coma acuto, e tutti gli articoli catalogati sotto la voce Complicazioni anestetiche: ritardo nel ritorno alla conoscenza. Quando fu arrivata all'anno 1972, Susan aveva già un elenco di trentasette articoli da leggere. Un titolo in particolare attirò la sua attenzione: «Coma profondo nell'ospedale di Boston — Studio statistico retrospettivo delle cause», Journal of the American Association of Emergency Room Physicians, volume 21, agosto 1974, pagg. 401-403. Trovò il volume in cui era raccolto l'articolo e si immerse subito nella lettura, prendendo appunti. Mark dovette chiamarla per nome per farle alzare gli occhi. Era entrato in biblioteca, l'aveva localizzata, e le era andato a sedere di fronte. Ma Susan non aveva nemmeno alzato gli occhi. Bellows aveva provato a schia-
rirsi la voce, senza ottenere nessuna risposta. Susan sembrava in trance. «La dottoressa Susan Wheeler, suppongo.» Bellows si sporse sopra il tavolo in modo che la sua ombra cadesse sulla rivista. Finalmente Susan alzò gli occhi. «Il dottor Bellows, suppongo,» sorrise. «Infatti. Dio, che sollievo! Per un momento ho pensato che tu fossi in coma.» Bellows mosse su e giù la testa, come assentendo tra sé. Per qualche secondo nessuno dei due parlò. Bellows si era preparato un bel discorsetto. Voleva mettere bene in chiaro con Susan che non le aveva affatto dato il permesso di saltare le lezioni. Aveva deciso di dirle semplicemente di piantarla lì e alzare le chiappe. Ma quando si era trovato davanti a lei, il suo senso di sicurezza era venuto meno, e si era sentito come un marinaio bloccato dalla bonaccia. Susan restò zitta perché intuiva che Bellows aveva qualcosa da dirle. Un silenzio imbarazzante. Lo ruppe Susan. «Mark, ho letto delle cose molto interessanti. Guarda qua.» Si alzò in piedi e si sporse oltre la scrivania per mostrargli la pagina. Il camice le si aprì sul petto. Bellows si ritrovò a fissare i suoi magnifici seni, appena coperti da un reggiseno trasparente. Si sforzò di concentrarsi sulla pagina, ma il suo campo visuale periferico continuava a trasmettergli l'immagine dello stupendo petto della ragazza. Si guardò in giro imbarazzato, sicuro che la sua preoccupazione risultasse evidente a tutte le persone che c'erano in biblioteca. Susan non si rendeva conto del turbamento che aveva involontariamente causato. «Questo diagramma mostra la percentuale di incidenza dei vari tipi di coma profondo verificatisi nella sala rianimazione dell'ospedale di Boston,» Susan scorreva col dito le righe. «Uno dei fatti più sorprendenti è che solo il cinquanta per cento dei casi sono stati diagnosticati. Lo trovo incredibile, non ti pare? Significa che il cinquanta per cento dei casi non sono stati diagnosticati. Sono arrivati in coma in sala di rianimazione, e sono morti. Punto e basta.» «Già, è sorprendente,» annuì Bellows, portandosi la mano sinistra di fianco alla tempia per non vedere quello che stava vedendo. «E guarda qui, Mark, le cause dei casi diagnosticati: il sessanta per cento dei casi erano dovuti all'alcol, il tredici a traumi, il tre a droghe o veleni, e il resto va suddiviso tra epilessia, diabete, meningite, e polmonite. Ora è chiaro che...» Susan si rimise a sedere, allentando la tensione dell'ipotala-
mo di Bellows che si guardò di nuovo attorno per assicurarsi che nessuno avesse notato la scena. «...per quanto riguarda i casi di coma avvenuti in sala operatoria possiamo escludere l'alcol e i traumi. Così... ci restano i colpi, le droghe e i veleni, e gli altri fattori in ordine decrescente di probabilità.» «Aspetta un attimo, Susan.» Bellows cercava di riprendere il controllo. Poggiò i gomiti sul tavolo, incrociando le dita. Guardò un attimo in basso, poi alzò la testa verso la ragazza. «Tutto questo è molto interessante. Un po' tirato per i capelli, ma interessante.» «Tirato per i capelli?» «Sì. Non puoi estrapolare dati dalla sala d'emergenza alla sala operatoria. Comunque non sono venuto qui per discutere di questo, ma perché non hai risposto alle chiamate. Lo so perché sono stato io a farti chiamare. Passerò dei guai se non vieni alle lezioni. E li passerai anche tu, e il punto della faccenda è questo: che finché sei sotto la mia responsabilità, i tuoi guai sono anche miei. Non posso trovarti scuse all'infinito. Cioè, non puoi sempre continuare a fare prelievi di sangue o roba del genere. Stark comincerebbe a fare domande prima ancora che tu te ne accorgessi. È incredibile, viene a sapere tutto quello che succede in giro. E inoltre ti farai la reputazione di essere un fantasma anche tra i tuoi compagni. Susan, ho proprio paura che dovrai limitare la tua inclinazione per le ricerche alle ore libere.» «Hai finito?» chiese lei, sulla difensiva. «Ho finito.» «Allora rispondi a questa domanda: si sono forse svegliati Berman e la Greenly?» «Evidentemente no...» «Allora, francamente, credo che le mie attuali attività facciano passare in secondo piano la necessità di assistere a qualche barbosa lezione.» «Dài, Susan! Ragiona un po'! Non puoi salvare il mondo nella tua prima settimana di tirocinio. E poi mi stai facendo correre dei rischi.» «Te ne sono profondamente grata, Mark, davvero. Ma ascolta. Le poche ore passate qui in biblioteca mi hanno già procurato informazioni interessantissime. La complicazione del coma profondo dopo l'anestesia qui al Memorial ha avuto una frequenza cento volte maggiore che nel resto del paese, almeno nell'ultimo anno. Mark, penso di aver trovato qualcosa. In principio ero spinta più che altro da ragioni emotive, e pensavo di tirarmene fuori passando un paio di giorni qui in biblioteca. Ma una frequenza cento volte maggiore! Cristo, potrei aver messo le mani su qualcosa di
grosso, non so, una nuova malattia o una combinazione letale di farmaci normalmente sicuri. Magari questa è una specie di encefalite virale, o la conseguenza di un'infezione precedente che ha reso il cervello più sensibile a certe medicine o a una lieve carenza d'ossìgeno.» Susan era in medicina da appena due anni, ma era già in grado di capire i benefici che potevano derivare dalla scoperta di una nuova malattia o di una nuova sindrome. Magari un giorno sarebbe stata nota come sindrome di Wheeler, e per lei sarebbe stato il successo, la fama. In genere, chi scopriva una nuova malattia diventava più celebre di chi ne trovava la cura. In medicina abbondano gli eponimi, come la tetralogia di Fallot, il morbo di Cogan, la sindrome di Tolpin, o la degenerazione di Depperman. Mentre nomi come il vaccino di Salk sono un'eccezione. La penicillina viene chiamata penicillina, non il farmaco di Fleming. «Potremmo chiamarla la sindrome di Wheeler,» esclamò Susan. «Cristo!» Bellows si prese la testa tra le mani. «Che immaginazione! Non bisogna reprimere l'entusiasmo dei profani, però, Susan, tu vivi in una situazione reale, hai alcune precise responsabilità. Sei sempre una studentessa di medicina, l'ultima ruota del carro. È meglio che tu ti metta in riga e cominci a rispettare i tuoi impegni, altrimenti ti troverai col culo per terra, garantito. Ti dò solo un altro giorno per le tue ricerche, a patto però che tu venga alla mattina a fare il giro delle corsie. Dopo, potrai lavorarci nel tuo tempo libero. Se avrò bisogno di te ti farò chiamare come dottoressa Wheels anziché Wheeler, perciò rispondi, capito?» «Capito.» Susan squadrò Mark. «Lo farò, se tu farai una cosa per me.» «E cioè?» «Prendi questi articoli e falli fotocopiare. Ti pagherò dopo.» Susan lanciò la sua lista a Bellows, saltò in piedi e uscì dalla biblioteca prima che lui potesse rispondere. Mark si ritrovò tra le mani un elenco di trentasette articoli. Dato che conosceva la biblioteca come le proprie tasche, trovò facilmente i volumi e segnò ciascun articolo con un pezzetto di carta. Portò il primo gruppo di volumi alla ragazza delle fotocopie, quindi andò in cerca degli altri. Si rendeva conto che Susan si stava servendo di lui, ma non gliene importava niente. Era solo questione di dieci minuti, e se li sarebbe ripresi con gli interessi. E aveva avuto ragione: aveva un corpo splendido. lunedì 23 febbraio ore 17.05
Mentre diceva a Bellows che l'incidenza dei casi di coma al Memorial era pari a cento volte la media nazionale, Susan si era resa conto di star basando i propri calcoli sui sei casi che Harris le aveva citato nella sua sfuriata. Ma questa cifra andava controllata. Se avesse scoperto che era in realtà più alta, avrebbe avuto più argomenti per difendere la propria decisione di dedicarsi a quel problema. Inoltre aveva bisogno di conoscere i nomi delle vittime del coma, per poterne ottenere le schede. Dati, dati ben definiti, ecco quello che le occorreva. Si rese conto che avrebbe dovuto ottenere l'accesso al computer. Harris non avrebbe fornito volentieri i nomi dei pazienti. Bellows sarebbe stato in grado di farlo, se però avesse avuto motivazioni sufficienti. Ma era una grossa incognita. Il sistema migliore era cercarsi le informazioni da sé. Tanto più che quando era al liceo aveva partecipato a un corso propedeutico di programmazione elettronica. Ne era già stata ripagata in modo formidabile, e il suo attuale bisogno d'informazione era un altro esempio. Il computer dell'ospedale era situato nell'ala Hardy, che occupava tutto l'ultimo piano. Molti facevano battute sul fatto che il computer dell'ospedale stesse sopra tutto il resto, e avevano aggiunto nuovi significati alla frase «con un piccolo aiuto da lassù». Mentre la porta dell'ascensore si apriva sul corridoio del diciottesimo piano, Susan capì che doveva improvvisare se voleva aver successo. Poteva vedere dietro una parete di vetro la sala terminali del computer. Sembrava una banca. L'unica differenza era che qui la merce di scambio erano le informazioni, non il denaro. Susan entrò nella sala e andò direttamente a un banco che correva lungo tutta una parete. C'erano otto persone nella stanza, quasi tutte sedute su confortevoli poltroncine di velluto blu; gli altri invece erano dietro il banco, chini su schede perforate. Per un attimo tutti alzarono gli occhi. Senza mostrare la minima indecisione, Susan prese una delle schede per la richiesta di informazioni. Fece finta di concentrarsi su di essa, ma in realtà stava osservando il locale. In fondo, a circa quattro metri da lei, c'era un bancone di formica, con un cartello: INFORMAZIONI. Era una parola così appropriata che a Susan venne da ridere. L'uomo al banco se ne stava immobile, con un leggero sorriso d'orgoglio sulla faccia; aveva una sessantina d'anni, ed era piccolo ma ben proporzionato. Alle sue spalle, al di là di un'altra parete di vetro, si scorgevano i terminali luccicanti del calcolatore. Mentre Susan fingeva di
essere completamente assorbita dalla sua scheda l'uomo ricevette numerose richieste di informazioni. Ogni volta traduceva la richiesta nel codice del computer e la trascriveva nella parte inferiore della scheda; poi telefonava al reparto che aveva inoltrato la richiesta per controllare che fosse regolarmente autorizzata (a meno che non conoscesse personalmente colui che gli aveva portato la scheda); alla fine sistemava la scheda, o il gruppo di schede, in un contenitore nell'angolo destro della scrivania, e diceva a chi aveva fatto la richiesta quando sarebbe stata pronta l'informazione. Capita la procedura, Susan dedicò tutta la propria attenzione alla scheda che le stava di fronte. Non era molto difficile, a dire il vero. Scrisse la data nell'apposito spazio; lasciò in bianco quello in cui si doveva indicare il reparto che autorizzava, il nome della persona o dell'ente richiedente, e anche la casella relativa al sistema di pagamento previsto per il tempo utilizzato dal computer. Si concentrò sull'informazione che le serviva. Non sapeva come formulare la richiesta, per vari motivi. Uno era la preoccupazione che l'ospedale non volesse diffondere informazioni sui casi di coma conseguenti ad anestesia. Potevano aver programmato il computer in modo che le richieste d'informazioni di quel tipo venissero cancellate automaticamente. Un'altra cosa che le venne in mente fu che una malattia poteva avere diversi modi o gradi di manifestazione. Il coma prolungato postanestesia poteva essere uno di questi. Susan voleva ottenere una vasta gamma di dati, per poter essere in grado di selezionare quello che le sembrava rilevante. Ma se chiedeva informazioni su tutti i casi di coma dell'ultimo anno, correva il rischio di ottenere dal computer una risposta troppo ampia: dato che il coma era un sintomo, e non una malattia in sé, poteva succedere che alla fine Susan si trovasse con la lista di tutte le vittime di attacco cardiaco, colpo apoplettico o cancro dell'ultimo anno. Stabilì di chiedere solo i casi di coma sopravvenuti in pazienti che non avessero malattie croniche o debilitanti. Ma ben presto si rese conto che era una premessa sbagliata: se stava cercando di scoprire un nuovo morbo, non poteva escludere a priori che colpisse persone già malate. Infatti, se fosse stata di natura infettiva, altre malattie potevano contribuire al suo manifestarsi. Susan quindi chiese l'elenco dei casi di coma non collegabili con le malattie conosciute dei pazienti. Poi chiese un incrocio tra questo elenco e quello di coloro che, dopo aver subito un'operazione al Memorial, erano entrati in coma. Con una certa difficoltà Susan tradusse la propria richiesta nel codice del computer. Non l'usava da quasi un anno, e ci mise alcuni
minuti. Compilò questa parte sotto due linee rosse con l'avvertenza NON SCRIVERE QUI SOTTO. Poi aspettò che qualcuno portasse una richiesta all'impiegato al banco. Fortunatamente non dovette attendere a lungo. Dopo nemmeno cinque minuti arrivò l'ascensore. Susan vide attraverso la parete di vetro un uomo uscirne in fretta e avvicinarsi al banco: era sulla quarantina, magro e biondissimo. Entrò nella sala agitando un fascio di schede che teneva in mano. «George!» esclamò fermandosi davanti al banco dell'accettazione. «Mi devi aiutare.» «Ah, il mio vecchio amico Henry Schwartz,» sorrise l'altro. «Sempre pronti ad aiutare il reparto contabilità. Dopo tutto, è da lì che arrivano i nostri stipendi. Che posso fare per te?» Sulla sua scheda, nello spazio contrassegnato con NOME DEL RICHIEDENTE, Susan scrisse Henry Schwartz; sotto REPARTO AUTORIZZANTE scrisse Contabilità. «Ho bisogno di un paio di cose, ma soprattutto di una lista dei sottoscrittori della Croce Blu-Scudo Blu sottoposti a interventi nell'ultimo anno.» Schwartz parlava a mitraglia. «Se mi chiedessi perché ne ho bisogno, ti verrebbe un colpo. Mi serve subito. Quelli del turno precedente avrebbero già dovuto farla preparare.» «Possiamo farcela in un'oretta. Te la farò avere alle sette,» rispose George, fermando con una graffetta metallica il fascio di richieste di Schwartz e mettendole nel contenitore. «George, mi hai salvato.» Schwartz si passò più volte una mano tra i capelli. Poi si diresse all'ascensore. «Tornerò alle sette in punto.» Susan guardò Schwartz premere il pulsante di chiamata e poi mettersi a camminare su e giù davanti alla porta dell'ascensore. Sembrava che stesse parlando tra sé. Premette ripetutamente il pulsante, finché l'ascensore non arrivò. Susan osservò l'indicatore del piano sopra la porta. L'ascensore si fermò al sesto piano, poi al terzo, quindi al primo. Susan avrebbe dovuto controllare a che piano era il reparto contabilità. Prese una scheda in bianco, la mise sopra quella che aveva compilato e si diresse verso il banco. «Mi scusi,» disse con un sorriso che sperò fosse convincente. George la guardò da sopra gli occhiali con la montatura nera che teneva abbassati sul naso. «Sono una studentessa di medicina,» continuò Susan cercando di rendere la sua voce più dolce possibile, «e il computer mi interessa molto.» Sollevò le schede in modo che quella in bianco nascondesse quella compi-
lata. «Davvero?» George fece un ampio sorriso. «Sì. Credo che le potenzialità dei calcolatori in medicina siano enormi, e dato che essi non rientrano nei nostri programmi di studio, ho pensato di venire qui per farmi un'idea di come funzionano.» George guardò Susan, poi girò la testa verso i meccanismi scintillanti del computer IBM. Quando si voltò di nuovo verso di lei, la sua faccia era piena d'orgoglio. «È un dispositivo formidabile, Miss...» «Susan Wheeler.» «È una macchina fantastica, Miss Wheeler,» mormorò George, sporgendosi verso di lei ed enfatizzando le parole, come se stesse per rivelarle un terribile segreto. «L'ospedale non potrebbe andare avanti senza.» «Per capire un po' come si usa, ho studiato queste schede.» Susan gli mostrò le schede di richiesta, in modo che lui potesse vedere solo quella in bianco; ma George si era rigirato verso il computer. «Mi interessava vedere una scheda già compilata,» continuò allungando una mano e prendendo le schede di Schwartz. «Sarei curiosa di vedere come vengono inserite nel computer. Posso dare un'occhiata a queste?» Susan mise le schede di Schwartz sopra le sue. «Ma certo!» George si alzò e si sporse verso la ragazza, appoggiando la mano sinistra sul banco. Con l'altra le indicò lo spazio dove le schede erano scritte in normale inglese. «Qui il richiedente scrive quello che vuol sapere. Poi qui sotto...» il dito si spostò sotto la linea rossa, «...abbiamo lo spazio dove la richiesta viene codificata.» Susan fece scivolare fuori la scheda in bianco da sotto quelle di Schwartz e la posò sul banco come se volesse fare un confronto. La sua scheda si trovava adesso sotto quelle di Schwartz. «Quindi se uno vuole diversi tipi di informazioni deve riempire diverse schede?» chiese Susan. «Esatto. E se...» Susan diede uno strappo alla prima scheda del mazzo, staccandola così dalla graffetta metallica che le teneva unite. «Oh, mi dispiace, mi dispiace enormemente,» e intanto si affrettò a rimetterla a posto. «Guardi cos'ho combinato. Lasci, faccio io.» «Non è niente,» sorrise George prendendo la graffatrice. «Basta una graffetta.» George premette la graffatrice sul mazzo di schede sotto cui c'era quella di Susan.
«Sarà meglio che le rimetta via, prima di distruggerle completamente.» Tutta contrita Susan ripose le schede nel contenitore. «Niente di grave,» la rassicurò ancora George. «E una volta che la richiesta è pronta, che cosa succede?» chiese la ragazza guardando verso il computer per distogliere l'attenzione dell'uomo dallo schedario. «Bene, le porto alla perforatrice. È la macchina che prepara le schede per la lettura. Poi...» Ma Susan non lo stava ascoltando; pensava al modo migliore di concludere la propria visita. Cinque minuti dopo stava cercando nell'elenco dei dipendenti dell'ospedale il nome Henry Schwartz. Infine, avendo un'ora e mezzo libera, uscì dal Memorial e si diresse al pensionato. Il suo stomaco brontolava, rimproverandola per essersi dimenticata di soddisfare i bisogni primari. Il sandwich al tonno, cattivo com'era, era stato metabolizzato da un bel pezzo, e lei aveva una fame terribile. lunedì 23 febbraio ore 18.55 Qualche minuto prima delle sette Susan scese dall'autobus alla fermata della North Station. Attraversò il cavalcavia pedonale, dove fu investita dalle ventate che salivano dall'acqua gelida del porto. Si curvò per ripararsi, tenendo fermo con la mano sinistra il berretto da sci di pelle di pecora e con la destra il bavero del giaccone. Dietro l'angolo dell'edificio il vento aumentò d'intensità. Una lattina di birra vuota le rotolò tra i piedi. Il mare di luci rosse del traffico dell'ora di punta si estendeva a perdita d'occhio. I finestrini delle auto erano ricoperti da uno strato di ghiaccio, e riflettevano le immagini esterne con una lucentezza argentea, dando l'impressione delle pupille bianche dei ciechi. Susan tentò di mettersi a correre. Era costretta a muoversi in modo esagerato, dato che per il vento si teneva le braccia premute contro il corpo. L'entrata principale dell'ospedale le si aprì davanti, e lei varcò con sollievo la porta girevole. Infilò il berretto nella manica sinistra del giaccone, che lasciò al guardaroba dietro il banco dell'accettazione; quindi consultò l'elenco dei numeri interni dell'ospedale e chiamò la sala del computer. «Pronto, qui è il reparto contabilità.» Susan cercò di far apparire normale la sua voce un po' affannata. «Il signor Schwartz è già passato a prendere il materiale?»
Sì, era venuto lì cinque minuti prima. Un tempismo perfetto, pensò Susan, e salì al terzo piano dell'Hardy Building, agli uffici contabilità. Gli impiegati del turno serale erano pochissimi rispetto a quelli di giorno; appena entrata, Susan vide solo tre persone in fondo alla sala, due uomini e una donna, che alzarono gli occhi con perfetta sincronia. «Scusate,» Susan si avvicinò. «Dove posso trovare il signor Schwartz?» «Schwartz? Certo. L'ufficio d'angolo,» rispose uno degli uomini indicando il lato opposto della sala. Gli occhi di Susan seguirono la direzione del suo dito. «Grazie,» e si allontanò. Henry Schwartz stava lavorando sulle informazioni che aveva richiesto al computer. Il suo ufficio era piccolo, ma incredibilmente ordinato. Negli scaffali i libri erano collocati in altezza decrescente e perfettamente allineati. «Il signor Schwartz?» chiese Susan con un sorriso, accostandosi alla scrivania. «Sì?» fece Schwartz senza staccare l'indice dal foglio che aveva davanti. «Sembra che i dati che ho chiesto si siano mescolati ai suoi, o almeno così dicevano su di sopra. Per caso, lei non ha notato del materiale che non ha richiesto?» «No, ma non ho ancora guardato tutto. Che cosa sta cercando?» «Era un tabulato sul coma. Serve per una ricerca. Le spiace se guardo che non sia in mezzo al suo materiale?» «Per niente,» Schwartz si mise a cercare tra i fogli. «Se c'è, dev'essere nell'ultimo gruppo. Mi hanno detto che la mia richiesta veniva subito dopo la sua.» Schwartz sollevò tutta la pila dalla scrivania. Sotto c'era il tabulato che Susan cercava, con allegata la scheda di richiesta. «È questa,» esclamò Susan. «Ma qui c'è il mio nome,» obiettò Schwartz vedendo la scheda. «Per forza è finito qui in mezzo, allora,» disse Susan prendendo i suoi fogli. «Ma le assicuro che questa roba non la può interessare minimamente. E poi, non è mica colpa sua.» «Sarà meglio che ne parli con George...» borbottò Schwartz rimettendo in ordine. «Non ce n'è bisogno,» disse Susan dirigendosi verso la porta. «Ne abbiamo già discusso a fondo. Grazie mille.» «Di niente.» Ma Susan era già uscita.
«Susan, sei davvero un fenomeno!» esclamò Mark. «Salti la lezione, salti il giro pomeridiano, non ti occupi dei tuoi malati, e alle otto di sera sei ancora qui in giro. Finora l'unica coerenza del tuo comportamento è la variazione costante.» Susan e Mark erano seduti nella stessa sala del Beard 5 dove lei aveva iniziato la sua prima giornata d'ospedale. Susan era sulla stessa sedia di quella mattina. Davanti aveva il tabulato con le risposte del computer. Stava scorrendo la lista dei nomi, e sottolineava quelli significativi con un pennarello giallo. Bellows bevve un sorso di caffè. «Be', questo lo prova.» Susan rimise il cappuccio al pennarello. «Prova che cosa?» «Che qui al Memorial non ci sono stati sei casi misteriosi di coma, Berman a parte, nell'ultimo anno.» «Urrà!» gridò Bellows brindando con la tazza di caffè. «Adesso potrò smetterla di preoccuparmi dell'anestesia e farmi finalmente togliere le emorroidi.» «Ti consiglierei di continuare con le tue supposte,» replicò Susan, contando i nomi che aveva segnato in giallo. «Non ci sono stati sei casi perché ce ne sono stati undici. E se Berman resta così fanno dodici.» «Ma sei sicura?» Il tono di Bellows cambiò di colpo: per la prima volta mostrò di interessarsi al tabulato. «È stampato qui. Se avessi avuto la possibilità di ottenere le informazioni direttamente, scommetto che ne avrei scoperti di più.» «Lo pensi davvero? Mio Dio, undici casi... Ma come hai fatto a ottenere questi dati?» «Henry Schwartz è stato così gentile da aiutarmi,» rispose Susan con indifferenza. «E chi diavolo è Henry Schwartz?» «Non ne ho la minima idea.» «Pietà,» Bellows si coprì gli occhi con la mano. «Sono troppo stanco per gli indovinelli.» «È un disturbo cronico o una malattia acuta?» «Piantala con le stronzate! Come hai fatto a ottenere questi dati? Le richieste di questo tipo devono essere vistate dal reparto.» «Oggi pomeriggio sono salita di sopra, ho riempito uno di quei moduli M804, l'ho dato a un uomo simpatico che stava al banco, e stasera sono
tornata a ritirare i risultati.» «Scusa se te l'ho chiesto.» Bellows si alzò come per far capire che non voleva più parlarne. «Ma undici casi, però! Tutti durante l'anestesia?» «No. Harris era in buona fede quando ha parlato di sei. Gli altri cinque erano tutti pazienti interni del reparto medicina. La loro diagnosi è stata: reazione da idiosincrasia. Non ti sembra un pochino strana?» «No.» «Oh, dài! La parola idiosincrasia è bella, altisonante, ma in realtà significa che non avevano idea di che roba fosse.» «Potrebbe essere vero. Ma, mia cara Susan, questa è una grande clinica, non un club. È l'ospedale centrale di tutto il New England. Lo sai quanti casi di morte abbiamo in media ogni giorno?» «La morte ha delle cause... questi casi di coma no... almeno, finora no.» «Non sempre la morte ha delle cause evidenti. L'autopsia esiste, proprio per questo.» «Ecco, hai messo il dito sulla piaga. Quando qualcuno muore, gli fai l'autopsia per scoprire le cause del decesso o magari soltanto accrescere il tuo bagaglio di conoscenze. Bene, nei casi di coma non la fai perché il malato è come sospeso tra la vita e la morte. Ciò rende ancora più importante la necessità di fare qualche altro tipo di 'opsia', una 'vivopsia', se vuoi. Anziché sezionare il corpo, studi tutti gli indizi disponibili. La diagnosi è tanto importante quanto quella di un'autopsia, forse anche di più. Se riusciamo a scoprire che cosa non ha funzionato con questa gente, può darsi che riusciamo a svegliarli. O meglio ancora, a evitare in partenza che sopravvenga il coma.» «Nemmeno l'autopsia,» replicò Bellows, «fornisce sempre una risposta. Ci sono un sacco di casi in cui la causa esatta della morte resta un mistero, con o senza autopsia. Per esempio, mi risulta che oggi due ricoverati abbiano gettato la spugna, ma dubito molto che si cercherà di stabilire una causa.» «E perché?» «Perché entrambi sono deceduti per arresto respiratorio. Insomma, pare che abbiano semplicemente smesso di respirare, molto tranquillamente e senza preavviso. Sono stati trovati morti. E in casi del genere non sempre si scopre a che cosa dare la colpa.» Bellows aveva catturato l'attenzione di Susan, che si mise a fissarlo senza muovere un muscolo. «Stai bene?» le chiese agitandole una mano davanti alla faccia. Ma Susan restò immobile. Poi, finalmente, abbassò gli
occhi sul suo tabulato. «Che diavolo hai? L'epilessia?» esclamò Mark. Susan alzò gli occhi su di lui. «Epilessia? Ma dai! Hai detto che questi due malati di oggi sono morti per arresto respiratorio?» «Sembra. Cioè, hanno smesso di respirare e paff! partiti.» «E perché erano ricoverati qui?» «Non lo so esattamente. Credo che uno di loro avesse dei problemi con una gamba. Forse una flebite, poi gli era venuto un embolo polmonare o qualcosa del genere. L'altro era ricoverato per una paralisi di Bell.» «E gli avevano fatto una fleboclisi?» «Non ricordo, ma non ci sarebbe niente di strano. Perché me lo chiedi?» Susan si morse il labbro inferiore, meditando sulle ultime parole di Bellows. «Sai una cosa, Mark? Queste due morti potrebbero essere collegate ai casi di coma. Potresti aver trovato qualcosa di importante. Come si chiamavano? Te lo ricordi?» «Cristo, Susan, ma sta proprio diventando un chiodo fisso. Hai lavorato troppo e cominci ad avere le allucinazioni.» Bellows assunse un tono artificiosamente preoccupato. «Non aver paura, comunque. Succede ai migliori di noi, dopo che sono rimasti su per due o tre notti di fila.» «Mark, io parlo sul serio.» «Lo so che parli sul serio. È proprio questo che mi preoccupa. Perché non ti concedi una pausa, e dimentichi tutta la faccenda per un paio di giorni? Dopo potrai ricominciare, e sarai più obiettiva. Ti faccio una proposta. Domani ho la serata libera, e con un po' di fortuna posso filarmela di qui alle sette. Perché non usciamo a cena? Sei qui da appena un giorno, ma hai bisogno come me di startene un po' alla larga.» Bellows non aveva programmato di chiedere così presto a Susan di uscire con lui, né di chiederglielo in quel modo. Ma era soddisfatto; la proposta gli era uscita fuori spontaneamente, e un eventuale rifiuto l'avrebbe irritato meno. Sembrava una cosa detta così, senza secondi fini, giusto per stare un po' insieme. «D'accordo per la cena, non so rifiutare un invito a cena nemmeno se me lo fa un mollusco. Ma senti, Mark, come si chiamavano i due ricoverati morti oggi?» «Crawford e Ferrer. Erano nel Beard 6.» Susan strinse le labbra e scrisse i due nomi sul quaderno. «Gli darò un'occhiata domattina. Anzi...» guardando l'orologio, «...magari stasera
stessa. Se faranno un'autopsia, quando sarà?» «Forse stasera, o domattina presto.» Bellows si strinse nelle spalle. «Be', allora è meglio che controlli stasera.» Susan ripiegò il suo foglio. «Grazie, Mark. Mi hai dato di nuovo una mano, vecchio mio.» «Di nuovo?» «Sì. Grazie per quegli articoli che hai fatto fotocopiare. Un giorno potrai diventare un buon segretario.» «Va' a farti fottere.» «Ehi, ehi! A domani sera, allora. Che ne dici del Ritz? Non ci mangio da qualche settimana.» Susan si avvicinò alla porta. «Non andartene così in fretta, Susan. Ti voglio vedere domani alle sei e mezzo. Ricordati il nostro patto. Ti coprirò per un altro giorno, ma solo se vieni a fare il giro in corsia.» «Mark, sei stato tanto caro. Davvero. Non roviniamo subito tutto.» Susan sorrise e si scostò un ciuffo di capelli dalla faccia con civetteria esagerata. «Domani andrò avanti a leggere tutto questo materiale che mi hai procurato. Mi serve un'altra giornata completa. Ne torneremo a discutere domani sera.» E se ne andò. Bellows si sentì di nuovo incoraggiato nei riguardi di Susan. Finì il suo caffè e si alzò in piedi. Aveva un sacco di lavoro da fare. lunedì 23 febbraio ore 20.32 Il laboratorio di patologia si trovava nel sotterraneo dell'edificio principale. Susan scese le scale e sbucò in un corridoio che a destra scompariva nel buio e a sinistra faceva una curva. Al soffitto, a intervalli di dieci metri, erano appese delle lampadine non schermate. Tra una lampadina e l'altra c'era una zona meno illuminata, dove il groviglio di tubi sul soffitto provocava uno strano gioco d'ombre. Di fronte a Susan, parzialmente nascosta alla vista, c'era una freccia con sopra scritto PATOLOGIA. Susan s'incamminò lungo il corridoio; sul pavimento di cemento i suoi tacchi facevano un rumore cupo che si mescolava al sibilo dei tubi del vapore. L'atmosfera era opprimente; l'ubicazione del laboratorio di patologia nelle viscere dell'ospedale era sinistramente adatta. Susan ci stava andando senza nessun entusiasmo. Per lei la patologia rappresentava il lato oscuro della medicina; anzi era la disciplina che
traeva il proprio nutrimento dalla morte. Le argomentazioni sull'utilità delle biopsie, o sui benefici indiretti che i vivi ricevevano dalle autopsie, con Susan erano sprecate. Aveva visto una sola autopsia durante il corso di patologia, e le era bastato. La vita non le era mai sembrata così fragile né la morte così definitiva come quando aveva osservato i due robusti anatomopatologi smembrare il corpo di un uomo appena morto. Il ricordo le fece rallentare il passo, ma non la fermò. Ormai si era decisa. Ma a furia di girare prima a destra e poi a sinistra le sembrava di avere già fatto almeno cento metri. Si guardò nervosamente dietro le spalle, caso mai avesse già superato la porta del laboratorio. Sempre più incerta, continuò ad avanzare. In più punti le lampadine erano rotte, e Susan vedeva la propria ombra allungarsi davanti a sé; poi raggiungeva una nuova zona illuminata, e l'ombra scompariva. Infine si trovò di fronte a una porta a due ante, con delle finestrelle di vetro opaco e crepato su cui era scritto VIETATO L'INGRESSO AI NON AUTORIZZATI. Sull'anta di destra, sotto la finestrella, si leggeva: LABORATORIO DI PATOLOGIA. Susan si arrestò davanti alla porta, cercando di farsi coraggio e chiedendosi a che tipo di scena dovesse prepararsi. Socchiuse appena un'anta e diede un'occhiata all'interno: la stanza era dominata da un lungo tavolo di pietra nera, che la occupava per quasi tutta la sua lunghezza; sopra al tavolo erano ammassati microscopi, lastrine, preparati chimici, libri, e un sacco di altri aggeggi. Susan spalancò la porta ed entrò. Immediatamente la raggiunse l'odore acre e pungente della formaldeide. L'intera parete di destra era ricoperta da una scaffalatura alta fino al soffitto. Gli scaffali erano stipati di bottiglie e vasetti di tutte le misure. Osservando più da vicino, Susan si accorse che la massa amorfa e scolorita contenuta nel vaso di vetro più grosso era una testa umana tagliata verticalmente a metà. Proprio sotto la lingua dimezzata c'era una massa granulosa. L'etichetta sul vaso diceva semplicemente: «CARCINOMA FARINGEO, N. 304-A6 1932.» Susan rabbrividì e cercò di evitare di guardare gli altri campioni raccapriccianti. All'altro capo della stanza c'era una porta identica a quella del corridoio. Da dietro giungeva un miscuglio di voci e rumori metallici. Susan si avvicinò cercando di far meno rumore che poteva; si sentiva un'intrusa in quell'ambiente strano e potenzialmente ostile. Cercò di guardare attraverso la fessura tra le due ante della porta. Anche se il suo campo visivo era limitato, capì subito che quello era l'obitorio.
Adagio adagio aprì una delle ante. Nella sala echeggiò d'improvviso un suono acuto. Susan si voltò di colpo, richiudendo la porta. Sulle prime pensò di aver fatto scattare qualche sistema d'allarme, provò l'impulso di scappar fuori. Ma prima che potesse muoversi, un interno di patologia uscì da una porta laterale. «Salve!» Si diresse al lavello e prese un irrigatore d'acqua distillata; le sorrise e spruzzò l'acqua su un vassoio di vetrini che stava tingendo. A poco a poco il loro colore viola scuro svanì. «Benvenuta al laboratorio di patologia. Studentessa?» «Sì,» rispose Susan con un sorriso sforzato. «Non vediamo spesso degli studenti di medicina a quest'ora del giorno... o della sera. C'è qualcosa di particolare che possiamo fare per lei?» «No, la ringrazio. Stavo solo dando un'occhiata in giro. Sono nuova qui.» Susan si infilò le mani nelle tasche del camice. «Faccia come se fosse a casa sua. C'è del caffè in ufficio, se le interessa.» «No, davvero.» Susan tornò verso il tavolo e si mise a guardare dei vetrini a caso. Il medico mise del colorante ambrato nel vassoio dei vetrini e regolò il timer. «A ripensarci bene, forse lei potrebbe aiutarmi,» disse Susan continuando a giocherellare coi vetrini sul tavolo. «Oggi sono morti dei pazienti del Beard 6. Mi chiedevo se fossero già stati... ehm...» Cercò la parola giusta. «Come si chiamavano?» chiese l'interno cominciando a lavarsi le mani. «C'è un'autopsia in corso proprio adesso.» «Ferrer e Crawford.» Il medico andò a consultare la tabella appesa al muro. «Mmm.. Crawford. Non mi giunge nuovo. Credo che fosse un caso di competenza del perito settore. Ecco qui Ferrer... questo è un caso del capo. E avevo ragione. Anche Crawford lo è. Aspetti.» L'interno si avvicinò velocemente alla porta dell'obitorio, e spalancò un'anta col palmo della mano; tenendo con l'altra mano l'anta rimasta chiusa, si sporse dentro la sala. «Ehi, Hamburger, come si chiama il caso che state facendo?» Ci fu una pausa e una voce disse qualcosa che però Susan non riuscì a capire. «Crawford? Pensavo che fosse del capo.» Un'altra pausa. L'interno rientrò, e in quello stesso momento il timer suonò di nuovo. Lo squillo fece sobbalzare Susan per la seconda volta. Il medico spruzzò altra
acqua distillata sui vetrini. «Il capo ha lasciato tutti e due i casi a noi. Il solito maledetto scansafatiche! Adesso stanno facendo Crawford.» «Grazie,» rispose Susan. «Si potrebbe dare un'occhiata?» «Ma certo, con piacere.» Susan si fermò un momento davanti alla porta, ma sentendosi fissata la spalancò ed entrò. Era un locale quadrato di circa dieci metri di lato, vecchio e sporco. Le pareti erano ricoperte di piastrelle crepate, che in più punti si erano ormai staccate. Il pavimento era di cemento grigiastro. Al centro c'erano tre tavoli di marmo coi ripiani inclinati; lungo ogni ripiano scorreva un getto d'acqua continua, ininterrottamente risucchiata da un tubo di drenaggio. Sopra ogni tavolo erano appesi una lampada, una bilancia e un microfono. Nel punto in cui si trovava Susan il pavimento era circa un metro più alto che nel centro della sala, e tutt'intorno al tavolo c'erano delle file di panche, ricordo dei tempi in cui gruppi di studenti assistevano alle autopsie. C'era un'unica lampada accesa. Il suo fascio di luce illuminava un corpo nudo sdraiato sul tavolo. Ai lati c'erano due interni di patologia con grembiuli di tela cerata e guanti di gomma. Al di fuori della lampada la stanza era nella penombra, conferendo alla scena l'aspetto di un macabro quadro di Rembrandt. Il tavolo centrale era in ombra, ma Susan riusciva a distinguere un altro corpo nudo sdraiato, con un cartellino legato al dito di un piede. Un'incisione suturata a forma di Y attraversava il torace e l'addome del cadavere. Il terzo tavolo si scorgeva a malapena, ma sembrava vuoto. L'ingresso della ragazza fece fermare l'attività della sala. I due interni la guardarono chinando la testa, per evitare il bagliore della lampada sovrastante. Uno dei due, un tipo con grossi baffi e basette, stava suturando l'incisione a Y. L'altro, che era più alto di una trentina di centimetri e aveva davanti una bacinella contenente gli organi asportati, lanciò un'occhiata a Susan, quindi ritornò al lavoro. Frugò con la mano sinistra tra l'ammasso di organi ed estrasse il fegato; poi prese con la destra un coltello da macellaio affilato come un rasoio, e con rapidi colpi staccò il fegato dal resto degli organi; lo posò sulla bilancia, premette col piede un pulsante sul pavimento, e cominciò a parlare nel microfono. «Il fegato appare di un colore marrone rossiccio con una superficie screziata, punto. Il peso è di circa... due virgola quattro chilogrammi, punto.» Quindi tolse il fegato dal piatto della bilancia e lo ributtò nella bacinella. Susan scese qualche gradino, avvicinandosi al tavolo. C'era un odore
come di pesce; l'aria era grassa e pesante, come in un gabinetto pubblico sporco. «La consistenza del fegato è più dura del normale, ma decisamente morbida, punto.» Il coltello tagliò il fegato in quattro o cinque punti, poi ne asportò un pezzetto dal centro. «Il campione estratto mostra la solita consistenza friabile, punto.» Susan si accostò al tavolo, davanti al tubo di drenaggio. Il medico più alto mise una mano nella bacinella per estrarre un altro organo, ma si fermò sentendo passare il collega. «Be', salve...» «Salve,» disse Susan. «Scusate il disturbo.» «Nessun disturbo. Anzi, se vuole può aiutarci. Comunque abbiamo quasi finito.» «Grazie, ma mi basta guardare. Questo chi è? Crawford o Ferrer?» «Questo è Ferrer,» rispose l'interno. Poi indicò l'altro corpo. «Crawford è quello lì.» «Volevo sapere se avete stabilito le cause del decesso.» «No,» intervenne il più alto. «Ma non abbiamo ancora aperto i polmoni di questo. Crawford sembrava più o meno a posto. Forse le sezioni microscopiche potranno chiarire qualcosa.» «Vi aspettate di trovare qualcosa nei polmoni?» «Vede, dato che sembra esserci stato un apparente arresto respiratorio, stavamo prendendo in considerazione la possibilità di un'embolia polmonare. Ma credo che non riusciremo a scoprire niente. Forse nei campioni di cervello.» «Perché pensate di non trovare niente?» «Ho già incontrato casi del genere, e non ho mai trovato niente. E la storia è sempre la stessa: passa qualcuno e si accorge che il malato non respira più. C'è un tentativo di rianimazione, ma senza successo. Poi li danno a noi, o meglio il capo ce li passa.» «Quanti casi del genere ha visto?» «In che periodo?» «Non so... uno, due anni.» «Forse sei o sette negli ultimi due anni, a occhio e croce.» «E non avete nessuna idea delle cause della morte?» «No.» «Nessuna?» Susan era stupita. «Mah, io credo che sia qualcosa che riguarda il cervello. Qualcosa che fa
cessare la respirazione. Magari un colpo. Ho preso un numero di campioni di cervello che lei non si immagina neanche in due casi simili.» «E...» «E niente. Tutto regolare.» Susan cominciò a provare una leggera nausea. L'atmosfera, l'odore, le immagini, i rumori, tutto contribuiva a darle le vertigini. Rabbrividì e tentò di deglutire. «Sono qui le cartelle di Ferrer e Crawford?» «Sì, sono nella sala ristoro, dietro il laboratorio.» «Andrò a darci un'occhiata. Se scoprite qualcosa di interessante, mi chiamate? Mi piacerebbe vedere.» L'interno più alto prese il cuore e lo posò sulla bilancia. «Questi due sono suoi pazienti?» «Non proprio,» rispose Susan avviandosi alla porta. «Ma potrebbero diventarlo.» L'interno più alto diede un'occhiata interrogativa al collega che stava guardando Susan e pensando a come avere il suo nome e il suo numero di telefono. Susan entrò nella sala ristoro. C'era una macchina del caffè vecchio modello con la vernice bruciacchiata e i fili elettrici così consunti da rappresentare un vero pericolo. Lungo due pareti c'era un bancone ingombro di fogli, schede, libri, tazze di caffè, e un'infinità di penne a sfera. «Ha fatto presto,» esclamò l'interno che Susan aveva incontrato prima. Era seduto al banco, con una tazza di caffè e un krapfen mezzo mangiato davanti. Stava firmando una grossa pila di referti dattiloscritti. «Sembra che le autopsie non siano il mio forte,» ammise Susan. «Ci si abitua, come a qualsiasi altra cosa,» disse il medico dando un morso al krapfen. «Può darsi. Dove potrei trovare le cartelle dei due pazienti di là?» L'interno buttò giù il krapfen con un sorso di caffè, inghiottendo con un certo sforzo. «In quello scaffale contrassegnato con AUTOPSIE. Quando ha finito di leggerle, le metta in quello scaffale là, dove c'è scritto ARCHIVIO. Qrmai non ci servono più.» Susan andò allo scaffale indicatole e trovò le cartelle di Crawford e di Ferrer. Si sedette al bancone, lo ripulì un po' dalle briciole e aprì il suo quaderno. In testa a una pagina bianca scrisse CRAWFORD, e in un'altra FERRER. Quindi cominciò a ricopiare il contenuto delle cartelle come a-
veva fatto con Nancy Greenly. martedì 24 febbraio ore 8.05 Susan trovò incredibilmente difficile uscire dal tepore del suo letto quando la radiosveglia si accese. Il fatto che la musica fosse una canzone di Linda Ronstadt le fu tuttavia di grande aiuto, perché le fece nascere delle associazioni piacevoli nella mente; invece di spegnere la radiosveglia se ne restò un po' sdraiata nel letto, lasciandosi cullare dai suoni e dal ritmo. Alla fine della canzone, Susan era ormai completamente sveglia, e la sua mente ripercorse rapidamente i fatti del giorno prima. Aveva passato tutta la sera, fin quasi alle tre di notte, concentrata sugli articoli delle riviste mediche, i libri di anestesiologia, e i suoi testi di medicina e neurologia clinica. Aveva accumulato un'enorme quantità di appunti, e la sua bibliografia era ormai di quasi cento articoli; adesso doveva andare a cercare in biblioteca. Il suo progetto era diventato più complesso, più arduo, ma nello stesso tempo più affascinante e avvincente. Cosi Susan era ancora più decisa, e pensava che quel giorno avrebbe dovuto fare un sacco di cose. Fece la doccia, si vestì e fece colazione a gran velocità. Mentre mangiava rilesse un po' dei suoi appunti, e si rese conto che avrebbe dovuto dare un'altra occhiata agli ultimi articoli che aveva letto la notte prima. Durante il tragitto fino alla fermata dell'autobus di Huntington Avenue Susan poté constatare che il tempo non era cambiato; maledisse il fatto che Boston fosse situata così a nord. Con un po' di fortuna riuscì a trovar posto a sedere; aprì il tabulato del computer per ricontrollare il numero dei casi. «Lieto di vederti, Susan. Non mi dire che oggi vieni a lezione.» Alzò gli occhi e si trovò davanti la faccia sorridente di George Niles, che si reggeva al corrimano sopra la sua testa. «Non ne ho mai saltata una, George, lo sai bene.» «Però sembra che tu abbia saltato il giro della corsia. Sono le nove passate.» «Potrei dire lo stesso di te.» Il tono di Susan era a metà tra l'amichevole e il combattivo. «Mi è stato tassativamente prescritta una visita mutualistica, per avere la certezza che nell'avvenimento di gala che c'è stato ieri in sala operatoria io non abbia subito una frattura comminuta del cranio.» «Tutto bene, vero?» chiese Susan sinceramente preoccupata.
«Sì, sono intero. Solo che è difficile rattoppare il mio io ferito. È l'unica cosa che si è rotta. Ma il medico della mutua ha detto che l'io si aggiusterà da solo.» Susan scoppiò a ridere, imitata da Niles. L'autobus oltrepassò la Northeastern University. «Sparire per metà della tua prima giornata di pratica ospedaliera, e poi saltare il giro in corsia il giorno dopo! È riprovevole, Miss Wheeler.» George prese un'aria seria. «Se continui così potrai concorrere all'elezione dello Studente Fantasma dell'Anno. Potrai battere il record stabilito da Phil Greer nel secondo anno di patologia.» Susan non rispose, e si rimise a studiare lo stampato del computer. «A cos'è che stai lavorando?» chiese Niles storcendo la testa per dare un'occhiata al foglio. Susan alzò gli occhi. «Sto preparando il discorso per la cerimonia di consegna del Premio Nobel. Te ne parlerei, ma non vorrei farti perdere la lezione.» L'autobus entrò in un tunnel, e il rumore rese impossibile la conversazione. Susan voleva essere sicurissima delle cifre. Il Beard 8, coi suoi uffici privati, assomigliava al 10. Susan percorse il corridoio e si fermò davanti al numero 810. Sulla vecchia ma lucida porta di mogano era scritto in nitidi caratteri neri: REPARTO MEDICINA — DOTT. PROF. J. P. NELSON. Nelson era il primario di medicina, un incarico equivalente a quello di Stark, ma relativo alla medicina interna e alle sue specializzazioni. Nelson era anche un personaggio potente nel centro medico, seppure non avesse né l'influenza né il dinamismo di Stark. Quanto poi alla capacità di ottenere fondi non era neanche lontanamente paragonabile a lui. Ciononostante Susan dovette fare appello a tutto il proprio coraggio per avvicinarsi a questa specie di divinità medica. Dopo un attimo di esitazione aprì la porta di mogano e si trovò di fronte una segretaria con gli occhiali senza montatura e un sorriso rassicurante. «Mi chiamo Susan Wheeler, e ho telefonato qualche minuto fa per vedere il professore.» «Ah, sì, certo. Lei è una dei nostri studenti di medicina?» «Esatto,» rispose Susan, senza essere ben sicura di che cosa significasse quel «nostri». «È stata fortunata, Miss Wheeler, a trovare il professor Nelson. Inoltre mi sembra che si ricordi di lei, deve averla vista a qualche lezione, credo.
Sarà da lei tra un attimo.» Susan ringraziò e andò a sedersi su una poltrona della sala d'attesa. Tirò fuori il quaderno, per controllare di nuovo i suoi appunti, ma poi si perse a guardare la stanza e la segretaria, espressioni dello stile di vita di Nelson. Nella gerarchia della facoltà di medicina, una posizione come la sua rappresentava il trionfo finale dopo anni di duro lavoro e anche di fortuna. Ed era proprio questo tipo di fortuna che Susan credeva di intravedere dietro la sua attuale ricerca. In medicina, un colpo di fortuna era indispensabile; dopo tutte le porte si aprivano. Le sue fantasticherie vennero interrotte dall'aprirsi della porta del professor Nelson. Ne uscirono due medici con lunghi camici bianchi, che continuarono la loro conversazione sulla soglia. Susan riuscì a cogliere qualche parola: sembrava che stessero discutendo del ritrovamento di un'enorme quantità di medicinali in un armadietto della sala dei chirurghi. Il più giovane dei due medici era assai turbato e parlava in tono basso e concitato. L'altro aveva l'aspetto di un medico già affermato, con fluenti capelli grigi, un sorriso pacato e lo sguardo sicuro di sé. Susan capì che doveva essere Nelson. Sembrava che stesse cercando di calmare l'altro con frasi rassicuranti e pacche sulla spalla. Appena il medico più giovane se ne andò, Nelson si voltò verso Susan e la invitò a seguirlo. Lo studio del professor Nelson era un caos di ritagli di riviste mediche, libri, pacchi di lettere. Sembrava che qualche anno prima nella stanza fosse passato un tornado, e che da allora nessuno si fosse più preoccupato di rimettere in ordine. L'arredamento era costituito da una grossa scrivania e da una vecchia poltrona di pelle screpolata, che cigolò appena Nelson ci appoggiò sopra il suo peso. Davanti allo scrittoio c'erano due poltrone più piccole. Il medico fece cenno a Susan di sedersi e aprì un barattolo di tabacco. Prima di riempire la pipa, la batté alcune volte contro il palmo della mano, e gettò con noncuranza per terra la cenere che ne uscì. «Ah, sì, Miss Wheeler,» esclamò poi, dando un'occhiata a una scheda che aveva sul tavolo. «Mi ricordo bene di lei, l'ho avuta nel corso di diagnostica. Veniva da Wellesley.» «Radcliffe.» «Ah già, Radcliffe. Ma certo.» Nelson fece una correzione sulla scheda. «Che cosa possiamo fare per lei?» «Non so bene... Ho cominciato a interessarmi al problema del coma prolungato, e così mi sono messa a studiarlo...» Il professor Nelson si appoggiò allo schienale, e la poltrona emise un al-
tro cigolio lamentoso. «Molto bene,» sorrise unendo le punte delle dita. «Ma il coma è un argomento molto vasto e, soprattutto, è un sintomo, non una malattia in sé. È la causa del coma che conta. Qual è la causa di coma di cui lei ha iniziato a occuparsi?» «Non lo so. Cioè... è proprio per questo che mi interessa. Mi interessa il tipo di coma che sopravviene senza che se ne conosca la causa.» «E si tratta di pazienti del pronto soccorso o di degenti?» chiese Nelson, col tono di voce leggermente alterato. «Degenti.» «Allude ai pochi casi verificatisi durante gli interventi chirurgici?» «Se per lei sette sono pochi...» «Sette...» Il professore tirò ripetutamente dalla pipa. «Credo che sia una stima un po' alta.» «Non è una stima. Sei casi sono già avvenuti. Al momento ce n'è uno nuovo, un'operazione di ieri, che sembra rientrare nella stessa categoria. Inoltre ci sono stati almeno altri cinque casi nel reparto medicina. Riguardano malati ricoverati per infermità non collegabili al coma.» «Come ha ottenuto queste informazioni, Miss Wheeler?» Ogni cordialità era ormai scomparsa dalla voce di Nelson. I suoi occhi fissavano Susan. Ma la ragazza sembrò non accorgersi del cambiamento. «Le ho avute dal computer.» Susan si protese avanti e diede il tabulato al professor Nelson. «Ho sottolineato in giallo i casi di cui le parlavo prima. Può vedere lei stesso che non ci sono errori. Inoltre, questi sono solo i casi di coma dell'ultimo anno. Non so quale sia stata la percentuale prima, e credo che sarebbe essenziale richiedere i dati degli anni precedenti. In questo modo si potrebbe verificare se il fenomeno ha un andamento statico o dinamico. E c'è una cosa ancora più importante, o almeno d'importanza non minore: ho la sensazione che un certo numero di morti improvvise qui al Memorial possano farsi risalire alla stessa causa ignota. Credo che anche in ciò il computer potrebbe esserci d'aiuto. Ecco, è per tutto questo che volevo parlare con lei. Ho pensato che forse lei sarebbe stato disposto ad appoggiare la mia ricerca. Mi servirebbe il permesso di usare il computer e di consultare le cartelle dei pazienti. Sono venuta da lei perché mi pare di intuire che questo rappresenti un problema medico mai studiato prima.» Finita la sua esposizione, Susan si lasciò andare contro lo schienale della poltrona. Era convinta di essersi spiegata in modo chiaro e completo. Nel caso che il professor Nelson fosse interessato, pensava di avergli dato suf-
ficienti elementi di decisione. Nelson restò in silenzio, continuando a fissare Susan; quindi si mise a esaminare lo stampato; di tanto in tanto faceva brevi e rapidi tiri dalla pipa. «Sono informazioni molto interessanti. Naturalmente conoscevo già il problema. Tuttavia, ci sono altre implicazioni in questi dati. Le posso assicurare che il numero di casi apparentemente così alto si è verificato perché... ecco, francamente... siamo stati fortunati negli ultimi cinque o sei anni a non averne. Le statistiche hanno la particolarità di colpire molto la fantasia e... ed è così anche questa volta. Riguardo alla sua richiesta,» temo di non poterla aiutare. Lei si rende conto benissimo che uno dei maggiori ostacoli che abbiamo incontrato nella creazione della nostra banca dei dati è stata proprio la segretezza delle informazioni. Mi è impossibile darle carta bianca. Infatti, questo tipo di ricerca è veramente... come dire... mmm... oltre... o al di sopra del livello di conoscenze di una studentessa. Io penso che sarebbe nell'interesse di tutti, compreso il suo, se lei limitasse la sua indagine a un campo più scientifico. Potrei senz'altro trovarle un posto nel laboratorio per le ricerche sul fegato, se le interessa.» Susan era talmente abituata all'incoraggiamento da parte dei professori che fu colta completamente di sorpresa dal rifiuto di Nelson. Non solo non era interessato, ma stava chiaramente cercando di farla desistere. Susan esitò, poi si alzò. «La ringrazio molto per l'offerta. Ma ormai sono così presa nella mia ricerca che credo proprio che la continuerò ancora per un po'.» «Come vuole, Miss Wheeler. Mi dispiace di non poter fare niente per lei.» «Mi scusi per il tempo che le ho sottratto,» disse Susan facendo per riprendersi il suo tabulato. «Temo che queste informazioni non possano più essere lasciate a sua disposizione,» sorrise Nelson posando una mano sullo stampato del calcolatore. Susan restò per un attimo con la mano tesa, incerta. Nelson l'aveva colta di sorpresa per la seconda volta. Le sembrava assurdo che avesse davvero la faccia tosta di confiscarle del materiale suo. Susan non aprì bocca, ed evitò di guardare il professore. Uscì. Nelson sollevò immediatamente il ricevitore del telefono e formò un numero. martedì 24 febbraio ore 10.48
Nell'ufficio del professor Harris c'era un intero scaffale pieno dei libri più recenti di anestesiologia; alcuni di essi erano ancora in bozza e gli erano stati inviati perché desse la propria approvazione. Per Susan era una manna, e i suoi occhi percorsero immediatamente la scansia in cerca dei testi sulle complicazioni. Ne trovò uno, e trascrisse il titolo e l'editore sul quaderno; quindi guardò se ci fosse qualche volume di carattere generale che non avesse visto in biblioteca. Ne trovò uno: Coma: base patofisiologica degli stati clinici. Eccitata, prese il volume e lo sfogliò osservando i titoli dei capitoli. Rimpianse di non aver ancora potuto leggerlo. La porta dello studio si aprì. Susan sollevò gli occhi dal libro e si trovò di fronte per la seconda volta il professor Harris. Si sentì subito un po' intimidita e anche un po' offesa: Harris, infatti, non solo non mostrava di riconoscerla, ma la guardava con ostilità. Non era stata di Susan l'idea di aspettarlo nel suo studio: gliel'aveva detto la segretaria che aveva combinato l'appuntamento. Adesso Susan si sentiva a disagio, come un'estranea intrufolatasi nel santuario privato di Harris. Il fatto che avesse in mano uno dei suoi libri peggiorò ulteriormente le cose. «Badi di rimettere quel libro nel punto esatto da cui l'ha preso,» le disse Harris mentre si girava per richiudere la porta. Aveva parlato adagio, come se si stesse rivolgendo a un bambino. Si tolse il lungo camice e l'appese a un gancio dietro la porta. Senza aggiungere parola, andò a sedersi al suo tavolo e cominciò ad annotare qualcosa su un grosso registro. Si comportava come se lei non ci fosse. Susan chiuse il libro e lo ripose nello scaffale; poi tornò a sedersi sulla poltroncina su cui aveva cominciato la sua attesa, mezz'ora prima. L'unica finestra della stanza era alle spalle di Harris, e la sua luce, unita a quella della lampada al neon del soffitto, dava uno strano contorno al profilo del professore. Susan riceveva la luce direttamente in faccia e dovette stringere gli occhi. Nonostante la stagione e la temperatura, Harris indossava una camicia blu a maniche corte, che metteva in mostra i suoi avambracci muscolosi. La carnagione scura delle braccia faceva risaltare l'orologio digitale d'oro che aveva al polso sinistro. Passarono parecchi minuti prima che finisse di scrivere. Dopo aver chiuso il registro, premette il pulsante dell'interfono e chiamò la segretaria. E finalmente si voltò verso Susan, prendendo atto della sua esistenza. «Miss Wheeler, devo dire che sono sorpreso di trovarla nel mio studio.»
Si lasciò andare lentamente contro lo schienale della poltrona. Sembrava che fosse in imbarazzo a guardare la ragazza negli occhi. A causa dell'illuminazione della stanza, Susan non riusciva a distinguere bene i dettagli della sua faccia. Il suo tono di voce era freddo. Ci fu qualche attimo di silenzio. «Vorrei scusarmi,» cominciò Susan, «per il mio comportamento irrispettoso di ieri. Come forse lei saprà, è la mia prima esperienza in ospedale, e non sono abituata all'ambiente, in particolare a quello della sala postoperatoria. Per di più c'è stata una strana coincidenza. Un paio d'ore prima del nostro incontro, ho passato un po' di tempo proprio col suo paziente. Sono stata io a fargli la fleboclisi prima dell'operazione.» Fece una pausa, sperando di ricevere qualche cenno di riscontro da parte della figura senza volto che aveva davanti. Non arrivò niente. Nessun gesto. Susan riprese: «Ora la mia conversazione col malato non si è limitata solo al piano professionale. Abbiamo fatto conoscenza e deciso di comune accordo di rivederci fuori dall'ospedale.» Susan si fermò di nuovo, ma Harris continuò a restare in silenzio. «Le sto dicendo tutto questo per spiegare la mia reazione di ieri. Non c'è bisogno di dire che quando mi sono resa conto dello stato di quell'uomo, sono rimasta un po' sconvolta.» «Così è ritornata alle vestigia del suo sesso,» esclamò Harris in tono condiscendente. «Scusi?» Susan aveva sentito chiaramente il commento, ma pensò subito di non aver capito bene. «Ho detto: è ritornata alle vestigia del suo sesso.» Susan si accorse di stare arrossendo. «Non so proprio come interpretare la sua frase...» «La interpreti alla lettera.» Una pausa imbarazzante. Alla fine la ragazza parlò: «Se questa è la sua opinione sulle donne, allora mi dichiaro colpevole. Qualunque essere umano comprenderebbe il mio comportamento. Riconosco di non essere stata un perfetto esempio di professionalità nel mio primo incontro col paziente, ma penso che se i ruoli fossero stati scambiati, se io fossi stata la malata e lui il medico, sarebbe successa la stessa cosa. Non credo proprio che la sensibilità per gli aspetti umani sia una forma di debolezza tipica delle studentesse femmine. Specialmente se faccio il confronto col comportamento dei miei colleghi maschi nei riguardi delle infermiere. Comunque, io sono solo venuta qui per scusarmi della mia impertinenza nei suoi
confronti. Non certo per scusarmi di essere una donna. Nient'altro.» Susan si interruppe di nuovo in attesa di qualche risposta. Non ne arrivò nessuna. Cominciò a irritarsi. «Se il fatto che io sia una donna le dà fastidio, sono problemi suoi,» proclamò con enfasi. «Sta di nuovo diventando impertinente, mia cara,» commentò Harris. Susan si alzò in piedi e guardò la faccia dell'uomo, i suoi occhi socchiusi, le guance paffute, il mento prominente. La luce giocava sul contorno dei suoi capelli, simili a una filigrana d'argento. «Mi scusi se l'ho disturbata. Arrivederci, professor Harris.» Susan aprì la porta dello studio. «Perché è venuta?» le chiese l'uomo. Con la mano sulla maniglia, la ragazza guardò nel corridoio e meditò su quella domanda. Era combattuta tra andarsene o rispondergli. Alla fine si girò e guardò in faccia il primario anestesista. «Gliel'ho detto. Pensavo di scusarmi. Pensavo che potessimo dire: quel che è stato è stato. Avevo la speranza irrazionale che lei mi concedesse il suo aiuto.» «Per che cosa?» Adesso la voce di Harris era un po' meno distaccata. Susan esitò di nuovo, incerta, poi richiuse la porta e tornò indietro. Si avvicinò alla sedia su cui si era messa prima, ma non si sedette. Osservò Harris, rifletté che non aveva niente da perdere: poteva dirgli perché era venuta, nonostante la sua freddezza. «Lei mi ha detto che nell'ultimo anno ci sono stati sei casi di coma prolungato dopo l'anestesia; perciò ho deciso di studiare il problema, come possibile argomento della mia tesi del terzo anno. Bene, ho scoperto che lei aveva pienamente ragione. Ci sono stati sei casi di coma dopo l'anestesia durante l'ultimo anno. Ma nello stesso periodo ce ne sono stati anche cinque inspiegabili in medicina. Ieri ci sono stati due decessi per apparente arresto respiratorio. L'anamnesi di questi pazienti non giustifica assolutamente il fatto. Erano ricoverati per malanni minori: uno aveva subito una piccola operazione al piede seguita da flebite, l'altro aveva la paralisi di Bell. Erano entrambi individui sani; uno dei due aveva un semplice glaucoma. Non c'è nessuna spiegazione per il loro arresto respiratorio, e ho la sensazione che possano esser messi in relazione con gli altri casi di coma. Insomma penso che qui abbiamo dodici casi che, secondo gradazioni diverse, sono tutte facce di uno stesso problema. E se Berman andrà a finire come gli altri, allora ci saranno tredici vittime dello stesso fenomeno mi-
sterioso. Ma il fatto più grave è che la percentuale sembra in aumento specialmente per i casi durante l'anestesia. L'intervallo tra un caso e l'altro si abbrevia a ritmo costante. Per continuare la mia indagine ho bisogno di qualcuno come lei. Mi serve l'autorizzazione per l'accesso al computer. E mi servono anche le cartelle cliniche delle vittime.» Harris appoggiò lentamente le braccia sul piano della scrivania. «Allora anche il reparto di medicina ha avuto dei problemi,» mormorò. «Nelson non me ne aveva parlato.» Guardò Susan e disse a voce più alta: «Miss Wheeler, lei sta sguazzando in un mare molto pericoloso. È confortante vedere uno studente, ancora fresco del primo biennio, così interessato alla ricerca clinica. Ma questa non è roba per lei. Dico questo per vari motivi. Prima di tutto, il problema del coma è molto più complesso di quanto le può sembrare. È una definizione completamente inutile, una semplice descrizione dei sintomi. Da un punto di vista razionale, poi, è assurdo collegare i casi di coma solo perché la loro causa è ignota. Miss Wheeler, le consiglio di attenersi a qualcosa di più specifico per la sua tesi del terzo anno. Per quanto riguarda il mio eventuale aiuto, devo confessarle che non ne ho il tempo. E mi lasci dire qualcos'altro, che lei dovrebbe aver già capito e che comunque non voglio tener nascosto. Non mi entusiasmano le donne in medicina.» Harris puntò un dito contro Susan e prese la mira, come se fosse un fucile. «Per loro è un gioco, un'occupazione temporanea... una cosa snob... più tardi, chissà. È di moda. E soprattutto, sono invariabilmente, insopportabilmente emotive. E...» «Professor Harris, la pianti con queste palle!» l'interruppe Susan sollevando la sedia di qualche centimetro e sbattendola giù. Era furente. «Non sono venuta qui per sentire sciocchezze del genere! È proprio la gente come lei che impedisce il progresso della medicina, e non sa stare al passo coi tempi e con le novità.» Harris batté il palmo della mano sulla scrivania, facendo volar via fogli e matite. Quasi con un solo passo girò attorno alla scrivania e si avventò sulla ragazza, paralizzata dallo stupore. La sua faccia si fermò a pochi centimetri da quella di Susan. «Miss Wheeler, lei non sa qual è il suo posto qui!» sibilò Harris, controllandosi con grande fatica. «Lei non è il Messia venuto a liberarci miracolosamente da un problema che è già stato studiato dalle menti migliori dell'ospedale. In realtà, lei esercita un influsso distruttivo. Ma gliel'assicuro:
entro ventiquattr'ore la faccio sbatter fuori dall'ospedale. E adesso esca dal mio studio!» Susan indietreggiò, temendo di voltare la schiena a quell'uomo che sembrava sul punto di esplodere d'odio. Aprì la porta e corse via per il corridoio, piangendo di paura e di rabbia. Dietro di lei, Harris chiuse la porta con un calcio e afferrò il ricevitore del telefono. Disse alla segretaria di passargli immediatamente il direttore dell'ospedale. martedì 24 febbraio ore 11.00 Susan rallentò il passo e si sforzò di camminare adagio, ignorando gli sguardi interrogativi delle persone che incontrava. Temeva che le si potesse leggere in faccia quello che provava, come in un libro aperto. Di solito, quando piangeva o stava per piangere, le guance e le palpebre diventavano rosso cremisi. Sapeva che adesso non avrebbe pianto ma se qualcuno l'avesse fermata e le avesse chiesto col tono più innocuo: cos'hai, Susan? probabilmente sarebbe scoppiata in lacrime. Aveva bisogno di restare sola per un po'. Quando la paura di quell'uomo svanì, si sentì soprattutto irritata, frustrata. Quello che era successo le sembrava talmente incredibile che si domandò se non stesse avendo le allucinazioni. Aveva davvero fatto infuriare Harris al punto che lai aveva dovuto trattenersi per non picchiarla? Era stato davvero lì lì per colpirla, come lei aveva temuto, quando era balzato di scatto da dietro la scrivania? Le sembrava una cosa ridicola, e stentava a credere che la situazione fosse arrivata a tal punto. Capì che non sarebbe mai riuscita a convincere gli altri di quello che aveva provato. Le venne in mente il capitano Queeg dell'Ammutinamento del Caine. Le scale furono il primo rifugio a cui pensò. Oltrepassò la porta metallica, che si richiuse alle sue spalle isolandola dalle abbaglianti luci al neon e dalle voci. L'unica lampadina appesa sopra di lei mandava una luce più calda, e nella tromba delle scale c'era un silenzio che dava tranquillità. Stringeva ancora in mano il quaderno e la biro. Gridando un'imprecazione che rimbombò tutt'intorno, scagliò la penna e il quaderno giù dalle scale, verso il pianerottolo sottostante. Il quaderno rimbalzò contro la ringhiera, poi cadde sui gradini, si aprì e scivolò giù. Andò a fermarsi contro il muro, ancora aperto. Anche se non era molto invitante, Susan si sedette sul pianerottolo e ap-
poggiò i piedi sul primo gradino, sollevando le ginocchia e poggiandovi sopra i gomiti. Chiuse gli occhi. Nelle poche ore trascorse al Memorial, molte delle sue esperienze in materia di rapporti coi medici erano state più che riconfermate. I superiori, dai tecnici ai professori, avevano reazioni imprevedibili nei suoi confronti, passando da una calda accoglienza a una scoperta ostilità. Di solito, quest'ultima era meno aggressiva di quella mostrata da Harris; ecco, la reazione di Nelson era stata più tipica. Sulle prime era stato cordiale, poi via via era passato all'ostruzionismo. Susan provò una sensazione che le era da tempo familiare, e si era sviluppata fin da quando aveva deciso di laurearsi in medicina: solitudine. Anche se aveva sempre gente intorno, si sentiva isolata. Il giorno e mezzo passato al Memorial non erano certo di buon auspicio per la sua attività in ospedale. Si sentiva, più ancora che nei primi giorni d'università, come se stesse entrando in un club maschile: costretta ad adattarsi, a scendere a compromessi. Susan aprì gli occhi e guardò il quaderno aperto sul pianerottolo sottostante. Gettandolo via aveva scaricato un po' la propria frustrazione, e adesso si sentiva più rilassata. Stava riprendendo il controllo di sé. Ma nello stesso tempo l'aspetto infantile di quel gesto la colpì. Non era da lei fare una cosa del genere. Forse Nelson e Harris, in ultima analisi, avevano ragione. Forse, studentessa inesperta qual era, non era la persona più indicata per continuare in una ricerca così seria. E forse la sua emotività era un handicap innato. Un uomo avrebbe reagito allo stesso modo alla sfuriata di Harris? Era più emotiva dei suoi compagni maschi? Susan pensò a Bellows e ai suoi modi freddi e distaccati, a come riusciva a concentrarsi sui problemi del sodio mentre intorno c'era la tragedia. Si era sentita in colpa per il suo comportamento del giorno prima, ma adesso non era più tanto sicura di doverlo essere. Chissà se sarebbe mai riuscita a raggiungere quel tipo di distacco. Una porta che si apriva in uno dei piani alti la fece alzare in piedi. Sentì dei passi affrettati sulle scale metalliche, poi il rumore di un'altra porta. Quindi tornò il silenzio. I muri di cemento grezzo con quelle strane macchie longitudinali accrescevano il senso di isolamento di Susan. Scese adagio la rampa di scale e raccolse il quaderno. Per caso si era aperto alla pagina della cartella di Nancy Greenly. Susan lesse: «Età 23 anni, caucasica, anamnesi negativa a parte una mononucleosi all'età di 18 anni.» Susan rivide Nancy Greenly, pallida come una morta, che giaceva in sala rianimazione. «Ventitré anni,» ripeté ad alta voce. Provò di nuovo un forte senso di identificazione con quella ragazza, e sentì riaccendersi tutto il de-
siderio di indagare sul problema del coma. Nonostante Harris e nonostante Nelson. D'improvviso le venne voglia di vedere subito Bellows. In un giorno solo i suoi sentimenti verso di lui avevano avuto una svolta di centottanta gradi. «Susan, santo Dio, non ne hai ancora avuto abbastanza?» Coi gomiti sul tavolo, Bellows si mise le palme delle mani sulla faccia e si massaggiò le palpebre; poi spostò le mani dietro le orecchie, e guardò Susan che gli stava seduta di fronte. Erano nel bar dell'ospedale, un posto dall'aria relativamente pulita e arredato in maniera moderna. Era stato creato per i visitatori della clinica, ma era frequentato saltuariamente anche dai dipendenti. I prezzi erano più alti che nel self-service, però la qualità del cibo era migliore. Nonostante alle undici e mezzo fosse sempre affollato, Susan era riuscita a trovare un tavolo libero nell'angolo, e aveva telefonato a Mark; con suo grande sollievo aveva accettato di vederla subito. «Susan,» continuò lui dopo una pausa, «devi smetterla con questa tua crociata autodistruttiva. È un suicidio assicurato. Susan, c'è una cosa in medicina: devi seguire la corrente, sennò anneghi. L'ho imparato a mie spese. Mio Dio, ma come diavolo ti è saltato in mente di andare da Harris, specialmente dopo quello che è successo ieri?» Susan sorseggiò il caffè in silenzio, tenendo lo sguardo fisso su Bellows. Desiderava che continuasse a parlare, perché le dava un senso di benessere. Qualcuno che si interessava a lei. Ma voleva anche coinvolgerlo nella propria causa, se era ancora possibile. Bellows scosse la testa e bevve un sorso di caffè. «Harris è potente, ma non onnipotente,» continuò. «Stark può annullare ogni sua decisione, se ha qualche motivo di farlo. È lui che ha messo insieme la maggior parte dei fondi per la costruzione di questi edifici, milioni di dollari. Perciò la gente presta molto ascolto a quello che dice. Allora perché non darglielo un motivo, perché non fingere per qualche giorno di essere una normale studentessa di medicina? Serve anche a me, capisci? Indovina chi è venuto al giro della corsia di stamattina, per dare il benvenuto agli studenti: Stark. E la prima cosa che ha voluto sapere è stato perché ce n'erano solo tre anziché cinque. Io gli ho risposto, come uno scemo, che il primo giorno vi avevo portato ad assistere a un'operazione, e uno di voi era svenuto e aveva battuto la testa sul pavimento. Puoi immaginare come ha accolto la notizia. Per te, poi, non sono riuscito a trovare una scusa che stesse in piedi. Così ho detto che stavi facendo una ricerca in biblio-
teca sul coma successivo all'anestesia. Ho detto la verità, insomma. Solo che lui ha dato subito per scontato che l'idea fosse stata la mia. È meglio che non ti ripeta le sue parole. Basterà che ti dica che ho bisogno che tu ti comporti come gli altri studenti. Ho cercato di coprirti, ma mi hanno già messo in crisi.» Susan provò l'impulso di toccare Bellows, di stringerlo in un abbraccio amichevole e rassicurante. Invece si mise a giocherellare col cucchiaino, a testa china. Poi lo guardò. «Mi dispiace tanto di averti creato delle difficoltà, Mark, sul serio. Non l'ho fatto apposta, si capisce. Sono la prima ad ammettere che questa faccenda mi ha preso la mano, mi ha travolto. Ho cominciato per una specie di crisi emotiva. Nancy Greenly ha la mia stessa età, e anch'io ho avuto delle irregolarità mestruali, probabilmente proprio come lei. Non riesco a fare a meno di provare come... come un'affinità con lei. E poi Berman... che maledetta coincidenza! A proposito, gli hanno fatto l'elettroencefalogramma?» «Sì, è completamente piatto. Il cervello è andato.» Susan scrutò la faccia di Bellows, in cerca di qualche segno di partecipazione. Lui alzò la tazza e bevve un po' di caffè. «Il cervello è andato?» «Andato.» Susan si morse il labbro inferiore e abbassò lo sguardo sulla tazza. In un certo senso, quella notizia se l'aspettava, ma restò lo stesso sconvolta, e dovette lottare con tutte le sue forze per riuscire a controllarsi. «Stai male?» chiese Mark, allungando una mano e sollevandole il mento con le dita. «Non dire niente,» sussurrò Susan, senza osare guardarlo. Non voleva a nessun costo mettersi a piangere, e se Bellows insisteva non ce l'avrebbe fatta. Per fortuna lui ritornò al suo caffè, senza staccarle gli occhi di dosso. Dopo qualche secondo la ragazza alzò gli occhi; le palpebre erano un po' arrossate. «Dicevo...» riprese, sempre evitando di guardare Bellows, «ho cominciato per uno stimolo emotivo. Ma ben presto vi si è aggiunto un impegno intellettuale. Ho pensato veramente di essermi imbattuta in qualcosa di grosso... una nuova malattia, o una nuova complicazione dell'anestesia, o una nuova sindrome... non so. Poi c'è stato un altro cambiamento. Il problema diventava molto più vasto di come mi era sembrato all'inizio. S'i sono rivelati casi di coma anche in medicina, oltre che in chirurgia. E poi ci
sono state quelle morti di cui mi hai parlato. Lo so che pensi che sia un'idea folle, ma per me sono collegate. L'anatomopatologo mi ha detto che ci sono stati altri casi analoghi. L'intuito mi dice che c'è qualcos'altro in tutto questo, qualcosa... non so come spiegarmi... chiamalo soprannaturale o chiamalo sinistro...» «Ah, ma siamo alla paranoia!» Bellows fece un cenno ironico col capo. «È più forte di me, Mark. C'è stato qualcosa di molto strano nelle reazioni di Nelson e di Harris. Ammetterai che quella di Harris è stata del tutto sproporzionata.» Bellows si picchiò più volte sulla fronte col palmo della mano. «Susan, tu hai visto troppi film dell'orrore. Se non è così devo cominciare a pensare che sei una psicotica. Ma è assurdo. Che cosa sospetti, un misterioso influsso malefico, o un killer folle che odia i malati meno gravi? Susan, se continui a fare ipotesi così stravaganti e fantasiose, allora fatti anche venire in mente qualche motivo. Voglio dire, un killer maniaco andava bene per qualche giallo di Hollywood, solo per creare un'atmosfera di mistero... Ma è troppo tirato per i capelli per essere vero. Riconosco che la reazione di Harris è stata un po' strana, su questo non c'è dubbio; ma nello stesso tempo so che potrei trovare una spiegazione logica per il suo comportamento.» «Sentiamo.» «Okay. Sono sicuro che Harris è già dentro fino al collo in questo problema del coma. Dopotutto, è sul suo reparto che ricade la responsabilità. Ed ecco che arriva una giovane studentessa a girare il coltello nella piaga. È comprensibile che un individuo in questa situazione possa avere una reazione esagerata.» «Harris ha avuto qualcosa di più di una reazione esagerata. Quel matto si è alzato dalla scrivania con l'intenzione di riempirmi di botte.» «Forse l'hai eccitato.» «Cosa?» «Può darsi anche che sia stata una reazione di tipo sessuale.» «Ma dài, Mark.» «Dico sul serio.» «Mark, questo signore è un dottore, un professore, il primario di un reparto.» «Questo non esclude la sessualità.» «Adesso sei tu l'assurdo.» «Un sacco di medici sono tanto presi dalla loro professione che non riescono a risolvere nemmeno i problemi più comuni della vita sociale. Nei
rapporti con gli altri, i medici non sono mai molto maturi, per non dire di peggio.» «Stai parlando anche per te?» «Forse. Susan, devi capire che sei una ragazza molto seducente.» «Vaffanculo.» Mark la fissò sbalordito; quindi si guardò in giro, per vedere se qualcuno stesse ascoltando la loro conversazione. Non si era dimenticato che erano nel bar dell'ospedale. Bevve un sorso di caffè e guardò Susan a lungo. Lei ricambiò lo sguardo. «Perché l'hai detto?» chiese lui sottovoce. «Perché te lo sei meritato. Sono un po' stufa di questi stereotipi. Quando dici che sono seducente, tu sottintendi che io faccio di tutto per sedurre. Be', credimi, ti sbagli. Se la medicina mi ha fatto qualcosa, è stato di intaccare almeno l'immagine di me stessa come femmina convenzionale.» «D'accordo, forse non era la parola giusta. Non volevo dire che era colpa tua. Tu sei una ragazza attraente...» «Sai, c'è un sacco di differenza tra dire che una è attraente o è seducente.» «Okay, okay. Volevo dire attraente. Sessualmente attraente. E ci può essere gente che si trova in difficoltà di fronte a questo fatto. In ogni modo, Susan, non volevo mettermi a litigare. Oltre tutto è ora che vada. Ho un'operazione tra un quarto d'ora. Se vuoi, possiamo parlarne stasera a cena. Cioè, se vuoi ancora uscire a cena...» Mark si alzò e prese il vassoio. «Certo che voglio. Mi va benissimo.» «Nel frattempo, non potresti cercare per un pochino di essere normale?» «Ho ancora uno scoglio da superare.» «E sarebbe?» «Stark. Se non mi aiuta, dovrò rinunciare. Se nessuno mi appoggia finisce in un fiasco, a meno naturalmente che tu non voglia chiedere al computer le informazioni che mi servono.» Bellows lasciò cadere il vassoio sul tavolo. «Susan, non chiedermi di fare una cosa del genere. Non posso. E quanto a Stark, tu sei pazza. Ti mangerà viva. In confronto Harris è un agnellino.» «È un rischio che devo correre. Forse è sempre meno pericoloso che farsi una piccola operazione qui al Memorial.» «Non è giusto.» «Giusto? Hai proprio scelto la parola che ci vuole! Perché non chiedi a Berman se pensa che sia giusto?»
«Non posso.» «Non puoi?» Susan fece una pausa, aspettando una spiegazione. Non voleva pensare al peggio, ma le venne in mente automaticamente. Bellows prese il suo vassoio e si allontanò senza aprir bocca. «È ancora vivo, vero?» chiese Susan con una punta di disperazione nella voce. Si alzò e seguì Bellows. «Se intendi il battito del cuore, è vivo.» «È in sala postoperatoria?» «No.» «In rianimazione?» «No.» «Insomma, dov'è?» Susan e Mark riposero i vassoi sporchi nella rastrelliera e uscirono dal bar. Furono immediatamente inghiottiti dalla ressa del corridoio, e dovettero allungare il passo. «È stato trasferito al Jefferson Institute.» «E che cosa diavolo è il Jefferson Institute?» «Un centro per la rianimazione. Fa parte del progetto di zona del Comitato per il mantenimento della salute. È stato creato per diminuire i costi della rianimazione. Ha una gestione privata, ma la sua costruzione è stata finanziata dal governo. Il progetto è stato fatto sulle basi di un rapporto di Harvard e del MIX.» «Non ne ho mai sentito parlare. L'hai visitato?» «No, ma mi piacerebbe. Una volta l'ho visto dall'esterno. È molto moderno... massiccio. Quello che mi ha più colpito è l'assenza di finestre al pianterreno. Chissà perché mi ha colpito.» Bellows scosse la testa. Susan sorrise. «Ci sono dei giri organizzati per il personale medico,» continuò Mark, «il secondo martedì di ogni mese. Quelli che ci sono stati sono rimasti molto impressionati. Sembra che il programma abbia avuto un notevole successo. Vengono ricoverati tutti i pazienti cronici delle sale rianimazione, quelli che sono in coma o quasi. Lo scopo è tenere liberi i letti delle sale rianimazione degli ospedali. Mi sembra una buona idea.» «Ma Berman è appena entrato in coma. Perché l'hanno voluto trasferire così in fretta?» «Il fattore temporale è meno importante della stabilità. È chiaro che diventerà un caso a lungo termine. Non come la nostra amica Greenly. Dio, che rottura di balle, quella! Ha avuto tutte le complicazioni possibili e im-
maginabili.» Susan pensò al distacco emotivo. Le era difficile capire come facesse Bellows a essere così insensibile al problema di Nancy Greenly. «Se fosse irreversibile,» riprese Mark, «se anche solo minacciasse di diventare irreversibile, la trasferirei immediatamente al Jefferson. Il suo caso richiede uno spreco enorme di tempo, con risultati scarsissimi. Non posso cavarci niente, insomma. Però, finché la tengo in vita, almeno non ne sono danneggiato professionalmente. È come per quei presidenti che mantenevano in piedi la guerra del Vietnam. Non potevano vincere, ma non volevano nemmeno essere sconfitti. Non avevano niente da guadagnare, ma molto da perdere.» Quando furono davanti all'ascensore, Bellows si assicurò che qualcuno di coloro che attendevano in silenzio avesse premuto il pulsante di chiamata. «Dov'ero rimasto?» chiese poi grattandosi la testa. «Stavi parlando di Berman e della sala di rianimazione.» «Ah, già. Mi sembra che fosse stabile.» Guardò l'orologio, poi lanciò un'occhiata carica d'odio alla porta chiusa. «Maledetti ascensori! Susan, di solito io non dò consigli, ma stavolta non ne posso fare a meno. Vedi pure Stark se è necessario, ma ricordati che mi sono già compromesso a causa tua, quindi regolati di conseguenza. E dopo aver visto Stark, rinuncia alla tua crociata. Ti rovineresti la carriera ancora prima di averla iniziata.» «Ti preoccupi della mia carriera o della tua?» «Di tutt'e due.» Bellows si fece da parte per lasciar scendere la gente. «Almeno sei onesto.» Mark si infilò nell'ascensore e salutò Susan con la mano, dicendole qualcosa riguardo alle sette e mezzo. La ragazza immaginò che si riferisse al loro appuntamento per la cena. In quel momento il suo orologio faceva le undici e quarantacinque. martedì 24 febbraio ore 11.45 Bellows osservò l'indicatore del piano sopra la porta. Fu costretto a piegare la testa all'indietro perché ci stava proprio sotto. Doveva affrettarsi se voleva arrivare in orario. Aveva un'operazione di emorroidi a un uomo di sessantadue anni. Non era il suo ideale più affascinante di intervento chirurgico, ma operare gli piaceva sempre. Appena cominciava e avvertiva quello strano senso di responsabilità che gli procurava il bisturi, non gli
importava più di dove stesse lavorando, stomaco o mano, bocca o buco del culo. Pensò all'appuntamento con Susan, pregustandolo piacevolmente. Sarebbe andato tutto in modo semplice e pulito. Avrebbero potuto conversare su migliaia di argomenti. E fisicamente? Bellows non aveva idea di che cosa aspettarsi. Chissà se sarebbe stato in grado di andare oltre il rapporto cameratesco che si era creato tra loro. Si sentiva molto ben disposto nei confronti di quella ragazza, ma la cosa cominciava a preoccuparlo. Sotto molti aspetti, per lui il sesso significava aggressività, e invece non sentiva nessuna aggressività verso Susan, non ancora almeno. Sorrise immaginando di darle un bacio improvviso. Si ricordava certi momenti imbarazzanti di quand'era ragazzino e accompagnava alla porta di casa qualche ragazza coi brufoli, tirando in lungo una banale conversazione; poi, senza preavviso, le dava un bacio focoso e arretrava di un passo per vedere il risultato, con la speranza di un consenso e il timore di un rifiuto. Quando c'era il consenso si stupiva sempre, dato che non sapeva con esattezza perché la avesse baciata. L'idea di uscire con Susan gli ricordava quelle lontane esperienze perché sentiva un forte desiderio di contatto fisico con lei, ma non se l'aspettava. Susan era certamente sensuale, però stava per diventare una dottoressa, una come lui; perciò non avrebbe apprezzato molto quello che in casi del genere per lui era l'asso nella manica: non c'era donna che non restasse colpita quando annunciava di essere un medico, un chirurgo! Non importava che lui stesso fosse consapevole che essere medico non comportava particolari attributi, contrariamente a quanto voleva la mitologia popolare. Anzi, da questo punto di vista, per molti chirurghi del Memorial sarebbe stato semmai un handicap. Ma ciò che gli dava veramente fastidio era sapere che per Susan un pene doveva avere poco fascino; con ogni probabilità ne aveva sezionato uno. Lui non riduceva i propri impulsi e le proprie fantasie sessuali a realtà anatomiche e fisiologiche. Ma Susan? Sembrava così normale, col suo sorriso, la sua pelle morbida, i seni che si tendevano sotto il camice quando respirava. Certo aveva studiato i riflessi parasimpatici, e le alterazioni endocrine che rendono il sesso possibile, e anche godibile. Forse aveva studiato troppo, e secondo un'ottica sbagliata. Forse, anche se tutto fosse andato in modo promettente, Mark si sarebbe ritrovato con l'uccello ammosciato, inerte. Il pensiero gli fece sorgere dei dubbi sull'opportunità di vedere Susan. Una volta uscito dall'ospedale, non voleva pensare più a niente, e il sesso senza problemi era un metodo eccel-
lente. Ma con Susan, ammesso che succedesse, non sarebbe stato senza problemi. Non poteva esserlo. E infine restava da stabilire se fosse saggio uscire con una studentessa che al momento era sotto la sua direzione. Gli avrebbero senza dubbio chiesto, prima o poi, di dare un giudizio sul suo rendimento come allieva. E uscire con lei avrebbe costituito un ridicolo conflitto d'interessi. La porta dell'ascensore si aprì al reparto chirurgia, e Bellows si diresse in fretta al banco principale, dove un impiegato stava preparando la tabella degli orari per le operazioni dell'indomani. «In che sala è il mio intervento? Si chiama Barron, emorroidi.» L'uomo alzò gli occhi per vedere chi era, poi guardò la tabella del giorno. «Lei è il dottor Bellows?» «Sembrerebbe.» «Ah, l'operazione le è stata tolta.» «E da chi?» Bellows era perplesso. «Dal dottor Chandler. Ha lasciato detto di andare subito nel suo ufficio.» A Bellows la cosa sembrava decisamente strana. Certo, era nelle facoltà di George Chandler, dato che era il capo degli interni. Ma non era mai successo. Qualche volta era stato esonerato dal fare l'aiuto, ma sempre per ragioni puramente pratiche, perché c'era bisogno da un'altra parte. Essere esonerato da uno dei propri interventi nel Beard 5 era un'esperienza totalmente nuova. Bellows ringraziò l'impiegato, senza curarsi di nascondere la propria sorpresa e irritazione. Si voltò e andò verso l'ufficio di George Chandler. L'ufficio del capo degli interni era piccolo e senza finestre. Da questo cubicolo uscivano gli ordini che mandavano avanti il reparto chirurgico giorno per giorno. Chandler fissava i programmi di lavoro di tutti gli interni, compresa la pronta reperibilità e i turni nei giorni festivi. Aveva anche la supervisione del programma delle operazioni, e stabiliva chi dovessero essere i chirurghi e gli assistenti. Bellows batté sulla porta chiusa, ed entrò dopo aver sentito un «Avanti» attutito. George Chandler era seduto dietro la sua scrivania, che occupava la maggior parte della stanzetta. La scrivania era rivolta verso la porta, e Chandler doveva strisciare contro il muro per raggiungere la sedia. Dietro di lui c'era un armadio pieno di classificatori. Davanti alla scrivania c'era un'unica sedia di legno. La stanza era spoglia; solo un tabellone ornava le pareti. Scialba ma ordinata, la stanza era un po' come Chandler stesso.
Il capo degli interni era riuscito a scalare con successo la piramide del potere. Adesso era a metà strada tra il mondo superiore dei chirurghi affermati e quello inferiore degli interni. E quindi non apparteneva a nessuno dei due. Questo fatto era la fonte del suo potere, ma anche della sua debolezza e del suo isolamento. Gli anni di lotta gli avevano fatto pagare il loro prezzo inesorabile. Chandler era ancora giovane: aveva trentatré anni. Non era alto, meno di uno e settanta. I suoi capelli avevano una specie di taglio alla Giulio Cesare. La sua tranquilla faccia paffuta nascondeva un'indole collerica. Sotto molti aspetti Chandler era il tipico ragazzo che è stato troppo tiranneggiato. Bellows si sedette alla scrivania. Per un po' nessuno dei due parlò. Chandler, coi gomiti sui braccioli della sedia, fissava una penna che teneva in mano. Aveva interrotto il proprio lavoro allorché Bellows aveva bussato. «Scusami se ti ho tolto il tuo intervento, Mark.» Chandler non alzò nemmeno gli occhi. «Posso fare lo sforzo di rinunciare a un intervento di emorroidi.» Ci fu un'altra pausa. Chandler si sporse in avanti e fissò Bellows negli occhi. Mark pensò che sarebbe stato perfetto per recitare la parte di Napoleone in un dramma. «Mark, suppongo che tu prenda sul serio la chirurgia, la chirurgia qui al Memorial, per essere esatti.» «Penso che sia una supposizione giusta.» «Il tuo curriculum è buono. Infatti ho sentito spesso fare il tuo nome come eventuale futuro capo degli interni. È questa una delle ragioni per cui ho voluto parlarti. Poco fa mi ha chiamato Harris, ed era letteralmente fuori di sé. Per qualche minuto non ho nemmeno capito di che cosa stesse parlando. Sembra che uno dei tuoi studentelli abbia ficcato il naso in quei casi di coma, e questo l'ha fatto andare in bestia. Ora, io non so come stiano le cose, ma lui pensa che possa essere stato tu a spingerlo a indagare, e magari ad aiutarlo.» «È una lei.» «Lui, lei, non importa.» «Sai, potrebbe essere importante. Succede che sia un mammifero molto ben fatto. Ma il mio ruolo nella cosa è zero! Semmai, ho sempre cercato di convincerla a lasciar perdere.» «Non voglio discutere, Mark. Volevo semplicemente metterti in guardia. Non sarebbe bello che tu buttassi via la tua possibilità di diventare capo
degli interni per colpa delle attività di qualche studentello.» Mark osservò Chandler, e si chiese che cosa avrebbe detto se avesse saputo che quella sera sarebbe uscito a cena con Susan. «Non so se Harris abbia detto qualcosa a Stark, e ti posso assicurare che io non lo farò. A meno che non sia proprio costretto a coprirmi le spalle. Ma ti ripeto che Harris era fuori di sé. È meglio che tu calmi il tuo allievo e gli dica...» «Le dica!» «Okay, le dica di trovar qualcos'altro a cui interessarsi. Tanto più che ci devono già essere almeno dieci persone che stanno lavorando sul problema. Il reparto di Harris non fa nient'altro, dopo l'ultima ondata di casi di coma.» «Cercherò di dirglielo di nuovo, ma non è così facile come sembra. Questa ragazza ha una mentalità particolare, diciamo un'immaginazione abbastanza fertile.» Mark si chiese perché avesse scelto quel termine per definire l'immaginazione di Susan. «Ha cominciato questa cosa perché i primi due pazienti con cui è entrata in contatto erano due delle vittime.» «Allora, diciamo solo che sei stato avvisato. Quello che lei fa si rifletterà su di te, specialmente se le dai anche il minimo aiuto. Ma questo è solo uno dei motivi per cui volevo parlarti. C'è un altro problema, più serio. Mark, qual è il numero del tuo armadietto su al reparto chirurgia?» «Otto.» «E il 338?» «Quello è stato il mio armadietto provvisorio. L'ho usato per circa una settimana, prima che diventasse disponibile l'altro.» «Perché non hai tenuto il 338?» «Credo che appartenesse a qualcun altro, e io l'ho usato solo finché ne ho trovato uno mio.» «Conosci la combinazione del 338?» «Forse se ci pensassi su un po' me la ricorderei. Ma perché me lo chiedi?» «Perché il dottor Cowley ha fatto una strana scoperta. Dice che il numero 338 si è aperto per magia mentre lui si stava cambiando, e che quel maledetto armadio era pieno di medicine. Abbiamo controllato, ed era vero. Ci sono tutti i farmaci possibili e immaginabili, e anche qualcuno in più, stupefacenti inclusi. Nella mia lista tu hai il 338, non l'8.» «E l'8 chi l'avrebbe?» «Il dottor Eastman.»
«Ma se sono anni che non opera!» «Appunto. Dimmi, Mark, chi ti ha dato il numero 8? Walters?» «Sì. Mi ha detto di usare il 338, e poi mi ha dato il numero 8.» «Okay, non dir niente a nessuno di questa faccenda, e soprattutto non dirlo a Walters. Trovare un deposito di medicine come questo è una faccenda seria, specialmente se si pensa a com'è complessa la procedura per ottenere uno stupefacente. In base alla lista degli armadietti che ho io, probabilmente sarai convocato dall'amministrazione. Per ovvi motivi non vedono di buon occhio che la notizia si diffonda, specialmente in vista dei prossimi controlli governativi. Così tienti tutto per te. E per amor di Dio, convinci il tuo studente a interessarsi di un argomento diverso dalle complicazioni dell'anestesia.» Mark uscì dal cubicolo di Chandler con una strana sensazione. Non si era sorpreso che l'avessero collegato alle attività di Susan. Era una cosa che temeva già da prima. Ma la notizia delle medicine trovate in un armadietto assegnato a lui era un'altra storia. Nella sua mente balenò l'immagine di Walters che si aggirava sinistramente per il reparto chirurgia. A che scopo uno poteva aver fatto una simile incetta di farmaci? Poi si ricordò di quello che gli aveva detto Susan: aveva usato le parole soprannaturale e sinistro. Avrebbe voluto sapere che tipi di medicine c'erano là dentro. martedì 24 febbraio ore 14.30 Susan diede un'occhiata circolare allo studio del primario di chirurgia. Era una stanza spaziosa e squisitamente arredata. Su due pareti c'erano grandi finestre, da cui si aveva uno splendido panorama di Charleston da un lato e di un angolo di Boston dall'altro. Il ponte sul Mystic River era parzialmente nascosto da un ammasso di nuvole grigie. Il vento aveva cambiato direzione: non veniva più dal mare, ma da nordovest, e si portava dietro un'aria gelida. La scrivania di tek di Stark, ricoperta da una lastra di marmo, era collocata diagonalmente. La parete alla destra di essa era occupata da uno specchio alto fino al soffitto. La porta dava su una sala d'aspetto con libreria. Uno scomparto del mobile era socchiuso, e dietro si intravedevano un luccichio di bicchieri e bottiglie, e lo sportello di un piccolo frigorifero. Nell'angolo verso sudest, dove una delle grandi finestre incontrava la libreria, c'era un tavolo col piano di vetro, circondato da sedie in fibra di vetro, co-
perte da cuscini a colori vivaci. Stark era seduto dietro la massiccia scrivania. La sua immagine era riprodotta mille volte nello specchio alla sua destra. Aveva posato i piedi su un angolo della scrivania, in modo che la luce della finestra illuminasse le carte che stava leggendo. Indossava un impeccabile abito grigio confezionato su misura, che si adattava perfettamente al suo corpo magro, ed era ravvivato da un fazzoletto di seta arancione nel taschino della giacca. I suoi capelli grigi erano moderatamente lunghi e pettinati all'indietro. Aveva un viso aristocratico, con lineamenti forti e naso sottile. Portava dei mezzi occhiali con la montatura di tartaruga. I suoi occhi verdi scorrevano rapidamente il foglio che stava leggendo. Susan sarebbe restata molto intimidita dalla combinazione di quell'ambiente e della fama di genio della chirurgia che aveva Stark, se non fosse stato per il sorriso dell'uomo e il suo atteggiamento poco formale. Il fatto che tenesse le gambe allungate sulla scrivania faceva sentire Susan più a proprio agio. Suppose giustamente che la sua indubbia bravura, sia come chirurgo sia negli affari, gli permettesse di ignorare le pose convenzionali da uomo arrivato. Stark finì di leggere il foglio e alzò gli occhi su Susan. «Molto interessante. Naturalmente ero al corrente dei casi avvenuti in chirurgia, ma non avevo idea che casi analoghi fossero capitati anche nei reparti medici. Non si può stabilire con certezza un collegamento, ma potrebbe anche esserci... E questi ultimi due decessi per arresto respiratorio... collegarli è un po', come dire, fuori dagli schemi e geniale nello stesso tempo. Fa pensare. Lei li ha collegati perché pensa che la depressione della respirazione sia una base comune per tutti i casi. La mia prima reazione, e sottolineo che è la prima, è che ciò non spiega i casi intervenuti durante l'anestesia, perché lì la respirazione è attivata artificialmente. Lei ipotizza che una precedente encefalite o infezione del cervello potrebbe aver reso più suscettibili i pazienti alle complicazioni anestetiche... mi lasci pensare.» Stark levò i piedi dalla scrivania e si voltò verso la finestra. Si tolse gli occhiali e cominciò a mordicchiare soprappensiero una stanghetta. Strinse gli occhi, concentrandosi. «Recentemente il parkinsonismo è stato collegato ad attacchi virali non rilevati prima, e pertanto la sua teoria non è impossibile. Ma com'è dimostrabile?» Si girò e osservò Susan.
«E le posso assicurare che noi abbiamo fatto ricerche sulle complicazioni dell'anestesia. Tutto, dico tutto, è stato passato al vaglio da un vasto gruppo di persone, anestesiologi, epidemiologi, internisti, chirurghi... Insomma, tutte le specializzazioni di questa terra. Tranne, naturalmente, gli studenti di medicina...» Le fece un sorriso cordiale, e Susan si sentì colpita dall'innato carisma di quell'uomo. «Credo,» disse la ragazza, sempre più sicura di sé, «che la ricerca dovrebbe partire dalla banca dei dati del computer. Le informazioni che io ho ottenuto dal calcolatore riguardavano solo l'anno scorso, e non le ho nemmeno chieste direttamente. Non ho idea di che dati potrebbero uscire se gli si chiedesse in modo diretto un elenco di tutti i casi di depressione respiratoria, coma, e morte misteriosa avvenuti, diciamo, negli ultimi cinque anni. «Allora, con in mano un elenco completo di tutti i casi potenzialmente collegabili, lo si potrebbe controllare scrupolosamente e trovare un denominatore comune. Si potrebbero intervistare le famiglie dei pazienti e mettere insieme la lista delle loro malattie virali precedenti. Un'altra cosa da fare sarebbe prelevare siero dai pazienti esistenti per cercare degli anticorpi.» Susan scrutò la faccia di Stark, aspettandosi una reazione irritata, come quella che aveva sperimentato con Nelson e, in modo più drammatico, con Harris. Invece il primario mantenne un'espressione serena, come se stesse meditando sui suggerimenti della ragazza. Era chiaro che aveva una mentalità aperta e ricettiva. Alla fine parlò. «La ricerca di anticorpi fatta alla cieca non è molto produttiva. Richiede molto tempo ed è anche terribilmente costosa.» «Ma le tecniche di controimmunoelettroforesi hanno fatto superare molti di questi svantaggi,» osservò Susan, incoraggiata dalla risposta di Stark. «Forse, ma rappresentano lo stesso un enorme investimento di capitale, con una probabilità minima di risultati positivi. Devo avere qualche dato preciso e concreto, prima di poter dare il via a questo tipo di ricerche. Ma forse potrebbe sottoporre tutto questo al professor Nelson, giù al reparto medicina. L'immunologia è il suo campo specifico.» «Non credo che il professor Nelson sarà interessato.» «E perché?» «Non ne ho la più pallida idea. Ma ho già parlato con lui, e non è interessato. E non è il solo. Ho accennato alla mia idea con un altro primario, e a momenti mi sculacciava come una bambina che si merita una punizione. Ho cercato di vedere l'episodio nel quadro generale, e ho avuto la sensa-
zione che ci potrebbe essere sotto qualche cosa d'altro...» «E cioè?» chiese Stark, studiando i dati che Susan gli aveva consegnato. «Mah, non saprei che termine usare... qualcosa di losco, o di sinistro...» «Qualcosa di losco. Ha una bella immaginazione, dottoressa Wheeler, davvero.» Stark si alzò in piedi e girò attorno alla scrivania. «Qualcosa di losco,» ripeté. «Devo ammettere di non aver mai preso in considerazione un'eventualità del genere.» L'avevano informato solo quella mattina della medicine trovate da Cowley nell'armadietto 338, e la cosa non gli era affatto piaciuta. Si appoggiò alla scrivania e guardò Susan. «Se lei pensa a qualcosa di losco, allora il movente diventa della massima importanza. E un movente per questa serie di dolorosi episodi è francamente introvabile. Sono troppo dissimili fra loro. E il coma? Bisognerebbe ipotizzare l'esistenza di uno psicopatico intelligentissimo che agisca secondo schemi e fuori da ogni logica. Ma la principale obiezione contro questa tesi è che una cosa del genere non potrebbe assolutamente verificarsi nel reparto chirurgia. C'è troppa gente che controlla il paziente. «Certo, si potrebbe far iniziare un'indagine in tal senso, ma non credo proprio che in questo caso siano possibili azioni losche. Comunque, devo ammettere che non ci avevo pensato.» «In realtà,» obiettò Susan, «non intendevo suggerire la possibilità di qualcosa di losco sotto la faccenda. Ma sono contenta di averlo fatto. Adesso posso scartare questa eventualità. Ma torniamo al problema vero e proprio. Se una ricerca di anticorpi è troppo costosa, l'esame delle cartelle dei pazienti e i sondaggi tra i loro parenti costerebbero poco o niente. Potrei occuparmene io stessa, però avrei bisogno di un piccolo aiuto da parte sua.» «Che genere di aiuto?» «Prima di tutto, l'autorizzazione a usare il computer. Questa è una cosa. La seconda è che mi serve il permesso di consultare le schede. La terza, è che c'è una persona che potrebbe crearmi dei problemi.» «E chi?» «Il professor Harris. È lui che ho mandato in bestia. Credo che abbia intenzione di far finire molto presto la mia permanenza qui al Memorial. Sembra che non gli vadano molto le donne che entrano in medicina, e forse io gli sono servita per ribadire questo pregiudizio.» «Il professor Harris può essere una persona difficile da trattare. È un tipo suscettibile. Ma è forse il miglior anestesiologo degli Stati Uniti. Quindi non lo giudichi male prima di aver conosciuto l'altra faccia della medaglia.
Credo che dietro questo atteggiamento nei riguardi delle donne che fanno la sua stessa professione ci siano precisi motivi personali. Forse non è un comportamento ammirevole, ma lo si può capire. In ogni modo vedrò che cosa posso fare per lei. Devo però anche metterla in guardia: ha scelto un argomento molto delicato per la sua ricerca. Senza dubbio lei si renderà conto che potrebbero venir fuori delle responsabilità da parte dei medici, per non parlare della cattiva pubblicità che ne deriverebbe all'ospedale e persino all'intera comunità medica di Boston. Proceda con cautela, se proprio ha deciso di continuare. Su questa strada non si farà molti amici, e a mio parere dovrebbe lasciar perdere tutto. Ma se sceglie di andare avanti, cercherò di aiutarla, senza prometterle niente. Se scoprirà qualche informazione interessante, sarò lieto di darle la mia opinione. Ovviamente, più informazioni lei avrà, più mi sarà facile farle ottenere quello che le serve.» Susan andò verso la porta dello studio e l'aprì. «Mi telefoni questo pomeriggio. Le farò sapere se sarò riuscito a far accogliere le sue richieste.» «Grazie per il tempo che mi ha dedicato, professore.» Susan esitò sulla soglia, e guardò il primario. «Fa piacere vedere che lei non è quel cerbero che dicono.» «Forse cambierà idea quando verrà ad assistere ai miei giri in corsia,» rise Stark. Susan lo salutò e uscì. Stark si rimise alla scrivania e chiamò la segretaria all'interfono. «Il dottor Chandler! E veda se ha già parlato col dottor Bellows. Voglio che risolva immediatamente questa storia dei medicinali dell'armadietto.» Si voltò e guardò il complesso di edifici del Memorial. La sua vita era così legata all'ospedale che certe volte le due cose si confondevano. Come aveva detto Bellows a Susan, Stark aveva raccolto personalmente un'enorme quantità di fondi, che erano serviti a rammodernare l'ospedale e a costruire sette nuovi edifici. Doveva anche all'abilità nell'ottenere finanziamenti se era diventato primario di chirurgia al Memorial. Più pensava al ritrovamento dei medicinali nell'armadietto, più diventava furioso. Era un altro esempio lampante di come la gente non fosse capace di pensare in termini di conseguenze a lunga scadenza. «Cristo,» esclamò ad alta voce, con gli occhi fissi sul movimento delle nubi cariche di neve. Pensò che due o tre stupidi potevano far naufragare i suoi sforzi per assicurare al Memorial il primo posto tra gli ospedali degli Stati Uniti. Anni di lavoro potevano finire nella spazzatura. Era proprio ve-
ro che doveva occuparsi lui di tutto, se voleva che le cose funzionassero. martedì 24 febbraio ore 19.20 L'oscurità della notte invernale era già calata su Boston quando Susan scese alla fermata di Charles Street. Il vento polare entrava sibilando nella stazione dalla parte del fiume e prendeva d'infilata la piattaforma. Susan si chinò e si incamminò verso le scale. Il treno riparti dalla stazione, passando alla sua destra, e le ruote stridettero quando entrò in curva nel tunnel. Susan si servì del cavalcavia pedonale per attraversare l'incrocio tra Charles Street e Cambridge Street. Sotto, il traffico era diminuito e passavano poche macchine, ma l'odore dei gas di scarico ammorbava ancora l'aria. La ragazza scese in Charles Street. Davanti al drugstore aperto tutta la notte c'era la solita galleria di sbandati, quasi tutti ubriachi o drogati. Alcuni di loro si avvicinarono a Susan per chiederle qualche spicciolo. Affrettò il passo; poi urtò contro un tizio barbuto e male in arnese che le si era piazzato davanti con decisione. «Real Paper o Phoenix, bellezza?» chiese il barbuto. Aveva in mano un fascio di giornali. Susan arretrò di un passo, poi riprese a camminare, incurante delle risate e delle oscenità alle sue spalle. Al di là di Charles Street la città cambiava di colpo. Alcune vetrine di negozi d'antiquariato attrassero la sua attenzione, ma l'aria gelata della notte la spinse ad andare avanti. Arrivata in Mount Vernon Street girò a sinistra e cominciò a salire per Beacon Hill. Dai numeri sulle porte vide che aveva ancora un bel pezzo di strada. Oltrepassò Louisburg Square. Le case, con le facciate di solida pietra, le davano un senso di pace e sicurezza; la luce arancione delle finestre riscaldava il gelo della notte. L'appartamento di Mark Bellows era in un edificio sulla sinistra, un centinaio di metri oltre Louisburg Square. Lì tutte le case erano circondate da aiuole e olmi torreggianti. Susan aprì un cancello di ferro cigolante e salì gli scalini di pietra. Davanti alla porta di legno massiccio si soffiò sulle dita intirizzite e batté i piedi per terra per favorire la circolazione. Aveva sempre i piedi e le mani fredde, da novembre a marzo. Mentre soffiava e batteva i piedi diede un'occhiata ai nomi sul citofono. Bellows era il numero cinque. Premette il pulsante e le rispose un ronzio rauco. Un po' spaventata dal rumore, afferrò la maniglia e si spellò la nocca di
una mano contro l'intelaiatura metallica della porta. Uscì qualche goccia di sangue, e Susan si portò la mano alla bocca. Davanti a lei c'era una scala che girava a sinistra. Dal soffitto pendeva un grosso lampadario d'ottone; su una parete uno specchio con la cornice d'argento faceva sembrare l'atrio più spazioso. Istintivamente si controllò i capelli allo specchio e si pettinò con la mano sulle tempie. Mentre saliva le scale notò che su ogni pianerottolo c'erano delle riproduzioni di quadri di Brueghel. Giunse in cima completamente senza fiato, e fu costretta ad appoggiarsi alla ringhiera. In fondo alla tromba delle scale vedeva il pavimento a piastrelle dell'atrio, quattro piani sotto. Bellows aprì la porta prima che lei avesse bussato. «C'è una bombola di ossigeno se ne hai bisogno, nonnina,» sorrise. «Mio Dio, ma quassù non si respira... Bisogna che mi sieda un momento sui gradini.» «Un bicchiere di Bordeaux ti rimetterà a posto. Dammi la mano.» La ragazza si lasciò guidare dentro l'appartamento; poi si tolse il cappotto, guardandosi attorno. Mark sparì in cucina, e riapparve con due bicchieri di vino rosso rubino. Susan buttò il cappotto su una sedia accanto alla porta e si tolse i pesanti stivali; prese il bicchiere di vino e ne bevve un sorso. La sua attenzione era tutta presa dalla stanza in cui si trovava. «Molto carino qui, per un chirurgo,» osservò. La sala sarà stata sette o otto metri per quindici. Sulle due pareti più lunghe, l'uno di fronte all'altro, c'erano due caminetti vecchio stile, entrambi col fuoco acceso. Il soffitto di legno, molto alto, era ad ampia volta. Sulla parete di fondo c'era un enorme complesso di forme geometriche, alcune delle quali contenevano libri, altre oggetti d'arte, un impianto stereo, un televisore. L'ultima parete, di mattoni a vista, era tappezzata di quadri, litografie, e spartiti di musica medievale, tutti incorniciati con buon gusto. Sul caminetto di destra ticchettava sommessamente un vecchio orologio Howard, su quello di sinistra c'era il modellino di una nave. Fuori dalle finestre, ai lati dei due caminetti, si stagliava contro il cielo notturno una miriade di camini. L'arredamento era ridotto al minimo. Bellows si era affidato a una serie di spessi tappeti sparsi tutt'intorno e dominati da un Bukhara blu e crema al centro della stanza. Sopra al Bukhara c'era un tavolino da caffè di onice, circondato da una massa enorme di sgargianti cuscini di velluto. «Che bello, qui!» Susan percorse con un'occhiata circolare tutta la sala e si lasciò cadere sui cuscini. «Non mi sarei mai aspettata una cosa del gene-
re.» «Che cosa ti aspettavi?» Mark si sedette dall'altra parte del tavolino. «Un appartamento. Sai, tavoli, sedie, le solite cose.» Risero insieme, rendendosi conto tutti e due di non conoscersi molto bene. Continuarono a parlare di banalità mentre gustavano il vino. Susan allungò i piedi verso un caminetto per per scaldarsi le dita. «Ne vuoi ancora, Susan?» «Sì. È buonissimo.» Mark andò in cucina a prendere la bottiglia. Versò altri due bicchieri. «Nessuno crederebbe mai a che razza di giornata ho avuto oggi!» esclamò Susan alzando verso il fuoco il suo bicchiere e ammirando il colore rosso vivo del vino. «Se non hai abbandonato la tua crociata suicida, io posso credere a tutto. Sei andata a parlare con Stark?» «Si capisce, e nonostante tutte le tue paure è stato molto cortese... molto più di Harris o di Nelson, se lo vuoi sapere.» «Non illuderti. Ti dico solo questo: Stark è un camaleonte. Io di solito non ho problemi con lui. Ebbene, oggi, così, di punto in bianco, ho scoperto che è furibondo con me per via di un disgraziato che ha messo qualche scatola mezzo usata di medicinali in un armadietto. Solo che l'armadietto l'adopero anch'io. Non è che sia venuto da me a informarsi, come avrebbe fatto qualsiasi persona normale. No, ha chiesto al povero vecchio Chandler, il capo degli interni, di parlarmi della cosa, e Chandler per farlo ha dovuto togliermi un'operazione. Poi, dopo un po', mi ha richiamato dicendomi che Stark voleva che io risolvessi la cosa, fino in fondo. Come se non avessi nient'altro da fare.» «Cos'è questa storia dei medicinali nell'armadietto?» Susan si ricordò della conversazione tra Nelson e l'altro medico. «Non ne so molto. Sembra che uno dei chirurghi abbia scoperto un mucchio di medicine in un armadietto che quel vecchio scemo di Walters aveva assegnato a me. A quanto pare erano stupefacenti, curaro, antibiotici, insomma un'intera farmacia.» «E non sanno chi ce li ha messi e perché?» «Credo di no. La mia idea è che qualcuno abbia fatto una scorta di quella roba per mandarla nel Biafra o nel Bangladesh. C'è sempre gente votata a cause del genere. Perché poi sia andato a metterli in un armadietto della sala chirurghi, è una cosa al di là della mia comprensione...» «Il curaro è un paralizzante dei nervi, no?»
«Sì, è un paralizzante nervoso. Un grande farmaco. Ah, nel caso tu non l'abbia indovinato, stasera mangeremo qui. Ho preso delle bistecche, e l'hibachi è già pronto, fuori dalla finestra della cucina.» «Non potevi avere un'idea migliore, Mark. Sono esausta. Ma ho anche fame.» «Metto su le bistecche.» Mark prese il proprio bicchiere e andò in cucina. «Il curaro deprime la respirazione?» chiese Susan. «No. Paralizza solo i muscoli. Uno vuole respirare ma non ci riesce. E soffoca.» Susan appoggiò l'orlo del bicchiere al labbro inferiore e si mise a fissare il caminetto. Il danzare delle fiamme la ipnotizzò e pensò al curaro, alla Greenly, a Berman. D'improvviso il fuoco scoppiettò e un tizzone sbatté contro lo schermo protettivo. Una scintilla finì sul tappeto. Susan balzò in piedi e la spense; poi andò verso la porta della cucina, e osservò Mark intento a preparare le bistecche. «Stark è interessato sinceramente alle mie scoperte, e si è già dato da fare per aiutarmi. Gli avevo chiesto se poteva farmi avere le cartelle dei pazienti del mio elenco. Quando l'ho richiamato questo pomeriggio, mi ha detto che purtroppo erano già state date a uno di neurologia, un certo dottor McLeary. Lo conosci?» «Conosco poca gente fuori dal reparto chirurgia.» «Secondo me, tutto ciò fa sospettare di questo McLeary.» «Ah, rieccoci con la tua immaginazione! Il dottor McLeary uccide misteriosamente il cervello dei sei pazienti...» «Dodici...» «Okay, dodici, e poi fa sparire le loro cartelle per eliminare qualsiasi prova. Mi immagino già i titoloni sul Globe.» Mark rise e mise le bistecche sull'hibachi fuori dalla finestra, richiudendo subito per non far entrare il freddo. «Ridi pure, però trovami una spiegazione per il suo comportamento. Tutti gli altri, finora, si sono mostrati stupiti all'idea che tutti questi casi fossero collegati tra loro. Tutti, tranne questo McLeary. Lui ha tutte le cartelle, penso che varrebbe la pena andarci in fondo. Forse sta indagando già da un po' ed è molto più avanti di me. Sarebbe bello se fosse così, potrei aiutarlo.» Mark non rispose. Stava pensando al modo migliore di far cambiare argomento a Susan. Stava anche concentrandosi sul condimento dell'insalata,
la sua specialità gastronomica. Quando riaprì la finestra, il vento gelido portò l'aroma delle bistecche in cottura. Susan si appoggiò allo stipite della porta e lo osservò. Pensò a come sarebbe stato bello per lui avere una moglie, rincasare e trovare una donna che aveva messo tutto in ordine e apparecchiato per bene la tavola. Nello stesso tempo le sembrava ridicolmente sleale non poter avere una moglie. Infatti, se si fosse sposata, la moglie sarebbe dovuta essere lei. Era un gioco mentale al quale Susan si lasciava andare spesso, ritrovandosi sempre nello stesso impasse; a quel punto rifiutava l'intero problema, o comunque lo rinviava a un futuro indeterminato. «Oggi ho telefonato al Jefferson Institute.» «Che cosa avevano da dirti?» chiese Mark, porgendo a Susan i piatti e le posate e indicandole il tavolino d'onice. «Avevi ragione quando dicevi che è difficile visitarlo,» rispose Susan cominciando ad apparecchiare. «Ho chiesto se potevo andarci per vedere un mio paziente. Mi hanno riso in faccia. Solo i parenti prossimi possono vedere i degenti, e anche loro saltuariamente. Dicono che i loro metodi di cura potrebbero turbare le famiglie, così hanno messo severissime restrizioni. Mi hanno anche parlato della visita mensile alla quale tu avevi accennato. Il fatto che io sia una studentessa di medicina, naturalmente, non valeva un fico secco per loro. Comunque dev'essere interessante.» Susan finì di apparecchiare e ricominciò a fissare il fuoco. «Ma io vorrei andarci soprattutto per rivedere Berman. Ho la sensazione che se potessi vederlo ancora riuscirei a lasciar perdere questa... crociata, come la chiami tu. E magari capirei che devo tornare a un'apparenza di normalità.» Sentendo quest'ultima frase, Mark interruppe di colpo le sue attività gastronomiche. Forse c'era un filo di speranza. Rigirò le bistecche e chiuse la finestra. «Perché non vai lo stesso a dare un'occhiata? Sarà uguale a tutti gli altri ospedali, un casino come il Memorial. Se tu fai come se fossi a casa tua, forse non si accorgono nemmeno di te. Puoi anche metterti l'uniforme da infermiera. Al Memorial, chiunque entrasse vestito da medico o da infermiera potrebbe andare dove gli pare.» Susan si girò verso Mark, che era in piedi sulla porta della cucina. «Non è una cattiva idea... per niente cattiva... ma c'è un problema.» «E cioè?» «Anche ammesso che riuscissi a entrare, non saprei dove diavolo andare. È difficile avere l'aria disinvolta in una situazione del genere.»
«Non è un ostacolo insormontabile. Basta semplicemente andare in Comune e farsi dare una copia della pianta dell'edificio. Hanno le mappe di tutti gli edifici pubblici.» Mark tornò in cucina e prese le bistecche e l'insalata. «È un'idea geniale,» esclamò Susan. «Pratica, non geniale.» Bellows mise le bistecche nei piatti, e aggiunse una generosa porzione d'insalata. C'erano anche asparagi in salsa olandese e un'altra bottiglia di Bordeaux. Pensarono tutti e due che la cena era perfetta. Il vino smussava ogni possibile, minimo contrasto, e la conversazione fluiva libera, rivelando via via all'uno pezzetti del passato dell'altro, come in un mosaico. Susan veniva dal Maryland, Mark dalla California. Ciò non serviva certo ad avvicinarli intellettualmente: l'educazione di Mark, infatti, era fondata su Cartesio e Newton, quella di Susan invece su Voltaire e Chaucer. Eppure scoprirono che amavano tutti e due lo sci, il mare, e la vita all'aria aperta. E a tutti e due piaceva Hemingway. Ci fu un silenzio carico d'imbarazzo quando Susan citò Joyce. Bellows non l'aveva mai letto. Finita la cena, andarono a sedersi sui cuscini davanti a un caminetto. Bellows ravvivò il fuoco con altri ceppi. Un gelato di vaniglia con Grand Marnier li fece restare zitti per qualche minuto; assaporarono il silenzio, beati. «Susan, adesso che ti conosco un po' di più, e che mi piaci sempre di più, vorrei convincerti a lasciar perdere questa faccenda del coma,» disse Mark alla fine. «Tu hai ancora un'infinità di cose da imparare, e credimi, per questo non c'è posto migliore del Memorial. Mi sembra chiaro che questo problema del coma ce lo troveremo addosso per un bel po', abbastanza a lungo perché tu possa ricominciare da capo quando avrai una vera esperienza medica. Non voglio dire che tu adesso non possa dare il tuo contributo. Forse puoi farlo. Ma le probabilità sono molto ridotte, proprio come avviene in ogni ricerca, anche in quella meglio impostata. E poi devi considerare le conseguenze che il tuo lavoro avrà, anzi sta già avendo, sui tuoi superiori. È un rischio inutile, Susan, non hai nessuna possibilità di farcela.» Susan bevve un sorso di Grand Marnier. Il liquore dolce e denso le scivolò giù per la gola e le inviò calde sensazioni fino in fondo alle gambe. Respirò profondamente. Si sentiva più leggera. «Essere una studentessa di medicina dev'essere già abbastanza duro,» continuò Bellows, «senza aggiungerci altri handicap.»
La ragazza alzò la testa e lo guardò. Bellows stava fissando il fuoco. «Che cosa vuoi dire?» chiese Susan con una punta di acredine nella voce. Bellows aveva toccato un tasto sensibile. «Solo quello che ho detto.» Bellows non distolse gli occhi dal fuoco. «Penso veramente che debba essere particolarmente difficile essere una studentessa di medicina. Non ci avevo mai riflettuto molto, finché non mi hai costretto a trovare una spiegazione per il comportamento di Harris. Adesso, più ci penso più mi convinco di aver ragione, perché... ecco, a essere sincero, quando ti ho visto la prima volta non ti ho considerato come una studentessa di medicina, ma come una donna. Forse è stata una reazione immatura. Voglio dire che ti ho trovato subito attraente... non seducente.» Bellows aggiunse in fretta quest'ultima precisazione e si voltò per vedere se Susan avesse apprezzato quel suo accenno alla conversazione nel bar dell'ospedale. Susan sorrise. L'atteggiamento difensivo che l'affermazione iniziale di Bellows aveva provocato in lei era svanito. «Per questo ho reagito così stupidamente quando ieri sei entrata nello spogliatoio e mi hai trovato in mutande. Se ti avessi considerato come un essere asessuato non avrei battuto ciglio. Ma mi sembra abbastanza chiaro che non è stato così. In ogni caso, sono convinto che la maggior parte dei tuoi insegnanti ti considereranno sempre prima di tutto una femmina, e solo secondariamente una studentessa.» Mark guardò di nuovo il fuoco; si sentiva quasi come un peccatore contrito che si fosse appena confessato. Susan sentì rinascere dentro di sé l'affetto che aveva cominciato a provare per lui. Le venne di nuovo voglia di abbracciarlo. Susan amava molto il contatto fisico, anche se non lo dava a vedere specialmente da quando si era iscritta all'università: aveva deciso che doveva reprimere gli aspetti fisici della propria personalità, se voleva riuscire in medicina. Così, invece di abbracciare Mark, bevve un sorso di Grand Marnier. «Sai, Mark, mi fa piacere sentirti dire che essere una studentessa di medicina è difficile, perché è proprio così. Certe mie compagne lo negano, ma sono delle illuse. Usano semplicemente uno dei più vecchi e facili meccanismi di difesa: si evita un problema affermando che non esiste. Ma il problema c'è. Mi viene in mente una citazione di Sir William Osler. Diceva che ci sono tre categorie di esseri umani: gli uomini, le donne, e le donne che fanno il medico. La prima volta che l'ho letta ho riso, ma adesso non rido più. Nonostante il movimento femminista, l'immagine convenzionale
dell'ingenuità femminile e altre palle del genere faticano a scomparire. Appena entri in un campo in cui ci vuole un po' di competitività, gli uomini ti bollano come una strega castratrice. Se invece sei passiva e sottomessa, ti dicono che non sai essere abbastanza competitiva. Così sei costretta a trovarti un compromesso tra le due cose, e questo è difficile perché ti senti costantemente sotto accusa, non come individuo ma come donna in generale.» Ci fu qualche minuto di silenzio; entrambi meditarono su quello che avevano detto. «La cosa che mi scoccia di più,» riattaccò Susan, «è che più vado avanti nella medicina, più il problema si aggrava. Non riesco a immaginare come possano farcela le donne con una famiglia. Devono chiedere scusa perché escono presto di casa e tornano alla sera tardi. Un uomo può lavorare fino a tardi, non c'è problema, anzi, tutti pensano che sia uno tutto dedito al proprio lavoro. Per una donna, invece, è diverso: la società e i modelli femminili convenzionali le rendono la vita difficile... Ma come mai mi hai portato su questo argomento?» chiese Susan, rendendosi conto d'improvviso della veemenza con cui stava parlando. «Hai cominciato tu dicendo che eri d'accordo su quanto sia difficile essere una studentessa di medicina. Già che ci sei, perché non mi dici che sei d'accordo anche con l'ultima parte del mio discorso, e cioè che non vale la pena peggiorare ulteriormente la sua situazione?» «Merda, Mark, non ricominciare! Una volta che mi sono imbarcata in questa storia, la devo risolvere in qualche modo, lo capisci benissimo. Forse è tutto collegato alla sensazione di essere sotto accusa in quanto donna. Dio, come mi piacerebbe dimostrare a Harris che me la so cavare. Forse se potessi vedere di nuovo Berman, riuscirei a uscirne senza perdere la faccia, o... come posso dire, senza perdere la fiducia in me stessa. Ma parliamo d'altro. Ti dispiace se ti abbraccio?» «Io, dispiacermi?» Bellows parve un po' innervosito. «Nient'affatto.» Susan gli si avvicinò e lo strinse con una forza che lo sorprese. Istintivamente la circondò con le braccia, e le diede qualche pacca sulla schiena, come per confortarla. Lei si ritrasse. «Spero che tu non stia cercando di farmi fare il ruttino.» Si studiarono per qualche secondo: le loro labbra si cercarono, prima con delicatezza, poi con chiara emozione, infine con abbandono. mercoledì 25 febbraio
ore 5.45 La sveglia squillò nel buio, facendo vibrare l'aria della stanza col suo suono penetrante. Susan si svegliò di colpo e si tirò su. Si chiese come mai i suoi occhi non si aprissero; poi capi che erano aperti, ma era la stanza a essere immersa nel buio. Per qualche secondo non riuscì assolutamente a capire dove fosse. Il suo unico pensiero era di trovare la sveglia per far cessare quel frastuono assordante. Ma la sveglia si fermò da sola con un clic metallico. Nello stesso istante Susan si accorse di non essere sola. Poi le tornò alla mente la sera precedente, e si rese conto di trovarsi ancora nell'appartamento di Mark. Si sdraiò di nuovo sul letto tirando su le coperte per coprirsi il corpo nudo. «Ma cos'è questo casino?» chiese. «È una sveglia. Immagino che tu non ne abbia mai sentita una,» rispose una voce di fianco a lei. «Una sveglia. Mark, ma siamo nel cuore della notte!» «Col cavolo! Sono le cinque e mezzo, ed è ora di muoversi.» Mark gettò via le coperte e posò i piedi per terra. Accese la lampada vicino al letto e si sfregò gli occhi. «Mark, tu dai i numeri. Le cinque e mezzo, Cristo.» La sua voce era ovattata; aveva messo la testa sotto il cuscino. «Devo vedere i miei pazienti, mangiare qualcosa di corsa, e essere pronto per il giro delle sei e mezzo. Le operazioni cominciano alle sette e mezzo in punto.» Mark si alzò in piedi e si stirò. Nudo e senza badare al freddo si avviò in bagno. «Voi chirurghi siete dei masochisti incredibili. Perché non cominciate alle nove, o comunque a qualche ora ragionevole? Perché proprio le sette e mezzo?» Mark si fermò sulla soglia del bagno. «Si è sempre fatto alle sette e mezzo.» «Una buona ragione davvero! Si comincia alle sette e mezzo perché si è sempre cominciato alle sette e mezzo! Ecco, questo è proprio il modo di ragionare tipico dei medici. Le cinque e mezzo di mattina. Cristo, Mark, perché non me l'hai detto ieri sera quando mi hai invitato a dormire qui? Sarei tornata al pensionato.» Bellows tornò vicino al letto e guardò la massa del corpo di Susan sotto le coperte. Aveva sempre la testa sotto il cuscino. «Se tu prendessi i tuoi impegni un po' più seriamente, non ti dovrei dire qual è il comportamento
giusto. È ora di alzarsi, bella mia.» Afferrò il bordo della coperta e la tirò via con uno strattone, lasciando Susan nuda come un verme, a parte la testa che era sempre nascosta sotto il cuscino. «Bella ospitalità,» protestò lei tirandosi su. Prese una coperta, ci si avvolse dentro, e ricadde sul letto. «Ah, ma oggi si volta pagina. Ti devi comportare come una normale studentessa di medicina.» Seguì un tiro alla fune con la coperta. «Mi serve ancora un giorno, solo uno. Ti prego, Mark, concedimelo. Lo sai che per me è importante. Se oggi non riuscirò a ottenere le cartelle — e credo che non ci riuscirò — allora sarà tutto finito. E poi se riuscirò a vedere Berman probabilmente lascerò perdere tutto. E tu riavrai la tua normale studentessa di medicina. Ma ho bisogno di un altro giorno.» Bellows lasciò andare la coperta. Susan ricadde sul letto, con un seno scoperto, come un'amazzone. «D'accordo, ancora un giorno. Ma se oggi Stark viene al giro della corsia, si accorgerà della tua mancanza. E io non potrò trovarti nessuna scusa. Spero che tu lo capisca.» «Vuol dire che improvviseremo, grande chirurgo. Sono sicura che riuscirai a inventare qualcosa.» «Susan, sarò costretto a dire che ti avevo chiesto di venire al giro della corsia.» «Okay, come vuoi. Ma io dedicherò un'altra giornata piena alla mia ricerca. Non posso tirarmi indietro proprio adesso.» Si rannicchiò dentro la coperta. Sentì che Bellows aveva aperto la doccia. Avrebbe aspettato che finisse prima di alzarsi. Quando Susan si svegliò per la seconda volta, era già giorno fatto. Con l'incostanza tipica del clima di Boston, durante la notte il vento aveva cambiato direzione, e adesso soffiava da est. Grazie alla Corrente del golfo, la temperatura era salita sopra lo zero, e la neve era diventata pioggia. I pendolari provarono sollievo, gli sciatori rabbia. Susan stentò a credere alla sveglia accanto al letto: quasi le nove. Bellows aveva fatto la doccia, si era vestito ed era uscito senza svegliarla. Si stupì, perché di solito aveva il sonno leggero. Diede un'occhiata, tanto per sicurezza, al bagno e al soggiorno, ma di Bellows non c'era traccia. Era sola. Trovò un asciugamano pulito e fece una doccia. Ripensò con una piace-
vole sensazione di calore alla passione della notte. Mark si era dimostrato un amante molto più sensibile e generoso di quanto non avesse immaginato. La cosa l'aveva piacevolmente sorpresa, anche se era molto perplessa sull'opportunità di continuare la relazione. Sembrava troppo preso dal suo lavoro di chirurgo, come se ogni altra cosa dovesse venir relegata in una posizione secondaria, da hobby. Trovò in frigorifero del formaggio e un'arancia. Mentre faceva colazione consultò le pagine gialle. Dopo essersi assicurata di aver preso tutto, uscì chiudendosi dietro la porta. L'aspettava una giornata molto intensa. La pioggia era notevolmente diminuita allorché Susan uscì in strada. Il tempo non accennava a migliorare granché, ma almeno sarebbe stato più piacevole andare in giro. Susan svoltò a sinistra verso la State House. Attraversò la parte nord del parco comunale ed entrò nella zona dei negozi. Il commesso della Boston Uniform Company trovò che Susan era la cliente più facile di tutte le ragazze che erano mai venute a comprare una uniforme da infermiera. Sembrava completamente disinteressata del numero sorprendente di varianti del semplice vestito bianco. Chiese la propria taglia, dicendo che qualsiasi modello le sarebbe andato bene. «Forse questo tipo le può piacere,» sorrise l'uomo. Susan la prese e se la mise davanti, guardandosi nello specchio. «Se vuole provarla, gli spogliatoi sono nel retro.» «La prendo.» Il commesso fu sorpreso e soddisfatto per la rapidità della vendita. Mentre Susan percorreva Washington Street diretta verso il municipio, la pioggia riprese a cadere senza molta convinzione. Quando arrivò sul viale lastricato che portava all'edificio ultrageometrico, il vento spinse sopra la città un'altra nuvola carica d'acqua. La pioggia cominciò a cadere a scrosci, e Susan corse al riparo. La ragazza delle informazioni le disse che il catasto era all'ottavo piano. Lo trovò facilmente. Una volta dentro, però, le cose cambiarono: fece una coda di venticinque minuti solo per sentirsi rispondere che aveva sbagliato sportello; dopo una seconda coda, le dissero di andare nel retro dello stanzone. Là dovette aspettare ancora un quarto d'ora, nonostante non ci fosse nessun altro prima. Dietro al banco c'erano cinque scrivanie, tre delle quali erano occupate da due uomini e una donna. I due uomini avevano un aspetto sorprendentemente simile: grossi nasi rossi, occhiali con la montatura di plastica nera, e cravatte pacchiane. Erano infervorati in una discus-
sione sulla squadra dei Patriots. La donna aveva una pettinatura stile anni sessanta, e si era appiccicata sulle labbra una quantità incredibile di rossetto color fiamma. Era impegnata a osservarsi da tutti i lati possibili la faccia in uno specchietto. Finalmente il più basso dei due uomini degnò di un'occhiata Susan e capì che non aveva intenzione di andarsene, sebbene nessuno le badasse. Si avvicinò al banco con aria assente, togliendosi la sigaretta dalle labbra. Un po' di cenere gli cadde sulla cravatta. Schiacciò ripetutamente il mozzicone in un portacenere già stracolmo. «Che cosa posso fare per lei?» chiese in tono burocratico, guardando Susan per un attimo. Si voltò prima che lei potesse rispondere. «Ehi, Harry, a proposito, cos'hai intenzione di fare con quella richiesta GRI 5? Ricordati che era urgente, e ce l'hai nel cassetto da due mesi.» Si girò di nuovo verso Susan. «Cosa c'è, bellezza? Mi lasci indovinare. Vuole fare un reclamo contro il suo padrone di casa. Be', questo non è il posto giusto.» Quindi, ancora al collega: «Harry, se esci a prendere il caffè, comprami un panino. I soldi te li dò dopo.» I suoi occhi rossi si girarono verso Susan. «Torniamo a noi.» «Vorrei dare un'occhiata alla mappa del Jefferson Institute. È un ospedale relativamente nuovo, nella zona sud della città.» «Mappe? Perché vuole delle mappe? Quanti anni ha, quindici?» «Sono una studentessa di medicina e mi interessa la progettazione e la costruzione degli ospedali.» «I giovani d'oggi! Non dovrebbe aver bisogno di interessarsi a niente, carina com'è.» Susan chiuse gli occhi, resistendo alla tentazione di rispondergli per le rime. L'impiegato si diresse verso una pila di libroni posati sul banco. «In che zona è?» chiese scocciato. «Non ne ho la minima idea.» «Bene.» L'uomo fece una mezza smorfia. «Allora per prima cosa dovremo scoprirlo.» Cercò su un registro. «Zona 17.» Con studiata lentezza ritornò verso i libroni. Si tolse di tasca un pacchetto di sigarette e se ne mise una in bocca, senza accenderla. Dopo aver preso alcuni volumi sbagliati, riuscì finalmente a trovare quello della Zona 17. L'aprì, si leccò la punta dell'indice, e cominciò a sfogliarlo, bagnandosi il dito ogni quattro o cinque pagine. Arrivato al numero di riferimento che
cercava, lo copiò su un pezzo di carta. Fece cenno a Susan di seguirlo e andò a un grande schedario. «Harry!» chiamò, continuando la conversazione col collega. «Prima di scendere senti da Grosser se oggi Lester viene. Qualcuno dovrà occuparsi delle scartoffie della sua scrivania, se resta a casa. Sono lì sopra da più tempo della tua richiesta GRI 5.» Non fu difficile trovare il cassetto giusto ed estrarre un grosso fascio di mappe. «Ecco qua, riccioli d'oro. C'è una macchina per le fotocopie in fondo alla stanza, se vuole. Funziona a monete.» La indicò con la sigaretta sempre spenta. «Forse potrebbe farmi vedere quali sono le piante dei piani...» disse Susan. «Le interessa la progettazione degli ospedali e non sa come sono fatte le piante dei piani? Qui, eccole qui... sotterraneo, pianterreno, primo piano.» Si accese la sigaretta con un accendino. «E come si fa a decifrare queste abbreviazioni?» «Ma santo cielo, è scritto qui in basso. SC significa sala chirurgica, C (princ.) significa corsia principale, S. COMP. sala computer eccetera eccetera.» L'uomo cominciava a spazientirsi. «E la macchina per le fotocopie?» «Laggiù. Quando ha finito, metta le mappe nel recipiente metallico che c'è sopra al banco.» Susan fece delle fotocopie delle piante dei piani, e numerò le varie stanze con un pennarello. Poi uscì, diretta al Memorial. Entrò dall'ingresso principale. L'ospedale era già pieno di gente. Tutti i sedili erano occupati. C'era gente di tutte le età, in perenne attesa; non aspettavano di venire ricoverati, ma che un loro parente fosse ammesso o dimesso; c'erano anche pazienti già dimessi che aspettavano che qualcuno venisse a prenderli per portarli a casa. Quasi nessuno parlava, e nessuno sorrideva. Erano tante isole distinte e separate, unite solo dal timore reverenziale che ispirava loro l'ospedale coi suoi misteri. Susan dovette farsi strada a gomitate per giungere al tabellone con la pianta dell'ospedale. Lì trovò l'informazione che cercava: REPARTO NEUROLOGIA — BEARD 2. Si diresse verso gli ascensori e aspettò in mezzo alla folla. La persona vicino a lei si voltò, e Susan fece un salto all'indietro, senza riuscire a nascondere l'orrore. Gli occhi dell'uomo — o forse era una donna — erano circondati da grandi ematomi scuri; il naso
era tumefatto e deformato, con dei pezzi di garza che uscivano dalle narici, insieme a parecchi fili assicurati alle guance col cerotto. Era la faccia di un mostro. Susan cercò di tenere gli occhi fissi sull'indicatore del piano, impreparata alle sorprese sempre nuove dell'ospedale. Il dottor Donald McLeary era uno dei medici più giovani del reparto neurologico, e a causa del sovraffollamento dell'ospedale non si era riusciti a trovargli un ufficio all'undicesimo piano. Susan dovette salire a piedi fino al dodicesimo prima di trovare la porta col suo nome in lettere nere. La aprì e si trovò in un locale minuscolo; la scrivania, di medie dimensioni, sembrava enorme in quella stanzetta. Un'anziana segretaria alzò gli occhi su di lei. Era truccata in modo sorprendentemente pesante, con rossetto e ciglia finte. Aveva i capelli corti, ricci, e completamente bianchi. Indossava un tailleur rosa, che si tendeva sopra delle protuberanze innaturali. «Mi scusi, c'è il dottor McLeary?» «C'è, ma è molto occupato.» La donna era seccata da quell'intrusione. «Ha un appuntamento?» «No, no, non ce l'ho. Volevo solo chiedergli una cosa velocissima. Sono una studentessa di medicina e faccio pratica qui al Memorial.» «Vado a sentire.» La segretaria si alzò, squadrando la ragazza dalla testa ai piedi. Ulteriormente irritata dalla sua figura flessuosa, entrò in un ufficio sulla destra. Susan si guardò in giro per vedere se ci fosse qualche traccia delle cartelle che stava cercando. La donna rientrò quasi immediatamente, si sedette alla scrivania, inserì un foglio nella macchina da scrivere e batté parecchie righe. Solo alla fine alzò la testa. «Può entrare. Ha detto che può dedicarle un momento.» E si rimise a scrivere prima che Susan potesse dir qualcosa. Sussurrando tra i denti qualche epiteto scelto con cura, Susan entrò nello studio di McLeary. Era tutto in disordine, pieno di mucchi di riviste e di fogli di ogni genere. Le ricordò lo studio di Nelson. Alcune delle pile di fogli erano crollate, e non erano mai state rimesse a posto. Il dottor McLeary era un uomo magro, dallo sguardo intenso; le guance erano segnate da due rughe profonde; il naso pronunciato e il mento erano separati da una bocca che si storse quando guardò Susan da dietro gli occhiali. «Susan Wheeler, immagino,» disse McLeary con una voce niente affatto cordiale.
«Sì.» Susan fu sorpresa che conoscesse il suo nome. Non riuscì a stabilire se la cosa fosse di buon auspicio o no. «E lei è venuta per le dieci cartelle che io ho qui.» McLeary fece un mezzo giro sulla sedia, e indicò una pila di grosse cartelle cliniche. «Dieci? Ne ha solo dieci?» «Perché, non bastano?» chiese il medico sarcastico. «Sì, certo... Pensavo solo che ne avesse di più. E quelle sono le schede delle vittime del coma?» «Forse. E se anche lo fossero, lei che cosa vorrebbe fare?» «Non lo so ancora bene. Il professor Stark mi ha detto che lei aveva le cartelle, così ho pensato di venire qui a chiederle se magari potevo darci un'occhiata, oppure darle una mano a studiarle.» «Guardi che io sono un neurologo con una notevole esperienza. La neurologia è la mia specializzazione, e sto vagliando delle analisi neurologiche eseguite su questi pazienti dai medici dell'ospedale. Proprio non ho bisogno di nessun aiuto.» «Non mi sarei mai permessa di insinuare una cosa simile, dottor McLeary. Riconosco di non sapere quasi niente di neurologia. Ma questi malati sono rimasti vittime di qualcosa di molto simile alla morte, e tutta la faccenda ha un aspetto molto strano, anzi tragico. Credo che bisognerebbe studiare questi casi e vedere se sono fenomeni casuali o collegabili tra loro.» «E naturalmente sarebbe lei a fare tutto questo?» «Mah... qualcuno dovrà pur farlo.» McLeary fece una pausa, e Susan provò la sensazione fastidiosa che la conversazione si stesse rapidamente deteriorando. «Bene, allora lasci che glielo dica,» riprese McLeary secco. «Questo problema è molto al di là delle sue conoscenze attuali. Non solo, ma le sue attività hanno già arrecato un disturbo decisamente intollerabile a questo ospedale. Più che un aiuto, lei sta diventando una grossa seccatura. E adesso la invito a sedersi.» «Prego?» Susan aveva sentito bene, ma era rimasta confusa dal tono del dottor McLeary. Non le aveva chiesto di sedersi; gliel'aveva ordinato. «Si sieda, ho detto!» ripeté McLeary furibondo. Susan si sedette sull'unica sedia libera dalle file di fogli e riviste. McLeary prese il telefono e fece un numero. Mentre aspettava, guardò fisso Susan, con gli occhi accesi di collera. «L'ufficio del direttore, per favore... vorrei Philip Oren.»
Ci fu una pausa più lunga. L'espressione di McLeary non cambiò. «Signor Oren, qui è McLeary. Aveva proprio ragione. È seduta qui di fronte a me... Le cartelle? Ma certo che no, sta scherzando?... D'accordo... benissimo.» McLeary posò il ricevitore, continuando a fissare Susan. La ragazza non riusciva a scorgere nel suo sguardo neanche un'ombra di calore umano. Pensò che si meritava una segretaria come quella che aveva. Dopo un silenzio imbarazzante, Susan fece per alzarsi. «Ho la sensazione che non dovrei...» «Si sieda!» gridò McLeary, ancora più forte di prima. Susan tornò giù in fretta, stupita da quell'improvviso scoppio d'ira. «Ma che cosa c'è, insomma? Io sono venuta qui solo per vedere se potevo dare una mano per il problema del coma, non per farmi urlare dietro.» «Non ho nient'altro da dirle. Lei ha passato ogni limite, qui al Memorial. Mi hanno detto che molto probabilmente sarebbe venuta a ficcare il naso nelle cartelle. Mi hanno anche detto che ha ottenuto dal computer delle informazioni non autorizzate. E per finire, è riuscita a far infuriare il professor Harris. Comunque, il signor Oren sarà qui a momenti, e potrà parlare con lui. Questo è un problema suo, non mio.» «Chi è il signor Oren?» «Il direttore dell'ospedale, mia giovane amica. Il direttore amministrativo. I problemi del personale sono di sua competenza.» «Ma io non faccio parte del personale. Sono una studentessa.» «Giusto. E questo la pone ancora più in basso. Lei è un'ospite qui... un'ospite dell'ospedale. E come tale, la sua condotta dovrebbe essere confacente all'ospitalità che le è stata data. Invece lei ha scelto di mettere i bastoni tra le ruote, di ignorare i regolamenti. Voi studenti di oggi pensate di rovesciare l'ordine delle cose. Ma l'ospedale non esiste esclusivamente per voi. L'ospedale non ha l'obbligo di darvi un'educazione.» «Ma questo ospedale è collegato alla facoltà di medicina. L'insegnamento dovrebbe essere uno dei suoi scopi principali.» «L'insegnamento, certo. Ma non si limita affatto agli studenti, l'insegnamento. È esteso a tutta la comunità medica.» «Esatto. Dovrebbe esserci un clima di simbiosi, di scambio, a vantaggio sia dei professori sia degli studenti. L'ospedale non esiste esclusivamente né per gli studenti né per i professori. Dovrebbe esistere soprattutto per i pazienti, credo.» «Bene, è facilissimo capire la reazione del professor Harris nei suoi con-
fronti, Miss Wheeler. Come ha detto lui, lei non ha rispetto né per le persone né per le istituzioni. Ma questo è tipico della gioventù d'oggi. Credete che per il solo fatto di esistere vi spettino di diritto tutti i lussi della società, educazione compresa.» «L'educazione è più di un lusso; è una responsabilità che la società ha nei confronti di se stessa.» «Certo, la società ha certamente delle responsabilità verso se stessa. Ma non verso i singoli studenti, né verso i giovani solo perché giovani. L'educazione è un lusso perché è incredibilmente costosa, e il maggior onere ricade sulle spalle della comunità, dei lavoratori. Gli studenti pagano solo una piccola quantità dei soldi necessari. Non solo lei costa un'enorme quantità di soldi, Miss Wheeler, ma per il semplice fatto di essere qui lei è economicamente improduttiva. Quindi il costo per la società raddoppia automaticamente. Inoltre, il fatto che lei sia una donna significa che la sua futura produttività oraria...» «Ah, perdio,» esclamò Susan con sarcasmo, alzandosi in piedi, «questo è troppo! Tutte queste idiozie in una volta!» «Basta! Stia zitta!» urlò McLeary, furente. Anche lui si alzò in piedi. Susan cercò di capire che cosa stesse succedendo a quell'uomo che tremava per la collera. Pensò a quello che Bellows aveva detto sulla sessualità per spiegare il comportamento di Harris. Ma le riusciva difficile credere che ciò incidesse nel comportamento di McLeary. La sua reazione era stata molto anormale, per non dire peggio. Ansimava, sollevando e abbassando freneticamente il petto. Susan doveva averlo involontariamente provocato. Ma come? In che modo? Non ne aveva idea. Si chiese se non fosse meglio alzarsi e uscire. Ma un misto di curiosità e di rispetto per l'apparente irrazionalità di McLeary la fece restare. Si sedette e si mise a osservare McLeary, che adesso non sapeva più bene cosa fare. Si sedette anche lui e cominciò a giocherellare nervosamente con un portacenere. Susan non si sarebbe sorpresa se fosse scoppiato a piangere da un momento all'altro. Sentì aprirsi la porta dell'ufficio esterno. Si udirono delle voci, poi la porta dello studio si aprì. Senza bussare né venire annunciato, entrò un uomo dall'aria energica. Sembrava un uomo d'affari. Indossava un abito blu di sartoria e aveva i capelli accuratamente pettinati, con la riga a sinistra. Aveva un'aria autoritaria e sicura di sé. «Grazie per la telefonata, Donald,» disse subito Oren. Poi lanciò un'occhiata di commiserazione a Susan. «Così questa è la famigerata Susan Wheeler. Miss Wheeler, lei ha pro-
vocato un grande disordine nell'ospedale. Se ne rende conto?» «No, non me n'ero resa conto.» Oren si appoggiò alla scrivania di McLeary e incrociò le braccia in modo professionale. «Giusto. Per curiosità, Miss Wheeler, posso farle una semplice domanda: quale pensa che sia lo scopo fondamentale dell'ospedale?» «Curare i malati.» «Bene. Almeno in generale siamo d'accordo. Ma mi lasci fare un'aggiunta fondamentale alla sua risposta: noi curiamo i malati di questa comunità. Forse le sembrerà una precisazione inutile, dato che ovviamente noi non curiamo i malati della contea di Westchester, nello stato di New York. E invece è una distinzione importantissima, perché sottolinea la nostra responsabilità nei confronti della popolazione di Boston; come diretto corollario, qualsiasi attività che danneggi il nostro rapporto con la popolazione nega, in pratica, la nostra missione principale. Ora, ciò può sembrarle molto... come dire... irrilevante. Ma è tutto il contrario. Negli ultimi giorni ho ricevuto moltissime lagnanze nei suoi riguardi. È inammissibile. Sembra che lei stia facendo apposta per guastare il nostro rapporto con la comunità locale.» Susan si accorse di stare arrossendo. L'atteggiamento paternalistico di Oren cominciava a irritarla. «Immagino che mettere sotto gli occhi di tutti il fatto che in questo ospedale la probabilità di diventare un vegetale, di perdere il cervello, è molto alta, intollerabilmente alta, potrebbe rovinare il buon nome dell'ospedale.» «Esatto.» «Bene, a me sembra che il buon nome dell'ospedale non sia niente in confronto al danno irreparabile subito da questi esseri umani. Anzi, io sono ormai convinta che la reputazione dell'ospedale merita di essere rovinata, se ciò è necessario alla soluzione del problema.» «Su, Miss Wheeler, non può dire queste cose sul serio. Dove finirebbe tutta la gente che ogni giorno ha bisogno dei servizi di questo ospedale? E fare tutto questo chiasso solo perché c'è stata qualche complicazione, tragica ma inevitabile...» «Come fa a sapere che erano inevitabili?» «Me l'hanno assicurato i primari dei vari reparti. Io non sono né un medico né uno scienziato, Miss Wheeler, e non pretendo di esserlo. Io sono un amministratore. E quando mi trovo davanti una studentessa che è qui
per imparare e invece passa il proprio tempo a indagare su un problema che è già allo studio di gente qualificata, come il dottor McLeary — un problema che se venisse divulgato senza la dovuta discrezione arrecherebbe un danno irreparabile alla comunità — bene, allora sono costretto a reagire in modo rapido e deciso. È chiaro che lei non ha ascoltato le esortazioni che le sono state rivolte a rimettersi in riga. Ma non voglio stare a discutere con lei. Al contrario, con tutto il rispetto, ho pensato che fosse meglio spiegarle che cosa ho deciso a proposito del suo praticantato qui. Adesso, se mi vuole scusare, chiamo il preside della sua facoltà.» Oren prese il telefono di McLeary e formò un numero. «L'ufficio del professor Chapman, per favore... Il professor Chapman? Sono Phil Oren... Jim, sono Phil Oren. La famiglia? Noi tutti bene... credo di averti detto che Ted è stato ammesso alla Pennsylvania... spero davvero di sì... Il motivo per cui ti chiamo è che c'è una studentessa del terzo anno che fa l'internato qui, una certa Susan Wheeler... Esatto... Certo, posso aspettare...» Oren si rivolse a Susan. «Lei è al terzo anno, vero?» La ragazza annuì. La sua rabbia si era tramutata in scoraggiamento. Oren si voltò verso McLeary, che si era alzato all'improvviso con aria seccata. «Mi dispiace per questa intrusione,» si scusò Oren. «Forse avremmo dovuto andare nel mio ufficio. Ma finisco subito...» Rivolse di nuovo la propria attenzione al telefono. «Sì, sono qui, Jim... Be', sono contento di sapere che è stata un'ottima studentessa. Tuttavia non la vogliamo più qui al Memorial. Doveva fare pratica chirurgica, ma non è mai andata né alle visite, né alle lezioni, né alle operazioni, niente. Invece non ha fatto che irritare i medici, in particolare il primario di anestesia, ed è riuscita a ottenere delle informazioni non autorizzate dal computer. È chiaro che noi abbiamo già abbastanza guai, non ci serve proprio questo genere di aiuto... Certo, le dirò che la vuoi vedere... questo pomeriggio alle quattro e mezzo. Bene.» Fece una risatina. «Grazie, Jim. Ci sentiamo presto.» Posò il ricevitore e sorrise diplomaticamente a McLeary. Poi si voltò verso Susan. «Miss Wheeler, il suo preside, come avrà certamente sentito, le vuole parlare questo pomeriggio alle quattro e mezzo. Da questo momento in poi, la sua permanenza al Memorial non è più gradita. Buongiorno.» Susan guardò prima Oren e poi McLeary. L'espressione di quest'ultimo era rimasta immutata. Oren aveva un sorrisetto soddisfatto, come se avesse avuto la meglio in una discussione. Ci fu un penoso silenzio. Susan capì che la scena era finita; si alzò, prese il pacco contenente la sua uniforme da
infermiera, e uscì. mercoledì 25 febbraio ore 11.15 Ormai l'atmosfera dell'ospedale era intollerabilmente opprimente, e Susan scappò fuori. Passò in mezzo alla folla dell'atrio e uscì nella giornata fredda e piovosa di febbraio. Senza una meta precisa si mise a camminare a caso. Girò in New Charden Street, poi in Cambridge Street. «Stronzi!» sibilò dando un calcio a una lattina vuota. La pioggia leggera le aveva fatto appiccicare i capelli sulla fronte. Percorse Joy Street e arrivò dietro a Beacon Hill. Immersa nei propri pensieri, non notò quasi l'ammasso di umanità, cani, spazzatura, e altri avanzi di quella zona cadente della città. Non si era mai sentita così respinta e isolata. Era completamente sola, e provò la paura improvvisa del fallimento. Mentre ripensava agli incontri con McLeary e con Oren si alternavano dentro di lei ondate di depressione e di rabbia. Aveva un urgente bisogno di parlare con qualcuno, con una persona di cui avesse fiducia e che la potesse consigliare. Stark, Bellows, Chapman: erano tre possibilità, ma ciascuna aveva i suoi svantaggi: dell'obiettività di Bellows non c'era da fidarsi, e quanto a Stark e Chapman si sarebbero preoccupati soprattutto delle istituzioni di cui erano a capo. Susan prese in considerazione l'eventualità peggiore: essere espulsa dalla facoltà di medicina. Non sarebbe stato solo un fallimento personale, ma una sconfitta per tutte le donne in medicina. Susan avrebbe desiderato potersi rivolgere a qualche dottoressa, ma non ne conosceva nessuna. All'università ce n'erano pochissime, e nessuna era nella posizione di poterle dare un consiglio. Mentre era immersa in queste meditazioni, il piede destro le scivolò e dovette appoggiarsi al muro di un edificio per non cadere; aspettandosi il peggio, si guardò la scarpa e vide che aveva messo il piede su un bel mucchietto fumante di merda di cane. «All'inferno Beacon Hill!» Susan maledisse Boston e tutta la merda letterale e metaforica che l'amministrazione cittadina tollerava. Si pulì la suola sul bordo del marciapiede e le venne quasi da vomitare per la puzza. Ma non poteva fare a meno di pensare agli aspetti simbolici di questo incidente: forse si era davvero imbattuta in un mucchio di merda e, come era costretta a fare con la merda reale della città, avrebbe dovuto cercare di igno-
rare tutta la faccenda, e di girarci attorno. Il suo compito era diventare una dotcoressa, e questo doveva avere la precedenza su ogni altra cosa. I Berman e la Greenly non erano affar suo. Ma adesso era fuori da quell'ospedale, e forse anche fuori dall'università. Non poteva più fare molto a questo punto. Era finita. Provò un profondo imbarazzo ripensando a quello che aveva pensato all'inizio. Una nuova malattia! Rise della propria presunzione. Percorse Pinckney Street, attraversò Charles Street e si diresse verso il fiume. Camminando sempre senza meta, salì la scalinata che portava al Longfellow Bridge. Le pareti erano ricoperte di graffiti, e Sùsan si fermò un attimo a leggere le frasi senza senso e i nomi scarabocchiati. A metà della rampa di scale si fermò di nuovo, e guardò il Charles River dalla parte di Cambridge, Harvard e il B.U. Bridge. Sulla superficie del fiume le lastre di ghiaccio formavano un curioso disegno, come un gigantesco quadro astratto. Su uno dei lastroni era posato uno stormo di gabbiani, immobili. Senza un motivo preciso Susan svoltò a destra, dalla stessa parte da cui era venuta. Vide un uomo con l'impermeabile scuro e il cappello, che si fermò e si girò verso il fiume appena la ragazza guardò dalla sua parte. Susan tornò ad ammirare lo scenario che le si apriva davanti, senza prestare attenzione all'uomo con l'impermeabile. Ma dopo cinque buoni minuti, notò che l'uomo non si era mosso: stava fumando, e guardava il fiume incurante della pioggia. Susan pensò che fosse una strana coincidenza che due persone stessero lì ferme in una piovosa giornata di febbraio, quando di solito il ponte era deserto anche col bel tempo. Susan traversò il ponte e seguì l'argine del fiume fino alla darsena del MIT. Aveva un po' freddo, perché l'acqua le era scesa dentro il bavero del cappotto. La cosa le dava un po' fastidio, ma in un certo senso era anche terapeutica. Alla fine decise che era ora di tornare al pensionato e fare un bel bagno caldo. Si girò di scatto, con l'intenzione di riattraversare il ponte e prendere la metropolitana. Ma si fermò. L'uomo con l'impermeabile scuro era a un centinaio di metri di distanza, e continuava a fissare il Charles River. Susan provò un disagio indefinibile. Cambiò i propri piani, per non dover passare davanti all'uomo. Decise di attraversare l'angolo del campus del MIT e prendere la metropolitana alla Kendall Station. Mentre attraversava il Memorial Drive, notò che l'uomo stava incominciando a incamminarsi verso di lei. Si disse che era stupido preoccuparsi di quello sconosciuto. Non riusciva a spiegarsi come mai fosse così facile alla
paranoia. Evidentemente era sconvolta più di quanto avesse creduto. Ma tanto per essere sicura, svoltò in una strada laterale e camminò fino in fondo all'isolato, fermandosi davanti alla biblioteca di scienze politiche. Cercando di comportarsi con naturalezza, finse di controllare la legatura del pacco con l'uniforme da infermiera. L'uomo comparve quasi immediatamente, ma non le andò dietro. Attraversò la strada e sparì. Ma Susan non si era ancora convinta che non la stesse seguendo; probabilmente cercava di non farsi notare. Entrò in biblioteca; andò nella toilette delle donne e si rilassò per qualche minuto. Si guardò nello specchio. La faccia rivelava tutta la sua angoscia. Pensò di chiamare qualcuno, ma poi scartò l'idea. Che cosa poteva dire? Avrebbe fatto una figura ridicola. E poi adesso si sentiva meglio, ed era decisa a dimenticare l'episodio. Un frutto della sua immaginazione. Quando uscì dalla toilette era di nuovo padrona di sé. Osservò l'architettura della biblioteca. Era ultramoderna, e dava un senso di spazio e di serenità. Non aveva la tetraggine tipica delle biblioteche universitarie. Le sedie erano color arancione brillante, e gli scaffali e gli schedari di quercia lucidata. Ma ecco di nuovo quell'uomo, vicinissimo! Capì che doveva essere lui, anche se non aveva alzato gli occhi dalla rivista che stava leggendo. Aveva un impermeabile scuro, camicia e cravatta bianche; i suoi capelli erano lucidi e incollati alla testa da uno strato di brillantina. La sua faccia irregolare portava ancora i segni di anni di acne giovanile. Susan salì la scala che portava all'ammezzato, sempre tenendolo d'occhio. Le sembrò che continuasse a fissare la sua rivista. Prima di entrare in biblioteca Susan aveva notato che essa era collegata all'edificio adiacente; trovò il passaggio e l'attraversò in fretta. Il palazzo accanto era pieno di aule e uffici, e c'era parecchia gente in giro. Susan si sentì più rassicurata e scese al pianterreno. Quindi uscì in strada e si incamminò rapidamente verso Kendall Square. Non conosceva quella zona, e ci mise qualche minuto per trovare l'entrata della metropolitana. Prima di scendere la scala esitò guardandosi intorno. Terrorizzata, vide che l'uomo dall'impermeabile scuro era ormai a un isolato di distanza e avanzava verso di lei. Provò un senso di vuoto allo stomaco, e il cuore cominciò a batterle più in fretta. Una leggera corrente d'aria che saliva dalle scale e un lontano rombo minaccioso la aiutarono a decidersi. Un treno stava entrando nella stazione. Un treno pieno di gente.
Ormai in preda al panico, Susan scese le scale ed entrò nell'oscurità della sotterranea. Giunse davanti al cancello girevole e si cercò un quarto di dollaro nelle tasche. Sapeva di avere qualche moneta, ma i guanti le impedivano di trovarla. Se ne strappò via uno e tirò fuori gli spiccioli. Qualche moneta cadde per terra e rotolò via. Nessuno scese dal treno. Qualche passeggero guardò con aria assente i suoi movimenti frenetici. Finalmente la moneta cadde nella fessura e Susan tentò di aprire il cancelletto. Ma si accorse che aveva spinto troppo presto, non c'era niente da fare. Attese ancora un momento; al secondo tentativo il cancelletto si aprì di colpo e Susan incespicò in avanti, evitando per un pelo di cadere per terra. La porta delle carrozze si chiuse mentre lei correva per raggiungerle. «Per piacere!» gridò mentre il treno cominciava a uscire dalla stazione. Continuò a correre per qualche metro lungo la banchina, e quando l'ultima carrozza le passò davanti colse l'immagine del conducente che la guardava dallo specchietto retrovisore con la faccia impassibile. Il treno sparì veloce nel tunnel, e Susan, ansante, restò a fissarlo mentre si allontanava. La stazione era completamente deserta. Anche il marciapiede opposto era vuoto. Il rumore del treno che si allontanava svanì con incredibile rapidità: adesso si udiva solo l'acqua che sgocciolava. La Kendall era una stazione secondaria, e non era mai stata rinnovata. I muri a mosaico, un tempo di moda, erano tutti scrostati. Sembrava una zona archeologica. C'era fuliggine dappertutto, e i marciapiedi erano cosparsi di pezzi di carta straccia. Dal soffitto pendevano piccole stalattiti. Susan si sporse più avanti che poté e guardò nel tunnel in direzione di Cambridge, sperando di veder spuntare un altro treno. Restò a lungo in ascolto, ma sentì solo lo sgocciolio dell'acqua. Poi udì un rumore inconfondibile di passi che scendevano le scale. Si allontanò, mentre i passi si facevano sempre più vicini. Poi si lanciò di corsa lungo il marciapiede. Arrivata in fondo, guardò di nuovo nell'oscurità del tunnel. Solo lo sgocciolio cadenzato dell'acqua. E i passi. Susan si girò verso l'ingresso, e vide l'uomo con l'impermeabile entrare. Giunto sul marciapiede, si fermò e mise le mani a coppa attorno a un fiammifero per accendersi una sigaretta. Poi buttò con noncuranza sulle rotaie il fiammifero usato. Senza nessuna fretta, diede qualche tiro alla sigaretta prima di avanzare verso Susan. Sembrava gustare il panico che le stava lentamente mettendo addosso. I suoi tacchi mandavano un'eco metallica mentre si avvicinava sempre più.
Susan avrebbe voluto urlare o scappare, ma non poteva fare nessuna delle due cose. Pensò che forse quella situazione terrificante era solo frutto della sua fantasia. Forse era solo una serie di coincidenze. Ma l'espressione dell'uomo che continuava ad avvicinarsi la convinse che era tutto vero. Susan fu presa da un panico assoluto, definitivo. Era intrappolata. C'era solo il tunnel, ma non era una via d'uscita. L'altro marciapiede? Tra i binari c'erano dei pilastri metallici, e tra l'uno e l'altro c'era abbastanza spazio da passarci in mezzo. Ma accanto ai pilastri correvano le terze rotaie, il cui voltaggio sarebbe bastato a friggere seduta stante un individuo. A circa cinque metri dall'imbocco del tunnel i pilastri metallici finivano, e le terze rotaie passavano all'esterno dei rispettivi binari. Susan calcolò che sarebbe stato relativamente semplice saltare dentro al tunnel e attraversarlo in quel punto. Cosi avrebbe evitato di dover scavalcare le terze rotaie. L'uomo era ormai a soli venti metri. Gettò via la sigaretta ancora a metà. Le sembrò che si togliesse qualcosa di tasca. Una pistola? No, non era una pistola. Un coltello? Forse. Susan non aveva bisogno di altri incoraggiamenti. Passò il pacco con l'uniforme da infermiera nella destra e si accucciò sul bordo del marciapiede, poggiandoci sopra il palmo delle mani. Poi si lasciò cadere sui binari che correvano un metro e mezzo sotto, piegando le ginocchia per attutire l'urto. Si tirò su di scatto e si mise a correre dentro al tunnel. Sopraffatta dal panico inciampò nelle traversine di legno. Istintivamente lasciò andare il pacco e si aggrappò a uno dei pilastri, curvandosi per evitare il contatto con la terza rotaia. Il suo piede, urtando la traversina, aveva staccato un pezzetto di legno, che finì tra la terza rotaia e il suolo. Ci fu un lampo e uno schiocco secco e il pezzetto di legno si incenerì all'istante. L'odore acre di legno bruciato si sparse per l'aria. Susan riuscì a rialzarsi nonostante un fortissimo dolore all'anca sinistra; riafferrò il suo pacco e ricominciò a correre lungo le traversine. Ma all'imbocco del tunnel c'era una serie di scambi, un labirinto di rotaie e traversine. Inciampò di nuovo. Lo stivale sinistro le era rimasto preso dentro uno scambio. Cercò di divincolarsi, ma il piede era rimasto incastrato, e ottenne solo il risultato di aumentare il dolore alla caviglia. Si chinò, afferrò il piede con entrambe le mani e tirò disperatamente. Non aveva il coraggio di voltarsi indietro. D'improvviso l'aria fu riempita da uno stridore assordante, che la lasciò senza fiato. Pensò subito che le fosse successo qualcosa, ma era ancora viva. Poi il rumore si ripeté, rimbombando così forte dentro al tunnel che
Susan dovette coprirsi le orecchie con le mani, ma anche così provava un dolore acuto alla testa. Finalmente capì. Era il fischio del treno. Guardò nell'oscurità del tunnel e vide la luce dei fari. Nello stesso istante sentì le vibrazioni delle tonnellate di metallo che marciavano verso di lei a tutta velocità. Poi ci fu un altro rumore, meno acuto ma più penetrante del fischio. Era lo sfregamento di metallo contro metallo, provocato dalle ruote bloccate in un disperato tentativo di frenata. Ma era inutile, la velocità era troppo alta. Susan non sapeva assolutamente in quale scambio le fosse rimasto impigliato il piede, né poteva capire su quale binario stesse arrivando il treno. La sua luce sembrava puntare dritto su di lei. Con un ultimo sforzo disperato riuscì a togliere il piede dallo stivale e a saltare verso il binario opposto. Cadde sulle traversine con le mani in avanti per ammortizzare il colpo. Si rannicchiò coprendosi la testa con le braccia. L'intensità dello stridio e della vibrazione arrivò al massimo: il treno le passò con un sibilo a poco più di un metro. Per qualche istante Susan restò immobile. Non riusciva a credere a quello che le era successo. Il cuore le scoppiava nel petto, ed era fradicia di sudore dalla testa ai piedi. Ma era viva e, a parte qualche graffio, incolume. Il suo soprabito, strappato e con parecchi bottoni staccati, era segnato da una striscia di grasso che aveva sporcato anche il camice bianco che portava sotto. Le penne e le matite erano finite chissà dove. Uno degli auricolari dello stetoscopio si era piegato ad angolo retto. Si rialzò, si ripulì alla meglio e ricuperò lo stivale. Riuscì a toglierlo dallo scambio con estrema facilità: le bastò spingere in giù il tacco e alzare la punta. Quando se lo fu infilato di nuovo, vide alcuni uomini con delle torce elettriche correre verso di lei. Quando la aiutarono a salire sul marciapiede, tutto le sembrava già un frutto dell'immaginazione, un orribile sogno. Non c'era nessun uomo con l'impermeabile scuro; c'era solo una gran folla di persone che parlavano con voci eccitate dell'accaduto. Qualcuno trovò il suo pacco sui binari e glielo restituì. Susan li assicurò che stava bene. Pensò di raccontare qualcosa sull'uomo con l'impermeabile, ma non era sicura di essere in grado di distinguere ciò che era accaduto davvero da quello che s'era immaginato lei. Era stata presa dal panico, e non si era ancora ripresa. Non riusciva a ragionare, e desiderava soltanto andare a casa. Le ci volle un quarto d'ora per convincere il personale della metropolita-
na che era solo scivolata giù dal marciapiede, che adesso stava benissimo e che non aveva assolutamente bisogno dell'ambulanza. Aveva semplicemente bisogno di arrivare in Park Street per prendere la linea di Huntington. Finalmente poté salire con gli altri: le porte si chiusero e il treno ripartì. Susan esaminò le condizioni dei suoi vestiti. Si accorse che l'uomo davanti a lei la fissava, e anche la donna di fianco a lui stava facendo lo stesso. Si guardò attorno e vide che tutti i passeggeri avevano gli occhi puntati su di lei. Non riusciva a sopportare quegli sguardi e quelle facce. Cercò di guardare fuori mentre il treno attraversava il Longfellow Bridge. Nella carrozza nessuno parlava. Tutti continuavano a fissarla. Il treno arrivò alla fermata di Charles Street. Con grande sollievo Susan scese dalla carrozza e si mise a correre lungo il marciapiede. Uscì fuori e fermò un taxi. Solo quando fu sulla macchina si calmò un poco. Si guardò le mani: stava tremando forte. mercoledì 25 febbraio ore 13.30 All'una e mezzo del pomeriggio, Bellows aveva già avuto una giornata piena, almeno secondo il criterio della maggior parte della gente. Non era stanco fisicamente, perché era ben abituato ai turni pesanti di lavoro, ma mentalmente sì, e teso e turbato. La giornata era iniziata sotto buoni auspici, quando si era svegliato con Susan accanto. Gli era piaciuta immensamente la serata che avevano passato insieme, anche se dubitava che la loro relazione potesse continuare molto a lungo. Susan non era proprio il genere di ragazza a cui era abituato. Non aveva niente di quel candore e di quell'ingenuità un po' ottusa che stavano alla base del suo concetto di femminilità. Nonostante tutti i suoi timori, aveva scoperto con piacere che per lei il sesso era una cosa naturale, senza niente di aggressivo. Susan, e le proprie reazioni verso di lei, restavano un mistero assoluto. Gli aveva fatto un certo piacere che Susan fosse rimasta a letto quando lui si era alzato. La cosa rendeva il suo ruolo più tradizionale. Se si fosse alzata e fosse venuta in ospedale con lui, ciò avrebbe sminuito il suo senso del sacrificio professionale. E il senso del sacrificio era importante per Bellows, un'importante fonte di soddisfazioni. Ma poi la giornata aveva cominciato ad andare storta. Con terrore di Bellows, Stark aveva fatto un'improvvisa apparizione durante il primo giro
in corsia della mattina, rivelandosi di pessimo umore. Per prima cosa aveva chiesto a Mark che cosa avesse fatto a quella studentessa così carina per renderle tanto difficile partecipare ai giri. Bellows era rabbrividito: quell'allusione ironica era più vera di quanto lo stesso Stark potesse immaginare. La domanda aveva provocato tra i presenti qualche risatina e un paio di commenti salaci. Bellows si era sentito avvampare la faccia. Nello stesso tempo aveva provato il desiderio di ribattere qualcosa per difendersi, ma prima che potesse aprir bocca Stark si era lanciato in una tirata sui doveri e sull'impegno professionale degli interni. Il nocciolo di tutto il discorso era stato che Bellows doveva impegnarsi di persona perché tutti gli studenti a lui assegnati si comportassero in modo esemplare, e che ogni ulteriore assenza di Susan avrebbe influito negativamente sul curriculum professionale. Durante il giro in corsia Stark era stato più astioso e indisponente che mai, particolarmente nei riguardi di Mark. Aveva continuato a fargli domande insidiose, e nessuna risposta lo soddisfaceva mai. Alla fine gli altri interni avevano capito che il primario ce l'aveva con lui, e avevano cercato di intromettersi rispondendo alle domande di Stark anche quando erano chiaramente rivolte al loro collega. Terminato il giro, Stark aveva chiamato da parte Bellows e gli aveva detto che il suo rendimento era molto inferiore a quello che l'ospedale si aspettava da lui. E finalmente era arrivato al vero motivo del suo malumore: dopo una pausa piuttosto lunga, gli aveva chiesto quale fosse stata la sua parte nella faccenda dei farmaci scoperti nell'armadietto 338. Bellows aveva negato recisamente di esser stato a conoscenza della cosa e aveva sostenuto di esserne stato informato per la prima volta da Chandler. Aveva aggiunto di avere usato il 338 solo per una settimana, in attesa che gliene fosse assegnato definitivamente uno. L'unico commento di Stark era stato che intendeva chiarire la questione al più presto. Bellows, rendendosi conto di venir coinvolto nella faccenda, — sia pure indirettamente — era stato preso da un'ansia sproporzionata. La sua tendenza alla paranoia professionale gli aveva fatto ingigantire tutta la storia, e col procedere della mattinata la sua agitazione non aveva fatto che aumentare. Bellows aveva fatto due interventi, portando con sé gli studenti in sala operatoria. Nella prima operazione l'avevano assistito Goldberg e Fairweather — ma più che altro la loro partecipazione si era limitata a lavarsi le mani prima dell'intervento; nella seconda, Carpin e Niles. Bellows si era
particolarmente preoccupato di incoraggiare Niles. Non c'erano stati più svenimenti, anzi Niles si era dimostrato il più abile di tutti, e Bellows aveva fatto fare a lui le suture. Durante il pranzo Bellows era riuscito a prender da parte Chandler. Il capo degli interni aveva ribadito ciò che Mark sapeva già, e cioè che Stark era davvero fuori di sé per quella faccenda dei medicinali. «Tutta questa maledetta storia è ridicola!» aveva esclamato Bellows. «Stark ha parlato con Walters per scagionarmi?» «Non ho parlato nemmeno io con Walters,» aveva risposto Chandler. «Sono andato a cercarlo, ma oggi non è venuto. Nessuno l'ha visto.» «Walters?» Bellows era rimasto molto sorpreso. «Ma se non ha fatto un'assenza in un quarto di secolo!» «Che vuoi che ti dica? Non s'è fatto vivo.» Allora Bellows era andato su all'ufficio del personale per farsi dare il numero di telefono di casa di Walters. Si era scoperto che Walters non aveva il telefono. Bellows aveva dovuto accontentarsi dell'indirizzo: 1833 Stewart Street, Roxbury. All'una e mezzo Bellows era ormai nervosissimo. Una nuova telefonata in chirurgia confermò il fatto che Walters non era ancora arrivato. Bellows decise di andare personalmente a casa di Walters. Era il solo modo che gli venisse in mente per tirarsi fuori subito dalla storia dei medicinali. Non era poi una decisione tanto difficile, anche se per lui era contro ogni regola lasciare la clinica a metà della giornata. Ma aveva l'angosciosa sensazione che nelle ultime quarantott'ore la sua comoda e promettente posizione al Memorial fosse stata messa in serio pericolo. C'erano soprattutto due problemi: il primo, quello dei medicinali, era semplice da risolvere, perché sapeva di non averci niente a che fare e di dover semplicemente dimostrarlo. Ma il secondo problema, quello di Susan e del suo cosiddetto progetto, era una cosa ben diversa. Bellows riuscì a rifilare gli studenti al dottor Larry Beard, un nipote di quel Beard che aveva fatto un lascito all'ospedale. Poi, dopo aver avvisato il centralino e chiesto a Norris, un suo collega, di sostituirlo per un'ora, uscì dall'ospedale all'1.37 e prese un taxi. «Stewart Street, Roxbury? È sicuro?» la faccia dell'autista si storse in una smorfia appena sentì l'indirizzo. «Numero 1833,» aggiunse Bellows. «Comunque, sono soldi suoi!»
Con tutti quei cumuli di neve sporca ammucchiati qua e là, la città aveva un aspetto particolarmente deprimente. Stava piovendo con la stessa intensità di quando Bellows era andato al lavoro la mattina presto. Durante il tragitto incrociarono pochissime persone. Lo strano aspetto disabitato di quella zona ricordava le città abbandonate dei Maya. Era come se le cose fossero andate così male che tutti avevano deciso di chiudere casa e andarsene via. Via via che il taxi si addentrava in Roxbury, l'aspetto della città peggiorava. Oltrepassarono una zona di magazzini abbandonati, poi una serie di slum in rovina; il freddo, la pioggia e i mucchi di neve sporca rendevano il tutto ancora più deprimente. Quando il taxi svoltò a destra Bellows si sporse in avanti, cercando di vedere se fossero già arrivati in Stewart Street. Nello stesso istante la ruota anteriore destra finì in una buca piena d'acqua, e il fondo della macchina urtò contro l'asfalto. Con una bestemmia l'autista diede uno strattone al volante per evitare che anche la ruota posteriore ci finisse dentro. Ma non ci riuscì, e la parte di dietro dell'auto sobbalzò violentemente. La testa di Bellows andò a sbattere contro il soffitto. «Spiacente, ma c'è voluto venire lei in Stewart Street!» Massaggiandosi la testa dolorante, Bellows guardò i numeri delle case: 1831, 1833. Pagò, uscì e richiuse lo sportello. Il taxi ripartì e si allontanò più in fretta che poteva dribblando le buche. Bellows lo guardò allontanarsi e per un attimo rimpianse di non aver detto all'autista di aspettarlo. Si guardò in giro. Grazie al cielo aveva almeno smesso di piovere. C'erano tutt'intorno parecchie carcasse di automobili a cui erano stati tolti tutti i pezzi di un certo valore. Nella strada non c'era anima viva. Quando si trovò davanti alla casa, Bellows vide che era abbandonata e che quasi tutte le finestre erano sbarrate con assi. Era dappertutto la stessa cosa: costruzioni con le finestre sbarrate, altre con i vetri rotti. Un cartello inchiodato alla porta diceva che la casa apparteneva all'assessorato all'edilizia ed era in demolizione. La data del cartello era 1971. Era un altro dei tanti progetti del comune di Boston finiti nel nulla. Bellows era perplesso. Walters non aveva telefono, e l'indirizzo aveva tutta l'aria di essere falso. Ma ripensando all'aspetto di quell'uomo, la cosa non gli sembrò poi così sorprendente. La curiosità lo spinse a salire gli scalini e leggere il cartello. Un altro cartello più piccolo avvertiva che l'ingresso era vietato e che il posto era sorvegliato dalla polizia. Ai suoi tempi il portone doveva essere stato molto bello. Aveva una grande vetrata ovale colorata, ma ora il vetro era rotto, ed era stato rappez-
zato con dei pezzi di legno. Bellows provò a girare la maniglia: con suo grande stupore la porta si aprì. C'era una robusta serratura d'acciaio, ma le viti che la reggevano erano state tolte. La porta si spalancò, strisciando sopra i vetri rotti. Mark diede un'occhiata alla strada deserta, e varcò la soglia. La porta si chiuse rapidamente dietro alle sue spalle, e la luce diminuì di colpo. Bellows aspettò che gli occhi gli si abituassero alla penombra. L'androne cadeva a pezzi. Alla scala era stata tolta la ringhiera, probabilmente per farne legna. La tappezzeria era tutta strappata, e pendeva in lunghe strisce giù dal muro. Un sottile strato di neve sporca copriva il pavimento. Ma proprio davanti a sé Bellows vide delle orme. Chinandosi a osservare più da vicino, constatò che erano di due persone diverse; una serie era stata lasciata da due piedi molto grandi, quasi una volta e mezzo i suoi. Ma la cosa più interessante era che le orme sembravano abbastanza fresche. Bellows sentì il rumore di una macchina che scendeva giù per la strada e si tirò su. Con la massima cautela, andò davanti a una delle finestre sbarrate e guardò attraverso una fessura tra le assi. L'auto passò senza fermarsi. Mark salì le scale ed esplorò una parte del primo piano. Trovò solo alcuni vecchi materassi sfasciati. Nell'aria stagnava un pesante odore di muffa. Il soffitto della stanza che dava sulla strada era tutto sgretolato, e i calcinacci avevano completamente ricoperto il pavimento. In tutte le stanze c'erano un caminetto, uno spesso strato di polvere, e una gran quantità di ragnatele che pendevano dal soffitto. Mark diede un'occhiata alla scala che portava al secondo piano, ma decise di non salire; ridiscese al pianterreno e stava per uscire quando sentì un rumore, come un leggero tonfo proveniente dal retro della casa. Mark esitò, mentre i battiti del suo cuore acceleravano lievemente. Voleva uscire, c'era qualcosa in quella casa che lo turbava oscuramente. Il rumore si ripeté; allora Mark attraversò il corridoio e si diresse verso la parte posteriore dell'edificio. In fondo al corridoio svoltò a destra, in quella che un tempo era stata la sala da pranzo. Al centro del soffitto si vedeva ancora l'attacco per la luce a gas. Attraversò la sala da pranzo e si ritrovò tra i ruderi della cucina. Era stato portato via tutto, tranne qualche tubo che usciva dal pavimento. Anche lì le finestre erano sbarrate con le assi come sulla facciata. Fece qualche passo dentro la stanza, e d'improvviso avvertì un movimento sulla sinistra. Si bloccò col cuore in tumulto. Il movimento veniva
da un mucchio di scatoloni di cartone. Ripresosi dallo spavento, si avvicinò con circospezione agli scatoloni. Ne mosse uno col piede. Inorridito vide alcuni grossi topacci scappar fuori dal loro rifugio e sparire in sala da pranzo. Bellows si stupì di essere così teso. Si era sempre ritenuto un tipo calmo, uno che non si emozionava tanto facilmente. Ma alla vista dei topi era rimasto paralizzato dalla paura, e gli ci vollero quattro o cinque minuti per riaversi. Diede un calcio agli scatoloni per assicurarsi di aver ripreso il controllo dei propri nervi, e fece per tornare in sala da pranzo; ma un'altra impronta sulla polvere del pavimento attirò la sua attenzione. Confrontandola con le proprie, capì che quella strana traccia doveva essere abbastanza recente. Era al di là delle scatole di cartone, davanti a una porta socchiusa. Si avvicinò alla porta e l'aprì lentamente. Dietro era buio, e si intravedeva una breve scala. Probabilmente portava in cantina, ma dopo appena qualche gradino era inghiottita dall'oscurità. Bellows estrasse la lampada tascabile. La accese, ma il suo debole raggio riusciva a far luce solo fino a un paio di metri di distanza. Il buon senso gli diceva di uscire da quella casa, e invece cominciò a scendere la scala, più per provare a se stesso che non aveva paura che per scoprire che cosa ci fosse là sotto. Ma aveva paura. La sua immaginazione lavorava vertiginosamente, e gli faceva tornare in mente certi film dell'orrore e l'impressione che gli avevano fatto. Si ricordò la scena della discesa in cantina in Psycbo. Il raggio della lampada tascabile avanzava mentre Mark scendeva lentamente i gradini, e alla fine illuminò una porta chiusa. Bellows la esaminò, e provò a girare la maniglia. La porta si aprì con facilità. Si era aspettato di trovare in cantina qualche finestra che lasciasse entrare un po' di luce, e invece si ritrovò nell'oscurità più completa. La debole luce della sua lampadina illuminava quella che sembrava una stanza piuttosto grande. Girando un po' intorno, Bellows vide qualche mobile malandato, compreso il letto coperto di giornali e due panni mangiati dalle tarme. Alcuni scarafaggi scapparono davanti alla luce della lampadina. C'era un caminetto con un grosso pezzo di legna. Dentro il caminetto c'era della cenere; evidentemente il fuoco era stato acceso di recente. Mark si chinò e raccolse un giornale per controllare la data. Era del 3 febbraio 1976. Mentre lo lasciava ricadere per terra, notò un'altra porta socchiusa per qualche centimetro. Fece per avvicinarsi, ma la luce della lampadina
tascabile diminuì di colpo. Le batterie si stavano scaricando per l'uso prolungato. Spense la luce per un attimo, per darle la possibilità di ravvivarsi. Si ritrovò in un'oscurità così completa che non riusciva letteralmente a vedere a un palmo dal naso. Nella stanza regnava il silenzio più totale. Riaccese la lampadina tascabile. Il raggio di luce adesso era un po' più intenso e Bellows intravide delle piastrelle bianche sul pavimento al di là della porta. Era un gabinetto. Bellows spalancò la porta. Girò a fatica sui cardini, come se fosse fatta di piombo. La luce incerta della lampadina illuminò la tazza del gabinetto, priva di sedile. Quando la porta fu aperta a metà, Bellows infilò dentro la testa. Il lavandino era sul muro di destra, di fianco alla porta. Spostò il raggio di luce sopra il lavandino e illuminò un armadietto con uno specchio. Senza nemmeno accorgersene lanciò un grido. Non fu molto forte, ma gli salì da dentro il cervello, come una reazione ancestrale. La lampadina tascabile gli cadde di mano e rotolò sulle piastrelle del pavimento. Bellows si trovò immerso nel buio. Si girò e corse verso le scale, urtando contro i mobili. Era in preda al panico, e andò a sbattere contro il muro. Spostando la mano lungo il muro, arrivò a un angolo e si rese conto di aver sbagliato direzione. Lentamente ritornò sui propri passi. Solo quando fu proprio davanti alla scala riuscì a vedere la luce che scendeva dal pianterreno. Salì i gradini incespicando, attraversò di corsa la casa e uscì in strada. Solo allora si fermò, col petto che ansimava per lo sforzo, e la mano destra sanguinante per una delle tante cadute nel buio. Si voltò verso la casa e riuscì a ricostruire l'immagine che aveva visto. Aveva trovato Walters. Nello specchio delFarmadietto, Bellows aveva visto Walters che pendeva da una corda legata a un gancio sulla porta. La faccia di Walters era orrendamente contorta e gonfia di sangue raggrumato. Aveva gli occhi spalancati, e sembrava che gli stessero per uscire dalle orbite. Bellows aveva visto molte cose raccapriccianti nella sala del pronto soccorso dell'ospedale, ma non aveva mai visto uno spettacolo così orribile come il cadavere di Walters. mercoledì 25 febbraio ore 16.30 Susan entrò nello studio del preside con un po' di trepidazione, ma il comportamento del professor James Chapman la mise subito a suo agio.
Non era arrabbiato come aveva temuto. Era solo preoccupato. Era un uomo piccolo coi capelli bruni corti, e indossava sempre lo stesso abito scuro con il distintivo dell'università. Tra una frase e l'altra Chapman faceva delle pause e sorrideva. Non erano sorrisi spontanei, era solo un modo di mettere gli studenti a proprio agio. Nello studio del preside di medicina c'era un'atmosfera più piacevole che al Memorial. Sulla scrivania c'era un vecchia lampada di ottone. Le sedie erano nere, di tipo accademico, e dietro lo schienale avevano lo stemma della facoltà. Un tappeto orientale ravvivava il pavimento. Il muro dietro la scrivania era coperto da foto di gruppo degli studenti dei vari anni accademici. Dopo i soliti convenevoli, Susan si sedette di fronte al professor Chapman. Il preside si tolse gli occhiali e li posò con cura sul tavolo. «Susan, perché non sei venuta a parlarmi di questa faccenda prima che ci sfuggisse di mano? Dopotutto, è per questo che io sono qui. Avresti risparmiato un sacco di scocciature non solo a te stessa, ma anche alla facoltà. Ho sempre cercato di accontentarvi tutti come meglio potevo. Naturalmente è impossibile soddisfare proprio tutti, ma mi sembra di essermela cavata sempre abbastanza bene. Però ho bisogno di essere avvisato quando vien fuori qualche problema. Mi piacerebbe essere tenuto al corrente anche di quello che non va.» Susan annuì. Aveva ancora addosso i vestiti che portava durante l'incidente della metropolitana. Su entrambe le ginocchia c'erano profonde abrasioni. Teneva in grembo il pacco tutto sciupato con l'uniforme da infermiera. «Professor Chapman, tutta questa storia è cominciata nel modo più innocente. I primi giorni in ospedale sono già abbastanza difficili, anche senza tutte le coincidenze negative che mi sono capitate. Così sono andata a rifugiarmi in biblioteca. Più per chiarirmi le idee che per imparare qualcosa, ho cominciato a dare un'occhiata alle complicazioni dell'anestesia. Pensavo di poter riprendere la normale routine in un giorno o due. Ma poi sono rimasta coinvolta. Ho scoperto dei dati sconvolgenti e ho pensato che forse... lei si metterà a ridere...» «Di' pure.» «Ho pensato che forse ero sulle tracce di una nuova malattia, o di una nuova sindrome, o almeno di una reazione finora sconosciuta a certi farmaci.» La faccia del professor Chapman si illuminò di un sorriso genuino. «Una
nuova malattia! Certo sarebbe un bel colpo per uno che sta facendo pratica in ospedale solo da qualche giorno. Comunque, ormai è acqua passata. Spero che adesso la penserai diversamente.» «Ci può ben credere. Ho anch'io il mio istinto di autoconservazione. E poi comincio anche ad avere delle allucinazioni. Si figuri che mi ero convinta che un uomo mi stesse seguendo, e mi sono lasciata prendere dal panico. Guardi le mie ginocchia e i miei vestiti, se non li ha già notati. Allora ho tentato di attraversare i binari in una stazione della metropolitana. Che idiozia!» Si batté la tempia con un dito. «Dopo di che ho capito che avrei fatto bene a rimettermi in riga al più presto. Però sono sempre convinta che ci sia qualcosa di strano in questi casi di coma al Memorial, e mi piacerebbe poter continuare a studiare il problema. Ho l'impressione che ci sia stato un numero di casi più alto di quanto pensassi all'inizio, e fórse è per questo che il professor Harris e il dottor McLeary si sono così irritati per le mie ingenue intrusioni. Mi dispiace di averle creato dei problemi col Memorial. Le assicuro che non era nelle mie intenzioni.» «Susan, il Memorial è una specie di pachiderma. Questa faccenda sarà già stata dimenticata. L'unica conseguenza tangibile è che dovrò trasferirti al V.A. Hospital. Ho già preso gli accordi necessari: domattina ti presenterai nell'ufficio del dottor Robert Piles.» Chapman fece una pausa, e fissò intensamente Susan. «Susan, hai una lunga strada da percorrere. Avrai un sacco di tempo per scoprire nuove malattie, o nuove sindromi, se è questo che ti interessa. Ma adesso, oggi, quest'anno, il tuo scopo principale dev'essere la tua formazione medica di base. Lascia che i casi di coma li studino Harris e McLeary. Devi ricominciare subito il tuo lavoro, perché d'ora in poi voglio sentire solo cose bellissime su di te. Finora il tuo profitto è stato eccellente.» Susan uscì dallo studio con un leggero senso d'euforia. Era come se il professor Chapman le avesse dato l'assoluzione. La paura di essere espulsa dall'università si era dileguata. Naturalmente, l'internato al V.A. Hospital non valeva come quello al Memorial, ma in confronto a quello che le sarebbe potuto succedere, il trasferimento era solo un piccolo inconveniente. Anche se erano appena passate le cinque, la sera invernale era già cominciata. La pioggia era cessata, e un'altra ondata di freddo stava prendendo il posto dell'aria calda di provenienza atlantica. La temperatura era scesa a circa sette gradi sotto zero. Nel cielo brillavano le stelle, ma all'orizzonte scomparivano perché la luce non riusciva a filtrare attraverso lo smog della città. Susan attraversò Longwood Avenue correndo in mezzo
alle auto frettolose dei pendolari. Nell'atrio del pensionato Susan incontrò alcune ragazze che conosceva; notarono subito le ginocchia scorticate e la macchia di grasso sul soprabito. Fecero qualche battuta su come doveva essere duro il tirocinio al Memorial. Anche se quei commenti erano abbastanza spiritosi, Susan sentì una gran voglia di fermarsi e rispondere per le rime. Invece uscì e attraversò il cortile. Il campo da tennis, abbandonato, aveva un'aria squallida e triste. Susan salì lentamente i gradini della graziosa scala di legno, pregustando l'isolamento e la sicurezza della propria camera. Voleva fare un lungo bagno caldo, ripensare agli avvenimenti della giornata e soprattutto rilassarsi. Com'era suo solito, entrò e si chiuse dietro la porta senza accendere la luce. Il primo interruttore accendeva la lampada al neon del soffitto, e lei preferiva la luce più calda di quelle del letto e della scrivania. Orientandosi con la luce proveniente dal parcheggio si avvicinò al letto e accese la lampada. Mentre girava l'interruttore sentì un rumore; non forte, ma abbastanza distinto da farle capire che non era uno dei normali rumori della sua stanza. Aspettò per sentire se si ripeteva. Alla fine concluse che doveva essere venuto da una delle camere vicine. Appese il soprabito e il camice, e aprì il pacco con l'uniforme. Era ancora in condizioni sorprendentemente buone. Si sbottonò la camicetta e la gettò sugli indumenti sporchi ammucchiati in disordine sulla poltrona. Si tolse il reggipetto e si mise una mano dietro la schiena per slacciare il bottone della gonna. Contemporaneamente si diresse in bagno. Aprì la porta e girò l'interruttore. Voleva guardarsi nello specchio. La tenda di plastica della doccia si aprì con un fruscio improvviso, e ne uscì un'ombra. Nello stesso istante la lampada fluorescente riempì la stanza con la sua luce chiara. Susan vide il lampo di un coltello e sentì un colpo violentissimo sulla testa. Fu spinta contro la parete, e istintivamente allungò le mani in avanti per non cadere. Era stato tutto così fulmineo che non ebbe il tempo di reagire. Tentò di urlare, ma la voce le si strozzò per il dolore. L'uomo l'aveva afferrata per la gola bloccandola contro il muro. Susan aveva spesso pensato a come reagire in caso d'aggressione: ginocchiate nei coglioni, dita negli occhi eccetera eccetera. Ma adesso non poté far altro che tentare di respirare e fissare terrorizzata l'uomo con gli occhi sbarrati. La violenza e la sorpresa dell'attacco l'avevano completamente sopraffatta. Riconobbe l'aggressore: si erano incontrati nella stazione della metropolitana.
«Una parola e sei morta, bimba!» Susan si sentì il coltello puntato alla gola. L'uomo tolse di colpo la mano dalla gola di Susan, che cadde in avanti. La colpì con un poderoso manrovescio, e lei crollò carponi, col labbro spaccato e la guancia paonazza. L'uomo le mise un piede sotto la spalla e la costrinse a mettersi in ginocchio. Poi, con un calcione, la mandò a sbattere contro il muro. Susan restò immobile, un braccio appoggiato alla tazza del gabinetto. Un rivolo di sangue le scendeva da un angolo della bocca e le rigava il petto. L'immagine dell'uomo le oscillò per un momento davanti agli occhi. Quando riuscì di nuovo a metterlo a fuoco, vide che sulla sua faccia butterata si era disegnato un ghigno amichevole. Capì che stava pensando di violentarla. Era inebetita, incapace di reagire. «Peccato che in questa visita io sia solo autorizzato a parlarti, o, come si dice nella mia professione, a prendere un contatto preliminare. Il messaggio è semplice: 'C'è un sacco di gente che è molto, molto scontenta del modo in cui passi il tuo tempo ultimamente. O ti rimetti in carreggiata e la pianti di rompere, o ti verrò a trovare di nuovo.'» L'uomo fece una pausa, per dare tempo alla ragazza di capire il senso delle sue parole. Poi riprese: «E tanto per darti un ulteriore incoraggiamento, questo giovanotto potrebbe fare la mia conoscenza, e avere un incidente grave, inaspettato, e probabilmente fatale.» L'uomo gettò una fotografia in grembo a Susan, che la sollevò lentamente. «E penso proprio che tu non voglia che a tuo fratello James, giù a Coopers nel Maryland, capiti qualcosa di brutto per i tuoi hobby. Ah, è inutile che ti dica che questa nostra piccola conversazione deve restare tra di noi. Se vai dai piedipiatti, la ricetta è la stessa.» Senza aggiungere una parola l'uomo uscì dal bagno. Susan sentì la porta della sua camera aprirsi, e poi richiudersi lentamente. Adesso l'unico rumore era il lieve ronzio della lampada al neon sopra lo specchio. Restò lì immobile per qualche minuto, sempre col braccio appoggiato al water, chiedendosi se l'uomo fosse veramente uscito. Quando il terrore si attenuò, subentrarono la confusione e l'angoscia. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Guardò la fotografia di suo fratello in bicicletta, sorridente davanti alla loro casa. «Mio Dio!» gemette scuotendo la testa e chiudendo gli occhi. Le guance le si rigarono di lacrime. La foto era autentica, non c'era nessun dubbio. Sentì dei passi in corridoio, e scattò in piedi, rabbrividendo. Ma i passi si allontanarono. Entrò barcollando in camera da letto e sprangò la porta. Si
guardò attorno. Sembrava che non fosse stato toccato niente. Poi si accorse di essere bagnata, e si toccò, incredula, stupefatta: si era pisciata addosso per il terrore. La confusione lasciò infine il posto al ragionamento. Smise di piangere. C'era stata tutta una serie di episodi inspiegabili, negli ultimi due giorni, ma una certezza aveva ormai preso forma nella sua mente: era sicurissima di essersi imbattuta in qualcosa di molto strano e di molto grosso. Si guardò allo specchio per controllare le condizioni della faccia. Le palpebre dell'occhio sinistro erano leggermente gonfie; probabilmente le sarebbe venuto un occhio nero. Sul lato sinistro c'era una piccola botta, e il labbro inferiore era gonfio e molle. Lo prese tra due dita e lo tirò in fuori con delicatezza; vide che all'interno c'era un piccolo spacco. Riuscì a lavar via con facilità il sangue nell'angolo della bocca, e il suo aspetto migliorò enormemente. Stabilì che non doveva avere una reazione spropositata di fronte a quest'ultimo episodio. Stabilì anche che, nonostante i consigli di Chapman, non era ancora pronta a lasciar perdere del tutto la cosa. Susan aveva un forte spirito competitivo, e il condizionamento degli stereotipi femminili non l'avevano ancora distrutto. La sua intelligenza non aveva mai ricevuto una sfida così grande, e con una posta in gioco così alta. Ma si rendeva anche conto di due dati di fatto: d'ora in poi doveva agire con la massima rapidità e la massima attenzione. Andò sotto la doccia e aprì i rubinetti al massimo. Si sentì subito piacevolmente rilassata. Pensò di chiamare Bellows, ma poi decise di no. La loro intimità ancora in embrione avrebbe reso difficile a Mark comportarsi in modo obiettivo. Magari avrebbe reagito in un modo tipicamente maschile, idiota e superprotettivo. Ciò di cui lei aveva bisogno, invece, era una mente lucida in grado di discutere sulle sue deduzioni. Le venne in mente Stark. Non le sembrava che si fosse lasciato influenzare negativamente dalla sua posizione di studentessa, né dal suo sesso. Inoltre aveva una profonda conoscenza del mondo della medicina e di quello degli affari. Ma soprattutto era un uomo maturo e razionale, equilibrato. Uscita dalla doccia, Susan si avvolse un asciugamano intorno ai capelli e indossò l'accappatoio di spugna. Si sedette davanti al telefono e fece il numero del Memorial. Si fece passare l'ufficio di Stark. «Mi spiace, ma il professore è al telefono. Vuole che la faccia chiamare?»
«No, aspetterò. Gli dica solo che sono Susan Wheeler, e che è importante.» «Ci proverò, ma non posso prometterle niente. Sta facendo un'interurbana che potrebbe anche durare parecchio.» «Aspetterò lo stesso.» Susan sapeva che molto spesso i medici non hanno l'abitudine di richiamare. Finalmente le passarono Stark. «Professor Stark, mi aveva detto che avrei potuto chiamarla se avessi scoperto qualcosa di interessante nella mia piccola indagine...» «Ma certo, Susan.» «Bene, ho scoperto una cosa straordinaria. Tutta questa faccenda è sicuramente...» fece una pausa. «È sicuramente cosa, Susan?» «Be', non so bene come spiegarmi... Adesso sono sicura che c'è sotto qualcosa di sporco, di criminale. Non so come o perché, ma ne sono assolutamente certa. Ho la sensazione che ci sia dietro qualche grossa organizzazione, la mafia o roba del genere.» «Mi sembra un'ipotesi un po' stravagante, Susan. Come le è venuta in mente un'idea simile?» «Mi sono successe delle cose molto strane, oggi.» Susan si guardò le abrasioni sulle ginocchia. «Cioè?» «Stasera sono stata minacciata.» «Minacciata come?» Il tono di Stark era preoccupato. «Mi hanno minacciato di morte, credo,» rispose Susan osservando la foto del fratello. «Susan, se è vero, è una cosa molto seria. Moltissimo. Ma è sicura che non sia stato una goliardata dei suoi compagni? Gli studenti di medicina fanno decisamente scherzi piuttosto elaborati, a volte.» «Devo ammettere che non ci avevo pensato.» Susan si sfiorò con la punta della lingua il labbro spaccato. «Ma credo che sia stata una cosa perfettamente reale e concreta.» «A questo punto è meglio non basarsi più sulle congetture. Informerò personalmente il consiglio d'amministrazione dell'ospedale. Però, Susan, è meglio che lei adesso se ne tenga fuori. Gliel'avevo già consigliato, ma solo perché pensavo che avrebbe potuto danneggiarla da un punto di vista scolastico. Ora invece sembra che sia tutta un'altra storia. Penso che se ne debbano occupare dei professionisti. Ha informato la polizia?»
«No, mi hanno ordinato di non dir niente a nessuno. Sennò faranno del male a mio fratello. È per questo che l'ho chiamata. Poi, se anche andassi alla polizia, penserebbero che è stato solo un tentativo di violenza carnale.» «Ho i miei dubbi.» «La maggior parte dei maschi la penserebbe così.» «Se è stata minacciata anche la sua famiglia, farà bene a stare attenta alle persone con cui parla. Ma l'istinto mi dice che dovrebbe denunciare il fatto alla polizia.» «Ci penserò. A proposito, lei sa che mi hanno cacciato via dal Memorial? Sono stata trasferita al V.A. Hospital.» «No, non me l'avevano detto. Quand'è stato?» «Oggi pomeriggio. È chiaro che avrei preferito restare al Memorial. Credo che saprei dimostrare di essere un'ottima studentessa se me ne dessero l'occasione. Dato che lei è il primario, e sa bene che io non mi sono limitata a perdere il mio tempo in stupidaggini, pensavo che magari potrebbe far revocare il provvedimento...» «Avrebbero dovuto informarmi. Mi metterò subito in contatto col dottor Bellows.» «Credo che non lo sappia nemmeno lui. È stato un certo Oren a prendere la decisione.» «Oren? Ah, interessante. Susan, non posso prometterle niente, ma vedrò di fare tutto quello che posso. Ammetterà che lei non è proprio la studentessa più popolare qui al Memorial.» «La ringrazio fin d'ora per quello che farà. Avrei un'altra domanda. Non le sarebbe possibile farmi avere il permesso di visitare il Jefferson Institute? Ci terrei a vedere quel paziente, Berman. Credo che se riuscissi a rivederlo forse potrei dimenticare tutta questa faccenda.» «Mi sta proprio chiedendo delle cose difficili, Susan. Il Jefferson non dipende dall'università. È stato costruito con fondi governativi, ma la gestione è stata affidata a un gruppo privato. Perciò io non ho molta voce in capitolo. Mi ci proverò. Mi telefoni domattina alle nove, e le farò sapere.» Susan riappese. Immersa nei propri pensieri, si morse il labbro inferiore com'era sua abitudine. Sentì un male terribile. Fissò uno dei poster appesi alla parete, ripercorrendo con la mente gli avvenimenti degli ultimi giorni, in cerca di qualche collegamento che potesse esserle sfuggito. Poi si alzò in piedi, tirò fuori dal pacco l'uniforme da infermiera e cominciò ad asciugarsi i capelli. Un quarto d'ora dopo si guardò allo spec-
chio. L'uniforme le stava bene. Prese per la seconda volta la fotografia del fratello. Se non altro era quasi sicura che la sua famiglia non corresse rischi immediati. C'erano le vacanze scolastiche invernali, e i suoi erano andati a sciare ad Aspen per una settimana. mercoledì 25 febbraio ore 19.15 Susan non si faceva illusioni sulla propria situazione. Era in pericolo e doveva reagire. Chiunque fosse stato a minacciarla, senza dubbio aveva pensato che restasse terrorizzata e mollasse, almeno per un certo tempo. Susan pensava di avere suppergiù quarantott'ore di relativa libertà di movimento. Poi, chissà. Il fatto che qualcuno l'avesse giudicata così importante da doverla minacciare era incoraggiante, dopotutto. Poteva significare che era sulla pista giusta, che aveva già trovato più risposte di quanto non pensasse. Forse era come quel professore che aveva tutti i dati necessari a scoprire il segreto del DNA, ma non li aveva saputi collegare fra loro, e c'era voluto il genio di Watson e Crick per metterli nell'ordine giusto, e capire che la molecola ha la meravigliosa struttura di una doppia spirale. Susan sfogliò con cura il suo quaderno, rileggendo tutto quello che ci aveva scritto. Guardò gli appunti sul coma e le sue cause; sottolineò gli articoli che doveva ancora leggere e il titolo del nuovo testo di anestesiologia che aveva visto nello studio di Harris. Infine ripassò tutto il materiale relativo a Nancy e alle altre due vittime di arresto respiratorio. Era sicura che la risposta fosse lì, ma non riusciva a identificarla. Aveva bisogno di altri dati per aumentare la probabilità di trovare le correlazioni. Le cartelle. Le servivano le cartelle di McLeary. Erano le sette e un quarto quando fu pronta per uscire. Come se stesse vivendo una storia di spionaggio, dalla finestra controllò il parcheggio. Spinse lo sguardo oltre le macchine posteggiate, ma non scorse nessuno. Allora tirò le tendine e chiuse la porta, lasciando però la luce accesa. Si fermò un attimo in corridoio. Fece una pallina di carta e la inserì tra il battente e lo stipite, vicino al pavimento. Proprio come in un film che aveva visto. Nel sotterraneo del pensionato c'era un tunnel che portava all'istituto di patologia e anatomia. Era percorso dai tubi del riscaldamento e dai cavi
dell'elettricità, e altri studenti se ne servivano ogni tanto, quando era brutto tempo. Susan non sapeva se la stessero pedinando, ma voleva prendere tutte le precauzioni possibili. Dall'istituto di anatomia passò all'edificio dell'amministrazione, entrò in biblioteca, e da lì uscì in strada. Prese un taxi. Dopo circa mezzo chilometro fece tornare indietro la macchina, e ripassò davanti al punto in cui era salita. Nascondendosi il viso col bavero del cappotto, guardò se qualcuno la stesse seguendo. Non notò nessun tipo sospetto. Si rilassò e disse all'autista di portarla al Memorial Hospital. Come ogni sicario professionista, Angelo D'Ambrosio provava un'intima soddisfazione quando portava a termine felicemente un lavoro. Dopo aver comunicato a Susan il messaggio, era tornato in Huntington Avenue e aveva preso un taxi quasi all'angolo di Longfellow. Il tassista era soddisfatto: finalmente aveva trovato un cliente che voleva andare all'aeroporto, e questo voleva dire un tragitto molto facile e una buona tariffa. Prima di D'Ambrosio aveva trovato solo vecchie signore che andavano al supermarket. D'Ambrosio si abbandonò contro lo schienale del sedile, compiaciuto del proprio lavoro. Non aveva la minima idea del perché gli avessero chiesto di fare quella cosuccia a Boston. Ma lui i perché li sapeva di rado, anzi preferiva non saperli. Nelle poche occasioni in cui aveva avuto istruzioni più complete, erano stati guai. Questa volta gli era stato semplicemente detto di andare a Boston il ventiquattro e scendere allo Sheraton sotto il nome di George Taranto. Il mattino dopo doveva andare nell'appartamento di un certo Walters, al numero 1833 di Stewart Street e costringerlo a scrivere il seguente biglietto: «Le medicine erano mie. Non ho il coraggio di affrontare le conseguenze.» Poi doveva sbarazzarsi di lui, in modo che sembrasse un suicidio. Infine doveva prendere contatto con una studentessa di nome Susan Wheeler e terrorizzarla a morte, dicendole che sarebbe stata in pericolo se non fosse tornata alle solite occupazioni. Le istruzioni finivano con le consuete esortazioni alla cautela. Accluse c'erano delle informazioni su Susan Wheeler, una fotografia del fratello e una scheda con i suoi orari abituali. D'Ambrosio guardò l'orologio e vide che sarebbe comodamente riuscito a prendere l'aereo delle 20.45 per Chicago. Avrebbe trovato i suoi mille dollari in una cassetta del deposito bagagli dell'aeroporto. Soddisfatto, si mise a osservare le luci della città che scorrevano davanti al finestrino dell'auto. Pensò all'aspetto mostruoso di quel Walters, e si chiese che rapporto potesse avere con quel pezzo di cavalla di Susan Wheeler. Quando se l'era
trovata davanti aveva fatto fatica a trattenersi dal metterglielo dentro. Cominciò a immaginare una serie di delizie sadiche che risvegliarono il suo pene addormentato. Sperò che gli venisse chiesto di contattare la Wheeler per una seconda volta. In tal caso gliel'avrebbe almeno ficcato in culo. All'aeroporto D'Ambrosio entrò subito in una cabina. Restava infatti un ultimo dettaglio: doveva telefonare al suo contatto a Chicago e riferire che il lavoro era stato eseguito. Il telefono suonò sette volte, come stabilito. «Qui casa Sandler,» rispose una voce all'altro capo del filo. «Potrei parlare col signor Sandler, per favore?» chiese D'Ambrosio, in tono annoiato. Non aveva capito molto bene questa manovra. Doveva sempre ricordarsi il nome corrente. Se sentiva un nome diverso, doveva riappendere e chiamare un numero alternativo. Si inumidì la punta di un dito e tracciò dei circoli di saliva sul vetro della cabina. Alla fine la voce ritornò. «Parli pure.» «Tutto fatto a Boston. Nessun problema,» scandì D'Ambrosio con voce inespressiva. «C'è un cambiamento. Sbarazzarsi della Wheeler al più presto. La scelta del modo è lasciata a lei, ma deve sembrare uno stupro. Uno stupro, capito?» D'Ambrosio non credeva alle proprie orecchie. Un sogno che diventava realtà. «Ci sarà un supplemento di tariffa...» azzardò, cercando di non far trasparire la gioia che provava al pensiero di violentare Susan. «Cinquecento dollari.» «Settecentocinquanta. Non sarà una cosa facile.» Facile? Sarebbe stato un giochetto. D'Ambrosio pensò che in realtà avrebbe dovuto essere lui a pagare per fare quel lavoro. «Seicento.» «D'accordo.» Riappese. Era immensamente soddisfatto. Guardò l'orario dei voli notturni. L'ultimo era quello della TWA alle 23.45. Forse poteva finire il nuovo lavoretto e riuscire a prenderlo. Alle sette e mezzo di sera l'affollamento al Memorial era molto diminuito. Susan entrò dall'ingresso principale. Con la sua uniforme, passò del tutto inosservata. Salì al Beard 5, entrò nello spogliatoio delle infermiere e lasciò lì il cappotto. Quindi andò a controllare l'ufficio di McLeary al Beard 12. Come si aspettava, la porta era chiusa e la luce era spenta. Controllò gli
uffici vicini: tutti vuoti. Susan ritornò all'ingresso e attraversò il corridoio dirigendosi verso il pronto soccorso. Diversamente dal resto dell'ospedale, alla sera lì l'attività aumentava. Nel corridoio erano parcheggiate alcune barelle su cui erano adagiati dei malati. Susan girò a sinistra ed entrò nell'ufficio di sorveglianza della clinica. Il locale era piccolo e in disordine. Una parete era occupata da una serie di monitor, circa venticinque. Su ognuno di essi c'era un'immagine diversa: ingressi, corridoi, punti chiave dell'ospedale, e anche il pronto soccorso. Le immagini venivano riprese da telecamere fisse e mobili. Nella stanzetta c'erano due guardie in uniforme e una in borghese. Quest'ultima era seduta dietro a una piccola scrivania, che sembrava microscopica vicino al suo corpo obeso. Respirava affannosamente e dal colletto della camicia gli sporgevano grosse pieghe di ciccia. I tre uomini non badavano assolutamente ai monitor, sebbene fossero pagati apposta per farlo. Avevano gli occhi fissi su un televisore portatile e seguivano un incontro di hockey. «Scusatemi, ma abbiamo un problema,» disse Susan rivolgendosi all'uomo in borghese. «Il dottor McLeary stasera è uscito senza riportare le cartelle al 10 Ovest. Senza le cartelle non possiamo fare le terapie ai pazienti. Non sareste in grado di aprire il suo ufficio?» L'uomo guardò la ragazza per un decimo di secondo, poi tornò a seguire la partita. Parlò senza staccare gli occhi dallo schermo. «Sicuro, Lou, va' su con questa infermiera e apri l'ufficio che le serve.» «Un attimo, un attimo.» I tre continuarono a guardare, e Susan aspettò. Un annuncio pubblicitario interruppe la telecronaca. La guardia si alzò in piedi. «Okay, andiamo ad aprire questo ufficio. Poi mi dite se ci sono novità, eh ragazzi?» Susan dovette fare qualche metro di corsa per tener dietro all'andatura decisa dell'uomo che, mentre camminava, si era messo a frugare in un enorme mazzo di chiavi. «I Bruins sono sotto. Se perdono anche stavolta, mi metto a tifare per il Filadelfia.» Susan non rispose. Si affrettò dietro la guardia sperando che nessuno la riconoscesse. Quando entrarono nella zona degli uffici si sentì un po' sollevata. Era deserta. «Maledizione, ma dov'è questa chiave?» imprecò la guardia provando
quasi tutte quelle del mazzo prima di trovare la giusta. L'attesa fece innervosire Susan, che guardò in su e in giù per il corridoio temendo il peggio da un momento all'altro. Quando finalmente riuscì ad aprire la porta, la guardia mise dentro una mano e accese la luce. «Chiuda la porta quando esce. La serratura è a scatto. Io devo tornare giù.» Susan si ritrovò sola nella prima stanza dell'ufficio di McLeary. Entrò in fretta nella stanza interna e accese la luce; spense la luce nell'altra stanza e chiuse la porta. Si accorse con sgomento che sullo scaffale dove le aveva viste alla mattina le cartelle non c'erano più. Prima guardò nella scrivania. Niente. Appena ebbe richiuso il cassetto centrale, il telefono sulla scrivania cominciò a suonare. Nel silenzio della stanza lo squillo le sembrò un rumore assordante. Susan guardò l'orologio. Chissà se McLeary riceveva spesso telefonate in ufficio alle otto meno un quarto di sera. Ma il telefono tacque dopo tre squilli, e Susan ricominciò a cercare. Le cartelle erano piuttosto voluminose, e non c'erano molti posti dove potessero esser nascoste. Mentre apriva l'ultimo cassetto del casellario udì nettissimo uno scalpiccio di passi nel corridoio. Si immobilizzò, senza osare richiudere il cassetto per paura di far rumore. Piena di sgomento sentì i passi fermarsi e una chiave infilarsi nella toppa. Si guardò attorno in preda al panico. C'erano due porte: una dava nell'ufficio esterno, l'altra presumibilmente su uno sgabuzzino. Diede un'occhiata alla posizione dei mobili e spense la luce. In quel momento sentì la porta esterna aprirsi. La luce si accese. Susan si spostò verso la porta dello sgabuzzino. Sudava freddo. Dall'ufficio esterno venne un suono metallico, poi un altro. Lo sgabuzzino si aprì con facilità, e la ragazza si infilò dentro cercando di fare meno rumore possibile. Richiuse la porta con difficoltà. Quasi contemporaneamente la porta dell'ufficio si aprì e la luce si accese. Susan si aspettava che la porta dello sgabuzzino venisse spalancata da un momento all'altro. Invece sentì qualcuno che si avvicinava alla scrivania; poi la sedia della scrivania scricchiolò, come se qualcuno ci si fosse seduto sopra. Non poteva essere che McLeary, e si chiese cosa stesse facendo in ufficio a quell'ora. E se l'avesse scoperta? Avrebbe tentato in qualche modo di scappare. Poi sollevarono il ricevitore del telefono, e Susan sentì il rumore di un numero che veniva composto. Ma quando la persona parlò, restò allibita. Era una voce femminile, e si esprimeva in spagnolo. Susan conosceva
qualche parola di quella lingua, e riuscì a capire un po' della conversazione: il tempo a Boston, il tempo in Florida eccetera eccetera. Si rese conto di colpo che la donna delle pulizie si era intrufolata nell'ufficio di McLeary e usava il telefono dell'ospedale per fare una telefonata personale in Florida. La conversazione durò quasi un quarto d'ora. Poi la donna svuotò il cestino della carta straccia, spense la luce e uscì. Susan aspettò qualche minuto prima di aprire la porta dello stanzino. Si diresse verso l'interruttore, ma con uno stinco urtò dolorosamente contro il cassetto che aveva lasciato aperto. Imprecò, constatando che come ladra non sarebbe valsa un fico. Riaccesa la luce, Susan riprese a cercare. Ma era curiosa di dare un'occhiata al posto dove si era nascosta. Guardò nello sgabuzzino. Sullo scaffale più basso, mischiate in mezzo a pacchi di articoli di cancelleria, trovò le cartelle. Forse McLeary aveva avuto l'intenzione di nasconderle. Ma non perse tempo a meditare su quel problema. Doveva andarsene di lì prima possibile. Mise le cartelle nel cestino della carta straccia appena svuotato e uscì dall'ufficio. Come aveva fatto con la porta della propria camera, infilò una pallina di carta tra il battente e lo stipite. Andò al Beard 5 e entrò nel bar dell'ospedale. Tirò fuori il suo quaderno nero e si versò del caffè. Poi prese la prima cartella e cominciò a ricopiarla, come aveva fatto con quella di Nancy Greenly. Quando ritornò al pensionato universitario, D'Ambrosio non aveva nessun piano preciso in testa. Il suo metodo preferito era di improvvisare, dopo aver studiato la sua preda per un po'. Conosceva già parecchie cose su Susan Wheeler. Sapeva che una volta rientrata in camera, difficilmente usciva di nuovo. Era sicurissimo di trovarla lì, al pensionato. Quello che non poteva sapere era se Susan avesse avvertito la polizia della sua prima visita. C'erano cinquanta probabilità su cento; e se aveva spifferato, c'era solo un dieci per cento di probabilità che l'avessero presa sul serio. Almeno, questa era l'esperienza di D'Ambrosio. Nel caso poi che l'avessero presa sul serio, c'era solo una probabilità su cento che la tenessero sotto scorta. Per D'Ambrosio era un rischio normale. Decise di tornare nella camera di Susan. Entrò in una cabina telefonica e chiamò il suo numero. Nessuno. Ma sapeva che ciò non significava niente. Poteva esserci e non aver voglia di rispondere. Per lui la serratura non era un problema; l'aveva già aperta nel
pomeriggio. Ma c'era il catenaccio: era probabile che Susan l'avesse inserito, e questa sì che poteva essere una seccatura. Avrebbe dovuto trovare il modo di farla uscire dalla camera. Entrò nel parcheggio del pensionato. La sua luce era accesa. Forzò con facilità il lucchetto del cancello e si ritrovò in cortile. Salì in fretta le scale di legno. D'Ambrosio era un uomo in perfette condizioni fisiche, anche se a vederlo non lo si sarebbe detto. Un atleta, uno psicopatico. Raggiunse la porta di Susan e si fermò in ascolto. Non si sentiva nessun rumore. Bussò. Era sicuro che non avrebbe aperto senza prima chiedere chi era. Ma per adesso voleva soltanto accertarsi che ci fosse. Se lei avesse risposto, avrebbe finto di allontanarsi giù per le scale. Di solito funzionava. Nessuna risposta. Bussò di nuovo. Ancora nessuna risposta. Aprì la serratura in pochi secondi. Il catenaccio non era stato inserito. Susan era fuori. Controllò l'armadio. Sembrava che i vestiti ci fossero tutti. Le due valigie che aveva visto la prima volta c'erano ancora. D'Ambrosio era molto pignolo; ne valeva la pena. Adesso sapeva che con ogni probabilità Susan non aveva lasciato la città. Dunque, sarebbe rientrata. D'Ambrosio doveva solo aspettare. mercoledì 25 febbraio ore 22.41 Bellows era esausto. Erano quasi le undici di sera, e non aveva ancora finito. Doveva fare il turno al Beard 5 e controllare le cartelle dei propri pazienti prima di poter rincasare. Andò a prendere il carrello contenente le schede e lo spinse verso il bar. Una tazza di caffè l'avrebbe aiutato a tenersi su. Apri la porta, e fu stupito di vedere Susan tutta intenta nel suo lavoro di ricopiatura. «Oh, pardon. Devo aver sbagliato ospedale.» Mark finse di voler uscire dalla sala. Poi si girò verso di lei. «Susan, cosa diavolo stai facendo qui? Mi è stato detto senza mezzi termini che la tua presenza qui non è più gradita.» Involontariamente, Bellows aveva assunto un tono irritato. Era stata una giornata orribile, culminata col ritrovamento di Walters. «Chi, io? Ma lei si sbaglia, signore. Io sono Miss Scarlett, la nuova infermiera del 10 Ovest,» rispose Susan con la voce stridula e un accento del Sud.
«Che cosa ci fai, qui?» «Mi pulisco le scarpe. Non si vede?» «Okay, okay. Ricominciamo da capo.» Bellows si sedette sul bordo del tavolo. «Susan, tutta questa faccenda è diventata tremendamente seria. Non è che non sia contento di vederti, anzi. La notte scorsa è stato bellissimo. Dio, mi sembra che sia passata una settimana. Ma se tu sapessi che casino è successo oggi, capiresti perché sono un po' teso. Tra le altre cose mi è stato detto che se io continuavo ad aiutarti nella tua — cito — 'missione idiota', avrei dovuto cercarmi un altro ospedale.» «Oh, povero bambino! Vogliono strapparti dal caldo ventre materno!» Mark si girò dall'altra parte, sforzandosi di mantenere la calma. «Mi pare che questa discussione non serva a molto. Susan, tu non ti rendi conto che io ho molto più da perdere di te in questo affare.» «Palle!» La faccia di Susan si accese di una collera improvvisa. «Sei così maledettamente egocentrico e preoccupato della tua posizione, che non vedresti una cospirazione nemmeno se ci fosse coinvolta tua... tua madre.» «Gesù Cristo! Ecco i ringraziamenti per l'aiuto che ti ho dato! Cosa diavolo c'entra mia madre con tutto questo?» «Niente. Assolutamente niente. Solo non mi veniva in mente altro che potesse essere altrettanto importante della tua carriera di interno. Nel tuo distorto sistema di valori, naturalmente. Così ho pensato a tua madre.» «Stai dicendo un sacco di stronzate, Susan!» «Stronzate, dice lui! Mark, sei così preoccupato della tua carriera che sei diventato cieco. Non ti sembro diversa?» «Diversa?» «Sì, diversa. Dov'è andato a finire il tuo occhio clinico, il tuo acuto senso di osservazione acquisito in anni di esperienza in ospedale? Che cosa credi che sia questo qui, sotto l'occhio?» Susan si toccò la botta sulla guancia. «E questo che cosa credi che sia?» Le ultime parole le disse farfugliando, perché si era tirata in giù il labbro inferiore, mostrando la spaccatura. «Sembra un trauma...» Mark allungò la mano per esaminare più da vicino il labbro di Susan, ma lei gliela allontanò. «Tieni giù le manacce. E adesso vieni a dirmi che sei tu che hai più da perdere. Bene, lascia che ti dica una cosa. Oggi pomeriggio sono stata assalita e minacciata da un uomo. Quest'uomo sapeva chi ero e che cosa avevo fatto negli ultimi giorni. Sapeva anche chi erano i miei parenti, e le sue minacce valgono anche per loro. E tu dici che sei tu ad avere più da perde-
re!» «Vuoi dire che qualcuno ti ha picchiata?» Mark era incredulo. «Oh, dài, Mark. Non riesci proprio a dire qualcosa di intelligente? Pensi che queste ferite me le sia fatte da sola per impietosire la gente? Ho inciampato in qualcosa di grosso, ecco cos'è. E ho la terribile sensazione che sia un'organizzazione molto potente. Solo che non so chi, come e perché.» Bellows fissò Susan per qualche minuto, confrontando la sua storia apparentemente assurda con ciò che era successo a lui quello stesso pomeriggio. «Io non ho delle ferite da mostrarti, ma ho avuto lo stesso un pomeriggio d'inferno. Ti ricordi quei medicinali di cui ti avevo parlato? Quelli che erano stati scoperti in un armadietto della sala chirurghi? L'armadietto era assegnato a me, come ti ho detto. Che ti piaccia o no, sono stato immediatamente coinvolto nella cosa. Così ho deciso di chiarire la questione una volta per tutte, e farmi spiegare da Walters perché quell'armadietto risultava ancora assegnato a me, mentre lui me ne aveva dato un altro. «Ma Walters oggi non c'era. Per la prima volta in un secolo. Allora sono andato da lui.» Mark sospirò e si versò una tazza di caffè. «Il povero bastardo si era suicidato a causa di questa faccenda, e sono stato proprio io a trovarlo.» «Suicidio?» «Sì. Probabilmente ha saputo che le medicine erano state trovate, e ha scelto quella che lui considerava la via d'uscita più facile.» «Sei sicuro che sia stato un suicidio?» «Non sono sicuro di niente. Non ho nemmeno visto il biglietto che ha lasciato. Ho chiamato la polizia, e solo dopo, Stark mi ha raccontato i particolari. Ma tu non metterti a insinuare che non è stato un suicidio. Sarebbe terribile. Sospetterebbero subito di me. Come diavolo ti è saltata in mente un'idea simile?» «Non c'è nessun motivo particolare. Sembra solo un'altra delle strane coincidenze che si stanno verificando in queste ore. Quelle medicine potrebbero essere molto importanti.» «Lo sapevo che la tua immaginazione ti avrebbe fatto pensare così. Per questo ho aspettato a parlartene. Ma senti, tutto ciò è secondario rispetto al problema attuale, e cioè la tua presenza qui al Memorial a questa strana ora. Voglio dire, Susan, che tu non dovresti essere qui, ecco tutto.» Bellows fece una pausa e prese una delle cartelle che la ragazza stava ricopiando. «Comunque, cosa diavolo stai facendo?»
«Finalmente sono riuscita a ottenere le cartelle dei pazienti in coma. Non tutte, ma qualcuna sì.» «Sei un fenomeno. Prima ti fai cacciar fuori a calci dall'ospedale, e poi hai ancora i coglioni, diciamo così, di tornare qui e riuscire a scovare quelle schede. Non penso che le abbiano lasciate in giro in modo che chiunque potesse darci un'occhiata. Come hai fatto ad averle?» Bellows osservò Susan e aspettò una risposta. Lei si limitò a sorridere. «Oh, no!» esclamò Mark picchiandosi una mano sulla fronte. «L'uniforme da infermiera.» «Già, ha funzionato meravigliosamente. Una grande idea, lo riconosco.» «Aspetta un attimo. Che non ti salti in mente di attribuire il merito a me! Cos'hai fatto? Sei andata dai guardiani e ti sei fatta aprire la porta dell'ufficio di McLeary, o di qualcun altro?» «Diventi sempre più intelligente, Mark.» «Ma ti rendi conto che stai violando la legge?» Susan annuì e diede un'occhiata ai fogli che aveva riempito con la sua calligrafia minuta. Bellows seguì il suo sguardo. «Be', hanno gettato un po' di luce su questa tua... crociata?» «Non molta, temo. Almeno non ancora, oppure, non sono stata abbastanza intelligente da scoprirlo. Avrei bisogno di tutte quelle cartelle. Finora è tutta gente relativamente giovane, dai venticinque ai quarantadue. Però il sesso, la razza e la classe sociale non sembrano collegabili. Non riesco a trovare nessun rapporto tra le loro storie mediche. Prima del sopraggiungere del coma non hanno avuta nessuna complicazione. I loro medici personali sono tutti diversi. Tra i casi verificatisi durante un'operazione, solo in due l'anestesista era lo stesso. Gli agenti anestetici sono stati di vari tipi, com'è logico. Ci sono invece delle coincidenze nelle terapie preoperatorie. In alcuni casi sono stati somministrati Demerol e Phenergan, in altri farmaci completamente diversi. In due casi è stato usato l'Innovar. Ma fin qui non c'è molto di interessante. «Sembra, per quanto posso dire senza aver visitato il reparto chirurgia, che quasi tutti, se non tutti, i casi sopravvenuti nel corso di operazioni, si siano verificati nella sala operatoria numero 8. Potrebbe sembrare strano, però la sala numero 8 è quella usata più frequentemente per i piccoli interventi. E il problema del coma è associato il più delle volte proprio con le piccole operazioni. Quindi anche qui non c'è probabilmente nulla di strano. I valori di laboratorio sono in generale normali. Ah, tra l'altro, sembra che
in tutti i casi siano stati determinati il tipo di sangue e il tipo di tessuto. È una procedura normale?» «L'analisi del tipo di sangue la fanno alla maggior parte dei pazienti, specialmente se ci si aspetta una grossa emorragia durante l'intervento. L'analisi del tipo di tessuto non è abituale, anche se il laboratorio potrebbe averla fatta per provare una nuova apparecchiatura o un nuovo siero. Guarda se c'è una voce costo nelle analisi del tessuto.» Susan cercò tra le cartelle finché trovò una di quelle analisi. «No, non c'è.» «Allora questo spiega tutto. Il laboratorio ha fatto l'analisi a proprie spese. Succede qualche volta.» «A tutti i pazienti è stata fatta una fleboclisi, per un motivo o per l'altro.» «Capita per il novantanove per cento dei ricoverati.» «Lo so.» «Si direbbe che tu non abbia proprio scoperto un bel niente.» «Debbo riconoscerlo, purtroppo.» Susan si succhiò il labbro inferiore. «Mark, prima che il tubo endotracheale venga inserito nel paziente durante l'anestesia, l'anestesista lo paralizza con la succinilcolina. Giusto?» «Succinilcolina o curaro, ma di solito succinilcolina.» «E quando a un malato si somministra una dose farmacologica di succinilcolina, non può più respirare.» «È vero.» «Non potrebbe essere stata una dose eccessiva di succinilcolina a creare l'ipossia nei pazienti? Se non riescono a respirare, l'ossigeno non arriva al cervello.» «Susan, l'anestesista dà al paziente la succinilcolina e poi lo controlla come se fosse un burattino; è lui che lo fa respirare. Se c'è troppa succinilcolina, succede solo che l'anestesista deve farlo respirare meccanicamente per un periodo più lungo, finché non abbia metabolizzato il farmaco. L'effetto paralizzante, poi, è perfettamente reversibile. Inoltre, se ci fosse sotto qualcosa di sporco, tutti gli anestesisti della clinica sarebbero coinvolti, il che è altamente improbabile. E poi, cosa ancora più importante, oltre che dall'anestesista, il paziente è controllato dal chirurgo, che può vedere in ogni momento quanto è rosso il sangue e quanto è ossigenato; insomma, è praticamente impossibile alterare lo stato fisiologico del malato senza che uno dei due se ne accorga. Quando il sangue è ossigenato, è rosso vivo; se l'ossigeno diminuisce, diventa di un rosso scuro tendente al marrone. Durante l'intervento, l'anestesista fa respirare il paziente, gli controlla conti-
nuamente il polso e la pressione, e segue il monitor cardiaco. Susan, tu stai ipotizzando che ci sia sotto qualcosa, ma non sai né come né perché, e neanche se c'è una vittima.» «Sono sicura di avere una vittima, Mark. Può darsi che non sia una nuova malattia, ma qualcosa è. Un'altra domanda. Da dove arrivano i gas che vengono usati durante l'anestesia?» «Dipende. L'halothane arriva in contenitori, come l'etere. È liquido, e viene vaporizzato nella quantità necessaria all'anestesia. Il protossido d'azoto, l'ossigeno e l'aria arrivano da un deposito centrale direttamente in sala operatoria, attraverso delle tubature. In sala operatoria ci sono anche delle bombole di ossigeno e protossido d'azoto per i casi d'emergenza... Senti, Susan, ho ancora due o tre cosette, poi sarò libero. Perché non vieni a casa mia a bere qualcosa?» «Stasera no, Mark. Voglio farmi una bella dormita, e poi ho ancora qualcosa da sbrigare. Grazie, comunque. Oltre tutto devo rimettere queste cartelle nel posto dov'erano nascoste. E dopo voglio dare un'occhiata alla sala operatoria numero 8.» «Susan, personalmente sono convinto che dovresti togliere le chiappe da questo ospedale, prima di trovarti davvero nei guai.» «Ha il diritto di esprimere la sua opinione, dottore. Solo che la paziente non intende seguire le sue prescrizioni.» «Credo che tu ti stia spingendo troppo in là.» «Dici davvero? Bene, può darsi che non abbia il colpevole, ma ho una lista di sospetti...» «Ma certo...» Bellows esitò. «Devo indovinare o me li dici?» «Harris, Nelson, McLeary, e Oren.» «Tu sei matta!» «Si comportano come se fossero colpevoli, e fanno di tutto perché io stia alla larga da qui.» «Non confondere il comportamento difensivo con la colpevolezza, Susan. Dopotutto, in medicina le complicazioni rendono la vita difficile, qualunque ne sia la causa.» mercoledì 25 febbraio ore 23.25 Susan si sentì profondamente sollevata quando ebbe rimesso le cartelle nel loro nascondiglio dentro allo sgabuzzino di McLeary. Ma nello stesso
tempo era anche molto delusa. Dopo tutta la fatica che aveva fatto per procurarsele, si era ritrovata con un pugno di mosche: adesso che aveva finito di studiarle, era al punto di partenza. Aveva molti più dati, ma nessuna correlazione, nessun indizio. I casi sembravano sempre fortuiti e isolati. L'ascensore rallentò e si fermò, la porta vibrò e si aprì. Susan entrò nel reparto chirurgia. C'era ancora un'operazione in corso nella sala numero 20, un'ernia addominale d'urgenza. L'intervento durava da più di otto ore, e questo non era un buon segno. Per il resto, il reparto era immerso nella quiete notturna. Alcuni inservienti stavano pulendo i pavimenti e rifornendo il deposito di lenzuola pulite. Al banco c'era un'infermiera impegnata a inserire gli ultimi interventi nel programma dell'indomani. Lo stratagemma dell'uniforme da infermiera continuava a funzionare a meraviglia, e le poche persone che c'erano nel corridoio non sembrarono notare il passaggio di Susan. Andò direttamente nello spogliatoio delle infermiere e si mise addosso un camice operatorio, appendendo l'uniforme in un armadietto aperto. Uscì di nuovo nel corridoio e guardò la porta che immetteva nel settore delle sale operatorie. Sulla porta c'era un vistoso cartello: SALE OPERATORIE, VIETATO L'INGRESSO AI NON AUTORIZZATI. Seduta a un tavolo accanto alla porta, un'infermiera era immersa nel proprio lavoro. Susan non aveva idea se le avrebbe detto qualcosa vedendola entrare. Per provare, cominciò a camminare in su e in giù per il corridoio, sperando che facesse una pausa e si allontanasse. Ma essa non alzò nemmeno gli occhi dalla scrivania. Susan provò a pensare a una spiegazione valida, nel caso che l'infermiera le facesse qualche domanda. Ma non gliene venne in mente nessuna. Era quasi mezzanotte, e doveva avere una scusa veramente convincente per spiegare la propria presenza lì, a quell'ora. Alla fine, senza aver trovato altro che una storia un po' traballante su qualcosa da controllare nell'operazione della sala 20, Susan si diresse verso la porta fingendo di non essersi accorta della ragazza al tavolo. Le passò davanti, senza che l'altra la guardasse nemmeno; fece altri due o tre passi, arrivò alla porta e la spalancò. «Ehi, un momento!» Susan si bloccò, aspettando l'inevitabile. Si voltò. «Hai dimenticato le scarpe da sala operatoria.» Susan si guardò i piedi. Capì quello che aveva voluto dire la ragazza, e tirò un sospiro di sollievo. «Accidenti, penserai che sia la seconda volta che entro qui.»
La ragazza tornò alle sue tabelle. «Me le dimentico anch'io, qualche volta.» Susan andò a un armadietto metallico appeso al muro. Le scarpe da sala operatoria, che servivano a prevenire l'elettricità statica — molto pericolosa, quando ci sono nell'aria dei gas infiammabili — erano dentro a una grossa scatola di cartone. Susan sapeva come indossarle perché gliel'aveva fatto vedere Carpin durante la loro prima visita in sala operatoria. Poi ritornò verso la porta; questa volta l'infermiera non alzò nemmeno gli occhi. Il Memorial era enorme, ed era normale vedere delle facce nuove. Il reparto chirurgia era a forma di U: i depositi delle attrezzature e i locali dell'anestesia erano al centro, le sale operatorie verso l'esterno, l'entrata era in fondo alla U, e la sala postoperatoria sul braccio sinistro, vicino agli ascensori. Susan notò che la sala numero 8 era sul braccio destro. La sala numero 20, dove si stava ancora operando, era dalla parte opposta, sicché Susan non incontrò nessuno mentre andava verso la 8. Si fermò davanti alla porta e guardò attraverso il vetro. Sembrava identica alla sala numero 18, quella dov'era svenuto Niles: le pareti erano piastrellate, e il pavimento di linoleum; anche se le luci erano spente, Susan riusciva a intravedere le grosse lampade sopra il tavolo operatorio. Aprì la porta e accese la luce. Senza aver in mente un obiettivo in particolare, Susan si mise a girare per la sala, soffermandosi accanto alle attrezzature più grosse; poi cominciò a esaminare i dettagli in modo sistematico. Trovò i terminali delle condutture dei gas, e vide che quella dell'ossigeno aveva una presa di colore verde. La presa del protossido d'azoto era blu ed era anche di forma diversa, in modo da evitare ogni possibile errore. C'era un'altra presa bianca. Probabilmente era quella dell'aria compressa. Infine c'era una presa più grossa con scritto ASPIRAZIONE; sopra c'era un manometro. In fondo alla stanza, oltre a un tavolo per l'infermiera, c'era una serie di armadietti metallici pieni di varie apparecchiature. Sulla parete di destra c'era uno schermo per le radiografie; di fronte, un grosso orologio, con la lancetta dei secondi rossa. Un'altra porta dava su una stanzetta contenente gli sterilizzatori e altre attrezzature, usate in comune con la sala operatoria numero 10. Susan passò più di un'ora a esaminare la sala numero 8 e a confrontarla con la 10. Non trovò niente di anormale e di strano. Era una sala operatoria come tutte le altre. E la numero 10 sembrava del tutto identica. Delusa, Susan tornò nello spogliatoio delle infermiere e si rimise l'uni-
forme. Stava per uscire, quando si fermò e alzò gli occhi verso il soffitto. Aveva un rivestimento di pannelli per l'isolamento acustico; doveva esserci un'intercapedine tra la pannellatura e il soffitto vero e proprio. Servendosi di un cestino della carta straccia, Susan salì su un lavandino e di lì su uno degli armadietti. I pannelli erano a circa un metro d'altezza sopra l'armadietto. Accucciandosi, la ragazza tentò di sollevarne uno. Non riuscì a smuoverlo, perché sopra correvano delle tubature. Provò con un altro. Stesso problema. Il terzo però si sollevò con facilità, e Susan lo fece scivolare da una parte. Quindi si alzò in piedi sopra l'armadietto, entrando fino alla vita nell'intercapedine del soffitto. Contrariamente a quanto pensava, l'intercapedine era di dimensioni molto ampie: circa un metro e mezzo tra i pannelli e il cemento del soffitto. In questo spazio correvano una miriade di cavi e condotti, che rifornivano l'ospedale delle sue sostanze vitali. La luce, scarsissima, usciva solo da qualche sottile fessura tra un pannello e l'altro. L'intercapedine era composta da pannelli isolanti di cartone, tenuti assieme da sottili strisce di metallo appese al soffitto. Né i pannelli né le strisce metalliche erano abbastanza robusti da sostenere il peso di una persona. Per entrare nell'intercapedine, Susan dovette appoggiarsi alle tubature, che erano o caldissime o gelate. Dopo essere entrata, rimise a posto il pannello che aveva rimosso. Aspettò che gli occhi si abituassero alla semioscurità, poi cominciò ad avanzare sopra la tubatura. Notò una fila di travi verticali che attraversavano l'intercapedine. Probabilmente corrispondevano alla parete del corridoio. Avanzava a fatica. Muoversi sulle tubature era difficile: camminava sopra un tubo, si aggrappava a un altro, e spesso doveva usare una trave come sostegno. Tentò di non fare rumore, specialmente quando ebbe l'impressione di trovarsi sopra l'ingresso del reparto chirurgia. Oltrepassato quel punto, riuscì a procedere con molta più facilità. Sopra chirurgia i pannelli dell'intercapedine erano di cemento precompresso e Susan poteva camminarci sopra; bastava che stesse attenta a non inciampare sulle tubature e si tenesse molto china. Trovò un muro di cemento e pensò che fosse la tromba dell'ascensore; poi vide che tutte le tubature convergevano in un punto in corrispondenza del corridoio, formando un vero e proprio groviglio. Pensò che lì dovesse esserci la colonna centrale, attraverso cui passavano tutti i tubi e i condotti che percorrevano verticalmente l'intero edificio. Non era facile localizzare la sala operatoria numero 8. Non c'erano divi-
sioni precise che facessero capire dove finiva una sala e dove ne cominciava un'altra. Sembrava che le tubature serpeggiassero tutt'intorno in maniera del tutto casuale. Ma poi Susan individuò i pannelli soprastanti il corridoio, e riuscì a orientarsi e a identificare le sale operatorie numero 8 e 10. Constatò con soddisfazione che il numero e la configurazione dei tubi che scendevano nelle due sale operatorie erano identici. I tubi dei gas avevano gli stessi colori che aveva visto sulle prese delle sale operatorie. Sopra la sala 8 trovò il tubo dell'ossigeno, verniciato in verde. Lo seguì. Andava dritto fino al corridoio, dove faceva una curva ad angolo retto e proseguiva lungo la parete, insieme ai tubi dell'ossigeno delle altre sale operatorie. Mentre Susan procedeva sopra il corridoio, il numero di questi ultimi continuava ad aumentare. Per non perdere il tubo giusto, Susan ci tenne sopra un dito fino al punto in cui si immetteva nella colonna centrale. Poi il suo dito urtò qualcosa. A causa della penombra dovette chinarsi per vedere di che si trattasse. Vide una presa femmina di acciaio inossidabile. Proprio vicino alla colonna centrale, sulla tubatura dell'ossigeno che andava nella sala 8, c'era una valvola ad alta pressione a T. Susan esaminò la valvola, quindi osservò le altre tubature. Non c'era una valvola simile su nessuna di esse. Era chiaro che da quella valvola si poteva far uscire l'ossigeno. Ma era anche possibile immettere nella tubatura qualcos'altro, un altro gas. Giunta alla fine dei pannelli del reparto chirurgico, Susan fu costretta a procedere di nuovo a fatica sopra le tubature. Davanti a lei c'era un intrico di tubi. Pensò che aveva sbagliato a non lasciare nessun segnale di riferimento. Dovette procedere per tentativi. Sollevò l'angolo di un pannello, ma vide che sotto c'era il corridoio; provò con un altro, e sotto c'era la sala chirurghi. Il terzo era vicino agli armadietti dello spogliatoio delle infermiere, ma ancora troppo lontano da quello su cui doveva scendere. Al quarto tentativo trovò il pannello giusto, e scese senza difficoltà. giovedì 26 febbraio ore 1.00 Come tutte le grandi città, Boston non va mai a dormire del tutto; ma diversamente dalle altre, diventa molto silenziosa. Il taxi correva lungo Storrow Drive, e incrociò solo due o tre macchine che venivano tutte dalla direzione opposta. Susan era esausta, e non vedeva l'ora di dormire. Era stata una giornata incredibile.
La lacerazione all'interno del labbro e l'ecchimosi sulla guancia le facevano sempre più male. Si sfiorò la guancia per vedere se si fosse gonfiata; fortunatamente no. Guardò verso il Charles River, che scorreva sulla sua destra. Le luci di Cambridge erano sparse e poco invitanti. La macchina svoltò di scatto in Park Drive, e Susan dovette reggersi alla maniglia. Cercò di valutare i progressi della propria indagine: non erano incoraggianti. Facendo un calcolo ragionevolmente prudente, concluse che aveva ancora più o meno trentasei ore per continuare le ricerche. Ma c'erano molti ostacoli da superare. Mentre il taxi attraversava Fenway, Susan dovette confessare a se stessa che non sapeva più cosa fare. Si rendeva conto che non poteva rischiare di entrare al Memorial di giorno, col pericolo di incontrare Nelson, Harris, McLeary o Oren: l'uniforme da infermiera non ce l'avrebbe fatta in un confrónto diretto. Però voleva ottenere altri dati dal computer, e aveva bisogno anche delle altre cartelle. C'era qualche strada? E Bellows l'avrebbe aiutata? Susan aveva seri dubbi. Mark ci teneva troppo alla propria posizione professionale. Era davvero un mollusco, un invertebrato. E il suicidio di Walters? Quei medicinali erano davvero collegati a tutta la faccenda? Susan pagò e scese dal taxi. Mentre si avviava verso il portone, decise che l'indomani avrebbe cercato di sapere il più possibile su Walters. Sicuramente c'entrava. Ma in che modo? Restò davanti al portone con la mano sulla maniglia, aspettando che il portiere di notte le aprisse. Ma l'uomo non era seduto al suo banco nell'atrio. Susan imprecò e si frugò nelle tasche in cerca della chiave. Era incredibile come quel tale scomparisse tutte le volte che si aveva bisogno di lui. Le quattro rampe di scale le sembrarono più lunghe del solito. Dovette fare varie soste. Era sfinita sia fisicamente sia mentalmente. Cercò di ricordarsi se tra i medicinali trovati nell'armadietto Bellows avesse menzionato anche la succinilcolina. Si ricordava che aveva nominato il curaro, ma non si ricordava se avesse accennato anche alla succinilcolina. Arrivò in cima alle scale ancora immersa nei suoi pensieri. Le ci volle un altro minuto per trovare la chiave della stanza. La infilò nella serratura, come aveva fatto infinite volte. La chiave entrò con difficoltà. Nonostante la stanchezza, si ricordò della pallina di carta. Si chinò a guardare, lasciando la chiave nella serratura. La pallina non c'era più. La porta era stata aperta.
Susan arretrò di qualche passo, aspettandosi che la porta si aprisse da un momento all'altro. Si ricordò della faccia orribile del suo aggressore: se era dentro la stanza, senza dubbio era in agguato, in attesa che lei entrasse. Pensò al coltello che l'ultima volta lui non aveva usato. Aveva pochissimo tempo a disposizione. L'unico fattore a suo favore era che se lui era dentro, non poteva sospettare che Susan sapesse della sua presenza. Almeno per qualche istante. Se chiamava la polizia e l'uomo veniva scoperto, avrebbe avuto qualche ora di respiro. Ma si ricordò delle minacce che aveva fatto a suo fratello. Un ladro o un maniaco non si sarebbe certo comportato così. L'uomo che l'aveva già aggredita era un professionista, faceva sul serio, terribilmente sul serio. Doveva scappare, magari lasciare la città. Oppure doveva chiamare la polizia, come le aveva suggerito Stark? Lei non era una professionista in queste cose, ecco la triste verità. Come mai le stavano già addosso? Era sicura di non essere stata seguita. Forse la pallina di carta era caduta da sola. Si avvicinò alla porta. «Ma cosa diavolo ha questa serratura?» esclamò ad alta voce girando la chiave nella toppa per prendere tempo. Si ricordò che al banco nell'atrio non c'era nessuno. Forse doveva andare a bussare a un'altra porta, dicendo che non riusciva a entrare? Si allontanò ancora dalla porta e si diresse alle scale. Vista la situazione le sembrò l'idea migliore. Conosceva abbastanza bene Martha Fine, che aveva la stanza al secondo piano, per potersi rivolgere a lei anche a quell'ora. Non sapeva bene che cosa le avrebbe risposto. Forse la cosa migliore era non dirle niente del tutto. Bastava raccontarle che non riusciva a entrare e chiederle se poteva dormire da lei. Susan cominciò a scendere lentamente le scale di legno, che scricchiolarono sotto il suo peso. Era un rumore inconfondibile, e lei lo sapeva. Si mise a correre. Giunta al secondo piano sentì aprirsi la porta della sua camera. Cominciò a scendere, senza fermarsi. Se Martha fosse stata fuori, o non avesse voluto rispondere? Cadere un'altra volta nelle mani di quell'uomo le sarebbe stato fatale, lo sentiva. Nel pensionato sembravano tutti addormentati. Susan sentì che la porta della sua camera si spalancava e sbatteva contro la parete del corridoio; poi un rumore di passi. Pensò che l'uomo fosse corso verso le scale. Non osò guardare sopra di lei. Si era decisa. Sarebbe uscita. Conosceva la facoltà di medicina come le proprie tasche, e lì sarebbe riuscita a far perdere le proprie tracce. Appena giunta al pianterreno sentì che il suo inseguitore aveva cominciato a scendere le scale. Svoltò a sini-
stra e corse verso un piccolo arco. Aprì in fretta la porta che dava sul cortile, ma non uscì; passò dalla porta che dava sull'ala adiacente del pensionato, e se la chiuse dietro. Sentì correre sul pianerottolo del primo piano. Susan attraversò l'atrio del dormitorio adiacente, correndo con le gambe un po' rigide in modo da non fare rumore con le scarpe. Arrivata in fondo all'atrio aprì la porta delle scale e se la chiuse dietro, piano piano. Si trovò davanti la scala del sotterraneo, e scese senza perdere tempo. D'Ambrosio restò ingannato dalla porta socchiusa del cortile. Fu un attimo. Non era un novellino degli inseguimenti, e sapeva esattamente quale vantaggio la ragazza aveva su di lui. Appena entrato in cortile capì immediatamente di essere stato giocato: non c'erano altre porte attraverso le quali lei potesse rientrare nell'edificio. D'Ambrosio tornò dentro di corsa. Poteva essere scappata solo in due direzioni. Scelse la porta più vicina; la varcò e attraversò l'atrio sempre correndo. Susan entrò nel tunnel che collegava il pensionato con la facoltà. Adesso era allo scoperto: il tunnel procedeva dritto per una trentina di metri prima di svoltare a sinistra, ed era ben illuminato da numerose lampade sul soffitto. Corse con tutte le sue forze. Alla fine del tunnel afferrò la maniglia dell'uscita antincendio e aprì. Fu colpita da un soffio d'aria mentre oltrepassava la porta. Tremando di paura pensò che ciò voleva dire solo una cosa: la porta dietro di lei era stata aperta nello stesso momento! Poi sentì il rumore dei passi di un uomo che correva nel tunnel. «Mio Dio!» sussurrò in preda al panico. Forse aveva fatto un grosso errore. Aveva lasciato il pensionato pieno di gente, anche se addormentata, per addentrarsi nel labirinto di stanze vuote e buie della facoltà di medicina. Salì di corsa le scale. Si ricordò della forza di D'Ambrosio, e si sentì completamente indifesa. Cercò di farsi tornare in mente in fretta la pianta dell'edificio in cui si trovava adesso. Era la sede di anatomia e patologia, e aveva due piani; al pianterreno c'erano due grandi anfiteatri per le lezioni, e molte aule ausiliarie; al primo piano la sala di anatomia e alcuni laboratori; al secondo c'erano soprattutto uffici, che Susan non conosceva bene. Aprì la porta del pianterreno. A differenza del tunnel, l'edificio era al buio, e l'unica luce era quella dei lampioni stradali che filtrava dalle scarse finestre. Il pavimento era di marmo, e faceva riecheggiare i suoi passi. Senza un piano preciso in testa, Susan corse verso una delle ampie porte del primo anfiteatro. Era quella attraverso la quale venivano fatti entrare i
pazienti per le dimostrazioni. Appena l'ebbe chiusa sentì i passi sul pavimento di marmo alle sue spalle. Si spostò nel centro dell'aula. I sedili erano disposti in file regolari che salivano fino a perdersi nell'oscurità. Il suono dei passi si fece più vicino, e Susan si lanciò su verso la parte superiore dell'aula. Non aveva il coraggio di guardare indietro. Il rumore si allontanò, poi cessò. Susan saliva sempre più in alto, e ormai il centro dell'anfiteatro si distingueva a malapena; arrivò all'ultima fila di sedili e cominciò a spostarsi lateralmente. Sentì di nuovo i passi sul marmo. Aveva solo pochi attimi per pensare. Non poteva fronteggiare direttamente quell'uomo; doveva seminarlo, o restare nascosta finché non si fosse stancato di andarle dietro. Si ricordò del tunnel che portava all'amministrazione, ma non era sicura al cento per cento che fosse aperto. Qualche volta, rincasando alla sera dalla biblioteca, l'aveva trovato chiuso. Si irrigidì sentendo aprirsi la porta dell'anfiteatro. Entrò un'ombra, che Susan riuscì a distinguere a malapena. Lei indossava l'uniforme bianca e temeva di essere più facilmente visibile. Si accucciò senza far rumore dietro una fila di sedili, ma gli schienali le arrivavano appena a una ventina di centimetri sopra la testa. L'uomo si fermò e restò immobile. Forse stava esaminando la sala. Sempre accucciata, lo guardò attraverso la fessura tra gli schienali di due sedili. L'uomo si avvicinò al podio e sembrò mettersi a cercare qualcosa. Ma certo! Stava cercando gli interruttori della luce! Susan si sentì di nuovo sopraffare dal panico. A una decina di metri davanti a lei c'era una porta che dava sul corridoio del primo piano. Fa' che non sia chiusa, altrimenti dovrò tentare di uscire dalla parte opposta dell'anfiteatro, e per arrivarci ci metterò lo stesso tempo che ci mette quell'uomo per salire quassù! Se la porta davanti a lei era chiusa, era perduta. Si sentì lo scatto di un interruttore e la lampada sul podio si accese di colpo, illuminando dal basso D'Ambrosio e gettando sulla sua orribile faccia butterata delle ombre spettrali, che facevano sembrare le orbite due buchi neri in una maschera demoniaca. Le mani di D'Ambrosio si mossero a tentoni sui lati del podio, e lo scatto di un altro interruttore rimbombò nelle orecchie di Susan. Una sciabolata di luce scese dal soffitto, e illuminò il centro dell'anfiteatro. Adesso Susan poteva vedere chiaramente D'Ambrosio. Strisciò in avanti verso la porta più in fretta che poteva. Ci fu un altro scatto, e un banco di lampade illuminò la lavagna alle spalle di D'Ambrosio. In quel momento l'uomo notò gli interruttori della sala a sinistra della lavagna. Appena si mosse verso di essi, Susan si alzò in piedi e si lanciò di
corsa in direzione della porta. Girò la maniglia mentre le luci della sala si accendevano. Chiusa! Guardò giù. D'Ambrosio la vide e le sue labbra sottili si contorsero in un ghigno di pregustazione. Poi corse verso la ragazza, salendo i gradini a tre a tre. Susan scosse la porta disperatamente, prima di accorgersi che era chiusa dall'interno con un chiavistello; lo tirò, e la porta si aprì. Sentì il fiato pesante del sicario dietro di sé. Dirimpetto alla porta c'era un estintore ad anidride carbonica; lo strappò dal muro e lo capovolse. Poi si girò e lo puntò contro la porta che si stava aprendo proprio in quel momento. Susan premette il pulsante dell'estintore. L'uscita del gas compresso provocò un rumore simile a un'esplosione, riecheggiando nel silenzio dell'edificio. Il getto colpì in faccia D'Ambrosio, che arretrò e inciampò contro l'ultima fila di sedili. Il suo corpo massiccio ondeggiò, poi cadde all'indietro; urtò col fianco contro lo schienale di un sedile, spezzandosi una costola. Allungò le mani per afferrarsi ai sedili, capitombolò all'indietro e finì lungo disteso sopra la quarta fila, tramortito. Susan restò sorpresa dai risultati insperati della sua mossa, e rientrò nell'aula per guardare la caduta di D'Ambrosio. Restò a osservarlo, convinta che fosse svenuto. Ma l'uomo si tirò su in ginocchio e la fissò, riuscendo a sorridere nonostante il fortissimo dolore al costato. «Mi piace... quando resistono,» mormorò tra i denti. Susan sollevò l'estintore e glielo scagliò contro con tutte le sue forze. D'Ambrosio cercò di schivarlo, ma il pesante cilindro di metallo lo colpì sulla spalla sinistra, facendolo ruzzolare sulla fila di sedili sottostanti. Con un fragore assordante l'estintore rimbalzò su quattro o cinque file di sedili e si fermò sull'ottava. Susan uscì di nuovo in corridoio e si chiuse dietro la porta. Si fermò, ansimando. Mio Dio, ma che cos'era, un superuomo? Doveva trovare il modo di fermarlo. Era stata incredibilmente fortunata a ferirlo, ma era chiaro che non era ancora fuori combattimento. Ripensò alla grande cella frigorifera della sala d'anatomia. Il corridoio era al buio. L'unica pallida luce proveniva da una finestra in fondo. Di fronte c'era l'ingresso della sala di anatomia. Quando arrivò lì, correndo a perdifiato, sentì la porta dell'anfiteatro che si apriva. L'uomo non era ferito seriamente. Gli faceva male tossire o respirare a fondo, ma era una cosa sopportabile. La spalla sinistra era soltanto contu-
sa. Era furibondo. Il fatto che quella troia fosse riuscita ad avere la meglio, anche se solo per qualche istante, lo faceva andare in bestia. Aveva pensato di divertirsi un po' con la ragazza, ma adesso aveva cambiato idea. L'avrebbe ammazzata subito e chiavata dopo. Estrasse la Beretta e avvitò il silenziatore sulla canna. Uscì dall'anfiteatro e vide Susan che stava entrando nella sala di anatomia. Sparò quasi senza mirare, e la pallottola mancò la ragazza di parecchi centimetri, andando a conficcarsi nello stipite della porta e facendo schizzare in aria alcune schegge di legno. Il rumore dello sparo era stato simile a quello prodotto da un battipanni. Susan non si rese subito conto, finché il suono della pallottola che entrava nel legno le fece capire che si trattava di una pistola col silenziatore. «Okay, troia, il gioco è finito!» gridò D'Ambrosio avanzando lentamente lungo il corridoio. Correre gli faceva male, ma sapeva di averla ormai intrappolata. Dentro la sala di anatomia, Susan si fermò un momento, cercando di ricordarsi com'era fatta. Poi chiuse la porta. In quel periodo dell'anno il corso di anatomia era in pieno svolgimento. I tavoli per la dissezione erano coperti da teli di plastica verde, che nella penombra sembravano color grigio chiaro. Susan corse attraverso i tavoli verso la cella frigorifera, situata dalla parte opposta. Il chiavistello era bloccato con un grosso spinotto d'acciaio, attaccato a una catenella. Lo estrasse e aprì. Con un certo sforzo spinse la pesante porta isolante ed entrò. Richiuse e accese la luce. La cella era larga tre metri e lunga almeno dieci. Susan si ricordava benissimo del primo giorno in cui l'aveva vista. Per qualche torbido istinto perverso, all'assistente di laboratorio piaceva moltissimo mostrarla agli studenti, e specialmente alle studentesse. Vi erano immagazzinati i cadaveri pronti per la dissezione. Dopo essere stati imbalsamati, venivano appesi per mezzo di due ganci inseriti nei canali auricolari. I ganci erano collegati a dei cuscinetti a sfere che scorrevano lungo una rotaia sul soffitto, per facilitare lo spostamento. I corpi erano rigidi, nudi, deformi, come di marmo. Le femmine erano mischiate coi maschi, i cattolici con gli ebrei, i bianchi coi negri. Le facce erano irrigidite in smorfie orribili. La maggior parte aveva gli occhi chiusi, ma di tanto in tanto ce n'era qualcuno con le pupille sbarrate, fisse nel vuoto. La prima volta che aveva visto quelle quattro file di cadaveri congelati che pendevano dal soffitto come abiti dimenticati in un armadio di ghiaccio, Susan si era sentita male. Aveva giurato di non rimettere più piede lì dentro. Ma adesso la cosa era diversa. La sala di anatomia era buia. La cella frigorifera era illuminata da una
sola lampadina da 100 watt, che gettava ombre mostruose sui muri e sul pavimento. Susan cercò di non guardare i cadaveri. Rabbrividì per il freddo e si sforzò freneticamente di pensare. Aveva pochissimo tempo. Il cuore le scoppiava nel petto. Sapeva che il sicario sarebbe entrato lì dentro nel giro di un paio di minuti. Doveva trovare assolutamente un piano, subito. Ghignando, D'Ambrosio diede un calcio alla porta della sala, ma la serratura tenne. Allora spaccò con un altro calcio il vetro opaco della porta, mise dentro una mano e aprì la serratura. Entrò e si guardò intorno. Non riusciva a capire dove si trovasse. Per evitare che la preda gli sfuggisse di nuovo, chiuse la porta e ci spinse contro un tavolo. La sala era molto vasta, circa venti metri per trenta, con cinque file di sette tavoli ciascuna. L'uomo si avvicinò a un tavolo e tolse il telo di plastica. Ebbe un sussulto, e non sentì più nemmeno il dolore alla costola rotta. Stava guardando un cadavere. La pelle della testa era stata staccata, mettendo a nudo gli occhi e i denti. Le parti anteriori del petto e dell'addome non c'erano più. Gli organi erano stati tolti e ammassati alla rinfusa dentro al corpo aperto. D'Ambrosio tornò verso la porta, pensando di accendere la luce; poi decise di no. La stanza aveva infatti finestre molto grandi e c'era il pericolo di attrarre l'attenzione dei guardiani. Non che avesse paura di affrontare due guardie inesperte, ma voleva mettere le mani sulla ragazza senza nessuna intromissione. Il sicario tolse i teli da tutti i tavoli, sistematicamente, senza guardare i cadaveri sezionati. Voleva solo accertarsi che Susan non fosse in mezzo a loro. Si guardò in giro. Sulla parete di destra c'erano numerosi scheletri appesi a delle catene; la corrente d'aria causata dall'apertura della porta li faceva girare lentamente su se stessi. Dietro agli scheletri c'era un enorme armadio contenente campioni in vasi. In fondo alla sala c'erano tre scrivanie e due porte. Una sembrava la porta di un frigorifero, l'altra quella di uno sgabuzzino. Lo sgabuzzino era vuoto. Poi D'Ambrosio notò lo spinotto d'acciaio che pendeva di fianco al chiavistello della cella frigorifera. Sorridendo, spostò la pistola nella sinistra e aprì la porta: inorridito, fece un salto indietro. I cadaveri appesi sembravano un esercito di fantasmi. Spostò gli occhi sconvolto dall'uno all'altro, prima di decidersi a entrare. All'improvviso sentì il freddo nelle ossa. «Lo so che sei qui, puttana! Perché non vieni fuori, così facciamo altre due chiacchiere?» Ma la sua voce non era più così sicura di sé. Tutti quei
morti lo rendevano più nervoso di quanto si ricordasse di essere mai stato. Guardò tra le prime due file di corpi congelati. Poi fece due passi a destra per guardare nell'ultimo corridoio. Le mani di Susan erano aggrappate alla rotaia metallica del soffitto, dietro alla seconda fila di cadaveri. Non capì dove si trovasse D'Ambrosio finché lui non la chiamò per la seconda volta. «Vieni fuori, tesoro, non costringermi a cercare qui dentro!» Capì che l'uomo era davanti all'ultima fila. Adesso o mai più. Alzò le gambe e spinse con tutte le sue forze contro la vecchia che le era appesa davanti, usando come punto d'appoggio la schiena dura come la roccia del cadavere di un negro gigantesco. L'intera seconda fila cominciò a muoversi in avanti, all'inizio quasi impercettibilmente; poi, una volta vinta l'inerzia iniziale, Susan tese le gambe e diede un colpo violento. Come una fila di tessere del domino, il gruppo di cadaveri scivolò sulla trave metallica. D'Ambrosio sentì il rumore dei corpi che si muovevano; restò immobile per una frazione di secondo, cercando di localizzare il punto di provenienza. Con la rapidità di un gatto, si girò e corse alla porta. Ma non abbastanza in fretta. Quando fu davanti alla terza fila, vide il movimento e istintivamente alzò la pistola e sparò. Ma il suo aggressore era già morto. Quello che avanzava verso D'Ambrosio era il corpo spettrale di un uomo, con le labbra irrigidite in un orribile ghigno. Cento chili di carne umana congelata andarono a sbattere addosso al sicario, schiacciandolo contro la parete. In rapidissima successione, gli altri cadaveri urtarono contro il primo; molti si staccarono dai loro ganci, creando un groviglio di corpi e di membra congelate. Susan si staccò dalla trave lasciandosi cadere a terra. Poi corse verso la porta. D'Ambrosio cercava di liberarsi dai cadaveri, ma il dolore gli impediva di usare tutta la propria forza. Il puzzo del liquido per l'imbalsamazione lo soffocava. Quando Susan gli passò davanti cercò di afferrarla; quindi tentò di alzare la pistola, ma gli era rimasta impigliata nella mano di un cadavere. «Cazzo!» gridò, facendo uno sforzo sovrumano per divincolarsi da tutto quell'ammasso di carne irrigidita. Ma Susan era già fuori. D'Ambrosio riuscì finalmente a farsi largo tra i cadaveri e si precipitò verso la porta che si stava chiudendo. Ma all'esterno Susan spingeva con
tutto il proprio peso; la pesante porta isolante si chiuse completamente. Il chiavistello scattò, e la ragazza prese lo spinotto d'acciaio per inserirlo nel buco. Dal di dentro D'Ambrosio stava tentando di tirare la maniglia, ma lei lo precedette di una frazione di secondo, e lo spinotto entrò nel chiavistello. Susan si rialzò, col cuore in tumulto. Sentì un grido ovattato. Poi un tonfo. D'Ambrosio stava sparando contro la porta. Ma era spessa trenta centimetri. Sparò inutilmente altri colpi. Susan si girò e corse via. Si rese conto della terribile realtà del rischio che aveva corso. Tremava incontrollatamente, e intanto cercava di trattenere le lacrime. Doveva cercare aiuto, un vero aiuto. giovedì 26 febbraio ore 2.11 Beacon Hill era profondamente addormentata. Quando il taxi, lasciata Charles Street per Mount Vernon, si inoltrò nel quartiere residenziale, non si vedevano né persone, né auto, e nemmeno cani. Solo pochissime finestre erano illuminate; se non fosse stato per i pochi lampioni la zona sarebbe sembrata disabitata. Scesa dal taxi, Susan guardò da tutte e due le parti, per assicurarsi che nessuno la stesse seguendo. Era terrorizzata e aveva deciso di non tornare nella propria camera. Non sapeva se D'Ambrosio lavorasse da solo o con un complice, e non aveva nessuna voglia di scoprirlo. Si era precipitata fuori dalla facoltà di medicina, aveva oltrepassato l'edificio dell'amministrazione e aveva raggiunto Huntington Avenue. Aveva dovuto aspettare un quarto d'ora prima di trovare un taxi. Bellows. Aveva pensato che era l'unico a cui potesse rivolgersi alle due di notte e che potesse capire la sua situazione. Ma temeva di essere seguita, e non voleva mettere in pericolo anche lui. Così entrò nell'atrio e decise di aspettare cinque minuti prima di suonare il campanello. L'atrio era freddo e Susan batté i piedi sul pavimento per scaldarsi un po'. Stava tornando alla razionalità dopo l'allucinante esperienza con D'Ambrosio. Si chiese perché mai quell'uomo fosse tornato da lei così presto. Non si era accorta di essere pedinata mentre tornava al Memorial per prendere le cartelle ed esplorare il reparto chirurgia. Nessuno sapeva nemmeno che lei fosse lì. Si fermò di colpo e guardò Mount Vernon Street al di là della vetrata
della porta. Bellows! L'aveva vista all'ospedale. Era l'unico a sapere che aveva continuato le ricerche. Gli aveva mostrato le cartelle cliniche. Riprese a battere i piedi per terra, maledicendo la propria paranoia; si fermò di nuovo e ripensò al fatto che Mark era stato coinvolto nella faccenda dei medicinali trovati nell'armadietto e che era stato lui a trovare Walters impiccato. Girò la testa e guardò oltre la porta interna. Sui gradini della scala c'era una guida rossa. E se fosse stato proprio lui? Questa possibilità si fece strada per un attimo nella sua mente sovraffaticata. Stava cominciando a sospettare di chiunque. Scosse la testa e rise; era fin troppo chiaro che era in piena paranoia. Però non riusciva a scacciare del tutto quel pensiero. Il suo orologio faceva le 2.17. Avrebbe fatto una bella sorpresa a Mark, andandolo a trovare a quell'ora. Poi pensò che avrebbe potuto stupirsi solo perché era convinto che lei fosse molto occupata da un'altra parte con D'Ambrosio. Tutte sciocchezze! Schiacciò con decisione il pulsante del citofono. Dovette premerlo una seconda volta e tenerlo schiacciato prima che le venisse aperto. Cominciò a salire le scale. Era a metà della seconda rampa allorché Bellows comparve sul suo pianerottolo in vestaglia. «Avrei dovuto immaginarlo. Susan, sono le due passate!» «Mi hai chiesto se volevo venire da te a bere qualcosa. Ho cambiato idea. Voglio bere un bicchierino.» «Ma allora erano le undici.» Bellows sparì dentro l'appartamento, lasciando la porta aperta. Susan entrò. Mark non si vedeva da nessuna parte. Chiuse entrambe le serrature. Lo trovò a letto, con le coperte tirate su fino al mento e gli occhi chiusi. «Bella accoglienza!» protestò lei sedendosi sulla sponda del letto. Dio, com'era felice di vederlo! Avrebbe voluto gettarsi su di lui, sentire le sue braccia tutt'intorno al proprio corpo. Avrebbe voluto dirgli di D'Ambrosio, della cella frigorifera; avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto piangere. Invece non fece niente di tutto questo; se ne restò lì seduta a guardarlo, con la mente che vacillava. Bellows non mosse un muscolo, almeno all'inizio. Alla fine aprì l'occhio destro, poi il sinistro. Si tirò a sedere. «Merda, non posso dormire se tu te ne stai lì impalata a fissarmi!» «Allora, perché non mi offri da bere? Ne ho proprio bisogno!» Susan si sforzava di apparire calma, analitica. Ma era difficile. Le sue pulsazioni erano ancora superiori a centocinquanta al minuto.
Bellows le diede un'occhiata. «Sei veramente impossibile!» Si alzò e si rimise la vestaglia. «E va bene. Che cosa vuoi?» «Bourbon se ne hai. Bourbon e soda. Poca soda.» Aveva proprio bisogno di bere qualcosa di forte. Le mani le tremavano ancora visibilmente. Seguì Bellows in cucina. «Sono stata costretta a venire, Mark. Sono stata aggredita di nuovo.» La sua voce rifletteva una calma forzata. Osservò la reazione di Mark. Stava prendendo il contenitore del ghiaccio e si fermò con le mani dentro al frigorifero. «Dici sul serio?» «Non sono mai stata più seria.» «Stessa persona?» «Stessa persona.» Bellows tirò fuori il contenitore del ghiaccio, staccò alcuni cubetti con una forchetta. Susan vide che la notizia l'aveva sorpreso, ma non troppo. Non sembrava particolarmente preoccupato. Susan si sentì a disagio. Provò un'altra tattica. «Ho fatto un'altra scoperta, al reparto chirurgia. Una cosa molto interessante.» Aspettò il commento di Bellows. Mark mise il ghiaccio nei bicchieri e vi versò bourbon e soda. «Okay, ti credo. Me lo vuoi dire o no?» Porse il bicchiere a Susan, che bevve un lungo sorso. «Ho seguito la conduttura dell'ossigeno della sala numero 8 lungo tutto il soffitto. Prima del punto in cui scende di sotto c'è una valvola.» Bellows sorseggiò il suo bourbon e le fece cenno di tornare in soggiorno. L'orologio sopra uno dei caminetti suonò le due e mezzo. «Tutte le condutture dei gas hanno delle valvole.» «Le altre non l'avevano.» «Vuoi dire che era un tipo di valvola che permette di introdurre del gas nella conduttura?» «Credo di sì. Non me ne intendo di valvole e condutture.» «Hai seguito anche le altre per assicurarti che non avessero valvole?» «No, ma la conduttura della numero 8 è l'unica ad avere una valvola in quel punto.» «Il semplice fatto che abbia una valvola non mi sorprende. Forse tutte ne hanno una, da qualche parte. Non trarrei nessuna conclusione da quella valvola, almeno prima di avere ispezionato tutti gli altri tubi.» «È una coincidenza troppo strana, Mark. A quanto pare, tutti i casi si so-
no verificati nella 8, e la tubatura dell'ossigeno della 8 ha una valvola in un punto molto particolare, molto ben nascosto.» «Susan, guarda, ti stai dimenticando che il venticinque per cento delle tue presunte vittime non hanno neanche visto da lontano il reparto chirurgia, e men che meno la sala numero 8. Ora, anche nei momenti migliori io trovo che la tua crociata sia ridicola e dannosa. Quando poi sono esausto, la trovo insopportabile. Non possiamo parlare di qualcos'altro? La medicina sociale, per esempio.» «Mark, sono sicura di quello che ti ho detto.» «Sono sicuro che sei sicura, ma non sono sicuro di essere sicuro io.» «Mark, l'uomo che mi ha aggredita oggi pomeriggio mi ha minacciata. E poi stasera è tornato, e non credo che volesse semplicemente fare quattro chiacchiere. Credo che mi volesse uccidere. Anzi, ha proprio cercato di uccidermi. Mi ha sparato!» Bellows si sfregò prima gli occhi, poi le tempie. «Susan, non so davvero cosa pensare. Non mi viene neanche in mente qualcosa di intelligente da dire. Perché non vai alla polizia se sei così sicura?» Susan non aveva nemmeno sentito l'ultimo commento di Mark, tutta immersa com'era nei propri pensieri. Cominciò a parlare a voce alta: «Dev'essere stato per mancanza di ossigeno. Se avessero ricevuto una dose eccessiva di succinilcolina o di curaro, quanto basta per avere un'ipossia...» Fece una pausa. «La causa dell'arresto respiratorio potrebbe essere stata questa. C'è quell'autopsia fatta a Crawford.» Tirò fuori il suo quaderno. Bellows si versò un altro bicchiere. «Ecco qua. Crawford. Aveva un grosso glaucoma in un occhio, e gli era stato dato dell'ioduro di fosfolina. È un anticolinesterasi, e ciò significa che la sua capacità di metabolizzare la succinilcolina era diminuita, e che una dose non letale avrebbe potuto diventare letale.» «Susan, ti ho già detto che la succinilcolina non può avere effetti negativi in una sala operatoria, col chirurgo e l'anestesista che stanno lì a controllare. E poi non puoi somministrarla per mezzo di un gas... almeno, non l'ho mai sentito dire. Magari si potrebbe anche, ma si dovrebbe ugualmente continuare a far respirare meccanicamente il paziente finché non fosse sparita. Non potrebbe esserci ipossia.» Susan bevve un altro sorso di bourbon. «Vuoi dire che, perché il chirurgo non si accorga di niente, l'ipossia deve verificarsi senza cambiamento del colore del sangue? Ma come potrebbe succedere? Devi pur bloccare in qualche modo l'uso di ossigeno da parte
del cervello... magari a livello cellulare... o arrestare il rifornimento di ossigeno alle cellule cerebrali. Se non sbaglio c'è una sostanza che blocca l'utilizzazione dell'ossigeno, ma adesso non riesco a farmela venire in mente. Se la valvola sulla tubatura dell'ossigeno ha qualche significato, allora dev'essere una sostanza gassosa. Ma c'è un altro modo di farlo. Puoi usare una sostanza che blocchi l'assorbimento di ossigeno da parte dell'emoglobina ma mantenga il colore del sangue... Mark, ci sono!» Susan scattò in piedi, con gli occhi spalancati e un mezzo sorriso. «Ma certo, Susan, ma certo,» sogghignò lui. «Monossido di carbonio! Monossido di carbonio introdotto nella tubatura per mezzo della valvola a T, nella quantità sufficiente per provocare l'ipossia. Il colore del sangue resterebbe lo stesso, anzi diventerebbe semmai più rosso, rosso ciliegia. Anche una piccola quantità impedirebbe all'emoglobina di assorbire l'ossigeno. Il cervello si troverebbe in debito di ossigeno, e poi... il coma. Nella sala operatoria tutto apparirebbe assolutamente normale. Ma il cervello del paziente morirebbe, e non resterebbero tracce della causa.» Ci fu un lungo silenzio. I due si guardarono, Susan in attesa, Mark con stanca rassegnazione. «Vuoi il mio parere? Okay, è possibile. Ridicolo ma possibile. Voglio dire, è teoricamente possibile che i casi avvenuti in sala operatoria siano stati provocati dal monossido di carbonio. È un'idea pazzesca, ma in ogni modo è possibile. Il problema è che rimane sempre un quarto delle vittime del coma che non si sono mai nemmeno avvicinate al reparto chirurgia.» «Ma quelli sono i casi più facili da spiegare. Il mistero era per gli altri, quelli della sala operatoria. Un'altra difficoltà era che io non riuscivo a staccarmi dall'idea che nella diagnosi di una malattia uno debba andare a cercare le singole cause. Ma qui non siamo di fronte a una malattia. Nei casi avvenuti nei reparti medici, ai pazienti è stata somministrata una dose non letale di succinilcolina. Qualcosa del genere è successo in un ospedale del Midwest, e anche nel New Jersey...» «Susan, tu puoi fare tutte le ipotesi che vuoi,» la interruppe Bellows. Il tono della sua voce stava passando dalla stanchezza all'irritazione. «Quello che stai insinuando è che c'è qualche fantomatico piano organizzato, un piano criminale, con l'unico scopo di far andare in coma la gente. Bene, allora sta' un po' a sentire: finora non hai fatto il minimo sforzo per rispondere alla domanda più importante: il perché di tutto questo. Perché, Susan, perché? Stai facendo girare a tutta birra le tue rotelline, stai affrontando
ogni genere di rischi per la tua carriera — e anche per la mia, se permetti — e tutto per poter arrivare a una spiegazione plausibile, per quanto fantasiosa, per una serie di incidenti non collegati tra loro. Ma nello stesso tempo, ti sei tranquillamente dimenticata di chiederti perché. Susan, deve esserci un motivo, Cristo. È ridicolo. Scusa, ma è ridicolo. E poi io devo andare a dormire. Alcuni di noi lavorano, sai... E non c'è uno straccio di prova. Solo una valvola nella tubatura dell'ossigeno! È un po' poco, non ti pare? Insomma, devi ragionare un po' di più. Io non voglio più saperne di questa storia! Basta! Sono un chirurgo, non uno Sherlock Holmes parttime!» Bellows si alzò in piedi e finì il suo bourbon con un lungo sorso. Susan lo osservava attentamente. Stava ricadendo in paranoia. Adesso anche lui le era contro. Perché? L'aspetto criminale della faccenda le sembrava lampante, a questo punto. «Che cosa ti rende cosi sicura,» continuò Bellows, «che tutto ciò riguardi Nancy Greenly o Berman? Susan, mi sembra che tu stia saltando troppo in fretta alle conclusioni. C'è una spiegazione più semplice per il comportamento di questo strano personaggio che ti perseguita.» «Sentiamo.» «Quel tipo probabilmente aveva voglia, e tu...» «Vaffanculo, Bellows!» Era livida. «Adesso mi si arrabbia anche. Maledizione, Susan, tu prendi tutta questa storia come una specie di gioco complicato. Non ho voglia di litigare, dai...» «Tutte le volte che ti parlo di un comportamento aggressivo da parte di Harris o di questo maniaco che ha tentato di uccidermi, tu vieni fuori con qualche maledetta spiegazione sessista.» «Il sesso esiste, bambina mia. Sarebbe meglio che te ne rendessi conto.» «Mi sembra che sia più un problema tuo. Sembra che voi medici maschi non cresciate mai. Immagino che sia più piacevole restare adolescenti.» Susan si alzò e si rimise il cappotto. «Dove vuoi andare a quest'ora?» esclamò Bellows in tono autoritario. «Sarò sempre più al sicuro in strada che in questo appartamento.» «Tu non esci,» insisté Bellows con decisione. «Ah, ecco che il maschio sciovinista scopre le carte! Il grande protettore! Tutte palle, sei solo un egoista. Non devo uscire, dici? Stai a vedere!» Uscì di corsa, sbattendo la porta. Mark, incerto, restò a fissare la porta. Non aveva detto niente perché sa-
peva che sotto molti aspetti Susan aveva ragione. E non si era mosso perché voleva tirarsi fuori da tutta quella storia. «Monossido di carbonio, porca merda!» Tornò in camera da letto e si infilò sotto le coperte. Guardò l'orologio: il giorno stava arrivando molto in fretta, molto in fretta. D'Ambrosio si sentì invadere dal panico. Non gli erano mai piaciuti gli spazi chiusi, e gli sembrava che le pareti della cella frigorifera dovessero schiacciarlo da un momento all'altro. Cominciò a respirare più in fretta, e pensò che poteva anche morire soffocato. Poi c'era il freddo, un freddo mortale che si stava facendo strada attraverso il suo pesante cappotto. Nonostante continuasse a muoversi, le sue mani e i suoi piedi cominciavano a intorpidirsi. Ma il lato peggiore di tutta quell'orribile situazione erano i cadaveri e l'odore acre della formaldeide. D'Ambrosio aveva visto molte cose orribili in vita propria; era passato attraverso molte esperienze macabre, ma niente era paragonabile a quello starsene chiuso lì, nella cella frigorifera, coi morti. All'inizio aveva cercato di non guardarli, ma a poco a poco, con crescente terrore, i suoi occhi avevano cominciato a essere attratti dalle facce. Dopo un po' gli era sembrato che stessero tutti cominciando a sorridere; poi si erano messi anche a ridere e a muoversi quando lui non li guardava attentamente. Svuotò il caricatore della pistola contro un cadavere sogghignante che gli sembrò di riconoscere. Alla fine si ritirò in un angolo per poter tenere tutto il gruppo in osservazione. Lentamente scivolò giù accovacciato. Non si sentiva più le ginocchia. giovedì 26 febbraio ore 10.41 Il sentiero scendeva a sinistra, in mezzo a un bosco di querce contorte che si alzavano su un intrico di rovi. I rami degli alberi, avvicinandosi, formavano una specie di tunnel e impedivano di vedere a più di qualche metro. Susan stava correndo e non osava voltarsi indietro. La salvezza era davanti a lei; poteva farcela. Ma il sentiero si stringeva sempre di più, e lei restava continuamente impigliata nei rami. Cercò disperatamente di avanzare. Vide un po' di luce là in fondo. Era la salvezza. Ma più si sforzava di procedere, più i rami la prendevano come in una gigantesca ragnatela. Tentò di liberarsi i piedi con le mani, ma anche le braccia le restarono impigliate. Aveva solo pochi minuti. Doveva uscire di lì. Poi sentì un clacson, e
riuscì a liberarsi un braccio. Il clacson suonò di nuovo. Susan aprì gli occhi. Era nella camera 731 del Boston Motor Lodge. Si tirò a sedere sul letto e si guardò attorno. Era stato un sogno, un sogno ricorrente che non faceva da anni. Appena se ne rese conto tirò un sospirone e ricadde sdraiata, avvolgendosi nelle coperte. Il clacson che l'aveva svegliata suonò per la terza volta. Si udirono delle grida lontane, poi il silenzio. Susan osservò la stanza. Era ammobiliata in tipico stile americano, con assoluta mancanza di gusto. C'erano due grandi letti con dei copriletto a fiori molto dozzinali. La moquette era color verde pallido. La parete alle sue spalle aveva una tappezzeria a fiori verde; quella di fronte era giallo chiaro. Appena sopra il letto c'era la riproduzione di un quadro pacchiano, raffigurante una scena campestre con anatre e pecore. Anche i mobili erano da poco, a parte un imponente televisore a colori da ventotto pollici: indispensabile consolazione della vita nei motel. Al Boston Motor Lodge la bellezza delle stanze passava decisamente in secondo piano. Ma il posto era sicuro. Dopo aver lasciato l'appartamento di Mark quasi all'alba, Susan aveva deciso di cercare un tetto dove poter dormire in pace. Spesso, passando per Cambridge Street, aveva notato la vistosa insegna del motel. Era un'insegna orribile, certamente non fatta per richiamare l'attenzione di chi voleva solo dormire. Ma quella camera era il rifugio che cercava. Si era registrata col nome di Laurie Simpson, e aveva aspettato nell'atrio un buon quarto d'ora prima di poter salire. Il portiere l'aveva guardata in modo strano, e lei gli aveva dato cinque dollari di mancia dicendogli di avvertirla se qualcuno l'avesse cercata. Aveva dei problemi con un amante geloso, spiegò. L'uomo le aveva strizzato l'occhio, soddisfatto sia per i cinque dollari sia per la confidenza che lei gli aveva fatto. Susan sapeva che lui aveva accettato la sua storia senza problemi. Rientrava nella vanità maschile. Dopo aver spostato il tavolo contro la porta, era andata a dormire. Era stato un sonno un po' agitato, come dimostrava il suo ultimo sogno, ma adesso si sentiva abbastanza riposata. Si ricordò della scenata con Mark, e pensò che forse avrebbe dovuto telefonargli. Le dispiaceva aver rotto con lui, se non altro perché le era stato d'aiuto facendo la parte dell'avvocato del diavolo. Dopo tutto, aveva avuto ragione a dire che lei non aveva nessuna idea del motivo; e se c'era di mez-
zo una grossa organizzazione, doveva pur essercene uno. Forse le vittime del coma erano il bersaglio di qualche organizzazione criminale? Susan scartò immediatamente l'idea, ricordandosi di Berman e di Nancy Greenly. No, impossibile. Forse c'era di mezzo l'estorsione: le famiglie non avevano pagato e... bum! Ma anche questo le sembrava improbabile. Sarebbe stato troppo difficile tenere segreta la faccenda del coma. Molto più facile uccidere direttamente la gente una volta dimessa dall'ospedale. Doveva esserci una ragione perché questi casi di coma avvenivano in ospedale; doveva esserci qualcosa che legava tra loro le vittime, un denominatore comune. Susan prese il telefono e fece il numero della facoltà di medicina. Si fece passare l'ufficio del preside. «La segretaria del professor Chapman? Sono Susan Wheeler... esatto, la famigerata Susan Wheeler. Senta, dovrei lasciare un messaggio per il professore. No, non occorre che lo disturbi. Stamattina avrei dovuto iniziare l'internato in un ospedale, ma ho passato una notte terribile e ho ancora dei terribili crampi addominali. Domani starò sicuramente meglio. In ogni caso avvertirò. Potrebbe informare il professor Chapman, e il reparto chirurgico del V.A. Hospital? Grazie.» Posò il ricevitore. Erano le dieci meno un quarto. Fece il numero del Memorial e chiese dell'ufficio di Stark. «Ah, sì, Miss Wheeler. Il professor Stark aspettava una sua telefonata alle nove. Glielo passo subito. Si è molto preoccupato quando ha visto che lei non telefonava.» Susan aspettò, tormentando il filo del telefono tra l'indice e il pollice. «Susan?» Stark era in linea. «Dopo quello che mi ha raccontato di ieri, cominciavo davvero a preoccuparmi. Sta bene?» Susan esitò, chiedendosi se dovesse usare la stessa scusa che aveva usato con Chapman. Era meglio di sì; Stark poteva sempre avere dei contatti con quest'ultimo. «Ho avuto una colica addominale che mi ha inchiodata a letto. Per il resto sto bene.» «Un po' di riposo le gioverà. Venendo alle sue richieste: ho una notizia buona e una cattiva. Quale vuol sentire prima?» «Quella cattiva.» «Ho parlato con Oren, Harris e Nelson per farla restare qui al Memorial. Sono stati irremovibili, purtroppo. È chiaro che non sono loro a dirigere il reparto chirurgia, ma qui il buon funzionamento delle cose dipende dalla
collaborazione, e devo ammettere che non ho insistito troppo. Se fossero stati appena appena incerti, ci avrei anche provato. Ma non lo sono stati, per niente; lei si è creata molte inimicizie, mia cara.» «Capisco.» Susan non ne era affatto sorpresa. «Inoltre, se lei tornasse qui, credo che avrebbe la vita difficile, con la cattiva reputazione che si è fatta. È meglio lasciar calmare le acque.» «Lo credo anch'io...» «Per la visita al Jefferson Institute, invece, ho avuto più fortuna. Ho parlato col direttore, e gli ho detto che lei è particolarmente interessata alla rianimazione e che le piacerebbe visitare la sua clinica. Ha acconsentito, a patto che ci vada dopo le cinque, quando c'è meno lavoro. E ci sono altre due condizioni: deve andare sola, dato che il permesso riguarda solo lei.» «Naturalmente.» «E visto che in questa faccenda io sono già andato un po' oltre i limiti che mi sarebbero concessi, scavalcando tutte le vie gerarchiche, preferirei che non facesse parola con nessuno di questa sua visita. Devo ammettere, Susan, che mi è costato davvero un grosso sforzo riuscire a ottenergliela. Non glielo dico perché lei si senta in debito nei miei confronti; l'ho fatto solo per ripagarla dell'espulsione dal Memorial. Il direttore dell'istituto mi ha ripetuto categoricamente che non deve farsi accompagnare da nessuno. Permettono le visite di gruppo solo quando hanno il tempo di seguirle. È un posto molto particolare, l'avrà capito. Deve assolutamente andare sola. Spero che capisca.» «Ma certo.» «Bene. Mi faccia sapere poi le sue impressioni. Io non ci sono mai stato.» «Grazie, professor Stark. Ah, c'è un'altra cosa....» Era il caso di informarlo della sua seconda vicenda con D'Ambrosio? Meglio di no. Già il giorno prima lui le aveva detto di andare alla polizia, e adesso avrebbe insistito. E lei non voleva informare la polizia, non ancora. Se c'era una grossa organizzazione dietro quella faccenda, era da ingenui pensare che non avessero un piano d'emergenza contro la polizia. «Non so bene,» continuò «se sia importante, ma ho trovato una valvola nella tubatura dell'ossigeno della sala operatoria numero 8. Vicino alla colonna principale.» «Vicino a cosa?» «Alla colonna principale, dove salgono tutte le tubature dell'ospedale.» «Susan, lei è veramente incredibile. Come ha fatto a scoprirlo?» «Sono entrata nell'intercapedine del soffitto e ho seguito tutte le tubature
del gas delle sale operatorie.» «L'intercapedine del soffitto!» esclamò Stark irritato. «Adesso sta incominciando a esagerare. È inammissibile che lei sia salita nell'intercapedine del soffitto sopra le sale operatorie.» Susan aspettò che arrivasse la mazzata, com'era successo con Harris e McLeary. Invece ci fu una pausa. Alla fine Stark disse: «Così, avrebbe trovato una valvola nella tubatura dell'ossigeno della sala numero 8...» «Esatto,» rispose Susan cauta. «Bene, credo di sapere a che cosa serve. Sono presidente della commissione per le sale operatorie. Con ogni probabilità la valvola serve per far uscire le bolle d'aria quando il sistema viene messo in moto. Manderò qualcuno a controllare, per sicurezza. A proposito, come si chiama il malato che voleva vedere al Jefferson Institute?» «Sean Berman.» «Già, mi ricordo di questo caso. È successo appena l'altro ieri. Un paziente di Spallek. Un'operazione al menisco, se non sbaglio. Una tragedia... aveva appena trent'anni. Una vera vergogna. Be', buona fortuna. Mi dica, è al V.A. Hospital oggi?» «No, ho troppo mal di pancia. Ma domani sarò senz'altro in grado di tornare a lavorare.» «Lo spero, Susan. Per il suo bene.» «Grazie, professor Stark.» «Di niente, Susan.» I guanti usati finirono in un cestino vicino alla rastrelliera delle spugne. Sulla rastrelliera c'era una fila di spugne insanguinate che pendevano come panni sporchi appesi a un filo. Un'infermiera si mise alle spalle di Bellows e gli slacciò il camice. Il medico lo gettò in una cesta accanto alla porta e uscì. Era stata una gastroectomia senza complicazioni, un intervento che di solito Bellows eseguiva con piacere. Ma quel mattino la sua testa era da un'altra parte, e la ricucitura della sacca dello stomaco e dell'intestino era stata più noiosa che divertente. Non riusciva a smettere di pensare a Susan. Passava dalla tenera preoccupazione, accompagnata dal rimorso per le parole che l'avevano fatta uscire di casa sua la notte prima, al piacere ipocrita per i commenti che si era sentito in dovere di fare. Era già andato troppo in là, aveva rischiato troppo, ed era chiaro che Susan non aveva la minima intenzione di rallentare la propria corsa idiota verso il suicidio professionale.
D'altra parte, il ricordo della dolcezza di due notti prima era ancora vivissimo nella sua mente. Aveva fatto l'amore con lei in una maniera così naturale, così fresca, e con un tale trasporto che l'orgasmo era stato solo un momento, una parte, non un fine. Aveva conosciuto una meravigliosa sensazione di comunione con lei. Capì che provava molto affetto per Susan, nonostante la conoscesse così poco, e nonostante fosse così maledettamente testarda. Bellows dettò al registratore il resoconto della gastroectomia col solito tono monocorde dei medici, scandendo «punto» alla fine di ogni frase. Poi andò nello spogliatoio e si cambiò. Essersi reso conto di provare affetto per Susan lo mise sul chi vive. La ragione gli diceva che sentimenti del genere avrebbero diminuito la sua obiettività e la sua lungimiranza. Non poteva permetterselo, adesso che la sua carriera era in gioco. Da quando Susan era stata trasferita, le acque si erano già calmate. Stark era stato gentile con lui, e gli aveva persino fatto delle mezze scuse per aver insinuato che fosse coinvolto nella storia dell'armadietto. Mark finì di cambiarsi e andò nella sala postoperatoria per controllare le condizioni del paziente che aveva appena operato. «Ehi, Mark!» chiamò una voce. Bellows si girò e vide Johnston. «Come va coi tuoi studenti? Mi hanno detto che la ragazza è un gran pezzo di figliola.» Bellows non rispose. L'ultima cosa che voleva era iniziare una conversazione cretina su Susan con Jonhston. «Ti hanno raccontato i tuoi amici quello che è successo in facoltà stamattina? È una delle storie più strane che abbia mai sentito. Un tizio è entrato ad anatomia la notte scorsa. Doveva essere un matto, perché ha scaricato un estintore, ha tolto i teloni che ricoprivano i cadaveri sezionati dagli studenti del primo anno, è rimasto chiuso dentro alla cella frigorifera, e ha fatto un'orgia coi cadaveri. Ne ha tirati giù un po' e gli ha sparato addosso. Te l'immagini?» Johnston scoppiò a ridere. Su Bellows il racconto ebbe l'effetto opposto. Guardava Johnston, ma intanto pensava a Susan. Gli aveva detto che qualcuno l'aveva inseguita di nuovo, e aveva cercato di ucciderla. Che fosse quello, l'uomo? Susan stava diventando rapidamente un mistero assoluto. Perché non gli aveva detto di più? «È rimasto congelato, quel tipo?» Johnston dovette ricomporsi prima di riuscire a rispondere. «No, almeno non del tutto. La polizia è stata avvertita da una telefonata anonima nel
cuore della notte. Ma hanno pensato che fosse uno scherzo di goliardi, così sono andati a controllare solo stamattina. Quando sono entrati l'uomo era privo di conoscenza, seduto in un angolo. La temperatura del suo corpo era di trentatré gradi, ma i ragazzi di medicina sono riusciti a scongelarlo senza che sorgessero problemi di acidosi. Mi sembra un successo notevole per quegli stronzi. L'unico problema è che hanno aspettato due ore prima di chiamarmi. Ehi, lo sai come lo chiamano le infermiere della rianimazione?» «Non saprei.» Bellows stava ascoltando con un orecchio solo. «Balle di ghiaccio.» Johnston scoppiò di nuovo a ridere. «Se la caverà?» «Sicuro. Ci vorrà un'amputazione. Come minimo perderà una parte di entrambe le gambe. Si vedrà nei prossimi giorni. Quel povero bastardo potrebbe anche perdere le sue balle di ghiaccio.» «Hanno scoperto qualcosa su di lui?» «In che senso?» «Non so, il suo nome, da dove viene...» «Niente. È saltato fuori che aveva una carta d'identità falsa. La polizia è molto interessata. Ho sentito che dicevano qualcosa su Chicago. Strano!» Johnston pronunciò le ultime parole come se si trattasse di un importantissimo messaggio segreto, e si allontanò. Bellows andò a vedere il suo paziente. Le funzioni vitali erano stabili. Controllò la cartella. Le prescrizioni erano di Reid, ed erano appropriate. Pensò all'uomo della cella frigorifera. La storia sembrava stranissima. Si chiese di nuovo se fosse davvero quello che aveva aggredito Susan. Ma come avrebbe potuto fare a chiuderlo nella cella frigorifera? E perché diavolo non gliene aveva accennato? Forse lui stesso non l'aveva lasciata parlare. Ma se aveva davvero chiuso quel tale nella cella frigorifera, adesso era proprio nei guai con la legge. E la telefonata anonima l'aveva fatta lei? Esaminò la fasciatura del paziente. Era ancora a posto, e non era insanguinata. Ripensò a Susan, e concluse che il matto della cella frigorifera doveva essere proprio stato l'aggressore di Susan. Era importante farle sapere che era stato ricoverato in ospedale ed era in condizioni critiche. Mark chiamò Susan. Il telefono suonò una dozzina di volte senza che nessuno rispondesse. Allora lasciò detto al centralino di farlo richiamare appena fosse rientrata.
giovedì 26 febbraio ore 16.23 Trentasei dollari più le tasse le sembrava un prezzo spaventoso per quella camera pacchiana al Boston Lodge. Eppure Susan li aveva pagati volentieri. Si sentiva fresca e riposata. E dopotutto al sicuro. Aveva passato la giornata a rileggere i propri appunti. Tutta la documentazione che aveva raccolto sui casi del reparto chirurgia quadrava con l'idea di avvelenamento da monossido di carbonio; quella relativa agli altri portava all'avvelenamento da succinilcolina. Ma non aveva ancora il movente. I casi erano troppo disparati. Fece alcune telefonate infruttuose al Memorial per cercare di sapere l'indirizzo di Walters. A un certo punto chiese al centralino di far chiamare Bellows, ma poi riattaccò prima che lui venisse a rispondere. Lentamente ma inesorabilmente, cominciò a capire di trovarsi in un vicolo cieco. Probabilmente era ora di andare alla polizia, raccontare tutto e poi prendersi una bella vacanza. Doveva ancora fare il mese di vacanza del terzo anno, ed era sicura che le avrebbero dato il permesso di iniziarlo subito. Sarebbe andata via, lontano, molto lontano, per dimenticare. Il portiere del motel le chiamò un taxi. Susan diede l'indirizzo all'autista: 1800 South Weymouth Street. Il taxi procedette a passo d'uomo lungo Cambridge Street: in Storrow Drive il traffico migliorò, ma in Berkeley Street peggiorò di nuovo. Per evitare l'ingorgo il tassista attraversò le zone migliori del South End. In Massachusetts Avenue svoltò a sinistra e il paesaggio si intristì rapidamente: le case erano tutte uguali, le strade piene di rifiuti. Quindi la macchina entrò in una zona di magazzini, fabbriche abbandonate, vie buie. Quasi tutti i lampioni erano rotti. Scesa dal taxi, Susan si ritrovò in una zona deserta. Davanti a lei l'unico lampione funzionante illuminava la porta di un edificio e una scritta a grandi lettere azzurre: JEFFERSON INSTITUTE. Sotto c'era una targa di rame su cui era inciso: COSTRUITO GRAZIE ALL'AIUTO DEL MINISTERO DELLA SANITÀ, EDUCAZIONE E ASSISTENZA SOCIALE DEL GOVERNO DEGLI STATI UNITI — 1974 Il Jefferson Institute era circondato da un recinto alto due metri e mezzo. L'edificio era indietro di cinque metri rispetto alla strada e aveva una struttura modernissima. Le pareti erano di conglomerato bianco lucidato a specchio; i muri del pianterreno erano inclinati all'interno con un angolo di
ottanta gradi; poi c'era uno stretto cornicione da cui partivano i muri del primo piano, inclinati con la stessa angolatura. A parte l'ingresso, sui muri del pianterreno non c'erano né porte né finestre. Le finestre del primo piano erano dentro ad altrettante nicchie e dalla strada non si vedevano. Erano visibili solo gli angoli delle nicchie e la luce proveniente dall'interno. L'edificio occupava un intero isolato. Stranamente, Susan lo trovò quasi bello, anche se capiva che era lo squallore circostante a farlo apparire migliore. Probabilmente era il punto centrale di qualche piano di rinnovamento urbanistico. Dava l'impressione di un'antica mastaba egiziana, o della base di una piramide azteca. Susan si avvicinò al portone. Era di acciaio bronzato, senza maniglie. Sulla destra c'era un microfono. Appena la ragazza fu davanti alla porta, entrò automaticamente in azione un nastro registrato in cui la si invitava a dire il nome e lo scopo della visita. La voce era profonda, rassicurante e misurata. Susan diede il nome, ma esitò a dire il motivo della sua visita. Fu tentata di rispondere turismo, poi cambiò idea. Non era molto in vena di scherzare. «Motivi accademici.» Nessuna risposta. Sotto il microfono si accese una scritta luminosa in rosso: ATTENDERE; quindi una scritta verde: AVANTI. La porta metallica si aprì scorrendo di lato senza far rumore e Susan varcò la soglia. Si ritrovò in una sala di un bianco accecante. Non c'erano né finestre, né quadri, né decorazioni di alcun genere. L'illuminazione sembrava venire da sotto il pavimento di plastica bianca e traslucida. Susan trovò l'effetto curioso, vagamente fantascientifico. All'estremità opposta della sala c'era una seconda porta che scivolò dentro la parete; Susan entrò in quella che sembrava una sala d'aspetto modernissima. Due pareti erano ricoperte da specchi alti fino al soffitto; le altre due erano di un bianco immacolato, prive di qualsiasi strumento. Quell'assoluta uniformità finiva col disorientare. Susan osservò le pareti bianche, e la vista le si ingarbugliò. Poi guardò le altre due pareti e scorse la sua immagine riflessa all'infinito dagli specchi. La stanza era arredata con alcune file di sedie di plastica bianca. Il pavimento era uguale a quello della sala precedente, e la luce che ne usciva gettava strane ombre sul soffitto. Susan stava per sedersi quando si aprì un'altra porta scorrevole. Entrò una donna alta che le si avvicinò con passo spedito. Aveva i capelli castani, tagliati cortissimi, occhi infossati, e un profilo di tipo greco. La faccia, perfettamente inespressiva, le fece venire
in mente i lineamenti classici di un cammeo. La donna indossava un tailleur bianco, privo di decorazioni come le pareti. Dalla tasca della giacca spuntava un dosimetro. «Benvenuta al Jefferson Institute. Mi chiamo Michelle. Le mostrerò le nostre attrezzature.» La voce era priva di inflessioni. «Grazie.» Susan cercò di penetrare dietro la maschera imperturbabile della donna. «Mi chiamo Susan Wheeler. Credo che mi steste aspettando.» Si guardò attorno. «È veramente modernissimo. Non avevo mai visto niente di simile.» «La stavamo aspettando, infatti. Ma prima devo avvisarla che dentro è molto caldo. Le consiglierei di lasciare qui il suo cappotto. E anche la borsa, per favore.» Susan si tolse il cappotto, un po' imbarazzata dall'uniforme da infermiera sporca e stropicciata che aveva ancora addosso. Estrasse il suo quaderno dalla borsa. «Dunque... lei saprà senz'altro che il Jefferson Institute è un ospedale per le terapie intensive. In altre parole, accettiamo solo malati cronici bisognosi di cure intensive. La maggior parte dei nostri pazienti sono vittime di coma, a vari gradi. Questo ospedale è stato costruito come progetto pilota coi fondi del ministero della sanità, anche se la gestione è stata affidata a un ente privato. Ha avuto molto successo, soprattutto perché ha liberato un gran numero di posti letto nelle sale rianimazione delle cliniche cittadine. Proprio in seguito a questo successo, ospedali simili sono in corso di progettazione o costruzione in quasi tutte le maggiori città. Le ricerche hanno dimostrato che ogni città con almeno un milione di abitanti può sovvenzionare un ospedale di questo tipo... Mi scusi, ma perché non ci sediamo?» Michelle indicò due sedie. «Grazie.» Susan si sedette. «Abbiamo un regolamento molto rigido per le visite. Ciò è dovuto ai metodi che usiamo nella cura dei pazienti. Abbiamo sviluppato delle tecniche d'avanguardia, e se la gente non è preparata, potrebbe avere reazioni emotive incontrollate. Solo i parenti stretti sono autorizzati a visitare i pazienti e solo ogni due settimane, dietro preavviso.» Michelle si fermò, e fece un mezzo sorriso. «Devo dire che la sua visita qui è una cosa abbastanza eccezionale. Normalmente riceviamo gruppi di medici il secondo martedì di ogni mese, con un programma prestabilito. Ma visto che lei è venuta da sola, dovrò improvvisare un po'. Abbiamo un breve filmato, se le interessa.»
«Ma certo.» «Bene.» Senza che Michelle avesse fatto il minimo gesto, la stanza piombò nel buio; su una delle due pareti bianche cominciarono a scorrere le immagini. Susan era disorientata. Probabilmente il film veniva proiettato su una zona traslucida della parete, che fungeva da schermo. Il filmato le ricordò i vecchi cinegiornali. La tecnica antiquata sembrava un anacronismo in quell'ambiente ultramoderno. La prima parte era dedicata alla spiegazione del concetto di ospedale per la terapia intensiva. Si vedeva il ministro della sanità che discuteva il problema con urbanisti, economisti, esperti. Il problema dei costi enormi della terapia intensiva a lungo termine era illustrato da grafici e tabelle. Gli uomini che spiegavano i diagrammi erano scialbi e anonimi, e non facevano che ripetere luoghi comuni. «È bruttissimo,» osservò Susan. «Sono d'accordo. I filmati governativi sono tutti uguali. Dovrebbero usare un po' più di fantasia.» Il documentario continuava con la cerimonia della posa della prima pietra, in cui tutti i politici sorridevano e dicevano battute idiote; seguivano poi altri grafici e tabelle, riguardanti i vantaggi economici derivanti dalla costruzione dell'ospedale. Altre scene mostravano come le attrezzature del Jefferson Institute avessero liberato una quantità di posti letto negli ospedali cittadini. Quindi veniva fatto un paragone tra il numero di dipendenti del Jefferson, e quello necessario a un ospedale convenzionale per un pari numero di degenti. La differenza era evidenziata dall'immagine dei due gruppi di persone in un parcheggio. Alla fine, il filmato mostrava il cuore del nuovo ospedale: l'enorme computer, sia digitale sia analogico. Tutte le funzioni omeostatiche, si sottolineava, venivano controllate dal calcolatore. La pellicola terminava con una marcia, che ricordava il finale di un film di guerra. Appena l'ultima inquadratura scomparve, la luce sotto il pavimento si riaccese. «Non mi è sembrato molto utile,» sorrise Susan. «Mah, almeno mette in risalto i vantaggi economici. Questo è il concetto fondamentale dell'istituto. Adesso, se vuole seguirmi, le mostrerò le principali caratteristiche dell'ospedale.» Michelle si alzò e si avviò verso la porta da cui era entrata, che si chiuse dietro di loro appena l'ebbero oltrepassata. Percorsero un corridoio di una ventina di metri, che finiva in un'altra pa-
rete a specchio. Sui due lati del corridoio si vedevano altre porte, tutte chiuse. Nessuna di esse aveva maniglie. Evidentemente erano ad apertura automatica. Quando furono giunte in fondo, si aprì una porta scorrevole e Susan entrò in una stanza dall'aspetto familiare. Sarà stata di dieci metri per venti, ed era identica alla sala rianimazione di qualsiasi ospedale. C'erano cinque letti e il solito assortimento di attrezzature, monitor per elettrocardiogramma, tubature del gas eccetera eccetera. Ma quattro letti erano diversi dal normale: ciascuno aveva un vuoto di circa sessanta centimetri nel senso della lunghezza. Era come se fossero formati da due lettini strettissimi, con un'intercapedine in mezzo. Sul soffitto, sopra i letti, c'erano dei meccanismi complicatissimi simili ad argani. Il quinto letto, che sembrava di tipo convenzionale, era occupato da un paziente che respirava per mezzo di un piccolo respiratore. A Susan venne in mente Nancy Greenly. «Questa è la sala visite per i parenti,» spiegò Michelle. «Quando c'è una visita della famiglia, il malato viene trasferito qui automaticamente. Lo mettiamo su uno di questi letti speciali, che una volta preparato sembra perfettamente normale. Questo paziente ha avuto una visita oggi pomeriggio.» Michelle indicò il quinto letto. «L'abbiamo lasciato qui apposta, senza riportarlo in corsia, in modo che lei potesse vederlo.» Susan era confusa. «Vuol dire che quel letto è uguale agli altri quattro?» «Esatto. E quando una famiglia viene in visita, vengono messi dei malati anche negli altri letti, in modo che questa sembri una normale sala di rianimazione. Mi segua, prego.» Michelle attraversò la sala, passando davanti al paziente. In fondo c'era un'altra porta, che si aprì silenziosamente e automaticamente. Susan restò perplessa quando passò davanti al letto. Sembrava un normale letto di ospedale. Non si vedeva che la sua sezione centrale, quella su cui il paziente si sarebbe dovuto appoggiare mancava. Ma Susan non ebbe tempo di osservare più da vicino, perché dovette seguire Michelle nel locale successivo. La prima cosa che notò fu l'illuminazione. Aveva qualcosa di molto strano. Poi sentì il caldo e l'umidità. Alla fine vide i malati, e si fermò allibita. Saranno stati più di cento, e tutti erano sospesi a mezz'aria, a circa un metro dal suolo. Erano tutti nudi. Guardando più da vicino, Susan si accorse che dalle loro ossa più lunghe uscivano numerosi fili, collegati a complesse intelaiature metalliche che li tenevano tesi. Le teste erano sostenute da altri fili che scendevano dal soffitto ed erano collegati a viti fissate nel
cranio. Susan ebbe l'impressione di una moltitudine di grottesche marionette che riposavano in posizioni orizzontali. «Come può vedere, i pazienti sono sospesi a cavi tenuti sotto trazione. Alcuni visitatori hanno reazioni violente quando vedono questa sala, ma è stato dimostrato che questo è il metodo migliore per la cura a lungo termine. Conserva intatta la pelle e riduce al minimo il lavoro delle infermiere. È stato impiegato per la prima volta in ortopedia, dove i fili vengono fatti passare attraverso le ossa per mantenere la trazione. Le ricerche compiute nel campo delle ustioni hanno rivelato i grandi vantaggi che si ottengono allorché la pelle non viene a contatto con nessun tipo di superficie. Era un notevole passo avanti applicare questa concezione ai casi di coma.» «Abbastanza raccapricciante.» Susan si ricordò dei cadaveri appesi nella cella frigorifera. «Che cos'è questa strana luce?» «Ah, sì, dobbiamo metterci gli occhiali se restiamo qui per un po'.» Michelle indicò un tavolo su cui stavano parecchi occhialoni. «Qui abbiamo una certa dose di raggi ultravioletti. Servono a neutralizzare i batteri, e a conservare integra la pelle.» Tutt'e due si infilarono un paio di occhialoni. «Qui dentro la temperatura è costante a trentaquattro gradi e mezzo, con uno scarto di cinque centesimi. L'umidità è all'ottantadue per cento, con una possibilità di variazione dell'uno per cento. Ciò ha lo scopo di ridurre la perdita di calore dei pazienti, e quindi il loro fabbisogno di calorie. L'umidità, poi, abbassa il rischio di infezioni respiratorie, che come lei sa è molto grave nei pazienti in coma.» Susan era senza fiato. Si avvicinò lentamente a uno dei corpi appesi. Una miriade di fili bucava le ossa più lunghe; poi i cavi passavano orizzontalmente attraverso un'intelaiatura di alluminio, e di lì salivano fino a una complicata carrucola. La ragazza alzò gli occhi al soffitto e vide che era percorso da un intrico di binari per le carrucole. Tutti i tubi delle fleboclisi, i tubi d'aspirazione e i fili dei monitor scendevano dalle carrucole. «E non ci sono infermiere?» Susan guardò Michelle. «Io sono un'infermiera. Ce ne sono altre due, più un medico. Un personale molto ridotto per centotrentun pazienti, non le pare? Vede, tutto è automatizzato: il peso del paziente, la quantità di gas nel sangue, il bilanciamento dei fluidi, la pressione sanguigna, la temperatura del corpo — insomma, un'enorme serie di variabili — sono tenuti costantemente sotto osservazione e raffrontati agli standard dal computer. Il calcolatore mette in funzione delle valvole a solenoide per rettificare ogni eventuale anomalia. È molto meglio dei metodi convenzionali. Un medico tende sempre a pre-
occuparsi delle variabili isolate, in maniera statica. Il computer, invece, è in grado di elaborare costantemente i dati, quindi agisce dinamicamente. Ma la cosa più importante è che il computer mette in correlazione in qualsiasi momento tutte le possibili variabili. Esso è molto più simile al sistema di regolazione del corpo umano.» «La medicina moderna elevata all'ennesima potenza. È incredibile, davvero incredibile. Sembra fantascienza. Una macchina che si prende cura di un gruppo di individui privi del cervello. È come se questi malati non fossero persone.» «Non sono persone.» «Scusi?» Susan si girò e fissò Michelle. «Erano persone. Adesso sono vegetali senza più il cervello. La medicina moderna e la tecnologia medica sono arrivate al punto di mantenere in vita questi organismi, qualche volta all'infinito. Il risultato è stato un aumento pauroso dei costi. La legge ha stabilito che dovevano esser tenuti in vita. La tecnologia doveva progredire in modo da poter affrontare il problema realisticamente. E c'è riuscita. Questo ospedale è attrezzato per trattare un migliaio di casi contemporaneamente.» Qualcosa, nella filosofia che Michelle stava esponendo, faceva sentire a disagio Susan. Aveva anche la sensazione che la sua guida fosse stata accuratamente indottrinata. Capiva che Michelle non metteva minimamente in discussione quello che stava dicendo. Ma lei non riusciva ad accettare la concezione di fondo di quell'ospedale. Era sopraffatta dagli aspetti fisici di quel posto. Voleva vedere di più. Si guardò attorno. La sala era lunga una trentina di metri, col soffitto alto circa cinque. Lassù il labirinto di rotaie era impressionante. C'era un'altra porta in fondo alla sala. Era chiusa. Ma era una porta normale, con una normale maniglia. Susan non aveva dubbi: solo le porte che avevano attraversato fino ad allora erano controllate a distanza. Dopotutto, la maggior parte dei visitatori — i parenti — non entravano mai in quella sala. «Quante sale operatorie ci sono qui al Jefferson Institute?» chiese Susan improvvisamente. «Non abbiamo sale operatorie. Qui teniamo solo i casi cronici; se insorgono complicazioni, li rimandiamo agli altri ospedali.» La risposta era stata così immediata da sembrare un riflesso automatico, una formula imparata a memoria. Susan ricordava distintamente di aver visto le sale operatorie sulle mappe catastali. Erano al primo piano. Comin-
ciava ad avere la sensazione che l'infermiera le stesse mentendo. «Nessuna sala operatoria?» chiese ancora, fingendosi profondamente sorpresa. «Ma allora dove li fate gli interventi d'emergenza, come le tracheotomie?» «O qui o nella sala per le visite, che può essere trasformata in sala operatoria in caso di necessità. Ma capita di rado. Come ho detto, il nostro è un ospedale per la cura dei malati cronici.» «Pensavo che avessero previsto lo stesso una sala operatoria.» In quel momento uno dei corpi vicini a Susan venne mosso, e la sua testa si abbassò di una ventina di centimetri rispetto ai piedi. «Ecco, questo è un esempio di come lavora il computer,» commentò Michelle. «Probabilmente ha registrato un calo nella pressione sanguigna, e ha messo il paziente nella posizione di Trendelenburg prima di eliminare la causa del fenomeno.» Susan non stava quasi ascoltando; pensava solo a come fare un po' di ricerche per conto proprio. Voleva vedere quelle sale operatorie che erano indicate sulla pianta. «Una delle ragioni per cui ho chiesto di venire qui era di vedere in particolare un paziente. Si chiama Berman, Sean Berman. Ha idea di dove si trovi?» «No, così a memoria no. Qui non li chiamiamo coi nomi. Usiamo dei numeri: esemplare 1, esemplare 2 eccetera. È infinitamente più facile per la programmazione del computer. Per trovare il numero di Berman dovrò appunto controllare al calcolatore. Solo due minuti.» «Grazie, mi piacerebbe saperlo.» «Andrò al terminale del banco di controllo. Nel frattempo, può dare una occhiata in giro per vedere se riesce a trovarlo. Oppure può venire con me e attendere in sala d'aspetto. Ai visitatori non è permesso di entrare nella sala di controllo.» «Aspetterò qui, grazie. Qui dentro ci sono abbastanza cose interessanti da tenermi occupata una settimana.» «Faccia pure. Non occorre che le dica che non deve assolutamente toccare né i cavi né i pazienti. Tutto il sistema è accuratamente bilanciato. La resistenza elettrica del suo corpo sarebbe immediatamente rilevata dal computer, e suonerebbe un allarme.» «Non si preoccupi. Non toccherò niente.» «Bene. Sarò di ritorno tra un attimo.» Michelle si tolse gli occhialoni. La porta automatica della sala visite si
aprì e si richiuse. Michelle attraversò la sala visite, uscì nel corridoio e lo percorse fino a metà. Si fermò davanti a una porta che si aprì automaticamente. La sala di controllo era scarsamente illuminata; sembrava di essere in un sommergibile nucleare. L'unica luce veniva dalla parete in fondo, che in realtà era uno specchio a due vie, installato per tenere sotto osservazione la sala delle visite. Nella stanza c'erano due persone. Una era una guardia, seduta davanti a un banco semicircolare di monitor. Anche lui era vestito di bianco; portava un grosso cinturone di cuoio bianco, una pistola automatica in una fondina bianca e una piccola radiotrasmittente. Sul monitor c'erano le immagini di locali, corridoi e porte dell'ospedale. Su alcuni schermi erano fisse, come nel caso della porta d'ingresso e dell'atrio; su altri, collegati alle telecamere comandate a distanza, le inquadrature erano in continuo movimento. Quando Michelle entrò, l'uomo le lanciò una occhiata assonnata. «L'hai lasciata sola in corsia? Non pensi che sia un'imprudenza?» «Nessun problema. Mi hanno detto di lasciarle vedere tutto quello che voleva a pianterreno.» Michelle si avvicinò a un grande terminale, davanti al quale era seduta un'altra infermiera, intenta a osservare i dati che apparivano sui quaranta schermi. Michelle si lasciò cadere su una sedia. «Ma chi diavolo conosce quella per riuscire a farsi invitare qui da sola?» chiese l'altra donna trattenendo uno sbadiglio. «Sembra un'infermiera qualsiasi. E quell'uniforme, poi! Non se la sarà cambiata da sei mesi.» «Non ho la minima idea di chi conosca. Il direttore mi ha telefonato e mi ha detto di riceverla e farle fare un giro. Avrei dovuto chiamare Herr Direktor quando fosse arrivata. Pensi che ci sia sotto qualche imbroglio?» L'altra rise. «Fammi un favore, Karen,» continuò Michelle, «chiedi al calcolatore il numero e la collocazione di Sean Berman. È uno che viene dal Memorial.» L'infermiera cominciò a battere sulla tastiera. «Al prossimo turno, davanti a questo coso ci stai tu, mentre io vado in giro. Non ne posso più!» «Volentieri. L'unico avvenimento straordinario dell'ultima settimana è stato l'arrivo di questa visitatrice. Se un anno fa qualcuno mi avesse detto che avrei badato da sola a cento malati gli avrei riso in faccia.» Uno degli schermi lampeggiò: BERMAN, SEAN. ETÀ 33, SESSO
MASCHILE, RAZZA BIANCA. DIAGNOSI: MORTE CEREBRALE A CAUSA DI COMPLICAZIONI ANESTETICHE. ESEMPLARE NUMERO 323 B4. STOP. Dall'altra parte della stanza la guardia era seduta con l'aria annoiata, osservando i monitor, come stava facendo dall'inizio del suo turno due ore prima, come stava facendo da quasi un anno. Sullo schermo numero 15 c'era l'immagine della corsia principale; la telecamera ruotava lentamente, frugando ogni angolo. I pazienti nudi e appesi non facevano nessun effetto al guardiano. Ormai si era abituato a quella scena macabra. Ed ecco che, sullo stesso schermo, apparve una panoramica della sala per i visitatori. L'uomo si alzò di scatto, fissando lo schermo numero 15. Azionò il controllo manuale e riportò la telecamera a panoramicare sulla corsia principale. «La donna non è più nella corsia principale!» esclamò. Michelle si girò verso di lui e strinse gli occhi per guardare anche lei. «No? Be', controlla la sala visitatori e il corridoio. Forse non ce l'ha fatta più a restare là in mezzo. Di solito è uno choc la prima volta.» Guardò attraverso il vetro che dava sulla sala d'aspetto, ma Susan non era neanche lì. Uno degli schermi del calcolatore lampeggiò: ESEMPLARE 323 B4 FINITO. 0310 26 FEB. CAUSA DELLA MORTE: ARRESTO CARDIACO. STOP. «Se è venuta qui per Berman, è arrivata troppo tardi,» osservò Karen cinicamente. «Nella sala visitatori non c'è,» annunciò la guardia azionando una serie di interruttori. «E nemmeno in corridoio. Non è possibile!» Michelle si alzò in piedi e andò verso la porta senza staccare gli occhi dallo schermo numero 15. «Si calmi. La troverò.» E rivolta all'infermiera del computer: «Forse sarebbe meglio richiamare il direttore. Dobbiamo sbarazzarci di questa ragazzina!» giovedì 26 febbraio ore 17.20 Appena Michelle uscì dalla corsia principale, Susan estrasse dal quaderno le fotocopie della pianta dell'istituto. Per orientarsi seguì sulla carta il percorso dall'ingresso alla corsia principale. Vide che c'erano due strade per salire al primo piano: una scala da OB e un ascensore da S. COMP P. Susan guardò la legenda nell'angolo in basso a destra. OB stava per obito-
rio, S. COMP P per sala computer principale. Decise che le scale sarebbero state più sicure dell'ascensore: nella sala del calcolatore era molto probabile che ci fosse qualcuno. Andò in fondo alla corsia, dove c'era una porta normale. Provò a girare la maniglia, e la porta si aprì. Entrò in un corridoio che le sembrò avvolto in un buio assoluto; poi si ricordò degli occhialoni. Se li tolse e li ripose nella tasca dell'uniforme. Il corridoio era uguale agli altri che aveva visto, tutto bianco con la luce che veniva da sotto il pavimento; a un capo e all'altro c'erano due specchi, che con i loro riflessi multipli lo facevano sembrare senza fine. Nessun rumore, nessuno in vista. Susan guardò la pianta: l'obitorio e le scale erano a destra. Si chiuse dietro la porta della corsia, e corse verso una porta in fondo al corridoio. Sopra non c'era scritto niente, ma almeno aveva una normale maniglia. Provò a girare; era aperta. Socchiuse la porta il più silenziosamente possibile. Vide le piastrelle del muro di fronte, quindi la parte superiore di un tavolo di acciaio inossidabile per la dissezione. Sopra c'era un cadavere, nudo. Sentì delle voci e una risata, seguita dal rumore di una bilancia. «E questo per i polmoni. Quanto dici che pesa il cuore?» «Tocca a te indovinare, adesso,» rise l'altro. Socchiudendo la porta di un altro paio di centimetri, Susan riuscì a dare un'occhiata alla testa del cadavere. Si sentì svenire. Berman! Richiuse piano piano e restò immobile, respirando profondo. Quella sosta fu di un tempismo perfetto. La telecamera piazzata dietro lo specchio finì la sua panoramica di cinque secondi nello stesso istante in cui la ragazza rientrava nel corridoio. Ne avrebbe fatta un'altra dieci secondi dopo. Susan tornò di corsa dentro alla corsia e raggiunse la porta della sala computer. Era aperta. La socchiuse di una ventina di centimetri e diede un'occhiata dentro. Grazie al cielo era deserta. Spalancò la porta, e vide un complesso incredibile di quadri di controllo, terminali, sistemi per l'immagazzinamento dei nastri. Colse un movimento con la coda dell'occhio. Alzò la testa e vide una telecamera sul soffitto. Il suo occhio si stava spostando lentamente verso di lei; Susan fece un salto indietro e richiuse la porta. Quando pensò che fosse passato, riaprì e si precipitò attraverso la sala in direzione dell'ascensore. Ma si accorse di non aver calcolato bene i tempi: la telecamera stava per inquadrarla. Si nascose dietro un quadro di controllo, appena a metà strada dalla sua meta. Di lì avanzò a balzi da un quadro di controllo all'al-
tro. Infine fece un ultimo scatto verso l'ascensore, e premette freneticamente il pulsante. Sentì la cabina mettersi in moto. La telecamera raggiunse la fine del suo arco e cominciò a tornare indietro. Susan premette ripetutamente il pulsante. La porta cominciò ad aprirsi. Diede un'occhiata alla telecamera e si infilò dentro, schiacciando subito il pulsante. La porta si chiuse. La avevano vista o no? L'ascensore era molto spazioso, quindi anche lento. C'erano solo tre pulsanti. Susan premette quello del primo piano e la cabina cominciò a salire. Secondo la pianta, le sale operatorie erano lì, dalla parte opposta, dopo un lungo corridoio. Vi si accedeva attraverso le porte 8 e 9. Appena l'ascensore si fermò e la porta si aprì, Susan restò dentro, col dito pronto sul pulsante per la chiusura della porta. Nessuno in vista. Il corridoio era simile a quelli del pianterreno, con la sola differenza che le porte erano incassate dentro a nicchie più profonde. Sui soffitti c'erano le rotaie per le carrucole. Appena la porta dell'ascensore cominciò a chiudersi, Susan uscì e si incamminò, contando mentalmente le porte che oltrepassava. D'improvviso vide un uomo con un carrello pieno di flaconi di plasma che attraversava il corridoio. Si buttò dentro una delle nicchie delle porte, ansimando. Restò in ascolto. Il rumore del carrello si attenuò. Sbirciò nel corridoio. Vuoto. Di scatto balzò verso la nona porta. Aspettò di riprendere fiato prima di socchiuderla e dare un'occhiata all'interno. Entrò. Era uno spogliatoio. In un portacenere c'era una sigaretta fumata a metà, ancora accesa. C'era una porta che dava su un bagno. Da dentro arrivava lo scroscio di una doccia. Michelle rientrò nella sala controllo. Aveva l'aria meno annoiata di prima. Le labbra erano tirate, ma gli occhi si muovevano febbrilmente. Adesso era anche lei molto nervosa, come la guardia. «Quella ragazza è letteralmente sparita. Non può essere uscita, vero?» «Impossibile. Le porte che danno all'esterno non possono assolutamente aprirsi senza che io le sblocchi da qui dentro.» L'uomo continuava a scrutare i monitor. «Sarà meglio ritelefonare alla direzione. Questa faccenda potrebbe diventare seria,» intervenne l'infermiera del terminale. «Non riesco a capire. Ci sono telecamere piazzate in tutti i punti chiave. Secondo me è dentro alla nicchia di qualche porta.» «No. Ho attraversato tutta la corsia principale e non l'ho vista. E se aves-
se preso l'ascensore?» «Il rischio c'è. Se riesce ad arrivare al primo piano, sono guai seri. Ora metto in funzione tutti i sistemi d'allarme, aziono tutti i sistemi di chiusura automatica delle porte ed elettrifico il recinto esterno. Manterrò lo stato d'emergenza finché non ci saremo messi in contatto con la direzione.» Michelle andò verso un telefono rosso. «È assurdo, veramente assurdo! Ma perché le hanno permesso di venire qui da sola?» Susan attraversò la porta che immetteva nelle sale operatorie. Qui tutto sembrava più convenzionale. La luce veniva da lampade al neon sul soffitto, accanto alle onnipresenti rotaie per le carrucole a cui erano appesi i pazienti. C'era però uno strano riflesso, come nella corsia principale, e Susan pensò che anche qui ci doveva essere una componente ultravioletta nell'illuminazione. Il pavimento era di vinile bianco, e le pareti erano ricoperte di piastrelle pure bianche. L'atrio del reparto chirurgia non era grande. Al centro c'era una scrivania. Le sale operatorie erano quattro, due da ogni lato, con in mezzo le stanze per i servizi. L'attenzione di Susan fu attratta dai suoni ovattati provenienti dalla prima sala operatoria. La porta aveva un finestrella da cui usciva della luce, e ciò faceva pensare che ci fosse un'operazione in corso. Il vetro sulla porta dell'attigua stanza di servizio era buio, quindi non doveva esserci nessuno. Con infinita cautela mise dentro la testa ed entrò. Aspettò per abituare gli occhi all'oscurità. A poco a poco gli oggetti circostanti presero forma. C'era un tavolo centrale, con sopra alcuni aggeggi che mandavano un ronzio continuo. Le pareti erano nascoste da grandi scaffali; a sinistra c'era un grande lavandino, a destra si intravedeva la forma di uno sterilizzatore. Facendo meno rumore che poteva, aprì l'armadio accanto al lavandino; ci infilò dentro le mani e constatò che c'era abbastanza spazio per nascondersi in caso di necessità. Poi si riavvicinò alla porta e ci passò sopra una mano; trovò la maniglia e bloccò la serratura. Restò in ascolto, per sentire se dalla sala operatoria uscisse qualche rumore nuovo. Guardò gli oggetti sul tavolo, al centro, ma la luce era troppo scarsa per riuscire a distinguerli. Si avvicinò in punta di piedi alla porta della sala operatoria, e osservò attraverso il vetro. Vide due chirurghi chini sopra un malato. Ma non vide l'anestesista. Non c'era nessun tavolo operatorio. Il paziente era ancora appeso all'intelaiatura metallica, ma era stato girato sul fianco, e aveva una larga incisione sui lombi. Susan poteva seguire abbastanza facilmente la
conversazione tra i due chirurghi. «Vorrei proprio sapere dov'è andato il cuore di quello di prima.» «San Francisco,» rispose l'altro. «Credo che frutterà appena settantacinquemila dollari. Non era un granché, era compatibile solo con due tipi di tessuto su quattro. Però era un ordine urgente.» «Non può sempre andar bene. Questo rene è compatibile con quattro tipi di tessuto, e ho sentito che lo daranno via per duecentomila. Inoltre potrebbero richiedere anche l'altro tra qualche giorno.» «In ogni caso non lo daremo via finché non avremo trovato un acquirente per il cuore.» «Il vero problema è trovare un tipo di tessuto che funzioni per Dallas. Offrono un milione di dollari. Il padre del ragazzo è un petroliere.» «Abbiamo trovato un tipo di tessuto adatto in un paziente che dovrà esser operato al Memorial venerdì...» Il secondo chirurgo fischiò. «Abbiamo già trovato qualcosa?» La mente di Susan cercava disperatamente di trovare qualche spiegazione per le cose che stava ascoltando; ma prima che ci riuscisse la porta del corridoio venne scossa da qualcuno che cercava di entrare. Il suo primo impulso fu di rifugiarsi nell'altra sala operatoria, che era vuota. Invece tornò di corsa verso il lavandino. La porta della sala operatoria illuminata si aprì. Si infilò nell'armadio, rovesciando alcuni recipienti. Rabbrividì. C'era pochissimo spazio per nascondersi. Nella sala si accese la luce. Susan trattenne il respiro, senza essere riuscita a chiudere del tutto la porta dell'armadio. Attraverso la fessura riusciva a vedere due contenitori di plexiglas sul tavolo. Capì che cos'era il ronzio che aveva sentito appena entrata: veniva da due apparecchi portatili a batteria, che irroravano i due contenitori. Nel primo, in sospensione in un fluido, c'era un cuore umano; vibrava, ma non batteva. Nell'altro contenitore c'era un rene, anch'esso sospeso in un liquido. Di colpo tutto quell'incubo le fu chiaro. Aveva trovato il movente, uno spaventoso movente. Il Jefferson Institute era un centro di smistamento per il traffico degli organi umani! Susan non ebbe il tempo di pensare. Un uomo oltrepassò il lavandino, sfiorando la porta socchiusa dell'armadio. Apri la porta del corridoio e tornò al tavolo. Sollevò ansimando per lo sforzo il contenitore del cuore e lo portò via, lasciando la porta aperta e la luce accesa. Susan ripercorse freneticamente tutti i particolari della vicenda: la valvo-
la della tubatura dell'ossigeno, la faccia di D'Ambrosio, l'immagine di Nancy Greenly, il cuore nel contenitore di plexiglas. Le venne in mente la conversazione che aveva udito nell'obitorio al piano di sotto, e capì che il cuore era quello di Berman. Si sentì invadere da un panico incontrollato. Doveva fuggire di lì, ma per la prima volta ebbe la certezza che non sarebbe stato tanto semplice. Quello non era un normale ospedale. La gente che ci lavorava erano autentici criminali. Doveva uscire, andare da qualcuno in grado di capire. Stark. Doveva andare da lui. Stark, tra l'altro, aveva anche abbastanza potere per intervenire. Aprì lentamente la porta dell'armadio. Restò in ascolto. Nessun rumore, a parte il leggero ronzio della pompa che irrorava il rene sul tavolo. Stava per uscire dall'armadio quando sentì dei passi in corridoio. Si strinse di nuovo nel suo nascondiglio. Un attimo dopo l'uomo rientrò nella stanza. Passò davanti al lavandino e chiuse con un calcio la porta dell'armadio. Susan lo udì sollevare il secondo contenitore. Poi i suoi passi uscirono dalla stanza e si allontanarono per il corridoio. Restò immobile per un paio di minuti prima di muoversi. Aguzzò le orecchie, ma non senti altro che una risata smorzata nella sala operatoria accanto. Si tirò fuori a fatica dall'armadio. Urtò un barattolo che rotolò per terra. Si bloccò di nuovo. Niente. Allora corse verso la porta della sala operatoria non illuminata. Intravide nell'oscurità le sagome delle lampade del tavolo operatorio. A tentoni, lentamente, cercò la maniglia della porta. La trovò e fece per metter fuori la testa. In quel preciso istante il silenzio fu rotto dal suono lacerante di un segnale d'allarme, e tutte le luci si accesero. Terrorizzata, Susan lasciò andare la porta e si girò con le spalle al muro. Qualcuno le sarebbe balzato addosso. Ma la stanza era vuota. Sotto un piccolo altoparlante cominciò a lampeggiare una luce rossa. L'altoparlante gracchiò: «Persona non autorizzata nell'edificio. Una ragazza. Prenderla immediatamente. Ripeto... persona non autorizzata nell'edificio... prenderla immediatamente.» Susan tirò un sospiro di sollievo. Sbirciò nel corridoio. Era deserto. Due guardie in uniforme bianca percorrevano in fretta la corsia principale, senza badare ai cento e più corpi appesi ai fili attorno a loro. Tutte due avevano la pistola in mano. Il più grosso ascoltò la sua radio ricetrasmittente, poi se la rimise nella cintura. «Io prendo l'ascensore nella sala com-
puter. Tu va' nell'obitorio e scendi nel settore macchine.» I due entrarono nel corridoio al di là della corsia principale. «E ricordati che gli ordini sono tassativi. Se la trovi e lei si lascia prendere, bene. Altrimenti, spara. Ma sparale nella testa. Potrebbero volere i reni e il cuore, a seconda del tipo di tessuto.» I due uomini si separarono. Il più grosso entrò nella sala del computer. Ispezionò sistematicamente la stanza, quindi chiamò l'ascensore. Susan oltrepassò di corsa la prima sala operatoria. Aprì la porta dello spogliatoio, ma sentì delle voci all'interno. Immediatamente cambiò i propri piani e si diresse verso la porta che dava sul corridoio principale. Vide su un tavolo un grosso paio di forbici. Le prese. Potevano servire come arma. Con grande sollievo constatò che il corridoio era sempre deserto. In fondo si vedeva la porta chiusa dell'ascensore. Respirò profondamente e si lanciò verso l'ascensore. Era quasi a metà strada allorché l'ascensore arrivò. Rallentò mentre la porta si apriva. Ne uscì la guardia. I due si fissarono per un attimo, stupiti. «Salve, carina, al piano di sotto vogliono parlarti.» La voce dell'uomo non era minacciosa. Cominciò ad avanzare lentamente verso di lei, tenendo la pistola dietro la schiena. Susan arretrò di qualche passo, incerta, poi si voltò e si lanciò di corsa verso il reparto chirurgia. La guardia le fu subito dietro. Disperatamente la ragazza tentò di aprire varie porte. Le prime due erano chiuse. La guardia stava per raggiungerla. La maniglia della terza porta girò, e Susan entrò, cercando di chiudersi dentro. L'uomo afferrò con la mano sinistra il battente e infilò un piede tra la porta e lo stipite. Susan spinse con tutte le sue forze, ma la guardia pesava più di novanta chili, e alla fine ebbe la meglio sullo sforzo estremo della ragazza. La porta cominciò ad aprirsi, lentamente. Tenendo la spalla e la mano sinistra contro il battente, Susan brandì le forbici come un pugnale. Con un fulmineo fendente le affondò nella mano dell'uomo. La punta delle forbici penetrò tra le nocche dell'indice e del medio. Per la forza del colpo le lame attraversarono le ossa metacarpali, lacerando i muscoli e uscendo dall'altra parte. La guardia lanciò un grido e lasciò andare la porta. Fece un salto all'indietro nel corridoio, con le forbici ancora piantate nella mano. Trattenendo il fiato e stringendo i denti, le tirò fuori.
Il sangue di un'arteria sgorgò a spruzzi, imbrattando di gocce rosse il pavimento di plastica opaca. Susan sbatté la porta e la chiuse a chiave. Poi si girò a dare un'occhiata alla stanza. Era un piccolo laboratorio, con un banco nel centro. A sinistra c'erano due scrivanie. Contro una parete c'era una fila di armadi metallici; sulla parete opposta c'era una finestra. La guardia nel corridoio si riprese a sufficienza per avvolgersi un fazzoletto attorno alla mano e arrestare l'emorragia. Passò il fazzoletto tra l'indice e il medio e lo fermò al polso. Era fuori di sé. Prese un mazzo di chiavi e cominciò a provarle. La prima entrò ma non girò. La seconda non entrò nemmeno. La terza non girava. Finalmente la quarta funzionò e la serratura si aprì. La guardia diede un calcio alla porta con tanta forza che la maniglia urtò violentemente contro l'intonaco della parete di destra. Con la pistola puntata, si lanciò dentro alla stanza e fece un giro su se stesso. Sparita! Dalla finestra aperta entrava la fredda aria di febbraio. L'uomo si sporse fuori per scrutare il cornicione. Quindi estrasse la sua ricetrasmittente. «Okay, l'ho trovata. Al primo piano, nel laboratorio dei tessuti. È un osso duro. Mi ha pugnalato, ma sono okay. È sul cornicione... No, non riesco a vederla. Il cornicione gira dietro l'angolo... No, non credo che salterà. Avete fatto uscire i Doberman? Bene. L'unico problema è che potrebbe attirare l'attenzione di qualcuno se riuscisse ad arrivare sul davanti. Okay, vado a controllare il cornicione dal lato opposto.» Si rimise la radio nella cintura e chiuse la finestra. Poi, tenendosi stretta la mano ferita, corse fuori dalla stanza. giovedì 26 febbraio ore 17.47 Il pesante pannello in vinile del soffitto stava scivolando lentamente via dalle dita di Susan, che strinse i denti per lo sforzo. Lo stava ormai sorreggendo solo con le unghie, e le mani cominciavano a cedere. Senti la guardia sotto di lei parlare nella rice-trasmittente. Se il pannello cadeva, l'avrebbe scoperta. Strinse gli occhi con tutte le sue forze per distogliere la mente dal dolore che sentiva sempre più lancinante nelle dita e negli avambracci. Stava scivolando. Stava per cadere. La guardia finì di parlare. La finestra si richiuse. Non sentì uscire l'uomo, ma alla fine il pannello cadde con un tonfo che fece vibrare tutto il soffitto. Susan restò in ascolto, mentre il sangue cominciava a formicolarle dolorosamente nelle dita intorpidi-
te. Sotto non si sentiva più nessun rumore. Tirò un profondo sospiro. Si trovava nell'intercapedine del soffitto soprastante il laboratorio. E pensare che prima della sua ispezione nelle sale operatorie del Memorial non aveva mai nemmeno sospettato l'esistenza di quel nascondiglio! Adesso, era montata lì sopra, si era salvata. Grazie a Dio l'armadio metallico su cui era montata si era rivelato abbastanza alto da permetterle di sollevare il pannello. Prese la pianta dell'edificio e cercò di esaminarla alla scarsa luce che usciva dalle connessure tra un pannello e l'altro. Ma non ci riuscì nemmeno quando i suoi occhi si furono abituati alla semioscurità. Si guardò attorno e vide una larga fessura a una decina di metri di distanza. Reggendosi ai montanti verticali della parete divisoria situata tra il laboratorio e un ufficio attiguo, si diresse verso quella fonte di luce per leggere la pianta. Voleva trovare la colonna centrale delle tubature, come quella che aveva visto al Memorial. Se era abbastanza larga, poteva essere una via di scampo. Ma sulla pianta la colonna non c'era. Notò però che vicino alla tromba dell'ascensore era segnato un piccolo spazio rettangolare. Avanzò, sempre reggendosi ai montanti, fino all'intercapedine del corridoio. Era di cemento, dato che doveva sostenere le rotaie per il trasporto dei malati, e quindi era molto più facile camminarci sopra. Puntò verso la tromba dell'ascensore. Più si avvicinava, però, più faticava a procedere, sia per la maggiore oscurità, sia per il groviglio di cavi, tubi e condotti che convergevano verso il punto a cui si stava dirigendo. Dovette andare avanti a tentoni, un passo dopo l'altro. Toccò più volte i tubi del vapore, scottandosi. Sentì l'odore della propria carne bruciata. Ed ecco la parete della tromba dell'ascensore. Susan ci girò attorno seguendo una tubatura con le mani, e vide che essa piegava verso il basso ad angolo retto. Anche altre tubature seguivano lo stesso percorso. Si sporse in avanti nel buio e vide che giù in fondo alla colonna filtrava una debole luce. Tastando con le mani misurò le dimensioni della colonna. Era larga una sessantina di centimetri. La parte in comune con la tromba dell'ascensore era di cemento. Si introdusse nella colonna, aggrappandosi con entrambe le mani a una tubatura e appoggiando la schiena alla parete di cemento. Cominciò a scendere lentamente, come un'alpinista giù per un camino di roccia. La discesa non era facile. Susan si muoveva di pochi centimetri alla vol-
ta, cercando di non toccare le tubature del vapore, roventi. Dopo un po' riuscì a distinguere i vari tubi. Guardando giù nell'oscurità, intravide alcune forme vaghe; capì di avere raggiunto l'intercapedine del pianterreno. Stava facendo progressi, e per un attimo si sentì un po' incoraggiata. Ma poi pensò che se lei aveva usato la colonna delle tubature per scendere, qualcuno poteva usarla per salire. E non aveva dubbi che chi aveva messo la valvola nella tubatura del Memorial doveva essere salito con facilità lungo la colonna analoga. Continuò a scendere. Sotto di lei la luce aumentava, e aumentava anche il rumore di apparecchiature elettriche. Si stava avvicinando al sotterraneo, e capì che lì non c'era nessuna intercapedine. Non avrebbe potuto muoversi lateralmente senza che la vedessero. Scese ancora un po', finché i suoi occhi non riuscirono ad inquadrare il pavimento del sotterraneo. Si fermò. La sala macchine e il gruppo elettrogeno erano illuminati da poche lampadine. La tubatura lungo la quale stava scendendo — apparentemente un condotto dell'acqua — continuava fino al pavimento. Ma numerose altre, più grosse di quella a cui lei si teneva, piegavano di novanta gradi e proseguivano orizzontalmente un metro sotto il soffitto di cemento, sostenute da cavi. Susan strisciò sopra una di esse. Non era un'acrobata, ma forse la sua attitudine alla danza le fu di aiuto. Avanzò accosciata lungo la tubatura, con la mano destra e la testa premute contro il cemento. All'inizio vacillò un po', poi riuscì ad assestarsi meglio. Sempre facendo pressione contro il soffitto, riuscì a camminare in equilibrio sulla tubatura. Passò sopra il gruppo elettrogeno. Era a non più di un metro dalla meta quando la investì una luce violenta. Fu lì per cadere. Qualcuno aveva acceso le luci della sala. Chiuse gli occhi, tenendo premute le mani contro il soffitto. Sotto di lei una guardia si stava muovendo lentamente tra le macchine, con una grossa torcia elettrica in una mano e una pistola nell'altra. Il quarto d'ora seguente fu il più lungo della sua vita. Si sentiva terribilmente in pericolo, esposta, con l'uniforme bianca che si stagliava contro lo scuro della tubatura e del soffitto. Le sembrava impossibile che la guardia non la vedesse. L'uomo cercò dappertutto, persino negli armadietti sotto il piano di lavoro. Ma non alzò mai gli occhi. Le mani di Susan cominciarono a tremare per lo sforzo di mantenersi in equilibrio. Poi cominciarono a tremarle le gambe, e temette che i tacchi battessero un messaggio contro la tubatura. Finalmente la guardia, soddisfatta della propria ispezione, si allontanò e spense l'illuminazione principale.
Susan non si mosse subito. Si rilassò, cercando di vincere la tensione e le vertigini. Aveva davanti una nuova intercapedine, ad appena un metro. Ma sembrava lontanissima. Spostò in avanti il piede destro di una ventina di centimetri e ci appoggiò sopra tutto il peso. Quindi fu la volta del sinistro. Braccia e gambe le facevano un male terribile. Pensò di fare un salto e lasciarsi cadere sull'intercapedine, ma temeva di fare troppo rumore. Continuò ad avanzare un passo dopo l'altro, dolorosamente, penosamente. Arrivata all'intercapedine, si lasciò andare giù sulla schiena, ansante. Sentì il sangue che ricominciava a circolare nei muscoli indolenziti. Ma non poteva permettersi di riposare troppo. Doveva trovare un modo per uscire dall'edificio. Consultò per l'ennesima volta la pianta. C'erano due strade. Una attraverso il magazzino, vicino al punto in cui si trovava adesso; l'altra era nella parte opposta dell'edificio, dietro una stanza contrassegnata con SP. Susan controllò sulla legenda. SP stava per SPEDIZIONI. Ripensò all'uomo che aveva visto portar via il cuore e il rene dal reparto chirurgia, e decise di tentare l'uscita dalla sala spedizioni, anche se era più lontana. Forse stavano per spedire quegli organi. Sapeva che gli organi per i trapianti devono essere utilizzati entro il più breve tempo possibile. Ripose la pianta e si alzò in piedi. Ormai la sua uniforme era tutta sporca e completamente stracciata. Seguì l'intercapedine sul corridoio del sotterraneo dirigendosi alla sala spedizioni. Adesso il cammino era più facile, perché c'era un po' di luce che le permetteva di non inciampare nelle tubature. Arrivò a un angolo dell'edificio. Controllando sulla pianta vide che aveva raggiunto il proprio obiettivo. Si sdraiò supina e con la massima precauzione sollevò il pannello di qualche centimetro, infilandoci sotto la punta delle dita. C'era qualcuno! Non osando lasciar ricadere il pannello per paura di far rumore, osservò l'uomo lì sotto. Era chino a un tavolo e stava riempiendo alcun moduli. Aveva un giubbotto di cuoio. Vicino a lui, posate per terra, c'erano due scatole di cartone, su cui era scritto a lettere cubitali: ORGANI UMANI PER TRAPIANTO — ALTO — FRAGILE — URGENTE. Si aprì una porta che Susan non arrivava a vedere. Comparve un secondo uomo, una guardia. «Forza, Mac. Carica questa roba e vieni via. Abbiamo del lavoro da fare.» «Io non porto via niente prima di aver compilato i moduli.»
La guardia uscì da una porta all'estremità opposta della sala. Prima che la porta si chiudesse, Susan intravide un locale che le sembrò un garage. L'autista finì di compilare i moduli e ne mise una copia in un cestello sulla scrivania. L'altra se la infilò in tasca. Sistemò i cartoni su un carrello e si avviò in garage. Susan lasciò ricadere il pannello e si spostò verso il muro dall'altra parte del corridoio. Senti il rumore dello sportello di un camion che veniva chiuso. Vicino al muro era buio, e ci passò sopra la mano, convinta di toccare del cemento. Invece sentì un pannello di vinile, disposto verticalmente. Sentì accendersi il motore. Spinse in avanti il pannello, ma era assicurato saldamente a un bordo metallico. Il motore dell'autocarro tossicchiò e si spense. L'autista riattaccò l'avviamento. Susan spinse disperatamente il bordo di metallo, e sentì che cominciava a piegarsi. Il motore si riscosse, scoppiettò, tossì, salì di giri, poi si mise al minimo. Susan sentì il fragore di una pesante saracinesca che veniva aperta. Afferrò il bordo superiore del pannello e lo tirò verso di sé. Non si mosse. Tirò di nuovo, e il pannello si staccò di colpo, facendola ricadere all'indietro. Si rialzò immediatamente e guardò il garage attraverso l'apertura verticale lasciata dal pannello. Proprio sotto di lei c'era un grosso autocarro che emetteva un'ampia nuvola di gas di scarico. La guardia era accanto all'entrata, e stava azionando il congegno d'apertura, con lo sguardo rivolto alla saracinesca che saliva. Susan saltò attraverso l'apertura e fini carponi sul tetto del camion. Il rumore dell'impatto fu coperto dal motore e dal fracasso della saracinesca. Si schiacciò a braccia e gambe aperte contro il tetto dell'autocarro, che cominciò ad avanzare. Sentì che il peso del corpo la stava facendo scivolare all'indietro. Cercò di aggrapparsi a qualcosa, ma il tetto dell'autocarro era di metallo liscio, senza nessun appiglio. Il camion salì lungo la rampa di uscita. Susan scivolò ancora più indietro. I suoi piedi scendevano veloci verso la parte posteriore del tetto, mentre cercava disperatamente di premere il palmo delle mani contro la superficie liscia. L'autocarro arrivò sulla strada, e frenò prima di svoltare a sinistra. Il corpo di Susan rimbalzò di colpo in avanti. Faceva un freddo polare. Il camion prese velocità, e Susan provò un terrore micidiale. Strisciò verso la cabina di guida e si aggrappò con le dita intirizzite alla bocca di un ventilatore. Ci fu uno scossone e il suo corpo si sollevò di alcuni centimetri, ricadendo giù di colpo subito dopo. Urtò violentemente col naso e il mento contro la superficie metallica, e perse quasi i sensi. Si rese conto solo vagamente di quello che accadde do-
po. Improvvisamente Susan tornò lucida. Sollevò la testa e si accorse che il naso e le labbra le stavano sanguinando. Si guardò attorno e riconobbe gli edifici. Era Maymarket. Ma certo, pensò, il camion si sta dirigendo verso l'aeroporto di Logan. L'autocarro si fermò a un semaforo. Il traffico era ancora intenso. Susan strisciò verso la cabina. Quando ci fu sopra, abbassò la testa contro il parabrezza e guardò l'autista. L'uomo restò di sasso, aggrappandosi al volante e fissandola incredulo. Susan mise i piedi sul parafango e saltò a terra. Si rialzò e corse via tra le macchine ferme. Riavutosi dallo spavento, aprì lo sportello e le gridò dietro qualcosa. Ma alle sue spalle iniziò un concerto di clacson. Il semaforo era diventato verde. L'autista rimise in moto il camion, e intanto pensò che nessuno avrebbe creduto alla sua storia. giovedì 26 febbraio ore 20.10 La lacera e sottile uniforme da infermiera era una ben scarsa protezione contro il freddo glaciale. C'erano 17 gradi sotto zero con un vento da nord di venticinque nodi, il che portava la temperatura a circa 20 sotto zero. Susan corse lungo i chioschi di verdura deserti di Haymarket, cercando di evitare gli scatoloni di cartone che il vento spingeva sulla sua strada. I rifiuti rallentavano la sua corsa, e ciò le ricordava l'incubo con cui era iniziata la giornata. All'angolo prese a sinistra e venne investita in pieno da tutta la forza del vento. Adesso stava cominciando a tremare; i suoi occhi battevano come se stessero trasmettendo un messaggio urgente in alfabeto Morse. Sul viale della City Hall era ancora peggio. Il disegno particolare del palazzo del governo, con le sue facciate curve e il suo ampio viale, faceva da tunnel, spingendo il vento alla massima velocità. Susan dovette piegarsi per riuscire ad avanzare sui larghi gradini. La moderna struttura della City Hall si ergeva spettrale nel buio; le sue sporgenze geometriche formavano un gioco d'ombre nere, e davano alla scena un aspetto sinistro. Aveva bisogno di un telefono. In Cambridge Street c'erano pochi altri passanti, tutti piegati in avanti, privi di faccia, contro il vento gelido. Fermò il primo: era una donna. La testa dell'estranea si sollevò, gli occhi guardarono Susan prima con incredulità, poi pieni di terrore.
«Mi servirebbe una moneta per il telefono,» disse Susan battendo i denti. La donna respinse il suo braccio e corse via senza voltarsi indietro e senza dire una sola parola. Susan diede un'occhiata alla propria uniforme. Era stracciata, sporca, macchiata di sangue. Le mani erano completamente nere, i capelli tutti scarmigliati. Si rese conto di sembrare una pazza, o nel migliore dei casi una barbona. Fermò un uomo e ripeté la domanda. Questi indietreggiò di qualche passo. Si infilò una mano in tasca e le tese degli spiccioli; anche il suo sguardo rivelava un misto di incredulità e sgomento. Le lasciò cadere le monete nella mano come se avesse paura di toccarla. Susan prese gli spiccioli. Era più di quanto aveva chiesto. «Credo che ci sia un telefono nel ristorante avanti a sinistra,» spiegò l'uomo scrutandola. «Ma si sente bene?» «Starò bene quando avrò un telefono. Grazie mille.» Le dita gelate di Susan faticavano a tenere le monete. Aveva le mani così intorpidite che non riusciva neanche a sentire il metallo contro il palmo. Corse per Cambridge Street fino al ristorante. Il caldo umido e fumoso del locale le diede un senso di conforto. Poche facce si alzarono dai piatti e fecero caso al suo strano aspetto. In omaggio all'anonimato garantito dalle grandi città americane, tutti tornarono immediatamente al loro cibo. Evitare qualsiasi coinvolgimento. Susan fu presa da un'irrazionale paranoia; i suoi occhi passarono dall'uno all'altro dei presenti, in cerca di un nemico. Il calore la faceva tremare ancora di più. Si precipitò al telefono accanto al guardaroba. Non riusciva quasi a maneggiare le monete, e la maggior parte le cadde per terra senza che ne avesse infilata una sola nell'apparecchio. Nessuno si alzò per aiutarla. L'uomo al banco, col grembiule macchiato di grasso, le lanciò Un'occhiata inespressiva. Aveva ormai fatto il callo alle stranezze delle strade di Boston. Rispose il centralinista del Memorial. «Sono Susan Wheeler e devo parlare immediatamente col professor Stark. È un caso d'emergenza. Avete il suo numero di casa?» «Spiacente, ma non possiamo dare il numero del professore.» «Ma è un'emergenza!» Susan si guardò attorno, quasi aspettandosi che qualcuno la sfidasse. «Spiacente, ma questi sono gli ordini. Se vuole lasciare il suo numero, la
farò richiamare.» Gli occhi della ragazza vagarono alla ricerca del numero. «523-8787.» Clic. Susan riappese. Aveva ancora una moneta in mano. Un tè caldo forse l'avrebbe tirata un po' su. Cercò altri spiccioli sul pavimento. Uno degli avventori si alzò e si avviò con aria assonnata verso il telefono. Stava prendendo il ricevitore quando Susan lo vide. «Mi scusi. Sto aspettando una chiamata. La prego, aspetti solo qualche istante.» Si alzò, supplicando l'uomo dalla faccia ispida. «Dolente, sorella, ma ho bisogno di telefonare.» Prese il ricevitore e alzò la mano per infilare la moneta. Per la prima volta in vita sua, Susan perse ogni barlume di controllo e di razionalità. «No!» urlò con tutta la forza dei propri polmoni. Tutte le teste nel ristorante si girarono. Con estrema decisione Susan unì le mani, con le dita intrecciate, e le alzò fulmineamente, abbattendole sull'avambraccio dell'uomo. La rapidità e la sorpresa del colpo fecero cadere ricevitore e moneta dalle mani del tizio. Sempre con le dita intrecciate, Susan vibrò di nuovo le mani in modo che i suoi colpi colpirono l'uomo alla fronte e al setto nasale, facendolo barcollare indietro verso un tavolino. Quasi al rallentatore, l'uomo scivolò a sedere, i piedi tesi in avanti. La furia inattesa dell'attacco l'aveva stordito. Non riuscì nemmeno ad accennare una reazione. Susan rimise velocemente a posto il ricevitore e ci tenne la mano sopra. Strinse forte gli occhi, pregando che il telefono suonasse. Suonò. Era Stark. Susan tentò di controllarsi, ma le parole le uscirono a fiotti. «Professore, sono Susan Wheeler. Ho le risposte... tutte. È incredibile, veramente incredibile.» «Si calmi, Susan. Cosa significa che ha tutte le risposte?» «Ho il movente. E anche il metodo.» «Susan, mi vuol far capire?» «I pazienti in coma. Non sono complicazioni accidentali. Sono state pianificate. Nell'esaminare le cartelle avevo scoperto che a tutte le vittime era stato fatto il controllo del tipo di tessuto.» Susan fece una pausa. Si ricordò che Bellows l'aveva persuasa a non attribuire significati particolari a questo fatto. «Continui, Susan.» «Io non ho attribuito significati particolari al fatto, allora. Ma adesso sì. Adesso che sono stata al Jefferson Institute.» Mentre pronunciava quel nome Susan si guardò intorno circospetta. Ora
la maggior parte degli sguardi erano puntati su di lei. Ma nessuno si mosse. Si ritirò nella nicchia vicino al guardaroba, e mise la mano a coppa sul microfono. «So che sembrerà incredibile, ma il Jefferson è un centro di smistamento del traffico di organi da trapianto. Non so per quale via, questa gente riceve ordinazioni di organi con un tipo di tessuto specifico. Allora, qualcuno dell'organizzazione fa ricerche negli ospedali di Boston finché non trova il malato adatto. Se è un paziente di chirurgia non fanno altro che aggiungere un po' di monossido di carbonio all'anestesia; se è di medicina gli somministrano una dose di succinilcolina nella fleboclisi. Il cervello della vittima viene distrutto. È praticamente un cadavere, ma i suoi organi restano vivi, caldi e sani quanto basta perché i macellai del Jefferson li asportino.» «Susan, ma è una storia incredibile!» Stark sembrava sconvolto. «Pensa di poter dimostrare questa roba?» «Questo è il problema. Se c'è un grosso casino — per esempio se la polizia entra al Jefferson per dare un'occhiata — probabilmente loro hanno un piano d'emergenza. Il posto è camuffato da ospedale per le terapie intensive. In più, sia il monossido di carbonio sia la succinilcolina vengono metabolizzati rapidamente dalle vittime, e non lasciano traccia. Il solo mezzo per sconfiggere l'organizzazione che si nasconde dietro questi delitti è che qualcuno come lei convinca le autorità a fare un'incursione a sorpresa.» «Potrebbe essere un'idea, Susan. Ma dovrei prima conoscere i particolari che l'hanno portata alle sue incredibili conclusioni. È in pericolo adesso? Posso venire a prenderla.» «No, sto bene.» Susan lanciò un'occhiata nel ristorante. «Sarebbe più semplice che venissi io da lei. Prendo un taxi.» «Bene. Ci vediamo nel mio ufficio al Memorial. Ci vado subito.» «D'accordo.» Susan stava per riappendere. «Un'altra cosa, Susan. Se quello che lei afferma è vero, la segretezza è tremendamente importante. Non dica niente a nessuno prima di aver parlato con me.» «D'accordo.» Susan riappese e con l'ultima moneta chiamò un taxi. Diede il nome Shirley Walton. La macchina arrivò in dieci minuti. Il professor Harold Stark viveva a Weston, come il novanta per cento dei medici di Boston. Aveva una grande casa Tudor che vantava anche una li-
breria vittoriana. Dopo aver parlato con Susan, posò il ricevitore del telefono che stava sulla scrivania; poi aprì il cassetto di destra e tirò fuori un secondo telefono, elettronico, coi dispositivi per il controllo di qualsiasi intercettazione. Fece rapidamente un numero, osservando il piccolo oscilloscopio nel cassetto. Tutto normale. Nella sala controllo del Jefferson Institute un uomo dalle unghie ben curate e la corporatura snella allungò la mano verso il telefono rosso che squillava. «Wilton!» gridò Stark, riuscendo a stento a controllarsi. «Per essere un tipo svelto, con buoni numeri per gli affari, sei un incapace quando si tratta di prendere giovani ragazze disarmate in un edificio che sembra una fortezza! Non capisco come tu abbia potuto farti giocare fino a questo punto! Ti avevo avvertito della ragazza da giorni.» «Non preoccuparti, Stark. La troveremo. È uscita dal cornicione ma deve per forza rientrare nell'edificio. Tutte le porte esterne sono ermeticamente chiuse, e ho dieci uomini qui adesso. Non preoccuparti.» «Non preoccuparti!» lo schernì Stark. «Lascia che ti dica una cosetta. Mi ha appena chiamato al telefono e mi ha descritto punto per punto l'intero funzionamento del nostro programma. È già fuori, pezzo di coglione!» «Fuori! Impossibile!» «Impossibile! Ma allora non capisci proprio un cazzo! Ti ho detto che mi ha appena chiamato! Che cosa credi, che stia usando uno dei vostri telefoni? Perdio, Wilton! Perché non hai provveduto?» «Abbiamo provato. Sembra che sia riuscita a sfuggire a un killer della massima fiducia. Lo stesso che si è occupato di Walters.» «Ah, un'altra bella pensata anche quella! Perché non l'avete semplicemente fatto fuori invece di fare tutta la messinscena del suicidio?» «Per fare un piacere a te. Sei tu quello che era così nervoso quando sono stati trovati i medicinali che quel vecchio pazzoide metteva via. Insomma, sei tu quello che si preoccupava che la cosa potesse mettere in moto la polizia. Non solo dovevamo liberarci di Walters, ma dovevamo coinvolgerlo con quei maledetti medicinali.» «Comunque tutta questa faccenda mi ha fatto prendere una decisione. Penso che sia ora di smontare tutta la baracca. Capito, Wilton?» «Così il gran dottore vuol tirarsi fuori, eh? Al primo accenno di guai in tre anni, vuol tirarsi fuori. Hai avuto tutti i soldi per ricostruire da cima a fondo il tuo ospedale. Hai avuto la nomina a primario. E adesso ci vuoi lasciare nella merda. Be', te la dico io una cosetta, Stark, una cosetta che ti
sembrerà dura da mandar giù. Tu non ci darai più ordini. Tu ubbidirai ai nostri. E il primo ordine è di disfarti della ragazza.» Stark si trovò in mano il ricevitore muto. Lo scaraventò giù e rimise il telefono nel cassetto. Tremava di rabbia. Dovette trattenersi per non sfasciare gli oggetti circostanti. Strinse il bordo della scrivania così forte che le dita gli diventarono bianche come il latte. Poi la sua collera cominciò a placarsi. La rabbia pura e semplice non aveva mai risolto niente, Stark lo sapeva. Doveva far ricorso a tutta la propria razionalità. Wilton aveva ragione. Susan era il primo grosso intoppo nel suo programma, in quasi tre anni. I progressi conseguiti andavano al di là dei più pazzeschi sogni di Stark. Bisognava andare avanti a ogni costo. Era la scienza medica a esigerlo. Susan doveva essere eliminata. Questo era certo. Ma si doveva anche evitare qualsiasi sospetto o allarme, specialmente da parte di gente dalla mentalità ristretta come Harris o Nelson. Stark si alzò da dietro la massiccia scrivania e camminò avanti e indietro lungo gli scaffali di libri. Stava pensando intensamente e lasciava scorrere distrattamente la mano sugli spigoli dorati di una prima edizione di Dickens. Di colpo un sorriso gli illuminò la faccia. Gli era venuta l'ispirazione. «Bellissimo... proprio quello che ci vuole!» rise forte, senza più ricordarsi della rabbia di pochi istanti prima. giovedì 26 febbraio ore 20.47 Susan si precipitò fuori dal taxi senza pagare e corse verso l'entrata del Memorial. Non aveva soldi e non voleva fare discussioni. L'autista saltò anche lui fuori dalla macchina, gridando rabbiosamente. Attirò l'attenzione di uno dei guardiani, ma la ragazza era già riuscita a entrare. Nell'atrio dovette rallentare il passo. Vide con sgomento Bellows che camminava più avanti nella stessa direzione. Si spostò in modo da allinearsi perfettamente dietro di lui e si chiese se chiamarlo o no. Ripensò che lui l'aveva convinta a non dare importanza al controllo del tipo di tessuto effettuato sui pazienti in coma. C'era la possibilità che Mark fosse uno dei colpevoli. Si ricordò anche dell'avvertimento di Stark: non farne parola con nessuno. Così, quando furono all'angolo del corridoio, lasciò andare avanti Bellows e girò verso gli ascensori ai Beard. Ce n'era uno. Entrò e schiacciò il pulsante 10.
La porta cominciò a chiudersi, nascondendo la vista dell'atrio. Proprio all'ultimissimo istante una mano afferrò il bordo della porta, fermandola. Susan fissò gli occhi sulla mano. «Dovrei dirle due parole,» esclamò l'uomo, sempre tenendo aperta la porta, mentre Susan continuava a premere il tasto di emergenza. «Prego, esca!» «Ma ho una fretta terribile. È un caso d'emergenza.» «La sala d'emergenza è su questo piano, signorina.» «Ma è un'altra cosa! Un altro genere d'emergenza!» implorò Susan. «È il genere d'emergenza che le impedisce di pagare il taxi?» «Prenda il nome dell'autista. Sistemerò tutto dopo. Sono una studentessa del terzo anno di medicina. Mi chiamo Susan Wheeler. Non ho tempo in questo momento.» «Dove sta andando a quest'ora?» il tono del guardiano era diventato quasi sollecito. «Beard 10. Devo incontrarmi con un medico. Ho fretta!» Susan schiacciò il bottone. «Chi?» chiese il guardiano. «Stark. Può telefonargli.» Il guardiano era confuso, perplesso. «Va bene. Ma si fermi in ufficio quando torna giù.» «Naturalmente,» rispose Susan, mentre l'uomo si voltava per andarsene. Contemporaneamente arrivò l'altra cabina, e Susan salì su quella spingendo da parte alcuni passeggeri che scendevano e che guardarono incuriositi il suo aspetto malconcio. Durante la salita al decimo piano Susan si appoggiò con sollievo alla parete dell'ascensore. Il corridoio aveva un aspetto totalmente diverso da come lo ricordava nel suo primo giorno d'ospedale. Le macchine da scrivere tacevano, i malati non c'erano più. Il piano era deserto. Il folto tappeto attutiva il suono dei suoi passi esitanti, mentre avanzava verso la sua meta e la sua salvezza. L'unica luce veniva da una lampada isolata, in mezzo all'atrio. Le pile di New Yorker erano accuratamente ordinate. Le facce degli antichi chirurghi del Memorial sui ritratti erano macchie d'ombra violetta. Susan si avvicinò all'ufficio di Stark e si fermò un attimo, ricomponendosi. Stava per bussare, poi spinse senz'altro la porta. Si apri. La stanza della segretaria era buia, ma la porta dell'ufficio privato era leggermente socchiusa e la luce filtrava attraverso la fessura. Susan entrò. La porta si richiuse di colpo alle sue spalle e lei si girò di scatto, in preda
al panico, come per fronteggiare un aggressore. Dovette fare uno sforzo per dominarsi e non gridare. Era semplicemente Stark che stava chiudendo a chiave. «Mi scuso per l'atmosfera drammatica, ma credo che sia meglio se non ci interrompono durante la nostra conversazione.» Sorrise. «Susan, non so spiegarle come sono contento di vederla. Dopo tutto quello che mi ha raccontato, avrei dovuto insistere per venirla a prendere. In ogni modo, è arrivata sana e salva. Pensa che l'abbiano seguita?» La reazione aggressiva di Susan si smorzò, il cuore cominciò a batterle più adagio. Deglutì. «Direi di no, ma non ne sono sicura.» «Si sieda. Sembra una reduce dalla grande guerra.» Stark la guidò verso una poltrona di fronte alla scrivania. «Penso proprio che un po' di scotch le potrebbe far bene.» Susan sentì una terribile spossatezza, mentale, fisica, emotiva, scenderle addosso. Senza rispondere, si limitò a seguirlo, respirando profondamente. Si lasciò andare sulla sedia. Non riusciva ancora a rendersi conto di tutto quello che le era successo. «Lei è una ragazza stupefacente,» disse Stark, dirigendosi al piccolo bar dall'altra parte della stanza. «Non credo.» Susan scosse il capo, esausta. «Sono solo capitata, alla cieca, dentro a una stupefacente mostruosità.» Stark prese una bottiglia di Chivas Regal. Versò con cura due bicchieri e li portò sulla scrivania. Ne porse uno a Susan. «Lei è troppo modesta.» Girò intorno alla scrivania e si sedette, senza staccare gli occhi da lei. «Non è ferita, vero?» Susan fece segno di no. Afferrò il bicchiere con mano tremante, facendo sbattere il ghiaccio. Si aiutò usando entrambe le mani. Bevve una sorsata del confortante, ardente liquore, lasciandoselo scivolare nella gola tra due profondi respiri. «Allora, Susan. Vorrei che mi spiegasse tutto per bene. Ha parlato con qualcuno dopo la nostra conversazione al telefono?» «No,» rispose la ragazza bevendo un altro sorso. «Bene, molto bene.» Stark fece una pausa, guardando Susan bere. «C'è qualcuno oltre lei che ha idea di questa storia?» «No. Nessuno.» Lo scotch era deliziosamente caldo dentro di lei, e Susan cominciò a sentirsi invadere da un senso di calma. Il suo respiro cominciò a rallentare fino alla normalità. Guardava Stark al di sopra del bicchiere. «Okay. Adesso mi dica: perché pensa che il Jefferson Institute sia un
centro di traffico per organi da trapianto?» «Li ho sentiti parlare. Ho persino visto coi miei occhi le scatole per la spedizione degli organi.» «Ma, Susan, è assolutamente normale che un ospedale pieno di pazienti in coma sia una fonte di organi da trapianto.» «Può darsi. Ma il fatto è che la gente coinvolta in questa storia è la stessa che ha portato alcuni di quei pazienti allo stato comatoso. Inoltre, quelli dell'istituto vendono questi organi. Li vendono per un sacco di soldi.» Aveva gli occhi pesanti, e lottò per non chiuderli. Si sentiva invadere da una specie di torpore. Era sfinita, ma si raddrizzò ancora di più sulla poltrona. Prese un'altra sorsata di scotch e cercò di non pensare a D'Ambrosio. Lei almeno era al caldo. «Susan, lei non finisce di stupirmi. Insomma, è stata laggiù solo per pochissimo tempo: come ha fatto a scoprire tante cose così in fretta?» «Avevo le piante dei vari piani dell'istituto. Indicavano delle sale operatorie, e invece l'infermiera che mi faceva da guida ha negato che ce ne fossero. Allora ho controllato di persona. E tutto mi è diventato chiaro.» «Molto brava.» Stark chinò la testa verso Susan, con aria ammirata. «E l'hanno lasciata andare? Avrei detto che preferissero farla rimanere.» Sorrise di nuovo. «Sono stata fortunata. Molto fortunata. Me ne sono andata insieme a un cuore e a un rene diretti a Logan.» Soffocò uno sbadiglio, cercando di nasconderlo a Stark. «Questo è molto interessante, Susan, e per me è più che sufficiente. Ma... lei merita un elogio. Ciò che lei ha fatto in questi ultimi giorni è un saggio di chiaroveggenza e perseveranza. Ma lasci che le faccia qualche altra domanda. Mi dica...» Stark congiunse le mani e ruotò la sua poltrona in modo da vedere fuori le acque scure del porto. «Mi dica se a suo parere potrebbe esserci qualche altro movente per questa operazione che lei ha così abilmente scoperto.» «Vuol dire un movente diverso dal denaro?» «Sì, diverso dal denaro.» «Mah, è un buon sistema per disfarsi di gente che dà fastidio.» Stark rise. A Susan parve una risata fuori luogo. «No, intendo dire un beneficio reale. Può pensare a qualche beneficio che non sia finanziario?» «Penso che chi riceve gli organi abbia un certo beneficio, purché non sappia in che modo l'organo è stato ottenuto.»
«Dico un beneficio più generale. Un beneficio per la società.» Susan tentò di nuovo di pensare, ma ormai gli occhi le si chiudevano. Si raddrizzò di nuovo. Beneficio? Osservò Stark. La conversazione stava diventando dispersiva, strana. «Professor Stark, non credo che questo sia il momento di...» «Coraggio, Susan. Mia cara, prova a pensarci. Hai fatto un lavoro davvero meraviglioso scoprendo questa faccenda. Prova a pensare. È importante.» «Non ci riesco. È un tale orrore che faccio fatica anche solo a prendere in considerazione la parola beneficio.» Le sue braccia cominciavano a farsi più pesanti. Scosse la testa. Per un secondo pensò che si sarebbe veramente addormentata. «Mi stupisco di te, Susan. Vista l'intelligenza di cui hai così largamente dato prova in questi ultimi due giorni, credevo che saresti stata una dei pochi a vedere l'altro lato della faccenda.» «L'altro lato?» Susan chiuse gli occhi, poi li spalancò, sperando che restassero aperti. «Esattamente.» Stark ruotò di nuovo la sua poltrona verso la ragazza, chinandosi e posando in avanti le braccia sulla scrivania. «A volte ci sono situazioni in cui... come dire... in cui non si può contare sulla gente comune per decisioni che produrranno benefici a lungo termine. L'uomo comune pensa solo ai bisogni immediati e alle esigenze personali.» Stark si alzò e andò lentamente fino all'angolo della stanza in cui le pareti di vetro si congiungevano. Guardò fuori il grande complesso medico che lui aveva contribuito a costruire. Susan era incapace di muoversi. Faceva fatica persino a girare la testa. Non si era mai sentita così pesante, così sfibrata. «Susan,» esclamò Stark di colpo, voltandosi di nuovo verso di lei, «tu devi renderti conto che la medicina è sulla soglia della più grande rivoluzione della sua lunga storia. La scoperta dell'anestesia, la scoperta degli antibiotici... tutte queste conquiste che hanno fatto epoca impallidiranno davanti al prossimo, gigantesco passo. Stiamo per svelare il mistero dei meccanismi immunologia. Presto saremo in grado di trapiantare tutti gli organi umani che vorremo. La paura del cancro diventerà un pallido ricordo. La malattie degenerative, traumatiche... il campo è infinito. «Ma a queste scoperte non si arriva facilmente. Ci vogliono lavoro e sacrificio. E c'è un prezzo. Abbiamo bisogno di istituti di prim'ordine, come il Memorial e le sue strutture. Poi abbiamo bisogno di persone come me,
come Leonardo da Vinci, capaci di vincere l'ottusità delle leggi pur di assicurare il progresso. Che cosa sarebbe accaduto se Leonardo da Vinci non avesse disseppellito i cadaveri per sezionarli? O se Copernico non avesse rovesciato le leggi e i dogmi della chiesa? Dove saremmo oggi? Quello che ci occorre perché la grande scoperta sia effettiva sono dati, dati concreti. Susan, tu hai una mente capace di apprezzare tutto questo!» Nonostante la nube che stava scendendo a oscurarle il cervello, Susan cominciò a capire le parole di Stark. Tentò di alzarsi, ma non riuscì nemmeno a muovere un braccio. Si sforzò, ma finì solo per far cadere sul pavimento quel che rimaneva del suo bicchiere. I cubetti di ghiaccio si sparsero tutt'intorno. «Capisci quello che sto dicendo, Susan? Penso di sì. Il nostro sistema legislativo non è adeguato per sopperire ai nostri bisogni. Mio Dio, non possono decidere di mettere fine alla vita di un paziente neanche dopo che si è stabilito con assoluta certezza che il suo cervello si è tramutato in una pappa inanimata. Come può la scienza progredire con un handicap di queste proporzioni? «Ora, Susan, voglio che tu rifletta attentamente. So che è un po' difficile per te pensare in questo momento, ma devi provarci. Voglio dirti qualcosa e voglio la tua risposta. Sei una ragazza molto, molto brillante. Evidentemente sei una della... come dire? élite. Sembra una frase fatta, ma tu sai quello che intendo. Noi abbiamo bisogno di persone come te. La gente che dirige il Jefferson Institute è dalla nostra parte. Capisci che cosa vuol dire, la nostra parte?» Stark fece una pausa, guardando Susan. Lei lottava con tutte le sue forze per tenere le palpebre sollevate sopra le pupille. «Che cosa mi rispondi, Susan? Sei disposta a dedicare il tuo brillante cervello al bene della società, della scienza e della medicina?» La bocca della ragazza articolò alcune parole, ma vennero fuori in un sussurro. La sua faccia era priva di espressione. Stark si chinò in avanti per sentire. Dovette portare la testa a pochi centimetri dalle sue labbra. «Dillo di nuovo, Susan. Riuscirò a sentire, se lo dici di nuovo.» La bocca di Susan lottò ancora per portare il labbro inferiore contro quello superiore e formare la prima consonante. Fu come un gemito. «Crepa, pazzo fot...» La testa le cadde all'indietro; dalla bocca aperta il respiro venne fuori con profonda, sonora regolarità. Stark osservò per un po' il corpo drogato della ragazza. La sfida di Susan lo faceva imbestialire. Ma dopo qualche istante di silenzio la sua reazione
si stemperò in delusione. «Susan, quel tuo cervello ci sarebbe servito molto,» scosse lentamente la testa. «Forse, però, potrai ancora esserci utile.» Alzò il telefono e chiamò il pronto soccorso. Chiese del medico di guardia. giovedì 26 febbraio ore 23.51 La stanza di guardia dei chirurghi interni al Memorial era piuttosto scarsa in fatto di comfort. C'erano un letto, un letto d'ospedale, che poteva venir piegato in una quantità di interessanti posizioni, una piccola scrivania, un televisore che prendeva due canali purché ci si accontentasse di immagini sdoppiate, e una collezione di vecchie copie strappate e sporche di Penthouse. Bellows era al proprio tavolo; cercava di leggere un articolo dell'American Journal of Surgery, ma non riusciva a concentrarsi. La sua mente, o meglio la sua coscienza, funzionava in una maniera anormalmente irritante. Continuava a ricordargli l'apparizione di Susan, poche ore prima. Mark l'aveva vista entrare al Memorial. Sapeva che era alle sue spalle, e si aspettava che lo fermasse. Si era stupito che non l'avesse fatto. Mark non aveva guardato Susan direttamente, ma aveva potuto vedere i suoi capelli arruffati, il suo vestito insanguinato e stracciato. Aveva sentito un'immediata preoccupazione, ma nello stesso tempo una decisa propensione a lasciar perdere. Era in gioco la sua posizione al Memorial. Se Susan aveva bisogno di aiuto medico, era venuta nel posto giusto; se invece aveva bisogno di aiuto psicologico, sarebbe stato meglio che si vedessero fuori dall'ospedale. Ma Susan non gli aveva neanche telefonato. Ora Bellows aveva appena saputo che Susan era stata ricoverata, e che era lo stesso Stark a occuparsi di lei. Sapeva anche che Susan era registrata per un'appendicectomia. L'operazione l'avrebbe fatta Stark in persona. Dapprima Bellows aveva pensato di assistervi lui. Poi la prudenza gli aveva suggerito che la sua scarsa obiettività nei confronti della ragazza sarebbe stata un ostacolo in sala operatoria. Così aveva deciso di mandare un collega più giovane e di aspettare fuori. Guardò il suo orologio: quasi mezzanotte. Avrebbero cominciato l'intervento di lì a dieci minuti. Tentò di tornare all'articolo del Journal, ma c'era anche un'altra cosa che lo preoccupava. Guardò fuori dalla finestra buia, assorto. Poi prese il telefono e chiese in che sala era fissata l'operazione. «Numero 8, dottor Bellows,» rispose l'infermiera di servizio.
Bellows posò il ricevitore. Curioso. Susan gli aveva detto di aver trovato la valvola a T nella tubatura dell'ossigeno in quella sala, quella stessa in cui tante cose erano andate male. Bellows guardò di nuovo l'orologio. Di scatto si alzò. Aveva fame. Si infilò le scarpe e si avviò al bar. Ma la valvola a T gli ronzava nella testa. Entrò nell'ascensore e schiacciò il bottone numero 1 per il bar. A metà discesa cambiò idea e schiacciò il numero 2. Avrebbe dato lui stesso un'occhiata a quella valvola a T dell'ossigeno, mentre Susan veniva operata. Era sicuramente una stupidaggine, ma decise di farlo ugualmente. Se non altro per mettersi in pace la coscienza. Una fantasmagoria di immagini geometriche, di colore e di movimento, emerse dal buio, allargandosi gradualmente. Le immagini geometriche si urtavano, si scomponevano, si ricombinavano in forme assurde. In quella confusione, l'immagine di una mano trafitta da un paio di forbici precedeva una sequenza di caccia. La camera mortuaria del Memorial apparve con un realismo addirittura uditivo e olfattivo. Una scala a chiocciola comparve in primo piano, poi un corridoio e la faccia di D'Ambrosio che sogghignava sadicamente e si avvicinava sempre più. Poi la faccia di D'Ambrosio si disintegrò ed egli cadde nel baratro girando su se stesso. Il corridoio ruotava come un caleidoscopio. Susan riprendeva coscienza a stadi fluttuanti. Finalmente si rese conto di stare guardando un soffitto, il soffitto di un corridoio che si muoveva. No, era lei che si muoveva. Provò ad alzare la testa ma sembrava pesante una tonnellata. Provò a muovere le mani. Anch'esse erano incredibilmente pesanti, e le ci volle tutto il suo impegno solo per alzarle appena facendo leva sui gomiti. Era sdraiata sulla schiena, e avanzava lungo un corridoio. Cominciarono a sentirsi dei suoni. Voci... ma erano inintelligibili. Qualcuno le afferrò le mani e gliele spinse giù lungo i fianchi. Ma lei voleva alzarsi. Voleva sapere dov'era. Voleva sapere che cosa le era successo. Si era addormentata? No, era stata drogata. Di colpo lo seppe. Lottò per liberarsi da quella morsa. La sua mente cominciò a schiarirsi. Riusciva a capire quello che dicevano. «È un'appendicectomia. Apparentemente molto urgente, anche. Ed è una studentessa in medicina. Avrebbe anche potuto avere il buon senso di farsi vedere prima.» Un'altra voce, più profonda della prima: «Ho sentito dire che aveva chiamato stamattina presto l'ufficio del preside. Evidentemente sapeva che
qualcosa non andava. Magari aveva paura di essere incinta.» «Forse hai ragione. Invece il test è stato negativo.» La bocca di Susan cercò di articolare delle parole ma non riuscì a emettere nessun suono. Si accorse che poteva muovere la testa da una parte e dall'altra. L'effetto della droga si stava esaurendo. Poi il movimento si fermò. Susan riconobbe il posto. Era nella sala disinfezione. Un chirurgo si stava lavando. «Vuole uno o due assistenti, signore?» chiese una delle voci alle spalle della ragazza. L'uomo al lavabo si voltò. Indossava berretto e maschera. Ma Susan lo riconobbe. Era Stark. «Basta uno per una semplice appendicite. In venti minuti ho finito.» «No, no!» gridò Susan, senza voce. Solo un poco d'aria sibilò tra le sue labbra. Poi cominciarono a spingerla verso la sala operatoria. Vide la porta aprirsi. Vide il numero sopra la porta. Stanza numero 8. La droga stava sparendo. Susan poteva alzare la testa e il braccio sinistro. Vide le enormi lampade della sala operatoria. Il bagliore le diede le vertigini. Doveva alzarsi... scappare. Braccia robuste la afferrarono alla vita, alle caviglie e alla testa. Sentì delle mani infilarsi sotto di lei, sollevarla e spostarla sul tavolo operatorio. Alzò la mano sinistra per afferrarsi a qualcosa. Trovò un braccio. «Vi prego... no... io sono...» le parole venivano fuori lentamente, quasi inudibili dalla gola di Susan, che tentava di tirarsi su. Un braccio energico le si appoggiò sulla fronte, premendole indietro la testa. «Non si preoccupi, andrà tutto bene. Faccia solo qualche respiro profondo.» «No, no,» implorò Susan. La voce era appena un po' più forte. Ma una mascherina le piovve sulla faccia. Sentì un improvviso dolore nel braccio destro. La fleboclisi. Il liquido cominciò a colarle nella vena. No. No. Tentò di scuotere la testa da una parte all'altra, ma ormai la tenevano inchiodata. Guardò in su e vide una faccia mascherata. Gli occhi fissavano i suoi. Vide un flacone da fleboclisi con le bolle di liquido che danzavano. Vide qualcuno infilare una siringa nel tubo della fleboclisi. Il Pentothal! «Andrà tutto bene. Si rilassi. Respiri profondo. Andrà tutto bene. Si rilassi. Respiri profondo...»
Nella sala numero 8, alle 0.30 di quel 27 febbraio, l'atmosfera era particolarmente tesa. L'interno più giovane era terribilmente impacciato; lasciava cadere pinze e aggrovigliava fili. La presenza e la fama di Stark erano troppo per il novellino, soprattutto dopo che la cordialità iniziale si era esaurita. La scrittura dell'anestesista era più illeggibile del solito mentre dava i tocchi finali al suo rapporto. Voleva solo che questo caso finisse, e le improvvise irregolarità cardiache della paziente nel bel mezzo dell'operazione l'avevano molto innervosito. Ma ancor peggio era stata la chiusura della valvola nel tubo dell'ossigeno sulla parete. Nei suoi otto anni di attività era la prima volta che l'ossigeno veniva a mancare. Era ricorso prontamente alla bombola di emergenza, ed era pressoché sicuro che non ci fossero state alterazioni nella quantità d'ossigeno somministrata. Ma l'esperienza era stata spaventosa. Quella donna sarebbe potuta morire. «Quanto manca?» chiese l'anestesista, posando la penna. «Cinque minuti e ho finito,» rispose Stark, facendo scorrere un nodo con le dita esperte. Anche Stark era nervoso. L'assistente se ne accorgeva benissimo, e credeva di esserne lui la causa. Ma Stark era nervoso perché sapeva che qualcosa non andava. La valvola dell'ossigeno non avrebbe dovuto fallire. Ciò significava che la pressione del gas era caduta a zero nella tubatura principale. Dell'equipe chirurgica, solo Stark sapeva che le irregolarità cardiache della paziente significavano che aveva ricevuto monossido di carbonio con l'ossigeno del tubo principale. Ma quando la fonte di ossigeno era venuta meno, lui non poteva essere sicuro che la ragazza avesse ricevuto il gas mortale in dose sufficiente per i suoi scopi. E poi c'erano stati quei suoni soffocati che avevano fatto uscire le infermiere libere a controllare nel corridoio. Ma Stark sapeva che i rumori venivano dall'alto, dall'intercapedine sopra il soffitto. Ma non era tutto. Mentre Stark effettuava l'ultima sutura esterna, i suoi occhi colsero un intenso movimento nel corridoio attraverso il vetro della porta del reparto chirurgia. Il corridoio sembrava pieno di gente, e alle 0.35 la cosa era a dir poco insolita. Stark finì la sutura e lasciò cadere il porta-aghi nel vassoio dei ferri. Mentre sollevava le estremità per legare il nodo, la porta del reparto si spalancò e Stark vide quattro persone avanzare nella stanza. C'era anche Mark Bellows. Gli inattesi visitatori portavano camici chirurgici, e Stark sentì il cuore
andargli più in fretta appena si rese conto che la maggior parte dei nuovi arrivati indossavano sotto i camici uniformi blu. Un silenzio mortale pesava nella sala. Ma mentre Stark si raddrizzava dal tavolo operatorio, sapeva che c'erano guai. C'erano grossi guai. Nota dell'autore Questo romanzo è stato concepito come opera di fantasia, ma non è fantascienza. Le sue implicazioni sono spaventose perché sono possibili, forse anche probabili. Ecco un'inserzione apparsa sul Tribune di San Gabriel (California) il 9 maggio 1968, colonna 4: Avete bisogno di un trapianto? Un uomo vende qualsiasi parte del corpo, dietro compenso economico, a persone che necessitino di un'operazione. Scrivete a Casella 1211-630, Covina. L'inserzionista non specificava quale organo o quali organi, e neanche dal corpo di chi potevano provenire. E ci sono state altre inserzioni, molte altre, in vari giornali e in varie parti del paese. Persino offerte precise di cuori da parte di gente viva! Per quanto macabre queste inserzioni possano apparire, non dovrebbero sorprendere troppo. Ci sono molti precedenti. Il sangue, che può essere considerato come un organo, è normalmente comprato e venduto; e c'è un commercio di liquido seminale, che, sebbene non sia un organo, è il prodotto di un organo. Altri organi sono stati comprati e venduti. Nel 1930, un ricco italiano comprò un testicolo da un giovane napoletano e se lo fece trapiantare. Negli ultimi anni ci sono stati episodi di famiglie che hanno rifiutato di donare i reni a parenti moribondi e hanno cercato e pagato donatori volontari. Non sono stati casi frequenti, ma ci sono stati. Il problema maggiore, il pericolo, nasce semplicemente dalla scarsità. Oggi ci sono migliaia di persone che aspettano reni e cornee. La ragione per cui questi organi sono particolarmente ambiti è che sono stati quelli finora più frequentemente trapiantati con successo. Grazie agli apparecchi per la dialisi, i potenziali riceventi di reni (alcuni di essi, altri vengono lasciati morire per la scarsità di apparecchiature, di personale, di fondi) possono esser tenuti in vita; ma le loro vite sono ben lontane dalla normalità. In molti casi essi rasentano la disperazione, tanto che nei centri di dialisi renali si parla della cosiddetta «sindrome da vacanza». Il che significa che
quando si avvicina un weekend, il morale dei pazienti si risolleva nell'aspettativa di un maggior numero di incidenti d'auto, e di vittime che possano fornire gli organi ansiosamente attesi e disperatamente necessari. La tragedia di questa situazione è che la soluzione del problema sarebbe già alla nostra portata. La tecnologia medica è ormai giunta a un tale livello che circa il sette per cento dei reni dei cadaveri sono adatti al trapianto (la cifra è molto più alta per le cornee) se tolti dal corpo del donatore entro un'ora dalla morte. Ma invece di essere usati per questo nobile scopo, tali organi vengono regolarmente consegnati ai vermi o alle fiamme dei forni crematori. In ogni modo, la maggior parte degli Stati Uniti, se non tutti, ha ora approvato l'Atto di Donazione Anatomica. Questa legge ha contribuito a provvedere di cadaveri le scuole di medicina (il cui rifornimento era già quasi adeguato) ma non a rettificare il triste bisogno di organi «vivi» a scopo di trapianto. È stata avanzata una proposta alternativa, per cui tutti gli organi di cadaveri sarebbero immediatamente disponibili per salvare vite umane, a meno che il defunto o il suo parente più prossimo non abbia opposto un rifiuto preventivo. Ma ahimè, le ruote del cambiamento girano con lentezza esasperante, e i potenziali ricevitori di organi vengono lasciati morire mentre gli organi che avrebbero potuto salvarli marciscono nel terreno. Restano aperte drammatiche domande, come un'accettabile definizione della morte e dei diritti legali di un individuo dopo la morte. Ma queste difficoltà non dovrebbero impedire una soluzione della deplorevole abitudine di sprecare preziose risorse umane. Il problema della scarsità degli organi rappresenta solo un esempio clamoroso dell'incapacità della società in generale e della medicina in particolare di anticipare le diramazioni sociali, legali ed etiche di un'innovazione tecnologica. Per qualche inesplicabile ragione, la società aspetta fino all'ultimo prima di mettere insieme i vari pezzi e tirar fuori un senso dal caos. E nel caso del trapianto di organi, l'incapacità di riconoscere i problemi e di mettere in atto appropriate soluzioni aprirà certo il vaso di Pandora, con innumerevoli, imprevedili possibilità: Stark e compagni, nel mio romanzo, suggeriscono soltanto alcune ipotetiche, esecrabili aberrazioni. Un'ultima parola sulle donne nella medicina. Devo ammettere che la ricerca che ho fatto sull'argomento (non c'è molto materiale disponibile) mi ha indotto a mutare le mie opinioni. Adesso io ho una più alta considerazione per le donne che fanno il medico e per le donne che studiano medicina. Riconosco che il loro tirocinio è molto più difficile e stressante di
quello dei loro colleghi maschi. Le cose stanno migliorando sotto questo aspetto, ma a passo di lumaca. Robin Cook agosto 1976 FINE