Intersezioni 255·
all'amico Imre Kertész
Christian Meier
Da Atene ad Auschwitz
il Mulino
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Intersezioni 255·
all'amico Imre Kertész
Christian Meier
Da Atene ad Auschwitz
il Mulino
I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www
.mulino.it
ISBN 88-15-09696-5
Edizione originale: Von Athen bis Auschwitz, Mi.inchen, Beck, 2002. Copyright © 2002 by C.H. Verlag Beck oHG, Mi.inchen. Copy right © 2004 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Marco Cupellaro. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo- elettronico, meccanico, reprografico, digitale -se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie
Indice
Premessa
p.
7
I.
Assenza della storia e scorrere del tempo alla fine del Novecento
11
II.
Verso il 1 500: il «miracolo europeo»
51
III .
Atene e Roma: l'inizio della via speciale dell'Europa
79
Agire e accadere, politica e processi: il luogo e la responsabilità nella storia
123
V.
Auschwitz
161
VI.
Un lascito senza eredi? La storia: perché e come?
1 97
IV.
Poscritto
229
Indice dei nomi
237
5
Premessa
Le periodizzazioni storiche sono sempre problematiche. Ma non è del tutto sbagliato indicare in Atene l'inizio e in Auschwitz la definitiva conclusione del Sonderweg, di quel la via speciale che l'Europa ha percorso nella storia univer sale1: - di quella via per la quale l'Europa (questa la mia tesi) si è avviata a partire dai greci, discostandosi in alcuni deci sivi punti da tutte le altre grandi civiltà sviluppatesi prima di - o indipendentemente da- quella europea in uno spazio che va dall'Egitto e dalla Mesopotamia, attraverso l'India e la Cina, fino all'America Centrale, ivi comprese le splendi de culture arabe del medioevo; - di quella via sulla quale l'Europa, a partire dal 1500 circa, ha finito per trascinare con sé il mondo intero, diven tando per alcuni secoli il cuore e il centro propulsore della storia del mondo; - di quella via sulla quale essa ha infranto alcuni «muri» nel campo della scienza, nell' affermazione della razionalità, della cultura politica e così via, in un processo generale caratterizzato da ra 1dità, ampiezza e profondità crescenti. Un processo nel q ale, però, il Vecchio Continente è ormai in ritardo rispet o ad altri soggetti (soprattutto gli Stati Uniti) e in cui è tòrnato complessivamente ad essere, nono stante le sue specificità, uno dei tanti attori, una civiltà accanto alle altre (ammesso che si voglia ancora utilizzare questo termine tanto ambizioso) . Le sei riflessioni qui raccolte sono accomunate dalla tematica storica del Sonderweg. Esse si concentrano sul l'Europa (sebbene sullo sfondo appaiano di volta in volta altre culture) sulla base di una scelta consapevole, non scon tata. Storia non significa soltanto (come invece tendiamo 7
Premessa
ancora a presupporre) storia d'Europa (e, eventualmente, del Nord America) : la storia europea e nordamericana è una fra le altre, pur avendo a lungo influenzato e modificato profondamente tutte le altre. Ignorare tanto platealmente la storia extraeuropea è ben più che un riflesso atavico, una grettezza provinciale o una mancanza di rispetto: è una sciocchezza bella e buona che implica la rinuncia a fonti di conoscenza storica di rilievo fondamentale2• Non potendo però occuparmi di tutto, ho scelto di con centrarmi, nolens volens, sul tema della via speciale europea. Il particolare interesse teorico su cui si fondano le mie considerazioni è compendiato nell'espressione «la scienza dello storico e la responsabilità del contemporaneo» con cui intitolai nel 1 968 la prolusione al mio primo anno d'in segnamento accademico a Basilea3 • Questo tema, infatti, ha sempre destato la mia attenzione. La scienza storica - questo il filo delle mie riflessioni non può mettersi al servizio del proprio tempo, o addirittu ra del potere politico ; e men che meno può rendersi dispo nibile a fornire le conferme che ci si attendono da essa. Ma lo storico è anche un uomo del suo tempo, e come tale ha una responsabilità di fronte al presente, una responsabilità che, muovendosi egli nell'ambito di processi collettivi di formazione dell'opinione e della volontà, può essere eserci tata solo sotto forma condizionale, «come se» ciò che egli fa, e lascia fare, fosse rilevante. Tale responsabilità può e deve condurre lo storico a partecipare attivamente al proprio tempo, ad applicare ad esso i propri strumenti di conoscenza (e non solo a criticare ipotesi storiograficamente errate) . Ciò può arrecare grandi benefici anche alla sua scienza. Nel momento in cui egli indaga e riflette sul passato tenendo presenti le questioni del proprio tempo, il passato stesso può apparirgli sotto nuova luce, e persino insegnargli a considerare in modo diverso le domande del presente. Gli interrogativi del no stro tempo sono di grande aiuto nel condurre a nuove sco perte sull' antichità. E altrettanto possiamo apprendere, partendo dall'antichità, sulle questioni del presente. Nel momento in cui si afferma che lo storico ha una 8
Premessa
responsabilità verso il presente e gli si chiede di sottoporre a verifica il proprio tempo per quanto riguarda gli aspetti che non vengono messi in discussione, non si enuncia una tesi molto popolare. La ricerca dimentica di sé, apparente mente avulsa dal proprio secolo, può condurre a risultati estremamente attuali, e in ogni caso lo studioso non deve avvertire alcun senso di colpa. Da questa posizione non possono derivare danni. Ma accanto ad essa devono potersi affermare anche altri punti di vista, altre tendenze. In sintesi, sono convinto che gli storici debbano avere una funzione pubblica: a beneficio non solo di coloro che nutrono particolare interesse per la storia o per determinate sue parti - non è a questi che si allude qui -, bensì della generalità degli uomini; e ciò sia detto con la massima mo destia possibile. Ed è della storia in questa sua funzione pubblica o, meglio ancora, del suo interesse pubblico, che ci occuperemo nelle pagine che seguono. Note 1 Negli ultimi decenni si è molto discusso sul concetto di Sonderweg, in riferimento a una presunta «via speciale» tedesca, consistente non già in una «via particolare» (besonderer Weg) accanto a tante altre, partico lari anch 'esse, ma che sarebbe stata, per l ' appunto, «speciale» nel senso che avrebbe distinto nettamente la Germania da tutti gli altri paesi (i quali avrebbero invece evidentemente seguito dei percorsi di tipo gene rale, «occidentali») . La discussione al riguardo si è ormai esaurita. Se qui si parla di «via speciale» riguardo all'Europa è perché con ogni probabi lità vale per essa ciò che non vale per la Germania: l' uropa ha percorso una strada che la distingue nettamente da tutt le altre civiltà (per quanto diverse tra loro) in alcuni punti essen zia Si veda a tale proposito l'inizio del capitolo II. ·.
j
2 A tale proposito Christian Meier, Die Wel t der Geschichte und die Provinz des Historikers, Berlin, 1 989; trad. it. Il mondo della storia , Bologna , 1 99 1 . Alcune proposte pratiche in Id., Geschichtswissenscha/t in der heutigen Welt, in «Saeculum», XL ( 1 989), pp. 188 s s . ; Id., Aktuelle Au/gaben der Geschichtswissenscha/t und der Geschichtsvermittlung, in Aus Politik und Zeitgeschehen, B40-4 1/88, Landeshochschulstruktur
kommission . Stellungnahmen und Em pfehlungen zu Struktur und Entwicklung der Berliner Hochschulen, 1 992 , pp. 1 7 9 ss.; cfr. Jiirgen Osterhammel, in «Geschichte in Wissenschaft un d Unterricht», XL VI, 1 995 , pp. 253 ss. 9
Premessa 3 Christian Meier, Die Wissenschaft des Historikers und die Verant wortung des Zeitgenossen, ora in versione ampliata, in I d . , Entstehung des Begrz/fs «Demokratie», Frankfurt a . M . , 1 97 0 . Altre mie riflessioni sul tema, in Verantwortung und Ethik der Wissenschaft (Symposium der
Max-Planck- Gesellschaft , Schloss Ringberg/Tegernsee, Mai 1 984 ) Miinchen, 1 984; e in «Diogène», CLXVIII ( 1 994), pp. 27 ss.
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,
I
Assenza della storia e scorrere del tempo alla fine del Novecento
Comincio da una ricognizione della situazione. Mi rife risco allo stato della storia nella coscienza pubblica, in quel la coscienza che non è necesariamente quella di ogni indivi duo, ma piuttosto si addensa in alcune sedi, e che proprio in ciò, in quanto riesce ad influenzare significativamente o, addirittura, ad improntare il discorso pubblico, riesce an che a diffondersi su scala più ampia, come che sia 1 • L a storia, i n quanto passato, può essere presente solo nel ricordo e nella coscienza dei vivi. Essa dev'essere attua lizzata soprattutto mediante domande e lavoro. Il ruolo che essa riveste nella coscienza dei vivi è tuttavia ben diverso da paese a paese e di epoca in epoca. Pertanto essa si trova in una situazione ogni volta differente. Ciò è vero sia in senso stretto che in senso più ampio; per la storia di città o nazioni come per quella del mondo; per la storia delle grandi questioni come per quella della «piccola gente»; per la storia dei secoli passati come per quella �rre ultime generazioni. Di volta in volta sarà questa o ql:rella storia a trovarsi in primo piano. Tuttavia non è possibile separare le «grandi» storie da quelle «minori», almeno se si vuoi tener conto di una «coscienza storica». È possibile che la storia venga utilizzata, che essa rap presenti un 'esigenza: per l' autocomprensione di un'epoca, come tradizione viva, come obbligo, come compito: ad esem pio, come stimolo a continuare tale tradizione in un futuro migliore. Essa può definire l'identità delle società. Può ac quistare vita nella diretta comprensione di istituzioni; può improntare di sé in larga parte la percezione del mondo umano e rappresentare una categoria centrale della coscien za generale, in quanto ad esempio si è abituati a esaminare ciò che avviene in una prospettiva storica. Storia come 11
Assenza della storia e scorrere del tempo
transitorietà, storia come processo, storia come istanza alla quale si è chiamati a rispondere: ognuno di questi elementi può svolgere un ruolo, oppure non svolgerlo. Per lo storico è importante riconoscere lo stato della storia nel tempo in cui vive, per avere elementi cui ricollegarsi e sapere da dove cominciare. Dallo stato della storia deriva no dei punti di attacco e si danno assiomi (che a volte si rivelano errati, e sui quali si deve anche riflettere) . Nel contesto di tali questioni diviene chiaro a qu ali fini si venga utilizzati; oppure, perché ciò non accada. Ci si può qui riallacciare ad un 'affermazione di Goethe, secondo cui «non si conosce mai abbastanza rapidamente il carattere di quelli con cui si deve vivere per sapere cosa aspettarsi da loro, cosa in loro sia modificabile e cosa invece vada concesso e perdonato una volta per tutte»2• Mutatis mutandis, ciò vale anche nel nostro caso. Che cosa ci si può attendere dai propri contemporanei? Che cosa possiamo immaginare che essi si attendano dallo storico (direttamen te, in quanto essi hanno tali aspettative in modo esplicito, o indirettamente, in quanto lo storico possa effettivamente trasmettere loro un senso di lacuna se essi sono privi di determinate conoscenze storiche) ? Esistono ancora dei punti cui ricollegarsi, qualcosa come un senso storico , la storia come terreno di riferimento comune?3 Oppure lo storico deve rassegnarsi a svolgere il ruolo di venditore di bikini in una spiaggia di nudisti? È necessario, oggi, porsi domande tanto radicali in quanto non esiste più nulla che appaia immediatamente compren sibile, e comunque è in tale direzione che tende la forza gravitazionale della percezione4 • ] ohann Gusta v Droysen nella sua Istorica5 e ] acob Burckhardt nelle Considerazioni sulla storia universalt!' pote rono prendere le mosse proprio dalla storia, pubblicando opere che erano e sono tuttora interessanti anche al di là dei confini della disciplina. Chi invece iniziasse oggi allo stesso modo riuscirebbe a raggiungere, nel migliore dei casi, solo i propri studenti o coloro che hanno un particolare interesse per la materia. Tra noi e la storia la distanza da superare è grande. E di ciò occorre prima di tutto darsi una spiegazione. 12
Assenza della storia e scorrere del tempo
Se vogliamo tentare di definire l'attuale stato della sto ria, le cose appariranno più chiare confrontando la situazio ne attuale con le posizioni espresse nell'Ottocento o agli inizi del Novecento. Mi auguro che ciò non generi equivoci: il passato mi serve semplicemente da sfondo, e non come parametro per definire deplorevole l'oggi. Non voglio la mentare nulla, ma solo comprendere a che punto siamo. Non possiamo tornare indietro , ma solo procedere in avan ti, ed è in tale direzione che dobbiamo cercare la nostra strada; questo, però, non significa che tutto ciò che è passa to sia ormai superato o privo di interesse. Chi non sa darsi ragione della storia di tre millenni, resti ignaro in confusione, viva pure alla giornata7•
Sono trascorsi 1 80 anni da quando Goethe scrisse que sti versi, citati fino alla noia. E in effetti, a lungo ci si è vergognati di vivere alla giornata, come contemporanei e come membri della società (non stiamo parlando della sfera privata, dei progetti e delle iniziative che ciascuno di noi intraprende nell'interesse della propria famiglia o della pro pria azienda) . Oggi, presumo, nessuno troverebbe nulla da obiettare contro il vivere alla giornata. Che cos 'altro ci resta da fare? Un tempo si riteneva che quanto meno si era primi tivi, tanto più si era calati in una dimensione storica8• Ades so, guardando all'Irlanda o ai Balcani, ci viene il sospetto che quanto più la storia è importante per un popolo, tanto più i comportamenti che esso assume teru:lano alla barbarie. A proposito della considerazione storicà-;-�b Burck hardt sosteneva che «la nostra contemplazione è dunque non solo un diritto e un dovere, ma è al contempo un bisogno elevato: è la nostra libertà in mezzo alla coscienza dell'enorme e generale dipendenza e al fluire delle necessità». Egli riteneva così di aver indicato un'importante condi Zione di vita per chi vive in epoche di grande trasforma zione. «Noi vorremmo conoscere l'onda sulla quale vaghia mo nell'oceano, ma siamo quest'onda stessa»9• Avanziamo, 13
Assenza della storia e scorrere del tempo
dunque, in un duplice senso, venendo sospinti e, al tempo stesso, sospingendo. Trascinati da questa corrente si tratta di conquistare la libertà o, meglio ancora, la superiorità; si tratta di ricono scere ciò che è immodificabile e necessario, attingendo una visione più generale, sulla storia e attraverso la storia. Quel lo di Burckhardt era appunto il secolo della storia. Conser vatori o progressisti: questi termini non solo servivano a designare temperamenti, inclinazioni o convinzioni, ma definivano anche posizioni, interpretazioni del proprio tem po, soprattutto dal punto di vista dei processi storici che erano in corso. La riflessione sulla storia poteva rendere il cambiamento auspicabile, o almeno comprensibile. Attra verso di essa si poteva sapere dove ci si trovava, anche se non sempre lo si voleva ammettere. Sebbene Burckhardt non condividesse con le molte per sone che s'identificavano con la storia l'orgoglio per le con quiste raggiunte dal proprio tempo, egli riteneva almeno possibile raggiungere la superiorità della contemplazione: un argomento significativo per sostenere la possibile gran dezza dell'uomo, e al tempo stesso una possibile presa di distanza da una storia e in una storia di cui egli avvertiva la forza. Tutto ciò risale ormai a molto tempo fa. Il suo significa to si coglie forse nel modo migliore nelle profonde delusio ni di quanti, nati in quel secolo, con la Prima guerra mon diale dovettero fare esperienza di come gli uomini possano trasformarsi a piacimento da cittadini perbene in assassini e viceversa, pur restando se stessi; di come essi si limitino a fare ciò che accade, per usare le parole di MusiJl0. È da questo sfondo che deve muovere la mia riflessione. Con ciò giungiamo dunque a considerare l'attuale con dizione della storia. Sulla tesi che propongo già nel titolo del capitolo (la storia è assente, assente cioè dalla coscienza pubblica) vorrei fare innanzi tutto cinque osservazioni. l. Stiamo assistendo oggi , comunque lo si voglia valuta re, a un enorme passo avanti sul percorso trionfale della scienza moderna: la scoperta della struttura genetica del14
Assenza della storia e scorrere del tempo
l'uomo e la possibilità d'intervenire su di essa. Ciò solleva numerose questioni, etiche e pratiche, cui non manchiamo di prestare attenzione. Si affacciano paure, nascono speran ze. Ma in tale evento non si dovrebbe porre nuovamente la questione della storia di quest'essere vivente che, partito dalla caccia e dalla raccolta del cibo, dopo essersi aperte tante innumerevoli possibilità, giunge ora ad aprirsene un'al tra davvero immensa? Che genere di storia è questa? Come si presenta essa da questo punto di osservazione? In che modo appare, visto dalla storia, il risultato raggiunto? In che modo può essere collocato in un contesto storico? E questa storia proseguirà in futuro? Ciò di cui si tratta qui non è un semplice fatto di storia della scienza. Tra le altre cose, bisognerebbe probabilmente riconsi derare come problema, e ricollocare storicamente, l'anti chissima tensione tra le possibilità dell'uomo di modificare e disporre e la goffaggine e i pericoli insiti nel suo agire, nella politica e nella vita collettiva. In parole povere, mi riferisco alla tensione tra le altezze della nostra conoscenza e della nostra capacità e le bassezze del loro possibile impie go; tra la modernità da un lato, e, dall'altro, la perdurante arcaicità dei nostri modi di pensare e di agire, dei grovigli e degli impulsi di cui siamo capaci , che mettiamo in pratica, che ci sono propri (e che possono facilmente rendere im possibili o inefficaci le decisioni su ciò che è consentito alla ricerca) . Tutto questo perché siamo ancora ben capaci, come scrisse Musil, di passare facilmente da un estremo all'altro, senza per questo modificare la nostra natura. «Molte cose nel mondo ispirano sgomento; nessuna più dell'uomo»: così canta Sofocle nell'Antigone''· Egli cita molte delle meravigliose conquiste di cui allora si andava fieri, e conclude che esse possono essere usate sia per il bene sia per il male, e che ciò è tanto più vero quanto più grandiose esse sono. In epoca moderna si è invece diffusa ampiamente l'idea del superamento di quest'ambivalenza, nel segno del pro gresso generale. Per un po' le cose sono anche andate sorprendentemente bene, fino alle dure lezioni impartiteci con la Prima guerra mondiale, la Rivoluzione russa, l'ascesa 15
Assenza della storia e scorrere del tempo
di Hitler, la Seconda guerra mondiale, Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, i gulag e molti altri fatti. È vero che nella seconda metà del XX secolo avveni menti simili non si sono più ripetuti, almeno nel mondo occidentale. La civiltà è tornata a dare buona prova di sé. Siamo riusciti a imbrigliare persino il potenziale distruttivo degli armamenti atomici. E pur non essendo più all' altezza dell' «esigenza che l'uomo possa considerare se stesso come una costante» (Musil)12, da un punto di vista statistico le cose non sono poi messe così male. Dunque ce l' abbiamo fatta? Con le immense possibilità che abbiamo dischiuso a noi stessi, nell'azione e nella convivenza, siamo giunti al traguardo? Oppure abbiamo raggiunto solo una nuova al tezza, estremamente pericolosa, alla quale ci è aperta la possibilità di utilizzare nel bene o nel male le nostre capaci tà di modificare geneticamente persino noi stessi? Guardando alla storia, e nella prospettiva della storia, sono questi gli interrogativi che dovremmo porci, se vedes simo noi stessi in modo storico e se avvertissimo un'esigen za di orientamento storico. Ma chi di noi si pone domande di questo tipo? Esiste una qualche prospettiva di suscitare con esse una qualche eco nella coscienza generale? Se la risposta fosse negativa, si evidenzierebbe in tal modo l'as senza della storia dalla coscienza generale (e forse anche da quella di molti storici ) . 2 . Già d a qualche tempo13 tutto lascia pensare che stia mo sperimentando una forte accelerazione 1 4, l'estendersi e l'approfondirsi del mutamento sociale nell'intero pianeta. Ciò dipende dai fulminei progressi della scienza, della tec nica e in particolare della comunicazione ( Internet) , degli scambi e di tutte le possibili modalità dell'organizzazione. S coperte e conoscenze raddoppiano a intervalli temporali sempre più rapidi e la loro durata media si accorcia rapida mente, dal momento che un numero sempre maggiore di persone, istituzioni e imprese, in un numero sempre mag giore di paesi, produce nuove conoscenze, in un'aspra e incalzante concorrenza. Inoltre, si abbreviano sempre più i tempi di applicazione pratica delle scoperte, mentre sempre 16
Assenza della storia e scorrere del tempo
più facile diviene abbattere o superare le barriere. Le con seguenze di ciò si avvertono in ogni campo della nostra vita, in noi stessi e nei nostri rapporti con gli altri. Chi ha trent'anni proviene già decisamente da un'altra epoca. Chi ne ha quaranta sarebbe un illuso se pensasse di sapere, anche solo in linea di massima, in che razza di mondo stia crescendo suo figlio che ha dieci anni15 • Se la scuola - al di là della trasmissione di un certo numero di abilità pratiche necessarie - intende restare al passo con i tempi, corre il rischio che tutto ciò che essa insegna di attuale sia superato prima ancora che i ragazzi abbiano finito di studiare. La questione, anche nei nostri ristretti ambiti, non è più «come», ma «Se» sia possibile tenere il passo con questi sviluppi o, almeno, questa è l'impressione che abbiamo non appena ci fermiamo un momento a riflettere. Da tempo ormai si parla di un'esigenza di orientamento difficile da soddisfare, al cospetto di tutto il nuovo con cui ci troviamo a doverci confrontare. Non sono in gioco i singoli elementi, questo o quello, ma la relazione tra essi, che viene trasfor mandosi per effetto di ogni elemento, e che diventa sempre più imperscrutabile. Se si eccettua il crollo improvviso di certi imperi, nella storia si trovano pochi esempi (perlopiù molto distanti nel tempo) di simili processi di forte accelerazione. Uno di essi, per esempio, ebbe luogo ad Atene, nel V secolo avanti Cristo; rispetto ai nostri standard fu molto lento16; ma anche in un movimento lento l' accelerazione può d'improvviso produrre tali dinamiche. I greci si trova rono dinanzi a una serie di dubbi radicali in rapida succes sione e si diedero molto da fare per venirne a capo. Storiografia, tragedia, arte figurativa, architettura e sofisti ca sono solo gli esempi più eclatanti giunti fino a noi. Ma nella stessa epoca fiorirono presumibilmente anche la musi ca, la retorica e molte altre discipline. Tutto ciò che è stato tramandato dall' «epoca classica» ellenica, dal V e IV secolo prima di Cristo, testimonia, a vario titolo, il modo in cui i greci affrontarono tutte le novità che essi stavano facendo emergere e con cui si trovavano a dover fare i conti. In 17
Assenza della storia e scorrere del tempo
poche parole, essi riuscirono a prendere coscienza, e in qualche modo ad elaborare, tutto il nuovo, il complesso, l'angoscioso e l'incomprensibile che li tormentava. Non sempre trovarono le risposte, proprio perché le domande vennero poste in modo tanto intenso, ma comunque essi misero in chiaro la propria perplessità e, in ultima analisi, la mancanza di senso del mondo. Arte e intellettualità si espres sero, come poche altre volte, al massimo della propria epo ca, fino al momento in cui il crollo di Atene, nel 404 , fece venir meno i presupposti di tale situazione. Per quanto riguarda l'interpretazione della totalità del mondo, che essi avevano messo in questione, la principale risposta dei greci, a lungo andare, risultò quella fornita da Platone. Egli riscontrò che tutti i mutamenti sulla faccia della terra, per quanto notevoli, non erano che ombre, non facevano differenza, non meritavano speciale attenzione. Ciò che importava era l'Immutabile, l'Ente, il Giusto, l'idea del Bene. Questa filosofia è stata più influente di qualsiasi altra nel corso delle epoche. Nella realtà politica e sociale, tuttavia, il pendolo fece sì che le acque tornassero presto a calmarsi: nonostante tutta l'instabilità in superficie, la situa zione generale poteva considerarsi statica. Ben diversamente andarono le cose nel secondo caso, a noi più vicino , che si riferisce agli anni successivi al 1 7 89 . Hannah Arendt ha descritto efficacemente come i rivolu zionari francesi facessero esperienza della difficoltà di ac quisire, nonostante la libertà, il controllo sugli eventi, e come la loro delusione si trasformasse, quasi senza soluzio ne di continuità, «in un senso di venerazione e ammirazione per il potere della storia in se stessa»17• Quest' ultima, che già da alcuni decenni era concepita come lungo processo di miglioramento, ora venne interpretata come progresso. No nostante tutti i dubbi e le contraddizioni, pareva opportuno affidare ad essa le proprie sorti. Fu allora che si acquisì consapevolezza non solo di tutto il nuovo, ma anche del processo che conduceva ad esso. Anche gli avversari del progresso, i conservatori, erano soliti richiamarsi alla storia. Neanch'essi, in maggioranza, desideravano una sosta, ma solo uno sviluppo più lento. 18
Assenza della storia e scorrere del tempo
Infine la riflessione sulla storia, come mostra J acob Burckhardt, offriva anche la possibilità di sopportare la storia stessa o, meglio, di giungere attraverso di essa alla serenità della conoscenza18• L'intero mondo diveniva storia: finché il vaso non tra boccò. Ciò accadde già ai tempi di Nietzsche, prima della Prima guerra mondiale, e da allora si ripete in continuazio ne. E tuttavia queste concezioni, sebbene messe fortemente in dubbio, sopravvissero ancora a lungo . Abbiamo visto due esempi, due modi diversi di com prendere il cambiamento accelerato all'interno di una con cezione del mondo che rendesse possibile dar conto di se stessi nell'ambito di una continuità, iterativa o di cambia mento19. Il modo in cui le cose si presentavano durante l'era moderna si coglie chiaramente in Droysen , che parla di «questo infinito prolungamento» in cui qualsiasi «opera della [ . ] vita, per quanto questa sia limitata, partecipa [ . ] alla storia dell'umanità»: ma anche a quella della fami glia, della nazione, della confessione religiosa e, si potrebbe aggiungere, della classe o del partito20• La grande storia e la storia minore erano intrecciate tra loro nel modo più stretto possibile. Ma questa soluzione, questo modo d'intendere il muta mento del proprio tempo come storia, d'inglobarlo nella propria immagine del mondo e di assegnare in tutto ciò un posto anche a se stessi, sono ancora possibili per noi? Siamo ancora in grado di comprendere l'inedito accelerato cam biamento della nostra epoca in chiave realmente storica, ovvero non nel senso superficiale in cui siamo soliti inten dere questo termine, ma come parte di un grande processo? Impensabile poi considerarci ancora, per usare le parole di Droysen , esecutori della storia, dal momento che, pur po tendo fare e creare un numero infinito di cose, abbiamo generalmente la sensazione di andare alla deriva. Non si vede alcun tentativo degno di nota di elaborare interpretazioni storiche più ampie. Basterebbe ciò, forse, a dare un senso a molte cose che avvertiamo invece come semplicemente fastidiose o irritanti: ai tanti cambiamenti, apparentemente necessari , cui ci adattiamo, spesso fatico. .
. .
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Assenza della storia e scorrere del tempo
samente e dandocene conto meno possibile; all'elevata ve locità d'invecchiamento delle opinioni consolidate, delle abitudini, degli ideali di vita; alla costante sopraffazione da parte di ciò che ci appare incomprensibile; al forte cambia mento (che spesso è un livellamento o uno svuotamento) delle nostre istituzioni, dell' ambiente che ci circonda, e del fatto che la nostra stessa lingua minaccia di scomparire dall'uso degli scienziati e delle élite, e forse persino di fer marsi, o regredire a ripostiglio di vecchie cose. Senza parla re del fatto che noi stessi stiamo diventando diversi, perlopiù contro la nostra volontà. È in effetti paradossale che, proprio dopo il crollo del blocco socialista, la teoria di Marx secondo cui gli uomini sono determinati dai mutamenti delle condizioni produtti ve sembri confermarsi in una misura che non si sarebbe potuta neanche lontanamente immaginare fuori della cer chia dei suoi sostenitori21• Proprio perché siamo completamente immersi nel flus so del cambiamento e veniamo trascinati da esso, dar senso al presente attraverso la storia si presenta impossibile non meno che auspicabile. È per questo che siamo costretti a farne a meno. Chi trova sconcertante che, a fronte di una storia tanto veloce, non si avverta alcuna esigenza di com prendere se stessi all'interno di essa, ossia in una più ampia prospettiva temporale, probabilmente non ha ancora preso coscienza delle dimensioni del mutamento. 3 . Il futuro verso il quale siamo diretti dovrebbe in realtà richiedere da parte nostra un'attenzione tanto mag giore, quanto più veloce è il ritmo con cui ci affrettiamo lungo questa via. Ed è questo ciò che accade quando ci interroghiamo come individui, come imprese, come reti di relazioni sul modo in cui possiamo avere successo nell'am bito di tale futuro. Ma su quale sia la direzione verso la quale ci muoviamo (o ci dovremmo muovere) riflettiamo tanto meno (se non per quanto riguarda le nostre pensioni) quanto più rapido è il cammino che ci conduce verso di essa, quanto più ci troviamo già là prima di essercene real mente resi conto22• 20
Assenza della storia e scorrere del tempo
Naturalmente il futuro è sempre incerto, soprattutto per quanto riguarda gli accadimenti. Ma questi ultimi sono oggi in realtà rari , e quando si verificano ciò accade di solito non già per effetto di svolte sorprendenti, quanto per il non previsto manifestarsi delle conseguenze di processi che di per sé erano prevedibili con largo anticipo. D'altra parte, è certamente vero che nessuna epoca quanto la nostra ha incontrato difficoltà nel formulare previsioni, dal momento che mai il cambiamento è stato tanto ampio, e di conse guenza mai tanto piccola è stata la parte delle cose che prevedibilmente non muteranno23 • Nell'Ottocento, e per buona parte del Novecento - con tinuiamo a servirei di quest'epoca come mezzo di confronto - la situazione era totalmente differente. Interi strati della società - prima la borghesia liberale, poi il proletariato fecero consapevolmente irruzione in un futuro di cui aveva no una propria idea, mentre altri opponevano loro resisten za. Figli e nipoti si impegnarono a rivendicare e conquistare ciò che i loro genitori avevano già chiesto e, in parte, comin ciato a ottenere24 • Sia i liberali sia i socialisti potevano appoggiarsi a teorie che ad uno stadio iniziale del processo (e in un paese «pro gredito» come la Gran Bretagna) , avevano già disegnato la meta verso cui tendere (si pensi a John Locke, ad Adam Smith e subito dopo a Kant) , o nelle quali fin dal principio, sulla base di speculazioni di filosofia della storia, come nel caso di Marx e Engels , il processo storico era considerato orientato verso la società del futuro, la società senza classi. Nulla di tutto ciò oggi. Non si vede alcun tentativo significativo di individuare un processo storico che colleghi il passato al presente e al futuro e ci consenta di fare congetture sulla traiettoria lun go la quale ci muoviamo . Le direzioni che la storia univer sale sembrava indicarci si sono dissolte. Ciò che accade oggi non può essere facilmente ricondotto, neanche apparente mente, a un denominatore comune con l'aiuto delle idee che ci eravamo fatti non più di quindici, venti o trent'anni fa riguardo al nostro percorso nel futuro, né ciò che oggi sta cambiando può essere facilmente condensato in un 'unica 21
Assenza della storia e scorrere del tempo
direzione. O forse è che manca la forza di pensiero capace di collegare i vari fenomeni tra loro? Nemmeno si nota la presenza di una qualche forza dotata di coesione che si proietti in avanti e proclami che il futuro è suo. Ciò che di nuovo in tutto il pianeta individui, gruppi, imprese ecc. mettono in opera e i mutamenti che essi provocano non si condensa in una tendenza, ad esempio verso una società nuova e in qualche modo migliore, per quanto vago possa essere il profilo dell' umanità futura cui essa fa riferimento. In questo senso, probabilmente non potrebbe aiutarci nem meno la storia, se anche fosse ancora presente nella coscien za generale. L'assenza di idee generali sul futuro si esprime anche nelle diffuse periodizzazioni storiche della post-modernità: una società che, al di là di ciò che esiste nell'immediato, non si prefigge più alcunché, non vuole (né può ? ) lasciarsi defi nire attraverso qualcosa che le sia proprio, ma solo median te qualcosa dopo cui essa ha luogo, dopo la modernità; forse anche dopo la storia? Che ci troviamo nella post-histoire, nel dopostoria, è una tesi sostenuta originariamente da intellettuali non solo di destra, ma anche di sinistra25• Essa rappresenterebbe, come ha indicato Lutz Niethammer, «uno spostamento di valori dall'ottimismo del progresso a un pessimismo cultu rale di stampo elitario»: un'utopia negativa. E tuttavia, già da tempo non si osserva la convergenza di tutte le interpre tazioni generali verso lo stesso esito, dal momento che, nonostante i vasti e profondi cambiamenti, una storia futu ra è pressoché assente dalle nostre aspettative, persino nelle sue possibilità? Neanche i film di fantascienza e gli scenari apocalittici parlano contro questa ipotesi, e puntano piutto sto al soddisfacimento puntuale di esigenze estetiche. D ' altra parte, qualsiasi concezione di un processo stori co che colleghi il passato al presente e al futuro non presup pone forse l'esigenza di raggiungere nel futuro un traguar do considerato necessario, di cui il presente avverte in modo netto e insopportabile l'assenza ? E di che cosa sentiamo chiaramente l 'esigenza, se non dell'avverarsi dei sogni ? Coloro che soffrono di grandi carenze, addirittura a livello 22
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primario , in Africa, in Asia, nell'America Latina, ma anche nell'Europa orientale, e i «nuovi poveri» dell'Occidente, hanno poche possibilità di convertire le proprie speranze, spesso disperate, in aspettative in qualche modo stabili nei confronti della storia futura26• «Sono sempre i deboli a cercare la giustizia e l'uguaglianza»: così Aristotele27• Vo lendo trasferire e prolungare quest'idea alle condizioni oc cidentali, è per loro, è in loro nome, che l'obiettivo di un ordine giusto viene proiettato in avanti; sono loro ad aver bisogno di una storia nel senso di un processo che progre disca verso il meglio . È qui che punta necessariamente la questione. Che la storia non sia giunta alla fine va da sé28• Ma potrebbe essere giunta al termine la storia così com 'è stata concepita nel Settecento: un grande processo in direzione del progresso per l'Europa e il Nord America e per il mondo in generale. E con essa sarebbe superato anche il legame tra società e storia, trasmesso anche attraverso delle aspettative generali nei confronti del futuro . Tale legame era stato la risposta alle esperienze di cambiamento a tutto campo. Esperienze che oggi si possono fare in misura ben maggiore senza che il futuro (o il processo che conduce ad esso) , e dunque la storia (comunque la si voglia concepire), suscitino per noi particolare interesse. 4. In questo contesto risulta particolarmente evidente il caso dell'Unione Europea, in misura maggiore quanto più essa si avvia verso l'integrazione politica. Quando, nel XIX secolo, le nazioni acquisirono coscienza di sé e ciascuna cercò di formare, se non l'aveva già, un proprio stato, esse cercarono di procurarsi una propria storia, anche a costo di forzature. Questo non si addirebbe all'Europa attuale. Ma essa avrebbe pur sempre una storia da esibire, nel quadro di una storia universale in cui per diversi secoli il filo condut tore è passato proprio attraverso il nostro continente. Que sta storia andrebbe ricordata per diversi motivi , anche solo per rendersi conto di quanto sia stupefacente oggi lo stato del mondo. Si tratterebbe senz'altro di una storia comune. E in quanto storia della formazione della civiltà, della de23
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mocrazia, dello stile di vita occidentale, del sistema degli stati, della cultura politica e delle buone maniere, essa ha grande rilievo anche a livello politico e sociale (senza di menticare in ciò la parte svolta dall'America del Nord ) . Invece, la dimensione storica dell'Europa (in chiave di legittimazione e di autodefinizione) non sembra destare alcun particolare interesse nell'opinione pubblica, a parte le ricorrenze ufficiali e qualche mostra dotata di pingui budget. La relazione dell'Europa con la sua storia si estrinseca soprattutto in affermazioni negative: mai più guerra ! mai più Auschwitz ! A queste si è aggiunto, dopo l'apertura a est, lo slogan : mai più gulag! Gli europei si sentono evidentemente i sopravvissuti di una storia che hanno lasciato alle p roprie spalle , più che i figli di un passato dal quale provengono e che desiderano p roseguire nel miglior modo possibile costruendo nel suo ambito qualcosa di nuovo. Essi non nutrono verso i propri precursori alcuna gratitudine per ciò che questi ultimi hanno conquistato tanto duramente, e sono concentrati solamente su ciò che non comprendono né tentano di comprendere: la guerra, l'ingiustizia, la penalizzazione della donna , la schiavitù e così via. Si sentono staccati dalla p ropria storia, e sono sempre meno capaci di apprezzarne la serietà. Con l'Unione Europea sta crescendo - per la prima volta, mi sembra, dall'era moderna - un'entità politica che non avverte l'esigenza di una propria storia e di un proprio orien tamento storico, ed è ben lontana dall'idea di dover «agi [re] in questo sentimento di sé e della propria nota peculiarità storica» per «giudica [re] i rapporti universali e prende [re] le proprie decisioni» (Droysen)29. Non vuol essere una critica, ma solo il riconoscimento di un sintomo: la categoria della storia non gioca più alcun ruolo. O forse è solo un effetto del fatto che è tutt 'altro che facile definire ciò che quest'Europa vuole essere, e accertar si della propria storia partendo da ciò. Un'ulteriore difficoltà per la nascita di una coscienza storica europea è rappresentata dal fatto che nel mondo attuale nessuno ama identificarsi (o essere identificato) con 24
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i colpevoli, ma con le vittime, e che ciascuno cerca di diffe renziarsi dagli altri meno possibile. 5. Della storia tedesca si possono dire, mutatis mutandis, le stesse cose che si sono dette a proposito della storia europea. Si registra è vero, un vivace interesse, sia presso gli storici che presso il pubblico , per il passato nazista: esso brucia ancora, e forse sempre più. Ci occupa la mente, anzi ci paralizza, cosicché rimaniamo immobili come fa il coni glio di fronte al serpente. Eppure - a parte il fatto che all'interesse storico si sovrappongono sempre più lo stupo re e il rito -, quei dodici anni rappresentano un profondo fossato tra noi e la storia precedente. L'entusiasmo riscosso nel 1 996 proprio in Germania da Daniel Goldhagen deriva evidentemente in gran parte dal fatto che egli ha rilasciato ai tedeschi di oggi un attestato secondo cui essi , in quanto democratici, a partire dall' 8 maggio 1 945 non hanno più nulla in comune con i tedeschi di un tempo, dipinti- a buon diritto - a tinte fosche30. Anche in questo caso dobbiamo registrare la grande assenza della storia. Lo stesso vale, in particolare, per la vicenda della riunificazione tedesca del 1 989-90, durante la quale mai o quasi è stata evocata la storia precedente il 1 93 3 . In ciò si può anche scorgere un certo orgoglio per la storia della Repubblica federale tede sca, con la quale in parte ci si identifica. Un orgoglio che però non ha certo aiutato Kohl a sopravvivere politicamente. La storia, evidentemente, non ha più molto da dirci (a parte, ripetiamo, coloro che hanno un interesse specialisti co nei suoi confronti) . A queste cinque osservazioni s e n e possono aggiungere altre, che contengono già delle possibili spiegazioni per il farsi da parte della storia. l. I contesti nei quali possiamo essere portati a conside rare noi stessi in termini storici sono oggi fortemente inde boliti. Ciò è particolarmente vero in Germania, ma que st'ultima sembra solo precedere la maggior parte delle altre nazioni su questa stessa strada. 25
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La famiglia, innanzi tutto ! Ammesso che esista ancora, l 'identificazione in una vicenda che passa attraverso le generazioni si sta nettamente riducendo. Dal punto di vista autobiografico proviamo interesse, al massimo, per i nostri genitori, soprattutto perché si ritiene che abbiano creato nell' anima della generazione successiva la predi sposizione a ogni possibile disgrazia. Chi guarda mai an cora più indietro , ai nonni e oltre ?31 A ciò si aggiunge che il vecchio modello , che tanta importanza aveva avuto per la formazione del vasto e dinamico ceto degli emergenti , è ormai obsoleto. I piccoli contadini, gli artigiani e gli ope rai non devono più curvare la schiena e lavorare duramen te ( con le mogli e, spesso, con i figli) per garantire un'istru zione migliore ad almeno un figlio maschio, e quest 'ultimo non ha più motivo per essergliene grato . D ' altra parte, nessuno desidera il ritorno dei vecchi tempi, né è di questo che si tratta. Aggiungiamo pure che le nostre identità soffrono anche perché il passato riesce sempre meno ad integrarsi con esse (sotto forma di ricordi particolarmente incisivi o almeno liberamente fluttuanti) . Come scriveva Hans Freyer ancora nel 1 95 5 , «spetta all'esistenza personale attingere alla pro pria esperienza»32• Oggi, tuttavia, non solo le esperienze invecchiano molto di più, e molto più rapidamente, di pri ma, ma ci si chiede anche fino a che punto, nella velocità che domina la vita e nel mutare continuo delle circostanze, osservazioni ed esperienze possano ancora coagularsi in qualcosa come l'esperienza. Il senso di appartenenza alla nazione, pertanto, viene ormai ben poco avvertito; quello nei confronti di una classe è praticamente scomparso: il declino della coscienza stori ca, del senso del dovere e della speranza può essere studia to , nel caso di un partito antico e ricco di tradizioni come la socialdemocrazia tedesca, anche a livelli politici regionali o locali. Di conseguenza, le tendenze storiche nelle cui fila ci si arruolava un tempo non sono più osservabili, e in ogni caso non se ne ha più consapevolezza. Ciò vale per il movimento verso il progresso, cui contribuiva chiunque svolgesse un 26
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lavoro produttivo , o meglio chiunque perseguisse il proprio tornaconto sul terreno economico, a vantaggio del tutto . Come scriveva Hegel, «promuovendo il mio fine, promuo vo l'universale; e questo promuove di nuovo il mio fine»33• Come l'istruzione dei nostri figli e le pensioni vengono da tempo finanziate più dal loro prezzo che da ciò che è stato risparmiato (o sottratto alla soddisfazione delle necessità fondamentali) , così anche nella nostra appartenenza ci con diziona molto più il nostro presente che la nostra origine. Ci colleghiamo così al punto successivo. 2. A causa del rapido e vasto cambiamento cui le nostre circostanze di vita e noi stessi siamo sottoposti, le nostre condizioni e concezioni di vita tendono a costituirsi e ripro dursi in gran parte nel presente, spingendo nettamente in secondo piano le origini più remote34• In che modo è ancora possibile per ciascuno di noi comprendere se stesso e le proprie origini a partire da dimensioni storiche più ampie? Inoltre, le trasformazioni del nostro tempo sono tanto va ste, e a tal punto condizionate dai medesimi processi scien tifici, tecnici, organizzativi ed economici e dalle mutevoli modalità dello stile di vita del presente, da far sì che sotto tale spinta i popoli , almeno nella parte più sviluppata del pianeta, finiscano per somigliarsi sempre più. Parallelamen te, le specificità di lunga durata vengono livellate o svuota te. Non per questo il fattore rappresentato dalle origini storiche è diventato inefficace, né le peculiarità culturali di pensiero , di lingua, di vita, di costume e di malcostume hanno perso qualsiasi rilievo. Tuttavia, la loro importanza diminuisce sempre più; esse passano sempre più in secondo piano rispetto alle tendenze egualizzanti, tendono sempre più ad apparire come aspetti provinciali e a scivolare fuori dell'orizzonte della consapevolezza. Parallelamente alla velocità del cambiamento e alla per dita d'importanza delle peculiarità della propria storia, an che il mondo dei ricordi, diretti e indiretti (quelli della storia, per esempio, dei propri nonni) , si assottiglia: essi non hanno più un grande significato e restano a fatica im magazzinati nella memoria. 27
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3 . È ormai divenuto incerto persino se e in che misura si possa pensare che il presente sia uno solo35• Per maggior precisione: il presente è sempre una finzione, che è possibi le condividere solo in quanto, all'interno di un qualsiasi cambiamento, si definisce come presente un determinato periodo di tempo ( qualche anno, al massimo una generazio ne) attribuendo ad esso una certa continuità. A seconda dell'età, il presente viene datato, compreso e vissuto in modo diverso; ma il passaggio sdrucciolevole attraverso il quale i diversi presenti lentamente si spostano, si sovrap pongono e quasi inavvertitamente si dissolvono non distur ba la finzione, di cui abbiamo evidentemente bisogno per ché in qualche modo preferiamo vivere in situazioni statiche anziché dinamiche (indipendentemente dal fatto che pos siamo per qualche motivo attivarci per migliorare tali situa zioni di fatto) . Alcuni d i questi presenti possono ben produrre tra i contemporanei una determinata consapevolezza del pre sente. In tal modo un presente comune dotato di una pro pria coscienza di sé può senz' altro attrarre a sé il passato e al tempo stesso prefiggersi una certa autodefinizione tra presente e futuro36• Oggi tuttavia la durata delle generazioni diventa sempre più breve; molto più numerose di un tempo sono le genera zioni che coesistono una accanto all'altra (soprattutto a causa del fatto che esse si succedono rapidamente) . Quale può avere un ruolo determinante e per quanto tempo ? In altri termini: non rischia in tal modo qualsiasi presente di dissolversi in un ampio ventaglio di presenti, diversi tra loro, addirittura a livello individuale, in funzione dei diversi contesti in cui ognuno di noi vive? È ben difficile in queste condizioni, specialmente in un periodo di brusco cambia mento, che possa emergere una salda coscienza del presente. A ciò si aggiungono il crescente frazionamento spaziale delle società, le immigrazioni, ma anche la specializzazione sempre più spinta ed esigente. Quest'ultima crea distanze non solo in base ad ambiti di specializzazione, ma anche in termini cronologici, a seconda di quando abbiamo acquisi to familiarità con tali ambiti o abbiamo avuto l'ultimo periodo 28
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rilevante di formazione permanente. Va ricordata poi la dissoluzione delle élite nei contesti internazionali e altri fattori, che concorrono tutti a far sì che la nostra vita si svolga in epoche di volta in volta differenti. Le colonne in cui siamo inquadrati e all'interno delle quali ci dirigiamo verso il futuro sembrano allontanarsi sempre più le une dalle altre: è ancora sufficiente che esse si mantengano in contatto visivo tra loro? Difficile diventa, comunque, m queste condizioni , riferire la storia a noi stessi. 4. Ma anche il tempo che occorrerebbe per orientarsi sul piano storico si restringe, se tale orientamento non av viene nel nostro specifico ambito d'interesse. Già settant'anni fa Thomas Mann , nato nell'Ottocento, osservava questo fenomeno: «Noi uomini moderni, assorbiti come siamo da compiti di inaudita novità e difficoltà, abbiamo pochissimo tempo e poca voglia di render giustizia all'epoca che si inabissa alle nostre spalle»37• Ciò non vale tuttavia solo per la giustizia, ma anche tout court per la costruzione di una coscienza storica. Poco meno di trent' anni fa Alfred Heuss osservava: «Restare attaccati al ricordo e orientare i propri pensieri sul passato è un compito arduo quando le forze necessarie a tal fine non si rendono spontaneamente dispo nibili, ma vengono rivendicate dall' ambiente circostante»38• E quanto tutto ciò era ancora innocente, all'epoca ! 5 . Anche la storia diventa sempre più difficilmente ac cessibile a noi uomini di oggi, per come cresciamo, viviamo e pensiamo. Ciò dipende in primo luogo dalla raffinatezza e dalla crescente complessità che caratterizzano oggi il lavoro storico, dal modo cioè in cui la storia procede normalmente nella scienza e nella rappresentazione di essa. Le strutture e i processi sono molto più difficili da ricostruire di quanto non siano le azioni e gli eventi39• Inoltre, i complessi processi del divenire - i presuppo sti, ad esempio, del diritto romano o dell'Illuminismo sono difficili da comunicare ad un'epoca che è abituata ad avere rapidamente a disposizione qualsiasi cosa. Lo stesso vale per l'esperienza dell'indisponibilità che la storia ci im29
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pone ovunque40• Tutto e subito è, non senza ragione, un'esi genza del nostro tempo. Conoscenze e istituzioni che in precedenza si formavano nel corso di generazioni sono oggi diventate simili a prodotti confezionati acquistabili al su permercato della storia; sono in un certo senso addomesti cate ed è facile appropriarsene. E tutti noi siamo ben disposti ad accettare ciò che ci si adatta. Un tempo avremmo oppo sto resistenza a molte cose pur di mantenere la nostra pecu liarità; oggi invece proviamo volentieri tutto ciò che possia mo, come se si trattasse di capi d'abbigliamento. Le cose vanno diversamente solo nel caso di chi è «rimasto indie tro», come i popoli balcanici, o è stato «sconfitto», come i tedeschi dell'est: in questi casi, coerentemente, si fa ancora storia e si redigono biografie e, per quanto concerne i Balcani, si producono ancora eventi nel senso forte del termine, anziché semplici avvenimenti. Si calcola anche il tempo che occorre, ad esempio, perché i tedeschi dell'est diventino finalmente «accettabili», ossia tedeschi dell'ovest. Il fatto che istituzioni e conoscenze siano in realtà tutt'altro che facili da trasmettere, è altra questione. In caso di difficoltà, si deve semplicemente tentare in modo diverso: cos ' altro fare se non si vuoi perdere la coincidenza, se non si vuoi gettare la spugna? Qualsiasi cosa, tranne che avere pazien za, aspettare e puntare sul cambiamento di lungo periodo. C'è un motivo particolare, tuttavia, per cui la storia del Novecento sembra intimidire irrimediabilmente i non ad detti ai lavori. Per comprendere eventi e processi, il profano è solito ricollegarsi a idee che gli siano in qualche modo familiari: a una lettura di gioventù, a un 'esperienza che egli ha fatto direttamente o di cui ha cercato di appropriarsi insieme a persone più anziane di lui avendola vissuta nel periodo iniziale della sua vita: è il caso, ad esempio, delle idee formatesi con l'esperienza della guerra, attraverso una partecipazione diretta o avendone sentito parlare. Persino azioni dello stato possono in tal caso apparirci comprensibili, in chiave di identificazione con il potere, con il governo, o anche in chiave di opposizione nei loro confronti. Ma che cosa accade quando tali avvenimenti, nel loro complesso, non appaiono comprensibili al profano, mentre 30
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il ruolo che egli e i suoi simili hanno svolto gli appare da un lato più che decoroso, dall' altro penoso, incomprensibile o irresponsabile? Quando gli accadimenti storici cui egli stes so prese parte - ad esempio la Seconda guerra mondiale con i suoi insondabili crimini - lo costringono a fare esperienza di se stesso e dei suoi compagni nella forma più terribile, in una forma che continua a perseguitarlo anche in seguito, ed egli trova di gran lunga preferibile rimuovere il tutto, per quanto egli possa sentirsi ferito nell'orgoglio, possa ribel larsi o possa proteggersi da tutto ciò che in un modo o nell'altro lo assilla incessantemente? Detto in altri termini: la Seconda guerra mondiale - che insieme ad Auschwitz è stato l'evento di gran lunga più terribile e perturbante, quello del cui peso non riusciamo a liberarci - ci preclude la via alla storia per molti motivi, e in particolare perché noi e i nostri simili nel nostro ambito ci sentiamo indubbiamente coinvolti come colpevoli, ma al tempo stesso ciechi e impotenti e addirittura, per quanto possa suonare quasi di scherno , vittime. Irresponsabili. In un rapporto sproporzionato e difficilmente mediabile tra micro e macrostoria. Non occorre consapevolezza di tutto ciò, ed è anzi preferibile non averne: ma è appunto così che questa storia, nella misura in cui tocca l'individuo, in cui egli cerca di rendersi conto di essa e di se stesso, viene celata da un manto impenetrabile, che impedisce alla sua luce di raggiungerei. In alternativa, essa viene attribuita ad un 'altra popolazione, a noi estranea: «ai tedeschi» di quel tempo, i quali ci appaiono ormai infinitamente lontani, al punto da non poter essere comunque compresi. Cosa che si riflette anche su altri aspetti. Quando non si riesce a comprendere se stessi e i propri simili o si avverte un senso d'impotenza, le vie d'accesso alla storia si restringono. Diventa allora arduo riuscire anche solo a concepire la storia. Nonostante enormi differenze, la stessa miscela di parte cipazione e impotenza, di spinta data e ricevuta, si può avver tire nei processi del nostro tempo: vi partecipiamo, in misura spesso minima, in quanto lavoriamo, acquistiamo, investia mo denaro, inquiniamo e riscaldiamo l'aria, demoliamo, co31
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struiamo, deturpiamo le nostre città, viviamo con indifferen za la nostra democrazia, trascuriamo i nostri figli - e in tutto questo siamo, al tempo stesso, complessivamente impotenti. Anche di questo dubbio abbiamo più una semplice sensazio ne che non una vera consapevolezza. Ma questa sensazione ci impedisce di riflettere adeguatamente sulla situazione: non solo per quanto riguarda la storia, ma in generale. «Come un tempo una persona perdeva i sensi perché non riusciva a padroneggiare una grande emozione, così oggi», secondo Botho Strauss, «è venuta a mancare la con sapevolezza della totalità del mondo»4 1 • E tutto questo ac cade senza nemmeno aver vissuto una particolare emozio ne. Non ci sono esplosioni, tutto si limita a implodere. La capacità e l'esigenza di riconoscere e di creare conte sti sono fortemente diminuite. Sintomatico è il caso del teatro, in cui si rifugge sempre più dalla fatica della creazio ne di un contesto, non si rappresentano le vicende formate dall' autore, ma ci si limita a mettere in scena degli sketch42• I contesti richiedono di essere compresi, mentre di fronte agli sketch ci si può limitare a divertirsi (ammesso di esserne capaci) . Analogo fenomeno si riscontra a proposito della politica economica: «Si sta perdendo l'abitudine a pensare in termini di contesto», ha dichiarato uno dei più importan ti economisti tedeschi43• Il fatto che questo processo avanzi sempre più rapida mente, senza che sappiamo dove siamo diretti, né se noi o i nostri politici siamo in grado di controllarne il corso, rende la cosa sempre più sconcertante. Forse dovremmo affrontare la questione in tutt' altro modo, ponendo alla storia tutt'altre domande: chi è in gra do di controllare che cosa, dove sono i successi e gli insuc cessi, di che cosa c'è bisogno, come assolvono alla propria responsabilità - diretta o indiretta - le élite, ma anche i cittadini e le entità politiche nel loro complesso. E infine, come ciò si ripercuota sulla coscienza e sullo «stato d'ani mo» dei contemporanei. 6. Infine un'osservazione: pur non essendo giunti alla fine della storia, potremmo, da vari punti di vista, essere 32
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giunti a un punto in cui occorre chiedersi se tutta la storia universale sia stata messa in scena per noi uomini di oggi. È un pensiero difficilmente concepibile: tante ambizioni, sforzi, duro lavoro, preoccupazioni, privazioni, sofferenze, sacrifi ci, morti e omicidi . . . tutto questo per noi?44 Lo stato della storia nella nostra società, in Europa e soprattutto in Germania, appare dunque tutt'altro che fa vorevole. Ciò non è smentito dalle molte mostre storiche che vengono organizzate, né dai musei storici, e forse nem meno dagli eventi. Mostre, musei, eventi rappresentano, per la maggior parte delle persone, solo un modo di viaggia re nel tempo, sotto la guida di ciceroni preparati. Essi han no scopi generalmente circoscritti e non aiutano a cogliere nessi storici, né generano senso della storia. Forse la loro esistenza serve solo a compensare la più generale assenza della storia. Dovremmo concluderne che gli storici, nella misura in cui non si rivolgano esclusivamente ai propri colleghi o alla cerchia di chi ha interessi particolari per i temi oggetto dei loro studi, non sono altro che venditori di bikini in una spiaggia per nudisti? Mi sembra una conclusione affrettata. Non ho ancora posto , infatti, una domanda. Non potrebbe, ciò che attual mente stiamo vivendo, costituire una particolare fase di cambiamento radicale, un 'ondata, una transizione verso qualcosa di nuovo, che a sua volta riporterà alla stabilità o muoverà il mondo verso una direzione prevedibile in cui anche la storia possa tornare a svolgere un ruolo?45 Le fasi di grande accelerazione provocano necessaria mente un 'accentuata mancanza di simultaneità. L'accelera zione risulta dal fatto che si apre un numero infinitamente grande di opportunità, e che molti si dimostrano capaci di sfruttarle su scala planetaria: ricercatori, tecnici, specialisti d'informatica, investitori, organizzatori, consulenti patrimo niali e aziendali ecc. Tutte queste azioni producono nume rose conseguenze sia per questi soggetti che per tutti gli altri, anche in virtù dei loro molti effetti secondari, non intenzionali, che innescano numerosi e diversi cambiamen ti. Quanto più le avanguardie ��anto più gli altri, 33
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gli svantaggiati, i meno veloci, restano indietro, e al tempo stesso la società nel suo insieme viene messa di fronte a problemi complessi di cui non riesce a venire a capo facil mente. Infatti, l'irrompere sempre più incalzante nella vita di tutti i giorni di cambiamenti considerevoli pone sotto pres sione la società nel suo complesso, con le sue tradizionali nozioni su ciò che è possibile o impossibile, permesso o vietato, giusto o ingiusto, vero o falso. Il sapere disponibile fino a quel momento non aiuta a valutare, classificare e giudicare facilmente le cose che accadoiJ.O. Accade così che - fatto singolare - la politica, che nella maggior parte delle epoche storiche è ciò che si modifica più velocemente, tut t' a un tratto diventi uno degli elementi più lenti. Ma le rivoluzioni senza precedenti non riguardano sol tanto il campo scientifico, tecnico e delle comunicazioni. Anche in politica estera il crollo del blocco orientale ha reso obsoleti il nostro senso di orientamento e i nostri meccani smi di stabilizzazione. Non siamo affatto preparati a che un unico potere mondiale, privo di concorrenti, possa disporre a piacimento di tutto, tanto più nelle circostanze odierne. Non sappiamo se e quale futuro abbiano i nostri stati, la nostra democrazia né - cosa particolarmente significativa a che cosa dovremmo in realtà preparare (se non «educare», parola molto ambiziosa) i nostri figli. Non siamo dunque adeguatamente attrezzati di fronte agli effetti delle azioni combinate di tutti noi (o della mag gior parte di noi) . Di conseguenza, le unità di misura si confondono . Ne deriva una sorta di gara contro il tempo, contro la velocità dei cambiamenti. Non sappiamo se e quanto riusciremo a tenere il passo con tutto l' apparato del nostro sapere, della nostra conoscenza, del nostro giudizio e della nostra informazione. A tutti noi, che rappresentiamo la totalità della nostra società, sembra sfuggire il tempo del nostro presente. Ci sono dei precedenti, nella storia. Tocqueville, ad esem pio, nel 1 835 si diceva allarmato perché a suo avviso il «mo vimento» da cui «i popoli cristiani» venivano «trascinati» era «ormai troppo forte perché [fosse] possibile sospenderlo»; 34
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esso non era ancora «tanto rapido perché [fosse] impossibile dirigerlo», ma di lì a poco sarebbe già stato troppo tardi. Scars eggiava secondo lui il tempo di cui la sua epoca avrebbe avuto bisogno per sviluppare strumenti adeguati a riportare sotto controllo il processo che si andava svolgendo46• L'appello di Tocqueville si rivelò ben presto un falso allarme. Egli aveva correttamente osservato che il treno, nel momento in cui accelerava, scompaginava molte delle cose che si trovavano al suo interno . Ma non aveva tenuto conto di ciò di cui la società era capace: di adattarsi cioè alla nuova velocità, attraverso nuove conoscenze, ma anche at traverso l'abitudine. Una generazione dopo, il conservatore Jacob Burckhardt poteva constatare: «La Rivoluzione [fran cese] ha avuto risultati che ci condizionano già completa mente e costituiscono parte integrante della nostra idea di diritto e della nostra coscienza, e che quindi non possiamo più eliminare da noi stessi»47 • Infatti, in tali processi di radicale cambiamento finisce per accadere che ci si appropri di molte cose che inizial mente la maggioranza aveva ritenuto impossibili, oltre che non desiderabili. La realtà effettuale ha evidentemente for za normativa non solo nel diritto, ma anche nelle visioni, nel sapere nomologico48• È così che diviene possibile adattarsi al nuovo per acquistarne poi una visione d'insieme e impa rare persino a tenerlo sotto controllo e a riorganizzare tutto in funzione di esso. Quando si torna a sentirsi a proprio agio nella nuova velocità, e non solo nelle nuove circostanze che si stanno trasformando , si riesce probabilmente anche a ritrovare in esse il diritto, a ridar loro legittimità. L ' accele razione comporta inizialmente paura eccessiva, o addirittu ra panico e stordimento, ma in un secondo tempo le cose si presentano molto diversamente. Nel caso ideale, la società riassume il controllo sul pro prio cambiamento nel momento in cui torna all'ordine del giorno il confronto tra progressisti e conservatori. Al mo mento non è prevedibile quando ciò accadrà. Questa com petenza del futuro non ci è propria. Nulla comunque lascia pensare che non riusciremo a ridurre nuovamente le differenze di velocità e ad adattarci 35
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al nuovo ritmo. La questione è solo: quante persone reste ranno indietro , e di quanto? Ma nel complesso, sul piano mentale, sociale, politico, della visione d'insieme, dell'orien tamento e del giudizio (per quanto quest'ultimo possa esse re differente, o addirittura contrapposto tra diverse corren ti) potremmo finalmente tornare su un terreno stabile: forse per questo possiamo anche covare l'illusione di avere la situazione sotto controllo, dopo che, per usare le parole di Heinrich Popitz, abbiamo, per molti versi, «imparato a volere ciò che dobbiamo, finendo per farlo senza renderce ne conto»49• Potrebbero allora porsi altre domande, per il solo fatto che si ritenga necessario e possibile dar loro risposta. «Si odono solo le domande alle quali si è in condizione di trovare una risposta» (Nietzsche)5°. La produzione di contesti po trebbe tornare ad essere interessante. E forse gli argomenti potrebbero nuovamente sostituirsi alle immagini, di cui oggi ci serviamo per «orientarci», o meglio da cui accettiamo di essere orientati. Certamente a quel punto la società sarà un' altra rispetto all' attuale. E nuova la situazione. Dobbiamo guardare e lavorare in direzione di essa con quella fiducia che Kant indica come un dovere dell'uomo. Non si può escludere che in essa - e nel cammino verso di essa - venga richiesta e utilizzata la storia. Non è facile però prevedere dove ci conduca il cammi no che le nostre società stanno percorrendo: a che cosa tenda ad esempio la politica, e verso quali mete essa debba e possa essere indirizzata. Verso la conservazione, l'adatta mento o piuttosto lo svuotamento degli stati? E verso quale Europa? Forse verso un'unione euroasiatica o eurome diterranea? In che misura un eventuale spostamento del potere verso l' alto produrrà nuove formazioni di potere tra gli attuali stati, potenti reti, se non addirittura, in termini volgari, strutture mafiose ? In che misura le élite internazio nali riusciranno in parte a legare a sé le popolazioni nazio nali, e in parte a rassicurarle garantendo loro spazi di libertà privi di conseguenze, in una logica di panem et circenses? Diversi elementi fanno pensare che la libertà quale oggi 36
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viene generalmente intesa non è altro che la variante indivi duale di ciò che sul piano collettivo si considera appunto come cibo e divertimenti, là dove il secondo termine può essere declinato come eventi. Comunque sia, in un qualche luogo e in un qualche tempo bisognerà riflettere in modo totalmente nuovo sulle società, sul mondo, sugli uomini5 1 • E non solo su ciò che essi sono, ma anche su ciò che essi debbano essere e su come debbano esserlo . Non solo sui vincoli, ma anche sulle fina lità, sul senso. In un qualche luogo e tempo sarà necessario non limitarsi a inseguire volenti o nolenti «gli sviluppi» per adattarsi ad essi, per assumersi anche la responsabilità di ciò che può e deve accadere. Forse quest'esigenza stimolerà processi democratici di formazione dell'opinione e della volontà e sarà fronteggiata in base ad essi . Può darsi che tutto questo accada anche in Europa. Forse anche qui ci si ricorderà di nuovo con forza di se stessi, del residuo patrimonio europeo , delle specificità svi luppatesi in Europa: prospettiva questa non priva di rischi, e potenzialmente anche spaventosa, ma anche parte di un patrimonio che ha dato al mondo la propria impronta, non importa qui se a suo vantaggio o svantaggio . In qualsiasi caso ciò gioverebbe alla consapevolezza di sé e potrebbe diventare il punto di partenza di una futura autodeter minazione (nel doppio senso della parola) . Non è paradossale tuttavia che quest'Europa, che tanto ha fatto per l 'autodeterminazione degli individui e dei po poli, si limiti a dichiarare continuamente tutto ciò che è costretta a fare per non perdere terreno e non si preoccupi delle fondamenta su cui poggia, e dunque di ciò che essa può e deve essere, e anche di ciò cui è obbligata? Con il tempo la questione della storia potrebbe configu rarsi in modo decisamente nuovo: da un lato potrebbe fare riferimento alle nostre origini, se noi riuscissimo a ricollegarci ad esse; dall'altro potrebbe essere posta come questione della storia, e della storia universale, di per sé. Probabilmente per molti aspetti sarà necessario rico minciare da zero . La storia dovrà essere studiata in altro modo. In quanto opera degli storici essa si presenterà in 37
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termini diversi: sicuramente non come scienza guida , forse come ancilla anthropologiae, quando la questione dell'uo mo si sposterà al centro dell'interesse. Forse in futuro concepiremo la varietà del mondo stori co più come panorama che come processo storico, il che, in un tempo in cui confluiscono tutti i tempi, può anche appa rire ovvio52• È molto dubbio che le vecchie ipotesi di una storia come movimento che tende complessivamente verso l'alto possano essere riportate in vita, che gruppi o ceti di qualche rilievo si possano identificare con esse. D ' altra par te ci si potrebbe facilmente chiedere in che modo possa oggi trovare una continuazione l'Idea di una storia universa le dal punto di vista cosmopolitico di Kant. In ogni caso, si può senz' altro tornare a supporre che dalla storia, o meglio dalla narrazione storica, si possa apprendere non solo in termini specifici, ma anche in termini generali. Secondo Polibio essa è una scuola non solo di azione, ma anche di sopportazione53 • Così l 'interes se si sposterà sui processi, e sui modi particolarmente intricati in cui gli uomini vi si trovano coinvolti, sulle forme in cui essi, attraverso una continua accettazione, riescono ad adattarvisi e addirittura a identificarvisi: e questo accadrà tanto più, quanto più dovremo imparare a comprendere in che modo noi, senza saperlo né volerlo, e ben più profondamente di un tempo, tutti insieme modifi cando il mondo e noi stessi. Alla fine potremmo tornare a cercare nell'osservazione della storia «la nostra libertà in mezzo alla cos cienza dell'enorme e generale dipendenza e al fluire delle necessità» . La storia acquisterà significato, e anzi diventerà indi spensabile, già per il solo fatto che l'aspirazione alla visione generale, all'interpretazione del nostro mondo, è destinata a riprendere posto, a mio avviso, come uno dei diritti del l'uomo , e anzi come elemento fondamentale della dignità umana. Essa tornerà a imporsi nuovamente. Hannah Arendt ha definito il comprendere come «un'attività senza fine, sempre diversa e mutevole, grazie alla quale accettiamo la realtà, ci conciliamo con essa, cioè ci sforziamo di essere in armonia col mondo»54• Se si tratta di questo, non è il caso di 38
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preoccuparsi troppo per il futuro della storiografia come scie nza di orientamento dell'opinione pubblica. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere in che modo si debba fare storia oggi e nel prossimo futuro . A tal fine occorre prendere le mosse dalla situazione odierna e spingersi in qualche previsione. Non voglio però anticipare le conside razioni che seguono, che si concentrano peraltro su un aspetto particolare di questa problematica. Un'ultima cosa: se anche in futuro una parte della storiografia apparirà sfasata rispetto al presente, andrà comunque bene. Solo in tal modo, infatti, essa potrà essere utile al suo tempo e ad un tempo a ventre. Note 1 La corporazione degli storici può certamente vivere senza che il suo lavoro riscuota un interesse sociale ( finché le risorse sono assicurat e ) , tuttavia, ceteris paribus, quando quest'interesse esiste, si riesce a ricerca re e insegnare in modo differente, e generalmente più fecon do.
2 Così Charlotte nelle Affinità elettive, parte I , cap. VI (trad. it . Venezia, 2 002 , p. 7 8 ) . A Reinhold Niebuhr si deve la «preghiera della calma» ( cfr. Elisabeth Sifton, Gelassenheitsgebet, Miinchen , 200 1 ) : «Dio , dacci la grazia di accettare serenamente le cose che non possiamo cam biare, il coraggio di cambiare le cose che dobbiamo cambiare e la saggez za di distinguere le une 'dalle altre» .
3 In una lettera a Oelze del 1 8 gennaio 1 945 Gottfried Benn scrive al riguardo: «In quanto essenza ed esistenza, diciamolo con franchezza, noi non abbiamo assolutamente più nulla cui fare riferimento, né nel passa to, né nel futuro; siamo soli, in silenzio, tremanti nel nostro intimo. Ciò dev' essere trasferito a ogni verso , a ogni rig a , a ogni frase: ciascuno di essi deve restare solo con se stesso e sopportare tutto, non c'è più nulla a sostenerlo, alcun rapporto, alcuna fede, alcuna speran z a , alcuna illu sione. Qualcosa cerca e trova espressione, e il percorso della sua vita giunge al termin e : quanto, a d esempio, del passato e del futuro era da Nietzsche riferito a se stesso ! Tutto, in realtà ! Per noi no. È questo il nuovo, la novità determinante che ci riguarda» (G. Ben n , Brie/e an F. W. Oe lze 1 932- 1 945, Wiesbaden -Miinchen , 1 97 7 ) . Si veda ancora a d esem pio Bruno Snell : «L'uomo, almeno quello occidentale, lavora con consa pevolezza e volontà al p roprio futuro, e dal momento che non può ricercare senza una meta ma deve attenersi a qualcosa di definito, si orienta in base al proprio passato. La domanda " che cosa voglio diven tare ? " è per lui sempre collegata alla domanda " ch e cosa sono e sono stato ? " » (B. Snell , Die Entdeckung des Geistes, IV ed. Gottingen , 1 97 5 , 39
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p. 242; trad. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino , 1 97 9 ) . 4 C o n questo termine s i possono designare l e tendenze prevalenti della percezione sociale che elabora generalizzazioni. Sebbene nelle so cietà possano prevalere in determinati gruppi o settori percezioni diver se o addirittura contrapposte e in conflitto tra loro, accade continua mente che determinate percezioni della società siano complessivamente tanto potenti da essere generalmente considerate esatte, ossia che in loro favore operi una forza gravitazionale. Non occorre che tale percezione venga condivisa dalla maggioranza, ma è sufficiente che essa sia sostenu ta con particolare forza. Ad esempio, secondo la forza gravitazionale della percezione può esserci una «corruzione generale»: in tal caso ogni possibile caso contrario gli appare come eccezione alla regola. O il contrario . Una società può tendere a considerare una situazione sicura e le osservazioni in contrario, per quanto numerose, non riusciranno a ribaltare facilmente la tesi e verranno eventualmente classificate come eccezioni. O viceversa. Ciò vale finché opera questa forza. Chi ha dalla sua parte la forza gravitazionale della percezione deve sottostare ad un onere della prova meno forte degli altri. Per quanto riguarda il possibile capovolgimento della forza gravitazionale, esso può essere illustrato sull ' esempio della titolazione: il chimico rilascia gradualmente nell'ac qua innumerevoli gocce di una determinata essenza; la reazione tarda a venire; all' improvviso, in un attimo, il liquido assume un 'altra colorazio ne. Si passa dalla quantità alla qualità: cosa che naturalmente può avve nire in modo alquanto simile anche con le opinioni e le percezioni prevalenti. 5 J.G. Droysen, Historik, a cura di Peter Leyh , Stuttgart-Bad Cannstatt, 1 9 7 7 ; trad. it. Istorica. Lezioni di enciclopedia e metodologia della storia (1 85 7), II ed. Napoli, 1 994 . 6 ]. Burckhardt, Weltgeschichtliche Betrachtungen , Berlin , Stuttgart, 1 905 ; trad . it. Meditazioni sulla storia universale, II ed. Firenze, 1 995 . Gli appunti delle lezioni da cui è stata ricavata quest'opera sono state pubblicate in edizione critica sotto il titolo originario Vber das Studium der Geschichte, a cura di P. Ganz, Miinchen, 1 982 ; trad . it. (basata sull'ed. critica tedesca) Sullo studio della storia. Lezioni e conferenze (1 868- 1 8 73), a cura di M. Ghelardi, II ed. Torino, 1 998. 7 Johann Wolfgang Goethe, Buch des Unmuths, in West-ostlicher Divan, in Goethes siimtliche Werke, a cura di H. Birus, Frankfurt a.M., 1 994 , vol. III. 1 ; trad. it. Libro del malumore, in Divano occidentale-orientale, in Opere, Firenze, 1 963 , vol. V, p. 43 1 . 8 Così ad esempio Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , pp. 8-9: «Grandezza del nostro debito nei confronti del passato, in quanto continuum spirituale che appartiene al nostro supremo patrimonio intellettuale [ . . . ] A un simile privilegio rinunciano solo i barbari, i quali non spezzano mai il proprio guscio culturale giacché lo considerano come qualcosa di dato». 9
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Burckhardt , Sullo studio della storia, cit . , p. 1 0 ; Id., Historische
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Fragmente, Stuttgart-Berlin , 1 942 ; trad. it. Lezioni sulla storia d'Europa, Torino, 1 95 9 , pp. 3 05 - 3 06; Id. , Sullo studio della storia, cit . , p. 3 . 1 0 Robert Musi!, Das hilflose Europa oder Reise vom Hundertsten ins Tausendste ( 1 92 2 ) , in Id., Tagebucher, Aphorismen, Essays und Reden, a cura di A. Frisé, Hamburg, 1 95 5 ; trad. it. L 'Europa abbandonata a se stessa, in Saggi e lettere, Torino, 1 995 , vol. I, pp. 6 1 ss.; I d . , Der Mann ohne Eigenscha/ten, Hamburg, 1 95 2 ; trad . it. L'uomo senza qualità, To rino, Einaudi, 1 996, p. 1 042. 1 1 Sofocle, Antigone, 3 3 2 ss. (in Tragedie e frammenti, a cura di G . Padano, Torino, 1 982, p. 275 ) . 12
Musi!, L'Europa abbandonata a se stessa, cit. , p. 67 .
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Osservazioni analoghe a quelle che seguono si possono fare anche riguardo all ' arte, in riferimento ad esempio al «progressivo abbreviarsi della durata degli stili dominanti di produzione»; cfr. Hermann Liibbe, Die Au/dringlichkeit der Geschichte, G raz-Wien - Ki:iln, 1 989, p. 4 8 , dove si parla anche dell' «accresciuta densità temporale dell 'innovazio ne». «Con il tasso d'innovazione aumenta la velocità di obsolescenza. Diminuisce così l 'ammontare di tempo che sulla base di una certa costanza delle strutture estetiche possiamo identificare come tempo presente». Inoltre già Bacone aveva p revisto che la velocità delle inven zioni sarebbe aumentata: Reinhart Koselleck, Fortschritt, in O. Brunner, W. Conze e R. Koselleck, Geschichtliche Grundbegrzf/e, Stuttgart, 1 9 7 5 , vol. II; trad. it. Progresso, Venezia, 1 99 1 , p p . 63 ss. ( i n particolare p p . 64-65 ) . 1 4 Per ulteriori osservazioni sull'accelerazione nel corso dell'era mo derna, cfr. Reinhart Koselleck, Zeitschichten, Frankfurt a.M., 2000. Tutt'al tra questione è se sia sempre possibile distinguere chiaramente l' accele razione dalla velocità. Particolarmente significativa, in relazione a ciò, è l 'interpretazione delle crisi come «processi accelerati» da parte di Burckhardt. L'accelerazione, da un certo punto in poi, diventa mancan za d ' abitudine, in particolare dal momento in cui le idee e le interpreta zioni consuete non bastano più. Un certo adattamento è in effetti sempre possibile. Quando l' accelerazione diventa eccessiva può esserci una ca renza maggiore, specialmente per chi è più sensibile. In tal caso la tolleranza dell 'accelerazione non è più sufficiente. 1 5 Ci può cogliere persino il sospetto di non essere più dei contempo ranei . «Ut ita dixerim , non modo aliorum sed etiam nostri superstites sumus», per citare le inimitabili parole usate, in circostanze del tutto diverse, da Tacito, Agricola, III, 2 («[ . . . ] siamo ormai sopravvissuti non solo agli altri, ma vorrei dire a noi stessi») . 16
Maggiori dettagli al riguardo nel capitolo III.
1 7 Hannah Arendt, On Revolution, London , 1 963 ; trad. it. Sulla rivo luzione, Milano, 1 983 , pp. 46 ss. (la citazione è a p. 5 1 ) . 1 8 Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , pp. 9 - 1 0 ; cfr. Id., Lezioni sulla storia d'Europa, cit . , pp. 3 06 , 3 7 4 ; Id . , Brie/e an seinen Freund
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Friedrich von Preen 1 864- 1 893 , 2 .7 . 1 87 1 , Stuttgart-Berlin , 1 92 2 ; trad . it. Lettere (1 838- 1 896), Palermo, 1 993 , pp. 1 80 s . 1 9 Così s i esprime Hans Freyer sulle modalità di orientamento: «l sistemi filosofici precedenti intendevano dare all' uomo un orientamento nel presente del mondo in cui egli si muoveva. Nel periodo di tempo che inizia con la " querelle des antiques et des modernes " , che tocca il suo apice con l' Illuminismo e sembra concludersi con Nietzsche, la filosofia della storia diviene il centro del pensiero . L'uomo si orienta ormai nel tempo storico, ossia si colloca tra il passato e il futuro: ad un determinato gradino nel progresso della ragionevolezza, in una determinata fase delle lotte di classe, ad un determinato punto della storia del nichilismo europeo . . . » (H. Freyer, Theorie des gegenwiirtigen Zeitalters, Stuttgart, 1 95 5 , p. 7 4 ) . E oggi? 20 Droysen , !storica, cit . , pp. 5 06, 3 95 -3 96. Sul tema degli esecutori della storia ibid. , pp. 5 3 2 e cfr. p. 1 5 1 . 21 Il carattere di determinatezza tuttavia non è quasi avvertibile , poi ché nelle nicchie - che proprio quel processo sempre più apre - riuscia mo a sentirei decisamente liberi di poter fare qualsiasi cosa senza conse guenze, o apparentemente senza conseguenze (si pensi, ad esempio, alla produzione di rifiuti). 22 Di diverso avviso Botho Strauss, Die Fehler des Kopisten, Mtinchen Wien , 1 997 , p. 8: «Lo spirito non può accontentarsi del fatto che tutto tende fatalmente proprio verso le condizioni che già si delineano come indispensabili». 23 Sul problema delle previsioni si veda Christian Meier, Historiker und Prognose, in Das Verschwinden der Gegenwart, Mtinchen-Wien ,
2 00 1 , pp. 209 ss. Sull 'acutizzarsi di tale problema in epoche di grande cambiamento cfr. Hermann Ltibbe, Geschichtsbegri// und Geschichts interesse, Basel-Stuttgart, 1 97 7 , pp. 3 25 s . , 1 3 0 . Anche a questo propo sito si potrebbe affermare «nulla di nuovo sotto il sole»: «Con la massi ma sincerità, al cospetto dell 'instabilità e dell'insicurezza delle cose umane mi risulta pressoché impossibile consegnarVi una regola inaltera bile sia per la Vostra condotta privata sia per il governo dello Stato e dei possedimenti che Vi lascio» (istruzione di Carlo V al figlio, redatta nel gennaio del 1 5 4 8 ; cit. da Heinz Schilling, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 26 febbraio 2000 ) . 2 4 Riferendosi alla propria epoca, Gottfried Benn parla invece di «movimento senza supporti»: G. Benn , Akademie-Rede, 1 93 2 , in Id. , Gesammelte Werke. l: Essays. Reden. Vortriige, a cura di D. Wellershoff, Wiesbaden , 1 95 9 , pp. 433 s . 2 5 A l riguardo Lutz Niethammer, Posthistoire. Ist die Geschichte zu Ende?, Hamburg, 1 989. Da questo punto di vista Peter Sloterdijk ha
scritto: «La grande STORIA di un tempo si rivela come un' astuzia rivolu zionaria che non poteva tradirsi senza perdere la propria efficacia, come un mito attivo autoipnotico. Questo segreto è oggi sotto gli occhi di tutti 42
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e ha perso la sua efficacia. Forse la STORIA era solo una favola dotata di forte presa sulla realtà che si è conservata fino al momento in cui i suoi destinatari sono stati condotti a diventare a loro volta soggetti della trama della favola e ad intessere nella STORIA le loro storie personali» (ibid. , nota 3 3 ) . A tale proposito Niethammer cita anche le considerazio ni espresse da Alfred Heuss sulla perdita della storia , in Verlust der Geschichte, Gottingen, 1 955 . 26 Si può anche ricordare, in senso stretto, l 'osservazione di Arnold Gehlen : «Il bisogno dell'uomo di sottrarsi al giogo delle circostanze è fondamentale e sta nel nucleo della sua costituzione. Il filosofo, il politi co e il medico sono oggi sicuramente coloro che rispondono al meglio a questi bisogni e l 'esser seguaci proprio di ql,!esti uomini, Fichte, Marx e Freud è perciò in sé sensato». A. Gehlen , Uber die Geburt der Freiheit aus der Entfremdung, in I d . , Philosophische A n th ropologie und Handlungslehre. Gesamtausgabe, Frankfurt a.M., 1 983 , vol. IV, p . 3 7 9 ; trad. i t . Sulla nascita della libertà dalla estraniazione, in Id., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, Napoli, 1 990, p. 4 3 8 . Questo bando fu tuttavia temporaneamente violato dal Sessantotto. Cfr. il saggio, per diversi aspetti interessante, di Jean Améry, Expeditionen jenseits des Rheins, in «Merkur», XXV ( 1 97 1 ) , pp. 3 8 ss. Da un altro versante: Niethammer, Posthistoire, ci t., pp. 1 7 , 1 5 . Sui «popoli che non apparten gono al club dei ricchi» ibid. , pp. 1 69, 7 .
27 Aristotele , Politica, 1 3 1 8b 3 (in Politica e costituzione di Atene, Torino, 1 992 , p. 275 ) . 2 8 A tale proposito i l principale riferimento, d i poco successivo a Niethammer, è Francis Fukuyama, The End o/History?, in <
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o anche, in modo del tutto diverso, ma interessante per un confronto, Sudhir Kakar, Die Gewalt der Frommen. Zur Psychologie religioser und ethnischer Kon/likte, Miinchen , 1 9 97 , pp. 38 ss. 3 2 Hans Freyer, Theorie des gegenwiirtigen Zeitalters, cit . , p . 226. Si potrebbero aggiungere diverse affermazioni di Gottfried Benn , come ad esempio: «L'interiorità psicologica di un io che aspira all'esperienza, che esso elabora poi in senso di sviluppo, passa in secondo piano» . «Dietro di ciò sta una tendenza antistorica molto più generale» . «Quest'io, che vive di perdita, frigidità, isolamento dei centri, senza continuità psicolo gica, senza biografia, senza una storia vista come elemento centrale»; Gesammelte Werke, cit . , vol. I, pp. 4 3 2 , 436. Varrebbe la pena d 'indaga re in modo specifico sul tema del rapporto tra Benn e la storia. Alcune osservazioni al riguardo in Gott/ried Ben n un d die Griechen, in «J ahrbuch der Bayerischen Akademie der Schéinen Kiinste», I ( 1 987 ) , pp. 259 ss. Ancora sull'esperienza: «La parte di vita dell' esperibilità del mondo si restringe, nonostante i meccanismi per il risparmio di tempo, per il recupero dei ritardi di esperienza che riguardano ogni individuo, anche come parte di quelle crisi della mezza età collegate alla presa di coscienza del fatto che una sola vita, quale ciascuno di noi ha, non basta a fare esperienza di ciò che viene chiamato mondo»: Hans Blumenberg, Lebenszeit und Weltzeit, Frankfurt a . M . , 1 986; trad. it. Tempo della vita e tempo del mondo, Bologna, 1 996. 33 Georg Wilhelm Friedrich Hegel , Grundlinien der Philosophie des Rechts, in Siimtliche Werke, a cura di H. Gléickner, III ed. Stuttgart, 1 952, par. 1 84 ; trad. it. Lineamenti difiloso/ia del diritto, Bari, 1 9 1 3 , p . 3 6 1 . Un'interessante definizione dello Stato in Burckhardt, Sullo studio della storia, cit. , p. 54: «Lo Stato non è " sorto " grazie alla abdicazione
degli egoismi individuali , " è " piuttosto questa abdicazione, " è " il loro livellamento affinché gli interessi e gli egoismi più vari trovino durevol mente in esso il loro tornaconto e finiscano per intrecciare completa mente la loro esistenza con la sua». 34 Qui si dovrebbe forse richiamare l'osservazione di Freyer sull'as senza di presupposti dei sistemi secondari: Theorie, cit . , p. 1 80. 35 «Il tempo, così accelerato, toglie al presente la possibilità di perce pirsi come presente, e fugge verso un futuro nel quale il p resente, dive nuto inesperibile, deve essere recuperato sul piano della filosofia della storia»; Reinhart Koselleck, Vergangene Zukun/t, Frankfurt a.M. , 1 97 9 ; trad. i t . Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, 1 986, p. 26, dove però si fa riferimento al XVIII secolo. 36 Ciò non va inteso nel senso in cui l'ha espresso Schiller. Si veda l 'interpretazione di Odo Marquard , Apologie des Zu/iilligen , Stuttgart, 1 986, p. 70: «Chi definisce la storia come una lunga marcia verso l'uni versale, come un percorso attraverso il quale l'individuo si risolve nel genere umano, deve conseguentemente ammettere che " tutte le epoche p recedenti " si sono " s forzate " di " condurre al nostro secolo umano" [ . . ] e assurgerà a una sorta di cronista impegnato che, simile a un Guglielmo Tell (non più in agguato, ma festoso e incitante), userà il .
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microfono e la videocamera, anziché l'arco e la freccia, per constatare, al cospetto del presente tardoeuropeo, che " di qui dovrà passare, non c'è altra strada" che conduca alla libertà. Qui essa si compie, la necessità è con essa» .
37 Thomas Mann, Leiden und Grofle Richard Wagners, 1 93 3 , in Gesammelte Werke, Berlin, 1 95 5 , vol. X; trad . it. Dolore e grandezza di Riccardo Wagner, in Tutte le opere di Thomas Mann . X : Nobiltà dello spirito. Saggi critici, Milano , 1 973 , p. 523 . 38 Alfred Heuss, Verlust der Geschichte, cit . , p. 60. Heuss all'epoca vide (ed espresse) già molte delle cose che oggi sono soltanto divenute più chiare. Si potrebbero citare anche altri passi sulla misura dell'impe gno richiestoci da un presente altamente volatile e su come esso, con le sue diverse fasi, ci condizioni al punto da limitare il nostro pensiero. Solo un passo: «In ciò il peso non risiede nella mera quantità di materiale [ . ] , ma nella costrizione all'impegno interiore, nell'essere colpiti dagli eventi cui si collega il malessere per il fatto che l'uomo non li abbia realmente in pugno, che deve pertanto suscitare l'impressione di una doppia aporia, pratica e teoretica». .
.
39 Su ciò Hannah Arendt, Between Past and Future. Six Exercises in Politica! Thought, New York, 1 96 1 ; trad. it. Tra passato e futuro, II ed. Milano, 1 99 1 , pp. 7 0 ss. (Il concetto di storia: nell'antichità e oggi) . 40 Reinhart Koselleck, Uber die Verfugbarkeit der Geschichte, in I d . , Vergangene Zukunft, cit . ; trad. it. Sulla disponibilità della storia, i n Id., Futuro passato, cit . , pp. 223 ss.
41 Strauss, Die Fehler des Kopisten, cit . , p . 96. La riflessione continua come segue: «E quest ' impotenza emette anche gemiti come "world wide web " , " apocalisse della natura " o " disgregazione dei valori " . Ciò non viene dichiarato da volti e labbra esangui, ma dal discorso impotente che attesta la perduta coscienza della totalità del mondo con ben maggiore credibilità di quanto non lasci presumere il disturbo dei sensi che senza dubbio descrive». 42 Per un altro aspetto Strauss, ibid. , p. 84 : «Salta all'occhio la goffaggine con cui il teatro contemporaneo si propone di assecondare solo la pro pria epoca, senza assecondare se stesso in quanto luogo che contraddice nel modo più solido la totale trasformazione del mondo in apparenza». 43 Il riferimento è a Horst Siebert , presidente dell ' Institut fiir Weltwirtschaft di Kiel, che all'epoca di quella dichiarazione faceva parte del consiglio di esperti del governo federale tedesco. La citazione è in Odysseus am Mast der Okonomie, «Frankfurter Allgemeine Zeitung» , 1 9 aprile 1 997 . 44 Si veda al riguardo Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltburgerlicher Absicht, in I d . , Werke, Frankfurt a . M . , 1 964 , vol. V I ; trad . it. Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto,
Torino, 1 995 , tesi terza, p . 126: «Comunque rimane sorprendente che le
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generazioni anteriori sembrino solo affaticarsi per quelle che sopravven gono, per preparare ad esse un gradino da cui possano elevare l'edificio intorno a cui i loro predecessori (certo senza averne l'intenzione) lavora rono senza poter partecipare alla fortuna ch'esse hanno contribuito a creare» . Cfr. anche Arendt, Tra passato e futuro, cit . , pp. 1 2 0 - 12 1 ; Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , p . 4 : «Del resto, non solo tra i filosofi è comune l'abbaglio che la nostra epoca sia il compimento di tutti i tempi o perlomeno vi si avvicini»; Max W eber, Gesammelte Au/siitze zur Religionssoziologie, Tiibingen , 1 92 0 , vol . I; trad. it. Sociologia della religione, Milano, 1 982 , vol. I, p . 1 93 : «specialisti senza spirito, gaudenti senza cuore - questo nulla s'immagina di essere salito a un grado mai prima raggiunto di umanità» ; Strauss, Die Fehler des Kopisten , cit . , p. 97 : «In che modo dalla nostra epoca si possa guardare con commiserazione a un'epoca precedente, vorrei capire ! ». 45 Tale probabilmente l' aspettativa di Koselleck quando scrive: «Oggi si delinea ormai chiaramente come determinati fenomeni di accelerazio ne della nostra società iperdifferenziata siano giunti a saturazione [. . . ] Potrebbe risultare poi che l' accelerazione avuta finora abbia contrad distinto solo una fase di transizione, al termine della quale la gerarchia d'importanza tra durata e conservazione, da una parte, e cambiamento e trasformazione, dall 'altra, necessariamente cambierà»; in Zeitschichten, cit . , pp. 1 99, 2 0 1 s . 4 6 A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, Paris, 1 968; trad. it. La democrazia in America, Milano, 1 999, p. 2 2 . 47
Burckhardt, Lezioni sulla storia d'Europa, cit . , p. 2 9 8 .
I l termine è stato coniato da M a x Weber, Gesammelte Au/siitze zur Wissenscha/tslehre, III ed. Tiibingen, 1 968; trad. it. Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, 1 958, p . 94 . Egli designa in tal modo la «conoscenza delle regolarità delle connessioni causali», che sarebbe presupposto dell' <
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che nel libro Luz ha diffuso i risultati delle sue ricerche sul t rattamento dei figli di dissidenti argentini: madre fucilata, adozione da parte di un militare. L'ospedale militare di Campo de Mayo aveva un apposito cen tro ginecologico. Pare che fosse da lì che decollavano i velivoli da cui i prigionieri venivano lanciati sul Rio de La Plata e fatti «scomparire» . È a ppunto in quella domanda che si esprime senza dubbio uno dei maggio ri ostacoli del nostro tempo sulla via del riconoscimento di verità: il «sapere» circa il possibile e l'impossibile impedisce di distinguere ade guatamente tra vero e falso, cosa peraltro non rara ) . Si ricollega a ciò anche l' «antica esperienza [. . . ] secondo cui gli uomini preferiscono avere torto sulla base di un percorso mentale consueto anziché aver ragione per una via inconsueta>> (Lorenz von Stein, Zur preu/Sischen Verfassungs/rage, 1 85 2 , Darmstadt, 1 96 1 , p. 4 ) . E anche: «La ragione dell'uomo, come l 'uomo stesso, è timida e prudente se lasciata sola e acquista fermezza e fiducia via via che viene confortata da altri>> : James Madison , in The Federalist ( 1 7 88), n . 49; trad. it. Il Federalista, Bologna, 1 997 , p. 450. Tale sapere può essere molto differente. Esso muta sia nei contenuti che nell'intensità e nella maggiore o minore compattezza. Se ne ha ad esempio riscontro considerando la situazione nel V secolo avanti Cristo. Ciò che si era appreso in casa, dai miti e dall'opinione corrente non bastava più . Si apriva un divario tra ciò che era stato tramandato e ciò che appariva dotato di senso. Da un lato un esercito non partiva mai senza un veggente, e prima di ogni battaglia si pregava sempre. Dall' altro si elaboravano grandi piani militari nei quali gli dèi non avevano più alcuna voce in capitolo. I problemi che sorsero da queste e molte altre discordanze vennero descritti meravigliosamente nella tragedia (Christian Meier, Die politische Kunst der griechischen Tragodie, Athen-Berlin, 1 994 ; trad. it . L'arte politica della tragedia greca, Torino, 1 999) . Il caso seguente è del tutto diverso : «La vecchia Inghilter ra tradizionale [ . . ] si fondava sull'enorme forza delle tradizioni e delle convenzioni. Si faceva non ciò che " doveva essere " fatto, ma ciò che " si era sempre fatto " . Ma non sappiamo più " cosa si è sempre fatto " , esiste solo il " p roprio interesse"» (Eric Hobsbawm, On History, London- New York, 1997 ; trad . it. De historia, Milano, 1 997, p. 3 04 ) . Come chiaro esempio tratto da anni recenti si può citare il mutamento del sapere nomologico in campo sessuale, per quanto riguarda le opinioni su ciò che è permesso e ciò che è vietato ( nel processo che, iniziato con le violazioni libertarie dei tabù, ha condotto alla completa soddisfazione pornografica del cittadino; Strauss, Die Fehler des Kopisten, cit. , p . 82 ) . Sul sapere nomologico s i fondano naturalmente anche i l significato e l'eventuale connotazione normativa delle parole . Già nel 1 793 nello «Schleswigsches Journah> si osservava che «parole un tempo dotate di una straordinaria forza espressiva hanno perduto tutto il loro significa to>>: cit. da Koselleck in Futuro passato, cit . , p. 284. Adorno parlava del recidersi del rapporto tra cosa ed espressione (Theodor W. Adorno , Minima Moralia, Frankfu rt a.M., 1 95 1 ; trad. it. Minima moralia, Torino , 1 95 4 ) . Così Stefan Zweig caratterizza l'epoca del primo conflitto mon diale rispetto a quella del secondo: «La parola aveva ancora efficacia [. ] La coscienza morale del mondo non era ancora tanto sfinita e .
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sfruttata come oggi; essa reagiva violentemente ad ogni palese menzo gna, ad ogni offesa del diritto delle genti e dell'umanità, con tutta la forza di una convinzione secolare»; S . Zweig, Die Welt von Gestern, Frankfurt a . M . , 1 947 ; trad. it. Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Napoli, 1 94 5 , p . 2 0 1 . Oppure, con parole che potrebbero essere di oggi, così Jaspers scriveva a Golo Mann il 25 gennaio 1 94 7 : «Lei indica la frase che maggiormente paralizza il " clerc" del nostro tempo, ossia la doman da: per chi? [ . . . ] Lei sa quale grande slancio dà una eco ancorché minima o il segno di un'attesa quale che sia. A noi sembra porsi il compito di scrivere per un pubblico ideale, nella speranza che prima o poi ne appaia uno reale. In Germania non esiste ancora un pubblico. Tutto ciò che si pubblica cade come in un pantano, sprofonda subito e scompare senza lasciare alcun 'onda, come se non fosse mai esistito. Forse le pietre si stanno ammucchiando sul fondo e un giorno dal fango emergerà la vetta di una montagna». Strauss parla di «sottrazione di significati in tutti i nostri valori, parole e p rogetti» (Die Fehler des Kopisten , cit . , p. 1 03 ) . Si veda anche Christian Meier, Heraus/orderungen einer Akademie in sich veriindernder Zeit, in «Deutsche Akademie fiir Sprache und Dichtung. Jahrbuch», 1 997 , pp. 65 ss. Non possedevamo i concetti per attrarre in noi il vissuto, o forse i sentimenti il cui magnetismo attiva i concetti: Musil, 1 922 , Tagebucher, cit . , vol. VI, p . 2 2 . «Che cosa accade del mondo e degli uomini in un'epoca in cui la lingua non è più adeguata a formu lare domande chiare e gli uomini non riescono più a formare con la loro lingua domande chiare? In cui molti uomini usano la lingua, in cui la lingua usa gli uomini e né gli uni né l'altra sono capaci di formulare domande chiare? Se questo non è solo un mio connotato, se è anche un connotato di questo tempo, o almeno degli uomini di questo tempo?»; Dievad Karahasan, Schahrzjds Ring, Berlin, 1 997, p . 1 68 . Si colloca probabilmente in questo contesto anche un'affermazione di Hannah Arendt : «Le parole che adoperiamo tutti i giorni ricevono il loro peso specifico, il quale ci guida nel loro uso e ci ripara da inavvertiti clichés, attraverso le molteplici associazioni che, automaticamente e inconfon dibilmente, nascono dalla grande poesia che quella lingua particolare ha avuto la sorte di ricevere in dote»; cit. in Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt. Leben, Werk und Zeit, Frankfurt a.M., 1 986; trad. it. Hannah Arendt. 1 906- 1 9 75. Per amore del mondo, Torino, 1 990, p. 1 4 . Un pro fondo cambiamento può logorare, frantumare e indebolire il sapere nomologico, finché - forse - dall'abitudine alla nuova situazione e velo cità (o accelerazione) non ne nasca un altro. 49 Ci t. da Hildegard Hamm-Briicher, Der Politiker un d sein Gewissen, III ed. Miinchen-Ziirich, 1 99 1 , p. 63 . 5° Friedrich Nietzsche, Frohliche Wissenscha/t, 1 96, Stuttgart, 1 950; trad. it. La gaia scienza, II ed. Milano, 1 97 7 , p . 149. H « L .. ] il secolo deve venirci in aiuto , il tempo dovrà sostituirsi alla ragione, e in un cuore aperto ai più alti ideali il vantaggio più alto prevalere sul più basso»: così in Goethe, Wilhelm Meisters Wanderjahre, libro III, cap. 1 2 ; trad. it. Anni di pellegrinaggio di Guglielmo Meister, in Opere, cit . , vol. IV, p. 962 .
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Assenza della storia e scorrere del tempo 52 «Perché, effettivamente, si poteva ormai vedere a una certa distanza. Tutto si era ormai ravvicinato, a volte ormai tutte le navi si trovavano l'una affiancata all'altra: quelle di Salamina e del Mayflower e quelle delle regate di Cannes», dice il Tolomeo di Benn , attestando persino nella ripetizione di ormai la sua coscienza storica: «" Vieni anche tu sul mare, vista dal mare la terra si placa e si placano i cuori " [ . . . J �ontinenti in proiezioni cartografiche, secoli come un avvicendarsi di nuvole, destini consegnati all'espressione [ . . . ] un' architettura dall'equilibrio particolare», si dice nel Romanzo de/fenotipo (G. Benn, Der Ptolomaer, in Werke, cit . , vol. Il; trad. it. Il tolemaico, in Romanzo del fenotipo, Milano, 1 998, p. 123 ; ibidem, p. 186). Niethammer, Posthistoire, cit . , pp. 34 ss. 53
Così Polibio nel proemio al libro I delle Storie (Napoli, 1 968, p .
1 07 ) . 5 4 Hannah Arendt, Understanding and Politics, i n «Partisan Review», Comprensione e politica, in Id . , La disobbedienza civile e altri saggi, Milano , 1 985 , p. 9 1 .
XX ( 1 953 ) , p. 3 7 7 ; trad. i t.
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II
Verso il 1 5 0 0 : il «miracolo europeo»
«Il compito che ci proponiamo è di collegare una serie di osservazioni e di esperienze storiche ora a uno, ora a un altro nesso semicasuale di pensieri» . È con queste parole, modeste fino alla civetteria, che inizia la scaletta del corso Sullo studio della storia tenuto per la prima volta da J acob Burckhardt nel semestre invernale 1 868-69 1 • I n questa sede possiamo prendere i n considerazione, più che «una serie di osservazioni», una serie di domande, molte delle quali resteranno necessariamente aperte. Esse non devono essere collegate «ora a uno , ora a un altro nesso semicasuale di pensieri», ma servono piuttosto a chiarire meglio, considerandolo da più lati, un problema di fronte al quale si trova lo storico di oggi, e cioè se la storia debba avere per oggetto solo i diversi interessi e tematiche specifi ci, ovvero anche una migliore comprensione e consapevo lezza del presente. La mia tesi è che l'interesse per il presente, e per i grandi cambiamenti del passato che condizionano il presente, deb ba essere il punto di partenza di qualsiasi riflessione più generale sullo studio della storia, anche se il nostro attuale presente non sembra più condividere tale interesse con gli storici (che peraltro, in maggioranza, si preoccupano abba stanza poco di ciò ) . Non è un caso che all'inizio della storiografia europea vi sia Erodoto, uno storico motivato in buona sostanza da interrogativi che, a partire dal presente di allora, riguardavano sia le origini sia i destini del genere umano. In tale operazione la posta in gioco era il futuro, come di solito accade quando ci s'interroga sul presente . Quest'interesse per il presente, proprio alla luce della molteplicità delle scienze storiche nei diversi paesi e nei diversi ambiti culturali del mondo attuale sempre più inte51
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grato, è d'importanza vitale. Le storie dei vari paesi, imperi e continenti sono generalmente assai diverse tra loro e per gran parte del tempo si sono sviluppate perlopiù in modo isolato l'una dall' altra. Il presente invece, il nostro presente odierno, è in larga misura comune a tutti noi, e ci offre uno spazio di riferimento in cui le molte diverse storie si posso no, direttamente o indirettamente, incontrare . È qui che il contesto delle scienze storiche può trovare una base. Deriva da ciò una problematica in buona parte differente da quella che aveva di fronte Burckhardt. Le riflessioni dello storico svizzero prendevano le mos se dalle «tre grandi potenze: Stato, religione e cultura» per poi trattare «anzitutto le loro influenze reciproche, [. . ] quindi il moto accelerato dell'intero processo universale, la dottrina delle crisi e delle rivoluzioni» e intendevano con centrarsi su «ciò che " si ripete " , che è " costante " e " tipico " , come qualcosa che risuona in noi e che per noi è compren sibile» . Egli rifiutava le «sezioni trasversali» che a suo avvi so avevano caratterizzato «la filosofia della storia fino ad oggi» . Prescindendo totalmente dal fatto che lo stesso Burck hardt finiva per approdare a «sezioni trasversali» - come indica anche l'affermazione sul «moto accelerato dell 'intero processo universale» riferito al suo tempo -, iniziare una considerazione più generale della storia da un interrogativo suscitato dal presente mi sembra oggi l'unica via percorribi le. È «dall 'esterno», infatti, che entriamo nella storia, e l'esperienza del cambiamento, e della costante novità che ne deriva, è per noi assolutamente in primo piano . Non esiste più, invece, o non ancora, il rischio di un'interpreta zione teleologica della storia, che Burckhardt aborriva. Non siamo più legati ai «presupposti» di un secolo ebbro di progresso, quei presupposti che l'uomo di allora «comin ciava ad assimilare sin dall'età di tre o quattro anni» . Se Burckhardt indicava, semplificando, nelle tre poten ze sopra citate e nella loro reciproca interazione i fattori trainanti della storia, al nostro sguardo il mondo storico e i suoi meccanismi si presentano in modo ben più complesso e imponente. Il potere dell'economia gioca, nel nostro caso, .
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un ruolo di gran lunga maggiore e sul piano antropologico si evidenziano molti altri fenomeni. Non si possono indivi duare con facilità, all'interno di questa complessità, delle «potenze», le quali del resto si compenetrano le une con le altre in modi ben diversi nelle diverse epoche. I presupposti - in particolare quelli di lungo periodo - di una civiltà, della nostra civiltà, hanno acquisito - insieme con essa - una problematicità del tutto nuova. E noi non possiamo eludere queste questioni. «Sicuramente ritorneremo spesso sulla consapevolezza dei difetti generali e individuali delle nostre facoltà conosci tive»: con queste parole Burckhardt conclude la sua intro duzione. Ciò vale anche per noi, con forza ancora maggiore, dal momento che nelle questioni di cui qui si tratta non si arriva alla meta con i metodi abituali, e che i metodi di cui si avverte l'esigenza, pur potendo forse essere definiti in termini teorici - si tratta sostanzialmente dei metodi com parativi -, non sono facilmente utilizzabili dal singolo stu dioso, né purtroppo la collaborazione in questo campo dà risultati di rilievo. Quella parte della problematica del presente di cui ci si occupa in questa sede è la speciale via percorsa dall'Europa. Possiamo parlare di Sonderweg perché la civiltà europea, con tutta evidenza, non è stata semplicemente una fra le tante, ma ha seguito, da Atene ad Auschwitz, un cammino sostanzialmente differente da qualsiasi altra civiltà e ha fini to per cambiare profondamente il mondo intero2• In questo l'Europa è stata gradualmente e in misura crescente affian cata dalla sua principale propaggine, gli Stati Uniti d' Ame rica, che l'hanno poi nettamente superata. Che la questione della via europea occupi un posto centrale nella comprensione del presente appare immedia tamente chiaro se si va a ritroso, a piacimento, nella storia in una qualsiasi storia - del mondo: in tal modo , infatti, quel presente non può assolutamente essere visto come ovvio, ma si staglia piuttosto sullo sfondo di epoche e condizioni molto differenti, e quella storia che determina la grande distanza tra le epoche diventa a sua volta un problema. Tuttavia essa consiste soprattutto nella storia di coloro che 53
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ovunque nel mondo diedero impulso decisivo al cambia mento , e cioè degli europei - o forse è meglio dire dell'Oc cidente? Non ci si può fermare alla constatazione dell'inge renza degli europei nelle tante specifiche storie: ingerenza che si può comprendere solamente se ci si chiede a quali condizioni essa si sia potuta verificare e abbia potuto avere successo. Questa questione rientra al tempo stesso nella riflessione sulle mescolanze e simbiosi delle diverse civiltà del mondo con quanto esse hanno assunto dall'Europa e dall'America, volenti o nolenti, e sulla base di numerose pressioni che durano ancor oggi. Dall'altra parte, la questione della speciale via europea è centrale per la comprensione dell'Europa sia da parte dell'Europa stessa che dall'esterno, ossia da parte delle ci viltà ad essa estranee. Tale questione non viene considerata urgente dalle so cietà europee. Né è facile affrontarla non appena si esca dai territori della scienza. Diversi sono infatti i rischi in aggua to. Innanzi tutto esiste ancora (più in America, per la verità, che in Europa) l'ingenuo orgoglio per alcuni risultati di questa storia, considerati positivi, esemplari, validi come modelli: il benessere di massa, ad esempio, i molteplici spazi di libertà e la stessa concezione occidentale dei diritti umani. Non è che quest'orgoglio non sia giustificato. Alta mente problematica è piuttosto la sua generalizzazione in senso di superiorità e nelle molteplici pretese che da questo derivano. La presunzione che essa alimenta potrebbe pro durre conseguenze sgradevoli. Essa conduce all ' affrettata convinzione secondo cui tut to il mondo sia destinato a diventare uguale all 'Occidente: idea che può apparire plausibile, concepita in totale buona fede, se ciò che è occidentale viene considerato universale, dimenticando volentieri che nelle rivendicazioni universa listiche dei paesi più ricchi e sviluppati gli altri popoli vedo no soprattutto il segno di una pretesa di superiorità e di dominio : visione del resto che non ha solo un fondamento soggettivo . Come che sia, l'Europa non concede molto agli altri sul terreno di cui è (in certa misura a ragione) orgoglio sa, ossia della tolleranza. 54
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Dall' altra parte sta la costernazione per tutti i guai com binati dall'Europa, associata a volte al timore di poter esse re per questo richiamati ad alcuni doverP . Infine esiste l'insicurezza - che ha molteplici radici - nei confronti di noi stessi e della nostra peculiarità; insicurezza che viviamo spesso con compiacimento,. ma che non amiamo ci venga fatta notare da altri. Non senza motivo, in Occidente si è rafforzata molto la tendenza a considerare uguali (almeno concettualmente) i popoli e le culture, oltre a tutte le loro peculiarità: essa rende comunque superflui i pensieri sco modi, vista la facilità estrema con cui si sollevano accuse di razzismo. A meno che tutto non ci inganni, quella che potremmo definire l'autocoscienza dell'Europa è come avvolta in una fitta e brillante rete di ambiguità, nutrita di presunzione e timore, cattiva coscienza, orgoglio e molta ipocrisia. Si ten de fortemente a considerarsi speciali, ma al tempo stesso si vorrebbe non essere speciali. Sembra che non si sia sufficientemente capaci di separa re ciò che l'Europa è stata e ha significato per il mondo, nel bene e nel male, da ciò che essa potrebbe ancora essere, in un mondo cambiato . Un'ulteriore difficoltà sta nel fatto che l'Europa si trova sulla stessa barca degli Stati Uniti d' Ame rica, sotto il vessillo occidentale, pur non essendo in grado d'influire sulla rotta. Come riflettere sull'Europa come qual cosa di speciale? Tuttavia, in questa sede interessa prima di tutto il dibat tito interno alla scienza storica. Ha contribuito a stimolarlo, negli ultimi anni, la pubblicazione del libro, molto discusso, Il miracolo europeo di Eric Li o nel J ones 4 • Si può riflettere, su questo tema, da diversi punti di partenza: a partire dalla Rivoluzione industriale, ad esem pio, dal capitalismo moderno, dalle rivoluzioni scientifiche, o, ancora, interrogandosi su come sia potuto avvenire che l'Europa - a partire dalla Spagna e dal Portogallo, cui fece ro seguito ben presto Francia, Paesi Bassi e Inghilterra abbia da sola dischiuso il mondo , lo abbia misurato, disse minato di propri avamposti, colonizzato in parte e in parte conquistato, sfruttandolo ai propri fini e imponendovi, a 55
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lungo andare, la p ropria legge. Detto in altri termini, ci si può interrogare su come sia potuto accadere che sia stata proprio l'Europa a fare tutto ciò, e non ad esempio la Cina o l'Impero Moghul in India o l'Impero Ottomano, e che anzi l'esistenza di questi imperi non abbia impedito l'espan sione dell'Europa (senza per questo dimenticare che la Cina, il Giappone e per molto tempo anche l'Impero Ottomano riuscirono a opporre resistenza agli europei e a sottrarsi, almeno in parte, alla loro influenza, e che i turchi avanzaro no fino alle porte di Vienna e dominarono a lungo vaste porzioni dell'Ungheria, dei Balcani e del Mediterraneo) . D a qualsiasi parte s i voglia iniziare, è necessario comun que risalire parecchio indietro nella storia. L'età moderna non è cominciata all'improvviso, e solo gradualmente si è ampliata e consolidata. Il dibattito in proposito è dominato dagli storici dell'economia o da coloro che ad essa dedicano un ' attenzione privilegiata. Tale predominio risale agli inizi (basti ricordare Karl Marx e Max We ber) e non è affatto circoscritto agli aspetti economici e ai loro immediati pre supposti geografici, tecnici e scientifici, ma si estende senz ' altro alla sfera politica, religiosa e così via. Sul piano cronologico, tuttavia, esso non ha mai guardato al di là del medioevo, o più esattamente, al di là della soglia che separa il primo dal secondo millennio postcristiano. Max Weber ha preso in considerazione anche l'era antica, ma solo di sfuggita, per pervenire ad una più accurata definizione del la città medievale, e dunque - a differenza di Marx - da un punto di vista piuttosto comparativo e tipologico che non da quello dell'influenza postuma dell'antichità, oppure si è concentrato su alcuni dettagli, come il «giorno di Antiochia», cui ha attribuito un'importanza decisiva per la storia del cristianesimo e dell'Occidente5 • Ciò significa che la questione delle ragioni del successo, della superiorità, della vittoria dell'Europa si è sganciata, negli ultimi decenni, da una lettura, predominante per mol to tempo, e che era data per scontata, secondo cui l'Occi dente (l'Abendland, se posso utilizzare questo concetto più antico) derivava dall' antichità, dai greci, dai romani e dal cristianesimo (a sua volta radicato in gran parte nel56
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l'ebraismo) . È da notare come quest'interpretazione sia sem plicemente scomparsa. Forse essa era vista come ecces sivamente legata all' altra idea, secondo cui la storia univer sale coincideva in ultima analisi con quella dell'Europa o dell' Occidente. Sebbene quelle origini non vengano neces s ariamente neggte, sembra che ad esse non venga più attri buito alcun ruolo ai fini dello sviluppo della speciale via europea, contrassegnata dalle tappe obbligate dell'espan sione nel mondo e della Rivoluzione scientifica e industria le, con tutti i loro presupposti prossimi e remoti, fenomeni concomitanti ed effetti. La questione che qui si pone è - per anticipare una delle riflessioni successive - se invece non sia stata l'antichità a svolgere un ruolo importante nella formazione dell 'Europa e della sua via speciale; se anzi essa non possa esserne stata addirittura una condicio sine qua non ; e se l'inizio della via europea non debba essere fatto risalire proprio all' antichi tà. La questione verrà esaminata sulla base di un doppio approccio. Da un lato, verrà affrontata in termini retrospet tivi , a partire dall'epoca moderna. Il punto di partenza sono gli anni attorno al 1 5 00, il momento in cui si avvia l'espan sione europea nel mondo e in cui , più o meno contempora neamente, si verifica una serie di profondi cambiamenti all'interno dell'Europa stessa. Il che non toglie che gli euro pei si fossero trovati già in precedenza lungo alcuni dei percorsi per i quali s 'incamminarono allora, né che all'ini zio del Cinquecento la direzione su cui proseguire fosse ancora incerta e il successo finale tutt' altro che scontato . Nel prossimo capitolo farò invece una riflessione su ciò che di duraturo nei suoi effetti fu direttamente e indiretta mente vissuto ed elaborato nel corso dell'era antica. In altri termini, vorrei andare alla ricerca di ciò che è europeo, ipotizzando che l'Europa sia cominciata con l'an tichità, e non con i popoli romano-germanici di cui essa insieme con i popoli slavi, ugrofinnici e altri - si sarebbe composta nell'era medievale e in quella moderna. A tale proposito occorre però puntualizzare subito che né le mie «facoltà conoscitive» (per citare ancora una volta Burckhardt) né, a mio avviso, quelle generali sono sufficien57
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ti a dare un fondamento almeno probabilistico a questa ipotesi. Pertanto si tratta essenzialmente di porsi degli in terrogativi. Una cosa per me è certa: non è in alcun modo possibile eludere la questione dei presupposti del Sonderweg euro peo . Il fatto che essa possa trascendere le nostre attuali possibilità di conoscere e possa restare controversa non toglie di per sé fondamento a questa affermazione. Anche le questioni che mirano in alto possono avere un senso , se la cosa di cui trattano ha importanza adeguata, e riescono a renderei più consapevoli di alcune componenti del proble ma più generale di come si realizzino la storia e quel prodot to della storia che è la civiltà. Tali questioni ci aiutano anzi a chiarire quali siano le sfide davanti a cui dobbiamo porci. Certo, sarebbe necessario conoscere molto meglio, e in modo molto più accurato, le grandi civiltà extraeuropee, i loro punti di forza e le loro possibilità ( che spesso si presen tano in modo assai confuso agli occhi degli europei) , ma anche i loro limiti, e il modo in cui questi ultimi erano costitutivi di tali civiltà, e dunque non potevano, in ultima analisi, essere superati dall'interno di quelle stesse civiltà. Anche della storia europea, del resto, dovremmo conoscere meglio diversi aspetti. Nonostante tutto questo bisogna pur iniziare a esplorare questo terreno in chiave comparativa. Per come stanno le cose, è possibile avvicinarsi alla conoscenza solo costruendo una volta fittizia, ossia inizian do da diverse parti a riflettere sul tema. In ciò è necessario chiarire fin dall'inizio un aspetto : la vecchia costruzione di una storia concentrata sull'Europa e al tempo stesso orien tata verso di essa, iniziata sostanzialmente con i greci e i romani - considerati dei modelli -, proseguita con il medio evo e infine approdata all'era moderna, per puntare a tra guardi sempre più elevati, era espressione della presunzio ne europea (quali che fossero gli elementi che in varie epo che confermavano tale visione) . Questa costruzione, nella sua versione canonica, non solo ha negato i numerosi presupposti orientali della civiltà antica, ma soprattutto ha preso le mosse da un'idea arro gante dell'uomo europeo, personaggio dal quale già con la 58
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Prim a guerra mondiale gli spiriti saggi, seguendo in parte Nietzsche, avevano preso le distanze, come aveva fatto ad esempio Musil quando aveva osservato che «l'uomo» - in tendendo con questo termine l'europeo - «si spinge facil mente sino all ' estremo e torna indietro, senza cambiare natura. L'uomo muta; ma non muta se stesso» . E in genera le, senza distinguere fra ambiti culturali o «razze» : «La natura dell' uomo è capace tanto di cannibalismo quanto di critica della ragion pura. Non dobbiamo pensare che l'uo mo faccia ciò che è. L ' uomo diventa ciò che fa (e perché lo faccia, lo sa Iddio)»6• Di fronte a tali esperienze, che nel frattempo si sono moltiplicate in modo sp aventoso, con l ' antico ideale umanistico non si va molto lontano. Ed è anche per questo che il vecchio modello europeo è stato tacitamente abban donato (sebbene la voce non sia ancora giunta a tutti gli studiosi dell'antichità) . Per giunta, sappiamo anche quanto gli uomini possano essere inadeguati, che abbiano o meno una formazione umanistica, e anche come i non europei giapponesi, cinesi, indiani, africani - siano capaci di ap prendere assai bene quella che noi consideriamo la nostra civiltà, e d'impadronirsene fino a ottenere grandi risultati, addirittura superiori a quelli di molti europei con cui si trovano a competere. Nonostante ciò, resta attuale la questione delle differen ze tra le civiltà. Queste ultime, in tutto ciò che riguarda il modo in cui esse si riproducono e circoscrivono al proprio interno le loro specificità, non sono in grado di modificarsi facilmente quanto alcuni degli individui che ne fanno parte. Ancor meno erano in grado di farlo in precedenza, quando le differenze tra di esse non si erano ancora in parte logora te. In ogni caso, esse avevano bisogno di molto tempo e di numerose condizioni per potersi sviluppare, in un modo specifico a ciascuna di esse . In questo senso è molto proba bile che esistano buone ragioni per cui noi - spogliandoci dell' arroganza e della presunzione umanistica - possiamo interrogarci sulla relazione tra l' antichità e l 'Europa, al di là del ristretto ambito delle considerazioni ispirate alla sola storia economica. L'Europa è, o almeno è stata, ben più che 59
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espansione, capitalismo moderno , razionalizzazione e Rivo luzione industriale. La sua storia pertanto non può essere semplicemente considerata in base ad un filo conduttore costruito su questi e simili parametri. In che modo dunque l'Europa si trovò nella condizione di percorrere, nell'era moderna, una via tanto peculiare? Tenterò di riassumere le tesi correnti, in modo da collegare ad esse le mie domande7 • Una parte della spiegazione viene normalmente individuata in fattori geografici, e in partico lare nella conformazione dello spazio, del suolo e del clima . U n clima complessivamente temperato, con inverni freddi, soprattutto a nord delle Alpi, e tali da ridurre fortemente l'in cidenza di alcune malattie. Sporadiche epidemie, cui le popolazioni finiscono per essere particolarmente vulnera bili. Pressoché assenti le grandi catastrofi climatiche. Il suolo si presta discretamente allo sfruttamento agricolo senza che accorrano interventi tecnici rilevanti, come ad esempio la regolazione di corsi d' acqua. Una volta disboscate, le terre possono essere coltivate da chiunque (sebbene i risul tati siano suscettibili di miglioramento) . Pertanto, qualsiasi persona è in condizione di assicurarsi la sopravvivenza sen za dover dipendere da poteri superiori. In caso di devastazioni belliche, chiunque può ricostruire piuttosto rapidamente nel luogo in cui vive. Ciò dà molto spazio all'iniziativa privata. Complessivamente, la disponibilità d'acqua è ade guata, fatti salvi periodi di particolare siccità. Le risorse minerarie, e soprattutto il prezioso ferro, non mancano; esistono foreste a sufficienza per ricavare la legna necessa ria a riscaldare le case. Questo vasto territorio , soprattutto a nord delle Alpi, è popolato in modo non uniforme. Col passare del tempo, sorge dunque la necessità di un commercio su vasta scala, ad esempio di frumento ; ma anche altri beni, come il sale, sono distribuiti in modo diseguale. La pesca viene presto condotta su larga scala e lo stesso vale per il commercio di pesce, anche su lunghe distanze. Numerose vie d'acqua, sia lungo le coste sia sui fiumi, facilitano gli scambi. N on è necessario destinare tutta la terra alla coltivazio ne di cereali: al contrario, molto terreno si rende disponibi60
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le per il pascolo del bestiame, cosa che da un lato favorisce la concimazione dei terreni, dall' altro rende gli alimenti più ricchi di proteine. In conseguenza di ciò, gli europei diven ta no più alti e robusti (ad esempio degli indiani o dei cinesi) . La presenza di catene montuose e collinari crea un pae saggio che facilita la formazione di entità politiche distinte. Infine, l'Europa orientale e centro-orientale protegge in qualche modo l'Europa occidentale e centro-occidentale dalle tribù nomadi che migrano incessantemente a cavallo, muovendo dalle vaste pianure asiatiche. Si potrebbe continuare a citare argomenti di questo tipo, che nel loro insieme hanno come principale punto debole il fatto di sottovalutare la capacità degli uomini di utilizzare gli spazi più diversi o adattarsi ad essi in modi molto differenti tra loro. L' area dell'Egeo, ad esempio, che a partire dal l OOO avanti Cristo avrebbe propiziato la nasci ta di minuscole polis autonome, diversi secoli prima, in epoca micenea, aveva consentito la formazione di poteri politici relativamente accentrati (e di culture di palazzo) . Analogamente, lo spazio dell'Europa centrale ha reso possi bile nel corso del tempo, senza alcuna difficoltà, il sorgere di numerosi assetti politici differenti: cosa che non avvenne semplicemente per effetto delle condizioni dei traffici, mi gliorate sì, ma molto lentamente. Certo è che la conformazione naturale dello spazio eu ropeo non invitava a regolare il corso dei fiumi. Ma nono stante ciò il modo in cui questo spazio si trasformò in termini politici ed economici avrebbe potuto essere molto diverso. Le condizioni geografiche lasciavano a popoli e a sovrani ampi margini di manovra. Anche il fatto che le tribù mongole e turche ( a differen za, ad esempio , degli ungari) si orientarono principalmente verso la Cina e verso sud - verso l'India, la Persia e l'Asia Minore - dipese probabilmente dalle condizioni storiche e in particolare dalle ricchezze e dalle grandi civiltà che esse incontrarono in quei luoghi, e che in Europa mancavano. Si è ricordato che in principio la densità demografica era scarsa, e che sarebbe poi cresciuta rapidamente per effetto, fra l'altro, della colonizzazione di nuovi territori. 61
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Da questo recupero di popolazione sarebbe derivato un ulteriore slancio. Si è anche calcolato che a ovest di una linea che collega San Pietroburgo a Trieste l'età media al momento delle nozze era più elevata e il numero dei figli minore che non a oriente, cosa che avrebbe evitato una sovrappopolazione. Tuttavia, a prescindere dalla difficoltà di effettuare simili calcoli per epoche lontane nel tempo, resta il fatto che queste stesse affermazioni o misurazioni a loro volta richiedono, più che fornire, una spiegazione. Che cosa pensare del contenuto proteico dell'alimenta zione (più elevato, ammesso che sia possibile dimostrarlo, rispetto ad altri popoli) ? In ogni caso, nel loro insieme gli europ ei non erano superiori alle altre genti sotto ogni aspetto. E chiaro comunque che le specificità dei popoli, di per sé, non spiegano nulla: tutto ciò che ne caviamo, infatti, a parte forse il colore della pelle e altre caratteristiche esterio ri, indica che esse devono a loro volta essere ricondotte a fatti storici, come i fenomeni che si vuol ricondurre ad esse. Forse le indagini genetiche sugli islandesi o sugli estoni ci daranno diversa indicazione, ma finché ciò non sarà acca duto sarà bene restare molto cauti a tale riguardo. Su tutta una serie di altri fattori, spesso citati in relazio ne al nostro tema, è lecito nutrire forti dubbi, dal momento che il loro sviluppo e la loro presenza in India, in Cina, nell'Islam e altrove erano pari, se non superiori, all'Europa, senza che in tali paesi si innescasse una dinamica analoga a quella che contraddistingue la via europea. Fare riferimen to all'aratro germanico o alla rotazione triennale non ha senso se si hanno presenti i sofisticati metodi con cui in Cina veniva condotta l' agricoltura. O forse ci sono differen ze di rilievo nello specifico? Con tutto il rispetto per la laboriosità e per l'abilità degli artigiani medievali, per l'intensità dei flussi commer ciali, per l' audacia dei mercanti e per l'ammontare delle ricchezze da loro acquisite, appena si guarda all'India, alla Cina e al mondo musulmano viene meno l'ipotesi che quei fenomeni fossero specificamente europei. Certamente ci s'imbatte in determinate esigenze e metodi, di volta in volta differenti in ciascuna civiltà. Ma ciò consente forse di vede62
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re in ciò particolari forze propulsive sulla via che condusse al capitalismo moderno e al ruolo determinante che l'Euro pa svolse per molto tempo nel mondo? Tutto ciò che poteva essere spiegato al riguardo lo si deve a Max WeberB. Lo stesso vale, almeno per un lungo periodo di tempo, anche per quanto riguarda quella che è stata chiamata l' «invenzione dell'invenzione». Neanche questa fu proba bilmente, nel medioevo, una specialità europea. David Landes cita, a tale riguardo, l'invenzione della ruota idraulica, degli occhiali, dell'orologio meccanico e della stampa a caratteri mobili9• Ma se a ciò si contrappongono i meravigliosi proce dimenti sviluppati dai cinesi per la lavorazione del ferro , la bussola magnetica, la carta, la stampa a caratteri mobili che esisteva già nell'XI secolo, gli orologi astronomici, che an ch 'essi sapevano costruire, o il meraviglioso sistema di ca nali artificiali: si ritiene ancora che l'Europa medievale fos se nettamente avanti rispetto agli altri? E che dire della polvere da sparo in grani, già inventata dai cinesi, ben più efficiente nell'impiego militare? Occhiali e orologio con sentirono forse un utilizzo più efficiente della forza lavoro, importante data la scarsità demografica: ma in che modo ciò si sarebbe tradotto in una superiorità europea? Abbia mo inoltre testimonianze del fatto che gli imperatori cinesi cercassero di stimolare le invenzioni promettendo ricom pense10. E se si afferma che i pescatori nell'Atlantico utilizzava no già molto prima di Colombo imbarcazioni con prestazio ni nettamente superiori a quelle tipiche del Mediterraneo, ciò è esatto. Ma la caravella di Colombo poteva reggere il confronto anche con le navi che i cinesi avevano costruito poco tempo prima? Le navi cinesi più grandi avevano pro babilmente una stazza di 1 .5 00 tonnellate, mentre l'ammi raglia di Vasco da Gama ne stazzava 3 00. Quelle navi erano nettamente superiori per numero di cannoni, equipaggio e capacità di carico ed erano in grado di percorrere grandi distanze, raggiungendo ad esempio il Madagascar. Intorno al l 420 la flotta cinese comprendeva 3 . 800 navi, di cui 1 . 350 da guerra, e ben 4 00 di queste erano vere e proprie «fortez ze galleggianti». 63
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La famosa spedizione cinese comandata dall' ammira glio Cheng Ho che salpò verso l'Africa orientale nel 1405 comprendeva 3 17 navi con 2 8 . 000 uomini. Per costruire tale flotta erano state distrutte intere foreste, erano stati costruiti villaggi di carpentieri, fabbri, velai, vetturini, funai; nei cantieri c'erano persino persone cui era stato affidato il compito di misurare il tempo. La cantieristica era estrema mente evoluta. Colombo, salpando per le Indie occidentali, aveva invece tre caravelle; la sua impresa era senza dubbio molto più azzardata e avventurosa, perché puntava molto più decisamente verso il mare aperto1 1 • Forse è proprio nella disponibilità e capacità di compiere un'impresa simile che si esprime un tratto specificamente europeo: afferma zione, peraltro, che si potrebbe sostenere solo dopo aver verificato che altrove le medesime qualità erano assenti. Maggiore importanza ebbe forse il fatto che l'impresa di Colombo, come le altre che la seguirono, trovasse sufficien te appoggio presso monarchie e città. Con ciò non era comunque ancora sancito che gli europei finissero per vin cere la gara, né che alla fine fossero gli unici a espandersi sui mari, e persino in Siberia. V anno ricordati al riguardo sia le eccellenti capacità di navigazione dei cinesi che i commerci sviluppati nei mari del sud, per esempio fra le isole della Polinesia. Tuttavia si deve constatare che in Cina numerose inven zioni restarono inutilizzate, che il grande orologio astrono mico di Pechino, una volta fermatosi, non fu più riavviato, che la metallurgia venne smantellata piuttosto radicalmen te, che poco dopo la grande spedizione di Cheng Ho la splendida flotta fu lasciata marcire e che persino il commer cio marittimo sulle lunghe distanze fu abbandonato o vieta to: considerati tutti questi fatti, si rafforza il sospetto che in Cina siano mancate non tanto una vasta gamma di capacità, quanto piuttosto la possibilità di dispiegare liberamente tali capacità in modo che ogni novità ne stimolasse sempre di altre, e si deve pensare che sia sempre esistita una grande ricchezza di spinte all'invenzione, alla scoperta e all'inizia tiva imprenditoriale, ma che bloccare tali spinte si sia rive lato possibile, e forse addirittura necessario. 64
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Evidentemente in Cina i rapporti di potere si trovavano in un equilibrio talmente delicato che i cambiamenti signi ficativi (a volte fondati sull'iniziativa privata) suscitavano un senso di paura. La dottrina di Confucio, piena di diffi denza verso i mercanti , verso il commercio e verso i militari, corrispondeva bene a questo atteggiamento . Burckhardt parla dello «Stato civile» (Culturstaat) , e ipotizza che porta re tutto «in un ordine tollerabile» fosse «costato tanto», perché «dall'esterno ci si attende solo perturbamento, e comunque nulla di buono»12• L'ordine come totalità, evi dentemente, era assicurato tanto bene, anche in termini mentali, che gli approcci individuali dovevano restare limi tati. Si ritiene addirittura che nel loro insieme i mercanti e i fabbricanti, pur essendo in grado di rendere disponibili tante novità, in ultima analisi si assoggettassero spontanea mente al sistema (sebbene alcuni di loro lo eludessero con forme di contrabbando e di corruzione) 13• Vi furono, è vero , delle rivolte1\ ma sempre indirizzate contro specifici funzionari e stimolate da situazioni concrete, e mai finaliz zate a (o capaci di) istituzionalizzare diritti e libertà nuovi o addirittura un «affratellamento» tra cittadini in un contesto urbano, come Weber definì il corrispondente processo in Occidente. Per la Cina, e forse anche per altre grandi civiltà, si può p resumere dunque ciò che già Tucidide aveva ritenu to scontato, e cioè che gli uomini tendono costantemente a migliorare la propria situazione se ciò non è loro impedi to da circostanze.esterne15• Tucidide pensava all'insicurez za dei mari, e soprattutto alla pirateria, relativamente ad alcune fasi della p rotostoria greca; ma il significato di un ordine può portare probabilmente allo stesso risultato: un ordine che vuole fortemente la propria conservazione, che non ammette alcuna alternativa a se stesso e la cui struttu ra è definita al punto tale da escludere la possibilità di qualsiasi anche minima violazione dello schema che attri buisce a ciascun gruppo il suo posto , ovvero che impone di reprimere lo scoppio di aperti conflitti tra pretese di vergenti. Ci si chiede solo fino a che punto, al di là delle circostanze esterne, non siano degli ostacoli radicati pro65
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fondamente nella mentalità a frenare il dispiegarsi di una vasta iniziativa privata al di là dell'ambito ad essa assegnato oppure, nel caso di altre civiltà, a escluderla radicalmente, diseducando totalmente ad essa le persone e le loro attitudi ' ni. Fondate affermazioni al riguardo s aranno possibili solo sulla base di ampie ricerche su altre culture. Se si conside rano ad esempio le fiorenti attività dei mercanti musulmani, ampiamente sviluppate per terra e per mare16, è facile ipo tizzare che nel loro ambiente esistesse molto spazio per il dispiegarsi di attività private. Soprattutto l' ampiezza e l'in tensità con cui nell'alto medioevo l'Islam si aprì alla scienza dell'antichità, arricchendola con la propria attività di ricer ca, portano a chiedersi per quali motivi neanche là, nono stante le grandi biblioteche, le numerose «università» e la grande preparazione degli studiosi, siano stati superati de terminati limiti. Fu data, per un certo tempo, la possibilità di imboccare una strada simile a quella successivamente percorsa dall'Europa cristiana? E se ciò non accadde, dipe se forse solo dal fatto che «le energie vitali dell'Asia siano state stroncate durevolmente e per tutto il futuro a venire dalla duplice dominazione mongola», come scrisse Burck hardt? È «pensabile», prosegue quest'ultimo, «che la morte dell 'Asia abbia reso possibile la vita dell'Europa»17• Forse nei primi regni musulmani i margini per le attività commer ciali e scientifiche erano relativamente ininfluenti, ai fini di un loro successivo sviluppo, in quanto difficilmente poteva no influire sulla struttura di quei regni e mancava nella popolazione (o in parti di essa) un consenso adeguato in favore di cambiamenti significativi. O forse le risorse, in rapporto alle attese e alle necessità, non erano poi abbastan za scarse da costringere a mobilitare con qualsiasi mezzo delle forze sempre nuove ? O ancora, il potenziale innovati vo restava confinato alla scienza, alla tecnica e al commercio? La particolarità dell'Europa - la sua dinamica capace di stimolare lo sviluppo di forze sempre nuove, il reciproco continuo sospingersi in avanti, il cambiamento deliberato, a volte anche le rivoluzioni - dev'essere in ogni caso ricercata altrove e non , come si vede, in capacità umane ampiamente diffuse anche altrove. 66
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Max We ber ha richiamato l'attenzione su diversi fatto ri1 8: sulla peculiarità, ad esempio, della città medievale, e in p rim o luogo sulla sua autonomia. Era lì che si trovava la ce rte zza della legge, grazie al diritto romano, basato su un procedimento razionale di giustizia, sulla partecipazione dei cittadini e su istituzioni funzionali allo scopo. Ciò pre supponeva un determinato concetto di cittadinanza, un concetto occidentale e sviluppatosi soltanto in Occidente. Esso consentiva all'individuo di svilupparsi in relativa liber tà, lo incentivava a dedicarsi ad attività lavorative e com merciali e favorì il costituirsi di un nuovo tipo di imprendi tore attivo e lo sviluppo della specializzazione e della con correnza, con tutte le relative conseguenze. Tutto ciò , nel suo insieme, produsse duraturi cambiamenti. Sarebbero sorti in tal modo alcuni importanti presupposti del capitalismo moderno. Accanto alla città, e in parte come condizione della sua autonomia e delle sue grandi possibilità di sviluppo, viene giustamente citata, come importante e propulsiva specifici tà europea, l'esistenza di numerose entità politiche, una accanto all'altra, differenziate e in rivalità tra loro . Era ciò che garantiva, ad esempio, che la censura venis se applicata qui o là, ma mai ovunque, rendendo così possi bile, a lungo andare, lo sfruttamento di tutto il potenziale della stampa. Inoltre minoranze particolarmente abili e pro pense a innovare (ebrei, ugonotti e così via) , se invise, per seguitate o frenate nel loro sviluppo, avevano la possibilità di riparare altrove senza infrangere le regole; nei luoghi dove si recavano era loro consentito di proseguire le pro prie attività in modo proficuo e stimolante o di iniziarne altre. La concorrenza tra le entità politiche contribuì a sti molare l'attività dei cittadini, a promuovere la scienza e l'industria e a rimuovere, in ultima analisi, gli ostacoli al loro sviluppo rappresentati dall 'elevata tassazione. L'Europa medievale mostrò fin dal principio una note vole varietà al suo interno, non solo in termini di paesaggio ma anche di storia: ad esempio, tra l'Italia, in cui ancora sopravvivevano, pur se attenuate, molte antiche tradizioni, i territori imperiali della Gallia, nei quali la civiltà romana si 67
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era molto più indebolita, e quelli a est del Reno, i paesi recentemente conquistati dell'oriente germanico e delle più remote Boemia , Ungheria, Polonia e Scandinavia. Non van no dimenticati tutti gli importanti stimoli e impulsi venuti (non senza devastazioni e ruberie) dai normanni e (anche grazie alla mediazione di questi ultimi) dagli arabi, con la loro netta superiorità culturale. Da dove originava quella varietà? Dipese forse dal fatto che furono territori di volta in volta nuovi (nel Cinquecento la Spagna, nel Seicento i Paesi Bassi, e subito dopo la Fran cia e l'Inghilterra) a svolgere un ruolo di avanguardia, pro ducendo novità per tutta l 'Europa? Questo ruolo si confi gurò ogni volta in modo differente, ma sempre e solo per un tempo limitato, fino al momento in cui ( così almeno sem brerebbe) le risorse che esso richiedeva non si consumava no - allora altri paesi passavano in prima linea sviluppando una nuova tendenza -, o fino al momento in cui nuove capacità e correnti (formatesi altrove) promettevano o con seguivano maggiori successi. In quest'Europa si ripartiva sempre da capo, in modo davvero peculiare. Ogni nuova invenzione, ogni nuova cor rente teologica o filosofica, ogni nuovo stile (romanico, gotico , barocco e così via) venivano sviluppati in modo relativamente rapido fino a un determinato punto, poi si irrigidivano per breve tempo in forme «tarde», per essere infine sostituiti da altre invenzioni, altre correnti, altri stili. Esistevano in questo senso parallelismi in altre civiltà ( det tagli a parte) ? Si trattò forse di un risultato della concorrenza, lasciata libera di agire nei settori più avanzati? È stata forse una conseguenza del fatto che tante persone, in tanti paesi di versi, vi prendessero parte? Anche questo, infatti, va nota to: che questo mondo, frammentato in tante entità politi che, era caratterizzato al tempo stesso, sul piano culturale, grazie alla comune lingua latina, da relazioni molto strette e da una comunicazione molto intensa tra università e intel lettuali , artisti, mercanti e così via, ovunque sia all'interno dell'Europa che con l'esterno ( con mercanti, artisti e intel lettuali arabi ed ebraici) : relazioni facilitate, a lungo andare, 68
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an che dalle accademie in costante corrispondenza tra loro . Anche il sistema, relativamente autonomo e per molti versi p rivilegiato, dell'intellettualità (nelle università costituite come corporazioni) , insieme a quello dell'arte, nonostante tu tti i possibili ostacoli e le prevaricazioni del potere politi co e religioso, finì sempre per imporsi, facendo registrare importanti successi. Nel complesso, molti indizi lasciano pensare che in ropa, già a partire dal medioevo e dall'inizio dell'era Eu moderna, solo in piccola parte per effetto dell'espansione oltremare, la differenziazione, il dinamismo e la disponibi lità a produrre costanti novità fossero relativamente diffuse, tendessero a cumularsi tra loro e incontrassero resistenze nel complesso abbastanza modeste. Forse qui le forze della rigidità erano meno forti che altrove? Gli ordinamenti erano definiti in modo meno pre ciso e codificato, e ciò consentiva una maggiore apertura alle tante novità che emergevano? Le differenze - e la co municazione - tra le varie parti d'Europa erano semplice mente tanto forti che bastava la pluralità d'impostazioni a sostenere cambiamenti sempre nuovi? O ancora giocavano un ruolo, magari decisivo, le specificità della fede cristiana e della relativa teologia, o le peculiarità della cultura citta dina? Come che stiano le cose al riguardo, quanto abbiamo sin qui detto a grandi linee e con molte zone d 'ombra (tra queste, la costante evoluzione degli stili) per spiegare le particolari capacità di agire dell'Europa, sembrerebbe ri chiedere a sua volta una spiegazione: non già nel senso secondo cui gli storici non possono mai fare a meno di ricercare i precursori (o le cause sempre più remote) di un fenomeno, quanto piuttosto per pervenire a un 'autentica comprensione del problema, possibile solo scendendo in una dimensione più profonda? Si può partire semplicemente dal presupposto secondo cui la pluralità di entità politiche era appunto un dato di fatto medievale e moderno ? Io ritengo di no. I suoi presup posti probabilmente non si trovano nelle particolarità dello spazio, ma in quelle della storia, a partire dalla tarda anti 69
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chità, e furono queste a determinare le condizioni in cui si svolsero le successive vicende. I re germanici e i gruppi tribali, variamente composti, che penetrarono nell'Impero romano costituendo i propri domini all'interno di esso o appena fuori dei suoi confini, sotto la forte influenza dei romani, si trovavano - partendo da un livello culturale alquanto basso - a confrontarsi con un impero in disgregazione che dominava vasti territori. In tal modo la dimensione, ma anche i confini, delle aree poste sotto il loro controllo, e un certo legame che le univa e le trascendeva, erano già grosso modo predefiniti. I grandi sovrani possono fare molto . L'impero di Carlo Magno si estendeva dai Pirenei all'Elba, all'Austria e all'Ita lia. Ma non riuscì a conservarsi. Anche ciò che i grandi imperatori dei secoli successivi misero insieme si rivelò effi mero . La convivenza tra un gran numero di entità era e rimase la regola, per quanto in alcuni ambiti, più ristretti, si riuscisse a consolidare i poteri. Ma questo, nonostante i grandi risultati e la straordina ria capacità di apprendere di cui i germani pare fossero dotati, era anche un punto di debolezza per il futuro: essi infatti non furono in grado di sviluppare rapidamente e stabilmente un potere centrale sovraordinato, ossia di isti tuzionalizzare il proprio dominio su vasta scala e ad ampio raggio , di consolidarlo in apparati efficienti e di radicarlo nella mentalità dei loro sottoposti (soprattutto di ceto più elevato) . Ci si può chiedere se per la relativa debolezza delle entità politiche (e non solo per il loro numero e le loro rivalità) non fosse già scritto in anticipo che i monarchi, per quanto cercassero di rafforzarsi, dovessero fare nel corso dei secoli molte concessioni ai propri sudditi: in primo luogo al ceto aristocratico, e spesso alle città, ma anche e soprattutto alla Chiesa, dal cui sostegno per molti motivi dipendevano, e che non aveva certo nei loro confronti un atteggiamento sottomesso , ma anzi rappresentava una forza contrapposta e più o meno apertamente ostile. I loro suddi ti dunque mantennero o acquisirono numerose libertà, non solo come privilegi individuali, ma spesso anche in associa70
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zione ad altri che si trovavano in analoga situazione e con cui potevano fare causa comune per resistere al sovrano. E questa situazione, alla lunga, finì per sottostare ad una dina mica propria. Si potrebbe sostenere (se non addirittura dimostrare) che in quest'Europa erano costantemente presenti, ora qui ora là, un malcontento e un'irrequietezza relativamente elevati. È forse corretto affermare che le risorse non erano neanche lontanamente sufficienti a soddisfare le rivendicazioni e che queste ultime, all'interno di un assetto più ampio, avrebbero potuto essere imbrigliate (e arginate) solo parzialmente, mai nella loro totalità. E che - a cominciare dagli imperatori tedeschi, le cui strategie si concentravano sulla corona impe riale e su diversi obiettivi correlati ad essa che alla lunga non erano sostenibili - erano costantemente all'opera, da una parte o dall'altra, forze che in modo più o meno consapevole non puntavano solo ad apportare dei piccoli aggiustamenti all'ordine costituito, ma direttamente o indirettamente met tevano in movimento e modificavano l'intero sistema (con ulteriori effetti a catena). Se tutto questo è vero, non si trat tava di un gioco a somma zero, e l'ascesa di un attore provo cava molto più che il declino di un altro soggetto. E non fu forse per questo che, oltre ad aprirsi spazi di libertà utilizzabili per un tempo limitato , vennero emergen do nel Vecchio Continente sviluppi economici significativi, interessi incompatibili tra loro e aspri conflitti che avevano come conseguenza cambiamenti di più ampia portata. Per i principi, la Chiesa e i Comuni diveniva possibile ottenere garanzie istituzionali, per quanto esposte al rischio di con traccolpi e revoche. Le rivolte potevano condurre alla crea zione di nuovi assetti. Divenne possibile, prima in piccolo poi su scala più ampia, concepire nuove alternative all' as setto esistente. Negli ordini e nei primi parlamenti si formò ciò che in seguito avrebbe reso possibili le costituzioni e sarebbe poi evoluto in democrazie e repubbliche. Quel potere autonomo che già risiedeva presso la nobiltà, presso i Comuni e in qualche caso presso il ceto dei contadini finì per estendersi (per quanto preceduto quasi sempre da una fase di assolutismo) all'intera cittadinanza di uno Stato. 71
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Tuttavia bisognerebbe interrogarsi, a tale proposito, non soltanto sull'esistenza di particolari situazioni frutto dei condizionamenti dell'era antica, ma anche sul precoce as sorbimento di alcune sue particolari eredità. Da presupposti romani era fortemente influenzata la città medievale, innanzi tutto in Italia, con il suo concetto di cittadino, le sue coniurationes o «affratellamenti» e le costi tuzioni nate sulla scorta dei modelli antichi, con tanto di console e tribuni del popolo, grazie alla conoscenza delle istituzioni che era ricavata dalla storiografia latina. Da Roma proveniva anche l'eredità della Chiesa, il pote re spirituale , l ' altro potere, che spesso diventava un contropotere. La Chiesa era un'eredità dell'antichità da tre diversi punti di vista: l. la dottrina di Cristo, il Vangelo , proveniva dalla Pa lestina ellenistica, dunque dal mondo ebraico nonché, in misura difficile da circoscrivere, dal mondo ellenico , e in ogni caso fu trasmessa in lingua greca; 2. la teologia, soprattutto quella dei padri della Chiesa, era stata influenzata fortemente dal pensiero greco e roma no, anche sulla base delle esigenze dell'apologetica; 3. le istituzioni della Chiesa d'Occidente erano romane nei concetti e persino nei termini, e per quanto riguardava il papa si alimentavano direttamente del mito di Roma. La contrapposizione tra potere temporale e religioso provocò numerose tensioni estremamente feconde, con pro fondi riflessi sulla stessa interiorità degli individui, ma por tò con sé delle libertà, scaturite dall'interazione tra questi due poteri. Per effetto di essa la base su cui vennero fondate le monarchie europee rimase priva di elementi importanti, altrimenti presenti nella maggior parte dei casi. Dalle discrep anze tra gli insegnamenti del Vangelo e le istituzioni ecclesiastiche presero le mosse numerosi movi menti di rinnovamento , che affiorarono fino al livello politico . La tensione tra i precetti di un Dio soprannatura le e i comportamenti tipici del mondo terreno fu molto forte ed estremamente variegata19• Nella tradizione tardo antica degli ordini monastici - ampiamente sviluppata e ricca di rivalità - si era formata una controcultura aliena 72
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alle cose terrene, che si trovò improvvisamente posta di fronte a compiti politici, economici e pedagogici, dando vita a soluzioni spesso interessanti . Gli asceti si videro collocati nel bel mezzo della vita: un 'ulteriore tensione, la cui influenza giunse fino alla città medievale; agli ordini d obbiamo anche l' organizzazione del tempo . Dall' altra parte l a Chiesa, i cui membri p e r secoli, nel Sacro romano impero , furono indispensabili all' ammini strazione, alla politica, e a volte persino al comando mili tare, trasmise al medioevo molti elementi provenienti dal l 'era antica: scrittura, lingua, tecniche, testi (soprattutto nei conventi) , e il diritto romano , che il medioevo conob be prima sotto forma di diritto canonico, ma che già nell 'XI secolo a Bologna, e ben presto anche altrove, venne stu diato e ulteriormente sviluppato indipendentemente dalla Chiesa. Ma il diritto romano, che si era sviluppato nel corso dei secoli in condizioni molto specifiche, sarebbe divenuto ben presto essenziale per lo Stato moderno e per la sua economia. Sarebbe mai stato possibile creare rapi damente qualcosa di equivalente, se esso non fosse stato già disponibile?20 Rispondere positivamente equivarrebbe ad affermare che una società è sempre in grado di creare ciò di cui ha bisogno. Se si pensa questo, ci si dovrebbe chiedere come avrebbe potuto quella società riuscirei sen za, ad esempio, i tanti giuristi formatisi nelle università, la cui influenza divenne ben p resto molto importante. Quel l' affermazione è terribilmente azzardata, comunque, an che in termini generali. Lo Stato moderno è l 'unico costituito in modo tale da poter sopravvivere anche senza monarchia. Questo fatto si è rivelato indispensabile nella storia seguita alla Rivoluzio ne francese. Ma in tal modo esso ha creato in anticipo alcuni presupposti necessari alla scienza, al commercio e alla pro duzione e alla diffusione ampia (pe r quanto incompleta) del diritto romano nella società. Lo Stato moderno è concepito in modo razionale: la sua nascita sarebbe stata possibile senza il diritto romano o la filosofia e il pensiero politico dei greci? Il fatto che questi presupposti siano confluiti nelle sue stesse fondamenta non ha condizionato in modo sostan73
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ziale quanto meno la sua capacità di proiettarsi nel futuro al di là di tanti profondi cambiamenti? Per quanto riguarda le ulteriori fecondazioni, tanto ric che di conseguenze, dell'Europa da parte dell'antichità, bisogna pensare non solo alle «rinascenze» (dalla rinascita carolingia al Rinascimento italiano iniziato nel XV secolo) , ma anche ai numerosi elementi assunti dagli arabi, ma so prattutto a tutto ciò che attraverso la lingua e la teologia, come pure attraverso la Chiesa, fu mutuato , anche a livello sotterraneo, dall'antichità. La «comunità scientifica» è un prodotto del medioevo e dell'età moderna, e lo stesso vale per le Università: quella combinazione - in ultima analisi meravigliosa - di concor renza e cooperazione cui fu improntato lo stile delle relazio ni fra gli ateneF 1 • La libertà di ricerca resisteva o rinasceva continuamente nei luoghi più svariati, anche grazie al fatto che si poteva contare sulla possibilità di comunicare al pub blico i risultati della ricerca. Sebbene il committente prefe risse spesso mantenerli segreti, ciò si rivelava nella maggior parte dei casi impossibile. La «comunità» era in grado di rivendicare un 'ampia autonomia. Il prestigio e la fama deri vavano dai risultati ottenuti e dovevano essere acquisiti e mantenuti davanti ad un foro internazionale: tutte cose che avevano effetti positivi sulla scienza. Ma ancora: come avreb bero potuto formarsi, senza i modelli antichi, tale sapienza e il rispetto di cui essa godeva ? Le scienze naturali sono qualcosa di moderno; i loro precursori, i filosofi della natura cinquecenteschi, i nomina listi, hanno le proprie radici nel medioevo. Eppure sarebbe ro forse state possibili la filosofia medievale, la disputa tra nominalisti e realisti e quella tra domenicani e benedettini, se l'eredità antica non avesse potuto dare nuovi frutti in epoca medievale, o al tempo del Rinascimento e della Rifor ma, o ancora nel contesto delle scoperte in cui si formò il moderno diritto delle genti, partito dalla Spagna? Lo stesso vale per l 'economia - che con tanta forza si stava dispiegando in Europa -, per il nuovo apprezzamento del lavoro22 , del commercio e dell' artigianato, nonché per la dinamica dei tanto numerosi cambiamenti. Anche in questo 74
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caso non si trattava di frutti diretti ed esclusivi dell'era an tica, anzi a volte essi erano in contraddizione con ciò che contava per la cultura antica nella sua parte più importante. Epp ure è possibile che alcuni presupposti essenziali di que sti sviluppi derivassero dall'antichità , attraverso la media zione della città, del diritto , delle libertà, del monachesimo. Dopo tutto , ogni ricezione può dare a ciò che viene recepito significati e possibilità di sviluppo del tutto nuovi. In sintesi: proprio alla luce delle attuali pretese scien tifiche, non è forse il caso di prendere in considerazione ancor oggi - almeno in termini d'ipotesi -, l' antichità come condìcio sìne qua non dell'Europa medievale, moderna, contemporanea e postmoderna? In altri termini, è possibi le che l'Impero romano - attraverso il diritto romano ma anche attraverso i greci , che con la loro radicale messa in discussione dell 'ordine politico, degli dèi e del mondo , con il loro risalire alle questioni fondamentali delle società e del mondo, diedero un contributo enorme alla raziona lizzazione -, abbia determinato le situazioni di partenza, con successive vaste ripercussioni sul medioevo e sull ' era moderna? A queste considerazioni vorrei ricollegare ancora due domande. l . Non è forse riduttivo che, nella ricerca delle precon dizioni della peculiarità europea, si continui a ignorare un fatto singolare, e cioè che sia nell' antichità sia nella sua prosecuzione, diretta e soprattutto indiretta, nell'Europa medievale e moderna, gli uomini non erano in condizioni di dipendenza, anche mentale, tale da non poter immaginare qualcosa di diverso dall'ordine dato? Che essi, in altri ter mini, sia pure nell' ambito di minoranze, ma comunque in modo tipico, mantenessero un' autonomia (e una proprie tà ! ) personale, e una certa distanza, potenzialmente conta giosa, dall'ordine costituito, e con esse la potenzialità della libertà? 2. L'Europa, nel senso dell'«europeità», di ciò che in essa c'era e c'è di europeo, non è forse iniziata ad Atene? Con una libertà assolutamente nuova, con l' apertura di vasti spazi di azione, prima di tutto nella sfera politica - e non in 75
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quella economica -, con la scoperta del cittadino, con quel la potenzialità che consentiva di andare ben al di là della tradizione: tutte cose che avrebbero condotto, in Occiden te, a conseguenze molto diverse? Gli interrogativi sono molti, ma in fondo anche questa non è altro che la buona vecchia tradizione socratica, euro pea o, meglio, una sua peculiarità: una peculiarità secondo la quale la tradizione è solo ciò che ricorre, che riparte sempre da capo, puntando sempre più in là della meta realmente raggiungibile. A chi obiettasse che queste riflessioni sono eurocentriche (o addirittura costituiscono una ricaduta in vecchi classicismi) vorrei chiedere a mia volta se non sia ben più eurocentrica la visione che esclude l' antichità, nella misura in cui essa considera scontati molti dei risultati che nelle epoche suc cessive sono stati raggiunti e condizionati dall'antichità e che, sullo sfondo delle culture non europee, sono tutt'altro che ovvi. Note 1 Burckhardt, Sullo studio della storia, ci t., p . 3. Le successive citazio ni si trovano rispettivamente alle pp. 5, 4 , 1 0 .
2 A tale p roposito Jiirgen Liitt, Eurozentrismus? Der europiiische Sonderweg und der Orient, in H. Breuninger e R.P. S ieferle (a cura di) , Markt un d Macht in der Geschichte, Stuttgart, 1 995 , pp. 97 ss. 3 Su questo si dovrebbero ricordare le incertezze suscitate dalla pole mica di Edward Said contro le delimitazioni dell 'Europa rispetto al l 'Oriente ( Orientalism, New York, 1 97 8 ; trad. it. Orientalismo, Milano, 1999 ) . A prescindere dalle numerose interpretazioni sbagliate contenute nel volume (alcune delle quali rilevate da Liitt ) , diverse delimitazioni si ripropongono necessariamente in modo costante. Al riguardo ora anche Ian Buruma e Avishai Margalit, Occidentalism, in «The New York Review of Books», 17 gennaio 2002 . 4 Eric Lionel ]ones, The Europea n Miracle. Environments, Economies, and Geopolitics in the History o/ Europe and Asia, Cambridge, 1 98 1 ; trad. it. Il miracolo europeo. A mbiente, economia e geopolitica nella storia europea e asiatica, Bologna, 1 988. 5
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In Max Weber, Wirtscha/t und Gesellscha/t. Die Wirtscha/t und die
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gesellscha/tlichen Ordnungen und Miichte. Nachlass. V: Die Stadt, a cura di Wilfried Nippel, Tiibingen , 1 999; trad. it. Economia e società, a cura di Pietro Rossi, Milano , 1 96 1 , vol . II, p. 570. 6
Musi!, L 'Europa abbandonata a se stessa, cit . , pp. 67-68.
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Oltre che a Jones si dovrebbe qui rinviare soprattutto a Weber,
Sociologia della religione, cit . ; David Landes, The Wealth and Poverty o/ Natio ns. Why Some Are So Rich And Some So Poor, New York, 1 999; tr ad. it. La ricchezza e la povertà delle nazioni. Perché alcune sono così ricche e altre così povere, Milano , 2000 (che contiene un' ampia panora mica sulla letteratura al riguardo) . Inoltre: William Hardy McNeill, The Pursuit o/ Power. Technology, Armed Force an d Society Sin ce a.D. 1 000, Chicago, 1 982 ; trad. it. Caccia al potere: tecnologia, armz� realtà sociale dall'anno Mille, Milano , 1 982 . 8 Su ciò cfr. Giinter Abramowski, Das Geschichtsbild Max Webers, Stuttgart, 1 966. 9 10
Landes, La ricchezza e la povertà, cit . , pp. 5 7 ss. McNeill, Caccia al potere, cit . , p. 3 3 .
Landes , La ricchezza e la povertà, cit . , pp. 1 05 ss. e McNeill, Caccia al potere, cit . , pp. 3 6 ss. 11
1 2 Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , pp. 99- 1 00. Forse si può ipotizzare che nelle menti (e nelle regole di comportamento) sia dei ceti dirigenti che della società cinesi la necessità di tutelare l'unità tra cultura e mondo fosse radicata più fortemente, o comunque in modo diverso, rispetto all'Europa moderna, dove quest'unità sarebbe stata quanto meno immaginata in modo diverso, ;:ome cornice di riferimento, creando così la possibilità di maggiori spazi e di più numerosi e forti contrasti , oltre a una disponibilità ad accettare e risolvere pretese in conflitto tra loro. Sarebbe interessante definire la differenza dell 'antichità greco- romana rispetto all 'Europa delle epoche successive e alle altre grandi civiltà del mondo, antiche e non. Cfr. ancora il volume di Burckhardt appena citato, pp. 1 02 e 99- 1 00. 13
McNeill, Caccia al potere, cit . , pp. 41 s .
1 4 Weber, Sociologia della religione, cit . , pp. 4 9 3 ss. 15
Tucidide, Storie, libro I , l ss.
16 Su ciò Eugen Wirth , Fernhandel und Exportgewerbe im islamischen Orient, in Breuninger e Sieferle (a cura di) , Markt und Macht, cit. , pp. 122 ss. 1 7 Burckhardt, Sullo studio della storia, cit. , pp. 24 -25 . In questo passo si avvertono per intero l'orrore e la disperazione dello storico. «Vi sono (almeno apparentemente) potenze assolutamente distruttrici : sotto i ferri dei loro cavalli non cresce più l'erba [ . ] . Tamerlano, in partico lare, infierì in modo atroce con le sue piramidi di teschi e con le sue mura fatte di pietra , di calce e di uomini vivi. Di fronte all 'immagine di un . .
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simile distruttore, che porta in trionfo l'egoismo proprio e quello del suo popolo fra le rovine fumanti del mondo, è bene rendersi conto del modo attraverso il quale, ogni tanto, il male si può presentare. In questi paesi non si potrà mai più credere che possano esistere il diritto e la bontà umana». Tuttavia Burckhardt finisce per fare intervenire «quel tanto di consolazione che ci permette il nostro intuito»: «Eppure, egli ha, forse, salvato l'Europa dagli Osmanli. Pensiamo un po' se egli non fosse esisti to e se Bayazid e gli hussiti avessero assalito contemporaneamente l'Italia e la Germania». Che epoca, quella che andava «consolata» per gli orrori storici avvenuti oltre quattro secoli prim a ! Che coscienza storica ! Chissà se tale coscienza era comunque destinata a ridursi notevolmente: si sarebbe potuta «riprendere» dopo Hitler, Stalin, Poi Pot e tanti altri ? 18 Una sintesi in Abramowski, Das Geschichtsbild Max Webers, cit . , p. 69. 19
Weber, Sociologia della religione, cit . , vol. I, pp. 525 ss.
Cfr. ad esempio l' affermazione di Karl Marx in Zur Kritik der politischen Okonomie ( 1 85 9 ) , Berlin, 1 947; trad. it. Per la critica dell'eco nomia politica, Roma , 1 95 7 , p. 1 1 : «Ecco perché l'umanità non si propo 2°
ne se non quei problemi che può risolvere». 2 1 Che cosa questo possa significare ha cercato di mostrarlo Gottfried Schramm a proposito di Copernico, in Europas vorindustrielle Modernisierung, in Deutschland und Europa in der Neuzeit. Festschri/t Karl Othmar von Aretin, Stuttgart, 1 998, pp. 2 1 4 s .
2 2 Christian Meier, Griechische Arbeitsauffassungen in archaischer und klassischer Zeit, Berlin, 2002 .
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III
Atene e Roma: l'inizio della via speciale dell 'Europa
Come ebbe inizio il Sonderweg europeo ? In questo capi tolo ci poniamo la domanda in riferimento ai greci e ai romani: quale fu il ruolo che essi svolsero in tal senso ? Fino a che punto furono loro a renderla possibile? Esistono o no dei motivi per pensare che quella via, che l'Europa stessa sia iniziata nell'antichità? Che allora si sia formato, sia pure in nuce, qualcosa che possa definirsi specificamente «euro peo» ? Che quindi quell'epoca rappresenti per l'Europa non la preistoria, ma l'inizio della storia? Ciò equivarrebbe ad affermare che l'Europa è soprattutto la storia di una civiltà, più che la storia dei «popoli» che nel medioevo hanno cominciato a costituirla. L'ipotesi secondo cui tale via speciale sarebbe iniziata già nell' antichità, tuttavia, è abbastanza scomoda, dati i dubbi connaturati che gli europei hanno su se stessi e il loro variegato disagio nei confronti dell'era antica, della «società schiavistica», ipermaschilista e così via. Oltre che scomoda, questa ipotesi è anche difficile da sostenere. Nella tarda antichità, infatti, si dissolse non solo l'Impero romano d'Occidente, ma anche il terreno sociale su cui la civiltà antica aveva potuto riprodursi per secoli, per quanto in modo non uniforme. E l'Impero romano d'Oriente, di Bisanzio, in cui tanta parte di quella civiltà sopravvisse addirittura per un millennio, si trovò, per un periodo tanto lungo, in una situazione «di tardo-antichità cronica»; a prescindere dal fatto che esso ha sì influenzato la storia europea, e ha anche sofferto per causa sua, ma comunque non può esserne considerato parte, se non in quanto agenzia di conservazione della tradizione antica, soprattutto greca, fino al rifiorire di questa con il Rinasci mento, stavolta soprattutto in Italia. 79
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Per ciò che attiene la questione dell'influenza dell'era antica sulle epoche successive, occorre distinguere. Da un lato infatti essa contribuì a creare condizioni favorevoli per alcuni sviluppi, come la nascita, nella tarda antichità, dei regni germanici, con tutte le relative conseguenze. Dall'al tro essa produsse un'eredità, un patrimonio da cui è stato ed è ancora possibile apprendere in modo diretto. Le modalità con cui una simile eredità viene tramandata dipendono certamente dai rispettivi recettori, dalla loro situazione, dalle loro esigenze e dalla loro comprensione1 • Tuttavia nel caso in questione, considerato tutto, potrebbe trattarsi di molto di più che dell'adozione di questo o quel l'elemento, ma di un rapporto molto più ampio, in termini di prosecuzione della via speciale imboccata nell'era antica: sia attraverso la più o meno consapevole trasmissione delle tradizioni, sia attraverso sempre nuovi recuperi, non limita ti certo ai grandi rinascimenti. Non è facile accertare, in questa sede, come nasca una civiltà e quali siano i presupposti necessari per la sua nasci ta. In termini concreti, ci si può chiedere fino a che punto l'Europa in divenire potesse sviluppare, sulla base degli elementi trasmessi dall'antichità, non solo questo o quel l'elemento, ma anche gli elementi costitutivi della sua pecu liarità ( che andrebbe, come prima cosa, definita) . Fino a che punto questo sviluppo fosse predeterminato, in particolare nelle condizioni di partenza ereditate dall'anti chità, è stato analizzato nel capitolo precedente. In questa sede ci si vuole interrogare sulle peculiarità della formazione della civiltà dei greci e dei romani. È possibile in effetti indicare, almeno in termini preventivi, un gran numero di elementi caratteristici esclusivamente di tale civiltà. A partire da ciò si potrebbero almeno ipotizzare le conseguenze in termini di sue ripercussioni sulle epoche successive. La mia ipotesi è che gli elementi distintivi dell'era antica siano stati condicio sine qua non per l'esistenza dell'Europa. Quest'ulti ma non avrebbe potuto realizzarsi in altro modo. Tuttavia questa è destinata a restare una semplice supposizione, sem plicemente perché per poter fare affermazioni al riguardo sarebbe necessario conoscere il potenziale di altre culture, 80
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vale a dire ciò che esse non hanno prodotto ma avrebbero p otuto produrre per percorrere una traiettoria analoga a quella europea. Aggiungo che la peculiarità che può essere, a mio avviso, enucleata per quanto riguarda l'era antica, sem brerebbe fare di essa la vera e propria protostoria d'Europa. La civiltà dei greci e quella dei romani erano molto diverse tra loro. Dal punto di vista della formazione della civiltà i greci sono particolarmente interessanti. La parte svolta dai romani consisté - a parte il diritto, l' organizzazio ne politica e il vasto impero attraverso il quale essi si iscris sero profondamente e durevolmente nella memoria del mondo mediterraneo e anche fuori dei suoi confini; trasfor mando in mito il nome stesso di Roma - soprattutto nella ricezione, nella conservazione, nel completamento , nell' am pliamento e nel prolungamento di tale civiltà ( cosa che non va sottovalutata) , fino al momento in cui il cristianesimo iniziò a preparare un mondo nuovo sul terreno di queste culture, negandone molti elementi ma accogliendone molti altri. Innanzi tutto, dunque, i greci. Il processo di formazione della loro civiltà2 si distingue per alcuni punti essenziali da tutte le altre civiltà pre- ed extraeuropee a noi note: dal l'Egitto e dalla Mesopotamia all 'India, alla Cina e all' Ame rica centrale e, in forme meno sviluppate, all'Africa nera. Nel caso dei greci tale processo presenta già una forte pecu liarità, in quanto si verificò senza l' appoggio determinante di una monarchia, ma con quello delle forze della società, prima fra tutte l'aristocrazia. A ciò è legato il fatto che nella sua fase iniziale il potere politico non svolse alcun ruolo di rilievo. Esistevano relativamente poche possibilità di piani ficazione e formazione consapevole, anche perché questa civiltà era sorta, durante i primi secoli (in cui erano stati posati dei pilastri importanti di essa ) , come cultura comune a un grande numero di comunità politicamente indipen denti. Totalmente assente era stata l'idea che sviluppo della civiltà e sviluppo della politica potessero finire gradual mente per sovrapporsi, come accadde invece altrove. Ciò era forse dipeso anche dal fatto che l'elemento principale che separava tra loro queste comunità era il mare. 81
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Tuttavia alla fase iniziale, collocatasi nella prima metà dell'ultimo millennio prima di Cristo, e soprattutto nell'VIII ; VII e VI secolo, ne seguì una seconda, decisiva, nella quale i greci furono strappati a molte delle loro tradizioni e lo sviluppo della loro cultura si concentrò in una città, Atene. Qui questa civiltà conobbe per molti aspetti un nuovo ini zio, ed essa avrebbe finito per avere grandi conseguenze per la storia universale. La cultura greca assunse una forte connotazione politica - in termini di dinamica, di esperien za, di identità sociale, e non da ultimo per la sua temerarietà e per la propensione a mettere in questione qualsiasi cosa ma restò imperniata su un principio democratico anziché monarchico: cosa molto più significativa di quanto normal mente si pensi, soprattutto nel nostro tempo stanco di de mocrazia. Anche nell'antica Israele (e probabilmente nelle vicine città fenicie) la formazione della civiltà era avvenuta in assenza di un ruolo forte e determinante da parte della monarchia. D'altra parte, della peculiarità dei fenici non sappiamo praticamente nulla, e il loro ruolo nella storia universale si è limitato, per quanto ne sappiamo, all'esplo razione del Mediterraneo , al precoce coinvolgimento dei greci in un molteplice interscambio con le culture orientali e, forse, alla trasmissione di modelli per la vita della polis (e per la fondazione dei centri urbani) ; infine, fu dai fenici che i greci assunsero la scrittura, adattandola alle proprie esi genze3 . Israele, invece, riuscì a difendersi sorprendentemente bene dalle forti influenze dei paesi vicini, ma sul piano politico si indebolì rapidamente4• Dovette ripiegare su se stessa, con la magnificenza del suo Dio e con tutta la sapien za con cui faceva riferimento ad esso; esercitò un'influenza rilevante fuori del proprio ambito solo attraverso l' elemen to greco (in particolare attraverso gli studiosi ebraici di Alessandria, che scrivevano in greco) e attraverso il cristia nesimo. Che cosa potesse significare la precoce impronta di una monarchia sempre più potente lo si può vedere nel fatto che nelle grandi civiltà extraeuropee, per quanto mi consta, l'unica alternativa concepibile alla monarchia sia stata (se 82
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non molto più tardi e sotto l'influenza europea) sempre e soltanto il caos. Anche quando si disgregava l'unità prece dentemente raggiunta di un impero, erano principi (o go vernatori) a governare le singole parti o, in molti casi, a riunificarle sotto il proprio scettro. Per quanto le situazioni differissero caso per caso, ognuna di esse, in ultima analisi, era condizionata dal fatto che nel corso della formazione della civiltà non solo l' apparato di dominio politico, ma anche la religione (con relativa orga nizzazione) , i miti, la letteratura, l' architettura, l 'arte, la scienza e persino la mentalità si sviluppavano, in un certo senso, ad opera della monarchia o facendo riferimento ad essa, in modo tale da rendere pressoché impossibile qualsiasi deviazione dai binari di pensiero imposti . Poteva anche esserci un' autonomia amministrativa, ma solo nelle comu nità di villaggio o nelle tribù , come in Cina. Anche quando , come nel caso del Ma' at egiziano, esisteva un ideale di ordine in base al quale valutare e criticare l'operato di un determinato re, ciò mirava soltanto a far sì che egli, o un suo successore, tornasse a rispettare la regola. Anche i moti d 'indignazione erano sempre rivolti contro persone o prov vedimenti concreti, non contro l'ordinamento vigente. Quan do un faraone egiziano, Echnaton, tentò di sottrarsi a nu merosi vincoli riuscì, in quanto monarq, nel suo intento , ma i suoi provvedimenti non sopravvissero alla sua morte, e finì per esserne cancellato persino il ricordo. La tradizione era stata più forte di lui. Jacob Burckhardt ha ipotizzato che nel caso degli assiri, dei babilonesi e dei persiani l' «individualità», ciò che era «ora qui ora lì , in ogni angolo», avesse tentato di «emergere ovunque e che per restrizioni civili e religiose, per istituzio ni di casta e così via, sia dovuta soggiacere senza poter lasciar traccia di sé»5 • È possibile. In Cina la sua presenza è senz ' altro documentata e ha lasciato tracce rilevanti, ma nelle fonti (in quelle giunte fino a noi) e non nella realtà. Esso si mantenne sempre entro limiti assai stretti, senza nemmeno lontanamente ipotizzare di poter porre in que stione l'ordine costituito. Le occasionali iniziative nate, ad esempio in Cina, ad un livello più generale, furono sempre 83
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rapidamente bloccate. Il resto rimase confinato alla sfera privata, senza mai mettere in discussione l'equilibrio com plessivo . Come avrebbero potuto, del resto, costituirsi alternati ve agli assetti tradizionali, date le dimensioni gigantesche di quegli imperi, data la struttura gerarchica di quelle società, delle caste indiane, dei clan cinesi e così via? Già la sola mancanza di comunicazione bastava a impedire l'emergere di una causa comune universale di una società contro le istanze dominanti, e a maggior ragione la nascita di una «solidarietà orizzontale»6, di quel legame tra cittadini, tra eguali, che avrebbe forse consentito a strati più vasti di promuovere un interesse comune, prevalentemente astrat to, orientato sulla totalità (una totalità alternativa) e con trapposto alla tradizione, prescindendo dalle concrete posi zioni degli individui e dei gruppi e dai loro concreti rappor ti di dipendenza (all'interno dei quali era per loro più facile soddisfare i propri interessi particolari ) . M a come fu possibile che nel caso dei greci l a formazio ne della civiltà procedesse in modo tanto radicalmente di verso? E che questo avvenisse proprio con coloro che dopo il crollo della civiltà micenea si erano trovati a cominciare da zero, da un livello alquanto primitivo? Essi infatti aveva no rapidamente dimenticato ciò che Micene era stata, una civiltà di palazzo sulla scia della civiltà cretese e delle civiltà orientali in genere. Avevano persino abbandonato l'uso della scrittura, di cui non avevano più bisogno. I ricordi della grande preistoria si erano conservati in una forma asso lutizzata: tramandati e riscritti in una ricca tradizione di poesia epica, in modo da allietare presenti sempre nuovi con una storia, attuale e antica al tempo stesso, di lotte e conflitti, potere e miseria, abbandoni e tragici destini di grandi eroi . Quando , probabilmente nella seconda metà dell 'VIII secolo, tali ricordi assunsero la forma dell'Iliade, fu compiuto il «passo dall'eroico-sovrumano al problemati co-umano», che contraddistingue l'epos omerico (Karl Rein hardt)7. La composizione e la stesura dell'Iliade facevano già parte di un'epoca in cui i greci dell'Egeo avevano iniziato a 84
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proiettarsi fuori del ristretto ambito del loro mondo tradi zionale: sul piano geografico, ma anche nella conoscenza e interpretazione dei destini umani e del mondo, nell' apertu ra di nuovi orizzonti d'idee e di nuove possibilità d'azione e adattamento. Come si sia giunti a ciò , non è facile comprenderlo in modo più preciso . È chiaro però che fu allora, nell'VIII secolo, che i nuovi problemi che emergevano all'interno del loro mondo spronarono i greci a dedicarsi a nuove attività, mentre i contatti sempre più frequenti con le grandi civiltà orientali davano una spinta potente all'ulteriore sviluppo delle loro possibilità. Probabilmente non è sbagliato affermare che fu l'Oriente a tenere a battesimo la nascita della civiltà greca. Da esso i greci derivarono certamente conoscenze, tecniche, arti, miti e immagini, ma anche specialisti, anche esigenze e pretese. Mai tuttavia essi furono costretti ad assimilarsi, in termini di struttura politica e sociale, ai regni orientali. Questi ulti mi, infatti, erano troppo distanti per poter esercitare un'in fluenza decisiva sull'Egeo o per poter indurre i greci a schierarsi uniti contro di essi. I rapporti tra Occidente e Oriente rimasero limitati al commercio e all' apprendimento (soprattutto da parte greca) . . Anziché i monarchi, furono ampie parti dello strato più importante della società greca - equivalente grosso modo all'aristocrazia - a risultare rafforzate e arricchite dai molte plici stimoli provenienti dall'Oriente e dall' adozione di ele menti orientali. Ciò, a sua volta, era chiaramente legato al fatto che i greci riuscirono, nella stessa epoca, a risolvere il loro principale problema, ossia l'incalzante surplus demo grafico , attraverso le stupefacenti imprese compiute fuori del proprio paese. Essi fondarono molte nuove città nel l'Egeo settentrionale, in Sicilia, nella penisola italica ecc. Ciò offrì loro enormi spazi ad un agire programmatico, fondativo e di ampio respiro e molti motivi per riflettere sulle proprie condizioni di vita. Il Mediterraneo, dalla Francia meridionale fino a Cipro, divenne un mare ellenico. Un elemento, tuttavia, rimase immutato, e nel contesto di cambiamento gettò radici sempre più profonde: la polis, 85
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che per i greci, soprattutto nelle aree costiere e in quelle più orientate all'innovazione, divenne la principale forma poli tica. Essi preferivano infatti vivere nell' ambito di piccole città politicamente indipendenti, circondate da un territo rio prevalentemente agricolo, e non erano disposti a consi derare alternative. Anche in quella fase della storia greca, come nelle successive, scoppiarono numerose guerre; i gre ci si consideravano soprattutto dei soldati, ma raramente conquistarono una città straniera e mai - o quasi - pensaro no di annetterne la popolazione. Era dunque abbastanza difficile che si formassero concentrazioni di potere. I monarchi greci non erano mai stati forti, e quando le attività marinare, commerciali e di colonizzazione iniziaro no a svilupparsi essi non riuscirono ad assumerne la leadership né ad assicurarsene i vantaggi in termini di risorse, di gloria e di mandato a promuovere ulteriori azioni. L' aristocrazia poté così consolidare ulteriormente proprio quegli aspetti cui da sempre attribuiva maggior valore. Era tipico dei greci aspirare alla più ampia autonomia possibile, e voler essere quanto più possibile liberi e indi pendenti nel possesso della proprietà, generalmente agra ria. Amavano sentirsi eclettici e in grado di fronteggiare qualsiasi impegno. Non c'era, in queste società, molto spa zio per la specializzazione. Alla comunità più ampia si cer cava di concedere meno possibile. Che un libero cittadino' considerasse ingiusto pagare le tasse accadeva anche altro ve, ad esempio a Roma. I greci, come i romani , prestavano il servizio militare per la repubblica personalmente e a pro prie spese. Anche i titolari di uffici, che si avvicendavano annualmente, finanziavano di solito direttamente l 'attività propria e dei loro collaboratori. Diversamente da Roma, tuttavia, nelle città greche il potere dei funzionari era perlopiù limitato . La comunità non doveva essere nulla più che la somma delle parti che la costituivano. Gli aristocratici greci preferivano essere grandi nell' am bito di piccole strutture, anziché piccoli e dipendenti in grandi strutture: grandi come in tanti lo si può essere quan do basta un numero relativamente piccolo per formare il tutto. In ciò era implicita una certa eguaglianza. 86
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In queste città la sfera pubblica, nella più concreta delle sue accezioni, rivestiva necessariamente grande importan za. Era in essa che gli uomini s'incontravano, litigavano, facevano politica, esercitavano il diritto o si mettevano d' ac cordo tra di loro. La loro vita era, quanto più possibile, convivenza: nella conversazione, nella politica e nella festa, nello sport e nel symposion. La sfera pubblica era nettamen te separata dalla casa (e dalla vita delle donne) , come la vita libera lo era dal lavoro8, come il mito dal rito. Era una sfera di libertà9• La sfera pubblica era, non sappiamo da quanto tempo, parte integrante della vita di molte città. Essa creava grandi spazi aperti all'azione, al pensiero e all'immaginazione. In essa non si trattava tanto di essere potenti, quanto di distin guersi dagli altri. In questa civiltà, più che in qualsiasi altra, giocavano un ruolo fondamentale il completo sviluppo del l'uomo e la competizione tra gli individui. Ciò valeva sia all'interno delle città che nei confronti del mondo esterno. Infatti, se nelle piccole comunità l'appartenenza era chiara mente delimitata, ciò non impediva di uscire decisamente fuori dei loro confini: una sorta di sfera pubblica esisteva anche a livello intercittadino, e non solo nelle grandi gare sportive, nelle quali essa si esprimeva nel modo più evidente. All'inizio il fatto che i greci vivessero in modo relativa mente autonomo, senza vincoli eccessivi né poteri partico larmente forti ai quali sottostare, non dovette sembrare nulla di particolarmente speciale. In altri termini, la pecu liarità della loro civiltà consistette forse soprattutto nel fat to che il suo processo evolutivo non superasse, ma conser vasse e rafforzasse questa caratteristica iniziale senza ap portarvi particolari modifiche . In fondo le assemblee popo lari sono state presenti nelle fasi iniziali di molte civiltà, rispetto alle quali la civiltà greca si è distinta proprio perché essa non perse tale caratteristica nel corso della propria successiva evoluzione. La civiltà così creata dai greci rappresentava in certa misura un 'unità, sebbene essa si andasse connotando in modo molto differente nelle varie città e regioni, con mag giore rapidità in alcuni nodi di scambio . Nella formazione 87
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di questa civiltà le condizioni iniziali determinarono la dire zione dello sviluppo successivo: autonomia, libertà e, per quanto possibile, pieno godimento della vita. Ciò significa va che esistevano pochi elementi favorevoli allo sviluppo di un potere, di vincoli e di limitazioni non soltanto politici, bensì anche religiosi. Quando si poneva la necessità di ri durre l'arbitrio dell'aristocrazia, si cercava di imbrigliarlo attraverso accordi tra le parti, e non attraverso interventi inibitori (che sarebbero potuti venire solo «dall' alto») . In tal modo , molti tratti primitivi (come lo sconfinato spirito di vendetta - il rovescio della medaglia di quella illimitata fierezza caratteristica dei grandi signori - e la temeraria tracotanza) non furono eliminati o banditi in termini di principio, ma solo (se è lecito distinguere) mitigati o tra sformati per effetto di interazioni e confronti sempre nuovi. A lungo andare ciò non poteva non portare con sé diffi coltà, conflitti, faide, in qualche caso anche usurpazioni di potere da parte dei cosiddetti tiranni, nonché conflitti so ciali dovuti allo sfruttamento e al depauperamento dei con tadini e alla loro riduzione in schiavitù. Tuttavia, fu significativo che quasi mai la tirannide riu scisse a stabilirsi in modo durevole, e che i tiranni potessero fare ben poco per istituzionalizzare il proprio potere. In compenso, venne trovata un'ulteriore via d' uscita dai con flitti e una nuova possibilità per limitare prima ed esautorare poi, almeno in parte, la nobiltà. In luoghi e modi diversi si svilupparono e si diffusero infatti, negli ambiti più disparati, nuove idee, attraverso un laborioso processo di risposte sempre nuove alle sfide di quei tempi. Ciò è ben visibile soprattutto nella sfera politi ca, nella quale si sviluppò un pensiero che, sebbene alimen tato per molti versi da stimoli provenienti dall'Egitto e dal Medio Oriente, pervenne ben presto a soluzioni specifica mente greche 1 0• Nelle situazioni più gravi di conflitto o di rischio di guerra civile, nel momento in cui si percepiva chiaramente l'assenza di un potere in grado di offrire una soluzione accettabile (o di porre se stesso come soluzione) , si cercava di uscire dall'emergenza conferendo pieni poteri a uomini 88
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di qualità intellettuali superiori. Il compito di costoro con si steva inizialmente nel rimuovere le cause dei conflitti, e p er questo generalmente occorreva aiutare le parti più de boli , se esse avevano la forza di ribellarsi. Ciò era già abba stanza rivoluzionario, se confrontato ad altre civiltà, ma derivava dalla situazione greca. Una volta superate le diffi coltà, si cercava di ripristinare l'ordine precedente in modo tale che esso si potesse autosostenere, dal momento che non si volevano creare delle monarchie. Il compito era tutt' altro che facile. Si trattava di costruire un certo equilibrio, o quanto meno una serie di contrappesi alla forza della nobil tà. Ciò significava però avere adeguata comprensione dei nessi causali, e soprattutto individuare determinate regola rità, cosa non facile se non supponendo che nel mondo le cose avessero un loro ordine. In tal modo si poneva però un problema più generale, o meglio ancora un problema in riferimento al piano della generalità. Sul piano politico , si finì per cercare e trovare il modello di un ordine giusto che fosse nella mente di Zeus. Tuttavia, se un simile ordine generale doveva essere il fondamento della città, doveva esserlo anche di tutto il resto, del mondo, del kosmos. Fu perciò tutt'altro che casuale che le stesse idee che Solone concepì sul piano politico venissero traspo ste sul piano filosofico da Anassimandro, che le presentò come ordine autonomo nelle relazioni tra corpi celesti1 1 • Tutto parla a favore dell'ipotesi secondo cui gli inizi della filosofia greca , con le sue domande assolutamente nuove su relazioni e cause, con la loro spinta alla spiegazione raziona le dei fatti fondamentali della natura, siano stati, in ultima analisi, condizionati - e resi possibili - dai problemi di una società che solo ricorrendo a regole di portata generale riusciva a trovare quella garanzia di ordine che altrove era individuata nel potere monarchico. Le conoscenze astrono miche raccolte a Babilonia, ad esempio, furono utilizzate in modo estremamente fecondo dai greci per rispondere alle proprie domande sulle regolarità. Esse entravano così a far parte di queste città, numerose, debolmente strutturate e libere , che necessitavano però ormai di un ordine più pre Ciso. 89
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A tutto ciò si aggiungeva un altro aspetto. Metron ariston, dicevano i greci, «Ottima è la misura». Solone faceva riferi mento a un' «invisibile misura della conoscenza, che contie ne i limiti di tutte le cose» e che era la più difficile da trovare. Era appunto questa misura, erano i numeri e i rapporti tra i numeri, attraverso cui tale misura si esprime va, che i greci ricercavano nella matematica, nell'architettu ra, nell'urbanistica, nell'arte. Essa aveva per loro importan za in quanto entità correlata alla libertà: se nessuno doveva limitare, per quanto possibile, la libertà e, in relazione ad essa, la varietà delle personalità (quale si dispiegava e si richiedeva nella sfera pubblica comune) , occorreva che fos sero il giudizio, l'opinione comune a porre dei limiti, e che tale giudizio si orientasse, da ogni punto di vista, verso il generale. Si cercava un elemento oggettivo di fronte al qua le la libertà si fermava. Furono tuttavia anche dei fattori molto concreti, alme no in alcune delle città più dinamiche, a produrre, col pas sare del tempo, un ordine rafforzato e modificato. I ceti inferiori rivendicavano infatti maggiore partecipazione. Essi stavano acquistando conoscenze e avanzando nuove prete se, sullo sfondo di una fede nella giustizia il cui dio era Zeus stesso. Il popolo acquisiva consapevolezza della propria responsabilità verso la città. Per i greci - diversamente dai profeti ebraici - tale responsabilità significava che se la comunità si trovava in difficoltà non solo era colpa loro, ma che essi potevano e dovevano fare qualcosa per modificare la situazione. La forza d'attrazione della sfera pubblica, che poggiava sull 'aristocrazia, stimolò l'impegno politico dei cittadini. Così nel VI secolo si giunse gradualmente a forme iniziali di democrazia, le cosiddette isonomie, vale a dire a ordinamenti in cui la politica era ancora espressione del ceto aristocratico, ma non in modo esclusivo, dal momento che prevedeva un certo grado di partecipazione degli strati più vasti di cittadini. Questa prima fase, arcaica, della civiltà greca ha creato molte cose atte ad allietare la vista, l 'udito e la fantasia, a esprimere i sentimenti, il proprio modo di vedere se stessi, la bellezza attraverso cui si manifestava la propria superio90
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rità: la grande poesia, i cantori, la lirica, tutto ciò in cui si esprimeva la grande temerarietà dell'io in una società tanto instabile, tanto poco strutturata al suo interno e tanto ap prezzata anche se poco adeguata alle esigenze della poli tica (ma la dimensione politica non era ancora particolar mente pronunciata) , i koroi e le korai, la pittura, ma anche le forme più sofisticate di socialità, di sport, e infine la sapienza e la filosofia. Dal punto di vista dell'epoca successiva - il V secolo, il secolo classico della civiltà ellenica -, la cosa forse più impor tante della civiltà arcaica fu l'aver lasciato indefinite molte cose. Le istituzioni politiche che essa creò avevano un potere relativamente limitato, con la grande eccezione di Sparta e di alcune realtà minori, che confermavano la regola. Soprattut to, non si giunse a organizzare il culto e la fede religiosa in modo tale da poterli utilizzare come strumenti di dominio. La fase iniziale dello sviluppo della civiltà ellenica (fino al 500 avanti Cristo circa) fu dunque assolutamente peculia re. Sicuramente molti aspetti non si erano ancora sviluppa ti, ma la differenza con quanto era stato creato altrove era abissale. Mai prima di allora, probabilmente, la libertà e l'autonomia di una cerchia relativamente ampia di persone erano state mantenute e rafforzate per tutta la fase iniziale di sviluppo di una civiltà, ossia nel corso del dispiegarsi e del definirsi di quelle forme, idee e metodi, fino a produrre una filosofia arcaica che consentiva ai greci una convivenza più ricca, intensa e sofisticata, molteplici possibilità di azio ne verso l'esterno, e al tempo stesso un equilibrio nell'inte riorità individuale. Probabilmente sul piano materiale nes suna civiltà aveva ancora ottenuto risultati tanto modesti. Non era stato necessario regolare il corso di fiumi, si era potuto - e dovuto - rinunciare a costruire grandi palazzi e templi: ciò che importava era la giusta misura - più che la dimensione colossale - e soprattutto lo stile, l'educazione del corpo, la grazia12• I greci avevano dunque da tempo una propria impronta, e dunque avevano anche dei vincoli in quanto società (e per le società le cose sono sempre diverse che per gli individui) . Tra questi vincoli era appunto il fatto che nessuna monar91
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chia - né, sostanzialmente, alcuna religione -, li tenesse in condizioni di dipendenza, né desse loro risposte relativa mente inevitabili, e che essi al contrario avessero ampi spazi di azione e soprattutto di pensiero. Un 'eccezione era rap presentata solo dalla tirannide che, per motivi militari e di politica estera, si era potuta affermare, in modo stabile e duraturo, a Siracusa. I greci erano dunque relativamente aperti, disponibili a lasciarsi sorprendere, orientati a porsi domande: sulla misu ra e sulla legge, sull'ordine della polis e su quello del mon do. O meglio, questi interrogativi non erano propri soltanto di questo o quell'individuo, non venivano espressi ad alta voce in questa o in quella sede tanto per mettersi il cuore in pace. In realtà, il porre domande era tipico di questa socie tà. Le risposte predefinite o le autocensure interiori erano in essa praticamente assenti. Questa è la mia ipotesi. Quan to essa sia plausibile lo si potrebbe affermare solo sulla base di un confronto puntuale con le civiltà cinese e indiana e con quella araba nelle sue fasi di maggior splendore. Dove altro poteva accadere che le città, le entità politi che, fossero generalmente considerate nulla più che la som ma dei cittadini? Che i cittadini si considerassero parte di un tutto che per quanto possibile volevano esprimere senza mediazioni, direttamente tra di loro ? Che riuscissero a rea lizzare questa aspirazione e che in luogo delle verità apodittiche della tradizione, ormai insufficienti a costituire una razionalità, ponessero una razionalità nell'ambito della quale la totalità della comunità, del mondo (e dell'uomo) venissero messi in discussione ? È difficile dire quale sarebbe stata l'evoluzione di que sta civiltà se non fosse entrata in conflitto con la grande potenza che si trovava ai suoi confini orientali, l'Impero persiano, o se la guerra fosse stata vinta dai persiani e non dai greci. Forse la civiltà ellenica sarebbe stata da molto tempo dimenticata, o sarebbe leggibile solo attraverso i bei reperti archeologici. Invece le cose andarono diversamente. Con la vittoria sui persiani e con le conseguenze che ne derivarono, il mondo ellenico sulle sponde dell'Egeo entrò 92
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in una fase di cambiamento repentino, continuo e accelera to. Il processo evolutivo della civiltà greca (che per molti versi era ancora in fase iniziale) si concentrò in un solo luogo , con effetti di enorme portata. Con l'Atene del V e IV se colo avanti Cristo i greci incisero profondamente, e in modo probabilmente indelebile, nella storia universale. Ciò che accadde in quei decenni è difficile da compren dere, soprattutto perché generazioni di studiosi dell'anti chità e di borghesi colti hanno tanto, e tanto a lungo, cova to, curato e studiato quell'epoca, al punto che si è smarrita quasi completamente la consapevolezza di quanto straordi nari siano stati quegli anni. La maggior parte di ciò che dalla tradizione letteraria dei greci si è riversato, con ottime ragioni, nella coscienza generale dell'Occidente, vale a dire quasi tutta la letteratura - a parte Omero , Esiodo e la lirica più antica -, la tragedia, la storiografia, la filosofia e la retorica, fu prodotta in una sola città, o in relazione ad essa, nel corso di pochi decenni, dai cittadini di Atene e da coloro che vivevano in quella città o che comunque erano fortemente influenzati da ciò che vi avveniva 13• Ci sarebbe davvero da pensare a un intervento diaboli co se l'eccezionale opera creata da questa civiltà nel V (e all'inizio del IV) secolo e la straordinaria storia di Atene in quel tempo non risultassero intimamente connesse. Il periodo in questione rappresenta uno dei secoli più avventurosi della storia. È facile dimenticarsene, se non si tiene conto di molti fatti straordinari. l . Una città di circa 40.000 cittadini maschi adulti di viene da un giorno all'altro, da semplice cantone, una po tenza mondiale e si trova a dover fare grande politica senza esservi preparata. 2. La lega delle città elleniche, in cui Atene ha una parte dominante, diventa in breve tempo l'ambito territo riale in cui essa esercita il potere. In tale occasione accade, su larga scala, qualcosa che non riuscì, né prima né dopo, a nessun'altra città greca (salvo Sparta e Siracusa, ma sulla base di condizioni del tutto differenti) : Atene fonda un potere marittimo che va ben al di là della sua giurisdizione 93
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formale, un pot è re sorto all'improvviso e durato per diversi decenni. 3 . I cittadini dell'Attica si dedicano alla vita pubblica, alla politica, in misura assolutamente straordinaria rispetto allo standard greco. Essi si trovano a prendere decisioni collettive su un numero incredibilmente grande di iniziative e col passare del tempo la comunità, la polis, assume una dimensione decisamente sovraordinata e dunque esprime esigenze nei loro confronti, cosa che nel resto della Grecia, ad eccezione di Sparta, doveva apparire estremamente stra na. Questa intensificazione della vita nel suo complesso rese Atene potente, suscitò forze che apparivano illimitate e rese con ciò possibili numerose esperienze-limite. 4. Atene introduce una democrazia radicale. Il princi pio secondo cui le decisioni devono essere prese da coloro che sono interessati dalle loro conseguenze viene applicato per la prima volta e soltanto lì in forma estrema: le decisioni più importanti vengono effettivamente prese nell' assem blea del popolo. La cittadinanza diventa, da oggetto (della leadership aristocratica) , soggetto della propria politica, con tutte le responsabilità e gli ineludibili problemi che ne conseguono. 5 . Per la prima volta l'ordinamento di una città viene messo a disposizione dei suoi cittadini, e questo in base alla più radicale delle alternative immaginabili: se gli aristocra tici con maggiore esperienza (appoggiandosi all'autorità del consiglio aristocratico) debbano determinare la politica con l'aiuto dell'assemblea del popolo o se ciò debba spettare al popolo nel suo insieme, senza limitazioni, con il concorso di un organo aristocratico. 6. Per la prima volta l'eguaglianza politica tra i cittadini viene presa sul serio : anche i più poveri sono coinvolti nelle decisioni. Le paure che ciò suscitò sono quasi inimmaginabili: gente ignorante, priva d'istruzione e di mezzi economici poteva formare una maggioranza in grado di prendere deci sioni sulla politica di una potenza mondiale, sebbene singo li cittadini, come Pericle, potessero rivendicare grande au torità nell' assemblea cittadina e riuscissero spesso a influen zarne i lavori da una posizione di relativa superiorità. 94
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7 . Alla luce di quanto sopra e grazie alla presenza di immigrati e viaggiatori e alla scoperta di nuovi metodi in ambiti diversi come la retorica, l' artigianato, l ' arte , la conduzione dell'economia domestica ecc . , ad Atene diven ne possibile vivere una situazione in cui tutte le possibilità umane ricevevano enorme impulso, cosa di cui si era con sapevoli e orgogliosi. 8. Al tempo stesso, però, ci si rese conto che, in condi zioni così radicalmente nuove, tutto ciò che era stato traman dato in termini di abitudini, modi di pensare e di vedere, elementi di giudizio morale sull'agire umano (e suoi limiti) non bastava più. Si doveva agire in modo completamente diverso rispetto alle usanze fino allora prevalenti tra i greci. Una problematica del tutto nuova e in larga misura politica, e un potere anch'esso nuovo, richiedevano inevitabilmente regole nuove. Si rivelava inadeguata la base di giudizio del sapere nomologico esistente fino allora, ovvero di quel sape re generale e in larga parte comune (cosa particolarmente importante nel caso delle democrazie) sulla base del quale giudichiamo ciò che è giusto o ingiusto, vero o falso, possibi le o impossibile. Risultava chiaro, a questo punto, che molte cose che erano sempre apparse impossibili erano in realtà possibili, che molte cose tradizionalmente ritenute sbagliate erano in realtà giuste, e viceversa. Ragione e torto erano forse meno indistinti: ma come ci si doveva regolare quando, come spesso accadeva, non ci si poteva più attenere al diritto? Quando , come accadeva agli ateniesi, si prendeva coscienza del fatto che il proprio dominio era una tirannide? 9 . Quando la tradizione non serve per andare avanti, quando il nuovo non può crescere in modo graduale, al l'esperienza deve subentrare il ragionamento, all'ovvietà (e alla sua applicazione) la razionalità. E ciò deve avvenire alla svelta, perché tutto cambia molto rapidamente. Gli stessi discorsi che si tengono nell'assemblea del popolo (proba bilmente all'inizio piuttosto incolti) devono, a questo pun to, avvalersi di un metodo razionale di argomentazione. L 'ordinamento politico viene strutturato in modo total mente nuovo , sulla base di regole consapevoli, e, se si vuole, razionalizzato . 95
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Di fronte a fratture tanto profonde, a mutamenti e di stacchi tanto rapidi dalla tradizione, è probabile che tutto ciò che esisteva d'importante venisse messo in discussione, ad eccezione di una cosa. Fuori discussione era solo quello che la cittadinanza era e voleva essere, ossia: elemento costitutivo di una polis che divideva in modo chiaro la sfera politica da quella domestica (ossia economica) e che attri buiva grande valore all' autonomia e alla partecipazione; cittadinanza maschile (le donne erano prive di diritti politi ci) di uomini liberi, in maggioranza proprietari di schiavi. La messa in discussione della tradizione, i tentativi di comprendere il nuovo che si andava sperimentando, e le relative conseguenze, e di procedere sempre più avanti con l'aiuto della razionalità, andavano ben oltre la sfera politica nel senso più stretto . In altri termini, il politico era per questi cittadini tanto importante e fondamentale che con esso era il mondo intero ad essere messo in questione. In modo nuovo si ponevano le questioni di ciò che fosse giusto e della giustizia, del significato dell'uomo , degli dèi e del l'ordine del mondo. Di questo ci si rese conto lucidamente, raccogliendo effettivamente l'insieme di queste sfide. Furono i poeti, gli scultori e gli architetti , gli intellettua li, i filosofi e molti altri sconosciuti a raccogliere tali sfide. Ciò che essi produssero - dalle tragedie e commedie agli edifici pubblici - era destinato alla cittadinanza nel suo insieme ed era immerso in essa, come le conferenze dei filosofi e degli intellettuali e le domande di Socrate. Ed era l'esperienza di questa cittadinanza a suggerire e stimolare ogni cosa: le posizioni che si formavano e le domande che si ponevano numerose, per effetto dell'essere esistenzialmente rinchiusi in questa polis e della responsabilità che ne seguiva. Quando Jacob Burckhardt scriveva che a quel tempo «la cultura, e dunque l'interesse per l'arte, la poesia ecc.» erano appartenuti «a tutti»1\ ciò a mio avviso non corri sponde a verità, e comunque non coglie l'essenziale. Piutto sto che la cultura, direi che era appartenuto «a tutti» il sentirsi profondamente toccati, come cittadini, nel momen to in cui si voleva acquisire consapevolezza delle proprie decisioni, da ciò che si viveva direttamente in termini stret96
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t am ente pratici e di necessità. Proprio per questo non ci si limitava a interessarsi di «arte, poesia ecc.», ma se ne aveva necessità: per i motivi che ho accennato , e per altri che si possono desumere direttamente dall' «arte, poesia ecc. » che vennero prodotte in quell'epoca. I cittadini ne avevano bisogno per orientarsi, in quanto le verità apodittiche della tradizione non bastavano più ad aiutarli, perché non riuscivano a star dietro all' accelerazio ne del cambiamento, in quanto il tempo diventava senza fondo. Forse questa situazione fu vissuta come un'ubriaca tura; si aprirono spazi totalmente nuovi di azione e di cono scenza, che impegnavano profondamente i cittadini non meno degli intellettuali, degli artisti e dei politici. Ciò appa re manifesto, ad esempio , negli edifici classici, finissimi e complicati, dell'Acropoli e di Eleusi. Ma tutto ciò non sa rebbe potuto accadere se queste stesse possibilità non fos sero state contemporaneamente avvertite con il timore pro prio di una sfida, in tutti i suoi rischi e nella sua terribile grandezza. È difficile per noi renderei pienamente conto della dimensione di insicurezza, di potenziale fallimento e di stordimento che gli ateniesi cercavano di fronteggiare con il loro orgoglio. Secondo Tonio Holscher la classicità greca fu un'impresa temeraria, figlia di molti altri azzardi15 • Anche J acob Burckhardt ha parlato del «rischio» e della «tensione dell 'intera vita ateniese», che «era in sostanza in una crisi continua e in un terrore permanente»16• La scultura ateniese cercò di rispondere alla domanda sulla natura dell'uomo sulla base di numerose riflessioni teoriche. Ma la medesima questione è al centro della storiografia, della tragedia, dell'emergente teoria della co noscenza e della filosofia. La domanda riguardante l'uomo era strettamente colle gata a quella sugli dèi. Non si trattava infatti solamente di stabilire che cosa gli dèi consentissero all'uomo di essere, di fare e di raggiungere, ma che cosa fosse nella loro stessa mente. Forse tutto ciò che si riteneva di sapere sul loro conto era sbagliato o comunque inadeguato? Esistevano davvero? Si potevano fare affermazioni certe sul loro con to ? E inoltre: che cosa si poteva considerare ancora (o da 97
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allora) facente parte dell'ordinamento divino ? A questi in terrogativi era collegata anche la questione del diritto e della giustizia. In che modo venissero poste queste domande, come venissero affrontate e fino a quali contesti venissero spinte, lo si apprende dalle tragedie attiche, che le inscenarono tutte e nella loro interezza: attraverso il mito, che esse com presero, form arono, affilarono in modo a tal punto nuovo e variegato , e al tempo stesso generale ed esemplare, da sen tirsene ancor oggi toccati. Eccone qualche esempio. La potenza di Atene cresceva a dismisura: bisognava dunque preoccuparsi per l'invidia degli dèi, che come si sapeva colpisce il potente? O ciò valeva solo nei confronti del potente ingiusto? Atene calpestava in modo arbitrario ed egoista tante regole e idee diffuse in Grecia: quali ne sarebbero state le conseguenze? Che perdite comportava ciò per la stessa Atene? Atene stava mettendo in cantiere tante cose ritenute fino allora impossibili all'uomo: fino a che punto si poteva agire senza, o contro, gli dèi? Forse era un particolare e pericoloso tipo di cecità a indurre gli ateniesi ad agire in tal modo: l'accecamento divino che colpisce l'uomo di succes so e lo induce a scambiare il giusto con l'ingiusto , fabbri cando con le proprie mani il proprio declino? Così, ad esempio, gli «illuminati», come Cleonte, ritenevano che la città avesse potere su qualsiasi cosa, mentre Antigone si opponeva a questa idea richiamandosi a leggi non scritte. Quando si trattava di trovare la soluzione più razionale a un problema, come ci si doveva regolare se un potente entrava in un processo di apprendimento patologico ? L'uomo face va esperienza della propria grandezza ma anche della pro pria pietosa debolezza e vulnerabilità. Egli era portato a comportarsi in modo autocratico, e proprio per questo era estremamente esposto al rischio . In sintesi, la tragedia17 metteva in scena tutto ciò che probabilmente tormentava gli ateniesi, a un livello molto più profondo, per effetto di tutte le novità che essi creava no, vivevano e su cui si trovavano a dover prendere decisio98
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ni. È improbabile, infatti, che essi dessero tutto ciò per scontato e lo accogliessero, come facciamo noi, con sempli ce indifferenza e come se ci imbattessimo in esso per caso. Anche loro si trovavano impreparati di fronte al nuovo e all'inconsueto, e ciò avrebbe potuto portarli alla disperazio ne o alla rassegnazione. Ma ciò nonostante pretendevano molto da se stessi: volevano sapere a che punto erano, anche in rapporto agli dèi; volevano scoprire il senso di ciò che accadeva18• E che ciò fosse possibile, lo garantiva il successo avuto fino allora: non solo sul terreno militare e politico, ma anche nello sviluppo di una nuova visione e comprensione del mondo. Forti di ciò, essi si sentivano in grado di far fronte anche alla messa in discussione del mondo. Fu per questo che, come scrive Burckhardt, solo nei greci, e in particolare negli ateniesi, «tutte le energie dell'individuo, liberato da ogni vincolo, raggiungono quella tensione e quelle vibrazioni che permettono di conseguire il massimo in ogni ambito»19• Tutto ciò suona fortemente esagerato. Ma nel suo insie me deve essere vero. Dobbiamo scegliere, in altre parole, se considerare tutto ciò che di quel secolo ci è stato tramanda to come un puro caso, o se ricercarne una spiegazione complessiva nella particolarità delle condizioni da cui sca turì. La storia della tragedia, da Eschilo a Sofocle e Euripide, e il percorso biografico e artistico di questi ultimi mostrano il graduale modificarsi delle domande, delle esigenze e delle aspirazioni, come la fede nella giustizia o l'orgoglio. Illustra la scoperta dell'ambivalenza della grandezza, della «gran dezza tragica» e il moltiplicarsi a dismisura delle aspettative di senso e delle idee di libertà. Evidenzia che ci si era resi conto che la meschinità, l'errore e il totale disorientamento si propagano, che l'ordine sfugge di mano, che il significato è assente, in modo disarmante, che gli dèi conducono con gli uomini un gioco spavaldo ( cosa possibile solo quando le aspettative e le pretese crescono eccessivamente) . La trage dia riuscì a cogliere in immagini e miti, anche sullo sfondo di opere precedenti, persino il disorientamento estremo, e la cinica disinvoltura dei delusi. Probabilmente mai una 99
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tragedia è stata costruita sul vuoto come l'ultima del più tardo dei tre grandi tragediografi: le Baccanti di Euripide. Analogamente, la storiografia poté mostrare l'esistenza di alcuni parallelismi, ma soprattutto le tante situazioni per le quali non esistevano precedenti. In questo caso, per poter fare a meno delle tradizionali elaborazioni di senso, si cercò di attenersi strettamente a ciò che poteva essere oggetto di indagine empirica, cercando di comprenderlo nella sua con tingenza, nella quale ogni azione e ogni piano hanno la peggio. La sofistica ricavò dalle enormi possibilità di cam biamento la conclusione radicale secondo cui tutto era rela tivo, l'ordine era una semplice convenzione e l'elemento stabile e sicuro andava ricercato nella natura, che tuttavia, come si vide ben presto , poteva a sua volta essere interpre tata in modo molto differente. Tutti gli uomini erano uguali per natura, ma in natura esisteva anche la disuguaglianza tra il leone e la lepre. I sofisti approdarono a paradossi, ma d ' altro canto era no questi ultimi a rendere più brillanti le loro conferenze, mentre la totale relatività sembrava confermare la possibili tà, che essi predicavano, di giungere al potere e al dominio con la retorica e forse anche con la scelta audace di mezzi discutibili. Per altri queste dottrine erano fonte di profonda inquietudine. Scavando dietro , e sotto, ogni singola interpretazione, che si rivelava dubbia, Socrate si mise alla ricerca di un terreno più solido, ponendosi una serie di domande riguar do ai concetti: che cos 'è il giusto (o ciò che viene ovunque considerato tale nei luoghi più svariati) , e da che cosa è costituito ? Che cos'è il bello? Che cos'è il pio ? Che cos 'è il virtuoso? Areté, la parola che noi traduciamo come «virtù», significava anche, secondo quanto era stato tramandato, «successo». E così finivano per compenetrarsi fin troppo tra loro ciò che sembrava promettere successo e ciò che era virtù (analogamente, in politikè techné confluivano facil mente l'aspirazione etica e il metodo di ricerca del succes so) . A ciò Socrate contrappose un diverso concetto di virtù, definita come via non solo verso il successo, ma verso la giustizia. In base a questo concetto, era meglio subire un 1 00
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torto che arrecarlo. Ma egli si intrica sempre più nelle sue domande per concluderne che «egli, per così dire, nulla sapeva», ossia nulla in termini di sapienza umana. Del resto gli altri ne sapevano molto meno di lui, essendo appunto ignari di non sapere. Socrate avvertiva comunque un'istan za importante muoversi costantemente dentro di sé: il démone che lo avvisava quando correva il rischio di commettere un'ingiustizia. Le domande di Socrate, insieme a tutte, o quasi tutte, le questioni che avevano fino allora impegnato la riflessione greca, e parte di quella egiziana, furono riprese da Platone che le sottopose a indagine, nei suoi dialoghi, in modo tale da farne la base della filosofia occidentale. Com'è possibile la conoscenza? Che cos 'è che rende l'uomo capace di cono scere? Può la conoscenza appoggiarsi a percezioni sensoriali, a opinioni, esposte al mutamento casuale degli eventi del mondo e pertanto costantemente disturbate? Non deve essa piuttosto poggiare su qualcosa d'immutabile e di eterno, su un terreno solido, su quella base che in ultima analisi è la base di qualsiasi ente? Di fronte alla vita politica del suo tempo Platone era stato colto da «vertigini» (così almeno è scritto in una lette ra a lui attribuita)2°. Perciò egli era pervenuto alla decisione di ripensare integralmente il mondo, allo scopo di riconqui stare un terreno filosoficamente solido. Le questioni che riguardavano la polis, la giustizia, le virtù, la lingua, l'anima, la sua parte nell'essere e nella sua immortalità, in ultima analisi nel cosmo, furono da lui sottoposte a indagine aper ta, radicale, dai più diversi punti di vista e soprattutto nelle loro molte aporie. Egli sviluppò (o assunse da Socrate) un'arte di porre interrogativi capace di cogliere il nocciolo dei problemi. Si può pensare quel che si vuole delle risposte da lui fornite (a volte in modo volutamente ironico o sem plicemente accennato) , ma resta il fatto che le sue domande hanno avuto , da quando e nel modo in cui egli le ha poste, le più ampie conseguenze possibili e non possono più essere messe a tacere facilmente. È p roprio questo il motivo per cui tutta la filosofia e una parte della teologia sono sempre ripartite da qui, direttamente o indirettamente. È qui, a 101
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partire dalla totale precarietà di ogni situazione, che è ini ziato il ripensamento del mondo nella sua interezza, con dotto in modo tanto universale quanto lo era quel porre in discussione l 'umanità, nella sua vulnerabilità, che i greci stavano vivendo sulla propria pelle. Greco era solo l'abito sotto il quale era all'opera una razionalità generale, sotto il quale agiva la scienza. Dal punto di vista dei contenuti, Platone giunse addirit tura ad abbandonare, o meglio a negare, qualcosa di speci ficamente greco: la polis di liberi e uguali, forse la stessa sfera politica. Ma il modo in cui egli lo fece (un modo che scaturiva appunto dalla dimensione politica) si è rivelato , proprio per la radicalità con cui egli pose la questione, estremamente fecondo in termini di influenze successive. T ali influenze iniziarono con Aristotele, che pose su nuove basi teoriche la sfera politica dei greci, in opposizio ne, per certi versi, al suo maestro Platone, e comunque allontanandosi dal suo insegnamento. Egli ricercava la veri tà soprattutto nello studio e nell'acuta analisi dei dati empirici e riassunse, sistemò e sviluppò sul piano teorico tutte le scienze dell'epoca, e in tal modo fornì al medioevo le basi per far ripartire la scienza in diversi ambiti. Emerge da qui, complessivamente, il quadro di una cittadinanza che ha al suo attivo grandi successi, che ha subito repentini cambiamenti e che si trova ad affrontare tutti i problemi che tali cambiamenti pongono al suo pen siero, ai suoi giudizi, alle sue idee e persino ai suoi senti menti. Che affronta tali problemi in modo estremamente aperto , libero, azzardato. Che lo fa mentre si allarga a inclu dere - in modo crudele, duro, prepotente, ma comunque affascinante - tutto il mondo greco, almeno nell'ambito dell'Egeo. Nasce così una nuova forma di essere nel mondo e un nuovo modo di porre domande nel mondo e sul mondo. In relazione a ciò, occorre anche tener presente il parti colare modo in cui i greci, e specialmente gli ateniesi, svi lupparono l' elemento politico. Nel momento in cui essi partecipavano come cittadini, con la massima intensità pos sibile , all'impresa centrale della loro vita, l'unica che fosse per loro veramente interessante, essi si trovavano profonda1 02
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mente coinvolti in difficili decisioni: tutto ciò che d'impor tante accadeva e si modificava era materia di decisione, e non di processi che si svolgessero in modo sostanzialmente autonomo. Diveniva dunque per loro centrale - in riferi mento a situazioni concrete - il tema della possibilità di pianificazione da parte del potere, ma anche dell'incertezza del caso: in poche parole il tema dell'essere l'uomo da un lato sovrano, dall'altro semplice giocattolo nelle mani del destino. La dimensione politica rendeva l'esistenza umana tanto emblematicamente appassionante, fin nelle sue que stioni ultime, ed è qui che sembra trovarsi la spiegazione del fatto che le realizzazioni di questa civiltà abbiano finito per riemergere costantemente, in ogni epoca. Finché durarono il successo e lo slancio, finché questa Atene riuscì a conservare una certa presunzione e, si po trebbe dire, un certo funambolismo, le questioni che erano state poste rimasero estremamente vive , e si poté continua re ad approfondirle, anziché dar loro risposte semplici: ed è proprio questo, probabilmente, che rende le opere di que st' epoca inesauribili, e che le condusse fino all'artistica personificazion � dell 'insensatezza. Quello che si svolse all'epoca fu un processo di raziona lizzazione (perfettamente in linea con la definizione di Weber) , contrassegnato, da un lato, dall'essere condotto da un vasto insieme di cittadini, e dall' altro dall'essere giunto a interrogarsi sugli stessi presupposti ultimi, sulle questioni fondamentali dell'essere: nella sfera politica e a partire da essa, sebbene non nella sfera economica, ma proprio perciò ispirato alla libertà, all'autodeterminazione, al più vivo sen so di responsabilità, stimolato dalla sicurezza di poter com prendere il mondo sia nelle grandi che nelle piccole cose, al riconoscimento di non sapere nulla e al porsi nuove e sem pre più profonde domande, dando vita così alla parte mi gliore di ciò che influenzò l'era moderna dell'Europa, del l'Occidente. È vero, il lavoro veniva svolto dagli schiavi; le donne erano escluse dalla vita pubblica (e addirittura si negava in parte che esse fossero dotate di razionalità) ; la democrazia si concedeva scappatelle con l'arroganza del potere ( cosa 1 03
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peraltro pubblicamente dibattuta e criticata nell'ambito del teatro tragico, per esempio nel Dialogo dei Meli di Tucidide, sebbene senza successo, fornendo peraltro a Platone la pri ma grande motivazione per la sua filosofia) : bene, nono stante tutto ciò , non è già questa Europa la prima civiltà basata sulla libertà anziché sul dominio, unità di misura, modello , modo totalmente nuovo di rapportarsi al mondo, stile aperto e radicale di agire e osservare, di decidere, discutere e porre in dubbio (tutte cose che in ultima analisi contano più per la loro importanza propulsiva e destabiliz zante che per le tante lacune, i crimini commessi e le tesi errate) ? Di ciò che questa civiltà ha lasciato dietro di sé si è approfittato e goduto in molti modi. Anche in modi estre mamente filistei. Ma più importanti delle risposte furono probabilmente le domande che furono allora poste e che vengono continuamente recuperate. Con la fine della grande guerra del Peloponneso, con i suoi immani sacrifici e la dura sconfitta, la grande epoca di Atene giunse al tramonto: con la fine del potere e dello straordinario attivismo ateniesi scomparve anche il forte impegno dei cittadini nei diversi settori di quella che oggi consideriamo civiltà. Sebbene molte cose continuassero a progredire, il grande slancio si affievolì. La filosofia rag giunse il suo apice, ma si ritirò in una cerchia sempre più ristretta. La retorica, la lingua, la cultura del dibattito conserva rono la loro vivacità e si svilupparono ulteriormente, e lo stesso si può dire dell'arte. La storiografia si allargò alla storia universale, le scienze fiorirono . Molto di ciò che allo ra fu elaborato avrebbe prolungato i suoi effetti fino al l'epoca moderna. Un ruolo importante al riguardo ebbero le scuole di filosofia, in prima linea la Stoa. Ciò tuttavia si realizzò soprattutto nell'epoca dell'ellenismo, immediata mente successiva. I sovrani ellenistici consideravano molto importante le gittimarsi coltivando la letteratura e la scienza greche e costruendo biblioteche e centri di ricerca come il famoso Museion di Alessandria: cosa tanto più significativa se si 1 04
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considera che essi non perseguivano in tal modo vantaggi pratici. L'interesse delle scienze (e quello che nei confronti di esse nutrivano i monarchi) restava orientato alla teoria. Il loro scopo era la conoscenza, che per i greci era la più elevata tra le facoltà umane. La matematica, l'astronomia, la geografia, la meccanica e molte altre discipline vissero un grande slancio, e anche la medicina poté ottenere importan ti progressi. Ci si preoccupò anche dei testi letterari, facen do molto per la loro conservazione. Ma ancor più importante, forse, per la storia successiva della civiltà greca fu la grande espansione che essa conobbe per effetto delle conquiste di Alessandro . Atene, nel V secolo, aveva praticamente dominato l'Egeo, ponendo in tal modo la questione della supremazia nel mondo greco: questione che non si esaurì con la sua sconfit ta nella guerra del Peloponneso. A lungo andare, tuttavia, non fu una polis a conquistare tale posizione di predominio, bensì la monarchia macedone. I popoli a nord dell'Egeo parlavano dialetti ellenici ma erano ritenuti barbari dai greci. Essi non avevano parteci pato allo sviluppo della civiltà ellenica, e persino la vita della polis era loro estranea. In compenso avrebbero potuto rappresentare un notevole potenziale militare nel momento in cui le loro forze fossero state organizzate e impiegate in modo unitario. Filippo II fu colui che riuscì pienamente in questa impresa, avvalendosi anche di molti stimoli, e proba bilmente appoggi, degli stessi greci . Egli riuscì a conquista re l'egemonia sul mondo ellenico e, coerentemente con que sta politica di espansione, strappò ai persiani una parte dell' Asia minore, liberando le città greche che si trovavano in quella regione. Nella visione di Aristotele, che fu educatore di Alessan dro, figlio di Filippo II, i greci erano accomunati da due cose, ed erano gli unici ad averle entrambe: coraggio e forza di pensiero2 1 • Perciò il filosofo riteneva che, se fossero riu sciti a raggiungere l ' unità politica, essi avrebbero potuto dominare tutti gli altri popoli: affermazione questa che pro babilmente andava intesa come un paradosso. Dal punto di vista di un monarca che aveva avuto un'edu1 05
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cazione sicuramente greca, ma che esercitava un potere assolutamente «non greco», le cose si presentavano in modo molto diverso. Se anche egli condivideva l'alta concezione dei greci propria del suo maestro, in cima alle sue preoccu pazioni stava la sua gente, i macedoni. Alessandro era gio vane, era un esperto condottiero e si considerava discen dente di Eracle e di Achille. Perché non sarebbe dovuto riuscire a togliere ai persiani il loro regno? Così, sotto la guida dei macedoni, ma sotto molte in fluenze greche, si giunse a un risultato che per i greci da soli sarebbe stato assolutamente impossibile: una grande con quista. Ci si può anzi chiedere in che misura la civiltà greco ateniese del V secolo non sia stata addirittura il presuppo sto del regno macedone e di questa campagna militare. In conseguenza della vittoria, la civiltà greca ebbe gran de diffusione anche in Oriente, raggiungendo persino l' odier no Uzbekistan. Furono fondate numerose città greche, che in realtà erano soltanto isole in terra straniera, ma che co munque esercitavano una certa influenza e forza d' attrazio ne sulle popolazioni locali. Ma anche i greci furono influen zati in vario modo dall'Oriente. Si venne così formando una grande ecumene greca; il greco divenne la lingua principale, il mezzo di comunicazione, in tutto il Mediterraneo orienta le e oltre. Il numero di coloro che si appropriarono della cultura greca e contribuirono alla sua diffusione si moltipli cò. Anche senza questi sviluppi, ciò che i greci erano stati e avevano prodotto nel V e IV secolo, soprattutto ad Atene, non sarebbe facilmente caduto nell'oblio. Ma in tal modo si ampliò e si consolidò grandemente il terreno dal quale molte altre cose avrebbero potuto essere estratte e trapiantate altrove. Nel V e IV secolo anche nel Mediterraneo occidentale, ai margini della sfera d'influenza greca, si agitavano nuove forze, molto differenti da quelle che agivano in Macedonia, ma che in un certo senso corrispondevano ad esse. E anche in questo caso molti degli stimoli iniziali erano venuti dagli stessi greci . Prese così l 'avvio un fenomeno nuovo nella storia del l'antichità e del Mediterraneo : scendeva in campo una nuo1 06
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va potenza terrestre, anch'essa orientata all'espansione, an che se essa non avvertiva, almeno nella prima fase, un forte impulso a sviluppare una propria civiltà. Non sappiamo con esattezza per quale motivo tale pre potente espansione sia partita proprio da Roma. Essa iniziò a fare conquiste e divenne prassi comune nella regione che a ogni nuovo conflitto una delle parti ne invocasse l' aiuto . Regolarmente, ogni volta che arrivavano, i romani finivano col restare; e una volta stabilitisi avvertivano l'esigenza di ampliare il proprio spazio: verso l'interno creando colonie o costruendo strade, e verso l'esterno stringendo alleanze sempre nuove, che prima o poi finivano per produrre scon tri con altre e più remote potenze con cui entravano in contatto . Roma non fece mai una guerra che non finisse per portarle delle conquiste. La sua sfera di dominazione creb be così gradualmente fino ad abbracciare l'intero mondo mediterraneo . Roma era governata da un' aristocrazia ristretta, bellico sa ed estremamente disciplinata, attraverso le forme di una costituzione sviluppatasi gradualmente, che si fondava so stanzialmente sui precedenti e su istituzioni la cui esistenza era data per scontata e che pertanto non venivano mai messe in discussione. I cittadini si suddividevano perlopiù tra diverse clientele facenti capo alle famiglie patrizie, che svolgevano nei loro confronti una certa funzione di prote zione e rappresentanza di interessi, in cambio dei loro voti nell' assemblea del popolo . Così si andò avanti per secoli. Roma conobbe un'opposizione organizzata, la cui istituziona lizzazione era stata stimolata dall 'osservazione dei greci: i tribuni della plebe. Ma i conflitti che essa produsse contri buirono, nel medio e lungo periodo, a rafforzare il potere dell 'aristocrazia, preservan dolo dagli eccessi. La stabilità della Repubblica romana fu inoltre certamente facilitata dai suoi straordinari successi esterni, dalle grandi conquiste. Questi successi furono merito delle legioni, splendida mente addestrate, valorose, capaci di compiere qualsiasi sforzo. Ma essi vennero politicamente consolidati, resi pos sibili e favoriti dal modo in cui Roma estendeva costante mente il proprio sistema di clientele e di legami, offrendo 1 07
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indirettamente una certa rappresentanza anche agli interes si degli alleati e dei sudditi, e non da ultimo concedendo loro generosamente il diritto di cittadinanza. Questo diritto non fu mai democratico, ma conteneva in sé una serie di libertà e di diritti, sia pure nell 'ambito di un predominio del patriziato romano . Roma aveva dunque una civiltà fortemente connotata in senso politico e diplomatico . Essa iniziò abbastanza presto a sviluppare una propria cultura giuridica che col tempo diede vita a una scienza del diritto: l'unica scienza dell' an tichità che non fu iniziata dai greci ma appunto dai romani, a partire dal suo esercizio pratico. I presupposti di esso erano l'autorità del pretore - parte della costituzione svi luppatasi nel corso del tempo - e la specializzazione giuridi ca di alcuni eminenti senatori ed esponenti dell'ordine eque stre. Il loro terreno non era quello delle leggi ma dello sviluppo e dell'ulteriore affinamento del diritto, probabil mente per via della grande importanza che rivestiva la pro tezione degli aristocratici nei confronti dei propri clienti. Col tempo si aggiunsero anche le influenze della filosofia greca. Complessivamente, tuttavia, le esigenze culturali dei romani si mantennero entro limiti abbastanza ristretti. Mai accadde che venisse sospesa la validità di un ordinamento o che un intero sistema di regole e interpretazioni consolidate venisse messo in questione. Mai, almeno fino ai tardi anni della Repubblica, ovvero all'ultimo secolo prima di Cristo , fu necessaria una riflessione totalmente nuova sull'uomo e sugli dèi. E neanche allora, quando il vecchio sistema faceva ormai acqua da tutte le parti , lo si mise davvero in discussio ne. Emersero tuttavia alcuni dubbi e incertezze che condus sero i contemporanei a fare riferimento ai greci. Già in precedenza la civiltà ellenica aveva strappato una certa ammirazione ai romani. Essi avevano ben presto ini ziato a studiare il greco e nell'ultima fase della Repubblica la filosofia stoica ispirò loro nuove idee sul proprio potere. Per il resto, la filosofia in cui s ' imbatterono li interessò soprattutto sul piano accademico. Essi si appropriarono dei colti modi di vita dei greci (oltre che di molti bottini di 108
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guerra ) , ma solo nelle loro ville di campagna, mentre in città continuavano ad assumere uno stile spiccatamente romano. Collezionavano opere d' arte e costruivano biblioteche che non mancavano di utilizzare. E i loro governanti si facevano volentieri adorare come dèi, secondo il modello dei monar chi ellenistici. Erigendo la sua monarchia sulle macerie della Repub blica, Augusto si ricollegò intelligentemente all'eredità ro mana, ricercando nel mondo delle immagini22 , dei templi, del foro, del ritratto, dei motivi un nuovo e convincente linguaggio formale unitario che succedeva al disordinato sviluppo artistico della tarda Repubblica. Nacque così un'arte romana fortemente influenzata dal classicismo greco. Nella stessa epoca fiorì la poesia che, ispirata e fecondata in vario modo dai greci, reagiva alle distruzioni e ai pericoli del tempo elaborando forme del tutto nuove. Iniziò così la simbiosi greco-romana dell'età imperiale che, nonostante tutti i fossati che continuarono a separare l'oriente greco dall'occidente romano , creò una familiarità tra le due parti, e soprattutto dei romani nei confronti dei greci. L 'arte, la cultura, il sapere e la filosofia elleniche tornarono a diffondersi sia in termini territoriali che a livel lo sociale (mentre a est dell 'Impero la loro influenza stava diminuendo) . Il contributo romano alla civiltà dell'Impero consisté innanzi tutto nell ' assicurare la pace e nel garantire l'ulteriore evoluzione del diritto (il periodo più splendido della scienza giuridica coincise con l'Impero ) , nonché un governo e un'amministrazione ordinati e capaci di atti di generosità. Inoltre i romani ebbero uno stupefacente suc cesso nel colonizzare i vasti territori a occidente dell'Impe ro , nei quali fondaron o , costruirono e organizzarono numerosissime città. Inoltre essi costruirono strade e porti, templi, teatri, terme e piazze e dischiusero intere regioni. Né si possono dimenticare le grandi opere della pittura, della storiografia e della filosofia. Roma rivelò una straordinaria capacità d'assimilazione. Ovunque nella parte occidentale dell'Impero si parlava la sua lingua, il latino. Col passare del tempo il diritto di cittadinanza romano si diffuse in modo generalizzato. I ceti 1 09
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dirigenti accolsero costantemente al proprio interno fami glie aristocratiche provenienti dalle varie parti dell'Impero, per quanto remote. L'Impero fondato da Augusto fu anche aiutato dalla fortuna. Per ben due secoli pochi rivali si affacciarono alle sue immense frontiere. A proteggere queste bastarono per tanto eserciti relativamente ridotti. Le tasse restarono quin di contenute. E la splendida estate di San Martino dell'an tichità fu contrassegnata da una diffusa fioritura di civiltà. Conclusa questa fase, tuttavia, le cose peggiorarono ra pidamente. L'Impero poté essere difeso solo al prezzo di gravi perdite e sottrazioni. Vi furono diverse spartizioni. La parte orientale, anche se ulteriormente diminuita, poté con servarsi fino al 1453 , in una lunga continuazione dell'epoca tardo- antica che permise la conservazione di gran parte degli scritti greci. Quando infine nella parte occidentale dell'Impero ro mano il potere fu assunto da re germanici, molti dei quali all'inizio erano ancora, nominalmente, dei reggenti dell'im peratore romano, la tradizione romana non s'interruppe, ma si diluì semplicemente. Anche se molti aspetti non pote rono essere conservati, restò la lingua, per quanto essa si frammentasse in diversi dialetti, destinati in seguito a di ventare lingue autonome. Essa poté essere in qualche modo ripristinata durante la Rinascenza carolingia. Sopravvisse anche il ricordo di un grande, duraturo Impero di impor tanza mondiale, delle sue armate vittoriose, del suo splen dore. Roma e il suo Impero divennero un mito, che andava al di là di tutte le fratture. E sop ravvisse la Chiesa, che aveva saputo gradualmente diffondersi e aveva iniziato a organizzarsi a dife�a dell'Im pero romano. Essa aveva da tempo accolto al proprio inter no un 'enorme quantità di elementi del pensiero greco-ro mano, per poi diffonderli a sua volta. L'emergere e la definitiva vittoria di questa religione fu ed è ancor oggi considerata spesso la causa - o una delle principali cause - del tramonto dell'antichità. Paul Veyne ad esempio, a proposito dell 'Impero romano, parla di «vio lento risalto al contrasto con la cristianizzazione»23 • Eppure 1 10
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il cristianesimo dell'epoca era pur sempre un figlio , se non addirittura un 'esigenza, dell'antichità. Certo , era una religione che veniva da altre terre, dalla Palestina ebraica, o più esattamente dalla Galilea, dove Gesù aveva predicato e raccolto attorno a sé una schiera di discepoli. E la sua dottrina, che predicava la prossima fine del mondo, il Dio che amava e perdonava, ma che era anche geloso, il figlio di Dio che metteva, per così dire, sotto sequestro chi rispondeva alla sua chiamata, era sostanzial mente estranea all'antichità greco-romana. «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo»24: dove, nell'antichità classica, si sarebbe potuto trovare qualcosa di simile ? E dov'era il comanda mento di amore verso il prossimo? Max Weber ha sottolineato con forza come una «tra le più importanti realizzazioni spirituali della missione paolina» sia stata quella di «aver conservato» l'Antico Testamento, «come un libro sacro del Cristianesimo. [ ] Per misurare la portata di questa impresa è sufficiente immaginare che cosa sarebbe accaduto senza di essa. Senza l' assunzione dell 'Antico Testamento come libro sacro sarebbero sorte certamente , sul terreno dell'Ellenismo, sette pneumatiche e comunità misteriche accompagnate dal culto del Kurios Christ6s, ma non vi sarebbe mai stata né una chiesa cristiana né un 'etica cristiana della vita quotidiana; infatti mancava qualsiasi base per uno sviluppo in questo senso»25 • Tuttavia, la dottrina si diffuse soprattutto tra i greci, e presto tra i romani. Greca era la lingua dei Vangeli. Paolo di T arso scriveva in greco le sue epistole. Greco e latino restava no le principali lingue della Chiesa . Singolare fu anche il fatto che la nuova religione producesse, nel II secolo, tutta una serie di teologi che con l'aiuto di metodi e forme di pensiero tipici della filosofia antica cercassero subito di confrontarsi con gli «idoli» su un piano di comprensione scientifica. In tal modo, molto del pensiero greco e romano confluì nel cristianesimo - soprattutto attraverso la scienza teologica, più che direttamente nei concetti fondamentali , per diffondersi ulteriormente in questa forma rielaborata. . . .
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Il fatto che questa religione dopo un secolo e mezzo potesse evidenziare una più ampia capacità di diffusione dipendeva soprattutto dal fatto che le forme antiche di società, di sfera pubblica, di orientamento dell'individuo erano sempre meno efficaci, meno riproducibili e soprat tutto meno capaci di accogliere nuovi contenuti vitali. Le promesse di salvezza, l'eccezionale potenziale di fede, l'in tensa vita comunitaria dei cristiani potevano pertanto eser citare una forza d'attrazione sempre maggiore. L'esegesi dei testi, le diverse tesi teologiche che su di essi si fondavano, le dispute tra i teologi che si svolgevano sul piano letterario ma anche nei sinodi: tutto ciò non sa rebbe stato assolutamente possibile senza una solida forma zione antica. Probabilmente una particolare forza dei cri stiani stava proprio nel fatto di saper dare risposte anche filosofiche alle domande dei contemporanei; ciò dava alla loro religione un'ulteriore dimensione. La filosofia antica veniva ravvivata, dentro e fuori la Chiesa, e riscuoteva un vasto interesse. In tal modo lo stesso cristianesimo feconda va la filosofia antica. Al tempo stesso , la nuova religione diveniva oggetto di dibattiti intellettuali. Il Vecchio e il Nuovo Testamento invitavano alla lettura ed esercitavano il loro fascino. Tuttavia il cristianesimo poté diventare religione uffi ciale dell'Impero solo dopo aver attratto a sé, con la crisi del III secolo, strati sempre più ampi di popolazione. Le perse cuzioni cui alcuni imperatori lo sottoposero finirono per rafforzarlo. Migliaia di martiri dimostravano che esso non poteva essere superato. Una volta divenuto religione uffi ciale, esso finì per essere anche una forza politica, e ciò ancora una volta avvenne su un binario che era stato trac ciato fin dall'antichità, stavolta soprattutto dall'Impero ro mano. Il cristianesimo dunque finì per assorbire in sé l'antichi tà, che lo pervase nell'esegesi, nella teologia e nell' organiz zazione ecclesiastica, nei concetti e persino nel lessico ; esso proseguì il processo di ellenizzazione e romanizzazione, coinvolgendovi nuovi popoli. Fece p roprie, fra le altre cose, la volontà e l'esigenza di porre domande. E finì per ripro1 12
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durre ciò che aveva assorbito. L'Occidente ha chiaramente recepito e utilizzato tutto ciò in una varietà di modi e con intensità sempre maggiore. Che cosa si può affermare dunque dell'antichità, in rife rimento alla questione della via speciale dell'Europa ? Una cosa è certa: anche come preistoria dell'Europa l'antichità non può in alcun caso essere ignorata. Più difficile è rispondere alla successiva domanda, se cioè la civiltà antica non sia stata addirittura una condicio sin e qua non dell'Europa. A tale proposito ci si può chiede re se l'evoluzione resa possibile, e anzi innescata in Europa dal cristianesimo, dal diritto romano e dalla filosofia antica potesse realizzarsi anche senza tali presupposti, nella prassi delle cancellerie, della borghesia medievale e moderna, del le dispute intellettuali, della concorrenza tra entità politi che, della costruzione dello Stato , ma anche nell' opinione pubblica, nei prodromi dello Stato di diritto e della demo crazia: di una democrazia su larga scala quale altre civiltà non hanno potuto esprimere. Avrebbe potuto tutto ciò essere elaborato fino a pro durre risultati uguali o simili a quelli sopra elencati, nelle diverse situazioni date, in assenza di quei presupposti favo revoli , e solo in virtù della forza dell'intelletto e di favorevo li condizioni di comunicazione?26 O non è piuttosto proba bile che quelle prassi non sarebbero mai nate senza l' eredità antica, e che dunque non si sarebbe mai approdati a gran parte di tali situazioni? Uno strato sociale più ampio, una borghesia, quando si tratta di creare le basi per una comune attività politica ha sempre maggiori difficoltà di un monarca: per quest'ultimo, infatti, raccogliere e organizzare le forze che gli occorrono per fondare e garantire il proprio potere è molto più facile e rapido di quanto non sia, per i ceti borghesi di un grande Stato territoriale, attivarsi con continuità sul piano politico . Ciò sarebbe anche potuto riuscire nelle città, è vero, ma che città sarebbero state, senza l'eredità antica? Come sarebbe stato possibile mobilitare in modo duraturo una volontà comune, una solidarietà orizzontale, e infine introdurre una democrazia su vasta scala, senza i presupposti antichi, senza 1 13
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i processi culturali e di acquisizione di conoscenze, senza la nozione della possibilità della democrazia, e senza i molte plici presupposti necessari affinché tutti i membri di una grande società considerino se stessi come cittadini e faccia no del proprio Stato una questione che li riguarda diretta mente? Non ci è facile rispondere a queste questioni, proprio perché riteniamo di disporre di tutto o quasi il sapere appa rentemente possibile, in forme e contenuti di ogni tipo, perché la volontà di appropriarsi, all 'occorrenza, di un sa pere prontamente predisposto è oggi generalmente ampia, e perché numerosi ostacoli sono venuti meno per la propria stessa specificità. Per secoli, invece, è stato molto difficile elaborare questo sapere e quella volontà: chi può ancora immaginare tali difficoltà ? Forse si dovrebbero conoscere meglio altre civiltà per rendersi conto di quanto sia possibi le realizzare in una situazione data, quando mancano i pre supposti di cui si è detto: in tali circostanze ben poco affida mento si può fare, probabilmente, sulla capacità degli uo mini di conquistare e difendere i propri diritti di cittadino . Ma forse dobbiamo cercare di ampliare i limiti della nostra attuale capacità di comprensione; in tal caso l' antichità ap pare, vorrei dire, come indispensabile precondizione del l'Occidente. Infine, la terza questione: è possibile che la via speciale europea sia iniziata proprio con i greci? E che quindi l'an tichità rappresenti la protostoria d'Europa? Alla domanda se Roma sia la base dell'Europa occidentale in senso moder no, Paul Veyne ha replicato che non è compito dello storico «confortare nelle loro illusioni genealogiche dei parvenus»27 . È vero, ma la questione è appunto se l'Europa occidentale fosse e sia un parvenu. È comunque degno di nota che essa non sembri tenere molto a questa genealogia. Tutto ciò che è emerso dalla riflessione sui greci non era già in qualche modo europeo, visto per giunta che altrove non lo si riscontra? Non c'è dubbio che i greci, i romani e gli uomini dell'epoca paleocristiana fossero profondamente di versi da noi. Ma non si può dire lo stesso anche dei bambini molto piccoli, di solito tanto più attraenti degli adulti che essi 1 14
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sono destinati a diventare, tanto diversi da loro? Per poter conoscere i greci e i romani, dobbiamo accettare il presup posto fondamentale secondo cui essi ci sono senz'altro estra nei. Ma non vale, ciò, anche per il medioevo, e per la maggior parte dell'era moderna? In fondo, non vale per qualsiasi storia, visto che noi stessi cambiamo tanto velocemente? È vero che gli antichi ignoravano sostanzialmente la scienza sperimentale, la tecnica, il capitalismo, i diritti uma ni e la dinamica che porta a sviluppare forme e stili sempre nuovi anche dopo aver perfezionato soluzioni classiche: ma non vale forse nulla il fatto che i greci abbiano scoperto la politica e i romani la scienza giuridica, oltre a un concetto molto elevato di umanità, sia pure applicato solo a determi nate p arti della società? Non conta nulla il fatto che l' autodeterminazione e la pretesa di conoscere il mondo come contesto governato da principi di regolarità siano emerse allora per dar vita poi a una lunga tradizione? Intendo sostenere la tesi che con l'antichità è nato qual cosa di totalmente nuovo nella storia del mondo, e che con essa non solo sono nati i presupposti di ciò che avrebbe poi costituito l'Europa, ma che è nata la stessa Europa. Per la prima volta una civiltà libera dal dominio , e so prattutto da quelle assoluzioni che esso implica per la gran de massa: una civiltà piena d'incertezza, ma anche disposta ad affrontare qualsiasi domanda, e a ricercare i mezzi per affrontare sia l'esperienza di un grande ampliamento degli orizzonti della propria azione, sia un profondo sconvolgi mento della propria vita fin nelle fondamenta. Fu così che nacque una nuova forma di esistenza umana. Autonomia, libertà, responsabilità ed eguaglianza dei cittadini, demo crazia sono solo una parte della questione. Ancor più forte è stato probabilmente, nel corso dei secoli, nell'abilitare gli uomini in Europa a molte cose di cui altrimenti non sareb bero stati capaci, e far sì che essi fossero adeguatamente istruiti, nel senso più completo del termine, il ruolo svolto da ciò che è custodito nella filosofia, nell' arte e nella lette ratura. Ad esso si aggiunsero prima Roma, con il suo diritto, la sua Repubblica, la sua sovranità, la sua cultura, e infine la nuova religione dei cristiani. 1 15
Atene e Roma: l'inizio della via speciale dell'Europa
L'eredità era ed è rischiosa. Essa ha condotto anche ad Auschwitz. Se tale eredità debba essere giudicata positiva mente o meno, è tutt'altra questione. Ma non è questo il punto in questa sede. Forse per il mondo sarebbe stato mi gliore se fossero stati i cinesi o gli indiani a conquistarlo, direttamente o indirettamente28• Ma i cinesi e gli indiani non l'hanno fatto, né probabilmente avrebbero potuto o voluto farlo, mentre l'Europa lo ha fatto senza che fosse l'antichità a spingerla in tal senso. Resta comunque la necessità di forni re un contributo decisivo sul tema di come l'Europa sia stata determinata dall'antichità stessa, dalle condizioni esistenti alla fine dell'Impero romano, da un'eredità conferitale in anticipo e da ciò che essa ha fatto, nelle condizioni sue pro prie, con altre componenti di questa eredità. Burckhardt ha affermato la necessità di indagare «non solo i nessi causali di tipo materiale ma, soprattutto, quelli di carattere spirituale», e soprattutto «il loro visibile rove sciarsi in conseguenze materiali»29• Lo si può riscontrare anche a tale proposito. È il nostro tempo (in Europa) a dover decidere, in ultima analisi, se accetta l'antichità come propria protostoria. Gli storici possono solo dire se ciò è accettabile sul piano scientifico. E ciò è, a mio avviso, fondatamente sostenibile. Il fatto che la civiltà antica sia tramontata con la sua epoca non costituisce un'obiezione rilevante. Infatti la storia europea è contrassegnata proprio dal continuo ricominciare da capo. Dall'antichità in poi, la civiltà europea propende all' azzardo: restano sempre aperte diverse opzioni e i tentati vi a seguito dei quali tutto viene rimesso in gioco finiscono sempre per aprirsi un varco. Anche la concorrenza fornisce un contributo in tal senso. La civiltà, così come non offre garanzie contro la barbarie, non è una casa sulle cui fonda menta, una volta poste, si possa costruire sempre qual cos'altro. In questo senso, il nuovo inizio dell'Impero romano, con i germani e il cristianesimo (limitatamente all'Impero di Occidente ! ) , fu qualcosa di estremamente europeo, che, ben al di là della sfera religiosa, incise sul piano politico non meno di quanto avrebbe fatto la successiva riscoperta del l' antichità. 1 16
A tene e Roma: l'inizio della via speciale dell'Europa
L ' antichità - soprattutto nella componente greca - ha sempre agito come forza fecondatrice . Occorreva però che i destinatari di questa sua azione non andassero perduti. Ciò che fu prodotto dal V e IV secolo avanti Cristo sareb be rimasto costantemente nell ' aria e cancellarne le tracce non sarebbe stato facile . Sarebbe bastata del resto a impe dirlo la conoscenza ampiamente diffusa che se ne ebbe prima nell 'Oriente ellenistico e poi nell 'Impero romano, dopo il quale furono il cristianesimo e Bisanzio , in modo diverso, ad assorbire quella conoscenza e a trasmetterla a loro volta . Forse oggi, a dispetto di tutto i l nostro sapere, siamo nuovamente di fronte alla necessità di un nuovo radicale inizio , di fronte alla fine del cristianesimo, dello Stato, della democrazia, della pretesa di comprendere ciò che accade nel mondo. Ricominciare da capo: è possibile che proprio in ciò consista la peculiarità della civiltà europea, dai greci in poi? Difficile che essa si risolva invece nei cosiddetti «beni cultu rali», che, per dirla con Nietzsche, vanno bene solo per i filistei. Libertà e vita non si possono possedere , dice Goethe, ma vanno conquistate ogni giorno. E lo stesso vale proba bilmente per la civiltà. Essa può essere meravigliosa, ma anche mostruosa. Può essere anche solo apparente. E ha i suoi limiti. A volte la civiltà può sfuggire al controllo: come mostra la lunga serie di misfatti europei, dall'antichità greca alle campagne militari di Cesare, alle crociate, all'olocausto de gli indiani d'America fino ad Auschwitz, Hiroshima e, so prattutto, Nagasaki . Come si fa a trovare gli antichi sempli cemente umani, si chiedeva Nietzsche?30 Come stanno le cose oggi? Questa è la domanda. Alcuni aspetti possono essere trattati dallo storico: ad esempio, in che modo scorra la storia su scala minore o, per meglio dire, nel medio periodo; oppure, dopo le drammatiche esperien ze del Novecento, come essa possa sfuggire completamente al controllo. Ma quanto a questo, speriamo, solo nel prossi mo secolo. 1 17
Atene e Roma: l'inizio della via speciale dell'Europa
Note 1 «Quidquid recipitur, ad modus rec1p1entis reCipltur»: Liber de causis, prop. 1 0 (in Tommaso d 'Aquino, Commento al libro delle cause,
Milano, 1 986) . Numerosi documenti simili esistevano già nel medioe vo: si veda la voce Rezeption un d Rezeptivitiit in Historisches Worterbuch
der Philosophie. 2
Su tale processo si veda Christian Meier, Athen. Ein Neubeginn der III; trad. it. Atene, Milano, 1 996.
Weltgeschichte, Berlin , 1 993 , cap. 3
Una buona panoramica in proposito si trova in Wolfgang Rollig,
Phonizier und Griechen im Mittelmeerraum, in Breuninger e Sieferle (a cura di) , Markt und Macht, cit . , pp. 45 ss. Burckhardt parla di «primo esempio di una mobilità e di un'attività libere e incondizionate» (Sullo studio della storia, cit . , p. 1 3 0 ) . 4 Molte delle caratteristiche che l ' avrebbero contraddistinta p e r sem pre sono state sviluppate solo a partire dall'esilio. Sarebbe interessante sapere se la sorprendente descrizione dei diritti di un re da parte di S amuele (l Samuele 8, l ss.) risalga alla fase più antica.
' Burckhardt, Sullo studio della storia , cit . , p. 1 0 1 . 6
Accanto alla solidarietà verticale, che collega, perlopiù i n termini di
do ut des, il livello inferiore con quello superiore - per esempio gli
aristocratici e i loro seguaci, i politici e i loro clienti - esiste in linea di p rincipio la possibilità di collegarsi in modo orizzontale, interagendo più o meno allo stesso livello. In tal caso il livello inferiore si rivolge contro quello superiore; per i membri di una cittadinanza, ad esempio , è più importante restare complessivamente uniti tra loro che ricercare vantaggi a livello individuale nella relazione con i «superiori» . Tra i cittadini greci questo aspetto era particolarmente pronunciato (cfr. Meier, A then, cit . , pp. 2 0 1 , 206, 399) . Ma in certa misura è presumibile che in qualsiasi democrazia , accanto ai diversi legami verticali, sia all'opera l'elemento comune di una solidarietà orizzontale: esistono infatti anche importanti interessi in comune, relativamente al diritto, alla partecipa zione, all 'attenzione per il parlamento e così via, rispetto ai quali le differenze particolari d'interesse dovrebbero arretrare. 7
Karl Reinhardt, Von Werken und Formen, Godesberg , 1 948, p . 3 6 .
8
A tale proposito o r a Meier, A rbeitsauffassungen , cit.
9 Tonio Holscher, Offentliche Riiume in /riihen griechischen Stà"dten , Heidelberg, 1 998. Manca tuttora uno studio di sintesi al riguardo. Alcu ni spunti in Jacob Burckhardt, Griechische Kulturgeschichte, Darmstadt, 1 95 7 , vol. IV; trad. i t. Storia della civiltà greca, III ed. Firenze, 1 988, pp. 3 60 ss . , 474. 10
Al riguardo Ch ristian Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, Frankfurt a.M. , 1 980; trad . it. La nascita della categoria del politico in Grecia, Bologna, 1 99 1 , pp. 73 ss . ; Id., Die Griechen - die 1 18
Atene
e
Roma: l'inizio della via speciale dell'Europa
politische Revolution der Weltgeschichte, in «Saeculum», XXXIII ( 1 982 ) , p p . 1 3 3 ss . ; Id., Die Entstehung einer autonomen Intelligenz bei den Griechen, in Id. , Die Welt der Geschichte und die Provinz des Historikers, Berlin, 1 989, pp. 70 ss. 11 S u Salone cfr . Meier, Athen , cit . , p p . 6 8 s s . La citazione s i trova nel frammento 16 Diehl ( cfr . eventualmente anche Eraclito , frammen to 5 4 ) . Su Anassimandro: J ean-Pierre Vernant, Les origin es de la pensée grecque, Paris , 1 962 ; trad. i t. Le origini del pensiero greco, Roma, 1 97 6, pp. 1 0 1 ss. 12 Cfr. l'edizione rielaborata di Christian Meier, Politik und Anmut, Stuttgart-Leipzig , 2000 (trad. it. della ·I ed. Politica e grazia, Bologna, 1 989) . 0 Burckhardt ritorna costantemente sui due «grandi centri di scam bio spirituale», o «focolai culturali», Atene e Firenze (Sullo studio della storia, cit . , pp. 269 s . , 1 3 1 ) . «Luoghi simili producono perciò, anche tra i propri cittadini, una quantità incomparabile di individui notevoli, ed è grazie a questi che continuano ad avere effetto nel mondo. Non si tratta, come nelle grandi - e addirittura nelle medie - città moderne, " delle molteplici occasioni di istruzione " , poiché queste ultime p roducono solo mediocrità pretenziose che, con perseveranza e grazie ai vantaggi offerti dalla vita sociale, si impadroniscono delle posizioni disponibili produ cendo un generale gusto alla critica, bensì del fatto che la situazione eccezionale risveglia le energie migliori». 14 Le citazioni provengono da un poscritto di A. von Salis , Ober das Studium der Geschichte, cit. , pp. 5 1 4 s . , dove è possibile che le afferma
zioni di Burckhardt non siano state riportate in modo completamente fedele . Comunque in altri passi di Burckhardt si possono ritrovare chiari paralleli per la tesi lì presentata; ad esempio: «In nessun paese del mondo la poesia rappresentò mai un bisogno più urgente» (in riferimen to ai cantori, in Storia della civiltà greca, cit. , vol . l, p. 445 ) ; oppure: «Nulla è più estraneo alla nostra mentalità che un popolo il quale non chieda le novità del giorno, ma cerchi col più vivo interesse notizie particolareggiate sugli Dei e gli eroi da lui stesso creati, rimasti però incompleti o orridi, e ora p resentatigli in tanta bellezza e pienezza di vita» (ibid. ) . 1 5 Tonio Hi:ilscher, Die unheimliche Klassik der Griechen, Bamberg, 1 989, probabilmente la principale indagine recente sul tema, in partico lare p. 26. 16
Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , p . 1 92 .
17
Sui punti d i vista che ritengo importanti i n questo contesto: Meier,
L 'arte politica della tragedia greca, cit . , oltre a Id., Atene, cit.
18 Ciò è p robabilmente esatto, anche se in un altro genere Oa storiografi a ) , nonostante tutte le «p resunzioni di senso» che in essa, da tanto tempo, giocano un ruolo (Meier, La nascita della categoria del politico in Grecia, cit . , pp. 3 96 ss. e passim) , domina il precetto scientifi-
1 19
Atene e Roma: l'inizio della via speciale dell'Europa
co dell' attenersi rigorosamente a ciò che è indagabile sul piano empirico, e in particolare il riconoscimento che le contingenze sono estremamente forti nella storia. In ogni caso, per quanto riguarda tale secolo ciò che si può osservare (prescindendo dai cambiamenti nel corso del tempo) è la tendenza a mettere in primo piano una volta ciò che è tipico (p. es. nella scultura ) , un'altra volta ciò che è dotato di senso totalmente evidente, un'altra volta ancora la dura verità di ciò che è semplicemente fattuale o la terribile assurdità; sempre comunque sullo sfondo si avverte l'espe rienza dell'inaudito, di ciò che supera i limiti . 19
Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , p. 1 03 .
20
Platone, Lettera VII, 325e (in Lettere, Bari, 1 948, p . 25 ) .
2 1 Aristotele, Politica , cit . , 1 3 27 b 2 9 . 22 Paul Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, Miinchen , 1 987 ; trad. it. Augusto e il potere delle immagini, Torino, 1 989. 2 3 Pau! Veyne, Histoire de la vie privée. l : De l'Empire romain à l'an mil, Paris, 1 985 ; trad. it. La vita privata . 1 : Dall'impero romano all'anno Mille, Roma-Bari, 1 988, p . IX. 2 4 Luca 14, 26. 2 5 Weber, Sociologia della religione, cit . , vol . II, pp. 369 s s . (la citazio ne è a p. 3 7 0 ) . Sulle parti qui omesse della sua riflessione, cfr. Wayne A. Meeks , Die Rolle des paulinischen Christentums bei der Entstehung einer rationalen ethischen Religion , in W. Schluchter (a cura di) , Max Webers Sicht des antiken Christentums, Frankfurt a . M . , 1985 , p. 3 63 ; e, nello stesso volume, John Gager, Paulus und das antike ]udentum. Eine Kritik an Max Webers Interpretation, pp. 3 86 ss.
2 6 Questa sarebbe stata l'opinione di Herbert Spencer (secondo Ernst Schulin, Das alte un d neue Problem der Weltgeschichte als Kulturgeschichte, in «Saeculum», XXXIII, 1 982 , p. 1 64 ) . Se si considera la citazione nel suo contesto ci si rende conto che si trattava soltanto di un'obiezione contro le affermazioni sul primato dell ' istruzione classica su quella scien tifica: «Se la Grecia e Roma non fossero mai esistite, la vita umana e la sua retta condotta sarebbero state nella sostanza esattamente quali esse sono adesso : sopravvivenza e morte, salute e malattia, prosperità e mise ria, felicità e sofferenza, sarebbero state com unque determinate dal l' adattarsi o meno delle azioni ai bisogni» (Autobiography, vol . II, London, 1 904 , p . 3 7 ) . Nel complesso le ripercussioni dell' antichità non andreb bero viste soltanto nell'assunzione diretta di modelli , come fa ad esem pio Moses Finley nel contributo The Legacy o/ Greece. A New Appraisal, Oxford, 1 98 1 . 27
Veyne, La vita privata , cit . , p . X .
2 8 La domanda è stata posta di recente anche dal presidente del
Sudafrica Mbeki nel corso di una visita di stato. L ' ammiraglio cinese Cheng Ho avrebbe portato via dali' Africa solo animali per lo zoo del suo imperatore.
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Atene e Roma: l'inizio della via speciale dell'Europa 29
Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , p. 3 5 .
3 ° Friedrich Nietzsche, Wir Philologen , n . 1 1 6, in Unzeitgemi;ifle Betrachtungen, edizione Kroner, p. 5 7 2 ; ibidem, n. 29, p. 546: Falsche Idealisierung des Altertums <
12 1
IV
Agire e accadere, politica e processi: il luogo e la responsabilità nella storia
Viviamo la storia in termini assolutamente nuovi e la sospingiamo in avanti in modo incredibilmente rapido e completo . Tutt'intorno si modificano le condizioni della nostra vita, del nostro mondo: il lavoro , il traffico, i mezzi e i modi di comunicazione, la ripartizione e l'utilizzo del tempo, il rapporto tra i sessi, l 'aspettativa di vita, il clima, la medicina e la tecnologia genetica (e tra poco, probabilmen te, la clonazione di esseri umani ) , per non parlare delle convinzioni e dei giudizi di valore, delle strutture della personalità, della famiglia, della società, dello Stato. Citia mo solo questi aspetti, ma ciascuno di noi potrebbe allunga re l'elenco. Volenti o nolenti, tutti - o quasi tutti - siamo attivamen te coinvolti in questi processi di cambiamento. È vero che tale cambiamento è promosso in primo luogo da una gigan tesca rete di centri e laboratori di ricerca distribuiti in tutto il mondo, da scienziati di ogni tipo, dalle più varie agenzie, da consulenti d'impresa, direzioni di complessi industriali, mogol mediatici e amministratori di ingenti somme di dena ro. Ma tutti questi soggetti ben poco potrebbero senza i consumatori, senza coloro che vanno alla ricerca di guari gione e di lunga vita, senza gli appassionati di viaggi, senza coloro che si lasciano trascinare dalla moda e non vogliono passare di moda, senza i seguaci appassionati dell'ultimo grido, senza coloro che navigano in rete, senza uomini d' af fari, artigiani, scienziati, politici e così via: sono tutti costo ro ad appropriarsi delle nuove possibilità, ad adattarsi sem pre più al nuovo, a servirsene e a sospingerlo oltre. Il numero delle scoperte e delle invenzioni cresce note volmente ogni anno . Ogni cosa viene conosciuta, trasfor mata, ricombinata e ulteriormente sviluppata, al ritmo più 123
Il luogo e la responsabilità nella storia
veloce possibile e su scala mondiale. Nessuna conoscenza teorica deve attendere molto prima di essere convertita in termini pratici e ricchi di conseguenze, e superata. Mentre un tempo - in molti luoghi fino ad oggi - le attività quoti diane della massa degli individui, nel loro complesso, erano orientate soprattutto alla riproduzione di ciò che è consue to e consolidato, o al massimo ad un suo leggero migliora mento , oggi le nostre azioni quotidiane contengono una percentuale di innovatività, se non addirittura di speri mentalità, incomparabilmente maggiore. Ciascuna di queste attività, presa singolarmente, ha di solito - nonostante le fantasie di onnipotenza di alcuni ricercatori di genetica - scopi estremamente limitati, e tutto ciò a dispetto della grandiosità con cui la maggior parte di esse appare, ancor più se confrontata con ciò che si conside rava possibile fino a pochi anni prima. C'è chi desidera studiare determinati argomenti e avanzare in carriera, chi ha semplicemente la passione per gli esperimenti, chi si diverte a fare lo hacker, chi cerca nuove cure per una deter minata malattia; molti cercano di primeggiare; tutti voglio no attirare o guadagnare denaro; il denaro, dal canto suo, fa di tutto per moltiplicarsi. Ovunque l'innovazione si propo ne, in base all'esperienza o all' aspettativa. Pochi sono consapevoli di modificare, in tal modo, la vita di qualcun altro in un altro luogo, e magari in tutto il mondo: ma è proprio questo ciò che tutti insieme produco no - produciamo. Ciò avviene attraverso gli effetti seconda ri, involontari, delle nostre azioni intenzionali. Questi effet ti collaterali normalmente non sono voluti, spesso ci sono addirittura ignoti, ma confluiscono comunque nei grandi processi di cambiamento del nostro tempo, dando loro ul teriore impulso. Il risultato complessivo è che le cose da sole si modificano anziché restare uguali come facevano un tempo. Certo, in alcuni casi si producono solo piccole va rianti, in altri casi il nuovo si smarrisce, ma in moltissimi casi il cambiamento appare registrarsi nelle nostre condi zioni di vita e persino in noi stessi. Complessivamente, disponiamo di un immenso patri monio e di mezzi sempre maggiori, con cui possiamo arriva124
Il luogo e la responsabilità nella storia
re addirittura ad annientare la vita sulla T erra; dominiamo parti sempre maggiori della natura, ma . . . siamo in grado di fare lo stesso per quanto riguarda il processo di cambia mento? Per quel che è dato vedere, le istituzioni create nell'arco di periodi piuttosto lunghi per tenere sotto controllo la situazione - Stati, parlamenti, governi e le varie associazioni da essi create per fare ciò che non potevano più fare da soli, come l'Unione Europea o l'ONu (e relative conferenze come quella sul clima) - riescono a spingere o a frenare legger mente qua e là il cambiamento , e talvolta a incanalarlo, ma nell'insieme si limitano tutte a correre dietro a ciò che nasce e si sviluppa senza il loro concorso, cercando, in situazioni di fatto che mutano costantemente, di approfittare della propria posizione per dare delle basi giuridiche o porre dei limiti alle tendenze del momento. Quanto più forti sono le dipendenze reciproche (e quanto più lunghe le catene d'interdipendenza) in un mondo sem pre più privo di confini e con distanze sempre minori1 , tanto meno pare possibile esercitare il controllo, prendere decisioni politiche, effettuare un dibattito politico serio e non effimero, e tanto più si avverte una penuria di democra zia, si percepisce, di regola, la perdita di rilevanza della politica, si riduce il numero di accadimenti politici o, me glio, cala l'interesse dei cittadini per gli accadimenti politici che non siano (cosa però assai rara) semplici eventi. Per ridurre tutto a una formula che si è dimostrata valida nell'osservazione storica, siamo di fronte allo spalan carsi di un divario tra mutevolezza e controvertibilità: po che sono le cose controverse (nonostante le differenze di opinione, che ormai hanno perso d'importanza) , mentre un'immensità di cose è modificabile, ed effettivamente si modifica; ciò vale naturalmente an che nell' ambito della politica, con conseguenze potenzialmente catastrofiche2• È difficile valutare l'importanza di tutto ciò. In ogni caso l'elemento politico resta decisamente indietro rispetto ai mutamenti che si producono indipendentemente da esso; il politico - ossia quell'elemento che consente alle società di porre all 'ordine del giorno i problemi del proprio tempo 125
l/ luogo e la responsabilità nella storia
che si manifestano sia al loro interno che nelle relazioni tra di esse, di risolverli attraverso il confronto e dunque di mantenerne in qualche modo il controllo - soggiace a sua volta a numerosi cambiamenti più o meno autonomi. È una situazione speciale? Forse essa è solo espressione della particolare spinta di accelerazione del nostro tempo ? Com 'è che si rapportano di solito, nella storia, mutevolezza e controvertibilità, politica e processi di cambiamento ? In termini più generali , ci si può chiedere in che modo nasca la storia stessa o, meglio, se in essa sia possibile ricono scere determinate forme, determinati modi di coinvolgimento degli individui, grandi e piccoli che siano , in funzione delle posizioni in cui si trovano o che essi possono raggiungere. In che modo, a partire dagli affari cui ciascuno di noi si dedica, ma anche dai nostri discorsi, dai nostri pensieri e dalla nostra distrazione, si fa la storia? Quale posto, quale collocazione - e dunque quale responsabilità - ha poten zialmente, in essa, ciascun individuo ? È vero che di tutto ciò cui possiamo contribuire portiamo una qualche respon sabilità, o questo per la storia non vale? Da ciò discendono altre domande. Come si affronta tale responsabilità? Come la si assume? Consapevolmente e/o inconsapevolmente? Queste domande verranno affrontate in relazione a diverse epoche, poiché forse è effettivamente possibile distinguere determinate forme in cui la storia si realizza. Dovremmo guardarci - scrive Reinhart Koselleck - dall' appli care in maniera globale e indiscriminata la frase moderna secondo cui la storia può essere fatta. Gli uomini sono responsabili delle loro storie, in cui vengono coinvolti, indipendentemente dalla cir costanza che siano colpevoli o meno di ciò che consegue alle loro azioni. È dell ' incommensurabilità fra l 'intenzione e il risultato che gli uomini devono rispondere ; e ciò conferisce un senso in ultima istanza veritiero al detto secondo cui la storia viene fatt a3 •
Koselleck parla della responsabilità degli uomini per le storie - al plurale -, e non per la storia, ma già questa forma è abbastanza problematica. Il senso comune dice che si è responsabili di ciò che si fa. E si può essere anche responsa bili, persino secondo il codice penale, di omissioni, ad esem126
Il luogo e la responsabilità nella storia
pio di soccorso . In entrambi i casi, la cerchia di coloro nei cui confronti si porta una responsabilità è piccola e raccolta attorno alla propria persona. Vi sono però diversi soggetti verso i quali, o per i quali, si è responsabili in senso più ampio, in termini sia di azioni che di omissioni. La famiglia, i figli, gli alunni, gli studenti, i soldati del proprio reparto ; i binari e il parco vetture per quanto riguarda i tramvieri, la città per quanto riguarda il magistrato, lo Stato per quanto riguarda il governo, il parla mento, i funzionari pubblici ecc. Subito dopo si potrebbe o forse ormai si deve - parlare di Europa, se non addirittura dell'umanità. In tutti i casi sopra citati la responsabilità si proietta al di là del presente, verso il futuro. La parola latina providentia, dalla quale deriva prudentia, ossia sapienza, esprime capacità di prevedere e al tempo stesso cura, pre mura: caratteristiche divine (providentia dei) , ma proprie anche dell'imperatore romano e dello statista. Fin qui è tutto chiaro, se prescindiamo per ora dal modo in cui tale responsabilità si distribuisca (sui cittadini di una città, sui soldati di un esercito ecc. ) . Ma si può essere responsabili anche nei confronti della storia, ovvero storie che siano ? Koselleck parla di incommensurabilità tra intenzione e ri sultato, di «disparità di misura», vale a dire di una differen za tra le unità di misura applicate rispettivamente alle inten zioni e ai risultati, e ciò vale sia nel particolare che nel generale. Questo dato di fatto veniva un tempo espresso con la bella formula secondo cui «l'uomo propone, Dio dispone». Da quando esiste la storia, dal V secolo prima di Cristo , si sa che gli accadimenti storici sono la risultante dell' azione disordinata di molte forze in circostanze spesso estrema mente casuali: ed è appunto questa nozione, prima di ogni altra cosa, che rende necessaria, e dunque possibile, la storiografia, come accadde per la prima volta, non a caso, con i greci. In che modo, dunque, gli individui, ma anche le città, gli eserciti, gli Stati possono essere responsabili di accadimenti condizionati da tale molteplicità di fattori? Per quanto essi, come dice Koselleck, debbano rispondere di ciò e pagarne le conseguenze, per quanto sia possibile rim127
Il luogo e la responsabilità nella storia
proverare loro errori o crimini, probabilmente la storia (pic cola e grande) non era nelle loro mani, né essi potevano prevedere in anticipo molte delle cose che sarebbero acca dute e che avrebbero contribuito a realizzare4• La problematica della responsabilità dell'uomo nei con fronti della storia è stata fortemente avvertita proprio nel XIX secolo, anche come conseguenza della Rivoluzione fran cese, in relazione all'inedito sorgere di una consapevolezza (moderno-borghese? ) di sé. Studiando le vicende della ri voluzione, Georg Biichner riscontrava «nei rapporti umani un'ineluttabile violenza, concessa a tutti ed a nessuno» : «Il singolo è solo schiuma sulle onde, la grandezza è un puro caso , la sovranità del genio una commedia di burattini, un ridicolo lottare contro una legge ferrea: riconoscerla è la cosa suprema, dominarla impossibile»5 . E Friedrich Engels, nel 1 890, con questa efficace formulazione descriveva l'im potenza dell'uomo nella storia: sono perciò innumerevoli forze che si intersecano tra loro, un gruppo infinito di parallelogramm i di forze, da cui scaturisce una risultante - l ' avvenimento storico - che a sua volta può esser considerata come il prodotto di una potenza che agisce come totalità , in modo non cosciente e non volontario6.
Lorenz von Stein riteneva che «quanto maggiore è l'im portanza della storia universale, tanto minore è ciò che all'interno di essa non solo l'individuo, ma tutti gli indivi dui, alla fine, possono in essa»7• Via via che la situazione si faceva sempre più difficile, germogliavano le speranze. Già nel 1 878 Engels aveva scritto : «Le forze obiettive ed estra nee che sinora hanno dominato la storia passano sotto il controllo degli uomini stessi . Solo da questo momento gli uomini stessi faranno con piena coscienza la loro storia [ ] È questo il salto dell'umanità dal regno della necessità al regno della libertà». L' «organizzazione consapevolmente pianificata» del futuro finiva così per apparire possibile, almeno in alcuni momenti. I grandi statisti hanno sempre sottolineato con forza la differenza tra le loro possibilità e il risultato finale ottenuto. . . .
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« [ . . ] solo Dio è in grado di vedere la fine ultima delle cose è necessario prevedere in anticipo il risultato di ciò che si vuole realizzare, anche se per intraprendere un progetto è sufficiente sapere che esso è giusto e praticabile»: così Richelieu8• E Bismarck paragonava lo sviluppo storico di un paese a un corso d' acqua troppo potente e impetuoso «per ché un individuo lo possa determinare in anticipo. Non si può assolutamente fare la storia del mondo». «Noi faccia mo il nostro dovere nel presente [ . . ] quanto tempo richie derà, dipenderà da Dio»9• All'altra estremità della scala sta un uomo come Hitler, che diceva continuamente di voler fare la storia. « È indiffe rente, in ultima analisi, quale percentuale del popolo tede sco sia quella che fa la storia. Ciò che conta è solo che gli ultimi a fare la storia, in Germania, siamo noi»: queste le parole che pronunciò in un discorso tenuto poco prima del 30 gennaio 1 93 3 . Hitler si vedeva dunque in una sorta di dialogo costante con la storia. «Quale Fiihrer e cancelliere della nazione tedesca e del Reich annuncio ora davanti alla storia l'entrata della mia patria nel Reich tedesco»: così si espresse a Vienna il 14 marzo 1 93 8 . Si trattava, nelle sue stesse parole, della «massima realizzazione della mia vita». L'entusiasmo intorno a lui era al culmine. Un funzionario di polizia bavarese riferiva con ammirata precisione dell' «agi tazione», dello «sgomento» e dell' «inquietudine» suscitati dall'ingresso dei tedeschi in Austria. Tuttavia, «consideran do il grande avvenimento e dato che la cosa è andata tanto liscia e si è svolta senza spargimento di sangue, la faccenda non viene presa tanto tragicamente»10. Hitler, a proprio modo, ha condotto ad absurdum il celebre detto secondo cui «gli uomini fanno la storia». Treitschke probabilmente non aveva inteso quest' afferma zione nel modo in cui viene generalmente interpretata. Pur sopravvalutando l'importanza dei grandi personaggi, egli intendeva solo dire che nella storia, come in natura, non esistono leggi, e che in essa domina la libera volontà, in quanto in essa operano uomini: il che non esclude che molto non sia il risultato dell' agire, ma piuttosto dell' «acca dere» 1 1 . Inoltre, l'affermazione di Treitschke viene spesso .
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utilizzata intendendo con il termine «storia» la «politica». «Fare politica» è un 'espressione comune, e assolutamente non falsa, che si può facilmente applicare anche alla storia, dal momento che per un certo tempo è parso che i due concetti fossero convergenti. Ma in questi casi la politica è spesso interpretata in un senso particolarmente ricco di conseguenze e si ritiene che siano i grandi uomini a farla. Se così fosse, dovrebbe essere all'altezza di questa pretesa an che la particolare responsabilità attribuita ai grandi perso naggi ( che di solito sono tali solo in apparenza) per le «storiche decisioni» che essi prendono12• Per il resto, gli effetti dell'attività politica rimangono confinati a dimensio ni minori. Ma se la responsabilità della politica (nel quadro delle possibilità umane) dev'essere accettata e quella della storia no, non resta che attribuire la responsabilità di ciò che accade a un 'istanza superiore, ossia a Dio. Questa è stata in effetti l'interpretazione di molti storici e statisti. E noi ab biamo pochi motivi per dubitare che essi la pensassero davvero così. Spesso tuttavia si trattava solo di una formula che pote va essere facilmente sostituita da altre: la «Provvidenza», il «destino», o - in caso negativo - la «fatalità». Versagen und Verhangnis, «fallimento e fatalità»: così il titolo del libro in cui Alfred Heuss ha parlato del «disastro della storia tede sca e della sua comprensione»13• E sempre si parla, in riferi mento ai tedeschi del periodo nazista, di seduzione, fatalità, destino, o anche di irretimento. O si afferma che «la storia» avrebbe voluto questo (o quello) , assegnando così ad essa la responsabilità delle proprie azioni. Con lo strapotere della storia si riescono a spiegare molte cose, e quando ci si riferisce ad essa è soprattutto per dire che non si ha colpa di quanto accaduto. Tuttavia gli storici non possono, a rigore, tener conto dei disegni divini, a meno che non vogliano vedere un segno divino nel fatto che per lunghi periodi di tempo non si siano verificate catastrofi nonostante la banalità di tanti politici. Gli storici devono attenersi alla nota formulazione di Marx: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno 130
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in modo arbitrario , in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione»14• Possiamo aggiungere che gran parte di ciò che gli uomini fanno con fluisce a sua volta nelle circostanze con cui essi stessi, o i loro immediati discendenti, si troveranno a confrontarsi. A volte tutto ciò finisce per accumularsi in forze che appaiono loro, appunto , come destino. Com'è dunque che «avviene» la storia? L'elemento più semplice che ne fa parte sono le azioni: quelle dei politici e degli Stati. Poiché politici e Stati non si trovano mai da soli nel loro campo d'azione, generalmente il loro agire cozza contro quello di altri e si giunge a conflitti, il cui esito è spesso determinato in parte dalle circostanze, come quelle meteorologiche nel caso di una battaglia o nella trasmissio ne di notizie, o come l'incontrarsi casuale con tutti gli ele menti che confluiscono in una determinata situazione, con altri accadimenti e così via. L' agire stesso è sempre racchiu so in un accadimento. Le stesse condizioni per l'intervento di un potere nettamente superiore sono spesso, sebbene in misura molto più ridotta, connotate come accadimentP5• Dalla successione di azioni e accadimenti nasce la storia politica (e militare ) . Erodoto fu i l primo che - nel V secolo avanti Cristo cercò di comprendere un pezzo di storia, tentando di de scrivere le azioni e gli avvenimenti verificatisi nel corso di un paio di generazioni. Egli si chiede soprattutto come, dopo una lunga convivenza tra greci e barbari, si fosse giunti al grande contrasto tra Oriente e Occidente, esploso nella guerra di Persia. Le risposte normalmente fornite non lo accontentavano e ciò lo indusse a studiare e a narrare, lungo un arco di tempo equivalente a diverse generazioni, la nascita del regno di Persia e il successivo conflitto. Sarebbe estremamente interessante seguire in dettaglio la questione dell'origine di questa guerra. Ma ciò che qui ci interessa notare è che questa sorta di osservazione storica, che oggi ci appare come un gioco da ragazzi (e che conside riamo dunque da tempo superata) , rappresentava allora una rilevante novità: il fatto stesso che un individuo osasse, 13 1
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a titolo privato, dedicarsi a un 'impresa tanto insolita, era tale che egli si accostasse agli accadimenti storici ponendo domande, che si sottomettesse all'imperativo di ricerca del le fonti e pubblicasse infine i risultati cui era giunto. Almeno la pubblicazione dei risultati era assente nelle grandi civiltà dell'Egitto e della Mesopotamia e nei regni limitrofi. In quelle aree le comunicazioni riguardanti avve nimenti storici non erano riservate a individui privati che ponessero domande, ma a istanze ufficiali o, per meglio dire, ai monarchi. Ed essi volevano ancor meno sapere che far sapere. Comunicavano di regola non gli avvenimenti ma le azioni, le proprie, che quasi senza eccezione apparivano coronate da successo. La spiegazione di determinati fatti era fornita in modo «autoreferenziale», ovvero l'accaduto era generalmente da ascriversi al merito loro , rappresentava un loro successo, mentre al nemico toccava solo la parte dell'oggetto, e solo perché un vincitore ha pur bisogno di uno sconfitto . Se in qualche raro caso ( come fecero gli ittiti) si parlava di qualcosa andato male, ciò era interpretato come castigo per le trasgressioni commesse16• Quanto era accaduto veniva inflitto al re, e dunque al suo regno, da una forza superiore, come punizione meritata, e non derivava da conflitti empiricamente ricostruibili tra diversi attori, svoltisi in circostanze accidentali. Il punto di vista era lega to al soggetto, non all'accaduto. Analogamente - e nono stante grandi differenze - il popolo d'Israele, secondo la versione successivamente diffusasi, indipendentemente da ciò che i suoi capi pensavano, era stato attaccato dal potente re assiro non già per motivi politici, né era stato sconfitto per la soverchiante forza militare di quel sovrano, ma per ché J ahvè aveva voluto punire il suo popolo dedicatosi all'adorazione di dèi estranei. Era il popolo stesso , colletti vamente, a d aver meritato ciò che gli accadeva. Certamente anche i monarchi orientali avevano la capa cità di interpretare vicende di breve periodo, avvenimenti, battaglie, missioni diplomatiche ecc. in modo «multisog gettivo», sulla base dell' azione contrapposta di diversi sog getti in condizioni date. Ma essi non erano evidentemente interessati a, o in grado di, ricostruire secondo tale approc132
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cio vicende che abbracciassero intere generazioni, o almeno di presentare pubblicamente simili considerazioni. Presu mo che ciò alla lunga avrebbe contraddetto la loro ambizio ne alla durata, all 'invulnerabilità dei loro regni, e forse anche il senso da loro attribuito agli avvenimenti. Molto di ciò che stava nei documenti ufficiali sarebbe sfuggito al loro controllo , sarebbe diventato incerto. Il fatto che Erodoto e i greci si avviassero per una strada tanto differente dipendeva da diverse ragioni. La politica per i greci - ad Atene ma anche, sia pure in misura ridotta, altrove -, non era qualcosa di segreto , ma era pubblica, era cosa dei cittadini; e ciò valeva in modo particolare per la conduzione delle guerre. I cittadini erano a conoscenza sia delle azioni che degli accadimenti. Anch'essi, certo, erano propensi a interpretare ciò che accadeva riferendolo al sog getto, come premio o castigo, o comunque come volere inflitto dagli dèi. Erodoto offre di ciò molti esempi, che gli erano stati dati insieme alle narrazioni su cui egli si basava. Ma egli non si accontentava affatto di ciò . La storia politica era a suo avviso (come i greci presumibilmente sapevano) molto più complicata. Sia per questo motivo, sia perché egli si considerava vincolato al precetto, proprio già della scien za greca più arcaica, di attenersi ai dati rilevati empiricamente, Erodoto arrivava a fornire una ricostruzione storica di come la guerra di Persia aveva fatto irruzione nel mondo tradizio nale, a partire dal corso delle vicende politico-militari che egli seguiva nel lungo periodo , fin dove le sue conoscenze gli consentivano di arrivare. Quanto accadeva non era allora il premio o il castigo che ci si era meritati , ma ciò che risultava da azioni e reazio ni, sotto forma di accadimenti, per periodi di tempo relati vamente lunghi. Questa storia politica era e restava il modo greco di vedere la storia (vale a dire lo svolgersi nel tempo di vicende di rilevanza generale) . Essa era e restava il contenuto essen ziale delle loro storie. I greci non sapevano invece che la «storia» ( come noi abbiamo appreso da poco più di due secoli) è un processo di cambiamento decisamente più am pio. Non che essi non avessero constatato cambiamenti 133
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fuori dell' ambito della storia politico-militare. Esisteva nel V secolo la dottrina secondo cui gli uomini, a partire dalle condizioni primitive delle origini, si erano creati una civiltà basata sull' agricoltura e sull' allevamento, fino alla nascita della città, ed era stata sviluppata tutta una teoria della nascita della civiltà, che tuttavia si riferiva solo alle basi della civiltà così com 'erano state poste molto tempo prima di allora. Solo Tucidide andò oltre, elaborando una storia su scala sempre maggiore, in termini di potere e di dimen sione, che arrivava fino al presente: egli ne aveva bisogno per dimostrare la tesi secondo cui non era mai esistita una guerra grande come quella da lui descritta. I greci sapevano anche che la filosofia era diventata possibile solo col passare del tempo e che da allora erano esistiti numerosi filosofi. La tragedia si era modificata. Molte erano state le invenzioni. Ma tutto questo sapere faceva parte di diversi ambiti specifici: la storia della tragedia rien trava nella poetica, quella della filosofia nella metafisica, e così via. Non si prendevano in considerazione tutte queste cose in modo sincronico, al fine di comporre una storia completa17• Mancavano le occasioni, ma anche le esigenze e le capacità per riconoscere e ricostruire la storia della socie tà e quella dell'economia. Naturalmente, in un 'epoca che viveva a grande velocità, come quella del V secolo, si notava anche che molte cose del presente cambiavano, che gli ideali tramandati spesso in vecchiavano o che per affermarsi accorrevano nuove moda lità di educazione, di ricerca del successo ecc. Ma anche ciò restava fuori della storia e costituiva materia di osservazio ne puntuale, a volte nell'ambito della stessa storiografia: ogni tanto infatti lo storico interrompeva l'illustrazione del le vicende per inserire un'osservazione su qualche novità del periodo di cui egli stava parlan do. Questo tipo di storia corrispondeva alla realtà di allo ra. La storia politico-militare, la storia delle azioni e degli accadimenti, era il vero elemento vitale dei cittadini greci, sia all 'interno di ciascuna città che nei rapporti tra queste . I greci erano in primo luogo cittadini: di tanto infatti erano già progrediti, pur negando qualsiasi rilevanza pub134
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blica agli altri , agli schiavi, ai non cittadini e alle donne. Al centro del loro interesse, della loro esistenza era la polis. Ad essa solevano dedicare tempo, attenzione ed energie infiniti . La loro esistenza domestica, il lavoro che even tualmente svolgevano erano d'interesse esclusivamente personale, e totalmente irrilevanti dal punto di vista col lettivo . L'importanza rispettiva degli individui derivava essenzialmente dalla loro partecipazione alla polis. Buono o cattivo che fosse il ricoprire cariche politiche - questa la tesi di Aristotele -, se i cittadini erano uguali dovevano assumere funzioni politiche in modo egualitario , ossia a rotazione. In ciò si esprimeva il loro rapporto reciproco18• Per gli strati inferiori forse contavano più i problemi del l 'esistenza materiale, ma per i ceti alti partecipare alla polis, alla politica, era e restava di grande importanza, ed era molto più un fine c h e un mezzo. Conseguentemente, la difesa di interessi extrapolitici (ad esempio di natura economica) veniva tenuta fuori dalla politica stessa. La fioritura economica raggiunta da Atene si realizzò per effetto della politica allo stesso modo in cui le feste, gli edifici pubblici, le tragedie ( che noi consideriamo parte della «cultura») facevano parte della vita pubblica , politica. I n u n mondo simile, l'agire e l'accadere politici erano due elementi centrali: nella città nel suo insieme, nei rapporti tra le città e negli ambiti più ristretti del vicinato . Macro e microstoria erano strettamente legate. Tutto il re sto veniva relativamente trascurato (mentre in condizioni diverse ne sarebbero anche potuti derivare mutamenti eco nomici e sociali) . I confronti politici erano gli unici avvenimenti e come tali venivano percepiti. Il cambiamento si registrava solo in termini di situazione politica. Quest'ultima cambiava per effetto di lotte, deliberazioni e decisioni sul campo di batta glia. Tutto veniva definito tra le parti coinvolte. Le sue conseguenze non uscivano mai dalla sfera politica e milita re. Le guerre potevano anche comportare grandi perdite di vite umane: nella guerra del Peloponneso - peraltro assolu tamente eccezionale sia per dimensione che per durata vennero dilapidate grandi quantità di risorse, in primo luo135
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go agrarie ma anche morali, oltre, naturalmente, al molto legname utilizzato per costruire navi. Nel complesso, tuttavia, si poteva pensare che il mondo restasse uguale a se stesso : l 'ordine sociale, la struttura economica, la schiavitù, la sfera pubblica come esclusivo appannaggio dei maschi e lo stesso mondo politico come mondo di poleis autonome. Il cambiamento si aveva solo quando l'una o l 'altra parte si rafforzava. È vero che, dal nostro punto di vista, si delineava un processo storico di lungo periodo che avrebbe messo capo alla sconfitta con la Macedonia e oltre. Ma è estremamente dubbio che allora si potesse percepire qualcosa di più di semplici mutamenti nei rapporti tra le città. Quando infine Atene perse la libertà, con la battaglia combattuta nei pressi di Cheronea, nel 3 3 8 , Demostene, che aveva consigliato l a guerra, fu decorato con una corona: la difesa della libertà andava onorata ed era più importante della sconfitta subita da Atene. In questo mondo l'interesse si concentrava, all'interno , sull'ordine politico della città e sul rapporto tra le sue diver se parti e, all'esterno , sull'importanza della città nel mondo greco e oltre i suoi confini. Ciò fu particolarmente vero per Atene, anche nell'epoca della democrazia. È su questo sfon do che si può chiarire in che modo e in quali termini si ponesse, per i greci, il problema della responsabilità (oltre l'ambito della famiglia e gli altri contesti più ristretti) . La democrazia e l'isonomia (suo stadio preliminare) furono rese possibili dai molti difetti e punti di debolezza del regime aristocratico. Fu la questione della responsabili tà di ceti più ampi nei confronti della polis (e del controllo su quest'ultima) a dare ad esse impulso e legittimazione. Secondo una testimonianza ( di epoca successiva) , lo statista attico Salone, che, per quanto si sa, fu il primo a incammi narsi sulla via che avrebbe condotto all'isonomia, lamenta va che i cittadini prediligessero le cose che vanno avanti da sole (agapan tò aut6maton) , che fossero cioè abituati a la sciare che le cose seguissero il proprio corso. La sua critica era probabilmente indirizzata soprattutto alle faide nobilia ri, in cui spesso all'omicidio seguiva la vendetta e a questa la ritorsione, in una sequenza potenzialmente infinita che dan136
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neggiava tutta la comunità. Salone puntava a spingere i cittadini a opporsi a questo stato di cose e a lungo andare ci riuscì19• Questo modo di risolvere i problemi facendone oggetto di discussione e di decisione collettiva in pubblico, che aveva dato buona prova di sé, finì per essere battezzato dai greci «porre le cose in mezzo (es meson) ai cittadini». Il problema sollevato doveva diventare oggetto di discussione pubblica e di decisione comune. Nelle democrazie greche qualsiasi questione di una qualche importanza era oggetto di decisione politica, in misura finora ineguagliata. La responsabilità principale era attribuita ai titolari di una funzione politica, il cui resoconto svolgeva un ruolo estremamente importante. Ma una responsabilità andava anche a coloro che erano intervenuti per suggerire una scelta e all'assemblea dei cittadini, cui si poteva rimprovera re di aver preso una decisione sbagliata. La decisione finale scaturiva dalla discussione. Gli accadimenti nel loro com plesso erano sotto il controllo dei cittadini, dal momento che sia il dibattito che la deliberazione si svolgevano tra di loro, in modo aperto. Restava il problema che i cittadini non sempre avevano il controllo di se stessi, soprattutto nel V secolo. La faziosità arrivava spesso a livelli notevoli. Le costituzioni stesse potevano essere estremamente di parte, dando il potere in un caso a pochi (oligarchia) , in un altro alla massa ( democrazia) . Così cambiamenti importanti fini vano per richiedere un sovvertimento costituzionale, e veni vano spesso ottenuti a seguito di sommosse. Non di rado si manifestavano processi di apprendimento patologico, o al tri fenomeni che venivano interpretati come forme di «accecamento» della ragione: in questi casi la razionalità sembrava scomparsa o sopraffatta dalle difficoltà della si tuazione. Problemi di questo tipo nel lungo periodo anda vano messi in conto e potevano essere evitati solo proget tando un ordine totalmente diverso, non greco, come fece Platone nella sua Politeia . Diverse erano le cose in politica estera, soprattutto in caso di guerra. In tale situazione, infatti, ciò che contava non era il giudizio o la decisione, ma la capacità offensiva e 137
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l'esito finale dello scontro. Questo dipendeva da molti fa t tori. Ci si poteva chiedere se gli dèi «fossero equanimi» verso le due parti . In tal caso la responsabilità poteva essere attribuita solo alla propria città, al proprio esercito (o al l'eventuale flotta) . Ma i cittadini dell'Attica erano passionali (o forse sarebbe meglio dire megalomani) , al punto da pu nire con la morte o con l'esilio i condottieri sconfitti. In alcuni casi ad Atene si pensò di poter pianificare un grande conflitto, ma l 'idea, suggerita dallo strapotere della città, non ebbe successo. Oltre l'orizzonte cittadino, fu un ' assun zione di responsabilità per la libertà dei greci di fronte alla minaccia persiana a determinare la politica ateniese con l'awio della lega marittima, dopo il 480. Che la guerra fosse un fenomeno ricorrente, era consi derato più o meno naturale (sebbene le grandi potenze, nell'iniziarla, si potessero trovare in condizione di doverla giustificare ) . Quando, nel IV secolo, si cercò di giungere a una pacificazione generale, si tornò a guardare oltre l' oriz zonte della propria città e ad appellarsi a una responsabilità per tutti i greci, ancorché collegata a interessi di potere. Problemi di questo tipo non esistevano, invece, per tut to ciò che restava uguale o che si riproduceva sempre nuo vo, vale a dire per tutto ciò che si trovava fuori dell' ambito della politica. Sarebbe stata proprio questa storia politica a stimolare, quasi duemila anni dopo, un «certo risentimento» in Kant, «a vedere gli uomini operare sulla grande scena del mon do»: egli riteneva che, «pur trovando talvolta una apparente saggezza in casi isolati», fosse «nell 'insieme un miscuglio di stoltezza, di infantile vanità, spesso anche di infantile mal vagità e mania di distruzione»20• Pur non potendo presupporre negli interessati un'in tenzione razionale, il filosofo avrebbe solo potuto tentare di «scoprire un disegno della natura [ . ] in questo contraddit torio corso delle cose umane» . Kant supponeva che, attra verso tutti gli antagonismi degli uomini, la natura volesse produrre una costante evoluzione verso il meglio . In tal modo, ciò che i greci avevano dato in gran parte per scontato diveniva un problema, si trasformava in una .
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questione di cambiamento necessario e profondo . Kant con siderava la politica (e la guerra) dall'esterno, da una posi zione distante, in quanto appartenente ad una società civile (ossia borghese) che aveva valori del tutto differenti da quelli «politici» dell'antichità e che dipendeva in modo ben diverso dalla pace, e in quanto figlio dell'epoca dell'Illu minismo. Soprattutto, egli assumeva e proseguiva una concezione dell'agire umano nella storia completamente estranea agli antichi: se per questi esisteva un rapporto immediato tra intenzione ed effetto , spezzato solo dall'azione di altri attori o da eventuali circostanze contingenti, nella concezione kantiana alle azioni e agli effetti diretti si affiancavano po tenti effetti collaterali e indiretti, di carattere non intenzio nale, i cui impulsi confluivano in grandi processi. Avversari, e addirittura nemici che si combattono, agivano, potenzial mente, nella stessa direzione, dal momento che, al di là dei conflitti e delle rivalità (ma per effetto di questi ) , tendevano a crearsi un nuovo «modo di pensare», un «consenso otte nuto in modo patologico» e in ultima analisi una lega delle nazioni21 • Mentre un tempo gli dèi greci potevano indurre deter minati individui a credere che il male fosse bene - era questo l' «accecamento», l'ate -, intromettendosi in certo modo nell'agire degli individui, degli eserciti o delle città, la natura di Kant non influenza l'azione dei singoli, ma ha organizzato le cose in modo tale da pervenire al risultato finale desiderato: essa si serve degli antagonismi degli uo mini come di una leva per perseguire i propri fini . Questa ipotesi si colloca in un contesto più ampio. La natura di Kant corrisponde, mutatis mutandis, alla mano invisibile di Adam Smith - che guida l'azione di tanti indi vidui in modo tale che essa possa servire al bene generale all' «inconsapevole necessità» di Schelling, all' «astuzia della ragione» di Hegel. Adam Ferguson riteneva che «le nazioni camminano barcollando su istituzioni che in realtà sono il risultato dell'azione umana e non la realizzazione di qual che disegno umano»22 • Analoga la posizione espressa da Giambattista Vico . 139
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Molte voci esprimono sorpresa per il fatto che gli uomi ni abbiano creato ogni possibile istituzione utile a migliora re il futuro, pur non avendone una conoscenza preventiva: al contrario, essi agiscono in direzione del futuro alla cieca, eppure in sintonia con ciò che esso sembra richiedere. Dall'altra parte si percepisce una grande discrepanza23• L'orizzonte in cui l'individuo generalmente agisce, soddisfa le proprie esigenze, conduce i propri affari, è estremamente ristretto , e così sono i fini egoistici che egli persegue. Ma il risultato che emerge dall'insieme di tutte queste azioni è imponente. Le merci vengono prodotte in massa, il benes sere si diffonde su vasta scala, la divisione del lavoro e i rapporti di scambio e di mercato promuovono processi di miglioramento di dimensioni senza precedenti. Lo stesso si può sostenere, con Kant, a proposito della politica, nell' ambito della quale dall'intreccio confuso delle peggiori e più folli intenzioni, attraverso tutti i possibili accadimenti, finisce per nascere il meglio . Al tempo stesso si osserva un divario tra la qualità mo rale delle intenzioni - spesso più che dubbie - dei singoli e le conseguenze estremamente positive della loro attività ai fini del bene comune. «Vizi privati, pubbliche virtù», sinte tizza Mandeville. La somma di tutto l'egoismo, tradizional mente vituperato e condannato, dei soggetti economici agi sce come forza positiva generando benessere pubblico. In Le passioni e gli interessi Albert O . Hirschman ha presenta to il contesto in cui si colloca questa scoperta24• Essa rappresenta l'esatto contrario di ciò che pensavano gli antichi. Secondo questi ultimi accorrevano virtù (e giudi zio) da parte di ciascun cittadino affinché la polis potesse prosperare; ciascuno di loro, se privo di queste caratteristi che, avrebbe potuto, come parte immediata della cittadinan za, provocare dei danni, e introdurre delle carenze nella cittadinanza stessa. Chi riteneva che il demos non possedesse virtù e giudizio sufficienti a condurre correttamente la polis doveva limitare i diritti politici dei cittadini e, nelle estreme conseguenze, nominare re dei filosofi (e viceversa)25• Inoltre ogni tipo di faziosità era considerato estremamente pericolo so, e la teoria indicava mezzi e vie per rimuovere i possibili 140
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punti di conflitto. Altrimenti si correva il rischio di divisioni, sovvertimento costituzionale, in ultima analisi di guerra civile. Nel Settecento , invece, il leader dell'opposizione bri tannica elogiava quest'ultima come His Majesty 's opposition (nell'Ottocento si sarebbe parlato di most loyal opposition) , e Ferguson sottolineava come gli schieramenti di partito e i conflitti fossero utili al bene comune26• . Che cos 'era cambiato rispetto all'antichità, ma anche rispetto ai secoli precedenti? Ci limiteremo solo a qualche osservaziOne. Esisteva uno Stato che garantiva la cornice entro la quale si potevano tollerare confronti anche accesi, almeno in Gran Bretagna, il paese da cui provengono, direttamente o meno , quasi tutte le osservazioni citate. Il conflitto non poteva spaccare lo Stato con la stessa facilità della polis composta esclusivamente dai cittadini. C'era ormai un mo narca situato al di sopra dei partiti e c'era un parlamento in cui tentare di comporre il conflitto. Ma esisteva anche una società: a rigore, ciò accadeva per la prima volta, dato che nell'antichità non esistevano né Stato né società, bensì soltanto una cittadinanza e individui privi di diritti politici. La società di cui sopra veniva sempre più determinata da una classe, che in termini grossolani potremmo definire borghesia27 • Anche questo era un elemento nuovo, dal mo mento che si trattava di uno strato sociale essenzialmente urbano, dotato di propri valori, preferenze, capacità, e che aveva in buona parte una formazione accademica non limi tata ai suoi leader. Poteva quindi affermarsi e svilupparsi qualcosa che nelle società antiche non aveva mai avuto alcuna importanza: la specializzazione. Già la città medie vale aveva molto apprezzato e onorato il sapere specialistico (corrispondente all' altra nuova specializzazione di cui essa era parte, quella tra città e campagna; nella città infatti i proprietari terrieri non potevano determinare totalmente la misura del prestigio) . La prima parte dell'era moderna por tò dunque i ceti urbani a intrattenere fitte relazioni recipro che su grandi estensioni territoriali e conferì ad essi un'im portanza totalmente nuova. 14 1
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Si affermarono così nuovi prodotti e nuove possibilità di produzione e commercio. Ancora una volta ciò accadde innanzi tutto in Gran Bretagna, e in particolare in Inghilter ra, cosa che dalla Scozia fu attentamente osservata. Non passò molto perché il lavoro - e non più la natura - diven tasse il fattore realmente importante nell'acquisizione della proprietà, nella produzione di merci e nella realizzazione di profitti: si rendeva dunque necessario dare una nuova giu stificazione alla proprietà, stavolta sulla base del lavoro. Giunsero i progressi scientifici e la dottrina secondo cui si poteva e si doveva asservire la natura per favorire l'uomo (che lavorava in tal senso) . Si formò l'opinione pubblica borghese, e arrivò l'Illuminismo . La borghesia dell'età moderna s'imponeva agli osserva tori. La sua realtà non poteva essere letta con le tradizionali categorie e teorie dell'antichità. Essa - lo si poteva osserva re, ancora una volta, soprattutto in Gran Bretagna - funzio nava in modo molto più automatico delle realtà precedenti. Attraverso il libero dispiegarsi delle sue forze gli uomini potevano accrescere considerevolmente la produzione, il commercio e il benessere, cosa che a sua volta favoriva lo Stato, che avvertiva il bisogno, e avanzava la richiesta, di risorse molto maggiori che in passato . Per la prima volta, dunque, un vasto ceto generava cam biamenti importanti in modo trasversale su un 'ampia parte del continente europeo e del Nord America. Tali cambia menti erano effetto delle sue azioni quotidiane, rivolte in gran parte a soddisfare le proprie esigenze e finalità, spesso estremamente egoistiche (e fino allora generalmente disprez zate) , e si combinavano con le scoperte scientifiche e socia li, con l'enorme ampliamento delle conoscenze e dell'istru zione, con la nascita dell'opinione pubblica. Accanto alla storia degli avvenimenti non poteva non essere scoperta un ' altra storia, relativa ai processi di cam biamento di lungo periodo. Molte cose dovevano indurre a vedere nella somma dei cambiamenti prodotti da un nume ro tanto grande di soggetti una forza direttiva che operava - alla luce delle grandi differenze di orizzonti, intenzioni e moventi e dei successi conseguiti - lungo un percorso tor142
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tuoso, con astuzia o, come la natura di Kant, sulla base di istituzioni che lavoravano nel lungo periodo. Una nuova dinamica, non più determinata soltanto da gli individui ma piuttosto dalla società, venne interpretata come «la storia» o «il progresso». La storia diveniva così opera di se stessa. Ciò che inizialmente scaturiva da effetti collaterali del l'agire poteva al tempo stesso essere compiuto in modo consapevole, nella convinzione di puntare verso nuovi lidi. Ma non dipendeva da ciò. Il concetto di progresso, coniato intorno al 1 800, non si limitò all'economia, alla società, alla scienza, ma si estese anche alla cultura e alla civiltà in gene rale, alla costituzione e al diritto. Ciò tuttavia funzionava solo se tale concetto poteva essere promosso in tutta la società. Il movimento greco verso la democrazia, al contrario, non derivava dagli effetti collaterali, ma direttamente dal l' agire e dall' apprendere dei cittadini stessi: erano questi, guidati da pensatori politici e non solo, a dover riconoscere i problemi, diffondere la conoscenza e imparare e miglio rarsi passo dopo passo. Certo , essi non sapevano nulla della possibilità di una democrazia prima di averla raggiunta. Ciò che importava loro era soprattutto risolvere i loro problemi, fare giustizia , accrescere i diritti e la partecipazione. Tutta via, ciascuno di questi passi era perseguito in modo consa pevole. L'assemblea del popolo doveva essere indotta a prendere le decisioni dovute. La necessità di essere armati di propri diritti per fronteggiare l' aristocrazia era facilmen te comprensibile. Che la situazione economica si consoli dasse era certamente un presupposto dell'impegno dei cit tadini, ma anche al riguardo si cercò d'intervenire politica mente in vario modo. Tutto ciò accadeva alla presenza diretta degli interessa ti, alcune migliaia. A misura d'uomo , in un certo senso. La storia si faceva, ricordiamolo ancora una volta, attraverso l'agire e l' accadere. Questo era considerato sotto forma di «accadimenti», al plurale28• Per «storia» (Historie) s'inten deva solo la storiografia, che collocava gli accadimenti in contesti più ampi, in successione cronologica. 143
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A partire dal Settecento, al contrario, si apre un divario, in relazione ai grandi cambiamenti di lungo periodo, tra la grande totalità del processo e gli ambiti minori, e minimi, di cui esso è composto; tra le conoscenze e gli ideali che emer gevano, spesso in anticipo sui tempi, nella classe intellettua le dirigente e le possibilità di perseguire e realizzare tali ideali in contesti più ampi. Cosa ne era della responsabilità? Al livello individuale, della famiglia, dello Stato e del sistema degli Stati, tutto rimaneva presumibilmente come sempre, sebbene l' oriz zonte sul futuro, conformemente al movimento complessi vo, si ampliasse. All'orizzonte apparvero nuovi obiettivi, soprattutto nell'Otto-Novecento: alleggerire il peso del la voro, aumentare il tempo libero, accrescere la libertà. Di una responsabilità nei confronti della storia, per quanto è a mia conoscenza, non si parlava. Era qui la differenza tra l'agire umano e il movimento complessivo. In ogni caso l'Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopoliti co di Kant presupponeva che si potesse elaborare la storia in modo tale da servire a «affrettare questo fine della natura». Tuttavia il capitalismo e l'industrializzazione portarono ben presto con sé nuovi problemi di disgregazione sociale ed esigenze molteplici di riforma e di regolamentazione che andavano dal lavoro minorile alla politica della salute fino alla previdenza sociale. Era necessario metter mano all'in frastruttura complessiva. Educazione e scuole non erano meno importanti delle strade, delle ferrovie e di infiniti altri aspetti. Si apriva in tal modo un nuovo, vasto campo di respon sabilità non solo per governi e funzionari pubblici, ma an che per le correnti politiche che si andavano ormai forman do - come i progressisti e i conservatori - e a lungo andare per i partiti (e i sindacati) in genere. Al tempo stesso si manifestava un altro gruppo di problemi: l'ampliamento dello Stato di diritto e la lotta per i diritti di partecipazione, in ultima analisi per la democrazia. Gli Stati nazionali erano sottoposti a pressioni enormi e accrebbero notevolmente competenza e potere. Essi si av vantaggiarono dunque dei molteplici processi di migliora144
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mento . Ciò al tempo stesso portava con sé la possibilità di favorire, bloccare o indirizzare tutto ciò che si verificava nell'economia e nella società, in un vasto processo che non avveniva non solo nei vari paesi, ma anche in vaste parti del mondo. La politica doganale riuscì a tener testa agli effetti della globalizzazione. Ben presto, superate le principali emergenze, molti di questi grandi cambiamenti vennero considerati ovvii. Il modo migliore di affrontare i singoli problemi, tuttavia, divenne tema di schieramenti di partito e di azione politica, e al tempo stesso si trovò in un certo senso compreso nelle diverse posizioni. Prima nella borghesia liberale, poi nel proletariato socialdemocratico emersero delle alternative alla tradizione, che perseguivano i propri grandi interessi, intrecciati con numerosi interessi particolari, e in parte so stenevano nuovi concetti di ordine sociale. Potenzialmente, le formazioni partitiche sono sempre degli snodi tra i cam biamenti che si realizzano nel corso delle epoche e il presen te. E anche in questo caso hanno funzionato, in fin dei conti, nel modo migliore. Ciò significava al tempo stesso che le società, attraverso il conflitto , riuscivano a orientarsi sui problemi di volta in volta all'ordine del giorno. L'importanza della politica (e con essa, ad uno sguardo retrospettivo, anche della storia politica) rimase grande per molto tempo. Infatti, anche molti problemi derivanti dal progresso richiedevano una soluzione politica - per esempio in campo scolastico -, anche se spesso poco spettacolare. A ciò si aggiunge che col tempo prima la borghesia e poi il proletariato riuscirono a comprendere molto meglio la situa zione; furono questi strati sociali a ottenere che le conoscen ze e gli ideali degli intellettuali venissero convertiti in finalità concrete, anche di natura politica. Nella politica, dunque, la tradizionale sfera di responsabilità degli statisti risultò accre sciuta dal fatto che, in conseguenza della pressione esercitata dai processi, sempre più numerose fossero le decisioni da prendere sulla struttura dello Stato e della società. Il fatto che il progresso portasse con sé tanti elementi positivi - nei quali ciascuno poteva trovare qualche vantag145
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gio, non foss'altro che nell' alleviare il mal di denti - allegge riva la responsabilità, soprattutto per gli innovatori. La situazione dei conservatori, al contrario, divenne sempre più difficile: essi erano costretti a rivedere continuamente gli obiettivi per cui si battevano, prendendo spesso le difese di quelle che fino a poco tempo prima erano state per loro aborrite novità. Ancora in pieno Novecento, sia i progressisti sia i con servatori continuavano comunque a fare riferimento alla storia, che agli uni indicava la via del futuro, del migliora mento, e agli altri suggeriva un diverso modo di procedere, un ritmo di sviluppo più lento. Complessivamente, per molto tempo prevalse la sensazione che il progresso portasse delle novità senza per questo dover sacrificare troppe delle vec chie cose. Nulla va perduto, sosteneva Droysen , che certo con questo non intendeva dire che il vecchio fosse da con servare nei museF9• In ogni caso il progresso permise di ridurre in modo significativo e stabile alcune grandi emergenze: la fame, l'ignoranza e molte delle situazioni in cui l'uomo si trovava inerme ad affrontare le forze della natura. Era dunque com prensibile che fossero costantemente all' opera forze che premevano in direzione del futuro. Esistono diversi gradi di controllo, di valutazione o al meno di consapevolezza delle società sul cambiamento strut turale che esse realizzano. Ad un estremo della scala sta la possibilità che il cambiamento sia sostanzialmente indotto dalla politica, attraverso lo Stato. Il gradino successivo è rappresentato da quelle situazioni in cui un cambiamento che avviene in modo autonomo è positivo per vasti strati della popolazione e pertanto non richiede controllo; in que sto caso la politica può favorire il cambiamento ed evitarne almeno in parte gli eventuali effetti non positivi. A volte le forze politiche possono fare dei cambiamenti un tema di dialettica politica. Ciò si verifica a volte anche quando il cambiamento spontaneo non viene considerato positivo dai ceti più vasti. Tali possibilità rappresentano pur sempre una forma di controllo complessivo da parte della società30• Infine, all'altro estremo della scala, esiste la possibilità che 146
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il cambiamento non si lasci imbrigliare dalla politica, e persino che non ne esista una reale consapevolezza. Nella prima metà del Novecento la fiducia nel progresso andò sostanzialmente perduta. Il progresso mise in mostra la sua ambivalenza, con la Prima guerra mondiale, Auschwitz, Hiroshima e ancor più Nagasaki (per non parlare di tutto ciò che fu perpetrato, proprio in nome del progresso, nelle colo nie) . I mezzi messi a disposizione dalla nuova tecnologia furono applicati nel modo più terribile: perché le possibilità di controllarli in modo responsabile erano rimaste evidente mente indietro, e perché nuove e maggiori pretese vennero elevate nei confronti della politica, del «fare», o addirittura del «compiere» la storia, fino a giungere all'attuazione piani ficata della «pulizia etnica». Emersero in vari luoghi falsi concetti di responsabilità e di missione storica, che in alcuni casi giunsero temporaneamente al potere. E oggi, come stanno le cose? Oggi che, ancora una volta, sono all'ordine del giorno trasformazioni continue e in tutto il globo si verificano processi spontanei di cambia mento, provocati dalle cause più ampie? Oggi che non si riesce a individuare, all'interno di tali processi, alcuna dire zione complessiva, né esiste un ceto sociale che riesca a identificarsi con un futuro qualsiasi, e tutto si limita all'uti lizzo abbondante delle opportunità da parte di un numero infinito di individualità della più diversa provenienza socia le e nazionale? Oggi che non esistono più una borghesia e un proletariato che elaborino una nuova visione del mondo a partire dalle proprie esperienze e mobilitino politicamen te le proprie forze? Oggi che le posizioni dei progressisti e dei conservatori si sono ampiamente fluidificate ? Oggi che non si verifica mai uno scontro sui principi che aiuti a fare chiarezza ? Oggi che la storia, nel senso tradizionale di un presunto processo che dal passato al presente conduca al futuro, non sembra più tendere verso una determinata dire zione, e non c'è più una natura, una qualche aspettativa secolarizzata di Dio a darci, almeno apparentemente, chia rezza sulla via da intraprendere? Nonostante tutto ciò che di meraviglioso e di esaltante hanno le novità e i cambiamenti del nostro tempo, è certo 147
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che le nuove possibilità verranno utilizzate a nostro favore? Pensiamo ad esempio alle possibilità, date a Stati, reti cri minali o sette, di procurarsi a prezzi abbordabili mostruosi potenziali di distruzione, se necessario con l' aiuto di spie e traditori. Alle mutazioni (e immunizzazioni) di batteri e virus. Alla possibilità che si delinea di allevare uomini, ai nuovi mezzi per tenerli sotto sorveglianza, per opprimerli, per privarli della spina dorsale (ed evitare persino che essa si formi) e della stessa dignità umana. È possibile che, se non si può cambiare la società, si cerchi di cambiare gli uomini? E di che genere di «uomini nuovi» si tratterà? Ricordiamo infine le incalcolabili frustrazioni di tutti colo ro che non ce la fanno a tenere il passo del cambiamento e che nessuna politica riuscirà facilmente ad imbrigliare. Forse ciò significa che, indipendentemente da qualsiasi manipolazione, non solo le nostre condizioni di vita, ma anche noi stessi siamo in larga misura esposti al cambiamen to, nelle nostre convinzioni (ammesso che ne abbiamo an cora qualcuna) , nei nostri giudizi di valore e nei nostri ideali di vita? Non solo dobbiamo imparare ancora molto, cosa comunque positiva, ma dobbiamo anche costantemente reimparare, cosa questa molto più problematica3 1 • Le cono scenze si moltiplicano esponenzialmente, parallelamente invecchiano le conoscenze disponibili, e finisce per invec chiare anche la sicurezza di doversi creare delle convinzioni e di dover restare fedeli ad esse. Alcuni dei mutamenti in corso potrebbero finire per rivelarsi insignificanti, ma altri rappresentano senz' altro trasformazioni rilevanti in una qualche direzione e, come se non bastasse, determinate opinioni e certezze non si possono più riprodurre. In sintesi: siamo immersi fino al collo, e febbrilmente attivi, in processi storici che stanno accelerando sempre più, senza tuttavia avvertire una particolare esigenza di orien tarci storicamente. Per quale motivo ? La prima ragione è che normalmente vivere il proprio tempo come storia non è un atteggiamento spontaneo. Ognu no fa ciò che vuole e che deve, a seconda della propria attività lavorativa e del proprio contesto di vita, con una certa prospettiva sul futuro nei limiti del possibile, ma tutto 148
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ciò diventerà storia molto più tardi, quando sarà alle spalle di ciascuno di noi e oggetto di studio da parte degli storici. Diversamente stanno le cose quando si tratta di grandi avvenimenti, rispetto ai quali la posta in gioco è rilevante e occorre prendere decisioni cariche di conseguenze. Ma essi sono stati ormai quasi del tutto sostituiti da «eventi» di cui non si può dire altrettanto. Del resto come possiamo oggi, immersi nel nostro agire e soffrire, guardare a noi stessi storicamente, quando solo gli effetti collaterali delle nostre azioni, intese a tutt' altri fini, possono avere efficacia storica ? Si poti-ebbe obiettare che è proprio nelle situazioni ine dite che si avverte la necessità di confronto con altri mo menti storici, anche solo per orientarsi tra passato e futu ro32. «L ] chi vuole vedere quello che ha a essere», esortava Machiavelli, «consideri quello che è stato»33 • Ma per quanto concerne il futuro, ossia l' altra direzione della dimensione storica, qualsiasi idea e previsione viene fortemente compli cata dal fatto che sono molte le cose che stanno cambiando. O non sarà forse che non vogliamo saperne nulla? Nulla, almeno per quanto riguarda il futuro complessivo delle società e del mondo? Possiamo allora chiederci: forse non si vuoi sapere nulla del futuro perché non si riesce nemmeno ad immaginarlo e/o perché non ci si può fare niente? Perché non si vede in che modo si possano riportare le cose sotto controllo (né in quale senso si debba eventualmente tentare)? O forse è uno solo il pensiero che non si osa formulare: in che modo ci si può assumere la responsabilità dei processi di cambiamento? La problematica può essere forse meglio chiarita utiliz zando un 'immagine di contrasto34• La storia della Repubblica romana consente di osserva re come gli stessi tipi di azioni e di strategie che avevano fatto la grandezza di Roma e avevano consentito alla Re pubblica e al suo ordinamento di sopravvivere per secoli, abbiano da un certo momento in poi favorito un processo di declino. La lotta contro i nemici esterni era divenuta più difficile e richiedeva condottieri dotati di particolare talen to; i soldati non erano più quelli di un tempo, non erano più i contadini con cui Roma aveva condotto le sue guerre, ma . .
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uomini senza terra, che dopo una campagna militare si erano abituati a rivendicare l'assegnazione di terre. Il Sena to era decisamente contrario a questa prassi, che apriva ai condottieri la possibilità di guadagnarsi la fedeltà dei nuovi coloni e il loro appoggio nella lotta politica. Ci troviamo dunque di fronte a diversi circoli viziosi: quanto più forte era la necessità di condottieri · dotati di qualità speciali, tanto più i loro successi consentivano loro di emergere rispetto agli altri membri del loro ceto, motivo per cui essi, chiedendo di elargire terre ai loro veterani, entravano in conflitto col Senato. Il Senato avrebbe voluto bloccare con il veto le proposte di legge con cui i tribuni della plebe cercavano di soddisfare le richieste dei condottieri, ma generalmente i promotori delle proposte impedivano con la forza al Senato di esercitare il proprio diritto di veto . Questi conflitti logoravano, senza che nessuno lo volesse, le istituzioni della costituzione repubblicana. Gli esempi analoghi non mancano. Lo sfruttamento delle province alimentava una diffusa corruzione. Quanto più si affermava il lusso, tanto maggiore era lo stimolo ad accre scere lo sfruttamento, ma anche ad arginare la corruzione, istituendo ad esempio tribunali e inasprendo le pene. L'ef fetto di queste misure, tuttavia, era quello di stimolare ulte riormente lo sfruttamento, dal momento che era divenuto necessario corrompere anche i giudici. Al tempo stesso le norme in base alle quali si allevavano i figli divenivano sempre più espressione di vedute anguste, e in tal modo tendeva a ridursi l'adeguatezza media dei senatori ad af frontare la nuova situazione. Nessuno voleva far cadere la Repubblica, il Senato la voleva addirittura difendere, ma tutte queste azioni insieme ne provocarono la caduta. Il commento di Livio fu che la Repubblica non era riuscita a sopportare né le sue disfunzioni, né i tentativi di risolverle35 • I n termini più generali, l e istituzioni erano inadeguate e lo stesso si può dire per le tradizionali regole educative. Ma non era tutto. Non esistevano forze alternative capaci di produrre nuove istituzioni, o nuove analisi tali da porre all'ordine del giorno, contro i sostenitori della tradizione, il problema della crisi della Repubblica, per affrontarlo insie150
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me con essi. Non poteva così costituirsi un'alternativa alla tradizione. I grandi generali non avevano una causa alla quale raccordarsi. Estremizzando la formulazione: tutti i potenti, anche solo potenziali, erano soddisfatti (o soddi sfacibili) e tutti gli scontenti erano privi di potere. Tra questi ultimi spiccavano soprattutto gli abitanti delle pro vince, dalle quali Roma traeva abbastanza risorse da riusci re a soddisfare in qualche modo le richieste, per quanto numerose e disparate, dei propri cittadini. La Repubblica nel suo insieme era dunque incapace di comprendere la situazione in cui si trovava, e finì per scivolare in lunghe guerre civilP6• Gli effetti collaterali che le azioni producono - per esempio i modi di soddisfare le aspettative, o la normale conduzione degli affari quotidiani - non dipendono dalle azioni stesse, ma dalle circostanze in cui esse si collocano . Uno stesso , piacevole atto di procreazione può essere indif ferente nei suoi effetti se avviene nell'ambito di una popo lazione statica, mentre se la curva demografica è in crescita può contribuire, con i propri effetti secondari, ad un'esplo sione demografica complessiva . Lo stesso atto di corruzione di giudici può restare isolato, privo cioè di effetti collaterali, oppure, in un differente contesto, favorire un processo di generale corruzione. Il numero e il tipo di effetti collaterali dipende dal numero di coloro che fanno le stesse cose fanno figli, corrompono giudici - o che ricercano, inventa no, scoprono. Non diversamente vanno le cose con il nume ro e la gravità delle violazioni costituzionali, con il fallimen to dell'educazione tradizionale, con il logoramento di vin coli o di sistemi politici . Il riferimento alla Repubblica romana non serve , in que sta sede, a stabilire parallelismi, ma unicamente ad attirare l' attenzione su un possibile modello: accade a volte che nascano problemi che le istituzioni esistenti non sono in grado di risolvere; accade che delle società non siano ·in grado di gestire i grandi cambiamenti che si verificano den tro e fuori di sé - autoalimentatisi come risultante di effetti collaterali -, e che diventino così ostaggio delle spinte da loro prodotte, e soprattutto del loro cumularsi. Accade che 15 1
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tali istituzioni, tali società semplicemente non ne sappiano abbastanza (e non ce la facciano a «Stare al passo» ) : cosa che non dipende semplicemente dalla quantità e dalla di sponibilità di sapere, ma soprattutto dall ' adeguatezza del sapere stesso ai problemi del tempo. Accade che la loro capacità di sviluppare e gestire contrasti venga meno e così via. Accade che esse riescano a rinunciare a determinate abitudini, o a determinate loro omissioni, solo quando que ste si sono accresciute fino a diventare dei grandi problemi. Concludiamo. Quando, a proposito della nostra epoca, si è parlato di end o/ h istory, è ovvio che da un punto di vista letterale si sia detta una grande sciocchezza. Eppure: se fosse vero che oggi stiamo andando tutti insieme in una stessa direzione; se si ritiene di dover considerare la situa zione complessiva dei partiti europei come qualcosa di più di una situazione determinata dalle mere circostanze del momento; se esistono dei buoni motivi per il fatto che lo Stato sta battendo sempre più in ritirata: se tutto questo fosse vero, non sarebbe pensabile che la «storia» oggi stia quanto meno assumendo una nuova forma? Che la politica e il confronto politico siano sempre meno adeguati a fron teggiare i grandi processi di cambiamento ? E che tutto ciò derivi da una «mano invisibile», in senso del tutto nuovo, di cui non sappiamo se faccia parte del gioco e quali effetti produca ? In ogni caso , potrebbe essere in corso un muta mento nel rapporto tra mutevolezza e controvertibilità. Anche oggi ci sono abbastanza persone svantaggiate, soprattutto in Africa, in Asia e in America Latina. Ma se non c'inganniamo su tutto ciò che vediamo, ben presto essi non saranno più in condizione di porre in questione l'ordi ne mondiale (e la distribuzione dei beni) , vale a dire di iscrivere all'ordine del giorno della politica il problema di un ordine futuro. Tuttavia la loro situazione avrà sicura mente, per molti versi, degli effetti, e lo stesso avverrà per altri dati di fatto che non sono così facili da affrontare sul piano politico. O forse questo è un punto di vista conservatore che, come tante altre volte in passato, sospetta del nuovo perché ancora non lo può annoverare tra ciò che è degno di essere 152
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conservato, mentre domani forse ne prenderà le difese? Dovremmo forse puntare sul progresso come Kant? Sarebbe un esperimento interessante immaginare come potrebbe essere abbozzata oggi una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. E comunque, siamo certi di poter puntare sul progresso nel senso di ritenere che il processo vada da sé nella giusta direzione (e pertanto debba solo essere compre so e facilitato) ? Siamo certi che le nostre risorse politiche, negli Stati e fra gli Stati, siano sufficienti a prevenire, in caso di necessità, «sviluppi» scomodi o pericolosi ?37 È pressoché impossibile assumersi una responsabilità per ciò che accade in ogni caso, con o senza la nostra partecipazione, sulla base di semplici effetti collaterali. Gli uomini, per citare ancora Robert Musil, «fanno solo ciò che accade», insieme a miliardi di altri uomini, su scala enorme e completamente scollegati da ogni possibile processo di formazione della volontà. Nonostante ciò, molti nuovi movimenti, che uniscono le proprie forze, ad esempio, nelle organizzazioni non gover native, testimoniano in che modo si possa tentare, indipen dentemente da tutti i governi e dalle «normali» istituzioni politiche, di assumersi una responsabilità, per conto , in ultima analisi, dell' umanità e della natura di tutto il pianeta. Una delle questioni che ne derivano è come mutano i siste mi di formazione della volontà finora noti, che cosa diviene possibile in futuro nelle nuove forme di tali sistemi e se questi ultimi consentano all'umanità - o almeno a parti importanti di essa - di riportare sotto controllo ciò che accade per effetto del suo agire. O forse queste organizza zioni genereranno piuttosto dei rischi, nel momento in cui raggiungeranno un successo su larga scala? Come che sia, la relazione tra gli individui (insieme alle organizzazioni di cui fanno parte, e attraverso le quali essi sono più facilmente in grado di far valere la loro volontà nel mondo) e ciò che sta cambiando (e su cui si dovrebbe intervenire) è totalmente sconvolta. È senz' altro comprensibile che in questa situazione cia scuno di noi sia riluttante ad assumere una responsabilità per ciò che egli in qualche modo contribuisce a generare (e 153
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storia
che metterà nei pasticci i suoi figli e nipoti) . Ma questa riluttanza ha delle conseguenze, anche nell'ambito di quel concetto postmoderno di libertà che s'incapriccia degli spa zi a propria disposizione, di nicchie piccole e grandi nel l' ambito di un mondo che per il turista è da tempo diventa to una nicchia rovesciata. È perciò probabile che gli uomini di oggi assumano una posizione del tutto nuova nella storia. I greci, nella misura in cui avevano avvertito tale esigenza, avevano ricercato orientamento senza andare realmente al di là della storia interna ed esterna della loro polis. Europei e nordamericani, a partire dal XVIII secolo, hanno interpretato se stessi in chiave fortemente storica, come parte di un movimento di progresso al quale potevano anche opporsi, di un processo cui si erano abituati, accogliendolo, con molta sicurezza di sé, nell'ambito dei propri Stati. Ora invece nasce qualcosa che evidentemente non può ancora essere compreso serven dosi di categorie collaudate. Come che stiano le cose, se la mia considerazione stori ca riuscisse a mettere a disposizione alcuni mezzi per poter analizzare meglio - per esempio con metodo comparativo la nostra situazione attuale, ciò dimostrerebbe che la storia può essere ancor oggi di grande interesse. Da ciò scaturisce per lo storico una nuova, scomoda ma potenzialmente mol to feconda responsabilità. Note 1 Norbert Elias, Was ist Soziologie?, Miinchen, 1 970; trad. it. Che cos'è la sociologia, Torino, 1 990, pp. 77 ss . : «Differenziandosi e facendo
si più estese, le catene di interdipendenza diventano di conseguenza più opache ed incontrollabili per ogni singolo e per ogni gruppo isolatamen te considerato»; cfr. anche pp. 1 1 0 , 146 s., 159 s. 2 Christian Meier, Res publica amissa, III ed. Frankfurt a.M., 1 997 , pp. 1 5 9 s . , XLVI. Sull'altro contesto della crisi senza alternative cfr. ibid. , pp. 2 0 1 ss . , XLIII ss., e Meier, La nascita del politico in Grecia, cit . , pp. 43 -4 4 .
' Koselleck, Futuro passato, cit. , p. 23 7 . 4
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Meier, Entstehung des Politischen, cit . , p p . 3 2 7 ss . , 3 3 4 , 3 84 s . , 3 88
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ss., 4 1 9 ss. Di diverso avviso Jan Assmann , Das kulturelle Gediichtnis. Schri/t, Erinnerung und politische Identitlit in /riihen Hochkulturen, Miinchen , 1 992 , che tuttavia confonde il resoconto di un monarca con la comprensione della storia. Cfr. al riguardo Aktueller Bedar/an historischen Vergleichen. Oberlegungen aus dem Fach der Alten Geschichte, in H . G . Haupt e J. Kocka (a cura di) , Geschichte u n d Vergleich, Frankfurt a.M. New York, 1 996, pp. 248 ss. 5 Georg Biichner, Brief an die Braut. November 1 83 3 , in Werke und Brie/e, Wiesbaden, 1 95 8 ; tra d . it . Alla fidanzata, novembre 1 83 3 , in Opere e lettere, Milano, 1 990, pp. 280-282 . Ben più modesto invece Erodoto, Le storie, libro VII , 49, 3: «L . . ] sono gli eventi fortuiti a
dominare gli uomini e non gli uomini gli eventi», o libro IX, 1 6 , 5 : «E questa è al mondo la sofferenza più crudele : capire molto e non avere alcun potere». 6
Lettera di Friedrich Engels a Josef Bloch del 2 1 settembre 1 890, in
MEW, Berlin , 1 967 , vol. XXXVII ; trad. it. in Karl Marx e Friedrich Engels, Opere, Roma, 1 983 , vol. XLVIII , p . 493 . La citazione del 1 87 8 è tratta da Friedrich Engels , Herrn Eugen Diihrings Umwiihung der Wissenscha/t, 1 87 8, Berlin , 1 948; trad. it. Anti-Diihring, in Marx e Engels , Opere, Roma , 1 974, vol. XXV, p. 27 3 . Cfr. anche la previsione formulata nel 1 895 , secondo cui l' elettorato socialdemocratico «in modo sponta neo, costante, irresistibile, e in pari tempo tranquillo, come un processo naturale [ . . ] nel paese la forza decisiva, alla quale tutte le altre dovranno inchinarsi, lo vogliano o non lo vogliano»: Friedrich Engels, Ein/iihrung a K. Marx, Klassenkiimp/e in Frankreich, in MEW, Berlin, 1 963 , vol . XXII ; trad. it. Le lotte di classe in Francia dal 1 848 al 1 850, in Karl Marx e Friedrich Engels, Il 1 848 in Germania e in Francia, Roma, Rinascita, 1 948, p. 1 3 8. .
7 Lorenz von Stein, Zur preussischen Ver/assungs/rage, cit . , p. l . C fr. Rainer Specht, Innovation und Folgelast, Stuttgart -Bad Cannstatt, 1 972 , pp. 226 s . : «La tendenza popolare alla democratizzazione parte dal concetto che si possa [ . ] ampliare in modo significativo la partecipazio ne di individui alle informazioni e alle decisioni; tuttavia innegabilmente diminuiscono l' informazione relativa media degli individui, per la cre scente dimensione e complessità dei meccanismi informativi, e il peso medio delle decisioni politiche degli individui , per la crescente socializ zazione delle decisioni politiche stesse» . . .
R Armand Jean du Plessis , due de Richelieu, Testament politique de Richelieu, a cura di Françoise Hildesheimer, Paris , 1 995 ; trad. it. Testa mento politico e massime di Stato, Milano, Giuffrè, 1 988, pp. 290-29 1 . 9 Si veda la lettera di Bismarck del 23 marzo 1 887 a Johanna: «Faccia mo quel che dobbiamo nel presente [ . . . ] ; che ciò duri, dipende da Dio»; «Lo sviluppo storico del nostro paese è una corrente troppo potente e ampia perché un individuo, foss'anche il sovrano, lo possa determinare in anticipo. È assolutamente impossibile predeterminare la storia mon diale nelle sue varie parti»; Friedrichsruher Ausgabe, vol. XIII, p. 3 04 . Otto Vossler, Bismarcks Ethos, i n Id. , Geist und Geschichte. Von der
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Il luogo e la responsabilità nella storia
Reformation bis zur Gegenwart, Miinchen , 1 964 , p. 253 . «Si è sostanzial mente esagerata l'influenza personale ch'io avrei avuto sugli avvenimen ti, che mi hanno portato a questo punto , ad ogni modo nessuno certo mi domanderà di fare la storia» (discorso del 16 aprile 1 869, ibid. , vol. Il, pp. 3 7 ss.; trad . i t . Otto von Bismarck, Il cancellierato federale, in Id , Discorsi, Torino, 1 944, p. 90) . «La storia non si può assolutamente fare, ma da essa si può apprendere come va condotta la vita politica di un grande popolo, secondo il suo sviluppo e la sua destinazione storica» (Friedrichsruher Ausgabe , cit . , vol . XII I , pp. 668 ss. Discorso del 20 luglio 1 8 92 ) . .
10 Adolf Hitler, Reden und Proklamationen. 1 932-45, a cura di M. Domarus , Miinchen , 1 965 , vol. I . 1 , p. 17 6 . Il discorso fu tenuto il 4 gennaio 1 93 3 . «Siamo stati scelti dal destino per fare la storia nel senso più alto del termine. La Provvidenza ci h a dato quel che viene negato a milioni di uomini. Il mondo di domani ricorderà la nostra opera» ( ibid. , vol . 1 . 2 , p. 54 1 , 16 settembre 1 93 5 ) . La dichiarazione di Hitler e la testimonianza sul marzo del 1 93 8 sono citate da Hans-Ulrich Thamer, Verfuhrung und Gewalt. Deutschland 1 933- 1 945, Berlin , 1 986; trad. it. Il Terzo Reich . La Germania da/ 1 933 a/ 1 945, Bologna, 1 993 , pp. 7 1 1 713.
1 1 Heinrich von Treitschke, Deutsche Geschichte, II ed. Leipzig, 1 87 9 , vol. I , p. 2 8 ; Id. , Politik. Vorlesungen gehalten an der Universitéit zu Ber/in, II ed. Leipzig, 1 899, vol. I; trad. it. La politica, Bari, 1 9 1 8 . I : L 'essenza dello Stato, p . 6 . I n proposito Alfred Heuss, Gesammelte Schriften, Berlin, 1 983 , vol. I, p. 222. 12 Si pensi solo ai molti casi in cui i politici proclamano «storico» un evento. Cercano forse di fuggire dalle piattezze del presente ai libri di scuola del futuro?
13
Rainer Lepsius, Demokratie in Deutschland, Giittingen, 1993 , p .
242 .
14 Karl Marx, Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte, 1 869, Berlin, 1 946; trad. i t . Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, IV ed. Roma, 1 97 7 , p. 44. 1 5 Cfr. il progetto di Pericle di una guerra (eventualmente p rolunga ta) in Tucidide, Storie, cit . , libro I , 14 1 , 2 s s . , libro II, 1 3 , 2 ss., che a giudizio di Tucidide, grazie all'ottima ideazione e alla superiorità di mezzi, aveva ogni p rospettiva di riuscire (libro II, 65 ; cfr. libro VII, 28, 3 ) . Tucidide era sen z ' altro consapevole del ruolo che può giocare il caso in un conflitto (p. es. libro I, 7 8 , l, e 1 2 2 , l; sulla guerra stessa cfr. libro II, 6 1 , 3 ; anche la costante differenza tra pianificazione e risultato, che egli chiarisce attraverso un duello oratorio, parla in tal senso ) . Evidente mente la superiorità ateniese, in termini sia di risorse sia di pianificazio ne, era a suo avviso tanto netta che neanche una serie di casi sfortunati avrebbe potuto vanificarla. Sul tallone d'Achille del piano, cfr. Meier, Athen, cit . , pp. 530 s. 16
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In proposito cfr. Assmann , Das kulturelle Gedà"chtnis, cit.
Il luogo e la responsabilità nella storia 17 Che ciò fosse poco possibile, lo mostrano alcune rare eccezioni, ad esempio in Aristotele, che stabilisce rapporti tra la storia costituzionale e la demografia, e tra la composizione e l'orientamento della cittadinan za e la costituzione militare (Politica, 1 2 86b 8 ss. , 1 2 97b 1 6 ss. ) . 18
Ibid. , 1 26 1 a 3 9 .
Aristotele, L a costituzione degli Ateniesi, 8 , 5 . Sulle s u e preoccupa zioni, cfr. Christian Meier, Die Gewalt und das Politische, in «Berlin Brandenburgische Akademie der Wissenschaften. J ahrbuch», 1 994 , p. 1 7 9 ; I d . , Athen, cit . , pp. 69 ss. 19
2°
Kant, Idea di una storia universale, cit . , p. 124.
Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 2 1 ; Christian Meier, Fragen und Thesen zu einer Theorie historischer Prozesse, in K.-G. Faber e Ch. Meier (a cura di), Historische Prozesse. Theorie der Geschichte, Munchen , 1 97 8 , vol. II, pp. 4 1 s. 21
22 Adam Ferguson, An Essay on the History o/Civic Society, Edinburgh, 176 7; trad. i t. Saggio sulla storia della società civile, Roma-Bari, 1 999, pp. 1 15 - 1 16. 2 3 In questo contesto interagiscono la statistica ( Kant, Idea di una storia universale, cit., p. 3 3 ) , la svalutazione dell'azione, l 'esperienza di
incredibili possibilità del lavoro produttivo, il superamento di molte frontiere teoriche e pratiche e molto altro, secondo modalità che non sono state ancora sufficientemente valutate e sul cui sfondo, ad esempio, la peculiarità dell 'era antica potrebbe essere vista in modo molto più netto. Molto al riguardo si trova in Arendt, Tra passato e futuro, cit . , in partic. pp . 1 2 1 ss . , e in Id., Vita activa, Stuttgart, 1 960; trad. it. Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1 994 . 24 Albert O. Hirschman, The Passions and the lnterests. Politica! Arguments /or Capitalism Be/ore Its Triumph, Princeton ( N .]. ) , 1 996; trad. i t . Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capita lismo prima del suo trionfo, Milano, 1979. Cfr. lo stesso volume su Vico,
Mandeville, Smith , Kant, Hegel ecc. 25 Particolarmente significativi al riguardo i discorsi di Pericle in Tucidide, Storie, libro Il, 3 , 6 ss. 26 Soprattutto nella parte III, cap. II di Ferguson , Saggio sulla storia della società civile, cit. (pp. 1 14 ss. ) . 27
Arendt, Vita activa, cit . , p p . 2 8 s s . : L'avvento della sfera sociale.
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In proposito si veda la voce Geschichte, Histoire, in Brunner, Conze e Koselleck, Geschichtliche Grundbegriffe, cit . , p . 593 . 2
29 « [ . . . ] che vi sia e permanga qui sempre una continuità del lavoro, che ogni conoscenza, una volta acquisita, venga fissata e depositata nella coscienza dell 'umanità, che la comunità di coloro che sanno e che aspi rano, nella quale ciascuno ha da apportare anche solo un granello di sabbia al grande edificio, si senta in comunanza, conservi ciò che si è
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Il luogo e la responsabilità nella storia
acquisito per continuare a costruire su di esso»; Droysen , !storica, cit . , p p . 4 5 8 , 506. 3 0 Anche quando va nel modo descritto dal generale von Stumm nell' Uomo senza qualità: «lo sono membro di una commissione mini steriale. A ogni seduta ciascuno dice quel che vorrebbe e quel che gli pare giusto, e alla fine ne risulta qualcosa che nessuno voleva interamen te: appunto il risultato . Non so se tu mi capisci, ma non posso esprimerlo meglio»; Musil, L 'uomo senza qualità, cit . , p. 88 1 . 3 1 «Questo è il guaio» - esclamò Edoardo - «ora non si può più imparare nulla che valga per tutta la vita. I nostri avi si attenevano all'istruzione ricevuta in gioventù; ora invece dobbiamo rifarci da capo ogni cinque anni , se non vogliamo essere assolutamente fuor di moda»: così già Goethe nelle Affinità elettive (parte I, cap. IV, cit . , p. 924 ) . Le relazioni allora erano diverse. Nel complesso Musil poteva affermare: «Non si poteva assolutamente indicare qualche singolo caso che non fosse stato possibile anche prima, ma tutti i rapporti si erano un poco spostati»; Musi!, L'uomo senza qualità, cit . , p. 6 1 . 3 2 Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , p . 3 5 : «Soltanto dalla considerazione del passato possiamo ricavare una norma per valutare la rapidità e la forza " di quel " movimento nel quale noi stessi viviamo». 3 3 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro III , 43 (Torino, 1 983 , pp. 5 06-507 ) . 34
I n proposito Meier, Res publica amissa, cit . , p p . 24 1 ss . , 422 ss.
Tito Livio , Proemio, 9 (in Storie, Torino, 1 97 4 , p . 1 09 ) , che ci offre tra l'altro una bella e significativa caratterizzazione in lingua latina del l' accelerazione: «deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites , donec ad h aec tempora, quibus nec vitia nostra nec rimedia pati possumus, perventum est» . 35
36 Non è, infatti, quasi certamente, una questione di possibili concet ti, ma di possibili posizioni. Se non esiste alcuna forza ( alternativa) che possa fare del mutamento strutturale la propria causa, ovvero, in altri termini, finché non si arriva ad una concentrazione degli scontenti, l'ordine stesso non può essere iscritto come tema all'ordine del giorno . Allora con ogni p robabilità si resta alla situazione consueta. Quello che Jacob Burckhardt spiega a proposito delle caste e dell'antica nobiltà francese vale probabilmente, ad esempio, anche per le società a maggio ranza: esse sono «assolutamente incorreggibili persino quando molti individui si rendono conto chiaramente dell'abisso. In quel momento è più fastidioso discutere con i p ropri pari, e in tal modo affondare con certezza, che dover affrontare un solo ipotetico diluvio universale» . Comunque contano meno le singole affermazioni e azioni che una deter minata situazione. Che cosa significhi il consumarsi quotidiano di una repubblica , e l'impossibilità di mettere in discussione l 'ordine che si sta logorando (favorendo così l'affermazione della maggioranza, con il suo desiderio di conservazione) lo si può analizzare particolarmente bene alla luce del pensiero e della disperazione di Cicerone nei tardi anni della
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Il luogo
e la
responsabilità nella storia
Repubblica romana : Christian Meier, Cicero. Das er/olgreiche Scheitern des Neulings in der alten Republik, in Id. , Die Ohnmacht des allmiichtigen Diktators Caesar. Drei biographische Skizzen, Frankfurt a.M., 1 980, pp. 1 03 ss.; trad. it. Cicerone. Successo e fallimento di un <
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v
Auschwitz
Auschwitz, il nome del grande campo di sterminio , vie ne assunto qui a simbolo - sia per conformarsi all'uso invalso, sia perché non esiste un ' alternativa più adatta - di tutto il complesso di azioni di sterminio e annientamento che la Germania nazista mise in atto soprattutto contro gli ebrei, ma anche contro zingari, disabili mentali, intellettuali po lacchi, prigionieri di guerra russi, omosessuali e altri grup pi. In questo senso , Auschwitz rappresenta la massima sfi da per gli storici che, oltre a coltivare i propri specifici ambiti, intendano riflettere, a partire dal proprio presente, sulla storia in generale e in particolare sulla storia d'Europa e della sua via speciale; per gli storici che siano convinti di avere comunque, in quanto storici, pur nel rispetto dei principi e metodi della propria scienza, una responsabilità nella propria contemporaneità. Probabilmente nessun altro avvenimento della storia si sottrae altrettanto radicalmente a ogni tentativo di scoprire in esso un significato. Anzi, qualsiasi ricerca di senso sem bra sfociare in un'offesa postuma nei confronti dei milioni di vittime: persino quando , a me pare, si ritiene che la possibilità dello Stato d ' Israele sia una conseguenza di Auschwitz, o quando si afferma che l'umanità ha avuto bisogno di Auschwitz per evitare che simili atrocità si ripe tano in futuro (cosa del resto fortemente dubbia) . «Lo storico degno di questo nome deve rappresentare ogni vicenda come parte di un tutto o, il che è lo stesso, rappresentare in ognuna la forma della storia in generale», affermava Wilhelm von Humboldt1 • Che cosa significa rap presentare in Auschwitz la forma della storia ? O rappresen tare Auschwitz come parte di un tutto? E che effetto com161
Auschwitz
porta ciò per le altre parti dello stesso tutto, ad esempio per i dati di fatto che traggono origine dall'antichità? Forse la frattura di civiltà rappresentata da Auschwitz fa apparire sotto una luce del tutto nuova la fragilità e discutibilità di qualsiasi storia e considerazione storica? Che genere di quadro potrebbe essere quello in grado di abbracciare Atene e Auschwitz? Che genere di tutto ? O forse queste sono domande troppo ambiziose, che sarebbe meglio ridimensionare? Nietzsche parla una volta della «forza agente a ritroso» esercitata da ogni grande uomo: in virtù sua tutta la storia è rimessa sulla bilancia e mille segreti del passato strisciano fuori dai loro nascon digli [ ] Non è affatto possibile determinare tutto ciò che sarà ancora una volta storia. Forse il passato con tinua ad essere essenzialmente ancora non scoperto2 • . . .
Un avvenimento come Auschwitz non può esercitare, ancor più di un «uomo grande», una tale forza «agente a ritroso»? E che cosa si potrebbe scoprire in tal modo ? Che cosa sul passato? Che cosa sull'umanità ? Senza con ciò voler invadere il terreno degli storici dell'epoca contemporanea, riflettere su Auschwitz rientra dunque anche tra i compiti degli altri storici: essi infatti, nel loro ricercare, ricostruire e descrivere, non possono pre scindere dai fondamentali interrogativi che scaturiscono da tale evento. L'insieme dei misfatti di cui qui si tratta viene giusta mente considerato assolutamente unico e senza preceden ti} . Nonostante tutti gli omicidi di massa di cui la storia dell'uomo - in proporzione alle diverse dimensioni della popolazione - davvero non scarseggia, l'impresa promossa dallo Stato di uccidere, con metodi in gran parte tipicamen te industriali, un 'intera «razza», unilateralmente definita, ovvero i membri di una comunità religiosa vecchia di mil lenni, compresi coloro che se ne erano distaccati, o i cui antenati se ne erano distaccati, e compresi vecchi e neonati, senza eccezioni, come se essi non avessero il diritto di ap1 62
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partenere all'umanità e senza nemmeno lasciar loro il dirit to di essere uccisi nei propri abiti, o in un qualsiasi abito, per poi consegnare i denti d'oro alla Reichsbank e tagliare i capelli alle donne raccogliendoli in balle e destinandoli a uso industriale: una cosa simile non era mai avvenuta pri ma, né avvenne con Stalin . Per giunta questo programma di sterminio era rivolto in massima parte contro persone che non avevano affatto un atteggiamento ostile verso i tede schi: tutt'altro ! Tutto questo sopravanza la capacità d'immaginazione e di comprensione umana. Per molti dei sopravvissuti ai lager può rappresentare ancor oggi un incubo notturno. Qualsia si ragione deve rifiutarsi di considerare umanamente possi bile tutto ciò. «Chi volesse comprendere l'attuazione di questo piano per quello che fu», notava Dolf Sternberger, «finirebbe per perdere il senno , e chi riesce a non perdere il senno è perché non si è ancora realmente reso conto del fenomeno " Auschwitz " . (Lo so, è un paradosso, ma non si può esprimere altrimenti)»4• L ' evento «Auschwitz» n o n consiste solo nel misfatto dell'an nientamento metodico di esseri umani, ma anche, al tempo stesso, dell'urlo silenzioso di milioni di vittime innocenti; e nemmeno qui c'è qualcosa da «capire», poiché quest'urlo non è mai stato lanciato .
Così ancora Sternberger. Dunque, non c'è proprio niente da «capire»? Sternberger si spinge ancora oltre: «Chi prendesse l'iniziativa di capire, oltre che di descrivere, " Auschwitz " spingerebbe la parteci pazione storica tanto in là da trasformarla in un virtuale concorso storico di colpa». Devo ammettere che ritengo questa posizione solida, ben motivata e convincente. E con la chiarezza con cui Sternberger l'ha formulata, essa mette in luce molto bene, nella sua consequenzialità, la sfida cui lo storico è esposto. Chi pone la questione di «comprendere» nella storia può - e deve - fare la prova della verità; e questa non è nonostante l'unicità di Auschwitz - una cattiva scuola, ma solo un esempio di come, da Auschwitz in poi, tutto sia diverso. 1 63
Auschwitz
E tuttavia, possiamo davvero, nel caso di Auschwitz, accontentarci di una tale impossibilità di comprendere? E per dò che riguarda la descrizione da darne, possiamo dav vero fermarci all'osservazione di Martin Broszat? «In qual siasi libro di storia, quando arriva il Terzo Reich l'autore prende le distanze. Cessa l'immedesimazione nei diversi contesti storici, e viene meno così il piacere della narrazione storica»5• Si parla come di una popolazione remota, con cui non abbiamo nulla a che vedere. Ci si richiama continua mente all'inconcepibilità dell'accaduto. È come se esistesse una barriera tra noi e Auschwitz. Dobbiamo davvero accon tentarci, o non possiamo fare a meno di cercare di capire, almeno fin dove possiamo? E che cosa ne consegue per la storia ? «La comprensione», scriveva nel 1 953 Hannah Arendt, «è un 'attività senza fine, sempre diversa e mutevole, grazie alla quale accettiamo la realtà, ci conciliamo con essa, d sforziamo cioè di essere in armonia col mondo». Come è possibile dò, di fronte ad Auschwitz? La stessa Arendt prosegue notando che quest'operazione di riconciliazione con la realtà diventa estremamente problematica nell'epoca del totalitarismo, che ci costringe improvvisamente a sco prire la «perdita degli strumenti di comprensione. La no stra ricerca di significato» - un significato che evidente mente può essere prodotto dalla comprensione - «è ad un tempo stimolata e frustrata dalla nostra incapacità di creare significato»6• Da questi elementi, però Hannah Arendt trae conse guenze diverse rispetto a Sternberger. Proprio di fronte ad atti «che hanno letteralmente polverizzato categorie del nostro pensiero politico e i nostri criteri di giudizio morale» diventa necessario giudicare. La capacità di giudizio è par ticolarmente necessaria all'interno di un sistema totalitario (in caso contrario ci si trova alla sua mercé) , ma lo è anche ex post. E il giudizio presuppone in certa misura la com prensione. Merleau-Ponty parla addirittura del dovere di comprendere anche ciò che rifiutiamo7 • Giudicare senza capire impedisce di avvicinarsi alle cose. Condannare senza capire porta al vicolo cieco della prepo1 64
Auschwitz
tenza gratuita. All'inverso, capire senza condannare può condurre all'inconsistenza, o anche all'indifferenza8• Forse il collegamento tra capire e condannare può offrire una via d 'uscita verso la chiarezza e verso un principio di «concilia zione con la realtà», almeno sulla base di una crescente distanza dagli eventi? Ma che cosa, eventualmente, si dovrebbe «capire» ? Il termine, nell'ambito della scienza storica, si riferiva origi nariamente alla comprensione di testi e di persone nel loro agire e pensare. Poiché si tratta di persone, dovremmo po terei immedesimare in loro , operazione resa più difficile dalla diversità delle epoche e dei rispettivi orizzonti. Sternberger afferma che è possibile comprendere solo ciò che è razionale, foss'anche - questo è l'esempio che cita l'orgoglio manifestato dal comandante di Auschwitz Rudolf Hoss per aver potenziato la capacità delle camere a gas di Auschwitz rispetto a quelle di Treblinka9. Sarebbe invece proprio lo scopo di questo provvedimento , e del program ma nel suo complesso, a risultare incomprensibile. Possia mo forse riformulare così la questione: è forse ( ! ) possibile comprendere le azioni, gli sforzi (e le sofferenze) delle per sone nel sistema dello sterminio di massa, ma non la totalità di ciò che accadde. In ogni caso la comprensione dev'essere diversa nel momento in cui non ci si riferisce ad azioni e pensieri di persone come noi, ma ad una vicenda complessa, ad avveni menti di portata più ampia. E in ogni caso a tal fine occor rono strumenti del tutto diversi. Non ci si può «imme desimare» nella battaglia di Salamina ma - nel migliore dei casi - solo nelle azioni e sofferenze di singoli attori. Si può però acquisire una conoscenza di come le flotte manovrava no, di come si affrontavano e degli elementi che determina vano l'esito dello scontro, in modo da poter forse «com prendere», alla fine, la vittoria dei greci. Ciò avviene in parte grazie alla narrazione che, in quanto «confeziona» in un determinato modo la materia, apre la strada a quella comprensione. Analogamente , si può arrivare a «compren dere» persino in che modo si sviluppino processi di lungo periodo, per quanto assurdi essi possano apparire da un 1 65
A uschwitz
punto di vista logico . Il fatto che chi fa politica universita ria, che è tutt' altro che stupido , attraverso sforzi unitari, pieni di buone intenzioni, faccia di tutto per peggiorare la situazione della scienza tedesca è in effetti assurdo ma, una volta che lo si è osservato con attenzione adeguata, può essere ben «compreso» (anche nei suoi meccanismi interni) . L a stessa cosa vale per il principio di Parkinson o per la legge di Murphy. Soltanto, ciò che in tali casi, magari a malincuore e grazie a un po' di sarcasmo , funziona, fallisce nel caso di un accadimento come Auschwitz. E ciò soprat tutto perché non lo si considera - non lo si può considerare - possibile. Su questo punto ci fa da guida, come spesso accade, la lingua. A volte definiamo impossibile qualcosa che è senz' altro possibile, e che anzi accade. In tal caso il termine impossibile viene usato per caratterizzare qualcosa che è sì possibile, ma che non dovrebbe esserlo , o non dovrebbe essere considerato tale ! In base a questa regola, possibile è solo ciò che si muove all'interno di determinate regole. Chi insiste che anche altre cose sono possibili non solo è un pessimista (accusa già abbastanza pesante) , ma viene facil mente sospettato di evocare con le parole proprio l' «impos sibile». Dunque, non è permesso dubitare di Auschwitz , ma neanche lo si può considerare possibile, e tanto meno ca pire? Forse prima di tutto conviene escludere dal discorso il difficile termine comprendere e provare a utilizzarne un altro, meno carico d'implicazioni: è possibile spiegare Auschwitz? Nella teoria della scienza, all'attività dello spie gare viene attribuita una certa tensione rispetto all' attività del comprendere; essa viene collocata piuttosto nell'ambito delle scienze naturali e sociali che non delle scienze dello spirito. La mia tesi è che Auschwitz sia spiegabile, e che non lo sia meno di altri accadimenti della storia. Le fonti non ci offrono mai tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Esistono sempre diverse interpretazioni dell'importanza dei fattori e dei contesti storici, e dunque spiegazioni differenti. Lo stes so vale anche nel nostro caso. Il criterio decisivo è che siano possibili spiegazioni motivate. Ciò andrebbe mostrato in 1 66
A uschwitz
questa sede - unitamente ad alcuni presupposti - sotto forma di esempi. In un primo momento l' eliminazione sistematica degli ebrei europei è stata attribuita, in termini generali, a un ordine di Hitler. Col passare del tempo, a questa interpre tazione se ne è contrapposta un 'altra, che fa risalire lo ster minio a un graduale processo di formazione della volontà, che avrebbe avuto natura prevalentemente burocratica, e che sarebbe stato promosso da diverse istanze, soprattutto a livello regionale: un processo che certamente non con traddiceva la volontà del Fiihrer, ma che non sarebbe stato innescato o determinato da un suo ordine. Una cosa è certa: allo stato attuale delle conoscenze, contrariamente al caso dell'eutanasia, un ordine scritto di sterminio degli ebrei non esiste. E un'altra cosa è altamente probabile: un ordine scritto non c'è mai stato. Naturalmen te una direttiva in tal senso avrebbe potuto essere impartita a voce, e Hitler avrebbe anche potuto esprimere in altra forma la sua volontà di avviare l'opera di eliminazione degli ebrei. Se e in quanto si presuppone vi sia stato un ordine del Fiihrer, si dovrebbe spiegare come una persona sia potuta arrivare a dare una disposizione tanto mostruosa. Andreb bero ricordati l' antisemitismo, il suo collegamento con le varie visioni secondo cui gli ebrei rappresentavano un peri colo per la razza germanica e, più in generale, la diffusa idea secondo la quale accorrevano interventi per migliorare la salute collettiva ( che di solito si limitava a prevedere la sterilizzazione forzata di soggetti con malattie genetiche, presa peraltro in considerazione anche dall ' SPD negli anni di Weimar e praticata in Svezia fino agli anni Settanta) . Si dovrebbe anche prendere in esame il modo in cui l' antise mitismo fu esasperato da teorie della congiura come la sto ria dei Protocolli dei Savi di Sion o la leggenda della «pugna lata alle spalle». Si dovrebbe ricordare che dopo la Prima guerra mon diale, in un paese prostrato come la Germania, la miseria, l'incertezza e la disperazione diffuse in molti settori della società avevano prodotto una peculiare accumulazione di 1 67
Auschwitz
attese, preparando il terreno al fiorire delle ideologie e soprattutto di grandi progetti per radicali e rivoluzionari cambiamenti sociali a b reve termin e . Grandiose idee messianiche circa il ruolo che l'individuo poteva svolgere per servire la propria idea (e magari il proprio popolo) , in voluta opposizione alla politica di routine, alle debolezze liberali e all'odiata borghesia, la sopravvalutazione delle possibilità della tecnica e della politica e ogni sorta di rea zione «contro tutti» finirono per ritrovarsi concentrate in alcuni individui particolarmente sensibili. Questi ultimi, nel momento in cui conseguivano dei primi successi , pote vano facilmente ritenerne possibili degli altri. Un grande aumento del potere statale, progetti folli e megalomani en trarono nel novero delle cose possibili. In breve, è possibile ricostruire il formarsi, su questo terreno di proliferazione delle aspettative, di un'oscura miscela «ideologica», sulla base della quale diviene plausibile l'emergere e il diffonder si in quegli anni non solo dell'idea secondo cui esisteva una «questione ebraica», ma anche del desiderio di giungere a una sua soluzione, se non addirittura la certezza di poterla risolvere in senso radicale, privando gli ebrei della loro posizione, della loro influenza e dei loro diritti civili e cac ciandoli dal paese. Tutto ciò era senza dubbio stupido e malvagio, e poteva diventare, in Hitler e in altri, una sorta di idea fissa: Martin Broszat ha parlato di «forma patologica di odio contro gli ebrei»10• Ma si sa che questo genere di cose esiste. La capacità che Hitler aveva di percepire la realtà era, su questo punto, fortemente deficitaria. Che cosa avevano fatto di male gli ebrei, in particolare gli ebrei tedeschi, al resto del popolo tedesco? Non erano essi in gran parte dei buoni cittadini, non si distinguevano nella scienza e nell'economia, nella medicina e nel diritto, non brillavano per cultura e per ricchezza linguistica? Non erano forse entrati in guerra nel 1 9 1 4 , come tutto il resto del paese, subendo perdite forse anche più elevate in termini percentuali ? E anche se tra loro esistevano affaristi sgradevoli, che verso la fine della guerra e nel primo dopoguerra catalizzarono su di sé riprovazione e odio, che cosa c'entrava tutto questo con una «razza»? 1 68
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Andrebbe anche spiegato come un uomo che nutriva simili idee fisse e illusioni almeno in parte patologiche (per quanto influenzate dalle idee dell'epoca) sia potuto giunge re al potere in un grande Stato; come egli abbia potuto costruire un vasto e potente movimento, come sia riuscito nell'ambito formale della Costituzione - ma di fatto in con trasto con le sue linee fondamentali, a farsi conferire pieni poteri, facendo così piazza pulita ad arbitrio dei vincoli costituzionali e dei diritti civili. E tutto ciò, summa summa rum , a fronte di una compiacenza, in sé sorprendente, della «classe politica», della burocrazia, dei vertici dell'esercito , della giustizia e di grandi settori della popolazione (quali che fossero le «vere» idee di molti al riguardo) . Per spiegare tutto ciò occorre risalire alla repubblica di Weimar, così poco amata, e al trattato di Versailles , all'in flazione, alla crisi economica, alla disoccupazione e a tutte le incertezze, alle paure e alle grandi difficoltà di una popo lazione tradizionalmente costretta ad attendersi il principa le impulso al miglioramento della situazione economica dallo Stato - il che per molti significava da un movimento radica le, di destra o di sinistra -, e in cui era chiaramente avvertibile il desiderio di ripristinare, dopo la sconfitta del 1 9 1 8 , la grandezza della nazione. Di una popolazione tra i cui ado lescenti si diffondevano progetti esaltati e fantasiosi. Molto di tutto ciò oggi è per noi lontano e difficile da immaginare: la miseria, il rimpianto della grandezza nazionale e infine (ma anche questo è tanto lontano ? ) la sfiducia nella demo crazia. Tuttavia si tratta di fenomeni spiegabili e la ricerca ha già fatto molto per chiarirli. La condiscendenza nei confronti del Fiihrer e del suo crescente seguito dovrebbe apparire plausibile, se si consi dera la miscela di successi e attese, di terrore e sospensione delle regole, di cacciata ed eliminazione degli avversari che caratterizzava il regime, oltre all'effetto della sorpresa (e alla crescente insicurezza dei tanti indecisi) , alla straordina ria coerenza, energia e assenza di scrupoli delle forze che s'impossessarono della repubblica, p rima dall'esterno, ma sempre più anche dall'interno. Da non sottovalutare è il fatto che esse agissero e ottenessero il successo con iniziati1 69
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ve , con una dinamica, cui il mondo non riusciva ad adattarsi facilmente: cosa che probabilmente contribuì ( come sem pre avviene in questi casi) a disincentivare un atteggiamen to di moderazione da parte del regime, una volta giunto al potere e sull'onda dei primi successi, ma favorendone al contrario la radicalizzazione e l'incessante ricerca di nuovi traguardi 1 1 • A tutto ciò si aggiunsero , in Germania, le possibilità d'identificazione che la realizzazione di desideri inseguiti da molto tempo portava con sé. La maggioranza dei tede schi del tempo si comportò come fa la maggioranza delle persone quando si trova di fronte a radicali cambiamenti: cercò di adattarsi. Per giunta, molte delle novità erano po sitive per molti. Le limitazioni alla libertà e al diritto , e soprattutto alla prima, vengono fin troppo spesso accettate. «Non si fanno frittate senza rompere le uova», è il pensiero di molti in questi casi. Anche il fatto che la sensibilità di fronte alle ingiustizie e ai crimini commessi ai danni altrui, alla sottrazione della dignità a interi gruppi, non fosse par ticolarmente grande, per quanto a posteriori ci possa indi gnare, è spiegabile: in parte con l'antisemitismo , in parte con una buona dose di ubbidienza e di apatia da parte di una popolazione relativamente inerme e parzialmente fanatizzata, e infine con la capacità, anch 'essa abbastanza diffusa, di girare lo sguardo per non vedere 1 2• La «notte dei cristalli» provocò un certo imbarazzo, e persino rabbia e paura. Il fatto che interi gruppi di popola zione fossero disposti a lasciarsi mettere i paraocchi, e che accanto a molto sdegno non esternato si riscontrassero in sensibilità e abbrutimento, non è affatto inspiegabile, se si mette in conto anche una certa soggezione all'autorità che nei tedeschi è particolarmente spiccata. Tanta arrendevo lezza appare plausibile se accanto a tutti questi fattori si aggiunge ciò che ancora oggi, in condizioni tanto più favo revoli, caratterizza i tedeschi: la prevalente mancanza di coraggio civile. Oggi siamo in effetti non meno vigliacchi di quanto lo furono a suo tempo i nostri genitori e i nostri nonni, dai quali ci vennero peraltro esempi di coraggio decisamente ammirevoli, sebbene non abbastanza numerosi. 170
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Con le considerazioni fatte finora, tuttavia, si arriva solo a spiegare la possibilità, da parte del regime giunto al pote re, di numerosi burocrati di medio e basso livello e di settori della popolazione, di commettere arbitri , di privare gli ebrei e altri gruppi dei diritti e della dignità e di commettere violenza ai loro danni, fino al lento inizio del «giro di vite», come lo ha definito Vietar Klemperer13, e ai casi dei genitori che vietavano ai propri figli di intrattenersi con i loro com pagni di gioco ebrei. A tutto ciò corrispondeva lo sforzo d'indurre gli ebrei a emigrare privandoli della maggior par te dei loro averi. Tutto ciò è già abbastanza grave, ma non è quasi nulla rispetto a ciò che sarebbe accaduto in seguito, per quanto , visto ex eventu, ne appaia l' antefatto. Di omicidio - a parte casi singoli o la «notte dei cristalli» - non si parlava ancora, se non attraverso i minacciosi riferimenti a un possibile futuro «annientamento» degli ebrei in caso di guerra. «Oggi voglio fare un' altra profezia», dichiarò Hitler davanti al Reichstag il 30 gennaio 1 93 9: Se la finanza internazionale ebraica d ' Eu ropa e d ' Oltreoceano dovesse riuscire a precipitare ancora una volta i popoli in una guerra, il risultato sarebbe non l a bolscevizzazione del mondo e con ciò la vittoria dell 'ebraismo , ma la distruzione della razza ebraica in Europa14•
In seguito Hitler avrebbe rilasciato più volte dichiara zioni analoghe. Ma nonostante tutta la volontà di essere coerenti, duri e privi di scrupoli , queste parole non significano ancora che egli volesse realmente prendere e attuare la decisione di sterminare gli ebrei e che stesse solo aspettando l'occasione giusta a tal fine. Le cose non erano così semplici neanche per Adolf Hitler. Dopo la campagna di Polonia si presero comunque in esame per diverso tempo i progetti per un 'espulsione forza ta degli ebrei dalla Germania, in Madagascar o a est, nei territori del neoistituito Warthegau e specialmente del governatorato generale, e dopo l'inizio della campagna di Russia vennero presi in considerazione remoti territori in 17 1
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Siberia o sulle sponde del mar Glaciale artico15. Ciò avreb be avuto effetti omicidi per la maggior parte dei deportati, e tale era anche l'intenzione dichiarata, ma non avrebbe richiesto l' assassinio diretto . Il problema fu soltanto che non si riuscì a sconfiggere e conquistare l'Unione Sovietica tanto rapidamente e facil mente come si era creduto di poter fare. E ancor prima, nell'ex Polonia, dunque nel Warthegau e nel governatorato generale, nessuno voleva gli ebrei: al contrario, le ammini strazioni tedesche di quei territori volevano a loro volta liberarsene, inviandoli a oriente. Fu così che si innescò un processo sospinto da molti attori. I problemi di rifornimento alimentare di un paese in guerra che dipendeva fortemente dalle importazioni, e quelli di carenza di alloggi, in particolare per le centinaia di mi gliaia di tedeschi trasferiti frettolosamente dai territori del Reich , attendevano una soluzione urgente; occorreva af fiancare altre strutture mediche agli ospedali militari; si voleva evitare che il proprio popolo (gli ariani ! ) soffrisse più dello stretto necessario. Ebrei (e minorati mentali) era no mangiapane a ufo, «esseri zavorra». Era su di loro che si poteva risparmiare un po' , erano loro che potevano morire senza problemi, era a loro che si poteva anche rubare qual cosa. Potevano rendere disponibili alloggi di cui avevano tanto bisogno i tedeschi, e gli stessi polacchi che dovevano lasciare il posto ai tedeschi. Tra i Gauleiter iniziò una gara per «ripulire» il più possibile il proprio territorio dagli ebrei. Per controllarli meglio li si ammassava nei ghetti, che tuttavia non riuscivano ad automantenersi, anche perché gli ebrei che vi erano stati concentrati erano prima stati espropriati dei loro averi. I ghetti erano sovraffollati, e ciò provocava fame, epidemie, situazioni insopportabili, che tuttavia servivano a «dimostrare» quanto gli ebrei fossero inferiori. Era necessario avviare un grande «movimento demografico» a est16• I potentati regionali premevano per sapere a che punto erano le cose. Si poneva anche la que stione se «ai settori di popolazione indesiderati nei grandi spazi destinati alla colonizzazione germanica» dovesse esse re assicurata una «qualche sopravvivenza duratura» [sic.'] o 172
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se essi andassero totalmente «eliminati». Così, nell' ambito di queste riflessioni, nel luglio 1 94 1 si affacciò la proposta di «liberarsi in modo più rapido» degli ebrei «non più utilizzabili per lavorare. In ogni caso ciò sarebbe meglio che !asciarli morire di fame». Le nuove truppe d'intervento delle S S , nelle retrovie del fronte in Unione Sovietica, avevano già iniziato a eseguire fucilazioni di massa su larga scala di ebrei, iniziando dagli uomini, ma dopo un paio di mesi erano passati a eliminare anche donne e bambini. Il numero delle esecuzioni arrivò presto a superare un milione. A partire dall'autunno del '4 1 fu pianificata la costru zione a Belzec, Sobibor, Treblinka, Majdanek e Auschwitz di campi di sterminio, dotati di camere a gas, grandi forni crematori, collegamenti alla rete ferroviaria con tanto di orari e così via. Allora anche in Germania e in tutti gli altri territori sotto il controllo tedesco, a occidente, a nord, a sud e a sudest, gli ebrei vennero inviati verso i campi di concen tramento e i forni crematori. Giunti a questo punto , si trattava di sterminarli tutti e in modo radicale, a prescinde re dal fatto che là dove si trovavano fossero considerati dannosi o semplicemente superflui. Nel migliore dei casi vennero utilizzati provvisoriamente per lavorare, ma anche questo divenne ben presto impossibile in Germania, da dove, nonostante le molte obiezioni dell'industria, furono deportati anche gli ebrei in grado di lavorare. La ]uden/reiheit, l' «epurazione degli ebrei» era più importante della forza lavoro di cui pure si aveva tanto bisogno. Nel complesso il materiale umano, come allora lo si chiamava, veniva lette ralmente dilapidato. Si trattava di una follia proprio dal punto di vista dello sfruttamento della forza lavoro ebraica. In fondo si voleva vincere una guerra ! Che tutto questo fosse noto al Fiihrer e corrispondesse alla sua volontà è, ripetiamo, probabile . La parte che egli ebbe nella vicenda può essere presumibilmente spiegata tenendo conto della sua posizione iniziale, della dinamica della più ampia ]udenpolitik, della necessità autoimposta di vittoria, della profezia hitleriana del 1 93 9 e dell'idea fissa del Fiihrer secondo cui era ingiusto che gli ebrei sopravvi173
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vessero quando i tedeschi perdevano in guerra i propri uomini migliori. Sugli antefatti del periodo 1 93 9-4 1 , su quello che fu forse il «processo autoalimentato» innesca tosi prima di pas sare all'omicidio su scala industriale (a proposito del quale si continuava a parlare di «evacuazione», per quanto essa avesse ormai come destinazione . . . l'aldilà) , occorre chiarire soprattutto una cosa: come si sia arrivati a pensare che si potesse disporre a piacimento degli ebrei e della loro vita (al punto da compiere esperimenti raccapriccianti; e si pensi che cosa sarebbe accaduto se già allora fosse stato possibile il trapianto di organi ! ) ; come (a fronte di esitazioni e obie zioni evidentemente scarse) si cercasse solo il modo più semplice, quale che fosse, per risolvere il problema; come ci si ponessero solo problemi tecnici riguardo alla praticità delle soluzioni disponibili, e mai dubbi più consistenti. «Le fucilazioni mi ripugnavano, pensando alle donne e ai bambini . . . Ora [ dopo la decisione di usare il gas] potevo finalmente stare tranquillo, questi bagni di sangue sarebbe ro stati risparmiati a tutti noi, e le stesse vittime avrebbero potuto essere salvaguardate fino all'ultimo momento»: così scriveva dopo la guerra Rudolf Hoss , che aveva diretto il lager di Auschwitz17• Problematica dunque non era la cosa in sé, ma il metodo . Solo di esso si era responsabili, solo dell 'esecuzione. Dopo la guerra Hoss definì «sbagliato, pro fondamente sbagliato» anche il merito, anche perché, a suo dire, «non aveva reso un buon servizio all'antisemitismo». Hitler stesso, alla fine, si sarebbe richiamato ai «mezzi più umani» con cui aveva fatto espiare agli ebrei le loro colpe per la guerra, i caduti e le vittime dei bombardamenti18• Si è riluttanti ad ammetterlo. Ma che in uno Stato privo di stampa libera e di opposizione, in larga parte isolato dall'estero, dominato da una leadership fanatica che tutta via mieteva successi, e con essi consenso, a seguito di un'abile propaganda, si sia potuta radicare profondamente una falsa credenza come quella secondo cui un determinato gruppo di individui ( contro il quale esistevano da sempre molti pregiudizi) fosse estremamente pericoloso; che si sia impo sta - e non solo all'interno di un vero e proprio ordine come 174
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le SS - la convinzione che il proprio popolo fosse una razza dominante e che alle altre razze sulla terra spettassero solo il posto e i diritti loro concessi dalla razza dominante, e soprattutto che nel corso della guerra, per sterminare milio ni di persone, si sia potuto trovare non solo un ristretto e ben addestrato gruppo di esecutori diretti, ma la collabora zione di un' ampia cerchia di persone che in molti casi par tecipavano direttamente alla strage, forse nemmeno poi tanto controvoglia: purtroppo anche tutto q uesto è spiegabile, nel momento in cui si tiene conto di processi di esasperazio ne delle condizioni di partenza, e della possibilità di rima nervi coinvolti. Si deve tuttavia anche considerare che esiste sempre uno spettro ampio - soprattutto sul lato negativo - di pos sibilità umane, che in questo caso sono state mobilitate, richieste e utilizzate in modo particolarmente massiccio. E bisogna ammettere che i sistemi di sicurezza istituzionali e mentali che normalmente servono a evitare queste possibi lità sono vulnerabili (specialmente quando vengano costan temente resi precari, e infine travolti, da una mostruosa dinamica che si dispiega in tutta la sua forza) . E tutto ciò nel XX secolo. Che un individuo con i suoi seguaci si sia messo a ucci dere milioni di persone seguendo un'idea fissa non è acca duto solo in Germania. Il marxismo non era certo un' oscura mistura di idee, ma una teoria (e per giunta ragguardevole) , eppure l e conseguenze che n e trassero Lenin, Stalin e se guaci, e i modi con cui essi vollero imporlo ai popoli del l'Unione Sovietica (e poi del blocco orientale) contenevano già qualcosa di patologico e di profondamente violento su larga scala (comunque non equiparabile a Auschwitz) . Il resto l o fecero l'obbedienza (quasi sempre cieca) , la tensione tutta rivolta al dovere e all'efficienza (tanto poco controbilanciata dalla disponibilità a operare secondo le regole, a guardare oltre, a opporre almeno una resistenza passiva, se non un sabotaggio tacito o aperto) . Il terrore, la paura e le infinite debolezze umane ebbero la loro parte, cui si aggiunsero le aspettative reciproche: ogni azione infatti doveva integrarsi con quelle di altri, ognuno doveva svolge175
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re il proprio ruolo e «rigare dritto» all'interno di questo sistema dinamico. Ciascuno era allineato rispetto all'insie me, e aveva in tal senso un compito da svolgere: ben pochi pensieri saranno stati rivolti alle vittime. L'agire e il pensare erano racchiusi generalmente in ambiti molto ristretti, nella logica dei tempi moderni. Come ha affermato Tzvetan Todorov, la strada che conduceva alla camera a gas iniziava con il poliziotto francese, che ha provveduto solo a ricercare e consegnare i bambini ebrei, al conducente della locomotiva, che ha solo guidato i treni come aveva sempre fatto, al comandante del campo, che ha solo impartito le disposizioni per scaricare il convoglio e sovrinten deva allo smistamento dei deportati , fino ai Sonderkommandos, che conducevano i prigionieri alla mor te nelle camere a gas, e pertanto erano le uniche ad uccide re, ma che dal loro punto di vista erano anch 'esse vittime più che carneficil9• A questa ripartizione in ambiti, in «compartimenti sta gni», come dice Todorov, corrispondeva una responsabili tà molto limitata, che era tutta concentrata sulla corretta esecuzione degli ordini. Per tutto ciò che andava oltre , si spiegava (e la spiegazione era presa per buono) che solo istanze superiori, e in particolare il Fiihrer, potevano sta bilire il da farsi e conoscevano la posta in gioco. «Di conseguenza si sentivano costantemente presi a carico», in un atteggiamento di totale passività, «nessuno veniva mai invitato ad assumere le proprie responsabilità», come te stimoniò dopo la guerra l 'ex ministro del Reich Albert Speer20• Restava dunque poco spazio per pensare, e so prattutto per sviluppare la consapevolezza di ciò che si stava facendo agli altri ( e che non si sarebbe dovuto fare) , e semplicemente per distinguere tra il bene e il male. Furono evidentemente pochi (probabilmente soprattutto tra le persone più semplici e probe) a «mettersi la mano sul cuore», nel bel mezzo di quell' «apatia schizoide» che lo psicologo criminale Gustave M. Gilbert diagnosticò a proposito del comandante Hoss2 1 • Ma mancarono anche prudenza, senso d i orientamento, fantasia e forza d'immaginazione. Come ha scritto Hannah 176
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Arendt, Eichmann non poteva immaginare c10 che stava preparando . Anche questo è spiegabile: possiamo vedere una piccola attenuante nel fatto che queste persone per cultura, origini e situazione sociale si trovavano di fronte a compiti decisamente superiori alle loro possibilità. «Uomi ni comuni», tutori dell'ordine e pacifici padri di famiglia, si trovarono inquadrati come riservisti della polizia nel batta glione 1 0 1 di Amburgo , impegnati ad eseguire la strage degli ebrei22• Lo stesso comandante, profondamente scosso dall'ordine ricevuto, per la prima volta lasciò i suoi uomini esplicitamente liberi di partecipare o meno alle operazioni. D'altra parte, anche generali e ufficiali si prestarono a ren dere possibili, addirittura a comandare, fucilazioni (spesso su vasta scala) di ebrei o di prigionieri, o a lasciar morire di fame milioni di prigionieri di guerra. Seyss-Inquart ( citato da Todorov) ha notato come il numero di persone che si possono uccidere per odio o per il gusto di compiere una strage sia limitato . « [ . . ] ma non c'è limite al numero di persone che si possono uccidere, in maniera fredda e sistematica, in nome dell ' " imperativo ca tegorico " militare»23 • Riflettere in modo autonomo e con senso di responsabi lità sulla vicenda complessiva divenne sempre più difficile man mano che il tempo passava. Costruire un giudizio con diviso con altri era possibile al massimo in cerchie ristrette. Va anche considerato che la guerra a oriente, e special mente la guerra partigiana nelle retrovie, fu straordinaria mente dura, inesorabile e crudele da entrambe le parti. Del resto, bastano le guerre «normali» per mettere in mostra (o liberare) molta brutalità. Già Georg Bi.ichner nel 1 83 3 , in circostanze del tutto diverse, aveva stabilito che «siamo solo delle marionette manovrate da forze invisibili» . Di qui la domanda: «Che cos 'è che in noi mente, uccide, ruba?». Bi.ichner rispondeva che non erano gli uomini, ma solo una parte indefinita di essi a tenere in moto il terribile marchingegno (in quel caso la Rivoluzione francese) ; di fronte all' «orrendo fatalismo della storia» egli si sentiva «come annientato»24• Todorov parla di «frammentazione»25• E Bi.ichner nel 1 834 aveva .
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scritto: «Non è in potere di nessuno di non divenire uno stolto o un malfattore». Nel 1 92 2 , sulla scorta dell'esperienza fatta dal 1 9 1 4 in poi, Musil osservava: «Eravamo dei cittadini laboriosi, sia mo diventati degli assassini, dei macellai, dei ladri, degli incendiari e roba simile». Ora tutti erano tornati industriosi cittadini. «Si tira avanti esattamente come prima, solo un po' più fiacchi, con la circospezione dei malati»26• La predisposizione alle deviazioni (e a volte agli eccessi) più terribili è evidentemente data, sebbene mai prima di Auschwitz fosse stata sfruttata in tal modo e in tale misura. Con queste riflessioni non si vuole alleggerire alcuna colpa. Si cerca solo di spiegare l' accaduto , e mi pare che ciò sia in definitiva possibile. Il presupposto decisivo fu il fatto che lo Stato sfuggisse al controllo di istituzioni all'altezza della situazione, di statisti, generali e funzionari dotati di senso di responsabilità; che esso venisse consegnato a una banda di criminali dotati di un vasto seguito; che questa avesse la possibilità di calpestare il diritto a piacimento; che coloro che più facilmente avrebbero potuto impedirlo in parte partecipassero all'accaduto e per il resto non avessero l'intenzione o la possibilità di opporre una forte resistenza, né di compiere un attentato, e che quando ciò accadde fosse ormai troppo tardi. Tuttavia, nel complesso il regime hitleriano pose ai te deschi di quel tempo (e non solo a loro) un compito che era evidentemente superiore alle loro possibilità di conoscenza, di giudizio , di azione e di possibilità di coalizzarsi. Molto di ciò che accadde e che fu loro chiesto di fare appariva loro impossibile, almeno all'inizio. Per la maggior parte essi non potevano prevedere che si sarebbero venuti a trovare in una situazione a tal punto terribile; ma quando questa si presen tò la accettarono rapidamente, insensibili com 'erano diven tati, finendo per abituarsi a fare cose che non erano abituati a fare e che non avrebbero dovuto fare. Anche queste rifles sioni siano intese solo come contributo alla spiegazione dell'accaduto. Fino a che punto questo fallimento fosse «tipicamente tedesco» è una domanda cui è difficile rispondere. Sicura178
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mente, la disponibilità a obbedire e la dipendenza interiore nei confronti dei propri superiori e dello Stato - il sentirsi inermi di fronte ad essi, e forse una certa mancanza di sentimento, intesa come tendenza a reprimere gran parte dei moti del proprio animo - erano più spiccate nei tedeschi che in tanti altri popoli. Weber ha parlato, a proposito della burocrazia, di «preparazione specializzata» e di evasione «oggettiva» di una pratica, «senza riguardo alla persona»27 • Forse i tedeschi hanno avuto una particolare propensione a funzionare in tal modo . Ma è difficile stabilire con precisio ne quanto ciò sia stato vero e quanto rilevante nel comples so della vicenda. Lo stesso vale per l'antisemitismo tedesco a confronto con quello di altri paesi. Il fatto che una vicenda come Auschwitz sia potuta accadere proprio nell 'Europa del Novecento dà giustamen te da pensare, ma non nel senso in cui ciò viene generalmen te inteso. Infatti essa non è poi così sorprendente. N el passato , e in altri continenti, l'assassinio su scala industriale non era possibile; esso appartiene al Novecen to e all 'Europa. Lo stesso si può dire della capacità orga nizzativa e della freddezza con cui è stato eseguito. E forse anche dell 'aspettativa che misfatti di tali proporzioni si potessero innescare senza motivazioni reali . Secondo Todorov, la forte specializzazione e complessità della vita individuale e la difficoltà di procurarsene una visione d'in sieme, esasperate nel Novecento, hanno contribuito in modo sostanziale a rendere possibile questo crimine senza precedenti . Secondo Jacob Burckhardt nella morale non esiste pro gresso28. I beni culturali da soli non fanno cultura, ma al massimo producono dei filistei. C'è anche da chiedersi qua le contributo la cultura possa dare all'umanità. Tutte queste considerazioni diventano col passare del tempo sempre più pesanti, poiché nuove armi e nuove tecniche portano con sé nuove possibilità, nel bene e nel male; nuove sensibilità portano nuove debolezze (e viceversa) , e nuove difficoltà di osservare le cose in termini complessivi portano nuove precarietà e nuovi rischi. Come ha scritto Walter Benjamin negli anni Trenta: 179
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Lo stupore perché le cose che noi viviamo sono «ancora» possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all'inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: che l'idea di storia da cui deriva non è sostenibile2 9•
Della sorpresa sulla Germania e sull'Europa si può dire, probabilmente, lo stesso (anche se essa non potrà mai esau rirsi) . Altra questione è fino a che punto Auschwitz possa esse re rappresentata e pensata: sia nella sua nascita e nella sua organizzazione, nell'antefatto della scoperta e dell'umiliazio ne, nella storia dei campi di concentramento, sia nella vicen da stessa che vide la partecipazione di carnefici, vittime e spettatori, e soprattutto in ciò che le vittime dovettero patire. Siamo senz' altro in grado di scrivere questa storia, su cui disponiamo di moltissime testimonianze. La fase acuta per qualcuna delle vittime iniziò - un esempio per tutti - a Essen, nella Herwarthstrasse, dove chi probabilmente aveva vissuto per decenni da rispettato cittadino venne portato via di mat tina presto, con pochi effetti personali, da poliziotti in bor ghese, e messo su un camion; una storia proseguita nei punti di raccolta, nelle stazioni di partenza, e a bordo dei convogli, coinvolgendo il macchinista della locomotiva che forse, dopo aver consegnato il suo carico fino alle soglie della morte, oltrepassando il cancello con la scritta «Arbeit macht frei», consumò con gusto il suo pane imburrato, accompagnandolo magari con un po' di tè dal thermos o dalla borraccia. La storia proseguiva generalmente con l'ingresso negli spoglia toi. Auschwitz coinvolse il comandante Hoss, in piedi davan ti alla porta del campo, al quale una volta, come egli stesso testimoniò, una donna passò «molto vicino, indicando i suoi quattro figli - che si erano presi per mano, in modo che anche i più piccoli riuscissero a superare le asperità del terreno -, e sussurrò: "Ma come fate ad ammazzare questi bei bambini? Possibile che non abbiate un cuore? " »30. Abbiamo testimo nianze anche degli spogliatoi, e di nuovo del trasporto verso i forni crematori. Solo delle camere a gas non si sa nulla, solo i racconti delle grida e dei gemiti che si udivano da fuori. Ma a un certo punto anche lo storico deve tacere. 1 80
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Anche le attività dei reparti speciali possono essere nar rate: come il terribile Natale dell'Einsatzkommando II b , che aveva ricevuto l'ordine d i assassinare 3 . 000 fra ebrei e zingari prima di N a tale, e i cui membri dovettero eseguire l'ordine con particolare rapidità per poter partecipare alla messa della notte di Natale3 1 • Pare che il comandante Otto Ohlendorf tenesse un discorso p articolarmente commosso . Che effetto avrà fatto sulle vittime? Kertész: «Qual è la cosa che realmente sconvolge? Che siano state uccise? No: piut tosto che non abbiano compreso la loro morte»32• Certamente questa narrazione è infinitamente penosa. Ma ciò che accadde non è impossibile da raccontare. Eisenhower, dopo aver visitato uno dei campi esterni di Buchenwald, osservò : «Non ci sono parole per descrivere le cose che ho visto». Per tutto il resto - morte e distruzione, cadaveri, macerie ecc. - secondo Martha Gellhorn bastava «seguire le convenzioni dell'estetica del b rutto». Ma Dachau avrebbe superato l'orrore della guerra e le frontiere del dicibile. Oggi forse, dopo che ci siamo trovati tante altre volte a confrontarci con tutto ciò, non è più così, sebbene restino dei limiti che non si possono superare e senza supe rare i quali forse non si riesce a dire ciò che conta di più. Yosef H. Yerushalmi ha affermato che i romanzieri potreb bero comunque narrare Auschwitz33• Ma una rappresenta zione che definisca i propri limiti dev'essere possibile anche per lo storico . Essa è fin troppo necessaria. Perché è pro p rio la forza d 'immaginazione, quella che mancava a Eichmann e a tanti, tanti altri che si trovavano dalla parte dei carnefici, quella che dobbiamo sviluppare. Occorre poter scrivere un simile racconto anche con partecipazione34, nonostante tutta l'oggettività, che proprio di fronte all'orrore è richiesta in dose doppia o tripla: sim patia, compassione, indignazione, orrore, disperazione pos sono trasparire. Molte cose possono essere senz' altro spie gate anche con parole asciutte: gli aspetti routinari e i pro cedimenti gerarchici che sopravvivono corretti, freddi e privi di sentimento anche di fronte ai forni crematori. Destini esemplari, esperienze, singole scene rendono possibile rappresentare in modo chiaro e persuasivo l'insie181
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me degli accadimenti con adeguata ricchezza di particolari, senza retorica, senza ornamenti ed esagerazioni, con l'aiuto di un certo rigore. Ne è un esempio la macabra situazione verificatasi nel cimitero ebraico di Berlin-Weissensee, al l'interno del mausoleo dedicato al cantante lirico Josef Schwarz : sottoterra il talentuoso cantante; nell 'edificio soprastante il sonno inquieto di alcuni ebrei, preoccupati che il nascondiglio venisse prima o poi scoperto; su tutto il salmo 90, I: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio, in cui confido»35 • Resta tuttavia un limite: il fossato tra vittime e carnefi ci, e di conseguenza quello tra i superstiti e discendenti di entrambe le parti. È ineliminabile, anche perché la storia continua ad essere avvertita dai discendenti come profon da ferita. Ma nulla può escludere la possibilità che ciascu na delle parti si cimenti nella ricostruzione, e che in tal modo esse arrivino a rispettarsi. Il vero ostacolo a qualsiasi frequentazione di Auschwitz è probabilmente il rifiuto di comprendere. Imre Kertész osserva in proposito: Semplicemente non possiamo, né vogliamo , né osiamo confron tarci con il fatto brutale che quell 'abisso dell'esistenza in cui è precipitato l'uomo nel nostro secolo non costituisce solo la singolare e sconcertante, «incomprensibile» storia di un paio di generazioni, ma rappresenta anche una possibilità dell'uomo in generale, vale a dire una regola sperimentale che, in una determinata situazione, può valere anche nei nostri confronti. Ci spaventa la facilità con cui dei sistemi dittatoriali di stampo totalitario liquidano la personalità au tonoma e con cui l'uomo si trasforma in ingranaggio perfetto e ubbidiente di una dinamica macchina statale. Ci riempie di paura e di insicurezza il fatto che in un determinato periodo della vita tanti uomini, se non addirittura noi stessi, siano diventati degli esseri che successivamente non riusciamo a riconoscere come persone raziona li, senzienti e dotati di una morale civile, con cui insomma non possiamo e non vogliamo più identificarci. L'interazione di questi tre fattori evoca in noi un senso d'incomprensibilità , laddove «in comprensibile» diventa sinonimo di «inaccettabile»36•
Ma proprio per questo ritengo che si debba contraddire la posizione di Sternberger. Si deve fare di tutto per analiz1 82
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zare, riconoscere, comprendere questa possibilità dell'uo mo. E inoltre: si può veramente fare a meno di capire, se si vuole spiegare, descrivere, ed entro certi limiti immagina re? Io ritengo che, allo stesso modo in cui si pensa che si possano comprendere, con adeguato studio, battaglie e al tre vicende complesse, si possa, e si debba, almeno tentare di fare lo stesso con Auschwitz. Se non altro per un motivo: perché la spinta a capire libera impulsi più forti di cono scenza, intellettuale ed emotiva. Nessuna comprensione è possibile senza terrori sempre nuovi, condanne sempre nuove, disperazione sempre nuo va. Qualsiasi comprensione dev'essere, in misura umana, orripilante e sconvolgente, deve tendere sempre ad una nuova, totale m ancanza di comp rension e . E nessuna rifondazione è possibile durante la catastrofe, ma solo dopo di essa, solo come sopravvissuti quali siamo tutti noi, alme no in Europa, in Occidente, per quanto in modi radical mente differenti. È sicuramente difficile comprendere una simile cata strofe politica e morale, di proporzioni immani, senza poter risalire a cause di grandezza comparabile. Dunque la spie gazione, prescindendo dalla volontà criminale di Hitler e di altri, può risultare solo dall'incontro dei più svariati dati di fatto, di organizzazioni e di uomini che in maggioranza erano, di per se stessi, tutt'altro che pericolosi e portati al crimine. A meno che non si voglia veder fallire in un solo paese i presupposti essenziali di un intero continente. Ed è difficile accomunare gli impulsi a commettere grandi crimi ni a tutti i piccoli reati, gli errori, le meschinità, gli scivoloni gravidi di conseguenze e gli abbrutimenti, le sbadataggini e in alcuni casi persino il lasciar fare con buone intenzioni. L' alternativa sarebbe la rimozione, lo stupore e il ritua le. Per quanto Auschwitz sia destinato a restare incompren sibile per sempre, non ci si può fermare a questo. È vero che i grandi sconvolgimenti avvengono ormai ogni paio d'anni, ma fra uno di essi e il successivo si può ancora fare qualcosa. E occorre anche fare chiarezza sulla difficoltà del compren dere, da cui consegue che per prima cosa si debba tentare di comprendere la molteplice assenza di comprensione. In ciò 1 83
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potrà forse crearsi persino una certa solidarietà tra soprav vissuti. «L'olocausto è un valore, in quanto ha condotto, attra verso un'incommensurabile sofferenza, a un'incommensu rabile conoscenza, e in tal modo nasconde dentro di sé un'incommensurabile riserva morale» , ha scritto lmre Kertész. Affermare ciò è molto audace, ma di fronte a Auschwitz senza audacia ci si può solo arrendere, come storici, come contemporanei e come successori. È fin trop po facile approdare a quel «profondo avvilimento [ . ] che ha le proprie radici nel rifiutq dell'esperienza storica della frattura e dell'esperienza catartica che ne può derivare»37• «Se dunque rifletto sull'effetto traumatico di Auschwitz, paradossalmente rifletto più sul futuro che sul passato». Dunque, la vicenda di quella che con un termine piutto sto infelice è stata chiamata Vergangenheitsbewàltigung, superamento (o elaborazione) del passato, e che in realtà deve necessariamente riguardare ciò che del passato stesso arriva fino al presente, è ormai vecchia di mezzo secolo38• Si tratta di una storia estremamente insoddisfacente, ma an che molto rilevante. lnsoddisfacente in quanto in essa ven gono alla luce tante lacune; e rilevante perché rispetto alle possibilità è stato fatto davvero molto . Quale riflessione su Auschwitz può essere del resto sufficiente, soddisfacente? Il problema era: l. innanzi tutto prendere atto della vicenda Auschwitz; 2 . in particolare, prendere atto della dimensione dello sterminio ebraico (bisognerebbe ricordare la sciagurata di sputa sul numero delle persone uccise - «solo» uno, due o tre milioni, o non piuttosto centinaia di migliaia, o ancora meno? -, e sul fatto che si sia trattato, secondo alcuni, di ebrei venutisi a trovare sfortunatamente tra un fronte e l'altro ) ; 3 . acquisire per intero la consapevolezza della mostruo sità di ciò che venne progettato e predisposto; 4. prendere coscienza dell' ampiezza reale della cerchia di coloro che, direttamente o indirettamente, erano co in volti in Auschwitz in termini di esecuzione, supporto, tolle ranza, per giungere a quel vasto numero di cui faceva parte .
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ad esempio la Gioventù hitleriana, che cantava per le vie tedesche «Quando il sangue degli ebrei tingerà il coltello, le cose torneranno a posto» (parole che, sia detto per inciso, non corrispondevano al testo ufficiale) . A prescindere dalle numerose reazioni di semplice ri fiuto, di voglia di non sapere, di prosecuzione dello schema bellico amico-nemico, d 'irrigidimento di fronte alla reedu cation ecc . , la difficoltà consisteva inizialmente - e consiste ancor oggi, per i più anziani - nel fatto che il grosso della società tedesca ha vissuto la guerra sotto un segno del tutto differente da quello sotto il quale essa a posteriori ha finito sempre più per presentarsi, e tuttora si presenta. L'una e l'altra visione erano e sono molto difficilmente riconciliabili. Essenziali, nella prosecuzione di questa vicenda, sono state la distanza sempre maggiore dall'accaduto, la graduale scomparsa delle persone direttamente coinvolte, le nume rose interdipendenze tra politica interna ed estera, il dibat tito fra i partiti all'interno e in particolare la storia del l'identità della Repubblica federale, anche in termini di differenziazione dalla Germania orientale. Finché e in quanto ci si sentiva tedeschi nel senso tradizionale del termine occorreva un grosso sforzo per riconoscere i misfatti commessi dai tedeschi (o, come si tendeva a pensare, i misfatti di cui i tedeschi erano accusa ti) . Hitler e le SS: era facile attribuir loro la colpa , una volta che ci si considerava l' «altra Germania» , quella che si assumeva la responsabilità di Auschwitz, ma non voleva sapere nulla del resto39• Chi era schierato a sinistra poteva accusare i funzionari conservatori , i sessantottini l'intera società, considerata ancora «fascistoide», della Repubbli ca federale : l ' ampia parte di questa società naturalmente a ragione - non accettava tale visione . La difficoltà m ag giore, persino a sinistra, era rappresentata dalla Wehrmacht: chiunque, o quasi, aveva parenti stretti o amici che ne avevano fatto parte, che avevano compiuto azioni mo struose, criminali e degne di un criminale , ma che non per questo andavano considerati dei criminali. E poi nelle loro file c 'erano state tante vittime ! Quanto più ci si considera va postnazionali e si p rendeva distanza dai fatti , tanto più 1 85
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diveniva possibile addossare i crimini «ai tedeschi», o «ai tedeschi di una volta», sebbene non mancassero mai dei movimenti di profughi in cui qualcuno, totalmente a spro posito nel bene e nel male, parlava ancora di armate naziste anziché di armate tedesche . La riunificazione tedesca non ha cambiato molto a tale riguardo . La presa di distanza dai «tedeschi» raggiunse il culmine a metà degli anni Novanta, con il dibattito attorno alle tesi di Goldhagen. Se fino allora ci si era trovati dalla stessa parte dei tedeschi di prima, ossia all'interno dell'arena in cui venivano gettate le pietre, a questo punto ci si univa a coloro che scagliavano pietre. Il risultato fu che quel che avevano fatto «i tedeschi» di prima finì per essere oggetto di una riprovazione crescente e mai abbastanza netta. Quanto più gravi diventavano i loro misfatti, tanto più gli altri, coloro che vivevano nel presente, potevano prenderne le distanze. Analogo effetto ebbero , in ultima analisi, le rielaborazioni, perlopiù sommerse, di intere storie familia ri, nelle quali i genitori e nonni, un tempo considerati ( nel migliore dei casi ! ) fiancheggiatori, venivano promossi a buoni tedeschi che avevano magari nascosto degli ebrei. Il tutto condito con il rituale sbigottimento40• È nata così una situazione che deve condurre a una consapevolezza del tutto nuova. È ormai necessario cercare di rendere giustizia anche a molti dei tedeschi dell'epoca, tracciando delle linee di differenziazione all'interno di quel l'insieme di popolazione disponibile a prendere parte a qualsiasi possibile crimine, come appaiono fin troppo facil mente i tedeschi di quegli anni, che non erano tutti dei vigliacchi o dei farabutti. Se invece si parte proprio da quest'ultimo presupposto, se si ignora che anche nell'eser cito tedesco, come nella popolazione, nonostante le circo stanze difficilissime, si pensava e si agiva ancora con probità e la gente perbene era la maggioranza, si finisce per non capire più nulla di quanto accadde, sottraendo alla grande difficoltà di comprendere. Fra le altre cose, non ci si deve accanire unilateralmente sulla questione astratta di quanti tedeschi avessero (quante) informazioni su ciò che accadeva ad Auschwitz41 • Probabil1 86
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mente erano molti coloro che avevano sentito parlare di fucilazioni di ebrei, ma quanto più tremende erano le noti zie giunte al loro orecchio, tanto più difficile era prestarvi fede, almeno per coloro che non attribuivano al regime nefandezze e basta. Che cosa si poteva fare, poi, se si sospet tava che il proprio marito, o il proprio padre, fossero coin volti in quei fatti? E soprattutto, che cosa si poteva fare di queste informazioni se non si aveva la volontà, e tanto meno la possibilità, di trarne le conseguenze, disertando, parteci pando alla resistenza, lavorando per la caduta del regime? La posta in gioco era infatti molto alta. Come inquadrare poi tutte queste informazioni, rispetto a tutto ciò che già contribuiva a tenere ciascuno sotto seque stro: rispetto alla guerra, agli attacchi aerei, alla preoccupa zione per i propri cari, al lutto per i caduti, e a tutto ciò che si doveva fare per sopravvivere? Non parliamo poi della paura, che induceva a tenere per sé molte cose. Che impediva a ciascuno di approfondire l'argomento, e addirittura di vo lerne sapere di più. Come ha detto una volta una testimone dell'epoca, sapevamo solo che avevamo paura di far doman de. La questione di chi sapesse che cosa mi sembra decisa mente accademica, se non le si affianca l'altra: che cosa si poteva fare con il semplice sapere, se non rimuoverlo o alme no collocarlo là dove poteva dare meno fastidio? Il nostro senno di poi, il nostro ardente wish/ul thinking su come sarebbero potute andare le cose e la nostra bru ciante delusione perché esse andarono diversamente sono abbastanza di parte. E i modi in cui ci rappresentiamo i tedeschi di allora e la loro situazione ci rendono inermi: emettiamo troppi giudizi stando seduti comodamente in poltrona. No, non si viene a capo del fenomeno Auschwitz dipingendo a tinte troppo fosche la parte dei carnefici (nel senso più ampio del termine). Il problema consiste proprio nel fatto che la maggioranza di un popolo - che non è fatta di vigliacchi né di criminali - volente o nolente si lasciò mettere al servizio di un mostruoso crimine, gradualmente, fino a rendersi disponibile. La guerra fu condotta inizialmente nel modo tradizio nale (che era assolutamente naturale anche fuori della Ger1 87
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mania) , nella convinzione di dover sacrificare, se fosse oc corso, persino la vita per il proprio paese. Ma la campagna di Russia divenne, con il consenso di buona parte dei gene rali, una guerra d'annientamento in cui molte delle regole conosciute non valevano più . Nel corso di essa, e parallela mente ad essa, molti entrarono, nel crimine «a piccoli pas si», spontaneamente, come esecutori di ordini42: e persino comandanti di livello elevato tollerarono o addirittura or dinarono misfatti. Manca tuttavia lo spazio, in questa sede, per tessere l'elogio che i molti tedeschi perbene meritereb bero. Devo approssimarmi alla conclusione. La difficoltà che abbiamo nel lavorare su Auschwitz , consiste, lo ricordiamo ancora una volta, soprattutto nel fatto che non riusciamo a riconciliare i vari elementi che fanno parte del tema: i segni p remonitori sotto i quali l'epoca fu vissuta dalla maggioranza dei tedeschi, nelle circostanze di allora , alla luce di ciò che essi avevano e potevano avere appreso, e i segni sotto i quali esso non può non apparirci oggi. La grandezza del male, l'elemento diabolico ( quale dovette presentarsi durante il regime, incarnato in personaggi come Eichmann) , e la banalità del male, quale apparve dopo la guerra, nella sua mediocrità e sconsideratezza. I carnefici e le vittime. I tedeschi di allora e quelli di oggi. La nostra immagine della storia e della civiltà e la realtà di Auschwitz nel XX secolo. L'impossibi lità di mediare tra il pensiero di Auschwitz e la realtà del presente ( che appaiono riconciliabili solo quando i nostri «statisti» si concedono richiami a Auschwitz mentre pren dono decisioni altamente problematiche contro la Jugo slavia o l ' Austria) . L'impossibilità (o quasi) di un pensiero adeguato e la sua necessità. L 'inadeguatezza della lingua e la necessità di utilizzarla43 • Se non ci si vuole smarrire in questo accadimento non gli si può evidentemente conce dere, nella coscienza generale, e anche quotidiana, il posto che esso meriterebbe in base alla sua importanza. È trop po mostruoso, troppo ingombrante, ancor oggi, p roprio come dovette apparire a suo tempo, mutatis mutandis, a coloro che ne erano a conoscenza o che ne avevano almeno un 'idea. 1 88
Auschwitz
Imre Kertész ha osservato che «chi sopravvisse [ . ] per poter sopravvivere [dovette] comprendere: dovette com prendere ciò a cui sopravviveva». Nel frattempo, però, la storia è proseguita «con una logica fondamentalmente dif ferente»; «per noi quindi non è più comprensibile il fatto che a suo tempo comprendessimo anche la precedente [lo gica, vale a dire quella del totalitarismo] ; ciò non significa che la storia sia incomprensibile, ma che noi non compren diamo più noi stessi»44• In altri termini, avendo vissuto questi tempi e questo regime ed essendo sopravvissuti ad essi, non riusciamo più a pensare in modo unitario noi stessi, ovvero la nostra biografia. Qual è dunque la «forza agente a ritroso» di Auschwitz, per riprendere il concetto di Nietzsche? Come può lo storiografo presentare Auschwitz come «parte di un tutto»? Nell'interpretazione consueta, Auschwitz non solo è un fatto di per sé privo di senso, sia pure nell'ambito della storia della follia umana, ma smentisce anche retroattivamente molte ipotesi sul senso della storia. Quando la storia di un paese, di un continente, di un pianeta conduce ad Auschwitz è difficile ritrovare in essa un senso . Se si pensano, a partire da Auschwitz, le antiche ipotesi sul senso della storia, quelle ipotesi che vedevano nella storia la via verso un miglioramento complessivo dell'uma nità e del mondo, un viaggio verso condizioni sempre mi gliori, l'evento Auschwitz può essere collocato in qualche modo all'interno di questo processo solo se viene visto come una battuta d' arresto di enormi proporzioni. Nean che in questo caso, a mio giudizio, è possibile ritrovarvi un senso; si può solo tentare di attribuirgliene a posteriori, ipotizzando, come fa Imre Kertész, che abbia «condotto, attraverso un'incommensurabile sofferenza, ad un'incom mensurabile conoscenza, e in tal modo nascon de dentro di sé un'incommensurabile riserva morale». Si deve aggiungere che l'umanità sta tuttora avvalendosi di questo capitale. La storia viene pur sempre fatta dagli uomini. Anche dopo Auschwitz essi dovrebbero dunque accettare, in linea di principio , la possibilità e il dovere di indirizzare la storia verso le grandi aspettative di un tempo. . .
1 89
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Ciò per alcuni versi accade già. Ma, come ha scritto Hannah Arendt, resta «l'unica grande pietra d'inciampo ineliminabile da qualsivoglia filosofia della storia o concetto di progresso»: «lascerà sempre perplessi» , per riprendere le p arole di Kant , «che tutte le generazioni sembrino portare avanti le loro gravose occu pazioni soltanto nell 'interesse dei posteri e che solo l ' ultima gene razione debba potersi stabilire nell 'edificio terminato»4' .
Ma l'accadimento Auschwitz potrebbe dispiegare una «forza agente a ritroso» anche attraverso una diversa visio ne della storia europea che inizi dall' antichità (lasciamo da parte i possibili precedenti nelle civiltà ancora più remote) : storia determinata dal ricorrente emergere di possibilità di bene e di male. Come cantava già il coro di Sofocle, «molte cose nel mondo ispirano sgomento; nessuna più dell'uo mo». Il senso, e dunque la direzione, di una siffatta storia potrebbe allora essere ritrovato soprattutto nel meraviglio so e sempre più spericolato dominio degli uomini sul mon do, ma non necessariamente su se stessi. Il cammino prose guirà; la possibilità che soluzioni tecniche estremamente avanzate vengano fatte proprie dal terrorismo più primitivo potrebbe ad esempio diventare attuale anche in Europa. Questa tesi non implica che questa storia conduca «diret tamente a Auschwitz», per riprendere la formula di Thomas Nipperdey, e cioè che essa necessariamente conduca a tale esito46• Tutt'altro. Ma essa porterebbe ad una chiara consa pevolezza dell'azzardo che è contenuto in tale storia, fatta di immensi progressi ma priva di un progresso nel senso più completo del termine, che includa al tempo stesso giustizia e civiltà. Infiniti vantaggi, ma rischi potenziali altrettanto gran di. Un rapporto sempre più problematico tra le piacevolezze della quotidianità e le possibili eccezioni. Un a storia total mente aperta, anche nella dimensione antropologica47 • È difficile identificarsi con questa storia. Ma è questa la storia d'Europa. Si può rifuggire da essa, ritenendo che sia stata liquidata, e precludendosi totalmente una compren sione storica del mondo. Ci si può fermare al semplice sbigottimento e a tutti i rituali che ne fanno parte, così come 190
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si può - in Germania - tranquillizzare la propria coscienza erigendo un monumento tanto più grande, quanto peggiore è tale storia. Tuttavia, fa tradizionalmente parte della mi glior eredità europea l'affrontare le verità e i pesi sgradevo li, anziché rimuoverli. Ciò significa appropriarsi di questa storia, nella sua grandezza, nella sua miseria e nei suoi quasi innominabili misfatti. Si può reggere a questo compito solo se lo si accetta come una sfida da vincere a tutti i costi . Ciò è a mio avviso possibile solo se acquista al tempo stesso la consapevolezza della propria epoca. L'invito che Humboldt rivolge allo storico perché rap presenti ogni vicenda come parte di un tutto resta attuale e diventa tanto più urgente in quanto esso tende a «rappre sentare in ognuna la forma della storia in generale». Ciò mi sembra significhi innanzi tutto che occorre concentrare lo sguardo, relativamente a ogni momento della storia, sui crimini, sulle catastrofi , sulle vittime e sui relativi carnefici. Ma non ci si può fermare a questo. Le società vivono e funzionano non solo in termini negativi, ma anche tentando di produrre condizioni che (sebbene non estese a tutti) siano degne di essere vissute, diritto, costituzioni e tante altre cose che nonostante le loro zone d'ombra vengono giustamente rispettate per i loro effetti benefici, sebbene in altre circostanze, come mostra Auschwitz , possano total mente fallire. Anche per quanto riguarda altre epoche si tratta di riconciliare molto di ciò che appare difficilmente riconciliabile, in chiave di una diversa, e sempre storica mente limitata, évidence des acteurs (Raymond Aron)48• Da questo accadimento deve insomma promanare una costante aspirazione: dobbiamo, nelle parole di Hilde Domin, evitare che si chiuda l ' abisso in cui non abbiamo scelto di vtvere . Note 1 Wilhelm von Humboldt, Ober die Au/gabe des Geschichtsschreibers, in Werke, Stuttgart, 1 960, vol. l; trad. it. Sul compito dello storico, in Stato, società e storia, Roma, 1 97 4, pp. 1 97 - 1 98 . 191
Auschwitz 2
Nietzsche, La gaia scienza, cit. , n. 3 4 , p. 64 .
3 In p roposito Christian Meier, Vierzig ]ah re nach Auschwitz, II ed. Miinchen, 1 990, pp. 38 ss. 4 Id. , Unverstehbar. Noch einmal: Noltes These, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung» , 6 aprile 1 988. La terza citazione è tratta da Unzusammenhiingende Notizen iiber Geschichte, in «Merkur», XLI ( 1 987 ) , p. 7 3 7 : «chi di fronte a certi fatti non perde i l senno, vuoi dire che non l'ha mai avuto>>; Gottlob Ephraim Lessing, Emilia Galotti, atto IV, scena VII (trad . it. Torino, 1 96 1 , p. 67 ) . 5 Martin Broszat, Nach Hitler. Der schwierige Umgang mit unserer Geschichte, Miinchen, 1 986, pp. 1 00 , 1 6 1 . Analogamente Iring Fetscher, Die Suche nach der nationalen Identitat, in Stichworte zur «Geistigen Situation der Zeit», a cura di J. Habermas, Frankfurt a.M., 1 979, vol. I, p. 1 2 1 :
«Abbiamo analizzato - sia come storici, sia come sociologi - il fascismo come se si trattasse di una civiltà remota, priva o quasi d'importanza per no h>. 6 Arendt, Comprensione e politica, in Disobbedienza civile, cit. , pp. 9 1 , 94 , 99. 7 Ma uri ce Merleau-Ponty, Humanisme et terreur. Essai sur le problème communiste, Paris, 1 94 7 ; trad. it. Umanismo e terrore e Le avventure della dialettica, Milano, Sugar, 1 965 , pp. 60 s . 8
P e r questa formulazione mi s o n o basato su Rudolf Pfisterer,
Geburtsurkunde als Todesurteil, in «Treffpunkte», CXV ( 1 990) ; in pro posito Christian Meier, Verurteilen und Verstehen, in Historikerstreit, a cura di R. Augstein et al. , VII ed. Miinchen-Ziirich, 1 989, pp. 48 ss. 9 Rudolf Hoss, Kommandant in A uschwitz. Autobiographische Aufzeichnungen von Rudolf Hoss, Stuttgart, 1 959, pp. 1 65 s. 10
Broszat, Nach Hitler, cit. , pp. 159 ss.
11
Martin Broszat, Der Staat Hitlers, VI ed . Miinchen, 1 976, pp. 432 s .
12 Su questa capacità, che anche oggi ci è propria (e spesso necessaria per sopravvivere ) , si trovano significative considerazioni già nel 1 92 1 in Musi!, Die Nation als Idea! und Wirklichkeit, in Tagebiicher, cit., pp. 6 1 5 ss. Resta tuttavia valido quanto scriveva Hannah Arendt: «Quello che allora, agli occhi delle vittime e dei sopravvissuti prima, e poi di tutto il mondo, è apparso un vergognoso fallimento è costituito dalla spaventosa indifferen za, dal rigido attenersi a delle regole di comportamento politiche che di fronte al crollo di ogni ordine morale e spirituale in Europa da molto tempo dovevano aver perso la loro validità». In una simile situazione persino delle brave persone erano in grado di fare il peggio, ma non il meglio; optarono per il male minore, senza comprendere che non ne può nascere nulla di buono. Cit. da Young-Bruehl, Hannah Arendt, cit., p. 539. 1 3 Victor Klemperer, Ich will Zeugnis ablegen bis zum Letzten. Tagebucher 19 3 3 bis 1 94 5, VI ed. Berlin , 1 996; tra d. i t. Testimoniare fino all'ultimo, Milano, 2000.
1 92
Auschwitz 14 Cit. da Philippe Burrin, Hitler et !es juifs. Genèse d'un génocide, Paris, Seuil, 1 989; trad. it. Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio, Genova, Marietti, 1 994 , p . 5 6 . 1 5 Particolarmente importante al riguardo Gèitz Aly, <<Endlosung», VOlkerverschiebung und der Mord an den europiiischen ]uden, Frankfurt
a.M . , 1 995 . 16
Ibid. , pp. 3 3 8 , 3 2 8 ; per gli «esseri zavorra», cfr. p . 329.
17
Hèiss, Kommandant, cit . , p. 123 ; la seconda citazione si trova a p .
148. 1 8 Citato i n Eberhard Jackel, Hitlers Weltanschauung, Stuttgart, 1 98 1 , p. 78.
19 Tzvetan Todorov, Face à l'extreme, Paris, Seuil, 1 99 1 ; trad. i t . Di fronte all'estremo, Milano, Garzanti, 1 992 , pp. 169 ss. 2°
Cit. ibid. , pp. 1 67 s .
2 1 Nurnberger Tagebuch. Gespriich e der Angeklagten mit dem Gerichts· psychologen, Frankfurt a . M . , 1 962 . 22 Christopher Browning, Ganz normale Mà·n ner. Das Reserve-Polizei bataillon 1 0 1 und die <<Endlosung» in Polen, Hamburg, 1 993 ; trad. it. Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, Torino,
1 999. 23
Todorov, Di fronte all'estremo, cit . , p . 1 2 5 .
24
Biichner, lettera del 1 83 4 , Alla famiglia, in Opere e lettere, cit . , p.
286. 25
Todorov, Di fronte all'estremo, cit . , pp. 1 66 ss.
26
Musil, L'Europa abbandonata a se stessa, cit . , pp. 61 ss.
27
Weber, Economia e società, cit . , vol. II, pp. 2 1 9-220.
28
Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , p . 8 1 .
W alter Benjamin, Ober den Begri/fder Geschichte, in Id., Gesammelte Schri/ten, Frankfurt a.M., 1 97 4 , vol. 1 . 2 ; trad. it. Sul concetto di storia, 29
Torino, 1 997 , p. 3 3 . 30
Hèiss, Kommandant, cit . , p p . 1 2 4 s .
3 1 Todorov, Di fronte all'estremo, cit . , p. 1 65 . 3 2 Imre Kertész, A gondolatnyi csend, amig a kivégzòosztag it}ratolt, Budapest, 1 998. 33 Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Parma, 1 983 . 34 In riferimento a un tema analogo, si veda W . G . Sebald , Luftkrieg und Literatur, Miinchen-Wien, 1 999, pp. 62 ss. Un esempio di come la
descrizione della guerra aerea venga spinta all'estremo è Gerd Ledig , Vergeltung, Frankfurt a . M . , 2000. ·
1 93
Auschwitz n Peter Reichel, Politik mit der Erinnerung. Gediichtnisorte im Streit um die nationalsocialistische Vergangenheit, Miinchen-Wien , 1 995 , p .
2 15 . }6
Kertész , A gondolatnyi csend, cit.
}7 Ibid. Per la citazione successiva , si veda Die exilierte Sprache, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 6 novembre 2 000. } S Sul più ampio contesto di questa problematica, si veda Erinnern Verdrà'ngen - Vergessen. Zum offentlichen Umgang mit schlimmer Vergangenheit in Geschichte un d Gegenwart, in Berichte un d Abhandlungen der Berlin-Brandenburgischen Akademie der Wissenschaften, Berlin , 1 997 ,
vol. III, pp. 5 9 ss . : insoddisfacente ma impossibile da ignorare. In propo sito: Peter Steinbach, Nazionalsozialistische Gewaltverbrechen und die Diskussion in der deutschen Gffentlichkeit nach 1 945, Berli n , 1 98 1 ; Meier, Vierzig Jahre nach Auschwitz, cit. } 9 «Perché è insopportabile dover pensare, insieme alla parola " Auschwitz" , anche alla breve parola " io " : congiuntivo imperfetto di " io " : avessi; potessi; facessi. Aver fatto. Aver ubbidito»; Christa Wolf, Kindheitsmuster, VIII ed. Darmstadt-Neuwied , 1 982 , p. 2 1 5 ; trad. it. Trama d'infanzia, Roma, Edizioni e/o, 1 992 . Ulteriormente sviluppato in C . Meier, Die andere Mauer in den deutschen Kopfen, in Das Verschwinden der Gegenwart, Miinchen -Wien , 2 00 1 , pp. 3 6 ss. 4° Cfr. Harald Welzer, Stille Post. Tiickische Erinnerung: Die Nazizeit im Familiengespriich, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 25 novem
bre 2000. 4 1 «Se la popolazione tedesca sapeva dei campi di concentramento. Che razza di domanda ! Una domanda da professori. Che cosa significa sapere qualcosa? Col tempo, certo, il significato cambia completamente. Finché espropriare persone, terrorizzarle, farne dei soldati, metterle in carcere, !imitarne i consumi, non dar loro nulla da mangiare e bombardar ne le case è la norma - in una parola, finché tutta la vita è anormale -, dell 'ordine naturale dell'anormalità entreranno senz'altro a far parte dei fenomeni anormali. In seguito viene fuori che aver saputo di determinate cose costituisce una colpa: inizia così a modificarsi il ricordo, e alla luce di questo mutamento cambia anche il sapere. Diventa così possibile che una persona non ne sapesse nulla. E forse non sta neanche mentendo: sta semplicemente riflettendo su ciò che a suo tempo non ha fatto, e che non poteva fare, in quanto allora la sua consapevolezza era un' altra e con ciò anche il suo sapere. Ma come si fa a spiegarlo a uno studioso, a uno storico?»: Imre Kertész, Gdlyanap/6, Budapest, 1 992 . Questo passo inte gra le considerazioni precedenti. 42
Musi!, Tagebiicher, cit . , p. 8 1 1 .
4}
Kertész, Die exilierte Sprache, cit.
44
Kertész, A gondolatnyi csend, cit.
45
Arendt, Tra passato e futuro, cit . , pp. 120- 12 1 .
1 94
Auschwitz 46 Thomas Nipperdey, Nachdenken uber die deutsche Geschichte, Mtinchen, 1 986, p. 1 86. 47 A tale riguardo vale, come per qualsiasi storia, quest' osservazione di Burckhardt : «Chi non è in grado di comprendere il bene e il male summa, ovvero di contemplare insieme ciò che è vivo e il destino, lasci stare la storia e legga romanzi, dove almeno ci si riesce a prendere gli uni con gli altri>>: Ober das Studium der Geschichte, cit . , p. 129. =
4 8 Raymond Aron, Dimensions de la conscience historique, Paris , 1 96 1 , p . 1 80 .
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VI
Un lascito senza eredi ? La storia: perché e come ?
Atene e Auschwitz: sono questi i riferimenti che segna no l'inizio e la fine del Sonderweg europeo: di quel percorso che ha reso l'Europa nettamente diversa da qualsiasi altra civiltà del mondo e le ha consentito di superare, per così dire, molte «colonne d'Ercole» della storia mondiale, aprendo possibilità del tutto nuove alla libertà, all'avventura umana, alla convivenza, alla conoscenza, alla scienza, al dominio sulla natura, alla tecnica e al capitalismo; di quel percorso lungo il quale l'Europa ha trascinato con sé tutti gli altri continenti, deviandone il cammino, in parte sottomettendo li, in parte aprendoli alla sua influenza - insieme con gli Stati Uniti - e trasformandoli. Quegli elementi che avevano contraddistinto l'Europa hanno finito per diventare sempre più prodotti da esportare: Stato e costituzione, amministra zione razionale, democrazia, industria, scienza, socialismo e molto altro sono stati prelevati dal terreno in cui si erano sviluppati, e trapiantati nelle parti più diverse del mondo, spesso in modo incompleto o addirittura travisato, non di rado attraverso la violenza e in mezzo a gravi convulsioni; alcuni elementi sono rimasti e rimangono formalmente in tatti, pur dando vita ogni volta a particolari combinazioni tra la componente importata o assorbita e la tradizione. In ogni caso, complessivamente le differenze tra l'Europa (e il Nord America) e le altri parti del mondo si stanno riducen do (mentre i contrasti potrebbero acuirsi) . Ci si può chiedere quale sia la peculiarità che l'Europa e le sue nazioni possono conservare ed esibire come fa qualsiasi paese del mondo con le proprie. E ci si può anche interrogare su quale eredità possa ancor oggi venire all'Eu ropa, nonostante tutto, dalla sua storia. Naturalmente la storia d'Europa non è giunta alla fine. E tuttavia, proprio 1 97
Un Lascito senza eredi?
ciò che distingueva chiaramente tale storia - nel suo pecu liare svolgimento - da ogni altra è stato ormai fondamental mente livellato, nonostante le notevoli differenze tra l'Eu ropa occidentale e quella centro -orientale. L'Europa si tro va allineata agli altri continenti, anziché stagliarsi rispetto ad essi come un tempo, ma soprattutto anziché costituire ancora il centro del mondo, come un tempo . Non abbiamo ancora pienamente compreso il significa to di un 'affermazione di Peter Esterhazy: Guardiamo al nostro fianco. Abbass are lo sguardo, questo significa oggi essere europei. Quante migliaia di persone si posso no sopprimere oggi al centro dell 'Europ a: questa è una tipica, presuntuosa domanda europea. Come se uccidere altrove fosse un affare meno rilevante o scandaloso 1 •
L'Europa h a smesso cioè di essere privilegiata, pur do vendosi preoccupare di ciò che accade nel proprio centro . Si può discutere se Auschwitz sia il simbolo più appro priato del luogo cui è approdata la speciale via europea. Non sarebbe meglio fare riferimento alla Seconda guerra mondiale, per esempio a Stalingrado? Fu allora, infatti, che si consolidò definitivamente ciò che già si era delineato con il precedente conflitto: il crollo della posizione dominante dell'Europa, la fine della sua centralità. È stato a seguito della Seconda guerra mondiale che si è verificata una rapida decolonizzazione. Gli Stati Uniti d 'America sono divenuti con l'Unione Sovietica - la principale potenza mondiale, ma anche il p aese leader dell'industria e soprattutto della scienza moderna. Essi sono subentrati agli europei in Asia e in Africa (lo si è visto con particolare chiarezza in Vietnam) . S i sono assunti l'incarico di proteggere l'Europa dall 'Unio ne Sovietica che si trovava alla sua periferia. Soprattutto, sono stati loro a disporre di nuovi armamenti atomici e di missili. E in ogni caso sono stati loro a determinare in larga parte le nuove forme di vita del mondo. Perché dunque, se proprio si vuole una data , non vedere il momento conclusi vo della via europea nella Seconda guerra mondiale? Da questo punto di vista, che cosa può e vuole significare Auschwitz? Forse gli europei in precedenza avevano una 198
Un lascito senza eredi?
pretesa superiorità morale sugli altri che hanno perduto solo a causa di Auschwitz?2 Questa tesi non è sostenibile se si pensa ai molti milioni di persone uccise o rovinate, tra gli indiani o tra gli abitanti dell'Africa nera, a causa del com mercio degli schiavi e di vere e proprie campagne di stermi nio (tra cui quella di cui furono vittima gli herero nell'Afri ca sudoccidentale ) ; e tutto questo senza ricordare i tanti casi verificatisi all'interno della stessa Europa. Nemmeno nell' antichità, fatte le debite proporzioni, le cose erano molto differenti. Si pensi alla coraggiosa isoletta di Melo, al cui semplice ma caparbio desiderio di restare libera e fedele ai propri costumi, e alla cui fede negli dèi e nella giustizia, Tucidide, con il Dialogo dei Me lP , eresse un meraviglioso monumento (in opposizione alla tracotanza di Atene, che voleva impossessarsi dell'isola arbitrariamente, per semplici motivi di prestigio) : quando la piccola Melos finì per arrendersi, gli uomini vennero uccisi, le donne e i bambini venduti come schiavi. Alcune centinaia di persone massacrate con la spada, probabilmente una dopo l'altra, solo perché volevano restare libere senza costituire una minaccia per nessuno. E questa vicenda non fu certo un caso isolato. Quando ad Atene giunse la notizia della scon fitta nell 'ultima, decisiva battaglia della guerra del Pe loponneso, come ci racconta Senofonte, «quella notte nes suno dormì; tutti piangevano non solo i caduti, ma, ancor più, se stessi, prevedendo di dover subire la sorte che gli Ateniesi avevano inflitto agli abitanti di Melo, coloni spartani»4• E ciò accadeva alla fine del secolo classico della civiltà ellenica. Ci si può anche chiedere: è corretto dal punto di vista mondiale, e non solo da quello di ebrei e tedeschi, collocare la Seconda guerra mondiale così nettamente sotto il segno di Auschwitz? Neanche questo può essere dato per sconta to da chiunque abbia un minimo di prudenza, e anzi susci terà dubbi, per quanto Auschwitz vada vista a buon diritto come un crimine contro l' «umanità» (Menschheit) , e dun que contro tutto il genere umano (ammesso che esista) . La catastrofe, la frattura di civiltà rappresentata da Auschwitz contrassegna in effetti solo un aspetto, parziale, 1 99
Un lascito senza eredi?
della fine della via speciale europea, nel quadro della Se conda guerra mondiale ( che con Auschwitz ha in comune l'autore) . Tuttavia quest' aspetto parziale è ancor più indi cato della guerra stessa (nonostante tutti gli orrori di que st'ultima, nonostante Hiroshima, e nonostante Nagasaki su cui la bomba fu lanciata ad armistizio ormai imminente) a rendere del tutto chiaro lo scandalo rappresentato dalla fine di quella peculiare vicenda. Auschwitz pone sotto i riflettori, nel modo più forte possibile, tutto il significato, tutta la sfida che questa fine rappresenta per il nostro senso d'identità, per la nostra possibilità di identificare noi stessi in termini storici. È questa la ragione per cui diciamo qui «da Atene ad Auschwitz» , e non ad esempio «da Atene alla Seconda guerra mondiale» . Si tratta di pensare l'Europa e la sua via speciale non solo in relazione ad una guerra mondiale, ma appunto ad Auschwitz, e di trarne le conseguenze. La storia della via europea, a differenza delle altre storie nel mondo, è deter minata dal continuo spalancarsi di nuovi orizzonti, da stra ordinari (e spesso anche arbitrari) cambiamenti profondi nella stessa struttura sociale, nel sapere, nelle condizioni mondiali, fin nelle fondamenta. Nonostante tutte le meraviglie dell'Oriente in fatto di tecnica e di edilizia - che non si esaurivano certo nella capacità di regolare fiumi e costruire canali -, nessuna sto ria più di quella europea si è mai allontanata dai presuppo sti forniti dalla natura. Tutto ciò che l'Europa ha prodotto di grande e di significativo si è sempre reso necessario nell'ambito , e per mezzo, della concorrenza tra individui, città e stati - per affrontare rischi e timori, ma anche per contrastare e bilanciare le suscettibilità che crescevano in sieme ad essi, e ha condotto ogni volta, in ultima analisi, a procedere in avanti senza curarsi dei limiti definiti. Troppo diverse erano le direzioni verso cui puntavano le varie forze, troppo contrastanti le loro esigenze, troppo poco esse pote vano a lungo andare confluire in un ordine unico. Proprio per questo, con i progressi europei sono aumentati i proble mi cui occorreva trovare risposta e il rischio di cadere in abissi sempre più profondi. La possibilità che la vita sulla 2 00
Un lascito senza eredi?
terra venga completamente annientata dall'uomo è una con seguenza della storia d 'Europa (e della sua principale propaggine, gli Stati Uniti ) , e solo di essa. Ma anche le contromisure alla minaccia di guerra atomica provengono dalla stessa storia, tra est e ovest, e a questo proposito andrebbe ricordata l'Unione Sovietica alla cui guida, nono stante tutto, non si trovavano dei desperados. I progressi hanno sempre due facce. Max Weber ha interpretato la storia occidentale essen zialmente come un processo di razionalizzazione: non di una razionalizzazione in sé ( quale si riscontra anche altro ve) , ma in riferimento ai fondamenti stessi generali della vita e del mondo5 • E sulla base della storia antica si può aggiungere (anche se Weber non lo afferma in questi termi ni) che la relativa debolezza delle istituzioni primarie, la libertà e la responsabilità dei cittadini nei confronti del proprio ordinamento (attraverso la scoperta stessa della cittadinanza nel senso di ampia, piena e concreta partecipa zione alla comunità) , i conflitti che ne derivarono e gli interventi al cuore dell'ordinamento politico - e anche la velocità con cui tutto ciò accadde - condussero i greci a mettere in discussione non solo l'ordine della polis, ma anche quello del mondo, a porre in questione gli dèi e a interrogarsi in modo nuovo e radicale anche riguardo a ciò che l'uomo è, può e dovrebbe essere. Fu in tal modo che l'ordine del mondo divenne questione di conoscenza, di concetti e di scienza. Tutta la tradizione, le verità conside rate ovvie, i miti e la fede non erano più sufficienti, o meglio lo erano solo nel lungo termine, e solo per la maggioranza delle persone, ma non per tutti: e proprio questo divenne l'elemento decisivo. Questa evoluzione, iniziata nell' anti chità e confluita poi in vario modo nel cristianesimo, si accentuò in epoche più recenti sotto forma, fra l'altro, di libertà civile, di capitalismo moderno, di tecnica e scienza, di Stato e burocrazia. Era qui che Weber riscontrava anche i pericoli per la prose cuzione ulteriore del processo. La storia della razionalizzazione portava in auge - questo il suo timore, espresso in celebri passi - «specialisti senza spirito, gauden201
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ti senza cuore». La burocratizzazione favoriva un crescente «dominio egemone degli ideali di vita burocratici», sia nei funzionari che nel pubblico . Non potevano che venirne fuori «uomini dell'ordine [ ] , uomini bisognosi di " ordi ne" e di nient'altro, uomini che diventano nervosi e pavidi se, per un attimo, quest'ordine si mette ad oscillare, e che rimangono indifesi se vengono strappati dalla loro esclusiva in corporazione a quest' ordine». Si arrivava così alla «parcellizzazione dell'anima», alla funzionalizzazione del l'uomo, e si diffondeva la tendenza a pensare con le catego rie dell'adattamento. La disponibilità a decidere e a rischia re, l'iniziativa e la responsabilità personale venivano tarpate. Alla fine tutto ciò per Weber era destinato a condensarsi in una «gabbia di acciaio», in cui tutti sarebbero stati costretti a entrare, e in cui «quel possente cosmo dell'ordinamento economico moderno , legato ai presupposti tecnici ed eco nomici della produzione meccanica, che oggi determina con strapotente forza coercitiva - e forse continuerà a de terminare finché non sarà bruciato l'ultimo quintale di com bustibile fossile - lo stile di vita di tutti gli individui nati in quest'ingranaggio, e non soltanto di quelli direttamente attivi nell'acquisizione economica». Weber intravedeva così la possibilità che si sviluppasse un ordine simile a quello dell'epoca imperiale romana o dell'antico regno egiziano6• Alcune di queste formulazioni - parcellizzazione del l' anima, dominio egemone degli ideali di vita burocratici, limitazione della responsabilità -, ricordano le spiegazioni addotte da Tzvetan Todorov per la disponibilità di indivi dui del tutto normali a partecipare all'esecuzione di Ausch witz. Col processo di burocratizzazione e di razionalizzazione sarebbero nati dunque dei presupposti essenziali dell'omi cidio di massa commesso dai tedeschi ai danni di ebrei e altri gruppi. Da un altro filone dello stesso processo , vale a dire dalla fede nel progresso, dallo sprigionarsi di forze immense e dal loro possibile concentrarsi nello Stato sarebbero derivate alcune delle condizioni per cui personaggi come Lenin , Stalin e Hitler, quasi come esecutori di un presunto manda to della storia, ritennero di poter mettere in atto giganteschi . . .
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piani di mutamento a breve del proprio Stato, della propria società o del proprio popolo ; e che in Germania la stessa eredità «razziale» (o, piuttosto, quella che era ritenuta tale) diventasse oggetto della politica, con tutte le conseguenze omicide che ciò poteva comportare. E che essi si trovassero in sintonia con grandi aspettative - frutto anche di delusio ni cocenti e di una miseria opprimente -, tali che persino la paranoica designazione di interi popoli al ruolo di capri espiatori potesse trovare una certa risonanza e quasi nessu na opposizione, dando vita a un'interazione tra paranoia e speranza tipica di nazioni che non avevano ancora trovato un posto soddisfacente nella società delle nazioni europee. Erano in gioco , in questa vicenda, questioni di potenza e di grandezza di stati, non meno che diritti civili e umani, e di esse si abusò quasi senza remare. Ma l'ulteriore sviluppo di queste possibilità è aperto. La speciale via europea, nel corso del suo sviluppo iniziato nell' antichità e continuamente ravvivato nell'era moder na, ha portato con sé un immenso accrescimento delle possibilità umane. Ma non è affatto certo che a questo accrescimento si accompagni un crescente controllo delle possibilità sotto il segno della ragione o almeno dell' esclu sione di gravi abusi . Non è detto che la ragione , il sapere, la capacità d'immaginazione e di giudizio, la responsabili tà degli uomini riescano a tenere il passo con ciò che gli uomini possono fare , e che magari sono tentati o spinti a fare. La seguente affermazione di J acob Burckhardt sulle guerre di religione può essere generalizzata: Ma queste cose avvengono nella maniera più atroce proprio nei popoli più civili: i mezzi di offesa e di difesa non hanno limiti; la morale comune e il diritto sono sospesi completamente in nome del «fine superiore» , si rifiutano le mediazioni e le transazioni, si p retende tutto o niente7•
Non è dunque così difficile pensare insieme Atene e Auschwitz (e il lungo processo che le collega) . Si deve sol tanto sottoporre ad una necessaria critica la convinzione, 2 03
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emersa per la prima volta con l'Illuminismo, secondo cui la moralità può essere (o è già stata) progressivamente miglio rata in tutta la società, e che tale miglioramento avviene più o meno alla stessa velocità degli altri cambiamenti. Riferen dosi all'Ottocento J acob Burckhardt parla della «nostra somma, ridicola presunzione di vivere in un'epoca di pro gresso morale». Senza dubbio si possono osservare, proprio negli ultimi secoli - e, in modo diverso, in determinate fasi della storia della polis greca -, notevoli progressi verso un incivilimento delle società, in particolare di quelle libere: l'ampia tutela dalla violenza (e in certa misura dalla guerra) , l'abitudine a promuovere le proprie rivendicazioni in modo pacifico nel l' ambito del diritto, l' azione disciplinatrice dello Stato (po lizia, educazione ecc . ) , il riorientamento dell'ambizione umana dal prestigio e dalla gloria all'interesse economico, il prevalere del riformismo sulla mentalità rivoluzionaria, un notevole incremento delle possibilità stesse di acquisire in modo pacifico ciò che si desidera. Tuttavia, ciò vale come regola ma non evita le eccezioni . Nel caso d i queste ultime la coperta della civiltà, per usare l'espressione di Freud, si rivela estremamente sottile. Lo stesso incivilimento, del resto, si può presentare anche sotto un 'altra luce: Ciò che si è soliti ritenere p rogresso della moralità consiste a) nella molteplicità e ricchezz a della cultura; b) nell' asservimento dell'individuo avvenuto grazie all' enorme aumento del potere del lo Stato, un asservimento che può crescere fino alla formale abdi cazione dell'individuo stesso (Burckhardt ) .
L' abitudine al rispetto e all'obbedienza nei confronti della legge può indebolire proprio le forze, l'iniziativa, l'au tonomia e l'equilibrio del giudizio, la capacità di resistenza o almeno di sabotaggio necessari nelle situazioni ecceziona li: probabilmente più nei tedeschi che in francesi o italiani . La cosiddetta cultura in questo caso non aiuta, e comunque non sempre, non quella che sviluppa un senso del politico tanto debole. Anche quando essa non si trovi nelle mani dei 2 04
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filistei, non necessariamente rappresenta un terreno favore vole allo sviluppo del coraggio civile e della capacità di coalizzarsi segretamente per fronteggiare un 'emergenza. (Diversa è la situazione in epoche prerivoluzionarie o laddove si tratti di organizzare una resistenza contro potenze stra niere . ) I n sintesi, proprio la civilizzazione p u ò far sì che in caso di emergenza gli individui non siano all'altezza della situa zione: per esempio in termini di fantasia e capacità d'imma ginazione. A tale proposito vorrei citare solo un esempio riferito alla nostra epoca. Abbiamo abbastanza fantasia per riuscire a immaginare come nacquero le azioni e le omissio ni dei nostri genitori, nonni e bisnonni sotto il regime tota litario, in che cosa esse consistettero e che cosa significaro no? Riusciamo a farlo in singole situazioni, dove contano soprattutto aspetti insignificanti, apparentemente innocui: passi leggeri fuori della fila, spesso inconsapevoli o non notati dagli altri, come spesso accade nella prassi quotidia na, per poi trovarsi magari invischiati, sedotti, compromes si , disposti ad altro, e in ogni caso indifesi? Nel 1 93 3 Sebastian Haffner si trova a Berlino , nella biblioteca della Corte d' appello prussiana, nel momento in cui vi fanno irruzione i reparti d'assalto per espellerne gli ebrei8. Gli viene chiesto se è «ariano», e lui risponde di sì è vero -, per poi rendersi conto, nello stesso momento, di essersi compromesso . Quanti se ne sarebbero resi conto? Quanti ne avrebbero tratto la conseguenza di emigrare? E quanti allora avevano già capito chiaramente che non si trattava solo di poche teste calde spinte avanti dal regime, ma che incombeva il rischio di una strage, che le cose sareb bero andate ben oltre? Come mostra l'esempio, non era impossibile rendersene conto, ma probabilmente occorreva una particolare predisposizione. La stragrande maggioran za delle persone non lo sapeva e tendeva piuttosto a com portarsi «normalmente», ritenendo di poter persistere in una routine che avrebbe finito per portare quasi tutti, senza che facessero molto a tal fine, ben al di là di qualsiasi routine civilizzata, di qualsiasi «normalità» (o verso un 'altra normalità? ) . 2 05
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E in futuro ? La «gabbia d'acciaio» paventata da Weber non pare si stia chiudendo attorno a noi. Nonostante le tante restrizioni, si aprono da un lato molti e ampi spazi, non previsti, e dall' altro numerose possibilità di assotti gliarsi abbastanza da poter sgusciare fuori della gabbia ver so libertà di ogni tipo (nei paesi occidentali si è capito da tempo che le società si governano meglio a briglie sciolte) . Il concetto di libertà sembra comunque restringersi a quello di spazi liberi, e da liberare, in modo pianificato. E invece di cristallizzarsi, il nostro mondo sta avviandosi nuovamen te verso straordinarie scoperte, la cui possibilità è stata per molto tempo solo un sogno. Ciò che avviene prima di tutto in laboratorio potrebbe comportare, in tempi molto brevi, conseguenze enormi per la struttura sociale, e per la stessa sfera politica: sia nel bene che nel male. Vi sono sempre meno ragioni per prevedere una end o/ history, o per ritenere che la storia sia giunta al traguardo. Se, sia pure solo nella nostra parte di mondo, non si pongono più - grazie alle macchine e all'automazione, ai concimi, al com mercio e alla comunicazione su scala mondiale, alla medici na, allo Stato sociale ecc. - molti dei problemi che tormenta no gran parte dell'umanità da millenni, è anche possibile che al loro posto, in parte proprio come conseguenza di tale scomparsa, ne sorgano degli altri non meno capaci di afflig gerci seriamente, anche se non si sa ancora bene quali: la fame tuttora diffusa, la vergognosa povertà di grandi parti del mondo, le migrazioni e le reazioni che esse suscitano, le catastrofi climatiche, nuove devastanti malattie, l'invecchia mento eccessivo (e magari il problema di come liberarsi di chi è vecchio), nuove ambizioni di potere (da parte di orga nizzazioni di tipo mafioso) , nuove forme di costituzione po litica concreta a fronte di possibili nuove fratture fra élite e popolazione restante, l'ulteriore divaricazione del sapere e con essa nuove forme di paura, di protesta e nuovi possibili conflitti. Sarebbe comunque sorprendente se l'umanità si trovasse ad abitare in una casa tutta esposta a mezzogiorno. Non si tratta, in questa sede, di fare delle previsioni. Né ci si chiede fin dove arriverà la nostra fantasia rispetto a ciò 206
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che forse già bussa alla nostra porta e potrebbe essere ini ziato da tempo. Ci è sufficiente, in questa sede, constatare come l'incertezza riguardo al futuro sia decisamente supe riore al consueto, e come presente e passato non permetta no di delineare con un minimo di chiarezza alcuna tendenza al cambiamento, né di formulare qualche ipotesi attendibile sulla direzione di tale cambiamento . Chiaro , in qualche modo, è solo che il potere di cambia mento (se lo si può chiamare così) , e dunque le possibilità di modificare le condizioni di vita dell'umanità in modo esteso e profondo sono distribuite sul nostro pianeta in modo insolitamente ampio, e lo stesso vale per i mezzi necessari a finanziare le relative innovazioni. E che, al contrario, la visione d'insieme e le possibilità di controllo sul mutamento delle condizioni di vita restano nettamente indietro. Il problema non è più «cambiare la società» mediante l 'azione diretta, come dichiarava l'esuberante propaganda del Sessantotto, ma trasformare la società in virtù degli effetti di innumerevoli azioni. Magari al posto del cambia mento sociale subentrerà il cambiamento dell'uomo. Non sussiste comunque alcun motivo per pensare che gran parte dell'umanità non riesca ad affrontare i problemi del futuro con la stessa efficacia con cui ciò è stato possibile (sia pure con eccezioni) nel passato. Senza dubbio , esiste tuttora un ricco potenziale per affrontare sfide, anche im p reviste. Soltanto, come sempre è accaduto nella storia, non tutti sono in grado di farlo nella stessa misura e simultaneamen te, al momento giusto . Alcuni potranno farlo meglio degli altri , forse ci saranno addirittura vincitori e vinti, e alcune abilità permetteranno di andare avanti meglio di altre; de terminate forme - di relazione, di costituzione, di diritto, di sapere, di lingua, di cultura, di organizzazione politica - si riveleranno più adatte di altre: forme che eventualmente andranno prima sviluppate ad hoc. Come in natura, si porrà il problema del modo migliore di adattarsi alle nuove esigenze . Certo bisognerà assoluta mente che non avvenga ciò che avviene in natura, e cioè che sopravviva solo il più adatto. Dovrà sopravvivere, e forse 2 07
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neanche tanto male, anche chi ha meno successo. In molte parti del mondo ci saranno comunque pane e divertimenti a sufficienza. Nella sua rappresentazione degli «ultimi uomi ni» Nietzsche ce ne ha fornito una certa visione9• E Erhart Kiistner ha coniato l'immagine del «cane al sole», sdraiato e «senza preoccupazioni per il futuro»: egli la considera «una grande promessa»10• Resta il fatto che tutto ciò richiederà molto adattamento. E questo alla fine ci sarà, come sempre, forse in misura maggiore di prima. Lo storico a questo riguardo ha alcune domande da porre. La capacità di adattarsi a nuove condizioni è decisa mente da valutare in modo positivo nell'evoluzione delle specie. Ma ciò che valeva per gli animali fino all'evoluzione nell'uomo non vale necessariamente per la storia del genere umano, in cui può anche accadere di dover respingere de terminati adattamenti. L'adattamento non va necessaria mente d'accordo con ciò che s'intendeva (e in parte forse s'intende ancor oggi) con i termini personalità, carattere, responsabilità, sebbene si tratti di adattarsi non già a un regime, ma ad un vasto processo di cambiamento. A titolo di esemplificazione, ricordiamo ciò che Musil constatava nel 1 92 2 : «Dopo il 1 9 1 4 l 'uomo ha dimostrato di essere, con sorpresa di tutti, una massa molto più malleabile di quanto comunemente si credeva»u. La guerra aveva «messo sotto gli occhi di tutti, in un immane esperimento di massa, che l'uomo si spinge facilmente sino all'estremo, e torna indie tro, senza cambiare natura. L'uomo muta; ma non muta se stesso». In precedenza non si era mai voluta fare una simile ammissione, fra l'altro «a causa della grande importanza che i nostri sistemi morali assegnano al " carattere " , cioè all'esigenza che l' uomo possa considerare se stesso come una costante»: un assunto che secondo Musil assolutamente non regge ! Dell' adattamento a situazioni fortemente mute voli come l'alternarsi di guerra e pace non si può dire nulla di diverso che dell'adattamento a cambiamenti delle condi zioni di vita nel lungo termine, se non che quest'ultimo adattamento, in dubio, è più persistente dell' altro12• Schiller parla della capacità p ropria dell'uomo di custo dire il proprio sé in situazioni cronologicamente differenti e 208
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di essere un 'entità interiormente stabile anche in mezzo al cambiamento del mondo esterno13• Adorno riconosce il potenziale dell'ideale della perso nalità, ovvero «la forza dell'individuo di non arrendersi a quel che ciecamente accade al di sopra di lui», potenziando invece la coscienza critica e la razionalità14• Non si deve tuttavia necessariamente parlare di caratte re o di personalità, ma ci si può anche fermare alle convin zioni e ai giudizi di valore che ciascuno si forma sulla base della tradizione, del confronto e dell'esperienza, e ai quali vorrebbe restare fedele. Ciò non esclude affatto di poter apprendere ancora, modificarsi, crescere. E nel complesso si può pervenire a combinazioni estremamente feconde di adattamento e conferma di se stessi o, meglio ancora, a una conferma di questo proprio sé con un certo grado di elasticità e di apertura verso il nuovo, anche in termini interge nerazionali, visto che anche dai più giovani c'è da imparare. In sintesi: solo chi cambia resta uguale. Si può essere disposti ad accogliere molte novità e tutta via restare dell'idea, ad esempio, che, quale che sia il pro prio stile di abbigliamento, sia bene esprimere, almeno un po' , se stessi; che per una lingua mutuare molte novità da altre lingue sia un arricchimento, ma che comunque una determinata cultura linguistica debba essere mantenuta; che i mezzi di comunicazione abbiano per fortuna molto da offrire, ma che essi debbano anche cercare di non dimenti care ogni giorno tutto ciò che è accaduto fino al giorno prima, e che siano anche in grado di dare a ciò che sta accadendo uno sguardo più distaccato, che parte dalla me moria. Analogamente, anche sul piano politico è possibile perseguire il nuovo senza per questo dover indulgere ad ogni moda o «sterile eccitazione». La questione non riguarda solo l'individuo, ma anche le società, che in democrazia dovrebbero avere, con tutto il pluralismo, determinate convinzioni di fondo, in modo da non limitarsi ad accogliere questo o quell'elemento, ma da trasformarsi sulla base di essi quando esistono buone ragio ni per farlo. Ciò tuttavia diventa difficile quando troppe cose cam209
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biano troppo rapidamente. In tal caso persino in coloro che hanno capacità di giudizio autonomo si diffonde l'insicu rezza, assiomi e affinità non funzionano più. Diventa allora un problema riuscire a stare al passo con la situazione; il tenersi ancorati alle proprie convinzioni, da un lato, e l' adat tarsi, dall'altro, rischiano di diventare opzioni alternative, come la rigidità e la volubilità. Ne consegue che molte cose si sottraggono alla discussione e, via via che il processo si amplia, persino alla decisione. Allora l' autodeterminazione di una società democratica diventa problematica e l'ambito in cui essa può ancora determinare se stessa si restringe eccessivamente, o ancora la determinazione diventa sempli ce esecuzione differita di «sviluppi» o decisioni provenienti dall' esterno 1 5• Anziché trarre la propria impronta dalla tradizione, dalla biografia, dalla propria esperienza, dal proprio pensiero si viene determinati dall'attimo, dalla corrente causale del momento; l'homo sapiens viene sostituito dall'homo telepho nans. «Certo la vita è sempre andata per questa strada, ha sempre rifatto l'uomo dall'esterno verso l'interno; con la differenza però che prima ci si sentiva in dovere di produrre anche qualcosa dall'interno verso l'esterno», si potrebbe aggiungere a questo proposito , con le parole di MusiP6• Giungiamo così agli interrogativi che hanno dato il tito lo a queste pagine: un lascito senza eredi? perché la storia, e come? Il lascito della storia europea dovrebbe essere quel lo che ci è giunto dai nostri progenitori. Per molti versi non è altro che un desolato campo di macerie, alle spalle del quale si snoda una intera catena storica di disastri17; tutta via, da un altro punto di vista esso appare come un ingente capitale, con l'aiuto del quale è sempre stato possibile rico struire sopra le macerie, con molto lavoro e molta intelli genza. Tutto ciò di cui disponiamo, ossia (per citare solo alcu ne parole chiave) patrimoni, edifici, infrastrutture urbane e rurali, sapere, potere, scienza, letteratura, arte figurativa, musica, teatro , istituzioni, diritto, capacità di apprendere a convivere, dignità umana, libertà: ciò è stato in gran parte 2 10
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elaborato in epoche precedenti, spesso al prezzo di sacrifici immensi, ed è stato conseguenza, e a sua volta causa, di duri e spesso sanguinosi conflitti; è stato spesso subìto, poiché i risultati degli uni significavano spesso sofferenza per gli altri, significavano un prezzo da pagare, come vittime, come vinti, come schiavi, come lavoratori, a volte anche come donne. Molto è stato un semplice effetto collaterale di azio ni che avevano finalità del tutto diverse, spesso a seguito di scontri e di guerre. Il risultato di questa elaborazione è stato tramandato, conservato - spesso con grande fatica - e con tinuamente rivitalizzato . In gran parte è andato perduto , dilapidato, distrutto; trascurato o semplicemente è caduto vittima del tempo. A volte è stato recuperato o rielaborato con nuove chiavi di lettura solo in un secondo tempo, a volte addirittura dopo secoli. Ma la parte essenziale ha resistito, in potenza - come alla fine dell'era antica -, o in actu. Le nostre generazioni hanno preso le mosse da ciò che i nostri predecessori avevano più o meno consapevolmente assunto e da ciò che è stato potenzialmente tramandato, e hanno aggiunto, in Europa, negli Stati Uniti e in diversa misura nel resto del mondo, un numero infinito di novità, hanno distrutto o calpestato il vecchio - alcune sicurezze, ad esempio , ma anche interi paesaggi, il volto delle città o alcuni siti archeologici - in misura superiore a qualsiasi generazione precedente18• Ma abbiamo anche scoperto, at tuato, allestito, imparato e realizzato cose sempre nuove. Le nostre condizioni di vita sono sorte , in una misura massiccia e senza precedenti, nel presente e vengono tra sformate in continuazione, sempre più rapidamente. Ciò tuttavia non toglie che ciò che abbiamo costruito in ogni campo si basi in gran parte su ciò che ci era stato tramanda to. Diversamente avremmo dovuto iniziare da chissà dove, e comunque non dall'era industriale, senza l'aiuto del dirit to moderno, delle scienze moderne ecc. Anche noi siamo presumibilmente, molto più di quanto siamo soliti ritenere, dei prodotti della storia: tutti quali siamo, qualunque cosa possiamo aver fatto di noi stessi, per quanto possiamo es serci allontanati dai nostri inizi. 211
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In tal senso il lascito della storia consiste in un'ovvietà su cui peraltro ci si sofferma poco. Esso è stato da noi in gran parte interiorizzato ed è percepibile tutt'intorno a noi come testimonianza del passato e di altre civiltà. Quest' af fermazione è in effetti banale. E banale è anche comprende re che una civiltà tramandata fino a noi nei millenni sia, in sé, morta. Chi non la resuscita con le sue domande, chi non si lascia porre in questione da essa e non lascia che essa fecondi lui e gli altri è un filisteo, per usare il linguaggio di Nietzsche. Le radici non nascono dalla terra, ma devono essere piantate in essa per potersene nutrire. E con ciò giungiamo allo specifico problema del lascito. Nello specifico la domanda del lascito può costituire un problema solo se con essa s'intenda qualcosa di diverso dalla semplice eredità, ovvero una sfida, un obbligo per noi che da essa deriva, che noi riconosciamo e nel cui senso . . . possiamo agire o non ague. Secondo l'interpretazione comune, si deve gratitudine per qualcosa che si riceve, indipendentemente dal giudizio che si dà del dono, dal fatto che esso rappresenti uno scan dalo o implichi un ruolo estremamente scomodo, e indipen dentemente dall'amore che si possa aver ricevuto. In ogni caso il dovere non può considerarsi esaurito con la gratitu dine, ammesso che se ne abbia motivo, e deve riferirsi piut tosto al dover prendere in consegna qualcosa che richiede prosecuzione, conservazione o ulteriore sviluppo, o magari nparazwne. Ciò che ne faranno i posteri dipende in ultima istanza da loro (per quanto la coscienza possa loro ricordare quel l'obbligo ) . Né ci si può necessariamente attendere che essi si pongano al servizio dei defunti. «Lascia i morti seppellire i loro morti» è anche un 'esortazione di Cristo (Mt 8, 22 ) . Chi vive oggi h a quanto meno il diritto di definire, a partire dal proprio presente, l'impegno che egli ritiene di assume re: operazione in cui può essere utile anche la ragionevolezza. In che cosa potrebbe consistere tale obbligo nel nostro caso, nell'Europa attuale?19 Come minimo, nella conserva zione della tradizione e della capacità di utilizzarla, vale a dire nella tutela della memoria. Come massimo, nel far 2 12
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fronte agli obblighi che derivano all'Europa dal suo ruolo storico nel mondo , anche nei confronti dei popoli che han no visto distruggere le proprie civiltà da conquistatori che li hanno strappati a contesti sicuramente vivibili, hanno rapi to loro membri per ridurli in schiavitù e così via. Più prudentemente, si potrebbe dire: popoli che sono stati tra scinati dall'Europa in un 'evoluzione in cui essi per molti versi finiranno per avere sempre la peggio . È difficile peral tro dire quali siano le conseguenze pratiche di un obbligo massimo formulato in modo tanto generale. Tra l'opzione minima e la massima, ci sarebbe un possi bile obbligo di ricordare le grandi, importanti conquiste della storia europea, di tenerle in vita e di svilupparle ulte riormente. A questo proposito si potrebbero citare, seguen do tutta una tradizione, determinati ideali, o si potrebbe anche dire determinati fatti fondamentali, che ricorrono e resuscitano continuamente: la libertà ad esempio, e il dirit to ad averla. Ciò significa: diritto dell'individuo alla propria libertà, che tuttavia non dovrebbe tornare a essere limitata, o suddivisa, in spazi liberi in cui l'individuo può muoversi a titolo privato, ma dovrebbe essere al tempo stesso libertà della comunità, libertà di tutti. Dovrebbe consistere in una costituzione di diritto e al tempo stesso di libertà, basata sull'azione congiunta dei cittadini e sulla loro effettiva par tecipazione e codeterminazione, nel senso più ampio del termine, e che presuppone alcune cose in termini di ragione e di civiltà. La libertà deve anche avere delle conseguenze. Alla libertà si potrebbe collegare la dignità umana, il rispetto di quest'ultima che, da Kant in poi, consiste in modo particolare nel considerare gli uomini non come mez zi, ma come fini. Il che significa al tempo stesso tolleranza. Ma libertà e dignità umana sono collegate alla responsa bilità, al sentirsi chiamato a rispondere, e al tempo stesso ad un vigile interrogare e, come presupposti di quest'ultimo, alla sincerità e alla prudenza nei confronti delle domande che vengono poste ( anche quando non si pongono in modo pressante o quando non è facile dar loro risposta) . Non è casuale che la libertà civile dei greci si sia sviluppata quasi allo stesso ritmo con cui essi si posero le radicali domande 2 13
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sugli dèi, sul mondo - il cosmo -, sulla giust1z1a, sulla natura, e la domanda su che cosa sia l'uomo, che cosa possa o non possa, che cosa gli sia concesso o vietato; che cosa in ogni caso di solito gli riesce male. La vivacità con cui i greci s 'interrogavano era legata alla loro sicurezza di riuscire a trovare delle risposte alle domande, per quanto difficili; vale a dire che in ultima analisi ciò che occorreva compren dere era il mondo, l'uomo, la polis. Ciò stimolò la ricerca, la scienza e la filosofia; e quando giunse, con il cristianesimo, il Dio inaccessibile, si cercò di accogliere anche lui con spirito di ricerca. Libertà, dignità umana, responsabilità, conoscenza (e con esse una vita consapevole, in un certo senso sovrana, per quanto non totalmente soddisfatta) . Si potrebbero ag giungere eguaglianza, solidarietà, fors 'anche la dottrina cri stiana con il suo riferimento all' amore verso il prossimo e alla sua sofferenza, in ogni caso le sue propaggini secola rizzate: la conseguenza è la responsabilità anche per gli altri, per gli estranei. Almeno questo si potrebbe definire e dimostrare essere il lascito della storia europea, o ciò cui essa tende. E proprio con l'aiuto della storia si può com prendere quanto esso sia raro (nella stessa Europa) , prezio so e importante. Se questa speciale via europea non fosse esistita il mon do avrebbe forse conosciuto maggior felicità? Questa è un 'altra questione. Forse sì. Al riguardo Sigmund Freud si è espresso con grande scetticismo: N o n ho dubbi c h e l ' umanità riuscirà a rimettersi anche d a questa guerra; tuttavia so p e r certo che né i o né i miei contempo ranei rivedremo mai più un mondo felice. Tutto è troppo orribi le . . . se ravvisiamo nella nostra civiltà attuale, che è di tutte la più elevata, soltanto una gigantesca ipocrisia, è evidente che non siamo organicamente idonei per questa civiltà. Non ci resta che abdicare, e il Grande Sconosciuto, persona o cosa, che si nasconde diet ro al Fato, ripeterà in futuro l 'esperimento con u n ' altra razza2 0•
Si tratta di un modo diverso per esprimere quel senso d'inadeguatezza che la Seconda guerra mondiale e Auschwitz avrebbero finito per evidenziare ovunque e molto più che in 2 14
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ogni occasione precedente, e di cui forse soffriamo anche noi. Ma non ci è dato di scegliere: la storia d'Europa non può essere annullata21 • Il fatto che essa abbia potuto con durre, fra l'altro, alla Seconda guerra mondiale, ad Auschwitz e ai gulag non è motivo sufficiente per ridurre la coscienza europea alla volontà di non ricadere «mai più» in questi tre fatti. L'eredità di questa storia non solo è molto più ricca, ma è anche molto attuale. Resta la domanda circa la nostra volontà e possibilità di raccogliere tale eredità, e in che misura. Non basta a racco gliere tale eredità il semplice fatto che noi - coricati su un eccesso di mezzi, circondati da apparecchiature che funzio nano ormai quasi da sole, indifferenti gli uni agli altri, cia scuno approfittando al massimo dei propri spazi liberi e lasciando che gli altri facciano altrettanto - viviamo la no stra vita in relativa libertà, e nel dubbio non ci rispettiamo, ma almeno ci tolleriamo. In particolare, il concetto di responsabilità ha un signi ficato maggiore. «Non si può assumersi alcuna responsabi lità», dice il dottor Skowronek al vecchio sottoprefetto von Trotta nella Marcia di Radetzky di Joseph Roth22• Non ci si può assumere le responsabilità di altri. «Mio padre se le è assunte per me e il mio nonno per mio padre», replica il sottoprefetto, per poi sentirsi dire dal dottore: Erano altri tempi [ . ] Neppure l 'imperatore è oggi responsa bile per la sua monarchia. Sicuro, sembra che anche Dio non voglia più avere responsabilità per il mondo. Una volta i tempi erano più facili ! Tutto era assicurato. Ogni pietra stava al suo posto. Le strade della vita erano ben lastricate. Tetti sicuri stavano sui muri delle case. Ma oggi, signor sottop refetto, oggi le pietre delle strade sono messe di traverso e tutte confuse in mucchi pericolosi e i tetti hanno buchi e nelle case piove e ognuno deve sapere da sé per quale strada va e in quale casa p rende dimora. .
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Infine la conclusione: «E per questo bisogna lasciare andar tutto e ognuno per la propria via ! ». Gli appaiono estranei persino i suoi figli, «uomini estra nei», appartenenti ad «un 'epoca che deve ancora venire». 215
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Come il capitano Jelacich, che «sapeva di trovarsi impoten te tra i suoi avi e i suoi discendenti, i quali ultimi erano destinati ad essere gli avi di una generazione del tutto nuo va». Con i suoi quarant'anni di età si sentiva già «vecchio e i suoi figlioli gli sembravano incomprensibili pronipoti». Pochi anni prima, Musil aveva scritto: «Stiamo vivendo un inizio»23• Roth concepì La marcia di Radetzky alla fine degli anni Venti, lo scrisse all'inizio degli anni Trenta e lo pubblicò per la prima volta a puntate, a partire dall'aprile del l 93 2 , nel «Frankfurter Zeitung». Al grande fascino del romanzo appartiene il fatto che il suo autore metta in scena il tramon to della vecchia Europa nella malinconia di un impero giun to alla fine, in cui vivevano numerosi popoli e il cui monarca nel periodo in cui si svolge il grosso della narrazione aveva già alle spalle sessant'anni di regno ed era solito scambiare i nipoti con i figli per sentirsi meno vecchio: nessun passag gio in vista, nonostante la socialdemocrazia imperial-regia e le pressioni dei ceti borghesi di tutto l'impero per parteci pare alla responsabilità. I modi di questa rappresentazione ricordano però la tesi di Max Weber e di Tzvetan T odorov: ciascuno al proprio posto, responsabile nel proprio piccolo ambito, il Kaiser per l'impero (e, sia notato incidentalmente, per gli ebrei, che per questo ancora oggi lo ricordano con molta deferen za) e Dio per il mondo24• Tutto questo all'improvviso fini sce; nessuno sa più perché l'ordine si disgreghi e non si può far altro che lasciare che le cose seguano il proprio corso . I più giovani se la dovranno cavare da soli. Non ci sono ponti, ma ci vuole un nuovo inizio, si apre una nuova epoca. Una nuova stirpe, i cui progenitori saranno i propri figli. Oggi esistono, come sempre, molteplici responsabilità su piccola e grande scala, ma il tutto - che un tempo, almeno ex post, poteva sembrare garantito dal Kaiser e da Dio -, non ha, a ben vedere, un singolo responsabile e neanche una propria intrinseca solidità ( da cui possa deri vare una qualche responsabilità) ed è, sebbene a diversi livelli e in diversi ambiti, un affare che riguarda tutti noi. Ciononostante, ampie porzioni di esso, almeno per quanto 216
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ci riguarda in Europa, o meglio in Europa occidentale, sono ben ordinate. Non si vede però alcuna garanzia che restino tali, alla luce di tutti i rapidi cambiamenti in corso. Non esiste un'istanza che possa rispondere di ciò , dal momento che la politica può controllare solo una parte del cambia mento . Poiché quell'istanza siamo «tutti noi», la responsa bilità si può assumere solo in termini di «come se»: «come se» quello che ciascuno di noi fa, accetta e pensa facesse una differenza. Una cosa tuttavia si può affermare: fa parte dell'eredità europea almeno il tentativo di procurarsi un'idea chiara della situazione, di elaborare una visione d'insieme su ciò che sta accadendo e sulle conseguenze che comporta, e di sincerarsi di continuo di se stessi, della propria comunità e del mondo. Per lunghi periodi, sia al tempo dei greci che nell'era moderna, si è cercato di svolgere quest'attività non solo nell'ambito di una cerchia ristretta, ma in ampie por zioni della società. E per giunta nelle lingue e nei modi più svariati, nelle scienze come nella letteratura e nel mito, nelle arti e nella musica, nel teatro come nell'urbanistica e nel l' architettura. I continui cambiamenti, grandi e piccoli (con le relative motivazioni e necessità) hanno sempre fornito stimoli in tal senso . E ciò è stato reso possibile e facilitato dal fatto di potersi ricollegare in modo sempre nuovo non solo a tradi zioni più recenti, ma anche alle più antiche, fra cui quella greca e romana, a modelli positivi e negativi, a un gran numero di opere e movimenti che si prestano a letture quasi inesauribili, e tutto ciò ancora una volta in riferimento so prattutto all'eredità antica. Per non parlare poi dei ricchi stimoli provenienti da altri continenti. È in questo ambito che vorrei vedere il principale lasci to della storia europea (senza con questo voler sottovalutare i molti altri modi con cui ci si può rapportare ad essa) . Questo lascito mi appare ancor oggi estremamente attuale. Ne è erede, potenzialmente, chiunque, in ogni luogo del pianeta, se ne prenda cura. In questa sede tuttavia ci inte ressa principalmente l'Europa: e qui la questione è se non ci sia penuria di eredi, o, più precisamente, se non manchino 2 17
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la capacità e la volontà sociali di appropriarsi di questo lascito, quali che siano le prospettive e i criteri con cui ciò avviene. Continuare una cultura non equivale a proteggere un monumento (anche se una tutela è indispensabile) , ma è il risultato di sempre nuove integrazioni, connessioni e fertilizzazioni. Non si tratta di richiamarsi occasionalmente a questo o quell'elemento, ma di assicurare, nel corso delle generazioni, una continuità di presenza, di trasmissione e di nuova produzione. Infatti l'apertura che, specialmente in tempi di rapido cambiamento, si deve auspicare per una cultura può essere solo, per così dire, organizzata, e legata ali ' appercezione di aspetti significativi. Fino a che punto ciò sia ancora possibile, è difficile da dire. Le condizioni di assenza della storia, di cui si parla nel primo capitolo, si potrebbero citare, con l'aggiunta di altre, anche a proposito della cultura. Probabilmente esiste un certo nesso in tal senso. Infatti è anche la coscienza storica, è la tradizione vivente, che determina la presenza nell'attua lità di una cultura: attraverso tutto ciò che è soggetto a molteplice cambiamento e che, utilizzato e ulteriormente sviluppato ora qui, ora là, mantiene comunque la propria unità. Che può essere preso in consegna e ritrasmesso solo su base duratura: una base che ad esempio comprenda ancor oggi greci e romani. Anche da questo punto di vista, tuttavia, si deve ricor dare che le attuali spinte di accelerazione potrebbero porta re con sé insicurezze e disorientamenti che non possono durare all'infinito . Come in altri settori dell'opinione pubblica, anche in quello della storiografia è necessario essere instancabili: come se ciò che si fa fosse destinato, in un qualche momen to, a tornare utile. Veniamo così alla seconda domanda: perché, e in che modo, fare storia? A mio avviso sono cinque i principali punti di vista da cui la storia può rivestire importanza anche in futuro, al di là della cerchia di coloro che nutrono un particolare inte resse nei suoi confronti. Del primo e secondo aspetto si è già parlato: in primo luogo di una funzione di orientamento 2 18
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e autodefinizione nel tempo, per esempio nell'ambito del processo della storia europea (ipotizzando che con l'Unio ne Europea sia in gioco qualcosa di più della politica agra ria, delle truppe d'intervento e dell'unificazione della tassa zione sugli interessi e così via ) , e non da ultimo su piccola scala; in secondo luogo di ciò che la storia è in grado di insegnare circa i modi in cui avvengono l'evoluzione stori ca, il cambiamento e il ruolo che in essi svolgono gli indivi dui. Una terza funzione è a mio avviso quella di approntare ed elaborare in modi sempre nuovi, sulla base del patrimo nio d'idee delle epoche precedenti, diverse nozioni di possibi lità25 . La storia amministra uno spazio in cui gli uomini hanno fatto un numero enorme di esperimenti su se stessi. Essa può essere vista anche così: come infinità di tentativi di vivere, di organizzare la vita per sé e per gli altri. Non si possono disporre esperimenti come se si fosse in un laboratorio di chimica, e anzi con le persone non si possono proprio fare esperimenti (eccezion fatta per inezie di carattere medico) . Eppure nella storia gli esperimenti vengono eseguiti, senza di noi e indipendentemente da noi: non dobbiamo far altro che analizzarne i risultati: si tratti di storia delle abitudini alimentari, dell' abitazione, della con vivenza umana, dell'organizzazione su piccola o grande sca la, della fede, della sottomissione e della ribellione, del rapporto tra i sessi, della guerra o di quant' altro. In epoca recente nuove questioni sono divenute attuali, o stanno per diventarlo . Il tema della sofferenza nella storia, della forza di sopportazione, ad esempio, degli «uomini che fanno la storia», o la storia dell'arroganza: dove sono i limiti dell'uomo? Stanno diventando interessanti la storia del l' equilibrio tra passato e futuro, la storia della paura, ma anche determinati aspetti di storia della lingua (in quali circostanze le parole assumono un significato e in quali ciò, come oggi, non avviene ? ) . Ma anche la storia dei condizio namenti del passato piuttosto che del presente, o la storia della riconfigurazione delle società, delle reazioni a fatti nuovi, al cambiamento rapido in genere, e la storia dell'ac219
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celerazione. Infine abbiamo a che fare ancor oggi con la questione se realmente, come riteneva Joseph Roth, prima o poi siano destinate a nascere una nuova specie e una nuova epoca (se cioè l'accelerazione ad un certo punto si fermerà, come ritiene Koselleck, o se aumenterà sempre più) e se dovremo adattarci a questi sviluppi (tema su cui si possono tracciare parallelismi con il XIX secolo) . Anche la storia delle possibilità per l'uomo di controllare o meno il cambia mento apre oggi nuove letture del passato e del presente. Molti sono anche gli esempi di come la storia appaia differente allo sguardo retrospettivo degli uomini: «con ti more e sgomento, essi hanno infine compreso di che cos 'è capace l'uomo, e questa è invero la precondizione di ogni pensiero politico moderno», osservava Hannah Arendt a proposito di Auschwitz26• Analogamente, una precondizione della storiografia moderna è che essa prenda in considera zione, in linea di principio, qualsiasi fenomeno e che ciononostante si preoccupi di possibili delimitazioni. In breve, anche in futuro le nostre società avranno biso gno della storia, se non altro perché essa è la scienza del cambiamento e della possibilità. Non si può infatti ipotizza re che in futuro le nostre società rinuncino all' autodefinizione o alla cautela. Proprio ciò rende importante una quarta funzione: quella della sintesi storiografica. Infatti tra i contributi forniti dal la storiografia riveste una certa rilevanza anche l' approfon dimento della questione di come i più svariati fattori delle diverse epoche si leghino tra loro, si condizionino recipro camente, contribuiscano alla rigenerazione e al mutamento, e come tutto ciò si presenti ai contemporanei, come essi lo percepiscano, in che modo lo vivano e ne vengano profon damente influenzati. In questo quadro diventa importante promuovere la capacità di anticipazione, di preconizzare soprattutto gli aspetti terribili e inattesi della storia. L'osservazione di Hannah Arendt secondo cui Eichmann non era in grado d 'immaginare ciò che stava preparando rientra in tutta una tradizione. Già nel 1 9 14 Karl Kraus parlava dell'epoca «in cui accade proprio ciò che non siamo stati in grado d 'imma220
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ginare, e in cui accadrà ciò che non siamo più in grado d'immaginare, e che non accadrebbe se sapessimo immaginar lo». È da notare che nella stessa epoca anche altre voci lamentavano la difficoltà d 'immaginare le cose prima che accadano, la scarsa capacità di profezia tipica anche delle persone più fantasiose (Arthur Schnitzler )27 • Ma la forza d'immaginazione dev'essere grande davvero: infatti, come dice il vecchio ma sempre valido adagio, il diavolo non passa mai due volte per la stessa porta. Infine un q uinto aspetto: la storia, in tempi di cambia mento , aiuta a studiare e a comprendere le non simultaneità della contemporaneità, soprattutto in quanto fornisce esempi ogni volta diversi, ed estremamente interessanti, di recipro ca compenetrazione tra cambiamento, adattamento e sforzo di restare fedeli alle proprie convinzioni. Definire noi stessi nel presente è per noi importante, specialmente in riferi mento alle nostre origini. Chi vuoi comprendere se stesso deve sapere che cosa gli è stato dato. Un esempio della fecondità di q uest'approccio ci viene dalla generazione di Weber, Musil, Benn e Roth. In quel l'epoca, specialmente per l'influenza di Nietzsche e della Prima guerra mondiale, si era creata una forte tensione tra le angustie della cultura familiare di questi personaggi, la fede e gli studi ginnasiali umanistici, da una parte, e ciò di cui essi si sarebbero resi conto in seguito . Le sofferenze, ma anche la fertilità intellettuale che un tempo derivavano dalla tensione tra il Dio della Rivelazione e la natura terrena dell'uomo diventano in questo caso il risultato della contrapposizione tra tradizione e presente. L'uomo senza qualità di Musil si scandalizzava «contro l' accettazione inerme di fatti e di mutamenti, la rassegnata contemporaneità, il balordo e paziente andare coi secoli, che infine è indegno dell'uomo, ed era proprio come se egli improvvisamente si fosse ribellato contro il cappello, di forma abbastanza strana, che portava in capo»28• Egli aveva preso posto in una «scatola luminosa e dondolante», un tram, che gli era sembrato «una macchina nella quale alcu ne centinaia di chilogrammi di umanità venissero rimesco lati per far di loro l' avvenire. Cent' anni fa sedevano nelle 22 1
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carrozze di posta, e fra cent'anni sa Iddio come saranno sistemati, ma certo siederanno allo stesso modo in qualche veicolo del futuro». «Macchinalmente si alzò e fece a piedi il resto del cam mino. In quel più vasto serbatoio d'uomini che era la città, il suo malessere tornò a trasformarsi in buon umore». L ' uomo di Musil avvertiva dunque questa contem poraneità come un semplice caso29• Il tempo formava gli uomini in un modo o nell' altro, a suo totale arbitrio; essi avrebbero potuto essere del tutto diversi, non dipendeva da loro. Inermi, rassegnati, balordi e pazienti venivano rime scolati da una parte all'altra di questa storia, fino al momen to di trasferirsi al prossimo stato. L'uomo senza qualità era evidentemente incapace di «produrre anche qualcosa dal l'interno verso l 'esterno» ovvero , per ricordare l'espressio ne di Schiller, di vivere nel suo secolo senza esserne la creatura. Egli non poteva limitarsi ad accettare ciò che era per farne emergere il suo sé, lavorandovi come sempre. Tuttavia il balordo e paziente andare coi secoli, che infine è indegno dell'uomo, poteva emergere alla coscienza di un individuo in modo sufficientemente chiaro e scandaloso se questi usciva dal suo mondo arroccato in cui persino il cam biamento sembrava essere dotato di un proprio buon senso. Gottfried Benn è ritenuto un personaggio antistorico30• Questa valutazione si appoggia su una lunga serie di dichia razioni che la documentano in modo fin troppo chiaro. Tuttavia esse si riferiscono alla Ereignisgeschichte, alla sto ria evenemenziale, forse a ogni genere di processo storico, ma certamente non al cambiamento, i cui effetti egli avvertì sulla propria pelle . Il «moderno io», l' «ultimo io» (per citare solo due degli scritti di Benn) : qual è la loro intenzione, se non una rico gnizione della situazione in termini storici? «La biografia dell'io non è ancora stata scritta», afferma Benn nel 1 920. Dieci anni dopo egli scrive la «storia dell' anima dall' anti chità all 'espressionismo». Infine, nella conversazione fra i «tre vecchi» fa dire ad uno di loro: «Si parla sempre del l ' " uomo " , ma ci si dimentica delle sue mutazioni». Egli vede sempre più in secondo piano «l'interiorità psicologica 222
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di un io che aspira all'esperienza, che esso elabora poi in senso di sviluppo», dell'io che vive di perdita, di «isolamen to dei centri, senza continuità psicologica, senza biografia, senza una storia vista come elemento centrale». Si esprime qui una chiara coscienza epocale, che lascia intravedere più un eccesso che un difetto di sensibilità nei confronti del cambiamento storico in corso. Non si sta infatti disgregando una razza, un continente o un ordine sociale, ma un intero progetto di creazione, divenuto privo di futuro. «Il quaternario alle spalle traboccava». Il tema potrebbe essere ulteriormente sviluppato passando in rassegna le affermazio ni di Ben n sull'antichità e sul suo ruolo nel preparare il terreno al mondo moderno: «L'Io si fece avanti, calpestò, combatté, a questo scopo ebbe bisogno di mezzi, materia, potenza». O i diversi commenti sul presente, nei quali egli parla di «movimenti senza appigli»; e ancora, il 1 8 gennaio 1 94 5 : «In quanto essenza ed esistenza, diciamolo con fran chezza, noi non abbiamo assolutamente più nulla cui fare riferimento, né nel passato, né nel futuro; siamo soli, in silen zio, tremando nel nostro intimo». Si può quasi toccare con mano, di continuo, la tensione cui Benn era sottoposto tra il presente, da una parte, e le sue origini, le istituzioni, suo padre, la chiesa, il ginnasio e tutto il mondo che essi rappre sentavano, e ci si può rendere conto del modo in cui egli la affrontava, analogo a quello di tanti altri suoi contemporanei. Tuttavia, l'esperienza di questa generazione e i diversi modi in cui essa cercò di affrontarla mi sembrano esprimere con particolare chiarezza il problema della conferma e del l' affermazione di noi stessi in un 'epoca di rivolgimento e rapida trasformazione . È questo un problema che ha a che fare con la storia. Affrontarlo è per molti un presupposto per riuscire quanto meno a sopportare la storia: cosa suffi cientemente importante, dal momento che «umanamente parlando, è la capacità di soffrire e sopportare che dà all'uo mo la possibilità di creare durabilità e continuità» (Hannah Arendt)3 1 • Studiare questa problematica in riferimento ad altre epoche e riflettere su di essa alla luce della storia mi sembra un compito di non secondaria importanza per la storiografia futura. 223
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Tre citazioni per finire. In primo luogo vorrei ricordare ancora una volta il passo in cui J acob Burckhardt definiva «la nostra contemplazione [ . ] non solo un diritto e un dovere, ma al contempo un bisogno elevato : è la nostra libertà in mezzo alla coscienza dell'enorme e generale di pendenza e al fluire della necessità». La seconda è anch'essa del grande storico di Basilea: . .
Ma se in mezzo alla sofferenza deve restare una sorta di felici tà, essa può essere solo di natura spirituale, volta indietro al salva taggio della cultura del passato, avanti alla difesa serena e instanca bile dello spirito in un'epoca che altrimenti potrebbe soggiacere totalmente alla materia32 •
Infine, permettetemi di ripetere le parole pronunciate da Hegel a chiusura della sua Storia della filosofia : vi auguro ogni miglior fortuna. Note 1 Peter Esterhazy, Thomas Mann mamp/t Kebab am Fufte des Holstentors, Salzburg-Wien , 1 999, p. 1 3 7 . 2 Sulla pretesa di superiorità morale s i vedano l e considerazioni di Wolfgang Sofsky, Traktat iiber die Gewalt, Frankfurt a . M . , 1 996; trad. i t. Trattato sulla violenza, Torino, 1 988, p. 1 93 : «La fede nella civilizzazio ne è un mito eurocentrico in cui la modernità adora se stessa [ . . ] I selvaggi, prima di essere massacrati , non erano assolutamente selvaggi come questo mito sostiene, e i " civili" non sono affatto miti come loro stessi vorrebbero apparire. Ammazzare esseri umani in gran quantità non è un p rivilegio di epoche precedenti. La violenza è il destino della nostra specie. Ciò che cambia sono le forme, i luoghi e i tempi, l'efficien za tecnica, la cornice istituzionale e lo scopo legittimante». .
3 Tucidide, Storie, libro V, 84 ss. 4
Senofonte, Elleniche, libro II, 2, 3 (Milano, 1978, p. 1 03 ) .
5 Sulla razionalizzazione: Friedrich H . Tenbruck, Das Werk Max Webers, in «Kolner Zeitschrift fiir Soziologie und Sozialpsychologie», XXVII ( 1 975 ) , p p . 669 ss. ; Stefan K alberg, Max Webers Typen der Rationalitiit. Grundstein e /iir eine Analyse von Rationalisierungs Prozessen in der Geschichte, in W. S p rondel e C. Seyfarth ( a cura di) , Max We ber un d die Rationalisierung sozialen Handelns, Stuttgart, 1 9 8 1 ,
p p . 9 ss. 224
Un lascito senza eredi? 6 Weber, Sociologia della religione, cit . , vol. l, p. 1 94 . Le citazioni successive sono tratte da Id. , Gesammelte Au/siitze zur Soziologie und Sozialpolitik, Tiibingen, 1 92 4 ; trad. it., Scritti politici, Roma, Donzelli, 1 998, pp . 3 2 -3 3 , e da Sociologia della religione, cit . , vol. I, pp. 1 92 - 1 93 . 7 Burckhardt, Sullo studio della storia, cit. , p . 68. Per l e citazioni successive, ibid. , pp. 263 , 80 ( con un'aggiunta successiva: «specialmente se domina esclusivamente l 'attività del guadagno che finisce per assorbi re qualsiasi iniziativa») . Cfr . anche ibid. , pp. 260-26 1 .
8 Sebastian Haffner, Geschichte eines Deutschen. Die Erinnerungen 1 9 1 4- 1 933, Stuttgart-Miinchen, 2000, pp. 147 s . 9 Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra. 1: Zarathustras Vorrede, V, Leipzig, 1930; trad. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. 1 : Prefazione di Zarathustra, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montanari, II ed. Milano, 1 97 3 , vol. Vl. l , pp. 10 ss.
1 0 Erhart Kastner, Der Hun d in der Sonne und an dere Prosa, Frankfurt a . M . , 1 975 , p. 5 . Il Musi!, L'Europa abbandonata a se stessa, cit . , p . 66. Per un confron to con le esperienze fatte dai greci nella guerra del Peloponneso: Tucidide, Storie, libro III, 82 ss. 12 «L'uomo nuovo che in questo processo produce se stesso [ . . . ] è [ . . . ] il prodotto di volta in volta non pre-strutturato del progresso processo da lui, cioè da se stesso posto e mantenuto in funzione»; Cari Schmitt, Politische Theologie II. Die Legende von der Entledigung jeder politischen Theologie, Berlin , 1 970; trad. it. Teologia politica II. La leg genda della liquidazione di ogni teologia politica, Milano, 1 992 , p. 102. 1 3 Friedrich Schiller, Brie/ 11 e Brie/ 12, in Id. , Ober die asthetische Erziehung des Menschen, in einer Reihe von Briefen, in Werke, vol. VIII, Leipzig-Wien; trad. i t . Lettera undicesima e Lettera dodicesima, in Lette re sull'educazione estetica dell'uomo, Firenze, 1970, pp. 39 ss. 14 Theodor W. Adorno, Glosse uber Personlichkeit, in Gesammelte Schrt/ten, Frankfurt a . M . , 1 97 7 , vol . X.2; trad. it. Glossa sulla personali tà, in Parole chiave. Modelli critici, Milano, 1 974, pp. 73 -74.
1 5 A tale proposito si possono ricordare due immagini di contrasto, che avevano comunque un significato autonomo: «Capisco, gli oggetti che la circondano eccitano la sua curiosità. Qui vede come può durare a lungo la vita delle cose, e bisogna vedere anche questo, per mantenersi in equilibrio con tutto quanto nel mondo continuamente cambia e trasfor ma. Questa teiera, per esempio , servì già ai miei genitori e fu testimone delle nostre serali riunioni di famiglia, questo parafuoco di bronzo mi ripara anche oggi dal fuoco che queste vecchie molle pesanti attizzano ancora; e così potrei dire per gli altri oggetti. In tal modo ho potuto dedicare il mio interesse e la mia attività a molte altre cose perché non mi sono occupato di cambiare gli oggetti necessari ai bisogni quotidiani dell'esistenza, come tanta gente che vi consuma tempo e denaro. L ' atta c-
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camento al possesso [ . . ] ci dà in molti casi la più grande energia». Così il «buon vecchio» in Noviziato di Guglielmo Meister, cit . , vol. III, pp. 737 -73 8. Guglielmo replica: «Ma nonostante ciò [ ... ] lei converrà che l'uomo non resiste al cambiamento, che è l'opera stessa del tempo». «Certo - disse il vecchio - tuttavia chi riesce a conservarsi più a lungo ha già pur fatto qualche cosa ! L'uomo è in grado di mantenere e di assicu rare le cose oltre la sua esistenza individuale. Noi trasmettiamo le nostre conoscenze, tramandiamo i nostri sentimenti come i nostri possessi» . Nietzsche: «Della storia ha bisogno in secondo luogo colui che custo disce e venera, colui che guarda indietro con fedeltà e amore, verso il luogo onde proviene dove è divenuto; con questa pietà egli per così dire paga il debito di riconoscenza per la sua esistenza. Coltivando con mano attenta ciò che dura fin dall'antichità, egli vuol preservare le condizioni nelle quali è nato per coloro che verranno dopo di lui - e così serve la vita» ( Vom Nutzen und Nachteil der Historie /ur das Leben, Stuttgart, 1 964; tra d. i t. Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in I d . , Consi derazioni inattuali, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit . , vol. 111. 1 , p . 2 80) . A l passo citato seguono anche i n questo caso l e obiezioni dello stesso Nietzsche. .
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Musil, L'uomo senza qualità, cit . , p . 462 .
Ricordiamo l'angelo di Benjamin , in Id., Sul concetto di storia, cit . , p p . 3 4 s. A l riguardo s i veda Gerhard Kaiser, Benjamin, Adorno. Zwei Studien, Frankfurt a.M., 1 974. 17
1 8 Secondo l'Aga Khan il più devastante degli «ismh> è il turismo: in termini letterali ciò è impossibile, eppure, se si eccettuano pochi «ismi», non è vero? 1 9 A margine, a scopo comparativo , una frase di Burckhardt, Sullo studio della storia, cit. , p . 9: «Grandezza del nostro debito nei confronti del passato, in quanto continuum spirituale che appartiene al nostro
sup remo patrimonio intellettuale. Tutto ciò che anche nel modo più remoto possibile può servire a questa conoscenza deve essere raccolto con ogni sforzo e impegno fino a giungere alla ricostruzione di interi orizzonti spirituali del passato». Su ciò è necessaria un'integrazione attuale: «Non già facendosi ascoltare, ma continuando a seguire il buon senso si è conservata l'eredità dell'umanità»; così Orwell in Kertész, Gdlyanapl6, cit. 20 Lettera a Lou Andreas -Salomé del 25 novembre 1 9 14 , in Sigmund Freud/Lou Andreas-Salomé Brie/wechsel, Frankfurt a.M., 1 966; trad. it. Sigmund Freud - Lou Andreas Salomé, Eros e conoscenza. Lettere 1 9 1 2 1 936, Torino, 1 983 , p . 1 7 . 2 1 Nessuno auspica ciò: una vita senza doccia, microonde, anestesia, pillola, TV e cellulare? Impensabile ! 2 2 Joseph Roth , Werke, Koln , 1 97 5 ; trad. it. La marcia di Radetzky, Milano, 1 980, pp. 250, 3 00 . 23
226
Musil , Der deutsche Mensch als Symptom, cit . , p . 40.
Un lascito senza eredi? 24 Su Roth cfr. David Bronsen , ]oseph Roth. Eine Biographie, Koln, 1 974, pp. 1 02 ss. 25 «Proprio in un mondo dove l'innovazione è molto veloce le antiche forme di vita sono meno suscettibili d'invecchiare, dal momento che sono già vecchie. La moderna accelerazione del cambiamento finisce per tro varsi al servizio della lentezza: del ritmo crescente d'invecchiamento fa parte anche il ritmo crescente d'invecchiamento anche dei suoi invecchia menti; quanto più il nuovo invecchia, tanto più rapidamente il vecchio può tornare ad essere nuovo; ognuno sa di vivere già un po' più a lungo»; Odo Marquard, Philosophie des Stattdessen , Stuttgart, 2000, p. 73 . 26 Hannah Arendt, Organisierte Schuld (redatto nel novembre del 1 944 ) , in «Die Wandlung», I , n. 4, pp. 333 ss . ; trad. it. Colpa organizzata e responsabilità universale, in Archivio Arendt. 1: 1 93 0- 1 948, Milano, 200 1 , pp. 157 ss. (la citazione è tratta da p. 1 67 ) . I d . , Eichmann in ]erusalem: Ein Bericht von der Banalitiit des Bosen, Miinchen , 1 964 ; trad. it. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, 1 964 . 27
Karl Kraus, conferenza del 1 9 novembre 1 9 1 4 , cit. in Hans Weigel,
Karl Kraus oder Die Macht der Ohnmacht, Wien -Frankfurt-Ziirich, 1 986,
p. 16. «L'incapacità degli uomini, persino dei più fantasiosi, d' " immaginare in anticipo " qualcosa, la loro assenza di fantasia è straordinaria, e sor prende ogni volta. Essa si può spiegare solo come una difesa interiore nei confronti degli orrori del mondo non sopportabili dalle menti umane, sviluppatasi gradualmente nel corso dei tempi. Se si potesse immaginare la morte, la vita sarebbe in un certo senso impossibile» (e prosegue parlando del rapporto tra fantasia e follia) : così Arthur Schnitzler nel febbraio del 1 9 1 5 , in Aphorismen und Betrachtungen , Frankfurt a.M., 1 967 , p . 20 1 . Giinther Anders ha scritto (stando a quanto riportato nella «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 19 dicembre 1 992 ) «che siamo in grado di fare molto più che immaginare o portare responsabilità». L'au tore del necrologio, E . Fuld, nota al riguardo che, dal momento che non siamo più in grado d'immaginare le conseguenze finali del nostro agire, siamo anche incapaci di averne paura, siamo cioè diventati «analfabeti della paura». 28 Musi!, L'uomo senza qualità, ci t . , p. 407 . Può risultare interessante il confronto con una citazione tratta dalle Affinità elettive, che fa riferi mento al periodo iniziale dell'esperienza di «storicizzazione» della vita umana: «"Trascinati come siamo dalla vita" - ella [Charlotte] rispose " noi crediamo d'agire di nostra iniziativa, di scegliere la nostra attività e i nostri godimenti; ma certo, se guardiamo bene, dobbiamo riconoscere che siamo soltanto costretti ad eseguire anche noi i disegni e le inclina I I zioni del tempo"» ( Goethe, Le affinità elettive, . ci t . , parte I , cap. VI I, p. 1 064 ) . 29
Cfr. in particolare Musi!, Der deutsche Mensch als Symptom, cit.
JO
Gottfried Benn , Das moderne Ich, in Gesammelte Werke, cit. , vol.
l, pp. 7 , 1 8 ; sempre di Benn, si veda inoltre, nei
Gesammelte Werke
appena citati : Drei alte Miinner, vol. II , p. 3 88; Akademie-Rede, vol. I , 227
Un lascito senza eredi?
Provoziertes Leben, vol. l; trad. it. Vita artificiale, in Saggi, Milano, 1 963 , p. 1 64 ; Brie/e an F. W. Oelze, cit. , lettera del 1 8 gennaio 1 945 . Sulla tendenza «antistorica» di Ben n si veda ancora Zum Thema Geschichte, in Gesammelte Werke, cit . , vol . l; trad . it. Sul tema storia, in Saggi, cit . , p . 1 95 ; infine Akademie-Rede, cit . , p. 432 . pp. 432, 436;
31 Arendt, Sulla rivoluzione, cit . , p. 1 02 .
Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , Lezioni sulla storia d'Europa, cit. , p. 3 06. 32
228
p . 1 0; dello stesso autore, ·
Poscritto
Essendo stato invitato a tenere le Krupp-Vorlesungen 2000-200 1 a Essen, volevo (e dovevo) cogliere l'occasione per tracciare un bilancio di diversi miei studi, in parte molto lontani gli uni dagli altri; anzi, volevo ricondurli in uno stesso contesto. Il nesso , in prima battuta, poteva esse re individuato nella persona dell 'autore: la mia attività di ricerca si è concentrata principalmente sull 'era antica e, in secondo luogo, sulla teoria della storiografia, ma ho poi approfondito anche il rapporto del popolo tedesco con il capitolo più oscuro del suo passato, quello che va dal 1 93 3 al 1 945 , e infine h o rivolto sempre più l'attenzione alla problematica della graduale formazione dell'Europa e sulla sua protostoria greca e romana. Comune a molti di questi studi è comunque, l' approc cio di partenza. Quest'ultimo è espresso nel titolo della prolusione tenuta a Basilea nel 1 968: La scienza dello storico e la responsabilità del contemporaneo. Da quando ho inizia to a studiare storia, ho riscontrato che essa, oltre a essere in sé estremamente interessante, può anche contribuire a orien tare il presente su molte cose importanti che ne fanno parte e anche su se stesso. Ciò implica che lo storico ha una responsabilità anche in quanto uomo del suo tempo . Tale responsabilità dovrebbe essere, a mio avviso, una delle fonti d'ispirazione del suo lavoro, sebbene ciò non gli consenta di far concessioni ai poteri e alle tendenze del suo tempo. Una simile responsabilità (che si può sostenere senza pericolo , dal momento che essa non è molto convincente) esiste anche per lo storico dell'antichità, sia pure in modo leggermente diverso rispetto allo storico dell'età moderna o contemporanea. Tutti gli studiosi sono influenzati dal pro prio tempo, in un modo o nell'altro. Tuttavia le osservazio229
Poscritto
ni e gli interrogativi del presente possono essere accolti in modo consapevole. Ed è appunto questo ciò che sono con vinto si debba fare, se non altro perché in tal modo si aiutano gli studenti a cogliere la distanza e la differenza tra ieri e oggi. Inoltre, in tal modo emerge con maggior chiarez za la peculiarità dei fenomeni antichi in contrasto non solo con altre epoche e culture, ma anche con il presente. Infine, gli storici si rendono conto così di alcuni importanti pre supposti del proprio lavoro. A mio giudizio, non è opportuno dichiarare ciò in modo diretto e con insistenza. Analizzare invece continuamente il presente e applicare le sue domande a un'epoca remota è di grande utilità, sia per la conoscenza di quell'epoca sia per la riflessione sulle questioni contemporanee, che spesso da una certa distanza si pongono in modo diverso. Se accanto al passato remoto su cui si ha la «competenza» si prendono in considerazione il presente e il suo passato più recente si può apprendere molto sia sull'uno che sull'altro1. Forse ho commesso un errore quando, inizialmente in modo piuttosto ingenuo, ho ipotizzato che si dovesse fare storia antica con lo sguardo rivolto non solo agli storici dell'antichità, ma a tutti gli altri storici e forse anche ad altre discipline, e che dunque ci si dovesse in primo luogo considerare storici, sia pure specializzati sull'antichità. Se dunque questo è stato un errore, certo mi ha procurato dall'esterno della disciplina manifestazioni d'interesse e d'in coraggiamento per me importanti, che mi hanno indotto a proseguire sulla stessa via. Inoltre, mi chiedo tuttora se sia stato davvero uno svantaggio per me non ricevere, per lo stesso motivo, p articolari manifestazioni di calore nell' am bito dei rassicuranti e protettivi confini del mio specifico settore di studi, nonostante i molti buoni, fitti e cordiali rapporti e i contatti scientifici con molti dei miei colleghi di specializzazione. Mi accorsi comunque abbastanza presto (pur non esplicitando, ahimè, a sufficienza i diversi sfondi sui quali facevo diverse delle mie affermazioni) che la storia deve lavorare in modo comparativo ogni volta che la posta in gioco è importante, e che in ultima analisi questa compara230
Poscritto
zione dev'essere fatta in modo solitario2• Era per me impor tante individuare e comprendere, su grande e su piccola scala, la specificità dell'antichità, e dunque guardare ai fe nomeni spesso fin troppo familiari per l' antichista come a qualcosa di estraneo. Inoltre ritenevo che la storiografia avesse bisogno della teoria storica anche per svolgere il proprio lavoro pratico. Tuttavia ad ampliare lo spettro dei miei studi non furo no queste e analoghe riflessioni, ma il diretto coinvolgimento nella controversia storica del 1 986-88. Non è molto semplice stabilire un nesso tra tali studi, anche perché a q uanto detto finora vanno aggiunti altri elementi. Il primo degli interventi qui raccolti riflette su un feno meno che per gran parte della mia carriera scientifica non era esistito o di cui, se anche esisteva, non mi ero accorto, vale a dire sull'assenza della storia - intesa come orienta mento storico, punto di vista storico sulle cose, interroga zione in chiave storica - nell'attenzione pubblica. Prenden do le mosse da ciò ci si chiede, in termini nuovi e radicali, che cosa la storia debba e possa fare. La sua assenza potreb be essere dovuta soprattutto all'inaudita spinta di accelera zione cui siamo oggi esposti. In ciò si riscontrano aspetti paradossali: stiamo facendo più esperienza di storia, o di cambiamento storico, che qualsiasi altra generazione prece dente, eppure un interesse storico è quasi del tutto assente. Siamo continuamente catapultati nel futuro - «il futuro è oggi», dice uno slogan pubblicitario - eppure non facciamo alcuna riflessione o quasi sul futuro della nostra società e del mondo. Nell'antichità far ciò non era necessario - fatta eccezione per la sfera politica -, poiché si poteva contare sulla stabilità delle strutture. Non appena esse iniziarono a modificarsi in modo consistente, fu scoperta la storia. Oggi che esse si modificano in modo molto più rapido e profon do, sembra che neanche la storia ci possa aiutare. Ma è tipico dei periodi di rivolgimento che nulla sia in essi più probabile del paradosso: allora bisogna attendersi anche ciò che va contro ogni aspettativa. È così forse anche in relazione allo sviluppo dell'Euro23 1
Poscritto
pa. Esso non si attiene infatti alla vecchia regola secondo cui le entità politiche al momento della loro nascita hanno un bisogno particolarmente forte di autodefinizione in ter mini storici, di accertamento della propria origine - nel bene e nel male - e dei propri obblighi, proprio per poter rivolgere con tanta maggiore efficacia lo sguardo verso il futuro, verso ciò che si vuoi diventare, e verso il contributo che in qualche modo si vuole dare al mondo . Una simile autodefinizione, mirata sulla propria pecu liarità, appare tuttavia già spiazzata dal fatto che le peculia rità vengono continuamente livellate dai rapidi processi di cambiamento (sebbene, come si è visto molto chiaramente dopo 1' 1 1 settembre del 2 00 1 , sarebbe meglio che non lo fossero) . Per quanta presunzione si abbia, non è opportuno mettere in diretto risalto la peculiarità. Anche perché l'Eu ropa assume tipicamente la parte del carnefice, mentre oggi tutto lo sforzo è rivolto ad affermare il proprio ruolo di vittima. La particolarità dell'Occidente deve apparire so prattutto come elemento universale - sotto forma ad esem pio di valorizzazione dei diritti umani - e come tale è intesa, pur non potendo ignorare che per molte persone, in Asia, in Africa e altrove, sotto il manto universale s 'intravede fin troppo chiaramente l'Occidente, con le sue pretese di supe riorità e di dominio. L'Occidente, e l'Europa attuale, avreb bero invece da offrire, a ben vedere, una cultura della digni tà umana, dell'apertura, della disponibilità a mettersi in questione, che contiene come possibilità anche la conviven za tra le varie culture di questo mondo che sta crescendo come un tutt'uno, nonché il rispetto per gli altri e la stessa esistenza dell'altro. Il secondo e il terzo intervento rappresentano il tentati vo di mostrare, alla luce del tema Europa e con particolare riferimento alla questione del significato dell'antichità per la (o nella? ) storia europea, che cosa è forse in grado di offrire la storia. Li si può considerare come esempi di pos sibili «offerte». La quarta riflessione parte dall'interrogativo su come nasca la storia, e più precisamente sulle forme in cui gli uomini possano esserne partecipi, come soggetti attivi o 232
Poscritto
anche solo subendone le conseguenze. Ci si chiede dunque in che misura essi siano responsabili della storia e che cosa implichi, in tempi di grande e rapido cambiamento, il fatto che essi non possano esserlo se non in dosi microscopiche. Infine ci si pone la questione se esistano oggi nuove forme di storia. Il quinto intervento è dedicato ad Auschwitz, all'inse gna della questione se, in che misura e con quali presuppo sti possa essere oggetto di comprensione o almeno di spie gazione. Probabilmente questa immane catastrofe politica e morale contrassegna la fine della speciale via dell'Europa nella storia. Pertanto tra Atene e Auschwitz si tende un grande arco storico. Ci si chiede infine che cosa Auschwitz significhi per la storia europea e mondiale, vale a dire fino a che punto esse, sotto il segno che Auschwitz rappresenta, debbano apparire in modo totalmente diverso da prima. Il sesto capitolo infine s'interroga da un lato sul possibi le lascito con cui noi siamo entrati nel XXI secolo, e passa poi a esaminare la questione delle finalità e dei modi con cui si debba in futuro fare storia. I testi pubblicati sono stati rielaborati e in parte ampliati rispetto alle conferenze, ma nella sostanza si attengono al filo conduttore e al carattere di ciò che ho presentato a Essen. Non mi sembrava necessario dotare il testo di abbon danti riferimenti e citazioni di fonti. I riferimenti vengono forniti, nelle note di ogni capitolo , solo per le citazioni testuali; le note contengono anche una serie di osservazioni aggiuntive su singole affermazioni contenute nel testo. Vi si trovano inoltre alcuni riferimenti a opere raramente consi derate riguardo al tema, che aiutano anche a chiarire e forse anche a rendere più comprensibile il contesto in cui si muovono i pensieri che qui è stato possibile presentare solo in modo sintetico. Note 1 « [ ] nelle scienze si può essere maestri anche soltanto in un ambito limitato, ossia come specialista, e tali " si dovrebbe " pur essere in qual· . . .
233
Poscritto
che settore. Ma se non si vuole smarrire la capacità di una v1s1one generale, anzi l'apprezzamento del suo valore, allora si faccia in modo da esser dilettanti in molti altri campi almeno per conto proprio per accre scere le proprie conoscenze e arricchirsi di altri punti di vista. Altrimen ti, in tutto ciò che va oltre la specializzazione si rimarrà ignoranti e, in certe circostanze, nell'insieme delle persone rozze»; Burckhardt, Sullo studio della storia, cit . , p. 4 3 . 2 A l riguardo Ulrich Raulff, Mentalità"ten-Geschichte, Berlin, 1 987 , pp. 1 63 ss.
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Indice dei nomi
Indice dei nomi
Abramowski, G., 7 7 , 78 Acham, K., 43 Adorno, T.W. , 47, 208, 225 Alessandro Magno, re di Macedonia, 1 05 , 1 06 Aly, G . , 1 93 Améry, J . , 43 Anassimandro, 89, 1 1 9 Anders , G . , 227 Andreas-Salomé, L., 226 Arendt, H., 18, 3 8 , 4 1 , 45 , 46, 48, 49, 157, 1 64 , 1 7 7 , 190 , 1 92 , 1 94 , 220, 223 , 227 , 228 Aristotele, 23 , 43, 1 02 , 1 05 , 1 2 0 , 135, 157 Aron , R. , 1 9 1 , 1 95 Assmann, J . , 155 , 156 Augusto, imperatore romano, 1 09, 1 10 Benjamin , W., 179, 1 93 , 226 Benn, G., 39, 42, 44, 49, 22 1 -223 , 227 , 228 Birus , H., 40 Bismarck Schonhausen , O . von , 129, 1 5 5 , 156 Bloch, J . , 155 Blumenberg, H . , 44 Breuninger, H., 76, 7 7 , 1 1 8 Bronsen , D . , 227 Broszat, M., 1 64 , 168, 1 92 Browning, C . , 1 93 Brunner, 0 . , 4 1 , 157 Biichner, G., 128, 155, 177, 1 93 Burckhardt, J . , 1 2 - 1 4 , 1 9 , 3 5 , 40, 4 1 , 44, 46, 5 1 -5 3 , 5 7 , 65 , 66, 7678, 83 , 96, 97 , 99, 1 1 6, 1 1 8-12 1 , 158, 179, 1 93 , 1 95 , 203 , 204 , 224226, 228, 234
Burrin , P., 1 93 Buruma, I . , 7 6 Carlo Magno, imperatore, 70 Carlo V d ' Asburgo, imperatore, 42 Cesare, Gaio Giulio, 1 1 7 Cheng Ho, 64 , 120 Cicerone, Marco Tullio, 158 Colombo, C . , 63 , 64 Confucio, 65 Conze, W . , 4 1 , 157 Copernico, N . , 78 Demostene, 136 Domarus, M . , 156 Domin , H . , 1 9 1 Droysen , J.G. , 1 2 , 1 9 , 2 4 , 4 0 , 42 , 43 , 146, 158 Eichmann, K.A . , 1 7 7 , 1 8 1 , 1 88, 220 Eisenhower, D . D ., 1 8 1 Elias, N . , 154 Engels , F . , 2 1 , 128, 155 Eraclito, 1 1 9 Erodoto, 5 1 , 1 3 1 , 1 3 3 , 155 Eschilo, 99 Esiodo, 93 Esterhazy, P . , 198, 224 Euripide, 99, 100 Faber, K.G., 157 Ferguson , A . , 139, 14 1 , 157 F etscher, I . , 1 92 Fichte, J.G., 43 Filippo Il, re di Macedonia, 1 05 Finley, M . , 120 Freud, S., 43 , 204, 214, 226 Freyer, H . , 26, 42 , 44 237
Indice dei nomi
Frisé, A . , 4 1 Fukuyama, F., 43 Fuld, E., 227
Koselleck, R., 4 1 , 44-47 , 126, 127, 154, 1 5 7 , 220 Kraus , K., 220, 227
Gager, J., 120 Gama, V. da, 63 Ganz, P., 40 Gehlen, A., 43 Gellhorn, M . , 1 8 1 Ghelardi, M . , 40 Gilbert, G . M . , 1 7 6 Gliickner, H . , 4 4 Goethe, ].W. , 1 2 , 1 3 , 4 0 , 48, 1 1 7 , 1 5 8 , 227 Goldhagen, D . , 25, 1 86
Landes, D., 63 , 77 Ledig, G., 1 93 Lenin , N. (V.I. Ul'janov), 1 7 5 , 202 Lepsius, R. , 156 Lessing, G.E., 1 92 Livio, Tito, 150, 158 Locke, ] . , 2 1 Liibbe, H . , 4 1 , 42 Liitt, ] . , 76
Habermas, J . , 1 92 Haffner, S . , 205 , 225 Hamm Briicher, H . , 48 Haupt , H.G., 155 H egei, G.W.F. , 2 7 , 44, 139, 157 , 224 Heuss, A. , 29, 43 , 45 , 1 3 0, 156 Hildesheimer, F . , 155 Hirschman, A.O., 140, 157 Hitler, A . , 1 6 , 7 8 , 129, 156, 1 67 , 1 68, 1 7 1 , 174, 1 83 , 185, 202 Hobsbawm, E . , 47 Hiilscher, T . , 97 , 1 1 8, 1 1 9 Hiiss, R., 1 65 , 1 7 4 , 1 7 6 , 1 80, 1 92 , 1 93 Humboldt, W. von , 1 6 1 , 1 9 1 Jackel, E . , 1 93 Jaspers, K., 48 Jones, E.L. , 55, 76 Kaiser, G . , 226 Kakar, S . , 44 Kalberg, S . , 224 Kant, 1., 2 1 , 36, 3 7 , 45 , 1 3 8 - 140, 143 , 144, 1 5 3 , 157, 1 90, 2 1 3 Karahasan, D . , 48 Kastner, E . , 208, 225 Kertész, 1., 1 8 1 , 1 82 , 1 84 , 1 89, 1 93 , 1 94 , 226 Klèmperer, V., 1 7 1 , 1 92 Kocka, J., 155 Kohl, H . , 25 23 8
Machiavelli, N . , 149, 1 5 8 Madison, ] . , 4 7 Mandeville, B . d e , 140, 157 Mann, G . , 48 Mann, T., 29, 45 Margalit, A., 7 6 Marquard, 0 . , 44, 227 Marx, K., 20, 2 1 , 43 , 56, 78, 1 3 0 , 155 , 156 Mbeki, T., 120 McNeill, W.H., 77 Meeks, W.A., 120 Meier, C . , 9, 1 0 , 42 , 43 , 46-48, 78, 1 1 8, 1 1 9, 154, 156-159, 1 92 , 1 94 Merleau Ponty, M . , 1 64 , 1 92 Musi!, R., 1 4 , 1 6 , 4 1 , 48, 59, 77, 153 , 158, 178, 1 92 , 1 93 , 208, 2 1 0, 2 1 6 , 22 1 , 222 , 225-227 Niethammer, L., 22, 42 , 43 Nietzsche, F.W. , 1 9 , 3 6 , 42, 48, 59, 1 17 , 12 1 , 1 89, 192 , 208, 2 12 , 22 1 , 225 , 226 Nippel, W., 77 Nipperdey, T., 1 90, 1 95 Ohlendorf, 0 . , 1 8 1 Omero, 93 Orwell, G . , 226 Osorio, E., 46 Osterhammel, ] . , 9 Padano, G . , 4 1 Paolo di T arso, 1 1 1 Parkinson, C . N . , 1 66
Indice dei nomi
Pericle, 156, 157 Pfisterer, R., 1 92 Platone, 1 0 1 , 1 02 , 1 04 , 120 Poi Pot (S. Sor) , 78 Polibio, 3 8 , 49 Popitz, H., 36 Raulff, U . , 234 Reichel, P . , 1 94 Reinhardt, K . , 84 , 1 1 8 Richelieu, A.J. du Plessis, duca di, 129, 155 Rolling, W., 1 1 8 Rossi, P., 77 Roth, J . , 2 1 5 , 2 1 6, 220, 22 1 , 226, 227 Riisen, J . , 43 Said, E . , 76 Salis, A. von , 1 1 9 Schelling, F.W.J . , 1 3 9 Schiller, F . , 44, 2 0 8 , 222 , 225 Schilling, H., 42 Schluchter, W., 120 Schmitt, C . , 225 Schnitzler, A., 22 1 , 227 Schramm , G., 7 8 Schulin , E . , 1 2 0 Schulze, W . , 4 3 Schwarz, J . , 1 8 1 Sebald, W.J . , 1 93 Senofonte, 1 99, 224 Seyfarth, C., 224 Seyss Inquart, A., 177 Siebert, H . , 45 Sieferle, R. P . , 76, 7 7 , 1 1 8 Sifton, E . , 3 9 Sloterdijk, P . , 42 Smith, A . , 2 1 , 1 3 9 , 157 Snell, B., 3 9 Socrate, 1 00, 1 0 1 Sofocle, 1 5 , 4 1 , 9 9 , 190
Sofsky, W., 159, 224 Solone, 89, 90, 1 1 9, 1 3 6 , 1 3 7 Specht, R. , 1 5 5 Speer, A . , 176 Spencer, H . , 120 Sprondel, W . , 224 Stalin (I.V. Diugasvili) , 78, 1 63 , 1 7 5 , 202 Stein, L. von, 47 , 128, 155 Steinbach, P., 1 94 Sternberger, D . , 1 63 , 1 64 Strauss, B . , 3 2 , 42, 45-48 Tacito, Cornelio, 4 1 Tenbruck, F.H., 224 Thamer, H . U . , 156 Tocqueville, A. de, 3 4 , 3 5 , 46, 157 Todorov, T., 176, 179, 193 , 202 , 2 1 6 Tommaso d'Aquino, 1 1 8 Treitschke, H. von, 129, 156 Tucidide, 65 , 77, 1 04 , 134, 156, 157, 199, 224 Vernant, J.-P., 1 1 9 Veyne, P . , 1 1 0, 1 1 4 , 120 Vico, G.B., 139, 157 Vossler, 0 . , 155 Weber, M . , 46, 56, 63 , 65 , 67 , 7678, 1 03 , 1 1 1 , 120, 179, 1 93 , 20 1 , 202 , 206, 2 1 6, 22 1 , 225 Weigel, H . , 227 Wellershoff, D., 42 Welzer, H . , 1 94 Wirth , E . , 77 Wolf, C . , 1 94 Yerushalmi, Y.H., 1 8 1 , 1 93 Young-Bruehl, E . , 48, 1 92 Zanker, P . , 120 Zweig, S . , 47, 48
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