RUGGERO MARINO
CRISTOFORO COLOMBO L'ULTIMO DEI TEMPLARI
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RUGGERO MARINO
CRISTOFORO COLOMBO L'ULTIMO DEI TEMPLARI
Rai Eri SPERLING & KUPFER EDITORI MILANO CRISTOFORO COLOMBO - L'ULTIMO DEI TEMPLARI Proprietà Letteraria Riservata © 2005 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. ISBN 88-200-3987-7 95-1-06 Prima Edizione Elettronica a cura di Hammurabi III EDIZIONE
La Sperling & Kupfer Editori S.p.A. potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un quindicesimo del presente volume. Le richieste vanno inoltrate all'Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell'ingegno (AIDRO), via delle Erbe 2, 20121 Milano, tel. e fax 02809506. A Gianni Letta Agli uomini e alle donne capaci di un sogno. «Perché la verità trionfa sempre» «Che io non resti confuso in eterno» CRISTOFORO COLOMBO
Premessa L'AMERICA fu scoperta da Cristoforo Colombo, il 12 ottobre del 1492. Da quella data, che cambiò il mondo, ha inizio l'era moderna. Il marinaio, di poveri natali, considerato genovese, era partito da Palos il 3 agosto dello stesso anno. Il tutto grazie all'aiuto e ai finanziamenti concessi dai regnanti di Spagna, Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia. Colombo era finalmente riuscito a convincerli a finanziare la sua impresa, dopo lunghi anni di insistenze. Nel primo viaggio, Colombo salpò con tre caravelle: la Niña, la Pinta e la Santa Maria, con le quali attraversò l'Atlantico, in poco più di un mese. Al ritorno, nei primi mesi del 1493, il papa, lo spagnolo Alessandro VI, Rodrigo Borgia, assegnò le nuove terre ai sovrani spagnoli. Colombo fece quattro viaggi nelle Americhe. Morì nel 1506, senza avere mai ben compreso dove fosse sbarcato, convinto che quei territori facessero parte dell'Asia. Il nome America fu dato al Nuovo Mondo in omaggio alle spedizioni del fiorentino Amerigo Vespucci. Questa è la storia, che viene tramandata da oltre cinquecento anni. Ma i fatti non andarono esattamente così. La storia fu cambiata. È giunto il momento di rovesciarla come un'antica clessidra, lo strumento che segnava il tempo per i naviganti. Questo libro, dopo quelli del 1991 e del 1997, costituisce la prima parte di un nuovo lavoro che va avanti ormai da quindici anni ed è già in gran parte concluso. In una ricostruzione degli eventi che si ripropone di affrontare, una volta completata l'intera pubblicazione, la secolare questione dalle più diverse angolazioni. La presente parte dell'indagine si muove, pertanto, lungo i percorsi di una incredibile controstoria. In relazione a precedenti esplorazioni, che oscillano fra realtà e leggenda, alle mappe del mistero, al panorama politico che precedette la prima spedizione ufficiale di Cristoforo Colombo e al pontificato di Giovanni Battista Cybo, Innocenzo VIII, lo «sponsor» dell'operazione America. In un crescendo di sorprendenti rivelazioni. Di carattere storico e geografico. Cercando di procedere attraverso due assi portanti di ricerca: verità e giustizia, per quanto possibile allo stato attuale dei fatti e sia pure in un labirinto dalle molte porte, che potrebbero comportare anche inevitabili errori, di cui chiediamo in anticipo scusa al lettore. In nome, ripetiamo, di quella giustizia e di quella verità che Colombo invocava, in una sua commovente lettera, inviata quando, durante il quarto viaggio, si trovava, abbandonato e malato, in Giamaica. Poiché giustizia non è stata fatta. Poiché la verità, per quanto possa sembrare inverosimile, è stata cancellata e oscurata per ben cinque secoli. Da quando Oriente ed Occidente, l'Islam e la Cristianità, si disputavano il dominio del mondo, né più né meno come oggi. In una vicenda che sembra riproporsi in maniera inquietante, perché il nostro presente ha radici più che mai vive in quel passato, che vide Cristoforo Colombo eroico protagonista. Allora, grazie a lui, l'Occidente prevalse. Il mondo si completò. E l'umanità cambiò rotta.
R.M.
Carità, verità, giustizia «...E la retta intenzione con cui venni al servizio delle Vostre Altezze e l'ingiuria senza pari di cui mi si è fatto segno non permettono, per quanto lo voglia, alla mia anima di tacere. Supplico le Vostre Altezze di concedermi perdono. «Io, come dissi, mi sento perduto e disfatto. Sino al presente, ho pianto per gli altri. Il cielo si muova a compassione e pianga la terra per me. Per quanto tocca il temporale, non m'è rimasta una 'bianca' da dare in elemosina; per quanto lo spirituale, son rimasto qua nelle Indie, nel modo che ho detto: solo nella sofferenza, infermo, in attesa giorno dopo giorno della morte, assediato da selvaggi senza numero e crudelissimi e nostri mortali nemici, senza potermi accostare ai Santi Sacramenti e alla Santa Chiesa, che certo si perderà quest'anima se qui le capiterà di separarsi dal corpo. Pianga per me chi nutre carità nel suo cuore, e verità, e giustizia. Io non feci questo viaggio per guadagnare e aumento di sostanze, ché la speranza di ottenere era già morta. Io venni alle Vostre Altezze con buoni propositi e grandissimo zelo: non mento. Supplico umilmente le Vostre Altezze affinché, se così piacerà a Dio, mi si tragga di qui; vogliano acconsentire acché io vada a Roma e compia altri pellegrinaggi ancora. La cui vita e altissimo stato la Santa Trinità conservi e aumenti. «Scritta nelle Indie, isola di Giamaica, il sette di giugno del millecinquecento tre». CRISTOFORO COLOMBO
1 - La caduta di Costantinopoli TRE agosto 1492. Tre caravelle,1 tre navi come tre navate. Tre alberi come tre croci. Nel nome della Santissima Trinità. Nel nome della Santa Maria. Il Nuovo Mondo cominciò così. In un'alba d'oro e di speranza. Ma, come per un triste presagio, l'orizzonte si inondò di rosso. Il sangue che verseranno gli indios innocenti. La parabola dell'era moderna, che ancora ci accompagna, si aprì nel segno del simbolo. Si era incarnato in un uomo dal nome Cristoforo Colombo. Nel numero perfetto: il 3. «Il tre è un numero che porta ad una nuova integrazione. Che non nega la precedente separazione, bensì la supera. Proprio come il bambino costituisce un terzo elemento di congiunzione tra il genitore maschile e il genitore femminile.»2
Un mondo nuovo e con lui «il bambino», l'uomo nuovo, si annunciavano. Sarebbe dovuto nascere, all'insegna del regno di Dio. Nella Terra promessa. Nel crogiuolo della Grande Opera. La tradizione si sposava alle novità incredibili che affioravano sull'onda del Rinascimento. In vista del nuovo avvento, della Resurrezione. La «scoperta» dell'America fu il sogno più convinto di unire fisicamente e spiritualmente, in tutti i sensi, l'Oriente e l'Occidente, il sole e la luna, di spezzare il ciclo negativo delle vicende umane. Per mezzo della voce divina delle stelle e di un oro, non solo materiale. L'umanità cresceva, passato e presente, come i due emisferi gemelli, si ricongiungevano nel tempo e nello spazio. Non era il sogno di un semplice marinaio, di un grande navigatore nelle cui vele spirava il vento di Roma. Era anche il disegno segreto della rinascenza. Dell'Europa cristiana, della città eterna, del Vaticano. Oltre che di un papa che, fin dall'inizio, abbiamo chiamato, come vedremo ancora, il papa «sponsor», il papa desaparecido, il papa tradito: Giovanni Battista Cybo, Innocenzo VIII.3 Un cronista del XVI secolo, Francisco Lopez de Gòmara, 4 ha scritto che la scoperta dell'America ha rappresentato, per l'umanità, l'evento più importante, nel cammino della storia, dopo la nascita di Cristo. Alla luce di quanto è accaduto in seguito e della realtà politico-economica del pianeta Terra, non si può non concordare con quella lontana affermazione. A distanza di millecinquecento anni, dalla nascita di Gesù, la nave della Chiesa si rimetteva in cammino. La guidava la nao che portava il nome della madre del Messia. La «Stella maris» di un mare azzurro spiegato come un manto di Madonna. La guidava un uomo segnato dal destino e dal nome. Eppure, nella secolare tradizione, che ha «codificato» l'avvenimento, da quel fatidico 12 (la somma è ancora 3) ottobre del 1492 (la somma è un altro numero perfetto, il 7), si è finito con il guardare al primo ed ai successivi viaggi di Cristoforo Colombo come all'impresa di un solitario visionario. Di un controverso esperto del mare. Di un avventuriero pieno di coraggio e fortunato oltre i suoi molteplici errori. Per di più l'ideazione, la coralità del progetto e della sua esecuzione, oltre al perfetto tempismo, dato il particolare momento storico, si sono ridotte alla tenacia ardimentosa di un «signor nessuno». Ad un calcolo del tutto sbagliato, ad «una scoperta per caso». Anche se di scoperta non si può proprio parlare. Il termine giusto non è nemmeno quello, farisaico e ipocrita, di «incontro», coniato nel 1992, per la ricorrenza dei cinquecento anni. Nella speranza di superare in qualche modo le polemiche della conquista. Il termine esatto è quello di «rivelazione». Della quale Colombo è lo s-velatore-s-copritore. Nell'ufficializzazione di una realtà, che ormai era considerata indilazionabile, sperimentata e certa, non soltanto nel mondo cristiano, in una disputa geopolitica nella quale Colombo fu in qualche modo l'ultimo rispetto al passato. Certamente il primo rispetto al futuro. Il definitivo. L'America, come sempre si è sostenuto, fu un fenomeno di serendipity?5 Eppure nulla, nemmeno il minimo particolare, fu in quell'impresa frutto del caso.
La «scoperta» dell'America non riguarda, peraltro, esclusivamente l'Occidente, che è riuscito a farla sua. Resta, però, incontrovertibile il fatto che solo con le peregrinazioni di Colombo l'America sia diventata un punto fermo nelle conoscenze dell'umanità, presente non solo nel suo immaginario o nei suoi inconfessabili ed inconfessati segreti. Colombo è colui che carpisce l'attimo della verità, che squarcia il velo, che vince le ultime resistenze, che disintegra una volta per tutte l'ignoranza. Che mette il vecchio mondo di fronte alle sue responsabilità, nei confronti di un mondo che si vorrebbe nuovo. La «scoperta» dell'America è la storia di un uomo, che si dimostrerà grande più nella cattiva sorte che nei brevi e illusori momenti di gloria. Menzogna e infamia hanno finito con il prevalere, in un delitto perfetto, fondato su un'operazione «scientifica» di disinformazione. Si conosce da sempre il fatto che le carte rimaste e i documenti si prestano ad ogni tipo di interpretazione.6 Ma gli ultimi approdi della ricerca, in vista del Cinquecentenario, arrivavano a una conclusione, scaturita da un accordo raggiunto chiaramente a tavolino, che mirava a salvare l'aspetto «politico» della questione, in una sorta di compromesso, che suonava: «Colombo è italiano, l'impresa è spagnola». A dispetto del fatto che gli studiosi si sono da sempre divisi sulla «autenticità» di quasi tutte le fonti sulle quali si basa la ricostruzione degli avvenimenti. Colombo ha scritto molto ed è stato rimproverato anche per questo. Ma le sue carte sono in larga parte sparite. Aveva studiato su molti libri, ma della sua biblioteca non è rimasto quasi niente. Aveva fondate ragioni per mettere ripetutamente nero su bianco. Le lacune sono tanto vistose quanto misteriose.7 In sostanza si è studiato e giudicato Colombo senza tener conto delle parole di chi gli era stato vicino o dello stesso Colombo. Nascevano con gli Stati i primi nazionalismi; la Spagna, che stava diventando una grande potenza, doveva risultare ancora più grande, attraverso le scoperte e una pubblicistica asservita e cortigiana e sulla spinta di un orgoglio e di un patriottismo che restano tuttora tipici della popolazione iberica. Il contrario di un'Italia divisa e lacerata dalle rivalità tra le Signorie, dove lo Stato comincerà a trovare un embrione solo nel XIX secolo. Quanto è stato tramandato rappresenta la campagna pubblicitaria più riuscita di tutta la storia del genere umano. In un capolavoro di «marketing», in una visione virtuale, che osanna le corone di Spagna, in una deformazione che umilia Colombo ed occulta il «suo» papa. In una vicenda ricostruita secondo interessi precisi. Che rispondono all'eterna legge del più forte: alla ragione di Stato. In un'esaltazione di quanti - di quella partita a scacchi, l'arma di papa Cybo -furono, sono stati e sono ancora oggi gli indiscussi ed indiscutibili vincitori: i reali spagnoli. Sia pure in una doverosa differenziazione fra Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona: lei, la pia regina, che si adoperò per aiutare l'affabulatore cristiano, lui, il re astuto e senza parola, che mal sopportava lo «straniero». In una successione di incontri e di aneddoti puramente agiografici, dove a farne le spese è sempre Colombo: petulante, scaltro, questuante, reticente, avido, arrogante, furbo, calcolatore, incapace, crudele... Lui, l'uomo comparso dal nulla, che avvolgeva in una nebbia i suoi natali, per nascondere le origini... plebee. Lui, il Don Chisciotte che sarebbe incappato in una
fine ingloriosa e prematura fra le onde senza fine, se l'America, di cui non sapeva nulla, non gli fosse «venuta incontro» a salvarlo e a renderlo, suo malgrado, un novello Ulisse. Scolpendo ambiguamente il suo nome nel tempo. Lui, il venditore di carte vergate con il fumo della fantasia, nell'ignoranza della verità, lui, lo sciacallo di «piloti sconosciuti», che lo avrebbero preceduto, depredati delle loro conoscenze sul letto di morte, da un ladro di gloria. Lui, l'ammiraglio delle terre dei mosquitos, come verrà definito. Lui, il marinaio senza fissa dimora e senza meta. Lui, che non comprende nulla di nulla di quanto gli sta accadendo. A differenza di tutti gli spagnoli. Lui, il loco, il pazzo perduto dietro chimere più grandi di lui. Eppure è sufficiente scorrere le poche carte8 riemerse fino ad ora per prendere definitivamente atto, anche ad un esame rapido e superficiale, che l'«identikit» di Cristoforo Colombo è ben lontano da quello proposto, soprattutto imposto, nei secoli. Nella speranza che, prima o poi, da qualche archivio polveroso, da qualche libro ammuffito, da qualche documento sopravvissuto, da qualche mappa occultata, da qualche affresco nascosto, da qualche relitto affondato, da qualche traccia superstite al secolare inquinamento delle prove, possa affiorare una verità smarrita. La lettura fatta fino ad ora di Cristoforo Colombo ha usato sempre e soltanto alcuni brani, ignorandone, trascurandone o interpretandone in senso distorto anche i più significativi, in una classica opera di censura, di manipolazione e contraffazione. Basandosi su opere considerate «un classico» e, in quanto tali, equivalenti a un dogma. Vista anche l'acquiescenza pavida della storiografia italiana. Da quelle stesse carte, invece, emerge un Colombo diverso, se non opposto. Un Colombo inedito, un Colombo dalle motivazioni dissonanti, rispetto a quelle che ci sono state fatte credere. Un Colombo rivoluzionario, un Colombo mistico e, se si vuole, eretico. Come il «suo» pontefice Innocenzo VIII. È alla luce di questi dati, come degli altri che via via riemergeranno, che cercheremo di riballare la visione di un pontefice e di Colombo, delle loro vite e delle loro vicissitudini. Come per una clessidra da rovesciare, per fare scorrere il tempo nel verso giusto. In un viaggio a ritroso alla ricerca della verità. Ricomponendo le tessere sparse o insabbiate del grande mosaico che rappresentò la genesi delle grandi scoperte. Cercando soprattutto di immergerci in quella lontana e magica stagione, in modo da interpretare l'uomo che affrontò «l'Oceano Tenebroso» come il terminale di conoscenze, anche misteriche. Di un progetto e di un sogno, a lungo coltivato, che trovò in lui il messaggero di un ideale più che di un'idea. E di una fede non necessariamente solo cristiana, cattolica, romana, di una fede dalla visione ecumenica, che oscillava fra ortodossia ed eresia, in sintonia con la profezia. In un equilibrio precario. Per cui la bilancia potrebbe pendere ora da una parte ora dall'altra. Così dovette allora apparire, come ancora potrebbe apparire, malgrado gli sforzi di un pontefice come Giovanni Paolo II, qualsiasi tentativo di coniugare il credo cristiano con quello ebraico e musulmano, in vista della pace. Pertanto riteniamo che il marchio - che è anche, ma non solo, ermetico, esoterico, gnostico, cabalistico, alchemico o se si preferisce iniziatico - del viceré delle Indie si riveli soprattutto in due frasi. Mai sufficientemente sottolineate. Dove Colombo afferma di aver trattato e conversato «con gente sapiente, ecclesiastici e laici, latini, greci, giudei e mori, e con
molti di altre sette»,9 arrivando a sostenere che «lo Spirito Santo opera in cristiani, giudei, mori e in altri d'ogni possibile setta, e non solo nei dotti, ma pure e più nelle anime semplici». Frasi che riecheggiano il «Fiet unum ovile» giovanneo. Sono parole che rappresentano la radiografia più fedele e più segreta del cinquecentenario mistero dell'uomo Colombo. Per molto meno si finiva sul rogo. Siamo nella Spagna dell'Inquisizione, dove si coniava la tristissima legge della limpieza de sangre. La purezza del sangue, che farà tristissimi seguaci fino ai nostri giorni, dove i musulmani venivano combattuti, indotti alla resa e traditi, gli ebrei depredati, ingannati e cacciati. Nella cancellazione violenta e nell'estirpazione di quanto sopravviveva del mito dell'antica Sefarad, ovvero la Spagna dei tre (sempre il numero perfetto) libri sacri, delle tre religioni. Sarà la Spagna, che diventerà padrona del mondo, per via di una politica efferata e spregiudicata, a cancellare il ricordo di quella Spagna universale. Di una Spagna che potrebbe essere, persino e soprattutto ai giorni nostri, di esempio per il mondo. Cresceva l'anelito escatologico, che avrebbe coinvolto la spedizione. Tutta la seconda metà del XV secolo è immersa in un'atmosfera messianica, alimentata dai conventi dei francescani. Un clima dal quale discenderà l'impresa di Cristoforo Colombo. Già la guerra di Granada contro i mori ne è stata pregna. «Questa volontà di potere (voluntad de imperio) viene esaltata nel decennio 1470-1480 da frate Inigo de Mendoza, si fissa l'obiettivo prioritario, Granada e, oltre, Gerusalemme, l'ambizione suprema della crociata.»10 La sconfitta dei mori, la conversione degli ebrei erano fra gli avvenimenti che avrebbero dovuto precedere la fine dei tempi: una sequenza in cui Colombo credeva, sulla scorta delle profezie dell'abate calabrese Gioacchino da Fiore, che vaticinava l'avvento del Regno di Dio. Rivelazioni particolarmente diffuse in quell'ambiente spirituale francescano, che fa da silenzioso sottofondo ai movimenti del navigatore. Inoltre, se è presumibile che Colombo nascondesse le sue origini perché non ne era orgoglioso, potrebbe essere presumibile, allo stesso modo, il perfetto contrario. Cioè che Colombo abbia taciuto, per nascondere qualcosa che «doveva» nascondere. E che il disperdere le tracce, attraverso accurate censure, da una parte e dall'altra, sia dovuto alla necessità di occultare una «familiarità» che avrebbe potuto aprire sconcertanti squarci sulla vera natura del suo ruolo e della sua missione. La fine del mondo, l'Apocalisse giovannea, avrebbe aperto le porte della «rivelazione». La rivelazione di un Nuovo Mondo, che avrebbe completato, in un fine provvidenziale, la storia come la geografia. Non mancava molto, poco più di centocinquanta anni secondo i calcoli degli ebrei, ripresi da Colombo. Bisognava fare in fretta, rompere i cardini dei confini di Gog e Magog. Come nell'Apocalisse di Giovanni. Là dove si era arrestata l'avventura del leggendario Alessandro Magno, nell'Asia delle meraviglie. Bisognava recidere il nodo di Gordio stretto ai confini del mondo dal condottiero macedone, portare il verbo di Cristo a tutte le genti. Ritrovare Ophir, Tarsis le mitiche fonti dei tesori di re Salomone. Riedificare il Tempio. Ricongiungere, attraverso la definitiva crociata, la Gerusalemme celeste con quella terrena. Aprire infine, con l'oro delle Indie, quel tempo dell'oro che l'umanità, la Cristianità in particolare, attendeva
dall'alba dei tempi. Colombo per questo ha fretta, per questo si affanna in viaggi senza riposo. Nulla sembra interessargli all'infuori del desiderio di compiere il periplo del mondo e raggiungere, da novello conquistatore, la Terrasanta. E annunciare, da novello Giovanni Battista, il Precursore, il nuovo tempo e il ritorno di un Cristo sulla terra. Non a caso si firmerà Xpõ Ferens: colui che porta a Cristo, colui che porta Cristo. Proprio come San Giovanni Battista. Negli anni in cui il pontefice era un Giovanni Battista. Non a caso sarà Cristoforo, portatore anche di oro per un mondo nuovo e un nuovo mondo. In un sogno, un disegno che non si potevano coltivare in solitudine. In un'epoca che giocava sul simbolo, sull'allegoria, sulla metafora le sue splendide utopie. Che anelavano ad un'umanità migliore. Le scoperte mettevano però a serio rischio gli insegnamenti e le verità indiscutibili da sempre osservate. Un mondo che non fosse più tripartito e soprattutto trinitario, un mondo diverso dal dogma geografico imposto nel corso dei secoli; un mondo in cui le popolazioni dell'ecumene cristiano trovassero il corrispettivo in pagani immuni dal peccato originale, la cui discendenza non fosse quella da Adamo o da Abramo, il padre di tutti i fedeli, equivaleva a scardinare la predicazione dei Padri della Chiesa, la parola delle Sacre Scritture, a risistemare la realtà, sulla base dell'esperienza e della scienza nascente. Solo la Chiesa poteva guidare questa «rivoluzione», che ne metteva a repentaglio gli stessi cardini. Chi sarebbe stato il nuovo Pietro o la nuova pietra su cui fondare una nuova Chiesa? Solo il pontefice, facitore di ponti, poteva edificare il ponte nuovo con cui collegare le terre nuove, come un arcobaleno, verso un futuro di giustizia. Solo il papa possedeva le «chiavi», che sono nel suo stemma, per aprire le porte dei Grandi Misteri e dell'aldilà. Quando le terre ad est, dove era il paradiso, erano ancora classificate come terre incognite. Quando le Indie erano tanto indistinte quanto molteplici. In una gestione esclusiva della cultura, attraverso le biblioteche ed un patrimonio di libri inestimabile. Quando l'analfabetismo e l'ignoranza erano dei più. Ma l'invenzione della stampa e le università avevano ormai rotto l'equilibrio del sapere. Rimasto immobile per secoli nelle mani dei chierici. Conoscenze e dati, in un mondo dove chi andava al potere si sentiva chiamato a un compito assoluto, universalistico, sotto la guida del Signore, potevano essere ormai alla portata di tutti. Poiché l'«eresia» ormai verificata della presenza di terre nuove non si poteva estirpare e si faceva sempre più pressante, poiché roghi ed inquisizioni nulla avrebbero potuto, l'«eresia» andava cavalcata. Attraverso una preparazione lenta e meticolosa. In attesa del momento più propizio, nel momento giusto e dei giusti. Bisognava «concedere la rivelazione». Conciliare il conflitto, che si sarebbe fatto sempre più aperto, tra fede e scienza. Il fatidico ritorno a Gerusalemme avrebbe infine coinvolto la data prevista per il Giubileo: il 1500. In un'apoteosi e in un tripudio cristiani. È una mutazione epocale che prende le mosse da lontano. Occorre risalire quanto meno al Concilio di Ferrara del 1438, che nell'anno successivo si trasferì a Firenze, la nuova Atene. Roma e la «nuova Roma», Costantinopoli, cercavano di ritrovare la strada per un cammino comune. La Cristianità tentava di rinserrare le fila, di fronte al
pericolo crescente degli infedeli. Si cercava di superare le sottigliezze di carattere pratico e religioso, che dividevano i due fronti dottrinari. Fra le dispute c'era anche quella riguardante il matrimonio dei preti secolari. Quella che sul Bosforo era «consapevolmente una città greca» aveva compreso che «solo la Chiesa Occidentale avrebbe potuto chiamare a raccolta l'Occidente in suo soccorso11 di fronte al pericolo turco. L'Islam si mostrava sempre più minaccioso. Si riaffacciava, ogni giorno più urgente, la necessità di una nuova, definitiva crociata. «Fin dai tempi gloriosi dell'impero si sussurravano profezie che esso non sarebbe durato per sempre; era risaputo che su pietre sparse nella città e nei libri compilati dai sapienti del passato era scritta la lista degli imperatori e che questa stava avviandosi alla fine. Che il regno dell'Anticristo non si sarebbe potuto procrastinare per sempre.»12 Gli oracoli si sarebbero tradotti di lì a poco in una crudele realtà. L'Anticristo avrebbe assunto il giovane volto di un ragazzo di vent'anni. Dal nome inquietante: Maometto. Avrebbe segnato il tramonto dell'Occidente sul Corno d'oro, la chiusura della Sublime Porta. La nuova Roma, la nuova Gerusalemme trascorreva accerchiata i suoi ultimi giorni in un molle decadimento. Accompagnato dall'effervescenza artistico-culturale, che aveva caratterizzato in precedenza «l'era paleologa». Bisanzio chiamava, ma la Cristianità, cieca di fronte all'evolversi degli eventi, incredula di fronte all'eventualità di una capitolazione, divisa fra interessi politici ed economici contrastanti, non era in grado di rispondere. Fu così che in una scia di sangue e di morte, in una conta di quattromila vittime, dopo un lungo assedio, il 29 maggio del 1453 Maometto II, sul suo cavallo bianco, raggiunse la cattedrale della Divina Sapienza (Hagia Sophia). «All'interno del santuario, che i greci consideravano il 'paradiso terrestre, il trono della gloria di Dio, il carro dei cherubini', un turco proclamò: 'Non esiste altro Dio all'infuori di Allah, e Maometto è il suo profeta'.»13 La città rifondata da Costantino il Grande, perché diventasse la nuova caput mundi, capitolava nel segno dell'infelice Costantino XI, che moriva in combattimento. Nel nome di Costantino, dal Tevere al Bosforo, la Cristianità era nata ed ora sembrava morire, avrebbe potuto solo risorgere. Le mura più grandiose d'Europa si sbriciolavano sotto i colpi di cannone, la potenza ottomana dispiegava, sotto gli occhi esterrefatti degli sconfitti, un'impressionante flotta navale. Nessuno aveva creduto che sarebbe potuto accadere, ma i segni e le coincidenze sembravano avvalorare le profezie. La progressione turca sul fronte europeo era terrorizzante.14 Il panico appariva giustificato. Riferendosi al Conquistatore, la cui madre era una schiava di origine cristiana o ebraica,15 in un incrocio di sangue, che incontreremo di frequente e che per alcuni poteva sembrare foriero di possibili accordi, un genovese scriveva: «...con la presa di Costantinopoli è diventato così arrogante da convincersi che presto sarà signore del mondo intero, e giura in pubblico che fra meno di due anni arriverà a Roma»:16 Roma significava mettere le mani sull'orbe intero. Maometto lo sapeva. Nessun progetto gli pareva irraggiungibile, le sue vittorie dimostravano che Allah era dalla sua parte.17
I segnali si accumulavano. Nicolò Sagundino, l'umanista amico del cardinale greco Bessarione, fautore della crociata, al rientro a Napoli da Costantinopoli, nel gennaio 1454, aveva detto al re Alfonso d'Aragona che il conquistatore di Costantinopoli, fondandosi su antiche tradizioni, aveva intenzione di erigersi a signore d'Italia e della città di Roma. Riteneva che, come si era impossessato della «figlia», cioè di Bisanzio, così avrebbe potuto conquistare anche la madre, «Roma». «Egli disse che il sultano era esattamente informato dei dissidi fra gli Stati italiani, che il passaggio da Durazzo a Brindisi era facile da realizzare.» 18 Chi dovrà rappresentare il contraltare di Maometto in campo cristiano? Chi dovrà diventare l'emulo europeo di Alessandro Magno da proiettare in nome della croce verso un mondo unito? A chi dovrà competere l'impero del mondo? Chi sarà il re del mondo? Papi, imperatori e re, principi e signori si contendevano lo scettro. Un unico sogno, un'unica ambizione. Gli uomini potevano avere il potere delle cose, che a quel tempo anche i papi avevano, pronti a difenderlo con le armi. Ma il papa aveva anche il potere sullo spirito. Lo elevava al di sopra di qualsiasi essere umano. In un primato che le teste coronate, il cui scettro veniva da Dio, riconoscevano e condividevano. Sia pure a fasi alterne, nel mutamento dei tempi e delle circostanze, nell'avvicendamento degli interessi, delle persone e delle personalità. Roma, al tempo di papa Niccolò V, ricevette la notizia della perdita di Costantinopoli da un corriere, l'8 luglio del 1453. Fu come un fulmine a ciel sereno. Veniva meno la convinzione che, tra «il faro della civiltà greco-romana in Oriente e l'infrangibilità dell'unità mediterranea stabilita da Roma, Dio avesse creato un patto inviolabile».19 Il 30 settembre dello stesso anno, con una bolla, il pontefice si rivolgeva a tutti i principi dell'Occidente, chiamandoli a raccolta per la santa crociata. Si dovevano unire i re cristiani, si dovevano serrare le fila degli ordini cavallereschi. Occorreva tanto oro. Avrebbe dovuto fare risplendere il Mondo Nuovo. È il filo di Arianna, che porterà a Cristoforo Colombo e a Innocenzo VIII. Fra le reliquie perdute c'erano la lancia di Longino, il soldato romano, che trafisse il costato di Cristo, lo «smeraldo» smarrito con il «vero profilo» di Cristo, l'omero e il cranio di San Giovanni Battista, le dita di San Tommaso, l'apostolo dell'Oriente. Il potere soprannaturale e non solo simbolico di quelle reliquie entrava a far parte delle prerogative di Maometto II. Che mostrava, se non altro, un sincero interesse per la fede cristiana. Si cullava, pertanto, la speranza che potesse abbracciare il credo cristiano e nel 1465 fu diffusa la notizia che avesse abiurato la sua fede, 20 secondo gli auspici, che avevano spinto in Oriente San Francesco, quando si era recato, con la coraggiosa intenzione di convertirlo, alla corte del sultano. I francescani, sempre vicini a Colombo e che continuavano a perlustrare da missionari le strade del mondo, non avevano dimenticato. Un clamoroso tentativo in questo senso fu compiuto successivamente da Pio II (1405-1464), Enea Silvio Piccolomini, il papa umanista e geografo studiato dal navigatore. Con una lettera da inviare a Maometto II, che non ha corrispettivi. Il pontefice, in nome della «consolazione da molte genti aspettata: la pace» e la salvezza di tutti, «Greci, Latini, Giudei, Saraceni» (è lo stesso elenco che compare
nelle parole di Colombo già citate), si rivolgeva al Conquistatore, invitandolo alla sottomissione. Le parole rivendicavano il primato della religione e del Dio dei cristiani, nel confronto con la fede musulmana.21 Solo l'acqua del battesimo avrebbe potuto purificare e redimere le «pecore smarrite». «Si tratta di un po' d'acqua», scriveva Pio II «che ti battezzi e ti dia modo di intervenire ai riti cristiani e di credere nel Vangelo. Fatto ciò non ci sarà più sulla terra principe che ti superi in gloria e ti eguagli in potenza. Noi ti nomineremo imperatore dei Greci e d'Oriente, e ciò che ora occupi con la violenza ed ingiustamente sarà tuo per diritto. Tutti i cristiani ti venereranno e ti faranno giudice delle loro liti... I Siri, gli Egiziani, i Libici, gli Arabi e quante altre genti or sono fuori dall'ovile cristiano, a questa novella o seguiranno la tua via o saranno con poca fatica domati dalle armi tue e dei cristiani. E se non vorranno averti alleato nella nostra legge ti sperimenteranno nella loro padrone. Noi ti aiuteremo e con l'aiuto della Grazia Divina ti costituiremo principe legittimo di tutti loro.»22 Un invito senza precedenti: l'offerta di un'alleanza impensabile, forse impossibile. Ma nulla doveva restare intentato alla ricerca di una soluzione pacifica del conflitto. L'umanista senese, una volta salito sulla cattedra di Pietro, firmò così il tentativo estremo di salvare la pace mondiale. «Tornerebbero i tempi di Augusto, si rinnoverebbero quelli che i poeti chiamano i secoli d'oro, del leone con l'agnello, del vitello con il leone; si muterebbero le spade in falci, tutto il ferro in vomeri e zappe.»23 L'epistola del papa, fra rimandi al Presbitero Giovanni (il leggendario Prete Gianni), a Socrate, Platone, Aristotele, impegnati sul «reggimento del mondo», a Giano, Ercole, Alessandro Magno, Mosè e Aronne, alle popolazioni degli indi, dei tartari e degli asiatici (molti di questi nomi li ritroveremo nel labirinto che porta a Colombo), è un'invettiva, che aspira a dimostrare l'inferiorità della morale del Profeta rispetto alla spiritualità del Cattolicesimo. Ma è anche un'apertura incredibile da parte di Roma nei confronti dell'Islam. Il mondo stava cambiando: le correnti di pensiero, a Roma come altrove, si urtavano tra desiderio di rinnovamento globale e desiderio di immobilità conservatrice. Fra lo splendore e il fasto del Vaticano e il rimpianto dell'originario messaggio cristiano, in un dissidio non risolto. Fra dispute di non facile soluzione in atto da tempo.24 Segnando le sorti di Colombo e del suo viaggio. La Chiesa dei poveri era tollerata, nell'ottica papale, nella misura in cui questa non si fosse opposta alla «regalità» dei pontefici. Ma c'era chi auspicava il ritorno ad una Chiesa primigenia, povera e pura. Alla Chiesa dalle origini orientali, quella che avrebbe potuto favorire la riconciliazione. Siamo di fronte a due modi opposti di interpretare la religione, che si rifletteranno sull'evoluzione degli avvenimenti futuri, in un equilibrio precario, che sarebbe stato rimesso in gioco dalle scoperte annunciate. La lettera a Maometto per molti aspetti resta un arcano. Non si sa quale fu l'accoglimento della preghiera, se mai giunse a destinazione. Qualora le istanze di sottomissione non fossero andate a buon fine, non rimaneva che la crociata. Sarà il comune denominatore della politica vaticana fino a Innocenzo
VIII. E, anche dopo di lui, fino alla definitiva sconfitta dei musulmani a Lepanto. Una necessità di cui la storia non ha voluto prendere atto, accreditando la menzogna che «il secolo XV non poteva più fare la crociata perché non credeva più, e che Pio II la voleva fare perché mancava di senso storico».25 Nel nome della guerra santa Pio II trovò la morte. Lo colse alla vigilia di salpare dal porto di Ancona. Da dove intendeva intraprendere e rilanciare la grande avventura. Sotto la cattedrale di San Ciriaco naufragava un tentativo, non il grande disegno: moriva un papa, un altro, quando i tempi, le necessità e le stesse motivazioni lo avessero consentito, sarebbe venuto a riprendere il testimone. Nell'eterna staffetta, nel bene come nel male, della croce e della spada. Le speranze in quegli anni erano riposte anche in personaggi a Oriente, come il mitico Prete Gianni, esistenti spesso solo nelle leggende. Si cullava da secoli la certezza che si fosse mantenuto fedele al Cristianesimo. In aree dove la parola di Cristo non poteva più arrivare. Doveva essere la sponda dell'ulteriore espansione del Verbo. Il Prete Gianni costituiva una sorta di permanente spina nel fianco dell'Islam nemico. Cristiano-nestoriano,26 aveva a suo tempo inviato una lettera a Manuele I Comneno, l'imperatore di Bisanzio.27 Discendente dei Magi, con il suo scettro verde di smeraldo, Gerusalemme era il suo obiettivo. La figura di questo mitico «fantasma» oscillava nello spazio come nel tempo. Rimaneva, nonostante il trascorrere dei decenni, una costante quasi immortale, in grado di alimentare la speranza della riunificazione possibile fra Est e Ovest. Significativo il particolare che il nome «Presbyter Iaonnes» si ricollegava ad una «persistente tradizione apocrifa secondo la quale l'apostolo Giovanni non morì, ma fu scelto da Cristo per vagare (che è come dire navigare, N.d.A.) nel mondo, senza mai morire, fino alla seconda venuta di Cristo... I fedeli continuarono a credere che l'apostolo fosse stato esonerato dalla morte e vagasse sulla terra senza essere riconosciuto, in attesa del ritorno del Salvatore».28 Si attendeva il ritorno di un Giovanni. Quando la ricorrenza dei nomi ed i nomi stessi avevano una valenza non solo simbolica ma anche magica, in una magia che si coniugava a un misticismo in grado di unire Oriente e Occidente. Nulla veniva eluso alla ricerca di una «soluzione finale» per un'umanità ed un mondo nuovi e migliori. Ma a questa corrente di pensiero non poteva non opporsene una uguale e contraria, o ancora altre suscettibili di ulteriori varianti o sfumature. Come accade sempre quando le società sono sottoposte a mutamenti inarrestabili e globali. Gli ebrei, a loro volta, erano alla ricerca delle perdute tribù d'Israele: nella lettera del Prete Gianni si parlava di dieci tribù di «servi e vassalli», che vivevano al di là di un fiume, da cui si cavavano pietre preziose. Leggenda o meno, papa Alessandro III (fu papa dal 1159 al 1181), un altro senese come Piccolomini, aveva risposto alla lettera. Intanto i missionari, con i francescani in prima linea e sempre ai confini dell'eresia, si erano adoperati e si adoperavano per ricomporre l'armonia perduta e riunire il gregge. A cominciare da Giovanni Pian del Carpine, che si era spinto nelle «tre Indie». Per concludere un'alleanza con i mongoli, al fine di sconfiggere i saraceni.
Confidando sul fatto che molti di loro erano sposati con cristiane nestoriane. In quel tipo di patto confidava il genovese Sinibaldo Fieschi, 29 Innocenzo IV, che sarà uno dei punti di riferimento, ma non il solo, di Innocenzo VIII. A Pian del Carpine erano seguiti Guglielmo di Rubruk e Bartolomeo di Cremona; poi Giovanni da Monte Corvino, Odorico da Pordenone, frate Giovanni di Marignolli, un nobile fiorentino, e altri ancora. Ciascuno, forte unicamente del saio, alla ricerca di un Prete Gianni del proprio tempo. Un re mongolo disponibile all'alleanza e alla definitiva riconquista da parte di Roma degli avamposti d'Oriente perduti. Soprattutto di Gerusalemme. Personaggi a metà fra l'homo viator, l'ambasciatore e la spia, in un servizio di intelligence nel quale la Chiesa eccelleva. Senza contare i resoconti dei mercanti. Fra i quali il veneziano Nicolò da Conti. Possiamo considerarli fra i pionieri dell'impresa di Cristoforo Colombo. Che cercava l'alleanza dei tartari. La Cina, dalla millenaria cultura superiore a quella europea, dalle navi simili a transatlantici al confronto delle barchette del Mediterraneo, qualche mistero dell'«extra Gangem», delle terre esistenti al suo Levante, deve avere confidato agli emissari inviati da Roma. Sospetti, leggende? Qualcosa di più, visto che nel territorio peruviano, in tempi recenti, sono state rinvenute numerose tracce di insediamenti cinesi, precedenti la scoperta delle Americhe. Alla ricerca di alleanze con Kublai Khan era andato infine messer Marco Polo, che fu tra le letture più assidue di Colombo. Il cui Milione venne redatto nelle carceri di Genova, da Rustichello da Pisa. Ancora, nella città che segnò l'esistenza di Colombo ed Innocenzo VIII si avvierà «la fase etiopica, quando l'Etiopia era considerata una delle tre Indie, della storia del Prete Gianni nel 1306 con l'arrivo a Genova di trenta ambasciatori etiopi».30 Genova dunque, quasi come Roma, era un crocevia di notizie e di iniziative molto tempo prima di Colombo e del suo pontefice-mandante. Trascorrono i decenni, si accavallano i secoli, Gengis Khan sbarra le porte dell'esotico e dei mirabilia, dei mondo meraviglioso. Ma il disegno non verrà mai abbandonato. Nel mondo dell'ultimo Medioevo e del primo Rinascimento, governato dallo spirito, le idee non tramontavano nello spazio di un decennio. Non esistevano, nello svolgersi degli eventi, fratture e accelerazioni improvvise, come avviene ai nostri giorni. Un tempo immobile ne era il custode e il depositario affidabile e fidato. La fede era l'amalgama della società. Mentre la tradizione cuciva gli accadimenti in visioni imperscrutabili solo a chi non aveva le chiavi del sapere come del potere. Tutto faceva parte del tutto, ciò che stava in basso era identico a ciò che stava in alto e l'imprevedibile, quando si fosse presentato, doveva in qualche modo essere ricondotto al previsto. E tutte le strade portavano a Roma, proprio come era accaduto per la Roma «aurea». In quella sempiterna caput mundi, dove la Chiesa si divideva in tre grandi fazioni: i seguaci cristiani e mistici del regno dei cieli, dell'utopia paradisiaca da preparare sulla terra. Decisi a realizzarla, prima di esperire ogni altro tentativo, attraverso una guerra santa impostata sul dialogo e sulla conciliazione. Un'opposizione per la quale era impensabile qualsiasi avvicinamento o commistione con le altre fedi. Pronta a difendere, sempre e unicamente con la spada, le ragioni e le
posizioni di potere e di predominio per e nella Chiesa di Cristo. Infine una terza «palude» di prelati: quelli che avevano scelto la casa di Dio, costretti da ragioni famigliari, per motivi di politica e di interesse, per raggiungere privilegi sociali e di rango. Sempre pronti a schierarsi, da una parte o dall'altra, in cambio di favori squisitamente temporali. Roma poggiava così le sue fondamenta, a dispetto di ogni dottrina, su un equilibrio eternamente instabile. Il tempo dell'Anticristo era ormai scandito nelle chiese d'Oriente, convertite in moschee, dalla voce del muezzin. Bisognava fare in modo che si compissero nuove profezie, come quella che avvertiva che l'ultimo imperatore non era morto; era stato tramutato in marmo. Dormiva in una caverna sotterranea al di sotto della Porta d'Oro, il tradizionale punto d'accesso degli imperatori vittoriosi. Quello da cui era passato nel 1261 Michele Paleologo. «Un giorno gli sarebbe giunta la chiamata dal cielo: 'Un angelo gli porgerà la spada, lo riporterà in vita e lo aiuterà a respingere i turchi fino alla Mela Rossa, alla frontiera persiana'.»31 La Cristianità usciva sostanzialmente mutilata, quasi ferita a morte dalla caduta della «città d'oro». Da un evento nei confronti del quale uno scrivano del monastero di Agarathos così si espresse: «Non c'è mai stato e non ci sarà mai un avvenimento più terribile». La Nuova Roma era caduta, un'altra Roma, la sede del dominus orbis, del «padrone del mondo», sarebbe potuta cadere sotto le scimitarre della mezzaluna. «A Roma, a Roma!» risuonavano minacciose le grida dell'orda turca incombente. Maometto II già si considerava il solo vero imperatore d'Europa, giurando pubblicamente che in soli due anni sarebbe arrivato nella capitale della Cristianità. Gli angeli del Signore avevano dunque voltato lo sguardo da un'altra parte. Forse «Dio non lo vuole, Dio non è più con noi», «Deus vult, Deus non vult». Lo sgomento ammantava il colle del Vaticano, di fronte al quale l'Europa si genufletteva. Ma diventava impraticabile nello stesso momento la via dei commerci, la via delle «spezierie», la via dell'oro e delle perle, la via dell'allume. Non franava una credenza soltanto, si sgretolava un intero tessuto economico. Ordito soprattutto dalle repubbliche italiane. Ne soffrivano i genovesi, che perdevano le ricche colonie, ne soffrivano i fiorentini come i veneziani.32 Il 1453 rappresenta una data da cui alcuni vorrebbero fare iniziare l'era moderna. In quelle cesure così care alle interpretazioni che inseguono caselle da riempire e slogan per semplificare. Ma che finiscono spesso con il creare steccati inesistenti e confondere la visione d'insieme. Resisteva, nonostante le apparenze, anche una trasversalità di rapporti, che consentiranno, agli uni come agli altri, di trovare interlocutori ora sensibili e attenti, ora solo interessati e pronti al tradimento, nel campo avverso. Tuttavia il problema, dopo la perdita di Costantinopoli, si faceva ogni giorno più pressante, indilazionabile. Un intero sistema rischiava di collassare, una volta sprangate le porte dell'Oriente, a cominciare dalla Sublime Porta. Una frontiera si chiudeva, una nuova frontiera si doveva aprire. Come avamposto delle ultime terre cristiane da dove viene il sole, non rimanevano che alcune isole greche con Rodi, Chio e gli eroici cavalieri di San Giovanni in prima linea. Anche i difensori, i paladini della «vera religione», i cavalieri del mare,
avevano dovuto fronteggiare gli attacchi di Maometto II nel 1469 e nel 1479. Resistere inoltre a un lungo assedio nel maggio del 1480.33 Il momento della riscossa era giunto anche per loro. Come per l'intera cavalleria da riunire in un unico esercito cristiano. Occorreva solo l'oro per metterlo in piedi. L'oro di cui si sapeva essere ricco l'otro mundo. L'incubo lievita, i turchi non si fermeranno. L'ultima campana a morte batte ad Otranto, il ventre molle (anche ai nostri giorni) della penisola italiana sul fronte orientale. I turchi hanno invaso Costantinopoli, i Balcani, la Grecia, sono arrivati alle porte di Vienna. Otranto è una Bisanzio in miniatura nel Salento. La cripta del Duomo riproduce alla perfezione la cripta della «Cisterna» della «Roma d'Oriente». La chiesa bizantina di San Pietro è praticamente un plastico di Santa Sofia; su una colonna si legge: «Qui San Pietro, agli schiavi d'Occidente predicò per primo Gesù Cristo e vi eresse l'altare».34 Sul pavimento della cattedrale uno stupendo, misterico mosaico, comprendente tutti i segni zodiacali, è un condensato del simbolismo medioevale: con un gigantesco albero, una enigmatica scacchiera, Alessandro Magno sospeso da due grifoni, re Artù, la torre di Babele e la dispersione delle genti, la figura di Giano bifronte, il dio della pace e della guerra, la regina di Saba e Salomone con l'incontro delle genti, un Satana con la corona, Noè e l'arca con gli animali del diluvio, una colomba di pace che ne annuncia la fine. Cosa annuncia? Cosa antevedono le tessere di un'opera d'arte che, in vista di quelli che saranno gli avvenimenti successivi, paiono una profezia tradotta e sintetizzata in un capolavoro iconografico? A Otranto era sbarcato il Poverello d'Assisi. Quando nell'intento di persuaderlo con l'amore si era recato dal sultano, Malek-el-Kamil. Un altro Francesco, un'altra profezia. È San Francesco di Paola, fondatore dell'ordine dei Minimi, «dominatore del mare». Avverte questa volta il re di Napoli, Ferrante, il quale cerca di metterlo a tacere inviandogli la soldataglia. «Tornate, tornate al vostro re e ditegli che è ormai tempo di calmare lo sdegno del Signore...; che Dio tiene alzata la sua destra per colpirlo... L'armata dei turchi minaccia l'Italia, ma più da vicino il suo regno», avverte Santo Francesco. E guardando Otranto esclama: «Infelice città... di quanti cadaveri vedo ricoperte le tue vie! Di quanto sangue cristiano ti vedo inondata!»35 È l'estate del 1480 quando gli avvenimenti precipitano. Un fuoco di bombarde, di palle di pietra. L'assedio prosegue senza tregua per giorni e giorni. Ma la disparità delle forze ha ragione della resistenza. L'ultimo presidio è nella cattedrale, finché la porta cadde. Un colpo di scimitarra tronca di netto il capo dell'arcivescovo. «Non più Cristo, ma il nostro Maometto qui regna». Il «Turco», riferisce una cronaca, «dopo si pigliò la mitra di quello (arcivescovo) avendosela posta in testa andava camminando per la città per derisione. L'altri che si trovorno presenti furono tutti legati e fatti schiavi...»36 Anche i turchi volevano che i cristiani si convertissero all'Islam. L'ultimatum fu: o la vita col Corano, o la morte col Vangelo. Il 14 agosto, di fronte al rifiuto, a gruppi di cinquanta, di fronte al mare, ottocento cristiani di Otranto furono decollati.
L'epopea popolare del martirio, sicuramente enfatizzata, è straziante: «Arrivederci in paradiso», si salutavano piangendo i padri e le madri con i figli, mentre il mare si tingeva di sangue. «In Roma», narra Sigismondo De' Conti, che farà parte della corte di Innocenzo VIII, «la costernazione non sarebbe maggiore, se i nemici avessero già posto il campo sotto le mura della città. L'ansia e il terrore avevano invaso talmente tutti gli animi, che ormai anche il papa pensava alla fuga... poiché Sisto aveva risoluto di rifugiarsi in Francia, qualora lo stato delle cose in Italia avesse ancora a peggiorare.»37 Il pericolo era così immanente che il pontefice si apprestava a raggiungere Avignone. Persino l'incubo della fuga in Francia appariva in quel frangente come un'opportunità di salvezza. Ne scaturì una bolla il 2 settembre. L'ennesimo richiamo alla crociata. Si invitano a Roma gli ambasciatori di tutti gli Stati. L'uomo di fiducia in quel tempo di Sisto IV è il futuro Innocenzo VIII, della famiglia dei Cybo, che vengono dall'Oriente. Si fondono i vasi sacri d'argento. I turchi sono arrivati alle porte di Roma. Roma, fra i tradimenti, che in campo cristiano non mancano, sarà il prossimo appuntamento dell'avanzata nemica senza più ostacoli. La misura è colma. I fantasmi dei papati e dell'«esilio» francesi sembrano tornare. O la Cristianità reagisce o è perduta. Occorre riequilibrare le sorti dell'orbe e dell'urbe. Diventa ultimativa la disfida per il dominio spirituale, allora anche temporale del mondo, contro la mezzaluna dell'Islam, lanciata anche nei mari. Troppi segni, troppi indizi, da troppo tempo annunciavano, quasi nella semina attenta di una conoscenza e di una certezza, che il mondo conosciuto era passibile di imprevedibili ampliamenti. I portoghesi continuavano, sulla scia di Enrico il Navigatore, a cercare la via per le Indie. Costeggiando l'Africa verso sud, sempre più a sud. Scoprendo nuovi approdi nella parte australe, a dimostrazione che in quei luoghi la vita era possibile; che l'oceano delle paure non alimentava regioni «penaste», dal caldo simile all'inferno. Fin dai tempi dei Fenici le colonne d'Ercole avevano rappresentato un varco insuperabile. Di cui Cartagine deteneva gelosamente il passaggio. Chi contravveniva al divieto di superarle veniva condannato a morte. La via era considerata impraticabile, nessuno doveva osare avventurarvisi. Quasi si volesse mantenere il segreto sulla parte del mondo che rimaneva o doveva rimanere oscurata. Eppure già nel XIII secolo il francescano secolare, catalano, alchimista e templare, Raimondo Lullo, scriveva: «La principale causa del flusso e riflusso del Mar Grande o del Mar d'Inghilterra, è l'arco dell'acqua del mare che a ponente appoggia o confina in una terra opposta alle coste d'Inghilterra, Francia, Spagna e di tutta la confinante Africa, nella quale gli occhi nostri vedono il flusso e riflusso delle acque perché l'arco che forma l'acqua come corpo sferico è naturale che abbia appoggi (confini) opposti su cui posare, poiché altrimenti non potrebbe sostenersi. Per conseguenza, così come in questa parte appoggia sul nostro continente, che vediamo e conosciamo, nella parte opposta di ponente appoggia sull'altro continente che non vediamo e che non conosciamo fino a oggi; però per mezzo della vera filosofia, che riconosce ed osserva mediante i sensi la sfericità dell'acqua e il conseguente flusso e riflusso, il quale necessariamente esige due sponde opposte che contengano l'acqua tanto movimentata
e siano i piedistalli del suo arco, si inferisce logicamente che nella parte occidentale esiste un continente nel quale l'acqua mossa va a urtare così come rispettivamente urta nella nostra parte orientale».38 È una formulazione che non implica dubbi, esprime solo certezze. Compresa la sfericità dell'orbe. La frase «sull'altro continente che non vediamo e non conosciamo fino ad oggi» la ritroveremo, pressoché identica, nelle parole di Colombo, di fronte alla terra di Paria. Il verbo con il «noi» plurale e il «fino ad oggi», in una nonconoscenza riferita al presente, dimostrano che quel mondo esiste e sottintendono una conoscenza precedente e lontana. Oltre alla sicurezza del fatto che, prima o poi, la lacuna dovrà essere colmata. Più di uno studioso ha sostenuto una stretta relazione fra le dottrine di Lullo e la famiglia Colombo. Il francescano, che si trovava a Tunisi per convertire i musulmani, fu raccolto agonizzante da due mercanti genovesi. Uno dei quali si chiamava Stefano Colombo. D'altronde l'ipotesi mondi e terre nuove affondava nel buio dei secoli, sino alle voci dei profeti. Non aveva Platone parlato della mitica Atlantide nel Timeo e nel Crizia? Gomara, uno studioso di Colombo, afferma, senza ombra di dubbio, che Colombo aveva letto Platone. Il filosofo greco collocava Atlantide oltre le colonne d'Ercole. Un'isola più grande della Libia e dell'Asia messe insieme. In una traversata cadenzata da altre isole, per concludere che «quell'altro mare puoi effettivamente chiamarlo mare e quella terra che lo circonda puoi veramente e assai giustamente chiamarla continente».39 Il mito di Atlantide, nella storia dell'umanità, non è mai stato identificato con l'Asia. Come potrebbe essersi confuso Colombo? Un'Atlantide vanificata sulle mappe da un immane cataclisma o sparita o fatta sparire persino nella memoria delle genti? O nella conoscenza parziale di un tutto non completamente cognito? Per cui si usò anche il termine di «isola», che nel Medioevo era equivalente anche a quello di penisola? Senza contare che anche i continenti, che galleggiano nel grande oceano, sono in fondo delle isole. L'inabissamento della civiltà ideale fu metaforica o fu un «affondamento» calcolato? In una sorta di prestidigitazione per fare scomparire un intero continente? Un espediente per scoraggiare chi potesse avere in animo di avventurarsi lungo un percorso, un labirinto marino, che doveva restare occultato? Un mito filtrato nel tempo a baluardo dell'aldilà? Dove il sole andava a morire. Dove gli egiziani erano convinti che approdassero le anime dei defunti. I due dialoghi di Platone si riferiscono non a caso alla genesi dello Stato ideale. In un corrispettivo del mondo nuovo. In un racconto che risale ad un tempo ancestrale. A quel mitico tempo dell'oro che costituisce un altro dei fili che rinviano a Cristoforo Colombo e al suo pontefice. Un'idealizzazione dello Stato era stata compiuta anche da Cicerone nel Sogno di Scipione,40 che rimandava alla Repubblica di Platone. Cicerone, parlando dell'immortalità dell'anima, usa frequenti riferimenti astronomici ai pianeti «sferici e rotondi». Fra i quali la terra «quasi inghirlandata e circondata da alcune zone, delle quali vedi che le due più distanti tra di loro e appoggiate dall'una e dall'altra parte agli stessi vertici del cielo sono irrigidite per il gelo, mentre quella centrale e la più grande è bruciata dall'ardore del sole. Due sono
abitabili, delle quali quella australe, nella quale coloro che vi abitano tengono i piedi opposti a voi (antipodi, N.d.A.), non ha alcuna relazione con voi».41 Che la terra fosse rotonda, come avevano compreso gli antichi, era palese anche dalle monete romane. Il culto dei Greci e dei Romani, nella suggestione alimentata, fra l'altro, dai continui reperti, che venivano ad arricchire le collezioni di papi e cardinali, di nobili e signori, era quanto mai vivo al tempo di Colombo e anche prima. Le prove che la terra fosse una sfera, nei testi di «ecclesiastici e laici, latini, greci, giudei e mori», sono un'infinità. Anche il Medioevo, sia pure limitatamente a cerchie ristrette, ne doveva essere perfettamente al corrente. Resta da comprendere il rebus di come si sia potuto contrabbandare nei secoli la falsa credenza che il pianeta abitato dall'uomo fosse una tavola. Quando il divino consisteva nell'armonia sferica dei mondi celesti. La terra piatta è stata un'immane mistificazione. Chi aveva contribuito a divulgare la menzogna, chi se ne sarebbe giovato? C'era qualcosa da «secretare», nascondere? Qualcosa che, attraverso lo scorrere del tempo e vicissitudini varie, ha finito con il restare effettivamente secretato? Ma che lo stesso scorrere del tempo e l'ampliarsi dei viaggi e delle conoscenze avrebbe dovuto far necessariamente riaffiorare? La geografia al tempo di Colombo sta rompendo la visione tolemaica e sacra dell'ecumene, la casa comune. O perlomeno la visione geografica che di Tolomeo era rimasta e resa pubblica. All'epoca di Colombo l'oceano posto a Occidente è ogni giorno di più costellato di territori e di isole. Una progressione di approdi riempie lo spazio d'acqua, che si allarga al nord, ma soprattutto al sud delle colonne che furono superate da Ercole, l'eroe che, nel corso delle dodici fatiche, si era recato nella lontana Atlante, fino al giardino delle Esperidi per rubare i pomi d'oro. «Lo stesso ammiraglio fu il primo a essere convinto che le isole delle Indie fossero le Esperidi.»42 Eden, paradiso terrestre, Giardino delle Esperidi, isole Fortunate, isole Beate, Canarie, Azzorre, l'isola di Antilya, Atlantide, Colchide, l'isola delle Sette Città, l'isola di San Brandano, l'isola di Brazil, il paese dei merluzzi, l'ultima Thule, le tribù d'Israele perdute, il Paese di Cuccagna... Gli studi e la mentalità dell'Alto Medioevo e del Rinascimento riesumano, ripercorrono e ripropongono una molteplicità di itinerari, non sappiamo quanto frutto della sola fantasia o mascherati dalla fantasia. I tempi sono maturi per nuovi Argonauti, per nuovi eroi come Ercole, per nuove Esperidi e nuovi pomi d'oro. Per nuovi Salomone, per principi o altri poteri di diversa natura, che vagheggino un nuovo Stato ideale. Il ritorno al primitivo tempo felice. I testi della classicità, gli autori latini e greci, vengono tradotti e pubblicati, nascono le prime grandi biblioteche. La cultura fuggita da Costantinopoli sbarca sulle rive del Tevere, invade l'Italia. Si sviluppa un interscambio in cui passato e presente, culture e fedi si mescolano, si sovrappongono. In un sincretismo dalle gradazioni differenziate, per cui riesce difficile distinguere fino a che punto stare in campi avversi sia foriero di scontro o di possibile incontro, di inimicizia o di complicità. In questo senso la fine del Quattrocento è un misterioso magma, un crogiuolo alchemico dal quale emergono possenti personaggi e geni, che contrassegnano un tempo irripetibile. Nella chimera della conciliazione degli opposti, allorché
l'Umanesimo, di cui Pio II è espressione non isolata sulla cattedra di Pietro, si riallacciava al paganesimo, non in senso deteriore, come purtroppo è stato spesso interpretato, ma nel senso più alto e idealizzante. Perché, come si legge nell'Introduzione all'epistola del papa a Maometto II, «la speranza ultima dell'Umanesimo fu un confluire la Terra e il Cielo, la Sapienza e la Rivelazione, l'Oriente e l'Occidente, i popoli e le sette in una specie di cristiana plenitudo temporum». E quindi di plenitudo gentium. Un concetto che il cardinale Nicola Cusano, l'ispiratore del pontefice per la lettera inviata a Maometto II, identificava con la coincidentia oppositorum. Che con Pico della Mirandola, un'altra delle grandi menti del Rinascimento, diventerà «la contrarietà unita e la discordia concorde» e «una amica inimicizia e una concorde discordia». Alla ricerca di quell'armonia universale che si traduce nella sola, unica pace che nobilita l'uomo. Il fine era identico per molte delle menti e degli uomini, d'azione e non. Divergevano i modi per raggiungerlo. Così, fra misticismo e giudizi universali, tra Apocalissi e tempi nuovi, tra Mosè, Noè e oceani da attraversare, tra San Giovanni Battista, San Giovanni Evangelista, San Giacomo e Prete Gianni, tra leggende della vera croce e sibille, reliquie e cicli arturiani, ordini cavallereschi e cavalieri del mare, tra fine del mondo profetica e geografica, in uno sfarfallio di onnipresenti colombe simbolo di pace, ora alla luce del sole e straripante come nel Rinascimento, ora costretta a fluire sotterranea, scorre l'acqua misterica del serpente-oceano. Che farà riemergere l'esistenza di un pontificato sommerso. Che battezzerà la nascita e la creazione di una colombaCristof-oro Colombo, chiamato a togliere il velo, che da troppo tempo copriva l'orizzonte di un Mondo Nuovo. A dimostrazione che la verità non è sempre come appare.
2 - La matrice di Genova e Padova ORA che il grande oceano del silenzio43 rischia di sommergere l'uomo che infranse i limiti del grande oceano delle tenebre nel grande oceano della storia, è scoccato il momento di riconsiderare il destino del navigatore. Per tentare di restituire a Colombo quel che è di Colombo. Rimeditando il rebus del portatore di Cristo e della sua avventura, così costellata di contraddizioni, di misteri, di omissis. A cominciare dal papa. C'è, infatti, o almeno c'era, fino a qualche anno fa, quando questa ricerca è iniziata, nel 1990,44 un anello clamoroso mancante nel lungo «giallo» della vicenda dell'ammiraglio delle Indie. Un protagonista ignorato persino dai colombisti italiani, smarrito, a pochi anni dalla scomparsa, al setaccio dell'indagine storica. Il papa era Innocenzo VIII, Giovanni Battista Cybo. Un genovese originario dell'Oriente, della Grecia, di Rodi e di Chio. Un papa assente nella ragnatela ordita in vista della «rivelazione» del Nuovo Mondo. Un papa che ne è stato il vero, occultato, anche se
non solo innocente, tessitore. Un papa dimenticato. Un papa cancellato. Un papa desaparecido. Un pontefice espressione di una Chiesa, che inseguiva un sogno universalista. Che non poteva più preservare e procrastinare un secolare segreto. Mai lo sguardo si era allargato sulla cattedra di Pietro, nella fase precedente la sospirata partenza da Palos. Si è sempre preso in esame, nei rapporti fra Colombo e Roma, esclusivamente il pontefice che subentrò a Innocenzo VIII Cybo, Alessandro VI. Rodrigo Borgia: uno spagnolo. Un pontefice la cui triste fama, non a caso, ha finito con l'identificare, nel suo regno, l'avvento profetizzato e temuto dell'Anticristo. L'operazione America fu il frutto più luminoso del Rinascimento. Determinante fu il contributo di Roma, delle repubbliche italiane, Genova e Firenze su tutte, oltre all'Umbria votata a Santo Francesco. Con gli umili missionari, che percorrevano le strade del mondo. Con i suoi rappresentanti saliti sul trono vaticano. Fondamentale fu il contributo delle conoscenze dei domenicani, dei cistercensi e degli ordini cavallereschi. Mentre molti dei protagonisti di questo complicato intreccio li ritroveremo a Padova, a Venezia, a Napoli, a Siena, in Spagna e Portogallo, nelle isole greche... Oltre ad una presenza continua, nelle retrovie e sul proscenio dell'impresa, di ebrei, conversi e non, e di musulmani. In una processione di personaggi, ora cristiani, ora di origine o di fede diversa. In un sincretismo ai limiti dell'eresia. A cinquecento anni dalla navigazione più avventurosa di tutti i tempi, rileggendo le fonti, interpretando i documenti già conosciuti e alla luce di quelli nuovi affiorati e che riaffiorano, una verità incredibile lacera irrimediabilmente la «verità codificata». Tanto più che, nelle vicende colombiane, gli strappi evidenti di ogni ricostruzione, i passaggi spesso incomprensibili di molti avvenimenti, sono stati «ricuciti», in un assemblaggio precario. Indipendentemente dall'anello mancante: il papa di Roma. Che era il leader massimo dell'orbe conosciuto, il dominus or bis.45 Innocenzo VIII era colui che aveva diritto all'ultima parola sulle terre scoperte o da scoprire. In un tempo in cui le spedizioni equivalevano a portare altrove e avanti la croce. Per l'evangelizzazione, con l'acqua del battesimo, di idolatri e pagani. Alla ricerca senza fine del passagium ultramarino. In una sorta di sempiterna crociata. In cui chimere, fede, interessi economici, scienza, scoperte, desiderio di potenza e di onnipotenza convergevano. In un tempo, come abbiamo visto, in cui l'Europa e Roma erano minacciate nella loro sopravvivenza e anelavano dall'anno 1000 al riscatto della Terrasanta. Colombo salperà alla scoperta di isole e di continenti. Di scogli e di terreferme dove portare la croce. Mirava alla riconquista di Gerusalemme, del Santo Sepolcro. Il papa non poteva non sapere. Roma sapeva da molto tempo. Le chimere di Colombo e del papa erano coincidenti. Avere ricollocato Giovanni Battista Cybo in questa vicenda equivale a riempire un vuoto perpetratosi, inconcepibilmente, per cinque secoli. A meno che qualcuno non abbia avuto tutto l'interesse a far scomparire le prove che portavano alla cattedra di Pietro. In effetti le vicende colombiane, se le si studia con attenzione, hanno ben poco di «scientifico». Le contraddizioni e gli interrogativi irrisolti si incontrano a ogni passo. In un groviglio a volte inestricabile, in un'operazione in cui i conti, nel senso anche di
racconti, non sono fatti secondo logica e buon senso o considerazioni e sommatorie a prova di smentite, ma solo per la necessità di far quadrare il cerchio. Il che è già strano, visto che la scoperta dell'America fu considerata e vissuta, in tutti i sensi, come un trionfo straordinario e provvidenziale. La cronistoria di quegli eventi e dei suoi protagonisti dovrebbe essere, pertanto, quanto mai limpida. Il successo era tale da garantire onori e guadagni, economici e spirituali, a sufficienza per tutti. Ma l'atmosfera nella quale ci si inoltra è quella di un «giallo», per il quale non è stato ancora individuato l'assassino. Avere reinserito nella trama, piena di lacune oscure, il papa genovese, contribuisce ad aprire clamorosi squarci di luce in grado di rammendare gli infiniti rattoppi presenti nelle vele di Colombo.46 Costantinopoli è caduta: è Pio II, il pontefice appassionato di studi geografici, a lasciare, morendo ad Ancona, il testimone della «guerra santa» ai suoi successori. Fino a Sisto IV di Savona e della famiglia dei Della Rovere. Nel solco di una sorta di dinastia ligure dei pontificati nella seconda metà del Quattrocento. È una Genova superba, con i palazzi patrizi costruiti con il marmo di Carrara e l'ardesia. Nel contrasto dei bianchi e dei neri, di ombre e di luce, come negli scacchi dello stemma dei Cybo. Una città opulenta e mercantile, stretta fra le montagne e il mare. Fra il baluardo delle Alpi e gli spazi sterminati. Dove il miraggio della ricchezza e il desiderio di evasione spingono a cavalcare le acque. Una potenza marinara, una repubblica ricca di imprenditori, banchieri, navigatori, mercanti, geografi, cavalieri e crociati: un centro cosmopolita, una frontiera e un porto anche per le religioni, vista la consistente presenza di ebrei. Molti fuggiti verso Paesi più tolleranti, prima ancora che contro di loro venisse emanato l'editto di espulsione del 1492. «Genova fu appunto uno di questi paesi... a Genova la presenza di profughi sefarditi è già documentata intorno al 1449, in concomitanza cioè con i gravi tumulti che scoppiano contro gli ebrei a Toledo.»47 La città ha un nome che è già un destino: rimanda al dio della pace e della guerra. Con la testa doppia di Giano bifronte, che i romani recavano impressa sulle monete; sul rovescio il profilo di una nave. Dove è diretta? Verso dove, nella romanità riaffiorante, dovrà volgere lo sguardo il dio pagano? Giano è il guardiano delle porte. Genova è Janua (porta), il facile anagramma è «Juana», Giovanna. Così, nel nome anche del papa, Colombo battezzerà Cuba. Quale porta si dovrà aprire? Per annunciare un approdo di pace e superare il solco di sangue, che da troppo tempo dilania l'Europa? A Genova sono state scritte le pagine delle avventure di Marco Polo. Il Milione è il resoconto affascinante di un viaggio agli ultimi confini del mondo. Colombo lo legge, lo divora, lo annota. Vi apprende imperscrutabili verità. A Genova il vescovo Jacopo da Varazze ha scritto la Legenda aurea. Dove appare per la prima volta canonizzata la figura di San Cristoforo. Il santo traghettatore verso un Mondo Nuovo. A Genova il faro della Lanterna, dove avrebbe lavorato uno zio presunto di Colombo, Antonio, fa luce nel buio, illumina la mente ai naviganti, e reca, nelle stampe dell'epoca, la stessa croce che comparirà sulle vele delle caravelle.
A Genova si conserva un vera icona del volto di Cristo, una veneratissima Veronica. È il «santo Mandilo» con il «Volto Santo», che fu donato da Giovanni Paleologo, imperatore di Bisanzio e delle terre greche, che aveva contribuito a liberare. Terre da riconquistare, da riportare sotto lo scettro della Cristianità. A Genova si custodisce il catino verde smeraldo, che Gesù utilizzò nel corso dell'ultima cena. Per sciacquarsi le mani e nel quale fu raccolto il sangue di Cristo. Lo si identificava con il Santo Graal. Nella cerca eterna dei leggendari paladini. Da Genova era transitato San Francesco d'Assisi nel suo viaggio da Roma verso la Spagna. A Genova nel 1432 si trovava l'intellettuale Enea Silvio Piccolomini, il futuro Pio II. Nel 1483 si fermò a Genova San Francesco da Paola, che aveva profetizzato la caduta di Otranto nelle mani dei turchi. Vaticinava un'era di rigenerazione nella quale «non potrà più essere al mondo niuno signore che non sia dell'ordine della santa milizia dello Spiritu Sancto». Preannunciava la sconfitta della «setta maomettana» grazie ad una nuova religione, «l'ultima religione».48 Nella cattedrale ci si genufletteva davanti alle ceneri di San Giovanni Battista, il messaggero di Gesù. San Giovanni Battista è il santo patrono di Genova, di Firenze, dei più importanti ordini cavallereschi, della Massoneria. Un'infinità di chiese, intitolate al suo nome, erano disseminate al tempo lungo la costa. Sempre a Genova si pregava davanti alle ossa di San Giacomo, il santo simbolo della Spagna e profeta dell'Oriente. La preziosa arca che le conteneva venne finanziata dai genovesi di Chio, l'isola della Grecia definita «l'occhio destro di Genova», 49 dove i Cybo erano fra le famiglie più eminenti.50 L'animale-simbolo di Genova è il grifone, l'uccello posto a guardia dell'oro degli Iperborei, nelle contrade dell'incognito. Il mitico animale è in grado di volare, camminare, nuotare. È la rappresentazione di tre elementi: aria, terra ed acqua, nella cultura zoomorfa, in bilico tra realtà e metafora. È persino una proiezione della figura di Gesù e della sua duplice natura, umana e divina, secondo Dante. Il vessillo della città vede San Giorgio, il principe dei cavalieri, il quale, lancia in resta, sconfigge il drago dei nemici della Cristianità, proteggendosi con lo scudo sul quale inalbera la croce rossa in campo bianco: «Tiene in mano la bandiera del crociato... vessillo che veniva usato solo nelle cerimonie solenni e nelle battaglie in mare».51 È la stessa croce che, con ulteriori significati, incontreremo sulle vele di Colombo, nella sua battaglia contro l'oceano. Che è sullo stemma di Innocenzo. Il suo rosso compare in uno spicchio del primo stemma di Colombo. I genovesi, con Guglielmo Embriaco, detto Testa di Maglio, furono decisivi nel successo della prima crociata e nella riconquista di Gerusalemme. In uno degli architravi del Santo Sepolcro, in lettere d'oro, era inciso: «Praepotens genuensium praesidium». Sulla riva del mare, nella chiesa di San Giovanni di Pré, dove in precedenza esisteva una chiesa del Santo Sepolcro, nel richiamo eterno di Gerusalemme, aleggiavano i fantasmi dei Templari e dei cavalieri del Santo Sepolcro.52
A questi avevano fatto seguito i cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. In quella chiesa, annessa all'ospedale medioevale, un altro Innocenzo, Innocenzo IV, il papa della famiglia dei Fieschi, concepì forse l'organizzazione della sua crociata.53 Spirito Santo, religione, santi e cavalieri, crociata, il Graal... personaggi e reliquie fra storia e leggenda. Persone e fatti, richiami e suggestioni, miti e tradizioni, località, libri, letture rivelatrici. In una sorta di magico affresco. Quanti segni, quanti simboli, quando segni e simboli erano la chiave dell'esistenza. Segni e simboli che, in una sorta di codice misterioso, faranno da eco agli avvenimenti. In questo clima, esteso alle colonie genovesi dell'Oriente, un uomo dal nome in cifra, Cristoforo Colombo, e un pontefice, colpito da damnatio memoriae, respirano la salsedine come l'afflato della fede, che spinge al confronto-scontro con l'Islam. Quasi Genova, i suoi cittadini, i suoi vassalli avessero quella missione nel loro Dna. Una sorta di irrinunciabile «imprinting». Ma chi è in realtà questo papa cancellato dalla storia di Colombo? Massacrato dalla storia? Non è Colombo una specie di ayatollah, che segnava di croci i suoi sbarchi e il suo passaggio? Che portava agli indiani l'evangelizzazione e l'acqua del battesimo? E la cui destinazione finale era la Terrasanta? Perché proprio i loro destini non si sarebbero mai dovuti incrociare? A chi conveniva celarne i rapporti che, come vedremo, si faranno sempre più stretti, fino a diventare un vincolo di sangue? Si vuole un papa che renda alla ragione i musulmani? Che altrimenti li combatta e sconfigga? Chi meglio di un papa che li aveva conosciuti e frequentati? In quella capacità subliminale della politica vaticana di scegliere talvolta, nell'attimo della verità, la persona giusta al momento giusto? Occorreva convertire o debellare i musulmani. Bisognava trovare chi sapesse comportarsi con loro, ora blandendoli, ora minacciandoli. In un'operazione che ai nostri giorni è stata ripetuta con successo: la caduta del comunismo porta il marchio di Giovanni Paolo II. Un pontefice che veniva d'oltre cortina. Lo stesso ragionamento, la stessa intuizione debbono avere favorito, cinquecento anni fa, la scelta di Innocenzo VIII. Si doveva combattere e sconfiggere l'Islamismo. I Cybo, in questo senso, avevano tutti i requisiti richiesti. «Questa famiglia ripete la sua origine dalla Grecia, e venne a stabilirsi a Genova all'epoca dell'imperio dei Paleologi, imperatori di Costantinopoli... tanto si segnalarono i Cybo nelle armi, che si acquistano il cognome di 'Campioni', e per lunga pezza d'anni si denominarono in tal modo.»54 Un clan composito, fatto di incroci di non facile decifrazione. È un «puzzle» da ricomporre con certosina pazienza, in una serie di fascinose rifrazioni. Ma alla fine le tessere del mosaico, una volta individuate quelle sconosciute, una volta rimesse al loro posto quelle già esistenti, in un cubo di Rubik senza fine, offriranno un ritratto completamente inedito e diverso per quell'Innocenzo VIII, che la storiografia liquida quasi sempre con disprezzo. Con poche sufficienti, colpevoli, probabilmente colpose parole. Il nome stesso del padre del pontefice ha in sé un groviglio di implicazioni. Si chiama Arano, Arrone, Aaron, Aronne e anche Abramo, equestri dignitate ornatus. Un grande cavaliere, un grande uomo di mare, di lui sappiamo poco. È figlio di
Maurizio Cybo e di una Sarracina Marucella. Sposa in prime nozze Teodorina di Montano de Mari, in seconde nozze Ginevra Giustiniani. De Mari e Giustiniani sono due cognomi importanti nella superba Genova delle grandi famiglie. I de Mari, nelle cui vene scorreva la tradizione di grandi uomini di mare e di ammiragli, possedevano castelli e proprietà in Corsica. Dove la voce orale vuole ancora oggi il passaggio e persino una possibile nascita di Colombo.55 Aronne è nato nell'isola di Rodi, il caposaldo verso l'Oriente dei difensori della Cristianità, i cavalieri gerosolimitani del mare. Gli eredi dei Templari, crociati in assetto perenne, defensores fidei. È la Rodi che nel 1480 ha conosciuto l'assedio della Mezzaluna. Cristiani, ebrei e musulmani vi «vivevano in pace». La coesistenza «impossibile» era tranquillamente praticata. Vi risiedeva una colonia di Sufi, vi era ospitato un insediamento ebraico di lingua greca e rito bizantino, si viveva in armonia. La partecipazione degli ebrei a fianco dei cristiani nella difesa di Rodi, durante l'assedio del 1480, trascurata dalle fonti cristiane, fu tramandata invece dalla piccola comunità ebraica locale di generazione in generazione.56 Aronne e Abramo sono nomi ebrei, il primo è il fratello di Mosè. Il secondo è il «padre delle moltitudini». Il progenitore comune di cristiani, musulmani ed ebrei. Sarracina, la madre, è nome di derivazione musulmana. Innocenzo è il papa cristiano, cattolico e romano. Nel suo sangue si coagulavano le tre grandi religioni monoteiste, divise e apparentemente inconciliabili. Ma le chimere del Rinascimento, che tornano ad inseguire «un nuovo cielo e una nuova terra», parole che saranno di Colombo, vorrebbero conciliarle in vista dei tempi ultimi. Aronne o Abramo viene fatto viceré di Napoli da Renato d'Angiò. Lo stesso Colombo ci informa di essere stato in gioventù al servizio dell'enigmatico e misterioso francese, che aspirava al regno di Napoli, per un viaggio corsaro con destinazione Tunisi.57 Renato d'Angiò potrebbe essere il Maestro di un ordine cavalleresco, che celava il segreto e inseguiva il Graal. Il filo dei misteri e del calice sacro si dipana. Benché uomo di Renato, Aronne si sarebbe dimostrato così abile diplomatico e così ammirevole cavaliere che, ferito in combattimento, sarebbe stato poi confermato a furor di popolo nella carica di viceré di Napoli dallo stesso avversario, diventando fedele alleato del nuovo vincitore, Alfonso d'Aragona. C'è nei Cybo la vocazione a conciliare l'impossibile. Soffia, superando ogni confine, ogni divisione, nonostante guerre e crudeltà, lo spirito di una cavalleria fuori del tempo, per noi inconcepibile. Di una cavalleria soprattutto marinara, adusa alle calme e alle tempeste. Ci sarebbe più di un ammiraglio nella famiglia dei Cybo. L'onda lunga degli oceani porta ineluttabilmente a Colombo. La sua famiglia ha avuto da sempre «traffici con il mare». Anche lui, fra i suoi avi, afferma di vantare ammiragli.58 Aronne fu inoltre senatore di Roma, con Callisto III, il pontefice spagnolo zio di Alessandro VI. Dopo il periodo romano rientrerà infine a Napoli e verrà sepolto a Capua. Conosciamo dei suoi movimenti più di quanto si sa della gioventù di colui che diventerà papa. Ma i Cybo oltre che da Rodi da dove venivano? «Passata questa
famiglia in Italia, fu anche chiamata Tomacelli e col nome di Cibo' sostenne sempre un grado risplendentissimo. Fu aggregata alla Veneta Nobiltà.»59 Un'altra delle più importanti repubbliche marinare, con i suoi monaci e i suoi geografi-pittori che misuravano il mondo, con le sue ambascerie sempre aperte verso l'Oriente, entra, a sua volta, nel «puzzle». Come Genova, ha urgenza, per la sua economia e i suoi commerci, che si riapra la via della seta, che si abbattano le barriere alzate dal turco, con il quale tuttavia la città lagunare mantiene rapporti. Pur nell'alternanza delle alleanze e delle rivalità, che durano lo spazio di un giorno. La mira era unica, tanto economica quanto spirituale, tanto temporale quanto escatologica: riaprire in qualsiasi modo le strade del Levante. Innocenzo è un nobile e agiato cavaliere che si sarebbe distinto per le sue qualità mondane. Mette al mondo un numero considerevole di figli, anche per i suoi tempi. Una prole che, per alcuni, avrebbe raggiunto il numero di sedici. Tutti fagocitati dalla storia, tranne due, Franceschetto e Maddalena. In una dimenticanza sospetta.60 Per lungo tempo Giovanni Battista Cybo avrebbe avuto una relazione con una gentildonna, nella corte dove aveva vissuto da ragazzo a Napoli; per altri altrove. Colon oltre che colono potrebbe significare anche Colonna.61 Una famiglia Colonna era insediata nel Veneto e nel Trevigiano. I Colonna erano potentissimi a Roma così come a Napoli.62 È evidente che tutte le realtà e tutte le leggende, circa la nascita di Colombo da Genova a Savona e dintorni, a Cogoleto, a Cuccaro, a Piacenza, alla Corsica, a Chio, alla Spagna, al Portogallo.... hanno contribuito a disperdere l'identità e l'origine del navigatore. In una serie di rivoli e di rivendicazioni contrastanti e campanilistiche. Che possono, in qualche modo e in più di un caso, ricondursi ad un'unica, onnicomprensiva, anche se intricata, verità. Di dove si sarebbe dovuto considerare, a quei tempi, in assenza di atti di nascita, il figlio illegittimo di un nobile di origine greca, considerato genovese e diventato papa? E di una donna rimasta nell'ombra?63 Di certo in gioventù il futuro pontefice studiò all'università di Padova. Era uno dei centri culturali, specie sul versante scientifico, più prestigiosi del tempo. Dove la tolleranza religiosa era diffusa. Dove Roma non riusciva a imporre a pieno la sua volontà.64 A Padova si coltivavano le arti del Quadrivio: aritmetica, astrologia, astronomia, geometria. Il figlio Fernando scrive di Colombo: «...né avrebbe apprese tante lettere né tanta scienza quanta le sue opere mostrano che egli ebbe, specialmente nelle quattro principali scienze che si ricercano per far quel che egli fece: che sono Astrologia, Cosmografia, Geometria e Navigatoria». A Padova si formano Sisto IV, il poeta Battista Mantovano,65 l'architetto Leon Battista Alberti, gli umanisti Ermolao Barbaro e Giovanni Pontano. A Padova si approfondiscono gli studi su Tolomeo, principe riconosciuto dei geografi, e su tutta la tradizione astronomica araba. Ci si interroga sugli spazi dell'infinito e del mondo. Vi si incontrano, fino a stringere un'amicizia, che solo la morte spezzerà, il cardinale Nicola Cusano, una delle menti più geniali e illuminate di quel tempo, tanto da rischiare l'accusa di eresia, e Paolo «fisico». Cusano sostiene, fra l'altro, che la terra non occupa il centro dell'universo. Paolo «fisico» non è altri che
Paolo Dal Pozzo Toscanelli, lo scienziato fiorentino che sarà fra gli ispiratori diretti del varo dell'impresa di Colombo.66 A Padova si discetta sul filosofo greco Aristotele e su Averroè, esempio musulmano di tolleranza. A Padova il frate agostiniano Paolo Veneto, il cui insegnamento risale al 1395, introduce «negli ambienti universitari italiani il tema della descrizione delle parti della terra, anche di quelle ignote»,267 oltre a tentare una mediazione fra averroismo, aristotelismo e fede cristiana. Non raggiunse lo scopo, ma attirò l'interesse del cardinale Bessarione, che faceva da tramite tra Oriente e Occidente, fra tentativi di riconciliazione e l'organizzazione di un'eventuale crociata. In seguito alla caduta di Costantinopoli, aveva portato in Italia preziose raccolte di antichi testi, testimonianza di conoscenze smarrite. Il passato riemergeva. L'opera di Bessarione farà parte del bagaglio culturale di Copernico, lo scienziato che romperà il dogma astronomico. Nel suo prolungato soggiorno patavino, all'interno di un libro, lo scienziato trascrisse «perfino una lunga ricetta, strana e quasi magica».68 Quanto basta per scivolare nella «pretesa di attingere a una sapienza antica sì, ma sempre riservata a pochi eletti, e perciò 'divina' rispetto alla scienza volgare (così molti alchimisti)».69 Nella dedica «Al molto Magnifico Signore, il Signor Baliano di Fornari, Gioseppe Moleto», in data Venezia 25 aprile 1571, per la pubblicazione delle Historie della vita e dei fatti dell'Ammiraglio don Cristoforo Colombo, a proposito del navigatore, si scrive che è «uomo veramente divino». Anche la Commedia di Dante era «divina». Anche la proporzione era «divina». «Divino» è un aggettivo frequentemente usato fra Medioevo e Rinascimento. Riservato, allo stesso tempo, solo a cerchie di eletti e di privilegiati. A fare da filo conduttore, in questo caso, oltre alla geometria è l'astrologia. Che Colombo coltivava e che «conduce a un mondo iniziatico di rivelazioni e tradizioni, al riconoscimento del carattere esoterico (e perciò coerentemente aristocratico) del sapere astrologico»,70 in una valutazione «scientifico-teorica» dell'astrologia, che caratterizzava le lezioni padovane.271 Padova rappresentava, dunque, un'accademia di libero pensiero, una fucina nella quale la presenza di motivi astrologici e occultistici si confermavano anche in trattazioni come quelle botanico-farmacologiche.72 Che erano proprie di molti Templari. Anche Colombo, come Copernico, scriveva «ricette». In una, redatta in latino, si avverte: «Perché il prezzemolo nasca al punto, metti a mollo i semi in aceto per lo spazio di tre giorni. Quindi portali per giorni tre sotto l'ascella e, quando ti serva, seminali; ché, dopo un'ora, spunta. E si mangia».73 Dal rimedio sembra materializzarsi un paesaggio di alambicchi. Cosa c'entra con il marinaio che si vuole illetterato e di umili origini? Con il «fiutatore» di venti e di onde? Domande da eludere, stranezze da accettare tutt'al più come una parentesi di folclore colombino. A Padova studiarono anche il giovane filosofo Pico della Mirandola e il monaco «fiorentino» Girolamo Savonarola. Anche lui vaticinava un imminente rinnovamento
morale, politico, religioso. A Padova transitarono molte altre personalità influenti, a cominciare da Galileo Galilei. In un ateneo-crogiuolo, ai confini dell'eresia. Dove, a seconda delle sensibilità e delle convinzioni personali e di gruppo, si svilupparono correnti di pensiero rivoluzionarie, che avrebbero, tuttavia, preso anche direzioni dalle diverse, quando non opposte, sfumature. Fino talvolta alla lotta aperta. In sostanza «la formazione padovana... conduceva a guardare al mondo magico con atteggiamento 'scientifico', ancorando i fenomeni a una causa superiore immutabile, ai movimenti astrali... e con il corollario, ugualmente denso di potenziali interrogativi, dell'esistenza di una casta di 'sacerdoti' della scienza alla cui custodia e interpretazione di quel mondo di tradizioni era consegnato».74 Padova, peraltro, non era unicamente il suo ateneo. Era la Firenze del Trecento. Se la Cappella degli Scrovegni del fiorentino Giotto rappresentava la Divina Commedia della pittura, il Battistero della cattedrale, che il fiorentino Giusto de' Menabuoi aveva affrescato con il ciclo della Genesi, era il Decamerone. Alla metà del Quattrocento, quando sopraggiunsero anche due artisti eccelsi come Donatello e Mantegna, la città si trasformò in una centrale rivoluzionaria.75 A Padova Donatello «osa l'inosabile sia sul piano estetico, sia sul piano tecnico». Mentre Mantegna è «il più umanista di tutti. Il più sensibile al mito dell'antichità». Sulla falsariga dell'antichità si doveva rimodellare il presente. Mantegna verrà alla corte di Roma e sarà fra gli artisti preferiti da Innocenzo VIII. Il giovane Giovanni Battista Cybo cresce dunque e si forma ammirando Giotto. Che rivoluziona, a sua volta, l'arte ed è riconosciuto fra i grandi del francescanesimo. Come Dante e Colombo. Una triade che nel 1892, nella ricorrenza dei quattrocento anni della «scoperta», venne idealmente ricomposta per il monumento che fu eretto a Napoli (!).76 Il «secolo d'oro» di Padova offriva quello che è stato definito il «più grande complesso di cicli affrescati trecenteschi in Europa». Santi, storie dei Vangeli, Cristo e Maria, il Nuovo e il Vecchio Testamento uniti, l'Apocalisse e il Giudizio universale nella parabola senza fine, che il Medioevo traccia e che il Rinascimento perfeziona. Per sublimarla in una nuova vita, in un nuovo tempo, in un nuovo mondo. Lo sguardo e il pensiero spaziavano nell'oratorio di San Giorgio. Dove il santo guerriero uccide la bestia-drago dei nemici di Cristo. Mentre le Cappelle di San Giacomo richiamavano, in qualche modo, il San Giacomo matamoros, che in Spagna fronteggiava i mori. Con la cappella degli Ovetari, nella chiesa degli Eremitani, l'iconografia quattrocentesca eternava il ciclo murale delle «Storie di San Giacomo e San Cristoforo». I santi uniti per il trionfo della Cristianità portavano la firma anche di Andrea Mantegna. Il ciclo è sparito, distrutto da una bomba nel 1944. Infine si poteva ammirare il bellissimo San Cristoforo, risplendente su fondo oro, di Giovanni da Bologna. L'arte non si presentava come la concepiamo oggi. Cicli pittorici e dipinti erano testi illustrati e «spot» per gli occhi di chi non sapeva leggere, erano il tessuto sotteso di infiniti significati per quanti erano in grado di «leggere». Mai arte fu così «concettuale». L'artista era più che mai vicino all'assoluto, il suo linguaggio echeggiava un «conto» per immagini, quando l'analfabetismo imperava. Con una
serie di implicazioni teologiche e filosofiche, di allegorie e di simboli. Il popolo guardava estasiato, soggiogato, ma non capiva.77 Ancora Padova offriva alla devozione l'unico corpo, dei quattro evangelisti, rimasto integro. Quello di San Luca Evangelista che, secondo la tradizione, sarebbe nato in Siria o in Grecia. La «Suria» di Cristoforo Colombo, la Grecia dei Cybo. In questo humus culturale, che ritroveremo in Colombo, che potrebbe avere forgiato Colombo, matura Giovanni Battista Cybo. I suoi occhi, come il suo spirito, hanno di che saziarsi. Alla luce di quanto lo attende sulla cattedra di Pietro. Nella città veneta, dunque, si incrociavano le discipline, gli studi, gli uomini, le menti, le religioni, in un intreccio analogo, per molti aspetti più complesso e avvincente di quello di Genova. E anticipatore delle accademie fiorentine, napoletane, romane. Nella certezza, più che nella speranza, di plasmare l'essere nuovo per l'era nuova. Quella sorta di cyborg dell'intelletto e «super partes», che sarà nelle mire del Rinascimento. Nell'immagine leonardescamente perfetta dell'uomo vitruviano. Da proiettare ieri con le navi verso l'altra metà dell'orbe. Oggi, come è accaduto nel corso di una missione lanciata per cercare contatti con eventuali altre vite, con le navi spaziali verso l'otro cosmo. In uno stretto collegamento fra i tanti Diogene, che portavano la lanterna della conoscenza. Alla ricerca delle rispondenze «macrocosmo-microcosmo». Alla ricerca dell'unica, uguale per tutti i popoli del mondo, armonia universale. In quei sogni pericolosi e incontrollabili, che possono sfuggire facilmente di mano, che possono addirittura ribaltarsi, finire in mani perverse e dispotiche. Nel sacrificio delle moltitudini come delle opposizioni. Il Rinascimento non sboccerà all'improvviso, avulso dal passato e fine a se stesso. Resterà fortemente saldato al retaggio del Medioevo. Ne sarà una proiezione, nobilitandone le pulsioni.78 Giovanni Battista Cybo abbandonò il mondo, come aveva fatto San Francesco. Verrà a Roma per l'amicizia del cardinale Calandrine fratello del papa Nicolò V. Il futuro pontefice si lascia, dietro le spalle, la gioventù trascorsa alla corte aragonese in Napoli. Sposa la Chiesa ricca e sfarzosa. Lo attende una vita di preghiera e di progetti universali. La sua famiglia ha origini e ricchezze che si perdono nel tempo, forse in parte svanite, ma è costellata di «uomini illustri e per virtù segnalati che in diversi tempi sono di essa usciti, e per la grandezza de' meriti e delle opere da essi egregiamente fatti di sovrani onori sono stati fregiati; o anche per lo splendore delle famiglie di principi e di pontefici co' quali s'è spessamente imparentata, è antichissima e nobilissima: e siccome non è ad alcuna delle casate di Genova seconda, così tiene onorato luogo tra le più illustri e principali famiglie d'Italia».79 Fin dall'anno 1000 i Cybo, di cui abbiamo già visto in parte le origini, erano stati al servizio della Chiesa di Roma, «all'imperio in Italia e fuori d'Italia».80 In una lista di personaggi che culminerà, dopo Innocenzo IV, con papa Bonifacio IX (1355-1404), «chiamato prima che a tale dignità ascendesse, Pietro Tomasello Cibo, disceso, come dicono, da un Tomaso Cibo, nobile cavaliere, chiamato anche, forse per essere di bassa statura, Tomacello (Tomacelli), e «che circa gli anni di nostra salute 1010 fermò la casa sua in Napoli».81
Di quella parentela, smarrita nel tempo, restano tracce nella prima sala Borgia in Vaticano ed una statua in marmo del pontefice, nella basilica di San Paolo. Che reca nelle mani un libro dove è inciso: Bonifacio IX della stirpe «Thomacellus genere Cibo». Panvinio, l'agostiniano veronese, successore del Platina nella stesura delle biografie dei papi, conclude che non si può fare «catalogo» dei tanti personaggi insigni della famiglia. Che «signoreggiarono molti paesi e stati in Grecia loro antichissima patria sotto nomi Cubi». I Cybo, dunque, hanno rappresentato nei secoli una dinastia di uomini di Chiesa, cavalieri, crociati, capitani di mare e di terra, come Colombo. In una presenza continua in difesa di Roma e presso le corti d'Europa. Hanno coltivato la devozione a San Francesco, l'amore per le isole, la Grecia, Napoli e Genova. Il concetto allora dominante era quello di un soglio pontificio in grado di abbagliare l'ecumene. Non bastava ai pontefici cospargersi il capo di cenere o baciare i piedi degli umili, in particolari circostanze, per restare tali. Si oscillava in un equilibrio precario, rischioso. Non tutti la pensavano allo stesso modo. Molto dipendeva dal carattere della persona e dalle più recondite inclinazioni dell'uomo. Il papa, anche con la tiara, restava un essere terreno, a dispetto della sua divina investitura. Specie perché le vocazioni non erano troppo spesso sincere. Quello ecclesiastico era uno «status symbol» ricercato dalle famiglie nobili. Se ne faceva mercato fuori, così come dentro il tempio. Anche il cursus di Giovanni Battista Cybo fa parte di strategie precise. Comincia nel 1467, quando viene nominato vescovo di Savona, da Paolo II, il veneziano Pietro Barbo. Savona è la città ligure dove le cronache vogliono il giovane e umile Colombo, al seguito del presunto padre Domenico Colombo, risiedere per circa due anni. Tutti e due, Cristoforo e Giovanni Battista, soggiornano, dunque, nella stessa località della Liguria.82 Giovanni Battista Cybo è ora in stretta amicizia con Giuliano, della potente famiglia dei Della Rovere, il futuro papa Giulio II. Certo è che già gode soprattutto dei favori di un altro più importante Della Rovere: il francescano e savonese Sisto IV. Che gli conferisce, nel 1472, la diocesi di Molfetta: «Translatus ad Melphitanam ecclesiam, anno 1472».83 Singolare promozione. Savona è una sede prestigiosa, ha già dato un papa. Molfetta è un borgo medioevale decentrato. Ma raggiungere la Puglia voleva dire respirare la Magna Grecia. E una volta di più lo spirito della lotta contro il turco, nell'estrema terra crociata della penisola italiana. Dai porti della Puglia si erano imbarcati i combattenti e il brancaleonesco esercito di pellegrini, che avevano dato vita, sotto Urbano II, al primo pellegrinaggio armato, convertitosi in crociata. A Molfetta il monastero di Santa Maria e San Giovanni dei padri di Banzi era, per la sua vicinanza al mare, la sede più adatta alla preparazione naturale e materiale dei navigli, che dovevano salpare verso l'Oltremare... Laggiù «nel 1097 si videro affluire, provenienti da ogni regione, quei generosi croce-segnati, detti Crociati, che
costituirono la eletta schiera di volontarii combattenti per la religione di Cristo, al grido: 'Dio lo vuole'. Quella fu la prima, vera e propria crociata».84 Accanto al porto era stato costruito l'ospedale di San Giovanni per il ricovero di pellegrini e combattenti. Monastero, chiesa, ospedale. Altrettanti punti di riferimento per quanti andavano o tornavano dalla Terrasanta. Nella cittadina si installarono i Templari prima, i Cavalieri gerosolimitani dopo. Naturalmente «anche i padri della Badia di Banzi a Molfetta dovettero scomparire dalla loro casa religiosa, perché l'ordine dei Templari di Barletta e, di conseguenza, di Molfetta, fu bandito nel marzo 1308».85 I Templari spariranno, la loro eredità rimarrà. Trasmigreranno in altri ordini, sopravvivranno nel segreto. Si modificheranno attraverso successive incorporazioni. La loro presenza, come quella di altri cavalieri, la incontreremo sempre nel corso dell'investigazione in cerca del Graal colombiano. Era stato l'ennesimo cittadino genovese, Giovanni Malvagio, ad occuparsi delle proprietà templari a Molfetta. Quando l'ordine era ancora in vita, nei primi anni del 1200. In una presenza che andò consolidandosi durante tutto il secolo.86 Nel 1188 giunse miracolosamente l'immagine di una Madonna con Bambino. La venerazione mariana di Giovanni Battista Cybo per la Vergine dei Martiri di Molfetta, portata via mare da Gerusalemme, trafugata dai pellegrini reduci dalla crociata, fu immediata. Appena eletto cardinale, nel 1480, l'anno in cui Roma assiste annichilita al sangue sparso ad Otranto, la impreziosirà con la costruzione di una nicchia in pietra leccese. Una volta papa, ne incrementerà il culto inviando una bolla con la quale si assegnavano indulgenze per chi si recasse a visitare, nella domenica in albis e nella festa dell'8 settembre, l'immagine sacra.87 Nel tacco bizantino d'Italia restava infine sempre vivo il ricordo di Federico II di Svevia. Che si interessava all'Oriente e al Sufismo. Che ottenne la corona di re di Gerusalemme e nel quale Dio avrebbe unito il regnum ed il sacerdotium. Che si circondava di sapienti, monaci e Templari. Che in morte indossò il saio grigio dei cistercensi, dell'ordine di Citeaux. Una leggenda vuole che alla corte imperiale abbia vissuto Averroè.88 Anche allora, nelle fantasie popolari, la corona di Gerusalemme si riallacciava all'escatologia. Si credeva che da Occidente sarebbe giunto «l'Imperatore della promessa» per liberare la Città Santa senza la violenza delle armi. Con lui sarebbe iniziato l'ultimo tempo e l'avvento dell'Anticristo. Secondo un'altra profezia «'l'Imperatore dell'avvento' avrebbe dato inizio, con la liberazione di Gerusalemme e prima della fine del mondo, ad un millenario regno di pace».89 La costruzione ottagonale del maniero di Castel del Monte, voluta dallo stupor mundi ed edificato con il contributo sapienziale dei cistercensi guidati da Bernardo di Chiaravalle, il monaco che dette la regola ai cavalieri del Tempio, si stagliava nel cielo ispirandosi al Tempio di Salomone. In un crescendo di riferimenti astronomici e astrologici. In una sala campeggia la figura del Baphometto, l'idolo che avrebbero venerato i Templari. Sarà uno dei motivi della loro condanna. Ancora armonie celesti perdute e inseguite. Ancora esoterismo e conoscenze arcane. Ancora Templari, ancora cavalieri. Ancora la chimera, ora dei papi, ora di re
e imperatori, di unire l'Oriente e l'Occidente. E sempre i cistercensi, coinvolti pure nella costruzione di uno dei santuari pugliesi più frequentati dai pellegrini, quello del Monte Gargano, dedicato a San Michele. Il quale a sua volta si batteva per sconfiggere il drago del caos e si presentava con la lancia. In qualità di principe degli angeli, messaggero divino, come Hermes. Ma anche come principe della pace e garante dell'ordine fin dal tempo di Carlo Magno. Infine sulla facciata di Bitonto, non lontano dal Gargano e da Castel del Monte, «sulla lunetta del portale destro troviamo una rappresentazione simbolica di Cristo: alla destra e alla sinistra piante come simboli dell'Islam e del Cristianesimo, che si avviluppano verso il centro. L'opera è della seconda metà del XII secolo. Nella stessa epoca vivono cavalieri, crociati e mercanti che si comporteranno come cristiani in Europa e come musulmani in Oriente».90 Dalla Puglia alla Toscana, dal Gargano e dalla lancia a San Galgano e alla spada. Si rientra nei dolci paesaggi toscani di Pio II Piccolomini. Dove un mappamondo sparito, dipinto da Ambrogio Lorenzetti nel 1344, si trovava a Siena sulle pareti del Palazzo Pubblico. Non c'è più. È rimasto solo un graffio circolare sulle pareti. Quale mondo presentava? Mentre il ciclo stupendo dell'allegoria del Buon governo si divideva, come negli scacchi, nel bianco e nel nero, i colori della città, dei Templari, dei Cybo. In una chiesa non lontana da una Magione templare si conservano ancora oggi oggetti portati dall'altro mondo, che sarebbero stati donati dallo stesso Colombo.91 Nella campagna, là dove, nel silenzio, si stempera l'atmosfera di Piazza del Campo e della torre del Mangia, si perpetua, nel solitario monumento gotico-circestense di San Galgano, il mistero inesplicabile di una spada nella roccia. Mentre il nome di Galgano richiama naturalmente quello di Galvano, eroe del ciclo di re Artù.92 La spada è conficcata nel sasso, impossibile estrarla senza doverla rompere. Sull'arcano medioevale si arrovellano gli studiosi. L'arma non è pronta per essere usata, è rinfoderata come in tempo di pace. Lo spettro della cavalleria continua ad aleggiare lungo le regioni della penisola. La trama, a questo punto non più eludibile, si ripete, in un gioco a volte fin troppo suggestivo di rifrangenze, di trasversalità. Ora dichiarate, ora nascoste. Si è sostenuto che Innocenzo VIII potrebbe non essere mai venuto in Puglia. Allo stesso modo si potrebbe sostenere il contrario.93 A quel tempo le cariche non implicavano la dimora effettiva. Della presenza di Cybo a Molfetta non restano tracce. Tranne per una cronaca dove si afferma che, sia pure per breve tempo, Giovanni Battista dimorò laggiù: «Poco intanto potè godere della presenza del suo Prelato; poiché essendo nota al sudetto Sisto IV Pontefice l'hattività d'un tant'uomo, l'inviò in qualità di legato alla Dieta di Norimberga, per stabilire la pace tra l'Ungaria e l'impero».94 Ulteriori prove definitive, in un senso o nell'altro, non ce ne sarebbero. Ma il papa genovese e greco doveva conoscere bene la Grecia dell'Italia. Era l'attracco naturale per i cavalieri che venivano dal Levante e dal mare. Così, nella terra crociata per elezione, la Madonna dei Martiri, la Santa Maria, la «Stella maris» di papa Cybo,
guardava verso l'Oriente, da dove era venuta. Indicando il Santo Sepolcro, in un modo o nell'altro, da riconquistare. Perché il tempo non può più aspettare.
3 - Colombo, il figlio di Innocenzo VIII L'ATTESA era millenaristica. I turchi avanzavano da ogni parte, minacciavano l'Europa. Il pontefice, il sole di Roma, la testa del corpo cristiano, rischiava di finire mozzata sotto la spada della mezzaluna. Le risorse delle repubbliche italiane, private dei commerci con le Indie, erano compromesse. Roma, alla morte di Sisto IV, fu in parte messa a sacco, scossa da discordie intestine. C'era nell'aria la minaccia di una guerra civile. «Nessun ligure ebbe più garantita la proprietà in Roma e persino lo spedale dei Genovesi fu distrutto.»95 Eppure la scelta cadrà proprio su un cittadino ligure. I cardinali, nel timore popolare, avevano fatto trasformare i loro palazzi in fortezze. Sangue e delitti infestavano le strade. I vicoli, nella notte, diventavano spesso un trabocchetto per chi vi si avventurava, un fondale perfetto per gli agguati. La capitale del mondo era una città violenta, le alleanze tanto intricate quanto instabili. Colonna e Orsini si combattevano, le grandi casate erano rivali fuori e dentro Roma. Oltre confine regnava la discordia fra i principi, e l'Italia era terra di conquista. Italiani e stranieri ambivano al soglio di Pietro. Gli spagnoli, che operavano attraverso la presenza del nipote di Callisto III, l'ambizioso e spregiudicato Rodrigo Borgia, cominciavano ad «ingerirsi sempre di più nei grovigli della politica italiana».96 La guerra era sempre alle porte, il rischio eternamente nell'aria. Roma e il mondo avevano l'urgente bisogno di un uomo di pace. Cinquecento anni dopo un altro Giovanni, papa Giovanni (!) XXIII, dedicherà un'enciclica alla Pacem in terris. Pace, giustizia, abbondanza e il bene di Roma saranno sempre il programma dichiarato di papa Cybo: «...che ad altre cose vole attender cum studio et efficacia: a pace, iustitia et abundantia».97 Giovanni Battista Cybo aveva dato ampie prove di essere un uomo di pace. Si era dimostrato già in grado di invertire la spirale di precarietà e di morte che aveva contraddistinto gli ultimi decenni del secolo. Fin dal primo affacciarsi al proscenio aveva messo in luce le sue qualità. Sisto IV, quando nel 1476 si era ritirato a Campagnano, in seguito ad un'epidemia di peste, gli aveva consegnato il governo della Chiesa. Un atto di fiducia estrema in tempi calamitosi, nei quali il tradimento era all'ordine del giorno. Rimasto solo con alcuni fidati, Cybo si adoperò nel modo migliore: «Riuscì a conciliare i rapporti tra gli abitanti rimasti, attenuò lo sciacallaggio, creò postazioni di soccorso, fece il possibile per alleviare le sofferenze dei più sfortunati ed ebbe il tempo di dedicarsi alle funzioni religiose».98 Fu il precedente che confermò la statura delle sue doti. Era stato inoltre legato nella Siena dei Piccolomini e di San Galgano in tempi di scontri e di battaglie civili. Grazie a lui si era potuta stipulare la pace tra il pontefice, il re di Napoli, il duca di
Milano e i fiorentini. Come pacificatore era stato inviato anche all'estero. «Fece due viaggi in Levante per tenere a freno la rabbia turchesca.»99 I precedenti nella sua famiglia, la fitta rete di parentele erano una garanzia in questo senso. L'abilità e le capacità di relazioni personali bilanciavano l'assenza di istituzioni. La carica del pontefice non è ereditaria. In un'epoca in cui non ci si poteva fidare di nessuno, il «nepotismo», che si era affacciato fin dal Duecento, rappresentava un'esigenza innanzitutto politica. La famiglia, gli amici, le clientele, il ricorso a quanti avrebbero dovuto riconoscenza, costituivano la forma di difesa più naturale, da parte di chi non mancava di nemici e temeva aggressioni da ogni lato. «È saggio e lodevole che il papa continui a tener cari come in passato congiunti e amici. Infatti, come dice il proverbio del popolo, 'non è bene legare estranei al proprio ombelico'», aveva scritto il chierico Lambert di Huy.100 Anche quando si tentò di arginare il malcostume, si ribadì che era «giusto e lodevole provvedere ad affini e consanguinei, soprattutto se benemeriti e indigenti».101 Il fenomeno, che pure fu abusato, costituiva una necessità.102 La compattezza e la fedeltà della famiglia erano quanto mai indispensabili alla conduzione di un potere anomalo come quello del papa. I parenti ne erano una componente essenziale. In una forma di autodifesa dello Stato pontificio. Per cui bisognava avere quanti più castelli in mano di persone devote e leali, quanti più incarichi militari e curiali, consegnati nelle mani di parenti e amici. Certo, il confine fra il lecito e l'illecito, tra l'uso e l'abuso, era quanto mai ristretto, per cui il Guicciardini osserverà: «Da niuna cosa ha l'ambizione de' pontefici maggiore fenomeno che da sé stessa». In una progressione che, con Cesare Borgia, porterà al «successo del consolidamento dello Stato papale che porta in sé le cause del suo disfacimento».103 I principi della Chiesa sfilavano mascherati a cavallo alle feste del carnevale. Morivano a volte per «un'eccessiva attività erotica». Molti partecipavano di ogni piacere mondano, specie quanti erano stati forzati alla scelta, non provenendo dall'apprendistato di una vita al servizio di Dio. L'aristocrazia investiva gran parte della prole in una carriera, che avrebbe potuto premiare, come nessun'altra, le fortune della famiglia. Lo sfarzo romano partecipava della mentalità dei principi rinascimentali, in una gara alla quale nessuno si poteva e si voleva sottrarre, tanto meno un papa che volesse affermare la supremazia universale della sua carica. È altrettanto evidente che quanti, nell'ambito della corte pontificia, si ritenevano ingiustamente privati di «promozioni» e proprietà, gli avversari più accaniti, avessero buon gioco per una serie di accuse infamanti. Anche perché non sempre i «famigli» erano all'altezza della situazione. Mentre dissimulazione, calunnia e menzogna facevano parte delle arti del potere. Ai prelati secolari si opponevano in ugual misura quelli votati ad una vita altamente spirituale, preoccupati del bene dell'umanità. Che non si sarebbe mai potuto raggiungere senza la pace. La storia, dalla scissione protestante,
all'Illuminismo, al positivismo, alla Massoneria, per ragioni e interessi vari, ha preferito calcare la mano sull'aspetto più esecrabile della corte di Roma. I papi erano espressione del loro tempo, i tempi erano eccezionali. Nel male, ma anche nel bene. Il papa era un «monarca» transeunte, solitario, elettivo, spesso senescente. Il suo scettro cozzava con quello collegiale dei porporati, la sua carica durava in genere pochi anni. Il potere temporale, importante quanto quello spirituale, esigeva in qualche modo il ricorso a tutti i mezzi utilizzati dalle dinastie sovrane con le quali si trovava a competere. E figli e parenti erano elementi preziosi in questo domino. Lo scandalo, sotto questo aspetto, era decisamente ininfluente rispetto a quanto si può credere oggi. Il «cardinal nipote» non va visto come un'istituzione che suona solo a disonore dei costumi della Chiesa. Fu uno dei pochi rimedi possibili, in un'epoca turbolenta, attraversata da continue ribellioni, a fortificare le strutture della Chiesa stessa. Reclutando, anche fra i congiunti e le dinastie più influenti, gli uomini di spada e di fede di cui si aveva bisogno per la sopravvivenza. La carica dei senatori di Roma era stata creata proprio nell'intento di controllare meglio la città, attraverso il coinvolgimento dei nobili. Anche se, in questo senso, si correvano molti rischi, per cui era necessario un bilanciamento sul versante «popolare», per ridurre il peso, a volte ingombrante, dell'aristocrazia. Il «nepotismo», in definitiva, visto nella sua accezione corrente spregiativa, appartiene ad un tipo di interpretazione storica non proprio corretta. Persino chi, soprattutto in questo senso, scrive che Innocenzo VIII non fu un grande papa o i tanti che affermano, senza la minima ombra di dubbio, che fu decisamente un pessimo papa, è costretto spesso a contraddirsi, a riconoscergli non pochi meriti. Occorreva mettere un freno ad una situazione il cui controllo, ogni giorno di più, rischiava di essere irrimediabilmente compromesso. I cardinali, riuniti dopo la morte di Sisto IV, che non lasciava rimpianti, chiedevano all'unisono il proseguimento della guerra contro gli infedeli. Reclamavano la riforma della curia «dalla testa ai piedi», come precisa il cronista di corte Giovanni Burcardo, la convocazione di un concilio, per difendere la fede ed allestire una spedizione contro i turchi. La riorganizzazione generale della Chiesa doveva investire «la vita e i costumi». Doveva essere «tale da coinvolgere tanto il clero secolare e regolare quanto gli ordini militari, tanto i principi quanto le nazioni, per tutto ciò che attenga al giudizio e alla cura della Chiesa».104 Nelle mani del futuro eletto veniva affidata una vera e propria rivoluzione. Da compiersi in vista del 1500 e del nuovo secolo. Nel messianismo crescente. I cardinali si chiusero in conclave il 26 di agosto del 1484. Pare che in lizza fossero, fin dall'inizio, il veneziano Marco Barbo e il genovese Giovanni Battista Cybo. Due grandi cavalieri, legati all'ordine di San Giovanni di Gerusalemme. A uomini come loro doveva essere affidato il mutamento della Chiesa. La posizione di Francesco Della Rovere, per frenare i maneggi di Rodrigo Borgia, fece pendere la bilancia in favore del secondo.105 Appena tre giorni dopo l'inizio dei lavori la scelta dei circa venticinque prelati era già fatta. Nel ricordo della decollazione di Giovanni Battista, al quale dedicò il pontificato, nel solco di una Chiesa diversa, evangelica e profetica, Giovanni Battista
Cybo scelse il nome di Innocenzo VIII. Aveva poco più di cinquant'anni, era la «pietra» scelta dalla provvidenza. Sarà il pontefice numero 213 (due volte 3). In una calda giornata d'agosto risuonò la voce del cardinal decano Francesco Todeschini Piccolomini il quale, affacciandosi dalla loggia sulla piazza, pronunciò a voce alta, davanti alla folla di Roma festante, in attesa e desiderosa di tempi migliori, il sospirato annuncio: «Nuntio vobis gaudium magnum, habemus papam Reverendissimum Cardinalem Melphitensem Joannen Baptistam Cybo qui sibi nomen imposuit Innocentium». Rispose un grido di tripudio. Il breve lasso di tempo occorso per arrivare alla decisione finale testimonia lo svolgimento di un'assise niente affatto combattuta, una unanimità di giudizio facilmente raggiunta, in un momento quanto mai particolare per le sorti della Chiesa e della Cristianità. Non mancarono le consuete elargizioni, le promesse concrete, i patti considerati simoniaci, come avveniva di frequente nel corso di un'elezione. In quegli accordi sotterranei ai quali, anche ai nostri tempi, con forma diversa, non si riescono a sottrarre le decisioni di una politica da cui dipende il destino dell'umanità. Dal papa, più che mai in quel momento, dipendeva l'asse del mondo. Tanto più che Roma sapeva di dover cambiare la rotta dell'ecumene. Spezzando ogni equilibrio esistente. Per via delle scoperte geografiche annunciate. Ma se si va a leggere con attenzione il Diario del Burcardo, un tedesco maestro di cerimonia - che non prende mai posizione, anche se talvolta si azzarda a dire ciò che è bene e ciò che è male, che si limita a fare il notaio degli avvenimenti -, ci si accorge che le cose sono andate in realtà molto diversamente da come le si è volute ricostruire. I patti furono preventivi all'elezione del nuovo papa, cercando soprattutto di ridimensionarne il potere: prevedevano una sorta di «immunità» per i conclavisti e vennero sottoscritti da tutti, obbligando il futuro eletto al rispetto degli accordi, come prima prova del suo incarico. «La costituzione monarchica della Chiesa doveva trasformarsi in aristocratica, provvedendo però innanzi tutto ai vantaggi personali degli elettori.»106 Il Burcardo era fra quanti erano incaricati di «raccogliere tutti i beni appartenenti al futuro Sommo Pontefice che si trovassero al conclave e di distribuirli onestamente fra i conclavisti predetti».107 Ogni cosa era stata meticolosamente prevista. Si trattò di vere e proprie capitolazioni. Di contratti nei confronti dei quali il pignolo diarista pontificio, sempre attento alla forma, non mostra il minimo imbarazzo. Parlando addirittura di una «onesta» distribuzione. Quegli accordi furono la conferma di una corruzione dilagante o piuttosto la necessità di una politica che avrebbe dovuto voltare pagina, dimostrarsi per il futuro più disciplinata e conciliare, meno scandalosa? Nei patti preelettorali figurava persino un freno al nepotismo e la riorganizzazione degli ordini militari, il braccio armato di Roma contro gli infedeli. Che si sarebbe dovuto muovere incontro o contro il «drago». I papi del Rinascimento certamente non sono stati solo innocenti, ebbero le loro colpe: molte erano «figlie» del tempo, molte altre sono diventate «figliastre» dei tempi e delle interpretazioni storiche che seguiranno.108 Nel corso del rapido conclave il ricchissimo cardinale Rodrigo Borgia, il corpulento e mondano spagnolo, aveva dato ampia prova della sua «superbia e
slealtà». Si sentiva sicuro, più che sicuro dell'elezione. La Spagna stava già muovendo tutte le sue pedine. Trescò fino alla fine con promesse «in oro, beni stabili e benefici». La «scoperta» dell'America, l'oro, sarebbero stati la garanzia. Ma il piano fallì. Il futuro Innocenzo, dunque, non fece che eseguire una prassi perfettamente codificata prima dell'inizio dell'assise. La simonia, in questa ottica, si riduceva ad una elargizione di favori dovuti, in una «campagna elettorale» preventiva, nella quale i cardinali erano solidalmente coinvolti. Assume, pertanto, un ben distinto significato la frase pronunciata dal cardinale di Siena, una volta giunto di fronte ad Innocenzo, ottavo nella successione di quanti avevano scelto lo stesso nome. Il quale aveva ormai raggiunto il quorum necessario di diciassette voti. Il senese Francesco Piccolomini, il futuro Pio III, era circondato da una grande fama di pietà, di onestà, di disciplina, di ordine, di amore per la cultura. Giunto al cospetto di Giovanni Battista Cybo, con la sua supplica, commentò sorridendo il fatto che il papa stesse in ginocchio firmando, appoggiandosi ad un forziere, le carte che i porporati gli presentavano: «Questo va a riverso, el papa segnando sta in ginocchione, et noi che domandiamo stiamo ritti», in un atteggiamento che potrebbe essere di estrema umiltà. La frase è stata utilizzata come un maglio nei giudizi su Innocenzo VIII. Piccolomini stava presentando, a sua volta come tutti, la sua richiesta. Le parole espresse dal porporato di fronte al pontefice non potevano essere offensive. Sembrano, visto il sorriso che accompagnò l'espressione, un benevolo rimprovero fatto dal saggio prelato al cospetto di un eletto che stava già dando dimostrazione di essere diverso dagli altri. Giovanni Battista fu incoronato il 12 settembre del 1484. Sua Santità con l'amitto, l'alba, il cingolo, la stola, il piviale rosso e la mitra preziosa si recò, su una portantina, alla messa in San Pietro. Le campane risuonarono, i fucilieri in segno del trionfo si misero a sparare, tutti i canonici gli baciarono il piede. I cardinali la mano, i prelati il piede destro. In cima ad una canna fu bruciata una stoppa e risuonò il monito: «Padre Santo, così passa la gloria di questo mondo». Poi il corteo si diresse verso il Laterano. La città era pavesata a festa, i palazzi inghirlandati. La processione attraversò le strade fra il giubilo popolare, il papa avanzava su un cavallo bianco. Ogni tanto gettava denari alla plebe in festa. All'altezza di Castel Sant'Angelo il corteo si fermò e gli ebrei lo accolsero, offrendogli di «adorare e onorare la loro legge e acclamandolo in ebraico».109 Il papa disse di approvare la legge, ma condannò il modo di interpretarla, poiché il Messia era già venuto ed era «Il Signore Nostro Gesù Cristo». Il rapporto con i giudei non era conflittuale. Si riconosceva la continuità fra ebrei e cristiani, di cui facevano fede i grandi capolavori della pittura. Le divisioni si basavano sull'«interpretazione» della dottrina.110 La presenza degli ebrei si era in quei tempi rafforzata nell'urbe. Un nutrito flusso migratorio si era riversato in Italia e in particolare a Roma. Dove regnava uno spirito di tolleranza quanto mai ecumenico. Retaggio dell'antica caput mundi, in un afflato di universalismo, che non faceva questioni di razza o di fede.111 Il pontefice fece il suo ingresso nella chiesa dei Santi Giovanni, il Battista e l'Evangelista, sulla sedia gestatoria. Non fu usato il baldacchino, nel timore della
folla. La seggiola finì in pezzi, contesa dai soldati. Quanti nei momenti seguenti l'elezione avvicinarono Innocenzo VIII, vescovi ed ambasciatori, hanno lasciato del papa un'ottima impressione: «Honores mutant mores, la certamente sua benignità e l'afabilità l'ha tanto innata et abituata ch'ognuno sta in ferma speranza che habiamo un bon papa»; «Egli è descritto come uomo modesto, mansueto e amato da tutti».18 Sembra il ritratto di «un papa angelico». Ma peserà sulla sua scelta l'ombra del cardinale Giuliano Della Rovere, che ne aveva favorito l'elezione, al punto che molti videro in lui una sorta di prestanome, al punto che un ambasciatore scrisse a Lorenzo il Magnifico: «Inviate una lettera cortese al cardinal di San Pietro, poiché egli è papa et plusquam papam». Pare inoltre che i fiorentini dicessero che «esso pontefice dormia con gli occhi di esso magnifico Lorenzo».112 Innocenzo, è vero, ascoltava i pareri altrui, accettava di buon grado i consigli, ma non fu mai succube di qualcuno. Tanto meno complice dell'ingiustizia, a dimostrazione di una bontà e di una moralità che non sconfinavano mai nella debolezza. Fece subito comprendere con chi avevano a che fare anche ai re di Spagna.113 Pareri affrettati, superficiali, insinuazioni gratuite, giudizi progressivamente e volutamente falsati negli anni investiranno per sempre la figura del pontefice, nonostante molta documentazione e molte fonti dimostrino l'esatto contrario. La verità fu sporcata, deformata. Tanto è vero che il principe di Firenze fu costretto a lamentarsi ripetutamente con Innocenzo, per il mancato intervento a favore del genero Franceschetto Cybo, il figlio del papa, il quale aveva sposato Maddalena de' Medici. Riuscendo, solo dopo una serie di continue insistenze, ad ottenere qualche concessione. Ne fa fede un lungo carteggio: «Non senza qualche erubescenzia», scriveva il Magnifico, «raccomando a V.S. le cose del sig. Francesco, parendomi molto absurda cosa avere a ricordare alla S.V. Cosa, che naturalmente le debbe essere più che alcun'altra cara, né dovrebbono ragionevolmente le lettere, ed intercessioni mie avere più forza che le condizioni naturali del sig. Francesco con V.S.»114 La lettera è del 1487. A tre anni dall'elezione di Innocenzo VIII la situazione di Franceschetto non era minimamente mutata. Il papa, che si vorrebbe corrotto e nepotista, non aveva fatto nulla per favorire il figlio, nonostante le istanze e le reiterate pressioni del Magnifico, che sarebbe la sua guida. Panvinio (1530-1568), 115 che prosegue puntigliosamente il lavoro del bibliotecario vaticano il Platina, circa la redazione delle vite dei pontefici, a non troppi anni dalla scomparsa di Giovanni Battista Cybo ne fa un ritratto edificante e parla addirittura di «quasi una troppa freddezza verso i suoi parenti». Lorenzo, che ricevette l'appalto dell'allume, il prezioso materiale indispensabile per la tintura delle stoffe, nel 1489, scriveva ancora, a cinque anni dall'investitura di Cybo, per caldeggiare il genero e «molti altri servitori», sempre «digiuni» e che partecipavano solo moderatamente «di tanta buona fortuna». Ricordando, per l'ennesima volta, «la mala condizione del povero sig. Francesco, il quale in cinque anni del Pontificato di V.S. si può dire che abbia incominciare ancora ad avere alcuna cosa ferma, e che assolutamente si possa chiamare sua... che gli uomini non sono
immortali, e che uno Pontefice è tanto quanto vuole essere, e non può lasciare il Pontificato ereditario, e può chiamare suo solamente, e la gloria, e benefizio, che fa alli suoi».116 Rigore, onestà, una cura rivolta ai problemi del gregge, piuttosto che a quelli particolari e privati, nonostante il culto sincero dei legami del sangue, paiono caratterizzare le mosse del papa. Le trasgressioni, se tali furono, dato che vanno inquadrate nel costume imperante, miravano al bene comune della Cristianità. In linea con una disposizione d'animo identificata con la pietas, considerata una virtù della teologia morale e che si manifestava anche «nell'affetto e devozione per i congiunti, i concittadini, la patria, Dio».117 È il criterio che ispirerà anche il comportamento di Colombo. Il navigatore, a dispetto di ogni evento, si preoccuperà sempre di amici, congiunti (tranne il padre e la madre assegnatigli dalla storia) e discendenti, oltre che dei più poveri. Una parte della sua eredità dovrà essere devoluta «a persone bisognose e in opere pie».118 Del papa il Panvinio esaltava «l'humanità infinita e misericordia verso i poveri». Uno spirito di carità che, nella tradizione dei Cybo, non si è mai perduta. Visto che, ancora ai giorni nostri, nella chiesa di San Marcellino a Genova, che appartenne alla famiglia e dove fu battezzato Innocenzo VIII, la domenica mattina viene officiata una «messa dei poveri», frequentata dai molti barboni della città.2119 Quando Innocenzo diventò papa, la sua famiglia, per quanto nobile ed illustre, pare, secondo alcuni, che non si trovasse, dal punto di vista economico, in un periodo particolarmente splendido. Era un cardinale «povero»?120 L'aggettivo potrebbe riferirsi alle abitudini di un uomo che ha scelto una vita più consona al nuovo incarico. Alla volontà, nonostante i fasti a volte indispensabili della corte vaticana, di un ritorno auspicato, in certi casi, a «sorella povertà». Anche di Colombo si dirà che era di un casato illustre, caduto momentaneamente in disgrazia. Fernando Colombo, nella sua storia, scriveva del padre, a proposito dei genitori, «che quantunque essi fossero buoni in virtù, essendo per cagione delle guerre e parzialità della Lombardia ridotti a bisogno di povertà, non trovo come vivessero e abitassero». La vita di Innocenzo VIII, nel corso del suo pontificato, fu tumultuosa e ricca di imprevisti. Un giorno una saetta «percosse» la camera del papa: fu vista come un segno di malaugurio per la sua esistenza. Tanto più che faceva seguito ad un improvviso malessere del pontefice, per cui già ci si preparava ad una nuova elezione. In quell'occasione Francesco Cybo, recatosi in Castel Sant'Angelo, vi trovò circa un milione d'oro con il quale, con l'aiuto del re di Francia, si doveva «muovere l'arme». Erano, dunque, i soldi che Franceschetto, nel rispetto della volontà paterna, voleva preservare per il compimento della crociata. Passerà alla storia come il tentativo di depredare i beni della Chiesa. Il papa si riprese, come per miracolo, ma l'incidente «risvegliò i suoi a procurare d'accomodar lo stato loro pei tempi futuri; e pregavano il papa ad aiutarli mentre poteva. Ma egli fu di tanta costanza, che non fu chi lo potesse mai, né per preghi né per altra via, dalle cose che oneste e buone gli parevano torcere un punto... il papa nel dispensare i beni della Chiesa ebbe sempre più l'occhio a Cristo e ai sacri canoni che a parenti e al sangue; e solea sovente dire che l'entrate di Santa Chiesa erano dedicate
ad uso sacro, e a mantenere l'autorità e grandezza di quella sedia, e non a gloria e pompa mondana».121 Per ottenere finalmente un beneficio concreto, il figlio Franceschetto dovette attendere che si rendesse vacante il feudo dell'Anguillara. Per il Panvinio «non però in quei tempi di molta rendita». Non fu un atto di imperio. Venne concesso solo dopo l'approvazione del sacro collegio. Innocenzo VIII non si comportava da despota. Franceschetto, spesso impegnato in delicate ambascerie e in campagne militari, finirà infamato dalla damnatio che colpirà la famiglia. Si tramanda, infatti, che avesse il vizio del gioco, che fosse autore di ratti e di violenze, che il padre si vedesse costretto ad impegnare i beni della Chiesa per fare fronte ai suoi debiti. Il figlio di Innocenzo, a dispetto delle malelingue, otterrà dall'imperatore Federico privilegi che raramente vengono concessi. Confermati in seguito a lui e ai suoi discendenti anche da Leone X e da Clemente VII. Innocenzo intanto proseguiva instancabilmente nella sua politica riformista: «Sgravò con paterni correggimenti di pesantissimi carichi la oppressa plebe romana: rimettendo ne' confini dell'onesto decoro le inutili pompe della profana ambizione. Sì, che ne' petti de' nuovi sudditi, succedette ben presto al rancore antico verso il mancato Pontefice, un sentimento universale i vivissimo di lieta riconoscenza pel successore».122 L'amore che il popolo portava ad Innocenzo è dimostrato da quanto puntualmente avveniva ogni volta che rischiò innanzi tempo la morte. La curia e i romani pregavano per lui, invocavano la grazia del Signore. Ma i rivali ne approfittavano. Le fazioni avversarie riprendevano coraggio e alla voce diffusa ad arte, ripetutamente, che il pontefice fosse deceduto, aumentavano i disordini. Il popolo veniva incitato, senza successo, a ribellarsi contro la dominazione del «marinaro genovese».123 La forte fibra di Innocenzo, dell'uomo di mare, avrà fortunatamente sempre la meglio grazie alle cure dei medici ebrei (!). Ma la salute del papa continuerà a subire misteriose ricadute ricorrenti, in uno strano andamento fino al 1492. Come se qualcosa o qualcuno attentasse al suo stato, in un lento, insistito «papicidio». Un'estrema dolcezza caratterizzava i suoi modi. «Nessuno partiva da lui sconsolato», scriveva il contemporaneo Sigismondo de' Conti, «tutti accoglieva con bontà e dolcezza veramente paterna, era amico di nobili e plebei, di ricchi e di poveri.»124 Aveva una sorella di nome Bianca, chiamata Bianchinetta. Bianca, chiamata Bianchinetta, era il nome di una sorella di Colombo. I Cybo, lo abbiamo visto, discendevano da una lunga tradizione di cavalieri di terra e di mare. Uomini di confine fra Oriente e Occidente. Tutta la sua vita, tutti i suoi atti paiono confermarlo. Le sue capacità si sposavano alla saggezza, la nobiltà alla lealtà, la lealtà alla quale si ispiravano la cavalleria e i Templari. E, sul fronte opposto, una componente della cavalleria musulmana. «La lealtà che supera tutto» era il suo motto. Innocenzo rappresentò la punta di diamante di una lunga dinastia. Di quella stirpe illustre fu il grande diplomatico, il grande stratega. L'erede che aveva finalmente conquistato il soglio di Pietro. Nel coronamento di un sogno coltivato anche dai Templari. Nella chimera di una Sinarchia universale.
Panvinio scrive ancora del pontefice che «era grazioso di costumi, umano e diligente e con mirabile e dolce eloquenza... e però usò quel suo simbolo 'Ego autem in Innocentia mea ingressus sum' e veramente fece sempre le opere corrispondenti al nome». Precisa che avendo trovate «esauste» le casse della Chiesa, alla quale si preparavano grandi travagli, fu «costretto» a creare venticinque ufficiali per le bolle di piombo e ventisei segretari e trenta presidenti di Ripa. La raccolta di fondi, comunemente indicata come segno di avidità, prevedeva un flusso di denaro, che «non spese vanamente poiché nei primi due anni del pontificato, essendo il Turco formidabile per gli infiniti danni fatti ai cristiani, per cui spese 150.000 scudi per mandare un'armata contro quello per reprimere il suo furore».125 Non una notazione circa lo sperpero che la storia rimprovera, o la scarsezza di mezzi a cui Innocenzo avrebbe condannato Roma, nello smodato desiderio di sfarzo. Il ritratto del Panvinio procede come in un crescendo. Non ci fu, a quanto pare, nemmeno l'avarizia, che qualcuno vorrebbe imputargli. Osservò la parsimonia, la discrezione, che raccomanderà di raffigurare al Mantegna, uno dei suoi pittori prediletti. Fu al contrario fautore di una politica economica rigorosa: «Sgravò la Chiesa e insieme il palazzo e la sua corte delle spese superflue». Favorì le «religioni» di San Francesco, di Sant'Agostino, di San Domenico. A parte Franceschetto e Teodorina, ufficialmente riconosciuti, gli altri figli, in una situazione nella quale il pontefice non mostrava preoccupazione e tanto meno imbarazzo, sarebbero stati fatti passare dalla curia per «nipoti». Per sparire misteriosamente, troppo misteriosamente, nel nulla. Della sua gioventù «scapigliata» non si sa niente, a supporto di una condotta e di costumi censurati da molte cronache non si trovano prove.126 Il Pastor, grande storico dei papi, rileva che «devesi notare che da quando Giovanni Battista entrò nello Stato ecclesiastico, non si hanno più testimonianze sfavorevoli circa la sua condotta morale». Appare poco credibile, pertanto, il particolare che lo vedrebbe a più riprese impegnare la tiara, il triregno. Anche se in un caso l'episodio apparirebbe vero.127 A meno che questa «alienazione» non abbia un valore soprattutto metaforico. Nel senso di un papato che si adoperò senza risparmio per il rinnovamento della Chiesa, al punto che quanti non erano d'accordo interpretarono quell'impegno come una vera e propria «svendita» della tradizione. I proventi finanziari derivati dal monopolio dell'allume, la vendita delle cariche, la raccolta delle decime, il commercio delle indulgenze, l'impegno in opere pubbliche e architettoniche, il finanziamento della guerra in Spagna contro i mori dimostrano che il Vaticano disponeva di abbondanti risorse, tali da finanziare anche sovrani stranieri. «Pace non ebbe, sì pecunia.»128 Che rigore e giustizia, nei limiti che i tempi consentivano, contraddistinguessero l'operato del papa è confermato dallo scarso numero di nuovi cardinali eletti da Innocenzo: furono addirittura due in meno di quelli defunti. Fra questi un Lorenzo di Domenico, forse un de' Mari, che acquisì (era un'usanza del tempo) il cognome del papa, Antoniotto Gentile (certamente della famiglia che aveva emissari anche in Spagna) Pallavicini di Genova e Ardicino della Porta da Novara, già vescovo in
Corsica. Presentato come persona rispettabilissima da tutti e di «grande letteratura».129 La visione diversa, la «modernità», l'attenzione che Innocenzo VIII portò alle correnti culturali innovatrici e neoplatoniche è avvalorata dalla sua stretta amicizia con gli umanisti Ermolao Barbaro e Pomponio Leto, con il grande Angelo Poliziano, che eseguì per lui molte traduzioni di classici greci. In una lettera il poeta del dolce stil novo definì il papa addirittura «Vicegiove».130 In linea con un ritorno all'antico, parte essenziale di un Rinascimento che trovava in certi ambienti romani e curiali, parallelamente alla «greca» Firenze, terreno fertilissimo. Tutto ormai sembrava indicare in Innocenzo la persona annunciata dalle profezie. In seguito alle aspettative escatologiche, quanto mai vive con l'approssimarsi del 1500. La pace a Roma, la pace in Italia, la pace in Europa rappresentavano il traguardo di una vastissima e instancabile attività.131 Per la pace e la concordia il papa non lasciò nulla di intentato. In una visione riformista, che investiva la vita quotidiana e il Vaticano e si scontrava con un fondamentalismo tanto cattolico quanto islamico. Fu così che sulla cattedra di Pietro il pontefice fece propria «l'innocenza di Pietro come fosse un'eredità». Roma, nel succedersi di eventi sconvolgenti, in un tempo caratterizzato dagli scontri e dai vaticinii, non rinunciava a cercare nelle sue fila l'atteso papa angelicus. A restaurare il tempo dei giusti. L'avvento era nelle mire del Francescanesimo. Fin dal 1267 il dotto francescano inglese Ruggero Bacone (1214-1293), soprannominato doctor mirabilis, aveva scritto «che quarant'anni prima era stato profetizzato che un papa sarebbe venuto per riformare la Chiesa, risolvere lo scisma con i Greci (il papa era anche greco, N.d.A.) e convertire i tartari e i saraceni».132 Un papa angelicus era atteso per il 1493. L'anno che segnerà l'ufficializzazione della «scoperta» dell'America. Come se i due avvenimenti dovessero essere coincidenti. Per l'inizio, a più riprese vaticinato, del nuovo tempo dell'oro. Innocenzo, per molti versi, pareva in grado di fare diventare oro tutto quello che toccava. Era nato, secondo la tradizione, nel 1431, nella stessa città in cui dovrebbe essere nato Colombo nel 1451, secondo le ultime ricerche, anche se l'anno di nascita del navigatore, come il luogo, oscillano nel tempo come nello spazio. La Chiesa divisa doveva essere riunita, aveva bisogno di mutamenti profondi. Agostino Patrizi Piccolomini, che morirà a sua volta nel fatidico 1492, su ordine di Innocenzo VIII ridefiniva il cerimoniale. Le funzioni insistono sempre di più sul bianco, sul candore, sull'innocenza.133 Il bianco, il nero ed il rosso, colori da sempre esotericamente primari, i colori dello stemma Cybo, diventavano i colori delle celebrazioni.134 Innocenzo si applicò anche ad un rinnovamento urbanistico della sede apostolica. Cercò di riformare tutto l'apparato della Chiesa.135 È un'attività quanto mai intensa, in una progressione che rinnova i costumi curiali.136 L'ordine doveva regnare a Roma. Roma doveva essere di esempio per la Cristianità. In un tentativo di efficienza e di controllo attraverso una maggiore
organizzazione della curia. Anche perché «nel bene e nel male, la burocrazia rappresentava comunque uno dei pochi elementi di continuità di un'istituzione peraltro soggetta a periodiche crisi di stabilità».137 Sentimenti di bontà, di purezza, di innocenza non disgiunte dalla severità, che i tempi richiedevano, si alternavano negli atteggiamenti del papa, in un'inflessibilità, nei momenti opportuni, pari a quella dei signori del Rinascimento. Come nell'esecuzione di due falsificatori di bolle. Sarebbe interessante capire chi fossero i mandanti, quanti falsi siano stati coniati anche in seguito. Quanti siano sopravvissuti come «documenti». La fermezza del carattere di Innocenzo VIII è attestata dal polso con cui seppe condurre il conflitto con Ferrante di Napoli138 e il contrasto fra il re e i baroni napoletani.139 Di fronte all'impossibilità di ricondurre alla ragione il riottoso e ribelle Ferrante, che si rifiutava di versare a Roma il censo dovuto - in un precedente che avrebbe potuto essere estremamente pericoloso -, il papa si vide costretto a ricorrere allo scontro armato e persino alla scomunica. Riuscendo alla fine ad avere ragione e a raggiungere la pace, dopo alti e bassi, in un confronto che lo tenne impegnato a lungo. Innocenzo fu un uomo fermo, ma non vendicativo. La crudeltà, a volte gratuita, della sua epoca non faceva parte del suo carattere, più consono al perdono e alla giustizia: «Non tenne memoria delle offese fatte alla persona sua, anzi era usato spesso ricompensarle coi benefici».140 Le stesse, identiche parole ritroveremo in una descrizione di Cristoforo Colombo. Come se il carattere, il Dna dei due, scaturisse da una naturale sintonia o da una mai dichiarata familiarità. In riferimento ad Innocenzo VIII si registra un'inimicizia sorta con Genova, in seguito ad una richiesta di denari fatta alla città ligure da parte del papa, accolta con tanta malagrazia e accompagnata da una serie di atti nemmeno «avessono a trattare con un privato mercatante pericoloso di fallire». L'ammiraglio turco Piri Reis, in un documento di cui tratteremo più avanti, parlerà di un'offerta del viaggio, per ottenerne il finanziamento, fatta da Colombo a Genova e respinta. Le biografie di Innocenzo VIII, pressoché inesistenti, oscillano in maniera clamorosa tra i rari elogi e le molte condanne. Tra i tanti fustigatori e i pochi laudatori. In una secolare ingiustizia, come se ci si trovasse di fronte a due persone completamente differenti. Non è semplice ricostruire la verità sulla base di notizie discordanti. Le informazioni su Innocenzo vanno raccolte attraverso le scarse cronache rimaste. In assenza di ulteriori documenti si può scegliere solo un percorso di verità possibile. Alla luce della quale la verità conosciuta appare impossibile. Anche un pragmatista come lo scrittore fiorentino Nicolò Machiavelli, l'autore de Il principe, che non avrebbe dovuto amare un carattere come quello di Innocenzo, se fosse stato veramente come lo hanno dipinto, riconosce al papa l'abilità nel fare «subito deporre le armi alle fazioni, grazie», dice nella Storia fiorentina, «alla sua facile natura, essendo uomo umano e quieto». Su un punto tuttavia tutte le ricostruzioni, all'unanimità, paiono concordare. Sull'impegno di Innocenzo VIII, mai trascurato, per portare a compimento la crociata:
«Inviò dappertutto legati per esortare i principi a dimenticare le loro questioni particolari e ad unirsi contro il nemico comune, se non partecipando con delle truppe, almeno con contributi considerevoli. Non riuscì ad ottenere la pace, ma ottenne denaro».141 Quel denaro che gli consentirà di aiutare sempre Cristoforo Colombo, di propiziarne la partenza: «Alla casa di Spagna aiutando con danari il re Catolico nell'acquisto del regno di Granata... onde i re Catolici della casa Cybo deueno tenere grata memoria». Non sarà così. Ancora oggi, se ci si reca in San Pietro, è possibile acquistare un poster, che ha il placet del Vaticano, contenente i cammei e il compendio, in poche righe, della vita de I sommi pontefici romani. Sotto il volto di Innocenzo VIII è scritto: «Portò a termine la immane opera di pacificazione degli stati cattolici. Colpì inesorabilmente il mercato degli schiavi ed aiutò Cristoforo Colombo nella sua impresa alla scoperta dell'America». Poche sintetiche parole in un foglio, che potrebbe non avere valore. Ma quel foglio ha un precedente in una pubblicazione stampata dopo la morte di Giovanni XXIII, dal titolo Il papa umile e i suoi 261 predecessori. Vi si legge che la cronologia «è stata redatta sulla base della lista definitiva dei Papi e degli Antipapi secondo le più recenti indagini storiche di Mons. Angelo Mercati, Prefetto degli Archivi Vaticani, ufficialmente accettate e pubblicate per la prima volta dalla Santa Sede nell'annuario del 1947».142 Tutto, dunque, in Giovanni Battista Cybo pare indicare una personalità fuori del comune, rispetto a quanti lo hanno preceduto e a quanti lo seguiranno poco dopo sul soglio di Pietro. Le fondamenta della Chiesa, nel panorama convulso di quella fine di secolo, scricchiolavano sotto la spinta di movimenti che pretendevano da Roma un cambio di rotta. Sotto la pressione di una probabile lacerazione. Come si verificherà di lì a non molto con Martin Lutero, in uno scisma che le parole di Colombo anticiperanno nel suo testamento, e che la politica di Innocenzo avrebbe potuto evitare. A parte l'impegno assunto nel momento dell'elezione, l'azione privata e pubblica di Innocenzo dimostra una linea che rompe le abitudini dell'ipocrisia curiale, aprendo verosimilmente le porte ad una delle imputazioni che gli verranno fatte; quella di favorire il concubinato. Forse il papa aveva in animo di concedere il matrimonio ai sacerdoti.143 Non rinunciò nemmeno, secondo gli usi del suo tempo, ad una politica che si serviva dei figli per stringere alleanze. Sposò i suoi due eredi platealmente in San Pietro. Nel 1488 fu celebrato quello di Franceschetto con Maddalena de' Medici, la figlia del Magnifico. La sposa accompagnata dalla madre, Clarice Orsini, fece il suo ingresso trionfale in Roma, in un sorprendente corteo. «Il primo papa che ostentamente e palesemente celebrò le nozze dei suoi figli e figlie.»144 Quello che gli altri papi tenevano celato Innocenzo mostrò alla luce del sole. La figlia del papa, Teodorina, era stata concessa ad un rappresentante della grande famiglia genovese di Gherardo Usodimare, un mercante depositario del pontefice. Evidentemente una «casa» che aveva fatto le sue fortune con il mare. La figlia di
Teodorina, nipote del pontefice, sposerà Alfonso del Carretto, marchese di Finale, Una volta vedova andrà ancora sposa ad un membro della famiglia Doria, rinsaldando il legame, che unirà le due grandi casate liguri. Fino all'appuntamento di Lepanto, che sancirà la sconfitta dell'Islam. Non è un caso che il grande «corsaro» Andrea Doria, della famiglia di Gian Andrea, vincitore di quell'epica battaglia del mare (1571), fu mandato dal parroco a Roma nel 1484, l'anno dell'incoronazione di Innocenzo VIII, per essere assunto nelle guardie pontificie.145 Anche il prolungato dissidio con il re di Napoli si concluse con un matrimonio, contribuì a cementare la nuova alleanza. Battistina, l'altra figlia di Teodorina Cybo e di Gherardo Usodimare, convolò a nozze con Luigi, principe di Gerace, lo zio di re Ferdinando di Napoli. Il legame si estendeva all'Aragona. La Spagna era diventata nel frattempo per Colombo, con l'avvento di Innocenzo, il porto privilegiato da cui salpare. In una sequenza che pare quella del domino. Le nozze della nipote furono celebrate in Vaticano. La funzione si svolse in San Pietro. Il Burcardo non partecipa e non apprezza: «Tutto ciò non è stato tenuto segreto: la notizia si era anzi diffusa in anticipo in tutta la città». Un corteo di belle signore fu ammesso nelle stanze del vicario di Cristo, «in violazione della regola del nostro cerimoniale, che espressamente proibisce alle donne di partecipare a un banchetto con il Pontefice». Roma assisteva esterrefatta. Quel matrimonio verrà ben presto sciolto, dopo la morte di Innocenzo, da Alessandro VI. Per concordare nuovi sponsali più favorevoli alla famiglia di Rodrigo Borgia, che offrì la mano della figlia Lucrezia. Tutto quello che fece Innocenzo Alessandro si affrettò a cancellare, soffocando giustizia e verità. Lorenzo de' Medici è passato alla storia come «l'ago della bilancia della pace italica». Più che influenzare, come abbiamo visto dalle lettere dirette al consuocero, potrebbe essere stato influenzato dal pontefice. Quanto meno i due parrebbero in sintonia perfetta. Avere legato il Magnifico al carro di Pietro è stato uno dei capolavori della politica di Innocenzo VIII. Ai fini del raggiungimento di quella concordia senza la quale ogni ulteriore piano più ambizioso sarebbe potuto fallire. Un'altra concessione verrà fatta nei confronti del Magnifico, con l'attribuzione del cardinalato al figlio Giovanni, ancora in tenera età, che diventerà in seguito Leone X. Un episodio che Colombo rammenterà in un suo scritto, recentemente scoperto. Giovanni verrà chiamato a Roma, raggiunti i diciotto anni, solo nel marzo avanzato del 1492. Una volta caduta in Spagna Granada, quando i tempi della spedizione di Colombo giunsero alla stretta finale. I Medici contraevano un debito di riconoscenza nei confronti di Roma. Un banchiere della famiglia, Giannotto Berardi, sarà fra i maggiori finanziatori del primo così come degli altri viaggi di Colombo. Le raccomandazioni fatte da Lorenzo al figlio in una lettera, che potrebbe essere stata ispirata da Franceschetto Cybo,146 costituiscono un esempio di saggezza, di buon senso e di spirito cristiano. Le sue parole sono ammirevoli, persino commoventi per affetto paterno, fede, lungimiranza. La moglie di Lorenzo era una Orsini. Con una sola mossa il papa raggiunse due obiettivi. Firenze e una delle maggiori casate di Roma restavano indissolubilmente legate alla politica di Innocenzo dal punto di vista economico, religioso, ideologico.
Là operava l'Accademia di Marsilio Ficino, qua quella di Pomponio Leto. Con Genova e Venezia venivano a comporre un «quadrato», un cubo di interessi e di idee in grado di spaziare nell'Europa intera. I matrimoni facevano parte dei giochi di potere, delle mosse da effettuare sull'agone della scacchiera europea. Innocenzo aveva molti figli, impossibile pensare che alcuni di loro, quelli che la curia ipocritamente voleva fare passare per nipoti, non siano entrati a far parte della intricata partita per un mondo che non avrebbe avuto più confini. Peraltro della gioventù di Colombo non conosciamo nulla. La sua «visibilità» comincia dall'approdo in Portogallo. Certo, il rapporto con il padre dovette essere anche per lui quanto mai importante nella formazione del carattere. Lo rivelerebbe anche la grafia del navigatore: curata, perfetta, di stile ecclesiastico. In un tempo in cui i semplici marinai non sapevano né leggere né scrivere. Mentre Colombo era un calligrafo tale che sarebbe bastata quella sua capacità per «sbarcare il lunario». Un dato, se lo si vagliasse secondo logica, sufficiente da solo a stravolgere la tradizione. Nei rari scritti rimasti, «secondo la filosofia freudiana spicca l'ideale dell'io, che esalta le scelte grandiose, idealistiche, compensatrici di un sentimento conflittuale verso l'immagine paterna. Un padre da fuggire o da sfidare».147 Quel padre non poteva essere certamente l'anonimo Domenico di Genova. La culla di Colombo non può essere identificata con quella della famiglia che gli è stata attribuita. Si potrebbe tutt'al più pensare che a quel nucleo famigliare Colombo possa essere stato affidato per qualche tempo. Di qui alcuni «premi politici», come l'incarico nella custodia della porta dell'Olivella. Che non avrebbe potuto essere assegnata ad un taverniere. Alle spalle della formazione e dell'educazione del navigatore c'è, senza ombra di dubbio, un'altra «casa», nel senso di casata. Come nella tenacia dell'uomo, che compirà quattro viaggi fondamentali nel cammino dell'umanità, c'è probabilmente anche la grinta del bastardo. Di colui che ha una missione da compiere. Non solo per il riscatto di Gerusalemme, ma anche per il riscatto del suo sangue. A questo punto la ricerca si fa più che mai intrigante. Basta guardare con attenzione la statua del Pollaiolo sulla tomba del papa in San Pietro, sovrapporre mentalmente il suo volto scuro su quello di Colombo. Non è suggestione, il risultato è impressionante. La somiglianza fra i due è lampante: non conosciamo con certezza la fisionomia esatta dell'ammiraglio. I molti ritratti, così differenti l'uno dall'altro, fanno di Colombo «uno, nessuno e centomila». Eppure si sa che alcune immagini sarebbero molto fedeli al viso del vero Colombo. Sono quelle più somiglianti alla statua di Innocenzo VIII, al punto da far credere che possano essere la stessa persona. In una identificazione sconcertante. Lo studio del volto a sanguigna effettuato dal Pollaiolo, conservato a Firenze, pare la fotocopia di alcune immagini colombiane. Se si prendono il profilo del papa, nel cammeo del poster dei pontefici e quello classico del Ghirlandaio, si potrebbe pensare ad una calcomania. Stessa conformazione, stessa scatola cranica, stesso naso ebreo. Una rara immagine di Aronne Cybo, il padre di Innocenzo, ricorda in modo inquietante
un'incisione di Colombo di Aliprando Capriolo. Anche il ritratto colombiano individuato di recente, opera di Pedro Berruguete, può trovare uguali analogie. E le somiglianze potrebbero continuare. Il papa aveva tanti figli non riconosciuti, molti nipoti. Che fine hanno fatto? Nipote era un modo con il quale la curia cercava di coprire le frequenti paternità di pontefici e cardinali. In un'edizione romana della Geografia di Tolomeo del 1508, dove per la prima volta si fa menzione di Cristoforo Colombo in un'opera «che la tradizione umanistica riteneva intoccabile», in un piccolo trattato di quindici capitoli, «poco noto nella letteratura colombiana attuale... il nome di Colombo compare più volte». Si parla di un «Columbus primus» e di un «Columbus nepos». Di terre che sia i portoghesi sia Colombo hanno scoperto e che vengono chiamate Nuovo Mondo.148 Colombo è morto da appena qualche mese. Chi scriveva, il monaco e matematico celestino Marco Beneventano, doveva conoscere molte cose. Colombo, si afferma, avrebbe scoperto quelle terre unitamente ai portoghesi (!) e non agli spagnoli. Vedremo che esistono possibilità concrete di viaggi precedenti al 1492. Ma soprattutto Colombo, di cui vengono magnificate le doti, viene identificato come nepos...149 Si dà il caso che il cognome Colombo, frequente nell'ambiente ebraico, al Nord dell'Italia è il corrispettivo dell'Esposito al Sud. Simbolo dei figli esposti, che venivano lasciati spesso sui sagrati delle chiese. Dei trovatelli abbandonati nelle apposite ruote di legno, creature la cui nascita si attribuiva allo Spirito Santo, in quanto ignoto restava il nome dei genitori. Per concludere Colombo e Colon sono la traduzione dell'ebraico Jona, «forse un altro nome per Giovanni», 150 il profeta che predisse la riconquista degli antichi confini di Israele.151 È inconcepibile, d'altronde, che Colombo, per quanto molto legato agli affetti famigliari, ai figli come ai fratelli, non abbia mai ricordato i genitori attribuitigli, Domenico e Susanna. Susanna è la donna ebrea casta come una Vergine, che rinvia al giglio. Nel segno di una purezza inalterata e di chi madre, in senso carnale, non lo è stata mai. Mentre Domenico indica il dominus, il Signore per eccellenza, Dio stesso. L'aggettivo dominicus è l'equivalente di «appartenente al Signore», di «dedicato, consacrato, destinato al Signore». Nomi singolarmente allusivi. In quel gioco di specchi, di cui il portatore di Cristo e quanti lo circondarono furono maestri. Per un uomo, un novello Gesù, che risulterebbe figlio di una vergine e di qualcuno figlio del Signore o «consacrato al Signore». Come erano gli uomini della Chiesa e soprattutto i pontefici. Domenico, Susanna, Cristoforo Colombo, altrettanti nomi virtuali? Per la nascita di un uomo senza volto, di un uomo senza genitori, di un uomo senza patria, di un uomo senza natali: «fu di volta in volta di origine corsa, catalana, francese, ebrea, senza origini (ovvero trovatello), o persino bastardo di sangue reale o papale».152 L'ipotesi di un Colombo figlio di Innocenzo è quanto mai suggestiva.153 Assai plausibile anche alla luce delle parole lasciate dal figlio Fernando: «Ch'essendo i suoi maggiori del regal sangue di Gerusalemme, gli piacque che i suoi genitori fossero men conosciuti... sì come la maggior parte delle sue cose furono operate per alcun misterio, così quel che tocca alla varietà di cotal nome e cognome
non avvenne senza misterio. Molti nomi potremmo addurre in essempio che non senza occulta causa furono posti per indicio dell'effetto che aveva a provenire, sì come in quel che tocca a colui di cui fu pronosticata la maraviglia e novità di quello che fece. Percioché se abbiamo riguardo al commun cognome de' suoi maggiori, diremo che veramente fu Colombo, in quanto portò la grazia dello Spirito Santo a quel Nuovo Mondo che egli scoprì, mostrando, secondo che nel battesimo di San Giovanni Battista lo Spirito Santo in figura di colombo mostrò, qual era il figliuolo diletto di Dio che ivi non si conosceva e percioché sopra le acque dell'oceano medesimamente portò, come la colomba di Noè, l'olivo e Foglio del battesimo per la unione e pace che quelle genti con la Chiesa dovevano avere, poi che erano rinchiuse nell'arca delle tenebre e della confusione. E per conseguente gli venne a proposito il cognome di Colon ch'ei ritornò a rinovare, percioché in greco vuol dire membro».154 Parole illuminanti. Tutto va ricondotto al «mistero», all'occulto. Il nome come il cognome, accadeva di frequente a quel tempo, non furono posti a caso. Preparavano l'annuncio di quanto sarebbe accaduto. Aprendo le possibilità ad una «varietà» di interpretazioni, nella summa di un secolare miraggio. Se si vuole anche templare. Mentre la definizione «membro», in una lingua che doveva essere familiare come quella greca, pare alludere ad un doppio senso di carattere anche fisico. Oltre che membro di un'antica Chiesa, la Chiesa primitiva di Gerusalemme da fare confluire nella nuova, per ricondurla alle origini, tramite il discendente di Pietro ed il «suo» Christo Ferens. In un gioco di parole senza fine. Strabiliante è infine il riferimento al «regal sangue di Gerusalemme». Il regal sangue è le sang real, il Santo Graal. Il calice di cui erano stati custodi i Templari. Innocenzo VIII, il papa dal sangue anche ebreo, era a sua volta discendente dalla stirpe mosaica. Colombo e Innocenzo insieme, uniti dalla stessa linea di sangue «divino»? Il sangue di Davide e di Gerusalemme, dal quale sarebbe disceso anche Gesù? In una stirpe «unta dal Signore» e nel solco di un enigmatico ordine cavalleresco, fosse templare, gerosolimitano, del Santo Sepolcro o altro... Con destinazione finale Gerusalemme.
4 - Un'epigrafe in San Pietro LA mossa del papa fu ardita e geniale. Uno dei successi più importanti, nella politica di Innocenzo VIII, si concretizzerà con l'arrivo a Roma di Djem, figlio di Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli. L'uomo che aveva ferito a morte la Cristianità. Il fratello di Djem, Bajazet, in quelle lotte fratricide tipiche in Oriente così come in Occidente, si era appropriato con un colpo di mano del trono. Djem, che aveva sempre intrattenuto relazioni con i cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, aveva trovato rifugio nell'isola greca di Rodi. Che era, al tempo stesso, il baluardo e il ponte con il Levante. Tutti i sovrani cristiani si contesero il privilegio di avere il principe in ostaggio presso la loro corte. Prevalse il papa, grazie anche al secolare
legame con l'isola e alla devozione dei Gerosolimitani. La questione turca era stata sempre ritenuta di primaria importanza. Il prigioniero poteva rappresentarne la chiave di volta. In una lettera di un ambasciatore pontificio si legge: «Come papa Innocenzo dal primo giorno del suo pontificato insino allora non aveva pensato ad altro, che al modo onde venire in aiuto alla repubblica cristiana esposta a tanti pericoli, maggiormente poi ora che gli si offriva la migliore occasione con l'avere in suo potere il fratello del sultano, il principe Djem. Questi aveva promesso che se con l'aiuto dei cristiani conseguisse il califfato, ritirerebbe i turchi dal suolo europeo e cederebbe persino Costantinopoli».155 Al problema il pontefice finalizzava tutte le sue strategie. In una politica iniziata con un'enciclica del 21 novembre 1484, culminata nel 1486 con la Ortodoxei fidei propagationem. Generalmente conosciuta come «Bolla di Granada». La crociata non era mai stata persa di vista. Il pericolo incombente dell'Islam, sia pure nell'altalena dei tentativi per aprire una strada alla trattativa, non era mai venuto meno. Nel 1485 si era temuto un assalto da parte del nemico. Ambasciatori di Roma erano stati inviati ovunque per raccogliere adesioni alla «Guerra Santa». Dagli estremi confini della Russia gli inviati del granduca Ivan erano venuti ad esprimere sottomissione al papa, come narra il Burcardo. «Probabilmente si trattò della questione turca anche con l'ambasciata del re Enrico VII d'Inghilterra, che stava in ottimi rapporti con Innocenzo VIII.»156 In Inghilterra, presso quella corte si trovava il fratello di Colombo, Bartolomeo. Ottimi erano i rapporti anche con il re francese, alla cui reggia Colombo si sarebbe dovuto recare, dopo l'ultimo rifiuto al suo viaggio da parte delle teste coronate di Spagna. I due, che dovrebbero essere di umili origini (come lo si è potuto credere per cinquecento anni!), si muovevano a piacimento attraverso le case regnanti d'Europa. Djem era stato condotto, in un primo momento, proprio in Francia nel 1482. L'erede del sultano diventava il grimaldello per scardinare il fronte nemico. La sera del 13 marzo del 1489 il «Granturco» fece il suo ingresso in Roma, dopo essere sbarcato a Civitavecchia. Lo scortava il gran maestro di Rodi, Pietro d'Aubusson, nel cui stemma campeggia anche una croce rossa. Verrà nominato cardinale da Giovanni Battista Cybo. In un caso che nella storia dell'ordine si ripeterà un'altra volta soltanto. Non era una novità invece il fatto che un principe degli infedeli venisse catturato e tenuto ostaggio in Vaticano. Era già accaduto con Pio II.157 L'obiettivo era quello di dividere il fronte avversario. Dai Piccolomini ai Cybo, la storia si ripeteva. All'inseguimento di un nuovo tempo dell'oro, ormai alla portata della Cristianità. Grazie alle annunciate «scoperte» geografiche e all'uomo che le avrebbe «rivelate». Gente di ogni età e di ogni censo fece ala al passaggio del Turco, fra il timore e la gioia. La fine del mondo prevedeva anche la presenza di un «giaurro» nel tempio di Cristo. «Il popolo non sapeva saziarsi di quel raro spettacolo ed aveva l'intimo convincimento di essere sfuggito ad un grande pericolo. In tutta la Cristianità era infatti diffusa la predizione che il sultano verrebbe a Roma e porrebbe sua stanza in Vaticano.»158
Il che stava avvenendo, ma il terrore della profezia, «per bontà di Dio», si stava verificando «in un senso tanto diverso». Il nobile musulmano entrava nella caput mundi con gli onori di un sovrano. Il turco cavalcò impassibile, come una statua, sulla bianca chinea del papa. Non si curava degli omaggi né dei doni, restava muto sul cavallo, con lo sguardo immalinconito. Solo il giorno dopo, in un pubblico concistoro, avvenne l'incontro con il pontefice. Djem accennò un inchino con il capo. Rifiutò la genuflessione, baciò la spalla destra del pontefice. Considerò una grazia di Dio poterlo salutare. Con un interprete spiegò che, in un colloquio privato, avrebbe comunicato «altre cose che tornerebbero a vantaggio della Cristianità».159 Cosa aveva da dire il «barbaro», come lo chiamava il Mantegna, intento a dipingere in Vaticano, al vicario di Cristo? Quali segreti doveva rivelargli o confermargli, in quella scia di insondabili misteri che accompagnano questa vicenda? A cominciare dai nomi. E il suo ricordava Alessandro Magno, Salomone ed il magico potere del Graal.160 La coppa dai tanti reconditi significati: pure sul fronte musulmano la profezia cercava di incarnarsi nei protagonisti reali della storia. Strani conciliaboli si sarebbero svolti nelle stanze vaticane. Compresa una lezione di storia sacra fatta da Djem al Santo Padre. Nella quale le vicende dell'impero romano si intrecciavano con quelle del Cristianesimo. Con i nomi degli imperatori deformati e resi irriconoscibili. Per cui la storia di Cristo sarebbe stata falsata dai cristiani, per cui i veri cristiani erano loro, i musulmani: «Come lo erano gli antichi seguaci di Ario... per Gem il vero Vangelo era quello di Gesù, che noi cristiani non conosciamo, pochi passi del quale sono inclusi nei nostri quattro Vangeli».161 Un Vangelo di mano dello stesso Gesù. Colloqui che affondavano nell'eresia. Che confermano il desiderio del papa di individuare percorsi dottrinari inediti. Forse di restaurare solo quelli antichi. In un'ondata di spiritualità che veniva da lontano. Fin dal XII secolo, quando l'universo cristiano, così come quello musulmano, vide il fiorire di movimenti mistici quali il Sufismo nell'Islam, la Cabala nel Giudaismo e nel Cristianesimo l'eresia catara. In un primo momento estinta nel sangue e con le armi. In seguito riassorbita nel Francescanesimo.162 Certo è che Roma disponeva ormai di un alleato nel cuore dell'impero avversario. Una spina nel fianco di Bajazet. Djem era figlio inoltre di Cicek Khatun, Madonna Fiore. Una nobildonna cristiana (!) nata in Oriente o forse una veneziana catturata dai corsari.163 L'infanzia del principe, dunque, era stata permeata anche di Cristianesimo. Aveva circa trent'anni, era alto, tarchiato, gli occhi semichiusi. Per il suo mantenimento Innocenzo stanziò 15.000 ducati l'anno. Il papato era gravato da molte spese. Ma Innocenzo «vi si acconciò per il vantaggio della Cristianità».164 Il Turco amava la caccia, il suo abbigliamento creò una moda orientale fra alcuni nobili romani, che si vestivano alla sua maniera. Si svagava con musiche e conviti. Il suo portamento era maestoso. Davanti al papa non si scopriva il capo. Maestro nel cavalcare, abitava sfarzosamente in Vaticano, dormiva vestito: «Ha una faccia che mette paura, specialmente se gli fa visita Bacco».165
Riceveva, a sua volta, ambasciatori, dando banchetti nello Stato pontifìcio. Si ricorda che un giorno il cielo si oscurò e scoppiò una tempesta: «Certamente qualche pravo cristiano aveva diritto di guardare crucciato al palazzo di Pietro dove ora spettacolo inaudito nell'intera storia della Chiesa - un sultano ed un papa tenevano corte l'uno a fianco dell'altro».166 Si facevano correre sinistri vaticini. Annunciavano il crollo del mondo esistente, la fine del dominio ecclesiastico per il 1493. A Firenze tuonava la voce del Savonarola. Veniva dall'università di Padova e profetizzava l'avvento di una nuova Gerusalemme. L'abbandono della mondanità sfrenata. Fino alla tortura e alla morte del monaco, in seguito alla condanna dello spagnolo Alessandro VI. Non di veleno, ma sul rogo, sulla pubblica piazza. Era un tempo al bivio della storia dell'umanità. Tutti auspicavano e tutti avevano al contempo paura dei cambiamenti. Chi deteneva il potere sopra tutti. Le voci più disparate e contrastanti, le più incredibili, si diffondevano in un battibaleno, in quella che fu una vera e propria guerra parallela dell'informazione e della disinformazione. Tra le fazioni avverse l'intelligence operava a tutto campo, senza esclusione di colpi. Estremamente difficile cercare «a posteriori» la verità. Forse bisogna accontentarsi di una verità. La più vicina possibile al vero. Djem era colto, appassionato in particolare di cosmografia, come il padre Maometto II. Era convinto che le risposte per l'uomo fossero già scritte nelle stelle. Come tutti i potenti era interessato alla forma, alla sfera dell'orbe. Il mondo intero si interrogava sulla vastità della terra e dell'universo. Sulle «isole e terreferme» da scoprire. Chiese di visionare la Geografia di Tolomeo, messa in versi dal fiorentino Berlinghieri.167 Era l'uomo giusto, nel momento giusto, per portare a compimento i disegni di Innocenzo VIII. Djem voleva riappropriarsi del trono. Aveva ancora schiere fidate di seguaci, che avrebbero appoggiato il suo ritorno, poteva diventare la punta di lancia della crociata.168 Bajazet, volendo, a sua volta, conservare il suo scettro, offriva la lancia di Longino, che aveva offeso il costato di Cristo sulla croce. Era pronto a tutto pur di eliminare il fratello rivale. Il papa giocava su un doppio binario. I due erano disposti a fare ampie concessioni in favore di Roma. Nel gioco entrava anche la restituzione delle reliquie più sacre alla Cristianità. Una mano del Battista fu mandata a Rodi. L'avrebbe seguita la punta della lancia. La posta riguardava persino la possibilità della riconsegna di Costantinopoli, della Terrasanta, di Gerusalemme, del Santo Sepolcro. Le promesse prevedevano «perpetua amicizia, pace, amore e concordia». La restituzione di «tutte l'isole, con le città, le terre, castella e luoghi loro che '1 padre mio ha tolte a' christiani».169 Bayazet, che già pagava un ricco tributo a Roma di 40.000 ducati l'anno, per garantirsi l'esilio dorato del fratello, si vedeva costretto ad alzare la posta. Nel timore «che le potenze occidentali si potessero servire di Gem per un'azione comune contro l'impero».170
La vittoria si stava avvicinando. Il sogno della sottomissione universale, sotto la croce, si prospettava in vista del prossimo 1500. In un trionfale Giubileo, quando la tromba-jabel dell'antico giubilo sarebbe risuonata nel novello Eden, completato e ritrovato. Del disegno faceva parte imprescindibile la missione dell'«ambasciatore di Dio», Cristoforo Colombo. Legati erano stati inviati in tutta Europa. I contatti trasversali fra Venezia, Firenze e i nemici ottomani continuavano in un singolare gioco delle parti. Nel 1487 dal Cairo era giunta in dono a Lorenzo una giraffa, che fu cantata dal Poliziano. Dalla musica dei Sufi e dalle danze dei Dervisci giunse il violino. Annunciava una musica celeste? L'anno 1489 è un anno cruciale. Luglio è un mese intensissimo. Alla corte dei re cattolici, Isabella e Ferdinando, si presentarono due religiosi francescani del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Monaci dell'ordine del Santo Sepolcro? Erano stati mandati dal gran sultano d'Egitto al papa e da Innocenzo VIII successivamente inviati in un'ambasceria nella Spagna: portavano un messaggio minaccioso da parte di quel sovrano contro le genti cristiane di Palestina. Qualora non si fosse posta fine alla guerra contro i mori. I due frati incontrarono Cristoforo Colombo.171 Fecero con lui il punto della situazione. Parlarono sicuramente della sua spedizione, della necessità dell'oro per la crociata. Quindi rientrarono a Roma da Giovanni Battista Cybo. Al sovrano del Cairo Djem aveva affidato moglie e figli per averne protezione. La diplomazia pontificia ne approfittò per intrattenere nuovi negoziati con il sultano d'Egitto? Era giunto il momento di mettere la parola fine alla guerra in Spagna contro i mori. Trovando un accordo con Boabdil, il «piccolo re» musulmano dell'Alhambra. Un patto senza il quale Colombo non sarebbe mai potuto partire. Dall'incontro con i francescani molti storici fanno dipendere la decisione del navigatore di riconquistare la Terrasanta: il disegno che, per la verità, da sempre era stato alla base della lenta preparazione e della maturazione di un uomo, che fosse la replica vivente del santo gigante, San Cristoforo traghettatore di Cristo. «Da quel giorno strappare la Palestina al giogo dei musulmani, riscattandola coll'oro di quelle regioni che egli avrebbe scoperte, fu suo pensier prediletto.»172 Da Roma, alla Spagna, all'America l'oro indicava la nuova via da percorrere ed aprire. La nuova Pasqua-passaggio per la Resurrezione. Bayazet a Costantinopoli si sentiva accerchiato. Pensò di sbarazzarsi dei timori e di ogni problema, cercando di eliminare il fratello e il papa tramite un sicario. Avvelenando la fontana da cui si prendeva l'acqua per le loro stanze, ma il piano fallì. Da Giovanni Battista a Giovanni Paolo II passa per la Turchia il segnale dell'eliminazione del capo della Cristianità. Tutte le energie del Santo Padre erano ormai concentrate nella soluzione della questione orientale. La situazione volgeva verso una possibilità concreta di realizzare l'atteso riscatto. All'inizio di luglio si aprì un'assemblea a Francoforte, coinvolgendo l'imperatore. Ad uno ad uno, nella paziente tessitura della lunga tela, tutti gli Stati vennero guadagnati alla causa. Il papa scriveva esortando i principi a schierarsi uniti contro il nemico. Le circostanze erano quanto mai propizie. Non si poteva perdere un'occasione tanto favorevole: che si abbandonasse ogni discordia per il bene comune. La politica
pontifìcia, impegnata su tutti i fronti, conseguiva risultati sorprendenti: «Egli stesso (il papa, N.d.A.) vuole mettere a disposizione non solo tutte le risorse della Santa Sede, ma anche prender parte in persona alla spedizione, ove ciò venga deliberato».173 Nell'estate del 1490 Roma accolse l'impressionante adunata. Tutti i particolari furono discussi. Si convenne che gli eserciti sarebbero stati tre: il primo doveva essere messo in piedi dal papa e dagli Stati italiani. Il secondo dalla Germania, dall'Ungheria e dalla Polonia; il terzo da Francia, Spagna e Inghilterra. Il comando supremo si sarebbe potuto affidare al «re di Roma» in persona e all'imperatore. Evidentemente la salute del pontefice non destava la minima preoccupazione. Il sangue dei cavalieri Cybo riaffiorava in Giovanni Battista. Il papa, descritto come debole, era pronto a trasformarsi sul campo in un papa guerriero. Tre o cinque anni erano quelli previsti per il conflitto. La morte di Mattia Corvino, re di Ungheria, nuovi dissidi sorti all'interno del «corpo cristiano» fecero sì che il disegno venisse accantonato, ma non venne mai meno l'impegno di Innocenzo, nonostante il puntuale sopravvenire della sua altalenante e misteriosa infermità. La speranza ritrovò fiato quando, una volta raggiunto l'accordo con Ferrante di Napoli, si superò l'annoso ostacolo alla pace italica. Turbato da uno strano rinvenimento, il re giunse a chiedere perdono al papa di Roma. Un prete aveva trovato in Puglia, nei pressi di Taranto, un libro coperto di piombo, avvolto in una coperta con segnata la croce, una scritta CNAT e la dicitura «Catalus Bani Archiepiscopus Tarentinus, et non aperiatur nisi prò rege infideli suo». Il libro, anche in caratteri egizi, conteneva profezie su molte cose che sarebbero avvenute.174 Misteri che si aggiungono ai misteri. Siamo alla vigilia della partenza di Colombo. La crociata e il mondo nuovo non potevano fare a meno della luce, dello splendore dell'oro. L'oro necessario alla Grande Opera. Obiettivo economico ed obiettivo spirituale convergevano. L'oro sarebbe venuto dalle ultime Indie. Dalle terre verso le Indie, di cui non si conosceva l'esatta estensione. Le Indie ancora celate all'umanità. Le Indie di Salomone, le Indie di San Tommaso, di Alessandro Magno. Ma il sogno era già in frantumi. I decessi ormai incalzano, l'Accademia platonica fiorentina verrà colta come da un virus mortale. In primavera muore Lorenzo il Magnifico. Nella villa di Careggi gli facevano ala Pico della Mirandola, Angelo Poliziano, Marsilio Ficino. Sicuramente giunse in punto di morte anche il Savonarola. L'estremo tentativo di salvarlo pare che sia stato una pozione di polvere di diamanti. Aveva solo quarantaquattro anni. L'ago della bilancia dell'Italia cominciò a pendere irrimediabilmente. In precedenza era già morto il veneziano Marco Barbo, grande cavaliere. Di lì a poco morirà Innocenzo. Colombo rimarrà solo in difesa delle chimere. Ancora non lo sa. Ma la corte di Spagna, dopo la caduta di Granada, non poteva dilazionare ulteriormente il «sì» da concedere al navigatore. Gli avvenimenti si accavallano, i tempi precipitano. Colombo, sostenuto dai francescani e dalle famiglie fiorentine e genovesi, sempre al suo fianco in terra iberica,175 è pronto. Non si può più dire no al
papa di Roma, né si può più correre il rischio che anche altri si avventurino da porti stranieri, nell'Atlantico, verso le terre da riscoprire. Due grandi umanisti, due umbri della terra di San Francesco, i fratelli Geraldini, ambasciatori di Roma in Spagna, da tempo appoggiano Colombo presso i sovrani. Antonio è un grande poeta e cosmografo, un astronomo, «un padre delle stelle».176 È certo che con lui il navigatore ha perfezionato il suo progetto. Nessuno per lunghi sette anni gli prestò aiuto «salvo che frate Antonio Marchena», puntualizzerà Colombo. Indicherà sempre in un «padre Marchena» il suo protettore. Si tratta di Antonio Geraldini o di un altro frate? Antonio Geraldini ha accolto, fin dal suo arrivo in Spagna, il navigatore. Lo ha aiutato finanziariamente, lo ha introdotto presso Isabella. A lui Colombo «aprì il suo cuore nel segreto»? Geraldini morirà proprio a Marchena nel 1489. Nelle cronache subentrerà un Antonio Marchena spagnolo, a lungo confuso con il padre Giovanni Perez, che lo avrebbe messo in contatto con Pinzón. In quella ricorrente duplicazione di persone e di nomi, che hanno contribuito a rendere quanto mai problematico il cinquecentenario rebus colombiano. L'eredità di Antonio Geraldini, astronomo e «padre delle stelle», fu raccolta dal fratello Alessandro, l'istitutore dei figli della coppia reale. È lui, nel momento del dubbio estremo, a convincere l'incerta regina Isabella, a far fronte al riottoso re Ferdinando, quando si tratterà di dare un no o un sì definitivo alle richieste di Colombo. Il resto, cioè tutto quello che la tradizione racconta, è uno scadente romanzo d'avventure: il rifiuto dei sovrani alle esorbitanti pretese, la fuga di un Colombo amareggiato e offeso, il suo inseguimento, il ritorno alla corte, il consenso inspiegabile e accondiscendente dei sovrani alle pretese dell'«ignobile straniero». I padri della Chiesa, come Sant'Agostino e Niccolò da Lira, che hanno scritto dell'impossibilità di vita agli antipodi, erano maestri della fede, ma non sapevano nulla di geografia, fece presente Alessandro Geraldini agli scettici, nel momento del giudizio definitivo. Colombo ha ragione, il rischio è minimo. Le ricompense da promettere, in fondo, sono subordinate al successo della spedizione. Chi corre i pericoli maggiori, compreso quello della vita messa a repentaglio nell'oceano tenebroso, è Colombo. L'arringa di Alessandro fu convincente. Dei Geraldini, di questi due italiani, fondamentali nella preparazione e nell'esecuzione del primo viaggio, nelle cronistorie si fa raramente menzione; il loro ruolo e il loro ascendente, i loro spostamenti fra Roma e la Spagna, sono minimizzati. Apparivano, peraltro, come uomini esclusivamente di parte spagnola. Per questo occorreva ricollocarli al loro giusto posto nell'intricato puzzle.177 Nel farlo scoprimmo così che i Geraldini erano stati inviati alla corte di Spagna dal pontefice. L'uno in qualità di logotheta, portatore di parola del pontefice. L'altro, sempre geografo ed uomo di straordinaria cultura, era a sua volta ambasciatore del Vaticano. Avendo inoltre la funzione di istitutore degli infanti di Spagna. Ogni loro iniziativa faceva capo ad Innocenzo VIII.178 Nel momento più critico ogni problema relativo al finanziamento per Colombo venne, dunque, superato di colpo grazie ad Alessandro Geraldini. Metà della somma è di fonte italiana, in un dato incredibilmente sottovalutato. I soldi necessari provengono da Genova e da Firenze. Sono di banchieri e nobili imparentati con il
Santo Padre. Una parte viene versata da Giannotto Berardi, che amministrava le finanze, in terra iberica, della famiglia Medici.179 Resterebbe l'altra metà del finanziamento, quella che avvalorerebbe il fatto che «l'impresa è spagnola». Il denaro, come sempre è stato tramandato, venne dalla Santa Hermandad, una milizia laica. E questo lo si sapeva. La Santa Hermandad 180 era amministrata da due soci, uno dei quali, Luis de Santàngel, veniva sempre definito escribano de ración del re di Spagna. E questo lo si sapeva. Non si sapeva, o si cercava di ignorare, il fatto che Santàngel non era solo un uomo di Ferdinando. Era soprattutto il ricevitore delle rendite ecclesiastiche in Aragona, un collettore di Roma. Raccoglieva le decime e le indulgenze per conto del Vaticano. Intervenne nella trattativa in quanto uomo di Innocenzo VIII. In funzione, peraltro, subordinata rispetto all'altro socio genovese. In quanto riceveva il danaro da «un Pinello e da un Centurione» per darlo a sua volta in prestito al re di Aragona.181 Gli sbandierati gioielli della regina Isabella, che si sarebbe offerta di sacrificarli, pur di fare partire Colombo, non esistevano più. Erano stati già impegnati per le spese della guerra contro i mori. Quel sacrificio è solo una leggenda creata ad arte. I monumenti che eternano quel gesto sono pura propaganda. Era già strano che si fosse fatto avanti un uomo di Ferdinando e non della regina ad offrire il contributo determinante di 1.140.000 maravedís. Visto che le quattro spedizioni alle Indie saranno sempre esclusivamente appannaggio della Castiglia. Isabella non rinuncerà mai al suo scettro sulle Indie in favore del consorte. Santàngel infine era di famiglia ebrea, un ebreo converso. L'intreccio dei personaggi rimanda quasi sempre ad un soggiorno napoletano.182 La parentesi sul golfo potrebbe aver riguardato perfino Cristoforo Colombo e, in parte, la sua gioventù. Così come è impensabile, per noi, credere che Cristoforo, o quanto meno un suo fratello, forse Bartolomeo, non siano mai stati a Roma. Una residenza partenopea spiegherebbe quanto meno la conoscenza dello spagnolo e le influenze del catalano, da parte del navigatore, prima dell'arrivo in terra iberica, nonché l'uso di quella lingua per tutta la vita, oltre alle numerose inflessioni catalane presenti negli scritti di Colombo, come ha evidenziato lo storico Lluis Ulloa, e ai molteplici riferimenti geografici, negli scritti colombiani, a Napoli e alla Sicilia. Che facevano parte del regno catalano-aragonese. A Napoli, infine, era particolarmente diffuso, con il re Alfonso il Magnanimo e la moglie Maria, il «Lullismo». Il francescano Raimondo Lullo, il martire di Maiorca, fedele della Immacolata Concezione, in un fervente culto mariano, che lo accomuna a Innocenzo e Colombo, predicava una crociata da portare avanti più con la parola e attraverso la conversione che con la spada. Per recare la buona novella «oltre la curva del mare che avvolge Inghilterra, Francia e Spagna, là dove, opposto al continente che ora vediamo e conosciamo, c'è un altro continente che non vediamo e conosciamo. È un mondo che ignora Gesù Cristo». L'altro amministratore della Santa Hermandad era il genovese Francesco Pinelli, e questo lo si sapeva molto meno. Si ignorava del tutto il fatto che fosse il nipote di Innocenzo VIII.183
Cumulava le funzioni di ambasciatore, di legato e di collettore come non avveniva in nessun'altra parte d'Europa. In qualche documento viene addirittura citato come clericum ianuensem.184 Pur facendo parte della gerarchia ecclesiastica, poteva evidentemente condurre una vita laica. In quelle anomalie così frequenti all'epoca, come potrebbe essere accaduto anche per Cristoforo Colombo. Pinelli era a sua volta imparentato, oltre che con il papa, con le grandi famiglie di Genova.185 La catena di parentele, di amicizie, di alleanze e di interessi era tentacolare. Da Roma avviluppava l'Italia e la Spagna. Nomi e cognomi quasi sempre italiani. Tutti appartenenti a famiglie agiate ed illustri. Ogni persona è il bandolo di una matassa da sbrogliare. Che riconduce ad Innocenzo, ai Medici, a Colombo. L'intreccio, per quanto complesso, è rivelatore del potere di Giovanni Battista Cybo, rischiarando il buio di una verità occultata. Testimoniando la capacità di coinvolgimento del pontefice, della sua maestria nelle relazioni. Molti elementi infine fanno pensare ad una fitta rete di uomini di Chiesa, di banchieri, di mercanti. Ma soprattutto di cavalieri, ai quali vennero dati poteri speciali in vista di un momento speciale. Come era stato quello che aveva determinato la scelta del pontefice «marinaro». Come adesso era quello della partenza di Colombo. Per rivelare finalmente l'altra metà dell'orbe. La somma offerta dalla Santa Hermandad costituiva un semplice prestito. Ebbe la durata di pochi giorni soltanto. Si è sempre trascurato un particolare essenziale: la restituzione del debito, effettuata subito dopo con i fondi della bolla della crociata, venne dai cavalieri dell'ordine di Santiago (San Giacomo). Si trattava delle raccolta di offerte fatte, soprattutto dal popolo umile e devoto dell'Estremadura, alla Chiesa di Roma. «La partida mas interessante en el campo de la historia universal», la famosa cifra di 1.140.000, passò dal tesoriere della diocesi di Badajoz al vescovo Hernando di Talavera, per le spese di tre caravelle «que mandaron ir de armada a las Indias y para pago de Cristóbal Colon que va en ellas».186 Ci si è sempre adoperati, aggiunge lo studio, in modo che «una sottile nebbia abbia avvolto l'origine ecclesial del denaro che costituì l'apporto reale al finanziamento del primo viaggio di Cristoforo Colombo e la sua provenienza dalla Chiesa dell'Estremadura».187 Chi aveva interesse a nascondere la verità? A chi avrebbe giovato rimescolare le carte? Per quanto si cercò di operare subito piazza pulita di ogni documentazione, molte fonti, fortunatamente, sono rimaste. In grado di fare ancora chiarezza. Fra i tanti assassinii quello della verità risultò il più difficile. «La verità vince sempre», scriverà Colombo. Quando ogni incertezza sembrava definitivamente vinta, quando ogni ostacolo pareva rimosso, quando ogni particolare appariva curato fin nell'ultimo dettaglio, quando la partenza di Colombo era ormai imminente, ancora una volta lo stato fisico del pontefice cominciò a declinare irrimediabilmente. E in maniera sospetta: il papa fu colto, nella primavera inoltrata del 1492, da atroci dolori addominali e febbri strane.188
Poi gli eventi precipitarono. «La fine di Innocenzo fu degna»; «la fine di Innocenzo fu edificante».189 Si trattò di una lenta agonia. Si spegneva una grande anima. Il tormento durò qualche giorno. Il pontefice chiese perdono ai cardinali di «non aver avuto la capacità di sostenere il peso del suo ufficio». L'ultimo suo sguardo, a palazzo Venezia in Roma, andò probabilmente al grande mappamondo affrescato sulle pareti dell'omonima sala. L'ultimo pensiero fu per Colombo, «dilecte fili?» Ai cardinali Innocenzo, prima di spirare, aveva raccomandato la concordia. Li aveva esortati a trovare un degno successore. Il destino e il calcolo vollero che arrivasse Alessandro VI, Rodrigo Borgia. Roma, l'Italia e l'Europa ripiombarono nel caos. I Medici persero Firenze. La crociata si allontanò. La scoperta dell'America voltò pagina rispetto alla sua genesi. Quello che fu un progetto universale, economico e spirituale si convertì in uno smisurato interesse nazionalistico e materiale. In un delirio di onnipotenza. Il clima in San Pietro era stato per tempo realisticamente evocato nel brano di una lettera (riportata dallo storico Giovanni Soranzo) di Franceschetto Cybo, al suocero Lorenzo il Magnifico: «Qui in questa Corte, dico nel Collegio dei cardinali, come Vostra magnificenza sa, ce sonno le guerre et partialità tra loro molto passionali, in maniera che lo Collegio è diviso in doi overo tre parti, ognuno coi soi seguaci». L'Italia era il terreno preferito nelle lotte dei sovrani d'Oltralpe. Gli spagnoli, saldamente insediati nel cuore della Cristianità, perseguivano le loro mire. La situazione era tale che «già parlavasi d'una doppia elezione e d'uno scisma».190 Le avvisaglie delle lotte, che sarebbero seguite, si colsero fin sul letto di morte del Santo Padre. Un esempio di quanto si sarebbe verificato lo si può dedurre da un passo contenuto sempre nelle cronache di Giovanni Soranzo: «Proprio nei giorni della malattia mortale di Innocenzo VIII sorse tra il Borgia e il Della Rovere un grave diverbio. Il vicecancelliere, a nome di più cardinali, chiese al papa morente di voler tosto disporre che Castel Sant'Angelo, del quale allora era castellano Battista Pinelli, nipote di esso papa e fautore del cardinale Della Rovere, fosse consegnato al Sacro Collegio. Il Della Rovere con animo assai turbato disse al papa - così riferì Antonello Salerno in suo dispaccio del 21 luglio 1492 da Roma al Gonzaga, marchese di Mantova - 'che se ricordasse che el vice cancelliere era catalano e che intendeva di fare papa Napoli (il Carafa, cardinale di Napoli, allora in disgrazia di re Ferrante); disponesse quindi che il castello fosse consegnato al papa futuro. I due porporati vennero allora a male parole, se non a minacce'». Era normale che alla morte di un papa, come dei cardinali, il suo corpo venisse «abbandonato». Che alla fine terrena seguissero spoliazioni e saccheggi. In una feroce tradizione popolare. Sia per l'incoronazione, sia per il funerale di Innocenzo VIII, a Roma miracolosamente non si verificarono disordini. Innocenzo VIII morì nella notte tra il 25 e il 26 luglio del 1492. In quel giorno il calendario cristiano, guarda caso, lo avrebbe indissolubilmente legato alla festività di San Cristoforo. Sette giorni dopo il santo gigante e la «colomba» avrebbero preso il volo da Palos. Si spegneva un grande pontefice.
Alla sua elezione qualcuno aveva preconizzato il pronto ritorno all'aurea età di Saturno. Il pianeta che brillerà nel momento in cui Colombo scenderà sulla prima spiaggia delle Indie. Illuminerà nello stesso identico modo le celebrazioni del 1992: «L'unico pianeta sull'orizzonte di San Salvador in quella sera di cinquecento anni fa era Saturno: esattamente come in questi giorni, e anche allora il pianeta degli anelli si trovava nella costellazione del capricorno».191 Misteri delle stelle. Che dettavano anche le rotte. Il periodo della malattia e quello seguente alla morte furono invece caratterizzati da un clima truculento. I dispacci degli ambasciatori, i resoconti lo testimoniano: «Vero è che l'è stato amazato qualche persona e feriti alcuni altri maxime in quello tempo che '1 papa era in quello estremo»; «Ricordo come papa Inocentio si ammalò di maggio e poi il mese di luglio morì, et in Roma furono fatti molti omicidi e molti feriti e latrocinii, e dopo li cardinali entrarono in conclave».192 La repressione scattò immediatamente. Colpì fra gli altri Giovanni Lorenzi, insigne ellenista veneziano. Bibliotecario della libreria vaticana e segretario del papa, Lorenzi aveva studiato all'università di Padova, era passato al seguito del cardinale Marco Barbo, amministratore dell'ordine di San Giovanni. La lunga schiera dei cavalieri, degli umanisti è il sottofondo costante della nostra ricerca.193 In quel tempo grazie all'apporto di Pomponio Leto e all'Accademia romana l’«aurea Roma» e il tempo dell'oro, nella città santa, riaffioravano ovunque. Il latino era la lingua delle orazioni, delle feste e dei banchetti. Dell'Accademia faceva parte il Platina. Ne avrebbero fatto parte i raffinati umanisti Bembo e Paolo Giovio, che custodirà, nella sua galleria, uno dei ritratti più verosimili di Cristoforo Colombo. «A quale potenza fosse giunto in Roma al tempo d'Innocenzo VIII il moto del Rinascimento e come l'entusiasmo per tutto ciò che fosse antico fosse penetrato anche nel popolo» è documentato da un fatto accaduto nell'aprile del 1485. Fra le rovine della via Appia gli scavi portarono alla luce una tomba. Fra le pietre e i tumuli rimossi apparve il cadavere di una fanciulla, perfettamente conservato. La venerazione del corpo ritrovato fu così immediata e intensa, con processioni di gente, che Innocenzo decise di provvedere segretamente ad una nuova sepoltura. Il culto del passato non doveva confondersi con la superstizione. Alla morte di Innocenzo le fortune del Lorenzi vennero subito meno. Sostituito dal Borgia con un catalano, morto presto anche lui, il bibliotecario di Innocenzo VIII riparò infine a Viterbo dove fu ucciso «di veleno».194 La stessa sorte toccherà al fratello Angelo, sgozzato e gettato nel Tevere, vittima della serie di assassinii di Cesare Borgia. La colpa era quella di avere custodito e tradotto in latino le opere di Giovanni, redatte in greco, contro la dinastia del papaAnticristo.195 Che aveva ormai preso possesso di San Pietro. Cosa mai aveva lasciato scritto il fidato ed erudito umanista? La successione delle morti è sconcertante. Quello che si era verificato in seguito al decesso di Sisto IV si ripetè poco dopo la fine di Innocenzo. Nei pochi giorni di sede vacante, intercorsi sino all'elezione di papa Borgia, si scatenò l'anarchia. Il regolamento di conti in corso, per la conquista del soglio pontificio come del Nuovo
Mondo, mentre le vele di Colombo solcavano l'oceano, fu quanto mai cruento. In quei giorni si decisero le sorti dell'umanità, della modernità. La giustizia fu umiliata, la verità sepolta. In poco più di due settimane si contarono per le strade di Roma duecento omicidi, dodici al giorno, uno ogni due ore.196 In una scia di sangue che proseguirà ancora per anni. Che ridurrà, alla morte di Alessandro VI, il pontificato di Pio III Piccolomini, il senese nipote di Pio II, ad uno dei più brevi nella storia della Chiesa: poco più di dieci giorni. Fra le cause dell'improvviso decesso si avanza il sospetto di veneficio. Forse il pio francescano voleva ristabilire la verità oscurata. Ma ormai Roma, dove le fazioni avevano ripreso a combattersi ferocemente, mosse da interessi diventati universali, non lo riteneva più possibile. Papi, re e imperatori avrebbero perso la faccia davanti all'umanità intera. Si sceglierà, subito dopo, in seguito ad un patto di ferro raggiunto con Cesare Borgia, Giulio II, «un papa guerriero». Che avrebbe dovuto difendere e rafforzare lo Stato della Chiesa. «L'accordo fra Giuliano Della Rovere da un lato e i cardinali spagnoli dall'altro fu raggiunto il 29 ottobre... pochi dettagli trapelarono intorno a ciò che vi accadde.»197 Fu il patto, stretto nel segreto, che sancì l'ingiustizia e la menzogna? I morti di veleno e i carnefici, in questa lunga storia, potrebbero apparire troppi. Ma il veleno, il filo delle lame, gli assassinii facevano inevitabilmente parte, alla fine del Quattrocento, dei giochi crudeli del potere. Mentre un grande giallo, come è quello che stiamo cercando di risolvere, con tutte le implicazioni che ebbe e che avrebbe avuto, richiede molte vittime e molti carnefici. Machiavelli farà dire a Cesare Borgia, che sopravvisse ad Alessandro VI per alcuni anni: «Io avevo pensato a tutto quello che potesse nascere morendo il padre, e a tutto avevo trovato rimedio». A tutto tranne che all'imponderabile. Per salvare la vita di Innocenzo pare che si sia fatto di tutto e di più. Prima con una pozione di polvere di diamanti. Poi il suo medico ebreo (!) gli avrebbe iniettato il sangue di tre fanciulli, morti nell'atroce esperimento, la storia lo smentirà, ma ormai la leggenda del papa-vampiro aveva intrapreso il suo corso. Forse si trattò semplicemente di una pionieristica trasfusione di sangue. L'accusa di mangiare i bambini aveva sempre inseguito i giudei. Colpirà, fino ai nostri giorni, gli avversari politici. Per difendere dall'infamia gli accusati, papa Fieschi, Innocenzo IV, in una bolla del 1247 aveva scritto: «Gli ebrei sono falsamente accusati di cibarsi a Pasqua del cuore dei bambini uccisi con la scusa che tal pratica sarebbe prescritta nelle loro leggi». Gli ebrei, anche verso la fine del 1400, erano considerati i «fratelli maggiori». Ma i marrani, quanti nel segreto delle loro case continuavano a professare la loro legge, pur mostrandosi di essersi convertiti, costituivano sempre un pericolo per la Cristianità. Per cui il termine marrano costituiva un'offesa tremenda. A chi si riferiva Giulio II Della Rovere, i cui rapporti con papa Cybo paiono peraltro altalenanti, visto che «Innocenzo VIII era più che altro determinato a essere il padrone di se stesso e fu persino sentito parlare in pubblico in termini critici del Vincula», 198 quando, passando nella Cappella Sistina, riferendosi ad un predecessore, inveiva: «Marrano, giudeo e circonciso...»? Il nuovo pontefice imprecava, mentre sulla
parete di fondo del salone affrescato comparivano inedite decorazioni, anche lignee, risalenti pare ad Alessandro VI o addirittura prima ad Innocenzo VIII (!). In quell'angolo dell'immenso capolavoro, dove oggi si svolge ancora il conclave, gruppi di dannati dalle sembianze esotiche ricordavano sorprendentemente i volti di popolazioni maya e degli incas.199 Erano gli idolatri in attesa che il Christo Ferens salpasse da Palos. Per ripetere un viaggio già compiuto. Non è che uno dei tanti enigmi di questa ricerca. Ma l'enigma più grande sono le frasi incise nel marmo, sulla tomba di Innocenzo VIII, poco più di un secolo dopo la morte: INNOCENTIO VIII CYBO PONT[FICI] MAX[IMO] ITALICAE PACIS PERPETUO CUSTODI NOVI ORBIS SUO AEVO INVENTI GLORIA REGI HISPANIARUM CATHOLICI NOMINE IMPOSITO CRUCIS SACRO SANCTAE REPERTO TITULO LANCEA QUAE CHRISTI HAUSIT LATUS A BAÌAZETE TURCARUM TYRANNO (IMPER[ATORE]) DONO MISSA AETERNUM INSIGNI MONUMENTUM E VETERE BASILICA HUC TRASLATUM ALBERICUS CYBO MALASPINA PRINCEPS MASSAE FERENTILLI DUX MARCHIO CARRARIAE ET C [ETERA] PRONEPOS ORNATIUS AUGUSTIUSQ. POSUIT ANNO DOM. MDCXXI La tomba di Innocenzo VIII, firmata dal Pollaiolo, è stata trasferita dalla vecchia basilica costantiniana alla nuova San Pietro. In un omaggio unico nella storia dei papi. Tanto più strano in quanto concesso ad un vicario di Cristo colpito da damnatio memoriae. L'epitaffio è il compendio di una vita. Fu posto nel tempo di papa Paolo V Borghese, originario di Siena (!). Si commemora, per i tempi a venire, un pontefice eterno custode della pace, la pace italica e romana da portare nel mondo. Innocenzo è il papa che nominò cattolicissimi i re di Spagna. Che ritrovò il cartiglio della croce. Che recuperò la lancia che colpì il costato di Cristo, donatagli da Bajazet.200 Il monumento, ricomposto nei primi decenni del 1600, fu stravolto nella sua composizione originale. Si presenta oggi come una verità ormai rovesciata. Ciò che stava in basso finì in alto. Ciò che stava in alto finì in basso. Dove compare la frase, scolpita nel marmo, per la memoria dei posteri: «Novi orbis suo aevo inventi gloria» (Nel tempo del suo pontificato la gloria della scoperta del Nuovo mondo). Un'affermazione sconvolgente nel tempio della verità. Non è l'unico mistero. Più sopra, sotto l'immagine del papa trionfante, dove ad occhio nudo non si può leggere, c'è impressa una cifra diversa e sibillina: «Obiit an. D.ni MCDXCIII», che corrisponde al 1493.201 Un anno in più di vita, per quanto incredibile, cambierebbe tutto. Un errore? Un indizio? È singolare che a Genova, nella chiesa di San Lorenzo, dove si custodiscono le ceneri del Battista ed il Graal, si trovi una bolla firmata da Innocenzo con la data 1493. Sotto il ritratto, che è nel chiostro con quello degli altri pontefici liguri, la data della morte è ancora 1493.202
Le falsità, si è detto, sarebbero frutto del tentativo di rivendicare la «scoperta» dell'America. Come se bastasse scrivere due cifre a caso per avere ragione, agli occhi del mondo intero, circa la paternità di un'impresa epocale. Gli errori sono stati fatti per attribuirgli in qualche modo una scoperta che non gli apparterrebbe o per avvalorare un ruolo e una presenza che vennero subito cancellati? Quando morì esattamente Innocenzo VIII? Spirò nel luglio del 1492 o si finì con lo scegliere come data della morte il 25 luglio, solo per le sue componenti esoteriche ed astrali? Guardando il feretro in San Pietro, di fronte a quella lapide di marmo nero, echeggiano le parole della biografia del Panvinio. Sono l'impensabile, incredibile conclusione dell'esistenza di Innocenzo VIII: «Occorsero altre grandi cose, e tra le altre quasi alla fine del suo pontificato, la maggiore che si sia mai verificata a memoria d'uomini, per cui Cristoforo Colombo scoprì il mondo nuovo, e non senza mistero avvenne che regnando un Genovese l'orbe cristiano, un genovese trovasse un altro mondo nel quale fondare la religione cristiana». Le frasi sono scarne, il significato che ne scaturisce è inequivocabile. Coincide con quello impresso sulla lapide. La «scoperta» è avvenuta nel corso del pontificato di Innocenzo. Panvinio precisa che l'evento si verificò non senza mistero: due negazioni equivalgono ad un'affermazione. Il mistero ha coperto gli eventi. Nell'«altro» (è lo stesso aggettivo usato da Colombo, mentre è già invalsa la consuetudine di chiamarlo «nuovo») mondo si doveva fondare la religione-cristiana. Le parole alludono ad una religione rinnovata (da «fondare») rispetto alla tradizione? A un secolo di distanza, verrà ancora ripetuto lo stesso concetto: «Quasi nel fine del suo pontificato avvenne una cosa, e forse la maggiore che sia mai stata a memoria d'huomini, e fu che Cristoforo Colombo genovese scoprì il mondo nuovo; il che di vero pare che seguisse per divino ordinamento, che reggendo un Genovese il mondo cristiano, un Genovese pure trovasse un altro mondo, in cui si fondasse la fede cristiana».203 L'impresa, dunque, aveva rispettato un «ordine divino». Con la morte di Innocenzo moriva l'innocenza. Moriva il sogno di pace universale. «E la morte sua apportò gran dolore a tutti i buoni di quel secolo, perché parea che la perdita fosse non solo particolare, ma comune ancora e generale di tutto il Cristianesimo. E di vero con la morte sua si disturbò la più bella e la più degna e la più gloriosa impresa, che mai prima si fosse pensata, non che eseguita: ma piacque forse al grande Iddio, per suo giusto a noi occulto giudizio, di riserbarla ad altro tempo.»204 A cosa si allude? Più che di una «scoperta» si trattò dell'«impresa più bella, più gloriosa, più degna». Che fu prima studiata e poi eseguita. Ma fu soprattutto «disturbata» e posticipata. La sparizione di Innocenzo fu una perdita per l'intero genere umano. Con rassegnazione cristiana, rispettosa del giudizio occulto della provvidenza, secondo la regola dell'obbedienza, venne accettato il sacrificio che iscrisse l'evento della «scoperta» in un altro tempo.205 La lapide è ancora là ai nostri giorni. Sia pure confinata in una zona buia della basilica. Lungo le navate poste a sinistra entrando. Basta andare in San Pietro per vederla. Un'epigrafe oscura e misterica. Come una mappa del tesoro.
5 - Dalle streghe a Pico della Mirandola «PACE non ebbe, sì pecunia.» La frase, riferita ad Innocenzo VIII, è lapidaria, categorica. Pone l'accento sulle fortune della Chiesa e sulle disponibilità dei pontefici nella seconda metà del Quattrocento. Aprendo nuove prospettive sul ricorrente luogo comune di uno Stato pontificio che si sarebbe spesso dibattuto in frequenti ristrettezze economiche.206 Fino ad una recente novità e alla scoperta di uno studioso, dopo tre anni di ricerca infruttuosa: «La documentazione... consentì di dimostrare», scrive Jean Delumeau, «qualcosa che il tempo aveva fatto dimenticare, e cioè che una grande impresa mineraria, di dimensioni e fama internazionale, aveva prodotto e lavorato con successo per svariati secoli nei territori di Tolfa e Allumiere, e che l'allume era stato un grande 'personaggio' della Storia». Una storia costruita e ricostruita per cinquecento anni, nell'assenza della verità, di troppi personaggi, di troppi elementi «rimossi». Dalle carte riaffioravano all'improvviso le tracce di un importante flusso finanziario, completamente trascurato. Che si inserisce nelle vicende del papa e di Colombo. La sicurezza di Roma e del suo regno, la realizzazione della crociata dipendevano dalle disponibilità economiche. In un periodo in cui non si fa che ripetere che le casse del Vaticano erano spesso vuote, specie quando i re, i principi, le città, le chiese rifiutavano di pagare le tasse per la guerra. Poi, come per un miracolo, e come tale l'evento fu interpretato dall'emotività popolare, il Vaticano si arricchì di una nuova, insperata, infinita possibilità di guadagno. «Il nerbo della guerra contro i turchi era il denaro... quand'ecco, nel maggio del 1462, aprirsi una nuova fonte di ricchezza, e precisamente nel Patrimonio di San Pietro. Si trattava delle miniere di allume di Tolfa, scoperte da Giovanni di Castro.»207 Sulle colline e tra i boschi, tra i castagni e le querce, tra i carpini e i faggi, nel verde fitto delle antiche regioni metallifere degli Etruschi, il passato veniva incontro al presente, tra le ombre e le luci della «selva» il padovano Giovanni di Castro, parente di Pio II Piccolomini, scoprì il provvidenziale filone minerario. Potendo profetizzare al pontefice, felice: «Oggi io vi annuncio la vittoria sui turchi».208 L'allume, componente essenziale per la tintura delle stoffe, era indispensabile per i lanaioli. Era esportato soprattutto verso Firenze, dove l'industria manifatturiera prosperava.209 La rivalità o le affinità fra Genova e Firenze investivano anche l'estrazione del minerale. Con l'avvento di Innocenzo VIII gli interessi delle signorie e dei clan famigliari, rivali fino al tempo di Sisto IV, erano finiti in gran parte per convergere. Il prodotto, uno dei più importanti del commercio medioevale, potrebbe essere paragonabile al petrolio, all'oro nero dei nostri giorni. La compravendita era stata sempre nelle mani dei genovesi, dal tempo della «Maona», la società costituita proprio nell'isola di Chio. In quell'arcipelago greco dove si concentrava lo scambio, da dove venivano i Cybo e dove approderà Colombo, presunto figlio di un lanaiolo.210
Un'altra débacle, questa volta soprattutto finanziaria, aveva coinvolto le signorie italiane dopo la caduta di Costantinopoli. L'allume, in precedenza, era sempre stato importato soprattutto dalla Turchia, in una sorta di forzosa e atavica dipendenza. Ora quella via, dopo il 1453, sembrava essersi chiusa per sempre. Costituendo un'ulteriore arma di ricatto nelle mani degli infedeli. Anche l'ennesimo Giovanni (di Castro) aveva mercanteggiato con il minerale per molti anni a Bisanzio. Dopo la caduta di Costantinopoli era stato costretto a riparare in Italia. Qui Pio II lo aveva nominato tesoriere del Patrimonio. Furono una serie di pietre bianche, alcune erbe, fra le quali l'agrifoglio, con le sue foglie chiare e scure (come gli scacchi), molto simili a quelle che aveva visto nelle terre d'Oriente, a fare scattare l'intuizione. Raccolse il materiale, lo fece cuocere a lungo nei forni fumanti: ne scaturì un prodotto finissimo. Nelle mani del pontefice un segnale soprannaturale e allo stesso tempo offerto dalla natura, impronta del divino, rimetteva l'allume da vendere in esclusiva a tutte le corti d'Europa. Il tesoriere potè confermare al papa: «Oggi, ti porto la vittoria sui turchi..,»211 Il pontefice, in un primo momento, si dimostrò scettico: le promesse furono ritenute, dai consueti denigratori, fantasie di un astrologo. Lo scopritore, in un percorso di vite sempre stranamente parallele, fu trattato «da stolto come Colombo, finché i fatti non gli diedero ragione».212 Di Castro era un appassionato di scienze naturali, uno sperimentatore venuto dalla Padova fucina di sapere e cattedra di stelle. Pare che la sua curiosità innata fosse confortata da un astronomo, Domenico da Padova. Aveva inoltre, come socio, Bartolomeo di Framura, un genovese. Le località convergono in un flusso unico di scienza e conoscenza. Giovanni approntò una fornace, fece cuocere il minerale, lo sciolse con l'acqua e lo lasciò in ammollo per molti giorni. Lo rimise di nuovo a cottura. Una volta ridotto in poltiglia, lo fece riposare in una cassa di legno. Dopo ventisette giorni sulle pareti del contenitore si erano formati i tipici cristalli. Era nato l'allume «cubico» romano.213 Astrologia, papa Pio II, crociata contro i turchi, necessità di denaro, i cubetti, come gli scacchi nello stemma dei Cybo, il paragone con Colombo. Le pedine del grande gioco si muovono. Il fine era la crociata, la meta l'Oriente. Pio II ringraziava la clemenza del cielo, venuto in soccorso del popolo cristiano. La scoperta venne consacrata da una bolla. Gli introiti dell'estrazione furono destinati alle spese di guerra, come risulta dalla costituzione del 1464 e come ribadito, nell'anno fatidico e tanto atteso del 1484, con l'avvento di Innocenzo VIII.214 Lo Stato pontificio fece fare una stima, che confermò la cifra fatta da Giovanni di Castro, di quanto pagavano le nazioni cristiane ai turchi per la importazione di allume. Risultò una somma di 300.000 ducati annui pagati ai musulmani, equivalenti a 1.015, 800 chili di oro fino.215 Una colata d'oro, che avrebbe potuto propiziare il viaggio verso l'oro. Le vendite furono immediate, le rimesse cominciarono ad affluire, i poeti cantarono l'evento: si trattava infatti di un avvenimento eccezionale, tanto più che la qualità era superiore a quella dell'allume importato dall'Oriente. L'estrazione fu
organizzata in modo industriale, con un migliaio e forse più di operai provenienti da tutta Europa. Il complesso che nacque venne chiamato «Allumiere delle Sante Crociate» e nel vicino porto di Civitavecchia fu istituita la «Depositeria delle Sante Crociate». Le rimesse della Tolfa consentirono a Pio II di allestire la sua flotta crociata. Il principio venne riconfermato con Innocenzo VIII. Nel corso del suo pontificato i diritti di estrazione passarono così nell'entourage dei Cybo: dai Doria, ai Visconti Cicala, ai Medici, ai Gentili. Quegli stessi Gentili amministratori del fondo della crociata in Spagna. La produzione procedeva alacremente.216 Fumaioli, fornaci, botti, una lavorazione paziente, per arrivare ad un materiale madreperlaceo, costituito di cristalli a forma di cubo sul quale, con l'acqua e con il fuoco, si operava una sorta di trasmutazione.217 Dalle colline vicine arrivava a Roma «un tesoro che non si può stimare». Un torrente d'«oro» che passava per le mani degli alchimisti. Oggi di tutto quel fervore restano poche tracce e una cappelletta, in zona «Cibona», chiaramente derivata dal cognome Cybo: indicano le orme del grande sogno, contribuiscono a ricomporre una giustizia offesa. La cappella presentava l'immagine di una Madonna miracolosa, una Vergine con il bambino e un melograno nella mano, il frutto simbolo dell'unione dei cristiani, attorniata da San Giovanni e San Giacomo, santi dei cavalieri, e di Cristoforo Colombo. Innocenzo, così sensibile all'oro e alle pietre preziose, come riferiscono le cronache, deve aver intravisto anche lui, in quel minerale, in quei procedimenti e in quelle cave, qualcosa di simile ad un annuncio offerto dal cielo e dalle stelle, per operare ai fini della trasmutazione del mondo. Calcinazione, raffinazione, solubilità erano vocaboli che investivano l'industria dell'allume, ma che facevano parte di un linguaggio tanto esclusivo quanto iniziatico. Le molte cariche create dei cosiddetti plumbatores, istituiti da Innocenzo, rinviavano ad un altro dei componenti indispensabili per la Grande Opera alchemica alla quale il Rinascimento tendeva. In un coagulo di energie rivolte verso un unico scopo, che coinvolgeva artisti, letterati, scienziati, uomini di potere. Non mancavano naturalmente i monaci e Innocenzo nel 1486 emanò una costituzione nella quale si decretava che i «piombatori» appartenessero ai cistercensi dell'abazia di Fossanova, come stabilito nel Duecento per i creatori delle più grandi e misteriose cattedrali. Più che una vendita di cariche pare l'attribuzione specifica dell'eredità di un sapere élitario. Che il segreto facesse parte integrante del suo ministero è confermato dal fatto che Innocenzo fu il primo papa ad adottare un codice cifrato nei documenti pontifici.218 Siamo in un campo, quello dell'alchimia, parallelo alla Cabala, che riaffiora e riaffiorerà in questa storia da ogni parte. Una disciplina che suona oggi in maniera folcloristica alle nostre orecchie. Quasi i cultori di quella che veniva considerata una vera e propria arte, l'arte suprema per migliorare l'individuo come la collettività, fossero apprendisti stregoni alla Walt Disney, intenti a creare diavolerie nei loro antri nascosti. Non fu così, fu molto di più.
Fu uno studio quanto mai approfondito e senza fine sulle possibilità offerte dalla natura, in un percorso magico. Alla ricerca della pietra filosofale e dell'elisir di lunga vita. Una via verso l'assoluto, il ritorno alla perfezione primigenia, all'Eden perduto, in qualche modo alla resurrezione dei corpi attraverso lo spirito. Influssi astrali, erbe, piante, pietre e la medicina, con le sue ricette, avevano a che fare con una tradizione esclusiva e preziosa, «divina», nella quale paganesimo, Islam, Ebraismo e Cristianesimo si fondevano. Dove non era però così semplice distinguere fra i messaggi angelici e quelli del demonio. In operazioni sempre al limite della liceità. In una disciplina quanto mai esposta al rischio che, come abbiamo visto, aveva trovato all'università di Padova numerosi cultori. In un percorso parallelo che, ancora una volta, unirà Innocenzo e Colombo. Non è certo un caso che uno dei più grandi alchimisti inglesi del Quattrocento, George Ripley (1415?-1490), trascorse circa venti anni in Italia e fu tra i favoriti di Innocenzo VIII. Del quale diventò cappellano privato e maestro di cerimonia.219 La leggenda vuole che Ripley scoprisse la pietra filosofale con la quale avrebbe prodotto una grande quantità di oro, circa 100.000 sterline, con cui avrebbe finanziato i Cavalieri di Rodi per la difesa dai turchi. Anche il nome di Rodi, ricordato nel Sacro Bosco di Bomarzo, rimanda all'alchimia.220 Denaro, oro, crociata, cavalieri, trionfo della Cristianità sono la costante: «Oro significa immortalità». Le terre dell'oro oltreoceano promettevano anche la fonte dell'eterna giovinezza, l'elisir di lunga vita. Immediato, al suo approdare in Europa, attraverso il contatto con l'Islam, era stato il rapporto fra i pontefici e il sapere alchemico. In una tradizione che veniva da lontano e che, precedentemente ad Innocenzo, aveva conquistato Clemente IV e Felice V, per finire allo stesso Pio II Piccolomini.221 L'alchimia era già stata legata indissolubilmente al filone francescano con Raimondo Lullo. L'arte sacra per «fare l'oro» apriva la via che avrebbe illuminato l'anima. Per cui «gli alchimisti erano mistici senza essere cattolici ortodossi».222 Seguaci che oscillavano al di sopra delle fedi, sia pure in campi avversi. Veniva, peraltro, considerata da molti un «dono di Dio» e quindi «divino». I potenti, date le premesse e le promesse, ne erano quanto mai affascinati. Una personalità composita, che riassumeva in sé un triplice percorso teologico, una mentalità illuminata che aspirava all'armonia, un uomo, figlio di un ebreo e nipote di una musulmana, come Innocenzo VIII, lascia trapelare da ogni indizio una fortissima impronta alchemica. Il pavone,223 l'animale originario delle Indie, con la sua coda iridescente, era il suo marchio. Ereditato dal padre Aronne, al quale pare che fosse stato concesso dal re francese Renato d'Angiò. La coda del pavone rappresenta una fase dell'operazione alchemica. Anche se molti dei pavoni apposti in Vaticano sono stati fatti sparire, l'uccello dai mille colori è rimasto ad indicare un labirinto di segni inequivocabili, circa la volontà di papa Cybo: la coda del pavone «preannuncia l'aurora e il ritorno all'anima».224 Un processo lento, arduo, in un cammino dal nero al chiaro, dalla nigredo all'albedo alla rubedo, in un procedimento che arriva alla rigenerazione dalla corruzione: «Il principio volatile del mercurio vola attraverso l'aria alchemica,
all'interno del microcosmo dell'Uovo filosofale, 'nelle viscere del vento', ricevendo dall'alto le influenze celesti e purificatrici. Ricade, sublimato, sulla Nuova Terra, che infine emergerà. Poiché il fuoco esterno si intensifica molto lentamente, l'umido cede al secco, finché la coagulazione e l'essiccazione del continente che emergerà non sarà completa. Mentre ciò accade, appaiono colori bellissimi in grande numero, corrispondenti allo stadio conosciuto come 'Coda di pavone'».225 Parole enigmatiche, che paiono la metafora («Nuova Terra», «continente che emergerà») di ciò che dovrà avvenire. Perché, per quanto possa sembrare paradossale, nonostante quanto è stato scritto sulla scarsa cultura di Colombo, non si può più negare che il navigatore, con la sua ossessione dell'oro, fosse un conoscitore e uno studioso di testi di mistica e di alchimia. «Chi si 'avventura' per mare... è un mistico, un guerriero che non combatte contro altri uomini ma contro il mistero dell'ignoto. Colombo voleva tornare all'oro dell'India, cioè alle sorgenti della luce, del sole, all'aurora, attraversando e doppiando l'Occidente, la terra del tramonto, poiché dava per scontata la sfericità della terra. Ovunque e sempre l'oro evoca la nascita del sole e della luce, il suo possesso non ha una valenza originariamente monetaria, ma simbolica.»226 È una catena sempre più serrata, che passa attraverso l'esplosione dei colori, l'arcobaleno delle piume del pavone, squilli splendenti del prossimo avvento: «Ma poiché la corruzione di uno è la generazione di un altro, da questo Aas sdoppiato nascono molte cose: dapprima ne esce un corvo che, putrefacendosi anch'esso, scompare e dà luogo... a un pavone; quando questo svanisce appare una colomba che, non avendola trovato il corvo, trova un luogo asciutto, ma nuovo, perché la Terra precedente è stata distrutta dal Diluvio, mentre questa è la creta verginale dei filosofi».227 Il linguaggio è astruso ma, come nella profezia, sembra indicare nell'avvento di un novello Noè-colombo quanto sta accadendo e dovrà accadere ancora: pavoni, colombe, terre nuove. D'altronde il simbolo è più che mai presente nello stemma di Innocenzo VIII con la banda scaccata di bianco e di nero, con i cubetti d'argento (il bianco) e d'azzurro o turchino (il nero), che rinviano al baussant dei Templari. Erano negli stemmi delle famiglie genovesi degli Adorno e dei Doria. Sconcertanti analogie si rilevano, a questo punto, tra l'arma dei Cybo e uno spicchio, posto in basso, del primo stemma di Colombo. Che sparirà successivamente, sostituito dalle cinque ancore. In questa sezione, posta in memoria del blasone originario, si individuano elementi araldici, che hanno gli stessi colori dello stemma della famiglia Cybo.228 Anche gli scacchi vengono dall'Oriente, le origini del gioco, che ebbe grande fortuna nell'Europa medioevale, si perdono nella lontana Persia o nell'antica Cina. Avrebbero possibili antenati nei segni astrologici, nella voce del firmamento. Il bianco e il nero rappresentano l'eterno conflitto fra la luce e le tenebre, il bene ed il male, lo Yin e lo Yang. Configurerebbero un'esercitazione virtuale alla guerra e, a differenza dei dadi, governati dalla sorte, implicano la scelta del giocatore. L'intervento del libero arbitrio e dell'intelligenza.
Anche gli scacchi hanno avuto alti e bassi nel rapporto con la Chiesa. Nel Liber super ludo scaccorum il domenicano Iacopo da Cessole, attraverso l'interpretazione dei pezzi del gioco, diede una delle più interessanti descrizioni della società e della mentalità del Medioevo. Il predicatore, che soggiornò per lungo tempo a Genova, con la sua opera conobbe una fortuna immensa presso tutti i ceti sociali. Quasi contemporaneamente un medico genovese «aveva proposto di trarre dagli scacchi 'l'armonia della giustizia', illustrando simbolicamente le mansioni dei sudditi e i doveri de regnanti» e fu «devotissimo amico dell'ordine e del convento dei frati minori di Genova».229 È singolare come nella nascita degli scacchi sia coinvolto persino Ulisse. E non mancano le similitudini fra Colombo e Odisseo. Tuttavia gli scacchi ebbero anche non pochi detrattori, nel timore che distogliessero i sacerdoti dalle loro incombenze. Leone X Medici ne sarà tuttavia un grande appassionato, come Pio V, il papa di Lepanto. Giovanni Paolo II fu titolare da ragazzo di una rubrica scacchistica della rivista di studi universitari di Cracovia. Per i puristi gli scacchi non sono semplicemente un passatempo, ma un modo d'essere: «Non dico Giuoco, ma miracolo, et esempio de' Giuochi». Implicano tolleranza, sono un mezzo per migliorarsi, un elogio della moralità, senza nulla lasciare al caso o all'imprevedibile, a parte il sorteggio del bianco, cui spetta il primo tratto. «Lo scacchista ha un suo sistema di valori, che comprende lealtà e reciprocità, e la sua massima soddisfazione è vincere una bella partita; perché una bella partita rende tutti più felici, chi vince e chi perde, perché è nell'incontro tra i due giocatori che si realizza il comune idem sentire.»230 Sono le regole del codice cavalleresco tradotte in un esercizio intellettuale, è l'arte della guerra, sublimata in un duello, attraverso una progressiome di mosse. Rispettando regole precise, secondo una filosofia ancestrale. Non è certo un caso che, in una miniatura di un codice, conservato nella biblioteca dell'Escorial a Madrid, lo scontro per la Terrasanta veda un cavaliere crociato ed un cavaliere musulmano pacificamente a confronto, nell'idem sentire, davanti ad una scacchiera. «Il mondo scacchiera dell'essere» lo avevamo già incontrato in Puglia sul mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto. Negli affreschi del «Buon governo» a Siena. Gli scacchi erano stati introdotti attraverso la Spagna musulmana. Con gli arabi comparvero sul soffitto della cappella Palatina di Palermo. Il gioco era conosciuto da Dante, ne erano esperti il Boccaccio e Petrarca. Si diffuse in Italia soprattutto nel 1400: «La fertile fantasia di Francesco Colonna ideò la prima pantomima scacchistica della quale si ebbe notizia».231 Si tratta di un altro frate predicatore, cresciuto nell'ambito della nobiltà veneziana. Esperto di teologia ed indiziato come autore di uno dei libri più enigmatici di quel tempo, la Hipnerotomachia. Un «testo sacro» della magia e dall'alto contenuto morale. Il ramo veneziano di una famiglia Colonna, la collaborazione con il Mantegna per le illustrazioni, lo studio degli scacchi, l'insegnamento all'università di Padova sono tutti elementi che riconducono alla vita di Innocenzo VIII. Forse ad una possibile linea materna di Colombo-Colonna, con il suo cognome in cifra dalle molteplici interpretazioni. Gli scacchi con i vari re, regina, alfieri, cavalieri, pedoni (i
rappresentanti del popolo) fornivano la possibilità di ricorrere ad una serie di insegnamenti moraleggianti e di ammaestramenti spirituali. Anche attraverso gli scacchi, presenti nell'araldica dei Cybo, ci si trova di fronte, dunque, a segnali che affondano nel tempo e mascherano nel segno le caratteristiche indelebili di una dinastia e di una conoscenza sempre ai confini dell'ortodossia. In una fedeltà a principi irrinunciabili. Sia andando indietro nei secoli, sia guardando alla discendenza di Innocenzo VIII. In particolare a quell'Alberico che, approdato a Massa, si batté sempre per rivalutare la sua casata ed ottenne il privilegio di apporre la lapide sulla tomba del papa, con il riferimento alla scoperta dell'America. Naturalmente anche Alberico è un personaggio controverso, proprio per questa sua volontà di rivalutare le sue ascendenze, vista spesso come il capriccio di un vanesio. È singolare che, pur potendo rivendicare la sua appartenenza ai Malaspina, Alberico trascurò completamente la genealogia materna, come se la sua volontà dovesse essere impegnata unicamente nel riscatto di un torto enorme, subito da parte del suo antenato più illustre: Innocenzo VIII. Il papa condannato e oscurato dalla storia. La figura di Alberico si muove nel solco del grande sogno rinascimentale, in linea con la sua provenienza dal ramo scaturito dal matrimonio tra Franceschetto Cybo e Maddalena de' Medici. Alberico disponeva di mezzi non indifferenti, grazie anche ai due matrimoni con Elisabetta Della Rovere, altro legame tradizionale, ed Isabella di Capua. La città dove era stato seppellito Aronne Cybo. Aprì le porte del suo feudo agli ebrei. La tradizione, di padre in figlio, evidentemente, si conservava. Era un periodo in cui molti le chiudevano e la promiscuità fra giudei e cristiani era malvista dal clero. Istituì un Monte di pietà, concesse privilegi agli ebrei.232 Alberico fu un uomo di grande ingegno. Come alcuni suoi predecessori, ebbe un senso spiccato per i commerci e per i «negozi», con una mira particolare per l'oro. Poteva creare conti e cavalieri, poteva battere moneta. Ricevette la croce dell'ordine di Cristo in Portogallo (!).233 Anche Franceschetto Cybo aveva avuto una concessione simile da Federico III. Il chiacchierato conte dell'Anguillara poteva dare facoltà agli investiti di portare sul petto una croce d'oro. Una croce giallo-oro, sullo sfondo del cielo, attorniata da stelle sempre d'oro, compare a Firenze, a Palazzo Pitti, in un affresco del XVI secolo. Ritrae Colombo mentre studia, con la sfera armillare ed il compasso, in un insieme di simboli alchemici e massonici. Il figlio del pontefice quando incominciò a scrivere Il libro dei ricordi, una volta riparato a Firenze, in seguito alla morte del padre, fece precedere il lavoro, come motto beneaugurante, dal versetto di San Giovanni «Iesus autem transiens per medium illorum ibat». Un passo condannato dalla Chiesa come «vana superstizione».234 La zecca del marchese di Massa si affacciava su una grande piazza intitolata a Mercurio, il dio dei misteri. Al centro campeggiava una enorme statua di Hermes. Alberico realizzerà nel metallo più prezioso una serie di coniazioni, ricercate «sia per peso che per titolo», estremamente interessanti dal punto di vista ermetico. In una produzione quanto mai intensa fino all'ottenimento del titolo di Principe del Sacro
Romano Impero concesso dall'imperatore Massimiliano II, quando Alberico potè fregiarsi anche dell'aquila bicipite e del motto «Libertas». Così come il motto «Anno pacis» era stato quello della prima coniazione importante nel 1559. Battuta nel segno della pace, la vocazione dei Cybo. Più che monete, a parte i ritratti, ci si trova di fronte ad allusioni precise, che mescolano avvenimenti reali ed allegorici: pavoni, botti, crogiuoli, obelischi, incudini, tempietti, piramidi... in un crescendo di concezioni architettonicofilosofiche approdate alla simbologia esoterica: «Tra il volto giovanile della prima doppia d'oro e l'ultima impresa, quella dei tre cervi (tre cervi che attraversano i flutti, come tre caravelle, N.d.A.) che sfidano le avversità (c'è) oltre mezzo secolo di storia di un territorio per il quale il principe aveva con continuità cercato entusiasticamente di far coincidere il successo e l'oro della sua moneta con la creazione di un principato ideale».235 Le scienze occulte, come chiave interpretativa dell'esistenza, erano state discipline coltivate dai Medici come dai Cybo, che sempre inseguirono lo Stato ideale. Che sempre cercarono di interpretare gli arcani dei messaggi astrali: «Esattamente nell'anno 1569, un medico filosofo di Piemonte... il quale diceva di essere nipote di Nostradamo... fece la natività del signor Ferrante Cybo... costui era proprio un astrologo».236 Alberico non rinunciava, nonostante tutto, nel concentrare nel suo piccolo Stato i sapienti dell'alchimia. Come Cipriano da Piccolpasso, nativo di Castel Durante, un nome chiaramente in codice. Cipriano rimanda a Cipro, l'isola greca che fu sede dei Templari, come dei Giovanniti.237 Dove riparavano i francescani esuli dalla Terrasanta.238 Cipriano fu autore de Li tre libri de l'arte del vasaio, quando l'arte ceramica, che Innocenzo VIII utilizzò per alcuni suoi preziosi stemmi e per le scritte in Santa Croce di Gerusalemme, era considerata «per suo principal fondamento di duplice derivazione, l'una vien dall'arte del disegno, l'altra dai vari secreti e mistioni alchemiche». Nel Rinascimento la ceramica, che fino ad allora era subordinata alle altre arti, godette di enorme fortuna. Il libro si chiudeva con riflessioni moraleggianti. I capilettera si rifacevano ad illustrazioni mitologiche. Le tecniche per la maiolica (il nome, è il caso di ricordarlo, deriva dall'isola di Majorca, alle Baleari, la patria di Raimondo Lullo), conosciuta come «lustro ad impasto», attraverso l'uso di sali metallici, erano di derivazione araba, in linea con quella ceramica moresca diffusa nella Spagna musulmana, dove «l'obra dorada» emulava l'oro per fissarlo sull'argilla. Il materiale fondante dell'umanità, fin dalla creazione di Adamo. Il vasaio diventava così il demiurgo in grado di governare i quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco, in modo da raggiungere la «circhulare perfezione». Siamo ancora una volta in un processo, che si sviluppa attraverso l'apprendimento dell'arte sacra degli antichi. Che utilizzava spesso il simbolo della colomba e che «nella cabala ermetica gioca da vicino con le parole, cavalla, cavallerizzo, cavaliere».239 La cavalleria, dunque, come eterno, inestinguibile «filo rosso» di un sapere gelosamente custodito attraverso i secoli. Cipriano era in qualche modo un erede di
quei della Robbia, che lavoravano per Innocenzo, e visitò la bottega dell'eugubino Mastro Giorgio, il vasaio che ha lasciato a Gubbio opere dai riflessi ineguagliabili e una firma incredibilmente analoga, sia pure in una disposizione diversa, al criptogramma esoterico usato da Colombo. D'altronde, un appassionato massese240 ha acutamente corretto, utilizzando come mai prima era avvenuto il calendario gregoriano, la data di nascita della stessa «Città Nuova Cybea», voluta da Alberico. Che vide la luce in concomitanza con l'equinozio di primavera ed il solstizio d'estate. Le vere date fondanti fanno di Massa «la città del sole». In un linguaggio consegnato ad un'«impresa» in cui compaiono il cubo, la cicogna, il sole, i segni zodiacali della primavera. In un incastro allegorico dalle molteplici letture. Una delle quali si concilia con un perfetto «iter» alchemico dalla pietra grezza alla pietra filosofale. Basta addentrarsi nelle strade di Massa per ritrovare le reliquie di un tempo, quando gli ospedali erano intitolati ai Santi Giacomo e Cristoforo ed a Santa Maria. In una summa di richiami allusivi e nascosti. Ancora oggi si possono scoprire e leggere «in filigrana» nel frontespizio degli Statuti di Carrara del 1574, voluti da Alberico Cybo. Una tavola dove il simbolismo, che sarà ereditato dalla massoneria, a cominciare dagli scacchi, pare moltiplicarsi, in un groviglio di segni, tanto astruso quanto palese, alla luce di quanto scritto sino ad ora e di quanto ancora dovremo scrivere: obelischi, soli raggianti, la ruota del pavone, la botte, l'incudine, le ghirlande... Una sorta di enciclopedia esoterica, condensata in una serie di raffigurazioni. Dove ogni immagine ha un suo preciso e recondito significato. E molte delle quali ritroveremo sul dollaro americano. Come in un solco ininterrotto e misconosciuto fra i propiziatori e gli artefici della scoperta e quanti successivamente la raccolsero sull'altra sponda dell'Atlantico. Diventando i padri fondatori degli Stati Uniti d'America. In questo senso, assume un singolare significato uno scritto del massone Abramo Lincoln, il quale userà il tono, così ricorrente in questa storia, della profezia. Dove si esprimono singolari concetti circa l'importanza e la necessità di riapprodare alla culla di Roma, per un felice futuro della civiltà. Così Lincoln scriveva, nel 1853, all'amico Macedonio Melloni di Parma, uno dei più noti fisici dell'Ottocento: «Io sono convinto che i barbari venuti dalle lontane tundre, i quali, colle invasioni dalle loro abominevoli orde, approfittando dello Stato romano lo hanno predato, manomesso, derubato, annientato abbiano fatto retrocedere di secoli la marcia trionfale della vittoria umana sulla coscienza universale dei popoli affratellati. Ci avvicinavamo tutti, indistintamente, ad essere una sola famiglia, e repentinamente si addensarono sul mondo civile d'allora le tenebre più fitte della incomposta delle barbarie sulla luce meridiana di Roma immortale ed eterna. Di quella gloriosissima Roma o illustre amico, che ha dato la civiltà a tutto il globo terraqueo, che ci ha persino scoperti, che ci ha creati, redenti, educati, nutriti moralmente...»241 Lincoln parlava di una Roma che «ci ha persino scoperti». Credeva in un Dio giusto, si adoperava per l'abolizione dello schiavismo. Lo considerava un sopruso «fondato sull'ingiustizia e sulla pessima politica». Lincoln pensava ad un
riordinamento politico dell'Europa, che reintegrasse Roma nel suo ruolo eterno di centralità. In quanto vaticinata caput mundi. Come molti di quanti hanno cercato di migliorare la società umana, come molti protagonisti di questa vicenda, anche Lincoln finì assassinato da un fanatico. Medicina, astrologia, il culto delle piante e delle erbe, veicolo di forze naturali, fecero sempre parte, ormai è evidente, del bagaglio intellettuale della famiglia Cybo. I primi giardini in Vaticano furono creati da Innocenzo VIII davanti al Belvedere. Giardini pieni di statue creò Alberico. Un erbario eccezionale allestì Gherardo, nipote di Innocenzo VIII, nato a Genova. La curiosità maggiore di una sua prima raccolta sarebbe costituita da una pannocchia di mais, pianta allora pare ancora sconosciuta.242 Gherardo Cybo consultava annotandolo personalmente un codice, dove le piante erano illustrate secondo il ciclo alchemico.243 Come tutto questo si possa conciliare con due delle maggiori accuse rivolte ad Innocenzo VIII resta un mistero. Il papa, infatti, risulta essere colui che si scagliò contro le streghe, provocandone la persecuzione. Quello che, con l'ostracismo nei confronti di Pico della Mirandola, «la fenice», decretò al suo tempo la condanna del libero pensiero e della tolleranza. Ancora una volta, se si va a scavare con maggiore attenzione, ci si rende conto che gli avvenimenti sono andati in maniera diversa da come ci sono stati tramandati. In una verità sempre distorta. In una giustizia sempre avvilita. In un'epoca in cui, sull'onda degli studi e delle ricerche più azzardate, la superstizione popolare cresceva in maniera esponenziale, occorreva porre un discrimine preciso, doveroso, fra una magia accettabile ed una magia inaccettabile. Con tutte le sue implicazioni fra il perverso ed il diabolico. Anche per difendere in qualche modo i più sprovveduti dalla ciarlataneria, che aveva buon gioco con i gonzi.244 La bolla Summis desiderantes affectibus del 5 dicembre 1484 faceva parte di un'azione più ampia contro quanti venivano considerati i veri eretici. Ci si muoveva nel solco di precedenti interventi e ammonimenti partiti da Roma. L'iniziativa di Innocenzo, vista nel contesto del suo tempo e di quanto stava accadendo, nella credulità imperante, con i rischi che ne derivavano per i più sprovveduti, non costituirebbe di per sé un fatto particolarmente grave. La leggenda nera, che ha colpito la bolla, è dovuta al fatto che venne anteposta, con un'interpretazione unilaterale, come introduzione al famigerato Malleus maleficarum (Il martello delle streghe, successivo di qualche anno) di Heinrich Institor e Jakob Sprenger, due zelanti inquisitori tedeschi domenicani. Il libro, diventato uno «dei più funesti della letteratura mondiale», verrà utilizzato, soprattutto in epoche posteriori, per una vera e propria caccia alle streghe. Aprendo la strada ad una serie ininterrotta di roghi nelle regioni settentrionali della Germania e soprattutto nelle diocesi di Magonza, Brema, Colonia, Treviri e Salisburgo. In un'area geografica nella quale si adopererà, con parole di fuoco, la predicazione di Lutero contro «le femmine di Satana». Poiché «più di chiunque altro sono soggette alle superstizioni del demonio». Arrivando all'anatema più infamante: «Le streghe sono le puttane del diavolo».
Il Martello, avanzava una serie di distinguo tra le varie forme di magia. L'opera non rappresentava che una summa tardo-scolastica delle conoscenze relative alla stregoneria. In una compilazione attestata da numerosissime auctoritates. Era una sistematizzazione delle rappresentazioni della magia e della figura del mago fornite dai documenti letterari, «di un 'infuso', in ultima istanza innocuo, se così fosse rimasto, della teoria magica del tempo fissata per iscritto».245 Il testo, del quale quasi sempre vengono citati alcuni passi avulsi dal contesto, si limitava tutto sommato a prendere in esame «le vere arti della stregoneria». In una differenziazione precisa da altre forme magiche, che non rientravano nella trattazione: «In effetti tali persone vanno meglio definite come indovini o maghi piuttosto che streghe».246 In realtà, per quanto ampio, il trattato non aveva niente di originale nella sostanza,247 ma la grande diffusione che ebbe, in seguito alle numerose pubblicazioni, dovute all'invenzione della stampa, lo rese micidiale per le conseguenze che produsse. Per cui il Malleus, contrassegnato indubbiamente da quella misoginia patologica così frequente fra i monaci, fu spesso strumentalizzato da singoli inquisitori. Diventando un'arma per mandare a morte con il tempo circa 28.000 streghe. In una mattanza, salvo qualche tregua, via via crescente tra la fine del Quattrocento e la fine del Seicento. Una strage la cui paternità è soprattutto di derivazione protestante: i roghi si accesero per la maggior parte lontani da Roma, laddove il potere laico aveva bisogno di creare fantasmi e diversivi per distogliere il popolo dall'ingiustizia e dalla fame. In una recrudescenza che, dopo la Controriforma, 248 colpirà anche l'Italia con le condanne dei filosofi Campanella e Bruno e dello scienziato Galileo. Nella bolla non vi sono tracce di prese di posizione dogmatiche nei riguardi della stregoneria. L'idea fondamentale era l'ipotesi, da tempo sostenuta fermamente dalla Chiesa, della possibilità di un'influenza del demonio sull'umanità.249 Attraverso pratiche che, con «incubi e incantesimi», a volte comportavano «torture, crimini e delitti». «Il papa non si preoccupava soltanto delle anime dei cristiani, ma del mondo organico, di 'uomini, donne, giumenti'. Nel suo intento originario, la lotta contro la stregoneria serviva a proteggere il mondo naturale, a difendere la vita dalla morte, la fertilità dalla sterilità.»250 Si voleva, infine, affermare il primato del potere giudiziario delegato da Roma nei confronti di quello laico e imperiale, che tendeva ad affidare al braccio secolare i rei confessi. Tanto è vero che, in una lettera all'arciduca d'Austria, Innocenzo fece presente che il diritto vietava di usare la prova del ferro caldo nei giudizi e che bisognava procedere secondo i santi canoni e le leggi imperiali.251 È assurdo, pertanto, «sostenere che con questa bolla si iniziano le persecuzioni contro le streghe, già condannate al rogo dalla legge civile, come è assurdo parlare della credulità della Chiesa».252 Il Rinascimento profetizzava la renovatio saeculi. Ma trascinava con sé secoli di superstizione e di violenze negromantiche. In una dicotomia difficile da scindere, visto che gli studi inseguivano il nuovo, riscoprendo «il linguaggio» sotteso delle
leggi naturali. Il bagaglio di una cultura precristiana o paleocristiana poteva facilmente tramutarsi in pratiche non cristiane se non anticristiane. Per cui la sorveglianza era attentissima. Per molto tempo, per esempio, si era fatto ricorso all'apertura casuale dei Vangeli, quando i primi versi dei passi che si presentavano avrebbero dovuto ispirare le decisioni anche dei «clerici». Nella Vita di San Francesco, scritta da Tommaso da Celano, si racconta che lo stesso Francesco facesse uso di questa pratica, il che veniva assimilato ad un rito magico e quindi ad un atto passibile di condanna. Tanto è vero che nella Leggenda dei tre compagni ci si affretta a precisare che la triplice apertura del libro si giustificava in Francesco in quanto egli «è vero adoratore della Trinità».253 È la Trinità in nome della quale è partito Cristoforo Colombo che, al ritorno dal primo viaggio, nel momento della paura di perire in un naufragio, si affida alla sorte di un triplice sorteggio con i componenti dell'equipaggio. Usando le sortes, che potevano essere tavolette e bastoncini. A bordo Colombo utilizzò dei ceci, contrassegnati da una croce. Per due volte la sorte scelse, a quanto pare, la sua persona. Era una pratica che discendeva dagli auguri romani. Un modo per interpretare gli eventi in segno di fortuna o di sfortuna.254 Nel solco di quell'armonia esistente fra tutte le cose del creato. Coinvolgendo il cielo, i pianeti, la natura, le piante, gli animali, i metalli, le rocce e infine lo stesso uomo. Che, nella sua essenza, le rifletteva tutte in un mutuo, ondivagante riflesso. Nel Nord celtico, un altro santo di nome San Colomba (!) era stato uno dei sacerdoti più rispettati della magia bianca. A cavallo del 1300 il medico e astrologo Pietro d'Abano, che operava a Padova (!), per le sue ardite teorie di origine araboebraica, era riuscito ad evitare il supplizio mortale ma non il carcere. In quell'eredità che, in terra iberica, era stata raccolta nel tempo della Reconquista dal regno di Alfonso X, detto il Savio, ma anche «il Mago», re di Castiglia e di Leon, la cui corte era un autentico crocevia di culture. Agli astri, ad una divisione implacabile fra stregoneria e magia, dedicò grande attenzione Giovanni (!) Pico signore di Mirandola e conte di Concordia (!). Nomi che, come ormai spesso ci accade, paiono contenere in embrione il destino dell'uomo. Nell'Apologia, ispirandosi anche a Raimondo Lullo, il precoce filosofo parlava, infatti, della «permutazione dei nomi». Una «permutazione» è il nome Cristoforo Colombo? La famiglia di Pico vantava una discendenza, da parte materna, dall'imperatore d'Oriente, che si sarebbe rivelata un falso. Erano comunque cavalieri. Dimostravano attenzione per i nuovi ordini religiosi e la loro chiesa di San Francesco fu una delle prime dedicate al nuovo Santo.255 Il conte della Mirandola studiò per due anni a Padova, dove si conservava pure il ricordo di Marsilio da Padova (1275-1342), autore del Defensor pacis, ritenuto il maggiore studio di scienza politica del Medioevo. Allora cinque delle sue proposte furono bollate da papa Giovanni XXII come eretiche. Pico a vent'anni era in quella università. Era cresciuto in una terra, tra Ferrara e Mantova, dove l'Umanesimo si
affermava nello splendore delle corti. Il suo Discorso sulla dignità dell'uomo verrà considerato il manifesto teorico, programmatico e anche spirituale del Rinascimento. Ebbe come maestri un ebreo nativo di Creta, Elia del Medigo, uno dei massimi conoscitori di Averroè, destinato come lui ad una morte prematura, e Raimondo Moncada, un ebreo convertito. Gli fu vicino anche un altro dotto ebreo di origine francese, Jochanan Alemanno. Per il quale sette (il numero perfetto ricorrerà spesso nei libri di Pico e sarà una delle «ossessioni» di Colombo) erano i gradi dell'ascesa dell'anima verso Dio, e Mosè, il profeta al quale si paragonerà Colombo, rappresentava il modello del mago, che aveva la cognizione perfetta del mondo spirituale. Il giovane Pico fu protetto da Lorenzo il Magnifico, divenne membro di quella cerchia culturale fiorentina che aveva fatto dei libri e del sapere antico le fondamenta di un nuovo tempo. Venne influenzato sempre più dalle prediche di Girolamo Savonarola, amico di Ermolao Barbaro, il patrizio veneto, che aveva studiato a Padova.256 Divenne sodale per molto tempo di Marsilio Ficino 257 e della sua Accademia. Pico sognava di «riconciliare Aristotele e Platone». Savonarola ne era entusiasta. Per il severo frate se la sua vita fosse stata più lunga «avrebbe eclissato tutti gli uomini che sono vissuti da parecchi secoli, in forza del numero e del valore dei monumenti che egli avrebbe lasciato del suo genio... questo uomo deve essere considerato fra i miracoli di Dio e della natura per l'elevatezza del suo spirito e della sua dottrina; non è stato inferiore ai primi Padri che furono i più celebri del mondo... Tu sei il solo della nostra epoca che conosce perfettamente la filosofia di tutti gli antichi, così come i precetti e le leggi della religione cristiana».258 Il monaco reazionario era, dunque, infatuato come il Magnifico del sapere di Pico. La sua visione del mondo e dell'esistenza, per quanto ammirata anche dai detrattori della fede, resta fondamentalmente mistica. Cercava la saldatura fra Antico e Nuovo Testamento. Che si proiettava, da parte dei più grandi artisti dell'epoca, nei cicli di affreschi stupendi che impreziosivano le chiese ed i palazzi. Per lui, nella Conclusio cabalistica, i tre nomi del tetragramma della divinità, Ehejeh, Iehowah e Adonai, erano la versione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Che per alcuni cabalisti non era solo la voce di Dio, ma il «soffio» che avvolse Mosè sul Monte Sinai. Lo avevano particolarmente colpito le parole di Gesù, riportate da San Giovanni: «Vi do la mia pace, vi lascio la pace».259 Era la stessa pace che Innocenzo perseguiva con tutti i mezzi e che il viaggio di Colombo avrebbe dovuto realizzare. Si annunciava una quarta età dell'oro da raggiungere, secondo Pico, per mezzo del «filo d'oro» unificante che trapassa il tempo. In una sorta «di alchimia del pensiero». La sola arma in grado di dare corpo ad una «guerra santa» capace di riconciliare i popoli del mondo. Poiché «ogni sistema religioso, restando quello che è, porterebbe allo stesso fine, per una via diversa; ciascuno sarebbe una delle forme essoteriche, adattata all'immaginazione dell'uomo comune, della verità superiore esoterica, privilegio dei soli filosofi segretamente guidati dalla ragione universale».260 L'oro dello spirito sarebbe coinciso con l'oro delle Indie prossime venture. Che Colombo andava a «rivelare» leggendo i versetti di San Giovanni. Certo del vento
dello Spirito Santo nelle sue vele. L'anima (il soffio, il vento, lo spirito) è lo strumento, insisteva Pico, per la progressiva mutazione dell'uomo in una successione di livelli di sapienza, nello svelamento di verità sempre più occulte e segrete, per arrivare alla sapienza teologica. L'anima intellettiva, come la verità, è unica per tutto il genere umano. Per indagare inoltre nei misteri della natura occorrerà servirsi della magia. Per comprendere quelli divini sarà necessaria la Cabala, con il rivelamento dei simboli delle Sacre Scritture.261 Le sue tesi «dialettiche, morali, fisiche, matematiche, metafisiche, teologiche, magiche e cabalistiche, in parte personali e in parte tratte dai 'monumenti di savi caldei, arabi, ebraici, greci, egiziani e latini'», 262 spaziavano in tutto lo scibile dell'uomo. Se concetti del genere si fossero affermati, la comprensione, la concordia filosofica fra i popoli sarebbe stata meno difficile. La pace meno irraggiungibile. E il pontificato di Innocenzo, come il viaggio di Colombo, avrebbero potuto avere un altro senso. Giovane affascinante, dalle fattezze delicate, amante ardente, coinvolto nel ratto di una gentildonna, di una sapienza incredibile per la sua verde età, dotato di una memoria diventata leggenda, innamorato delle lingue orientali, della Cabala e dell'ebraico, Pico tentava, con i suoi studi, la mediazione definitiva fra passato e presente. Tra Oriente e Occidente. Nulla dello scibile dei «giganti» che lo avevano preceduto gli era precluso. Nella sua mente universalistica ed enciclopedica tutto si poteva ricondurre al magistero unico di un'umanità in cammino verso il regno di Dio. Così le dottrine, che avevano preceduto il Cristianesimo e gli insegnamenti della Chiesa, non presentavano contraddizioni con le leggi cristiane, ma anzi ne erano un annuncio e la conferma. Nella destinazione comune verso un tempo edenico da ripristinare. Attraverso Ermete Trimegisto ed Orfeo si doveva giungere inevitabilmente a Cristo. Una summa, che raccolse in ben novecento tesi. Si arrestò sulla soglia di un numero che considerava magico. Disse che si era «limitato», avrebbe voluto arrivare quanto meno a mille. Il linguaggio non era sempre chiaro, a volte decisamente astruso, il che rischiava di favorire ogni tipo di interpretazione. Mentre la Cabala, secondo molti, invidiosi anche delle sue conoscenze, poteva rappresentare un cavallo di Troia introdotto nella roccaforte della Cristianità. Ancora oggi le «letture» di Pico quasi tutti utilizzano solo alcuni stralci - sono le più eterogenee, quand'anche non opposte. Cercando ognuno di trarne la propria verità definitiva e di comodo. Mentre il principio sul quale Pico si fondava era quello di «non giurare sulla parola di nessun maestro». Nonostante questo fardello senza fine di idee rivoluzionarie, Pico - aveva solo ventitré anni - venne chiamato nel 1487 a Roma per «disputare», in quei certami oratori così diffusi al tempo, circa le sue teorie. In pieno pontificato di Innocenzo VIII. Che pure aveva accettato la dedica di un testo come la Corona regia di Pablo de Heredia, uno dei maggiori cabalisti spagnoli, un ebreo convertitosi al Cristianesimo. La concessione dimostra già una notevole apertura di idee da parte del pontefice nei confronti di quello che Pico predicava. Se la Roma «innocenziana» fosse stata come l'hanno dipinta, per il brillante filosofo non avrebbe dovuto esserci scampo al
supplizio sulla pubblica piazza. Come accadrà per Giordano Bruno, anche lui erede dell'ermetismo. Pico quando giunse nella capitale non era uno sconosciuto: «Al suo arrivo a Roma la corte pontificia 'lo accolse con grandi onori'; fu ricevuto in udienza dal papa; gli furono aperte le porte della Biblioteca apostolica, nella quale potè anche prendere a prestito dei libri».263 La storia dell'uomo e della filosofia sosteneva Pico attraverso le voci più ardite ed eterogenee, non era che la conferma evidente di una sostanziale, fondamentale «concordia», che attraversava i secoli, lo spazio temporale come quello geografico, per mezzo di una trasmissione «segreta» contenuta nella Legge. A cominciare proprio da Mosè, «maestro della sapienza umana in tutti i domini delle scienze e delle lettere e colto in tutte le dottrine degli Egizi».264 Gli antichi, pertanto, non erano che gli anticipatori del presente. Nel profluvio di proposte le Conclusioni di Pico, rimesse al giudizio del pontefice, furono in un primo momento sospese, l'affissione era stata addirittura pubblica, solo in minima parte. La famosa «condanna» investì circa l'uno per cento delle teorie. In definitiva un'inezia. Il documento pontificio iniziava così: «Recentemente il nobile e magnifico signor Giovanni Pico, conte di Concordia, ha pubblicamente affisso in parecchi luoghi dell'Urbe numerosissime e diverse tesi su varie discipline». Non sembrano parole e linguaggio da interdetto. Qualcuno aggiunge che la comunicazione di Innocenzo VIII è scritta persino «con garbo e quasi in tono di scusa... 'Abbiamo avuto notizia che il nostro diletto figlio'». (Il tono è «familiare». Nello stesso modo, dilecte fili, subito dopo il ritorno di Colombo dal primo viaggio, Alessandro VI si esprimerà in riferimento all'ammiraglio, N.d.A.) «'Giovanni Pico, conte di Concordia, ha esposto molte e diverse tesi di varie materie da pubblicamente disputarsi. Di queste, alcune per quanto si può comprendere dallo stesso tenore delle parole, sembrano deviare dalla retta via della Fede ortodossa; alcune di queste invece sono dubbie ed ambigue di significato perché esse sono costruite con nuovi e non adusati vocaboli, e sono involute ed oscure, tali da richiedere spiegazione'».265 Non è assolutamente una condanna. Pico spesso mancava soprattutto di chiarezza. Il che in fatto di fede non può essere consentito. Se inoltre si considera attentamente il responso, ci si avvede che la commissione d'inchiesta fu estremamente indulgente. Le tesi considerate eretiche avrebbero dovuto essere riesaminate alla presenza del conte di Concordia. Le altre rimaste oscure avrebbero dovuto essere spiegate in termini più semplici. Il papa agiva attraverso Giovanni, vescovo di Tournai. È facile intuire che gran parte della curia, di cui non si poteva non tenere conto, fosse in fibrillazione. Fra le tesi respinte c'era quella che affermava che né la croce del Cristo, né alcun'altra immagine doveva essere adorata.266 Si è sempre sostenuto che i Templari avessero rinnegato la croce. Un'altra asseriva che nessun'altra dimostrazione è più convincente della divinità del Cristo della magia e della Cabala (ben quarantasette, nel complesso, erano le tesi ispirate alla Cabala). Non si trattava, come si vede, di argomenti di poco conto. C'era il pericolo di minare le basi della fede. Di rivoluzionare completamente la teologia. Il dibattito dovette
essere aspro, non fu per niente scontato. Fra i quindici commissari ci fu una spaccatura netta: otto contro sette.267 Innocenzo VIII aveva il dovere di essere prudente. Per uno studioso che si è occupato della storia di tutte le eresie, fu di una «prudenza consumata». Forse, per quanto dovrà accadere ancora, non lo fu a sufficienza. Il verdetto non era nemmeno definitivo. Ad un successivo invito il conte di Mirandola non si sarebbe presentato. Le trattative proseguirono. Solo tre, in fondo, erano state le tesi giudicate decisamente «eretiche». Una fu considerata «scandalosa», le altre poco chiare e false. La Chiesa non poteva cedere su tutti i punti. Le ripercussioni sul gregge delle «anime semplici» avrebbe potuto essere deleteria. In un momento in cui Roma aveva infiniti problemi e correva il rischio di uno scisma; non si chiedeva in definitiva di ritrattare molto. Forse il giovane Pico peccò di superbia. Forse fu mal consigliato e non bastò firmare un documento di sottomissione al Santo Padre. Anche perché seguì un'Apologia (pare stampata a Napoli), in cui Pico ribadiva i suoi concetti e difendeva le tredici proposizioni di quelle Conclusiones, che aveva ritenuto «degne della città di Roma...» e di gradimento del «Principe dei cristiani». In uno studio che era nato, dunque, come un omaggio nei confronti di Innocenzo VIII. L'iniziativa costituiva ora un affronto nei confronti di Innocenzo, un venire meno alla parola data? Nonostante ciò ancora una volta Innocenzo si mostrò clemente, visto che il 4 agosto scriveva ancora: «Dichiariamo che il suddetto conte non incorre però in nessun biasimo che intacchi la sua fama, poiché ha solo proposto e pubblicato le sue tesi in vista di una discussione scolastica e sotto il controllo del Seggio apostolico».268 Da questo momento le carte si mischiano, si confondono come sempre anche le date e la cronologia esatta degli eventi. Le fazioni entrano decisamente in lotta. Le ingiurie più infamanti contro Pico sono uguali a quelle che saranno mosse a Colombo: eresiarca, musulmano ed anche giudeo. Il fondamentalismo cattolico, gli strenui avversari del mutamento, avevano lanciato il loro anatema. Innocenzo VIII non poteva non tenerne conto. La situazione precipitò: chi furono i promotori delle «false accuse»? Chi i veri nemici? In quello stesso periodo era entrata in scena la corrente spagnola, con il cardinale Pedro Garzias, che diventerà bibliotecario con Alessandro VI, nella cui casa cardinalizia pare sia stata redatta la confutazione dell'Apologia.269 La Spagna combatteva i mori, avrebbe tentato la conversione forzata degli ebrei. Trescava per mettere sul soglio di Pietro il suo candidato. Garzias sollecitò Isabella e Ferdinando, che fecero intervenire Torquemada, il temuto capo dell'Inquisizione, per fare presente ad Innocenzo il pericolo costituito dalle parole di Pico.270 In Spagna Colombo era da anni in attesa. Non si poteva compromettere il suo viaggio. Fu così che le tredici tesi più azzardate coinvolsero tutta l'opera di Pico («un po' di fermento può corrompere l'intera pasta», decretò un altro spagnolo, Antonio Flores, uno dei più accaniti detrattori), per il quale scattò la condanna sotto la spinta dei cardinali.
Il conte ritenne prudente riparare in Francia. Anche se con una incredibile calma per un «eretico», che avrebbe dovuto essere braccato. Può anche darsi che la minaccia venisse da qualcuno, nel momento della disgrazia, che avrebbe potuto vendicarsi dell'onta subita dalla sua fuga d'amore in gioventù. Tanto più che nello stesso tempo da Parigi un giovane laureato, Jean Laillier, si appellava tranquillamente ad Innocenzo VIII, per proporre una serie di tesi audaci, matrimonio dei sacerdoti compreso. Alla fine Pico fu arrestato fuori d'Italia. In circostanze che potrebbero essere la conseguenza di qualche recondito gioco politico o meno. È certo che fu sempre Innocenzo VIII, che la storia presenterà come il massimo colpevole dell'esilio, a chiudere un occhio e, dietro richiesta di Lorenzo il Magnifico, a concedere la liberazione del nobile. Fra l'altro gli alberi genealogici delle due famiglie, fra Pico della Mirandola e Cybo Malaspina, si sarebbero incrociati in ben due occasioni,271 di lì a non molto. Il che non sarebbe certo avvenuto se Innocenzo fosse stato veramente il «sicario» del filosofo. Tanto più che i Pico avevano al centro del loro stemma gli stessi scacchi dei Cybo. Invitato a Firenze Pico, sulla via del ritorno, aveva pensato di andare a consultare in Germania la biblioteca dello scomparso cardinale Nicolò Cusano. Che, fin dalla caduta di Costantinopoli, aveva introdotto il tema della pace. Sognando un concilio celeste fra tutte le genti. Mentre i saggi «dovranno riunirsi a Gerusalemme, come a loro centro comune, per ricevervi la medesima fede e fondare su di essa una pace perpetua, affinché il Creatore di tutte le cose sia lodato e benedetto nei secoli».272 A Gerusalemme doveva convergere il periplo del mondo di Cristoforo Colombo. Pico, per un atto ancora una volta squisitamente politico, sarebbe stato graziato in seguito da Alessandro VI, il pontefice dalla machiavellica doppiezza, il pontefice dei veleni. Il giovane conte di Mirandola, dopo avere dato sempre più dimostrazione di una fede autenticamente cristiana, morì però giovanissimo proprio sotto il pontificato dello spagnolo, il 17 novembre del 1494. Avvelenato dal suo segretario. Qualche anno dopo toccherà a Savonarola. Il pontificato del Borgia contrassegnerà una strage di grandi spiriti. Nella contesa fra Pico e Innocenzo molti accusano il pontefice di cecità dottrinaria, di rigore teologico e di non essere stato in grado di comprendere la vastità culturale e la tolleranza di un uomo dall'abissale sapere. Nel «perdono» di Alessandro altri intravedono erroneamente la consonanza di un papa più aperto alla magia ed al nuovo. Pochi giorni prima della sua morte, Giovanni Battista Cybo chiese un consulto per mezzo di Ludovico il Moro, Signore di Milano, al famoso Ambrogio Varese da Rosate. Questi il 20 luglio, appena cinque giorni prima del decesso, ne fece un oroscopo funesto, confermando, dopo avere consultato le sue carte, che «epso pontefice doveva morire».68 Il papa, come Pico, la mente, come Colombo, il braccio, evidentemente credette e confidò fino all'ultimo nell'armonia matematica delle stelle, che presiedeva al suo ministero. Stelle che forse pronosticavano («doveva morire») un'ulteriore scomparsa, per cinquecento anni nel fiume della storia.
6 - Santa Croce e la lancia di Longino A DISTANZA di secoli, se si va in visita ai templi di Roma, le chiese nascondono ancora messaggi in attesa di essere raccolti. Proponendo interrogativi che infittiscono la processione dei perché, ma anche fornendo le chiavi per la soluzione del grande rebus della «scoperta» dell'America e del pontefice sparito. In un'altra storia, più vera e più giusta, che parte da lontano, da molto lontano, racchiusa e custodita in un luogo sacro e suggestivo, parzialmente caduto in disuso rispetto al passato. Che, tuttavia, continua a fare parte del percorso giubilare, nel pellegrinaggio devoto attraverso le sette (!) porte delle «Sette (!) Chiese». Fra queste, idealmente collegata alla vicina San Giovanni in Laterano, spicca Santa Croce in Gerusalemme. Una delle basiliche più antiche della città con quelle del Vaticano, del Laterano, dell'Ostiense e del Verano. Il grande edificio, oggi tronfio di barocco, si presenta biancastro e tondeggiante sul fronte. L'interno è assimilato dagli studiosi alla basilica di Massenzio, il «Templum pacis», tempio della pace per eccellenza. La pace che inseguiva Pico, attraverso l'interpretazione incrociata delle Scritture. La pace che voleva instaurare Innocenzo VIII con il suo ministero. La pace che doveva perfezionare Colombo con il suo oro. In una vicenda che si snoda a partire da Sant'Elena, la madre di Costantino, l'imperatore romano che, nel 312, sconfisse Massenzio nel famoso scontro a ponte Milvio. Quando in seguito ad un sogno, artificio di ogni profezia, decise di porre sulle insegne del suo esercito il monogramma di Cristo. È il primo atto di riconoscimento ufficiale e di fondazione della fede cristiana. «In questo segno vincerai» («In hoc signo vinces»), annunciavano l'agnello di Dio, ed una croce luminosa, che sovrastava il sole. Il vaticinio si confermò sul campo di battaglia con il trionfo dell'imperatore. Fu in seguito a quella visione e alla famosa «donazione»273 che il Cristianesimo acquistò la libertà di culto ed uno Stato. Ed iniziò così la sua espansione. Costantino abbandonò il paganesimo e si convertì. Convocò a Nicea il primo concilio ecumenico. Unificò l'impero, riedificò Costantinopoli, capitale e nuova sede dell'impero romano d'Oriente. La «seconda Roma» resterà sempre indissolubilmente legata, sia pure fra inevitabili traversie e contrasti, alla città dei papi. Fino alla drammatica caduta, avvenuta ad opera di Maometto II nel 1453. L'imperatore «simile a Cristo», il «tredicesimo apostolo», segnava il passaggio dal culto del sole a quello di Gesù. Poco più di mille anni più tardi il Rinascimento identificava nell'astro la luce del creatore. Cercando di conciliare Cristo con le espressioni dei vari credi, che lo avevano preceduto. Nella prosecuzione di un unico disegno divino. Il cammino, nel labirinto del tempo, ritrovava nel XV secolo un sentiero ed un senso smarriti. Congiungeva gli estremi attraverso le vie offerte da una nuova e più corretta lettura del passato e dei suoi scritti. Se la folgorazione di Costantino fu il frutto di un'esigenza soprattutto politica, autentico sarebbe stato, secondo la tradizione secolare, il fervore religioso della madre che, dopo essere andata alle sorgenti del credo cristiano, verrà fatta santa. La
donna, alla veneranda età di settantasette anni (ogni riferimento alla Terrasanta pare non potere fare a meno del numero 7), si era recata pellegrina sui luoghi del martirio di Cristo. Alla ricerca dei segni superstiti nella vicenda terrena del Redentore ed in particolare della Santa Croce. Come sempre la verità sconfina nel mito. A Betlemme Elena avrebbe fatto costruire un santuario posto sulla grotta della Natività e un altro sul monte dell'Ascensione. Da laggiù, dal Santo Sepolcro, dal monte del Calvario avrebbe recato con sé sassi, terra e resti della croce, oltre al Titolo del patibolo. Del suolo bagnato dal sangue di Gesù fa fede ancora oggi un'iscrizione in latino posta in Santa Croce, nella cappella della santa. Dove potevano officiare le funzioni solo i pontefici: «Qui la Santa Terra del monte Calvario di Gerusalemme viene cosparsa e custodita dalla beata Elena nel vano inferiore sulla cui volta eresse questa cappella che prese il nome di Gerusalemme». La terra del sangue sacro, il Santo Graal, il sangue del Redentore, diventava anche a Roma promessa di redenzione. La regina madre aveva riportato quanto era riuscita a trovare nel suo palazzo, il «Sessorium». Santa Croce in Gerusalemme si saldava così doppiamente, per via della croce di Gesù e per via della croce che «illuminò» Costantino, al fondamento stesso della Cristianità. Tanto da essere considerata la «Hierusalem seconda». Una concentrazione di eventi e di spiritualità superiore, per gli uomini di Chiesa e per i devoti del tempo, alla stessa basilica di San Pietro. L'eredità rinviava alla comunità povera delle origini, quella orientale e apostolica, che il misticismo dell'Alto Medioevo si sforzava di riproporre ad esempio per una Chiesa che rischiava di smarrire la strada maestra.274 La chiesa si allineava alla disposizione della basilica costantiniana del Santo Sepolcro e a quella della Natività. Si ripeteva, si rinnovava a Roma il mistero di Gerusalemme. Si gemellavano indissolubilmente le due città, in una perfetta «trasfusione topografica». L'area circostante comprendeva gli «Horti variani» ed era delimitata dalle mura aureliane, che si univano ai resti dell'acquedotto di Claudio, dalle terme e da un anfiteatro. Era inoltre vicina al Celio, in prossimità del Colosseo. In un concentrato di elementi paganeggianti, all'interno dei quali si insediava un piccolo tempio, voluto dallo stesso Costantino, che sorgeva in stretta relazione con i luoghi santi della Palestina. Il cui assetto, circondato da portici, trovava una singolare analogia con chiese siriane ed armene. Il paganesimo si inchinava, si fondeva dalle origini, sfociava nel Cristianesimo. L'Oriente si sposava all'Occidente, il sole trovava la sua rispondenza nella luce cristiana. Bisognava inseguire ancora il cammino del sole, il cammino degli eletti. Come farà Colombo. A Roma, dunque, si replicava un doppio della Gerusalemme originaria e in qualche modo la si ricostituiva, in un'affinità «avvalorata dal fatto che tutta la zona tra Celio ed Esquilino era dedicata almeno fino alla fine del Medioevo alla figura di Cristo. La basilica di Santa Maria Maggiore, consacrata alla Vergine, ricordava la nascita del Redentore e Betlemme; Santa Croce, nota semplicemente come Hierusalem almeno fino al XVI secolo, commemorava la morte di Cristo e vi si svolgevano riti per il Venerdì Santo, a poca distanza la basilica lateranense era intitolata originariamente al Salvatore e quindi alla sua opera di redenzione».275
Concordanze, suggestioni, virtù naturali e magiche, che non potevano sfuggire, in pieno Rinascimento, ad un pontefice con ascendenze orientali e cultore dell'esoterismo come Giovanni Battista Cybo. Corsi e ricorsi storici si ripetevano nel cammino dell'umanità, come in quello degli astri. Tanto più che in quella stessa chiesa un altro grande Innocenzo, Innocenzo III, a suo tempo si era recato dal vicino Laterano, a piedi nudi, al fine di implorare da Dio la vittoria contro i saraceni.276 Era lo stesso voto che aveva animato l'azione di papa Cybo fin dalla sua elezione, visto che gli infedeli detenevano ancora i luoghi santi, insediandosi anche nella Costantinopoli fondata da Costantino. Più si scandaglia e più si individuano elementi in grado di rafforzare il significato soprannaturale di Santa Croce: un «unicum». Un luogo quanto mai importante, appartato e per molto tempo caduto in abbandono, lungo le direttive di quella «geografia sacra», che si perpetuava attraverso le ere per sovrapposizione. Assorbendo ed integrando origini diverse e diversificate. In un processo che potremmo definire di «stratificazione delle energie spirituali». Dove dal VI secolo il pontefice celebrava il rito del Venerdì Santo, il giorno fatidico e sacro anche per Cristoforo Colombo.277 I lavori di trasformazione della chiesa vanno datati al pontificato di Lucio II, che veniva da un ordine monastico chiamato a rigenerare la vita religiosa per riportarla all'antichità cristiana, in un progetto che si rifletterà sulle nuove scelte architettoniche. Nella fedeltà ad un'origine mai trascurata, avvalorata dalla presenza di una reliquia preziosa e prodigiosa. «Il valore di nuova fondazione assunto dai lavori trova conferma nella collocazione del Titulus della Croce in una cassetta di piombo murata al sommo dell'arco trionfale... la consacrazione della nuova chiesa avvenne quindi mediante il posizionamento della reliquia nel corpo stesso della chiesa. È significativo che un intento simile aveva guidato Pasquale II nella consacrazione dell'abside di San Clemente (1112) dove fu murato, dietro il crocefisso del mosaico absidale, un frammento della Vera Croce.»278 I certosini, dodici come gli apostoli più un priore, in un numero che già dà l'idea di una novella Chiesa da ricostituire, vi si insediarono verso la fine del secolo XIV. Furono chiamati, secondo la tradizione, a dare un'anima al «deserto» delle zone disabitate. È l'avvio della costruzione di una grande certosa che si protrarrà nel tempo. Purtroppo andata largamente distrutta. Santa Croce venne così progressivamente reinserita nella nuova Roma, che stava crescendo e si sarebbe andata ulteriormente dilatando dopo il 1450. Nella seconda metà del Quattrocento le vicende di Santa Croce si saldano ai personaggi della nostra storia. Con i nuovi lavori iniziati dal cardinale Angelo Capranica.279 Più o meno in questo periodo, nel catino absidale dell'altare maggiore, venne affrescato, a quanto pare non ad ispirazione della Legenda aurea del cardinale genovese Jacopo da Varagine, ma di un manoscritto dell'XI secolo, conservato presso il Fondo Sessoriano,280 un ciclo bellissimo con l'«Invenzione e l'esaltazione della Croce». Veniva ad impreziosire ulteriormente la «chiesa reliquario».
Contemporaneamente si verifica un colpo di scena spettacolare e traumatizzante per la Cristianità. Il rinvenimento del «Titulus» della Croce: una scoperta avvenuta «per caso», un «miracolo» perfettamente preparato. Proprio al centro della chiesa si trovava un arco con due piccole colonne, un'edicola apparentemente insignificante. Gli operai erano intenti al lavoro, quando avvertirono la presenza di un vuoto nella muratura. I lavori fervono, i calcinacci cadono, l'emozione è alle stelle. Quando si apre per controllare, si scopre una piccola rientranza nella quale è posizionata una cassetta di piombo con due palme incise. Perfettamente chiusa, con sopra una pietra quadrangolare sulla quale è incisa la frase: «Hic Titulus Verae Crucis». Un'apparizione che si ricollegava, in qualche modo, alla profezia avuta in sogno dal «Tredicesimo apostolo»: «In hoc signo vinces». Il «Titolo» tornava a rinnovare la diana del riscatto per una Cristianità umiliata. Si pensava ormai da tempo che il cartiglio fosse andato perduto. Ora riappariva, o meglio veniva fatto riapparire, poiché il momento lo richiedeva. Rimossa la pietra cubica (!) comparve con la teca una tavola di noce con la scritta «Jesus Nazarenus Rex Iudaeorum» («Gesù Nazareno Re dei Giudei», la cui abbreviazione è INRI) ripetuto in ebraico (o aramaico), greco e latino, in una disposizione invertita, che corre da destra a sinistra, come per gli scritti ebraici. Completavano il tesoro spezzoni della croce, un chiodo mozzato di 12,5 centimetri, due delle spine della corona che Elena avrebbe rinvenuto. Un repertorio quasi completo dei segni tangibili del martirio sofferto ed offerto per la salvezza dell'umanità dal Cristo. Il «miracolo» era compiuto. Solo in seguito la ricerca avrebbe approfondito il fatto che la tavola di noce era già ricordata in una descrizione di Roma risalente al 1452.281 Riappariva il «Titolo». Poteva riapparire il paradiso, l'America, terra di croci nuove, che si sarebbero ispirate a quella primigenia. C'era di che strabiliare il mondo cristiano, sorpreso, commosso ed attonito di fronte all'emergere di un passato, che riaffiorava attraverso i simboli più antichi e più venerati della fede, le testimonianze dirette della Passione. La «scoperta» in Santa Croce, carica di significati reconditi e profondi, poneva tante domande, che esigevano altrettante risposte. Erano il monito e la premessa-promessa per ulteriori vittorie, per ulteriori «scoperte». Quando la rivelazione dei segreti della natura si credeva fosse riservata ai grandi spiriti. Verso la fine del 1400, come già era avvenuto nei secoli precedenti, le reliquie rappresentavano una vera e propria ossessione, che dilagava per l'Europa, coinvolgendo il popolino come i grandi della terra. Si credeva persino che, se una più o meno precisa riproduzione della reliquia veniva messa a contatto con l'originale, la copia ne assorbiva tutto il potere, che si trasmetteva, per via soprannaturale, a chi ne aveva il possesso. Per il Medioevo i sacri reperti avevano incredibili virtù taumaturgiche ed erano apportatrici di forza e grazia divine. Una convinzione sfruttata anche dal punto di vista politico. Le reliquie diventavano così il contrassegno della maestà e dell'immortalità. In un commercio che le replicava in modo incontrollato, in una serie di doppi senza fine. Tutti i potenti dell'orbe, cristiano e non, cercavano nelle reliquie la conferma e il
potenziamento del proprio ruolo. Non ci si può rendere conto, al giorno d'oggi, cosa possa avere rappresentato, in quel momento, per l'Europa e le moltitudini, un pontefice, come Innocenzo VIII, che entrava in possesso di quei simboli «di prima mano». Provenienti direttamente dal teatro del Calvario e riapparsi a legittimare Roma come agli albori del Cristianesimo. Frutto dell'eredità della madre, divenuta santa, del primo imperatore cristiano. Il fondatore della Costantinopoli caduta nelle mani profane del Turco. Il «miracolo» giungeva puntuale ad investire la cattedra di Pietro di un rinnovato spirito universalistico. Chiamando la Cristianità alla riabilitazione. Innocenzo lo sapeva bene, preparava le sue mosse, giocando abilmente in questo scacchiere di fede sincera e di fanatismo esasperato. L'ultima mossa sarebbe stata la partenza di Colombo. Ma la raccolta di segni era ancora incompleta. La regia non avrebbe potuto essere più perfetta. L'apparizione del cartiglio e l'arrivo a Roma della notizia della caduta in Spagna di Granada e della resa dei musulmani coincisero. La politica del Vaticano stava conseguendo tutti i successi sperati. Uno dopo l'altro gli obiettivi venivano raggiunti. Le scadenze si susseguivano con un ritmo sempre più incalzante. Ora che la testimonianza del sacrificio di Cristo era riapparsa, non restava che propiziare la Resurrezione. «L'evento venne a caricarsi di inevitabili implicazioni religiose e politiche ed ebbe grande risonanza, anche a seguito di una visita di Innocenzo VIII.»282 Innocenzo si recò al cospetto del Titulus il 12 marzo 1492.283 Il papa si raccolse in meditazione, tutti pregarono in ginocchio, la commozione era altissima. Il giubilo per la presa di Granada, ancora vivo, veniva superato solo dal giubilo del ritrovamento. Dio aveva ribadito a Roma la sua supremazia. Per questo il papa andò di persona a ricevere l'imprimatur che gli veniva direttamente dal Signore ed a dare il suo imprimatur alla «scoperta». È come se la mano di Dio avesse apposto la sua benedizione alla politica di Innocenzo. La città si confermava nuova Gerusalemme. Santa Croce, la Gerusalemme seconda, ritrovava il suo Santo Sepolcro. Ribadiva il ruolo di piccola Gerusalemme terrena. La sede di Pietro si legava sempre più indissolubilmente alla città di Gesù, che soffriva ancora nelle mani della «bestia», alla quale bisognava strapparla senza indugi. Cristo in persona aveva prescelto il suo vicario per dare il via ad un'operazione che, con l'oro delle Indie e attraverso l'accordo da raggiungere con gli eredi del Gran Khan, avrebbe dato il là, con il viaggio del messaggero Colombo, all'ormai inevitabile crociata. D'amore o di spada. D'altronde, tutta l'area circostante Santa Croce assumeva un valore divinizzato e divinizzante, in un triangolo mistico il cui lato più importante, dal punto di vista esoterico, era dato dalla linea di congiunzione fra San Giovanni e Santa Croce. Quasi che il testimone passasse dalla prima alla seconda e viceversa, in un corto circuito di fede. Un'area resa ancora più benedetta dalla presenza non lontana della Scala Santa. Proprio di fronte a San Giovanni, che è peraltro la residenza ufficiale del vescovo di Roma e porta, per l'esattezza, il nome del Santissimo Salvatore e dei due «dioscuri» del Cristianesimo, San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista. Nella cappella dedicata a San Lorenzo si può ammirare un'ulteriore reliquia: un'immagine acheropita, dipinta cioè non da mano umana, del Salvatore.
La Scala Santa, con i suoi ventotto gradini, che sarebbero stati percorsi da Gesù per raggiungere il tribunale di Pilato, era una delle mete obbligate per i pellegrini. Prima dello scisma nel 1510 anche Lutero la percorrerà, salmodiando in ginocchio. In un «iter» ascensionale ed ideale fra il cielo e la terra. A completare questo Pantheon unico della Cristianità il «Sancta Sanctorum», la cappella del papa, la Sistina del Laterano. Il nome veniva da quello dato alla stanza più interna del tempio di Gerusalemme, dove in una cassa di legno, con due cherubini d'oro dalle ali spiegate, si conservava l'Arca dell'Alleanza contenente le tavole del decalogo di Mosè. Là dove, una volta l'anno, solo il grande sacerdote poteva officiare con il sangue, in un sacrificio e in un rito espiatorio.284 Santa Croce era dunque integrata in uno spazio soprannaturale, che custodiva la maggior parte dei «logo» più rappresentativi della religione e delle religioni. Nella piazza adiacente svetta un obelisco egizio, proveniente da Tebe. In un «iter» mistico ed esoterico senza tempo. Introducendosi all'interno della basilica, superate le tre grandi navate e le composizioni venute successivamente ad arricchire il luogo di culto, la chiesa presenta messaggi nascosti dal tempo e da interventi che cercarono di occultarne le verità manifeste. La cappella di Sant'Elena è posta al fondo: povera, severa, suggestiva. Ma prima di arrivarvi, alzando gli occhi al cielo nell'anticappella, lo sguardo incontra sulle pareti e sulla grande volta un mosaico policromo, del quale ancora non si conosce esattamente l'autore. Molti i nomi fatti, dal Pinturicchio al Perugino, che come è noto operarono a Roma per Innocenzo VIII, da Antoniazzo Romano a Melozzo da Forlì, che lo avrebbe eseguito entro il 1484. Gli studiosi non riescono a trovare un accordo, soprattutto perché in quella decorazione, fra i tanti vasi del Graal, sono presenti un pappagallo amazzonico e lunghe ghirlande di fiori e di frutta con alcuni prodotti della terra, che non potrebbero comparirvi. Fra questi, riconoscibilissimi, numerosi ananas e svariate pannocchie di mais.285 Il neoplatonismo di Melozzo riconduceva al circolo toscano di Marsilio Ficino ed a Leon Battista Alberti, il progettista di Santa Maria Novella in Firenze, in «un'estetica mondana del bello e del buono, di una forma amorosa aperta al futuro...»286 Fauna e flora, nel gioco dei colori e dei tasselli, non sono il solo clamoroso indizio presente nell'opera. Laddove le pareti convergono dai quattro lati verso il centro, coppie di pavoni bellissimi incrociano le loro code. L'animale, lo abbiamo visto, era una delle figure preferite dal simbolismo alchemico; era costantemente presente nell'araldica della famiglia Cybo e soprattutto di Giovanni Battista-Innocenzo VIII. Il pontefice che veniva dal mare e riuniva nella sua persona una irripetibile summa allegorica: lui Cristo in terra, lui precursore, lui battezzatore, lui novello Costantino pacificatore, lui redentore, lui Cristo nuovo per un Mondo Nuovo, nel quale inviare il suo messaggero, il suo Mosè. Al quale Colombo si equiparava. In un arco che andava dal primo imperatore cristiano al dominus orbis di una terra senza più confini. In vista del grande Giubileo previsto per l'anno 1500.
Melozzo si inserisce, peraltro, di diritto nel filone francescano, come seguace di quel frate «irrequieto» rappresentato da Luca Pacioli, eccelso scienziato e amico di pittori, «mobilissimo ambasciatore e propagandista della cultura matematica anche applicata alle arti».287 In un gioco sempre allusivo, che procedeva e si arricchiva di quadranti solari, di sfere armillari, di astrolabi, di pietre filosofali. Rimandavano ad un superiore ordine cosmico, nell'armonia da ripristinare. I «solidi» in particolare - il cubo era naturalmente fra questi - perdevano per Luca Pacioli la connotazione di astratte costruzioni geometriche, ma acquistavano vita «quasi sculture stereometriche», ora in legno, ora in cristallo, ora nel marmo. Proiezioni mistiche che diventavano l'oggetto di conferenze che il monaco teneva in tutte le corti d'Italia, dopo che a Roma si erano svolte nel palazzo di Giuliano Della Rovere, con la partecipazione del pontefice.288 Le scienze, dalla matematica alla geometria, erano le fondamenta dell'astrologia, dell'astronomia, della geografia. Sono le discipline che riconducono a Cristoforo Colombo, esempio personificato dell'uomo vitruviano di Leonardo. La grande abside di Santa Croce in Gerusalemme rappresenta un capolavoro rinascimentale, frutto di un'impresa collettiva. Melozzo era sicuramente fra quanti vi lavorarono, i suoi soggiorni romani collimano con il pontificato di Innocenzo VIII. Di lui un frate, Sabba da Castiglione, avrebbe scritto: «Le opere di Melozzo da Forlì, le quali per le loro prospettive e secreti dell'arte, sono a gli intelligenti più grate che vaghe a gli occhi di coloro che meno intendono». «Segreti» nascosti agli occhi dei più, verità celate nella trapunta artistica. «Segreti» oscurati dalla «secolare sfortuna», che ha contrassegnato la sorte della maggior parte dei suoi lavori, andati perduti. Per un artista che viene definito pictor papalis. Per accedere dalla chiesa alla cappella di Sant'Elena sul fondo bisogna percorrere un corridoio ad imbuto in discesa, che resta nell'ombra e nel silenzio. Sulle mura laterali due lunghe iscrizioni, in lettere capitali, eseguite proprio nel lapidario romano e misterico di Pacioli, con mattonelle maiolicate, accompagnano il visitatore. Di quelle frasi «ne resta solo una parte e ciò per l'effetto di un naturale degrado del monumento nel tempo ma anche, pare, perché fu fatto asportare durante i restauri effettuati nel XVIII secolo, per ordine dei supervisori ecclesiastici che, nel contenuto della iscrizione, videro una non corrispondente verità storica. Attuarono, in effetti, una scrupolosa revisione inquisitoria».289 La dicitura fu mutilata così della sua originaria verità, nella secolare furia iconoclasta che seguì alla morte di Innocenzo VIII, di cui si dovevano fare sparire tutte le tracce. Nel funerale di verità e giustizia. La fabbricazione delle mattonelle deve essere avvenuta nella capitale, dove operavano proprio in quel tempo illustri ceramisti.290 Le lettere maiuscole in ceramica sono tutte perfettamente cubiche, misurano 12X12 (numero sacro) centimetri, «l'effetto finale è quello di fasce bianche portanti la scritta, alternate con fasce scure alleggerite da un merletto dorato». Cubetti, bianco, nero, oro: sembra già una firma. La firma di Innocenzo. Nella dicitura apposta sulla parete di sinistra per chi scende, dove si fa la storia della chiesa
e delle reliquie, compaiono numerose lacune. Le mattonelle sono sparite. Rimangono due vaste chiazze bianche. La censura, questa sì di mano spagnola, ha operato sottilmente: l'originale non è stato soppresso, è stato contraffatto. Per oscurare il ruolo di Innocenzo VIII ed esaltare quello dei re spagnoli e di Alessandro VI. Le lettere mancanti sono quelle relative ad un papa già desaparecido, di cui non rimangono che un numero romano (V) e una data: 1492... Ma la frase integrale, fortunatamente, la si è potuta ricostruire grazie ad una trascrizione, che ne era stata fatta prima dell'abrasione e riportata in un'opera del 1592. La scritta suonava esattamente così: «...titulus staret quae iam litterae prae vetustate vix legi (poterant, sedente Innocentio) V(III p)ientiss(imo Pontifice anno Domini) MCCCCXCII. Pontificatus sui an(no VIII cum bonae memoriae)».291 Ancora una volta il diavolo ha fatto le pentole, ma non i coperchi. La verità interviene, a dispetto delle «revisioni inquisitorie, a «resuscitare» immancabilmente Innocenzo VIII.292 Ulteriore riprova di come un documento autentico possa diventare non veridico, riuscendo ad ingannare fino ad oggi la ricerca. La revisione del testo si limitò a lasciare, nella restante dicitura, solo il ricordo innocuo della visita compiuta da Innocenzo VIII, con il senato di Roma al seguito: «Innocentius ipsa et hanc basilicam cum Senatu devotissime visitavit et quotannis eam ipsa die visitantibus piene indulsit primum Alleluia referens / contra bestiam babylonemque Mahumetem in ecclesia sanctorum iuxta Apocalipsim ea die fuisse decantatum». Quanto basta, se non altro, per confermare la strenua volontà di Innocenzo di voler combattere la Babilonia di Maometto. A rendere più consistente e più significativa la dotazione di reliquie, Santa Croce conserva anche l'indice di San Tommaso, l'apostolo che volle toccare con il dito il costato di Cristo. San Tommaso sarebbe morto nell'India occidentale, primo missionario del Vangelo nelle Indie, le Indie che si apprestava a «scoprire» Colombo. San Tommaso verrà chiamato per questo «l'apostolo dell'Asia». Fin dove si era spinto? Nel tredicesimo secolo i suoi resti furono portati a Chio e quindi ad Ortona.293 Chio, sempre Chio, l'isola di Omero, il creatore di Ulisse, l'isola dei Cybo, l'isola di Colombo, l'avamposto di un Oriente rimasto, in mani cristiane e genovesi, dopo la caduta di Costantinopoli. Dove, in uno dei suoi tanti viaggi, approderà il giovane navigatore. Sulla tomba di San Tommaso nell'isola Innocenzo VIII e Colombo potrebbero aver pregato. Forse anche insieme. A San Tommaso 294 l'ammiraglio avrebbe dedicato il primo forte costruito a Santo Domingo. Se si vanno ad approfondire gli studi fatti su Santa Croce in Gerusalemme non si può fare a meno di rilevare che le presenze più frequentemente ricorrenti, in relazione alla titolarità della basilica dopo il pontificato di Giovanni Battista Cybo, sono sempre iberiche. Su sedici cardinali, succedutisi dalla fine del Quattrocento agli inizi del Settecento, ben nove furono di nazionalità spagnola.295 Una sequenza che garantì, attraverso i secoli, la censura e il necessario silenzio? E che porterà a eliminare il ricordo di Innocenzo e a coprire le presunte incongruenze storiche e pittoriche. O comunque ad impedire una corretta comprensione delle
didascalie impresse sulla maiolica. Come dei Graal, dei pavoni, dei pappagalli, dei mais, degli ananas...296 Oggi la chiesa (un caso?) è nelle mani dei cistercensi, l'ordine di San Bernardo di Chiaravalle, il padre spirituale della cavalleria medioevale e dei Templari. Le reliquie della croce, ancora oggi veneratissime, sono sparse nella capitale. Una parte è stata posta nella sommità dell'obelisco, che si trova al centro di piazza San Pietro. Proprio in faccia alla basilica, vicino ad una delle due fontane, la cui origine si attribuisce ad Innocenzo VIII. Nella sintesi ripetuta di un cammino spirituale che dall'antico Egitto, da Eliopoli, la città del sole, approdava a Roma. Ma i resti del sacro legno sono nascosti, come già accennato, anche nell'abside della chiesa di San Clemente. In un ulteriore incastro di simboli. Nelle viscere della chiesa, infatti, si accede ad un santuario del dio Mitra, con una scultura che lo vede quasi uscire dalla pietra, armato di un pugnale «con cui dovrà uccidere il Toro per poter ascendere al cielo e ricongiungersi col Sole».297 San Clemente è stata eretta su una serie di precedenti siti religiosi, che arretrano nel tempo. Riconducono ad un culto misterico della Roma imperiale. Scendendo nelle sue grotte, là dove si sente ancora scorrere l'acqua del fiume sacro, il Tevere, lungo uno dei suoi quattro canali naturali, ci si trova al cospetto del «mitreo». Mitra è un antico dio solare apportatore di «grazia» e di «pace». In lotta con le forze taurine, simbolo della materia prima alchemica. Le analogie con il Cristo sono impressionanti. Il suo nome significa «patto», nel solco di un'alleanza con Dio, che si ripeterà con Noè e Mosè. Di conseguenza con Colombo. In un groviglio simbolico.298 Per quanto ci si sforzi, per quanto si cerchi di evitarlo, per quanto ci si sposti nel tempo come nello spazio, mito e leggenda, enigmi ed esoterismo riaffiorano da ogni dove, a rafforzare la convinzione che le conoscenze e i sentimenti religiosi dell'uomo siano stati sempre gli stessi e che i secoli ne abbiano mutato soltanto la forma apparente, adeguandola al cammino dell'umanità, a seconda dei tempi, delle politiche, delle fedi, in un intreccio infinito, che appare talvolta inestricabile. Anche San Clemente è vicina al Colosseo, non lontano da Santa Maria Maggiore, da San Giovanni in Laterano e dalla stessa Santa Croce in Gerusalemme. La chiesa ha preso il nome dal terzo successore di San Pietro, morto intorno all'anno 100. Della vita di San Clemente si sa molto poco, secondo i più recenti studi, «la sua opera rivelerebbe una origine ebraica».299 Clemente è anche l'autore della Lettera ai Corinti, «singolare testimonianza dell'autocoscienza della Chiesa delle origini». In un auspicato ritorno alla pace.300 Ebraismo, Chiesa evangelica, discordia da superare, pace da riconquistare, capacità di rinnovarsi, il riaffiorare di un paganesimo che anticipava l'avvento del Cristo erano tutti temi quanto mai vivi nell'arco del XV secolo. Non è semplice ricostruire le vicissitudini del luogo sacro. È certo che solo nel 1403 papa Bonifacio IX, che faceva di cognome Tomacelli Cybo, la affidò alla congregazione agostiniana di Sant'Ambrogio di Milano.301 San Clemente è una chiesa affascinante, dove nella volta del mosaico centrale, posto alle spalle dell'altare, troneggia un Cristo dallo sguardo serafico. La cui croce
germoglia da un albero della vita lussureggiante. A Gesù fanno compagnia gli apostoli visti come dodici colombe (!) bianche. «Se la Croce del mosaico di San Clemente è dunque l'Albero della Vita, essa è allo stesso tempo la pianta di vite 'da cui scorre copioso il dolce vino - rosso del rosso del sangue' (Venanzio Fortunato, 535-600). Paragoniamo la Chiesa di Cristo a questa vite», dice l'iscrizione in fondo al mosaico, e difatti, nelle varie scene rurali dipinte tra il fogliame, noi la vediamo allargare i suoi rami e dar vita e sostentamento a uomini e donne di ogni condizione umana e, veramente, a tutta la creazione... Sull'arco trionfale... tutta la scena è ispirata all'Apocalisse».302 Ci troviamo di fronte alla croce-albero di vita, di cui San Clemente custodisce un frammento, la vera croce che si sarebbe dovuta trapiantare in America. Nella Vinland, terra della vite dei vichinghi. Terra del tempo di Dio battezzata con l'impresa del messaggero Cristoforo Colombo. Portatore di Cristo e della croce. L'ispirazione e l'aspirazione univoche sarebbero confluite in una visione escatologica, che prometteva un mondo riformato e nuovo. Come nell'Apocalisse. Ovunque, aggirandosi per la chiesa, si possono vedere ancore, come quelle impresse sullo stemma di Colombo. Queste sono in ricordo del martirio di San Clemente. Ma soprattutto un dipinto attirò, fin dalla prima visita, la nostra attenzione: quello di un grande San Cristoforo, che reca sulle spalle Gesù Bambino. Il quale a sua volta ha nelle mani la sfera del mondo. La luce non aiuta, il particolare posto in alto non agevola la visione. In quella rappresentazione compare, nell'emisfero australe, un'estensione sorprendente di terra, là dove non dovrebbe essere dati i tempi, visto che la critica oscilla per l'esecuzione dell'opera fra un'attribuzione a Masaccio o a Masolino. Attestandosi sul fatto che il secondo si limitò a completare l'opera del primo.303 Quel mondo sferico, per quanto abraso, anticiperebbe l’«eresia» della vita agli antipodi? Fosse pure Africa. È la «rivelazione» che Roma teneva in serbo per l'Apocalisse prossima ventura? Uno dopo l'altro i reperti testimoni del sacro affluivano a Roma, in una corrente spirituale che investiva la città di Pietro. Il «raccolto» era quasi ultimato. Considerando che Genova conservava il catino, la coppa verde del Graal, dove era caduto il sangue di Cristo ed il sacro Mandilo. Le ultime tessere di questo inedito mosaico, che si andava ricomponendo, frutto del «collage» di reliquie ed opere d'arte, gli ultimi passi di questo pellegrinaggio ideale, risalgono alla primavera avanzata del 1492. La partenza di Colombo era prossima. La politica di Roma stringeva il sultano di Costantinopoli nella sua morsa, approfittando della presenza di Djem in Vaticano. La pace con Ferrante di Napoli era stata appena raggiunta. La questione sempre aperta della crociata trovava un nuovo alleato. Bajazet se ne era reso conto e cercava di ingraziarsi il pontefice coprendolo di doni e remunerandolo lautamente anche in denaro. In maggio «l'inviato per Roma portò per mandato del sultano un pregevole smeraldo ed una preziosa reliquia, la lancia con cui Longino aprì nella crocifissione il costato del Salvatore. Per ordine del pontefice la sacra reliquia fu ricevuta in Ancona,
da dove avrebbe dovuto salpare la crociata di Pio II Piccolomini, da Niccolò Cibo, arcivescovo di Arles e da Luca Borsiano, vescovo di Foligno e quindi portata a Narni entro un vaso di cristallo fregiato d'oro».304 Da lì ad accompagnare i doni fino all'ingresso a Roma mosse anche Giuliano Della Rovere, il futuro Giulio II. Innocenzo VIII era sofferente, ma si recò incontro al corteo a Porta del Popolo, dove tenne un sermone sulla passione del Signore. Andò quindi in processione solenne fino in San Pietro. Ma volle che la reliquia fosse messa nelle sue stanze private. La lancia sarà uno dei suoi ultimi pensieri sul letto di morte. Con l'arrivo della lancia il vicario di Cristo era finalmente entrato in contatto con gli ultimi istanti della vita di Cristo. Con il ferro che ne aveva segnato il passaggio dalla vita alla morte (presto sarebbe stato così anche per Innocenzo). In una forma quasi di «transustanziazione», in una primavera, prossima alla Pasqua, che oscillava, come mai era accaduto in precedenza, fra Passione e Resurrezione. Finalmente Roma, attraverso il coro delle sue basiliche, trapiantate nel cuore del paganesimo, era tornata ad essere e a cantare la nuova Gerusalemme. Da cui sarebbe dovuta sbocciare la Gerusalemme celeste. Alla quale mirava il viaggio di Colombo. La lancia indicava un cammino dal quale non si poteva deflettere. Anche la gemma, con l'immagine di Cristo, «il pregevole smeraldo», aveva un potere formidabile, in un tempo particolarmente sensibile al «vero ritratto di Gesù». Anche quella pietra giunse nelle mani di Innocenzo VIII. Il Rinascimento aveva compreso che la cappa secolare imposta dal potere e dal sapere canonici aveva alterato la verità. Se ne cercavano appassionatamente le tracce. Il profilo del figlio di Dio, per esempio, rappresentava una novità assoluta. Il primo fu realizzato alla metà del Quattrocento su una medaglia, ed è nel fatale 1492 che si può collocare il rinvenimento del talismano incredibile, che materializzava le sembianze del Nazareno: «Una medaglia che sotto molti rispetti rimane un enigma. Essa presenta un altro tipo, spesso definito 'nordico', di raffigurazione di Cristo, caratterizzata da tratti del volto 'non classici', peraltro variamente accentuati secondo le versioni: una fronte sfuggente termina in un naso abbastanza carnoso dalla radice prominente. Le labbra sono piene e leggermente sporgenti, il mento, un po' sfuggente, è coperto da una corta barba piuttosto rada... In una delle sue varianti la medaglia reca sul rovescio un testo che arricchisce il ritratto di una leggenda sulla sua provenienza. Secondo questa leggenda, in cambio del soggiorno forzato a Roma del fratello Djem (col quale era in lotta per la successione al trono), il sultano Bajazet aveva regalato a papa Innocenzo VIII un antico smeraldo sul quale erano raffigurati Cristo e l'apostolo Paolo... lo smeraldo (nella sua forma naturale) aveva un grande valore come pietra preziosa e nella allegoria cristiana fu messo in relazione con Cristo. Dato che allegoricamente lo smeraldo è assimilato allo specchio. Questa pietra sarebbe stata la matrice ideale di un'immagine di Gesù. Non è chiaro, invece, che cosa tale pietra avrebbe davvero mostrato, poiché dalla combinazione di un ritratto di Cristo e di Paolo non si trovano tanti esempi nell'iconografia tardoantica e medioevale...»305 Smeraldi miracolosi, un'immagine di Cristo inedita e non proprio ortodossa: novità, misteri, opere uniche e senza precedenti, origini della fede da rimeditare. Ogni volta che si fa riferimento ad Innocenzo VIII pare che non si possa prescindere da
queste parole, da queste riflessioni. Confermando la linea sommersa di un pontificato che sembra inseguire instancabilmente l'autenticità di una teologia diventata cattolica e romana, ma in parte travisata. Il cammino da compiere a ritroso non poteva riprendere che dai luoghi e dagli oggetti della Passione, luoghi e oggetti da trapiantare a Roma, da portare idealmente oltre l'oceano per mezzo di un Cristoforo. In una terra vista come il paradiso perduto, che verrà battezzata della Grazia, della Santa Croce. Dove sorgeranno città della Vera Croce. Il nuovo destino era indicato dalla punta della lancia di Longino. Nel linguaggio metaforico raffigura l'asse del mondo, lungo la quale discendono le influenze spirituali. Per via delle gocce di sangue che, scorrendo sul ferro, si raccolsero nel Graal. E che, cadendo in terra, la fecondarono. Gocce di elisir per una vita eterna da riconquistare. Nella trasmissione di un potere sovrannaturale che concedeva, a chi entrava in possesso del ferro, il dominio del mondo e dell'umanità intera. Nel bene come nel male. È questo il significato recondito dell'asta, che figura ancora ai nostri giorni nelle mani di Innocenzo VIII sul mausoleo funebre in San Pietro. È questo, a grandi linee, il retroterra di azione e di pensiero delle parole incise in quella lapide, che non finisce di stupire e di riservare sorprese: «Crucis Sacro Sancte Reperto Titulo/ Lancea Quae Christi Hausit Latus/ A Baiazete Turcarum Tyranno Dono Missa». Anche di lance nella proliferazione e nella «moda» medioevale delle reliquie ve n'erano più d'una. Quale era la vera alabarda? «L'autentica lancia sacra - almeno a quanto possiamo supporre - faceva invece parte, insieme a molte altre reliquie, del tesoro degli imperatori bizantini. Dopo la conquista ottomana di Costantinopoli, la punta della lancia fu inviata a papa Innocenzo VIII come dono da parte del sultano e da quel momento è conservata nella basilica di San Pietro. L'asta invece era già stata venduta nel XIII secolo dagli imperatori bizantini al re di Francia, nella cui cappella privata, la Sainte-Chappelle, si trova da allora.»306 Quanto il potere del ferro di Longino abbia condizionato il cammino dell'umanità, fino al ventesimo secolo, è dimostrato dal fatto che del ferro bagnato dal sangue del Salvatore andarono alla ricerca prima Carlo Magno, poi Napoleone ed infine persino Adolf Hitler. «Hitler rimase affascinato dalle vicende della Lancia nell'epoca in cui erano vissuti tutti gli eroi della sua infanzia. Stordito e felice, scoprì che i grandi personaggi tedeschi dominatori dei suoi sogni giovanili avevano considerato la lancia la sacra aspirazione delle loro ambizioni, il loro talismano del potere. Quarantacinque imperatori, in totale, avevano rivendicato il possesso della lancia del Destino, tra l'incoronazione di Carlomagno a Roma e la caduta del vecchio impero tedesco, avvenuta esattamente mille anni dopo: ed era un corteo di personaggi potenti e valorosi. La lancia era passata attraverso quel millennio come il dito del destino, creando nuovi fatti e cambiando continuamente la storia di tutta l'Europa».307 Nella sua follia, per mezzo del potente oggetto sacro, il dittatore tedesco pensava, a sua volta, di poter instaurare un nuovo tempo dell'oro. In una magica simbiosi con le leggi naturali dell'universo. Anche Federico II Hohenstauffen (1212-1250), metà santo e metà diavolo, il valoroso cavaliere e poeta (il suo monumento funebre fu fatto portare da Hitler in Germania), che faceva cantare ai suoi il Santo Graal, che credeva
nell'astrologia e praticava l'alchimia, «aveva considerato la lancia il suo avere più prezioso, e ne aveva fatto il punto focale della sua esistenza: ne aveva invocato i poteri soprattutto durante la sua crociata (nel corso della quale Francesco d'Assisi aveva portato una volta la sacra arma in una missione di misericordia) e nelle battaglie contro gli Stati italiani e l'esercito del papa».308 Una zagaglia soprannaturale, dunque, come un dito puntato verso un'ignota direzione. Come il giavellotto sanguinante del re pescatore ferito, nella leggenda del Graal. Un reperto straordinario e potentissimo al quale si aggiungeva l'indice di San Tommaso, che indicava la via delle Indie. Poteva il capo della fede, in pieno Rinascimento, ignorare i segnali che lo eleggevano, che lo investivano alla guida di un cammino sul quale inoltrare la Cristianità per la realizzazione di un mondo intero offerto al Cristianesimo? Il 1492 rappresenta in tutti i sensi l'anno mirabile, in una concatenazione di eventi, che si caricarono di suggestione. In parallelo ai colpi di scena e all'incalzare degli avvenimenti che precedettero in Spagna la partenza di Cristoforo Colombo. Roma era sommersa dalle testimonianze della vita e della morte di Cristo. La Spagna, dopo la resa di Granada, veniva sollecitata ulteriormente al ruolo di Paese cattolicissimo. Schiere di battezzandi si affacciavano dagli affreschi delle chiese di Roma. Per adempiere alla sua missione una colomba, come un Santo Giovanni Battista, avrebbe recato l'acqua della salvezza. Un nuovo profeta, come accadde per Noè e per Mosè, avrebbe attraversato le acque.
7 - Vaticano, Campidoglio, Quirinale UN cubo maestoso, come la figura geometrica e magica celata nell'etimologia del cognome Cybo, si ergeva per la prima volta sul Vaticano, visibile da tutta Roma alla fine del Quattrocento, solitario, distaccato dagli altri corpi della Città Santa. Nelle stampe antiche, in particolare in una veduta riportata su un libro (Liber chronicarum), pubblicato a Norimberga nel 1493, appare più imponente delle strutture della stessa basilica di San Pietro. Un solido possente, con i lati squadrati, che si sviluppano in altezza, grazie ad una serie di arcate sovrapposte, al pianterreno in numero perfetto: sette (!). Ancora oggi l'impronta di Innocenzo VIII fa mostra di sé, nonostante le trasformazioni, sul colle di Dio, sull'altura del monte Sant'Egidio. Dove contemporaneamente era sorto il più antico orto botanico d'Italia. In una visione di colori e in una sinfonia di profumi. Una passione che rimarrà nel sangue dei discendenti. Le piante avevano proprietà smarrite, un senso, una «voce». La voce della natura. Erano la base per le ricette e la magia. Per i Cybo come per Colombo. Il cubo si imponeva allo sguardo come la prima grande costruzione fuori delle mura del patrimonio di San Pietro. In una dilatazione dello spazio, che fu tipica di quel pontificato; che guardava al di là di ogni confine, che frantumava ogni regola. Di
Innocenzo è rimasto solo uno specchio deforme, che ne ha coinvolto anche l'aspetto umanistico del grande mecenate. In un tempo irripetibile, in cui l'Europa assisteva ammirata all'esplosione impareggiabile del Rinascimento, in cui gli artisti e gli uomini di pensiero della penisola erano un faro per tutte le corti cristiane. «Mai fino ad ora», scriveva nella sua Storia d'Italia il fiorentino Francesco Guicciardini, storico e diplomatico al servizio di due pontefici della famiglia Medici, Leone X e Clemente VII, «l'Italia s'è mostrata tanto prospera, né s'è trovata in una situazione così desiderabile come nell'anno di grazia mille e quattrocentonovanta e negli anni che l'hanno preceduto e seguito. L'Italia beneficiava miracolosamente della pace e della tranquillità:... non era sottomessa a un qualsivoglia impero, ma soltanto a se stessa, e contava molti abitanti e una grande abbondanza di merci e di ricchezze. Inoltre era adornata dalla magnificenza dei numerosi principi, dallo splendore di molte e nobili città, dalla sede e dalla maestà della religione; essa abbondava di eccellenti amministratori della cosa pubblica e di spiriti di eccelso valore in tutte le discipline; e si dedicava a tutte le arti e vi s'illustrava...»309 La «maestà della religione» raggiunse il suo acme, dunque, nel 1490: prosperità, ricchezze, splendore, magnificenza, il trionfo delle arti e di tutte le discipline, «spiriti di eccelso valore» furono a cavallo di quel decennio fatidico. Gli uomini sono sempre espressione fedele del proprio tempo. Nel bene come nel male. Del male di Innocenzo VIII si è detto tutto il possibile, estendendolo ad ogni ramo della sua attività. Del bene non si è più parlato, in modo che nel grandioso affresco rinascimentale la figura di Giovanni Battista Cybo compare in molte ricostruzioni pseudostoriche, alla stregua di un grande assente, di una totale nullità. Mentre persino il suo grande rivale, il sinistro Alessandro VI Borgia, viene rivalutato alla luce della magnificenza artistica del suo pontificato, che si inserì semplicemente nel solco di chi l'aveva preceduto. Eppure i contemporanei di Innocenzo VIII erano stati unanimi nel celebrare «l'importanza dei lavori d'architettura fatti eseguire da lui». Nella prosecuzione dell'impulso, dato dai pontificati precedenti, all'abbellimento di Roma. Per cui, se si vanno a ripercorrere le impronte di un itinerario squisitamente artistico-culturale, ci si rende subito conto che Innocenzo VIII non corrisponde minimamente al ritratto sbrigativo del sempliciotto ignorante, all'uomo estraneo alla mentalità dei munifici signori, che contraddistinsero la sua epoca. Proprio lui, che di quel tempo pare rappresentare la sintesi più prossima all'assoluto da molti inseguito. In una traiettoria che ha lasciato segni indelebili. Nonostante l'inquinamento compiuto. Camminando, infatti, ancora oggi lungo i bastioni di Michelangelo a Roma, è possibile scorgere il «Belvedere», la villa costituita da sei stanze e una cappella. Con la facciata imponente sulla cui sommità campeggia una scritta cubitale, che ricorda il papa «Genuensis». A cui fanno corona una serie di festoni caratteristici della rinascenza e lo stemma dei Cybo. La merlatura dovrebbe essere guelfa, tanto più che siamo nel cuore della Cristianità. È invece rivoluzionariamente ghibellina. In uno di quei tanti indizi rivelatori di una volontà tesa a conciliare gli opposti?
L'incarico della realizzazione dell'edificio, secondo quanto riferisce il Vasari, che fu contemporaneamente pittore e il primo grande critico d'arte, sarebbe stato affidato ad un altro grande artista, Antonio Pollaiolo.310 Antonio e il fratello Piero Pollaiolo erano, a loro volta, pittori e scultori. Erano cresciuti a Firenze, in una bottega di orafi, a contatto con le fusioni e i riflessi del prezioso metallo. Anche loro pensavano che l'oro potesse cambiare il corso degli eventi umani? Era il fine, materiale e spirituale, di ogni percorso alchemico. 311 Era l'oro con cui, una volta compiuto il viaggio di Colombo, Innocenzo VIII anelava a cambiare il volto di Roma e del mondo, nella sua azione di rinnovamento.312 Il castello merlato era rivolto ad est. In faccia alla sorgente del sole, che i tempi identificavano con il Cristo-sole. Il sole che avrebbe guidato il crociato, monaco e cavaliere Cristoforo Colombo. La rocca svettava nella natura, nella campagna, nel giardino segreto, nell'Eden concluso. Un luogo per il bello con vista sul bello: il «Bel Videre». Un eremo anomalo e massiccio. Troneggiava sulla collina, nell'ennesima rottura operata da papa Cybo. Nel segno di una riforma onnicomprensiva. Un picco per guardare lontano. Sempre più lontano. Il Belvedere si trasformò rapidamente in una vera e propria residenza, destinata anche a soggiorni prolungati ed a foresteria. La villa comprendeva un «cortile» di forma rettangolare, un «celebre Cortile Ottagono», un numero particolarmente caro ai cavalieri. «Questo ampliamento del primitivo progetto fa sì che il Belvedere possa dirsi la prima villa costruita in Roma sin dall'antichità.»313 Non si è lontani «dal credere che le tredici maschere, che secondo la tradizione provenivano dal Pantheon, avessero ornato allora la villa».314 L'antichità, fra edifici nuovi, giardini e statue, era il modello di perfezione da imitare. Il fulcro di conoscenze da rielaborare e inseguire. Innocenzo le accumulava, le sovrapponeva, in una moltiplicazione di energie. All'interno, nella prima camera con le volte a lunetta, il visitatore era avvolto in una sequenza di fasci dai raggi dorati, sui quali campeggiava lo stemma del pontefice e fra «molti rabeschi alla cinese», richiamo costante all'Oriente, sempre su fondo d'oro, svettava il simbolo preferito da Innocenzo VIII: un pavone con il piumaggio dispiegato. In una grande ruota, con l'iscrizione in originale francese, la lingua dei primi monaci del Tempio, che suonava: «La lealtà supera tutto», uno dei motti della famiglia. In nome di quella lealtà che era uno dei tratti caratteristici del costume di vita dei cavalieri del Tempio e del Santo Sepolcro, come dei Giovanniti, in una conferma che veniva dalla raffigurazione di San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista. Ritratti tra fanciulli che suonavano strumenti musicali, tra decorazioni floreali ed ancora pavoni. Erano gli onnipresenti Giovanni, i «gemelli-dioscuri» di una Chiesa da rifondare. In un insieme armonico e di squisita bellezza, al punto che «quest'ornamento servì certo di prototipo per quello dell'appartamento Borgia».315 Alcuni dei capolavori più ammirati del Rinascimento trovavano, dunque, un antecedente nelle opere realizzate dal Cybo.316
Dappertutto mazzi con frutta e fiori: «Di questi ne rimangono solo alcuni» mentre troneggiano «quattro stemmi del pontefice a rilievo di stucco colorato entro raggiere d'oro. Una decorazione analoga è nelle due stanze del papa (oggi non più separate dal resto della loggia), ma al posto degli angeli musicanti si vedono, nelle lunette della prima, coppie di filosofi con cartigli svolazzanti, mentre nelle due rimaste intatte della seconda si ha un solo personaggio per ciascuna con il suo rotolo, ma senza alcuna scritta. La sfera tenuta da uno di essi lo qualifica come geografo».317 Geografia e sfere rotonde. Il segno di una vocazione. E ancora croci greche (!), soli sfolgoranti, tecniche rare, originali spariti o stravolti, soppressioni integrali, nonostante l'eccellenza degli artisti al servizio del pontefice. «La maggior parte delle opere del tempo d'Innocenzo VIII sono state distrutte o in parte rese affatto riconoscibili».318 Come in una maledizione. Che, quando non cancellava tutto, ricorreva all'artificio del mascheramento. Perché tanto accanimento? La storia di Innocenzo è anche la storia di tanti capolavori perduti. Rimangono l'edificio sul colle, lo sguardo da lanciare dall'alto sulla città fatale e sui giardini a perdita d'occhio. Da lassù Roma pareva una gemma da fare risplendere come ai tempi dei Cesari. Un sogno sgretolato, come gli affreschi. I resoconti sono pieni di ammirazione di fronte a soluzioni innovative e mirabili. Lo scudo di famiglia, sorretto da due angeli, si distingueva «per un ricco festone di varie foglie e frutti in color di terra cotta, e artificiosamente invetriato. La quale arte di lavori di terra cotta invetriata sa che tali sculture senza alterazione dei propri colori resistono all'ingiuria del tempo».319 Il complesso, nell'insieme, costituiva una realizzazione sorprendente. Mentre il pavimento a colori, ugualmente prezioso, portava la firma di Luca della Robbia: altro artista e genio fiorentino che veniva dall'arte alchemica dell'oreficeria. Che aveva creato l’«invetriatura», la «terracotta invetriata», «miracolo» degli alchimisti. Uno stile di ceramica unico al mondo. Il Belvedere fu un cantiere geniale. Una fucina di artisti sommi, per la maggior parte venuti dalla «nuova Atene» Firenze, grazie alla parentela con Lorenzo il Magnifico. C'era anche una nutrita schiera di umbri, provenienti dalla regione cara ai frati di Santo Francesco. Fra i più famosi il Pinturicchio, allievo dello stesso Perugino, che affrescò le città italiane e le repubbliche marinare più importanti, dove la famiglia Cybo vantava parentele.320 In una sorta di lega italica stretta per la pace nella penisola. Sulla quale vegliava la Madonna. Con il Pinturicchio e il Perugino, fu particolarmente amato il mantovano Mantegna, già al servizio dei Gonzaga. Era di umili origini, ma «meritò d'essere onorato cavaliere»: si firmava con orgoglio «Andreas Mantineas Comes Palatinus eques auratae militiae».321 Un talento dal nobile carattere che, dopo essere stato adottato dal pittore padovano Iacopo Squarcione, al servizio di «quei da Carrara (!), signori di Padova (!)», 322 venne chiamato a Roma.
Nella città veneta, dove aveva studiato Innocenzo VIII, il «cavaliere» aveva a suo tempo affrescato le storie di San Giacomo e di San Cristoforo. Preludio dell'impresa dei fratelli Cristoforo e Giacomo (Diego) Colombo. Mantegna fu invitato così a decorare la cappella privata del papa, «la quale con diligenza e con amore lavorò così minutamente che e la volta e le mura paiono piuttosto cosa miniata che dipintura; e le maggiori figure che vi sieno sono sopra l'altare, le quali egli fece in fresco come le altre, e sono San Giovanni che battezza Cristo, et intorno sono popoli che spogliandosi fanno segno di volersi battezzare (!)».323 La descrizione del Pastor di quel bellissimo lavoro ricorda anche una serie di quadri, fra i quali un'Annunciazione, la Decapitazione del Battista, San Pietro con il papa, negli sproni della cupola i quattro Evangelisti. Nella volta stessa una loggia con fanciulli che tengono ghirlande, come nella celebrata Sala degli sposi a Mantova, dove, fra le altre figure che si affacciano dal soffitto, compare un pavone. La famosa composizione, considerata un capolavoro supremo dell'arte, aveva, dunque, un corrispettivo fra le mura vaticane. L'iconografia descritta dal Vasari enumera oltre alla Madonna e al papa novello Pietro, un San Giovanni Battista che lustrava i peccati del mondo e infine popoli selvaggi che, con l'arrivo di Gesù, si spogliano e nudi si offrono alla parola del Vangelo. All'acqua purificatrice del battesimo. Chi sono quelle genti, in un'allegoria fin troppo scoperta? Chi avrebbe dovuto impersonare il Battista? Chi il Christo Ferens, portatore di Cristo, come si firmava Cristoforo Colombo? Fantasmi che aleggiano dalle cronache e dai dipinti di un passato svanito. Il Vasari ricorda anche un episodio, che offre uno spaccato significativo dei rapporti fra l'artista ed il suo committente, fornendo utili indicazioni sul carattere del pontefice, sulla sua bonomia, sulla sua generosità. Fatta passare invece, nell'aneddotica corrente, per avarizia: «Dicesi che detto papa, per le molte occupazioni che aveva, non dava così spesso danari al Mantegna come egli avrebbe avuto bisogno, e che perciò nel dipignere in quel lavoro alcune virtù di terretta, fra l'altre vi fece la discrezione; onde andato un giorno il papa a vedere l'opra, dimandò Andrea che figura fusse quella, a che rispose Andrea: 'Ell'è la discrezione'. Soggiunse il pontefice: 'Se tu vuoi che ella sia bene accompagnata, falle accanto la pacienza'. Intese il dipintore quello che perciò voleva dire il Santo Padre, e mai più fece motto. Finita l'opera, il papa con onorevoli premii e molto favore lo rimandò al duca».324 Piccole scaramucce fra cavalieri. Fra spiriti che guardavano oltre il sipario degli eventi quotidiani. L'impegno politico del papa era frenetico, le sue occupazioni lo mantenevano lontano dalle opere in corso. L'artista fu in grado di capire. Ma alla fine la parola data venne abbondantemente onorata. Anche lo stesso fronte di San Pietro, con la piazza, subì una trasformazione, di cui non restano tracce, nel pontificato di Giovanni Battista. Che interveniva ovunque, pur di dare un senso ad una mutazione profonda, che avrebbe dovuto investire l'intero Vaticano e lo Stato pontificio. «Sebbene il Cibo fosse un grande costruttore, in Roma e nel Vaticano (basti ricordare la facciata della scomparsa Curia Innocenziana, sulla piazza di San Pietro), nella nuova residenza pontificia un solo fabbricato si fregia delle sue armi, cioè la Sagrestia, da lui aggiunta alla Sistina, inspiegabilmente
'dimenticata'...! Essa si appoggia alla facciata ovest della cappella... Aggiunte e modifiche posteriori... hanno alterato in maniera considerevole l'aspetto interno ed esterno della Sagrestia innocenziana.»325 Ogni possibilità di verifica si ferma alle soglie dell'ostacolo consueto: non è rimasto nulla. Di Innocenzo, come di Colombo, non doveva restare nemmeno la memoria. Nel frattempo i lavori della Cappella Sistina erano iniziati, proseguiranno negli anni a venire. Innocenzo si circondava di una corte della quale facevano parte gli artisti più illustri del tempo, cambiava radicalmente la faccia del suo regno. Eppure nella Sistina, l'ampia e stupefacente sala con le misure che la Bibbia attribuisce al tempio di Salomone, in un legame indissolubile fra Antico e Nuovo Testamento, di lui, del pontefice figlio di Aronne, non ci sarebbe ricordo. Da Sisto IV gli storici di ogni disciplina passano direttamente da Alessandro VI a Giulio II. Eppure sappiamo che una parete intera fu abbattuta per fare posto al grandioso Giudizio universale di Michelangelo. Eppure molti degli autori della Sistina furono gli stessi che lavorarono per Innocenzo VIII. Gli affreschi perduti pare fossero firmati dal Perugino. La Cappella Sistina fu inaugurata nel 1483. È impensabile credere che Giovanni Battista Cybo l'abbia completamente trascurata dal 1484 al 1492. Purtroppo ciò che non esiste più, ciò che è sparito, finisce per non essere mai esistito. Il Belvedere era immerso nel verde. Era un luogo di meditazione, un luogo per il riposo e per la preghiera. Distante dalle incombenze pressanti del pontificato, dalle bolge della città corrotta e infida. Dilaniata dalle rivalità fra i patrizi. Un posto dove riflettere sull'armonia di un mondo da riedificare davanti alla musica di una fonte. L'acqua non poteva mancare, in un'abitudine anche orientale, tanto più per un capo della Cristianità che nell'acqua identificava la purificazione: il sacramento del battesimo, l'appartenenza al corpo di Cristo. Nello scorrere delle parole stupende del Cantico delle creature di San Francesco, che lodava fra queste «nostra sora acqua». Di fronte al Belvedere si trova ancora oggi una delle fontane meno conosciute del Vaticano. Anche se è la più bella di tutta l'area di San Pietro: la fontana della Galea. Un bacino verde e trasparente racchiuso in una vasca cubica. Lo sfondo originariamente era costituito da un gioco di pietre, di rocce concave, in un bugnato simile alle scaglie di una pigna (frutto di cui dovremo parlare ancora) o di un pesce, in un'infiorescenza di muschi convergenti verso la statua di un Nettuno, signore delle acque, disteso, nel gorgoglio perenne di cascatene spumeggianti. Vigile assisteva un Ercole con la clava. In mezzo allo specchio d'acqua si trova una nave, una galera bellissima, perfettamente curata nei minimi particolari. Una nave da guerra dalla quale si affacciano una serie di cannoni, di bocche da fuoco che zampillano. In una targa di marmo, attribuita a Maffeo Barberini, non ancora Urbano VIII, si legge: «Bellica Pontificem non fundit machina flammas / sed dulcem belli qua perit ignis aquam» («La nave da guerra dei Papi non spara fiamme, bensì la dolce acqua che spegne il fuoco»). Singolare coincidenza: proprio sotto l'edificio più spettacolare edificato da Innocenzo VIII, è ancora presente ai giorni nostri questo piccolo «oceano» di serenità
con una nave (quale imbarcazione poteva esserci precedentemente?) al centro, che muove alla conquista delle genti con l'acqua di una sorgente. In una battaglia da vincere con un bagno purificatore, nello spirito di pace del battesimo. Oggi la fontana è notevolmente cambiata. Sotto una volta, dove è dipinto un grande albero della vita, Nettuno continua ad essere presente. È rimasto anche Ercole. L'eroe delle isole Esperidi, lanciato come Colombo alla conquista dei pomi d'oro. I tempi della costruzione della fontana, si afferma, non corrisponderebbero con il pontificato innocenziano, ma la ricerca è fatta sempre di sorprese: già abbiamo visto nominata una fontana, prossima al Belvedere, all'epoca di Innocenzo VIII. Quello che poteva essere solo un sospetto trova un'inoppugnabile conferma per via di un attentato accaduto nel 1489, quando il papa era intento al preparativo della crociata contro i turchi, grazie anche ai negoziati allacciati con il sultano d'Egitto. Le preoccupazioni di Bajazet, il signore di Costantinopoli, accresciute dalla presenza in Vaticano del fratello Djem, lo persuasero a quel punto ad un'azione estrema. «Ad uno di quei mezzi, che in quei tempi venivano purtroppo usati spesso anche dalle potenze occidentali. Per opera di un degenerato gentiluomo della marca d'Ancona, certo Cristofano di Castrano soprannominato Magrino, dovevasi avvelenare la fontana presso Belvedere, la cui acqua serviva per la tavola del principe Djem e d'Innocenzo VIII... Secondo ogni apparenza anche in Roma eravi alcuni consapevoli di questa trama.»326 Dunque la fontana, che sarebbe diventata della Galea, già esisteva con tutto il carico di simbologia palese, mentre erano iniziate anche le prove generali dell'eliminazione fisica di Innocenzo VIII. Chi, oltre al turco, avrebbe tratto maggiore giovamento dalla sua scomparsa? Chi poteva esserne al corrente? Chi avrebbe dovuto promuovere il tentativo d'avvelenamento se non il futuro Alessandro VI, ansioso di bruciare le tappe del suo insediamento? Quel papa-Anticristo che mai si sarebbe impegnato a portare a compimento la crociata contro Bajazet? L'acqua era l'humus nel quale era cresciuto Innocenzo VIII, il «papa marinaro». Ancora a lui si deve la prima fontana che fu eretta davanti a San Pietro. Quella che ancora oggi si può scorgere nella grande piazza, posta a destra guardando la basilica? Il basamento, si dice, apparterrebbe all'opera originaria, ideata su commissione di Innocenzo VIII e subito dopo trasformata da Rodrigo Borgia. Ma fu quella o un'altra ancora la prima fontana? «La fontana era decorata con ornati in metallo fuso o cesellato dall'orefice Alonso.»327 La via dell'oro, fra i Cybo e Colombo, ritorna sempre, come una strada maestra. D'altronde «l'arte dell'orefice in cui ora giunsero a dominare le forme del Rinascimento, prese sotto Innocenzo VIII un potente slancio».328 Roma, con il papa forgiatore, con il suo messaggero Colombo lanciato verso l'Eden dorato, doveva tornare a splendere come l'aurea Roma. In un passato che veniva, giorno dopo giorno, riscoperto. Affiorava con gli scavi da ogni parte, fra lo stupore del popolino come dei grandi signori, che si contendevano tutte quelle bellezze. Il Vaticano sotto Innocenzo, lungi dal restare immobile, si era trasformato in un alambicco sperimentale.
Ed ecco materializzarsi, quasi magicamente, da un catalogo per la mostra a Roma dedicata ai Borgia, in una sorta di subliminale risarcimento, la prima fontana del Vaticano. La fonte sconosciuta di Innocenzo VIII non era mai stata individuata. La riproduce un'antica stampa, che presenta la basilica costantiniana prima dell'inizio delle demolizioni iniziate nel 1506 con Giulio II. Ecco come doveva essere San Pietro ai tempi di Innocenzo. Di fronte alla facciata, al centro della piazza, un baldacchino marmoreo è posto sopra un'immensa pigna bronzea di epoca romana, rinvenuta al tempo di Costantino. In un'ulteriore trasmissione da Roma, dal primo imperatore romano e cristiano e poi dell'Oriente a Giovanni Battista Cybo. Un cognome la cui etimologia è il cubo, la pietra fondante, il ciborio, il cibo e ora anche l'acqua per le anime e più oltre Cuba, l'isola che sarà battezzata in un primo momento Juana (Giovanna) e infine ceiba, la pianta sacra per gli indios, l'albero della vita per un mondo diverso. In un'altra stampa si può leggere, incisa sull'architrave del tempietto: «Symmachi Fons». Il nome di Simmaco sulla fontana in San Pietro è scritto con l'y greca. Potrebbe avere una duplice valenza. Che rimanda ad una Chiesa primigenia e ad un Gesù, che unisce Oriente e Occidente.329 Ma perché quella fontana dovrebbe essere proprio quella di Innocenzo VIII? Perché sulla sommità del baldacchino compare una firma inequivocabile: due splendidi pavoni di origine romana. Nell'antica riproduzione i due uccelli sono quasi invisibili. Come tutto quello che riguarda Innocenzo VIII. Pigna e pavoni, però, sono ancora esistenti. Fanno mostra di sé tuttora in Vaticano, nell'omonimo spettacolare cortile della Pigna, fanno da contraltare alla scultura di un artista italiano moderno, Pomodoro (un nome subliminalmente cifrato, con il suo «pomo d'oro»), famoso per i suoi mondi tradotti in sfere dorate cariate e tormentate. In quel cortile lo sguardo del pavone si posa ancora sul mondo! Passano i secoli, la forza del simbolo in Vaticano, conscia o inconscia, è eterna. Il cortile della Pigna, guarda caso, si trova proprio sopra al bunker sotterraneo costituito dalle sale più avveniristiche dell'Archivio segreto vaticano! La pigna doveva costituire un segnale di cui si è perso il significato più magico e profondo.330 Se poi ci si sposta fuori dalla cerchia delle mura e ci si allontana dal centro di Roma, inoltrandosi in quella che era la selvaggia campagna romana, si può incontrare un altro interessante «reperto». Che, nei primi decenni del nostro secolo, era completamente in abbandono. Fu nel ventennio fascista che si cominciò a pensare ad un suo recupero, nei piani di risanamento e di bonifica dell'Agro Romano, essendo l'area ai limiti del litorale Pontino, ma solo negli anni Cinquanta si procedette al restauro del monumento. Il compito toccò, guarda caso, al Sovrano Militare Ordine di Malta, lo SMOM, gli eredi, a quei tempi, dei Templari e dell'ordine del Santo Sepolcro. Quei Giovanniti che tanto avevano avuto a che fare con l'operato in vita di papa Innocenzo VIII e di Colombo. È il Castello della Magliana, in prossimità del Tevere, nel suburbio Portuense. Ai margini di quella Roma urbs nova, la cui rinascita ad un destino universale risuonava già nelle parole del testamento del pontefice ligure Niccolò V: «E Roma dovrà essere
monumentale e dovrà impressionare coloro che vi giungono da tutto il mondo per convincere tutti, con l'imponenza, della superiorità della Chiesa di Roma e della fede cattolica». Il Rinascimento nasce anche da questo proposito. La Magliana era il luogo di passaggio verso il mare di Ostia e del Lazio. Dal quale, in aperta campagna, fra piccole colline ed una vegetazione lussureggiante, ricca di fauna e di flora, emergevano dal sottosuolo reminiscenze dell'antica Roma e di culti pagani. Una sorta di lucus-luogo sacro, dove era particolarmente intensa a metà del Quattrocento la devozione per San Giovanni Battista. Al punto che nel 1510 si invitava Michelangelo ad eseguire nella cappella un affresco riproducente «uno san Joanni Baptista che baptisasse nostro Si.re Jesu Cristo depinto in fresco et di figure non molto grande». Era stato papa Gregorio VII a concedere nel 1074 al monastero di San Paolo fuori le Mura una chiesetta intitolata a San Giovanni «in Manliana», di cui si conservava una cappella, in un richiamo giovanneo che non poteva sfuggire a Giovanni Battista Cybo. Ma il podere si prestava piuttosto ad attività più mondane.331 Nel castello, sotto la volta a crociera, lo stemma di Innocenzo era posto al centro di una corona di fiori e conchiglie: nella costante presenza di richiami legati alla vita del mare. La via che conduceva ad Ostia era la strada spalancata verso ulteriori lidi. Ma anche la strada aperta alle incursioni degli avversari: «Si sa dagli atti dei tempi di Innocenzo VIII che questo papa si adoperò molto per dotare Roma di una certa sicurezza difensiva. Per proteggere la città dai pericoli che le venivano soprattutto dal mare, fece installare lungo tutto il litorale laziale una serie di torri di guardia, che in caso di attacchi improvvisi avrebbero permesso non solo a Roma ma a tutti i paesi della costa di organizzare rapidamente la propria difesa».332 Era il pensiero incombente della minaccia turca a spingere Innocenzo VIII a dotarsi di difese più sicure, qualora la conciliazione fosse stata impossibile da raggiungere. Erano le precauzioni e le strategie globali di un Santo Padre che, nonostante tutto, ci si ostina a definire privo di nerbo. Il castello della Magliana, alla morte di Innocenzo, fu trascurato da Alessandro VI, fu abitato frequentemente e abbellito da Giulio II. Ma tornò ad un vero e proprio splendore, trovando un degno erede, con un papa mediceo. Proprio quel Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico, fatto cardinale in giovanissima età da Innocenzo VIII. In un precedente al quale si richiamerà Colombo, in una incredibile lettera scoperta di recente, per pretendere la porpora per il figlio minorenne Diego. Il culto di San Giovanni Battista, la presenza di un pontefice che dedicò al santo decollato il suo pontificato: nulla di strano nel fatto che oggi quella proprietà sia nelle mani dei Cavalieri di Malta il cui stemma è identico, sia pure a colori invertiti - il che poteva accadere - a quello che Colombo portava sulle vele? Nulla di strano che proprio in quella località, nel vecchio «cascinone», sia sorto, ad opera degli Ospitalieri, un modernissimo ospedale? Nella tradizione di un ordine che, come faceva Colombo con i suoi uomini feriti o in cattiva salute nelle Indie, si occupò sempre dei malati e dei pellegrini? Quasi che l'antico rapporto sia rimasto vivo nel segreto ed operi ancora, in uno scambio di reciproci favori e concessioni, ma anche, verosimilmente, di dissidi e di ricatti.
L'attività edificatoria e di restauro, nel corso del pontificato di Innocenzo VIII, ha lasciato impronte, più o meno vistose ed importanti, per quanto ignorate, anche per le molte strade e nelle chiese dell'urbe, oltre naturalmente a Santa Croce in Gerusalemme.333 Oltre a Sant'Agostino, dove si custodiva segretamente un'immagine della Beata Vergine, che era stata strappata al nemico turco, dopo la caduta di Costantinopoli, grazie ad alcuni nobili di origine greca. La tradizione voleva che fosse stata dipinta dalla mano di San Luca Evangelista. Nell'agosto del 1485, durante la peste, per ordine di Innocenzo VIII, fu esposta per la prima volta in San Pietro. Portata in processione solenne per la città fra la commozione e la devozione generali. La «Stella del mare» faceva parte, come quelle di Molfetta, del progetto innocenziano e mariano, che avrebbe spiegato le «ali» della Santa Maria. Piuttosto vari ed importanti furono infine i lavori intrapresi, su ordine del papa, all'interno della stessa San Pietro. A cominciare dal ciborio della Santa Lancia. Doveva custodire e offrire al culto il sacro reperto del ferro, che ferì il costato di Cristo, inviata, come abbiamo visto, al pontefice da Bajazet. Un reperto soprannaturale e unico, in grado di garantire ogni facoltà al suo possessore. Del ciborio si conserva un disegno di esecuzione, pare, del Bramante. Che prevedeva due edicole sovrapposte: in quella in basso si trovava l'immagine di una Madonna eseguita dal Pinturicchio con il pontefice ritratto genuflesso. In alto due angeli in adorazione dell'asta scagliata dal centurione romano Longino. Anche quell'opera d'arte non è sopravvissuta, all'infuori di alcuni frammenti custoditi nelle cripte del Vaticano. Ma la lancia del destino, la reliquia simbolo di potere e di immortalità, la reliquia per tanto tempo inseguita e finalmente raggiunta, troneggia ancora nelle mani di Innocenzo in una delle due statue del mausoleo funebre realizzato dal Pollaiolo. Strana posizione, strana tomba, strane lapidi, strane scritte, strane date. Apparentemente potrebbe sembrare una summa, frutto dell'ignoranza, di errori fatti in serie. Alla luce di quanto abbiamo sinora scoperto potrebbe rivelare ciò che non si poteva esplicitamente dire. È ancora il Vasari a darci notizie di prima mano sull'attività dei fratelli fiorentini Pollaiolo ed in particolare di Antonio, maestro nell'arte della fusione, che per meglio studiare il corpo umano non esitava a fare senza problemi esperimenti e studi anatomici, che avrebbero potuto costargli la condanna per stregoneria: «Scorticò molti uomini, per veder la notomia lor sotto... per queste cagioni, adunque, divenuto famoso morto Sisto IV fu da Innocenzio suo successore condotto a Roma, dove fece di metallo sepoltura... in San Pietro accanto alla cappella dov'è la lancia di Cristo».334 La lancia faceva, dunque, da asse portante e anello di congiunzione fra la cappella di Longino e il mausoleo di Giovanni Battista Cybo. In una scelta carica di significati. Due le figure di Innocenzo eternate nel bronzo, nel dualismo sempiterno che unisce la vita alla morte, la luce alle tenebre. In uno schema innovativo e atipico. In primo piano il pontefice, nelle suntuose vesti pontificali, è in atto benedicente. L'asta è nell'altra mano, le spalle perfettamente rivolte verso il Nord. Posizione che contraddistingue i grandi iniziati e gli auguri. In alto il papa è disteso sul suo letto di
morte. Una statua fiera e «parlante» la prima, in una capacità di introspezione rara per Antonio Pollaiolo, «poco interessato all'individualità psicologica delle sue figure», alla quale sono sottomesse tutte le Virtù teologali e cardinali, ovvero la fede, la speranza, la carità, la giustizia, la fortezza, la temperanza e la prudenza. In un'iconografia complessa, che sarebbe possibile ricostruire attraverso un'interpretazione puramente alchemica.335 Nei primi anni del Seicento il monumento fu spostato e ricomposto. Ultimato nel 1621, venne invertito in maniera del tutto arbitraria, come in una verità rovesciata. Perdendo così in parte la sua complessa armonia e il suo senso nascosto. Le salme dei pontefici, che erano presenti nella vecchia basilica, sono oggi sparse per le chiese di Roma. Sisto IV è collocato nelle grotte vaticane, Alessandro VI venne seppellito addirittura al di là del Tevere, nella chiesa di Santa Maria in Monserrato. In una semplice cassa di legno. Fra i tanti papi, che precedettero il 1500, solo il «dannato» Innocenzo VIII è ancora presente in San Pietro. Strano onore. La nuova collocazione vede oggi il tumulo situato, entrando nella basilica, sulla sinistra. Quando il feretro fu aperto il corpo del pontefice era ancora intatto, in odore di santità. Alcuni parlano di un forte profumo di violetta: «Et nel pontificato di Paolo quinto s'ebbe gratia et favore di colocarlo dove si vede, in beli'et honorevole luogo; ma prima, alla presenza del sig. Car.le Bandini et altri prelati, con l'agente mio (di Alberico Cybo Malaspina, N.d.A.) s'aperse la cascia di bronzo e si trovò il corpo integro con il piviale di brocato, pianelle, con havere patito poco, et guanti di setta, et con molte medaglie... Il rimanente andò in polvere, onde accomodorno l'ossa in una casetta di piombo, come fecero di quelle del Conte Francesco, mio avo, et della moglie, signora Maddalena di Medici, che fumo posti nella capella».336 Il corpo era avvolto in un panno di raso rosso, come la veste dei sacerdoti romani, con inserti d'oro e perle con oro. Nel sarcofago c'erano monete d'oro e tre immagini di donne con la scritta: «Giustizia, pace, abbondanza».337 Un perfetto testamento spirituale. Veniva eternato il programma al quale, fin dall'inizio del pontificato, si era ispirata l'azione di Innocenzo VIII. Oro e perle (le ricchezze che verranno dalle Americhe), giustizia, pace ed abbondanza erano state le direttive di un pontificato molto più innocente di quanto la «storia» ci ha insegnato. Ossa e polveri, se ancora esistenti, potrebbero essere oggi esaminate per verificare se è veramente possibile una relazione di sangue fra i Cybo e Colombo, così come si è tentato di fare in Spagna con le ceneri del navigatore. Per accertare di chi siano realmente i resti contenuti nella tomba di Siviglia. In caccia di quella verità che la tomba del papa, nel guazzabuglio di cifre, sembra fare di tutto per allontanare. O per richiamare in qualche modo un'attenzione per troppo tempo distratta? In un intrigo senza pace, che vanificherebbe così la pia invocazione «In innocentia mea ingressus sum redime me Domine et miserere mei», incisa sull'urna sulla quale riposa la statua giacente del pontefice. A quando risale la frase? Al monumento originale o è stata aggiunta in seguito? Si vuole forse intendere che l'innocenza potrebbe essere soddisfatta e la redenzione («redime me») finalmente compiuta solo quando si fosse in grado di interpretare definitivamente, senza ombra di dubbi,
anacronismi e ambiguità? E che nel frattempo non resti che la commiserazione («miserere mei»)? Alessandro VI e la Spagna troveranno ulteriori alleati quando la Chiesa rinnegò e pose fine al Rinascimento con la Controriforma. Fu Pio V (1566-1572) «che fece togliere dai palazzi pontifici tutto quanto, compresi quelli che definiva gli 'idoli antichi', che riteneva inadeguati al vero spirito della riforma cattolica postridentina; seri rischi furono in quegli anni corsi anche dalla ormai consistente raccolta antiquaria che ornava il cortile interno e i locali del Belvedere».338 Di fronte ai pericoli che l'Umanesimo e il Rinascimento avevano comportato per l'ortodossia, anche all'interno delle sue mura il Vaticano sceglieva la strada del rischio minore. Ma se è facile seppellire un uomo, sia pure questi un papa, più difficile è seppellire le idee, la memoria, la verità, la giustizia. Per la quale non resta che andare attraverso intuizioni e ipotesi, affidandosi ad ogni indizio. In una ricostruzione che trova di marmo in marmo, di lapide in lapide, di pietra in pietra, continui appigli, come in una difficoltosa scalata. Per cui converrà lasciare Roma e il Vaticano e spostarsi sui colli vicini. Là dove ancora oggi è il luogo preferito per le vacanze dei Padri della Chiesa. Lassù, a Monteporzio Catone, si apre l'ulteriore capitolo di un indovinello costellato di interrogativi. Un centro insignito del titolo di «Principato» alla vigilia di Natale del 1614 con una bolla pontificia: «Si recò Paolo V a Monte Porzio dalla sua villeggiatura a Mondragone il 2 giugno 1614. Fu ricevuto nella casa allora di Lorenzo Colombo... A perpetuare la memoria della visita pontificia sulle mura esteriori della casa fu posta la seguente iscrizione, che però più non esiste: Paolo V Burghesio. PM./ Qui IV nonas Iunii MDCXIV/ Hanc ingressus domum/ Ex supremo fastigio/ Descendit ad infimos/ Fines omnes benignitatis egressus/ Laurentius Columbus hospes/ Grati animi testificationem posuit». All'iscrizione facevano seguito dei versi.339 La lapide per la verità è tuttora, in qualche modo, esistente. Ma sarebbe stata modificata dall'originale e poi confinata nel sottoscala di un'abitazione dello stesso comune.340 A Monte Porzio, in una casa privata, un papa non si era mai recato. Perché Paolo V Borghese, il pontefice la cui mania di grandezza, il cui amore per il fasto e la magniloquenza della propria persona è visibile ancora oggi con la grande scritta posta lungo tutto il fronte della facciata di San Pietro, il pontefice che cambiò il volto della basilica e ristrutturò anche l'Archivio segreto, si decise ad entrare in una «infima» casa? Ospite di un ignoto Lorenzo Colombo? Chi è quel Colombo? Il discendente di un ramo della famiglia Cybo-Colombo originato dalla parentela con il Magnifico Lorenzo? Cosa dovevano dirsi i due, così distanti per ruolo sociale, in un tempo in cui una visita di quel tenore appare impossibile? Siamo negli anni in cui si sta decidendo come e dove posizionare il sepolcro di un papa da dimenticare. La casa di Monte Porzio per un certo tempo passò agli Statuti. Nicola Statuti era un cavaliere. «Nel cortile della sua abitazione Nicola Statuti nel 1882 fece affiggere una lapide perché i posteri ricordassero non solo la venuta di Paolo V a Monte Porzio il 2
giugno 1614, ma anche la prima lapide andata poi distrutta che Lorenzo Colombo aveva fatto fissare a suo tempo sul muro della sua casa.»341 Pietre e marmi non fanno che infittire il grande enigma di Innocenzo VIII e di Cristoforo Colombo. In una ricerca che non si esaurisce mai, ma che trova ovunque nuovi sentieri da seguire, anche perché le coincidenze, se così si vuole continuare a chiamarle, si incrociano sempre più, in maniera a volte quasi profetica. Come per quella dicitura in latino, incisa nell'ormai noto marmo posto alla base del tumulo in San Pietro. Rappresenta una miniera di informazioni da sviscerare. La prima frase riferita ad Innocenzo afferma: «Italicae pacis perpetuo custodi». Un difensore della pace italica, quando ancora l'Italia era di là da venire? Uno strenuo paladino della concordia, presupposto indispensabile per una concordia da diffondere nel mondo intero? E questo non aggiungerebbe molto a quanto già sappiamo. Ma «perpetuo» perché? Come si fa ad asserire qualcosa che solo il futuro potrebbe confermare? Eppure, alla luce di un intricato percorso investigativo, persino quella frase azzardata, impressa nella pietra, proprio come nelle profezie, assume un senso quasi subliminale. La famiglia dei Cybo, una volta scomparso il pontefice, confluirà nei rami delle famiglie Malaspina e d'Este. I primi si insedieranno fra il mare e la montagna, vicini alle miniere di marmo bianco, divenendo principi e duchi di Massa. È là che, a questo punto, si sposta l'attenzione. Con una necessaria, ormai scontata, premessa: «Lo studioso di cose massesi, quando tenta di avvicinarsi, anche mentalmente, ad un inventario delle opere d'arte, suppellettili ed oggetti preziosi che pure una dinastia bisecolare non poteva non aver raccolto e lasciato, prova la sgradevolissima sensazione di trovarsi davanti al vuoto assoluto».342 Per scoprire pazientemente però che il vuoto così assoluto non è, se si va a indagare fra quanto è rimasto.343 In una serie di costruzioni sia pure mutate nel tempo. Cumuli di pietre non sempre in felice stato di conservazione. Che andrebbero comunque «riletti» palmo a palmo. Gli indizi, come al solito, non mancano. Specie per quanto riguarda la Villa di Sopra La Rocca. Oggi porta un nome singolare: dei Massoni. In una terminologia tanto apparentemente casuale quanto manifesta. Una costruzione con un grande giardino, piena di statue, in un percorso che doveva avere un senso compiuto. La statuaria, spesso illustrante le arti e i mestieri, era una caratteristica comune, forse la più vistosa ed importante di ville e palazzi dei Cybo. In un patrimonio smembrato, dissipato anche per questioni ereditarie e largamente sparito. Fra alienazioni a «vari cavalieri genovesi» ed a re, anche oltre frontiera. Nelle varie peregrinazioni molte di quelle sculture approdarono a Roma, a Ripa Grande, ai piedi dell'Aventino. Sotto la casa dei cavalieri prima Templari e poi di Malta. Per andare infine a Castelgandolfo ed entrare a far parte dei beni esistenti nello Stato della Chiesa. In quella regione da dove, dall'antica Albalonga, i primi latini si erano avventurati nella piana per fondare Roma.344 In un destino che i Cybo credevano di essere chiamati a ripetere. Per fondare la nuova caput mundi. Corrispondenze, corsi e ricorsi sorprendenti in una trama «senza fine», fatta di impensabili concordanze. Come quella guglia o piramide-obelisco, con
tutta la simbologia che ne consegue, sormontata dal sole nascente e dal motto «sine fine» (senza fine) che era l'impresa di Lorenzo Cybo. Metafore che si ritrovano quasi in fotocopia sulla cartamoneta del dollaro, dove lo spirito che «scoprì» il Mondo Nuovo è diventato il novus ordo seclorum (inquietante anche quella parola ordo), in una lingua latina unificante. Ma in un iter che si è diversificato, da quando l'oro delle Indie si andò trasformando nella multinazionale della finanza. Lassù sui colli romani, in una posizione simile a quella del castello di Massa, simile a quella del Belvedere, i Cybo ricomponevano in scala, fra ville e giardini, quel paradiso di armonia perduto e da ripristinare. Nel nuovo assetto da dare al mondo.345 Da Castelgandolfo lo sguardo spazia verso il Quirinale. Su uno dei sette (!) colli fatali sorge un altro palazzo fondamentale nella storia d'Italia. Che una volta fu dei Papi ed oggi è la sede della Presidenza della Repubblica. Anche là, nelle zone all'aperto dei bellissimi giardini, si conservano sparpagliate molte delle opere che provengono dal patrimonio della famiglia Cybo. Una serie di statue, di manichini e testimoni di pietra. Lavandaie, ciabattini, arrotini, merciai, mendicanti, buffoni, popolani, Pierrot, Pulcinella... ricordi di una Napoli mai dimenticata, in una autentica galleria di arti e mestieri. Così cari ai massoni. E ancora una stupenda meridiana, un gruppo con il mitico Ercole mentre affronta il drago, i Mattaccini, i satiri, Bacco e la grande fucina di Vulcano, con i ciclopi forgiatori di metalli, una fortuna con una grande ruota, Menelao e Patroclo, Andromeda e Perseo, un giovane nudo che potrebbe essere un Apollo, un Adone o un Orfeo... un pavimento rigorosamente a scacchi bianchi e neri come nella simbologia massonica. Istantanee di vita quotidiana, protagonisti della leggenda, figure geometriche e motti, maestri dell'occulto... in una successione per la quale è arduo ricostruire l'esatto significato. Tanto più che, come al solito, archivi e documenti sono latitanti. Alimentando gli enigmi di un enigma «senza fine». Non si comprendono, infatti, i perché di certe donazioni. Chi si adoperò più di tutti per il buon nome della famiglia, non solo per ripristinare nella basilica di San Pietro il monumento per papa Innocenzo VIII, fu Alberico I Cybo Malaspina: «Lavorò con pazienza, ma i suoi sforzi presso i pontefici Pio IV, Gregorio XIV e Clemente VIII non sortirono l'effetto desiderato, ed Alberico morì nel 1623, avendo solo portato a buon punto le necessarie pratiche... nulla di più facile, dunque, che la base cilindrica (della meridiana, N.d.A.) fosse un donativo del Principe di Massa ad uno dei pontefici da lui così vivamente interessati alla elevazione della chiesa di Massa in diocesi, o almeno in collegiata; la scultura col pavone avrebbe dovuto ricordare al papa la 'pratica Cybo'; ma si resta nel campo delle ipotesi».346 «Sforzi vani», «ipotesi» e «pratica» vanno probabilmente allargati ad una questione Cybo che doveva implicare altri risarcimenti. Di ben più vasta portata... Il basamento al Quirinale con il grande pavone scolpito servì per la meridiana di Francesco Castelli, figlio di Battista (!). Altri non è che il Borromini, ennesimo personaggio che affonda nell'esoterismo. Varie statue furono poi inserite in una bellissima fontana, detta dell'organo, sulla cui volta «si vedono i bellissimi stucchi
incorniciati da fregi di mosaico rustico, che rappresentano i sei giorni della creazione, la storia di Mosè e del popolo ebraico, e figurazioni di mitologia delle acque».347 In una sequenza infinita di personaggi legati alla storia, ma soprattutto al mito, al senso recondito che supera quello immediato, in una spiegazione che sfugge al senso comune. Tra vicende e passaggi di mano che si ingarbugliano e che fanno persino dei marmi Cybo un rompicapo irrisolvibile. Come i molti interrogativi lasciati in sospeso anche da chi, con un libro sull'argomento, ha tentato di ricostruire le complicate peripezie di quei marmi. È quanto accade puntualmente per ogni aspetto di questa famiglia, che ha sparso lungo i secoli strani messaggi nel panorama della vita pubblica religiosa e civile. Attraverso le cariche più rappresentative dello Stato. «Perpetuo custode della pace italica», suona l'epigrafe sulla tomba. Per una morte, che sarebbe avvenuta il 25 luglio del 1492 a Palazzo Venezia. Là dove esisteva, come vedremo più in dettaglio, una sala del Mappamondo. Sala, palazzo e data si collegano a un altro episodio centrale nella storia dell'Italia moderna: la caduta del fascismo e di Benito Mussolini. Mentre spesso, nelle vicende che stiamo cercando pazientemente di ricostruire, si trovano vari nomi degli antenati della famiglia Savoia, specie per quanto riguarda gli addentellati con la zona del Monferrato (altra possibile patria di Colombo), ricca di cavalieri crociati e cultori dei misteri. In quello che sembra diventare un bizzarro gioco dell'oca e di rimbalzi nel tempo. Come per quell'ultimo stemma scoperto anche su una parete del Palazzo in Campidoglio. Affacciato proprio sul foro di Traiano. A vegliare sui resti di un'antica grandezza sparita, prospiciente sulle carceri di San Pietro, a ricordare il sacrificio del primo papa di Roma. In un filo d'Arianna di pietra senza soluzione di continuità tra passato e presente e fra i poteri supremi del Paese. Dal Presidente della Repubblica, alla famiglia reale, al papa, a Mussolini, al primo cittadino di Roma, tutti indissolubilmente legati e alternativamente posti alla guida delle sorti della città eterna. Quella caput mundi che era stata aurea e aurea doveva ritornare. Grazie ad un uomo che riuniva in una unica persona tutti i poteri, religiosi e civili, che, in un evo di distruzione e di sangue, aspirava a diventare un grande costruttore, un grande architetto dell'universo. Oltre che a dimostrarsi Vicario di Cristo sulla terra. E grazie ad un dilecte fili programmato e ormai pronto a trovare e fondare un altro mondo.
8 - Monaci, cavalieri e vichinghi L'AMERICA non fu una scoperta fatta per caso. La cercavano re, principi, monaci e cavalieri. Tentavano di raffigurarla e ricomporla i cartografi. Il viaggio di Cristoforo Colombo non si inoltrò nell'ignoto assoluto. Si desiderava un mondo nuovo, da battezzare nell'acqua e nell'oro. Lo auspicava la Cristianità, lo voleva il papa di Roma. L'America non era nell'aria, non era solo nell'intuizione o nella fantasia delle
tante isole e terre perdute. L'America c'era. Non certo nella sua conformazione attuale, nella sua interezza, nel suo insieme. Era una terra indistinta, tanto concreta quanto immaginifica, fatta di una serie di approdi individuali, uno indipendente dall'altro e allo stesso tempo sovrapponibili. Era il risultato di quanto si era ritrovato in mappe e codici antichi, al quale si erano aggiunte le navigazioni più recenti e le esplorazioni. A cominciare dall'anno Mille. L'America si presentava ora smembrata in una serie di isole, in un arcipelago senza fine, ora in parte accorpata in un'unica grande isola. Ora in Oriente ora in Occidente. Ora in brani scomposti e discontinui di terraferma, che attendevano ulteriori esplorazioni per trovare una forma compiuta. Né più né meno di quanto avveniva per terre molto più vicine e la cui rappresentazione spesso corrispondeva solo vagamente alla realtà. È il termine «isola» ad avere ingenerato la maggiore confusione, soprattutto in menti ingessate nei concetti del linguaggio moderno, che ha perduto il senso delle parole. L'America era nelle carte, nei mappamondi, nei libri, nelle conoscenze degli antichi, di studiosi e geografi, quasi tutti inseriti nel «corpo» della Chiesa medioevale. Era nella mente di molti, di grandi e signori della terra. Nelle mire di quanti credevano di avere il diritto e l'investitura per dare un nuovo corso all'umanità. Una figura sopra tutte, quella del romano pontefice. Per gli altri si trattava di ampliare i confini del proprio dominio. Per il papa si trattava, innanzitutto, di rinnegare quello che la Chiesa aveva predicato nei secoli, di operare, nel modo meno indolore, la transizione nell'eterodossia. Si poteva ammettere che le Sacre Scritture, che i padri della dottrina erano stati apportatori di menzogna? Che Roma era stata fra gli artefici del secolare buio? L'errore, si disquisiva nel segreto, era stato solo umano. I testi sacri non erano trattati di scienza. Il simbolo doveva esserne la chiave di lettura. Le profezie inoltre avevano da sempre annunciato il Mondo Nuovo, la rivelazione-apocalisse. Come interpretarla, come realizzarla fra gli uomini? Nel gioco eterno che muove la storia, nella lotta sempiterna tra i falchi e le colombe, si sarebbe scelta una colomba: «Chi sono quelli che volano come nubi / e come colombe verso le loro colombaie? / Sì, forse mi attendono le navi di Tarsis in primo luogo, / per portare i tuoi figli da lontano con il loro argento ed oro, / per il nome del Signore, tuo Dio, e per il Santo di Israele che ti onora... Il tuo sole non tramonterà più... io creo cieli nuovi e nuova terra... io verrò a raccogliere tutte le nazioni e tutte le lingue... a te le nazioni verranno dall'estremità della terra».348 Cristoforo Colombo annotava di suo pugno. Poi le cose sarebbero andate diversamente e il sopravvento sarebbe stato dei falchi. Poco o niente è rimasto dell'utopia che fu portata cinquecento anni fa, trasmigrando dai sogni del vecchio mondo al nuovo. Ma ancora oggi in America persiste l'idea-ideale di vivere nel migliore dei mondi possibili. In un'eredità mai completamente perduta, passata dal sogno antico al sogno americano. Chi, dunque, prima di Colombo aveva «scoperto» l'America? Precedenti mitici, che affondano nella leggenda: Giasone, Ercole, Ulisse... Altri più vicini, che il dato storico tramanda. Quale poteva essere, al di là delle acque sacre del Nilo, l'aldilà
degli Egizi così sensibili all'oro e al cammino del sole? Una domanda che si fa più pressante dal momento che tracce di droga e di tabacco, di piante presenti solo nell'altro mondo, sono state rinvenute tra le fasce delle mummie dei faraoni. Spore seminate nel tempo. Per far nascere interrogativi a tutt'oggi senza risposta. E ancora viaggiatori del mare di sangue ebreo o pagani. Viaggiatori lontani all'epoca di Tartesso (la biblica Tarsis?); della «talassocrazia», l'impero del mare, e poi dei Fenici, dei Greci, dei Romani. E ancora santi e vichinghi. Per rimanere ad un excursus limitato al mondo occidentale, soprattutto cristiano, che ignora gli altri mondi. Anche se le altre civiltà non stavano a guardare. Per cui la domanda da porre non è più chi ha scoperto l'America, ma chi è riuscito a portare definitivamente alla conoscenza dell'umanità, come un dato acquisito da quel momento e per sempre, l'America. Reperti di ogni tipo affiorano, in ogni dove, in terra americana, alimentando la statistica di eventuali spedizioni «avvenute per caso». Reperti che la scienza si ostina a rifiutare. Costruzioni e saperi sempre più complessi vengono ad allontanare e a rendere poco plausibile anche il mito del buon selvaggio, con cui si vollero identificare gli indigeni delle Indie occidentali. La prudenza è d'obbligo. Ma fino a quando si riuscirà a fare argine alle tradizioni scritte od orali? Agli indizi circa l'etimologia delle parole? Alle documentazioni, alle pietre che parlano, alle incisioni che rivelano, agli oggetti che non si limitano a insinuare il dubbio? Si moltiplicano rinvenimenti che singolarmente possono essere respinti, ma che nell'insieme formano una valanga inarrestabile. Fino a quando ci si potrà trincerare dietro l'alibi del silenzio o del falso, che c'è e contribuisce ad allontanare la verità? Il falso può essere sconfessato, ma laddove subentra il silenzio, perché anche ogni accusa è indimostrabile, il silenzio ha già il sapore dell'assenso. Senza contare il coraggio e il genio di scienziati e studiosi controcorrente, che operano anche sul campo e non soltanto sui libri. Senza contare le traversate ricorrenti dell'Atlantico da parte di navigatori solitari, anche donne, che lo hanno affrontato persino in barchette a remi, che hanno dimostrato con le loro imprese, con le loro traversate, che la favola è spesso più innocente della scienza e che troppa scienza ha raccontato troppe favole. Proprio come, a suo tempo, la Chiesa. Il cammino del sole faraone, del sole invictus, del sole da cui tutto dipende, ha sempre affascinato l'uomo. Cosa ci potrebbe essere di più naturale, in stagioni in cui il sole era l'espressione suprema del divino, di uomini, sacerdoti e non, guerrieri o meno, disposti ad affrontare ogni pericolo pur di dare una risposta al mistero di quell'orizzonte, dove ogni sera l'astro, che tutto muove, andava a morire nell'abbraccio dell'oceano? In quell'«ultra» da esplorare, per non correre il rischio che il sole potesse scomparirvi per sempre? Per cui ogni alba era un miracolo che si ripeteva. Che ricacciava la paura della morte dell'astro. Ma la minaccia restava, resa più reale dal terrore, che le eclissi puntualmente rinnovavano. Per non parlare dell'istinto atavico per l'ignoto dell'uomo-Ulisse. Dell'uomoperseguitato, costretto all'esilio in altri lidi. Dell'uomo-economico alla continua ricerca di nuove fonti di ricchezza. Senza contare gli errori di rotta e i naufragi.
Bisogna chiedersi anche tutto questo, pensando all'eventualità di un'America prescoperta e ricoperta nel tempo. Non aveva d'altronde scritto Seneca, nella tragedia di Medea, come puntualmente Colombo registra, «venient annis / saecula seris, quibus Oceanus/ vincula rerum laxet et ingens / pateat tellus Tethysque novos / detegas orbes nec sit terris / ultima Thule» («Verranno i tardivi anni del mondo, certi tempi nei quali il mare oceano scioglierà i legami delle cose, e una grande terra si aprirà. E un nuovo marinaio, come colui che fu la guida di Giasone e che si chiamò Tifis, scoprirà un nuovo mondo; e allora non sarà più l'isola di Thule l'ultima delle terre»)? Il filosofo aveva soggiornato in Egitto, nell'Alessandria delle conoscenze e dei misteri nascosti nei libri della sua insuperata biblioteca. Giasone, Tifis, Thule, Tile, una finisterrae sconosciuta, in attesa oltre l'Atlantico.349 Da che parte andare, in quale direzione orientarsi? Al Nord degli Iperborei, come comunemente si pensava, o all'Ade dei Cimmeri? Un Ade il cui significato è «tenebra», «oscurità» e pertanto «regione del tramonto»? Sulle coste messicane, di fronte all'Europa, ancora oggi un centro cultuale maya, proprio sul litorale, di fronte alle sconfinate pianure di un mare turchese, si chiama Tulùn, come Thule. Uno dei tanti siti dove gli indios erano in attesa, si tramanda, del ritorno del Dio bianco dalla barba dorata. Che sarebbe venuto a cavallo delle onde. Un cavaliere divino, che avrebbe segnato un tempo nuovo. Dalle due parti del globo i segnali convergevano e l'ultima delle terre non avrebbe fatto che annunciare l'ultimo dei tempi. Non aveva affermato Matteo, che Colombo trascrive, «Vi dico inoltre che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei cieli»?350 «Come se formasse», aggiunge il religioso Gregorio nelle sue omelie, «di due greggi uno solo, poiché congiunse nella sua fede il popolo dei giudei e dei gentili.»351 Sono a 360 gradi i movimenti e le peregrinazioni del marinaio Colombo, prima della fatidica data del 1492. Nella verifica delle letture e degli studi fatti, il navigatore va al Nord, fino in Irlanda e in Islanda. Quasi sicuramente in Groenlandia. «...Io navigai l'anno quattrocentosettantasette nel mese di febbraio, cento leghe oltre l'isola di Tile, la cui banda australe dista dall'equinoziale settantatré gradi e non sessantatré, come si vuole da alcuni, e non sta dentro la linea che include l'Occidente, come vuole Tolomeo, ma molto più a occidente. È a quest'isola, che è grande quanto l'Inghilterra, veleggiano gli inglesi con le loro merci e in specie quelli di Bristol e, quando io vi andai il mare non era ghiacciato, ancorché vi fossero maree grandissime, tanto che in alcuni luoghi il mare s'alzava di venticinque braccia due volte il giorno e ne scendeva di altrettante.»352 Già in quel viaggio, testimonia Colombo, la sfera monca di Tolomeo fu superata per raggiungere il mondo dell'altrove, situato «molto più a occidente». Erano coste dove si recavano regolarmente gli inglesi. Il «vanaglorioso» Colombo potrebbe nasconderlo per vantare un primato. Il navigatore invece non bara, sceglie la via della verità, raccoglie progressivamente tutti gli elementi di quanti, sulle vie incognite, si erano avventurati prima di lui, non trascura nessuno dei punti cardinali.
Va ad ovest, fino alle Canarie, che rappresentano il trampolino di lancio più inoltrato nell'Atlantico che la Spagna gli offre. Arriva al Sud nel cuore dell'Africa, fino alla Guinea delle miniere d'oro portoghesi. Va all'Est nell'isola di Chio, l'isola dei Cybo, ultima propaggine della Cristianità nel «corpo» dell'Islam. Le sue perlustrazioni sono meticolose, attente ai limiti estremi di una conoscenza da approfondire in prima persona, attraverso l'esperienza diretta, per quanto lo consenta la situazione geopolitica di quegli anni. Colombo studia i venti, le correnti, l'andamento delle maree, i cambiamenti d'ora, raccoglie documentazioni scritte e tradizioni orali. Osserva, confronta, somma, cataloga. Esamina tutte le prove giunte sui nostri lidi e offerte dal gioco delle correnti marine: frutti e piante ignote, imbarcazioni sconosciute, legni incisi da mani diverse, corpi di «alieni» trascinati sulle spiagge dai naufragi. La terra da raggiungere parla, manda messaggi, richiami. La modernità di Colombo è la sua capacità di non arrestarsi di fronte al «sentito dire», agli scritti, ai racconti di quanti lo hanno preceduto. In una incessante «cerca», come un paladino del Graal. Testi greci, testi romani, codici e carte ancora più remoti raccontano di lontane navigazioni, che da sole smentiscono un altro dogma. Cioè che gli antichi navigassero a vista, non allontanandosi dalle coste. Timori da moderno bollettino dei naviganti della domenica, non certo per uomini che ardevano dal desiderio della conquista e del superamento di quanto sembrava loro precluso. Per l'uomo che ha sete di conoscenza, non c'è sfida più sentita di quella in grado di cogliere il frutto proibito. Specie in epoche storiche così diverse dalla nostra, in cui il rischio della vita poteva essere equiparato in certi casi al sacrificio sacro, la morte ad un evento auspicato, nel ciclo dell'esistenza. Rimanendo un mistero da non confondere con il terrore. Tramutandosi, se mai, addirittura in un premio. Se si volesse fare un elenco degli antenati di Colombo non basterebbe un tomo. Per cui ci limiteremo a citare qualche esempio. Non senza avere preso atto che le ricerche più recenti, circa la presenza greca sulle coste dell'Iberia atlantica, riconducono spesso alla zona in Spagna, da dove partirà Colombo.353 Greci, Fenici, popoli del mare uniti nella curiosità che travalica le colonne d'Ercole. Presenti in insediamenti che sono il contrappunto storico alla zona nevralgica, con Huelva, Palos e Cadice, dei «voli» di Cristoforo. Un'area geografica predestinata? Un ricorso occasionale o una circostanza voluta? A spiegarlo può soccorrere la profezia, che Colombo teneva ben presente nei suoi scritti: «L'abate Gioacchino calabrese disse che doveva venire dalla Spagna colui che doveva riedificare il monte Sion».354 Il che potrebbe giustificare lo spostamento di Colombo dal Portogallo alla Spagna. In concomitanza con l'avvento, sul soglio di Pietro, del greco-genovese Innocenzo VIII. Nel circondario di Huelva c'era il convento francescano, alla cui porta un Colombo povero, lacero e stanco, in compagnia del figlioletto Diego, secondo la ricostruzione-fumetto della tradizione, avrebbe bussato in cerca di aiuto. Nelle mappe del tempo si legge di una «punta de Umbria» e di una «torre de Umbria». Si dice perché la zona fosse molto ombrosa. Sembrerebbe piuttosto il sigillo dell'enclave di una regione ombrosa e verde italiana in terra di Spagna. La regione di San Francesco,
il santo e l'ordine, che lasceranno un'impronta indelebile, fino alla morte, nel destino del navigatore. Il prima e il dopo diventavano, come abbiamo visto, coincidenti. Non nel senso che diamo noi alla parola coincidenza. Il moderno combaciava perfettamente con l'antico nella forma mentis rinascimentale. Dalla Spagna si erano aperte da sempre le vele verso il mondo dei morti. Dove ancora oggi i messicani fanno festa per la calavera (il teschio, ovvero la «vera cara», la faccia vera dell'aldilà). Per i teschi che si materializzano anche nei dolciumi e che ballano frenetici. Verso i quali Colombo salpa sulla «caravela-calavera», nel suggestivo gioco dei nomi, che velano e svelano l'irrivelabile. In un tempo in cui ogni nome, come ogni numero, si copriva di significati reconditi, nell'arte sapiente della Cabala. Ciò che appariva, con la partenza dalle Canarie, come un addio all'estremo Occidente conosciuto si identificava, strada facendo, con il rivelamento dell'estremo Occidente ancora ignoto. Che, a sua volta, nel giro del mondo completato, finiva per tornare ad essere l'Oriente. Dove fare nascere l'alba del giorno nuovo. In modo che l'alfa si ricongiungesse biblicamente con l'omega, come nell'Apocalisse di Giovanni. Come nelle parole di Colombo. L'ouroboros, il mitico serpente che avvolgeva l'orbe, avrebbe finito per mordersi la coda. Gli opposti si incontravano e si riconciliavano. In una Grande Opera perfetta. D'altronde quello della terra piatta resta un ulteriore enigma da scoprire. Così come quello della terra chiusa al Sud di Tolomeo. Come era stato possibile, visto che gli Egiziani ritenevano l'Africa circondata dal mare e i Greci pensavano ad un mondo nel quale l'oceano, come un immenso fiume, abbracciava la terra intera? Non lo aveva scritto Omero, non lo aveva scritto Erodoto355 parlando di una circumnavigazione all'austro da est ad ovest? Non lo avevano dimostrato i viaggi dei Fenici? Le carte parlano da tempo con un linguaggio dissonante dal coro. Nessuno pare voglia ascoltarle. Gli antichi, si continua a sostenere, non affrontavano il mare aperto. Nell'età di mezzo si credeva che la terra fosse una tavola, si ripete all'infinito. È corretto? «È solo in tempi recenti (diciamo meno di due secoli) che si inizia ad attribuire al Medioevo quella strana credenza... il pensiero laico ottocentesco, irritato dal fatto che la Chiesa non avesse accettato l'ipotesi eliocentrica, ha attribuito a tutto il pensiero cristiano (patristico e scolastico) l'idea che la terra fosse piatta. L'idea si è rafforzata nel corso della lotta sostenuta dai difensori dell'ipotesi darwiniana contro ogni forma di fondamentalismo.»356 A distanza di secoli, anche con i lumi e la ragione trionfanti, la terra, dunque, continuò ad essere deformata dalle guerre del pensiero, dagli scienziati «talebani». L'oscurità non sarebbe stata a senso unico ed operata soprattutto dai secoli cosiddetti bui. Così anche la Chiesa uscirebbe parzialmente assolta, nel grande equivoco della forma dell'orbe.357 «Come poteva ignorare», si domanda Umberto Eco, «la sfericità della Terra un'epoca che studiava le sfere armillari?» Una domanda banale, elementare. Che ci eravamo posta tante volte e che continuiamo a porci. La stessa che si ripresentava guardando le monete romane358 o pensando all'ombra che proiettavano le eclissi. Ma
soprattutto di fronte all'iconografia che attraversa i secoli: Padreterni, Cristi, Gesù bambini, Madonne, santi, imperatori, regnanti e signori. Spesso dipinti con una sfera nelle mani o sotto i piedi. Il disegno delle dita e della mano dimostra evidentemente che nel palmo, sempre in posizione concava, viene sorretta una sfera e non un disco piatto. Un dubbio che nemmeno si pone, quando si osservano le sculture. Si aggiunga inoltre la singolare discrepanza fra le carte nautiche e i mappamondi.359 Le carte nautiche erano quasi perfette. Riappaiono all'improvviso. A quali carte si ispiravano? Si complicavano, fino a confondere la realtà, anche per difendere l'ignoto, sui mappamondi? Per tutelare quali segreti?360 Resta il fatto che, nell'incultura e nell'analfabetizzazione sovrane, l'eventualità di un percorso all'austro, al Sud, dove il mondo si presentava rovesciato, qualche difficoltà poteva comportarla. Ma era un timore, frutto dell'ingenuità e dell'ignoranza. Che chi deteneva il potere della conoscenza, sia pure per approssimazione, non aveva e non poteva avere. Come era stata confezionata l'impostura? Forse per il semplice fatto che le terre erano rappresentate e sviluppate come su un piano? O per via del simbolo e della metafora, che era fra i linguaggi più diffusi? O come conseguenza di criteri di proiezione e di calcoli diversi, a noi ancora ignoti, circa la rappresentazione dell'orbe? Sulla rotondità della terra, difatti, paiono non sussistere dubbi. Le mappe, cosiddette a T, si inscrivevano nel cerchio: l'orbis terrarum componeva la TO: un Tau, una Trinità perfetta, l'unione di Europa, Africa ed Asia. Erano allo stesso tempo croce ed albero della vita. Proiezione del Tau della Gerusalemme terrena e dei francescani. Poi in due Mappae Mundi, dopo un lungo «sonno» durato circa cinquecento anni, ai tre soliti continenti se ne aggiunge all'estremo Ovest un quarto. Che ha la forma di una piccola mezzaluna.361 Nella carta, del 1086, custodita nella cattedrale di Burgo de Osma, sono condensati, in una raffigurazione alquanto rozza, molti degli elementi che faranno parte del bagaglio della scoperta dell'America. Il paradiso, l'evangelizzazione di tutte le terre, che precede il giudizio universale, Santiago matamoros nemico dell'Islam, i mostri dai grandi piedi messi a custodia dell'ignoto da affrontare, il quarto mondo. Che costituiva «un problema» per la fede. Colombo era convinto, e non poteva essere altrimenti, che il Nordamerica facesse parte delle Indie, che fosse una loro prosecuzione per via terrestre, disgiunta e lontana però dall'Asia conosciuta e che non aveva nulla a che vedere con la Cina. Una parte delle Indie in versione di Occidente estremo. Rimaneva l'ostacolo teologico rappresentato dal Sudamerica. Che il navigatore riteneva separato dal Nord per via di uno stretto che, sulla scorta delle antiche carte in suo possesso, pensava ancora esistente. Il quarto mondo sarebbe «comparso» solo dopo avere percorso quel tratto ipotetico di mare. Quando avrebbe raggiunto esattamente gli antipodi. Poiché l'austro africano e sudamericano si trovano più o meno sugli stessi paralleli, ovvio si pensasse che la calura del sole fosse, in eventuali regioni, uguale. E di conseguenza che i mostruosi abitanti di quelle terre caldissime, sciapodi e antipodi,
fossero simili. Si spiega, pertanto, la presenza di uno sciapode-antipode sulla mappa «eretica» di Osma. Posto a guardia di un quarto mondo abitato da una razza animale, in quanto non cristiana: esseri che non potevano rappresentare, per via della separazione dal resto dell'ecumene, i discendenti di Adamo, i figli di Dio. Per ammettere che anche loro possedevano un'anima ed erano umani molta dell'acqua dell'oceano e del sangue degli indios dovrà passare sotto i ponti. L'intero secolo XVI dibatterà ancora la questione. Peraltro le presunte «erronee» concezioni geografiche di Colombo sopravvivranno per molti decenni alla «scoperta». Non ne sarà immune nemmeno il glorificato Amerigo Vespucci. Che sarà lo strumento per dare un nome di comodo, che nasconda il ruolo di Colombo, all'America. Il problema dell'accettazione di un globo terrestre, non più espressione geografica della Trinità, sarà così dilaniante che la «novità» verrà a lungo rifiutata. Persino di fronte a quella che è oramai diventata una conclamata evidenza.362 Ci si rifugerà nel mito di Atlantide, il continente perduto, di terre conosciute da sempre.363 *** Emergono chiaramente le difficoltà e gli ostacoli, che impedirono di modernizzare rapidamente la geografia. Di come scattino, persino in buona fede, al cospetto del «nuovo» e a difesa del più rassicurante vecchio mondo, una serie di meccanismi più o meno inconsci, fino alla totale rimozione. È la riprova dell'impatto devastante che ebbero, fin dal primo momento, le teorie e i viaggi colombiani. Colombo aveva capito e sapeva; le antiche carte che possedeva, come quelle di Innocenzo VIII, erano le più veritiere. Agì da cristiano, nel migliore dei modi possibili, per non recare danno all'immagine e alle tradizioni della Chiesa. Altri furono quelli che non riuscirono a capire o che si rifiutarono di capire prima. Altri quelli che si ostinarono a non capire e a non fare capire neppure dopo. Pur di mischiare le carte e nascondere la verità. La geografia era labile, elastica, contraffatta. Interpretata e restituita secondo interessi di parte. Governata dalla parola della Chiesa. La scienza affiorante, quasi esclusivamente in mani ecclesiastiche, cercava di difendere la tradizione e di mantenersi fedele al disegno provvidenziale annunciato dalla profezia. Ma gli appetiti dei potenziali padroni della terra crescevano pericolosamente e proporzionalmente alle novità che si facevano avanti. Isole e terreferme apparivano e scomparivano. Si spostavano e si moltiplicavano, si sposteranno e si moltiplicheranno. Come Atlantide, Antilya, Cipango, l'Eldorado...364 La geografia era ondivagante, proprio come le onde dell'oceano. In un labirinto marino alla ricerca di un nuovo Nettuno, che gli ridesse un ordine, l'ordine perduto. È un Colombo-Nettuno quello che in Vaticano, nei corridoi delle carte geografiche, cavalca gli spazi dell'acqua riempiti con le terre nuove. Se gli antichi, i pagani, furono tra i primi, quanti furono i cristiani che precedettero Colombo? Si può cominciare dalla leggenda del monaco irlandese Santo Brandano che, guarda caso, inalberava sulle vele una croce rossa in campo bianco, la stessa
croce inalberata sulle vele di Colombo, con destinazione, guarda caso, la terra promessa. La rotta questa volta passa per il grande Nord. La spedizione ricerca una via non attraverso il mondo «perusto», ma attraverso il mondo congelato. Partiva da un'isola, cercava un'altra «isola».365 Il monaco impiegherà sette (numero apocalittico per eccellenza) anni per raggiungere la «terra occidentale». Affronterà peripezie e pericoli di ogni genere, sfiorerà montagne e torri di cristallo (gli iceberg) minacciose. In una rotta che dovrebbe toccare in sequenza l'Islanda e la Groenlandia. Per approdare infine sulle coste americane. All'altezza di Terranova (la terra nuova). In un tempo in cui le condizioni climatiche sarebbero state favorevoli, diverse da quelle odierne e pertanto le tempeste meno frequenti. Un uomo di Chiesa, un monaco dotto, un santo navigatore. La sua cronaca leggendaria è costellata di numeri ricorrenti. «L'autore medievale, inoltre, era spesso tentato di usare i numeri simbolicamente, forse tre per riferirsi alla Trinità, dodici agli apostoli e, naturalmente, quel vago e favorito 'quaranta giorni' per significare un lungo periodo di tempo, che si ripete spesso nella navigatio.»366 Mancano le prove, ma alle isole Faeroer si conserva il ricordo dei papars, come venivano chiamati i monaci irlandesi. Il paesaggio dell'Irlanda, ora aspro ora quieto, sempre di fronte al mare, induce alla meditazione. Stimola la rottura dei limiti di un orizzonte acquatico, che è spazio di libertà senza fine e prigione al tempo stesso. Un dedalo nel quale avventurarsi, in un gioco di luci e di contrasti, come nelle pedine degli scacchi, oltre il quale l'approdo mitico potrebbe nascondere identiche delizie, da qualunque parte dell'orbe si inizi la ricerca. Verso una meta verde come il giardino dell'Eden. Una terra di uomini santi e pii, in una «terra di ripromissione». Una volta compiuto il lungo viaggio San Brandano «torna dunque alla tua terra natia e riporta i frutti di questa terra e tante pietre preziose quante la barca ne può contenere... Quando molti secoli saranno trascorsi questa terra verrà rivelata ai tuoi successori in un tempo in cui i cristiani subiranno persecuzioni. Il fiume che vedete divide l'isola; così come appare a voi coperta di frutti, la terra rimarrà in eterno senza l'ombra della notte. Poiché la sua luce è Cristo».367 C'era una terra, una riserva edenica e terrena da rivelare. Profezia, leggenda, verità? Difficile stabilirlo. Ma se San Brandano ha lasciato traccia imperitura della sua impresa, poco o niente si sa di quanti lo hanno preceduto. Come un altro monaco irlandese, San Barrind, che si accompagnava con un abate dell'Irlanda occidentale dal nome Mernoc. Quest'ultimo andava e veniva da quelle terre lontane con regolarità. È la stessa navigatio a ricordarlo. Tragitti che si infittiscono di presenze, che hanno il sapore di missioni pastorali. Che aleggiano un'unica ispirazione religiosa. Ci si mette in mare al servizio di un Dio, che sarà misericordioso. Garantendo la salvazione in tutti i sensi. La meta è un nirvana lontano dai mali del mondo. Gli irlandesi prima, i vichinghi dopo. «Se è così allora l'Europa, dal X secolo in poi, era cosciente, a suo modo, dell'esistenza del Nuovo Mondo.»368 L'epopea di San Brandano attraversa un periodo, che oscilla fra il 489 e il 570-583 circa. In condizioni climatiche propizie. Che si ripeteranno fra il 900 e il 1200 e per l'epoca di Colombo.
Attorno alla data fatidica del Millennio, che segna approssimativamente l'introduzione definitiva del Cristianesimo nell'isola, in un conseguente periodo di pace e in una scadenza venata di implicazioni apocalittiche, non però così pressanti come verso la fine del Quattrocento, si collocano le esplorazioni dei norvegesi. Erano riparati in Islanda prima e in Groenlandia dopo. L'Islanda venne raggiunta dai cristiani, che non potevano più convivere con i popoli pagani. Fra i primi ad insediarvisi vi furono degli irlandesi. Quasi sicuramente seguaci di San Brandano. Al Nord come al Sud ogni passo in avanti è fatto in nome dell'avanzata della Cristianità. Dal monaco ai pionieri nordici il passo è breve. Il Mille segna l'avvento di Erik il Rosso, il grande capo conquistatore della Groenlandia. La saga di Erik e dei suoi congiunti si compie, esattamente come per San Brandano, lungo l'inospitale tragitto a ridosso del polo artico e dei suoi ghiacci senza fine. I vichinghi sono l'espressione di un popolo fiero e coraggioso, che aveva base nel Mare del Nord e nel Baltico. Che verso l’886 era giunto persino a Costantinopoli, alla fonte di molte carte. Che prendeva il mare su imbarcazioni snelle e leggere, che tramandava per via orale le imprese dei suoi Ulisse. Finché i racconti, che passavano di bocca in bocca, non trovarono, ma solo nel XIV secolo, versioni scritte, conservate ancora nella biblioteca di Copenaghen. In quelle lontane cronache islandesi si parla di Groenlandia, di Helluland (Labrador o Terranova), di Markland (Nuova Scozia) e di Vinland, si ripercorrono epopee familiari. Tre i testi superstiti: pergamene e manoscritti che materializzano personaggi vissuti nelle brume e nelle nebbie, non escluse quelle della storia. Erik, il capostipite, Bjarni, che ripercorse le sue orme, Leif il Fortunato, che comprò la sua nave e si avventurò fra le onde proprio nell'anno Mille.369 Anno di apocalisse, anno di rivelazione. È Leif a battezzare gli approdi, che incontrerà nel corso della navigazione. Fino a raggiungere, lasciato il grande gelo, una terra dove un clima più mite manteneva l'erba verde. Dove la durata del giorno non era così diversa da quella della notte. Dove i nativi vivevano in grotte e caverne. Raccontavano di un Paese molto vasto. Dove vivevano uomini dalle vesti e dalla pelle bianche. Sarà soprannominata la «Grande Irlanda». Vi crescevano la vite, l'uva e il grano selvatico: la chiamarono Vinland, terra verde, terra della vite. Strano che di fronte a tutto il ben di Dio che la terra mostrava agli occhi increduli dei suoi visitatori, ci si limiti a parlare di piante già note e per giunta selvatiche. Terra verde, grano ed uva, però, assumono un significato ed un senso profondo in chiave simbolica. La terra verde è il paradiso, il colore è quello della speranza. Il grano è il segno della rinascita e della Resurrezione, i chicchi della spiga, come quelli del melograno, sono le genti riunite nella fede. Il vino che si estrae dall'uva è il sangue di Cristo. Cristo è la vite, i tralicci sono i suoi apostoli. La vite è l'albero della croce e della Resurrezione (la morte e la vita). La vendemmia è l'annuncio del Giudizio universale e della fine dei tempi. Fu così che nell'anno 1000 Leif vendemmiò. Sulle orme di Leif si mise in seguito il fratello Thorvald. La saga continua: ebbe un primo conflitto con i nativi di quelle contrade, che si fecero loro incontro su tre (!) canoe. Trafitto da una freccia chiese ai suoi uomini di essere seppellito nella nuova
terra, dove avrebbe voluto prendere dimora: «Là mi seppellirete, mi metterete una croce alla testa e una ai piedi e darete a quel nome il nome Krossaness (Capo della Croce) per sempre!» È la prima croce piantata sul suolo americano? Per una terra che, anche al tempo di Colombo, verrà denominata «Terra della Santa Croce»? Alla ricerca del congiunto ucciso mosse il terzo fratello Thorstein. Prese con sé la moglie Gudrid. Ma anche lui morì e Gudrid riparò in Groenlandia. La donna non rimase vedova a lungo. Un giorno si presentò un uomo ricco e potente, discendente di un'illustre famiglia, il cui sangue aveva legami con quello di sovrani e famiglie di regnanti. Un uomo riverito e di prestigio. Si chiamava Thorfinn, soprannominato Karlsefni, un appellativo che implica una sorta di predestinazione. L'«unto» e il «crocesegnato» non poteva restare sordo ai richiami, che venivano dalle narrazioni islandesi, tramandate attorno al fuoco. E Gudrid non mancò di incitarlo a nuove avventure. Questa volta si trattò di una spedizione in piena regola. Coinvolse tutta la grande famiglia di Erik il Rosso. Tre (!) navi, centosessanta uomini: l'obiettivo era quello di colonizzare e quindi cristianizzare il mondo nuovo. Man mano che il viaggio si inoltrò nell'ignoto il clima si fece più temperato, il paesaggio più lussureggiante e boscoso. Si aprivano scorci da paradiso. Fino allo sbarco e all'incontro con i popoli delle canoe. Il primo approccio è amichevole. I vichinghi e gli indigeni fraternizzarono. Ne seguirono una serie di scambi. La preferenza di quelle genti era per la stoffa di colore rosso, per le perline di vetro, per lame e lance. Tutta la paccottiglia che si rimprovererà a Colombo di avere portato per «ingannare» gli indiani. Gli esploratori sbarcarono il loro bestiame. Gudrid diede alla luce un bambino. Il bambino nuovo era nato. Quasi come in una mangiatoia. Ma ben presto, al sopraggiungere dell'inverno, la situazione si complicò. Le relazioni si interruppero, mutarono. L'armonia si ruppe. E fu la guerra. Karlsefni, che sino a quel momento aveva mostrato uno scudo bianco in segno di pace, alzò lo scudo rosso. È l'inizio di una prolungata epopea. Costretti sulla strada del ritorno, i vichinghi credettero di avvistare la terra degli unipodi, le popolazioni che avevano un piede soltanto. La saga continua, ma gli elementi più importanti, ai fini della nostra ricerca, sono già tutti elencati. Mito e leggenda, fantasia e realtà, geografia e storia sono ancora una volta accomunati e mescolati. In maniera tale che non è affatto agevole riuscire a trarne un filo conduttore di verità. Restano, però, una serie di dati inoppugnabili, di riferimenti precisi. Fu la conversione al Cristianesimo, che rese possibile la trascrizione delle saghe nordiche, in un sincretismo pagano-cristiano, del patrimonio culturale nordico. Fra gli autori dei testi due uomini di chiesa dell'abazia benedettina di Thingeyrar, dove furono redatte anche le prime saghe dei re missionari. Gli originali furono manipolati.370 Da San Brandano ai vichinghi pare di vivere le prove generali o l'antefatto di quella che sarà l'avventura di Colombo. Sempre in nome della fede. Le scadenze, 500-1000-1500, contrassegnano prospettive da fine del mondo. A distanza di dieci e
cinque secoli molti particolari combaciano. Come se la regia delle navigatio si ripetesse sempre uguale. Cambia solo il percorso. Meta e finalità restano identiche. Terre edeniche e verdeggianti smisurate, ricolme di ogni ben di Dio. Preadamiti dall'unico piede, uomini delle canoe, uomini dalla pelle bianca, dalle vesti bianche (li incontreranno anche i marinai di Colombo), navigatori cristiani predestinati, propagatori della fede, spedizioni crociate, terre della croce, stoffe rosse, perline di vetro, lame... Una sequenza di avvenimenti da ricondurre al numero tre della Trinità: tre giorni, tre navi, tre bambini, tre terre visitate e così via. Il monaco San Brandano confluisce nelle saghe vichinghe, le saghe vichinghe portano a Colombo. La navigazione di San Brandano e le saghe non figurano fra le letture di Colombo? Eppure, lo abbiamo già visto, Colombo è andato in Irlanda. Potrebbe essere arrivato oltre. In Islanda e Groenlandia, quasi sicuramente in Nordamerica. Con chi? La storia del Nord e delle sue esplorazioni nell'«oltre», allo scadere del millennio, sono sempre più storia del Cristianesimo.371 Roma ne era perfettamente al corrente. Tanto più che Gudrid, la donna intrepida dei viaggi nel Vinland, venne nella Città Santa come pellegrina. Fu ricevuta da papa Benedetto VIII. Lei gli parlò della «terra verde», del mondo ancora sconosciuto. Una volta ritornata in patria trascorse gli ultimi anni della sua vita in un monastero.372 La Groenlandia, che si credeva facesse corpo unico con l'Europa, ebbe con papa Pasquale II, verso il 1100, un proprio vescovo eletto per le regionumque finitarum, nella persona di Eric Gnupson. I pellegrinaggi groenlandesi e islandesi giunsero fino a Roma.373 Nel 1448 Nicolò V eleggeva un vescovo groenlandese. Siamo ormai vicini alla partenza di Colombo: «Sul finire del 1400, i cristiani groenlandesi fecero giungere al papa Innocenzo VIII un'estrema petizione per la loro salvezza, minacciati com'erano dalla scarsezza dei mezzi di sussistenza, che rischiavano di far finire nel nulla l'ultimo lembo occidentale di civiltà cristiana».374 Gli anelli si congiungono. Si apprende inoltre «che, sebbene il papa Innocenzo VIII (1484-1492) avesse nominato un certo Mattia vescovo di Groenlandia, egli non aveva avuto notizie da lui e neppure sapeva se vi era andato... il resto è silenzio. Che cosa può essere avvenuto?»375 Il solito assordante silenzio. Tutto ciò che riguarda Innocenzo VIII è equivoco, lacunoso. Ma il suo interesse universalistico, ormai evidente, non trascurava il lontano Nord. Dove i cristiani soffrivano come in Egitto, come in Oriente. In attesa del riscatto. Lo strano silenzio pare interrompersi allorché «in un breve del 10 agosto 1492 (si noti la data), papa Alessandro VI lamenta il declino della fede in Groenlandia..,»376 Eccoci di fronte ad un singolare lapsus. Nel breve, difatti, si fa il nome dell'America prima del suo battesimo. Si fa inoltre riferimento ad un ulteriore viaggio precolombiano, da parte di quanti avevano deviato dalla «giusta fede e dal Cristianesimo». Diretti in un continente-America sempre più affollato prima dell'arrivo degli spagnoli. Ma l'aspetto più importante del documento non è tanto la notizia di questa ennesima spedizione, ma la sua data, che rappresenta un autentico rebus.
Il giorno dell'investitura a pontefice di Alessandro VI è il 26 agosto. Al 10 di agosto del 1492 il Borgia non è ancora nel pieno delle sue funzioni. Quel breve potrebbe essere stato copiato da un atto precedente, riguardante un altro Pietro, confezionate posteriormente e con la data cambiata come per altri documenti? Nell'ennesimo errore in cui sarebbero incorsi i falsificatori della «scoperta» dell'America. Nell'imperfetto delitto, nel naufragio della verità e della giustizia. Colombo è partito da pochi giorni, in concomitanza parrebbe già scattata l'operazione, che mira a cambiare e sovvertire i termini del viaggio alle Americhe, con una serie di prove contraffatte. Anche sul fronte del Nord, in definitiva, Colombo ed il suo pontefice si muovevano in perfetta sintonia. L'uno visitando di persona i possibili trampolini di lancio verso il nuovo mondo. L'altro tessendo la ragnatela dei collegamenti e degli appoggi possibili. Anche sul fronte del Nord si estenderà prontamente la longa manus dell'ingordo Borgia. Con i vichinghi tornano anche gli sciapodi, o meglio gli unipodi. Li abbiamo incontrati sulle carte «eretiche», che rappresentavano già un quarto mondo. Probabilmente riferendosi al solo Sudamerica. O ad un Vinland inteso generalmente come unico mondo incognito e pagano? «Accadde che una mattina Karlsefni e i suoi scorgessero una chiazza rossa che fiammeggiava verso di loro e levarono grida di meraviglia. Quella macchia si muoveva ed era un essere con un piede che si gettò verso quella riva, dove si trovavano.»377 Degli equipaggi islandesi facevano parte marinai provenienti da altre regioni, forse anche un italiano, scozzesi e inglesi in particolare. Da quei Paesi spiegheranno le vele altri presumibili pionieri «americani», in una lista quanto mai ampia, che abbraccia via via larga parte dell'Europa. Se non si trattava di pescatori di anime, si trattava di veri pescatori. Come i baschi, discendenti dei celti-iberi, ulteriori prescopritori. A guidarci sul tragitto verso l'America, in questo caso, è il merluzzo. Era uno degli alimenti base, visto che quasi la metà del calendario era contrassegnata dai giorni di magro, giorni di merluzzo salato. Di cui i baschi erano i fornitori, diventando sempre più ricchi. Lungo una rotta di cui mantenevano il segreto. Il merluzzo veniva da «una terra di là dal mare». «Il merluzzo assunse quasi a simbolo religioso, un mitologico crociato in favore dell'osservanza cristiana... Ma da dove veniva tutto quel merluzzo? I baschi, che non avevano mai parlato della sua provenienza, mantennero il segreto. Nel XV secolo, la riservatezza non fu più praticabile... i bretoni, che cercarono di seguire i baschi, cominciarono a parlare di una terra di là del mare.»378 Da ogni dove ci si inoltrava nel ginepraio dell'ignoto verso la stessa meta. È pensabile che nessuno sia stato mai in grado di raggiungerla? Da Bristol nel 1480 un facoltoso ufficiale di dogana, Thomas Croft, si mise in società con John Jay e fece salpare la sua prima nave alla ricerca di un'isola dal nome Hy-Brasil. Niente è rimasto di quelle spedizioni. I due «erano discreti come i baschi». Ma ne seguì un'incriminazione, poiché era illegale che un ufficiale inglese del dazio fosse coinvolto in un commercio con lo straniero. Si ritenne, infatti, che il merluzzo fosse stato comprato da qualche parte. Ma Croft fu assolto: affermò che il merluzzo
non era acquistato, ma proveniva da regioni al largo dell'Atlantico. La regione per eccellenza del prezioso pescato si rivelerà in seguito Terranova. Come se non bastasse, «con grande gioia della stampa britannica, è stata scoperta di recente una lettera. La lettera fu inviata a Cristoforo Colombo una decina d'anni dopo che a Bristol c'era stata la questione di Croft, e in un periodo in cui Colombo stava ricevendo molti onori per la sua scoperta dell'America. La lettera mandata dai mercanti di Bristol asseriva che Colombo sapeva benissimo che loro erano arrivati in America prima di lui». 379 Colombo lo sapeva tanto bene da scriverlo, lo abbiamo visto, come se fosse una verità lampante. C'è da rilevare che da Bristol partirà Giovanni Caboto per raggiungere Terranova e il Labrador. Purtroppo la lettera scoperta «con gioia» in Inghilterra pare avvalorare il solito tentativo di rivendicazione di un primato inesistente. Il solito compiacimento nell'avanzare il sospetto, che non si trattò per Colombo di vera gloria. Che tale, comunque, resta. Da qualsiasi punto di vista si voglia affrontare l'infinita partita. Il primato di chi ha scoperto l'America? Ininfluente. Colombo non fu il primo? Certo, fu l'ultimo, il definitivo. Colui che, con il suo imprimatur, pose la parola fine al secolare gioco di rifrazione per i miraggi del mare. Che fece di una conoscenza-non conoscenza un approdo. Dal quale si può fare cominciare la storia nuova dell'intero genere umano. Che proiettò terre fantomatiche lungo i sentieri futuri dell'umanità. A che serve essere primi se questo non comporta conseguenze per l'umanità? Come è avvenuto solo dopo il viaggio di Colombo. Togliere il velo su ciò che è coperto, d'altronde, equivale a scoprire. A rivelare. E nessuno può togliere a Colombo il ruolo di rivelatore delle Americhe. Per concludere il capitolo nordico, non si può dimenticare la base di La Rochelle. Era il porto mitico dell'ordine templare. Eterni indiziati, anche con spirito di parte, visto che per gli appassionati della Milizia gli «scopritori» esclusivi dovrebbero essere loro, fra gli ormai innumerevoli possibili precursori di Colombo. La Rochelle diventerà negli anni a seguire la base naturale per raggiungere i banchi di pesca del Nordamerica: «Delle 128 spedizioni di pesca sul mare di Terranova che ebbero luogo fra il primo viaggio di Caboto e il 1550, più della metà erano partite da La Rochelle».380 Il porto è situato in una posizione ideale per spedizioni dirette verso un'unica meta, l'America. Attraverso due rotte possibili, una verso il Nord, una verso il Sud. La Rochelle affaccia sull'Atlantico, è vicina all'isola di Aix. Dove «si rifugiò san Malo... Ebbene, si ipotizza che questo monaco-vescovo, celebre alla sua epoca, avesse accompagnato San Brandano nella navigatio».381 I conti tornano sempre. I Templari battevano oro ed in particolare argento in un periodo in cui in Europa i metalli preziosi scarseggiavano. Da dove venivano? Nel momento in cui contro di loro scattò in Francia la persecuzione del re Filippo il Bello, la loro flotta prese il largo e non fu più trovata. In un sigillo dell'ordine si legge «Secretum templi». Vi compare un uomo che sembra l'immagine di un amerindio: «Vestito con un semplice perizoma porta un copricapo di piume, come usano gli indigeni dell'America del Nord, del Messico e del Brasile, o almeno alcuni di loro, e
tiene nella mano destra un arco... a sinistra, sopra l'arco (compare), una svastica dai bracci ricurvi, la cui forma è esattamente quella che predominava in Scandinavia all'epoca dei vichinghi, e, a destra, alla stessa altezza un' 'odala' o runa di Odino».382 Questo viaggio nei viaggi, forzosamente approssimativo, si conclude con il principe Henry Sinclair, conte di Saint Clair delle Orcadi, il quale allestì una flotta di dodici (!) navi, con il denaro dei Templari, nel Nuovo Mondo. La spedizione, guidata dai veneziani fratelli Zeno, altri «scopritori» dell'America, vicini di casa, come vedremo, di Marco Polo ed originari di Padova (!), approdò nella Nuova Scozia. Esplorò la costa orientale degli odierni Stati Uniti, prima del 1400.383 Una carta di quelle terre sarebbe giunta a Venezia. Una serie di cartografi in epoca recente «sono giunti a provare in modo indiscutibile che la mappa di Zeno era corretta dopo aver compiuto una scoperta sorprendente. Un tempo vi era un gruppo di isole tra la Groenlandia e l'Islanda che oggi non esistono più».384 Nel 1394 inoltre, il vescovo destinato alle Orcadi, da papa Bonifacio IX Tomacelli Cybo(!), compì il viaggio su una nave dei Saint Clair.385 La catena ancora una volta si chiude. I Saint Clair avevano, a loro volta, forti legami con i vichinghi. Erano un clan che si era alleato con una società segreta. Che in Europa era stata dichiarata fuorilegge. Il fondatore dei Cavalieri del tempio, Ugo de Payens, pare che si sia unito in matrimonio alla famiglia normanna dei Saint Clair.386 I tasselli del «puzzle» combaciano. Fu in seguito il discendente William Saint Clair, cavaliere insignito del «Toson d'oro» (!),387 a costruire a pochi chilometri da Edimburgo un edificio singolare, i cui lavori si conclusero verso la metà del 1480. Sorse una chiesa che non è una chiesa ma un santuario «che tracima di simbolismo egizio, celtico, ebraico, templare e massone».388 Come una piccola Chartres trasferita su una verde collina scozzese. In un progetto ancora più ambizioso, arrestatosi a metà. Tra le tante sculture vi compare anzitempo la pianta del mais americano. I Saint Clair si dimostreranno sempre membri di una famiglia legata al cattolicesimo, al paganesimo, all'eresia, all'esoterismo, alla Massoneria e ai Rosacroce. Erano esperti nell'arte muraria e amanti della divinazione. La loro sapienza risaliva ai costruttori del Tempio, alla geometria sacra. Ancora una volta i fili si congiungono. Da San Brandano alle saghe, a metà fra il sogno e la realtà, che abbracciano cinque generazioni, che vanno dall'870 al 1030. Dai coraggiosi vichinghi ai misteriosi Templari molti particolari, riferiti alle stesse terre, molti intrecci, riferiti alle stesse persone si saldano. Mentre una certezza, tra visioni e fantasticherie, si rafforza. Il terminale di tutte le conoscenze era sempre Roma. A muoversi erano uomini che portavano la croce. Al loro ritorno ogni informazione giungeva alla Chiesa di Roma, che rimaneva unica depositaria nel tempo di quelle nozioni, di quei messaggi, di quei segreti. Al punto che quei protagonisti appaiono, alla luce di quanto avverrà dopo, le legittime avanguardie di un grande progetto. Quale era stato l'ordine dato dal re Olafr Tryaggvason a Leif in vista della sua esplorazione? «Io ritengo che questo (il viaggio, N.d.A.) debba avvenire e tu devi recarti là, con questo mio incarico, devi annunciare il
Cristianesimo», fino al tempo in cui apparirà il definitivo «Christo Ferens». Il come ed il quando lo stabiliranno Roma e il suo pontefice. Anche se le conseguenze gli sfuggiranno di mano. Sulla stessa lunghezza d'onda si è mossa una delle ultime ricerche di Thor Heyerdahl, l'antropologo norvegese scomparso nel 2002, e Per Lilliestrom, uno svedese esperto di cartografia. Anche per loro tutta l'esplorazione del continente, fino alla zona che darà vita all'odierna New York, avvenne con il benestare e gli auspici della Chiesa cattolica di Roma. Heyerdahl rileva il lapsus, già evidenziato, del vescovo islandese Gisli Oddson circa il rebus della parola «America» riferita al XIV secolo, mentre Lilliestrom aggiunge che in quell'America ante litteram, già frequentata, «la popolazione raggiunse un picco intorno al 1100. Sembra che circa 10.000 crociati norvegesi di ritorno dal Medio Oriente navigarono attraverso lo Stretto di Gibilterra quell'anno ma non risulta che vi fu ritorno in patria in Norvegia».389 A riprova della tesi si attribuisce totale veridicità alla controversa «Mappa del Vinland», conservata in America, all'università di Yale. Ennesimo «falso» per un'ortodossia che non vuole sentire ragioni, visto che in quella mappa si viene a sapere che nel 1117 il Vinland-America venne visitato da un legato apostolico, un Henricus già vescovo della Groenlandia e delle aree circostanti.390 «Evidentemente, all'epoca esisteva una congregazione a Vinland, in America, altrimenti il papa non avrebbe inviato un uomo con una posizione così elevata nella gerarchia ecclesiastica.»391 Un'America, dunque, scoperta e riscoperta non si sa più quante volte. Prescoperta, ricoperta e finalmente rivelata da Cristoforo Colombo. In un groviglio di interessi ora economici, ora sacri. In una sequenza senza fine di «scopritori». Li spingeva nella direzione dei quattro punti cardinali il sogno della ricchezza, dell'oro, ma, soprattutto, dell'avanzata evangelica. Nel senso di un ritorno al vero spirito del Vangelo. Molti nel lungo incastro, fra il vedo e non vedo, avrebbero potuto avere pretese e diritti da accampare. Ma i patti stretti tra la Spagna e il Vaticano distribuirono le ultime... «carte». E l'America apparve, anzi riapparve.
9 - Marco Polo e l’America-Cipango NON c'erano solo le carte geografiche. C'era anche un libro, anzi più di un libro, all'origine del progetto di Cristoforo Colombo. Soprattutto un vecchio libro, un libro antico. Un codice misterioso. Un'altra pista della verità. Lo si dichiarerà nei Pleitos colombinos, il lungo processo che i discendenti di Colombo avranno con la corte spagnola. Lo conferma ripetutamente l'ammiraglio turco Piri Reis. Un testo che risaliva a quale tempo? Veniva dalla biblioteca di Alessandria o era stato redatto in epoca anteriore? Carte che si perdono nelle nebbie della storia. Colombo leggeva, si
informava, prendeva appunti e annotava. Sono ben 2500 le sue note. Postillava con pazienza monacale e maniacale le pagine. Della sua biblioteca, delle fonti dei suoi sogni è rimasto ben poco. Abbastanza, tuttavia, per comprendere chi poteva effettivamente essere questo singolare uomo di mare. Soprattutto se si riflette che, ai suoi tempi, i testi avevano un costo molto alto (allora non esistevano i tascabili), la loro diffusione era estremamente circoscritta. Il che non si concilia con le possibilità e le inclinazioni di un modesto marinaio. La conoscenza era custodita dagli uomini di Chiesa. Si apriva non alle masse, con l'invenzione di Gutenberg, ma solo ai ricchi. Eppure il navigatore, a dispetto dell'ignoranza che gli si vuole attribuire, scriveva nel 1501: «Nostro Signore mi fece conoscere quanto bastava di astrologia (l'astronomia attuale, N.d.A.) e così di geometria e aritmetica nonché ingegno dell'anima e attitudine per disegnare le carte e in esse le città, i fiumi e le montagne tutti collocati al posto giusto. In questo tempo io posi cura nello studiare i libri di cosmografia, storia, cronaca e filosofia e di altre scienze». Un uomo dallo sguardo universale. Se si aggiunge, come lui stesso ci informa, che il suo sapere deriva da testi greci, latini, ebrei e di qualsiasi altra setta, è evidente che ci troviamo di fronte ad un profondo studioso. Tanto più che il giudizio su Colombo si basa sui suoi libri sopravvissuti. Il molto è sparito, cancellato.392 Si sorvola sul fatto che la gioventù di Colombo, la sua maturazione, la sua formazione sono un «buco nero». Mentre la frequentazione dei francescani, le cui biblioteche erano fra le più ricche e aggiornate circa i misteri delle terre poste ad Oriente, gli ha permesso di avere accesso alle loro fonti. Non si tiene conto che gli impacci linguistici di Colombo, la sua sintassi e la sua ortografia, che lascerebbero a desiderare, sono naturali in una persona senza più patria e senza più lingua. Il navigatore dalla sua parlata originale è passato presto al gergo cosmopolita della marineria, al portoghese e quindi al castigliano. Fra l'altro gli italianismi, che compaiono nei suoi scritti, erano in effetti dei maltismes,393 la lingua evidentemente delle isole greche, di quelli che allora erano i cavalieri di Rodi, oggi di Malta. Per una famiglia, i Cybo, che veniva dalla Grecia. La conoscenza del latino inoltre, la lingua sacra, era prerogativa degli uomini di Chiesa. La grafia di Colombo infine, così come quella del fratello, era quella tipica dei chierici. In un mondo prevalentemente analfabeta. Anche dagli inchiostri emerge, dunque, il fantasma di un monaco cavaliere. Nel magma di una stagione, che sconvolgeva e rimescolava la sapienza del mondo, Platone era un profeta risorgente. La sua Atlantide si confondeva con Antilya: l'approdo perduto nell'oceano dei secoli. Verso il quale il fisico fiorentino Paolo Dal Pozzo Toscanelli incitava Colombo ad andare, oltre le colonne d'Ercole, dopo avere sconfitto le tenebre dello smisurato continente liquido. Platone aveva parlato di Atlantide. Da millenni quel nome era entrato nell'immaginario dei sapienti. Ad individuare un primigenio paradiso terrestre, creato dall'uomo sulla terra. Una mitica Shangrila, un mitico Avalon, un mitico Walhalla, un mitico Eden... perduto e da riconquistare. Per Platone «anima» significa «forza vitale», «vento», «spirito»: «ciò
senza di cui non esistono gli esseri viventi». Per Platone «la fede» «significa essere presi da una cosa tanto che si assume fede nell'esistenza di essa».394 Come la fede nel «buscar» il Levante per la via di Ponente, come la fede nell'anima-spirito, che soffia negli «esseri viventi» di tutte le fedi. Idee-ideali che faranno parte del bagaglio intellettuale di Colombo. Come il mito di Atlantide.395 I Dialoghi, che riapparivano con il Rinascimento, dove viene menzionata Atlantide sono due: il Timeo e il Crizia. Nel primo si parla di un'età dell'oro, risalente a novemila anni prima, delle origini di Atene. Della sconfitta militare subita ad opera di un popolo lontano. Di una memoria perduta, in seguito ad una serie di spaventose calamità naturali, che cancellarono una primigenia civiltà. Siamo ai tempi del diluvio. Sono parole su cui l'umanità si arrovella da secoli. Platone ricorda: «...quanto grande fu quella potenza che la vostra città sconfisse, la quale invadeva tutta l'Europa e l'Asia nel contempo, procedendo da di fuori dell'Oceano Atlantico. Allora infatti quel mare era navigabile e davanti a quell'imboccatura che, come dite, voi chiamate colonne d'Ercole, aveva un'isola, e quest'isola era più grande della Libia e dell'Asia messe insieme: partendo da quella era possibile raggiungere le altre isole per coloro che allora compivano le traversate e dalle isole a tutto il continente opposto che si trovava intorno a quel vero mare... quell'altro mare invece puoi effettivamente chiamarlo mare e quella terra che interamente lo circonda puoi veramente e assai giustamente chiamarla continente. In quest'isola di Atlantide... Dopo che in seguito, però, avvennero terribili terremoti e diluvi, trascorsi un solo giorno e una sola notte tremendi, tutto il vostro esercito sprofondò insieme nella terra e allo stesso modo l'isola di Atlantide scomparve sprofondando nel mare: perciò anche adesso quella parte di mare è impraticabile e inesplorata, poiché lo impedisce l'enorme deposito di fango che vi è sul fondo formato dall'isola quando si adagiò sul fondale».396 Poche parole, un rebus millenario, un Oceano Atlantico «allora navigabile». Il tema è ripreso nel Crizia. Gli interlocutori sono gli stessi, identico il giorno tra il 410 e il 407 avanti Cristo. Il Dialogo è incompiuto: ha come argomento la genesi dello Stato modello e l'ipotesi di un'utopia politica. Sono le chimere del Rinascimento. Sono le chimere di Innocenzo VIII e di Colombo. Si ritorna a novemila anni prima, alla guerra fra popoli al di qua e al di là delle colonne d'Ercole: «A capo degli uni dunque, si diceva, era questa città, che sostenne la guerra per tutto il tempo, gli altri invece erano sotto il comando dei re dell'isola di Atlantide, la quale, come dicemmo, era a quel tempo più grande della Libia e dell'Asia, mentre adesso, sommersa da terremoti, è una melma insormontabile che impedisce il passo a coloro che navigano da qui per raggiungere il mare aperto, per cui il viaggio non va oltre».397 Tempo dell'oro, Stato utopico, società smarrite da rifondare. Il passato riemergeva dagli studi come dagli scavi. Ogni scoperta era il segno di un ciclo che si era concluso. Un altro se ne doveva aprire: nuovo ed antico allo stesso tempo. Il Rinascimento è il tentativo più concreto e convinto, operato dallo spirito dell'uomo, per una convergenza piena verso l'ideale. In una plenitudo universale. Ideale doveva essere lo Stato, ideale la città, come nella surreale e metafisica tempera su tavola di Luciano Laurana.398
Ideali gli incontri fra le genti, come nei capolavori ricorrenti della visita della regina di Saba al re Salomone. Era stata lei a veleggiare, come sarebbe risultato da un documento ebraico dell'Archivio papale, oltre il Mediterraneo nell'Oceano Atlantico? Era stata lei che a «novantacinque gradi ad occidente, attraverso un passaggio agevole» aveva trovato una terra chiamata Sypanso (Cipango, N.d.A.), che Pinzón, il marinaio spagnolo che guidava le caravelle con Colombo, avrebbe confuso con il Giappone, una terra «fertile e rigogliosa, la cui vastità superava quella dell'Africa e dell'Europa»?399 Ideale avrebbe dovuto essere l'uomo, il nuovo Adamo, come l'essere vitruviano di Leonardo. Una fusione aurea, come nei sogni alchemici. Per ottenere la sintesi ultima degli opposti, perseguita da menti che miravano alla resurrezione in terra. Da fare coincidere con quella nei cieli. Ma tutto si poteva anche inesorabilmente separare, dividere per sempre. Almeno fino ai nostri giorni. Come puntualmente è avvenuto. Platone scrive dell'oro, delle figure geometriche, del triangolo e del cubo in particolare. Non può essere assente nelle letture dei filosofi, che coltivò Colombo. Platone diceva che la malattia più grave di tutte è l'ignoranza. Morbo che Colombo, a differenza dei suoi denigratori in vita e di molti togati suoi critici in morte, non ebbe.400 Il navigatore legge e rilegge. Tenta di dare, nel suo pensiero, una forma più vicina possibile alla verità per un mondo deformato, come in uno specchio mendace. Diventato per molti una sfera piatta. La sua impresa avrebbe superato ogni visione di parte, ogni interpretazione geografica e conseguentemente politica, ideologica, teologica. Ciascuno enfatizzava sulle carte geografiche il proprio ruolo ed i propri possedimenti. Gerusalemme diventava così per il Cristianesimo «l'ombelico del mondo». Il centro del cerchio terrestre dal quale si dipartiva la luce. L'est veniva spesso collocato al posto del nostro nord, mentre nell'uso arabo il sud era in alto, in un rovesciamento completo rispetto ai nostri giorni. Gli errori dell'ignoranza si sommavano alle nozioni alterate, per approssimazione o per convenienza. La geografia colombiana azzererà ogni visione precedente. Carte, libri, codici, più che le persone fisiche adombrate nelle leggende e che si moltiplicheranno in funzione antie-ante-Colombo, sono i veri «piloti sconosciuti», che detteranno la rotta all'uomo chiamato a rivelarla. A cominciare da un testo che, come di consueto, affonda nel mistero e nel passato. A farci da guida nelle nozioni di Colombo è l'ammiraglio Piri Reis, il turco infedele,401 nella sua opera maggiore, il Kitab-i Bahriyye, «Il libro della marina». «Questa terra è chiamata Antille», scrive l'ammiraglio della mezzaluna. «Se sei pronto ad ascoltare come quelle isole furono scoperte. C'era un saggio uomo a Genova chiamato 'Kolòn'. Egli fu felice nel trovare un libro interessante che doveva risalire ad un'epoca precedente a quella di Alessandro Magno. Questo libro conteneva tutte le informazioni sui mari... e fu così che il saggio uomo navigò e scoprì queste isole aprendo la strada... Egli agì in sintonia con questo libro che rivelava l'esistenza delle Antille.»402 Oltre alle mappe ecco riapparire un codice precedente addirittura l'epoca di Alessandro Magno. L'esistenza delle Antille era stata confermata anche da Isidoro,
vescovo di Siviglia (560-636 d.C.), un dottore della Chiesa, le cui opere fecero da cerniera fra il mondo classico e quello medioevale. Isidoro favoriva la rinascita della cultura e delle lettere, accennava agli antipodi, rinnegando l'idea di un mondo fatto a T, come una croce. In cui i tre continenti rimandavano ai tre figli di Noè: Sem per l'Asia, Cam per l'Africa e Japhet per l'Europa. Quando non era concepibile, tanto meno ammissibile, una civiltà senza padri, indipendente da Abramo, Noè, Mosè. Nelle Etimologie di Isidoro si leggeva: «...dicono che ci sia un altro continente oltre i tre oggi conosciuti, oltre l'oceano, da nord a sud e laggiù il sole è molto caldo come in nessun altro nostro paese».403 Era il paradiso del contemporaneo Cosma Indicopleuste? La terra abitata prima del diluvio? L'Atlantide in parte scomparsa? Il libro «galeotto» di Colombo è ricordato ancora nella lunga didascalia, che accompagna la mappa del geografo musulmano: «Cadde cioè fra le mani di Colombo un libro in cui apprese che ai confini del Mare d'Occidente, cioè ad ovest, esistevano delle coste e delle isole e ogni genere di miniere e anche pietre preziose. Avendo letto da un capo all'altro quell'opera...»404 I particolari avvalorano una conoscenza precisa del continente nascosto. Che può essere ricondotta solo all'esperienza di precedenti esploratori. Rinsaldando la tesi che quelle terre non fanno parte di un'India già nota, dall'alto grado di civiltà, ma di un'India anche selvaggia e assente dalle mappe in circolazione. Si aggiunge, infatti, che gli abitanti di quelle lande apprezzavano molto le perline di vetro (sono le biglie che porterà Colombo per i suoi baratti), pronti a dare in cambio le loro perle. Che si trovavano sul litorale, ad appena due braccia di profondità. Le perle nell'immaginario medioevale erano la rugiada del cielo, ma anche il simbolo della gnosi, della conoscenza. Le porte della Gerusalemme celeste, che Colombo doveva rifondare in terra, erano fatte di perle.405 Terre di perle, di oro, di miniere, di pietre preziose. Ne parlava il libro antico, che Colombo aveva e che non c'è più. Ne scrive nel suo Milione Marco Polo (12541324). L'«identikit» di quelle terre indiane lontanissime, smisurate, ricchissime collimerà perfettamente con le aspettative di Colombo. Stesse descrizioni, stessi particolari. Eppure proprio il racconto di Marco Polo, che Colombo leggeva e commentava attentamente, avrebbe confuso le idee di Cristoforo Colombo, facendogli credere di avere raggiunto l'Asia. È possibile? Questa volta il libro, postillato da Colombo, anche se mutilato, esiste. Il veneziano aveva preceduto il navigatore, raggiungendo la Cina due secoli prima. Puntando verso Levante per la via di terra. In compagnia del padre Nicolò e dello zio Matteo. Per lasciare alla posterità, dalla prigionia di Genova, la sua narrazione con l'ausilio della penna di Rustichello da Pisa. Un autore noto, che aveva divulgato il ciclo bretone e la leggenda di Re Artù, probabilmente un cavaliere.406 L'origine veneziana di Marco richiama l'ininterrotto rapporto della città lagunare con l'Oriente, con la Costantinopoli «seconda Roma». Che un crociato aveva definito la città «che sopra ogni altra era sovrana». Con il suo Corno d'oro, con le sue porte d'oro, dove si favoleggiava che leoni d'oro facessero, con il loro ruggito, sollevare in volo uccelli d'oro. Laggiù, su quel mare dorato nel tramonto, nella località che i
cavalieri, che portavano la croce, avevano chiamato «il braccio di San Giorgio», i Polo possedevano, non lontano da quella dei concittadini Zeno(!), annoverati fra i tanti prescopritori16 dell'America, una casa. I cerchi si fanno concentrici e come sempre si saldano. Ancora vi risiedevano tra il 1260 ed il 1261.407 Costretti in seguito a fuggire, travolti dall'evolversi degli eventi, in una regione dell'Oriente che covava rancore verso la Chiesa di Roma, i Polo ripararono a Soldaia, non lontano da Caffa. Che avrebbe registrato negli anni a venire l'espansione di una ricca e fiorente colonia genovese. Un avamposto cristiano in un'area strategicamente ed economicamente importante. Verrà perduto, in seguito all'avanzata dei turchi, dopo la metà del Quattrocento. A Soldaia c'era un convento di frati francescani. Per quanto ci si sposti lungo l'arco degli anni, dei secoli, delle città, dei Paesi, dei continenti, i nomi dei luoghi, come quelli dei protagonisti, appaiono e scompaiono, ma mantengono qualcosa o qualcuno che li lega indissolubilmente fra loro. In quegli anni sul fronte della Galilea occidentale i mongoli venivano sconfitti dai mamelucchi, che già si erano impossessati dell'Egitto. I mamelucchi erano d'origine turca. Il pericolo comune e ricorrente per l'estremo Oriente come per l'Occidente. Marco Polo, un altro italiano, un altro viaggiatore, un altro mistero. Anche di lui si conosce molto poco. Le congetture superano la verità. Al punto che si è detto che potrebbe non essere mai esistito. Un nome che rimanda all'autore del secondo Vangelo, il santo della Serenissima, che fu il primo vescovo proprio della mitica Alessandria, con la sua biblioteca fonte del sapere. Dove fondò la prima chiesa cristiana. Fra i suoi attributi c'è, guarda caso, un libro. La tradizione lo chiama con il nome che porta ai nostri giorni, ma negli Atti degli apostoli è chiamato anche «Giovanni soprannominato Marco». Quanti richiami ai Giovanni nei meandri di una storia occultata! Polo, da nord a sud, fa riferimento ad una geografia ancora da completare, fra i due punti glaciali ed estremi del mondo. Nomi che sanno sempre di oracolo. Qualcuno ha ipotizzato che il veneziano non possa avere raggiunto la Cina, visto che non fa mai menzione della cerimonia del tè, della muraglia cinese, un'opera ciclopica, che non poteva passare inosservata. Coincidenze, suggestioni, supposizioni... Alcuni punti fermi, tuttavia, restano. È certo che anche i Polo hanno avuto come riferimento primario il pontefice, la Cristianità, Gerusalemme. Marco faceva parte di un'ambasceria inviata dal papa Gregorio X a Kubilay Khan. Portava con sé l'olio del Santo Sepolcro di Gerusalemme da offrire all'imperatore dell'Oriente. Nel corso delle sue peregrinazioni senza fine («dimorò in que' paesi bene trentasei anni», afferma la versione toscana del Milione), prima di inoltrarsi oltre i limiti del meraviglioso, soggiornò a San Giovanni d'Acri,408 l'avamposto dei cavalieri crociati, nel cuore dell'impero musulmano. Con la custodia dei Templari, che ne furono gli ultimi difensori, quella degli Ospitalieri e di altri cavalieri. Con la presenza costante dei francescani. Proprio ad Acri la spedizione subisce uno stop improvviso. In seguito alla morte del pontefice e alla conseguente vacanza sulla cattedra di Pietro. Sempre ad Acri il consiglio di attendere, prima di proseguire, è del legato pontificio, Tedaldo Visconti da Piacenza. Che diventerà di lì a poco papa Gregorio X. «Nel palazzo patriarcale di
Acri, i due (i Polo, N.d.A.), accompagnati da Marco, si prosternarono al bacio del piede del successore dell'Apostolo e ne ricevettero la benedizione. Il papa fece stracciare le lettere giustificative che aveva firmato da legato e ne dettò di tutt'altro tenore; tra l'altro, chiedeva a Kubilay di rinfocolare le buone intenzioni di Aboga (il khan di Persia, N.d.A.), di dargli disposizioni favorevoli ai cattolici, in pratica di incoraggiarlo nell'alleanza antimusulmana a difesa del regno d'Oltremare e a protezione del pellegrinaggio ai Luoghi Santi. All'olio delle lampade di Gerusalemme aggiunse 'molti splendidi doni, di cristallo e d'ogni genere'.»409 Le mosse di Marco Polo erano, dunque, guidate da Roma. Fra Piacenza, la città del pontefice, e Acri, la roccaforte dei cavalieri, la presenza templare fu particolarmente influente. Da Piacenza venivano i Pallestrello (Pallestrelli, Perestrello), la cui figlia, la nobile Felipa, sarà la prima e forse unica moglie di Cristoforo Colombo. In un matrimonio, dati i tempi, impossibile, vista la presunta diversa estrazione sociale fra i due. In un'unione che si spiega solo alla luce di una verità diversa da quella raccontata. Colombo conobbe Felipa frequentando l'ambiente dei Cavalieri di Cristo portoghesi, diretta emazione dell'ordine del Tempio, mai sparito in quelle regioni estreme affacciate sull'Atlantico, di fronte all'America. Roma non abbandonava mai, compatibilmente con gli alti e i bassi della storia, il pensiero dell'Outremer, dell'Oltremare, di Gerusalemme, del Santo Sepolcro. Pontefici, frati, alcuni fanno parte in un primo momento della missione dei Polo, ma si perderanno lungo la strada, ambasciatori, legati pontifici, uomini di Chiesa, accompagnatori e consiglieri sono la scorta sottesa della parabola di Marco Polo. È indubbio inoltre che Marco fosse molto vicino all'ordine dei domenicani.410 Sembra una storia, per chi insegue le orme di Colombo, già letta, già vista. Ancora da leggere, da vedere. In una serie di parallelismi rivelatori con il navigatore ed i suoi rapporti con Roma. Anche la spedizione di Marco Polo, infatti, assume spesso i connotati di una missione religiosa. In un cammino, a senso inverso, per terra e non per mare, rispetto a quello di Colombo. Molti degli scopi e dei presupposti sembrano identici. Identici quelli finanziari, identici quelli politici, identici quelli missionari-cristiani. Per un uomo, nel caso del veneziano, di «tipica formazione occidentale cristiana (non manca il caratteristico «animus» contro i musulmani), ma senza che ciò costituisca, questo è il fatto eccezionale, uno schermo alla comprensione del diverso, che quindi può essere raccontato con imparzialità e, quando ne sia il caso, con convinta ammirazione».411 Prima dei Polo erano stati almeno quattro, ma il numero potrebbe crescere considerevolmente, se si tenesse conto di molte altre relazioni di viaggio, le «spedizioni ufficiali» verso il Paese dei mongoli ad opera di uomini di fede: ora francescani, ora domenicani. In un tentativo di ricucire l'ecumene, che vide particolarmente impegnato Innocenzo IV, il genovese Fieschi. Il predecessore al quale si ispirò Innocenzo VIII Cybo. In un'unione spirituale, probabilmente anche di sangue. Nessuno dal tempo di Alessandro Magno si era spinto oltre il «nodo-labirinto» del condottiero macedone, messo come un cappio attorno alla conoscenza del mondo. Fra
l'interdetto gordiano ad Oriente e l'interdetto ad Occidente, alla finisterrae dell'Europa, con le colonne d'Ercole, l'ecumene era praticamente blindata. In un perfetto equilibrio del terrore. Mostri da tutte le parti: di mare quelli che pullulavano nell'Atlantico. Di terra quelli che scorrazzavano in Asia, con le genti bestiali di Gog e Magog. Guai a chi vi si avventurasse senza autorizzazioni. Ma se l'oceano era rimasto un tabù, anche perché meno accessibile, la spinta degli affari aveva reso frequentabili dal commercio la «via della seta» e la «via delle spezie». Le incursioni su quel fronte dell'esotico non erano prerogativa della Cristianità. Vedevano particolarmente attivo anche l'Islam, un mercante del quale precedette di ben quattro secoli i Polo. Seguito lungo lo stesso cammino da molti altri, come narra un letterato arabo, Abu Zeid. I commercianti si mettevano in viaggio spinti soprattutto dal miraggio economico. La Chiesa doveva espandere invece la parola di Cristo, in nome del dominio spirituale e universale e in nome della pace. Sulla via della pace per le genti diverse si narra che si avventurasse il francescano fra' Lorenzo del Portogallo. Non è certo che sia nemmeno partito. Chi giunse a Karacorum, la capitale dei tartari, fu il francescano umbro (!) Giovanni Pian del Carpine. Aveva svolto incarichi in Europa per conto dello stesso San Francesco. A bilanciare il proselitismo degli ordini mendicanti ancora Innocenzo IV Fieschi investì di un'analoga missione il domenicano Ascelino Lombardo da Cremona. Gli faceva compagnia Andrea di Logumel, protagonista poi di un'ulteriore ambasceria. Fu quindi la volta di Guglielmo di Rubruk, francescano fiammingo. Ma i Khan, a dispetto di alcune conversioni come nel caso di Toqtai, il Khan dell'Orda d'Oro, nei primi anni del 1300, non si piegavano alle richieste dei papi. Ascoltando talvolta contrariati le ambascerie di un «padre» lontano e sconosciuto, che chiedeva loro la sottomissione. Diverso il caso di Kubilay, anche per l'influenza esercitata dalle numerose principesse cristiane nestoriane. A cominciare dalla sposa o dalla madre del «Grande Cane», Sayorgatani Baigi, con la quale si incontrerà Marco. A conclusione del parziale quadro missionario nel 1294 giungerà in Cina fra' Giovanni Da Montecorvino, per conto di Nicolò IV. Chi era dunque Marco Polo? Tutto lascia pensare ad un inviato, ad un messaggero, ad un «agente segreto» di Roma. All'ennesimo dei «cavalieri mascherati»: «Ma che la fratellanza secreta a cui apparteneva Marco Polo fosse quella del Tempio parmi indubitabile... perché si sa che non appena fu liberato dal carcere, fece omaggio della prima copia del suo libro a Tebaldo da Cepoy Maestro Tempiario in onore e riverenza di Monsignor Carlo, figlio del Re di Francia e Conte di Valois e gliela diede in dono in agosto del 1307. Ma poi per un'altra ragione e più persuasiva, perché colui che vergò il Milione fu Rusticano da Pisa molto probabilmente inviato dall'ordine del Tempio a consolar Marco Polo in carcere».412 Ancora un cavaliere? O un monaco cavaliere? Nella miniatura di un codice londinese i Polo compaiono con un saio simile a quello dei francescani.413 Cristoforo Colombo, nei momenti della disperazione e della penitenza, come in quello della morte, indosserà il saio francescano. In un ordito che, attraverso i secoli, rivela un'unica tessitura. Che ha per filo comune la stoffa del saio e dell'eresia. Marco
Polo, come precursore di Colombo, ispirato all'«ideologia della comprensione fra i popoli»? Un personaggio la cui testimonianza «può essere in qualche modo ricollegata all' 'uomo nuovo' dell'Umanesimo e del Rinascimento»?414 Il Milione non era letto e febbrilmente compulsato solo da Colombo. Lo leggeva l'infante del Portogallo don Pedro. Lo leggevano il principe portoghese Enrico il Navigatore, con i suoi cavalieri del mare, eredi dei Templari, naturalmente proiettati nell'Atlantico, e il «fisico» fiorentino Paolo Dal Pozzo Toscanelli. Lo leggevano scienziati e navigatori. Cosa c'era di tanto interessante, di tanto nuovo, di tanto celato o svelato in quel testo? Al di là del fascino per l'esotico e per le mirabilia dell'Oriente? Avevano nelle loro mani un originale smarrito? In quale stesura lo conobbero, dato che la prima versione è andata perduta? La trascrizione più diffusa, che circolò in Europa, fu quella del domenicano bolognese fra' Francesco Pipino. Che «ha sistematicamente soppresso nella sua versione latina i passi che potevano suggerire qualche riflessione eretica, eterodossa favorevole alle sette cristiane o pagane dell'Asia».415 Si censurava la trasversalità ideologica, la tolleranza, che accomunava tutti i personaggi della nostra storia. Ma a questo punto sorge legittimo il dubbio che la narrazione di Marco potesse nascondere anche le eresie geografiche relative al mondo otro smarrito. Specie se si va a considerare con occhio più attento, nel testo divulgato fino ai nostri giorni, la breve descrizione di un Paese favoloso, il Cipango, il presunto Giappone. Una località che ha finito con il prendere il sopravvento su tutte le altre descrizioni, che pure abbondano di richiami affascinanti. Anche chi non ha mai letto (quanti lo hanno fatto?) il Milione ha qualche nozione relativa al Cipango, al Paese dai «tetti d'oro». Altri elementi della narrazione meriterebbero altrettanta, se non maggiore attenzione. Eppure non è così. Il che è già di per sé sorprendente. Perché tanta curiosità proprio attorno al Cipango?416 Cipango, tetti e statue d'oro, pietre preziose: l'Eldorado. Marco Polo e Cristoforo Colombo sono in perfetta sintonia. Stesse destinazioni, identiche fascinazioni. Ma corrisponde al vero la localizzazione di quei toponimi leggendari? Di quale Paese sta parlando Marco Polo? Il passo sembra confondere elementi, che vanno in qualche modo separati. Che non si possono ricondurre ad un unico comune denominatore. Le incongruenze sono tali e tante da fare trapelare l'annuncio di una terra che non ha nulla a che vedere con il Giappone.417 Si vorrebbe che Cipangu o Zipangu (ma le denominazioni sono anche altre, come Cinpangu, Xipangu, Sipangu... così come per alcuni si trattava addirittura di Antilya) sia la versione accettata del cinese Jin-pen-kuo. Il Giappone, al tempo di Colombo, era un arcipelago dalla cultura oltremodo sviluppata ed estremamente raffinata. Dove l'oro è presente in modiche quantità.. Il veneziano ha attraversato regioni incredibili, ha visto ricchezze e bellezze architettoniche di tutti i tipi. Perché il massimo dell'inverosimile e dello sbalorditivo dovrebbe trovarsi in Giappone? Perché il marchio del Paese dai tetti d'oro, che tanto scalpore susciterà e che tante ambizioni provocherà, dovrebbe riferirsi ad un'India asiatica? Improvvisamente diversa da tutta l'altra India? L'arcipelago giapponese, nelle carte del tempo di cui ci stiamo occupando, «non era presente ed era ignorato dall'antichità classica».418
Comparirà solo in epoca posteriore. «Spilliamo» ora attentamente il Milione.419 Ed ecco venirci incontro la famosa descrizione di Marco Polo riferita allo strabiliante e fantomatico Giappone: «Cipangu è un'isola a levante in pieno Oceano a millecinquecento miglia dalla terraferma (che non può essere la Cina, N.d.A.). È un'isola immensa (il Giappone non lo è, N.d.A.). Gli abitanti sono di pelle bianca (molti indios lo erano, N.d.A.) e hanno belle maniere (sembra di leggere Colombo quando incontra gli indios, N.d.A.): sono idolatri (così erano definiti gli indios, N.d.A.) e indipendenti, non riconoscono signoria all'infuori della propria. Hanno stragrande quantità d'oro perché l'oro si trova nel Cipangu in quantità eccezionale (in Giappone l'oro non c'era, N.d.A.)... hanno perle in abbondanza (l'America colombiana sarà uno scrigno naturale di perle, N.d.A.)... qui è consuetudine, quando si dà sepoltura, di mettere in bocca al morto una perla (usanze simili avevano gli indios, N.d.A.)».420 Le stranezze non fanno che moltiplicarsi, si accavallano. Il riferimento è sempre e inequivocabilmente al Cipango. Si parla di idolatri, di mangiatori di carne umana, di un oceano senza fine, di settemila isole, di uomini la cui vita «è un tale insieme di stravaganze e diavolerie...»421 Le distanze di questo mondo pauroso e favoloso, sia pure calcolando una percentuale di errore, sono tali da escludere qualsiasi rapporto con il Giappone. Siamo in pieno oceano, l'oceano più sconfinato, l'unico che meriti quel nome, come è appunto il Pacifico. Ci troviamo «in luoghi lontanissimi dall'India». Tanto lontani che «ci vuole un anno per arrivarvi». Si parte d'inverno e si torna in estate «perché ci sono venti di due sole specie, uno che li porta all'arcipelago e uno che li riporta indietro; e uno soffia d'estate e l'altro d'inverno». Venti oceanici, venti monsonici: non hanno nulla a che vedere con quelli che spirano fra le coste cinesi e giapponesi. Un anno di navigazione! Il Giappone è a un braccio di mare dall'Asia! Colombo, il cui fine ultimo, dopo l'America, doveva essere l'Asia cinese, al primo viaggio imbarcò vettovaglie, con le quali fare fronte ad un anno di spedizione. Occorreva un anno per andare dalla Cina al Cipango secondo le parole del Milione. Occorreva un anno per andare dal Cipango-America alla Cina per Cristoforo Colombo. L'antropofagia non era certo costume praticato dai fieri samurai. Sarà invece uno degli alibi per lo sterminio degli indios. Molte delle abitudini attribuite agli idolatri fanno parte del bagaglio della cultura di «selvaggi», che nulla hanno a che fare con i costumi dei giapponesi. Che non veneravano idoli, ma Buddha. La descrizione poliana forse non può essere applicata per intero a ciò che conosciamo degli usi dei nativi delle Americhe. Ma gli elementi più vistosi, a cominciare dalla eccezionale quantità di oro che vi si trova, dai palazzi, dai pavimenti, dalle sale e dalle finestre ricoperte d'oro, rimanda al mito dell'Eldorado. L'Eldorado indiano-americano. C'è un altro dato fondamentale, che porta ad escludere l'identificazione del Cipango con il Giappone. Laddove Marco Polo aggiunge che Kublai, «il Gran Khan che regna oggi» inviò «due baroni». Navigarono fino al Cipango, raggiunsero l'isola
per conquistarla. Scesero a terra, occuparono pianure e «casali», ma nessuna «città o castello». Quando un improvviso vento mise a rischio tutta la flotta. Fecero appena a tempo ad imbarcarsi, ma finirono per naufragare. Chi non annegò riparò a riva a nuoto, altri riuscirono a prendere salvi il largo con le imbarcazioni scampate all'uragano. Fu così che sull'isola restarono 30.000 (decisamente troppi) tartari, che si credevano perduti. Anche perché il signore del Cipango mosse verso di loro per farli prigionieri. La strategia di questo conflitto non consente di credere che esperti guerrieri medioevali, come i giapponesi, si sarebbero comportati con tanta ingenuità. A guardia delle navi sopraggiunte gli abitanti del Cipango, dopo averle conquistate, candidamente non lasciarono nessuno. I tartari, più scaltri, se ne accorsero ed iniziarono una fuga via terra, dove erano riparati, inseguiti dai nemici. Con un abile stratagemma riguadagnarono per primi gli scafi, con i quali, sottraendosi definitivamente agli avversari, raggiunsero un'isola più grande. Grazie alle insegne di cui erano riusciti ad impossessarsi, con l'inganno, riuscirono anche a farsi aprire le porte. A sorprendere la parte nemica e a conquistare una città, dove erano rimasti solo i vecchi e le donne. Si presero le più belle. Ma l'assedio successivo dei nativi, durato sette mesi, portò inevitabilmente alla sconfitta. Invano i tartari avevano cercato di mandare un messaggio al loro signore: «E quando videro che erano abbandonati si arresero col patto di avere salva la vita e si disposero a restare nell'isola per sempre». Correva l'anno 1281. Il Giappone non ha mai subito un'invasione cinese, ripetutamente tentata, mai riuscita. Nel 1281 i cinesi, dunque, erano giunti in America prima di Colombo. Sicuramente non era nemmeno la prima volta che si sarebbero accoppiati con le belle indie. Costumi e fisionomie, oltre al resto, parlano chiaramente di quegli incroci lontani. La breve relazione relativa al Cipango si conclude: «Adesso non parliamo più di queste contrade e di queste isole essendo troppo fuori dal nostro racconto ed anche perché non ci siamo stati». «Troppo fuori dal nostro racconto»! Rimangono spezzoni di cronache strabilianti, specie per come sono state interpretate. E conseguentemente ignorate. Ci sarebbe infine da tener conto delle censure, probabilmente delle interpolazioni. Tutto va considerato con un margine di alcatorietà. Ma siamo lontanissimi da ogni possibilità di identificazione con il Paese del Sol Levante. Il Giappone presunto delle mappe ha invece una forma simile ad Antilya e al limite all'odierno Messico, un'Antilya-Cipango posizionata nell'Atlantico. Collimando con l'Antilya-Cipango dell'altrove colombiano e con il mondo nuovo americano. L'equivoco si basa da sempre sul gioco delle tre carte, applicato alle carte geografiche. E su di una lettura ottenebrata da secoli di cecità. Il Cipango-Antilya poteva essere tanto un'isola quanto un continente. O una parte soltanto dello stesso continente. Anche successivamente alla «scoperta», l'America verrà disegnata pezzo dopo pezzo. Man mano che si andrà avanti nella verifica dell'estensione di quelle terre, man mano che la terraferma prenderà forma. AntilyaCipango non era un'isola, era già un lembo di America. Il frammento di un tutto di cui qualche lontano navigatore aveva avuto conoscenza.422 In un depistaggio dovuto alla stessa ambigua definizione di «isola».
Una conferma indiretta di una tradizione eternamente menzognera viene dagli scritti di un gesuita meticcio, Blas Valera. Che indicava le caravelle di Colombo con i nomi di Santa Maria, Santa Clara, Santa Giovanna (!). A quale viaggio potrebbero riferirsi? Dai documenti emersi di recente scaturisce una storia, ormai è una costante, completamente diversa della conquista del Perù. In una «vulgata» falsata dai domenicani spagnoli. Lo stato maggiore di Atahualpa, si racconta, fu sterminato con un vino avvelenato, preparato da un frate. Pizzarro lo avrebbe ucciso poi con le sue mani.423 Valera riuscì in qualche modo a tornare segretamente in Perù e a redigere l'opera Nueva cronica e buen Gobierno (1618). Una studiosa italiana, Laura Miccinelli, sulla scorta dei testi di altri due gesuiti e grazie alla lettura dei quipos incas, i nodi e le cordicelle, che costituivano il retaggio occulto di quelle civiltà, e di un codice segreto fatto di numeri arabi, ha potuto ricostruire uno scritto del 1532 in cui si parla dell'arrivo in America, dieci secoli prima, di tartari e di uomini bianchi dalla «barba d'oro» venuti dal Nord: «Incirca 10 sec. prima di quest'anno Domini un gruppo di... Saggi coraggiosi della grande Tartaria... incontrarono nel vasto Mare del sud, o sia Pacifico, numerose insule... Ivi si acconciarono con le popolazioni pacifiche delle Insule e, succedendosi le Generazioni, giunsero al Continente. Ivi, trovando le terre occupate da Popoli costruttori di grandi Piramidi, discesero... verso il Sud, ove si scontrarono con le bellicose genti delle coste, le quali deponevano le armi solo allorché dalle Alteterre scendevano Huomini... di incarnado bianco, chiome folte e il viso ricoverto di barba color dell'oro... Orbene si fatta gente bianca havea toccato il Continente all'incirca un secolo prima... ma perseguendo una via marina differente e vale a dire dall'altro Mare, Popoli del Nord».424 Ancora genti provenienti dall'Asia. Ancora popoli biondi e barbuti venuti dal Nord. Ulteriori approdi, mille anni e anche più, prima di Colombo: gli incas sarebbero il risultato di questi incroci. I quipos avevano custodito nel tempo la verità. Materializzando antichi esploratori, lontani navigatori perduti nel tempo. Anche per questo gli indios non potevano essere che indiani. Colombo non si sbagliava chiamandoli in quel modo. Dagli scritti perduti ai mappamondi. Come quello realizzato dal boemo Martin Behaim, in Portogallo. Dove era approdato Colombo, dopo un avventuroso naufragio, come la storia racconta. L'ammiraglio conobbe e si consultò con Behaim, che viene considerato uno dei suoi ispiratori. Il globo dello scienziato, datato 1492, è considerato il primo mappamondo sferico. Behaim era stato a Roma, nella caput mundi della Cristianità, dove aveva incontrato il geografo Paolo Dal Pozzo Toscanelli,425 lo scienziato che inciterà Colombo all'impresa. Era inoltre grande amico del cardinale Cusano, altra mente universalistica. La cerchia dei sapienti si allarga, la rete si stringe: Roma ed alcuni nomi continuano ad essere presenti. Nell'originale del Behaim, conservato a Norimberga, il Cipango è situato nell'Oceano Atlantico, a metà strada fra le Azzorre e il continente asiatico, in una posizione quasi perfettamente intermedia. Se in quel tipo di rappresentazione 426 si cercasse di inserire le Americhe, come è stato fatto, 427 il Cipango di Behaim verrebbe
a coincidere, quasi completamente, con la posizione del Messico sul territorio americano. Ma in quel mappamondo c'è di più. Molto di più: una grande isola a Nord, facente parte di un vasto arcipelago, è chiamata Cathay. Non ha nulla a che vedere con la Cina, con il Catai di cui aveva parlato Marco Polo. Era il Cathay di Colombo? Altri brani di terra, di considerevole estensione, sono disseminati a nord e a sud del Cipango in quella intrigante rappresentazione sferica dell'ecumene. In un grande, sterminato arcipelago di terre conosciute singolarmente, che Colombo sapeva dovessero costituire un vero continente, come un «puzzle» da ricomporre in un unico disegno. Fatta salva la concezione ancestrale, prediluviana e mai abbandonata, di un istmo che Colombo era certo dividesse le future Americhe. In una supposizione errata e superata, ma in una certezza suggerita da conoscenze antiche e avallata dalle mappe e dai libri di Alessandria. Ipotesi? Non più di quanto non faccia spesso la ricerca, che dà per verità quelle che verità potrebbero non essere. Che impone senza un minimo di dubbio, a fronte di parole che ne fanno sorgere anche troppi, che Cipango sia la trascrizione cinese del nome Jik-pen-kuo. In un'ipotesi rifiutata anche da un grande geografo dei primi del Cinquecento. Si tratta dell'olandese Johannes Ruysch.428 Lo scienziato, sulla cui carta il Giappone non compare, scrive che «Marco Polo afferma che... c'è un'isola molto grande chiamata Cipango, i cui abitanti adorano idoli e sono governati da un re... La loro terra è ricca di oro e di ogni genere di pietre preziose. Ma per quanto le isole scoperte dagli spagnoli occupino questo spazio, noi non dobbiamo arrischiarci a localizzare qui quest'isola, essendo dell'opinione che quelli che gli spagnoli chiamano Spagnola (l'odierna Repubblica dominicana con Haiti, N.d.A.) è in realtà Cipango, poiché le cose che sono descritte come caratteristiche di quest'ultima sono state rilevate anche a Spagnola in aggiunta all'idolatria».429 L'America, dunque, c'era. Era nei libri, era sulle carte. Non la si è voluta riconoscere, perché il «dogma» afferma e vorrebbe continuare ad affermare che prima del 1492 non era minimamente conosciuta all'Occidente e al mondo intero! Un precursore, Marco Polo, che reca una lampada con l'olio del Santo Sepolcro di Gerusalemme e cerca un'alleanza con i tartari per combattere l'Islam. Un portatore di croci e di Cristo, Cristoforo Colombo, che vuole raggiungere isole e terreferme per spiegare poi le vele verso l'Asia, per stringere un antico patto di alleanza rimasto sospeso e dirigersi infine con il suo esercito, messo in piedi dall'oro, alla riconquista del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Due personaggi che, a distanza di secoli, sono, sia pure in maniera differente, i protagonisti di un unico, organico disegno. Che fa capo alla Chiesa di Roma. Una staffetta, all'ombra di missionari e di ordini cavallereschi, in una visione idealistica, in vista di un progetto mai accantonato. Due esploratori diversi da tutti gli altri esploratori. Alla ricerca di un «Gran Cane» che, con la fama della sua potenza e della sua generosità e con le sue pretese alla «monarchia universale», aveva suscitato un grande interesse ed esercitato un immenso fascino. «Ben presto era divenuto una figura allegorica, una sorta di metafora politico-escatologica.»430
Cosa aveva detto Kubilay Khan e cosa aveva mandato a dire tramite l'ambasciatore veneziano? «Dimandogli del papa e della chiesa di Roma e di tutti i fatti e stati di cristiani...» chiedeva al pontefice di inviargli un gran numero di sacerdoti («anche cento savi della legge cristiana»), per «mostrare chiaramente agli idolatri ed alle altre specie di credenti che la loro legge non era d'ispirazione divina, ma di tutt' altra natura, che cioè tutti gli idoli da loro tenuti a casa e da loro adorati erano cosa diabolica; degli uomini, insomma, capaci di mostrar chiaramente, per forza di ragione, che la legge cristiana era superiore alla loro... ed io mi battezzerò. Quand'io sarò battezzato tutti i miei baroni e signori si battezzeranno essi pure; e dopo di loro terranno il battesimo i loro sudditi. E così ci saranno più cristiani qui che non nei vostri paesi».431 Il battesimo da portare per la salvezza del mondo, come faceva Colombo. La plenitudo delle genti realizzata. La buona novella diffusa in tutti gli angoli della sfera. La rivelazione-apocalisse a portata dell'uomo terreno. Per ricongiungerlo al mondo celeste. Sono frasi, concetti, messaggi che non si possono affidare ad un mercante o ad un marinaio, specie in un tempo in cui il ruolo pubblico e i ranghi sociali erano categoricamente rispettati. Chi era veramente Marco Polo? Anche lui traspare, a volte, come un cavaliere fantasma. Un laico solo all'apparenza, come Colombo, investito di una grande missione. Cosa c'era scritto, oltre a quello che conosciamo, nel suo libro andato perduto? Che è perseguitato, nella successione delle mirabilia e delle testimonianze, da una fama, che ha sottolineato soprattutto l'aspetto dell'iperbolica esagerazione medioevale? Il che ha fatto sì che tutto il Milione sia passato alla storia come una inattendibile «fanfaronata». In una rilettura puramente letterale. Quando il segno e il simbolo erano una delle chiavi di interpretazioni del meraviglioso. In contrasto con il prestigio di un testo che quanti erano interessati alle esplorazioni studiavano con attenzione. Come una Bibbia geografica, moderna e rivelatrice, per quanto riguardava il lontano Oriente e le terre incognite. La distanza temporale, che intercorre fra la spedizione di Marco Polo e quella di Colombo, è molto lunga. Ma questo è un tipo di considerazione che deriva dal nostro modo di pensare. Allora lo scorrere degli anni e dei secoli fluivano in una sorta di stagnazione aliena dal cambiamento. In un corso delle idee che subiva una decelerazione dovuta anche alle molteplici forze poste ad ostacolo del progresso. I parametri non erano quelli attuali. L'unità di misura mentale dei viaggi, come delle distanze, non era quella dei nostri giorni. Colombo dice che dalla Spagna la terraferma si poteva raggiungere in pochi giorni. Aveva ragione. Un mese, per traversate come la sua, equivalevano ad un niente. Basti pensare alla durata dello stesso «pellegrinaggio» di Marco Polo. Un anno a noi può sembrare un'enormità, allora era un'inezia. Fretta ed accelerazione dei movimenti sono un fenomeno tipico della modernità. Il Rinascimento era un ribollire di idee rivoluzionarie, soggette però ad un freno continuo. Si avverte ovunque una tensione fisiologica verso la mutazione, che esige riforme planetarie. Ma se il nuovo non si può più arrestare, in che modo e in che
tempi doveva avvenire la mutazione? Quanto tempo ci vorrà ancora per avere ragione di chi cercava di arginare le rivoluzioni epocali? Basta guardare all'evento-crac, derivato dalla «scoperta» di Colombo. Occorreranno decenni e secoli, perché il Mondo Nuovo venga metabolizzato. Nel tipo di mentalità allora imperante i duecento anni intercorrenti fra Polo e Colombo occupano il tempo di un sospiro. A legare indissolubilmente i due personaggi, al di là delle letture preferite dal navigatore, c'era la figura insostituibile del papa di Roma. Che disponeva, in varie forme, dai missionari, ai realizzatori del viaggiopellegrinaggio, agli scienziati e ai geografi di tutte le informazioni. E dei veri 007 del tempo. In un afflusso costante di notizie e di primizie, che non aveva corrispettivi in nessun altro potere temporale. A dispetto delle ambizioni universalistiche dei vari imperatori, saladini o khan. L'imperatore, il Saladino o il khan unico era solo a Roma. Il «Grande Cane» chiama. Quando Roma risponderà? Solo quando potrà: quando avrà la certezza di non fallire. La conflittualità dei tempi, le pestilenze, le carestie, le guerre, l'equilibrio precario del mondo sono fra i motivi continui del rinvio di un progetto forse già sulla rampa di lancio. O quanto meno di un problema e di un'«eresia» da affrontare e risolvere. Marco Polo lascia alla posterità il suo racconto, il domenicano Francesco Pipino lo rielabora, censurando passi che sembrano ancora pericolosi o una prima dichiarazione di intenti, accomunando gli interpreti di un disegno che non si perderà fino a Innocenzo VIII e Colombo. Cosa ancora aveva aggiunto Kubilay di così sconvolgente da essere cassato nella versione del monaco domenicano? «Sono quattro profeti che sono adorati, e ai quali fa reverenza tutto il mondo», avrebbe detto il Gran Khan ai Polo: i cristiani che adorano Gesù, i saraceni Maometto, i giudei Mosè, i Buddisti Buddha, «...e io faccio onor e reverenza a tutti quattro, cioè a quello ch'è il maggiore e più vero, e quello prego che mi aiuti.»432 Un'apertura mentale universalista, che verrà ridotta, in linea con il progredire della storia, alle tre religioni del libro, a una visione trinitaria, a tre soli grandi profeti. Quale «il maggiore e più vero»? È questo il grande tema che trascorre, in un unico fluire, senza fratture, fra Medioevo e Rinascimento. È questo l'interrogativo, che porterà a dare risposte anche sul piano della scienza. Che avanza ormai da tempo a rivendicare la sua presenzaesistenza. La scienza significa raziocinio. Fede e Chiesa, sotto qualsiasi latitudine, hanno (a volte a ragione) paura della ragione. Ci vuole poco perché la pura ratio, scarnificata del sacro, diventi una scheggia impazzita e incontrollabile. Accadrà. La fede, soprattutto lo spirito, ne saranno quasi soffocati. Kubilay incarnava il nuovo Alessandro il Macedone, che era fra i simboli ricorrenti dell'Alto Medioevo. Il nipote di Gengis Khan, dalla madre cristiana e sposato a una cristiana, apparteneva alla genia di quanti potrebbero «riunire tutta la terra e dominarla con leggi reali e giuste assicurando benessere pace buoni traffici e viaggi protetti sulle rotte ben vigilate...» Un leader ispirato dal sogno del buongoverno e di una fratellanza universale.433 Marco Polo e Colombo, un'unica staffetta, dovrebbero essere sensibili più ai richiami delle sirene materiali che a quelle dello spirito. Personaggi singolari
nell'analfabetismo imperante. «Illetterati» che dettano e scrivono moltissimo. Quello che ci resta, di quanto hanno messo o fatto mettere sulla carta, è il risultato di copie delle copie. Tutto può essere vero, tutto può essere falso. E molto falso potrebbe essere intervenuto posteriormente ad inquinare il vero. Per renderlo meno credibile. Senza contare i passi cancellati. Universalismi, fratellanze, utopie. Mercanti, marinai, trafficanti di oro e di pietre preziose. Guardano al diverso senza restarne scandalizzati, si occupano di religione, di evangelizzazione. Hanno porte spalancate presso tutti i re del mondo. Ma da Marco Polo434 a Cristoforo Colombo il filo sotteso di verità permane. Come una scia indelebile. Basta saperla o volerla guardare senza il paraocchi del pregiudizio. In un tandem materiale e spirituale, che avrebbe completato il periplo del mondo. In modo da fare combaciare l'alfa con l'omega. Non a caso il prologo poliano «Nel nome del Signore Nostro Gesù Cristo figlio del Dio vivo e vero, amen» era indirizzato 435 a «Seignors emperaor et rois, dux et marquois, cuens, chevaliers et b(o)rg(oi)s e toutes gens». Singolare compagnia per un mercante illetterato. Ambizione sfrenata, vanagloria, supponenza? O un messaggio neppure tanto cifrato per la lettura di chi poteva e doveva andare oltre le cose meravigliose che infiocchettano la narrazione? Si avvicinava il momento giusto, il momento dei giusti? Forse, ma i momenti giusti hanno bisogno di una serie di circostanze tanto fortuite quanto favorevoli. Al tempo di Marco non fu così.436 Bisognerà attendere più o meno la metà del Quattrocento, per riallacciare il filo spezzato. Per una nuova, lenta, ma inesorabile avanzata susseguente alla caduta di Costantinopoli nel 1453. Venuta a suonare la diana indilazionabile per l'Occidente. Vivere o morire? Oriente o Occidente? Dipenderà da chi raggiungerà «per primo» le coste e l'Eldorado dell'America-Antilya-Cipango. Dove i cinesi erano sbarcati da secoli. L'umanità sterminata delle «tre Indie» doveva essere ricondotta nella sfera cristiana e l'Islam fermato. Il tempo stabilito da Dio era ormai giunto a scadenza. Il regno divino non poteva aspettare. «Con l'epica crociata», rileva il medioevalista Franco Cardini, «ci si trova in una dimensione di pugna spiritualis, di psicomachia: da una parte i guerrieri cristiani, paladini della Luce alla testa dei quali marciano i santi cavalieri e gli angeli guerrieri - da San Giorgio a San Giacomo all'arcangelo Michele -, dalla parte opposta ecco schierarsi le falangi delle Tenebre, guerrieri mostruosi e demoniaci guidati da capi dai nomi d'inferno.» Lungo il cammino della Luce San Giorgio, San Giacomo uniti al santo gigante, San Cristoforo, avanti a tutti. Solo Roma conosceva l'otro mundo. Solo Roma, con le sue chiavi, poteva aprirne le porte. Solo Roma riteneva di avere il diritto-dovere di stabilire il come e il quando. In modo che il corpo cristiano non ne potesse soffrire. Le masse, il popolo dei credenti, come quello dei sudditi e ancora oggi dei cittadini, vanno preparati lentamente. Tutto ciò che muta il corso della storia ha bisogno di una incubazione progressiva, senza traumi. Quando la scintilla definitiva scocca, provocando il rogo di ciò che è già noto e rivelando l'ignoto, è come se l'uomo della strada ne fosse informato ormai da tempo. Maturo, assuefatto alla «rivelazione». In un avvenimento
che, per quanto incredibile, appare ormai scontato. In una sorta di liberazione auspicata ed attesa dal dubbio. Perché questo accada occorrono persone, che abbiano le qualità e lo spessore morale per portare a termine compiutamente e in completa segretezza l'esito positivo dell'innesto del non previsto, ma ormai prevedibile, nel previsto. Sono quelle che potremmo definire le rarissime «cavie generazionali». Marco Polo sembra una di queste. Cristoforo Colombo è una di queste.437
10 - La mappa dell'infedele Piri Reis CRISTOFORO Colombo «scoprì» l'America sicuramente prima del fatidico 1492. Vi si recò più di una volta? L'aveva già raggiunta per la rotta del Nord? Nelle Capitolazioni, gli accordi firmati con i reali di Spagna, in una serie di frasi dalle quali non traspare mai il minimo dubbio circa l'obiettivo da conseguire, si dice: «Las cosas suplicadas y que vuestras altezas dan e otorgan a don Cristóbal Colon en alguna satisfacción de lo que ha descubierto en las mares océanas y del viaye que agora con la ayuda de Dios ha de hacer...» Il verbo è al passato: «che ha scoperto»! Un'affermazione solo in apparenza gratuita. Un refuso, lo sventato sbaglio di un copista? Forse l'errore di «una mano amica»? O una semplice verità? Il preambolo apposto alla copia più antica di questo documento, redatto nel 1495 e considerato conforme all'originale, dichiara che esso contiene «le cose supplicate che le Vostre altezze danno e concedono a Don (è già citato come Don, titolo che gli competerebbe solo a scoperta avvenuta, N.d.A.) Cristóbal Colon per soddisfarlo in qualche modo per ciò che ha scoperto nei mari oceanici e per il viaggio che, con l'aiuto di Dio, egli è ora in procinto di compiere sui detti mari».438 Due verità o due «lapsus» (il «Don» e «ha descubierto») sui quali Freud potrebbe scrivere un trattato. Un atto nel quale una mano, consapevole o meno, non proprio avveduta o fedele alla corte, avrebbe lasciato una traccia? O steso in epoca posteriore alla «scoperta»? Ad uso e consumo degli interessi di Stato per camuffare altri patti sottoscritti in un primo momento? In una documentazione che ha conservato le «sviste» o semplicemente veritiera? Colombo nel 1492 avanzò nell'Atlantico, come su un'autostrada, per trovare esattamente quanto aveva annunciato. Come se avesse navigato da «casello a casello». Al punto che Isabella era costretta ad ammettere: «Tutto quello che ci diceste, fin dall'inizio, che si sarebbe potuto trovare, nella maggior parte tutto si è palesato con certezza come se voi lo aveste visto prima di descrivercelo».439 Lo stesso concetto esprimerà Bartolomeo de Las Casas (1474-1566). Colombo, scrive il sacerdote che fu fra i primi cronisti diretti delle Indie, parlava delle Americhe come se le avesse custodite nella sua cassaforte. Cosa occultava Colombo? Cosa ha occultato la storia?
Il navigatore, nel corso della prima spedizione, dimostrerà di conoscere il regime dei venti, delle correnti, l'andamento stagionale delle calme oceaniche, l'insidia delle barriere coralline... Era certo, come risulta dagli accordi sottoscritti, di raccogliere oro, argento, perle e gemme oltre alle spezie. Che, a quel tempo, avevano valore di moneta sonante. Il dubbio balenato fin dall'inizio, nel corso della ricerca, si è trasformato ormai in certezza. Ora la certezza si trasforma in prova documentale. Alla luce di studi mai portati fino all'estrema conseguenza. Rimasti per lungo tempo, tanto clamorosamente quanto silenziosamente, sotto gli occhi di tutti. La data del predescubrimiento è presente, in maniera inoppugnabile, in una carta del 1513, che costituisce un rebus per appassionati e studiosi. Dal momento in cui fu scoperta, nel 1929, dal direttore dei Musei nazionali turchi. Al punto da essere «rimossa» dalla ricerca accademica, per diventare campo di congetture tacciate come fantascientifiche. La carta è custodita fra i tanti gioielli del Topkapi, ad Istanbul. Dove non è agevole vederla o consultarla. Una gemma fra le gemme, che compare anche sulle banconote della Turchia.440 Si tratta della famosa opera cartografica dell'ammiraglio Piri Reis. Contemporaneo, anche se più giovane, di Colombo e del quale abbiamo già parlato. In quella mappa l'America «sconosciuta» è presente con lunghi tratti di costa ancora inesplorati. Vi compaiono regioni che sarebbero state trovate (o ritrovate) addirittura secoli dopo. Rappresenterebbero, secondo le ipotesi più azzardate, i litorali di un'Antartide, identificata nella terra della regina di Maud. Riprodotta in una fase preglaciale, completamente libera dai ghiacci. Un evento che va retrodatato ad almeno diecimila anni avanti Cristo. Un tempo lontanissimo, nel quale l'occhio della conoscenza avanza come a mosca cieca. Quando l'ultimo dei continenti scoperti e da scoprire, la data ufficiale è il 1818, si sarebbe trovato in una posizione diversa da quella attuale ed il suo clima era temperato. Prima dell'avvento dei ghiacciai eterni. Un'Antartide vista come se fosse stata ripresa «dall'alto», per via aerea. Tale da scatenare le interpretazioni degli ufologi e degli investigatori delle civiltà perdute. In un ulteriore enigma che, purtroppo, contribuisce a fare ombra sul documento. Rendendolo in qualche modo «inquinato». Secondo il parere di esperti russi le terre al Sud sarebbero le propaggini della Patagonia e della Terra del Fuoco. Anche quelle lande verranno ufficialmente individuate dalle esplorazioni a partire dal 1520. A quali fonti, a quali precedenti aveva potuto attingere Piri Reis? In quella bellissima carta colorata, giunta ai nostri giorni incompleta, costellata di disegni e di scritte preziose, in quel monumento di inchiostri, che conserva il sapore fantastico di una fiaba, figurano ampi spaccati di quella che sarà l'America dopo Colombo. Fino alle estremità del continente sudamericano. Vi figurano illustrazioni di lama e di altri animali ancora sconosciuti. I calcoli parrebbero effettuati in base al computo della sfera fatto dall'astronomo greco Eratostene, che era stato direttore della biblioteca di Alessandria (!). La longitudine sarebbe già rispettata con due secoli di anticipo. I contorni delle terre sarebbero sorprendenti nella loro precisione. Una mappa, in definitiva, assolutamente «impossibile».441 È il passato che riaffiora, solo nel secolo XX, nei meandri di tesori ereditati dall'antichità.
Una mappa di cui si parla molto, ma su cui la scienza ufficiale preferisce tacere: «Queste coste», scrive Piri Reis, in una delle lunghe didascalie, che accompagnano le illustrazioni, «si chiamano litorale di Antilya. Sono state scoperte nell'anno 890 (1485) dell'era araba. E si racconta che un infedele di Genova, chiamato Colombo (si badi bene, 'chiamato', non di nome Colombo, quasi fosse un soprannome, N.d.A.), ha scoperto queste contrade. Cadde, cioè, fra le mani di Colombo un libro in cui apprese che ai confini del Mare d'Occidente, cioè ad ovest, esistevano delle coste e delle isole, ogni genere di miniere e anche pietre preziose. Colombo era un grande astronomo (muneccim). I litorali e le coste che figurano su questa carta sono presi dalla carta di Colombo... nessuno nel secolo presente possiede una carta simile a questa, elaborata e disegnata dall'umile sottoscritto (tu fakir). La presente carta è il prodotto degli studi comparativi e deduttivi fatti su venti carte e mappamondi, fra cui una prima carta risalente all'epoca di Alessandro Magno comprendente tutta l'ecumene, tipo di carta che gli Arabi chiamano ca'feriyye... e infine una carta di Colombo elaborata per l'emisfero occidentale».442 Carte di Colombo, libri di Colombo. «Tutta l'ecumene.» Un «emisfero occidentale». Carte che sono un «unicum», tanto riservate quanto preziose. La vera storia della «scoperta» dell'America è nascosta in un millenario segreto, finito nelle mani del navigatore? Un mistero che poteva aver fatto parte dei bottini di guerra di qualche repubblica italiana, a cominciare da Venezia? È la stessa Venezia che, nei secoli del suo splendore marinaro, durante l'occupazione di Costantinopoli, nel corso della quarta crociata voluta da papa Innocenzo III, nei primi anni del XIII secolo, aveva potuto avere accesso a fonti analoghe a quelle di Piri Reis. Che sarebbero in precedenza state utilizzate dai fratelli veneti Zeno, Niccolò e Antonio, per raggiungere le coste della Groenlandia e dell'odierno Canada. In una scienza più avanzata di quanto si è portati a credere. Difatti una «carta veneziana del 1484 utilizza contemporaneamente il sistema dei portolani ed il sistema di orientamento medioevale, secondo i dodici venti. Anch'essa è di una precisione assolutamente inverosimile, se si tiene conto delle conoscenze dell'epoca».443 L'eventualità di informazioni derivate dalla «prescoperta» del Nordamerica da parte dei vichinghi, i quali a loro volta raggiunsero Costantinopoli, non sarebbero, infatti, sufficienti a dare una spiegazione delle nozioni in possesso del geografo turco. Mentre esiste «un'altra carta del mondo nota sotto il nome di carta di Gloreanus e conservata alla biblioteca di Bonn. Fino a prova contraria essa è datata 1510. Essa sarebbe dunque precedente a quella di Piri Reis. Questa carta fornisce non solo l'esatta configurazione della costa atlantica dell'America, dal Canada alla Terra del Fuoco, cosa già di per sé straordinaria, ma anche di tutta la costa del Pacifico, anch'essa da nord a sud».444 L'America c'era. Prima del 1492. Le carte parlano. Nessuno le ascolta. A dimostrazione di un'indagine tutt'altro che esaurita. I geografi rimangono ben lontani dal fornire risposte esaurienti. Carenti per di più di una visione organica e completa del materiale disponibile. Ogni Paese si limita a studiare soprattutto le proprie documentazioni. Senza contare quello che resta celato in archivi, biblioteche, castelli,
musei... Nelle insondate collezioni private. Senza contare l'enorme sequenza di prove sparite o fatte sparire. In un atteggiamento chiuso e rigido, che rifiuta ogni contraddittorio. Per cui nessuna «novità» è mai degna di essere presa in considerazione. Per cui qualsiasi «prescoperta», che le carte propongono, risulta automaticamente «inammissibile». Continuano, pertanto, a fare fede le date stabilite. E il fatidico 1492, per quanto sconfessato, viene vissuto come un «tabù». Mentre ogni tentativo di risalire all'indietro nel tempo finisce per poggiare su presupposti inaccettabili. Perché non accettati nemmeno sul piano di una onesta verifica. Curioso modo di procedere. In una scienza orbata, che pare ispirarsi alle famose tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. L'opera più importante di Piri Reis è il Kitab-i Bahriyye. Fu presentato a Solimano il Magnifico nel 1526-1527. Anche nell'introduzione in versi a quel libro «si trova un accenno a questa carta di Colombo...» Nonostante l'importanza, l'opera non è stata finora «né scientificamente edita né tradotta nella sua interezza». A riprova che la difesa d'ufficio della pretesa verità si basa soprattutto sulle omissioni. Mentre il prologo in poesia rinvia alla volontà espressa da Colombo, e mai potuta attuare, di scrivere a sua volta in versi. *** Naturalmente di Piri Reis si conosce ben poco. Chi era questo oscuro personaggio più citato che studiato? Si trattava di una complessa personalità dalla vasta cultura umanistica e tecnica. Un universalista sul fronte dell'Islam. Una versione musulmana di Colombo. Anche lui era nepos, era nipote del grande corsaro Kemal Reis, 445 probabilmente un rinnegato, che si occupò dell'educazione del giovane, portandolo per mare con lui. Come forse era accaduto per Giovanni Battista Cybo e Colombo. L'ammiraglio turco era probabilmente di origine greca (!) e cristiana (!).446 In una scia di protagonisti dalle sfaccettature difficilmente classificabili. Vissuti sulla linea di confine tra le fedi e le civiltà. Parlava perfettamente italiano, spagnolo, latino, portoghese, greco: suggestive analogie con molte delle lingue conosciute da Colombo. Il quale poteva avere nozioni anche di arabo, visto che quando parlava delle canoe degli indiani, in data 13 ottobre 1492, usava il termine almadias. Il turco non era, a sua volta, un semplice uomo di mare. Aveva profonde nozioni di filosofia. Sosteneva che «l'elaborazione di una carta geografica (che Colombo e il fratello Bartolomeo disegnavano, N.d.A.) richiedeva profonda cultura e indiscutibile preparazione».447 Se Colombo non era l'uomo che la storia ha dipinto, non lo era nemmeno Piri Reis. Era un Sufi, un esponente della corrente mistica dell'Islam più tollerante, avversata dall'Islam fondamentalista. Una forma di pensiero che trovava molti punti di contatto con il Cristianesimo. In vista di quell'unione delle genti che la fine del XV secolo auspicava ed inseguiva con tutte le sue forze. Dell'azione come del pensiero. Esaminando in dettaglio le parole del turco, ci si accorge che Piri Reis sottoscrive clamorosamente una «prescoperta» dell'America da parte di Colombo. In una
affermazione incredibile mai portata alla luce. L'anno 890 dell'egira corrisponde, difatti, al nostro 1485! Siamo nel pieno del pontificato di Innocenzo VIII.448 Lo sbarco in terra americana sarebbe avvenuto, dunque, con sette anni di anticipo rispetto alla data ufficiale dell'impresa. Il che spiegherebbe molte cose rimaste nel campo delle congetture. E farebbe piazza pulita dell'ennesima damnatio, sparsa a piene mani, che perseguita il navigatore: carte rubate, piloti sconosciuti, navigatori scippati, quello che non è riuscito a fare Colombo lo ha fatto Pinzón... Colombo non ha mai compreso dove si trovava... Calunnie, menzogne che in parte sono state confutate, ma che inspiegabilmente, quanto puntualmente, continuano a rafforzarsi. La nuova data rilancia la tesi di un leggendario predescubrimiento, da parte dello stesso Colombo. Di cui più di uno storico ha avanzato la possibilità, senza mai trovare prove consistenti. La «scoperta» dell'America, secondo Piri Reis, il cui lavoro sarebbe iniziato nel 1493, per essere concluso nel 1513, era già avvenuta. Il viaggio del 1492 non sarebbe che una replica, come quelli che seguiranno. I Capitolati spagnoli parlavano di isole e continenti da «scoprire, conquistare, acquistare». L'armada di Colombo si muoveva per la presa di possesso di terre incognite della cui esistenza si aveva ormai la certezza. Contemporaneamente erano state fornite al navigatore le lettere credenziali per i monarchi stranieri ed un passaporto che ufficializzasse il suo ruolo presso quelle teste coronate. Si stabilì, inoltre, che Colombo potesse prendere ogni decisione per quanto concerneva l'oro, l'argento, le perle, le spezie e le mercanzie, nemmeno il Gran Khan, o chi per lui, non aspettasse altro che di essere depredato impunemente dei propri beni naturali. Se si fosse diretto verso l'Asia di Marco Polo, Colombo non avrebbe mai potuto disporre di nulla. Di quali regioni stanno parlando Colombo, Isabella e Ferdinando? Ci si limita ad avanzare interrogativi. Nei documenti si parla sempre di «isole e terreferme» e mai di Indie, di Asia. La risposta è lapallissiana: le Indie di Colombo non sono mai state le Indie che vorrebbero lasciare intendere i suoi (consapevoli o meno) cronisti, non sono mai state l'Asia. Eppure l'equivoco o meglio, per restare in argomento, il castello di carte è riuscito a restare in piedi per cinquecento anni. Ci si limita, nel protrarsi dei fitti e infittiti misteri, a fare ulteriori domande che restano in sospeso. Come ha fatto Colombo, su una rotta mai percorsa, a indovinare l'andata come il ritorno, in un oceano sconosciuto? Le sue traversate fanno ancora testo per chi voglia affrontare oggi l'Atlantico a vela. Sono il vangelo dei solitari del mare. Colombo, nel 1492, procederà come su una pista già battuta. Taglierà le tenebre come il burro con la spada. Come fa a non sbagliare mai? Al punto che qualcuno, al suo tempo, lo definiva sciamano o stregone. Colombo, quando i marinai delle caravelle potrebbero prepararsi ad una sedizione, nel desiderio di tornare indietro, visto che il prolungarsi del viaggio nell'ignoto pare senza sbocchi, chiede e riesce a ottenere ancora fiducia dall'equipaggio. È il motivo del cambiamento di rotta ad ovest-sud-ovest. Il 6 ottobre Colombo era deciso ad andar prima alla «Terraferma», che sa non essere la Cina, quindi alle isole. Nel caso fosse andato diritto verso ponente, sarebbe sbarcato in quella che sarà la Florida. Il continente, che ha già
toccato verosimilmente nel 1485, forse prima, può attendere. Colombo ormai ha bisogno di un approdo. Le premesse ci sono: «L'aria dolce oltremodo, come ad aprile a Siviglia, e sì profumata che colma di delizia. Apparve l'erba fresca assai; molti uccelletti del campo, e ne presero uno, e andavan fuggendo a sudovest gracchie, anatre e un cormorano». Nell'inquietudine che sente crescere a bordo da giorni, visto che «a questo punto, la gente lo aveva in grande dispetto», nell'emergenza, per spezzare la tensione, sarà sufficiente l'approdo in un'isola. Il crociato e cavaliere, durante la navigazione, che si protrae da circa un mese, ha quotidianamente barato nel computo delle miglia marine percorse. In un espediente che non gli è nuovo. Che molti attribuiscono alla sua indole di doppiogiochista e mentitore. È solo l'ennesima conferma che lui conosce quanto gli altri non sanno. Il calcolo reale della navigazione è annotato nel segreto. Quello divulgato è largamente inferiore alla verità. Un modo per tranquillizzare la ciurma. Colombo non è un pazzo, ha solo la certezza dello sbarco. Si garantisce un margine di sicurezza, per non rischiare il fallimento dell'impresa. Conosce l'animo mutevole degli uomini, soprattutto quelli di mare. Sa come potrebbe diventare pericoloso il crescere della paura. Come mai i fratelli Pinzón, in particolare quel Martin Alonso, che per molti gli sarebbe superiore nell'arte navigatoria, non è capace di fare i suoi calcoli? E si lascia abbindolare e trasportare senza particolari opposizioni? Salvo poi dileguarsi quando fiuterà l'oro? Colombo era l'unico a sapere perfettamente dove e quando e in quali regioni sarebbe sbarcato. Ormai tutti i segni danno imminente la terra degli antipodi. Per sedare la tensione che cresce può essere sufficiente uno scoglio. La riottosità dei suoi uomini lo inducono a stringere i tempi. Tre giorni dopo avere rassicurato i marinai, con puntualità cronometrica, compare San Salvador, l'isola del Santo Salvatore: la terra promessa. L'avvistamento avviene nel buio, «alle due, passata la mezzanotte, apparve terra», di un venerdì. Un giorno che gli è particolarmente caro. È il suo giorno fatidico. Un venerdì d'agosto lo avevo visto salpare. Colombo, per non correre rischi, conoscendo le insidie di quei mari, le infide barriere coralline, ordina che si attenda, per lo sbarco, la mattina. Nella bruma dell'alba il «miracolo» è compiuto. L'apparizione è completata. Nel venerdì di un 12 ottobre del 1307 Filippo il Bello aveva fatto scattare, nel pontificato di Clemente V, lo sterminio dell'ordine dei Templari. Strane coincidenze, strani ricorsi storici. I tre primi giorni sul suolo americano sono un venerdì, un sabato, una domenica. Una trinità di esultanza per tutte le genti del mondo. Il venerdì è la festa dei musulmani, il sabato degli ebrei, la domenica dei cristiani. È Rodrigo De Triana a lanciare l'urlo tanto atteso: «Terra, Terra!» A lui dovrebbe andare il premio stabilito dai re di Spagna di una pensione di 10.000 maravedís. Un ulteriore particolare utilizzato per infamare Colombo. Lui l'ammiraglio e viceré di tutte le Indie, l'uomo che sarebbe diventato un nuovo El Dorado, se i reali di Spagna avessero rispettato i patti controfirmati, avrebbe sottratto e fatto suo il premio, che sarebbe spettato all'umile marinaio.449 L'ennesima probabile menzogna.
Colombo, nella notte precedente lo sbarco, scrive, però, di avere intravisto una luce. Una fiammella nell'oscurità. Come di una candela, dice, che appare e scompare. Un fuoco, un abbaglio o il simbolo di qualcosa che finalmente rischiara le tenebre dell'oceano? Nel buio dell'ignoranza? Una lanterna di Diogene, che si accende in cerca dell'uomo nuovo? Da «forgiare» nel crogiuolo della terra immacolata? La candela è «la luce divina che illumina l'oscurità del mondo; Cristo come luce del mondo».450 Dalla lanterna di Genova al lume del Nuovo Mondo il cammino di luce si è compiuto. Le parole del suo ringraziamento alla vista del Mondo Nuovo parlano per lui: «Dio eterno onnipotente, Dio che con la forza creatrice del tuo Verbo hai generato il firmamento e il mare e la terra! Che il Tuo nome sia benedetto e glorificato ovunque! Che la Tua maestà e la Tua sovranità siano lodate di secolo in secolo, Tu che hai permesso che, tramite il più umile dei Tuoi schiavi, il Tuo sacro nome possa essere conosciuto e diffuso in «questa metà» finora nascosta del Tuo impero!»451 Colombo è appena sbarcato. Tutta la natura all'intorno richiama il paradiso. Ha appena poggiato il piede, fra mare e terra, sulla sabbia verginale. Eppure sa già di essere dall'«altra» parte, nella «metà» nascosta dell'orbe. La metà non occultata da sempre, ma «finora». La metà sulla quale il Christo Ferens è chiamato a togliere il velo. Il semplice fatto che per Colombo ci troviamo in un altro emisfero basterebbe da solo a dare, se non altro, il sospetto che non stia parlando delle Indie conosciute ma di una nuova ecumene. Che va ben oltre il mondo chiuso di Tolomeo e la Cina di Marco Polo. La visione medioevale del globo è una mela spaccata con precisione inquietante. Dall'oceano tenebroso alle lande incognite, la terra raffigurata è una perfetta semisfera. Quasi che l'opera di Tolomeo sia perfettamente dimezzata. Volutamente dimezzata? D'altronde non scrive Piri Reis, come abbiamo già visto, che è stato possibile assemblare il suo mondo con «una carta di Alessandro Magno comprendente tutta l'ecumene... e una carta di Colombo elaborata per l'emisfero occidentale?» Era la metà del mondo che mancava a Tolomeo. Sulla base di una summa geografica che frantuma gli orizzonti noti sino a quel tempo, in tutti e due i casi, si avvalora una conoscenza della metà della sfera rimasta «coperta». L'intreccio si fa più avvincente dal momento che il macedone, il quale tentò per primo nella storia l'unione fra Occidente ed Oriente, risulta il fondatore di Alessandria, che rappresentò per secoli il centro della cultura ellenistica e dei grandi misteri. Vi operarono Euclide ed Archimede, Aristarco di Samo e Apollonio Rodio, Origene e Clemente. In quel centro cosmopolita, che registrerà nel tempo la presenza di cristiani, ebrei e musulmani, religione ed ermetismo si amalgamavano. Fede e scienza si sovrapponevano. Là, sulle rive del Mediterraneo, nell'Africa grande madre dell'umanità, nacque la biblioteca da cui tutto comincia. Di quell'arca del sapere Eratostene (275-195 a.C..), che era in grado di misurare la circonferenza dell'orbe, era il direttore. In quella sede l'alessandrino Tolomeo, nel secondo secolo d.C., darà corpo all' Almagesto. Costringendo nel sistema geocentrico la visione della terra come dell'universo.
Bloccando per oltre mille anni il cammino dell'uomo. Ma di lui sappiamo ancora troppo poco. Singolare che non abbia preso nella dovuta considerazione le misurazioni di Eratostene. Tanto da lasciarci in eredità, a dispetto di quel calcolo, un mondo millimetricamente diviso in due. Al punto che spesso, nel corso di questa indagine, che vorrebbe, per quanto possibile, eludere l'azzardo, si riaffaccia un interrogativo: chi, come, dove, quando e perché è riuscito a fare scomparire le Americhe? E se questo accadde, strumentalizzando la sfera monca (o resa monca?) di Tolomeo, si trattò di una volontà, di un oscuramento cercato o di una conoscenza perduta per cause fortuite o per calcolo? Di un segreto che da temporaneo che poteva o doveva essere, per ragioni superiori o per un gioco del caso, si convertì in ultrasecolare? La «scoperta» di Colombo, l'inviato del pontefice di Roma, che aveva in Vaticano le carte di Alessandria, verrebbe, dunque, a ricomporre l'orbe terracqueo nella sua naturale integrità. Dal tempo o come al tempo degli antichi, in una riappropriazione della cultura pagana e degli spazi, in linea con l'universalismo che il Rinascimento proponeva ed inseguiva. Colombo, con il suo nome in cifra, era l'uomo predestinato, il prescelto per la realizzazione del grande disegno della sfera ritrovata. Avrebbe, d'altronde, l'ammiraglio potuto offrire coroncine di vetro, perline, specchietti, lame affilate, berretti rossi o altri oggetti di uso comune e scarso valore ai discendenti del Gran Khan? Doni del genere sarebbero stati presi per un affronto. E Colombo avrebbe rischiato la morte. Perché, inoltre, non c'è nessuna sorpresa o turbamento nel trovarsi di fronte al «diverso»? A indiani che non sono quelli che ci si sarebbe dovuti aspettare, qualora lo sbarco fosse avvenuto alle estremità delle Indie orientali già conosciute? Due solamente sono i motivi possibili: 1) Colombo è all'ennesimo viaggio 2) gli indios, i selvaggi, sono gli esseri umani che si aspettava di incontrare in un emisfero che la Cristianità ancora ignorava. Colombo ha letto Marco Polo, conosce il grado di civiltà e di cultura delle Indie asiatiche. Ora si trova al cospetto di popolazioni che ricordano i Guanci delle Canarie. Esattamente quanto si attendeva. Se le terre fossero le propaggini ultime del territorio di un «Gran Cane», di un Khan, come oserebbe prenderne possesso in nome delle corone di Spagna? Il fine ultimo della spedizione è quello di raggiungere, attraverso il periplo dell'orbe, dopo avere rivelato la testa di ponte del mondo nuovo, il cui oro è indispensabile per la crociata e alla Grande Opera, l'ultimo dei Prete Gianni o dei re dei tartari confinati nelle Indie orientali. Sono i mitici, ricorrenti sovrani disposti ad allearsi con la Cristianità per la sottomissione o per la sconfitta definitiva degli infedeli, da sorprendere sul fianco orientale. Se Colombo si trovasse in Cina o in Giappone, l'atteggiamento non potrebbe essere quello di un conquistatore, in un'area popolata da genti il cui aiuto dovrà garantire la vittoria della Cristianità. L'atteso ritorno a Gerusalemme. Le cerimonie di sbarco, con tanto di notaio, equivarrebbero ad una dichiarazione di guerra. Ci si può impossessare solo di quanto non si ritiene posseduto da altri. Purtroppo il possesso atavico della loro terra da parte degli indios non era riconosciuto. Almeno fino a quando non fossero entrati a far parte del gregge del Signore con il battesimo.
L'esproprio non è di Colombo, non è della sua conquista. È della prevalente forma mentis del tempo. Che si tramuterà, tuttavia, per l'avidità e la ferocia degli aspiranti hidalgos, in un genocidio. In un'azione per la quale, solo ai nostri tempi, un pontefice ha avuto il coraggio di chiedere perdono. Di quanti sbarcarono in quei lontani paradisi felici, raggiunti da un'improvvisa infelicità, Colombo resta tuttavia il migliore, anche nel senso più cristiano. Il documento di Piri Reis non ammette dubbi. Tanto più che viene da un famoso uomo di mare e da un grandissimo geografo, che militava ormai definitivamente in campo avverso. In quel fronte islamico con il quale l'Occidente cristiano, qualora fosse fallito ogni tentativo di conciliazione,452 si sarebbe dovuto battere per il dominio dell'ecumene. Il «turco», in riferimento a Colombo, viene citato anche come controprova della genovesità del navigatore che, per noi, nel dubbio ricorrente della nascita, resta comunque in larga parte di estrazione e formazione italiana. In un interrogativo che ci siamo posti spesso, ma che non ci interessa più di tanto. Ha partorito soprattutto una guerra di campanili. Colpevole di ulteriori veli sulla già troppo nebbiosa vicenda dell'ammiraglio. La testimonianza dell'ammiraglio musulmano rappresenta un rompicapo, che apre una serie di possibilità esplorative. Che si fa quanto mai intrigante laddove si viene a conoscenza che, in gioventù, Piri Reis visitò nel 1486, poco dopo quel 1485 del primo sbarco attribuito a Colombo, quindi in una conoscenza dell'avvenimento che si sarebbe potuta verificare «in diretta», le città costiere della Spagna. Proprio nel periodo in cui il futuro ammiraglio cristiano soggiornava in quei luoghi. Quando era ospite presso il monastero francescano della Rabida. Che era stato prima tempio pagano dedicato a Proserpina, poi chiesa cristiana e quindi mezquita, musulmana. Vi soggiornavano in preghiera i frati seguaci di Gioacchino da Fiore e di Raimondo Lullo. Prima di loro c'erano stati i Templari!453 Una roccaforte della condivisione. Un convento dove si viveva, attraverso il tempo, «uniti nella diversità». Forse in quel cenobio il «Sufi» ed il mistico cristiano si incontrarono. Per siglare un patto di sangue che la storia avrebbe frantumato. Piri Reis trasportò per sei anni, con lo zio Kemal Reis, musulmani spagnoli in Africa settentrionale, quando era un «corsaro indipendente». Non ancora ufficialmente al servizio dell'impero ottomano nel ruolo di ammiraglio. Era praticamente un «collega» di Colombo. In una fase in cui Occidente ed Oriente si combattevano e si confrontavano: aperti ad una soluzione non solo guerresca del secolare conflitto. Come un vero e proprio accordo, una sorta di resa patteggiata, dopo una serie di scontri, ma anche di trattative, siglò la fine della guerra degli spagnoli contro i mori e la resa di Granada, con Isabella e Ferdinando re, Innocenzo VIII papa. Nulla vieta di pensare, a questo punto, dato anche il singolare omaggio fatto all'«infedele» Colombo, da parte di un uomo espressione di un mondo che dovrebbe essere rivale, che i due cavalieri del mare possano avere aperto una trattativa. Fra «corsari» schierati in campo avverso, ma non necessariamente duellanti, in una visione che discendeva da una superiore etica cavalleresca, al punto che le parole
scritte da Piri Reis, più che quelle di un nemico acerrimo, sembrano quelle di un ammiratore. Persino di un amico. In linea con la componente «eretica» di Colombo (che fra le tante accuse e calunnie dovette fare fronte anche a quella, come ricorda lui stesso, di voler offrire il Nuovo Mondo ai mori) come del «suo» pontefice.454 In vista di una pace universale, che doveva necessariamente passare attraverso le correnti di un pensiero mistico risorgente sui due fronti. In un disegno che rientrava perfettamente nella mentalità di certi cavalieri crociati. Non solo cristiani. Specie nella Spagna che combatteva i mori, ma che era anche erede della mitica Sefarad. La Spagna fatta di una civile e armoniosa convivenza fra cristiani, ebrei e musulmani. In un precedente, in un modello al quale dovrebbe aspirare anche l'umanità dei nostri giorni, dilaniata fra Oriente e Occidente. In un sogno che allora non si era definitivamente perduto. Forse dilazionato e riemerso, dopo essere rimasto a covare sotto la cenere dei roghi. In attesa di un tempo migliore. In un sincretismo che anteponeva la «persuasione per amore» e la complicità delle parti. Sull'onda di una regia francescana e sulle orme del suo fondatore San Francesco. Che aveva cercato, andando di persona alla sua corte, di convertire il Saladino, «il drago» a capo degli infedeli. In un'ultima opportunità che, pur di adempiere al progetto, o se si vuole alla Grande Opera, non si sarebbe certo sottratta all'uso della croce come spada. Colombo ha tutte le «stimmate» del cavaliere, del crociato. Pronto alla guerra santa e giusta, una volta esauriti tutti i tentativi di conciliazione. Non a caso l'assistenza in Spagna gli venne dalle famiglie più nobili, come i duchi di Medinaceli e i duchi di Medina Sidonia. Disposti ad ospitare l’«umile straniero» per lungo tempo e pronti a finanziarne l'impresa. Medina 455 è la seconda città santa dopo la Mecca. Anche i cognomi dei due grandi cavalieri rimandano al mito della perduta Sefarad, la Spagna-faro delle tre religioni. Dove riemergeva la Cabala, per la quale «gli elementi della natura, l'uomo e le altre creature, sono testimonianze e riflessi dell'onnipresenza divina. L'uomo deve passare la vita a preparare la grande dipartita verso il giudizio finale, momento dell'estasi e del compimento dei tempi quando tutte le anime avranno raggiunto l'Infinito. Josef ha-Kohen di Soria... Abraham Abulafia di Tudela uno dei cabalisti più fecondi, i cui scritti erano fondati sulla meditazione della profezia (cosa che disgustava un po' i suoi contemporanei, i quali preferivano dottrine più 'facili'), erano tutti mistici e alcuni storici contemporanei li accostano ai Catari e ai mistici cristiani come Gioacchino da Fiore e Meister Eckhart».456 La profezia, il misticismo, la chiesa dei giusti, dei puri e dei perfetti faceva da collante fra le verità dei tre grandi libri della fede. Il misticismo dei due «capitani», il misticismo del cristiano ed il misticismo del musulmano, in questo ambiente, potrebbero avere trovato molti punti d'incontro. Anche Colombo, infatti, ha i requisiti del cabalista ed è profeta a sua volta. Ha scritto un Libro delle profezie, pressoché ignorato fino a qualche tempo fa. A lungo considerato un falso, poiché quel testo sembrava non potere rientrare nella camicia di Nesso in cui era costretto il personaggio del navigatore. Colombo è certamente un mistico. Una delle isole da lui battezzate porta il toponimo di «Cata».457
Quanti nomi carichi di echi suggestivi in questa storia piena di echi! Se Colombo pensa alla Cina, sa che la Cina-Catai era una terra continentale già presente nella semisfera di Tolomeo (non però in quella dizione) come nel Milione di Marco Polo. Sarebbe una grande regione dello sterminato continente cinese. La «Cata» di Colombo non è, dunque, il Catai già conosciuto. Per lui è un'«isola». È il Catai che abbiamo incontrato riprodotto sul mappamondo di Martin Beahim? Nel groviglio di toponimi e regioni che si confondono e si spostano per proteggere il segreto? O per generare confusione e avallare la grande mistificazione? O forse Colombo pensa addirittura ai Catari? Ai cristiani martirizzati, che si proclamarono «puri» e «perfetti»? Lui che ha letto testi «di qualsiasi setta»? Lui che, come i francescani, è un seguace attento e devoto di Gioacchino da Fiore, in attesa come lui della fine del tempo? La carta del Topkapi riporta con notevole fedeltà le coste delle Americhe. In un'estensione molto più ampia di quelle di «Antilya» (per qualcuno anti-India, ma anche Atlantide). Pure i turchi, dunque, erano in possesso delle coordinate giuste per la «scoperta». Anche il trono di Bisanzio era interessato ai mondi nuovi! Forse ad Istanbul progettavano uno sbarco. Chi avrebbe toccato le coste verginali per primo, portandovi le bandiere della propria fede? Piri Reis fa riferimento a circa 20-30 fra carte e documentazioni varie. Otto erano di Tolomeo, quattro portoghesi, una arabica, quella relativa alle nuove terre era la mappa di Colombo. Le mappe studiate ad Istanbul erano sicuramente le mappe da sempre custodite in Vaticano. Che la Cristianità preservava da tempo. Alle quali si erano aggiunte le carte affluite dalla presa prima, dalla caduta poi di Costantinopoli. Erano le mappe che si era precipitato a visionare Pinzón, sopraggiunto a Roma, nella primavera del 1492. Il marinaio spagnolo sarebbe venuto per vendere (la ricostruzione storica, in questo caso, sfiora il ridicolo) un carico di sardine. Ma attraverso canali forse segreti, che potrebbero fare capo a Rodrigo Borgia, si reca nella biblioteca del pontefice per visionare il percorso che dovrà compiere lungo l'oceano tenebroso. A meno che non sia stato lo stesso Innocenzo a consentire l'intrusione per convincere definitivamente Isabella. Pinzón, l'uomo di Ferdinando nell'ingarbugliata partita, consulterà così libri e mappamondi. Le fonti del segreto. E si persuaderà, si racconta, che l'impresa del loco straniero è possibile. Per poi fare di tutto per tradirlo e sottrargli ogni merito. Dal falò della mitica biblioteca alessandrina, qualche documentazione, qualche carta evidentemente si era salvata. Forse perché custodita anche in altri luoghi. Accade sempre in simili circostanze. Specie quando si tratta di nozioni da occultare, di conoscenze iniziatiche. Di segreti di Stato. O tali da sconvolgere le verità rivelate. Quei libri sopravvissuti, quelle mappe erano stati rinvenuti negli scavi compiuti dai cavalieri templari nel Tempio di Salomone? Riemersero attraverso le crociate? Giunsero in mani cristiane da Costantinopoli? O i rappresentanti della Chiesa ne erano a loro volta in possesso da sempre? Aspettando il tempo della rivelazione possibile? Il mondo era, dunque, già completo. Poi Tolomeo avrebbe ridotto drasticamente la circonferenza terrestre. Nell'errore che il Medioevo e il primo Rinascimento avrebbero perpetuato. Che Colombo, si
dice, avrebbe ereditato, a dispetto della sua ammirazione e fedeltà a Marino di Tiro. Del quale condivideva l'ipotesi oceanica, che conferiva all'orbe terracqueo un aspetto d'insularità, contro l'ipotesi continentale tolemaica. L'opera di Tolomeo, ancora una volta, non ci è giunta nella sua versione originale, ma trasmessa attraverso codici medioevali. A ennesima dimostrazione che la storia che si tramanda è sempre piena di buchi. In un sapere tarlato: «Non abbiamo sicuri elementi per sostenere che Tolomeo stesso eseguì le tavole né, quando pure volessimo attribuirle tutte all'autore della Geografia, siamo in grado di sapere in qual misura le carte contenute nei codici siano fedeli a quelle originali».458 Tanto più che «la prima versione completa dell'opera di Tolomeo si deve a Jacopo Angelo, il quale compì il suo lavoro alla curia romana, dove aveva trovato impiego di scrittore apostolico fino dal 1401. Jacopo finì la traduzione durante l'anno 1406 e in seguito la dedicò ad Alessandro V, che fu papa dal 1409 al 1410».459 L'ombra della Chiesa e la mano dei pontefici, dalla negazione degli antipodi alla «scoperta», è un filo costante di esclusiva dell'«oltre». Nel mondo dimezzato, dove la terra incognita era indicata anche a sud, l'estremo est si concludeva con una vasta regione «extra Gangem», che si perdeva nell'ignoto. Ed oltre ancora? Un punto interrogativo che restava sospeso sulla Cristianità. Per la quale non era possibile, sulla base dei sacri testi, l'esistenza dell'«oltre». Parlare di «oltre» equivaleva ad una bestemmia. A sfidare la stessa Chiesa. Ma a Colombo, proprio sulla scorta di quanto scrive il turco, è evidente che fosse nota, sia pure fra giustificabili errori, proprio la parte mai comparsa o sparita della terra. In una certezza che le frasi e la successione delle parole sottolineano: «I litorali e le coste che figurano su questa carta sono presi dalla carta di Colombo... Nessuno nel secolo presente possiede una carta simile a questa...»460 «I litorali e le coste» equivalgono alle «isole e terreferme» che Colombo prometteva. Si tratta di approdi sui quali la Spagna potrà piantare impunemente i suoi vessilli. La mappa, siamo oltre il 1500, contiene elementi inediti e strabilianti. La matrice «rivoluzionaria» è venuta dalle nozioni del cristiano. Si tratta di una carta unica, che rimanda ad un'epoca in cui la terra era «tutta», quando ad un emisfèro orientale, nell'armonia perduta da recuperare, se ne opponeva uno occidentale. Colombo era l'unico ad essere finalmente entrato in possesso dell'«altra faccia della luna». La testimonianza dell'«infedele» è incontrovertibile. Quale interesse può avere il turco a fare menzione e ad attribuire meriti al cristiano Colombo? A forza di pensare che la terra fosse piatta si finisce con il perdere persino il senso delle parole. Che sono là, scritte da cinquecento anni. Piri Reis parla inoltre di due caravelle. Quelle del primo viaggio furono tre. Il turco potrebbe fare riferimento ad un viaggio precedente. Anche per alcuni studiosi le caravelle del primo viaggio furono due. Mentre non c'è concordia nemmeno sui nomi delle imbarcazioni. A quale viaggio potrebbero riferirsi, visto che ce n'è stato uno, o più d'uno, rimasto occultato? Si aggiunge un ulteriore particolare sul quale altri cronisti concordano: che la proposta fu fatta «ai Grandi di Genova». I Cybo probabilmente tentarono di coinvolgere la città dalla quale dipendevano. Non riuscendovi aspettarono e si
adoperarono con i loro alleati per il momento migliore. L'ascesa al soglio di Pietro di Giovanni Battista. Che il navigatore non abbia mai compreso dove fosse giunto e che sia morto convinto di essere approdato in Asia, è la più grande delle infamie che continuano a colpire Colombo. Nella più colossale opera di disinformazione mai riuscita nella storia. L'ammiraglio cristiano aveva una visione del mondo che apparteneva ad epoche ancestrali. Quando Asia ed America combaciavano all'estremo nord, formando un'unica India sterminata. Quando uno stretto di mare divideva le due Americhe nella parte mediana, lungo l'odierno Centroamerica. Per questo Colombo, fino all'ultimo, quarto, disperato viaggio, sarà ossessionato dalla ricerca del passaggio per mare fra i due blocchi continentali americani. Un passaggio che lo proietti, attraverso ulteriori mesi di navigazione, verso l'Asia cinese. E di lì al monte Sion. Tutto evidentemente collimava alla perfezione con le carte degli antichi re del mare. C'è da aggiungere, a riprova che le concezioni di Colombo erano nel giusto, che lo stretto di Bering non era stato scoperto, che a nord esisteva un mare congelatum, sotto il quale si poteva presumere che esistesse una lingua di terra. In grado di unire il continente asiatico al «nuovo». I ghiacciai stessi, d'altronde, formavano un cordone ombelicale tra quelle che furono per molto tempo chiamate Indie occidentali ed Indie orientali. Come le due facce di una stessa medaglia, in una visione ineccepibile che non frantumava l'antiquata concezione geografica ed il dogma geografico-trinitario dei tre continenti emersi, rispettando la sacralità dell'ecumene. Peraltro «una carta turca del 1559 (a quell'epoca l'estremo Nord era ancora inesplorato, N.d.A.), quella di Hadji Ahmed, ci mostra a sua volta un'Antartide ed una costa del Pacifico degli Stati Uniti estremamente precisa. Ma c'è di meglio: questa carta mostra anche una terra sconosciuta, che forma un ponte tra la Siberia e l'Alasca attraverso lo stretto di Bering!»461 L'ammiraglio sapeva perfettamente che i lidi da lui toccati non erano le Indie tradizionali, ma costituivano una terraferma composita, che si divideva in varie regioni. Erano la prosecuzione e l'approdo estremo di un territorio infinito e indistinto. Che faceva parte di quelle che erano chiamate le «Tre Indie». Gli elementi a riprova sono tantissimi. In conclusione, sia pure fra giustificabili errori, i calcoli di Colombo erano pressoché perfetti. La carta posseduta da Colombo e le informazioni sul suo predescubrimiento, nel caso l'ammiraglio turco non le avesse apprese direttamente in Spagna dal navigatore, sarebbero state fornite da un marinaio spagnolo. Fatto prigioniero, si dice, sulle coste iberiche prima del 1498: l'anno in cui Colombo, solo a maggio, salperà per la sua terza spedizione ufficiale. Il marinaio raccontava invece di avere già preso parte a tre (!) spedizioni delle caravelle. Sicuramente deve aver partecipato ad un viaggio «occultato» del navigatore. La verità riaffiora, parola dopo parola. Non a caso raccontava: «Noi arrivammo in un primo momento allo stretto di Gibilterra; poi, avendo percorso quattromila miglia...»462 Nel 1492 le caravelle salperanno da Palos. Il porto si trova al di là delle colonne d'Ercole: siamo già nell'oceano, oltre Gibilterra. Il marinaio faceva riferimento invece
ad una partenza avvenuta nella località che si trova all'interno del Mediterraneo. Ancora una volta gli elementi non collimano con quelli della spedizione «ufficiale». Per alcuni il marinaio spagnolo sarebbe proprio quel Rodrigo De Triana che, per primo, avrebbe avvistato la terra del Nuovo Mondo e che sarebbe stato spossessato da Colombo del premio dei 10.000 maravedís promesso dalle corone di Spagna. Un uomo spinto alla disperazione, tanto da diventare quasi pazzo, a causa del furto subito. E passato di conseguenza nelle file nemiche. Il testimone dovrebbe avere in odio Colombo per cui, se la «gola profonda» fosse lui, non si giustificherebbero le affermazioni così lusinghiere, che accompagnano il documento custodito al Topkapi. A meno che il marinaio rinnegato o forse musulmano da sempre, in linea con un equipaggio composito, che aveva a bordo più di un ebreo, a cominciare dall'interprete e dal medico, non facesse a sua volta parte di un disegno utopico naufragato. E volesse quindi vendicarsi, con la sua «soffiata», di qualcun altro e non del navigatore. Piri Reis parla di Colombo come di un «grande astronomo», un grande uomo di scienza, singolare complimento da parte di un grande uomo di scienza musulmano. Specie in un tempo in cui, spariti Colombo ed Innocenzo VIII, Cristianesimo ed Islam si battevano ormai per il dominio del mondo senza esclusione di colpi. Un tempo diverso, che condannerà a morte lo stesso ammiraglio turco (eretico a sua volta?) «ufficialmente per aver tolto l'assedio alla fortezza di Ormuz, ma qualcuno asserì che la sua condanna fu voluta dai vecchi custodi di quegli archivi segreti che lo accusavano di aver sottratto antichi documenti. Gli stessi che gli permisero di disegnare su pelle di gazzella la sua famosa mappa...»463 Anche il «suo vello d'oro» gli si ritorse contro? In qualche modo le parabole dei due ammiragli, fra archivi segreti e antichi documenti, si assomigliano incredibilmente. Due vite dall'altare alla polvere: grandi traditori o grandi traditi? Ma se quella data araba (1485) fosse inesatta? Uno zero (890), nel reperto calligrafico antico e scolorito, di non semplice interpretazione, può essere facilmente confuso con un 6. Non per nulla alcuni scrivono 896. Anche Paolo Emilio Taviani, il maggiore studioso italiano di Colombo, parla di «anno 896 del calendario arabico». Una svista, dunque, colossale? Non proprio, dato che quella data araba corrisponde al 1490-1491 dell'era cristiana. Cambiando l'ordine dei fattori, sempre di predescubrimiento si deve parlare.464 Tanto più che nella tomba in San Pietro di Innocenzo VIII, al terzo rigo dell'epigrafe, sotto il bel mausoleo del Pollaiolo, abbiamo trovato inciso nella pietra: «Novi orbis, suo aevo inventi gloria». Ovvero «nel tempo del suo pontificato la gloria della scoperta di un Nuovo Mondo». Tanto più che il Panvinio afferma che l'evento più grande che si ricordi a memoria d'uomo avvenne verso il finire di quel pontificato. Giovanni Battista Cybo, Innocenzo VIII, fu papa dal 1484 al 25 luglio del 1492. Il cerchio si chiude. La «scoperta» (1485 o 1490-1491) sarebbe avvenuta nel suo pontificato. Nel tempio della verità cristiana quella lapide attesterebbe solo la verità. La verità che la storia con la «s» minuscola ha cancellato. Papa Innocenzo VIII era definito dal Pastor il «papa marinaro». Ancora una volta, perché? Basterebbe quanto già scritto a
giustificarlo. Ma a questo punto la ricerca potrebbe spingersi oltre, in un gioco di specchi fra il Padre ed il Figlio. Padre e figlio insieme, sulla nave della Chiesa, spinti dal vento dello Spirito Santo da far spirare sul mondo finalmente completato. Forse, come Colombo porterà con sé il giovane figlio a bordo, il futuro «papa marinaro» aveva recato con sé nel mondo ancora da scoprire il proprio figlio. Cui sarebbe stato imposto il nome di Colombo. L'architettura della tomba, lo abbiamo già visto, è stata ribaltata nella sua originaria struttura: prima il papa vivo era in basso ad altezza di sguardo ed il papa in morte era in alto, ora il papa defunto è in primo piano. Come se la sua morte (quella storica) fosse diventata prevalente rispetto alla sua vita. Cambiamenti che nel tempio di Cristo non avvengono mai a caso. In alto la statua del pontefice con la lancia di Longino nella mano ha il viso di Colombo. Le spalle e lo sguardo sono perfettamente orientate nella direttrice nord-sud. «La mezzanotte corrisponde al nord e quindi alla «porta degli Dei», mentre il mezzogiorno è collegato all'estate e quindi alla «porta degli uomini». Non è casuale che, nel primo grado di apprendista massone, il lavoro degli adepti si svolga da «mezzogiorno a mezzanotte», ovvero che il cammino iniziatico parta dalla porta degli uomini per giungere a quella degli dei».465 Era il «cammino» degli uomini «divini».
11 - Il trucco delle tre carte Si distribuivano lentamente nei secoli le carte del grande gioco, in una danza delle mappe senza pause, in un vedo-non-vedo senza sosta, in una progressione scientifica quanto mai ricca di risultati sorprendenti nelle regioni dell'Oriente e nelle località dell'Europa dove si incontravano musulmani, ebrei e cristiani. Che lavoravano spesso uniti per dare un volto al nuovo mondo. Che compariva e scompariva, in una verità difficile da ricostruire. È quanto accadeva, per esempio, in un'isola al centro del Mediterraneo, dove si era formata una delle più rinomate scuole cartografiche del tempo. Aveva come protagonista un ebreo. L'isola è Majorca, la patria del francescano Raimondo Lullo, che aveva «profetizzato» l'altro mondo, l'ebreo è Abraham Cresques. Aveva fra i collaboratori più fidati il figlio Jehuda, che diventerà il geografo del principe Enrico il Navigatore del Portogallo, in un sapere occulto, che si trasmetteva di padre in figlio. L'ebreo si ispirava, come molti altri, al Milione di Marco Polo e così nell'Atlante catalano del 1375 ecco, forse per la prima volta, affiorare la forma peninsulare dell'India. Un estremo Oriente finalmente non più chiuso da ulteriori terre rimaste incognite, ma sprofondato nell'azzurro del mare. Il nodo di Gordio di Alessandro Magno, che spaccava l'ecumene, si scioglieva, in una concezione che si perfezionerà, più compiutamente ed artisticamente, nello stupefacente mappamondo del 1459, del monaco veneziano fra' Mauro.
Ovviamente un silenzioso uomo di Chiesa, che lavorava nella laguna veneta, presso il monastero camaldolese di San Michele. Anche lui era in contatto con il Portogallo, lanciato nell'Atlantico, ed era l'esecutore delle carte del re Alfonso V. Si può solo supporre, in mancanza di prove sicure, che per qualche tempo, in gioventù, sia vissuto a Genova, uno dei centri ideali di questa storia. Quali erano le idee di fra' Mauro? È un ricercatore di verità. Al quale la fede, per quanto possibile, dati i tempi, non fa da paraocchi.466 La sua Africa, peraltro, è circondata dall'acqua molti decenni prima che Bartolomeo Diaz raggiungesse la punta australe del continente nero con il capo delle tempeste, battezzato capo di Buona Speranza. Per dimostrare che l'India era raggiungibile per la via del Sud. Un erudito ebreo, cresciuto su di un'isola del Mediterraneo, in un ambiente che potremmo definire multietnico, un frate osservante e devoto, ma vagamente universalista e tollerante, che studia fra le isole della laguna veneta: vanno tutti e due a caccia di «isole», le isole del sogno e del mistero. Il loro globo comincia ad assomigliare alla realtà. Hanno il fascino dell'oracolo. Il mondo sferico di fra' Mauro ha circa due metri di diametro. Un'opera tanto bella quanto colossale. Gli studiosi rilevano una probabile influenza islamica (!), in base all'orientamento della carta. In quelle correnti di pensiero multiculturali, che attraversavano le menti dei più aperti al cambiamento, il religioso scriveva di avere attinto, a piene mani, per la raffigurazione dell'Asia, anche lui al testo di Marco Polo. «Questo grandioso mappamondo costituisce a un tempo l'ultimo prodotto della cartografia medievale e un primo esempio di transizione verso la cartografia moderna.»467 Purtroppo è questo modo di concepire due «sfere» del tempo in contrapposizione che farebbe di quello moderno un tempo più illuminato rispetto al buio dei secoli precedenti, a rendere granitico l'errore. Dividendo il sapere in due momenti inconciliabili: il prima che non poteva sapere, il dopo che avrebbe spiegato tutto. Ci si muoveva, invece, con cautela, ma con una progressione ininterrotta. In modo che il nuovo potesse essere recepito prima ed accettato dopo, in una sequenza di piccoli, grandi passi (come quelli dell'uomo sulla luna o come quelli di possibili vite extraterrene) verso la compiutezza del globo terrestre. C'era da sistemare persino il paradiso! Quello che allora si riteneva, sulla terra, il riflesso di quello celeste. Una credenza che non presentava problemi, finché rimaneva confinata nel mistero di un empireo astratto. Ma l'esplorazione dell'Oriente avrebbe dovuto svelare la sua ubicazione geografica. I problemi dovevano essere in qualche modo superati. Ormai l'uomo è in movimento, l'umanità in effervescenza. Il cammino interrotto andava ripreso. C'è uno scienziato, in particolare, verso la seconda metà del Quattrocento, che può essere considerato un altro degli ispiratori del viaggio colombiano e che, in qualche modo, potrebbe mettere d'accordo i molteplici aspetti delle annose controversie. Si tratta di Enrico Martello. Tolomeo aveva chiuso le superfici d'acqua fra litorali conosciuti o «incogniti» riducendole a bacini chiusi? Aveva fatto del Mare Indicum, posto sotto l'Asia, una replica orientale del Mediterraneo? Lo schema ormai obsoleto,
come abbiamo visto, era già stato rotto. Così il globo del germanico Henricus Martellus è un ulteriore gradino verso la certezza. Le acque della terra, come per Cresques e fra' Mauro, anche sotto la sua mano si gonfiano, come in un diluvio, circondano di un turchese intenso la sua mappa. Bisognava compiere un ulteriore passo in avanti. Ed ecco l'Est dilatarsi a comprendere un vasto spazio d'acqua azzurra, oltre il Gange e l'Indicum, come veniva chiamato l'Oceano Indiano, popolandosi di un'infinità di isole più o meno grandi. Fra i litorali spagnoli e quelli della Cina l'estensione configura un vero e proprio oceano, il mitico ouroboros, il serpente che, nell'immaginario del Medioevo, circondava il globo, mordendosi la coda. Segno dell'«eterno ritorno» fra Oriente e Occidente. All'estremità della mappa in direzione nordest, al largo dell'ultima India, ecco materializzarsi la solita isola, che non può essere il Giappone e che potrebbe essere già una parte dell'America. Non è l'unico rebus di questa rappresentazione cartografica.468 Martello era probabilmente originario di Norimberga, probabilmente aveva conosciuto il cardinale Cusano. Venne in Italia dal 1480 al 1496, ebbe a che fare con i Medici, con Lorenzo il Magnifico e con papa Innocenzo VIII, per il quale realizzò un mappamondo. È evidente che la mappa fiorentina doveva avere corrispettivi in Vaticano gelosamente custoditi. Le distanze sono ingannevoli, apparentemente non corrispondono a quelle reali, ma il criterio di proiezione potrebbe rispondere a regole che ignoriamo. Non è detto nemmeno che si volesse far conoscere con esattezza la posizione delle terre da scoprire. La cartografia era al centro di una guerriglia quanto mai intensa di spionaggio. Copiare o diffondere i contenuti delle mappe era passibile della pena capitale. Ed è singolare che lo stesso Martello abbia confezionato, sempre nell'anno 1489, un' altra versione, meno aggiornata, del suo mappamondo fiorentino. In questo caso molto meno esplicito per quanto riguarda l'oceano orientale, quasi che una carta dovesse in parte rivelare e l'altra nascondere. L'Asia, infatti, arriva al margine della rappresentazione, proiettandosi ad est in un minuscolo lembo di mare. Tutte e due le mappe, tuttavia, assumono un'importanza fondamentale poiché, oltre a presentare un'Africa perfettamente navigabile fino all'estremo Sud, prima della scoperta ufficiale, configurano un'India più vasta e diversa, per quanto ci consta, da tutte le altre sin qui rappresentate. Qual è la novità? Soprattutto rispetto all'imperante «geografia» di Tolomeo per la quale oggi tutti «concordano sul fatto che i suoi dati numerici sono stati corrotti nei secoli dalla tradizione manoscritta»?469 Dunque con Martello, oltre al riaffermarsi dell'idea di una circumnavigabilità dell'orbe, nell'oceano che sconfina oltre l'Asia, al di là del fiume Gange, appare quella che si potrebbe definire una misteriosa «quarta penisola» asiatica. Una parte di continente, che si aggiunge alla concezione tolemaica. Sia pure in una ricostruzione distorta verso sudovest, così come distorta verso sudest si presenta nell'altro emisfero l'Africa, in una convergenza dovuta presumibilmente ad esigenze cartografiche. La
conformazione però di questa inedita «quarta penisola» ha un aspetto tutto sommato familiare. Si presenta con una forma che ha il sapore di un déja-vu. Basta fare una semplice verifica: posizionare il planisfero di Martello davanti a uno specchio. Ed ecco apparire, come in un sortilegio, il Nordamerica. Né più né meno come lo conosciamo oggi. Un'America che si distende fino all'istmo centroamericano, con la gobba dell'odierno Honduras e comprendente il Nicaragua, per interrompersi proprio là dove Colombo pensava di trovare il passaggio verso le Indie. Si materializza un Mondo Nuovo, che concilierebbe il globo prossimo venturo con le credenze antiche, che rispetterebbe la trinità geografica. L'Asia e l'America costituirebbero un «corpo» unico. La terra incognita verso la quale veleggiare esiste, ma sarebbe semplicemente un'appendice immediata delle Indie già note, il Pacifico verrebbe completamente abolito. Ogni dubbio sembrerebbe risolto.470 Non si comprende, però, perché alcuni studiosi vedano in quella massa peninsulare raffigurata dal tedesco il Sudamerica. Una parte del globo di cui erano sicuramente a conoscenza i portoghesi e quasi sicuramente lo stesso Cristoforo. Il Sudamerica sarà l'unica «novità» nei confronti della quale Colombo, quando lo incontrerà, mostrerà una certa sorpresa (vera o falsa?). Certo è che la «quarta penisola», una volta raggiunta, nella direzione da dove sarebbero arrivate le caravelle spagnole, avrebbe potuto essere facilmente superata nella sua punta estrema meridionale. Sia pure in un effetto deformante, le coste delineate da Martello non lasciano spazio al dubbio. Il Nordamerica non sarebbe che un'ulteriore proiezione delle Indie, che da orientali si convertirebbero in occidentali. E sarebbero state il primo approdo per chi, proveniente dall'Europa, navigasse verso Ponente.471 Di lì la traversata alle altre prossime Indie, già conosciute, sarebbe stata facilissima e assai breve. Collimando con quanto avrebbe professato il navigatore. Secondo quello che ci hanno sempre raccontato e lasciato intendere. Sarebbe il modo più comodo per risolvere l'annosa questione. Colombo avrebbe sbagliato solo nella misura in cui sbagliavano le carte degli scienziati più accreditati. Le fazioni prò e contro le effettive nozioni geografiche del navigatore potrebbero trovare un salomonico punto d'incontro. Ma è una conclusione che non soddisfa, un compromesso da rifiutare. Che confermerebbe solo gli inganni nei quali sarebbe caduto il navigatore. Esaminando attentamente molti di questi documenti, come altri ancora, ci si accorge inoltre dell'esistenza di una piccola penisola dalla forma inconfondibile: è la Florida. La «terra fiorita» costituisce da sola un piccolo giallo nel grande giallo. Si afferma «che è forse il più grande irrisolto enigma cartografico del periodo», si sottovaluta la complessità e la portata degli enigmi. Ufficialmente quella terra fu toccata solo nel 1513. Eppure compare innanzi tempo nel planisfero (1500) di Juan de la Cosa, che fu uno dei compagni d'avventura prima, degli avversari dopo, dell'ammiraglio. Lo spagnolo posiziona un'immagine di San Cristoforo proprio là dove, tra Nord e Sud, dovrebbe esserci il passaggio supposto da Colombo. Lo stretto che separerebbe le Americhe e che è «salomonicamente» coperto con l'immagine del santo gigante traghettatore del Cristo bambino, dell'uomo nuovo. La Cosa non fu l'unico che «antivide» la Florida. L'apparizione della terra dell'eterna giovinezza,
dove si credeva esistesse la fonte dell'elisir di lunga vita, compare in numerose altre mappe come quella verdissima di «Cantino».472 Cantino era un agente diplomatico della famiglia degli Estensi di Ferrara, appassionata di misteri geografici. Risiedeva anche lui a Lisbona, dove comprò il prezioso cimelio. Tornando in Italia si fermò anche a Genova, dove vendette una copia a Francesco Catanio (il cognome sembrerebbe un anagramma quasi perfetto di Cantino). Per consegnarla, infine, ad Ercole d'Este a Ferrara. La caccia al vero volto del mondo affascinava tutti i potenti del tempo. Il suo planisfero è bellissimo. Quella che indica come Isabella è Cuba, rappresentata inequivocabilmente come un'isola, a dispetto del fatto che Colombo non lo avrebbe mai compreso, confondendola per tutta la vita con la terraferma. Poco più in là la Florida. Siamo nel 1502! Analogo «errore» nella carta di Nicolò Caveri del 1504-1505, che porta la firma di un cartografo genovese: di nuovo nessun dubbio. Sono presenti il Golfo del Messico, lo Yucatan, la Florida. L'elenco potrebbe continuare, in una sequenza di geografi, che dimostrano di sapere molto di più di quanto si dovrebbe sapere. Ora a Genova, ora in Portogallo, ma si potrebbero nominare ulteriori diverse località anche italiane. Altri, come visto, appartenenti a cenacoli insediati anche a Palma di Majorca. Luoghi che riconducono quasi sempre, fra verità e leggenda, all'inquieto peregrinare e alle tante «patrie» di Cristoforo Colombo. Il Nordamerica, l'insularità di Cuba e la penisola della Florida erano evidentemente un dato già acquisito con matematica precisione. Da quando? Difficile rispondere con assoluta sicurezza. È certo, tuttavia, che la storia avrebbe riproposto un ostracismo continuo sul fatto che Colombo potesse aver guadagnato il continente. Quando studi posteriori costringeranno gli studiosi all'ammissione, si cercherà di rafforzare la «leggenda nera» di un uomo che, per quanto grande, non era in grado di comprendere nulla. In una sensazionale «scoperta» del tutto inconsapevole. Eppure mercoledì 21 novembre 1492 nel Diario di bordo si legge: «Nondimeno egli era propenso a ritenere che il quadrante fosse ancor giusto perché esso segnava il nord tanto alto come in Castiglia, ma se ciò fosse stato vero l'ammiraglio si sarebbe trovato all'altezza e in prossimità della Florida. Ma il tal caso, dove sarebbero andate a finire le Isole che egli dice di aver avuto davanti a sé?» Soggiunge l'ammiraglio che la gran calura che trovava lo induceva ancora a esprimere quel dubbio che aveva; però «è evidente che se si fosse trovato sulle coste della Florida non vi avrebbe trovato caldo ma freddo...» Si parla di Florida.473 Le considerazioni di ordine meteorologico farebbero pensare che la Florida di Colombo, già toccata in viaggi precedenti, si estendeva anche molto più a nord di quella oggi rappresentata.474 Il 21 novembre è anche il giorno che segnerà la «diserzione» di Martin Alonso Pinzón. Sparirà all'improvviso alla vista delle altre navi di Colombo. Lo spagnolo puntava forse al continente, ma non lo troverà. Lui, solo lui, mirava unicamente all'oro. L'ammiraglio, dunque, sarebbe in prossimità della terraferma e ne sarebbe cosciente, fin dalla prima spedizione ufficiale, senza contare il predescubrimiento. Eppure avrebbe mancato, per insipienza, l'approdo più importante. Per quanto non
sbagli quasi nulla, la storia farà in modo che Colombo abbia sbagliato sempre. Gli interessi della Spagna non consentiranno mai ammissioni di sorta. Perciò Colombo non «può», soprattutto non deve, sbarcare nelle Americhe. L'approdo finale dovrà restare per lui un miraggio eternamente sfiorato. Puntualmente fallito. Il suo sbarco sarebbe costato troppo, come ricompense pattuite, alle casse dello Stato. Non è l'unico caso in cui si sosterrà che non ha saputo cogliere il bersaglio per pura dabbenaggine, a dispetto della facilità e delle possibilità favorevoli di «scontrarsi» con il Nuovo Mondo. Bisognerà creare per questa eventualità un predecessore. Si individuerà un Amerigo di convenienza, uno stipendiato, un impiegato. Per scoprire, solo secoli dopo, che lo sbandierato primato di Vespucci, circa lo sbarco continentale, era solo un incredibile falso. Si pensava, infatti, che il fiorentino avesse toccato la Florida nel 1497. Gli studi successivi avrebbero dimostrato che si era trattato di una menzogna, ma ormai era tardi. La frode (a chi giovava se non alla Spagna?) aveva ormai negato la primogenitura colombiana. In modo che un nome posticcio, quello del fiorentino, venisse attribuito per sempre alle nuove terre. Il destino dei due esploratori italiani, che pure erano stati amici, si sarebbe separato per sempre. Non scriveva forse di Mondo Nuovo il letterato cortigiano Pietro Martire d'Anghiera, amico di Colombo, riferendosi ai viaggi colombiani, prima che quel nome fosse coniato da Vespucci? Pietro Martire aveva ricevuto notizie alla corte spagnola dallo stesso Colombo. Ma le prove, se si preferisce gli indizi, sotto il peso del cinquecentenario broglio, non verranno mai prese in considerazione, fino a soffocare giustizia e verità. Colombo, tutto sommato, ha già avuto abbastanza gloria, come premio per le nefandezze che gli sono state attribuite! Certo la cartografia era confusa, certo è giunta a noi lacunosa e incompleta. Certo le nozioni erano vicine alla verità, ma verità assoluta non potevano essere considerate. Pure i Colombo, fra certezze ed intuizioni, si muovevano in un magma difficile da ricondurre ad una ricomposizione precisa del vero. Vi si avvicinavano per gradi, attraverso la conoscenza superiore a quella di tutti gli altri e all'esperienza. Resta il loro peccato di fondo di essere stranieri in terra straniera, pretendenti ad un Eldorado da colonizzare in esclusiva. Messaggeri di un sogno i cui mandanti verranno fatti sparire, in un'incredibile sequenza di morti sospette, che colpirà soprattutto Roma e Firenze e gli esponenti delle Accademie neoplatoniche. Proprio nel momento in cui il sogno stava per realizzarsi, con il successo e l'apertura della cornucopia e dei segreti del mondo. C'è da rilevare che molte carte sono state rinvenute in epoca recente. Che uno studio organico sui molteplici interrogativi che vengono a porre non ci sembra sia stato compiuto. Chi d'altronde, in campo scientifico, oserebbe contrapporsi a cinquecento anni di scienza? Quella scienza che avrebbe ereditato, rafforzato e perpetrato l'errore? Che, dunque, nascerebbe a sua volta nel segno di un inconfessabile peccato originale? Preferibile lasciare Colombo nel suo limbo, meglio nel suo inferno. Meglio interpretare carte e scritture come un retaggio medioevale. Una paccottiglia nel residuato dei secoli bui. Meglio divertirsi con il rebus da quiz a premi: ma Colombo era uomo del Medioevo o del Rinascimento?
Tutti, dunque, ebrei, musulmani, cristiani, senza contare cinesi e giapponesi, possedevano carte e mappamondi. La maggior parte sono andati perduti. Alcuni sicuramente non sono stati ancora ritrovati. Quello della sparizione di un'infinità di carte e di mappamondi sarebbe un altro capitolo da aprire. Ne esistevano molti di più di quanto si pensasse, la loro diffusione era ben più ampia di quanto si credesse. Le carte illustrate, che avanzavano novità, non erano solo di Portogallo, Spagna, Germania o del Vaticano. Ma solo quest'ultimo poteva disporre di un afflusso costante di nozioni superiori a tutti gli altri poteri terrestri. Fra i maggiori custodi e propagatori della geografia i musulmani erano stati, a loro volta, per molto tempo gli unici depositari. Come a dire che la «concorrenza» avrebbe potuto precedere la Cristianità. Forse è proprio questo il più grande merito dell'impresa colombiana: avere piantato la croce là dove ci si sarebbe potuti inginocchiare, in un dondolio di preghiere, in direzione della Mecca. Da ogni dove, all'unisono o meno, ci si avventurava per le strade del mondo. Gli arabi avevano avuto nel secolo XIV il corrispettivo musulmano del cristiano Marco Polo, con Abu Abdallah Ibn Battuta. Ventinove anni di peregrinazioni, un altro pellegrino universale. «Aveva visitato non solo le regioni centrali dell'Islam, ma anche le sue remote frontiere in India, Indonesia, Asia Centrale, Africa orientale e il Sudan occidentale.»475 Ibn Battuta era un esploratore, coraggioso come il veneziano, «che rischiava la propria vita per scoprire la 'terra incognita' e diffonderne la conoscenza».476 Farà tappa in Terrasanta, dove si mischierà con i crociati e, più oltre, nella Acri dei cavalieri, epicentro di incontri e conoscenze, di amicizie che potevano essere interpretate anche come tradimento. Si dilunga nel racconto delle vite degli uomini di religione, in particolare dei Sufi. Evidentemente era, a sua volta, un Sufi. Il Sufismo era la forma di misticismo musulmano più prossima al filone segreto ed esoterico dei Templari in particolare, dei crociati in generale. Praticava la tolleranza e predicava l'avvento di un Dio unico, un Dio provvidenziale e comune per tutti gli uomini della terra. Il Sufismo era il laccio segreto con l'Islam per un abbraccio universale tra le fedi nemiche. Di Ibn Battuta si è perduto il testo originale, della sua vita non sappiamo niente, né è affiorato alcun documento che parli di lui. Non aveva esperienze «nella stesura di testi geografici, storici o etnografici, ma era «l'esempio supremo del géographe malgré lui».477 Più si procede nell'indagare, lungo il percorso delle conoscenze, più ci si imbatte in una serie di vocazioni «sbagliate» o interpretate come tali. Che hanno, tuttavia, scardinato le combinazioni della conoscenza. In un trionfo della «dotta ignoranza». Rimane un dato storico preciso. Già nel XIII secolo mongoli ed alleati turchi, che si muovevano dall'Asia centrale, avevano conquistato la Cina, la Russia e larga parte del Medioriente. Nell'eterno confronto-scontro Oriente-Occidente. L'Islam rischiava anche in quel caso di prevalere. Quanto il pericolo sia stato grande, ai fini di una «scoperta» dell'America da parte musulmana, può essere racchiuso in quel troppo che non conosciamo e nei documenti spariti.478 L'Occidente, a parte casi solitari di coraggiosi scienziati, di conventicole sempre a rischio d'eresia, si dilaniava e si
macerava in dispute territoriali o teologiche? Il dogma faceva da argine al nuovo? L'Islam contemporaneamente si impegnava nello studio della matematica, dell'astronomia, della medicina e della fisica, grazie al recupero dei testi greci e alla contiguità con l'estremo Oriente. Da una parte sterili dispute, granitiche censure, dall'altra una scienza già in cammino. Guardavano anche loro alle stelle, spingevano lo sguardo oltre i confini di Tolomeo.479 Furono, dunque, i musulmani per primi a dare un'impronta nuova al mondo? A riscoprire «mentalmente» l'America? Furono loro i progenitori virtuali di quell'«impero di Satana» che oggi vorrebbero distruggere? Già a cavallo del Mille il neoplatonico Avicenna aveva redatto l'opera medica più famosa di ogni tempo, con la disputa al Corpus hippocraticum. Si era formato alle fonti del sapere greco (!). Era accusato di essere un giudeo (!) per via materna, si arrovellava sulla Metafisica di Aristotele. Era cresciuto in un Islam che aveva finito con il prevalere fra zoroastriani, manichei, buddisti, nestoriani. Si era abbeverato alle fonti della magia. Le sue guarigioni erano anche miracoli. Un indovino cieco gli aveva predetto: «Raggiungerai le stelle. Ti avvicinerai a loro come raramente accade a un uomo. Alcuni ti malediranno per questo. Sarai immortale, ma pagherai la tua immortalità, con un eterno vagabondaggio». Fra le ipotesi della sua morte c'è anche quella per veleno. Il veleno è stato sempre, nel corso dei secoli, il grande custode della menzogna e del sopruso. Lo adotterà senza risparmio Rodrigo Borgia, il successore di Innocenzo VIII. Soprattutto il Corano e le tradizioni canoniche parlavano della conoscenza come strumento di salvezza. Si esortavano i credenti allo studio della natura.480 La medicina comportava il relativo studio delle piante, dell'alchimia. Nell'Islam erano già in nuce tutti gli elementi che provocheranno l'esplosione del Rinascimento, in un sincretismo che, però, non sarà di tutti, provocando conflitti senza fine. Gran parte di quel sapere, in seguito, trasmigrò, a cominciare dall'Andalusia spagnola, «Al Andalus» per i musulmani, nelle corti occidentali. La Spagna sefardita raccolse e fece scoccare poi la scintilla che avrebbe incendiato l'Europa e dato vita alla Rinascenza. A fare pendere l'ago della bilancia a favore del mondo cristiano, fino ai nostri giorni, fu il successivo declino dell'Islam e certamente anche la scoperta di Gutemberg. Il primo Corano verrà stampato nei Paesi musulmani solo nel 1874. Ormai la partita era persa. L'editoria nascente moltiplicava naturalmente anche le carte geografiche. Come il mappamondo fiorentino del 1506 di Giovanni Matteo Contarini (un veneziano?): è considerata la prima mappa a stampa di cui siamo sino ad ora a conoscenza. Mappa a stampa significa opera moltiplicabile indefinitamente. Le sparizioni hanno operato nel profondo. Se ne conosce un esemplare soltanto, conservato a Londra. Lo scienziato Contarini ultima il suo lavoro, scoperto solo nel 1922, nel 1506. È l'anno della morte di un Colombo ormai abbandonato da tutti. Al punto che nemmeno una notizia accompagnerà la sua fine. Nonostante l'oblio abbia già circonfuso la figura del navigatore dei due mondi, il fiorentino scriveva, a proposito delle Indie occidentali, che erano state scoperte dal «Maestro Cristoforo Colombo».481
È evidente che le affermazioni di quelle lontane cronache, spesso in contraddizione fra loro, non si possono assumere come verità. Ma come si fa a sostenere un'unica verità, solo perché è quella che i secoli hanno ripetuto come un balbettio sconnesso e senza senso? Del lavoro di Contarini però sorprende soprattutto l'appellativo usato nei confronti del navigatore: «Maestro». I Maestri erano i titolari delle cariche più alte degli ordini cavallereschi. Ancora una volta avanza un cavaliere del mare. Che si firmerà con un criptogramma esoterico da Gran Maestro, mai definitivamente interpretato in cinquecento anni. In una scia senza fine di cavalieri. In una «cavalcata» che raggiunse con Innocenzo VIII il trono di Pietro. La rivelazione delle Americhe fu il punto finale di un incontro-scontro di religioni, di civiltà, di strade del pensiero. Tre erano allora, proprio come oggi, le grandi fedi mondiali. Espressioni di altrettanti modi di interpretare il cammino dell'uomo. Uniti dalle preghiere e dalla croce o divisi dalle spade? Era questo, è questo, il grande interrogativo che angosciava, avvicinava e separava tutti i fedeli dell'ecumene, un interrogativo quanto mai impellente nella Spagna delle tre religioni. Mentre tutti miravano a Gerusalemme che, anche per i musulmani, era «Al Quds», la santa. Proprio dalla Spagna si era mosso un altro Marco Polo. Non più cristiano, non più musulmano. Si trattava del rabbi ebreo Beniamino. Che nel XII secolo «partì da Tudela per un lungo viaggio, paragonabile a quelli intrapresi da Marco Polo e da Ibn Battuta... decise dunque di andare alla ricerca delle comunità ebraiche dovunque esse fossero...»482 Nel groviglio politico-religioso e geografico irrisolto e da risolvere tutti sguinzagliavano per le strade dell'ecumene il loro Marco Polo. Ora musulmani, ora ebrei, ora cristiani. Tutti avanzavano lungo i sentieri sconosciuti dell'orbe. Ora mercanti ora pellegrini, anche se fra loro non c'era molta differenza.483 Tutti cercavano l'Oriente, una testa di ponte da dove poter avanzare ancora verso l'ignoto. Ma uno solo l'avrebbe raggiunto per battezzarlo definitivamente cristiano. Non si riflette abbastanza su questa gara a tre, che avrebbe potuto segnare anche l'armistizio finale per le genti del mondo. L'intreccio trovò uno snodo definitivo, come abbiamo già visto, nella caduta di Costantinopoli nel 1453. Bisognava reagire: Niccolò V, il papa ligure, il papa di Sarzana morto nel 1455, aveva emanato una bolla per chiamare a raccolta la Cristianità, definendo Maometto il precursore dell'Anticristo, il rosso drago dell'Apocalisse. Occorreva un ulteriore salto di qualità. Occorrevano successori di Pietro, che liberassero le genti cristiane dall'angoscia e allargassero gli orizzonti della crociata. Occorrevano pontefici che fossero anche scienziati e cavalieri. Occorrevano cercatori del Graal. Occorreva l'oro, occorreva un Cristof-oro. Enea Silvio Piccolomini nel 1454 aveva tuonato: «Dobbiamo ammetterlo: mai vergogna più grande s'è abbattuta sui cristiani; in passato siamo stati sconfitti soltanto in Asia e in Africa, in terra straniera dunque. Ma adesso ci hanno colpiti in Europa, nella nostra patria, nella nostra casa qui dove viviamo, e l'hanno fatto con durezza».484 Il futuro Pio II, che Colombo leggeva attentamente insieme con le opere del cardinale Pierre d'Ailly, aveva studiato a Bisanzio, era a conoscenza probabilmente di molti segreti. Era soprattutto appassionato di geografia, aveva avuto esperienza
diretta dell'Oriente. Nel momento del pericolo si scelse immediatamente un pontefice, che sembra avere molti punti di contatto con quello che sarà, decenni dopo, Innocenzo VIII. Nuova geografia e supremazia economico-spirituale andavano da tempo ormai di pari passo. La Chiesa era sempre in prima linea.485 Le relazioni fra Roma, Firenze, Venezia e Bisanzio infittiscono la trama. Nella città medicea un cenacolo umanista, tra il 1410 e il 1440, si raccoglieva nel convento degli Angeli. Ne facevano parte oltre ad Enea Silvio Piccolomini e Cosimo de' Medici, il frate di San Marco Giorgio Antonio Vespucci, zio di Amerigo e Paolo Dal Pozzo Toscanelli, bibliotecario di San Marco. A Venezia e Firenze arrivò nel 1428 il fratello di Enrico il Navigatore, il grande custode delle rotte in Atlantico, per raccogliere carte e documenti che trasferirà all'Accademia di Sagres, nel Portogallo affacciato sulle onde dell'Atlantico. Dove convivevano sapienti di tutto il mondo, proiettati nello studio dei rebus oceanici. Là dove il sole al tramonto annegava in un mare di mistero, in quella regione dove arriverà a nuoto un giovane Colombo, sopravvissuto, pare, ad un conflitto navale. Si credeva unicamente in Dio, nei disegni della provvidenza. Ma sarebbe sempre «il caso», secondo interpretazioni che sfiorano spesso il ridicolo, a guidare le sorti del secolo che cambierà il mondo. Le coordinate sommerse di questa storia rafforzano invece l'esistenza di una sorta di multinazionale delle idee, che si muoveva di concerto per il conseguimento di un fine unico. Finché le rivalità non li divideranno. Quando un altro pellegrino dell'Oriente, Nicolò da (o de) Conti, era rientrato in Italia, il papa veneziano Eugenio IV, predecessore di Nicolò V, che cercava una riconciliazione tra i Romani e gli Orientali, lo obbligò «a dettare al segretario pontificio (!) Poggio Bracciolini il racconto completo delle sue peregrinazioni in Asia. La relazione di Conti è importante perché conferma punto per punto quella di Marco Polo».486 Nell'originale di Marco Polo c'era la verità! La verità, conosciuta anche fin dal tempo dei vichinghi, era già stata depositata nelle mani della Chiesa. Il giovane veneziano Nicolò da Conti, come il più classico degli infiltrati, aveva sposato una donna araba (!). Si era convertito all'Islam e si era diretto a Calicut. Perché la città era un centro nestorita con la «Santa Chiesa cattolica apostolica assira d'Oriente». Là era salito sulle giunche cinesi, che quasi sicuramente avevano raggiunto l'America e l'Australia nel 1421.487 Viandanti, missionari, pellegrini, mercanti, conventicole di studiosi, scuole di geografia, teste coronate e signori, Stati sovrani o meno, in una processione continua, si avvicendavano nella ricerca delle terre da rivelare. Volontà di espansione e di dominio, interessi economici, che promettono ricchezze smisurate con poca spesa, desiderio sincero di conoscenza e di ampliare i confini del sapere umano, voto di allargare alle genti sconosciute la parola cristiana e di redimere gli idolatri, speranza di poter fondare un Mondo Nuovo e creare il nuovo uomo, ricerca del Graal e della verità. Non c'è un regnante o un dominus, nella seconda parte del XV secolo, che non si adegui a questo ritratto del «principe».
I poteri temporali recavano con sé il difetto del transeunte. Un luogo, un ruolo restavano centrali ed eterni nel cammino dei secoli: quello di Roma e del suo pontefice.488 Solo la Chiesa aveva la visione totale del nuovo e la sintesi più vicina alla realtà, che stava per sopraggiungere. Mettendo in discussione l'origine di Adamo e l'assetto del globo. Solo la Chiesa poteva e doveva presiedere ad uno sviluppo traumatico della conoscenza, che metteva a rischio la sua stessa credibilità e quella dei Padri. Ne dovrà soffrire anche Galileo Galilei. Destinazione America. Dopo la lunga, secolare anestesia nell'ignoranza, non rimaneva che procedere all'intervento. Non era più il momento delle sottigliezze e dei sofismi. Avanzava, con le possibilità devastanti di un immenso asteroide, l'altra metà del globo terrestre. Se non si era in grado di prevedere ed attutire l'impatto, tra i tanti potentati, soltanto quello romano rischiava la sopravvivenza. Governare la geografia significava governare il mondo: il vecchio così come il nuovo. E impadronirsi del futuro. Piangere o ridere, come nell'espressione dei due filosofi, Eraclito e Democrito, posti ai due lati del globo terrestre? L'affresco (1487) è di Donato Bramante, il grande artista urbinate.489 Singolare globo, quello che compare nell'opera, dove il Mare Indicum pare non avere fine ad Oriente, oltre la mitica isola di Tabropana, l'odierna Ceylon. Nel momento della verità, nel momento del bisogno, la «provvidenza», che secondo la fede guarda lontano, dove l'uomo non è in grado di vedere, esprimeva, dunque, papi geografi. Un papa geografo Pio II, un cardinale geografo d'Ailly, un altro cardinale il Bessarione, che veniva dall'Oriente e possedeva, a sua volta, una carta geografica. Carte disegnava anche il dotto amico e sodale Nicola Cusano. Certamente l'elenco potrebbe comprendere molti altri ancora. Colombo, per quanto ne sappiamo, è particolarmente attento alla lettura delle opere dei primi due. Le chiose che accompagnano i testi si infittiscono. Ma Colombo legge anche altro. La sua preparazione sui testi più svariati non ha remore religiose o teologiche. Il problema, l'aspirazione sono quelle di conciliare i testi degli uni con quelli degli altri, senza arrecare danni al «corpo cristiano». Di trovare la maniera più indolore e il modo migliore per ricondurre alla soluzione finale i troppi indizi sparsi disorganicamente. Ormai di pubblico dominio relativamente alle cerchie delle persone colte. La teoria delle «mappe impossibili» potrebbe proseguire, in un elenco senza fine. Non c'è ricerca più semplice di quella impegnata a trovare una mappa che abbia particolari «impossibili».490 Il senese Pio II per di più, nelle sue chimere universalistiche, aveva fatto miniare da Girolamo Bellavista un orbe colorato in scala grande e piccola da allegare alla sua opera. Ma soprattutto «aveva un altro mappamondo disegnato da Antonio Leonardi, ecclesiastico e cosmografo veneto di cui tacciono tutti gli scrittori di cose geografiche. Alla morte del papa il mappamondo fu lasciato al nipote e figlio adottivo Francesco, futuro papa Pio III, che lo nomina nel suo testamento. Sembra che questi due mappamondi furono visti da Pinzón quando venne a Roma nel 1491».491
Si torna alla Toscana, a Siena, alle spade nella roccia, ai Piccolomini. In una ronde, in una tavola rotonda, di onnipresenti cavalieri. Si torna ai due papi francescani, ai mappamondi che spuntano dovunque. Che Pinzón spierà per conto di Ferdinando. È come un affluente in piena, che confluirà nella corrente più grande del Tevere, che fa capo alla Roma cristiana. Il problema, come abbiamo visto, era così pressante da spingere Enea Silvio a scrivere a Maometto II, il suo «alter ego» che dominava l'Oriente. Mentre il passato si coniugava con il presente.492 Ora che la saldatura si stava compiendo, solo di Cristo avrebbe dovuto essere il futuro, di un Cristo detto Dio unico. Di un Cristo risorto per restaurare la pace in terra.493 Nessuno, scriveva il pontefice, sa «a sufficienza» quale sia esattamente la misura della terra ma, per il calcolo di «tutta» la terra, Pio II considerava Eratostene «solertissimo». Colombo leggeva, tenendo conto del prestigio che gli veniva dalla carica, quanto scriveva il pontefice. L'apprezzamento circa Eratostene poteva solo condividerlo. Tanto più che era studioso di Marino di Tiro, con il quale Tolomeo si era messo in contrasto nel definire i limiti terrestri. Colombo, dunque, conosceva perfettamente la circonferenza della terra. Ma la tradizione, tuttavia, lo accuserà fino ai nostri giorni di sbagliare i calcoli, anche i più elementari. In una secolare ingiustizia che ha ridotto colui che allargherà il mondo ad un ignorante che si sarebbe limitato a restringerlo. Come gli si è potuta attribuire per cinquecento anni la convinzione di essere giunto alla Cina, quando sapeva di dover cercare una terra mitica? Tanto più che per «Indi» si intendevano quanti provenivano dalle terre orientali, ad esclusione di quelle che formavano l'impero cinese?494 Eratostene e Marino di Tiro, oltre a libri e carte, erano, dunque, fra le guide dell'ammiraglio. Le imprecisioni non potevano non esserci. Ma non potevano inficiare i calcoli, pressoché perfetti, nonostante le risorse tecniche limitate degli scienziati che lo avevano preceduto. Quei saggi d'altronde non si servivano di aridi macchinari senza mente. Avevano per guida l'armonia degli astri e delle stelle. Che non mutano mai. Dopo la morte di Pio II e la sua mancata crociata subentrò un periodo di quiete apparente: «Quando fu chiaro che a Costantinopoli i cannoni turchi non avevano affatto annunciato la fine del mondo, anche le profezie e le interpretazioni del futuro vennero viste con altri occhi. Può darsi che i soldati di Mehemet II fossero gli amareni di Metodio, ma evidentemente non erano i gog e magog della battaglia finale. Anche nella dottrina gioachimita prevalse la 'terza età', quella dello Spirito Santo, che mise in ombra le immagini del crollo. Adagio adagio gli occidentali riconobbero che gli ottomani erano sì un popolo pericoloso e strano, ma che bisognava combatterli con mezzi umani».495 Si cercò, dunque, prima di tutto, la pace attraverso la conciliazione. In prospettiva di un tempo dorato, del ritorno del Regno di Dio. Poi improvvisi stravolgimenti, il sopravveniente 1500 ed altre disfatte riportarono al proscenio e resero indilazionabile la disfida ultima. Otranto e l'orda turca dilagante riaccesero le paure. Come bisognava
affrontare i saraceni? Avrebbe prevalso la pace nell'amore francescano o la pace nel sangue crociato?496 I tempi si avvicendano, ma nel percorso delle civiltà avversarie i quesiti si pongono, a distanza di secoli e di millenni, nello stesso identico modo. Cambiano gli sfondi, mutano i tempi. Ma lo scontro Oriente-Occidente non perderà mai il connotato di guerra santa e giusta. Da una parte e dall'altra. Mentre i seguaci della pace a tutti i costi e del rispetto fra diversi verranno ricacciati puntualmente nelle retrovie. Da Colombo al nuovo millennio poco o nulla è cambiato. Il Rinascimento-resurrezione non fece che moltiplicare le attese, alla luce di interpretazioni diverse, quando non in totale contraddizione fra di loro. In una centrifuga incandescente di scienza, di filosofia, di teologia, di fede, di eresia, in un forno che gli eventi alimentarono con crescente accelerazione, in un'alchimia in attesa della sua pietra filosofale. L'uomo-faber-Dio-in-terra stava forgiando se stesso come un nuovo Prometeo. Saprà imitare il Padre, il demiurgo, il grande architetto, o se ne allontanerà?497 Ma Roma, urbe dai tanti misteri, fra i meandri delle sue strade e dei suoi palazzi fuori del tempo, nasconde e custodisce piste da ripercorrere. Come la grandiosa residenza che il papa veneto Paolo II, Pietro Barbo, cominciò a edificare nell'anno 1455, a lato della basilica di San Marco, di cui era cardinale. È l'attuale Palazzo Venezia. All'interno una serie di sale affrescate, una più bella dell'altra: sala del Paramento, sala del Concistoro, sala Regia. Ma anche una sala del «Pappagallo», un animale che richiama le Indie, un'altra ancora del Mappamondo. Perché conteneva «una mondial Mappa terrestre appoggiata al muro».498 Si tratta della sala prospiciente piazza Venezia. Proprio quella di un balcone, famoso per altre ragioni storiche. Dal quale si affacciava Mussolini nei panni del Duce. Giovanni Burcardo, il cronista delle vicende vaticane, scriveva nel 1495 di «ille pulcherrimus Mappamundus». Altrove si legge «bellissimo e famoso Mappamondo, grande e attaccato su alto nel muro», «Aula, in qua est cosmografia orbis maxima et ornatissime pietà». Un'opera immensa, spettacolare, un autentico «kolossal» geografico, tale da fare supporre che si trattasse della più grande, nel suo genere, mai esistita. La sala in questione è lunga 20,77 metri, larga 12,55, alta 12,90. Paolo II era veneziano. Aveva compiuto viaggi per mare, aveva anche lui la passione degli studi geografici.499 Chi sia il vero autore e il vero committente del «kolossal» a palazzo Venezia non si sa più con certezza. Si propende, in riferimento al primo, per il «familiare» Bellavista. Il modello potrebbe essere simile a quello di Antonio Leonardi e di fra' Mauro. Dovrebbe di gran lunga superarli. La sala del Mappamondo ha subito nel tempo una serie di rifacimenti: sono rimasti inalterati solo gli elementi decorativi considerati evidentemente innocui. Ma è ancora là, a rivelare molto di più di quanto sino ad ora non abbia detto. La arricchiscono le stupende decorazioni di Andrea Mantegna, fatte nel tempo del pontificato di Innocenzo VIII (!). Sulla parete dove doveva trovarsi il globo smisurato, tra le colonne centrali, spicca ancora oggi il grande stemma colorato di papa Cybo (!). Un «imprinting» che non si è avuta
l'improntitudine di sopprimere. Ai lati quello della sua famiglia e quello di Marco Barbo, il nipote di Paolo II. Gli studiosi troveranno tracce di quell'opera fino al 1683. Poi più nulla, come se si fosse volatizzato. Quello che in un primo momento sopravvisse, poiché quasi nessuno poteva avere accesso a quelle sale, fu fatto sparire in seguito.500 Eppure ogni particolare, nonostante tutto, pare ancora oggi portare, nella sala del Mappamondo, la firma inequivocabile di Innocenzo VIII, Giovanni Battista Cybo. In precedenza fra Callisto III ed Alessandro VI, i due Borgia spagnoli, senza contare Niccolò V di Sarzana, il pontificato era passato da un toscano a un veneziano, a due liguri. Dalla Firenze-Atene alle città massime rappresentanti delle repubbliche marinare, furono espressi papi, che sembrano giocare con il mondo, anche se il paragone potrebbe sembrare irriverente, come nella stupenda sequenza di Charlie Chaplin ne Il Grande dittatore. Papi le cui famiglie vantavano fortune che dipendevano dallo sviluppo del commercio e della finanza. In un flusso compromesso dalla chiusura dei confini ad Oriente, a causa della presenza turca a Costantinopoli. Ogni scoperta epocale degli spazi apre l'umanità a possibili sogni. Ma sposa e sposta, in maniera traumatica e irreversibile, aspetti economici e territoriali. Il sogno di quel tempo lontano svanì in un lampo. Come perduti sono andati i Mappamondi: «Fu la sorte della maggiore parte dei numerosi Mappamondi d'Europa - in specie quando erano di grande formato e stavano appesi a pareti - di scomparire con l'andar del tempo..,»501 Chissà come il Cipango, le Indie di Colombo, l'otro mundo, erano affrescati sullo spettacolare mappamondo di Palazzo Venezia? Sul mappamondo di papa Innocenzo VIII. Forse le tecnologie moderne, qualora qualche impronta del disegno fosse rimasta, sotto lo scempio degli intonaci successivi, potrebbero ancora darci una risposta. Se di affresco effettivamente si trattava. Ma su questo punto le fonti sono incerte. Poteva essere una carta, una pergamena, un enorme intarsio. Il veneziano Marco Barbo era cavaliere del mare, il genovese Giovanni Battista Cybo era un cavaliere del mare. Nella famiglia di Innocenzo VIII c'era un ramo veneto. Se non c'era parentela diretta c'era sicuramente una parentela ideale. Si navigava, dunque, sempre più nell'aldilà. Si disegnava il mondo. I papi erano marinai e geografi. I libri, le carte e i mappamondi erano oltre che in Vaticano anche a Palazzo Venezia. Con tutti i loro segreti. Con tutti i loro misteri. In quelle stanze, in un caldo 25 luglio del 1492, Innocenzo VIII spirerà. È lo stesso 25 luglio che oggi la Chiesa commemora per festeggiare il Santo Cristoforo. Innocenzo moriva con gli occhi rivolti al mappamondo, al nuovo mondo in arrivo. Sette giorni dopo, con il vento di Roma nelle vele dalla croce crociata a otto punte, dalla Spagna, avrebbe preso il largo un ignaro «dilecte fili mi». Per la più affascinante avventura che un essere umano abbia mai compiuto.
12 - L'esoterica firma di Colombo A COLOMBO bastava presentarsi. Bastava bussare per vedersi spalancare le porte dei palazzi e delle corti più importanti d'Europa. Si scriveva con i re, si scriveva con i pontefici. Aveva stretti contatti con le menti più avanzate del suo tempo, con geografi e scienziati. Non poteva mancare il fiorentino Paolo Dal Pozzo Toscanelli, uno degli esponenti meno conosciuti e più prestigiosi del Rinascimento italiano, vissuto tra Firenze e Roma. Per lungo tempo la corrispondenza, che si svolse fra i due, non è stata accettata dalla critica. Che, in seguito, si è vista costretta ad arrendersi. Anche se le interpretazioni sono state quasi sempre rivolte a colpevolizzare in qualche modo l'ammiraglio. Alcuni hanno ritenuto il presunto falso un tentativo da parte di Colombo di dare «a posteriori» una copertura scientifica alla sua impresa, altri hanno presentato lo studioso fiorentino come la vera fonte delle conoscenze di Colombo. Per cui Paolo «fisico» è stato considerato come uno degli ispiratori diretti dell'impresa americana, quando non un vero e proprio «precursore». Della cui sapienza, pertanto, il navigatore avrebbe approfittato, ancora una volta, per fare propria la «scoperta». Nella consueta verità ribaltata. Prima ancora che a Colombo lo scienziato di Firenze si era indirizzato ad un uomo di Chiesa, al canonico lusitano Fernam Martins (ma anche Martinez o addirittura Martini all'italiana), suo confidente, «amico e familiare» del re di Portogallo. A «Sua Maestà» inoltre Toscanelli aveva inviato una carta, disegnata con le sue mani, «nella quale è dipinto il fine del Ponente pigliando l'Irlanda all'austro insino al fin di Guinea con tutte le isole, che in tutto questo cammino giaciono per fronte, alle quali dritto per ponente giace dipinto il principio delle Indie con l'isole e luoghi dove poter andare. E quanto al polo artico vi potete discostare per la linea equinoziale, e per quanto spazio cioè in quante leghe potete giugnere a quei luoghi fertilissimi d'ogni sorte di speciarie, e di gemme e pietre preziose. E non abbiate a meraviglia se io chiamo ponente il paese dove nasce la speciaria, la qual comunemente dicesi, che nasce in levante, perciocché coloro, che navigheranno al ponente sempre troveranno detti luoghi in Levante. Le linee dritte, che giaciono al lungo di detta carta, dimostrano la distanza, che è dal ponente al levante; e le altre, che sono per obbliquo, dimostrano la distanza che è dalla tramontana al mezzogiorno».502 Dall'inchiostro di Toscanelli si materializza la certezza, più che la chimera, di «buscar el Levante por el Poniente». Una frase che rimarrà come lo slogan dell'impresa e della «scoperta» attraverso i secoli. Si parla di isole e del «principio delle Indie». Strano che non si accenni alla mitica Antilya e al Cippangu, che pure sarebbero presenti nella mappa presunta del fiorentino. La carta era magistralmente contrassegnata da linee verticali ed orizzontali, come per la latitudine e la longitudine. Quest'ultima, si sostiene, verrà scoperta solo nel Settecento. Molto di ciò che si conosceva prima verrà «scoperto» solo dopo. Ma un altro fiorentino, Amerigo Vespucci, già annotava: «La longitudine è cosa più difficile, che per pochi si può conoscere, salvo per chi molto vegghia e guarda la congiunzione della Luna co' pianeti: per causa della detta longitudine io ho perduto
molti sonni e ho abreviato la mia vita di 10 anni... ché ogni mio travaglio è adrizato al Suo santo servizio». Il cammino sulle acque è sempre, come per Colombo, una via iniziatica al servizio di Dio. È sempre, come per Colombo, uno scrutare il cielo nel buio della notte, a rischio degli occhi e della stessa salute. Un «iter» lunare verso l'altro mondo. Dopo avere attraversato il mondo delle ombre. È indubbio che a quegli esploratori le stelle riuscivano a dettare la rotta, per fare il punto sul loro navigare. D'altronde persino la Vergine Maria era interpretata come un'immagine stellare. Proprio quando Colombo trascriveva di suo pugno il testo famoso di Albumasar: «Sale nel primo aspetto della costellazione della Vergine una fanciulla piena di grazia, onestà e purezza, lunghi i capelli e bello il volto; e nella mano ha due spighe, e siede... e nutre un bambino...» Ut Albumasar testatur Inter stellas declaratur Virgo lactans puerum... Il mistico canto della «Stella maris» consacrava un'«astrologia spiritualis» capace di riferire alla Vergine «in precise corrispondenze le proprietà delle costellazioni». 503 Perché «se è assurdo separare nel Quattrocento la medicina dall'astrologia, anche più assurdo è dividere la geografia e l'astronomia dall'astrologia».504 E separare, aggiungeremmo noi, il linguaggio «divino» delle stelle da quello della fede. Con tutti i rischi che simili equivalenze avrebbero comportato. Gli astri parlavano, il Rinascimento ascoltava. Carta e lettera furono spedite anche a Cristoforo Colombo, di cui Toscanelli apprezzava «il nobile e gran desiderio tuo di voler passar là dove nascono le speciarie». Da Firenze, il 25 giugno del 1474, lo scienziato scriveva, facendo precedere la missiva dalle parole: «A Cristoforo Colombo Paolo Fisico Salute».505 Il tono è intimo, familiare, di persone che collaborano e si conoscono bene. Toscanelli dichiara, fra l'altro, di aver avuto «copiosissamente esperienza e pratica», ancora prima delle stesse «informazioni». Ha viaggiato anche lui? Quando e con chi? Il dubbio, date anche le sue strette relazioni con il Portogallo e con i suoi cavalieri di Cristo, gli eredi dei Templari, incalza. Colombo è definito di «gran cuore». La sfera è rotonda, i cristiani d'Oriente sono sempre in attesa, pronti ad un mutuo scambio di fedi e conoscenze. Nella missiva inviata al Martins, trapela invece una certa aria di segretezza: «Molte altre cose si potrebbero dire; ma come io vi ho già detto a bocca et voi siete prudente, et di buon giudizio, mi rendo conto, che non vi resta cosa alcuna da intendere, et però non sarò più lungo». Si accenna e si insiste su un'operazione «in lista d'attesa» da anni. La Cristianità tutta non aspetterebbe che il compimento di quel viaggio. Alla corte di Roma, dove evidentemente «Paolo fisico» si trovava, erano stati da tempo raccolti tutti gli elementi necessari alla riuscita dell'impresa. Roma accumulava, attraverso i resoconti degli inviati in Oriente, tutte le notizie circa l'Asia, le tante, le troppe Indie e le terre incognite. Il coperchio del vaso di Pandora, del vaso del Graal, si doveva sollevare. Sono passati duecento anni dal pellegrinaggio di Marco Polo. Da quando il Can ha fatto richiesta, aggiunge Toscanelli, di «molti savi e dottori che gl'insegnassero la nostra fede... et ancora a papa Eugenio IV venne un ambasciatore, il quale gli raccontò la grande amicizia, che quei principi et i loro popoli hanno cò cristiani, et io
parlai lungamente con lui di molte cose...» Le terre delle meraviglie fanno sentire da secoli la loro voce in molti modi, reclamano un bagno di fede. Si può aspettare ancora a rispondere? Specie ora che l'Islam avanza minaccioso in Europa sotto le ali della vittoria? Le lettere e le carte di Toscanelli non ci sono più. Puntualmente sparite. Dobbiamo, come sempre, accontentarci di copie. In versioni diverse, riapparse in tempi diversi. In quella conservata presso la Biblioteca Colombina di Siviglia, accompagnata da un planisfero di mano dell'ammiraglio, la missiva è preceduta dal sello de la puridad. Un segno di croce inequivocabile, anche se il trascorrere degli anni lo ha reso quasi invisibile. Un segno con il quale Colombo intestava alcuni suoi scritti. Come un contrassegno cifrato. La mappa del Toscanelli presentava innanzi tempo le Antille, che comparivano anche nel globo di Martin Behaim. Il fiorentino, si dice, individuava in Antilya (Antille) la leggendaria «Isola delle Sette Città», raggiunta dai cristiani in fuga dalle persecuzioni. La poneva nell'Oceano Atlantico, posizionandola fra la Cina e l'Europa, come il Cippangu-Cipango, il Giappione presunto nei secoli.506 Quale sia stata l'esatta collocazione non lo sappiamo più. Era il punto di appoggio per raggiungere poi l'Asia, le ulteriori terre aromatum e delle spezie. Merci il cui valore si poteva equiparare alla moneta corrente, alle quali la famiglia Toscanelli era particolarmente interessata, visto che le loro fortune venivano dal commercio delle droghe. Passato poi nelle mani dei mercanti arabi, con l'avanzata vittoriosa dei turchi. L'evangelizzazione delle terre incognite ed il profìtto andavano di pari passo. Paolo «fisico» viveva a Firenze, la sua lunga esistenza (1397-1482) attraverserà quasi tutto il secolo. Faceva parte di quei cenacoli intellettuali e sapienziali con i quali siamo stati sempre costretti a fare, ogni volta, i conti. Grande uomo di scienza, sulla linea di confine tra realtà e fantasia, singolare personaggio. Era religiosissimo, vegetariano, di costumi morigerati, morirà vergine, senza «conoscere donna». Osservando strenuamente il voto di castità. Se è tutto vero, sembrerebbe la vita di un santo, certamente la vita di un mistico. Un'incisione poco nota dei primi del Cinquecento, di Stradamus, lo ritrae, intento alle sue ricerche, in uno studiolo stracolmo di simboli. Pare di entrare nel rifugio segreto di un alchimista. A Padova, nell'università dove si preparava il futuro Innocenzo VIII, Paolo aveva studiato medicina, geometria, matematica, le materie di Colombo. La Padova della gioventù riemergeva dalle sue frequentazioni, dalle sue amicizie, che riconducono immancabilmente all'Umanesimo, nella sua accezione più universalista e rivoluzionaria. Praticamente impossibile che Innocenzo VIII e Toscanelli non si conoscessero, non si siano incontrati, non abbiano parlato di nuovi mondi. Non si siano nuovamente frequentati «alla corte di Roma». Padova, per la verità, era diversa dalla Firenze dei Medici.507 Eppure anche la città toscana aveva «un ruolo 'centrale' come laboratorio di produzione cartografica verso la fine del Quattrocento e all'inizio del secolo successivo, come stanno a dimostrare le figure e le opere di Francesco Rosselli (il suo planisfero - 1488-1489 - è pressoché identico a quello di Enrico Martello, N.d.A.) e Leonardo da Vinci».508
Anche l'enigmatico genio di Vinci, altro profeta giovannita, fantasmatico Maestro di un altrettanto fantasmatico Priorato di Sion, un ordine segreto per eccellenza, su cui si è sbizzarrita molta letteratura esoterica, entra così a fare parte di questa indefinita e indefinibile «tavola rotonda». L'«asse» Roma-Firenze funzionerà perfettamente quando la si realizzò con il Magnifico ed Innocenzo VIII. In Toscana rifioriva la nuova Atene, a Roma risplendeva la nuova Gerusalemme, nell'identificazione fra «il simbolo dell'antico valore latino e della moderna fede cristiana». Toscanelli era un astronomo, scrutava nel buio del firmamento, aveva la passione delle comete, si occupava di geografia. Cercava sulle lavagne corrispondenti del cielo e della terra risposte possibili ai tanti interrogativi dell'umanità. A Padova aveva stretto con Nicola da Cusa quell'amicizia che solo la morte a Todi del Cusano interromperà. In un'opera minore (si rivelano le più preziose per chi ha desiderio di cercare), il cui autore non avrebbe alcun interesse a scrivere una menzogna, un canonico umbro della terra di Santo Francesco annoterà: «E qui è dovere parlare del celebre cardinale Nicolò di Cusa, morto nella nostra città. A confessione dei più, Egli fu il più dotto Cardinale che la Sacra porpora abbia onorato, l'amico più caro del grande Pio II... Attorno al suo letto erano il Toscanelli, il Bussi, il Martinez, testimoni nel suo testamento. Si ragionò di Colombo e della scoperta del nuovo mondo».509 Di Colombo la storia non saprebbe ancora nulla. Eppure di lui già si parla, in un conciliabolo fra il Toscanelli, il cardinale teorico della coincidentia oppositorum e il canonico portoghese, che risultò determinante, sicuramente per quanto riguarda le conoscenze cartografiche e le lettere scambiate da Colombo con lo scienziato fiorentino, probabilmente per il suo matrimonio. Come se non bastasse, il vescovo Giovanni Andrea Bussi aveva incarichi nella Corsica dei Doria e dei Malaspina, in tempi vari imparentati con i Cybo. Era un fine umanista e bibliotecario del Vaticano. È un concilio di sapienza ai lati del letto di un moribondo. In un «testamento» che può essere solo di verità. Il dato più sorprendente di quell'incontro al capezzale del cardinale tedesco, la cui morte è del 1464, è il fatto che si anticipi, come un evento già normale, quel nuovo mondo, la cui «scoperta» sarà di circa trent'anni posteriore e l'esistenza di un Colombo, che nessuno dovrebbe ancora conoscere. A quell'epoca Cristoforo, secondo i calcoli più recenti, certo non definitivi, avrebbe appena tredici anni. È un colloquio fra amici strettissimi, tra confidenti (fra iniziati?), che avviene al cospetto di un morente. In un sorta di eredità spirituale, affidata all'unico argomento che si lascia trapelare di quelle conversazioni. Di quel mondo nuovo, dunque, già si saprebbe tutto, mentre il riferimento a Colombo resta in bilico fra un personaggio incarnato o in qualche modo da incarnare. Nel primo caso già ben noto all'interno di una certa Chiesa. Nel secondo da preparare e «creare» segretamente all'interno di quella stessa Chiesa. In un nome «d'arte» perfetto: Cristoforo Colombo. Il Cusano utilizzò Paolo «fisico» come interlocutore nel suo dialogo sulla quadratura del cerchio. Un altro cerchio, quello terrestre, aspettava la sua definitiva «quadratura». Cerchio e quadrato (il cubo) erano le due forme basiche dell'ecumene, in linea con una simbologia che, nel Medioevo, vedeva nel cerchio la perfezione
divina e nel quadrato quella umana. Cubica era la Gerusalemme dell'Apocalisse, che, però, veniva rappresentata anche in forma rotonda. «Il cerchio è figura del Trascendente, dell'Eterno, del Non creato o del creato dal nulla; il quadrato è invece figura del creato, della pietra angolare, della solida fondazione... non dice forse Matteo, nel Vangelo, che alla fine dei tempi il Signore invierà i suoi angeli con la tromba a chiamare a raccolta 'dai quattro angoli della terra'?»510 Cybo era il cubo, Colombo avrebbe perfezionato il cerchio. In modo che cielo e terra combaciassero. Tornato a Firenze, Toscanelli assunse la funzione di «astrologo giudiziario». Pare però che, con il tempo, si sia burlato, visto che raggiunse gli ottantacinque anni, del fatto che le stelle gli avevano predetto un'esistenza breve.511 La vita, nell'Atene toscana, era «agitata fra profezie stellari e voci del Signore, fra calcoli sottili e residui di antiche superstizioni, fra voli di sublime metafisica e corpulenti interessi terreni... Leonardo disegnava e vedeva cataclismi immani; Savonarola annunciava in pagine terribili i tempi dell'apocalisse; Toscanelli vedeva nelle comete gravi presagi di mutamenti di leggi e d'imperi; Colombo cercava in Gioacchino da Fiore e in Albumasar la certezza di un'epoca nuova del mondo, di cui si sentiva chiamato ad esser l'iniziatore»512 In questo clima incandescente, che coinvolgeva anche Roma, le idee e gli interessi fermentavano. Mutavano e cozzavano dall'oggi al domani rendendo nemici, anche nelle stesse famiglie, quanti fino al giorno prima erano stati amici e sodali. In divergenze che avrebbero coinvolto anche i Medici.513 A Firenze Toscanelli collaborò con il Brunelleschi, al quale insegnava la matematica per l'edificazione di quel portento architettonico che fu Santa Maria del Fiore. In particolare della strabiliante cupola. In una scalata di pietra verso il cielo. Fu lui a farvi collocare lo gnomone più alto sino allora conosciuto. Lo scienziato si arrovellava sui movimenti del sole, costruiva orologi solari. Tempo e spazio stavano mutando. Era intimo di appassionati di geografia e raccoglieva mappamondi. Era amico di Leon Battista Alberti, di Marsilio Ficino, di Cristoforo Landino, dei Vespucci, del Regiomontano, considerato il maestro di Martin Behaim. Prendeva parte alle riunioni che si tenevano nel convento camaldolese di Santa Maria degli Angeli che, con Cosimo de' Medici, prefigurò quella che sarebbe stata l'Accademia platonica di Lorenzo il Magnifico. Le discussioni sulla vita e sull'uomo duravano anche quattro notti. Si cercava di dare un senso all'esistenza e all'universo. In quel tempo rientrava a Firenze, dopo i lunghi anni trascorsi in Asia, un grande viaggiatore, il veneziano Nicolò da Conti, che abbiamo già incontrato. Da Conti, più che un solitario esploratore, pare l'ennesimo «agente». Che fu riammesso nella «famiglia» cristiana, dopo la sua (strumentale?) conversione all'Islam. Potrebbe avere addirittura navigato, come abbiamo visto, con una flotta cinese dall'India all'Australia e alla Cina.514 Certo era salito su una giunca, aveva incontrato un grande studioso, Ma Huan, quando i cinesi custodivano a Pechino biblioteche ed enciclopedie senza uguali. Che preservavano tutto lo scibile dell'umanità. Il veneziano visionò alcune carte.515
Tutte le notizie furono trasmesse ai re portoghesi. Erano le teste coronate investite dalla Chiesa di Roma, con apposite bolle, prima dell'avvento del Borgia, per l'avanzata negli spazi oceanici. Con le caravelle contrassegnate dalla croce rossa ottagona templare, ereditata dai cavalieri di Cristo. Si trascura, tuttavia, il fatto che ogni parola di quei viaggiatori lontani veniva registrata a Roma puntigliosamente. Solamente Roma aveva il quadro completo delle loro avventure. Per quanto, fra terra e mare, si cambino i tempi ed i protagonisti di questo labirinto, Roma restava l'unico punto fermo nei secoli e nel progresso delle conoscenze. Da Conti, si dice, avrebbe raggiunto anche il Giappone. Era veramente il Giappone? La sfera cominciava a cambiare. Tutti avrebbero voluto essere gli artefici della grande svolta epocale. Da Conti non fu l'unica «gola profonda» sulle vie dell'Oriente: «Alla fine del libro di Poggio si apprende che pochi mesi dopo il Conti arrivò a Firenze l'inviato di un non meglio specificato regno cristiano-nestoriano -situato a nord dell'India e a venti giornate dal Catai».516 Le notizie si accavallavano alle notizie, in un torrente ormai in piena. Scardinando l'ottusità geografica. I mappamondi si trasformavano, in un'evoluzione che procedeva, per svariati motivi, al rallentatore. Gerusalemme perdeva lentamente la sua funzione di «centro dei centri», di «ombelico del mondo».517 Parallelamente si avvicinava sempre più il momento, fra Levante e Ponente, di ricomporre «il corpo umano e cristiano». Nel 1439 si aprì nella città medicea un vero e proprio «summit» mondiale. Con il trasferimento del Concilio, che era cominciato a Ferrara. Si trattava di un'incredibile concentrazione di sapienti. Di un afflusso di informazioni, che giungevano da tutti gli angoli della terra.518 In quella stessa occasione anche Toscanelli ebbe frequenti scambi di idee con Nicolò da Conti. Incontrò l'emissario del Gran Khan, l'imperatore Giovanni VII Paleologo, si accompagnò al cardinale Bessarione, allo studioso di Aristotele Giovanni Argiropulo, e allo studioso di Platone Gemisto Pletone, altri fautori di una religione universale. Si disputava, ci si affrontava e confrontava. Si sognava la riunione fra Oriente e Occidente. Fra la Chiesa di Roma e la Chiesa greca (!). La Grande Opera era vicina alla realizzazione. Quanto potrà durare ancora Tolomeo con il suo mondo chiuso? A chi dovrà spettare la sovranità universale? Le ali di quale colomba dovranno ricongiungere il globo? «Così, grazie ai contatti fra Toscanelli, Bessarione e Pletone, si elabora lentamente una sintesi di quel che di meglio offre la geografia classica.» Tenendo conto soprattutto dei freschi memoriali di chi era penetrato in profondità nei tenitori e nelle conoscenze dell'Est incognito. Ma non era semplice azzerare il dogma geografico trinitario. Anche Toscanelli, «seguendo i più intransigenti e ottusi Padri della Chiesa, dice favolosi gli Antipodi. Ma ecco che in altro luogo, ripetendo del resto quasi testualmente le parole di Sant'Isidoro e che si trovano nel famoso mappamondo di Torino (sec. XII), si lascia trasportare fino a credere vera questa singolarissima visione dell'avvenire: 'Extra tres partes orbis quarta est pars trans Oceanum interiorem in media zona terre posita, que solis ardoribus nobis, incognita est: in cuius finibus antipodes fabulose abitare dicuntur'».519
Toscanelli ora mostra di sapere ora stranamente di non sapere. Al capezzale del Cusano sapeva. Lo scienziato ora parla, ora stranamente tacerebbe. Le parole di Sant'Isidoro di Siviglia erano state, d'altronde, riattualizzate anche da un altro uomo di Chiesa, dal pio arcivescovo di Firenze Sant'Antonino, che compare nel quadro del Ghirlandaio, che immortalerà la famiglia Vespucci. Un Ghirlandaio fu anche ritrattista di Colombo. Il mondo non poteva più essere una Trinità. La «quarta parte», che giaceva incompiuta sotto i raggi del sole, lanciava messaggi. Non potevano più essere lasciati cadere nel vuoto dal ciglio di una terra piatta. Paolo «fisico» aveva, a più riprese, ascoltato resoconti incredibili. Così nel 1441 cominciò a disegnare, a ricostruire pazientemente il «puzzle» della sfera. Per molti secondo le nozioni di Marino di Tiro, grazie ad originali calcoli di longitudine. La conclusione di Toscanelli era che «il mondo è piccolo»? Molto più di quanto si fosse da sempre pensato? Parole che ritroveremo negli scritti di Colombo. Dunque Colombo credeva come il «fisico» che la distanza fra l'Europa e l'Asia fosse minore? Che l'oceano sconfinato fosse percorribile in breve tempo? Copiando e quindi sbagliando tutti i calcoli? Salvandosi dal fallimento per l'approdo casuale in America? Non è assolutamente così. Toscanelli e Colombo si scambiavano pareri, Colombo traeva conforto dagli incitamenti dello scienziato. Tuttavia si manteneva fedele ad un'idea diversa della circonferenza terrestre. Era il suo cerchio della verità. Sapeva che prima di arrivare all'Asia avrebbe dovuto incontrare altre «isole e terreferme», che nulla avevano a che vedere con il continente asiatico. Il figlio Fernando, infatti, scriverà: «Questa lettera (la lettera del Toscanelli, N.d.A.), come io ho detto, infiammò assai più l'Ammiraglio al suo scoprimento, quantunque chi gliela mandò fosse in errore, credendo che le prime terre che si trovassero dovessero essere il Cataio e l'Imperio del Gran Can, con le altre cose che egli racconta; poi che, sì come l'esperienza ha dimostrato, è molto maggior distanza dalla nostra India fin là di quella che è di qua a quei Paesi».520 Colombo, nella certezza che la «nostra India» non era l'Asia, si permetteva di dire che Toscanelli era «in errore», perché lui conosceva la posizione delle «nuove Indie», dalle quali l'Asia era lontanissima. Aveva, dunque, una cognizione quasi perfetta della vastità dell'unico grande oceano, il Pacifico. Crollano come un castello di sabbia, in poche parole, le tante calunnie sparse sul rapporto e sulla dipendenza dell'ammiraglio nei confronti dell'uomo di scienza toscano. In un vincolo intellettuale che, tuttavia, fu più stretto di quanto si è sempre creduto, visto che padre Ignazio Danti, pubblicando a Firenze una traduzione della Sfera (1571), affermava che Colombo avrebbe scritto a Toscanelli una lettera da Siviglia parlando di un viaggio, riferito pare al 1491 (!), in cui il navigatore dichiarava di avere raggiunto regioni sotto la zona equatoriale.521 Potrebbe essere l'ennesima, singolare testimonianza della «prescoperta» nel corso del pontificato di Innocenzo VIII. I viaggi di avanscoperta si moltiplicavano, i protagonisti si alternavano. Colombo ne è sempre la costante. Per molti anni, è ormai certo, Cristoforo ha navigato, ha spaziato da un lato all'altro della sfera nel segreto più assoluto. Per prepararsi al suo ruolo di «rivelatore» del globo. Per perfezionare e portare a compimento la sua missione di «Christo Ferens». Ispirato dal papa di Roma.
La catena delle parentele è ancora una volta eloquente. Per quale motivo Toscanelli si trovava nella capitale? Forse quello principale è dovuto al fatto di essere «familiare» dei Della Rovere? Anna Dal Pozzo aveva sposato Giovanni Della Rovere, fratello di papa Sisto IV.522 Nel 1528 infine i Dal Pozzo e i Della Rovere verranno aggregati all'«Albergo dei Cybo». Inseriti definitivamente nell'elenco esclusivo delle più grandi famiglie di Genova. A conferma di un'unica linea di sangue? Il tramite del collegamento fra Toscanelli e Colombo sarebbe stato il fiorentino Lorenzo Giraldi. I nomi cambiano, nelle varie cronache sono scritti in modo spesso diverso. Per qualcuno il Giraldi non sarebbe che un Berardi, della famiglia di quel Giannotto, che sarà amico fino alla morte di Cristoforo e poi di Vespucci ed uno dei finanziatori dei viaggi di «scoperta». Giraldi ricorda anche i Geraldini di Amelia. Come di consueto l'intrico dei cognomi e dei personaggi, delle relazioni e dei vincoli famigliari si fa stringente. Il canonico portoghese Martins, lo abbiamo già visto, si trovava con il Toscanelli a raccogliere le ultime parole del cardinale Cusano morente. Intenti a discutere di un «virtuale» Colombo. Con loro c'era un altro propugnatore della «crociata orientale», Andrea Bussi. Si discute di un Colombo e delle terre... di là da venire. A questo punto non rimane che trovare l'ultimo tassello. È presto fatto: Bartolomeo Perestrello, il suocero dell'ammiraglio e cavaliere di Cristo, il padre di Filippa, si era sposato tre volte. In seconde nozze si era unito con Margarita Calvaleiro Martins.523 Perestrello-Martins-Toscanelli-Colombo: ecco ricostruito l'intreccio, che porterà ad uno scambio di lettere più che logico e naturale a questo punto, fra «Paolo fisico» e Cristoforo Colombo. È l'ulteriore scoperta di una realtà frantumata, nel corso del tempo, in una miriade di rivoli apparentemente senza connessione. Mentre il fiume è sempre uno, uno soltanto, come la verità. Per completare il quadro si può ancora aggiungere che la madre di Filippa, Isabella Moniz, era quasi sicuramente di origine ebrea, mentre le cognate Isabella e Bianca (altro nome femminile ricorrente) Perestrello erano ambedue le «favorite» del grande arcivescovo di Lisbona Pedro de Noronha, al quale avevano dato una nutrita prole. Sposando la figlia di un nobile cavaliere di Cristo e navigatore, l'evidentemente nobile Colombo era entrato a tutti gli effetti dalla porta principale nella corte lusitana. Da tempo all'avanguardia per i viaggi nell'Oceano Atlantico. Toscanelli disegnava carte, i signori, i principi, i re, gli imperatori e i papi affrescavano le volte dei loro palazzi con incredibili mappamondi. Erano a Siena, erano a Venezia, erano a Roma... Li aveva voluti Pio II, l'aveva voluto Innocenzo VIII nello scenario di Palazzo Venezia. Quanti altri ce n'erano? Non lo sapremo mai. Quanti altri ne esistono? Non lo sappiamo ancora. Ma il gioco delle tre carte si protrasse lungo i secoli a venire. Per cui, se si va peregrinando, alla ricerca di questi mondi colorati, le sorprese non mancano. Ed è ancora, tutto sommato, abbastanza facile imbattersi in una cartografia tanto «impossibile» quanto finora pressoché sconosciuta. Quanto meno negligentemente sottovalutata. Per fortuna le volte e le pareti di manieri e castelli comunicano ancora. Sono messaggi in attesa di qualcuno che gli presti attenzione.
Come in un edificio sperduto in Valtellina: un portale di pietra, una serie di figure scolpite. Al centro in alto il trigramma di Cristo di San Bernardino da Siena (!), il francescano che infiammò questi luoghi lontani con le sue prediche, per instaurare una pace fra guelfi e ghibellini. Ai due lati una fenice ed un pellicano: la fenice è il leggendario uccello che rinasce dalle ceneri, ovvero morte e resurrezione per il trionfo della vita eterna, il pellicano nutre invece la prole con il proprio sangue. A ricordare il sacrificio di Cristo per redimere l'uomo. Ancora una croce iscritta in un cerchio, attraversata a sua volta da un cerchio minore; al centro un forellino: una rotella celtica. Rose impresse ai due lati in basso. Nell'architrave una frase suona come un monito per chi entra: «Novit paucos secura quies». Un sorta di summa ideologica ed esoterica dei signori di questo palazzo. Sulla cui facciata una fascia decorativa fa da liaison, tra l'ingresso e l'intero fronte dell'edificio. Un motivo fatto di riquadri, disposti a losanga, nell'alternarsi di chiari e di scuri. Più che un finto bugnato evocano gli scacchi. Rimandano al gioco eterno fra il bianco e il nero, all'eterna lotta fra la luce e le tenebre. Siamo al cospetto di un «rebus», in un'enclave di montagna, apparentemente fuori dalle grandi vie di comunicazione. Su un balcone del versante retico delle Alpi. Di fronte ai solchi contro il cielo delle Orobie. Settecento metri sotto scorre l'Adda, terra di passaggio, terra di scontri religiosi, terra di incursioni dal Nord, dalla Svizzera, dall'Austria, dalla Germania. Una vallata che fa da linea di congiunzione fra Venezia e Milano, ma anche non lontana da Como, Piacenza, Pavia, Ferrara, Padova. Uno snodo presidiato un tempo da militi, paladini e cavalieri cristiani. Non lontano, a Grosio, c'è una chiesa dedicata a San Giorgio, con la sua croce rossa come quella di Genova. Siamo in Valtellina, terra dai molti Graal incisi nella pietra e dalle numerose croci rosse lasciate nelle chiese. La tradizione orale racconta di neonati e di donne dagli occhi orientali, per via di incroci con i saraceni. Il cui grano si coltiva ancora, nel segno di una lontana comunione. Siamo a Teglio, dove un singolare manufatto solleva una serie di interrogativi. Proponendosi come un «unicum», che custodisce tanti «unicum», come in una matriosca. In una sorta di «Bignami» a fumetti, che condensa Medioevo e Rinascimento, presente e passato, scienza e fede, esoterismo e magia, ortodossia ed eresia. Chi erano i signori di questa piccola corte nascosta fra le nuvole? Fuori in qualche modo da ogni luogo e da ogni tempo? Chi erano i promotori e i custodi di questo cenacolo esclusivo ed accessibile ai pochi? Purtroppo non è semplice ricostruirne la storia. Non si conoscono con certezza le date dei lavori e soprattutto di realizzazione dei cicli pittorici. Non si conosce con certezza il nome tanto degli esecutori quanto dei committenti. Aggiungendo interrogativi agli interrogativi. «La tranquillità conosce pochi» è il motto inciso all'entrata. A dare il benvenuto in un luogo che è la consacrazione di conoscenze arcane.524 A cominciare dal cortile, con l'uso ricorrente del 16, segno dell'interezza e della perfezione. Che è dato dalla somma del 6, numero perfetto dei greci, e del 10, numero perfetto per i romani. Per proseguire in un horror vacui, che non lascia spazi liberi nelle pareti e nei soffitti, dove compaiono figure e scritte. Quasi sempre di carattere didascalico-etico, ma talvolta veri e propri indovinelli.
I signori del luogo erano i Besta, che si erano sviluppati dal primitivo ramo degli Azones. Cavalieri, «acerrimi propugnatori»525 della fede cattolica. Ma anche aperti al nuovo, soprattutto con Andrea Guicciardi: la leggenda parla di una possibile discendenza da Roberto il Guiscardo. È appunto Andrea lo spirito dichiaratamente più umanistico, che entra a far parte della famiglia, allorché sposa Ippolita degli Alberti, forse legata alla omonima famiglia genovese-fiorentina (!) di Leon Battista Alberti. Nel sepolcro è ricordato come «artium et medicinae doctor», 526 fu anche rettore nel 1498 dell'università di Pavia. Il suo sarcofago, posto in alto nell'antica chiesa di famiglia dedicata a San Lorenzo, è attorniato da due personaggi con barba, che sembrano vegliare sulla sepoltura. Uno indica con il braccio destro verso l'alto, mentre con la sinistra regge la sfera armillare, l'altro ha la clessidra in una mano.527 Scienza, medicina e «arti», sfera armillare e geografia si coniugano in un personaggio tutto da scandagliare, visto che a quel tempo studi del genere portavano spesso all'alchimia, come alla magia bianca. Quella che si opponeva per il trionfo della luce alla magia nera dei negromanti. Sull'originale volta a crociera della chiesetta è disegnata una «sui generis ruota stellare con otto campiture e con al centro il sole, costituito dal volto di Cristo in rilievo, cui fanno corona altri quattro astri fiammeggianti». Una visione già allineata a quella che sarà la rivoluzione copernicana (!). Mentre sulla crocifissione, dietro l'altare, due angeli raccolgono il sangue di Cristo nelle coppe di un Graal. Un'espressione, di fede nella quale si intrecciano varianti non proprio in linea con l'ortodossia. Che è quanto si ritrova moltiplicato, una volta entrati nel palazzo, lungo le mura affrescate.528 Ne scaturisce, comunque, un orizzonte culturale, che fa dei Besta, probabilmente soprattutto del Guicciardi, il depositario di conoscenze riservate ai pochi. Come detto esplicitamente sul portone del castello.529 In una «biblioteca» dipinta, che rimanda ad una conoscenza e ad una visione più universalista, coraggiosa e illuminata delle cose del mondo. Non a caso la parte più affascinante, si potrebbe usare anche l'aggettivo sensazionale, del palazzo, quella che suscita i perché più importanti, più trascurati e meno risolti, è quella che viene chiamata «la sala della creazione». Il ciclo riempie tutti gli spazi di un ampio ambiente. In una ricostruzione del libro della Genesi, che si sviluppa, in una sorta di procedimento ellittico, dall'Eden perduto all'Eden ritrovato. Creazione degli astri, degli animali, degli alberi, la nascita di Adamo ed Eva, il peccato e la loro cacciata, l'arca di Noè, il diluvio fino alla torre di Babele e alla dispersione delle genti posta sopra il camino, in una prosecuzione che fa del complesso un grande athanor, un grande forno alchemico. Alla Babele e al caos si contrappone un bianco obelisco, simbolo esoterico che fa da trattino d'unione fra la terra e il cielo. Mentre la presenza del creatore non è mai antropo-morfica, ma si presenta solo attraverso fasci di luce. Che rappresentano lo Spirito Santo. Per finire con una mappa dipinta del Nuovo Mondo, l’«unicum» più sorprendente che l'intero palazzo riserva. Difficile trovare una spiegazione. Difficile capire soprattutto perché a Teglio, perché in un borgo quasi inaccessibile, vengano conservate (forse custodite?) informazioni geografiche2530 che erano esclusiva di
pochi «addetti ai lavori» e quasi sempre segreto di Stato. Riservate agli scienziati al servizio delle cerchie circoscritte del potere religioso o mondano. Il mappamondo di Teglio, posto in alto sul soffitto, con difficoltà di visione per i dettagli, comprende tutte e due le Americhe. Presentate come la terra nuova rivelata dopo l'apocalisse-diluvio. E dimostra una precisione geografica notevole, superiore a molte carte prese a modello dalla ricerca, rivelando aspetti sconcertanti. Impossibile attribuire un'epoca esatta circa la sua esecuzione, in mancanza di riferimenti archivistici. Poiché l'America raffigurata è quella rispondente a nozioni acquisite nella seconda metà del Cinquecento, si dovrebbe interpretare in questo senso la realizzazione del dipinto. Ma altri elementi lasciano pensare, in linea con l'andamento del palazzo e con un graffito posto nella «sala dalla volta ad ombrello», che porta la data 21 settembre 1519 o 1529, che possa essere stato eseguito nei primi trenta anni del 1500. D'altronde, come abbiamo già visto, la mente scientifica ed umanistica della famiglia fu quella del Guicciardi, rettore dell'università di Pavia.531 Si può solo rammentare che il figlio di Cristoforo Colombo scrive che il padre studiò proprio presso quella università. I tempi, le materie di studio e la frequentazione di Pavia da parte dei due personaggi sarebbero tutto sommato coincidenti. Ma del fatto che Colombo sia stato effettivamente in quell'ateneo non rimangono prove. Resta il fatto che la mappa di Teglio propone domande irrisolte e riafferma l'appartenenza dei Besta a qualche clan di «illuminati». Se non proprio di iniziati cultori del tempo aureo degli antichi. Personaggi non inconsueti a quei tempi, certo insoliti in un piccolo centro ed in una posizione isolata. Dove si coltivava in segreto evidentemente il sogno riformista e mondialista di una comunione delle genti (in un'altra sala, sia pure posteriore, c'è un affresco con l'incontro di re Salomone con la regina di Saba), di un ritorno al tempo primigenio dell'oro e dell'innocenza, che va dalla nudità di Adamo ed Eva al ritrovamento di un Mondo Nuovo. Posto a contraltare del primo paradiso come un paradiso ritrovato. Erano le «isole e terreferme» svelate da Colombo. Ma i perché si infittiscono, poiché alla base del mappamondo compariva una data variamente interpretata: 1459, 1559, 1469, 1569, 1499. È quest'ultima la cifra esatta che faceva parte di una scritta in lettere maiuscole posta in basso e che recitava: «Terra australis anno 1499 sed nondum piene cognita».532 Siamo alla fine del 1400. A quale spedizione ci si riferisce? Il bello è che, come in svariate altre carte del tempo, sulle quali si preferisce sorvolare, a volte con argomenti di una banalità disarmante, anche nella mappa di Teglio compare un'immensa terra australe, posta all'estremo Sud in senso rettilineo. A quale continente immaginario, sparito o reale, si fa riferimento? La regione in questo caso, a differenza delle altre mappe, è dipinta in un verde lussureggiante, come per quelle perfettamente abitabili.533 Poiché l'America in queste carte è un mondo a sé stante, raffigurato integralmente, fino alla sua punta estrema meridionale, è evidente che qui si sta evidenziando non solo il Nuovo Mondo, ma anche un altro continente. L'Australia come l'Antartide, nella cronologia, più politica che storica, delle scoperte «ufficiali», sarebbe però di là
da venire. Potrebbe essere l'ennesimo «incidente di percorso» di una geografia che ha fatto del «dogma» la sua strenua difesa? Di una «scienza» fondata sul luogo comune? Alla quale Teglio sembra fare l'ennesimo colorato sgambetto. Con la sua terra verde australe, che parrebbe non avere nulla a che vedere con la zona «frigida» dell'Antartico. In un'ulteriore, incredibile scoperta?534 Che le volte affrescate con la terra australe raggiunta, ma non interamente esplorata, avvallerebbero. In una «prescoperta» che abbraccerebbe anche le terre dei canguri. Sicuramente già raggiunte anche dai cinesi. Sul versante alpino opposto, non lontano da Genova e dal Monferrato, in una regione pare importante, per altri versi, alla formazione di Colombo, 535 un altro castello, quello di Manta a Saluzzo, a pochi chilometri da Cuneo, presenta una sala rinascimentale con un analogo indovinello. Sulla volta è rappresentato un piccolo globo terracqueo, con un'America dalle coste ben disegnate e comprendenti anche i lidi del Pacifico. Oltre l'estremità del Sudamerica compare, anche in questo caso, un lembo di terra verde e misteriosa, la costa nord dell'Antartide. I dipinti sarebbero della seconda metà del Cinquecento. Il globo è aureolato da una scritta che afferma: «Lo spirito soffia interiormente». In un richiamo esoterico allo Spirito Santo che unisce, in un soffio ecumenico, tutte le genti dell'universo. Dal Nord al Centro dell'Italia il discorso non cambia, il mistero si replica. I secoli perpetuavano gli indovinelli in attesa di risposta. Basta questa volta recarsi non lontano da Roma, in prossimità di Viterbo. Nel territorio dell'antica Tuscia svetta una costruzione imponente e poco conosciuta, di una magnificenza e di una suggestione rare, in un percorso che dall'edificio maestoso si sviluppa in un giardino incantato. Un parco la cui lettura è possibile, come ha detto Elémire Zolla, solo in chiave alchemica. Si tratta della fortezza di Caprarola, il cui corpo centrale è a pianta pentagonale, ovvero un pentacolo, come una grande stella od una grande rosa. Il monumentale complesso, austero ed elegante allo stesso tempo, si deve soprattutto all'attività di Alessandro Farnese: il nipote, divenuto cardinale a soli quindici anni, di Paolo III, eletto nel 1534. I Farnese avranno il possesso del Piacentino, da dove venivano il suocero e la prima moglie di Colombo. Alessandro era figlio di Gerolama Orsini. Clarice Orsini era stata la moglie di Lorenzo il Magnifico, il consuocero di Innocenzo VIII. Altri cerchi si chiudono. L'armonia e l'arditezza architettoniche,536 la bellezza delle stanze, la policromia degli affreschi, il loro pregio artistico lasciano a bocca aperta. Siamo ai livelli più alti dell'espressione artistica del tempo. Ai cicli stupendi, nei quali si inserisce sempre l'allegoria, si alternano le decorazioni a grottesche. «È probabile che a suggerire i temi da trattare fosse lo stesso committente, mentre è certo che la scelta dei contenuti rappresentati spettava a celebri letterati del tempo, quali Annibal Caro, Fulvio Orsini ed Onofrio Panvinio.»537 Torna in primo piano, con il Panvinio, lo storico dei papi che, nei primi del Cinquecento, aveva attribuito, nelle sue storie della cattedra di Pietro, al pontificato di Innocenzo VIII la «scoperta dell'America». Le cui parole hanno contribuito, fin dall'inizio, a ricostruire la verità: «Occorsero altre grandi cose, e tra le altre quasi alla fine del suo pontificato, la maggiore che si sia mai verificata a memoria d'uomini, per
cui Cristoforo Colombo scoprì il mondo nuovo, e non senza mistero avvenne che regnando un Genovese l'orbe cristiano, un genovese trovasse un altro mondo nel quale fondare la religione cristiana». Un altro cerchio combacia. Il viaggio di Colombo, e la sua immagine, erano ormai, nel XVI secolo, sommersi nell'omertà e nel silenzio. Eppure il Panvinio ne difendeva e tutelava ancora, insieme ad altri, la memoria. Tra le battaglie affrescate sulle pareti resta immortalato l'assedio di Malta ad opera di Solimano III. Fra i santi ritroviamo San Giacomo maggiore matamoros, fra gli dei non poteva mancare Ercole, l'eroe delle isole Esperidi e dei pomi d'oro, fra i numi il misterioso Ermete, congiunto con Atena in un solo corpo, in un perfetto esoterico androgino. I «fasti farnesiani» proseguono con il matrimonio fra Ottavio Farnese e Margherita d'Austria, figlia dell'imperatore Carlo V. Con il ritratto di Filippo II di Spagna, cognato di Ottavio Farnese, in un incrocio continuo fra i discendenti e i depositari della storia occultata. In dimensioni decisamente più spettacolari e prestigiose di quelle di Teglio, agli avvenimenti eternati sulle mura, fa da sottofondo un tessuto ermetico onnipresente. Mentre le dodici - numero fatidico - stanze del piano nobile, collegato al piano terra da una bellissima scala a chiocciola, si succedono in uno stupefacente crescendo. Che sfocia nella stanza del Mappamondo, la cui bellezza è da mozzare il fiato. Dove, ad uno stupendo concerto di segni zodiacali sul soffitto, alla geografia del cielo, che guidava le rotte dei naviganti, fa da contrappunto la geografia della terra. Nella parete sud, infine, la mappa dipinta più bella che ci sia mai capitato di incontrare. Astronomia e geografia unite, in un'opera affrescata entro il 1574. Le carte furono realizzate da Giovanni Antonio da Varese, che aveva lavorato anche in Vaticano. A parte il fascino delle composizioni e dei colori, sorprende lo spettatore un territorio sconfinato, posizionato sotto il Sudamerica, nella zona antartica. Si dice che fosse frutto dell'immaginazione, visto che si pensava che la Terra del Fuoco fosse smisurata. Abbiamo un concetto troppo alto dei protagonisti di quei tempi per credere a simili sciocchezze. I secoli hanno sbiadito molte cose. Non è possibile avvicinarsi alle pareti. Lo si può fare quel tanto che consente, se si guarda con attenzione, che in quella terra australis compaiono persino le figure di alcuni animali. Oltre alla raffigurazione di un'Africa, non ancora compiutamente esplorata ma integralmente rappresentata. Non è il solo dilemma in sospeso. Alle tavolozze smisurate dei murai atlas, con la «fotografia» delle varie parti del globo, si accompagnano, nei medaglioni posti sulle porte o sulle finestre, alcuni ritratti. Sono presenti solamente cinque illustri personaggi, effigiati dai fratelli Zuccari: Amerigo Vespucci, Ferdinando Magellano, Marco Polo, Cristoforo Colombo, Ferdinando Cortéz. Una galleria di protagonisti del Nuovo Mondo che potrebbero fare parte, in senso figurato, di un'unica «famiglia», affiliati da un'unica, sottesa «fratellanza». Quasi una «Santa Hermandad». Il ritratto di Colombo, con i capelli bianchi, in vesti dimesse e quasi monacali, presenta l'ammiraglio con la bussola e un portolano nelle mani: è un'immagine abbastanza atipica, pochissimo conosciuta, anche perché la sala del Mappamondo di Caprarola è stata studiata in dettaglio solo dal 1952. Raffigura un Colombo in «effigie naturale».538
Si tratterebbe di una copia dei quadri che si trovano a Como, nella collezione di Paolo Giovio (1486-1552), che raccoglieva una serie di dipinti di uomini illustri eseguiti su «descrizioni orali date sull'Ammiraglio dai suoi contemporanei».539 Como è vicinissima a Teglio. Paolo Giovio aveva studiato filosofia a Padova (!) e medicina a Pavia (!),540 era stato uno degli eruditi più in vista nella caput mundi al tempo di Leone X, il figlio di Lorenzo de' Medici, che era stato fatto cardinale, in tenera età, da Innocenzo VIII. Giovio, lasciata Roma, ormai terra di conquista, si era ritirato sul Lario, dove aveva creato un museo. Il suo buen retiro era costruito là dove una volta c'era la residenza di Plinio, l'ammiraglio latino che era una delle letture preferite di Colombo. In quella sovrapposizione di nomi e di luoghi, che pare una regola aurea di certi personaggi. Il religioso, che aveva fatto parte dei cenacoli romani più colti, era particolarmente sensibile, come emerge dai suoi scritti, al fascino della civiltà musulmana. Dava dimostrazione di una coraggiosa indipendenza di pensiero, per un vescovo che viveva negli anni del Concilio di Trento. Nei suoi Elogia, dal punto di vista morale e teologico, «si leggono rievocazioni e giudizi che hanno dell'inaudito».541 Sono passati poco più di cinquant'anni dalla morte di Colombo. A mantenerne viva l'immagine, come il ricordo, ad echeggiarne le idee sono sempre alti rappresentanti della Chiesa di Roma. Di una Chiesa interconfessionale e fuori da ogni schema. Svanirà nella dimenticanza la storia dell'ammiraglio. Svaniranno nel nulla le sue sembianze, finché l'Ottocento, il secolo del «superuomo» e degli eroi del Romanticismo, non lo riscoprirà. Al di là della liaison dei mappamondi c'è, come al solito, il «filo rosso» delle amicizie a ricondurci su un affascinante percorso. Alessandro Farnese acquistò nel 1579 anche quella che è l'odierna proprietà dell'Accademia dei Lincei. È la villa chiamata per questo Farnesina: un gioiello architettonico, il cui loggiato fu eseguito ad imitazione di quello del Belvedere di Innocenzo VIII. Vi lavorò, fra gli altri, Sebastiano del Piombo, altro grande ritrattista del navigatore. Il cardinale Farnese era legato soprattutto da una profonda amicizia e da interessi comuni ad Alberico Cybo Malaspina, il creatore a Massa della «Città del sole».542 È il discendente di Innocenzo VIII, che, come già visto, otterrà di mettere in San Pietro, al tempo di Paolo V Borghese, la lapide da cui è partita la nostra ricerca. L'epigrafe in marmo con il riferimento alla scoperta dell'America nel tempo del pontificato dell'avo. In una verità eterna scolpita nella pietra. In una linea di pensiero immortale. Alberico ed Alessandro (il suo bibliotecario era un Orsini!) si ricollegano, infatti, alle vicende di un altro sodale e misterioso personaggio, Pier Francesco Orsini (!), detto Vicino. Il quale, alla morte nel 1560 dell'adorata Giulia Farnese (!), proseguì, rendendolo sempre più fìtto di simboli e di allegorie, l'enigmatico percorso del Sacro Bosco di Bomarzo. Dove ci si inoltra, come cavalieri alla cerca del Graal, o come Dante, in una «selva oscura». In un «iter» magico e stregato, in un labirinto fra statue, mostri e strambe costruzioni. Pier Francesco, ricercatore di libri ed «avvisi dall'India», era molto amico di vari cardinali, ma amava definirsi «mangiapreti» ed
era fiero di «pensare con la sua testa». Era in contatto con il francese Giovanni Drouet, esperto di distillatori e di alchimia. Il castello di Bomarzo, che si trova nella zona dei monti Cimini, è tempestato dalla «rosa d'oro o rossa a cinque petali, simbolo di Venere e dell'amore platonico oltre che del segreto ermetico (la verità è detta sub rosa)».543 Il filo d'Arianna di una gnosi occulta continua a dipanarsi nel tempo. A Bomarzo si srotola dall'interno all'esterno. Passa dalle stanze agli «orti conclusi», ai meandri e alle strane sculture poste nel verde dei giardini all'italiana. Il cui prototipo rimaneva per tutti il primigenio Belvedere di Innocenzo VIII. In una nuova arte, che si ispirava alla Hypnerotomachia Poliphili («La battaglia fra l'amore e il sogno») scritta, a quanto pare, da Francesco Colonna (!), l'ideologo degli scacchi. Gli scacchi che erano nello stemma dei Cybo. Mentre i sogni, questa volta di Polifilo, continuano ad essere un altro dei fili conduttori. I decenni trascorrono. Sotto il velame de «le cose strane» le idee sopravvivono. Il giardino di Bomarzo è un tuffo in un «acquario» cupo e misterioso, in un'alterità visionaria, dalla fantasia sfrenata e dalle allusioni senza fine. Dove gli unici nomi di città ricordati sono quelli di Memfi, la città d'Egitto, che era stata la sede per lungo tempo dell'«Arte regia», e di Rodi, base dei cavalieri del mare. Località votata all'alchimia, isola delle rose per eccellenza, simbolo di sapienza e d'amore e che, secondo il senso della parola greca e latina, custodisce i misteri dell'iniziazione. «È infatti a Rodi che il conte Bernardo Trevisano (1406-1490) ottiene la 'pietra filosofale' negli ultimi tre anni della sua vita, dopo aver dissipato tutte le sue ricchezze in ricerche assurde e vane».544 A Rodi, da dove veniva la famiglia dei Cybo, l'alchimista amico di Innocenzo, Sir George Ripley, avrebbe finanziato i Cavalieri Ospitalieri di Gerusalemme nella guerra contro i turchi, con l'oro prodotto nel suo laboratorio. Bomarzo racchiude nel suo pellegrinaggio iniziatico, da effettuare con «gli occhi della mente», nel magistero di un'antica conoscenza, un campionario simbolico, che procede attraverso una serie di indovinelli ai quali fanno da guardia, fin dai primi passi, un gruppo di sfingi. Perché, come aveva scritto il giovane conte Pico della Mirandola, «fu opinione degli antiqui teologi non si dovere temeramente pubblicare le cose divine e e' segreti misterii... né per altra ragione gli Egizi in tutto e' loro templi avevano sculpte le sfinge, se non per dichiarare doversi le cose divine, quando pure si scrivano, sotto enigmatici velamenti e poetica dissimulazione coprire». I cerchi si chiudono ancora. Dalle mappe degli antichi, dai mappamondi dell'età di mezzo e da quelli affrescati nei castelli, da Teglio a Cuneo, da Caprarola a Bomarzo, dalle Alpi all'Appennino, dalle pietre alle piante, dalle carte ai libri, ai dipinti la trama del sapere arcano, trasmesso oracolarmente e oralmente, riallacciandosi all'alba del tempo, è ininterrotto. Manifestandosi prepotentemente, anche nella seconda metà del Cinquecento, a dispetto della Controriforma. Per ricordare, sotto il velo, ciò che era stato occultato. Contribuendo a rivelare verità costrette nel segreto. A cominciare dalla «scoperta» dell'America, dalla damnatio memorile che colpì un pontefice dal sangue cristiano, ebreo e musulmano, da un Cristof-oro Colombo
consegnato alla storia sotto una maschera deformante. Mentre alla controversia sugli antipodi si aggiunge il mito di una terra australe «incognita» o «nondum piene cognita». Un altro dei misteri irrisolti, nell'infinito groviglio di «scoperte» e «prescoperte». Come se, alla vicenda della «scoperta» dell'America da riscrivere, con il suo «Tempo dell'oro» da ripristinare, anche il «Tempo del sogno» degli aborigeni australiani si stesse risvegliando. Per riportare a galla, dopo i tanti naufragi, il secolare naufragio della verità. Che riaffiora proprio come nei sogni. Che sono sempre, dalle visioni dei mistici a quelle degli umani, l'anticamera della verità. La verità che, benedetta da Innocenzo VIII, il 3 agosto del 1492 si impresse, con la prima orma di Colombo, sulla sabbia bagnata dei lidi americani. Che la prima onda coprì e cancellò per cinquecento lunghi, lunghissimi anni. Resteranno una lapide ed un sigillo. Fino ai nostri giorni. Per ricomporre un cammino di giustizia smarrita. La lapide è in San Pietro, sotto la tomba di Innocenzo VIII. L'ultimo sigillo è la firma misteriosa che adotterà Cristoforo Colombo.
Un criptogramma che gli studiosi cercano di interpretare da cinquecento anni. Un gioco da Gran Maestro più che da marinaio. Sette lettere, il numero perfetto. È il numero più ricorrente nella fine dei tempi secondo l'Apocalisse di San Giovanni. È la sommatoria fra la Trinità e i quattro angoli del mondo, i quattro punti cardinali, la croce cosmica. Il valore globale numerico di quelle lettere, secondo la scienza della gematria e della geometria sacra, valida sia per l'alfabeto greco sia per quello ebraico, dà 1641. Dal momento che Colombo pare abbia cominciato ad adottare la firma al 1641 fanno circa centocinquantacinque anni. Gli stessi che, secondo Colombo, Sant'Agostino aveva profetizzato mancassero, in un ciclo previsto di settemila anni, alla fine del tempo. La chiave interpretativa del «triangolo magico», in quei rebus ricorrenti fra i segreti degli ordini cavallereschi, è sempre aperta, quanto meno, a più di una soluzione. E che potrebbe essere, come insegnava Colombo, quadruplice. In una lettura che può andare indifferentemente da sinistra a destra e dall'alto in basso. Può essere ricondotta nella sua particolare composizione alla piramide, all'occhio di Dio,
allo scudo di Davide, alla Trinità. In un simbolo di spiritualità, forma dello Spirito Santo, evocato pure nella triplice S. Che è, a sua volta, sinonimo anche di shalom, che indica pace nella lingua ebraica. Il triangolo nel simbolismo alchemico può incorporare il quadrato-cubo-Cybo, che come il bianco è il segno della verità, della sapienza e della perfezione morale, ed il cerchio, la sfera eletta e superiore. È il mondo finalmente completato nella sua unicità ed avviato verso la perfezione. La X e la Y ricordano, curiosamente, anche i cromosomi, maschile e femminile, le parti separate dell'androgino primigenio, da ricomporre nel nuovo avvento. In un'omologazione escatologica fra sfera celeste e sfera terrena. Nella convinzione della corrispondenza macrocosmo-microcosmo. Secondo il principio «così in alto così in basso». Alla ricerca dell' armonia perduta. La storia di Colombo e di papa Cybo, ce ne rendiamo conto, costituisce una sorta di labirinto senza fondo. In un gioco di specchi senza fine. Ma appare evidente che a questo punto la A, che comunemente viene indicata come ammiraglio, è soprattutto l'inizio della parola Apocalisse, intesa come rivelazione, di Abramo in quanto padre di tutte le genti e di tutte le fedi o altrimenti del nuovo Adamo, che dovrà nascere nella terra nuova. Ed ancora di Alchimia. Il tutto configura l'arcano timbro di un grande iniziato. La X, la M e la Y possono significare Cristo, Maria, Giovanni (Il Battista e l'Evangelista, o anche YacobusGiacomo) e Cristo, Maria, Gerusalemme (Yerusalem). La meta sempre inseguita, anche se mai raggiunta da Colombo. La X, la M e la Y sono infine l'impronta in assoluto, in una lettura mai fatta prima, di Cristo, Maometto e Yahweh. Ai quali riconduce il portatore di Cristo. Colui che, con la sua impresa, traghetterà l'umanità nella «con-fusione» e nella «tras-fusione» in Cristo. Poiché «lo Spirito Santo è presente in cristiani, musulmani ed ebrei». In una Grande Opera perfetta. In una nuova Gerusalemme celeste nella nuova Terrasanta. In un nuovo Cristo, che sarebbe sbarcato sulle terre verginali del Nuovo Mondo da rifondare. In un'eredità spirituale, in una comunione di fedi, fra Oriente e Occidente, che anche il mondo dilaniato del nuovo millennio continua, nell'inutile spargimento di sangue, ad invocare. In un'alba che trascorre dal grande sogno di quel lontano 3 agosto del 1492 all'alba del grande «sogno americano» e a quello dell'umanità intera. Smarrito poi nel corso dei secoli. Fino ai nostri giorni.
Ringraziamenti Un lavoro come questo, che procede da oltre 15 anni, rende doverosi numerosi ringraziamenti. Per chi apporta generosamente un tassello o segnala una interessante lettura. Per chi ha contribuito a divulgare teorie ed ipotesi. Per chi, con i suoi elogi e i suoi incitamenti, diventa un prezioso supporto psicologico. Perché dubbio e scoramento, per non parlare dei molteplici tentativi di «scippo», delle opposizioni preconcette e delle vere e proprie calunnie, sono sempre in agguato. Sono pertanto grato, innanzi tutto, a Piero Cesaretti, che ha accompagnato con il suo aiuto qualche snodo importante di questa ricerca. Un altro grazie ad Alessandro Matteucci, sedicente Cybo dell'Anguillara, senza il quale la mia ricerca non sarebbe mai iniziata. Un grazie ancora, per i suoi suggerimenti, all'amico e scrittore Mario Farneti, che è stato il primo lettore del mio intero lavoro. Un grazie particolare anche a German Arciniegas (Colombia), Arnoldo Canclini (Argentina), Marina Como, Corrado Natalicchio e Riccardo Tanturri, che nei loro libri (rispettivamente America es otra cosa, La Fe del descubridor, Accadde solo per caso, Il vescovo di Molfetta diventa papa e Carovana di lago) hanno dedicato un capitolo o comunque dato ampio spazio alle mie ricerche. Ulteriori ringraziamenti vanno a: Ferdinando Adornato, Aldo Agosto, Francese Llorens Albardaner, Bruno Aloi, Fabio Andriola, Antonio Angelini, Donata Aphel, Stefano Ardito, Alberto Arecchi, Osvaldo Baldacci, Raffaele Belvederi, Roberto Bencivenga, Marcella Bencivenni, Patrizia Bertolotti, Osvaldo Bevilacqua, Syusy Blady, Enrica Bonaccorti, Elio Cadelo, Marcello Calcagnini, Giuseppe Canessa, Lorenzo Capone, Memmo Caporilli, Angela Caracciolo Aricó, Luca Cardinalini, Franco Cardini, Giuseppe Carrisi, Giulio Castelli, Alessandro Cecchi Paone, Isabella Ceccopieri, Andrea Cecovi, Giorgio Celli, Francobaldo Chiocci, Maurizio Costanzo, Luigi Cozzi, Madel Crasta, Rosanna Cravenna, Walter De Gregorio, Pino Dell'Orco, Michele del Vescovo, Isabella De Martini, Gennaro De Stefano, Vittorio di Cesare, Francesco di Maggio, Giovanni di Martino, Sandro Dini, Viviano Domenici, Barbara Farenholz, Claudio Farnetani, Mario Farneti, Vittorio Feltri, Giorgio Ferraresi, Ernesto Filoso, Maria Fiorelli, Publio Fiori, Roberto Fondi, Adriano Forgione, Agostino Gambino, Renzo Genta, Anna Gentilini, Roberto Giacobbo, Anna Giacomini, Paolo Granzotto, Brian Hammond, Roberto Iannone, Cardinale Pio Laghi, Marcello Lambertini, Gabriele La Porta, Don Lavagna, Legionari di Cristo, Umberto Lo Faso, Lidia Lombardi, Rossella Lorenzi, Antonio Luciani, Luca Maccaferri, Carlo Maccallini, Tarquinio Maiorino, Luciana Marino, Luigi Mascheroni, Gaetano Massa, Enrico Massidda, Salvatore Mastruzzi, Claudio Matarrese, Enrico Messina, Alessandro Moriccioni, Giorgio Moser, Richard Owen, Antonio Patuelli, Susanna Pelle, Paolo Pelù, Francesco Perfetti, Arrigo Petacco, Paolo Picozzi, Roberto Pinotti, Geo Pistarino, Giorgio Radicati, Olga Raffo, Armando Ravaglioli, Antonio Rigillo, Claudio Robimarga, Gian Luigi Rondi, Carlo Rossella, Enrico Rossi, Enrico Rovai, Luigi Saitta, Paola Saluzzi, Luciano Santilli, Marco Sassano, Javier Sierra, Marina Silvestri, Antonio Socci, Andrea Somma, Giuliano Soria, Emilio Spedicato, Romolo Augusto Staccioli,
Cinzia Tani, Luigi Tasselli, Paolo Emilio Taviani, Franco Tosi, Giulio Vada. Antonio Ventura. Ci scusiamo con quanti abbiamo involontariamente dimenticato. L'elenco è lungo, molto più lunga sarebbe la «colonna infame» delle porte alle quali abbiamo bussato, a tutti livelli, senza avere il minimo riscontro. Nemmeno quello che si dovrebbe alla cortesia.
Illustrazioni
Finito di stampare nell'aprile 2006 dalla Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento N.S.M. di Cles (TN) Printed in Italy
Per l'esattezza si trattava di due caravelle e una nave. Endres Franz Carl, Schimmel Annemarie, Dizionario dei numeri, Red, Como 1991, p. 64. 3 Marino Ruggero, Cristoforo Colombo e il papa tradito, Newton Compton, Roma 1991. Dello stesso autore e con lo stesso titolo, vedere la IV edizione aggiornata ed ampliata, RTM, Roma 1997, con Prefazione di Franco Cardini. «Cristoforo Colombo e Innocenzo VIII» in La evangelización del Nuevo Mundo, S.E.R., 1992, pp. 299307. «Innocenzo VIII, il papa di Cristoforo Colombo» in Quaderni ibero-amercani, 72, Quinto Centenario, Colombo, l'America. Bulzoni, Roma 1992, pp. 595-602. «Innocenzo VIII: il papa di Colombo» in Il letterato tra miti e realtà del Nuovo Mondo: Venezia, il mondo iberico e l'Italia, Bulzoni, Roma 1994, pp. 347-362. «Colombo, Innocenzo VIII e la scoperta dell'America» in Apollinaris LX-VIII, Pontificiae Universitatis Lateranensis, Roma 1995, pp. 773-789. 4 La pubblicazione della sua opera fu proibita dal Consejo de Indias, fino ai primi del 1700, in seguito ai numerosi errori storici... Un tempo più che sufficiente per «purgarla», com'è accaduto a tutta la pubblicistica coeva su Colombo, anche di quelli che forse «errori» non erano. 5 È la capacità o la fortuna di fare per caso importanti scoperte, specie di carattere scientifico. 6 Lo scrittore Mario Puzo ha detto che, dovendo fornire un ritratto veridico del navigatore, sarebbe meglio non leggere niente. Poiché si potrebbe giungere alla conclusione che Cristoforo Colombo non è nemmeno esistito. 7 Del primo viaggio di Colombo resta un Diario di bordo, che la critica ha da sempre ritenuto mutilato e manipolato dai reali di Spagna. Il riassunto-riduzione del Diario, rimasto per quasi tre secoli sconosciuto, venne rintracciato nel 1791 da Martin Fernandez de Navarrete. Il quale lo pubblicò nel 1825. Degli altri tre viaggi non rimangono che brevi stralci. La vita di Colombo, ad opera del figlio Fernando (ultimamente si è dubitato che l'autore sia solo lui), è comparsa solo molti decenni (1571) dopo la sua stesura, in una traduzione italiana di uno spagnolo, Alfonso Ulloa. La successiva versione spagnola è la traduzione di quella italiana. Gli scritti del domenicano Bartolomeo de Las Casas hanno visto la luce addirittura nel 1875, dopo che l'autore stesso aveva posto un embargo all'opera per i quarant'anni successivi alla sua morte. Perché? Molte lettere di Colombo sono state «scoperte» secoli dopo. Alcune, dai particolari importantissimi, ancora ai giorni nostri. Sempre univoca è stata l'esclusiva delle fonti: così l'immagine di Colombo è stata imbalsamata sulla scorta di un interminabile processo-farsa fra gli eredi del navigatore e la corona spagnola. Tutto era stato già scritto. Tra «la presa diretta» e la successiva nozione delle vicende esiste una lunghissima frattura. Nel frattempo, la storia aveva reso granitica una verità fatta d'argilla, sulla falsariga della volontà imposta dal potere dominante. In una stagione in cui i falsi e gli intrighi erano parte fondante e ricorrente dell'arte del dominio, c'è stato un lungo lasso di tempo per offrire una versione preconfezionata dei fatti, quando non decisamente stravolta. 8 Cristoforo Colombo, Gli Scritti, Einaudi, Torino 1992. Nella premessa alla prima edizione si legge: «L'edizione delle opere di Colombo si presenta come un lavoro urgente e necessario. Con maggior o minor frutto sono stati studiati tutti gli aspetti 1
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della sua vita e le circostanze della scoperta, ma si è prestata poca attenzione ai suoi scritti... (corsivo dell'Autore, n.d.r.) la maggior parte di questi sono di difficile consultazione, alcuni perché pubblicati su riviste di scarsa diffusione, altri perché compresi in edizioni a tiratura limitata e da molti anni esaurite». C'è da osservare che anche Gli Scritti, nella versione in questione, sono mutilati dell'opera più importante di Colombo, il Libro delle profezie, ignorato volutamente da troppi studiosi. Perché di difficile collocazione all'interno della storia accettata del navigatore. Non è stata mai fatta infine, a quanto ci risulta, una catalogazione completa delle postille che Colombo annotava sui libri. 9 Cristoforo Colombo, Libro delle profezie, a cura di William Melczer, Novecento, Palermo 1992, p. 31. 10 Perez Joseph, Isabella e Ferdinando, SEI, Torino 1991, p. 210. 11 Runciman Steven, Gli ultimi giorni di Costantinopoli, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 29. 12 Runciman Steven, op. cit., pp. 33-34. 13 Mansel Philip, Costantinopoli, Mondadori, Milano 1998, p. 5. 14 Herrmann Paul, Sette sono passate e l'ottava sta passando, Martello, Milano 1955, p. 518: «Né mai la fine del mondo era sembrata vicina come negli ultimi decenni del quindicesimo secolo. I popoli erano in preda a un timore primitivo. Già le veggenti degli antichi Germani avevano vaticinato, molti millenni prima, la fine spaventosa. Quelle immagini ormai sfocate assumevano ora volti cristiani e orientali. Nel 1475 si ristampa a Colonia la poesia dell'Apocalisse composta verso l'800 d.C. da Metodio di Patara. Vent'anni prima i Turchi hanno travolto con spaventosa violenza Bisanzio, la città santa. Il monito di Metodio echeggia pauroso alle orecchie del mondo: 'Tempo verrà che gli Agareni si riverseranno ancora una volta in Germania provenendo dal deserto. E domineranno il mondo per otto anni. E conquisteranno città e regni e sgozzeranno i sacerdoti nelle città profanate. Lo stesso faranno alle donne, e berranno dai sacri calici. E attaccheranno i loro cavalli al Santo Sepolcro'. Siffatti toni apocalittici erano già echeggiati nella mistica lettera del Prete Gianni ai tre protagonisti dell'Alto Medioevo: il Papa e i due imperatori: adesso la paura della fine diventa una tragica certezza. E nel 1485 (quando sul soglio di Pietro c'è il genovese di origine greca, Innocenzo VIII, N.d.A.) quando l'Europa viene oscurata da un'eclisse totale di sole, seguita dalla congiunzione di due pianeti potenti e sinistri come Giove e Saturno, la profezia si affaccia alle menti di tutti: 'I segni mirabili come queste eclissi e oscurità sono paurosi e quasi terrorizzanti. E assai più paurosi se un uomo li ha visti. Tanto paurosi che mi manca l'animo di annunciarne il significato'». 15 Mansel Philip, op. cit., p. 8. 16 Mansel Philip, op. cit., p. 9. 17 Mansel Philip, op. cit., pp. 9-10: «Gli ottomani ardevano anche dal desiderio di emulare la gloria di Alessandro Magno. Mehmed II si identificava a tal punto con l'imperatore macedone che, nel commissionare la propria biografia a un oscuro funzionario greco, Michele Critobulo, pretese che la confezionasse con la stessa carta e nello stesso formato della Vita di Alessandro di Amano, che egli aveva nella propria biblioteca e che si faceva leggere quotidianamente: Un inviato di Venezia scriveva: 'Hora dice (Mehmed II) esser mutato le saxon di tempi, sì che de oriente el passi in
occidente, come gli occidentali in oriente sono andate, uno dice di dover esser l'imperio del mundo, una fide, una monarchia'. Secondo il sultano, non esisteva luogo che più di Costantinopoli meritasse di creare una simile unità universale». 18 Salierno Vito, I musulmani in Puglia e in Basilicata, Lacaita, Manduria 2000, p. 162. 19 Pio II (Piccolomini Enea Silvio), Lettera a Maometto II, a cura di Giuseppe Toffanin, Pironti, Napoli 1953, p. XI dell'Introduzione. 20 Mansel Philip, op. cit., p. 19. 21 Pio II, op. cit., p. 55. «È detto Padre dell'età futura perché aperse il cielo agli eletti e preparò all'uomo l'eterno regno dopo questa vita nella Celeste Gerusalemme. È detto Signore della Pace perché con la nascita di Cristo fu chiuso presso i romani il tempio di Giano e nacque una pace mirabile e 'gli angeli cantarono gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà'». Pio II aggiungeva che «la setta dei saraceni crebbe dunque favorita dalla licenza dei vizi: piacque prender quante mogli si volessero e poi licenziarle quando avessero cominciato a non più piacere; avere concubine ad libitum e potersi avviluppare in ogni genere di libidine, appagare tutti i capricci del ventre e della bocca, tranne il vino: immergersi in tutte le delizie. Digiuni ci sono anche nella tua legge, ma a fine di eccitare il piacere. Giacché i saraceni digiunano di giorno e poi mangiano e bevono quant'è lunga la notte». 22 Pio II, op. cit., p. XXVI dell'Introduzione. 23 Pio II, op. cit., p. 12. 24 Risulta interessante ai fini dei contrasti che angosciavano la guida della Cristianità la difesa, nella lettera di Pio II, definito anche «neopagano», fatta nei confronti dell'opulenza della corte di Roma. In risposta alle critiche, che avevano già portato alla protesta e che avrebbero condotto allo scisma di Lutero. In quello che sarà un ulteriore, lacerante scontro all'interno della Madre Chiesa. Una ferita prossima ventura che Colombo intuirà, anticipandola, quando redasse il suo testamento. A proposito delle ricchezze (Pio II, op. cit., pp. XXXI-II), il pontefice scriveva: «...e quelli che le dispregiano sono dannati. Essi fanno ciò stimolati dall'invidia. Né intendono bene le cose di fede. Quelli che vogliono poveri i ministri di Cristo, così li vogliono non perché vivano bene, ma per poterli essi disprezzare. Cristo certo volle apparire povero e umile; ma lo fece non già perché anche noi fossimo poveri; ma per redimerci con quel mezzo. Fosse venuto glorioso nel mondo, né avrebbe sofferto il tormento della croce, né ci avrebbe liberato la morte. Per la nostra salvezza è ora necessario che i presuli romani siano ricchi e potenti». 25 Pio II, op. cit., p. XV. Si aggiunge più oltre che «l'idea medievale della crociata con lui (Pio II) non si dissolse nel criticismo dell'umanesimo (come usa anche dire con espressione molto usata e poco spiegata), ma si perpetuò e si sublimò umanistica» (idem, p. LVI). 26 Il nestorianesimo era la dottrina di una setta cristiana fondata nel quinto secolo da Nestorio, patriarca di Costantinopoli, in Oriente. Consisteva nella visione di Dio in una duplice espressione. Di uomo e di Dio. 27 Silverberg Robert, La leggenda del Prete Gianni, Piemme, Casale Monferrato 1998, Prologo, p. 9. La prima edizione a stampa della lettera sarà del 1480. Il «Presbyter Ioannes» aveva scritto: «...Sono un buon cristiano e proteggo ovunque i cristiani del
nostro impero aiutandoli con elemosine. Abbiamo fatto voto di visitare il sepolcro di nostro Signore alla testa di una grande armata, come si conviene alla gloria della Maestà nostra, di combattere e di punire i nemici della croce di Cristo e di esaltare il Suo santo nome. Il nostro potere si estende sulle Tre Indie e raggiunge l'Estrema India, là dove riposa il corpo dell'apostolo San Tommaso». 28 Silverberg Robert, op. cit., pp. 51-52. 29 Sinibaldo Fieschi, Innocenzo IV, diventò papa nel 1243 e rimase sulla cattedra di Pietro fino al 1254. Intraprese la settima crociata con San Luigi IX di Francia. 30 Silverberg Robert, op. cit., p. 202. 31 Mansel Philip, op. cit., p. 27. 32 Mansel Philip, op. cit., p. 28: «A Venezia e a Genova erano in molti a sperare di riconquistare la città, com'era accaduto con la quarta crociata nel 1204. Quella che gli statisti dell'Ottocento definivano la questione orientale, ossia il disegno delle potenze europee di conquistare i territori ottomani, risaliva al 1453». 33 C'è da rilevare che i numerologi medioevali tenevano in gran conto il numero 1480, ottenuto sommando i valori corrispondenti alle lettere greche componenti la parola Christòs e che esiste un legame curioso fra il 1480 e il numero per eccellenza della bestia dell' Apocalisse, 666. Da «Giochi matematici. Il dottor Matrix scopre meraviglie numerologiche nella Bibbia di re Giacomo», comparso su Scienze, a firma Martin Gardner, p. 99. Non abbiamo né l'anno né il numero della pubblicazione. L'articolo in questione presenta anche aspetti di puro gioco. 34 Paiano Luigi, Otranto e il suo comprensorio, Editrice Salentina, Napoli 1989, p. 48. 35 Gianfreda Grazio, Otranto nella storia, Edizioni del Grifo, Lecce 1997, p. 253. 36 Gianfreda Grazio, op. cit., p. 265. 37 Gianfreda Grazio, op. cit., pp. 273-74. 38 Annuario Francescano Secolare d'Italia, anno IV, numero 4, Roma 1992, pp. 4647. Questa pubblicazione, alla quale faremo spesso riferimento, uscì un anno dopo il nostro primo libro. Convalidandone, nella sostanza, molte fondamentali supposizioni. 39 Platone, Tutte le opere, Newton Compton, Roma 1997, p. 549. 40 Scipione, come è noto, è il generale romano che si oppose in Africa ad Annibale e Cartagine, la città custode delle colonne d'Ercole e dei Fenici. 41 Cicerone M.T., Il sogno di Scipione, Ciranna & Ferrara, Seregno 1996, p. 32. 42 Colombo Cristoforo, Gli Scritti, op. cit., p. XIV, nota 14. 43 Sono trascorsi cinquecento anni dalla «scoperta» dell'America. Siamo ormai abbastanza lontani dal caravanserraglio delle celebrazioni del 1992, alle quali è mancata per Colombo solo l'affissione dei manifesti con la scritta WANTED, come per i fuorilegge del Far West. Un appuntamento cavalcato sull'onda dell'emotività e dell'ignoranza. Nella canea dei processi strumentali, inutili e fuori da ogni logica. Applicare il nostro metro di giudizio, dopo un abisso temporale di cinque secoli, non ha senso. Come non ha senso, pure nel rispetto e nell'esecrazione delle sofferenze patite dagli «indiani», fare di Colombo un imputato fuori dal contesto storico nel quale è vissuto. 44 Marino Ruggero, articoli su Il Tempo, Roma 25 marzo, 5 aprile, 29 aprile, 3 giugno, 1° luglio, 23 luglio, 29 luglio, 15 agosto 1990, 24 gennaio, 8 giugno, 11 ottobre 1992, 4 gennaio 1993, più ulteriori interventi in diverse rubriche.
Era sempre valida la teoria del vescovo di Ostia, Enrico di Susa, il quale aveva decretato che i pontefici avevano ricevuto giurisdizione sull'ecumene per delega da Gesù Cristo, dato che Gesù era il Signore del mondo, anche il papa lo era. 46 Con il reinserimento della figura di Innocenzo VIII, nella storia di Colombo e della scoperta, la lettura risulta semplificata, per certi versi elementare. Tutto appare più chiaro, scorrevole: i vuoti si colmano, il succedersi degli avvenimenti trova lampanti motivazioni. Per cui, qualora prove certe, le cosiddette prove «scientifiche», non si trovassero mai, si può tranquillamente asserire che, mancando anche le prove definitive della versione tradizionale, quella avanzata in questo libro appare molto più plausibile e credibile. «Tanto più verosimile da essere vera.» Furono queste le parole che il professor Osvaldo Baldacci espresse all'Accademia dei Lincei di Roma. 47 Zazzu Guido Nathan, «Genova e gli ebrei incontro di due culture» in AA.VV., Colombo nella Genova del suo tempo, ERI, Torino 1985, p. 216 e p. 219. 48 Anche a Genova San Francesco da Paola ebbe una visione: in seguito alla quale, nel 1488, si iniziò l'edificazione di un Santuario sul colle «Paradiso», grazie alle famiglie genovesi dei Centurione e dei Dona. La preghiera del marinaio, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1992, p. 136. Si tratta, come vedremo, di due famiglie legate ai Cybo e a Colombo. 49 Heers Jacques, Genova nel '400, Jaca Book, Milano 1991, p. 239. 50 L'incarico per la raccolta del denaro venne affidata ai genovesi Meliaduce Salvago e Gregorio Giustiniani. I Giustiniani sono imparentati con i Cybo. C'è da aggiungere che l'isola viene anche indicata come una delle tante patrie possibili di Cristoforo Colombo. In un libro il greco Yannis Perikos e l'americana Durlacher Wolper, rifacendosi anche a studi precedenti (Canoutas Seraphim, Christofer Columbus - A Greek Nobleman, New York 1943), sostengono che il nome del navigatore, il quale, secondo loro, parlava la lingua di Omero, è di origine greca e che dell'equipaggio delle tre caravelle facevano parte anche marinai dell'Egeo (Stefano Ardito, «Storie senza frontiere» in Plein Air 383, giugno 2004). In una «grecità», che accomuna, come vedremo, in un rapporto sempre più stretto, Colombo ed i Cybo. 51 Genova, Guide De Agostini, Novara 1989, p. 45. 52 Giunciuglio Vittorio, I sette anni che cambiarono Genova (1097-1104), Don Bosco, Genova 1991, p. 62. L'autore ha scritto nel 1993 un altro libro su Colombo in cui, fin dalla prima pagina, si dice che «L'America non fu scoperta per Isabella ma per papa Innocenzo», senza fare alcun riferimento alle nostre ricerche. Pur menzionandoci, per altri particolari di minore importanza, dopo la lettura, come risulta dalla bibliografia, della prima edizione del nostro libro del 1991. 53 La Commenda di Prè, a cura di Giorgio Rossini, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, Roma, p. 16: «Non va infine dimenticata l'importanza di Genova quale porto strategico per gli eserciti crociati fra il XII e XIII secolo... ciò sarebbe peraltro attestato dalla partenza, dal porto ligure, della flotta che nel 1190 (negli stessi anni in cui la Commenda gerosolimitana assume grande rilevanza), trasporterà in Terrasanta la III crociata». Della «Recuperatione Terrae Sanctae» aveva scritto l'ammiraglio genovese Benedetto Zaccaria. 54 Tettoni L. Saladini F., La famiglia Cibo e Cybo Malaspina, Massa 1997, prima pagina. 45
In Corsica Genova era presente anche con i Doria e i Malaspina, casati imparentati con i Cybo e caratterizzati dai cubetti nello stemma. 56 Menascé Esther Fintz, Gli ebrei a Rodi, Guerini e associati, Milano 1992, p. 74: «Il rabbino con cui si trattenne a Rodi, nel 1826, il colonnello Rottiers, non mancò di informarlo del 'dévouement' degli ebrei dell'isola 'pour le Chevaliers, surtout pendant le siége de 1480, dont ils avaient partagé tous le dangers avec leurs femmes et enfants'». Esisteva una Rodi ebraica anche al tempo dei Romani. Connivenze e vicinanze che si perdono nel tempo. Verranno rinnegate. La situazione nell'isola precipiterà nel 1502. Le sofferenze dei giudei cominceranno sotto papa Borgia, in seguito alla politica di Ferdinando ed Isabella. 57 Colombo Cristoforo, Gli Scritti, Einaudi, Torino 1992, p. 169. C'è da aggiungere che nel 1120 Folco d'Angiò, recatosi in pellegrinaggio a Gerusalemme, nel periodo ipotizzato per la nascita dell'ordine, era diventato confratello dei Templari. Renato d'Angiò era «un antesignano dei coltissimi principi italiani del Rinascimento. Aveva il titolo nominale di re di Gerusalemme. Era molto dotto, scriveva parecchio e miniava di persona i suoi libri, compose opere poetiche e allegorie mistiche, nonché un compendio di regole dei tornei. Si adoperò per promuovere l'avanzamento della conoscenza... era versato nella tradizione esoterica, alla sua corte viveva un astrologo, medico e cabalista ebreo, conosciuto come Jean de Saint-Rémy. Secondo numerose fonti Jean de Saint-Rémy era il nonno di Nostradamus, il famoso profeta del XVI secolo... Renato nutriva un vivo interesse per la cavalleria e i romanzi arturiani e del Graal. Anzi, sembra che il Graal lo affascinasse in modo particolare» (Baigent M., Leigh R., Lincoln H., Il Santo Graal, Mondadori, Milano 1982, p. 142). Secondo gli stessi autori Renato d'Angiò sarebbe stato il Maestro di un terzo ordine segreto, che era alle spalle dei Templari e dei cistercensi, conosciuto anche come il fantomatico Gran Priorato di Sion. Di cui sarebbero diventati successivamente Gran Maestri anche Botticelli e Leonardo da Vinci (op. cit., p. 134). Il libro in questione ha ispirato il successo internazionale de Il Codice da Vinci di Dan Brown. 58 Nel 1455 Aronne Cybo confermò gli statuti dell'arte della lana nella capitale. Domenico, il padre che la storia attribuisce a Colombo, fu anche un lanaiolo. Dizionario biografico degli italiani, Istituto della enciclopedia italiana Treccani, Roma, p. 232. Fra gli ulteriori meriti di Aronne Cybo anche quello di avere negoziato la pace fra Genova e Napoli. 59 Dizionario storico portatile di tutte le venete patrizie famiglie, 1780. 60 Dizionario storico portatile di tutte le venete patrizie famiglie, 1780. 18. In Puglia si trova ancora un documento in cui papa Innocenzo lascia alcuni beni e possedimenti ad un Cristoforo o Cristofano (una delle tante versioni del nome del navigatore) Colombo. Cristofano sarebbe anche il nome di un figlio di un cugino di Innocenzo. A questo punto resta il mistero del cognome Colombo. Siamo in possesso di una fotocopia dell'atto, che ci fu inviata per lettera da Michele del Vescovo, deputato della II legislatura, la prima persona in assoluto che si interessò alla nostra ricerca. La notula sarebbe conservata nell'Archivio diocesano di Molfetta. Si tratta di benefici ecclesiastici che, in data 1494, «tenet ac possidet dominus Christoforus (Christofanus, N.d.A.) Columbus». Il godimento usufruttuario veniva 55
concesso vita naturai durante all'assegnatario, il che spiegherebbe, ci disse del Vescovo, la data del 1494. 61 Mascarenhas Barreto Augusto, O Portuguès Cristovào Colombo, agente segreto do rei Dom Joào II, Referendo Edicoes, Lisbona 1988, p. 332. 62 Agapito Colonna era stato vescovo di Lisbona, la città dove si recò giovanissimo Colombo. Si può pensare anche ad un amore di Giovanni Battista Cybo con una donna sposata o meno? Ad un frutto della colpa da mantenere segreto? Ad una madre di Cristoforo, di cognome Colonna, come è stato recentemente avanzato in Italia. Anche se in questa circostanza parrebbe trattarsi di un caso di pedofilia (data la notevole differenza d'età fra l'imberbe Cybo e la presunta e matura seduttrice) di cui sarebbe rimasto vittima il futuro papa. 63 Altri cronisti parlano di tresche con una popolana, di relazioni molteplici, di qualche figlio illegittimo avuto a Genova, a Napoli o altrove. Le testimonianze sulla vita di Giovanni Battista Cybo, d'altronde, sono sempre doppie. Quanto basta per screditarne la memoria, utilizzando popolaresche «pasquinate», che erano il frutto di una satira tanto diffusa quanto tollerata. Altrettanto utile per alimentare la calunnia: Lode a Innocenzo, rendere, o quiriti, si debbe, ché dell'esausta patria la prole ei stesso accrebbe. Otto bastardi ed otto fanciulle ha generato: Nocente e della patria padre sarà chiamato. La Controriforma farà il resto per seppellire anche il ricordo di un papa dalla prole numerosa. «Così debole nella carne»: fu questo il lapidario commento, nel corso di un incontro che avemmo con il cardinale Casaroli. 64 Continuativa vi è stata la presenza di membri dell'ordine domenicano e francescano. 65 Scriverà un «Trionfo» in onore di papa Innocenzo VIII. 66 E ancora a Padova il geografo Regiomontano legge le opere di Alfragano. A Padova Prosdocimo de' Beldomandi compone un «Commento alla sfera», rifacendosi al Tractatus de sphaera di Giovanni Sacrobosco. Un testo su cui studierà anche Galileo Galilei, nel suo soggiorno patavino. A Padova (!) transitò Pawel Wlodkovic, rettore dell'università di Cracovia, che sottolinea la presenza di leggi naturali presso i pagani e l'immoralità delle guerre, la necessità che l'Europa si sforzi per integrare pagani e scismatici al suo interno (Le Goff Jacques, Il cielo sceso in terra, le radici medioevali dell'Europa, Laterza, Bari 2004, p. 230). 67 Bottin Francesco in Scienza e filosofia nell'università di Padova nel Quattrocento, a cura di Antonino Poppi, LINT, Padova 1983, p. 96. Questa, come altre notizie, sono tratte dal citato volume, dal quale non risulta mai, a differenza delle biografie del pontefice, che Giovanni Battista Cybo abbia avuto a che fare con quell'ateneo. È da sottolineare che il figlio di Colombo, Fernando, scrive che il padre ha studiato all'università di Pavia, dove invece non se ne hanno tracce. Era un'altra delle grandi università del tempo, nella quale si affermava la nuova cultura dell'Umanesimo. Pavia potrebbe essere anche una contrazione per errore, di Pataviae? In quelle sviste che, nella trascrizione dei testi, venivano fatte di frequente e che, nelle opere
colombiane, sono ricorrenti? 68 Zanier Giancarlo in Scienza e filosofia all'università di Padova nel Quattrocento, op. cit., p. 267. 69 Zanier Giancarlo, op. cit., p. 347. 70 Zanier Giancarlo, op. cit., p. 360. 71 Zanier Giancarlo, op. cit., p. 361. Per il chirurgo Leonardo da Bertipaglia, che insegnava a Padova, anche «il simbolo della croce (che Colombo piantava ovunque, N.d.A.), sotto una determinata e, non dimentichiamolo, irripetibile situazione stellare (cosa che si sarebbe verificata in un altro mondo, N.d.A.) avesse un potere, o, piuttosto, fosse il segno che la misteriosa virtù della salvia, di provenienza evidentemente siderea, era stata rivelata dalle Forze del Bene». 72 Zanier Giancarlo, op. cit., p. 364. 73 Colombo Cristoforo, op. cit., p. 8. Si tratta di una singolare ricetta, il cui significato, forse, non dovrebbe essere preso alla lettera e potrebbe nascondere un senso altro. 74 Zanier Giancarlo, op. cit., p. 372. 75 Vi operarono pittori come Cosmé Tura, Carlo Crivelli, Francesco del Cossa: «Tutti a Padova come negli anni Sessanta tutti erano a Trento a fare sociologia» (Sgarbi Vittorio, Panorama e L'Espresso, 23-11-2000). 76 Mannu Maria, I Francescani sulle orme di Cristoforo Colombo: il tempo dei pionieri, Centro Nazionale di Cultura Francescana, Roma 1992, p. V della Premessa. 77 L'artista, che era chiamato ad eseguire l'opera, al di là di ciò che era visibile, interpretava e traduceva il messaggio e le idee del committente, non solo le fisionomie. Oscillando fra le corti di principi e papi. Ma le maggiori richieste venivano o erano offerte alle chiese. 78 Oggi Leonardo da Vinci è il fenomeno più esaltato, rispetto a quelle stagioni lontane. Non solo per la sua arte «divina» (l'aggettivo è usato anche nel suo caso), ma anche per le sue intuizioni tecnologiche. In un amore, che non poteva non fiorire in un secolo ventesimo fondato sulle macchine e sul trionfo della tecnica. Ma se si volesse e si potesse scandagliare fino in fondo il Quattrocento, di replicanti alla Leonardo da Vinci, sia pure sotto angolazioni diverse, se ne troverebbero una messe. Per certi aspetti altrettanto fascinosi. Perché proiettati sugli eterni misteri del mondo e dell'esistenza. 79 Serdonati Francesco M., Vita e fatti di Innocenzo VIII, Milano 1829 dalla tipografia di Vincenzo Ferrario, pp. 1 e sgg. 80 Guido Cybo si schierò, come «capitano de' nobili», con l'imperatore Ottone I. Al tempo di Lamberto Cybo le isole della Toscana, con la Gorgona e la Capraia, divennero «Cybei de insulis». I Cybo presero possesso del marchesato della marca di Ancona, che Colombo ricorda nel corso del primo viaggio. Quando decretò che qualcuno dell'equipaggio avrebbe dovuto recarsi pellegrino a Loreto. Come voto da adempiere, dopo essersi salvato dal fortunale. I Cybo diventarono in un primo tempo duchi di Orvieto e di Spoleto e in seguito di Massa e Carrara. Otterranno il feudo di Carafanello e saranno conti di Sora, Ferentillo, Anguillara e Cerveteri. Lanfranco Cybo governò Genova con altri sette nobili ed era il sovrano magistrato della città «di che appare onorevole memoria in San Francesco di Genova». Una chiesa che Colombo frequentò? Il complesso fu completato a spese di Guglielmo che, diventato
ambasciatore, fu «armato cavaliere di Lodovico di Francia il Santo». Carlo Cybo fece parte del consiglio e divenne capitano della città di Napoli, al tempo di Roberto di Napoli. Tedizio verso il 1366 «ebbe onorati gradi appresso al re di Cipri», l'isola già sede dei Templari, dove era insediato anche un gruppo di Sufi. Mutio, Daniele e Antonio erano capitani di galee. Non da meno furono Andrea e Prinzivalle. Quest'ultimo strenuo difensore dell'isola in una vittoriosa battaglia e genero di Bernabò Visconti, principe di Lombardia. Arianito combatté a lungo in Terrasanta. Circa dieci rappresentanti della famiglia Cybo furono inoltre cardinali. Nell'albero genealogico sono presenti quattro dogi e molti commercianti. I Cybo hanno sempre dimostrato uno spiccato senso degli affari e per le attività finanziarie. Aronne fu anche mercante ed ebbe interessi in Spagna. Giovanni Battista Cybo ebbe l'incarico della Dataria nel 1471. 81 Serdonati Francesco M., op. cit., p. 5. Della Monica Nicolò, Le grandi famiglie di Napoli, Newton Compton, Roma 1998, p. 365. 82 In passato un altro Cybo, Federico, aveva ricoperto nel 1318 a Savona la medesima mansione. 83 Staffetti Luigi, Gian Battista Cybo, vescovo di Savona, Genova 1928, p. 6. 84 Santarelli Can. Primicerio Francesco, Il tempio dei Crociati dalle origini ad oggi, Tip. Iris, Molfetta 1938, pp. 22-23. 85 Santarelli Can. Primicerio Francesco, op. cit., p. 30. 86 Non si conosce l'anno in cui l'ordine cavalleresco acquisì la proprietà di San Nicola. Ma è probabile che la chiesa molfettese sia stata officiata e amministrata dai Templari di Ruvo prima di diventare una precettoria (Bramato Fulvio, La storia dell'Ordine dei Templari in Italia. Le fondazioni, Atanòr, Roma 1991, p. 74.) 87 Santarelli Can. Primicerio Francesco, op. cit., p. 42: «Dal dicembre 1488 la nostra sede episcopale non fu più alla dipendenza di quella arcivescovile di Bari, ma fu 'subiecta a Santa Sede'». 88 La flotta di Federico si era confrontata con quella capitanata dall'ammiraglio genovese Ansaldo de Mari, famiglia imparentata con i Cybo (Horst Eberhard, «Federico II di Svevia», supplemento a Famiglia Cristiana, Bergamo 2003, p. 266). 89 Horst Eberhard, op. cit., p. 145. 90 Pfister Paul O., La rotonda sul Montesiepi, Cantagalli, Siena 2001, p. 109. 91 Poco distante, nella contrada dell'Istrice, dove secondo una radicata leggenda il navigatore avrebbe trascorso parte della sua gioventù, si trova la tomba del Pinturicchio, che dipinse alla corte di Roma per Innocenzo VIII. C'è da aggiungere che la presenza degli ebrei a Siena (Gabriela Jacomella, «E la contrada riscoprì il tesoro del ghetto», Corriere della Sera, 4-9-2004) risale all'Ottocento. Nel Trecento furono poi chiamati a gestire il prestito a pegno. 92 Spagnol Claudio, Templari, anno 2, n. 3, Trentini, Ferrara 2002, p. 32: «Per secoli è esistito un culto popolare intensissimo di San Galgano, culto però sospettato, e molti autori moderni lo hanno rimarcato, di eresia. Anzi, per alcuni, era addirittura un eresiarca, forse di fede catara, dottrina che aveva trovato un favorevole accoglimento nell'agiata borghesia dell'epoca, oppure valdese o dolciniana o altro ancora».
In una delle schede del Garampi, in Archivio segreto del Vaticano, alla voce «Vescovi» si legge: «1472 16 Sept. Joannes Baptista, Saonem Episcopus transfertur ad ecclesiam Melphitam». Trasferito? 94 Natalicchio Corrado, Il Vescovo di Molfetta diventa papa, Mezzina, Molfetta 1998, p. 17. 95 Pastor Ludwig, von, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, vol. III, Roma 1959, p. 2,01. 96 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 224. 97 Natalicchio Corrado, Il Vescovo di Molfetta diventa papa, Mezzina, Mol fetta 1998, p. 40, nota 16. 98 Natalicchio Corrado, op. cit., p. 18. 99 Serdonati Francesco, Vita e fatti d'Innocenzo VIII, Milano 1829 dalle lipografie di Vincenzo Ferrario, pp. 15-16. La biografia in questione è una delle rare «vite» scritte su Innocenzo. Fu commissionata dallo stesso discendente della famiglia Cybo, Alberico, che riuscirà ad apporre in San Pietro, sul mausoleo dell'avo, la lapide (di cui parleremo nel prossimo capitolo), da cui nel 1990 è partita la nostra ricerca. L'opera, sicuramente anche agiografica, si basava però, a quanto pare, su prove documentali. Era pronta per le stampe nell'anno 1595. Curiosamente non fu pubblicata; venne ritrovata per caso e vide la luce solo duecentotrenta (!) anni dopo la sua stesura. Si salvò miracolosamente dalla distruzione, nel 1806, della cattedrale di Massa, che ospitava in una stanza l'archivio della famiglia Cybo. Moltissime le carte andate perdute. 100 Carocci Sandro, Il nepotismo nel medioevo, Viella, Roma 1999, p. 150. 101 Carocci Sandro, op. cit., p. 151. 102 Burcardo Giovanni, Alla corte di cinque papi, Prefazione a cura di Luca Bianchi, Longanesi, Milano 1988, p. 23. A proposito del nepotismo, Bianchi commenta che si trattava di «una risposta adattativa inevitabile, e in certa misura necessaria per la sopravvivenza della Chiesa, istituzione religiosa e al contempo monarchia territoriale, priva però di ascendenza e di avvenire dinastico». 103 Carocci Sandro, op. cit., p. 201. 104 Burcardo Giovanni, op. cit., p. 66. 105 Natalicchio Corrado, op. cit., pp. 32-33: «Como sia proceduta questa ellection seria un lungo dire, ma questa è la verità che San Pietro in Vincula (il cardinale Giuliano Della Rovere, N.d.A.) è quello che lo ha facto papa et li rev.mi card.li Aragona e Vesconte (il cardinale Ascanio Maria Sforza, N.d.A.) l'hanno seguito. Perché altramente tocavano cun mane, che San Pietro ad vincula se seria inteso cum li cardinali Venetiani et seriane caduta la sorte in el car.le San Marco (Marco Barbo, N.d.A.) el qual nel primo scrutinio ebbe più voce che niuno altro et per questo la seguente nocte fuo voltata tutta questa pratica in modo che costui è papa et chiamasse Innocentio ottavo». 106 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 204. 107 Burcardo Giovanni, op. cit., p. 52. 108 Carocci Sandro, op. cit., pp. 87-88: «Da tempo gli storici insistono sul fossato incolmabile che separa un evento e la testimonianza documentaria (quando esiste) che ne trasmette il ricordo. Alla fiducia positivista sull'oggettivo valore dei 93
documenti, purché autentici, si è sostituita l'insistenza sui tanti filtri ideologici, formali e culturali che costituiscono un diaframma permanente fra ogni evento e la sua documentazione scritta. Ne deriva un atteggiamento di grande cautela verso le fonti, al quale si unisce lo sforzo di approfondire il guscio semantico di ogni testimonianza, il senso della scrittura, il sistema ideologico in cui si inserisce e del quale è prodotto. Jacques Le Goff ha coniato una formula di grande risonanza: 'il documento è un monumento', perché 'è il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro... quella data immagine di se stesse'». Soprattutto, aggiungiamo noi, perché, in questo caso, le fonti, salvo rare eccezioni, sono univoche, testimoniando solo quello che si voleva lasciare alla memoria scritta. Rispetto a quanto si doveva nascondere e cancellare. Come dire che spesso il documento è «un sepolcro imbiancato». 109 Burcardo Giovanni, op. cit., pp. 87-88. 110 Va aggiunto, per completezza d'informazione, che il Serdonati, a proposito di queste relazioni, scrive che Innocenzo VIII promulgò «buoni ordini» contro i Marrani fuggiti dalla Spagna in seguito all'ultimatum di Ferdinando, e procedette con «inquisizioni e persecuzioni assai rigorose». Per la verità la «cacciata degli ebrei» avvenne successivamente a quella che viene data come la morte del papa stesso, il 25 luglio del 1492. L'interpretazione del Serdonati potrebbe essere anche dovuta alle conseguenze di un ormai diffuso antisemitismo. 111 Fusero Clemente, Giulio II, Dall'Oglio, Milano, p. 166. 112 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 210, nota 4. 113 Natalicchio Corrado, op. cit.. p. 72. 114 Enciclopedia ecclesiastica, Vallardi-Marietti, Milano-Torino 1942, pp. 590-591: «D'indole retta e pacifica, sarebbe stato ottimo in tempi migliori. Una bella gloria per Innocenzo fu la sua opposizione all'Inquisizione spagnola, presieduta allora dal Torquemada. Costui per ingraziarsi re Ferdinando si serviva di quel tribunale per impinguare l'erario; a questo scopo ordinò che un solo domenicano ne facesse parte, gli altri fossero laici. Questo modo di procedere era già stato condannato da Sisto IV. Ma insolentendo vieppiù il grande Inquisitore, Innocenzo levò la voce contro di lui con un breve del 1485. Non giovando neppur questo, protestò di nuovo il papa avocando i processi a Roma». 115 Lettere di Lorenzo il Magnifico al Som. Pont. Innocenzio VIII, Magheri, Firenze 1830, pp. 5-7. La lettera prosegue con queste parole: «...nondimeno vedendo queste sue cose andare pure in lungo, non mi pare poter negarseli questa intercessione, né alcuna altra mia opera alla necessità del sig. Francesco, il quale contentandosi molto della Maddalena, secondo che mi scrive (il matrimonio, dunque, contrariamente a quanto si ipotizza, era riuscito, N.d.A.), deve constrignere V.S., a trattarlo in modo, che ancora io resti contento, e satisfatto, come sarò quando le cose del predetto S. Francesco aranno preso forma conveniente alla dignità della S.V., ed alla quiete dell'animo mio. Io non sono mai stato di opinione, che la predetta S.V. per fare grande il sig. Francesco tolga a persona del mondo, o scandalizzi alcuno: e come questo sarebbe cosa disonesta, e fuori della natura di quella, così mi pare alieno dall'innata bontà, e dolcezza sua non lo provedendo, sanza ingiuria d'altri, a quello che sopporta la sua condizione. Supplico con ogni umiltà alla S.V. se degni levare
fatica a se, ed a me, e provederlo in modo, ch'io non abbi più ad essergli molesto in questa solicitudine, perché facendolo, quella farà cosa degna della clemenzia, e bontà sua, non solo pia, e ragionevole, ma necessaria, ed a me gratissima, con buon esemplo di tutti quelli che sperano dalla S.V., alla quale mi raccomando». Il tono di questa lettera è rivelatore delle vere gerarchie che si erano instaurate nel rapporto fra il papa e il Magnifico e può essere confrontato con le orgogliose parole, ben diverse, con le quali Colombo si rivolgeva ai reali di Spagna. 116 Abbiamo utilizzato la versione stampata nel 1715 a Venezia. 117 Carocci Sandro, op. cit., p. 151. 118 Colombo Cristoforo, Gli Scritti, Einaudi, Torino 1992, p. 385. 119 Genova, Costa & Nolan, Genova 1992, p. 81. 120 Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, del Cavaliere Gaetano Moroni Romano, vol. XXXVI, Venezia 1846: «Quantunque fosse cardinale povero manteneva numerosa ed onesta famiglia, quale trattava con tal soavità e moderazione che si rese oggetto di comune stima». Il dato verrà in seguito sdegnosamente respinto dai discendenti. La precisazione sulle ricchezze dei Cybo, in assenza di un parametro, va presa con beneficio d'inventario. 121 Serdonati Francesco, op. cit., pp. 74-75. Il Serdonati precisa ancora: «Che benché paresse loro, che fosse più scarso che non avrebbono voluto, a tirargli a più alti gradi, egli con tutto ciò non volle alienare di quel della Chiesa per arricchire o ingrandire i suoi; e lo diceva loro liberamente. Fu pregato di dare il cappello a Pantaleo Cibo, figliuolo di Cristofano cugino del papa, fanciullo di ottima aspettazione, e perché gli pareva di troppa tenera età non volle farlo... e perciò il papa deve aver maggior riguardo alla pietà cristiana e a Cristo che all'utilità dei parenti, e quindi non si potè mai indurre a donare loro nulla dell'antico stato della Chiesa. Odiava Innocenzo grandemente gli adulatori». 122 Baratta A. in Grillo Luigi, Elogi di liguri illustri, tomo I, p. 376. 123 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 222. 124 Marcora Carlo, Storia dei Papi, Edizioni librarie Italiane, vol. III, Milano, p. 293. 125 La cronaca del Panvinio così prosegue: «...come in buona parte ne seguì effetto, del che riportò infinita lode, acquistandosi ancor di più la benevolenza di ciascuno, perché in lui non era superbia, ma umanità infinita, e misericordia verso i poveri in modo che i Germani, Francesi, Ungati, Inglesi e Polacchi lo celebravano in particolare per loro benefattore e fu veramente molto benigno nel trattare, pronto nelle spedizioni, nemico per sua natura delle guerre e grande osservatore della giustizia, fu mansueto, paziente nelle avversità, giudizioso nel parlare e si ricordò sempre dei benefici ricevuti...». Mostrando sempre riconoscenza nei confronti di quei cardinali, che avevano favorito il suo pontificato. Più che di simonia si potrebbe parlare di gratitudine. Panvinio aggiunge: «Fu anche d'acutissimo ingegno, perché subito che udia trattar d'un negozio, penetrava tutto ciò che intorno ad esso occorreva raccogliendo umanamente gli infiniti ambasciatori che a lui concorrevano da ogni dove, faceva presente a tutti il bene che apporta la pace e i gravi danni che cagiona la guerra, esortandoli a persuadere i loro principi affinché deponessero le armi al fine di rivolgerle contro i Turchi nemici dando seguito ad ogni buona opera che poteva dare seguito al suo giusto desiderio».
Natalicchio Corrado, op. cit., pp. 69-70: «Personalmente», scrive Corrado Natalicchio, che pure non è tenero con il «suo» vescovo di Molfetta, «ho speso molto tempo alla ricerca di prove sicure circa eventuali 'atti impuri' commessi dal nostro Giovanni Battista Cybo durante la sua vita ed il suo pontificato. Quantunque fra le mie mani sia passato un notevole numero di libri, antichi e moderni, e di documenti originali, analizzati con cura in alcuni archivi della penisola italiana, non mi è stato possibile riscontrare una prova capace di fornire alla pubblica opinione un solo atto di accusa alla condotta morale di Cybo». Fu «di condotta incensurabile» (op. cit., p. 36, nota 6). 127 Bullard Melissa Meriam, «Fortuna della banca medicea a Roma nel tardo Quattrocento» in Roma Capitale (1447-1527), a cura di Sergio Gensini, Pacini editore, Pisa 1994, p. 245, vedi anche note 52 e 53. Potrebbe trattarsi, qualora l'episodio fosse vero, di una circostanza dettata da situazioni eccezionali. Come potrebbe trattarsi di uno dei tanti falsi creati per alimentare la damnatio. 128 Enciclopedia ecclesiastica, opera diretta da Fr. Pietro dott. Pianton, vol. IV, Venezia 1858. 129 Ci troviamo, nell'ultimo caso, alle prese con un personaggio proveniente da una zona geografica vicina alla Liguria, vicina al Monferrato (dove, a Cuccaro, secondo alcuni, sarebbe nato Colombo), vicina al Piacentino (dove, secondo altri, sarebbe ancora nato Colombo). In quella Novara dove si era sviluppata l'eresia di fra' Dolcino che, influenzato come Colombo dalle dottrine di Gioacchino da Fiore, annunciava l'avvento del quarto ed ultimo stato, in vista della salvezza, e si proponeva di ricondurre la Chiesa ad un radicale evangelismo. Finì sul rogo. Di Novara era frate Gaspare Gorrizio, colui che scriverà con Colombo il Libro delle profezie e che sarà sempre Valter ego più fidato del navigatore. Il custode delle sue carte più segrete. Di Arona, sul lago Maggiore, in provincia di Novara, era l'umanista Pietro Martire d'Anghiera, amico di Colombo e cortigiano alla corte dei re di Spagna, il quale fu tra i primi cronisti delle Indie. Che, prima ancora di Amerigo Vespucci, definì l'America un «Nuovo Mondo». 130 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 284. 131 Di «pace universale per tutta la Cristianità» parla espressamente un capitoletto del Panvinio. 132 Paravicini Bagliani Agostino, Il corpo del papa, Einaudi, Torino 1994, p. 124. 133 Paravicini Bagliani Agostino, op. cit., pp. 114-115: «Nel raccontare la cerimonia avvenuta il 28 marzo 1486 alla presenza di Innocenzo VIII, Giovanni Burcardo si sofferma con insistenza sul colore bianco: 'Il martedì di Pasqua furono preparate sette grandi ceste bianche, piene di agnelli benedetti... quindi fu preparata una gran conca d'acqua d'argento, ripiena di acqua pura... il papa li immerse nell'acqua battezzandoli e i vescovi che gli erano attorno assistendolo... estraevano gli agni dell'acqua e li portavano entro bacili verso delle tavole all'uopo preparate, ricoperte di tovaglie immacolate'... Considerato nella sua completezza, il messaggio del rito appare comunque con chiarezza: nel papa la visibilità della sua funzione eristica deve essere sorretta da purezza e innocenza di vita». 134 Paravicini Bagliani Agostino, op. cit., p. 126. 126
Enciclopedia del Cristianesimo, De Agostini, Novara 1997, p. 216: «La necessità dei sommi pontefici di corrispondere in forma più frequente, sollecita e segreta fece sorgere, all'infuori della Cancelleria Apostolica, organi nuovi come la Camera Segreta al tempo di Martino V e la Secretarla Apostolica, per la corrispondenza ufficiale in lingua latina, disciplinata da Innocenzo VIII, con la costituzione Non debet reprehensibile (31. XII. 1487), e composta di 24 segretari apostolici, di cui uno, chiamato secretarius domesticus, ebbe posto preminente. Si possono far risalire a questa Secretarla apostolica la cancelleria dei Brevi, la Segreteria dei Brevi ai Principi, e la Segreteria delle Lettere Latine». Fece preparare anche una nuova edizione del «Pontificale Romanum». 136 Innocenzo riordina prima la Sacra Rota (23 agosto 1485) per poi ritoccarla ulteriormente nel 1488, mette poi mano alla Camera Apostolica (22 dicembre 1485), infine regola la Cancelleria Apostolica (15 maggio 1486). 137 Burcardo Giovanni, op. cit., p. 22 della Prefazione. 138 Anche il Pastor, il quale fa riferimento spesso alla presunta mancanza di carattere di Innocenzo, scrive, contraddicendosi, dell'«energico procedere del capo supremo della Chiesa». 139 La lettera di Ferdinando Ferrante alla città di Molfetta il 30 agosto del 1484 non lasciava certo presagire il lungo scontro con il papa: «Hogi per le lettere del Spettabile Conte di Burrello nostro Ambasciatore, simo stati avisati, come lo Reverendissimo Signor Cardinale ch'era di Molfetta heri ad hore tredici fu Canonicamente creato papa con summo consensu de tutti... de che havimo infinite gratie ad nostro Signore Iddio, che habbia dato sì santissimo Pontefice in governo della Santa Ecclesia, e fede cristiana, avisandone ad vostra contentezza, et ne farete festa, e signi d'allegrezza come havimo fatto nui da quà». 140 Serdonati Francesco M., op. cit., p. 83. 141 Michaud, Biographie universelle ancienne et moderne, tomo XX, Ch. Delagrave, Libraires-Editeurs, Parigi, p. 348. 142 Supplemento al n. 88 di Fotostoria. 7 anni di guerra, Rotocolor Roma. 143 Il professore Osvaldo Baldacci ci informò che un sacerdote, di cui non ricordava il nome, che si stava interessando alla vita di Innocenzo, si era meravigliato di aver trovato una considerevole serie di concessioni ai preti di sposarsi. 144 Marcora Carlo, op. cit., p. 295. 145 Giunciuglio Vittorio, I sette anni che cambiarono Genova (1097-1104), Don Bosco, Genova 1991, p. 315. 146 Dizionario biografico degli italiani, (ex) vol. 25, Roma 1981. Se solo questo dato fosse vero sarebbe la migliore controprova che la figura di Franceschetto fu la più colpita dall'infamia della memoria, secondo la regola che suggerisce di fare dei figli un bersaglio per colpire meglio i padri. 147 Boille Nicole, Il Tempo, 15 ottobre 1992. 148 Baldacci Osvaldo, Roma e Cristoforo Colombo, Olschki, Firenze 1992, pp. 77-79. 149 Non è l'unico documento coevo in questo senso. Un analogo «Columbus nepos» comparirebbe in un appunto che si trova su una pubblicazione custodita presso la biblioteca di Perugia, riapparso in concomitanza con il Cinquecentenario, in occasione di una mostra. Lo apprendemmo in un colloquio occorso, in occasione di 135
una nostra conferenza a Perugia, dal professore Claudio Finzi, allora collaboratore de Il Tempo. Ma per quanto abbiamo pregato e insistito per avere i riferimenti precisi della pubblicazione in questione non abbiamo mai avuto risposta. 150 Dizionario della Bibbia, a cura di Giampiero Bof, Vallardi, Milano 1993, p. 174. 151 Nel Libro di Giona, che si imbarcò per raggiungere Tarsis, uno dei mitici approdi di Colombo, si verifica, nel corso della navigazione, l'incontro con la balena. Il mostro inghiottì il profeta, in un episodio interpretato da sempre come «premonizione» della Resurrezione di Cristo e dei morti e che si riallaccia alla navigazione, in altri mondi, di Santo Brandano. 152 De la Croix Robert, Storia segreta degli oceani, Mondadori, Milano 1990, p. 26. È l'unica volta che in un testo abbiamo trovato, dopo le nostre deduzioni ed anni di ricerche, il riferimento al «trovatello» e ad una possibile «origine papale». Da dove l'autore ha tratto le sue affermazioni? Napoleone saccheggiò l'Archivio vaticano. Si sa per certo che carte del tempo di Innocenzo VIII fecero parte del bottino, visto che documenti in tal senso furono ritrovati fra i materassi dei soldati francesi. Parigi potrebbe essere una miniera inesplorata per questa storia. Senza contare che ovunque, andando a caccia di documenti in relazione alla scoperta dell'America ed alla sua verità stravolta, si trova traccia del passaggio dell'ombra di Napoleone. Come se il filone massonico, dal quale scaturì l'imperatore, volesse trovare o cancellare, a sua volta, qualcosa. Ma questa è un'altra storia. 153 Non a caso sulla questione si è gettato più di un ricercatore. Cristoforo figlio di Innocenzo VIII è argomento sul quale non ho mai voluto insistere più di tanto, per non essere accusato, da giornalista, di voler cercare un facile scoop. Gli attacchi da parte dell'Accademia consigliavano la prudenza. Per cui, dopo la pubblicazione del primo libro nel 1991, allorché si fecero strada le prime intuizioni, decisi di mantenere la sordina sul Colombo templare e discendente dei Cybo. Ne parlai, però, anche con un cardinale. Inoltre, ai fini della complessa ricostruzione degli avvenimenti, mi interessava soprattutto il complotto posto in essere dalla storia. E una verità molto più ampia per ristabilire la giustizia profanata. Già nell'ottobre del 1992 Il Tempo titolava a tutta pagina: «Colombo era figlio di un papa?», indicando Innocenzo VIII. Ho affrontato e approfondito la questione per gradi, ripromettendomi di alzare lentamente il tiro, come spiegammo ad un professore di matematica dell'università di Perugia, con il quale ci eravamo a lungo confidati, che riterrà di dover utilizzare i dati ancora inediti sul templarismo emergente ed altre notizie in un suo lavoro (in un momento, fra l'altro, per me particolarmente critico, in cui per motivi professionali e di salute fui costretto per vari anni ad abbandonare praticamente la ricerca) e si presterà poi a fare la prefazione di un libro, di cui si parla più sotto, sull'ipotesi del figlio del papa, presentandolo praticamente come una «novità». Il professore in questione fu tra i primi, ma non il solo, ad essere informato proprio in riferimento all'intreccio cavalleresco-templare, che si andava evidenziando, e alla possibilità di una linea di sangue diretta fra Innocenzo VIII e Colombo. A quel tempo volevo evitare inutili scandalismi per un allettante «gossip d'antiquariato». Per questo mi sono limitato a «spalmare» occasionalmente la notizia in una serie di pubblicazioni, come appare anche da vari giornali, in televisione e in una lunga serie di conferenze. Ribadendola nella quarta edizione del libro nel 1997, dove compare
inequivocabilmente anche sulla copertina. E confermandola in un capitolo, concertato con l'autore e redatto quasi integralmente da me, del libro di Riccardo Tanturri, intervistato da Cinzia Romano, dal titolo Carovana di lago (Marsilio, Venezia 1997, p. 122. Vedasi in proposito anche La decima isola di Francesco A. di Maggio, Pavia 2000, pp. 194-195. L'intervista pubblicata era dell'anno precedente). A 2000 inoltrato poi è uscito un facsimile (presentato dal professore di cui ho già parlato e non ancora al termine di quel lungo periodo, al quale ho accennato, per me particolarmente difficile) dilatato in oltre duecento pagine, di quanto già ampiamente scritto e divulgato, firmato con uno pseudonimo (mi domando perché) dietro il quale si nasconde, a detta dell'editore, un insegnante di ginnastica, che si presenta ambiguamente come «professore», riuscendo in questo modo a coinvolgere persino docenti, gazzette e quotidiani. L'autore ha avvicinato più di una persona già da me contattata, ma non si è mai rivolto al sottoscritto, pur riprendendo alla lettera, facendole sue, la maggior parte delle scoperte e l'intero e del tutto inedito quadro storico illustrato nei miei numerosi articoli e nei miei libri. Il tono del «clone» è il seguente: «Confido, peraltro sulla tempestività della Chiesa affinché sappia evitare che qualche autore, prevedibilmente non 'ufficiale', che sia pervenuto, per il suo personale intuito, alla implicante verità, si trovi nella condizione di realizzare uno scoop scandalistico, che possa screditarla agli occhi del mondo, prima che essa possa parlare». Si paventa il rischio «che qualche biografo del nostro tempo possa, per sue doti intuitive e deduttive, risalire (prematuramente rispetto ai desideri della Chiesa stessa) a delle conoscenze probabilmente spinose e inquietanti, forse di carattere morale, se non addirittura dottrinale». Del personaggio in questione venni a conoscenza e volli incontrarlo. Lo sfuggente «storico» si disse depositario di «alcuni segreti della Chiesa». Senza il cui consenso, in un primo momento, affermò che non avrebbe pubblicato mai nulla. C'è peraltro da precisare, a quanto ci è stato riferito da chi del libro si dice editore, altro personaggio sul cui comportamento è meglio sorvolare, che molti dei punti di quella ricerca sarebbero frutto dei suoi suggerimenti e delle sue «visioni». Il tardivo scoop sul figlio del papa sarebbe il prodotto, dunque, nientemeno che di un lavoro di rimasticatura a quattro mani. 154 Colombo Fernando, Le historie della vita e dei fatti dell'Ammiraglio don Cristoforo Colombo, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, volume VIII, tomo I, Roma 1990, pp. 19-20. 155 Pastor Ludwig, von, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, vol. III, Roma 1959, p. 261. 156 Pastor Ludwig, von, op. cit., pp. 250-251, nota 4. 157 Carli Enzo, «Il Pio umanista. La libreria Piccolomini», FMR, n. 102, febbraio 1994, p. 71. Ne fa fede il ciclo stupendo di affreschi eseguiti dal Pinturicchio, pittore fra i preferiti da Innocenzo VIII, nella biblioteca della cattedrale di Siena (!). Dove si vede Calapino Bajazet, detto il «Turchetto», pretendente al trono ottomano, fare parte del corteo in onore di Pio IL Che si apprestava, all'ombra della chiesa di San Ciriaco ad Ancona, a partire per la crociata. 158 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 257. 159 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 258.
Carretto Giacomo E., Gem Sultàn pellegrino d'Oriente, Pagus, Treviso 1991, p. 59: «Nei paesi arabi in cui Gem era giunto lo chiamavano al-Giungium, una parola che vuol dire 'cranio' o 'coppa', e pronunciata 'giamgiama'... ha il senso di 'balbuziente'... ma Gem o Gem-scid è il nome di un antichissimo re di Persia la cui coppa, Giam-iGem, come uno specchio miracoloso rispecchia il mondo, e solo bevendo il vino proibito si poteva scoprirne il fondo per rivelare ogni arcano. Ancora una volta pensai al sacro Graal, e certo il nome di Gem era un nome dotato di potere, usato anche per Alessandro Magno e per Salomone. Non solo, anche il fratello Bayzid è stato chiamato Gemgiah, potente come Gem, ancora una volta ad unire ambiguamente i due contendenti». 161 Carretto Giacomo E., op. cit., pp. 185-186. L'autore del libro, che alterna realtà e fantasia, nella conclusione bibliografica, precisa, a p. 239, che la «lezione» è contenuta nel Gurbet-Name-i-Sultan Gem, a cura di Ismail Hami Danismend, Istanbul, 29 maggio 1954. 162 Cardini Franco, «Il Saladino», edizione speciale per Famiglia cristiana, 2003, p. 57. 163 Carretto Giacomo E., op. cit., p. 21. 164 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 260. 165 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 259. 166 Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, Edizioni romane Colosseum, vol. V, Roma 1988, p. 167. 167 Burchardus Johannes, Diarium Innocentii VIII, pars prima, R. Sereelli, Firenze 1896, p. 116 in nota. 168 La lancia era l'unità di base dei reparti templari e della cavalleria. 169 Giacomo Carretto E., op. cit., p. 86. 170 Gallotta Aldo, Bova G., Studi magrebini, vol. XII, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1980, p. 191, nota 71. 171 Manzano Manzano Juan, Cristóbal Colón. Siete años decisivos de su Vida. 14851492, Cultura Hispanica, Madrid 1964, p. 198. 172 D'Osimo Agostino, Cristoforo Colombo ed il P. Giovanni Perez di Marchetta, Ascoli 1861, pp. 87-88. 173 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 255. 174 Serdonati Francesco M., op. cit., pp. 92-93. 175 Forte era la presenza, negli insediamenti italiani a Siviglia, di colonie di genovesi, fiorentini, veneziani, senesi, piacentini e piemontesi (Varela Consuelo, Colombo e i fiorentini, Vallecchi, Firenze 1991, p. 15). 176 «Ricerche sull'occultismo a Padova», a firma Giancarlo Zanier, in Scienza e filosofia all'università di Padova nel Quattrocento, Lint, Trieste 1983, p. 361. Interessante, in nota 29, la citazione della presenza a Padova di un astronomo e medico umbro, dementino Clementini da Ameria, che rinvia ai due fratelli Geraldini di Amelia, i due fratelli che furono determinanti ai fini del varo del primo viaggio di Colombo. Clementini, pur non accettando ciecamente le previsioni astrologiche, prevedeva (p. 362), fra l'altro, grandi avvenimenti per il 1513, anno in cui il Signore cristiano avrebbe operato il rinnovamento della società europea. L'astronomo, che prevede lo scisma luterano, andrà successivamente al servizio di Leone X. 160
Cristoforo Colombo e il papa tradito, Newton Compton, Roma 1991. Questa ed altre tessere del mosaico ai fini del ruolo del Vaticano per il finanziamento e il varo della spedizione furono pazientemente e dettagliatamente rimesse insieme, per la prima volta nella storia di Colombo, in quel primo libro. Al punto che in un volume pubblicato nel 1998 si afferma: «Contrariamente a quanto si è creduto per secoli, l'impresa di Colombo, anche se si compiva sotto gli stendardi della cattolicissima Spagna di Ferdinando e Isabella, era stata finanziata ponderosamente dal papa Innocenzo VIII (Cybo Malaspina) e dalle maggiori banche d'Italia dell'epoca». Salvo poi citare la fonte in una nota riferita ad un argomento che nulla ha a che fare con quello in questione. In una di quelle sviste «scientifiche», che hanno colpito, per uno strano contagio, più di un ricercatore. Alcuni, difatti, che pure mi attaccavano, il mio libro dovevano peraltro avere letto con estrema attenzione, visto che cominciavano ad utilizzarne alcune conclusioni. Lo stesso senatore Paolo Emilio Taviani si espresse, in un primo momento, con un lapidario commento: «Fesserie di un giornalista». Per dirmi poi di persona che la questione costituiva «una bomba». Aggiungendo: «Darò ampio risalto alle sue ricerche». Nella Grande Raccolta Colombiana, a chiusura di un capitolo dal titolo «Fino a qual punto il Vaticano intervenne per l'impresa di Colombo», si limitò poi a scrivere: «Al termine di questa scheda è doveroso dare atto al giornalista del Tempo di Roma, dottor Ruggero Marino, di essere stato il primo a rilevare come i vari argomenti esposti si colleghino con la strana richiesta ai Re della 'lettera I del Libro Copiador' (in cui Colombo chiede un cardinalato per il figlio, N.d.A.) e abbia così riaperto e rivalutato il tema della partecipazione di Innocenzo VIII alla vicenda colombiana, che per troppo tempo era stata erroneamente confinata dalla bibliografia scientifica fra le leggende». Leggende e studi in proposito, a quanto mi consta, a parte sporadiche e ininfluenti citazioni di Innocenzo VIII, non ne esistevano. Taviani, a proposito del finanziamento vaticano, aggiunge: «Il primo colombista a dare credito a questa teoria fu Robertson che nella sua celebre History of America edita del 1777 definisce Luis de Santàngel 'ricevitore delle rendite ecclesiastiche', lasciando così intravedere un diretto interesse della Chiesa, e quindi del Vaticano, per l'impresa di Colombo». Per la verità il Robertson, il cui libro fu un testo privilegiato agli inizi della mia ricerca e la cui definizione del Santàngel non era mai stata rilevata a sufficienza, dall'argomento in esame non fa derivare alcuna deduzione, circa l'interesse o l'impegno del pontefice nei confronti di Colombo. Innocenzo non viene nemmeno nominato. La questione del finanziamento nemmeno lontanamente adombrata. Così come nel dettagliato studio della colombista Luisa D'Arienzo su Francesco Pinelli. L'importanza di Roma nella preparazione della «scoperta» ed il nesso con Colombo continuava ad essere completamente ignorato. Successivamente nel Cristoforo Colombo, edito dalla Società geografica italiana, sempre nella stessa scheda, Taviani affermò: «Non è da prendere neppure in considerazione l'ipotesi sussurrata negli ambienti della nobiltà romana negli anni del V centenario: cioè che il Pontefice pensasse di finanziare in proprio l'impresa di Cristoforo Colombo». La «nobiltà romana» era venuta al corrente di Innocenzo VIII e delle sue intenzioni attraverso gli articoli su Il Tempo e grazie ad una mia conferenza fatta nel 1992 al Circolo degli Scacchi (lo stemma dei Cybo!) e propiziata dal collega Emanuele Bonfiglio. Occasione in cui fui invitato al tavolo dei principi Colonna... I 177
miei rapporti con professori e professoresse, alcuni dei quali o delle quali tentai, in un primo momento, molto umilmente di coinvolgere, ai quali o alle quali chiedevo «lumi», i molteplici contatti, inutili e frustranti, con importanti personaggi della cultura, politici e non, laici e non, con responsabili di media e giornalisti, storici e non, di rilievo nel panorama nazionale, meriterebbero un libro a parte. Mi soffermo sul fenomeno per rilevare come sia difficile nel nostro Paese uscire dal coro e confrontarsi con un'accademia del sapere spesso arroccata sulle proprie posizioni. Capace di difendere soprattutto il «dogma». Che, forte del proprio potere, fa a volte di tutto per ostacolare e censurare le indagini. Fino a riuscire a bloccare persino dei servizi televisivi, come è accaduto più di una volta. Si ha il sospetto di trovarsi di fronte ad una vera e propria «Tangentopoli intellettuale», ad una vera e propria «Intellettopoli colombiana». Per chiudere la lunga digressione para-accademica ci sentiamo, invece, in dovere di rivolgere un sentito grazie ai professori Osvaldo Baldacci, a Gaetano Massa, oltre agli stranieri German Arçiniegas e Arnoldo Canclini, sopra tutti e a Francesco Perfetti, per la loro disponibilità. Un grazie ancora a Geo Pistarino per un suo articolo apparso su Columbus 92. Quindi ad Aldo Agosto, per avermi fornito la risposta documentale ad un quesito che gli avevo posto, circa il vincolo di parentela, che avevo trovato in una fonte, fra Francesco Pinelli e il papa. Per finire con Franco Cardini, il quale, sia pure con legittime riserve, accettò di fare la presentazione del mio libro del 1997. Cosa che Taviani aveva sempre rifiutato. 178 Le connessioni della famiglia Geraldini con Innocenzo e Colombo sono quanto mai importanti. Un Battista Geraldini, per completare il quadro, era stato governatore della Corsica (!) e Milano. Un loro zio, Angelo, li aveva preceduti in terra iberica e tornando a Roma aveva, a suo tempo, ottenuto la dispensa papale per il matrimonio di Ferdinando e di Isabella (!). Era stato eletto arcivescovo di Genova (!), legato generale dei crociati (!), aveva studiato a Siena (!) e a Pavia (!). Dove si vorrebbe studente anche Colombo (Frezza Federici Igea, Cristoforo Colombo e Alessandro Geraldini, ECIG, Genova 1992, pp. 23-25.) La familiarità fra i Geraldini e i Cybo è attestata anche dal fatto che le spoglie degli esponenti della nobile famiglia sono conservate in una cappella della chiesa di San Francesco di Amelia. In un sarcofago, decenni prima della scoperta del Nuovo Mondo, sono scolpite teste piumate, tipiche delle rappresentazioni degli indiani d'America. Ed è presente anche la tomba di un Cybo. I Geraldini ebbero loro rappresentanti in tutte le località lungo le quali si muove la nostra ricostruzione, comprese le Puglie, il Napoletano, Novara e Capua. Dove verrà sepolto il padre di Giovanni Battista Cybo. Purtroppo Agapito Geraldini sarà anche segretario dei Borgia, di Alessandro VI come del Valentino. Probabilmente un complice, volontario o costretto, schierato con la fazione che cambierà la storia. 179 Un Giovanni Berardi, forse un parente, detto il cardinale Tarentino, era stato diplomatico pontificio e legato papale per l'accordo di pace fra Renato d'Angiò e Alfonso d'Aragona. Era nato a Tagliacozzo, dove ci siamo recati nell'estate del 2003. Tagliacozzo è un piccolo centro dell'Abruzzo, dove è custodito il cadavere di Tommaso da Celano, il biografo di San Francesco. Nella piazza principale compare fin dall'antichità un piccolo obelisco, molte le strade intestate ai Colonna e agli Orsini. In una chiesa si venera la Madonna dei cavalieri di Malta. A pochi chilometri
di distanza in un santuario si adora un'icona mariana giunta dall'Oriente. I rivoli del grande fiume sono sempre gli stessi. 180 Strana definizione per una milizia laica, che derivava dalle confraternite. Forse anche questo nome nasconde qualcosa, in una possibile sovrapposizione di intenti e di persone? 181 Colombo Fernando, Le historie della vita e dei fatti di Cristoforo Colombo suo figlio, a cura di Rinaldo Caddeo, Alpes, Milano 1930, vol. II, p. 355. Sorge a questo punto il sospetto che il Santàngel possa essere persino italiano, visto che in molti libri il nome viene scritto all'italiana Luigi di Sant'Angelo e viene definito conte. In Spagna fra i tanti Pinelli c'era un Luigi, come rileva lo storico Alberto Boscolo. Non a caso i Pinelli erano i custodi a Roma di Castel Sant'Angelo. Potrebbe essere, dunque, Luis de Santàngel la versione ispanizzata di Luigi Pinelli di Sant'Angelo, come già supposto nel nostro primo libro? 182 A Napoli era stato viceré Aronne Cybo. A Napoli aveva trascorso anni di gioventù Giovanni Battista Cybo. A Napoli era cominciata l'avventura politica di Lorenzo il Magnifico. A Napoli si erano recati i cardinali Bessarione e Nicola Cusano. A Napoli erano passati i Geraldini, i Pinelli ed i Santàngel. I quali erano in relazione d'affari con i Medici. È evidente che i Santàngel e i Cybo, o direttamente durante il soggiorno napoletano o tramite gli stessi Medici, si dovessero conoscere. Forse anche da molto prima. Difatti un Luis de Santàngel (o Sant'Angelo), probabilmente il padre del Luis che aiutò Colombo e che aveva lo stesso nome del figlio, nel 1469 scriveva a Piero di Cosimo de' Medici, mentre il Magnifico, nel 1480, si indirizzava, a sua volta per lettera, a «Luigi da Santagnolo, a Valenza (Marini Dettina Alfonso, «Il contributo di Roma e Firenze ai viaggi di Cristoforo Colombo», in Areopago, maggio-agosto 1997, p. 4.). 183 Marino Ruggero, Cristoforo Colombo e il papa tradito, Newton Compton, Roma 1991, p. 127. 184 D'Arienzo Luisa, «Francesco Pinelli banchiere del papa, collettore e nunzio apostolico in Spagna all'epoca di Cristoforo Colombo», in Atti del IV Convegno internazionale di studi colombiani, Fondazione Colombiana, vol. II, Genova 1987, p. 72. 185 Per lui operava Andrea de Mari, parente di Innocenzo VIII per via di madre. Francesco Pinelli aveva una banca in Siviglia, con il fratello Battista e il genovese Andrea de Odone. La banca si occupava della gestione dei fondi della crociata di Granada. Finanziando, per conto di Innocenzo VIII, la guerra contro i turchi. I Pinelli erano uniti da una serie di matrimoni con la famiglia genovese dei Centurione, che possedeva un'altra delle banche più importanti dell'epoca, con particolare influenza in Portogallo. Colombo era un loro agente. Domenico Centurione era nunzio e amministratore pontificio per l'allume in Spagna (Fernandez Alonso lusto, Legaciones y Nunciaturas en Espana de 1466 a 1521,1 volume, Instituto espanol de Historia ecclesiastica, Roma 1963, p. 374 e p. 459). Una Orietta Pinelli, figlia di Isabella Centurione, aveva sposato Nicolò Pinelli Aprosio. Suo fratello Ludovico era socio del genovese Paolo di Negro, il quale da Lisbona aveva inviato Cristoforo Colombo a Madera (D'Arienzo Luisa, op. cit., p. 63).
Di Negro e Centurione verranno ricordati da Colombo nel suo testamento. Le fortune di quest'ultima famiglia, relazionata a quella genovese dei Gentile, per via di un duplice matrimonio, erano iniziate tramite il rapporto con i Medici. Tra i commissari generali della bolla per la crociata, che finanziava la guerra contro i Mori, c'era, oltre all'arcivescovo ebreo converso Fernando di Talavera, oltre al grande teologo Ximenes de Prestamo, il genovese Cipriano Gentili (o Gentile) membro di quella casata «familiare» del pontefice, che aveva in Italia anche il governo della rocca di Civitavecchia. Il porto del Vaticano al quale facevano capo i proventi dell'allume destinati alla «Guerra Santa». Cipriano Gentile infine poteva comminare persino censure ecclesiastiche, per poter esigere i soldi da versare al fondo della crociata, in un compito assegnato al priore del monastero di Santa Maria de la Cuevas. Quel Gaspare Gorrizio di Novara, che sarà il monaco più intimo di Colombo. Come sempre tutti i cerchi si chiudono attraverso le relazioni e gli incroci famigliari. 186 Melquiades Andrés Martin, Dinero Cultura y Espiritualidad en torno al Descubrimiento y Evangelización, Bogotà 1990, pp. 12-13; Archivio IberoAmericano, anno XLVII, tomo XLVII, Madrid 1987, p. 4. Le pubblicazioni (un grazie va ad Arnoldo Canclini e a Francesco Perfetti) contengono anche la riproduzione dell'importantissimo atto. Il documento, che viene dalla Spagna, circa l'origine della somma occorrente a Colombo, scoperto solo nell'Ottocento, non era mai stato pubblicato integralmente. Anche in questo studio fondamentale Innocenzo VIII non viene mai menzionato. Poiché ormai si era già fatto di tutto per ignorarlo e nasconderlo. Al punto che nella grande Enciclopedia spagnola Rialp, nella sequenza dei pontefici, da Innocenzo IV si passa direttamente ad Innocenzo X. Per il papa che fece cattolicissimi Isabella e Ferdinando, per il pontefice che con le sue elargizioni consentì la vittoria di Granada non si spende nemmeno una parola. Come accadrà in Spagna per la morte di Colombo. Una conferma dei criteri che presiedevano all'amministrazione dei soldi della Chiesa viene da un ulteriore documento, in possesso del dott. Paolo Pelù a Massa. Di circa cento anni dopo, corredato di autentica notarile. Vi compaiono molti stemmi dei Cybo di Genova e dei Cybo di Napoli, fra i quali quelli di Bonifacio IX, di Innocenzo VIII, dei Medici, dei Pinelli e dei Grimaldi, anche questi ultimi contrassegnati dai cubetti sia pure romboidali. In un punto si fa riferimento al residuo di un'annata di versamenti della bolla della crociata che, nell'ultimo anno del regno di Innocenzo, il pontefice decise di impiegare in Spagna «in opera pia». Il che avvalora, se non altro, la dipendenza di quei denari dalle decisioni di Roma. 187 Melquiades Andrés Martin, op. cit., pp. 16-17. 188 Fusero Clemente, I Borgia, Dall'Oglio, Milano 1966, p. 184: «Un mese dopo (siamo verso la fine di giugno, N.d.A.) Innocenzo VIII piega sotto il peso dell'infermità che, nonostante un ingannevole alleviamento, segnerà il suo ultimo cimento con la morte. Atroci dolori addominali, una vecchia piaga che si riapre in una gamba, febbre persistente. Il primo ad accorgersi della malattia del papa è Gem, che si vede sottoposto a più rigorosa sorveglianza». Perché a Gem fu riservato quel trattamento, visto che aveva ottimi rapporti con Innocenzo? Perché anche lui morirà di veleno? 189 Pastor Ludwig, von, op. cit., pp. 272-273.
Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 203. La frattura che avrebbe diviso la Cristianità era più che mai già nell'aria. È la ragione per cui Colombo lascerà nel suo testamento i suoi beni al servizio del Santo Padre in caso, «Dio non voglia», di uno scisma. 191 Bianucci Piero ne La Stampa, 22 settembre 1992. 192 Paravicini Bagliani Agostino, Il corpo del papa, Einaudi, Torino 1994, p. 173, nota 34. 193 Lorenzi era in rapporto con il filosofo greco Demetrio Calcondila, insegnante nella città padovana, e con il cardinale Bessarione. Lorenzo de' Medici aveva chiesto al Calcondila una traduzione esatta di un testo di Strabone «per la parte che riguardava l'Asia» (Archivio Veneto, Quinta Serie, vol. XXXII-XXXIII, Venezia 1943, p. 122). Lorenzi fu uno dei tanti intellettuali accolti alla corte di Roma. In un cenacolo che non era secondo a nessuno. Ricco di scambi con Firenze. Qualora il custode dei libri fosse salito a più alti incarichi, alla sua successione il Magnifico aveva proposto Angelo Poliziano. 194 Mélanges d'archéologie et d'histoire, VIII anno, Parigi 1888, p. 6. 195 Archivio Veneto, Quinta Serie, vol. XXXII-XXXIII, Venezia 1943, pp. 137-138. 196 Di Pierro Antonio, Il sacco di Roma, Mondadori, Milano 2003, p. 29. 197 Shaw Christine, Giulio II, SEI, Torino 1995, p. 135. 198 Shaw Christine, op. cit. Il libro si sofferma a lungo sulle relazioni dei due pontefici e dimostra ampiamente quanto Innocenzo, dopo l'elezione, non fosse affatto succube del Della Rovere. Del quale invece si servì autoritariamente a più riprese. 199 Isman Fabio ne Il Messaggero, 7 ottobre 1993. 200 La correzione apportata sulla pietra della parola «imperatore», riferita al turco, e tramutata in «tiranno», dimostra che l'incisione fu attentamente vagliata. Avvalorando, nella sua stesura originaria voluta da Alberico Cybo, il discendente del pontefice, una familiarità con l'Islam che la Chiesa di Roma, erede della Controriforma, non poteva più tollerare. Il che trova riscontro nell'atteggiamento di Bajazet che, alla morte di Innocenzo, chiese inutilmente per Niccolò Cybo il cappello cardinalizio ad Alessandro VI (Staffetti Luigi, Il libro di ricordi della famiglia Cybo in Atti della Società Ligure di Storia Patria, Genova 1908-1909, p. 480, nota 289). 201 La pubblicazione della lettera a Raffaello Sanchez, nell'anno primo del pontificato di Alessandro VI, è datata per quanto riguarda il '93 allo stesso modo, M.CCCC.XCIII (Bossi Luigi, La vita di Cristoforo Colombo, Edison, Bologna 1992, p. 123). 202 Staffetti Luigi, op. cit., p. 431. 203 Serdonati Francesco M., op. cit., p. 88. 204 Serdonati Francesco M., op. cit., p. 95. 205 Negli anni in cui fu stilato il documento notarile (già citato in nota), consultato a Massa e in possesso del dott. Pelù, la controversia era ancora in piedi. Nella carta, dopo la conferma del fatto che il papa spirò in modo esemplare, si aggiunge: «Sono scrittori che dicono che il Colombo trovò, e se ne ebbe conoscenza con certezza, in vita del papa, il Nuovo Mondo delle Indie, e altri che pur fu nel principio del Pontificato del Borges Alessandro VI, del quale dubitano assai; come doveva dubitare il Cardinale di San Pietro in Vincola per le parole seguite poco innanzi alla creazione sua». Cosa disse Giuliano Della Rovere? 190
Avere notizie precise sulle finanze dei pontificati non è facile, insufficienti le tracce nell'Archivio vaticano, come in quello di Stato di Roma. In proposito una ricercatrice dell'Archivio di Stato constatò, dopo nostra richiesta, le «inattese» mancanze relative ad alcuni fondi per gli anni che ci interessavano. 207 Gregorovius Ferdinand, Storia di Roma nel Medioevo, vol. V, Edizioni romane Colosseum, Roma 1988, p. 115. 208 Gregorovius Ferdinand, op. cit., p. 115. 209 Delumeau Jean, L'allume di Roma. XV-XIX secolo, COAC, Roma 1990, p. 17. 210 I membri di quel traffico presero il nome comune di Giustiniani, un cognome che si ritrova fra le parentele della famiglia Cybo. Giustiniani si chiamavano le famiglie genovesi di Chio. «Sarà proprio un Paride Giustiniani che, nel 1455, dovrà lasciare Focea in mano ai turchi», Delumeau Jean, op. cit., p. 19. 211 Delumeau Jean, op. cit., pp. 22-23: «...Ogni anno essi (i turchi, N.d.A.) estorcono ai cristiani più di trecentomila ducati per l'allume che ci abbisogna, a motivo della tintura dei tessuti. Infatti Ischia non ne produce che poca cosa e le cave di Lipari sono già state esaurite dai Romani. Io ho scoperto sette (!) montagne talmente ricche di allume che se ne potranno approvvigionare sette (!) mondi. Se mi ordini (Giovanni di Castro si rivolge a Pio II, N.d.A.) di ingaggiare operai, di installare caldaie e di farvi bollire la pietra, tu potrai fornire l'allume a tutta Europa e ne toglierai il beneficio ai turchi. Le materie prime e l'acqua sono abbondanti. Tu hai un porto vicino assai: Civitavecchia. Ora, puoi preparare la crociata contro i Turchi, le cave ti daranno le finanze necessarie!» 212 Gregorovius Ferdinand, op. cit., p. 115. 213 Rinaldi Riccardo, Le Lumiere, Allumiere, Civitavecchia 1978, p. 14. 214 Gregorovius Ferdinand, op. cit., p. 116. 215 Rinaldi Riccardo, op. cit., p. 15. 216 Delumeau Jean, op. cit., p. 90: «È possibile accertare che, nel periodo che va dal luglio 1489 alla fine del 1490, i Castro hanno fabbricato in totale 52.171 cantari di allume (2.608 tonn.)... I Gentili non rimasero a lungo appaltatori dell'impresa di Tolfa, visto che erano 'novi appaltatori' nel 1489 e già nel 1492 il loro posto veniva preso dai fiorentini Paolo Rucellai e Soci, i quali, tra il 5 marzo 1492 e il 5 maggio 1494, esportarono da Civitavecchia 77.221 cantari (3.681 tonn.)». 217 Delumeau Jean, op. cit., p. 62. In un libro sulla «pirotechnia» si può leggere: «L'allume volgarmente chiamato allume di rocca è sostanza simile a ghiaccio e lucente, di natura calda e secca, di sapore aspro, accompagnato da un gusto salato, avente la proprietà d'astringere e di mordere. Si può ricavare con artifici dalle pietre minerali... Gli alchimisti e coloro che separano l'oro se ne servono meravigliosamente». 218 Del Re Nicolò, La Curia romana, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1970, p. 73, nota 2. 219 Cortesi Paolo, Alla ricerca della Pietra filosofale, Newton Compton, Roma 2002, p. 136. 220 Berberi Marco, Bomarzo, un giardino alchemico del Cinquecento, Bologna 1999, p. 12. 206
Le Goff Jacques, «Il papa e l'alchimia», la Repubblica, 14 marzo 2003: «L'alchimista è 'non un magister dedito alla speculazione, ma un filosofo-artefice, litteratus ma dotato della sapiente voluntas e della destrezza degli esperti, degli artigiani, capace di entrare in rapporto con i potenti e con i simplices', i semplici tecnici». 222 Fabricius Johannes, Alchimia, Edizioni Mediterranee, Roma 1997, p. 7. 223 Il pavone è il simbolo del sole, nel mondo islamico simboleggia il cosmo o i grandi corpi celesti del sole e della luna. La sua carne, considerata incorruttibile, corrispondente al corpo di Cristo risorto nel sepolcro, è un segnale di rinnovamento. Ed era usata nei grandi banchetti. Secondo la tradizione, i cavalieri presenti, davanti alle magnifiche spoglie dell'uccello, ornato delle sue piume, dovevano fare voto di compiere un'impresa eroica. Filippo il Buono, duca di Borgogna, avrebbe prestato un simile giuramento impegnandosi nella realizzazione della crociata. Il pavone compare talvolta nelle immagini che riproducevano la grotta di Gerusalemme. Gli 'occhi' della coda erano considerarti quelli dell'onniscienza divina. L'animale, raro in araldica, indicava splendore e resurrezione. Cavalieri, crociata, resurrezione. Sono tutti elementi, che contrassegnano l'azione di Colombo. 224 Fabricius Johannes, op. cit., p. 246, figura 16. 225 Klossowski Stanislas De Rola, Alchimia. Dall'esperienza all'occulto, RED, Como 1988, p. 22. 226 Mussapi Roberto, «Stregati da un frammento di cielo», il Giornale, 18 dicembre 2002. 227 Roob Alexander, Alchimia & Mistica, Taschen, 1997, p. 356. 228 Tanturri Riccardo, «Cristoforo Colombo e il tradimento della Spagna, intervista a Ruggero Marino», in Libro aperto, aprile-giugno 2000, n. 21, p. 58. L'intervista risaliva a vari mesi prima. 229 Chicco Adriano, Rosino Antonio, Storia degli scacchi in Italia, Marsilio, Venezia 1990, pp. 30-31. 230 Masciandaro Donato, «Il mercato sulla scacchiera», Il Sole-24 ore, 9 febbraio 2003, p. 32. La parola «lealtà» era nel motto di Innocenzo VIII. La «reciprocità» coinvolgeva il rapporto con i musulmani. 231 Chicco Adriano, Rosino Antonio, op. cit., p. 15: «Colonna, appartenente alla nobile famiglia di questo nome, nacque nel 1433 a Venezia e a trentuno anni entrò a Treviso nell'ordine dei domenicani. Fu nominato maestro dei novizi, ma dedicò gran parte del suo tempo alla stesura della Hipnerotomachia. La terminò in tre anni, ma la pubblicò soltanto nel 1499, corredandola di splendide incisioni, generalmente attribuite al Mantegna o a un suo discepolo. Intanto era diventato insegnante all'università di Padova». Proprio in fase di correzione di bozze abbiamo letto il libro di Maurizio Calvesi su «Francesco Colonna Romano». Anche in questo caso, e forse con maggiore cognizione di causa, si possono fare considerazioni analoghe a quelle del Francesco Colonna veneto. 232 Palla Emilio, «Il piccolo insediamento ebraico negli Stati Cybei». Il tempo di Alberico 1553-1623, Ministero dei beni culturali e ambientali, Archivio di Massa, a cura di Claudio Giumelli e Olga Raffo Maggini, p. 113: «...nel concetto di largheggiare di favori (verso gli ebrei, N.d.A.) a tale riguardo sperando che dal 221
concorso della loro industria derivassene vantaggio anziché no alle popolazioni». 233 Viani Giorgio, Memorie della famiglia Cybo e delle monete di Massa dì Lunigiana, Massa 1971, p. 122. 234 Staffetti Luigi, Il libro dei ricordi della famiglia Cybo, op. cit., p. XLVIII. 235 Ricci Roberto, L'oro del prìncipe, op. cit., p. 310. In precedenza si può leggere: «Se da un lato l'iconografia del tempio si identifica con archetipi esoterici, nobiliari e culturali rinascimentali al tempo stesso e quella delle stelle (accoppiate al tempio nella stessa impresa) con altri significati simbolici sia universali che legati al mondo esoterico-magico, l'insieme di questi elementi (tempio e stelle) costituisce un quadro particolarmente suggestivo seppure criptico, ove il motto alludente alla grande stella, che sovrasta le altre, pare indicare la pervicace volontà di Alberico di perseguire un unico splendido ideale: e tutto ciò quale riflesso di una volontà creativa, riformatrice ed ordinatrice dello Stato materno che traspare già dai primi anni di governo, nell'orbita ideologico-culturale dell'assolutismo illuminato». 236 Ricci Roberto, Magia alchimia, essoterismo e farmacopea alla corte di Massa. Dello studio abbiamo solo una copia dattiloscritta. Contemporaneamente, un tale messer Girolamo Ghirlanda (appartenente alla famiglia del Ghirlandaio, che fu tra i ritrattisti di Colombo?), segretario di Giulio Cyboi, uomo di legge, letterato, poeta e filosofo, finì nelle grinfie della Santa Inquisizione, proprio quando il vescovo di Luni si lamentava con Alberico «che in Carrara sono qualche persone di mala vita et infetate d'heresia». Il principe dovette intercedere per il Ghirlanda presso papa Pio V. 237 Ancora nel XVIII secolo la Lunigiana ospitava un altro cipriota, Giovanni Battista Diana Paolologo, un uomo colto che, nel descrivere la vicenda di Mosè, al quale Colombo si equiparava, e del vitello d'oro, nella sua Sacra universal filosofia dell'Immacolata Concezione di Maria, sempre vergine madre di Dio affermava: «...oltre l'avere il profeta risolto in polvere quell'oro profanato racconta che gettasse ancora polvere stessa nel fiume. Ma che occorreva questa diligenza di più, non bastava che il vitello si fosse consumato o incenerito? È mirabile la cautela. Questa polvere d'oro è di natura, che gettata sopra il piombo, o sopra lo stagno, o il mercurio corrente torna a pigliare il suo umido specifico e si restituisce in oro come prima...» 238 Cipriano fu seppellito in una chiesa di San Francesco. Si occupò delle fortificazioni in Adriatico dello Stato pontificio, nel timore di attacchi da parte dei turchi, «l'empio brutto mostro». Era cavaliere dell'ordine di San Giorgio, membro dell'«Accademia degli eccentrici», cadde improvvisamente in disgrazia, finché non diventò castellano della rocca di Massa Carrara. 239 Vada Giulio, Cipriano di Piccolpasso, tra ceramica e alchimia. Lo studio è reperibile su Internet. Alla nota 15, l'autore precisa che in latino la parola Cabala diventa caballus, cavallo da soma che, come afferma Athorène, «sostiene la soma di verità esoteriche da essa trasmesse attraverso i secoli». 240 Palandrani Claudio, «E Alberico volle la 'Città del sole'», La Nazione, 12 marzo 1998. Ancora oggi, a dimostrazione della forza della tradizione e del simbolo, il supplemento di cultura del quotidiano locale si chiama «Il Mercurio». 241 «La Profezia di Lincoln», in Il Nostro Diritto, Tumminelli & C., Città universitaria, Roma 1941, pp. 11-12.
La notizia è comparsa in un articolo, a firma Gruppi Pietromarchi, su un numero della rivista Gardenia, della quale non abbiamo gli estremi. 243 Il giardino magico degli alchimisti, Il Politilo, Milano 2000, pp. LXX-LXXI. Gherardo Cybo si scriveva con lo scienziato Ulisse Aldovrandi. 244 È facile rendersene conto se si fa un paragone con quanto accade oggi con i maghi televisivi e le loro ricorrenti truffe. 245 Daxelmüller Cristoph, Magia storia sociale dì un'idea, Rusconi, Milano 1997, p. 190. 246 Daxelmüller Cristoph, op. cit., p. 191. 247 Corvino Claudio, «La caccia alle streghe», in Medioevo Dossier, De AgostiniRizzoli Periodici, num. 1, 2003, pp. 53-54. Di Nola Alfonso M., Il diavolo, Newton Compton, Milano 1994, p. 260: «In effetti il documento del 1484... non è il punto di partenza della persecuzione, ma soltanto uno fra i molti atti della legislazione papale che, senza giungere ad alcuna dichiarazione drammatica sul problema e sulla realtà del patto diabolico e del volo notturno, costituiscono poteri ed autorità giudiziari ed inquisitoriali. L'importanza del provvedimento sta, invece, nei suoi ampi e funesti effetti, superiori certamente a quelli risultanti dagli analoghi atti dell'autorità pontificia». 248 Il Malleus verrà ristampato nel 1576, dopo che dal 1520 non aveva più conosciuto edizioni. 249 Dictionnaire de Teologie Catholique, Libraire Letouzey et Ané, Parigi 1927, tomo VII,p. 2004. 250 Ambrosini Maria Luisa, L'Archivio segreto del Vaticano, Mondadori, Milano 1973, p. 251. 251 Enciclopedia dell' Ecclesiastico, a cura di Vincenzio d'Avino e di P. Antonio Pellicani, vol. II, Torino 1878, p. 665. 252 Enciclopedia ecclesiastica, diretta da Mons. Adriano Bernareggi, Vallardi-Marietti, p. 591. 253 Montesano Maria, «Magia», in Medioevo Dossier, n. 2, 2001, De Agostini-Rizzoli Periodici, p. 35. 254 Montesano Maria, op. cit., p. 37. 255 Fumagalli Beonio Brocchieri Mariateresa, Pico della Mirandola, Piemme, Casale Monferrato 1999, p. 19. 256 Nel 1491 ottenne, da Innocenzo VIII, il patriarcato di Aquileia. 257 Quasi nessuno scrive, come precisa il Pastor, che Marsilio Ficino prese i voti nel 1473. E che fu, fra l'altro, allievo del Platina e del Cusano. 258 De Lubac Henri, Pico della Mirandola. L'alba incompiuta del Rinascimento, Jaca Book, Milano 1997, p. 11. Per un grande studioso come Cristoforo Landino Pico fu «il principe del nostro tempo in ogni dottrina e letteratura». C'è chi lo definì «quasi divino». 259 De Lubac Henri, op. cit., p. 53, nota 25. Il cardinale Bessarione, nel 1459, aveva fatto a Norimberga un discorso sulla pace, che commentava lo stesso versetto. 260 De Lubac Henri, op. cit., p. 314. 261 Farioli Marcella, Le religioni misteriche, Xenia, Milano 1998, p. 109. 242
Enciclopedia ecclesiastica, op. cit., p. 591. È lo stesso sapere di «testi di tutte le sette», che erano state le letture di Colombo. 263 De Lubac Henri, op. cit., p. 40. 264 Fumagalli Beonio Brocchieri Mariateresa, op. cit., p. 131. 265 Ambrosini Maria Luisa, op. cit., p. 218. 266 Pliche A.-Martin V., Storia della Chiesa, vol. XV, LICE-Berruti, Torino 1972, p. 291. 267 Fumagalli Beonio Brocchieri Mariateresa, op. cit., p. 101. 268 De Lubac Henri, op. cit., p. 46. 269 De Lubac Henri, op. cit., p. 450. 270 Fumagalli Beonio Brocchiero Mariateresa, op. cit., p. 103. 271 Archi Antonio, Il tramonto dei Principati in Italia, Cappelli, Bologna 1962, pp. 85 e 238. 272 De Lubac Henri, op. cit., p. 326. Il conte della Mirandola non fu un'eccezione. Il suo nome è stato spesso avvicinato anche a quello di Ferdinando di Cordova, «cavaliere in armi e battaglia», uno spagnolo che addirittura lo precedette, giovane come lui, bello e gradevole come lui, musicista, pittore, spadaccino, cresciuto nei circoli degli umanisti italiani. Discettava in «fine latino, greco, ebraico, caldaico, arabo»(!). Il suo successo era tale che i «mandarini» del sapere, a Parigi, gelosi lo fecero arrestare. Venne in Italia, a Genova si dichiarò disponibile contro chiunque per discutere diverse tesi di medicina, fisica, filosofia e teologia. Si incontrò a Firenze con il cardinale Bessarione, che lo introdusse all'Accademia platonica e gli fece iniziare uno studio comparativo fra Platone e Aristotele. Fu fatto fare suddiacono dal vecchio cardinale e trovò un posto a Roma, nella Roma di Giovanni Battista Cybo, ancora cardinale, presso il tribunale della Rota. Morì nel 1485, un anno prima che Giovanni Pico pubblicasse le sue tesi (De Lubac Henri, op. cit., p. 7). 68. Staffetti Luigi, op. cit., p. 230. 273 La falsità dell'atto sul quale si basava il potere temporale della Chiesa venne messa in discussione proprio nel XV secolo, con il cardinale Nicolò Cusano e con Lorenzo Valla che, prima di recarsi a Roma presso la corte papale, nel 1442 avvalorava la falsitas manifesta del constitutum Constantini nella Napoli di Alfonso V, dove erano insediati i Cybo. Una ragione in più per rifondare, a partire da Costantino, una nuova Chiesa di Roma. 274 Varagnoli Claudio, Santa Croce in Gerusalemme, Bonsignori, Roma 1995, p. 16: «La disposizione del IV secolo richiama quella delle chiese orientali, con la memoria, ambiente che racchiudeva una reliquia o un luogo sacro, posto dietro la chiesa per l'assemblea dei fedeli. La distribuzione degli accessi alla cappella, con due corridoi, probabilmente uno per i fedeli in entrata ed uno per quelli in uscita, ricorda da vicino analoghe sistemazioni nelle catacombe, ma la disposizione della chiesa romana richiama... quella della basilica costantiniana del Santo Sepolcro a Gerusalemme dove, dietro la grande basilica del martyrium, è posta la rotonda contenente il sepolcro». 275 Varagnoli Claudio, op. cit., pp. 16-18. 276 Armellini Mariano, Le chiese di Roma, Tipografia Editrice Romana, Roma 1887, p. 205. 262
Hesemann Michael, Titulus Crucis, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, pp. 298299. Dal VI secolo «fu qui che il papa celebrava il rito del venerdì santo, fino all'esilio avignonese (1305-1377). Secondo l'Ordines Romani, i libri liturgici che contenevano la descrizione delle cerimonie papali, il papa si recava scalzo al la basilica laterana fino alla 'basilica sessoriana' per venerare là il 'vessillo della salvezza'. I papi celebravano qui anche la quarta domenica di Quaresima (Laeta re). Dal IX secolo, simbolo di questa ricorrenza fu la «rosa d'oro» che il papa portava ogni anno dalla sua residenza al Laterano a Santa Croce, dove la consacrava». Santa Croce era in un luogo appartato e quanto mai sacro, per lungo tempo caduto in abbandono. Per trovare la menzione di un monastero bisogna risalire ai primi anni dopo lo scadere del Millennio, con una citazione del Regesto Sublacense. 278 Varagnoli Claudio, op. cit., pp. 21-22. 279 Varagnoli Claudio, op. cit., p. 24. In un breve pontificio del 1488, in pieno pontificato di Innocenzo VIII, quando ne era cardinale Pedro Gonzalez de Mendoza, il «terzo re di Spagna», invitava i monaci certosini a dare il loro apporto alla riparazione e alla ricostruzione della domus sanctae Crucis de Jerusalem. 280 Cfr. Coen Paolo, Le sette chiese. Le Basiliche giubilari romane, Newton, Roma 1999, p. 63. 281 Varagnoli Claudio, op. cit., p. 49, nota 83. 282 Varagnoli Claudio, op. cit., p. 26. 283 Thiede Carsten Peter, D'Ancona Matthew, La vera croce, Mondadori, Milano 2001, p. 114. 284 Enciclopedia del Cristianesimo, De Agostini, Novara 1997, p. 617. 285 A proposito dell'ananas la sua presenza «impossibile» è stata rilevata persino in un mosaico romano (oltre che in Egitto e a Pompei), in un reperto di Palazzo Massimo alle Terme di Roma (Corriere della Sera, Fulco Pratesi, 3-12-1998). Pappagalli, ananas, mais hanno messo in crisi la paternità melozzesca: poiché se l'America fosse stata effettivamente «scoperta» solo dopo il viaggio colombiano del 1492, quelle immagini non avrebbero potuto essere rappresentate in epoca precedente. A meno che di quel mondo le nozioni fossero, in ristretti ambienti del Vaticano, già note da tempo, soprattutto al «papa marinaro». Ma questo è argomento tabù, in un problema che non può essere certo risolto dai critici dell'arte o dagli studi degli architetti. Melozzo da Forlì, che per noi resta il maggiore artista indiziato nell'esecuzione dell'ananas, fu vicino al padovano Mantegna, ed è considerato un maestro della prospettiva, una tecnica che apriva all'arte visioni rivoluzionarie. È stato fra i maggiori affrescatori della Casa Santa di Loreto, il santuario mariano particolarmente legato alla figura del gigante San Cristoforo, dove delle sue opere è rimasta l'Entrata in Gerusalemme. Dove Innocenzo VIII, come Colombo, si sarebbe sempre voluto recare pellegrino. In un desiderio che non si potè mai realizzare per via delle incombenze della sua carica, che lo costrinsero a rimanere a Roma. Neanche Colombo potè esaudire il voto. 286 Melozzo da Forlì, Leonardo Arte, Milano 1994, p. 18. L'artista resta, tuttavia, un autore poco conosciuto, definito «esoterico, teorematico... quasi un Leon Battista Alberti della pittura». Prima di giungere nella capitale per i piani della «Renovatio Urbis», promossa da Sisto IV, anche lui avrebbe lavorato a Padova (!). Un pittore per 277
il quale si parla di «stella nera», in seguito alla sorte che hanno subito gran parte delle sue opere, andate irrimediabilmente perdute. Un artista colpito, a sua volta, da damnatio memoriae. Il suo è un percorso creativo al servizio di una committenza, che è quasi sempre la stessa di altri autori di cui già abbiamo parlato e che immancabilmente rimanda agli ambienti della Chiesa. Coinvolgendo direttamente il papato. Ad ulteriore conferma che Vaticano ed Umanesimo erano in quel periodo indissolubili e procedevano all'unisono, sia pure fra inevitabili dissonanze dovute alle varie mentalità, alle varie interpretazioni, alle varie ambizioni. In una storia difficile da ricostruire nel dettaglio fra le «contrapposizioni ideologiche che diventavano economia di vita, risse tra gruppi di intellettuali, contrapposizioni tra famiglie che si travestivano di contenuti politici» (Melozzo da Forlì, op. cit., p. 51). 287 Melozzo da Forlì, op. cit., p. 59. Luca Pacioli, altra mente eminentissima del periodo, era un cultore delle formule, degli insegnamenti euclidei, di un'antica sapienza che rammentava a Melozzo «quale formidabile incrocio di verifiche e di applicazioni matematiche, geometriche, antiquarie e architettoniche fosse, in fondo, anche l'alfabeto lapidario romano» (p. 58). 288 Melozzo da Forlì, op. cit., p. 80: «Questi [solidi] son quelli... di quali le forme materiali con assai adomezze nelle proprie mani di V.D.S. nel sublime palazzo del reverendissimo Cardinale nostro protectore Monsegnor de Sanpiero in vincula quando quella venne a la visitatione del summo pontefice Innocentio ottavo, negli anni della salute nostra 1489». 289 Mazzuccato Otto, «Una scritta dedicatoria cinquecentesca in ceramica», in Ceramica per l'architettura, n. 37, anno 2000. Da questa pubblicazione saranno tratte ulteriori notizie. 290 L'attribuzione e la datazione delle due lunghe iscrizioni, apposte nell'oscuro corridoio, continuano ad essere ricondotte allo stemma del cardinale spagnolo Bernardino Carvajal. Fu probabilmente soprattutto lui, molti anni dopo la caduta di Granada, nel tempio dove Innocenzo aveva rinvenuto il Titolo della croce, a sviare la memoria dal pontefice. 291 Toesca Ilaria, «A Maiolica Inscription in Santa Croce in Gerusalemme», in Essays in the History o/Artpresented to Rudolph Wittkower, Phaidon, Londra 1969, p. 105. Le parentesi nel testo dell'iscrizione stanno ad indicare le lettere mancanti. 292 Come si evince dal testo, anche la cifra relativa agli anni di pontificato presenta omissioni sufficienti a confondere le piste. Visto che il 1492, qualora fosse rimasto collegato all'anno ottavo di pontificato, come nella primitiva scrittura, avrebbe creato una dissonanza temporale in grado di fare sorgere immediati sospetti, riconducendo inevitabilmente ad Innocenzo. Il Borgia infatti, che ne avrebbe usurpato i meriti, nello stesso 1492, si trovava ad avere appena iniziato il suo pontificato. 293 Thiede Carsten Peter, D'Ancona Matthew, op. cit., p. 87. 294 Hesemann Michael, op. cit., p. 320. Quando la reliquia del santo sia entrata a fare parte della collezione sacra di Santa Croce non si sa con esattezza, ma «si dice che il dito di San Tommaso si trovi là 'da tempo molto remoto' e che fosse collocato presso un apposito 'altare di Tommaso' dove fu venerato per tutto il Medioevo».
Sicari Giovanni, Stemmi cardinalìzi (sec. XV-XVIII), Alma Roma, Roma 1996, pp. 128-129. La successione degli spagnoli va dal Mendoza al Quinones, un francescano che diventerà confessore di Carlo V. Per finire con l'onnipresente Carvajal. È certamente Bernardino Carvajal ad avere, insieme ad altri, le responsabilità più pesanti a proposito del sistematico inquinamento della storia operato a Roma. Già ambasciatore dei sovrani di Spagna, l'inviato dei re fu determinante nell'elezione al soglio pontificio di Alessandro VI. Che lo ricompenserà con il cardinalato. Uomo di grandi ambizioni, uomo più di potere che di fede, esponente di una Chiesa di Stato più che dell'ecumenismo, sarà anche con Carlo V il capo delle fazioni filospagnole nella capitale. Si schiererà contro Giuliano Della Rovere, divenuto papa Giulio II, per la cui deposizione ordì un complotto. Per Carvajal gli interessi della Spagna e dell'imperatore superavano quelli del capo della Cristianità, al quale avrebbe dovuto obbedienza. A lui la tradizione orale, che si era riuscita ad imporre per cinque secoli, faceva risalire il ciclo melozzesco. Ma gli studi più recenti lo attribuiscono inequivocabilmente al Mendoza. Che era il cardinale titolare della chiesa nel tempo del pontificato di Innocenzo VIII (!). Carvajal sarà colpito persino dalla scomunica e verrà reintegrato da Leone X, il figlio di Lorenzo il Magnifico, il consuocero di Innocenzo VIII. Evidentemente nell'omertà reciproca, che ormai legava il papato e l'impero a filo doppio, nel gioco degli scontri e delle alleanze, si trovò un accordo o almeno un compromesso. Anche perché la Spagna, di fronte ai pericoli ricorrenti per la Chiesa, avrebbe confermato il suo ruolo di «Paese cattolicissimo», difensore della fede. A rafforzare l'impronta spagnola, a destra dell'ingresso di Santa Croce, al piano terra del campanile, verrà edificata la cappella di San Giacomo, dedicata al santo di Compostela. 296 La professoressa Emilia Stolli, che si occupa dell'archivio, ci ha riferito che fra le carte rimaste non si può escludere che possa esserci qualche interessante documento in proposito ai molti quesiti che la chiesa propone. Purtroppo, in seguito ai lavori di risistemazione e ristrutturazione degli ambienti, non è possibile al momento alcuna verifica. 297 Bizzarri Mariano, Il Mitreo di San Clemente, Sydaco, Roma 1997, pp. 6-7. 298 Bizzarri Mariano, op. cit., pp. 12-13: «Le iconografie mitraiche illustrano come dal midollo germoglierà il frumento (che diventerà il pane e la carne della comunione) e dal sangue il vitigno, da cui si ricava il vino (il sangue di Cristo), la bevanda che qui svolge il ruolo di sostituto simbolico dell'Haoma iranico (una sorta di Graal, N.d.A.). Il sacrificio rituale del toro va distinto dall'atto propiziatorio nei confronti della divinità. Mentre quest'ultimo è il senso del sacrificio dei tori bianchi, quale si svolgeva in Atlantide ed è descritto nel Crizia di Platone, l'uccisione del toro da parte di Mithra, così come l'uccisione del Minotauro a Creta da parte di Teseo, assume il significato di un superamento iniziatico della componente 'taurina' insita nell'essere umano». Si può aggiungere che il toro (simbolo di papa Borgia), come primo essere creato, secondo alcune tradizioni, è il corrispettivo in alchimia della materia prima e che la drammatica lotta con Mithra si verifica in concomitanza del solstizio d'inverno. In una ricorrenza, spostata al 25 dicembre, già consacrato alla festività del «Sol invictus», poiché segnava la «resurrezione» del sole dopo tre giorni. Il 25 dicembre diventerà il giorno della nascita del Gesù Bambino. Il 25 dicembre, in seguito al 295
naufragio della Santa Maria di Colombo, nascerà il primo insediamento nelle Indie. Per l'inizio della Resurrezione? La contrapposizione del toro, per la Cristianità, è il bue che dà vita al Gesù-uomo nuovo. Colui che San Cristoforo reca sulle spalle, nel cammino verso la luce. 299 Boyle Léonard E., Piccola guida di San Clemente, Collegio San Clemente, Roma 1989, p. 4. 300 Enciclopedia del Cristianesimo, De Agostini, Novara 1997, p. 165. Nella Lettera ai Corinti si afferma che «per favorire il ripristino della pace una prima esortazione fa leva sulle conseguenze sempre distruttive della discordia. Quindi espone l'origine e il significato preciso del mistero di guida della comunità cristiana: è grave fraintendimento immaginarlo come potere per il quale competere, poiché non si tratta di un dominio sulla comunità cristiana, ma di una memoria della sua origine dal Signore attraverso la missione degli apostoli... Sia l'organizzazione della Chiesa, sia lo stile di vita dei credenti sono chiamati a custodirne la memoria mostrandone la fecondità e la capacità di rinnovare l'intera trama delle relazioni e dei compiti». 301 Boyle Léonard, op. cit., p. 12. 302 Boyle Léonard, op. cit., p. 30. 303 Vasari parla senza ombra di dubbio, per quanto riguarda la vicina cappella di Santa Caterina di Alessandria, di un'esecuzione ad opera di Masaccio. Quello che è stato l'antesignano della prospettiva e il maestro di tanti grandi pittori morì nel 1428. Siamo nella prima metà del Quattrocento, in tempi precedenti alle navigazioni che verranno effettuate nel Sud dell'oceano. 304 Pastor Ludwig, von, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, vol. III, Roma 1959, p. 270. Il vescovo di Foligno, siamo ancora una volta nell'Umbria francescana, è stato anche confessore di Innocenzo VIII, il quale gli avrebbe consentito di assumere il cognome Cybo. Nella chiesa di San Giacomo, nella cittadina umbra, sono ancora visibili gli stemmi. 305 Il volto di Cristo, a cura di Giovanni Morello e Gerhard Wolf, Electa, Milano 2000, pp. 216-217. 306 Hesemann Michael, op. cit., p. 15. 307 Ravenscroft Trevor, La Lancia del destino, Edizioni Mediterranee, Roma 1989, pp. 45-46. 308 Ravenscroft Trevor, op. cit., p. 47. 309 Attali Jacques, 1492, Sperling e Kupfer, Milano 1992, p. 95. Fu un fenomeno che lo storico Giorgio Ruffolo ha definito un miracolo italiano in grado di creare «una ricchezza che non si trasformò in potenza ma si trasfigurò in bellezza». E che, come ha detto il francese Braudel, fece sì che «quando sull'Italia cadde la notte, tutta l'Europa ne fu illuminata». 310 Il Pollaiolo, non essendo un architetto, avrebbe dato ad altri il compito di seguire i lavori. «Dicesi che disegnò il medesimo la fabbrica del palazzo di Belvedere, per detto papa Innocenzio, se bene fu condotta da altri, per non aver egli molta pratica di murare.» 311 Eugenio Muntz, «L'architettura a Roma durante il Pontificato d'Innocenzo VIII», in Archivio storico dell'arte, Nuovi Documenti, anno IV, Roma 1891, p. 458. Da questa pubblicazione verranno tratte ulteriori notizie. Dai documenti emerge, come aiuto del
Pollaiolo, la presenza di un Giacomo di Pietrasanta, che riconduce alla zona di Carrara e di quelli che verranno definiti i Cybo di Massa. Identificato in un impresario edile e architetto toscano, dal nome di Jacopo di Cristoforo. L'acquisto del terreno necessario alla nuova costruzione e all'ingrandimento dei giardini del Vaticano cominciò dal 1485. 312 Morello Giovanni, I Giardini vaticani, Logart, Roma, pp. 12-13: «Una radicale azione di rinnovamento venne intrapresa alla fine del Medio Evo durante il pontificato di Innocenzo VIII (1484-1492), con la costruzione di un palazzotto, detto il Belvedere... il palazzotto era circondato da un giardino con cipressi e all'interno venne sistemata una parte coltivata con piante di aranci rinfrescata da una fontana; lì cominciarono ad essere radunate alcune statue, primo nucleo della raccolta antiquaria all'origine dei Musei Vaticani...» 313 Redig De Campos Deoclecio, I Palazzi vaticani, Cappelli, p. 77. 314 Eugenio Muntz, op. cit., p. 458. 315 Eugenio Muntz, op. cit., p. 458. La facciata sarà in seguito utilizzata a modello per la famosa villa Farnesina d'Agostino Chigi. 316 In un foglio del Codice Atlantico, conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, esiste un disegno del Belvedere firmato da Leonardo da Vinci, altro misterioso personaggio di probabili tendenze giovannee, che soggiornò nella villa al tempo di Giulio II. Per trovarvi l'ispirazione per i suoi capolavori. 317 Redig De Campos Deoclecio, op. cit., p. 77. 318 Pastor Ludwig, von, Storia dei Papi, vol. III, Roma 1959, p. 276. 319 Muntz Eugenio, op. cit., p. 460. Sopra i cornicioni «vi si scorgono meravigliosi e non mai abbastanza lodati scherzi di due puttini per ciaschedun lunettone, fra mille fantastiche bizzarrie: e sono tanto leggiadri, d'arie e forme così vezzose, che gl'intendenti non possono facilmente levarne la vista». 320 Vasari Giorgio, Le vite, Newton Compton, Roma 1991, p. 520: «E non molto tempo dopo, cioè l'anno 1484, Innocenzio Ottavo genovese gli (al Pinturicchio, N.d.A.) fece dipingere alcune sale e loggie nel palazzo di Belvedere. Dove fra l'altre cose, sì come volle esso papa, dipinse una loggia tutta di paesi, e vi ritrasse Roma, Milano, Genova, Fiorenza, Vinezia e Napoli alla maniera de' Fiamminghi, che, come cosa insino allora non più usata piacquero assai. E nel medesimo luogo dipinse una Nostra Donna a fresco all'entrata della porta principale. In San Piero alla cappella dove è la lancia che passò il costato a Gesù Cristo, dipinse in una tavola a tempera, per il detto Innocenzio Ottavo, la Nostra Donna maggior che il vivo». 321 Mantegna, coli. I Classici dell'Arte, Rizzoli, Milano 1967, p. 11. In una cronaca manoscritta del 1486 il Mantegna viene definito «el primo homo de li disegni over picture che se retrova in tutta la macchina mondiale». Il grande umanista e poeta Battista Mantovano lo chiamava «vanto dell'Italia, gloria dell'età nostra», si parlava di «un uomo celeberrimo che mostrò ai posteri ogni regola e genere di pittura e non solo supera tutti nell'usare il pennello». 322 Carrara e Padova rimandano come sempre ai Cybo. 323 Vasari Giorgio, op. cit., p. 511. 324 Vasari Giorgio, op. cit., p. 511.
Redig De Campos Deoclecio, op. cit., p. 78. Il Pastor precisa: «Antichi disegni mostrano quanto fosse grandioso il palazzo destinato agli ufficiali della Curia, ch'egli fece erigere accanto all'atrio della basilica di San Pietro». Inoltre «al palazzo Vaticano, Innocenzo VIII intraprese dei lavori grandiosi presso il portico cominciato sotto Pio II e nelle prossime vicinanze, o più probabilmente sulle fondamenta stesse del palazzo cominciato sotto Paolo II» (Muntz Eugenio, op. cit., p. 368). Purtroppo anche di un palazzotto Cybo non è rimasto niente, in quanto quello che non fece Borgia, lo fecero i lavori del 1610 effettuati per fare posto alla facciata della nuova basilica. Ma secondo uno studioso «la porta a imposte di bronzo che dà accesso al palazzo Vaticano dal lato destro del portico che precede la basilica, proverrebbe dalle costruzioni di Innocenzo VIII» (Muntz Eugenio, op. cit., p. 370). 326 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 260. 327 Muntz Eugenio, op. cit., p. 368. 328 Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 282. 329 I Borgia, Electa, Milano 2002, pp. 174-175. Chi era Simmaco? C'è un Simmaco papa, diventato santo, a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, che liberò gli schiavi dalla servitù e procedette alla costruzione del primo palazzo vaticano. I riferimenti sembrano pertinenti. C'è poi un Simmaco, che nel secondo secolo d.C. tradusse in greco la Bibbia, fu un commentatore dei testi sacri, discostandosi dalla Bibbia cosiddetta dei Settanta. Probabilmente un Ebionita (i poveri), un esponente della setta giudeo-cristiana palestinese, che si riallacciava ai Nazareni con il loro Vangelo (dei Naziroi), che sposava la nuova legge con l'antica. La loro concezione di Gesù (Jesus Nazareno), il cui pensiero sarebbe stato corrotto (lo stesso sarebbe avvenuto per la Bibbia), era simile a quella dell'Islam. I loro rituali richiamavano quelli di Qumram e gli Ebioniti sarebbero i continuatori diretti delle teorie degli Esseni. 330 Una fontana più piccola sempre con la pigna compare a Roma, in piazza San Marco, dietro Palazzo Venezia, dove Innocenzo spirò. Nel 1502 a Rimini Leonardo magnificava, in un suo scritto, l'armonia degli scrosci d'acqua della locale fontana della pigna, uno strumento musicale ad acqua. La pigna figura alle volte sulla punta del caduceo di Hermes. E si può vedere ancora in Egitto nelle catacombe alessandrine di Kom el Smougafa. O nella sala Armarniana del Museo del Cairo, dove compare fra gli oggetti votivi, insieme con un inequivocabile ananasso! Risalirebbe al regno del faraone Akhenaton, fra il 1351 e il 1334 a.C. 331 Venditti Emilio, Il Castello della Magliana, Roma 1994, pp. 21-22: «Attorno al 1471, il conte Girolamo Riario, nipote di Sisto IV Della Rovere e fratello del Cardinale Pietro Riario, ottenne, dallo zio papa, l'uso di questa vasta tenuta, all'epoca luogo amenissimo, per organizzarvi delle battute di caccia... Una descrizione del Volterrano, cronista dell'epoca, riferisce che il 10 aprile del 1480, il conte Riario organizzò in onore dei duchi di Sassonia, ospiti di Roma, una grandiosa battuta di caccia al cinghiale». Il Muratori scriveva: «Fu apparecchiato all'aperto, presso le fonti della Magliana... Di canti, di voci d'allegrezza, di clangore di trombe, d'ululati di corni, risuonavano i boschi e le selve all'intorno». Fu con l'avvento di Giovanni Battista Cybo che la proprietà campestre divenne un «luogo privilegiato per i soggiorni del nuovo papa». Il quale diede incarico ad Antonio Graziadeo Prata da Brescia, che già aveva eseguito opere di fortificazione di Castel Sant'Angelo e la 325
«Loggia delle benedizioni» scomparsa, di costruire il palazzetto innocenziano, di forma quadrangolare e circondato da mura merlate che, sotto molti aspetti, ricorda lo stile severo del Belvedere. Lo si poteva raggiungere per via fluviale. Per andare alla Magliana i Papi, con il loro seguito, uscivano dalla Porta Santo Spirito o da Porta Settimiana, superando le mura aureliane o seguivano «la Lungara» fino al porto di Ripagrande «dove, su un robusto barcone signorilmente addobbato, potevano proseguire sull'onda del Tevere fino al piccolo scalo fluviale della Magliana a pochi metri dal Castello» {idem, p. 108). 332 Venditti Emilio, op. cit., pp. 28-29. 333 Tracce degli interventi operati sotto il pontificato di Innocenzo VIII si trovano a Santa Balbina, a San Giovanni in Laterano, a San Giuliano dei Fiamminghi, a Santa Maria della Pace, a Santa Prassede, San Biagio della Pagnotta, San Sisto in Piscina, a Santa Maria in via Lata, dove furono abbattuti i resti di un antico arco romano e dove all'esterno si vede ancora uno stemma del Cybo, a Santa Maria del Popolo, con la cappella Cybo, sorta quando il pontefice era ancora cardinale e dove il Pinturicchio dipinse una Madonna. Cappella successivamente modificata nel corso dei secoli. San Giovanni Battista in Trastevere era naturalmente legata alla colonia ligure, che nella zona del porto di Ripa Grande possedeva terreni, uffici, commerciali, negozi e magazzini. Innocenzo VIII stabilì che il rettore fosse scelto fra i sacerdoti genovesi, dichiarando inoltre «nazionale» la fondazione. Analoghi interventi riguardarono gli edifici civili di Roma da Castel Sant'Angelo a Ponte Mollo, al Palazzo della Cancelleria, che nacque in quel periodo, al Palazzo Orsini, a Porta Pinciana, alla Torre del Soldano, alla Tor di Nona, al Campidoglio, a Fontana di Trevi, alle porte e alle mura della città, all'università che prevedeva addirittura un progetto di ristrutturazione totale: «Egli (Innocenzo VIII, N.d.A.) provvide che lo stipendio ai professori venisse dato completo e con sollecitudine, e solo la morte gli impedì di por mano alla ricostruzione dell'istituto» (Pastor Ludwig, von, op. cit., p. 286). La febbre di innovazioni si estendeva anche fuori della città santa ed investiva Argnano e Corchiano, il porto di Civitavecchia e i centri della Tolfa, Corneto, Iesi, Mentana, Osimo, Terracina, Viterbo, Perugia e alcune località vicine. Per arrivare in Francia ad Avignone: «Parecchi lavori furono eseguiti in questa città per ordine di Innocenzo VIII come dimostrano le sue armi che si vedevano sulla porta esteriore che dava sul ponte» (Eugenio Muntz, op. cit., p. 467). Fra i nomi che ricorrono nei documenti superstiti si incontrano un nobile Clemente Giovanni Toscanelli, presumibilmente parente del fisico fiorentino Pier Paolo; il vescovo d'Aiaccio sicuramente è il terzo personaggio che si trovava al capezzale del cardinale Cusano morente insieme allo stesso Toscanelli, il cardinale Marco Barbo, amministratore del Priorato dell'ordine dei cavalieri di Rodi, il cardinale Raffaello Riario del titolo di San Giorgio ed un Hilarius Gentile «domesticus noster et nepos», che faceva parte di quella grande famiglia genovese e di quei Gentile che, oltre ad essere castellani della rocca di Civitavecchia, erano anche fra gli amministratori del fondo della crociata della diocesi di Badajoz, tributaria del prestito determinante per la partenza di Colombo. Sono presenti anche un protonotario De Nigris, da ricondurre alla potente famiglia genovese dei Di Negro,
e due Cybo, Leonardo, che operava nella zona di Civitavecchia e Domenico, castellano di Terracina. Fra i nomi dei costruttori si incontrano quello dell'architetto fiorentino Baccio Pontelli e quasi sempre quelli di Giacomo e Lorenzo di Pietrasanta provenienti dalla zona dei marmi di Carrara, ad avvalorare il sospetto che i Cybo erano già presenti in quelle località, dove poi risulteranno uniti al ramo Malaspina. È la ragnatela di congiunti, di famigliari, di alleanze, di amicizie fidate che facevano capo ad un tessitore paziente. 334 Vasari Giorgio, op. cit., p. 490. 335 Uno studioso di alchimia, Alvaro Palanga, da noi portato in San Pietro, alla vista della statua aggiunse: «Sembra il ritratto di un indiano hopi». 336 Staffetti Luigi, Il libro di ricordi della famiglia Cybo, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol. XXXVIII, Genova 1908-1909, p. 428, nota 189. Nella stessa nota, a proposito delle carte conservate all'Archivio di Stato di Massa, relativamente ad una Memoria «autografa» di Alberico Cybo, si legge che «morì papa Innocenzo nostro nel 1491, et (sic) hoggi che siamo nel 1621, che son 130 anni, per la nova fabbrica di San Pietro si guastò il sito dov'era il sepolcro suo di bronzo...» Il discendente, dunque, che si era preoccupato della ristrutturazione del mausoleo sbaglierebbe clamorosamente la morte del pontefice. Il 1491 contrasta con le date che il monumento stesso e la storia tramandano. Una svista di Alberico? Il 1491 potrebbe annullare molti dubbi circa la frase «Novi orbis suo aevo inventi gloria». L'anticipo del decesso all'anno precedente la partenza di Colombo azzererebbe molte rivendicazioni possibili circa la genesi della «scoperta». Alberico Cybo rinnegherebbe, dunque, di suo pugno, proprio il particolare che più doveva stargli a cuore. Sulla Memoria in questione è scritto «di mano di Alberico», ma lo Staffetti precisa che «è una copia d'altra mano». La mano di qualche misterioso «correttore», che tentò di cambiare una volta di più le carte e che, evidentemente, riferendosi ad un rifacimento avvenuto, secondo lui, durante l'anno 1621, non era a conoscenza nemmeno del fatto che i lavori per la risistemazione della tomba erano iniziati nel 1606 e che il 1621 rappresentava solo l'atto finale di un lungo processo. Sicuramente di una laboriosa trattativa. Per poter inscrivere nella lapide una frase che accontentasse tutti, in assenza di ulteriori documenti fatti sparire o nascosti. Raffinatezze della diplomazia curiale! 337 Muntz Eugenio, op. cit., p. 367. 338 I Giardini vaticani, op. cit., p. 19. 339 Grandi Benedetto, «Memoria storica sull'antico Tuscolo e moderna città di Frascati, Della Chiesa Tuscolana e dei suoi Vescovi», in Cenni storici intorno alla terra di Monteporzio nell'agro tuscolano, p. 41. Non lontano da Monteporzio, a Grottaferrata, da circa mille anni c'è l'abazia di San Nilo. Dove si è sempre osservato il rito greco ortodosso. Un ulteriore elemento che potrebbe riallacciarsi alle origini greche dei Cybo e quindi alla presenza in quei luoghi di personaggi della loro famiglia. Non a caso, nella cattedrale di Frascati, si conservano i frammenti di una lapide che ricorda «Alderanys Card. Cybo Episcopus Tusculanus».
La signora Maria Fiorelli, che ha sempre confermato fin dall'inizio le nostre tesi circa papa Cybo e Colombo, ci ha raccontato che il padre, quando lei era ancora bambina, trovò nell'archivio comunale la documentazione di quanto andiamo asserendo proprio a Monteporzio. Che l'incartamento fu consegnato da Osea Fiorelli al cardinale Laurenti. Osea Fiorelli aveva raccontato alla figlia che la storia era stata cambiata dai Borgia, dai Ricci, da alcuni componenti della famiglia Geraldini e forse persino da Franceschetto Cybo. I ricordi di Maria Fiorelli, per quanto i nipoti ne abbiano attestato la veridicità, affermando che la zia raccontava da sempre quelle storie, appaiono talvolta confusi dati i decenni trascorsi. La signora asserisce che ai parenti di Colombo, ai fini di un perfetto depistaggio, sarebbe stato mutato il nome, in modo da non fare trovare più gli eventuali eredi del navigatore. Per la signora Fiorelli anche la lapide, di cui abbiamo trascritto il testo, conterrebbe qualche errore voluto. 341 Mascherucci Paolo, Monte Porzio Catone, a cura della Associazione Tuscolana «Amici di Frascati», p. 68. 342 Ceccopieri Maruffi Piero, I marmi dei Cybo da Massa al Quirinale, Aedes Muratoriana, Modena 1985, p. 1. 343 Ceccopieri Maruffi Piero, op. cit., pp. 7-8: «Le vestigia dei Cybo sono il castello Obertengo, un Palazzo di Bagnara, diventato Palazzo del Governo, una Villa sopra la Rocca o di Volpigniano, che porta oggi il nome di Villa Massoni (!), una Villa della Rinchiostra, una più modesta Villa della Cuncia, un cosiddetto Palazzino, il Palazzo di Santa Elisabetta e il Palazzo Principesco, oggi sede delle belle arti». 344 Ceccopieri Maruffi Piero, op. cit., pp. 59-62: «È tempo di dare uno sguardo alla proprietà Cybo destinata ad ospitare i marmi massesi; si deve alla meticolosa precisione di Camillo se oggi possiamo ricostruire l'origine dell'acquisto, risalendo in pratica ad Innocenzo VIII... E nel giardino, che del complesso è la parte più significativa e monumentale, sono rimaste a montar la guardia alla memoria dei sovrani di Massa, con sei aquile di pietra recanti sul petto lo scudo di costoro, le statue, le guglie, e le balaustre, venute dall'antica a decorare degnamente la nuova dimora. Villa e Palazzo Cybo fanno ora parte del complesso, che dal 1929 gode dell'extraterritorialità, e costituisce la Villa Pontificia di Castelgandolfo. Questa, col Palazzo papale e 55 ettari di orti e giardini si estende su un territorio, nel quale mura e ruderi grondano romanità dalla leggenda dei prischi latini alla realtà storica dell'Impero. La proprietà della Santa Sede si allarga infatti (meglio sarebbe dire: si allunga) dalla sommità del colle di Castelgandolfo ove il Palazzo dei Papi sorge su quella che fu l'arac albana, fino al confine del comune di Albano, lungo il margine sud-occidentale del cratere che forma l'invaso del lago. L'arce veneranda, poi castello dei Gandolfi, era, pare assodato, l'antichissimo centro di Albalonga, donde i primi latini mossero a fondare l'Urbe». 345 Ceccopieri Maruffi Piero, op. cit., pp. 70-71. Il giardino dei Cybo lo si può vedere ancora nel dipinto esistente nella sala del biliardo del Palazzo papale, raffigurante Clemente XIV a passeggio fra quattro scomparti a rabeschi di bosso divisi da una croce di piccoli viali in un ricordo della villa sopra la Rocca o di quella della Rinchiostra. Identici criteri erano anche riscontrabili a Massa nella villa oggi dei Massoni. 340
Ceccopieri Maruffi Piero, op. cit., p. 95. Ceccopieri Maruffi Piero, op. cit., p. 118. Da rammentare che Colombo si paragonerà in più di un caso a Mosè, parlando, nelle sue visioni, direttamente con Dio. 348 Colombo Cristoforo, Libro delle profezie, a cura di William Melczer, Novecento, Palermo 1992, pp. 86-87 e sgg. L'ultima frase è di Geremia. 349 Thule era generalmente individuata nello Shetland, a nord della Scozia. 350 Colombo Cristoforo, op. cit., p. 124. 351 Colombo Cristoforo, op. cit., p. 126. 352 Colombo Cristoforo, Gli scrìtti, Einaudi, Torino 1992, p. 169. Il dato, per Luis Ulloa (Cristòfor Colomfou català, Barcellona 1927, p. 163), venne confermato dal direttore della biblioteca di Copenaghen, Sofus Larsen. Sarebbe stato il re Cristian I, in quel periodo, ad avere inviato verso le coste della Groenlandia, su richiesta di Alfonso V del Portogallo, una spedizione di cui facevano parte marinai portoghesi. Date e testimonianze portano a supporre che Colombo prese parte a quella spedizione. Sempre in riferimento a quegli anni sul globo terrestre di Mercatore compare una scritta in cui si dice che il capitano danese «Jaon Scolvus» arrivò in Groenlandia nel 1476. Da rilevare, inoltre, che già si parla di un Occidente che va al di là di quello di Tolomeo. 353 Antonelli Luca, I Greci oltre Gibilterra, Roma 1997, p. 12: «Con Tartesso commerciarono i Focei nel corso dell'età arcaica, a quanto pare in un clima di piena concordia con i mercanti fenici delle colonie iberiche. Verso Gades (Cadice, N.d.A.) erede a tutti gli effetti di Tartesso, navigarono quei greci che trasportarono la ceramica attica sulle rive dell'Oceano durante il V e IV secolo». C'è da aggiungere che l'antica città iberica, nel delta del Guadalquivir, fu distrutta dai Cartaginesi verso il 500 a.C. 354 Colombo Cristoforo, op. cit., p. 36. 355 Finzi Claudio, Ai confini del mondo, Club del libro Fratelli Melita, La Spezia 1982, p. 43: «Non c'è dubbio che la Libia (con il termine Libia, anticamente, si identificava l'Africa, mentre l'Egitto faceva parte dell'Asia, N.d.A.) tranne per la parte che confina con l'Asia, è circondata dal mare. Il primo a dimostrarlo fu, per quanto ci consta, Neco, re d'Egitto. Il quale, dopo aver smesso di scavare il canale dal Nilo al Golfo Arabico, mandò, a bordo di navi mercantili, dei Fenici, con l'incarico di far ritorno attraverso le colonne d'Eracle, fino a raggiungere il Mare di Settentrione e l'Egitto. E i Fenici partirono dal Mar Rosso e percorsero il Mare del Mezzogiorno. All'arrivo dell'autunno approdavano, seminavano la terra nei punti della Libia dove, di volta in volta, era giunta la loro navigazione, e attendevano alla mietitura. Facevano la raccolta del grano e ripartivano. Passarono due anni e nel terzo doppiarono le colonne d'Eracle e giunsero in Egitto. E dicevano una cosa alla quale per me non presto fede, ma altri forse sì: che cioè avrebbero avuto, durante la circumnavigazione della Libia, il sole a destra». L'episodio dell'egiziano Neco è controverso, ma come fare a non prendere atto di un atlante anonimo, detto Mediceo e del 1351 (?), custodito nella biblioteca Laurenziana? (La carta perduta, Paolo dal Pozzo Toscanelli, Fratelli Alinari, Firenze 1992, p. 72). Dove l'Africa è già completamente circondata dal mare, molto prima che Vasco de Gama, nel 1497-1498, superasse la punta estrema del 346 347
continente nero, battezzando il capo di Buona Speranza capo delle Tempeste? «Aprendo» così la via occidentale verso le Indie? Avevamo il libro con la riproduzione dell'Africa tratta dall'Atlante Mediceo. Pur avendola guardata ripetutamente non ci eravamo mai accorti della particolarità «impossibile». Nella pubblicazione non si fa il minimo accenno all'evidente anacronismo. Finché un giorno la stessa mappa non ci fu mostrata e «rivelata» da un appassionato. Questo per sottolineare come sia difficile, di fronte a schemi mentali prefissati, rendersi conto di certe anomalie, anche quando uno se le trova continuamente sotto gli occhi (forse proprio per quello). Siamo talmente programmati sulle nostre nozioni e sul nostro sapere, al punto da diventare ciechi. «La visione», ha detto qualcuno, «è nel pregiudizio di chi guarda.» 356 Eco Umberto, Segni e sogni della terra, De Agostini, Novara 2001, p. 17. 357 Eco Umberto, op. cit., p.18. Gli indiziati principali del secolare imbroglio sarebbero per lo scrittore un autore pur sempre cristiano del IV secolo, Lattanzio, e un geografo bizantino del VI secolo, Cosma Indico Pleuste con il suo mondotabernacolo, che però «non debbono venir considerati come rappresentanti della cultura scientifica dei Padri della Chiesa». Cosma, il cui nome è già un programma («Signor Mondo che salpa per l'India»), per la verità, secondo noi, andrebbe assolto, perché la sua geografia è già sorprendentemente «rivoluzionaria». Raffigura, difatti, anche una terra, come vista dall'alto, dove il paradiso terrestre, separato dall'oceano, è posto nell'Oriente estremo, in posizione distaccata e solitaria. Tanto più che la carta è accompagnata da una scritta enigmatica: «Terre al di là dell'oceano dove gli uomini hanno abitato prima del diluvio». Laggiù, dunque, avrebbe abitato Noè? In una storia capovolta? Nel 1896, continua Eco, Andrei Dickson White, nella sua History of the warfare of science with theology in Christendom, affermava: «Non può nascondersi il fatto che Agostino, Alberto Magno e Tommaso sapessero benissimo che la terra era tonda. Tuttavia dice che per sostenerlo hanno dovuto lottare contro il pensiero teologico dominante. Ma il pensiero teologico dominante era rappresentato proprio da Agostino, Alberto e Tommaso, i quali dunque non avevano dovuto lottare contro nessuno!» 358 Segni e sogni della terra, op. cit., p. 50. Nell'aureo di Augusto rappresentato nel catalogo, raffigurante il globo secondo Cratere, sembra di vedere addirittura suggeriti meridiani e paralleli. Studi in questo senso, oltre a molto altro, sta compiendo Pino dell'Orco. 359 Lago Luciano, «Le carte nautiche medievali e le prime carte geografiche moderne dell'Italia», supplemento a Porto e mare, luglio-settembre 1991, p. 5: «Il comparire quasi improvviso di queste carte tramandateci, per lo più in copie manoscritte, a partire dalla seconda metà del secolo XIII, così perfette di fronte alle cervellotiche rappresentazioni dei mappamondi, costituisce già un problema complesso e difficile da risolvere». 360 Finzi Claudio, op. cit., p. 70: «Non dimentichiamo inoltre quanto la necessità di segretezza abbia sempre contribuito a rallentare la diffusione e la divulgazione delle scoperte geografiche. Una nuova via terrestre, una nuova rotta marittima possono essere efficaci quanto la migliore delle armi, quanto un ritrovato bellico strepitoso sia
per la concorrenza economica sia per il conflitto armato (si guardi ai nostri giorni alla corsa verso le stelle, N.d.A.). È storia vecchia di millenni sempre rinnovantesi. Nel XVIII secolo i risultati del viaggio nell'oceano Pacifico di Quiros e Torres furono tenuti segreti per circa mezzo secolo dal governo spagnolo e altrettanto fecero gli Inglesi con parte dei risultati del primo viaggio di Cook. Identico, quasi due secoli prima, il comportamento degli Olandesi, nel nascondere le osservazioni sulle rotte da seguire nell'oceano Indiano. É quante leggende sulla pericolosità dei mari sono state abilmente diffuse per il medesimo scopo, tenere lontani i potenziali concorrenti e riservarsi da soli la rotta! Tolomeo sa benissimo che i rapporti dei mercanti sono volentieri molto imprecisi. Nella difesa dei propri segreti i Cartaginesi erano abilissimi maestri, disposti a tutto pur di tutelare se stessi e i compatrioti. Quando una nave romana (?) - scrive Strabone - cercò di tener dietro a un naviglio cartaginese oltre le acque di Cadice sulla rotta dello stagno atlantico, il capitano punico mandò volontariamente in secca il proprio bastimento, trascinando con sé la nave inseguitrice, che colò a picco». 361 Segni e sogni della terra, cit., pp. 65-66. Nella prima carta, di Burgo de Osma, «come in tutte le mappe di questo gruppo, il Paradiso è rappresentato dai quattro fiumi nella parte superiore (est) alla carta. L'evangelizzazione delle terre abitate, che doveva precedere il Giudizio universale, è rappresentata dalle teste degli apostoli nei luoghi a loro collegati. La scoperta, avvenuta poco tempo prima, delle ossa di San Giacomo aveva portato alla costruzione, sul luogo, della chiesa di San Giacomo di Compostela e a una rapida diffusione del culto del santo... L'altra caratteristica particolare di Osma è la raffigurazione del quarto continente. Derivato dalle teorie di Macrobio e dal globo di Crates, per i cristiani costituiva un problema. Se tutte le creature discendono infatti dai tre figli di Noè e dai loro animali che hanno occupato i tre continenti dell'Ecumene dopo il diluvio, un quarto continente doveva necessariamente essere irraggiungibile e disabitato. Tanto meno poteva adattarsi al contesto di una carta come quella di Beatus, con la sua esaltazione del mondo abitato ed evangelizzato. Mentre la carta di Ryland mantiene un silenzio forse imbarazzato sulla questione, la carta di Osma presenta una citazione prolissa e mostra uno Sciapode, appartenente a una razza atletica che viveva nel Nord Africa, menzionata da Isidoro, e che usava il suo unico, grande piede per schermarsi dal sole, rappresentato con un disco rosso. Nonostante la possibile confusione con la razza degli Antipodi... questa carta segna la prima rappresentazione a noi conosciuta dei mostri che avrebbero caratterizzato in modo evidente i grandi planisferi». 362 Segni e sogni della terra, cit., p. 134. Giacomo Gastaldi, per esempio «crede probabilmente, come molti della sua cerchia, per ragioni religiose - nell'esistenza di un ponte terrestre tra Asia e America». 363 Vado verso la terra nuova, Quattroemme, Perugia 1992, p. 62: «Ancora nei primi decenni del Seicento il servita lombardo Filippo Ferrari nel suo Lexicon geographicum, pubblicato nel 1627, un anno dopo la sua morte, nega che le Americhe siano un nuovo continente. Troviamo infatti la voce America' nell'indice, ma non nel testo, dove siamo costretti a cercare Atlantide; troviamo Perù nell'indice, ma nel testo dobbiamo rivolgerci a Ophir, biblica terra aurifera».
Finzi Claudio, op. cit., p. 10: «Le conoscenze geografiche non sono mai state acquisite una volta per tutte, ma sono state ottenute, perdute, ritrovate, perse ancora una volta, di nuovo ritrovate nel corso dei secoli e dei millenni, per una infinità e molteplicità di cause. Può scomparire un popolo che solo conosce una rotta; questo stesso popolo può essere costretto a chiudersi nel suo territorio per la pressione di altre stirpi così a lungo da dimenticare che cosa c'è oltre i suoi confini; possono finire i pochi marinai che hanno tenuto segreto un percorso per motivi commerciali; a uno stato di grande capacità e organizzazione militare può sostituirsene un altro non dotato delle stesse qualità; sparisce quindi la volontà di grandi ricognizioni. E così via». 365 Severin Tim, Il viaggio del Brendano, Mondadori, Milano 1978, p. 95: «L'Irlanda divenne la grande depositaria di questi tesori culturali che i monaci irlandesi copiarono, codificarono e commentarono tramandandoli da una generazione all'altra. Lessero Virgilio e Solino e si accostarono agli autori greci attraverso traduzioni o studiando l'originale. In quanto ai loro concetti geografici si resero conto che il mondo è rotondo: 'Come una bella mela' fu detto qualche volta. Conobbero la geografia di Tolomeo e vennero a sapere che una flotta romana aveva circumnavigato la Scozia e scoperte nuove isole a nord. Il fiorire di una cultura cristiana primitiva in Irlanda, di cui tanto si è scritto, continuò per almeno 500 anni. I monaci irlandesi erano conosciuti come gli uomini più dotti e colti di tutta l'Europa occidentale e, a tempo debito, intrapresero il compito di riportare la loro cultura sul continente... fondarono monasteri un po' ovunque anche in Lombardia e in Austria. Insieme ai loro discepoli erano ritenuti V élite intellettuale d'Europa». L'autore ha ripercorso su una piccola imbarcazione di cuoio il viaggio di San Brandano. Da questa opera trarremo ulteriori particolari. 366 Severin Tim, op. cit., p. 301. 367 Severin Tim, op. cit., p. 278. 368 Severin Tim, op. cit., p. 282. 369 Taviani Paolo Emilio, Cristoforo Colombo, la genesi della grande scoperta, De Agostini, Novara 1982, p. 308. Da questa opera sono tratti ulteriori particolari riguardanti le spedizioni vichinghe. 370 Iezzi Ennio, Vinland hit goda, 1984, p. 28. L' epopea di Erik il rosso, laddove si raccontano le vicende di Leif, si può leggere «come un caso missionario. Difatti gli era stato dato il compito dal re Olafr Tryaggvason di introdurre il Cristianesimo in Groenlandia». Il saggio in questione ci risulta non pubblicato. 371 Hermann Paul, Sette sono passate e l'ottava sta passando, Martello, Milano 1955, p. 359. Del Vinland parla un ecclesiastico, Adamo da Brema, che scrisse nel 1070 la Storia ecclesiastica di Amburgo. Il testo ricorda che i cristiani groenlandesi avevano versato i loro contributi per il sostegno di una crociata: «La conoscenza del Vinland fu acquisita da Adamo da Brema durante un soggiorno a Roeskilde in Danimarca, alla corte di Sven Estrithson, probabilmente di prima mano e cioè dal notabile islandese Gellir Thorkelsson, che nel 1070 soggiornò un certo periodo di tempo a Roeskilde di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, e che naturalmente era assai bene informato sulle scoperte vichinghe al di là del Mare d'occidente. Possiamo quindi senz'altro escludere che il Vinland appartenga alla schiera delle isole favolose». 364
Angelini Antonio, «Scoperta e riscoperta dell'America», Informazioni della difesa, bimestrale dello Stato Maggiore della Difesa, numero speciale 2, dicembre 1992, p. 48. 373 Nel 1153 la regione dipendeva dall'arcivescovo di Nidaros in Norvegia, provincia indipendente della Chiesa romana nel 1152. Alcuni sostengono che, dalla seconda metà del XIV secolo, la Groenlandia non ebbe più contatti con l'Europa cristiana, ma non è così come prova lo storico Humboldt. 374 Angelini Antonio, op. cit., p. 71. 375 Morison Samuel E., Storia della scoperta dell'America, Rizzoli, Milano 1976, p. 58. 376 La saga di Erik il rosso, Sellerio, Palermo 1991, a cura di Sonia Piloto di Castri, pp. 82-83. Il breve prosegue: «...e ordina al benedettino Mathias Knudson di assumere il vescovato di Gardar, incarico che peraltro non risulta sia stato mai assolto. Sempre a proposito del presunto declino della fede nell'isola, il breve di Alessandro VI aveva avuto un precedente in una notizia riportata negli Annali d'Islanda, ancora trascritta dalla mano del vescovo Oddson, ma ora riferita all'anno 1342, dove si legge: 'Taluni abitanti della Groenlandia deviarono volontariamente dalla giusta fede e dal Cristianesimo e, rinunciando a tutte le vere virtù e ai buoni costumi, si trasferiscono tra i popoli d'America'. Si suppone infatti che la Groenlandia non sia molto lontana dai paesi occidentali...» Il lapsus di Oddson alla parola «America», mentre trascriveva nel XVII secolo un annale del 1342 - epoca in cui l'uso di quel toponimo era ben al di là da venire - dimostra come, almeno a Skalholt, sede del vescovo, Vinland e America erano divenuti sinonimi». 377 Iezzi Enio, op. cit., p. 91. Si tratta di una libera traduzione dall'originale. 378 Kurlansky Mark, Il merluzzo. Storia del pesce che ha cambiato il mondo, Mondadori, Milano 1999, p. 34. Una mappa del 1502 designa Terranova quale «terra del re del Portogallo». 379 Kurlansky Mark, op. cit., pp. 37-38. 380 Kurlansky Mark, op. cit., p. 62. 381 De Mahieu Jacques, I Templari in America, Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 25. 382 De Mahieu Jacques, op. cit., pp. 38-39. 383 Knight Christofer, Lomas Robert, La Chiave di Hiram, Mondadori, Milano 1997, p. 322. 384 Sora Steven, Il tesoro perduto dei Templari, Piemme, Casale Monferrato 1999, p. 89. Evidentemente non è facile, alla luce della nostra geografia, ricostruire una geografia mutata nel corso del tempo più di quanto non si creda. 385 Sora Steven, op. cit., p. 74. 386 Sora Steven, op. cit., pp. 127-28. 387 Un presunto ritratto per niente somigliante, per la verità, a quelli più noti di Cristoforo Colombo, lo ritrae con il collare del Toson d'oro. 388 Knight Christopher, Lomas Robert, op. cit., p. 325. 389 Hera, n. 14, febbraio 2001, p. 13. 390 L'ultimo studio effettuato sulla mappa e pubblicato sulla rivista Analytical Chemistry sostiene che la carta è originale («Quella mappa è dei vichinghi», Il 372
Messaggero, 27 novembre 2003, a firma Emanuele Perugini). 391 Hera, cit., p. 13. Lo studio di Heyerdahl e di Lilliestrom apporta un ulteriore valore aggiunto a fatti ed interpretazioni che, per quanto poco divulgati e volutamente trascurati, erano già noti agli studiosi. Che continuano a fare orecchie da mercante. Nelle dichiarazioni rilasciate da Heyerdahl ad un quotidiano di Oslo, l'Aftenposten, si aggiunge che Colombo partecipò, in qualità di geografo, ad una spedizione navale che, nel 1477 (ne abbiamo già riferito con le parole dello stesso Colombo), dopo aver superato lo stretto di Davis, fra Groenlandia e Canada, toccò terra sul continente americano. Si conferma così ancora una volta per Colombo un predescubrimiento. Che arretra sempre di più nel tempo. 392 Il Colombo dilettante, estroso fai-da-te, è senza dubbio più strumentale alla tradizione, passivamente accettata, dell'uomo di scarsa cultura. Ma è una contraffazione. Nonostante tutto, dal quasi niente che si conserva in una bacheca della Biblioteca Colombina, custodita nella cattedrale di Siviglia, emerge un intellettuale attento, puntiglioso, avveduto e avido di conoscenza. Tra le 2500 postille, che accompagnano quelle letture, due sono in lingua italiana, unica traccia nei suoi scritti, alternata al latino e al castigliano. La critica si perde, a questo proposito, in una serie di elucubrazioni sterili. Molte delle postille, si afferma, sarebbero del fratello Bartolomeo, la cui grafia era simile a quella di Cristoforo. Ma Don Fernando, il figlio di Colombo, scrive che lo zio Bartolomeo «non aveva lettere latine». Si rinnova il tentativo consueto e vano di ridurre il ruolo dello «scopritore», di separare i meriti. Anche se i Colombo si dimostreranno, in ogni circostanza, graniticamente uniti, come un corpo unico, nel perseguimento dei loro obiettivi. E Cristoforo rappresenterà sempre il «leader» riconosciuto del clan famigliare, impegnato sul fronte dell'operazione America. Poiché i volumi hanno naturalmente una data, ne consegue che gli studi di Colombo debbano avere avuto inizio da quell'anno; poiché alcune note fanno riferimento ad episodi accaduti in un certo periodo storico, il ragionamento è analogo. Dato che non abbiamo niente di postillato, in testi di epoche precedenti, ne deriva che Colombo avrebbe iniziato ad approfondire le sue cognizioni nel periodo del suo soggiorno spagnolo. Ma molti codici, che pure Colombo potrebbe avere letto, non potevano certo essere postillati. Mentre la ricerca è fatta di uno studio continuo su di uno stesso testo, in epoche completamente diverse, per cui un semplice riferimento temporale non può essere preso a giustificazione dell'intero lavoro. 393 Ulloa Lluis, Cristòfor Colomfou català, Barcellona 1927, p. 70. 394 Platone, Tutte le opere, Newton Compton, Roma 1997, pp. 14-15. Vale la pena di ricordare che il filosofo greco pare che abbia visitato l'Egitto, dove potrebbe essere stato istruito dai sacerdoti di Sais sugli Atlantidi. Per qualche tempo soggiornò a Taranto, nella Puglia che avrebbe visto il passaggio dei crociati, dove entrò in contatto con la scuola pitagorica di Archita, fiorente in Magna Grecia. In una epistula Platone avverte: «Sono persone che hanno soltanto una coloritura di opinioni, come la gente abbronzata al sole, che vedendo quante cose si devono imparare, quante fatiche si deve sopportare, come si convenga a seguire tale studio, la vita regolata di ogni giorno giudicano che sia una cosa difficile e impossibile per loro; sono quindi
incapaci di continuare a esercitarsi, ed alcuni si convincono di conoscere sufficientemente il tutto, e di non avere più bisogno di affaticarsi». È un'affermazione che dovrebbe fare riflettere molti «ayatollah» della cosiddetta ricerca scientifica. 395 Geraldini Alessandro, Viaggio di Alessandro Geraldini, Itinerarium di Alessandro Geraldini, Nuova ERI, Torino 1991, pp. 136-37: «Questo paese (l'America-Atlantide, N.d.A.)», scriverà Alessandro Geraldini, uno degli amici di Colombo alla corte spagnola, «è considerato più grande dell'Europa e dell'Asia (il paese non è più, dunque, Asia, è qualcosa di diverso, N.d.A.), calcolando anche le undicimila isole di cui parla Aristotele nella sua celebre Cosmografia, ci sono più terre nell'emisfero meridionale che nel settentrionale, come dice Platone in Crizia». Che Colombo conoscesse il mito di Atlantide lo afferma anche lo storico Gomara. 396 Platone, op. cit., pp. 549-551. 397 Platone, op. cit., p. 667. 398 Quel capolavoro è stato utilizzato, in tempi recenti, dal governo Berlusconi come sfondo ad una riunione dell'Europa avvenuta a Roma. 399 Ambrosini Maria Luisa, L'Archivio segreto del Vaticano, Mondadori, Milano 1972, p. 179, A confondersi o a voler confondere il Cipango con il Giappone sarebbe stato dunque Pinzón? Ma come è possibile, per di più, se quella terra era così vasta da superare Africa ed Europa? 400 Persino un regista, ai tempi nostri, Ridley Scott, nel bel film 1492. La conquista del paradiso, fa porre da Pinzón a Colombo un'acuta domanda: «Ma che ci fa un marinaio in un convento per sette anni con i francescani?» Il navigatore è nel pieno delle sue forze, è assetato di scoperte, di esperienze nuove ed ardite. Eppure indugia in compagnia dei monaci. È vero, aspetta l'assenso definitivo dei re. Ma deve approfondire prima di tutto le basi culturali per un'impresa da ripetere e che non può fallire. Ed attendere il «tempo giusto». 401 La definizione «infedele» era valida nei due sensi, veniva ugualmente adoperata dai seguaci delle due religioni nei confronti dei devoti dell'altra. 402 Afetinan A., Life and works of Piri Reis. The oldest map of America, Turkish Historical Society, Ankara 1987, p. 22. 403 Afetinan A., op. cit., p. XX. 404 Bausani Alessandro, «L'Italia nel Kitab-i Bahriyye di Piri Reis», in Eurasiatica, n. 19, Venezia 1990, p. 10. 405 Baldock John, Simbolismo cristiano, Mondadori, Milano 1997, pp. 135-36: «La perla, nascosta sotto le acque degli abissi, è disponibile all'uomo quando egli emerge dalle acque, rinato attraverso il rito del battesimo». Colombo raccoglieva le perle e portava il battesimo. Le perle saranno il motivo di una delle tante accuse e dei tanti scippi nei confronti di Colombo. Al solito i denigratori ne trarranno spunto per imputargli addirittura di avere tentato di appropriarsene senza informarne i re di Spagna. O di non avere compreso le possibilità reali che le nuove terre offrivano. Perché se il Colombo che diventa eroe «per caso» è, tutto sommato, unanimemente accettato, quello che sbarca nelle Indie, è una sorta di incapace a tempo pieno. Prossimo all'idiozia pura. Trova banchi di perle, ma non comprende, gli indios parlano di Cubanacan, lui comprende Gran Khan, gli raccontano di estensioni di terre senza fine, lui ne trae la certezza di avere raggiunto la Cina, oltre a prendere per
buona ogni cosa che gli riferiscono e che puntualmente lo depisterebbe. Tutto questo per la durata di quattro viaggi in epoche diverse e oltre dieci anni di esplorazioni! Quello che parte è un sognatore, quello che sbarca è uno sprovveduto. Straniero e loco (pazzo) in Spagna, più straniero e loco che mai in una regione ignota, di cui non conoscerebbe la lingua. 406 Ci interesserebbe sapere come è nato il rapporto fra un uomo di lettere riverito ed un «mercante», per quanto famoso, sbattuto, a quanto pare, in galera in seguito alla partecipazione ad un conflitto. 16. Molti hanno ritenuto che il racconto del loro viaggio fosse un'erudita falsificazione. 407 Zorzi Alvise, Vita di Marco Polo veneziano, Rusconi, Milano 1982, p. 10. 408 Imperio Loredana, Templari, Trentini, anno 1, n. 2, Ferrara 2001, pp. 31-32: «Interessante segnalare un singolare documento crociato del 1257, riguardante la produzione agricola della diocesi di Acri, nel quale è menzionato il 'mais'». Il mais, pianta delle Americhe, verrà conosciuto, si dice, solo dopo la spedizione di Colombo. 409 Zorzi Alvise, op. cit., pp. 87-88. 410 Polo Marco, Il Milione, 1, con postille di Cristoforo Colombo, Edizioni Paoline, Torino 1985, p. 17: «A tal punto l'Ordine Domenicano si appropriò di Marco Polo che quando, circa settant'anni dopo il viaggio, i domenicani decisero di realizzare, in Santa Maria Novella a Firenze(!), un grande ciclo di affreschi - la famosa Cappella degli Spagnoli, opera di Andrea Buonaiuto (1366-68) - fecero raffigurare, accanto ai santi e alle imprese dell'Ordine, anche un gruppo di laici, che raccoglie alcuni personaggi della cultura particolarmente cari all'Ordine, tra i quali, accanto a Petrarca e Boccaccio e - l'identificazione non è sicura - Cimabue e Giotto, troviamo ritratti di Nicolò, Matteo e Marco Polo, che stringe tra le braccia un grosso volume, evidentemente il Milione». 411 Polo Marco, op. cit., 1, pp. 17-18: «L'intenzione di Marco Polo di voler dare al suo viaggio il carattere di una missione religiosa si conosce subito nella prima parte del suo libro. I motivi ecclesiastici e pii vi abbondano fin da quando i tre veneziani attinsero l'olio della lampada del Santo Sepolcro di Gerusalemme, estendendosi poi alla narrazione delle sette cristiane in Asia Occidentale, alla narrazione dei miracoli della fede nella lotta contro gli infedeli e al racconto dell'omaggio dei Re Magi a Gesù Bambino...» 412 Pezzella Nicola, «Il Templarismo nel Veneto e l'architettura neotemplare», in Atti del XIX Convegno di Ricerche templari, Penne e Papiri, Latina 2002, pp. 42-44. L'autore si riallaccia ad uno studio di Cesare Augusto Levi, «profondo conoscitore del templarismo massonico». Il quale fra le famiglie venete templari annovera anche gli Zeno! 413 Polo Marco, op. cit., 1, p. 25, nota 25: «Il fatto che Marco Polo si inserisca, coscientemente o inconsciamente, in una catena di 'missionari' cattolici, in particolare francescani, è ulteriormente confermato dall'interessante miniatura del codice londinese B.M. Reg. 19 D. 1 'che raccoglie relazioni di missionari, ma anche i testi favolosi di Alessandro Magno': esso infatti 'rappresenta i fratelli Polo in veste francescana davanti al Gran Khan che li incarica di portare al papa le sue richieste'». 414 Polo Marco, op. cit., 1, p. 39.
Polo Marco, op. cit., 1, p. 33. Cardini Franco, Gerusalemme d'oro, di rame, di luce, Il Saggiatore, Milano 1991, pp. 89-90: «Non a caso, una tappa decisiva della fortuna del Milione corrispose proprio a una delle sue pagine più 'incredibili' (per noi) e meno appoggiate sull'osservazione diretta. Marco aveva parlato del misterioso 'Cipangu' o 'Zipangu' - il Giappone, che Qubilay Khan aveva ripetutamente cercato di conquistare, nel 1274 e nel 1281, fallendo entrambe le volte: secondo la leggenda era stato un 'kamikaze', un vento divino levatosi furiosamente, a respingere le navi degli invasori - come del paese dell'oro dove persino i tetti erano coperti d'oro massiccio. Il meccanismo mentale cui egli aveva ubbidito era in fondo semplice: tra le pur grandi meraviglie che egli aveva riscontrato in Asia non si era tuttavia mai imbattuto in quelle mirabili ricchezze delle quali si favoleggiava nelle leggende del Prete Gianni e nei romanzi di Alessandro. Restio a trarne la conclusione che esse fossero fantasia, ecco che le aveva isolate nella non visitata isola 'del Sol Levante'. Fu proprio quella pagina poliana a colpire Cristoforo Colombo, a spronarlo più di ogni altra a raggiungere l'Oriente attraverso la rotta occidentale. Le radici dell'Eldorado sono in questa improbabile visione di città coperte di metallo prezioso». 417 Il Giappone anticamente non aveva un nome ufficiale. Superato il 670 d.C., si chiamò Nippon o Nihon. 418 Capomazza di Campolattaro Benedetto, Affari sociali internazionali, n. 4, Milano 1986, p. 11. Non abbiamo trovato ulteriori conferme di questo dato, come siamo soliti fare. Probabilmente si tratta di un'affermazione riferita al costume prevalente circa «le carte del tempo», ma non assoluto. Infatti, come vedremo anche in seguito, nel Dizionario biografico degli italiani (p. 249), si parla di un un mappamondo del 1457 attribuito a Toscanelli, offerto nel 1459 agli ambasciatori del re del Portogallo, nel quale il Giappone è già chiamato «Japan» e non Cipangu. Il Cipangu era, dunque, solo America. 419 Polo Marco, Il Milione, 2, scritto in italiano da Maria Bellonci (collaborazione per le ricerche di Anna Maria Rimoaldi, introduzione di Valeria Della Valle), Oscar Mondadori, Milano 1990, p. 240. (La scrittrice Maria Bellonci restò affascinata dalla figura di Marco Polo e dal suo Milione a cui dedicò questo prezioso lavoro di riscrittura, N.d.A.) Varrà la pena di rilevare che in questa edizione, quando si inizia a parlare del Cipango, il testo avverte: «Comincia (perché, se fino a quel momento l'autore ha parlato solo e sempre di Indie? N.d.A.) il libro delle Indie». 420 Polo Marco, op. cit., 2, p. 242. 421 Polo Marco, op. cit., 2, pp. 245-246. «...Sappiate», continua il testo di Marco Polo, «che quando uno degli idolatri di queste isole prende prigioniero qualcuno che non sia un loro amico, se costui non può pagare il riscatto, invita i propri parenti e amici con queste parole: 'Io voglio che veniate a mangiare a casa mia'. E fatto uccidere l'uomo che ha preso, lo fa cuocere e con i suoi parenti lo mangiano. Considerano la carne umana la migliore vivanda che si possa avere... questo mare è a levante ed ha, a detta dei più esperti piloti e marinai che sanno navigarlo, settemilaquattrocentoquarantotto (di settemila isole, riferite ai Caraibi, parlerà in una lettera Colombo, N.d.A.) isole per la maggior parte abitate. E si noti che in ogni isola nascono alberi che hanno tutti un forte e buono odore (sembra di leggere le 415 416
descrizioni di Colombo, N.d.A.) e che sono di grande utilità... ci sono molte cose di gran pregio a cominciare dall'oro e da altre cose preziose; ma sono così lontane queste isole che ci vuole un anno per arrivarvi (il Giappone è vicinissimo alle coste della Cina, N.d.A.)... Sappiate che questi luoghi sono lontanissimi dall'India. E vi faccio notare che ho parlato del mare di Cin ma dovete sapere che si tratta del mare Oceano». Si sta parlando evidentemente dell'estensione sconfinata del Pacifico. 422 La desinenza in «ango» più che di origine orientale è ricorrente nella lingua attuale del Latinoamerica, specie in riferimento, ma non solo, a località prevalentemente messicane (Durango, Quezaltenango, Chimaltenango, Huehuetenango, Chichicastenango...). Mentre ancora oggi vicino a Città del Messico c'è un centro chiamato proprio Xipangu e non lontano da Acapulco Chilpancingo; mentre stupendi tesori di oreficeria sono stati trovati di recente nella zona del Perù settentrionale di Sipan (o Xipan). Nella tomba contenente la mummia del corpo del «signore» una verga doro «era stata messa nella bocca del morto, forse l'equivalente andino dell' 'obolo di Caronte'» (Archeo, numero 4, aprile 2001, De Agostini Rizzoli Periodici, p. 77). In un costume che assimila i cinesi agli andini. I primi mettevano nella bocca dei defunti una moneta, i secondi erano abituati a deporvi oro ed argento (Loayza Francisco A., Chinos llegaron antes que Colon, 1948, p. 160). Dalle comuni abitudini mortuarie, fra cinesi ed indiani d'America, l'autore trae l'ennesima prova di scambi commerciali e culturali fra le due parti dell'Oriente. Marco Polo, come abbiamo visto, parlava di perle. 423 Blas Valera, per il suo atteggiamento favorevole agli indiani, venne incarcerato sotto la falsa accusa di abusi sessuali. Esiliato in Spagna, fu dato per morto prima del tempo dalla Compagnia di Gesù. In modo da metterlo definitivamente a tacere. I secoli passavano, chi cercava la verità sulle Indie faceva sempre una brutta fine. 424 Aimi Antonio, «Libri e quipos di storia e segreti», Il Sole-24 ore, 3 ottobre 1999. Tanto le cronache dell'antico Perù, quanto i ritrovamenti della Miccinelli, nonostante le molteplici prove a favore, anche dopo attente analisi, vengono ignorate. Se non avversate dagli «specialisti». Nel caso di questo predescubrimiento risaliremmo più o meno ai tempi di Isidoro di Siviglia e di Cosma Indicopleuste. 425 Taviani Paolo Emilio, Cristoforo Colombo, la genesi della grande scoperta, De Agostini, Novara 1982, p. 133. Behaim era allievo del Regiomontano, un astronomo tedesco discepolo di Georg Peurbach. 426 Non siamo in grado di giudicare il criterio della proiezione. 427 La sovrapposizione, curiosamente, compare sulla copertina e sul retro di un libro del 1992, relativo a I francescani sulle orme di Cristoforo Colombo. 428 Nebenzahl Kenneth, Atlante dì Colombo e Le Grandi Scoperte, Finmeccanica 1991, p. 58: «L'Introduzione geografica di Tolomeo fu l'atlante maggiormente richiesto nel primo periodo dell'Età delle grandi scoperte geografiche e venne più volte ristampato. La prima edizione dopo i viaggi di Colombo venne pubblicata a Roma nel 1507. Talune copie contenevano una rivoluzionaria mappa del nuovo mondo compilata da Johannes Ruysch». Il cartografo, nella legenda che accompagna l'illustrazione, precisa che «i navigatori spagnoli si sono spinti fino a questo punto e, in omaggio alla sua grandezza, hanno chiamato questa terra il Nuovo Mondo. Per quanto rilevante sia stato il loro sforzo, non sono riusciti a esplorarlo
compiutamente... oltre il presente termine deve pertanto rimanere imperfettamente definito fino a che non si conosca con certezza in quale direzione esso si sviluppi». È un'autorevole conferma del concetto da noi espresso circa la catalogazione progressiva sulle mappe delle terre nuove. Basandosi sulla realtà fino a quel momento convalidata dall'esperienza. 429 Nebenzahl Kenneth, op. cit., pp. 58-59. Finalmente uno scienziato fuori dal coro. Ma nell'opera, alla quale abbiamo fatto riferimento per la citazione, Ruysch viene tacciato dà Nebenzahl di «candore»! 430 Cardini Franco, op. cit., p. 94. 431 Zorzi Alvise, op. cit., pp. 57-58. 432 Zorzi Alvise, op. cit., p. 55. 433 Polo Marco, op. cit., 2, pp. 40-41 della nota introduttiva, a firma Maria Bellonci. Per la scrittrice Kublai Kan «mette il potere al disopra di tutto, anche della religione, e che, anzi considera il potere come moralizzatore della religione stessa. La sua tranquilla affermazione che essere amico di ogni religione e rispettare ogni rito gli permette di governare bene avrebbe sorpreso persino Niccolò Machiavelli... Singolarmente equilibrato appare Marco Polo sulla religione... L'uomo davvero 'senza lettere' (lo sarebbe anche Colombo, evidentemente perché ha seguito un altro corso di studi, N.d.A.) che è Marco, ha trovato, unico al mondo, nell'azione di affrontare serenamente ciò che non sappiamo, la poesia del conoscere, l'umiltà di sentire gli uomini diversi e uguali. La sua testimonianza rompe i limiti dello spazio e del tempo; ma ancor più ci libera dai limiti che abbiamo dentro di noi e quasi rende reale l'utopia della fratellanza». 434 All'attore cinese che, nello sceneggiato televisivo della Rai, del regista Alberto Lattuada, impersonava il «Grande Cane» venne chiesto, in un'intervista, quale fosse il messaggio di Marco Polo. Replicò: «Se ne avesse uno solo di messaggi mi preoccuperei. In realtà ne ha parecchi. Marco Polo è diverso dagli altri esploratori: non è andato a scoprire delle terre, ma a conoscere delle genti. Pensi che allora l'Europa era convinta di essere il centro del mondo. Altrettanto pensavano i cinesi. Marco Polo è stato l'inventore in un certo senso della distensione tra Est e Ovest... della comprensione fra i popoli. Debbo aggiungere che una certa 'filosofia della scoperta' di Marco Polo influenzò Colombo che prese appunti dal Milione» (Polo Marco, op. cit., 1, p. 38). A volte gli attori vedono più in là degli studiosi... 435 Utilizziamo la versione di un codice francese, custodito presso la Biblioteca Nazionale di Parigi e non quello più riduttivo di fra' Francesco Pipino. 436 Cardini Franco, op. cit., p. 45: «La prima fase, inauguratasi a metà Duecento si può dire col primo concilio di Lione, si esaurì nel terzo quarto del secolo successivo per una serie di fattori: il disgregarsi dell'impero mongolo e il chiudersi della Cina all'interno delle proprie frontiere; il montare della potenza ottomana che - installata fra Balcani e penisola anatolica - intervenne a recidere o comunque ostacolare gran parte dei legami viari diretti fra Europa e Asia profonda; la folgorante avventura di Tamerlano e il dissesto nel quale essa lasciò le regioni che aveva sconvolto; l'aprirsi per l'Europa, con la peste del 1347-1350, d'un periodo di lunga crisi depressiva, a onor del vero già avviata prima, che non poteva non influire anche sulle sue prospettive commerciali; l'esaurirsi della prima spinta missionaria avviata negli anni
Quaranta del Duecento ma già annunziata dal viaggio in Egitto di Francesco d'Assisi e che difatti aveva veduto come suoi protagonisti gli ordini mendicanti». 437 Gran parte delle ipotesi di questo capitolo sono state pubblicate nel 2002, in tre articoli successivi (27-28-29), sul mensile Hera. 438 Taviani Paolo Emilio, Cristoforo Colombo e la genesi della grande scoperta, De Agostini 1982, pp. 450-451. 439 Pleitos Colombinos, tomo I, Sevilla 1967, p. 163. Dunque Colombo non era considerato dalla regina un millantatore e le sue scoperte, contrariamente a quanto afferma la «vulgata», non avevano provocato nessuna sorpresa e tanto meno delusione. 440 Lo stesso senatore Paolo Emilio Taviani mi confessò che la visione della carta non fu possibile nemmeno a lui, nonostante il suo duplice prestigio di studioso e di politico. Si può serenamente aggiungere che, se non ci fosse stato Taviani, con la sua attività, a difendere, grazie anche alla sua influenza e al suo prestigio, la genovesità del navigatore, con un Colombo spagnolo e con una regina Isabella santa, come si è tentato e si tenta ancora di fare, l'«assassinio perfetto» si sarebbe consumato per la seconda volta a distanza di cinquecento anni. A dispetto di ogni giustizia. 441 L'esploratore norvegese Nordenskiold era convinto che fosse stata copiata da un originale, che doveva essere cartaginese. 442 Bausani Alessandro, «L'Italia nel Kitab-i Bahriyye di Piri Reis», a cura di Leonardo Capezzone, in Eurasiatica, 19, Venezia 1990, pp. 10-12. Abbiamo messo di seguito i concetti più importanti. La traduzione di cui ci siamo serviti è opera dell'autore dello studio, un islamista prestigioso, la cui versione del Corano, in lingua italiana, viene considerata ancora oggi insuperata. Il lavoro di Bausani fa parte dei Quaderni del Dipartimento di Studi Eurasiatici dell'università di Venezia. 443 Cordier Umberto, Dizionario dell'Italia misteriosa, Sugarco, Milano 1991, p. 109. 444 Pauwels Louis e Bergier Jacques, L'uomo eterno, Mondadori, Milano 1972, p. 64. 445 Reis equivale a capo, capitano, ammiraglio. 446 Ventura Antonio, L'Italia di Piri Reis, Capone, Lecce 2000, p. 6. Hapgood Charles H., Le mappe delle civiltà perdute, Mondo Ignoto, Roma 2004, p. 253. 447 Mascia Rosario, «Piri Reis, la carta dei misteri», il Giornale, Lettere e Arti, p. 20. Ci manca l'anno della pubblicazione. 448 Bausani Alessandro, op. cit., Venezia 1990. La data era stata interpretata, ma nessuno, prima che lo facessimo, osava prenderne atto. Lo stesso Bausani, il più grande islamista italiano, quasi spaventato, non fornisce ulteriori precisazioni. Non aggiunge una qualsivoglia spiegazione, non azzarda alcun commento. Eppure dovrebbe sapere fin troppo bene che la data, quella che la storia tramanda, del primo approdo colombiano alle Indie resta il famoso e fin troppo noto 12 ottobre 1492. A proposito di quanto scrive l'ammiraglio turco, lo studioso liquida la questione dell'antica mappa sorgente di Alessandria, riallacciandosi al pervicace alibi della geografia di Tolomeo. Le carte preesistenti, secondo lui, non potevano essere che quelle già note del geografo alessandrino. Quelle che interpretavano come un bacino chiuso anche il Mare Indicum, il nostro Oceano Indiano. Che lambiva Africa ed Asia, unite in modo da formare un continente senza soluzione di continuità. Fra l'altro, avanzando nell'indagine, per trovare raffronti ad un dato così clamoroso, lasciato
cadere nel silenzio più assoluto, come in un confessionale, abbiamo scoperto che l'italiano non è stato nemmeno il primo a riportare la rivoluzionaria cronologia. In un altro lavoro, in lingua francese, datato Istanbul 1935 (Akgura Yusuf, Piri Reis Haritasi, Deulet Basimexi, Istanbul 1935) la data araba viene fatta corrispondere sempre all'anno arabo 890. Il breve saggio, dal titolo Carte di Piri Reis, è firmato dal Presidente della Società per gli studi della storia turca. Il quale, alla prima nota, avverte che lo scritto non è frutto di una ricerca esclusivamente personale, ma il risultato di ulteriori ricerche. Segue l'elenco dei numerosi professori di varia nazionalità. 449 In oltre quindici anni di letture colombiane non si ricordano le volte in cui abbiamo trovato riportata la notizia di questo episodio, che certamente non appare lusinghiero per Colombo. Mai una prova, al di là di un lascito di una cifra uguale a Beatrice, la seconda moglie o compagna, senza ulteriori precisazioni. Quella cifra, se si riferisse realmente all'avvistamento di chi per primo annunciò la nuova terra, può solo dimostrare il fatto che la parola mancata di Ferdinando ed Isabella ha costretto l'ammiraglio, forse in un momento di particolare indigenza, ad usufruire di quel sussidio e di conseguenza ad un'azione che non è da lui. Che non appartiene all'identikit psicologico e intellettuale, mai abbastanza e veridicamente approfondito, del navigatore. Se poi il dato scaturisce da una testimonianza effettuata nel corso dei Pleitos Colombinos, il lungo processo fra i discendenti di Colombo e la corte di Spagna, per quanto ci riguarda, non assume alcun valore. 450 Baldock John, Simbolismo cristiano, Mondadori 1997, Milano 1997, p. 119. 451 Attali Jacques, 1492, Sperling & Kupfer, Milano 1992, p. 223. Le parole riportate dall'autore francese non corrispondono a quanto scritto sul Diario di bordo. Eppure Attali le pone fra virgolette come per una citazione e le correda di un numero di nota. Purtroppo nell'edizione, alla quale abbiamo fatto riferimento, compaiono i numeri di nota, ma non le relative note. La frase non perde per questo di valore, perché, come vedremo più avanti, verrà confermata da altre dichiarazioni di Colombo. 452 Via della Conciliazione è il nome della strada che a Roma porta alla Basilica di San Pietro. Cattolico è l'equivalente di universale. 453 Canclini Arnoldo, La Fe del Descubridor, Editorial Plus Ultra, Buenos Aires 1992, p. 204. 454 È interessante a questo proposito segnalare la strabiliante notizia riportata dall'Osservatore romano («Un marinaio di Colombo, catturato, rivelò ai turchi la scoperta», di Salvatore Bono, 15 gennaio 1993, p. 3) secondo la quale una persistente tradizione orale, riportata da uno studioso ottomano ottocentesco, Emin Efendi, e segnalata nella biografia del poeta Arif Efendi (1771-1849), affermava che, al tempo del sultano Bayazed, un cristiano di nome Kolon si era presentato alla corte del sultano, chiedendogli i mezzi tecnici e finanziari, per andare alla scoperta di un «nuovo mondo». Si parlerebbe, fra l'altro, già di «nuovo mondo». 455 Vale, a questo punto, la pena di aggiungere un particolare. Recentemente è salita anche in Italia, alla ribalta della cronaca, un'ultima discendente della famiglia Medina Sidonia, la duchessa Luisa (ne ha riferito il programma Turisti per caso di Susy Blady e Patrizio Roversi). Nel suo palazzo in Andalusia, nella sua biblioteca, nei suoi archivi ereditati dagli avi, che aiutarono Colombo, ci sarebbero libri, mappe e
documenti che fanno riferimento alle Americhe prima del 1492. Sono mappe che si ritiene provengano ancora una volta da Alessandria d'Egitto. I documenti avvalorerebbero la tesi che «le coste americane fossero conosciute prima della spedizione e fossero raccontate come territori africani che si raggiungevano dopo venti giorni di viaggio ed erano ricchi di miniere d'oro. In realtà era il Brasile» (Coppola Alessandra, «In una carta abbiamo trovato il segreto di Colombo», Corriere della Sera, 11 gennaio 2001, p. 24). In questo caso l'America raggiunta, secondo la duchessa, dagli arabi, pur di non essere «scoperta», veniva fatta passare per Africa ed esattamente per la regione della Guinea. Dalla Guinea, nel continente nero, si diceva provenisse l'oro della Mina. In Guinea (una Guinea africana o una Guinea americana?) si era recato, prima del 1492, anche Colombo. La battagliera duchessa di Medina Sidonia ha scritto un libro, naturalmente avversato dalle autorità spagnole e pubblicato in Francia. Le sue tesi compaiono su Internet in un sito dell'Islam. Un filo di contiguità, con quella religione, ininterrotto da oltre cinquecento anni. 456 Leroy Beatrice, L'avventura sefardita, ECIG, Milano 1994, p. 57. 457 Baldacci Osvaldo, Roma e Cristoforo Colombo, Olschki, Firenze 1992, p. 85. Un'altra isola avrebbe il toponimo di Monferrato (!). 458 Cosmografia, tavole della geografia di Tolomeo, Presentazione di Lelio Pagani, Stella Polare, Milano 1990, p. IV. 459 Cosmografia, op. cit., p. VII. Nella presentazione di Lelio Pagani si parla, inoltre, di un Codice conservato alla biblioteca di Napoli ed appartenente ai Farnese. Attribuito all'opera di Nicolò Germano (il Cusano?), operante a Padova (!) alla metà del Quattrocento. Più o meno nel periodo in cui vi studiava Innocenzo VIII. 460 Bausani Alessandro, op. cit., p. 12. 461 Cordier Umberto, Dizionario dell'Italia misteriosa, Sugarco, Milano 1991, p. 109. 462 Akgura Yusuf, op. cit., p. 3. 463 Mascia Rosario, op. cit., passim. 464 Uzielli Gustavo, La vita e i tempi di Paolo dal Pozzo Toscanelli, Ricerche e studi, Roma 1894, p. 185: «Fra il 1486 e il 1490, a quanto asserisce Pedro Vasquez de la Frontera, Colombo e Pinzón avrebbero accompagnato l'infante di Portogallo verso occidente in un viaggio di scoperta che fu impedito dal mar dei sargassi». 465 Bizzarri Mariano, Il Mitreo di San Clemente, Sydaco, Roma 1997, p. 18, nota 18. 466 Cowan James, Il sogno di disegnare il mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. 16: «Per quanto, in qualche occasione, facciano capolino i suoi pregiudizi (i sospetti verso l'Islam, per esempio), tuttavia prevale l'impressione che fra' Mauro sia piuttosto incline alla tolleranza. Né in lui arriva ad avere il sopravvento la fede personale di cristiano praticante. Si avverte che il monaco indossa con leggerezza il proprio cattolicesimo, nel desiderio di evitare che la Chiesa e la dottrina si interpongano fra lui e la verità». 467 Nebenzahl Kenneth, Atlante di Colombo e Le Grandi Scoperte. Dalla stessa opera abbiamo tratto altre informazioni relative alle carte menzionate. 468 Nebenzhal Kenneth, op. cit., p. 23. Il manoscritto miniato datato Firenze 1489 è conservato presso la Yale University, in America.
Cosmografia, Lucchetti Stella Polare, Bergamo 1990, p. X, nota 12. La terra tolemaica si perdeva ad Oriente con il toponimo «Sinarum Regio». L'ultima delle penisole che si proiettavano nel Mare Indicum era il Chersoneso aureo, l'ultimo grande golfo era il Sinus Magnus. Oltre quei limiti ancora terre incognite, ma solo terre. 470 Almagià Roberto, Cristoforo Colombo visto da un geografo, Olschki, Firenze 1992, pp. 167-168: «Se si dà a quella quarta penisola delineata dal Martello in modo del tutto congetturale una diversa direzione, immaginandola proiettata verso sudovest e ampliata a sud in una più vasta massa, si ottiene una rappresentazione non dissimile da quella ricavata dagli schizzi attribuiti a Bartolomeo Colombo. La stessa penisola appare disegnata a un dipresso nello stesso modo, in un altro documento cartografico famoso, il globo di Martino Behaim del 1492». I Colombo (ma si può considerare veridica l'attribuzione di quegli schizzi?), dunque, per l'Almagià interpreterebbero le nuove terre, né più né meno come Enrico Martello. Il disegno attribuito a Bartolomeo, il fratello di Cristoforo, per la verità, si limita a rappresentare un'estensione terrestre molto circoscritta. Colombo, d'altronde, era molto attento a non diffondere, se non per gradi, le sue conoscenze. Conscio di quanto infido fosse il terreno sul quale si stava muovendo e quali interessi planetari coinvolgesse. Sempre l'Almagià, in un altro suo studio (I mappamondi di Enrico Martello e alcuni concetti geografici di Cristoforo Colombo, Bibliopolis, Firenze 1941, p. 311), fornisce un'altra interessantissima notizia: la presenza, fra le carte dell'Insularium illustratum, nel Codice laurenziano originale, di una carta del Cipango, esclusa dalle redazioni definitive della sua opera. Una singolare omissione! Carta, fra l'altro, ignota agli studiosi che si sono occupati dell'antica cartografia del Giappone. Forse il Cipango di Enrico Martello non era il Giappone? 469
Questo tipo di interpretazione è avvalorato dal mappamondo di Francesco Rosselli del 1508, che si trova a Firenze (Segni e sogni della terra, De Agostini, Novara 2001, p. 147), dove l'America compare distaccata dall'Asia, ma dove Beragua (Veragua), all'incirca l'odierna Panama, una delle terre toccate da Colombo nell'istmo centroamericano, compare sulla «quarta penisola asiatica» insieme ai toponimi della Cina di Tolomeo ed a quelli usati da Marco Polo. A riprova di una confusione non ancora risolta o che non si voleva risolvere. 472 La mappa si trova oggi a Modena. 473 Singolare che si faccia menzione, sia pure in un Diario rielaborato successivamente (dovrebbe però tenere conto solo dei toponimi originali, visto che il riferimento costante è alle stesse parole autografe del navigatore), di una penisola ancora da scoprire. Che, nel riassunto del viaggio del 1492, non dovrebbe essere assolutamente menzionata. Non ci pare che si trovino corrispettivi analoghi, se non andiamo errati, nella trascrizione di quella prima spedizione, molto più dettagliata e fedele delle altre. 474 Nella carta del 1556 dello spagnolo Girava, nella quale sono raffigurate le due Americhe, in effetti la Florida è situata molto più a nord, sotto la Tierra de bacalaos. 475 Dunn Ross E., Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta, Garzanti, Milano 1993, p. 9. 476 Dunn Ross E., op. cit., p. 23. 477 Dunn Ross E., op. cit., p. 21. 471
Corriere della Sera, p. 29, «Corriere Scienza», a firma Luca Carra: «In compenso, moltissimi testi filosofici e scientifici islamici dell'età dell'oro (VIII-XII secolo, N.d.A.) non sono stati ancora tradotti e nemmeno letti da studiosi occidentali. 'La scienza islamica è ancora da scoprire'». Le verità tradizionali si basano, come sempre, su una serie di omissis. 479 Corriere della Sera, cit: «Se l'algebra fece un balzo in avanti con la scuola di alKhwarezmi, la matematica islamica mediò da quella indiana la numerazione con lo zero e gli elementi principali della trigonometria, come il seno, sconosciuto ai greci. Fu grazie all'uso di questi nuovi strumenti che l'astronomia islamica perfezionò quella di Tolomeo». 480 La stessa parola scienza, ilm, ha un duplice significato: «Sia l'indagine sulla natura e sull'uomo, sia la ricerca della tradizione del Profeta». 481 Nebenzhal Kenneth, op. cit., p. 52. Il testo prosegue dicendo che l'ammiraglio, «navigando in direzione di ponente, raggiunse le Isole Spagnole dopo aver superato diverse avversità e pericoli. Quindi levò l'ancora e fece rotta verso la provincia chiamata Ciamba. Successivamente si diresse verso questo luogo che, come lo stesso Colombo, massimo indagatore di cose marittime, asserisce, nasconde una grande quantità di oro». 482 Schreiber Hermann, Gli arabi in Spagna, Garzanti, Milano 1992, p. 249: «...Si recò in Provenza, in Italia, nel vicino Oriente, in Mesopotamia, nello Yemen e in Egitto, forse anche in India e nel Tibet. Quando tornò nell'anno 1173 aveva registrato circa trecento comunità ebraiche orientali...» 483 «Magia. L'eterno fascino dell'occulto», Medioevo Dossier, De Agostini Rizzoli Periodici, n. 2, Milano 2001, a cura di Marina Montesano, p. 62: «Antropologicamente, tra mercante e pellegrino non c'era, poi, quella differenza che si potrebbe immaginare. Con i proventi dei viaggi, il mercante spesso finanziava, anche a sconto dei suoi peccati, belle chiese, grandi affreschi, splendide vetrate. Mentre i pellegrini molto spesso mercificavano gli esiti del loro pellegrinaggio, magari con un traffico di reliquie». 484 Herm Gerhard, I bizantini, Garzanti, Milano 1997, p. 305. 485 Broc Numa, La geografia del Rinascimento, Panini, Modena 1996, pp. 12-13: «Proprio all'inizio del secolo (1410) il cardinale Pierre d'Ailly compone la sua Imago mundi attingendo agli antichi (Aristotele, l'Almagesto di Tolomeo, Plinio, Seneca), agli arabi e ai dottori della Chiesa (Sant'Agostino, Alberto Magno). Molto rispettoso dell'autorità, Pierre d'Ailly evita generalmente di prendere posizione: così, parlando dell'Antictone e del continente australe passa in rassegna le opinioni dei suoi predecessori senza pronunciarsi personalmente. Esprime tuttavia alcune opinioni originali: 'apertura' dell'Oceano Indiano verso sud; estensione dell'Eurasia per 225 gradi, secondo i calcoli di Marino di Tiro. Sappiamo che Cristoforo Colombo annoterà abbondantemente l'Imago mundi e sottolineerà alcune citazioni riprese da Aristotele come: 'La regione delle colonne d'Ercole e l'India sono bagnate dallo stesso mare...'. Enea Silvio Piccolomini redige nella seconda metà del secolo una cosmografia stampata a Venezia nel 1477 con il titolo Historia rerum ubique gestarum. Uomo di grande erudizione (utilizza largamente Strabone), Pio II si sforza di fare una sintesi fra la geografia moderna e quella degli antichi. Sembra ispirarsi a 478
Pierre d'Ailly per i suoi capitoli generali sulla terra, la ripartizione dei continenti, l'abitabilità dei tropici e delle regioni artiche, o l'accesso alle Indie da ovest. Ma include anche informazioni sull'Asia tratte da Marco Polo e da Odorico da Pordenone. Come l'Imago mundi la cosmografia di Pio II fu uno dei libri preferiti da Cristoforo Colombo». Anche il segretario del pontefice, Flavio Biondo, era un geografo. 486 Broc Numa, op. cit., p. 171. 487 Menzies Gavin, 1421 La Cina scopre l'America, Carocci, Roma 2003, p. 75: «... per aver abiurato il Cristianesimo, papa Eugenio IV impose a Da Conti di raccontare la storia dei suoi viaggi al segretario pontificio Poggio Bracciolini». Il giovane veneto, come già detto, si era infiltrato fra gli infedeli, sposando una musulmana, convertendosi all'Islam, cercando di raggiungere i seguaci di San Tommaso della chiesa nestoriana. Bracciolini era un umanista, fu scrittore apostolico, era un appassionato di libri antichi, scoperse parte delle Argonautiche (!) di Apollonio Rodio, nella versione di Valerio Fiacco. Conosceva bene il cardinale Calandrini, fratello del papa Nicolò V, il prelato che portò a Roma Giovarmi Battista Cybo. «Poiché costui (Nicolò da Conti, N.d.A.) ebbe col pontefice parlato et veduto che ebbe la città per devotione si partì senza domandare oro o argento, come colui che era venuto a noi non per cagione di guadagno, secondo che molti usano di fare mentendo, ma perché così gli era stato comandato» (Taviani Paolo Emilio, Cristoforo Colombo. La genesi della grande scoperta, De Agostini, Novara 1982, p. 380). I Da Conti erano una nobile famiglia. Un Sigismondo da Conti di Foligno, umanista e poeta, allievo di Ermolao Barbaro, avrebbe fatto parte dell'«entourage» di Innocenzo VIII. Il ramo romano dei Conti era originario di Segni, nel loro albero genealogico figurano uomini di Chiesa e più di un papa. Innocenzo III, Lotario dei Conti di Segni, aveva i cubetti, come i Cybo, nel suo stemma. Gavin Menzies, autore del libro 1421 La Cina scopre l'America, è un ex ufficiale della marina britannica. Nella sua dettagliata e per molti aspetti interessantissima analisi si limita a parlare di una navigazione effettuata nell'anno 1421, facendo risalire, a quell'unica grande e lunga spedizione, conoscenze che per noi risalgono a molto tempo prima. Quanto meno all'epoca di Marco Polo. Poggio Bracciolini inoltre, nella sua qualità di segretario pontificio, era l'intermediario tra la corte di Roma, il cartografo veneziano fra' Mauro, Pedro del Portogallo ed il principe Enrico il Navigatore (Menzies Gavin, op. cit., p. 81). 488 Broc Numa, op. cit., pp. 179-180: «Alcuni focolai di studi geografici conobbero soltanto un'influenza limitata e passeggera; è certo, ad esempio, che l'importanza di Firenze o di Norimberga non sopravvisse alle grandi scoperte. Il ruolo di Roma, al contrario, non ha cessato di affermarsi lungo il corso dei due secoli che ci interessano. L'attenzione che la Chiesa porta verso la geografia sulle prime potrebbe sorprendere: in cosa dovrebbe sentirsi coinvolta un'istituzione a vocazione essenzialmente spirituale da una disciplina buona a malapena per i marinai e i mercanti? Non dovrebbe piuttosto diffidare di una scienza che rimette in questione il sistema del mondo, la ripartizione delle terre, l'origine dell'uomo?» La domanda parrebbe legittima, ma trascura i reali interessi della Chiesa del tempo.
Rinascimento, Catalogo Skira, Milano 2001, pp. 122-123: «I due personaggi sono, infatti, rappresentanti di correnti di pensiero, tra loro radicalmente opposte, relative all'essenza ultima delle cose, all'esistenza o meno di un bene superiore per dare o non dare senso alle cose e alle azioni dell'uomo». L'affresco fa parte di un ciclo che vuole rappresentare lo stato dell'equilibrio perfetto degli elementi come delle virtù. Nella concatenazione dei quattro elementi: acqua, aria, terra fuoco. Uno studioso individua nella scelta di Eraclito e Democrito una tematica tipica della cultura umanistica «presente anche nella decorazione di Antonio del Pollaiolo (l'artista che realizzò la tomba di Innocenzo VIII, N.d.A.) che ornava, a Firenze, le sale dell'accademia di Marsilio Ficino» (!). (Wind Edgar, Misteri pagani del Rinascimento, Adelphi, Milano 1999, p. 61, nota 50). C'è da aggiungere che Bramante lavorò soprattutto a Milano, ma che alla corte di Urbino fu in stretto contatto con Melozzo da Forlì, uno dei pictor papalis di Innocenzo VIII. 490 Le Antille, per esempio, erano prematuramente presenti nei planisferi di Andrea Bianco (1436), in quello di Bartolomeo Pareto, (1455), in quello di Grazioso Benincasa (1482), per fare solo qualche citazione. 491 Uzielli Gustavo, La vita e i tempi di Paolo dal Pozzo Toscanelli, Ricerche e studi, Roma 1894, pp. 587-588. La notizia del fantasmatico globo (in questo caso si precisa che si tratta di una «lintea tela depictam in forma rotunda») del «presbitero veneto» è confermata in una Storia dei vescovi di Siena, redatta da Antonio Pecci, che ne scrive nel 1748.1 riferimenti all'ecclesiastico e cosmografo veneto Leonardi li ho confidati, per avere un aiuto nella ricerca, ad un appassionato di carte, che vive a Sondrio e che si sarebbe trovato più vicino a possibili fonti veneziane. Qualcosa mi ha detto di avere trovato. Ha ritenuto di non farmene partecipe. D'altronde persino il Palazzo Besta a Teglio e in particolare la relativa «impossibile» mappa, di cui tratterò nel prossimo capitolo, situata proprio a pochi chilometri da Sondrio era, finché non gliene parlai, del tutto sconosciuta allo stesso ricercatore, il quale, ad onor del vero, in un primo momento si dimostrò amico e collaborativo. Avrei dovuto riservare la primizia per questo libro. Ma la piega che presero gli avvenimenti, in seguito ad una conferenza fatta congiuntamente e ad altri sgradevoli episodi, mi hanno portato ad anticipare i risultati della ricerca sul numero 37 di Hera, del gennaio 2003. Purtroppo le novità, che emergono dall'annosa indagine, fanno scattare in molti «la sindrome del tesoro». Facendo in modo che alcuni ritengano di potersene appropriare o si convincano di esserne da sempre a conoscenza. Vero è che ho incontrato anche persone di onestà e generosità intellettuale, che hanno cercato di darmi una mano senza nessuna contropartita. Ma il bilancio globale resta decisamente negativo. Anche perché sono sempre stato aperto (forse troppo) allo scambio e al lavoro d'équipe. 492 Pio II (Piccolomini Enea Silvio), Lettera a Maometto II, Pironti & Figli, Napoli 1953, p. L dell'Introduzione, a cura di Giuseppe Toffanin. La singolare lettera di Pio II, di cui abbiamo già parlato, «avrebbe rappresentato una badiale o papale conferma che gli umanisti s'erano agganciati ai Padri della paganizzazione della Chiesa conferendo ai filosofi antichi gli attributi stessi dei profeti». 493 La lettera di Pio II iniziava in nome della «consolazione da molte genti aspettata: la pace». Ma non mancava una controversia circa la misurazione delle sfere, quella 489
celeste come quella terrestre: «Ne era conseguito il computo che il circuito della terra cioè di tutta la sfera fosse di ducento e cinquantamila stadi. Ma l'armoniosa ragione che costringe la natura delle cose a concordare con se stessa (per la stessa testimonianza di Plinio) aggiunge a questa misura settemila stadi. Eratostene solertissimo indagatore di queste cose assegnò alla circonferenza terrestre duecentocinquantamila stadi, Ipparco ne aggiunse poco meno che venticinquemila. Ci sono anche in altri differentissime ipotesi. Né credo che fino ad oggi alcun mortale sappia a sufficienza di questa misura della terra i cui confini sono ignoti al nord e al sud». Tolomeo nel testo del pontefice è citato più come grande astronomo che come geografo, per il calcolo delle distanze nell'universo: in riferimento alla luna, al sole, a Marte. 494 Pistarino Geo, La sede di Roma nell'apertura del Nuovo Mondo, p. 553. Per quanto abbiamo avanzato richieste non abbiamo ottenuti ulteriori dati circa lo studio in questione. 495 Herm Gerhard, I Bizantini, cit., p. 309. 496 Fisher H.A.L., Storia d'Europa, Newton Compton, Roma 1995, vol. I, p. 333: «Nel Vaticano, e specialmente tra i francescani, le cui missioni si estendevano in tutto il mondo, le imprese oceaniche del Portogallo e della Spagna suscitarono il più vivo interesse, per la possibilità non solo di convertire i pagani, ma anche di sferrare dall'oriente un attacco ai musulmani. Si sapeva che il Negus dell'Abissinia era un cristiano e si credeva che ancora sopravvivesse in India uno stato cristiano, derivato da una missione di San Tommaso e governato da un monarca, noto sotto il nome di Gran Can. Si sperava ardentemente che da questi lontani principi orientali l'Europa avrebbe efficace aiuto in un'ultima grandiosa crociata contro gli infedeli. Tale era il 'Piano delle Indie' tracciato, sin dal 1454, da Niccolò V, in una bolla spedita al re di Portogallo. E in quest'atmosfera di attesa appassionata mosse lo stesso Colombo alla scoperta delle Indie in occidente». 497 In questo filone senza cesure di studi e di passioni, che anticiparono i viaggi colombiani, non si è mai minimamente accennato ad Innocenzo VIII. Mai prima che il «papa tradito» fosse riesumato attraverso questa ricerca iniziata quindici anni fa. La mannaia della storia colpì impietosamente quello che il Pastor definì il «papa marinaro». Verità e giustizia furono sepolte con lui. Per cui in questa ininterrotta sequenza geografica, che riconduce immancabilmente agli uomini di chiesa e ai pontefici Giovanni Battista Cybo non dovrebbe trovare posto. Come in effetti risulta da quasi tutta la pubblicistica che lo riguarda. Una volta di più il ritratto del pontefice è completamente obliterato. Cosa avrebbe a che vedere il pontefice senza lettere e senza carattere, arrendevole e debole, con i grandi disegni universali? 498 Dengel Ignazio Filippo, «Sulla 'Mappa Mundi' di Palazzo Venezia», in Atti del II Congresso Nazionale di studi Romani, vol. II, Roma 1931. Da questo studio trarremo altri particolari. 499 Paolo II, Pietro Barbo, era in relazione con Borso d'Este, duca di Modena, alla cui corte si coltivavano studi cosmografici. Presso gli Este di Ferrara, come abbiamo visto, «approdò» la mappa di Cantino. Ai due Nicola Germano dedicò una sua opera su Tolomeo. Alla corte papale inoltre si trovava Franciscus Christian us, un altro esperto, oltre al veneziano Girolamo Bellavista, a sua volta nominato come possibile
autore del mappamondo smarrito di Pio II. L'intreccio si fa sempre più stretto, in un ginepraio di carte e di autori inestricabile. I nomi si moltiplicano, si moltiplicano i personaggi definiti «familiari» dei pontefici. Siamo nello stesso periodo nel quale ancora un veneziano, il già menzionato, ma quasi ignoto presbitero Antonio de' Leonardi, viveva a Roma e dipingeva su tela mappe per Pio II come per il cardinale Francesco Piccolomini. Giuseppe Zippel, nei suoi studi sull'epoca di Paolo II, aggiunge che Bellavista apparteneva alla «Famiglia papale». 500 Casanova Maria Letizia, Palazzo Venezia, Editalia, Roma 1992, p. 154: «La decorazione pittorica della sala del Mappamondo, compiuta dal cardinale Lorenzo Cybo intorno al 1491 (quando Innocenzo VIII era ancora in vita, N.d.A.), costituisce uno dei rari complessi a fresco superstiti del Quattrocento romano, assieme a quello della Sala Greca del palazzo vaticano. Sistemata all'epoca di Nicolò V, essa ospitava con ogni probabilità la biblioteca del pontefice, successivamente incorporata da Sisto IV nel piano generale della Biblioteca vaticana. Questa sala... con la sua misura espressiva, prevalentemente atmosferica e pittorica, ricollegabile a dipinti murali romani, ma legata ad un rigoroso linearismo, ha fatto supporre una ideazione di matrice toscana, con attribuzioni che vanno da Piero della Francesca ad Andrea del Castagno, presente a Roma nel 1454. Il Mappamondo, invece, si presenta come la rievocazione di un'aula classica... entro una rigorosa intelaiatura prospettica. L'impegno strettissimo della selezione archeologica - i motivi decorativi sono desunzioni quasi letterali dei grandi temi dell'architettura romana, l'arco trionfale e la basilica - fissata dal rigido schema frontale in un'atmosfera senza tempo, e sganciata da ogni richiamo figurativo e contingente, colloca questa pur notevole impresa pittorica nell'ambito di una bottega influenzata da Andrea Mantegna, che nel 1488 Innocenzo VIII aveva chiamato per decorare la cappella di San Giovanni Battista nel Palazzo del Belvedere». 501 Dengel Ignazio Filippo, Atti del Congresso..., cit., vol. II. A puro titolo di curiosità riportiamo la conclusione dello studio: «Ma per la storia della cartografia è importante sapere che un monumento così cospicuo del Quattrocento abbelliva un tempo il gigantesco Palazzo di San Marco, ora sede prediletta di un Uomo di Stato che ivi concepisce per l'Italia la 'mappa' di un più grande avvenire». Il riferimento chiaramente è a Mussolini. Mutano i tempi, ma la geografia finisce sempre per influenzare le sorti dei popoli ed essere interpretata unicamente agli occhi della politica. 502 Bossi Luigi, La vita di Cristoforo Colombo, Edison, Bologna 1992, pp. 109-110. Oppure, in un italiano più moderno, vedasi Eugenio Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 1992, pp. 332-333. Nel testo riportato da Garin (evidentemente si tratta di un'altra stesura della lettera) si aggiunge «perché quelli che navigheranno continuamente a ponente, per mezzo della navigazione agli antipodi, raggiungeranno dette regioni». 503 Garin Eugenio, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, cit., p. 320. 504 Garin Eugenio, op. cit., p. 332. 505 Bossi Luigi, op. cit., pp. 115-116: «Io ho ricevuto le tue lettere - scrive Toscanelli a Colombo - con le cose, che mi mandasti, le quali io ebbi per gran favore; et estimai il tuo desiderio nobile, et grande, bramando tu di navigare dal Levante al Ponente,
come per la carta, che io ti mandai, si dimostra; la quale si dimostrerà meglio in forma di sfera rotonda. Mi piace molto che ella sia bene intesa, et che detto viaggio non sol sia possibile, ma vero et certo, et di onore, et guadagno inestimabile, et di grandissima fama appresso tutti li cristiani. Voi non lo potete conoscere perfettamente se non con la esperienza o con la pratica, come io l'ho avuta copiosissimamente, et con buona, et vera informatione di uomini illustri, et di gran sapere, che sono venuti di detti luoghi in questa Corte di Roma; et di altri Mercanti, che hanno traficato lungo tempo in quelle parti, persone di grande autorità. Di modo che, quando si farà detto viaggio, sarà in regni potenti, et in città, et province nobilissime, ricchissime, et di ogni sorte di cose, a noi molto necessarie, abbondanti; cioè di ogni qualità di specierie in gran somma, et di gioie in gran copia. Ciò sarà caro eziandio a quei re et principi, che sono desiderosissimi di pratticare et contrattar con Christiani di questi nostri paesi, si per essere parte di loro Christiani, et si ancora per aver lingua, et prattica con gli uomini savii, et di ingegno di questi luoghi, così nella religione, come in tutte le altre scientie, per la gran fama degl'Imperii, et reggimenti che hanno di queste parti. Per le quali cose, et per molte altre, che si potrebbono dire, non mi meraviglio che tu, che sei di gran cuore et tutta la nazione Portoghese, la quale ha avuto sempre huomini segnalati in tutte le imprese, sii col cuore acceso, et in gran desiderio di eseguir detto viaggio». 506 Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia italiana Treccani, Roma, p. 249. In un mappamondo del 1457 attribuito a Toscanelli (come abbiamo già visto in una nota precedente), offerto nel 1459 agli ambasciatori del re del Portogallo, il Giappone è già chiamato «Japan» e non Cipangu. È l'ulteriore riprova che il Cipangu di Marco Polo non era mai stato identificato con il Paese del Sol Levante. Come Antilya, era già una «quarta pars» del globo. 507 Garin Eugenio, op. cit., p. 325: «Il clima fiorentino, artigiano da un lato e incline, dall'altro, alle discipline politico-morali, non vide mai fiorire qualcosa di equivalente alla scienza così spregiudicata, anche se, alla fine, così chiusa e conservatrice, che albergò nell'aristocratica Padova. La 'libertà' padovana è sostanzialmente quella degli ardimenti scolastici sconfinanti nell'eresia». 508 Rombai Leonardo, «Firenze e gli studi geografici e cartografici nel Quattrocento», in La carta perduta, Paolo dal Pozzo Toscanelli, Fratelli Alinari, Firenze 1992, p. 32. 509 Alvi Pirro, Todi città illustre dell'Umbria. Cenni Storici, Todi 1910, p. 174. 510 Cardini Franco, «L'immaginario geografico medioevale», in La carta perduta, cit., p. 87. 511 Garin Eugenio, op. cit., pp. 316-317: «Paolo non doveva prendere completamente sul serio la sua arte, anche se è difficile, di questi uomini sempre al limite fra una fede in crisi e una scienza incerta, dire sino a che punto andassero ironizzando perfino sulle loro certezze. Comunque è probabile che, tutto sommato, il Toscanelli preferisse le dottrine di Albumasar sulle grandi congiunzioni o sui cicli della storia alle dotte dissertazioni ficiniane intorno all'anima delle stelle. Non a caso negli anni medesimi in cui il grande Marsilio stendeva la Theologia platonica e si dilettava di mistici erramenti fra mondi ideali, Cristoforo Colombo trascriveva la lettera già inviata da Paolo Toscanelli nel 1474 al canonico Martins per il re di Portogallo». 512 Garin Eugenio, op. cit., p. 321.
Finché Lorenzo è in vita, come Innocenzo VIII, l'uomo dell'operazione America resterà Cristoforo Colombo. Scomparso il Magnifico, con il dominio della Spagna e dei Borgia, prevarrà Amerigo Vespucci, uomo anche di un altro Medici, Lorenzo di Pier Francesco. 514 Menzies Gavin, op. cit., p. 331. Nella stessa pagina per di più si parla «della carta del mondo che il delfino di Portogallo Dom Pedro riportò da Venezia nel 1428». Era quella del cosmografo Leonardi, di cui abbiamo già parlato nel capitolo precedente, «rimasto da tutti sconosciuto»? 515 Menzies Gavin, op. cit., p. 81: «Le conoscenze e le carte cinesi non poterono passare che da Niccolò da Conti a fra' Mauro e da lui a Dom Pedro di Portogallo e al principe Enrico il Navigatore. Nella sua qualità di segretario pontificio, Poggio Bracciolini fu, come vedremo (e come abbiamo visto nel capitolo precedente, N.d.A.), un intermediario fondamentale». 516 Dizionario biografico degli italiani, p. 248. Dalla stessa pubblicazione sono tratte altre notizie, che fanno parte della vita di Toscanelli e delle famiglie Del Pozzo. 517 Ammannati Francesco, «Toscanelli e Colombo: gli errori della ragione e i dubbi della fede», in La carta perduta, cit., p. 66: «Fabbricati (i mappamondi, N.d.A.) in ambiente religioso, avevano come scopo principale l'illustrazione di eventi delle Sacre Scritture... la nuova funzione mistica viene realizzata trasferendo il centro della rappresentazione da Roma a Gerusalemme... i mappamondi costituiscono un esempio tipico di cartografia 'ideologica', cioè asservita ad una visione politica e religiosa del mondo. Anche il sistema tolemaico, che pure ha un'origine razionale e laica, nel momento in cui viene adottato come massimo sistema, acquisisce una valenza ideologica, radicandosi nella cultura occidentale a partire dalla metà del sec. XV. Il suo smantellamento richiederà molto più tempo di quanto sarebbe lecito aspettarsi». 518 Rombai Leonardo, op. cit., p. 34: «Questi ed altri stranieri furono scrupolosamente interrogati dalle autorità ecclesiastiche, mediante ricorso ad 'uno interprete di natione viniciano, ch'era cosa mirabile a vedere transferire di latino in quelle lingue si istrane' (così il testimone Vespasiano da Bisticci). È pressoché certo che questo 'viniciano' sia stato il mercante chioggiotto Nicolò de Conti». (!) 519 Uzielli Gaetano, La vita e i tempi di Paolo dal Pozzo Toscanelli, Ricerche e studi, Roma 1894, pp. 192-193. 520 Colombo Fernando, Le Historie della vita e dei fatti dell'Ammiraglio Don Cristoforo Colombo, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1990, vol. VIII, tomo I, p. 46. La «nostra India» dice Fernando, intendendo chiaramente l'America, la cui distanza dall'Asia è molto di più della distanza intercorrente fra l'Europa («di qua») e il Nuovo Mondo («quei paesi»). 521 Taviani Paolo Emilio, op. cit., p. 370. La notizia viene riportata anche dall'Uzielli, a p. 599 della sua opera citata su Toscanelli: il quale, però, era morto nel 1482. La lettera, quindi, se la data 1491 dovesse essere confermata e non sia stata interpretata erroneamente, potrebbe essere anche un falso. Fatto questa volta, probabilmente, a favore di Colombo. 522 Particolarmente cari al papa francescano Sisto IV erano i nipoti, che nacquero da quell'unione, Cristoforo e Domenico dal Pozzo, costantemente protetti. Il primo venne nominato castellano di Sant'Angelo, il secondo, alla morte del fratello, 513
ricevette la porpora. Continuerà ad accumulare benefici con Innocenzo VIII e tra il 1482 e il 1485 figurerà come protettore della «Sodalitas viminalis», ovvero l'Accademia romana di Pomponio Leto. Un Francesco Del Pozzo, detto il Puteolano (fratello o parente di Paolo?), fu ambasciatore del Moro di Milano presso Innocenzo VIII, il quale, apprezzandone la dottrina, gli concesse il beneficio dell'abbazia di Tolla nel Piacentino, la zona originaria della famiglia Pallestrello o Perestrello, da dove veniva Filippa, la prima moglie di Colombo. Molti Del Pozzo erano presenti a Pavia, dove si tramanda, sia pure in assenza di prove, che avrebbe studiato il giovane Cristoforo. 523 Freitas Treen Maria, The Admiral and his Lady, Robert Speller & Sons Pubs, New York 1989, p. 34. 524 Gli studi effettuati rimandano a confronti che, per la parte architettonica ed il rispetto delle proporzioni e delle armonie, rinviano ad una toscanità dichiarata, agli insegnamenti del fiorentino-genovese Leon Battista Alberti (le mogli di alcuni dei signori del palazzo portano come cognome Alberti, cognome genovese trapiantato a Firenze), alle citazioni di Vitruvio, Filarete, Bramante, del fiorentino Giuliano di Sangallo. L'insieme fa pensare ad una ristrutturazione avvenuta a partire dal tardo Quattrocento, con una serie di successivi interventi. Il primo, decisamente il più importante, arriverebbe sino alla fine degli anni Trenta del Cinquecento, il secondo è successivo. 525 Garbellini Gian Luigi, Il Palazzo Besta di Teglio, Lyasis 1996, p. 12. 526 Galletti G., Mulazzani G., Il Palazzo Besta di Teglio, Sondrio 1983, p. 32. 527 Garbellini Gian Luigi, La Chiesa di San Lorenzo di Teglio, Teglio 1993, p. 21. 528 Le alte pareti dell'ampio cortile offrono, in una sequenza monocroma, il ciclo dell'Eneide, ad iniziare dalla fuga di Enea. In una ricostruzione degli avvenimenti che non avrebbe corrispettivi dal punto di vista stilistico e che omette le scene famose relative alla caduta di Troia e soprattutto quella del cavallo. Il tema prescelto è incentrato sulle vicissitudini dell'eroe, nelle vesti dell'homo viator fino al suo approdo in Italia. A fargli da cornice, nei fregi sottostanti, una serie di cammei comprendenti tanti «uomini illustri» e anche qualche donna. Ogni volto deve avere un nome e una ragione, ma nonostante le molte diciture, in parte illeggibili, e per via delle svariate zone abrase la maggior parte dei «prescelti» continuano a restare, qui e altrove, nel mistero. In un tempo in cui nulla veniva lasciato al caso e molte opere d'arte erano un libro aperto. Solo per chi fosse in grado di leggerlo. Il senso recondito delle raffigurazioni si accresce nel ciclo cavalleresco ispirato a l'Orlando furioso dell'Ariosto (la prima edizione del suo libro è del 1516), del quale si è tentato, in quello che per noi è il reale sottofondo ancora tutto da scandagliare dell'edificio, come delle sue molteplici «voci», una interpretazione sul versante etico-moralisticoesoterico. Purtroppo le interpretazioni effettuate (Mazzoni Rajna Giuseppina, L'«Orlando furioso» in Valtellina, Sondrio 1983) si limitano ad una lettura epidermica in questo senso, che individua tuttavia un Orlando «rivissuto attraverso incitamenti alla virtù, condanna del vizio, elevazione spirituale, rapporti magici tra i Cieli e la terra». Laddove la complessità dei segni e delle citazioni, che compaiono nei motti, che definiscono le 24 «scene», come in un teatrino dei pupi, richiederebbe ulteriori approfondimenti. In una vera e propria «pioggia» di segnali allusivi.
In un ciclo degli affreschi, in un crescendo pittorico, si arriva alla «prepotenza e violenza dei governanti, alla discordia, all'avarizia e ingordigia della lupa ed alla sua uccisione per via di una giovane donna che uccide la 'bestia' con la lancia, mentre con l'altra mano alza un compasso. Per finire con il trionfo dell'uomo saggio o del mago bianco», un gioviale signorotto che incede su una tartaruga, portando nella mano una sfera armillare, simbolo di scienza e conoscenza. Ma sono numerosissime, per cui non se ne può fare che un cenno, nei personaggi come negli sfondi, nella natura come negli animali e nei tanti curiosi particolari, le «tracce» che fanno pensare ad un senso altro. Ad un significato completamente diverso da quello che appare alla vista, che si serve dell'allegoria, anche attraverso un'arte non sempre eccelsa. 530 Marino Ruggero, «La cartografia occulta del Palazzo Besta», in Hera, n. 37, gennaio 2003, pp. 58 e sgg. La mappa, come già detto, era completamente ignorata, prima che ne rilevassimo l'importanza, agli studiosi della materia. Anche a chi si trovava a pochi chilometri dal manufatto. 531 Galletti Giorgio, «Aggiunte al Palazzo Besta di Teglio, nuove ricerche e restauri», in Bollettino storico della Società Valtellinese, n. 42, 1989, p. 140, nota 3. 532 Galletti Giorgio, op. cit., p. 154, nota 27 e p. 156, nota 32. 533 Potrebbe trattarsi dell'Atlantide scomparsa, sulla scia delle ipotesi avanzate e approfondite anche dall'ammiraglio Flavio Barbiere? Un'Antartide che le ultime ricerche suggeriscono avere avuto un tempo un clima ben diverso? Un paragone è stato fatto fra il mappamondo di Teglio (c'è chi lo trova somigliante a quello di Enrico Martello (!) del 1490) e quello dello spagnolo Girava. Per la verità la conformazione dei continenti è differente. Resta uguale il concetto, espresso nella dicitura, che suona: «Tierra meridional descubierta el ano 1499 pero no se sabe ahun por entero lo que sea». La carta del Girava fa parte di una pubblicazione stampata a Milano nel 1556. A quale terra, a quale spedizione anche in questo caso si fa riferimento? Strano anche, per quanto riguarda l'America, che non compaia il nome ispirato da quello di Amerigo Vespucci, già ampiamente utilizzato per cancellare Colombo. Anche nel globo cordiforme di Oronzio Fineo, datato al 1536 (!), si può individuare una terra australe sterminata, che porta sovrimpressa la didascalia: «Terra australis nuper inventa sed nondum piene examinata». Sull'argomento si potrebbe tornare con altri mappamondi. 534 Recentemente nel mare dell'Australia, ad opera dello studioso Greg Jefferys, sono state rinvenute una nave da guerra, palle di cannone, manufatti e ossa di uomini bianchi, mischiate ad altre di aborigeni. Parrebbe trattarsi di una nave portoghese, che anticiperebbe di duecento anni l'arrivo di James Cook in quelle zone. In una storia che, nel caso specifico, sarebbe stata poi scritta dai «vincitori» anglosassoni. Fin dai tempi di Colombo, come abbiamo ripetutamente visto, i portoghesi erano più che convinti che all'austro ci fossero terre sconfinate. Per questo fecero di tutto per fare spostare, come in effetti avvenne, la raya tracciata da Alessandro VI Borgia a favore degli spagnoli, «recuperando», fra l'altro, il Brasile. Lo scrittore Gavin Menzies, già ripetutamente menzionato, ha dimostrato che verso il 1421 le giunche cinesi avrebbero raggiunto l'Australia. Greg Jefferys, in occasione del ritrovamento del relitto, aveva pensato, a sua volta, ad un'imbarcazione cinese (quando le navigazioni dei cinesi verranno reinserite nella storia della navigazione molte, se non tutte, le 529
scoperte inerenti al Pacifico dovranno essere riconsiderate), che si lanciarono nell'oceano con navi-transatlantico al confronto delle quali le caravelle erano veri «gusci dì noce». Il professore era convinto che un approdo cinese sarebbe stato possibile nel secolo XV. Ma il legname rinvenuto sott'acqua sarebbe inequivocabilmente di origine europea. Il guaio è che le carte di Pechino sono state distrutte dagli stessi cinesi, che preferirono chiudersi nel loro mondo esclusivo, mentre le carte lusitane sono andate perdute in un devastante terremoto. 535 Cuccaro nel Monferrato, è il caso di ricordarlo, è stata indicata fra le possibili patrie di Cristoforo Colombo. La località indubbiamente potrebbe avere fatto parte dei trascorsi della gioventù del navigatore. 536 Ai lavori dell'immane castello si alternarono il fiorentino Antonio da Sangallo il Giovane prima, Jacopo Barozzi da Vignola dopo. Gli stemmi ricordano casate illustri come gli Asburgo, i Colonna, gli Orsini, gli Aldobrandini, i Caetani, i Borbone, i Piccolomini, i Pallavicini, i Borromeo, gli Sforza, i Pecci... Tra i pittori si annoverano artisti di fama come i fratelli Zuccari, Jacopo Bertoia, Clio vanni de' Vecchi, Raffaellino da Reggio ed Antonio Tempesta. 537 Il Palazzo Farnese di Caprarola, a cura di Graziella Frezza e Fausto Be nedetti. De Luca, Roma 2001, p. 37. 538 Pavoni Rosanna, Immagini di un volto sconosciuto, Sagep, Genova 1990, p. 42. 539 Kish George, «The Caprarola portrait of Columbus», in Geographical Journal, vol. 120, Londra 1954, pp. 483-484. 540 Giovio Paolo, Ritratti degli uomini illustri, Sellerio, Palermo 1999, p. 11 della Prefazione, a cura di Carlo Caruso. 541 Giovio Paolo, op. cit., p. 22 dell'Introduzione di Carlo Caruso. 542 De Rosa Riccardo, «Alberico I Cybo Malaspina», in Atti di un Convegno di Studi, Modena-Massa 1995, p. 75. Esiste un ricco carteggio «intercorso tra Alberico, Signore di Massa, ed i Farnese, Duchi di Parma e Piacenza, che testimonia gli ottimi rapporti che nel corso del tempo mantennero le due famiglie». Il periodo d'oro dei rapporti fra le due grandi famiglie si concluderà «con la morte di Ottavio e del cardinale Alessandro» (p. 85). 543 Paolucci Cecilia Maria, «Il Sacro Bosco di Bomarzo», in Bollettino Telematico dell'Arte, 24 giugno 2003, n. 327, p. 3. In una delle sale dei Fasti Farnesiani, avevamo già visto Ranuccio Farnese insignito della Rosa d'oro da Eugenio IV. 544 Berberi Marco, Bomarzo, un giardino alchemico del Cinquecento, Bologna 1999, p. 12.